[ISIS-ALQAEDA.IL GIANO BIFRONTE DEL JIHADISMO]
ISIS-ALQAEDA.IL GIANO BIFRONTE DEL JIHADISMO
Germana Tappero Merlo
Il 4 settembre, quasi contemporaneamente alla messa in
onda del video dell’esecuzione di Steven Sotloff da parte
dell’ISIS, al-Qaeda nella persona del suo leader al-Zawahiri
ha rotto il suo prolungato silenzio che durava da un anno e
ha annunciato la creazione di una branca armata qaedista in
India, al-Qaeda dell’Asia meridionale, pronta a sferrare
il jihad nel subcontinente indiano.
L’inevitabile confronto fra i due video richiama
immediatamente alla memoria il Giano bifronte, ossia un
corpo solo, un’unica testa ma dai due volti, che la mitologia
vuole uno rivolto al passato e uno verso il futuro: il primo, alZawahiri, vecchio e stanco, pressoché immobile, utilizza
l’abituale scenografia dallo sfondo neutrale e pronuncia la
sua minaccia in arabo, con le usuali parole di un vocabolario
che ormai non ha nulla di nuovo, se non l’area in cui
prenderà l’avvio il jihad, ossia India, Myanmar e Bangladesh.
Il tono è lento, misurato, senza alcuna enfasi, quasi la
ripetizione di una dissertazione pronunciata innumerevoli
volte.
Ben diversi il contenuto e il tono minaccioso in lingua inglese
dell’altro volto del Giano, quello rivolto al futuro, ossia il
boia mascherato dell’ISIS: sicuramente un uomo più giovane,
il cui vocabolario e persino il cadenzare i toni della minaccia
paiono appartenere a una generazione abituata ad altre
ritmicità di comunicazione, sia uditiva che visiva,
dato l’impiego di almeno due telecamere e il seguente
montaggio del filmato.
Due video e due modi totalmente opposti di comunicare uno
stesso obiettivo, ossia un jihad per la realizzazione del
Califfato dal Maghreb all’Asia, l’unica sintonia fra i due. Per
il resto, ossia per immagine, tempistica comunicativa e
modalità operative, ISIS e al-Qaeda sono esattamente agli
opposti. Non comprendere tutto ciò, significa intraprendere
una strada errata nel contrastarle.
L’ISIS è, infatti, un pericoloso mix di elementi che sono
insieme i suoi fattori di forza e di debolezza. Comprenderli
significa trovare il giusto modo per contrastarlo. E’ una
minaccia ben più concreta e cruenta di quanto lo sia, o lo sia
stata al-Qaeda, anche con i fatti dell’11 settembre.
Sebbene l’ISIS sia nata come creatura qaedista - ossia spinoff di quell’al-Qaeda in Iraq (AQI) sorta all’indomani
dell’intervento
statunitense
in
Iraq
nient’altro avvicina queste due realtà: con l’esperienza
siriana, infatti, l’AQI-ISIS ha mutato la sua natura, ha subito
influenze straniere, sia come nuove forze reclutate sia
come finanziamenti, e ne è uscita rafforzata e determinata
per un progetto dal percorso così violento che persino alQaeda ne ha preso le distanze. Deleterio è stato, infatti, per
l’Occidente sottovalutare l’ISIS e confonderla come
un’ulteriore espressione armata dell’opposizione al regime
siriano, senza approfondirne la conoscenza e, anziché
contrastarla ha permesso che si rafforzasse sino a
stravolgere lo scenario conflittuale iracheno, risvegliare gli
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Stati Uniti dal torpore della loro politica di stay behind,
obbligarli a intervenire nuovamente in Iraq sino a stringere,
forse, alleanze con vecchi nemici come l’Iran o a dialogare
con la Siria, dopo anni di accuse e minacce.
Di certo, l’esperienza militare dell’ ISIS ha aperto una nuova
fase nella storia dei conflitti moderni. Infatti, ed è ferma
opinione di chi scrive, l’ISIS non è e non deve essere
combattuta come gruppo terroristico ma come forza
combattente che ha intrapreso una guerra e, in suo nome,
sta perpetrando veri e propri crimini contro l’umanità. Nella
comprensione di questo fenomeno si inserisce, infatti, la
vera sfida al contrasto dell’ISIS per tutte quelle realtà che si
sentono minacciate, siano Paesi sovrani, o minoranze
etniche o religiose.
