l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXII - n° 7-8 Luglio - Agosto 2015
Dai funerali di Casamonica alle ruberie, la Capitale sporca la sua immagine. Adesso basta
ROMA CORROTTA, ITALIA INFETTA
T
di Gino MORRONE
orniamo sul caso clamoroso dei funerali di Casamonica perché la vicenda è strettamente collegata alla crisi di
Roma capitale, ai maneggi, alle ruberie di una classe dirigente che ha tanto da farsi perdonare e per dire a Roma e
ai romani, come antifascisti che per l’Italia hanno dato tanto sangue, che è ora di dire basta con gli intrallazzi, con
la corruzione diffusa davvero nauseante perché, come scriveva un grande giornalista recentemente scomparso, Manlio
Cancogni, capitale corrotta è uguale a Nazione infetta. E deve farlo in fretta usando anche, se necessario, le maniere forti.
Non è più il momento dei furbi e dei furbetti. È ora che Roma riprenda consapevolezza della sua grandezza, rialzi la testa,
ritorni ad essere Capitale d'Italia, e caput mundi. La classe politica ha annunciato che farà la sua parte in questa operazione di nettezza urbana usando la ramazza e il tritarifiuti, a cominciare dal suo primo Cittadino Ignazio Marino sul quale
non vogliamo infierire. Ricominciare da zero vuol dire non ripetere più, mai più, errori che possono essere letali. Per Roma
e per il Paese. Chiudiamo il caso Casamonica, non parliamone più anziché, come hanno fatto la Rai e Bruno Vespa, riportare alla ribalta una famiglia che si è indebitamente e colossalmente arricchita con attività a dir poco criminali, mafiose
scatenando un putiferio di polemiche. Né vale appellarsi all’audience, un servizio pubblico deve prima di tutto servire la
verità. E ripartiamo. Ripartiamo mettendo al primo punto dell’azione amministrativa la legalità. Se davvero l’Italia sta
uscendo dalle secche, a maggior ragione deve farlo la sua Capitale.
L'EDITORIALE
Il dramma della Grecia
è anche la nostra crisi
di Giorgio GALLI
Il dramma della Grecia è la crisi
dell’Euro e dell’Europa. Una situazione paradossale. Si è detto che i
greci si sono indebitati per vivere
al di sopra delle loro possibilità. In
realtà, negli ultimi venti anni, in
Grecia come in tutto l’Occidente
sono aumentate le diseguaglianze.
Minoranze privilegiate hanno vissuto sempre meglio e le masse non privilegiate sempre peggio, in termini
di diritti e di livelli di vita.
segue a pagina 2
Un numero scritto con un pennarello
per identificare DEI rifugiati siriani
Repubblica Ceca:
la vergogna di quei marchi
di Jean MORNERO
Cara Europa, così non va. Non può esistere che Paesi
membri, come la Repubblica Ceca, per esempio, segnino
i profughi come fossero bestiame al macello, secondo
un triste rituale burocratico che evoca gli anni atroci in
cui si tatuavano i deportati nei campi di sterminio nazisti. È un atto che fa orrore alle coscienze anche perché
la polizia ceca ha marchiato ogni migrante, compresi i
bambini, in arrivo dall’Austria. Tra le foto che ritraggono agenti armati di pennarello per vergare cifre sulle braccia dei profughi, ce n'è una particolarmente agghiacciante: una bimba addormentata sulla spalla della
madre che sul polso porta l'identificativo “C5”.
segue a pagina 3
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
GOVERNO
Renzi alla guerra
d'autunno
di N. CORDA
a pag. 4
MEMORIA
A 10 anni dalla
scomparsa di Aniasi
di C. TOGNOLI
a pag. 6
ANTIFASCISMO
Addio
Gianfranco Maris
di R. CENATI
a pag. 8
BRESCIA
Doppio ergastolo per
i fascisti
di S. FERRARI
a pag. 10
Il dramma dei migranti
2
La foto shock che gela e cambia il mondo
È l’immagine drammatica di un piccolo siriano
trovato sulla spiaggia turca di Bodrum dopo essere annegato
di Maurizio GALLI
S
crive Michele Smargiassi: “Foto con cadaveri di bambini affogati nella fossa del Mediterraneo stanno rompendo gli
argini, sfondano l’interdetto del pudore”. Ma certo la foto di quel piccolo siriano senza vita portato sulla spiaggia di
Bodrum dalle onde e recuperato da un poliziotto è una immagine raccapricciante e per la sua forza emotiva ha fatto in
breve il giro del mondo. I siti dei giornali inglesi l’hanno giustamente scelta per attaccare la linea anti-migranti del premier
David Cameron. Ma una foto può cambiare la politica dell'Europa sulla tragedia dei migranti? Forse sì. Almeno questa è la
speranza cui vogliamo aggrapparci. Di immagini atroci, certo, questa storia ne ha già prodotte altre, ma ”Quando è troppo è
troppo”, scrive sul suo sito il quotidiano “Independent” di Londra, decidendo di pubblicare il servizio fotografico, anche se
agghiacciante, nella speranza di smuovere il governo britannico, finora preoccupato di chiudere le porte all'immigrazione,
quella clandestina e perfino quella legale, come ha dimostrato l’altro giorno la sparata del ministro degli Interni Theresa May.
segue dalla prima pagina
La Grecia si è indebitata per pagare altri debiti, lungo un processo
che ha visto persino, a livello di massa, aumentare la mortalità infantile per denutrizione. Se i lavoratori e i pensionati greci possono essere criticati, è per aver sopportato tutto, compresa l’evasione fiscale di armatori multimiliardari, senza ribellarsi. E quando
hanno tentato di farlo, democraticamente, votando per la sinistra
e in un referendum, l’Europa delle banche ha imposto un diktat
paragonato a un colpo di Stato contro un governo legittimo. E,
per singolare coincidenza, alla vigilia del 5 luglio del referendum
greco, il direttore di questa rivista aveva promosso, al circolo De
Amicis a Milano, la presentazione del libro “Il colpo di Stato del
1945”, di Michelangelo Ingrassia, racconto della caduta del governo Parri, espressione della Resistenza, nel gennaio di quell’anno.
La definizione di “colpo di Stato” (orchestrato dalla destra, con
l’accettazione della sinistra), era stata dello stesso Parri. Durante
il dibattito si discusse se quella definizione fosse valida o meno,
così come è discutibile se sia valida la stessa espressione per definire il diktat che ha posto fine, pure dopo cinque mesi, al governo
Tsipras di sinistra, come è stato detto ad Atene. La differenza tra
Parri, che non si è arreso, e Tsipras, che lo ha fatto, è a vantaggio
del primo come persona; ma l’esito è eguale.
Al di là delle definizioni, mi pare utile cogliere altre coincidenze, per concludere con una ipotesi provocatoria. Michelangelo
Ingrassia mi ha poi fatto avere un altro suo libro, “La sinistra
nazionalsocialista – Una mancata alternativa a Hitler” (Ed.
Cantagalli). Lo scorso numero di questa rivista ha pubblicato la
recensione di Arturo Colombo a un altro libro sul fascismo, “Altri
duci. I fascismi europei tra le due guerre” (Ed. Mursia). L’autore,
Marco Fraquelli, si era laureato con me all’Università di Milano
(con una tesi sul filosofo fascista Julius Evola) e, pur formatosi
nelle “ronde proletarie” sessantottine, aveva così cominciato a
interessarsi della destra. Arturo Colombo conclude sul libro: “Si
tratta di una ricostruzione degli eventi quanto più possibile vicina
alla realtà e intellettualmente stimolante. Siamo d’accordo”.
Questi libri attirano l’attenzione su un fenomeno in genere trascurato: nei fascismi degli anni Venti e Trenta era presente un
aspetto di anticapitalismo di destra, aspetto presente anche nei
cosiddetti populismi euroscettici attuali e che allora si esaurì,
assorbito nei partiti e nei regimi autoritari della destra. E ora?
Proprio in Grecia il movimento Alba dorata, definito neonazista,
dopo aver affermato a gennaio che il vittorioso Tsipras avrebbe
fallito, ha poi votato in Parlamento (ha diciassette deputati) a favore dell’indizione del referendum (osteggiato dalle altre opposizioni) e ha poi votato “no”, contribuendo alla sua affermazione
oltre le previsioni.
Ipotesi provocatoria a livello europeo: non è possibile, da sinistra,
evitare l’assorbimento dell’anticapitalismo di destra nell’autoritarismo reazionario, per concordare una ristrutturazione del debito
che sacrifichi le banche al progetto di un’Europa soggetto politico
solidale, in grado di competere con gli altri grandi Stati continentali, dagli Stati Uniti alla Cina?
Oggi il piccolo cabotaggio di governi e tecnoburocrati mediocri,
condizionati da una Germania più propensa al dominio che all’egemonia, sta trasformando in un triste tramonto il grande progetto europeo di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi. Settanta anni
fa, il grande progetto di Parri per un’Italia più democratica grazie al patrimonio della Resistenza, fu infranto in cinque mesi da
personalità di rilievo (da Togliatti e De Gasperi), ma influenzati
da ideologie partitiche. Dal nostro piccolo punto d’osservazione,
avvertiamo le grandi lezioni della storia e possiamo trarre idee da
quelle lezioni: per non ripetere gli errori degli anni Venti, Trenta
e Quaranta dello scorso secolo.
Il dramma dei migranti
LA VERGOGNA DI QUEI MARCHI
Q
segue dalla prima pagina
ueste immagini vergognose sono
state subito postate in Rete, sollevando l’indignazione nel mondo
intero. I “marchiati” sono 214 rifugiati,
per lo più siriani, fermati due notti fa
dalla polizia al confine austriaco. Perché
un tale gesto? Perché con questo
numero, si sono giustificati i cechi, è più
facile identificare il treno e il vagone
d’arrivo dei migranti, per eventualmente ricaricarceli e rispedirli indietro.
“E visto il gran numero di bambini, è
stato anche il modo per evitare che questi
si smarrissero”, ha detto un portavoce
del ministero dell’Interno. "Hanno
pazientemente accettato la marchiatura
perché sapevano che è nel loro interesse”,
ha aggiunto il funzionario, ignorando
forse che non esiste nessuna legge al
mondo che permetta di marchiare le
persone, anche se queste, come accade
spesso in questi giorni, non hanno
documenti d'identità. Anche in Italia
l’operato della polizia ceca ha sollevato
numerose polemiche. Secondo Renzo
Gattegna, presidente dell’Unione delle
Comunità ebraiche italiane, quanto
è successo è un fatto gravissimo. Dice
Gattegna: “Sono segnali che richiamano
inevitabilmente il periodo più oscuro della
storia contemporanea E sono soltanto gli
ultimi di una serie d’inquietanti accadimenti contro i quali deve sentirsi la voce
di tutte le società civili e progredite”. Per
il presidente degli ebrei italiani “il
futuro dei valori in cui crediamo e in cui
ci riconosciamo, mai come adesso è posto
a rischio, e la Storia ci ha insegnato che
l’indifferenza non è una scelta accettabile”. Piero Terracina, 87 anni,
sopravvissuto ad Auschwitz, dove fu
deportato perché ebreo, giudica l’accaduto “un'orribile parodia di quello che è
stato fatto ai prigionieri durante il
nazismo”. Quest’uomo che ha passato la
vita a raccontare il suo martirio per
tenere viva la memoria della Shoah
ricorda adesso come allora le cifre
tatuate sulla pelle tolsero ai prigionieri
la dignità di uomini. A differenza di
altri Stati europei, la Repubblica Ceca
sostiene che i migranti illegali, ossia la
quasi totalità di coloro che in questi
mesi fuggono da guerre o carestie,
devono essere rispediti nei loro Paesi
d'origine. Due giorni fa, l’ex presidente
ceco Vaclav Klaus ha riassunto così
questo sentimento: “L'immigrazione
non è un diritto dell'uomo”.
Wiesel: il Male può tornare
Ed ecco cosa sostiene in un’intervista il professor Elie Wiesel, uno dei più
grandi intellettuali della comunità ebraica, premio Nobel per la pace:
“Voglio andare in Ungheria per raccontare come scampai ai lager e come fui
accolto in Francia. Bisogna ricordare chi tendeva la mano a quelli che fuggivano,
la Shoah non è paragonabile a nessun altro crimine nella storia dell' umanità. Però
apprendendo quelle notizie da Praga confermate da Mlada Fronta Dnes (autorevole quotidiano ceco, ndr) mi chiedo: ma perché mai lo fanno? E perché mai lo fanno
ancora proprio in Europa?”
Come si sente davanti alle nuove ondate di ostilità e odio contro
i migranti, all’Est e altrove? I mali oscuri e antichi dell’Europa
tornano vivi?
“Io voglio proprio sperare di no. E aggiungo, stiamo attenti: non paragoniamo la
Shoah ad altri orrori pur scioccanti. Però tutti dovrebbero ricordare quell’espressione di Wojtyla, “male assoluto”, anche per evitare che accada ogni male minore.
E tutti gli europei e gli altri cittadini del mondo globalizzato dovrebbero sempre
rammentare che siamo e siamo stati tutti stranieri quasi sempre, da secoli. Io mi
sento da una vita come straniero esterno in quanto ebreo, e ho imparato a sentirmi
bene. Perché nello straniero noi dell’intelligecija ebraica - ma da secoli la pensano
e l’hanno pensata così anche milioni e milioni di cittadini europei - lo straniero è
qualcuno che ti arricchisce, perché ti porta un’altra cultura, una visione in più. Le
società più aperte verso gli stranieri e la loro integrazione sono spessissimo quelle
che ci guadagnano di più, acquisendo più cultura e più talenti. Tali successi non si
conseguono scrivendo numeri sulle braccia dei migranti”.
L'Europa ancora una volta ha paura dei migranti economici, gli Stati
Uniti no. Perché?
“Gli Usa hanno sempre saputo crescere come nazione di stranieri che pian piano
imparano a crescere insieme come we, the people.
Gli europei dovrebbero sapere, come Angela Merkel e le statistiche Onu ricordano,
che il più numeroso gruppo di migranti sono siriani. Fuggono da guerra, persecuzioni della dittatura, terrorismo dell’Is e sono persone molto qualificate”.
All'Est il nuovo razzismo quant'è allarmante? Prima contro ebrei,
poi contro Rom, poi contro migranti. . .
“È molto allarmante. In Ungheria, nei paesi Baltici, in Romania, altrove, bisogna
fare chiarezza con il peso grave della Storia e capire che integrare gli stranieri è
nell’interesse nazionale, non timbrarli. E poi trovo scioccante che Orbàn riabiliti
Horthy, ideatore delle prime leggi razziali e complice dell’Olocausto. S’immagina
Merkel che riabilita qualcuno che non voglio nominare? E quali servigi avrebbe mai
reso l’antisemita Horthy al suo paese e al mondo?
Ed Àgnes Heller, 87 anni, sopravvissuta all’Olocausto, aggiunge: L’Europa dell’Est
è ostaggio del bisogno di odio, di esclusione del diverso, di ostilità razzista”.
3
Interni
4
Osservatorio politico
Renzi alla guerra d’autunno
di Nicola CORDA
“L’Italia sta meglio di un anno fa” ha
detto il presidente del Consiglio Matteo
Renzi in Giappone, ultimo dei suoi viaggi
prima della pausa estiva. Al ritorno dalle
ferie i dati Istat sulla disoccupazione
e il secondo trimestre di Pil positivo e
al rialzo, gli danno ragione, anche se la
strada per l’uscita dalla crisi è ancora
lunga. L’ottimismo e la determinazione
per far uscire l’Italia dalle secche non gli
mancano e tuttavia per il governo Renzi e
la sua maggioranza ci sono davanti forse
i mesi più difficili. La ripresa d’autunno
sarà un primo banco di prova per le riforme e la tenuta della coalizione che in
una delle due Camere continua ad avere
numeri che impongono continue mediazioni. Le tensioni nate sui temi della
giustizia e delle intercettazioni tra Pd e
Nuovo Centrodestra alla vigilia delle ferie
estive sono state l’ennesimo segnale di
un rapporto turbolento del premier con
il Parlamento. Il confronto con la minoranza del suo partito sembra arrivato al
punto di massima frizione: l’ultimo voto
sulla riforma della Rai in Senato, che ha
mandato sotto il governo, ha costretto
Renzi a rinnovare i vertici con la vecchia
legge Gasparri. Se con i centristi è bastato
pagare un prezzo seppur elevato nel giro
di poltrone delle presidenze di commissione, con i bersaniani e la sinistra non
sarà altrettanto facile. “Questi segnali non
ci fanno nessuna paura, saremo ancora
più determinati” ha detto il presidente
del consiglio dopo gli ultimi sgambetti
della minoranza, lanciando così il guanto
di sfida ai ribelli. A rendere agitate le
acque tra i parlamentari Pd, è stata anche
la nascita del gruppo di Alleanza liberal
popolare per le Autonomie, con la benedizione di Denis Verdini che ha abbandonato dopo trent’anni Silvio Berlusconi.
Se l’ex coordinatore azzurro ha messo
subito in chiaro che non sarebbe entrato
in maggioranza, ha però spiegato che i
suoi numeri per la partita delle riforme ci
saranno e saranno voti pesanti. La stampella di Verdini non imbarazza però Renzi
che ha ricordato come le riforme siano
state già votate dagli ex senatori azzurri.
Un partito che sta cambiando pelle per
Massimo D’Alema, che ha dato il via allo
scontro d’autunno dalla Festa dell’Unità di
Milano. Pd che ora è a un bivio che indica
da una parte un centrosinistra rinnovato e
dall’altra l’alleanza con “Casini, Alfano, Verdini e Cicchitto” ha ammonito l’ex premier e
segretario. Dalle parti di Palazzo Chigi la dissidenza che ha alzato il tiro, ha rimesso in
gioco il pallottoliere della maggioranza e fatto riemergere quell’ipotesi di urne anticipate
che cova sotto traccia fin dall’approvazione dell’Italicum (che prevede nuove regole solo
per l’elezione della Camera, ma entrerà in vigore solo nel luglio 2016). Se è vero che i
vertici di Viale Mazzini avevano la necessità di essere rinnovati con o senza la riforma, è
altrettanto vero che la scelta di procedere con la vecchia legge spiega che, nell’entourage
renziano, la strada di un ricorso anticipato alle urne, non è un tabù e arrivarci con una
Rai meglio sintonizzata sulla maggioranza, dà più sicurezza.
Ma tra riforme fatte e quelle ancora in cantiere, il governo si troverà di fronte altre
emergenze che, visti i chiari di luna sulla tenuta del Partito Democratico e le frizioni
con il Nuovo Centrodestra sui temi della giustizia, non saranno facili da affrontare. Uno
dei primi tasselli da sistemare sarà il completamento dell’esecutivo con la nomina di
un ministro degli affari regionali (lasciato vacante da Maria Carmela Lanzetta), e due
viceministri degli esteri (in sostituzione di Lapo Pistelli) e dello sviluppo economico (al
posto di Claudio de Vincenti). Renzi potrebbe cogliere l’occasione per trovare un punto
di mediazione e ricucire con la minoranza interna, ma le scelte soft non sono nel suo
carattere e le minacce di “Vietnam parlamentare” evocate prima della pausa estiva non
depongono certo a favore della tregua. Il punto cardine del programma renziano che
potrebbe mettere a rischio la legislatura è sicuramente la riforma Costituzionale che
proprio in queste settimane entra nel vivo della terza e quarta lettura. Dalla minoranza
Dem è stato presentato il pacchetto di emendamenti che puntano a rimettere in gioco il
Senato elettivo e a ridisegnarlo quale Camera di compensazione e di riequilibrio del potere ultramaggioritario che deriva dall’ultima versione della legge elettorale. In campo
c’è anche l’ipotesi di cambiare il premio di maggioranza dell’Italicum (assegnandolo
alla coalizione e tornando alla prima versione). È la richiesta della nuova formazione
di Verdini, potrebbe far tornare al tavolo anche Forza Italia e soprattutto metterebbe
fuori dai giochi del ballottaggio il Movimento 5 Stelle tornato a volare alto nei sondaggi.
Sicuro di avere comunque i numeri per far passare il nuovo Senato senza fare marcia indietro e senza scossoni, Renzi si lascia ancora tutte le strade aperte. Finora ha fatto scelte
che privilegiano le relazioni verso il centro a scapito dei rapporti a sinistra, ma anche
dal fronte del partito di Vendola (dove c’è molto malumore) potrebbero arrivare nuovi
innesti al progetto di “partito della nazione”. L’obiettivo non dichiarato è di rendere le
opposizioni ininfluenti e arrivare al 2018 portando a casa le riforme promesse.
Nel quadro di un Pd più eterogeneo e messo sottosterzo da Renzi, aumentano però
le possibilità che in autunno nascano i gruppi autonomi formati dalla sinistra del partito, da Fassina e Civati (che hanno già lasciato) e Sinistra Ecologia e Libertà. Qualcosa
si muove anche tra i fuoriusciti del Movimento 5 Stelle e l’idea di una componente di
questa natura (per ora solo parlamentare e non di partito), potrebbe convincere altri a
passare sulla rive gauche. Oltre che sulle riforme, un’opposizione più organizzata punta
a ostacolare il governo sull’altra grande partita che si giocherà in autunno. Sul terreno
dell’economia la prossima legge di stabilità sarà perciò il secondo banco di prova per
Renzi. Da un lato c’è la necessità di spingere ancora sulla crescita e liberare risorse per
gli investimenti, dall’altro ci sono una serie di ostacoli di bilancio su cui sono già accesi i
fari della Commissione europea. Il cantiere della prossima finanziaria si aggira intorno
ai 30 miliardi e tra gli obiettivi di revisione di spesa e la flessibilità concessa dall’Europa,
sono coperti appena la metà. All’incirca sono quelli che servono a sterilizzare le clausole
di salvaguardia ed evitare che scattino gli aumenti dell’Iva e le accise e rispettare le
sentenze costituzionali sul rinnovo dei contratti pubblici e l’indicizzazione delle pensioni. Mancano all’appello anche i miliardi per rifinanziare gli incentivi per le nuove
assunzioni, per il piano di contrasto alla povertà e sono ancora da trovare le risorse per
coprire il taglio delle tasse sulla casa, promessa su cui il premier si gioca molta della sua
credibilità. Perciò la sua guerra d’autunno sarà anche contro Bruxelles che ha già recapitato al ministro dell’economia Padoan due messaggi: non ci saranno ulteriori margini
di flessibilità in deficit e il carico fiscale è ancora troppo spostato su lavoro e imprese
mentre la riduzione delle tasse sul patrimonio non è una priorità.
