UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ANCONA
FACOLTÀ DI ECONOMIA
Corso di Laurea in Economia e Commercio
LA MINIERA DI CABERNARDI E IL SETTORE DELLO
ZOLFO IN ITALIA FRA FINE ‘800 E LA METÀ DI
QUESTO SECOLO
Relatore:
Tesi di laurea di:
Chiar.mo Prof. Franco Amatori
Giovanna Leonori
Anno Accademico 1996/97
1
INDICE
LA MINIERA DI CABERNARDI E IL SETTORE DELLO ZOLFO IN ITALIA FRA
FINE ‘800 E LA META’ DI QUESTO SECOLO
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1 : 90 ANNI DI STORIA
1.1 Le origini della miniera
1.2 La gestione Trezza-Albani
1.3 I primi 16 anni sotto la guida della “Montecatini”
1.4 Gli anni ’30
1.5 Seconda Guerra Mondiale e prima fase post bellica
1.6 Gli ultimi anni di vita della miniera
CAPITOLO 2 : IL SETTORE
2.1 L’industria mineraria: peculiarità e sviluppo
2.2 La legislazione mineraria
2.3 Uso dello zolfo
2.4 Il contesto italiano
2.4.1 Confronto tra la Sicilia e l’area Marche-Romagna
2.4.2 Le miniere di zolfo dell’Irpinia e della Calabria
2.5 Il conteso internazionale
2.5.1 I due maggiori produttori di zolfo: Stati Uniti e Italia
2.5.2 Gli altri Paesi
CAPITOLO 3 : I LAVORATORI
3.1 Il lavoro all’interno della miniera
3.2 Attività lavorative di superficie
3.3 Infortuni
CAPITOLO 4: LA MINIERA E CABERNARDI
2
4.1 Sviluppo socio economico
4.2 Problemi ecologici
4.3 Conseguenze della chiusura
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
3
INTRODUZIONE
Lo zolfo ha costituito per un lungo periodo la maggiore risorsa mineraria nazionale sia per
l’entità della produzione che per l’impiego di manodopera. L’industria solfifera italiana per
secoli ha avuto un ruolo fondamentale in campo internazionale, la sola Sicilia, fino al 1912,
mantenne il primato mondiale nella produzione ed esportazione di zolfo. Tuttavia
l’estrazione di questo minerale è avvenuta anche in altre regioni italiane come nelle Marche,
in Romagna, in Campania, in Calabria oltre che, seppur limitatamente in Toscana. Dopo la
Sicilia, la maggiore industria estrattiva di zolfo si è sviluppata nelle Marche. La storiografia
economica non ha mai dedicato particolare attenzione all’attività estrattiva e di lavorazione
dello zolfo nelle Marche. Eppure produrre zolfo non è stato un fatto marginale nel contesto,
prevalentemente agricolo dell’economia marchigiana. Basti pensare che la miniera di
Cabernardi (sita nel comune di Sassoferrato in provincia di Ancona) e quella di Perticara (in
provincia di Pesaro nel Montefeltro) erano di gran lunga le più grandi imprese industriali
della regione. Cabernardi, la più produttiva e profonda miniera di zolfo d’Italia, nei suoi
novant’anni di vita (1870-1959), ha garantito la piena occupazione in un comprensorio dove
al lavoro in miniera non c’era alternativa se non la disoccupazione e l’emigrazione.
A causa dell’esaurimento dei giacimenti ma soprattutto per motivi economici, nelle Marche
e nel resto d’Italia, l’industria solfifera ora non esiste più. Risulta estremamente interessante
e utile ricostruire, con il presente lavoro, la storia di un mondo scomparso: quello della
miniera di Cabernardi e del settore dello zolfo in Italia fra fine ‘800 e la metà di questo
secolo. Un settore scarsamente conosciuto in Italia e che è stato soprattutto trattato dal punto
di vista geologico e mineralogico.
Lo scopo di questo studio è quello di analizzare, dal punto di vista economico, sociale e
culturale, le caratteristiche peculiari dell’industria solfifera sia a livello locale che nazionale
ed internazionale.
4
Essendo ormai trascorso circa un quarantennio dalla chiusura della miniera, è facile intuire
che per reperire il materiale utile alla stesura di questo lavoro è stata necessaria una paziente
e laboriosa ricerca. Infatti con la scioglimento delle società concessionarie quasi sempre è
andata dispersa o, purtroppo, distrutta gran parte della documentazione tecnica ed
amministrativa.
Le fonti più continue di notizie sono costituite dalle Relazioni sul Servizio Minerario (con la
denominazione, dal 1891, di Rivista del Servizio Minerario) pubblicate annualmente dal
Ministero di Agricoltura Industria e Commercio a cura del Corpo delle miniere che
riuniscono le informazioni elaborate, distretto per distretto, dagli ingegneri minerari e dai
funzionari in forza presso tale organo statale. Mentre per gli anni ’50 si è rivelata molto utile
la rivista mensile L’industria mineraria.
Si è cercato di coniugare, a una grande mole di informazioni tecniche, un’attenta
elaborazione dei dati attraverso il confronto tra fonti di diversa natura: l’Archivio Storico
Comunale di Sassoferrato, il museo della miniera di zolfo di Cabernardi, le informazioni
scientifiche e tecniche pubblicate su riviste specialistiche, articoli comparsi su periodici
specializzati in storia locale, contributi di ordine demografico e legislativo. La ricerca si è
svolta anche sul piano della fonte orale, raccogliendo, confrontando ed analizzando le
testimonianze dei minatori ancora in vita.
La tesi è suddivisa in quattro capitoli. Nel primo viene ripercorsa la storia della miniera di
Cabernardi: le origini, lo sviluppo, la fine. Nel secondo capitolo si è preso in esame il
settore dello zolfo. Sono state confrontate le varie aree produttive a livello locale, nazionale
ed internazionale per metterne in evidenza i punti forti e deboli, e per capire quali sono state
le cause che hanno portato alla fine dell’industria solfifera italiana. Nel terzo capitolo si
sono analizzate le attività che si svolgevano nella miniera e le dure e pericolose condizioni
di lavoro. Nel quarto capitolo vengono prese in considerazione le conseguenze, dal punto di
5
vista economico e sociale e culturale, della nascita, dello sviluppo e della chiusura della
miniera per il territorio e la popolazione di Cabernardi.
6
CAPITOLO PRIMO
LA MINIERA DI CABERNARDI: UN PROFILO
STORICO
1.1 LE ORIGINI DELLA MINIERA
Il bacino solfifero che alimentò l’importante centro minerario di Cabernardi-Percozzone
forma un’ellisse allungata che si estende dal torrente Cesano ( Pergola) fino alla valle del
Sentino (Sassoferrato) per una lunghezza totale di otto chilometri. L’area mineraria interessa
per la massima parte il Comune di Sassoferrato e solo in parte i comuni di Pergola e
Arcevia.
La scoperta del giacimento di Cabernardi avvenne nel 1870 in maniera del tutto casuale.
Esistono due differenti versioni in proposito. Secondo la prima l’affioramento di zolfo fu
notato per la prima volta durante l’aratura di un campo1, la seconda invece attribuisce il
merito del ritrovamento ad un contadino, il quale constatò che una sorgente di acqua non
poteva essere utilizzata per abbeverare gli animali in quanto emanava cattivo odore2. Si
rivolse perciò al parroco di Cabernardi Don Tommaso Vitaletti che richiese un intervento di
esperti di Arcevia.
Nel 1873 i sigg. Bruni e Togni di Arcevia chiesero ed ottennero la concessione di una
ricerca denominata “Ca’ Fabbri, Brecciatina, Cabernardi”3. In precedenza a causa degli
scarsi affioramenti di superficie della formazione gessosa solfifera nessun tentativo di
ricerca era stato svolto. Il sig. Ricchi, associatosi ai due ricercatori, realizzò una discenderia
1
Cfr., AA.VV., La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel
venticinquesimo anno di amministrazione dell’ Onor. Ing. Guido Donegani, 1935,
p. 110.
2
Cfr., P. Mattias, G. Crocetti, A. Scicli, Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e
vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della
Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p. 115.
3
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1877, p.44
7
di 85 metri senza però incontrare il giacimento solfifero così, nel 1875, il Ricchi abbandonò
la società cedendo i suoi diritti al sig. Dellamore, fratello del noto scopritore e dirigente
delle miniere del Cesenate, il quale preferì intraprendere una nuova discenderia e alla
profondità di 10 metri rinvenne un ricco strato di zolfo di circa due metri. Tuttavia
l’esplorazione che ne seguì mise in evidenza la scomparsa dello strato alla profondità di 18
metri.
Dellamore tentò altre ricerche mediante una galleria a 2 chilometri a SO di Cabernardi ed
altre sul lembo orientale ma non fu trovato alcun indizio di zolfo.
Dopo questi insuccessi la società abbandonò l’impresa e la concessione di ricerca venne
rilevata nel 1878, da una ditta tedesca, costituita dai sigg. F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard4.
Tra Otto e Novecento molte delle iniziative imprenditoriali più interessanti nelle Marche si
devono ad operatori stranieri5. L’Italia era ancora un Paese periferico rispetto all’Europa
industrializzata e presentava il grave problema di scarsezza di risorse finanziarie. In questa
situazione si può ben comprendere come il capitale italiano disponibile venisse
maggiormente attratto da investimenti con immobilizzi a più breve termine e minor rischio
rispetto all’industria estrattiva. Quest’ultima, soprattutto nella fase di ricerca, sempre fonte
di spese a pieno rischio, era caratterizzata da un elevato grado di aleatorietà per cui veniva
lasciato spazio ai capitali stranieri6. Molto interessati al settore dello zolfo furono in
particolare tedeschi, francesi ed inglesi data la scarsa presenza del minerale nei rispettivi
Paesi7.
4
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1886, p. 11.
5
Cfr., M. Moroni, Il farsi delle maggiori imprese, in S. Anselmi (a cura di),
L’industria nella provincia di Pesaro e Urbino, 1995, p. 93.
6
Cfr., P. Corna Pellegrini, Il progresso tecnologico nell’industria mineraria,
1960, p. 11.
7
...la Società Picard, dal 1838, sfrutta lo zolfo della miniera di
Perticara...
E. Sori, Dalla manifattura all’industria (1861-1940), in S.
Anselmi (a cura di), Storia di Italia. Le regioni dall’unità a oggi: le Marche,
1987 p. 357.
...nell’estrazione e lavorazione dello zolfo si impegnarono alcuni investitori
francesi, tanto che nel 1885 si costituisce la società franco-italiana degli
zolfi in Pesaro... M. Moroni, Il farsi delle maggiori imprese, cit., p. 93.
8
I nuovi imprenditori proseguirono le ricerche negli stessi punti esplorati dal Dellamore (Ca’
Fabbri, Poggiolo e Casella). A Ca’ Fabbri si scavò una discenderia di 300 metri diretta verso
il centro del bacino e una serie di gallerie e pozzetti. Nonostante le difficoltà incontrate a
causa di fratture e faglie si pervenne alla scoperta di un importante giacimento la cui
potenza era di 9 e 15 metri rispettivamente alle profondità di 85 e 110 metri8.
Tutti i lavori si svilupparono sempre in terreni asciutti e solo nella galleria più profonda
(185 metri) si ebbe un’erogazione di acqua salata che causò la sospensione dei lavori. Dopo
due mesi l’acqua si esaurì, ciò fece presumere che si trattava di un serbatoio di poca
importanza. Durante gli scavi furono frequenti le emissioni di gas grisou seguite talvolta da
esplosioni. Nel 1883 vi fu un’imponente fuoriuscita di gas, di tale intensità e violenza che
per più di un mese i lavori in galleria furono interrotti. Ciò poteva indicare, basandosi su
esperienza passata, che si trattava di una mineralizzazione particolarmente consistente infatti
quando i lavori ripresero portarono alla luce uno strato solfifero della potenza media di 10
metri e per quantitativi di circa 240.000 tonnellate di minerale9.
La ditta si affrettò a chiedere la dichiarazione di scoperta che venne accordata con D.R.
16/04/1886. Con successivo D.R. 5/09/1888 la concessione della miniera Cabernardi, con
un’estensione di superficie pari a 395.66 ettari, venne accordata all’ Azienda Solfifera Italia
(Schwefelgewerkschaft “Italia”) con sede a Coblenza (Germania)10. Tale Società fu
appositamente costituita dagli imprenditori F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard.
Fino al 1886 , i lavoratori che avevano prestato la loro opera nell’attività mineraria
risultavano mediamente una cinquantina all’anno, mentre a partire dal 1887, anno in cui
figuravano 96 addetti, il numero crebbe fino a stabilizzarsi intorno a 150 per tutta la decade
di fine secolo.
8
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1886, p. 13.
9
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario, 1883, p. 6.
10
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1888, p. 8
9
La scoperta dell’importante giacimento premiò non solo la perseveranza ma anche
l’intelligente direzione e l’oculata organizzazione del lavoro dei ricercatori che, dopo un
decennio di studi ed ingenti spese, riuscirono a localizzare il minerale nonostante una fitta
rete di dislocazioni e faglie.
La struttura venne potenziata con la costruzione di impianti per la coltivazione della miniera
e di un pozzo, denominato “pozzo I” o Boschetti dal nome del direttore della miniera, che si
collegava con diversi livelli di gallerie già in gran parte tracciati11.
Si iniziò la coltivazione al 1° livello di uno strato di 9 metri che produsse solo 33.5
tonnellate di zolfo grezzo, mentre negli anni 1876-78, durante la gestione Dellamore, si
erano ottenute 196 tonnellate di zolfo. Il minerale estratto veniva trattato nei sedici
“calcaroni” presenti all’esterno della miniera a cui se ne aggiunsero altri cinque nel 188912.
Nello stesso anno furono ultimati i lavori di costruzione della raffineria di Bellisio Solfare,
di proprietà della stessa Azienda Solfifera Italia, alla quale dovevano essere destinato lo
zolfo di Cabernardi. La scelta dell’ubicazione della raffineria rispondeva da tre motivi ben
precisi. In primo luogo, Bellisio (circa 300 metri s.l.m.) dista solo 4 km in linea d’aria da
Cabernardi (circa 400 metri s.l.m.). Tale collocazione geografica rendeva più semplice ed
economico il trasporto del minerale grezzo. In secondo luogo, a quei tempi la questione
della forza motrice aveva una notevole importanza e quindi l’ubicazione era stata
determinata dalla convenienza di sfruttare l’energia idraulica del fiume Cesano che
attraversa Bellisio13.Infine, il terzo motivo era dettato dalla possibilità di collegare la
miniera e la raffineria con gli scali commerciali più importanti infatti Bellisio si trovava
lungo la ferroviaria secondaria Fabriano - Urbino ultimata nel 189814. Durante la
11
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1886, p. 13
12
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio
Minerario”, 1889, p. 163
13
Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit.,p.144.
14
La linea Urbino-Fabriano fu costruita a intero carico dello stato e concessa a
una delle più grandi compagnie di quell’epoca: la Rete Adriatica. Il progetto
iniziale prevedeva un chilometraggio più lungo Fabriano-Sant’Arcangelo di
Romagna. Tra Sant’Arcangelo di Romagna e Urbino è esistita una ferrovia
10
costruzione di questo tronco ferroviario le autorità locali si interessarono per ottenere una
stazione, non progettata, a Bellisio che fu inserita e realizzata.
Nel 1892 la raffineria veniva ingrandita con l’aggiunta di 6 “storte”15, arrivando così a 24
“storte” capaci di distillare 24 tonnellate di zolfo al giorno.
Sin dal 1890 si era progettata una galleria per facilitare le vie di comunicazione, che
partendo dal pozzo I, doveva terminare presso la raffineria di Bellisio. Tale galleria, oltre a
costituire una comoda e diretta via con lo stabilimento di Bellisio, avrebbe permesso
l’investigazione di tutta la parte più profonda del lembo orientale del bacino minerario16.
Tuttavia il progetto non fu mai realizzato, infatti nella Rivista del Servizio Minerario del
1894 si legge: riguardo alla galleria progettata...consta allo scrivente che l’esecuzione di
tale opera grandiosa fu aggiornata in attesa di una felice soluzione della crisi industriale che
ora trattiene qualunque coltivatore da simili imprese dispendiose
17
.
Una “regolare” coltivazione del 1° livello della miniera iniziò solo nel 1889. Con una
produzione di 2732 tonnellate di zolfo grezzo, il nuovo centro produttivo di Cabernardi si
profilò subito molto importante per il distretto minerario marchigiano-romagnolo tanto da
far superare alle miniere marchigiane per la prima volta la produzione delle miniere
romagnole.
Nelle Marche, oltre a Cabernardi, erano presenti altre due importanti miniere: Perticara nel
Montefeltro e San Lorenzo in Zolfinelli nell’Urbinate18.
fantasma: interamente costruita (ponti, gallerie, stazioni etc.) non vide mai il
binario. Tra Fermignano Cagli e Pergola non fu ricostruita dopo la guerra. Cfr.,
P. Galante, A. Minetti, Le ferrovie dell’Appennino Centrale in “Proposte e
ricerche” n°20, 1988, pp.260,261,262.
15
Lo zolfo bruno dei “calcaroni” doveva essere purificato mediante distillazione
servendosi di forni a storte di ghisa.
16
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1893, p. 29
17
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1894, p.27.
18
“Le fonti archivistiche e rari lavori a stampa hanno fatto conoscere
l’esistenza di solfatare attive fin dal secolo 16° a Maiano di Sant’Agata ed a
Perticara nel Montefeltro e, nel secolo 17°, a Rocca Contrada nell’Anconitano, a
San Lorenzo in Zolfinelli nell’Urbinate e a Castellina di Macerata (Feltria) nel
Montefeltro. ” M. Battistelli, L’estrazione degli zolfi nelle Marche, in
“Quaderni di Proposte e ricerche” n°20, 1988, p. 227.
11
Cabernardi nacque in un periodo in cui l’industria dello zolfo italiano stava attraversando
una grave crisi per il continuo ribasso dei prezzi che, dopo una breve ripresa nel biennio
1891-1892, toccò il fondo nel triennio 1893-189519.
Dopo il 1875 l’intera economia mondiale cadde in uno stato di profonda depressione; in
quasi tutti i Paesi si ebbe una generale contrazione dei prezzi che, pur attraverso
oscillazioni, si protrasse fino al 1898. L’industria solfifera siciliana, che collocava l’80%
della sua produzione all’estero, subì le vicende dell’economia mondiale ancor più degli altri
settori dell’economia italiana così, mentre dal 1881 al 1886 i prezzi dei prodotti industriali
in Italia ricevettero un sensibile incremento, quelli dello zolfo subirono dal 1883 al 1895 un
continuo ribasso: la discesa dei prezzi, comune agli Stati Uniti, alla Francia, all’Inghilterra,
massimi clienti dello zolfo siciliano, colpì parimenti quest’ultima merce20. La riduzione del
prezzo delle piriti, verificatosi soprattutto dopo l’intensificazione della produzione di quelle
spagnole, ebbe un ruolo principale nel determinare la riduzione del prezzo dello zolfo. Salvo
quelle pochissime industrie che avevano bisogno di acido solforico purissimo per ottenere
l’acido citrico e certi prodotti medicinali, tutte le fabbriche di acido solforico in Europa
avevano sostituito allo zolfo le piriti. Di conseguenza la diminuita esportazione di zolfo in
Europa aveva determinato la formazione di enormi riserve che potevano essere smaltite
soltanto a prezzi molto inferiori. Il prezzo dello zolfo grezzo risultò di 124.51 lire a
tonnellata nel periodo 1860-1875, di 100.48 lire nel decennio successivo e di 75.44 lire nel
periodo 1886-1895, con un minimo di 55.69 lire nel 189521.
L’andamento della produzione siciliana dal 1876 al 1882 per quanto contrassegnato da forti
oscillazioni, rivelò una tendenza all’aumento favorendo così la formazione di enormi
riserve. Nel periodo 1883-1890 la tendenza generale della produzione fu invece alla
19
Cfr., M. Battistelli Gli zolfi di Cabernardi, in A. Antonietti (a cura di), La
montagna appenninica in età moderna, in Quaderni di “Proposte e ricerche”, n°4,
1988b, p. 272.
20
Cfr., F. Squarzina, Produzione e commercio dello zolfo in Sicilia, 1963, pp.
79,80.
21
Ibid. p.80.
12
diminuzione. Nel 1890, ridottesi notevolmente le scorte si verificò un rialzo dei prezzi che si
accentuò nell’anno successivo passando da 65.36 lire del 1889 a 77.65 lire del 1890 e
arrivando a 112.57 lire nel 1891. Il rialzo provocò però un aumento di produzione
prontamente seguito da forti ribassi di prezzo che si accentuarono dal 1893 al 1895 per il
permanere di elevate giacenze nonostante che la produzione e l’esportazione si
bilanciassero22.
L’industria solfifera siciliana, costituendo circa il 90% della produzione nazionale, era di
gran lunga la più rilevante per l’Italia per cui le variazioni dei prezzi sottostavano alle sue
condizioni. Di conseguenza l’industria solfifera del distretto marchigiano-romagnolo
attraversò un periodo di lunga crisi dovuta principalmente al continuo ribasso dei prezzi
dello zolfo e accentuata dall’impossibilità di ridurre i costi di produzione per la grande
profondità e disposizione dei giacimenti23. A partire dal 1879 e fino al 1898 si registrò nel
distretto una tendenza generale di diminuzione nella produzione.
In particolare nel decennio 1878-1887 si passò dalle 39069 alle 21663 tonnellate annue di
zolfo grezzo con una diminuzione di circa il 45%. Nel 1888, nonostante la chiusura di
numerose miniere del Cesenate e dell’Urbinate, la produzione si mantenne di poco inferiore
all’anno precedente a causa della preferenza che lo zolfo delle Marche e della Romagna
incontrava sui mercati interni ed esteri a motivo delle sue qualità intrinseche e dell’alto
grado di perfezione raggiunto nella lavorazione24. Alla fine del 1889 con la recrudescenza
della malattia della vite per lo straordinario fulmineo sviluppo della peronospera nei vigneti
europei le quantità di zolfo ammassate nei magazzini cominciarono a essere smaltite.
Cosicché nel 1890 e 1891 quasi tutto lo zolfo prodotto nel distretto marchigiano-romagnolo
fu consumato nella solfurazione della vite nelle regioni vinicole della Toscana, del Piemonte
22
Cfr., F. Squarzina, Produzione e commercio, cit., p.80.
In quel periodo la profondità media delle miniere siciliane era di 80 metri
mentre nelle Marche e in Romagna si arrivava a circa 300 metri. Cfr., R.
Gualtieri, La genesi dello zolfo italiano, in “L’Industria mineraria”, 1950,
p.92.
24
Cfr., F. Bonelli, Il commercio estero dello stato pontificio nel secolo XIX,
in Archivio economico dell’unificazione italiana serie I volume XI, fascicolo
II.
13
23
e del Lazio25. Dopo la breve ripresa del 1891-1892 l’industria dello zolfo italiana peggiorò
nel triennio 1893-1895 mentre quella del distretto marchigiano-romagnolo si mantenne a
livello degli anni passati grazie alla miniera di Cabernardi che mostrò un trend produttivo
crescente per tutto l’ultimo decennio dell’800. La nuova miniera marchigiana superò senza
grosse difficoltà la sfavorevole congiuntura in atto grazie alla ricchezza del giacimento e
alla elevata resa in zolfo del minerale. Nel 1895 detta resa era del 17.58%, mentre nelle
miniere di Perticara e San Lorenzo in Zolfinelli, insieme, e con gli stessi apparecchi di
fusione era del 12.53% e in quelle di Romagna era mediamente dell’11.46%. Nello stesso
anno era altissima la produttività del lavoro degli operai che realizzarono 28 tonnellate
annue di zolfo pro capite, mentre con pari tecnologie di scavo e di fusione del minerale,
nelle sole due altre miniere attive nelle Marche se ne ottennero 8.16 tonnellate e nel
cesenate appena 3.6326 .
Nel 1896 le aumentate richieste del mercato interno per usi agricoli e industriali nonché la
costituzione della Società Anglo-sicula per il commercio degli zolfi italiani determinarono
un rapido e consistente aumento dei prezzi. Mentre la produzione di zolfi in Italia aumentò
del 14% nel distretto marchigiano-romagnolo la ripresa del mercato dello zolfo esercitò una
considerevole influenza soltanto nello sviluppo della miniera di Cabernardi. La produzione
in detta miniera, che nell’anno appena trascorso era poco al di sopra delle 5000 tonnellate di
zolfo grezzo, iniziò il suo trend ascendente che la portò in breve tempo a spingersi assai
oltre il 50% dell’intero prodotto regionale con l’impiego di una manodopera da 3 a 5 volte
inferiore numericamente a quella utilizzata complessivamente nelle altre 4 miniere attive. A
conferma di ciò nel 1897 la produzione della miniera di Cabernardi, “ la più importante di
tutte ”, salì a più di 8000 tonnellate di zolfo greggio. “ Il minerale si conserva sempre di una
25
Tali regioni venivano raggiunte per via di terra con trasporti ferroviari
dalle stazioni di Ravenna, Faenza, Cesena e Rimini. Altro zolfo andava
all’estero via mare ma rappresentava appena 1/10 del totale. Cfr., Ministero di
Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1891, p.
36.
26
Cfr., M. Battistelli, Gli zolfi di Cabernardi, cit., p.272.
14
ricchezza eccezionale sicché, anche da questo lato, l’industria del Azienda Solfifera Italia
attinge alimento per una vita rigogliosa come del resto lo prova il suo assurgere in pochi
anni in un grado eminente fra le molte altre congeneri della stessa regione continentale
adriatica ”27.
1.2 La gestione Trezza-Albani
Al termine della severa crisi economica e bancaria (1888-95) e in particolare dello stato di
profonda depressione in cui si venne a trovare l’industria solfifera italiana nell’ultimo
ventennio dell’800 che aveva portato al fallimento di numerose società estrattive, le
migliorate condizioni economiche favorirono una complessa riorganizzazione e
concentrazione delle imprese. Con la comparsa di medi e grandi gruppi industriali italiani
nell’età del “decollo” (1896-1914) questi presero il sopravvento sulle iniziative straniere28
così nel 1899 la ditta Cav. Luigi Trezza di Bologna, in commercio Miniere Solfuree TrezzaRomagna, rilevò la concessione del centro minerario di Cabernardi dalla Società tedesca
Azienda Solfifera Italia. La ditta Trezza aveva già acquistato nel 1892 le miniere della
Società Generale Zolfi e della Cesena Sulphur Company entrambe fallite nel 188729.
Avendo acquistato nel 1899 anche le miniere appartenenti alla Società Miniere Zolfuree di
Romagna, posta in liquidazione dal 1896, la ditta Trezza era diventata proprietaria di quasi
tutte le principali miniere di zolfo del distretto marchigiano-romagnolo possedendo ben 11
27
Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1897, p.33.
28
Cfr., E. Sori, op. cit., p. 358.
29
La Cesena Sulphur Company possedeva le seguenti miniere: Boratella I, BorelloTana, Polenta, Ca’di Guido e Montecodrizzo. Mentre alla Società Generale Zolfi
apparteneva la sola miniera di Boratella II. Cfr., S. Lillotti (a cura di), La
Miniera tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, 1989,
p. 423.
15
concessioni30. Il passaggio di proprietà implicò anche un aumento di lavoratori nella
miniera. Già nel 1900 gli addetti erano circa 200, raggiunsero quota 300 solo 2 anni dopo e
successivamente il numero si mantenne su quest’ultimo livello fino alla I Guerra Mondiale.
A Cabernardi, i nuovi imprenditori dettero forte impulso alla coltivazione: nel 1899 era già
attivo il quarto livello e la produzione aveva raggiunto 8970 tonnellate di zolfo fuso con
l’impiego di soli 157 minatori, ciò testimoniava l’elevato rendimento della più ricca e
promettente miniera del distretto31. Per il trasporto del minerale furono costruiti nel 1901 dei
piccoli piani inclinati fra i cantieri e le gallerie prolungandoli fino ai livelli dei superiori
piani di lavorazione che si succedevano ad ogni 25 metri di altezza cosicché mentre prima
era possibile solo il trasporto del minerale con carriole a mano, ora invece ogni cantiere era
munito di rotaie che permettevano ai vagoncini di arrivare dalle gallerie di carreggiatura
sino ai sovrastanti cantieri di lavoro32.
Interessanti ricerche vennero condotte nel 1902 e nel 1903 a sud di Cabernardi per risolvere
i complessi problemi che presentava l’andamento stratigrafico di questo importante bacino,
rintracciando lo strato solfifero dopo che era stato interrotto al quinto livello da una grande
faglia e permettendo quindi al pozzo I di raggiungere il settimo livello33.
Nel 1904 la ditta Trezza si fuse con la Società Miniere Solfuree Albani e assunse la
denominazione
di
Società
Anonima
Miniere
Solfuree
Trezza-Albani-Romagna.
Quest’ultima, in seguito alla fusione, venne in possesso delle miniere denominate San
30
Sette delle quali risultavano nel 1899 produttive (Cabernardi, Perticara,
Marazzana, Boratella I, Boratella II, Ca’di Guido e Busca) e 4 in via di
preparazione e di esplorazione (Percozzone, Luzzena Formignano, Polenta e
Borello-Tana). Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista
del Servizio Minerario”, 1899, p. 25.
31
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1899, p. 26.
32
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1901, p. 22.
33
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1902, p. 27 e 1903, p. 26.
16
Lorenzo in Zolfinelli, Cavallino, Gallo, Schieti e Morcia situate in provincia di Pesaro
nonché delle raffinerie e i molini di Pesaro e Cesena appartenute alla Soc. Albani34.
La nuova Società concentrò i suoi sforzi nella promettente miniera di Cabernardi. Ad
affiancare l’unico pozzo ne venne costruito, nel 1904, un secondo (chiamato in seguito
pozzo Donegani) soddisfacendo così l’esigenza di introdurre i materiali di riempimento
attraverso una via che non fosse più la vecchia discenderia fino ad allora utilizzata, non più
adatta a questo compito per l’aumentata profondità delle lavorazioni35. Sempre nel 1904 fu
introdotta per la prima volta l’energia elettrica che inizialmente servì ad alimentare un
ventilatore installato alla bocca di una galleria per il riflusso dell’aria. Il suo più utile
impiego lo trovò però due anni più tardi quando, per ovviare alle difficoltà dei trasporti, si
realizzò una teleferica che, con una portata di 50 tonnellate e uno sviluppo di 3450 metri,
collegava la miniera con la raffineria e con la stazione ferroviaria di Bellisio-Solfare36. Ciò
costituiva un notevole progresso economico e pratico in quanto, per raggiungere detta
località, fino ad allora erano stati utilizzati lenti mezzi di trasporto a traino animale lungo un
percorso di circa 6 km di strade male agevoli.
Lo zolfo estratto veniva fuso in immediata prossimità del pozzo per mezzo di “calcaroni” e
“forni Gill”, colato in stampi dove si formavano i cosiddetti “pani” inviati alla raffineria.
Solo una piccolissima parte era lasciata grezza, mentre lo zolfo raffinato nella vicina
Bellisio raggiungeva per ferrovia il porto di Ancona. I mercati più serviti erano quelli
italiani; in essi il raffinato veniva acquistato per usi agricoli, massimamente quale
34
Casa Albani (casa nobiliare dell’800) era un gigantesco aggregato esteso in
tutta la provincia di Pesaro che comprendeva miniere e raffinerie di zolfo,
opifici meccanici, molini, fabbriche di maioliche e ceramiche, cartiere, fornaci
da laterizi e da gesso e gualchiere. Cfr., E. Sori, op. cit., p. 352.
Nel 1884 aveva costituito la Società anonima Miniere Solfuree Albani alla quale
parteciparono, con quote più che rilevanti, capitali extra regionali apportati
dal Credito Lombardo e dalla Banca di Credito Italiana (11000 azioni su 25000).
Cfr., P. Sabbatucci Severini, L’evoluzione industriale nella provincia di Pesaro
e Urbino, in Anselmi S. (a cura di) L’industria nella provincia di Pesaro e
Urbino, 1995, p. 103.
35
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1904, p. 29.
36
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1906, p. 22.
17
antiparassitario della vite, e industriali, per lo più per essere utilizzato nelle fabbriche di
acido solforico, di perfosfati e di polveri piriche. Nella raffineria di Bellisio parte dello zolfo
raffinato, mediante particolari lavorazioni, dava luogo a qualità superiori oppure, con
l’aggiunta di altre sostanze venivano creati prodotti speciali quali: lo zolfo ventilato, ramato
o acido. Questi ultimi, preparati con tanta cura da presentarsi in uno stato di estrema finezza,
riscuotevano particolare favore presso le varie regioni vinicole italiane ed estere dove
venivano quotati in maniera superiore agli altri prodotti consimili permettendo, di
conseguenza, alla società produttrice di poter fissare il prezzo di vendita con una certa
indipendenza rispetto alle oscillazioni del valore dello zolfo37.
Per quanto riguarda la quantità di zolfo grezzo prodotta da Cabernardi sotto la gestione
Trezza-Albani, i dati statistici indicano dal 1899 fino al 1914 un trend generalmente in
ascesa nonostante alcune oscillazioni. Stessa cosa può dirsi per la produzione complessiva
del distretto marchigiano-romagnolo.
37
Cfr., G. Testoni, Alcune notizie sugli zolfi italiani, 1913, p. 36.
18
Il calo produttivo di Cabernardi nel 1901 fu causato dalla sospensione di tutti i lavori nel
terzo livello della miniera a causa di un incendio verificatosi al principio dell’anno38. Dal
1902 la produzione continuò a crescere sino a superare le 12500 tonnellate nel 1905: ben
poca cosa rispetto alla produzione nazionale di cui rappresentava solo il 2.2% ma un
risultato di rilievo se rapportato alla produzione complessiva delle 13 miniere marchigiane e
38
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1901, p. 21.
19
romagnole in attività, che non eguagliava per sole 300 tonnellate . La diminuzione sensibile
nella produzione di Cabernardi nel 1906 dipese soprattutto da uno sciopero che la costrinse
per 2 mesi all’inattività e solo in misura minore dalla nuova crisi dell’industria solfifera
italiana. Infatti, mentre diminuivano notevolmente le esportazioni di zolfo italiano negli
Stati Uniti e in Francia, la domanda interna era in aumento e continuava a prediligere i
prodotti delle raffinerie marchigiane e romagnole. Il ristagno produttivo dell’anno seguente
fu invece conseguenza, seppur indiretta, del peggioramento della crisi derivante dalla
cessata esportazione negli Stati Uniti.
Tale Nazione, una tra le più importanti importatrici del minerale italiano, aveva scoperto
importanti giacimenti di zolfo nel Texas e nella Louisiana. Nel 1904 vi fu la prima
esportazione di zolfo americano in Europa infrangendo il monopolio siciliano. Di
conseguenza i prezzi scesero a 95 lire nel 1907 e la produzione siciliana diminuì39. In queste
condizioni la Società Trezza-Albani era restia ad aumentare la produzione in quanto temeva
che la Sicilia si orientasse maggiormente verso il mercato interno. Infatti, anche se lo zolfo
siciliano era di minor qualità rispetto a quello dell’area marchigiana-romagnola, la
coltivazione in quest’ultima, per la particolare conformazione geologica implicava una
spesa quasi doppia rispetto alla Sicilia.
Negli anni successivi la produzione di Cabernardi e del distretto marchigiano-romagnolo, al
contrario dell’andamento della produzione siciliana e quindi nazionale, dopo la contrazione
del 1909 dovuta a un’interruzione dei lavori a Cabernardi, aumentò progressivamente fino
al 1914. Ciò confermava l’esistenza per le Marche e la Romagna di una nicchia di mercato
grazie alle produzioni speciali destinate all’agricoltura40. Dal 1915 e per tutta la durata della
Prima Guerra Mondiale, a causa della scarsità di manodopera maschile, si registrò
39
F. Squarzina, Produzione e commercio, cit., p. 100.
Basti pensare che mentre il valore medio unitario dello zolfo grezzo si
mantenne fra un minimo di lire 95 nel 1909 e un massimo di lire 97 nel 1914, il
valore medio unitario del raffinato e di quello macinato fu rispettivamente di
lire 110 e 140.(Valori tratti da Rivista del Servizio Minerario per gli anni
considerati).
20
40
un’inversione di tendenza sia nella produzione del distretto che, in particolare, nella miniera
di Cabernardi dove nel 1917 furono sospesi i lavori di ricerca della vicina miniera di
Percozzone per poter impiegare tutto il personale nell’estrazione dello zolfo41.
1.3 I PRIMI 16 ANNI SOTTO LA GUIDA DELLA
“MONTECATINI”
Nel 1917 la Montecatini, Società Generale per L’Industria Mineraria, assunse il controllo
del gruppo minerario Cabernardi-Percozzone e di tutte le altre miniere e raffinerie
appartenenti alla Società Anonima Miniere Solfuree Trezza-Albani-Romagna42. Nonostante
la ricchezza dei giacimenti di zolfo posseduti dalla Società Anonima Miniere Solfuree
Trezza-Albani-Romagna che avrebbe potuto assicurare all’azienda un brillante avvenire, gli
eredi dei Trezza e degli Albani vendettero la maggioranza delle azioni alla Società
Montecatini a prezzi fallimentari. Questo affare così disastroso per i venditori si può
probabilmente attribuire, in parte, all’incapacità dei nuovi rappresentanti della Società che
non erano degli attenti imprenditori come i loro padri, ed in parte all’abilità dei dirigenti
della Montecatini43. Non bisogna dimenticare che a capo della Montecatini vi era già l’ing.
Guido Donegani, uomo di statura non comune e con uno spiccato senso degli affari.
Nel 1917 la Società Montecatini aveva anche acquistato la quasi totalità della Società
Mineraria Siciliana e una larga partecipazione alla Società Solfifera Siciliana. In tal modo la
Montecatini, la quale rivelava la tendenza propria delle grandi imprese minerarie moderne
ad attenuare l’alea insita nell’esercizio di questa industria con una molteplicità di esercizi
41
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1917, p.8.
42
Oltre alle miniere di Cabernardi e Percozzone la Società Anonima Miniere
Solfuree Trezza-Albani-Romagna possedeva quelle del Cesenate (Formignano e
Busca) quelle del Montefeltro (Perticara e Marazzana) e le raffinerie di
Bellisio Solfare, Cesena e Pesaro.
43
Cfr., P. Mattias, G. Crocetti, A. Scigli, op. cit., p. 48
21
dello stesso prodotto, assumeva il controllo del 50% della produzione italiana di zolfo44. La
Montecatini si assicurava così l’accesso diretto ad un’importante fonte di materie prime che
veniva ad integrare la fornitura delle piriti toscane nella produzione di acido solforico per
l’industria chimica45. Inoltre lo stato di guerra aveva accresciuto la necessità di zolfo a causa
dell’enorme bisogno di esplosivi.
Il primo problema che la nuova gestione dovette affrontare a Cabernardi era la scarsità di
manodopera maschile che era stata la causa della caduta di produzione da 14680 tonnellate
del 1914 a 9508 tonnellate del 1918, anno in cui si ebbe la necessità di impiegare 200
prigionieri di guerra e 60 donne. Con la smobilitazione dell’esercito il problema non era
ancora risolto. Nella Rivista del Servizio Minerario del 1919 si legge infatti che “ la
produzione di Cabernardi fu ostacolata in principio dell’anno dalla deficienza di
manodopera e per la stessa ragione si dovettero sospendere i lavori nella miniera
Percozzone”. Inoltre “per rendere possibile il necessario aumento di manodopera” la
Montecatini stava costruendo un “villaggio operaio”.
Dall’inizio del 1919 e fino al 1922 si presentava, come del resto in tutta Italia, un ben più
grave problema: le rivendicazioni operaie per l’aumento delle mercedi. Durante la guerra i
prezzi erano saliti precipitosamente a causa della forte inflazione (dalle 97 lire del 1914
raggiunsero le 420 lire nel 1918) ma le società esercenti ottennero buoni guadagni perché gli
operai, lavorando sotto la dura legge militare e la minaccia della revoca degli esoneri, si
dovevano accontentare di salari strettamente commisurati al costo della vita. A Cabernardi il
24 gennaio 1919 gli operai, ormai svincolati dalla soggezione alla legge militare, organizzati
nella locale Unione Professionale del Lavoro, presentarono una domanda di aumento dei
salari nella misura del 35% per alcune categorie e del 25% per tutte le altre. Dopo lunghe
44
A. Damiano, Guido Donegani, 1957, pp. 43,44.
Nel 1913 era entrata nel mondo della chimica compiendo il primo passo verso
l’integrazione verticale della produzione con la partecipazione alla Società per
lo sviluppo dei superfosfati e prodotti chimici italiani. L’acido solforico è il
punto di partenza per ottenere numerosi prodotti chimici come concimi ed
esplosivi. Cfr., V. De Michele, A. Ostroman, L’attività estrattiva della
Montecatini dal 1888 al 1938, p. 28.
22
45
trattative e senza alcuno sciopero si giunse ad un concordato sulle nuove tariffe per le paghe
e i cottimi con decorrenza 1° maggio e venne concessa la giornata lavorativa di 8 ore.
L’anno seguente con l’accentuarsi della svalutazione ci furono 15 giorni di ostruzionismo in
seguito ai quali si stabilì un aumento salariale generale del 25%. Pochi mesi dopo, con uno
sciopero di 25 giorni, gli operai ottennero un aumento del 20% rispetto al precedente
accordo e il riconoscimento delle Commissioni Interne. Il 31 agosto 1921 in conseguenza
della denuncia da parte della Montecatini dei concordati vigenti per la crisi che si stava
manifestando nell’industria solfifera, si concordò una riduzione dell’indennità caroviveri del
23%. Due mesi dopo tutti gli operai entrarono in sciopero per ottenere l’abolizione del
concordato; l’astensione dal lavoro si concluse il 23 novembre con il raggiungimento di un
accordo che, oltre ad annullare il concordato del 31 agosto, aumenta del 6% tale indennità.
Dopo un primo sciopero in aprile del 1922, terminato con la precisa applicazione di
concordati allora vigenti, ne seguì un secondo a luglio al quale la Montecatini rispose
duramente; dapprima con una serrata e in seguito con il licenziamento di tutto il personale.
Il 20 agosto riaprì la miniera con una nuova assunzione del personale e con nuove
condizioni di lavoro tra cui una riduzione del salario del 20%.
Nonostante i numerosi scioperi, dal 1919 al 1921, la produzione della miniera continuò a
crescere e raggiunse nuovamente gli elevati livelli ottenuti prima della guerra.
Tabella 1.2 Produzione di zolfo grezzo dal 1919 al 1922.
Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del
Servizio Minerario, per gli anni considerati
Anno
Produzione Zolfo grezzo (tonnellate) di
N° di operai
Cabernardi-Percozzone
1919
13455
680
1920
13899
840
23
1921
15232
815
1922
14530
679
Nel 1922 si registrò invece una leggera diminuzione dovuta in parte alla difficile situazione
creatasi tra i lavoratori e la Società Montecatini ed in parte all’acuta crisi in cui l’industria
solfifera italiana si venne a trovare per la schiacciante concorrenza americana che aveva
sottratto alla Sicilia i principali e tradizionali Paesi consumatori di zolfo.
Il decennio 1923-32 fu caratterizzato da un notevole miglioramento delle condizioni
generali nel mercato dello zolfo. Aumentarono le esportazioni verso i Paesi dell’Europa
orientale dato che quelli occidentali erano stati conquistati dagli Stati Uniti. A livello
nazionale un forte impulso alla produzione fu stimolato principalmente dallo sviluppo
dell’industria chimica. Già dal 1919 lo zolfo e l’acido solforico da esso ottenuto iniziarono
ad essere impiegati in misura crescente per prodotti chimici per le industrie con conseguente
aumento della loro domanda anche per produzioni al di fuori dei fertilizzanti e degli
anticrittogamici46. Questi ultimi continuarono comunque ad avere una fondamentale
importanza dal momento che le 38000 tonnellate di zolfo raffinato, prodotte dalla
Montecatini nel 1921, rappresentarono quasi la totalità dello zolfo impiegato in agricoltura e
che il 54% della popolazione italiana viveva grazie all’agricoltura47. Le miniere marchigiane
furono in grado di rispondere prontamente alle richieste del mercato e videro in 10 anni
triplicare la loro produzione.
46
47
Cfr., A. Damiano, op. cit., p.56.
Ibid., pp.55,62.
24
Tabella 1.3 Produzione di zolfo grezzo dal 1923 al 1933.
Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del
Servizio Minerario, per gli anni considerati
Anno
Produzione di Zolfo
N° operai di
Produzione del
Produzione zolfo
grezzo (tonnellate)
Cabernardi-
distretto
grezzo in Italia
Cabernardi-Percozzone
Percozzone
marchigiano-
(tonnellate).
romagnolo (t.)
1923
19378
672
38716
256342
1924
21005
654
43438
294899
1925
21904
636
52962
263591
1926
24762
688
62402
271393
1927
29566
793
68000
305629
1928
33450
845
71600
296107
1929
37220
880
76404
323835
1930
43083
1051
91300
350093
1931
40413
1001
92338
352946
1932
48921
984
108013
349976
1933
54165
1116
103234
376623
In particolare, il gruppo minerario Cabernardi-Percozzone registrò un incremento produttivo
continuo eccezion fatta per il 1931 a causa di un incendio di vaste proporzioni48. La
produzione, che nel 1923 era di 19387 tonnellate di zolfo grezzo, nel 1933 oltrepassò le
54000 tonnellate, accrescendo così l’importanza di questa miniera rispetto sia al distretto a
cui apparteneva che all’intera produzione nazionale. Nonostante il trend ascendente di
quest’ultima, la miniera di Cabernardi riuscì ad aumentare la sua quota relativa di
produzione nazionale che passò dal 7.5% del 1923 al 14% del 1933. La crescente intensità
48
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1931, p.11.
25
estrattiva permise l’assorbimento di tutta la manodopera disponibile. Nella miniera di
Cabernardi si dovette assumere personale dalla Sicilia e dalla Sardegna dato che gli operai
della zona erano già stati tutti impiegati limitando fortemente il fenomeno migratorio e la
disoccupazione.
Gli ottimi risultati ottenuti si dovevano solo in parte alla positiva congiuntura in atto mentre
erano da attribuirsi in massima parte al grado di efficienza raggiunto dalla miniera dopo la
tenace e costosa opera di valorizzazione. Terminata la guerra la Società Montecatini aveva
dato inizio ad un vasto programma di ammodernamento degli impianti, di riordinamento
delle coltivazioni danneggiate dagli affrettati e disordinati lavori del periodo bellico, di
ampliamento delle esplorazioni e di sfruttamento più razionale49.
Il primo intervento di rilievo era stato l’introduzione nel 1918 della perforazione meccanica
ad aria compressa in sostituzione parziale del piccone e della barramina50.
Nel 1919 le due miniere di Cabernardi e Percozzone facenti parte dello stesso bacino
solfifero, per la prima volta vennero messe in comunicazione per mezzo di un piano
inclinato che partendo dal 7° livello della miniera di Cabernardi raggiungeva il 6° livello
dell’adiacente Percozzone51. Per quanto riguarda la miniera di Percozzone, le prime ricerche
di cui si ha documentazione sicura furono svolte nel 1874 e cioè prima ancora di Cabernardi
dalla ditta tedesca, costituita dai Sigg. F. Buhl, E. Buhl e A. Deinhard che aveva rilevato
alcuni permessi all’estremità nord-ovest del bacino 8 km a nord di Sassoferrato. I lavori
scoprirono un limitato lembo del giacimento presso la località Vigne 250 metri , ad ovest di
49
<<Anche in questo campo è tutta una rivoluzione tecnica quella che è stata da
noi compiuta, essa ci ha permesso di triplicare la nostra produzione del 1920
sino a farle raggiungere il terzo di quella totale italiana(gli altri due terzi
sono dati dalla Sicilia, la terra tradizionale degli zolfi), e di aprire per la
prima volta (dal 1925 in poi) al prodotto marchigiano-romagnolo il mercato di
esportazioni. Il che ci è stato possibile solo attraverso il rilievo e la
partecipazione a raffinerie francesi, delle quali ci siamo serviti per avviare
in Francia oltre 200 mila quintali annui di zolfi greggi>> Lettera di commiato
di Guido Donegani ai lavoratori ed agli azionisti della Montecatini, in A.
Damiano, op. cit., p. 151.
50
Asta di ferro, assai pesante e manovrata a braccia, utilizzata per fare fori
nella roccia ad uso delle mine.
51
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1919, p. 5.
26
Percozzone e nella località Cantarino, 750 metri a sud-est di Percozzone, contenente uno
strato mineralizzato di circa 3 metri Ciò permise la dichiarazione di scoperta e di
conseguenza la concessione mineraria venne accordata con D.R. 6 giugno 187852. Negli
anni dal 1876 al 1885 si ebbe una produzione di circa 800 tonnellate ; in questo periodo
furono scavati circa 1200 metri di gallerie distribuite su tre livelli con brevi tratti di
discenderie e con pozzetti di collegamento53. Dal 1885 la miniera rimase inattiva per lunghi
anni poiché la Società era incerta nell’affrontare ricerche profonde assai onerose. Solo più
tardi negli ultimi anni della gestione della Società Trezza-Albani fu scavato un pozzo per
l’estrazione in una zona più a sud dei lavori precedenti.
All’epoca della cessione della miniera alla Società Montecatini (1917), Percozzone era
totalmente inattiva e nessun mezzo di fusione era stato costruito. La Montecatini, dopo aver
fatto eseguire molti sopralluoghi da esperti, arrivò alla conclusione che la miniera poteva
essere opportunamente valorizzata perché le precedenti ricerche non erano state esaurienti. I
risultati apparvero anzi tali da decidere di creare a Percozzone una vera miniera
indipendente dotata all’esterno di servizi meccanici e di sistemi di sicurezza affinché il
lavoro potesse svolgersi nelle migliori condizioni possibili. Infatti la produzione, iniziata nel
1921 con sole 1568 tonnellate di zolfo fuso, raggiunse nove anni dopo le 16446 tonnellate
moltiplicando per dieci la quantità iniziale54. Tra i lavori di attrezzamento ed organizzazione
eseguiti per consolidare l’efficienza della miniera, si ricordano: la sostituzione del vecchio
argano a vapore del pozzo di estrazione con un argano elettrico, l’installazione un potente
impianto per la produzione di aria compressa, opportuni accorgimenti per l’areazione
indipendente delle vie di uscita degli operai in caso di incendi e in particolare l’apertura di
52
E’ probabile che la dichiarazione di scoperta della miniera abbia stimolato la
ricerca di altri giacimenti nelle aree circostanti; infatti, osservando i dati
forniti dagli annali relativi l’attività mineraria, molte altre località
emergono a testimonianza di richieste, rinnovi, proroghe di permessi di ricerca.
Tra la fine degli anni settanta e la meta degli ottanta ( dell’800) vi è un
consistente numero di aree interessate all’indagine: Cabernardi, Ca’Fabri, San
Paolo, Casale, Casettone, S. Stefano, S. Giovanni, Palazzo ed altre ancora.
53
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, per gli anni considerati.
54
Cfr., AA.VV. La Società Montecatini, cit., p. 115.
27
due comunicazioni con la miniera di Cabernardi. Una di queste, come detto in precedenza,
fu ultimata nel 1919. L’altra, la grande galleria Donegani, costruita nel 1933, era un’arteria
per transito e trasporto, dotata di doppio binario e interamente murata che permetteva di
estrarre il minerale sia di Cabernardi che di Percozzone da uno qualunque dei tre pozzi di
estrazione delle due miniere e pertanto di utilizzare in pieno, in caso di bisogno, tutti gli
impianti di fusione esistenti55. Le due miniere, specialmente dopo che i sotterranei furono
collegati, costituirono un’unica unità produttiva.
Nel 1922 cominciarono a diffondersi, per vari usi, numerosi motori elettrici che utilizzavano
l’energia elettrica necessaria fornita dalla Società Unione Esercizi Elettrici56. Nello stesso
anno entrò in esercizio il primo tratto di una lunga discenderia murata per assicurare
l’introduzione in miniera dei materiali di riempimento ricavati dai “rosticci” della fusione
del minerale. In precedenza i materiali venivano introdotti dal pozzo II che, dopo l’entrata in
esercizio della discenderia venne restaurato ed adibito all’estrazione che non poteva più
essere svolta dal solo pozzo I. Nel pozzo II venne sostituita la macchina a vapore
preesistente con un argano azionato da motore elettrico mentre al pozzo I ciò non fu
possibile poiché il Corpo Reale delle Miniere per ragioni di sicurezza non lo permise. Era
infatti rischioso affidarsi unicamente a motori elettrici per lo sgombero dei minatori dai
sotterranei in caso di necessità perché l’energia elettrica era suscettibile di interruzioni. E’
vero che la legge di polizia mineraria prescriveva una via d’uscita di sicurezza, ma questa
via a Cabernardi si snodava attraverso antichi lavori e non dava sufficienti garanzie per una
rapida evacuazione dei sotterranei57. Negli anni successivi i pozzi I e II furono approfonditi
55
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1933, p.15.
56
L’energia elettrica che era fornita dalla Società Unione Esercizi Elettrici
alla tensione di 30000 volt veniva trasformata in una prima cabina centrale
mediante tre trasformatori di 500 Kva ciascuno da 30000 a 6000 per essere così
erogata a tre sottostazioni (600/500) poste rispettivamente nei centri di
consumo delle miniere Cabernardi e Percozzone e nella raffineria di Bellisio.
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1922, p. 6.
57
Cfr., A. Scicli, I giacimenti e le vicende dell’industria solfifera della
regione Marche, dattiloscritto in Museo Storico Minerario di Perticara, numero
unico p. 153.
28
fino a raggiungere nel ’33 la profondità di 460 metri58. Sia per la rilevante profondità delle
coltivazioni sia per prevenire gli effetti di frequenti incendi e di emissioni di gas la
ventilazione aveva un’importanza fondamentale. La Società Montecatini si preoccupò di
ingrandire e ricostruire le vie di riflusso interamente murate e le dotò di aspiratori e, per
garantirne il funzionamento in caso di mancanza di corrente, fu installata una centrale
elettrica azionata da un motore Diesel59. Un’altra novità introdotta a scopo di sicurezza nella
procedura di estrazione del minerale fu quella di non effettuare più scavi verticali (
perpendicolari al terreno) ma di operare scavi longitudinali rispetto ai vari livelli di lavoro.
Questa nuova metodologia serviva innanzitutto a prevenire il cosiddetto “effetto chioppo”
che poteva dar luogo a pericolosissimi incidenti. Infatti, con la vecchia tecnica di scavo, era
frequente il distacco di blocchi prismatici di minerale (chioppi) dovuti alla compressione
che questo aveva all’interno del filone. Con i tagli longitudinali si andava a diminuire la
pressione del minerale e a scaricarla in zone non praticate dai minatori.60
Per estendere il campo di lavoro e conoscere in precedenza le disponibilità per il futuro, la
Società Montecatini aveva intrapreso numerosi e rilevanti lavori di ricerca e aveva anche
provveduto ad ingrandire le proprietà del sottosuolo incorporando i permessi di ricerca che
limitavano verso sud le concessioni. Il moltiplicarsi dei cantieri di lavoro richiese l’impianto
di un numero adeguato di forni fusori (“calcaroni” e forni Gill) con tutti gli annessi impianti
per l’aspirazione, condensazione dei fumi e soffiatoi studiati appositamente per aumentare
la potenzialità e diminuire il costo del trattamento.
58
La potenzialità dei pozzi era molto elevata e la loro velocità di servizio era
in media di 6 metri al secondo. L’estrazione avveniva mediante gabbie a due
scomparti. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 111.
59
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1926, pp. 12,13.
60
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1926, p. 11.
29
La logica di rimodernamento generale riguardò anche le raffinerie di zolfo di proprietà
della stessa Società perché questo settore di attività era considerato complementare e
integrativo della produzione mineraria61.
In questi primi 16 anni (1917-33) di gestione, la Società Montecatini oltre ad aver apportato
alla miniera numerose e notevoli innovazioni, aveva dato grande impulso ai lavori di
preparazione, manutenzione e coltivazione. Mentre, all’epoca dell’acquisto (1917) , le
coltivazioni arrivavano sino all’undicesimo livello, nel 1933 si spingevano fino al 16° (-186
slm.) ed erano già tracciati i livelli 17°,18° e 19° (-276 slm.)62. Considerando che i pozzi
esterni si trovavano ad una quota di circa 400 metri sul livello del mare, la miniera aveva
raggiunto una profondità totale di circa 676 metri tanto da rappresentare la più grande e
profonda miniera d’Italia.
1.4 GLI ANNI ’30
La crisi dell’economia mondiale in seguito al crollo di Wall Street (’29) fece sentire i suoi
effetti anche nel settore dello zolfo. Dal 1930, dopo parecchi anni di ininterrotto aumento
delle vendite, era iniziato un radicale mutamento nel consumo mondiale di zolfo sia per usi
agricoli che industriali data la generale contrazione dei consumi che si ripercosse su tutte le
materie prime63. Nonostante una notevole contrazione dei prezzi, l’industria solfifera
italiana, nei primi due anni di crisi, non fu particolarmente colpita, infatti la sua produzione
si mantenne pressoché costante soprattutto grazie alle miniere del distretto marchigiano61
La lavorazione dello zolfo fu concentrata presso le raffinerie di Bellisio,
Cesena e Pesaro abbandonando le raffinerie di Faenza e Murano che per la loro
posizione e per altri fattori locali non presentavano convenienza di
funzionamento. In particolare a Bellisio vennero attuati notevoli trasformazioni
e rinnovi di impianti. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 144.
62
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1933, pp. 12,13.
63
Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo e pirite nel
secolo XX, parte seconda dal 1921 al 1944, in “L’industria mineraria”, giugno
1960, p. 419.
30
romagnolo che furono in grado di compensare la continua, seppur non molto rilevante,
contrazione della produzione siciliana64.
Nel 1932 la situazione iniziò a peggiorare perché gli Stati Uniti, che insieme all’Italia erano
tra i principali Paesi produttori ed esportatori di zolfo in tutto il mondo, riuscivano a
collocare il loro prodotto a un prezzo più concorrenziale per i minori costi di produzione65.
Nello stesso anno fallirono le trattative con i rappresentanti dell’industria solfifera
statunitense per assicurare alla produzione italiana una quota più rispondente alle sue
necessità. L’industria dello zolfo italiano subì un grave colpo nel 1933 a causa della
svalutazione del dollaro che determinò un forte ribasso nelle quotazioni dello zolfo
americano e di conseguenza quello italiano continuò la sua discesa passando dalle 400 lire
del 1932 alle 300 del 193366. Il governo intervenne costituendo nel dicembre 1933 l’Ufficio
per la vendita dello zolfo italiano67 per collocare tutto lo zolfo prodotto in Sicilia e nel resto
d’Italia sia sul mercato interno che nell’esportazione opponendo così alla concorrenza
statunitense un fronte unico e un diretto appoggio governativo. Venne innanzitutto stabilita
la gestione commerciale accentrata dello zolfo prodotto dalle miniere nazionali. Se ne
conferiva l’esclusività ad un ente (l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano) a
64
Per la produzione italiana e quella del distretto marchigiano-romagnolo dal
1929 al ’33 si veda la tabella 1.2.
65
Gli Stati Uniti già dal 1914 avevano superato l’Italia ponendosi al primo
posto nel mondo nella produzione esportazione dello zolfo. Negli Stati Uniti e
nel Golfo del Messico erano stati scoperti enormi giacimenti che per la loro
configurazione geologica permettevano l’uso di metodi estrattivi con più alto
rendimento e con costi molto minori. In particolare era stato inventato un
metodo rivoluzionario (Frasch) consistente nel giacimento, per mezzo di pozzi
trivellati, vapore d’acqua che fonde sul posto il minerale il quale viene
successivamente pompato in superficie. Le condizioni geologiche delle miniere
italiane ne impedivano l’utilizzo: qui occorreva estrarre lo zolfo con faticosi
e costosi lavori in sotterraneo, con pericolo per improvvisi crolli e per la
fuoriuscita di gas tossici e infiammabili.
66
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1933, p. 14.
67
L’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano che entrò in funzione subito
dopo la pubblicazione (22 dicembre 1933) del decreto-legge che lo istituiva
(r.d.l. 11 dicembre 1933 numero 1699), era amministrato da un consiglio composto
di un presidente e di nove membri nominati dal Ministro per le Corporazione e di
concerto con il Ministro per le Finanze. Sei membri del consiglio erano
designati dalla Confederazione degli industriali, uno dalla Confederazione dei
lavoratori dell’industria, uno dal Istituto nazionale per gli scambi con
l’estero e uno dal Banco di Sicilia. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione
italiana di zolfo, cit. p. 428.
31
disposizione del quale doveva essere posto lo zolfo ricavato dalla lavorazione di tutte le
miniere d’Italia. Inoltre si stabiliva per ciascuna miniera un limite massimo di produzione
annua che poteva essere messo a disposizione dell’Ufficio per la vendita in comune
(contingentamento della produzione nelle miniere).
.Infine si garantiva ai produttori la liquidazione di un prezzo minimo per ogni tonnellata di
zolfo entro la quota di produzione annua riscontrata come contingente (prezzo minimo
garantito).
Il contingentamento della produzione doveva essere stabilito avendo riguardo alle
condizioni generali del mercato solfifero e alle quantità di zolfo esistenti nel Regno.
Essendosi però autorizzato l’Ufficio a garantire ai produttori determinati prezzi minimi, il
contingente venne fissato fino al 1936 con modalità più restrittive. Il meccanismo ideato per
la limitazione della produzione fu assai semplice: ciascun produttore fu autorizzato a
mettere a disposizione del nuovo ente per la vendita una quantità di zolfo che non poteva
superare annualmente per le miniere siciliane, la produzione media annua ottenuta negli
ultimi tre esercizi del Consorzio obbligatorio (1930-32) e per le miniere dell’Italia
continentale quella media del triennio 1930-32. Nell’adottare la decisione di limitare la
produzione, il governo, preoccupandosi soprattutto di assicurare la continuità del lavoro in
tutte le miniere, escluse il ricorso a provvedimenti intesi a favorire il risanamento
dell’industria, quale quello di concentrare la produzione nelle miniere che per le loro
condizioni naturali o tecniche avrebbero potuto, con un aumento considerevole della
produzione, ridurre i costi e continuare tranquillamente la propria attività anche in quel
periodo di crisi. Non solo si preferì assicurare, entro certi limiti, il lavoro a ciascuna
miniera, ma per non creare disparità di condizioni fra i gestori di una sola miniera e quelli di
più miniere, i quali avrebbero potuto sostituire quantità di produzione ad alto costo con
quantità ottenibili a costo minore, fu perfino esclusa la facoltà di operare compensazioni fra
le produzioni di diverse miniere gestite da uno stesso esercente.
32
Per il sistema di contingentamento adottato la limitazione della produzione colpì nel primo
periodo di applicazione (fino al 1936) le miniere più fertili, con un più elevato grado di
meccanizzazione, con uno stato avanzato dei lavori di ricerca e preparazione e con buone
condizioni di viabilità. La miniera di Cabernardi, assommando a sé tali caratteristiche
positive che le avevano permesso un elevato e crescente livello produttivo fino al 1933, fu
costretta a ridurre la sua produzione.
Tabella 1.4 Produzione di zolfo grezzo dal 1933 al 1940.
Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del
Servizio Minerario, per gli anni considerati
Anno
Produzione di Zolfo
Produzione del
Produzione zolfo
grezzo (tonnellate)
distretto
grezzo in Italia
Cabernardi-Percozzone
marchigiano-
(tonnellate)
romagnolo (t.)
1933
54165
103234
376623
1934
47991
90585
343388
1935
49219
88489
311950
1936
52404
98742
327568
1937
54050
88791
343525
1938
67436
122938
380345
1939
64000
115991
355826
1940
64924
111517
330695
Come si può notare dalla tabella 1.3 La quantità di zolfo grezzo prodotta dal centro
minerario Cabernardi-Percozzone passò dalle 54162 tonnellate del 1933 alle 47991
tonnellate del 1934 con una diminuzione di circa il 9% . Nei due anni successivi, nonostante
che la produzione si mantenesse ancora ad un livello inferiore rispetto al 1933, si registrò
comunque un trend in ascesa. Probabilmente dovuto al fatto che durante il corso dei singoli
esercizi l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano procedette a parziali revisioni dei
contingenti iniziali delle singole miniere al fine di facilitare quelle che presentavano la
33
possibilità di un maggiore e più economico sfruttamento. Ciò poté realizzarsi senza superare
il contingentamento globale di ciascun esercizio poiché talune miniere per diminuita
capacità produttiva o per cause di forza maggiore non erano state in grado di coprire il
contingente loro assegnato.
Nel 1937 la quantità di zolfo grezzo prodotta da Cabernardi-Percozzone poté nuovamente
toccare le 54000 tonnellate del 1933. Motivo di tale miglioramento è da attribuirsi
all’aumento di contingenti di produzione che l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano
operò dal 1937 al 1940, anno in cui il contingentamento della produzione venne abolito68.
Dal 1937 infatti, dopo la fine delle sanzioni economiche inflitte all’Italia, si verificò
un’eccezionale richiesta di zolfo da parte dei consumatori esteri69. Anche all’interno si ebbe
un considerevole aumento della domanda di zolfo che divenne ancora più sostenuto nel
1938 soprattutto da parte dell’industria bellica per cui era necessario stimolare al massimo
la produzione delle miniere italiane. A tale richiesta furono in grado di rispondere solo le
miniere di Cabernardi e Perticara (Marche) dato che quelle siciliane, a causa
dell’arretratezza degli impianti e di una inadeguata organizzazione, non potevano sostenere
un improvviso aumento di produzione e che dal 1937 ripresero la via del declino. Il gruppo
minerario Cabernardi-Percozzone raggiunse la massima produzione mai verificatasi
fornendo 67436 tonnellate di zolfo grezzo, tale quota oltre a rappresentare più del 50% della
complessiva produzione del distretto marchigiano-romagnolo (i cui principali Paesi
importatori erano: Francia, Germania, Inghilterra, Finlandia, Brasile e Grecia)70 era pari a
circa il 18% dell’intera produzione italiana di zolfo. Una cifra davvero straordinaria se si
considera che nel 1938 erano attive in tutto il Regno ben 136 miniere di cui 128 in Sicilia.
68
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1937 p. 452 e 1940 p. 545.
69
Il cosiddetto “allineamento” della lira disposto con il d.l. 5 ottobre 1936
n.1745 che diminuì il ragguaglio aureo in misura uguale a quella intervenuta di
fatto per il dollaro ebbe lo scopo di attenuare le difficoltà nello svolgimento
dei rapporti economici con l’estero e specialmente degli scambi commerciali.
Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana di zolfo, cit., p. 431.
70
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1938, p. 487
34
Secondo una pubblicazione dell’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano nel 1938
Cabernardi-Percozzone risulta essere la miniera più produttiva d’Italia.
Tabella 1.5 Produzione delle principali miniere di zolfo nell’anno 1938
Fonte: “L’Industria mineraria, 1938”.
Denominazione
Provincia
Ditta esercente
Ton.
Cabernardi-Percozzone
Ancona
Montecatini
68.000
Perticara
Pesaro-Forlì
Montecatini
49.000
Trabia Imera
Caltanissetta
Soc. Imera
32.000
Grotta Calda Pietragrossa
Enna
Soc. Zolfifera siciliana
25.000
Tallarita Imera
Caltanissetta
Soc. Imera
18.000
Cozzo-Disi Madonna
Agrigento
S.A. Cozzo-Disi
18.000
Gibisa S.Michele
Agrigento
Miccichè G.&C.
14.000
Trabonella
Caltanissetta
S.A. Min. Trabonella
14.000
Min Montagna Aragona
Agrigento
E. M. M. Aragona
12.000
Floristella
Enna
Pennisi A.&C.
12.000
Colle Croce Gruppo N.S.
Palermo
Guernari Ferrara & C
8.500
Il numero degli addetti nella miniera che aveva già oltrepassato quota 1000 nel 1930, giunse
a 1546 unità nel 1938. Le coltivazioni continuarono nei livelli 14°,15°,16°,17° e furono
intensificate nella zona della piega del giacimento al 18° livello. Alla quota del livello 19°,
posta a circa 700 metri di profondità, lo scavo della galleria principale con tre distinti
avanzamenti sviluppò il nuovo livello per la lunghezza complessiva di 300 metri mentre la
discenderia di esplorazione partendo dal 23° livello raggiunse la quota del 27°. Fra i nuovi
impianti di notevole importanza è da segnalare la costruzione al 13° livello della grande
cabina interna di trasformazione dell’energia elettrica che sostituì la vecchia cabina del
35
pozzo interno Mezzena resa ormai insufficiente dal crescente bisogno di energia elettrica del
sotterraneo71.
La necessità di ricostruire le riserve di minerale solfifero che si stavano esaurendo con il
procedere delle attivissime coltivazioni motivò la Società Montecatini a sviluppare
nell’anno un vasto piano di sondaggi; solo nelle adiacenze di Cabernardi furono avviate
sette ricerche72. Dati i particolari risultati positivi di una di esse, venne richiesta un’altra
concessione, denominata “Caparucci”, accordata con D.M. 20/04/1940 per la durata di 30
anni. In pratica si trattò di un ampliamento della concessione Cabernardi poiché la poca
produzione fu estratta attraverso i vecchi pozzi ed il minerale veniva trattato negli impianti
della stessa miniera73.
Nei due anni successivi la produzione della miniera si mantenne su ottimi livelli, basti
pensare che le 64000 tonnellate di zolfo grezzo del 1939 e le 64924 del 1940 oltre a
rappresentare più della metà della produzione del distretto marchigiano-romagnolo erano
pari a circa il 19% della produzione italiana.
1.5 SECONDA GUERRA MONDIALE E PRIMA FASE POST-BELLICA
Le fasi belliche recano con sé, come noto, stravolgimenti sociali legati a fattori diversi. Uno
dei più evidenti può considerarsi la diminuzione di manodopera attiva, costretta ad
arruolarsi e, magari, mai più inseribile nei vecchi ruoli. Come era già avvenuto durante la
Prima Guerra Mondiale anche durante il Secondo Conflitto Mondiale la produzione della
71
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1938, p. 488.
72
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1938, p. 477.
73
La Società Montecatini aveva ottenuto in base alla legge n.1443 del 29/07/1927
la concessione perpetua delle due miniere Percozzone e Cabernardi. La legge
mineraria, in seguito, stabilì che le concessioni accordate erano solo
temporanee; se la Montecatini avesse chiesto l’ampliamento della concessione
Cabernardi avrebbe perduto il diritto alla perpetuità. Cfr., P. Mattias, G.
Crocetti, A. Scicli, op. cit., p. 124.
36
miniera Cabernardi-Percozzone diminuì notevolmente nonostante le forti richieste
provenienti dalla Germania e dai consumatori nazionali. Fra le cause di tale decremento
oltre alla scarsità di manodopera si possono annoverare anche la difficoltà di reperire
legname, combustibile, carburanti e altre materie prime necessarie a questa industria, il
problema dei trasporti, l’irregolarità o la sospensione di energia elettrica e tutti i possibili
danneggiamenti causati da calamità belliche.
Nel triennio 1941-43 nonostante il calo produttivo, la quantità di zolfo grezzo prodotto era
infatti passata dalle 64924 tonnellate del 1940 alle 55963 tonnellate del 1941 per poi
scendere alle 45874 tonnellate del ’42 ed infine alle 42350 tonnellate del ’43, il centro
minerario Cabernardi-Percozzone contribuì per il 55% alla produzione del distretto la quale
a sua volta costituiva circa il 40% dell’intera produzione nazionale74.
Tabella 1.6 Produzione di zolfo grezzo dal 1941 al 1950.
Fonte: Ministero di Agricoltura Industria e Commercio Rivista del
Servizio Minerario, per gli anni considerati
74
Bisogna considerare comunque che la diminuzione della produzione, in Sicilia
fu molto più rapida portandosi a sole 51720 tonnellate del 1943. Ciò significa
che per la prima volta la produzione del distretto marchigiano-romagnolo
superava quella della Sicilia.
37
Anno
Produzione di Zolfo
Produzione del
Produzione zolfo
Prezzo in lire per
grezzo (tonnellate)
distretto
grezzo in Italia
tonnellata
Cabernardi-Percozzone
marchigiano-
(tonnellate).
romagnolo (t.)
1941
55963
99047
299009
422
1942
45874
83379
226994
630
1943
42330
79297
137934
830
1944
19156
39848
_____
1200
1945
4714
4714
75177
5000
1946
29778
50976
143861
9100
1947
33850
58924
157761
22800
1948
36339
66392
174968
28420
1949
41562
75390
201455
28420
1950
43667
79829
224088
28420
L’attività della miniera nel 1944 fu dal principio dell’anno fortemente ostacolata da
interruzioni di fornitura di energia elettrica a causa delle vicende belliche75. L’11 gennaio
riattivate le linee elettriche Fabriano-Bellisio che erano state danneggiate da una bufera di
neve, dopo due ore restavano nuovamente interrotte in seguito ad un’incursione aerea su
Fabriano. Non si fece in tempo a riprendere il lavoro il mattino del 15 che nel pomeriggio
altre incursioni aeree lasciavano nuovamente la miniera senza energia elettrica. Il 19
gennaio si riprese il lavoro con turni regolari ma le sera stessa i tre trasformatori installati
nella cabina elettrica di Bellisio che alimentava il gruppo minerario vennero fatti saltare dai
partigiani. Ne seguì una nuova sospensione del lavoro, e le previsioni del momento erano
poco ottimistiche; occorreva tempo per riattivare la cabina, dal momento che non si
disponeva di sufficienti trasformatori di riserva. Il posto risultava a tutti gli effetti indifeso,
75
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1944, p. 428.
38
perciò venne disposta un’efficace vigilanza degli impianti, con personale delle miniere in
sostituzione dei carabinieri di Bellisio che erano rimasti disarmati76.
Fino al 14 Giugno, data in cui si dovettero sospendere i lavori, sempre per mancanza di
energia elettrica, furono svolte ben poche attività che portarono ad una produzione nell’anno
di sole 19156 tonnellate. Sempre nel 1944 i tedeschi distrussero gli impianti esterni di
Cabernardi e anche quelli di Perticara e Formignano77. La decisione di distruggere “solo” gli
impianti esterni, e quindi tutti i macchinari e i materiali per l’estrazione senza però
distruggere le gallerie, fu molto probabilmente una scelta strategica. I tedeschi sapevano
bene che la distruzione totale delle miniere avrebbe costituito una grave perdita. Mentre agli
alleati queste riserve di zolfo non interessavano, dato che gli Stati Uniti ne possedevano
grandi quantità, i tedeschi pensavano invece che in caso di vittoria sarebbero stati in grado
di riattivarle e di potersene servire.
Nel 1945 nella miniera di Cabernardi-Percozzone si procedette con intensità ai lavori di
ricostruzione degli impianti esterni. Ai primi di agosto, ultimata la linea elettrica di
alimentazione (ad alta tensione), furono ripresi i lavori in sotterraneo, con produzioni
gradatamente crescenti, che a fine d’anno avevano raggiunto le 500 tonnellate giornaliere.
L’estrazione, inizialmente effettuata per mezzo del solo pozzo II, nei primi di novembre,
poté usufruire anche del pozzo I dopo la completata riparazione della macchina di estrazione
a vapore. La riparazione dell’argano del pozzo Percozzone non era stata ancora completata,
tuttavia i lavori furono ripresi facendo affluire la produzione ai pozzi di Cabernardi
attraverso la grande arteria di comunicazione “Donegani” del 13° livello. Fu così possibile
ottenere, nel 1945, 4714 tonnellate di zolfo grezzo che rappresentava anche la produzione
del distretto dato che Cabernardi era l’unica miniera attiva nell’anno78.
76
Cfr., Museo della Miniera di Zolfo di Cabernardi, Lettera del direttore del
gruppo minerario Cabernardi-Percozzone,del 22 gennaio 1944, ing. Zamboni,
indirizzata al Corpo delle miniere del Distretto di Bologna.
77
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1944, p. 429.
78
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1945, p. 440.
39
Durante il 1946 le coltivazioni furono gradualmente riaperte con il progredire della ripresa
delle varie gallerie, riflussi e vie di estrazione. Vennero eseguite molte importanti
riparazioni: aggiustati alcuni tratti pericolanti del riflusso “Nevola” dove anche le scalette
per transito personale furono in più punti riaperte, iniziati i lavori di sgombero della
discenderia “Sniz”, importante via di riflusso dello sviluppo di 850 metri, in gran parte
franata durante l’abbandono della miniera. All’esterno proseguì il lavoro di ricostruzione
degli impianti e, particolarmente nella stazione di compressione aria per i servizi interni,
della nuova cabina di trasformazione e della nuova linea elettrica Bellisio-Cabernardi.
Vennero anche ultimati gli impianti della nuova centrale termica di riserva, azionata da un
motore Diesel Tosi, nonché quelli delle officine. A causa della minor spinta dei terreni
rispetto alla confinante miniera Cabernardi, il sotterraneo “Percozzone” fu riattivato con
maggior rapidità e , alla fine dell’anno, erano in attività tutte le vecchie coltivazioni79.
La guerra non risparmiò nemmeno le raffinerie di zolfo di Bellisio e Cesena che vennero
completamente distrutte sia dai bombardamenti aerei sia ad opera di mine80. A Bellisio
risultavano completamente distrutti i reparti di raffinazione, di sublimazione e di produzione
di fiori di zolfo lavati, la cabina elettrica di trasformazione, due grandi magazzini, 6000
tonnellate di zolfo in stoccaggio, il mulino adibito alla macinazione e due ponti sul fiume
Cesano. Parziale distruzione subirono i reparti di macinazione, i magazzini delle scorte, il
piano inclinato collegante la raffineria con la stazione ferroviaria, le macchine utensili delle
officine e la stazione d’arrivo della teleferica. Ciò nonostante, nel 1947, era già stata
completamente ricostruita e l’attività era ripresa a pieno ritmo81.
79
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1946, pp. 478,479.
80
Cfr., Montecatini, La Montecatini ricostruisce, 1947, p. 16.
81
Ibid., p. 16.
40
Dal 1947, anno in cui la miniera venne completamente riattivata, fino al 1950 il gruppo
Cabernardi-Percozzone aumentò progressivamente la propria produzione82 tuttavia non
riuscì più a ripetere gli elevatissimi risultati ottenuti nel periodo pre-bellico.
1.6 ULTIMI ANNI DI VITA DELLA MINIERA
L’industria solfifera italiana nel periodo post-bellico attraversò uno stato di nuova e più
grave crisi perché ormai il prezzo dello zolfo nazionale non era più competitivo. In realtà i
prezzi non erano più stati competitivi a livello internazionale fin dai tempi della
svalutazione del dollaro del ’33 ma, come si è visto, la politica protezionistica aveva
consentito ugualmente alle miniere italiane di sopravvivere grazie soprattutto al
meccanismo del prezzo minimo garantito83. D’altro canto però la protezione della debole
industria solfifera italiana ebbe sicuramente degli effetti economici negativi. Innanzitutto,
garantendo sicuri profitti ai produttori e svincolandoli da una sana e diretta competizione a
livello nazionale ed internazionale, sicuramente non li incentivava ad attuare un vasto
82
Passò dalle 33850 tonnellate del ’47 alle 43667 tonnellate del ’50
contribuendo per il 55% alla produzione del distretto. Vale la pena ricordare
che anche la resa del minerale in tale miniera fu sempre superiore a quella
delle altre miniere del distretto.
83
L’art. 10 del d.l. 11/12/1933 che garantiva la liquidazione di un prezzo
minimo per tonnellata per ciascun produttore (limitatamente alla quota di
produzione assegnatagli) e che lo Stato si sarebbe fatto carico della differenza
che fosse risultata tra il prezzo minimo garantito e il ricavo netto definitivo
(salvo rivalsa sulle vendite future)stabiliva la sua operatività per un periodo
non oltre il 31/07/1935. Persistendo il basso ricavo delle vendite degli zolfi,
la garanzia del prezzo minimo venne autorizzata fino al 1937. Successivamente
venne stabilito (r.d.l 1/03/1938 n. 260) un concorso dello Stato, anziché la
garanzia di un prezzo minimo, fino ad un massimo di 25 lire a tonnellata e per
l’importo complessivo di 10 milioni di lire per gli anni 1938 e 1939, qualora il
ricavo netto per tonnellata risultasse inferiore a determinati prezzi. Nel 1940
la garanzia del prezzo minimo venne disposta per la durata di 10 anni
consecutivi dall’Ente Zolfi Italiani (EZI) nato nel ’40 in sostituzione
dell’Ufficio per la vendita degli zolfi italiani. Cfr., F. Squarzina, Cenni
sulla produzione italiana di zolfo, cit., pp. 431,432.
41
campo di ricerche e aggiornamento tecnologico in modo da ottenere una riduzione sensibile
nei costi di produzione. Persistevano invece un’estrema arretratezza degli impianti,
specialmente in Sicilia, e mancavano moderni metodi di coltivazione e di fusione che
avrebbero assicurato un rendimento in zolfo più elevato. In tali condizioni, l’industria
solfifera continuava a presentare il grave problema degli alti costi di produzione che
oltretutto cercava di compensare attraverso bassi salari. Inoltre contribuì a mantenere alto il
livello dei prezzi di vendita dello zolfo. I prezzi medi interni, a causa dell’inflazione e dei
maggiori costi di produzione passarono da 385 lire la tonnellata nel 1938 a 961 lire nel ’43,
raggiunsero poi 11808 lire nel ’46 e 33579 lire nel ’50 ( si veda tabella 1.6 ). Di
conseguenza i consumatori di zolfo e i numerosi consumatori di prodotti nella cui
fabbricazione lo zolfo entra direttamente furono pertanto obbligati a pagare prezzi più alti di
quelli che si avrebbero avuti in condizioni di libero mercato.
La produzione italiana post-bellica fu notevolmente inferiore a quella pre-bellica e vi era
scarsa richiesta di zolfo italiano da parte dei principali Paesi consumatori che orientavano i
loro acquisti sempre più verso gli Stati Uniti dal momento che il divario di prezzo nei
confronti dello zolfo americano era notevolmente aumentato. Gli Stati Uniti furono
perfettamente in grado di rimpiazzare l’Italia. Infatti oltre a soddisfare il crescente consumo
interno seppero soddisfare le accresciute richieste dei Paesi consumatori verso i quali le
esportazioni dalle 638000 tonnellate del 1938 si portarono a 933400 tonnellate nel 1945
raggiungendo 1453878 nel 194984.
La situazione del settore solfifero italiano sembrava non avere alcuna speranza di
miglioramento ma nel secondo semestre del 1950 si presentarono nuove condizioni
favorevoli. In occasione della guerra di Corea, gli Stati Uniti, che stavano accantonando
scorte di zolfo, furono costretti ad adottare forti misure restrittive per le loro
84
La produzione statunitense di zolfo era in continua espansione: dalle 2124000
tonnellate del 1939 giunse gradualmente a 3270000 tonnellate del 1944 portandosi
dopo soli tre anni a 4512482 tonnellate e conseguendo il record produttivo nel
1948 con quasi cinque milioni di tonnellate (4947000). Cfr., Lo zolfo negli
Stati Uniti, in “L’Industria mineraria”, novembre 1950 p. 450.
42
esportazioni85.Di conseguenza ci fu una forte richiesta dello zolfo italiano da parte dei
principali Paesi consumatori, in particolare l’Inghilterra. Anche all’interno aumentò la
domanda a causa della crescita del consumo in agricoltura dei polisolfuri per l’assenza del
solfato di rame e in molte industrie manifatturiere specialmente nella produzione di fibre
tessili (e quindi della materia prima solfuro di carbone).
Nei primi mesi del 1951 l’O.E.C.E. invitò il governo italiano ad aumentare la produzione
solfifera per sostenere l’aumento delle richieste e portarla entro il 1952 a 400000 tonnellate
(circa il doppio di quella del 1950). Tuttavia il gruppo minerario Cabernardi-Percozzone
non poté trarre considerevole profitto dalla favorevole congiuntura in atto perché la miniera
versava ormai in un avanzato stato di impoverimento. Le ricerche effettuate, sia all’interno
che nelle zone circostanti, dalla Società Montecatini negli ultimi cinque anni avevano dato
scarsi risultati facendo prevedere assai prossimo il suo esaurimento86 Di conseguenza si
sarebbero dovuti prendere i necessari provvedimenti di riduzione della attività estrattiva, che
ovviamente si sarebbero ripercossi sul livello occupazionale. Tali prospettive scatenarono
un prevedibile malcontento, con conseguenti azioni di protesta da parte dei lavoratori,
85
In parte la riduzione delle esportazioni americane furono dovute, oltre alle
necessità belliche, al progressivo esaurimento di alcuni giacimenti sfruttati.
Cfr., L. Gerbella, Provvedimenti per il riassetto dell’industria solfifera, in
“L’Industria mineraria”, novembre 1950, p. 441.
