la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
Anno XIII (1975)
Parte I
N. 1-6 (genn.-dic.)
MEDAGLIONI
MARIO SIMONE
una vita per la cultura
In una paginetta di appunti, raccolti sotto il titolo di « Ricordi », e
recante la data del 6 agosto 1973, l’Autore mette sull’avviso il lettore - « ove
mai dovessi pubblicare queste pagine » - che non ha inteso scrivere una « biografia
», ma piuttosto intessere le trame di un racconto fatto « dalle cose degli
uomini e dagli avvenimenti con i quali ha avuto rapporti fisici, spirituali e,
diciamo così, culturali ».
A questa stesura il tempo e le circostanze non hanno concesso a
Mario Simone di farne seguire la necessaria e prevista attenta revisione.
Compaiono qua e là omissioni e mende, e la prosa presenta le imperfezioni
e la sciatteria, proprie di una prima scrittura.
L’Autore ha voluto che tutti sapessero inequivocabilmente i motivi
che lo hanno spinto a scrivere: « l’amore per la vita, la gratitudine per Chi
me l’ha data e conservata, la pietà patria la solidarietà con gli umili, l’ideale
repubblicano di progresso, la fede nel domani cristiano, cioè comunitario ».
Seguono capitoli di varia lunghezza, alcuni dei quali autografi, scritti
inediti, numerati da 1 a 88, che hanno i seguenti titoli:
1
1 - Fiume 1919; 2 - La mia Capitale; 3 - Arturo; 4 - Squallore del mio
Liceo « Lanza » 1914-18; 5 - Sempre vivi, Gramsci; 6 - Ai professori; 7 - La
società di Cultura « Bellucci » di Manfredonia; 8 - La « Bellucci » e la Società
Dauna di Cultura; 9 - Maestri miei iniziatori: Formiggini, Conti, Petrucci;
9/bis - I Laterza; 10 - Gli opuscoli per il Risparmio 1959-60; 11 - La
resistenza nel napoletano; 12 - Gli studi risorgimentali; 13 - La tipografia
Laurenziana; 14 - Lavoro per il Comune di Foggia; 15 - Beniamino
D’Amato; 16 - La Capitanata nelle tesi di laurea; 17 - Agostino Gervasio; 18
- Vincenzo Tangaro; 19 - Anarchici; 20 - Memoria di refrattari: Martinez; 21
- Storiografia minore; 22 - Lettera al direttore del « Progresso Dauno »; 23 Vita culturale a Manfredonia; 24 - Il mio fascismo (1933-1943); 25 - Archivio giuridico; 26 - Storia di umili; 27 - Disegno di un « Libro della mia
gente »; 28 - Oreste De Biase; 29 - Gli ultimi castellani; 30 - 25 Aprile 1971;
31 - I libri di mio padre; 32 - Marius Vincentii Sal.; 33 - Secondo seminario
di promozione garganica; 34 - Due casette foggiane; 35 - Un cafone senza
lari: La Biblioteca Provinciale di Foggia; 36 - Testimonianze per Formiggini;
37 - San Menaio - settembre (a Peppino D’Addetta); - 38 - I borboni e
Vocino; 39 - Il 1848; 40 - Il « Diario patrio » della famiglia Villani di Foggia;
41 - Dov’è il « popolo »?; 42 - Scipione Staffa; 43 - Romualdo La Porta; 44 Napoli; 45 - Alfredo Petrucci; 46 - Lo « Almanacco giuridico forense »; 47 Angiolo Ciuffreda; 48 - In tribunale a Roma; 49 - Pin; 50 - « Fiamma » di
Guido Guido; 51 - Libri e carte: eredità paventate; 52 - La Fiera di Foggia;
53 - L’Associazione Pugliese di Roma; 54 - Esperienze monastiche; 55 - Il
foro italiano; 56 - Gli operai di papà; 57 - Lucera; 58 - Mussolini e
Manfredonia; 59 - Leone: « disorganizzazione di Foggia »; 60 - La casa di
Antonio Simone; 61 - La mia formazione garibaldina; 62 - Il « mio » primo
maggio; 63 - Associazione giovanili di Manfredonia; 64 - La « Nazario
Sauro »; 65 - Trigemino e trigemello; 66 - Flora; 67 - Repubblicanesimo
proletariato; 68 - P.C.I.; 69 - Il cafone promosso; 70 - Gli evangelici; 71 Uomini di massoneria; 72 - Biblioteca de’ Gerolomini a Napoli; 73 Baldassare Cocurullo; 74 - Tremiti; 75 - Miei
2
studi; 76 -Voce repubblicana; 77 - Mazzini; 78 - Mauro Del Giudice; 79 - La
tipografia Bilancia di Manfredonia; 80 - Annibale Valentino; 81 - La stampa
socialista e democratica in Capitanata; 82 - La Puglia a Roma; 83 - Studio
editoriale dauno; 84 - La Biblioteca Civica di Monte S. Angelo; 85 - Gli
anarchici; 86 - Il diario di Ascoli Satriano; 87 - Gli opuscoli per il risparmio;
88 - Pro memoria agli intellettuali dauni.
L’Ente Provincia, che gli ha affidato la pubblicazione degli « Atti del
Consiglio Provinciale », e la Biblioteca, che lo ha avuto collaboratore
assiduo e consulente editoriale per quindici anni1, con la pubblicazione degli
inediti intendono dargli atto della preziosa collaborazione svolta con rigore
e con disinteresse, ed esprimere il doveroso omaggio, che si deve a chi per
oltre un ventennio ha operato per il bene pubblico.
Il suo scritto Il Consiglio provinciale del 1861, pubblicato in occasione del
centenario dell’unità d’Italia, è tuttora esemplare per rigore di metodo e per
ricchezza di documentazione e costituisce un contributo storico di notevole
valore.
***
Nel corso di circa quindici anni di amicizia e di comune lavoro,
rinsaldata da non infrequenti scontri e baruffe, dovuti il più delle volte
all’atteggiamento volutamente provocatorio che gli piaceva assumere, il cui
segno promonitore era sempre la sistemazione a sghimbescio del cappello,
ho imparato ad amare ed apprezzare un uomo difficile, scontroso, ma
anche umanissimo e, specie negli ultimi anni, dolce.
Non mi chiamava più Celuzza (un modo di apostrofarmi che
provocava una intima ripulsa e una reazione: impulsi e stati d’animo che mi
predisponevano male verso l’interlo1 L’Amministrazione Provinciale gli affidò la cura degli Atti del Consiglio
nel 1952. La pubblicazione si interrompe con l’annata 1966. La collaborazione
con la Biblioteca Prov.le ebbe izinio nel 1962 con la pubblicazione del
bollettino bimestrale di informazione «La Biblioteca Provinciale di Foggia». Nel
1963 seguì « Li Capitanata ».
3
cutore), ma « Angiolino », e ogni nostro incontro, dopo la sosta penosa cui
era costretto dal male che lo affligeva e non gli dava requie, e che lo
costringeva a lunghe pause, si conAudeva con l’esortazione da parte sua ed
avere cura della rivista « La Capitanata » nostra creatura prediletta, nata
nell’anno 1963.
Le stesse parole riuscì a dirmi, pochi giorni prima di passare a miglior
vita: « Angiolino, ti raccomando La Capitanata. Ho tanto lavorato per quella
‘creatura’ e per sottrarla al provincialismo, sempre deleterio. Abbi cura della
rivista. Non farla morire. Ti raccomando ».
A quella promessa, che nella piccola ma tanto cara casa di via
Carducci (ora Don Minzoni) a Manfredonia feci all’editore Mario
Simone,intendo restare fedele, in ciò confortato dalla convinta adesione e
dal patrocinio dell’Ente Provincia, e dalla preziosa collaborazione del Dr.
Mancino, mio collaboratore e suo allievo, che l’arte grafica ha appreso da
un tale maestro sui banchi della « Laurenziana » di Napoli.
Un uomo di tanta cultura avrebbe potuto percorrere con non poche
soddisfazioni il « cursus honorum » nell’agone forense, così come del resto
aveva cominciato (e la rivista La Corte d’Assise ne è chiara e concreta
testimonianza), dopo gli studi presso l’Ateneo di Napoli e lo studio di
specializzazione in diritto penale, fatto a Roma, allievo di Ferri, De Sanctis,
De Tullio, Ottolenghi e Sergi.
Collaborò infatti a Il Foro Italico, a I Rostri, a Il Tribunale, alla Rivista
di Cultura, fondata e diretta da Alfredo Petrucci, e all’Almanacco GiuridicoForense (1932-1934), per poi fondare, nell’anno 1934, sotto la sigla dello «
Studio editoriale dauno » La Corte d’Assise, con Baldassare Cocurullo e
Vincenzo La Medica, con Giovanni Conti, Giuseppe Romualdi, Mario
Trozzi, Filippo Berdini; ma, fedele all’ideale repubblicano2, egli era troppo
convinto che la sua terra avesse bisogno di cultura, perché non ispirasse ad
esso, calandolo nella realtà, la sua regola di vita, e vi conformasse3.
2
cfr. Repubblicanesimo di Manfredonia, 1921-1971 edizioni di «
Risorgimento meridionale », C.E.S.P., Napoli, 1972.
3 Le collane dello Studio editoriale Dauno sono: - BIBLIOTECA
DAUNA,
4
E questo ideale civile, di progresso e di giustizia sociale egli volle
testimoniare con la costante presenza fra gli umili, cui devolse, lui non ricco, i
proventi del suo lavoro editoriale. Negli ultimi anni aveva addirittura creato a
Manfredonia un Centro di Cultura4 e una ‘Biblioteca popolare’ intitolati al
padre Antonio, svolgendovi con umiltà e amore, con disinteresse e
entusiasmo opera di vero operatore sociale fra i ragazzi e i poveri del suo
quartiere.
E quanta gioia nelle poco frequenti mie visite fatte al suo « Centro »,
allorché sorridente mi presentava i suoi piccoli amici, ai quali non solo aveva
messo a disposizione i suoi libri, ma i suoi dischi e un attrezzato corredo di
audiovisivi.
La lezione di animazione culturale, avente per tema « Le vicende
storiche, lo sviluppo urbanistico e i beni culturali di Manfredonia », fatta con
il corredo di diapositive, di documenti inediti o poco noti presso la Biblioteca
della Società Umanitaria di Manfredonia, resterà a lungo nelle mia mente, per
l’esemplarità e per il sostrato di amore, di umanità e di cultura ai quali attinse
a piene mani. Volle, forse, quella volta, dopo le non poche critiche e
polemiche verso la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez, dimostrare ai «
soloni » venuti dal Nord a portare la luce della cultura tra i « terroni », come
si fa veramente cultura senza restare imprigionati tra gli acchiappanuvole. Ha
scritto al riguardo pagine esemplari, lui meridionalista convinto, sempre in
prima linea in tante battaglie, combattute per il suo ideale e per la Capitanata.
***
Particolare rilievo hanno avuto, infatti, nella vita del Nostro i rapporti
di stima e di cordialissima amicizia con Tomcollana di monografie regionale; - BIBLIOTECA DEL RISORGIMENTO
PUGLIESE; - BIBLIOTECA E QUADERNI DELLA CORTE D’ASSISE; BIBLIOTECA MUSICALE; - ATTI, DOCUMENTI E STUDI DAUNI; POESIA; - QUADERNI MUSICALI; - BILANCIA; - TEMI E TEMPI.
4 cfr. Il centro di Cultura popolare « ANTONIO SIMONE », (Istituti
d’arte e di cultura) S.E.D., Foggia-Napoli, 1968.
LA CAPITANATA, a. IV, n. 1-6, parte I, pp. 96-98.
SOCIETA’ UMANITARIA, Venti anni di Cultura Popolare in Italia, La
Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 94 e segg.
5
maso Fiore. Questo sodalizio fu rafforzato dalla permanenza in Capitanata
di Fiore nel Gargano « alla ricerca5 del prossimo di Giannone e di Celestino
Galiani, di Carmelo Palladino e di Giuseppe Bramante, fantasmi implacabili
della Rivoluzione alienata... »; su quel Gargano « formicaio tipico della
Puglia », che suggerì al Fiore il titolo al suo bellissimo libro Cafone
all’inferno. Il Fiore attinse a piene mani per i Formiconi di Puglia all’archivio
di Mario Simone, generosamente spalancato all’attenzione dello studioso,
paragonato da Leonardo Sciascia al Courier, non solo per la comune
appassionata difesa dei contadini, ma per la qualità « francese » della
chiarezza, della lucidità e della vivacità, che è propria dei due scrittori.
***
Il capitolo « Fiume 1919 » ha costituito per me una grossa sorpresa.
Nei lunghi anni del nostro sodalizio mai una parola, un cenno di quella sua
fiammata irredentistica e della parte da lui svolta per l’impresa fiumana.
Perché tanto riserbo? E’ un capitolo di grande interesse per comprendere la
temperie culturale e i sentimenti alimentati nei giovani dalla psicosi
dell’irredentismo e del dannunzianesimo.
Mario Simone costituisce in Manfredonia un circolo di giovani6
accomunati nell’ideale del rinnovamento nazionale; e il discorso tenuto nel
Teatro Eden a Manfredonia, per commemorare Nazario Sauro ne
costituisce il programma7.
Il racconto è tutto un piacevole contrappunto di disguidi e
contrattempi, un susseguirsi di false partenze per mare e poi per terra e di
precipitose ritirate. Contrattempi dovuti
5 Contributo di Mario Simone in La Rassegna Pugliese, a. II, n. 4-7,
aprileluglio 1967, p. 453.
6 Il Circolo Studentesco C. Battisti fu fondato dal Simone in un suo locale
nel 1916, vi organizzò un corso di recite « pro famiglie dei richiamati in guerra ».
7 Scrive in proposito il Foglietto di Lucera, del 26-8-1919: « A mezzanotte
tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponte-porto
e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico
nostro, lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che
l’eco profonda portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una
promessa, come una speranza ».
6
proprio all’entusiasmo della giovane età, in quella estate dell’anno 1919. «
L’estate di quel ‘19 - scriveva il Simone - mi trovò tutta una fiamma... e mi
vide abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo
borghese che la esprimeva ».
Dicevo del suo ideale repubblicano, del suo amore per gli umili e
della sua laica fiducia nella ragione e nelle qualità morali.
L’incontro con l’editore Formiggini, che gli fu maestro
impareggiabile di architettura tipografica, e anche di vita, con il suo gran
cuore, cui impose tragicamente di cessare di battere, e non certo per
mancanza di amore per la vita, (lo stesso amore per la vita cui il Nostro fa
cenno nei suoi « Ricordi » e che lo spinse a diventare editore), assumerà
importanza decisiva nella vita del Simone.
La documentazione del primo incontro del Simone con il Formiggini
risale all’anno 1925 a Roma, dove il colto ed originale editore si era
trasferito da Genova fin dal 1918.
La sua visita nello « sgabuzzino di lavoro di quel gigante in vicolo
Doria », dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la biblioteca
circolante, unica del genere in Roma; l’assalto, poi, dei fascisti alla
istituzione « Leonardo »; la pena e la esasperazione del Formiggini per le
persecuzioni razziali fino al sacrificio dalla torre di Modena, sono tra i
ricordi più belli e commoventi del Nostro, che in un capitolo degli inediti lo
ricorda tra i « maestri miei iniziatori ».
E Mario Simone ritornerà nei suoi ricordi con devoto e memore
affetto a Formiggini, nel trentennale della sua morte: « Angelo Fortunato
Formiggini è ancora in piedi nel mio ricordo ».
Due vite parallele: in entrambi l’abbandono della toga « cui non si
prestavano le spalle, intolleranti degli onori della giurisprudenza »; entrambi
editori e bibliografi, innamorati della vita, nella convinzione che « sapere è
felicità e suo combattere è il leggere ».
Segue un lungo periodo impiegato dal Simone negli studi e
nell’attività editoriale. Fra le sue cose mirabili, a parte le riviste Puglia, Corte
d’Assise, La Capitanata, Quaderni musicali, mi piace ricordare la Antologia
degli scritti di Angelo
7
Fraccacreta, il San Leonardo di Mastrobuoni, il magnifico volume su Agostino
Gervasio, la silloge di lezioni raccolte in volume con il titolo Civiltà della
Daunia e il Libro Rosso della città di Manfredonia, un vero atto di amore verso la
sua città8 che ritengo possa fare da « suggello » a tante amare polemiche che
hanno reso tristi e amari gli ultimi anni della sua vita.
Mirabile e preziosa la collana di studi sulla Dohana menae pecudum di
Foggia: tre volumi svelti ed eleganti cui purtroppo non seguirono, come
previsti, molti altri. Il tema doganale è stato per il nostro uno dei grossi
impegni di studio e poi di divulgazione. Al meridionalista, cui erano familiari
lunghissime e pazienti ricerche di archivio, non poteva sfuggire l’importanza
dello studio del problema doganale con i suoi grossi riflessi e implicazioni
nella storia economica, politica e sociale della Capitanata. E il suo amore per i
Centri di Cultura e per le Biblioteche? Lui ricercatore infaticabile di carte e
amico degli studiosi, cui infondeva fiducia e coraggio, sforzandosi di incitarli
a uscire dal loro penoso isolamento, ed esortandoli sempre a continuare, a
non fermarsi al « presso a poco », spia del provincialismo più deleterio e
categoria dalle influenze più nefaste per il nostro Sud.
Mi ero ripromesso (anche perché a Lui la Società Dauna di Cultura,
sua creatura, che tenne in prestigiosa evidenza quale segretario generale e
arricchì di soci autorevoli, in collaborazione con uomini di cultura quali
Vocino, Soccio, Lamura e poi con l’attuale presidente dr. Vitulli, ha
deliberato di dedicargli una tornata per ricordarlo degnamente, a un anno
dalla scomparsa) di scrivere soltanto una breve prefazione agli inediti che la
Biblioteca Provinciale di Foggia si accinge a sua cura a pubblicare, quale
primo contributo di omaggio a Mario Simone, amico, uomo di cultura,
editore. La penna, poi, mi ha preso la mano, sotto l’urgere dei ricordi. E sia
questo anche l’omaggio personale dovuto a un uomo e ad un amico, cui tanto
davo per le paterne sollecita
8 Nel 1974, con atto notarile, donò tutta la sua biblioteca di storia locale e i
volumi del Centro di Cultura Popolare « A. Simone » al Comune di Manfredonia.
Tale prezioso materiale (n. 5.000 pezzi) è stato sistemato nella biblioteca civica «
Pascale ».
8
zioni, per i buoni e dotti consigli e per l’affetto che mi portava.
Cessate le polemiche astiose di fronte al suggello della morte, sono certo
che molti altri uomini di cultura, nel ricordo e nell’apprezzamento giusto di una
fruttuosa collaborazione, scioglieranno il debito che hanno verso di Lui. Mario
Simone apparteneva a quella ristretta e provvidenziale cerchia di uomini di
cultura che, avendo dato sempre e con generosità, e avendo approntato
strumenti per la crescita culturale e civile della Capitanata, non avranno, per
quanto si faccia e generosamente, mai il giusto riconoscimento e
apprezzamento di una vita interamente spesa per gli altri.
Sarà doverosa - e mi auguro che il tempo e le circostanze lo
consentiranno - una attenta spigolatura tra il voluminoso epistolario, che pur
dovrebbe essere pubblicato appena possibile, (rapporti con gli editori, uomini
di cultura, archivi, biblioteche, ecc.) per la esatta ricostruzione del non facile
profilo di un uomo colto, buono, lineare, che aveva il culto dell’amicizia, al
quale pertanto, si possono perdonare e comprendere impuntature, stranezze,
complicazioni.
La morte, da lui attesa da tempo, non lo ha colto impreparato; ma certo
ha prematuramente privato noi tutti e la nostra Puglia di uno dei suoi figli
migliori.
ANGELO CELUZZA
9
CURRICULUM VITAE
Simone Mario Domenico nato a Caserta il 15-12-1901 morto in Manfredonia
(Foggia) l’11-10-1975, avvocato, pubblicista, editore fu esperto organizzatore di
movimenti e manifestazioni culturali non solo nella provincia di Foggia ma nell’intera
regione, ricevendo riconoscimenti a livello nazionale.
Al fine di meglio comprendere la sua opera dividiamo il suo curriculum vitae per
settori di attività.
* Mario Simone animatore culturale.
1921-26: organizzatore attivista dei movimento Repubblicano in Provincia di
Foggia (segretario Luigi Natoli). Corrispondente di « La Voce Repubblicana » e
redattore di « L’Alba Repubblicana » e di « Humanitas » (direttore resp. Piero
Delfino-Pesce). Incomincia la collaborazione in Roma con Giovanni Conti e Angelo
Fortunato Formiggini.
1933: fonda con suo padre in Foggia lo studio editoriale Dauno.
1934: fonda e diventa editore di « La Corte di Assise ».
1939-42: su sollecitazione di Ghisalberti diventa organizzatore e direttore del
comitato provinciale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano.
1940: è editore e direttore della « Biblioteca del Risorgimento Pugliese » tenuta a
battesimo da Antonio Lucarelli.
1946: diviene editore e redattore in Bari presso i fratelli Laterza della rivista «
Puglia », rassegna di risorgimento regionale.
Fonda, organizza e diviene segretario generale della Società Dauna di Cultura in
Foggia.
1948: viene eletto vice-presidente della Società di Storia Patria per la Puglia,
divenendo anche condirettore del suo Archivio. Organizza le celebrazioni del 1848 in
provincia di Foggia, ordinando una mostra storica e compilandone il catalogo, nonché
una ricca ed autorevole « Bibliografia del Risorgimento Dauno ».
1950: organizza in Foggia il Convegno Nazionale di Studi Fridericiani con il
patrocinio del Presidente della Repubblica Einaudi.
1950-51: viene nominato segretario generale, capo ufficio stampa delle due
prime manifestazioni post-belliche della Fiera di Foggia.
1952-56: è animatore di quattro corsi di cultura regionale per insegnanti
elementari, che saranno ripetuti negli anni 1961-65.
1953: organizza, come segretario, il terzo Convegno storico Pugliese in Foggia.
1953 e 1957: si fà promotore ed organizza due premi nazionali di poesia « U.
Fraccacreta ».
1959 e segg.: fonda e dirige in Manfredonia il Centro di Cultura Popolare e
Biblioteca « Antonio Simone ».
1961 e segg.: dirige e diviene editore dei « Quaderni di Risorgimento Meridionale
» (Napoli) di cui una serie è dedicata a « resistenza e liberazione ».
1963 e segg.: fonda e dirige come editore, in Napoli, la Miscellanea giuridica
economica meridionale.
10
1965: viene eletto Consigliere dell’Istituto Storico della Resistenza in Campania.
1967: viene delegato dalla Società Umanitaria di Milano a organizzare in
Manfredonia il Centro di Servizi Culturali, convenzionato con la Cassa del
Mezzogiorno.
1968-1971: è consulente del Centro Servizio Culturali di Manfredonia ed insieme
al direttore del Centro Dr. Luigi Mancino, organizza tre corsi di formazione per
animatori di Biblioteche pubbliche.
* Mario Simone, bibliotecario e editore.
1925: (Manfredonia) suggerisce al vecchio maestro Luigi Pascale « onesto
scrittore » di cose locali, la istituzione di una Biblioteca Civica e con lui collabora alla
raccolta e alla sommaria collocazione del primo fondo.
1927: (Manfredonìa) bibliotecario onorario con suo padre Antonio, riordina
tecnicamente la Civica « Pascale ». Successivamente rinuncerà alla nomina per
l’ostruzionismo dell’A mmini straz ione Podestarile.
1929-33: (Roma) con Giuseppe Gabrielli, bibliotecario dell’Accademia dei
Lincei, collabora alla sezione bibliografica della rivista « lapìgia » organo della
deputazione di Storia Patria per la Puglia. Presso l’Associazione pugliese, essendone
segretario generale, promuove e costituisce la Biblioteca Regionale, pubblicando un
periodico bimestrale ed il primo dei « Quaderni Pugliesi ».
Con Alfredo Petrucci (1933); fonda, dirige e compila un « Lunario della Toga »
che prenderà il nome di « Almanacco Giuridico Forense Italiano ».
1933: (Foggia) con il Prof. Cocurullo, Procuratore del Re presso il Tribunale, e
con l’Avv. Vincenzo La Medica, fonda, dirige, compila e pubblica « La Corte d’Assise »
e tutta una serie di relativi « Quaderni ».
1935: (Foggia) nel « Bollettino » del Sindacato professionisti ed artisti redige la
rubrica « Bibliografia Dauna » comprendendovi quella del giureconsulto repubblicano
Luigi Zuppetta di Castelnuovo della Daunia, preso per la prima volta in esame.
1940: (Foggia) tra le altre edizioni costituisce « La Biblioteca del Risorgimento
Pugliese ».
1948: (Bari) pubblica la « Bibliografia del 1848 in Capitanata ».
1950: (Manfredonia) promuove ed organizza le onoranze alla memoria di
Michele Bellucci.
1951: (Bari) è relatore al primo Convegno Storico Pugliese trattando il tema «
Aspetti politici della Regia Dohana Menae Pecudurn ».
1952: (Foggia) L’Amministrazione Provinciale gli affida la pubblicazione degl:
Atti del Consiglio che si interromperà al 1966.
1962: (Foggia) pubblica il bollettino bimestrale di informazione « La Biblioteca
Provinciale di Foggia ».
1963: (Foggia) inizia la pubblicazione, tuttora in corso, de « La Capitanata »,
rassegna di vita e di studi della provincia di Foggia, direttore dr. Angelo Celuzza. In
concomitanza darà inizio a tutta una serie di edizioni di « Quaderni di Capitanata », «
Quaderni dell’Amministrazione Provinciale di Capitana », « Documenti e monografle
della Biblioteca provinciale ».
11
1966: (Monte S. Angelo) ordina la mostra della Civica Biblioteca « Angelillis », di
cui assicura in dono i notevoli fondi bibliografici dell’ex biblioteca popolare dell’On.
Basso.
1967: (Manfredonia) organizza una mostra bibliografica con distribuzione
gratuita di libri presso il Centro di Cultura Popolare e Biblioteca « Antonio Simone ».
1968: (Foggia e Manfredonia) tutte le edizioni da lui curate sono esposte in
sezioni separate nelle mostre per la « Settimana Nazionale per la Lettura » presso la
Biblioteca Provinciale di Foggia e quella Comunale di Manfredonia.
1974: (Foggia) in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Biblioteca
Provinciale l’Amministrazione gli affida la pubblicazione del volume Ester Loiodice Le
tradizioni popolari in Capitanata nei ricordi di N. Zingarelli.
1974: con verbale n. 18 dei 15-2, l’Amministrazione Comunale di Manfredonia
gli affida la stampa del « Libro rosso dell’Università di Manfredonia », che vedrà la luce
il 14-7-1974, pregevole edizione ed ultimo atto di notevole impegno della sua attività di
editore (*).
(*) Mario Simone, fondatore e direttore dello Studio Editoriale Dauno, che pur
godeva fin dai primi anni della sua attività editoriale della estimazione e dell’alto
riconoscimento di editori quali R. Ricciardi e Laterza, è stato scoperto dalla stampa
nazionale in seguito alla pubblicazione di un volumetto miscellaneo sulla Lois di
Vailland (con contributi di Maria Brandon Albini, Tommaso Fiore, ecc.), Foggia, 1958.
Di lui, infatti, a partire dall’anno 1957 hanno scritto i seguenti quotidiani e
riviste:
Il Ouotidiano (Roma) 7-6-1957; Momento Sera (Roma) 7-4-1959 e 2-8-1959; Il
Giornale del Levante (Bari) 17-5-1959 e 20-5-1960; Giornale d’Italia (Roma) 9-3-1959; La
Liberté (Paris) 20-5-1959; Il Giornale degli Italiani (Parigi) 22-5-1959; Il Mattino (Napoli)
15-5-1959; Nuovo Mezzogiorno (Roma) n. 12 del 1958 e n. 4 del 1959; Il Mattino (Napoli)
23-7-10,59, 20-4-1960 e 19-5-1960; La Gazzetta del Mezzogiorno 16-5-1960; La Tribuna
Economica (Foggia) 6-6-1959; Il Tempo (Roma) 1959; La Gazzetta del Mezzogiorno
30-12-1958 e 20-4-1959; Nuovo Mezzogiorno (Roma) ottobre 1961.
Notevole è stata l’attività di Mario Simone nel campo degli studi storici, in specie
dei Risorgimento, dei congressi e delle mostre. Per la documentazione vedasi: Rassegna
storica del Risorgimento, Roma, XXV, 5, 1939; XXVIII, 6, 1941; ALFONSO LA CAVA,
Biblioteca del Risorgimento Pugliese, in Archivio storico per le Provincie Napoletane, Napoli,
XXVII, 1941; POMPEO FALCONE, Biblioteca del Risorgimento pugliese, in Rassegna storica
del Risorgimento, Rorna XXVII, 7-8, 1940; XXIX, 5, 1942; lapigia, Bari, X, 1939: Archivio
Storico Pugliese, Bari, 1, 2, 1948; Mostra storica del 1848 in Capitanata. Museo Civico Foggia,
catalogo a cura di M. Simone, 1948; MARIO SIMONE, Bibliografia del 1848 in
Capitanata, Bari, 1949; Programma del Convegno Nazionale di Studi Fridericiani, in Il
Mezzogiorno d’Italia, Foggia, 1, 5, 1950; MICHELE ABBATE, La prolifica attività culturale
dello Studio editoriale, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 30 dic. 1958; P. F. PALUMBo,
Dieci anni di vita dell’Archivio Storico Pugliese, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 28
novembre 1958; Il Mattino, Napoli, 1958; Giornale del Levante, Bari, 25 genn. 1959; Il
Tempo, Roma, 19 agosto 1960.
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RICORDI E FRAMMENTI *
di Mario Simone
FIUME 1919
I
L’estate di quel ‘19 mi trovò tutto una fiamma (febbre di adolescenza
alimentata dalla psicosi dell’irredentismo e dal dannunzianesimo) e mi vide
abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo borghese che
la esprimeva.
A Manfredonia chiamai a raccolta i più fedeli e nello stesso fondaco di
mio padre al Corso Manfredi (oggi farmacia Centrale) che il 1916 aveva
ospitato il Circolo studentesco Cesare Battisti, costituì la Unione sportiva
«Nazario Sauro» prima e unica del genere in Capitanata a imprimere alla sua
attività agonistica uno spirito politico di intransigenza che, in relazione ai tempi
e all’educazione dei giovani di allora, è sembrato un segno anticipatore del
fascismo come ha recentemente ricordato il «Giornale d’Italia» (21 giugno).
Doveva essere secondo il mio disegno una cellula di quel movimento
rinnovatore nazionale che da qualche tempo presagivo attraverso la stampa, ma
io ero un capo troppo giovane per impormi all’ambiente dominato da mentalità
e psicologia bizantina.
Comunque, riuscì a conservarle la sua fisionomia politica e approfittai
della commemorazione del Sauro per affermarla in maniera solenne.
Come riportò « Il Foglietto » di Lucera (26-8-‘19) dopo il discorso
celebrativo da me tenuto al Teatro Eden, « A mezzanotte tutti i giovani della
sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponteporto e lì sulle
scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro,
lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco
profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una
promessa, come una speranza ».1
* E’ stata operata dai « Ricordi e Frammenti » una scelta accurata. Sono state
escluse pagine già pubblicate su giornali e riviste o passi la cui stesura si limita ad una
prima provvisoria raccolta di appunti incompleti.
1 La sez. sportiva « Nazario Sauro » - Manfredonia 18 agosto 1919 Una eletta
schiera di giovani studiosi ha testè costituita in questa città una Sezione Sportiva,
intitolandola, con opportuno sentimento patriottico all’eroe martire « Nazario Sauro ».
13
II
In tali condizioni di spirito mi raggiunse la notizia della Marcia di
Ronchi.
Letto i giornali e deciso a raggiungere il Comandante fu tutt’uno.
Con quello che ritenevo il più spregiudicato dei miei compagni, Edoardo
Mazzone di Ludovico, decisi d’imbarcarmi subito su uno dei velieri che
facevano il piccolo cabotaggio con la Dalmazia.
Ma nonostante la nostra riservatezza sui propositi di partenza, il 15
settembre ricevei da Foggia una lettera dello studente Michele Cainazzo: « So in
parte le tue intenzioni a proposito dei fatti di Fiume. Animato dai medesimi
sentimenti, ti prego di venire a Foggia domani per un abboccamento…… ».
Fu il primo contrattempo.
Incominciai a fare la spola col Capoluogo che mi ammoniva ogni volta
sull’approssimarsi della sessione autunnale e ivi presi contatto col prof. Luigi
Natoli, esponente del patriottismo massonico locale, e con qualche altro
valentuomo. Essi m’informarono di star preparando una grande spedizione con
l’intervento di numerosa rappresentanza delle forze armate e mi consigliarono
di collaborare alla buona riuscita di essa.
Si trattava di un piano che, riuscendo, avrebbe fatto storia nella nostra
provincia. La colonna di uomini (arditi, cavalleggeri, aviatori) avrebbe dovuto
raggiungere nottetempo Manfredonia dove alla scogliera dell’« Acqua di Cristo
» avrebbe dovuto trovare pronti una passerella e un piroscafo della Società di
navigazione « Puglia », già occupato di forza e colà diretto.
Ma il tentativo fu sventato dalla Questura, e Manfredonia incominciò ad
essere rigorosamente sorvegliata.
III
Da tempo trovavasi in porto sull’ancora una regia nave vedetta; i suoi
sottocapi timoniere e radiotelegrafista erano entrati a far parte dell’Unione
Sportiva.
Insinuai a questi due marinai l’idea di portare a Fiume la nave
Domenica, nell’Eden teatro, tutto imbandierato, l’egregio giovane sig. Mario
Simone tenne il discorso inaugurale suscitando il più grande entusiasmo. Evocò l’epiche
gesta dellEroe Martire invocò con frase elegante la fede di tutti i giovani, dopo di aver
rilevati gli scopi educativi della sezione, concluse, applauditissirno, con una calda
perorazione alle speranze della gioventú ed ai piú grandi destini della patria.
A mezzanotte poi tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in
corteo sul Ponte-porto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso dinanzi alla maestà
dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro, il grido di guerra di Gabriele
D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda,
come una promessa, come una speranza.
Congratulazioni ed auguri.
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e non ebbi bisogno di molte parole, per farmi capire. Consigliarono anzi, di
affrettare la partenza che s’imponeva prima che facesse ritorno da Bari il loro
comandante.
Chiamai a raccolta i fedeli di Manfredonia e mi portai a Foggia per
avvertire quegli amici. Ebbi l’assicurazione che insieme con pochi borghesi
sarebbe venuto al completo il gruppo di arditi.
Qualche giorno dopo, ritornando a Manfredonia per organizzare la
partenza fissata l’indomoni notte, una sorpresa mi attendeva in treno. Tra gli
altri viaggiatori un capitano di Marina mi fece gelare le vene. « li capo non può
essere che lui - pensai -tutto dunque svanisce! »
Ma il caso sembrava congiurare con me.
Ecco che due agenti di Polizia salgono e si fermano nel corridoio per
scrutarci uno ad uno.
- Che guardano questi ridicoli! - Esclama come seccato il Capitano.
Non mi par vero di poter prendere la parola: - Hanno l’aria di essere
poliziotti. Temono partenze per Fiume.
- Ebbene - dichiara subito quello in modo piú teatrale - Ecco la
provocazione più grave per farmi raggiungere subito D’Annunzio!
Ebbi l’ingenuità di confidargli il piano.
- Quei pirati - gridò - sarebbero dunque partiti senza il loro comandante!
La sera nel caffè Castriotta concertammo il da farsi. Si sarebbe partiti la
notte successiva, per consentire l’arrivo della gente di Foggia. Avremmo
portato a Fiume, oltre i cuori e le armi, sopratutto il danaro esistente in cassa
sulla nave.
Mi agitai tutta la notte. Alll’alba montai in terrazza, per rivedere la nave,
che finalmente ci avrebbe portato trionfanti fino alla meta.
Ma il Capitano, prudentemente, aveva già preso il largo.
IV
Ammaestrato dalle difficoltà delle partenze in grande stile, decisi di
ridurre il programma alle originarie modeste proporzioni.
Erano quel tempo in corso i lavori del Porto Varano. A Manfredonia il
Genio Marino che li eseguiva era allogato nel Castello e aveva come fiduciario
un mio affiliato, Michele Cafarelli di Carlo.
Con questo misi l’occhio su un rimorchiatore d’alto mare capitanato da
un di Romagna, autentico lupo di mare col quale però non si riusciva mai a
imbastire un ragionamento perché era o fingeva di essere sempre ubriaco.
Decidemmo dunque di agire con la violenza. Imbavagliata la guardia di
Finanza del faro, non sarebbe stato difficile raggiungere la nave e obbligare i
marinai eventualmente ostili a sbarcare e il capitano a guidarci a destinazione.
E saremmo certamente partiti se proprio il giorno stabilito non
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fosse apparso a Manfredonia il comandante la tenenza Carabinieri di Foggia.
Io e Cafarelli ci trovavamo appunto in Castello allorquando quello venne
a chiederci di poter telefonare a Foggia.
- Pronto! pronto! nessuna novità. Qui tutto bene.
E l’indomani di nuovo tutto male perché alla sorveglianza del porto
furono addetti anche i Carabinieri.
Il rimorchiatore partì per il Varano, e dovemmo così cambiare un’altra
volta programma.
Ecco il disegno del Cafarelli: « Partire da Foggia - Sansevero - Apricena S. Nicandro G. - S. Nicola Varano - Capoiale. A Capoiale, ove mi farei trovare
col rimorchiatore « Lido » vi sarebbero solamente l’ufficiale telegrafico ed il
magazziniere. Se vestiti da operai dire che si va in cerca di lavoro, se vestiti
ordinariamente dire che si cerca l’ingegnere D’Arienzo o Delli Muti, tanto per
avere alloggi e mangiare gratis, la notte e la mattina alle sei, quando il
rimorchiatore dovrebbe fare ritorno a Manfredonia, imbarcare tutti, tagliando
comunicazioni telegrafiche e fornendosi di una buona scorta di carbone e di
olio e indurre il comandantte a sbarcare l’equipaggio. Quindi seguire la rotta ».
Progetto anch’esso svanito per la mancata tempestiva azione degli
elementi foggiani.
FORMIGGINI, CONTI, PETRUCCI (Maestri miei iniziatori)
Ad Angelo Fortunato Formìggini debbo le più gioiose emozioni della mia
carriera di lettore. A Napoli, dove il 1918 preparavo la licenza liceale,
conquistata poi al « Genovesi », ricevetti in libreria un saggio de « L’Italia che
scrive »: ritornato a casa ottenni che mio padre pagasse l’abbonamento alla
gaietta rivista. Fui conquistato dallo stile magico di quel periodico, in cui lo
spirito vivace dell’editore sceglieva e amalgamava le varie collaborazioni, in
modo da comporre una unità culturale e tipografica.
Trasferitomi a Roma, sapevo trovare le occasioni e le scuse, per farmi
ricevere un attimo nello sgabuzzino di lavoro di quel gigante di vicolo Doria,
dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la Biblioteca circolante, unica
istituzione di quel genere nell’Urbe. Sembrava un idillio, l’attività di AFF a
Roma, con le gerarchie fasciste; fino a quando queste non decisero di
stroncare... l’uomo, lasciato ancora libero e fu l’assalto alla « Leonardo », cui
seppe rispondere con La picozza filosofica del fascismo. Stretto ai pochi amici, ne
condivisi la pena, e mi esasperai alle prime misure razziali, e non mi rassegnai
facilmente dopo lo storico sacrificio dalla Torre di Modena. Rivedere il suo
sorriso m’è tuttora di conforto e di incoraggiamento, tra le contraddizioni della
vita.
A Roma ho avuto la fortuna di esaltarmi vicino ad altri due uomini
eccezionali: Giovanni Conti e Alfredo Petrucci. Furono essi
16
Angelo Fortunato Formiggini
17
a « insegnarmi il mestiere ». Conti fu il promotore e, con l’avv. Lanzetta, il
realizzatore della editoria politica romana. Quando le altre forze politiche
credevano di assolvere tutti i loro compiti nell’azione parlamentare, e poi
aventiniana, il discepolo di Arcangelo Ghisleri affermava che il successo di
qualsiasi tattica e strategia politica non può non essere condizionata dalla carica
morale, dalla preparazione ideologica e dalla esperienza pratica dei protagonisti,
i quali non sono soltanto i capi e i dirigenti (parole delle quali aborriva) ma
anche e soprattutto il « popolo ».
Fondatore e direttore de « La Voce Repubblicana » e della « Libreria
Politica Moderna », fu il mio modello di editore, pervaso da un alto ideale di
rinnovamento e sdegnoso di tutto quanto costituisce la materia vile della
funzione mercantile. Sincero e leale fino a traumatizzare chi non « filava » sulla
sua linea, suggestionava e trascinava in virtù di un temperamento virile, vivace
ed esuberante, La sua lezione non era fatta per farlo chiamare maestro (altra
parola che egli dava ai nemici). Sentivo in lui il padre severo, che non si
trattiene dal contestare, senza rinunziare alle prove, la capacità di rinnovamento
del vecchio repubblicanesimo meridionale, intellettualistico e settario, e per ciò
inconcludente.
Petrucci - Poeta ed artista di rara sensibilità e operosità, Alfredo Petrucci,
autorevole fratello maggiore, mi ha trasfuso il gusto, i segreti tecnici e il rispetto
amorevole della buona stampa, dall’esordio lontano ai suoi ultimi tempi: un
periodo di cinquant’anni nel quale è stato per me decisiva la sua collaborazione.
I nostri appaiono sui tre volumi dell’« Almanacco Giuridico Forense
Italiano » (Lunario della Toga), pubblicati per le nostre cure a Roma negli anni
1930-33, ma essi sono stati sempre vicini, sia che recensissi sue opere, sia che
annunciassi quale mia edizione il suo Gargano monumentale (trasfuso poi in
Cattedrali di Puglia).
Vocino nella pubblicazione della rivistina « La Puglia a Roma », dei «
Quaderni Pugliesi » iniziati nella capitale col suo Caldara e dell’altro periodico «
Puglia » di entrambi volle affettuosamente disegnare le testate, uscito a Bari il
1926 presso i Laterza.
I LATERZA
Il 30 maggio 1960, diciassette anni dalla scomparsa, Putignano, comune
patrio, murò una lapide su la casa nativa di Giovanni Laterza senior.
Nel salone della biblioteca civica, Tommaso Fiore ripercorse la vita di
quel grande pugliese con una celebrazione, che attendiamo di vedere a stampa
in opuscolo.
Varie componenti personali, fanno di Giovanni Laterza il prototipo
dell’editore nuovo del Mezzogiorno, destinato ad assicurare alla sua regione un
primato insuperabile. Introdotti nella sua straordinaria
18
Biblioteca civica di Putignano. Commemorazione di Giovanni LaTerza
19
utensileria, senza la preparazione richiesta da quel complesso apparato, si
rischiava facilmente di uscirne bocciato e deluso. Don Giovanni, uso al dialogo
con Benedetto Croce, al centro della rete culturale distesa nel Paese e fuori; e
con lui fratelli e figli, legati dal mestiere e dall’indirizzo politico: Giuseppe,
Franco, Vito, Peppino, tutti esperti, reduci dalla stessa grande scuola
tipografico-editoriale-libraria del Nord e dei paesi esteri scelti a scuola
d’esperienza.
Affidata alla officina, che si ornava di quei nomi, « Puglia » si illuse di
potervi fondare la sua immortalità, lucrando la estesa fama editoriale; ma
nessuno si accorse del periodico e della stamperia. Mancò a quel foglio, con
tante altre cose, un gruppo redazionale e la organizzazione amministrativa;
mentre ebbe una base di lettori bene individuata durante un non breve lavoro
preparatorio, assolto con meticolosità tra i numerosi amici corregionali o
dimoranti in Puglia; sulle schede da me distribuite essi mi notificarono molti
indirizzi interessati a ricevere il periodico.
Aiutato solo da una allieva, che preparavo nello svolgimento di una
banale tesi di laurea, mi sottoposi a un lavoro in gran parte frustrato dalla
disordinata spedizione dei numeri da parte della tipografia e dalla resistenza ad
esporre ìl foglio delle edicole giornalistiche, e da tanti altri fattori.
Fattori di successo di un periodico sono la tempestiva pubblicazione e
diffusione e si sbaglia, affidandone la stampa a un grande stabilimento. Esso,
appunto per la sua modesta mole, sarà sempre curato meglio in una piccola
tipografia, purché sia animata da gente per bene, modesta, volenterosa di
collaborare con gli intellettuali della medesima loro stoffa, sopportandone le
interferenze tecniche.
