UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
Sede di Milano
Facoltà di Psicologia
Corso di Laurea in Psicologia delle Organizzazioni e del Marketing
L’OSPEDALE CENTRATO SUL PAZIENTE:
STUDIO ETNOGRAFICO TRA LE CORSIE DI REPARTO
Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa Mara Gorli
Correlatore:
Chiar.mo Prof. Giuseppe Scaratti
Tesi di laurea di:
Elisa Giulia Liberati
Matricola N. 3809022
Anno Accademico 2010 - 2011
A mio padre,
costante fonte d’ispirazione.
Per avermi educato a guardare il mondo con curiosità,
per avermi insegnato a studiare,
e per tutte le altre cose.
“Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola,
ma insomma ci siamo capiti.”
Stefano Benni1
Ringraziamenti
Questa tesi è frutto di un intenso lavoro di ricerca: un percorso entusiasmante, faticoso, appagante
ma soprattutto profondamente trasformativo. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza
l’aiuto e l’esperienza di chi, in principio, mi ha mostrato il cammino, di chi mi accompagnato per
tratti di strada e infine di chi ha creduto in me, seguendomi con lo sguardo da un po’ più lontano.
Un grazie di cuore va alla mia relatrice, la Prof.ssa Mara Gorli, per la sua preziosissima guida, per
avermi trasmesso la sua passione per la ricerca e per la generosità con cui ha partecipato alle
fatiche ed alle soddisfazioni del mio percorso. Ringrazio inoltre il Prof. Egidio Moja e la Dott.sa
Serena Barello, per non aver esitato a dedicarmi il loro tempo senza che ciò fosse affatto dovuto: il
loro aiuto è stato prezioso in momenti distinti ma similmente cruciali del mio percorso di tesi.
Ringrazio i medici, gli infermieri, i fisioterapisti ed i pazienti per avermi lasciato osservare il loro
mondo. Un ringraziamento particolare va a Rossana, Paolo, Beatrice, Viviana, Ernesto, Betta e
Laura, per la loro infinita disponibilità e per l’energia con cui affrontano il loro difficile lavoro. Un
grazie di cuore a Gegia, per la sua infinita pazienza e per aver compreso il mio ingiustificato
perfezionismo; a Martina, per la sua saggezza (che in realtà è molto di più); ad Alessandro, per
avermi ricordato che a volte è necessario fermarsi, e soprattutto per essersi fermato con me; alla
mia amica Giulia, compagna di studi e di vita, per il suo costante sostegno, la sua fiducia, il suo
provvidenziale senso dell’umorismo e per essere sempre al mio fianco. Infine un pensiero affettuoso
va alla mia mamma ed alla mia sorellina Valeria, le mie due rocce: grazie di sopportare le mie
stravaganze quotidiane e di ricordarmi ogni giorno dov’è la mia Casa.
1
Stefano Benni (2001). Saltatempo. Milano: Feltrinelli
2
INDICE
INTRODUZIONE ................................................................................................................... 5
Parte prima
1. PATIENT CENTRED MEDICINE: LA STORIA E LO STATO DELL'ARTE ........................................ 8
1.1. La nascita del concetto: basi filosofiche ed antropologiche ...................................9
1.2. Medicina Centrata sul Paziente: cosa è e cosa non è ...........................................15
1.3. Misurare gli effetti della Patient Centred Medicine .............................................22
2. DALLA RELAZIONE AL SISTEMA: LEVE PER L’IMPLEMENTAZIONE DELLA PCM NEGLI
OSPEDALI .......................................................................................................................... 31
2.1. Gli aspetti hard dell’organizzazione ......................................................................33
2.1.1. Struttura, spazio e ambienti .........................................................................34
2.1.2. Tecnologia ....................................................................................................37
2.1.3. Norme e procedure ......................................................................................38
2.2. Gli aspetti soft dell’organizzazione .......................................................................39
2.2.1. Cultura organizzativa ...................................................................................40
2.2.2. Leadership e Vision .......................................................................................43
2.2.3. Clima organizzativo ......................................................................................44
2.2.4. La formazione del personale sanitario .........................................................46
Parte seconda
3. DISEGNO, METODOLOGIA E CONTESTO DELLA RICERCA................................................... 51
3.1. Introduzione .........................................................................................................51
3.2. Obiettivi ...............................................................................................................53
3.3. Metodologia .........................................................................................................54
3.3.1. Un disegno di ricerca qualitativo..................................................................54
3.3.2. Il metodo etnografico ...................................................................................54
3.3.3. Gli strumenti della ricerca ............................................................................56
3.3.3.1. L’osservazione .......................................................................................56
3.3.3.2. Le interviste etnografiche .....................................................................63
3.4. Il disegno della ricerca ..........................................................................................64
3
3.4.1. Il campionamento ........................................................................................64
3.4.2. Il processo della ricerca ................................................................................65
3.5. Raccolta ed analisi dei dati ...................................................................................68
3.5.1. Raccolta dei dati ...........................................................................................68
3.5.2. Analisi dei dati ..............................................................................................69
3.6. Accesso al campo..................................................................................................70
3.7 Il contesto del caso ................................................................................................72
3.7.1. La struttura organizzativa del policlinico .....................................................72
3.7.2. L’unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione ...................................75
3.7.3. Sintesi del percorso del paziente ..................................................................77
4. RISULTATI DELLA RICERCA: I TRE LIVELLI DELLA PATIENT CENTRED CULTURE .................... 80
4.1. Alla ricerca di un modello interpretativo ..............................................................80
4.2. Le rappresentazioni individuali .............................................................................84
4.2.1. Il medico .......................................................................................................88
4.2.2. L’infermiere...................................................................................................92
4.2.3. Il fisioterapista ..............................................................................................96
4.3. La relazione ...........................................................................................................99
4.3.1. Il possesso dello spazio ...............................................................................103
4.3.2. La disposizione del tempo ..........................................................................108
4.3.3. L’accesso al corpo .......................................................................................112
4.3.4. L’uso del linguaggio ....................................................................................119
4.4. L’organizzazione ..................................................................................................128
4.4.1. Gli artefatti come simbolo del paziente al centro ......................................130
4.4.1.1. I documenti .........................................................................................132
4.4.1.2. Oggetti e spazi ....................................................................................145
4.4.2. Il team multi-professionale ed il lavoro d’equipe .......................................147
4.4.3. Fare rete attorno al paziente......................................................................152
4.5. Riflessioni conclusive ..........................................................................................161
CONSIDERAZIONI FINALI E PROSPETTIVE FUTURE ............................................................. 164
BIBLIOGRAFIA.................................................................................................................. 168
4
INTRODUZIONE
“Come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre
cominciato già prima. La prima riga della prima pagina di ogni romanzo rimanda a
qualcosa che è già successo fuori del libro.”
Italo Calvino2
Ciò di cui vorrei occuparmi in questa tesi tratteggia tanto la mia storia personale
quanto il mio futuro professionale, come analogamente si intrecciano le diverse ragioni
per cui ho iniziato ad interessarmi al tema della Patient Centred Medicine dal punto di
vista della Psicologia delle Organizzazioni. Il punto di partenza (il “fuori dal libro”) è
rintracciabile in una domanda, repentina ed improvvisa, balenata nella mia mente una
mattina come molte altre, nell’attraversare il corridoio di un reparto ospedaliero.
Domanda che per tempo è rimasta in sospeso, ignorata e forse un po’ bistrattata a
causa della sua apparente banalità. Leggendo di Medicina Centrata sul Paziente, si può
notare l’egemonia del tema della relazione tra medico e paziente, al fine di considerare
la Persona che sta “dietro il paziente” e nel tentativo di ridurne la sofferenza derivata
dalla patologia organica. Tuttavia, è impossibile non accorgersi che l’interazione medico
– paziente rappresenta soltanto un’esigua parte dell’esperienza dei malati nel contesto
ospedaliero. Come tradurre allora i valori e gli obiettivi sottesi alla teoria della Patient
Centred Medicine ad un livello più globale e comprensivo? Come è possibile, cioè,
rendere gli ospedali delle Organizzazioni Centrate sul Paziente? Con questi sfidanti
interrogativi a farmi da guida, ho iniziato, circa un anno fa, ad occuparmi del tema della
Medicina Centrata sul Paziente e ad ipotizzare un disegno di ricerca che mi
permettesse di indagarne le implicazioni organizzative. Fin da subito ho avuto la curiosa
percezione che le parole lette nei libri fossero già presenti in qualche angolo della mia
piccola valigia di esperienze. Chi ha vissuto la malattia, seppur non grave o per brevi
periodi, conosce lo smarrimento che segue alla percezione di un corpo sofferente, o
anche soltanto l’ansia data dal non sapere se e quando esso tornerà a funzionare
2
Italo Calvino (1979). Se una notte d'inverno un viaggiatore. Milano: Einaudi.
5
correttamente. Viviamo in un una società in cui il tempo del non-sapere tende ad
essere ridotto al minimo, grazie all'iper-accessibilità dei canali di informazione ed alla
velocità del cyberspazio. Sono sicura che sia esperienza comune alla mia generazione,
nata con il Personal Computer e cresciuta insieme ad Internet, quella di correre sul
proprio motore di ricerca favorito per trovare risposta immediata a qualsiasi tipo di
dubbio o interrogativo. Come gestire allora, oggigiorno, i vuoti d'informazione, gli spazi
in cui l'incertezza regna ancora sovrana e l'unica possibilità che ci resta è imparare a
gestirla? È plausibile ipotizzare che, a fronte dell'incapacità di ridurre l'ansia del non
sapere - ed a causa della frustrazione che tale incapacità provoca -, la gestione
dell’incertezza e della sofferenza dei malati sia ad oggi un tasto molto dolente per i
professionisti sanitari.
Nel concreto, l’ipotesi che ho formulato e sviluppato in questa tesi è che, attraverso
l’indagine della cultura organizzativa – i valori, gli artefatti, le credenze, le routine, le
pratiche lavorative – di un reparto ospedaliero sia possibile individuare alcune leve che
consentono di connettere il costrutto teorico di Patient Centred Medicine al
cambiamento organizzativo. In questo passaggio è contenuto il senso ultimo della
proposta della mia tesi: al fine di fondare, progettare ed anche implementare
cambiamenti organizzativi che avvicinino l’organizzazione all’obiettivo della Patient
Centredness, la Psicologia delle Organizzazioni potrebbe fornire utili ancoraggi teorici e
garantire un fertile terreno per l’indagine. L’approccio psicologico alle organizzazioni
apre infatti la strada all’individuazione di elementi, dimensioni e livelli organizzativi la
cui analisi ed il cui utilizzo potrebbero rilevarsi cruciali in vista dell’obiettivo della
“centratura sul paziente”.
La prima parte della presente tesi è finalizzata ad un’esplorazione della letteratura
inerente ai temi qui brevemente introdotti. Per fondare la ricerca a livello teorico verrà
innanzitutto approfondito il costrutto della Patient Centred Medicine: le origini, le
evoluzioni nel tempo, gli attuali modelli di riferimento e la valutazione dei suoi effetti
(Capitolo 1). Si illustreranno poi i principali interventi organizzativi, descritti in
letteratura, finalizzati al perseguimento della Patient Centredness negli ospedali
6
(Capitolo 2). Gli interventi descritti rappresentano azioni dirette al cambiamento di
aspetti isolati delle organizzazioni sanitarie, ma forniscono comunque un utile quadro
dei possibili livelli di intervento in questo ambito.
La seconda parte della tesi sarà invece di tipo sperimentale: verrà analizzata, attraverso
l'utilizzo del metodo etnografico, una specifica realtà organizzativa (il Reparto di
Riabilitazione di un ospedale italiano). Nel concreto, si cercherà in questa fase di
rispondere ai seguenti quesiti: quali elementi della cultura organizzativa del reparto
giocano a favore del radicarsi di pratiche lavorative e dispositivi finalizzati al “mettere al
centro” i suoi utenti? E quali potrebbero essere, nel concreto, tali pratiche e dispositivi?
Metodologia, obiettivi e contesto della ricerca saranno descritti nel terzo capitolo. Il
lavoro etnografico sul campo ha prodotto un ricco e variegato materiale, la cui analisi
ha dato esito alla costruzione di un modello interpretativo multilivello della cultura
Patient Centred del reparto di Riabilitazione. Tale modello, descritto in dettaglio nel
quarto capitolo, è insieme risultato e punto di partenza: risultato dello studio fondativo
ed esplorativo proposto in questa tesi e punto di partenza sperato per futuri interventi
organizzativi.
7
CAPITOLO 1
Patient Centred Medicine: la storia e lo stato dell'arte
“Medicine begins with stories. Patient tells stories to describe illness;
doctor tells stories to understand it”3
R. Smith
In questo capitolo verrà approfondito il tema della Patient Centred Medicine (PCM),
concetto centrale nella teoria che sta a fondamento dell'intera ricerca. Data la
poliedricità del tema e la grande quantità di pubblicazioni in materia, lo sforzo è stato
quello di enuclearne tre aspetti fondamentali ai fini della presente tesi. In particolare,
nel primo paragrafo descriverò le origini e il fondamento antropologico alla base della
Patient Centredness nella pratica medica. Il secondo paragrafo sarà invece dedicato ad
una messa a fuoco concettuale della medicina centrata sul paziente: cosa significa,
quali valori incorpora, cosa comprende e cosa invece esclude. Nel terzo ed ultimo
paragrafo verranno messi in luce alcuni risultati di ricerche e meta-analisi in merito
all'utilità della medicina Patient Centred (PC). In questa ultima sezione si cercherà di
dare risposta ad alcuni quesiti, tra cui: quali vantaggi comporta la centratura sul
paziente? Chi ne beneficia? Cosa richiedono i pazienti al proprio medico ed al sistema
sanitario?
Come si può vedere in bibliografia, nella redazione di questo capitolo è stato utilizzato
materiale edito in una finestra temporale molto ampia: il primo articolo utilizzato risale
al 1977, mentre l'ultimo è stato pubblicato nel 2011. Se infatti per l'ultimo paragrafo
sono stati selezionati articoli di recente pubblicazione, per i primi due è parso
opportuno citare autori di classici ritenuti tuttora molto validi, come ho potuto
constatare in seguito a colloqui ed interviste con esperti in materia, nonché dalla loro
