XXVI SEMINARIO NAZIONALE DI RICERCA
IN DIDATTICA DELLA MATEMATICA
Rimini, 4-6 febbraio 2010
ARTEFATTI E SEGNI A SCUOLA: MEDIAZIONE
SEMIOTICA NELLA TRADIZIONE VYGOTSKIANA
Mariolina Bartolini Bussi & Maria Alessandra Mariotti
Introduzione
Premessa.
Nel 2008 abbiamo pubblicato il quadro teorico del programma di ricerca sulla mediazione semiotica
(Bartolini Bussi & Mariotti, 2008), corredato da alcuni esempi. Ad oggi, questo capitolo costituisce il testo
più organico di presentazione del quadro di riferimento e per questo è a disposizione dei partecipanti sia
nella versione originale inglese che in una traduzione parziale in italiano (Bartolini Bussi & Mariotti, 2009).
Avremmo potuto organizzare il seminario seguendo solo la falsariga di quel testo. Ci è parso però che
appiattire tutto nel presente fosse meno efficace che ricostruire, almeno inizialmente, il faticoso e lungo
percorso che ha portato ad adattare e ad arricchire il quadro, in funzione, da un lato, delle concezioni e dei
bisogni degli insegnanti, e, dall’altro, dei risultati della ricerca empirica che veniva via via condotta. Questa
introduzione ha anche lo scopo di fornire una bibliografia ragionata di alcuni dei principali lavori fin qui
pubblicati.
Gli insegnanti sono stati protagonisti di questa costruzione e meritano il nostro ringraziamento sincero.
Alcuni giovani colleghi hanno dato contributi preziosi. Altri colleghi più esperti (in Italia e negli ambienti
internazionali) ci hanno stimolato a cercare risposte sempre più precise, per esplicitare le differenze tra il
nostro quadro ed altri quadri teorici disponibili nella letteratura di ispirazione vygotskiana. I ringraziamenti
di rito sono al termine di questa introduzione (ciascuno di loro sa per che cosa).
L’inizio (anni ’80).
All’inizio degli anni ’80, di fronte al dilagare in ambito scientifico del modello costruttivista centrato
sull’individuo, molte erano le critiche degli insegnanti di scuola primaria del gruppo di Mariolina. Non
vedevano sufficientemente valorizzato il ruolo dell’insegnare e la gestione del grande gruppo classe.
Trovavano sicuramente appoggio nei componenti universitari del gruppo (non sarà stato un caso che i primi
PRIN, che allora si chiamavano 40%, coordinati da Giovanni Prodi si intitolavano già “Insegnamentoapprendimento della matematica”).
Nella scuola il ‘lavoro di gruppo’ era trattato con attenzione ai soli aspetti affettivi (stare bene, avere
autostima, essere motivati, ecc.) senza attenzione ai processi cognitivi specifici. Nella ricerca c’era
pochissimo: l’unica eccezione pareva essere lo studio di alcune situazioni di comunicazione (à la Brousseau)
in cui tuttavia l’analisi era centrata solo sulla relazione tra i binomi (le coppie) di bambini che si
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scambiavano i messaggi e non sulle interazioni all’interno della coppia (non analizzabili a priori) e in cui
l’insegnante era, nel funzionamento,in ombra o del tutto assente.
Nessuno sembrava occuparsi dell’interazione tra l’insegnante e l’intera classe, se non per rilevarne i
malfunzionamenti (lo schema dei due terzi di Flanders, 1970; lo schema IRF di Sinclair & Coulthard, 1975; le
regole implicite di Edwards & Mercer, 1987). Anche le analisi di Brousseau (effetti Topaze, Jourdain, ecc.)
sembravano più utili a intimidire l’insegnante che a sollecitarlo a sperimentare percorsi innovativi.
