leggi, scrivi e condividi 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
NEREA RIESCO
ALL’OMBRA
DELLA CATTEDRALE
Prima edizione: maggio 2010
visita www.InfiniteStorie.it
il grande portale del romanzo
Traduzione dallo spagnolo di
Claudia Marseguerra
Titolo originale dell’opera:
El elefante de marfil
© 2010, Nerea Riesco
© 2010, Random House Mondadori S.A.
ISBN 978-88-11-68181-6
© 2010, Garzanti Libri s.p.a., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
www.garzantilibri.it
PROLOGO
La partita sembrava non voler finire. Il rintocco
delle campane e il profumo di latte bollito e pane tostato ricordarono loro che era l’hora prima e non toccavano cibo da quando si erano seduti davanti alla
scacchiera. Quel posto aveva l’aria clandestina delle
antiche catacombe romane. Sui lunghi tavoli disposti
attorno alla sala si mescolavano, senza ordine apparente, incartamenti, libri, mappe e annotazioni che
coprivano in parte le scacchiere allineate, tutte in
fremente attesa di trasformarsi ancora una volta in
campi di battaglia. Gli spessi muri di pietra erano decorati con affreschi che ritraevano scene profane: l’evoluzione della Giralda nel corso del tempo, navi in
balia delle onde, duelli tra cavalieri, roccaforti assediate… forse per questo i fratelli dell’ordine lo chiamavano «il Krak dei Cavalieri».
I due avversari si guardarono di sbieco. Il re bianco
era in pericolo. La minaccia dell’intrepida regina nera
lo teneva immobilizzato dietro due pedoni e un cavallo, ma l’attacco era dirompente e non si sapeva quan3
to avrebbe potuto resistere ancora. Il giocatore più
giovane trasse un sospiro, nel tentativo di dominare
l’ansia. Sollevò l’alfiere nero con la massima delicatezza, lo strinse tra l’indice e il pollice e, sicuro, andò a
depositarlo su una casella. Un sorriso impercettibile
gli illuminò il viso. Ormai ne era certo: il suo nemico
non aveva più scampo.
«Scacco matto», annunciò lentamente, cercando di
non peccare d’orgoglio per la soddisfazione.
«Non c’è dubbio, fratello», replicò il commendatore dell’ordine. «Avete vinto tutte le partite. Siete il migliore.»
«Vi ringrazio per il complimento», si schermì il ragazzo.
«Non si tratta di un complimento, ma di semplice
giustizia. Possedete un talento innato per gli scacchi.
Vi osservo sin da quando eravate bambino. La mia
missione è trovare il migliore e voi lo siete. Ci serve il
migliore per riuscire a vincere… e io scelgo voi.»
«Quando? Dove? Chi sarà il mio rivale?»
«State calmo», mormorò il commendatore posando una mano sulla spalla del giovane. «Non ho ancora
risposte a tali domande. Una sola cosa è certa: un giorno o l’altro saremo chiamati a giocare quella partita…
e dovremo vincerla.»
4
1.
Il giorno del terremoto
Il terremoto si scatenò il giorno di Ognissanti. Come
tutti gli anni, i sivigliani approfittavano dell’occasione
per rispolverare casacche di velluto e mantelle di pizzo
e abbigliarsi di nero dalla cima del cappello fino al più
profondo dell’anima, tanto per rendere manifesto il
proprio disdegno per l’effimero. Il rituale della giornata consisteva nel far visita ai defunti con un bel mazzo
di fiori, ragguagliarli sugli ultimi avvenimenti familiari
e sociali e infine recarsi alla messa delle dodici assumendo un’aria devota. Quindi non restava che attendere l’ora della merenda, momento in cui i mortali si
dedicavano a divorare soffici bignè ripieni e ossa dei
morti alle mandorle, che se nell’aspetto volevano ricordare ciò che ispirava il loro nome, al palato conservavano intatta la dolcezza della crema pasticcera.
Quel giorno Siviglia si era risvegliata avvolta in una
coltre di nebbiolina impalpabile. Le persone sbucavano all’improvviso come ombre dagli angoli brumosi,
camminando in silenzio perché il freddo dell’autunno
5
non si infiltrasse dalla bocca. Sembravano seguire tutti
un itinerario ben concertato, una coreografia studiata
con cura che li divideva in gruppi: chi al cimitero del
Prado de San Sebastián, chi a los Pobres, a los Canónigos, all’Eclesiástico o ancora al San José en Triana…
Doña Julia, la giovane vedova de Haro, non poteva
certo essere da meno. Attorno alle nove era uscita dalla sua casa-stamperia in calle Génova stretta al braccio
di mamma Lula, la domestica di colore che ricordava
al servizio della sua famiglia sin da quando aveva l’uso
della ragione.
La domestica, quella mattina, si era destata con il
cuore in subbuglio. «Oggi finisce il mondo», aveva annunciato con un sospiro rassegnato mentre accostava
il vassoio della colazione al letto della signora facendo
ondeggiare il suo enorme didietro.
«Se continui a dire cose del genere, non puoi lamentarti se poi la gente ti evita», l’aveva rimproverata
doña Julia prima di sgranocchiare controvoglia una
fetta di pane tostato.
In città si diceva che mamma Lula fosse approdata
al porto di Siviglia a bordo di una nave di schiavi che
sapeva di avorio e sopraffazione e che provenisse da
un villaggio africano di nome Yoruba, culla del vudù.
Pare che allora avesse un aspetto orribile, i capelli arruffati pieni di pidocchi, pustole suppuranti negli occhi e sulle labbra, e che emettesse strani versi degni di
una creatura selvaggia. Stando alle voci, il padre di
doña Julia, il rispettabile farmacista Juan Nepomuce6
no Gil de la Sierpe, l’aveva scovata durante una delle
sue solite passeggiate nei dintorni del porto di Mulas
in attesa che una nave proveniente dalla Nuova Spagna portasse una medicina miracolosa in grado di curare, una volta per tutte, le febbri malariche che tendevano ormai a insediarsi stabilmente in città.
