Martedì 20 ottobre 2009
Pendolari mentre salgono
su un treno
In basso, l’.a.d. delle Ferrovie
Mauro Moretti (FOTO ANSA)
sognavano la mensa. Ritardi allora come oggi. Il
capo stazione spiega a Bocca. Tempo di fermata,
un minuto per stazione ma i marciapiedi sono
lunghi un chilometro e gli operai fanno fatica a
starci. I minuti diventano sette o dieci. Eppure in
quell’Italia che respirava male non era mai
successo che i treni pendolari saltassero le
stazioni.
I viaggiatori del duemila accendono i Pc per sapere
cosa succede sugli altri treni. La rete dei pendolari
è più larga della rete delle ferrovie (15 mila
chilometri in Italia, 55 mila in Francia). Internet
unisce le pene, qualche volta fa ridere. Una voce
racconta l’allarme lanciato da un pendolare
Bergamo-Milano. Cancellato il treno delle 7,32, il
treno delle 7,20 viene ritardato di quindici minuti
per raccogliere gli orfani del locomotore in panne.
“In via eccezionale”, annuncia l’altoparlante, il
treno avrebbe fermato a Treviglio e Pioltello.
Passeggeri di due convogli schiacciatissimi in uno.
Ma il treno salta Pioltello: urla, proteste. Arrivano a
Lambrate coi pugni in tasca, di corsa verso il
pendolare che torna a Pioltello. “Si era accumulato
troppo ritardo”, avrebbe risposto il capotreno.
“Una vergogna”, il commento che arriva al Pc da
Mestre. Piacentini, lombardi, liguri e veneti si
rivolgono al Giudice di pace contro Trenitalia. Un
po’ con i sindacati, gli altri si affidano alla difesa dei
Consumatori. Piacenza strappa la sentenza madre
di tutte le sentenze, testo base per mille
rivendicazioni pronte a partire. Il Giudice di pace
Luigi Cutaia ha riconosciuto all’avvocato Umberto
Fantigrossi, professore all’università Cattaneo di
Castellana, provincia di Varese, mille euro per
risarcire il danno esistenziale del pendolarismo:
provoca “grave stato di disagio fisico e
psicologico”. Viaggio che esaspera lo stress.
VAL LA PENA
FARE IL PENDOLARE?
una lettura ormai soffocata dall’inerzia del
rilassamento televisivo. Sfogliano con una
dedizione perduta. Chi scuote la testa sui titoli di
prima pagina e chi affonda nei romanzi. Ma cosa
leggere in treno? Federica Albini, pendolare delle
7,59, ha lasciato l’insegnamento nel 1994: è
redattrice di uno studio editoriale. Arriva in
bicicletta al treno di partenza, scende a Lambrate,
altra bici per pedalare verso il lavoro. Nella pagina
che ogni quindici giorni La Libertà di Piacenza
dedica ai forzati del mattino, consiglia i libri da
leggere in treno. Consigli allargati al settimanale on
line Domani: dieci, dodicimila letture. “Un libro in
borsetta è un’effigie deterrente del viaggio di un
pendolare. Fa parte del bagaglio e deve rispondere
ad alcune esigenze. Deve essere leggero perché il
piacere di un paio d’ore di lettura non sia offuscato
da un peso supplementare eccessivo. Deve essere
leggibile anche in condizioni non ottimali: in piedi
o scarsa illuminazione. Niente pagine fitte e
scrittura minuta. Per quanto riguarda il genere,
deve consentire di non perdere il filo alla fine di
ogni viaggio. Meglio evitare storie con troppi
personaggi dai nomi esotici. E Guerra e Pace? E
Dostoevskij? Si consiglia di attendere le ferie”. Il
popolo in viaggio è un popolo di uomini e donne,
ragazzi e ragazze. Da sposare o con famiglia. Nei
dondolii del treno nascono tante cose, quel parlare
che le fatiche della sera e la Tv spengono fra le mura
di casa. Ecco i racconti di amori che diventano
Delle ritirate meglio non parlare.
Nessuna donna li utilizza.
E poi sempre fuori servizio.
Chiusi a chiave per vergogna.
matrimoni, o bisbigli di intrecci segreti che
quando si spengono separano treni e binari. Lui
parte alle 7,01, lei si trasferisce nel pendolare
dopo. Ma la regola è un’amicizia che non considera
i partiti. La trincea a ruote stempera tante cose.