L'opinione
IL "FUNERALE" DI ROMA
di Alessandro VECCHI
I
l 20 di agosto si sono
svolti al Tuscolano
i funerali di Roma e
quindi d'Italia. Ma, come
sappiamo, i funerali non
sono la morte, essa avviene
nostro malgrado e il funerale ne è una rappresentazione, un modo per i vivi di
affrontare la questione.
Una ritualità che aiuta
a mettere la parola fine a
un'intera vita. Non possiamo quindi prendercela con il prete o con chi officia la funzione,
non possiamo accanirci contro il nero della macchina (o della carrozza come in questo
caso), il problema non saranno i vestiti scelti dagli invitati. Il Problema è la Morte. Al contrario, i funerali è bene che ci siano, perché dovrebbero essere il primo passo verso una
presa di coscienza e una lenta, a volte lentissima, rinascita. Va detto da subito, la morte e
le esequie di Vittorio Casamonica sono un tema spinoso. Lo dico quindi subito, anche se
il titolo di questo giornale dovrebbe di per sé sgombrare la strada da qualsiasi dubbio: io
sto dalla parte dei deboli, degli sporchi, degli emarginati, dei capri espiatori, io sto dalla
parte degli ebrei, degli 'zingari' e dei 'negri'. E, al contempo, sto dalla parte della legalità.
La colpa principale del funerale dell'anno è stato quella di aver fatto emergere, a suon
di fanfara, in una scena che è tra i Monty Python e i cine-panettoni, il “mondo di sotto”
agli occhi del “mondo di sopra”. La realtà sotterranea è tale perché fa comodo ad essa
trovarcisi, ma anche perché evita imbarazzi a chi si trova di sopra. Ma, per cortesia, non
ci venite a morire proprio sotto gli occhi(!). I Casamonica sono a Roma dagli anni ‘70 ed
è più o meno da allora che una buona parte della Famiglia, nell'Urbe, si è immischiata in
affari loschi che vanno dal racket allo spaccio. La sobrietà, a tutti i livelli, non è mai stata
la loro cifra. Dalle ville faraoniche ai ragazzini temuti dai coetanei che li riconoscono
da metri di distanza e che, nel caso ti fosse sfuggito, non tardano a ricordarti il loro cognome sapendo che chi lo ascolta lo collega a una famiglia con cui è meglio non scherzare.
Nei quartieri, però, sono vissuti con l'indolenza romana della mamma che ammonisce il
figlio con un laconico “Staje lontano”, rarissime le denunce, quasi nulla l'integrazione.
È quest'indolenza, romana per antonomasia, ma italiana per estensione, che dobbiamo
combattere, sono i risultati di quest'atteggiamento che si sono palesati nel funerale, ma
soprattutto nelle reazioni del 20 di agosto. Don Manieri, il prete che ha celebrato il funerale e da cui molti, a posteriori, si aspettavano un gesto di eroismo, un rifiuto a celebrare,
lo ha detto in varie interviste, non spettava certo a lui arrestare un - presunto - boss, per
di più ormai defunto. La questione infatti, come detto all'inizio, non è la morte e a questo
punto nemmeno la sua rappresentazione. La questione è come sia possibile che quello
che ora tutti si affrettano a chiamare uno “sfregio alla Città” sia potuto avvenire senza
che si avessero gli strumenti legali per impedirlo? Come, una persona ritenuta a dir poco
criminale e a dir tanto mafiosa, di più, un capo mafia, fosse a piede libero? L'Italia si deve
liberare dalla sindrome della matrona romana, piantarla di sbuffare tra le proprie mura
“Staje lontano, lassali perde'”. Dobbiamo smettere di vivacchiare in una nazione che rischia il declino, cercando di ritagliare spazi nel nostro mondo di mezzo nella speranza
che non vengano intaccati dagli scomodi vicini. Se di mafia si tratta, se i Casamonica sono
dei mafiosi, non possono stabilirlo i vigili né tantomeno un prete. “Sventurata la terra che
ha bisogno di eroi” diceva Brecht: Roma, l'Italia, non hanno bisogno dell'ennesimo prete
di trincea, né di un eroico vigile che sbarri la strada al corteo, non abbiamo nemmeno
bisogno di una valida contraerea che fermi un elicottero (un elicottero!) il quale, senza
autorizzazione, da Napoli parte per svolazzare sopra la capitale. Tutti questi sono dettagli di un epilogo che non poteva svolgersi diversamente. La mafia va stroncata, il malaffare corretto, le finestre rotte aggiustate. Le connivenze e le ambiguità non possono più
essere tollerate. Affinché un funerale “sui generis” diventi unicamente una questione di
folclore e, perché no, di conoscenza reciproca. Come ci ricorda nell’intervista rilasciatami via email da Santino Spinelli, professore universitario ed esperto di cultura Rom,
i Rom e i Sinti così celebrano le dipartite dei propri membri. I petali, i cavalli, la musica
5
non sono una novità per questo popolo. E
dato che “Antifascismo” per me significa
soprattutto cultura, permettetemi di
includere in questo articolo le parole di
Spinelli, per aggiungere quello che più è
mancato in questo dibattito, la ricerca di
conoscenza: “I cavalli nella cosmologia
culturale romanì rappresentano il viaggio,
la famiglia e soprattutto la libertà. La libertà di esistere con la propria irrinunciabile identità. I petali rappresentano la purificazione, buttare a terra i petali durante
il passaggio del feretro è un atto catartico
e di purificazione. La banda e la musica
rappresentano la consolazione, la musica
è presente in ogni momento dell'esistenza
romanì. In pratica un funerale è l'equivalente del matrimonio, dove i “festeggiamenti”, seppur con le dovute differenze,
sono rivolti ad onorare i partecipanti e
rivolti alla comunità e non all'esterno.
Ecco, i Rom lo fanno anche per i funerali,
per onorare non solo il defunto ma anche
i partecipanti. “Questo gli italiani non lo
fanno e quindi non lo comprendono". Anzi,
diventa scioccante, e un funerale così deve
essere per forza riservato ad un re, una
regina o un criminale. “Anche quando è
morta mia nonna i giornali parlarono della
regina degli ‘zingari’ senza sapere che mia
nonna era una persona semplice e umile
e non era neppure Rom! Mio nonno ebbe
lo stesso funerale senza essere né re e né
tantomeno un criminale, ma un uomo mite
e semplicissimo”. Per tornare alle reazioni
del funerale, nomi illustri dell'antimafia
come Gratteri ci spiegano che in Calabria
e in Sicilia i funerali si svolgono all'alba
per evitare che diventino il pretesto per
uno sfoggio di potere: d'altronde anche a
Roma nel 2012 vennero proibite esequie
solenni per il figlio del boss Moccia. Vale
a dire che se la sentenza c'è, la legge, a
volte, si può far rispettare. Ma se una
condanna non arriva, non possono essere
i salotti delle televisioni o la carta stampata, prima istigatori e poi megafono dalla
pancia della gente, ad ergersi a giudice e a
decretare chi sia e chi non sia un mafioso.
Si indaghi dunque sulle falle della sicurezza, su come un elicottero possa essere
giunto indisturbato fino a noi, si indaghi
anche su come è stato gestito il traffico e
si faccia chiarezza sul come mai “nessuno
sapesse niente”, ma soprattutto si affronti
il tema della connivenza delle istituzioni
con determinati ambienti, non si permetta
che a Roma viga la legge del più forte. Si
cerchi di capire come un uomo in odore di
mafia, nel cuore d'Europa, abbia dovuto
aspettare il proprio funerale per essere
pubblicamente accusato.
Memoria
6
Memoria
Dieci anni fa la scomparsa di Aldo Aniasi, presidente della Fiap e comandante partigiano
CIAO ISO, NON TI DIMENTICHEREMO MAI
Per circa un decennio sindaco di Milano, più volte ministro e vice presidente della
Camera dei Deputati, è stato a lungo tra i protagonisti della storia politica italiana
di Carlo TOGNOLI (Sindaco di Milano dal Maggio 1976 al Dicembre 1986)
D
ieci anni fa Iso ci ha lasciati.
Nel ricordarlo, allora come
oggi, il primo pensiero va al
partigiano, il comandante ‘Iso
Danali’, giovane intelligente e coraggioso che in poco tempo, divenne
capo della brigata garibaldina ‘Redi’
con una grande capacità tattica e una
forte influenza sui suoi compagni.
Attivo in Valsesia, era solito dire “la
guerriglia si impara praticandola”, ma
il suo modo di agire militarmente si
basava su una preparazione precisa
delle imboscate, senza improvvisazioni o colpi di testa.
Fu presente anche in Val d’Ossola,
dove si costituì una ‘repubblica partigiana’, uno dei primi esperimenti
democratici dopo oltre vent’anni di
dittatura fascista.
“Non vogliamo eroi, non vogliamo
martiri, né vittime inutili” diceva ai
suoi prima dei combattimenti, basati
sulla sorpresa e sulla rapidità d’azione.
Prudenza e audacia si intrecciavano con
l’obbiettivo di vincere ogni scontro.
Ancora in battaglia mentre si liberava Milano, arrivò nel capoluogo
lombardo con la reputazione di ottimo
comandante, amato e stimato.
Dal PCI, partito al quale era iscritto
come ‘garibaldino’, passò nel dopoguerra al Partito Socialista (PSIUP)
iniziando un percorso politico che
l’avrebbe portato nel PSDI, dopo la
scissione di Palazzo Barberini (1947)
e poi nel PSI, nel 1959, insieme alla
sinistra socialdemocratica (MUIS)
capeggiata da Matteo Matteotti e da
Ezio Vigorelli, che propugnava l’unità
socialista.
Vigorelli (che aveva perso due figli
nella Resistenza, Bruno e Fofi) fu uno
dei suoi maestri sul terreno politico e
su quello sociale.
Iso collaborò con Vigorelli nel campo
assistenziale dopo il 1945 quando l’Italia
e Milano si trovavano in una situazione
di diffusa povertà dopo le distruzioni
belliche e il crollo dell’economia.
L’Ente Comunale di Assistenza (ECA)
e l’Associazione Nazionale degli Enti
di Assistenza (ANEA) erano gli strumenti con i quali gli amministratori
aiutavano la popolazione.
Antonio Greppi, sindaco della Liberazione, Vigorelli e Aniasi erano
i garanti (anche verso gli alleati
angloamericani) della correttezza
e dell’equità della distribuzione di
generi alimentari, del vestiario e degli
aiuti economici a cittadini impoveriti
e spesso senza casa.
Nei documenti del Comune di Milano
si possono leggere i criteri che informavano questo lavoro e la precisione
con cui venivano regolati gli aiuti. E
compare frequentemente la firma di
Aldo Aniasi. Il suo percorso politico
comincia proprio in quel periodo ed è
legato alla concretezza, che lo accompagnerà per tutta la vita.
Eletto consigliere comunale nel 1951
con il PSDI, fu assessore dal 1954 al
1959, quando si dimise per entrare
nel PSI con il Movimento Unitario di Iniziativa Socialista del quale
facevano parte, oltre a Matteotti e
Vigorelli, i parlamentari Schiano e
Lucchi, Mario Zagari, Leo Solari,
Giuliano Vassalli, Italo Pietra e
Lamberto Jori (assessore a Milano).
Nel PSI fu subito protagonista.
Rieletto consigliere comunale nel
novembre del 1960, divenne assessore
ai Lavori Pubblici del centro sinistra
formato da DC, PSI e PSDI, presieduto da Gino Cassinis.
Case, scuole, verde, campi gioco per i
bambini per lui non furono promesse
elettorali, ma un imperativo cui tenne
fede anche da sindaco.
Dopo le dimissioni di Bucalossi in contrasto con la maggioranza
del partito socialista unificato e del
centro sinistra, perché riottoso all’utilizzo pieno della spesa pubblica,
necessario in quel periodo di costante
immigrazione e di rilancio della
Metropolitana (linea verde) – fu
eletto sindaco alla fine del 1967.
Aperto e convinto sostenitore di Aniasi
fu Craxi, allora segretario provinciale
del PS unificato. E con lui Nenni.
Il lancio della sua candidatura fu
preceduto da un passaggio di straordinario stile politico: Aniasi e Craxi
proposero a Greppi, deputato, il
mitico sindaco della Liberazione, che
era stato capolista del PSI anche nelle
elezioni amministrative del 1964, di
riassumere la carica di sindaco.
Greppi declinò l’invito e ad Aniasi
capitò la stessa sorte di Caldara dopo
la rinuncia dell’anziano socialista avv.
Maino nel 1914.
Non era un uomo dei salotti, aveva
dedicato la sua vita alla Resistenza,
all’impegno sociale, alla causa dei lavoratori e alla pubblica amministrazione.
Prima di essere eletto sindaco era
stato il più popolare degli assessori,
conosciutissimo nelle periferie, dove
vivevano due terzi dei milanesi.
Poi, con la sua giunta, venne incrementato il patrimonio di edilizia
popolare,
venne
potenziato
il
trasporto pubblico, fu ampliato il verde urbano, i quartieri ‘dormitorio’ vennero
dotati di servizi, decollò il decentramento amministrativo.
Ebbi l’onore, come assessore alla Sicurezza sociale della Giunta da lui presieduta, di far partire l’assistenza domiciliare agli anziani che prevedeva
assistenza sanitaria, presenza delle operatrici sociali e aiuto delle collaboratrici
domestiche nelle abitazioni. I primi due centri furono inaugurati da Aniasi in
Piazzale Accursio e in via Andrea Doria.
Guidò il centro sinistra al governo di Milano per otto anni, tormentati dalla
contestazione studentesca, non sempre garbata, dallo stragismo, dalle marce
‘silenziose’, dall’inizio degli anni di piombo.
Si sforzò di comprendere i movimenti e i giovani per ciò cui aspiravano e cercò
la strada del dialogo, senza mai dimenticare la via maestra della difesa della
democrazia e della libertà.
Rischiò la vita durante l’inaugurazione del busto a Calabresi, al fianco del
Presidente Rumor, quando Bertoli seminò in via Fatebenefratelli la morte tra
incolpevoli e inconsapevoli passanti.
Dopo il 1975 fu il traghettatore verso la giunta di sinistra. In questa circostanza,
politicamente importantissima, i socialisti milanesi furono molto uniti.
Nel clima di incipiente ‘compromesso storico’, Aniasi condivise la posizione dei
socialisti milanesi - cui si aggiunsero la pattuglia socialdemocratica guidata da
Pillitteri e due consiglieri della DC - che ritenevano l’alleanza netta e chiara
con il PCI preferibile alle ‘larghe intese’ (cioè il centro sinistra con l’appoggio
esterno dei comunisti) dove la preponderanza di DC e PCI avrebbe emarginato
il PSI. La comunanza dei programmi avrebbe favorito un’azione amministrativa senza contrasti.
Del resto questa linea si era formata nel pieno della battaglia referendaria
contro l’abrogazione del divorzio che aveva visto l’unità dei laici e un’azione
comune di socialisti e comunisti.
Aniasi fu l’interprete ideale per questa alleanza, proprio perché negli anni
settanta era l’interlocutore privilegiato di una parte del PCI, in particolare sul
terreno degli interventi concreti, che aveva consentito un dialogo costruttivo,
senza rinunce ai ruoli diversi, dei socialisti (al governo della città) e dei comunisti (all’opposizione).
Non fu tutto facile, allora, perché ci furono resistenze nel PCI e anche nel PSI (a
livello nazionale). Ma il risultato finale fu eccellente.
Aniasi, poi, lasciò, nel 1976, per continuare il suo impegno alla Camera dei
deputati, nel partito e nel governo. Responsabile nazionale degli enti locali,
ministro della Sanità, ministro delle Regioni, vice-presidente della Camera –
mantenne sempre il legame con Milano e i suoi cittadini.
Negli ultimi tempi, come tutti sanno, dedicò buona parte della sua attività per
mantenere alta la bandiera della Resistenza, intesa come simbolo della democrazia e della libertà. Emblematica la splendida mostra dedicata a Pertini da lui
fortemente voluta e organizzata, rivolta soprattutto ai giovani.
7
In occasione delle sue dimissioni da
sindaco disse, tra l’altro, in Consiglio
comunale, l’8 maggio 1986:
“… Abbiamo lavorato per ottenere il
miglioramento delle condizioni di vita
nella città, soprattutto nella periferia; per cercare di far partecipare tutti
i cittadini all’amministrazione, per
creare un legame stabile, saldo e forte
tra il Comune e i milanesi.
Questo impegno amministrativo, questa
ricerca di partecipazione, sono stati
determinanti quando l’amministrazione comunale ha voluto appellarsi ai
lavoratori, ai cittadini, ai sindacati per
raccogliere attorno a sè quanti credono
nella convivenza civile e nella democrazia, per respingere le provocazioni.
… In quegli anni di tensione Milano, tra
l’altro, manifestava la sua solidarietà
ai perseguitati, agli esuli, dai greci ai
cileni…”
“…In quel periodo ho vissuto momenti
difficili, ma ho potuto sentire il polso vivo
della città anche in situazioni di lacerante drammaticità; posso concludere che
Milano non è malata. Essa è stata invece
in questi anni un punto di riferimento
politico. Con tutte le sue contraddizioni, con i suoi problemi, con le tensioni
e i drammi sociali, Milano è espressione
di una realtà matura e moderna, di una
cultura che si rinnova perché uscita fuori
dai ghetti del privilegio per immergersi
nella realtà popolare”.*
Ho voluto ricordarlo soprattutto in
relazione alla sua esperienza milanese - anche se fu un uomo politico
nazionale (deputato dal 1976 al 1994
e ministro) - perché il suo percorso
politico cominciò a Milano, al fianco
di due grandi socialisti come Greppi e
Vigorelli.
Personaggi
8
La Crisi Greca
9
Presidente dei deportati, per anni è stato il tenace alfiere dei valori della democrazia e della libertà
ADDIO A GIANFRANCO MARIS, GIGANTE DELL'ANTIFASCISMO
di Claudio FANO
di Roberto CENATI
G
ianfranco Maris nasce a Milano
il 24 gennio 1921. Il 10 giugno del
1941, primo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia nel secondo conflitto mondiale, aveva ricevuto la nomina a
sottotenente ed era stato subito spedito in
Grecia. Dalla Grecia è spostato in Slovenia
e in Croazia dove lo coglie, l'8 settembre
1943, l'annuncio dell'armistizio. Riesce a
tornare in Italia e diventa così capo di una
delle prime bande partigiane che si sono
costituite in Val Brembana. Quando, nel
gennaio del 1944, riceve l'ordine di portarsi a Milano per poi, di lì, raggiungere la
Valtellina, Maris è arrestato, per delazione, alla stazione di Lecco. Comincia così la
drammatica trafila tra il carcere di Lecco,
le celle delle SS di Bergamo, quelle della
Guardia Nazionale Repubblicana, quelle
del carcere di Sant'Agata a Bergamo, quelle
del carcere di San Vittore. Da Milano Maris
il 27 aprile 1944 è avviato al campo di polizia e di transito di Fossoli.
Alla fine del luglio 1944 il trasporto verso il campo di Bolzano è il
preludio della deportazione, il 5
agosto, nel lager di Mauthausen,
e poi in quello di Gusen, dove
Gianfranco riuscirà a sopravvivere alle privazioni e alle violenze. Il 5 maggio 1945 sarà liberato dai soldati americani. Rientrato
in Italia a bordo di un'autolettiga di un comando militare italiano, Maris, superato il trauma, riprende gli
studi e si laurea in Legge. Eserciterà la professione a Milano, sempre in prima fila nella difesa dei valori della Resistenza, della Costituzione, dell'antifascismo e nel
ricordo del periodo tragico della deportazione e del nazifascismo. Senatore
comunista per diverse legislature, è stato membro del Consiglio Superiore della
Magistratura. Presidente nazionale dell'ANED, per anni Vicepresidente nazionale
dell'ANPI, attualmente componente della
Presidenza onoraria dell'ANPI Nazionale e
dell'ANPI Provinciale di Milano, Maris era
Presidente della Fondazione Memoria della
Deportazione.
Da Presidente nazionale dell'ANED
Maris ha sempre tenuto strettissimi rapporti di collaborazione con l'ANPI provinciale di Milano.
La deportazione a Mauthausen
“Dal campo di concentramento non esci
Riflessioni a margine della vicenda ellenica
più, ti resta dentro”, era solito affermare
Maris. Gianfranco ha saputo resistere con
grande forza a quella tragica esperienza e
nel suo libro autobiografico Per ogni pidocchio cinque bastonate, scrive:
“Dobbiamo reagire, reagire subito, per
quanto possibile, alle regole di un trattamento di fame e di umiliazione. Non
dobbiamo abbassarci, non dobbiamo naufragare nei nostri discorsi sui bei tempi
del pranzo di Natale o di compleanno, non
dobbiamo ricordare come stavamo bene
a casa, con la mamma o la moglie... No:
dobbiamo liberarci di tutto ciò e animare
i rapporti fra di noi non di ricordi ma di
speranze; non di lagnanze ma di ragioni per
continuare a lottare e per vivere.” Sempre
nel suo libro si legge: “ I tedeschi dicono
cosi: ≪Organisieren≫ (Organizzare). Ce lo
ripetono le SS in continuazione e ormai è
diventata un’espressione comune anche fra
noi deportati. Dobbiamo organizzarci, cioè
≪arrangiarci. Tutto si organizza: gli zoccoli,
la camicia, la giacca, i pantaloni, il pane.
Che cosa vuol dire organizzare gli zoccoli, la
camicia, la giacca, i pantaloni, il pane? Vuol
dire rubarli a un altro deportato. È la morale che gli aguzzini hanno imposto alle loro
vittime: siccome nel campo tutti ti rubano
qualcosa, ognuno di noi dovrebbe reagire
rubando. E nessuno si deve sentire colpevole
perchè ≪organisieren≫ è la legge del campo.
Tremo per aver pensato che io, proprio io
avrei potuto ≪organizzare.
E cosi avrebbero vinto loro, i criminali che
ci tengono qui dentro, perche io sarei diventato uno come tutti quelli che il campo ha
piegato a ≪organizzarsi≫. La mia dignità
sarebbe morta.”
Questo era Gianfranco Maris.