Alla vista di quella povera ragazza nera in piedi su
una cassetta di legno, con uno straccio sudicio a coprire le vergogne e i polsi e le caviglie incatenati a un collare di ferro arrugginito, si era impietosito all’istante
mentre il negriero di turno ne decantava le qualità
quasi vendesse un sacco d’orzo. Aveva pagato la somma richiesta e se l’era portata a casa senza badare alle
proteste della moglie. Dopo un bel bagno e con abiti
decenti indosso, si erano accorti che non doveva avere
più di quattordici anni, che non aveva idea di come si
usassero le posate e che l’unica parola che continuava
a ripetere con un minimo di chiarezza era «Lula».
Doña Julia, che a quell’epoca di anni ne aveva appena cinque, si era innamorata subito della nuova venuta. L’aveva presa per mano ed erano scomparse entrambe al piano di sopra. Nessuno aveva saputo più
nulla di loro per le successive due ore. Le avevano
chiamate a gran voce, cercandole sotto i letti, in soffitta, nella dispensa. La madre di doña Julia aveva rinfacciato al marito di aver portato dentro casa una cannibale abituata a mangiarsi i bambini bianchi con contorno di piselli, «Oh, povera bimba mia, poverina, poverina…». finché il giardiniere non aveva notato una
7
scia di vestiti che andava dalla cucina al patio sul retro.
E proprio lì avevano ritrovato le due ragazzine, nude
come mamma le aveva fatte e sporche di fango fino alle orecchie, intente a parlottare in un idioma incomprensibile, ridendo a crepapelle e mangiando a manciate la terra dei vasi.
«Guarda cos’hai combinato con la tua mania della
compassione!» aveva urlato la donna al marito mentre
sollevava la figlia per un braccio coprendola con il suo
scialle. «Dobbiamo disfarci al più presto di questa
creatura mostruosa… o trasformerà Julia in una selvaggia. La voglio fuori da questa casa, subito!»
La fermezza della moglie sembrava aver convinto
Juan Nepomuceno ma la piccola Julia, quando aveva
visto che le toglievano la sua nuova amichetta, aveva
cominciato a piangere e a disperarsi diventando tutta
rossa, si era buttata a terra e nessuno riusciva a farla
rialzare perché tirava morsi e calci a chiunque le si avvicinasse. In mezzo a tutti quegli strepiti, pianti e singhiozzi, l’unica cosa chiara era che, se la ragazza se ne
fosse andata, lei si sarebbe buttata nel fiume. E così alla fine si erano convinti a tenere in casa la schiava nera.
Con il passare degli anni, mamma Lula aveva imparato a parlare spagnolo con accento andaluso ed era
diventata cameriera di Nostra Signora degli Angeli
nella confraternita dei Negritos. Preparava un gazpacho insuperabile, aggiungendo un tocco personale di
arance amare, e a furia di esercitarsi con coltello e forchetta aveva smesso di rappresentare un pericolo per
8
sé e per gli altri. Ma la gente la guardava con diffidenza, soprattutto a causa dei commenti malevoli che
diffondeva la signora Gil de la Sierpe alle riunioni di
società, in cui garantiva che la sua domestica africana
nascondeva sotto il letto una bambolina di stoffa trafitta da spilli con cui riusciva a procurare terribili dolori
di pancia a chiunque le stesse antipatico.
Mamma Lula era una buona osservatrice. Da più di
una settimana notava lo strano comportamento dei
cani, che passavano la notte ululando alla luna; degli
uccelli, che facevano il nido nei punti più alti dei campanili delle chiese ed erano volati via con le piume arruffate lasciando i loro piccoli a becco asciutto; oppure dei cavalli, che si imbizzarrivano, gli occhi spiritati,
a ogni tentativo di mettere loro il morso. Anche Juan
il Bisognoso aveva perduto il senno la sera prima. Si
era inginocchiato a recitare una preghiera angosciante, in piena calle Génova, aggrappandosi alle gonne
delle signore che gli passavano accanto e giurando
che migliaia di persone erano destinate a morire. Non
si era dato pace neppure dopo la decisione delle guardie di intervenire: gli avevano mollato un paio di
ceffoni e, siccome non c’era verso di calmarlo, avevano finito per rinchiuderlo nelle prigioni di Triana finché non gli fosse passato l’accesso di follia.
«Oggi finisce il mondo», ripeté decisa mamma Lula
mentre camminava accanto alla sua signora in direzione della cattedrale per assistere alla messa di Ognissanti. «Lo so perché gli animali si comportano in mo9
do strano. Gli asini sono testardi, i cani abbaiano come forsennati…»
«Non mi dire!» replicò doña Julia portandosi la mano sinistra alla guancia in un teatrale gesto di sorpresa. «Gli asini sono ostinati e i cani non fanno che latrare? Che cosa strana! Attenzione, attenzione…»
«Gli storni sono volati via. Sono tre giorni che non
se ne vede più neanche uno e…»
«Oh, adesso basta, santo cielo! I tuoi vaneggiamenti
mi stanno esasperando. Se non smetti di dire tutte
queste assurdità ti faccio rinchiudere nell’ospedale dei
Santi Cosma e Damiano… sai, mi hanno assicurato
che sono bravissimi con le domestiche matte come te.»
Mamma Lula decise di mordersi la lingua nonostante l’inquietudine che la divorava. Continuò a camminare in silenzio e salì i gradini di accesso alla chiesa
misurando con la coda dell’occhio la collera della sua
signora. Giunta all’altezza del portone d’ingresso,
doña Julia accelerò il passo e spinse uno dei battenti.
Allora mamma Lula attese un istante, stringendo il
suo cesto di vimini con le braccia incrociate, la fronte
aggrottata e il labbro inferiore più sporgente del solito. Lasciò andare avanti la sua signora.
