Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport
Ufficio dell'insegnamento medio
Maria Luisa Altieri Biagi
PRASSI DEL LEGGERE E TESTO LETTERARIO
A cura di Giancarlo Quadri, Fiorenzo Valente e Margherita Valsesia
Dipartimento educazione, della cultura e dello sport
Ufficio dell'insegnamento medio
UIM 98.02
UIM 2005
Prima ristampa
300 es
Presentazione
All'origine di questa pubblicazione è il corso di aggiornamento La lettura del testo
letterario nella scuola media, organizzato dagli esperti per l'insegnamento dell'italiano
e tenuto il 28 ottobre 1995 dalla professoressa Maria Luisa Altieri Biagi, docente
ordinario di Storia della lingua italiana nella facoltà di Lettere dell'Università di
Bologna.
Molti docenti, in quell'occasione, hanno avuto l'opportunità di apprezzare la capacità
della relatrice di affrontare in modo ricco, chiaro e brillante le riflessioni su un tema
oltremodo interessante per la didattica della materia. Infatti la professoressa ha
proposto, a partire dal testo letterario, un vivace e convincente percorso sulla
riflessione metalinguistica. Esso rispecchia l'idea di lavoro sui testi e sulla lingua che è
ben conosciuto da chi utilizza o ha utilizzato i manuali della professoressa.
L'interesse mostrato dai partecipanti e la disponibilità della relatrice ci hanno spinto a
proporre questa pubblicazione. Essa si divide in due parti: la prima consiste nella
trascrizione della registrazione e ne mantiene il carattere di colloquialità e di
freschezza comunicativa; la seconda è un breve e denso saggio sullo stesso tema che
la professoressa ci ha messo a disposizione come testo che avrebbe potuto sostituire il
precedente o eventualmente integrarlo. Noi abbiamo optato per entrambi, pur
consapevoli che presentano, in forme diverse, lo stesso contenuto. Non ci siamo sentiti
infatti di rinunciare alla pubblicazione dell'uno o dell'altro; abbiamo preferito lasciare
al lettore la scelta del taglio espositivo che più gli è congeniale.
Pensiamo che la diffusione di questi testi sia utile anche ai colleghi che non hanno
potuto partecipare alla conferenza della professoressa Maria Luisa Altieri Biagi, cui
siamo grati per averci generosamente concesso di pubblicarli. Ringraziamo pure il
prof. Giancarlo Quadri, che si è prestato a trascrivere la registrazione, a tenere i
contatti con la relatrice e a collaborare alla redazione definitiva.
1
Indice
1. Il testo letterario nella scuola (trascrizione della conferenza)
p.
3
2. Conversazione al termine dell'esposizione
p.
26
3. Il testo fra norma e creatività
3.1 Antologia sì o no?
3.2 L'Antologia in funzione della lettura
3.3 Che cosa leggere?
3.4 Criteri per l'organizzazione delle scelte
3.5 Aprire ai testi «effimeri»?
3.6 Quali scopi deve proporsi un'antologia?
3.7 Quali tecniche di lettura?
3.8 Un'osservazione conclusiva
p.
p.
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IL TESTO LETTERARIO NELLA SCUOLA
(TRASCRIZIONE DELLA CONFERENZA)
Il testo seguente è tratto dalla registrazione di un intervento orale e dell’oralità
conserva le caratteristiche di immediatezza e di approssimazione.
Letture citate e usate quali esemplificazioni nella conferenza:
Italo Calvino, "Il lampo", "Attesa della morte in un albergo" e "Le città invisibili", in
Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994
Dino Buzzati, "Il macigno", in In quel preciso momento, Milano, Mondadori, 1979
Alberto Savinio, "Vecchio pianoforte", in Achille innamorato, Milano, Adelphi, 1993
Inoltre: U. Eco, G. Flaubert, T. Mann, L. Tolstoj, A. Cechov, É. Benveniste, V. Woolf
e alcune fiabe classiche.
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IL TESTO LETTERARIO NELLA SCUOLA
Il modo di affrontare la lettura nella scuola - e quindi anche nella scuola media - vede
da sempre due posizioni, fieramente sostenute da due schieramenti o partiti che si
contrappongono: c’è chi è partigiano della fiducia e dell'entusiasmo e chi invece è
convinto che le cose vadano sempre peggio. La mia convinzione è che, se ci si
rassegnasse al pessimismo (se il giorno in cui vedessimo bruciare la biblioteca di
Alessandria non ci si passasse il secchio), allora sarebbe proprio finita. Vale la pena
lavorare per ciò in cui si crede e dare un segno di fede e di speranza.
Dunque, il testo letterario nella scuola.
Almeno nella scuola italiana, esso viene concepito o come testo letterario intero, per i
docenti che non rinunciano all’organicità della lettura, o come testo letterario
antologizzato. Certamente è preferibile la completezza della lettura e non l’assunzione
di dosi omeopatiche del testo: ma non nella scuola, per la semplice ragione che ciò
che si dovrebbe fare a scuola dovrebbe essere l'attivazione di una curiosità che viene
poi soddisfatta a casa. E a volte capitano cose meravigliose a un genitore, come il
sentirsi chiedere dai figli l'Orlando Furioso per leggerlo «tutto»: perché il pezzettino
letto in classe ha destato la curiosità - del tutto legittima - di vedere «come andava a
finire quella storia».
Per i ragazzi - i bambini, gli adolescenti - il primo approccio con il testo letterario è
certamente la trama, il racconto. Si pensi allora a che cosa succede quando in una
classe - per esempio in una seconda media - un insegnante "sbaglia" libro (anche Il
barone rampante, in una classe, può essere un libro sbagliato e generare noia, sazietà,
stanchezza): bisogna allora avere il coraggio di cambiare libro; oppure bisogna avere
il coraggio di costruire un percorso antologico intelligente, trovando un filo che riesca
a dare, nella pluralità delle voci, il senso di come si trasmette una storia, valida (di là
dai tempi e di là dai paesi in cui si svolge) come capitolo tematico dell'immaginario.
Esemplificando, è possibile, cominciando da Cenerentola, spiegare che cosa è il ballo
per chiunque, ma specialmente per una donna: l'esposizione sotto un riflettore, sotto
una luce che all'improvviso aumenta la bellezza o la restituisce, che fa diventare
desiderabili. Cenerentola è tutto questo, è il riscatto di una bellezza non remunerata
dalla vita; è la luce che all'improvviso si concentra sul personaggio; è la felicità che,
logicamente, è limitata nel tempo (perché a mezzanotte Cenerentola deve scappare
via, pena l' interruzione del sortilegio).
Così può iniziare il «tema» del ballo, di un’esaltazione, che è esaltazione fisica ma
anche esaltazione della bontà, della gioia, perché chi si sente felice è anche buono. E
possono essere letti tutti i balli della letteratura, italiana e straniera: i balli di Flaubert
(Madame Bovary); il ballo della Parure di Maupassant; i due splendidi balli del Tonio
Kröger di Thomas Mann; il ballo di Natascia in Guerra e pace e l'altro ballo di Tolstoj
- questa volta visto dalla parte di un uomo - nel racconto che si intitola proprio Un
ballo; il ballo di Cechov nel racconto Un marito; il ballo di Angelica nel Gattopardo
di Tomasi di Lampedusa.
Lo scopo è quello di mostrare ai ragazzi la poliedricità di un tema che ha
impressionato la fantasia e la capacità creativa di grandi scrittori.
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Si è parlato del ballo, ma si sarebbe potuto parlare di altri temi: la città, la finestra
(intesa come rapporto fra l'io e il mondo), il viaggio, latamente inteso. Non solo i
viaggi lunghi con mete prestigiose: la luna, le colonne d’Ercole, il centro della Terra,
ecc., ma anche viaggi minimi - soprattutto interiori - come quello di una poesia di
Moretti, Ascensore. Moretti viene sempre antologizzato per la poesia Piove.
Mercoledì sono a Cesena... che è un bel testo, ma dice poco ad un ragazzo, poiché è
veramente «crepuscolare». Ci si chiede perché, invece della supercitata poesia, non si
legga Ascensore, che è l'espressione di un turbamento fisico trattato con straordinaria
delicatezza. Un uomo sale in ascensore con una ragazza: ed è un viaggio lunghissimo,
anche se dura poco.
Ma facciamo un passo indietro. Far frequentare testi simili pone dei problemi che,
come si suol dire, stanno a monte della lettura: a che cosa serve la lettura? perché
spingere i ragazzi a leggere? ha ancora un senso? o non dobbiamo far imparare loro
una lingua in più? o non dobbiamo farli diventare più bravi a manovrare le macchine,
in un mondo come quello attuale caratterizzato dall’estrema rapidità dell'informazione
e forse destinato ad aprire la fase della definitiva morte del libro?
È un pezzo che, ad ascoltare gli apocalittici, il libro deve «morire»; ma, grazie a Dio,
non è ancor morto e si spera che non morirà, perché, come spiega Calvino, c'è una
ritualità della lettura e ci sono modalità del leggere che non possono essere sostituite
dal calcolatore. Si rivada a quella splendida pagina di Se una notte d’inverno un
viaggiatore in cui Calvino descrive il tagliacarte come un'arma che serve per entrare
nel bosco incantato: tagliare le pagine del libro è un piccolo impedimento, ma è
emblematico della fatica che il lettore compie per attraversare il testo e arrivare in una
specie di radura mentale in cui il lettore ha tempo prezioso per pensare, per
immaginare, per desiderare di andare avanti.
Ma il problema non è solo quello della scelta attraente. Non esiste solamente la
funzione ludica del testo; il bisogno del libro non si esaurisce nel piacere della lettura.
C'è bisogno del libro come alimento indispensabile dell'intelligenza.
La lingua che si parla tutti i giorni è la lingua della sopravvivenza quotidiana. Sarebbe
utile esercizio portarsi in tasca un registratorino e registrare quel che si dice nel corso
di una normale giornata: poche centinaia, forse poche decine di parole in funzione
informativa, conativa, puramente fàtica, in una comunicazione che ci mette a contatto
con interlocutori anonimi e spesso insignificanti.
Ma quando si legge, si ha un'ora di contatto con chi si vuole: con Platone, con Galileo,
con Pirandello, con Shakespeare, ecc. Questo dobbiamo far capire ai ragazzi! Nella
routine della giornata è indispensabile avere un’ora di contatto con persone che hanno
cose straordinarie da dirci.
Certamente con i ragazzi bisogna fare attenzione: si è detto che anche Il barone
rampante può essere una lettura arida se essi non si rendono conto di quel che Calvino
ha voluto dire, ossia se non accettano di vedere il mondo dalla prospettiva rialzata,
anomala, di chi vive sugli alberi. Cosimo non è un pazzo, ma una guida a guardare il
mondo da una prospettiva non ovvia, non abituale.
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Anche I promessi sposi possono essere una esperienza negativa per i ragazzini: perché
se è vero che i ragazzi privilegiano la «trama», resta da spiegare quale senso e quale
fascino possa avere su di essi la storia di due contadini che si vogliono a tutti i costi
sposare (non è neppure bella, quella «baggiana» di Lucia e le noie che i circonvicini
causano a Renzo e Lucia finalmente sposi sono tante che i due si devono perfino
trasferire!)
Si capisce allora come la battaglia tra I promessi sposi e Beautiful sia persa in
partenza, perché Beautiful è una storia molto più vicina agli interessi dei ragazzi:
possiede i colori, i movimenti, le musiche fatte da specialisti di alto livello, si affida a
bravi attori, non richiede alcuno «sforzo» mentale.
Bisogna allora dare ai ragazzi degli strumenti in più per capire.
Che cosa fa il lettore intelligente e colto quando, leggendo I promessi sposi, arriva su
quella stradicciola percorsa da don Abbondio e proprio mentre è tutto teso a vedere
che cosa succederà con i bravi, si vede sbarrare l’attesa dalla spiegazione delle
«gride»: un brano lungo che interrompe l’azione?
Il lettore intelligente la prende bene. Entra in quel discorso come si entra in
un’anticamera, comprendendo l’astuzia manzoniana per ritardare la soddisfazione
della curiosità e quindi farla crescere. E se il lettore, oltreché intelligente, è anche
esperto e gode della parodia linguistica della «comunicazione» politico-giudiziaria,
può apprezzare quella «anticamera», trovandola bella in sé, oltre che utile
contrappunto a ciò che segue.
Leggendo quelle pagine del Manzoni, al lettore esperto viene in mente la scena di una
commedia dell'arte del Cinquecento (l'Angelica, di Fabrizio de' Fornaris, 1585), in cui
c'è un «Capitan Coccodrillo», spagnolo (che sostituisce il «Miles gloriosus» latino),
che presenta se stesso al suo servo (affamato, come sono sempre i servi della
commedia), in una specie di gergo spagnoleggiante:
Capitan don Alonso Cocodrillo, Hijo
d'el Colonel don Calderon de
Berdexa, hermano d'el Alferez
Hernandico Mandrico de strico de
Lara de Castilla la vieja, cavallero
de Sevilla, hijo d'Algo verdadero,
trinchador de tres cuchillos, copier
major de la Reyna de Guindaçia,
saccador de coracones, tomador de
tierras, lancador de palos,
cavalcador de janete, jugador de
pelota, enventor de justras,
ganador de torneos, protetor de la
ley Christiana, destruydor de los
Luterianos, segnor y Rey de 1'arte
militaria, terror de los traydores,
matador de los vellacos [...] y amigo
6
cordialissimo de don Gatavite
Pontius de Leon, y de don Rebalta
Salas de Castagnedo.
Alla quale presentazione il povero Squadra risponde con questa battuta:
Signore, io resto el più
attonito huomo d'el mondo;
perché pensava haver un solo
padrone, et mi pare de haverne
duimilia.
Questa può essere l'operazione che fa il lettore esperto quando legge il brano «noioso»
dei Promessi sposi: lo usa come stimolo della curiosità per ciò che verrà dopo;
conoscendo le tecniche di lettura, sa che gli giova aspettare. Ricorda testi dello stesso
genere, è aperto ai confronti, alle strizzatine d'occhio con cui lo scrittore lo rinvia ad
altri testi, in una specie di arte allusiva fortemente complice.
