Sessione Plenaria: Tavola rotonda
Sessione Plenaria:
Tavola rotonda
Esperienza, partecipazione, gestione: quali prospettive?
Modera: Antonia Pasqua Recchia
Direttore Generale per il paesaggio, le belle arti,
l’architettura e l’arte contemporanee
Antonia Pasqua Recchia
Al termine di questa giornata, così intensa, possiamo affermare che le discussioni che si sono
avute nei tre tavoli tecnici hanno colto pienamente l’intera gamma delle problematiche che
attengono ad un tema così ampio e sfaccettato come quello della valorizzazione. Appena conclusa la tavola rotonda lasceremo alla DgVal un compito che sta a cuore a tutti noi: tracciare la
memoria di questa giornata e rendere disponibili i contributi, ma soprattutto trasformare il dibattito, l’analisi, la discussione in proposte operative. Apre la tavola rotonda la professoressa
Francesca Ghedini che invito ad esporre il proprio punto di vista e le proprie considerazioni sul
tema della valorizzazione, in particolare, del patrimonio archeologico.
Francesca Ghedini
Dipartimento di Archeologia- Università degli studi di Padova
Nuove prospettive per i parchi archeologici
Desidero anzitutto ringraziare il Direttore Generale Mario Resca e tutto il suo staff per aver organizzato questo Primo Colloquio sulla Valorizzazione, occasione preziosa per fare il punto su
uno dei nodi centrali di quel processo virtuoso che deve portare i nostri beni culturali a quella
leadership in campo internazionale che loro spetta per qualità e quantità. L’incontro è stato
denso di stimoli e suggestioni e l’unico rammarico, che penso di condividere con la maggior
parte dei partecipanti, riguarda il fatto di non aver potuto seguire i lavori dei tre tavoli tecnici
(Esperienza, Partecipazione, Gestione), che si svolgevano contemporaneamente.
In questo breve intervento desidero affrontare un argomento che ritengo fondamentale per
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un organico sviluppo, in chiave di valorizzazione, del nostro territorio: si tratta dei parchi archeologici, che tra gli istituti della cultura sono certamente quelli che, sino ad oggi, sono
rimasti ai margini del processo di definizione, lasciando spazio a iniziative che spesso non
giovano all’immagine del nostro paese. Eppure quello dei parchi è un argomento che per la
complessità che lo caratterizza (determinata da numerosi fattori fra cui possiamo ricordare
l’ampiezza del territorio interessato, il possibile conflitto con lo sviluppo urbanistico, il sovrapporsi di competenze fra Stato e Regioni e fra Enti pubblici e soggetti privati, titolari a vario
titolo delle proprietà e delle responsabilità di programmazione e gestione dei siti ecc.) necessita, più di altre materie, di indirizzi e punti di riferimento certi e condivisi.
Per ovviare a tale scarsa definizione normativa, il Ministro per i Beni e le Attività Culturali,
senatore Sandro Bondi, ha istituto con D.M. 18 maggio 2010 un gruppo di lavoro paritetico
composto da dirigenti e funzionari dell’Amministrazione statale, da rappresentanti delle Regioni, delle Province e dei Comuni, designati dalla Conferenza unificata Stato-Regioni-Enti
locali ed esperti nel settore, e da docenti di archeologia, che hanno utilizzato come punto di
partenza le Linee Guida elaborate da un precedente gruppo di studio.
I risultati del confronto che si è svolto sulla complessa tematica - spesso serrato, sempre
costruttivo - sono stati raccolti in un documento, a cui si è fatto cenno anche negli interventi
della mattinata, e che ora mi appresto a illustrare brevemente: è evidente infatti che, a causa
del poco tempo a disposizione, potrò soffermarmi soltanto su pochi aspetti, su quegli aspetti
cioè che mi sembrano maggiormente coerenti con le tematiche dell’incontro odierno, riservandomi di presentare più compiutamente in altra sede l’elaborato completo.
Il percorso delineato dovrebbe costituire – questo almeno è il nostro auspicio- la base di riferimento per coloro che intendono istituire un parco archeologico, ma i contenuti illustrati potranno
essere di una qualche utilità anche ai gestori di parchi già esistenti. Il primo punto che dovrà essere affrontato riguarda la valutazione della consistenza dei resti e del loro rapporto con il contesto paesaggistico: tale aspetto, che è esplicitamente richiamato dal Codice dei Beni Culturali,
dove per parco archeologico si intende un “ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato
come museo all’aperto” (art. 101, comma 2 e), appare spesso disatteso da parte di Comunità
ed Enti locali, a causa del desiderio di utilizzare per i contesti archeologici visibili e visitabili la
definizione di “parco”, che sembra maggiormente attrattiva per la promozione turistica rispetto
a quella, magari più coerente con la consistenza della documentazione, di area archeologica.
Valutata la esistenza di tale prioritario requisito, il passo successivo consiste nell’elaborazione
di un progetto scientifico, che costituisce il punto cardine, il pilastro su cui il parco, sia esso di
nuova istituzione oppure già esistente, si deve fondare: tale progetto riguarderà, coerentemente
Il gruppo era così composto: Francesca Ghedini (coordinatrice), Università degli Studi di Padova; Stefano De
Caro, direttore generale per le antichità del Mibac; Paolo Carpentieri, capo Ufficio legislativo del Mibac; Daniele
Manacorda, Università degli Studi di Roma Tre; Andreina Ricci, Università degli Studi di Roma - Tor Vergata; Jeanette
Papadopoulos, dirigente Servizio III, direzione generale per le antichità del Mibac; Maria Giuseppina Lauro, Servizio
Conservazione del patrimonio, segretariato generale della Presidenza della Repubblica; Monica Abbiati, rappresentante della Regione Lombardia; Maria Pia Guermandi, rappresentante della Regione Emilia-Romagna; Antonella Pinna, rappresentante della Regione Umbria; Nadia Murolo, rappresentante della Regione Campania; Michele Durante,
rappresentante della Regione Basilicata; Francesco Giovanetti, Soprintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale;
Luca Sbrilli, direttore dei Parchi Val di Cornia; Adelaide Maresca Compagna, Servizio I- Coordinamento e Studi del
Segretariato generale Mibac .
Cfr. « Notiziario del Ministero per i beni e le attività culturali», n. 89-91/2008-2009, pp. 97-100.
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Primo colloquio sulla valorizzazione
con le caratteristiche definite dal Codice gli aspetti sia archeologici che paesistici.
Lo studio della documentazione archeologica, rigoroso, attento e meditato, riguarderà un
ambito territoriale più vasto rispetto a quello che si intende riservare al parco, e sarà finalizzato ad individuare le caratteristiche peculiari dell’area e le tematiche idonee ad essere
valorizzate (diacronia, sincronia, tipologia/e dei monumenti e dei manufatti, rapporto natura/
cultura ecc.) e a valutare contestualmente le potenzialità dell’operazione in termini di comunicazione. Contemporaneamente all’elaborazione del progetto archeologico si svilupperà lo
studio del territorio nelle sue componenti naturalistico - ambientali e architettonico - urbanistiche; tenuto conto infatti che il parco deve dialogare con il contesto entro cui è inserito
sarà necessario predisporre fin dal momento della progettazione, il complesso integrato di
azioni da porre in essere affinché la realizzazione del progetto si sviluppi in coerenza con la
pianificazione urbanistica e paesaggistica. E’ in questa fase infatti che ci si confronterà con
le prospettive della zonizzazione e con le conseguenti regole per la trasformazione degli usi
del territorio, al fine di verificare che non si creino situazioni in contrasto con gli obiettivi del
progetto archeologico, in relazione soprattutto alla realizzazione delle eventuali infrastrutture
necessarie al suo funzionamento. Ne consegue che si dovrà prevedere la stesura di precisi
accordi fra le istituzioni responsabili a vario degli ambiti territoriali su cui il parco insiste.
Definiti gli aspetti preliminari si passerà alla progettazione del percorso di valorizzazione,
nell’ambito del quale saranno illustrate le modalità attraverso le quali si intende restituire
senso ai resti visibili, nel rispetto degli aspetti della conservazione/tutela; verranno dunque
elaborati i piani relativi alla fruizione del parco e alla comunicazione dei contenuti selezionati nell’ambito del progetto scientifico. Da un lato dunque si affronteranno i problemi
dell’accessibilità, che dovrà essere compatibile con le diverse tipologie di disabilità, e della
percorribilità interna che dovrà prevedere, se l’estensione del parco lo richiede soluzioni differenziate e luoghi di sosta; dall’altro si definiranno le scelte tecniche atte a consentire la migliore interazione con i potenziali utenti del parco. E’ questo un elemento a cui sarà necessario
dare particolare risalto perché la comunicazione non dovrà in alcun modo essere univoca o
unidirezionale ma dovrà svilupparsi in maniera organica su piani diversi e con strumenti diversi (dal cartaceo al multimediale): da un lato infatti non dovrà essere trascurata la edizione
scientifica dei dati, destinata a render conto alla comunità degli studiosi dei percorsi e metodi
con cui si sono acquisite le informazioni, dall’altro si dovrà aver cura di proporre al grande
pubblico una interpretazione / traduzione / racconto dei risultati scientifici, che avrà come
primi referenti i residenti, al fine di stimolare, attraverso la comprensione della storia del comprensorio l’amore per esso e per le proprie tradizioni, ma senza trascurare i potenziali turisti,
che è prevedibile possano frequentare l’ambito territoriale su cui insiste il parco. Si risponderà in tal modo alle esigenze delle diverse fasce di pubblico (tenendo presenti con particolare
attenzione le scuole di ogni ordine e grado) e si promuoverà la più ampia partecipazione
alla frequentazione del parco stesso. A tale proposito è importante sottolineare che, perché
il parco possa esplicare tutte le sue potenzialità in chiave di aggregazione e fidelizzazione,
è importante che esso diventi teatro di attività ed eventi; a tal fine è necessario prevedere
anche la prosecuzione della ricerca, affinché, a partire dalle conoscenze acquisite, si possa
elaborare un programma finalizzato a sviluppare le potenzialità ancora inespresse dell’area
con l’eventuale prefigurazione di tempi, forme e attori della loro promozione. All’interno del
progetto di valorizzazione si valuteranno anche i servizi che si intende realizzare, che saranno
ovviamente commisurati alle dimensioni del parco e alla sua morfologia (parco perimetrato o
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parco a rete) e che riguarderanno non solo le strutture interne al parco ma anche le ‘aree di
bordo’, così da definire i rapporti con il contesto esterno (vie di accesso, trasporti, parcheggi,
aree di sosta, recinzioni ecc.).