«Sì, sì… chiamami pure matta», mormorò tra sé
prima di attraversare la soglia. «Ma vedrai che oggi finisce il mondo.»
Mamma Lula odiava non dire l’ultima parola quando era certa di avere ragione.
10
Entrarono nella cattedrale dalla porta del Perdono,
seguite dallo sguardo inquisitorio delle statue dei santi Pietro e Paolo. San Pietro era collocato sulla sinistra,
con l’aria severa, i capelli scarmigliati e le chiavi del
cielo in mano. Accanto a lui si apriva la piccola inferriata attraverso cui si avvisava il parroco di somministrare l’estrema unzione ai fedeli intenzionati a lasciare questo mondo in orari scomodi. San Paolo, dal canto suo, stringeva l’elsa di una spada nella mano destra, mentre teneva la sinistra nascosta dietro la schiena in una posa da spadaccino baldanzoso. Ma la cosa
più strana era che quella mano celata fra le pieghe
del suo abito sembrava allungarsi miracolosamente
per poi ricomparire ai piedi della figura, a sostegno
della pedana. I due apostoli, con l’arcangelo Gabriele,
la Vergine annunciata e il bassorilievo con la cacciata
dei mercanti dal tempio (a contraddire la tradizione
popolare secondo cui la gradinata della cattedrale
fungeva da mercato) costituivano la cornice cristiana
in cui si inseriva quell’ingresso ibrido, il più antico della chiesa. Oltre la soglia si entrava in un mondo mestizo, un chiostro fitto di aranci che in altri tempi era servito da sahn, da corte della moschea. Qui i fedeli musulmani facevano un tempo le abluzioni in una vasca
centrale proveniente dalle antiche terme romane. Le
diverse culture del Mare Nostrum intrecciavano le loro strade nel patio degli Aranci di Siviglia.
Le due donne proseguirono in diagonale, schivan11
do i frutti caduti, fino alla porta della Lucertola, dove
immancabilmente mamma Lula guardava verso l’alto.
«Lucertola, lucertola», esclamò toccandosi la testa
con l’indice e il mignolo della mano destra.
La poverina, assai superstiziosa, considerava un gravissimo errore lasciare un coccodrillo essiccato appeso
al soffitto della cattedrale sin dai tempi in cui il sultano d’Egitto l’aveva spedito in dono al re Alfonso X,
chiedendogli la mano della figlia Berenguela. Il re
Saggio aveva rifiutato la proposta matrimoniale ma si
era tenuto il coccodrillo, diventato in poche settimane
sempre più pigro per colpa del profumo di zagara e
del tepore estivo. L’animale aveva imparato a nutrirsi
dalla mano dei suoi guardiani e dopo mangiato amava
riposare all’ombra di un platano nelle placide sere dei
palazzi reali. Alcune cronache riferiscono addirittura
che dimenasse la sua enorme coda di rettile quando
vedeva avvicinarsi il re, quasi fosse un cagnolino da salotto. E tutti quanti si erano affezionati a tal punto a
lui che, alla sua morte, avevano deciso di impagliarlo e
appenderlo al soffitto della cattedrale come portafortuna.
Oltrepassarono la porta della Lucertola per immergersi nell’oscurità azzurrata della chiesa, scalfita appena dalla fioca luce che filtrava dalle vetrate. Proseguirono in linea retta sul lastricato di marmo bianco e nero, superando sulla sinistra l’ingresso della Giralda, la
porta dei Bastoni, la cappella di San Pietro, la cappella reale… Esattamente alle spalle della cappella mag12
giore si trovava il mausoleo della famiglia López de
Haro. Doña Julia lasciò il braccio di mamma Lula e le
chiese di tenerle il mazzo di bignonie rosa colte quella mattina stessa nel patio di casa. Quindi estrasse dalla tasca della sopragonna la chiave per aprire il cancello che proteggeva la cappella funeraria. Ma prima di
farlo avvertì il bagliore degli occhi vitrei di san Giovanni Evangelista, che ne presidiava l’altare con il volto
beato del discepolo preferito di Gesù. Il suo defunto
sposo era un fervente devoto del santo, non solo perché era divenuto il patrono dei tipografi dopo la stesura del quarto vangelo; lo ammirava per il fatto di aver
sopportato con eroico stoicismo l’immersione nel calderone di olio bollente ordinata dall’imperatore romano Domiziano. Secondo l’illuminato giudizio del
signor de Haro, ciò stava a dimostrare che i tipografi
erano una sorta di martiri votati al sacrificio, perseguitati sin dalle origini della cristianità perché colpevoli
di lasciare prova scritta delle verità più scomode. Eppure, nonostante l’ottima reputazione di san Giovanni, ogni volta che doña Julia vedeva il contorno netto
di quella sagoma di maiolica avvolta nel velluto rosso,
con le sue matasse di capelli veri, i gioielli dai vetri colorati e la boccuccia socchiusa su cui le labbra e la lingua brillavano spudorate per via dello spesso strato di
vernice scarlatta, non riusciva a cancellare dalla mente
l’immagine delle donne dissolute che vivevano nei
bordelli del porto.
Distolse lo sguardo e girò la chiave nella serratura.
13
Il cancello stava per aprirsi quando il pavimento della
chiesa prese a dondolare quasi fosse una zattera che
galleggiava su un lago di olio. Doña Julia fu colta da
un violento attacco di nausea e si aggrappò all’inferriata.
«Il Signore abbia pietà di noi e perdoni i nostri peccati, amen!» Mamma Lula si segnò con una rapidità
straordinaria.
Il movimento durò solo qualche secondo, ma il silenzio che ne seguì sembrò interminabile. I presenti si
guardarono incerti nella speranza che qualcuno potesse dare una spiegazione logica a quanto era appena
accaduto, ma nessuno osò aprire bocca. La sensazione
di vertigine si diluì piano piano e i fedeli cominciarono a dubitare che il suolo avesse tremato davvero.