ANARCHICI
Tramite Filippo Maria Pugliese m’incontrai per corrispondenza con
Cesare Teofilato, il solitario pubblicista anarchico di Francavilla Fontana
(Brindisi), del quale parla Tommaso Fiore nelle ultime pagine di « Un popolo di
formiche ».
Mi scrisse di Michele Angiolillo, il giovane foggiano garottato in Spagna,
citando lo scritto del Morelli (Rastignac) in suo ricordo: « Germinal ». Di
Angiolillo mi parlò il libraio Mancino, di Lucera, ch’era stato suo compagno di
scuola.
Un altro incontro con anarchici dauni e pugliesi fu alla lettura di « La
Puglia nel Risorgimento con particolare riguardo ad Acquaviva delle Fonti » di
Antonio Lucarelli. Suggestive le figure di Cafiero e di Covelli.
A Roma, nel periodo dell’università (1921-25) mi procurai numerose
edizioni anarchiche, politiche e letterarie; di esse non tutte figurano nel mio
schedario perché, al fine di sottrarle alle perquisizioni romane, le diseminai tra
insospettabili famiglie amiche. Molte di quelle
20
T. Fiore commemora nella Biblioteca civica di Putignano Giovanni
Laterza
(30-5-1960)
21
possedute, risalgono al periodo foggiano, ai rapporti affettuosi, che mi legarono a
due anziani anarchici: i ferrovieri in pensione Quirino Perfetti e Adolfo Valente,
questo oriundo di Manfredonia, che non posso ricordare senza commozione, per la
dirittura dei loro caratteri, per l’azione educativa svolta e per la solidarietà, che mi
dimostrarono quando i miei genitori furono aggrediti e poi abbattuti dal male.
Nella pagina pubblicata da « Rassegna pugliese »1, fascicolo in onore di
Tommaso Fiore, nomino gli anarchici garganici Bramante e Palladino, che da tempo mi avevano incuriosito, fino a farmi cercare le loro tracce nei paesi di origine:
Carpino e Cagnano Varano. Qui mi fu propizio il commissario al Comune, dott.
Antonio Papagno, manfredoniano, che riuscì a farmene ottenere il ritratto, del quale volle copia Antonio Lucareli, per il suo scritto biografico apparso con l’immagine
« Umanità Nova » e poi in quaderno. Infruttuoso fu, invece l’incontro con le sorelle
superstiti del Palladino, mostratesi ingenerose verso la sua memoria, non perdonandogli la tresca adulterina, per la quale una notte del 1896 fu spento dall’uomo
tradito.
Dei fratelli Bramante, promotori col Palladino della prima internazionale (anarchica) non si serbano molte notizie a Carpino. Lo storico locale, Giuseppe
D’Addetta, non mi ha potuto fornire elementi di dettaglio.
Il 1921, durante la campagna elettorale a Manfredonia, mi si presentò un
bracciante, ritornato in Patria dagli Stati Uniti, Antonio Latosa, per dichiararmi la
sua fede repubblicana e donarmi alcuni giornali anarchici in lingua italiana di quel
paese, con articoli e cronache relativi al « caso » di Sacco e Vanzetti.
Non ero andato ancora a Roma, dove mi sarei arricchito di informazioni politiche, e quella stampa mi fu molto utile.
A Roma, dove arrivai all’inizio dei corsi universitari (ottobre 1921) e dimorai
fino al gennaio del 1933, conobbi numerosi anarchici, che erano gli amici meno...
pericolosi di noi repubblicani. Frequentavo la tipografia « Poligrafica » dove, oltre «
la Voce Repubblicana » e altri periodici e numeri unici del PRI e della Federazione
giovanile, si stampava anche il settimanale anarchico « Umanità Nova », poi diventato quotidiano. Vi incontravo Enrico Malatesta, che non lesinò suggerimenti bibliografici per la migliore conoscenza storica e ideologica del movimento, allora da
lui animato in Italia. Quando, finalmente, presi la laurea, mi disse con l’abituale bonomia: « Mò te ne ritorni al paese, dove la famiglia ti farà trovare l’orgoglio d’oro e
una ragazza di buona famiglia per sposa; ti butterai nella professione e sarai simile
ad altri giovani, che ho conosciuto, come te, pieni di ardore e di programmi qui, tra
noi; perdutisi dopo ».
Gli dissi che tutto poteva accadere, ma che, comunque, avrei fatto del mio
meglio per non « finire » come qualche altro.
Dopo anni di esilio a Foggia, ho scritto questo ricordo agli amici di Roma,
che preparavano un quaderno dì ricordi in memoria del
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Malatesta. Fortunatamente, mi ero salvato (ma a quale prezzo risulta dagli altri paragrafi di queste memorie).
Dopo il mio fallimentare rimpatrio del 1933, straziato dall’attività professionale (vedi « La toga e la croce ») a Foggia il mio impegno ideologico-politico fu
guastato dalla pena del « natìo loco » e dalla illusione di potermi rendere utile a suo
beneficio...
Riusciti vani i tentativi di iniziare un colloquio marginale con avvocati già esponenti dell’antifascismo: il repubblicano Colaminè e i socialisti Fioritto, Laporta,
Lupino, Maitilasso, Manedes e l’indefinito Raho, massone, tutti affogati nella professione, con l’abituale ingenuità ricevuta da mio padre non capii che, dai loro partiti o congreghe, legati per bisogno o per consuetudine a quella che sembrava alienante pratica forense, fuori da ogni corrente culturale, ma soprattutto perché esauriti e prossimi alla vecchiaia, essi non disponevano più delle energie necessarie a
farli resistere ancora sulla linea della opposizione e salvarli dal destino assegnato
loro dalla meschina vita provinciale. Un’altra illusione: mi attendevo da costoro un
segno di riconoscimento della mia attività culturale romana, della quale erano segni
lampanti in alcune riviste e... monumento « Almanacco giuridico-forense italiano »
redatto in collaborazione con Alfredo Petrucci.
Finii col detestare quei signori, che furono causa non secondaria del mio deterioramento politico (vedi « La toga e la croce »).
Tardi conobbi gli esponenti anarchici Perfetti e Valente, e poi Gualano di
San Nicandro, e altri.
MARTINEZ
Tu lo sapevi allora, Gaetano, che sarebbe andata così. Ma non t’immaginavi,
confessa, che avresti durato tanto a lungo. Quanti anni da quella sera, che
c’incontrammo da Palazzi, al Foro italico? Mettiamo trentaquattro (e tanti approssimativamente sono quelli del tuo martirio), ché da poco eri giunto a Roma dalla
nostra Puglia.
« Troppi ». Quale gusto poteva darti quella vita, che il Prossimo rendeva così
difficile? Se all’ultimo non ti eri fatto frate, dopo essere stato fascista e, forse, cavaliere, dobbiamo proprio concludere che l’Arte, (questa volta ci vuole la maiuscola)
che il pane e formaggio che non sempre riusciva a procurarti, bastavano a tenere in
piedi il tuo piccolo sacco.
Ma, che vuoi? A vedere le Lede e le Ballerine puttaneggiare sui mobilucci borghesi mi si rivoltano le visceri. Dove sono andati a finire i genii che popolavano lo
Studio di Via Monserrato? Bovio, Wagner, Carducci, Hugo... e quel Caino che issammo trionfalmente a Palazzo Salviati il 1925 alla Mostra degli Artisti pugliesi ordinata da Alfredo Petrucci?
Via Monserrato, il cortile di un vecchio palazzo papalino. Per la scaletta degli
stallieri salivo con Laurenzio alla tua stamberga. E lo
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studio, la fetida rimessa e la fontanella col capelvenere. A volte appariva un cartello: « Dar la voce prima di entrare ». Era per via di una modella, che non amava esibirsi agli « estranei al lavoro » (Pin dove sei, pietrificata nella « Ignara mali
»?) In quella spelonca mi donasti alcuni disegni, dicendomi che « domani » avrebbero avuto un prezzo. Eccoli sani e salvi da tutti i naufragi: « Che vuoi,
Imbriani? - Dite, Bovio, agli Italiani che li aspetto sul Carnaro. - Sì, sii benedetto... ». Chi ha più disegnato meglio di te quelle immagini del nostro ideale repubblicano? E questo Enrico Ferri, che dalle contrazioni della mano sinistra
esprime la dinamica del suo pensiero (dall’altra parte del foglio abbozzi del tuo
autoritratto)? Poi gli ultimi doni, che io m’ero già ritirato in provincia, compresa
un’autocaricatura, ma fredda, di moda, come t’avevano costretto a diventare.
Dunque, dicevo che l’avevi previsto. Ed eccoci tutti a farti onore (forse
c’è pure chi ha la colpa di aver troppo atteso). E non manca il premio giornalistico. Dopo averti mummificato, verranno - son già venuti - a ripetere ai portieri che ora sei morto sul serio (Morto, ridi, Gaetano, morto proprio adesso che
finalmente sei vivo!) essi che non si sono mai accorti di te quando, come quel
personaggio del mito, andavi combattendo ed eri morto.
STORIOGRAFIA (MINORE?)
Da tempo la grande Editoria va documentando i rinnovati interessi e le
vedute nuove della storiografia su la vicenda meridionale nel primo e nel secondo Risorgimento (Resistenza). Purtuttavia, le restano tuttora estranei gli
apporti così detti minori (se è lecito ipotizzare una scala di valori comunque
riferita ai contenuti) che, affidandosi a collaboratori con impegno culturale più
che mercantile, non si avvantaggiano dei comuni canali di propaganda e di diffusione (stampa, fidejussori autorevoli, agenzie librarie ... ), rimanendo il più
volte ignorati dalla Bibliografia generale.
E’ il caso degli studi di storia contemporanea relativi al processo di formazione nazionale, chiamati a dignità scientifica in Puglia con il costituirsi dei
Comitati dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, promossi da Giuseppe
Petraglione, e sostenuti dalla Società di Storia Patria, dalla Società Dauna di
Cultura e dallo Studio Editoriale Dauno.
Si deve a quest’ultimo laboratorio la « Biblioteca del Risorgimento Pugliese » edita in Foggia col platonico patrocinio del predetto Istituto, e dilatatasi
in prosieguo di tempo nella collana « Quaderni di Risorgimento meridionale »,
curata dal Centro per la Editoria Scolastica e Popolare (Napoli).
Allo Studio e al Centro dobbiamo il « fissaggio » di una serie di temi, che
hanno dato nome alle pubblicazioni che ci è gradito segnalare in questa rassegna cui si affida la duplice funzione di documento e di incentivo specie verso i
giovani, per convogliarli verso ulteriori ricerche e attese sintesi.
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I titoli compresi in questa miscellanea sono autentici e autorevoli contributi
alla Bibliografia risorgimentale, non risultando mai prima d’oggi trattati « ex professo ».
La redazione dei testi e il corredo delle note dei documenti e degli indici corrispondono ai canoni della più severa storiografia; le tavole figurate risultano scelte
e collocate in modo di corrispondere insieme ai moderni canoni culturali ed estetici,
sì da costituire un altro pregio editoriale con la stampa equilibrata e pulita.
25 APRILE 1971
Quest’intervento oratorio non vuole, non può, né dev’essere meramente
convenzionale e decorativo; tanto meno può avvalersi della letteratura epica sulla
Resistenza e la Liberazione. D’altra parte, non considerandomi uno storico e non
volendo usurparne le prerogative, mi astengo da ogni altra considerazione che sopravvanzi la mia qualità di amministratore e i miei limiti di studioso.
Non è mio compito risfogliare le pagine d’oro della Resistenza armata e della
Liberazione, che contribuiscono a costituire il patrimonio sapienziale di tutti i Popoli. Sono ormai noti i nomi nostri conterranei, confessori e testimoni della fede
civile, combattenti oscuri o martiri consacrati. Tra questi ultimi gli umili figli del
popolo lucerino, padre e figlio Bucci, caduti abbracciati in catene alle Fosse Ardeatine, e il giurisperito Teodato Albanese di Cerignola, di nobile parentado, anch’egli,
come i primi, vittima del medesimo eccidio, eppure tutti tre cresciuti nel fascismo e come tutti noi delusi, traditi, disingannati e contestatori.
Naturalmente anche noi vogliamo elevare un peana per il nuovo trionfo degli eterni valori evangelici su la brutalità degli ultimi pagani d’Europa. Ma quei valori li andremo a cercare e riconoscere nell’area della vita civile dei nostri paesi, tutti
impegnati nella lotta di Liberazione.
Ricorderemo come, nonostante gli annunci premonitori della strage, sotto
forma di adesione all’Asse e di mobilitazione degli spiriti, di richiami ai doveri e di
catechismi di resistenza civile, le nostre popolazioni furono lasciate indifese e quindi abbandonate dai poteri centrali all’arbitrio dei tedeschi e poi alla ignoranza degli
alleati che, nonostante i loro uffici psicologici, male ci amministrarono nei due periodi dell’Amgot e della successiva Commissione di controllo.
Foggia contro le leggi di guerra, fu tutta un deposito tedesco di armi ed armati; nella villa, in alberghi si mascherava un reparto corazzato: fu pertanto, condannata alla distruzione.
Sopraggiunti i « liberatori », non alleviarono di certo le condizioni del popolo
innocente, occupando gli immobili risparmiati dai bombardamenti, riversandone in
strada il contenuto, sottratosi agli « sciacalli ».
Di questo nostro contributo mi tocca parlare, ignorato dalla storia della lotta
armata, degli oscuri eroi e martiri caduti sotto le macerie
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delle loro case o scacciatine e umiliati, senza protezione e costretti a rinunce
spesso degradanti della dignità umana e civile.
Nel vasto e profondo panorama della Resistenza e della Liberazione, oltre le vite e le gesta degne di Plutarco, deve trovar posto il contributo spirituale
e materiale dato dalla nostra gente umile.
E’ vero: non possiamo vantare gli scioperi politici, che hanno qualificato
la lotta nel Nord, le sue azioni partigiane, il sacrificio di uomini subìto con le
deportazioni, le torture, le stragi collettive e le esecuzioni individuali; la distruzione o il danneggiamento dei luoghi di produzione e di lavoro.
Aggiungo che, per la preminente fisionomia agricola e marittima della
nostra provincia, abbiamo patito meno le conseguenze delle misure condizionatrici dell’alimentazione e degli altri approvvigionamenti.
Purtuttavia, la Capitanata ha pagato un oneroso contributo alla sua liberazione. Si dice questo non per presentare il conto alla Repubblica, ma per
chiederci se facemmo interamente il nostro dovere, se dobbiamo rimproverarci
qualcosa.
I sacrifici della guerra non finirono con la liberazione. Dal primo sbarco
alleato a Manfredonia fino alla resa tedesca, il Tavoliere si offrì alla offensiva
apocalittica dell’arma aera, accogliendo la più grande base di lancio mai realizzata, dalla quale s’irradiarono gli stormi per l’Europa, fino agli estremi avamposti
in Russia; avamposti alimentati con gli altri servizi mobili, dai sifoni di carburante del nostro Golfo e per le condotte da esso partenti.
Una formidabile macchina bellica, e un corrispondente mastodontico
apparato di attribuzioni amministrative e civili - in gran parte affidati alla lealtà
delle popolazioni - che non subirono danni, così come non si verificarono episodi di malavita e la prostituzione risultò quasi tutta importata.
Le popolazioni, costrette a sfollare i paesi o a ridursi in difesa fino alla ritirata tedesca, seppero autoamministrarsi mirabilmente, tagliati fuori dai centri
decisionali, disseminati senza alcun criterio razionale a Bovino, a S. Severo, a
Troia, a Lucera: e questo nonostante i grandi preparativi all’intervento armato e
alla organizzazione del fronte civile.
Si può dire che fossero duramente provate non tanto dalla guerra quanto
dalla liberazione e dalla ricostruzione. Ogni discorso diventò sempre più difficile e arduo - bisogna riconoscerlo - fu il travaglio dei Comitati di Liberazione
Nazionale.
Foggia, largamente lacerata e disabitata, si ripopolò lentamente, per infiltrazione, essendo luogo militarizzato. Con lo stesso sentimento e slancio di ripresa; il tronco ferroviario di Manfredonia, anch’esso militarizzato, fu intelligentemente usato dalla popolazione, e Manfredonia stessa si affermò anche in
un’altra direzione, dotandosi delle sezioni distaccate di alcuni istituti del Capoluogo, apprestando sedi e attrezzature anche per pubblica sottoscrizione: raro
esempio d’iniziativa locale, estranei i pubblici poteri.
26
E che dire del nostro comportamento politico? Inganni, ingiustizia e anche
violenze, e non soltanto morali, non erano mancati durante il ventennio: non pochi,
anche innocenti « fuor della mischia » avevano pagato lo scotto, così come in ogni
trapasso da regime a regime. Purtuttavia non vi fu reazione.
Nessun fascista si mostrò pervicace, tutti essendosi affrettati ad accettare
l’ordine nuovo.
Nessun antifascista profittò delle condizioni vantaggiose in cui lo mettevano
le circostanze.
A quanto mi risulta, la Polizia alleata chiese invano liste di proscrizioni. Se
alcuno si prestò al ruolo d’informatore, lo fece non per vendetta politica, ma per
comodo personale.
Non soltanto, perché al tempo dei procedimenti contro i fascisti responsabili
di aver strafatto, esponenti medesimi dei C.L.N. operarono a favore dei principali
accusati, concorrendo al loro salvataggio, come i viventi tra essi testimoniano con la
pratica più larga delle libertà democratiche delle quali, in verità, mostrano di non
abusare e, vorrei dire, hanno così bene profittato da assumere anche ruoli di prestigio.
LA CADUTA DEL FASCISMO
Non produsse traumi di particolare gravità. Anche da noi, come in tutto il
Mezzogiorno, dopo la prima sfuriata squadrista di Cerignola e Sansevero, il PNF si
era burocratizzato così bene, che dopo il 25 luglio andò in fumo come i registri e gli
schedari dei suoi uffici.
Questa eclissi può farei porre una domanda: se da noi lo squadrismo fu davvero un movimento politico promosso o finanziato dagli agrari, dai reazionari, oppure un movimento di disoccupati - volontari o coatti - tra i più facinorosi, capitanato da furbi, che lasciarono loro le spine della conquista, a guisa delle bande che il
1799 scesero dal Gargano a Manfredonia e raggiunsero la colonna del Ruffo a Bovino.
Certo che di tutti i promotori e degli altri protagonisti di quel fascismo in
Capitanata non è rimasto traccia e nemmeno il ricordo, sì che sarebbe lieto chiedere
su quali eredità di spirito o di realizzazioni può razionalmente e legittimamente
fondarsi un movimento eversivo, che si appelli a un passato senza monumenti.
Ma che vi siano o non vi siano motivi, non dico di frizione sociale e di polemica politica, fatali, indispensabili alla vita di una nazione civile, da politici responsabili ci sembra che il modo migliore di celebrare questa e tutte le altre date
della Resistenza e della Liberazione siano il rifiuto della retorica e l’invito a reprimere ogni impulso, sia pure giustificato, sia pure rivolto soltanto a respingere la violenza e non anche ad eliminare le contraddizioni, spesso corruttori degli uomini di
buona fede, tanto da farli indulgere - se non ad aderire - alle iniziative dei facinorosi.
27
Dev’essere nostro impegno - nostra la fedeltà ad esso - di usare i mezzi
conosciuti, e nuovi esercitarne, per sostituire una nuova coscienza politica alla
coazione della legge.
Noi non sappiamo quanti degli Italiani, oggi trascinati a denigrare la Patria con la violenza, provengono dalle generazioni così dette fasciste. Sì, nei cortei, che usiamo chiamare di destra, non mancano uomini maturi, così come non
mancarono i bonapartisti dopo la caduta di Napoleone. Ma questi erano i fedelissimi del Corso, del quale avevano spartito il sonno, le fatiche, i pericoli, di un
capo, che aveva combattuto fino all’ultimo, di « colonnelli », che non avevano
mai rinnegato il generale.
DISEGNO DI UN « LIBRO DELLA MIA GENTE »
(Manfredonia, 29 novembre 1970)
Anzitutto, qual’è la mia gente? Alla porta dei 70 anni, posso dire senza
retorica che non riesco più a « battere » a favore dei Manfredoni, i Montanari o
i Napoletani o i Foggiani. Ai Manfredoni mi sono sentito figlio e innamorato,
da struggermi fino al 1967.
Napoli ho incominciato nel 1954 a frequentarla, per svolgervi attività
editoriale; a Monte Sant’Angelo mi sono relegato quando vi fui sfrattato da
Foggia per la guerra nel 1943.
Di tutto questo dirò in appendice, augurandomi adesso di rimanere fedele al tema e parlare pluralmente degli altri, del « prossimo ».
Da giovanotto (1922) entrato nel movimento repubblicano sono per la
federazione dei popoli, alla Mazzini e alla Cattaneo. Quindi non ho più
concepito barriere, che non fossero geografiche.
Fin da ragazzo mi sono sentito legato alla gente umile, incontrandola nei
locali di mio padre, che era commerciante all’ingrosso.
Vi trovavo i vetturali, che ritiravano le merci, i marinai delle barche, che
trafficavano con Vieste, Bari e la Dalmazia, questa fornitrice soprattutto di legname, i « vastasi » (facchini che, singolarmente o a squadre, facevano la spola
tra le barche - o il piccolo piroscafo « Puglia » - e i carretti, tra questi e i depositi).
Erano esseri in movimento, dei quali, ragazzo, non potevo cogliere quella umanità commovente, che poi mi si sarebbe rilevata.
Mio nonno, mal consigliato, si era reso aggiudicatario di un fondo rustico in località « Pagliete ». Ad esso per molti anni rimase condizionata la serenità
della mia famiglia. Masseria malsana, lungi dalla via maestra, e raggiungibile solo
per un tratturo in servitù, infestata da zanzare, arvicole, pulci, erbe parassitarie,
mancante di acqua potabile, isterilita da lunghi periodi di siccità o di inondazione. Amara la terra, livido il paesaggio, stagnante e muta l’atmosfera: un invito
alla pazzia e alla morte. Imparai molto tardi a chiamare tutte queste cose con il
vero loro nome, ma ragazzo, vedendole tutte disegnate nelle carni
28
Mario Simone a colloquio con pescatori in pensione (Manfredonia – 1971)
29
di due poveri uomini, ne rimasi talmente conquiso, che posso attribuire proprio
a loro la mia giovanile vocazione populista, poi concretizzatasi nella partecipazione al movimento repubblicano (1921).
Tizio e Caio erano i fittuari della masseria. Il contratto prevedeva l’estaglio
in danaro, a pagarsi in breve termine, dopo il raccolto.
Il tema della « masseria », risuonava in casa poche volte come il tocco di
una campana a morte, che mio padre si sforzava di non udire. Eppure con quei
tocchi dal 1916 e per oltre 15 anni tirò avanti la mia famiglia, ché la piccola rendita agraria, con quella di alcune case, di mano in mano alienate, sopperì al danno prodotto dalla cessazione dell’attività mercantile, causato dalla guerra di
Trento e Trieste.
Ma più che di questo, oggi, mi piace parlare della mia inconscia vocazione per la causa proletaria.
Perché l’amaro, che arrivava in casa da quel desolato luogo, mi produceva sensazioni come quella che più tardi avrei ricavato dalla narrativa russa?
Quanto più mio padre malediceva « quella campagna », tanto più mi veniva di rappresentarla con tutti i suoi malanni e di amarla come avrei amato un
innocente condannato a soffrire.
Questo amore si acuiva in due circostanze: a Pasqua, con l’arrivo
dell’agnello, del formaggio e delle ricotte; a giugno, per regolamento dei conti.
E venne l’ora dell’atteso incontro, di maggio, verso il ‘19. Il calesse, era il
veicolo leggero e dalle grandi ruote, più idoneo al difficoltoso itinerario. Vi presi posto con Francesco, nostro cocchiere, e un mastro d’ascia per certe riparazioni a farsi, e dopo due ore mi trovai ad approdare innanzi l’edificio a un solo
piano, che comprendeva: la stalla per i cavalli e i carretti, il magazzino di
deposito degli attrezzi e delle semenze, il dormitorio della gente e si prolungava
con una tettoia, sostenuta da pilastri e chiusa in tre lati, che era il riparo delle
vacche e delle pecore, fienile insieme e deposito di letame.
Partiti col sole basso, arrivati verso le sette, l’atmosfera era ancora respirabile, ma tutto diceva miseria, desolazione e tristezza, dalla fabbrica, messa su
in economia e mal tenuta, al pozzo secco, con il boccale quasi a fiori di terra, al
pollaio colmo di stabbio, al riparo, vuoto di animali e invaso dalle erbe parassite, con i festoni di fuliggine, pendenti dalla tettoia, tesi tra i vani delle finestre e
finanche sulla porta d’ingresso.
Quando entrai nel dormitorio, che era la dimora dei fittuari (un lettaccio
con baldacchino e sporche tende in giro, per difendersi dalle zanzare), avendo
le gambe nude, me le sentii avvolgere come da un velo, erano le pulci, allevate
in luogo con generosità commovente.
TESTIMONIANZE PER FORMIGGINI
Trent’anni dopo la sua scomparsa, Angelo Fortunato Formiggini è ancora in piedi nel mio ricordo. Si consenta che lo rievochi nel bollettino che,
affidato alla mia consulenza grafica, riflette l’amore e l’arte
30
trasfusimi da quel loro maestro editore e papà della bibliofilia e bibliografia.
Non era pugliese. Di Malena figlio tenace e servizievole (famose le spiritose
celebrazioni tressoriane da lui organizzate con stile inimitabile), abbandonato la
toga cui non si prestavano le spalle, intolleranti degli onori della Giurisprudenza,
s’era fatto editore e, come tale, dopo una esperienza s’era insediato sul Campidoglio.
Era lì la sua « casa del ridere », editrice versata in cose, da cui presiedeva la
più fine condizione irrinunciabile di una vita interamente dedicata al godimento del
genere umano, se sapere è felicità e suo combattere è il leggere.
Amare gli Italiani a questa funzione! Non v’eran mezzi che bastassero, di
quelli usuali, forse sperimentati e certamente falliti. Sorse quindi una voce affidata
ad una rivista, « L’Italia che scrive » in sigla I.C.S., gaietta e robusta », che penetrata
subito tra editore e librai sboccò subito tra i lettori più refrattari e molti ne raggiunse lontano, eccitandoli non soltanto a seguire da vicino nelle sue colonne il moto
degli astri guidati dagli stampatori nazionali e forestieri ma anche innamorando a
quella scienza nuova da essa rappresentata e svolta, quale era la bibliografia.
Stanchi di liceo, senza nemmeno la possibilità di conoscere attività socio-educative e scolastiche, un compagno che aveva studiato a Napoli ed io reduce
dal foggiano « Lanza » ci esaltammo tra le pagine di quella rassegna che una volta il
mese ci recava in provincia le novità librarie sul filo di un discorso brillante per noi
nuovissimo.
IN TRIBUNALE
a Roma
Avevo il proposito onesto di svolgere una severa pratica forense, servendo
in tutto, anche nelle mansioni umili, un avvocato-docente; non ebbi la fortuna di
farmi adottare da qualcuno ben disposto a considerarmi e trattarmi da apprendista.
Senza dubbio influirono l’età (ho fatto gli esami di procuratore a 25 anni!), il
modo di presentarmi e tenere i rapporti sociali, la presunzione di essere pubblicista
o che so altro, un certo aspetto e comportamento professorale. Pur non sapendo
distinguere, forse, due requisitorie nei diversi riti, sommario e formale, frequentavo
tribunali e corti a fianco di maestri vecchi e non, con i quali si finiva col confondermi: Conti, Niccolai, Trozzi, Russo... e i giovani - diciamo così - de « I Rostri »:
Berdini, Liuzzi...
A darmi importanza concorsero le prestazioni, sia pur modeste, ai « Repertori » de « Il foro italiano », la rappresentanza nella capitale de « Il tribunale », diretto
a Napoli dal collega Gaetano Grimaldi-Fifioli, le edizioni dell’« Almanacco giuridico-forense » o « Lunario della toga » da me inventato.
D’altra parte mi suggestionavano le dimensioni e la sede princi32
pale (monumentale palazzo di giustizia a Piazza Cavour) dell'attività forense, i
piacevoli rapporti con molti suoi autorevoli esponenti, l'aspirazione di seguirne
le orme, sull'esempio dei veri maestri.
a Foggia
Da Roma a Foggia: un trauma. E' in provincia che ad un esordiente
giudiziario appalesa il suo vero contenuto, non avendo, per celarlo, i
paludamenti cittadini (nella grande « provincia » meridionale comprendo anche
il foro di Napoli, del quale è tipico riflesso Giovanni Leone).
« FIAMMA »
di Guido Guido
Una domenica del mio primo anno romano (1921), in casa di Alfredo
Petrucci conobbi lo scultore galatinese Gaetano Martinez. Anch'egli
antifascista, non fu difficile intenderci e volerci bene nell'aurea romantica della
Roma ottocentesca, che mi piaceva rievocare.
Dico meglio di lui al capitolo che gli s'intitola, volendo qui solo
occuparmi della Casa d'arte « Fiamma », dove mi introdusse, trovandovisi
allestita una sua « personale ». Occupava alcuni vani terranei di un basso
edificio in fondo a destra di Piazza Venezia, sull'area oggi occupata dall'esedra
verde, con la quale i competenti uffici capitolini eliminarono lo squallore che
cingeva il « Vittoriano », esaudendo, bisogna riconoscere, una delle sociali
ambizioni di Mussolini.
Geniale padrone di casa, era esperto di belle arti, Guido Guido, oriundo
foggiano, del quale avevo conosciuto alcuni congiunti: un capostazione in
servizio a Manfredonia, una brunissima ragazza e suo fratello, che
parteciparono alla nostra filodrammatica. Con lo stesso nome, « Fiamma »,
l'istituzione, che ospitava mostre individuali e collettive, pubblicava una
rivistina in funzione- delle sue attività artistiche e mercantili.
Nei primi tempi romani, adempiuti al mattino i doveri scolastici alla
Sapienza, trascorsi tutto il mio tempo libero tra gli uffici del PRI, la « Voce
Repubblicana » e quella Casa d'arte. Qui, sul tardo pomeriggio, si trattenevano,
o solo transitavano, artisti e belle donne, tra le quali appetitose modelle in cerca
di ingaggio, e studenti dell'Accademia.
Martinez era uno dei frequentatori più assidui; vi trascorreva lunghe ore,
taciturno, con l'aria imbambolata di chi non mangia ogni giorno e ad ora fissa, e
finisce col perdere l'appetito. Se parlava, la voce sottile, metallica e sincopata,
sorprendeva e la si stimolava ed eccitava, per l'ironia, che coloriva ogni
esperienza. Le donne più spiritose avrebbero voluto provarsi con
quell’eccentrico linguaggio, tutto salentino, tutto Martinez, che lo faceva
rimbalzare su se stesso, impietosamente. Ma era tipo che tagliava corto, un
riccio, che presto si ritirava, armando gli aculei, per isolarsi nella tristezza del
povero
33
ragazzo di provincia, quale sentiva di essere rimasto, nonostante le grandi
ambizioni.
In quell'ambiente, oltre che nel sodalizio di Alfredo Petrucci, nutrendomi
di arti figurative, integrai la mia educazione artistica che a Manfredonia si era
iniziata a contatto con le antichità sipontine (architettura e scultura
romanico-pugliese).
Non posso dir molto del Guida che, sempre indaffarato, mostrava di
non aver tempo da spendere in conversazioni con coloro che facevano solo
circolo nel suo locale, anche se concorrevano ad animare le sue manifestazioni.
Non ricordo nomi di frequentatori, sebbene ad alcuni di essi riesca a
dare volti e voci, come quelli dolcissimi di una vivace e laccata signora bionda,
che, rientrando a casa, si faceva accompagnare fino al portone di casa, per
godere il solletico dei bacetti, che mi aveva insegnato a darle nel cavo delle mani
di bambina.
LIBRI E CARTE: EREDITA' PAVENTATE
« Cambiamo casa » mi disse un giorno Vincenzo Tangaro « ho iniziato la
distruzione dei miei scartabelli, l'ossessione di mia nuora ». E un figlio di Piero
Delfino Pesce: « Le carte di mio padre? Sono nel suo studio così come le ha
lasciate. Nessuno di noi ha avuto il coraggio di mettervi mano ».
Su questo ritmo è il ritornello di quasi tutti gli eredi di coloro che,
essendo stati « qualcuno », hanno dubitato di essere fisicamente mortali e,
potendolo, non hanno dato una destinazione civile alle loro cose di cultura.
Ma vi sono casi molto più gravi, come quello delle figlie di uno scrittore
e famoso agitatore politico del Gargano, le quali insolentiscono ad ogni
richiesta di informazioni sul « de cuius », cui non hanno mai perdonato la
rinunzia per « i suoi strambi principi politici », alla posizione privilegiata che gli
spettava in paese, quale professionista.
Nel paragrafo dedicato a Giovanni Tancredi non mancherò, spero, di
ricordare la sorte toccata alla sua biblioteca. Dirò, frattanto, che anche egli
commise la ingenuità di morire senza aver assicurato un degno avvenire alle sue
raccolte, compresi i manoscritti inediti. Purtroppo egli non è stato l'ultimo della
lunga serie, che comprende tra i molti: Fioritto di S. Nicandro G., Del Viscio di
Vico G., Centoza di Cagnano V., Petrone e Caruso di Vieste, Del Giudice di
Rodi, Capparelli, Pascale e Bellucci di Manfredonia, Rosario di Ascoli S.,
Maurea di Chieuti, Cerulli di Celenza Valfortore, F. M. Pugliese di Cerignola,
Umberto Fraccacreta di San Severo, Serrilli di S. Marco in Lamis.
Ma sentite questa.
Verso il 1940 viveva a Napoli Pietro Panzini, il vecchio - e discutibile deputato repubblicano di Molfetta. Era stato discepolo e collaboratore di Luigi
Zuppetta, personaggio che mi aveva molto incuriosito soprattutto per la
storiografia; fino a quando non lo riesumai, pro34
muovendo le onoranze dalla nativa Castelnuovo della Daunia. Vecchio Panzini
era ospite di una nipote maritata a Napoli, quartiere Sanità. Costei, quante volte
bussai alla sua porta, trovava una risposta buona per licenziarmi: l'onorevole era
indisposto a letto o era uscito, fino a quando potè notificarmene il decesso. «
Ma che volevate » mi chiese l'ultima volta. « Potrei vedere i libri, le carte che ha
lasciato »? « Sicuramente, ma chi ha tempo di aprire la cassa, dove si trova tutta
la sua roba? ». « E la carabina del suo maestro Zuppetta » - « Proprio .ieri mio
marito l'ha portata allo stagnaro; si è rotta perché ci gioca il mio bambino »!
Ma questi non sono nemmeno i casi-limite, perché più gravi e scandalosi
« casi » potrei proporre a cattivo esempio, per indurre gli anziani a rivolgere alle
loro cose culturali quel rispetto, che meritano.
Non solo gli eredi di famiglia, ma anche quelli pubblici si rendono
colpevoli, a volte anche penalmente del cattivo uso fatto di cose loro destinate
in donazione o successione. E sarei per dire che con la loro responsabilità
concorre l'indifferenza della opinione pubblica, che nei nostri paesi lascia tutto
correre alla deriva, nonostante la presenza dei partiti, tutti bene alienanti nelle
loro beghe.
Questo mio sproloquio è rivolto a tre obiettivi: 1) a convincere gli
anziani che i loro beni culturali sono conquista della comunità, che pertanto è
in diritto di usarli quando vengono lasciati ad amministratori incapaci; 2) a
indurre gli enti (comuni, biblioteche, centri di cultura ... ) a sperimentare ogni
mezzo, per assicurarsi in via legale la destinazione ad uso pubblico delle
biblioteche, degli archivi, di ogni altra raccolta privata; 3) a vigilare perché,
raggiunti i primi due obiettivi. non siano abbandonati all'azione corrosiva
dell'ambiente.
IL FORO ITALIANO
Ero a Roma. Giulio Andrea Belloni mi procurò l'amicizia di Corrado
Perris, nostro coetaneo, di famiglia napoletana, trasferitosi a Roma (un fratello
era dirigente all'Istituto intern. d'Agricoltura che andava a rappresentare, anche
all'estero, come in Cina).
Giovane modernissimo, simpatico, aperto e colto tra i pochi esperti di
lingua e cultura russa e, come tale, essendo laureato in diritto, per lo studio
giuridico forense di Gennaro Escobedi e la sua grande rivista “ La giustizia
penale” , curava i rapporti culturali con l'U.R.S.S. e le rubriche di dottrine e
giurisprudenza sovietiche.
Debbo a lui, come a Belloni, la « cotta » per la gius-pubblicistica, che mi
avrebbe portato senza dubbio lontano, se avessi avuto l'ambizione della carriera
scientifica.
Perris era legato da rapporti amichevoli - non ho mai capito se centrasse
la politica -col dottor Carlo Sequi, giovane sardo che alla editrice del « Foro
Italiano » curava i repertori di giurisprudenza e di bibliografia delle sue
prestigiose edizioni. Factotum della editrice
35
era il comm. Carlo Scialoia, nipote del grande Vittorio; un uomo di prim'ordine,
per formazione morale e professionale. Fui ammesso in quella specie di
università del pubblicismo giuridico con l'incarico di « estrarre » le massime
delle sentenze penali, ordinarle alfabeticamente per voci, correderle di richiami
a precedenti giurisprudicati e bibliografici. Compenso: venti centesimi la
massima. Questa mia collaborazione risulta dai frontespizi dei due volumi, che
raccolgono i « Repertori del Foro Italiano degli anni 1936.
Nella primavera ricevetti la visita dello Scialoia. Seduto al mio posto
dietro il tavolo da lavoro, mentre arrotolava una sigaretta, puntandomi in viso
gli occhi che sembrarono sgranati sempre a sorpresa: « Lei ci tiene tanto a
questo suo diritto penale? Non accetterebbe per due tre anni la nuova cattedra
di diritto agrario in Sardegna? Mi impegnerei ad assicurarle l'incarico e la
definitiva sistemazione in Italia dopo il breve periodo di... esilio ».
Chiesi un termine: esaminai la situazione di famiglia, la inopportunità di
un trasloco nell'isola e la impossibilità economica di mantenere la casa a Roma;
ma sopratutto non riuscii a liberarmi dalla suggestione del foro penale, cui mi
sentivo incline.
Scialoia non insistette, ma non mi sentii più interamente degno della sua
amicizia e fiducia, che avevo deluso.
Così rimase in boccio il professore universitario!
LA MIA « FORMAZIONE GARIBALDINA »
(18-10-72 in treno per Napoli)
Mia nonna materna fu Teresa Salentini di Napoli, appartenente a buona
famiglia borbonica, imparentata con il Capocelatro: parlava francese e, come
tutti i « prossimi » alla real corte, beccava « Franceschiello » per la sua timidezza
di re e di marito. Conobbi due germani di questa donna vivacissima: un
Francesco, chiamato « Ciccillo » e una Virginia, vedova di . . . . . Lazzaro, . . . . . .
Ignoro perché queste due famiglie decadessero con l'Unità: se per cause
politiche o per la morte o la invalidità dei loro capi. Credo di poter fissare il
ricordo dei Lazzaro ai miei undici-dodici anni e descriverli così: la casa linda
con la suppellettile modesta, un salottino ove tutto era coperto da tende e
giornali; il ritratto di un personaggio barbuto, chiamato con rispetto ed orgoglio
« nostro padre ». In un lettino, difeso ai bordi da ringhiera - quasi culla anche
per le dimensioni - Virginia, la « mammà », molto vecchia, piccola piccola, rosea
e demente; tre figlie zitellone: Benita, Fedora (poi sposa e madre) e Ginevra
impiegata ai telegrafi.
Zio Ciccillo - 70 - 80 anni - si fermava spesso dai miei nonni per la «
tazzulella » di caffè, che sorbiva - sprofondato in poltrona dopo averlo versato
nel piattino. Come mia nonna, era molto faceto. Entrambi spiritosamente meglio dire « napoletanamente » - accu36
savano Garibaldi di averli rovinati, avendo aperto la via ai Piemontesi e… alle
tasse.
Di un altro fratello - Annibale - si diceva che, prima garibaldino, poi
tenente del Genio nell'esercito regio, mandato sul Gargano a fare strade, era
caduto per piombo di briganti. Ne scoprirà la tomba a San Marco in Lamis mio
padre il 1913.
***
Questi ricordi furono la prima eco per il mio cuore infantile che - a
differenza dell'epopea garibaldina, tutta freschezza giovanile, calore, musica e
movimento -non potè subito palpitare agli accenni familiari del « travaglio »
carbonico dei Simone al tempo dei moti liberali nel Mezzogiorno. Gargano
(1821 e 1848).
Ed eccomi conquiso dalle tavole del « Garibaldi », della Jessi Mario, oggi
raro, da noi posseduto prima che qualche amico, con la scusa del prestito, non
lo aggregasse alla sua libreria; eccomi nei frequenti viaggi a Napoli dai nonni,
ancora fanciullo, attendere vigile che si profilasse l'acquedotto di Carlo III detto
« ponti della valle » (di Maddaloni), per trovarmi puntuale a scattare in piedi
quando, oltre l'arcata aperto al suo passaggio, il convoglio rasentava la radura
col monumento ai Caduti nella battaglia del Volturno.
REPUBBLICANESIMO E PROLETARIATO
La iniziativa repubblicana concorde (sic) e si svolge col movimento
proletariato », ma se ne distingue: non mi spetta in questa sede delineare un
quadro del movimento operaio e contadino.
A Manfredonia la iniziativa repubblicana rinvigorisce con motivi culturali
l'organizzazione proletaria che ne è sprovveduta per la lontananza dei suoi
giovani promotori - Castigliego, De Marzo, Melucco-e per l'abulia di chi era
loro succeduto.
Elezioni 1921
1) Comizio Natali accompagnato fino alla Stazione campagna.
2) Celebrazione XX settembre. Pesce, X marzo 1922.
Uniche e sole manifestazioni rosse
Verifica insegnamento Mazziniano: col Popolo e per il Popolo
e intuizione legge politica esterna che quando casa brucia cessa l'accademia e
la sostituisce la costituente di tutti gli oppressi, affratellati dal dolore.
37
Dolore
prete!
Quale poteva ispirare e muovere i Repubblicani?
Non vi erano, tra loro, di condizioni servile.
Estrazione borghese, mercantile, artigianale, indipendenti. E anche un
Avevano da perdere, non da guadagnare.
Purtuttavia, oppressi dalle quotidiane manifestazioni periferiche, cioè
locali, dall'ordinamento statale imposto alle provincie; liberate e da Garibaldi
donate al Savoiardo caracollante a Teano, origine delle nostre nuove e non
ultime sventure.
Effetti della conquista piemontese.
Ulteriore degradazione della vita pubblica, dominata da gruppi di potere.
Pantano solo agitato dall'alito dell'affarismo e della conservazione.
Atmosfera irrespirabile, vita meschina di pettegolezzi, conformismo,
rinuncia-alienazione, analfabetismo, indifferenza verso la cultura.
Municipalismo più gretto.
PROCESSO DI POLITICIZZAZIONE
1)
2)
3)
-
Rivelazione degli obiettivi e degli strumenti;
Mobilitazione degli spiriti, per la loro acquisizione e utilizzazione;
Piano di applicazione e strategia di svolgimento.
Tecnici moderni, quali i raffinati marxisti.
Noi imparammo da Mazzini, Cattaneo e, per ultimo, Pisacane, che li hanno
preceduti e li sopravvanzano.
Per ciò non si rimase nelle nuvole e si applicò la cultura politica alla vita
municipale.
Inutili episodi.
ALL'INSEGNA DELLA COERENZA
Fummo corteggiati dal fascismo cerignolano, che aveva origini
romantiche e repubblicane.
Non passammo il ponte lanciatoci.
Lottando contro i municipali, guadagnammo come alleati anche i
Combattenti, che alla fine si eran dato un capo, preparato e volitivo.
Ma rifiutammo la proposta soluzione di un fronte unico e di una lista
unica, per la conquista del Comune, che si profilava sicura.
P. C. I.
Al tempo del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) il PCI ebbe a
Manfredonia un ispiratore e organizzatore in Federico Rolfi, uno della vigilia
comunista di Foggia, arricchitosi durante il fascismo
38
Mario Simone docente in un corso per animatori di biblioteche,
organizzato dal C.S.C. Società Umanitaria di Manfredonia (1970)
39
col duro lavoro di artigiano tappezziere e di commerciante (sarà selvaggiamente
criticato anche in documenti a stampa dall'ex-compagno, Romeo Mangano,
ferroviere, servitore dell'OVRA e, dopo il 25 luglio, furbescamente nominatosi
capo di una fantomatica centrale foggiana della Internazionale).