Particolare cura sarà poi rivolta alla illustrazione del piano di gestione, che comprenderà la
preliminare valutazione della sostenibilità economico finanziaria del progetto e la definizione
dell’assetto istituzionale e della forma di gestione prescelta; questa potrà, come previsto
dall’art. 115 del Codice, essere svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni (gestione diretta), oppure essere attuata tramite concessione a terzi delle attività di valorizzazione (gestione indiretta); nel caso che la scelta ricada sulla seconda tipologia
(che per una struttura complessa quale è il parco appare nella sostanza preferibile), sarà
necessario elaborare uno Statuto, nel quale saranno indicati, oltre alle finalità e agli obiettivi, i
soggetti legalmente responsabili e gli organi direttivo-gestionali con le rispettive competenze;
lo Statuto potrà essere accompagnato da un Regolamento, in cui saranno definiti l’assetto
organizzativo, i profili professionali, i criteri di reclutamento del personale o di affidamento
di incarichi qualificati ecc. A tale proposito si sottolinea la necessità che vengano individuati
con chiarezza due diversi ambiti di professionalità: da un lato esperti con competenze legali,
amministrativo-gestionali e di coordinamento operativo, dall’altro specialisti con competenze
tecnico-scientifiche. Per la realizzazione degli obiettivi prefissati per il parco archeologico appare fondamentale la presenza di personale quantitativamente e qualitativamente adeguato,
in particolare si ritiene indispensabile che l’incarico di direzione scientifica sia attribuito in
forma stabile ad una figura con documentate competenze e conoscenze nella disciplina archeologica coerente con il tema principale del parco, ovvero ad un comitato scientifico composto di esperti con le medesime caratteristiche. Nello Statuto dovrà essere specificato che
al direttore scientifico, o al comitato scientifico, dovrà essere attribuito un potere di indirizzo
sovraordinato ad ogni altro organo di tipo amministrativo e/o gestionale.
Il percorso individuato per la istituzione di nuovi parchi archeologici e la riqualificazione di quelli
esistenti, dovrà concludersi con la verifica da parte di un organo terzo del raggiungimento dei
requisiti minimi e del mantenimento degli standard di qualità. A tale verifica il gruppo di lavoro
ha annesso una particolare importanza perché solo mettendo in essere una procedura rigorosa e controllata si può creare quel circolo virtuoso indispensabile per fare dei nostri parchi
archeologici un’attrattiva e una risorsa. La procedura di accreditamento dovrebbe prevedere
due passaggi: una prima fase di verifica della completezza della documentazione ad opera
di Commissioni regionali, istituite presso le Direzioni Regionali e composte da rappresentanti
del Ministero e della/e Regione/i su cui insiste il parco, ed una seconda posta in capo ad
una Commissione Nazionale, composta da rappresentanti del Ministero, delle Regioni e delle
Sono definiti “parchi perimetrati” quei contesti che comprendono porzioni di territorio delimitabili; con la definizione “parchi a rete” si intende invece un insieme di aree archeologiche le quali possono avere senso e significato
autonomi (ed essere quindi visitabili separatamente) ma che, una volta inserite all’interno di un sistema unitario
sulla base di un progetto scientifico, potranno esprimere potenzialità inattese sul piano della qualificazione o riqualificazione urbana e/o territoriale con non trascurabili ricadute anche su quello turistico. Per le loro caratteristiche
di flessibilità i parchi a rete ben si prestano, soprattutto in periferie urbane da riqualificare o in aree rurali parimenti
in sofferenza, ad attribuire ruolo e senso anche a luoghi fortemente degradati. Dal punto di vista dei contenuti, i
parchi a rete consentono, attraverso itinerari flessibili e adeguati strumenti comunicativi, di mettere in relazione
sequenze di aree aggregabili fra loro secondo prospettive diverse: di carattere tematico-tipologico (templi, santuari,
ville, sepolcri, acquedotti, strade, torri, castelli ecc.), sincronico (le ville tardo antiche, le torri medievali, i castelli, i
casali etc.), diacronico (le ville romane dal II secolo a.C. all’età tardo antica, la produzione del vino dall’età romana
ai nostri giorni ecc.).
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Primo colloquio sulla valorizzazione
Università, che dovrebbe valutare la presenza nei singoli progetti dei requisiti minimi e verificare, con cadenza periodica, la loro permanenza. I parchi archeologici che avranno superato
il vaglio della Commissione saranno inseriti in un elenco apposito nel sito del Ministero e
saranno contrassegnati da un logo che ne garantisce il livello qualitativo. Si auspica che tali
parchi accreditati possano accedere a possibili benefici, quali forme privilegiate di finanziamento, agevolazioni fiscali, maggiore visibilità nelle reti nazionali e internazionali ecc.
Questo è, in grandissima sintesi, il percorso che il gruppo di lavoro ha prefigurato per la
costituzione di nuovi parchi archeologici e la riqualificazione di quelli già esistenti; un percorso che potrebbe fare dell’Istituto Parco una struttura strategica per far crescere la cultura e
speriamo anche l’attrattività del nostro paese, promuovendo uno sviluppo del nostro territorio
nella prospettiva proposta dall’incontro odierno.
Rinnovo dunque i miei ringraziamenti alla Direzione per la Valorizzazione per l’importante lavoro che sta svolgendo e per l’occasione che ci ha offerto di una franca ed ampia discussione
su tematiche fondamentali per il nostro patrimonio culturale.
Antonia Pasqua Recchia
Ringrazio la prof.ssa Ghedini per le interessantissime considerazioni, una delle quali fa da
trade d’union con il prossimo intervento: il tema degli di standard di qualità, dei processi di accreditamento, di quel “bollino” che deve essere rilasciato ai siti archeologici perché ne venga
percepita la dimensione della qualità. Trattiamo il tema della qualità dell’offerta culturale
da più di dieci anni, dal momento dell’emanazione del decreto sugli standard museali, ma
di fatto il tema è rimasto su un piano teorico, di rado applicato in fatti concreti. Il tema della
qualità è stato esaminato nel secondo tavolo dal prof. Santagata in relazione alla necessità
di stabilire un legame con il territorio, interagendo con coloro che ci vivono, per costruire una
consapevolezza comune per l’uso e la fruizione dei Beni Culturali. Sempre nell’ambito del secondo tavolo, quello della partecipazione, il professor Valentino ha fatto delle considerazioni,
chiederei, quindi, a lui, non soltanto di esprimere il proprio pensiero riguardo al tema della
valorizzazione in generale, ma di approfondire questo rapporto fra la difficoltà di creare connessioni, nella gestione delle relazioni tra siti culturali e territorio, tra senso di appartenenza e
partecipazione alla conservazione. Sappiamo bene, infatti, che ogni forma di mecenatismo è
strettamente connessa al senso di appartenenza al patrimonio culturale.
Pietro Valentino
Dipartimento di Economia Pubblica, Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma
Gli interventi che mi hanno preceduto hanno tutti, a mio parere, declinato in modo nuovo il
concetto di valorizzazione. Lo hanno reso sempre più plurale e la differente declinazione del
concetto di valorizzazione dipende dal fatto che:
- gli obiettivi che il Ministero e gli altri attori coinvolti assegnano ai processi di valorizzazione
sono sempre più ampi. Al tradizionale concetto di valorizzazione di natura puramente culturale si associano nuovi attributi e, tra questi, quello economico ha assunto grande importanza;
- gli oggetti dei processi non sono più puntuali ma sono insiemi, più o meno articolati, di
beni dove quelli culturali, tangibili e intangibili, sono sempre più inscindibilmente associati
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al paesaggio e ai beni ambientali. Ancora, gli insiemi da valorizzare vengono individuati
facendo riferimento a una molteplicità di valori estetici ed identitari;
- i soggetti sono sempre più numerosi. Non è più il soggetto pubblico da solo, lo Stato e/o gli
Enti territoriali, a farsi carico dei nuovi processi di valorizzazione ma diventa indispensabile
il coinvolgimento dei soggetti privati. Ovvero, l’insieme dei soggetti pubblici è chiamato ad
operare in modo maggiormente cooperativo sia al suo interno che con gli attori privati potenzialmente interessati alle attività di valorizzazione;
- i criteri da prendere in considerazione per progettare e realizzare i nuovi processi di valorizzazione sono molteplici e sono di tipo sia qualitativo che quantitativo. Bisogna tener conto
di variabili strategiche ed operative che si definiscono facendo riferimento a valori culturali,
identitari, estetici ed economici. Variabili così composite sono necessarie sia per scegliere
l’insieme dei beni da valorizzare, in modo consistente con la molteplicità di obiettivi, che
per progettare i processi di valorizzazione che investono ambiti territoriali sempre più vasti
e coinvolgono un numero sempre maggiore di soggetti.
La ridefinizione del concetto di valorizzazione e il ridisegno dei suoi processi attuativi si fonda
anche sull’attribuzione di un ruolo sempre più rilevante nei processi decisionali alle collettività locali. Queste sono chiamate, insieme agli organi di tutela e agli esperti, a partecipare
alla definizione degli obiettivi e delle funzioni che si vogliono attribuire ai sistemi dei beni una
volta valorizzati.
Le collettività vengono chiamate ad assumere un ruolo attivo nei processi di valorizzazione
anche perché è soprattutto sulla base del “valore identità” incorporato che un bene si trasforma in un bene culturale socialmente e formalmente riconosciuto.
Identità e partecipazione attiva delle collettività sono due aspetti inscindibili e complementari; la produzione della prima ed il pieno dispiegamento della seconda hanno effetti non
marginali sui processi di valorizzazione.
In particolare, la conservazione e la crescita dei valori identitari implica che le strategie di valorizzazione devono essere costruite a partire dal basso; ovvero, e va tanto di moda in questo
momento, i processi di valorizzazione devono essere sempre più di tipo bottom up. Ma nella
valorizzazione dei Beni Culturali il disegno di strategie di valorizzazione a partire dal basso
non sono possibili senza aver prima posto dei vincoli alla loro definizione in quanto non tutte
le funzioni sono sostenibili dai beni culturali. E vincoli e regole devono essere fissati dall’alto.
In altri termini, la valorizzazione dei beni culturali dà luogo a processi complessi dove la programmazione dall’alto (top down) deve associarsi con quella dal basso (bottom up).
Questa caratteristica dei processi di valorizzazione dei beni culturali dipende dal fatto che,
come è stato già detto da altri prima di me, due sono i centri forti del sistema: gli oggetti e le
collettività.
Le valenze e le fragilità degli oggetti comportano vincoli e questi, quando si tratta di valorizzare sistemi di beni e contesti, non sono facilmente determinabili. Spesso, in Italia, i risultati
dei processi di valorizzazione sono al disotto delle attese proprio perché non si è in grado di
definire, e far rispettare, regole di conservazione di ambiti territoriali di pregio per la compresenza di beni culturali e ambientali. Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si
analizzano i processi di valorizzazione da un punto di vista economico: l’attrattività dei territori
non si accresce nei casi in cui alla alta qualità dei processi di conservazione e valorizzazione
dei singoli beni non corrisponde lo stesso livello qualitativo nella conservazione degli ambiti
territoriali di riferimento.
252
Primo colloquio sulla valorizzazione
Le collettività vogliono essere sempre più un soggetto attivo dei processi di valorizzazione
anche perché negli anni più recenti si sono accresciute le loro aspettative circa le ricadute
economiche di questi processi in termini di incremento reddito e occupazione a scala locale.
La partecipazione delle collettività ai processi dovrebbe essere comunque favorita perché
un loro maggiore coinvolgimento potrebbe avere due effetti positivi: da un lato, fortificare la
percezione sociale del bene culturale come “bene comune”; dall’altro, aumentare la consapevolezza che solo una “manutenzione attiva” dei beni e dei contesti da parte delle collettività
può rendere efficaci i processi di valorizzazione contribuendo significativamente a trasformare
le potenziali ricadute dei processi in effettività. In altri termini, quanto più è forte il “diritto di
appartenenza” dei beni alle collettività e quanto più queste esercitano questo diritto tanto più
si riducono sia gli abusi sui contesti che i vandalismi sui beni.