tuttora assai frequente citazione in articoli recenti.
3
“La medicina inizia con delle storie: il paziente ne racconta per descrivere la malattia, il medico ne
racconta per comprenderla.”
8
1.1 La nascita del concetto: basi filosofiche ed antropologiche
Non è semplice parlare delle origini del modello Patient Centred; esso, infatti, è solo
uno tra i molti approcci alla medicina nati come alternative al tradizionale paradigma
biomedico, che, intorno alla fine degli anni '70, ha iniziato a mostrare chiari segnali di
crisi. Vediamo anzitutto cosa si intende con modello biomedico, o approccio
tradizionale alla clinica medica. Esso trova le sue origini nella Francia degli inizi del XIX
secolo; in quello precedente, la medicina non possedeva un metodo clinico né una
nosologia universalmente accettati. Tutto cambiò quando i clinici iniziarono a rivolgere
la loro attenzione all'analisi fisica dei pazienti, grazie all'invenzione di nuovi strumenti
quali lo stetoscopio di Renè Laennec ed all'introduzione dell'esame post-mortem degli
organi interni. Stiamo parlando di una vera e propria rivoluzione: il risultato fu infatti
una classificazione totalmente nuova delle malattie, basata sull'anatomia delle
patologie. Tale tassonomia prese piede anche oltre i confini della Francia, tanto da far
scrivere al clinico inglese Crookshank (1926) che interpretare i sintomi nei termini di
una specifica patologia diventò, in sostanza, l'unico compito del diagnostico. Si può
vedere come questo cambiamento non costituisca soltanto un netto avanzamento
della scienza medica – si consideri in particolare l'enorme potere predittivo ottenuto
dalla correlazione tra i sintomi e le evidente tratte dall'osservazione degli organi nelle
autopsie – bensì comporti una radicale trasformazione nella percezione della malattia e
della persona malata. Prende piede il modello ontologico di malattia, secondo cui la
patologia è collocata dentro il corpo ed è concettualmente separabile dal malato. Se
precedentemente la diagnosi era rivolta al paziente, lo scopo del processo diagnostico
diventa ora l'identificazione del morbo. Come in ogni tassonomia, le categorie
patologiche diventano pure astrazioni che, nell'interesse della generalizzazione,
lasciano da parte molte caratteristiche della malattia stessa, tra cui il vissuto soggettivo
del paziente rispetto a quest'ultima. Il nuovo paradigma garantisce d'altra parte una
serie di inediti vantaggi: oltre al già citato potere inferenziale e predittivo (1), esso
semplifica un processo molto complesso (2), sezionandolo in una serie di step
facilmente memorizzabili. Nel nuovo approccio il medico ha istruzioni precise: non
9
deve far altro che analizzare la storia (anamnesi) del paziente e sottoporlo agli appositi
esami, in modo da arrivare ad una diagnosi o escludere un'evoluzione patologica. Il
modello biomedico fornisce un vocabolario comune e universalmente accettato (3) e
dà la possibilità di attribuire un nome alle patologie dei pazienti. Pur essendo null'altro
che un'etichetta priva di potere predittivo, conoscere il nome della propria malattia ha
potenti implicazioni simboliche per la persona malata, portando in sé l'idea che la
patologia non sia una minaccia misteriosa e nascosta, bensì qualcosa di conosciuto e,
quindi, nominabile. Alle volte dare un nome ad una malattia è addirittura più utile per
dichiarare cosa il paziente non ha: ad esempio, la diagnosi di cisti ovariche sottende,
per la paziente, il messaggio “lei non un tumore”. Infine, ma non meno rilevante, il
metodo fornisce un criterio per la sua verificazione (4). È l'inizio della modernità in
medicina. Il successo del modello fu tale da lasciarne in ombra le debolezze per molto
tempo. Data anche la collocazione storica della sua origine, l'età della Ragione, il
metodo è analitico e impersonale ed esclude totalmente la soggettività e le esperienze
del paziente. La malattia viene analizzata su un solo livello, quello della patologia fisica;
al centro del processo sta la diagnosi, con scarsa attenzione per la cura destinata al
paziente. Sotteso al modello giace inoltre un dualismo di stampo cartesiano per cui una
netta separazione viene posta tra i disordini mentali e le disfunzioni fisiche, distinzione
resa visibile anche nell'organizzazione della professione, con uno scisma tra psichiatria
e medicina interna. Riassumendo, il modello biomedico si afferma al tempo in cui i
valori dell'illuminismo diventano operativi e predominanti: svalutazione della
metafisica, indebolimento della tradizione, proclamazione del processo e della ragione
al servizio dell'uomo. Peccato si trattasse di una ragione basata esclusivamente sulla
logica formale, nella pratica divorziata dall'esperienza umana (Mc. Whinney, 1995).
È interessante a questo proposito accennare ad una riflessione, condotta nel campo
dell'antropologia, in merito allo slittamento di linguaggio che ha interessato la clinica
medica nel tempo. L'antropologo inglese Helman (1981) affronta il tema dei modelli
utilizzati dai pazienti per dare un senso alla loro condizione di malati: i due modelli,
indicati dall'autore con i termini illness e disease (due diverse sfumature della parola
italiana malattia), appaiono significativi alla luce delle novità apportate dal modello
10
biomedico di cui si è parlato in precedenza. Eisenberg (1977) definisce “diseases” le
anormalità della struttura e/o funzione di organi o sistemi del corpo. Si tratta quindi di
astrazioni, entità indipendenti con specifiche proprietà, ricorrenti in qualsiasi contesto
esse appaiono, universali. L'universalità del disease è relativa ad una definizione di
normalità, o buona salute, che nel modello medico è definita attraverso il riferimento
ad alcuni parametri misurabili, ad esempio la pressione del sangue, il peso, etc.:
disease è quindi la deviazione da tale stato di salute. D'altra parte, con il termine illness
si intende la risposta soggettiva delle persone ad uno stato di malessere, cioè il modo
in cui il paziente e chi gli sta intorno interpreta le origini e la significatività dell'eventomalattia, e come essa influenza i comportamenti dei soggetti. Sintetizza Cassel (1978):
illness è ciò che il paziente sente mentre si reca dal medico, mentre disease è ciò che ha
quando torna a casa dopo la visita. La distinzione appare rilevante in quanto mette in
luce lo sbilanciamento del modello biomedico sul polo del disease, mentre ben poca
attenzione è dedicata agli aspetti illness-related.
C'è poi un altro tema su cui l'antropologia medica ci offre importanti spunti di
riflessione, ed è la questione relativa al fondamento del modello biomedico. Se infatti,
da una parte, non vi è dubbio che tale paradigma consti di una base ed un metodo
scientifici, dall'altra il modello biomedico è, con il tempo, diventato anche il nostro
modello popolare (folk model, Engel, 1977) di interpretazione dei fenomeni legati
all'universo semantico della malattia. Generalmente, possiamo definire un modello
come un sistema di credenze attraverso cui diamo un senso ai fenomeni e cerchiamo di
ordinare ciò che del mondo naturale ci appare maggiormente enigmatico. Tanto più
disturbante ci sembra un fenomeno, quanto più pressante sarà la necessità di piegarlo
al nostro sistema esplicativo. La condizione di malattia è disturbante e non desiderata,
e dà quindi avvio ad una serie di azioni correttive che comprendono spiegazioni,
sistemi di credenze, regole di condotta. Tali azioni altro non sono che risposte
socialmente adattive finalizzate a risolvere la crisi e l'incertezza che deriva dall'eventomalattia. Simili sistemi di credenze culturalmente determinati costituiscono sì un
modello, ma non un modello scientifico, bensì un modello popolare, risultato della
tensione all'adattamento sociale. Secondo Engel (1977), l'evidenza storica che è
11
necessario affrontare è che, nel nostro (post)moderno Occidente, il paradigma
biomedico non solo fornisce le basi per il continuo – ed auspicabile – progresso
scientifico nello studio delle patologie, ma si è anche radicato nel nostro sistema di
significati legati al mondo della salute, trasformandosi così nel nostro folk model. Il
modello biomedico avrebbe, in breve, acquisito lo status di dogma, di imperativo
culturale, motivo per il quale si fortissime resistenze si oppongono al suo superamento.
Sono stati precedentemente elencati quattro motivi per cui il modello biomedico ha
comportato indubbi vantaggi nella clinica medica, e sono state ora spiegate anche le
ragioni antropologiche e sociali sottese alla sua resistenza nel tempo. Vediamone
adesso le principali debolezze. Come scrivono Moja e Vegni (1998, p. 57) nel primo
articolo italiano dedicato alla PCM, il modello biomedico semplifica la malattia al dato
biologico e propone come unico artefice della salute il medico-tecnico: la patologia non
è che un'astrazione che esclude tout court la soggettività del paziente (1). L'esperienza
del malato non solo non viene valorizzata, ma viene considerata un ostacolo nel
processo diagnostico e la malattia è analizzata al solo livello della patologia fisica (2).
Inoltre, negli ultimi decenni le lacune del modello tradizionale si sono manifestate con
più evidenza, a causa di cambiamenti storici, sociali e culturali che hanno interessato
anche il campo della medicina. Sono, ad esempio, aumentate le malattie croniche e
cronico-degenerative (3), in cui l'esperienza personale del paziente, ed in particolare la
loro capacità di funzionare nel proprio ambiente, è tanto – se non più – importante
della diagnosi clinica (McWhinney, 1993). D'altro canto, i pazienti vanno acquisendo
maggiore consapevolezza e potere contrattuale ed esigono sempre più spesso di
partecipare nelle decisioni riguardanti la propria cura (4).
Secondo Stewart e Wayne Weston, il modello (bio)medico tradizionale ha fallito, in
definitiva, a causa della sua incompletezza e limitatezza: l'approccio biomedico
ignorerebbe la persona e la sua soggettiva esperienza di malattia. In questo senso, il
modello Patient Centred non sostituisce ma “ribilancia” il modello tradizionale
comprendendo al suo interno il paziente in quanto persona.
Nonostante le prime ricerche sulla relazione medico – paziente risalgano agli anni '60
con autori di spicco quali Ian McWhinney, il primo a parlare di Patient Centredness fu il
12
medico sudafricano Joseph Levenstein, nel 1984. Racconta Levenstein che, durante un
tipico giorno di visite, e dopo aver incontrato una trentina di pazienti con diverse
patologie, una sua studentessa gli si avvicinò per rivolgergli una domanda particolare.
La studentessa chiese al medico come potesse sapere in che modo comportarsi con
ogni diverso paziente; il suo approccio era infatti differente da quello che la
studentessa aveva visto applicare negli ospedali, fatto che le impediva di riconoscere
un pattern nella tecnica da lui utilizzata. Levenstein rispose che il suo comportamento
era guidato dalle conoscenze previe dei suoi pazienti e della comunità in cui lavorava,
nonché dal valore che egli attribuiva alla continuità e completezza della cura, alla
prevenzione ed alla relazione con il paziente (Stewart et al., 1995). Ma questa risposta
non aiutò la studentessa a fare chiarezza sul metodo utilizzato dal medico sudafricano.
Reso inquieto dall'incapacità di spiegare il proprio approccio alla clinica, Levenstein
iniziò ad audio-registrare le sue visite ed a riascoltarle: dopo aver analizzato circa mille
visite registrate, il medico concluse che il suo approccio combinava il metodo
tradizionale di ricerca della malattia con un'indagine libera e senza una traccia
predefinita, condotta insieme al paziente, ed incentrata su qualsiasi cosa quest'ultimo
ritenesse opportuno discutere. Levenstein divise le registrazioni di colloqui ritenuti
efficaci da quelli inefficaci ed osservò che i primi si differenziavano dai secondi per
essere riusciti a far emergere le preoccupazioni e le aspettative dei pazienti (la loro
agenda, par. 1.2). A questa caratteristica del suo metodo si deve la scelta del nome
Patient Centred. Il nome dell'approccio non suona nuovo: esso evoca i lavori di celebri
autori quali Rogers, con la sua Client Centered Therapy, Balint e la sua Person Centered
Medicine, Neuman e Young e il loro approccio Total – Person nell'infermieristica,
nonché Byrne e Long nel loro approccio alla pratica medica Desease- vs PatientCentred. Se infatti a Levenstein si deve la prima formalizzazione del metodo PC, è
opportuno ricordare che le basi per la ricerca di un nuovo metodo clinico trovano le
loro radici nella crisi del modello biomedico. Così come il modello Patient Centred,
anche quello Biopsicosociale (Engel, 1977), l'approccio del sistema familiare (Doherty e
Baird, 1987), il modello a tre funzioni (Bird e Cohen-Cole, 1990) e la teoria dell'autoconsapevolezza del medico (Balint, 1957) evidenziano i limiti del modello medico
13
convenzionale e sono accomunati dal tentativo di includere nel processo di cura la
considerazione degli aspetti psicosociali, della famiglia e delle soggettività del paziente
e del medico stesso. Numerosi studiosi hanno descritto e comparato gli approcci sopra
citati: ciò che ne hanno concluso è che a livello teorico, la complementarietà degli
approcci è più influente delle differenze (Epstein et al., 1993). I modelli differiscono
principalmente per il loro livello di applicazione: mentre alcuni sono puramente
concettuali e non forniscono indicazioni sui metodi per la loro implementazione, altri si
focalizzano sulla pratica e sembrano mancare di un’autonoma cornice teorica. Uno dei
vantaggi del modello Patient Centred è, invece, la presenza di solide fondamenta
teoriche che costituiscono la premessa per la sua implementazione, anch'essa
approfonditamente analizzata ed esplicitata.
Concludiamo dicendo che la crisi del paradigma medico tradizionale è stata affrontata
in maniera frammentaria e superficiale, imponendo dei correttivi nell'applicazione
della clinica ma senza scalfirne il modello sotteso, rigidamente disease- e doctorcentered: il problema dello stile doctor-centred è che è estremamente seduttivo (Byrne
and Long, 1976). Rientrano in questi tentativi di correzione l'appello al dovere dei
medici di trattare il malato come una “persona”, l'istituzione di tribunali per la difesa
dei malati, o ancora l'introduzione di corsi di formazione sulle capacità di
comunicazione e relazione dei medici. A questo proposito non posso che trovarmi
d'accordo con quanto riportato da Moja e Vegni nell'articolo precedentemente citato:
per superare la crisi del modello biomedico occorre una radicale trasformazione dei
presupposti e del valori su cui esso si fonda, ossia un modo nuovo e trasformato di
pensare alla malattia e, soprattutto, al paziente ed alla sua titolarità nel processo della
cura. È proprio sulla scia di queste considerazioni che nasce e si sviluppa il modello
Patient Centred, il quale non sostituisce bensì comprende il modello tradizionale,
arricchendolo
di nuovi ed irrinunciabili componenti per la pratica clinica. Alla
descrizione dell'approccio qui soltanto introdotto sarà dedicato il prossimo paragrafo.
14
1.2 Medicina Centrata sul Paziente: cosa è e cosa non è
Come anticipato all'inizio del precedente paragrafo, il modello Patient Centred (PC)
affonda le sue radici in diversi approcci teorici accomunati dall'obiettivo di prendere le
distanze dal modello medico tradizionale. Ciò che il paradigma PC aggiunge a tali
approcci è la sua capacità di indicare in modo esplicito dove e come il modello
biomedico va superato. È opportuno ricordare che una revisione completa della
bibliografia sul tema andrebbe ben oltre lo scopo della presente tesi; le definizioni di
Medicina Centrata sul Paziente che presenterò in questo paragrafo sono quindi il frutto
di una selezione degli autori che, a mio avviso, enucleano più chiaramente le
componenti centrali del paradigma Patient Centred. Il punto di partenza del modello
PC è una concezione della malattia che va al di là dei meri aspetti biologici: nell'ambito
della clinica si fa spazio come
LA DUPLICE AGENDA
Schema 1.1
Fonte: Levenstain, 1986
parimenti
importante
il
“vissuto di malattia” (illness)
del paziente: i significati da
lui
attribuiti
a
tale
esperienza, le implicazioni
psicologiche
e
le
conseguenze contestuali e
sociali. Se quindi anche la
illness experience acquista
dignità come oggetto della
medicina, appare chiaro che
lo scopo di quest'ultima
diventi duplice: non più solo
diagnosticare la patologia,
ma anche comprenderne il
senso dal punto di vista del paziente. Levenstain (1986) esemplifica quanto appena
detto attraverso il concetto di “duplice agenda”: come si può vedere nello schema 1.1,
15
il metodo PC comprende tanto l'obiettivo di giungere alla diagnosi4, quanto quello di
