“IMPARARE
A SBAGLIARE, A PERDERE
E A RICONOSCERE LA PROPRIA INCOMPIUTEZZA”
Vita fraterna in comunità
relazione di Fernanda Barbiero
La questione su cui riflettere: “i nodi che inceppano la fraternità” è per me uno stimolo che
accolgo con interesse. Penso che l’argomento si presta ad essere sviluppato in modo ampio e
profondo anche se, nello spazio di un articolo si possono attraversare solo alcuni dei problemi non tutti, certamente- e non in forma esauriente. La vita fraterna in comunità è collegata all’idea
che abbiamo di noi stessi, alla nostra autocoscienza comunitaria, alla visione comune di che
cosa sia “comunità religiosa”; in una parola: alla nostra identità. Questo elemento non è scontato,
perché la coscienza dell’identità si rinnova continuamente. Ogni generazione ha la propria: non
c’è da stare bloccati su quanto costruito nel passato.
L’ALBA DEL GIORNO ARRIVA DOPO LA NOTTE
Vivere in fraternità è una realtà stupenda e faticosa insieme, perché la comunità, luogo di
condivisione e di comunione è nondimeno luogo di rivelazione dei nostri limiti. Quando si vive
da soli ci si può anche illudere di essere capaci di amare, ma vivendo in comunità ci si rende
conto di quanto sia arduo l’amore; come sia facile preferire e scegliere le persone che ci
corrispondono, che hanno una certa affinità con il nostro pensiero e con il nostro sentire. “La
vita fraterna è la rivelazione delle tenebre che sono in noi” dice J. Vanier. Questa rivelazione è
abbastanza difficile da accettare. Ci fa provare la necessità di imparare a gestire l’imperfezione,
la fragilità, la debolezza, il fallimento, il peccato. Questa è forse l’impresa più difficile. Sentiamo
la fragilità della nostra comunione perché ogni giorno mangiamo il cibo amaro dei nostri
dissensi, delle nostre grandi e piccole dispute e rivalità, e questo costituisce la miseria e la croce
del nostro vivere la fraternità. Ma “per arrivare all'alba non c'è altra via che la notte” (Kahlil
Gibran).
Dire fraternità può suscitare in ciascuno di noi echi diversi: è una parola usata moltissimo. Della
fraternità vissuta ne abbiamo percepito l’attrattiva e il fascino in alcuni momenti della nostra
esperienza di vita, in altri ne abbiamo sentito la fatica e la croce. Attraversati dalle sfide di una
società liquida, siamo messi in guardia dalle illusioni di contare su contesti dai principi solidi e
dai valori stabili. Inaliamo un clima di continua provvisorietà, vale a dire un modus vivendi sulla
base di progetti a breve termine che non consentono orientamenti stabili, ma solo fasi
discontinue (1). In questa confusione è importante trovare uno stile di fraternità che parli e
incida; una fraternità come modo di abitare la postmodernità (2).
A quale tipo di fraternità ispirarsi, quali le caratteristiche da attribuire a tale fraternità? Le
nostre piccole comunità fraterne sono preoccupate di essere “vere comunità cristiane”, dove
tentiamo e ritentiamo ogni giorno di collocare Dio al centro della vita? Le dinamiche della vita
fraterna riescono a creare un tessuto di carità e di gioia oppure si svolgono secondo una
saggezza umana che segue leggi psicologiche e sociologiche? Se è così il cammino della
fraternità può anche sembrare affascinante, ma lascia irrisolti alcuni problemi. É molto difficile
passare dallo psicologico allo spirituale, alla fede. Questo passaggio, in realtà, arriva assai
1
raramente (3). La conoscenza di sé e l'integrazione della propria realtà non è solo un processo di
maturazione psicologica ma un processo di fede. Senza questo passaggio nella fede rimaniamo
fuori dalla realtà della vita e non camminiamo verso l'autentico compimento della persona.