Ma il lettore inesperto non ha queste armi. Con i ragazzi bisogna avere il coraggio di
tagliare; bisogna saltare passi del genere anche se ciò ripugna all’insegnante che è
lettore colto.
Abbiamo detto prima che la lettura serve all’intelligenza; essa ha dunque funzione
informativa. Ma bisogna intendersi sul significato da dare al termine informativo: ciò
che comunemente si intende per informazione è qualcosa di molto superficiale;
l'informazione di cui parliamo ora è quella che va al fondo delle cose, che ne spiega
gli aspetti in modo originale e innovativo. E i testi letterari sono fortemente
informativi, perché sono cultura che si muove, che rifiuta gli stereotipi. Bisogna
spiegare ai ragazzi che il testo letterario possiede al massimo grado il potere che un
grande linguista francese, É. Benveniste, conferisce alla «parole»:
Il linguaggio instaura una realtà immaginaria, anima le cose inerti, fa vedere ciò
che ancora non esiste, riconduce qui ciò che è scomparso. Ecco perché tante
mitologie, dovendo spiegare come all'alba dei tempi qualcosa sia potuto nascere
dal nulla, hanno posto come principio creatore del mondo questa essenza
immateriale e sovrana: la PAROLA. Non esiste potere più alto e, a ben pensarci,
tutti i poteri dell'uomo derivano senza eccezione da quello.
Ecco perché creano preoccupazione il declino della competenza linguistica, la
stereotipia, la passività di abitudini mentali che a lungo andare rischiano di diventare
degradanti. Si rischia cioè di aderire al modello che Calvino ha perfettamente
illustrato in Ultimo viene il corvo 1 . Il ragazzo dalla faccia tonda, a mela, così bravo a
sparare con il fucile, non parla. Per tutto il racconto parlano i partigiani, ma il ragazzo
quasi non parla perché, per stabilire un rapporto tra se stesso e le cose, deve usare il
fucile. Nel momento in cui punta il fucile, allora si sente in comunione con l'uccello
che ha nel mirino, con la lumaca che si spiaccica su un sasso, con la trota e poi con il
1
Italo Calvino, "Ultimo viene il corvo", in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994,
7
petto del soldato tedesco a cui il ragazzo spara. L'unico mezzo che ha questo piccolo
automa muto per mettersi in rapporto con le cose è sparare: togliere la vita a ciò che
sta all’altro capo della traiettoria. Calvino lo dice bene: nel momento in cui il ragazzo
spara, c'è qualcosa che dalla bocca del suo fucile va a finire all'altro oggetto,
mettendolo in contatto con questo oggetto.
Il ragazzo muoveva la bocca del fucile in aria. Era strano a pensarci, essere
circondati così d'aria, separati da metri d'aria dalle altre cose. Se puntava il
fucile, invece, l'aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile
alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme.
A schiacciare il grilletto l'aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù
all'altro capo della linea, il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra.
Se dunque si vuole che i ragazzi non siano ridotti all'analfabetismo ed al dialogo
incentrato sulle tre o quattro parole oggi di moda, bisogna far capire loro l'importanza
della parola letteraria quando questa entra nei nostri circuiti mentali e diventa nostra.
Il mondo creato dalla parola letteraria è più istruttivo di quello da noi abitato, proprio
perché è fatto di parole che sono simboli, non oggetti materiali.
L'uomo è diventato grande perché a un certo punto, invece di abbracciare l'albero o di
toccarlo, lo ha pensato come ALBERO: e allora l'oggetto/albero è potuto diventare la
barca (l'albero scavato), o la ruota (l'albero tagliato a fette), o il riparo, o il
combustibile (l'albero tagliato e bruciato). È potuto diventare tutte quelle cose perché,
invece di reagire all'albero come la rana reagisce allo stimolo, l'uomo ci ha pensato. E
quell'albero, entrato attraverso la parola corrispondente nella sua mente, è stato messo
in rapporto con altre parole a formare delle proposizioni e dei testi.
Vengono in mente le parole di Virginia Woolf, scritte nel diario due giorni prima di
uccidersi. La scrittrice aveva appena finito un libro, l'aveva pubblicato ed era svuotata,
un po' come dopo un parto. E annota nel suo diario:
Ed ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e devo preparare la
cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche
modo padroni del merluzzo e delle salsicce.
Ossia, nel momento in cui va a preparare la cena (e non è certo una cena raffinata,
quella a base di merluzzo e salsicce!) ha la splendida idea che, per il fatto stesso di
nominarli, di inserirli in circuiti mentali, quei due oggetti sono diventati simboli
intellettualmente manovrabili.
Poiché senza motivazione non si fa nulla, prima di passare all'analisi dei testi è
sembrato giusto insistere sulla necessità di far capire ai ragazzi quanto i testi siano
importanti.
È ben vero che un ragazzo legge quando è convinto, prima di tutto, che leggere
«serva» per la vita. È giusto anche questo: non si devono dare subito motivazioni
ideali per la lettura; prima si spieghi ai ragazzi che il possesso della lingua è anche
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prestigio, conservazione di ruolo, capacità di difendersi, capacità di reagire all'offesa;
si spieghi loro il valore sociale della lingua; si metta bene in rilievo che cosa significhi
possedere lo strumento parola nel contatto sociale (e magari nel contrasto sociale).
Solo in seguito andranno chiariti i valori più ardui della lingua: quello del monologo
interiore; quello del colloquio con gli autori di testi scritti (abolendo qualsiasi distanza
di spazio e di tempo).
È comprensibile che un bambino - un ragazzo, un adolescente - preferisca altri tipi di
dialogo. Ma è certo che, andando avanti nella vita, le altre voci pian piano taceranno e
l’individuo si troverà a dialogare con gli «autori», se ha gli strumenti per farlo. Questo
bisogna far capire ai ragazzi, in un modo o nell'altro.
Nella scuola si sono visti gravi errori prodotti da un eccesso di sicurezza, commessi in
nome della scienza, del metodo scientifico, quasi che la scienza moderna, perdute le
sicurezze del sistema newtoniano, non ci avesse spiegato che le «verità» scientifiche
sono tutt’altro che assolute e definitive, sicché vera scientificità è utilizzare fonti che
si siano rivelate feconde, senza escludere la possibilità di ipotesi e metodologie
alternative. Il dubbio è la nostra forma di sicurezza.
Anche quel che si debba leggere non è scontato, non è stabilito una volta per tutte; se
non altro perché quel che va bene per una classe non va bene per un'altra.
Dunque, che cosa leggere in classe?
Quello che piace di più ai ragazzi. Quello che piace di più, in partenza; oppure quello
che si riesce a far loro piacere in seguito.
Arriveremo a scoprire testi che interessano i ragazzi e piacciono loro solo se non
avremo idee preconcette, se useremo il dubbio, per risolvere il problema. Così come
faceva Guglielmo nel Nome della rosa di Umberto Eco:
Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne
proponeva molte e diversissime tra loro. Rimasi perplesso.
"Ma allora," ardii commentare, "siete ancora lontano dalla soluzione
..."
"Ci sono vicinissimo," disse Guglielmo, "ma non so a quale."
"Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?"
"Adso, se l'avessi insegnerei teologia a Parigi."
"A Parigi hanno sempre la risposta certa?"
"Mai," disse Guglielmo, "ma sono molto sicuri dei loro errori."
"E voi," dissi con infantile impertinenza, "non commettete mai
errori?"
"Spesso," rispose. "Ma invece di concepirne uno solo ne immagino
molti, così non divento schiavo di nessuno.
Prendiamo esempio: dobbiamo fare molte prove, non dare per scontato che un testo
debba piacere. Se un testo piace, è facile capirlo, perché all'improvviso si fa il silenzio
in classe; e se si interrompe la lettura, si avvertirà la delusione dei ragazzi.
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Chiaramente sono da preferire testi della letteratura italiana, perché la lingua è
originale: però esistono le buone traduzioni e - a mio parere - è bene che i ragazzi non
abbiano limiti nella loro voracità e leggano Flaubert, Shakespeare, Tolstoj , Mann,
ecc., quando sarà il momento.
Lo diceva anche Calvino:
[...] è molto importante che, anche nella scuola, lo studio della letteratura italiana
sia integrato quanto più si può con la lettura dei grandi romanzieri francesi,
inglesi, russi; e anche con quello che si può vedere della grande poesia nelle altre
letterature. Penso che oggi dobbiamo pensare in termini di letteratura
internazionale; tutti noi siamo influenzati forse in maggior misura dalle grandi
letterature straniere piuttosto che dalla nostra. [..] dobbiamo avere uno sguardo
planetario e guardare a tutto il mondo, e nello stesso tempo anche scrivere
pensando che le nostre cose non sono lette soltanto nel nostro Paese, ma possono
circolare e partecipare ad un dialogo mondiale.
È bene che i ragazzi leggano di tutto: opere intere o «circuiti» antologici attorno a un
concetto chiave. Si pensi alla finestra come telaio che mette in comunicazione l'io con
il mondo; oppure come riquadro in cui compare la donna all'uomo che le parla dal
basso. Si pensi a tutti i dialoghi aerei della nostra e delle altre letterature: Alfio e
Mena, Romeo e Giulietta, Rossana e Cirano, ecc.
Oppure si pensi alle coppie di amici (Ulisse e Diomede, Eurialo e Niso, Cloridano e
Medoro) che traducono in comportamento eroico l’idea dell’amicizia. Bisogna far
vedere ai ragazzi come il mito dell'amicizia, della morte, della giovinezza passi da uno
scrittore all'altro, con una precisa trama di rimandi, di rinvii da parte di chi scrive.
Un accorgimento per conciliare il ritmo di lettura dei ragazzi con l’auspicata
«completezza» dell’opera potrebbe essere la scelta di racconti invece che di romanzi.
Racconti di Buzzati, di Calvino, di Tolstoj, di Cechov, di Maupassant, ecc. Una scelta
vastissima e affascinante. Spesso si tratta di testi molto brevi, come nel caso di un
racconto di Calvino, Il lampo, che fa parte della raccolta Prima che tu dica “Pronto”
Il lampo
Mi capitò una volta, a un crocevia, in mezzo alla folla, all'andirivieni.
Mi fermai, battei le palpebre: non capivo niente. Niente, niente del tutto, non
capivo le ragioni delle cose, degli uomini, era tutto senza senso, assurdo. E mi
misi a ridere.
Lo strano era per me allora che non me ne fossi mai accorto prima. E avessi
fin'allora accettato tutto: semafori, veicoli, manifesti, divise, monumenti, quelle
cose così staccate dal senso del mondo, come se ci fosse una necessità, una
conseguenza che le legasse l'una all'altra.
Allora il riso mi morì in gola, arrossii di vergogna. Gesticolai, per richiamare
l'attenzione dei passanti e - Fermatevi un momento! - gridai - c'è qualcosa che
non va! Tutto è sbagliato! Facciamo cose assurde! Questa non può essere la
strada giusta! Dove si va a finire?
La gente mi si fermò intorno, mi squadrava, curiosa. Io rimanevo lì in mezzo,
gesticolavo, smaniavo di spiegarmi, di farli partecipi del lampo che m'aveva
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illuminato tutt'a un tratto: e restavo zitto. Zitto, perché nel momento in cui avevo
alzato le braccia e aperto bocca, la grande rivelazione m' era stata come
ringhiottita e le parole m'erano uscite così, per via dello slancio.
- Ebbene - chiese la gente - cosa vuol dire? Tutto è al suo posto. Tutto va
come deve andare. Ogni cosa è conseguenza di un'altra. Ogni cosa è ordinata
con le altre. Noi non vediamo niente di assurdo o d'ingiustificato!
E io rimasi lì, smarrito, perché alla mia vista tutto era tornato al suo posto e
tutto mi sembrava naturale, semafori, monumenti, divise, grattacieli, rotaie,
mendicanti, cortei; e pure non me ne veniva tranquillità, ma tormento.
- Scusate - risposi. - Forse ho sbagliato io. M'era sembrato. Ma tutto è a
posto. Scusate - e mi feci largo tra i loro sguardi irti.
Pure, anche adesso, ogni volta (spesso) che mi accade di non capire qualche
cosa, allora, istintivamente, mi prende la speranza, che sia di nuovo la volta
buona, e che io torni a non capire più niente, a impossessarmi di quella saggezza
diversa, trovata e perduta nel medesimo istante.
"Mi capitò una volta, a un crocevia, in mezzo alla folla, all'andirivieni." E se in classe
si crea il silenzio, questa è la prima verifica, perché i silenzi intelligenti sono
comunicati interstiziali. Dicono che il testo - o l'incipit almeno - è piaciuto, che gli
ascoltatori sono agganciati, che hanno «abboccato» al testo letterario e desiderano che
la lettura continui. Calvino voleva proprio questo; ed è per questo che usa il perfetto
iniziale, a dare l’idea dell’eccezionalità dell’evento.
Quando Calvino dice: "Mi capitò una volta," viene la curiosità di vedere e di capire
cosa gli sia capitato.
Diverso il caso di un incipit come quello del Macigno di Buzzati.
Sopra la bella villa, dove si conduce una vita spensierata, un macigno pèncola..."
Che è un altro modo straordinario di comunicare il senso dell'angoscia. Qui la
duratività del presente è minaccia; perché il macigno che "pèncola" dà il senso della
duratività: ma si tratta della duratività di un pericolo. E, si noti, la minaccia deriva
anche dal verbo "pèncola" posposto: una parola sdrucciola che dà il senso sonoro
della precarietà della situazione, dell’imminenza del crollo.
Ecco cosa significa leggere un testo letterario con i ragazzi: prima lo si esegue
oralmente e si lascia capire ai ragazzi quello che essi vogliono (possono) capire.
Capiranno una porzione minima del testo, leccheranno la panna sulla torta, per così
dire. Poi entreranno dentro il testo, nei suoi strati, man mano che le loro osservazioni
verranno stimolate.