La partecipazione attiva delle collettività richiede l’introduzione di nuovi strumenti di comunicazione e il ricorso a forme di governance più inclusive.
Per ispessire le relazioni tra beni e collettività è strategico agire, prioritariamente, sui più giovani, attraverso la scuola, per far loro comprendere: le valenze dei beni, tangibili e intangibili,
che sono di loro appartenenza; i sacrifici sopportati dai loro avi per accumulare il patrimonio
di oggetti e saperi che loro hanno ereditato; l’importanza della storia incorporata in quei che
rappresenta il DNA della loro comunità; le soddisfazioni e i benefici che potrà dare loro la
conservazione e fruizione di quel patrimonio Del resto, ogni volta che un rapporto tra scuola e
beni culturali è stato creato, ogni volta che si è operato per diffondere e far apprezzare i valori
identitari dai ragazzi, ogni volta che i giovani sono stati coinvolti nella manutenzione attiva, i
risultati sono stati positivi.
E’ la capacità di gestire questa pluralità di soggetti, oggetti, relazioni la sfida posta oggi ai
processi di valorizzazione dei beni culturali; è una partita complessa e per questo vale la pena
di essere giocata.
Antonia Pasqua Recchia
Grazie professore, l’accento che di nuovo lei pone sui termini contesto e collettività introduce
il tema del prossimo intervento nel quale si tratterà di un tipo di gestione del territorio e in
particolare di pianificazione del territorio che permetta alla collettività di continuare a ritrovare le proprie identità: la pianificazione paesaggistica. La pianificazione paesaggistica non
è soltanto un obbligo che ci deriva dal codice dei Beni Culturali, è un’attività di tipo politico,
di tipo democratico, di tipo culturale. Un obbligo che le Regioni e lo Stato hanno iniziato a
perseguire insieme, con l’obiettivo, tra l’altro, di rafforzare il legame tra gli oggetti e i contesti,
tra il patrimonio culturale e la collettività che abita quei territori e che nei secoli e nei millenni
passati ha prodotto quegli oggetti culturali, ma che dovrà allo stesso tempo continuare a produrli, evitando di distruggerli. Chiedo, quindi, di intervenire alla professoressa Barbanente,
Assessore all’Urbanistica della Regione Puglia, con la quale abbiamo avviato un percorso
davvero virtuoso di copianificazione paesaggistica. Esorto l’Assessore - nel trattare il tema
della valorizzazione - a fare qualche considerazione sul legame tra oggetti, quindi Beni Culturali, territorio, comunità che vivono in quei territori, e sulla consapevolezza da parte di quelle
comunità che la scelta, a volte percepita come restrittiva, di limitare alcune trasformazioni
territoriali, in realtà è una scelta intelligente di sviluppo, di crescita e di incremento del patrimonio culturale.
Quaderni della valorizzazione - 2
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Angela Barbanente
Assessore alla qualità del territorio – Regione Puglia
Ringrazio l’architetto Recchia e tutti voi per questa interessante giornata, che mi ha offerto
tantissimi spunti di riflessione. Ringrazio in particolare per l’introduzione, che mi consente di
entrare nel vivo dell’argomento al centro del Colloquio e di ciò che ritengo che la politica debba chiarire a questo proposito. La domanda che tutti dobbiamo rivolgere a noi stessi è “quale
valore attribuisce la politica, e quale valore attribuisce la società, al patrimonio culturale nelle
sue assolutamente inscindibili relazioni con l’ambiente, e quindi quale valore attribuisce al
paesaggio?” Se non ci poniamo questa domanda semplice e radicale, credo che abbiamo
difficoltà a passare dalla conoscenza all’azione, dalla teoria alla pratica, perché troppo ampio
rischia di essere il gap che le divide.
Valorizzazione può essere una parola che non fa paura, a fronte di una lunga esperienza di
tutela difficile, di conservazione mancata del nostro patrimonio paesaggistico, solo se essa è
declinata nel suo significato di attribuzione di valore culturale da parte della politica e della
società, piuttosto che nel suo significato riduttivo, e purtroppo dominante, di attribuzione di
valore economico. In questa chiave, la sfida che la Regione Puglia ha voluto abbracciare, nella
fase attuale di governo politico, riguarda la stessa idea di sviluppo di una regione del Mezzogiorno che nei decenni scorsi ha subito forme di modernizzazione accelerata fondate su
interventi eterodiretti e processi di urbanizzazione tumultuosi. La stessa istituzione regionale
per troppo tempo ha assistito inerme o complice ad un progressivo scollamento tra popolazione, attività e luoghi, ha veicolato l’idea di territorio quale foglio bianco sul quale si potesse
disegnare qualsiasi cosa, quale piattaforma sulla quale si potesse insediare qualsiasi attività
che consentisse di cogliere l’opportunità del momento. Così, per lungo tempo si è assistito
con senso di impotenza o con connivenza alla cancellazione di patrimoni di conoscenze, esperienze e capacità locali e all’omologazione e all’appiattimento delle proprie culture materiali e immateriali.
Questo modello di sviluppo è oggi in profonda crisi, perché ormai è evidente a tutti che esso
ha lasciato macerie di inquinamento, rovine di spaesamento culturale, disgregazione sociale,
e anche decadenza economica a causa soprattutto della distruzione di preziosi patrimoni di
beni e sapienze che oggi abbiamo difficoltà a mantenere e recuperare mediante quei pochi
mezzi finanziari dei quali disponiamo. Tutto questo, a ben guardare, si è verificato in una lunga
fase espansiva dell’economia, in un periodo nel quale le risorse c’erano ed erano abbondanti.
La disponibilità di risorse economiche, dunque, è importante ma non può costituire prima
la causa della distruzione dei beni culturali e ambientali e poi l’alibi per la mancata tutela e
valorizzazione.
Questa riflessione abbiamo posto alla base dell’attività di pianificazione paesaggistica
in Puglia, non considerandola assolutamente come mero adempimento burocratico, ma
ritenendola strumento essenziale per uno sviluppo diverso, sostenibile, durevole della nostra regione. Uno sviluppo che, in un’epoca nel quale i flussi di persone di merci sono così
intensi e di lunga distanza, non può che fondarsi su un recupero di consapevolezza riguardo
ai valori del paesaggio, nell’indissolubile intreccio fra componente ambientale e culturale,
fra dimensione materiale e immateriale. Se non faremo questo non solo con riferimento alla
Puglia ma all’intero Paese, difficilmente riusciremo a riempire di senso quelle parole che sono
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Primo colloquio sulla valorizzazione
state importate spesso in modo abbastanza acritico dal mondo delle imprese al mondo nelle
istituzioni, quali la capacità di competere a livello globale. Non potremo mai divenire competitivi, perché ciascuno compete, ossia si confronta con gli altri, dialoga con gli altri, sulla base
di quello che è, di quello che sa e del patrimonio di cui dispone. Ed è necessario che ne siamo
tutti profondamente consapevoli: i beni culturali, i beni ambientali, i beni paesaggistici sono
il più grande bene patrimoniale di cui il nostro Paese dispone. Mi aprì il cuore alla speranza
leggere qualche mese fa i risultati di un’indagine condotta da Demos per Intesa San Paolo
in occasione dei 150 dell’Unita d’Italia. Alla domanda “Ci può dire in che misura ciascuno
dei seguenti aspetti la rende orgoglioso di essere italiano?” il 74,9% rispose di essere molto
orgoglioso del nostro patrimonio artistico e culturale e il 71,1% della bellezza del nostro territorio. Vi è quindi un sentire diffuso, come dire, quasi di base, forse talvolta inconsapevole, che
ha difficoltà a tradursi in coerenti stili di vita, comportamenti, modi di trasformazione del territorio. Abbiamo il dovere, come istituzioni responsabili della tutela e valorizzazione dei beni
culturali e del paesaggio, di dare spazio, voce, centralità a questo sentire diffuso, aiutando a
tramutare il senso comune in consapevolezza collettiva e orientamento per l’azione.
Vorrei dedicare l’ultima parte del mio intervento a una questione che mi sta particolarmente
a cuore e che assume cruciale importanza per cogliere appieno le opportunità offerte dal
Codice in materia di beni culturali e paesaggio. Essa riguarda la necessità di assumere approcci integrati nelle politiche pubbliche. Non si tratta solo di superare la settorialità delle
competenze, radicata nella pubblica amministrazione a livello politico e tecnico. Vi è di più: è
Quaderni della valorizzazione - 2
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stata abitudine delle Regioni creare nuovi organismi, nuove istituzioni, nuove commissioni a
mano a mano che emergevano nuovi temi all’attenzione della società e della politica. Questo
non solo ha comportato la separazione di ciò che invece è profondamente intrecciato ma
ha anche impedito l’evoluzione culturale e operativa delle preesistenti strutture organizzative. Oggi è tempo di dedicarsi a fondo alla ricomposizione di ciò che abbiamo separato: se,
come è stato più volte giustamente ricordato nel corso di questo Colloquio, inscindibile è il
rapporto tra conoscenza, tutela e valorizzazione, abbiamo bisogno impellente di unificare ciò
che abbiamo immaginato di poter scindere fra diversi livelli di governo, statale, regionale e
locale, e disarticolando competenze e poteri all’interno di ciascuno di essi. Dobbiamo quindi
ora ricomporre, attraverso l’uso dello strumento dell’accordo previsto dal codice, attività di
progettazione, programmazione e pianificazione che, per essere efficaci, devono coinvolgere
diversi enti nel perseguimento di obiettivi comuni, e la stessa ricomposizione dobbiamo operare, utilizzando strumenti diversi, all’interno di ogni pubblica amministrazione, senza dare per
scontato che quest’obiettivo sia più facilmente conseguibile del primo.
La Regione Puglia, nel secondo mandato del governo Vendola, ha ricomposto paesaggio,
beni culturali e aree protette entro un unico assessorato. Lo scopo è favorire l’integrazione
dell’azione di tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale. Stiamo quindi
lavorando per superare la tradizionale visione settoriale del patrimonio ambientale e culturale e dei singoli beni che lo costituiscono, secondo la quale la valorizzazione si riduce al
finanziamento, magari pure parziale, di un singolo intervento su un singolo monumento: i
Sistemi Ambientali e Culturali (SAC) sono strumenti finalizzati a incentivare soggetti pubblici
e privati (Enti locali, aree protette regionali, musei, archivi, biblioteche, operatori culturali, associazioni, operatori economici) ad assumere un approccio orientato alla conoscenza, tutela,
gestione e valorizzazione integrata a livello territoriale di detto patrimonio.
Mettere in pratica un simile approccio non è facile, ma vale la pena di impegnarsi a fondo per
dimostrare che è possibile farlo. Questo non solo per garantire una gestione più sostenibile
per patrimonio ambientale e culturale ma anche per rafforzare l’efficacia degli strumenti di
pianificazione, primo fra tutti il nuovo piano paesaggistico territoriale regionale in corso di
adozione. E’ evidente infatti che i SAC supportano, anche con finanziamenti, un piano paesaggistico che abbiamo concepito come strumento non solo regolativo ma anche capace di delineare scenari strategici e tradurli in pratica mediante progetti e azioni che coinvolgano soggetti
pubblici e privati. E qui emerge un altro tipo di ricomposizione necessaria alla realizzazione
di più efficaci politiche pubbliche: quella fra dimensione normativa, finanziaria, organizzativa
e relazionale. Quest’ultima, in particolare, è spesso trascurata nella pratica ed è invece da
coltivare favorendo ascolto, dialogo e confronto fra le istituzioni e con la più vasta società. Se
non opereremo anche questa ricomposizione, avremo difficoltà a raggiungere gli obiettivi di
tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali che sono al centro del Colloquio odierno.