IL SIGNORE, “ CENTRO” DEL NOSTRO STARE INSIEME
Sta di fatto che la fraternità, nella sua sostanza di dono, è al cuore della identità della vita
consacrata. La comunità che non ha in noi il suo inizio, ma nel Signore. É il Signore a chiamarci,
ed è lui - perciò - che fonda e giustifica il nostro stare assieme. Non sono gli affetti o la simpatia
o la condivisione ideale a dare solidità ad una comunità religiosa, ma piuttosto un darsi
vicendevolmente credito riconoscendosi tutti chiamati, per grazia, dall’unico Signore. La
dinamica della vocazione, in se stessa si rivela sempre come storia non di una persona isolata,
ma insieme con gli altri. Questa intuizione di “essere chiamati” è un volto che coinvolge, e
dunque una storia. Perciò, coinvolgersi con Cristo significa entrare a far parte di una tessitura,
di una rete di rapporti. La vocazione, ossia la storia di chi si è lasciato coinvolgere con Cristo, si
fa anche missione e anch’essa non è un progetto da elaborare, ma una testimonianza da rendere
alla chiamata: dunque espressione concreta di amore. Non ci può essere, nel medesimo tempo,
l’amicizia con il Signore e lo strappo con l’altro. Non posso privilegiare un fratello a scapito
dell’altro, non possono escludere nessuno a causa della sua diversità.
I problemi che si vivono nelle nostre comunità, spesso hanno come origine proprio la mancanza
di questa visione di fede. Si vive la comunità piuttosto come un gruppo umano, unito dal
comune interesse, dall’affinità. E tuttavia, i fratelli sono “dono” e coma tale ricevuto; non si
scelgono come gli amici. Il dono, poi, riporta al donatore: al Signore. “Per primo” viene il
Signore. Si tratta di riportare la fraternità al suo centro: al Signore perché solo dall’amore
incondizionato per il Signore scaturisce il nostro essere fratelli. La fraternità trova soltanto nel
Signore la propria origine. È, prima di tutto, dono di Dio. Lui è l’origine, il fondamento e la sua
giustificazione, il centro sul quale poggia tutta la struttura portante della comunità. Essa è un
dono che Dio concede a coloro che chiama a vivere insieme, e come ogni dono si declina in un
impegno. L’impegno a custodire il dono; a svilupparlo in atteggiamenti voluti nell’intimo del
cuore, in piccoli gesti quotidiani per animare la volontà a non ripiegarsi nel proprio egoismo.
“L’uomo - infatti - muore se passa il tempo a coltivare se stesso; vive se non pensa più a sé, ma al fratello
e a Dio”. (I. Giordani)
COME IL SEME CHE MARCENDO IN INVERNO, GERMOGLIERÀ A PRIMAVERA
Un nodo risaputo della vita comunitaria è legato al fatto di essere piuttosto consumatori avidi
di fraternità, dimenticando che siamo chiamati ad essere costruttori di comunione accettando di
lasciare il “proprio” modo di vedere, di interpretare, di elaborare per dare fiducia cordiale
all’altro, perché “l’altro è la mia vita” come diceva Silvano del Monte Athos: Da “l’io all’altro” al
“noi” nel vortice di una pericoresi d’amore, un intreccio di relazioni che non annullano l’alterità,
come insegna il mistero della Trinità. È il passaggio dall’amore di sé all’amore per il fratello.
Dalla tentazione dell’affermazione di sé alla gioia del “noi”. Questo è la comunione. Ma non si
arriva a questa esperienza se non si patisce il “fratello”, se non si sperimenta la misericordia, la
carità, il servizio di Dio e dei fratelli. Si tratta di accogliere il processo del seme che marcendo in
inverno, germoglierà a primavera. La carità -infatti- vuole la vita e non la morte dell’altro: la
vita degli affetti, il fiorire delle qualità, la crescita nella conoscenza e nelle sapienza. Respiriamo
un’aria culturale inquinata da un malefico individualismo: “io”, il mio progetto, la mia
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realizzazione spirituale -professionale- personale. Problema molto più grave è quando
l’individualismo si giustifica mediante l’ideologia: è la situazione di molti oggi. In parole
povere: uno dei motivi per cui, a volte, l’aria nelle nostre comunità diviene irrespirabile è per
l’impatto ideologico che si viene a creare. Pensiamo ai danni introdotti da una mentalità
egualitaria portata a considerare il livellamento come un diritto dei più poveri. È quanto accade
quando si vogliono spartire in modo egualitario i carismi e le risorse spirituali che Dio ha date
in modo diseguale. Una armoniosa e felice vita comunitaria diventa impossibile.