Elenco alcuni elementi notevoli del testo di Calvino:
1. L'elenco delle cose "accettate" come «torrone» di elementi rapidamente compattati,
a dare l’idea della casualità e del disordine della vita.
2. Il ritmo incalzante dei perfetti, e poi il contrasto tra perfetto ed imperfetto (uno dei
meccanismi più straordinari dell'arte narrativa) che giova indagare in altri testi per
vedere come gli autori lo usano. Nel Gattopardo, ad esempio, tutto è all'imperfetto
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nella scena della recita del Rosario, perché tutto si ripete (le Avemarie), tutto
stagna. Ma a un certo punto l'azione comincia e Tomasi di Lampedusa segnala
l’attimo con due perfetti: "... il cane Bendicò entrò e scodinzolò" .
E va sottolineato che il cane è il primo e l'ultimo personaggio del libro:
imbalsamato e tarmato chiuderà il romanzo e sarà buttato giù dalla finestra
nell'immondezzaio: figura emblematica della fine di un mondo.
3 "i loro sguardi irti". Un ragazzo avrebbe detto sguardi pungenti: non avrebbe avuto
il coraggio di scrivere sguardi irti. Ecco cosa significa imparare dai testi: vuol dire
imparare dagli autori l’audacia delle connessioni ardite, delle manipolazioni
metaforiche.
4. Dopo una serie di osservazioni si può discutere sul significato globale del testo, sul
significato «nascosto». Il «lampo» in fondo ci dice che la trama del quotidiano
all'improvviso si lacera. Succede a tutti, una volta o l'altra. E qual è la vita vera?
Quella della routine o quella del lampo?
Gli scrittori insegnano delle tecniche. Gli "occhi irti" di Calvino possono stimolare i
ragazzi a cercare altri esempi di connessioni originali nell’opera calviniana.
Esemplificando rapidamente:
a) "Aveva grandi occhi grigi nuvolosi, qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelli
lisci e neri ... " 1
b) "C'era un gran spaziare d'aria, mattiniera e tenera, [...] uno sfumato circondario di
montagne, e in mezzo il paese, di case ossute e accatastate, tutte pietre e ardesia. E
nell'aria tesa veniva dal paese un gridare tedesco e un battere di pugni contro porte. ... " 2
Le parole che Calvino usa sono semplici: ma come può venire in mente che una casa
sia "ossuta"? Si tratta di una casa popolare che ha tutte le vene in rilievo - i condotti
sembrano vene - è una casa sfiancata dalla povertà ed è raccontata con aggettivi che
andrebbero bene per una donna vecchia.
c) "Entrò mia madre, alta e vestita di nero, coi bordi di pizzo e la scriminatura impassibile
tra i capelli bianchi e lisci." 3
Viene in mente la scriminatura di Emma Bovary. Sta parlando col medico, che sarà il
suo futuro marito, nella sala oscura. Ed è la prima volta che lui guarda lei, di cui vede
solo il viso (Flaubert descrive i suoi personaggi attraverso gli occhi dell'altro, e si
vedono di Emma le cose che Carlo a mano a mano scopre).
Ma viene in mente anche la scriminatura di Lucia, promessa sposa.
La scriminatura "impassibile": l'aggettivo dice tutto. Significa che è regolare, che non
c'è un capello fuori posto. Un'altra donna, una donna che non avesse avuto il vestito
nero coi bordi di pizzo, avrebbe avuto una scriminatura più ribelle.
1
Italo Calvino, "Attesa della morte in un albergo", ibidem
Italo Calvino, "Il bosco degli animali", ibidem
3 Italo Calvino, "Pranzo con un pastore", ibidem
2
12
d) "Era una mucca giovane, affettuosa, puntigliosa." 1
e) "Era un vecchietto, lindo e logoro, col colletto inamidato, col cappotto benché non fosse
inverno, col filo dell'apparecchio acustico che gli pendeva dall'orecchio." 2
f) "sembrava lottasse con i dolci, minacciosi nemici, strani mostri che lo stringevano
d'assedio, un assedio croccante e sciropposo in cui doveva aprirsi il varco a forza di
mandibole." 3
Normalmente si pensa ad un assedio in termini di spargimento di sangue e ci si trova
davanti ad un assedio "croccante e sciropposo"! ...
Certamente se si sguinzagliano i ragazzi a ricercare queste «perle» nei libri di Calvino
non si fa lettura, ma ricerca linguistica, un lavoro intelligente, molto più intelligente
che rispondere alle domande delle famigerate «griglie» che ammorbano le antologie
scolastiche, griglie che in più di un'occasione offendono l'intelligenza del lettore e
quasi sempre sono riduttive.
g) "Ogni volta che apriva gli occhi si sentiva addosso tutta quella luce gialla e acida delle
grandi lampade della biglietteria." [La luce gialla e acida è una sinestesia
efficace]"Coricandosi non s'era accorto di come gelide e dure erano le lastre di pietra del
pavimento" 4
Non se n'era accorto perché era tanto stanco che era crollato; ma le sente "gelide e
dure" quando si risveglia.
I due aggettivi, tipici delle lastre di pietra, cessano di essere attributi materiali per
diventare elementi percettivi.
Nei casi precedenti si è cercato l'aggettivo nel testo di Calvino: ma si può cercare in
esso qualsiasi oggetto o fenomeno linguistico. Non soltanto nell’ambito stilistico e
retorico, ma anche in quello grammaticale.
Ad esempio con l'articolo si possono esplorare territori straordinari:
C'era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio,
cavalcava per la pianura di Boemia diretto all'accampamento dei cristiani. Lo
seguiva uno scudiero a nome Curzio.
Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi, traversando l'aria opaca e ferma. ..."
5
"C'era una guerra contro i turchi": si pensa immediatamente a "C'era una volta un
re...": e proprio questo vuole significare Calvino, cioè che racconterà una fiaba, sia
pure molto moderna, ma una fiaba.
1
Italo Calvino, "Il bosco degli animali", ibidem
Italo Calvino, "Visti alla mensa", ibidem
3 Italo Calvino, "Furto in una pasticceria", ibidem
4 Italo Calvino, "Si dorme come cani", ibidem
5 Italo Calvino, "Il visconte dimezzato", ibidem
2
13
"Il visconte Medardo di Terralba, mio zio": e così si sa immediatamente che c'è
qualcuno che narra di qualcun altro, in terza persona, ossia che si tratta di un racconto
e che chi racconta è lì presente.
"Le cicogne": Calvino non dice delle cicogne, non dice una cicogna: le cicogne sono
un elemento necessario del paesaggio.
Un altro esempio:
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette
per l'ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala
da pranzo della nostra villa d'Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del
grande elce del parco. ... 1
Calvino non ci «presenta» nulla, né personaggi né scenario, perché siamo lì anche noi.
Tra poco vedremo arrivare in tavola «le lumache». E tutto è scandito dall'articolo
determinativo.
L’esperimento potrebbe continuare con tutte «le parti del discorso», con la sintassi
della frase, con gli elementi della coesione testuale: connettivi, pronomi, marche
morfologiche, ecc.
Questa esplorazione dei testi, alla ricerca di particolari fenomeni, potrebbe sostituire
egregiamente la grammatica. Certamente non è «lettura», ma è «consultazione» del
testo: un’operazione che manca nella scuola e che si rivela invece molto produttiva,
anche per l’apprendimento della scrittura.
Il ragazzo può infatti imitare l’autore: può anche copiarlo purché dichiari la sua fonte.
Analisi de Il macigno di Dino Buzzati e di Vecchio pianoforte di Alberto Savinio.
Il macigno
Sopra la bella villa dove si conduce una vita spensierata un
macigno pèncola. Come mai non se ne cura nessuno? "Se non è
caduto finora - dicono - che motivo c'è che cada in avvenire?".
In realtà non è rimasto immobile. L'anno scorso, forse a motivo del
disgelo, ha fatto un piccolo scarto, una scivolatina, e una scarica di
ghiaia e sassi è piombata sul tetto della villa. Poi si è fermato, ancor
più sporgente e minaccioso.
"Meglio così - hanno detto -, si è assestato, e poi, anche ammesso
il pericolo, che c'è da fare?". Si potrebbero mettere dei puntelli, per
esempio. O fare una colata di cemento. Oggi si fanno dei lavori anche
più difficili".
"E i soldi? - ribattono ridendo. - E il tempo necessario? E poi chi
ha voglia di arrampicarsi fin lassù e di lavorare sul limite del precipi1
Italo Calvino, "Il barone rampante", ibidem
14
zio? Non solo: come escludere che dopo non sarebbe peggio? Per
rassodare la piattaforma del macigno, magari si finirebbe a
smuoverlo". Ancora: "Se cadesse, è proprio stabilito che schiacci la
villa? Chi lo sa. Potrebbe cadere un po' più in qua o un po' più in là,
senza fare danni di sorta. E poi non sarebbe ora di piantarla con
questa storia del macigno? Per carità, che menagrami. Se è proprio
scritto che il disastro accada, pazienza. Intanto non amareggiamoci
la vita".
Ridono, giocano, mangiano, si ubriacano. Ogni tanto, nel pieno
della notte, da altre parti della valle, giungono dei tetri tonfi, i vetri
tremano. È segno che qualche pezzo di montagna si è staccato
precipitando giù, può anche darsi che qualche casa ne sia rimasta
spiaccicata. Ma oramai si è fatta l'abitudine. Nessuno batte ciglio a
questi tuoni. Continuano a giocare, la sigaretta fra le labbra, poi
vanno tranquilli a letto e si addormentano.
Quando vede un titolo come Il macigno, il lettore esperto è assalito da dubbi: si tratta
di un macigno oppure di una metafora? Il lampo aveva valore trasferito. Ma il
macigno sembra proprio un macigno concreto, reale. E tuttavia si pensa anche alla
seconda possibilità.
I ragazzi non hanno questa sensibilità, ma possono assumerla se concentriamo la loro
attenzione sui titoli. Possono raccogliere testi che hanno per titolo una parola sola e
chiedersi:
a) se la parola rimandi ad un oggetto concreto;
b) se l'oggetto concreto abbia possibilità metaforiche;
c) se l'oggetto sia pura metafora.
Pèncola è parola sdrucciola.
Si può spiegare che le parole sdrucciole in italiano sono più rare di quelle piane
(perché la vocale postonica è caduta nelle parole latine da cui le nostre derivano) e
sono parole di livello quasi sempre «alto». Una ricerca sui testi potrebbe confermare
la nostra spiegazione storico-linguistica e stilistica. Faremo notare ai ragazzi la
costruzione sintattica che colloca in fine di periodo quella parola sdrucciola a dare
l’idea della «sporgenza» del sasso, del suo affacciarsi sul vuoto, della angosciosa
labilità del suo «stare».
Il macigno "pèncola. Come mai non se ne cura nessuno?" Si assiste al dialogo tra i
benpensanti, i pacifici e Buzzati, con tutte le sue angosce, i suoi tremori. È il contrasto
fra la filosofia dello struzzo, quotidianamente praticata dall'umanità, e la spaventosa
chiaroveggenza di chi vive pensando al significato della vita e al mistero della morte.
Si badi ai rumori che pervengono dalla valle, agli eventi che in essa si verificano: le
scelte lessicali sono studiatissime ("i vetri tremano"; "tetri tonfi": allitterazione al
limite dell’onomatopea; "casa spiaccicata", che richiama l'idea della distruzione
totale, per cui non rimane più nulla). I ragazzi, se opportunamente interrogati, fanno
15
emergere queste osservazioni. Allora vale la pena di segnalare loro certi indizi
affinché poi ne vadano in cerca autonomamente.
È chiaro che, se non si percorre questa via, ai ragazzi non piacerà mai leggere.
Leggere non è infatti percorrere con l'occhio il testo, ma è visitarlo con occhio
giudice.
Prevedo una domanda: e se questo (o altro testo simile) non desta reazioni? Se i
ragazzi rimangono freddi, annoiati?
Non bisogna insistere, ma pensare che quei ragazzi necessitano di un approccio più
semplice. L’esperienza verrà rinviata, non soppressa, fino al momento in cui sarà
possibile (non importa stabilire quando) passare da testi elementari ad altri più
complessi.
Certamente complesso è il Calvino delle Città invisibili. Ma c'è un passo da leggere ai
ragazzi per far capire loro che cosa significhi un testo letterario. Marco Polo è arrivato
alla reggia del Gran Khan; è stato incaricato di visitare i territori dell'impero e di
raccontare all'imperatore quello che ha visto. Marco ritorna e racconta cose fantastiche
delle città da lui visitate e che l'imperatore mai ha visto né avrà la possibilità di vedere
coi suoi occhi, tanto sono lontane. Quelle città gli vengono raccontate. Ed ecco che nel racconto - acquistano fascino e «eternità»:
Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che gli dice Marco Polo quando
gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari
continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità ed attenzione che
ogni suo altro messo o esploratore.
Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza
sterminata dei territori che abbiamo conquistato [si noti l'abbiamo: Calvino sottolinea all'improvviso, con la prima persona plurale del verbo, che il discorso non si
riferisce solo a Marco Polo, ma ad ognuno di noi]: è il momento disperato in cui si
scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie [e
quando parla dell'impero, chiaramente si riferisce a quello di Kublai Kan, ma
anche a tutte le inutili mete sperate e raggiunte dall’uomo] è uno sfacelo senza
fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro
possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della
loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a
discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un
disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.
Nel racconto di Marco Polo le cose continuano ad esistere; dunque esiste e resiste solo
ciò che è stato affidato alla parola.
Non certo alla parola effimera ma a quella duratura dei grandi scrittori.
Il testo più alto, quello che veramente può rendere al massimo nella scuola (e nella
vita), è il testo letterario, per ragioni più che evidenti. È certamente importante che il
cittadino sappia leggere e capire il giornale; è importante che sappia leggere e capire
la lingua delle bollette della luce, quando arrivano a casa: ma si faccia attenzione a
non espungere il testo letterario, perché solo quel testo resiste al "morso delle termiti".