In quegli anni, il gruppo di Mariolina ha iniziato a leggere (e a rielaborare) tutto ciò che si trovava nella
letteratura internazionale sull’interazione sociale a scuola (il dibattito scientifico di Legrand, le
‘sociomathematical norms’ di Cobb & c., gli studi microetnografici di Bauersfeld & c., ecc.). La plenaria di
Mariolina al PME di Assisi (Bartolini Bussi, 1991) dà conto di questo sforzo di rassegna (in cui, per esempio,
si accoglie come funzionale l’idea di campo di esperienza di Boero), non ancora sufficiente, tuttavia, a
formulare una ‘definizione’ di discussione (almeno metaforica, possibilmente operativa), che si distaccasse
dalle caratterizzazioni costruttiviste in cui l’insegnante aveva il solo compito di costruire un contesto
favorevole all’interazione tra pari (per una analisi critica del significato di discussione matematica in Pirie &
Schwarzenberger, 1988 e in Richards, 1991, vedi Bartolini Bussi, 1998a). Ancora per alcuni anni, il gruppo
utilizza una definizione costruttivista di discussione matematica, con molti distinguo e molte precisazioni,
che tentano di introdurre una visione autenticamente vygotskiana. Il quadro di riferimento appare eclettico
e senza una vera analisi critica degli elementi fondamentali. Si sviluppano in questo periodo studi particolari
sull’infinito, sul volume, sui grafici (pubblicati inizialmente in italiano sulla rivista del centro Morin e
successivamente portati al confronto in congressi internazionali). Non è un caso che i titoli dei primi lavori si
adeguino alla cultura dominante e parlino solo di “apprendimento”. In questi studi si incominciano a
delineare due diversi tipi di discussione: la discussione di bilancio, che avviene dopo la soluzione individuale
di problemi alla ricerca di una o più strategie condivise, e la discussione di concettualizzazione (inizialmente
chiamata anche di tessitura), che mira a costruire significati condivisi, nella forma di prime definizioni di
concetti.
Gli anni ’90.
Per uscire da questa situazione non del tutto soddisfacente dal punto di vista teorico, è stato necessario
tornare ai classici (innanzitutto Vygotskij, a partire dalla splendida edizione critica di Luciano Mecacci, del
1990; poi Leont’ev e Lurija) e alle fonti secondarie (la Multidisciplinary Newsletter for Activity Theory,
pubblicata dal 1988 e trasformata nel 1994 nella rivista Mind, Culture & Activity; i lavori di Clotilde
Pontecorvo & c., a partire dal libro “Discutendo si impara. Interazione sociale e conoscenza a scuola”(1991).
Da Vygotskij veniva la definizione di Zona di Sviluppo Prossimale, intesa come:
“la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato dal problem – solving
autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem – solving
sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci.”
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Nella interpretazione ‘ortodossa’ questa definizione stabiliva in modo chiaro l’asimmetria dei ruoli
dell’insegnante e degli allievi. Vygotskij offriva anche il conforto di una visione dialettica del processo di
insegnamento-apprendimento. Come ricorda Mecacci (1990) nel lessico vygotskijano allegato alla sua
edizione critica di Pensiero e Linguaggio, il termine russo obučenie (erroneamente tradotto in occidente
come “apprendimento”) significa:
“il processo di trasmissione e appropriazione delle conoscenze, capacità, abilità e dei metodi
dell’attività conoscitiva dell’uomo. L’obučenie è un processo bilaterale, attuato dal docente
(prepodavanie *insegnamento+) e dal discente (učenie *apprendimento+). Questo processo circolare
di insegnamento-apprendimento è quindi intraducibile con uno solo di questi due termini”.
Attraverso Engestroem (1987), già citato da Mariolina nella plenaria di Assisi, veniva il riferimento a
Bachtin, con l’idea di voce, come “forma di discorso e di pensiero che rappresenta il punto di vista di un
soggetto, il suo orizzonte concettuale, il suo intento e la sua visione del mondo”. Questa idea consentiva di
dare senso alla famosa legge genetica dello sviluppo culturale (ed in particolare delle ultime righe) di
Vygotskij:
“Ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due
piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima tra le persone come
categoria interpsichica e poi all'interno del bambino come categoria intrapsichica. Ciò vale
ugualmente sia per l'attenzione volontaria che per la memoria logica, che per la formazione dei
concetti e lo sviluppo della volontà. Siamo nel pieno diritto di considerare questa assunzione come
una vera e propria legge, ma s'intende che il passaggio dall'esterno all'interno trasforma il processo
stesso, ne muta la struttura e le funzioni. Dietro a tutte le funzioni superiori e ai loro rapporti stanno
geneticamente delle relazioni sociali, relazioni reali tra uomini. Ne segue che uno dei principi
fondamentali della nostra volontà è la divisione delle funzioni tra gli uomini, una nuova suddivisione
binaria di ciò che ora è fuso insieme, il dispiegarsi, sperimentale, del processo psichico superiore nel
dramma che ha luogo tra gli uomini”.