E c’è di più: la cultura dell’io fa perdere il senso cristiano dell’obbedienza: la trattiene dentro le
strettoie di un’adesione esteriore della volontà e la distoglie da quell’affidarsi a Dio, che dà pace
e letizia. “Ho trovato Dio il giorno in cui ho perduto di vista me stessa” dirà Santa Teresa d'Avila.
Quando veramente si comincia ad appoggiare su Dio e non su sé stessi, si avanza a grandi passi
nelle vie dell’amore. Sempre di più, la carità guida i nostri atti e purifica le nostre intenzioni, in
modo che non tarderà ad invadere tutta la nostra vita. Allora si diffonde il gusto di stare e di
lavorare insieme, la passione di dare al meglio il proprio contributo, piccolo o grande che sia,
che viene valorizzato e incastonato nell’insieme.
LA CHIAVE DELLA SAPIENZA
I Padri del deserto hanno promosso un spiritualità che si potrebbe definire dell’imperfezione. In
sintonia con la teologia di Paolo “La forza -infatti- si manifesta nella debolezza” (2Cor 12, 9), i Padri
insegnano che Dio entra nel nostro cuore attraverso le ferite aperte della nostra umanità, ci
incontra nei nostri smarrimenti. Più uno è ferito, più lo cercherà (Mt 18, 12–14). “Preòccupati di
imparare a sbagliare, a perdere, a riconoscere la propria incompiutezza!”, recita un noto apoftegma.
Nel cammino verso la edificazione della comunità decisiva è la capacità di convertirsi
accettando di ricevere aiuto dagli altri. “Non solamente abbiamo bisogno di conoscere gli altri, ma più
profondamente abbiamo bisogno degli altri per conoscere noi stessi” (D. Eck). Nel rispetto dell’alterità
si realizza la vera conoscenza dell’altro e di riflesso di se stessi. La vera conoscenza dell’altro,
inoltre, comporta che lo si ascolti superando il pregiudizio di una conoscenza che lo giudica.
La misericordia di Dio suole raggiungere la persona attraverso la comunità a una condizione:
non essere nel numero di chi ha la presunzione di sapere già tutto e rifiuta di farsi
continuamente discepolo. Questo è uno scoglio grosso. La questione è di fondo: quella della
propria insufficienza, l’insufficienza ontologica. Aprirsi all’amore dei fratelli, fiorire nella
comunione non è il frutto di uno sforzo umano. L’amore non è una questione di bravura, di
intelligenza e di volontà dell’uomo, neppure il frutto di un esercizio di ascesi. La comunione
comincia con un atto di umiltà che permette alla persona di scendere fino agli abissi della
fragilità. Umiltà che vuol dire accettare la propria verità, senza illusioni e credendo che anche
nella palude può nascere un fiore. In realtà non esiste situazione nella quale Dio non possa
essere Salvatore. La fraternità prende inizio da questa chiarezza teologica, o meglio dalla
riappropriazione responsabile del suo significato cristiano. Diversamente, un uso superficiale
del termine "fraternità", comporta dei rischi: esso, infatti, può assumere molti significati, che
devitalizzano la sua qualità evangelica. La vitalità di una comunità è determinata dalla qualità
della riconciliazione che circola tra fratelli. Quello che Dio ha nel suo cuore deve passare nel
nostro: “il fine della vita monastica, ripeteva Isacco il Siro, è la misericordia”.
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DAL “COSA FATE” AL “CHI SIAMO”
“Si agisce sugli altri più con quello che si è che con quello che si fa”. Afferma una celebre espressione
di Gustave Thibon nel “Il pane di ogni giorno”. Quello che la vita fraterna è, sprigiona una vita di
testimonianza. capace di rispondere alle domande che il mondo le pone (4) . La teologia della
vita fraterna, messa a disposizione della vita consacrata, viene da un punto di partenza sicuro:
l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, espressa soprattutto nella Lumen gentium. Un parlare della
vita religiosa in prospettiva teologica tale da inserire la vita consacrata, in modo inalienabile,
nella struttura misterica e carismatica della Chiesa. “La vita religiosa è interamente nella Chiesa, per
la Chiesa, della Chiesa ” (5). Con ciò si evidenzia che l’esperienza di vita religiosa è non solo una
esperienza individuale, essa si trova unita a una dimensione comunitaria.
