leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
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La vita
è un colpo secco
FRANCESCA PALUMBO
Illustrazioni e disegni di
GIACOMO PEPE
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© Francesca Palumbo 2014
© Giacomo Pepe 2014
© Atmosphere libri
Via Seneca 66
00136 Roma
www.atmospherelibri.it
atmospherelibri.wordpress.com
[email protected]
Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)
I edizione nella collana Biblioteca dell ’aria maggio 2014
ISBN 978-88-6564-108-8
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Prefazione
Ci sono dei libri usciti nel 2014 che sembrano scritti, appunto
nel 2014, e libri usciti nel 2014 che sembrano scritti nel 1800.
Anno più, anno meno. Intorno al milleottocento, diciamo. O
al massimo negli anni Dieci, dalle parti della Prima Guerra
Mondiale.
Quelli che scrivono i libri della seconda categoria, più che
degli scrittori, sono – per usare un termine passato di moda dei poseur. Quelli che si atteggiano. Come quel tizio di cui
parlava Paolo Nori, quello che se ne andava sempre in giro
con una tela e dei pennelli sottobraccio e si definiva pittore
pur non avendo mai dipinto niente.
I poseur della scrittura hanno un’immagine antica e sorpassata della figura dello scrittore: un uomo dall’aria accigliata, ritratto con le dita su una tempia mentre fissa l’infinito,
e parla della letteratura in termini gravi e apocalittici mentre
presenta i suoi libri in silenziosi e austeri caffè letterari. Così,
pur essendo parte integrante del ventunesimo secolo, questi
tizi scrivono come se avessero una penna d’oca e non un computer, ritenendo già le macchine da scrivere pericolose diavolerie moderne. E infarciscono i loro romanzi di poiane
remiganti, descrizioni paesaggistiche pesanti come il piombo
e dialoghi usciti direttamente dal traduttore degli anni Trenta
dei romanzi russi. Ci manca solo che i personaggi di questi
romanzi si corteggino con discrezione dandosi del voi.
Poi, per fortuna, ci sono libri come questo. Uscito nel 2014,
in un mondo in cui esistono testi brevi ed efficaci come gli
status di facebook o il limite di caratteri di twitter. In cui si
può comunicare anche mescolando varie forme artistiche, al5
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ternando racconti, brevi testi, paragrafi al limite della prosa
poetica, e incroci tra fotografia e illustrazione. Dove Bernacca
e hashtag convivono nelle medesime pagine senza traumatici
contrasti.
Perché questo è un libro del 2014.
E i nostri anni Dieci sono questi.
Gianluca Morozzi
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SENZA TITOLO
Che io sia l’hashtag di ogni tua giornata
impressa come lettera sui tasti
di ogni tuo pensiero luminosa icona.
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LA DONNA LUMACA
Se ne era andato! Per sempre, le aveva urlato addosso prima
di girare i tacchi, questa volta è per sempre, non mi rivedrai
più, e tutti si erano messi a guardarla.
Sì, invece di guardare lui che urlava, tutti gli occhi si erano
puntati su di lei, curiosi, morbosamente affamati di storie altrui. Non solo lui era andato via, per sempre, ma si era anche
portato l’ombrello e lì, alla fermata dell’autobus, lei era rimasta incollata al palo delle linee AMTAB con lo sguardo perso
in un nulla liquido e umidiccio.
Certo, ce ne sarebbero state di cose da aggiungere, ma come
sempre, le parole, quelle da dire al momento opportuno, non
erano uscite. Intanto la pioggia continuava a venir giù a torrente, il cappotto era diventato zuppo, le scarpe fradice.
Arrivò il numero 6, quello che porta verso il centro. Si alzarono di scatto le signore sedute sulla panchina di ferro, bisticciarono con gli ombrelli e le buste, poi tra schizzi, urti e
‘mi scusi’, si accalcarono nell’autobus prendendo forme diverse come i Barbapapà, le porte si chiusero e il 6 ripartì. Lei
lo seguì allontanarsi con lo sguardo, il vetro posteriore tutto
appannato di respiri, sudore e vapore espanso. Ora che la panchina era sua poteva finalmente sedercisi un po’, le sagome
dei culi delle signore avevano mantenuto la seduta asciutta e
per fortuna la pioggia aveva preso a diradarsi per sfinire lentamente in bollicine gassose e invisibili. Tra quelle bolle, lei si
aggirava come Alice nel Paese delle Meraviglie, unica inquilina
di un paesaggio surreale, nel quale all’improvviso fece capolino una lumaca. Si muoveva lenta ma decisa, collosa e pesante sul bordo della panchina, nel lucore di quell’ombroso
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pomeriggio muto, schiacciata dal proprio guscio. Proprio
come lei.
Non è difficile andarsene in giro così, pensò. Basta abituarsi
all’idea che la vita, in fondo, non è composta d’altro che di
una serie di atti di separazione. Bisogna essere cauti e difendersi dalle insidie proteggendosi in un proprio guscio immaginario, che sia casa o ripostiglio, tana o prigione, peso o
salvezza, con le antenne sempre ritte, protese in avanti.