L’ISIS si inquadra, infatti, in quella categoria che già
l’amministrazione G.W. Bush definì per al-Qaeda, ossia
enemy combatant, un soggetto non statuale che utilizza la
forza più brutale per raggiungere il suo obiettivo, non
limitandosi poi ad operare in una sola nazione e, quindi, di
natura transnazionale.
L’ISIS è, però, una forza combattente che agisce con tattiche
di guerriglia e che utilizza anche il terrorismo, ma non solo
ed esclusivamente: incutere terrore è ciò che gli permette di
alimentare il senso di vulnerabilità e di insicurezza ad una
nazione con attentati arbitrari, limitati ma mirati (come è
accaduto in Iraq negli ultimi anni) oppure alla comunità
internazionale, con l’uccisione appunto degli ostaggi
stranieri. Non è un caso che, insieme, quella guerriglia e le
azioni terroristiche proprie dell’ISIS siano l’espressione
intrinseca più naturale del lungo conflitto in Iraq, a
differenza di quello in Afghanistan dove, invece, le cellule
combattenti qaediste operano nel più classico copione del
terrorismo tradizionale.
Ma ciò che, in questo preciso momento e con i mezzi di cui
dispone, innalza la minaccia proveniente dall’ISIS a una
categoria più elevata e complessa rispetto al puro
terrorismo, è nei modi con cui insegue l’ obiettivo finale: e
non si tratta solo di proclamare un Califfato o, come
superficialmente viene indicato, di destabilizzare la regione.
Il fenomeno ISIS è la radicale, isterica e cruenta messa in
discussione dell’intero approccio occidentale dal Medio
Oriente al Nord Africa, non solo nelle sue entità statuali
imposte alla fine dell’Impero Ottomano, ma come è stato
inteso per l’intero XX secolo, ossia serbatoio di ricchezza
energetica da cui, secondo questa visione, gli Stati Uniti e
l’Europa hanno attinto ampiamente con il benestare di
governanti empi ed apostati a scapito della sua vera natura
multitribale e della sua storia alle radici dell’islamismo.
Secondo il jihadismo proprio dell’ISIS, tradendo i fondamenti
del Corano e della sua tradizione (sunna), costoro hanno
ingannato di fatto l’ umma, ossia l’intera comunità
musulmana. Per ristabilire quell’equilibrio, perso cent’anni
fa, è necessario il jihad con tutte le forme di lotta, anche il
terrorismo, contro i nemici interni all’Islam (governanti e
regnanti musulmani) e contro chi si oppone a quel progetto.
Ma, appunto, non si tratta solo terrorismo.
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Per quanto sanguinaria, l’azione terroristica non sfocia mai,
infatti, nel genocidio che pare, invece, essere la tattica
prediletta dell’ISIS qualsivoglia siano le sue vittime, sciiti,
cristiani, iazidi, turcomanni o curdi. Il terrorista, infatti, non
necessita di grandi numeri di vittime: ad eccezione dell’11
settembre – azione unica nel suo genere ed eclatante perché
intesa come dichiarazione di guerra e, come tale, trattata,
seppure in modo sbagliato – il terrorismo puro agisce con
attacchi e mezzi limitati, perché mira solo ad alimentare
gradualmente il senso di vulnerabilità di una società, fino a
portarla all’esasperazione, ma raramente alla paranoia del
suo vivere quotidiano che è propria, invece, della guerra.
L’escalation di attentati in Iraq nell’area sciita e proprio per
mano dell’ISIS, infatti, all’indomani della partenza delle
truppe americane, doveva far comprendere la vera natura e
la determinazione della sua missione, non esclusivamente
terroristica ma bellica vera e propria. Era solo la
prosecuzione di un’operatività ampiamente utilizzata contro
le forze statunitensi e diventata consuetudinaria. E già allora
era guerriglia e non solo terrorismo.
Il terrorista agisce con sorpresa, nella più totale invisibilità:
può fare proclami – scritti o verbali – ma sono limitati nel
tempo e nelle parole utilizzate. Azioni violente prolungate, e
meno che mai una guerra, non gli appartengono, perché sa
che porterebbero alla reazione, singola o di una coalizione
di nazioni; e il terrorismo, per quanto potente e organizzato
come al-Qaeda al suo apice, ad esempio, non dispone
normalmente né di uomini né di grandi mezzi atti a
fronteggiare una guerra, e meno che mai su più fronti, come
lo è ora l’ISIS.