A Manfredonia era numeroso e attivo anche il Partito d'Azione, nel
quadro di una federazione provinciale da me organizzata, sulla base di sezioni e
gruppi, quasi in tutti i comuni dauni: tessere pagate nel 1944 circa 5.500!
Esponenti dei Partito a Manfredonia l'avv. Michele Lanzetta, il rag. Vincenzo
Bissanti...
Lanzetta, commissario e poi sindaco della Città, per temperamento e per
mancanza di tempo, sembrava tutto preso a ridurre sempre più la presenza
politica, facendosi assorbire dalle cure municipali, rese pressanti dal difficile
dialogo con gli Alleati.
Più volitivo e sensibile alle esigenze e ai problemi della organizzazione
era il Rolfi, che poteva permettersi certe « invadenze », che in diversa situazione
certamente non si sarebbe permesso.
Militava con noi azionisti il rag. Michele Magno, rientrato dalla prigionia.
Egli trovò in mezzo a noi alcuni bravi lavoratori che, allo scioglimento del
Partito di Parri, come lui avrebbero scelta la via più sicura del socialismo,
iscrivendosi al Partito di Togliatti, che rappresentava allora la logica della
situazione italiana.
Svanito in un mare di chiacchiere il Partito d'Azione, nauseato e
scontento (vedi « Partito d'Azione ») - pur senza cedere al « qualunquismo » mi dedicai esclusivamente alle cose di cultura, lasciando così indebolire i
rapporti personali con i vecchi compagni ed amici. Essi d'altra parte, non se ne
afflissero, curandosi ben poco di me, fino a mostrare di ignorarmi in tante
occasioni.
Falliti i tentativi di collaborazione con amici della sinistra popolare dovei
purtuttavia frequentare Luigi Allegato (vedi « Allegato ») e la « Provincia », della
quale curavo le edizioni, mentre a Roma, frequentando Montecitorio, ove feci
un lavoro agli « Studi Legislativi », potei incontrarmi alcune volte con Terracini
e Di Vittorio.
Assurto ad esponente e a parlamentare comunista di Manfredonia,
Michele Magno non mi negò mai la sua cordialità, quante volte c'incontravamo
in treno sulle strade di Manfredonia o di Roma. Mai, però, una conversazione
politica, mai una stampa che dicesse di lui o, almeno del suo partito.
Non dovei stentare, pertanto, allorché alla morte del grande proletario di
Cerignola, gli proposi di scrivere un articolo per « la Capitanata ».
GLI EVANGELICI
racconto di Borgomastro
Verso il 1929 si registrano le prime presenze di cattolici dissidenti. Si
trattava di lavoratori che, incontratisi in campagna con un
40
loro simile di S. Giovanni R., erano stati sensibili alla loro propaganda religiosa.
Quegli stessi lavoratori di Manfredonia si fecero zelanti diffusori delle
nozioni recepite, e riuscirono a formare un gruppo che si riuniva in casa per la
lettura e lo svolgimento dei sacri testi. Si firmarono così « riunioni » di
preghiera che, dopo una certa pratica autonoma, presero contatto con altri
gruppi di paesi vicini (soprattutto di Foggia) ove da qualche tempo agivano le «
Assemblee libere dei fratelli ».
Questi rapporti contribuirono a incoraggiare l'iniziativa di Manfredonia
che si andò sempre più sviluppando, richiamando in tal modo la considerazione
e l'intervento di missionari evangelici, che contribuirono a sostanziare di cultura
il movimento locale.
Verso il 1940 questo movimento, forse per insinuazione di elementi
fanatici di parrocchia, fu preso di mira dalla polizia, che lo qualificò senz'altro
come politico e antifascista.
Furono arrestati cinque uomini e tenuti in carcere otto giorni, nel corso
delle indagini, che si conclusero negativamente, per mancanza di prove.
(Nomi?)
Con l'arresto furono sequestrati libri di fede, quasi che ne potesse
scaturire la prova del dissenso politico.
In questa occasione operò l'Ente Morale (dei Fratelli) con sede in
Firenze.
BORGOMASTRO
Figlio di Ciro, con bottega di falegname in via S. Francesco, deceduto, il
1944, lasciando Michele, più grande, (studiava per geometra) che, abbandonata
la scuola, si mise al lavoro.
Compagni un colonello Adabbo (fratello del prof. Tommaso), Fabiano,
D'Andrea (sindaco). . .
Sposate le sorelle, lavorando e studiando la notte, licenza abilitazione
magistrale 1954, subito contabile cooperativa Sant'Abrogio, fondata dal fratello.
Primi 48 aderiti movimento evangelico, nella Comunità di circa 30-40
(una decina di famiglie).
Raduni in via Pasubio 64, casa del bracciante Murgo Lorenzo, padre di
12 figli.
1 maggio 1953 aperto luogo di culto in via Mozzillo Iaccarino n. 9, su
terreno comprato con risparmi lavoratori.
Longo Saverio di Poggio Imperiale, suocero di Borgomastro.
BIBLIOTECA DE' GEROLOMINI A NAPOLI
Inaspettato premio ai miei interessi fu l'ospitalità guadagnata dai pp.
Filippini nella sontuosa prisca sede cinquecentesca di via Duomo.
41
Il carissimo Don Mastrobuoni, a Napoli tanto conosciuto e riverito per
gli studi storici oltre che per lo zelo e la severità sacerdotali, mi presentò al
vecchio e nobile erudito p. Antonio Bellucci, che mi ammise a godere lunghi
periodi nell'appartamentino riservato di quella sede, con le finestre affacciatisi
sul grande chiosco folto di agrumi.
Credo che pochi « intellettuali » abbiano potuto godere del privilegio
allora concessomi, di inebriarmi al profumo delle zagare in un ambiente storico
e monumentale, legati al travaglio di Giambattista Vico, dei Filippini e di tutti
coloro che concorsero a edificare la mole destinata ad affidare ai secoli la
genialità della Congregazione dell'Oratorio.
Non sarebbe superfluo un cenno descrittivo delle opere, che
costituiscono il grande collegio e la grande Chiesa, che occupano una
rispettabile arca tra la detta via Duomo e il largo intitolato appunto ai
Girolomini.
Rimandando, per ora, a una qualsiasi guida, per la storia e la descrizione
della Biblioteca, la più antica di Napoli rinascimentale, dirò che quando mi
proposi di andarvi a trascorrere le mie ore di studio lo trovai affidato a un
cortese anziano signore alle prese con lo schedario antico, che aveva avuto
l'incarico di « rifare ». Mi resi subito conto della sua preparazione, costituita da
quell'abecedario nozionistico - e niente affatto pratico - che s'impartisce nei
corsi per la direzione delle biblioteche popolari, promossi dalle Soprintendenze
regionali bibliografiche, svolti in dodici o ventiquattro ore col contributo
ministeriale.
Ma come spiegarsi la presenza di costui in una biblioteca « nazionale »
come quella?
Per speciale « intrallazzo » il Ministero competente mette a conto dello
Stato tutte le spese inerenti all'Istituto, lasciando alla Congregazione il compito
di dirigere e curare i servizi a mezzo di suoi incaricati. Non sono stato tanto
indiscreto da indagare su questo meccanismo « straordinario », ma debbo
supporre che il Bellucci e altri padri, quali Borrelli, Spada, Ferrara, congregati in
quella sede, fossero titolari di funzioni bibliotecarie, che non sono mai riuscito
a constatare.
A quel buonuomo successero due giovani, implumi, anch'essi usciti da
uno di quei famosi corsi. La ragazza fu applicata alla schedatura - « sommaria,
per ora » (sic!) - il giovanotto fu addetto a rivoltare i libri negli scaffali, si che
molti di essi, perduta l'originaria collocazione segnata sulle vecchie schede,
sarebbero stati irreperibili fino a quando non sarebbero state inserite in
catalogo le relative varianti.
Sua cura da me ben distinta era quella di... sgusciare i periodici in arrivo.
Sorpresolo un giorno a questo lavoro, dissi: « Quante riviste! Ma perché non
destinate loro un tavolo, per la consultazione corrente? ». Rispose che tutto
quel materiale - e ve n'era, fatto fornire con i ben conosciuti criteri dal Ministero! -giorno per giorno veniva ammassato in un locale a piano terra, dove era
progettata la sala di lettura dei periodici (se ne attende ancora l'auspicata inaugurazione).
« Ma a che vale prendersi tanta pena » m'insegnava l'uomo delle
42
pulizie della casa (solito comunista brontolone in attesa di una sistemazione
salariale) « questa biblioteca è solo un cimitero di grandi e piccoli morti, dove
una volta l'anno viene qualcuno a scovare, assistito da Padre Borrelli, quando
può allontanarsi dalla sua Casa dello Scugnizzo ». Forse vigeva uno speciale
regolamento (?!) che rendeva difficile i rapporti fra libro e lettore; forse era la
diffidenza suggerita dalle non lontane peripezie giudiziarie dell'Oratorio (un
filippino aveva fatto sparire alcuni pezzi della pinacoteca): certo è che anche a
me, ospite della casa e riconosciuto bibliofila, era difficile portarmi in camera
financo una edizione ottocentesca del Verne, per via delle « tavole » incise!
Un errore fondamentale del Ministero era il considerare quell'antico
istituto alla stregua di una biblioteca d'oggi, che pertanto alimentava con la
stessa sciatteria usata per le biblioteche popolari, invece d'organizzare un lavoro
« sui generis » in relazione ai fondi esistenti.
Perché non mettere su un catalogo descrittivo dei fondi manoscritti? La
presenza degli eruditi Bellucci e Borrelli agevolava questo lavoro.
Sull'attico dell'edificio trovavano alloggio gli studenti universitari, che
riuscivano a farsi accettare per efficienti presentazioni. Non si ponevano loro
condizioni diverse dal pagamento della retta. La massima libertà era lasciata
loro, senza che alcuno esercitasse la benché minima sorveglianza e tutela: non
erano infrequenti casi di vandalismo o di semplice monelleria, come la
inutilizzazione di un servizio igienico o un danno alla rete illuminante.
Inibita la promiscuità di sesso, non c'era modo di evitare che, acceduta al
primo piano, dichiarando al portiere di recarsi in biblioteca, una ragazza potesse
partecipare a un convegno non culturale. Ma questo non mi risulta mai
avvenuto, forse per la timidezza dei ragazzi, che ho potuto verificare,
indagando sui loro rapporti con la biblioteca, con il seguente risultato
approssimativo: L'l % vi era entrato una volta per conoscerla; lo 0,50% vi aveva
studiato, tutti gli altri ne ignoravano la esistenza!
TREMITI
La tradizione romana del diritto, della quale s'investivano e vantavano i
governanti littori, non suggerì mai un espediente, per alleggerire la spesa
pubblica nella amministrazione della giustizia. Si pensi al costo delle procedure
giudiziarie aperte per Tremiti, già colonia di galeotti e poi sede di confine
politico dal 1935 al 1943.
Non si contano le denunzie per questo o quel reato a carico degli ospiti e,
a volte, anche degli indigeni, quasi sempre definite con assoluzione o pene lievi.
Esse comportavano un continuo traffico di prevenuti, a mezzo di un vecchio e
piccolo piroscafo della Società « Puglia », lunghe detenzioni preventive ed
attese, a volte non brevi,
43
come in tempo di guerra, per il ritorno in sede. Senza contare le trasferte degli
addetti alla Pretura di Manfredonia (giudice, ufficiale giudiziario) per interrogatori e
notifiche. Eppure, sarebbe costato così poco disporre che fosse il Pretore a recarsi
sull'isola, per tenere udienze con un difensore di ufficio trovando sul posto un
ufficiale di governo idoneo a fare da pubblico ministero.
Ma non conveniva di più allo Stato evitare che s'imbastissero tante
procedure? E tutte le contravvenzioni alla « carta del confino » non si sarebbero
potute evitare sol che agenti e direttore della colonia fossero stati meno prevenuti e
sprovveduti?
Rievoco un esempio che vale per tutti.
Il confinato benestante Levi acquista un pollo lesso, che gli viene offerto in
piazza da una giovanetta. Poi che trattasi di compendio di un furto, Levi, in stato di
arresto, è denunciato per ricettazione. Tradotto a Manfredonia e da me difeso, è
assolto perché il fatto non costituisce reato. Non rientra a Tremiti, perché è accolta
la domanda da me suggeritagli e sostenuta dai parenti ricchissimi, di ottenere un
soggiorno vigilato in famiglia e viaggia così mezza Italia nel Nord, con grande
gaudio dell'agente accompagnatore.
Ho difeso quasi tutti i confinati, tradotti innanzi la pretura di Manfredonia e,
a volte, nel Tribunale di Foggia. Di alcuni conservo i fascicoli, ai quali rinvio.
Giudice era il dott. Roberto Perfetti di Ascoli Satriano, preparato, di sociali
sentimenti e antifascista, che vantava l'amicizia di Mauro del Giudice. Sarebbe stato
davvero un « buon samaritano » se disordini fisiologici e psicologici non lo avessero
fatto accidioso.
Questi umili, spesso immeritevoli, da me patrocinati non avrebbero mai
potuto raffigurarsi il mio impegno, senza limiti, nonostante fossi raramente e
modestamente retribuito, quando non ci rimettevo le sigarette. Alla maggior parte
dei colpevoli non si sarebbe potuto irrogare più di tre mesi di reclusione. Purtroppo
a volte la detenzione preventiva superava quel periodo, perché il giudice non era
stato sollecito a fissare il dibattimento.
Eppure l'ufficio vantava un cancelliere di eccezionale costume morale, di
profondo acume e di vasta cultura, il dott. Tommaso Aragiusto, unico e solo
funzionario in lotta continua ma sterile col pretore che, contraddicendo le sue
convinzioni, non sì comportava in modo irreprensibile (forse per accrescere l'odio
dei confinati contro il regime, osservava malignamente un avvocato, che faceva il
doppio giuoco).
VOCE REPUBBLICANA
Con questa testata il quotidiano del Partito Repubblicano Italiano condusse
la lotta politica a Manfredonia nel 1921-25. Dopo circa 50 anni la nostra città si
esprime autonomamente con una « Voce », tutta sua e per sempre sua: anch'essa
voce repubblicana, sebbene sia indipendente
44
dal P.R.I., perché della repubblica popolare sono assercoti convinti coloro che la
pubblicano.
Una voce che non è il chiasso di dieci o di mille persone, azzuffandosi per i
loro privati interessi o per sostenere servilmente una fazione. E' voce di un comizio
permanente, che vuol esprimere gli ideali, i bisogni, le istanze, le delusioni e le
speranze della intera comunità cittadina.
In questo coro è naturale, legittimo e indispensabile che si manifestino
opinioni, anche strettamente personali, che non coinvolgono alcun partito, e,
purtuttavia, vanno considerate come espressione di pratica politica, cioè attività
civica primaria.
Orientato a questi concetti, mi sembra doveroso apportare un contributo alla
chiarificazione delle idee, che ispirano il dialogo nel nostro contesto. Mi riferisco
alla presenza e alla funzione attuale del P.R.I. a Manfredonia.
Dal 1921 al 1925 il « partito storico » fu molto attivo a Manfredonia non
solo nella lotta antifascista, ma anche quale fattore di educazione politica; promosse
l'alleanza con le altre forze democratiche, tra le quali preminenti erano quelle
marxiste, alle quali non dimostrò di essere allergico. E fu, si badi, un'alleanza
morale, oltre che tattica, fondata sulla reciproca stima; direi una collaborazione «
fraterna », se l'espressione non potesse sembrare retorica. Quell'alleanza, che
avendo resistito sotto la dittatura, riprese a funzionare nel 1943, quando i vecchi
repubblicani, caldi della fiamma di « Giustizia e Libertà », collaborarono con le
forze popolari, prima nella strade, poi nel Comitato di Liberazione Nazionale.
Tutte queste cose furono ricordate il 26 dicembre 1971 quando la sezione
del P.R.I., anticipando l'anno del Centenario mazziniano (1872-1972), rievocò in
sede storica l'originario movimento repubblicano locale. Ma una più larga
documentazione è offerta dal Magno nel suo libro recente Lotte politico-sociali a
Manfredonia durante il periodo fascista.
A questa tradizione si richiamava e obbediva la sezione del P.R.I., quando
aderì alla Giunta municipale popolare partecipandovi con un suo rappresentante.
Chi ne stigmatizza la decisione, quale contraria all'indirizzo della direzione centrale,
trascura di considerare che, se fu una infrazione disciplinare, essa interpretò lo stato
d'animo generale della base repubblicana, insofferente della sterile partecipazione al
Centro-Sinistra. Non solo, ma superando le posizioni meramente intellettualistiche
(e classistiche?) dei « puri », realizzò la tendenza dei gruppi avanzati, verso
l'autogoverno delle forze produttive del Paese, finalmente libera dalla ipoteca
capitalistica. E fu anche coerenza ai precetti della scuola storica repubblicana, che
da Mazzini svolge tutti i teoremi della dialettica politica con l'evolversi del pensiero
di quel Maestro attraverso Cattaneo e Pisacane, Ferrari e Mario, fino al Quadro e
agli ultimi epigoni postrisorgimentali, che nelle prime organizzazioni di categoria,
crearono con spirito rivoluzionario le premesse dell'attuale
45
movimento operaio e culturale democratico.
Fu uno sbaglio la rinnovata alleanza repubblicana con le forze marxiste?
Essa non va forse considerata - e apprezzata - in relazione: 1) ai conseguenti
risultati locali raggiunti; 2) alla mutata politica del P.R.I.; 3) alla odierna diversa
valutazione da parte « ufficiale », del ruolo rappresentato dal P.C.I. nel Paese?
Riflettiamo su questi tre punti:
1) Partecipazione alla Giunta del P.R.I. - Essa ha significato anzitutto che gli
artigiani, i commercianti, i professionisti, i giovani che fanno parte del P.R.I.
sono rimasti fedeli all'insegnamento della storia, e all'esempio di coloro che con sacrificio di sé e a volte dei congiunti – con la loro alleanza affermarono
che l'immacolata bandiera della Giovine Italia risventolata nella « Settimana
rossa » di Ancona con tutto lo schieramento di sinistra del paese, compresi gli
anarchici, ben poteva marciare con quelle delle leghe proletarie a difesa e
affermazione dei comuni ideali umani e sociali. Ha significato, poi, la vitalità di
un'amministrazione realizzatrice, sinceramente aperta alla collaborazione con le altre
forze democratiche - come dimostrano tante decisioni adottate alla unanimità -,
e per ciò idonea ad attuare il precetto informatore dei decentramento e
dell'autonomia nel quadro della novazione regionale.
Non ha certamente coscienza politica ed è nemico del suo paese, l'uomo
qualunque che, in odio agli uomini dei partiti al governo - e non certamente per
coscienza politica - arriva a declinare « tutto per tutto: meglio di questi " rossi "
un commissario governativo, che è un funzionario al di sopra dei partiti ». La
sua è la psicologia di chi, purtroppo, è nato schiavo, ignora il prestigio che gli
viene dall'essere elettore, riunzia a pensare, a capire che cosa è la complessa
realtà che lo circonda e respinge il governo collegiale, invocando a comandarlo
uno solo a nome dello Stato, di quello stato che egli, uomo da niente, forse
tradisce in tanti modi, disobbedendo alle sue leggi. Ed è cieco e sordo, oppure
si benda gli occhi e si ottura le orecchie, per non ammettere i passi avanti che,
bene o male, si sono fatti.
2) Il P.R.I. boccia e smonta il Centro-Sinistra. Dopo averlo sostenuto in un
altro tentativo. Esso ha concorso ad eleggere l'on. Leone alla presidenza della
Repubblica, determina lo scioglimento delle Camere, e con lo slogan di La Malfa
fa credere agli Italiani che « questa volta si può ». Conta il P.R.I.,
evidentemente, su un mezzo plebiscito di voti, da parte delle categorie medie,
ma rimane deluso, perché gli manca la base, privo com'è anche della spinta ad
azionare una minoranza propagandistica « di rottura ». Risultato dell'infelice
operazione, che rivela anche la debolezza organizzativa del P.S.I. e l'isolamento
suicida delle sinistre extraparlamentari, è il vero fascismo della così detta «
Destra Nazionale ».
Qualcuno, dunque, sbagliò, ma non la modesta sezione di Manfredonia.
Logoratisi e non ricostituibili i rapporti di coabitazione e di amministrazione
con la D. C., condizionata da una centrale clerico46
artigianale, cadde ogni illusione di intrallazzo, coltivata da qualche « dissidente ».
La ricostituzione del Centro-sinistra ricevette la più ospitale sconfessione dal
nuovo corso politico autorizzato dal conservatore presidente Leone con il varo del
Governo Andreotti. Insegnò all'on. La Malfa e al suo stato maggiore quanto fosse
facile un esperimento come quello del Centro-destra, quando il corpo elettorale,
per l'anticipato e precipitoso scioglimento delle Camere, è chiamato senza la
opportuna preparazione psicologica e informativa, a pronunziarsi sulla situazione
politica e sull'avvenire del Paese.
Per concludere: se i dirigenti nazionali del PRI hanno finito col riconoscere
la impossibilità di collaborare con la DC, nessun dovere avevano ed hanno i
repubblicani sipontini di credere a una formula smentita e abortita al Centro!
A contestare la presenza dei repubblicani nella Giunta Popolare è
sopraggiunta la mutata valutazione della vocazione e disponibilità ministeriale
comunista nell'area parlamentare. Dopo la dura prova del Centro-destra, che ha
agevolato il crollo finanziario del Paese, indebolendone in stravagante misura la
resistenza democratica contro le forze eversive, non c'è motivo di allevare
l'opposizione del partito mondiale, che raccoglie il maggior numero di lavoratori e,
nonostante l'inesaudimento delle loro istanze, mantiene un atteggiamento pacifico e
conciliante, che non può non essere garanzia di ordine e di disciplina, mentre nella
piazza si ricompongono le membra spezzate dello squadrismo.
Ci sembra di aver detto cose di comune evidenza, in piena buona fede, con
l'animo aperto ai frutti della civile convivenza e con l'unico scopo di dimostrare ai
male informati e agli scettici, che la nostra situazione amministrativa, valida con la
maggioranza di cui fa parte il PRI, è anche politicamente e moralmente legittima.
Ma vi è una terza categoria di nemici irriconciliabili del buon senso, ai quali
va riservata una particolare ammonizione: sono i pasticcioni, gl'intriganti, i
pettegoli, i chiacchieroni, gl'insofferenti, e, non escludo certi romantici. Si credono i
depositari della verità e sol perché si trovano con l'avere in tasca la storia con le
loro elucubrazioni, di poter spaccare in quattro ogni situazione, di poter accampare
dei diritti, per sé e per i parenti; pretendono di far carriera nel partito, e anche se le
sue file sono appena sufficienti a dare un eletto al Consiglio comunale, osano
ipotizzare ipoteche per l'avvenire, minacciando di rompere il meccanismo, perché
nessuno se ne serve.
Tutto questo ci è stato esibito recentemente proprio in un ambiente dove,
per tanti motivi concorrenti, nessun contestatore si dovrebbe sentire autorizzato ad
alzare la voce, senza aver prima esaminata la sua posizione personale alla stregua
dei rigorosi canoni morali, o della sapienza politica e del costume, attribuiti della
divisa che oggi si ostenta.
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MAURO DEL GIUDICE
Lo conobbi al tempo del crimine Matteotti, vedendolo uscire un giorno dal
suo ufficio della Sezione di accusa al Palazzo di Giustizia a Roma. Era molto amico
dell'on. Giovanni Conti, che noi giovani amavamo riconoscere l'esponente verace
del repubblicanesimo di allora.
Rientrato in provincia nel 1933, solo più tardi appresi del suo «
pensionamento » e con il pretore di Manfredonia, Perfetto, mi proposi di visitarlo.
Ma mi feci troppo assortire da altre cure, nelle quali dispersi tante energie. Pertanto
risolse il nostro incontro al 1940, quando mi recai a visitarlo in Vieste, ov'era ospite
di un suo fratello. Era ritornato sul Gargano dopo tant'anni, dopo che, messosi in
pensione da procuratore generale, ufficio ultimamente esercitato a Catania, erasi
fermato alcun tempo a Roma, presso la signora Franca Brunoni (Viale Eritrea, 52),
che lo aveva ospitato essendo rimasto celibe.
Ma ci trattenemmo lungamente, come avrei voluto, a colloquio: suonava la
messa alla sua chiesa e vi andammo per una lunga scalinata. .Mi fece impressione
vedere quel vegliardo appoggiarsi a un bastone e a un ombrello, come un proletario
qualsiasi. Rientrati, mi fece vedere due diplomi cartacei dedicatigli ultimamente
dalla loggia foggiana « Giannone » del G. 0.
Un giorno Don Mauro fu prelevato dalla signora di Roma e sua figlia e morì
in quella città.
Lasciò al comune nativo libri e manoscritti, senza inventario.
Il marzo 1951 feci assumere le onoranze in memoria dalla Società Dauna di
Cultura.
Il 17 e 18 luglio mi fermai a Rodi per la ricognizione delle cose su dette.
Era sindaco il generale a riposo Ruggiero imparentato con i Petrucci;
segretario comunale il rag. Pasquale Queto, mi fu propizio.
Nell'aula, consigliare, senza chiusura di sorta, due grandi casse contenevano
quanto aveva costituito il patrimonio intimo del grande Garganico. Come altre
volte, quando giovanotto avevo scoperchiato a Manfredonia la cassa del «
quarantottista » Murgo, affondai le mie mani in quegli scrigni, sudando non solo
per l'atmosfera pesante e fetida della sala, ma anche e sopratutto per l'emozione,
per il privilegio del quale mi sentivo investito, di esplorare, per primo, l'aspetto più
geloso della vita di quel protagonista, ultimo pensatore di nostra terra.
Con la data 17-18 luglio compilai l'inventario dei manoscritti, che feci
chiudere nella cassaforte della segreteria.
Le onoranze sfumarono, nonostante un contributo di 30.000 lire del
Comune di Rodi, sindaco Moretti. Vocino, presidente della Società, pur essendo
entusiasta della iniziativa, non sollevò un dito per alleviare i miei solitari conati.
Per ovviare in parte alla nostra contumacia, del n. 1-2, 1970, prima parte di «
La Capitanata » (Foggia) ho pubblicato la monografia apparsa la prima volta il 1925
in « Studio giuridico Napoletano »
50
(Napoli) vol. XII. « Piero Giannone nella storia dei diritto e nella filosofia della
storia ».
Com'era doveroso, ho fatto seguire il testo da una lunga nota.
Nel nostro incontro di Vieste, ricevetti in dono il dattiloscritto dei «
Malfattori e benefattori della Giustizia nella vicenda di un secolo » con questa
dedica: « All'amico Mario Simone, per solidarietà nell'ideale repubblicano »
Vieste IX febbraio 1940, e un esemplare dell'opuscolo: « La legge penale nel
tempo » testi di diritto penale comparato (Napoli, 1882) con le aggiunte
autografe ad ogni pagina, destinata a una seconda edizione, una e l'altra
dell'opera mi proposi di fare una edizione d'intesa con in Consiglio dell'Ordine
degli Avvocati e Procuratori di Foggia.
Avrei voluto pubblicare « Malfattori e benefattori », e insieme l'opuscolo
stampato il 1950 del collega Scabelloni a Catania « li potere giudiziario al
cospetto del nuovo Parlamento », comprendendolo in « Quaderni di
risorgimento meridionale », col titolo « La giustizia tra due repubbliche
(1799-1948) » per le cure di Vincenzo Tangaro, del quale mi attendevo una
presentazione che, oltre a delineare la personalità dell'autore, commentasse il
testo. Ma questo mi fu restituito con le sole correzioni formali del dattiloscritto.
lo non potei corredare la narrazione critica e polemica, così com'era necessario
e doveroso. Il 1970 passai in composizione l'opuscolo « Il potere giudiziario ».
Avevo ricevuto il testo, emendandolo, e vi avevo aggiunto una documentazione
di eccezionale interesse: le lettere che il Del Giudice aveva indirizzato subito
dopo la « liberazione » al predetto Tangaro.
Il piombo di questo opuscolo è oggi (15-9-73) ancora « in piedi » nella
Tipografia Laurenziana di Napoli.
LA PUGLIA A ROMA
Verso il 1921, per slancio di un gruppo di corregionali, era viva in Roma
una Associazione Pugliese con sede prestigiosa nel Palazzo Marignali al corso
Umberto, sopra lo « storico » di Aragno. Ne erano maggiorenni elementi non
fascisti quali il dott. Chieffo, magistrato di Cassazione, il suo fedele rag.
Antonio Borgia, l'avv. Del Sonno (li si diceva massoni), gli avv. Majolo e
Melucco (socialisti)...
Con la marcia su Roma e la nomina a sottosegretario alle Poste dell'on.
Giuseppe Caradonna, questo fu chiamato a presiedere il sodalizio, per
adeguarlo alla nuova realtà politica, e vice presidenti furono creati l'ing.
Alessandro Carelli e il comm. Gaetano Petrucci, della direzione generale delle
Poste, che presto divenne il « factotum » del sodalizio.
Presentato dal fratello Alfredo, gli esposi un progetto di attività culturale
per valorizzare la nostra regione e non dovei attendere molto, per ingolfarmi in
un lavoro, arduo ma piacevole, che mi alleviò le
51
sofferenze, per la irreparabile crisi politica e, naturalmente, contribuì a distrarmi
dalla università e a farmi rimandare l'inizio della pratica forense (che oggi ritengo
indispensabile, alla formazione professionale di un giovane, che voglia fare sul serio
e per ciò non ingannare se stesso, la famiglia, la società).
Al mio exploit nel campo culturale, le attività sociali erano preminentemente
costituite da riunioni danzanti di ogni specie e da qualche conferenza: la sala di
lettura era dotata di numerosi quotidiani e periodici: letti i primi, appena sfogliati i
secondi, anche se riguardavano la nostra regione.
Tutta questa mia operosità, nonostante che fosse preminente alla superficie
(quella « vitale » era pur sempre il giuoco... sotterraneo!) costituzionalmente rimase
fino all'ultimo marginale, perché non mi furono mai dati una investitura e un
riconoscimento ufficiali, nonostante gli ampi poteri che gradatamente usurpai, fino
a essere considerato il segretario generale e l'esponente culturale del sodalizio.
Sono di quell'iniziale periodo alcune esperienze nuove, tra le quali molte
amicizie e la Mostra degli artisti pugliesi, ordinata da Alfredo Petrucci (1925).
Coinvolto alla sprovvista nell'impegno, nell'ansia, nella tecnica di quella
impresa; a contatto con artisti, artigiani specializzati, critici di arte e giornalisti, mi
esaltai e mi prodigai nella illusione pirandelliana di costruirmi quale personaggio.
Il 1926 dal Palazzo Marignoli ci trasferimmo in via di Torre Argentina n. 12,
dove curai numerose iniziative, registrate dalla stampa. Senza far spendere una lira
formai una raccolta di pubblicazioni regionali, ottenendole in dono da editori e
autori (sistema che oggi detesto, convinto della sua immoralità): opuscoli e libri che
solo pochi soci chiesero di leggere. Avendo trovato in libreria un fondo di libri
francesi, donati da un giuocatore reduce da Parigi, vi aggiunsi romanzi e novelle,
guadagnando molti lettori, in specie tra le ragazze. La distinzione di questi libri,
come dire, « profani » l'affidai a un consigliere, il buono e innocuo rag. Miccolis,
che volentieri se la faceva a sfogliare pagine con l'elemento femminile alla ricerca
del « libro interessante ».
Per le conferenze, al fine di presentare agli oratori una sala affollata, convinsi
l'amico Petrucci a consentire... quattro salti dopo il... sacrificio. Con questo
espediente potemmo assicurarci un uditorio che, oltre gli invitati e i soci « a livello
», comprese anche quel pubblico, che più aveva bisogno di penetrare nella cultura e
nell'arte di Puglia. Aprimmo la serie con l'autorità massima degli studi pugliesi,
mons. Nitti, al quale seguirono altre illustrazioni. Il prof. Federico Hermanin,
sovrintendente ai monumenti dei Lazio e degli Abruzzi, e direttore della Galleria
Corsini, succedettero sino al prof. Quintino Quagliati.
Ma non tutti i conferenziari si mostrarono consapevoli dei limiti che
imponevano anzitutto le loro stesse qualità espressive, e poi il
52
tema e l'ambiente. Di essi fu proprio il Quagliati a dover prendere atto quando,
fattosi chiaro dopo oltre un'ora di proiezione d'indole archeologica, nella sala si
contarono i soli « tenacemente intellettuali » rimasti legati alle sedie in generosa
attestazione di solidarietà.
Un apporto eccezionale allo sviluppo della mia «linea» culturale perseguita
nonostante la palese indifferenza dei «mondani» e degli invidiosi, mi venne dal dott.
Vito Reali di Tricase (Lecce), direttore-editore della « Rassegna nazionale di musica
», al quale debbo molto della mia educazione musicale.
Non si contano i concerti, individuali e collettivi, svolti nell'Associazione per
il suo autorevole intervento presso gli esecutori, a volte davvero autorevoli, quali il
Casella, lo Schipa, il Chiarozza...
E non furono trascurate le arti figurative. Il primo ad essere accolto e
festeggiato fu Luigi Schingo di San Severo, patrocinato da Alfredo Petrucci (lo
avevo conosciuto, ammirandone i paesaggi a pastello, che erano la sua prerogativa
di successo). Lo aiutai a montare nella sede sociale la sua « personale », lo misi in
contatto con esponenti del mondo romano, organizzai la vernice e l'inaugurazione,
un ricevimento e un pranzo in suo onore. Vendette molti lavori, alcuni dei quali
pagati a pronta cassa, mi promise in dono « Golfo di Manfredonia » del quale mi
ero innamorato e che oggi attendo ancora.
Un altro da noi « valorizzato » fu il pittore Pastina, del quale conobbi un
giorno il figlio, vice provveditore agli studi in Foggia, ma la rassegna lasciò freddi,
nonostante la presenza in effige e in carne ed ossa di Edy, la giovane modella dagli
scandalosi grandi seni a forma di cono.
E venne fuori, rivistina mensile illustrata, « La Puglia a Roma », dalla
copertina montata da Alfredo con gli stemmi delle cinque provincie della regione:
direttore il vice presidente Gaetano Petrucci, redattore capo il sottoscritto, e
intelligente, bravo, paziente tipografo il socio cav. Armellini, della provincia di Bari
(Tip. dell'Urbe, via Vittoria Colonna n. 27); assiduo frequentatore in finanziera
dell'Associazione, padre di una delle più belle signore, che la infioravano.
Perché ci si possa rendere conto della validità culturale del mio lavoro anche se la sua influenza fu irrilevante, a causa della limitatissima diffusione -,
riproduco in appendice il sommario dei nove numeri pubblicati.
La collaborazione ottenuta e i consensi guadagnati incoraggiavano a
sviluppare la iniziativa, ma fu soffocata dal consiglio di amministrazione, non
appena che da una disavventura estranea alla sua carica nel sodalizio, Gaetano
Petrucci se ne dovette allontanare.
Anche in questa impresa non ebbi che aiuti marginali dai consoci: non da
Peppino Modugno, vecchio compagno nel PRI, assorbito oltre che dall'ufficio,
dalla pubblicazione di « La Puglia Letteraria », uscita anche con la mia
collaborazione; non dal prof. Salvatore Mininni, insegnante al « Massimo » giovane
preparato e volenteroso, ma che purtut53
tavia perdeva il suo tempo a pavoneggiarsi, limitandosi a scrivere qualche
recensione.
Chi alla rivista e all’attività culturale in genere si mostrava del tutto
indifferente, era proprio il Caradonna, che, per temperamento e per prassi di vita,
considerava la carica tenuta solo per quel margine di vantaggio, che poteva dargli la
presidenza del sodalizio rappresentativo della sua regione. Essendo notorio che,
tutte le altre consorelle di carattere regionale, quella nostra ospitava una sala da
giuoco, il margine già abbastanza modesto, si ridusse a una mera ipotesi di prestigio
quando Mussolini adottò l’equivoco provvedimento di sopprimere i sodalizi
regionali di Roma, con i quali si affermavano velleità campanilistiche, che egli si era
incaricato di deludere, col senso unitario dello Stato accentratore, burocratico e
livellatore.
Non ricordo se fu in quella occasione o per altre cause, che l’ambiente
ducesco tentò, senza riuscirvi, di schiudere al Caradonna la carriera diplomatica,
destinandolo a rappresentare l’Italia a . . . . . (la manovra fu sventata, ma per sempre
il comandante delle squadre d’azione Appulo alla marcia di Napoli e di Roma di «
emarginato » e non ritornò alla ribalta nazionale fino alla sua « leggendaria »
evasione da San Vittore, subito dopo scomparendo.
L’Associazione andò sempre più deteriorandosi. Dovette lasciare la sede di
Torre Argentina e andò a finire al ghetto, a Piazza Cenci, nel famoso che fu questa
famiglia, ove ci fu amico il fantasma della dolce parricida, deliziandoci degli effluvi
di Piperno, il maestro dei filetti di baccalà in padella.
Il consiglio di amministrazione aveva così decretata la fine del sodalizio. E’
risibile apprendere che tra i provvedimenti diretti a salvare le finanze, si annoverò la
soppressione della rivistina, che pure rappresentava l’unica testimonianza di vita, di
ideali e di prestigio dell’A s soci azione. Vale la pena consegnare alla storia le
generalità dei galantuomini, autori del bel gesto: presidente comm. dott. Giuseppe
Mastropasqua, del M.ro alla P. I., com.. rag. Carella, cav. Fortunato.
A Torre Argentina, collateralmente al periodico, pubblicai « Alfredo
Petrucci, Pittori pugliesi dell’800: Domenico Caldara » (con quattro illustrazioni). Il
frontespizio recava, presuntuosamente, tra l’altro : « Quaderni Pugliesi diretti da
Mario Simone », cui seguiva nella pubblicitaria: « Seconda serie », con riferimento
alla prima, che nel 1925 avrebbe aperta la prima con « Manfredonia e il Gargano »
(vedi voce).
Questo quaderno gravò solo per poche lire sul bilancio sociale, essendosi
utilizzato per il testo il piombo della rivista; purtuttavia come questa parve urtare la
suscettibilità dei dirigenti, che mi pregarono di soprassedere, come fu fatto.
STUDIO EDITORIALE DAUNO
Un modulo per la iscrizione al registro della ditta presso la Camera di
Commercio di Foggia (Consiglio dell’Economo - verificare):
54
Riccardo Ricciardi
55
tutto qui l’apparizione a Foggia dello Studio Editoriale Dauno intestato a mio
padre Antonio.
Non fu ordinato un programma culturale, né un piano finanziario; non
vi fu una riunione di amici perché l’iniziativa avesse un decollo più appariscente
da una base di consensi e di auspici.
Era mio intendimento raccogliere la tradizione tipografica della
Capitanata, svolgerla con moduli moderni, creare una editoria « dauna » quale
fatto di cultura al servizio della mia Terra.
Le circostanze vollero diversamente e lo Studio esordì con i connotati di
una editrice giuridica, pubblicando la rivista « La Corte d’Assise », recante i tre
nomi dei promotori e redattori: l’avv. Vincenzo Lamedica, direttore, il
procuratore del re prof. Cocurullo e Mario Simone.
Se fossi stato meno ingenuo, cioè un tantino avvocato, avrei «
manovrato » in modo che il... triumvirato si identificasse con lo Studio
Editoriale e lo amministrasse: in tal modo, gli avrei assicurata una veste
giuridica e un’attività meglio spiegata nello spazio editoriale e nel tempo.
Improvvido come sempre, mi... « buttai a pesce » nell’impresa col
risultato finanziario di rimetterci le piccole spese personali e quello morale di
sapere da nessuno considerato il valore della editoria da me creata.
Ancora oggi, dopo quarant’anni, nell’esame critico del libro è raramente
considerato e tanto meno discusso il dato editoriale. E’ facile intuire, dunque,
come sfuggisse all’attenzione del mondo giuridico-forense e, soprattutto,
dell’ambiente di una provincia, come la nostra, dove contenuti e forme delle
pubblicazioni « locali » erano ancora arcaici, come documentano i... palinsesti
del tempo.
Le prime maggiori prove dello Studio Editoriale Dauno furono, dunque,
« La Corte d’Assise », i « quaderni » e la « biblioteca omonima ».
I primi raccoglievano i contributi apparsi nel periodico (estratti), la
seconda i testi, a cominciare da « L’ingiuria e la diffamazione » del Cocurullo,
stampata bene dall’avv. Massimo Frattarolo a Firenze, dove da Lucera aveva
trapiantata la sua famosa attività tipografica.
Oltre queste collane giuridiche, il 1940 venne fuori la « Biblioteca del
Risorgimento Pugliese ».
In un periodo nuovo dello Studio vanno considerate le mie prestazioni a
favore del Consiglio provinciale di Capitanata, che nel 1955 mi chiamò a
riordinare e stampare i suoi atti deliberativi dal 1952. A far invitare lo Studio,
cui purtuttavia, l’incarico ebbe il crisma della gara, fu il segretario dell’Ente,
dott. Luigi Basso, e non per favoritismo ma, com’ebbe a dichiarare, perché solo
per le mie cure si sarebbe potuto ottenere la revisione degli originali, compilati
in una lingua qui e là un po’ approssimativa.
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PRO-MEMORIA AGLI INTELLETTUALI DAUNI
... di nulla preoccupati fuori che di sostituirsi in una nuova gerarchia di
privilegiati per razziare nei residuali beni spirituali ed economici della nazione.
... li conosciamo questi martiri da carnevale, questi eroi della sesta giornata
questi frodatori della pubblica opinione. Rintanatisi il 28 ottobre, hanno a lungo
svernato nei comodi «fifaus» dell’antifascismo scudato, non esitando a trafficare
all’ombra del Littorio. Oggi ritornano alla luce con la pelle del vittorioso leone,
quasi che il 25 luglio segnasse l’inizio di una rivoluzione o almeno di una ribellione
in 180 da essi promossa e attuata, e non un oscuro colpo di Stato del quale
possono attribuirsi le cause soltanto per quel tanto di collaborazione che
prestarono al fascismo, aiutandolo a raggiungere l’estrema antitesi che ne aiutò la
caduta.
E’ ritornato il tempo dei programmi politici, degli appelli, degli esami di
coscienza, e delle decisioni.
Per venti anni i nostri uomini di cultura, inquadrati nel partito e nei sindacati
del regime totalitario non hanno avuto altro dilemma, ma innanzi a loro:
collaborare o non col fascismo.
In massima parte lo hanno risolto con una negazione, ma sia gli attivi che i
passivi si sono adagiati nella situazione « comodamente » col proposito comune di
non farne niente, e niente infatti facendo.
I collaborazionisti, tali non per spirito politico, ma per « opportunismo » non
riuscendo (in buona o mala fede) a prendere sul serio nemmeno le funzioni loro
affidate, non hanno mai sentito il dovere di formarsi una cultura fascista. Gli altri
non ne hanno avvertito nemmeno il bisogno, convinti che di cultura fascista non
fosse nemmeno a parlarne.
2) Ma al di là della collaborazione e dell’opposizione al fascismo, gli uni e gli
altri, si sono trovati tutti d’accordo su un punto dove si è saldata la tradizionale
apatia degli intellettuali del Sud: l’ostracismo agli studi politici e sociali.
3) Non si tratta qui di far loro un processo, per il quale io non ho certamente
l’entità di giudice, né mi sento di far da pubblico accusatore.
Come potrei, del resto(?!). Essa mi porta a ricercare tutte le attenuanti
possibili a farne di questa categoria che non possiamo chiamar borghese come
classe, perché ad essa specialmente in questi ultimi tempi sono confluiti tanti figli
del popolo lavoratore: ma che senza dubbio è « borghese », per mentalità e come
borghese ha purtroppo pensato ed agito nei venti anni che l’abbiamo attentamente
seguita.
E questa ricerca non è difficile sol che siamo tutti d’accordo sul fallimento
dello Stato italiano creato dalla truppa piemontese ai danni del popolo delle
provincie annesse prevalentemente di quelle meridionali.