L’idea di voce sembrava catturare l’essenziale dell’interazione, a cui ciascun interlocutore porta una
prospettiva (la sua “voce” appunto) che entra a costituire il significato socialmente condiviso attraverso il
processo di interiorizzazione. In particolare, i significati matematici che oggi conosciamo (‘fusi insieme’)
sono il risultato di un lungo processo storico che ha sedimentato sugli “stessi” oggetti modi di vedere
diversi. Si può pensare, ad esempio, al caso delle coniche (uno dei casi studiati da Mariolina, Bartolini Bussi,
2005) in cui i diversi modi di pensare alle coniche (sintetico, analitico; nello spazio, nel piano; come oggetto
da contemplare, come oggetto da costruire, ecc.), che in epoche diverse sono state di volta in volta
dominanti, entrano nella costruzione del significato moderno. Nella discussione, l’idea di voce (inizialmente
affascinante ma solo metaforica) suggeriva la presenza di più punti di vista, tra cui, fondamentale, quello
della cultura matematica, di solito portato dall’insegnante. Suggeriva anche una linea d’azione da seguire
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(da parte dell’insegnante) per rendere efficace la discussione: lasciare tempo all’emergenza delle voci;
portare voci non presenti (ma previste in una analisi a priori); tessere, armonizzare, orchestrare le diverse
voci, in modo che gli allievi, attraverso l’interiorizzazione, costruissero un significato dialogico e ricco.
Da Leont’ev veniva l’analisi a tre livelli dell’attività (attività, definite da oggetti o motivi; azioni, definite da
scopi; operazioni, definite dalle condizione specifiche). Di qui la necessità di studiare il ruolo
dell’insegnante:
-
Nella definizione dei motivi (necessariamente correlati ad obiettivi di lungo termine);
-
Nella definizione degli scopi (le singole discussioni);
-
Nella definizione delle operazioni (le strategie comunicative utilizzabili/utilizzate nel corso
dell’interazione).
In questa analisi, anche il contributo di autori italiani è stato molto utile. Si possono citare, ad esempio, i
lavori di Lucia Lumbelli (1990) che consentono di introdurre una distinzione tra:
-
Le opzioni fondamentali, fondate su argomentazioni di carattere ideologico o di concezione del mondo,
che costituiscono una specie di quadro da cui discende la valutazione generale della prassi educativa;
-
Le opzioni empiriche, che stabiliscono che cosa è opportuno fare in certi contesti (dati) per rispettare le
finalità educative (date) di cui al punto precedente.
E’ di questi anni lo studio analitico di diverse modalità di rispecchiamento (Bartolini Bussi, Boni & Ferri,
1995), nel tentativo di costruire un repertorio di strategie comunicative, a cui l’insegnante possa attingere
senza ansia durante la gestione dell’interazione. Il rispecchiamento è un’alternativa efficace rispetto alla
domanda diretta o al commento di valutazione di un intervento. Ci sono diversi tipi di rispecchiamento: ad
esempio, rispecchiamenti semplici (in cui l’insegnante rilancia la responsabilità agli allievi) e rispecchiamenti
con aggiunta di informazione (in cui l’insegnante rispecchia fornendo anche un aiuto). Si hanno parafrasi, in
cui l’insegnante rilancia l’intervento dell’allievo generalizzandolo o particolarizzandolo (un intervento che si
riferisce ad oggetti specifici viene rispecchiato con il riferimento ad oggetti generici e viceversa). La
strategia dei rispecchiamenti, che all’inizio appariva semplicemente funzionale a mantenere l’attenzione e
la comprensione di tutti gli allievi, si connette rapidamente all’idea di voce e ci porta naturalmente verso la
definizione di Discussione Matematica orchestrata dall’insegnante.
La Discussione Matematica orchestrata dall’insegnante
Alla metà degli anni ’90 appare la definizione di Discussione Matematica orchestrata dall’insegnante come
“polifonia di voci articolate su un oggetto matematico (concetto, problema, procedura, ecc.) che
costituisce un motivo dell’attività di insegnamento-apprendimento”.
La definizione appare quasi contemporaneamente in articoli di ricerca (es. Bartolini Bussi, 1996), in
contributi a convegni usciti in volume solo alcuni anni dopo (Bartolini Bussi, 1998a; Bartolini Bussi, 1998b) e
in un volumetto per insegnanti (Bartolini Bussi, Boni & Ferri, 1995). La definizione vuole veicolare in modo
sintetico alcune opzioni fondamentali che la differenziano dalla definizione costruttivista:
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-
Il riferimento ad attività di lungo termine (motivo);
-
Il tempo lungo necessario all’articolazione delle voci (che l’insegnante non deve ricondurre troppo
velocemente all’obiettivo);
-
La presenza (polifonia) di voci diverse, tra cui la voce della cultura matematica, portata
dall’insegnante;
-
La valorizzazione di voci imitanti (come nel contrappunto);
-
La non necessità di una comunità fisica di parlanti, per ammettere anche il dialogo tra sé e sé, il
dialogo con un testo scritto.