La minaccia terroristica per sua natura deve sopravvivere a
lungo, appunto per alimentare un senso di insicurezza e di
vulnerabilità, come detto più sopra; e per fare ciò si
trasforma e si adatta, ma mai cerca lo scontro frontale
diretto. Sa che si confronterebbe nella più totale asimmetria
e, fino ad ora, non tutti i gruppi terroristici hanno avuto
quella caratteristica di superempowered group, ossia la
capacità di attaccare uno Stato e minacciarne la
sopravvivenza. L’ha mostrata al-Qaeda l’11 settembre 2001,
appunto, ma è svanita fra i monti afghani e pachistani; per
Israele la possiede ancora Hezbollah e, in parte, Hamas, ma
quello è tutto un altro capitolo della storia del terrorismo,
dei conflitti contemporanei e della geopolitica
mediorientale.
Il terrorista, inoltre, non può permettersi di controllare
militarmente e per lungo tempo vaste aree di un territorio soprattutto le sue infrastrutture di comunicazione
(aeroporti) e quelle energetiche (dighe e pozzi petroliferi) che comunque appartengono ancora a uno Stato come l’Iraq
che, sebbene allo sbando, può contare sulla protezione di
potenze regionali come l’Iran e, dopo il vertice Nato, anche
di gran parte della comunità occidentale.
Per durare il terrorismo deve, quindi, essere limitato in
uomini, mezzi, azioni e circoscrivere così i possibili risultati:
inoltre, non deve possedere un progetto politico com’è, nel
caso dell’ISIS, il Califfato retto dalla più radicale sharia e
imposto con la violenza, le epurazioni e i massacri. Non è con
la pura strategia del caos, come quella voluta e imposta
brutalmente dall’ISIS, che il terrorismo può sperare di
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sopravvivere: con un governo centrale nemico totalmente
allo sbando e in assenza di un’autorità politica sorretta da
un’opinione pubblica compiacente, il terrorista non può,
infatti, negoziare il suo progetto politico. Solo il più bieco e
sanguinario radicalismo, che è appunto la natura vera
dell’ISIS, non ammette negoziazione e compromessi.
La storia contemporanea è, infatti, zeppa di esempi di
movimenti terroristici che hanno abbandonato la lotta
armata per il passaggio al parlamentarismo in grado ,
quindi, di realizzare il proprio progetto politico, o parte di
esso: dall’IRA all’OLP, per citare i più recenti, e in parte –
seppur ancora con innumerevoli distinguo – anche
Hezbollah. Lo stesso si vorrebbe accadesse anche per
Hamas, per lo meno è ciò a cui ambisce l’ala moderata del
movimento e la stessa Anp. Possono esserci, quindi,
movimenti propri di un terrorismo di rottura, rivoluzionario
o eversivo: ma deve sempre esistere uno spazio per la
negoziazione, altrimenti è solo feroce imposizione di
violenza bruta e cieca, ma soprattutto la fine, per il
terrorista, del suo progetto politico.
Ecco perché l’ISIS non appartiene al puro terrorismo. Ne
utilizza alcuni strumenti (come attacchi con kamikaze nelle
città irachene o per sfondare posizioni nemiche in battaglia)
o macabri rituali (come l’uccisione di ostaggi in un rito
sacrale dalle molteplici valenze religiose) che mirano a
trasmettere, attraverso la loro violenza, la determinazione
del terrorista a raggiungere il proprio scopo e ne rimarcano
l’audacia della sua sfida. Ma se si azzarda a imporre il suo
Califfato, controllando il territorio con la più sanguinaria
minaccia
armata,
dislocandosi
su
più
fronti
contemporaneamente, avanzando fra furti, saccheggi,
deportazioni di civili, esecuzioni sommarie e genocidi, ecco
che esso appartiene ad altre categorie di forze combattenti
radicali e criminali, a cui la comunità mondiale si affanna nel
dare una definizione anche giuridica, al fine di tentare di
agire secondo le norme di diritto internazionale ma, non
riuscendovi, si limita a rifugiarsi nel più ordinario concetto di
“terrorista”. Ed è ciò che fa la differenza nella elaborazione
di una strategia vincente o perdente di contrasto al
jihadismo dell’ISIS.