Anche questa ricomposizione non è facile nella pratica: richiede tenacia, pazienza e anche
umiltà. Implica, infatti, avere l’umiltà di ascoltare chi non è esperto della materia, di dialogare
con chi ha il sapere dell’esperienza, e anche di non liquidare come perdita di tempo partecipare a un tavolo di pianificazione urbanistica che può sembrare un contesto che esula dalla
consueta attività di tutela, ma che è invece essenziale premessa per diffondere conoscenza
e condividere efficaci obiettivi e strategie di salvaguardia e valorizzazione.
La Regione Puglia ha istituzionalizzato, rendendole obbligatorie nell’ambito del processo di
256
Primo colloquio sulla valorizzazione
pianificazione urbanistica comunale, le conferenze di copianifizione preliminari all’adozione
del documento programmatico prima e del piano urbanistico generale poi. L’esperienza ormai
quadriennale conferma l’utilità delle conferenze preliminari: si tratta, infatti, di momenti nei
quali si è in tempo per condividere obiettivi strategici di sviluppo sostenibile con le amministrazioni locali e altri attori pubblici e privati coinvolti nelle trasformazioni del territorio. Esse
sono quindi utili anche per muovere da un approccio, tipico della nostra tradizione amministrativa che privilegia la dimensione regolativa e procedurale della pianificazione alle diverse
scale, ad un approccio che includa la dimensione strategica, fondata sulla costruzione di
una visione condivisa del futuro del territorio e una maggiore capacità di rendere praticabili
le previsioni di piano. Questa dimensione richiede la condivisione delle opzioni fra i diversi
livelli di governo e con la società, andando nella società, non attendendo che questa si riavvicini o si avvicini per la prima volta alle istituzioni: se la società si è allontanata dai musei,
dai territori aperti, dai paesaggi rurali, la dobbiamo andare a cercare laddove è presente e
parlarle di quello che può offrire un museo, di quello che può dare un territorio, di quello che
può rivelare un parco archeologico. Glielo dobbiamo raccontare perché si è progressivamente
persa l’esperienza diretta dei luoghi. Si diceva che i musei sono frequentati prevalentemente
da persone anziane: preso atto di ciò, dobbiamo lavorare soprattutto nel mondo della scuola
dove i bambini sono, nelle piazze dove i giovani si riuniscono, quindi mescolarci profondamente con la società. Ma, come abbiamo accennato, la visione strategica deve essere capace di tradursi in azione: il coinvolgimento, quindi, non è solo un esercizio di democrazia
partecipativa ma è anche attivazione delle risorse necessarie perché le visioni desiderabili
si realizzino. In una società complessa come la nostra, il pubblico può attuarne solo una
parte e, purtroppo, in considerazione delle risorse disponibili (non solo economiche ma anche umane), una parte sempre più limitata. Per avere il concorso di altre risorse occorre
coinvolgerle dall’inizio del processo, nella stessa costruzione della visione e della strategia,
e non solo nella fase attuativa. Non è facile farlo, i Sistemi Ambientali e Culturali con i quali
stiamo operando esattamente in questa prospettiva, dimostrano che c’è tanto da lavorare per
rendere più consapevoli le istituzioni locali, per recuperare la fiducia dei soggetti privati che
sono stati finora emarginati dalle scelte della politica, per coinvolgere appieno le comunità
locali nella ri-costruzione di una coscienza di luogo e di una visione di sviluppo che ne valorizzi
le qualità. Non è facile, lo ripeto, ma penso che questa sia la strada da percorrere, e che merita di essere percorsa, se crediamo nell’importanza degli obiettivi che ci hanno accomunato
nell’odierno colloquio. Grazie
Antonia Pasqua Recchia
Questo richiamo, forte e accalorato, ci mostra la passione con cui si fa un lavoro che punta
sulla partecipazione dei soggetti che operano sul territorio, sulla loro condivisione a monte di
tutte le scelte che lo riguardano e che tutti ci auspichiamo porterà a una maggiore consapevolezza e, quindi, anche una maggiore volontà di avvicinarsi al patrimonio culturale anche da
parte di quegli strati di popolazione che sono più lontani dall’individuare tra i propri bisogni
quelli dell’esperienza culturale. Questo ci porta a soffermarci su uno dei temi che è stato
dibattuto nell’ambito delle sezioni tematiche: la domanda inespressa, la domanda nascosta.
Tutte le indagini di customer satisfaction vengono fatte, ovviamente, attraverso la somministrazione di questionari a chi si reca nei siti culturali, ai fruitori abituali o casuali, ma non viene
Quaderni della valorizzazione - 2
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somministrato nessun questionario a coloro che decidono di investire il proprio tempo libero
e una parte, per quanto piccola, del loro denaro in una visita culturale. Perciò chiedo di volerci
illuminare sulle modalità, legate al marketing, di avvicinamento e di misurazione di questi fabbisogni di cultura, al Prof. Solima che ne ha trattato in numerosi studi, alcuni commissionati
dal nostro Ministero, altri prodotti nell’ambito della sua attività di ricerca scientifica.
Ludovico Solima
Dipartimento di Strategie Aziendali, Facoltà di Economia, Seconda Università
degli Studi di Napoli.
Il tema sollevato dall’arch. Recchia è di estremo interesse ed al contempo complesso; esso,
infatti, presuppone la capacità e la possibilità di raggiungere un insieme di persone con
le quali i musei non entrano direttamente in contatto. Come opportunamente evidenziato
dall’arch. Recchia, le analisi di customer satisfaction e, più in generale, tutte le attività di rilevazione che vengono compiute sui visitatori dei musei prendono in considerazione individui
che hanno stabilito un qualche tipo di rapporto con tali istituzioni, che sono quindi entrate in
contatto con esse e sono, pertanto, più facilmente raggiungibili.
Un ragionamento differente va invece svolto quando si intende sviluppare una riflessione sul
“non pubblico”, che rappresenta una porzione di domanda ben più ampia di quella cui attualmente i musei si rivolgono: in Italia, gli individui che non si recano ai musei sono più numerosi
rispetto a quelli che li frequentano.
Ragionare sul “non pubblico” comporta anche dotarsi di una strumentazione specifica, in
quanto le modalità di raccolta delle informazioni devono naturalmente essere diverse. Un
esempio è contenuto in un recente volume che raccoglie i risultati di una ricerca – condotta
da me e dalla collega Nadia Barrella – sull’offerta e la domanda museale nelle province di
Napoli e Caserta.
Per quel che riguarda la domanda, si è scelto di indagare il rapporto fra cittadini (quindi visitatori e non visitatori) e patrimonio museale del loro territorio; per fare questo, la rilevazione
è stata condotta in contesti non museali: una serie di luoghi pubblici delle città per cercare
di indagare le motivazioni che sono alla base della visita o – forse più interessante – della
mancata visita ai luoghi della cultura.
Uno degli elementi emersi, in linea con le poche indagini condotte su questo tema, è il senso
di “impreparazione”, in altri termini la difficoltà che hanno molte persone a sentirsi a proprio
agio all’interno di questi luoghi. Una sensazione che può ulteriormente crescere nel caso di
individui in visita con i propri figli, i quali, come accade comunemente, pongono domande cui
un genitore potrebbe trovare difficile dare una risposta adeguata.
Così, sommando ad un proprio disagio generale anche questa dimensione sociale che, per
certi versi, rende più complessa la visita, si può arrivare fino al punto di decidere di non visitare i musei.
Avendo cercato di rispondere alla sua sollecitazione, desidero solo richiamare la vostra attenzione su quelli che considero tre elementi essenziali a valle di tutto quanto è stato detto.
Il primo elemento è la tecnologia: si tratta di uno degli aspetti emersi dall’indagine condotta
per il Ministero ed ora in via di conclusione; tra le fonti informative su mostre e musei, inter-
258
Primo colloquio sulla valorizzazione
net ha guadagnato una posizione di grande rilievo. Molti musei italiani hanno una presenza
ancora molto ridotta in rete; ma più sconfortante è riflettere sul fatto che, mentre ci si affanna
ad avere una presenza che sia più o meno accettabile su internet attraverso il web, oggi il web
è per certi versi già morto; internet viene fruito in mobilità, con strumenti diversi, in modalità
diverse, per cui si rischia di arrivare con affanno ad un risultato che, in qualche modo, è già
stato superato dai progressi tecnologici.
La seconda parola chiave che mi preme sottolineare è la comunità locale; si è ribadito in più
di un’occasione che la struttura museale italiana è molto frammentata; si ha infatti una forte
dicotomia tra grandi poli museali ed un numero straordinario di piccoli musei. In una prospettiva aziendalista, occorre sempre cercare di trasformare i punti di debolezza in punti di forza;
in questo senso, i piccoli musei dovrebbero cercare di far leva soprattutto sulla dimensione
territoriale del loro agire, sviluppando quindi un rapporto con la comunità locale sulla base dei
vantaggi di prossimità che possono di fatto moltiplicare n volte una domanda potenziale che
è costituita dal bacino dei residenti.
La terza parola chiave riguarda le persone. Il direttore Resca richiamava il fatto che l’Italia è
percepita come una potenza mondiale forse solo da un punto di vista culturale, in quanto detentrice di un patrimonio artistico straordinario. Tuttavia, tale patrimonio costituisce solo una parte
del ragionamento, in quanto i suoi “custodi” sono le persone, quelle che poi consentono tutte
le attività, dalla tutela alla valorizzazione. Ci sarebbe molto da dire su questo argomento, ma è
preferibile chiudere il ragionamento con una sola considerazione: dal mio punto di vista, ciò che
rende un museo un “grande museo” non è tanto la ricchezza delle proprie collezioni quanto la
ricchezza delle proprie professionalità; detto con un ossimoro, in Italia è possibile imbattersi in
molti “grandi musei” di piccole dimensioni, e questa è una lezione che non va trascurata.
Antonia Pasqua Recchia
Grazie mille professore. Tecnologia, comunità locale e quindi partecipazione, vantaggio di
prossimità, persone. Professor Magnifico sono queste le ragioni per cui il FAI per le sue attività raggiunge un livello di autofinanziamento pari a oltre il 40% a fronte dello scarso 4%
dei piccoli musei statali?