Volersi fermare al fascismo per attribuirgli tutte le colpe del57
l’attuale disastro d’Italia sarebbe infatti ingenuità imperdonabile. La politica
monarchica che culminò con la resa alle squadre d’azione ha una storia che tutti
possono facilmente conoscere sol che lo vogliano. Fu essa, per fermarci
all’Italia meridionale, che isterilì le forze rinnovatrici della Rivoluzione italiana
che avevano redento l’Antico Reame della ignominia barbarica; essa che lasciò
insoluta la questione sociale delle nostre provincie tanto fervide e attive nei
moti del Risorgimento che seminò la corruttela nella nostra classe borghese e
deviò le più intemerate coscienze della loro missione civile.
Com’era fatale, nell’ambiente squisitamente « cafone » della provincia,
mortificato da una economia primitiva e chiuso alle correnti vivificativi delle
idee, gl’intellettuali, anche quelli più svegli finirono con l’adagiarvisi,
contribuendo ad aggravare la situazione col politicantismo e con l’agnosticismo
più deleteri.
Queste due forme di partecipazione alla vita pubblica dei nostri
intellettuali si riprodussero dopo la prova redentrice.
Pochi uomini di cultura, in verità, si convinsero che i tempi nuovi
richiedevano vita nuova, ed elevarono la loro voce per dire una parola di vero al
popolo disorientato e sofferente. 1 più, quasi che la guerra forse trascorsa
invano sulla scena del mondo, si rigettarono nei personalismi e campanilismi o
si misero alla finestra, e finirono con l’accogliere il fascismo come un mezzo
più facile per raggiungere i loro obiettivi egoistici o come un nuovo spettacolo
che si spiegava alla loro esperienza.
Qui non posso esimermi dal rispondere a una domanda che potrebbe
essermi facilmente rivolta: « Che cosa si sarebbe potuto fare »? E dico subito il
mio pensiero. Ai collaborazionisti era offerta l’occasione di renderci molto utili
al loro paese, attraverso le cariche e gli incarichi ad essi assegnati con iniziative
culturali che avrebbero potuto prendere e sviluppare anche con aiuto del
partito.
Agli assentisti nessuno proibì mai di dedicarsi agli studi e di svolgere
tutte quelle altre attività sociali dirette al progresso morale e culturale del
popolo.
Gli uni e gli altri invece si astennero da ogni fatica intellettuale « tirando a
campare » fino quasi all’annullamento della loro personalità che essi
rinunziarono ad affermare.
Quali doveri sociali conferisce infatti a noi la cultura? Indubbiamente
quello, sopra tutti gli altri, di volgerla a profitto morale e materiale del popolo
prima che nostro.
Ed è appunto questa funzione sociale, e non il privilegio naturale ed
economico di aver conquistato un titolo di studio, che ci eleva sull’affarismo
(utile anch’esso, indubbiamente, ma non nobile) del negoziante; che ci autorizza
ad indicare al popolo la via della sua elevazione di farsi interpreti e assertori
delle sue esigenze e dei suoi diritti.
Chi non compie questo principale dovere è dunque in difetto con la sua
missione, colpevoli, se pur con tutte le attenuanti, sono
58
coloro che in venti anni intellettualmente poltrirono.
A tanto avevo interesse di giungere, per giustificare questo frettoloso « promemoria ».
Gli intellettuali non hanno bisogno più di un lungo discorso per intendere
l’imperativo dell’ora. Ancora una volta essi sono di fronte a gravi responsabilità che
impongono sollecite e risolutive decisioni.
Essi non vorranno certamente ripetere gli errori passati, che questa volta
non troverebbero attenuanti.
Il Paese, attende da essi tutto quanto da essi è lecito pretendere: sincerità di
propositi, idee chiare, azione intellettuale a servizio degli interessi collettivi,
dedizione suprema al dovere.
Indubbiamente, restituito come le altre di Puglia alla sua missione civile,
anche la nostra provincia entrerà tra breve nel movimento ricostruttivo della
Nazione. Gli uomini di cultura son chiamati pertanto a costituire le nuove gerarchie
che i partiti esprimeranno liberamente.
Necessità, dunque, s’impone, di meditare sui casi d’Italia e al lume della
storia e delle dottrine, dare un ideale e un programma alla propria attività sociale.
Una volta si poteva scegliere un partito secondo le utilità personali da esso
offerte senza molto arrossire dell’opportunismo che sacrificava la coscienza, ed era
un suicidio morale ed un delitto di lesa Patria. Oggi questo delitto sarebbe anche di
lesa umanità, perché dal sangue dei popoli di Europa sorge una civiltà nuova alla
quale l’Italia deve dare un alto contributo.
59
La poesia di Marino Piazzola
LA DIMENSIONE LIRICO-EVOCATIVA
L’inizio poetico di Piazzolla risale al decennio francese 1928-38. Sono
questi gli anni in cui viene a contatto con la Parigi degli anni trenta derivandone
più di uno stimolo per la sua poesia. E la frequenza dei poeti francesi da Valery
a Breton è avvertibile nei due poemetti pubblicati per le edizioni Deux Artisans
nel 1939 a Parigi: Horizons perdus e Caravanes. In Horizons la lezione di Valery si
snoda in una sintassi lirica particolarmente evocativa, in immagini lievitate su
un accordo di suoni, di cadenze foniche e ritmiche eccessivamente ricercate. Ed
è questa lievitazione delle immagini, questo senso di leggerezza e vorremmo
dire di aereità che ci fa amare questo primo Piazzolla. E si legga per tutte la «
Pluie »:
La pluie une légère main
qui passe sur mes paupières
dans l’air gris où pleurent les feuilles
mouillées dans les rues plaintives
où les arbres semblent meurtris
devant les vitres voilées à peine
par l’automne blessé de mes joies
dove la musicalità del verso si libera in quel senso di scorrevolezza che
l’intreccio delle liquide rinnova continuamente (pluie, légère, paupières, l’air
gris, pleurent). Ma l’importanza di questo primo Piazzolla è la disposizione al
momento lirico-evocativo che sarà la costante di tutta la poesia in lingua
italiana. Disposizione alla réve come registrazione di momenti lirici e quindi
bisogno di scavare all’interno sensazioni nuove. Ma sempre questa scritttra
vaga, indefinita, questo valerismo di Piazzolla, non sa distaccarsi da un senso di
malinconia e di calma che sono momenti centrali di Horizons. E se qualche
verso come a chiusura di volume:
Et j’ai roulé dans l’abime
ci dà la sensazione di un Piazzolla maudit, esso è più una dolce tentazione
giovanile che una scelta. L’altr’aspetto di Horizons è la contrazione della parola
in un analogismo che allontana gli oggetti in un mondo
60
tra realtà e sogno. Piazzolla si abbandona al fascino di una fantasia evocatrice di
sensazioni e di eventi:
Ne parle plus aux fournis de perle
tes doigts sont déjà heureux dans l’herbe
on répète ta voix dans una cauge jaune
et l’air a peur d’oublier tes épaules
(Evocation)
In Caravanes si accentua questa tendenza all’abbandono, meno
voluttuoso di Horizons, certamente spinto ai limiti d’un’atmosfera d’intimità
paesana. Il più delle volte sono stati d’animo che riempiono queste pagine,
figure esili d’amore, confessioni tra stupore e smarrimento, in una Parigi che fa
sognare ad occhi aperti e strugge di malinconia il giovane poeta. Insomma
Caravanes è un diario lirico dove contano più d’ogni poetica gli affetti, i ricordi,
trascritti in una dizione sobria, senza sdilinquimenti romanticheggianti. Di più
conta poichè chiarisce i termini di una vocazione poetica lirico-intimistica. Del
periodo francese è il poemetto Pèrsite e Melasia apparso per la prima volta sul n.
14 della rivista « Ars et Idée » nell’aprile del 1938. Poi ripubblicato in italiano
nel 1940.
Un dialogo che nella sua struttura fondamentalmente mitico-lirica
richiama alla mente personaggi e motivi della mitologia classica. L’impostazione
ricalca il tema della primavera-estate-felicità a cui è contrapposto la fine della
vita autunno-tramonto-dolore rappresenta nei due contrappunti temporali
equinozio di primavera-solstizio-d’estate ed equinozio d’autunno-solstiziod’inverno. Qui Piazzolla insegue un’età aurea in cui i due personaggi agiscono
quasi istintivamente, non appesantiti da credi morali o da astratte convinzioni
religiose e magari filosofiche; la felicità e la gioia di Pèrsite e Melasia sono quasi
il frutto di una legge naturale. Vi è solo un leggero presentimento che di tanto
in tanto incrina il loro dialogo e cioè che il loro amore e la loro felicità
finiranno.
Una malinconia soffusa scorre in tutto il volume che appena il poeta
lascia trasparire. Pure la fine di questa felicità è inizio di una piú grande: « E’
tempo Melasia, ch’io ritrovi l’antica mia immagine e mi confonda al creato, solo
per sentirmi infinitamente libero e ritrovare me stesso come fai tu che ripensi i
destini terreni e non piangi se non per udire te stessa, non soffri se non per
sentirti più umana ». E anche se la scrittura è frenata da un lirismo volutamente
ingenuo ed effusivo, quello che più conta è l’abbandono ad una verve creativa,
ad una sospensione della realtà in un sogno che dura tutto il poemetto. E’
questa classicità, è questo pudore di Pèrsite e Melasia che li avvicina a tanti
personaggi delle ecloghe virgiliane. Ore bianche che si pubblica parallelamente a
Pèrsite e Malasia da un punto di vista strettamente stilistico non segna
un’evoluzione o una maturazione. Un’opera giovanile e sicuramente anteriore,
in cui si nota un fraseggio sensibilmente pascoliano: la primavera, con le sue
dita / di violette... I suoi piedini sull’erba (p. 7,
61
v. 1 - 2, 13); ciocche di stelle (p. 10, v. 12); le sue tendine di seta (p. 19, v. 2);
l’api segavan l’aria / colma d’ali d’oro (p. 21, v. 1-2); le scarpine di seta (p. 23, v.
3); il suo lettuccio di luce (p. 23, v. 1 l); per la ghiaia d’oro (p. 25, v. 16); da un
suo lettuccio, / bianco come nido di fata (p. 36, v. 6-7); ai suoi raggi di seta (p.
37, v. 13).
E finanche cadenze dannunziane come in questo intermezzo di Estiva:
Le viti gonfie d’uva d’oro,
con dita d’api, suonavan
arpi leggere;
vespro sorgeva timido,
dalle verdure assorte,
parlando con voce vellutata...
E in particolare la prima parte del volume l’Incauta non disdegna temi di un
labile crepuscolarismo (Le mani dei morti, Ora squallida, Favola, Pastello ecc.)
o un vago descrittivismo di maniera (Miracolo, Fuga, Primavera. Offerta,
Vendemmia). E anche se nella seconda parte Parvenze resiste un certo turgore
scolastico essa può considerarsi un volumetto a sé, sia per la costante tensione
morale, sia per per una più solida strutturazione dell’endecasillabo.
Il leopardismo piazzolliano mediato attraverso la presenza cardarelliana
vi si riconosce per quel continuo fluire del verso in pause interrogativemeditative sull’onda del l’endecasillabo e del settenario. E ancor più per la
costante reiterazione a risolvere il discorso in soluzioni moralistiche e in un
aut,obiografismo in cui l’io si confina ai limiti di una storia privata il cui
contrassegno è la negatività, l’emarginazione esistenziale:
Questo lento svanire della vita
in me sempre più si sprofonda;
e sembra ch’io affoghi omai...
(Globo)
E il richiamo quasi leopardiano all’assurdità e alla inutilità della vita
(fragile illusione) sempre si stempera fra ricordo e speranza. Disillusione che
non si attenua, anzi tende a rinchiudersi in un più cupo diarismo lirico proprio
nell’ultima parte del volume come ad esempio in Buio dove la dizione
prosastica si scioglie nella confessione dell’ultima quartina di acre sapore
cardarelliano:
Ma mi sento già inutile
e sconto la vita
che ho sempre agognata
stando fermo nel buio.
62
dove quel ma prosastico iniziale, costrutto frequente in quest’ultimo Piazzolla,
accentua quasi nel tempo la pena del vivere. Proietta la certezza temporale del
presente (mi sento) in un lontano passato; proprio perchè essa è continua, dentro la
vita. Segue un periodo di apparente stasi. In effetti Piazzolla è tutto teso a registrare
eventi che non possono non coinvolgerlo come testimonia il volume Gli anni del
silenzìo che raccoglie le poesie scritte nel decennio 1940-50 e pubblicato il 1972. E
già questo « Nido di upupe » ci offre una misura stilistica nuova:
Era tramonto steso sulle rame
dal tronco dell’ulivo,
giunse al mio orecchio sillaba confusa.
Due endecasillabi e un settenario che dimostrano la chiara qualità della
parola, il nesso rigoroso delle immagini, essenziali, di derivazione ermetica,
vorremmo dire, se la parola non ingenerasse equivoci. E gli esiti formali di questo
Piazzolla post-ermetico sono anche da vedere in quel lento giro della frase, in quel
recupero del tema elegiaco su cui tanto avevano insistito i nostri Gatto, Penna,
Quasimodo, ecc., qui sciolto in ampie cadenze colloquiali:
Ora che è inverno,
ho pulito la casa. I muri bianchi
t’aspettano, con ansia
intorno al lume. Tu puoi venire
vestito come sei.
(Lettera della madre vecchia al figlio lontano)
D’altra parte Piazzolla non sfugge alla tagliola degli eventi facendo registrare
una serie di componimenti scritti tra il 1943-44, che, come per molti impegnati e
non, sono una testimonianza contro la barbarie che si andava perpetrando contro
l’uomo. E il Nostro reagisce nella maniera più forte:
Pochi uomini,
poche belve,
danno alla memoria
cibo di sangue
e alla terra
ossa fredde come sassi.
(L’offerta)
e se qui Piazzolla non sfugge a questo prevalicare della rabbia sulla ragione, altrove
ci sembra di ascoltare qualche canto di Monterosso:
Cantano i vetri perché si è fatto
notte, all’improvviso,
63
sugli orologi a sole
nella via di ossa umane.
(Apparizione)
o qualche canto di Quasimodo dell’impegno:
Ora son prigioni le case,
ove le pietre celano
echi di bestemmie,
gridi rimasti nelle ossa
come tarli di fuoco.
(Metamorfosi, IX)
Ma l’importanza di questo volume è nel recupero di quelle zone liriche
tra levità idillico-epigrammatica e registri fantastici che preannunciano da una
parte Elegie doriche e dall’altra Lettere della sposa demente.
Si legga ad esempio Felice loto:
Colombe silenziose
spiccan voli dall’onde.
Ora amoroso il mare
canta al mio giovane cuore.
E sicuramente il componimento che è un anticipo felice delle Lettere è la liricapoemetto Nel mio sangue un nome. Qui Piazzolla piace per quella capacità di
fondere immagini sensuose, per quella capacità di trasportare il piano della
realtà su un piano di note fantastiche dove anche la memoria e il ricordo (che
sono le condizioni di partenza di questa poesia) si volatilizzano per cedere il
posto alla fantasia:
Mi chiami! E l’eco,
a notte, giunge stanca
al mio vago silenzio,
e ti ritrovo.
Qui già l’inverno gela:
ti penso fortemente!
Ma l’ora tarda
fa limpido il silenzio
di te pieno.
Sono questi nuclei lirici dove parola e immagine si fondono in un
equilibrio e in una compostezza strofica rara che fanno di Piazzolla uno dei
pochi continuatori della lirica d’amore greca. E non meno è da notare la
sospensione del personaggio che mai ingenera monotonia per quella capacità di
penetrarne fino in fondo ogni moto impercettibile. E tutte le sfumature di una
rinnovata psicologia petrarchesca non gli sono
64
estranee. Elegie doriche si pubblicano proprio quando piú vivace è la polemica tra
neorealisti e neormetici. Ogni dubbio sul recupero della parola essenziale è
fugato da questo « Bronzo etrusco » uno dei più alti componimenti della
raccolta:
Al tempo incolore
porgi il profilo antico;
ed è mestizia il gracile sorriso
sul bronzo dissepolto.
dove la figura della madre ci giunge come da lontano, inattesa, sospesa, tra
mestizia ed elegia, tra presente e passato, come la stessa struttura sintattica
suggerisce: ai presenti (porgi. è) fanno riscontro i passati remoti (rinnovasti,
fosti, avesti). Il tema della memoria resta uno dei iopoi della lirica piazzofliana a
cui ritornerà ininterrottamente. Si legga ancora « Nebbia su mia madre »:
Se tu sei vera sulla riva ignota
che divide il mio cuore dal tuo abisso,
non dirmelo quaggiù
finché ogni fibra mia ti cercherà.
Non dirmi se la morte
è solo un’assentarsi,
ma reggimi, soltanto,
col tuo apparire, fragile, ogni sera;
raccontami s’è buia
la tua valle nascosta dietro il tempo.
Ancora Piazzolla insiste sulla dialettica finito-infinito servendosi di agaettivi di
un vago sapore intemporale, quasi indefinito (“assente” del v. 12, “ignota” del
v. 28) che riportano la figura della madre in uno spazio tra realtà e sogno,
mentre il fragile del v. 35 quasi fisicamente ce la fa toccare. Così mentre ì
predicati svanisti del v. 4, si sfanno del v. 7, e apparire del v. 35 adombrano il
sentimento della sua morte proiettandolo nel sogno, come se fosse meno certa;
i sostantivi abisso del v. 29 e valle del v. 37 definiscono topograficamente, ce ne
fanno sentire tutta la certezza, distruggendo il sogno.
Altre volte come in Buio su mio padre è la figura del padre, riproposto da
Piazzolla con forza sbarbariana, l’oggetto di questa dialettica. Il tema elegiaco
che ritornerà in Esilio sull’Himataya, ne Le favole di Dio, in Adagio Quotidiano, in
Pietà della notte, in ogni caso non è un tempo d’evasione, come la memoria non è
un puro ricordare, ché sempre il dato temporale, ora ammorbidito dalla
paratassi discorsiva, ora diluito nelle cadenze della preghiera, gli si configura
come possibilità d’incontro e di tensione verso l’assoluto. Dall’altra parte Elegie
Doriche fanno registrare una condizione di momenti di intensa contemplazione
quasi sul filo di una epigrammatica neogreca che ricorda Alceo, Saffo,
Meleagro. Si leggano per esempio questi versi di « Stagione »:
65
All’ape il tempo
dolcissimo già cola.
o ancora:
Per l’aria di tenera pietra
mansueti passeri
ricordano gli autunni.
(Urna dorica)
dove la brevità del verso non è frammentismo; né la parola è tessuta di fronzoli
come dimostrano Novilunio, Sirio, Via Lattea. Condizione di estrema purezza a cui
Piazzolla ritorna ne Le favole di Dio (1954) dove i rimandi vanno senz’altro
all’Antologia Palatina.
Insomma Piazzolla di Elegie ha scavato dentro se stesso portandosi
all’interno di un’area poetica greco-mediterranea (l’antica Daunia) come recupero di
un tempo poetico che non è solo contemplazione o nitore della parola, come la
castità o la brevità dei componimenti potrebbe suggerire, ma soprattutto misura
spirituale ed umana.
Il ’52 Piazzolla pubblica le Lettere della sposa demente le quali ritorneranno in un
disegno molto più ampio e per la verità fin troppo ardito nel volume del ’60 Mia
figlia è innamorata. Piazzolla qui trasferisce la sua capacità di sentire la realtà per
immagini, per nuclei lirici, ad una vicenda di sogno-irrealtà dove quella capacità si
acutizza fino a farei respirare un’aria di demenza.
La vicenda si svolge, come si legge nel prologo, in un paese delle Fiandre, ma
ogni riferimento temporale è pressocché inutile poiché il poemetto non si appoggia
ad una trama narrativa entro cui si muovono i personaggi. Né vi sono causanti che
possono giustificare questo o quel sentimento, questa o quell’azione.
Il sogno della demente (il suo dramma, il suo amore, la sua vita) si svolge su
un piano metatemporale, in uno spazio-tempo che è la nostra coscienza. Il
personaggio non si confessa (per questo non è un canzoniere d’amore), ma vive il
suo amore su una sospensione di pause per un tempo quanto può durare un sogno.
Ed è proprio questo risucchiamento della realtà nell’irrealtà del sogno che fa delle
Lettere un poemetto sui generis e certamente un unicum nella poesia del Novecento.
Ma le Lettere proprio per questo fluire della realtà nel sogno rispondevano
perfettamente al temperamento poetico del Nostro, alla sua verve lirico-fantasticoirriflessiva. E rispondevano ancora al suo bisogno di sentire la realtà quasi
alogicamente, e immaginalmente come lui stesso dice nel suo diario E l’uomo non
sarà solo: « Per me scrivere è stato seguire un ordine alogico che scaturisce proprio
dalla sproporzione tra l’azione del pensiero che intensifica il mio tempo, e
l’inazione del mio corpo che resta bloccato nello spazio, in cui mi muovo appena
»1. In questo senso
1
M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, Milano, Ceschina, 1960, p. 10.
66
la sua poesia è quella che meno sopporta schemi mentali o filosofici in genere.
E quando egli continuando dice: « La poesia è per me alogica come la musica.
Essa procede per salti e per trapassi come il tempo che, velocemente,
s’aggruma nel pensiero »2, non tanto ci sembra di capire che egli voglia dire
irrazionale o arazionale, ma che essa non sopporta altro tempo se non quello
delle immagini velocissime che si sovrappongono fantasticamente. Poi il
Nostro a dieci anni di distanza rielabora Le Lettere operando tagli e apportando
modifiche, ma quello che più importa notare allargando la vicenda: dall’unico
tempo delle Lettere ai tre tempi di Mia figlia innamorata. Insomma
dall’indistinzione del personaggio si passa alla distinzione e alla triplicazione di
esso nelle tre figure: sposa-figlia, sposa-madre, sposo-padre. Invariato resta il
prologo.
Più ristretto il registro dei moti psicologici che s’intrecciano fino al
delirio del personaggio:
Mi sento nuova e il tempo mi travolge.
Mai m’abbandoni:
tu vibri col mio petto e resto muta,
piena del tuo silenzio.
In particolare è nel primo tempo che assistiamo al lento vibrare di una
passione-desiderio. Passione che mai sfocia nel dramma; è piuttosto un riandare
dell’anima, di un’anima delicata, che si ascolta sul filo di impercettibili
movimenti che si fondono col paesaggio.
Ma sempre questo poemetto è l’esplosione di uno stato d’animo in
continua decontrazione sia attraverso notazioni temporali: (la sera, la notte, il
giorno, l’aurora, ecc.)
Quando la sera mi raccoglie stanca
e la mia stanza trema,
l’ombra mi suona come un soffio lieve.
Tu mi tieni sospesa ed io ti chiamo. (p. 17)
sia attraverso connotazioni atmosferiche (il vento, la pioggia, l’acqua, l’aria, ecc.)
Oggi è con me la pioggia
e non so cosa dirti.
Come è vasto il freddo
sceso nelle mie stanze... (p. 20)
che riportano il sogno nella realtà. Ed è proprio in questo continuo proiettarsi
della realtà nel sogno e del sogno nella irrealtà della realtà la molla del
poemetto. Pure non mancano momenti di sosta e allora la parola
2
Idern, p. 10.
67
si prova a ripetere luoghi comuni della casistica d’amore che smorzano la passione.
E’ così breve ogni istante
che va da un cuore all’altro,
ch’io mi senta travolta...
è allora che vorrei forse morire. (p. 30)
Fondamentalmente Piazzolla non evita lo schema della ripetizione che
ingenera nel secondo tempo monotonia, essendo la madre un duplicato della figlia,
e anche perché non si capisce fino in fondo il ruolo della madre che nei confronti
della figlia resta una temibìle rivale:
Stasera sono lieta
perché l’autunno è in fuga.
Ho indossato la veste di mia figlia
e aspetto per te la nuova luna. (p. 67)
Nel terzo tempo è la figura dello sposo-padre che fa la sua comparsa. Anche
su di lui incombe lo stesso destino l’irrealtà del sogno. Ed è forse questa coscienza
dell’attesa vana a creare la tensione poetica del poemetto:
Lo so che tu non m’odi.
Così, di sera in sera,
solo ti sciupa il buio.
Ove tu non mi pensi
e pìú t’incurvi
nel tuo grido ormai secco nel petto. (p. 82)
Contribuisce alla riuscita di questa figura anche il taglio che resta più
scorciato. Insomma passando dalle Lettere della sposa demente a Mia figlia è innamorata
la vicenda si temporalizza, ora vi è una trama, che si complica mediante il vecchio
artificio di una mezza agnizione della figlia-sposa che è poi sposa-madre (figlia poi
donna) che finisce col pregiudicare il loro libero comportamento. Non a torto il
Frattini così concludeva: « Non diremmo che la più vasta e complessa
orchestrazione del tema originario abbia giovato... all’intensità e all’intima necessità
della parola poetica. E se le accorte riduzioni, rilevabili per il II tempo, sul testo
delle Lettere, testimoniano più rigorose esigenze formali, altrove si avverte il
concedersi a un gusto sottilmente compiaciuto della figurazione astratta, campita e
delibata sui puri arabeschi di un sogno, il cui lento dipanarsi, su una candida
geologia di sensibilità - al limite di una innaturale casualità e di una « follia di
comodo » - ingenera qua e là un senso di gratuità e di monotonia... » ‘. La ballata
Viaggio di nozze al
3
A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1969, p. 840.
68
paese di nessuno inclusa nel volume Ballata per mille ombre continua il tema delle
Lettere della sposa demente. Essa fu scritta il ’53 subito dopo la loro pubblicazione.
Qui l’amore, anche se il linguaggio si è disciolto .n cadenze iterative, ha perduto
la demenza del sogno e si è proiettato n un futuro prossimo (andremo,
incontreremo, vedremo, pasceremo, scriveremo, viaggeremo) che ha riassorbito
ogni singulto, ogni tensione. Vi resta la speranza-certezza:
Andremo a villeggiare a un’isola verde,
dove si fanno ceste con raggi di sole
………………….
e si può scrivere t’amo sulla luce.
I Poemetti pubblicati nel ’58 sono stati scritti tra il ’50-53. Questo spiega
il loro legame stretto con le Lettere. Diciamo subito che il poemetto d’apertura «
La sonnambula in esilio » (1950-’51) è senz’altro un anticipo della sposa demente.
Non solo l’amore è al centro del poemetto quanto la vicenda si svolge in
un’atmosfera di sogno, al limite della realtà. L’altra caratteristica che avvicina la
sonnambula alla demente è l’impossibilità dell’amore che ingenera nel
personaggio solitudine e un palese desiderio di amore verso la natura. Anche
qui la pena si estrinseca nel parteciparla ad altri esseri: la rosa, la tortora, le
farfale. il vento che sono gli interlocutori di questo monologo:
Ascoltami, tu, rosa venuta
fin dietro i vetri. Ascoltami e non dirmi
che son triste.
.........
…e quando dormo guarda
se ancora penso o sogno chi non torna. (p. 7)
Come pure la demenza (qui appena partecipata), l’essere in preda al sogno, il
dissolversi di ogni misura spazio-temporale, creano in tutto il poemetto quella
fabulosità che è propria della fiaba. Invece nel « Soliloquio di una fanciulla
antica » (1949-50) è il fiabesco il tono predominante. Il linguaggio ha tutti gli
ingredienti della fiaba (il tono del racconto, l’uso frequente del discorso diretto,
l’inizio del verso col quando temporale, ecc.). Addirittura il raccontare è la
misura di questo poemetto; un raccontare, a volte, eccessivamente innocente ed
ingenuo:
Nonna mi dice sempre:
Vedi la luna?
Vedi la sua faccia?
Guardala, guardala sempre.
Essa è una signorina
che non volle morire.
Mai volle morire veramente.
E allora se ne andò nel cielo
69
per essere felice e non morire.
lo so che non ancora
è morta; non è morta;
ma si è fatta più bianca. (p. 15)
Si noti anche l’uso insistente del verbo dire (mi dice, mi ha detto) proprio della
narrazione; e nel finale il racconto porta al sonno e al sogno. Questo poemetto
ci induce a pensare che sia stato scritto proprio per gli adulti-bambini e bene
starebbe in un’antologia di favole e racconti. Meglio risponde alla natura miticofavolosa della poesia piazzolliana. Il sogno è la ricreazione di un sovramondo,
vero e solido mondo, oltre l’effimero del sogno; perchè questi poemetti non
sfociando nella favolistica didattico-morale sono un chiaro ritorno del poeta
all’infanzia; rifugio alla sua solitudine:
Se la luna venisse
sul mio letto
a farmi compagnia,
io la vestirei
da sposa con il velo:
quello che la nonna
nascose in un tiretto
dicendomi, felice:
questo non è un velo;
questa è l’anima mia;
e chiuse a chiave. (p. 31)
Il verso qui è un puro pretesto che sottintende un più vasto disegno
autobiografico e una pena più vasta che l’apparente ingenuità della scrittura in
parte riesce a nascondere. Ora questa « ingenuità » è anche l’estraneità di un
mondo non suo; il fuggire sin da giovane il suo mondo meridionale: prima
Parigi, poi Roma.
Eppure questo dolore non si traduce in lamento verso la sua terra che
apparentemente mai riesce ad essere oggetto immediato di canto. Estraneità
che è sempre avvertita:
Io sono fermo in un celeste esilio
a guardia della luce.
(Quando l’angelo parla)
E pensiamo ad autori come Quasimodo, Gatto, Sinisgalli e ai più giovani
Scotellaro, Pierro, Marniti e al recupero tramite la memoria della loro terra,
avvertita in un mondo lontano dalla loro esistenza, ma gioia immensa. Gli
accenni di Piazzolla al Sud sono rarissimi, quasi evitati, e in genere sobrii; la
pena è quasi trattenuta:
Morire fra gli ulivi;
con le cicale in festa,
e l’afa meridionale sulle cime.
(da Le favole di Dio, p. 146)
70
Non ha che pietre
e vento il mio paese...
(da Il mattutino delle tenebre, p. 43)
Ma il recupero della terra avviene mediante il tema elegiaco incentrato sulla figura
paterna e per questa via la sua poesia si salda alla tradizione lirica meridionale. La
figura del padre, a parte la sua popolarità nella poesia del Novecento, e in specie in
quella meridionale (e pensiamo al volume di Spagnoletti A mio padre, d’estate), ritorna
sistematicamente in tutti i volumi del decennio 1950-60. Non solo come simbolo
affettivo, ma bisogno impellente di sentirsi attaccato alla propria terra tramite la sua
amara esistenza. In questo senso il filone elegiaco e il filone favolostico
s’incontrano. E i lineamenti lirici di questa figura ricordano la forza dei versi al
padre di Sbarbaro. Non insisteremo mai abbastanza sulla dialettica padre-infanziaterra-solitudine che è un altro punto di forza della poesia piazzolliana. E
ascoltiamone insieme qualche canto:
E tu, padre,
metti radice alle nuove ginestre.
L’aria d’aprile
non sa che sei venuto
alle sue contrade di fiori.
Ti sanno a memoria
tante frasche appassite;
e l’ombra che avesti
fa da guida alla luna per questa pianura vuota
che mi ha fatto straniero.
Verrà il tempo
in cui ti coglierò
come una calda viola al mio paese.
(da Esilio sull’Himalaia, VIII)
Il tono idillico è sempre smorzato dai continui riferimenti al paesaggio (le
ginestre del v. 2, le frasche del v. 7, la pianura del v. 10, la calda viola dell’ultimo
verso). E queste note di paesaggio non avrebbero alcun senso se non accentuassero
il senso di estrancità-separazione del poeta dalla propria terra che la figura del padre
mette in moto. Si capirà così il senso della nostra affermazione padre-terra-infanziasolitudine. Al di fuori di questa dialettica avremmo annotazioni generiche di
paesaggio e disarticolate invocazioni affettive. Un volume che in effetti sembra
staccato da tutti gli altri, ma che fa il punto su questo primo Piazzolla è Adagio
Quotidiano (1958). Per la verità Adagio Quo71
tidiano resta un diario, se vogliamo lirico, più che un libro di poesia. Un diario in
versi che esplicitamente preannuncia le prose di E l’uomo non sarà solo. L’infanzia, il
sentimento della morte, della solitudine, la figura della madre e del padre, sono
questi i temi che riempiono il volume. Temi che però mai si risolvono in poesia
proprio per quell’urgenza di autoanalisi, di autocritica da cui in fondo sono dettati.
Le clausole gnomiche testimoniano di questa eccessiva prosasticità, di questo
ritornante cardarellismo di Piazzolla. Si legga ad esempio Vivere non è umiliarsi:
Esistere è giacere nell’essere:
soffrire tutto per amore
finché andremo nel sole
Si noti l’attacco iniziale filosofico (esistere è giacere) che si continua in tutta
la lirica con rigidità sillogistica:
Se è vero che il mondo
è soltanto il sogno di Dio,
ogni giornata è luce meritata...
pure ragionativa è la struttura sintattica del componimento completamente
innervata sugli infiniti esistere è giacere; vivere è non umiliarsi; vivere è... intendersi.
La tendenza all’analisi, ereditata anche dalla familiarità con la filosofia, si estrinseca
nelle prose di E l’uomo non sarà solo (1960). Confessioni che si accavallano e che
ritornano con puntuale frequenza nei quarantacinque capitoli di cui si compone il
volume.
E la chiave d’interpretazione dell’intero volume va cercata in una frase posta
all’inizio dell’ultimo capitolo: « Ho scritto soltanto per conoscermi. Ho tentato la
sapienza: ecco il crollo »4. Questo senso di autoconoscenza e di penetrazione
all’interno del proprio io informa questi pensieri, anche se mai vi è in lui quel
solipsismo, quel pirandellismo, quella negatività propria delle filosofie e delle
poetiche del Novecento. Vi domina un senso di smarrimento, di amarezza, di
rimpianto che è insieme attaccamento alla vita e bisogno di viverla fino in fondo: «
La mia giovinezza è finita... Mi stringe l’amarezza degli anni e l’ostilità di un mondo
che si brucia. L’indifferenza è terribile. E’ finita anche la poesia e sono solo »5.
Ma fondamentalmente è il bisogno di sentirsi radicato in Dio, di non averlo
cercato invano che anima queste pagine. E ancora ce ne fa certi il finale dell’ultimo
capitolo: « La speranza è questo sentirsi assolutamente vivi nel pensiero costante
della morte. Gli uomini di domani scopriranno questa tenera dimensione del
tempo. Faranno un
4
5
ibidem, p. 155.
ibidem, p. 31.
72
coro, come lo fanno, da sempre, i morti di tutte le latitudini che ci vengono
dietro come tante foglie secche e non ce ne accorgiamo. Per questo. senza
sapere perché, ogni morto è vestito a festa. E sale dove siamo tutti fratelli; dove
Dio solo parla per tutti, col suo silenzio da sempre »6. La morte insomma è
l’ultimo atto per chi cerca Dio. Anzi il pensiero della morte come
ricongiungimento, come svelamento della presenza di Dio ritorna più volte
come in questo capitolo quindicesimo:
« Quando verrà la morte, spero di scoprirmi definitivamente... Pare che
la morte si avvicini proprio come un alito in cui la memoria può scoprire tutto
ciò che nasconde. Pensate di ritrovare tutta la vita in pochi istanti. E’ il
miracolo del tempo che soccombe davanti all’eternità di Dio, venuto a visitarci
in un momento così terribile da farci tacere per sempre »7.
Non mancano ricordi autobiografici, pensieri, disgressioni filosofiche,
come tutto il capitolo XXIII che si attarda sul problema della felicità e del male.
Ma sono queste pagine dettate dall’urgenza di giustificare le proprie azioni, di
dare un senso alla propria vita, e quindi indirettamente espressione della tensione religiosa del Piazzolla. Mai i ricordi (siano essi affettivi come la rievocazione
della figura materna e paterna; siano essi esperienze di vita vissuta) sfociano in
blande pose rievocative o le confessioni in uno stato morboso di autoeccitazione. Così mai del Dio di Piazzolla riusciamo completamente a farcene una idea.
Proprio per quel continuo sentirlo vicino e lontano. E questo andare tra cielo e
terra fa slittare la prosa in un lirismo, caratteristico del Piazzolla-poeta, che si
estrinseca in preghiera. E la preghiera è tutt’uno con l’uomo Piazzolla, in quanto essa non nasce da un’analisi esistenziale (e pensiamo a Papini): non è il volume un diario di un uomo finito o tantomeno provvisorio: né frutto di una
stasi mistico-contemplativa.
La sua spontaneità ci ricorda qualche preghiera a Cristo di Claude e
ascoltiamone qualcuna: « Non te ne andare, Signore; non smettere di sognarci
anche se tutta la terra è colma di fanciulli uccisi. Lasciaci pregare almeno senza
il tuo nome, se tu sai che siamo assassini: se ci pesa la carne e questo antico
sangue che ci brucia... Non lasciarci quaggiù se vanno più lontane le tue stelle,
da sempre. Dacci l’amore quotidiano e la ragione e il sole; fallo per i fanciulli e
le farfalle che scendono dal tuo riposo a dirci che la vita può essere un volo...
Colma il nostro abisso almeno con un tuo raggio e torna nelle parole a dar
senso alla vita. Da tempo il nulla ci chiama con tutto il buio e l’uomo non sa se
è vero più il tuo cielo o la sua fine. Parlaci una volta del tuo paese intatto. Che
domani l’aurora sia colma delle tue colombe, colma della tua luce e di silenzio
»8.
ibidem, p. 160.
ibidem, p. 48.
8 ibidem, 150-152.
6
7
73
La disposizione fantastica che aveva trovato piena attuazione nelle Lettere
ritorna con altra misura ne Gli occhi di Orfeo (1964). In apertura Piazzolla
chiarisce la sua poetica. Vi si legge:
La parola è sola. Fa luce.
Aggiunge suono al vuoto ed è raggio
d’un paese volato.
Pronta a chiamarsi assenza
o a farsi aureola
di qua dal Nulla.
Ha sangue d’oro. Vocali ad ala
fulmini accesi dall’Eternità.
Scatta l’usignolo d’una sillaba
e segno resta: null’altro.
La parola è tuono di favola,
cominciata e finita.
Chiama l’angelo.
Scorta l’uomo.
Addiziona i Soli sulla lavagna
e inventa il dio che non c’è.
(Poetica)
Ora che altro è questo manifesto se non l’esposizione della sua poetica?
O almeno la poetica de Gli occhi di Orfeo. Non si vuol dire che il Nostro è
un voyant o un orfico come ha affermato il Pento9. A noi sembra che non si
possa parlare di un orfismo piazzolliano della parola almeno nell’accezione
onofriana e campaniana e in genere di gran parte di un certo ermetismo.
L’orfismo consiste sì come vuole il Pozzi: « ... in questa sopraffazione del
canto sopra il significato, nell’irrazionalismo metasemantico che domina e
determina, con impeto oscuro, il contenuto di Onofri, di Campana, giù giù,
fino ad Alfonso Gatto, a Parronchi o a Sinisgalli »10, ma implica altresì dei
conati metafisici e delle entrature simboliste assenti nella parabola piazzolliana.
E quando il Piazzolla dice che La parola è sola. Fa luce. non ci sembra voglia
dire quasi simbolisticamente che essa è un mezzo di penetrazione del reale o
meglio del mistero, dell’inconnu, ma piuttosto che è sufficiente a ricreare tutto
un mondo di sogno, di favola, d’irrealtà. Infatti aggiunge suono al vuoto ... / Ha
sangue d’oro. Vocali ad ala... / è tuono di favola... / Addiziona i soli sulla lavagna / e
inventa il dio che non c’è. Ed è in questa ricreazione di un sovramondo, riscattato
solo dalle immagini, per cui diventa ba5 Cfr. B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », gennaio-aprile, 1965; si
veda anche N. SIGILLINO, in Persona, giugno 1965.
10 G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.
74
roccheggiante, il significato e il valore della parola.
Né vogliamo dire che Piazzolla qui fa prova della poetica delle parole in
libertà che si uniscono o si allontanano, si sommano e si sottraggono in preda ad
un’empiria immaginale. Né fa della poesia visiva o fonica allineandosi ai movimenti
avanguardistici di quegli anni. Per cui è questa poetica della parola in pieno accordo
con la parabola lirico-evocativa e lirico-favolistica del Piazzolla. Certo si deve
prendere atto di un neobarocchismo piazzolliano proprio come esplosione della
parola, prepotenza delle immagini, delle sensazioni, dei suoni, dei colori sui
contenuti. Infatti dalle Lettere, attraverso il passaggio obbligato dei Poemetti, a Gli
occhi di Orfeo, l’assottigliarsi del contenuto fino alla sua scomparsa è evidente:
Il fulmine giocava al cervo
tra i boschi di nuvole
obese di tuoni e crepacci
briosi d’acqua nuova.
Poi la pioggia, con aghi lucenti,
trafisse le foglie accartocciate
sui rami; e l’aria musicò,
tra il ridere del piano, le margherite. (p. 9)
E non mancano zone di puro capriccio, di vaga surrealità, dove
l’appariscente analogismo incuriosisce:
Butta sangue la nube.
E’ un agnello sgozzato
sui gigli dell’onda.
Fiorisce d’api il ponente:
scocca la luce sconfitta
fra mille campane.
Perde porpora il sole:
cardinale impiccato
a una forca di rame.
Squilla il fondo marino.
Appare la stella bianca
caduta giù dalla luna.
Talora come in Estate quasi sulla scia di Marino la natura si esalta in immagini
eccessivamente lucidate, sontuose, colorate:
Ecco l’estate
col dorso di cicale
e l’anima di calce.
Butta cetonie ed api
dai suoi rami di luce.
75
Si scioglie nei frutti
scivola nel miele:
è frasca sonora al vespro.
Asciuga l’ombra
ha il sapore del sangue.
E la rosa, la farfalla, il sole, il vento sono momenti di questa esaltazione,
che non evita il fastidio dell’amplificazione e finanche la monotonia dell’elenco:
Cinque vocali
cinque rondini che vanno a scuola.
Nelle vocali fanciulle
il volo delle vocali.
Sui fili d’erba
la voce delle rondini.
Aula bianca
nel bianco
volo delle vocali.
Prato verde
nel verde canto delle rondini.
Questo neobarocchismo di Piazzolla trova la sua misura più valida nella
sezione « Gli occhi di Orfeo »: immagini in fuga, suoni, colori, ritmi, legati tra loro
da un tessuto lirico fragilissimo al limite di un frammentismo impressionistico:
Sulle vetrate volano
agili uccelli
colorati di fresche ferite.
Queste felici impressioni che sono già un avvio verso il recupero
semantico della parola non sopportano altro peso se non quello di una lenta
sillabazione che crea un dolce piacere retorico. Ed è proprio nella levità di
immagini senza peso, scorporcizzate, la misura de Gli Occhi di Orfeo.
Le ultime due parti Dolore e morte e il poemetto Il mare sono un ritorno
alla parola pregnante di significato; a una dialettica di vita-morte che
sostanzialmente riabilita il contenuto. In particolare il rapporto dolore-morte
che presuppone quello di nascita-vita è visto alla luce di una natura umanízzata
che partecipa agli avvenimenti-accadimenti della vita umana.
76
Gli scrittori al Caffè Strega: (da sinistra a destra) Carlo Ternari,
Guglielmo Petroni, Marino Piazzola, Vincenzo Cardarelli,
Vitaliano Brancati e ErcolePatti.
77
VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO
La dimensione religiosa nella poesia piazzolliana non è un fatto
marginale e tanto meno di poco peso; in effetti l’intera sua produzione
sottintende (e come non lo potrebbe la poesia) una presenza costante: Dio. E
se la dimensione religiosa resta per così dire nascosta sotto un apparente
disimpegno idillico-elegiaco fino a Elegie doriche e alle Lettere della sposa demente
esplode in Esilio sull’Himalaya (1953). Ora Piazzolla non è un poeta
dichiaratamente religioso almeno nel senso confessionale del termine. La sua
poesia religiosa nasce da un’insoddisfazione umana, da uno stato di
irrequietudine-solitudine comune a tutta la sua poesia. Insomma Dio non si
pone come alternativa ad un mondo dominato dall’ingiustizia o dalla barbarie.
La sua preghiera nasce proprio dal bisogno di sentirlo vicino giorno per giorno:
« Mi dispero perché non potrò mai ricordarmi di Dio. Ci sfuggiamo da
sempre... Eppure batte col mio cuore e si colloca in me come una dimensione
su cui è vano ragionare. Mi è necessario come l’aria e come la luce del sole
dopo il sonno »11. In Esilio sull’Himalaya il dialogo con Dio accenna a farsi
serrato e perfino angoscioso. Infatti Dio è qui luce, come il mondo è tenebre:
T’immagino vestito
con il raggio che abbaglia (p. 11)
dove non sei che favola di luce (p. 17)
Pensarti è vestirsi di luce (p. 18)
Io torno alla tua luce (p. 22)
e ancora dantescamente Dio è guida, abisso, sapienza, pietà, rifugio.