La definizione della vera natura dell’ISIS, infatti, deve
scaturire non solo ed esclusivamente dai suoi metodi
operativi, ma anche dalla comprensione della sua essenza
criminale, dalla conoscenza della composizione dei suoi
vertici e, soprattutto, dell’osso duro delle sue forze
combattenti.
La notizia, da più parti confermata, che all’ISIS hanno aderito
almeno 23 vecchi quadri militari dell’esercito di Saddam
Hussein, suoi fedelissimi ed ex appartenenti del partito
Baath, deve far approcciare quella minaccia con criteri che
non appartengono affatto al contrasto del puro terrorismo:
da Fadel al-Hayali, a capo delle operazioni sul terreno, ad
Adnan al-Sweidawi, a dirigere il consiglio militare, sino al più
anziano Izzat Ibrahim al-Douri, protagonista con Saddam
della presa del potere del partito Baath in Iraq e di tutte le
campagne di guerra seguenti, e ora leader del partito, ma
soprattutto a capo della milizia Jaysh Rijal al-Tariqa alNaqshbandia (Jrtn, Esercito degli uomini dell’ordine di
Naqshbandi) che affianca l’ISIS ed è operativa dal Nord al
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centro del Paese, l’ISIS non ha una natura terroristica
esclusiva.
Questi ufficiali – ex detenuti a Camp Bucca, lo stesso di alBagdadi e, una volta rilasciati, come è accaduto per il Califfo,
hanno scelto al-Qaeda e la lotta radicale – sono stati
affiancati da almeno 300 ex ufficiali della Guardia
Repubblicana, liberati dalle prigioni irachene attraverso blitz
armati di forze dell’ISIS già nell’estate del 2013: stando a
fonti locali, sarebbero stati costoro a permettere la presa di
Mosul.
Riprendendo il modello già avviato nelle aree siriane
controllate dall’ISIS, la stessa provincia irachena di Anbar
sarebbe stata affidata ai c.d. wali, ossia vicecomandanti
locali affiancati da un gabinetto di guerra (composto da 3
militari e 8 civili), responsabili del reclutamento, gestione di
prigionieri e anche delle entrate finanziarie. E per quanto
concerne la composizione dell’ISIS è ormai nota
l’eterogeneità di provenienza dei miliziani, da maghrebini a
ceceni, con una forte componente anche di soggetti di vari
continenti. In tutto si ipotizza, senza alcuna conferma, siano
dalle 25 mila alle 30 mila unità.
La sua presunta e quasi leggendaria disponibilità finanziaria
(2 miliardi di dollari) – dai finanziamenti da parte di privati a
quelli di Stati del Golfo Persico sino al saccheggio di banche
irachene, sebbene smentito categoricamente dalle stesse –
eleva l’ISIS a nemico fra i più potenti nella storia della lotta
armata contemporanea, addirittura più dell’ al-Qaeda di bin
Laden ai tempi di massima floridezza, dei talebani afghani
(560 milioni di dollari), Hezbollah (500 milioni), al Shabaab
(100 milioni) e addirittura Hamas (70 milioni). Qualsiasi sia la
solidità finanziaria dell’ISIS, si sa che comunque può contare
su attività illecite, dalle rapine, estorsioni, contrabbando di
reperti archeologici sino alla vendita al mercato nero di
petrolio dato che, solo in Siria, controlla il 60% della
produzione di greggio che, secondo stime attendibili, frutta
da 1 a 2 milioni di dollari al giorno. Si tratta di cifre
esorbitanti che impongono anche una gestione accurata,
nella raccolta, nei movimenti e nella distribuzione del
denaro, difficile da occultare totalmente. Secondo alcuni
osservatori, infatti, queste risorse permettono non solo di
mantenere miliziani ma anche di distribuirne a parte della
popolazione sia siriana, allo stremo dopo anni di guerra, che
quella irachena soprattutto sunnita, non certo in migliori
condizioni data l’instabilità interna e la politica settaria e
fortemente discriminatoria del governo sciita di al-Maliki. Un
sostegno finanziario così importante e dalla distribuzione
capillare non può essere totalmente segreto e
impenetrabile.