Il fondamento ecclesiologico richiede, però, di essere sostenuto da uno slancio spirituale
interiore che esige di puntare sull’essenziale: “La regola suprema della vita religiosa, la sua ultima
norma è quella di seguire Cristo secondo l’insegnamento del vangelo”(6). È questo il centro, che
raccoglie la vita religiosa. Alla sequela di Cristo, la vita a lui conformata, confessa il “primato di
Dio”, il “nulla anteporre all’amore di Cristo”(7) . La vita consacrata, fin dal suo nascere, ha colto
questa intima natura del cristianesimo. Infatti “la comunità religiosa si è sentita in continuità con il
gruppo di coloro che seguivano Gesù. Lui li aveva chiamati personalmente, ad uno ad uno, per vivere in
comunione con lui e con gli altri discepoli, per condividere la sua vita e il suo destino (cf Mc 3,13-15),
così da essere segno della vita e della comunione da lui inaugurate” (VFC, n. 10).
Nella varietà delle sue forme, la vita in comunità è sempre apparsa come una radicalizzazione
del comune spirito fraterno che unisce tutti i cristiani. È, in effetti, l'espressione più autentica
della radicalizzazione della fraternità ed è quindi “naturalmente” portata a generare comunione:
dimensione mai compiutamente raggiunta. Sono chiare le affermazioni di Giovanni Paolo II che
ai religiosi diceva: “Anche se sono estremamente importanti le molteplici opere apostoliche che svolgete,
tuttavia l’opera di apostolato veramente fondamentale rimane sempre ciò che (e insieme chi) voi siete nella
Chiesa” (8). “Chi voi siete” per la Chiesa e non primariamente “cosa voi fate” per la Chiesa è il dato
più rilevante: “presenze vive, oranti e operose nei cantieri della storia, uomini e donne raccolti in Dio e
solidali con la causa dell’uomo”(9) .
L’accento sulla fraternità è un guadagno recente della vita consacrata: superamento di una certa
visione solo giuridica della comunità. Tutto questo fa pensare al contributo della grande
tradizione monastica della ricerca di Dio e della vera Sapienza; di Benedetto che ha insegnato a
guarire l’uomo guarendo il suo pensiero (10) e i suoi discendenti hanno approfondito l’arte di
pensare e di cercare Dio anche con la ragione; di scoprire l’arte di educare i sensi spirituali, di
guarirli e di dischiuderli a una contemplazione che è scuola di verità e di amore.
DILATAZIONE DELLA COMUNIONE È LA MISSIONE
I rapporti tra vita fraterna e attività apostolica, non sono stati e non sono chiari per cui
provocano, non raramente, delle tensioni sia nel singolo che nella comunità. Così che “il fare
comunità” talora è sentito come un ostacolo per la missione, quasi un perdere tempo in questioni
piuttosto secondarie. È necessario ricordare che la comunione fraterna, in quanto tale, è già
apostolato, e contribuisce direttamente all’opera di evangelizzazione: la fraternità vissuta è
segno eccellente: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”
(Gv 13,35). I consacrati, fratelli e sorelle, sono posti dal sapiente disegno di Dio uno accanto
all’altro per vivere “insieme” l’avventura spirituale della conversione permanente, scevra da
ingenuità e capace di discernimento (11).
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Dunque, l’esperienza della comunione è parte integrale della missione, ne determina lo stile e il
contenuto. E la missione quando è autentica è “dilatazione della comunione”: la comunione è
missionaria. La comunione è il progetto che Dio ha pensato per l’intera umanità, fino alla
comunione che è operante nella stessa Trinità. E quando si dice che ai consacrati, in modo del
tutto particolare, è affidato il compito di liberare una “antropologia relazionale” e di far maturare
una “spiritualità di comunione ” (12), è come dire che ad essi è affidato il compito di far crescere la
Chiesa in coerenza con ciò che costituisce il cuore della sua identità e missione e di manifestarlo
in maniera evidente. In concreto, nella vita fraterna, il modo di pregare, di vivere le relazioni
fraterne, di rapportarsi al mondo, di intendere e praticare i consigli evangelici, di esercitare
l’autorità domanda di essere “nuovo” di portarsi su traguardi nuovi, quelli dello Spirito, per
impostare più evangelicamente la vita. È chiaro che non basta acquisire nozioni teologiche. C'è
bisogno davvero di relazioni. C’è bisogno di scoperta di una vita che scorre attraverso le
relazioni: pensare, sentire con gli altri, volerli affermare. Qui vale il principio espresso nel
documento “Vita Fraterna in Comunità”, dove si dice “per diventare fratelli e sorelle è necessario
conoscersi, per conoscersi è importante comunicare in forma ampia e profonda”.