Un dialogo sempre riferito ad una condizione umana precaria:
Io brucio
e tu m’inchiodi
a questa magra terra.
Così consumo i giorni
senza mai fissarti
mentre vai più lontano.
(XX)
Ma Piazzolla è riuscito a tenersi lontano sia dagli ardori di una
commozione troppo sdolcinata sia dal peso di una parola eccessivamente
indulgente all’enfasi del cuore; come pure ha saputo evitare il rigore metafisico
del verso di Comi:
11
M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, cit., p. 27.
78
Ch’io mi perda,
come sopra un nevaio,
per accostarmi a te,
o antica mia innocenza.
(XXXII)
Dove l’inizio del primo verso crea un alone di smarrimento e di dolce
perdimento nell’innocenza di Dio.
Con Le favole di Dio (1954) il dialogo subisce una brusca svolta. Il linguaggio
si offre a spunti filosofici su una linea di interrogazioni in cui il dialogo-preghiera di
Esilio si arrende all’ipotesi di un monologo-assenza.
Dio è relegato nella concavità di mondi favolosi, in plaghe, gli intermundia
lucreziani, dove ogni voce umana sembra perdersi nella immensità degli astri:
Eppure siamo soli e tu non odi
quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio.
...
Ma sei dove nessuno potrà giungere:
sei dove nessuno può pensarti.
(Dio è solo, v. 23-24; 59-60)
Qui il recupero di Dio avviene all’interno di un discorso che Lo nega in tutti
i suoi attributi, sentiti dal poeta troppo lontani. Piazzolla, così ci sembra, non ipotizza un mondo senza Dio quanto Lo nega nella sua infinità per recuperarLo come
possibilità realmente umana. E’ una sfida che non ha altro significato se non quello,
anche se non mancano sfumature ironiche, di accentuare la fragilità della condizione umana:
Il passo tuo guida fanciulli uccisi.
La tua parola
è per i sordi che sognano.
...
tu non sei mai
morto sulla croce
per la troppo innocenza
che ti preserva dai millenni.
. . .
Tu sei troppo eterno
per venire quaggiù
come un’eco sulle labbra.
(v. 80-82; 91-94; 107-109)
E ci viene in mente Piccolo uomo di creta di Cosma Siani12
12
Cfr. C. SIANI, Ciclo chiuso (trenta poesie), Poggibonsi (Siena), 1972.
79
dove gli stessi interrogativi si fanno eco di una condizione esistenziale
tormentata fino ai limiti della negazione. Ma dicevamo questo tormento è
assente in Piazzolla e il finale della lirica è da sillabarsi in lenta preghiera:
O signore,
...
lasciaci soli nella vita
lasciaci soli nella morte
che a nulla serve credere
. . .
accompagnaci soltanto per l’infinito
quando non saremo più.
(v. 132; 135-137; 142-143)
Il crollo del Tempo e Tempo di sangue registrano un acuirsi delle immagini
fino all’esplosione magmatici di ” Sabba ,, che è il canto del dolore umano. Gli
accenni apocalittici ad una realtà terrificante di distruzione e di morte sono
frequenti:
I fanciulli si uccidono in piena luce
con le armi che sognano.
E’ cessato il tempo delle rondini.
Le colombe si vedono sui quadri dipinti
e nelle feste sono sole
le girandole cinesi e le orchestre pazze.
...
Poeti murate la bocca
e fate bancarotta sulle onde
se il sole ha sete di oceani
e la fame non basta a punirci.
...
Dai pulpiti di ossame anonimo
predicano i profeti di pietra
e il loro giorno è grazia nera
sui nostri pensieri inabissati.
E non v’è chi non veda in questi versi un’allusione agli avvenimenti
contemporanei e un’ironia sprezzante fino al sarcasmo. li linguaggio si carica di
tinte epico-narrative sconosciute alla sua poesia. Meglio la contaminazione tra
cadenze epiche e litaniche fa slittare le immagini in una demenza linguistica e
sintattica, espressione di una visione di mondi quasi in ebollizione:
Verranno qui a piegarsi le foreste
in bufere di foglie immense
80
sui capelli dei vivi;
verranno a gemere in tuta nera
gli operai dai volti rotti,
appena sarà viva la notte
e suoneranno le luci altissime
dell’Orsa...
(Verrà il vento stanotte)
Il Mattutino delle tenebre (1966) resta uno dei punti più alti della tensione
lirico-religiosa di Piazzolla. Tutta l’acerbità, il tormento, i singulti de Le favole di
Dio si sono rasserenati nel ritmo composto e disteso della confessione.
Nell’Esilio sull’Himalaya la preghiera domina come punto di partenza e
d’arrivo dell’inquietudine piazzolliana, in quest’ultima Dio è al centro di un
canto più vasto, al centro di una natura redenta dal suo sacrificio.
Piazzolla in questo senso rifà la storia di tutti gli uomini in ascesa verso
Dio. La sua storia individuale qui conta ben poco. All’io si è sostituita la coralità
del noi:
Ti offriamo le mani crudeli.
Ti offriamo le vecchie parole
...
E ora basta di vederci assassini!
Te lo chiede il fiore
che si sente fratello
e il tronco che ti saluta
agli eventi la natura:
Ce lo dice il monte
che chiude a sera un mare di ginestre.
Ce lo dice il sole
che batte ai vetri, come un usignolo
di scintille, all’alba.
E la memoria di Dio è certezza del perire delle cose umane:
Quaggiù esatto è il solo perire
in una gelida penombra di stagioni.
Se tu non fossi che parola vuota
io avrei la morte certa.
Allora Il mattutino delle tenebre è il limite-confine dove l’uomo scopre Dio.
Questa felice condizione di dialogo s’interrompe nel volumetto Per archi
impazziti (1970). Se il paradigma di riferimento resta pur sempre Dio, in effetti
Piazzolla si abbandona ad una specie di
81
lussuria della parola che allarga le maglie del discorso in saliscendi di immagini che
non solo scompigliano per gli ardui riferimenti e vorremmo dire anche sintattici,
quanto per il disperdersi delle immagini in pure e rabescate creazioni ipofantastiche
come il titolo stesso vorrebbe suggerire. E ascoltiamo l’inizio di una lirica
presuntuosamente meditativa:
Ho visto l’anima. L’ho vista
come un’ala che abbaglia il buio.
Ho udito l’anima: ho udito
un’arpa e c’era il mio silenzio.
Suonava con verdi
scale
d’usignoli
gole d’aria d’ovunque.
. . .
Ho udito i galli
svegliarmi negli occhi
papaveri, lampeggianti
negli
anelli
dell’alba.
(In interiore homine)
L’intera lirica vorrebbe essere un fantastico viaggio dell’anima all’interno di
se stessa, condizione indispensabile per un Viaggio nel silenzio di Dio.
In effetti la prolissità delle immagini, il ritornante barocchismo, fanno
scadere il componimento in un gioco di preziosità e di geometrie finissime:
Vedo architetture
emergere da nebbia;
fiato rosa di mesti simulacri
guizzi d’alte nubi,
guide arcane
vive nei colori
. . .
Ascolto antiche note
echi di conchiglie
brusio di fossili
nel sasso
moti di candide geometrie.
In Gesù muore ogni giorno l’ordito intellettualistico è maggiormente evidente
per lo scadere del dialogo, né preghiera, né confessione, in una inventio che fa
lampe9giare le immagini:
82
Ardi come fiocco d’alba
e scendi alle spelonche, tu, invisibile.
La luna è vela sull’occhio.
L’angelo t’asciuga parole;
lo scheletro è radice
sotto il buio
e tutta la tua carne
schizza stille come gerani.
Il tuo volto è un incrocio
di rughe improvvise:
paesaggio di vecchio pianto
spremuto all’agonia.
In particolare il contrasto tra Dio-luce-creazione-potenza e Diouomosofferenza-dolore è niù nel cuore che nella parola, più presunto che vissuto.
Con Viaggio nel silenzio di Dio questo pericolo è corso sin dall’ inizio. Non
solo perché Piazzolla tenta il lungo poemetto, accettando una misura stilistica a
lui non molto congeniale; soprattutto perché ubbidisce ad una poetica, e non
solo poetica, ma ad una filosofia, ad una teologia, che impongono al poeta
difficili equilibri e suture non sempre riuscite tra zone filosofico-teologiche e
aperture liriche. Il viaggio segue la duplice linea dalla natura a Dio, da Dio alla
natura. Ma il fatto più importante è che Piazzolla trasferisce la possibilità di
questo disegno su un piano puramente metafantastico. E non è da escludere
l’influsso dei simbolisti da Rimbaud a Mallarmé e la tranche surreale di Breton
ed Eluard.
In effetti questi influssi restano marginali, interessano più la scrittura che
non il disegno piazzolliano. Lo squadernarsi della scrittura quasi magmatica è
l’effetto d’un’esplosione fantastica, d’una fantasia che ha fatto come sua misura
il proiettarsi dell’io in un al di là. In questo senso il poemetto è in intima
connessione, perché ne è il superamento, sia delle Lettere che de Gli Occhi di
Orfeo. Piazzolla si è liberato di ogni riferimento temporale. Ogni visione, anche
quelle che ci riportano apparentamente nell’al di qua, labili riflessi dell’io che si
ricorda del mondo (ne vede le meschinità, gli odi, le lotte, le catastrofi; ne
osserva gli spettacoli naturali, le meraviglie, le creature ecc.), si situano in spazi
di mondi, più o meno vicini a Dio. Mentre si stabilisce sin dall’ inizio del
poemetto un curioso rapporto di causa-effetto tra immagine-parola e veicolo
linguistico responsabile in parte della scrittura automatica. Insomma la « qualità
» del viaggio non giustifica, come vuole Aventi 13 « l’apparente alogicità di
alcune strofe ».
Ed anche l’impostazione filosofica inaridisce e coarta la vena lirica del
Piazzolla. Favorisce il dualismo linguistico del poemetto che sem13 Cfr. G. AVENTI,, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, Roma, Ippogrifo, 1973, p.
8.
83
pre si attorciglia tra il frammento alogico e pause filosofiche, tra scrittura
automatica e costrutto logico. Il primo tempo è il tripudio della natura come
complesso animale vegetale che fa le sue lodi a Dio. Non mancano abbandoni dove
la scrittura si redime in felice tocchi descrittivi:
E nel vespro
abbandonarsi al vento,
che nel grumo di un’onda
sbatte il mare, o ti conduce nell’oro dell’autunno,
quando il ramo
lamenta il distacco
di un fiore
il filo d’erba ti rapisce
l’occhio per condurlo altrove, forse in un verde limbo
di svanite mattine. (p. 15).
ma subito la tendenza al ragionamento si fa avanti:
Ogni immagine
è impeto di vita. Necessita d’ogni pensiero
e si completa in sé. S’infiamma o cede in un lampo... (p. 16).
e qua e là le clausole gnomiche non mancano:
Sacro è
ciò che allo stupore avvia
e si rivela quasi come ferita
in ogni gemma del creato. (p. 18).
o ancora:
Ogni vita
è un impeto che scoppia
e si colora in un punto. (p. 19).
Amore è questo
fermarsi nella bellezza,
in una luce
che lega l’occhio alle cose
e le chiama
per nome. (p. 21).
Altrove l’espressione si fa ardua e per il salto delle immagini diviene
oltremodo difficile seguire il poeta:
Occorre compiersi fra gli uomini:
non basta più evocare; il tempo
84
si fa coltello:
e nel midollo che ci regge suona
l’essenza,
che sale a farsi riso o dolore sul volto,
e impasta l’aria
e scoppia la parola, nostra presenza
tra le cose... (p. 25).
Da questo punto fino alla fine del primo tempo queste sacche filosofiche si
fano più frequenti e Dio compare e dispare: ora vento, ora silenzio, ora morte in
questa cosmogonia universale. Ma solo l’evento onirico ce lo può far penetrare. Si
assiste così al sogno del poeta vagante (prima gallo, poi rosa, lucciola, fanciullo) per
il mistero dell’universo, fra gli astri, per le profondità degli oceani, per le altezze dei
monti. Ci viene in mente il bateau ivre di Rimbaud, ma qui diviene tutto più
complicato per i continui rimandi ad un linguaggio che sconvolge la stessa logica:
Occorre
scomporre l’istante: Qui c’è
l’immagine; luce e fumo.
paesaggio e acqua in senso verticale, dove passa
il mattutino
e con l’occhio
il poeta
ascolta la tangara nel volo... (p. 3 1)
Mentre il finale è tutto per una visione babelica del mondo:
Già le città
hanno viscere per mostri; giardini
putrefatti per fantasmi. Ogni muro
si macchia di sangue bianco; e sembra calce di lazzaretto
lo spazio
verticale,
dove
abbaia la notte che verrà
da un sole nero, non si sa perché. Già si tace
per i mille rami: qui la terra
giace e non c’è buio
che basti per la sua voce. O terra, morta
fino a Dio
per sempre.
Il secondo tempo carica di morte il paesaggio. E l’avvento di una umanità
più giusta s’intreccia continuamente alla disumanità dell’uomo
85
contemporaneo. Per un momento sembra che Piazzolla interrompa il viaggio e gli
prema da vicino la condizione umana. Il poeta abbandona gli spazi siderali per
unirsi all’altro uomo, per lottare insieme e scacciare il « mostro »:
Ma col sangue perduto s’alza l’uomo
che si fa
poeta
e aiuta
chi scaccia il mostro
dalla terra, offre fuoco e luce
al volto, rivolto al cielo
per tacere... (p. 49)
In verità subito dopo il discorso si frantuma in rievocazioni di visioni
naturali, in nuove « illuminations » edeniche. Il terzo tempo ci riporta nel silenzio di
Dio. La contrapposizione tra regno di Dio e regno dell’uomo diventa totale. Ad un
mondo metatemporale dove la natura partecipa della gloria di Dio Piazzolla
contrappone il mondo terreno:
Caotico
è questo mondo, che si fa scatto
dove la forma erompe e la parola
si fa storia per l’uomo. E così vibra il pianto, abisso
dì spazio
contratto,
dove il segno
si fa colore di cosa ferma,
o forza in movimento nel viso d’un’immagine,
che vergine può insorgere e far diversa
la terra in moto, fra gli alti
soli nota. (p. 56)
Vi domina in questo terzo tempo la cupezza di un mondo in preda al caos.
Le visioni apocalittiche si seguono senza lasciare alcun spazio alla speranza;
ritorna quell’insistente monologo inframmezzato di immagini asfissianti di morte, il
periodare si fa ellittico, o si carica d’indeterminazione per accrescere maggiormente
la tensione:
... Si va
nel senso che strazia e decompone il volto. Si è dentro
l’ombra...
…Si è soli in quel freddo che piomba
al risveglio dal sonno. (p. 57)
86
Il pessimismo raggiunge punte altissime e Dio è sempre più distante da
noi. E voler trovare uno spiraglio di luce è vano. Il linguaggio va ad attingere in
un’area linguistica ibrida; connotazioni anatomiche, diluite in un verso ametrico
che ribolle, si uniscono alle pause di una prosa distesa e quasi rievocativa:
la pelle ora si sfascia, l’occhio e la vena
dimentica,
nel tempo
la pupilla
vuota. Col sangue
si patisce; il teschio calvo, il dente sopravvissuto
nella bocca, dove l"alcool distilla un’ebrezza
che frana. E si sghignazza per tedio,
pieni di sogni uccisi e di speranze sconfitte.
Si pensa
agli amici scomparsi e si chiama con un silenzio nuovo
il tempo che ci ha bruciati; e come un’ombra
la donna degli anni verdi s’avanza
quasi nel fumo coll’appassire della fronte. (p. 59)
Altrove ci sembra di assistere ad un sogno da una passerella lunare e di
vedere attorno a noi i pianeti che ruotano, le galassie, le comete. E in fondo a
questa visione, di là dei mondi percepiti dall’uomo, comparirà Dio. E il finale è
tutto biblico:
Tacerà
la terra; il vento
nelle ossa scenderà
dall’Orsa esatta sulla fronte; e infine
sarà
il tempo
a tacere,
fra i lumi piú soli
d’ogni essere solo sul pianeta. Verrà l’impeto che squarcia
il vortice, sanguinerà la crosta cozzando
contro un sole nero, che si nasconde
dalla eternità. Si vedrà Dio, di là d’ogni silenzio,
Occhio
solo nell’occhio ed infinito. (p. 66).
Certo è che la Resurrezione di Dio quale ci è trasmessa dai Vangeli è
tenuta presente in tutti i suoi particolari (Il silenzio, il vento che scuote le
membra dell’uomo, il tempo che si oscura fino a fermarsi. Poi il fulmine in
mezzo a tanta oscurità, anticipo di un evento più grande: Dio). Piazzolla non
dice vedremo, ma si vedrà. Indeterminazione che accresce la sua potenza e ce lo fa
sentire ancora lontano.
87
Lo scivolamento di quest’ultimo Piazzolla verso posizioni arbitrarie
trova conferma nel volumetto di appunti e pastelli. In un pianeta che ignoro (1974).
In effetti uno stretto rapporto vi è con Viaggio nel silenzio di Dio. Non solo
rapporto temporale, ma soprattutto ideativo e creativo.
Ferrara nel saggio-prefazione al volume parla di: « ... ideogrammi
dell’altrove, ierografie cromosomiche affidate ad impulsi in lotta con la massa
confusa e, visivamente, articolati nella tensione frenante del tracciato e del
collocamento sulla pagina bianca assunta pertanto a significato hylico »14.
Non diversamente si era espresso Aventi 15 nel presentare Viaggio nel
silenzio di Dio parlando di immagini che si dispongono in una prospettiva a
quattro dimensioni e richiamando in causa le teorie pittoriche del Klee e di
Kandinsky. Questa rarefazione del contenuto fino alla proiezione di esso in
immagini che si associano secondo schemi aspaziali e atemporali segue
graficamente il dissolversi della scrittura in Viaggio. Così un ideogramma
rappresenta la « rosa di un volto, in bilico sul raggio attento al mutamento di
una gemma astrale » e un altro « Torri su torri nel ghiaccio d’una stella ai limiti
del cielo » o un « Astronave in un porto veglia sugli anni luce » ecc. Insomma
siamo al limite del regno dell’onirico al di là del quale le forze naturali si
sprigionano in arabeschi di giochi-luce. Ora tutto questo nasce proprio per il
rompersi di quell’unità fantastica che aveva originato le Lettere o Gli occhi di Orfeo.
Rottura che qui è delirio del segno, altrove è delirio della parola. Piazzolla anche
se non tenta, animato da soli intenti polemici, la bagarre avanguardistica, poiché
sempre quel mondo nasce da un’inquietudine dello spirito, vi si porta molto
vicino.
LA BALLATA
La formula Piazzolla poeta della ballata non vuole discriminare il Piazzolla
lirico-elegiaco-evocativo dal Piazzolla lirico-narrativo ché un legame stretto c’è
tra i due. In entrambi vi corre quella favolosità, quell’estro eccentrico e
delirante. Né è da pensare che egli rimetta a nuovo le canzoni a ballo della
nostra letteratura popolare o continui la tradizione della ballata romantica. Si
vuole, invece, insistere sulla libertà dirompente, quasi anarchica, di questa
poesia. E la ballata nasce al limite di una contaminatio tra lirico e narrativo.
Meglio come lui stesso ha sottolineato nell’avvertenza al volume Ouando gli
angeli ascoltano come bisogno di sostituire la soggettività del poeta al personaggio
poetico.
Quasi per sfuggire ad ogni forma di autobiografismo e di psico14 F. FERRARA, pref. a In un pianeta che ignoro, Roma, E.R.S.I., 1974, p. g. Il Cfr.
G. AVENTI, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, cit. p. 8.
88
logismo che in effetti avrebbero limitato di molto la sua enèrgeia. Il primo
volume di ballate Quando gli angeli ascoltano pubblicato nel 1969 risale agli anni
1945-46. Queste prime ballate rispondono all’esigenza di creare il personaggio:
« ... un personaggio non narrato, non descritto, non dotato di qualità più
o meno talentosamente escogitate, o anche acutamente analizzate dal prosatore
o dal poeta, ma che è egli stesso la sua dimensione poetica, nell’amore, nella
malinconia, nella speranza, nella morte » 16.
Così la ballata « Un negro in Paradiso » rappresenta il mito della libertà, «
Lamento di Carmela madre » il mito dell’amore filiale, « Il pilota scomparso » il
mito della temerarietà, « Il sole » il mito di Ulisse, ecc.
In tutte la dimensione discorsiva sostenuta qua e là da slanci lirici ci
sembra la caratteristica costante. In particolare in « Quando un angelo ascolta »
certe arie e alcuni recitativi ci portano nel clima delle Lettere:
Una notte venne il mare nel petto.
Sentii battere alla finestra.
Fuori c’era solo l’aria
e nel mio cuore un altro cuore.
Mentre sin d’ora Piazzolla non sa resistere a certi sfoghi che creano vere
zone di stasi come nelle ultime ballate: « Ballata tragica per Ciampolini », « Luigi
Ciro Martini suicida », « Canto funebre in morte di Giuseppe Di Vittorio ». Qui
la creazione del personaggio diventa un’operazione a posteriori, meglio si attua
la poetica del personaggio. I fatti presi a raccontare sono assunti nella loro
immobilità. E’ la notorietà dei personaggi o lo scalpore della loro morte a
impressionarci di volta in volta. La ricostruzione si attarda su particolari della
loro vita che ci incuriosiscono lasciandoci indifferenti. Non tanto assistiamo
allo sliricamento o allo sliricizzarsi della sua poesia quanto a un certo
compiacimento, a un neo-crepuscolarismo ritornante. Compiacimento che è
massimo nel « Canto funebre in memoria di G. Di Vittorio » dove la morte non
viene assunta simbolicamente a significare il senso della caducità della vita
umana o cristianamente il ricongiungimento dell’uomo a Dio. Il poeta si attarda
a cantare le sue lodi ricreando il personaggio in un’aria di estrema morbidezza:
Ti ricorderanno le sirene al mattino
quando gli occhi degli operai
lacrimano pieni di freddo dolore
e le mani sono soltanto mani abbandonate.
Ti ricorderà il bracciante
che vede crollare il suo scheletro
____________
16
G, AVENTI, pref. a Gli anni del silenzio, Roma, Cardini, 1972, p. 18.
89
e abbraccia il tronco che non è suo.
Ti ricorderà il vecchio in esilio
nei suoi ultimi giorni
e la madre che ai figli offre soltanto
il pane sognato ogni notte.
perfino troppo enfatica, sostenuta dalla martellante anafora triadica:
Chi ti chiamava era muto.
Chi ti pensava non era più solo.
Chi ti portò tra i fiori.
Con Il naese d’Iride (1962) l’eccentricità di questa poesia risulta chiaramente.
Oui il frammentismo in sospensione de Gli occhi di Orfeo si articola nella struttura
ampia della ballata. Piazzolla inizia la penetrazione in un regno non meno favoloso
di quello della natura o di Dio: il colore.
Il contenuto tradizionale a cui in effetti era legato (si pensi ad Elegie
Doriche, Poemetti, Adagio quotidiano) s’invola per cedere il posto ad una inventio
che non è solo un invenire, ma è uno scomporre l’anima degli oggetti con la fantasia.
Non esistono più davanti a lui gli oggetti, le cose, ma i colori e i loro rapporti con il
mondo esterno:
Nell’orchidea si spoglia
una bimba cinese
e coi fiato
spinge l’ombra del seno
a posarsi sui vetri.
Coi rosso sul dito
puoi svestire la nube
fare un orto
sul dorso dell’agnello
appeso al cielo.
o ancora:
(Farandola per Niko Nardulli)
Lo zampillo dell’iride
cola sul martin pescatore.
. . .
Prendile il rosa
e il viola
che fa da vena al cielo
poi schiaccia la colomba
celeste contro il bianco
curvo dell’orizzonte
. . .
90
Per impastare il sole
e allungarlo
nel velo di cenere
metteresti un pavone
a far vento a una vetrata
che mette in fuga
i colori a picco.
…
Se vuoi comporre il caos
o sciogliere la luce
in uno specchio
spremi due rose
pungiti con la spina
e lascia il sangue
colare sui crateri scotti.
(Gavotta per Edoardo Giordano)
Siamo al limite di una poesia che, proprio per questa sua fuga del contenuto,
poggia esclusivamente sul proiettarsi in avanti della fantasia, non senza il rischio di
assottigliarsi in una docile prosa in versi. Insomma il rischio di una poesia riflessa è
corso sino a prevalicare ogni misura ritmica. Il pericolo è nella fantasia stessa che
compone e scompone la realtà a suo piacimento. E se pensiamo a Gli Occhi di Orfeo,
al Viaggio nel silenzio di Dio l’ipotesi avanzata dal Sigillino17 di « una scapigliatura
novecentesca » non è poi azzardata. Anche perché in tutto questo è evidente
l’atteggiamento polemico di Piazzolla nei confronti di una certa tradizione aurea
della nostra poesia. Una scapigliatura non sempre spinta fino in fondo se in questo
paese d’iride Piazzolla accetta la polemica sul terreno degli altri anche
scomponendosi:
Si uccide perché soltanto
la vita degli altri non vale.
Terra di trippe accomodate
piena di cavalieri mascherati
borsaioli di luce
figli di fauni traditori
e di ninfe cornute.
(Minuetto per Antonio Delfini)
o come in « Rondò per Michele Parrella » dove la tradizione, il recupero del
paesaggio diventa lamento per il Sud:
A Matera si suona il cupo cupo
per le feste nere-
17Cfr.
N, SIGILINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 19-62.
91
preludio
agli amori di giovani
che hanno camicie bucate
e tasche piene di bestemmie .
Il volume Ballata per mille ombre (1965) raccoglie le ballate scrítte tra il 1951 e
il 1959. Certamente il libro in cui Piazzolla è disposto a sorridere, a concedersi una
pausa, a guardare il mondo con una superiorità, con un distacco quasi ariostesco. Vi
riversa il suo humour leggero, divertito:
lo sono un dittatore senza scettro
e propongo la luce alle stelle.
Giuocheremo allo sposa con la luna,
faremo il sole compare di nozze.
Inviteremo i santi a fare un coro
e ognuno di noi avrà un angelo a braccetto.
(Dittatura bianca)
Uno strano mondo, perfino assurdo, dove tutti sono assassini. Il re non
meno del prete, il politico e l’uomo della strada, il poeta e il giudice, sono presi alla
berlina. Su di essi, protagonisti indiscussi di queste ballate, Piazzolla riversa il suo
sorriso e in contemporanea la sua satira amara. Proprio come bene ha
nuntualizzato il Marotta nella prefazione qui « favola e beffa si amalgamano ».
Un mondo dove la ragione, il filo della logica sono capovolti non in
funzione di un vuoto irrazionalismo, ma perché il sogno diventi realtà, la realtà
sogno. E siamo ad un’altra antinomia di queste ballate realtà-sogno. E ci viene in
mente il nostro Carrieri e il Prevert di Storie e altre storie. Ma la novità di queste
ballate è il ritmo arioso che ora chiama in causa la rima, l’assonanza, la consonanza.
I cardinali se ne andranno tristi
a deporre la porpora sui lampioni
e li vedremo scavare le fosse
per sepellirsi con rassegnazione.
Faremo entrare lucciole e milioni
nelle stanze dai muri gentili;
vestiremo a festa finanche le ortiche
e i rospi impareranno le orazioni.
(idern)
Ma è in « Ritocchiamo la vita » che il Nostro mostra la sua natura di poetasognatore, di poeta delle favole (non sono forse delle favole Le lettere della sposa
demente o i Poemetti?). Il suo stato di anarchico sognatore è l’infanzia, il ritorno alla
natura. In « Luna park » l’ironia si riacutizza: il mondo è diventato una luna park
sulla stregua delle
92
filastrocche di Gianni Rodari e a farne le spese sono ancora ministri e re,
cardinali e angeli, re e papi:
In un trenino che non fa rumore
viaggiono le bambole cocotte;
è qui un monsignore scamiciato
che fa discorsi ai grilli mutilati.
Chi vuol farsi eleggere ministro
basti che rubi un piccolo orologio
al controllore che è sempre distratto
e giuoca all’aquilone con la nube.
Scesi dai loro piedistalli, certamente più buffi, senza corone, senza
mitrie, diventano piccini piccini come tanti bambini. E’ questa fusione di ironia
e favolosità, di sogno e di realtà, che fa di Ballate per mille ombre il libro meno
lirico di Piazzolla, ma il più umano perché nasce da una condizione umana che
ha risolto il rapporto io-altri nel monologo dell’io per il quale la realtà è
estraneità, rottura:
Si liquida, si liquida, Signori.
lo sono un venditore di passaggio
vendo collane di schiuma al mare
e medaglioni con goccie di luna.
...
Vendo poi al dettaglio l’ombra mia
che conosce a memoria le strade del mondo
e fa da lampione nei vicoli oscuri.
(Bazar in liquidazione)
La ballata si appesantisce in Per archi impazziti relegata al ruolo di un
repertorio d’immagini che creano all’interno del verso il gonfiore e perfino una
nuova arcadia:
Chi trotta sull’erba
è il cavallino d’un re
onda riccia agnello
insegue la striscia blu segna
le tue vene
pietà bagna gli occhi
d’acqua celeste
bagna la strada che inventi
ed ecco il cielo
per la capra
in esilio
il lume per lo sposo
che vola e s’intreccia a una bocca...
(Balletto per Mare Chagall)
93
Altrove come in « Arabeschi e vetrate per Corrado Cagli », « Fantasia
per Sebastiano Carta », « Notturno ner Giovanni Stradone » lo scivolare verso
posizioni anarchiche e scapigliate è fin troppo manifesto. Anche in Per archi
impazziti è possibile registrare un Piazzolla impegnato, portavoce di un
umanitarismo evangelico che, a volte, prescinde da ogni condizione ideologica e
politica, a volte, è dettato da una concitazione politica che si risolve nella
protesta.
Il movente ideologico ritorna con maggiore veemenza in « Lettere a
Evtuscenko » dove l’amore per la condizione umana offesa, la primavera di
Praga, ha accenti di dura condanna. Non mancano versi di rabbia della ragione:
A Praga hanno strozzato l’aria.
A Praga è riapparso il mostro
che se stesso covava.
A Praga se non si uccide
è presente la morte con il suo mitra.
A nessuno sfuggirà la truculenza di questi versi, il cursus delle cadenze
strozzate, quasi a mezza gola; la concitazione anaforica sconosciuta a Piazzolla.
A nessuno sfuggirà che qui Piazzolla non cerca di capire la storia o di
penetrarne i moventi o i fini occulti; a lui interessa l’umanità vittorinianamente
offesa. Umanità che in « Proclama d’assedio » si vanifica in un pessimismo
vagamente irrazionale. E’ il momento niù acuto dell’impegno civile che lo porta
ad un rifiuto totale e a smarrire il senso della storia:
Dai loro Bunker dove il sole ha freddo i funzionari dell’odio
dànno ordini esatti:
occorre uccidere, uccidere,
uccidere anche la morte.
...
Che s’impicchi l’uomo giusto: è un mostro
sia soffocato nel sonno l’innocente.
Sia fatta bere fiele o cicuta al saggio.
Sia falciata, per sempre, la luna.
...
Da oggi, fino al giudizio Universale,
gli uomini devono temere
finanche se stessi,
Devono restare morti nella vita.
Devono restare vivi nella morte.
Al Piazzolla ironico sono da collegare I fiori c’insegnano a sorridere (1973)
o come dice il sottotitolo « favole per adulti » scritte
94
pure tra il 1952 e il 1956. Cioè parallelamente alle Lettere e ai Poemetti.
E al linguaggio favoloso, ingenuo, come certe pitture naïf, dei Poemetti, qui
si sostituisce un linguaggio malizioso, ironico. Protagonisti indiscussi sono i fiori
dalla rosa al garofano, dal mughetto al giglio, dal tulipano alla margherita,
all’ortensia ecc., resi indimenticabili nei colori di Omiccioli. Ma più che una
tipizzazione di virtù (per la verità ben poche) e di vizi come si può pensare
scorrendo i titoli: il tulipano iettatore, il papavero lenone, la vanitosa ortensia, il
rosolaccio povero e rassegnato, la casta camelia, il gladiolo pettegolo, queste favole
sono la rappresentazione di un mondo in cui domina incontrastata la legge
dell’amore. Quasi che la vanità e la castità, la rassegnazione e la miseria, siano delle
sottovirtù o dei sotto-vizi che meglio fanno risaltare un mondo in cui prevale il
sesso come legge naturale. Il « peccato floreale » è certamente tanto comune e tanto
diffuso in questo decamerone floreale che assistiamo a veri e propri vizi sessuali:
così la febbre d’amore fa venire i « petaligiri »; e l’eccesso d’amore può causare la «
stelite » che è un vero e proprio esaurimento da indebolire lo stelo e renderlo
pieghevole e indurre il fiore alla morte. E non mancano gelosie e tradimenti.
Ora a parte l’intento moralistico e satirico, queste favole sono da leggere
come espressione di quella vaga favolosità del Piazzolla che si esprime nella
dimensione stilistica del raccontare. Come queste pagine de Il Giacinto favoloso: «
C’era una volta un Arcobaleno. Da tempo, non sapeva più resistere al desiderio di
adagiarsi sulla terra e di riposarsi finalmente della celeste fatica. Lo stare fisso e
curvo sull’orizzonte aveva in lui generato stanchezza.
Si era alquanto annoiato di apparire e svanire a cicli prestabiliti, dopo le
piogge, come un emblema di festa, messo in Cielo a salutare il Sole, intento lassù a
cucire le stille di pioggia ai suoi raggi »18. Sono pagine in cui Piazzolla diventa poeta
per bambini, dove il confine tra mondo della favola e mondo reale è annullato. E ci
ritorna in mente nel leggere « La rosa addolorata » il prologo della sposa demente: «
Quello che vi racconterò accadde molti anni fa. In un giardino delle Fiandre, viveva
una donna che parlava da sola e, sovente, veniva in mezzo a noi a confessarci le sue
pene... Fu dunque una notte di maggio che noi tutti, presi da una invincibile
commozione, decidemmo di fare una sorpresa a quella che mia nonna, chiromante
e un po’ maga, definì una Sposa demente. Ci consultammo noi Rose appena
bbocciate... Ci consultammo con i Gigli e le Margherite... Le Viole e i Crisantemi
fecero una certa opposizione, dicendo che non si poteva danzare il Minuetto senza
chiaro di luna. I Mughetti e le Mimose approvarono con energia la nostra idea e
dissero che avrebbero invitato tutte le lucciole del quartiere per supplire la luce
della luna » `. Men18 M. PIAZZOLLA, I fiori c’insegnano a sorridere, Verona, Chelfi, 1973, p. 199.
19 Ibidem, p. 157-58.
95
tre non mancano qua e là spunti polemici (L’anemone ermetico) o la violenta satira
contro l’organizzazione burocratica del nostro Stato (Il tulipano travet), tirata a tal
punto da ingenerare il sorriso. E comicità e satira, ironia e follia, spregiudicatezza e
realtà, avventura e sogno, si fondono anche nei due volumetti I detti immemorabili di
R.M. Ratti (1966). Espressione compiuta della solitudine del poeta che si
autoinventa in un nuovo personaggio. Ma i detti importano per quell’ennesima
prova che Piazzolla ci dà della sua inventiva poetica: dalla elegia alla ballata, dal
poemetto all’epigrammi, dalla favola alla satira. Essi in ogni caso non vogliono
essere la summa della saggezza umana, e come tali non vanno confusi con le
massime eterne, niente dì più provvisorio il lettore vi avvertirà leggendo questi detti
e provvisorio nel senso di umano, contingente, reale:
A volte, nella vita,
mi ricordo di Dio
come di una lucciola
sospesa nel buio.
(La lucciola, vol. I)
Come pure non vogliono essere scherzi umoristici ché vi circola tanta
malinconia. L’autobiografia di R.M. Ratti, quindi, è un consuntivo sincero della
nostra vita, senza troppe pretese. Ratti è l’alter-ego che sonnecchia in ognuno di
noi ora assillato dal pensiero della morte ora da contingenze economiche ora dal
bisogno di sentirsi in armonia col mondo. E’ questa disponibilità che avvicina il
Ratti a ognuno di noi; è questa provvisorietà della vita umana che sprigiona da
queste nugae a rendercele care. Cimatti20 giustamente ha parlato di « un’allegria che
ha le sue trincee in una camera d’affitto ».
APPUNTI DI STILE E DI LINGUA
Nell’ambito del nostro discorso sulla poesia di Piazzolla abbiamo accennato
a notazioni di stile volta per volta. Qui ne faremo seguire altre per fermare alcuni
caratteri dello stile piazzolliano. Primamente è da notare come la poesia piazzolliana
è da collegare alla linea Leopardi-Ungaretti, anche se le ultime sue opere ne sono un
superamento.
Ora quando si dice che la poesia contemporanea e in specie quella postermetica sono da riportare nell’area leopardiana21 più che in quella simbolista22, non
tanto si vuol mettere fuori causa la lezione dei
Cfr. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960.
Cfr. M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, Milano, Mursia, 1974; in particolare
il capitolo I, p. 9-21.
22 Cfr. A. VALLONE, Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, NistriLischi, 1960; si
veda il capitolo Caratteri linguistici della poesia d’oggi.
20
21
96
Marino Piazzolla con Giuseppe Marotta.
97
poeti « maudits », quanto si vuole insistere sull’attualità della poesia leopardiana, che
ha contato tanto da influenzare non solo la fascia lirico-elegiaca o monodico-lirica
della nostra poesia, ma anche quella polemico-ironica.
Ma ritornando a Piazzolla dobbiamo notare come più di qualche cadenza
leopardiana è in Ore bianche. In « Naufragio » l’inizio « Non somiglia al tuo passo /
morte, il mio errare » è già una contaminazione dei v. 17-18 del Passero solitario «
Oimè, quanto somiglia / al tuo costume il mio! ». E l’endecasillabo « Pur, tu,
necessaria sei al vivere / terreno » (p. 47, v. 23) richiama i versi 61-63 del Canto
notturno « Pur tu,... tu forse intendi, / questo viver terreno ».
Frequente anche in questo componimento l’uso dell’infinito leopardiano:
Chi, fino a te, sale,
ben s’accorge del patire umano,
...
dell’errare vano
...
Anche tu, morte, mi sei cara
nelle sere lente...
quando sospiro nella grigia stanza
e penso al mio finire,
al tuo venire incontro...
(v. 36-37, 40, 46-50)
Così il settenario « ornare ella si appresta » (Il sabato del villaggio, v. 6) in Purità
si è trasformato in « a ornar s’appressa l’avvenire » (p. 52, v. 16); e i tre settenari «
Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei » di Canto notturno (v.
57-59) diventano in Piazzolla « Forse tale è il destino / ma tu ad altre mete aneli »
(Solitudine, v. 57-58). E tipicamente leopardiane sono le aperture di versi con ove e
forse, nonché stilemi come acerbo nascer, di spenti, arcana soglia.
E prestiti leopardiani non mancano in Elegie doriche (antica, vasta, remota,
immensità, immota soglia ecc.). Mentre lemmi come naufragio, abisso, urlo, inabissata
rimandano ad Ungaretti. Come pure la rapidità dei nessi, la dizione evocativa,
l’essenzialità della parola. Piazzolla in Elegie insisterà particolarmente sulla memoria.
Essa nasce proprio da una situazione di assenza (quasi sempre oggetto di questa
memoria è la madre, che non è) e come dice Petrucciani: « Solo quando quelle
figure e l’uomo con le sue passioni sono morti, e dunque assenti, insorge la
memoria: nel momento cioè in cui, distaccandosi dal flusso biologico, rischiano di
polverizzarsi e sparire negli interminati spazi della dimenticanza: di perdersi quindi
per sempre »23. Così Piazzolla in « Naufragio » dirà:
23
M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, cit., p. 71.
98
Non distruggete, tempo,
quel volto che ogni notte
accende la memoria...
Funzione, quindi, di recupero contro l’abisso, il naufragio della vita.
E il riferimento a Preghiera viene spontaneo. Solo se si tiene conto che in
Ungaretti il termine della tensione è il Signore, in Piazzolla la madre. In ogni caso
per entrambi la memoria è approdo, recupero d’innocenza.
E il Nostro vi ritornerà in Ecco celeste l’Orsa dove il sentimento dell’innocenza
nascerà da uno stato idillico-contemplativo, che sottintende Dio. E Ungaretti24 in
Inno alla morte dirà « Mi darai il cuore immobile / d’un iddio, sarò innocente » (p.
117, v. 21-22). Piazzolla con più arditezza dirà « lo son di nuovo innocente », p. 14,
v. 9. E ancora l’emistichio ungarettiano « o statua dell’abisso umano » (Statua, p.
139, v. 2) si è trasformato in « il favoloso abisso della vita » (Pietà, p. 4, v. 10); e il
grido esistenziale ungarettiano « Tutto ho perduto dell’infanzia / e non potrò mai
più / smemorarmi in un grido » (Tutto ho perduto, p. 201, v. 1-3) si contrarrà
nell’endecasillabo « D’ogni speranza mi rimane un grido » (D’Ogni speranza, p. 22, v.
1).
Quindi memoria-assenza ma anche memoria-evocazione: « ... che - come ha
bene puntualizzato Vallone - va al di là del significato acquisito con Dante e
Petrarca come puro ricordo perché assume tutto un vago senso di smemorata
evocazione... »25. E ad un tempo di atmosfera assorta di vaga intemporalità
d’immobilità, di fissità è legato il linguaggio delle Lettere della sposa demente. Infatti il
dramma della demente è proprio in questo consumarsi-inconsumato del suo amore
tra temporalità e intemporalità, come se il tempo che pure accenna a farsi (il tempo
mi travolge), non fosse mai stato (il tempo è fermo). Sospensione che nell’aggettivo
si traduce sempre in una connotazione interna: resto muta (p. 11), m’allungo lieve
come l’aria (p. 15), mi trovo sola (p. 15), mi sento smemorata (p. 16), ascolto,
insonne (p. 22), mi ritrovo sospesa (p. 31). Questi riferimenti sono ancora una
prova dei classicismo piazzolliano. La tendenza ad una maggiore discorsività e
colloquialità del linguaggio, si accentua in Esilio sull’Himalaya. In particolar modo le
strutture linguistiche si avvalgono di una maggiore articolazione sintattica fondata
sul come modale e sul quando temporale. o sul che relativo:
Forse tu sei illusione:
...
quando, a sera,
24 Cfr. G. UNGARETTI, Innocence et mémoire, in Vita d’un uomo, saggi e interventi,
Milano, Mondador,i, 1974; per le poesie i riferimenti vanno all’edizione mondadoriana Vita
d’un uomo - Tutte le poesie, Milano, 72, VI.
25 A. VALLONE, Aspetti della poesia it. contemporanea, cit., p. 214.
99
è pozzo la mia noia.
...
quando la voce
è piena del tuo nome,
...
... quando l’alba
batte al mio sangue...
(III)
...
Pietà che mi chiudi neri giorni
e che onoro sognando.
Al tempo che mi avanza
tu fai l’eco
e tutto il mio dolore
non ti cancella ove cresco.
Segui il mio passo
come una foglia
che mai vedrò verde
sul ramo che sono.
Ti ascolto quando
è pietra il mio corpo
e il tuo volto che ignoro...
(XV)
Mentre la frantumazione della frase in immagini, fino alla riduzione delle
immagini in suoni, fa registrare Gli occhi di Orfeo. I rapporti tra predicato e aggettivo,
sostantivo e aggettivo, non sono più rapporti di analogia e di somiglianza, bensì di
simpatia fonologica e coloristica. E la predominanza dell’astratto sul concreto, del
metatemporale sul temporale, è anche motivata da una riduzione sensibile (fino alla
loro scomparsa) dei nessi logici. Così ad esempio:
Nel tuono d’una campana
fiorisce l’udito e in fondo
al ricciuto orecchio l’eco
è volo d’onde accese
dal bronzo nell’aria
che si dilata fra stuoli
di passeri impauriti. (p. 36)
Ora quel tuono d’inizio di verso non è né suono, né fenomeno atmosferico;
né il predicato (fiorisce) del verso successivo è con esso in alcun rapporto logico (o
analogico) e tantomeno col suo soggetto (l’udito).
Ma sia udito che tuono, in particolare per la carica esplosiva delle dentali, si
accordano bene con fondo, ricciuto, onde, dilata, da creare quei suoni stridenti e
martellanti di qualche cosa che rompe e irrom100
pe nell’aria. Il processo di sliricamento già in atto in Adagio quotidiano si
completa con Ballata per mille ombre. E non solo per lo slittare del verso nella
frase, soprattutto per l’intromissione di patterns espressivi del parlato: mazzo di
carte, re, dittatore, ufficio, pistola ad acqua, ministro, pugnale, gabbia, prete, cuscino e di
intere locuzioni: a tre soldi il metro, si farà rosso come un peperone, ti mettono di guardia,
ti fa l’eco, ecc.