16
Ritorniamo al Macigno per notare che dalla pagina di Buzzati può uscire la
grammatica intera (intendendo per grammatica ogni forma di analisi linguistica:
lessicale, logico-sintattica, ecc.). La grammatica non sta nei libri di testo; la
grammatica sta nei testi.
Si potrebbe chiedere ad esempio ai ragazzi quale o quali siano i soggetti di cui si parla
nel brano, magari partendo da una richiesta meno tecnica:
«Di chi o di che cosa si parla?»
La prima risposta immediata individuerà il macigno. Ma ci sono anche «gli uomini».
Si possono cercare tutte le parole che, nel testo, si riferiscono al macigno, nel senso
che o pronunciano la parola o la ripetono sinonimicamente o hanno la stessa referenza
o la sostituiscono (pronomi). La presenza degli uomini è meno esplicita. Va ricavata
dalle marche morfologiche di terza persona plurale: hanno detto, ribattono, ecc. Gli
uomini sono dunque degli «innominati». E ci si chiede perché siano degli innominati.
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IL MACIGNO
Sopra la bella villa dove si conduce una vita spensierata un macigno pèncola. Come mai non
se ne cura nessuno? "Se non è cadut o finora - dic ono - che motivo c' è che cada in avvenire?"
In realtà non è rimast o immobil e. L'anno scorso , forse a motivo del disgelo, ha fatto un
piccolo scarto, una scivolatina, e una scarica di ghiaia e sassi è piombata sul tetto della villa .
Poi si è fermat o, ancor più sporgent e e minaccioso.
"Meglio così - hanno detto -, si è assestat o, e poi, anche ammesso il pericolo, che c'è da fare?".
Si potrebbero mettere dei puntelli, per esempio. O fare una colata di cemento.
Oggi si fanno dei lavori anche più difficili".
" E i soldi? - ribatt ono ridendo. - E il tempo necessario? E poi chi ha voglia di arrampicarsi fin
lassù e di lavorare sul limite del precipizio? Non solo: come escludere che dopo non sarebbe peggio?
Per rassodare la piattaforma del macigno , magari si finirebbe a smuoverlo".
Ancora : "Se cadess e, è proprio stabilito che schiacc i la villa ? Chi lo sa. Potrebbe cadere
un po' più in qua o un po' più in là, senza fare danni di sorta. E poi non sarebbe ora di piantarla con
questa storia del macigno ? Per carità, che menagrami. Se è proprio scritto che il disastro accada,
pazienza. Intanto non amareggiamoci la vita ".
Rid ono, gioc ano, mangi ano, si ubriac ano. Ogni tanto , nel pieno della notte, da altre parti della
valle giungono dei tetri tonfi, i vetri tremano. È segno che qualche pezzo di montagna si è staccato
precipitando giù, può anche darsi che qualche casa ne sia rimasta spiaccicata.
Ma oramai si è fatta l'abitudine. Nessuno batte ciglio a questi tuoni. Continu ano a giocare,
la sigaretta fra le labbra, poi v anno tranquilli a letto e si addorment ano.
gli uomini
Forse perché sono un enorme soggetto collettivo: l’intera umanità? O perché sono così
sbiaditi, così inconsistenti, nei confronti del macigno, da non meritare una citazione
esplicita?
Nel momento in cui Buzzati dice "ridono, giocano, mangiano" c’è qualcuno che viene
escluso? Chi? Non c'è dubbio, l'autore si sottrae alla massa e sottrae anche il lettore:
l'autore parla di altri con il lettore, cioè parla degli uomini come se fossero altri,
creando così un senso di complicità. Così il ragazzo può essere introdotto nella
dinamica autore-testo-lettore, a cui solitamente non riflette. In altre parole: il ragazzo
legge I promessi sposi , ma non stabilisce un contatto con Manzoni, non va al di là del
18
testo. Bisogna quindi spiegare che di là dal testo c'è un uomo, l’autore che si rivolge al
lettore. Nel caso in esame l'uomo è Buzzati, che sta parlando con noi e ci solleva al
rango di individui consapevoli, mentre gli altri sono riuniti (e condannati) in ridono,
giocano, ecc.
Un'obiezione. Si dirà: è vero che i ragazzi dovrebbero toccare il libro, aprirlo,
tagliarne le pagine (se ancora esistono libri intonsi). Ma queste operazioni costituiscono dei rituali che probabilmente hanno fatto il loro tempo e che potrebbero venir
utilmente sostituiti dal mezzo elettronico.
Noi abbiamo incontrato gli "occhi irti", ma oggi c’è la macchina che può trovare tutti
gli "irti" della nostra letteratura, con rapidità imbattibile, risparmiandoci la ricerca.
Grazie ad essa si può sapere molto facilmente e rapidamente chi ha usato, e dove, la
parola irto. Ma resta da vedere a che cosa sia riferito irto e quindi le connotazioni
legate a questo aggettivo. E poi, è un po' come andare ad un concerto: è chiaro che si
può ascoltare benissimo la stessa musica da disco, seduti in poltrona, nel silenzio delle
pareti domestiche. Ma si va al concerto perché è un'altra cosa, per il rituale di un
ascolto partecipato e rischioso, dal vivo. Anche il libro instaura il rituale della lettura.
Tornando al testo di Buzzati, finora non si è fatto che individuare i due soggetti, il
macigno da un lato e gli uomini dall'altro. Poi si è sottolineato nel testo tutto quello
che si riferisce al macigno e tutto quello che si riferisce agli uomini. Ma si vede dal
grafico che gli uomini non sono mai presenti nel testo, che sono recuperabili solo dalla
loro parvenza morfologica, tanto sono amorfi: personaggi dal volto senza lineamenti,
ad uovo come certi uomini di Magritte, o di Ricasso.
I ragazzi, leggendo il testo per la prima volta, probabilmente non penseranno al
macigno/morte. Penseranno forse ad altri macigni di tipo affettivo, a loro più vicini: la
solitudine, le situazioni familiari, ecc. E ben vengano tutti i macigni: il testo letterario
non è un limone spremibile una volta per tutte, definitivamente, che poi si butta via.
Non si riuscirà mai a spremere un testo letterario fino a fargli dire tutto quello che
contiene e che evoca. Verrà sempre qualcuno che lo spremerà in maniera diversa
ricavandone altri sensi, altre emozioni: il testo è inesauribile.
Tutte le interpretazioni possibili sono la vera ricchezza del testo letterario.
Una circolare ministeriale, una legge devono realizzare la biunivocità del messaggio;
al testo letterario competono polimorfia e polisemia. Ed è importante che venga messo
bene in rilievo come, a differenza del discorso comune, in cui esiste un limite,
varcando il quale si cade per forza o nella bugia o nell'imbroglio, il testo letterario
abbia il diritto di mentire e di creare mondi possibili, capaci di tollerare interpretazioni
diverse da parte di lettori diversi.
Per questo il testo letterario è la lettura più democratica di tutte: perché dà spazio a
tutte le interpretazioni. La circolare ministeriale, la legge, ecc. dovrebbero dire la
stessa cosa a tutti; nel testo letterario ci sono nicchie per la sensibilità di ciascuno. Nel
testo letterario c'è un massimo di libertà.
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Nel brano di Buzzati tutto il testo si organizza e si coagula attorno ai due poli; nella
parte iniziale tutto è orientato verso il macigno (si noti la coesione fortissima del testo
imperniata sul riferimento a quella parola); nella seconda parte compaiono gli uomini
dalla testa a uovo. La loro presenza si ispessisce alla fine del testo: "continuano a
giocare, la sigaretta tra le labbra, poi vanno tranquillamente a letto."
L'operazione compiuta or ora ha lo scopo di mostrare che cosa sia la coesione: un
testo è unitario perché ricorrono in esso parole che hanno un riferimento precedente
(di tipo anaforico), o anticipano un riferimento successivo (di tipo cataforico).
Guardando il grafico è possibile cogliere l’intera trama morfologica e lessicale.
C'è chi asserisce che la grammatica è stupida: lo è se diventa fine a se stessa. Non lo è
più se è grammatica funzionale, recuperata dal testo in cui funziona. Nel caso in
esame, ogni richiamo al macigno serve a tessere il testo in maniera che risulti
compatto, ossia coeso. La morfologia serve per tramare il testo. Quando Galileo dice
"la sfera celeste è un orbe stellare, formato..." si capisce che "formato" si riferisce
"all'orbe stellare". Pertanto la scoperta della coesione del testo si traduce in
interpretazione del testo stesso.
Dopo la lettura del Lampo e del Macigno, ci può venire in mente che i ragazzi hanno
anche il diritto di ridere. La proposta di lettura è allora Vecchio pianoforte, di A.
Savinio.
Vecchio pianoforte
Il cavaliere Putignani, la signora Putignani, la signorina Putignani
sboccarono in via Ripetta. Ivi, il paterfamilias trasmise il comando della piccola
brigata alla signorina Ilda, la quale, come più pratica dei luoghi, condusse il
babbo e la mamma all'ingresso della Filarmonica.
Il custode non divagò in interrogazioni vane, ma con fare sbrigativo domandò:
"È per il pianoforte?".
"Appunto" rispose il cavaliere, sbalordito di tanto acume.
Preceduti dall'indovino gallonato, i tre visitatori traversarono la conventuale
nudità di un lungo corridoio, entrarono nella saletta riservata ai concertisti.
Un divanetto rosso e due poltrone, si serravano come naufraghi sull'isolotto
rettangolare del tappeto. Una piccola foresta di leggii levava al soffitto i rami
spogli. Un contrabbasso intabarrato dormiva con la spallaccia al muro. Pianisti
curvi sulla tastiera come ciclisti in salita, violinisti con la guancia sul violino,
violoncellisti col violoncello tra le gambe costellavano le pareti. Una corona
d'alloro lasciava piovere i nastri ingialliti sul divano.
"Ecco lo strumento" disse il custode, e con esperta mano scoprì la tastiera di
un pianoforte nero e caudato.
La signora Putignani ammirava la stupenda dentatura. "Fabbricazione
tedesca" soggiunse il custode "corde incrociate, feltri novissimi: una vera
occasione!".
"Bisognerebbe provarlo" replicò il cavaliere, e chiamò: "Ilda!".
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Ilda era andata nel fondo della stanza, e per lo spiraglio di una portiera
cremisi, spiava la sala dei concerti. Solitario nella fredda luce che pioveva
dall'alto, il successore del pianoforte spodestato riposava sul palco, sotto un
camice di tela bigia.
"Ilda" ripeté il cavaliere "sònaci qualcosa".
Ilda si schermiva: "Non so... non so..." e tuffò il mento nel pettino magro,
come gallinella che si spulcia.
"Come sarebbe! E Fremito d'Amore, e Ricordo di Capri, e Passano i
Bersaglieri che suoni sempre in casa della zia Clotilde?".
Ilda sculettava, torceva dietro la schiena le braccette nude.
"Lasci fare" intervenne sdegnoso il custode e facendo scorrere il pollice da un
capo all' altro della tastiera, suscitò un rivolo di note che rintronò a lungo, si
allontanò, si spense.
I Putignani tacevano ammirati. Allora un altro rivolo di note, più sommesso e
misterioso, echeggiò nell'adiacente sala dei concerti: l'addio del pianoforte
giovane al veterano che partiva.
L'indomani, le scale di casa Putignani risonarono di orrende imprecazioni.
Sotto gli sforzi associati di una squadra di facchini, il vecchio pianoforte saliva a
passo di lumaca.
Sul pianerottolo del quarto piano, l'imprecante corteo si fermò: la scala si
restringeva a tal punto, che non quel mastodontico strumento con tutta la coda
dietro, ma non ci sarebbe passata la più esile spinetta.
"Io non ce la faccio" dichiarò il caposquadra, e fece l'atto di rinfilarsi la
giacca.
Terrorizzato dall'atteggiamento del caposquadra, intimidito dagli inquilini che
si affacciavano alle porte degli appartamenti, il cavalier Putignani offrì mance
sbalorditive.
Il caposquadra si ammansì, e mediante un sistema di corde e di carrucole, il
vecchio pianoforte uscì dalla finestra, oscillò nel vuoto, si posò su una terrazza
fiorita di gerani, entrò nel salotto di casa Putignani.
Sotto lo sguardo compiaciuto del cavaliere e della signora Putignani, la
piccola Ilda "faceva" le scale.
Uno strazio.
Scale maggiori e scale minori, scale melodiche e scale armoniche, scale a
terze e scale a seste, scale a ottave e scale cromatiche.
Un tormento.
Finite le scale, la piccola Ilda attaccava gli esercizi di Pischna, molto indicati
per "sciogliere" le dita.
Una tortura.
Dopo gli esercizi di Pischna, l'inesperta pianista passava a una melensa
sonatina di Kullak.
Un supplizio.
Il vecchio pianoforte fremeva di sdegno. Lui che durante la sua gloriosa
carriera era stato toccato dalle dita dei Paderewski e dei Busoni, sentirsi addosso
sul tardi dell'età quelle manine inabili e mollicce! E nelle lunghe solitudini
notturne, tra i puf di velluto e i fiori di carta, tra il cane di bronzo con l'orologio
in bocca, e la fotografia in ingrandimento di Goffredo Putignani giovane in
uniforme di bersagliere, il vecchio pianoforte rievocava il passato.
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Dei tanti pianisti che aveva conosciuto, era quel pianista scheletrico, non si sa
bene se polacco o boemo, ma israelita comunque, che meglio di tutti lo aveva
saputo dominare. Sotto il martellamento di quelle dita ossute, lo strumento,
giovane allora e nel pieno delle forze, vibrava come creatura viva.
Che momenti erano quelli! E quando il pianista, fradicio e traballante si
alzava dalla tastiera, le corde fremevano ancora all'uragano degli applausi.
Questi ricordi rievocava il vecchio pianoforte, e nello spasimante desiderio di
ritrovare sulla tastiera ingiallita il tocco delle gloriose dita, la sua carcassa
scricchiolava come quercia in mezzo alla bufera, e una lontana, misteriosa
musica correva le lunghe corde di metallo.