La chiarezza della definizione costruita collettivamente consente di sviluppare (e pubblicare) studi sempre
più precisi, come quelli su:
-
coordinamento dei punti vista (con l’analisi fine del ruolo dell’insegnante: vedi Bartolini Bussi
1998b, e nella versione italiana, Bartolini Bussi & Boni, 1995);
-
disegno prospettico (Bartolini Bussi, 1996);
Il gruppo di Paolo Boero in quegli anni sviluppa il costrutto teorico voci-echi, riprendendo, in un altro
contesto, l’idea di voce imitante (tesi di Bettina Pedemonte e Elisabetta Robotti).
E la mediazione semiotica?
Da Vygotskij veniva anche il costrutto teorico della mediazione semiotica, sempre evocato nel gruppo di
Mariolina fino dall’inizio, ma non reso del tutto preciso e operativo. Sicuramente uno degli ostacoli alla
precisazione dell’uso nella ricerca di questo costrutto teorico veniva dalla difficoltà di applicare al contesto
educativo la definizione classica (che riecheggia Pavlov) di Vygotskij (vedi appendice). Un secondo problema
veniva anche dalla tipologia dei primi esperimenti didattici, quasi tutti fortemente centrati sul linguaggio e
senza particolare riguardo alla presenza di strumenti, oggetti o testi (quelli che poi avremmo indicato
complessivamente come artefatti). Quando il linguaggio è al tempo stesso oggetto-motivo della discussione
(come nel caso della costruzione di definizioni) e strumento-segno nell’interazione, è difficile isolare una dei
due aspetti per studiarlo in modo approfondito. Si può dire che la precisazione del costrutto si è resa
necessaria non appena artefatti particolari hanno fatto il loro ingresso come elementi fondamentali negli
apparati sperimentali. Un secondo stimolo importante è venuto dall’estensione degli esperimenti didattici
alla scuola secondaria (vedi oltre).
Un primo artefatto particolare entra nell’esperimento sul coordinamento dei punti di vista nei primi anni
della scuola elementare e, successivamente, nella scuola dell’infanzia. In questo caso si utilizza un artefatto
complesso (un set costituito da una casetta, due pupazzi, un animale, un’automobilina e due alberi) in un
gioco di comunicazione tra un codificatore (che costruisce un villaggio) e un decodificatore dietro uno
schermo (che deve realizzarne una copia sulla base di soli messaggi verbali orali inviati dal codificatore). Le
caratteristiche dell’artefatto portano all’emergenza di locativi (davanti alla casa, dietro l’albero, ecc.)
collegati a un sistema di riferimento che ciascun oggetto definisce nello spazio circostante. L’insegnante
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interviene durante l’interazione che, anche se i protagonisti sono solo due (codificatore e decodificatore),
vede il coinvolgimento dell’intera classe, soprattutto nel momento del confronto delle due costruzioni
(http://www5.indire.it:8080/set/set_linguaggi/UL/O/lingOmat/pres.html).
All’epoca
vedevamo
le
potenzialità nel funzionamento, anche se l’analisi completa di quello che ora chiameremmo il potenziale
semiotico dell’artefatto è stata compiuta solo recentemente (Bartolini Bussi, 2007; Falcade & Strozzi 2008,
2009).
Il seguito di questo esperimento (sulla rappresentazione del mondo visibile attraverso il disegno
prospettico (Bartolini Bussi 1996, http://www5.indire.it:8080/set/set_linguaggi/UL/P/lingPmat/pres.html;
http://www5.indire.it:8080/set/set_modelli/UL/H/modHmat/pres.html ) prevedeva il ricorso ad artefatti di
diversa natura, come fonti storiche (testi di Piero della Francesca e, successivamente, di Leon Battista
Alberti), utilizzate dall’insegnante per mediare significati durante Discussioni Matematiche. Un artefatto
particolare (la tavola degli invarianti nel passaggio tra realtà e rappresentazione) era prodotto all’interno
della classe come ‘germoglio’ di una teoria che avrebbe consentito la dimostrazione di primi teoremi.