Il valore della Memoria
Il tema sul quale Gianfranco si è sempre battuto riguarda la Memoria. Nella
raccolta dei suoi interventi, Una sola
voce: scritti e discorsi contro l'oblio,
curata da Giovanna Massariello, recentemente scomparsa, viene riportato un
suo discorso tenuto a Milano davanti al
Monumento del Deportato politico il 4
maggio 2008. Maris osserva: “Ogni giorno
che passa aumenta, nel mio animo, il timore
di 'lasciare' senza avere avuto il tempo di
rendere tutta la mia testimonianza, per contribuire a consolidare una conoscenza indelebile di ciò che hanno veramente rappresentato in Europa, il fascismo e il nazismo
nel secolo degli stermini, con il loro disegno
di un “ordine nuovo”, basato sul razzismo
come ideologia e sulla violenza criminale
come sistema di governo”. “Ogni giorno che
passa – sottolinea Maris - mi conferma che
non abbiamo saputo ancora mettere la 'memoria dell'offesa' al riparo dall'assedio del
revisionismo e dell'oblio, che si rinnovano a
ogni stagione. Il giorno in cui gli
orrori non saranno più conosciuti,
se mai dovesse arrivare quel
giorno, vorrà dire che il mostro
non è stato vinto, che è pronto per
scrivere una nuova cronaca di
odio, di divisioni, di violenza, di
ingiustizia e di morte”
Per queste ragioni, nello
struggente messaggio rivolto ai
giovani, nell'incontro svoltosi a
Palazzo Reale in occasione del
Giorno della Memoria, il 27 gennaio scorso, Gianfranco Maris richiamava
i ragazzi e le ragazze ad un forte impegno
per la diffusione della memoria legata alla
storia, perchè “il ricordo della deportazione,
del genocidio degli ebrei, dell'assassinio dei
dissidenti, dei diversi, dei combattenti per
la libertà, dei partigiani, degli scioperanti,
in una paola degli oppositori al regime nazifascista, non sia rimosso. Soltanto nella
consapevolezza dei fatti storici nasce la memoria che ha un significato per il futuro dei
popoli. Ecco il valore della testimonianza,
che non deve restare soltanto patrimonio di
chi ha vissuto quei tempi, ma deve diventare
conoscenza di tutti, che vuol dire coscienza,
perchè le donne, gli uomini, i giovani d'oggi
possano veramente essere liberi ed operare
senza condizionamenti le scelte della vita”.
E concludeva il suo saluto, riprendendo il
solenne giuramento dei sopravvissuti al lager di Mauthausen, dopo la sua liberazione,
avvenuta il 5 maggio 1945, sollecitando
Quando queste note saranno stampate sull’Antifascista, la vicenda della Grecia, che non si è esaurita con il referendum e con
le misure poi adottate dal governo greco, avrà subìto altre evoluzioni. Non aggiungo quindi i miei commenti agli innumerevoli altri sull’argomento, perché non ne ho la competenza prima di
tutto, e perché sarebbero comunque privi di attualità.
Colgo però, un aspetto inquietante, il ruolo che ha e che sta
avendo tuttora in questa vicenda la Germania, incapace di tradurre in pratica gli insegnamenti della sua storia, anzi, capacissima di ripercorrerla, ripetendo testardamente gli errori del
suo passato, almeno quelli degli ultimi due secoli. Debbo obiettivamente premettere che nemmeno la Grecia, paese cicala, è
esente da responsabilità nei confronti dell’Europa, per aver disinvoltamente fornito dati non veri sui suoi bilanci e per non
aver fatto nulla per combattere la corruzione e rendere in generale più efficiente il Paese in termini di lotta all’evasione fiscale,
evoluzione realistica del suo sistema pensionistico e quant’altro
è stato abbondantemente illustrato sui mezzi di comunicazione. Proviamo a ripercorrere schematicamente la storia tedesca
dal 1850 in poi, per cogliervi un filone ininterrotto e coerente, un – mai parola fu più adatta – leitmotiv che si esplicitava
nella volontà di egemonizzare l’Europa, o quanto meno l’Europa continentale, vista come un contesto di popoli e territori
direttamente o indirettamente soggetti alla supremazia tedesca
– data per scontata e non contestabile - ma comunque retti da
consenzienti regimi autoritari, o comunque conservatori.
Il Cancelliere Bismarck indirizzò in questo senso tutta la politica del suo Paese nella seconda metà dell’Ottocento, in concorrenza ed in contrasto con la politica dell’Impero asburgico, non dissimile nelle ambizioni e non a caso altro Paese di
lingua tedesca.
La politica di Bismarck e di Francesco Giuseppe portò al massacro europeo della prima guerra mondiale, che fu marcato al suo
epilogo, dall’errore imperdonabile di Francia e Gran Bretagna
vincitori, che imposero agli sconfitti irrealistici risarcimenti. La
sconfitta del nazismo e della Germania fu gestita saggiamente
dagli Stati Uniti, che convinsero i loro Alleati Francia e Gran
Bretagna, benché riluttanti, a richiedere danni di guerra moderati e dilazionati, quasi subito abbattuti del 60%, nonché a
fornire aiuti diretti (per la ricostruzione della Germania). Gli
Stati Uniti non vollero ripetere gli errori del passato, non vollero umiliare la Germania sconfitta, divisa in due, e le diedero credito per una sua rinascita democratica. Egualmente generosa
fu la nuova Unione Europea nel favorire la riunificazione della
Germania, nell’accollarsi gli oneri economici della parificazione del marco est a quello ovest, nell’accettare il tasso di cambio
marco/Euro particolarmente favorevole ai tedeschi. Ma generosissima su di un altro aspetto fondamentale è stata la Grecia,
i giovani “a mantenere viva la memoria
delle finalità della lotta dei deportati e dei
Combattenti per la Libertà: la costruzione
di una società democratica, di uguali in cui
siano riconosciuti e diffusi i diritti fondamentali delle donne e degli uomini a tutti i
piccola nel contesto
UE, ma comunque
portatrice ed erede
di valori europei
fondamentali: non
solo non ha mai
levato la sua voce,
dal 1945 in poi,
contro le iniziative
UE a favore della
Germania appena
descritte, ma ha
accettato di rinunciare anche al risarcimento dei danni puramente materiali da lei subiti dalla Germania nazista nell’ ultimo
conflitto. La Grecia, anche perché l’ occupazione nazista è stata
più lunga, ha avuto, percentualmente rispetto alla popolazione
ed al territorio, multipli delle stragi e delle deportazioni avvenute in Italia.
Nessuno ha mai risarcito per questo la piccola Grecia.
La Germania di Angela Merkel e Schäuble – ma abbiamo visto come nella vicenda greca essi si muovano in sintonia con
una maggioranza ben più ampia di quella che li ha democraticamente eletti – è stata totalmente ingenerosa e dimentica
degli insegnamenti della sua stessa storia. Atteggiamento del
resto coerente con i valori espressi dal suo inno nazionale, mai
sconfessato, « Deutschland, Deutschland über alles » (anche se
detesto le parole di segno contrario dell’inno di Mameli «noi
siamo da secoli calpesti e derisi»).
La Germania di Angela Merkel e Schauble si è comportata e
mossa su un piano puramente ragionieristico nel gestire ed indirizzare il debito greco : con l’arroganza di chi ritiene di non
avere più alcuna responsabilità per le nefandezze del proprio
passato, ha umiliato e distrutto la Grecia, così come la Germania
sconfitta nel 1918, senza aver commesso alcunché lontanamente
paragonabile a quelli che sarebbero stati poi i crimini di guerra nazisti, era stata umiliata da Francia e Inghilterra. Angela
Merkel ha rifiutato di riflettere su quelle che erano state le dirette conseguenze degli errori della pace di Versailles, l’ascesa,
plebiscitariamente condivisa dal popolo tedesco, di Hitler. Ha
inteso solo perseguire lo scopo secondario, ma non meno importante, di far cadere il governo Tsipras, destinato ad essere
sostituito da un regime «più moderato».
Sarà perché il nazismo ha condizionato negativamente le mie
esperienze di bambino e non solo, ma sento un forte senso di
inquietudine per l’Italia e l’Europa, se l’arroganza della grande
Germania della Merkel dovesse evolversi in egemonia, relegando me, se già non lo sono, tra i cittadini europei di serie B, classificati come «cicale» e «non virtuosi».
livelli, in tutte le città ed in tutti i paesi del
mondo.”
Questo testo costituisce una sorta di testamento spirituale di Gianfranco Maris.
Sta a tutti noi dare continuità al suo instancabile impegno, per mantenere viva
la Memoria e per costruire una società
più giusta, come quella prefigurata dalla
Costituzione repubblicana nata dalla
Resistenza. È questo il miglior modo per
ricordarlo.
10
Strage di piazza della loggia
DOPPIO ERGASTOLO PER I FASCISTI
CONDANNATI CARLO MARIA MAGGI, IL CAPO DI ORDINE NUOVO NEL TRIVENETO,
E MAURIZIO TRAMONTE L’UOMO DEL SID
di Saverio FERRARI
Condanna all’ergastolo per Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi. Questa la sentenza della seconda
Corte d’assise d’appello di Milano. Poco dopo le 21 di mercoledì 22 luglio, Anna Conforti, presidente
della corte, dopo otto ore di camera di consiglio, ha letto il dispositivo finale, di fronte a un’aula
gremitissima di avvocati, famigliari delle vittime e rappresentanti del comune e della Camera del
lavoro di Brescia. Bisognerà ora attendere il deposito delle motivazioni.
L’esito di questo appello-bis era in verità atteso, dopo il rigetto da parte della Cassazione della
sentenza d’appello di Brescia accompagnato da rilievi assai critici sui «salti logici», «l’esasperata
segmentazione del quadro complessivo», «l’ipergarantismo distorsivo della logica e del senso comune»,
operati dai giudici precedenti, pur in presenza di un complesso indiziario definito di estrema «gravità»
nei confronti dei due imputati.
LA FOTO DI TRAMONTE IN PIAZZA
Il processo, apertosi lo scorso 26 maggio, non si è limitato
a riconsiderare le carte. La corte ha, infatti, ritenuto utile
valutare, rinnovando parzialmente il dibattimento, diversi
nuovi indizi emersi di recente. In particolare le nuove testimonianze di alcuni detenuti che avevano condiviso con
Maurizio Tramonte, tra il 2001 e il 2003, lo stesso carcere.
Due di questi, Vincenzo Arrigo e Renato Bettinazzi, hanno
riferito delle confidenze dello stesso Tramonte in ordine
alla sua presenza in Piazza della Loggia al momento dello
scoppio della bomba. Ad Arrigo, Tramonte mostrò anche
una foto che custodiva in cella, scattata nei momenti
immediatamente successivi alla strage, in cui si era riconosciuto confuso tra la folla. Una foto che il perito incaricato
dalla Procura di Brescia ha ritenuto «compatibile» con le
«caratterizzazioni morfologiche e metriche» di Maurizio
Tramonte. Una rassomiglianza a dire il vero impressionante
a occhio nudo comparando la foto in questione con quelle
sue personali di quegli anni.
Grazie alle nuove indagini è stata anche accertata la partecipazione di Tramonte, fatto di fondamentale rilevanza, «la
sera del 25 maggio», alla riunione di Ordine nuovo ad Abano
Terme. Riunione tenutasi, sotto la guida di Carlo Maria
Maggi, in preparazione della strage. Da qui la sua presenza
in Piazza della Loggia.
Va detto che probabilmente non era stato il solo di Ordine
nuovo a comparire su quella piazza con funzioni operative
o solo per assistere in diretta all’attentato. Nello stralcio di
indagini attualmente apertosi a Brescia a seguito di altre testimonianze si fa anche il nome di un altro ordinovista, all’epoca
minorenne, forse a sua volta ritratto in alcune istantanee.
LE CELLULE ARMATE
Il Sid coprì Tramonte e Maggi, pur sapendo dei loro progetti
criminali e nulla fece per impedire la strage. Un dato incontestabile sulla base delle informative che Tramonte, estremista
di destra ma anche informatore dei servizi con il nome in
codice di Tritone, inviava ai suoi superiori. Ordine nuovo
poté in questo modo attivare i propri depositi di armi ed
esplosivi, in primis quello occultato al ristorante Scalinetto
a Venezia, nella disponibilità di Maggi e Carlo Digilio, l’armiere dell’organizzazione, dove fu prelevata la gelignite con
cui fu confezionato l’ordigno di Brescia. In questo contesto,
grazie al lavoro dell’Ispettore capo del Servizio antiterrorismo di Roma, Michele Cacioppo, si è anche riusciti a provare
definitivamente l’esistenza della “santa barbara” di Paese,
in provincia di Treviso, posta in un casolare gestito da
Giovanni Ventura. Il nome di Ventura è di nuovo ricomparso
in questo processo. Nella sua agenda, sequestrata nel dicembre 1972 e mai visionata con attenzione, compariva il numero
di telefono di Carlo Digilio. Grazie alle ispezioni bancarie si
è oltretutto appurato come i due fossero legati da rapporti
economici. Si è così completato un quadro. Ordine nuovo nel
Veneto si articolava in più cellule armate, da quella di Venezia-Mestre, con Maggi, Carlo Digilio e Delfo Zorzi, a quella
di Padova, costituitasi attorno alle figure di Franco Freda e
di Giovanni Ventura. Una rete eversiva che operò in funzione
dello stragismo, da Piazza Fontana a Brescia.
UN PEZZO DI VERITÀ
Ora toccherà nuovamente alla Cassazione formulare il
giudizio definitivo, in attesa che i nuovi atti investigativi,
di cui abbiamo accennato, producano i loro effetti individuando altri responsabili. La storia giudiziaria di Piazza
della Loggia, che si è protratta per moltissimi anni,
quarantuno, si protrarrà dunque ancora. Parlare di giustizia potrebbe non avere più molto senso. Nei precedenti
processi si era comunque riconosciuta la colpevolezza di
altri esponenti di Ordine nuovo, da Carlo Digilio a Marcello
Soffiati, non più processabili perché defunti, ora quelle di
Maurizio Tramonte e di Carlo Maria Maggi, ormai ottantenne e malato. Non ci sarà il carcere per lui. Un pezzo
comunque di verità in più. Una sentenza storica dopo le
tante assoluzioni. Restano ancora sullo sfondo le responsabilità dello Stato e dei suoi apparati
Attualità
Sentenza beffa: slogan e saluti fascisti
per il giudice non c'è reato, tutti prosciolti
O
gni anno a Milano viene ricordato il
giovane Sergio Ramelli, morto
quarant'anni fa a seguito di una sanguinosa aggressione squadrista condannata
dalle Associazioni che si richiamano alla
Resistenza, dalle Organizzazioni Sindacali e dalle forze politiche.
Il pur legittimo ricordo di Ramelli si tramuta ogni anno
in una manifestazione di aperta apologia del fascismo, con
l’utilizzo e la magnificazione di simboli neonazisti e neofascisti che offendono Milano, Città Medaglia d'Oro della
Resistenza.
Per questa ragione l'ANPI Provinciale di Milano aveva
presentato, in data 17 marzo 2014, un esposto indirizzato
al Prefetto e al Questore di Milano in cui si chiedeva alle
pubbliche autorità di “porre preventivamente in essere ogni
più opportuna misura diretta ad evitare” di dover assistere
“a palesi espressioni di apologia del fascismo”.
Il Questore comunicò per iscritto agli organizzatori della
manifestazione del 29 aprile 2014 prescrizioni ben definite
(no a saluti romani, a croci celtiche, a simboli del passato
regime). Nonostante questi precisi divieti, Milano dovette
assistere alla ennesima parata nazifascista.
L'ANPI di Milano decise allora di presentare il 19 maggio
2014, denuncia alla Procura della Repubblica di Milano,
richiamando le Leggi Scelba e Mancino.
Sulla base della denuncia dell'ANPI, corredata da documentazione fotografica, il Pubblico Ministero Piero
Basilone chiese, il 16 dicembre 2014, il rinvio a giudizio di
dieci imputati per concorso in apologia del fascismo, individuando la persona offesa nello Stato e nell'ANPI. Nel
frattempo l'ANPI Nazionale si era costituita parte
civile. Nel corso della prima udienza preliminare
svoltasi il 24 febbraio 2015, due imputati fecero
richiesta del rito abbreviato e due ricorsero
al patteggiamento. Il Pubblico Ministero
Basilone chiese la condanna a tre mesi di
reclusione per le due persone che avevano
scelto di essere processate con rito abbreviato.
Ma è a questo punto che si è verificato il colpo di scena. Il 10 giugno 2015 il
gup (giudice per le udienze preliminari)
Donatella Banci Bonamici ha emesso la
sentenza con la quale ha prosciolto i dieci
imputati di estrema destra perché il fatto
non sussiste.
Il Pubblico Ministero Piero Basilone ha
impugnato la sentenza, sottoponendo il
caso alla Corte di Cassazione.
Il Giudice Donatella Banci Bonamici ha
assolto gli imputati ritenendo che le modalità di svolgimento della manifestazione del 29
aprile 2014 non abbiano creato concreti pericoli di
ricostituzione del partito fascista, dando però una
interpretazione restrittiva della legge Scelba.
Non si è infatti voluto tenere conto, fra l'altro, di una
sentenza della Corte Costituzionale nella quale si chiarisce che l'esigenza di impedire la ricostituzione del partito
fascista, contemplata nella legge Scelba, deve comprendere
le manifestazioni pubbliche idonee a provocare adesioni
e consensi, e concorrere così alla diffusione di concezioni
favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.
La sentenza è estremamente grave, sia per le motivazioni addotte, sia perchè gesti e simboli di chi manifestava
avevano una chiara connotazione fascista, debitamente
documentati anche dalla Digos.
La sentenza del gup si pone, inoltre, in aperto contrasto
con recenti pronunciamenti della Suprema Corte di Cassazione che hanno confermato sentenze di condanna per il
saluto romano in luogo pubblico. Il fatto risulta poi paradossale perché per gli stessi episodi accaduti il 29 aprile 2013,
un altro giudice della stessa Procura di Milano ha rinviato a
giudizio 16 neofascisti per concorso in apologia di fascismo.
Il processo riguardante i 16 neofascisti si svolgerà a Milano
nel mese di novembre.
Ma il fatto resta e l’assoluzione dei dieci neofascisti è
davvero inaccettabile, proprio per il netto contrasto con i
valori e i principi cui si ispira la Costituzione repubblicana
nata dalla Resistenza. (r.c.)
11
La Grande Guerra
12
La Grande Guerra
Sulle montagne del Tonale, a Pontedilegno, rivivono grandi e mai sopite passioni del patriottismo
Da Cazzullo a Giannini, mille passi nella neve
“Passi nella neve”, la manifestazione diretta da Vittorio Pedrali, è giunta quest'anno alla decima edizione. Da
sabato 18 luglio a domenica 23 agosto, incontri e letture
sui luoghi che furono teatri di battaglia, durante la
Guerra Bianca, ne hanno rievocato la memoria. Ai quattro spettacoli in alta quota (Aldo Cazzullo, Marco Baliani,
Stefano Pameri e Giancarlo Giannini) si sono aggiunte
quattro narrazioni in cammino con Roberto Mantovani,
Davide Sapienza e Franco Michieli. “Passi nella neve”,
si era prefissa lo scopo, come lo scorso anno, di commemorare il centenario della Grande Guerra nei luoghi
dove essa è stata combattuta. Un teatro d’altura e a cielo
aperto che coincide con quello che fu il teatro di guerra,
in modo che - come ha sottolineato il direttore artistico
Vittorio Pedrali - narrazione e rito laico della memoria
trovino il loro suggello di fronte a uno scenario naturale
di grande fascino ed emozione. Il primo ospite della rassegna è stato Aldo Cazzullo, editorialista ed inviato speciale
del Corriere della Sera, che domenica 26 luglio (ore 16.30)
alle Baite di Vescasa di Pontedilegno ha proposto alcune
pagine dei suoi due ultimi libri, “La guerra dei nostri
nonni” e “Possa il mio sangue servire”, ma anche testimonianze raccolte su Facebook, seguendo il fil rouge tra
primo conflitto mondiale e Resistenza. All’appuntamento
hanno partecipato il Coro Ana di Vallecamonica e l’attorelettore Luciano Bertoli. Sabato 1 agosto (ore 11) nel prato
della chiesa di San Clemente a Vezza d’0glio, il protagonista è stato Marco Baliani, alfiere del teatro racconto, che
L’intervista
La Resistenza è di tutto il popolo
italiano. Sulla montagna il sacro ha
ancora diritto al suo posto, perché la
montagna è da sempre custode di antichi valori, si tratti di sfide sportive in
verticale o di aspre guerre in altura;
come è capitato in passato. Perché i suoi
spazi hanno quella bellezza solenne, a
volte ascetica, che impone il rispetto
della vita e della morte, che è fatta di
ha dato voce a “La paura” (Adelphi) di Gabriel Chevallier, straordinaria testimonianza di un fante francese
sull’orrore della guerra di trincea, che il fascismo censurò
perché scomoda, nel senso che la paura è di per se stessa
disonorante. Il giorno successivo, alle ore 11, al Corno
d’Aola nei pressi del Rifugio Petit Pierre, Stefano Panzeri,
attore cresciuto con Laura Curino, ha interpretato “Terra
matta”, pièce tratta dall’omonimo libro di Vincenzo
Rabito, ex bracciante siciliano e ragazzo del ’99.
Evento clou quello di sabato 8 agosto, quando alle ore
8.30 del mattino alla conca della Baracca delle Fortificazioni di Costa di casa Madre, Giancarlo Giannini ha
letto una riduzione del “Taccuino di un nemico” di Dario
Malini in cui un soldato tedesco di religione ebraica registra la violenza del fronte ma anche gli squarci di vita che
sbocciano in mezzo all’abominio. In programma anche
quattro narrazioni in cammino, sorta di percorsi guidati
tra archeologie belliche e paesaggi ad alta quota: la prima
sabato 18 luglio con Roberto Montanari, storico dell’alpinismo, dal Passo del Tonale a Montozzo; la seconda
e la terza (10 e 12 agosto) curate dal giornalista e blogger Davide Sapienza, rispettivamente a Cima Rovaia e
a Punta del Castellaccio. Infine, il 23 agosto, il geografo
Franco Michieli ha accompagnato i partecipanti a visitare
le straordinarie architetture militari alle Bocchette di Val
Massa. Gli spettacoli erano gratuiti. La rassegna, illustrata alla sede della Fondazione Asm, è stata promossa
dai Comuni di Pontedilegno, Temù e Vezza d’0glio.
azioni e silenzi, che nutre la memoria,
anche quando è intrisa di dolore.
Aldo Cazzullo così commenta
l’evento: “Non è un caso che la montagna risalti anche sulla copertina di
La guerra dei nonni-. Le migliori
pagine delle nostre due guerre sono
state scritte in montagna. E’ un libro
cui sono molto affezionato. Il libro ha
avuto un considerevole successo editoriale (185 mila copie). Credo che noi
italiani siamo legati all’Ita1ia più di
quanto pensiamo e lo dimostriamo
soprattutto quando la storia nazionale
incrocia quella delle nostre famiglie.