86
Nel 1946, all’estremo nord del giacimento, una nuova ricerca confermava che
nella zona, una grande faglia limitava lo strato ad un esiguo spessore
superficiale. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del
Servizio Minerario”, 1946, p. 479.
L’anno successivo al livello 14° fu iniziato lo scavo di una galleria nello
strato a sud della discenderia S. Giovanni riscontrandolo quasi sterile con solo
discontinue tracce di minerale. Al 19° livello fu proseguito lo scavo verso sud
della galleria (di livello), riscontrando, alle traverse 46, 49 e 51,
scarsamente mineralizzata la parte dello strato a letto. Complessivamente, nel
1947, furono scavati per ricerca metri 1308. “ Gli scarsi risultati conseguiti
fanno tuttavia prevedere assai prossimo l’esaurimento della miniera”. Ministero
di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1947,
pp. 482,483.
Nel 1948, le ricerche, S. Giovanni e S. Eutizio, a nord ovest della concessione,
“ devono considerarsi ormai negative e se ne prevede pertanto l’abbandono
”.Anche la ricerca Radicosa, ad ovest del giacimento, iniziata nel mese di
luglio, non riscontrò tracce di mineralizzazione. Ministero di Agricoltura
Industria e Commercio, “ Rivista del Servizio Minerario”, 1948, pp. 478,485.
Nel 49’ e nel 50’ le ricerche si concentrarono verso sud, allo scopo di
esplorare il giacimento in questa direzione dove sembrava esserci possibilità di
rinvenire zone mineralizzate. Quest’ultime, nei punti dove furono trovate,
erano, purtroppo, fortemente assottigliate. Ministero di Agricoltura Industria e
Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1950, p. 495.
43
interventi sindacali e di rappresentanti dello Stato che, proprio all’inizio della nuova
congiuntura favorevole per l’industria dello zolfo, non potevano rassegnarsi alla probabile
imminente chiusura della miniera. Miravano invece alla salvezza del centro minerario che
aveva garantito un elevato numero di posti di lavoro in un comprensorio dove al lavoro in
miniera non c’era alternativa se non la disoccupazione e l’emigrazione. Considerando il
numero di addetti alla miniera, che aveva oltrepassato le 1000 unità già nel 1930 e che dal
1930, escluso ovviamente il periodo bellico, si era attestato ad un livello superiore alle 1500
unità, si comprende l’importanza che la miniera aveva per i Comuni la cui economia
gravitava attorno al bacino minerario di Cabernardi. In circa 80 anni di attività la miniera
aveva procurato un certo benessere alle cittadine di Pergola, Arcevia, San Lorenzo in
Campo e soprattutto Sassoferrato dove oltre ai salari dei minatori contribuiva a creare un
notevole movimento commerciale l’afflusso delle famiglie dei tecnici, dirigenti e funzionari
del gruppo minerario stesso.
In difesa della miniera si raggiunse un’unità di forze locali sia politiche (PCI, PSI, PSDI,
PRI e DC) sia sindacali con l’adesione di tutte le organizzazioni e si costituirono alcuni
comitati cittadini87. Il 2 luglio 1950 fu indetta dai sindacati e dalla Commissione Interna la
prima conferenza di produzione di Cabernardi88 nella quale venne delineata la linea da
seguire per la difesa ed il potenziamento delle risorse minerarie locali. I lavoratori
chiedevano innanzitutto che la Montecatini attuasse un piano organico di ricerche
all’interno della miniera e nelle zone limitrofe dove si supponeva esservi del minerale
utilmente coltivabile. Proponevano, inoltre, un programma di studi per l’impiego di metodi
più moderni per l’estrazione e la fusione ed una coltivazione più razionale del giacimento
che consentisse di prolungare il più possibile la vita della miniera89. Chiedevano infine il
87
Compito dei comitati cittadini era di dirigere tutta l’azione di difesa della
miniera, richiamando l’attenzione delle autorità competenti e del governo e
soprattutto cercando di sensibilizzare al problema della miniera tutta la
popolazione della zona.
88
Cfr., «L’Unità», 3 luglio 1950.
89
Le maestranze locali accusavano la Montecatini di sfruttamento indiscriminato
(“a rapina”) del giacimento. Specialmente in periodi di favorevole congiuntura a
44
miglioramento delle condizioni di lavoro l’abolizione del cottimo individuale e la creazione
di un premio di produzione collettivo. Il 20 dicembre dello stesso anno ebbe luogo a Pesaro
un convegno economico in cui si invitava il governo allo stanziamento di fondi adeguati per
incentivare la Società Montecatini al rinnovamento degli impianti di produzione e
all’attuazione di nuove ricerche90.
La decisione di procedere ad interventi mirati più sostanziali per indurre la Montecatini a
considerare le proposte sindacali venne presa il 14 gennaio 1951 durante il convegno
economico di Cabernardi91.
A metà marzo iniziò la cosiddetta “lotta dei 100 giorni”, una protesta operaia sotto forma di
non collaborazione attuata con sospensioni di lavoro regolate da turni, che causò una
riduzione della produzione di circa il 35%92. Come risposta la Società ridusse le retribuzioni
del 10% e tolse la 14° mensilità ai sorveglianti che avevano aderito allo sciopero93. Ciò
nonostante le agitazioni proseguirono ed il 12 luglio si conclusero le trattative che portarono
alla risoluzione delle controversie di natura più prettamente sindacale come: la riforma del
cottimo, l’aumento delle retribuzioni e l’adozione delle 48 ore sindacali per tutti94. Mentre
rimasero irrisolti i nodi centrali della mobilitazione riguardanti la ristrutturazione della
miniera e la ripresa delle ricerche.
loro avviso i banchi di minerale venivano coltivati solo nelle parti migliori
causando così gravi sprechi e accelerando il processo di esaurimento. Cfr., V.
Sebastiani, Salviamo la miniera, in “La miniera” organo unitario dei lavoratori,
Cabernardi, 14 febbraio 1952, p. 1.
90
Cfr., «L’Unità», 21 dicembre 1950.
91
Cfr., «L’Unità», 15 gennaio 1951.
92
Tale agitazione operaia interessò, seppur in misura minore, anche le miniere
di Perticara (PS) e Formignano (FO) appartenenti alla stessa Società. Cfr.,
Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “ Rivista del Servizio
Minerario”, 1951,p. 498.
93
Non solo nella zona mineraria ma anche in altre località, varie categorie di
lavoratori dimostrarono la loro solidarietà. In particolare si ricorda lo
sciopero di 3 ore dei lavoratori dell’industria e degli autoferrotranvieri nelle
due provincie di Ancona e Pesaro il 13 giugno. Cfr., «L’Unità», 7 luglio 1951.
94
Ai cottimisti spettò un aumento medio di 70 lire giornaliere, agli altri
operai un aumento medio di 30 lire giornaliere e ai lavoratori, non direttamente
legati al ciclo produttivo, un aumento di premio di mancanza di cottimo di un
minimo di 75 lire. Cfr., «L’Unità», 13 luglio 1951.
45
La Società Montecatini, dato lo stato di esaurimento della miniera, riteneva ormai logico
non investire risorse nel bacino minerario di Cabernardi. La posizione dell’azienda non
mutò di fronte alla favorevole congiuntura internazionale del 1951, a causa dell’evidente
carattere temporaneo dell’instabilità del mercato internazionale dello zolfo. Inoltre le
strategie del vertice aziendale, negli anni della ricostruzione, avevano previsto un
cambiamento nelle caratteristiche del gruppo. Mentre prima della guerra vi era ancora una
massiccia presenza del settore minerario e la centralità della produzione di perfosfati, dopo
il 1950, la Società mostrava chiaramente il suo preminente interesse per la chimica ed in
particolare per le nuove opportunità tecnologiche offerte dalla petrolchimica aprendo a
Ferrara nel 1950 il primo complesso petrolchimico europeo95.
Tra luglio 1951 ed aprile 1952 si tennero dibattiti e convegni tesi a dimostrare la necessità e
l’urgenza di interventi di ripresa dell’industria solfifera nella zona attraverso nuove ricerche,
modernizzazione e razionalizzazione degli impianti minerari e dei metodi di fusione. A
Pesaro, il 15/07/1951 si tenne il Convegno Interregionale per il potenziamento delle risorse
solfifere delle Marche e della Romagna, al quale presenziarono il Ministro dell’Industria e
Commercio Togni ed il Presidente dell’EZI Volpe. Il convegno, richiamato l’alto interesse
economico e sociale che il problema minerario rivestiva per le Marche e la Romagna ove,
anche a giudizio dei tecnici, esistevano larghe possibilità di sfruttamento dello zolfo,
auspicò che i previsti organi locali di potenziamento e di propulsione delle varie iniziative
(ufficio e commissione consultiva dell’ E.Z.I nella zona delle Marche, ufficio distaccato del
distretto minerario di Bologna, commissione locale per la raccolta e coordinazione dei
progetti da trasmettere alla commissione centrale) fossero al più presto costituiti96. Sempre a
Pesaro, il giorno 22 dello stesso mese fu indetta la prima Conferenza Interregionale dello
95
Cfr. F. Amatori (a cura di), Montecatini 1886-1966. Capitoli di storia di una
grande impresa, 1990, pp. 59, 60.
96
Cfr., Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Atti del convegno interregionale per il
potenziamento delle risorse solfifere delle Marche e della Romagna, Pesaro 1951,
pp. 36, 37.
46
zolfo alla quale seguirono le conferenze economiche di Pergola (20/04/1952) e di Arcevia
(27/04/1952).
Il 12 agosto 1951, intanto, veniva approvata la legge nazionale sul finanziamento
dell’industria solfifera97 che prevedeva innanzitutto la concessione di prestiti per
l’ammontare di 9 miliardi di lire al fine di consentire l’esecuzione delle opere minerarie
comprese nel piano generale di rimodernamento delle miniere predisposto dagli industriali,
con l’ausilio dell’ Ente Zolfi Italiani. In secondo luogo, l’erogazione di uno stanziamento
per l’ammontare di 950 milioni di lire, a fondo perduto, in favore dell’Ente Zolfi Italiani,
per l’esecuzione di rilevazioni geofisiche, geologiche e di sondaggi, nonché di studi intesi a
migliorare la resa di processi di estrazione dello zolfo dal minerale. Infine la concessione di
prestiti per l’ammontare di 6 milioni di dollari per l’acquisto di macchinari ed attrezzature
da miniera.
In seguito a tale legge l’EZI organizzò a Pergola un ufficio distaccato dell’ente ed iniziò gli
studi geologici e geofisici nel territorio di Cabernardi. Dopo una prima fase di lavori,
nell’aprile 1952 i geologi dell’EZI stabilivano che la mineralizzazione si riduceva alla zona
finora coltivata. Anche la Società Montecatini, che nello stesso tempo aveva effettuato altri
lavori di ricerca98 giunse alle stesse conclusioni.
Il 3 maggio del 1952 la Società Montecatini comunicò di dover procedere, a partire dal 16
del mese in corso, al licenziamento di 860 minatori (il 50% della manodopera impiegata)
adducendo come principale motivazione l’esaurimento del giacimento la cui potenzialità
residua veniva stimata in 200.000 tonnellate di minerale99.Lo stesso maggio la Società si
rivolgeva ai lavoratori sottolineando la necessità di riduzione dell’organico per
l’esaurimento del giacimento. Dichiarava di aver tentato quanto era possibile per assicurare
97
Il disegno di legge era già stato approvato il 12 ottobre 1950. Per il suo
contenuto si veda L. Gerbella, Provvedimenti per il riassetto dell’industria
solfifera in L’industria mineraria novembre 1950, p. 441.
98
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio
Minerario”, 1951,p. 501 e 1952 p. 527.
99
Cfr., «L’Unità», 4 maggio 1952.
47
alle maestranze la continuità del lavoro ma le circa 200000 tonnellate ancora sfruttabili, se
gestite con il ritmo occupazionale in corso, si sarebbero esaurite più o meno in 200 giornate
di lavoro. Nel frattempo l’ufficio EZI nelle Marche ( Pergola) , istituito nel 1951 con il
compito di coordinare gli interventi di ricerca di nuovi giacimenti, veniva soppresso e
trasferito in Sicilia. Cominciava a delinearsi chiaramente la prospettiva dell’imminente
chiusura. Alcuni tecnici dell’Ufficio Provinciale del Lavoro vennero inviati nella zona per
aprire dei cantieri-scuola capaci di accogliere i lavoratori licenziati ed in paese giunsero
nuovi contingenti di Carabinieri100.
La risposta dei lavoratori non si fece attendere. Il 5 maggio era già stato fissato uno sciopero
di protesta, contro il prospettato licenziamento, da tenersi nei giorni 8 e 9 maggio. Inoltre fu
programmato un convegno interprovinciale per il giorno 11 maggio nel teatro comunale di
Sassoferrato.101 Lo scopo era quello di esaminare la situazione, precisare le iniziative che si
ritenevano necessarie per evitare la smobilitazione dell’attività e sollecitare l’incremento
della produzione solfifera. Nonostante l’invito mosso dai due sindacati (CISL e UIL)
affinché gli operai non partecipassero alla lotta, oltre il 90% di essi aderì alla proposta
indetta dalla CGIL.
Il 20 maggio ci fu una grande manifestazione, a Cabernardi, a cui parteciparono oltre 5000
persone per reclamare la revoca totale dei licenziamenti102. Lo stesso giorno, la Società
Montecatini accettò di aprire le trattative per poi romperle definitivamente pochi giorni più
tardi rifiutando la possibilità di formare una commissione di controllo della capacità residua
della miniera e procedendo alla notifica dei primi 550 licenziamenti. Non appena saputo che
le trattative in corso erano state interrotte, il 28 maggio 1952 alle ore 22.00 160 minatori
anziché abbandonare la miniera per cessato turno di lavoro avevano dato inizio alla sua
100
Cfr., «L’Unità», 7 maggio 1952.
Cfr., Archivio Storico Comunale di Sassoferrato, documento stampato a cura
del comitato di difesa delle miniere Cabernardi e Percozzone, 1951, categoria
11, classe II, fasc. 2.
102
Cfr., «L’Unità» 22 maggio 1952.
48
101
occupazione rimanendo nelle gallerie del 13° livello a circa 500 metri di profondità mentre
137 operai occupavano all’esterno la miniera per proteggerli e assisterli103.
Ebbe così inizio la lotta dei cosiddetti “sepolti vivi”104 che durò 40 giorni. Già il giorno
seguente l’occupazione la Montecatini aveva spedito 200 lettere di licenziamento.
I primi giorni di Giugno dal Ministero dell’Industria venne la disponibilità ad accertare,
tramite apposita commissione, la tesi avanzata dalla Montecatini di un prossimo
esaurimento della miniera. L’ispezione, che avrebbe dovuto durare 10 giorni, era
subordinata allo sgombero totale della miniera e i lavoratori in sciopero, durante tale
periodo, avrebbero goduto di un compenso in relazione alle ferie maturate con l’eventuale
riassunzione qualora la tesi della Montecatini fosse risultata infondata.
Sulla revoca dei licenziamenti il sindacato si divise: la CGIL si oppose per insufficienti
garanzie mentre CISL e UIL accettarono insieme alla Montecatini la proposta governativa.
La divisione si estese anche a livello politico e la DC ritirò la propria adesione dal Comitato
di Difesa della miniera.
Iniziarono così le fasi più aspre dell’occupazione: continuò il presidio dei pozzi e l’invio di
generi alimentari ai “sepolti vivi”. Numerose manifestazioni di solidarietà si tennero
all’esterno e il caso Cabernardi cominciò ad assumere rilevanza nazionale105. L’Ufficio del
Lavoro di Ancona decise di convocare le parti per iniziare un dialogo costruttivo ma la
Montecatini rifiutò di incontrarsi con la GCIL, ritenuta responsabile della situazione.
Diversi sindaci delle provincie di Ancona e Pesaro, seriamente preoccupati per le
ripercussioni sulle attività produttive e commerciali della zona e quindi sul danno
economico che avrebbe prodotto la chiusura della miniera, si rivolsero al Presidente della
Camera dei Deputati (Gronchi).
103
Cfr., P. Marinelli, A mille metri sottoterra resistono i minatori di
Cabernardi, in «L’Unità», 31 maggio 1952.
104
Qualche titolo tra i tanti: “ Viaggio sulla terra dei sepolti vivi”, in Vie
nuove,6 luglio 1952; “Sciopero generale ad Ancona dei sepolti vivi”, in:
«L’Unità», 8 giugno 1952.
105
Cfr., S. Sebasianelli, La solidarietà con i lavoratori in lotta da 14 giorni,
in «L’Unità», 12 giugno 1952.
49
Il Ministero degli Interni e la Società Montecatini agirono indipendentemente in un unica
direzione e con lo stesso scopo: far cessare l’occupazione. La Direzione della miniera
cominciò a interrompere a tratti l’erogazione della luce elettrica e la ventilazione della
miniera, la Polizia impedì ogni comunicazione con l’interno sia di notizie sia di generi
alimentari106.
Il 5 luglio si raggiunse finalmente un accordo tra le parti che si impegnavano ad attenersi
alla decisione della Commissione Ministeriale riguardo le condizioni produttive della
miniera. Dopo 40 giorni di dura lotta qualche risultato era stato ottenuto: il dilazionamento
della chiusura della miniera e la riduzione dei licenziamenti107. Degli 860 licenziamenti
annunciati 400 furono effettivi, ovvero tutti gli occupati, mentre circa 500 minatori furono
trasferiti. Lo spostamento dei lavoratori avvenne progressivamente dalla fine del ‘52 al ‘64.
La maggior parte (250 nuclei familiari) andarono a lavorare nello stabilimento
petrolchimico di Ferrara, altri nelle miniere siciliane o nelle miniere di pirite in Toscana,
altri ancora a Trento.
La Commissione Ministeriale espresse pareri analoghi a quelli della Montecatini .
Già nel 1952 era stato messo in rilievo dall’EZI come le condizioni favorevoli per
l’industria solfifera, determinatesi in seguito alla crisi coreana, si fossero gradualmente
annullate. Durante il 1953 le difficoltà di collocare lo zolfo italiano nei mercati
internazionali aumentarono con il crescere delle esportazioni dello zolfo americano. La
produzione del minerale in Italia continuò a segnare un’inesorabile contrazione.
A Cabernardi l’attività della miniera, sebbene ridotta, continuò fino al 1954. Gli operai da
circa 1700 passarono a 814 e la produzione totale da 20000 tonnellate a 12500 tonnellate
mensili. Contemporaneamente si procedeva alla sistemazione del personale: circa 100
operai furono collocati in pensione di invalidità mentre altri ancora furono trasferiti.
106
Cfr., P. Ingrao, Meravigliosa lotta a Cabernardi dei minatori “sepolti vivi”,
in «L’Unità», 2 luglio 1952.
107
Cfr., S. Sebasianelli, Firmato l’accordo con la Montecatini. I minatori di
Cabernardi salgono vittoriosi dai pozzi, in «L’Unità», 6 luglio 1952.
50
Rimasero in miniera 181 minatori, gli indispensabili per procedere alla chiusura avvenuta
definitivamente nel 1959.
51
CAPITOLO SECONDO
IL SETTORE
2.1 L’INDUSTRIA MINERARIA: PECULIARITÀ E SVILUPPO
L’industria mineraria, per le sue peculiari caratteristiche, si differenzia nettamente dalle altre
attività industriali. L’attività mineraria inizia con la ricerca, necessaria ad individuare il
giacimento. Questa fase di lavoro, sempre fonte di spese a pieno rischio, è caratterizzata
dalla massima aleatorietà, che per altro resta il carattere dominante dell’attività anche
quando, ad una ricerca terminata con esito positivo, fa seguito lo sfruttamento del
giacimento108. Quella della prima ricerca è quasi sempre una storia di lavoro improbo; molte
volte i ricercatori si succedono gli uni agli altri, ognuno portando il proprio contributo di
studi e di capitali, finché qualche volta il successo è raggiunto. Inoltre, a completare le
ricerche, anche dopo i risultati incoraggianti dei sondaggi, occorre sempre sviluppare lavori
di esplorazione diretta con pozzi, gallerie ecc. per mettere in evidenza un quantitativo di
minerale sufficiente a dare, secondo i preventivi dei costi di produzione, un equo interesse al
capitale impiegato. A volte la presenza di fattori negativi può portare anche all’abbandono
di giacimenti utili, per l’impossibilità di superare gli ostacoli che si frappongono alla
coltivazione. Eppure la speranza di realizzare alti profitti, quali sono spesso consentiti da
buoni giacimenti, esercita una notevole attrattiva tanto da vincere il timore della sempre
possibile perdita totale dei capitali investiti nelle ricerche. Non è infrequente il caso che
nella stessa area abbandonata dopo sfortunati lavori di più ricercatori, un ultimo abbia
108
Cfr., G. Rolandi, Problemi dell’industria mineraria, in «L’Industria mineraria», giugno 1967, p. 214.
52
conseguito risultati brillanti. Talvolta la scoperta e il prolungamento della vita di una
miniera e quindi dell’impresa mineraria è dovuta a cause del tutto fortuite.
Il progresso scientifico e tecnico ha indubbiamente permesso di limitare, anche se non di
eliminare, l’alea della ricerca, sia facilitando il rinvenimento di nuovi giacimenti, sia
permettendo la coltivazione dei giacimenti così detti poveri, ossia a basso tenore, o difficili.
Si deve alle più precise conoscenze geologiche e geofisiche, al perfezionamento degli
strumenti per i rilevamenti geofisici, se l’industria mineraria ha potuto far fronte al
progressivo esaurimento dei giacimenti essendo sempre più costretta a utilizzare quelli un
tempo non ritenuti interessanti, più complessi e situati a maggior profondità e non di rado
posti a maggior distanza dai luoghi di consumo.
L’esaurimento di giacimenti un tempo importanti e la messa in valore di nuovi ha provocato
passaggi di potenze minerali da un Paese all’altro come è accaduto per la produzione dello
zolfo dell’Italia, che fino ai primi anni del secolo godeva di una posizione di quasi
monopolio mentre già negli anni ’50 rappresentava solo il 4% di quella mondiale, ottenuta
per circa il 95% negli Stati del Texas e della Louisiana (USA)109.
Una ricerca positiva mette in luce un nuovo giacimento ma, evidentemente vincola la futura
attività al luogo ove il giacimento stesso è stato individuato. A differenza della generalità
delle altre industrie, quella delle miniere non ha possibilità di scelta circa il luogo dove far
sorgere la propria impresa, non può scegliere le condizioni più favorevoli al suo sviluppo e
sfruttare le economie esterne che potrebbero essere rappresentate da forza motrice a buone
condizioni, vicinanza dagli stabilimenti di trasformazione o di consumo, vicinanza a centri
di rifornimento di materiale che le occorrono, presenza di una buona rete stradale e
ferroviaria.
Spesso i giacimenti si trovano in località isolate, per lo più montagnose e lontane dai centri
abitati. In tali condizioni, l’impresa mineraria deve affrontare e risolvere i problemi relativi:
alle costruzioni di strade per allacciare la miniera alla più prossima via di comunicazione,
109
Cfr., F. Squarzina, Alcune considerazioni sui caratteri distintivi dell’industria mineraria, aprile 1950, p. 126.
53
alla necessità di tenere scorte di riserva, officine di riparazione, fabbricati per gli uffici,
magazzini, abitazioni e assistenza del personale. Tutto ciò richiede ingenti immobilizzazioni
che per forza di cose aumentano a mano a mano che la miniera si sviluppa per impianti
destinati all’estrazione e alla preparazione dei minerali estratti, con sempre maggior
fornitura di energia, nonché di nuove e perfezionate attrezzature nel sottosuolo che va
sempre più estendendosi e approfondendosi110. Inoltre la rete di gallerie sotterranee facendo
da drenaggio alle acque superficiali rende il terreno secco e non più coltivabile per cui
l’esercente della miniera deve pagare somme sempre crescenti al proprietario della
superficie per i danni provocati tanto che nella maggior parte dei casi ne risulta più
economico l’acquisto.
In molte industrie, il costo di produzione (a parità di costo delle materie prime, della
manodopera ecc.) tende a diminuire nel tempo perché in generale migliora l’organizzazione
e diminuiscono le quote d’ammortamento. Nelle miniere invece, col procedere della
coltivazione, i costi tendono sempre a crescere: con l’aumento della profondità e
l’estensione dei lavori, aumentano progressivamente le spese di trasporto111 lungo le
gallerie, quelle di estrazione dai pozzi e tutte le spese di manutenzione. Anche nella fase di
coltivazione permane un alto grado di rischio di incidenti imprevedibili che possono
compromettere l’andamento delle lavorazioni e richiedere l’installazione di impianti
imprevisti e l’ammortizzo di nuove spese. Durante la coltivazione del giacimento continua
la fase di ricerca, con le relative spese, per mettere in evidenza la continuità del giacimento
e per sostituire con nuovi campi di sfruttamento quelli che vanno esaurendosi. Tuttavia le
valutazioni delle riserve minerarie e della produzione media futura presenta gravi
difficoltà112.
110
A volte le difficoltà, particolarmente quelle connesse alla mancanza di trasporti economici per minerali di limitato
valore o la scarsità d’acqua, sono tali da sconsigliare l’apertura di una miniera anche se il giacimento si mostra
promettente.
111
Molte volte lo spostamento di qualche centro di lavorazione impone nuovi impianti di trasporto come teleferiche ecc.
112
La conoscenza soltanto approssimata della consistenza del giacimento rende difficile la determinazione di un
adeguato coefficiente di rendimento.
54
Il dubbio sulla estensione del giacimento e sulla qualità del minerale estraibile, i rischi
inerenti all’estrazione, ai costi e ai materiali futuri impongono l’applicazione di quote
d’ammortamento più alte di quelle applicate da molti altri tipi d’impresa.
Come si può notare la miniera oltre a richiedere un forte impiego anticipato di capitale per
l’apertura, ha bisogno di continui investimenti non solo per conseguire un ampliamento
delle dimensioni dell’azienda, ma per la necessità di assicurare la vita stessa della miniera.
Nell’industria mineraria non è possibile trasferire o recuperare tutto il capitale investito se
non attraverso uno sfruttamento del giacimento per la cui coltivazione esso è stato speso. Di
qui l’opportunità di una particolare cautela nell’attivare l’investimento. L’impossibilità di
svincolare il capitale investito nella ricerca e nella prima coltivazione mineraria porta, a
volte, a mantenere in funzione una miniera economicamente passiva, nella speranza, ad
esempio, di un rialzo delle quotazioni del minerale. Ciò si verificò per l’industria solfifera
siciliana, la quale per quasi tutto l’ultimo quarto del secolo scorso segnò incrementi
produttivi nonostante il quasi continuo ribasso dei prezzi113.
Anche le variazioni nella domanda dei prodotti minerari hanno ripercussioni differenti da
quelle che si riscontrano generalmente per i prodotti delle altre industrie. Di fronte ad un
rapido aumento nel consumo di minerale, l’industria delle miniere ha contro di sé
l’elemento tempo richiesto dai lavori necessariamente lenti di ricerca e preparazione. Per cui
non riesce ad adattare prontamente l’offerta alla domanda e di conseguenza si ha un forte
aumento del prezzo del minerale. Inversamente, il persistere dell’offerta in un periodo di
contrazione della domanda accentua la caduta dei prezzi, il che rende ancora più difficile
l’esercizio della miniera.
Tutte le attività industriali possono, per cause diverse, essere colpite da una crisi che le porti
a una sospensione temporanea; ma per una miniera la sospensione dei lavori può avere
anche conseguenze particolarmente gravi. Per essere tenuta in condizioni da poter
113
F. Squarzina, Alcune considerazioni, cit., p. 127.
55
riprendere la propria attività, la miniera richiede continue e importanti manutenzioni114.
Tutto il lavoro passivo del periodo di sospensione e di attesa presuppone una spesa
difficilmente sopportabile dalle miniere di piccola o modesta consistenza le quali anche di
fronte alla ripresa dei prezzi dei minerali si trovano impreparate essendo in ritardo con le
ricerche e le preparazioni. Talvolta quindi un eventuale ripresa dei lavori può presentare un
insieme di difficoltà tecniche e finanziarie tali da rendere impossibile la ripresa stessa senza
un nuovo apporto di capitale115.
Un’altra particolarità dell’industria mineraria risiede nel fatto che mentre una qualunque
industria costituisce una proprietà che almeno teoricamente non può estinguersi e può anche
trasformarsi, una miniera ha un’esistenza che più o meno rapidamente si avvia verso
l’esaurimento: il minerale estratto ovviamente non si riforma e quindi la miniera si
impoverisce sempre più. Dal punto di vista economico la miniera è un capitale e il suo
sfruttamento costituisce un reddito, ma al termine dello sfruttamento il capitale stesso risulta
estinto: nel minerale estratto si ha nello stesso tempo il reddito della miniera e una porzione
dello stesso capitale di cui è costituita. Alla fine del periodo produttivo gli impianti minerari
perdono quasi totalmente il loro valore. Nullo resta il valore dei lavori in sotterraneo
(gallerie, pozzi, ecc.), limitato quello dei fabbricati a causa della loro ubicazione116, e
modesto diviene pure il valore dei macchinari in quanto, generalmente non sono convertibili
ad altri usi da quelli specifici per i quali erano stati realizzati.
Rispetto a molte industrie manifatturiere, che hanno la possibilità di impiegare i propri
impianti per produzioni differenti adattandosi alle variazioni della domanda dei prodotti,
nell’industria mineraria la possibilità di produzioni alternative è interamente preclusa: la
produzione del minerale è ovviamente l’unica attività possibile.
114
Se la manutenzione non è stata continua la sistemazione delle parti franate e di quelle invase dalle acque possono
richiedere anche lunghi periodi di lavoro e di relative spese.
115
D’altra parte la legge mineraria italiana imponeva al concessionario di tenere attiva la miniera, pena la decadenza
della concessione. Per la legge del 1927 il sottosuolo appartiene allo Stato che concede a terzi la ricerca e l’estrazione
dei minerali ma impone ai concessionari un’attività continuativa di coltivazione, in vista del superiore interesse
nazionale, che a volte inevitabilmente contrasta con quello dell’imprenditore. Si veda il paragrafo 2.2 .
116
Salvo in caso che la zona mineraria sia anche zona agricola o sede di altre industrie.
56
A causa dell’elevata alea insita nell’attività mineraria una caratteristica di quest’ultima è la
tendenza alla concentrazione industriale e al monopolio. Non soltanto per avere maggiore
disponibilità di capitale e minore difficoltà di reperire fonti di finanziamento ma soprattutto
per la possibilità di compensare le perdite di una miniera con i profitti delle altre
diminuendo così il rischio totale dell’impresa. Ogni miniera infatti, anche se dello stesso
minerale, possiede una sua precisa individualità dovuta al tipo di giacimento (più o meno
profondo) alla purezza, alla ricchezza del minerale e alla sua posizione geografica
(variazione nella incidenza dei costi di trasporto, approvvigionamento ecc.). Ognuno di
questi fattori ha una relazione e connessione precisa con il costo di produzione il quale può
risultare molto diverso da un periodo di tempo all’altro e da miniera a miniera, pur
mantenendo costanti i prezzi unitari ed i costi di lavorazione.
In Italia dall’800 fino al 1960 si possono identificare 3 principali fasi dell’evoluzione storica
dell’attività mineraria. Una prima fase in cui l’iniziativa
mineraria venne limitata da
evidenti circostanze. La mancanza di un’industria manifatturiera sviluppata portava a una
scarsa richiesta di materia prima e si rendeva quindi necessaria l’esportazione dei minerali
estratti, con conseguenti forti costi addizionali (in quanto i minerali sono generalmente da
considerarsi merce povera dal punto di vista del trasporto) e rischi maggiori per l’instabilità
degli sbocchi. I costi di produzione erano aggravati dalla mancanza di economie esterne per
cui l’impresa mineraria era spesso ostacolata dalle deficienze di mezzi di trasporto e
comunicazione e dalle difficoltà di reperire mano d’opera specializzata. In una tale
situazione si può ben comprendere come il poco risparmio disponibile venisse
maggiormente attratto da altri investimenti, con immobilizzi a più breve termine e minor
rischio, lasciando quindi spazio ai capitali stranieri, meglio disposti a correre l’alea insita
nell’attività mineraria e più interessati a disporre di nuove fonti di materie prime. Infatti è in
generale, al capitale straniero che si deve l’inizio della prima vera industria estrattiva
57
italiana, anche se non sono mancati esempi di industriali italiani che si sono dedicati con
successo a questa attività117.
Una seconda fase in cui si verificò un sempre più attivo interesse per l’attività mineraria,
perché le migliorate condizioni economiche interne e lo sviluppo dell’industria in genere
avevano portato ad una maggiore richiesta di materie prime. Così accanto alle prime
imprese minerarie, in genere di medie dimensioni, erano sorte molte altre piccole industrie
che, utilizzando mezzi tecnici talvolta anche abbastanza modesti, avevano potuto prosperare
grazie ad una direzione razionale ed efficace effettuata personalmente dall’imprenditore.
La terza fase è stata caratterizzata sia da una concentrazione industriale, seppur non
eccessiva, sia dal sempre maggior interesse che lo Stato ha avuto per questa industria. Per
quanto concerne la variazione delle dimensioni delle aziende che operavano nel settore si
può dire che l’industria di grandi dimensioni è andata sempre più affermandosi poiché
aveva maggiore disponibilità di capitale. L’intervento dello Stato nell’industria mineraria
non si è limitato ad una forma indiretta ma in molti casi ha stimolato ed appoggiato o
addirittura intrapreso in proprio gli investimenti. Durante gli anni tra le due guerre si
delinearono interventi pubblici diretti, in particolare nel settore del carbone ,dei minerali
metallici ed degli idrocarburi118. Mentre in questi settori lo Stato interveniva come
imprenditore per sviluppare produzioni ritenute essenziali per i bisogni nazionali, nel settore
dello zolfo doveva affrontare il problema posto dall’industria privata siciliana con capacità
produttiva largamente eccedente i bisogni nazionali ed alle prese con croniche difficoltà di
sbocchi119.
Ciò di cui aveva veramente bisogno l’industria mineraria italiana non era una mera politica
protezionistica, d’altra parte incompatibile con la crescente apertura dei mercati, ma bensì di
117
Cfr., P. Corna Pellegrini, Il progresso tecnologico nell’industria mineraria, Milano, 1960,p. 11.
Le imprese pubbliche relative al settore del carbone erano state coordinate nel 1935 nella Azienda Carboni Italiani.
Nel 1936 veniva costituita l’Azienda Minerali Metalli Italiani che coordinava le relative imprese pubbliche. Nel 1927
veniva istituito l’AGIP.
119
Cfr., G. Fuà, La politica mineraria nei Paesi dell’Europa meridionale in «L’Industria mineraria», giugno 1957, p.
400.
58
118
una politica di sostegno dello Stato. Quest’ultimo doveva puntare a concentrare, se non a
circoscrivere, l’intervento alla fase della ricerca di nuovi giacimenti120. E’ opportuno
considerare che nel quadro degli investimenti quelli impegnati nella ricerca sono cospicui in
termini assoluti e relativi per cui si poneva il problema di interventi di politica economica
per evitare la stagnazione di tale settore. Questo problema era stato risolto con tempestività
negli Stati Uniti, nel 1915, con l’istituzione dell’abbuono per esaurimento121 e con la messa
a punto (anche in altri Paesi) di incentivazione diretta della ricerca mineraria. L’esperienza
italiana in tale materia era limitata, per lo meno fino agli anni ’60, alle Regioni a statuto
speciale ed era caratterizzata da una certa varietà di disposizione la cui efficacia veniva
fortemente limitata dalla modestia dei mezzi finanziari disponibili.
In conclusione si può riconoscere un discreto sviluppo dell’industria mineraria italiana fino
agli anni ’60, accentuatosi in particolare nel primo dopoguerra. Si deve anche ricordare che
tale sviluppo era da considerarsi ancora modesto se confrontato con quello di altri Paesi
industrializzati, e con lo sviluppo dell’economia italiana nel suo insieme. L’attività
mineraria negli anni ’60 non costituiva un settore fondamentale della nostra economia. Basti
pensare che il reddito del lavoro minerario non era che l’1% di quello nazionale e
l’occupazione operaia, in questa industria, rappresentava circa lo 0,7% della popolazione
attiva totale122. Caratteristico risulta poi il fatto che l’occupazione della manodopera
praticamente non presentò segni di sviluppo dall’inizio del secolo fino agli anni ’60 (pur
essendosi verificate notevoli oscillazioni nel tempo e nel rapporto tra occupati nelle miniere
e nelle cave). Nel sessantennio considerato, la popolazione italiana era invece passata da 31
a 50 milioni.
120
Cfr., D. Cuzzi, L’intervento pubblico nella ricerca mineraria in «L’Industria mineraria», novembre 1965, p. 569.
L’abbuono per esaurimento era una detrazione percentuale sul reddito tassabile che si concedeva per conservare
all’impresa mineraria la disponibilità di somme da investire nella ricerca. Cfr., R. Rossano, La legislazione statale delle
miniere in «L’Industria mineraria», giugno 1965, p. 322.
122
Contro l’1,7% negli Stati Uniti, l’1,8% in Francia, il 3,8% nel Regno Unito, il 5,4% nel Belgio.
In Italia, le miniere propriamente dette (metallifere e non metallifere) contribuivano al reddito totale dell’industria
mineraria per circa il 40% ma occupavano circa il 90% del personale. Il resto era dato dalle fonti energetiche. Cfr., D.
Cuzzi, Sulla localizzazione dell’industria estrattiva in Italia in «L’Industria mineraria», aprile 1963, p. 198.
59
121
Tabella 2.1 Numero di addetti a miniere e cave.
Fonte: Servizio statistico del Corpo delle miniere.
Anni
Totale
Miniere
Cave
1890-1900
90/100000
-
-
1900-1910
125000
-
-
1918
100000
63500
36500
1926
120000
52900
67100
1933
80000
34000
46000
1938
140000
83300
57100
1941
171500
132000
39500
1944
73000
52500
20500
1949
104400
66000
38400
1952
122700
70600
52100
1956
117800
58400
59400
Nel primo decennio del secolo XX l’occupazione aumentò fortemente; fenomeno comune
anche agli altri settori industriali in relazione allo sviluppo dell’attività produttiva e al
miglioramento della situazione economica del Paese, prolungatosi fino allo scoppio del
primo
conflitto
mondiale.
La
guerra
1915-18
condusse
ad
una
diminuzione
dell’occupazione complessiva (anche se la riduzione fu particolarmente sensibile per le
cave). Negli anni successivi l’occupazione operaia presentava un incremento che raggiunse
il punto più elevato nel 1926. In seguito si verificò una forte flessione dovuta alla crisi
internazionale (e nazionale) che fece registrare il punto più basso nel ’33. La favorevole
evoluzione della congiuntura economica mondiale e gli indirizzi di politica autarchica
impressi all’economia nazionale, permisero un forte incremento nell’occupazione operaia
fino ai primi anni della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941 infatti venne raggiunto il
numero massimo degli occupati, nel periodo considerato, principalmente per l’aumento
dell’occupazione nelle miniere di minerali interessanti l’economia bellica. Nel ’44 la guerra
fece segnare la più bassa occupazione operaia ma la ripresa post bellica fu sollecita ed
intensa. Negli anni successivi si registro invece una contrazione dovuta soprattutto alla
riduzione verificatasi nelle miniere di combustibili fossili.
60
Mentre per l’industria mineraria in generale si può parlare di una certa staticità
dell’occupazione, nel settore dello zolfo l’occupazione operaia si è andata gradualmente
riducendo sia in via assoluta che relativa.
Tabella 2.2 Numero di addetti, produzione e resa media per
operaio nel settore dello zolfo.
Fonte: Servizio statistico del Corpo delle miniere.
Anni
Addetti
Produzione
Resa
tonnellate
tonnellate annue per
operaio con 2000
ore lavoro
1905
34000
550000
-
1913
15000
390000
-
1922
7000
167000
-
1938
15600
380000
24,41
1940
18000
330000
-
1941
18700
330000
15,07
1944
73000
77000
10,60
1949
13400
201000
15,09
1952
15600
230000
14,80
1956
12000
210000
-
In via assoluta dai 34000 addetti nei primi anni del secolo si passò ai 12000 del 1956;
riduzione verificatasi attraverso alti e bassi dominati da un netto trend di contrazione. In via
relativa, da circa il 50% dell’occupazione totale nelle miniere nazionali del 1905 si scese a
circa il 20% del totale nel 1956.
Sino ad ora si è parlato genericamente degli addetti all’industria mineraria italiana fino agli
anni ’60, è necessario però distinguere fra le varie unità operanti nel settore, in relazione alla
dimensione di impresa per mettere in luce quella tendenza alla concentrazione industriale di
cui si è già accennato. Il censimento industriale del 1951 ha rilevato che, su un totale di
6196 ditte aventi per oggetto l’attività mineraria in Italia, 5232 avevano un numero di
addetti inferiore a 11 con un totale di occupazione di sole 14623 unità mentre 117 avevano
61
un numero di addetti superiore a 100 con un totale di 58199 unità impiegate. Risulta quindi
evidente la differenziazione esistente tra le molte piccolissime unità, che spesso avevano un
carattere nettamente artigianale e le poche grandi società che gestivano le miniere di
maggior importanza. Queste avrebbero potuto disporre dei capitali necessari all’acquisto di
attrezzature e macchinari più complessi al fine di allineare i costi di produzione a quelli
ottenuti nelle miniere estere. In realtà, però, l’industria mineraria italiana utilizzò con ritardo
i progressi tecnici e meccanici messi in atto dalle “molto più grandi” imprese straniere,
essenzialmente perché le risorse minerarie italiane erano di gran lunga inferiori a quelle dei
maggiori Paesi minerari del mondo.
2.2 LA LEGISLAZIONE MINERARIA
In tutte le Nazioni la ricerca e lo sfruttamento delle sostanze minerali sono regolate da
speciali disposizioni legislative. I principi fondamentali sono due: il primo e’ quello
fondiario sul quale si uniformava anche l’antico ius romano in cui il possesso di un terreno o
fondo comprende cioè non soltanto il suolo vegetale, ma anche il sottosuolo con tutti i
giacimenti minerari che ci sono inclusi e fino a qualsiasi profondità.
L’altro principio si basa sulla demanialità del sottosuolo, in forza del quale i giacimenti
sono considerati come res nullius e soggetti a legislazione speciale.
In Italia l’unificazione del diritto minerario fu realizzata nel 1927, con D.R. 29 luglio 1927
n° 1443, recante norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione
delle miniere del Regno.