analizzare l'esperienza di malattia: per porre al centro la persona malata è necessario
che l'agenda (cioè le cose da farsi da parte) del medico si integri con l'agenda del
paziente (Moja, Vegni, 1998, pp. 58).
Se molto si è già detto sul compito del medico a livello di diagnosi differenziale – unico
task previsto dal modello tradizionale di medicina – è forse opportuno spendere
qualche parola in più sul concetto di agenda del paziente. L'esperienza di malattia si
compone di alcuni elementi imprescindibili, in particolare: a) le idee del paziente
riguardo alla sua patologia ed i suoi “modelli profani” (folk model) di malattia (sfera
cognitiva); b) i suoi sentimenti, con particolare attenzione alla paura che la malattia
inevitabilmente suscita (sfera emotiva): c) le aspettative in merito al cambiamento
della propria vita ed i desideri rispetto a ciò che dovrebbe essere fatto (prefigurazioni).
È a questo punto importante sottolineare che inserire l'esperienza di malattia (illness)
come una componente imprescindibile della clinica medica non rappresenta una scelta
“buonista” né tanto meno dovrebbe soppiantare gli aspetti giustamente diseasecentered del modello tradizionale: la ricchezza del metodo PC sta proprio nel suo
comprendere ed andare oltre quello biomedico, conservandone però i caratteri di
chiarezza, operatività e verificabilità.
Moira Stewart (2001) in un editoriale pubblicato dal BMJ, scrive della difficoltà
raggiungere una definizione globalmente accettata di PCM: nonostante il concetto
acquisisca sempre più rilevanza nell’ambiente medico, i suoi confini restano piuttosto
sfumati, tanto da far supporre che la medicina Patient Centred sia più spesso definita
attraverso ciò che non è – Technology Centred, Doctor Centred, Disease Centred – che
attraverso una sua descrizione “affermativa”. Continua Stewart, le definizioni di PCM
rappresentano un tentativo di rendere esplicito ciò che, nella cura del paziente, è
implicito, nascosto. Tali definizioni sono iper-semplificazioni, sì utili nell'ambito
dell'insegnamento e della ricerca, ma piuttosto incapaci di cogliere il senso di una
relazione di cura nella sua interezza. Tuttavia, è proprio l'autrice menzionata che,
4
L’autore parla, nello specifico, di diagnosi differenziale, ossia il procedimento che tende ad escludere,
tra varie manifestazioni patologiche simili, quelle che non comprendono l’insieme dei sintomi e segni
che si sono riscontrati durante gli esami, fino ad arrivare a capire quale sia quella corretta.
16
insieme a Brown, Wetson,McWhinney, McWilliam e Freeman, fornisce la definizione di
PCM riconosciuta - dalle revisioni sistematiche sul tema - come la più comprensiva e
completa (Mead, Bower, 2000). Il modello degli autori citati identifica sei componenti
interconnessi alla base del metodo Patient Centred:
1.
Esplorare tanto la patologia organica quanto l'esperienza di malattia del
paziente. Come si è già visto, compito del medico è quello di indagare entrambi gli
aspetti disease e illness del paziente, cioè il suo personale e soggettivo punto di vista
sulla malattia.
2.
Comprendere la persona nella sua interezza. Col passare del tempo, i medici
accumulano ingenti quantità di informazioni sui loro pazienti, informazioni che vanno
oltre la diagnosi della patologia e la comprensione del loro vissuto. I dottori conoscono
il contesto e lo stadio di vita dei pazienti, la famiglia, il lavoro, i valori, le difficoltà
quotidiane. La comprensione del paziente come persona nella sua interezza migliora la
relazione medico-paziente, soprattutto in fasi delicate del processo di cura, quali ad
esempio il momento diagnostico. In questi casi considerare il ruolo del paziente nel suo
contesto di vita può far luce sulla sua esperienza di malattia, oltre che arricchire la
conoscenza del medico in merito alla condizione umana, specialmente la natura della
sofferenza e la reazione al dolore (Stewart et al., 1995, pp. 28).
3.
Cercare attivamente un terreno comune. Sviluppare un piano di cura
soddisfacente necessita del raggiungimento di un accordo su tre aree: a) la natura del
problema e le priorità sul da farsi, b) le finalità della terapia, c) gli specifici ruoli del
medico e del paziente. Tale accordo non si raggiunge attraverso negoziazioni o
contrattazioni – il cui quasi inevitabile risultato sarebbe l'insoddisfazione di entrambe
le parti – bensì attraverso il tentativo di far incontrare due menti caratterizzate da
diverse rappresentazioni, urgenze, valori, expertise.
4.
Includere prevenzione e promozione della salute. L'applicazione di questa
componente del modello PC garantisce che le persone prendano in carico attivamente
il compito di migliorare la propria salute (World Health Organization, 1986). All'interno
di questo processo di supporto, medico e paziente insieme possono monitorare aspetti
della vita di quest'ultimo che necessitano di modifiche o potenziamenti nell'interesse
17
della sua salute fisica ed emozionale.
5.
Valorizzare e migliorare la relazione medico-paziente. Ad ogni visita, e nel
contesto della continuità della cura, il medico dovrebbe cercare di (co)costruire con il
paziente una efficace relazione a lungo termine e di utilizzare quest'ultima nelle sue
potenzialità curative. In questo senso, la relazione dovrebbe riuscire a mobilitare le
forze del paziente ai fini di catalizzare il processo di guarigione. Il medico inoltre,
utilizzando l'autoconsapevolezza ed i principali “strumenti” per una relazione efficace
(atteggiamento
positivo
incondizionato,
empatia,
genuinità)
si
dovrebbe
generosamente dedicare al paziente, senza però necessariamente intervenire o dare
interpretazioni. Egli, infine, dovrebbe essere in grado di riconoscere che ogni paziente
è diverso dall'altro ed, in quanto tale, richiede un approccio specifico: il medico
dovrebbe saper modulare i propri comportamenti in modo sintonico rispetto
all'individuo specifico ed alla fase della cura.
6.
Essere realisti. I medici devono spesso far fronte a molteplici richieste di
attenzione in poco tempo, esigenze non di rado in conflitto tra loro. Essi devono
imparare, ed il più delle volte da autodidatti, a gestire efficacemente il loro tempo,
oltre che sviluppare skills di definizione delle priorità e di teamwork. Per queste
ragioni, i medici dovrebbero rispettare i loro naturali limiti emotivi e non pretendere
troppo da loro stessi.
Nonostante le sei componenti siano state presentate in modo separato e discreto, gli
autori stessi ricordano che tali aspetti sono profondamente intrecciati e mutuamente
dipendenti: in tal senso la PCM può essere effettivamente compresa solo in quanto
concetto poliedrico ed olistico (Schema 1.2). Come si può notare in bibliografia, il
modello di Stewart e colleghi è stato formalizzato nel 1995. La sua validità sembra però
perdurare nel tempo, come si può apprezzare dalla citazione del modello nella gran
parte della letteratura attuale sulla PCM.
Ancora nell'ambito di una cornice concettuale della medicina Patient Centred si colloca
la revisione di Mead e Bowel (2000) – finalizzata anche, come si vedrà in seguito, a
definire e confrontare gli strumenti empirici di misurazione della PCM. Tali autori
riassumono in cinque punti, tratti dalla bibliografia sul tema, gli elementi che
18
LE DIMENSIONI DELLA PCC Fonte: Stewart,1995
Schema 1.2
differenziano il paradigma Patient Centred da quello biomedico tradizionale:
1) Adottare una prospettiva biopsicosociale – una prospettiva che includa la
considerazione dei fattori psicologici e sociali, oltre che biomedici, della
malattia.
2) Comprendere il paziente nella sua individualità e complessità – comprendere
il vissuto di malattia di ogni specifico paziente.
3) Condividere potere e responsabilità – comprendere le preferenze del paziente
in merito al decision-making ed alla gestione delle informazioni e comportarsi di
conseguenza.
4) Promuovere alleanza terapeutica – sviluppare la condivisione delle finalità
terapeutiche e rafforzare la relazione medico-paziente.
5) Considerare il medico nella sua individualità e complessità – essere
consapevoli dell'impatto della soggettività e delle caratteristiche personali del
19
medico nel percorso di cura.
Consistenti sono le risonanze con il modello di Stewart e colleghi. Tuttavia, è possibile
individuare nuovi fuochi di attenzione nei punti tre e quattro, che pongono l'enfasi
sulla condivisione del decision-making e sull'empowerment del paziente nell'ambito
della gestione del proprio piano di cura. In particolare, è importante notare che il
modello PC non professa la necessità di condividere con il paziente tutte le decisioni e
le informazioni, critica mossa, tra gli altri, da Little e colleghi (2001). Ciò che si afferma
è invece la necessità di prendere in considerazione i desideri di ogni singolo paziente
nell'ambito della condivisione di informazioni e scelte terapeutiche e di comportarsi in
maniera idonea al rispetto di tali preferenze (Stewart, 2001).
Nel punto cinque si prende poi in esame la soggettività del medico. All'interno del
modello medico tradizionale non si rintraccia alcun motivo per cui medici ben
addestrati non dovrebbero essere essenzialmente interscambiabili, dato che la loro
soggettività non sortisce alcun effetto sulla diagnosi e sulla terapia. È per questa
ragione che Edith Balint e colleghi (1993) definiscono il modello biomedico one-personmedicine dato che una descrizione clinica soddisfacente non richiede la considerazione
del medico. Al contrario, la medicina Patient Centred è una medicina a due persone: il
medico rappresenta parte integrante di qualsiasi considerazione clinica in quanto
attore imprescindibile della relazione di cura. È interessante citare, a questo punto del
discorso, l'osservazione di Berwick (2009) in merito al ruolo dei bisogni ed i desideri dei
medici. Una delle obiezioni mosse più spesso al modello PC sarebbe infatti la
constatazione che tale paradigma comporterebbe, per il medico, un sovraccarico di
lavoro, o addirittura un'abnegazione della sua persona, con consistente rischio di burnout. A questa critica Berwick risponde: quando in una relazione di cura neghiamo
all'altro ciò che – con disponibilità ed empatia – potremmo offrirgli, finiamo per soffrire
entrambi di tale diniego: uno perde il conforto dell'aiuto, l'altro la gioia di aiutare
(Berwick, 2009, pp. 562). L'imposizione di regole e procedure restrittive e la
conseguente perdita di contatto con i bisogni del paziente potrebbero essere assai
debilitanti per la salute emotiva del clinico, tanto che un disegno di cura Patient
Centred potrebbe essere da lui vissuto come un sollievo invece che un fardello.
20
Lo stesso autore fornisce, nel suo articolo dall'emblematico titolo “What PatientCentred Should Mean: Confession Of An Extremist” (2009), quella che, a mio avviso, è
una delle definizioni più significative della Medicina Centrata sul Paziente: l'esperienza
(nella misura in cui lo specifico e ben informato paziente la desidera) della trasparenza,
del riconoscimento, del rispetto per la propria individualità e dignità e soprattutto della
possibilità di scelta in ogni componente (decisioni, situazioni e relazioni) nella propria
cura. La Patient Centred Heath Care, continua Berwick, dovrebbe essere in grado di
comprendere l'esperienza della famiglia e dei cari del paziente, tanto da parlare di
Patient- and Familiy- Centred Care. In considerazione di questi elementi, sembrerebbe
che l'attuale sistema sanitario dovrebbe subire radicali trasformazioni per garantire
un'esperienza effettivamente PC ai suoi utenti, ma di ciò si discuterà nei successivi
capitoli di questa tesi.
In questo paragrafo ho cercato di indicare gli elementi e le caratteristiche
imprescindibili di ciò che oggi intendiamo con Medicina Centrata sul Paziente. Si è
parlato della difficoltà di giungere ad una definizione unitaria e globalmente accettata
e, nel prossimo paragrafo, si affronteranno gli altrettanto complessi temi della sua
misurazione, utilità e impatto sugli esiti della cura.
A conclusione di questo excursus credo, tuttavia, si possa affermare che esista un core
comune rintracciabile in tutte le definizioni di PCM, nonostante i loro diversi fuochi di
attenzione. Tale nucleo consiste nella considerazione e rispetto dei bisogni, desideri,
preferenze e valori del paziente. L'essenza del modello è rintracciabile nel suo stesso
nome: il paziente è posto al centro del sistema sanitario, e quest'ultimo deve perciò
prendere forma attorno a lui. L'esito della cura dovrebbe essere la percezione di una
migliore qualità della propria salute e della propria vita. Il rispetto dei desideri del
paziente è la chiave per una medicina realmente Patient Centred; le altre componenti
del modello non sono affatto meno importanti, ma possono esserne considerate degli
utili facilitatori. Ad esempio, utilizzare un approccio olistico e condividere
sistematicamente informazioni sono strumenti fondamentali affinché il paziente possa
formulare preferenze ed esprimere il proprio punto di vista nel percorso di cura.
21
1.3 Misurare gli effetti della Patient Centred Medicine
È possibile intuire, arrivati a questo punto del discorso, che la misurazione di un
costrutto tanto complesso e variamente definito come è quello di Patient Centred
Medicine non costituisca affatto un compito semplice. In questo paragrafo si cercherà
di portare in luce le principali problematiche legate alla valutazione, nello specifico,
degli outcome della medicina centrata sul paziente. Per fare ciò verranno riassunti i
risultati delle principali revisioni condotte sul tema a partire dal 1995 per arrivare al
2011. È rilevante premettere che tutte e tre le revisioni individuate non prendono in
considerazione studi qualitativi; di questo punto si discuterà più avanti.
La prima review analizzata è firmata da Moira Stewart (1995), autrice del modello a sei
componenti della PCM descritto in precedenza. La sua ricerca prende in esame le
pubblicazioni dei precedenti dieci anni (1983-1993) e si focalizza sulla relazione tra gli
stili di comunicazione e gli effetti sulla salute del paziente, al fine di individuare le
caratteristiche ideali della comunicazione medico-paziente (Stewart, 1995). È
opportuno sottolineare fin dal principio il fatto che la revisione non è diretta alla
misurazione del costrutto “globale” di medicina centrata sul paziente, bensì ad uno
solo dei suoi aspetti. Nell'introduzione al suo lavoro, l'autrice approfondisce i motivi di
questa scelta descrivendo la pregnanza del tema della comunicazione medico-paziente:
studi precedenti dimostrano che, in media, il medico interrompe il paziente con una
domanda chiusa dopo diciotto secondi dal momento in cui quest'ultimo ha iniziato a
descrivere il suo malessere (Frankel et al., 1989); che circa la metà delle preoccupazioni
e dei problemi dei pazienti non sono sollecitati dai medici durante le visite, né
spontaneamente esplicitati dai malati (Stewart et al., 1979) e che, nel 50% dei casi,
pazienti e medici non concordano sul principale problema trattato nella visita (Starfield
et al., 1981). In generale, si rileva che i pazienti dimostrano bassi livelli di soddisfazione
e fiducia nelle informazioni ricevute dal loro medico. È probabilmente per tutte queste
ragioni che il tema della comunicazione viene considerato il più urgente da prendere in
esame.
I risultati della revisione lasciano spazio a grande ottimismo rispetto all'impatto di una
22
comunicazione efficace sulla salute dei pazienti. Consideriamo per esempio la sezione
della review dedicata alla comunicazione durante la raccolta dell'anamnesi (la storia
clinica) del paziente. Gli studi dimostrerebbero che interventi volti al miglioramento
delle doti comunicative di medici e/o pazienti in tale fase sono associati in modo
statisticamente significativo ad effetti positivi sulla salute del paziente in termini di
benessere emotivo e fisico. In particolare, il fatto che il medico dedichi tempo
all’ascolto alle paure, alle aspettative, alla comprensione della malattia del paziente
porterebbe ad una riduzione dell'ansia e ad una risoluzione più rapida della
sintomatologia; chiedere al paziente di esprimere i propri sentimenti e vissuto ne
ridurrebbe lo stress psicologico. In definitiva, il paziente che sente di aver esaminato
ogni aspetto del suo problema con il medico, e di essere stato in grado di esprimere
pienamente proprie opinioni e paure, godrebbe di un miglior stato generale di salute e
registrerebbe una più celere risoluzione dei sintomi.
Analizzando nel dettaglio il metodo di sintesi utilizzato dalla Stewart nella sua revisione
vediamo però che i risultati sono meno chiari e definitivi di quanto sia dichiarato. Il
metodo di selezione degli articoli prevede l’utilizzo dei seguenti parametri:

Disegno di ricerca. Sono stati inclusi due tipi di disegni: RCT – studi controllati
randomizzati (in cui gruppi random di pazienti o medici sono sottoposti a
interventi a miglioramento del loro stile comunicativo) e studi osservativi (dove
i comportamenti legati alla comunicazione non vengono alterati ma soltanto
misurati in relazione ai loro effetti sui pazienti).

Soggetti. Pazienti di tutte le età e medici di ogni specializzazione e ambito
lavorativo (pubblico o privato).

Misure e interventi sulla comunicazione. Le misurazioni possono essere dirette
(video- o audio-registrazione) o indirette (valutazione delle percezioni riportate
da medici e/o pazienti). Gli interventi possono riguardare medici e/o pazienti.

Outcomes. Le variabili dipendenti consistono negli effetti sulla salute dei
pazienti, operazionalizzati attraverso: stato di salute fisica, stato funzionale,
risoluzione della sintomatologia, livello di benessere emotivo.

Analisi dei dati. I risultati sono ottenuti attraverso le differenze di media e
23
percentili tra gruppi e la significatività statistica.
Ora, anche decidendo di non considerare gli studi osservativi, vediamo che gli RCT
focalizzati sulla comunicazione nella fase della raccolta dell'anamnesi vedono al proprio
interno metodi di intervento per il miglioramento della comunicazione molto differenti
tra loro: training rivolti ai medici oppure ai pazienti (a), di diversa durata (b) e su diversi
aspetti della comunicazione medico-paziente (c). Anche le misurazioni degli outcome
sui pazienti prevede metodi molto distanti tra loro: dal livello di ansia, a un più
generico livello di stress psicologico, fino ad arrivare alla misurazione della pressione
sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. Sembra a questo punto molto difficile
generalizzare gli effetti benefici di una comunicazione efficace sulla salute del paziente,
dipendendo tale associazione dalle modalità di misurazione delle variabili analizzate.
Problemi analoghi si presentano nella sezione della review dedicata alla comunicazione
nella fase di discussione del piano di cura. Riassumendo, la revisione della Stewart
traccia un quadro ottimista e netto in merito all'efficacia della “buona” comunicazione,
aspetto portante della Patient Centred Medicine, sulla salute – fisica e psicologica – dei
pazienti, sulla recessione della sintomatologia e persino sul controllo del dolore.
Seppure i singoli studi inclusi nella revisione siano indubbiamente rilevanti, la loro
generalizzazione presenta qualche inconveniente – si veda, in particolare,
l'impossibilità di confrontare i risultati ottenuti dai diversi studi e l'assenza di uno
strumento di misurazione univoco delle variabili in esame.
Tale problema viene approfondito da Mead e Bower nella loro revisione sul tema degli
effetti della PCM, pubblicata nel 2002 dalla Patient Education and Counselling. Gli
autori affermano che l'orientamento Patient Centred delle visite è stato
operazionalizzato attraverso diverse modalità: dalle checklist (finalizzate a misurare la
presenza di certe skills) alle scale di valutazione (per valutare la qualità e quantità di
determinati comportamenti) fino ai metodi di codifica del linguaggio (per calcolare la
frequenza o la proporzione di alcune espressioni verbali). Il contenuto delle diverse
modalità di misurazione varia consistentemente e le relazioni empiriche tra diverse
misure della Patient Centredness non fanno registrare livelli alti. Si noti anche che lo
stato di salute del paziente, per quanto spesso identificato come il miglior standard di
24
efficacia, potrebbe non essere ricettivo degli aspetti prettamente interpersonali (vs
clinici) delle visite mediche; si può ipotizzare che misurazioni di processo, ad esempio la
soddisfazione del paziente, sarebbero più sensibili alle varie dimensioni della Patient
Centredness.
In merito alla revisione della Stewart, Mead e Bower (2002) indicano un secondo
inconveniente: nessuno tra gli studi inclusi misura aspetti della relazione medicopaziente esplicitamente definiti Patient Centred; le prove dell'efficacia del modello
Patient Centred derivano, nella maggior parte dei casi, da studi che non sono stati
ideati per valutare tale modello, ma che sono stati comunque ritenuti in grado di
supportare una o più delle sue dimensioni (Graugaard e Finset, 2000). Ma se con
Patient Centredness intendiamo uno specifico paradigma della cura medica – valutabile
ed insegnabile – e non un concetto vago e onnicomprensivo, allora i suoi benefici
devono essere dimostrati attraverso studi che associno comportamenti centrati-sulpaziente con i loro effetti, possibilmente all'interno di un unico contesto clinico.
Riassumendo, vediamo come nella revisione di Mead e Bower lo sforzo sia quello di
superare i limiti metodologici riscontrati nelle analisi precedenti, e di rispondere a tre
quesiti:

Come è stato definito e misurato il costrutto di Patient Centred Care in studi che
ne esplorano le relazioni con i suoi effetti?

Come sono stati misurati tali effetti?

Si può affermare che la visita PC sia effettivamente associata a out come migliori
in medicina generale?
È stato incluso nella revisione qualsiasi studio di tipo quantitativo pubblicato tra il 1969
ed il 2000, che indaghi un costrutto definito come Patient Centredness (non si è
adottato quindi un solo modello di PCM), che ne misuri gli effetti in un setting di
medicina generale, che coinvolga medici e non altre professioni sanitarie; otto articoli
sono stati ritenuti adatti ai criteri di inclusione. Ai fini della presente tesi, riportiamo
unicamente la risposta al terzo quesito. Gli studi analizzati sono caratterizzati da un
disegno di ricerca osservativo e non sperimentale e non è pertanto possibile provarne
25
la validità interna, ossia tracciare una relazione causale tra la Patient Centredness ed i
suoi effetti. Peraltro, solo quattro tra gli studi analizzano l'eventuale presenza di
confounders attraverso analisi multivariata. L'outcome più comunemente indagato è la
soddisfazione del paziente: due studi riportano una correlazione positiva, due una noncorrelazione, e uno studio parla sia di una correlazione positiva che di una negativa, a
seconda del tipo di misurazione della variabile Patient Centredness utilizzata (Mead e
Bower, 2002). Dei quattro papers che hanno utilizzato analisi multivariate, uno studio
rivela correlazioni positive tra i comportamenti Patient Centred e la recessione della
sintomatologia, riduzione delle lamentele, maggiore partecipazione e ingaggio nella
cura. Un secondo studio parla di una correlazione positiva tra Patient Centredness e
soddisfazione del paziente ma non tra la prima e gli effetti sulla salute del paziente,
mentre negli altri due articoli non si riscontra alcuna correlazione tra PC e
soddisfazione. Tutti e quattro gli studi riportano correlazioni non significative tra alcuni
costrutti di PCM e almeno uno tra gli effetti misurati. Riassumendo, la revisione di
Mead e Bower parla di livelli relativamente bassi di associazione tra le variabili
analizzate e di validità esterna (generalizzabilità dei risultati) tra gli studi che analizzano
gli effetti sui pazienti della PCM. I diversi modi di operazionalizzare la Patient
Centredness riflettono l'attuale ambiguità nella definizione del concetto. Anche se
pochi dubiterebbero dell'importanza delle skills comunicative nel contesto della cura
centrata sul paziente, tali capacità risultano difficilmente misurabili in modo oggettivo.
Gli autori suggeriscono che risultati più chiari e precisi si otterrebbero scomponendo il
costrutto di Patient Centredness e cercando di individuare gli effetti associati alle sue
singole dimensioni. Ad esempio, è probabile che la componente “alleanza terapeutica”
(si veda il modello di Mead e Bower descritto nel paragrafo 1.2) sia maggiormente
correlata alla soddisfazione del paziente rispetto a quanto non sia l' “adozione di una
prospettiva biopsicosociale”; è anche a questa istanza metodologica che Mead e Bower
riconducono le nette differenze tra i risultati della propria revisione e quella della
Stewart. La terza ed ultima review considerata – pubblicata nel marzo del 2011 in
Annals of Family Medicine da Hudon et al. – si pone come obiettivo quello di
identificare e comparare strumenti, scale di misurazione e items costruiti per valutare
26
le percezioni dei pazienti rispetto alla medicina centrata sul paziente. Nonostante non
si parli qui chiaramente di outcome, essi sono oggetto degli strumenti di misurazione
analizzati ed è quindi parso opportuno descriverne i risultati in questa sede. Inoltre,
molti studi mostrano che le misurazioni delle percezioni dei pazienti sono più efficaci
nel predire gli effetti sul paziente della PCM rispetto alle osservazioni dirette o alle
percezioni dei medici (Hudon et al., 2011). Dal punto di vista metodologico, la revisione
della Hudon e colleghi presenta un ulteriore elemento di interesse: uno dei criteri di
inclusione degli studi consiste nel fatto che la misurazione del costrutto di Patient
Centredness debba riferirsi almeno a due delle dimensioni del framework concettuale
scelto come riferimento. Gli autori sostengono infatti che una chiara cornice teorica sia
essenziale per la misurazione di qualsiasi costrutto; in assenza di un modello
universalmente accettato di Patient Centred Care, Hudon e colleghi ne costruiscono
uno che, nel loro studio, rappresenta lo standard di riferimento per la selezione degli
strumenti di misura. Tale modello (schema 1.3) deriva dall'intersezione delle proposte
teoriche della Stewart, da una parte, e di Mead e Bower, dall'altra, e consiste perciò
INTERSEZIONE DI MODELLI TEORICI
Schema 1.3 Fonte: Hudon et al., 2011
nelle
quattro
dimensioni
comuni ai due modelli:
1)
esplorare tanto la patologia
organica quanto l'esperienza di
malattia
del
paziente
–
Comprendere il paziente nella
sua
individualità;
2)
comprendere la persona nella
sua interezza – Adottare una
prospettiva biopsicosociale: 3)
ricercare un terreno comune –
Condividere
potere
e
responsabilità; 4) migliorare la
relazione
medico-paziente
Promuovere
–
alleanza
27
terapeutica. La scelta di includere nella revisione soltanto gli studi caratterizzati dall'uso
di strumenti che misurino almeno due dimensioni di tale modello è in sè molto diversa
da quella di includere qualsiasi articolo che misuri il costrutto di Patient Centredness
comunque-esso-sia-definito; non vi è quindi da stupirsi se i risultati appaiono
nuovamente molto distanti dall'ultima review analizzata. Gli altri criteri di inclusione
degli articoli sono: a) l'adozione di uno strumento di misura auto-amministrato; b)
l'analisi quantitativa dei dati; c) la rilevanza nel contesto della medicina generale
ambulatoriale. Cinque articoli, che adottano due diversi strumenti di misura, hanno
incontrato tali criteri. Gli strumenti in questione sono due questionari, entrambi
caratterizzati dall'utilizzo di una scala Likert a quattro passi ed entrambi costruiti sulla
base di studi empirici sulla relazione medico-paziente e del modello di Stewart et al.
Rispetto agli outcome, il primo questionario - chiamato Patient Perception of Patient
Centredness (PPPC) - mostra come la percezione di comportamenti Patient Centred
sarebbe correlata in modo significativo ad un recupero più veloce dallo sconforto
iniziale, al benessere emotivo due mesi dopo la visita, alla riduzione delle lamentele, ad
un minor utilizzo di test diagnostici ed alla soddisfazione dei pazienti riguardo alle
informazioni ottenute. Tale strumento misura le dimensioni indicate nei punti 1), 2) e
3). Il secondo strumento – il Consultation Care Measure (CCM) – prende in
considerazione tutte e quattro le dimensioni del modello. Esso riporta un'associazione
positiva tra la soddisfazione del paziente ed un approccio positivo da parte del medico;
quest'ultimo correlerebbe anche con la riduzione della sintomatologia ad un mese
dalla consultazione.
Si può vedere come i risultati delle tre revisioni differiscano profondamente, in
particolare quelli della seconda (Mead e Bower, 2002) rispetto a quelli di Stewart e di
Hudon. Una parziale spiegazione può essere individuata nel fatto che i due questionari
analizzati nella revisione del 2011 siano stati costruiti sulla base del modello di PCM di
Stewart, e pertanto potrebbero condurre al rinvenimento di outcome simili. In generale
occorre però sottolineare che la misurazione del costrutto di Patient Centredness e dei
suoi effetti resta un compito tutt'altro che lineare: sono molte, infatti, le variabili in
gioco tra cui i ricercatori devono destreggiarsi. Riporto di seguito i principali trade off
28
attorno a cui si giocano le scelte degli studiosi in questo campo:

Adottare un solo modello di PCM e selezionare gli studi che vi aderiscono
oppure analizzare tutti gli articoli che parlano di PCM, prendendo per buona la
definizione che ognuno ne da?

Il costrutto di PCM: cercare di comprenderlo nella sua interezza o selezionarne
specifiche dimensioni ed esaminarle in modo analitico?

Quali attori coinvolti nel processo di cura sono i più indicati a darci informazioni
riguardo alla Patient Centredness? I pazienti, i familiari, i medici, o tutti loro? Ed
in quale momento del processo è più utile dar loro voce?

Quale setting di cura esplorare? E a che livello condurre l'indagine? Individuale,
relazionale – diadico o sistemico?

Quali outcome misurare? Prediligere quelli di risultato (ad esempio gli effetti
sulla salute del paziente) oppure quelli di processo (come la soddisfazione)?

Quali disegni di ricerca selezionare? Si indaga un'associazione o una relazione
causale?

Quali metodi di misurazione selezionare? È necessario, ad esempio,
differenziare tra i risultati ottenuti attraverso l'osservazione e quelli derivati da
un questionario o un'intervista?
Vi è poi un punto a mio avviso fondamentale, che merita una riflessione a sé. Tutte le
revisioni rintracciate in letteratura includono esclusivamente studi di tipo quantitativo.
Non è stato possibile rinvenire revisioni di tipo qualitativo in nessuna delle principali
banche dati, nonostante vari studi di tipo qualitativo siano stati condotti sul tema degli
outcome della PCM. Come si è visto, il concetto di Patient Centredness non è ancora
stato definito in modo univoco e la selezione delle dimensioni maggiormente degne di
analisi è affidata alla esclusivamente alle scelte dei ricercatori. È possibile che l'utilizzo
di tecniche qualitative apporterebbe un contributo insostituibile nella traduzione
empirica del modello concettuale di PCM, al fine di comprenderne gli aspetti realmente
più rilevanti per i pazienti e più legati agli effetti percepiti. Infine è importante notare
che spesso le variabili analizzate (comunicazione medico-paziente, condivisione della
presa di decisione, etc..) si inseriscono in processi interattivi la cui analisi richiede una
29
descrizione comprensiva e condotta in profondità; quest'ultima può essere garantita
soltanto attraverso l'utilizzo di tecniche qualitative.
A conclusione del capitolo, e senza voler mettere in ombra quanto appena affermato
riguardo agli effetti della Patient Centred Medicine, vorrei aggiungere che la principale
ragione ad illuminare la necessità del superamento del modello biomedico è, a mio
avviso, di tipo prettamente etico, nonostante spesso – nella nostra moderna
consacrazione alla conoscenza strumentale – ogni cambiamento nelle pratiche
tradizionali debba essere giustificato dai suoi effetti per essere accettato (McWhinney,
1995). Abbiamo prove del fatto che considerare l'agenda del paziente migliori la sua
salute? Può darsi. Tuttavia, stiamo sbagliando se facciamo di quest'evidenza l'unica
ragione del passaggio ad un modello Patient Centred.
30
CAPITOLO 2
Dalla relazione al sistema:
leve per l’implementazione della PCM negli ospedali
Se finora abbiamo analizzato il poliedrico costrutto della PCM principalmente
nell’ambito della relazione medico-paziente, lo scopo del presente capitolo sarà invece
quello di riflettere sulle modalità attraverso le quali la “centratura” sul paziente può
essere trasferita nelle pratiche lavorative che caratterizzano le realtà ospedaliera. È in
questo grande interrogativo che si inizia a vedere il contributo che la Psicologia delle
Organizzazioni può portare al tema della PCM. La questione è senza dubbio complessa
e molte domande sorgono spontanee. Quali sono i principali attori coinvolti? Da quali
elementi dell’organizzazione è bene iniziare l’analisi? La cultura, la struttura, la
tecnologia, le pratiche, le norme, gli aspetti architettonici e di design degli spazi? Che
cosa è effettivamente rilevante per un paziente che ha appena fatto il suo ingresso in
un reparto ospedaliero? È possibile, infine, una qualche generalizzazione, date le
moltissime diverse esperienze di malattia e ospedalizzazione possibili? La mia opinione
è che, nonostante i reparti ospedalieri differiscano profondamente tra loro anche
all’interno della stessa struttura, e nonostante ogni paziente presenti necessità ed
aspettative uniche, esistono alcuni antecedenti – riconducibili ai principi della PCM – in
grado di migliorare in modo consistente la qualità dell’esperienza di ospedalizzazione
dei malati. Tali leve sono da ricercarsi tanto negli aspetti hard quanto in quelli soft
dell’organizzazione. In questo capitolo cercherò di enucleare i principali sforzi finalizzati
a rendere l’ospedale un luogo di cura che, in quanto tale, si faccia carico delle necessità
del paziente in quanto persona, prima che come individuo malato. La letteratura sul
tema è relativamente vasta e gli interventi finalizzati alla progettazione di un ospedale
centrato sul paziente sono tra loro molto eterogenei; basti pensare all’enorme quantità
di pubblicazioni edite negli ultimi anni dalle associazioni per la tutela dei pazienti, tanto
in Europa quanto nel resto del mondo. L’argomento è però caro anche ad enti e
professionisti impegnati nella definizione degli standard di qualità dei servizi sanitari. Si
31
veda a tal proposito un articolo edito nel dicembre 2011 nel The New England Journal
Of Medicine (Bohmer, 2011) in cui sono stati elencati quattro nuclei di pratiche
standardizzate che definiscono il valore un’organizzazione sanitaria. È rilevante notare
che uno di essi affonda le sue radici in un principio chiave della PCM: considerare la
persona nella sua specificità e interezza. Si legge infatti che organizzazioni sanitarie di
alto valore progettano appositamente micro-sistemi – di tecnologie, personale, spazi
fisici, informazione, politiche e procedure a supporto della cura dei pazienti – che
incrociano le molte micro-popolazioni ed presenti nell’ospedale. In questo modo, a
diversi gruppi di pazienti – o pazienti in diverse condizioni – corrispondono diversi
micro-sistemi di pratiche lavorative. Senza approfondire in questa sede cosa comporti
la progettazione organizzativa per micro-sistemi, ciò che si vuole sottolineare è
l’adozione di questo tipo di design rappresenta un’importante presa di distanza
dall’organizzazione a-servizio-unico-e-generalizzato, la quale si raffigura i pazienti come
tutti caratterizzati dallo stesso tipo di bisogni (un paziente standard) e che si focalizza
sulla massimizzazione di risorse scarse. La Patient Centered Care richiede flessibilità e
scoraggia un approccio one-size-fits-all.
Facendo un passo indietro, ecco quindi che il presente capitolo non può che essere una
selezione degli interventi, a mio avviso, più significativi i quali mettono in luce le leve
imprescindibili su cui agire affinché le pratiche lavorative dell’ospedale vengano
effettivamente progettate intorno ai bisogni del sistema-paziente, o per lo meno
tenendone conto. Molto spesso infatti la razionalità dell’organizzazione prende il
sopravvento su quella dei suoi utenti, facendo così sembrare impossibile progettare un
ospedale che non riduca i pazienti a numeri di letto. Si intuiscono facilmente le insidie
di tale pregiudizio: la perpetuazione di dinamiche di potere su cui il paziente, in quanto
“ultimo arrivato”, “ospite” dell’ospedale, può fare ben poco.
Lo schema 2.1 riassume le leve organizzative per l’implementazione della Patient
Centredness che verranno descritte analiticamente nei prossimi paragrafi.
32
LEVE ORGANIZZATIVE PER LA PCM
Schema 2.1
L'ospedale Patient - Centred
Aspetti hard
Struttura,
spazio e
ambienti
Tecnologia
Aspetti soft
Norme e
procedure
Cultura
organizzativa
Leadership
e Vision
Clima
organizzativo
Formazione
del
personale
sanitario
Per concludere questa breve introduzione cito nuovamente le parole di Donald M.
Berwick (2009) nel suo ormai noto articolo “What Patient-Centred Should Mean:
Confession Of An Extremist”: la centratura sul paziente è di diritto una dimensione
della qualità dei servizi sanitari, e non solo in quanto connessa con altre finalità
auspicate quali la sicurezza e l’efficacia. La sua inclusione nella progettazione delle
organizzazioni sanitarie moderne comporterà radicali, inediti e dirompenti mutamenti
di potere e controllo, dalle mani di quelli che forniscono le cure a quelle di coloro che le
ricevono. Una visione tanto consumeristica della qualità dei servizi di cura presenta
radicali differenze rispetto alla più classica definizione di qualità, presieduta dai
professionisti della sanità.
2.1 Gli aspetti hard dell’organizzazione
In questa sezione si prenderanno in esame alcuni aspetti cosiddetti hard – ossia
strutturali e socio-tecnici – delle organizzazioni sanitarie, i quali possono costituire
delle leve per l’implementazione della Patient Centredness. Appare opportuno
specificare, prima di addentrarci nel tema, che le fonti utilizzate nella redazione di
questa sezione sono state reperite da una letteratura internazionale, prevalentemente
33
statunitense. Le iniziative e gli interventi che verranno di seguito proposti vanno letti,
perciò, per il senso e gli obiettivi che li giustificano, più che per le implicazioni
pragmatiche sottese alla loro fattibilità. Queste ultime potrebbero infatti dipendere da
variabili economico – legislative differenti a seconda del contesto di applicazione.
2.1.1 Struttura, spazio e ambienti
Uno dei fattori più concreti ed immediati che contribuiscono all’implementazione di
una cura a misura del paziente è la qualità dell’ambiente fisico in cui le cure vengono
fornite. Svariati filoni di ricerca nell’ambito della Psicologia del Lavoro (Psicologia
Architettonica, Ergonomia, etc..) si sono occupati di individuare e valorizzare le
connessioni tra progettazione degli spazi e degli ambienti sanitari ed il processo di
guarigione (Shaller, 2007). Ad oggi, una caratteristica riconosciuta come un’efficace leva
per l’implementazione dell’approccio Patient Centred è la progettazione di spazi e
facilities in grado di: a) accogliere i familiari e gli amici dei pazienti (tanto al letto dei
loro cari quanto in spazi appositamente dedicati a loro); b) essere flessibili e
personalizzabili, in modo da costruire un percorso di cura specifico per ogni paziente; c)
incoraggiare i pazienti a partecipare attivamente al processo di cura; d) rafforzare una
connessione con la natura e la bellezza.
Negli ultimi decenni, tali principi sono stati incorporati nel design di molti diversi
ambienti sanitari e hanno dimostrato di essere correlati con consistenti miglioramenti
dell’esperienza percepita dai pazienti ed altri importanti effetti sulla salute (ArneillB.,
Frasca-Beaulieu K., 2003).
Frampton e colleghi (2008) aggiungono altri punti di attenzione concreti nella
progettazione degli spazi dell’organizzazione sanitaria: a) la privacy dei pazienti prima
di tutto: gli ospedali Patient - Centred dovrebbero disporre di spazi o camere dedicate
appositamente alla consultazione privata tra professionisti e pazienti/famiglie,
garantendo così la possibilità di una conversazione limpida ed efficace; b) rendere
l’ospedale un ambiente facilmente percorribile e diminuire il senso di spaesamento,
grazie all’utilizzo di diverse tecniche per facilitare l’orientamento dei pazienti tra gli
34
spazi; c) sfruttare l’architettura ed il design per coltivare la partnership tra pazienti e
personale ospedaliero, attraverso l’abolizione di barriere fisiche e simboliche (a titolo di
esempio si consideri la possibilità di sostituire le classiche stazioni infermieristiche cinte
da mezze-pareti di vetro con piccole “guardiole-isola”, aperte ed accessibili agli utenti).
Gli autori fanno notare che occuparsi dell’ambiente sanitario non dovrebbe limitarsi a
curare l’aspetto e l’estetica degli spazi, ma dovrebbe estendersi all’atmosfera che si
respira nell’intera struttura: la vista, il contatto con la natura, i suoni, gli odori, la
sensazione che gli ambienti veicolano riguardo al rispetto per la privacy, il comfort e la
quiete del paziente. Infine, la funzione principe degli ambienti di cura dovrebbe essere
quella di garantire lo svolgersi di interazioni umane che possano confortare coloro che
abitano tali spazi. Il design, l’architettura, la cura degli spazi e degli oggetti nel loro
portato emotivo ed evocativo hanno il potere di trasformare un contesto istituzionale
ed alieno in un ambiente di guarigione.
Una nota a parte meritano le osservazioni di Detsky e Etchell (2008) in merito alla
necessità di garantire a tutti i degenti il ricovero in camera singola. Si ricordi, a questo
proposito, quanto anticipato all’inizio del paragrafo: l’iniziativa qui descritta, se calata
nel contesto italiano, fa pensare immediatamente a strutture sanitarie private;
nell’ambito pubblico, la sua adozione risulta se non altro più problematica e quindi più
rara. Tuttavia, l’intervento considerato appare utile per introdurre una riflessione sulle
possibili conseguenze – per i degenti e le loro famiglie – dei cambiamenti strutturali, e
sul rapporto tra questi ultimi ed i cambiamenti organizzativi di tipo culturale.
Detsky e Etchell (2008) mettono in luce, nel loro articolo, alcuni benefici garantiti
dall’introduzione delle camere singole negli ospedali. Dal punto di vista clinico, esso
ridurrebbe l’incidenza di infezioni nosocomiali5; a livello organizzativo, poi, le camere