Marco Magnifico
Vice Presidente Esecutivo - Fondo Ambiente Italiano
Mi scuso se ripeterò una cosa che è già stata detta ma evidentemente è il tema della giornata. Si tratta di una veloce riflessione: i temi sono colossali, la quantità è infinita, e mi unisco
a quanto ha detto il prof. Solima, e che condividiamo tutti, nel rendere onore a questa Direzione Generale della Valorizzazione che in questi anni è riuscita a far crescere la necessità di
dibattere un tema fondamentale come quello della valorizzazione, e quindi anche quello della
gestione. Il mio pensiero è che è finito il momento del restauro per il restauro. Qualcuno ancora dice: se qualcosa crolla va restaurato comunque; io dico se qualcosa crolla va restaurato
certamente, ma perché qualcuno ne goda, perché se nessuno ne gode “al limite” che sparisca pure. Mi rendo conto dell’assurdità del ragionamento, ma si lavora per la gente, non si
lavora per il monumento; si lavora perché la gente abbia il nutrimento, tragga valore da quello
Quaderni della valorizzazione - 2
259
che i monumenti, la storia, il paesaggio ci danno. Quindi grazie al lavoro che la Direzione
Generale della Valorizzazione sta facendo, perché si sta percependo e si percepisce oggi un
cambio, un giro di pagina, una voglia di crescere, di capire e di comprendere che la struttura
del Ministero deve per forza adeguarsi ai tempi e alle necessità che cambiano, e che questa
consapevolezza è fondamentale. Credo che il lavoro di noi tutti e il lavoro che noi del FAI facciamo disperatamente tutti i giorni, è quello di considerare il cittadino e il visitatore del museo
non come un cliente, ma come un collega. Il visitatore di un museo pubblico, il visitatore di
una proprietà del FAI, il visitatore di un monumento comunque che appartiene a un ente pubblico è comproprietario di quel monumento; non è un cliente che deve pagare un biglietto;
è un collega che deve partecipare ad un grande progetto di tutela e valorizzazione. I suoi
soldi non pagano un semplice biglietto ma sono un contributo a migliorare e a gestire questo
enorme patrimonio. Quando si diffonderà questo modo di considerare il visitatore, quando
il visitatore si considererà un partecipante ad una attività che tutela qualcosa che è suo,
l’atteggiamento del visitatore Italiano cambierà, parteciperà di più, contribuirà ancora di più
alle campagne del FAI e ad altre simili, che è un modo per essere partecipi. Il tema di come
la gente senta proprio il patrimonio è, centrale, fondamentale, così come ha sottolineato la
prof.ssa Ghedini, parlando del ruolo degli abitanti del luogo. Al tavolo sulla Gestione oggi ho
detto che gli abitanti dei paesi dove si trovano le nostre proprietà hanno accesso gratuito. A
Tivoli i tiburtini – e solo loro insieme agli Aderenti FAI - non pagano il biglietto per entrare a
Villa Gregoriana, perché in tal modo si sentono comproprietari di quel bene e lo sentono loro.
Perché è loro; Tivoli è dei tiburtini, non è dello Stato. Il prof. Valentino parlava delle collettività,
altro tema fondamentale; stasera sarò peraltro con una collettività, la gente di Assisi.
Chiudo con un’iniziativa di restauro, avviata condividendo il progetto con la gente del luogo
e con gli enti locali, perché se non si condivide fin dall’inizio si rischia che gli enti locali non
siano consapevoli, mentre invece, partecipando al processo, partecipando al progetto, partecipando alla lavorazione, si comprende che c’è spazio per capire, per condividere una politica
comune. Questo, a mio parere, è il vero cambio di pagina, dove siamo tutti chiamati insieme
a fare lo stesso mestiere: il Ministero, le Regioni, i Comuni ma soprattutto la gente. Nel momento in cui gli Italiani si sentiranno colleghi di chi fa il nostro lavoro e non clienti che devono
pagare un biglietto, credo che una gran parte della battaglia sarà vinta; ma vedo il bicchiere
mezzo pieno. Ringrazio tutti i giorni quel muro di Pompei che è crollato perché in quel giorno
gli Italiani han detto” ohibò, crolla Pompei, se ne va un pezzo della mia Italia”. Quel giorno è
stato un giorno molto fortunato perché abbiamo davvero sentito un cambio di atteggiamento
della gente nei confronti nel tema dei Beni Culturali.
Antonia Pasqua Recchia
Partiamo da quest’ultimo accenno: è vero, il crollo del muro di Pompei ha risvegliato
l’attenzione di strati di cittadini insospettabili. La stessa cosa è accaduta, sia pure a livelli e
in un contesto completamente diverso, con le celebrazione del 150 dell’Unità d’Italia. Sembrava che gli Italiani fossero indifferenti rispetto a questo evento e invece abbiamo verificato
che, proprio dibattendo animatamente e non limitandosi ad una celebrazione, è venuta fuori
la realtà di un popolo Italiano che si riconosce in questo Stato, in questa unità, pur nelle
differenze sottolineate da tutti, ponendo l’accento sulla necessità di riconoscere le rispettive identità nei propri territori. Parliamo a questo punto di come la gestione possa essere
vista anche dall’interno delle strutture del Ministero che, per forza di cose, sono strutture
260
Primo colloquio sulla valorizzazione
più rigide, a volte rallentate da regole e procedimenti che potrebbero essere più semplici;
che devono fare i conti con tagli, ahimè, orizzontali e non collegati allo spending review, che
probabilmente in futuro ci potrà aiutare. Chiedo al mio amico e collega Luigi Malnati, che
dirige la Direzione Generale delle Antichità, come queste strutture cerchino di fare fronte alle
sfide rilevanti che riguardano la richiesta di fruizione culturale. Di tutte le denominazioni che
sono nate dall’ultima riforma del Ministero, la Direzione Generale delle Antichità è un esempio bellissimo di titolazione che rispetta effettivamente quello che la Direzione fa.
Luigi Malnati
Direttore generale per le antichità MiBAC
Farò un intervento molto breve anche per ragioni di tempo. Ma mi pareva opportuno intanto
ringraziare i colleghi della DGVal per questa giornata che è stata, vedo, molto partecipata:
questo dà la misura della vitalità del nostro Ministero e di quanti collaborano dall’esterno.
Per quanto riguarda la Direzione alle Antichità, intanto vorrei premettere che il nome, introdotto con il regolamento più recente (prima era Direzione per i Beni Archeologici) recupera
certo un’opzione antica, che per altro avrei recuperato per intero molto volentieri, riassumendo la storica definizione di Antichità e Scavi, perché gli scavi archeologi sono proprio la
prerogativa della nostra qualifica di archeologi e non riguardano solo l’antichità, ma tutti i
periodi storici.
Credo che per rispondere al quesito che mi è stato posto la parola chiave sia il concetto di
collaborazione. Il nostro Ministero ha raggiunto una struttura estremamente complessa, di
cui le sovrintendenze continuano a costituirne la base, “il sangue” per così dire; si confrontano con le Direzioni Regionali, con la Direzione per la Valorizzazione, con le direzioni di
settore come la mia; soltanto quindi se queste strutture riusciranno a collaborare con una
strategia comune si riuscirà ad ottenere un risultato positivo.
Nel caso dell’archeologia, tuttavia, forse più che in altri campi, la collaborazione non può limitarsi all’interno del Ministero. Deve necessariamente fare i conti con le amministrazioni locali
anche se, per legge – e può sembrare un paradosso – giustamente si afferma che il patrimonio archeologico è proprietà dello Stato, cioè che, uscito dagli scavi, è proprietà dello Stato.
Tuttavia la realtà è che il maggior controllo del territorio che le Soprintendenze esercitano
ormai in modo sistematico da decenni, l’aumentata consapevolezza dell’opinione pubblica, e
il numero di interventi dovuti alle necessità dell’archeologia preventiva e d’emergenza ha portato ad un incremento esponenziale dei reperti archeologici che l’amministrazione dei beni
culturali dovrebbe gestire. Gli scavi sono ormai centinaia, migliaia ogni anno, avvengono non
per ricerca prevalentemente, ma per motivi di necessità, di emergenza; questo materiale archeologico si va ad accumulare nei magazzini delle nostre sovrintendenze e deve trovare una
collocazione e una collocazione che consenta al pubblico di vederlo, quindi una valorizzazione. Conservazione e valorizzazione sono quindi intimamente legate e non possono avvenire
se il Ministero e le amministrazioni locali sul territorio non collaborano strettamente perché
il pubblico si renda conto del lavoro che viene svolto quotidianamente dai nostri uffici e dei
risultati molto importanti che contribuiscono ad arricchire il nostro patrimonio archeologico e
storico. Naturalmente questa impostazione, che vale in tutta Italia, vale tanto più per Pompei
dove si spera che agli sforzi della nostra amministrazione possano unirsi sforzi internazionali
Quaderni della valorizzazione - 2
261
perché il patrimonio di Pompei più di tutti i siti archeologici è patrimonio dell’umanità ed è un
tesoro di archeologia che non possiamo permetterci di lasciare andare in rovina. Anche nel
caso di Pompei, come in altre realtà importantissime del nostro paese, da Roma alla Magna
Grecia, dall’archeologia preistorica a quella etrusco-italica, soltanto la capacità di coordinare
tutte le forze disponibili, quelle istituzionali e quelle del mondo della ricerca scientifica e delle
associazioni, può portare soprattutto a livello di valorizzazione, risultati eccellenti. Di questo
coordinamento il Mibac deve e può farsi interprete in prima persona.
Antonia Pasqua Recchia
Grazie Luigi, il tema della conservazione di questo patrimonio, come è stato ricordato stamane, è strettamente legato a quello della sua valorizzazione, e proprio su questo binomio,
cioè su come possano procedere insieme la tutela e la conservazione, ma anche la creatività,
chiedo al prof Santagata di intervenire.
Walter Santagata
Centro Internazionale per la Ricerca sull’Economia della Cultura, Istituzioni e
Creatività (EBLA CENTER), Dipartimento di Economia “S. Cognetti De Martiis”,
Università degli Studi di Torino
Grazie, è un piacere intervenire in questo dibattito e vorrei collegarmi a quello che stamattina ha detto il Segretario Generale, quando ha sottolineato che la conservazione è figlia
della tutela e che entrambe rappresentano il principale obiettivo del lavoro che tutti noi,
tutti voi, state facendo qui al Ministero. Pur tuttavia vorrei presentare un punto di vista
diverso.
In breve: se non si produce nuova cultura, non avremo niente da conservare. Questa semplice affermazione secondo me la dice un po’ lunga sulla necessità che una politica culturale in Italia si muova su questa doppia via; da un lato, ovviamente, dobbiamo conservare
i valori del passato, perché i valori del passato, diciamolo, sono molto spesso fonte di
ispirazione per la produzione di nuova cultura e la tutela è lo strumento principe di tutto
questo. Però rimane anche il fatto che se non produciamo nuova cultura rischiamo di trovarci, adesso parlo da economista, in difficoltà sui mercati internazionali della cultura. Per
usare una metafora, in un libro che scrissi qualche anno fa raccontavo di un viaggio di Leonardo nella storia, il quale arriva a Torino oggi e incontra amici che gli fanno vedere questa
nuova città. Sapete che a Torino conserviamo l’autoritratto presunto di Leonardo Da Vinci.
Sbalordito, vede macchine che parlano, vede macchine che si muovono da sole, poi lo portano nella Biblioteca Reale e gli fanno vedere il ritratto. Si commuove, gli offrono un caffè.
Ma Leonardo ha sempre qualche cosa in mente, una domanda inespressa ad un certo
punto la fa: “qui a Torino dove sono i vostri pittori? dove sono i vostri musicisti, dove sono i
vostri poeti, dove sono i vostri compositori musicali, i vostri intellettuali?”. E ogni volta i suoi
interlocutori sono un po’ in difficoltà perché in certi momenti ci sono stati, in altri no; diciamo che oggi non è un momento dei migliori per la produzione di cultura a Torino. Queste
domande un po’ banali però indicano la necessità di muoversi a fianco della conservazione
sul grande tema delle industrie creative e dei prodotti e dei servizi delle industrie creative
262
Primo colloquio sulla valorizzazione
che sono a tutti gli effetti dei beni e dei servizi di tipo culturale. Produrre cultura ci obbliga
un po’ ad avere un punto di vista diverso. Si può produrre cultura con i musei, ad esempio,
producendo mostre temporanee sul determinati soggetti, ma anche creando eventi che facciano dialogare culture diverse.