Era dovuto trascorrere poco meno di un settantennio dal compimento dell’unità nazionale al
raggiungimento dell’unità legislativa in campo minerario in quanto fra i primi
62
provvedimenti legislativi del Regno d’Italia ci fu quello di mantenere in vigore tutte le leggi
e i regolamenti minerari vigenti nei vari stati italiani prima dell’unificazione politica.
Pertanto fino al 1927 si applicavano nel territorio nazionale ben 12 leggi minerarie diverse,
ispirate a principi diversi123.
In particolare nelle Marche con decreto 13 novembre 1860 fu estesa la legge sardolombarda del 20 novembre 1859 n°3755 ispirata al cosiddetto principio “industriale” per il
quale la disponibilità della miniera spettava allo Stato che ne faceva la concessione allo
scopritore o in sua vece, a chi aveva i mezzi tecnici e finanziari adeguati.
Tale legge dava piena libertà a chiunque di ricercare le sostanze minerali in qualunque
fondo salvo munirsi di autorizzazione (“concessione di ricerca”) del prefetto del distretto, e
a pagare un’indennità al proprietario del fondo per i danni arrecati. Quando le ricerche
avessero sufficientemente accertata la possibilità di una regolare coltivazione, constatata da
visita o parere dell’ingegnere delle miniere, la miniera era dichiarata concessibile. La
concessione veniva fatta dal governo a titolo perpetuo, a meno che non venisse in seguito
pronunciata la decadenza per abbandono di lavorazione oltre il biennio. Lo Stato percepiva
una quota di utili ragguagliata al 3% sul prodotto annuo della miniera124.
123
1) La legge sardo-lombarda del 20 novembre 1859, vigente nel Piemonte, Liguria, Lombardia e nelle Marche.
Il decreto parmense del 21 giugno 1852, vigente nelle province di Parma e Piacenza.
La legge generale montanistica austriaca del 23 maggio 1854, vigente nella provincia di Mantova, nel Veneto e nei
territori di Trento, della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara.
La legge italica del 9 agosto 1901, vigente nelle province di Modena e Reggio.
Il sistema pontificio, vigente nelle province di Bologna, Ferrara e Ravenna, nel territorio di Pontecorvo e in quello
dell’ex ducato di Benevento.
La legge lucchese del 3 maggio 1847, vigente nella provincia di Lucca e nella provincia di Massa Carrara.
Il così detto sistema estense illimitato (nessuna legge; dominio assoluto del principe sulle miniere), vigente nel territorio
di Aulla, Castiglione, Castelnuovo di Garfagnana, Vagli.
La legge I febbraio 1751, per le cave di marmo nelle vicinanze del Carrarese ed il regolamento 14 luglio 1846, per
quelle del Massese.
Il motuproprio granducale del 13 maggio 1788, vigente nelle provincie di Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa,
Siena, Lucca. Nell’Isola d’Elba e nel territorio di Piombino i minerali di ferro erano riservati al demanio (sovrano
rescritto del 28 ottobre 1856).
Il sistema pontificio, regolato con R.D. 23 marzo 1865, vigente nella provincia di Forlì per il quale si applicava come
norma regolamentare la legge del 1859.
Il sistema pontificio, regolato con R.D. 17 giugno 1872, vigente nelle provincie di Roma e Perugia (per il quale si
applicava come norma regolamentare la legge del 1859).
La legge borbonica del 17 ottobre 1826 ed il relativo regolamento del 3 ottobre 1875, vigenti nell’ex Regno delle Due
Sicilie. Cfr. A. Di Marzo, L’industria mineraria, Napoli, 1905, pp. 45,46.
124
Cfr., G. Cagni, Miniere di Zolfo in Italia, Milano, 1903, pp. 249,250.
63
Vi erano speciali disposizioni concernenti la sicurezza delle persone. Era proibito lasciare
discendere e lavorare nelle miniere i ragazzi di età inferiore a 10 anni. In caso di infortunio,
il coltivatore doveva informare subito il sindaco del Comune e l’ingegnere delle miniere
inoltre aveva l’obbligo di conservare negli stabilimenti i mezzi necessari al soccorso.
Nelle miniere della Romagna125 vigeva il sistema pontificio che si basava sul principio della
regalìa secondo il quale le miniere spettavano al Principe e sopra di essa non aveva alcun
diritto il proprietario del suolo all’infuori del danno a lui arrecato con l’esercizio minerario.
Il principio di regalìa non derivava la sua legittimità da leggi scritte né veniva applicato
secondo modalità prestabilite, né in modo unitario e armonico ma risultava da antiche126
bolle papali e da consuetudini, che lo rendeva ancora più assoluto e incontrastato.
I modi e le condizioni di coltivazione erano lasciati interamente all’arbitrio della pubblica
autorità e perciò differivano notevolmente da caso a caso; le concessioni erano, non di rado,
vincolate al soddisfacimento di determinate tasse o prestazioni, si prescrivevano sovente
norme e cautele di varia natura ma non esisteva parità di trattamento127.
Per le miniere di zolfo della Sicilia era vigente il rescritto sovrano dell’8 ottobre 1808,
integrato dal successivo datato 30 aprile 1852, secondo il quale il proprietario del fondo
aveva disponibilità del sottosuolo in cui rinveniva zolfo però era necessario uno speciale
permesso del governo che non poteva essere accordato a terzi, detto di “aperietur”, dietro
pagamento di una tassa per il diritto di regalìa spettante allo Stato128.
Il sistema fondiario, che aveva per fondamento il diritto di proprietà, era manifestamente
irrazionale e antisociale e arrecò in Sicilia gravi inconvenienti.
Come é facile capire, questo mosaico di leggi non poteva che creare grande confusione e i
vari governi, che si succedettero dall’Unita d’Italia, tentarono ripetutamente di unificare la
125
Tranne la provincia di Forlì dove con R.D. 23 marzo 1865 si stabilì che alle miniere di ogni specie che da allora in
poi venissero esplorate ed aperte erano applicate le norme della legge Sardo-Lombarda. Cfr., F. Squarzina, La
legislazione mineraria nei vari stati italiani, in «L’Industria mineraria», febbraio 1958, p. 96.
126
La più antica legge del governo pontificio era quella di Giulio II del 21 aprile 1510 che dichiarò tutte le miniere di
diritto sovrano. Cfr., F. Squarzina, La legislazione mineraria, cit., p.93.
127
Cfr., F. Bo P. Tappari, La legislazione mineraria dell’Italia, Torino, 1830, p. 751.
128
Cfr., Riforma Mineraria, disegno di legge presentato al governo all’assemblea regionale siciliana il 13 luglio 1949,
Palermo, 1949, p. 8.
64
legislazione mineraria ma non mancarono gli ostacoli frapposti dai grandi proprietari
terrieri, specialmente della Sicilia, che non intendevano rinunciare ai loro antichi privilegi.
Così tutti i disegni di legge incontrarono una tenace opposizione che fece naufragare uno
dopo l’altro, i numerosi progetti presentati129.
Solo con il Regio Decreto del 27 luglio 1927 n° 1443 (Gazzetta Ufficiale n°194 del 23
agosto 1927) fu possibile mettere ordine in questa complessa materia unificando la
legislazione mineraria sul principio della demanialità del sottosuolo, pur rispettando i diritti
acquisiti130.
La corrente sostenitrice del regime demaniale, che aveva trovato, dopo la Prima Guerra
Mondiale e specialmente con il fascismo, il più valido incoraggiamento nell’indirizzo
pubblicistico al quale era stata allora improntata in ogni campo la legislazione del paese, era
prevalsa, e la legge del 1927 segnò la fine, nel regime minerario, del sistema fondiario131.
La miniera non era più vista come un bene facente parte del patrimonio individuale o come
una concessione del principe. Era ritenuta un bene che dal punto di vista individuale
rappresentava spesso, oltre che il risultato di studi e di conoscenze specifiche, il
coronamento di lunghe e costose ricerche. Mentre per la Nazione “è fonte di ricchezza, che
deve essere coltivata e vigilata nel suo sfruttamento, nello stesso interesse generale..., lo
Stato non può disinteressarsene: ha il dovere, anzi, di intervenire”132.
Tra le principali disposizioni della legge unificatrice (D.R. 29 luglio 1927 n°1443) si trova
innanzitutto una distinzione delle sostanze minerali in due categorie: miniere e cave. Per i
129
Benché sia da ritenersi prevalente, nel lungo periodo, la tendenza all’unificazione legislativa, non mancarono vivaci
opposizioni. Non tanto per l’essenza stessa dei contrasti teorici inerenti ai diversi regimi, quanto per considerazioni
relative alle situazioni giuridiche e di fatto, che ne erano derivate nel tempo e che sembrava difficile modificare senza
gravi lesioni di diritti acquisiti da tempo immemorabile e danni per lo stesso esercizio minerario. Cfr., R. RomoliVenturi, Promemoria sulla unificazione del diritto minerario italiano, in “L’Industria Mineraria”, aprile 1965, p.185.
130
“Purtroppo questa legislazione è stata nuovamente stravolta con l’istituzione delle regioni a statuto speciale che
hanno facoltà di legiferare in fatto di miniere e, lo hanno fatto senza limitazioni, pur mantenendo il principio della
demanialità del sottosuolo”. A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della Regione Emilia Romagna, 1972,
Modena, p. 714.
131
Attuando una disciplina che lasciava l’amministrazione arbitro della ricerca e della coltivazione della miniera e
toglieva ai già proprietari, che venivano riconosciuti come concessionari perpetui, la disponibilità di esse. Cfr., Riforma
Mineraria, cit., p. 9.
132
Relazione ministeriale che accompagnava il disegno di legge relativo alla delega al governo del Re per disciplinare
la ricerca e la coltivazione delle miniere del Regno, presentato alla Camera dei Deputati nella seduta 21 maggio 1926.
65
minerali appartenenti alla prima categoria è consentita la ricerca solo a chi sia munito di
permesso da rilasciarsi dal Ministero per l’Industria e per il Commercio quando si tratti di
minerali di interesse nazionale e dall’ingegnere capo del distretto minerario per i minerali
d’interesse locale.
Una volta scoperto il giacimento, il ricercatore ha diritto ad ottenere la concessione, sempre
che abbia le capacità tecniche ed economiche, requisiti necessari anche per l’ottenimento del
permesso di ricerca. La concessione è temporanea133 e la sua durata è stabilita
dall’amministrazione mineraria in relazione all’importanza del giacimento scoperto.
La concessione cessa per scadenza del termine o per decadenza (una delle cause di
decadenza è di non tenere in attivo la miniera avuta in concessione).
Anche se la legge unificatrice in realtà non fa riferimento esplicito alla demanializzazione
del sottosuolo, l’art. 826 del codice civile (1942) dichiara che le miniere fanno parte del
patrimonio indisponibile dello Stato. Il che significa, secondo la dottrina più autorevole, che
lo Stato non può alienarlo e deve disporne in via di concessione governativa.
In materia di polizia delle miniere e delle cave sino al 1958 veniva applicata la legge 30
marzo 1893 n°184 e il relativo regolamento 10 gennaio 1907 n°152 che nonostante avevano
ben assolto il loro compito, richiedevano un necessario aggiornamento per le mutate
condizioni dell’industria estrattiva, soprattutto per il massiccio impiego di mezzi meccanici
e dell’energia elettrica. Il D.P.R. 9 aprile 1959 n°128 ha essenzialmente lo scopo di
provvedere a tutelare la incolumità e la salute dei lavoratori nel rispetto della sicurezza dei
terzi e garantire il buon governo dei giacimenti minerari in quanto appartenenti al
patrimonio dello Stato.
La vigilanza per l’applicazione di tali norme spetta al Ministero dell’Industria del
Commercio e dell’Artigianato che le esercita a mezzo di prefetti e degli uffici distrettuali del
Corpo delle miniere.
133
“ Le concessioni minerarie, date senza limite di tempo, in base alle leggi fino ad ora vigenti, sono mantenute come
concessioni perpetue...” art. 53.
66
A proposito di quest’ultimo si ricorda che nel Regno di Sardegna già nel 1822 fu istituito un
Corpo di ingegneri delle miniere (che avevano principalmente il compito di eseguire i saggi
chimici dei campioni minerari ricavati dalle miniere che erano chieste in concessione al
governo).
Tale Corpo era fin dal 1848 sotto la dipendenza del Ministero di Agricoltura Industria e
Commercio134 .
A mano a mano che le provincie d’Italia si univano al Regno, la circoscrizione dei distretti
minerari del Corpo delle miniere venivano stabilite ed applicate in modo da poter
convenientemente servire allo sviluppo e alla regolarità del servizio minerario.
Compiuta l’Unità d’Italia, fu istituito un ufficio minerario anche a Roma, aggiungendolo a
quelli di Ancona, Cagliari, Caltanissetta, Genova, Milano, Napoli, Torino e Vicenza. Con il
R.D. 10 agosto 1886 l’ufficio di Ancona fu trasferito a Bologna con l’aggiunta delle
provincie di Bologna, Modena e Reggio Emilia che furono staccate dal distretto di Firenze.
Nel 1923 il Corpo delle miniere passò alle dipendenze del Ministero dell’Economia
Nazionale, nel 1930 del Ministero delle Corporazioni per essere assegnato poi, nel 1946, al
Ministero dell’Industria e del Commercio.
Nel 1936 gli uffici del Corpo delle miniere risultavano costituiti, al centro, dall’Ispettorato
Tecnico delle Miniere e dall’Ufficio Geologico, ed alla periferia, dai 12 distretti minerari
(Bologna, Caltanissetta, Carrara, Firenze, Iglesias, Milano, Napoli, Padova, Roma, Torino,
Trento e Trieste)135.
Tra i compiti del Servizio Minerario rientravano l’applicazione delle leggi e dei
regolamenti, la vigilanza sull’andamento generale dell’attività mineraria, l’esecuzione delle
relative ispezioni, lo studio dei problemi tecnici ed economici concernenti l’attività
mineraria, lo studio dei giacimenti sotto l’aspetto minerario, l’organizzazione e la direzione
134
Cfr., A. Sabella, Il Corpo delle Miniere nei suoi 100 anni di attività, in «L’Industria mineraria», giugno 1958, p. 321.
Le circoscrizioni minerarie nel 1960 risultavano essere costituite da 14 distretti, con l’aggiunta di Bergamo e
Grosseto. Cfr., F. Squarzina, I servizi statali delle miniere e della geologia, in «L’Industria mineraria», luglio 1961, p.
421.
67
135
delle ricerche e delle coltivazioni minerarie che lo Stato intendeva condurre direttamente
all’estero, la raccolta e la elaborazione dei dati tecnici ed economici sull’industria mineraria
e la pubblicazione delle relative statistiche.
2.3 USO DELLO ZOLFO
Lo zolfo è uno dei minerali più anticamente conosciuti. Già nel 2000 a.C. era adoperato per
sbiancare il lino e sembra che, nella stessa epoca, cinesi e indiani lo usassero per fabbricare
polvere pirica. I colori delle pitture egizie di circa 1600 anni a.C. erano fatti con miscele
nelle quali era presente lo zolfo. I greci e i romani ne riconoscevano alcune proprietà.
Omero lo nomina come disinfettante e Dioscoride mette in luce i suoi pregi dermatologici
sotto forma di unguenti e cerotti. Nell’antichità classica era bruciato nelle cerimonie
religiose di purificazione. In agricoltura serviva ad allontanare gli insetti nocivi e fin dai
tempi di Catone lo si usava largamente nella coltura della vite e per la chiarificazione dei
vini. I romani se ne servivano per sbiancare le stoffe di lana (con l’anidride solforosa
ottenuta bruciando lo zolfo), nella preparazione di materiali incendiari per la guerra e per la
fusione delle statue di bronzo. Usavano anche fili impregnati di zolfo per accendere fuochi
ed avvolgere fiaccole136. Costituiva inoltre uno dei principali ingredienti per la
fabbricazione di mastici per incollare oggetti di ceramica. E’ ovvio che il suo consumo
debba essere stato assai modesto. Un incremento si ebbe nel XIV secolo con l’invenzione
della polvere pirica della quale lo zolfo è il costituente principale. Ma il suo maggior
136
Cfr., F. Squarzina, Industria e legislazione mineraria in Italia. Parte I - Età antica, Faenza, 1954.
68
sviluppo cominciò solo nel XVIII secolo137, quando si iniziò la fabbricazione su larga scala
dell’acido solforico, del quale a quei tempi costituiva l’unica materia prima. E’ da ritenere
quindi che prima del XVIII secolo la produzione mondiale, proveniente in gran parte dalla
Sicilia, fosse assai limitata. Anche nei primi anni del secolo successivo il modesto sviluppo
mondiale dell’industria non richiedeva grandi quantitativi di zolfo per la fabbricazione
dell’acido solforico. Solo dopo il 1830, evidentemente come conseguenza del maggior
sviluppo industriale provocato dalla invenzione della macchina a vapore, le miniere di zolfo
crebbero sempre più di numero138. Per tutto il corso dell’800 aumentò l’importanza
dell’acido solforico per la sua funzione insostituibile come intermediario nella lavorazione
industriale di un numero sempre più alto di sostanze organiche. Tanto che il grado di
industrializzazione di una Nazione si poteva valutare dal suo consumo di acido solforico.
Circa il 75% andava consumato per la fabbricazione di concimi chimici perfosfati139, il resto
veniva assorbito dall’industria degli esplosivi, dei grassi, dei fiammiferi, di prodotti
farmaceutici e veterinari, del legno, della carta, dei tessuti (i lanifici, cotonifici e setifici ne
utilizzavano le proprietà decoloranti) ed altre industrie chimiche come quella dei coloranti e
dei solfati di soda (per la fabbricazione dei saponi, vetri, cristalli e stoviglie)140.
Nella preparazione dell’acido solforico, che assorbiva quasi tutto lo zolfo di Sicilia, dal
1850 cominciò a sostituirsi e a diffondersi rapidamente l’impiego della pirite141. Questa,
contrariamente allo zolfo, era molto più diffusa nelle varie Nazioni ed era meno soggetta a
brusche oscillazioni di prezzo. Lo zolfo italiano non risentì particolarmente della
concorrenza delle piriti poiché, nello stesso tempo, si verificò un aumento dell’impiego per
uso agricolo. In Inghilterra nel 1847 si manifestò per la prima volta la malattia della vite,
137
La fabbricazione dell’acido solforico con l’impiego di zolfo cominciò nel 1736.
Cfr., M. Gatto, Condizioni tecniche dell’industria solfifera siciliana in L’industria mineraria solfifera siciliana,
Torino,1925, p. 18.
139
Cfr., V. De Michele A. Ostroman, Minerali e sviluppo. L’attività estrattiva della Montecatini dal 1888 al 1938,
Milano, 1987, p. 12.
140
Cfr., G. Cagni, op.cit., p. 221.
141
Cfr., G. Oddo, Impiego del minerale di zolfo di Sicilia per la preparazione dell’acido solforico, Roma, 1908, p. 367.
69
138
chiamata correntemente crittogama (oido)142. Prese subito proporzioni considerevoli e si
estese rapidamente in Francia, Italia, Spagna, Svizzera, Germania ecc. Lo zolfo in polvere
risultò essere l’unico rimedio possibile e dopo pochi anni la solforazione della vite divenne
una pratica generale in tutte le Nazioni. Conferma di ciò si trova nel numero della Rivista
del Servizio Minerario relativo all’anno 1893. Dove è riportato il consuntivo di una
indagine, disposta dal Ministero, per avere notizie complete circa gli usi dello zolfo italiano
nei vari paesi di destinazione. Tale relazione mostra in maniera evidente come l’impiego di
gran lunga prevalente sia quello in campo agricolo per la solforazione della vite, mentre ad
enorme distanza segue l’industria dell’acido solforico143. Come si è visto, lo zolfo verso il
1900, era stato quasi completamente sostituito dalla pirite per la fabbricazione dell’acido
solforico e stava per esserlo anche per gli altri campi (in cui la sostituzione era possibile),
ma riprese terreno, specialmente in America, da quando il processo Frasch permise di
produrlo a basso costo. Cosicché già dagli anni ’30 la produzione mondiale di zolfo tornava
ad avere il suo massimo impiego nella fabbricazione dell’acido solforico144. Al secondo
posto si trovava l’industria della cellulosa al solfito (soprattutto in Canada, Paesi Scandinavi
e Baltici) mentre al terzo posto, con una quota del 15% vi era l’uso come anticrittogamico
nella viticoltura (specialmente in Italia, Francia e negli altri Paesi mediterranei).
Ciò che determinava l’evoluzione del consumo di zolfo era quindi l’orientamento della
produzione di acido solforico che rappresentava, in Europa come altrove, dal 70% all’85%
della produzione mondiale di zolfo negli anni ’50145.
142
Cfr., Lo zolfo in agricoltura, Ufficio Sulphur, Roma 1909, p. 6.
Le 57311 tonnellate considerate risultavano così impiegate:
51125 tonnellate per la solforazione della vite, 1980 tonnellate per la fabbricazione di acido solforico, 1800 tonnellate
per quella del solfuro di carbonio, 886 tonnellate per la produzione dei fiammiferi, 668 tonnellate per la solforazione
delle botti, 332 tonnellate per la polvere pirica, 80 tonnellate nel caucciù vulcanizzato, 37 tonnellate per preparati
farmaceutici e le restanti 403 tonnellate per impieghi diversi.
144
Per quanto riguarda il consumo di zolfo dei singoli Paesi, va notato che esso dipendeva oltre che dallo sviluppo
dell’industria, principalmente dalla preferenza che i fabbricanti di acido solforico davano allo zolfo oppure alle piriti.
Gli Stati Uniti, che erano al primo posto fra i Paesi consumatori di zolfo, fabbricavano con questo più del 65% del loro
acido solforico mentre la Germania usava piriti per più dell’80% e l’Italia per una percentuale ancora maggiore.
145
Cfr., Prospettive del mercato mondiale dello zolfo, in «L’Industria mineraria», settembre 1959, p. 600.
L’acido solforico a sua volta, veniva utilizzato per fertilizzanti (40%) per altri prodotti chimici (20%) come detergenti
sintetici, resine sintetiche, rivestimenti di protezione, catalizzatori per l’industria petrolifera, riduzione dell’alluminio,
prodotti farmaceutici, insetticidi e antigeli. L’8% per pitture ed altri pigmenti (vernici, tessuti artificiali, carte da parati,
70
143
La curva della produzione mondiale di acido solforico tra il 1880 (1,8 milioni di tonnellate)
e il 1920 (8 milioni di tonnellate) presentava un andamento corrispondente ad un aumento
annuo medio del 4%. Dopo un intervallo di diminuzione fino verso il 1932 (10 milioni di
tonnellate), la curva riprendeva una accentuata ascesa, raggiungendo dal 1947 (22 milioni di
tonnellate), il prolungamento teorico di quella precedente, ossia un aumento annuo medio
del 5,6%146.
Di conseguenza la produzione mondiale di zolfo che nel 1900 era di 580000 tonnellate
passava a circa 3 milioni di tonnellate nel 1930, toccava gli 8,4 milioni nel 1947,
raggiungendo le 15 milioni di tonnellate nel 1957. E’ necessario precisare che a tale enorme
sviluppo della produzione mondiale non ha contribuito solo lo zolfo nativo, ma anche altre
fonti di zolfo: zolfo ottenuto dalle piriti e zolfo di recupero (da gas naturale, dalla
raffinazione del petrolio ecc.).
2.4 IL CONTESTO ITALIANO
Anche se nel territorio nazionale è nota la presenza di una vasta gamma di minerali dai più
poveri ai più pregiati, raramente hanno dato luogo a giacimenti di importanza economica; si
dice infatti che “l’Italia è ricca di miniere povere”.
Fra i minerali più importanti, sia per l’entità della produzione che per lo sviluppo dei lavori
e l’impiego di manodopera come pure per l’origine antica dell’industria, vi è indubbiamente
lo zolfo che costituì per un lungo periodo la maggiore risorsa mineraria nazionale, oltre ad
essere stata la più importante fonte produttiva mondiale.
inchiostri), il 2% per ferro e acciaio (automobili, accessori, prodotti galvanici); un ulteriore 8% per rayon e pellicole
(pneumatici, cellophane, pellicole fotografiche) e il restante 2% per benzine (lubrificanti ed altri prodotti raffinati).
L’impiego dello zolfo elementare rappresentava il 20% ed era così suddiviso: pasta di legno 6%, solfuro di carbonio
3%, prodotti chimici 6%, ; altre industrie 7%.
146
Cfr., Il mercato mondiale dello zolfo, in «L’Industria mineraria», ottobre 1959, p. 711.
71
Esistono in Italia come in altri Paesi, depositi di zolfo di origine vulcanica che, seppure
hanno fornito oggetto di sfruttamento (Toscana, Lazio, Campi Flegrei, isole Eolie ecc.),
sono stati coltivati solo saltuariamente e non hanno fornito che produzioni trascurabili. I soli
giacimenti coltivati con una certa continuità che hanno fornito importanti produzioni
largamente esportate sono quelli sedimentari localizzati soprattutto in Sicilia, nelle Marche e
nella Romagna ed infine nell’Irpinia e nella Calabria. Tralasciando per ora queste due
ultime, la cui produzione non ha mai oltrepassato il 4% di quella nazionale e di cui si farà
cenno alla fine di questo paragrafo, in Italia i poli produttivi dello zolfo sono stati
essenzialmente due: la Sicilia e l’area Marche-Romagna. Comunque è nell’isola che si è
avuta una enorme concentrazione di miniere e la provenienza della maggior parte dello
zolfo italiano. Del resto, la Sicilia mantenne per secoli il predominio mondiale della
produzione e della esportazione dello zolfo. Fino al 1900 infatti la produzione siciliana non
solo rappresentava oltre il 90 % della produzione italiana ma era anche pari agli 8/10
dell’intera produzione mondiale147. Successivamente si ridusse l’importanza relativa della
Sicilia rispetto all’Italia infatti dal 1938 in poi ne costituiva solamente 2/3 del prodotto
totale. La mano d’opera occupata nei primi anni del secolo era di circa 30000 unità
corrispondente a circa la metà della occupazione totale delle miniere nazionali, dal 1913
fino agli anni ’50 gli operai occupati nell’industria dello zolfo siciliano si erano ridotti a
poco più di 10000148. Complessivamente, la coltivazione dei giacimenti di zolfo del polo
marchigiano-romagnolo ha assunto nell’arco di un secolo circa, livelli produttivi sempre più
alti sia in termini relativi che assoluti. Rispetto alla produzione nazionale, infatti lo zolfo
marchigiano-romagnolo è passato dal 5% del 1860 a più del 30% del 1938 attestandosi su
questa cifra fino agli anni ’50 con quantitativi compresi fra le 7500 e le 123000 tonnellate
annue ed una mano d’opera occupata fra le 900 e le 4000 unità. La miniera di Cabernardi
che risultò essere la più profonda e più produttiva d’Italia contribuì sempre per oltre il 50%
147
148
Cfr., M. Gatto, op. cit., p.19.
Cfr., E. Cianci, L’occupazione operaia nelle miniere e nelle cave, in «L’Industria mineraria», dicembre 1953, p. 584.
72
alla produzione del distretto a partire dai primi anni del XX secolo (solo una decina di anni
successivi alla concessione di coltivazione).
2.4.1 Confronto tra la Sicilia e l’area Marche-Romagna
Oltre alla quantità prodotta ed al numero di addetti occupati, esistevano moltissime diversità
tra le due maggiori aree distrettuali solfifere italiane:
numero e dimensione delle miniere, struttura della proprietà, grado dello sviluppo tecnico
raggiunto, condizioni di lavoro e di vita della manodopera, struttura ed organizzazione del
commercio, intervento dello Stato.
Una delle cause che favorì un maggior sviluppo dell’industria dello zolfo marchigianoromagnolo rispetto a quella siciliana è da ricercarsi nella differente legislazione mineraria.
Come si è visto, prima dell’unificazione della legislazione mineraria del 1927 mentre nel
distretto marchigiano-romagnolo si applicava già il principio della demanialità delle
miniere, in Sicilia invece vigeva il sistema fondiario che si rivelò un vero ostacolo per
l’industria solfifera siciliana. Tale sistema considerava il sottosuolo come facente parte della
proprietà di superficie per cui la proprietà mineraria era divisa in un gran numero di piccoli
proprietari. Di conseguenza ciò ha favorito la nascita in Sicilia , accanto a poche miniere di
grandi dimensioni site in alcuni latifondi, di molte piccole miniere. Queste a mano a mano
che diventavano più profonde richiedevano spese sempre crescenti per cui alcune miniere
venivano abbandonate mentre la maggior parte erano costrette a produrre ad alti costi dato
che la loro dimensione impediva di organizzare coltivazioni razionali sia nei riguardi della
sicurezza che della conservazione dei giacimenti e dell’economicità dell’esercizio.
Succedeva spesso che una persona che voleva prendere in gestione un’area mineraria
andava incontro a difficoltà insormontabili perché i proprietari del sottosuolo che spesso
arrivavano ad una quarantina non si mettevano d’accordo e per lo stesso motivo era molto
73
difficile aumentare l’estensione di una miniera149. In Sicilia erano pochi i proprietari che si
occupavano direttamente delle loro miniere. Dalla Rivista del Servizio Minerario del 1927
si rileva infatti che, mentre le miniere attive nell’isola erano ben 403, quelle gestite
direttamente dai proprietari erano appena 46. Generalmente la forma di contratto preferita
dai proprietari per dare in concessione le proprie miniere era la “gabella” (affitto) che
costituiva un altro grave inconveniente per l’industria solfifera siciliana. Infatti i proprietari
delle miniere richiedevano agli affittuari (“gabellotti”) degli esorbitanti pagamenti in natura
(“estagli”) che potevano arrivare anche al 40% della produzione e quindi assorbivano quasi
interamente l’utile del gabellotto, il quale doveva apportare il capitale necessario e si faceva
carico di tutte le spese e dei rischi connessi all’attività mineraria150. I contratti di gabella
erano oltretutto di breve durata. Variando dai 9 ai 12 anni non consentivano neppure la
possibilità di ammortizzare i capitali impiegati per gli impianti occorrenti (che alla fine del
contratto dovevano passare al proprietario della miniera). Si comprende quindi come tutto
ciò andasse a scapito del buono andamento dei lavori e della sicurezza, poiché il gabellotto
per ricavare un reddito ragionevole, non aveva altra scelta che quella di coltivare a “rapina”
per nulla curandosi dei danni che arrecava al giacimento e cercando, per quanto gli riusciva,
di ridurre al minimo le spese di impianto. La legge del 1927, che uniformò tutta la Nazione
al sistema demaniale di fatto non cambiò la particolare situazione delle miniere siciliane151
per cui la gabella continuò ad essere diffusa e praticata. Anche se diversi provvedimenti
legislativi, susseguitisi dal 1916 al 1940, ridussero gradualmente la misura degli estagli
(canoni di affitto) portandoli al 5% della produzione152.
149
Cfr., L. Valenti, Le miniere di zolfo in Sicilia, Torino, 1925, p. 23.
Il gabellotto non sempre, anzi difficilmente aveva i mezzi per affrontare tutte le spese necessarie, si rivolgeva quindi
a veri e propri usurai che offrivano il denaro ad un tasso che poteva anche raggiungere il 60%. Inoltre il conduttore della
miniera veniva obbligato mediante contratto scritto a servirsi per un numero stabilito di anni dello stesso usuraio, che si
arrogava anche il diritto di sorvegliare la produzione, su cui manteneva delle ipoteche come garanzia del denaro
sborsato. Cfr., G. Candura, Miniere di zolfo in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1990, p. 61.
151
Conferì la concessione perpetua delle miniere ai proprietari del soprassuolo che potevano anche trasmetterla in
eredità.
152
Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, cit., p. 22.
74
150
Totalmente diversa era la situazione nel distretto marchigiano-romagnolo dove, previa
concessione governativa, si poteva disporre liberamente del sottosuolo senza alcuna
ingerenza dei proprietari del suolo (salvo ovviamente il risarcimento danni). Ciò rese
possibile la coltivazione di un numero molto più limitato di miniere (in tutto circa una
ventina) ma di dimensioni medie e grandi rispetto alla Sicilia153. Le miniere del distretto
marchigiano-romagnolo furono sempre nelle mani di poche regolari società o di facoltosi
industriali che erano in grado di gestirle efficacemente e che disponevano di capitali e
capacità tecniche. Non a caso infatti queste miniere furono sempre le prime in Italia ad
applicare ogni innovazione in campo tecnico e meccanico. In Sicilia, invece, fu molto più
lento il diffondersi di progressi tecnici nelle miniere di zolfo per varie circostanze come la
scarsità di vie di comunicazione e di energia elettrica ma soprattutto perché in molti casi più
che ad una vera industria mineraria ci si trovava di fronte ad un artigianato minerario con
conseguenti effetti deleteri sia sulla organizzazione tecnica delle miniere che sulle
condizioni di lavoro e di vita della manodopera. L’operaio delle miniere siciliane aveva un
salario che spesso non bastava ai bisogni della famiglia.
Queste miniere furono tristemente famose per la terribile piaga del “trasporto a spalla” del
minerale al quale venivano adibiti ragazzi in tenera età. Da un rapporto del 1894
dell’ispettore delle miniere Mazzuoli154 si apprende che l’età minima dei trasportatori, detti
“carusi”, prima della legge155 del 1886 era di 7 ed anche 6 anni. Il lavoro disumano al quale
erano sottoposti questi fanciulli consisteva nel trasportare a spalla il minerale dall’interno
153
Nel distretto marchigiano-romagnolo quasi sempre un intero giacimento veniva sfruttato da una sola miniera o da un
gruppo di miniere gestite da un’unica società mentre in Sicilia uno stesso giacimento era sfruttato da numerose miniere
gestite da altrettanti numerosi proprietari e gabellotti.
154
Cfr., L. Mazzuoli, Notizie e studi sulle condizioni dell’industria dello zolfo in Sicilia, Ministero di Agricoltura
Industria e Commercio (a cura di), Roma, 1894, pp. 81,82.
155
La legge Grimaldi del 11 febbraio 1886 n°3657 sul lavoro dei fanciulli vietava l’ammissione al lavoro negli opifici
industriali, nelle cave e miniere, dei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso minori degli anni 9 compiuti o dei 10 nel caso di
lavori sotterranei. I fanciulli dagli anni 9 ai 15 non potevano essere impiegati in tali lavori se non quando risultasse da
certificato medico che essi erano sani ed adatti al lavoro cui venivano destinati. Nei lavori pericolosi ed insalubri non
potevano impiegarsi fanciulli dell’uno e dell’altro sesso al disotto del quindicesimo anno d’età se non entro certi limiti e
con determinate cautele. I fanciulli tra il nono e il decimo anno non potevano essere impiegati, in una giornata, che per
otto ore di lavoro. Cfr., Veridicus, Il trasporto a spalla e l’occupazione di manodopera minorile nelle zolfare siciliane, in
«L’Industria mineraria», giugno 1952, p. 218.
75
all’esterno della miniera. Percorrevano le strette e basse gallerie, scavate a scalini alti, con
pendenze talora ripidissime. Dalle profonde gallerie, dove il caldo era umido e opprimente,
uscivano all’aperto nudi, ad una temperatura assai inferiore a quella dell’interno, ansanti e
pieni di sudore. Passati poi, bruscamente e in tutte le stagioni, all’esterno dovevano
rimanerci per un certo tempo perché dovevano percorrere dei lunghi tratti prima di giungere
nel luogo designato per il deposito e l’accatastamento del minerale. Il carico che erano
obbligati a trasportare variava naturalmente a seconda dell’età e della forza del fanciullo ma
era in media (dai 30 ai 50 chili) non inferiore a quello del suo corpo. Difficilmente un
ragazzo sottoposto a tali pesanti lavori cresceva di sana costituzione, più spesso il loro corpo
presentava gravi deformazioni scheletriche, la spina dorsale era irrimediabilmente curvata
ed era molto diffuso il rachitismo156.
Il caruso non aveva rapporti di lavoro con il coltivatore della miniera ma soltanto con il
“picconiere” (termine siciliano per indicare il minatore) che lo reclutava. Bisogna
aggiungere che le condizioni del picconiere erano tutt’altro che brillanti, egli seppure
lavorava a cottimo e quindi con una certa autonomia faticava sodo per otto, dieci ore e più,
con un guadagno piuttosto modesto e non si trovava certo in condizione di essere generoso
con i carusi. I picconieri li assumevano sotto la loro direzione pagando ai loro genitori una
somma anticipata (i cosiddetti “soccorsi”). Si trattava di una vera e propria schiavitù
economica: i carusi non potevano più lasciare i picconieri che li avevano ingaggiati prima di
aver saldato il debito contratto. Si stabiliva così fra il “datore” di lavoro ed il ragazzo una
dipendenza da cui quest’ultimo difficilmente riusciva a svincolarsi, non essendo la famiglia
in grado di restituire l’anticipo ricevuto.
Sotto l’aspetto umanitario le condizioni di lavoro dei carusi si protrattesero inalterate per le
miniere sprovviste di estrazione meccanica fino ai primi decenni di questo secolo.
156
Prova manifesta di ciò offriva le statistiche della leva dalle quali si rileva che in alcune provincie dove esistevano
molte miniere (come a Caltanissetta), i riformati per imperfetto sviluppo, per anemia, per deformazioni permanenti del
torace e delle vertebre e per altre deformazioni scheletriche, superavano ¼ dei visitati. Cfr., E. Camerana, Studio sulle
condizioni di sicurezza delle miniere e delle cave in Italia, Corpo Reale delle Miniere (a cura di), Roma, 1894, pp.
42,48.
76
Nonostante le acerbe critiche anche dall’estero, le autorità non seppero impedire questa
specie di tratta. Non mancarono gli interventi governativi ma le leggi sul lavoro dei fanciulli
non furono mai sufficientemente osservate. Le poche ispezioni risultavano spesso
infruttuose per la solidarietà che si creava tra tutti gli interessati : esercenti, picconieri,
carusi e loro famiglie.
La spiegazione di questo triste fenomeno va ricercata nello stato di miseria delle famiglie
contadine ed operaie delle zone centrali dell’isola, nelle condizioni economiche degli
esercenti e di conseguenza nelle condizioni tecniche dell’industria. Quest’ultima per il
frazionamento della proprietà mineraria e per il modo di lavorazione non poteva permettersi,
per ogni miniera, un impianto meccanico157.
A partire dal 1926 l’energia elettrica si diffuse rapidamente in molte miniere siciliane e si
può ritenere che nel 1935 quasi tutti gli impianti minerari fossero già elettrificati158 di modo
che i carusi andarono man mano scomparendo. Soltanto pochissime miniere e molte
ricerche minerarie a carattere artigianale, ubicate a notevole distanza dalle reti di
distribuzione dell’energia elettrica e non disponendo gli operatori di mezzi finanziari idonei
per l’allacciamento, continuarono fino agli anni ’50 a praticare il barbaro trasporto a spalla.
Però l’età dei carusi era stata notevolmente aumentata e portata a 16 anni159.
Per le Marche e per la Romagna non si hanno notizie di un simile procedimento, nemmeno
nelle lavorazioni antiche. Quando non esisteva la macchina a vapore, che comunque fu
157
Sebbene fosse stato calcolato che, per una profondità di un centinaio di metri, il costo del trasporto a spalla era circa
doppio di quello che sarebbe risultato con l’estrazione meccanica.
158
Mentre nel 1920 lo zolfo mediante estrazione meccanica era pari al 72% del totale, nel 1935 ammontava al 96%.
L’attività dell’Ente autonomo per il progresso tecnico ed economico dell’industria solfifera siciliana, istituito nel 1919,
venne inizialmente rivolta specialmente ad agevolare attuazione dell’elettrificazione dei servizi delle miniere di zolfo.
Dopo lunghi studi condotti insieme alla Società generale elettrica della Sicilia per valutare la convenienza degli
esercenti a procedere all’elettrificazione, nel 1926 venne stipulata una convenzione con la quale l’Ente contribuiva
all’impianto della rete con un versamento di 8 milioni. Nel 1931 ebbe inizio l’erogazione di energia elettrica alle
miniere di zolfo ai termini della accennata convenzione. Cfr., F. Squarzina, Istituzioni per il miglioramento tecnico ed
economico dell’industria solfifera, in “L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, febbraio 1941, a. XIX, p. 63.
159
Si ricorda che con legge 19 giugno 1902 n° 242 venne portata agli anni 12 l’età minima per l’ammissione dei
fanciulli (ambo i sessi) ai lavori non sotterranei, mentre vennero esclusi dai lavori sotterranei i fanciulli di età inferiore
ai 13 anni (inferiore ai 14 ove non esistesse trazione meccanica). Con la legge 26 aprile 1934 n° 653 si stabiliva poi il
divieto di adibire minori di 16 anni nei lavori sotterranei. Cfr., Veridicus, art. cit, p.218.
77
introdotta nella miniera di Perticara già nel 1848, venivano usate carriole, vagoncini su
binari di legno e traini animali160.
Nelle varie regioni solfifere italiane il commercio dello zolfo ha avuto sempre un
andamento e caratteristiche molto difformi. Il commercio dello zolfo delle Marche e della
Romagna, sia per il metalloide esportato all’estero (Olanda, Inghilterra e Francia) che per
quello destinato ad altre regioni italiane ( soprattutto Toscana, Lombardia, Piemonte) già
nel secolo XIX era nelle mani dei produttori. Questi ultimi, nella seconda metà del secolo
scorso erano costituiti da poche ditte esercenti l’industria dell’estrazione e della lavorazione
dello zolfo, che collocavano la maggior parte del loro prodotto solo dopo la raffinazione e
quasi esclusivamente per usi agricoli. Tale caratteristica si è poi accentuata dal 1904,
quando la produzione e la lavorazione dello zolfo passò sotto la gestione di una sola società.
In Sicilia invece, il commercio dello zolfo costituì sempre un’attività nettamente distinta da
quella industriale. I produttori non provvidero mai, se non eccezionalmente, a stabilire
rapporti diretti con i consumatori e a lavorare o far lavorare direttamente il loro prodotto.
Non bisogna dimenticare che i numerosi piccoli produttori, fino agli ultimi anni del secolo
scorso, fornivano all’incirca l’80% della produzione dell’isola161.
Per la limitata singola quantità prodotta, gli esercenti non erano in grado di attuare il
commercio dello zolfo, destinato ad industrie consumatrici situate per la quasi totalità
all’estero. Tra i produttori e i consumatori esistevano tre principali categorie di intermediari:
sensali, magazzinieri-commercianti ed esportatori162. I sensali curavano i rapporti tra i
produttori residenti nel centro dell’isola e i magazzinieri e gli esportatori che avevano i loro
depositi in prossimità dei porti. I magazzinieri-commercianti oltre ad occuparsi del
magazzino apparivano come commercianti di zolfo sul mercato. Il commercio di
esportazione veniva effettuato da alcune ditte straniere e da poche grandi imprese
160
Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia Romagna, op. cit., p. 41.