singole sarebbero più semplici da pulire e decontaminare, incentiverebbero gli
operatori ad effettuare le procedure di igiene delle mani tra un letto e l’atro e
ridurrebbero la necessità di trasferimento dei pazienti. Infine, anche dal punto di vista
del benessere del paziente, il ricovero in camera singola apporterebbe notevoli
5
Un’infezione nosocomiale (o ospedaliera) è una patologia infettiva acquisita all'interno di una struttura
ospedaliera. L'infezione avviene quasi sempre tramite il contatto tra fonte-veicolo-ospite. Il veicolo più
frequente sono le mani degli operatori, coinvolte in tutte le pratiche terapeutiche ed assistenziali.
35
benefici: una maggiore garanzia di privacy, la possibilità per amici e familiari di visite
più frequenti, una maggiore quiete durante il giorno ed il miglioramento della qualità
del riposo di notte - non essendo esposti ad allarmi, richiami e discorsi degli altri
pazienti-, ed infine l’acceso ad un bagno privato. Tali vantaggi sono difficilmente
contestabili. Rispetto agli svantaggi di tale provvedimenti, gli autori citano il consistente
costo di rinnovo e costruzione degli edifici; tale costo è però classificato come un costo
capitale, mentre la maggior parte delle spese richieste agli ospedali per seguire la
direzione della PCM sarebbero costi legati al training del personale e ad interventi in
profondità per modificare la cultura organizzativa. Scrivono gli autori: i costi capitali
produrranno più verosimilmente gli effetti per cui sono stati pensati, rispetto ai costi
insiti nei cambiamenti comportamentali e culturali. In altre parole, è più semplice
costruire camere singole che insegnare a migliaia di individui ad essere rispettosi della
privacy degli individui quando la cura avviene in stanze multi-letto (Detsky e Etchell,
2008, pp. 955-956). Ora, certamente vero che i cambiamenti strutturali hanno il potere
di abbattere in modo immediato alcune barriere fisiche alla fruizione di un ambiente a
misura di persona - si veda il disagio provato da degenti costretti per settimane in
stanze da quattro o sei letti con tutto ciò che questo comporta a livello di privacy e
comfort. Ciò detto, è mia opinione che i cambiamenti culturali, per quanto lunghi ed
impegnativi, siano imprescindibili affinché l’obiettivo della centratura sul paziente sia
attivamente perseguito in ogni aspetto e ad ogni livello dell’organizzazione. I
miglioramenti strutturali saranno fruibili soltanto laddove una cultura Patient Centred
abbia messo radici. In altre parole, si è in presenza di un Ospedale Centrato sul Paziente
a patto che gli investimenti per il miglioramento delle strutture siano accompagnati
dalle innumerevoli modalità informali attraverso cui lo staff – ingaggiato
profondamente nell’obiettivo di incontrare i bisogni dei pazienti – si prenderà cura
dell’esperienza degli utenti del servizio. Cultura e struttura non sono opzioni
alternative: diffondere la cultura della Patient Centredness è ciò che consente non
soltanto che i cambiamenti strutturali siano ideati, progettati ed implementati, ma è
anche e soprattutto ciò che ne mette in luce la profondità dei vantaggi. Gli investimenti
materiali, se non supportati da una cultura diretta all’obiettivo della Patient
36
Centredness, rischiano di svuotarsi di significato e perdere di efficacia. È mia opinione,
quindi, che il costo economico del rinnovamento delle strutture in vista di un maggiore
comfort dei pazienti non debba e non possa essere paragonato all’investimento
economico in interventi formativi – o di interventi a più ampio raggio – finalizzati al
radicarsi di una cultura centrata sul paziente ed al buy in del personale nella causa. Non
saranno infatti le camere singole a rendere un ospedale a misura di paziente, se
l’esperienza di quest’ultimo sarà connotata da vissuti di abbandono, sfiducia e
disgregazione nel rapporto con i numerosi operatori sanitari.
2.1.2. Tecnologia
Quando si parla di tecnologia, Shaller (2007) si riferisce in particolare all’ Health
Information Technology (HIT). Essa, secondo le ricerche svolte dall’autore, darebbe la
possibilità di coinvolgere attivamente pazienti e famiglie nel processo di cura,
attraverso la facilitazione delle comunicazioni con i professionisti sanitari. Inoltre la HIT
metterebbe a totale disposizione dei pazienti le informazioni desiderate e garantirebbe
un rapido accesso a strumenti per la presa di decisione. Negli ultimi anni sono sorte
numerosi applicazioni della HIT: dalla semplice comunicazione via e-mail tra pazienti e
medici a più sofisticati portali Web dedicati ai pazienti per la consultazione della loro
cartella clinica elettronica. La gamma delle applicazioni varia ampiamente in
complessità e costi. Molte ricerche hanno evidenziato che la tecnologia informativa in
questione è generalmente sotto-utilizzata, nonostante le organizzazioni pioniere in
questo ambito dimostrino che tali provvedimenti siano effettivamente in grado di
consolidare la partnership medico-paziente (Sheller, 2007). Si può immaginare che la
HIT vada incontro a resistenze di vario tipo, non ultima la paura che le nuove tecnologie
possano impoverire la qualità del rapporto tra medico e paziente. La chiave di volta per
il successo della HIT potrebbe essere la facilità di utilizzo percepita dai vari gruppi di
utenti, e la condivisione dei detti timori con i medici stessi.
37
2.1.3 Norme e procedure
In questa sezione verranno prese in esame le regole e le procedure standardizzate che
hanno un impatto sulle dimensioni della PCM e/o connotano un organizzazione
sanitaria come Patient Centred. È fondamentale una precisazione: essendo l’ospedale
un’organizzazione generalmente assai complessa, tali procedure possono essere
esplicitate ed applicate a diversi livelli. Si consideri il seguente esempio. Il duplice scopo
della ricerca di Groene et al. (2009), è quello di quantificare le strategie che alcuni
ospedali europei hanno messo in atto a promozione della cura centrata sul paziente e
di verificare se sussista una relazione tra l’applicazione di dette strategie e: a) alcune
caratteristiche dell’ospedale; b) la maturità del Sistema di Miglioramento della Qualità.
Ciò che è rilevante considerare è che l’associazione tra le strategie finalizzate alla PCM e
la classificazione di maturità del sistema suddetto sembra essere molto diversa a
seconda che si consideri il livello del reparto oppure quello dell’ospedale. In altre
parole, gli ospedali potrebbero adottare policy al livello strategico generale per
adempiere ad esigenze legislative o di accreditamento, ma l’implementazione di dette
policy potrebbe non essere poi trasferita interamente al livello del reparto. I risultati
dello studio di Groene et al. suggeriscono che, nonostante le procedure e le politiche
ufficiali siano spesso efficaci nel predire la messa in pratica di alcune strategie Patient
Centred, fermarsi al dichiarato non è sufficiente. Fatta questa premessa, occorre
comunque considerare che alcune norme e procedure possono costituire un reale
antecedente alla diffusione di pratiche lavorative connotate da una centratura sui
pazienti. Si considerino le procedure di misurazione sistematica e ricerca di feedback: la
costruzione di competenze di ascolto dei fruitori del servizio è una fattore che
contribuisce consistentemente a rendere il paziente il baricentro delle pratiche
organizzative. Tali procedure consentono all’ospedale di misurare e monitorare
costantemente la sua performance qualitativa nell’ambito della PCM, operazione
imprescindibile se si considera l’assioma frequentemente citato nella Health Care
Quality Improvement: “non si può gestire ciò che non si può misurare”. Le competenze
di ascolto dovrebbero comprendere svariate modalità di misurazione delle
38
performance: raccolta ed elaborazione dei dati relativi alle esperienze dei pazienti,
raccolta di segnalazioni, fidelizzazione degli utenti all’organizzazione. Ultimamente
sono sorti anche metodi di misurazione meno convenzionali: uno di essi consiste in un
processo (chiamato “Walk-throught”, cioè “attraversamento”) all’interno del quale
diversi professionisti sanitari giocano il ruolo dei pazienti e fanno esperienza di una
procedura o di un servizio erogato dall’ospedale. Alcune ricerche dimostrano che vivere
esperienze di ospedalizzazione, reali oppure simulate durante un role playing, influenza
fortemente i professionisti e ne modifica a lungo termine percezioni e comportamenti
rispetto all’orientamento al paziente (Wilkes et al., 2002; Luxford et al., 2011). Infine,
l’adozione di Comitati Consultivi composti da pazienti e famiglie costituisce un’altra
proficua modalità di raccogliere sistematicamente feedback dai pazienti. Il valore delle
descritte procedure di assessment risiede certamente nel loro potenziale utilizzo per
progettare ed implementare interventi a miglioramento dell’esperienza dei pazienti.
Tali misurazioni dovrebbero riguardare anche l’effetto prodotto dai cambiamenti
introdotti. L’utilizzo sistematico della valutazione nella pianificazione degli interventi,
nella loro implementazione, nella misurazione degli effetti prodotti e nella loro
eventuale modifica al bisogno, costituisce il circolo virtuoso che consente il
miglioramento continuo della qualità del servizio. Secondo Peter Coughlan 6 (in Shaller,
D., 2007) il successo del processo dipende in larga parte dalla possibilità di disporre di
feedback in tempo reale: si vede quindi come misurazione e ricerca sistematica di
feedback sono due facce della stessa medaglia. L’utilizzo attivo di feedback emerge
infine come un facilitatore chiave della PCM anche nelle interviste condotte da Luxford
et al. (2011) ai leader di organizzazioni ospedaliere riconosciute come best practices
nell’ambito della cura centrata sul paziente.
2.2 Gli aspetti soft dell’organizzazione
In questa sezione verranno presi in esame alcuni aspetti soft – afferenti cioè alla
dimensione sociale, culturale e valoriale - delle organizzazioni sanitarie, descritti in
6
Peter Coughlan è leader delle pratiche di Benessere e Salute in IDEO, una società di consulenza
internazionale che si occupa, tra le altre cose, di innovazione e progettazione organizzativa.
39
letteratura come possibili antecedenti all’implementazione della Patient Centredness.
2.2.1 Cultura organizzativa
L’argomento della cultura organizzativa merita qui una breve tematizzazione, sia in
quanto il punto di vista adottato in questa tesi vede nella cultura la chiave di lettura
imprescindibile per comprendere e gestire le organizzazioni, sia in quanto essa sarà
l’oggetto principe della ricerca sul campo illustrata nei prossimi capitoli. I teorici a cui si
fa riferimento sono prevalentemente due: G. Morgan. ed E. Schein. Il primo descrive la
cultura organizzativa come un insieme di credenze, valori e norme che, insieme a
simboli, miti, personalità ed eventi “drammatizzati”, rappresentano la personalità –
unica e irripetibile – di un organizzazione, e forniscono un quadro di riferimento per
l’azione ed il cambiamento. A Morgan (1998) si deve soprattutto la descrizione delle
organizzazioni attraverso la metafora culturale. Vedere le organizzazioni come delle
culture porta con sé una serie di conseguenze cruciali, prima tra tutte quella di poter
pensare ad ogni aspetto del funzionamento corporativo (strategia, struttura, design,
natura della leadership e del management, etc.) non come un elemento discreto e
separato dagli altri, ma come parte di una sorta di “programma mentale” (Hofstede et
al., 1990) dell’organizzazione. Secondo questa prospettiva, inoltre, qualsiasi
cambiamento organizzativo è prima di tutto cambiamento culturale (Morgan, 1998) e
come tale va quindi progettato ed implementato. Il secondo autore menzionato, E.
Schein, descrive la cultura come lo schema di assunti fondamentali che un certo gruppo
ha inventato, scoperto o sviluppato mentre imparava ad affrontare i problemi legati al
suo andamento esterno o alla sua integrazione interna, e che hanno funzionato in
modo tale da essere considerati validi e quindi degni di essere insegnati ai nuovi
membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali
problemi (in Hatch, 2009, p. 199). A Schein si deve il celebre modello che vede la
cultura organizzativa come articolata su tre livelli di profondità e visibilità: il livello più
immediato di osservazione è quello degli artefatti: ciò che si vede, si ascolta e si prova
quando si attraversa l’organizzazione. A questo livello la cultura è molto chiara ed ha un
40
immediato impatto emotivo. Tuttavia, lo strato degli artefatti resta indecifrabile se non
è possibile porre domande a chi vi lavora su quanto si osserva e si percepisce. Ciò
conduce al successivo livello dell’indagine culturale: i valori dichiarati. Essi
rappresentano i valori manifesti o espressamente accettati di una cultura, ciò che le
persone dichiarano essere le ragioni del proprio comportamento. Le ragioni profonde,
tuttavia, rimangono nascoste o inconsce. Per comprendere realmente una cultura e
interpretare compiutamente i valori del gruppo ed il suo comportamento manifesto è
d’obbligo indagare gli assunti impliciti (terzo livello culturale), che sono spesso inconsci
ma che in effetti determinano il modo in cui i membri del gruppo percepiscono,
pensano e sentono (Schein, 1999). Questa breve introduzione al tema della cultura
organizzativa è utile al fine di comprendere la prospettiva da cui, in questa tesi, si