Io credo che la possibilità di stabilire all’interno delle comunità degli spazi di comunicazione, di
conoscenza reciproca sia davvero importante. In fondo la comunione, all’interno della
comunità, non la si vive solo spiritualmente attraverso rapimenti mistici, ma attraverso
l’amicizia e la relazione personale.
LA FRATERNITÀ: VITA CHE TRASMETTE VITA
A vivere in una maniera costruttiva e feconda risanando e rendendo solide le relazioni, si
impara.
Infatti non c’è fraternità là dove manca un’autentica volontà di costruire
incessantemente la comunione superando lo spirito di competizione che rende arduo
comprendere il passo che il Signore vorrebbe prendere con noi. Il Signore non è competitivo,
ma misericordioso. La misericordia promuove un vivere creativo, allontana da ogni principio
autoaffermativo ed esclusivista. La vita religiosa, del resto, non è fine a se stessa: essa è protesa
verso il Regno. Per cui “comunione e tensione escatologica sono due atteggiamenti spirituali che
aiutano a superare e a purificare ogni faziosità, ogni carnalità che segna anche le relazioni dentro la vita
consacrata” (José R. Carballo).
La vita fraterna, anche se non molto visibile, perché praticata in spazi e relazioni “interne”, è
comunque, ricchezza di vita evangelica. Del resto un segno non è di necessità vistoso. Esso può
anche essere discreto, non imporsi, restando comunque utile. Esperienze concrete di fraternità
religiose, dove persone vivono insieme, nel nome di Gesù, senza essersi scelte, determinano una
“crescita di evangelicità” per tutta la chiesa. C’è bisogno di questa esemplarità evangelica, perché
la comunione la si comprende solo se la si vede e la si vive. Certo, sono stili di vita che non si
improvvisano. Sono vangelo calato in relazioni umane caratterizzate da maturità cristiana. Una
profonda comunione fraterna esige questo lucido “cammino di maturazione interiore” che porta ad
amare i fratelli e le sorelle e a vincere l’attitudine a giudicarli. Ciò esige un cammino
permanente di conversione. “Il più grave peccato del monaco, afferma il Priore di Serra S. Bruno,
ma forse di qualsiasi cristiano è il giudizio dell’altro”.
In ciò aiuta incontrare riferimenti autorevoli, nel senso di persone che trasmettono un
esperienza. Prezioso è il servizio dei Superiori: la loro attenzione a promuovere vita. Una vita si
trasmette con la vita. I valori della fraternità si trasmettono con esempi vivi. Nelle nostre
comunità c’è una mancanza drammatica di esempi che costruiscano un modo di vita
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convincente e trasmettano una tradizione feconda. Quello che cambia una persona, che mobilita
la sua crescita e la sua trasformazione è l'interiorizzazione dell’esempio di vita che riceve.
Questo interpella l’esercizio dell'autorità e formazione della fraternità. Perché l’autorità nella
fraternità è tale se manifesta qualità generative, se aiuta a portare all’esistenza la creatura nuova,
se sostiene l’obbedienza perché sia manifestazione della fede che fa crescere la persona.
IL PREZZO DELLA FRATERNITÀ: IL PERDONO
Chiaro la fraternità non si fonda sulla pretesa della perfezione, ma sulla fragilità e sul perdono
che circola tra i suoi membri perché è così che Dio si apre un varco in mezzo alla comunità.
Perciò nella costruzione della fraternità il perdono è un valore fondamentale. Il perdono produce
come effetto, nella persona, l’amore. Non ci può essere vera fraternità e vera comunione senza il
perdono. E perdonare non è “chiudere gli occhi” sulla realtà, ma leggerla con occhi nuovi, con gli
occhi dell’amore, coscienti che mentre il perdono costruisce, l’odio produce devastazione e
rovina. Chi non vive il perdono è come colui che pensa che si possono vivere i valori del
vangelo senza il vangelo. Che sia possibile vivere da uomo nuovo senza lo Spirito santo, da
cristiani senza Cristo.