Il commendatore Corpas che abitava al piano di sotto, incontrò per le scale il
cavaliere Putignani.
"Ma lo sa, cavaliere, che la sua figliola è una pianista straordinaria?".
"Ha cominciato che è poco" rispose Putignani con grato sorriso "ma è
volonterosa e si farà".
"Altro che si farà. È un genio, un prodigio! Ieri si stava a sentirla, io e la mia
signora. Che forza! Che agilità! Che sentimento!".
"Ieri? ripeté dubitativamente il cavaliere. Aggiunse: "Ma se ieri eravamo a
Frascati...".
Alle lodi del commendatore Corpas, seguirono quelle della signora Strua del
terzo piano, poi quelle del notaio del secondo, del ragioniere del primo,
dell'ostetrico del piano rialzato, della portiera, dei vicini. Putignani non dubitava
più. La ricchezza gli sorrideva e, impiegato all'Esattoria Civica, compilava
mentalmente la lettera di dimissioni da mandare a quella carogna del capufficio.
È domenica. La famiglia Putignani torna dalla messa.
All'altezza del secondo piano, un sospetto penetra nell'animo del cavaliere. Al
terzo, il sospetto si converte in certezza. Al quarto piano, Putignani stringe a sé la
moglie e la figliola. Sulla soglia di casa sussurra: "Seguitemi in punta di piedi", e
spalanca la porta del salotto.
Davanti ai tre membri esterrefatti della famiglia Putignani, il vecchio
pianoforte ricanta l'antica gloria. I tasti balzano vertiginosamente, lunghi
arpeggi corrono la tastiera, la cassa vibra come una caldaia, la coda oscilla
come una balena in navigazione.
E la musica cresce.
I bassi si spezzano con orribili schianti, le corde si torcono come serpenti, i
martelli schizzano dalla cassa armonica, i feltri volano per il salotto.
La musica sale al parossismo.
Il vecchio pianoforte si rizza in uno sforzo supremo, oscilla a mezz'aria,
abbatte la vetrata, ricade fracassato sulla terrazza.
La musica è cessata.
Fu così che in un tenero meriggio d' autunno, sopra una terrazza fiorita di
gerani, il vecchio pianoforte chiuse la sua gloriosa carriera, sotto un cielo
limpido, indifferente come l'occhio di una dea.
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Si procederà anche in questo caso a brevi rilievi puntuali.
Intanto il titolo si presenta con le credenziali di un onesto titolo riferito all'oggetto. Si
è avvertiti che si racconterà di «un vecchio pianoforte», ma non si sa che cosa
succederà di esso, se assumerà funzione e titolo di simbolo, di emblema, o se rimarrà
uno strumento musicale.
Già l'inizio stupisce il lettore, per il quale la cosa più ovvia sarebbe stata leggere *la
famiglia Putignani, oppure *il cavalier Putignani con moglie e figlia, per risparmiare
la ripetizione. Si ponga anche mente al cognome. L'autore ha dovuto inventarlo:
perché allora proprio «Putignani», per di più accompagnato dal degno e onorifico
titolo di «cavaliere»?
La «presentazione» dei personaggi suggerisce subito la sensazione che si tratti di una
famiglia piccoloborghese che fa (forse) una passeggiata domenicale. E allora si
capisce che la ripetizione del cognome è intenzionale; si badi anche al termine
paterfamilias, che rinvia all'idea dell'autorità spettante al capo di una famiglia
socialmente ligia. Anche il nome della signorina Putignani, Ilda, si colloca bene in
questo clima ottocentesco. La famigliola va a comprare un vecchio pianoforte, il quale
si trova presso la locale Filarmonica.
Il pianoforte, suonato da grandi musicisti, capiterà sotto le mani gentili, delicate e
borghesissime della signorina Ilda, e sarà costretto a «fare» le scale e ad eseguire
sonatine insulse per deliziare gli ospiti dopo pranzo.
Il custode (che diventerà tra poco "l'indovino gallonato") dimostra molto acume e
sbalordisce il cavalier Putignani. Il termine acume suggerisce qualcosa: dice che il
portiere - il quale fa parte della Filarmonica, sia pure solamente come portiere (ma ha
ascoltato molti concerti!) - ha intuito subito, al primo comparire, che «i Putignani»
venivano a comperare il povero, vecchio pianoforte, reduce da tanti trionfi.
"La conventuale nudità": l'espressione indica la sacralità del luogo ma suggerisce
anche come sarà l'interno di casa Putignani. Pur essendo giunto ad un certo grado di
dignità sociale, il cavaliere Putignani avrà certamente mobili e soprammobili di
pessimo gusto (come puntualmente l'autore confermerà).
Si osservi la descrizione, bellissima, della saletta. [Esercizio utilissimo: far descrivere
ai ragazzi un arredamento]. L'immagine è splendida: il divanetto e le due poltroncine
che si stringono tra loro per salvarsi sull'isolotto del tappeto... Il pianoforte, "nero e
caudato": (*pianoforte a coda sarebbe stata espressione insulsa, priva di sapore;
caudato dà l'impressione di un essere animato: subito dopo, infatti, la signora
Putignani ne ammirerà la "dentatura"): ciò significa che gli strumenti diventano
personaggi, appaiono umanizzati, quasi possedessero un'anima. È un indizio
importante.
"I Putignani tacevano ammirati": i Putignani al plurale perché si tratta di una
«categoria»; non solo una famiglia, ma una categoria di persone.
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"Allora un altro rivolo di note ... si spense": la voce del vecchio pianoforte richiama la
voce dello strumento nuovo: Savinio fa capire che ci sono dei morti (ossia i
Putignani), e dei vivi (ossia i pianoforti), che si salutano.
"L'indomani...ma non ci sarebbe passata la più esile spinetta"; nessuno si era
preoccupato di controllare se il pianoforte potesse passare per le scale: e il pianoforte
«non gira». Sembra quasi esista una sua volontà di «non girare». Una bella mancia
(assolutamente inedita nel comportamento dei Putignani) riesce nel miracolo di
introdurre lo strumento in casa. Ma il lettore non dimentica l’episodio, quasi un segno
del destino: il pianoforte non voleva entrare.
"Sotto lo sguardo compiaciuto...la piccola Ilda «faceva» le scale": le scale non si
possono suonare, non si possono eseguire: vanno «fatte». Si noti poi lo splendido
esempio di anafora al termine di ogni «esecuzione» musicale della signorina
Putignani: "Uno strazio...Un tormento...Una tortura...Un supplizio". E il ritorno a
capo, ogni volta con un termine solo, una notazione brevissima, in terribile climax.
"Il vecchio pianoforte...rievocava il passato": vengono presentati qui gli oggetti di
casa Putignani (le «buone cose di pessimo gusto») evocati, con somma sapienza
artistica, in piccole sequenze.
"Il commendatore Corpas...eravamo a Frascati": eravamo, ossia i Putignani
viaggiano sempre, ordinatamente, convenientemente, tutti insieme (e la notazione
rimanda all’inizio del racconto).
"Alle lodi...del capufficio": è questo l'ultimo, splendido tratto di identificazione del
cavalier Putignani: evidentemente non poteva andare d'accordo col suo capufficio il
quale, per forza di cose, non poteva non essere «una carogna».
"È domenica....salotto": è sconsigliabile dare il testo ai ragazzi affinché lo leggano
autonomamente. È necessario invece leggerlo loro, perché bisogna che pendano dalle
labbra dell’esecutore. Devono essere costretti a chiedere: «Che cosa succederà ora?».
Poiché non hanno l'esperienza del surreale che permetterebbe di prevedere la
conclusione della vicenda (non hanno, probabilmente, mai visto gli orologi di Dalí, è
bene che la soluzione arrivi loro all'improvviso, come uno schianto finale).
"Davanti ai tre membri esterrefatti della famiglia Putignani...indifferente come
l'occhio di una dea": il pianoforte si è suicidato, per non subire l'onta delle manine
sudaticce e mollicce della signorina Ilda. Ha preferito una morte gloriosa ad una vita
ignobile.
C’è dunque un senso riposto, nel racconto, che - in un certo senso - lo riconduce al
Macigno: il senso è che la mediocrità non paga. Non si può vivere tra la paccottiglia di
casa Putignani e resistere al disgusto.
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Il pianoforte si suicida, perché ha una forma di sublimità, una sublimità che i
Putignani non sono assolutamente in grado di capire: il suicidio del pianoforte
significa il disprezzo delle cose banali e l’esaltazione delle cose belle, dell’arte, della
musica.
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CONVERSAZIONE AL TERMINE DELL'ESPOSIZIONE
Come affrontare la lettura di un testo letterario?
Qualsiasi testo va - prima di tutto - letto ad alta voce e non spiegato: ci si affidi ad una
comprensione di tipo intuitivo. In questa fase bisogna badare alla reazione dei ragazzi:
se si vede che c'è interesse, si continua; altrimenti si cambia. Nello stesso giorno è
bene non fare altre operazioni sul testo. L'indomani lo si riprenderà, operando un
approfondimento di tipo contenutistico o linguistico, compiendo anche, un po’ alla
volta, l’itinerario grammaticale. Non è il caso di ripetere le esperienze del passato,
quando gli insegnanti divaricavano il più possibile le lezioni di antologia e quelle di
grammatica affinché non si contaminassero a vicenda (il testo non deve essere
aduggiato dalla grammatica!).
Ma come è un itinerario di tipo grammaticale?
Significa partire dal testo intero per arrivare alle sue unità più piccole. Ma si può fare
anche un percorso che rivitalizzi la grammatica tradizionale. Ad esempio, se si vuole
trattare l'articolo, forniscono un ottimo materiale gli incipit delle favole. ("C'era una
volta un mugnaio. Il mugnaio aveva tre figli. Quando morì, lasciò al primo il mulino,
al secondo ..., al terzo un gatto". «Il mulino», ovviamente, perché ne aveva uno solo).
Dal contesto appare bene la successione articolo indeterminativo (la prima volta che
compare il nome) / articolo determinativo (quando il nome ricompare, ormai «noto» al
lettore). Ma i testi offrono anche i controesempi: "La luna sorse all'improvviso. Era
una luna verdastra [...]"(V. Rossi). Qui assistiamo al rovesciamento della regola. È
giusto dire «La luna sorse all'improvviso» perché c'è una sola luna; ma la luna si
presenta tutte le sere e assume vari aspetti: di conseguenza è più che lecito dire «Era
una luna...».
Si veda l'inizio del Giorno della civetta di Leonardo Sciascia:
"L'autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La
piazza era silenziosa nel grigio dell'alba, sfilacce di nebbia ai campanili della
Matrice (cattedrale): solo il rombo dell'autobus e la voce del venditore di panelle,
panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello,
l'autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L'ultima occhiata che il
bigliettaio girò sulla piazza, colse l'uomo vestito di scuro che veniva correndo; il
bigliettaio disse all'autista - un momento - e aprì lo sportello mentre l'autobus
ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l'uomo vestito di scuro, che
stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i
capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella
lentamente si afflosciò".
Non c'è un articolo indeterminativo: Sciascia ci dà un assassinio in prima pagina e
vuole che il lettore sia impressionato da quanto succede; lo introduce quindi sulla
scena e descrive i fatti come se il lettore fosse presente (traspare qui l’esperienza
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cinematografica dell'autore). Non dice quindi: «Vide un uomo», ma «Vide l'uomo»,
ossia quell'uomo lì che anche tu, lettore, vedi, perché stai guardando la scena.
Come fa la grammatica tradizionale, descritta sul manuale, a spiegare queste cose? La
grammatica spiega delle generalità che vengono continuamente smentite dai testi:
bisogna pur dirlo ai ragazzi. Fare grammatica sì, partire dall'articolo, se proprio si
vuole, sì; ma avvertire i ragazzi che l'articolo si dovrà misurare con i casi in cui non
c'è nessun articolo («Tempo verrà ..», e non «il tempo verrà… » che toglierebbe tutta
la solennità del dire). In Sciascia è usato l’articolo determinativo perché il lettore vede
gli oggetti: e c’è una sola piazza, un solo autobus, un solo uomo, ecc.
In Vittorini è diverso: l'articolo determinativo (l'uomo, l'uomo coi baffi, l'Arrotino,
l'uomo Ezechiele) è usato per sottolineare che non si tratta di uomini reali, ma di
emblemi, di rappresentanti di una categoria: quella di tutti gli uomini che la pensano
in un certo modo. Quindi l'Arrotino non potrà mai diventare *Un arrotino, perché un
arrotino è colui che esercita il mestiere dell'arrotino, mentre in Vittorini «L'arrotino» è
colui che prepara i coltelli per reagire, per riscattare l'onore offeso, per rialzare la
testa. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Occorre quindi spiegare ai ragazzi che
non esiste una grammatica separata dai testi (così come non esistono testi senza
grammatica).
Quale sarebbe il procedimento più logico per l’analisi linguistica «testuale»?
Si potrebbe cominciare, per esempio, dalla narratologia (sembra giusto procedere dal
più grande al più piccolo); ma si potrebbero scegliere anche altre partenze. Calvino è
stato usato per gli aggettivi; Buzzati per le parole sdrucciole e per la coesione testuale.
In tutti i casi i testi devono offrire lo spunto all’osservazione di un fenomeno o al
massimo due. E la mano deve essere tenuta leggera, perché l’analisi deve essere
approfondimento del piacere della lettura, consapevolezza delle motivazioni di quel
piacere; non attività meccanica, stressante, sul testo, che rischierebbe di rovinare a
ritroso il gusto della lettura.
È quanto succede con le famigerate «griglie»: i ragazzi leggono malvolentieri perché
prevedono di doverle applicare.
Si devono ancora leggere I promessi sposi?