UN TEMPO
ERANO STAZIONI
Milano si avvicina e il treno rallenta. Immobile
nella campagna dei gabbiani che ondeggiano sulla
discarica gigante. Semaforo rosso. “Il groviglio
della Stazione Centrale è peggiorato con l’arrivo
dei super treni”, Fittavolini spiega perché gli ultimi
chilometri sono un tormento. “La Centrale ha 22
binari, come Zurigo. La Centrale fatica ad
accogliere 700 treni al giorno. Zurigo ne fa girare
1400. Risentiamo di un passato che perseguita il
trasporto su rotaia, quegli anni ’60 quando si
pensava all’Italia delle autostrade con ferrovie
ormai inutili, rami secchi da tagliare, linee portanti
destinate a sopravvivere senza sviluppo”. Il
Fittavolini pendolare è figlio di Giuseppe
Fittavolini, funzionario di banca a Milano,
trent’anni su e giù ogni mattina da Piacenza,
insomma vocazione respirata in famiglia.
Tornano i ricordi, a volte ricordi di ricordi. “La
Freccia Rossa è il simbolo della nuove ferrovie.
Un’ora e sette minuti da Bologna a Milano. Nel
1936 il fascismo inaugura in pompa magna il
primo ‘rapido elettrico’ Bologna-Milano con
l’orgoglio dell’incredibile velocità: un’ora e
quindici minuti. In settant’anni abbiamo
guadagnato
otto minuti con ponti e viadotti, binari
legati da traversine di cemento mentre i
nostri treni camminano più o meno come
allora”.
Ogni mattina Sonia Zarino parte dalla stazione
di Lavagna. Ricostruita non molto tempo fa,
ormai
stazione
declassata.
Risente
dell’abbandono del personale: spariti perfino gli
orologi. Le macchine per obliterare (traduzione:
timbrare il biglietto) sono cinque, più o meno
quattro sempre rotte. Le macchine che
vendono i biglietti informano di non avere
moneta da restituire. Ecco il dubbio: sfidare
le multe o perdere il resto per non perdere
il treno? L’orario delle due biglietterie si
riduce a poche ore e quando l’apertura
non coincide con la fretta del
viaggiatore comincia l’avventura.
L’unico funzionario è chiuso dentro
l’ufficio: impossibile vidimare o comprare. Sonia
Zarino è un architetto pendolare, laureata
discutendo il progetto ‘Una stazione
metropolitana nel centro storico di Genova’;
consigliere provinciale Pd e presidente della
commissione Ambiente, tutela territorio e salute.
“Ogni giorno in Liguria viaggiano centomila
pendolari. Scendono dalle valli e dalle colline: il
treno è il nastro ideale per risparmiare tempo e
non appesantire un traffico difficile. Trenitalia è un
ente privato di proprietà del ministero del Tesoro,
quindi la responsabilità è del governo. Posso
ricordare ritardi, la sporcizia, strutture in
abbandono, ma il discorso è più profondo. Il 95
per cento degli investimenti per migliorare la rete
viene speso per potenziare i supertreni che
trasportano il 5 per cento dei passeggeri. Il 95 per
cento dei viaggiatori siamo noi. E il 5 per cento
investito per migliorare la nostra vita diventa
un’indecenza con un doppio peccato. Si
preferisce privilegiare i gruppi industriali i quali
ricorrono alla rete dei subappalti concedendo un
quarto del guadagno. Li ingrassiamo trascurando
le piccole imprese. Ma l’errore che ci riguarda è il
puntare sui supertreni lasciando atrofizzare le
linee indispensabili alla vita della gente. La ferrovia
è una rete sanguigna. Non basta preoccuparsi
delle arterie trascurando vene e capillari che
irrorano il tessuto. I vasi sanguigni devono
interagire fra loro. Le Frecce Rosse non
interagiscono con le linee considerate minori
anche se più frequentate. Alla fine si dirà che sono
tratte morte: da chiudere o privatizzare”. Parla dei
venti e degli inverni e delle estati impossibili nei
vagoni che bruciano. “Non dico confort, almeno
rispetto per chi va al lavoro utilizzando un mezzo
collettivo, il più razionale in Liguria. Altrimenti,
l’automobile. Quasi 6 mila morti l’anno negli
incidenti stradali, migliaia e migliaia di feriti ed
invalidi. Tolgono ai bilancio dello stato il 2 per
cento del Pil”. Insomma, il ministero del Tesoro
potrebbe rifare i conti.