Doña Julia aprì il cancello della cappella ed entrarono. Prese degli stracci e una bottiglia di acqua saponata dal cesto che portava mamma Lula e si misero
tutt’e due a lucidare la pietra che copriva il sepolcro
di suo marito quasi stessero spolverando la credenza
di casa. Terminato il lavoro, doña Julia tolse i fiori secchi dai vasi che custodivano l’immagine di san Giovanni Evangelista e li cambiò con quelli che teneva in
mano la domestica. Li sistemò come se stesse ravviando una pettinatura e, quando le sembrò che facessero
un bell’effetto, trasse un lungo sospiro. Si girò a osservare le lettere incise sulla lapide. Avrebbe voluto colmare i suoi pensieri di immagini pie, in onore del defunto e delle sue virtù terrene, formulando magari an14
che una preghiera, ma tutto ciò che le veniva in mente erano le numerose faccende da sbrigare quel giorno. Si rassegnò alla certezza di non avere altro da fare
in quel posto. Eppure rimase immobile, in silenzio,
raccolta in preghiera davanti alla tomba. Non voleva
che proprio in una festa così solenne la vedessero uscire troppo presto dalla cappella in cui il suo sposo riposava per l’eternità. Trascorso un intervallo di tempo
che giudicò prudente, si fece il segno della croce, uscì
con mamma Lula e richiuse a chiave il cancello. Ripresero l’attitudine di prima, la vedova sottobraccio
alla domestica, e camminarono l’una accanto all’altra
in direzione della cappella maggiore per andare a occupare un buon posto.
Trattandosi di una giornata speciale, la messa sarebbe stata officiata da padre Zacarías, il poeta cieco, famoso per l’ardore dei suoi sermoni. Il predicatore
contava su un’ampia folla di devoti che lo seguivano ovunque, quasi fosse un visionario onnipotente. In città
c’era chi garantiva che la sua cecità fisica lo aiutasse a
vedere con gli occhi dell’anima, rendendolo cento
volte più ricettivo rispetto ai comuni mortali. La sua
fama era talmente vasta che doña Julia aveva commissionato a un giovane copista sempre seduto in prima
fila la trascrizione dei suoi sermoni più ispirati: la
stamperia si sarebbe incaricata di pubblicarli in fascicoletti affinché le persone in grado di leggere avessero
la possibilità di acquistarli, studiarli, sviscerarli e assimilarli nell’intimità della propria casa. E se qualcuno
15
si perdeva l’ultima omelia del padre poeta non doveva
certo farsene un cruccio: ben presto l’avrebbe sentita
recitata in musica agli angoli delle strade grazie ai libretti messi in vendita dalla vedova de Haro.
Quel sabato padre Zacarías salì sul pulpito con aria
rassegnata. «Fratelli», esordì quasi in lacrime. «Sarei
davvero felice se potessi assicurarvi che tutti i defunti,
di cui oggi celebriamo la festa, sono stati assunti in
cielo.» Fece una pausa, cambiò espressione e lanciò
un grido che riuscì a scuotere un fedele appisolato in
terza fila. «Ma non posso! L’essere umano è così pieno di presunzione, arroganza, vigliaccheria… Ecco
perché esiste la punizione. L’inferno!» tuonò agitando il pugno sopra la testa.
Le donne rimasero senza fiato, mentre gli uomini
spalancarono gli occhi e si afferrarono alle ginocchia
con mani rigide. Ma le omelie seguivano un ritmo
ben preciso che alternava sapientemente severità e
rassicurazione. Quando padre Zacarías percepiva che
i fedeli erano al colmo della disperazione, riprendeva
fiato, allungava quel momento di carezzevole angoscia, assumeva un’espressione più tranquillizzante e
concludeva che non si dovevano perdere le speranze.
Doña Julia conosceva a memoria le formule dei
suoi sermoni, perciò ormai non se ne lasciava impressionare. Era una donna concreta. Credeva con decisione che Dio l’avrebbe apprezzata di più se gli avesse
parlato personalmente almeno cinque minuti al giorno, anziché ascoltare ogni momento le preghiere al16
trui. Ma nella certezza che ben pochi sarebbero riusciti a condividere le sue opinioni, se ne stava seduta in
seconda fila per farsi vedere da tutti. In quel punto era
a un tiro di sasso dall’officiante e i fedeli delle panche
vicine erano testimoni del suo cipiglio severo, degno
riflesso della sua anima afflitta per la morte dello sposo. E dagli ultimi posti riuscivano tutti a riconoscere la
sagoma dello chignon castano allineato con simmetria quasi geometrica al suo collo sottile. Doña Julia
era inconfondibile anche da lontano. Vestita sempre
rigorosamente di nero, alta, snella, il viso ancora fresco come un frutto di stagione, la schiena ben diritta,
indizio, a sentire i maligni, di un’anima arrogante celata dietro una facciata di carità e devozione.
Quando padre Zacarías arrivò a parlare della resurrezione dei morti, a lei venne uno sbadiglio. Cercò di
nasconderlo con il dorso della mano, ma alla fine le
sfuggì un suono simile al lamento di un gattino. Dalla
prima fila si girarono. Mamma Lula tirò un gran sospiro e le diede una pacca sulla spalla fingendo di consolarla. Alcuni lo scambiarono per un gemito di tristezza
in ricordo dell’anziano sposo mancato cinque anni
prima e la guardarono con occhi compassionevoli. Lei
annuì in segno di ringraziamento.