Il Manzoni entrava ogni mattina nel suo studio e correggeva il romanzo (vedere la sua
scrivania con gli occhialini varrebbe il viaggio a Milano): tredici anni di correzioni,
dall’edizione del 1827 a quella del 1840. Questo l’episodio educativo per i ragazzi,
che credono loro compito quello di scrivere e compito del docente quello di
correggere; essi non sanno che cosa significhi tornare sul proprio testo a distanza.
sarebbe bene, una tantum, prendere l’edizione di Caretti (che riporta le due redazioni)
e far notare ai ragazzi quanto, che cosa, come e perché correggeva, il Manzoni.
Va anche detto ai ragazzi che Manzoni parlava milanese, proprio come Pirandello
parlerà siciliano: l'italiano parlato non esisteva nell'Ottocento e anche agli inizi del
Novecento. Ognuno si arrangiava, nella comunicazione familiare, con il dialetto.
Esisteva una lingua letteraria, ossia il toscano, adottato dagli scrittori di tutta la
penisola; ma Manzoni, che doveva far parlare gli umili, non poteva farli parlare in
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lingua letteraria, poiché sarebbe stata una contraddizione. Bisognava dunque creare
una lingua parlata abbastanza vicina al toscano, ma tale da non essere avvertita
«estranea» dai lettori delle diverse regioni italiane. Correggendo, il Manzoni passa
spesso dalla scelta «letteraria» a quella più quotidiana e familiare:
a) "Cosa comandan questi signori - diss'egli" diventa "Cosa comandan questi signori disse ad alta voce" : è sparito quell'«egli», che era letterario, e, poiché «disse»
sembrava troppo corto e tronco, viene aggiunto «ad alta voce».
b) "Levarono le palme" diventa "Alzarono le mani supplici": banalizzata l'espressione,
si aggiunge un aggettivo alto a dare il senso di una preghiera abbastanza solenne.
L'aggettivo restituisce quel tanto di nobiltà di eloquio che, con la correzione, era
andata perduta.
c) "Prima di tutto un buon fiasco di vino sincero - disse Renzo - e poi un bocconcino"
diventa "e poi un boccone". «Un bocconcino» era una leziosità sulla bocca di
Renzo. «Un boccone» invece è grossolano come lui e va benissimo.
d) "Così dicendo s'assettò a sedere sur una panca:" diventa "si buttò a sedere".
e) "Verso l'estremità del desco" diventa "verso la cima della tavola".
f) "Ma tosto gli corse alla memoria quella panca e quel desco a cui da ultimo era stato
seduto con Lucia e con Agnese" diventa "Gli venne subito in mente quella panca e
quella tavola a cui era stato seduto l'ultima volta con Lucia e con Agnese", dove
«l'ultima volta» è scelta felice perché contiene anche il rimpianto.
g) "Dié poi una scrollatina di capo" diventa "Scosse poi la testa come per riscattar quel
pensiero e vide venir l'oste col vino". «Diè» è sentito come "punta ostile" (Saba) e
sostituito.
h) "Il compagno s'era seduto rimpetto in faccia a Renzo" diventa "Il compagno s'era
messo a sedere in faccia a Renzo".
i) "Per ammollar le labbra" diventa "Per bagnare le labbra".
l) "Riempiuto l'altro bicchiere" diventa "Riempito..."
m) "Che cosa mi darete da mangiare? - disse poi all'ostiere" diventa "Cosa mi darete
da mangiare? - disse poi all'oste".
L'operazione compiuta dal Manzoni costituisce un passo decisivo per la storia della
nostra lingua: Manzoni ha intuito, sbagliando pochissime volte, quali parole avrebbero
vinto la lotta per la sopravvivenza e quali sarebbero cadute. In genere sa scegliere la
parola che trionferà (anche grazie al fatto che l'ha scelta lui, usandola in un testo
letterario famoso).
Chi ha letto o legge o leggerà questo testo letterario, amandolo o magari odiandolo (a
volte cominciando ad odiarlo e poi finendo per amarlo), deve sapere che si deve anche
a quel testo se - dalle Alpi alla Sicilia - esiste oggi una notevole omogeneità
linguistica. Parlare del testo letterario significa dunque parlare anche della sua
esemplarità e della sua importanza storica.
Ammesso che i ragazzi preferiscano a I promessi sposi altre letture che meglio
interpretano i loro gusti (nel qual caso dovremmo accettare - almeno inizialmente - le
loro preferenze), l’importanza dei Promessi sposi rimane «storica»; e il Manzoni può
essere utilizzato come fonte di lingua e modello di comportamento «correttivo». La
mia convinzione è che anche il piacere della lettura possa essere raggiunto se
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l’insegnante fornisce ai suoi scolari gli strumenti idonei, la necessaria preparazione, e
se garantisce la sua collaborazione continua. Del resto, recentemente, ho comprato
qualche numero di Dylan Dog, per vedere come è scritto il fumetto che più interessa i
ragazzi d’oggi, e ho avuto la sorpresa di trovare una lingua conformista, nei confronti
della grammatica, tutt’altro che ribelle alle convenzioni e alle norme. Certamente c’è
più carica rivoluzionaria nei Promessi Sposi e l’operazione linguistica del Manzoni è
più innovativa di quella degli autori del «pazzoide, surreale, demenziale, ecc.»
fumetto. Sono profondamente convinta del fatto che un insegnante debba cominciare
da Dylan Dog - se questo serve ad attirare i suoi scolari - ma sono anche convinta che
un bravo insegnante possa riuscire a portare la sua classe a letture meno effimere, se
ha la pazienza di attendere e il coraggio di provarci.
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IL TESTO FRA NORMA E CREATIVITÀ
1. Antologia sì o no?
Come lettrice penso che i testi vadano divorati per intero, non assaggiati in dosi
omeopatiche. Ci penserà poi, fatalmente, la nostra debole memoria ad antologizzare,
cioè a selezionare e a ricordare per brandelli.
Questa convinzione dovrebbe tradursi in un rifiuto dell'Antologia nella scuola, a
favore dell'alternativa possibile: la lettura integrale di una (o più di una) opera
letteraria; di solito - nella prassi didattica - un'opera narrativa.
Ma questa alternativa, che tutela l'integrità delle opere, rinuncia alla varietà e
ricchezza delle esperienze testuali (non solo narrative; non solo letterarie!), che pure
sono importanti, in fase di iniziazione alla lettura.
Sicché non me la sentirei di condannare l'Antologia, di estrometterla dalla scuola.
Tanto più che l'integrità delle opere potrà essere, almeno in parte, salvaguardata
privilegiando i testi brevi su quelli lunghi (per es. il racconto sul romanzo); e là dove il
"taglio" si impone, esso potrà essere giustificato agli studenti come necessaria strategia
di accesso, rinviando a letture più adulte.
Un esempio: il buon lettore non si ribella, quando il Manzoni ritarda l'incontro di
don Abbondio e dei bravi, per inserire nel testo «alcuni squarci autentici», cioè
documenti storici riguardanti quegli ambigui personaggi. Egli potrà criticare la
«digressione» (come faceva il Tommaseo), o potrà apprezzarla come controcanto
ironico, come contrappunto linguistico secentesco al testo narrativo; ma in tutti e due i
casi non "salterà" quella pagina, ben sapendo che essa - proprio perché interrompe lo
svolgersi degli eventi - agisce come stimolo della sua curiosità e delle sue attese. Non
possiamo pretendere un comportamento altrettanto maturo in un lettore apprendista,
interessato soprattutto (come è logico) al livello più accessibile e vistoso del testo:
quello della trama. Il ragazzo "salterà" - con la nostra complicità - il brano delle gride,
suturando così l'apparizione dei bravi con la desolazione di don Abbondio, quando
questi deve constatare che «l'aspettato» è proprio lui.
Questa lettura ingenua rinvierà esplicitamente a successive e più smaliziate letture:
fino a quella capace di mettere in rapporto il funambolismo sonoro della pagina
manzoniana sulle gride (ne diamo un esempio qui sotto, in B) con le acrobazie
linguistiche della commedia dell'arte (si legga qui sotto, in A, la presentazione di un
capitano spagnolo al servo Squadra):
A) "COCCODRILLO.... Capitan
don Alonso Cocodrillo, Hijo
d'el Colonel don Calderon de
Berdexa, hermano d'el Alferez
Hernandico Mandrico de strico de
Lara de Castilla la vieja, cavallero
de Sevilla, hijo d'Algo verdadero,
trinchador de tres cuchillos, copier
major de la Reyna de Guindaçia,
saccador de coracones, tomador de
30
tierras, lancador de palos,
cavalcador de janete, jugador de
pelota, enventor de justras,
ganador de torneos, protetor de la
ley Christiana, destruydor de los
Luterianos, segnor y Rey de l'arte
militaria, terror de los traydores,
matador de los vellacos [...] y amigo
cordialissimo de don Gatavite
Pontius de Leon, y de don Rebalta
Salas de Castagnedo.
SQUADRA. Signore, io resto el più
attonito huomo d'el mondo;
perché pensava haver un solo
padrone, et mi pare de haverne
duimilia."
(Fabrizio de Fornaris, Angelica (1585), A. I, sc. III)
B)
"Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'illustrissimo ed
Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di
Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di
Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia,
Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà
Cattolica in Italia [...] pubblica un bando contro di essi [...]
All'udir parole d'un tanto signore [...] viene una gran voglia di
credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi
per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno
autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il
contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan
Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero
maggiore di Sua Maestà, Duca della città di Frias, Conte di Haro e
Castenovo, Signore della casa di Velasco, e di quella delli sette
Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc."
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I)
2. L'Antologia in funzione della lettura
Antologia sì, dunque, come strategia di iniziazione alla lettura, nella speranza che
l'ampio assaggio di testi possa stimolare l'appetito del lettore.
D'altra parte la decadenza della lettura è fenomeno ormai così vistoso, ed è così a
rischio la sopravvivenza della specie-lettore, da giustificare l'impiego di tutti i mezzi,
anche di quelli più rischiosi, per invertire la tendenza.
E se possono esistere dubbi sulla legittimità dell'antologia, non esiste dubbio di
sorta sulla necessità di salvare - a ogni costo - la lettura: non solo perché è attività
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ludica e consolatoria, capace di liberare l'uomo dalla routine o dallo squallore
quotidiano per farlo decollare verso i «mondi possibili» creati dalla letteratura; ma
anche e soprattutto perché è veicolo di esperienze culturali indispensabili alla nostra
sopravvivenza intellettuale, fonte di un approvvigionamento linguistico necessario alla
conoscenza, se è vero che il rapporto dell'uomo con il mondo esterno è mediato dalla
parola.
Non sono soltanto i concetti astratti ad aver bisogno di un perimetro lessicale; anche
oggetti concreti e scarsamente evocativi esistono e vengono inseriti nei nostri circuiti
mentali solo se simbolizzati da un nome. Scriveva Virginia Woolf, nel suo Diario,
poco prima della tragica fine:
"Ed ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo
preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che,
scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle
salsicce."
(Diario di una scrittrice, trad. di G. De Carlo, Milano, Mondadori)
Ne concludiamo che «ci si rende in qualche modo padroni» del reale non
manipolandolo, ma nominandolo: noi pensiamo un mondo che la nostra lingua ha già
modellato.
La conclusione è impegnativa per chi - a qualsiasi titolo - insegni lingua: il suo
compito non è fornire uno strumento, ma trasmettere un potere, forse il più alto potere
possibile:
"Il linguaggio instaura una realtà immaginaria, anima le cose inerti,
fa vedere ciò che ancora non esiste, riconduce qui ciò che è
scomparso. Ecco perché tante mitologie, dovendo spiegare come
all'alba dei tempi qualcosa sia potuto nascere dal nulla, hanno posto
come principio creatore del mondo questa essenza immateriale e
sovrana: la PAROLA. Non esiste potere più alto, e, a ben pensarci,
tutti i poteri dell'uomo derivano senza eccezione da quello".
(É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Il
Saggiatore, 1971)
Ecco perché preoccupa il declino della competenza linguistica, nelle sue forme più
meditate e creative: lettura e scrittura. Venendo meno l'esperienza e l'esercizio di
lingua scritta, la diffusione geografica della lingua orale e la sua penetrazione nello
spessore sociale avvengono in forme così scialbe e stereotipe da far rimpiangere le
alternative dialettali anche a chi non abbia mai avuto nostalgie di tipo folcloristico.
Oggi quasi tutti i cittadini italiani possiedono quella conoscenza strumentale della
lingua che serve alla sopravvivenza quotidiana e alla ricezione di Pippo Baudo; ma
ben pochi sanno utilizzare la lingua nelle sue funzioni superiori, di tipo logico e
fantastico. È a rischio la capacità di concettualizzazione, di strutturazione logica del
pensiero, non soltanto un comportamento comunicativo, un'abilità retorica.
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Alcuni esperti hanno già teorizzato il passaggio dalla «civiltà della parola» alla
«civiltà del numero» (come se il numero non fosse anch'esso parola!), o alla «civiltà
dell'immagine», ecc.; ma il timore è che l'alternativa sia la civiltà della clava. Non
mancano gli episodi quotidiani di banalità, di ottusità, di rozzezza, di insofferenza, di
violenza, che sembrano preludere a Neanderthal. Per giustificarli si parla a volte di
follia individuale o collettiva, ma può darsi che la motivazione sia l'ignoranza e la
elementarità di un pensiero non sufficientemente stimolato a operare logicamente: a
classificare, a seriare, a generalizzare/degeneralizzare, a stabilire relazioni, ecc.
E chi non può esercitare il potere della parola, può ricorrere a mezzi più elementari
e immediati per inserirsi nella realtà. Viene in mente, a questo proposito, il «ragazzotto
con la faccia a mela» di Calvino (in Ultimo viene il corvo) che spara invece di parlare,
perché solo così riesce ad abolire la distanza fra se stesso e le cose, e quindi a entrare
in contatto con esse:
"Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria. Era strano a
pensarci, essere circondati così d'aria, separati da metri d'aria dalle
altre cose. Se puntava il fucile invece, l'aria era una linea diritta ed
invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si
muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il
grilletto l'aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù
all'altro capo della linea, il falchetto chiudeva le ali e cadeva come
una pietra."