Cfr., F. Squarzina, Custodia e classificazione degli zolfi grezzi italiani, in “L’Industria mineraria d’Italia e
d’Oltremare”, giugno 1941, a. XIX, p.204.
162
Cfr., L. Delabretoigne, Brevi cenni sulla storia e sulle condizioni del commercio solfifero in Sicilia, in L’industria
mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925, pp. 328-333.
78
161
esportatrici con sede prevalentemente a Messina e Catania. Disponevano di adeguati mezzi
finanziari e compravano e vendevano zolfo per proprio conto. Gli esportatori, essendo in
numero molto limitato, abusavano della loro posizione praticando ai produttori prezzi
notevolmente inferiori a quelli quotati giocando spesso al ribasso,
assecondati dai
magazzinieri. Questi avevano interesse a mantenere bassi i prezzi perché, tra le varie attività
svolgevano anche quella di usurai nei confronti dei gabellotti facendo loro anticipazioni a
tassi elevatissimi.
Anche il sistema degli affitti a breve scadenza era causa dell’instabilità dei prezzi. In periodi
di minore domanda l’affittuario a breve scadenza (gabellotto) non poteva rallentare la
produzione, avendo interesse a produrre la maggior quantità possibile di zolfo e necessità di
collocare, per mancanza di capitali, immediatamente il suo prodotto. Proprietari e gabellotti
preferivano quindi vendere a basso prezzo, piuttosto che pagare alti interessi sopra i capitali
avuti in anticipo.
Nel ventennio 1874-1895, nonostante la produzione e esportazione siciliana aumentassero
notevolmente, i prezzi subirono frequenti e notevoli oscillazioni (da 142 lire a 55,75 lire la
tonnellate) dovute alle peculiari condizioni in cui si svolgevano nell’isola la produzione e il
commercio di zolfo163. Vari rimedi vennero proposti per regolare e migliorare
l’organizzazione commerciale ma risultarono inefficaci a causa dell’ostacolo insormontabile
costituito dalla fitta rete di interessi creatasi da tempo attorno agli intermediari che, come si
è visto, erano stretti da vincoli di affari con i produttori164 . Una certa disciplina delle
vendite si ebbe nel 1896 con la costituzione della Società anonima, Anglo-Sicilian Sulphur
Company, che per un decennio accentrò nelle proprie mani gran parte della produzione
dell’isola. Tale esperimento di controllo della produzione e del commercio dello zolfo si
163
Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, art. cit., p. 24.
“nell’industria dello zolfo prima nasce l’acconto e poi la merce. Senza l’acconto non si lavorerebbe nelle solfare”, G.
Pagano, La crisi solfifera in Sicilia, 1895, p. 72.
79
164
dovette all’iniziativa di un gruppo di industriali inglesi165 e alla ditta siciliana Florio (una
delle poche che oltre ad essere proprietaria ed esercente di miniere era anche esportatrice).
La Società, avendo stipulato contratti con il 65% dei produttori dell’isola che si obbligavano
a venderle zolfo a prezzi prefissati, riuscì a mantenere per un decennio i prezzi ad un livello
costante e abbastanza remunerativo (circa 96 lire la tonnellate). A ciò aveva contribuito
anche il governo che, nel 1896, per consentire alla Società di corrispondere ai produttori un
maggior prezzo, abolì il dazio di esportazione di 11 lire la tonnellate e abolì pure tutte le
tasse dirette e indirette governative e comunali sulla produzione e il commercio dello zolfo,
istituendo in loro sostituzione una tassa speciale di 1 lira per tonnellate di zolfo esportato166.
Se il successo dell’Anglo-Sicula fu innegabile167 tuttavia non poté impedire la formazione di
elevate giacenze.
La Società infatti non riuscì a limitare la produzione poiché qualunque riduzione della parte
controllata (65%) sarebbe stata compensata dalla maggiore produzione della parte non
controllata. L’Anglo-Sicula era stata costretta ad accantonare parte dello zolfo da essa
acquistato e che non poteva essere offerto senza provocare un abbassamento dei prezzi e, a
lungo termine, il fallimento dell’impresa dato che la produzione superava largamente
l’esportazione. Tali elevate giacenze (anche nei magazzini dei produttori non vincolati alla
Società) costituivano una seria minaccia all’avvenire dell’industria solfifera, ancora ben
lontana dall’aver raggiunto un assetto economico ed un progresso tecnico soddisfacenti,
mentre si profilava la minaccia della perdita del mercato degli Stati Uniti, cioè dello sbocco
165
Alcuni industriali inglesi avevano scoperto un processo per estrarre lo zolfo dai residui della fabbricazione della
soda. Tale processo, oggi di nessuna importanza, fu posto in pratica e favorito dal rialzo dei prezzi dello zolfo nel 1890
procurando un notevole successo economico. Ma il successivo ribasso dei prezzi rendeva proibitiva l’applicazione del
nuovo processo per cui questi avevano tutto l’interesse a valorizzare gli zolfi siciliani. Cfr., F. Squarzina, Produzione e
commercio dello zolfo in Sicilia nel secolo XIX, Torino, 1963, p. 94.
166
E’ necessario specificare che provvedimento governativo del 1896 era valido esclusivamente per la Sicilia. Solo con
R.D. 28-1-1906 il regime di tassa unica di £. 1 fu esteso in tutta Italia ponendo così rimedio allo spareggio tributario che
aveva sicuramente facilitato la Sicilia rispetto al distretto marchigiano-romagnolo.
167
Nel suo periodo di attività (1896-1906) l’industria solfifera siciliana raggiunse la sua massima efficienza produttiva.
Il numero delle solfare attive, dalla media annua di 479 nel decennio 1887-96, si elevò a 711 nel periodo 1897-1907. La
produzione da 350000 a 508000 tonnellate con un massimo di oltre 537000 nel 1901. L’esportazione di zolfo grezzo e
lavorato da 354000 a 475000 tonnellate con un massimo di 560000 tonnellate nel 1900. Cfr., Ministero di Agricoltura
Industria e Commercio “Relazione sul Servizio Minerario”, per gli anni considerati.
80
di gran lunga più importante per lo zolfo siciliano. Tutto ciò indusse i produttori a chiedere
al governo l’istituzione di un consorzio obbligatorio per la totalità dei proprietari ed
esercenti di solfare. L’Anglo-Sicula fu posta in liquidazione e il governo, con legge 15
luglio 1906, istituì il Consorzio Obbligatorio Solfifero Siciliano con il quale cessò il regime
di libertà delle vendite dello zolfo grezzo. Il Consorzio nacque fra il consenso generale non
solo dei produttori e degli esercenti ma anche dei lavoratori, i quali speravano che la
disciplina totalitaria delle vendite avrebbe consentito un miglioramento dei ricavi e quindi
anche dei salari. Tuttavia il provvedimento legislativo venne approvato con grandi esitazioni
sia per la sua importanza che per il suo carattere eccezionale e senza precedenti legislativi.
Lo scopo del Consorzio, come quello dei cartelli in generale, era di mantenere un prezzo
“normale” dello zolfo e di combattere la sovrapproduzione. Ma a differenza dei cartelli nati
dalla libera volontà dei produttori, il Consorzio Siciliano fu imposto dallo Stato168. La legge
istitutiva del Consorzio infatti stabiliva che i proprietari o possessori e gli esercenti delle
solfare presenti e future erano costituiti di diritto in consorzio. Solo ad esso spettava il
diritto di vendita e la facoltà di limitare la produzione. Ciò significava andare contro il
diritto di disporre della cosa propria ma veniva giustificato con il principio che il diritto
privato doveva sottostare alle esigenze della pubblica utilità169.
L’attività del Consorzio (1906-1932) nel complesso aveva avuto effetti positivi
sull’industria solfifera siciliana. Innanzitutto permise di adeguare la produzione alle
possibilità di assorbimento del mercato (per mezzo delle limitazioni) e rese possibile lo
smaltimento degli stock, ereditati dall’Anglo-Sicula, senza ribassi e crisi. Inoltre stabilì
accordi con i produttori statunitensi. Infine rese possibile il finanziamento all’industria
solfifera all’infuori dell’usura. Vennero infatti stabilite speciali disposizioni per facilitare il
168
I corpi amministrativi del consorzio erano il consiglio di amministrazione, a cui erano conferiti i poteri
dell’assemblea generale, e il comitato dei delegati. Alcuni membri del consiglio e del comitato erano nominati dal
Ministro dell’Agricoltura, dal Banco di Sicilia e dalle quattro Camere di Commercio delle provincie solfifere. Gli altri
componenti erano eletti dai consorziati. Il direttore generale del consorzio, presidente del consiglio di amministrazione,
era nominato e revocato dal governo. Gli atti dell’amministrazione consortile erano sottoposti all’approvazione
governativa. Il consorzio era sotto la vigilanza del Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio e del Ministero del
Tesoro. Cfr., Legge 30 giugno 1910, n°361, D.L. 11 gennaio 1923 n°202.
169
Cfr., Atti parlamentari, Senato e Camera Deputati, Leg. XXII, doc. 311-A.
81
credito da parte del Banco di Sicilia e furono conferiti due milioni a fondo perduto per la
costituzione di una Banca autonoma di credito minerario per la Sicilia che facesse
anticipazioni ai produttori con un tasso di interesse non superiore al 5%170
Fino alla Prima Guerra Mondiale le vendite e le esportazioni effettuate dal Consorzio si
mantennero a livelli elevati. Nell’esercizio 1909-10 le vendite salirono a 410000 tonnellate,
in quello successivo balzarono a 817000 tonnellate mentre nel 1911-12 segnarono la pur
sempre rilevante cifra di 603000 tonnellate .Lo stock di zolfo che ancora nel 1910 superava
largamente il mezzo milione di tonnellate , allo scoppio della guerra si era ridotto a 263000
tonnellate. Le esportazioni si mantennero elevate e nel triennio 1911-1913 sorpassarono la
produzione. La perdita del grande mercato dell’America del Nord venne parzialmente
compensata dall’aumento di 500000 tonnellate in media annua, dal 1907 al 1913,
verificatosi nel consumo di quella parte di mercato internazionale che, per gli accordi con i
produttori americani, era riservato allo zolfo italiano. Aumentarono anche le esportazioni
verso la Francia (per la prosperità sopravvenuta in quegli anni nell’industria vinicola) e
verso quelle Nazioni che impiegavano zolfo esclusivamente a scopi industriali (Austria,
Russia, Norvegia e Svezia). Nel 1916 le esportazioni erano dirette soprattutto in Francia,
Inghilterra e Russia dovuta al maggior impiego di zolfo per usi bellici, oltre che in
Australia, Algeria, Tunisia, Sud Africa e altri Paesi. La produzione invece registrò un
progressivo calo causato soprattutto dalla mancanza di mano d’opera sia per il conflitto
bellico, ma anche per l’emigrazione prevalentemente transoceanica e perciò di carattere
permanente. Si pensi che fino al 1913, in soli 10 anni, il numero di operai occupati fu più
che dimezzato.
Nel 1920 i mercati extra europei passarono sotto il dominio della concorrenza americana e
nel 1921 anche i principali e tradizionali paesi consumatori di zolfo vennero sottratti alla
Sicilia. Per cui nel 1922 la Sicilia si trovò in uno stato di profonda depressione dovuta anche
alle serrate delle miniere, ai frequenti e lunghi scioperi e allo squilibrio tra costi e ricavi.
170
Cfr., L. Valenti, op. cit., p.163.
82
Nonostante i nuovi accordi con i produttori americani la tendenza della produzione fu alla
diminuzione e si mantenne tale fino al 1926. L’intima debolezza dell’industria che aveva
impedito in passato un decisivo miglioramento dell’organizzazione delle miniere, si era
accentuata nel periodo post bellico per lo sfavorevole rapporto tra costi e ricavi. Infatti nel
1925 mentre i ricavi erano quadruplicati rispetto al 1913, i salari erano quintuplicati, il costo
delle assicurazioni sociali enormemente accresciuto, i prezzi dei materiali e del combustibile
aumentati di dieci volte. La rivalutazione della lira del 1926 (“quota 90”) si ripercosse
gravemente sui ricavi dell’industria solfifera siciliana, la quale collocava all’estero gli 8/10
della sua produzione171. Il governo favorì la riduzione delle retribuzioni dei lavoratori,
dispose la riduzione degli “estagli”, dei contributi per la previdenza sociale, delle tariffe
ferroviarie; i prezzi dei materiali discesero notevolmente, ma la riduzione dei costi non
riuscì a compensare la diminuzione dei ricavi. Comunque l’industria solfifera siciliana riuscì
a fronteggiare la nuova crisi soprattutto grazie alla sezione di credito minerario del Banco di
Sicilia, dotata di maggiori mezzi172 per cui dal 1927 fino al 1931 la tendenza alla produzione
fu all’aumento.
Una nuova e grave crisi colpì questo settore nei primi anni ’30 in conseguenza della
recessione dei consumi mondiali e della progressiva svalutazione del dollaro173. Fallito
anche l’accordo con i produttori statunitensi il governo decise lo scioglimento e la messa in
liquidazione del Consorzio (R.D.L. 20 luglio 1932 n°945) e quindi i produttori siciliani
ripresero piena libertà di commercio. Tale stato di cose durò poco più di un anno dopo di
che fu la maggioranza degli stessi produttori siciliani a chiedere nuovamente l’intervento del
governo174.
171
Il cambio medio del dollaro che nel 1926 era stato di 25,72 lire discese a 19,71 lire nel 1927 e nel triennio successivo
fu in media di 19,07 lire.
172
Cfr., R.D.L. 25 marzo 1927, n°432.
173
Il cambio medio del dollaro nel 1932 era di 19,46 lire mentre quello del 1934 di 11,69 lire.
174
Dei circa 130 produttori siciliani 120 erano piccoli industriali, prevalentemente a carattere artigiano che incontravano
gravi difficoltà per collocare il prodotto. Cfr., C. Faina, Il commercio degli zolfi italiani, in “L’Industria mineraria
d’Italia e d’Oltremare”, maggio 1939, p. 214.
83
Fino a quell’epoca lo Stato aveva seguito direttamente l’evoluzione tecnica, economica e
commerciale della Sicilia con interventi di assistenza e di organizzazione della vita di
quell’industria. Interventi ed assistenza che ebbero forme concrete attraverso il Consorzio
Obbligatorio e relative iniziative di assestamento come: rilievi di stock, anticipi,
sovvenzioni e facilitazioni per l’elettrificazione. L’industria solfifera continentale, al
contrario, aveva fondato la sua evoluzione e svolto il suo programma con mezzi propri e
senza alcun ricorso all’intervento statale175.
Dal 1933 con la costituzione dell’Ufficio per la Vendita dello Zolfo Italiano e poi nel 1940
con l’Ente Zolfi Italiani, lo Stato intervenne direttamente anche nell’industria solfifera
continentale. Infatti tutto lo zolfo estratto dalle miniere italiane doveva essere consegnato
all’Ente di diritto pubblico che provvedeva a collocarlo sia sul mercato interno che in quello
estero con propria e diretta organizzazione. Si comprende quindi che di vera e propria
concorrenza tra distretto marchigiano-romagnolo e Sicilia si possa parlare solo fino al 1933.
Come si è visto, l’area solfifera marchigiano-romagnola presentava sicuramente numerosi
vantaggi: dimensione media e grande delle miniere, migliori vie di comunicazione,
l’esistenza di ditte esercenti con disponibilità di capitale e capacità imprenditoriali che
permettevano una migliore organizzazione tecnica e lavorativa nelle miniere176. Inoltre
erano perfettamente in grado di collocare nel mercato i loro prodotti e di coordinare
l’industria estrattiva con quella delle lavorazioni.
In Sicilia, però, i giacimenti di zolfo, oltre ad essere più numerosi, presentavano più ricchi
strati di minerale e soprattutto si trovavano ad una profondità molto minore177. La
manodopera era sicuramente più a buon mercato per cui gli esercenti realizzavano un
miglior prezzo di costo malgrado gli aggravi derivanti dagli “estagli”. Nei primi anni di
175
Cfr., AA.VV., La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione
dell’Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, p. 105.
176
I mezzi finanziari disponibili furono tempestivamente impiegati nella meccanizzazione delle miniere e nello sviluppo
di lavori di ricerca e di preparazione, lavori che consentirono il progresso tecnico delle aziende.
177
Di fronte ad un massimo di circa 200 metri di profondità delle miniere siciliane, quelle del distretto marchigianoromagnolo potevano anche ad un massimo di 750 metri come nel caso di Cabernardi ciò implicava maggior costi di
produzione.
84
questo secolo era stato calcolato che il costo di produzione dello zolfo grezzo delle miniere
del distretto marchigiano-romagnolo implicavano una spesa quasi doppia a quella richiesta
in Sicilia178. Non bisogna dimenticare che l’industria solfifera siciliana, per quantitativi di
produzione del grezzo, era di gran lunga la più rilevante per l’Italia per cui le miniere
continentali, per quanto riguarda la quotazione del prezzo dello zolfo e le sue frequenti
oscillazioni, dovevano sottostare alle condizioni imposte dall’isola. Per tutti questi motivi le
miniere dell’Italia centrale avevano pochissime possibilità di competere con la Sicilia per il
commercio dello zolfo grezzo (per lo meno fino agli anni ’20 quando la Montecatini aveva
aperto nuovi sbocchi allo zolfo grezzo sia nel mercato interno, destinandolo ai suoi
stabilimenti chimici, sia in quello esterno grazie a particolari accordi stipulati con i
raffinatori francesi179). Il loro forte vantaggio competitivo risiedeva nella vendita di prodotti
raffinati e “speciali” destinati ad uso agricolo180. Il settore dello zolfo raffinato era stato
sempre considerato complementare ed integrativo alla produzione mineraria sia perché
concepito come principale fase di sbocco sia perché la conduzione delle raffinerie era nelle
mani delle stesse imprese estrattive.
In Sicilia l’industria dello zolfo lavorato sorse solo negli ultimi anni del secolo scorso181 e si
mantenne sempre separata da quella estrattiva. Negli anni ’20 l’industria della raffinazione,
esercitata in Sicilia da un ristretto numero di imprese dotate di adeguati mezzi finanziari,
aveva raggiunto un grande sviluppo182. Per il distretto marchigiano-romagnolo non costituì
una seria minaccia perché oltre il 70% della produzione dei raffinati siciliani veniva
esportata (soprattutto in Grecia, Germania, Austria e Inghilterra) mentre i suoi prodotti
178
Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Relazione sul Servizio Minerario”, 1902, p. 26.
La Francia non disponeva di zolfo grezzo ma aveva un’industria di raffinazione. La Montecatini dal 1927 al ’33 era
riuscita (attraverso rilevazioni, partecipazioni maggioritarie ecc.) a disporre di 5 complessi di raffinerie francesi. Tale
azione era intesa soprattutto a creare l’assorbimento di zolfo grezzo italiano nel mercato francese fino allora dominato
dagli Stati Uniti e lasciato solo marginalmente alla Sicilia. Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 150.
180
Come si è visto nel I capitolo i prodotti raffinati e “speciali” riscuotevano un particolare favore presso i consumatori
che si traduceva in una notevole differenza di prezzo rispetto allo zolfo grezzo siciliano permettendo quindi ai
produttori di poter fissare il prezzo di vendita con una certa indipendenza rispetto alle oscillazioni del valore del grezzo.
181
La prima grande raffineria fu impiantata nel 1878 presso Catania da una società francese. Cfr., M. Gatto, Condizioni
tecniche dell’industria solfifera siciliana, in L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925, p. 53.
182
La produzione dei raffinati che fino al 1893 si era mantenuta al disotto del 10% della produzione totale di zolfo,
aveva raggiunto il 22% nel 1900 e il 30% nel 1925. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit.,p. 423.
85
179
erano quasi interamente destinati al mercato interno in particolare nelle regioni vinicole
della valle del Po e della Toscana. Inoltre la Montecatini aveva provveduto a stabilire
accordi, prima, con l’Unione Raffinerie Siciliane e successivamente con la Federazione
Opifici Raffinerie di Zolfo e Affini (F.O.R.Z.A.)183. L’industria di raffinazione, sotto la
gestione Montecatini, aveva raggiunto un’efficienza strutturale e commerciale tale che nel
1932 partecipava alla produzione nazionale di zolfo raffinato nella misura di circa il 50%184.
La situazione subì un notevole peggioramento con l’intervento dello Stato del ’33 e del ’36.
Infatti non solo veniva a rompersi il nesso diretto del passaggio della materia prima da
miniera a raffineria, dato che tutto lo zolfo grezzo doveva essere consegnato all’Ufficio, ma
la materia prima doveva essere acquistata presso l’ente stesso ad un prezzo superiore a
quello che l’Ufficio pagava ai produttori. La nuova disciplina della produzione nel mercato
dello zolfo grezzo portò anche allo scioglimento della F.O.R.Z.A. e quindi alla rottura
dell’equilibrio interno di concorrenza.
A causa del grande divario venutosi a creare tra capacità produttiva degli impianti di
raffinazione e possibilità di collocamento dello zolfo raffinato, l’approvvigionamento di
zolfo grezzo agli stabilimenti di lavorazione venne limitato e regolato nel 1936185. Di
conseguenza i produttori di zolfo raffinato furono costretti a sospendere l’attività di un
notevole numero di impianti e a ridurre i quantitativi di lavorazione e di vendita.
2.4.2 Le miniere di zolfo dell’Irpinia e della Calabria
183
Nell’intento di eliminare la concorrenza tra loro, i raffinatori siciliani avevano costituito la Unione Raffinerie
Siciliane già dal 1913 e successivamente (dopo la I Guerra Mondiale) si erano riuniti in una società anonima
denominata F.O.R.Z.A. che accentrò la lavorazione del grezzo e la vendita dei lavorati. Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla
produzione italiana, cit.,p. 424.
184
Cfr., AA.VV., La Società Montecatini, cit., p. 139.
185
I quantitativi di zolfo grezzo che l’Ufficio cedeva agli stabilimenti suddetti non doveva superare, per ogni esercizio,
la quantità media che l’Ufficio aveva consegnato a ciascun stabilimento nei 3 esercizi dal 1933 al 1936. Si veda R.D.L.
15 ottobre 1936 n°1937.
86
I giacimenti solfiferi del distretto di Napoli erano concentrati in Irpinia (provincia di
Avellino) e in Calabria (provincia di Catanzaro).
L’estrazione di zolfo in quest’area assunse un’importanza tale da guadagnare il primo posto
nella produzione mineraria del Mezzogiorno (esclusa ovviamente la Sicilia)186. Nonostante
ciò la produzione di zolfo fuso del distretto di Napoli (Irpinia e Calabria) costituiva solo una
piccola percentuale dell’intera produzione nazionale. Basti pensare che la loro produzione di
zolfo fuso raggiunse il suo massimo nel 1941 (allorché la provincia di Avellino diede circa
9767 tonnellate e quella di Catanzaro 2531 tonnellate) pari in totale al 4,1% della
produzione nazionale.
Irpinia
La scoperta dei giacimenti solfiferi dell’Irpinia (nella valle del Sabbato, nel tratto tra Tufo e
Altavilla Irpina) risalgono al 1866, quando Di Marzo, uno dei proprietari terrieri del luogo,
intraprese alcuni lavori di esplorazione. Visti i favorevoli risultati raggiunti da Di Marzo, i
proprietari dei terreni limitrofi (Capone, Sillitti e D’Agostino) seguirono il suo esempio e
avendo rinvenuto zolfo nel sottosuolo delle loro proprietà si costituirono in società.
Successivamente, nella stessa zona, sorse una terza miniera appartenente a Zampari, ex
ingegnere del Corpo delle miniere, il quale per avere più larghe disponibilità finanziarie
costituì la Società Francesco Zampari e C.
Mentre i Di Marzo continuarono a gestire separatamente la propria miniera, le altre due
società, nel 1877, si fusero assumendo prima la denominazione di consorzio delle Miniere
Solfifere di Altavilla Irpina e più tardi quella di Credito Immobiliare. Riunirono le contigue
escavazioni formando un’unica miniera. La direzione tecnica dei lavori venne affidata
all’ing. Zampari al quale si deve l’ideazione e l’attuazione nell’Irpinia dell’estrazione
meccanica del minerale e delle acque. Il numero degli operai che nel 1878 lavoravano per
conto del Consorzio era di 251, dei quali 184 addetti ai lavori della miniera e i rimanenti 67
adibiti al trasporto ai mulini e alla macinazione.
186
Cfr., Felice Ippolito, L’industria estrattiva nel Mezzogiorno, in «L’Industria mineraria», luglio 1950, p. 236.
87
Nella miniera Di Marzo, attorno alla stessa epoca, lavoravano in media 56 operai adibiti
esclusivamente ai lavori interni poiché gli altri servizi erano stati dati in appalto. In
entrambe le miniere si lavorava per 300 giornate all’anno e con un orario di lavoro
giornaliero di 10 ore187.
Nel 1899 entrò in esercizio una nuova miniera gestita dalla ditta Capone, la quale ebbe vita
autonoma fino al 1919 quando si fuse con la Società di Credito Immobiliare, sotto la
denominazione di Società Autonoma Industria Mineraria (S.A.I.M.).
Nelle miniere dell’Irpinia restarono quindi in attività due ditte che sfruttavano il giacimento
solfifero della vallata del Sabbato e cioè la S.A.I.M. e la Società anonima miniere Di Marzo.
La Di Marzo si era dedicata esclusivamente alla estrazione di minerale di zolfo che,
successivamente era posto in commercio macinato e ventilato per usi viticoli del Meridione.
Il minerale di zolfo estratto dalla S.A.I.M., in parte veniva macinato allo stato naturale e
messo in vendita con il nome di zolfo ventilato e in parte mandato ai forni fusori ottenendo
zolfo fuso in pani, il quale a sua volta parzialmente si vendeva in tale stato e parzialmente
passava ai forni di purificazione, producendo così zolfo doppio raffinato e purificato188.
Sia la S.A.I.M. che la Di Marzo ebbero una produzione ininterrotta dalla loro fondazione
fino agli anni ’60 e furono in grado di riprendere prontamente l’attività dopo i gravi danni
subiti, soprattutto agli impianti esterni, dalle truppe tedesche in ritirata.
Tuttavia il sistema di coltivazione delle miniere fu per lungo tempo irrazionale. Le
lavorazioni non avendo per oggetto un prestabilito piano di coltivazione furono ben lontane
dall’offrire quell’insieme di regolarità e coordinamento indispensabile per assumere un
proficuo e duraturo sfruttamento. Negli anni ’20 cominciarono gradualmente ad essere
introdotti sistemi di coltivazione e lavorazione più razionali. L’abbattimento del minerale si
operò fino al 1927 con l’aiuto di mine, in fori praticati a mano, a partire da tale anno venne
introdotta la perforazione meccanica. Continui miglioramenti vennero apportati anche alle
187
188
Cfr., Le miniere di zolfo dell’Irpinia, in «L’Industria mineraria», gennaio 1963, p. 25.
Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit., p. 427.
88
attrezzature interne ed esterne raggiungendo un buon livello già alla fine degli anni ’30. In
quel periodo il personale occupato all’interno delle miniere risultava essere di circa 250
addetti che lavoravano 8 ore al giorno divisi in 3 turni189.
Tra i progressi in campo minerario si devono ricordare quelli apportati da Fiorentini (18731938), un tecnico romagnolo che contribuì alla valorizzazione delle miniere di zolfo in
Irpinia. Il Fiorentini, fino al 1919, fu direttore tecnico della miniera della ditta Capone nella
quale già nel 1906 introdusse una sua importante innovazione tecnica istallando degli
apparecchi di lavaggio detti poi “lavaggi Fiorentini”190.
Nel rapporto del Distretto Minerario di Napoli del 1915 viene riferito che gli effetti ottenuti
dal metodo Fiorentini superavano ogni aspettativa poiché oltre ad evitare danni
all'agricoltura si aveva il vantaggio di aumentare la produzione di zolfo (dato che il sistema
permetteva di recuperare lo zolfo condensato che si formava nel tratto tra i forni e
l'apparecchio di lavaggio191).
L’andamento della produzione sino alla Seconda Guerra Mondiale fu alquanto irregolare in
dipendenza del fatto che la produzione del minerale fu fortemente influenzata dalle
condizioni generali del mercato e dalla produzione delle miniere siciliane. Mentre variazioni
annuali di minore entità erano da attribuirsi a incidenti locali.
Tabella 2.3 Produzione di zolfo dell’Irpinia.
Fonte: L’industria mineraria, gennaio 1963, p. 26.
189
Cfr., L. Maggiore, Le miniere di solfo dell’Irpinia, in “L’industria mineraria d’Italia e d’Oltremare”, agosto 1937,
p.267.
190
In Irpinia, come nel resto d’Italia, per separare lo zolfo estratto dal sottosuolo dalla ganga (roccia sterile) che lo
contiene venivano usati appositi forni fusori, i calcaroni e forni Gill. Entrambi presentavano il grave inconveniente,
durante la fusione, di sprigionare e liberare nell'atmosfera una forte quantità di anidride solforosa, gas molto deleterio
per l'agricoltura. Per cui in tutte le miniere di zolfo d'Italia gli esercenti erano costretti a dover risarcire i danni provocati
all'agricoltura. Proprio per evitare tali danni il Fiorentini aveva messo a punto un dispositivo mediante il quale il gas
solforoso dei forni veniva aspirato da tre ventilatori e fatto disciogliere nell'acqua fredda avvalendosi di un canale
derivato dal fiume Sabbato.
191
Lo zolfo di recupero, che rappresentava il 5% dello zolfo totale prodotto dai forni era di elevata purezza per cui
veniva raccolto in fornelle e messo in commercio. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del
Servizio Minerario”, 1917, pp. 176-179.
89
Anni
Zolfo fuso
tonnellate
Zolfo
macinato
tonnellate
1934
1935
1936-40
1941-45
1946-50
1951-55
1956-60
1961
4370
4600
7436
7364
9156
9584
6641
4991
22170
19039
18730
27032
17590
23801
20972
17849
La massima produzione di zolfo fuso si ebbe nel 1951 con 10660 tonnellate mentre quelle di
minerale di zolfo macinato nel 1944 con oltre 32000 tonnellate .
Calabria
Le prime ricerche furono effettuate nel territorio di Strongoli (Catanzaro) al principio del
secolo XIX. Altri lavori di una qualche intensità furono intrapresi attorno al 1848 nel
territorio del Comune di Melissa (Catanzaro) anche se si può parlare di una vera e propria
estrazione di zolfo solo a partire dal 1880192.
In Calabria le difficoltà inizialmente incontrate per la messa in valore dei giacimenti
solfiferi furono pressoché identiche a quelle della Sicilia: mancanza assoluta di viabilità, di
abitazioni, di acqua, di energia elettrica, manodopera scarsamente qualificata priva della più
elementare assistenza. Anche qui le prime ricerche si dovettero a gruppi di operai che, previ
accordi con i proprietari del terreno, iniziarono le ricerche agevolati dal fatto che in molte
località i giacimenti erano affioranti. La scarsità di mezzi finanziari costrinse ben presto
questi modesti esercenti a rivolgersi ai cosiddetti “sborsanti” i quali provvedevano a fornirli
dei fondi occorrenti e che a poco a poco subentravano alle singole iniziative trattando
direttamente con i proprietari del suolo, occupandosi della vendita dello zolfo, anticipando
le paghe agli operai. A questi era lasciata completamente la conduzione dei lavori che
procedevano sempre più caotici e malsicuri, con pregiudizio per l’integrità e la sicurezza del
192
Cfr., A. Scicli, I giacimenti solfiferi della Calabria, Bologna, 1955, p. 20.
90
giacimento, non avendo i coltivatori altra preoccupazione che quella di trarre il maggior
utile immediato possibile con la minima spesa. Per tutte queste gravi difficoltà l’industria
non riuscì ad espandersi e ad affermarsi economicamente.
La più importante miniera di zolfo della Calabria era quella di Comero, scoperta nel 1888.
Dopo soli 10 anni la produzione aveva raggiunto le 3560 tonnellate di zolfo grezzo con
l’impiego di 183 operai che l’anno successivo aumentarono a 270
193
. Ma a causa della
cattiva conduzione dei lavori la produzione subì frequenti crisi. Nel 1891 si verificò il crollo
generale del sotterraneo e nel 1820 ogni attività fu sospesa a causa di un secondo crollo. Si
può dire che il disordine nella coltivazione si protrasse fino al 1949 quando la miniera venne
ceduta ad una società formata da un gruppo di tecnici e finanziatori siciliani. Sotto la loro
gestione la miniera fu posta in condizioni di fornire un’adeguata produzione che, dopo pochi
anni di esercizio, oltrepassò (nel 1954) le 4000 tonnellate con l’impiego di 200 operai. Ma
ormai l’industria solfifera italiana si trovava in uno stato di crisi irreversibile.
La produzione delle miniere calabresi fu sempre relativamente esigua come riportato nella
seguente tabella:
Periodi
1881-90
1891-900
1901-10
1911-20
1921-30
1931-40
1941-50
1951-54
Tonnellate
8083
5206
4762
3617
1437
2335
1421
23568
2.5 IL CONTESTO INTERNAZIONALE
193
Cfr., Le miniere di zolfo della Calabria, in «L’Industria mineraria», gennaio 1963, p. 23.
91
Lo zolfo, conosciuto ed utilizzato da tempi remoti, acquistò nell’800 e durante questo secolo
un importanza sempre maggiore. Oltre all’utilizzo in agricoltura era entrato in
numerosissimi processi di fabbricazione diventando uno dei principali minerali per uso
industriale. Di fronte all’enorme crescita della domanda mondiale di zolfo, la produzione
passò dalle 580000 tonnellate del 1900 alle 15 milioni di tonnellate nel 1957.
Fino ai primi anni di questo secolo la Sicilia mantenne il predominio assoluto della
produzione ed esportazione per cui l’Italia produceva circa l’80% dello zolfo mondiale.
Modeste produzioni provenivano da Spagna, Francia, Austria, Germania, Cile ecc. (qualche
migliaio di tonnellate ciascuno) mentre il Giappone (con le sue 15-20 mila tonnellate)
seppur ad una certa distanza veniva subito dopo l’Italia.
Gli Stati Uniti però, fino ad allora grandi consumatori di zolfo, avevano scoperto importanti
giacimenti nel Golfo del Messico. L’industria solfifera americana si sviluppò rapidamente
negli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra Mondiale con notevoli mezzi
finanziari e in condizioni naturali e tecniche (processo Frasch) tali da porre termine per
sempre al monopolio italiano dello zolfo. In meno di 10 anni la produzione statunitense
raggiunse e superò quella italiana, nel corso del primo conflitto mondiale giunse a 1 milione
di tonnellate, toccò i 2 milioni nel 1923, i 3.5 milioni nel 1942, i 4.5 nel 1945 fino a
superare i 5 milioni negli anni ’50.
I bassi prezzi dello zolfo americano avevano scoraggiato per molto tempo le ricerche negli
altri Paesi, in quanto non si nutriva la speranza di scoprire giacimenti di coltivazione
altrettanto economica. Con la guerra di Corea e la conseguente esigenza di riarmo, gli Stati
Uniti, che fino a quel momento avevano rifornito i principali Paesi consumatori di zolfo,
furono costretti a limitare le loro esportazioni. Ciò favorì una forte ripresa della ricerca di
nuovi giacimenti che portò a interessanti scoperte nel Messico.
Negli anni ’50 la struttura della produzione mondiale mutò profondamente sia per la rapida
ascesa della produzione messicana, che era arrivata ad occupare il secondo posto nel mondo,
92
sia per l’entrata sul mercato di una nuova fonte di zolfo. Accanto alla prevalente produzione
di zolfo nativo (estratto dai giacimenti) si sviluppò quella di zolfo di recupero. A partire
dall’ultimo dopoguerra si erano intensificati nel mondo gli studi e la messa a punto di
impianti di recupero dello zolfo da gas naturali, dalla raffinazione del petrolio, dai gas di
fonderia e da tutti gli altri gas di rifiuto che contenevano materia solforosa in quantità
apprezzabile. Alcune Nazioni, come Germania e Inghilterra, avevano ricavato, da questi
recuperi, zolfo in quantità quasi sufficiente al proprio fabbisogno interno potendo così
ridurre le proprie importazioni dagli U.S.A. . La notevole produzione di zolfo, ottenuta dal
recupero di gas naturale, prima in Canada e poi in Francia, aveva permesso a questi due
Paesi di passare da tradizionali importatori a grandi produttori mondiali. L’Italia, che fino al
1954 occupava il secondo posto tra i produttori mondiali, sia pure ad enorme distanza dagli
U.S.A., era passata al terzo posto nel 1955 superata dal Messico e al sesto nel 1959 superata
da Francia, Canada e Giappone194.
2.5.1 I due maggiori produttori di zolfo: Stati Uniti e Italia
Come si è detto, nel secolo scorso, gli Stati Uniti costituivano il più importante mercato di
sbocco dello zolfo siciliano fino al ritrovamento dei grandi giacimenti solfiferi del Golfo del
Messico.
Il giacimento di zolfo della Louisiana era stato scoperto accidentalmente nelle trivellazioni
eseguite per la ricerca del petrolio. Riconosciutane subito l’importanza per quantità e qualità
del prodotto, che in alcuni strati si trovava quasi puro, nel 1870 si costituiva una prima
Società (Calcasieu Suplhur and Mining Company) per coltivarlo195. Dopo alcuni anni, non
riuscendo a raggiungere il giacimento (anche se si trovava a circa 100 metri di profondità) la
194
Cfr., Associazione Mineraria Italiana, L’industria mineraria e metallurgica negli ultimi 5 anni, in «L’Industria
mineraria», luglio 1960, p. 484.
195
Cfr., G. Oddo, op. cit., p. 364.
93
Società dovette abbandonare l’impresa. Non ebbero fortuna nemmeno i tentativi effettuati
nel 1886 dalla Louisiana Sulphur Company e nel 1889 dalla American Sulphur
Manufacturing Company
Nonostante i notevoli mezzi impiegati e l’intervento di tecnici esperti, non si riusciva a
raggiungere lo strato solfifero per l’impossibilità di attraversare un potente deposito di
sabbie acquifere mobili. La soluzione venne trovata dal geniale chimico tedesco-americano
Herman Frasch il quale costituì la Union Sulphur Company (della quale era presidente ed
aveva una partecipazione del 50%) e nel 1959 acquistò i terreni interessati196.
Il Frasch abbandonato ogni tentativo di raggiungere il giacimento mediante un pozzo
ordinario, pensò invece di liquefare lo zolfo nello stesso strato mediante l’immissione
attraverso pozzi trivellati di acqua calda sotto pressione (alla temperatura di 150°C),
portando quindi alla superficie lo zolfo liquido con apposite pompe197. L’intuizione era
giusta ma dovettero passare circa 10 anni di costosi tentativi per perfezionarla. Il problema
principale era quello di poter disporre di energia a basso costo e di molta acqua198. Si superò
l’inconveniente dell’energia con la sostituzione del petrolio al carbon fossile (più tardi il
metano ha sostituito il petrolio) grazie al rinvenimento di un ricco deposito di petrolio nella
stessa zona. L’acqua invece venne trasportata dal fiume Houston (con la costruzione di un
apposito canale lungo circa 10 chilometri).
Rispetto ai metodi tradizionali, di estrarre cioè il minerale dal sotterraneo con il successivo
trattamento mineralurgico per separare lo zolfo dal minerale che lo contiene, il processo
196
Negli Stati Uniti i proprietari del suolo disponevano anche del sottosuolo. Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le
risorse minerarie della regione Emilia-Romagna, cit., pp. 30-36.
197
Il processo Frasch consiste nel trivellare un pozzo nel terreno sino a raggiungere il letto del giacimento e
nell’introdurre nel pozzo un sistema di tubi coassiali. Nel primo spazio anulare, a partire dall’esterno, si immette acqua
surriscaldata che fonde lo zolfo e gli consente di salire nel secondo spazio anulare sotto la pressione dell’aria compressa
introdotta attraverso il tubo centrale. Lo zolfo viene quindi estratto fuso e fatto colare in grandi serbatoi all’esterno dove
si consolida. Cfr., A. Beragozzi, L’industria mineraria siciliana nel dopoguerra, in «L’Industria mineraria», agosto
1961, p. 485.
198
Per avere l’idea della quantità d’acqua e di energia necessarie, basti pensare che per ogni foro occorreva una batteria
di 16 caldaie della potenza complessiva di 2400 Hp. Il forte consumo di combustibile, che era allora il carbon fossile
proveniente dall’Alabama, era impiegato nel rapporto di una tonnellata per ogni 3 di zolfo.
94
Frasch offriva il grande vantaggio di operare a cielo aperto e di richiedere un impiego
minimo di manodopera.
In Italia questo processo non è stato mai applicato per le particolari condizioni geologiche
dei giacimenti ma soprattutto per il fatto di non poter disporre di combustibile a basso costo
e di sufficienti quantitativi di acqua. Il processo Frasch si rivelò da subito molto
vantaggioso. La produzione americana di zolfo ottenuta con tale processo, in meno di 10
anni di attività, raggiunse e superò nel 1912 (con ben 786605 tonnellate) per la prima volta
quella italiana. “Dietro queste fredde cifre si cela la drammatica storia di uno dei più vecchi
e grandi monopoli del mondo”199 .
Italia
U.S.A.
6000000
5000000
4000000
3000000
2000000
1000000
1950
1947
1944
1941
1938
1935
1932
1929
1926
1923
1920
1917
1914
1911
1908
1905
0
Già nel 1905 il costo di produzione dello zolfo con il metodo Frasch era pari a meno della
metà di quello siciliano per cui, nonostante i costi di trasporto, poteva essere venduto nei
porti europei a prezzo molto inferiore200.
199
W. Haynes, The stone that burns, New York, 1947, p. 70.
Nei porti europei veniva venduto a 39,46 lire contro le 55 lire dello zolfo siciliano al porto più vicino. Cfr.,
Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del Servizio Minerario”, 1905, p. 43.
95
200
Di fronte ai carichi di zolfo americano che cominciarono ad arrivare a Marsiglia nel 1905 e
alla forte contrazione dell’esportazione del prodotto siciliano negli U.S.A.201, l’Anglo-Sicula
stipulò un primo accordo provvisorio (nel 1905) con la Union Sulphur Company. Con tale
accordo, L’Anglo-Sicula si impegnava a non spedire, nel 1906, più di 75000 tonnellate negli
U.S.A. e la Società americana a non inviare, nello stesso periodo, zolfo in Europa e negli
altri mercati mondiali202.