C’è chi desidera la fraternità e la comunione, ma non intende pagare il prezzo che queste
comportano: passare dall’uomo vecchio, che tende a chiudesi in sé, all’uomo nuovo, che si dona
agli altri, che rinuncia a se stesso. Si tratta di un reale spostamento di se stesso, uno sradicarsi
dalla propria ipseità. Dall’io chiuso e concentrato su se stesso, fino a trapiantarci in Cristo. Non
si può essere religiosi e neppure cristiani senza avere, in realtà, un’ esperienza personale della
salvezza. Ora tale esperienza avviene attraverso il perdono dei peccati: donatoci nel Battesimo e
nel dono dello Spirito santo che penetra tutta la persona umana. Non aprirsi al perdono è
rimanere prigionieri, schiavi del passato. “Ogni comunità che riesca a costruire se stessa sulla
debolezza benedetta dal Signore e sul perdono reciproco invece che sulla competizione e sulle prove di
forza, dà un aiuto importante all’insieme della Chiesa”. Se una comunità non sa dare spazio al debole,
difficilmente si può dire che è una comunità evangelica” (13) (Dom J. Dupont).
CONVERTIRE GLI AFFETTI
Il problema fondamentale è di convertire gli affetti, rieducare nella persona la facoltà
dell'amore. In questo impegno consiste essenzialmente il voto di castità. Mai come oggi, dopo
che la teologia del corpo di Giovanni Paolo II ha rifondato l'antropologia, possiamo
ricomprendere la teologia dell'amore: l'anima essenzialmente ecclesiale e sponsale della vita
consacrata. Prendo la citazione di un discorso rivolto a una comunità trappista che coglie
profondamente il significato della dimensione comunitaria della vita fraterna: “La dimensione
comunitaria è da assumere, dentro la propria vita come la dimensione del proprio corpo: accettare
totalmente la modalità della convivenza come modalità della propria conversione; aderire con tutta
l’energia del proprio spirito e della propria mente a ciò che la comunità unanimemente discerne, pensa e
sceglie. […] Si tratta di vivere in comunità, di essere profondamente là dove la comunità è, col cuore
colmo di gratitudine e di fedeltà; non significa vivere la sopportazione eroica degli altri, ma amare”.
Per uscire dal relativismo che imperversa nel nostro tempo: “è bene ciò che sento”, bisogna
nuovamente imparare a sentire, desiderare, amare. La conversione degli affetti più che sul
lettino dello psicanalista, va cercata nell'esperienza della fraternità che cerca la comunione; a
patto che questa sia vissuta nell'accoglienza di ciascuna, nel sostegno dei deboli, nel rispetto
dato a tutti: insomma, nella vera carità. Per cui la relazione fraterna va coltivata non come “una
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cosa che rassicura e per cui si fa di tutto per farsi accettare, per divenire oggetto dell’amore altrui,
illudendosi di amare quando ci si dà da fare per essere visti lodati e accettati dagli altri”(14). Questo non
è amore ma reazione alla paura, inquietudine che accompagna chi non è appoggiato sulla
roccia. È rivelatore di un fondamento fragile, indica debolezza e inconsistenza di chi aspetta la
salvezza dalle cose che non possono darla.
LA INADEGUATEZZA TRA POSSIBILE E REALE: “DALLA PRETESA ALL’OBLATIVITÀ”
Una forma particolare di sconforto caratterizza la fragilità della vita fraterna contemporanea e
fa appello a cambiamenti. Essa è generata dal fatto di riferirsi a un ideale di comunità molto
alto, con il senso di frustrazione costante per non riuscire a raggiungerlo, anziché partire da un
dato di fatto: non siamo fratelli, ma desideriamo esserlo. Questo punto di partenza rende aperti
all’azione dello Spirito, l’Unico che può tessere la comunione nella vita fraterna, e responsabili
nell’operare scelte -con la forza dello Stesso Spirito- per tessere la fraternità. Rimanere
nell’atteggiamento di pretendere dalla comunità che soddisfi i propri desideri e bisogni, a
diversi livelli, fa avvertire una sorta di delusione per la non risposta alla propria attesa. Il “tutto
mi è dovuto” fa forse parte della mentalità relativista del nostro tempo e passare “dalla pretesa
all’oblatività” non è scontato per nessuno. L’antidoto sta nella disponibilità ad accompagnare e
integrare nella cultura della vita questi appelli fino a che non emerga la capacità di crescere e
convertirsi.