Vorrei chiudere con una piccola provocazione: ho sentito molto spesso oggi ritornare il termine identità, io vi inviterei alla cautela. C’è un’accezione di identità che tradotta in italiano
significa “alzare barriere”. Tutti i sociologi, e gli antropologi, hanno questa nozione di identità
- Io mi identifico nel mio gruppo - mi identifico nella mia cultura- ma per contro alzo una barriera contro altre culture, alzo una barriera contro chi non è come me. Credo allora che i musei
debbano incominciare non tanto a sviluppare politiche identitarie, ma politiche di alterità,
politiche dove il dialogo tra le culture diventi più forte, dove quello che chiamiamo inclusione
sociale diventi la via maestra di molte delle loro attività.
Per 20 anni mi sono occupato di economia della cultura, più o meno vent’anni fa ho cominciato a riflettere sui Beni Culturali come una risorsa economica che in un qualche modo
riesce a creare posti di lavoro e reddito. Dopo 20 anni credo che un ciclo si stia chiudendo
ed oggi considero come essenziale che le politiche culturali non si orientino più tanto alla
economia della cultura e ai vantaggi economici di una cultura gestita in modo efficiente, ma
sono convinto che le politiche culturali debbano diventare uno degli strumenti principali di
quella che chiamo la qualità sociale. Questo è quello che ci interessa, ormai abbiamo capito
come si gestisce un museo, abbiamo capito cosa vuol dire essere efficienti nell’uso delle
risorse, abbiamo capito come si fa fund raising, abbiamo anche nonostante tutto una buona
legge Ronchey che ci aiuta a realizzare un mucchio di cose. Quello che dobbiamo fare oggi è
muoverci verso la qualità sociale, utilizzare le nostre politiche per migliorare i piani di vita del
cittadini, per fare in modo che dialoghino tra di loro, che ci sia produzione di fiducia e cooperazione a livello locale. Soltanto questa apertura sulla qualità sociale ci aiuterà a considerare
anche le industrie creative non tanto legate, come succede nei paesi anglosassoni, al business, al profitto ma legate al miglioramento della qualità della vita di tutti noi. Grazie.
Antonia Pasqua Recchia
Ringrazio il prof. Santagata. Quando lei parla di qualità sociale noi riflettiamo sul fatto che il
consumo culturale, l’uso del patrimonio culturale, contribuisce al benessere sociale di coloro
che ne usufruiscono, e tutto questo fa prevedere che anche strutture rigide e molto formali
come quelle di un’amministrazione pubblica o di un Ministero debbano cominciare a ragionare in termini non solo di rendiconto finanziario o di rendiconto economico che già è stata una
conquista, ma di rendiconto sociale. La “rendicontazione sociale” sarà inserita in qualche
modo nella direttiva per l’attività politica amministrativa del Ministro per l’anno 2012, ovvero
rendere conto non solo dei soldi che si sono spesi ma del vantaggio che ne deriva alla società, tenendo conto di tutto quello che è stato detto questa mattina e del fil rouge della giornata di oggi: la compartecipazione dei vari soggetti. Il pubblico non può più fare investimenti
e comincerà a farne sempre di meno, quindi diventa sempre più importante questa relazione
con la società e con un partenariato consapevole e sensibile. A questo punto ascoltiamo
l’intervento del dottor Rodrigo Cipriani, che ci fornirà un punto di vista sul rapporto pubblico
– privato, rapporto visto a volte con timore, a volte con speranza, e comunque sempre in
modo abbastanza inquieto.
Quaderni della valorizzazione - 2
263
Rodrigo Cipriani Foresio
Non è facile parlare dopo il prof. Santagata. Vengo da 20 anni di esperienza nel mondo
privato, ho lavorato in grosse aziende nazionali, internazionali e nel mondo della comunicazione. Nella mia testa, per vent’anni, sono sempre riecheggiate parole come obiettivi, target,
responsabilità, deleghe, risultati, timing. Oggi ho sentito alcuni di questi termini, ho sentito
parlare di margini, ho sentito parlare di richiesta di maggiore responsabilità. E ad una persona che ha lavorato 20 anni nel privato e si sta cimentando da pochi mesi in questo settore,
non senza una serie di pruderie, di pregiudizi, fa molto piacere, perché sento che la strada
è questa. Non sono un esperto di contenuti, qui abbiamo tra i maggiori esperti al mondo e
siamo assolutamente in buone mani. Però sulla gestione qualche piccolo contributo penso
di poterlo dare e lo sto sicuramente dando alla valida squadra della Direzione della Valorizzazione che si sta così fortemente cimentando in questa impresa. Perché penso che la
gestione passi da due parole presenti nel tema della giornata: esperienza e partecipazione.
Esperienza e partecipazione di chi ha la fortuna di venire a visitare le nostre opere d’arte,
chiamiamolo come volete, turista, cliente, collega, e comunque ne rimane affascinato, dal
Colosseo a Pompei. Ma permettetemi di esprimere un parere come persona del settore, per
quanto riguarda tutto ciò che dovrebbe essere “intorno” a queste opere d’arte secondo me
siamo se non all’anno zero, siamo all’anno uno; cioè c’è da fare tutto e tutto di più.
Dobbiamo cogliere una grandissima opportunità, e c’è da costruire tanto per migliorare
l’esperienza del nostro, turista, cliente, collega e per costruire il futuro del nostro paese. Non
penso che nei prossimi anni verranno costruite fabbriche di automobili o di computer in Italia;
penso che in Italia dovremo puntare sul turismo culturale e beneficiare di tutto l’indotto che
ne deriva. L’esperienza e la partecipazione del nostro cliente passa per una maggiore offerta,
qualcosa che genera un’esperienza a 360 gradi. Abbiamo già a disposizione 350 gradi, avendo il Colosseo, ma diamogli anche quei 10 gradi più per far tornare i suoi cari, i suoi amici
gli amici. Il punto della gestione oggi passa per i servizi aggiuntivi. Questa direzione so bene,
come sapete tutti voi, si sta battendo perché i nuovi bandi per l’affidamento dei servizi aggiuntivi vadano in porto. Vi ricordo, e secondo me è pazzesco, che in alcuni casi i bandi sono
scaduti da anni, e che quando fu fatto il bando per gestire i servizi aggiuntivi degli Uffizi o di
Pompei, non c’era internet. Di conseguenza oggi in molti luoghi della cultura italiani non si
può prenotare il biglietto via internet. Accanto al grande lavoro di tutela, la messa a punto di
questi bandi deve diventare una priorità per i nostri Soprintendenti, per le nostre strutture,
perché ne giova tutto il sistema. Nuovo bando significa nuove e maggiori risorse, più risorse,
ma sopratutto qualità nei servizi. Aggiungo che sarà importantissimo, nella scelta del concessionario, individuare un soggetto non tanto sulla base dello sconto più alto ma per la sua visione, che deve essere la medesima visione del Soprintendente, della struttura, perché sono
le due visioni a doversi sposare bene, perché dovranno andare avanti insieme per dieci anni.
SI tratta di una vera priorità, una priorità non del venerdì sera o del sabato mattina, quando
dedico 5/10 minuti alla messa a punto di qualcosa; ma una priorità del lunedì mattina, di
quelle che stanno insieme a tutte le cose importanti. Mi sono permesso di fare un appello,
perché so che la struttura sta seguendo molto bene le cose, me perché si riesca a cogliere
questa opportunità, che è un’opportunità per tutti, ci vuole l’impegno di tutti. Questo è il mio
messaggio, la mia esperienza, che spero venga portata in porto dalla valida squadra della
direzione generale per la valorizzazione. Grazie.
264
Primo colloquio sulla valorizzazione
Antonia Pasqua Recchia
Grazie dottor Cipriani, ci ha ricordato un impegno importante per le nostre strutture: portare
a termine le gare per i servizi aggiuntivi. Come è stato ricordato stamattina, anche le organizzazioni che in questi mesi, in questo ultimo anno, si sono poste in opposizione alle iniziative della Direzione Generale, proprio a fronte della prospettiva di una apertura del mercato,
hanno cercato di migliorare, di ottimizzare le offerte e i servizi che vengono erogati. L’aspetto
concorrenziale va certamente garantito, blindato o gestito da un governance forte della parte
pubblica, perché in passato il fallimento dei servizi aggiuntivi è spesso dipeso dalla debolezza
della governance pubblica. I servizi aggiuntivi certamente ci aiuteranno a ottenere risultati
di efficienza e di efficacia, finora molto rari, soprattutto in quei casi in cui era molto più facile
trovare i margini di rientro da parte delle società aggiudicatarie. Rispetto ai servizi aggiuntivi
e alla gestione dei contratti, certamente sarà importante il monitoraggio, già ricordato come
uno strumento che verrà posto in essere da parte della Direzione Generale della Valorizzazione. Monitorare, ovvero seguire passo passo l’andamento della gestione del patrimonio
culturale è una attività prioritaria, è cosi anche in altri settori dell’azione del Ministero dei
Beni Culturali; per esempio il monitoraggio dello stato conservativo per il settore della conservazione. Ho avuto modo di parlare con il rappresentante dell’Istituto Superiore sui Sistemi
Territoriali per l’Innovazione, prof. Mondini, delle potenzialità che un sistema di monitoraggio
integrato, che riguarda non solo la gestione ma anche gli aspetti fisici di conservazione del
patrimonio e dei vantaggi che questo sistema può portare nell’ambito di un processo di valorizzazione del patrimonio. Chiedo, dunque, al professore di volerci introdurre a questo tema.
Giulio Mondini,
Direttore SiTI Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione
La questione del monitoraggio rappresenta un tema estremamente delicato in quanto il concetto di monitoraggio viene spesso erroneamente associato a quello di un’analisi condotta
attraverso strutture remote, basata su indicatori ricavati da sensori posizionati all’interno degli edifici.
Tale tipologia di monitoraggio presenta indubbiamente caratteristiche utili ed interessanti
ma risulta tuttavia insufficiente per poter affrontare in maniera adeguata la questione della
partecipazione nel contesto dei processi di valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali. In
tale contesto diventa infatti di fondamentale importanza ragionare non in termini di singolo
bene, bensì di territorio inteso come insieme di relazioni e processi. Proseguendo questo
ragionamento, diviene auspicabile che il concetto di monitoraggio raggiunga una dimensione
quasi di tipo multietnico. Conseguentemente, non è più possibile pensare di monitorare un
bene, occorre invece ragionare in termini di monitoraggio del sistema sociale e del sistema
territoriale.
Fatta tale premessa, diviene più semplice comprendere come la partecipazione diventi
l’elemento cardine nel contesto dei processi di monitoraggio. Al fine di chiarire meglio tale
concetto, vi propongo due esempi che sottolineano l’importanza del monitoraggio del sistema
sociale all’interno dei processi partecipativi.