Queste poche considerazioni linguistiche e stilistiche che altri potrà
sviluppare, con riferimento ad altre opere di Piazzolla, testimoniano da una
parte dell’appartenenza di questa poesia alla linea classica del nostro
Novecento, dall’altra della complessità e della dinamicità del linguaggio
piazzolliano teso a creare, a rinnovarsi continuamente.
PER UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA DELLA CRITICA
Prima di tracciare un rapido registro della poesia piazzolliana nella critica
è bene accennare al posto che occupa nella giovane poesia del dopoguerra.
E accettando il metodo generazionale del Macrì26 colle correzioni
apportate da Falqui27 iscriveremo Piazzolla fra i giovani della terza generazione
accanto a Corsaro, Laurano, Ghiselli, Tognelli, ecc. Ora pur coincidendo la sua
scrittura con le polemiche tra ermetismo e realismo, o meglio tra neoermetismo
e neorealismo, essa resta al di qua e al di là di tali posizioni.
Lontana com’è sia dall’accensioni populistiche degli uni, sia: « ... dalle
suggestioni del vieto epigonismo dell’arcadia, come bene ha osservato il Frattini
» 28, degli altri. Insomma per Piazzolla non si trattava di scegliere nell’intricato
panoroma della poesia del dopoguerra tra poesia pura e impura, tra poesia lirica
o narrativa, tra poesia monodica o corale, ma di partire da se stesso, fermo
restando che la poesia è sempre pura e impura, corale e lirica, impegnata e
disimpegnata. Né certamente la sua è una posizione di comodo, o di rifiuto, e
tantomeno di attesa nei confronti di una certa realtà29. Forse non sarebbe una
soluzione, certamente non la più giusta, se vedessimo nella
26 Cfr. O. MACRÌ, Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968; in particolare si vedano i
capitoli I, II rispettivamente p. 465 e 473.
27 Cfr. E. FALQUI, La giovane poesia, Roma, Colombo, 1957, p. 17 e segg.
28 A FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955.
29 Cfr. A. MARCOVECCHIO, « Presente », inverno 52-53; infatti per il Marcovecchio
tra le due correnti, post-ermetica e neorealistica, si registrano: « ... voci solitarie che non
fanno corpo con la corale poesia ermetica o mistica o umanitaristica o sociale che
intorno a loro si intona »: ma che, « sia pure ai margini della vita letteraria estrinseca e
mondana, partecipa per manifesti segni al dramma della poetica e della poesia
novecentesca ».
101
sua poesia il superamento delle istanze neoermetiche e neorealistiche. In ogni
caso resta la sua poesia, accanto a tanti nomi del nostro Novecento, si pensi a
Saba e fra i più giovani a Carrieri, una poesia che non si lascia irreggimentare in
nessuna corrente, anche per un tantino di irregolarità, di sovversività che è
propria del carattere del Novecento, e per quel modo naïf di guardare la realtà.
Ma ormai da oltre un ventennio la critica più attenta e più qualificata ha scritto
sulla sua poesia. Non sono mancati veleni di certa critica ufficializzata, a volte
volontariamente diffidente, a volte palesamente distratta e assente. Ma se è con
gli anni ’50 che Piazzolla ha cominciato a far parlare di sé, già la sua poesia era
conosciuta negli ambienti letterari francesi. E fu proprio Gide nel lontano 1938
in una lettera ad esprimersi in questi termini: - La poesia di questo giovane
poeta italiano, leggendo il mito di « Pérsite e Melasia » mi è sembrata inventata
ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci sentivano i loro
bellissimi canti -. Insomma Gide poneva nell’inventività e quindi nel momento
lirico-evocativo la costante più vera della sua poesia. Inventività che è capacità
d’incantarsi, di adererire ad una visione fresca e ingenua, quasi mitico-poetica,
della realtà. E l’accostamento ai lirici greci era puntuale se pensiamo ad Elegie
doriche. E quando nel ’51 il volumetto uscì la critica fu concorde nel sottolineare
quest’aria di ingenuità e di candore di Elegie doriche. E uno dei primi a parlarne
fu Frattini in Idea, (novembre, 1951).
L’intervento di Frattini oltre a risottolineare « certi temi e inflessioni e
raccordi della lirica antica greca » presenti nella sua poesia l’agganciava alla
nostra tradizione più illustre a partire dal Leopardi fino alle esperienze più
sicure del Novecento, lievitate e assorbite in tutta naturalezza.
Per di più Frattini parlava di Elegie doriche come poesia oscillante tra idillio
ed elegia, a conferma di quanto precedentemente osservato.
Ma da più parti non si finiva mai d’insistere sulla chiarezza, sul pudore, sullo
stupore delle immagini. In un altro intervento il Claudi in Alfabeto (Roma, 15-30
settembre 1951) parlava di nitore elementare e di ritorno alla chiarezza del
pensiero ontologico greco. Alle stesse conclusioni giungeva E. Miscia (Voce
Repubblicana, ottobre 1951). Non meno provocazioni portò negli ambienti
letterari l’edizione delle Lettere della sposa demente che si pubblicò in
un’edizioncina quasi alla macchia. Il testo, di mano in mano, incuriosì anche un
poeta e critico quale F. Fortini che in Comunità (Milano, dicembre ’52, n. 16)
così si esprimeva: - Un incontro curioso è quello con le « Lettere della sposa
demente » ... un patetico rosario di fedeltà, vagamente rilkiano, con alcuni
frammenti notevoli e un fraseggio sensibile -. A suo modo Fortini calcando
l’accento su incontro curioso sottolineava la novità delle Lettere, non tanto dal
punto di vista strettamente poetico, quanto per l’invenzione del personaggio.
Ma fu Ciarletta nella prefazione al volume a indicarne puntualmente ogni
aspetto. Ciarletta dopo aver rintracciato nell’Ofelia di Shakeaspeare la sorella
maggiore della de102
mente insiste sulla psicologia tutta femminile della protagonista. Egli parla di «
capriccio » come espressione esaustiva dell’amore femminile. Capriccio che poi
genera quella tensione continua tra speranza-attesa, sogno-realtà. Entro questi poli
oscilla il dramma della demente. Invece Virdia (La Voce Repubblicana, 5 agosto ’52)
proponeva il termine « delirio » e considerava le Lettere un poemetto
lirico-evocativo. Sostanzialmente Vicari recensendo il volume su La Settimana Incom
dell’ottobre dello stesso anno vi si allineava. Era Vernieri che dalle pagine di L’Italia
che scrive (novembre ’52) accusava Piazzolla di avere scelto a metà: - Ma l’Autore ha
avuto paura del racconto, dei procedimenti narrativi (e fin qua non gli si può dar
torto); ma soprattutto non ha avuto la lena di affrontare in pieno la situazione
felicemente creata; e di darci nelle linee più profonde e psicologiche il dramma della
demente... -. Anche il Mele (Corriere del Giorno, 7 dicembre ’52) e poi il Ramperti
(Roma, 12 maggio ’53) si ripetevano in formule ormai acquisite come frenesia, tragico
lucore senza modificare il discorso.
A Esilio sull’Himalaya subito dedicava la sua benevola lettura E. F. Accrocca
su La Fiera Letteraria del 15 novembre ’53. Accrocca come il Battistini (Il Giornale
d’Italia, 7 ottobre dello stesso anno) parlava di Esilio come poesia di affetti, cose
familiari, cose vere, cose reali. Un mondo insomma ancorato ad una visione di valori
primitivi ed essenziali. Ed entrambi i recensori sottolineavano come il canto di
Esilio nasceva da un’accettazione sommessa quasi pascoliana del mistero di fronte
alle cose. Sull’aspetto più propriamente religioso insisteva prima Etna (Il Giornale del
Mezzogiorno, 17 maggio ’54), poi vi ritornerà dopo molti anni Villaroel nella
prefazione a Il mattutino delle tenebre. Etna parlava di misticismo panteistico che lo
avvicina a Tagore e agli scrittori religiosi indiani del Trecento. Anche per Villaroel il
Dio di Piazzolla resta nei suoi attributi il Dio di Dante: luce ed amore.
Su Le favole di Dio ritornava Frattini (Idea, 8 maggio ’55) sottolineando in
apertura il limite immanente di una poesia per vocazione lirico-fantastica.
A dire del Frattini alla complessità della tematica e alla varietà delle soluzioni
espressive fa riscontro: « una fantasia logorata da un gioco di invenzioni che
sfiorano l’alea del meccanismo, dell’artificio ». Quasi che la poesia piazzolliana non
sopporti il peso di una maggiore o più solida partecipazione del contenuto. E sul
lirismo di Piazzolla come sua misura, la più naturale e la più congeniale, si parlò con
insistenza e da più parti con il volume edito da Cino del Duca Mia figlia è innamorata.
Gli interventi e le recensioni che seguirono a breve distanza concordavano
con quanto già osservato a proposito delle Lettere. Da Marletta (Il Paese, 30 agosto
1960) che parlava di intenso lirismo a Cimatti (La Fiera Letteraria, 14 agosto 1960) che
insisteva sulla fiaba-sogno creata da Piazzolla. Qualche riserva avanzò ancora il
Frattini (Humani103
tas, novembre ’60). L’ampliamento del tema-originario (il testo delle Lettere),
secondo il Frattini, ha provocato uno scadere dell’intensità ingenerando qua e là
compiacimento e monotonia.
Per ultimo è da notare il recente saggio di R. Méjean (La France Latine, 4e.
Trimestre ’74 n.s., n. 60) che una volta sottolineata importanza del personaggio
della demente nella poesia del Novecento, faceva scaturire questa poesia dalla tendenze, di Piazzolla: « ... à capter, par tous les sens, les potentialités oniriques de ce
que l’on appelle « le réel » - qui n’est, bien entendu, que la forme un peu plus stable
du songe -, l’obsession d’une métaphysique de chair et de sang, une fecondité que
l’on pouvait, sans exagération, qualifier d’exceptionnelle, et un pouvoir expressif
d’un tel impact qu’il semblait provenir d’une initiation orphique effectuée dans une
autre vie ».
Importante nella bibliografia critica su Piazzolla è la prefazione di Aventi al
volume Gli occhi di Orfeo che segna un altro aspetto del mondo poetico piazzolliano.
Per Aventi Gli occhi di Orfeo non sono l’espressione di un neo-barocchismo o di un
marinismo ritornante, bensì la risoluzione-invenzione dell’universo in immagini. Un
universo post-relatività. Infatti Aventi usa la parola cosmogenesi come giustifica di
quel continuo riandare e muoversi delle immagini in fuga, in combutta, in espansione e
in compenetrazione, proprio come tanti protoni e neutroni che ruotano attorno ad un
nucleo. Scartata anche da Bevilacqua (Il Messaggero di Roma, 14 settembre ’64)
l’ipotesi di un neobarocchismo piazzolliano. E sintetizzando così si esprimeva: « Se
in ” E segno resta ” , infatti il colorismo sfiora la rarefazione, senza mai cessare,
tuttavia, la sua funzione passionale e sentimentale, in ” Metamorfosi ” il poeta si
scopre meno istintivo, più controllato nella correlazione tra immagine e pensiero:
una prudenza stilistica ancor più avvertibile nella terza sezione, che dà il titolo al
volume e dove la fusione tra istinto e contemplazione si fa pressoché perfetta ».
Il Pento (Annali della Pubblico Istruzione, gennaio-aprile ’65) invece parlava di «
poetica » della parola da cui scaturiva l’orfismo piazzolliano: « E’ la parola che crea,
in forza di una immanente potenzialità lirica-allusiva, evocativa, fonicamente
prestigiosa e simbolica - una polivalente e orfica realtà (una surrealtà, quindi),
condizionata a un’ ardua misura metafisica ». Addirittura il Pento collegava tale
poetica al filone più attivo del nostro ermetismo.
Sull’orfismo piazzolliano ritornava qualche mese dopo (Persona, giugno ’65) il
Sigillino.
Su Il paese d’Iride ancora è da registrare un intervento di Sigillino (La Fiera
Letteraria, 14 ottobre 1962) per il quale il volume è espressione di una « scapigliatura
novecentesca ». Scapigliatura come reagente contro l’accademismo di certa cultura.
Questo però non vuol dire che si possa parlare di « estetica visiva » o di «
avanguardismo » o di « spettacolarità » fumettistica, nascendo quella reazione da un
bisogno di « interiore solitudine » e da una profonda umanità.
Importante anche la prefazione di Aventi al volume Viaggio nel
104
silenzio di Dio. Anche perché Aventi fa il punto sul periodo francese e sugli influssi
dell’avanguardia simbolista nella sua opera. Egli vi ravvisa quattro costanti che
s’intrecciono continuamente: la costante lirica, la costante filosofica, la costante
teologica, la costante panteistica, le quali si fondono nella categoria dell’Immaginario:
« Comunque, Immaginario è qualcosa, o Qualcuno, da cui scaturiscono le strutture
nuove, le morfologie nuove della vita ... e della Parola ». Suggestiva, invece, l’idea di
Aventi di voler giustificare la scrittura automatica del poemetto perché essa coglie
la profonda essenza del creato dove si entra solo « per salti qualitativi, o trapassi e
non mai attraverso una analisi logico-esplicativa ».
INTERVISTA CON L’AUTORE
D. In che senso ha contato per te l’amicizia con la bohème parigina degli anni trenta: da
Valery a Breton, da Gide ad Aragon?
R. Posso dire che da Valery ho imparato la magia dell’impasto lirico e l’idea
architettonica del poema, nelle sue strutture interne e in certe cadenze sostenute dal
pensiero.
Breton me lo sentivo lontano come poeta, ma ero interessato alla sua poetica
e a quell’amore per la libertà della creazione artistica.
Di Gide ammiravo la impeccabile stesura dello stile e quello spirito di
finezza che mi ha fatto capire l’anima della Francia culturale.
Più che Aragon, per un certo periodo m’interessarono Eluard e Reverdy, i
poeti che io sentivo congeniali sia alla mia poetica che alla mia poesia.
D. Qualcuno ha scritto che hai ereditato da Cardarelli « il culto per la chiarezza ». Ora
la tua ricerca poetica, a parte qualche ricordo cardarelliano come in Ore bianche, si è sviluppata
proprio in senso anticardarelliano. Come mai?
R. « Il culto per la chiarezza » ha ben altre origini e non l’ho sempre praticato
nel senso cardarelliano. Benché fra me e il poeta di Tarquinia ci sia stato un
sodalizio durato circa dieci anni, posso dire che nella mia opera non vi è traccia di
rondismo. « Ore bianche » non c’entrano, perché furono scritte a Parigi. C’è inoltre
da dire che se la mia poesia non è di proposito anticardarelliana ciò è dovuto al
fatto che essa ha le sue radici nella lirica francese da Baudelaire ad Apollinaire.
D. La pubblicazione delle « Lettere della sposa demente » è stata salutata da più parti
come l’invenzione del « personaggio poetico » nella poesia italiana del Novecento.
Cosa ha voluto dire per te la sostituzione del personaggio poetico all’io poetico?
R. Le « Lettere della sposa demente » sono le fasi di una psicologia
femminile evidentemente diversa dalla mia. Qui è una donna che racconta la sua
vicenda interiore ed autonoma. Il personaggio lirico, perciò, si diversifica da me,
poeta. Ed è qui il valore oggettivo
105
d’una poesia ch’io non avrei mai potuto esprimere direttamente, ricorrendo
all’io poetico.
E’ chiaro che, come Flaubert, anch’io potrei dire: la sposa demente sono
io. E qui il discorso ci porterebbe lontano. Comunque, il personaggio
femminile inventato nelle lettere procede per conto suo e, se mai, potrebbe
avere radici, come dice Cimatti, in donne da me conosciute ed amate nel senso
più alto e più profondo della parola.
D. Ti consideri un poeta religioso?
R. Le mie poesie, anzi in quasi tutte le mie raccolte, il rapporto uomo
Dio o è presente o è alluso con quel pathos che il sentimento autentico della
religiosità comporta.
Per me, tutta la vera poesia è mitica e religiosa. L’arte attinge dal Sacro e
spinge il poeta verso la trascendenza. E’ una mia antica convinzione.
D. A quale opera tieni di più?
R. Le opere nelle quali mi sono maggiormente impegnato e alle quali
tengo di più sono: « Le lettere della Sposa Demente », « I detti immemorabili di
R. Maria Ratti » (altro personaggio poetico) e « Viaggio nel Silenzio di Dio ».
D. E’ difficile immaginare un poeta meridionale del dopoguerra (pensiamo a
Scotellaro, Sinisgalli, Bodini, Carrieri) che non si ritrovi nel suo paesaggio e nella sua terra.
Eppure tu hai evitato sistematicamente ogni accenno alla condizione meridionale. Perché?
R. Se non mi sono occupato esplicitamente della condizione meridionale,
nella mia poesia si sente, e questo è dimostrabile sempre, il tono, il calore, la
struggente forza lirica che è segretamente implicita nel dramma del
mezzogiorno.
C’è poi un’altra ragione. Io ho vissuto pochissimo nelle Puglie e ciò forse
ha finito col determinare la mia lontananza spirituale dalla « realtà esterna » del
meridione.
D. Tu, sei stato e resti un poeta « solitario » lontano dalle conventicole letterarie e
dalle beghe di scuola. Ritieni che tutto questo sia stato nocivo alla tua poesia?
R. E’ vero che sono stato e sono tuttora un poeta appartato.
Comunque, ciò non mi ha impedito di avere molti amici poeti e letterati.
Mi manca forse il senso pratico dell’affare editoriale. C’è intorno a me come
una tacita congiura del silenzio, pur ricevendo, quotidianamente, attestati di
stima da parte di personalità illustri del mondo letterario. Mi hanno dato molti
premi, ma non ho ancora il mio editore.
Tutto questo è veramente misterioso; e, in più, per me tanto, ma tanto
nocivo. Le conventicole letterarie non mi tentano, come trovo vane le beghe di
scuola. Amo semplicemente la poesia e stimo non pochi poeti autentici, molti
dei quali sono già scomparsi dalla scena letteraria.
106
D. Ci è parso di vedere nelle ultime opere e in particolare nel volume « Viaggio nel
Silenzio di Dio » uno scivolamento verso certa avanguardia. Che ne pensi?
R. Nel « Viaggio nel Silenzio di Dio » non c’è affatto « uno scivolamento
verso certa avanguardia ». Devi sapere che sin dagli anni trenta io elaborai una
poetica che è andata sempre più evolvendosi e sviluppandosi.
Quel che in poesia scrivono oggi gli sperimentalisti o i poeti dell’avanguardia,
io l’ho scritto circa quarant’anni fa, al tempo del Dadaismo, del Surrealismo e della
scrittura automatica. « Il viaggio » è perciò esattamente il punto di arrivo di un
processo poetico che si è maturato nel tempo e dall’interno. Esso comunque
richiede una conoscenza profonda e particolareggiata della lirica europea. Non è
facile capire tutti i piani della mia poesia. Ti dico questo perché desidero che tu
sappia che critici come Bo, Macrì, Villaroel, Salveti e tanti altri, hanno sempre
confessato di sentirsi disorientati dalla mia poesia. Gli unici ai quali devo giudizi
molto vicini al mio mondo poetico sono stati Giuseppe Aventi, (Villaroel con
ritardo) René Méjean; qualche volta Alberto Frattini, Pietro Cimatti e soprattutto
Corrado Govoni, che avrebbe voluto includere la mia lirica « Il Mattutino delle
Tenebre » al posto di onore della sua antologia « Il fiore della poesia italiana ».
D. Un’ultima domanda: hai in preparazione una nuova raccolta?
R. Oltre alla imminente pubblicazione della terza edizione delle « Lettere
della sposa demente » ho in preparazione un’antologia delle Opere edite e
un’antologia delle raccolte inedite. Si tratta, per questi due ultimi lavori, di
un’operazione difficile e massacrante dal punto di vista editoriale.
Roma, gennaio 1975
107
NOTIZIE BIOGRAFICHE
1910
1913
1928
1930
1931
1933
1934
1935
1936
1938
1939
1940
Nasce a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 16 aprile 1910 Marino
Pasquale Piazzolla.
Muore il padre e con la madre va a vivere in casa del nonno materno
dove resterà fino all’età di diciotto anni.
Frequenta le classi elementari in paese, passando gran parte della
giornata in campagna di suo nonno. A dodici anni interrompe gli studi.
Legge come può testi che trova nella piccola biblioteca paterna, dai
volumi di Lombroso a quelli di Darwin, ai testi di sociologia di Zino
Zini.
Frequenta il corso allievi sottufficiali e in caserma amplia e completa la
sua preparazione scolastica.
Muore la madre mentre sostiene a Roma gli esami di abilitazione
magistrale.
Con la sorella si trasferisce a Parigi. Assunto in qualità di segretario e
bibliotecario della Società Dante Alighieri, qui conosce Pierre di Nolhoe, Marinetti e Fiumi.
Quando ormai ha buona conoscenza della lingua, fa amicizia con i giovani poeti parigini: Bergeal, Guillik, Méjean, Amelin. Dirà il poeta: « Ci
si riuniva nei caffé più rinomati della capitale e si parlava di poesia o si
declamavano i nostri versi ».
Conosce il critico Jean Royère, fondatore del movimento poetico « Il
Musicismo » e autore di vari saggi importanti su Poe, Baudelaire. E’
Royere a fargli conoscere la lirica simbolista e in particolare Mallarmè e
Valery.
S’iscrive alla facoltà di Filosofia alla Sorbona.
Esordisce con un saggio su Pirandello sulla rivista Ars et Idée. In
seguito stringe amicizia con Gide, che lo chiama fra i collaboratori della
rivista, e Valery.
Ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia discutendo una tesi su
Le poetiche da Aristotele all’abate Bremond. Collabora a « L’Age Nuveau »
rivista diretta da Marcel Fevre che raccoglieva attorno a sé le forze della
intellighentia francese. L’ultimo periodo parigino frequenta i poeti
surrealisti tra cui Eluard, Breton, ma in particolare apprezza la
raffinatezza di Jean Gilbert De Couript.
Pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes.
Tornato in Italia dà alle stampe Ore bianche e il poemetto mitologico
Pèrsite e Melasia. Si dedica all’insegnamento di Storia e Filosofia.
108
1945
1947
1948
1951
1952
1953
1954
1956
1957
1958
1960
1963
1964
1967
1973
1974
1975
Si stabilisce a Roma dove tutt’ora vive.
Dirige la rivista « Narciso ». Si lega d’amicizia con i pittori Monachesi,
Fantuzzi, Omiccioli, Stradone e con gli scrittori Iavarone, Carta, Mucci,
Barilli, Natta con cui subito fraternizza.
Conosce al Caffé Greco Cardarelli, allora direttore de « La Fiera
Letteraria » che in seguito gli affiderà la rubrica « Critica di poesia ».
Di Cardarelli diviene uno dei più intimi. Sono questi gli anni di più
intensa attività di critico letterario e d’arte: dai saggi su Penna, Valeri,
Bontempelli, Montale, Eliot, Raphael, Michaux, S.J. Perse, agli articoli
su Klee, Cezanne, Picasso, Roaualt, Braque ecc.
L’assidua collaborazione alla Fiera gli dà modo di conoscere i più noti
scrittori italiani da Bernari, a Moravia, a Govoni, a Falqui.
Pubblica Elegie Doriche che gli vale il premio Etna-Taormina per l’opera
prima.
Seguono le Lettere della sposa demente.
Esilio sull’Himalaya che merita con Bartolini il premio Chianciano.
Conosce lo scrittore napoletano G. Marotta che apprezzerà moltissimo
la sua poesia.
Pubblica Le favole di Dio, un volume che resta quasi clandestino.
Ottiene la cattedra di Filosofia e Pedagogia all’Istituto Magigistrale « B.
Croce » di Avezzano. Mentre s’intensifica la sua collaborazione ai
quotidiani dal « Piccolo » di Trieste a « La Gazzetta del Sud » di
Messina, nonché ai giornali dell’A.G.A.
Esce il volume antologico Pietà della notte, premio di poesia città di
Avezzano. Mentre vanno facendosi tesi i rapporti con Cardarelli, fino
alla rottura definitiva che seguirà di lì a poco.
Pubblica Adagio Quotidiano e i Poemetti.
Gli viene assegnato la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al
premio Viareggio di poesia con il volume Mia figlia è innamorata. Dà alle
stampe il volume di prose E l’uomo non sarà solo.
Inizia a praticare la pittura ideografica che culminerà nelle due mostre
di Parigi e di Milano.
Publica Gli occhi di Orfeo che ottiene ex equo con Sanesi il
Tarquinia-Cardarelli.
Dirige la rivista umoristica « L’Idiota ».
Pubblica il volume Viaggio nel silenzio di Dio che merita con Marvardi il
premio di poesia Città di Capua.
Raccoglie i testi delle favole umoristiche nel volume illustrato
interamente da Omiccioli I fiori c’insegnano a sorridere.
Esce con prefazione di R. Méjean la terza edizione delle Lettere della
sposa demente.
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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE
Horizons perdus (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939.
Caravanes (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939.
Pèrsite e Melasia (mito), pref. di R. D’Este, Trani, Paganelli, 1940.
Ore bianche (liriche), Trani, Paganelli, 1940.
Elegie doriche, (liriche), Roma, Eros, 1951.
Un negro in Paradiso, Roma, Eros, 1952.
Lettere della sposa demente, (liriche) pref. di N. Ciarletta, Roma, Ed. dell’Ippogrifo,
1952.
Esilio sull’Himalaya (liriche), Roma, Ed. del Canzoniere, 1953.
Le favole di Dio (liriche), Roma, Ed. Alabatros, 1954.
Pietà della notte, (volume antologico 1937-1957; contiene le seguenti sezioni
inedite: Morte è antica e Gli epigrammi del mandarino 1954-1957); Pietà della notte
(1956-57), Bologna, Cappelli, 1957.
Il paese di nessuno, (volume antologico; oltre una parte inedita che dà il titolo al
volume, esso contiene un’ampia scelta dei volumi precedenti dalle Lettere a Pietà
della notte), Roma, Porfiri, 1958.
Poemetti, Roma, Porfiri, 1958.
Adagio quotidiano (liriche), Padova, Rebellato, 1958.
Mia figlia è innamorata, Milano, Cino del Duca, 1960.
E l’uomo non sarà solo (prosa), Milano, Ceschina, 1960.
Il paese d’Iride, (liriche), Roma, Carucci, 1962.
Mabò lo straniero (poemetto), in « Il Protagora », 21 giugno 1962.
Gli occhi di Orfeo, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1964.
Ballata per mille ombre, Roma, Canesi, 1965.
Il mattutino delle tenebre, avvertenza di G. Villaroel, Pisa, La Soffitta, 1964.
I detti immemorabili di R.M. Ratti, 2 voll., Roma, Ippogrifo, 1965 e 1966.
Quando gli angeli ascoltano, Roma, Ed. Ciranna, 1968.
Minuetto per ombre sole (antologia poetica 1951-1969), Padova, Rebellato, 1970.
Per archi impazziti, Roma, Ed. Veutro, 1970.
Gli anni del silenzio, pref. di G. Aventi, Roma, Ed. Cardini, 1972.
Viaggio nel silenzio di Dio, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1973.
In un pianeta che ignoro (appunti e pastelli), con un saggio di F. Ferrara, Roma,
Ed. E.R.S.I., 1974.
I fiori c’insegnano a sorridere (favole umoristiche), pref. di F. Ceriotto, con 36
disegni di G. Omiccioli, Verona, Ghelfi, 1974.
Lettere della sposa demente, pref. di R. Méjean, Roma, Ippogrifo, 3a ed., 1975.
M. PIAZZOLLA-R. MÉJEAN, Balado d’a dos voues / Ballade à deux voix, (testo
bilingue, provenzale e francese; contiene M. Piazzolla, Dins Paris li dos oumbro
nostro / Dans Paris nos deux ombres; R. Méjean, Balado dou darrie vespre / Ballade du
dernier soir), Toulon, L’Astrado, 1975.
110
TRADUZIONI
RENÈ MÉJEAN, L’almanacco strappato, Milano, Ceschina, 1974.
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA LETTERARIA
Surrealismo realtà umana e marxismo, in « La Giustizia », 19 ottobre 1954.
Colloquio con Valery, in « Il Piccolo », 20 dicembre 1956.
Ritratto di Leopardi, in « Il Piccolo », 5 febbraio 1957, poi in « Iniziative », sett.-ott.
1958.
Critica Letteraria, in « Gazzetta del Sud », 13 febbraio 1957.
Poesia di Claudel, in « Il Piccolo », 16 febbraio 1957.
Sincerità di Gide, in « Gazzetta del Sud », 2 aprile 1957.
Ritratto di Edgar Poe, in « Il Piccolo », 13 aprile 1957.
Ritratto di Rimbaud, in « Il Piccolo », 30 maggio 1957.
Il vagabondaggio del « saggio » Virgilio, in « Gazzetta del Sud », 25 giugno 1957.
Lo spirito classico di G. Leopardi, in « Il Piccolo », 12 luglio 1957.
Maestro Dante, in « Gazzetta del Sud », 27 luglio 1957.
Il gigante Omero, in « Il Piccolo », 7 agosto 1957; poi in « Iniziative », nov.-dic. 1957.
Cardarelli a Via Veneto, in « Gazzetta del Sud », 8 agosto 1957.
Riflessioni sulla cultura, in « Il Piccolo », 17 agosto 1957.
Infelicità di Pascal, in « Il Piccolo », 5 ottobre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 4
giugno 1961.
Il messaggio di Nietzsche, in « Il Piccolo », 23 ottobre 1957.
Realismo lirico, in « Il Piccolo », 2 novembre 1957.
La poesia di Hólderlin, in « Il Piccolo », 14 novembre 1957.
Il « Mago » Marotta, in « Gazzetta del Sud », 20 dicembre 1957.
Purezza di Mallarmé, in « Il Piccolo », 15 gennaio 1958.
L’angoscia di Kafka, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1958.
Candore di Govoni, in « Il Piccolo », 25 febbraio 1958.
La lirica in esilio, in « Il Piccolo », 1 marzo 1958.
Elegia di Villaroel, in « Gazzetta del Sud », 19 marzo 1958; poi in « Cinzia », aprile
1958.
Arte di Proust, in « Gazzetta del Sud » 1 aprile 1958.
Baudelaire immorale? in « Gazzetta áel Sud », 9 aprile 1958.
« Scandalo della speranza », in « Il Piccolo », 24 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria
», 16 aprile 1961.
Proust e il tempo, in « Il Piccolo », 29 aprile 1958.
Pirandello tragico, in « Il Piccolo », 20 maggio 1958.
La poesia di Eliot, in « Il Piccolo », 24 giugno 1958.
L’Universo di joyce, in « Il Piccolo » ‘ 4 luglio 1958.
Valery il perfetto, in « Il Piccolo », 16 luglio 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 14
maggio 1961.
La lirica di Ungaretti, in « Il Piccolo », 19 agosto 1958.
111
Garcia Lorca, in « li Piccolo », 6 settembre 1958.
Su Apollinaire, in « Gazzetta del Sud », 2 ottobre 1958.
Vittorio Sereni, in « Il Piccolo », 15 ottobre 1958.
Attilio Bertolucci, in « Il Piccolo », 29 novembre 1958.
Poeti d’oggi: lorge Guillén, in « Il Piccolo », 12 dicembre 1958.
Poeti d’oggi: Saint-John Perse, in « Il Piccolo », 2 gennaio 1959.
Poeti d’oggi: Henri Michaux, in « Il Picolo », 21 febbraio 1959.
Giuseppe Marotta, in « Il Piccolo », 5 marzo 1959.
L’estetica di Cecchi, in « Il Piccolo », 18 marzo 1959.
Il canto di Saffo, in « Il Piccolo », 18 aprile 1959.
Poeti d’oggi: Rafael Alberti, in « Il Piccolo », 13 maggio 1959.
Alberto Moravia, in « Il Piccolo », 21 maggio 1959.
Orfismo di Campana, in « Il Piccolo », 16 giugno 1959.
Lirici Greci, in « Il Piccolo », 28 giugno 1959; poi in « Il Sestante Letterario »,
sett-ott. 1962.
La lirica di E. Montale, in « L’Unione Sarda », 25 luglio 1959.
Orfeo ed Euridice, in « Il Piccolo », 21 agosto 1959.
Critici d’oggi: G. Trombatore, in « Il Piccolo », 28 agosto 1959; poi in « La Fiera
Letteraria », 11 febbraio 1962.
Presenza di Dio, in « Il Piccolo », 3 dicembre 1959.
Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre ‘59. Soren
Kierkegaard, in « Il Piccolo », 20 gennaio 1960.
Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre 1959. Pietro Cimatti,
in « Il Piccolo », 29 marzo 1960.
Simone Weil, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1961.
Salvatore Quasimodo, in « Il Piccolo », 28 aprile 1961.
Il sacro e l’orfico, in « Crisi e Letteratura », (Roma) 15-30 luglio 1961. Lo stile poetico
e la rivolta, in « Il Piccolo », 13 luglio 1962; poi in « Il Sestante Letterario », sett.-ott.
1962.
Marotta e i suoi alunni, in « Dialoghi », (Roma), sett.-ott. 1967.
S. Ouasimodo, « Operaio di sogni », in « La Carovana », aprile-giugno. 1968.
De Pisis, pittore-poeta, in « Persona », (Roma), novembre 1969.
La lirica di Ungaretti: dal « Porto Sepolto» a « La Terra Promessa », in « La Carovana
», aprile-settembre 1970.
Ritratto di Barilli, in « Persona », nn. 2, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, giugnodicembre 1970.
Saggi apparsi ne « La Fiera Letteraria ».
Il poeta di Narciso deriva da Mallarmé, 26 giugno 1949.
Gide nel millenovecentotrentotto, visita ad un utopista, 28 agosto 1949; poi in « La
Giustizia », 22 settembre 1954.
Un uomo antico in esilio in mezzo a noi, 21 maggio 1950.
Anna Claudi alla finestra, 4 giugno 1950.
Poesie Marginali di S. Penna e Fuoco Bianco di A. Grande, 13 agosto 1950.
I martedì letterari; Diego Valeri e le creature di Racine, 4 febbraio 1951.
Amore di Gide alle lettere italiane, 25 febbraio 1951.
112
Risposta a Leone Piccioni, 11 marzo 195 1.
La poesia di Luciana Frassati, 10 giugno 1951.
Ritratto di un poeta dopo il trittico della felicità perduta, 20 dicembre 1953.
Artisti italiani: Franco lurlo, 2 maggio 1954.
Marotta, il suo estro è poesia, 12 dicembre 1954.
T. S. Elíot, poeta cattolico, 11 gennaio 1959.
Il sacro in Rouault, 17 aprile 1960.
Eugenio Montale, 12 giugno 1960.
A proposito degli «Alunni del sole» Napoli secondo Marotta, 26 giugno 1960.
« Solo, povero, candido se ne è andato M. Bontempelli », 31 luglio 1960. La notte
dell'anno uno, 25 dicembre 1960.
Michaux surreale, 12 febbraio 1961.
I vincitori della « Penna d'oro »; profilo di E. Cecchi, 19 febbraio 1961. Il poeta degli
angeli, 26 febbraio 1961.
Un ritratto della nostra società in « Visti e Perduti »; Marotta in poltrona, 19 marzo
1961.
La sorridente disperazione dell'ultimo Delfini, 26 marzo 1961.
Ironia e mistero ne « La Farfalla di Dinard », 2 aprile 1961.
La persona e il destino; meditazioni di Simone Weil, 9 aprile 1961.
Un'acuta indagine critica di Gianni Nicoletti: la bellezza di Baudelaire, 23 aprile 1961.
Artisti italiani: Gino Croari, 30 aprile 1961.
L'Assoluto di Mallarmé, 7 maggio 1961.
Noteralle di revisione critica; IQ spirito clausica di Leopardi, 21 maggio 196 1.
Due critici nella nostra civiltà. Carteggio Nietzsche-Burckhardt, 28 maggio 196 l.
Su « Vento in gabbia », raccolta di prose di varia ispirazione. Marotta favoloso e
beffardo, 9 luglio 1961.
« Il re di Sardegna » e altre poesie. L'ironia di Frattini, 16 luglio 1961. Un nuovo
poeta per il Sud: la Calabria di Costabile, 23 luglio 1961. L'antiretorica dell'eroismo:
Risi pensieroso, 6 agosto 1961.
Per una storia spirituale della poesia italiana. Linea Umbra: un'ardita testimonianza, 10
settembre 1961.
Un fanciullo che scopre il mondo e se lo racconta. Poesie di Gatto, 17 settembre 1961.
Giovani poeti italiani; Un uomo e una fede, 24 settembre 1961.
Giovani poeti italiani. Due lirici della discrezione, 1 ottobre 1961.
Il poeta del poeta: Holderlin, 15 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Sincerità di Gide, 22 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Valery su Mallarmé, 29 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Paul Claudel tra Rimbaud e Dio, 5 novembre 1961; poi in «
Iniziative », maggio-agosto, 1966.
La missione dell'uomo di cultura, 12 novembre 1961.
Ricordi parigini. Royere, 26 novembre 1961.
113
Ricordi parigini, La Grecia di Beaudouin, 3 dicembre 1961.
Saggio e antologia esemplari: La Voce, 10 dicembre 1961.
Ricordi parigini. Il poeta Topalian, 31 dicembre 1961.
Ricordi parigini. Notturno a « Notre Dame », 7 gennaio 1962.
Dal terrore alla felicità. Camus uomo della rinascita, 14 gennaio 1962.
Dall'assurdo quotidiano alla saggezza. La poesia di Ferrari, 20 gennaio 1962.
L'uomo e il divino di Maria Zambrano. Una filosofia per l'uomo, 18 febbraio 1962.
Tradotta da Manara Valgimigli la lirica dei Greci, 25 febbraio 1962.
Il libriccino di Anna Curcio, 4 marzo 1962.
Giuseppe Marotta, scrittore solitario e uomo sulla breccia. Le sue donne, 20 gennaio 1963.
Interviste immaginarie apparse su « La Fiera Letteraria ».
Visita a Igor Iravic, 23 ottobre 1960.
Visita a Peppotoston, 30 ottobre 1960. Visita a Organon, 13 novembre 1960.
Visita a Leviatano, 27 novembre 1960.
Visita a Egopatìcos, 4 dicembre 1960.
Visita al dott. Ervad, 11 dicembre 1960.
Visita a Zatti, 18 dicembre 1960.
Monologo del dittatore, 1 gennaio 1961.
Visita a Rascellini, 8 gennaio 1961.
Visita a Ermete Trimegisto, 15 gennaio 1961.
Visita a Salintari, 29 gennaio 1961.
CRITICHE D'ARTE
Ritratto di Giotto, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1957.
Ritratto di Michelangelo, in « Il Piccolo », 24 aprile 1957.
I sogni di Utrillo, in « Il Piccolo », 29 novembre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 9
ottobre 1960.
Magia di Klee, in « Il Piccolo », 31 gennaio 1958.
Libertà di Picasso, in « Il Piccolo », 21 marzo 1958.
Tristezza di Modigliani, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958.
Il sole di Van Gogh, in « Il Piccolo », 10 maggio 1958.
Pollock e il caos, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1958.
Monachesi polemico: Apologia della luce, in « Gazzetta del Sud », 21 ottobre 1958.
Vangelli: Moderno e umano, in « Gazzetta del Sud », 6 novembre 1958.
Le intuizioni di Braque, in « Il Piccolo », 20 novembre 1958.
Wassily Kandisky, in « fl Piccolo », 31 gennaio 1959.
Georges Rouault, in « Il Piccolo », 15 febbraio 1959.
Armiro Yaria, in « Il Piccolo », 29 maggio 1959.
Poetica di Cezanne, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 18
settembre 1960.
Edoardo Giordano, in « Il Piccolo », 7 agosto 1959.
114
VanGogh e il dolore, in « Il Piccolo », 25 settembre 1959.
Giovanni Omiccioli, in « Il Piccolo », 17 ottobre 1959.
Mauro Manca, in « Il Piccolo », 31 ottobre 1959.
La pittura astratta, in « Il Piccolo », 8 marzo 1961; poi in « Iniziative »,
settembre-ottobre 1964.
Antonio Delfini, in « Il Piccolo », 4 settembre 1962.
PROSE D'ARTE
Costellazione dell'Orsa Minore, in « Il Popolo di Roma », 4 marzo 1953.
Nascita di Roma, in « Il Mezzogiorno », 2 ottobre 1954.
Fantasia al Colosseo, in « Il Mezzogiorno », 12 ottobre 1954.
« Notre Dame », in « Gazzetta del Sud », 27 novembre 1956.
Domenica al Pincio, in « Gazzetta del Sud », 15 febbraio 1957.
Le Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 2 marzo 1957.
Fantasia al Colosseo, in « Gazzetta del Sud », 13 marzo 1957.
Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 23 marzo 1957; poi in « Gazzetta del Sud », 26
marzo 1957.
Parole discrete, in « Gazzetta del Sud », 17 aprile 1957.
Presenza della natura, in « Gazzetta del Sud », 30 giugno 1957.
Immagine dell'universo, in « Gazzetta del Sud », 29 luglio 1957.
Con Beethoven nella bufera, in « Gazzetta del Sud », 22 agosto 1957.
L'Uomo e la storia, in « Gazzetta del Sud », 29 agosto 1957.
Il giorno della creazione con Bach, in « Gazzetta del Sud », 3 settembre 1957.
Due ombre, in « Gazzetta del Sud », 7 settembre 1957.
Piazze di Roma, in « Gazzetta del Sud », 10 settembre 1957.
Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 6 ottobre 1957.
Monologo, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1957.
Ravel e Agazarian, in « Gazzetta del Sud », 8 novembre 1957.
Metamorfosi dell'autunno, in « Gazzetta del Sud », 15 novembre 1957.
Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 29 novembre 1957.
Favole per Euterpe, in « Gazzetta del Sud », 6 dicembre 1957.
Soliloquio del Duomo, in « Gazzetta del Sud », 15 dicembre 1957.
Favole, in «Gazzetta del Sud », 28 gennaio 1958.
Lirica-Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 11 febbraio 1958.
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Momenti musicali: Grieg e De Bussy, in « Gazzetta del Sud », 27 aprile 1958.
Quadri parigini, in « Gazzetta del Sud », 30 aprile 1958.
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Bisanzio Topalian: Spettro di poeta, in « Gazzetta del Sud », 9 maggio 1958.
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Momenti musicali: Mozart e Vivaldi, in « Gazzetta del Sud », 8 giugno 1958.
Concerto e solstizio, in « Gazzetta del Sud », 8 settembre 1958.
115
Considerazioni all'alba, in « Gazzetta del Sud », 11 ottobre 1958.
Momenti musicali: Paganini e Scarlatti, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1958.
Momenti musicali: Strawinski e Georiwik, in « Gazzetta del Sud », 21 novembre 1958.
Elogio dei mansueti, in « Il Piccolo », 24 febbraio 1960.
Divagazioni e favole, in « Telesera » (Roma), 17-18 aprile 1961.
Condannato all'ozio, in « Il Gazzettino di Venezia », 1 giugno 1962.
Saggi e prose apparsi in « Iniziative » (Roma):
Ritratto di Baudelaire, luglio-agosto 1953.
Colloquio con Beaudouin; Agazarian e l'usignolo, novembre-dic. 1953.
Incontro con Gide, marzo-aprile 1954.
Mortificazione dell'intelligenza, maggio-giugno 1954.
Un mio incontro con Valery, nov. dic. 1954.
Alcuni aspetti della critica letteraria in Italia, genn. febbraio 1955.
La funzione della critica letteraria militante, marzo-aprile 1955.
Dilettantismo e disumanità della lirica italiana contemporanea, maggiogiugno 1955.
Paura della fantasia e disprezzo del cuore nell'arte italiana d'oggi, nov.dic. 1955.
J.Paul Sartre o della responsabilità, genn. febbraio 1956.
Poesia di Villaroel, nov.-dic. 1956.
Ritratto di Virgilio e Versione di Orfeo ed Euridice dal libro IV delle
Georgiche, genn.-febbraio 1957.
La Catania di Villaroel, genn.-febbraio 1958.
Due nani a nozze (racconto), marzo-aprile 1958.
Mal di Galleria, genn.-febbraio 1959.
Poeti d'oggi: Eugenio Montale, genn.-febbraio 1960.
La poesia di S. Quasìmodo, marzo-aprile 1960.