In realtà doña Julia non vedeva l’ora che la messa finisse. Aveva mille cose da fare in tipografia: ultimare
una relazione sugli scontri avvenuti in plaza de Ceuta
fra le milizie di re Ferdinando VI e la setta maomettana, ristampare la zarzuela Il giudizio di Paride e il ratto di
17
Elena, nonché l’epistola del conte Nolegar Giatamor a
proposito dell’ultima strigliata di tonti e balordi… Voleva tornare a casa, sfilarsi le scarpe e sedersi nel patio
a gustare l’intenso aroma dei gerani, che le ricordava
immancabilmente l’odore dei libri antichi. Da lì poteva osservare indisturbata l’andamento della stamperia. Adorava il suono ritmico della nuova pressa ordinata da Genova, vero e proprio gioiello della tecnologia moderna, sconosciuta a Siviglia prima di allora:
dotata di molle che aiutavano a velocizzare i tempi di
sollevamento della lastra metallica, era in grado di
produrre all’incirca duecentocinquanta stampe all’ora. Grazie a questo nuovo acquisto, la sua sarebbe diventata la prima stamperia della città.
Ma più di tutto le piaceva inseguire l’ombra di
León che si mescolava agli altri lavoranti. Intuire la
curva del suo mento, il colore azzurro mare dei suoi
occhi, la muscolatura nervosa delle sue braccia. All’inizio era stata attenta a non farsi scoprire dal ragazzo,
ma ormai non aveva più timore che lui si sentisse osservato e si girasse verso di lei. Quando León si accorgeva che la signora, immobile nell’ombra, lo fissava
mentre si affaccendava qua e là, con l’espressione dura della padrona che controlla il lavoro dei suoi sottoposti, anche lui si fermava e sosteneva il suo sguardo.
Non era una sfida: piuttosto, si trattava di una domanda. Gli occhi di doña Julia lo affascinavano, e lui voleva scoprire a tutti i costi come mai la donna emanasse
quel bagliore palpitante che solo lui credeva di perce18
pire. Nella loro battaglia di sguardi lui finiva quasi
sempre per soccombere e chinare il capo, intimidito,
tornando a dedicarsi alle proprie faccende con un
mezzo sorriso sulle labbra. Quando León distoglieva
gli occhi, lei ne approfittava per riprendere fiato.
Nessuno sapeva da dove venisse quel ragazzo. Era
spuntato dal nulla qualche mese prima, avvolto in un
alone di mistero. La prima volta che era stato notato
in città, si aggirava nei dintorni della cattedrale con
un’aria da marinaio alla deriva. Aveva i capelli lunghi,
d’un biondo quasi bianco, forse per colpa dell’aria salmastra e del sole di mezzogiorno, ed era così bello da
suscitare turbamento. Chi parlava con lui faticava a
sopportare il magnetismo di quegli occhi color del
cielo e finiva molto spesso per guardare a terra, farfugliando parole incomprensibili. León era una di quelle persone nate per essere ricordate da chiunque lo
incontrasse. La figura da statua greca, i silenzi, i movimenti lenti e precisi non facevano che ribadire la sua
condizione di creatura indecifrabile che intimidisce i
codardi e affascina gli intrepidi. I più malevoli giuravano che León fosse sceso da una nave che issava una
bandiera nera decorata con un teschio e due tibie incrociate agli ordini del pirata Calico Jack. Ma gli uomini del brigantino a bordo del quale era arrivato a Siviglia, una sera, si erano ubriacati in una taverna del
porto e avevano riferito la storia raccontata da lui stesso durante la traversata: nato nell’isola di Malta, gli ottomani lo avevano rapito cambiandogli il nome da
19
León in al-Asad, suo equivalente in arabo. Era stato
proprio questo a mettere in guardia i più pessimisti.
Le allusioni a navi pirata, soldati turchi e mari in tempesta avevano riportato alla memoria gli episodi dell’anno 844, quando i vichinghi avevano risalito il Guadalquivir con i loro lunghi capelli dorati e l’indomito
carattere nordico per saccheggiare e distruggere la
città in meno di una settimana, approfittando della
buonafede dei sivigliani.
«Questo giovane non è delle nostre parti», borbottavano i più anziani. «Sarà meglio controllarlo.»
Doña Julia ricordava alla perfezione la prima volta
che l’aveva visto. Quel giorno Cristóbal Zapata, responsabile della stamperia, era dovuto uscire per risolvere alcune faccende e in quel momento spettava a lei
sostituirlo. Non avrebbe mai più dimenticato l’immagine di quel da corsaro che varcava la porta del suo laboratorio: non si era mai sentita così intimidita dall’avvenenza di qualcuno.
«Sto cercando don Diego de Haro», si era presentato entrando nella stamperia. «Mi chiamo León. León
de Montenegro.»
Dopo averlo squadrato dalla testa ai piedi, gli aveva
spiegato: «Arrivate troppo tardi. Mio marito è morto
cinque anni fa. Posso esservi di qualche aiuto?».
Lo sconosciuto era parso stupito, ma ben presto aveva tratto un respiro profondo e ripreso a parlare.
«Sto cercando lavoro.»
«Questa è una stamperia», aveva precisato lei cam20
biando atteggiamento. «Vi intendete dell’arte della
stampa?»
«Posso imparare.»
Proprio in quel periodo, il compositore che lavorava da una vita per il signor de Haro cominciava a perdere la vista per l’età. Confondeva le l con le f e queste
con le j, mentre le mani gli tremavano ogni giorno di
più. Quando lavorava al cavalletto su cui si poggiavano
le casse dei caratteri per formare le righe di testo da
stampare, era costretto a mettersi seduto perché gli
tremavano le ginocchia. Doña Julia lo osservava da un
bel po’, e si era convinta che fosse giunto il momento
di sostituirlo. Ma il mestiere di compositore richiedeva
un’esperienza che derivava da un lungo periodo di
apprendistato. I compositori erano l’anima delle tipografie, perché applicavano lo stile della casa, dovevano
essere esperti degli aspetti tecnici, conoscere a menadito l’ortografia… I compositori erano copisti. Le loro
responsabilità e funzioni somigliavano a quelle degli
amanuensi durante il medioevo: prima dovevano leggere un frammento del testo originale, poi impararlo
a memoria e quindi riscriverlo. L’unica differenza era
che nell’antichità si riproducevano i brani con la penna d’oca, mentre attualmente si utilizzavano i caratteri di metallo.