Quella che racconto è la guerra con le
parole e gli occhi di chi l’ha combattuta, ma anche delle donne che a casa
hanno contribuito a mandare avanti
il Paese. Per entrambi i libri, attraverso Facebook ho raccolto molte
testimonianze e tutti mi chiedevano
di raccontare i loro nonni (nel caso
della Grande Guerra) e i padri (nel
caso della Resistenza). I nostri nonni
e padri, mi dicevano, non erano eroi,
ma brave persone che amavano l’Italia e non si riconoscerebbero nel Paese
che oggi è diventato. È stato questo a
colpirmi”.
In “Possa il mio sangue servire”
lei prende posizione, rifiutando quel revisionismo che
porta a mettere sullo stesso
piano etico entrambe le fazioni,
quelle dei partigiani e quella
dei ragazzi di Salò.
“Proprio così. Per quarant’anni la
resistenza è stata presentata come
una cosa solo “di sinistra”, che riguardava solo i comunisti, con i fazzoletti
rossi e cantando “Bella ciao”. Poi negli
ultimi dieci anni i partigiani sono stati
presentati come carnefici e i ragazzi
di Salò, espressione consolatoria assoluta come vittime. Con questo libro
ho voluto ribadire che non è andata
così. La Resistenza è stata fatta anche
da liberali, cattolici, monarchici, giellisti, preti e suore, ebrei, carabinieri
e militari. Dagli alpini che fondarono le prime bande partigiane, dalla
vittime di Cefalonia, dai 600 internati
che preferirono stare nei lager piuttosto che andare a combattere per la
repubblica di Salò. E tra questi ci sono
anche alcuni bresciani, che io ricordo,
come il capitano Giuseppe De Toni, il
colonnello Giuseppe Bettoni, Astolfo
Lunardi, padre Manziana e don Carlo
Comensoli. Senza dimenticare Teresio Olivelli, che non era bresciano, ma
operò in questo territorio.
Grande Guerra e Resistenza: due
contesti storici diversi, eppure
legati da un filo rosso. E così?
”Io ho voluto sottolineare che in due
epoche distinte della nostra storia sono
esistiti uomini e donne per cui l’Italia
era una cosa seria, un ideale che valeva
una vita e che costoro dimostrarono
una forza morale che tornerebbe molto
utile oggi. Le idee fondanti di entrambi
i miei libri sono queste: ogni generazione ha la sua guerra da combattere.
Cent’anni fa i nonni, settanta anni
fa i padri hanno vinto sulle montagne. La montagna come rifugio, come
luogo di valori semplici e essenziali,
simbolo di sacrificio e forza morale. Io
sono convinto che quella forza morale
non possa essere andata dispersa.
Deve essere ancora da qualche parte,
dentro di noi, e bisogna riaccenderla.
Troppi cattivi esempi sono stati dati e li stiamo ancora dando. La nuova guerra
che dobbiamo combattere è quella contro la sfiducia, la rassegnazione e l’indifferenza. I nostri ragazzi devono sapere della guerra dei nostri nonni e di quello che
è successo a Sant’Anna di Stazzema, a Boves, a Civitella Val di Chiana, Marzabotto, ad Acerra e a Gubbio; e cito solo alcune delle stragi nazifasciste. È colpa
nostra che non siamo riusciti a trasmettere passione civile. Che non siamo riusciti
a raccontar loro che gli italiani non sono sempre stati i furbetti dell’arte di arrangiarsi. La Resistenza è stata un fatto di popolo, con le sue pagine nere, ma con dei
valori su cui ci possiamo riconoscere”.
C’era dunque solo un posto in cui stare?
“Certo. C’è stata una parte giusta e una sbagliata. Chi ha combattuto contro i
nazisti ha fatto la scelta giusta, gli altri quella sbagliata, magari in buona fede e
pensando di servire davvero la patria”.
Quali pagine ha scelto?
“Quelle dei fratelli Calvi, per esempio, che conoscono in pochi. E ancora le lettere
degli alpini che conoscevano la loro sorte, il coraggio delle donne che hanno
difeso con fermezza un credo”. (g.m.)
13
Personaggi
Personaggi
14
Il saggio del professor Ingrassia sul colpo di Stato del 1945
Parri è stato un gigante ma la tesi del complotto
appare una forzatura
di Antonio DUVA
P
ubblicare
un
saggio
su
Ferruccio Parri nell’anno in
cui ricorre il 70° anniversario
della liberazione dell’Italia dall’oppressione del nazi-fascismo è un bel
modo per celebrare questa data memorabile e, insieme, per onorare la
memoria di uno dei protagonisti di
quella stagione.
Del secondo Risorgimento italiano,
infatti, Parri è, senza dubbio, una delle
personalità più eminenti .
Il messaggio che si coglie riflettendo sulla sua lunga vita - tutta spesa
restando fedele, da autentico patriota,
ad alti ideali - non è per nulla indebolito dalla prova del tempo. Risulta,
anzi, tuttora carico di straordinario
valore sul piano morale e civile prima
ancora che politico.
Averlo voluto riproporre all’Italia di
oggi – che è davanti a sfide decisive
per il suo futuro ed è alle prese con
un clima politico e sociale gravido
di incognite - rappresenta una scelta
meritoria compiuta dall’autore del
volume, il giovane storico siciliano
Michelangelo Ingrassia.
In questo saggio molte sono le pagine,
dense ed entusiaste, in cui si tratteggia
con ammirazione e rimpianto, la figura
di “Maurizio”: testimonianza di uno
sforzo di ricerca impegnato e generoso.
Ma le argomentazioni di Ingrassia non
appaiono sempre convincenti.
Desta perplessità, in primo luogo, la
circostanza che l’autore, per sostenere le sue tesi, faccia ricorso a fonti
di valore spesso diseguale. Capita
così che solide ricerche storiografiche o documenti ufficiali siano posti a
confronto con memorialistica di minor
rilievo o con interventi giornalistici di
qualità discutibile.
Questo limite, di metodo, pesa negativamente sulle conclusioni alle quali
perviene l’autore, che appaiono, in
definitiva, alquanto forzate. Sembra
quasi che esse siano influenzate più
da fattori legati al dibattito pubblico
attuale che non ai risultati dell’analisi
storica strettamente intesa.
La tesi centrale del libro di Ingrassia,
come si coglie già dal titolo stesso del
volume, è che la caduta del governo
Parri fu, in realtà, un colpo di stato e
che questa vicenda ha determinato una
sorta di lungo inverno della Repubblica i cui effetti negativi peserebbero
ancora oggi.
Affermazioni molto decise, che l’Autore propone al lettore dopo aver
premesso che il suo intento è di ricostruire l’evolversi di quella crisi del
novembre del 1945 badando :"più alla
storia delle idee che alla storia dei fatti”.
Scelta legittima quella di Ingrassia. A
patto, tuttavia, di non trascurare che la
linea di confine tra res facta e res ficta,
per quanto possa risultare, in certe
circostanze, mobile e magari incerta va
comunque, quando ci si impegni nella
formazione di un giudizio storico, ben
individuata; e da essa le conclusioni della
narrazione debbono scaturire come una
conseguenza logica e non come l’enunciazione di un ferreo paradigma.
Se si segue questo approccio è agevole
allora constatare che parlare di “colpo
di stato” a proposito della fine del
Governo Parri è – sulla base delle
testimonianze più attendibili e della
produzione storica disponibile –
quanto meno improprio.
Certo quella fu una vicenda amara; essa
segnò senza dubbio una battuta d’arresto grave nel processo di rinnovamento
del Paese che aveva da poco ritrovato
la sua libertà e stava faticosamente
avviando la ricostruzione dopo i lutti e
le macerie materiali e morali prodotti
dalla dittatura e dalla guerra.
Ma, per quanto dolorosa e preoccupante, non fu una vicenda che impedì
di assicurare all’Italia, poco tempo
dopo la sconfitta del nazifascismo, due
conquiste estremamente importanti e
destinate a durare nel tempo: l’avvento
della Repubblica e il varo della Costituzione che entrò in vigore il 1˚ gennaio
1948: esito del lavoro efficace di un’Assemblea rappresentativa pienamente
legittimata dal voto popolare.
Questo è un punto essenziale anche
per valutare, sotto il profilo storico, il
senso profondo delle scelte e la reale
dialettica delle forze in gioco in quei
mesi cruciali.
La caduta del governo Parri, come
ampiamente mette in luce, per riferirsi a testi recenti, il lavoro di Luca
Polese Remaggi (pubblicato nel 2004
e riedito nel 2013), costituisce un
“nodo della memoria” carico di suggestioni simboliche.
A distanza di tanto tempo da quell’avvenimento,
enfatizzare
ancora
l’immagine meramente recriminatoria di una “rivoluzione democratica
tradita” rischia peraltro di risolversi
in un approccio analitico inadeguato
:riduttivo, in definitiva, dello stesso
rilievo storico della figura di Parri
che – sia prima e sia dopo la breve
esperienza di capo del Governo –
ha mostrato forza morale, iniziativa
politica e qualità di pensiero tali da
assicurargli, con pieno merito, un
posto eminente nella storia dell’Italia moderna, paragonabile, come molti
autorevoli studiosi hanno fatto, a
quello occupato da Giuseppe Mazzini
nell’epopea risorgimentale.
Ma, in quella specifica vicenda,
l’azione di Parri non fu esente da
limiti e da errori che non possono
essere sottovalutati nell’ambito di un
esame scevro da pregiudizi.
Com’è noto la caduta del suo governo
– che era nato come soluzione di
compromesso fra due diverse ipotesi
in campo (la candidatura di Alcide
De Gasperi e quella di Pietro Nenni)
e da molti considerato transitorio – fu
causata dal concorso di vari fattori
specifici (tensioni legate alla vertenza
mezzadrile e ai provvedimenti sull’epurazione; incertezze in materia di
politica monetaria; esitazioni sui tempi
e sulle modalità del ripristino delle
procedure elettorali; cattivi rapporti
con le autorità alleate).
A pesare di più appare, tuttavia, un
altro elemento: le divergenze, in seno
alla coalizione di governo, sul ruolo da
attribuire ai Cln.
Parri era dell’idea che questi organismi andassero considerati con rilievo
nel processo di rifondazione dello
Stato post bellico.
“In virtù della guerra partigiana” –
aveva detto nel suo primo discorso
pronunciato a Roma da rappresentante del Cln dell’alta Italia – “si è
determinata una situazione profondamente diversa… e noi siamo venuti per
rappresentare al Governo la necessità
che la politica italiana si adegui alla
situazione nuova. E che esso si adegui
rapidamente”. Da presidente del Consiglio, quindi , non poteva che operare
per favorire il riconoscimento di un
ruolo semi-istituzionale dei Cnl.
Ma la sua impostazione era indebolita
da un’intima contraddizione: per un
verso nutriva la profonda convinzione
che l’Italia della Resistenza avrebbe
dovuto marcare la nuova stagione; per
l’altro riteneva la Resistenza :“un fatto
minoritario sia geograficamente sia
socialmente”.
Una visione dunque molto distante da
quella di chi, come Benedetto Croce e
Alcide De Gasperi, era convinto che il
rinnovamento delle strutture giuridiche e amministrative dell’Italia rinata
dopo la tragedia della guerra dovesse
essere perseguito in una logica di
continuità con gli ordinamenti dello
Stato prefascista.
È questo che, di fatto, avvenne, nel
contesto che sarebbe stato poi profondamente modificato dalla nuova Carta
costituzionale.
Ma non si trattò di una scelta regressiva: questa continuità – come misero
bene in luce, fra gli altri, gli studi di
Carlo Ghisalberti – risultò infatti
fondata sulla visione della Resistenza
come di un secondo Risorgimento
grazie al quale le garanzie e le libertà,
che lo Statuto monarchico aveva
introdotto a favore di ristrette élites,
dovevano risultare finalmente estese
alla generalità dei cittadini.
Arduo, perciò, sostenere che nel
novembre del 1945 sia stato consumato
un “colpo di stato”.
Va detto che il primo a fare ricorso a
questa infelice espressione fu proprio
Parri. Ma la sua fu una reazione “a
caldo”, giustificata dall’amarezza nel
vedersi abbandonato anche da forze
– come la sinistra dello schieramento
politico – sul cui sostegno credeva di
poter contare.
Diverso è, o dovrebbe essere, l’approccio di quanti studiano quelle vicende a
distanza di tempo.
A colpire Ingrassia è la descrizione di
Carlo Levi che, nel suo “L’orologio”,
rievoca la drammatica conferenza
stampa convocata da Parri al Viminale durante la quale egli denunciò
le manovre ai danni del suo governo
parlando, appunto, di “colpo di stato”.
L’artista torinese – che con Maurizio aveva un legame profondo
– lo descrive, con trasporto affettivo,
vittima delle mali arti di un “vecchio
e navigato serpente”, nel quale è facile
riconoscere la figura di De Gasperi.
Ma quella di Levi non può essere considerata un’opera storica e, meno ancora,
una fonte; è la sua intuizione artistica
che gli permette, infatti, di cogliere
l’essenza, amara e profonda, della crisi
di novembre, ma è anche quella che lo
portò a trasfonderla , per riprendere
il giudizio dello stesso Parri , in “una
crudele e deformante pittura”.
Del resto se Parri avesse davvero considerato De Gasperi “un serpente” non
avrebbe certo ripetutamente espresso
fiducia, dai banchi del Senato, verso i
governi guidati dallo statista trentino.
Quanto alla Resistenza e ai primi passi
del rinato Stato italiano, restano illuminanti i concetti che Parri volle
esprimere molto più tardi, nel marzo
del 1974, in vista del trentennale della
Liberazione.
La lotta militare e politica per cogliere
questo obiettivo fu, sostiene, “un miracolo nella storia del nostro paese”.
“Ma sarebbe stato – continua l’ormai
vecchio capo partigiano – un miracolo impossibile poter organizzare una
preparazione adeguata alla conversione e al governo di una società così
diversa e lontana. Forse non ho io
abbastanza apprezzato che è stato un
mezzo miracolo essere usciti abbastanza rapidamente dalla tempesta
senza disastrosi sconquassi nazionali”.
Parri, con parole di grande onestà
intellettuale, aggiunge: “Questo naturalmente non mi esonera, per quanto
mi riguarda personalmente, dal
riconoscere delusioni, errori di valutazione, arrendevolezze che io stesso mi
rimprovero”.
E sulla crisi del ’45 afferma: “Con
la caduta del governo Parri finisce il
primo tempo della “unità della Resistenza”. Ma la spinta della liberazione
ha ancora forza sufficiente per arrivare alla Costituente. Non abbiamo
capito allora, e capiamo solo adesso
guardandoci indietro e guardando
l’Italia di oggi, quale valore provvidenziale e forza permanente abbia
avuto e conservi la Costituzione come
difesa, come punto di riferimento di
un sistema politico e civile fondato sui
diritti di libertà”.
15
Un giudizio lucido e puntuale che fa
tornare alla mente di chi scrive un
colloquio che Parri concesse a lui e ad
altri coetanei nei primi anni Sessanta.
Si trattava di un gruppo di giovani che
aveva dato vita a una associazione intitolata alla “nuova Resistenza”. Si pensò
di illustrare l’iniziativa a Parri che,
sempre assai generoso con i giovani,
volle ricevere il gruppo dei promotori a
Palazzo Madama.
Si venne naturalmente a parlare dei
fatti di Genova e delle preoccupazioni
suscitate dalla vicenda Tambroni.
“Siamo stati vicini a un colpo di stato”,
dissero in molti. E chi scrive, incautamente, aggiunse :“Come quello del ‘45”.
“No”, replicò subito Maurizio. “Sono
state vicende molto diverse e, fra le
due, quella del Sessanta è stata , senza
dubbio, assai più pericolosa”.
Michelangelo
Ingrassia.
“Il
colpo di stato del 1945”. Edizioni
PEOPLE&HUMANITIES, Palermo,
maggio 2015, pagg. 179, Euro 15,00
Italia smemorata
16
Italia smemorata
17
LA PARTIGIANA FRANCESCA LAURA
Si può immaginare una vita sulle spalle dei giganti? Sicuramente in un’altra Italia non fascista,
dove la nobiltà si conquista con l’ardore e il coraggio. Un unico obiettivo senza condizioni e senza
compromessi.
di Filippo SENATORE
Francesca Laura Wronowski,
mi parli dei suoi antenati
Gente anticonformista i miei. Il nonno paterno Napoleone, nobile polacco,
aveva partecipato con i suoi contadini ai
moti del 1863. Fu mandato in Siberia e
scappò dalla prigione a cavallo. Percorse
come un condottiero solitario la sterminata steppa e giunse dopo mesi a
Varsavia. Il fratello aveva già indossato
la divisa del nemico e il nonno, dopo
una furibonda lite familiare, abbandonò le ricchezze della famiglia. Divenne
un rinomato medico a Vienna e poi pari
del Pascià turco. Quando si accorse
di essere ammalato si ritirò nella sua
Polonia, persuadendo la moglie, la genovese Clotilde Berio, a stabilirsi con
i figli a Pisa, luogo simbolico dove era
spirato Giuseppe Mazzini, fondatore
della “Giovine Italia” e della “Giovine
Europa”.
Mio padre Casimiro, nato in Dalmazia,
si era laureato in Legge a Pisa, e svolgeva prevalentemente l’attività di giornalista. Mia madre, Nella Titta, la conobbe sui banchi di scuola e si sposarono.
Casimiro fu “scoperto” dal Direttore del
“Corriere della Sera” Luigi Albertini, e
assunto nel 1909. Casimiro si stabilì a
Milano, in via San Giovanni sul Muro,
con la moglie e figliolanza a venire. Una
donna straordinaria e forte Nella: è stata un
punto di riferimento per la mia famiglia. In
casa aveva aperto un atelier con sei lavoranti
e una tagliatrice: comprava tessuti pregiati
e li cuciva per l’aristocrazia meneghina. Il
babbo guadagnava all’epoca 100 lire al mese,
e poteva permettersi una modesta servitù:
cuoca, governante e tata.
Nel 1910 Albertini aveva promosso
Wronowski Capo Servizio e Responsabile
della Biblioteca e del nuovo Centro
Documentazione nella sede di Via Solferino
28. Oggi la biblioteca, arricchita di volumi
e ritagli, è ancora quasi intatta (sebbene sia
stata traslocata da poco tempo, dopo 105
anni, a Crescenzago).
Munito di un formidabile strumento di conoscenza in pochi anni il “Corriere” diventò
il maggior quotidiano dell’Italia giolittiana.
Una carriera fulminea quella del babbo: persona colta ed erudita, raccolse libri, ritagli,
foto, enciclopedie e documenti essenziali
al giornale, modellando l’archivio su quello
del “Times” di Londra.
Mi parli degli altri familiari
Il nonno materno era un artigiano, Oreste
Titta. Una delle sorelle di mia madre, Fosca,
cantante lirica, sposò Emerico Steiner, che
a Milano impiantò una piccola fabbrica di
pneumatici e successivamente divenne
Amministratore Delegato della fabbrica che
produceva Atala (l’auto
del principe Borghese
che, con Luigi Barzini,
conquistò il trofeo del
raid Pechino - Parigi
del 1906). I loro figli
erano Albe e Mino, entrambi futuri partigiani.
Mino morì nel campo
di sterminio di Ebensee,
mentre Albe nel dopoguerra fu un caposcuola
della grafica editoriale
italiana. Il fratello di
mamma, Ruffo, era già
un affermato baritono
che cantava con Enrico
Caruso e le migliori
compagnie del mondo.
La bellissima sorella
di mia madre, Velia, sposò un giovane avvocato ed esponente politico del
Polesine, Giacomo Matteotti. Matteotti
in pochi anni divenne un politico di rilievo nazionale nel partito socialista
e poi avversario inflessibile del fascismo. Dopo l’omicidio del giugno 1924
ad opera dei fascisti, il “Corriere della
Sera”, con in testa i fratelli Albertini,
condusse una fiera campagna stampa
contro Mussolini, nonostante le minacce prefettizie e i roghi delle edicole.
L’estromissione dei fratelli Albertini dal
giornale determinò Casimiro a rassegnare le dimissioni dal giornale. Lo zio
Titta Ruffo, antifascista, smise di cantare in Italia.
Quali conseguenze
per la sua famiglia?
Io avevo poco meno di un anno, ma la
mamma mi raccontò il travaglio del licenziamento. La conseguenza fu la miseria e la perdita dello status sociale, ma
l’onore fu salvo. La mamma rinunciò
all’atelier ed alla casa di Milano, e fummo costretti a traslocare a Finale Ligure
con la scusa della salute cagionevole
mia e di mio fratello Pierlorenzo. Papà
Casimiro, rimasto a Milano nella casa
della madre e della sorella Mercedes,
cercò lavoro con il risultato di compensi
saltuari e modesti, comunque utili come
sostegno per la famiglia. Angelo Rizzoli
senior lo fece lavorare per la rivista
“Cinema Illustrazione”, con compensi
irrisori. Inoltre dirigeva il periodico di
un noto caseificio milanese.
Cosa ricorda di Finale?
Scoprii la bellezza degli spazi infiniti,
il mare e il nuoto. Scoprii i romanzi
francesi e russi che mi inviava il babbo
da Milano. Diventai amica del bagnino
Memore, eleggendolo ad eroe e protagonista delle mie storie fantastiche di
bambina. Sulle sue spalle vidi l’acqua
azzurra prima di un tuffo. Immaginai
di essere sulle spalle dei giganti, dello
zio Giacomo, o sul destriero del nonno
Napoleone che attraversava gli sconfinati orizzonti della steppa.
Dopo che avvenne?
In seguito alle sanzioni internazionali,
imposte all’Italia per la guerra d’Africa,
ci trasferimmo a Bordighera. C’erano
tante case sfitte abbandonate dai turisti
inglesi e costavano poco. Poi un altro
trasloco a Lavagna. Dopo la morte di zia
Velia, papà venne nominato tutore dei
figli di Matteotti. Prendemmo una casa
più grande a Chiavari per accogliere i
cugini Giancarlo, Gianmatteo e Isabella.