Saint-john Perse, premio Nobel, genn.-febbraio 1961.
Il sacro nelle meditazioni di S. Weil, genn.-febbraio 1962; poi in « Il
Sestante Letterario » (Roma), maggio-agosto 1963.
Riflessioni sulla cultura, maggio-giugno 1962.
Poeti d'oggi: Alfonso Gatto, nov.-dic. 1962.
Narratori d'oggi: Giuseppe Marotta, maggio-giugno 1963.
La donna nella narrativa di Marotta, sett.-ott. 1963; poi in « Il Sestante
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Nascita dell'uomo, genn.-aprile 1966.
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Pirandello et la tragedie, n. 8 avril 1937.
Paul Valery et l'intelligence du siecle, n. 9 juin 1937.
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Seine (poesia); Nicolas Beauduin ou la beauté hellenique, n. 11 octobre
1937.
Poèmes: « Petrarca » « Dante », n. 12 décembre 1937.
Poème: « Fontaine », n. 13 février 1938.
Persite et Melasia (fragment d'un myte), n. 14 avril 1938.
L'arbre (poesia), n. 15 luillet 1938.
Globo (poemetto), n. 17 décembre 1938.
Moi,l'inutile (salmo), n. 18 février-mars 1939.
Bonheur (poemetto), n. 19 avril-mai 1939.
Altri saggi e poesie, prosa in lingua francese:
Terre relleurissante (poemetto), in « Dante » (Paris), n. 8 septembreoctobre 1935.
Broderie (poesia), in « Dante », n. 7-8 juillet-aoùt 1938.
Deux Poèmes: « La favola dell'universo », in « La Phalange », (Paris), 15 mai 1938.
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Ballata per mille ombre:
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V. TALARICO, in « Momento Sera », (Roma) 30-31 maggio 1966.
G. SALVETI, in « Pubblicismo Letterario », (Roma) 30 settembre 1966;
poi in Dimenticanze e successi ingiustificati, Cosenza, Pellegrini,
1973.
I detti immemorabili di R.M. Ratti:
P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960.
M. CAMILUCCI, in « L'Osservatore Romano », 11 luglio 1970.
Si veda inoltre la prefazione-saggio di G. Aventi al volume Gli
anni del silenzio e i due profili di G. Villaroel (Radio Trasmissioni del 7 novembre
1953: Trampolino) e di R. Gaudio (La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 dicembre
1967); nonché i volumi di A. Frattini La giovane poesia italiana; Pisa, Nistri-Lischi,
1964 e Poesia nuova in Italia, Milano, I.P.L., 1967.
Pure riferimenti linguistici a Piazzolla sono nel volume Aspetti
della poesia italiana contemporanea, di A. Vallone, cit..
Pure importanti sono le seguenti antologie:
Splendore della poesia italiana, a cura di C. Govoni, Milano, Ceschina,1958.
Anthologie de la poesie italienne, a cura di I. Chuzev;lle, Paris, Edition
d'histoir d'Art, 1959.
Lirici pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi e E.F. Accrocca, Bari,
Adriatica, 1967.
Prima biennale della poesia italiana, a cura di A. Noferi, Firenze,
I Centauri, 1969.
Poeti dauni contemporanei, (pref. di M. Sansone) a cura di A. Motta,
C. Serricchio e C. Siani. (In corso di stampa).
ANTONIO MOTTA
119
MOVIMENTO DEMOGRAFICO A FOGGIA NEL SEC. XVII
PREMESSA
Questo lavoro ha come scopo lo studio della popolazione di Foggia nel
XVII secolo (1601 - 1700) tramite l'analisi di tre fattori essenziali e cioè i
battesimi, i decessi e i matrimoni.
La popolazione, per l'intervallo di tempo in esame, è stata studiata in
base ai vari ed alterni eventi che in questo intervallo di tempo si sono sviluppati
e che hanno su di essa influito.
E' da premettere che tale periodo, per Foggia, è piuttosto oscuro in
quanto molti documenti ad esso relativi sono andati distrutti o smarriti. Causa
di ciò sono state le varie vicissitudini che Foggia ha attraversato come, ad
esempio, il terremoto del 1731 che la rase completamente al suolo.
I dati necessari al lavoro sono stati raccolti nelle parrocchie di più antica
istituzione ed a quel tempo esistenti e cioè la Cattedrale, San Tommaso e San
Michele Arcangelo. Essi sono stati suddivisi per anni e mesi ed ancora secondo
il sesso ed elencati in tabelle che sono state di base per l'indagine.
Purtroppo, nelle tre parrocchie, oltre ad alcuni registri di battesimi, decessi e
matrimoni, mancano completamente gli indici e gli stati delle anime. Ecco un elenco,
parrocchia per parrocchia, dei registri mancanti.
In Cattedrale sono andati distrutti:
1) per i morti, i registri relativi al periodo:
1 gennaio 1601 - 31 dicembre 1634
2) per i matrimoni, i registri compresi nel periodo:
1 gennaio 1601 - 31 dicembre 1666
A San Michele sono andati distrutti:
1) per i nati, i registri relativi al periodo:
31 dicembre 1628 - 23 novembre 1629
2) per i morti, i registri relativi ai periodi:
1 gennaio 1601 - 19 dicembre 1629
1 gennaio 1693 - 31 dicembre 1700
3) per i matrimoni, i registri relativi ai periodi:
1 gennaio - 31 dicembre 1629
2 dicembre 1661 - 8 novembre 1664
1 gennaio 1693 - 31 dicembre 1700
A San Tommaso sono andati distrutti:
120
1 ) per i nati, i registri relativi ai periodi:
1 gennaio 1625 - 15 luglio 1636
21 marzo 1656 - 22 ottobre 1659
2) per i morti, i registri relativi ai periodi:
1 gennaio 1601 - 2 aprile 1608
1 gennaio 1625 - 14 settembre 1636
26 maggio 1656 - 17 ottobre 1659
3) per i matrimoni, i registri relativi ai periodi:
1 gennaio 1601 - 7 aprile 1608
1 gennaio 1625 - 21 settembre 1636
31 gennaio 1656 - 1 novembre 1659.
I registri superstiti sono conservati in buono stato, anche se qualche
pagina è di difficile lettura, essendosi l'inchiostro sbiadito col tempo.
Su di essi, non rare sono le annotazioni fatte e, la maggior parte,
riguardano la vita parrocchiale come la benedizione del cero pasquale o della
nuova campana, l'insediamento di un nuovo vescovo o parroco, ecc.
Al foglio n. 128 del registro dei morti per gli anni compresi dal 1644 al
1658, conservato in Cattedrale, si legge: « In questo mese di 7mbre (1656),
sventurata città di Foggia, incomincia la peste. Cagionò la morte di dodicimila
persone. Fra il spatio di tre mesi passarno tutti a miglior vita ».
Le registrazioni iniziano il primo gennaio e terminano il 31 dicembre,
secondo l'indizione romana o pontificia.
Come accennato saranno analizzati, nell'ambito del presente lavoro, tre
fenomeni essenziali per la popolazione di Foggia nel XVII secolo, e cioè: le
nascite, le morti ed i matrimoni.
Delle nascite sarà analizzato il trend, il rapporto dei sessi alla nascita e la
stagionalità; dei decessi sarà analizzato il trend, il rapporto dei sessi e la
stagionalità; infine dei matrimoni sarà calcolato il trend e la stagionalità.
CENNI STORICI
A poca distanza dall'antica Arpi, andata distrutta nel corso dell'ottavo
secolo, sorse, intorno al mille, la città di Foggia, denominata dalle grandi fosse
in cui nella zona centrale del Tavoliere era uso conservare il grano.
Caduto l'Impero d'Occidente, nel quale essa formava una sola provincia
con i Calabri e gli lrpini, subì la dominazione bizantina, e fu retta da un
magistrato, il « catapan », onde la regione fu detta Capitanata.
Il periodo fiorente per Foggia iniziò con la dominazione dei Normanni,
come attestano le donazioni delle decime di tutti i diritti regali
121
della città di Foggia ed i monumenti e le piazze che la abbellirono e le
conferirono una nota artistica e culturale.
La predilizione di Federico II la rese sede del palazzo reale (del quale
oggi, nella piazza omonima, è ancora visibile il pozzetto compreso un tempo
nel recinto del palazzo) e di un tribunale chiamato l'Imperial Magistrato di
Giustizia; inoltre, in Foggia la Magna Curia emanava i dispacci del Real
Governo. Se tanto fu l'amore di Federico per Foggia, non da meno fu la
devozione e la fedeltà dei foggiani verso l'imperatore, così che il suo cuore e le
sue viscere furono custodite in un'urna e collocate nella Chiesa Maggiore.
Dopo il breve regno di Manfredi, la dominazione angioina, stabilitasi con
Carlo d'Angiò, fu altrettanto munifica verso la città arricchendola di opere e
monumenti. Ma la svolta decisiva nel campo economico avvenne sotto gli
Aragonesi, quando Alfonso, nel 1447, acquistando i pascoli che appartenevano
ai baroni ed alla Chiesa, formò un vasto possedimento nella pianura del
Tavoliere e istituì la Dogana delle pecore, il cui statuto fissava precise norme
per assicurare la destinazione pascolativa a danno di qualsiasi coltura dei terreni.
Nella prima metà del '500, la Capitanata fu teatro delle guerre
franco-spagnole; infine la definitiva vittoria di Carlo V le assicurò un periodo di
pace, durante il quale molte famiglie nobili del Regno di Napoli si stabilirono a
Foggia.
Ben presto però il governo spagnolo non si limitò più alla mera esazione
tributaria, e rivelò la propria strapotenza militare, fiscale e amministrativa; la
città di Foggia subì le conseguenze più catastrofiche del fiscalismo spagnolo
con una serie interminabile di imposte straordinarie, di sequestri, di confische.
Tra il 1632 e il 1644, la pressione fiscale assunse proporzioni intollerabili.
Si ebbero le prime rivolte contadine e antifeudali che, specialmente nelle
campagne del Tavoliere, si collegano al fenomeno del banditismo.
Il Regno era governato dai vicerè che « smunsero le popolazioni
meridionali, vivendo da satrapi in mezzo allo sfarzo e al lusso di una corte
corrotta, che contrastava con la miseria dei sudditi » I.
Essi imponevano gabelle che pesavano principalmente sulla povera
gente.
Ad esempio, quella del sale « subiva continui aumenti. Nel 1606 era di
otto carlini a tomolo, nel 1637 salì a dodici carlini, nel 1640 arrivò a ventidue
carlini »
A questo depauperamento economico si aggiunse la svalutazione.
Il Prof. Luigi De Rosa ha calcolato, rispetto al 1610, nel 1611 una
svalutazione monetaria dell'8,40%; nel 1617, del 15,90%, nel 1618, del 20,31%;
nel 1620, del 33,10%.
1 LA SORSA S., Storia di Puglia, vol. IV, Bari 1955, pag. 43.
2 LA SORSA S., Op. cit., pag. 46.
122
Come si sa, i fattori economici spiegano i loro effetti sulla popolazione.
Infatti dalla tavola dei battesimi (Tav. 1) risulta che tali periodi sono
immediatamente seguiti da riduzioni di nascite, dovute alle minori disponibilità
economiche della popolazione. Ai malanni economici si aggiunsero calamità
naturali. Infatti, « numerose furono le epidemie: si lamentarono terremoti,
morie di animali, tempeste, alluvioni ed altri malanni... Narra il Giannone che
nel 1627 si fece sentire in tutta la Puglia un orribile terremoto ' abbattendo
molte terre e facendo strage grandissima degli abitatori '... La Capitanata ebbe
infinite rovine ... Anche gravi furono i danni cagionati dai terremoti del 1638 e
1688 ... L'anno più tremendo e luttuoso fu il 1630, quando il Vesuvio entrò in
una fase di eruzione mai vista... non danneggiò solo i paesi della Campania ma
produsse rovine anche in tutto il Mezzogiorno » 3. Ma « un malanno che non si
ricordava da molto tempo fu la comparsa dei bruchi che devastò gran parte
della Capitanata nel 1661 ... Erano di insolita grandezza e sul terreno se ne
vedeva uno strato di quattro dita »4. Infatti, dalla tabella delle nascite, a partire
dal 1661, si nota una contrazione di nati dovuta all'azione devastatrice dei
bruchi sui raccolti. Questo perché « l'andamento dei raccolti condizionava in
pratica lo sviluppo demografico: abbondanti raccolti significavano una migliore
e più abbondante alimentazione, un migliore stato di salute generale e quindi
più resistenza alle malattie, una più elevata o prolungata fecondità, maggiori
risorse onde poter abbassare l'età del matrimonio. Una carestia o altri fattori,
come epidemie e guerre, potevano interrompere questo schema di sviluppo, ma
l'equilibrio era presto ripristinato in seguito al più rapido sviluppo demografico
che generalmente si aveva dopo tali eventi, sia per le maggiori risorse che
rimanevano a disposizione degli scampati, sia per la conclusione di un buon
numero di matrimoni rinviati a causa di quegli eventi » 5.
Foggia era legata alla istituzione aragonese della Dogana della mena delle
pecore che fece assurgere la città a « notevole centro commerciale per la
industria delle pecore, delle lane e dei formaggi: veneziani, bergamaschi,
napoletani, da ogni parte d'Italia vi accorre gente, vi stanziano i propri fondachi,
vi commerciano, s'arricchiscono e con loro non pochi foggiani. In tutto questo
splendore, lutti e miserie non mancano: terremoti, pestilenze, tumulti » 6.
Nel 1612 e nel 1625, « per straordinaria mortalità nelle greggi », le entrate
della Regia Dogana scemano e il « Governo fu costretto a cercare nuovi cespiti
per l'equilibrio del bilancio »7
3 LA SORSA S., Op. cit., pag. 67, 68, 75.
4 LA SORSA, Op. cit., pag. 68, 75.
5 DI VITTORIO A., Tavoliere pugliese e transumanza; distretti rurali e città minori tra
il XVII e XIX secolo. Da: « Rivista di Storia dell'agricoltura », n. 3, dicembre 1974.
6 MARANGELLI O., Scritti vari, Foggia 1932, pagg. 45-46,
7 PAPA M., Economia ed economisti di Foggia, Foggia 1933, pag. 107.
123
Al pari di Napoli, anche a Foggia si ebbero moti e governi di popolo.
Ciò perché « (la città) era dolente da più tempo pel malgoverno
universitario, e per le imposte che sin dal 1642 l'avean ridotta in misero stato »8.
La rivoluzione di Masaniello a Foggia si sviluppa in due fasi: una prima,
nel « luglio del 1647, e ci troviamo di fronte a un movimento essenzialmente
popolare, spontaneo improvviso; ... la seconda, nel gennaio del 1648, vede dei
ribaldi che usano il popolo come mezzo per raggiungere loschi fini »9. Questa
seconda fase portò ad una « vera carneficina » 10. Qualche anno dopo, nel 1656,
scoppiò la peste. Essa fu portata dalla Sardegna dal conte di Castrillo. Il De
Ambrosio scrive che « ... il vicerè di Filippo IV, da Sardegna ove imperversava
la peste, ne trasse milizia e con esse il contagio » 11 .
Dal registro dei morti per gli anni compresi dal 1644 al 1658 conservato
in Cattedrale, risulta che il crudele morbo « cagionò la morte di dodicimila
persone » mentre il De Ambrosio, nella sua citata opera, parla di « millecento ».
Nei dintorni di Foggia vi erano zone paludose, focolai di malaria a cui
erano soggetti i contadini che ogni mattina lasciavano la città ed a piedi
raggiungevano i campi per lavorare.
Per questo, nel 1671, il giureconsulto Freda propose che « ... i diritti
pecuniari... chiamati di porta e rotolo si invertissero a favore della università12
perché (la città) aveva bisogno di essere... ripulita in parecchi siti, perché la
nettezza influisse alla salubrità dell'aria » 12.
Nel periodo del vicereame si assiste ad un periodo di stasi nello sviluppo
demografico di Foggia. Infatti, la popolazione, che al principio del XVII secolo
ammontava a circa 5000 abitanti (1090 fuochi), nel 1648 a 815013, nel 1669 era
di 592514: « la popolazione di Foggia diminuisce per l'aggravata situazione
economica e per le epidemie che causarono una forte mortalità » 14.
Così il secolo declina su tutto il Regno stremato ed impoverito dopo i
flagelli della peste sterminatrice e del fiscalismo, e il Tavoliere diventa una plaga
atona e spenta nel disgregamento di tutta la società del Mezzogiorno.
8 VILLANi F., La nuova Arpi, Salerno 1876, pag. 92.
9 MARANGELLI 0., Relazione della ribellione di Sabato Pastore in Foggia nell'anno
1648, Foggia 1932, pag. 6.
10 LA SORSA S., Op. Cit., Pag. 101.
Il DE AMBROSio F., Memorie di Foggia, S. Severo 1889, pag. 34.
12 VILLAN[ F., Op. cit., pag. 103.
13 ENCICLOPEDIA ITALIANA, vol. XV, Rorna 1949, ag. 582.
14 BALDACCI 0., Puglia, vol. XIV da: « Le regioni d'Italia », Torino 1962, pag.
474.
124
I NATI
Lo studio statistico della popolazione può dividersi in due grandi parti: lo
studio dello stato della popolazione che « riguarda il numero e la distribuzione
degli abitanti (censiti) secondo determinati caratteri personali (età, sesso, stato
civile, professione, lingua, nazionalità) e geografico-amministrativi
(distribuzione degli abitanti per comuni, circondari, province, compartimenti,
popolazione sparsa ed accentrata; popolazione residente e presente, ecc.) » 15, e
quello del movimento della popolazione. « Del movimento della popolazione,
si fa distinzione tra quello naturale od intrinseco e quello sociale od estrinseco.
Rientrano nel primo, le nascite, le morti e i matrimoni, cioè quei fenomeni
demografici che lasciano traccia nei registri dello stato civile, dai quali vengono
statisticamente rilevati. Il movimento sociale è costituito dalle migrazioni,
interne ed internazionali, e viene rilevato con statistiche ad hoc » 16.
Le nascite sono alla base dello sviluppo numerico della popolazione. «
Notevole rilievo assume, in demografia, la distinzione dei nati in nati vivi e nati
morti. Quest'ultimi, infatti, non portano alcun contributo all'aumento della
popolazione. I nati morti (e gli aborti) hanno, invece, maggiore importanza
sotto l'aspetto medico, biologico, ecc.
In Italia, attualmente, si adottano i seguenti criteri per la distinzione degli
aborti, nati vivi e nati morti:
1) l'aborto è l'interruzione della gravidanza con l'espulsione del feto entro il
6° mese di gestazione;
2) nato morto è il feto espulso dopo 6 mesi di gestazione, che non abbia
dato segni di vita;
3) nato vivo è il feto che, a parte la durata della gestazione, abbia, dopo
l'espulsione dal corpo materno, dato segni di vita, anche se subito dopo
si sia verificata la morte » 17.
Nel presente capitolo analizzeremo, per i nati:
1) il trend
2) il rapporto dei sessi alla nascita
3) la stagionalità delle nascite.
A) Trend
Lo studio di una popolazione, tramite l'analisi di uno dei suoi fattori
principali, cioè le nascite, tende alla separazione tra la tendenza di fondo del
fenomeno (trend) e le fluttuazioni che ad esso si sovrappongono. Queste
possono presentarsi ad intervalli di tempo più o meno regolari (fluttuazioni
cicliche) e possono essere originate da cause che agiscono in modo periodico,
ma di solito si manifestano ad intervalli irregolari.
15 ZINGAU G., Demogralia, Torino 1930, pag. 3.
16 ZINGALI G., Op. cit, pag. 3.
17 CHIASSINO G., Appunti di demografia, Bari 1971, pag. 59.
125
« Ciò che resta... costituisce le cosiddette variazioni residue o variazioni
residuali. Queste includono tanto le variazioni erratiche, o variazioni saltuarie,
dovute a fenomeni eccezionali, quali, ad esempio una guerra od una epidemia,
quanto le variazioni casuali, che hanno carattere accidentale » 18.
Quindi, si rende necessario sostituire la successione di dati riguardanti il
complesso dei nati (MF) anno per anno che sono perturbati da irregolarità con
un'altra, che presenti un andamento regolare. A tale scopo, si può effettuare
una perequazione analitica e cioè adattare ai valori osservati una funzione
matematica i cui parametri vengono determinati analiticamente. Prima di
decidere sul tipo di funzione da adottare, si rappresenta graficamente il
fenomeno “ nascite”.
B) Rapporto dei sessi alla nascita
Il rapporto dei sessi alla nascita si ottiene dividendo l'ammontare dei nati
maschi (nel caso in esame, l'ammontare espresso in decenni) per l'ammontare
delle nate femmine e moltiplicando per 100.
Esso presenta una caratteristica: in qualunque luogo ed in qualunque
epoca, il rapporto tra maschi (nati vivi) e femmine (nate vive) è costante e si
aggira intorno a 105-106 nati maschi per 100 nate femmine.
Sul problema dell'eccedenza dei nati di sesso maschile sui nati di sesso
femminile sono state formulate svariate teorie tutte incapaci di dare una
spiegazione sufficiente al fenomeno. Ciò ha fatto pensare che tale legge
statistica « dipenda da una legge biologica dell'uomo, e poiché il rapporto dei
sessi alla nascita è in stretta dipendenza col rapporto dei sessi al momento in
cui il sesso si determina e col rapporto dei sessi nelle eliminazioni che si
verificano tra il tempo in cui il sesso si determina e il tempo della nascita, si
comprende come le ricerche si siano rivolte verso la misura del rapporto dei
sessi al concepimento e verso le eliminazioni che intervengono fra il
concepimento e la nascita, cioè verso gli aborti »19.
Negli aborti che si verificano nei primi anni di gravidanza è pressocché
impossibile stabilire il sesso del feto, ma tra il 3° e il 6°, periodo in cui tale
determinazione risulta più agevole, la prevalenza spetta al sesso maschile
(secondo alcuni si aggirerebbe intorno al 160 per 100). « Pertanto
l'orientamento demografico prevalente tende oggi a rivolgersi verso l'ipotesi
avanzata dal Morgan, secondo la quale lo spermio portatore del cromosoma Y
sarebbe più mobile ed aggressivo dello spermio portatore del cromosoma X e
di conseguenza si avrebbe di fatto una eccedenza di concepimenti maschili alla
quale sarebbe riconducibile l'eccedenza maschile nel rapporto dei sessi alla
nascita »20.
18 COLOMBO B., Dizionario demografico multilingue, Milano 1959, pag. 20.
19 MIANI CALABRESE D., Metodologia statistica e statistica dei fenomeni sociali,
Milano 1958, pag. 31.
20 MIANI CALARBESE D., op. cit., pag. 32.
126
Per il calcolo di tale rapporto, si è diviso l'intero intervallo in periodi
decennali e risulta che l’indice oscilla da un minimo di 85,20 (periodo
1621/1630) ad un massimo di 108,88 (periodo 1681/1690). Per l'intero
intervallo considerato, il valore dell'indice è pari a 105,99, essendo 9689 i nati
vivi maschi e 9141 le nascite femminili. Ad eccezione del periodo 1621-1630, in
cui si è registrato il minimo di 85,20, si è avuto una regolare eccedenza di
nascite maschili.
C) Stagionalità delle nascite
Il numero dei nati presenta forti oscillazioni da un mese all'altro. Al fine
di studiare queste oscillazioni, vengono costruiti degli “ indici di stagionalità
delle nascite '”che si sono ottenuti sommando tutti i nati di gennaio, quelli di
febbraio, ecc. (per 5 ventenni). Le somme dei nati vivi che non corrispondono
a mesi di trenta giorni sono state corrette moltiplicandole per il rapporto tra
trenta e il numero dei giorni del mese considerato (31, 28 o 29). Il numero
corretto delle nascite di ogni mese diviso per il numero corretto delle nascite
del periodo lo si è moltiplicato per 1200.
Gli indici, così ottenuti, per le nascite complessive, maschili e femminili,
presentano per il complesso due massimi. il primo cade in gennaio-febbraio, l'altro
nel periodo settembre-dicembre e ciò all'incirca per tutti e cinque i ventenni.
Le cause di queste oscillazioni non si conoscono con esattezza essendo
molteplici i fattori che su di esse influiscono e diverse sono le ipotesi formulate.
Secondo Luzzatto Fegiz, il massimo delle nascite di gennaio-febbraio
corrisponde al massimo dei concepimenti che si verificano per aprile. « Sembra
ovvio mettere in relazione tale fenomeno col risveglio primaverile della natura,
e ammettere che le stagioni influiscono o sull'impulso sessuale o sulla fecondità
specifica dell'uno o dell'altro sesso, o su questi elementi insieme »21.
Altri autori adducono l'esistenza di fattori come quelli legati alla
metereologia, fisiologia, o connessi « con altri fenomeni sociali e psicologici
(nuzialità, feste, ecc.) » 7. Luzzatto Fegiz spiega anche il secondo massimo
stagionale nel seguente modo: « Invero, delle donne che hanno partorito in
corrispondenza del primo massimo annuale, alcune ridiventano capaci di
concepire quasi subito, alcune dopo un mese, altre invece dopo due, tre o più
mesi, a seconda della durata dell'allattamento e di altre circostanze. Ora è chiaro
che, ogni altra condizione restando uguale, nell'epoca in cui sono più numerose
le donne che rientrano nella categoria delle esposte a concepire, si avrà pure
una maggiore probabilità di concepimento, e quindi un massimo secondario di
concezioni..
Ma un simile riflusso di donne fecondabili si verifica intorno ad un
21 LUZZATTO FEGIZ P., Statistica demografica ed economica, Milano 1951, pag.
112.
127
certo intervallo dell'epoca del massimo assoluto (primario) di nascite, e
precisamente ad un intervallo pari alla distanza normale fra un parto ed il
momento in cui la donna ridiventa disponibile per la generazione » 8. Gli
ostetrici hanno considerato « normale un intervallo di sette-otto mesi fra un
parto ed il momento in cui una donna che allatta ridiventa disponibile per la
generazione » 22. Quindi, il secondo massimo di nascite è dovuto a nati vivi che
provengono in parte da donne che hanno partorito all'incirca 15-19 mesi prima.
I DECESSI
I decessi costituiscono la principale componente negativa del
movimento della popolazione e sono soggetti a molteplici fattori: alcuni
imprevisti come le epidemie e le guerre, ed altri variabilissimi come le
circostanze economiche, il clima, ecc. Data l'esiguità di notizie giunteci, non è
possibile sapere con certezza quali siano state le cause che hanno provocato
una maggiore mortalità per alcuni degli anni oggetto di studio; ad esempio, nel
1649 e nel 1681 si sono avuti a Foggia rispettivamente 707 e 713 decessi.
Tra le principali cause di morte, ricordiamo in primo luogo la peste. Il
facile diffondersi delle epidemie è dovuto alle scarse cognizioni mediche e
all'uso « di medicamenti strani, frutto più di superstizione o di attaccamento alla
tradizione che di serietà scientifica » 23.
Ad esempio, per purificare l'aria e fermare il diffondersi delle malattie,
venivano bruciati per strada cannella e noce moscata.
Sebbene il secolo in oggetto di studio sia caratterizzato da profondi studi
sulla cellula, sulla circolazione del sangue, sul fegato, sulla struttura del rene e
dall'inizio della pratica terapeutica della trasfusione del sangue, numerose sono
le annotazioni di decessi fatte con la dicitura « morto di subito ».
Altra causa di morte è la malaria. Le zanzare brulicano, in ogni parte del
Tavoliere; anche Foggia ne è colpita a causa dei pozzi di acqua sorgiva. Vittime
preferite sono i contadini che, nel periodo estivo, vanno per i campi per la
mietitura.
Altro male del secolo è il brigantaggio e causa determinante di questo
fenomeno è la miseria in cui il popolo versa a causa del malgoverno spagnolo.
Infatti, esso non solo spinge sulla strada del crimine (e numerosi sono i
viandanti che vengono uccisi e depredati sulle strade, stando a ciò che risulta
dai registri), ma determina anche quella « inegalité devanta la mort » che è la
disuguaglianza più elementare, poiché la miseria comporta sottoaliment azione,
abitazioni insalubri (per lo più fatte di fango oppure costituite da capacce o
stalle), ecc., elementi che abbrutti22 LUZZATTO FEGIZ P., Op. Cit., Pag. 115.
23 BUSACCHI V., Storia della medicina, Rocca S. Casciano, 1951, pag. 236.
128
scono gli uomini e li espongono, indifesi, alle malattie.
Anche il clima gioca il suo ruolo, trovandosi Foggia al centro della
pianura e con scarso manto boschivo.
In estate presenta un clima torrido, tanto che il Manicone scriverà che «
nelle campagne appule è un caldo forte affannoso e d'inferno » 24così che al
sole si possono cuocere « non pur le uova delle galline, ma le galline stesse » 25.
Al contrario, l'inverno è rigido. Memorabile è l'inverno del 1683 che fu
tanto rigido che due cittadine della Capitanata, e precisamente Vieste e Monte
S. Angelo, furono sepolte da otto metri di neve.
A) Trend
Anche per i decessi, analizziamo l'evoluzione storica.
Questa evoluzione dipende da condizioni che variano molto lentamente
nel tempo. A questo proposito, c'è da dire che « ... quelle variazioni che a noi,
per brevità dei periodo considerato, sembrano secolari o evolutive, cioè sempre
nello stesso senso (rappresentabili quindi con curve crescenti o decrescenti)
sono probabilmente variazioni di lunghissimo periodo, visibili solo in parte. E
infatti non si può ammettere che la mortalità continui ad aumentare o diminuire
- sia pure lentamente-all'infinito » 26.
B) Rapporto dei sessi nei decessi
Per ciò che concerne il sesso, balza evidente una maggiore mortalità
maschile rispetto a quella femminile.
Al momento della nascita, il numero dei maschi supera quello delle
femmine (106 M per 100 F); ma la maggiore mortalità maschile, in un primo
momento riequilibria la bilancia per poi spostare definitivamente l'ago a favore
delle femmine.
A cosa è dovuta questa « supermortalità maschile »?
I fattori che entrano in causa sono, in sostanza, due: da una parte, vi è la
maggiore partecipazione dell'uomo alla vita attiva e a tutti i rischi ad essa
inerenti e, dall'altra, vi è la maggiore resistenza dell'organismo del « sesso debole
» rispetto a quello maschile.
L'uomo che abita Foggia nel XVII secolo è essenzialmente agricoltore:
ogni mattina, egli abbandona la città per recarsi nei campi, situati alla sua
estrema periferia.
Al contrario, la donna si dedica al lavoro nei campi solo all'inizio
24 MANICONE M., La fisica Appula, Foggia 1969, pag. 830.
25 MANICONE M., op. cit., pag. 962.
26 LUZZATTO FEGIZ P., op. cit., pag. 67.
129
dell'estate, tempo in cui si raccoglie il frutto di una pianta selvatica, caratteristica
del Tavoliere: il cappero.
Il rapporto fra il quoziente di mortalità maschile e quello femminile
(calcolati per decenni) oscilla tra un minimo di 125 (nel periodo 1691-1700) ed
un massimo di 172 (nel periodo 1641-1650). Per l'intero intervallo, il quoziente
è di 152, essendo 8289 il totale dei maschi morti e 5467 quello delle femmine.
C) Stagionalità dei decessi
Gli indici di stagionalità vengono costruiti con lo scopo di studiare le
oscillazioni che si verificano nei decessi da un mese all'altro dell'anno.
Per il calcolo degli indici, « ... si sommano i morti nei mesi di gennaio, i
morti nei mesi di febbraio, e così via.
Poiché le somme così ottenute non si riferiscono tutte a mesi di 30
giorni, quelle relative a mesi non di 30 giorni vanno corrette moltiplicandole per
il rapporto tra 30 e il numero dei giorni del mese al quale si riferiscono... Gli
indici di stagionalità dei decessi si ottengono, poi, dividendo i decessi di ogni
mese per il totale dei decessi e moltiplicando per 1200: in tal modo la media
mensile degli indici risulta uguale a 100 »27.
Nel periodo in esame, l'andamento della curva stagionale dei decessi
calcolata per ventenni presenta un massimo che generalmente cade nel periodo
autunnale (mesi di ottobre, novembre e dicembre) ed un minimo che cade nel
periodo primaverile (mesi di aprile e maggio).
I MATRIMONI
« Lo studio della nuzialità si occupa dell'analisi quantitativa del fenomeno
dei matrimoni, unioni tra persone di sesso diverso, regolate dalla legge o dal
costume, da cui derivano particolari diritti e doveri per i contraenti e la loro
prole. Si parla di matrimonio, oltre che di nozze, anche per designare la
cerimonia con cui, in forme previste dalla legge o dal costume, dette unioni
vengono sancite. Le persone che contraggono il vincolo matrimoniale sono
chiamate sposi, o coniugi: rispettivamente, secondo il sesso, trattasi dello sposo,
o marito, e della sposa, o moglie. Congiuntamente, essi formano una coppia
coniugale. Le legislazioni matrimoniali, ed i costumi matrimoniali, o usanze
matrimoniali, presentano una grande varietà da Paese a Paese » 28.
« Lo scioglimento del matrimonio, o estinzione del matrimonio, si può
avere, o per la morte del coniuge, od anche, là ove ciò è ammesso, in forza di
legge e delle costumanze, con conseguente rottura di tutti i vincoli giuridici
derivanti dallo stato di coniuge. In particolare ne deriva
27 CHIASSINO G., op. cit., pag. 88.
28 COLOMBO B., op. cit., pag. 73.
130
la possibilità di contrarre uno nuovo matrimonio. Quando il matrimonio viene
sciolto per la morte di uno degli sposi, il coniuge sopravvivente prende il nome
di vedovo, se maschio, o vedova, se femmina, Lo stato in cui vivono i vedovi è
chiamato vedovanza. Là ove esiste, il divorzio costituisce un mezzo regolato
dalla legge o dal costume, per sciogliere il vincolo matrimoniale » 29.
Il fenomeno matrimoni, dal punto di vista del movimento della
popolazione, non costituisce né un'entrata né un'uscita di individui, ma è in
stretta relazione col fenomeno della natalità.
A) Trend
Passiamo ora ad esaminare l'andamento del fenomeno “matrimoni” nel tempo.
Si è detto che i matrimoni costituiscono il fattore sociale più
influenzabile da fenomeni quali, carestie, guerre, epidemie da un lato e raccolti
eccezionali, incoraggiamento alla nuzialità, ecc., dall'altro che ne fanno variare il
numero da un anno all'altro.
B) Stagionalità dei matrimoni
Gli indici di stagionalità dei matrimoni permettono una indagine
sull'andamento del fenomeno tramite l'analisi di quegli elementi che, in certi
periodi dell'anno agiscono costantemente, determinando la periodicità della
nuzialità.
Sui matrimoni, influiscono i divieti religiosi. Proibizioni alle solennità
nuziali, la Chiesa le ha poste dal giorno delle Ceneri (inizio della Quaresima) alla
Domenica in Albis (sette giorni dopo Pasqua) e dalla prima Domenica
dell'Avvento (col quale si inizia l'anno ecclesiastico) sino al giorno dell'Epifania
dell'anno seguente.
Ma non sono solo i divieti religiosi ad influire sul movimento annuale dei
matrimoni. Vi sono, infatti, anche fattori economici, sociali e climatici che
esercitano su essi la loro influenza.
La stagionalità dei matrimoni si appura uguagliando a 1200 la frequenza
complessiva, nei dodici mesi dell'anno, dei matrimoni. Così facendo, la
frequenza mensile dei matrimoni corrisponde a 100.
Diviso l'arco di tempo oggetto di studio in ventenni, vediamo che divieti
religiosi, pregiudizi, ecc., sono stati rispettati.
Infatti, mentre le punte massime cadono in gennaio-febbraio, i minimi si
presentano in marzo, luglio ed agosto (i mesi più caldi) e dicembre, per i motivi
esposti.
In conclusione, quest'indagine si presenta come il risultato della fusione
di due elementi: l'elemento storico e l'elemento demografico.
29 COLOMBO B., op. cit., pag. 76.
131
Il primo non ha fatto solo da sfondo per l'indagine, ma ha assolto una
funzione ben precisa. E' stata proprio la parte storica in esame (XVII secolo)
che ci ha illustrato il motivo di tante fluttuazioni che si sono verificate nella
popolazione (elemento demografico). Infatti, ad ogni evento, positivo o
negativo che sia stato, la popolazione ha sempre reagito. Questa reazione ha
assunto la forma di aumento o riduzione delle nascite, aumento o riduzione dei
decessi, aumento o riduzione dei matrimoni.
I dati necessari allo studio sono stati tratti dai registri conservati presso le
parrocchie di più antica data e sono stati inseriti nelle tavole di cui in
Appendice. Essi, poi, sono stati illustrati mediante grafici che hanno ben posto
in evidenza le oscillazioni di cui sopra.
Tutto il lavoro si è articolato in quattro capitoli: i cenni storici, le nascite,
i decessi ed i matrimoni.
RAFFAELE NIMO
BIBLIOGRAFIA
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DE ROSA L., I cambi esteri del Regno di Napoli dal 1591 al 1707, Napoli 1955.
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XVII e XIX secolo, da: Rivista di Storia dell'agricoltura, n. 3, dicembre 1974.
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1648, Foggia 1932.
MIANI CALABREsE D., Metodologia statistica e statistica dei fenomeni sociali
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PAPA M., Economia ed economisti di Foggia, Foggia 1933.
PILONE V., Storia di Foggia, Foggia 1971.
VILLANI F., La nuova Arpi, Salerno 1876.
ZINGALI G., Demografia, Torino 1930.
132
ESTIMONIANZE DEL CULTO DI ATTIS-SABAZIO
O ERCOLE ACI-IERONTINO AD ACCADIA,
NEL SUBAPPENNINO DAUNO
Il contado di Accadia si va rivelando come un'antica arca sacrale, dedicata al culto della Magna Mater e del suo paredro.
E' del 1970 il rinvenimento di un'antichissima e caratteristica statua della
dea, alla quale è legato anche il toponimo.
Figura 1 - Statua di Eca, l' << acca dia>>
(foto Prof. S. Schiavone)
139
La statua, conservata nel Palazzo Comunale di Accadia, presenta un singolare aspetto tra fallico e androgino, quasi che il popolo che ne introdusse il
culto avesse presente o il mito dell'Afrodite preolimpica, nata in mare da Urano evirato a opera di Kronos, o piú probabilmente il mito di Agdisti-Cibele e
Attis, sul quale c'illumina Arnobio 1.
Data la scoperta di numerose epigrafi e figure, successiva al breve lavoro
dedicato al reperto appena effettuato il rinvenimento 2, sull'argomento andiamo
preparando un nuovo e più ampio studio.
Tralasciando di occuparci per ora di un rilievo d'ispirazione orficacelebrante attraverso gocce di pioggia cuoriformi la ierogamia fra Cielo e Terra
- rinvenuto in contrada « Bosco Bolano » il 19 agosto 1975, il cui esame, già
pronto, viene rimandato a una prossima pubblicazione, intendiamo ora occuparci di una singolare statuina bronzea, trovata nell'agosto 1974 in contrada «
Limitoni 3, altra area archeologicamente fertile e interessante, trovantesi sulla
rotabile Accadia-Monteleone di Puglia.
La statuina, alta una decina di cm., fu salvata da sicura dispersione grazie
alla passione e alla diligenza del Sig. A. Grieco, Comandante dei Vigili Urbani, il
quale l'assicurò al sorgente Museo civico; essa raffigura un eroe o semidio nudo
e sessualmente ambiguo: le fattezze e il piglio sono indubbiamente virili, ma è
evidente l'evirazione e l'artificiosità della zona mammaria. La destra. giunta
monca si presenta in atteggiamento di lancio, mentre la sinistra impugna un oggetto claviforme terminante con testa scimmiesca. I piedi mancano. La testa,
recante una sporgenza falcata, è caratterizzata da un volto grossolano - forse
per influsso d'iconografia tradizionale - e ìn contrasto con la spigliatezza dell'i nsieme, che, specie per il movimento, presuppone una perizia tecnica non anteriore all'età alessandrina. Per tali contrastanti caratteri si ha l'impressione di una
singolare contaminatio fra un paredro evirato della Gran Madre e la tipologia
dell'Ercole grecoitalico.
1 V, 5 sgg. (158 sgg.). Com'è noto Agdisti, nata in Anatolia dal Monte Agdos, per
errore fecondato da Zeus che si accingeva a congiungersi con Cibele dormente, era una
creatura mostruosa, ermafrodita. Dioniso la costringe a evirarsi, e dal sangue della mutilazione nasce un melograno, un cui frutto ingravida di Attis la figlia del re Sangario, Nana.
Agdisti s'innamora di Attis e, quando questi sta per sposare la figlia del re di Pessinunte,
scatena un orgiastico furore che spinge Attis a evirarsi: cruento rito immortalato dai versi
di Lucrezio (Il 598 sgg.) e di Catullo (carme 63).
2 E. PAOLETTA, Presenza greca e messapica nel Subappennino dauno-irpino, estratto dalla rivista SILARUS pubblicato a cura della PRO LOCO di Accadia, Salerno 1973.
3 A parte altri reperti andati irrimedìabilmente perduti, nel 1968 v enne qui alla luce
e salvata a opera del Vigile P. Maselli una lastra di pietra di cm. 70 x 50 recante la scritta
SEPTIMIA / C.P.S. Il A., cioè Septimia, clara puella sita II annorum.
140
Fig. 2. - Attis - Sabazio di Accadia o Ercole Acherontino
(foto Dott. G. Mele)
Siccome ad Accadia la Magna Mater era venerata col nome di
Eca4, accortiativo di Ecate (intesa però come dea di fecondità allo
4 Il toponimo Eca è confermato, oltre che dalla tradizione locale, dal significativo abbaglio del Cluverio che confonde il luogo con Aecae (Troia) nella
141
stesso modo dell'Artemide efesina) e insieme di Ecuba (ma un'Ecuba divina
corrispondente a Cibele-Ecate, in quanto Phrygia Mater, e anteriore perciò alla
laicizzazione operata da Omero nei suoi poemi), è nostra convinzione che la
statuina raffiguri appunto Attis-Sabazio, paredro della Gran Madre. La nostra
convinzione poggia, fra l'altro, su testimonianze toponomastiche ed epigrafiche.
Cerchiamo di enumerarle:
1) sulla rotabile Accadia-Monteleone di Puglia, un Km. prima della contrada « Limitoni », s'incontra il curioso e significativo toponimo « Fontana di
Sabato », pertinente a una sorgente potabile, -ma facile a intobidarsi per la sabbia che vi si agita col pullular dell'acqua;
2) a N. E. di Accadia, in direzione di Bovino, s'incontra presso la contrada « Centra », altra area archeologicamente fertilissima il toponimo « Savuk’
», in corrispondenza di un sacello mariano; il termine, che non ha rapporto con
la pianta del sambuco, può essere la deformazione del grecoóáâïý÷ïò, « (lu ogo) che conserva Sabazio-Sabós; l'interpretazione è confortata da un toponimo
collaterale che suona volgarmente « Chian’ di Tafij », significativo residuo greco
per « Piano del sepolcro »;
3) presso la stessa contrada si ha in documenti medioevali un Castrum S.
Antollini confermato dal dialettale « Santantullin’ » 5, significativa sovrapposizione cristiana del culto per S. Antonio Abate a un precedente toponimo che per
noi potrebbe essere Attidinum, « Luogo sacro ad Attis »; a ulteriore conferma,
nei paraggi s'incontra un assai curioso toponimo, « Chian’ lisciant’ » , che ha
tutta l'aria di essere una deformazione popolare da Planum ëíóóÜíôùí « Piana
dei Baccanti » a indicare il luogo ove i coribanti e le baccanti celebravano le sacre orge; il dorismo si spiega con la presente, già altra volta notata, di Dori ad
Accadia;
4) la menzionata statua di Eca, l'acca dia o Magna Mater presenta fra l'altro
il vocabolo Kule 6, « la Mutilata » (dal grecoêËëïò ) e si pu ò perciò pensare che
il bosco di « Serbarola », situato fra Accadia e S. Agata di Puglia, abbia derivato
il nome da Silva Hvlae, « Bosco della Mutilata », o forse da Silva Huli, « Bosco
del mutilato » o « Evirato », dato che la forma dialettale del toponimo, « Sirvarul' », presuppone un maschile;
5) nell'antico borgo, ora sciaguratamente diruto, nei sotterranei del Palazzo Ducale, sorto presso l'antico Convento di S. Vito, a sua volta innalzato su un
preesistente Hekabeion o tempio in onore di Eca, si conservava una caratteristica
pietra sacrale, detta volgarmente « preta
celebre opera Italia antiqua, Lugduni Batavorum, 1.624, p. 13; e dal Pacichelli che ci fornisce la
grafia Echa (Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703, I, 305).