La parola non è certamente l'unico antidoto alla violenza; ma è sicuramente un
correttivo di essa, se sperimentata a quei livelli - primo fra tutti la lettura del testo
letterario - che possono tirare fuori il meglio da un individuo, canalizzando i suoi
pensieri, liberando le sue emozioni.
Se così è, il problema dell'Antologia, come strategia di accesso alla lettura, deborda
dalla sfera didattica, per assumere dimensioni cognitive ed etiche. Queste due
dimensioni rimarranno presenti, nel mio discorso, anche se esso diventerà, da ora in
poi, più operativo, nel tentativo di rispondere a tre domande:
A) che cosa leggere?
B) con quali scopi?
C) con quali tecniche?
3. Che cosa leggere?
Ho visto guasti didattici così gravi, commessi in nome del «rigore scientifico e
metodologico», che le mie simpatie vanno sempre più a un sano e consapevole
eclettismo, in campo didattico. C'è un brano di Umberto Eco che mi sembra istruttivo,
a questo proposito. Si tratta di un dialogo fra il giovane Adso, impaziente di arrivare
alla soluzione del mistero, e il suo maestro Guglielmo:
«Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne
proponeva molte e diversissime fra loro. Rimasi perplesso.
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"Ma allora," ardii commentare, "siete ancora lontano dalla
soluzione..."
"Ci sono vicinissimo," disse Guglielmo, "ma non so a quale."
"Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?"
"Adso, se l'avessi insegnerei teologia a Parigi."
"A Parigi hanno sempre la risposta certa?"
"Mai," disse Guglielmo, "ma sono molto sicuri dei loro errori."
"E voi," dissi con infantile impertinenza, " non commettete mai
errori?"
"Spesso," rispose. "Ma invece di concepirne uno solo ne immagino
molti, così non divento schiavo di nessuno."»
(U. Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani)
Risponderò dunque alla domanda iniziale illustrando alcune mie opinioni che non
aspirano ad essere accettate come «vere», ma solo ad essere verificate come
«feconde», nella prassi didattica.
Nella dimensione dello spazio, pur privilegiando la letteratura nazionale, il nostro
sguardo dovrebbe essere - come voleva Calvino - planetario:
"... è molto importante che, anche nelle scuole, lo studio della
letteratura italiana sia integrato quanto più si può con la lettura dei
grandi romanzieri francesi, inglesi, russi e anche con quello che si
può vedere della grande poesia nelle altre letterature. Penso che oggi
dobbiamo pensare in termini di letteratura internazionale; tutti noi
siamo influenzati forse in maggior misura dalle grandi letterature
straniere piuttosto che dalla nostra [...] dobbiamo avere uno sguardo
planetario e guardare a tutto il mondo, e nello stesso tempo anche
scrivere pensando che le nostre cose non sono lette soltanto nel nostro
Paese, ma possono circolare e partecipare a un dialogo mondiale."
La stessa elasticità suggerirei nella dimensione del tempo: la presenza dei classici
greci e latini, è così costante e determinante nella nostra storia letteraria, ivi compresa
quella del Novecento, da rendere assurdo ogni steccato. Virgilio è nostro quanto
Dante; Orazio quanto Ariosto. È purtroppo necessario ricorrere alle traduzioni (per gli
autori greci e latini, così come - del resto - per gli autori stranieri); ma la condizione va
accettata, se l'alternativa è la rinuncia.
Aboliti gli steccati spazio-temporali, la mia idea di Antologia - in riferimento alla
scuola media e al biennio - è traducibile nell'immagine di una grande, festosa,
policroma edicola da stazione ferroviaria, che offra in conciliante disordine e in
accattivante promiscuità testi di tutti i secoli e di tutti i luoghi, anche a dare il senso
della facilità con cui il dialogo autore/lettore può suturare continenti e abolire millenni.
Letture successive (liceali, universitarie) struttureranno storicamente l'esperienza di
lettura; ma all'inizio i testi dovrebbero essere messi semplicemente a disposizione
degli apprendisti-lettori; il criterio prevalente di scelta dovrebbe essere quello del
(verificato o presunto) «massimo gradimento» da parte dei ragazzi.
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Non è questo il luogo per indicare e discutere scelte specifiche; vorrei invece
sottolineare l'importanza dei rapporti inter-testuali: la ricchezza di un'antologia
dipende certamente dalla qualità e quantità dei brani in essa contenuti, ma anche dalla
molteplicità di letture che quei brani consentono, se inseriti in diverse configurazioni
testuali. Sarebbe riduttivo procedere alla scelta dei testi da antologizzare, senza
prevedere di quali itinerari quei testi possano essere tappe, e senza preventivare fra
essi "radure", vale a dire ampi spazi lasciati all'elaborazione logica e fantastica dei
lettori.
Mi spiego meglio. È giusto prelevare da Guerra e pace la scena del ballo di
Natascia, non soltanto perché coinvolge i ragazzi, ma anche perché quel tema immette
il testo di Tolstoj in una costellazione di testi - da Cenerentola al Gattopardo di
Tomasi di Lampedusa, attraverso Flaubert, Maupassant, Cechov, Goethe, Mann, ecc. che ospitano il ballo come momento favoloso, magico, trasfigurante: favola subito
interrotta da una «scadenza», da una «perdita di aureola», dal fatale rientro nel grigiore
e nello squallore della vita quotidiana. Il ballo di Natascia potrebbe trascinare con sé
anche la scelta di un bel racconto di Tolstoj, Dopo il ballo, dove l'episodio esaltante è
vissuto da un uomo, con interessante modifica della prospettiva più abituale.
Ci sono poi episodi testuali che creano precisi circuiti allusivi, reti di rinvii.
L'impresa valorosa di una coppia di amici che fa strage dei nemici addormentati nel
loro accampamento, passa da Omero (Ulisse/Diomede) a Virgilio (Eurialo/Niso),
all'Ariosto (Cloridano/Medoro), per limitarci ad autori notissimi. Ed esiste un filo
prezioso che collega a ritroso l'episodio iniziale del Nome della Rosa di Eco (quello
del cavallo scappato ) con Zadig di Voltaire, con una novella di Giovanni Sercambi e
con il filone della novellistica orientale. Il piacere della lettura di un testo viene
esaltato dalla scoperta di queste «armoniche» culturali; non esiste profilo storicoletterario più istruttivo di queste concordanze che i ragazzi stessi potranno ricavare dai
testi, scoprendone i rapporti.
Insomma: oltre ai messaggi rappresentati dai singoli testi, ce ne sono altri, per così
dire «interstiziali», che il lettore ricava dalle relazioni esistenti fra i testi stessi.
Calvino ha detto qualcosa di simile nelle Città invisibili, a proposito dei racconti che
Marco Polo fa a Kublai Kan:
"... ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto e ogni notizia riferiti
dal suo informatore era lo spazio che restava loro intorno, un vuoto
non riempito di parole. Le descrizioni delle città visitate da Marco
Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col
pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di
corsa."
Anche in questo modo l'Antologia può redimersi dalla formula selettiva e
configurarsi come una foresta che lascia al lettore ampi spazi per le sue soste, che offre
sentieri per le sue «fughe», nella consapevolezza - anch'essa espressa da Marco Polo che "chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio".
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4. Criteri per l'organizzazione delle scelte
Non basta individuare i testi; occorre scegliere un criterio per organizzarli. Il
problema è stato molto dibattuto, in tempi recenti: privilegiare l'ordinamento
cronologico? preferire un raggruppamento per generi letterari? oppure uno per nuclei
tematici?, ecc. Autori e insegnanti aderenti alle diverse soluzioni appaiono volta a
volta sicuri della superiorità del criterio prescelto, il che forse testimonia del fatto che
ogni soluzione ha i suoi pregi e i suoi vantaggi.
Le mie preferenze vanno all'ordinamento per generi letterari, che valorizza gli
aspetti formali su quelli contenutistici. Ciò non significa deprimere gli elementi
affettivi presenti nel testo, ma essere consapevoli del fatto che, a distinguere Leopardi
dai comuni mortali, non sono le passioni e i sentimenti - a tutti comuni - ma la sublime
capacità - solo sua! - di tradurli nelle parole e nei versi dei Canti. Solo chi penetra
nella magia verbale del testo poetico, può provare le sensazioni, le emozioni, gli
affetti, che esso trasmette: la forma poetica è produttrice di significato. Non conosco
sensibilità di lettore che non sia preceduta dall'intelligenza del testo.
Non mi nascondo, però, che lettori inesperti di tipologia testuale potrebbero trovare
ostico un raggruppamento per generi. Penso a studenti che provengano da una scuola
in cui siano stati privilegiati gli aspetti affettivi connessi con la fruizione del testo. È
ancora presente - nella scuola dell'obbligo - quell'impianto idealistico che insiste
soprattutto sui contenuti, con una preferenza per quelli commoventi ed edificanti. Il
ragazzo viene invitato a vibrare emotivamente in rapporto a un testo non sempre
perfettamente inteso: "T'amo, pio, bove..." studiava a memoria un ragazzino, qualche
tempo fa; e a chi gli chiedeva il perché delle pause fiancheggianti il «pio», rivelava la
sua convinzione che «Pio» fosse nome proprio del quadrupede. Esempio estremo, non
imputabile ad alcuna didattica, certamente; ma non sono poche le vittime del «Che
cosa hai provato ...?»; le stesse che, per anni, hanno dovuto indicare «il personaggio
che li ha colpiti di più» (ma perché dovrebbe esistere un simile personaggio?); che
hanno letto Funere mersit acerbo in concomitanza con il 2 Novembre e Natale di
Ungaretti in prossimità delle sante feste.
Ragazzi le cui letture siano state per otto anni scandite dalle stagioni, da fenomeni
atmosferici suggestivi (neve, nebbia, pioggia, ecc. ), da feste comandate, ecc., possono
riluttare davanti a una classificazione dei testi basata su caratteristiche formali.
Sono perciò favorevole a contaminare il criterio dell'ordinamento per generi con un
meno arcigno criterio tematico (dove per tema non si deve intendere un contenuto
materiale, una circostanza concreta, ma una situazione archetipa, un luogo
dell'immaginario, un oggetto simbolico). Ho già esemplificato questa possibilità
parlando del ballo; altri temi potrebbero essere quello del viaggio, del sogno, della
malattia, della città, della finestra (intesa come varco fra l’io e il mondo), e così via.
5. Aprire ai testi «effimeri»?
Finora ho preso in considerazione l'ipotesi di un'antologia letteraria: una definizione
che può includere - nell'accezione più vasta - tutti quei testi che abbiano avuto la
vitalità sufficiente a sopravvivere al di là del tempo e al di fuori dello spazio in cui
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sono stati prodotti. In questa definizione vasta rientrano, oltre alle opere letterarie
propriamente dette, le opere che ospitano l'avventura conoscitiva dell'uomo:
scientifiche, storiche, filosofiche, ecc.
Non si tratta di una soluzione pacifica, scontata; molte antologie si sono aperte, in
tempi recenti, alla ricca gamma dei testi effimeri, nel senso etimologico di
«quotidiani» o di «rapidamente deperibili», una volta esaurita la loro funzione pratica:
testi giornalistici, pubblicitari, giuridicoburocratici, tecnici, ecc. L'apertura si è
ideologicamente connotata come democratica e progressista, in contrapposizione con
quella letteraria, giudicata elitaria e conservatrice.
Certamente la didattica della lingua deve considerare tutte le forme di
comunicazione, ed essere comprensiva di tutti i sottocodici e registri; il testo letterario
non esaurisce la gamma delle funzioni comunicative. Ma il luogo in cui articoli
giornalistici, slogan pubblicitari, documenti burocratici, testi giuridici, tecnicoscientifici, ecc., vanno osservati e analizzati, non è l'antologia, bensì la grammatica, se
questa è - come dovrebbe essere - attenta alle varianti testuali, oltre che alle costanti
del sistema. Una grammatica dovrebbe applicarsi proprio ai livelli medi, colloquiali,
della lingua, valorizzando gli aspetti pragmatici della comunicazione. L'analisi
grammaticale del testo letterario può essere solo differenziale.
L'alternativa vera è quella fra una comunicazione inerte e ripetitiva, e una
informazione dinamica e stimolante; fra una cultura che diffonde e consolida opinioni
e una cultura che attiva processi di ricerca e di scoperta.
È il Cantico di San Francesco che fa scorgere nell'acqua il simbolo della purezza,
della castità; sono I fiumi di Ungaretti che rivelano la simbologia uterina delle acque; è
Montale che ci fa vedere l'insidia, nelle «acque dei piranha». E dall'altra parte è la
scienza che rivela nel liquido inodoro e insaporo che beviamo e con cui ci laviamo - i
due atomi di idrogeno e l'atomo di ossigeno che sfuggono alla nostra percezione.
Cioè: sono la letteratura e la ricerca scientifica a sondare originalmente la realtà, a
penetrare nei suoi strati proliferanti per attingere significati riposti, rinnovando così la
nostra percezione del mondo reale, abilitandoci all'esperienza di mondi immaginari o
ipotetici.
Testi letterari, dunque, in una scelta innovativa del canone ma non iconoclasta.
Perché Marino Moretti deve essere conosciuto sempre per Piove. È mercoledì. Sono a
Cesena ... e mai per Ascensore, che è poesia più vicina alla sensibilità di lettori
adolescenti? Perché di Montale si devono leggere sempre e soltanto quelle cinque o sei
liriche, e non altre, altrettanto belle anche se escluse dalla selezione didattica? E d'altra
parte esiste, nella nostra tradizione culturale, un canone in cui ognuno di noi si
riconosce e che - entro certi limiti - va rispettato. Personalmente ritengo che un poeta
come Pascoli (ed è solo un esempio) sia stato fortemente ridimensionato dalla
selezione scolastica, che - privilegiando le poesie più facili e piagnucolose - ha
occultato la dimensione robusta e tragica della sua lirica. Ma, tutto considerato, non mi
piacerebbe che il legittimo desiderio di restituire al Pascoli la seconda dimensione, si
risolvesse nel rifiuto de L'aquilone, o de I due fanciulli, o di altre poesie che fanno
saldamente parte dell'enciclopedia mentale del cittadino italiano di cultura media. Lo
svecchiamento non va realizzato come velleitario rifiuto del noto, ma come
allargamento delle scelte a ciò che rimane indebitamente ignoto, nella scuola.
