DOJO
CULTURA E INFORMAZIONE SUL KARATE‐DO
Seishinkan Karate‐Do M°Mauro Mancini A cura di Alessandro Parodi Karate no shugyo wa issho de aru ‐ Il karate si pratica tutta la vita
n°1 - Ott 2006
DOJO PER IL DOJO Frequentare un corso di arti marziali presenta delle differenze, rispetto alle altre comuni discipline sportive, in quanto occorre attenersi ad una serie di regole di comportamento, fondamentali per poter partecipare alle lezioni nel rispetto del Maestro e degli altri allievi. Il dojo non può essere considerato una semplice palestra, come viene comunemente definito in Occidente, ma uno spazio in cui imparare la Via (karate‐do) cercando di realizzarvi l’unione mente‐corpo. Questo progetto prende forma grazie alla costante ricerca svolta, in tanti anni di pratica dal M° Mauro Mancini. Una pratica diretta al perfezionamento dei metodi di insegnamento, oltre che del proprio bagaglio, nell’idea di trasmettere la conoscenza del karate con serietà e sincerità, senza alcuna riserva. Generalmente, quando si comincia a praticare, viene privilegiato l’aspetto tecnico rispetto a quello teorico, anche per mancanza di tempo. Lo sa soprattutto il Sensei che deve fare continuamente i conti con orari, date da ricordare, gare, stage. Le tecniche sono la parte che impegna maggiormente gli allenamenti. La teoria, fondamentale al pari della pratica, viene quindi sacrificata per la sua, erroneamente considerata, importanza secondaria.
Questa serie di appunti, nella loro modestia, vogliono rappresentare un piccolo contributo per tutti i praticanti, sia coloro che hanno ormai una certa anzianità, che quelli che approdano al karate per la prima volta, diretto a costruire nel corso della pratica, una conoscenza dei principi basilari del karate‐Do. Gli argomenti non verranno trattati ovviamente, data la loro complessità, in modo esaustivo, ma rappresenteranno solo un utile riferimento per comprendere meglio il lavoro che viene svolto in palestra e apprezzarne le sfumature. Non solo fatica fisica quindi... Il termine “dojo” ereditato dal buddismo cinese, significa letteralmente “luogo (jo) dove si segue la via (do)” e nella Buon inizio corso a tutti!!! sua origine indicava il luogo in cui Buddha ottenne il risveglio. In seguito fu fatto proprio dalla casta militare e utilizzato dai samurai per definire lo spazio in cui venivano studiate le arti da combattimento. Gli allenamenti si tenevano in piccoli locali situati ai margini delle foreste o vicino ad un castello, allo scopo di preservare i segreti degli insegnamenti dei Maestri. Lo stesso Funakoshi era solito allenarsi di notte. Sia quando si entra che quando si va via dal dojo occorre eseguire il saluto inchinandosi, per ringraziare di tutto ciò che si è appreso durante la lezione. La parete in cui è appesa l’effige del fondatore indica il lato dell’insegnante (Kamiza), mentre quella “REI” “Il Karate inizia e finisce con il opposta è riservata agli allievi (Shimoza), i quali, all’inizio e al saluto” G. Funakoshi termine della lezione, si dispongono in fila in ordine di cintura. Il dojo è un luogo di studio in cui, oltre ad apprendere le tecniche del do, si lavora su se stessi e sui propri limiti, cercando di superarli e imparare anche dai propri errori. Non palestra dunque ma spazio meditativo ove regnano i dettami del maestro, per il quale gli allievi sono tutti uguali. Nessuna classe sociale o professionale condiziona gli allenamenti e i problemi della quotidianità rimangono esclusi per lasciare spazio a concentrazione e purificazione della mente. Indossare il karate‐gi ha lo scopo di stabilire una nuova dimensione dell’essere: quella del karateka libero da condizionamenti esterni e pronto a seguire gli insegnamenti del proprio Maestro. Lo stesso colore bianco dell’abito e l’assenza di altri ornamenti stanno a simboleggiare purezza e semplicità. Non urlare, non sporcare, non indossare orecchini o braccialetti e non masticare chewing‐