A 19 anni salii in montagna in sella ad
una bicicletta. La meta era Ferrada, in
val Fontanabuona. Avevo le scarpe di
città e non immaginavo che una gita si
traducesse in un lungo soggiorno di quasi due anni.
in clandestinità aveva contatti a Genova e
promise di informarsi. Poi mi guardò negli
occhi, chiedendomi di impegnarmi. Io non
dissi di no: la mia paura era tenuta a bada
dall’orgoglio della famiglia antifascista e
dall’amore sbocciato da pochi mesi. Avevo
19 anni. Due anni prima ci eravamo conosciuti casualmente con Sergio Kasman, di
quattro anni più vecchio di me. La mamma
seppe subito dei miei sentimenti. Si faceva
l’amore con gli sguardi. Non era permessa
l’intimità. Parenti onnipresenti e qualche
bacio innocente rubato nella penombra.
Come maturò questa scelta?
Qualche giorno prima, dal terrazzo di
casa mia a Chiavari – era l’8 settembre
1943 – avevo visto un soldato tedesco
che presidiava la piazza Roma con una
mitragliatrice pesante. Ero corsa in casa,
scoppiai a piangere e abbracciai la mia
mamma. - Il peggio deve ancora venire mi sussurrò. Di mio fratello Pierlorenzo,
soldato arruolato nella caserma di
Bolzaneto, da giorni non si sapeva nulla. Mia madre aveva chiesto notizie ad
un amico del Partito d’Azione. L’uomo
Poi che accadde?
Sergio partì in guerra e ci eravamo promessi
reciproco amore. Avevamo tante affinità, nella vita e in letteratura. Una rarità. Sergente,
poi Allievo Ufficiale di Artiglieria, era a
Roma, a Porta San Paolo, al momento dell'armistizio. Aderì alla Resistenza, con il nome
di battaglia di "Marco", nelle file dei Servizi
speciali diretti da Nino Baccigaluppi, uno dei
capi del Servizio informazioni di “Giustizia e
Libertà”. Non ebbi notizie di lui per mesi e,
alla fine della guerra, seppi della sua tragica
fine. Nel marzo 1944, a soli 24 anni, venne no-
minato, su indicazione di Ferruccio Parri,
Capo di Stato Maggiore del Comando
Piazza di Milano delle Squadre di Azione
Patriottica, nelle file di “Giustizia e
Libertà”. Arrestato due volte, riuscì a
scappare (la prima sbattendo la sua cartella in faccia al fascista che lo tratteneva). Grazie ad informazioni estorte con
la violenza a Giuseppe Piantoni, ex capo
del GAP del settore milanese di Porta
Venezia, appartenenti alla Repubblica
Sociale Italiana poterono tendere un'imboscata a Sergio Kasman, che fu ucciso in
Piazza Lavater a Milano, poco distante da
Porta Venezia. Il "Comandante Marco" fu
decorato con la Medaglia d’oro al Valor
Militare alla memoria.
Come era lei all’epoca?
Io ero una ragazza taciturna che ascoltava molto. Poi giunse l’ora della consapevolezza. Quel pianto liberatorio dell’8
settembre la trasformò in protagonista
di una storia drammatica. Con il suo spirito intransigente creò la sua resistenza
che dura, in senso metaforico, ancora
oggi. La mia prima azione fu di conse-
Italia smemorata
18
Europa smemorata
Auschwitz: docce contro l’afa ma ricordano le camere a gas
Il caso del memoriale italiano realizzato da Belgioioso e Levi nelle baracche del lager,
chiuso al pubblico e a rischio di trasferimento a Fossoli
gnare al partigiano Paolino una mezza
banconota da 2 lire. Paolino aveva l’altra
metà, in segno di riconoscimento. Salii
per una mulattiera e, aiutata da pochi
contadini, organizzai da sola la logistica
di un rifugio, creando le premesse per
la formazione di un Distaccamento del
Partito di Azione. In un luogo strategico,
perché il territorio di Carasco è situato
nella bassa val Fontanabuona, nell'immediato entroterra di Chiavari, anche
se il suo territorio comunale è posto
alla confluenza di altre due valli: la valle
Sturla e la val Graveglia. Un collegamento da presidiare militarmente.
La prima sera mangiai con i contadini,
e con l’unico mestolo comune, una brodaglia affumicata in uno stanzino dove
si batteva la testa. Dormii in una stanza
infestata di topi con una coperta piena
di buchi. Da sola, affrontando disagi
e difficoltà, in pochi giorni trasformai
dei luoghi impervi in covi sicuri di accoglienza. Arrivarono i primi clandestini per costituire il nucleo iniziale del
Distaccamento. Con i miei compagni il
rapporto fu di estrema cordialità e solidarietà.
Laura, ha partecipato alla lotta
armata?
Ricordo ancora le imboscate ai nazifascisti. Bisognava aggredire l’ultimo mezzo del convoglio tedesco con l’audacia di
pochi, malvestiti e male armati. I partigiani prima di tutto patirono il freddo,
la fame e l’atroce dolore delle piaghe
ai piedi non rimarginabili con facilità,
essendo sguarniti di scarpe adatte. Una
risorsa importante furono le castagne
secche: le prendevo dalla posteria con
il consenso del proprietario. Occorreva
tenerle in bocca per evitare problemi
odontoiatrici. Un magro nutrimento che
però faceva passare la fame. Così passarono due inverni. Infatti i lanci aerei
degli Alleati non sempre ebbero buon
esito e ci fornirono merce utile. La carta
igienica serviva poco, eppure fu il primo
lancio, tra la frustrazione di tutti. Poi finalmente arrivarono le scarpe da montagna e il sollievo.
Quale fu la vostra prima azione di
guerra?
Fu la liberazione del campo di concentramento dei tedeschi a Calvari. Un episodio
non cruento: le due guardie italiane erano
d'accordo con noi, bisognava quindi aspettare quando loro erano di turno, ore e ore
nascosta sotto un cespuglio, fradicia per la
pioggia e affamata. Ma una trentina di ebrei
ritrovarono la libertà. Un colpo senza spargimento di sangue. Il primo combattimento
vero risale al 1944. È la famosa battaglia di
Barbagelata: noi azionisti insieme ai garibaldini, e bene armati, anche se non come
i tedeschi. Un paio di morti per parte, ma
vincemmo noi.
Ha mai ucciso?
Credo di sì. Tiravo mitragliate con gli “Sten”
che gli inglesi ci paracadutavano, penso che
qualcuno sia stato colpito.
Intanto i suoi familiari dove erano?
Il babbo era tornato in Liguria da Milano.
Da Chiavari organizzai lo sfollamento dei
miei genitori e di altri familiari, compresa la
figlia di Matteotti Isabella. Alloggiavano in
una piccola casa senza servizi, affittata dai
coniugi Agostino e Caterina Musante. Dopo
un rastrellamento i nazifascisti, a seguito di
una delazione, irruppero nell’abitazione. La
mamma non venne arrestata perché affetta
da una flebite, ma i fascisti distrussero quei
pochi beni che avevamo nascosto in casa,
fra cui un servizio di piatti di Rosenthal, e
rubarono il resto, comprese le medagliette
da Deputato di Matteotti. Il babbo fu arrestato e portato alla “Casa dello Studente”:
si salvò grazie alla mediazione di Ferruccio
Parri, che lo fece liberare a Genova con uno
scambio di prigionieri pochi giorni prima
della Liberazione.
Il 25 aprile del 1945 cosa avvenne?
Niente di eroico. Scesi a Genova senza
armi, e finalmente indossai i calzettoni
bianchi salvati dal saccheggio della mia
casa. Avevo deciso che li avrei messi soltanto quando l'Italia sarebbe stata liberata.
Poi un incarico dalla mamma Nella: tornare a Chiavari con mio fratello e pagare i
debiti a coloro che avevano aiutato i miei
genitori ed i figli di Matteotti.
Francesca Laura mostra vecchie foto
degli affetti perduti.
La fame del Dopoguerra si sentì tutta.
Tornati a Milano, mio padre non venne
reintegrato al “Corriere”: troppo scomodo il peso del cognato di Matteotti.
Una sua direzione del giornale non
era gradita ai fratelli Crespi. Divenne
segretario del rinato sindacato dei
giornalisti la cosiddetta “Lombarda”.
Io trovai lavoro al “Sole” il quotidiano di Mario Bersellini, a 15 mila lire al
mese. Il figlio Guido, antifascista, era
Capo Redattore della testata. Per mesi
mantenni la mia famiglia, raccolta in
un minuscolo appartamento. Il “Sole”
fu ceduto alla Confindustria, che lo
unificò con il “24 Ore”. Cambiarono la
redazione e il Direttore. Arrivarono ex
fascisti a modificare la linea editoriale e nel frattempo mi ero sposata con
Massimo Fabbri. Quando nacque mio
figlio Maurizio, che scelsi di chiamare
così per ricordare il nome di battaglia
di Ferruccio Parri, lasciai il mio lavoro
di giornalista.
Tra alti e bassi siamo qui in una casa
milanese colma di libri a ricordare
un’esistenza unica piena di ricordi indelebili.
Quest’anno, il 10 giugno, la Presidente
della Camera Laura Boldrini mi ha invitato per la commemorazione dello
zio Giacomo nell’anniversario del suo
assassinio. È stato molto commovente
per me sedere brevemente sullo scanno
che fu occupato dal Martire. Ma è stato
anche positivo vedere commemorata
con grande partecipazione la figura di
Matteotti dagli esponenti di quasi tutti i gruppi parlamentari. Tenere viva
la memoria storica di quei drammatici
eventi, lontani nel tempo ma sempre
ricchi di insegnamenti per il nostro
presente, è di fondamentale importanza. Spesso vado nelle scuole a parlare
ai giovani, a dire loro che l’ignavia e la
smemoratezza sono il più grave pericolo per la nostra democrazia.
L
a cronaca ci “regala” un
episodio controverso che ha
suscitato scandalo e curiosità.
Per difendersi dall’afa la direzione del
museo di Auschwitz ha autorizzato
l’uso di docce rinfrescanti. Soltanto
che l’effetto per molti visitatori non è
stato gradevole. Ci dicono i resoconti
sui giornali che faceva caldo ad
Auschwitz con la temperatura che
superava i 36 gradi. Si parla spesso dei
rigori dell’inverno polacco, ma l’afa, in
quella landa desolata della Slesia, dove
morirono oltre un milione di persone
soffocate nelle camera a gas, può risultare ancora meno sopportabile del
freddo, scrivevano i cronisti. E allora
la direzione del Museo, che ospita ciò
che resta del lager nazista assurto al
simbolo della Shoah, ha pensato di
mettere davanti all'ingresso una serie
di docce, nebulizzatori d’acqua, per
dare refrigerio alla massa di turisti.
Molti, specie tra gli ebrei israeliani,
sono rimasti scandalizzati. E infatti, le
docce, ad Auschwitz, inevitabilmente
si associano alle camere a gas. La
discussione è in corso e probabilmente, come tutte le contese che riguardano
questo posto disgraziato e maledetto, dureranno a lungo e comunque faranno
parte della storia della costruzione di Auschwitz come luogo per eccellenza della
memoria, annota il giornalista Wlodek Goldkorn. Intanto il direttore del Museo,
Piotr Cywinski, intellettuale cattolico sofisticato, formatosi nelle migliori scuole
svizzere e francesi, in un forum chiuso su Facebook ha detto cha ha agito
secondo le regole del buon senso. Ogni giorno, in questo periodo di afa eccezionale si verificavano tre o quattro casi di svenimenti e malori. E allora, meglio un
muro d'acqua. Ha torto Cywinski? Qui torniamo alla natura del museo. Partendo
da un numero: i visitatori sono quasi un milione e mezzo l’anno, poco meno di
coloro che nello stesso arco di tempo mettono piede agli Uffizi. Ecco, Auschwitz,
oggi è una costruzione culturale assai ambigua e ambivalente. Da un lato, è un
luogo dove ogni anno i potenti della terra si radunano per dire: “mai più”, tra
eccezionali misure di sicurezza e dove gite scolastiche vengono portate dall’intera Europa per far vedere ai ragazzi gli orrori del nazismo, ma è anche tappa
obbligatoria di qualunque turista che viene a visitare gli splendori di Cracovia:
tra Palazzo reale e La dama con l’ermellino di Leonardo. I turisti cercano e
pensano di toccare con mano l’autenticità dell’orrore, o per parafrasare
Benjamin, l’aura dell'indicibile. Ma quello che vedono - le cataste di occhiali, di
giocattoli, di pennelli da barba e di capelli di donna – è una costruzione artistica
(forse non di eccelso gusto), creata nel 1955. Dall’altro lato però Auschwitz è
anche e forse prima di tutto un enorme cimitero. Lo è sicuramente nella sua
parte più dura e forse meno visitata, a Birkenau, dove dai treni si andava direttamente nelle camere a gas. E allora, ad Auschwitz si viene per piangere i morti
camminando sulle loro ceneri o per visitare il museo dell'orrore? È dalla risposta
che si vuol dare a questa domanda che dipende il giudizio sulle docce ad uso dei
turisti, osserva ancora Goldkorn. O forse ha ragione Halina Birenbaum, scrittrice polacca-israeliana e reduce del Lager. Ha annotato su Facebook, queste
parole: “Non dimentico Auschwitz, ma vivo oggi, e non sono più prigioniera”.
Quello che è successo ad Auschwitz
non è un caso isolato dei luoghi della
memoria “violentati” per facilitare la
vita ai visitatori. Qui il buon senso
non c’entra: se si va in un posto di
dolore, bisogna anche fare qualche
piccolo sacrificio personale, altrimenti
non è una testimonianza di memoria
ma una semplice gita turistica.
A proposito di Auschwitz, si sta
aprendo un problema che riguarda
anche il nostro Paese: il memoriale italiano realizzato in alcune
baracche nel lager di Auschwitz da
Lodovico Belgioioso insieme a Primo
Levi, Luigi Nono, Nelo Risi e Pupino
Simonà rischia di essere smontato.
Da tempo è inibito ai visitatori e c’è
chi continua a prospettare un’altra
soluzione e cioè trasferire il materiale del memoriale a Fossoli. I rilievi
a questo progetto non mancano. Gli
esperti sostengono che difficoltà e
costi dell’operazione rendono praticamente sconsigliabile il rimpatrio
del memoriale italiano. Ma certo una
scelta l’Italia dovrà farla, non si può
tenere chiuso un luogo di memoria
così importante. (f.s.)
19
20
Memoria
Fanatismo
LA FIGLIA DEL SOLDATO NAZISTA
RITROVA LA MADRE DOPO 70 ANNI
Il nazista è corresponsabile di 300 mila omicidi. Spogliava gli ebrei di tutti i loro averi
GRÖNING, SONO COLPEVOLE MA NON MI PENTO
Nacque nel 1945 e fu subito allontanata dopo il parto.
Ora finalmente ha abbracciato la sua mamma a Reggio Emilia
U
na bella e commovente storia
è stata ricostruita e raccontata da “Repubblica” con un
articolo a firma di Jenner Meletti.
Si tratta di una vicenda che coinvolge
un soldato nazista e una nostra connazionale con un epilogo sorprendente:
la figlia nata da questa relazione è
riuscita a trovare sua madre in Italia, a
Novella in provincia di Reggio Emilia,
dopo 70 anni. Ecco la storia. ”Aprile
1945, i partigiani in piazza, tedeschi in
fuga che annegano attraversando il Po,
- scrive Meletti.. - Ragazze che erano
state alle feste dei tedeschi rasate a zero
e insultate. In quei giorni una donna - la
chiameremo Olga - torna dalla
Germania dove era andata volontaria
con un segreto pesante: ha amato un
soldato tedesco, ha avuto una figlia che le è stata portata via una settimana dopo la
nascita, il 25 ottobre 1944 a Heidelberg. Sabato 8 luglio 2015. Margot Bachmann, la
figlia di Olga, si presenta in una casa di Novellara, assieme a un figlio e un nipote.
-Mamma, sono qui, finalmente. Solo un anno fa ho saputo che eri ancora viva. Ti ho
cercato tanto. Io ho sempre pensato che tu fossi morta-”. Abbracci, parole scambiate tramite interpreti. Solo Olga, 92 anni, non piange e il nipote tedesco quasi
la sgrida. "Nonna, io piango e tu riesci a tenere gli occhi asciutti”. “Vedi, io piango
da settant’anni. E sempre di nascosto”. Questa sembra una storia a lieto fine ma è
un salto nel passato che ricorda giorni di disperazione. L'incontro è stato reso
possibile dal Tracing Service (Its), centro tedesco di documentazione, informazione e ricerca sulla persecuzione nazista e dal Restoring Family Link della
Croce rossa italiana. Ma solo ora la figlia Margot ha deciso di raccontare a tutti
l'incontro con la madre. L'anziana donna, invece, ha pregato tutti di non fare il
suo nome. Ha il terrore di tornare a quei giorni, quando le ragazze e le donne che
avevano collaborato con i nazisti e i fascisti venivano “punite" con forbici e
schiaffi. ”Rispetto il silenzio di questa madre”, dice Elena Carletti, 40 anni,
sindaca di Novellara. “Qui nessuno ha dimenticato. Anche la mia generazione,
conosce i nomi di chi, durante la guerra, stava da una parte o dall'altra”. Saputo
dell'incontro, in paese c'è stato un po’ di fermento, con la caccia al nome. Ma
subito si è capito che il silenzio è la cosa più importante, per meditare su storie
che hanno ancora un peso molto grande in tante famiglie”.
La lettera della figlia Margot viene spedita a Novellara il 17 luglio di
quest’anno. "Per tutta la vita ho chiesto di te alla mia famiglia senza ottenere
alcuna risposta… Per poterti riabbracciare vorrei venirti a trovare. Sono immensamente felice di poterti finalmente conoscere”. “Margot ha iniziato a cercare la
mamma - racconta Laura Bastianetto, portavoce della Croce rossa italiana - un
anno fa, quando è morto quel padre che l'aveva adottata - era già sposato con figli
- e le aveva sempre negato notizie sulla vera madre. L'incontro è stato commovente. Un paio d'ore sabato pomeriggio, un altro incontro domenica mattina.
Un bicchiere di spumante e poi l'impegno di Margot a tornare. La madre aveva
conosciuto il militare tedesco in Italia e per lui è andata a lavorare in una
fabbrica tedesca. La storia è un ‘ confusa, ma sembra che il soldato tedesco sia
tornato a Novellara anche dopo la guerra, pensando che tutto fosse finito. Ci
sarebbe stato anche un incontro. “Un
giorno - ha raccontato l'anziana donna
alla figlia - uno del paese mi ha detto
che i partigiani avevano ucciso il mio
moroso. Per questo non l'ho più cercato.
Credevo che anche la bambina fosse
morta di malattia o sotto i bombardamenti alleati”. In piazza dell'Unità
d'Italia ci sono grandi fette di cocomero (di plastica) che annunciano
l’elezione di “Miss anguria, la regina
della bassa". Ma oggi si parla d'altro,
sotto i portici. "Gli anziani - dice Dilva
Daoli, classe 1920, staffetta partigiana
- raccontano ai giovani che vogliono
ascoltarli cosa successe in quei giorni.
Io c'ero, ho visto le donne rasate a zero”.
Incontri persone come Dilva Daoli e
capisci perché, dopo il disastro della
guerra, l'Italia sia riuscita a sollevarsi.
“Io sono andata a fermare i partigiani
più agitati, che stavano tagliando i
capelli alle ragazze che con i tedeschi
e i fascisti avevano suonato, ballato,
cenato e poi passato la notte. Ho detto
loro di fermarsi, perché il problema non
erano i riccioli ma il cervello. Poverette,
non capivano niente. E si vendevano per
niente. Io e le altre del Gruppo difesa
donne avevamo incontrato alcune di
queste ragazze”.
“I tedeschi sono invasori – spiegavamo - e mangiano in un giorno il
Si è svolto a Lüneburg, una città tedesca di neanche 75000 abitanti della Bassa Sassonia, non lontana da Amburgo, in Germania,
lo scorso aprile, il processo a Oskar Gröning, un contabile di
Auschwitz- Birkenau il cui compito principale era quello di spogliare i detenuti ebrei di tutti i loro averi appena scendevano dai
treni. Il novantaquattrenne ex soldato delle SS, che ha lavorato
presso il campo di concentramento di Auschwitz, ha riconosciuto
ancora una volta la sua complicità nell'Olocausto, ma non ha mostrato nessun pentimento davanti ai sopravvissuti o parenti, sostenendo che avrebbe potuto chiedere perdono solo a Dio. La Corte
ha accusato il Gröning di essere corresponsabile di 300.000 omicidi, quasi tutti ebrei ungheresi deportati durante l'estate del 1944
ad Auschwitz, in Polonia. Se giudicato colpevole, potrebbe affrontare da 3 a 15 anni di carcere. Decine di persone si sono presentate
all’udienza. Gröning, che ha prestato il suo servizio ad AuschwitzBirkenau dal 1942 al 1944, ha riconosciuto la sua colpa morale e la
complicità ma si è rifiutato di chiedere perdono. Il suo caso, portato dai procuratori statali e 65 querelanti, sopravvissuti all'Olocausto e parenti, potrebbe essere l'ultima prova di un ex complice nazista nello sterminio di massa degli ebrei. Dei circa 6.500 membri
delle SS impiegati per amministrare Auschwitz-Birkenau, solo 49
sono stati condannati per crimini di guerra.
Gröning è stato aiutato da due medici durante il giorno del processo. La sua debolezza è aumentata durante la giornata ma sembrava
perfettamente pronto una volta seduto tra i suoi due avvocati difensori. Nella dichiarazione letta da uno dei suoi avvocati, Susanne
Frangenberg, Gröning ha prontamente riconosciuto la sua complicità nella Shoah, anche se ha ribadito che il suo lavoro ad
Auschwitz era principalmente la raccolta di denaro all’arrivo dei
prigionieri, e non lo sterminio degli ebrei e altri nelle camere a gas.
"Anche se non ero direttamente coinvolto con questi omicidi, ho
contribuito, attraverso le mie attività, al funzionamento del campo di Auschwitz. Sono consapevole di questo” ha dichiarato. Nel
suo discorso di apertura Gröning ha descritto due atti di violenza
orribile ai quali aveva assistito senza poter fare nulla: un bambino
bastonato a morte da una guardia del campo, e la gassificazione
di alcuni detenuti ammassati in una capanna. Però, entrambi gli
episodi si sono verificati nel 1942, poco dopo il suo arrivo al cam-
po, e non nel 1944, il periodo durante il quale doveva rispondere
alle accuse durante questo processo. All’udienza Gröning ha detto
che aveva lavorato sporadicamente sulla rampa, dove arrivavano i
nuovi prigionieri in treno. Era lì, ha detto, che è stato testimone di
scene terribili che lo hanno portato a presentare diverse richieste
di trasferimento. Gröning ha attribuito il suo coinvolgimento nelle
atrocità commesse ad Auschwitz per una forma di repressione psicologica che ancora non riesce del tutto a spiegare. "Forse era l'abitudine di accettare i fatti come erano apparsi, al fine di elaborare
in un secondo momento", si legge la sua dichiarazione. "O forse era
anche l’obbligo di obbedienza con cui siamo cresciuti, e che non ha
permesso per le proteste."