La forza della formazione combattente ISIS sta, inoltre, non
solo nei suoi numeri finanziari e nella violenta prepotenza
delle sue azioni, ma anche nella conoscenza del territorio
che le deriva soprattutto dalla rete di relazioni fra realtà
locali – come le tribù per lo più sunnite da cui provengono
numerosi militanti – e un’esperienza di intelligence interna,
anche militare, già propria dell’establishment del vecchio
regime.
Tutto ciò permette all’ISIS di attuare tattiche operative
proprie della guerriglia, ossia commando di pochi elementi
che agiscono rapidamente, facilitati nei loro spostamenti –
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paradossalmente - dalle buone condizioni delle strade del
dopo-ricostruzione, e controllano pochi centri urbani
strategici – per garantirsi le telecomunicazioni e i
rifornimenti – ma soprattutto lasciano ampi spazi vuoti, per
lo più desertici, agli avversari. A differenza di quanto accade
per la guerriglia protetta da vegetazione, la conformazione
per lo più desolata di ampi spazi dell’Iraq non ancora sotto il
proprio controllo, impone infatti ai miliziani dell’ISIS velocità
di movimento, anche abbandonando postazioni conquistate,
per poi riassalirle in tempi successivi: ciò finisce con il
confondere il nemico con informazioni in continua
evoluzione sui propri movimenti e posizioni acquisite.
Se questi sono gli elementi di forza della formazione
combattente ISIS, la sua debolezza sta, nel breve periodo e
per quanto si sa al momento, nel non disporre di contraerea
e, nel lungo periodo, di una carenza di uomini e mezzi non in
grado, quindi, di controllare un territorio così vasto (solo per
l’intero Iraq, secondo stime del Pentagono, sarebbero
necessari almeno 200mila uomini).
Da tutto ciò e per quanto accennato sino ad ora, si
comprende che solo una combinata e determinata azione
aerea e terrestre, preceduta e poi supportata da un vasto e
capillare lavoro di intelligence sul territorio, è l’unica
strategia efficace nel contrastare ed eliminare la minaccia
dell’ISIS, almeno per quel che concerne la sua presenza in
Iraq; mentre per quel che la riguarda sul fronte siriano
intervengono altri elementi, più di geopolitica, che si rifanno
appunto alla complessa relazione fra i molteplici soggetti
coinvolti in quello scenario, dal regime di Assad, l’eterogena
composizione delle forze ribelli sino ai Paesi che sostengono
entrambi.
L’ISIS è, quindi, già costretta in due scenari strategici e tattici
totalmente diversi: non può reggere a lungo come forza
combattente. Se ciò dovesse accadere, sarebbe obbligata a
ripiegare veramente solo ed esclusivamente su azioni
terroristiche, limitate nelle tattiche operative (come il
ricorso ad attacchi suicidi), ma estese anche oltre i confini
mediorientali, come già ampiamente ipotizzato dalle
intelligence occidentali, dati i suoi componenti di varia
provenienza, anche europea. E solo allora dovrebbe venir
trattata come terrorismo.
Queste almeno sono ipotesi di evoluzione di quanto
potrebbe accadere all’ISIS, se contrastata massicciamente da
forze aeree e terrestri, con il solido e fondamentale lavoro di
intelligence sul terreno, troppo a lungo trascurato in quello
scenario.
I tempi operativi dell’ISIS sono infatti rapidi, accelerati dalla
crudeltà delle esecuzioni sommarie e dalle notizie di
genocidi, e sono propri di una moderna generazione di forze
combattenti che sembrano comporre, anche se con
rinnovate sigle e nuovi contesti geografici, una nuova vera
sfida alla sicurezza e ai conflitti del futuro.
Al contrario, l’altra faccia del Giano, al-Qaeda ora rifugiata
sui monti pachistani, opera così lentamente e cautamente
da darla ormai per morente, rischiando però di compiere un
ulteriore errore di valutazione, soprattutto per il futuro della
stabilità e della sicurezza dell’ Afghanistan e dei Paesi
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circostanti, una volta avvenuto il ritiro delle forze
multinazionali.
economico e finanziario), religiose (sciiti, cristiani, ebrei) o
etniche (iazidi, curdi, turcomanni, solo per citarne alcuni).