Cinquant’anni fa Giorgio Bocca ha affrontato gli
stessi viaggi che impegnano questa ricerca. “Sulla
facciata giallina della stazione c’è scritto Palazzolo
sull’Olio. Siamo a 72 chilometri da Milano. Sveglia
alle quattro del mattino, acqua fredda. Prima
ondata dei 250 mila che ogni giorno arrivano a
Milano. I primi a muoversi sono stati quelli della
bergamasca. Partenza 4,38 da Piazza, Val
Brembana”. Sedili di legno verniciato e gli operai
che montano con borse di plastica nera e dentro la
‘schiscèta’, pentolino della minestra da scaldare
col fornellino nella pausa pranzo di fabbriche che
Pendolari per necessità ma anche per vocazione. Di
padre in figlio, dall’università al lavoro. Dopo una
certa età non è il caso di cambiare vita? Gianpaolo
Nuvolati va e viene tra Piacenza e Milano dove
insegna sociologia dell’ambiente e del territorio
all’università Bicocca. Il pendolarismo è
l’esperienza che trascrive ed analizza nei suoi libri
“Mobilità quotidiana e complessità urbana”, “Lo
sguardo vagabondo”, pubblicato dal Mulino. “Se i
mezzi di trasporto fossero decenti, è la situazione
ideale per crescere senza dimenticare”. La
ricchezza che deriva dal vivere nel contesto
familiare e lavorare nel contesto di chi guarda avanti
ed è in continua evoluzione, arricchisce l’esistenza
e cambia il significato della parola provincia. Nella
tradizione ha l’aria di uno spazio appena sfiorato da
idee e movimenti che agitano la cultura universale.
Andare e tornare rinvigorisce non solo i viaggiatori,
anche la città che all’alba diventa matrigna. Il
ragazzo e la ragazza call center si tengono per mano.
Milano apre porte che a Voghera se le sognano.
Tanti posti da cercare e da cambiare, perfino adesso
con la crisi. Ma una casa decente costa cara. Affitti
possibili solo in periferie che non sono né Milano,
né un’altra città. Un terzo luogo dove sopravvivere
ma non vivere. Allora meglio il treno. Per il
momento non ci arrendiamo. Altre voci: figli da
crescere dove l’affetto di parenti ed amici li rende
sicuri. Così diversi dai bambini pionieri degli
americani che cambiano casa e città almeno dieci
volte nella vita. Ogni trasloco, una frontiera. Anche
i ricordi sono un rifugio nel quale respirare durante
i giorni di non lavoro. E poi le conoscenze. Milanesi,
compagni di lavoro, di studio, di università. Loro
adorano il nostro mare e le nostre campagne e a noi
fa piacere avere riferimenti nella città un po’
sconosciuta dove si aprono le nostre scrivanie.
Certo, anche i fine settimana di corsa: lavatrici,
spese, l’aperitivo, figli da coccolare e i quattro passi
con i compagni di viaggio e i compagni che non
sono mai partiti. Due vite anziché la solita vita.
ULTIMA META:
L’UFFICIO
Fittavolini e altri mille scendono alla stazione di
Rogoredo. Metrò sotto le rotaie ogni cinque minuti.
L’ufficio è dall’altra parte della città, quasi alla Bovisa
non lontano dalla moschea di viale Jenner. Corrono
con l’occhio all’orologio. Sedici fermate, altri venti
minuti. Finalmente le scale di viale Zara. Di corsa al
filobus 92. Ancora dieci minuti, ecco la piazza dove
sbocca via Bodio, duecento metri camminando e
siamo nel cortile del vecchio stabilimento Alcatel.
Piccole torri trasparenti, la fontana che fa tristezza,
tenda di un caffè. L’ufficio Unicredit è al quarto
piano bene illuminato dalla giornata trasparente.
Fittavolini e gli altri vedono il sole dietro i vetri, sole
di Milano. Alle sei e mezza comincia il ritorno. Buio
quand’è partito, buio quando entra in casa.
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Delle ritirate meglio non parlare. Nessuna donna li