L’ingresso degli strumenti nell’accezione consueta del termine (macchine matematiche riprese dalla
fenomenologia storica della geometria) è documentato per la prima volta nel report presentato a PME
(Bartolini Bussi, 1993), dove un pantografo per la realizzazione di rotazioni è analizzato come strumento di
mediazione semiotica. Il caso non riguardava la discussione collettiva di grande gruppo (l’intera classe) ma il
lavoro di un piccolo gruppo di studenti in cui emergevano frammenti di discorso matematico. L’insegnante
offriva aiuto, creando, in termini vygotskiani, una zona di sviluppo prossimale. Era evidente ed analizzata
l’intenzionalità dei compiti posti, ma non c’era ancora un’analisi precisa del ruolo dell’insegnante
nell’interazione. Si osservava che in vari casi l’insegnante richiamava gli studenti a un controllo sullo
strumento (“Guarda se quello che dici è vero! Prova!”), in altri suggeriva il distacco dallo strumento e la
ricerca di una formulazione geometrica. Si sarebbe potuto interpretare questo come un caso di polifonia,
ma l’analisi in questi termini non era ancora pronta. Il pantografo era già visto come allusivo a prospettive
diverse (“ogni macchina incorpora sia conoscenza empirica che conoscenza teorica”) ma non era ancora
chiaro come si potesse favorire l’appropriazione (nei termini di Leont’ev) di tale conoscenza da parte degli
studenti. Nonostante la consapevolezza del ruolo essenziale dell’insegnante, non si ottenevano ancora
risultati sulla definizione precisa di tale ruolo in tutte le fasi del processo, tant’è vero che il report si
concludeva con la
frase: “How is realized the teacher’s role concerning cultural mediation in the
mathematics classroom?”.
Appariva molto evidente, in questo e negli altri esperimenti, l’esistenza di due piani (il piano della
matematica e il piano dell’attività dello studente o degli studenti) e la necessità per l’insegnante di creare il
legame tra questi. Proprio questa attenzione alla matematica come oggetto culturale, nella forma di sapere
da insegnare, ha caratterizzato lo sviluppo successivo di tutto il progetto, differenziandolo da programmi di
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ricerca di altri ricercatori (es. Radford) che mettevano a fuoco soprattutto il piano dell’attività degli
studenti.
Tuttavia, era necessario un passo ulteriore per poter modellizzare il processo di lungo termine nel quale
l’insegnante forza, attraverso l’introduzione di un artefatto e di consegne opportune, la costruzione di
significati personali e la loro evoluzione verso significati condivisi coerenti con la matematica da insegnare.
I nuovi campi di esperienza e il ruolo degli artefatti.
Nella seconda metà degli anni ’90, si iniziano in modo sistematico vari studi sperimentali su diversi tipi di
strumenti (che saranno successivamente chiamati artefatti):
-
le macchine matematiche, come il pantografo citato più sopra (all’inizio macchine geometriche che
forzano un punto a muoversi o a essere trasformato secondo leggi matematicamente date;
successivamente anche macchine aritmetiche, che consentono di realizzare procedure di
conteggio, di calcolo, di ordinamento);
-
i software, ad esempio Cabri.
Gli esperimenti sulle macchine si orientano, per la scuola primaria, su artefatti quali l’abaco (e
successivamente la pascalina); il compasso, i sistemi di ingranaggi, i prospettografi; e, per la scuola
secondaria, sui pantografi per la realizzazione di trasformazioni geometriche e sui curvigrafi.
Con gli esperimenti sui software ci si sposta al livello della scuola secondaria. Questo spostamento forza a
definire in modo più preciso qual è l’oggetto (motivo) della discussione. In quel grado scolare è necessario
far sì che i significati personali costruiti dagli studenti evolvano verso significati socialmente condivisi,
coerenti con il sapere da insegnare. Questo aspetto era rimasto un po’ in ombra negli esperimenti nella
scuola primaria, sia perché molti di questi si erano svolti in campi di confine, rispetto al sapere da
insegnare, sia perché gli insegnanti esperti creavano comunque (al di fuori del controllo sperimentale) le
condizioni perché i significati personali si collegassero alle competenze richieste dalla scuola.
In questo periodo nasce e si sviluppa la collaborazione molto fruttuosa tra Mariolina e Maria Alessandra,
che insieme analizzano il caso dei prospettografi, presentato su invito al MIT ad un convegno di architetti.
Nel lavoro si avvia l’analisi di quello che sarà poi chiamato il potenziale semiotico dell’artefatto,
ripercorrendone la storia e collegandola ad esperimenti compiuti in classe (Bartolini Bussi & Mariotti,
1999). In seguito, la collaborazione si sposta anche sui software.