Ma, sarebbe anche opportuno chiedersi: qual é il bisogno della comunità rispetto ai membri che
la compongono? A volte infatti può accadere che il bisogno della persona e quello della
comunità non solo non coincidano ma sembrino in conflitto. Sta di fatto che questo ha una forte
ricaduta sulle relazioni; diviene un laccio che blocca la vita. E non c’è abitudine a saper gestire
tali tensioni personali vissute spesso come “promessa non mantenuta” come “insoddisfazione” non
curata. Difficile e pericoloso un tale sconforto soprattutto se non emerge con il suo vero nome,
ma rode all’interno le relazioni e diviene nel tempo rassegnazione sterile e malcelata
dimissione. Non c’è scampo da tale situazione quando si lascia che siano categorie e pensieri
esclusivamente psicologici a orientarci, anziché consolidare una condivisione spirituale alla luce
della Parola che mette in circolo la capacità sapienziale di guardare le situazioni positive e
quelle di difficoltà. L’atteggiamento di frustrazione è accompagnato di frequente da scarsa
consapevolezza che è la partecipazione e collaborazione attiva di ciascuna che fa della comunità
un luogo dove condividere il bene e trasformarlo in una sorgente di vita da cui attingere. Non si
vuol dire che la fraternità deve essere impeccabile, anzi, ma di amare la propria vita, i fratelli, la
casa, il lavoro. In altri termini amare la propria comunità: Se un uomo reca in sé un grande amore
questo amore gli dà quasi le ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé
questa grande luce che è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo
lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno” (15).
CONCLUDENDO
Sono persuasa che un rinnovamento delle nostre comunità, tale da potenziare la capacità di
attrazione e di recettività, non partirà dall’analisi della realtà attuale, ma da una presa di
coscienza sempre nuova della nostra eredità spirituale, e dalla capacità di interrogarci sulle
nostre responsabilità e sui compiti che ci attendono. In questo panorama, come ebbe a dire
l’Abbadessa del monastero Nostra Signora di Valserena “ritengo che la cosa più importante, oggi,
sia quella di pensare, pensare con la nostra testa e con gli strumenti della nostra fede. Pensare con
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coraggio, ossia con umiltà perché l’umiltà non è prima di tutto un atteggiamento, né un sentimento, ma
un nuovo modo di pensare: pensare secondo verità”. Il nostro agire va sostanziato da un pensiero
spirituale in modo che non sia l’andare dietro alle mode, alle correnti, alle paure, alle
suggestioni, ma il frutto buono della forza della misericordia fraterna. Allora la vita cammina
ed ogni tempo ha la sua grazia.
NOTE
1) Cf. Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2006; ID., La società dell’incertezza,
Il Mulino, Bologna 1999.
2) C. THEOBALD, Le christianisme comme style. Une manière de faire théologie en
postmodernité, Cerf, Paris 2007.
3) Cf M. RUPNIK, L’arte della vita, Lipa 2011.
4) Cf. Ib., 52.
5) J.M.R. TILLARD, Le grandi leggi del rinnovamento della vita religiosa, in Aa.Vv., Il
rinnovamento della vita religiosa. Studi e commenti intorno al decreto «Perfectae caritatis», a
cura di J.M.R. TILLARD e Y. CONGAR, Vallecchi, Firenze 1968, 77.
6) PAOLO VI, Evangelica testificatio, n. 12.
7) S.BENEDETTO, Regola, IV, 21: SC 181, 456-458. Questa espressione connota il magistero di
Benedetto XVI sulla vita consacrata.
8) GIOVANNI PAOLO II, Redemptionis donum (1984), n. 15.
9) CIVCSVA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza (2008), n. 4.
10)Cfr. RB cap. VII, primo e quinto grado dell’umiltà, oppure la vita di Benedetto e gli episodi
nello Speco.
11)Cf CIVCSVA, La vita fraterna in comunità, (1994) n. 10.
12) Cf. VC 51.
13)L. ACCATTOLI, Solo dinanzi all’Unico, Intervista a Dom J. Dupont, Priore della Certosa di
Serra San Bruno, Rubettino, 2011.
14)M. I. RUPNIK, Alla mensa di Betania, Lipa, 2004, p. 48.
15)Affermazione di Benedetto XVI commentando la figura di San Giovanni della Croce.
Udienza generale del 16 febbraio 2011.
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