gum rappresentano solo l’inizio del percorso che attende l’allievo fin dal suo primo giorno di pratica. Assumere un corretto atteggiamento, rispettando se stessi e gli altri, in amicizia, spirito di gruppo, disponibili all’aiuto reciproco è una condizione imprescindibile per comprendere l’etica dell’arte marziale. In passato ad esempio era in uso il rito del Soji, ossia della pulizia del dojo alla fine di ogni lezione, preparandolo per i successivi allenamenti, a dimostrazione della sua importanza. Un gesto significativo di ringraziamento e di umiltà, qualità primaria necessaria ad affrontare gli insegnamenti e la vita quotidiana nel modo migliore. Appunti di storia del karate Shotokan Lezione n. 1 – Le origini delle arti marziali cinesi Prima di analizzare lo stile Shotokan (Stile Tradizionale) è necessario fare alcune premesse di carattere puramente accademico. L’origine delle arti marziali in Cina, da cui deriverebbe il karate, è molto difficile da individuare, soprattutto per la mancanza di fonti scritte attendibili. Quel che è certo è che, in un determinato momento, la necessità di difendersi dalle aggressioni, ha spinto alcune popolazioni ad elaborare delle tecniche di autodifesa. Queste primordiali forme di combattimento vengono fatte risalire addirittura al terzo millennio a.C. In quel periodo preistorico sembra che esistesse già una forma di lotta a mani nude, denominata Chiao‐ti, in cui i contendenti combattevano caricandosi con la testa, come dei tori. Esistono diversi stili di karate creati e diffusi da vari maestri che derivano nella maggior parte, da una forma di combattimento a mani nude molto diffusa anticamente ad Okinawa: il Te o Tode. 2 Letteralmente il termine significa “mano cinese” e la sua origine viene attribuita all’insieme di arti da combattimento molto diffusi in Cina nell’era T’ang (618‐907) e che viene, durante l’era Ming (1368‐1644), “esportato” nell’isola di Okinawa (arcipelago delle Ryu Kyu) dando origine al karate. Il termine però non ha ancora assunto il significato moderno di “mano vuota” ma viene scritto con due ideogrammi che significano mano “Te” di “T’ang” (Kara) appunto “mano cinese”. Un chiaro riferimento alla dinastia T’ang quindi, periodo in cui la potenza e il benessere della Cina raggiungono il loro apice e le arti marziali diventano molto popolari, con un livello tecnico altissimo. Molto importante risulta essere il ruolo svolto dal famoso monastero buddista Shaolin in cui le arti marziali, secondo alcuni teorici, si sono sviluppate e sono state insegnate per più di mille anni. Nel corso degli anni il Tode si sviluppò dando vita a due scuole principali: Nahate (Mano di Naha) e Shurite (Mano di Shuri) cui si affiancherebbe la Tomarite (Mano di Tomari), direttamente legate a due stili principali molto importanti: Shorei‐Ryu o “Stile dell’ispirazione e Shorin‐Ryu o “Stile della giovane foresta”. Shuri era all’epoca la capitale di Okinawa, in cui risiedevano funzionari e nobili. Naha era un porto commerciale, che comprendeva il villaggio di Kume dove si insediarono 36 famiglie cinesi. Tomari era un villaggio situato vicino alle suddette città. Queste scuole furono a loro volta influenzate dalla boxe cinese e in particolare dallo stile Shaolinquan, fondato dal monaco Raffigurazione di Bodhidarma buddista Bodhidarma (Daruma Taishi) nell’omonimo tempio di Shaolin tra il V e il VI sec. d.C. Bodhidarma considerava la meditazione la via per l’illuminazione e insegnò ai monaci del tempio, che si pensava già praticassero una primitiva forma di lotta, una serie di esercizi fisici e di respirazione (derivati dallo Yoga) che servivano a recuperare le energie dopo una lunga meditazione e facilitare il conseguimento dell’unità spirituale. Questo incontro, tra aspetto meditativo e tecniche di combattimento diede una nuova caratteristica alle nascenti arti marziali cinesi, considerate quindi non più solo delle semplici tecniche di autodifesa, ma anche un metodo di cura del sistema mente‐corpo e un mezzo di perfezionamento spirituale. Si crede che Bodhidarma insegnò anche una serie di esercizi (tecniche di combattimento) denominati: Sho Pa Lo Han Shou ossia “Le 18 mani (tecniche) dei discepoli”. Alcuni storici moderni tuttavia mettono in discussione tale possibilità.