Il contributo degli studi sull’uso del’ICT: Cabri e il problema della dimostrazione
Lo studio delle potenzialità didattiche di Cabri rispetto al problema della dimostrazione ha inizio nel quadro
della teoria dei Concetti Figurali (Mariotti, 1995). L’analisi prende in considerazione le potenzialità dello
strumento Cabri riconoscendo tra queste il fatto che risolvere problemi di costruzione in Cabri mobilita sia
la componente figurale che la componente concettuale descritte dal costrutto teorico introdotto da
Fischbein. In particolare, si assumeva che la componente concettuale ‘incorporata’ da Cabri, in quando
consistente con la teoria geometrica, offrisse un accesso al senso matematico di teoria. Su questa base,
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ancora molto vaga iniziano gli esperimenti didattici nelle classi del primo biennio della scuola superiore, con
l’obiettivo ancora vago di sfruttare le potenzialità di Cabri per introdurre gli allievi alla dimostrazione. Fin
dal primo impianto della sequenza è chiaro che la Discussione Matematica deve avere un posto
fondamentale. Le esperienze già fatte (studi sulle definizioni, Mariotti & Fischbein, 1997; Mariotti, 1995)
mostravano la necessità di insegnanti esperti, ma in cosa consistesse essere esperti non era chiaro affatto.
La necessità e il desiderio di chiarire questo punto è stato fin dall’inizio un motivo forte per i nostri studi.
Uno dei primi lavori congiunti (a cui hanno partecipato anche Paolo Boero, Franca Ferri e Rossella Garuti) è
stato realizzato nel 1997 con la presentazione di un Research forum a Lahti (PME XXI, Mariotti et. Al. 1997).
Da questo forum sarebbe poi nato, circa dieci anni dopo, il libro “Theorems in school: from history,
epistemology and cognition to Classroom Practice” (2008). In quell’occasione diversi costrutti teorici erano
messi in dialogo tra loro (Discussione Matematica, Campo di Esperienza, Teorema e Unità Cognitiva) a
partire da tre esperimenti didattici sviluppati a Modena, Pisa e Genova: l’esperimento sulla
rappresentazione del mondo visibile nella scuola primaria (Bartolini Bussi, 1996) in cui un germoglio di
teoria era costruito dagli allievi e poi utilizzato per dimostrare un teorema; un esperimento sulle ombre
solari di due bastoni nella scuola media in cui la teoria di riferimento era la geometria dello spazio; un
esperimento nella scuola superiore sul significato teorico di costruzione geometrica in ambiente Cabri.
Mentre i primi due esperimenti erano fortemente caratterizzati dall’analisi storico-epistemologica,
l’ambiente Cabri si presentava come un ambiente “moderno”: ci si chiedeva se i costrutti messi a punto
negli altri campi esperienza fossero esportabili e con quali risultati.
Successivamente, Maria Alessandra e Mariolina presentano un report sull’analisi di una discussione tenuta
in classe a Stellenbosch (PME XXII, 1998); si trattava della trascrizione di una discussione, la prima prevista
nel percorso con Cabri (vedi CD), nell’analisi si tentava per la prima volta di mettere a fuoco da un lato la
specificità di certe strategie comunicative – definite in quell’occasione semiotic games - dall’altro il loro
legame forte con lo strumento (in particolare con il comando History di Cabri).
L’esperienza ripetuta del percorso “Cabri per l’introduzione alla prospettiva teorica”, che si è protratta per
molti anni, con classi diverse e con insegnanti diversi, ha portato a riflessioni che di volta in volta
approfondivano aspetti o elementi diversi del processo di insegnamento/apprendimento basato sull’uso di
Cabri. Questo nuovo filone di studi faceva riferimento al costrutto della mediazione semiotica e prendeva in
considerazione sia l’analisi a priori delle potenzialità offerte dallo strumento – non ancora artefatto - Cabri
e delle sue componenti specifiche, comandi e funzionalità, sia l’analisi a posteriori del funzionamento in
classe (Mariotti, 2000; Mariotti 2001 a).
La Discussione Matematica era sempre considerata un elemento chiave, ma emergevano anche altri
elementi di cui si intuiva l’importanza: il quaderno di geometria (Cerulli & Mariotti,2003) e i report scritti
dopo le discussioni. Le riflessioni sul ruolo di questi elementi didattici confluirà nella costruzione del Ciclo
Didattico come struttura organizzativa del processo di insegnamento apprendimento basato sul processo di
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mediazione semiotica. La messa a punto del ciclo didattico segna il passaggio dalle analisi a posteriori di
esempi di “buon insegnamento” ad un frame didattico con un livello di caratterizzazione adeguato per la
sua utilizzazione nella pianificazione di interventi a lungo termine basati sul processo di mediazione
semiotica, indipendentemente dall’artefatto preso in considerazione. La caratterizzazione delle diverse
tipologie di attività del ciclo didattico è a questo punto non ancora del tutto definita, ma ci sembra ad un
livello di elaborazione sufficiente per essere considerata utilizzabile. Nella presentazione daremo degli
esempi su questo.