Nel 1906, con lo scioglimento dell’Anglo-Sicula e la costituzione del Consorzio
Obbligatorio Solfifero Siciliano, il problema di stabilire intese con la concorrente
produzione americana passò a quest’ultimo ente. Così, con atto di governo del febbraio
1908, fu concluso un secondo accordo con la Union Sulphur Company i cui patti principale
erano tre. In primo luogo l’assegnazione dei quantitativi, da collocarsi in ciascun esercizio
nel mercato mondiale, per 2/3 al Consorzio e per l’altro terzo alla Union Sulphur Company.
In secondo luogo la fissazione di prezzi minimi ed eventuali variazioni dei prezzi da
concordarsi fra le due parti. Infine l’istituzione di un ufficio di propaganda (ad Amburgo)
per l’aumento dell’impiego dello zolfo in campo industriale ed agricolo.
Tale convenzione, che doveva avere durata decennale, venne invece denunciata nel 1913
dalla Società americana a causa dell’applicazione del Clayton Act del 1914 contro i trust
negli Stati Uniti, ma la motivazione di fondo era da attribuirsi alla concorrenza di una nuova
grande impresa, la Freeport Sulphur Company, che avrebbe reso vano l’accordo. Questa
costituita nel 1911 aveva iniziato lo sfruttamento, con il processo Frasch203, di un nuovo e
importante giacimento a Brazos, nel Texas, ottenendo in breve tempo, a basso costo,
un’elevata produzione.
201
L’esportazione dello zolfo di Sicilia in America che nel 1902 era di 176845 tonnellate, scese, nel 1906, a 5835
tonnellate. Cfr., Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, “Rivista del servizio minerario”, 1906, p. 58.
202
L’industria solfifera siciliana ancora nel triennio 1902-04 collocava in Nord-America, che da tempo costituiva il
principale sbocco della sua produzione, oltre 147000 tonnellate di zolfo in media annua, cioè 1/3 delle sue esportazioni.
Dal 1907 per gli accordi intervenuti, venne completamente sostituita in quel mercato dalla produzione locale. Cfr., L.
Delabretoigne, op. cit, p. 357.
203
La Union Sulphur Company aveva accusato la nuova compagnia di violazione del brevetto Frasch ma la U.S.Circuit
Court, nel 1918, decise che il processo Frasch non era brevettabile per cui avrebbe potuto essere usato, e fu
effettivamente usato, in tutti gli altri giacimenti solfiferi presso la costa del Golfo del Messico. L. Cfr., L.
Delabretoigne, op. cit, p. 395.
96
La rottura degli accordi aveva fatto perdere alla Sicilia una quota elevata delle sue
esportazioni ma la situazione dell’industria solfifera italiana sembrò migliorare durante la
Prima Guerra Mondiale, e più ancora con l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto. Nel
periodo bellico, infatti, la produzione americana seppure in continua ascesa era assorbita per
la massima parte dal consumo interno enormemente sviluppatosi soprattutto per l’impiego
dello zolfo nella fabbricazione di esplosivi e in quella di acido solforico. Intanto nel 1917
era sorta una nuova potente Società, la Gulf Texas Sulphur Company, per lo sfruttamento di
un altro importante giacimento presso Matagorda nel Texas, la cui capacità totale era stata
stimata circa 10 milioni di tonnellate di zolfo fuso, e che iniziò a produrre nel 1919204. Di
conseguenza l’intera produzione americana, ottenuta da sei miniere, era controllata per il
99,5% da sole tre grandi compagnie. Queste ultime, data la loro enorme produzione, al
termine della guerra cominciarono a farsi “seria” concorrenza in tutti i mercati mondiali. I
prezzi dello zolfo diminuirono e la Sicilia, che come si è visto produceva a costi ben più alti,
attraversò una grave crisi. All’inizio del 1922, il Consorzio aveva tentato nuove trattative
con i concorrenti americani ma senza alcun successo poiché gli stessi produttori statunitensi
non erano d’accordo tra loro.
Avvalendosi del Webb-Pomerene Act, del 10 aprile 1918, che non solo permetteva, ma anzi
agevolava (in determinate condizioni e con determinate forme) le associazioni commerciali
per l’esportazione dagli Stati Uniti, le tre compagnie americane costituirono, nel settembre
del 1922, un cartello sotto forma di Società anonima, la Sulphur Export Corporation,
SULEXCO, per esportare in comune lo zolfo di loro produzione. L’anno successivo (nel
1923) fu finalmente possibile concludere un accordo tra il Consorzio e la SULEXCO.
L’intesa, della durata di otto anni (quattro più quattro rinnovabili tacitamente), prevedeva
che dal mercato mondiale dello zolfo fossero esclusi: l’Italia con le sue dipendenze e
colonie, l’America del Nord, Cuba, le isole presso la costa del Canada. Gli altri Paesi
restavano assegnati alla SULEXCO per una quota di esportazione del 75% e al Consorzio
204
Cfr., F. Squarzina, L’industria mineraria italiana, cit., p. 34.
97
per il rimanente 25%205. Infine i prezzi e le altre condizioni di vendita dovevano essere
fissati dalle parti contraenti. Si deve ricordare che il Consorzio e la SULEXCO avevano
assunto la garanzia reciproca del computo nelle proprie quote di esportazione di quelle
effettuate da qualsiasi produttore o venditore rispettivamente italiano o americano. Ciò se
non costituiva un grave problema per la SULEXCO che aveva il controllo di oltre 9/10
dell’intera produzione statunitense, presentava maggiori difficoltà per il Consorzio che
controllava all’incirca i 3/4 della produzione italiana206.
Negli anni ’20, le miniere del distretto marchigiano-romagnolo, sotto la gestione
Montecatini, avevano visto aumentare considerevolmente la loro produzione, che, diventata
esuberante al consumo nazionale, era stata collocata nei mercati esteri.
Il Consorzio condusse trattative con gli americani per un aumento della quota italiana, ma
l’accentuarsi della depressione economica mondiale dei primi anni ’30 nonché l’intervento
nel mercato degli Stati Uniti di altri due produttori, la Jefferson Lake Oil Company e la
Duval Texas Sulphur Company, aumentarono le difficoltà per un accordo e le trattative
fallirono.
Nel 1933, con la costituzione dell’Ufficio per la Vendita dello Zolfo Italiano, il governo
aveva esteso il vincolo consortile alla Montecatini e agli altri produttori di zolfo dell’Italia
continentale, mentre un certo controllo sui produttori americani indipendenti fu effettuato
dalla SULEXCO, includendoli nella propria quota di esportazione dei mercati di vendita a
condizione che essi osservassero i prezzi di cartello. Ciò aveva reso possibile la conclusione
di un nuovo accordo tra l’Ufficio e la SULEXCO entrato in vigore nel 1934. Tale intesa,
che era tacitamente prorogabile di anno in anno, non recava modifiche strutturali rispetto a
quella del 1923 se non per quanto riguarda la ripartizione dei mercati di vendita: si assicurò,
205
L’esportazione degli zolfi grezzi nei singoli mercati doveva tenere conto nei limiti del possibile, dei vantaggi che
arrecava a ciascuna delle parti contraenti la propria posizione geografica in relazione ai vati Paesi di consumo. Mentre
l’esportazione degli zolfi grezzi doveva essere contenuta nei limiti stabiliti per ciascun esercizio e singolarmente per
ogni Paese importatore, quella degli zolfi lavorati non era soggetta a tale disposizione purché la loro esportazione
sommata a quella dei grezzi rientrasse nella percentuale globale singolarmente per l’Italia e per gli Stati Uniti. Cfr. L.
Valenti, op. cit., p. 197.
206
Cfr., F. Squarzina, Cenni sulla produzione italiana, cit., p. 420.
98
infatti, alla produzione italiana una soddisfacente quota nei diversi mercati del mondo. Per
quanto concerne i prezzi, i produttori statunitensi pur avendo consentito qualche
miglioramento207 furono sempre restii ad aumentarli in quanto temevano di provocare e
incrementare la concorrenza di altre fonti di zolfo. L’Ufficio comunque riuscì ad applicare
prezzi superiori a quelli di cartello in molti Paesi (Austria, Ungheria, Iugoslavia, Grecia,
Romania, Persia, India e, dal 1937 in poi, anche in Francia e Germania).
La convenzione che legava produttori americani e italiani venne sospesa, di comune
accordo, nell’ottobre del 1939 a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Durante il periodo bellico, mentre la produzione italiana veniva quasi annullata, quella
degli Stati Uniti si espandeva sempre più riuscendo a soddisfare sia il crescente consumo
interno che le maggiori richieste dei principali Paesi consumatori.
Successivamente non fu più possibile ripristinare alcuna convenzione con i produttori
americani dato che il prezzo dello zolfo statunitense, pur tenendo conto delle spese di
trasporto ai porti europei, era pari a circa la metà di quello italiano. Fu sempre valida
l’affermazione allora fatta dal Frasch secondo cui lo zolfo degli Stati Uniti poteva essere
consegnato ai porti siciliani a prezzi di concorrenza con lo zolfo dell’isola208. Tutti gli
accordi avevano aiutato a far superare momentaneamente all’industria solfifera italiana le
ricorrenti crisi a cui era soggetta. A medio e lungo termine però si ripresentavano i soliti
problemi mai risolti: l’arretratezza sia per quanto concerne lo sviluppo tecnico e
organizzativo delle lavorazioni minerarie che per quanto riguarda il mancato sviluppo delle
ricerche.
Una nuova possibilità per l’industria solfifera italiana venne offerta dalla crisi coreana.
Mentre nei primi mesi del 1950 il collocamento dello zolfo italiano sui mercati esteri era
molto difficile, dopo che gli Stati Uniti, per la politica di riarmo, limitarono notevolmente le
207
I prezzi praticati dal cartello americano, e che all’atto della costituzione dell’Ufficio erano notevolmente discesi,
vennero subito migliorati.
208
Cfr., Associazione mineraria italiana, L’industria mineraria italiana nel 1950, in «L’Industria mineraria», luglio
1951, p. 269.
99
proprie esportazioni molti Paesi si rivolsero all’Italia. Quest’ultima, anche se aumentò la
produzione e l’esportazione209 non riuscì comunque a far fronte alla crescente domanda.
D’altronde si trattava di un evento transitorio e pertanto non conveniva esporre forti capitali
non ammortizzabili in brevissimo tempo. Infatti alla fine della guerra di Corea, con la
ripresa su vasta scala delle esportazioni statunitensi, i prezzi precipitarono e l’industria
solfifera italiana subì una nuova grave crisi. Il minor costo dello zolfo di recupero e di
quello Frasch, oltre al naturale esaurimento ed impoverimento dei giacimenti italiani con
l’aumento della profondità, aveva portato alla chiusura di numerose miniere. In Sicilia, alla
fine degli anni ’50, lo zolfo costituiva ancora una delle attività più importanti per numero di
aziende operanti e per il complesso di maestranze occupate (circa 10000 dipendenti) per cui
molte miniere, venivano mantenute in vita, anche se con forti perdite, per pure ragioni
sociali210.
Nel marzo del 1960, gli Stati membri della CEE, nel firmare l’accordo riguardante la
fissazione di una parte della tariffa doganale comune prevista dal Trattato che istituiva la
Comunità Economica Europea, considerando, al momento della fissazione di un dazio nullo
per lo zolfo grezzo, che in tale materia sorgevano problemi particolari, avevano firmato per
lo zolfo italiano un accordo particolare211. Esso prevedeva in primo luogo l’isolamento del
mercato italiano dello zolfo per un periodo di otto anni sia nei confronti degli altri Paesi
della comunità (Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) che rispetto ai Paesi
terzi. Dal canto suo, il governo italiano assicurava che le consegne effettuate dall’Ente Zolfi
ai fini dell’esportazione di prodotti trasformati, non sarebbero state effettuate ad un livello
inferiore al prezzo mondiale. In secondo luogo veniva stabilito l’intervento della Banca
Europea per gli Investimenti, ai fini del finanziamento delle operazioni di modernizzazione
209
Le consegne effettuate dall’E.Z.I. all’estero salirono dalle 75000 tonnellate del ’49 alle 210000 del ’50. Ma già nel
1951 ridiscesero a 74000 e a 50600 nel 1952. Cfr., Associazione mineraria italiana, L’industria mineraria italiana nel
1952, in «L’Industria mineraria», agosto 1953, p. 361.
210
Cfr., F. Lanza di Scalea, Zolfo di recupero e zolfo nativo in Sicilia in «L’Industria mineraria», aprile 1959, pp. 221222.
211
Cfr., L. Gerbella, La Comunità Economica Europea e l’inserimento dell’industria estrattiva italiana nel Mercato
Comune in «L’Industria mineraria», novembre 1960, p. 809.
100
delle miniere di zolfo, della creazione di industrie trasformatrici e di lavori di infrastruttura.
Inoltre gli Stati membri si impegnavano a rendere possibile interventi a carattere sociale da
parte della Comunità per il licenziamento dei minatori e la formazione professionale dei
loro figli. Infine era prevista la creazione di un comitato destinato a promuovere l’iniziativa
privata e a favorire lo sviluppo nell’ambito di un programma regionale in Sicilia.
Le industrie estrattive italiane, per essere inserite nel Mercato Comune dovevano mettersi in
condizione di vendere i prodotti a prezzi internazionali. Protezioni doganali non erano più
possibili anche perché, nel nuovo clima instaurato in Europa, era assurdo continuare a far
pagare ai consumatori italiani lo zolfo molto più caro rispetto agli altri Paesi del MEC. Per
cui si giunse alla fine dell’industria solfifera italiana e alla conseguente liquidazione
dell’EZI che venne sciolto con legge 12 marzo 1968 n°411 con la quale venne anche abolito
il divieto di importazione dello zolfo212.
2.5.2 Gli altri Paesi
Giappone
Lo zolfo era una delle più importanti ed abbondanti risorse naturali del Giappone. Si ha
notizia del suo sfruttamento sin dal XVIII secolo e si ritiene che esso fosse esportato in Cina
già nel secolo XIII213.
212
213
Cfr., A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della Regione Emilia Romagna, 1927 Modena, p. 68.
Cfr., Prospettive della produzione giapponese in «L’Industria mineraria», aprile 1954, p. 223-224
101
Nei primi due decenni di questo secolo la coltivazione dello zolfo fu molto intensificata e il
Giappone divenne il terzo produttore mondiale (dopo Stati Uniti e Italia) con circa 50000
tonnellate annue che salirono ad oltre 100000 durante la Prima Guerra Mondiale. A
quell’epoca, data la scarsità dei consumi interni, la maggior parte dalla produzione veniva
esportata principalmente in Australia e in Cina.
Negli anni seguenti la Prima Guerra Mondiale la produzione, dopo essersi mantenuta per
qualche tempo intorno alle 35000 tonnellate, andò gradualmente aumentando fino a 70000
tonnellate nel 1928, ridiscese nel periodo della crisi internazionale per riprendersi dopo il
1932.
Anni
1925
1926
1927
1928
1929
1930
1931
1932
1933
1934
1935
1936
1937
1938
1939
1940
1941
1942
1943
1944
1945
1946
1947
1948
1949
1950
Produzione
ton. (1000)
47,8
47,9
61,3
70,2
62,0
61,5
62,4
84,4
116,8
139,8
167,9
203,4
229,9
226,6
199,6
191,3
196,8
168,1
152,2
76,5
41,0
22,1
29,1
40,6
62,4
92,6
Esportazione ton.
(1000)
4,11
4,07
3,85
5,32
10,44
5,92
14,18
25,99
32,11
45,71
54,60
71,87
55,84
31,24
27,94
17,29
16,70
18,34
17,45
7,25
3,59
2,55
2,00
0,60
0,02
0,51
Consumo ton. (1000)
43,7
43,8
57,5
64,9
51,5
55,6
48,2
58,4
84,7
94,1
113,3
131,5
174,0
195,3
171,6
174,0
122,5
163,9
156,4
91,0
37,4
19,6
27,1
45,0
61,4
93,0
102
1951
1952
142,4
179,4
42,69
140,3
135,6
Lo sviluppo dell’industria del rayon e della carta214infatti aveva creato una notevole
domanda interna che portò ad un aumento della produzione sino alle 200000 tonnellate
negli anni immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo erano
attive circa 25 imprese minerarie ed impiegavano metodi e raffinazioni alquanto arretrati.
Dopo la cessazione quasi completa della produzione, alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, l’industria cominciò a riprendersi. Tuttavia, dati gli alti costi di produzione, lo
zolfo Giapponese non era in grado di tornare sui mercati d’esportazione a prezzi
concorrenziali.
Per cercare di migliorare la situazione, grazie all’appoggio governativo, fu iniziato un
programma di riorganizzazione e modernizzazione dell’industria solfifera. Alcune miniere
marginali vennero chiuse e furono sperimentati nuovi metodi per aumentare la produttività e
diminuire i costi. Negli anni ’50, mentre alcuni produttori continuavano ad impiegare (per il
trattamento del minerale) un metodo simile al procedimento dei “calcaroni”, usati in Italia,
oltre l’80% dello zolfo Giapponese era ottenuto mediante i metodi (più moderni) di
distillazione215. Nonostante ciò nei primi anni ’60, il prezzo dello zolfo giapponese era
ancora al di sopra di quello mondiale e le importazioni erano soggette ad autorizzazione
ministeriale216. La maggior parte della produzione era consumata all’interno e risultava
fortemente dipendente dall’industria delle fibre tessili e dalla fabbricazione della carta. Il
50% della produzione era dovuta a due Società: la Mtsuo (30%) e la Hokkaido (20%); il
214
Oltre a tali usi che rappresentavano la maggior parte dei consumi interni di zolfo (l’acido solforico veniva prodotto
dallo zolfo nativo soltanto in quantità trascurabili) esisteva una domanda di zolfo per l’agricoltura, la gomma e i
prodotti chimici.
215
Cfr., G. Masobello, Comportamento dei minerali di zolfo nel trattamento per distillazione totale e riscaldamento
indiretto, in L’Industria mineraria, gennaio 1955, p. 1.
Per un approfondimento sul metodo di distillazione si vedano:
- R. Gualtieri, Sulla distillazione dello zolfo dal minerale, in L’Industria mineraria, giugno 1953, pp. 270 ss.
- C. Garbato, Estrazione dello zolfo dai suoi minerali per distillazione, in L’Industria mineraria, marzo 1954, pp. 133 ss.
216
Cfr., Produzione ed importazione del Giappone in «L’Industria mineraria», maggio 1965, p. 278.
103
resto era ottenuto da piccoli e medi produttori, spesso finanziariamente assistiti dalle
industrie consumatrici217.
Le miniere erano numerose ma generalmente di limitata entità e venivano coltivate in
sottosuolo. Tutti i giacimenti giapponesi di zolfo erano di origine vulcanica per cui si
differenziavano profondamente da quelli italiani e da quelli della costa del Golfo del
Messico. Data la loro varietà e molteplicità venivano classificati in 4 tipi principali: Flows,
giacimenti di sublimazione, sedimentari, di impregnazione. Quest’ultimo, che era il più
diffuso (90%), poteva fornire contemporaneamente zolfo e pirite.
Messico
Nel territorio messicano si riscontrarono pressoché tutti i tipi di giacimenti minerari di
zolfo: di origine vulcanica, di rocce sedimentarie (formazione gessose-solfifere) e di
formazione salina. Nessuno dei giacimenti di origine vulcanica ebbe una certa importanza
economica, mentre tra quelli di rocce sedimentarie uno solo venne coltivato (con lavori in
sotterraneo) fin dal primo decennio di questo secolo. Nonostante si trattasse di un potente
banco di zolfo per di più ubicato in una posizione favorevole (praticamente al centro del
Paese) la sua produzione e quindi quella complessiva del Messico, era ancora nel 1948 assai
modesta (2100 tonnellate) e parecchio inferiore ai consumi interni.
La situazione mutò molto rapidamente perché nel giro di pochi anni furono scoperti tre
importanti giacimenti di zolfo di formazione salina e quindi dello stesso tipo di quelli della
Louisiana e del Texas218. I lavori di preparazione furono prontamente sviluppati e nel 1954
iniziò la prima estrazione di zolfo col processo Frasch fuori dagli Stati Uniti. La produzione
di zolfo Frasch era completamente controllata da Società statunitensi. Tre principali
217
218
Cfr., Lo zolfo nativo in Giappone, in «L’Industria mineraria», luglio 1959, p. 469.
Cfr., Nascita dell’industria solfifera nel Messico in «L’Industria mineraria», ottobre 1956, p. 740.
104
compagnie coltivavano i giacimenti del Messico: la Pan American Sulphur Company, la
Mexican Gulf Sulphur Company e la Gulf Sulphur Corporation219.
La produzione messicana crebbe ad un ritmo tanto elevato da far raggiungere al Paese, nel
1960, (solo dopo 6 anni) il secondo posto mondiale dopo gli Stati Uniti.
Anni
1954
1955
1956
1957
1958
Produzione
83086
492000
692000
974000
1236483
Esportazione
50
184185
481568
876499
1066345
Come si nota dalla tabella la maggior parte dello zolfo estratto veniva destinato
all’esportazione. I maggiori importatori erano: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Australia.
Altra fonte di produzione di zolfo (non compresa in tabella) era in Messico il recupero da
gas naturali e dalla raffinazione del petrolio greggio. L’ente statale Petroleos Mexicanos,
nello svolgimento della sua attività estrattiva e di raffinazione del petrolio e dei derivati,
recuperava circa 80 tonnellate al giorno di acido solforico220. Lo zolfo di recupero dal gas
naturale e di raffineria e l’estrazione di alcune quantità di minerale di zolfo coprivano la
maggior parte dei bisogni messicani.
Canada
Negli anni ’50 il consumo di zolfo era notevolmente cresciuto sia in relazione all’aumentato
fabbisogno di una delle industrie chiave del Paese, quella della pasta di legno al solfito, sia
per la crescente richiesta dell’industria dell’uranio che era una delle principali consumatrici
di acido solforico della Nazione. Con un consumo medio annuo di poco inferiore alle
219
Dal punto di vista dell’effettivo centro di interessi, due di queste società erano nell’Texas (Dallas e Houston, centro
di produzione e lavorazione della gomma sintetica) e una, la Mexican Gulf Sulphur era a New York. Cfr., Controllo
della produzione messicana in «L’Industria mineraria», novembre 1956, p. 825.
220
Cfr., Produzione del Messico in «L’Industria mineraria», maggio 1956, pp. 370-371.
105
500000 tonnellate, il Canada era diventato il sesto consumatore mondiale di zolfo e il
consumo pro capite (di circa 118 lb.) era il più alto del mondo 221.
Non possedendo zolfo nativo, per rispondere alla crescente domanda interna, il Paese aveva
registrato importanti progressi nella produzione di zolfo di recupero. Fra i vari interessanti
sviluppi che si erano avuti in questo campo, di importanza del tutto particolare era il rapido
aumento del recupero dello zolfo dal gas naturale. Nei grandi campi metaniferi dell’Alberta,
ai due modesti impianti già esistenti, se ne aggiunsero tre nel 1957 e successivamente altri
cinque nel 1960.
Anni
1957
1958
1959
1960
Zolfo di recupero
107400
209900
327500
487900
altri
770219
778482
721424
675000
totale
877619
988382
1048924
1162900
Come si nota dalla tabella, la produzione di zolfo di recupero in soli 4 anni era quasi
quintuplicata. Tale notevole crescita era dovuta per la massima parte al recupero di zolfo da
gas naturale. Infatti la produzione di recupero del 1960 risultava essere costituita da gas
naturale per 445900 tonnellate, da raffinerie di petrolio per 32000 tonnellate e da solfuri
metalliferi per 10000 tonnellate.
Un’altra importante fonte di zolfo era rappresentata dalla pirite (e pirrotite). Già nel secolo
scorso veniva utilizzata per la produzione dell’acido solforico in alternativa allo zolfo ma
solo negli anni ’30 notevoli quantità di pirite cuprifera erano in grado di produrre, attraverso
particolari processi, lo zolfo elemento (abbinato all’estrazione del rame). Nella voce “altri”
della tabella precedente viene compreso appunto lo zolfo contenuto nella pirite (in media
circa 500 mila tonnellate) oltre ad una più modesta produzione (circa 200 mila tonnellate) di
zolfo ottenuto come sottoprodotto dai gas di fonderia222
221
Cfr., L’industria Canadese dello zolfo nel 1959 e nel 1960, in «L’Industria mineraria», luglio 1961, p. 467-468.
Lo zolfo recuperato dai gas di fonderia, sotto forma di acido solforico o di anidride solforosa liquida, era ottenuto in
Canada per i 2/3 circa nella grande fonderia di piombo e zinco, sita a Trail della Consolidated Mining And Smelting
106
222
Francia
In Francia erano noti quattro giacimenti di zolfo, tutti con minerale a tenore assai basso (810 %) e oggetto, fino alla Seconda Guerra Mondiale, di limitate e saltuarie coltivazioni.
L’impossibilità di importare dai fornitori abituali di zolfo e cioè Stati Uniti e Italia, aveva
determinato, nel periodo 1939-46, un nuovo interesse per le miniere francesi. Nel 1941 fu
costituita, con l’appoggio governativo, la Società Languedocienne per ricercare e sfruttare i
giacimenti di zolfo nativo di Narbona. Il costo di produzione fu inizialmente molto elevato a
causa della povertà del minerale. Tuttavia esso diminuì gradualmente grazie ai costanti
miglioramenti della coltivazione, sino a raggiungere il livello dello zolfo italiano di
importazione.
Per aumentare la “ricchezza” del minerale, la Società aveva adottato il processo di
flottazione223 per mezzo del quale otteneva un concentrato in zolfo del 80% circa. Il
concentrato era poi sottoposto ad ulteriore raffinazione con un procedimento originale,
messo a punto dalla Società nel 1949, che permetteva il raggiungimento di una purezza di
circa il 99,5%, quale era richiesta da molti consumatori224.
La produzione, espressa in zolfo puro, era andata rapidamente aumentando da 200
tonnellate nel 1945-46 (l’impianto di flottazione fu avviato appunto nel 1945) a 14847 nel
1951 e circa 20000 nel 1952225. Di fronte al fabbisogno nazionale complessivo la
produzione di queste miniere era minima, ma in caso di difficoltà poteva sempre costituire
una fonte di approvvigionamento per la viticoltura (come era stato dimostrato durante la
Seconda Guerra Mondiale quando aveva contribuito a salvare i vigneti francesi).
Per soddisfare il consumo interno, la Francia, durante gli anni ’50, importava annualmente
circa 250000 tonnellate di zolfo nativo (di cui 100000 assorbite dalla viticoltura) e circa
Co., e per il resto dalle fonderie della International Nickel Co. Cfr., Lo zolfo nel Canada in L’Industria mineraria, luglio
1958, p. 437-438.
223
Cfr., P. Audibert, La flottazione dei minerali di zolfo, in «L’Industria mineraria», ottobre 1952, p. 387.
224
Cfr., J. Dessèvre, Come ottenere zolfo puro partendo dai concentrati di flottazione, in «L’Industria mineraria»,
ottobre 1954, p. 593.
225
Cfr., Lo zolfo in Francia in «L’Industria mineraria», marzo 1953, p. 144.
107
400000 tonnellate di zolfo contenuto nelle piriti226. Questa situazione era destinata a
cambiare molto rapidamente in quanto nel 1951 era stato scoperto a Lacq un grande
giacimento di gas naturale. La Società nazionale dei petroli d’Acquitania, nel 1957 riuscì a
recuperare lo zolfo proveniente dalla depurazione del gas naturale di Lacq dopo aver
superato difficoltà tecniche veramente elevate.
La messa a punto dell’impianto fu possibile grazie all’applicazione del metodo Parson che
assicurava il massimo di resa in zolfo insieme ad un elevato recupero termico. Il rendimento
della conversione in zolfo aveva superato ogni previsione ottenendo il metalloide ad una
purezza di oltre il 99,5%. L’impianto inoltre presentava due favorevoli caratteristiche: aveva
le attrezzature disposte all’esterno ed era fortemente automatizzato227. La produzione del
giacimento di Lacq si sviluppò molto rapidamente :
Anni
1958
1959
1960
Produzione
132000
437000
950000
La Francia, come il Canada, aveva saputo approfittare delle nuove possibilità offerte dal
recupero di zolfo da gas naturale. Da tradizionale importatore era entrata, alla fine degli anni
’50 tra i primi 5 produttori di zolfo al mondo.
L’importanza della scoperta di Lacq andava oltre il quadro nazionale dato che forniva
all’economia europea una fonte di approvvigionamento per una delle materie prime chiavi
dell’industria chimica: lo zolfo.
226
227
Cfr., Sul giacimento gassifero di Lacq in «L’Industria mineraria», marzo 1957, p. 212.
Cfr., Il recupero dello zolfo dal gas Lacq in «L’Industria mineraria», gennaio 1959, p. 56.
108
CAPITOLO TERZO
I LAVORATORI
Nella miniera di Cabernardi, come in molte altre miniere, esisteva una complessa
organizzazione del lavoro nella quale era possibile distinguere quattro principali classi di
lavoratori: il personale tecnico, la sorveglianza, il personale amministrativo e gli operai
addetti all’interno e all’esterno della miniera. Il personale appartenente a ciascuna classe era
rigidamente ripartito secondo mansioni ben definite per cui esistevano numerose categorie
di lavoratori.
Il personale designato alla direzione e controllo era composto dalle seguenti figure
professionali228: direttore, vice direttore, capo servizio principale, capo servizio e assistente
tecnico. Si trattava di personale prettamente tecnico costituito da ingegneri e periti minerari.
Il loro impiego era obbligatorio in ciascun bacino di estrazione (dove variavano di numero
secondo l’importanza di esso) ed erano responsabili dell’attività della miniera. Visitavano il
sotterraneo per poche ore al giorno, dando le opportune disposizioni su ogni lavoro
necessario mentre spettava ai sorveglianti il compito di far eseguire gli ordini impartiti.
Quest’ultima classe di lavoratori era composta da: capo sorvegliante, sorvegliante, capo
squadra, guardia giurata e guardiano. La sorveglianza, sia all’interno che all’esterno della
miniera, serviva anche per far rispettare tutte le norme di sicurezza sul lavoro. Vi erano, poi,
guardie diurne e notturne, che armate vigilavano costantemente per evitare che fossero
rubati zolfo o arnesi da lavoro. Un ulteriore compito della sorveglianza consisteva nel
controllare l’applicazione del regolamento interno di disciplina: turni ed orari di lavoro in
primo luogo. I turni un tempo due (di 10 o anche 12 ore), per l’applicazione della giornata
228
Cfr., Direzione delle miniere di Cabernardi, Regolamento
disciplina per le miniere di Cabernardi, Pergola, 1946, p. 6
109
interno
di
lavorativa di 8 ore divennero in seguito 3, facendo sì che l’attività non avesse soste tranne
chiaramente la domenica ed i giorni festivi o quelli in cui il lavoro era reso impossibile da
incidenti, guasti e riparazioni agli impianti principali. Venti minuti prima dell’inizio di ogni
turno, all’esterno della miniera, il sorvegliante faceva l’appello del personale, distribuendo
le forze nei vari posti di lavoro.
Gli addetti all’interno della miniera dovevano invece presentarsi mezz’ora prima presso la
“lampisteria” dove venivano muniti di lampada , elmetto e maschera antigas, oggetti che
potevano essere ritirati presentando una “placca” numerata e, a fine turno, dovevano essere
riconsegnati. Superati i dieci minuti di ritardo era prevista l’ammonizione o una multa sino
ad un massimo del 10% della paga di fatto. La stessa punizione era stabilita in caso di
mancata o negligente attuazione di una disposizione ricevuta o in caso di scarso rendimento
giornaliero mentre a furti o risse seguiva l’immediato licenziamento.
Il personale amministrativo era certamente quello che aveva minor contatti diretti con la
miniera. Era rappresentato da contabili e da altri impiegati che avevano i loro uffici in
appositi edifici. Tra le varie mansioni doveva tenere conto individualmente di ogni singolo
lavoratore segnando le giornate di lavoro, gli oggetti forniti a ciascuno, le ritenute ed ogni
cosa che valesse a poter stabilire con esattezza la paga che spettava ad ogni singolo operaio.
La classe di lavoratori più numerosa era costituita dai minatori e dalle altre categorie di
addetti che svolgevano le proprie mansioni all’interno o all’esterno della miniera.
3.1 IL LAVORO ALL’ INTERNO DELLA MINIERA
All’interno della miniera, il primo turno (06-14) vedeva in attività soprattutto i minatori veri
e propri nei cantieri di abbattimento. Vi erano poi turni pomeridiani (14-22) e notturni (22-
110
06) questi ultimi con ridotta presenza di personale, durante i quali l’attività non riguardava
tanto l’estrazione del minerale, quanto la realizzazione di interventi di riparazione.
Il lavoro dei minatori consisteva nell’abbattimento del minerale. Per frantumare il blocco
mineralizzato furono sempre utilizzate le mine che venivano introdotte in fori praticati nella
roccia. Inizialmente tali fori erano scavati con martello e scalpello ma già dal 1918
cominciarono ad essere usati martelli pneumatici ad aria compressa. Per garantire maggiore
sicurezza, il brillamento delle mine e quindi le esplosioni avvenivano solo durante il primo
turno di lavoro. In questo modo ogni cantiere aveva un periodo di 16 ore di riposo per
consentire l’assestamento del terreno. Inoltre i minatori avevano tutto l’interesse di lasciare
il cantiere a fine turno nelle migliori condizioni di sicurezza dovendo ritornarvi il giorno
successivo.
Il metodo di coltivazione adottato nella miniera di Cabernardi fin dal suo avvio era il
cosiddetto sistema “a ripiena”. Si procedeva abbattendo il minerale esistente tra le gallerie
precedentemente formate ed utilizzate poi per il servizio di estrazione. Per riempire i vuoti
di scavo, al minerale abbattuto si sostituiva minerale sterile, (rosticci229), fatto provenire
dall’esterno. Il sistema per ripiena era considerato il migliore230 per utilità, sicurezza ed
economia. Dava infatti la possibilità di estrarre tutto il minerale che si incontrava,
procedendo al taglio con la massima esattezza e regolarità. Se il “ripieno” era ben fatto la
compressione si verificava gradualmente e il consolidamento avveniva senza compromettere
la stabilità e la sicurezza della miniera. Con il procedere dei lavori, la configurazione del
229
I rosticci non erano altro che lo scarto dei forni per la fusione del
minerale. Tale materiale subiva un sufficiente grado di cementazione in seguito
ad operazioni di irrorazione per cui si rivelava particolarmente utile per
riempire i vuoti di scavo.
230
Il metodo di coltivazione seguito nelle più antiche miniere di zolfo delle
Marche, della Romagna e della Sicilia fino a tutto il secolo scorso era quello
denominato per “camere e pilastri”. Le camere corrispondevano alla massa di
minerale estratto, mentre i pilastri erano i supporti lasciati a sostegno delle
volte delle camere stesse. In genere i pilastri venivano ricavati nelle zone
meno ricche di minerale, dando così origine ad un insieme irregolare connesso
con la distribuzione non uniforme della mineralizzazione. In seguito alla
casualità di distribuzione dei pilastri e alla loro irregolarità di esecuzione,
spesso si verificavano crolli i cui effetti si risentivano anche in superficie.
Cfr. ,G. Candura, Miniere di zolfo in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1990, p.81.
111
sotterraneo mutava continuamente assumendo un aspetto quasi casuale. Ogni 15-30 metri in
verticale, venivano formate le gallerie di allungamento (o livelli) da cui si dipartivano
traverse che raggiungevano lo strato solfifero. Ogni cantiere di abbattimento veniva armato
e dotato di binari per trasportare terra, roccia e naturalmente minerale solfifero.
Tale materiale veniva caricato su
carrelli o vagonetti dai “manovali
carreggiatori”. Questi erano a stretto
contatto con i minatori con i quali
formavano coppie di lavoranti, un
capo-compagnia e un aiutante, che
operavano insieme ed avevano in comune i carrelli per il materiale estratto. I due ruoli erano
contrassegnati da altrettanti numeri che dovevano essere segnati a gessetto sulla parete del
carrello.Solo così, all’esterno, il “marcatore” avrebbe potuto attribuire il carico alla
compagnia per la relativa ricompensa, dato che il lavoro si svolgeva a cottimo. Il carico in
arrivo all’esterno veniva controllato dal marcatore, il quale aveva anche la facoltà di
scartarlo se ritenuto troppo povero. Un intervento di questo tipo, come si può immaginare,
non era tuttavia auspicabile perché avrebbe scatenato discussioni serie e situazioni poco
piacevoli.
Una volta riempiti i vagonetti, era compito di un’altra categoria di lavoratori, “i vagonieri”,
trasportarli verso i punti di raccolta del materiale ossia in prossimità dei pozzi e delle
discenderie. Questa attività era meno pesante di quella del minatore e del carreggiatore.
Maggior fatica si aveva soltanto per rimettere sulle rotaie il vagone che per una mossa
brusca fosse uscito fuori mentre per trainare i vagonetti era comune l’impiego di cavalli,
muli e asini231. Gli animali, una volta introdotti nella miniera, non ne uscivano più se non in
punto di morte o già deceduti. Essi venivano sottoposti a turni di lavoro di 8 ore e poi
231
Testimonianza di Angelo Ruzziconi, di anni 82, ha lavorato nella miniera di
Cabernardi per 20 anni ricoprendo diverse mansioni, incontrato il 16 maggio 1997
a Cantarino (Sassoferrato).
112
alloggiati per riposare nelle stalle sotterranee predisposte allo scopo. La biada arrivava
dall’esterno regolarmente e questo servizio si svolgeva nelle ore pomeridiane o notturne
quando era sospeso il ciclo importante della brillatura delle mine e dell’estrazione del
minerale. Se la vita di miniera prostrava le persone, il destino degli animali non era certo
migliore: chiusi per sempre nelle cavità sotterranee convivevano con eserciti di topi in
condizioni invivibili di temperatura ed umidità e, a causa della scarsa luce, erano destinati
alla cecità perpetua. L’impiego di animali, soprattutto muli e asini, era talmente esteso da
dare origine ad un importante mansione, appunto quella del mulattiere e conduttore di asini.
Questi erano annoverati nell’elenco delle mansioni e percepivano una specifica paga , che
però era di almeno il 30% più bassa di quella dei minatori. Dopo il 1919, questa categoria di
lavoratori, non è più distinta, per cui si può pensare che stesse perdendo importanza, anche
per l’introduzione graduale di mezzi meccanici. In realtà alcuni servizi non vennero mai
completamente meccanizzati, ad esempio i trasporti interni, i quali continuarono ad essere
effettuati anche con l’ausilio di cavalli e muli fino alla chiusura della miniera.
Negli anni ’30, in alternativa agli animali, erano usati piccoli locomotori per cui nacque una
nuova categoria di lavoratori “i locomotoristi”. Si trattava però di un lavoro alquanto nocivo
dato che, per le 8 ore di lavoro, erano costretti a respirare fumo di nafta232.
Tutto il materiale che proveniva dai livelli più profondi della miniera, tramite le discenderie
e il pozzo interno Mezzena (che dal 13°livello raggiungeva il 18°), veniva fatto confluire
alla grande galleria Donegani del 13° livello (livello base). In questa galleria, della
lunghezza di 2 km e dotata di doppio binario, i vagonetti venivano portati in prossimità dei
due pozzi “esterni” che mettevano in comunicazione l’esterno con il 13° livello. L’addetto
al pozzo caricava i vagonetti nelle gabbie233 (ascensori) manovrate dagli “arganisti”234.
232
Testimonianza di Francesco Sonaglia, di anni 78, ha lavorato nella miniera
dal 1933 al 1959 ricoprendo le mansioni di (in ordine di tempo) addetto alla
cernita, locomotorista e arganista, inoltre fu segretario della Commissione
Interna per sette anni, incontrato il 9 maggio 1997 a Cabernardi.
233
Ogni gabbia aveva due piani che venivano utilizzati anche per il trasporto
del personale
113
Questi ultimi facevano parte della categoria dei “macchinisti” i quali avevano il compito di
provvedere al funzionamento delle macchine di ogni tipo. Ispezionavano e ripulivano
continuamente i congegni per poter segnalare tempestivamente l’eventualità di qualche
guasto ed evitare danni alla vita degli operai.
Per aver un quadro completo del lavoro all’interno della miniera bisogna infine ricordare
che esistevano altre categorie di lavoratori come gli addetti alla manutenzione e riparazione
il cui compito non riguardava direttamente l’estrazione dello zolfo, ma era comunque
ritenuto indispensabile per mantenere condizioni di lavoro ottimali.
Tra le varie categorie di lavoratori che prestavano servizio all’interno della miniera la più
numerosa era quella dei minatori che rappresentavano circa il 50% degli addetti235. I
minatori avevano un’alta professionalità dovuta all’esperienza maturata durante un lungo
periodo di apprendimento prima all’esterno e successivamente all’interno della miniera. A
loro erano affidate le più importanti e pericolose mansioni e di conseguenza percepivano i
salari più alti come si può vedere dalla seguente tabella.
Tabella 3.1 Mercedi giornaliere medie dei lavoratori all’interno della miniera di
Cabernardi, con decorrenza dal 1° maggio 1919.
Fonte: Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1919.
Mansioni
234
Mercede giornaliera (lire)
«...ho lavorato 3 anni come arganista al pozzo Mezzena, fare l’arganista era
un lavoro di responsabilità non indifferente...era gravoso, a limite della
sopportazione, perché il ritmo del lavoro era vertiginoso; il rumore dell’argano
era assordante. Al termine della giornata, ti fischiavano le orecchie come una
sirena; alcuni miei colleghi divennero ben presto sordi». Testimonianza di
Francesco Sonaglia, cit.
235
Cfr. ,Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1936, p. CDV.
114
Sorveglianti
12-14
Minatori al minerale
14,39
Minatori allo sterile
13,18
Manovali carreggiatori
10,64
Manovali riempitori
9,74-10,94
Muratori armatori
9-11
Ricevitori
11,25
Acquaroli e raccoglitori
4,80-6,00
Portieri
4,50
Manovali diversi
4,80-7,00
La contrattazione del salario avveniva in modo individuale, tra il datore di lavoro e il
minatore come controparte. La contrattazione collettiva vera e propria si sviluppò solo dopo
la Prima Guerra Mondiale236. Dunque anche l’industria estrattiva doveva essere
regolamentata attraverso contratti collettivi che stabilissero minimi salariali validi per tutta
la categoria. Tuttavia la stagione contrattuale fu breve ed i contratti che vennero rinnovati
durante il periodo fascista subirono consistenti riduzioni, quello dei minatori subì una
contrazione del 25%.Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo il periodo della
ricostruzione, e anche della tregua salariale, che durò praticamente fino al 1947, le
retribuzioni reali dei lavoratori addetti all’industria mineraria segnarono un notevole
miglioramento rispetto a quelle del 1938. Infatti, nel 1950, a fronte dell’aumento del costo
della vita pari a 46 volte quello del 1938, risultava che, in provincia di Ancona, le
236
Cfr. ,G. Canali, Rapporti di lavoro, in S. Lolletti (a cura di), La miniera
tra documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, Bologna, 1991,
p. 156.