Il karate, secondo alcune teorie, venne influenzato anche da un altra arte marziale che si diffuse ad Okinawa nel 1600 ma che si presume fosse già praticata, in Cina sin dal VII sec. d.C. dai monaci buddisti del sopra citato tempio di Shaolin: il Kenpo ( noto in Occidente con il termine Kempo), una forma di combattimento, anche questa senz’armi. Tale termine significa “boxe tradizionale” in senso generico, ed è stato adottato in Giappone in epoca moderna. Si pensa che anche il Kenpo abbia origine dagli stessi stili di combattimento cinesi che hanno determinato la nascita del Te. 3 Vocabolario Tecnico
In questa sezione si affronterà un tema caro a tutti i Maestri: imparare le denominazioni delle tecniche e le loro principali differenze e utilità. Il karate prevede essenzialmente l’allenamento di quelle che possiamo considerare le sue tre colonne portanti: 1. Kihon 2. Kata 3. kumite
Kihon. Il termine significa: Ki = Fondamenta e Hon = Base. Sono appunto le tecniche di base, quelle fondamentali, divise in schemi, la cui complessità varia al variare del grado dell’allievo. Kata. Sono degli schemi da praticare individualmente, che seguono un ordine ben preciso di attacchi, contrattacchi, parate contro avversari immaginari. Vengono chiamati anche “forme” e simulano un reale combattimento. Kumite. Il termine significa: Kumi = Incrociare e Te = Mano e si riferisce all’allenamento praticato insieme ad un compagno e quindi il combattimento. Kiai. E’ un elemento fondamentale di una tecnica quando viene eseguita nella sua massima potenza. E’ normalmente considerato un grido ma in realtà è un esplosione di energia, il Ki, che viene liberata dall’Hara (centro dell’energia situato, nel nostro corpo, in corrispondenza dell’ombelico) e che apporta alla tecnica il massimo potenziale. E’ molto importante nell’esecuzione dei Kata. Un albero con profonde radici ha una presa salda nel terreno e può crescere sano e forte. L’idea del Kihon è proprio questa: acquisire le basi per poter progredire nello studio del Do. Se non si hanno delle fondamenta solide, se non si conosce bene il Kihon, il resto non può essere appreso e la crescita si blocca. La corretta esecuzione di un Kata dipende da una buona padronanza del Kihon e un avversario si può dominare solo con una tecnica efficace. Nel Kata il karateka mette in pratica le tecniche del Kihon contro diversi avversari immaginari, in uno schema prestabilito. La difficoltà nell’esecuzione di un Kata può variare a seconda del livello della cintura. A volte però, quando si raggiungono livelli di preparazione elevati, è necessario studiare con maggiore presenza mentale i Kata apparentemente più semplici, cercando di sviscerarne i più remoti segreti e di limare le imperfezioni dell’esecuzione. Con il Kumite si “prova” l’efficacia di una tecnica sul campo, attraverso il confronto diretto con un avversario in carne e ossa. E’ un valido esercizio per testare l’efficacia delle tecniche e per elaborare strategie di attacco e difesa. Si impara, con l’esercizio, a studiare l’avversario e a capire quando è il momento giusto per portare un attacco o quale tipo di difesa può risultare maggiormente efficace. Continua.... Per qualsiasi dubbio, chiarimento, informazione e proposte di discussione puoi contattare i seguenti indirizzi di posta elettronica: [email protected] [email protected] Oss!!! Alessandro
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