Altri due tedeschi novantenni sono stati accusati di reati connessi
ai campi di sterminio nazisti, ma la loro età e i problemi di salute
potrebbero rendere improbabile un loro processo.
Irene Weiss, una sopravvissuta di Auschwitz, che ha testimoniato
al processo e che oggi ha 84 anni, ha sostenuto di non essere in grado di perdonare il signor Gröning. “Ha detto che non si considera
un autore, ma solo un piccolo ingranaggio di una macchina. Ma se
fosse seduto qui con la sua divisa delle SS, rivivrei tutto l'orrore
che ho vissuto allora quando avevo solo 13 anni. Qualsiasi persona
che indossava l'uniforme in quel luogo rappresentava il terrore e
l’aberrazione profonda in cui l'umanità può sprofondare, indipendentemente da quale funzione esercitasse”.
Al termine della mattinata Gröning ha detto: "Considerando la dimensione dei crimini commessi ad Auschwitz e altrove, io posso
solo chiedere perdono al Signore." Thomas Walther, il principale
avvocato per i querelanti, ha espresso delusione per la dichiarazione dopo la sessione del tribunale sostenendo che: “Si tratta di
colpa terrena, non di colpa davanti a Dio. Non siamo al Giudizio
Universale ma siamo all'ultimo processo di Auschwitz sulla terra”.
Così per l’ennesima volta e a distanza di settant’anni, c’è un processo per reati contro l’umanità, reati atroci che ancora oggi non
riusciamo a comprendere, e l’imputato li ammette ma si rifiuta di
chiedere perdono alle vittime o ai loro parenti.
Il 15 luglio il tribunale di Lüneburg ha condannato Oskar Gröning
per concorso in omicidio. La pena è stata fissata in quattro anni di
carcere.(e.v.)
maiale che basta a una famiglia per un anno”. Con i tedeschi
le più spudorate si facevano vedere anche in piazza. Ma
noi donne avevamo problemi anche con i nostri compagni
partigiani.
Erano uomini che volevano una donna di casa, di letto,
di servizio e di silenzio; Taci tu che sei donna: l’abbiamo
sentito tante volte anche dopo la Liberazione.
Ma piano piano siamo riuscite a uscire dal quel medioevo.
Furono una ventina, le donne rasate per oltraggio. “Il
dopoguerra non è stato facile. C'era gioia per la libertà, c'era
il dolore per chi aveva perso la vita”. Ci sono 104 nomi, sulle
lapidi del paese dei Nomadi. “Ricordo il canto dei fascisti:
Avversari e traditori ad uno ad uno sterminerem. Povera
gente. Erano stupidi come l'erba gramigna e cattivi.
Mio fratello Mario, classe 1901, fu ucciso a botte già nel
1922 perché era militare e gli avevano trovato l'Ordine nuovo
di Antonio Gramsci in tasca. Dopo la Liberazione, il custode
del Casino di Sotto, dove c'era il comando tedesco, ci disse di
scavare nel letamaio. C'erano pezzi di antifascisti e di partigiani”.
“Questo incontro fra madre e figlia - dice la sindaca - ci
ricorda un pezzo di storia complicata. Ci deve fare meditare.
Possibilmente lontano dai riflettori”. (j.m.)
21
22
Memoria
Cultura
Il racconto di Elena Kagan, l’interprete russa,
oggi ultranovantenne, che scoprì i resti del fürher
Dolce vita: così nasce il made in Italy
di Claudia SCORZA
di Martina PARODI
S
u “Repubblica" è apparso un
interessante racconto che val la
pena di riprendere per i suoi
riferimenti storici e per i suoi coinvolgenti risvolti umani. Nel giugno 1941,
quando scatta l’invasione nazista
dell’Unione Sovietica, - scrive Susanna
Nirenstein su “Repubblica” - Elena
Kagan studia filosofia a Mosca. Come
gran parte del popolo russo vuole solo
arruolarsi, combattere. Sarà la donna
che all’inizio del maggio di 4 anni
dopo, entrata da poco nella Berlino
appena conquistata dall’Armata Rossa,
scoprirà i cadaveri semicarbonizzati
di Goebbels, della moglie Magda, dei 6
piccoli figli assassinati da loro stessi,
quattro spessi quaderni di diari del
gerarca che tradurrà. E subito dopo i
resti dei corpi di Hitler, di Eva Braun,
dell’ “amato” cane Blondie usato come
cavia del veleno predisposto per il
suicidio. Elena identificherà i resti
studiando le migliaia di carte conservate nel sotterraneo della Cancelleria
del Reich e nel Bunker, individuando i
testimoni giusti da ascoltare, a tu per
tu con grandi e piccoli criminali
nazisti e con gli alti comandi del1'Urss,
entrando a passi decisi nel cuore della
Storia.
Per ora siamo all'inizio. Mandata a
produrre bossoli in una fabbrica di
orologi riconvertita, a Elena le retrovie non bastano. Farà l’interprete:
parte con la vecchia coperta in valigia
verso quattro mesi frettolosi di corso a
Stravopol, una cittadina sul Volga che
quando ghiaccia il fiume non è collegata al resto del mondo né da ferrovie
né da strade. Dopo poche settimane
ecco comunque arrivare fuggiaschi,
sfollati, e anche i primi soldati con la
Stella Rossa che “arrancano trascinando i piedi, congelati, stremati”
decisi a riorganizzarsi nella Russia
profonda. Lo shock della disfatta è
terribile.
Elena ha 22 anni, continua la Nirenstein. Mentre impara il lessico
tedesco, tra cui un dizionarietto di
parolacce inventato dal maestro Auerbach (“chiamate il nemico lacché
di merda”, gli suggerisce), si trova a
tradurre i consigli per il freddo che
lo Stato Maggiore Generale del Terzo
Reich distribuisce ai suoi militari:
“nell'elmetto inserite del feltro, un
fazzoletto, carta di giornale appallottolata”, “indossate due camicie”,
"mettete uno strato di giornali tra la
camicia e la maglia, fra le mutande e
i pantaloni”. Roba da poveracci, ma
pensavano di conquistare Mosca in
quattro e quattr’otto e invece non va
così.
Alle porte della capitale i potenti
eserciti nazisti vengono fermati dai
russi. Si combatte metro per metro.
Elena Kagan, che sotto il nome di
Elena Rzevskaja (in onore della città
martire di Rzev) a 92 anni (ora ne ha
95) ha scritto il nostro Memorie di
una interprete di guerra, ora in
uscita da Voland, parte finalmente per
il fronte: 100 verste in una slitta tirata
dai cavalli del kolchoz lungo il Volga,
con i piedi sotto il fieno. Senza paura,
stranamente senza paura.
Viene assegnata – racconta ancora la
giornalista - all’VIII Brigata aerotrasportata anche se non ha mai visto un
velivolo, né un paracadute. È pronta a
buttarsi giù se si deve: si sente incorporea mentre sul treno nel buio e poi a
piedi sulle traversine innevate circondate da izbe bruciate, va ad affrontare
un ignoto così profondo: il comandante non vuole pivellini, la manda in
fanteria. È il gennaio 1942, la temperatura è meno 40. Arrivano slitte
con i feriti coperti di paglia. Male
alle mani, ai piedi, a tutto. Cadaveri
congelati quasi conficcati nel terreno.
Dopo chilometri di bianco, sale su
un treno che parte: prende appunti
frenetica, qualcuno grida ad un altro
“Vedi di non pisciare contro vento”.
Primo paese, Kaluga, combattimenti,
fuoco alle case. Arrivano 17 prigionieri tedeschi: Elena inizia tremante
il suo primo interrogatorio: cognome,
età, luogo di nascita. Quello cerca di
simpatizzare, ha freddo, vuole una
coperta, “Gli domandi un po’ se pure
il russo, quando è prigioniero, chiede
una coperta” ribatte il commissario
Bacurin.
Un altro della Wehrmacht, le racconta
di essere un entomologo: “sarò fucilato subito?” le chiede. In un'isba
una bandiera con la svastica ripara la
parete interna dagli spifferi: piomba
dentro una granata nemica che fa
quasi fuori Elena.
Zajmisce, Rzev, Smolensk, Varsavia,
Bydgoszcz, Poznan... Interrogatori,
marce, feriti, morti, cecchini, cittadine distrutte, catapecchie, tempeste
di neve, gelo, eroi, vittime delle stragi
tedesche, fuochi della battaglia, documenti tradotti, ordini di Hitler (“Tu
non hai cuore … Uccidi”), lettere delle
o alle SS da capire, telegrammi, piccoli
dialoghi. Il racconto è caldo, palpita
come quello di una bambina stupita.
A metà del libro diventa più convincente, serrato.
Perché tappa dopo tappa siamo arrivati a Berlino e qui Elena Rzevskaja
come abbiamo detto, guarda la Storia
e la fa: capisce anche, da un foglio
sottolineato, perché Hitler si sia fatto
bruciare: non voleva che nessuno si
accanisse sul suo cadavere come era
avvenuto pochi giorni prima su quello
di Mussolini in Italia, e infine trova
la dentista del Führer e le fa identificare l’unico organo rimasto intatto,
la mascella che le viene affidata in
una scatola rossa da non lasciare mai.
Identificazione tenuta segretissima da
Stalin, convinto che la minaccia di un
Hitler vivo gli permetterà chissà quali
giochi politici.
Manda nel gulag per dieci anni anche
la povera dentista. E molti altri testimoni, sembra.
Il ritrovamento di Hitler molto più
sommariamente,
Kagan/Rzevskaja
l’aveva scritto in un libro del 1965,
ora lo arricchisce efficacemente di
dati, personaggi, documenti, ritmo.
Ci sentiamo lì, a Mosca, nel bunker
del dittatore, di fronte alla resa incondizionata degli invincibili assassini,
aggiunge Nirenstein. Come si sente
Elena? Mormora: “Tutto quello che
si è vissuto in guerra, non lo si può
tradurre in una lingua comprensibile
in tempo di pace”.
Mancano alcune cose però, importanti. Mancano quasi gli ebrei: anche
se lei stessa è un’ebrea, ne accenna solo
qua e là, le vittime rimangono i russi,
i civili secondo la vulgata dello Stato
Sovietico. La parola ebreo appare
di volata. Altra cosa la denuncia di
23
Sontuosa esposizione al Musée d’Orsay su liberty e design italiano
“Dolce vita” è una formula felice, ma inflazionata, ambigua quanto basta nel suo venire usata
per definire uno stile, un modello comportamentale, un carattere e una psicologia. Con l’aggiunta
di un punto interrogativo (Dolce vita? Du Liberty
au design italien 1900-1940, fino al 13 settembre) il
Musée d’Orsay la utilizza per questa sontuosa esposizione che allinea più di 180 “pezzi” fra quadri,
vasi, mobili e oggetti d’uso quotidiano. Come
spiega Beatrice Avanzi, Conservatrice del Museo e
co-curatrice della mostra (con Irene de Guttry), “per
l’Italia si tratta di un periodo complesso, dal punto
di vista politico, economico, sociale, e però culturalmente ricchissimo, quasi gioioso”. È allora che
come nazione entriamo a pieno titolo nella modernità e trasformiamo una ricca eredità di artigianato
(scuole e botteghe) e tradizione (usi, costumi, riti e
miti plurisecolari) in qualcosa di completamente
nuovo eppure intrinsecamente italiano. L’artigiano
diventa designer, l’artista entra da protagonista
nel dibattito ideologico, l’architettura è chiamata a
disegnare un ordine nuovo, movimenti culturali e
movimenti politici si intrecciano e reciprocamente
si influenzano.
Scandita in sezioni contrassegnate da un uso intelligente del colore (rosa lampone per il futurismo,
mauve intenso per il Liberty…), Dolce vita? racconta
il passaggio dall’Art Nouveau, con il suo trionfo
della natura, alla ricostruzione futurista dell’universo, al
successivo “ritorno all’ordine” post bellico che finirà poi
per trovare una sua quadratura del cerchio razionalista e
astratta.
Spesso gli stessi nomi si rincorrono nel cambiamento e
insieme lo giustificano. Il “futurista” Sironi sarà anche il
Sironi “novecentista” che con Funi, Oppi, Marussig insegue
un’idea figurativa in grado di riscattare l’antico e non esaurirsi negli “ismi” del moderno. Il “dadaista” Evola lascerà il
posto al teorico della Tradizione, il Profilo continuo. Dux di
Renato Bertelli, maiolica a vernice nera, campeggerà nella
prima esposizione d’arte astratta a fianco delle opere di
Fontana e Melotti, Casorati e Licini.
Nella mostra, la parte del leone la fa però il design,
ovvero l'applicazione industriale della creazione artistica secondo l’indicazione di Gio Ponti, direttore fra le
due guerre della Richard Ginori, fondatore della rivista
Domus, teorico dell’industria “come stile del XX secolo”.
È un vero e proprio parterre du roi quello che scorre sotto
Vassilj Grossman, il celebre autore
di Vita e destino: il suo scandalo di
fronte alla Shoah fu denunciato in
tempo reale nelle sue corrispondenze
dal fronte che spesso gli organi di
stampa del regime rifiutavano proprio
per questo (che meraviglia che ora
gli occhi del visitatore: il simbolismo tormentato di Adolfo
Wildt, le sculture e le ebanisterie di Duilio Cambellotti e
di Carlo Bugatti, le ceramiche di Galileo Chini, il ferro lavorato di Mazzucotelli, i vetri di Vittorio Zecchin per Venini,
le "provocazioni" di Franco Albini. Di questo ultimo sono
esposte la radio in vetro e cristallo del 1938; la poltronaseggiovia retta da un lungo gancio in ferro da appendere
al soffitto, realizzata a righe bianche e blu nel 1940 per una
sala da soggiorno in una villa al mare sospesa su un pavimento in vetro con sotto prato e fiori, accompagnata da una
voliera di rete di nylon; un grande mobile in ebano progettato per la casa dell’asso dell’aviazione Ferrarin, intarsiato
con cornici di ottone. Fu a causa di quel mobile che Albini
lasciò lo studio di Ponti per stringere sempre più rapporti
con Edoardo Persico. Da qui la riconversione al razionalismo.
Albini, il già citato Ponti, Pizzigoni, Portaluppi, Mollino,
Libera, Figini impongono la figura dell'architetto-designer
e creano le basi per una prima primazia del made in Italy
che da allora non sarà più smentita.
siano pubblicati in Uno scrittore in
guerra dell’Adelphi).
Nelle memorie della Kagan scritte negli
anni duemila pare ancora che i polacchi
siano stati occupati solo dal III Reich.
Come se la perseguitasse ancora la censura, la paura primordiale, ancestrale, in-
culcata dal comunismo. Un resoconto di
grande interesse storico, dunque, e anche
estremamente attuale, che fa capire come
i regimi, alla fine seguano tutti la stessa
assurda logica: il dominio e il sopruso.
Arte
24
Arte
25
interessante mostra a Roma sul fascismo giudicato dallo scrittore tedesco e da Luchino Visconti
Mario e il mago: Thomas Mann racconta l’Italia di Mussolini
di Elisabetta VILLAGGIO
I
n occasione del 60° anniversario della morte e del 140°
anniversario della nascita di Thomas Mann (18751955), la Casa di Goethe, a Roma, gli ha dedicato una
mostra: Mario e il mago. Thomas Mann e Luchino
Visconti raccontano l’Italia fascista.
Mario e il mago è considerato il racconto più italiano dello
scrittore tedesco ed è forse uno dei meno noti. Il testo nasce
da un’esperienza personale quando Thomas Mann fece una
vacanza in Versilia, a Forte dei Marmi, con la moglie e i due
figli più piccoli nell’estate del 1926, e s’imbatté in questo
ipnotizzatore che lo inquietò a tal punto che scrisse una
novella su un mago che “sfruttava il muto volere collettivo”.
Lo scritto dell’autore, premio Nobel per la letteratura,
uscì solo nel ’29 quando le ombre del nazionalsocialismo
si allungavano sulla Germania e, la vicenda dell’ipnotizzatore Cipolla, che durante le sue performance serali soggioga
e manipola il pubblico, diventa metafora del clima contemporaneo. Eppure questo straordinario racconto non ha mai
avuto vita facile in Italia. Giudicato sin dalla sua prima
pubblicazione nel 1930 racconto “anti-italiano”, per motivi
di censura poté apparire in traduzione solo nel 1945 edito da
Mondadori.
Trascurato dalla critica, il racconto ha però stimolato l’interesse creativo di tre grandi artisti. Molto prima della
trasposizione cinematografica della Morte a Venezia
Luchino Visconti compose, nei primi anni ’50, l’“Azione
coreografica” in due atti di Mario e il mago con musica
di Franco Mannino e coreografia di Léonide Massine. Il
balletto fu rappresentato con grande successo alla Scala
di Milano nel febbraio 1956. L’allestimento presenta per
la prima volta una scelta dei bozzetti e dei figurini che
la grande scenografa e collaboratrice di Visconti, Lila de
Nobili, aveva realizzato per lo spettacolo.
La mostra è curata da Elisabeth Galan che dice: “L’idea
di questo allestimento è nata qualche anno fa quando la
Buddenbrookhaus di Lubecca, città
natale dell’autore tedesco, ha dedicato una mostra a questo racconto e
mi parve subito chiaro che un allestimento del genere e questo tema fosse di
grande interesse anche per l’Italia ma
che una mostra italiana avrebbe richiesto una concezione nuova che mettesse
in evidenza e portasse alla luce i tanti e
variegati legami che questo racconto ha
con la cultura e la politica italiana”.
Questa mostra, infatti, è nata anche
dalla constatazione del fatto che è
abbastanza paradossale che in Italia si
conoscano testi di Thomas Mann come
Morte a Venezia, che viene intesa
come la sua novella italiana, mentre
il suo vero racconto italiano è molto
meno conosciuto. Mario e il mago è il racconto italiano
per eccellenza, non solo perché lo ha ambientato in Versilia
ma, soprattutto, perché racconta una parte e un momento
cruciale della storia italiana. Ambientato alla fine degli anni
'20 Thomas Mann descrive con grandissima lucidità e precisione, l’atmosfera e il clima culturale e politico dell’epoca e
solo tre anni dopo quell’esperienza italiana si trasforma in
letteratura. Il mago Cipolla, che attraverso l’ipnosi soggioga
e manipola il pubblico, diventa così la metafora del pericolo
imminente che in Italia era già realtà, e ora incombe anche
sulla Germania. La storia ci insegna che il monito che l’autore ha voluto lanciare al proprio paese con il suo racconto
è rimasto inascoltato. In Italia questo capolavoro della
letteratura mondiale, tuttora poco conosciuto, ha colpito l’immaginazione creativa di due artisti italiani: Luchino Visconti
e Franco Mannino che nei primi anni ‘50 scrivono insieme, a
Ischia, l’azione coreografica di Mario e il mago riportando,
in un certo senso, questo racconto a casa, in Italia, da dove
era partito e lo trasformano in esempio di scambio culturale
di intermedialità ad altissimo livello. Visconti trasforma il
testo narrativo in azione drammatica e Mannino lo traduce
in musica.
Questo balletto ha fatto sì che Thomas Mann, Luchino
Visconti e Franco Mannino si fossero incontrati, nell’aprile
del ’53 a Roma, in occasione di un soggiorno dell’autore tedesco nella nostra penisola che, in quell’occasione, ha letto il
libretto e lo spartito.
La mostra è organizzata in quattro blocchi tematici e si
compone di oggetti, lettere, foto d’epoca, libri, acquarelli e
dipinti. C’è da guardare ma anche da leggere, è una mostra
che vuole essere esplorata con calma. Ci sono anche tavole
tematiche che presentano i temi trattati. C’è una prima
sezione dedicata alla genesi del racconto e all’ambientazione
storica a Forte dei Marmi, la seconda dedicata al contesto
storico politico negli anni ‘20 e qui ci sono altri documenti
PER IL CINQUANTENARIO DELLA MORTE
Tutto Le Corbusier in mostra a Parigi
L’importante non è essere moderni, l’importante è essere eterni, scriveva Le Corbusier anticipando in vita le tesi critiche contemporanee”. Pseudonimo di Edoard Jeanneret-Gris, architetto, urbanista, pittore e design, svizzero naturalizzato francese (La Choux de
Fond-6 ottobre 1887/Roquebrune – Cap Martin 27 agosto 1965),
un’esposizione estiva al Centre Pompidou (Le Corbusier. Mesures
de l’hommes , catalogo Editions Centre Pompidou-280 pagine, 42
Euro) oggi lo celebra e ne sottolinea ancora una volta l’ eccezionale
attualità.
In occasione del cinquantenario della morte, Frèdéric Migayrou e
Olivier Cinqualbre, i due curatori, mettono in mostra 60 anni della
sua attività e lo fanno a partire dagli esordi, opere e scritti teorici,
specie intorno agli anni Venti, in pieno post-cubismo. Incontriamo i
suoi primi esperimenti pittorici sulle orme di Braque, Picasso, Lèger
e Gris, composizioni dove gli elementi di realtà fanno da sfondo a
una ricerca più astratta, pura, dove le linee si intersecano con i colori e i volumi che troveremo anche nelle sue architetture, in alcuni
casi questi ultimi sono sospesi su pilastri (pilotis) per consentire alla
natura di entrarvi.
L’architettura per Le Corbusier era -ricerca paziente-, l’uso logico di
un metodo per poter pensare la forma in funzione dei principi razionali, un gioco sapiente di volumi sotto la luce: -I cubi, i coni, le sfere,
i cilindri e le piramidi, sono le più grandi forme primarie che la luce
invera con efficacia, perché sono forme belle, le forme più belle…-.
Rifacendosi alla lezione del maestro del modernismo pittorico Paul
Cézanne diceva che -… è necessario partire dalle forme geometriche
originarie, per l’appunto, in quanto necessarie per fare dell’architettura e dell’arte in generale, un processo compiuto, ossia trascrivere
un’idea epigrafica, cristallizzata-.
Una delle 14 sezioni della mostra è dedicata al concetto di -modulor-, dove si comprende come Le Corbusier iniziò i suoi passi
studiando - l’uomo vitruviano -, già ripreso da Leonardo e basato
sull’altezza ideale della razza umana (1 metro e 83 cm) e con braccio e mano tesa in alto (2 metri e 20) usato come misura per concepire oggetti ed edifici. Uno studio che gli era servito per studiare
spazi come soffitti, porte, finestre, mobili…Il risultato è un’architettura fredda, rigorosa, metodica, sintattica, intersecata da combinazioni irregolari.