5 Nel sorrentino si ha Sant' Andulin ‘ per S. Antonio Abate.
6 Hule si legge anche nelle Tavole lguvine (cfr. V. PISANI, le lingue dell'Italia antica
oltre il latino, Torino, 1064, T. I. IV, 17).
142
du lu rasul’ » cioè « Pietra del rasoio » a ricordo, pensiamo noi, dell'antichissimo
rito dell'autoevirazione a cui si sottoponevano, nel furore orgiastico i Coribanti
o Galli, sacerdoti di Cibele e di Attis 7 .
Lo slittamento dell'Attis primitivo nella tipologia dell'Ercole grecoitalico,
è provato, fra l'altro, dall'oggetto claviforme a testa di scimmia o, meglio, di
Cercope che l'eroe impugna nella sinistra: Attis era un paredro di morte e resurrezione, ma lo stesso Ercole, che, quale capo dei Dattili idei8 - i sacerdoti del
corteggio della Gran Madre - era anche lui un paredro di Cibele, era disceso
agli inferi e ne era tornato vittorioso; aveva inoltre vinto i Cercopi, demonietti o
gnomi predoni e faceti, dalla testa di scimmia 9. Per giunta, altro elemento significativo e determinante, nel Subappennino dauno si venerava un Hercules Acheruntinus 10.
Non va dimenticato che la Tabula Peutingeriana presso Aecae, la città a cui
appartiene l'epigrafe concernente fflercules Acheruntinus, presenta un curioso toponimo, Hercul-Raní; forse l'insoluto rebus è da spiegare come adattamento
osco di un equivalente greco: espressione osca che latinamente poteva corrispondere a Herculea ranu (‘ñáíßò),« Gocce (di sangue) di Ercole » (evirato) 11
La figura di Ercole compare anche sul Signum Aquadiense raffigurante Eca.
La contaminatio sincretistica fra Attis ed Ercole potrebbe essere avvenuta
in età alessandrina: ad Ercole, riconoscibile dalla clava a testa di Cercope, oltre
che dall'atteggiamento generale, è rimasto di Attis la evirazione e la sporgenza
falcata, posta sulla fronte come a ricordare il cruento rito.
ERMINIO PAOLETTA
7 E' noto che per tale rito si ricorreva alla pietra invece che al ferro (cfr. CATULLo,
63, 5). Non è inutile ricordare che anche Virgilio in Aen. VII, 188 sg. ci presenta con la falce
il pater Sabinus, cioè Sabus.
8 « Le groupe dactlylique doni Héraclès est l'ainé et le chef » cfr. P.LÉVÊQUE,
Continuités et innovations dans la religion grecque de la première moitié du Ier millenaire, in «
LA PAROLA DEL PASSATO » CXLVIII - CIL, Napoli, 1973 pag. 29.
9 Cfr. la metopa dell'Heraion sul Sele (560 a. Cr.) in P. ZANCANI MONTUORO
e U. ZANOTTI BIANCO, Heraion alla foce del Sele vol. II, p. II, Roma, 1954.
10 C.I.L., IX, 947, da Aecae (Troia).
11 Sul rebus di Hercul-Rani, si può notare la perplessità del Mommsen in C.I.L.,
IX, p. 85. Per l'osco cfr. ranu nelle tavole iguvine, II; 19 (V. PISANI 0. C.). Rhanis è anche il
nome di una ninfa di Diana nelle Metamorfosi ovidiane (III, 171); e Diana ci porta a Eca.
143
LA DAUNIA GRECA
Presenza dorica e orfica ad Accadia, nel Subappennino dauno
Il generoso contado di Accadia, che si viene sempre più chiaramente rivelando come un'antichissima area sacrale, non cessa di riserbare sorprese.
Dopo la singolare statua di Eca, l'accadia o « madre celeste », trovata nel
19701, e dopo il rinvenimento in contrada « Limitoni » della bronzea statuina 2
di Attis-Sabazio, corrispondente all'Hercules Acheruntinus greco-italico 3, paredro della Magna Mater, ecco venir fuori, ora, in contrada « Bosco Bolano » 4,
anch'essa archeologicamente assai fertile, un masso a forma di parallelepipedo
con faccia anteriore ricca di figure in bassorilievo; dimensioni cm. 130 x 90 x
30.
La scena, di evidente ispirazione orfica, ci pare raffiguri la ierogamia fra
Cielo e Terra: il Cielo, sotto forma di nube, feconda con gocce cuoriformi la
Madre Terra raffigurata pitagoricamente con un quadrato; a sua volta la Terra,
denominata accanto col vocabolo dorico FA (GA), trasmette l'umore genitale
al sottosuolo attraverso la lettera alpha, indicante il principio di ogni cosa. Il
simbolo visibile a destra, a forma di tronco conico può essere una raffigurazione aniconica della Magna Mater, vista come picco montano e come Signora dei
monti: caso di litolatria come per la Pietra di Pessinunte inviata nel 204 a. Cr. da
Attalo 1 in dono ai Romani.
1 cfr. E. PAOLETTA, Presenza greca e messapica nel Subappennino daunoirpino, Salerno
1973, pubblicato a cura della PRO LOCO di Accadia. Sull'argomento, data la ricchezza di
epigrafi e di figure successivamente scoperte, si va preparando una più ampia e documentata edizione.
2 Rinvenuta nell'agosto 1974 e salvata grazie all'appassionata diligenza del Sig. A.
GRIECO, Comandante dei Vigili Urbani. La scoperta è stata oggetto di articoli, da noi
pubblicati su varie riviste.
3 Cfr. C.I.L., IX, 947, da Aecae (Troia).
4 Il rinvenimento è avvenuto nell'agosto 1975; il 19 di questo mese fu effettuato
un sopralluogo da parte del Prof. A. GIAMPAOLO Sindaco di Accadia, del Vice-Segr.
com. A. BENTIVOGLIO, del Geom. S. MAULUCCI e del Vig. Urb. P. MASELLI; quest'ultimo richiamò l'attenzione dello scrivente con un preciso e dettagliato schizzo.
144
Meno chiaro rimane il significato della figura, a forma di quattro colonne
riunite, visibile a sinistra. Per noi si tratta dei quattro pilastri che sostengono il
mondo secondo la cosmologia orfica5.
La menzionata statua di Eca, l’acca dia, attraversò anch’essa, nella sua
lunga storia, una fase orfica, come si rileva da alcuni segni su di essa tracciati in
età imperiale: 1) un teschio nereggiante che presenta due bianchi occhi adattati a
volti femminili, disposti in opposta direzione e forse raffiguranti i due principi
dialettici di giorno e notte, vita e morte; 2) su un grande alpha è scritta in
piccolo la frase ï ñöéêòí óÞìá (orphikòn sEma), definitiva conferma ove
ancora ce ne fosse bisogno della nostra interpretazione.
E’ nostra convinzione che il toponimo Bola, da cui Bolano, sia da
riportare al greco âùëÜ (bOlà)6, e ciò perché il vicino Monte Crispignano, ora
consacrato alla Madonna del Carmine venerata su una sacra roccia, era
consacrato nella fase latina, come risulta dallo studio sulla statua di Eca, alla dea
Carmenta; del resto anche il toponimo Crispignano può essere la corruzione
popolare del latino-bizantino ÷ñçáì ï planum, « (Alti)piano degli oracoli ». Forse
un’analoga origine ha il toponimo Faravella, pertinente a una cima del
Crispignano: esso potrebbe valere « Soglia di Fanes » (Öáíáâçìòò), una specie di
olimpo per i Greci del luogo, essendo Fanes la divinità principe degli orfici e
personificazione del cielo stellato.
La presenza di Greci di stirpe dorica è attestato nel contado accadiese da
vari toponimi: « ai Greci », « Fossa dei Greci », « Bocca Dora » (quasi valle
dorica), « Acqua Torta » probabile adattamento di Accua Doride, un’antica città
di cui parla anche Livio in un contesto di lezione peraltro controversa7.
I Greci giunsero, però, solo in un secondo o terzo momento; molto più
antico e proveniente da lontane contrade risulta il misterioso popolo
introduttore del culto della Magna Mater. Ciò risulterà evidente dal nuovo studio
in preparazione sul Signum Aquadiense.
ERMINIO PAOLETTA
Cfr.) ôåôñáêßï íï ò ê óóì ï í in ORPH. ad Musaeum, 39.
Forma dorica per âï íëÞ (boulé), «volontà» e poi, con progressivo slittamento,
anche «oracolo».
7 XXIV, 20: Accua oppidum per eos dies vi captum. I codici danno anche Acuca.
5
6
146
Il suo è un ritorno al mondo della memoria come un tuffo in un’acqua che
purifica e rigenera; quindi, su uno sfondo di ricordi e di rimpianti, si dipana il suo
canto, sospeso tra sogno e ricordo.
Ci troviamo alla presenza di un vero e autentico recupero memoriale,
ritmato dal verso e sostenuto da emozioni sincere e profonde.
La nozione del tempo, comunemente intesa come ritmica successione di
passato, present e futuro, non sempre ha rinvenuto uguale dimora nelle opere del
pensiero, che per sua natura è fuori della storia e quindi alieno dalle scansioni
cronologiche che regolano il flusso degli anni. Già gli antichi greci, che pure si
muovevano nell’ambito delle tre unità aristoteliche, teorizzarono per l’arte una
rielaborazione del reale nella rappresentazione fantastica e coniarono per questo
processo intellettivo il termine « idolopea », che, secondo lo Pseudo-Longino
serviva « ad indicare la situazione psicologica in cui le cose che vai dicendo sotto la
spinta dell’ispirazione e del sentimento pare che tu le veda e che le ponga sotto gli
occhi degli ascoltatori ». Le immagini della realtà o « idoli » vengono quindi mediate
in tale prospettiva dall’ispirazione e dal sentimento e fissate in un contesto poetico e
narrativo senza determinazioni temporali o contingenze storiche. Ma la memoria,
quando richiama dal baratro del passato esperienze ed eventi, trasferisce i suoi
ricordi sullo schermo della coscienza individuale e li dipone in una successione
cronologica, rivivendoli tuttavia in un presente che tende ad annullare ì trapassi e le
sequenze temporali.
« Allorchè, scrive infatti Sant’Agostino, noi diamo del passato delle narrazioni
veridiche, ciò che ci perviene alla memoria, non sono affatto le cose stesse, che
appunto hanno cessato di esistere, ma si tratta di termini concepiti secondo le loro
immagini, le quali attraversando i sensi hanno segnato il nostro spirito delle loro
postille. La mia infanzia, per esempio, la quale non è più, esiste in un passato che
ormai è anch’esso inesistente; ma allorquando io la rievoco e rinarro, è nel presente
che io la intuisco, perchè la sua immagine è presente nella mia memoria ».
Nella coscienza individuale il passato, dunque, tende ad essere assorbito dal
presente, che si pone come unico protagonista di rievocazione e di giudizio.
Non a caso proprio S. Agostino raccoglie nelle Confessioni la drammatica
rievocazione del lungo conflitto che sconvolge l’interiorità della coscienza e ricerca
nei valori eterni dello spirito la quiete, che è meta e quotidiana presenza del vivere
cristiano. Anche Dante, nel suo itinerario salvivico, proietta sullo schermo
dell’eternità le umane vicissitudini, che varcano il tempo e s’affiggono
nell’immortalità che vive fuori della storia, ed oltre la contingenza. La vita e le
stagioni, gli affanni e le passioni scolorano per tale via le loro cronologiche
collocazioni e rinnovano quotidianamente il loro ritmo esistenziale nella coscienza
individuale. Il memorialismo, quindi, l’irrazionalismo, il romanzo psicologico e le
poesie evocative predisposero l’intuizionismo di Henri Bergson, secondo cui il
tempo, nella conoscenza interiore dell’individuo,
148
smarrisce ogni riferimento sensoriale e cronologico per affermarsi come perenne
immagine di presente e passato. In tal modo la nostra esperienza si carica di valori
e si sostanzia di spiritualità per assumere consapevolezza e recuperare il passato che
è sempre presente e mai « perduto ». Su questa via si sarebbe posto poi Marcello
Proust, che avrebbe affidato alla memoria la « ricerca del tempo perduto » e il suo
recupero memorativo.
A questi approdi adduce appunto il libro di Gerardo Maruotti, che non solo
sottrae la sua infanzia all’edacità temporale, ma anche quella nostra antica civiltà
contadina, che di giorno in giorno si va sfaldando sotto l’incalzare del progresso.
Due piani psicologici, per lo meno, si intrecciano in quest’opera con la
flevocazione dell’infanzia e con la ritessitura delle coetanee costumanze daunie, che
ricantano con affettuoso rimpianto la Puglia patriarcale dei padri e l’arcaica
esistenza di genti felici. Cosi lo scampanio a rintocchi o dispiegato, che vibra in
molte pagine del libro, sollecitando quasi una familiare sensazione di suoni ci rituffa
nel passato che è perennemente presente:
« Ieri... oggi... sempre, a quest’ora, o campana!
Non resterà che questo tuo singhiozzo
tra un nugolo di corvi che di schianto
si leva in aria, appena tu rintocchi ».
Fuori dai termini cronologici ed oltre gli schemi logici sentiamo in queste «
voci » di campane dai vari nomi e dalle varie modulazioni come contemporaneità
l’antico, inseguiamo il palpito armonioso di quei bronzi, riviviamo quel clima e
naufraghiamo nell’onda immensa del ricordo. Con questo procedimento tutto il
passato di Sant’Agata di Puglia, il borgo natio del poeta, si proietta sullo schermo
memoriale e denunzia la sua continua presenza.
Ma accanto al borgo natio rivive la Puglia e la gente daunia con i suoi eterni
problemi di sete e dì miseria, di lavoro e di transumanza, di privazioni e di
raccolto su uno sfondo brulicante di pastori e di armenti, di massari e di muli, di
campieri e di umili animali:
« La Puglia, o Dio, la terra tua promessa?
In questa solitudine assetata
le processioni che dai borghi vanno
alla Madonna Incoronata, a fiumi,
sono tribù del popolo Israele
che ancora si raccolgono nel maggio
al tempio del Signore? Pei tratturi
le nenie ronzano, sospese in cielo.
Qui l’arca santa, in questa gente antica,
ha grande il tabernacolo nei cuori ».
149
In questi versi il rito secolare dei salmodianti pellegrinaggi al tempio
dell’Incoronata richiama l’immagine del popolo biblico, tormentato come quello
pugliese, dall’arsura e dal misticismo. Le due rievocazioni si sovrappongono e si
fondono in una sacrale visione del vivere e del soffrire, mentre la gente daunia si
innalza alla solennità di popolo prediletto, a paradigma del moderno tormento
esistenziale.
Antico e nuovo, sacro e profano, storia e cronaca si intrecciano in un canto,
intriso di pianto e proiettato nell’epopea con un procedimento dimesso e
discorsivo, come si addice a versi che ricalcano gli emistici biblici in uno stile
compatto e commatico:
Potrai nel Tavoliere sitibondo
tornare un primitivo della Bibbia:
nerastro un gran deserto fa da sfondo
ai suoi Abrami curvi sugli aratri.
Tu poi li vedi a maggio questi antichi
guardare nubi in fondo all’orizzonte;
e quando scende l’acqua, udrai ronzare
un fremito di gioia lungo il deserto:
L’acqua del cielo qui è la nostra manna.
Dal cuore di questo popolo paziente e laborioso sgorga, come la tanto
agognata limpida acqua, un inno di preghiera, una fede semplice e rasserenante che
il Maruotti coglie nella sua essenza di esaltazione mistica e di abbandono spirituale:
Incoronata, terra di preghiere,
trentuno sono a maggio le tue fiere.
Nenie infinite di sagre pugliesi
innalza il Tavoliere dai tratturi;
tra biade in onde sono gli abituri
navi ancorate dai camini ascesi.
Come nomadi erranti in processione
dai monti a te scendemmo alla pianura.
Tra i sassi della via nella calura
ci dondolava a sbalzi il carretttone.
La fede avita dei padri, antichi patriarchi d’un popolo, che, tra mito e
leggenda, ritesse la propria storia, rivive non solo nei riti e nei pellegrinaggi, nelle
sagre e nelle orazioni, ma anche nel lavoro, quel duro lavoro del contadino
pugliese, che con l’aratro e la zappa contende all’avara e arsa terra le biade o la
friitta, il grano o le medesime ragioni del vivere. Ma tutto un patos religioso
avvolge uomini e cose, sofferenze e lavoro in una commossa esaltazione mistica,
che infonde al canto un accorato accento di preghiera, un sommesso tono di
implorazione. E per i maggesi e le viti, per gli aratri e gli animali, per i figli e i
raccolti, per le seminagioni e gli emigranti, per i morti e i vivi
150
s’invoca fidente la benedizione di Dio, sempre sollecito delle necessità umane e
presente in ognì occasione:
Chi in questo piano sconfinato porge
l’orecchio al suono delle spighe, a maggio,
il fiato ancora sente, egli, di Dio,
ne ascolta la presenza nel deserto.
Sullo schermo della tenace memoria si agitano, quindi, le vicende della
comunità pugliese, che sono di ieri, ma che già hanno i contorn; del mito e
sembrano perciò appartenere ad un’età favolosa e primitiva. A questi umili
eventì di un laborioso popolo di pastori e di campieri, di popolane e di
fittavoli, di possidenti e di artigiani, il Maruotti porta la sua adesione di uomo e
di pugliese, la sua sofferta solidarietà di contadino e di poeta.
Così la fantasia trasfigura i fatti quotidiani di una gente in continua lotta
con la natura ingrata e le avversìtà atmosferiche, con la miseria e
l’imponderabile, che qui diviene crudele legge del vivere e dell’agire. Le
sterminate distese del Tavoliere, gli erbosi nastri dei tratturi, l’antica
transumanza, l’infinito notturno silenzio delle campagne, i vasti orizzonti delle
pianure, gli immensi cieli stellati, glì echeggianti rintocchi delle campane hanno
risonanze arcane ed accensioni cosmiche tanto da farei ritrovare naufraghi
nell’occano dell’universo:
A tarda notte tace nero nero,
mesto della sconfitta, il Tavoliere.
Il cielo, ignaro, arde di stelle, eterno.
mentre in questa immensa verde pianura le cascine sono ancorate come navi,
pronte a salpare per l’ignoto:
Tutta murmure ed onde è la pianura,
un oceano dolce a contemplare,
ove cascine dall’ondante fumo
sembrano navi immote ed ancorate.
Anche il rifiuto della moderna tecnologia rientra in questa visi3ne di
struggente rimpianto per un’età arcaica, felice e serena, decisamente tramontata
e rivìssuta solo sull’onda del ricordo. Un mondo fatto di semplicità e di sogni,
di parsimonia e di ideali, è scomparso trascinandosi nel gorgo dell’oblio pastori
e mandrie, aratri e vanghe, muli e butteri con tutta una fitta trama di episodi
gentili e dì esistenza tranquilla. I trattori, le mietitrici, le macchìne, le auto,
hanno sì alleviato la fatica dei campi, ma nel contempo hanno aperto una
profonda insanabìle ferita nei costumi semplici e patrìarcali della nostra gente
contadina.
Il progresso ha sconvolto le campagne e torme di uomini sono
151
fuggiti in città, dimentichi della bontà ineguagliabile della terra e sordi ai richiami
della sua georgica pace. Fra questi transfughi anche il Maruotti, che ritorna però,
con il pianto nel cuore nella sua casa natía invocando:
E’ questa, o padre, la mia casa ancora!
Qui il mio mondo! Un esilio la città!
Tu che volesti che io studiassi tanto,
Un esule del figlio tu ne hai fatto.
Apri la porta! Accogli un disilluso!
Non vedi con quanta ansia son venuto?
lo sono venuto per piangere un’ora!
Apri la porta al prodigo figliuolo!
Perchè egli vuol ritrovare, come lo ritrova in questi canti, quel mondo
perduto e rituffarsi nella genuinità della sua gente:
Io voglio ritrovare la mia pace
pei vichi e per le balze del paese,
tra i miei ulivi della Tofra, il bosco
di Serbaroli, il campo di Gìannuzzi.
Così il suo itinerario umano e poetico si conclude tornando alle origini e
ritrovando nella memoria tutto il calore e la bontà di una età scomparsa.
Folclore e dramma, miseria e lutti, leggende e fatti, uomini e bestie scavano,
quindi, la loro dimora nelle pagine del volume e nella memoria che li richiama
dall’oblio e li affida al futuro. Sono piccole cose di un minuscolo territorio, che nel
quotidiano fluire del suo vivere sa rinvenire gli eterni valori dell’amicizia e della
bontà, dell’ironia e della fede, della parsimonia e della realizzazione, dell’intelligenza
e della semplicità. Anche la morte, in questo clima surreale e quasi religioso, ha la
solennità di un rito tanto da confondersi con le grandi festività liturgiche per
stringersi in un unico abbraccio di fede e di pianto:
« Era Natale! Non consente il rito
che il giorno della nascita di Cristo
suonino in pianto le campane a morto.
Volemmo le campane tutte quante
piangessero con noi la mamma nostra.
Per tutti i morti piange la campana:
era pur mamma un’anìma di Dio! ».
La civiltà contadina, vanto ed epopea dell’autore, permea, dunque, queste
liriche che sanno dare una voce al lavoro umile, agli uomini semplici, agli animali
affaticati, alle terre avare. Come un biblico pa152
triarca il vecchio genitore, infatti, osserva e quasi numera con plastica dignità i capi
del suo gregge, frutto di tanti sacrifici e di sì modesta fatica:
« Usciva il gregge dagli stazzi antichi.
Sedeva, solo, il babbo accanto all’uscio;
tranquillo accarezzava quelle agnelle:
per tutte aveva un nome, un dolce nome ».
Ma i campi si popolano di antenati, le zolle avite hanno una storia, il passato
riemerge ammonitore e...
« Piangeva il babbo alle memorie sante.
Li vidi, o morti, tutti quanti arare
nel nostro immenso cimitero spoglio ».
Gli animali, in questa arcaica vita di lavoro e di genuinità, condividono con
gli uomini emozioni e palpiti, onde la puledra non riportando a casa in groppa il
suo padroncino quasi con umana sofferta compartecipazione pascolianamente:
« gli orecchi raccorciò, puntò le zampe;
la prima volta la senti nitrire ».
Ma di questo mondo potremmo ancora additare il conciso sentenziare o il vivace
dialogare, il dignitoso soffrire o il misurato gioire, le secolari contraddizioni o le
umili credenze in una tensione lirica che sa evocare e plasmare un’età sì lontana
eppure sempre presente.
Non può destare sorpresa in questo clima di rievocazione e di recupero
anche l’uso metrico tradizionale, che ben s’addice, a nostro avviso, ad un’epopea
che sa di antico anche se viene memorialmente rivissuta con animo moderno.
Anche l’impasto linguistico conserva il sapore delle cose lontane e quando utilizza
nuovi apporti tutto avviene sempre con discrezione e garbo. Le parole, in modo
particolare, pur avendo in molti casi il valore quasi di reperti archeologici,
adempiono alla duplice funzione di testimonianza e di rievocazione memorativa.
Il lessico, per tale via, si arricchisce di termini che vanno scomparendo e che
il Maruotti ha il merito di conservarci (bardi, bardarì, pumpinero, zeza, spartenza,
cavezza, trapeto, trapetaro, centrella, fiscella, locco, trasonna, pignone, frischietti,
ecc.). Anche qui l’antico e il trascorso rivive con nuova grazia nel presente.
Siamo come si è detto, dinanzi ad un vigoroso recupero memoriale di una
civiltà quasi scomparsa e lo stesso autore inconsciamente sa di operare tale rinascita
quando scrive: « Certi fatti sono rivissuti con la sincerità del cuore nella perennità del
mio affetto e del mio rimpianto per un primitivo e felice mondo scomparsi, di
fronte al rapidissimo incalzare dei tempi nuovi ». E di questo noi gli siamo
sinceramente grati.
POMPEO GIANNANTONIO
153
LA POESIA « PUGLIESE » DI MARUOTTI
A guardar dentro a questa nuova poesia del Sud, poniamo dell’alta Puglia,
tra S. Agata di Puglia Manfredonia e Siponto, due modi sembrano più decisamente
proporsi: quello di chi guarda alle cose, alle piccole cose della realtà e della famiglia,
e quello di chi, invece, dinanzi alle stesse si pone in stato di reminiscenza e di
soggezione. Non sono vie diverse o del tutto disgiunte dal fare poesia o da quello
che poi si traduce in effetto di poesia. Ma è certo che la condizione iniziale è
diversa: attraverso la prima via si giunge a quella civiltà « contadina », di che mi pare
genuino rappresentante Gerardo Maruotti: attraverso la seconda via si approda al
mito, ad una realtà che più vale e pesa quanto più si sveste del concreto e si rifonde
nel passato, e di questo modo mi pare schietto rappresentante Cristanziano
Serricchio. E’ evidente che lì, nel primo, domina la cosa in quanto tale e per essa
l’elegia della vita rusticana; qui, nel’ secondo, la suggestione della realtà e per suo
mezzo l’epica della vita umana che guardando nel passato fila insieme presente e
futuro. Se lì, nel primo, si sente operare fecondo l’alito della campagna, il fiato
generoso del lavoratore, l’umore terragno dei venti umidi del Sud; qui, nel secondo,
si prova il tremore delle grandi cose, affidate all’eternità del vivere quotidiano,
l’infinita nostalgia delle attese secolari, la lusinga perennemente giovanile delle fiabe.
Lì il contadino, il proprietario o il fattore, il vecchio e il giovane con legami
insolubili dinanzi alla casa e alla campagna; qui l’ombra impalpabile, eppure
possente, degli dei della terra o del cielo, che si ridestano, la forza indomita di
Diomede, creatore e custode di quei luoghi, presente ovunque « ora che il vento
sibila (come si dice nella bella raccolta L’estate degli ulivi, tra i ruderi di San Nicola e
nelle cale il pescatore riasculta « l’urlo saraceno ».
Il Maruotti parte contadino da Sant’Agata di Puglia e torna professore, ma
poi non cessa mai di essere contadino. La terra non è solo ispirazione, segno-limite
di una meta a cui costantemente si guarda o su cui si commisurano tendenze e
amori; è innanzitutto un fatto istintivo e naturale: un modo di essere che risale alle
origini della vita e che poi diviene un dato di coscienza. Cresce la cultura, variano le
esperienze, si moltiplicano le occasioni, ma l’uomo resta quello ch’è stato nella sua
prima infanzia, l’uomo di Sant’Agata di Puglia, che si duole di essere cresciuto e di
avere rotto i legami che origini e forse proposìti perennemente hanno intessuto e
intrecciato. Quando però egli rientra
154
in paese si sente escluso, escluso perché ha tradito, e bussa invano alle porte
amiche e chiede di restare. E’ un po’ la sorte del giovane dei Malavoglia, che ha
abbandonato il paese e poi, rientrando, amaramente non più vi si riconosce: chi
resta è della tempra di padron ’Ntom. Ha un bel dire: i fratelli di Sant’Agata
non sembrano commossi dalle preghiere dell’esule che ritorna professore ed ha
il piglio carducciano:
Aprite, buona gente! Un professore
bussa alla porta, un triste peccatore!
Gli abiti miei «di lusso»; oh, non guardate!
Lo sapete che, dopo tanto studio.
ve lo confesso, so meno di voi?
Voi, sì, sapete e soffrire e pregare!
Voi, sì, sapete guadagnare il cielo.
Aprite, buona gente cara a Dio!
Voglio il Rosario qui con voi cantare!
lo lo cantai, bambino, in questa casa,
sopra i ginocchi della mamma mia.
E’ la notte di quaresima. li sud purga nel silenzio e nell’intimità familiare,
a porte sbarrate, le avventure e i divertimenti del pazzo carnevale. Non c’è
ascolto per chi viene di notte e da lontano. C’è da sentire cosa dice la coscienza
ed ognuno recita il Rosario per sé e per gli altri: si può pregare per il forestiero,
non gli si può darc ospitalità. Risorge cupa e grave l’ombra del peccato che la
storia trid-ntina e la dominazione spagnola impressero a fuoco nella coscienza
civile del vecchio Sud.
Si tenta allora la porta di casa. Vi dovrà pure essere, lì, qualcuno che
attende:
Vecchio portone di mia casa antica,
io venni da lontano e sei sbarrato
Il mascherone col battaglio in bocca
fulmineo mi gettò lo sguardo in faccia.
« Uomo della città, tuo padre ha chiuso
a te le porte. Le ha sbarrate! Vedi?
Uccello, tu, di bosco, via volasti
e qui mettesti piede al funerale.
Ritorna al grattacielo di città.
[...] ».
« Vecchio portone che vedesti mamma
seduta sulla soglia a far la calza,
tu che vedesti mattiniero il babbo
caricare bisacce ai nostri muli
[...] Apri la porta! Accogli un disilluso!
Non vedi con quanta ansia son venuto?
lo son venuto per piangere per un’ora!
Apri la porta al prodigo figliuolo! ».
155
Ma anche questa volta nessuno sta ad attendere. Gli anni passano per tutti: crescono
i lutti: le amarezze soffocano pietà e comprensione. Questo, almeno, crede di
cogliere il « figliuol prodigo ». Non si rinnova per lui la parabola evangelica. In
realtà è un’altra cosa: nessuno può tornare indietro: nessuno può rifare due volte lo
stesso cammino: chi si allontana dalla propria terra, chi sbatte l’uscio di casa sua, ha
perduto ogni diritto di rientrarvi. E’ la legge dei patriarchi del Sud, dei capifamiglia
legati agli usi e ai modi, che hanno voluto ed ereditato, come a religione inviolabile.
E’ tutto questo non un’invenzione crepuscolare, una malinconia dell’animo, un
gioco del dilettantismo sentimentale, che più o meno tutti sentono ripiegando nel
passato; è il rigore di una legge avita, è l’imperio di una consuetudine che non
impunemente si può offendere. Se lì, nei giorni di quaresima, si scopre la terra del
peccato, l’ombra del rimorso; qui, nel chiedere asilo quando non se ne ha più
diritto, si urta contro il passato. le buone regole di ogni comunità famigliare.
Nell’un caso e nell’altro si è decisamente oltre la sfera del sentimento e delle
passioni offese o umiliate; si è nella storia e nella civiltà millenaria della gente del Sud
che su queste cose ha costruito vicende e testimonianze, ricavandone illusioni,
amori, dissapori: tutte le certezze, ad ogni modo, suggellate, dal passato e
riproposte come tali al presente e al futuro. Non so se valga ancora al « figliuol
prodigo », al « professore » « che bussa alla porta » in tempo di quaresima,
dichiararsi vinto, promettere e sperare una reintegrazione nel passato remoto nel
mentre si denunciano volontariamente gli errori del passato recente e del presente.
Egli lo fa, certo, ma lo fa, a me pare, senza speranza:
Credetemi! Non valse a me la pena
conoscere la vita sino in fondo.
[...] Ritorno indietro al dolce mio passato
in fuga coi pensieri al vecchio mondo;
purificato dai ricordi antichi
esalerò quest’anima moderna.
E’ un proposito: e basta. Dentro c’è tutto il tu~bamcnto di una coscienza
che sa di avere tradito e sa che al tradimento non si può più riparare. Ognuno è
prigioniero di quel che fa: e non v’è pietà cristiana che paghi scotto: non v’è
preghiera o acqua che lavì. Si è soli nel bene e nel male: e non v’è passaggio o
viatico alcuno dall’uno all’altro e viceversa. Questa inesorabilità « pagana » scorre al
fondo della linfa pugliese di Maruotti: e da questo fondo, ch’è etnico civile e
sociale, si deve partire per capire gli esiti, i guizzi, i pronunciamenti di tutta la sua
poesia.
I mezzi di realizzazione sono soprattutto due: l’osservazione realistica e
l’esegesi meditativa. Le cose si piantano robuste nella fantasia, che ha poco gioco e
limitata libertà, e poi si travasano tutte d’un pezzo, chiare, definite, senza aggiunte
ornamentali: sono res, appunto, non verba. Non c’è godimento di esse; non c’è
compiacimento. La parola non
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è canto: il canto non è suono: il suono non è vagheggiamento. Tutto è a portata
di mano, si potrebbe dire: l’autore fa toccare le cose, non le sottrae o le
annebbia alla vista del lettore. Eccole, lì, quasi ferme o ferme quel tanto che
giovi a loro per coglierle compiutamente con uno sguardo d’insieme. Sono
cose forti, pesanti, mai lievi o lievi per quel tanto che voglia il ricordo.
Smussate, mai; rozze, anzi, cioè sane, modellate con vigore e con taglio netto e
perentorio:
Nel mio paese vissi coi campieri;
li vidi a schiere risalire al monte
su barde o selle, su calessi e carri,
pellegrinaggio immenso che ogni sera
brusiva serpeggiando sui pendii.
Mestieri, attività di campagna, nomi di lavoratori, attrezzi agricoli
valgono per se stessi, parlano loro, non si appoggiano ad aggettivi di sorta, son
soli dinanzi alla natura, sola anch’essa. L’aggettivo, quando c’è, come nel «
pellegrinaggio » ch’è « immenso », non qualifica, in genere, precisa il numero o
la specie. Otiando si coglie il poeta nella ripetizione, questa non delude mai la
matrice, ne conserva anzi l’impronta: così quel « pellegrinaggio immenso », che
ogni sera « brusiva serpeggiando sui pendìi », si adonera in un altro luogo (e
non è il solo) per il « gregge lento » che ronza « a serpentina pei tratturi ». E’ una
natura vista e fermata nell’immagine più probante ed emblematica: un
paesaggio visto dall’alto a cui il poeta non aggiunge nulla di suggestivo, ma che
realizza e resta così come si presenta. E Zi’ Rocco è dritto e fermo come una
rupe, « a più di novant’anni » va sulla mula « in fretta in fretta all’orlo del dirupo
», « arzillo, arzillo », come « un giovane di primo pelo ». E padre e mamma
parlano di dotare i « sette figli » comprando terra « quanto l’occhio ne scopra »,
anche se sanno che « in masseria, con gente di confine » v’è sempre « pericolo
di guerra ad ora ad ora ». Passa la mula che mai galoppò come « puledra », né
saltò « coi sauri cavallini », mentre « sacchi e bisacce » regge a dorso « dalla
tenuta al paesello a sera ». Passa il vecchio pastore, « esile e stanco », scuote « un
campanello » e si ferma « un poco » e ricava di qua « una giumella di farina », di
là « un misurino d’olio ». Sul fondo « il castello di Sant’Agata » che, pare lanciarsi
« in bilico sulle digradanti casapule », di sotto, gli « offrono, timide, a braccia
tese, cinque campanili sonori »: è una preghiera ed uno scongiuro, insieme, a che
non venga il finimondo. Ridente s’apre la « piazza di Sant’Agata di Puglia »
come « una terrazza », « cinquanta metri lunga, né più larga » e lì si aduna tutto
il « borgo » per la « festa di San Rocco », con l’orchestra al centro e luminarie
attorno »: da lassù non è raro cogliere l’incedere di sposi « dritti, dritti, tra
pioggia di confetti e monetine ».
« Aspro », invece, si diffonde l’« odore di morchia », che la caverna «
vomita col fiato caldo d’uomini e di muli »: dentro al trapeto « rotolando stride
» la macina e Rocco di Ciotta « le pestate olive in157
sacca ai fichi, che altri affila sotto i torchi ». Nessuno è di troppo: ognuno ha il suo
lavoro e silenziosamente v’attende. E’ un’umanità seria, che ama poco gli scherzi e
per nulla le chiacchiere. Lavora e fatica: e il tempo passa nel muto raffronto tra la
realtà paesana e l’uomo. Se le cose si animano, come nei Ricordi della fontana vecchia,
con le donne che « si avvicendano a porre i barilotti alla fontana » o con il
maresciallo che immerge « una cannuccia nel barile e succhia » « e succhia pur
Rampino, Don Mimì », sempre però esse rimangono se stesse, animate tutt’al più
dal contatto (oggi si direbbe, dalla frequentazione) con gli uomini. E qui la «
fontana vecchia » si allieta « dei canori uccelli » « e dei campani delle greggi erranti »;
ascolta « le lotte, i rombi dei barili urtanti », invita le oche « in acqua », ammira «
nella valle » le « residue navi resistenti al sole » e, nonostante il silenzio ignaro della «
gioventù novella », canta tutto il suo passato di « battaglie combattute coi barili,
duelli e pace, amori, occulti abbracci e cavalieri e rodomonti infami ». E’ questo il
limite a cui può giungere l’osservazione diretta delle cose: farle, cioè, parlare, come
parlavano agli antichi e non come entrano nella suggestione dei moderni. Il contatto
è diretto. Non v’è tramite, non vi sono sovrastrutture che imprigionino la realtà. Si
fanno avanti le cose e assumono in proprio le file dei rapporti del colloquio. E di
questo v’è una spia eloquente. Quando il ricordo sta per prendere tono a sé e
incantarsi staccandosi da quel ch’è d’intorno e giace nel presente, allora si avverte
uno strappo energico, vigoroso e lacerante. E’ il tempo del verbo che fa da
cerniera. Si passa dall’imperfetto al presente, da quello che sì suppone che sia una
vicenda a quello che realmente è, dalla narrazione alla constatazione. Ricorda i «
poveri della casa del Sacro Cuore di Gesù » e li evoca con l’imperfetto; li vede
muoversi e li fissa nel presente:
Qui giungevate la vigilia al borgo,
e s’apriva con voi la processione;
agli usci sostavate a mezzogiorno.
Di festa in festa, da un paese all’altro,
sembrava un canto il vostro ed era pianto.
[...] Voi, non più mendicando, non sentite
il batticuore d’un pane negato.
[...] Umiliato, una lagrima si asciuga
l’umile mendicante del paese,
ma benedice ed implora perdono.
L’effetto si accentra in quel passaggio tra realtà del ricordo e realtà di
presenza concreta: la disarmonia è apparente: la sostanza esce tonificata proprio
quando l’evocazione rischia di appesantirsi o sciogliersi in generica e vaga
atmosfera.
E’ un modo, in definitiva, chiuso e assorto, colto nella osservazione e nella
meditazione, che però non resta distaccato, freddo, visto e non assaporato. Frenato
il dilagare del sentimento per rispetto delle cose, schiarita la nebbia dei ricordi,
posta al centro la quotidianità, la poesia
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ha un suo modo di essere, assume movenze proprie, toni e colori che più
adeguatamente le si addicono. Il rischio, che pur qua e là emerge paurosamente
inquietante, è fugato dal Maruotti in una felice alternanza di memoria uditiva e
visiva. E’ un mondo che non resta muto. Se parlano le cose, come ho detto, le
cose ascoltano anche, vedono e sentono: si vestono di colori, vivono e
gioiscono. Si crea una luce speciale che tutto investe con saggezza e prudenza,
senza che mai il colore assuma autonomia o il suono stordisca cupamente. C’è
un equilibrio che si addice al mondo agreste, alla vita campagnola e primitiva,
alle piccole cose della grande famiglia contadina. Il « brusire » di gente sui
pendii, il « ronzare » di nitriti di cavalli, lo « squillare » dei lento calpestio delle
lunghe carovane, si mescolano all’« affondare » a valle ed « echeggiare » a monte
di un urlo, all’« urlare » dei pumpineri (= lupi mannari), al tintinnio dei ferri sul
selciato », all’« abbaiare dai fondi » dei cani, al perennemente presente «
scampanio » di campane che « squillano », appunto, « zampillano », « rintoccano
», « rimbombano », « rincalzano », « tuonano », « squillano », « ronzano », (tutto
questo è, con evidente virtuosismo, ne Le campane di Sant’Agata). A tenere dietro
al poeta ovunque si sente, anche nelle notti scese « in crepitio di stelle », « nitriti,
beli, scampanio, latrati ». Ma di chi? D’uomini o di animali? Degli uni e degli
altri, perché « uno » è il « dolore ». « Sunt lacrimae rerum ».
Più casto e misurato è ancor più il colore. Esso si riduce, in sostanza, a
toni di fondo, semplici e naturali: verde, azzurro, nero: poco più, poco meno.
L’asciuttezza del colore è il segno di una terrestrità operante attiva e forse anche
polemica nella poesia di Maruotti. Il poco o il sobrio è certo un elemento
antidannunziano; esprime una riverenza ed una modestia, che anche per questa
via vogliono dare spazio solo alle cose.
Più felici e, forse, più ricche, ma mai lussuose, sono le commistioni, non
infrequenti, di suoni e colori. Quest’insieme ridesta il ricordo e dà come un
brivido alla fantasia. La testimonianza più alta si ha con Il Tavogliere pugliese nel
mese di maggio: il ritratto, con questo materiale, più persuasivo è in Così ricordo
mio padre. La Puglia sconfinata si colora di « verde » « nella serena mattina di
maggio »: e l’occhio « tra azzurro e verde si riposa ». L’aria « spira nei piani » e «
s’agita e brusisce »; e lì il grano « fluttua ad onde come mare chiazzato dal
vermiglio rosolaccio », mentre il sole salendo all’orizzonte fa crescere «
l’immensità del verde ». Più in fondo i « botri » dell’Ofanto in piena « mandano
» riflessi scintillanti di metallo » « tra il verde lontano della pianura ». Ma se già
prorompe l’estate, allora l’antica terra cambia volto e si copre di silenzi e suda
per lunghe fatiche: « ansano i muli », « fumanti di sudore ed assetati »; « arde » il
Tavoliere « deserto al sole » e « polverosi ardono i torrenti in secca »; « soffoca
la calura i petti ansanti », né « s’ode canto nelle stoppie d’oro ». Alla luce il
suono appropriato; ai silenzi il buio dei colori. Non s’incrina mai questo
mondo. La compattezza è, ovunque e comunque, un elemento essenziale.
Capita così che il poeta fugga dalla Puglia, col cuore in pena, per159
ché non vi sente più i « rumori », né vede più i « colori » della sua terra. «
Fumeggerà (si chiede) fra poco quel camino? ». « Non fuma in aria più (gli si
risponde) camino a sera ». « Suonerà (incalza) di belati l’aria azzurra »; «
ascolterò quel calpestio di muli »; « rintroneranno ora i galoppi, i trotti di quei
vannini »; « dimmi se ascolterò (implora) le nenie a sera dei nostri giovanotti ed
aratori » o « se udrò dalla cortiglia e dai pagliai cantare solitari i miei pastori ».
Ma chi gli deve rispondere, preferisce tacere; non v’è risposta, del resto, che
consoli.
« Vendemmo pecore, vannini e muli
e se ne andarono i pastori via
ed i garzoni erranti per il mondo
in cerca di lavoro nei cantieri! ».
Il passato è ben morto. La civiltà avanza, sì, ma seminando lutti e rovine.
Si sfiora un tema antico, tra idillio e filosofia. Ma la prudenza è saggezza e il
lamento si spegne d’incanto. L’uomo si sente, allora, estraneo ed esce di scena.
Qui è il tutto e il meglio della poesia. Quando però in questo mondo, così
osservato e meditato, il Maruotti penetra con mano più esperta, allora egli sale
in cattedra e diviene professore. Voglio solo alludere ad alcune forme dotte
(come quel « lieta... a ravvivar di ceppi il fuoco »), a cadenze ricercate o a
preziosismi di assonanze e rime interne (e basti citare la prima parte della pur
efficacissima La fornarina), e certe condizioni o agganci di alta letterarietà (e per i
primi versi de La campana di ventun’ora rimanderei decisamente alle Grazie
foscoliane, 11, 121-35; e per altri luoghi, come per i primi versi de La festa di
San Rocco a Sant’Agata di Puglia, al leopardiano Sabato del villaggio, seppure meno
perentoriamente; e così per altre reminiscenze pascoìíane, come negli ultimi
versi di Regina, o più propriamente pascoliane-deamicisiane, come Il sogno della
mamma). Sono piccoli debiti di scuola o di gusto che pur si devono pagare: e
che il Maruotti paga con buona umiltà. Più credito, se mai, è bene concedere al
dialetto foggiano, forte e colorito, come appare da alcuni sapidi inserti (e valga
qui il ricordo de Il pianto e la preghiera d’una madre), che avrebbe portato il poeta
ad una felice sperimentazione linguistica, atta pienamente a caratterizzare il
mondo delle cose e degli uomini che gli è proprio. Se questo accade, e non v’è
dubbio che non accada nelle prossime prove, la poesia contemporanea potrà
salutare una voce generosa, pura, ben oltre gli atteggiamenti delle nuove
correnti e le astuzie perenni delle scuole.
ALDO VALLONE
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