guarda al cambiamento organizzativo nella direzione di una maggior centratura sul
paziente, nonché al fine di esplicitare la cornice teorica utilizzata nell’affrontare tale
complesso argomento.
La cultura organizzativa della Patient Centred Care non è caratterizzata da programmi
discreti, ma dai valori e dalle attitudini che supportano l’implementazione di tali
programmi. Si tratta di esaminare tutti gli aspetti dell’esperienza del paziente e
scegliere di considerarli dalla loro prospettiva invece che secondo la convenienza degli
erogatori di servizio. In assenza di tale visione organizzativa complessiva, i programmi e
le politiche potranno anche raggiungere specifici obiettivi, ma falliranno nel coltivare
un’organizzazione autenticamente Patient Centred (Frampton et al., 2008, p. 20). Come
si è anticipato nei precedenti paragrafi, la cultura è – secondo svariati autori – la leva
principe perché l’organizzazione si orienti all’obiettivo della Patient Centredness. Se
consideriamo la cultura organizzativa come un programma mentale specifico e unico di
quella organizzazione, occorre chiedersi allora da cosa sarà caratterizzato il programma
mentale degli ospedali Centrati sul Paziente. Si può dire che una prima caratteristica
trasversalmente riconosciuta dagli autori consiste nella connotazione partecipativa
della cultura organizzativa. Ascoltare la voce dei pazienti – fruitori diretti del servizio –
e delle famiglie è considerata in queste strutture una procedura imprescindibile, che va
oltre la già citata raccolta finale di feed-back ma che anzi informa le pratiche lavorative
41
quotidiane dei professionisti. Il coinvolgimento degli utenti prende diverse forme e si
sostanzia a diversi livelli: dalla partecipazione al momento dell’erogazione della cura, al
coinvolgimento nelle decisioni organizzative volte alla riprogettazione ed al
miglioramento dei servizi. Ad un livello ancora più elevato, la voce di pazienti e famiglie
dovrebbe essere presa in considerazione nello sviluppo di politiche locali, regionali e
nazionali. Infine, come ha esposto P. Mosconi7: il paziente, prima di tutto in quanto
cittadino, dovrebbe essere posto al centro di una serie di iniziative - informative e
partecipative - che portino ad un interesse collettivo in termini di miglior assistenza, di
razionalizzazione degli interventi e di impatto come scelta di outcome rilevanti. (…) Si
tratta di portare a bordo - e possibilmente mettere al centro - la cittadinanza nelle
scelte, ad esempio nelle commissioni sul finanziamento dei progetti di ricerca, nelle
scelte delle politiche sanitarie e nelle discussioni sull'etica della medicina. Quest’ultimo
livello, che mi è sembrato importante citare in questa sede, non fa tuttavia parte (non
soltanto) della cultura organizzativa degli ospedali, ma attraversa la società in senso
lato. Ma torniamo al tema centrale del paragrafo. Luxford et al. (2011) sottolineano
che, nelle interviste da loro condotte ai leader degli ospedali best practices in quanto a
Patient Centredness, la promozione di una cultura orientata al cambiamento ed
all’apprendimento sia un elemento ricorrente. L’organizzazione che si orienta verso il
paziente è un’organizzazione che sa ascoltare la sua voce ed utilizzare le sue narrazioni
come un catalizzatore di cambiamento. Ma proprio come le persone, anche le
organizzazioni temono i cambiamenti. Promuovere una cultura che non rifugga
l’evoluzione e l’apprendimento significa anche saper approcciare il cambiamento
culturale da un prospettiva bottom-up invece che top-down. Questo significa superare
una logica “correttiva”, che veicola messaggi minacciosi e spinge i membri
dell’organizzazione a difendersi dal cambiamento o addirittura ad impedirlo
attivamente (Leonard, 2004). Al contrario, il cambiamento efficace sa ingaggiare gli
impiegati nella causa: quando essa diventerà importante la loro piena realizzazione
professionale, le modifiche si radicheranno realmente nelle pratiche e si
sedimenteranno nella cultura organizzativa. Inoltre, i cambiamenti devono essere
7
Comunicazione personale di Paola Mosconi, Laboratorio per il coinvolgimento dei cittadini in sanità ,
Istituto Mario Negri, Milano.
42
percepiti come vantaggiosi: devono rendere la giornata più semplice, sicura e
appagante per tutti. Nel caso del cambiamento verso una cultura Patient Centred, il
gradino più alto potrebbe essere proprio quello di modificare l’atteggiamento e gli
assunti impliciti nelle pratiche degli impiegati (sedimentatisi in anni di approccio
biomedico alla medicina): dalla focalizzazione sui benefici dell’organizzazione a quella
sui bisogni del paziente. Ancora una volta, l’ascolto delle narrazioni dei pazienti e
l’esperienza ospedaliera in prima persona sono individuati come i fattori più efficaci nel
superare tale barriera. A conclusione di questo paragrafo, si propone una breve
riflessione. Nella letteratura che tratta le implicazioni organizzative della Patient
Centredness, gli autori sembrano unanimi nel considerare il cambiamento culturale
come imprescindibile al fine di costruire organizzazioni ospedaliere sempre più
centrate sul paziente. Tuttavia, come si è forse notato leggendo il paragrafo, nessun
articolo affronta il tema della cultura organizzativa in modo concreto ed approfondito;
non si trova, in definitiva, una risposta completa alla domanda su come e cosa occorra
cambiare. È anche alla luce di questa considerazione che si è scelto di dedicare al tema
della cultura organizzativa Patient Centred la ricerca sperimentale condotta nell’ambito
della presente tesi; metodologia e risultati dello studio saranno esposti nella seconda
parte (capitoli 3 e 4).
2.2.2 Leadership e Vision
Le culture organizzative sono create dai leader; una delle funzioni decisive della
leadership può essere identificata con la creazione, il sostegno e - se e quando necessari
-, la distruzione di una cultura. Cultura e leadership (…) sono due facce della stessa
medaglia: nessuna delle due può essere interamente compresa senza l’altra. Con
queste parole il noto teorico delle organizzazioni E. Schein (1992, pp. 29-30) ci illustra il
robusto legame tra leadership e cultura nelle organizzazioni. L’impegno ed il
coinvolgimento del gruppo dirigente nella causa della PCM è fondamentale affinché
qualsiasi iniziativa in tal senso possa prendere piede. La trasformazione organizzativa
necessaria per raggiungere e, soprattutto, sostenere l’erogazione di cure centrate sul
43
paziente non potrebbe avvenire senza il supporto e la partecipazione dei dirigenti.
Silversin e Kornacki (2000), studiosi esperti nella cultura medica, hanno applicato i
concetti di Schein alla organizzazioni sanitarie, utilizzando un modello di cambiamento
organizzativo che si focalizza sulla leadership, la vision condivisa, la cultura, ed il
concetto di patto tra il management e lo staff medico. Compito dei leader, definiti in
questo modello come veri e propri manager del cambiamento, è quello di trasformare
il patto implicito tra le organizzazioni sanitarie ed i professionisti in esse impiegati basato su “diritti, protezione e autonomia”- in un accordo esplicitamente focalizzato al
“mettere i pazienti prima di tutto”. Tale patto è diventato, in alcune strutture, il
caposaldo di una trasformazione su vasta scala dell’organizzazione sanitaria,
consentendo il passaggio da una cultura orientata a soddisfare i bisogni degli impiegati
ad una diretta a mettere i pazienti al centro.
Una leadership impegnata nel raggiungimento degli obiettivi PC dovrà poi essere in
grado di sviluppare una vision e dei piani strategici per far sì che la centratura sul
paziente
permei
i
processi
dell’organizzazione
nella
quotidianità
del
suo
funzionamento. Gli esperti intervistati da Shaller (2007) pongono molta enfasi
sull’importanza di creare slogan che esprimano la mission e la vision in modo chiaro,
semplice e facilmente ripetibile nelle routine lavorative del personale. La vision, in altre
parole, seppur ideata a livello manageriale, deve rappresentare un orizzonte visibile da
ogni livello dell’organizzazione, dagli uffici del top management ai letti dei pazienti.
2.2.3 Clima organizzativo
Il clima è l’insieme delle percezioni soggettive sviluppate dai membri di
un’organizzazione, riguardo alle politiche, alle procedure formali e informali, alle
consuetudini invalse nell’organizzazione, etc. Tali percezioni sono in grado di
condizionare le attività che avvengono all’interno del contesto organizzativo; inoltre, il
clima influenza i vissuti dei membri dell’organizzazione in merito allo stesso ambiente
organizzativo di cui fanno parte (Amovilli, 1995). Risulta quindi chiaro come la
soddisfazione e l’engagement nel proprio lavoro siano un antecedente fondamentale
44
per lo stabilizzarsi di un clima organizzativo positivo. Il tentativo di potenziare la
soddisfazione degli impiegati è stato individuato come un fattore facilitante la
creazione di un ospedale centrato sul paziente (Luxford, 2011). I leader degli ospedali
che si orientano alla Patient Centredness dovrebbero anzitutto alimentare un ambiente
lavorativo in cui il loro più importante asset, la loro forza lavoro, sia trattata con
rispetto e dignità nella stessa misura in cui l’organizzazione richiede loro di trattare i
pazienti. L’associazione tra soddisfazione dei pazienti e soddisfazione dei professionisti
della sanità è stato ampiamente riconosciuto (Rave et al., 2003); pratiche rilevanti a
questo riguardo sono l’assunzione, la formazione, la valutazione, la compensazione di
personale ingaggiato nella PCM. Anche i riconoscimenti pubblici degli impiegati best
performers in tale ambito dovrebbero essere una pratica diffusa. Peter Coughlan (in
Luxford, 2011) sostiene addirittura che le organizzazioni sanitarie dovrebbero
connotarsi per il loro essere Human Centred e non soltanto Patient Centered, a dire
cioè che tutti gli stakeholders dell’organizzazione dovrebbero essere impegnati nel
creare un efficace e responsabile sistema di cura (Shaller, 2007) ed un ambiente
caratterizzato dal rispetto per la persona nella sua individualità.
Un cenno a sé merita l’articolo di Abdelhadi, N. e Drach-Zahavy, A. (2011), che analizza
la PCM nelle sue relazioni con il costrutto di clima di servizio - l’insieme delle percezioni
condivise dagli impiegati in merito a pratiche, procedure e comportamenti che
connotano un servizio efficace e che sono attese, supportate e ricompensate
(Schneider et al., 1994). Scopo degli autori è quello di testare un modello che vede il
clima di servizio dei reparti ospedalieri come fattore incentivante per le infermiere nel
mettere in atto comportamenti Patient Centred, attraverso l’intervento di una terza
variabile, quella del work engagement - uno stato cognitivo-affettivo positivo e
persistente, caratterizzato da vigore, dedizione al lavoro e assorbimento nel lavoro
(Schaufeli, Salanova, Gonzáles-Romá, Bakker, 2002, pp.72). Gli autori notano che
generalmente gli sforzi organizzativi per promuovere la Patient Centred Medicine si
focalizzano su interventi mirati a migliorare le skills del personale sanitario (es: capacità
comunicative e relazionali, formazione ai valori della PCM, all’orientamento al cliente
ed alla leadership); tali interventi sono senza dubbio fondamentali. Lavorare sulla
45
capacità dello staff ospedaliero di sostenere il focus sul paziente è un fattore chiave
perché l’organizzazione renda la Patient Centredness un obiettivo sostenibile anche nel
lungo periodo. Tuttavia tali interventi, se isolati dal contesto, si rivelano solo
parzialmente efficaci. Le organizzazioni sanitarie attuali sono infatti spesso oppresse da
severe pressioni finanziarie e alti standard di produttività che ne minacciano la
sopravvivenza e ne influenzano le pratiche ed il funzionamento. Tali circostanze
suggeriscono che le teorie inerenti alla PCM possano beneficiare dall’esplorazione del
ruolo dell’organizzazione in quanto contesto lavorativo – ed in particolare della realtà
dei reparti – nel creare e sostenere una cultura e delle pratiche lavorative centrate sul
paziente. I risultati dello studio dimostrano che il clima di servizio è effettivamente in
grado di facilitare comportamenti orientati al paziente. Lavorare in un contesto
connotato da un buon clima di servizio può addirittura arrivare a compensare alcuni
fattori inibitori dei comportamenti PC, come ad esempio la percezione di un eccessivo
carico di lavoro (Salanova, Agut, 2005). Anche la variabile del work engagement si
dimostra essere un fattore rilevante nell’incentivare comportamento orientati al
paziente: essa, come prediceva il modello, media l’associazione tra clima di servizio dei
reparti e comportamenti Patient Centred. Lo studio, in definitiva, dimostra che lavorare
in un’organizzazione connotata da un clima di servizio positivo è un importante
antecedente al miglioramento delle percezioni ed all’investimento degli operatori sul
proprio lavoro, nonché all’implementazione di comportamenti e pratiche centrate sul
paziente.
2.2.4 La formazione del personale sanitario
Come accennato sopra, la formazione del personale ospedaliero rappresenta un
antecedente
di
fondamentale
importanza
per
la
sostenibilità
nel
tempo
dell’orientamento verso i pazienti. Obiettivo di questa breve sezione non è quello di
affrontare in modo completo e sistematico il tema, che meriterebbe una trattazione a