«Sapete leggere e scrivere?» si informò doña Julia,
guardando León con aria di superiorità.
«In quattro lingue», rispose lui senza arroganza.
21
«A me serve che lo facciate in castigliano e senza errori d’ortografia.»
Doña Julia aveva preso il ragazzo come apprendista
compositore senza pretendere alcuna referenza e gli
aveva permesso di sistemarsi nello scantinato con la
scusa che serviva un uomo in casa ventiquattr’ore al
giorno. Quando Cristóbal Zapata era tornato e aveva
appreso della decisione presa da doña Julia, era andato su tutte le furie. Come maestro di stamperia sin dai
tempi del signor de Haro, spettava a lui decidere chi
assumere, nonché proteggere l’attività e la signora come un fedele cane da guardia. Si era messo a farle la
morale, sostenendo che non giovava alla reputazione
di una donna, e meno che mai di una vedova rispettabile, mettersi sotto il tetto un ragazzo di origini incerte con un corpo da Adone.
«Io sono la proprietaria di questa stamperia», gli aveva rinfacciato lei con gli occhi accesi di una passione
che mastro Cristóbal non le conosceva. «E qui dentro
agisco come mi pare e piace!»
Non erano mai più tornati a parlare di León, e ben
presto doña Julia aveva dimenticato l’insinuazione del
suo dipendente circa le possibili malignità dei vicini
per la presenza di quel nuovo aiutante che accendeva
una scintilla di luce nelle sue giornate grigie.
La sera, dopo cena, mamma Lula e doña Julia si sedevano a chiacchierare nel patio sul retro, in attesa
che arrivasse il sonno. Ogni tanto chiedevano a León
di far loro compagnia. Allora lui si metteva comodo e
22
iniziava a raccontare dei porti asiatici che sapevano di
curry e di pesce salato. Parlava di una tribù africana
dove gli uomini erano più alti della luna, di un’altra in
cui non si alzavano di due palmi da terra, e ancora di
quella che conosceva la formula magica per ridurre le
teste dei nemici alla forma di una castagna secca.
Una volta aveva raccontato a mezza bocca di quando i turchi lo avevano rapito ad appena quindici anni
con l’intenzione di trasformarlo in un soldato del sultano, della sua apparente rassegnazione a quel destino
e delle straordinarie somiglianze tra i giannizzeri e gli
ordini cristiani dei monaci guerrieri.
«La traduzione del mio nome in arabo è Asad.»
«Asad? L’ho pronunciato bene?» aveva chiesto
doña Julia.
«Perfetto. In realtà mi sono chiamato così per tanti
e tanti anni… finché non sono riuscito a scappare.»
«È un bel nome», aveva mormorato lei guardandolo fisso negli occhi.
Mamma Lula ascoltava le storie epiche di León con
il cuore in lacrime e senza metterle in dubbio, per
quanto assurde potessero sembrare. Quel ragazzo le ispirava simpatia. Riconosceva all’istante i reietti della
società, dal momento che anche lei faceva parte di
quella ristretta minoranza. Sapeva che la maggior parte dell’umanità era composta da individui volgari, per
lo più intimiditi dalla presenza di quelle poche creature straordinarie che abitavano il pianeta.
Invece doña Julia era convinta che le storie di León
23
fossero semplicemente frutto della sua fantasia, ma la
cosa non le interessava affatto. Tutto quell’universo
d’oltremare che sgorgava dalla bocca dello straniero,
indispensabile per godersi la sua compagnia e riempire le lunghe serate sempre uguali, la divertiva comunque. Giudicava il proprio mondo così vuoto che l’immaginazione era diventata la sua unica via di fuga. Per
doña Julia i regni di favola erano stati sempre più reali
della casa dei vicini. Una menzogna appassionante riusciva a commuoverla molto più di una verità tiepida.
Poco prima che la cattedrale cominciasse a oscillare
quasi fosse sul punto di sgretolarsi, mamma Lula percepì il movimento tellurico nelle proprie viscere. Un
insieme armonioso di voci e organo stava per intonare
il Kyrie chiedendo pietà al Signore, quando la domestica nera afferrò doña Julia per il polso e la trascinò sotto l’altare. Quindi le si pose accanto e la protesse con
il suo corpo baciandole la nuca e farfugliando una litania incomprensibile sotto gli occhi attoniti di tutti i
fedeli. Nessuno ebbe il tempo di stupirsi, perché un
brontolio proveniente da ponente si impossessò della
chiesa e le vibrazioni strapparono alle pareti un rumore assordante, simile a uno stridore di denti.
Il disastro iniziò alle dieci in punto. Le campane
della Giralda suonavano da sole, come impazzite. Le
panche dell’edificio si agitavano noncuranti del peso
dei fedeli seduti, mentre la gente in piedi cadeva sen24
tendosi mancare la terra sotto i piedi. Il pulpito minacciava di staccarsi dalla sua colonna e un paio di
chierichetti si precipitarono barcollando da padre Zacarías per aiutarlo a scendere le scale.
«Apocalisse, Apocalisse, Apocalisse», strepitava lui
sbracciandosi alla ricerca del crocifisso, che, normalmente collocato sull’altare maggiore, ormai giaceva a
terra, e agitandosi sulla pedana a pochi centimetri dalle teste di mamma Lula e doña Julia. Qualcuno raccolse la croce e la porse al parroco cieco. Egli vi si afferrò
e per un attimo parve ritrovare la calma.