Il primo esempio riguarda un’esperienza di pianificazione territoriale che abbiamo condotto
per la definizione degli obiettivi di un Piano di Gestione di un territorio. Nel caso in esame
Quaderni della valorizzazione - 2
265
abbiamo concretamente attivato un processo di partecipazione vera e propria, nel corso del
quale il pubblico ha partecipato attivamente alla definizione degli obiettivi del Piano. Il risultato di tale processo, oltre ad essere di indubbio interesse, ha evidenziato come l’obiettivo
principale della comunità in questione fosse quello di realizzare una biblioteca. Tale esito
costituisce un risultato straordinario in quanto il Sindaco ha così compreso di dover predisporre un piano sociale e non un piano regolatore, come si pensava inizialmente.
Nel corso dell’incontro di oggi abbiamo avuto modo di apprendere come vi sia un forte divario
tra i giovani e i meno giovani. In particolare, i giovani vanno sempre meno ai musei. Una delle
cause di tale fenomeno può essere ricondotta all’assenza di un’adeguata partecipazione strategica la quale, come ricordava prima Valentino, andrebbe condotta nelle scuole. Non credo
infatti che la questione fondamentale sia monitorare quante scuole vanno ai musei, sarebbe
invece molto più importante portare i musei nelle scuole ed invertire quindi il processo. In tale
contesto, la Legge 77 si configura come uno strumento straordinario.
La seconda esperienza di cui vi vorrei parlare riguarda un progetto nel quale un sito UNESCO
ha vinto un bando del Ministero con un progetto di formazione scolastica. Questa esperienza ha portato il sito UNESCO dentro le scuole, dalle elementari alle scuole medie superiori,
coinvolgendo gli studenti nei processi territoriali e aiutando gli stessi ragazzi a raccontare
i risultati ad altri ragazzi, coinvolti su altri siti UNESCO, al fine di condividere e scambiare
quell’identità che credo unisca le popolazioni, in quanto caratterizzata da una multi cultura e
da una multi etnia.
Conseguentemente, monitorare questo processo significa anche monitorare la società ed i
processi di valorizzazione della stessa.
Il passaggio dalla partecipazione strategica a quello della consapevolezza è un altro elemento
di fondamentale importanza. Durante il processo di candidatura del sito “i Paesaggi Vitivinicoli di Langhe- Roero e Monferrato”, una notevole porzione del lavoro è stata condotta sul
territorio, coinvolgendo direttamente le famiglie in quanto depositarie del bene in questione,
ovvero le vigne. L’integrità delle vigne stesse attraverso il trascorrere degli anni è stata infatti
garantita proprio da quelle famiglie che in quel bene hanno riconosciuto un valore e ritrovato
la loro economia e che si impegneranno a trasferire il bene alle generazioni future. In tale
contesto diventa fondamentale, quando si lavora sul territorio, fare in modo che sia la famiglia
stessa, la collettività, la persona a diventare il centro del progetto. Tra i risultati positivi di tale
processo, è interessante citare anche come durante la visita dell’ispettore quest’ultimo abbia cercato un confronto con le persone domandando quale fosse il valore di quel territorio e
quale fosse il motivo della proposta candidatura a sito UNESCO. Da tale confronto è emerso
chiaramente come il valore in questione non fosse tanto quello del paesaggio, in termini di
integrità, bensì la cultura del luogo, ovvero le persone che abitano e lavorano in quel luogo,
garantendone la gestione e la conservazione del valore perché è il lavoro dell’uomo l’unica
vera garanzia alla tutela del paesaggio.
Parlare di monitoraggio per trasferire dei valori alle generazioni future significa dunque lavorare proprio sulle persone, perché quando si discute di bene culturale e di sviluppo sostenibile nel quale il bene culturale deve essere inserito, diventa fondamentale riconoscere che
il concetto di sviluppo sostenibile, anche se attualmente un po’ abusato, può essere utile
solamente se si attribuiscono i giusti ruoli ai vari monumenti.
La dimensione culturale non deve quindi diventare un progetto a parte di sviluppo sostenibile,
deve piuttosto integrarsi all’interno del processo di sviluppo sostenibile dell’intero territorio.
Solo in questo modo la cultura può effettivamente partecipare ad un processo di sviluppo
266
Primo colloquio sulla valorizzazione
sostenibile, diversamente rimarrebbe un progetto a sé stante incapace di condurre a dei risultati effettivi di gestione del sistema sociale, inteso come sistema depositario dei valori.
Ciò che è emerso dalle nostre ricerche è infatti che il valore percepito del territorio da parte
dei visitatori non è il valore del territorio, spesso erroneamente associato al valore proposto
dai tour operators. Se pensiamo che i visitatori, parlando con altre centinaia di persone, andranno a raccontare un valore che non è quello del nostro territorio, comprendiamo allora
come un adeguato monitoraggio possa davvero significare difendere il valore del territorio.
Antonia Pasqua Recchia
Grazie, professore. Ha parlato di valore del territorio e il passo è brevissimo per trattare di
valore del patrimonio culturale, valore della fruizione, il prof. Hinna ci chiarirà come definire
il valore del patrimonio culturale ai fini della fruizione.
Alessandro Hinna
Dipartimento di Economia e Territorio, Facolta’ di Economia, Universita’ degli
Studi di Roma “Tor Vergata”
Buona sera a tutti e grazie alla DgVal di questa giornata di lavori che, davvero, credo sia stata
particolarmente interessante e ricca di provocazioni sulle quali, singolarmente e assieme, è
importante riflettere e informare nuovi percorsi di azione.
Detto questo, senza voler nulla togliere al valore dei molti temi trattati nel corso della giornata, vorrei concentrarmi su due parole, che poi sono due grandi temi, che mi hanno particolarmente colpito. Mi riferisco ai termini “crisi” e “territorio”. Due argomenti, questi, che
portano il ragionamento sulla valorizzazione del patrimonio su un piano di riflessione nuovo,
certamente complesso, ma di grande rilevanza, investendo – simmetricamente - il “tempo”
entro il quale agire e lo “spazio” su quale intervenire.
Rispetto al “tempo”, dovendo per necessità qui essere schematici, vorrei dire, provocatoriamente, che il “tempo dei colloqui è già finito”. La “crisi”, infatti, chiede capacità di analisi,
certo, ma poi velocità di decisione e rapidità di azione. Dato il tempo che viviamo, direi che
da stasera dovremmo capitalizzare (e, quindi, anche in parte archiviare!) il tempo della riflessione tra economia, società e cultura, ed iniziare a dimostrare come questo rapporto ha
funzionato, sta funzionando o non sta funzionando.
Come sapete, qualcuno, ormai molto tempo fa, ha avuto modo di osservare che la vera crisi
c’è quando il vecchio muore ed il nuovo non può nascere. Ebbene, non so, ditemi voi, ma forse
mai come in questo momento, in questo nostro settore, l’incapacità di pensare il nuovo rappresenta una minaccia reale per la sostenibilità economica e sociale del sistema. E di questo,
credo sia giusto dirlo a beneficio del dialogo costruttivo, anche la giornata di oggi ne è stata
in alcuni momenti testimonianza.
Ecco che qui, però, entra in gioco il secondo termine (“territorio”) e, quindi, la seconda dimensione (“spazio”) a cui facevo riferimento: il territorio, ed oggi in più momenti lo abbiamo ascol-
Quaderni della valorizzazione - 2
267
tato, appare come lo spazio in cui “creare il nuovo”, lo spazio in cui innescare una innovazione
radicale delle politiche di valorizzazione, lo spazio in cui ricercare una nuova economia e
gestione dei beni e delle attività culturale.
Dicendo questo, ovviamente, non voglio dire che la dimensione territoriale non sia stata fino
ad oggi parte della riflessione sulla valorizzazione del patrimonio culturale italiano, ma vorrei
dire che lo è stata in forma diversa da quella che oggi qui si è iniziata proporre. Se finora il territorio è stato sempre una “variabile di contesto” e, quindi, un possibile vincolo o opportunità
per una politica di valorizzazione del patrimonio, oggi il dialogo tra economia, società, cultura
e crisi richiedono delle politiche e delle strategie di intervento mirate alla crescita dei territori
e, quindi, alla valorizzazione delle risorse di cui essi dispongono, ivi incluse quelle culturali.
Se seguiamo questo filo di ragionamento, allora possiamo davvero immaginare uno spazio
originale di dialogo e integrazione tra politiche di valorizzazione e politiche sviluppo economico e sociale, in cui i luoghi di cultura rappresentano una parte fondamentale di un capitale
territoriale specifico, capace di rendere unico e irripetibile il l’atteso processo di sviluppo sia
economico sia sociale.
In questa nuova dimensione di spazio territoriale, e vado ad alcune proposte riflessioni più
operative, esistono occasioni importanti di innovazione, tanto urgenti quanto poco ancora
sfruttate. Tra i percorsi di innovazione possibili, vorrei citarne in particolare due, in quanto più
strettamente riferiti alle problematiche gestionali e finanziarie del settore. Mi riferisco quindi
al (1) Partenariato Pubblico-Privato (PPP) e (2) al sistema di finanziamento delle politiche di
valorizzazione del patrimonio culturale italiano.
Con riferimento, al PPP indubbiamente il nostro settore, più di altri, registra ritardi importanti. Gli anni 90’ ci hanno illuso che esso potesse felicemente realizzarsi per il tramite di
famigerate forme di gestione compartecipate (leggasi fondazioni, consorzi, etc) (PPP di tipo
istituzionalizzato) destinate, nei casi più fortunati, a realizzarsi per luoghi di cultura di particolare pregio ed importanza nazionale, ma che difficilmente possono trovare condizioni di
realizzazione efficace nel caso della gestione di quei “luoghi minori”, di cui il nostro Paese
è straordinariamente e capillarmente dotato, la cui tutela e valorizzazione rappresenta una
sfida non ancora sufficientemente raccolta.
E’ proprio qui, invece, che la dimensione territoriale delle politiche può abilitare sistemi di
relazione innovativi tra pubblico e privato: se è il territorio - e non il singole luogo o bene - ad
essere messo in gioco, allora cambiano le dimensioni qualificanti il processo di valorizzazione in senso stretto. Possono, infatti, costituirsi relazioni importanti con le altre componenti
del sistema di sviluppo locale, interessando filiere economiche e produttive complementari,
rendendo possibile spazi di PPP anche nella campo della tutela e della valorizzazione del
patrimonio. Detto in altri termini: l’inserimento dei processi valorizzazione del patrimonio culturale in un più complessivo quadro di politiche e progetti per il territorio può creare spazi di
profittabilità utili all’avvio di forme di PPP di tipo contrattuale (e quindi non più istituzionalizzato) anche in un settore, come quello di cui ci stiamo occupando, generalmente caratterizzato da scarsi o nulli margini di convenienza economica e finanziaria.
Il nuovo partenariato pubblico e privato (PPP), se giocato su scala territoriale, dovrebbe
mettere il settore imprenditoriale, sia esso profit o non profit, nelle condizioni di fornire le
268
Primo colloquio sulla valorizzazione
competenze adeguate alla migliore progettazione, gestione e finanziamento dei beni e delle
attività culturali. Compiti complessi, rispetto ai quali, non credo che la strada giusta sia la riconfigurazione delle competenze professionali del comparto pubblico sia esso identificabile
nel Ministero o nella singola Soprintendenza. Non credo che la “managerializzazione” delle
risorse umane impiegate nell’Amministrazione centrale o negli enti territoriali pubblici sia
una strada perseguibile. Non solo perché - e qui torno al primo tema tratto - non c’è tempo
per una riconfigurazione delle competenze chiave di un capitale umano così vasto, ma anche
perché credo che esso debba continuare a svolgere professionalmente il ruolo per il quale si è
preparato e per il quale è stato assunto. Proprio in un rapporto di collaborazione tra pubblico
e privato, infatti, è quanto mai utile che il settore pubblico, appunto seguendo una logica di
equa attribuzione dei rischi e delle competenze, presidi efficacemente l’attività di tutela, di
conservazione e controllo delle gestioni.