Come fondatore del Movimento Moderno -Le Corbu- aveva stabilito dei criteri oggettivi alla base della progettazione (come il famoso
decalogo degli elementi architettonici che tutti gli edifici dovevano seguire). Per fare un esempio il tetto piano, il tetto giardino, i
pilotis (casa sospesa sulla natura), le finestre a nastro orizzontale,
l’abolizione del cornicione e l’uso dell’intonaco bianco. L’interno
doveva avere spazi fluidi e composti, le scale erano delle rampe lineari per mettere in comunicazione i vari piani: si vedano la Ville
Savoye a Poissy (Parigi) del 1929, Casa Ozenfant, oggi Fondazione Le
Corbusier del 1922, l’Immeuble Clartè a Ginevra del 1928.
Sulla base di questo decalogo oggettivo, l’artista introduceva poi
degli elementi poetici ed emozionali: è il caso del Centrosoyuz a
Mosca del 1929; del Convento di Sainte Marie de Notre Dame du
Haut a Ronchamp del 1950-55; del Convento de la Tourette del
1953-59; del Padiglione della Philips all’Esposizione Universale di
Bruxelles 1958…
Un discorso a parte merita la progettazione della città di
Chandigarh, “nuova” capitale dello Stato indiano del Punjab, iniziata nel 1951, un progetto articolato di strade e palazzi dove tutto
si giocava sulla concezione urbanistica. Da un lato gli edifici governativi (il Campidoglio, Il Palazzo di Giustizia, il Segretariato e
l’Assemblea Nazionale) e dall’altro abitazioni e vie spesso scavate
nel terreno per proteggersi dall’alta temperatura, come sarà anche il caso nei progetti per il Brasile…, città create sulla base di
un percorso autostradale con i complessi abitativi sotto il nastro
infrastrutturale. Per il Centro Olivetti a Rio de Janeiro, i criteri saranno gli stessi.
Architetture bianche o colorate (colori puri), linee e materiali rimangono un ordine precostituito: un esempio per tutti è l’Unitè
d’Habitation di Marsiglia del 1950 (che, da ministro della Cultura,
André Malraux farà classificare tra i monumenti nazionali). Qui,
all’interno delle abitazioni, quadri, chaises-longues, poltrone in
pelle e metallo, sedie e tavoli a misura d’uomo, con vasche tonde
di pesci rossi che si stagliavano sul bianco delle pareti dei bagni e
delle cucine essenziali disegnati con le minime dimensioni possibili come faceva anche l’architetto tedesco Klaine, rimandavano
all’idea stessa di funzionalità.
In mostra ci sono i suoi testi più famosi (tutti tradotti anche in
italiano): da “Il poema dell’angolo retto” (Mondadori, Electa),
a “L’urbanistica” (Il Saggiatore), da “La mia opera” (Bollati e
Boringhieri) a “Sulla pittura moderna” (C. Marinetti) e “Oltre il
Cubismo” (C. Marinetti)… (m.p.)
preziosi che provano il rapporto dell’autore con l’Italia e il suo
impegno politico in Germania negli anni ‘20 per allertare il
suo paese sul pericolo alla “mago Cipolla”. La terza è dedicata
al mago Cipolla, che prende come modello Cesare Gabrielli,
un personaggio che apparve anche in un film di De Sica.
Gabrielli era amico personale di D’Annunzio, aveva partecipato alla presa di Fiume ed era molto vicino al potere. Questa
terza sezione gira intorno anche alle tematiche sulla psicologia delle masse e l’indottrinamento come forma di potere.
L’ultima è tutta italiana: dalla ricezione del racconto in Italia
alla ricostruzione del balletto di Visconti per la Scala. La ricostruzione è stata possibile anche grazie all’archivio Visconti e
alla famiglia Mannino che ha messo a disposizione la musica.
“Il tema principale di questa storia si trova nel carattere
brutale, demagogico e cinico del mago e ipnotizzatore
Cipolla, demone in posizione dominante negli anni venti in
Italia dove il fascismo è narrato come un rappresentante del
male” sostiene Frido Mann il nipote preferito di Thomas
Mann, aggiungendo che questa è “una mostra carica di significato politico e un monito contro l’oblio. Oggi il terrore
minaccia una deflagrazione mondiale sul nostro pianeta”.
Mario e il mago va quindi interpretato come il monito
contro il fascismo in generale e, per Mann, il fascismo non era
solo un fenomeno politico ma, soprattutto, culturale e rappresentava una regressione dello stato evolutivo umano.
Dopo l’interesse suscitato a Roma la mostra, leggermente
modificata, andrà a Forte dei Marmi nel 2016 in occasione del
90esimo anniversario del soggiorno di Mann.
26
Attualità
Cultura
Finalmente si apre una varco in direzione dell’antifascismo autentico
Molte città e comuni rifiutano Mussolini cittadino onorario
27
“Mingo il Ribelle” il libro su Domenico Giannace
Biografia di un’Antifascista
di Giuseppe CISTERNA
C
i sono voluti un po’ di anni (tanti,
per la verità), ma alla fine qualcosa sta muovendosi in direzione di un antifascismo vero, concreto, senza ipocrisia e che faccia onore alla
storia e alla verità. In diverse amministrazioni comunali si è fatta largo l’idea
di dare un ulteriore colpo di spugna alle
“tracce” del fascismo revocando la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini,
che molti sindaci del regime, per pura
piaggeria e servilismo, avevano concesso al duce con motivazioni al limite del
ridicolo. Molte delle cittadinanze vennero concesse a Mussolini tra il 1923 e il
1924 per celebrare un doppio anniversario e cioè il primo anno della rivoluzione
fascista e il decimo anno dall’inizio della Grande Guerra. Motivazioni o gesti
goffi, dicevamo come quella per esempio del podestà di Aulla, paese in provincia di Massa Carrara, il quale si recò
di persona a Predappio per consegnare “l’alta onorificenza” al duce. Dopo 70
anni, nemesi storica quanto mai opportuna, il sindaco dello stesso comune,
Lucio Barani revocò la delibera con un
altro gesto simbolico: promise di andare
a riprendersi il documento a Predappio.
A Firenze, una delle prime città che
volle Mussolini come cittadino onorario,
la relativa delibera venne votata il 19
giugno del 1923 da un governo di larghe
intese. Dissero sì al duce non solo i
fascisti, come è ovvio, ma anche i liberali
e i cattolici. La giunta era guidata da una
maggioranza detta “L’unione”. Anche a
Firenze si ripete il caso di una “vendetta”
postuma ma giustificatissima: il sindaco
Leonardo Domenici, a conclusione del
suo mandato abrogò quella delibera
conferendo la cittadinanza onoraria a
Beppino Englaro.
Tornando al duce, negli anni Venti i
lecchini facevano a gara per ingraziarsi
il capo del fascismo. A Bologna, per
esempio,
pensarono di conferirgli
una laurea ad honorem in legge. Fu un
fallimento perché nonostante Mussolini
avesse preparato una tesi su Machiavelli,
la cerimonia sfumò e con essa anche il
sogno del “dottor” Mussolini. A Bologna,
comunque, Mussolini risulta ancora
cittadino onorario nonostante una
iniziativa dei grillini che venne, non si sa
perché, respinta. E così il duce è ancora
“bolognese” e in
ottima compagnia
con
personaggi
come
Garibaldi,
Gorbaciov, il Dalai
Lama e, persino,
Roberto Saviano.
Lasciamo Bologna
e ci spostiamo a
Cinisello Balsamo,
un grosso centro
attaccato a Milano.
Dopo una visita, in
tenuta da pilota, al campo di aviazione
di Cinisello, che allora era diviso in
due, entrambi i comuni gli conferirono
la doppia cittadinanza. In questa
veloce carrellata manca la “perla”
confezionata da un paesino in provincia
dell’Aquila, Massa d’Albe. Il podestà di
questo borgo mandò una pergamena al
fondatore del fascismo giurandogli che
“la cittadinanza onoraria, fino a quel
momento non era stata offerta a nessuno
e goduta da nessuno”. E aggiunse: “Il
riconoscimento è stato approvato con
la solennità data dalla voce di 5000
persone”. Per la cronaca gli abitanti di
Massa d’Albe all’epoca erano appena
1500!
Ma, naturalmente, in Italia, paese
dei campanili, non tutti la pensano allo
stesso modo, così a Ravenna, nonostante
una proposta di revoca, quasi tutti i
partiti vogliono tenersi Mussolini come
cittadino. Il Pd, che in altre città si è
mosso nella direzione giusta (Firenze,
Torino, Bologna) a Ravenna ha così
spiegato il suo no alla revoca attraverso le
parole del consigliere comunale Andrea
Tarroni: “Nel diritto romano esisteva
una condanna, la più cruda che si potesse
attribuire a chi avesse amministrato
la res publica, che si definiva
damnatio memoriae. Comprendeva
il fatto che ogni statua, monumento
o documento che si richiamava al
condannato dovesse venire distrutto.
Per cancellarne la memoria. Parlando
di Mussolini verrebbe la tentazione di
applicare questa condanna, ma se la
cittadinanza venisse revocata 90 anni
dopo non avrebbe senso e rischierebbe
di far dimenticare le nefandezze
del Ventennio fascista”. Sarà ma la
spiegazione non soddisfa, anzi sembra
D
un giro di parole per tenersi Mussolini
come cittadino onorario. Contento lui.
Ma il vizietto di incensare il
potente di turno, non vogliamo dire
tipicamente italiano, divenne ben presto
un’epidemia e interessò circa la metà dei
comuni italiani impegnati ad attribuire
al fondatore dei fasci onori e trionfi. A
Varese il consiglio comunale invece si
è spaccato sulla cittadinanza onoraria
a Benito che, a mo’ di ringraziamento,
tre anni dopo il conferimento
dell’onorificenza riconobbe lo status di
capoluogo provinciale a Varese. Ora il
consiglio comunale deve deliberare sulla
proposta di un consigliere pd che dice:
“La cittadinanza a Mussolini va revocata
considerato il negativo giudizio storico,
morale e politico condiviso sulla sua
figura”. Non tutti sono d’accordo. Anzi
un assessore scrive: "Sua Eccellenza
Benito Mussolini fu l’unico a pensare ad
una grande Varese: non solo fu l’ideatore
della città, che fino ad allora era divisa
in castellanze autonome, ma pensò e
volle fortemente una grande provincia
di confine. Gli stessi che vorrebbero
torgliergli la cittadinanza onoraria sono
gli artefici della morte della provincia
di Varese, che diventerà periferia
di Monza o addirittura di Como”.
Testuale. Ma allora, che Paese è questo?
Che classe politica abbiamo allevato?
Stiamo parlando di un dittatore, di
un uomo asservito a Hitler, che ha
trascinato il nostro Paese in una guerra
assurda provocando milioni di morti
e distrutto l’Italia e l’Europa, che ha
approvato le leggi razziali applicandole
in modo sistematico e pervicace. Ma per
la destra varesina, Mussolini è soltanto
Sua Eccellenza!(g.mor.)
a lunghi anni Domenico Giannace gode della stima del mondo politico e
sindacale della Lucania. Di lui si occupa l’ultima opera dello storico
pisticcese prof. Giuseppe Coniglio – “Mingo il Ribelle”, biografia di un
antifascista, “storia di un giovane antifascista lucano che si profuse sul territorio
nel diffondere gli ideali democratici” – presentata con un doppio appuntamento
nel territorio comunale di Pisticci, venerdì 31 luglio e sabato 1° agosto 2015 alla
presenza di tanti cittadini e autorità e di coloro che hanno voluto questa iniziativa e che l’hanno sponsorizzata e patrocinata - fra queste in primo luogo
l’ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), di
cui Giannace è dirigente regionale. Il libro gode anche del patrocinio della
Regione Basilicata, e del Comune di Pisticci.
In questo libro la sua figura e il suo pensiero, nella ricorrenza dei suoi “primi”
91 anni, è raccontata attraverso le storie personali e tanti ricordi di vita politica, sindacale, istituzionale-amministrativa negli anni 60-70, le lotte contadine,
i confinati politici che lo considerarono la loro mascotte nella colonia confinaria di Pisticci (centro agricolo), fino agli ultimi anni quando costituì il Comitato
Difesa Ospedale di Tinchi.
Hanno partecipato diverse personalità istituzionali, il sindaco di Pisticci
Vito Di Trani; il presidente della giunta regionale di Basilicata Marcello
Pittella; l’ex consigliere Gabriele Di Mauro; lo storico Angelo Tataranno e
l’onorevole Domenico Izzo.
Il libro ricostruisce in duecento pagine la biografia di Domenico Giannace
conosciuto come “Ming a logn”, che fu apprendista carrettiere in tenera età
e divenne la mascotte dei confinati politici antifascisti del centro agricolo di
Pisticci, testimone di tante ingiustizie ed abusi che venivano commessi in colonia; in quegli anni conobbe Carlo Porta, Renato Bitossi, il principe Andrea Doria
Pamphilj, primo sindaco di Roma del dopoguerra, Umberto Terracini e tanti altri.
Militante antifascista nel dopoguerra entra nel sindacato, diventa un importante dirigente della Camera del Lavoro di Pisticci dal 1946-1960: in quegli anni
furono molte le battaglie sostenute nelle lotte contadine per l’occupazione delle
terre e contro il padronato per cancellare le forme di schiavitù e sfruttamento
imposte ai lavoratori e
alle lavoratrici; questo
costo a Giannace un
periodo di detenzione
nel carcere di Matera
dove conobbe Rocco
Scotellaro, sindaco di
Tricarico, anche lui
arrestato per motivi
politici. Fu Segretario provinciale della
“Federbraccianti”
di
Matera dal 1958 al
1959; dirigente della
“Confcoltivatori”di
Pisticci dal 1961 al 1990;
Sindaco di Pisticci dal
1963 al 1964 quando
subentrò
a
Nicola
Cataldo appena eletto
alla Camera dei Deputati;
consigliere
comunale e provinciale
fino a diventare Consigliere Regionale del PCI
eletto nel 1980. Come candidato alla
Camera dei Deputati, anche se non fu
eletto, fu premiato da un ottimo risultato.
Nel 2003 è stato insignito anche
del titolo di “Ufficiale dell’ordine al
merito della Repubblica Italiana”, dal
Presidente della Repubblica Carlo
Azelio Ciampi.
L’antifascismo ha caratterizzato
tutto l’arco della vita di Domenico
Giannace, un antifascismo contraddistinto da un forte progetto politico
di società e dalla voglia di costruire
istituzioni democratiche e di rispettarle perché erano il risultato di
profondi sacrifici e di lotte coraggiose della parte migliore del popolo
italiano. Il presidente della Regione
Marcello Pittella, ha ripercorso la vita
di Giannace con un particolare focus
sulla sua “appassionata” esperienza
politica, le capacita, la saggezza, l’equilibrio che non sempre e legato all’età,
che è un esempio per la società che
ha bisogno di recuperare attraverso
uomini semplici, umili e veri come
Domenico Giannace, storia, cultura
e condivisione; “Giannace è ancora
oggi un trascinatore di popolo, un
leader autentico, un punto di riferimento della comunità pisticcese – ha
concluso Pittella – un pezzo senza fine
di onore e di orgoglio”. Sono seguiti gli
interventi del sindaco Vito Di Trani:
“Mingo, un protagonista indiscusso
della storia del nostro Comune e sicuro
riferimento per quelle persone che non
si lasciano tentare dalle sirene dell’antipolitica”; di Gabriele Di Mauro che
ha ricordato gli anni delle occupazioni
delle terre con Mingo protagonista; del
già parlamentare Izzo: “Onore e omaggio al “ribelle” del passato”; di Angelo
Tataranno “Un personaggio straordinario, bravo anche ad apprendere e
studiare nella ‘università’ del partito”.
Ha tratto le conclusioni delle due
serate l’autore, prof. Giuseppe Coniglio, che nel ringraziare tutti, ha
ricordato l’amata moglie di Mingo,
Antonietta De Marsico, scomparsa
il 23 marzo scorso, “Aspettava con
ansia l’uscita del libro”. L’opera è stata
dedicata alla memoria della signora
Antonietta.
28
Attualità
Attualità
RIABILITARE I SOLDATI ITALIANI FUCILATI
NELLA GRANDE GUERRA
di Giorgio GIANNINI
Dalla fine del Novecento, in alcuni Paesi si è iniziato a parlare di “riabilitare” i soldati fucilati in seguito a sentenza di condanna a morte emessa dai Tribunali Militari o “morti per mano amica”, per restituire ad essi l’onore di “caduti in guerra” o di “morti per la Patria”.
Successivamente, in alcuni Paesi sono state approvate delle Leggi e sono stati realizzati dei monumenti per ricordare questi soldati. Il primo
Paese è stato nel 2000 la Nuova Zelanda, seguito dal Canada nel 2001, dalla Gran Bretagna nel 2006 e dalla Francia nel 2013. Nel 2014 sono
state prese anche nel nostro Paese delle iniziative per la riabilitazione dei soldati condannati a morte e fucilati e di quelli uccisi “per mano
amica”, in base all’art. 40 del Codice Penale dell’Esercito, approvato con il Regio Decreto 28 novembre 1869, ed in base alla Circolare n. 2910,
avente valore di Legge data la situazione di Guerra, emanata dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Gen. Luigi Cadorna, il 1 novembre
1916. L’art. 40 prevedeva l’obbligo per il Superiore gerarchico di far uccidere, o di uccidere personalmente, immediatamente, con “esecuzione sommaria”, il soldato autore di un grave reato, come la diserzione e la disobbedienza, soprattutto collettiva (ammutinamento o rivolta).
In caso contrario, il Superiore era ritenuto corresponsabile e quindi passibile della stessa pena dell’autore del reato. Spesso, alla “esecuzione
sommaria” dei soldati che tardavano ad uscire dalla trincea in caso di attacco, provvedevano i Carabinieri presenti nella stessa trincea. La
Circolare n. 2910, invece, prevedeva l’obbligo per il Comandante del Reparto, in caso di ammutinamento o di rivolta, di ordinare la “decimazione” ( la fucilazione di un soldato ogni dieci, scelto a sorte o mediante la conta del reparto schierato), per “dare l’esempio”.
In particolare, il Comune di Santa Maria La Longa (Udine), nel marzo 2014 ha apposto una lapide commemorativa della fucilazione dei 28
soldati della Brigata Catanzaro che, nel luglio 1917, mentre si trovavano in questa località per un periodo di riposo dal fronte, si ammutinarono perchè non volevano ritornare in prima linea, sul monte Hermada, nel quale molti di loro commilitoni erano morti in seguito ai continui
e cruenti combattimenti con gli Austriaci. Inoltre, il 4 novembre 2014 (anniversario della “Vittoria” nella Grande Guerra) è stato lanciato
un Appello al Presidente della Repubblica ed al Presidente del Consiglio, sottoscritto da centinaia di docenti universitari e delle Scuole di
ogni ordine grado e da rappresentanti di Associazioni culturali, per chiedere la riabilitazione dei soldati condannati a morte dai Tribunali
Militari e fucilati sommariamente al fronte, per i reati di insubordinazione, chiedendo che fossero considerati “caduti per la Patria”.
L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI
In seguito alle suddette iniziative, sono state presentate alla Camera dei Deputati due
Proposte di Legge per la riabilitazione dei circa 350 soldati italiani fucilati in seguito a
sentenze di condanna a morte emesse dagli oltre cento Tribunali Militari di Guerra, in
gran parte Straordinari, e dei soldati uccisi “da mano amica”, al fronte, con le decimazioni e le esecuzioni sommarie: la prima, è stata presentata il 21 novembre 2014 da 68 Deputati ,in gran parte del PD (Atti Camera n. 2741, primo firmatario l’On. Gian Paolo Scanu,
Capogruppo PD nella Commissione Difesa); la seconda Proposta di legge è stata presentata il 14 aprile 2015 da 7 Deputati (Atti Camera n. 3035, primo firmatario l’On. Basilio).
Le due Proposte di legge sono state discusse insieme, nella IV Commissione Permanente
Difesa della Camera, Presieduta dall’On. Elio Vito (FI), dal 14 aprile 2015 al 13 maggio
2015, quando ha espresso parere favorevole all’approvazione della Proposta in un testo
unificato ed ha incaricato il Relatore, l’On. Giorgio Zanin, di riferire oralmente in Aula.
La discussione in Aula si è svolta il 20 e 21 maggio, con l’obiettivo di arrivare all’approvazione della Legge prima della ricorrenza del Centenario dell’entrata in guerra del nostro
Paese (24 maggio 1915).
Il 21 maggio 2015, la Camera dei Deputati ha approvato, con 331 favorevoli, nessun contrario ed un astenuto, in prima lettura la Legge per la “riabilitazione” dei soldati italiani
condannati a morte per alcuni gravi reati previsti dal Codice Penale dell’Esercito, approvato con il Regio Decreto 28 novembre 1869.
Il testo di Legge ora passa al Senato e speriamo che sia approvato definitivamente prima
del 4 novembre, anniversario della fine della Grande Guerra, in modo da restituire ai
nostri soldati fucilati o “morti per mano amica”, lo status di “caduti in guerra”.
LA PROCEDURA PER LA RIABILITAZIONE
La Legge prevede due diverse procedure per la riabilitazione.
In base all'articolo 1 della Legge, il procedimento per la riabilitazione dei soldati fucilati
in seguito a condanna a morte emessa da un Tribunale Militare è affidato al Procuratore
Generale Militare presso la Corte Militare d’Appello (con sede a Roma e con competenza
su tutto il territorio nazionale), il quale presenta d'ufficio, entro un anno dall’entrata in
vigore della Legge, la richiesta al Tribunale Militare di Sorveglianza competente (in base
al luogo di residenza dei militari condannati a morte).
I reati gravi, che hanno comportato la condanna a morte dei soldati, e per i quali è
possibile la riabilitazione, sono la diserzione, la disobbedienza, l’ammutinamento
e la rivolta. Sono invece esclusi dalla riabilitazione i soldati condannati a morte
per i reati comuni di omicidio, saccheggio,
violenza sessuale e spionaggio.
La riabilitazione è dichiarata, “ a seguito
di autonoma valutazione”, dal Tribunale
Militare di Sorveglianza ed estingue le
“pene accessorie”, sia civili che militari,
come la degradazione, cioè la perdita del
grado militare ricoperto.