Il parapetto in pietra che adornava l’esterno si sgretolò contro le volte della crociera e una pioggia di calcinacci rovinò sul pavimento della chiesa. L’ambiente
prese a riempirsi di polvere, avvolgendo gli astanti in
una densa nuvola terrosa che impediva di vedere a un
palmo dal naso. In seguito si venne a sapere che a precipitare erano state le pietre della cupola, che da quel
momento in poi rimase ferita a morte. Chi si trovava
all’interno cercava di uscire, temendo che padre Zacarías avesse ragione e si trattasse davvero del preludio
dell’Apocalisse: nessuno voleva morire schiacciato sotto uno spesso strato di pietre. Al contrario, chi era fuori non pensava ad altro se non a entrare a tutti i costi,
nella certezza che il Signore avrebbe sicuramente protetto la cattedrale con la sua mano onnipotente. Le
porte furono assalite da una folla immensa di gente
terrorizzata. Chi gridava, chi sospirava, chi si abbracciava, chi pregava…
25
La terra impiegò cinque minuti ad assestarsi, e
quando ebbe finito emise una specie di gemito languido che diede luogo a un silenzio stridente. Una tranquillità polverosa che piano piano si diluì in un rivolo
di piccoli gemiti, di invocazioni a Dio, tra vagiti di
bambini, urla di adulti, piagnistei di bigotte che aumentarono di volume fino a raggiungere un frastuono assordante intriso di angoscia. Un clamore di voci
disperate chiedeva all’unisono misericordia, pietà e
confessione. Una ballata triste e dolente che stringeva
il cuore.
Doña Julia e mamma Lula se ne stettero rintanate
nel loro nascondiglio, per paura che il cataclisma non
fosse ancora terminato. Lasciarono che il polverone si
diradasse, come la loro agitazione, e poi uscirono strisciando tra i calcinacci. Uno di essi colpì doña Julia
nel fianco. Quando fece per toglierselo di dosso, si accorse che si trattava di una pietra circolare a forma di
moneta gigante con un diametro poco più grande di
un palmo, decorata con un bassorilievo che sul momento non riuscì a distinguere con chiarezza. Se la
portò al petto e la tenne stretta neanche si trattasse di
un’ancora di salvezza. Tornò a sentire mamma Lula tirarla con forza; avanzarono entrambe come sonnambule, più per intuito che consapevolmente, cercando
una scappatoia nella penombra della chiesa. La luce
fioca si rifletteva dall’alto filtrando attraverso i rosoni
delle vetrate, raggi timidi in cui galleggiavano minuscole particelle di polvere. Percepirono un debole
26
chiarore di fronte agli occhi, in fondo al lugubre tunnel in cui erano immerse. Si diressero in quella direzione barcollando, fecendosi strada a spintoni per
guadagnare l’uscita, insinuandosi tra i corpi degli altri
fedeli che si erano trasformati in irriconoscibili fantasmi impolverati, intontiti dalla sorpresa e dalla paura.
Nessuna delle due aveva proferito verbo dall’inizio
del cataclisma. Una volta all’aria aperta, si guardarono
l’un l’altra alla luce del giorno come se si vedessero
per la prima volta. Si tastarono il viso, le spalle, la pancia, per verificare di essere tutte intere. Allora mamma
Lula tirò fuori dalla tasca della sopragonna un fazzoletto di lino, lo avvolse intorno all’indice e al medio, lo
bagnò di saliva e sfregò le macchie di sporco sulle
guance di doña Julia, proprio come faceva tanti anni
prima, quando era una bimba affidata alle sue cure.
Ma ormai la sua signora era troppo adulta per queste
cose: si allontanò con passo incerto, mettendosi in disparte. Guardò verso l’alto. Oltre il velo grigio del cielo poteva intuire il disco solare che lottava per affermare il suo bagliore. La presenza del sole le aveva sempre suscitato un’indescrivibile sensazione di rinascita.
Tirò un profondo sospiro, ancora abbracciata alla pietra che aveva tratto in salvo fra le macerie della chiesa.
Chiuse gli occhi e una smorfia simile a un sorriso le si
dipinse sul viso insudiciato. Era viva. Viva.
«Sono viva!» esclamò emozionata.
«Andiamo via!» le urlò mamma Lula scrollandole
27
le spalle per riportarla alla realtà. «La torre sta per
crollare!»
Erano uscite dalla porta dei Bastoni e un gruppo di
persone indicava una fessura che si apriva nel corpo
della Giralda. Sembrava quasi che un’ascia di dimensioni enormi avesse colpito il muro aprendo una ferita dal corpo delle campane giù fino ai primi balconi.
Nel frattempo, la voce priva di dolcezza di padre Zacarías risuonava stentorea. L’uomo camminava brandendo il crocifisso sopra la testa, seguito da un traballante corteo di fedeli, quasi stregati dall’eccezionale
forza di quel corpo ormai sessantenne. La cecità l’aveva reso immune al panico. Marciava senza esitazione
verso la piazza, ordinando a tutti di seguirlo perché
non aveva alcuna intenzione di lasciare in sospeso la
messa che il terrore aveva osato interrompere.
«Sta per rompersi in due!» gridò qualcuno indicando la Giralda.
«Torniamo a casa prima che ci cada in testa una
campana», suggerì con dolcezza mamma Lula a doña
Julia.
«Ti sei sbagliata, visto? Il mondo non è finito. Siamo
vive, te ne rendi conto? Vive!» esclamò lei sorridente.
«Certo, certo. Su... torniamo a casa.»
«Sono viva, sono viva, sono viva», ripeteva doña Julia con gli occhi persi nel vuoto e lo sguardo inebetito,
lasciandosi guidare dalla domestica.