Ovviamente, inutile nascondere che il pubblico dovrà anche offrire una componente di contribuzione economica sia all’avvio del sistema di progettualità condivisa sia, in taluni casi, a
sostegno delle singole gestioni. E qui, arrivando a concludere, chiamo in causa il secondo percorso di innovazione necessario: un nuovo sistema di regole di sostegno finanziario al settore.
Non c’è tempo per un approfondire la questione e, quindi, mi limito ad un riferimento alle regole
sul patto di stabilità interno. Potrebbero infatti immaginarsi forme di esclusione dal computo
del patto talune risorse economiche impegnate dalle amministrazioni per l’attività di progettazione finanziata, anche in forma cooperativa, avente ad oggetto la valorizzazione del patrimonio culturale. Ciò permetterebbe, evidentemente, di liberare risorse per gli investimenti, di
facilitare la riqualificazione della spesa (vincolando la spesa ad un progetto di sviluppo anche
legato alla valorizzazione del patrimonio), di migliorare l’atteggiamento strategico degli enti locali nell’approccio ai temi di tutela e valorizzazione e, quindi, di attivare sinergie stabili sul piano
programmatico e finanziario tra pubblica amministrazione e altri comparti (privato, non profit).
Va da sé, e qui davvero concludo, che di fronte a percorsi di innovazione come quelli accennati e, quindi, in una ipotesi di ridisegno complessivo del sistema di relazione e finanziamento
delle politiche di valorizzazione, necessita una riforma che dia finalmente autonomia finanziaria al MIBAC. Oggi, come noto, la mancanza di autonomia finanziaria della struttura centrale
così come delle strutture periferiche, inibisce (o almeno non incentiva) spazi di dialogo e
integrazione con le progettualità che i territori già esprimono, vanificando ogni sforzo che i
singoli possono porre in essere per aumentare le risorse a loro disposizione (leggasi strategie
di raccolta fondi, strategie di marketing e promozione, etc.) o migliorane l’utilizzo (leggasi
sistemi di programmazione e controllo finanziario).
Antonia Pasqua Recchia
Gli stimoli del suo intervento sono tantissimi. La prima cosa che mi viene da dire, è che occorre una finanza creativa: c’è la necessità, l’obbligatorietà, di smontare il meccanismo per
cui gli istituti del Ministero, ad esempio, non possono introitare un euro, perché tutto deve
andare in conto entrate al Tesoro che successivamente riassegnerà le somme, ma anche
dopo sette anni. Allo stesso modo il Patto di Stabilità che prescinde da ogni valutazione di
virtuosità della spesa degli enti locali, ingessa risorse che in questo momento sarebbe molto
utile immettere nel ciclo produttivo e nel ciclo di utilizzo dei soldi pubblici.
Quaderni della valorizzazione - 2
269
Nel contesto di una struttura pubblica, come il MiBAC, è molto facile dimostrare il fallimento
di qualsiasi azione volta a dotare di nuove competenze una struttura che non ne aveva. Noi
non possiamo acquisire né vecchie competenze, né crearcene di nuove; siamo bloccati, non
possiamo assumere nessuno, perché rientriamo in un trend di riduzione degli assetti della
Pubblica Amministrazione che non fa nessuna eccezione per il nostro Ministero. Le attività
politiche del Ministro in questo senso, sono molto forti, e quindi spero non accada, ma noi andremo a definire un organico che pone immediatamente in esubero 2.700 persone a fronte
del disastro che abbiamo negli Istituti, che fa si che i Musei chiudano di domenica. Perché
chiudono? Perché il personale non può superare il 50% dei turni festivi che supererebbe, ma
esiste un contratto generale di comparto che lo vieta. Quando ero Direttore generale del personale abbiamo fatto degli accordi “strozzati” dove il sindacato stesso ha detto “ si va bene
superiamo del 50% i turni.” Cosa che qualsiasi lavoratore avrebbe potuto portare al Ministero
del Lavoro con un contenzioso. Quindi il contesto generale, anche della crisi, da un lato ci
impone di correre, correre, correre, e non ritornare a costruire la carrozza, ma piuttosto di
cercare di costruire una macchinetta e dall’altro però ci sfila tutti gli strumenti che potremmo
utilizzare. Ad ogni modo, cercheremo di non farci sfilare questi strumenti e di correre per arrivare prima della crisi.
Abbiamo dalla nostra tanti punti di forza, che sono stati ricordati oggi, e abbiamo anche le
capacità interne e di collaborazione esterne, per mettere in moto almeno meccanismi di
resistenza, se non di vincita immediata. Dr Bollo, a lei chiedo di darci qualche informazione
di più sulla costruzione di questi sistemi di informazione, di documentazione e di censimento
delle diverse realtà e quindi di tutte le attività propedeutiche alla futura elaborazione di modelli di sviluppo e valorizzazione.
Alessandro Bollo
Fondazione Fitzcarraldo
Buona sera a tutti, vorrei fare alcune riflessioni a margine della sessione mattutina sul tema
dell’“Esperienza”. Abbiamo a lungo parlato di conoscenza del pubblico, di monitoraggio e
valutazione del processo di fruizione, di importanza della relazione che si deve attivare e
consolidare tra la società e il patrimonio culturale.
La natura e l’evoluzione di questa relazione può essere utilmente compresa solamente se
viene contestualizzata e filtrata attraverso la lente dei cambiamenti che stanno plasmando il
nuovo spazio socio-culturale nel quale viviamo. Non ha senso qui ritornare su tutti i fenomeni
di discontinuità intercorsi negli ultimi dieci anni; può essere utile semplicemente ricordare
come sia mutato radicalmente il modo con cui le persone si informano, sono esposte alla
comunicazione, apprendono, maneggiano e condividono contenuti artistici, culturali, creativi
e informazionali. Si tratta di fattori che non possono non avere delle implicazioni nei consumi
e nelle pratiche culturali e che non possono lasciare indifferenti i musei, in particolare quei
musei che mettono il visitatore al centro della loro azione quotidiana e che ritengono che il
loro ruolo e il loro senso sia di stare il più possibile dentro un presente in cui si candidino ad
ascoltare, attivarsi, prendere una posizione rispetto a bisogni, istanze, domande molto differenziate che arrivano dalla collettività e dai singoli individui.
Nuove “liturgie” culturali si vanno ad aggiungere alle vecchie; non le sostituiscono automati-
270
Primo colloquio sulla valorizzazione
camente, si congiungono, producono trasformazioni, stratificazioni successive, ibridazioni. I
risultati delle ricerche italiane e straniere che analizzano le nuove “antropologie” di consumo
museale e di partecipazione suggeriscono, più o meno esplicitamente, che il museo si candidi
a diventare anche un luogo aperto all’ibridazione. Intendo, cioè, la possibilità di considerare
il museo un luogo aperto in cui i nuovi linguaggi della comunicazione e della mediazione
possano convivere con quelli più sperimentati, le istanze emergenti possano trovare ascolto
unitamente ai bisogni più consolidati, i nuovi pubblici abitino gli spazi del museo insieme
a quelli già tradizionalmente coinvolti. I dati che, in anteprima, ha presentato oggi il Prof.
Solima sull’invecchiamento del pubblico e sull’aumento dell’incidenza delle persone con titoli di studio medio-alti nei musei statali rispetto a dieci anni fa rappresentano un indubbio
elemento di preoccupazione e rendono le sfide del sistema museale ancora più complesse
di quanto non lo fossero ad inizio millennio. Se i musei vogliono diventare spazi di inclusione
e di mediazione intra e inter culturale allora anche il tema della conoscenza dei cosiddetti
pubblici potenziali e non pubblici deve assumere una diversa crucialità. La conoscenza deve
rappresentare il requisito base, la conditio sine qua non per dare avvio alla progettazione di
interventi mirati all’audience development.
Un altro tema di riflessione, che evoco velocemente perché è stato più volte riproposto durante la tavola rotonda, sono le persone, l’importanza della componente umana e professionale come fattore strutturante e qualificante il capitale intangibile del museo. Ne consegue che
un’ulteriore sfida consiste nella natura e nella qualità dell’investimento in capitale umano e
professionale, intendendo le persone che lavorano nei musei, quelle che lavorano con i musei, quelle che non lavorano e che invece potrebbero o dovrebbero farlo, le stesse persone
che i musei li visitano.
Mi avvio alla conclusione facendo un cenno al concetto di esperienza che dava il titolo alla
nostra sessione. Viviamo in una società sempre più satura di esperienze; il nostro spazio
sociale è attraversato e irretito da esperienze di varia natura perché l’esperienza è, allo stato
attuale, la grammatica più efficace, più seduttiva per vivere frammenti di presente a forte
densità di senso (forse più percepito che reale). Ma se una delle finalità della produzione ipertrofica di esperienze è quella di trovare formati più adatti e convincenti per creare legami e
situazioni che rafforzino le relazioni di consumo e di mercato, che tipo di esperienze e a quali
finalità devono rispondere quelle realizzate dai musei? La domanda è indubbiamente complessa, e penso non ci siano risposte univoche. A me sembra che i musei debbano, comunque,
imparare la grammatica della progettazione esperienziale perché è quella che contribuisce
a rafforzare il coinvolgimento, la partecipazione, l’ampliamento a pubblici nuovi, ma occorre
una riflessione sul tipo di impatto, di “rilascio” che l’esperienza deve generare nel breve, ma
soprattutto nel medio termine.
Rispetto agli effetti generati e al tipo di “rilascio” sui visitatori, ciascun museo individuerà
specifiche priorità e i relativi criteri di valutazioni. Tra i molti risultati e impatti possibili, uno
che mi sta a cuore è quello della produzioni di cittadinanza. I musei, attraverso un approccio
maggiormente partecipativo, possono candidarsi a diventare una palestra per la cittadinanza
attiva, per la capacitazione di risorse e competenze individuali, per il rafforzamento di capitale culturale, sociale e creativo del territorio.
Grazie.
Quaderni della valorizzazione - 2
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Antonia Pasqua Recchia
Abbiamo chiuso con questo bell’intervento di Alessandro Bollo che punta sui pubblici e certamente un applauso molto caloroso va a questo eroico pubblico che è rimasto fino alle 19.20
da stamattina. Gli ultimi relatori della tavola rotonda, hanno però potuto contare su un pubblico selezionato e interessato che porterà con sé più di altri il seme che è stato gettato oggi
e che sicuramente germoglierà, dandoci frutti operativi che sono quelli che ci interessano. Il
resto è dibattito, il resto è approfondimento disciplinare, il resto può essere pubblicazione,
può essere ricerca, ma noi abbiamo bisogno di linee operative: cosa fare da subito nei nostri
musei con le risorse scarse, con le persone scarse, in un momento di crisi. Grazie alla DGVAL
per aver organizzato questa giornata, grazie ai relatori, grazie al pubblico e immagino che
ci rivedremo, perché se questo è il Primo Colloquio si suppone che poi ce ne sia almeno un
secondo.
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Primo colloquio sulla valorizzazione
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Tavola rotonda - Direzione Generale per la Valorizzazione del