115
retribuzioni erano aumentate (dal 1938 al 1950) di 86 volte per gli operai qualificati
dell’interno (minatore, armatore, ecc.) e di 95 volte per i manovali237.
Le condizioni di lavoro all’interno della miniera erano particolarmente pesanti. Solo uomini
forti e coraggiosi potevano svolgere un lavoro così duro e pericoloso che li costringeva a
stare per lungo tempo a centinaia di metri di profondità, e senza luce naturale.
I lavoratori della miniera operavano all’interno seminudi, date le condizioni esasperate di
caldo e umidità, provvedendo, di tanto in tanto a “svuotare le scarpe” zuppe di sudore. Il
bisogno di assumere nuovo liquido veniva soddisfatto bevendo acqua portata dall’esterno in
apposite fiasche panciute rivestite di legno. Queste erano dotate di apertura molto stretta in
modo che l’acqua uscisse poco per volta e non venisse consumata troppo rapidamente.
Nel sotterraneo i minatori conducevano una vita penosa, eppure, amavano sinceramente il
loro lavoro e la loro miniera. Erano orgogliosi del proprio mestiere; preferivano i pericolosi
lavori all’interno e si sentivano dequalificati quando erano costretti a lavorare all’esterno
della miniera anche per periodi brevi.
In caso di necessità, tutti, dal minatore all’ultimo manovale non esitavano a mettere a
repentaglio la propria vita sia per soccorrere i compagni in difficoltà che per salvare la loro
fonte di lavoro. Nonostante che nel sottosuolo il lavoro si svolgesse in forma pressoché
individuale esisteva una forte solidarietà tra i lavoratori che si esprimeva anche con l’aiuto
verso gli infortunati e i malati. Così ad esempio, non ancora costituite le Casse Mutue e le
altre forme di assistenza, in caso di infortunio si facevano le collette per l’infortunato; e se i
soldi non bastavano, la domenica, si girava di casa in casa, e ciascuno integrava il già dato,
come e quando poteva, con offerte in natura.
Anche dopo un grave incidente minerario, i minatori ritornavano alla stessa fatica e quasi
mai veniva loro in mente di cambiare mestiere. Infatti, contrariamente all’operaio che
considera il lavoro come un mezzo necessario, il rapporto uomo-miniera era a carattere
237
Cfr. ,Associazione Mineraria Italiana, L’industria mineraria in Italia nel
1949 e nei primi sei mesi del 1950, in «L’Industria mineraria», agosto 1950, p.
276.
116
totale, vale a dire che il minatore pur essendo cosciente degli aspetti negativi del suo
mestiere (fatica, pericolo, ambiente insalubre) ne era comunque orgoglioso238.
3.2 ATTIVITÀ LAVORATIVE DI SUPERFICIE
All’esterno della miniera, la principale attività lavorativa riguardava il trattamento del
minerale. Lo zolfo estratto non si trovava allo stato puro per cui, prima di essere inviato
tramite teleferica alla raffineria e alla stazione ferroviaria di Bellisio, era sottoposto ad una
fase preliminare di trattamento per separarlo dalle rocce che lo contenevano. Il sistema usato
era la fusione che avveniva per mezzo di particolari forni: calcaroni e forni Gill. Il calcarone
aveva una forma cilindrica in muratura con la base circolare inclinata verso un muretto di
colatura239. Veniva caricato disponendo dapprima sul fondo grossi pezzi di minerale. Una
volta riempita la base del forno, si gettava altro minerale in pezzi più piccoli fino a formare
un mucchio conico che si copriva con uno strato minuto di “rosticci”. Il minerale solfifero
veniva acceso dall’alto, nella parte opposta al muretto di colatura, per mezzo di fascine
imbevute di zolfo. Il fuoco, moderato dal ricoprimento del cumulo, si estendeva lentamente
dall’alto verso il basso. Dopo una quindicina di giorni, si forava il muretto (spillatura) e si
faceva colare lo zolfo liquido. Questo scorrendo su una grossa incanalatura raggiungeva gli
stampi dove, appena raffreddato, prendeva la forma di “pani”240.
La durata della fusione, dal momento dell’accensione a quello in cui colava l’ultimo zolfo,
variava con la capacità del calcarone. A Cabernardi ogni calcarone conteneva dalle 2500
238
Cfr. ,P. Audibert, Psicanalisi del minatore, in «L’Industria mineraria»,
luglio 1963, p.403.
239
Cfr. ,M. Gatto, Condizioni tecniche dell’industria solfifera siciliana in
L’industria mineraria solfifera siciliana, Torino, 1925 p. 38.
240
I pani del peso di circa 50 Kg ognuno erano di colore scuro perché
contenevano residui bituminosi, solo con l’ulteriore raffinazione avrebbero
acquistato il classico colore giallo.
117
alle 3000 tonnellate di zolfo grezzo e rimaneva in attività per 6 mesi per cui veniva allestito
due volte l’anno.
Il forno Gill poteva essere considerato un perfezionamento del calcarone241. Anche il forno
Gill era basato sull’utilizzazione dello zolfo quale combustibile ma differiva dal calcarone
perché la combustione veniva compiuta in un ambiente chiuso. Ogni singolo forno Gill era
costituito da una camera (o cella) circolare, chiusa con pareti e volta in muratura; provvista
delle aperture necessarie al carico e scarico del minerale, alla raccolta dello zolfo fuso e alla
circolazione dei gas di combustione. Invece di una sola camera si dimostrò più conveniente
usarne 2, 4 o 6 sia perché si poteva ottenere una produzione quasi continua (finita la
combustione in una camera la si cominciava nell’altra) sia perché si poteva recuperare il
calore di una camera facendolo passare in un’altra (aprendo gli appositi condotti di
comunicazione). Nonostante la miglior resa in zolfo del forno Gill anche questo, come il
calcarone, presentava il grave inconveniente di immettere nell’atmosfera notevoli quantità
di anidride solforosa, ovviamente molto nociva per l’uomo e per l’ambiente. Inoltre,
entrambi i forni, una volta uscito lo zolfo liquefatto, producevano una grande quantità di
materiale di scarico (rosticci). Questo materiale veniva ammassato intorno alla miniera
formando quella che veniva chiamata la “discarica della miniera”. Ciò contribuiva ad
innalzare in modo innaturale la temperatura dell’aria circostante, fino a livelli troppo elevati
durante la stagione calda, e con spiacevoli sbalzi termici in spazi ristretti durante la stagione
fredda.
I forni Gill presentavano il vantaggio di poter trattare piccole partite di minerale (venivano
messi in attività 2 volte al mese). Tuttavia in miniere a grande produttività, come
241
I forni Gill e i calcaroni furono i due mezzi classici di trattamento del
minerale adottati per lungo tempo fino alla scomparsa dell’industria solfifera
italiana. Mentre il calcarone cominciò ad essere usato a partire dall’1850, il
forno Gill comparve nel 1880 quando fu brevettato dal suo inventore ing. Roberto
Gill. Cfr. , M. Gatto, Trattamento mineralurgico del minerale di solfo, Torino,
1928, p. 94.
118
Cabernardi, tenuto conto della estensione nonché dei costi di impianto dei forni Gill, veniva
data una certa preferenza ai calcaroni242.
Dai dati riportati nella Rivista del Servizio Minerario si deduce, infatti, che, nonostante
aumentasse l’installazione dei forni Gill, il loro numero restò comunque subordinato a
quello dei calcaroni243.
A differenza di quanto avveniva all’interno della miniera, tra i lavoratori addetti alle
mansioni di superficie era presente manodopera giovanile (ragazzi di età comunque non
inferiore ai 14 anni) ed anche un numero ridotto (10-15) di donne adulte244. Naturalmente
costoro erano per lo più addetti a mansioni meno gravose. Per alcuni il lavoro consisteva nel
fare la cernita del minerale solfifero estratto per eliminare il pietrame manifestamente
povero di zolfo. A fine giornata il materiale cernito veniva caricato sui vagonetti per essere
poi inviato alla fusione: più vagonetti si riempivano più si guadagnava. Altri, invece,
avevano il compito di impastare gli sterri245 con acqua formando le cosiddette “panotte” (di
10-15 Kg). Queste, una volta essiccate, venivano caricate nei forni in modo da rendere più
consistente la resa in zolfo. L’operazione di caricamento dei forni veniva svolta da un’altra
categoria di lavoratori “i riempitori” che avevano una grande pratica del loro mestiere,
infatti la riuscita della fusione dipendeva dall’esatto riempimento dei forni. L’incarico di
guidare l’operazione di fusione era affidato agli “arditori”, i quali cercavano di ottenere una
242
A Cabernardi i forni Gill avrebbero coperto una superficie quattro volte
maggiore e non ci sarebbe stato spazio sufficiente per la loro installazione.
Cfr. ,A. Scicli, L’attività estrattiva e le risorse minerarie della regione
Emilia-Romagna, Modena, 1972, p. 61.
243
Nel periodo di gestione dell’Azienda Solfifera Italia gli impianti di fusione
erano costituiti esclusivamente da calcaroni: 16 nel 1888, 21 nell’anno seguente
e 27 nel 1891. La prima installazione di forni Gill, a Cabernardi, risale al
1904. Nel 1914 mentre i forni Gill erano soltanto 5 i calcaroni risultavano una
trentina. Nel 1937 il bacino di Cabernardi disponeva di 16 calcaroni, 8 batterie
di forni Gill a 4 celle e una sestiglia di Gill. Cfr. , Ministero di
Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio Minerario», per gli
anni considerati.
244
Si trattava soprattutto di donne vedove e con figli a carico che non avevano
nessun sostentamento dal momento che, a quei tempi, la pensione non c’era. Cfr.
,G. Stefanati, Cristalli nella nebbia minatori a zolfo dalle Marche a Ferrara,
Ferrara, 1996, p. 31.
245
Nell’abbattimento e nel trasporto del minerale si formava una grande quantità
di minerale minuto che veniva detto sterro.
119
buona solidificazione per poter avere la migliore qualità di zolfo. Era necessario che fossero
persone intelligenti e molto esperte poiché tale operazione incideva direttamente sulla
produzione. Per questo motivo il perito minerario li sorvegliava continuamente e impartiva
loro direttive. L’attività degli arditori era continua, dovendo badare spesso a più forni sia di
giorno che di notte.
La vita lavorativa di superficie implicava anche ruoli non strettamente legati alla produzione
di zolfo. Come si sa, un cantiere necessita di molte strutture, per essere autonomo. I fabbri
erano indispensabili in ogni centro solfifero dato che dovevano riparare gli strumenti di
lavoro dei minatori, arditori ed altre categorie di lavoratori oltre ai vagonetti a meno che non
richiedessero l’opera di meccanici specializzati come tornitori e fonditori. C’erano infatti
meccanici ed elettricisti di ogni tipo, il cui compito era di costruire pezzi di ricambio e di
eseguire le riparazioni più complesse. I trasporti in superficie venivano effettuati con
l’ausilio di muli o di piccoli locomotori il che implicava naturalmente l’impiego di mano
d’opera per indirizzare gli animali o guidare i mezzi meccanici.
Un elenco delle mansioni contrattuali previste nei lavori all’esterno della miniera e della
paga base giornaliera del 1919 è riportato nella seguente tabella.
120
Tabella 3.2 Mercedi giornaliere medie dei lavoratori all’esterno della miniera di
Cabernardi, in vigore con decorrenza dal 1° maggio 1919.
Fonte: Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1919.
Mansioni
Mercede giornaliera (lire)
Sorveglianti e guardiani
9-11
Macchinisti e fuochisti
6-12,80
Marcatori
8-10
Manovali carreggiatori
10,35
Falegnami
9-11
Fabbri
8-13
Muratori
5-8
Garzoni fabbri e falegnami
5-8
Manovali
3,50-9,99
Ricevitori ai pozzi
11,25
Caricatori calcaroni
9,16
Caricatori celle Gill
9,33
Abbadatori calcaroni
9,17
Abbadatori celle
9,10
Scaricatori calcaroni
9,71
Scaricatori celle
11,52
Manovali diversi
3,50-8
Per quanto riguarda gli “scaricatori dei calcaroni e celle Gill”, è necessario precisare che
queste categorie di lavoratori scomparvero pochi anni dopo. Infatti, a Cabernardi, per la
prima volta in Italia, furono applicati gli “scrapers”, macchinari per lo scarico dei rosticci
dai forni fusori. Ciò permise non solo un forte risparmio di tempo, ma anche l’eliminazione
del penoso e gravoso lavoro di scarico manuale246.
I dati della tabella 3.2 sono direttamente comparabili con quelli riportati nella tabella 3.1
(relativa all’interno della miniera). E’ evidente che i minatori avevano una paga ben più alta
246
Cfr. , AA.VV. La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel
venticinquesimo anno di amministrazione del Onor. Ing. Guido Donegani, 1935, p.
114.
121
di tutte le altre categorie di operai. Si può inoltre notare che la paga media giornaliera degli
addetti all’interno (esclusi i minatori) era praticamente allo stesso livello di quella degli
addetti all’esterno. Infine, non si riscontravano grandi differenze di guadagno tra i lavoratori
che operavano all’esterno, neanche considerando gli addetti al trattamento del minerale
rispetto a tutti gli altri.
3.3 INFORTUNI
Il lavoro in miniera è normalmente ritenuto un’attività ad alto rischio per la salute e talora
per la vita stessa. Effettivamente questa opinione è suffragata da molti episodi accaduti in
varie miniere italiane e nel mondo, benché la specificità di un lavoro che si svolge sotto
terra, ad una profondità anche di diverse centinaia di metri, sia tale da rendere ancor più
tremenda l’immagine di una realtà già estremamente pesante. In confronto alle lavorazioni
sotterranee per la coltivazione di altri minerali, le miniere di zolfo hanno sempre presentato
maggiori difficoltà dovute a vari fattori, ma principalmente alla presenza di gas tossici e
infiammabili ed alla frequenza di incendi del minerale.
A Cabernardi, nel periodo di attività della miniera si sono verificati numerosi incidenti che
hanno causato la morte di 130 lavoratori, oltre naturalmente alle migliaia di infortuni più
leggeri. La Rivista del Servizio Minerario riporta puntualmente la statistica dei casi più
gravi, cioè di quelli che hanno avuto come conseguenza morti o almeno feriti con lesioni
permanenti247. Specialmente nei fascicoli relativi agli ultimi decenni del secolo scorso ed ai
primi di questo secolo, il bollettino è assai dettagliato per cui è possibile trarre alcune
considerazioni. Innanzitutto, la maggior parte degli incidenti avveniva all’interno della
247
«Beninteso oltre ai detti accidenti, si ebbero come sempre, numerosi casi di
lesioni leggere, dei quali non si fa menzione dettagliata essendo essi da
ritenere, in genere, come effetti, pressoché giornalieri e inevitabili del
lavoro minerario». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del
Servizio Minerario», 1897, p. 21.
122
miniera, in particolare quelli mortali. Considerando le date in cui si verificarono gli
incidenti, si nota un fatto curioso in quanto si ha una concentrazione nei primi quattro mesi
dell’anno e nel mese di agosto. Sembrerebbe quindi esserci una relazione con l’alternarsi
delle stagioni tuttavia c’è da considerare che il numero dei lavoratori presenti in miniera
variava proprio con le stagioni, in funzione delle esigenze di lavoro nelle campagne. In tal
senso i momenti più critici erano quelli della raccolta e trebbiatura del grano, nei mesi di
giugno e luglio, e della raccolta e pigiatura dell’uva in autunno. Dal 1886 al 1910, gli
infortuni furono complessivamente 23, con 6 morti e 21 feriti, in media 1 infortunio
all’anno, 1 ferito ogni 14 mesi e 1 morto ogni 4 anni. Negli anni successivi il numero di
infortuni aumentò molto; basti pensare che nel 1935 si aveva una media di circa 10
incidenti alla settimana e quasi 2 al giorno nel 1936. La pericolosità dell’attività mineraria
risulta molto peggiorata negli anni ’30, anche tenendo conto del diverso numero di addetti
nei due periodi. Nel ventennio a cavallo dei secoli XIX e XX, si ha una media di 200-250
lavoratori, di cui l’85% operava all’interno della miniera, mentre nel 1935 gli operai erano
939 di cui 625 (il 66%) operanti all’interno. Ne risulta quindi che nel primo caso i morti
sono poco più di 1 all’anno ogni 1000 lavoranti, mentre nel 1935 il rapporto sale a 5,5 .
Naturalmente questi valori diventano ancor più rilevanti (1,5 contro 9 circa) se si considera
soltanto l’attività all’interno della miniera.
Per quanto riguarda le cause tecniche degli infortuni, le più frequenti erano dovute a :
scoppio di mine, esplosione di gas, accensione di grisou, asfissia per anidride solforosa,
distacchi di roccia, incendi di varia natura e cadute accidentali.
123
L’impiego di esplosivi ha sempre
rappresentato un pericolo, sia per
l’accensione di gas infiammabili
che per la facilità con cui le
esplosioni di mine incendiavano il
minerale ed il pulviscolo ricco di
zolfo che in più o meno grande
quantità si trovava in sospensione nell’atmosfera dei cantieri e dei sotterranei. Con gli
esplosivi impiegati inizialmente nella miniera di Cabernardi, in particolare la polvere nera, il
pericolo di incendi dopo lo sparo di mine si manifestava con molta frequenza.
Successivamente, con l’impiego di un altro tipo di esplosivo (la grisoutine), si attenuarono
in parte le probabilità di incendio anche se la ricchezza degli strati di minerale e l’aumento
delle coltivazioni e conseguentemente dell’impiego di mine contribuirono ad aumentare il
pericolo248. Furono quindi applicate alcune misure cautelari. Prima della carica, sia i fori per
le mine che il fronte di abbattimento venivano bagnati poi le mine nei cantieri di
abbattimento venivano fatte partire una per volta, e sempre in presenza del sorvegliante,
all’inizio del turno di lavoro. Per aumentare la sicurezza, negli anni ’30, le mine venivano
fatte esplodere elettricamente; metodo che presentava il vantaggio di eliminare la fiamma
per l’accensione della miccia249. Inoltre, subito dopo lo sparo di ogni mina, i minatori del
cantiere, muniti di maschere adatte per l’anidride solforosa, irroravano d’acqua il minerale
caduto e i punti in cui si rilevava un principio d’incendio.
248
L’impiego di esplosivi, a Cabernardi negli anni ’30, aveva assunto notevoli
proporzioni tanto che poteva oltrepassare 200 Kg al giorno ed anche se, come
prescriveva il regolamento di polizia mineraria, non si poteva introdurre nel
sotterraneo un quantitativo superiore al consumo giornaliero, tuttavia si
trattava di una quantità notevole. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza
nelle miniere di solfo, in «L’Industria mineraria d’Italia e d’Oltremare», a.
XIX, febbraio 1941, p. 44.
249
Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1937, p. 453 e 1938, p.489.
124
Il problema della mancanza di acqua rendeva più difficile l’operazione di spegnimento. In
epoca anteriore alla Prima Guerra Mondiale l’acqua era trasportata per mezzo di botti o con
vagonetti che venivano istallati nei pressi di ogni cantiere e riempiti prima dello sparo.
L’acqua era prelevata con secchi e lanciata nelle zone incendiate. Si ricorreva anche a grossi
stracci bagnati che venivano sbattuti contro le pareti incendiate. E’ quindi possibile
immaginare quanto difficile e penoso fosse tale lavoro250, tanto più che per difendersi
dall’anidride solforosa che si sprigionava, gli operai non disponevano di mezzi efficaci. Nel
primo dopoguerra la miniera venne munita di una vasta rete di tubazioni d’acqua alimentata
da grandi vasche di raccolta collocate all’esterno251.
L’incendio di un cantiere poteva portare, come più volte avvenne, alla chiusura dell’intero
sotterraneo con danni incalcolabili per l’industria e la maestranze. Nelle operazioni di
spegnimento notevoli erano le difficoltà da affrontare e lo spirito di abnegazione richiesto
agli operai, alcuni dei quali compirono atti di autentico eroismo, operando in ambienti resi
infernali per il caldo, l’umidità, la polvere, il fumo e le esalazioni di gas nocivi.
Nei numerosi incendi verificatisi nella miniera di Cabernardi non tutti erano da attribuirsi
alle esplosioni di mine, infatti il minerale di zolfo poteva incendiarsi per varie cause anche
dovute alla distrazione. Per cercare di eliminare questi pericoli innanzitutto era severamente
proibito fumare nel sotterraneo252. Le lampade a fiamma libera costituivano un’ulteriore
pericolo se gli operai che le adoperavano non usavano tutte le cautele, specialmente all’atto
250
«Il 21 luglio, nella miniera di Cabernardi, un minatore, per essere accorso
troppo volenterosamente e senza preoccuparsi dell’esame del cantiere, a spegnere
un principio d’incendio provenuto dallo sparo di una mina, rimase colpito ed
ucciso da un masso caduto dalla volta del cantiere stesso dove era stata pochi
momenti prima sparata la mina». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio,
«Rivista del Servizio Minerario», 1900, p. 19.
251
In un primo tempo l’acqua si prelevava dalle tubazioni che correvano soltanto
lungo le gallerie principali, ma in seguito l’impianto venne completato con
diramazioni per tutti i cantieri di coltivazione che in tale modo potevano
essere irrorati in qualsiasi momento da getti d’acqua a non meno di 15 atm. e
con lancio di 20 metri di lunghezza. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza,
cit., p. 43.
252
«dà luogo a immediato licenziamento l’essere trovato a fumare in miniera;
alla sospensione da uno a tre giorni, l’essere trovato con fiammiferi o altri
mezzi idonei a far fuoco in miniera o all’uscita di questa». Direzione delle
miniere di Cabernardi, op. cit., p.9.
125
di assicurarle con l’apposito gancio alla parete delle gallerie. Questa causa di possibili
incendi venne eliminata nel 1936 con la completa soppressione delle lampade a fiamma
libera che furono sostituite con quelle elettriche (a pila), una per lavorante, le quali
dovevano essere restituite all’uscita ed erano perciò contrassegnate dal numero di matricola
personale253. Un tipo di lampada particolare era quella destinata al sorvegliante: era fatta a
faretto e non a candela, ciò faceva sì che lo si potesse vedere a distanza.
Un fenomeno che qualche volta aveva dato luogo a seri inconvenienti, nella miniera di
Cabernardi, era rappresentato dall’incendio del minerale nei pozzi durante l’estrazione in
seguito a violento urto della gabbia e conseguente rovesciamento del minerale contenuto nei
vagonetti. Tale inconveniente causava scene di panico tra le maestranze per l’improvvisa
notevole emanazione di anidride solforosa che disorientava gli operai i quali non
conoscendo la causa, non sapevano da che parte dirigersi per mettersi in salvo254. Un’altra
causa di numerosi infortuni spesso mortali era costituita dall’emissione di gas nocivi:
anidride solforosa e grisou. L’anidride solforosa (o biossido di zolfo) si sprigionava da tutte
le rocce contenenti zolfo allo stato puro, ma proveniva specialmente da combustione del
minerale di zolfo. Questo gas tossico di odore irritante anche in percentuali minime
nell’atmosfera poteva essere mortale per l’uomo. A contatto dell’umidità e dell’ossigeno
dell’aria si trasforma parzialmente in acido solforico. Tale reazione avviene anche quando
l’anidride solforosa va a contatto con parti umide del corpo: irrita infatti gli occhi e le vie
respiratorie mentre a maggior concentrazione può provocare edema polmonare. In modica
concentrazione provoca starnuti, tosse spasmodica e salivazione abbondante. Per cercare di
253
Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1936, p. 50.
254
E’ da notare che i due pozzi di estrazione a Cabernardi, detti pozzi esterni
per distinguerli da quello interno, erano profondi 500 m.t. ognuno e mettevano
in comunicazione l’esterno con il XIII livello (livello base) essendo i livelli
superiori al XIII tutti esauriti. La velocità delle gabbie era notevole,
raggiungendo la media di 12 m.t. al secondo e ciò spiegava la violenza dell’urto
nel caso di inceppamento. Cfr. , A. Scicli, Problemi sulla sicurezza, cit.,pag.
47.
126
limitare tali danni veniva fatto uso obbligatorio da parte degli operai di apposite maschere
(anche se nell’ambiente in cui venivano usate non avevano grande efficacia).
Il grisou era molto temuto per l’effetto, spesso letale, che produceva nei colpiti da bruciature
anche di lieve entità. Non di rado avveniva che infortunati leggeri, che non avevano
riportato bruciature ma che avevano soltanto inspirato il gas prodotto dall’esplosione,
soccombevano dopo qualche tempo, pur non presentando alcun sintomo di gravità, tanto che
avevano spesso potuto raggiungere a piedi le proprie abitazioni. La sostituzione delle
lampade a fiamma libera con quelle elettriche a pila ed il brillamento elettrico delle mine si
rivelarono utili anche per tentare di eliminare le cause di esplosione da grisou255.
Nonostante i miglioramenti apportati dai metodi di coltivazione, i distacchi di minerale, che
si verificavano durante l’abbattimento, continuarono ad essere la causa principale di
infortuni. Si può infatti affermare che il numero di infortuni dovuti a distacco di minerale
era circa pari al totale degli infortuni causati dagli incendi, scoppi di gas e asfissia per gas
tossici. L’elevato ritmo di coltivazione e la profondità dei lavori, provocavano l’aumento
continuo di spinte dei terreni e di conseguenza anche dei pericoli di distacchi di minerale256.
Alternando il lavoro di abbattimento con periodi di inattività si otteneva una maggiore
sicurezza. Non sempre però era possibile disporre di un numero di cantieri tale da consentire
una certa rotazione, che non contrastasse con l’esecuzione di un determinato programma di
255
«...dovevano far sì che non capitassero disgrazie, ma invece, di disgrazie ne
sono capitate tante. L’episodio che più mi è rimasto impresso è stato lo scoppio
di grisou nell’anno 1937 che causò la morte di sette minatori. Quella volta,
come in tutti i casi di incidenti mortali, la sirena suonava in un modo
particolare, era un suono triste, allora tutta la popolazione capiva che c’era
stato “il morto” e accorreva preoccupata per scoprire chi era quel
“disgraziato”. Poi il lavoro veniva sospeso perché si doveva aspettare la
Commissione per il controllo». Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit.
256
Una vera strage si verificò nel 1920 quando sette operai perirono travolti da
un enorme blocco di roccia che si era distaccata dalla volta del cantiere. Un
altro infortunio mortale, agghiacciante nella sua dinamica, toccò ad un minatore
nel 1927 per la stessa causa. «Questi, per riposare, si era seduto su piano
inclinato di scarico del minerale ai piedi del cantiere, “perfettamente” a
riparo da eventuale caduta di minerale. Mentre se ne stava tranquillamente
seduto si verificò il “chioppo”; un blocco tagliente di minerale staccatosi
violentemente ed improvvisamente dal fronte di abbattimento imboccò come un
proiettile il piano inclinato e colpì il povero minatore alla nuca recidendogli
nettamente la testa che gli cadde in grembo». M. Battistelli, Gli zolfi di
Cabernardi, in «Quaderni di Proposte e Ricerche», n°4, 1988b, p. 279.
127
produzione. La manutenzione delle lunghe gallerie presentava, specialmente nelle parti più
profonde, gravi difficoltà per le sollecitazioni meccaniche e per le forti spinte laterali che
subivano. Anche il rivestimento in muratura spesso cedeva alla pressioni laterali. Un valido
risultato venne conseguito in quei tratti di gallerie più soggette a spinte e di più intenso
traffico, usando un rivestimento speciale in tondini di legno257.Con questo sistema, le
gallerie offrivano una grande resistenza alle pressioni e si mantenevano efficienti per molto
tempo, pur riducendosi di sezione. La spesa era costituita soltanto dalla manodopera,
dovendosi considerare di scarso costo il legname che veniva ricavato dai rifiuti delle
armature258.
La caduta del minerale non di rado provocava anche gli incendi facilitati da gas
infiammabili nonché dalla eccezionale ricchezza del minerale e dall’abbondante polvere di
zolfo che si sollevava in seguito alla sua caduta rendendo molto più grave l’incidente. Era
accaduto infatti che minatori colpiti, impossibilitati a liberarsi dai blocchi di roccia, erano
dovuti soccombere per effetto dell’anidride solforosa sviluppatasi subito dopo.
Un elemento fondamentale per la salute e la sicurezza dei lavoratori nella miniera era la
ventilazione del sotterraneo. Era un vero problema garantire l’aria necessaria alla normale
ventilazione del sotterraneo perché bisognava tenere conto dei molti fattori che influivano
sul consumo dell’aria quali, ad esempio, lo sparo di mine, piccoli e grandi incendi e la
combustione del minerale. Molta aria era inoltre necessaria per abbassare la temperatura
elevata dei cantieri e soprattutto rendere innocue le emanazioni di gas tossici ed esplosivi,
sempre presenti nei sotterranei in quantità più o meno rilevante. A Cabernardi la
ventilazione non fu mai sufficiente. Per un sotterraneo così vasto, fino al 1933 c’era una
257
Questi, lunghi 60 cm, venivano sistemati a raggiera, uno a contatto
dell’altro, attorno alla sezione circolare della galleria e cementati insieme
con malta costituita da “rosticci” convenientemente impastati con acqua. Cfr. ,
Mattias P., Crocetti G., Scicli A. , Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e
vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della
Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p.123.
258
I cantieri venivano fittamente armati con il legname in modo che i minatori
potessero praticare i fori di mina a mezzo di lunghe barramine, mantenendosi
possibilmente sempre al riparo delle armature.
128
sola presa d’aria259. L’aria immessa percorreva, in sottosuolo, circa 2 Km dopo aver
ventilato numerosi cantieri distribuiti su diversi livelli. Nel 1934 entrò in esercizio un
secondo riflusso (denominato Poggio), e nel 1936 una terza presa d’aria, la ventilazione
migliorò ma per l’estensione dei lavori non poteva considerarsi ancora efficace260. Inoltre
l’installazione di potenti aspiratori agli imbocchi provocava una velocità eccessiva delle
correnti d’aria nelle vie di transito. L’aria raggiungeva anche una velocità di 8 m/s
sollevando polvere e granuli di zolfo tanto da causare problemi ai minatori come: forte
irritazione agli occhi e mal di testa. Per difendersi da tali inconvenienti venivano usati
occhiali bordati di gomma, ma i vetri, appannandosi, riducevano la visibilità rendendo poco
agevole il transito nelle gallerie e nei ripidi piani inclinati. Spesso per insufficiente
ventilazione e per l’elevata temperatura alcuni cantieri dovevano essere chiusi. La
temperatura media era di circa 30° C ma spesso si raggiungevano i 39° C con umidità
oscillante tra 80-85%, di conseguenza, in alcune zone della miniera, il lavoro non poteva
essere svolto per tempi superiori a 15-20 minuti. Le maestranze normalmente non si
lamentavano per l’elevata temperatura, anzi molti la preferivano perché ottenevano un
premio che poteva oltrepassare le 300 lire al giorno. Infatti il contratto collettivo del 28
novembre 1947 fra l’Associazione Industriali e la Camera Confederale del Lavoro della
provincia di Ancona, stabiliva, ad integrazione del contratto nazionale, le seguenti
percentuali d’aumento sulle retribuzioni di fatto (paga base, più contingenza ed eventuali
premi) o sulle tariffe di cottimo261.
259
Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1933, p. 14.
260
Cfr. , Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, «Rivista del Servizio
Minerario», 1936, p. 49.
261
Cfr. , Museo della miniera di zolfo di Cabernardi, Rapporto sulla visita
eseguita alle miniere di solfo Cabernardi dal Perito Capo A. Scicli del Corpo
delle miniere (Distretto di Bologna) il 22-23-24 marzo 1949 per ispezione
ordinaria.
129
Temperatura (C°)
Maggiorazione del (%)
29
5
30
7
31
9
32
11
33
14
34
17
35
20
36
25
37
29
38
34
39-40
35
41-42
36
43-44
37
130
CAPITOLO QUARTO
LA MINIERA E CABERNARDI
4.1 SVILUPPO SOCIO-ECONOMICO
La scoperta della miniera di zolfo ha determinato un forte processo di trasformazione per il
paese di Cabernardi apportando un notevole sviluppo economico e sociale.
Fino ad allora la scarsa popolazione locale era dedita ad una attività agro-pastorale piuttosto
arretrata. I piccoli appezzamenti di terreno, rudimentalmente coltivati, rendevano molto
poco.
Dalla scoperta della miniera la vita del paese, a poco a poco cambiò completamente.
Per oltre cinquant’anni Cabernardi assunse un ruolo chiave, fu un riferimento obbligato in
ambito occupazionale per tutti i Comuni limitrofi.
Il richiamo occupazionale coinvolse, anche se in minima parte, molte regioni italiane; gran
parte delle maestranze provenivano principalmente da vari Comuni delle due province
marchigiane di Ancona e Pesaro e specificamente da Pergola, Arcevia, S. Lorenzo in
Campo, Castelleone di Suasa, Genga, Serra S. Abbondio, oltre che naturalmente da
Sassoferrato (Comune di appartenenza della frazione di Cabernardi).
Per tutto il periodo tra le due guerre la produzione di zolfo, monopolizzata nelle Marche
dalla Montecatini che nel 1917 aveva assorbito le miniere e le raffinerie marchigiane,
conobbe una crescita assai forte. Cabernardi, che si rivelò la più produttiva miniera di zolfo
d’Italia, registrò un trend ascendente e riuscì ad aumentare la sua quota relativa rispetto alla
produzione nazionale, che passò dal 7.5% del 1923 al 14% del 1933 e raggiunse circa il
18% nel 1938. Il numero di addetti alla miniera che nel 1919 era pari a 680 persone giunse a
131
quota 1000 nel 1930 per poi attestarsi ad un livello non inferiore alle 1500 unità fino al
1951-52 quando erano occupati mediamente 1700 operai. A conferma di ciò il censimento
del ’51 rivela che la produzione di zolfo nelle Marche contava 3196 addetti (22.6% del
totale nazionale) localizzata nei due Comuni di Sassoferrato (AN) e Novafeltria (PS)262.
L’importante ruolo svolto dal centro minerario è chiaramente indicato non solo dalla
quantità estratta e dal numero di addetti, ma anche dalla maggior tenuta demografica della
zona, in un periodo nel quale vi erano evidenti fenomeni di spopolamento delle zone
dell’entroterra.
Tabella 4.1 Popolazione residente nel comune di Sassoferrato e nella frazione di
Cabernardi
Fonte: Ufficio Anagrafe di Sassoferrato
Anni
1871
1881
1901
1911
1921
1931
1936
1951
Sassoferrato
9020
9403
11235
12378
12610
12906
12996
13488
Cabernardi
426
512
665
870
1075
1285
1507
1733
Pop. Cab./pop. Sass. %
4.7
5.4
5.9
7.0
8.5
10.0
11.6
12.8
Come si può osservare dalla precedente tabella, la popolazione residente nel comune di
Sassoferrato e nella frazione di Cabernardi, dal 1871 al 1951, mostra una continua crescita.
Tale crescita demografica, specialmente per la frazione di Cabernardi, diventa molto più
evidente nel periodo che va dalla Prima Guerra Mondiale al 1951 e che corrisponde al
massimo sviluppo della miniera.
Questo assume ancora maggior importanza se si considera che le Marche furono interessate
da un largo fenomeno di emigrazione. Come si può vedere dai dati riportati in Tabella 4.1,
tra il 1861 e il 1981 la popolazione iniziale delle Marche di 908000 abitanti conobbe un
262
Cfr., Comitato regionale degli amministratori degli enti locali delle Marche,
Situazione e prospettive dell'economia marchigiana, Ancona 1961, p. 217.
132
saldo naturale complessivo di 1163000 unità, di queste 659000 (57%) presero la via
dell’esodo dalla regione.
Tabella 4.2 Evoluzione demografica nelle Marche: movimento
naturale e migratorio, 1861-1981.
Fonti: Censimento generale della popolazione e Annuario statistico italiano,
anni vari; Istat, Annuario di statistiche demografiche; voll. XXVI, 1977, pag.
16-17; XXXII, 1983, pag. 163-64.
anni
saldo
naturale
espatri
rimpatri
(3)
_
saldo
migratorio
estero
(4)=(3)-(2)
_
saldo
movimento
sociale
(5)
-14 293
saldo
migratorio
interno
(6)=(5)-(4)
_
1861-70
(1)
63 283
(2)
_
1871-80
49 504
_
_
_
-34 543
_
1881-90
220 520
19 369
_
_
-104 223
_
1891-
compreso
49 200
_
_
compreso
_
1900
sopra
1901-10
127 384
221 519
127 075
-94 444
-71 142
23 302
1911-20
115 578
129 033
34 568
-94 465
-59 997
34 468
1921-30
155 742
76 431
26 441
-49 990
-116 465
-66 475
1931-35
66 004
5 098
5 074
-24
-27 796
-27 772
1936-40
162 841
2 368
3 206
838
-76 882
-54 115
1941-50
compreso
29 968
6 363
-23 605
compreso
compreso
sopra
sopra
sopra
sopra
1951-60
92 168
65 373
31 491
-33 882
-108 709
-74 827
1961-70
79 312
62 534
59 536
-2 298
-66 894
-63 896
1971-80
30 406
20 660
28 906
8 246
22 091
13 845
Totale
1162 751
-658 853
Si trattò di emigrazione all’estero, che nel primo quindicennio del ‘900 e anche nel primo
dopoguerra aveva superato il livello medio italiano, e di una emigrazione interna, verso altre
regioni, che raggiunse il suo culmine nel secondo dopoguerra.
133
Nel complesso, mentre nel periodo 1901-1920 si sono avuti circa 350000 espatri nelle
Marche, in gran parte concentrati nei primi 13 anni, se ne sono registrati 76000 nel decennio
1921-1930 e soltanto 7500 in quello successivo. Le destinazioni degli espatri erano
soprattutto intercontinentali ma si ebbe anche un flusso verso i Paesi europei. La progressiva
riduzione e fine dei flussi di emigrazione verso l’estero caratterizzò tutto il periodo tra le
due guerre in cui però restò consistente l’esodo verso altre regioni italiane.
Il periodo che va dal 1927 alla Seconda Guerra Mondiale, si caratterizza per le maggiori
difficoltà di esodo. Il blocco totale degli espatri, le minor possibilità di impiego anche in
altre zone del Paese (connesse all’aggravarsi ed al prolungarsi della recessione fino almeno
al 1935) ed infine lo scoppio della guerra limitarono senza dubbio, rispetto al decennio
precedente, la mobilità extra-regionale. Per quanto riguarda tale migrazione interna,
dall’analisi dei dati censuari, si osserva che tra i nati nelle Marche residenti in altre regioni
italiane, il Lazio si colloca al primo posto con oltre il 50% nel 1901, scende al 42% nel 1921
per risalire al 45% nel 1931 e al 50% nel 1951. Risulta quindi una prima emigrazione
indirizzata in prevalenza verso aree rurali (campagna laziale). Successivamente si ha una
ripresa dell'emigrazione collegata in questo caso al processo di urbanizzazione in atto, con i
flussi rivolti prevalentemente verso Roma263. Infatti, all’inizio degli anni ’50, malgrado si
fosse avuta una flessione dell’incremento naturale piuttosto forte tra il ’36 e il ’51 per
l’incidenza della guerra, la popolazione delle Marche era a livelli insostenibili per le
possibilità offerte dall’economia regionale264.
Nell’entroterra marchigiano, pur restando l’agricoltura la base dell’economia locale, la
miniera di Cabernardi non fu un fatto marginale ma un vero polo di attrazione di
manodopera scongiurando o almeno limitando, specialmente nel periodo tra le due guerre, il
fenomeno migratorio e la disoccupazione.
263
Cfr., E. Moretti, L'evoluzione demografica, in S. Anselmi (a cura di),
L’industria nella provincia di Pesaro e Urbino, 1995, pp. 125-127.
264
Cfr. P. Magnarelli, M. Pacetti, Aspetti della società marchigiana dal
fascismo alla Resistenza, pp. 19-20.
134
Negli anni ’20 il considerevole afflusso di lavoratori alla miniera aveva fatto sorgere ben
presto il problema della mancanza di abitazioni. La Società Montecatini iniziò a costruire
locali pubblici e case per le maestranze. Vennero edificate 3 case operaie a Cantarino,
località ad ovest del paese265.
Tra il 1924 e il 1929 fu particolarmente rilevante, a Cabernardi, la crescita edilizia. La
Società Montecatini, infatti, secondo una logica di intervento globale nel territorio che
caratterizzava ogni suo insediamento, anche a Cabernardi, a partire dagli anni ’20, aveva
iniziato una radicale trasformazione che riguardava anche l’organizzazione quotidiana del
minatore e della sua famiglia.
La Società fece costruire spacci aziendali, circoli ricreativi, case e chiese, concesse pezzetti
di terra e provvide all’istruzione scolastica, naturalmente differenziata, per i figli di operai
ed impiegati266.
Nel 1929 la Montecatini costruì gli edifici per le mensa e per la Cooperativa dei Minatori.
Vi erano due distinte mense: una per gli operai e una per gli impiegati scapoli. Negli anni
seguenti, per opera della Società, furono costruite altre case per gli operai della miniera in
una zona che prese il nome di via Contrada Nuova ed edificati palazzi per gli impiegati in
via Cafabbri.
Nel 1933 sorse il villaggio denominato Cantarino, una vera e propria borgata operaia dotata
di chiesa e di circolo ricreativo. Nella generalità dei casi gli edifici presentavano caratteri
del tutto ordinari e si distinguevano soprattutto per l’estrema essenzialità e la perfetta
funzionalità rispetto alle esigenze a cui dovevano rispondere. Le abitazioni degli operai,
però, erano prive dei più indispensabili servizi igienici: gabinetti, acqua corrente. Per
rimediare a ciò la Montecatini fece costruire nei pressi della miniera gabinetti e bagni
265
Cfr. Ministero di agricoltura Industria e Commercio, «Rivista del servizio
minerario», 1920, p. 6.
266
Cfr. G. Stefanati, Cristalli nella nebbia minatori a zolfo dalle Marche a
Ferrara, Ferrara 1996, pp. 32-33.
135
pubblici muniti di docce con acqua calda e fredda, dei quali potevano usufruire sia gli operai
che le loro famiglie267.
Lo sviluppo edilizio proseguì negli anni successivi per opera dell’INA-Case come per il
villaggio Santa Barbara edificato in epoca più recente (1950-51).