28
La mattina seguente León si alzò presto. Brillava
ancora qualche stella in cielo quando uscì dalla
stamperia stando attento a non fare rumore. A
quell’ora in giro non si vedeva un’anima e il gioco
di luci e ombre rendeva più cruda la devastazione
che il terremoto si era lasciato alle spalle. Guardò
sui due lati della strada, si diresse verso destra, in direzione di plaza de San Francisco, e giunse all’altezza del carcere reale, ridotto a un cumulo di macerie. I detenuti avevano approfittato del crollo dei
muri per fuggire lontano da quel recinto immondo
che li aveva tenuti pigiati l’uno contro l’altro per
anni.
León proseguì per calle Sierpes lasciando che l’aria frizzante del mattino gli rinfrescasse le idee. Accarezzava la croce ottagonale d’oro che portava al
collo e che il Gran maestro gli aveva consegnato
prima di inviarlo a Siviglia. La sua vita sembrava guidata da un Dio folle che ogni poco si contraddiceva
prendendo decisioni diverse circa il suo destino. Aveva buona memoria, perciò ricordava alla perfezione la sua infanzia sull’isola di Malta, sotto la protezione degli Ospedalieri dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Erano stati loro a raccontargli le sue origini misteriose: lo avevano trovato
abbandonato il giorno di San Leone Magno sulla
porta della fortezza quando era ancora un neonato,
dentro una cesta di vimini, avvolto in una cotta su
cui era ricamata quella stessa croce a otto punte: il
29
simbolo dell’ordine ospedaliero dall’anno 1048,
quando dei mercanti di Amalfi avevano ottenuto
dal califfo d’Egitto il permesso di costruire a Gerusalemme un ospedale in cui assistere i pellegrini di
qualsiasi fede o razza in visita alla Terra Santa. La
croce aveva quattro bracci delle stesse dimensioni,
con otto angoli e otto punte. Solo i cavalieri dell’ordine portavano quella croce sugli abiti. Se uno
dei frati aveva commesso peccato con qualche ragazza dell’isola e quella creatura era figlio suo, di sicuro nessuno lo confessò mai.
Gli Ospedalieri lo avevano nutrito con molliche
di pane inzuppate nel latte cullandolo con i canti
gregoriani del mattutino. Gli avevano insegnato a
giocare a scacchi; a leggere e scrivere in latino, perché potesse comprendere la Bibbia; in italiano, perché potesse trattare con gli isolani; in castigliano,
perché secoli prima l’imperatore Carlo V aveva ceduto in feudo all’ordine l’arcipelago di Malta senza
rinunciare alla sua sovranità. Era cresciuto immerso
in una pace infinita, convinto che avrebbe trascorso
lì il resto della sua vita esaltando la gloria del Signore e difendendo la cristianità con il nome di fra
León. Ma a soli quindici anni il suo destino aveva
mutato direzione. I temuti giannizzeri, la fanteria
dell’impero ottomano, avevano organizzato la loro
abituale caccia ai giovani cristiani, detti devshirmeh.
La tattica consisteva nel navigare nei pressi della costa mediterranea scrutandola con attenzione per se30
lezionare ragazzi agguerriti e forti, adatti alla lotta.
Avevano catturato León sulla spiaggia, quasi al tramonto. Non avrebbe dovuto essere lì: se l’era svignata per andare a cercare telline. Gli piaceva vedere la scia di bollicine che lasciavano sulla sabbia
quando l’onda si ritraeva, scavare fino a trovare la
preda, consegnarne una borsa piena al cuoco perché le condisse con vino bianco, aglio e prezzemolo, e mangiarle all’ora di cena. Troppo impegnato
per vedere arrivare i giannizzeri, quando se n’era
accorto si trovava già legato mani e piedi nella buia
stiva di una nave e sentiva parlare una lingua sconosciuta.
Da quell’istante la sua vita era cambiata. I giannizzeri lo avevano portato in una scuola dove lo avevano addestrato a maneggiare le armi, gli avevano
fatto studiare le tattiche militari, gli scacchi, la letteratura, la matematica. Lo avevano incoraggiato a
convertirsi all’Islam, senza costrizioni ma con la garanzia che tutto sarebbe diventato più facile. Sin
dall’inizio sembrava assimilare bene una religione
estranea che glorificava un unico Dio al di sopra di
ogni cosa, in cui si doveva rispettare il prossimo e
condannare i crimini, mentre le buone azioni sarebbero state ricompensate. Quella fede non gli
sembrava poi così diversa dalla sua. Si era lasciato
crescere solo i baffi perché la barba era proibita, aveva giurato che il corpo dei giannizzeri era la sua
casa e il sultano il suo vero padre su questa terra.
31
Era divenuto così forte, così severo, sembrava davvero tanto convinto che dopo il primo periodo di
addestramento era stato nominato giannizzero a
tutti gli effetti, a soli diciannove anni. Tempo dopo,
quando finalmente i suoi superiori, fidandosi di lui,
avevano abbassato la guardia, era riuscito a mettere
in pratica il piano di fuga programmato da anni.
Atteso il calare della notte, aveva rubato una goletta
dal porto. L’aveva scelta perché era un’imbarcazione abbastanza solida da sopportare le onde di mille
tempeste e abbastanza leggera da richiedere la presenza di una sola persona al comando. Aveva navigato per giorni e giorni mangiando i pesci crudi
che riusciva a pescare, dormendo quando riusciva,
temendo da un momento all’altro di veder comparire all’orizzonte una nave ottomana con un equipaggio pronto a tagliargli il collo per il tradimento
del sultano. Quando ormai aveva dato fondo alle riserve di acqua dolce, una fregata lo aveva visto navigare alla deriva. Lo avevano trovato svenuto, seminudo, sul ponte della goletta: bruciato dal sole del
Mediterraneo, con le labbra consumate dalle febbri
e in preda al delirio, pregava senza sosta in latino di
essere restituito ai suoi fratelli dell’isola di Malta.
Adesso che era ormai in salvo, passeggiando per
le strade di Siviglia, pensava che il suo destino sembrava ondeggiare come le correnti marine.
32
Scarica

Riesco x Torino 2:opuscolo