La lumaca intanto strisciava piano, sempre più vicina alla
sua gamba. Lei alzò la testa, fissò gli ologrammi del cielo,
dense strisce di pianto rosa e arancio cristallizzate tra le nubi,
i pensieri presero a slacciarsi, si fecero friabili e senza spina
dorsale. Uguali alla lumaca, al suo corpo molle e calloso, senza
un asse interno a reggere il mondo, eppure resistente, bestiolina cauta e coraggiosa.
Io sono così — confabulò dentro di sé — sono come te. Di
colpo sollevò la lumaca e le staccò il guscio strappando i
bordi di quella piccola vita. Il guscio venne lanciato sull’asfalto e ridotto in mille particelle da un’auto di passaggio,
mentre l’animaletto venne riadagiato inerme sul bordo della
panchina, dove proseguì la sua andatura lenta e bavosa ancora per un po’. Fu comunque in grado di lasciare un segno
radicale, una scia.
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LA VITA È UN COLPO SECCO
Affilami il tuo sguardo profumato di nocciole.
Profezia di attese, abituata come sono a coltivare l’orto dell’assenza.
Mi capita di non riconoscere la sagoma della mia ombra sul
muro.
Succede anche a te? Luce rosa e voglia di baciarti.
Il desiderio agonizzante di una parola ancora mentre mi saluti e scivoli via lontano.
Il fremito di un attimo mai esaudito, mai. Sondato, e ancora
una volta censurato.
Nessun perché. Sarà il mio modo di perderti forse, perché tu
sei vento che se ne va,
e la vita è un colpo secco.
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LA MATTA DEL VILLAGGIO
Elfi e demoni la notte mi vengono a cercare. Entrano nella
mia stanza, disegnano arazzi.
Fabbricano formicai e riordinano trame.
Sbirciano nei bauli, annusano le sottane. Spostano i pensieri
pesanti e si mettono a giocare.
Mi chiamano la matta perché sono mesmetica e fugace.
L’aglio lo mangio a colazione, mi salva dalle malattie e da chi
mi vuole male.
Di più mi farà campare perché vi possa seppellire, e lì nella
polvere tutti quanti farvi stramazzare.
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CENERE TIEPIDA
Lentamente sollevò lo sguardo. Il capo leggermente indietro,
le braccia distese, incollate sui fianchi. Ancora un colpo di
reni e una sforbiciata di pinne. Su, su, più su. Era un sub che
risale le profondità dei mari in tempesta. Incrociò famelici
squali dagli occhi gialli di ira e flaccide murene dalle lunghe
spire. Accelerò il movimento delle pinne e, con uno slancio di
petto, a collo teso, guadagnò velocità. Ancora qualche metro
e avrebbe respirato bene, senza il boccaglio, senza la maschera… libero dalla muta appiccicata alla pelle, i pori del suo
corpo avrebbero ripreso ossigeno. Un uomo è un uomo, e un
pesce è un pesce.
Mare, acqua. Superficie, orizzonte. Cielo, nuvole. Si fermò
un attimo a prendere fiato, poi riprese la corsa. Come un Dedalo infervorato si librò a mezz’aria trasformandosi in uccello,
un uccello un po’ uomo e un po’ pesce. La pinna, il busto da
ragazzo, la testa da uccello, un becco, le ali e occhi di gazza.
Incontrò la prima nuvola e gli parve avesse una forma familiare. Avrebbe voluto sprofondarci dentro e avvolgersi di quella
panna umida fatta di anidride paffuta e soffice, ma scoprì che,
le nuvole, erano invece solide come sacchi di farina e, nella loro
ambigua obsolescenza, celavano volti scolpiti nel vapore, i cui
sguardi severi lo inquietarono talmente, da fargli perdere il
controllo e mandarlo giù in caduta libera, verso il suolo.
Ponf. Un colpo duro e secco. Il dolore acuto. La fine.
Lanciò un urlo e si svegliò.