Il lavoro di riflessione che negli anni si è andato sviluppando si è mosso seguendo stimoli diversi che
venivano dall’esterno, contatti con altri ricercatori e di conseguenza altri quadri di riferimento, e
dall’interno. Per quest’ultimo aspetto si deve citare soprattutto il lavoro di tesi di alcuni dottorandi, primo
fra tutti Michele Cerulli e poi Rossana Falcade. Le questioni di ricerca che si sono via via delineate
riguardavano il funzionamento del processo di mediazione semiotica, ma mettevano sotto la lente elementi
specifici ed in questo modo hanno permesso al quadro generale di progredire.
Il costrutto della mediazione semiotica: dall’analisi di un artefatto al design di un artefatto
Le presentazioni tenute in varie occasioni di convegni internazionali hanno dato luogo a reazioni diverse,
spesso costruttive. In particolare, la necessità di rendere sempre più comprensibile agli altri il nostro
quadro ha dato lo stimolo ad approfondimenti e chiarimenti. Un’occasione fruttuosa è stata per Maria
Alessandra quella della stesura del capitolo “Influence of technologies advances on students' math
learning” (Mariotti, 2002); si è presentata, infatti, la necessità di mettersi in relazione con altri quadri
dovuta alla forma di review che capitolo richiedeva; in particolare è emersa la necessità di mettersi in
rapporto con l’approccio strumentale introdotto in Francia da Rabardel (1995), approccio che sembrava
destinato a diventare rapidamente molto popolare. È stata questa l’occasione in cui il termine artefatto si è
imposto per sostituire il termine strumento, per dare la possibilità di interagire con i costrutti chiave
dell’approccio strumentale. Successivamente, l’uso del termine artefatto si è rivelato coerente anche con la
trattazione epistemologica di Wartofsky (di cui diremo poi). È stato il momento in cui più chiaramente si è
messo a fuoco il contributo di un’analisi cognitiva nello studio delle potenzialità di un certo artefatto, ma
anche il momento in cui sono emerse le profonde differenze tra un obiettivo didattico che si configura in
termini di genesi strumentale (Lagrange, Trouche) e un obiettivo didattico che esprime il desiderio di
rendere le conoscenze degli allievi, seppur radicate nell’esperienza con l’artefatto, alla fine autonome da
esso. Negli ultimi tempi si è aggiunto un nuovo elemento all’analisi cognitiva degli artefatti, collegando lo
studio degli schemi d’uso delle macchine matematiche (pantografi per trasformazioni geometriche) ai
risultati sugli schemi d’uso del software Cabri già studiati in letteratura (Martignone & Antonini, 2009, in
stampa).
Un momento importante nello sviluppo del quadro teorico è costituito dal rovesciamento della domanda
classica che ci eravamo sempre fatte: dato un certo strumento quali sono le sue potenzialità? La domanda
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rovesciata era: è possibile costruire uno strumento – un software ad esempio – che possa funzionare come
strumento di mediazione semiotica rispetto a certi significati matematici che assumiamo come obiettivi
didattici? A rovesciare la domanda è stato Michele Cerulli che su questo problema ha lavorato prima per la
sua tesi di laurea, mettendo a punto un prototipo de L’Algebrista e una sequenza di attività ad esso
collegate, e poi per la sua tesi di dottorato, elaborando in modo più fine il quadro teorico.
Le considerazioni così maturate hanno portato alla sistematizzazione del costrutto di Potenziale Semiotico.
Alla definizione e discussione di questo costrutto dedicheremo una parte specifica della presentazione,
tenuto conto del fatto che questa parte del modello sembra aver raggiunto un buon livello di elaborazione.
L’aver isolato in modo chiaro l’oggetto concreto con il quale si interagisce – l’artefatto - da tutte le altre
componenti del processo ha messo in evidenza la necessità di tornare in modo più fine sul costrutto della
mediazione e sul processo di mediazione in particolare. In particolare siamo tornate sul nodo del rapporto
tra segno e artefatto: da un lato la produzione di segni a partire dall’uso di un artefatto, dall’altro
l’evoluzione dei segni a partire dalla nozione di discorso. In particolare, si evidenzia il legame tra segni
prodotti esternamente al contesto dell'artefatto e segni con i quali si interagisce all'interno del contesto
dell'artefatto. Un esempio paradigmatico resta quello dell'uso del termine "Assioma/Bottone" per riferirsi
in modo ambivalente sia al comando del L'algebrista che all'assioma della Teoria costruita. Un altro
esempio è il termine “Pallina-Decina”, nell’attività sull’abaco. In questo possiamo vedere certamente la
genesi della definizione di segno artefatto.