Andando oltre le dichiarazioni di al-Zawahiri circa la neonata
cellula qaedista asiatica, è proprio il suo essere
profondamente una realtà terroristica a garantirle fino ad
ora la sopravvivenza, e lo si è visto nonostante i notevoli
sforzi per annientarla. Al-Qaeda, come molti altri gruppi che
l’hanno preceduta, rappresenta per sua natura una realtà
fluida, adattabile a innumerevoli situazioni e alle misure di
contrasto, con ramificazioni locali e regionali che non
impongono sforzi militari al pari di quelli con cui presto, si
spera, si troverà a fare i conti l’ISIS. Se al-Qaeda sparisce, è
per una crisi di leadership (mancanza di capi al pari di un
Osama bin Laden) e di aiuti economici, per cui finiscono
propaganda e, venendo meno l’ appeal del suo progetto,
anche il reclutamento. Non è un caso che si sia provveduto
ad eliminarne i vertici e, sebbene molto in ritardo e in
maniera disomogenea a livello internazionale, si stia
lavorando per contrastarne il supporto finanziario.
Ecco l’affanno del resto del mondo, soprattutto occidentale,
ad adeguarsi a questa guerra alla “diversità” che, con ciò che
accade nell’Iraq dell’ISIS, diventa così politica e, per
l’Occidente, anche minaccia interna. E’ stato avviato un
nuovo approccio alla guerra che azzera tutti i parametri
giuridici così come sono stati concepiti e utilizzati per
regolamentarla e combatterla fino ad ora, con
l’aggravante di un Occidente in crisi di leadership che non
trova, quindi, accordi rapidi sugli strumenti più adatti ad
approcciarla, al suo primo manifestarsi, o a contrastarla,
perdendo così tempo prezioso. E nel frattempo, accanto alle
esecuzioni sommarie e ai genocidi, e fino a che non si porrà
fine alle fonti di educazione, di propaganda e di
finanziamento di questa cultura contro il diverso per
conoscenza, religione ed etnia, non si potrà dire di poter
chiudere definitivamente le porte del tempio.
Ed è proprio sull’ appeal al jihad che ISIS e al-Qaeda
finiscono per confrontarsi, come dimostrato chiaramente dai
due video: e l’ISIS ne esce vincente perché attua tecniche
comunicative dal forte richiamo per le giovani leve, a cui
affianca una massiccia campagna sulla rete, finendo così per
reclutare forze nuove.
Ciò che maggiormente deve preoccupare dell’ISIS è, poi, la
sua pericolosità come modello operativo da emulare: scenari
a forte instabilità sono ormai diffusi ampiamente nel mondo
musulmano. La Libia dalle innumerevoli milizie armate è uno
dei più a rischio, anche per il richiamo alla creazione di
entità statali nuove, separate ed autonome che possono
concretizzare finalmente i piani di un Islam politico, seppur
radicale, visti i fallimenti di quello moderato del doporivolte. Ma anche il teatro asiatico non è immune da
destabilizzazioni in grado di far prendere piede a soggetti
sensibili all’impianto ideologico ed operativo dell’ISIS.
6/9/2014
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Germana Tappero Merlo©Copyright 2014 Global Trends &
Security. All rights reserved.
Ecco del perché del Giano bifronte: nella sua raffigurazione
sembra racchiudersi l’intera allegoria delle drammatiche
vicende della moderna lotta armata, e non solo più
esclusivamente terroristica, proprie dell’al-Qaeda prima e
dell’ISIS ora.
Per i romani Giano era inteso come dio dell’inizio di
un’attività o di un periodo e, quindi, di un passaggio che
avviene attraverso una soglia (ianua): la chiusura delle
porte del suo tempio rappresentava, infatti, l’inizio dell’era
di pace. Ma egli era altresì protettore di attività, anche
illecite, per cui ambigue e opportunistiche proprie di un
essere a doppia personalità, pronto a mutare opinione e
atteggiamento a seconda della convenienza.
ISIS e al-Qaeda, quindi, guerra e terrorismo, e la loro
esistenza è testimonianza violenta del passaggio ad una
nuova era delle relazioni conflittuali internazionali, iniziata
l’11 settembre di tredici anni fa, in cui svanisce
totalmente la contrapposizione fra civili, militari e civili
combattenti, fra guerra, pace e tregua, e i bersagli non sono
più le entità statali ma le “diversità”, siano essere culturali
(l’Occidente e i suoi valori, e il suo mondo politico,
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