Erano le sette di una bella giornata tiepida, le finestre aperte
sulla lama avvolta dalla luce rossastra del primo mattino. Ancora in pigiama uscì a calpestare l’erba bagnata con i piedi
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nudi, la tazzina di caffè caldo in mano, i capelli arruffati e più
schiacciati dal lato del cuscino. Tornò subito dentro a cercare
gli occhiali da sole. La luce, troppo forte per i suoi occhi ancora pieni di sonno, rimbalzava da un confine all’altro della
vallata, incontrandosi a metà dello sprofondo per infrangersi
di nuovo in una curva sfolgorante di riverberi e suoni. Il tonfo
sordo della lucertola cascata giù da un muretto, un fico maturo che si afflosciava stanco su una chianca. Tutto questo era
la sua campagna, pura bellezza selvaggia, con i suoi ulivi attorcigliati e inquieti, l’erba incolta e i cespugli di mirto e capperi ondeggianti nel vento. Raggiunse una curva di rocce,
percorse la pietra calcarea e porosa che portava giù vicino agli
alberi di alloro. Due colombe si erano appena staccate da un
ramo frullando attraverso la parete diroccata di un rudere abbandonato lì nei pressi. Fragranze di pietre, terra secca, oleandri polverosi, sale e sabbia, la traccia della terra attraversata
da eserciti di formiche, il profumo dolciastro del lattice dei
fichi che si scioglie nel calore del sole, gli aranci in fiore e i
narcisi che tappezzano la parete della casa coperta dai rampicanti. Cicatrici di profumo selvatico e burroso. Uva dolce e
zagara nelle narici, insieme a una traccia di odore di borotalco
comparsa dall’alcova pregna dei ricordi. Guardò il cielo e per
un attimo gli parve di vedere tra le nuvole scivolanti un volto,
ma non severo come quello del sogno.
Era lei, la riconobbe, e vide la sua chioma di spine argentate,
le sue ciocche luminose, le labbra morbide sulle quali mille
volte da bambino si era arrampicato da clandestino in cerca
di baci. Sentì il cuore annaspare sotto il peso della nostalgia.
Si sorrisero, lui e la sua donna nuvola, che in un attimo si era
di nuovo dileguata. Uno spazio smisurato, una calma rinuncia, il caffè troppo amaro, un trasalimento pacato di anima
scheggiata.
Fiori ovunque e liane e cactus, l’incanto denso che si incontra nel tormento di un momento eterno, dove il cielo e la
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terra e il mare si incrociano e si schiacciano per tenere insieme l’infinità dei mondi. L’aria densa di trilli e tocchi e rapidi sforbiciamenti di uccelli e punti interrogativi, esclamativi
e virgole e puntini di sospensione. Un tempo lungo e largo, la
sensibilità dilatata, un diapason di percezioni iperboliche e
rarefatte. Le domande della notte che restano chiuse, incagliate nel silenzio incantato della vallata.
Finì di sorseggiare il suo caffè e rientrò a lavare la tazzina
avvolto da un alone di struggimento tinto di un azzurro liquefatto. Si diresse in bagno per radersi e guardandosi allo
specchio si disse: “Non dimenticare mai questa faccia”.
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BARI
Passeggio col mio cane per le strade deserte della città la
domenica alle tre del pomeriggio quando tutti sono ancora
a tavola, o a guardare la partita, o a schiacciare un pisolino,
o a stropicciarsi su un divano. C’è silenzio e pace e un timido sole, l’aria è pungente e accarezza il cuore, c’è una luce
strana e l’atmosfera è surreale. In giorni come questo, amo
Bari e tutte le correnti, marine e umane, sinergiche e pacchiane, che la attraversano e la rendono speciale. Non ho
più voglia di partire, di scappare, ho cercato per anni nuove
strade nelle città sconosciute che andavo a esplorare sicura
che bastasse una piazza elegante, o una fontana altera, l’architettura di un genio, la pluralità degli sguardi a saziare quel
bisogno di nutrimento che né le persone, né i monumenti
possono appagare se non riesci, da solo, a ricollegarti a un
senso del qui o dovunque, ma comunque presente, a te
stesso.
Mentre rimugino sui miei pensieri di sempre, un gabbiano
enorme attraversa il marciapiede davanti a me e per un attimo ho l’impressione che sia lui a stupirsi della mia presenza
e che mi ceda il passo per correttezza e galanteria. Devo mantenere un certo controllo sul guinzaglio per evitare che il mio
cane mostri un eccessivo interesse per il volatile, ma in realtà
non dà alcun segno di irrequietezza e prosegue dritto al mio
fianco la sua camminata dall’andatura fiera e trotterellante.
Ho ancora tanta voglia di partire sì, quella sempre, ma non
più da me stessa. Andare ora non significa più fuggire, sto
bene qui, nella mia città fatta di vetrine e viali, di macchine e
fretta, passi veloci e signore ben vestite.
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Ogni angolo mi appartiene come le mie tasche, ogni semaforo che arrossisce prima di fermarmi, sembra scusarsi per i
pochi minuti che mi farà perdere, i manichini della grande
vetrina di H&M mi fanno l’occhiolino mentre percorro l’isolato e le signore romene sulle panchine di Piazza Umberto
ridacchiano divertite e fanno apprezzamenti sul mio cane
mentre attraverso a passo svelto il giardino.
Come dicevo, c’è una luce strana, azzurrina e violetta variegata di giallo ocra e, l’atmosfera è surreale, colorata di riflessi
e spirali luminose. L’odore del mare si propaga rarefatto sull’asfalto, sui tetti e nelle mie narici.
Intanto, in fondo alla strada spunta una sirena... e mi perdo
incredula nei suoi occhi di sale.
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