L'aquilone va proposto ai ragazzi (anche perché il Pascoli lo considerava la sua poesia
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migliore); ma ad esso possono essere affiancate Le due aquile: una fra le poesie
pascoliane più belle e più ignorate.
Innovare dunque, senza negare quel patrimonio di letture che - trasmesso attraverso
le generazioni - crea fra esse una forma di continuità mentale, instaura una tradizione
culturale: un concetto di cui è sbagliato fare un feticcio, ma di cui è altrettanto
sbagliato negare l'importanza.
6. Quali scopi deve proporsi un'antologia?
Alla domanda sugli «scopi» che un'Antologia dovrebbe proporsi, ho già risposto
implicitamente, quando ho definito la lettura attività piacevole, consolatoria, ma
soprattutto altamente informativa e quindi necessaria alla nostra sopravvivenza
mentale.
È evidente che l'antologia ha lo scopo primario di favorire l'accesso a questa
attività. Trasformare degli individui in «lettori» (cioè in persone che continuino ad
amare la lettura, e a leggere, anche dopo la fine dell'obbligo scolastico) dovrebbe
essere uno degli scopi più ambiziosi della scuola.
Ma esiste anche uno scopo secondo (non secondario), che è quello di trasformare
l'esperienza di lettura in abilità di scrittura.
Dagli autori si può «imparare a scrivere», se alla lettura corrente, di tipo intuitivo,
segue una riflessione che - senza mortificare il testo - metta a fuoco sue caratteristiche
di tipo grammaticale e stilistico. So che su questo punto esiste dissenso, fra gli esperti,
ma credo che chi nega l'influenza della lettura sulla scrittura abbia commesso degli
errori nello sperimentare il passaggio.
Ho parlato di abilità di scrittura, ma avrei dovuto parlare più ampiamente di
efficacia comunicativa, includendo in essa anche la produzione orale. La ricchezza di
lessico e l'abilità di costruzione sintattica, maturate attraverso le esperienze di lingua
scritta, si manifestano anche nell'oralità, con notevoli vantaggi di tipo pragmatico.
Potremmo dire - per rifarci a Rostand - che l'umanità si divide in «Cirani» e in
«Cristiani», e che il discrimine fra le due categorie di individui è rappresentato dalla
lingua, intesa come manifestazione di intelligenza e di spiritualità, ma anche come
capacità di sostituirsi all'azione e di realizzare obiettivi. Nonostante l'handicap
dell'enorme naso, pensiamo che convenga appartenere alla consorteria dei «Cirani».
7. Quali tecniche di lettura?
La terza e ultima domanda investe le tecniche di lettura antologica.
È indispensabile, prima di tutto, un abbondante commento linguistico che spieghi
parole o espressioni presumibilmente ignorate dai ragazzi. La competenza lessicale dei
giovani è oggi così ristretta, che tale commento dovrebbe essere approssimato per
eccesso piuttosto che per difetto.
Le note di questo commento andrebbero utilizzate dagli studenti in fase di ri-lettura
casalinga; in classe nulla dovrebbe interrompere la lettura ad alta voce da parte
dell'insegnante: c'è infatti un significato contestuale che consente l'intuizione globale
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del testo, anche in presenza di numerose lacune lessicali; è anzi ottimo esercizio
abituarsi a cogliere questo valore contestuale. Non sto suggerendo una lettura a ruota
libera, di tipo intuitivo; dico solo che chiarimenti, approfondimenti testuali, ecc.
dovrebbero appartenere a una fase successiva, di riflessione sul testo, senza interferire
con il piacere dell'ascolto. Che l'insegnante legga ad alta voce (almeno l'inizio, i
passaggi più significativi, la fine del racconto) è molto importante, a conferire energia
verbale alla pagina scritta: il canale orale/acustico trasmette il testo con immediatezza
ed efficacia maggiori di quanto non possa fare quello grafico/visivo della scrittura,
certamente più ostico per un lettore inesperto.
Un brano, una poesia, una scena teatrale, ecc. vanno inquadrati nell'opera
dell'autore, messi in rapporto con la sua personalità. Ci vuole dunque una
presentazione che però, a mio parere, dovrebbe limitarsi a fornire le informazioni
essenziali.
Non credo opportuno che il piacere della lettura venga turbato da un apparato
storico-letterario o critico che rischia di diventare deterrente; ci sarà tempo, in seguito,
per la storia della letteratura e della critica. Né sembra giusto che il curatore
«spiattelli» in anticipo il significato profondo del testo (o quello che egli giudica tale),
sottraendo a chi legge il gusto della scoperta. Dovrebbe piuttosto inserire, in appendice
ai testi, domande capaci di sensibilizzare il lettore a certi problemi e di indirizzarlo a
loro soluzioni, il più possibile aperte. Una sola soluzione trovata dal ragazzo vale più
della consegna anticipata di un «pacchetto» critico ben confezionato.
Dovrebbe essere respinta anche la prassi didattico-editoriale che esige, a corredo dei
testi, un apparato pachidermico di esercizi, schede, rubriche, griglie, quiz, ecc.
Non appartengo alla categoria di quelli che affidano interamente i testi alla
degustazione intuitiva del lettore. Penso che il testo, una volta letto, possa e deva
essere ri-letto, sfruttato come terreno di osservazione e perfino di manipolazione, da
parte dei ragazzi. Ciò che trovo avvilente è la meccanicità di certe procedure, la fissità
delle cosiddette griglie: letti di Procuste a cui dovrebbero adattarsi i testi più diversi.
Viene consumato, in questa attività, un tempo che potrebbe servire a leggere di più;
basterebbe, in calce a un racconto di Buzzati, o di Calvino, ecc., il rinvio ad altri titoli
raccomandati.
Non si nega l'utilità episodica di certi strumenti narratologici, semiologici, stilistici,
ecc. Ciò che gli insegnanti dovrebbero rifiutare è la standardizzazione di quelle
procedure.
Facciamo un esempio: può essere utile, dopo la lettura di un testo narrativo, attirare
l'attenzione dei ragazzi sui personaggi, sui luoghi, sui tempi, sui modi in cui la vicenda
si svolge. Il livello più immediato di comprensione del testo è quello della trama, ed è
giusto cominciare da lì, verificando la ricezione dei dati narratologici, da parte dei
ragazzi. Ma c'è una bella differenza fra questa procedura episodica e l'imposizione a
tutti i testi della griglia del «chi? dove? quando? come?».
Il «chi» di Pirandello può essere uno, nessuno, centomila: come dire che, al di là del
nome proprio, il personaggio pirandelliano può essere emblematico di una tipologia.
Infatti molti «Grandi Me» pirandelliani non hanno nome ("L’uomo dal fiore in bocca",
"Il pedagogo", "Il filosofo", ecc.) perché costituiscono una categoria umana troppo
fluida per essere bloccata anagraficamente; e sono senza nome anche molti «Piccoli
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Me» ("Il pacifico avventore", "L'uomo grasso", ecc.), a sottolineare con l'anonimato la
loro inconsistenza .
Il «dove» dei Promessi Sposi, più che una localizzazione geografica, è una
contrapposizione di alto e di basso: il palazzo di don Rodrigo sta in alto rispetto al
paese di Lucia e di Renzo, al convento di padre Cristoforo; il castello dell'innominato
domina dall'alto la valle in cui pure l'innominato dovrà scendere per incontrare il
Cardinale (che sta in basso, al livello del popolo). Ed è chiaro che alto/basso non sono
pure indicazioni altimetriche, ma emblemi di una superbia che verrà umiliata e di una
umiltà che verrà innalzata.
Il «dove» di Galileo, nel Dialogo sopra i Massimi Sistemi, è un palazzo patrizio di
Venezia, ma non ha alcun senso precisarlo, se poi non si capiscono le ragioni
(ideologiche e scientifiche) per cui Galileo ha scelto proprio questa ambientazione. È
un palazzo patrizio (e non l'aula di un'Università, o la sala di una Corte) perché le
verità matematiche sono aperte a tutte le persone fornite di cervello (non ai soli
specialisti), e quindi la Matematica non è soltanto una disciplina, ma una filosofia, uno
strumento di conoscenza, un linguaggio a tutti necessario per interpretare il gran libro
dell'Universo. E si tratta di Venezia perché in quella città è vistoso quel fenomeno
delle maree ("flusso e reflusso del mare", per dirla con Galileo) che lo scienziato,
sbagliando, considerava la prova fisica, inoppugnabile, della mobilità della Terra.
Il «quando» di Pavese non è una data, un punto segnato su un vettore temporale, ma
un ritmo scandito dalla circolarità delle stagioni; il «quando» di Proust è un problema
di durata, non di collocazione cronologica. E si potrebbe continuare.
La conclusione di questo discorso è che ogni testo va affrontato con strumenti
commisurati alla sua singolarità, e che quindi non possono rimanere brutalmente gli
stessi o essere usati sempre allo stesso modo.
L'esempio precedente era suggerito dalla narratologia; quello che segue è suggerito
dalla pragmatica.
Da qualche anno la moda didattica impone la partizione dei testi in descrittivi,
narrativi, persuasivi, argomentativi, dimostrativi, ecc; essendo molte le classificazioni
teoricamente possibili, e molte le contaminazioni didattiche di queste classificazioni,
l'elenco rischierebbe di diventare lungo.
Si tratta, ancora una volta, di distinzioni legittime, finché valgono e finché servono
a individuare la funzione comunicativa di un testo. Ma bisognerebbe guardarsi
dall'assolutizzarle e dal farne un uso meccanico, in fase di esercitazione sul testo. Ci
sono infatti testi che si rifiutano di entrare in queste definizioni come un gatto si
rifiuterebbe di entrare in un sacco: Il Saggiatore di Galileo è un testo persuasivo, più
che dimostrativo, e qualcuno ha sostenuto a buon diritto che il dialogo del balcone fra
Giulietta e Romeo è un testo argomentativo, visto che Giulietta tenta di dimostrare (a
un Romeo che sostiene debolmente il contrario) che "non è ancora l'alba...". Insomma,
definire la funzione di un testo significa quasi sempre individuare quella prevalente nel
fascio di funzioni coesistenti in quel testo; e capire un testo complesso, significa
rispettare la sua complessità, non ridurla arbitrariamente a semplicità.
Eccessi come quelli sopra esemplificati hanno una giustificazione: da quando è
tramontata la critica estetica di matrice idealistica, si avverte la necessità didattica di
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mettere a punto altri metodi, sufficientemente rigidi e quindi rassicuranti, per condurre
quella che l'onestà intellettuale e l'autorevolezza di Borges definiva «l'arte incerta e
rudimentale della lettura».
Non bisognerebbe invece dimenticare che, qualunque sia il metodo di analisi
prescelto, esso si applica a un testo, cioè a un oggetto complesso, semanticamente
fluido, la cui realtà varia a contatto con il ricevente, e a seconda delle condizioni di
lettura. Sicché un testo può essere letto in modi diversi, rivelando a ogni lettura una
diversa faccia della sua poliedrica realtà. Più il testo è ricco, più esso tollera una
pluralità di letture compatibili.
Questo non significa rassegnarsi al relativismo più assoluto; né significa rinunciare
alla scelta di particolari strumenti di analisi. Ciò che si dovrebbe evitare,
nell'applicazione didattica, è la trasformazione in fede o in routine di procedure di
analisi che, al massimo, vanno considerate (e presentate ai ragazzi) come tecniche
feconde.
Una tecnica feconda è quella a cui prima alludevo, di riflettere - a lettura finita - su
alcuni aspetti della scrittura di un autore. Sarà il brano stesso a suggerire l'aspetto che volta per volta - conviene mettere a fuoco: impiego degli aggettivi in Calvino; dei
pronomi personali in Pirandello; le varie modalità di inserimento del dialogo nel testo
narrativo di Buzzati, l'uso della punteggiatura in Tadini, ecc.
È così che si impara dagli autori: imitando dapprima, poi usando del loro esempio
come di un fermento interno alla nostra scrittura.
8. Un'osservazione conclusiva
Il nostro ambiente offre modelli di telespettatori e connota negativamente la lettura,
in quanto attività che esige l'isolamento, il silenzio, il monologo interiore.
Bisognerebbe far capire ai ragazzi che nessuno contesta o critica il loro legittimo
bisogno di compagnia, di socialità; ma che dosi periodiche di isolamento, di silenzio,
di riflessione, sono indispensabili all'equilibrio psichico e mentale di un individuo.
A comunicare questa convinzione saranno più efficaci le testimonianze degli
scrittori che le prediche dei professori. A ragazzi che concepiscono la scrittura come
obbligo scolastico bisognerebbe far leggere una frase del diario di Pavese (in data 4
maggio 1946): "È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare
a una folla". Oppure l'appello che Calvino rivolge al lettore, all'inizio di Se una notte
d'inverno un viaggiatore, una pagina che presenta l'incontro Scrittore/Lettore come
una forma di complicità gioiosa, esaltante. Nella galleria delle testimonianze metterei
anche un'altra pagina di Calvino, dalle Città invisibili, che ribadisce la superiorità
dell'immaginario sul reale, l'intangibilità della parola nei confronti della peribilità
dell'oggetto. I ragazzi dovrebbero capire che, se l'enorme impero di Kublai Kan si
salva dallo sfacelo, è solo perché esso è sorretto dalla sottile filigrana del racconto di
Marco Polo:
"Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo
quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo
l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con
più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
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Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per
l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato [...]: è il
momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era
sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né
forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro
scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha
fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo,
Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri
destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire
al morso delle termiti."
Forse su questa pagina, e sulla capacità della parola di creare mondi incorruttibili, si
può cominciare a discutere con i ragazzi.
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