Ritornare sul costrutto della Discussione Matematica dopo aver approfondito l’idea di strumento di
mediazione semiotica ha richiesto chiarimenti sul funzionamento della Discussione Matematica: come
analizzare il funzionamento efficace di una discussione rispetto al fatto che un insegnante sta usando un
certo artefatto come strumento di mediazione semiotica? Due sono le dimensioni lungo le quali si è
sviluppata la teoria: la prima quella della classificazione e dell’evoluzione dei segni, la seconda quella della
caratterizzazione delle azioni e operazioni dell’insegnante.
Non per concludere ma per iniziare il seminario.
A questo punto pensiamo che il nostro quadro sia giunto ad un punto di elaborazione che permette di
essere comunicato; tuttavia, forse meglio e più di prima ci rendiamo conto dei problemi aperti che restano.
La ricerca si sviluppa e il quadro teorico si precisa nel dialogo con la pratica; per questo abbiamo iniziato ad
utilizzare il quadro anche nella formazione degli insegnanti non già esperti, perché ci forniscano nuovi dati
sperimentali.
Del resto, l’attenzione alla produzione di monografie destinate alla formazione degli
insegnanti è stata una costante di tutto il progetto (Bartolini Bussi, Boni & Ferri, 1995; Mariotti, 2005;
Bartolini Bussi & Maschietto, 2006; Bartolini Bussi, 2008). Inoltre, sul piano teorico, alcune esperienze
recenti, ad esempio il progetto ReMath, ci hanno dato la possibilità di confrontarci con altri quadri in un
modo costruttivo per trovare possibili complementarità. Mostreremo qualche flash di questi lavori in corso
durante il seminario.
10
Ringraziamenti: Franca Ferri, Mara Boni, Rossella Garuti, Cinzia Fortini, Bianca Betti, Rita Canalini, Lucia
Davoli, Claudia Costa, Carla Zanoli, Marcello Pergola, Annalisa Martinez, Marco Turrini; Daniela Venturi,
Maria Pia Galli, Paolo Nardini; Samuele Antonini, Michele Cerulli, Rossana Falcade, Mirko Maracci, Laura
Maffei, Francesca Martignone, Michela Maschietto, Cristina Sabena; Paolo Boero, Ferdinando Arzarello.
APPENDICE
MEDIAZIONE SEMIOTICA
Struttura delle operazioni con i segni.
Ogni forma elementare di comportamento presuppone una reazione diretta al compito proposto
all'organismo (che può essere espresso dalla semplice formula S - R).
Ma la struttura qelle operazioni con i segni necessita di un legame intermedio tra stimolo e risposta. Questo
legame intermedio è uno stimolo (segno) di secondo grado che è trascinato nell'operazione ove adempie
ad' una speciale funzione; crea un nuovo rapporto tra S e R. Il termine "trascinare nel " indica che un
individuo deve essere impegnato attivamente nello stabilire tale legame. Questo segno possiede inoltre
l'importante caratteristica dell'azione inversa (cioè opera sull'individuo, non sull'ambiente). Di
conseguenza, il semplice processo di stimolo - risposta è rimpiazzato da un'azione complessa e mediata che
noi raffiguriamo nel modo riprodotto. In questo nuovo processo l'impulso diretto di reagire è inibito e si
inserisce uno stimolo ausiliario che facilita il completamento dell'operazione con mezzi indiretti.
S ----------------- R
\
/
X
Studi accurati dimostrano che questo tipo di organizzazione è fondamentale per tutti i più alti processi
psichici, anche se in forme molto più sofisticate di quelle illustrate sopra. II legame intermedio in questa
formula non è solo un metodo per migliorare l'operazione preesistente e non è neppure un legame
addizionale in una catena S - R. Siccome questo stimolo ausiliario possiede la funzione specifica dell'azione
contraria, esso trasferisce l'operazione mentale a forme più alte e qualitativamente nuove e permette agli
esseri umani, per mezzo di stimoli estrinseci, di controllare il loro comportamento dal di fuori. L'uso di segni
porta gli esseri umani a una struttura specifica del comportamento che si distacca dallo sviluppo biologico e
che crea forme nuove di un processo psichico culturalmente fondato.
(L. S. Vygotskij, il processo cognitivo, ediz. orig. Mosca, 1930 – 60 tr. ital.
Torino: Boringhieri, 1987, p. 64 e ss.)
11
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI INTERNI AL PROGETTO
NB i riferimenti in rosso sono presenti sul sito del seminario Nazionale.
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Introduzione - Seminario Nazionale di Ricerca in Didattica della