Invece, per i soldati uccisi “per mano amica”, in forza dell’art. 40 del Codice Penale dell’Esercito (mediante le “esecuzione
sommarie”) o in base alla Circolare n. 2910
del 1 novembre 1916 (mediante le “decimazioni”), la Legge prevede, all’art. 2, 1°
Comma, che i loro nomi siano inseriti, ”su
istanza di parte” (la “parte” può essere,
oltre ad un familiare del soldato fucilato,
anche il Comune di nascita del soldato)
“nell’Albo d’oro del Commissariato Generale per le onoranze ai caduti” e nel contempo “è data comunicazione al Comune
di nascita del militare per la pubblicazione
nell’albo comunale”.
La Legge, inoltre, prevede, in base all’art.
2, 2° Comma, che “in un'ala del Complesso
del Vittoriano”, a Roma (cioè il cosiddetto Monumento al Milite Ignoto), sia posta
una “targa in bronzo”, con la quale la Repubblica manifesti “la volontà di chiedere
il perdono dei militari caduti, che hanno
conseguito la riabilitazione”. In base al
3° Comma, il testo inciso sulla “targa in
bronzo” sarà scelto in base ad un Concorso nazionale, indetto dal MIUR e riservato agli Studenti delle Scuole Secondarie
di Secondo Grado (le Scuole Superiori).
Il testo sarà anche esposto “con adeguata
collocazione, in tutti i Sacrari militari”.
Inoltre, l’art. 2, 4° Comma, della Legge dispone la “piena fruibilità” degli archivi delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri
per tutti gli atti, relativi “alle fucilazioni ed
alle decimazioni”, che non siano già stati
versati agli Archivi di Stato, in modo da
fare piena luce sui tragici fatti delle decimazioni, delle esecuzioni sommarie, anche
da parte dei Superiori, compiuti andando
oltre i casi previsti dal Codice penale Militare, come affermò la specifica Commissione di inchiesta nel 1919.
Infine, l’art. 3 della Legge dispone che il
Comitato tecnico-scientifico per la promozione di iniziative di studio e ricerca
sul tema del “fattore umano” nella Prima
Guerra Mondiale, istituito dal Ministero
della Difesa con Decreto 16 ottobre 2014,
pubblichi i propri lavori in modo da assicurarne la “massima divulgazione”.
ALCUNE RIFLESSIONI SULLA LEGGE
L’aspetto più discutibile della Legge è
il fatto che la Riabilitazione dei soldati
fucilati sia disposta, in base all’art. 1, 3°
Comma, dal Tribunale Militare di Sorveglianza a seguito di una sua “autonoma
valutazione”, caso per caso.
Nelle due Proposte di Legge non era
prevista questa “autonoma valutazione”
da parte del Tribunale Militare di Sorveglianza, che pertanto doveva accogliere e
ratificare la richiesta di riabilitazione presentata dal Procuratore Generale Militare
presso la Corte Militare d’Appello. In verità, la 1˚ Commissione Permanente della
Camera (Affari Costituzionali) nell’esprimere il parere favorevole sulla Proposta di
Legge n. 2741 aveva chiesto alla Commissione Difesa di valutare “l’opportunità di
definire… i presupposti su cui il Tribunale
Militare di Sorveglianza fonda la decisione sulla richiesta di riabilitazione e di
chiarire in particolare se la riabilitazione
consegua al verificarsi del presupposto
della condanna alla pena capitale per i reati previsti o se il Tribunale possa effettuare un’autonoma valutazione”.
Speriamo, pertanto, che la “autonoma va-
29
lutazione” da parte del Tribunale Militare di Sorveglianza, che dovrà accertare caso per
caso i presupposti per la concessione della riabilitazione, non comporti un “esame puntiglioso” degli atti processuali (in caso di sentenza di condanna a morte, in seguito ad
un processo) o dei documenti comunque trovati sul “singolo caso” (che sono molto rari
nel caso di esecuzione sommaria o di decimazione), magari per non sconfessare l’operato dei Tribunali Militari dell’epoca e dei Comandanti militari, con la conseguenza di
negare in parecchi casi la riabilitazione. Se questo dovesse accadere, sarà snaturato lo
“spirito” della Legge, approvata all’unanimità (con una sola astensione) dalla Camera
dei Deputati il 21 maggio 2015. In quel caso, sarebbe stato meglio disporre con Legge il
“perdono” o la “riabilitazione militare”, a tutti i soldati caduti “per mano amica”, come
hanno fatto nei Paesi anglosassoni ed in Francia,eccettuati i casi di condanna morte per
la commissione di reati comuni (omicidio, stupro...).
Un altro aspetto importante di riflessione riguarda le funzioni del Comitato tecnicoscientifico per la promozione di iniziative di studio e di ricerca sul tema del “fattore umano” nella prima Guerra Mondiale, istituito dal Ministero della Difesa con il Decreto 16
ottobre 2014, che in base all’art. 3, semplicemente “promuove la pubblicazione dei propri
lavori, in forme che assicurino la massima divulgazione”. Invece, secondo l’art. 1, 1°
Comma, della Proposta di Legge n. 3935, non recepito dalla Legge, il suddetto Comitato
aveva il compito di predisporre “entro sei mesi dall’entrata in vigore della Legge, una Relazione sulla pena di morte irrogata al personale militare durante il conflitto, nonché sui
casi di decimazioni e di esecuzioni sommarie verificatisi durante le operazioni belliche”.
Inoltre, non è stata recepita nella Legge la previsione dell’art.1, 3° Comma, della Proposta
di Legge 3035, secondo il quale “Ogni cittadino … può inviare al (suddetto) Comitato
relazioni, richieste e materiali utili alla ricostruzione degli eventi”.
Inoltre, appare singolare la previsione dell’art.2,1°Comma, della Legge ( presente in verità anche nelle due Proposte di Legge) che i “nomi dei militari… fucilati… ( in seguito a
“esecuzioni sommarie” o a decimazioni”) sono inseriti,su istanza di parte presentata al
Ministro della Difesa, nell’Albo d’oro del Commissariato Generale per le onoranze ai caduti “. Perché si richiede la “istanza di parte”? Non era meglio inserire automaticamente
i nomi dei soldati fucilati e riabilitati “nell’Albo d’Oro”, senza fare nessuna richiesta al
Ministero della Difesa?
Inoltre, sarebbe stato opportuno prevedere espressamente, all’art. 2, 1° Comma, l’obbligo per i Comuni, ai quali sono comunicati i nomi dei caduti riabilitati, di inserire i
loro nomi, se non presenti, nelle lapidi e nei monumenti commemorativi dei caduti della
Grande Guerra, posti soprattutto nei cosiddetti Viali e nei Parchi della Rimembranza,
creati nei Comuni all’inizio degli anni Venti.
Infine, sarebbe stato opportuno stabilire all’art. 2, 4° Comma, della Legge che il Governo
non può porre il “segreto militare o di Stato”, come era previsto dalla Proposta di Legge
n. 3035, sugli archivi delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri, per fare piena luce
sulle decimazioni e sulle esecuzioni sommarie.
Noi
Noi
ANPPIA NAZIONALE
BOLOGNA
La nostra Biblioteca
UNA STAFFETTA 70 ANNI DOPO: IO CI SARÒ
30
Memorie della compagna Gabriella Zocca
Nel Novembre 2012 la Biblioteca dell’ANPPIA risultava essere una
raccolta di volumi e periodici totalmente disorganizzata; priva,
cioè, di un qualsiasi catalogo, informatizzato e non, e di una razionale e strutturata collocazione fisica dei documenti.
Nel marzo 2013 ha preso avvio il progetto per l’apertura al pubblico
della Biblioteca, volto a rendere possibile la fruibilità di circa 5000
testi – tra monografie e riviste - di cui l’Associazione dispone. Con
l’avvio del menzionato progetto la Biblioteca è entrata a far parte
del Sistema Bibliotecario Nazionale, facendo capo al Polo degli Istituti Culturali di Roma.
Durante il corso dell’anno 2014 si è provveduto alla catalogazione dei documenti ed alla loro corretta collocazione fisica. Inoltre,
a seguito di un atto di liberalità operato dalla Biblioteca di Storia
Moderna e Contemporanea di Roma, trovano collocazione nella
struttura diversi volumi specializzati sulla Russia del Professor
Andrea Graziosi.
Il progressivo arricchimento del patrimonio librario della Biblioteca è avvenuto anche grazie all’interessamento di personaggi cari
all’ANPPIA: merita, al riguardo, di essere menzionata la generosa e
cospicua donazione di testi sulla Resistenza e sull’antifascismo del
dott. Tullio Migliori di Roma, nel giugno 2015.
Per accogliere questo numero sensibilmente maggiore di libri la
terza stanza dell’appartamento ove è ubicata la Biblioteca è stata
riorganizzata ed ampliata mediante la sistemazione di tre scaffalature che ne hanno permesso una più razionale disposizione.
Grazie al patrimonio librario posseduto dalla Biblioteca, è stato
possibile avviare una serie di attività volte a diffondere e a rendere
maggiormente conoscibile la storia dell’antifascismo italiano.
Degni di nota, in proposito, sono anche le collaborazioni con gli
Istituti delle scuole medie e superiori italiane. Merita a riguardo di
essere ricordato l’ausilio fornito ai ragazzi dell’Istituto Allende di
Paderno Dugnano nella ricerca sulla figura di Fernanda Wittgens,
volta alla realizzazione di una rappresentazione teatrale.
È attualmente in essere, inoltre, un progetto finalizzato alla donazione a diversi Istituti Superiori romani di testi di agevole consultazione che mirano ad una sempre viva memoria della nostra storia.
Al momento si sta lavorando all’aggiornamento del catalogo on line
(OPAC) attraverso la revisione dell’inventario e la catalogazione di
ogni singolo volume tramite soggettazione, classificazione Dewey,
collocazione e sistemazione fisica dei singoli documenti.
Il catalogo della Biblioteca è consultabile quindi on line e dal sito
internet dell’Associazione è inoltre possibile effettuare ricerche bibliografiche, mediante la consultazione degli strumenti di ricerca
informatizzati.
È infine possibile interagire via e-mail con il personale ([email protected]), suggerendo acquisti o formulando proposte.
Comunicazione Urgente ANPPIA di Roma
L’ ANPPIA Provinciale di Roma (Associazione Nazionale Perseguitati Politici e Razziali) informa che nell’assolvimento del proprio compito istituzionale volto a far ottenere ai propri iscritti il c.d. assegno di benemerenza, richiede
agli interessati esclusivamente quanto segue:
- iscrizione all’associazione
-
un contributo pari a 50 euro al momento dell’istruttoria della pratica
-
un rimborso spese forfetario, solo ad assegno ottenuto, di 200 euro.
Di recente abbiamo celebrato il 70° anniversario della RESISTENZA con molte e sentite manifestazioni.
È stata veramente una bellissima mobilitazione popolare. Ma ora?
Sono davanti allo specchio e mi interrogo: quella vecchia e malandata che mi guarda si chiede se vale la pena di continuare, con tanta fatica, a portare la nostra presenza di ex-Partigiani nelle scuole,
nei cortei, nelle manifestazioni, in una società che sta distruggendo
le cose che avevamo faticosamente costruito.
Alla fine del conflitto, alla fine della Resistenza combattuta, certi
che il fascismo era stato debellato “per sempre”, avevamo salutato
i compagni di brigata e ci eravamo buttati a corpo morto nella costruzione delle istituzioni democratiche, nonché nella ricostruzione di un’Italia distrutta materialmente e moralmente. Con la forza
della nostra giovinezza colma di certezze.
Nei momenti di tregua, in Brigata, avevamo a lungo e animatamente discusso su cosa, e come, avremmo dovuto fare “dopo”.
Le parole democrazia e libertà erano sconosciute perché il fascismo le aveva trasformate in strumenti di persecuzione. Noi le
avevamo issate a bandiera e volevamo collocarle nell’effettiva vita
politica. Come? I partiti politici erano già costituiti ed erano molto
importanti nell’organizzazione della Resistenza, ma erano “partiti
di guerra”. Ma nella pace?
Soprattutto, noi eravamo sicuri di costruire un mondo libero e
migliore. Ci buttammo nella mischia: organizzammo i contadini,
i braccianti, i lavoratori che nelle fabbriche cercavano di ripartire
anche con le macchine che avevano nascoste, salvandole dalle razzie dei Tedeschi.
Avevamo scoperto che i sindacati non erano il male che ci propinava il fascismo, ma organizzazioni di lavoratori liberi. A Bologna,
sotto la guida di Onorato Malaguti, un gruppo di giovani che venivano dalla Resistenza o che avevano aderito dopo, costituirono la
sede locale della CGIL. I “Gruppi di difesa della donna”, che tante
eroine avevano dato alla Resistenza (a Bologna 128 cadute) confluirono nell’importante organizzazione UDI, che si è battuta a lungo
per l’affermazione dei diritti delle donne.
Ma c’era – soprattutto – tanto da lavorare: montagne di macerie da
rimuovere, le case e le fabbriche da ricostruire. Soprattutto c’era da
creare la “società Italia”, nella democrazia e nella libertà: così nac-
que la nostra bella Costituzione. Perché ci eravamo liberati subito
delle scorie del fascismo.
Furono anni difficili, molto difficili, impegnativi e tali da impedire
una serena vita privata.
Ma il fascismo, la reazione, non erano affatto debellati. Erano “acquattati” e in attesa di strisciare alla riconquista del potere. Anche
se in modo meno “marziale”.
La reazione alle nostre azioni è sempre stata durissima ed è costata
vittime. La polizia ci inseguiva nelle piazze.
A questo punto i Partigiani uniti nell’ANPI – che accoglie anche gli
antifascisti – hanno capito di dover dare un impulso importante
alla riproposizione pubblica degli ideali per i quali avevano combattuto e per i quali tanti compagni erano morti.
Attività molto impegnativa: abbiamo portato la nostra parola per
la difesa della democrazia e della Costituzione e per non ritrovare
quel mondo terribile che avevamo vissuto nella nostra giovinezza.
Siamo andati - e tutt’ora andiamo – nelle scuole, nelle organizzazioni politiche, nelle strade, ovunque qualcuno era disposto ad
ascoltarci. Noi c’eravamo, noi ci siamo.
Ma oggi mi guardo intorno e mi chiedo se vale la pena di consumare le nostre ultime energie, e soprattutto se serve, in una società
che demolisce pezzo per pezzo la nostra Costituzione; confonde la
direzione delle Istituzioni politiche e amministrative con il diritto
ad intrallazzare e rubare, creando una società dove solo il “danaro”,
anche rubato senza vergogna, è importante; le bande più o meno
mafiose imperversano e comandano; i cittadini, delusi, rinunciano
a votare, lasciando ancora più spazio alla ragione del malessere.
Purtroppo il tempo passa e siamo rimasti in pochi, e molti tra i pochi sono limitati dalle malattie.
Contro il malessere diffuso e i tentativi di revanscismo, noi proponiamo – ora e sempre – un progetto di società democratica e giusta,
non schiava del dio denaro e della violenza.
L’immagine dello specchio mi ricorda che, in fondo, sono una nonna e le nonne hanno il dovere di offrire saggezza e indicare le strade dell’avvenire.
Pertanto: fino a quando una classe scolastica mi chiama e mi ascolta, fino a quando un pubblico mi ascolta quando parlo, io ci sarò.
Perché ci ho creduto e ci credo.
- nessuna percentuale sugli arretrati o sulle mensilità così ottenute viene richiesta.
Per maggiori informazioni potete contattare l’Associazione al numero 06.6896959 (gli uffici sono aperti il
martedì e il giovedì dalle ore 9:30 alle 13:30) o scrivere all’indirizzo di posta elettronica
[email protected].
SOTTOSCRIZIONI:
QUEL 25 LUGLIO E GARIBALDO
Sono quattro mesi che ci ha lasciato Garibaldo Benifei, persona amata da tutti coloro che lo hanno conosciuto, stimato per non aver
mai rinunciato ai suoi ideali di pace, uguaglianza e solidarietà. Per la sua storia di antifascista e perseguitato politico teneva molto alle
celebrazioni del 25 luglio, la data in cui Mussolini perse il potere e di fatto iniziò la fine del fascismo. Il 25 luglio rappresentò quindi per
gli antifascisti senz'altro una rottura e ne abbiamo prova leggendp, ad esempio, i rapporti di polizia che descrivono una situazione fuori
controllo sia nel Paese ma sopratutto nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, negli uffici pubblici, dove ogni rapporto gerarchico fondato
sull'autorità e la fedeltà al regime saltò. Vogliamo ricordare quindi del 25 luglio come gli italiani abbiano iniziato un percorso difficile e
pieno di sofferenze per riappropriarsi della democrazia e della libertà. Questo è quello che voleva sempre ricordare Garibaldo Benifei,
e noi con lui. Questo discorso non arriva mai ad un compimento definitivo, ma sempre ha nuove mete da raggiungere e nuovi nemici
con cui misurarsi.
31
Noi
LIVORNO
25 Luglio: per la pace di ieri e per la pace di oggi
di Mauro NENCIATI
Il 25 Luglio per l’Anppia di Livorno assume da sempre un particolare significato, e quest’anno ancora di più: sono infatti 3 mesi che ci ha
lasciato Garibaldo Benifei, nostro Presidente e Presidente Onorario Nazionale dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani
Antifascisti. Garibaldo, persona amata da tutti coloro che lo hanno conosciuto e stimato per non aver mai rinunciato ai suoi ideali di
Pace, Uguaglianza e Solidarietà per cui il regime lo aveva condannato a sette anni di carcere per la sua attività di antifascista e comunista, teneva particolarmente alla celebrazione, che abbiamo sempre fatto, del 25 luglio: la data in cui Mussolini perse il potere e di fatto
iniziò la fine del fascismo. Certo, la libertà e la Democrazia in Italia furono raggiunte solo quasi due anni dopo con la lotta di Liberazione
e la Resistenza, a prezzo di migliaia di morti ed innumerevoli distruzioni, ma la caduta di Mussolini fu immediatamente percepita dal
Paese per quello che significava, la fine di un’epoca o meglio di un incubo. Ci furono immediatamente manifestazioni spontanee in moltissimi centri in cui si inneggiava al ritorno della libertà ed anche la stampa nazionale, nel riferire la notizia dell’arresto del duce, in quei
primi giorni si mosse secondo la stessa lunghezza d’onda. La popolazione, a Roma ed in
altre città, dimostrò davanti alle prigioni reclamando la liberazione dei detenuti politici.
Il tribunale speciale, che aveva comminato centinaia di ergastoli con migliaia di anni di
galera e sentenze di morte, era decaduto e così poterono tornare alle loro famiglie tutti
coloro che erano stati imprigionati, anche se spesso fu solo una felice ma breve parentesi
Mensile dell’ANPPIA
prima di scomparire per partecipare alla lotta partigiana: così fu per molti livornesi di cui
Associazione Nazionale Perseguitati
ricordiamo tra tutti Benifei, Conti, Raugi, Giachini, Geppetti, Nenciati.
Politici Italiani Antifascisti
Ma il 25 luglio rappresentò senz’altro una rottura e ne abbiamo prova leggendo, ad esempio, i rapporti di polizia che descrivono, con estrema preoccupazione, una situazione fuori
Direttore Responsabile:
controllo sia nel Paese ma soprattutto nelle fabbriche dove ogni rapporto gerarchico fonLuigi Francesco Morrone
dato sull’autorità e sulla fedeltà al regime è saltato: “Dall'epoca dell'assunzione del nuovo
Governo e conseguente scioglimento del partito fascista, e soprattutto per la campagna
In Redazione:
svolta nei primi giorni dalla stampa di Milano che inneggiava alla riacquistata libertà, nelMaurizio Galli
la massa operaia è subentrata la convinzione di poter fare il proprio comodo… i dirigenti
degli stessi stabilimenti per essere già in vista durante il cessato regime fascista, non riSEDE:
scuotono la fiducia dei dipendenti, i quali ne profittano per fare il proprio comodo con preCorsia Agonale, 10 – 00186 Roma
giudizio della produzione” (Regia Questura di Livorno 16 Agosto 1943 N° 09398 Div. Gab.)
Tel 06 6869415 Fax 06 68806431
Vogliamo ricordare del 25 luglio proprio questo, per come allora gli italiani abbiano iniwww.anppia.it
ziato un percorso, difficile e pieno di sofferenze, per riappropriarsi della democrazia e,
[email protected]
in definitiva, della propria sorte, della propria storia. Questo è quello che voleva sempre
ricordare Garibaldo Benifei e noi con lui. Ma Garibaldo, insieme a sua moglie Osmana, ci
HANNO COLLABORATO A
ha sempre spinto anche a considerare questo come un percorso che non arriva mai ad un
QUESTO NUMERO:
compimento definitivo e che ha sempre nuove mete da raggiungere e nuovi nemici con cui
misurarsi. Guardiamo, ad esempio, a quello che sta accadendo proprio in questi giorni in
Roberto Cenati, Giuseppe Cisterna,
Europa, con le vicissitudini delle popolazioni ed i diktat di certi organismi internazionali,
Nicola Corda, Antonio Duva,
una vicenda che ha portato alla ribalta e posto in discussione politiche economiche che
Claudio Fano, Saverio Ferrari,
stanno mostrando limiti e difficoltà. Queste vicende ci spingono a richiamare con forza la
Giorgio Galli, Maurizio Galli,
necessità di ricordare, oggi più che mai, come la Democrazia e la dignità dei popoli siano
Giorgio Giannini, Mauro Nenciati,
i valori primari, valori con i quali chiunque deve confrontarsi “a priori”.
Martina Parodi, Claudia Scorza,
È con questo doppio ricordo, di Garibaldo e del 25 luglio, e con la necessità di alimentare
Filippo Senatore, Carlo Tognoli,
la memoria e di guardare alle sfide che verranno, che quest'anno siamo tornati a celebrare
Alessandro Vecchi, Elisabetta Villaggio,
questa ricorrenza. Lo abbiamo fatto in forma più “sommessa” di altre volte deponendo
Gabriella Zocca
una corona al Monumento degli Antifascisti e dei Perseguitati Politici della nostra città,
ma lo abbiamo fatto con lo spirito di chi vuole onorare con forza le idee e l'esempio di chi
TIPOGRAFIA
ci ha preceduto e di chi ha lottato per donarci la libertà e la democrazia.
Graffietti Stampati
l’antifascista
PROGETTO GRAFICO
Marco Egizi www.3industries.org
Prezzo a copia: 2 euro
Abbonamento annuo: 15,00 euro
Sostenitore: da 20,00 euro
Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascista
Chiuso in redazione il:
2015
finito di stampare il:
2015
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
Scarica

ROMA CORROTTA, ITALIA INFETTA