Intorno agli anni ’30 la Montecatini costruì un fabbricato ad uso degli operai e di tutto il
paese: il Dopolavoro. Tale edificio era predisposto all’intrattenimento, vi erano un teatro ed
una sala cinematografica dove il sabato e la domenica veniva proiettato un film.
Si svolgevano attività ricreative organizzate da un Comitato dopolavoristico; in esso
esercitavano due complessi da ballo ed anche una compagnia di filodrammatica molto
rinomata nella zona composta esclusivamente dal personale di Cabernardi che si esibiva in
spettacoli con un vasto repertorio.
Venivano organizzate manifestazioni canore e feste da ballo anche in maschera a carnevale.
Oltre ad un campo sportivo, Cabernardi aveva allora tre campi da tennis, due ad uso
esclusivo degli impiegati, un campo da bocce ed un pattinaggio268.
Anche il culto rientrava tra i settori di intervento della Montecatini: alle tre chiese
preesistenti ne venne affiancata un’altra (nel 1933) in prossimità della miniera, di minuscole
proporzioni ed a forma di antico tempietto, naturalmente dedicato a Santa Barbara, patrona
dei minatori.
Alla chiusura della miniera, nel suo interno, su delle lapidi, sono stati incisi i nomi dei 130
caduti sul lavoro negli 80 anni di attività.
Il 4 dicembre di ogni anno si celebrava la festività di Santa Barbara, una ricorrenza molto
sentita per le sue tradizioni, con una messa solenne e ed una processione con la statua della
Santa portata a spalle dai minatori. L’atmosfera di festa era vivacizzata con lo sparo di mine
267
Cfr. AA. VV. La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel
venticinquesimo anno di amministrazione dell'Onor. Ing. Guido Donegani, 1935,
pp. 594-598.
268
«La Montecatini aveva una squadra di calcio molto forte che faceva un
campionato di prima divisione, quella volta». Testimonianza di Angelo Ruzziconi,
di anni 82, ha lavorato nella miniera di Cabernardi per 20 anni ricoprendo
diverse mansioni, incontrato il 16 maggio 1997 a Cantarino (Sassoferrato).
136
e fuochi artificiali, di certo assai vicini, non solo simbolicamente, allo spirito del lavoratore
di miniera. La banda musicale dei minatori prestava servizio tutta la giornata. La Direzione,
in occasione della festività, offriva a tutte le maestranze un chilogrammo di carne e due litri
di vino269. Al mattino si svolgeva la cerimonia di premiazione, da parte della Montecatini,
degli operai e degli impiegati che avevano raggiunto i venti anni di anzianità di servizio.
Un’altra manifestazione, che prevedeva la premiazione dei dipendenti che avevano
compiuto 25 anni di anzianità, avveniva il 1° maggio270. Lo stesso giorno era prevista la
premiazione degli “anzianissimi” ossia di coloro che avevano compiuto 45 anni di
servizio271.
Negli anni ’30 Cabernardi era dunque già dotata di tutti i servizi essenziali o almeno di
quelli allora sentiti come tali.
Erano sorti nuovi negozi: dall’unico esistente prima della scoperta della miniera si arrivò
all’apertura di altri tre, che con l’aumentare del benessere poterono ingrandirsi. Tutti quanti
vendevano diversi generi di merce. Tra essi vi era la Cooperativa dei Minatori, sorta per
favorire i lavoratori. Le merci potevano essere acquistate a prezzi inferiori di circa un 10%
di quelli correnti di mercato. Inoltre serviva ad equilibrare la distribuzione degli acquisti del
personale attraverso opportune regolazioni e condizioni di credito, l’importo della spesa ivi
fatta veniva mensilmente detratto dalla busta paga delle maestranze272. La Cooperativa
269
«...ero uno degli organizzatori della festa, e facevo anche parte della banda
musicale, molto rinomata. Una settimana prima della festa si andavano a trovare
nelle campagne, dai contadini, circa quindici vitelli. Due giorni prima di Santa
Barbara questi animali venivano fatti scendere in piazza e si facevano passare
per la via principale fino al macello». Testimonianza di Francesco Sonaglia, di
anni 78, ha lavorato nella miniera dal 1933 al 1959 ricoprendo le mansioni di
(in ordine di tempo) addetto alla cernita, locomotorista e arganista, inoltre fu
segretario della Commissione Interna per sette anni, incontrato il 9 maggio 1997
a Cabernardi.
270
Il premio ai “fedeli della miniera” era fissato in misura pari a 30 giorni di
retribuzione dell’operaio interessato. Era invece di 60 giorni di retribuzione
quando il servizio era stato prestato presso la stessa impresa mineraria. Cfr.
Associazione Mineraria Italiana, Contratto nazionale di lavoro per la
corresponsione di un premio ai fedeli alla miniera 3 dicembre 1946, Faenza,
1946, p. 17.
271
Cfr. Montecatini Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica, I
nostri Anziani, Milano, maggio 1950, p. 4.
272
«La Cooperativa vendeva di tutto, i dipendenti della Montecatini segnavano la
spesa su un libretto, poi, alla fine del mese veniva trattenuta dallo stipendio.
137
comprendeva diversi reparti: stoffe, calzature, generi alimentari, un forno per il pane ed un
macello con relativo mattatoio.
Per chi non aveva mai avuto nulla, per chi vedeva come orizzonte lavorativo solo
l’emigrazione, la Società Montecatini era considerata come entità benefattrice e, tra le due
guerre, Cabernardi era vista come un’isola nel panorama generale marchigiano273. La
diffusione dei mezzi motorizzati (motocicletta, scooter, automobile) tra i minatori era
talmente elevata da portarsi alla media registrata negli Stati Uniti, ossia di un’unità ogni
cinque abitanti274.
Tutto ciò nonostante le condizioni inumane di lavoro a cui si deve aggiungere l’elevato
rischio di incidenti anche mortali275. Una stima approssimata parla di oltre 130 morti presso
la miniera di Cabernardi, per non contare le migliaia di infortuni oltre alle scontate malattie
professionali.
Quella della Montecatini comunque fu una vera e propria politica sociale che si identificava
in lavoro-assistenza-Dopolavoro.
L’assistenza sanitaria totale era già in atto a partire dal 1928 in tutti i suoi aspetti igienici,
antinfortunistici e relativi servizi276. Nello stesso edificio degli uffici amministrativi erano
stati costruiti un’infermeria ed un ambulatorio medico (nel 1920).
Molta gente quando andava a ritirare la busta paga, che accadeva il 12 di ogni
mese, non ci trovava molto visto la facilità di fare la spesa. Inoltre il giorno
di paga a Cabernardi c’era il mercato con bancarelle e giostre». Testimonianza
di Angelo Ruzziconi, cit.
273
«...quella volta chi lavorava in miniera era un “signore”, era considerato
“qualcuno” perché, 50 anni fa, anche più, chi lavorava in miniera era fortunato.
Avevamo una vita molto dura, ma guadagnavamo bene, intendiamoci per quei tempi!
Le famiglie erano numerose e coloro che venivano licenziati “si strappavano i
capelli” perché non sapevano dove andare a lavorare. Mio padre, che lavorava in
miniera, si era raccomandato dal direttore per fare entrare anche me e i miei
due fratelli...la Montecatini ha sparso il benessere in tutta la zona del nostro
comprensorio ed in altre parti più lontane». Testimonianza di Francesco
Sonaglia, cit.
274
Cfr. «L’Unità», 15/05/1952.
275
Questo argomento è stato ampiamente trattato nel terzo capitolo.
276
Cfr. A. Damiano, Guido Donegani, 1957, pp. 114-115.
138
Vi era un medico chirurgo retribuito dalla Società, un dentista che faceva visite due volte a
settimana ed un medico condotto che provvedeva alla salute dei cabernardesi. In un secondo
momento venne anche aperta una farmacia277.
L’infermeria era dotata di tutta la strumentazione necessaria per la piccola chirurgia
d’urgenza, di impianti radiologici, di un ambulatorio da dentista e di altri servizi necessari.
L’attività sanitaria assistenziale della Montecatini si diversificava in assistenza e controllo
degli infortuni e delle forme morbose professionali, prevenzione ambientale, tecnica e
personale degli infortuni, delle malattie professionali e comuni e assistenza nelle malattie
comuni.
Per quanto concerne il personale impiegatizio, il Gruppo aveva creato sin dal 1921 una
Cassa di Previdenza che attraverso opportune intese con Enti Mutualistici metteva a
disposizione del personale non soltanto le prestazioni ordinarie mediche, ma anche quelle di
specialità, di intervento chirurgico e di assistenza ospedaliera.
Per il personale operaio, sul piano dell’assistenza mutualistica, la Montecatini ebbe una sua
propria organizzazione aziendale di Casse Mutue a partire dal maggio 1932278.
A Cabernardi, nel 1934, esitevano due distinte istituzioni di previdenza a contributo
paritetico: la Cassa Mutua Aziendale Malattie e la Cassa Pensione. La prima concedeva
sussidi durante il periodo di malattia e provvedeva anche all’assistenza medica ed
ospedaliera sia agli operai che alle loro famiglie. La seconda provvedeva a corrispondere
pensioni (di 100 lire mensili) a quegli operai che, avendo raggiunto un’anzianità di servizio
di 20 anni e compiuto il 60° anno di età, fossero divenuti inabili al lavoro279.
277
Testimonianza di Eleonora Casagrande Conti, che provenendo da una famiglia di
minatori ha trascorso parte della sua vita a Cabernardi, incontrata il 10 maggio
1997 a Cabernardi.
278
Cfr. AA.VV. La Società Montecatini, cit., pp. 584-597.
279
A questo scopo «nel 1934 furono erogate circa 60000 lire. Entrambe le casse,
le cui spese di amministrazione sono a carico della Società esercente le
miniere, sono assai floride ed hanno accumulato cospicuo fondo di riserva che le
mette a riparo da eventualità». Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio,
«Rivista del Servizio minerario», 1934, p. CCCLXXIV.
139
L’intensa attività della miniera, come si è visto, fece affluire a Cabernardi un considerevole
numero di maestranze che, in seguito, richiamavano dai vari paesi di origine le rispettive
famiglie. Conseguenza di ciò fu l’enorme aumento della popolazione scolastica. Al posto di
un’unica insegnante con solo le prime tre classi elementari che accoglieva alunni da tutte le
zone limitrofe, si arrivò al considerevole numero di sette maestre a Cabernardi e alla
costruzione di altri edifici scolastici nelle vicine frazioni. Fu costruito (1948-49) un nuovo
edificio al centro del paese dato che il vecchio era ormai insufficiente, tanto che si era
costretti a tenere le lezioni in alcune aule sparse in case private.
In estate funzionavano le colonie montane e marine, finanziate sempre dalla Montecatini per
i figli dei suoi dipendenti280.
L’educazione pre-scolastica era affidata all’asilo delle Suore del Buono e Perpetuo
Soccorso, sostenute finanziariamente dalla Montecatini, che accoglievano anche ragazze per
perfezionamento in lavori di cucito e ricamo.
La Montecatini interveniva nella vita del dipendente anche ai fini di assistenza familiare ed
economica, sia con sussidi, che venivano assegnati previa riservata e opportuna istruttoria,
sia con aiuti in varie circostanze come facilitazione di corsi di studio ai figli degli impiegati,
appoggi a pratiche, concorsi in spese eccezionali.
4.2 PROBLEMI ECOLOGICI
La miniera se da un lato influiva positivamente sulla vita del paese portando il benessere e
la piena occupazione, dall’altro aveva comportato problemi di un certo rischio sia per le
persone che operavano nel sottosuolo, sia per l’ambiente a causa dell’anidride solforosa che
proveniva dalla fusione del minerale. I danni all’ambiente, ma soprattutto all’agricoltura,
280
Testimonianza di Marino Ruzziconi, figlio di minatore della miniera di
Cabernardi, ha partecipato alle colonie estive della Montecatini, incontrato il
10 febbraio 1997.
140
venivano prodotti all’esterno della miniera dai processi di separazione dello zolfo dal
minerale che lo contiene.
E’ noto infatti che lo zolfo per la sua bassa temperatura di fusione, intorno ai 114 gradi, può
essere estratto direttamente dalla roccia nella quale è incluso mediante riscaldamento in
particolari forni o mediante la combustione diretta con produzione però di anidride solforosa
(biossido di zolfo)281. Questo gas inquinante era liberato nell’atmosfera in quantità enormi
dal grande apparato di forni fusori situati all’esterno della miniera di Cabernardi.
Il fumo (termine dialettale per indicare l’anidride solforosa), sprigionato durante la fusione,
si diffondeva dappertutto e il suo odore pungente si sentiva a distanza di chilometri, anche
all’interno delle abitazioni. Talvolta la sua concentrazione nell’aria era talmente elevata che
«le monete d’argento diventavano nere e così tutti gli oggetti»282.
Il danno maggiore o quantomeno il più immediato era quello provocato all’agricoltura e alla
flora, dalle piogge acide specialmente nel periodo di fioritura e allo spuntare dei primi
germogli.
In presenza di nebbia o di una fortissima umidità l’anidride solforosa si ossida
trasformandosi prima in acido solforoso e successivamente, prendendo un nuovo atomo di
ossigeno, in acido solforico. Questo acido agisce spesso con grande rapidità e talvolta, in
poche ore, quando vi concorra un sufficiente grado di umidità, brucia e dissecca la
vegetazione283. Vi sono due modi di danneggiamento alle piante: avvelenamento per
assorbimento di anidride solforosa e l’azione caustica diretta dell’acido solforico. Quando la
pianta assorbe l’anidride solforosa gassosa, ne risulta un ingiallimento e un rallentamento
notevole in tutte le funzioni della pianta stessa. Nel caso invece che l’anidride solforosa si
281
Mattias P., Crocetti G., Scicli A. , Lo zolfo nelle Marche. Giacimenti e
vicende, Università degli studi di Camerino, Dipartimento di Scienze della
Terra, Scritti e documenti XVI, Roma, 1995, p.21.
282
M. Battistelli, Gli zolfi di Cabernardi, in A. Antonietti (a cura di), La
montagna appenninica in età moderna, in «Quaderni di Proposte e Ricerche», n. 4,
1988b, p. 279.
283
Cfr. A. Veggiani, Problemi ecologici connessi all'attività delle antiche
miniere di zolfo del Cesenate, in S. Lillotti (a cura di), La miniera tra
documento storia e racconto rappresentazione e conservazione, Bologna, 1991, pp.
141-143.
141
trovi in presenza di acqua e si produca quindi una miscela di acido solforico, gli effetti più
gravi che si hanno sono la caduta prematura e l’avvizzimento delle foglie ustionate284.
A Cabernardi, come in altri centri minerari, il diffondersi dell’anidride solforosa era
agevolato dalla posizione delle miniere. Queste ultime erano situate in zone collinari ed in
presenza di piccole valli entro le quali l’anidride solforosa, essendo più densa dell’aria e non
potendosi sollevare in alto, tendeva a dilagare. Di giorno si disperdeva ma la sera, con
l’umidità ricadeva nelle campagne circostanti, bruciando ogni cosa per un raggio di circa
dieci chilometri.
Le liti tra i proprietari dei fondi agrari colpiti dal fenomeno e i conduttori di miniere sulfuree
erano sempre state all’ordine del giorno fin dalla comparsa delle prime carcare (una sorta di
piccoli calcaroni molto rudimentali) e più volte le autorità erano intervenute con
provvedimenti legislativi atti a vietare la fusione in alcuni mesi dell’anno per dare modo ai
nuovi germogli di prendere vigore. Questi provvedimenti, salutari per l’agricoltura ma
dannosi per l’economia della miniera, su cui gravava anche il risarcimento dei danni ai
proprietari dei fondi confinanti, fecero sì che le ditte esercenti le miniere acquistassero
spesso i terreni maggiormente esposti all’azione del gas solforoso, terreni che lasciavano per
lo più incolti o affittavano ad un canone irrisorio purché gli affittuari non pretendessero
alcun risarcimento per “danni fumo”.
Dei vari problemi connessi con l’esercizio dell’arte mineraria quello dell’inquinamento
atmosferico nelle arie limitrofe alle miniere di zolfo non fu mai risolto. Solo la loro chiusura
aveva restituito a quelle contrade il giusto equilibrio ecologico. Infatti, al cessare
dell’attività estrattiva, si è assistito ad una naturale ricrescita della flora sostenuta anche da
interventi di rimboschimento.
284
Cfr. U. Brizzi, Gli effetti
vegetazione, Modena 1896, p.57.
dannosi
142
dell’anidride
solforosa
sulla
4.3 CONSEGUENZE DELLA CHIUSURA
Nel 1952 alla miniera di Cabernardi, dopo 80 anni di attività, iniziarono i primi
licenziamenti e gli impianti cominciarono ad essere smantellati, in seguito ad una perizia
tecnica della Montecatini che aveva dimostrato che i giacimenti di zolfo erano esauriti. La
chiusura definitiva avvenne nel 1959285.
Per la frazione di Cabernardi e per il suo Comune, Sassoferrato, questo fu un colpo quasi
mortale, di cui risentì tutta la zona vicina.
La miniera di zolfo rappresentava una delle poche grandi industrie delle Marche. In essa
lavoravano circa 1700 operai (provenienti soprattutto da Sassoferrato, Pergola, Genga,
Arcevia e zone limitrofe).
Nella provincia di Ancona, prima della Seconda Guerra Mondiale, si trovavano attivi solo
cinque stabilimenti aventi ciascuno una maestranza occupata superiore alle 1000 unità. La
guerra provocò la scomparsa di due di quei stabilimenti: il Savoia-Marchetti di Jesi e il
linificio di Senigallia286. Con la chiusura della miniera si assisteva alla scomparsa di un
terzo stabilimento.
La chiusura colpiva non solo gli addetti ma anche categorie economiche apparentemente
lontane come i commercianti, gli artigiani, i lavoratori della terra. Minor occupazione
significava minor giro di denaro e un danno economico che si ripercuoteva, in misura
diversa, su tutta la zona.
Nel secondo dopoguerra, infatti, l’attività industriale in questa zona aveva regredito
(chiusura dei due pastifici e riduzione del personale del cementificio a Sassoferrato,
chiusura di un cementificio, una fabbrica laterizi, un molino a cilindri e del grande
285
Per una più ampia trattazione sugli ultimi “turbolenti” anni di vita della
miniera si veda il paragrafo 1.6.
286
Cfr. U. Massola, Liberare l’industria zolfiera dal laccio dei monopoli,
Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella Seduta del 25 settembre
1952, p. 36.
143
stabilimento “Fiorentini” a Fabriano) e l’incidenza dell’industria sull’economia locale si era
affievolita gradatamente287.
Il comprensorio aveva man mano riacquistato tutte le caratteristiche di una zona montana
depressa, ad economia principalmente agricola.
A Fabriano gli unici complessi industriali di un certo rilievo ancora in piedi negli anni
cinquanta erano le “Cartiere Miliani”, che però avevano bloccato le assunzioni, e “Merloni”
(strumenti per pesare, mobili metallici, smalteria).
Col passare degli anni, per iniziativa privata, erano sorti alcuni stabilimenti (complessi
industriali Merloni di Albacina, Cerreto e Matelica, fabbrica pantofole di Serra dei Conti
negli anni cinquanta, Calzaturificio “Wainer”, Cartiera del Sentino, attualmente chiusa, e
fabbrica bombole della “A. Merloni” a Sassoferrato negli anni sessanta), l’iniziativa privata
locale però, non è stata in grado da sola di industrializzare una zona ad economia agricola
depressa: ci sarebbero voluti mezzi, facilitazioni e incoraggiamenti tali da spingere i privati
a creare nuove fonti di lavoro.
La scomparsa della miniera ha segnato l’arresto e la regressione della vita del paese di
Cabernardi sotto tutti i punti di vista.
Cessata l’unica fonte di lavoro, veniva di conseguenza a mancare la possibilità di rimanere a
Cabernardi per tutti quelli che avevano una famiglia a carico e a tutti i licenziati non ancora
pensionabili.
La Montecatini aveva licenziato tutti coloro che avevano partecipato all’occupazione della
miniera del maggio 1952 ossia 400 minatori.
Tra i licenziati molti si trasferirono a Roma, a cercare fortuna, seguendo la scia migratoria
della zona.
La Montecatini trasferì i più giovani e meglio qualificati in altre miniere o stabilimenti di
sua proprietà (Sicilia, Toscana, Veneto, Trentino, ecc.), in tutto 440 lavoratori, e mise a
287
Cfr. G. Castagnari, La montagna che piange, Fabriano, 1960, pp. 34-35.
144
riposo i più anziani con una modesta pensione. Circa 100 operai ottennero la pensione di
invalidità.
La maggior parte dei lavoratori (più di 300) vennero trasferiti a Ferrara (Pontelagoscuro).
Il trasferimento al costituendo stabilimento petrolchimico di Ferrara ebbe inizio nell’ottobre
1952. Ad attuare il processo di mobilità fu la medesima azienda Montecatini, che deteneva
entrambe le proprietà.
Sulle prime, all’indomani della firma dell’accordo sulla chiusura, la Società Montecatini
aveva offerto anche un incentivo ai minatori che decidevano di trasferirsi in altri
stabilimenti, un compenso di 25000 lire, praticamente uno stipendio mensile.
A coloro che scelsero Ferrara (l’alternativa era rappresentata soprattutto dalle miniere
siciliane) veniva offerta anche un’integrazione mensile di circa 6000 lire per pagare l’affitto
e la promessa che presto avrebbero avuto case proprie in area Pontelagoscuro, nei pressi
dello stabilimento.
Il primo nucleo trasferito era costituito da operai con un certo grado di specializzazione in
officina o in falegnameria.
Nel mese di novembre (1952) due lavoratori si affiancarono ai primi sei che già avevano
raggiunto la città estense; ad essi seguirono nel dicembre altri 100 trasferimenti per divenire,
negli anni successivi, un vero e proprio esodo, che coinvolse circa duecentocinquanta nuclei
familiari. Nel 1954, mentre nella miniera di Cabernardi rimasero solo pochi lavoratori
necessari per provvedere alla chiusura definitiva288, era ancora in atto il progressivo
spostamento dei lavoratori a Ferrara. L’esodo verso Ferrara, complessivamente può dirsi
concluso verso la metà degli anni ’60. Allo stabilimento ferrarese. Infatti, assunzioni
288
«...rimasero in miniera gli indispensabili, onde procedere alla chiusura; io
fui tra questi. La prima fase di recupero iniziò all’interno. Il nostro compito
era di riportare in superficie i materiali ancora in buono stato. Poi si passò
all’esterno: si smontarono e recuperarono linee elettriche, tralicci in ferro,
argani, motori, binari e altro. Tutto quanto poteva avere ancora un certo
valore. Poi si passò alla chiusura in cemento dell’imboccatura delle discenderie
e, per ultimo, quella dei due pozzi principali onde togliere qualsiasi pericolo.
Il 6 maggio 1959 fui trasferito anch’io, andai alla miniera di bauxite della
Montecatini a San Giovanni Rotondo dove vi rimasi fino alla pensione (1973)».
Testimonianza di Francesco Sonaglia, cit.
145
occasionali di personale proveniente dalle Marche si sono avute fino al 1964, spesso figli di
minatori impiegati nel bacino di Cabernardi.
E’ necessario precisare che, per i lavoratori, ottenere il trasferimento a Ferrara non era molto
semplice. La Montecatini esigeva garanzie che si procurava tramite il parroco locale Don
Rossetti se non direttamente dalla delegazione dei Carabinieri di Cabernardi. Gli occupanti
della miniera o i figli di occupanti non avevano nessuna possibilità di essere assunti presso
lo stabilimento di Ferrara. Sono noti pochissimi casi di marchigiani che si stabilirono, nella
città estense, nonostante si fossero resi protagonisti delle lotte per impedire la chiusura della
miniera, i quali comunque non ripresero mai a lavorare direttamente dalla Montecatini.
Il fatto che i soli marchigiani che i ferraresi conobbero direttamente erano quelli che, per le
ragioni più varie, non parteciparono, in prima persona, all’occupazione della miniera e che,
durante gli scioperi degli anni ’60 (a Ferrara), si distinguevano con le frequenti azioni di
crumiraggio, dettate dal timore di rivivere l’esperienza di Cabernardi, contribuì non poco
all’incomprensione e alla diffidenza tra le due comunità, ritardandone l’integrazione289.
Data la vastità dell’area di provenienza dei lavoratori (vari Comuni delle due province
marchigiane di Ancona e Pesaro), tra gli stessi, costretti da un comune, amaro destino,
spesso non esistevano rapporti antecedenti il loro “approdo” a Ferrara.
Nel maggio 1954 vennero consegnati, alle famiglie marchigiane, gli alloggi appositamente
edificati, nacque così il villaggio di Pontelagoscuro.
Una comunità disgregata iniziò allora un lento, ma progressivo percorso di
autoriconoscimento, forzatamente attivato da quello che venne poi definito il “villaggio dei
marchigiani”290.
Nella realtà del “villaggio” persistevano, e non poteva essere altrimenti, da un lato
caratterizzazioni culturali impoverite dallo sradicamento forzato e dall’altro desideri
289
Testimonianza di Gino Mencarelli, di anni 77, ha lavorato nella miniera
dall’età di 14 anni e dopo il 1952 è stato trasferito a Ferrara, incontrato il
31 ottobre 1996 a Cabernardi.
290
Cfr. G. Stefanati, op. cit., pp. 65-66.
146
d’affermazione e sensi d’orgoglio per la capacità di raggiungere traguardi culturali,
economici e sociali in una “nuova terra”.
Il processo di integrazione con la comunità ferrarese venne realizzato per fasi successive in
oltre quarant’anni di convivenza e assunse, quasi paradossalmente, valenza secondaria
rispetto al percorso di autoriconoscimento all’interno della comunità marchigiana di
Pontelagoscuro.
Il fatto di vivere aggregati costituiva agli occhi dei ferraresi sinonimo di comunità chiusa, a
ciò contribuì inoltre la creazione del circolo Acli di Pontelagoscuro rivolto
fondamentalmente ai marchigiani nel tentativo di ricostruire in buona fede un punto di
aggregazione sociale sull’esempio del circolo Enal che già esisteva a Cabernardi. Tale
circolo si poté costruire grazie all’intervento congiunto dei parroci di Cabernardi e di
Pontelagoscuro che offrirono ampie garanzie alla Direzione della Montecatini di assoluta
inattività sul piano politico-sindacale. Il circolo divenne punto di riferimento della
componente maschile della comunità marchigiana e in esso si mantennero aspetti peculiari
di socialità (come ad esempio alcuni particolari giochi di carte).
Il circolo, in mancanza di sedi idonee, ospitò anche per alcuni anni corsi di scuola
elementare; le stesse classi vennero affidate ad un’insegnante di origine marchigiana
abitante del “villaggio”.
Intanto a Cabernardi si assisteva al notevole fenomeno di spopolamento.
Tra i pensionati che poterono restare al paese, molti decisero di arrotondare la piccola
pensione dedicandosi all’agricoltura e alcuni riuscirono ad acquistare piccoli appezzamenti
di terreno coltivabile.
I negozi che erano prosperati durante la piena attività della miniera, furono forse i primi a
risentire del cambiamento radicale avvenuto in paese. I cospicui guadagni di un tempo erano
solo un sogno.
147
La Cooperativa di consumo dei minatori resse fino al 1966, ma già gradualmente aveva
dovuto chiudere i reparti stoffe e calzature e limitarsi alla vendita di generi alimentari. Ora è
stata trasformata in abitazione come, del resto, la mensa degli operai.
Il cambiamento è stato sostanziale anche nel campo ricreativo. Scomparvero, man mano,
tutte le attività del tempo libero: niente più partite di calcio, né pattinaggio. I giocatori di
calcio infatti essendo lavoratori della miniera erano stati trasferiti altrove.
Nel 1959 la Montecatini, quando ormai la miniera era stata chiusa , donò il Dopolavoro e il
campo sportivo alla Parrocchia di Cabernardi. A questo punto il Dopolavoro divenne circolo
Acli e fu associato alla Federazione provinciale291.
Il circolo, che era stato il ritrovo dei cabernardesi per gran parte del tempo libero, si è ridotto
oggi ad un semplice bar, aperto, ad eccezione del periodo estivo, solo nei giorni festivi in
cui i pensionati vanno a fare qualche partita a carte e, tra una bevuta e l’altra, passano il loro
tempo.
Scomparve anche l’attività cinematografica. La filodrammatica invece è stata l’unica attività
interrotta non per la chiusura della miniera, ma per trasferimento del direttore e di alcuni fra
i migliori attori, nel 1932 alla miniera di Perticara.
La scuola ha diminuito drasticamente la sua attività con un numero di insegnanti che, da
sette è sceso a cinque e poi a tre.
Uno dei lati buoni, forse l’unico che ha portato la chiusura della miniera, è il nuovo aspetto
assunto dal paese che da arido che era, a causa dell’anidride solforosa, è diventato
verdeggiante.
Le abitazioni sono migliorate in seguito alle modifiche apportate dai proprietari che le
hanno acquistate dalla Montecatini, ad un prezzo irrisorio. Anche se molte delle case sono
adibite esclusivamente a dimora estiva per le ferie.
291
Testimonianza di Giuseppe Paroli, responsabile del “museo della miniera di
zolfo di Cabernardi”, incontrato il 12 ottobre 1996 e il 9 maggio 1997 a
Cabernardi.
148
La borgata Cantarino, realizzata in gran parte dalla Montecatini, nel periodo invernale si
riduce a poche famiglie, ma in quello estivo prende l’aspetto di una volta, con tanta gente
che vi ritorna per un momento di tranquillità e di riposo.
Come si è visto, nel periodo di attività della miniera, la popolazione residente nella frazione
di Cabernardi era notevolmente aumentata fino a raggiungere nel 1951 circa 1700 abitanti.
Con la chiusura della miniera avvenne il processo inverso: incominciò il lento ma
irrefrenabile spopolamento.
Nel 1956, nonostante fossero già avvenuti numerosi
trasferimenti del personale, Cabernardi contava ancora 1393 abitanti. Ciò si può spiegare
tenendo conto che, in un primo momento, molti credevano che la crisi si sarebbe risolta o
che comunque la Montecatini, memore degli anni d’oro della miniera, avrebbe fatto
qualcosa per Cabernardi, che volesse riconvertire la miniera o comunque istallare qualche
altra attività nel paese.
Non essendosi verificata nessuna delle due ipotesi, si registrò un forte calo della
popolazione che, in soli 5 anni, arrivò quasi a dimezzarsi scendendo a 731 abitanti nel 1961.
Tale fenomeno di spopolamento non si limitò alla sola frazione di Cabernardi ma coinvolse
tutto il circondario infatti la popolazione totale del Comune di Sassoferrato passò dalle
13488 unità del 1951 alle 8938 del 1961292.
Con la scomparsa della miniera si sono avute, dunque, dannose conseguenze economiche
che hanno peggiorato la già drammatica situazione del periodo nelle Marche.
Tabella 4.3 Quozienti medi annui intercensuali (per 1000 abitanti)
nelle Marche 1951-1991.
Fonte: Istat.
MARCHE
1951-1961
1961-1971
1971-1981
1981-1991
natalità
16.0
15.4
12.1
8.8
mortalità
9.0
9.5
9.8
9.9
saldo naturale
7.0
5.9
2.3
-1.0
292
Ufficio Anagrafe di Sassoferrato.
149
saldo migratorio
-8.2
-5.0
1.5
2.2
saldo totale
-1.2
0.9
3.8
1.2
Dalla Tabella 4.3, infatti, si nota che il saldo migratorio delle Marche fu fortemente
negativo nel primo decennio (1951-1961) con conseguente flessione demografica. Tale
andamento tende a ridursi nel successivo periodo (1961-1971) fino a diventare positivo
negli anni ’70 e ’80 (il cambio di segno si registra nel 1972).
A Cabernardi invece il numero degli abitanti ha continuato a diminuire fino ai nostri giorni
quando ormai la popolazione si è ridotta a circa 400 unità293 per lo più costituita da persone
anziane.
293
Tra cui gli ex paesani che, una volta raggiunto il limite di età pensionabile
sono tornati a vivere a Cabernardi.
150
CONCLUSIONI
Nonostante che l’industria solfifera italiana abbia svolto un ruolo di primo piano nel
contesto internazionale, è stata sempre caratterizzata da un’intima debolezza.
Negli ultimi decenni dell’ottocento, la Sicilia, che produceva oltre il 90% dello zolfo
italiano, collocava il suo prodotto per la quasi totalità all’estero. Infatti la mancanza di
industrie chimiche in Italia portava a una scarsa richiesta interna di zolfo per la
fabbricazione di acido solforico. Di conseguenza, l’industria solfifera italiana, essendo
fortemente dipendente dall’estero, era costretta a subire eventuali crisi ed instabilità dei
mercati stranieri.
Nei primi anni del secolo, gli Stati Uniti, che costituivano il cliente di gran lunga più
importante dello zolfo siciliano, avevano scoperto enormi giacimenti del minerale nel Golfo
del Messico. L’industria solfifera statunitense si sviluppò rapidamente, con notevoli mezzi
finanziari e in condizioni naturali e tecniche tali da porre termine per sempre al monopolio
italiano dello zolfo. I giacimenti americani, per la loro configurazione geologica,
permettevano l’uso di metodi estrattivi con più alto rendimento, con costi minori e con il
grande vantaggio di operare a cielo aperto. In Italia, invece, per le condizioni geologiche
delle miniere ma soprattutto per l’arretratezza degli impianti e dei metodi di coltivazione, lo
zolfo veniva estratto con faticosi e costosi lavori in sotterraneo. In poco tempo lo zolfo
americano, avendo un prezzo inferiore, si affermò nei maggiori mercati internazionali.
L’intervento dello Stato, che raggruppò i numerosi produttori siciliani nel Consorzio
Solfifero Siciliano (1906-1932), permise di stabilire alcuni accordi con le società
statunitensi. Nonostante ciò il prezzo dello zolfo italiano continuava ad essere sempre meno
competitivo. Di fronte alla grave crisi in cui si venne a trovare l’industria solfifera italiana
nei primi anni ’30, il governo istituì, nel 1933, l’Ufficio per la vendita dello zolfo italiano
151
per collocare tutto lo zolfo prodotto in Sicilia e nel resto d’Italia sia sul mercato interno che
nell’esportazione opponendo così alla concorrenza americana un fronte unico e un diretto
appoggio governativo.
nLa politica protezionistica aveva consentito alle miniere italiane di sopravvivere grazie
soprattutto al meccanismo del prezzo minimo garantito e aveva anche reso possibile nuove
intese con i produttori americani. Ciò, però, aveva potuto far superare solo
momentaneamente, all’industria solfifera italiana, le ricorrenti crisi a cui era soggetta. A
medio e lungo termine si ripresentavano i soliti problemi mai risolti: l’arretratezza sia per
quanto concerne lo sviluppo tecnico e organizzativo delle lavorazioni che per quanto
riguarda il mancato sviluppo della ricerca. Ciò di cui aveva veramente bisogno l’industria
solfifera italiana non era una mera politica protezionistica, d’altra parte incompatibile con la
crescente apertura dei mercati, ma bensì di una politica di sostegno dello Stato.
Quest’ultimo doveva puntare a concentrare, se non a circoscrivere, l’intervento alla fase
della ricerca di nuovi giacimenti e ad incentivare l’aggiornamento tecnologico in modo da
ottenere una riduzione sensibile nei costi di produzione.
Negli anni ’50, mentre il prezzo del minerale americano era arrivato a costare meno della
metà di quello italiano e alcuni Paesi cominciavano a produrre grandi quantità di zolfo di
recupero, l’industria solfifera italiana, anche per il progressivo esaurimento dei giacimenti,
si avviava inesorabilmente verso la fine.
Cabernardi e gli altri centri minerari delle Marche e della Romagna, pur seguendo le sorti
del settore dello zolfo italiano, avevano sempre conservato differenze sostanziali rispetto
alla Sicilia come la dimensione media e grande delle miniere, l’esistenza di poche ditte
esercenti con disponibilità finanziarie e capacità imprenditoriali che permettevano una
migliore organizzazione tecnica e lavorativa nelle miniere. Inoltre erano perfettamente in
grado di coordinare l’industria estrattiva con quella delle lavorazioni, gestita dalle stesse
società concessionarie. Il loro forte vantaggio competitivo risiedeva nella vendita di prodotti
152
raffinati e “speciali” destinati ad uso agricolo. Avevano una minore dipendenza dall’estero
in quanto collocavano la maggior parte della produzione sul mercato interno: lo zolfo
raffinato veniva venduto principalmente nelle regioni vinicole italiane mentre quello grezzo
era destinato agli stabilimenti chimici della Montecatini. Proprio sotto la guida della
Montecatini, la miniera di Cabernardi aveva raggiunto il suo massimo sviluppo grazie a un
vasto programma di ammodernamento e di valorizzazione. La Società Montecatini,
intervenne anche sul piano della politica sociale, infatti, secondo una logica di intervento
globale nel territorio che caratterizzava ogni suo insediamento, anche a Cabernardi, a partire
dagli anni ’20, aveva iniziato una radicale trasformazione che riguardava anche
l’organizzazione quotidiana del minatore e della sua famiglia. Negli anni ’30 Cabernardi era
dunque già dotata di tutti i servizi essenziali o almeno di quelli allora sentiti come tali. Per
chi non aveva mai avuto nulla, per chi vedeva come orizzonte lavorativo solo l’emigrazione,
la Società Montecatini era considerata come entità benefattrice e tra le due guerre,
Cabernardi era vista come un’isola nel panorama generale marchigiano. Tutto ciò
nonostante le condizioni inumane di lavoro a cui si deve aggiungere l’elevato rischio di
incidenti anche mortali. Una stima approssimata parla di oltre 130 morti presso la miniera di
Cabernardi, per non contare le migliaia di infortuni e le scontate malattie professionali. Solo
uomini forti e coraggiosi potevano svolgere un lavoro così duro e pericoloso che li
costringeva a stare per lungo tempo a centinaia di metri di profondità, e senza luce naturale
operando in ambienti resi infernali dal caldo, l’umidità, la polvere, il fumo e l’esalazione di
gas nocivi.
Malgrado questi tristi aspetti bisogna riconoscere che il settore dello zolfo ha rappresentato
una delle principali fonti di occupazione e di sviluppo socioeconomico nelle aree che
gravitavano intorno alle miniere.
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GLOSSARIO
Argano: Apparecchio di sollevamento costituito da un cilindro di legno (o metallo) su cui si
avvolge la fune portante, trascinato in rotazione da un motore.
Calcaroni e Forni Gill: forni fusori per il trattamento mineralurgico del minerale di zolfo.
Si veda il paragrafo 3.2.
Chioppo: improvviso e violento distacco dal fronte di abbattimento delle gallerie, di blocchi
di minerale, dovuto all’azione di compressione del terreno incassante. Il fenomeno era
accompagnato da forte scuotimento e da grande fragore, nonché da sprigionamento di
idrogeno solforato e grisou, spesso in notevole quantità.
Discenderia: galleria con gradini tagliati nella roccia, più o meno alti a seconda della
inclinazione che comunque è elevata (variando dai 35° ai 55°).
Faglia: lo spostamento intervenuto tra le parti di un giacimento che prima erano in contatto
e che si scostarono secondo il piano inclinato di scivolamento di una parte sull’altra.
Frasch
(processo): metodo di estrazione e fusione del minerale. Lo zolfo si ottiene
direttamente dal minerale fondendo il metalloide direttamente nel sottosuolo, mediante
utilizzazione di vapore surriscaldato. Lo zolfo viene pompato all’esterno allo stato liquido
già in uno stato di sufficiente purezza. Si veda il paragrafo 2.5.1.
Galleria di riflusso: lunga galleria che andava dalla superficie alle varie parti del
giacimento per permettere la circolazione dell’aria.
Giacimento: deposito coltivabile di minerale. Di solito il giacimento non è costituito da un
solo strato ma è diviso in parecchi strati da zone di materiali sterili.
Piano inclinato: galleria avente un inclinazione molto minore rispetto alla discenderia.
Potenza dello strato: è la sua grossezza o spessore misurato perpendicolarmente al suo
piano di contatto con lo strato successivo di minerale.
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Ricchezza del minerale di zolfo: rapporto che passa tra il minerale puro, che si può estrarre
e la sua ganga o materiale sterile che lo contiene.
Rosticci (o ginesi): materiale di scarto prodotto dal trattamento del minerale solfifero nei
calcaroni e forni Gill. Veniva ammassato intorno alla miniera formando quella che veniva
chiamata la “discarica della miniera”. Parte di esso, in seguito ad operazioni di irrorazione,
subiva un sufficiente grado di cementazione per cui si rivelava particolarmente utile, nel
metodo di coltivazione “a ripiena”, per riempire i vuoti di scavo all’interno della miniera.
Storte: sono costituite da recipienti verticali svasati verso il basso con pareti spesse in ghisa
per meglio resistere alle severe condizioni di corrosione dei vapori di zolfo ad alta
temperatura, riscaldate esternamente con gas di combustione. I forni a storte di ghisa
venivano usati nelle raffinerie per purificare lo zolfo mediante distillazione.
Zolfo acido: si prepara facendo bollire una miscela costituita da una parte di calce viva, due
parti di zolfo sublimato e 29 di acqua fin quando tutto lo zolfo si sia sciolto. Dopo
filtrazione, si acidifica con acido cloridrico diluito con acqua e si essicca.
Zolfo fuso: quello che, sottoposto a regolare calore in appositi forni, viene separato dalla
ganga, e quasi privo di materie estranee, è inviato alla raffineria o direttamente messo in
commercio.
Zolfo grezzo: quello rinvenuto allo stato libero diffuso nella roccia calcarea, marnosa o
gessosa, che non ha subito alcun trattamento ossia non è stato separato dalla ganga o roccia
sterile, che lo contiene.
Zolfo raffinato: quello che, pervenuto alla raffineria, viene sottoposto a nuova fusione per
raggiungere un più elevato grado di purezza.
Zolfo ramato: è una miscela di zolfo con solfato di rame (fino al 5%) e calce spenta (4050%).
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Zolfo sublimato o fiori di zolfo: è il prodotto dello zolfo distillato cioè sottoposto ad alto
calore e ridotto in vapori solforosi, i quali, raffreddandosi in appositi apparecchi, tornano a
solidificarsi in cristalli purissimi.
Zolfo ventilato: zolfo ottenuto mediante una corrente d’aria che ha permesso di selezionare
solo i suoi granuli più fini. Tale zolfo viene usato unicamente come anticrittogamico; il suo
pregio consiste nella finezza, a cui corrisponde una più elevata aderenza della polvere alle
foglie di vite, precedente trattate con solfato di rame.
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