sé. Si metteranno invece a fuoco alcuni punti rilevanti e questioni aperte,
coerentemente con gli argomenti trattati finora.
46
Si è visto, nel precedente capitolo, come il modello biomedico - approccio tradizionale
alla clinica medica nonché assunto profondamente radicato nella cultura occidentale sia particolarmente difficile da modificare, in quanto tale cambiamento prevedrebbe
un ribilanciamento di poteri, priorità e competenze tra medico e paziente. Il modello
biomedico è estremamente seduttivo, tanto per i professionisti – i quali, curando
astrazioni e non persone, possono difendersi dall'inevitabile sofferenza che una reale
presa di contatto con il malato provocherebbe – quanto per i pazienti – autorizzati a
coltivare fantasie di una medicina quasi magica e di un dottore onnipotente in grado di
guarirli da ogni male. Il modello tradizionale ha radici profonde tanto negli assunti
collettivi quanto, probabilmente, nelle nostre rappresentazioni individuali, in quanto
confermato da modelli di clinici incontrati nella vita reale o descritti dai mass-media.
Nonostante questo, è lecito ipotizzare che una formazione adeguata ai professionisti
attuali e del futuro possa effettivamente incidere su assunti e valori impliciti nei
concetti di cura e pratica medica, orientandoli verso una maggiore centratura sulla
persona-paziente. Si tratta senza dubbio di una formazione complessa, dato che
quando parliamo di PCM chiamiamo in causa competenze altre rispetto alle sole skills
tecniche: la Patient Centredness richiede competenze individuali e sociali, relazionali
ed emotive; uno spostamento, cioè, dall'asse del sapere e del saper fare a quello del
saper essere. Il problema che qui si pone non è nuovo agli addetti ai lavori, come si può
vedere dai due seguenti estratti di testimonianze:
“Certo che in tutti questi anni (33 dalla laurea!) per noi che siamo in prima linea con i
pazienti il pensiero a come fare ma soprattutto a come essere è costante. Sappiamo
tutti che nessuno ci ha formato alla relazione in una professione che di suo è una
relazione di aiuto; è sconfortante pensare che ancora ad oggi camminiamo sulle sabbie
mobili.”
Sara, ginecologa.
“Se si è scelto di avere a che fare con una persona in qualità di medico - è vero che la
nostra università è stata secondo me assai carente in questo fondamentale
47
insegnamento - ma non possiamo attribuire solo le colpe agli altri. E’ compito nostro
colmare questa lacuna, imparare a comunicare, ed essere empatici con chi aspetta da
noi notizie sulla sua salute… brutte o belle che siano… se no è meglio cambiare
mestiere!”
Cristina, medico di base.8
I punti di vista delle due professioniste chiamano in causa non poche problematiche
legate al tema della formazione dei medici, estendibili però a mio avviso anche ad altre
professioni sanitarie; in particolare: quanto le facoltà universitarie si fanno carico
dell'insegnamento di competenze relazionali ai futuri professionisti? Esistono moduli
specifici o si tratta di insegnamenti trasversali a tutti i corsi? Quali dispositivi formativi
sono pensati per garantire l'apprendimento di tali competenze? E ancora, a monte,
l'empatia e la capacità di relazionarsi e comunicare con il paziente sono competenze
insegnabili? O è compito/dovere dello studente/lavoratore svilupparle attraverso
l'esperienza? Non si rischia in questo modo di lasciare attuali e futuri professionisti soli
a camminare sulle sabbie mobili?
Questa breve divagazione rispetto al tema dell’ospedale centrato sul paziente è stata
pensata per due motivi: a) non lasciare totalmente in ombra il ruolo delle agenzie
formative precedenti all’ospedale, in quanto responsabili nella maturazione - nei
giovani professionisti - di un primo approccio alla cura; b) riconnettere il complesso
argomento della formazione ai principi di base della Medicina Centrata sul Paziente,
esposti nel precedente capitolo.
Rispetto al tema trattato nel presente capitolo, tuttavia, il tipo di formazione su cui
urgono maggiormente alcune considerazioni è la formazione on-the-job. Come si è
detto, essa porta con sé grandi potenzialità e, vista la sua diffusione, i manager lo
hanno capito da tempo. Alcuni punti di attenzione: innanzitutto, perché la formazione
non si limiti a rappresentare un momento individuale di riflessione, occorre prevedere
8
Le due testimonianze sono state tratte da conversazioni intrattenute all’interno del blog – piattaforma
virtuale http://abbassoglismidollati.wordpress.com/. Il blog è stato aperto nel giungo 2011 da
Alessandro Liberati (medico di e, da anni, anche paziente affetto da mieloma multiplo) allo scopo di
condividere con amici e colleghi riflessioni in merito ad esperienze di ospedalizzazione, al rapporto
medico – paziente ed ai possibili modi di vivere ed affrontare la malattia.
48
dispositivi formativi che accompagnino i professionisti ad applicare ed a stabilizzare
quanto appreso durante la formazione nelle loro pratiche lavorative. Se questo aspetto
potrebbe apparire scontato, si consideri che nell’ambito della formazione alla PCM
negli ospedali, in Italia, non sembrano ancora aver messo radici metodologie di
formazione esperienziali e che privilegino il “l’apprendere dal fare”. Un secondo punto
a mio avviso molto rilevante: la formazione, oltre che occuparsi delle skills citate,
dovrebbe avere lo scopo più ampio di aiutare il professionista sanitario ad assumere la
prospettiva del paziente. Una delle criticità più spesso citate dai pazienti è la difficoltà
di “mettere insieme i pezzi” del percorso di cura pensato per loro, oltre che la più
banale ma frequentissima difficoltà di comprensione di ciò che i professionisti
riferiscono. Entrando in ospedale, i pazienti si interfacciano infatti con diversi operatori:
personale amministrativo, infermieri, medici di reparto, medici consulenti, OSS, tecnici
di vario tipo, etc.. Ogni categoria professionale parla la propria lingua ed espone al
paziente la sua parziale prospettiva sul processo di cura. Ciò che la formazione
potrebbe aiutare a potenziare è proprio la presa in carico da parte degli operatori della
difficoltà del paziente di unificare le diverse voci per costruire un senso unitario e
coerente della sua esperienza. In pratica, si tratta di formare lo staff all’utilizzo di un
linguaggio il più possibile uniforme e comprensibile, ed abituare i professionisti –
soprattutto medici ed infermieri - a consultarsi precedentemente tra loro per non
restituire al paziente una sensazione di frammentazione ed incoerenza. Tali criticità
sono ben evidenziate dall’articolo di Kerosuo (2010), dall’emblematico titolo “Lost in
translation: un’esperienza di non - integrazione della cura dal punto di vista di un
paziente”. Le incomprensioni tra gli operatori, i gap negli scambi informativi ed i
problemi di comunicazione caratterizzano spesso l’esperienza di cura nelle
organizzazioni sanitarie. Nell’organizzare le procedure e le pratiche finalizzare alla cura
dei pazienti, spesso la logica utilizzata è quella mutuata dalla prospettiva dei
professionisti invece che da un approccio patient- centred (Kerosuo, 2010, p. 373). Se,
da un lato, appare chiaro che cambiamenti di tale portata richiedano interventi assai
più ampi della formazione e debbano coinvolgere - come già affermato - i piani alti
dell’organizzazione, è anche vero che la formazione alla PCM non può trascurare gli
49
aspetti qui menzionati. Lo scopo della cura centrata sul paziente è quello di rendere
l’esperienza di ospedalizzazione il più possibile a sua misura dei suoi utenti: perché
questo avvenga è necessaria una formazione che accompagni i professionisti sanitari
ad assumere, nelle loro pratiche lavorative, la qualità dell’esperienza dei pazienti come
obiettivo primario.
50
CAPITOLO 3
Metodologia, disegno e contesto della ricerca
Il presente capitolo descrive l’approccio metodologico ed il disegno di ricerca adottati
nella progettazione e nello sviluppo di uno studio di caso, svolto tra i mesi di Settembre
2011 e Marzo 2012 presso il reparto di Riabilitazione di un Policlinico italiano. Il caso
prende in esame il costrutto di Patient Centred Medicine nelle sue implicazioni
pratiche, analizzate all’interno di una realtà ospedaliera. Nell’ultimo paragrafo verrà
introdotto e descritto il contesto della ricerca. I risultati dello studio saranno illustrati
nel quarto capitolo.
3.1 Introduzione
Il tema della Patient Centred Medicine è al centro dell’attenzione ormai da anni, anche
in Italia. A portarlo alla luce sono troppo spesso casi di mala sanità che raggiungono la
visibilità mediatica. D’altra parte tali tematiche sono un punto d’attenzione anche per
gli enti responsabili di stabilire standard e obiettivi della Sanità Italiana. Nel Piano
Sanitario Nazionale 2011-2013 redatto dal Ministero della Salute, tra gli obiettivi da
perseguire nel triennio di vigenza dello stesso ricorre quello dell’empowerment del
paziente, dimensione fondamentale per l’implementazione di una cura a misura di
quest’ultimo. Si legge infatti: l’empowerment dei pazienti si realizza attraverso il
supporto al self care che significa non soltanto lavorare per recuperare la centralità
della persona attraverso la personalizzazione delle cure ma, soprattutto, sviluppare con
i pazienti la comprensione di come la malattia condiziona la loro vita e la loro salute e
accompagnare gli stessi ad affrontare i sintomi e le complessità di cura / gestione della
malattia (…). Il seguente passaggio, in particolare, merita un punto d’attenzione: è
necessario che ogni operatore sia consapevole che è un proprio impegno lo sviluppo
della partecipazione e dell'empowerment dei cittadini.
Ora, è certamente vero – come si è detto nel precedente capitolo – che l’ingaggio dei
51
professionisti nella causa della centratura sul paziente è un elemento di fondamentale
importanza. Tuttavia, il grande interrogativo che ha guidato la progettazione e la messa
in pratica del presente studio chiama in causa un livello ulteriore di complessità:
l’organizzazione ospedaliera. È possibile tradurre i principi della Patient Centred
Medicine nelle pratiche lavorative dei professionisti sanitari? È possibile immaginare
un cambiamento che vada nella direzione di rendere la Patient Centredness il fulcro ed
il principio orientatore della cultura delle organizzazioni sanitarie? Se sì, come?
La letteratura in merito all’implementazione delle cure centrate sul paziente nel
contesto ospedaliero è piuttosto vasta. Tuttavia, se restringiamo il panorama ai disegni
di ricerca qualitativi ed in particolare a quegli studi che prendono in esame il costrutto
di Patient Centred Medicine in quanto tale (e non per una delle sue dimensioni), il
campo sembra restringersi notevolmente. Molti autori hanno dedicato i loro lavori a
verificare l’esistenza di associazioni tra alcune singole variabili relative alla Patient
Centredness ed il miglioramento dell’esperienza percepita dal paziente; si veda l’analisi
della comunicazione infermieri – paziente (analizzata da Bergvik et al., 2007), la
comprensione dei pazienti del proprio piano di cura (O’Leary et al., 2010), il work
engagement del personale ospedaliero (Abdelhadiet al., 2011), etc.), per non parlare
dei molteplici studi sull’impatto dell’uso di processi di shared decision making. Il
vantaggio di questi studi è quello di scomporre un costrutto multidimensionale e
complesso come quello della PCM per comprendere il peso relativo dei fattori che lo
compongono. Il parziale svantaggio degli stessi è però quello di partire da un’ipotesi
forte e non sempre verificata, cioè che le variabili considerate siano proprio quelle che
hanno il maggior impatto sull’esperienza del paziente.
Il presente studio di caso si pone in una prospettiva diversa: l’obiettivo non è quello di
dimostrare l’esistenza di una relazione tra variabili e di generalizzarla a contesti
analoghi. Ci si pone, invece, in un’ ottica esplorativa, fondativa e fortemente
contestualizzata: lo scopo è quello di mettere in luce una costellazione di elementi e
fattori che contribuiscono alla formazione di una cultura organizzativa più o meno
centrata-sul-paziente all’interno del reparto ospedaliero analizzato.
Oggetto dello studio saranno perciò elementi, fattori ed indizi riconducibili ad una
52
cultura organizzativa (più o meno) centrata sul paziente. In particolare ci si concentrerà
sulla forma che tali elementi assumono nelle rappresentazioni e nelle pratiche
lavorative dei professionisti sanitari. L'ipotesi alla base del progetto è che la Patient
Centredness – se declinata a livello organizzativo – possa essere letta come un sistema
di assunti, credenze, valori ed artefatti che informa il funzionamento dei reparti e la
posizione relativa del paziente al loro interno. Indagare la(e) cultura(e) del reparto - ed
in particolare le pratiche lavorative, le interazioni, il linguaggio dei diversi attori che
partecipano all'esperienza di ospedalizzazione del paziente – è perciò uno step
necessario per l’individuazione di interventi e/o dispositivi organizzativi che incidano
positivamente sul vissuto e sull’esperienza di ospedalizzazione.
I concetti ed i modelli esposti nei precedenti capitoli hanno fornito una guida ed un
ancoraggio teorico tanto nella fase di progettazione quanto in quelle di
implementazione ed analisi dei dati.
3.2 Obiettivi
Come parzialmente anticipato, l’obiettivo del Case Study è quello di individuare ed
analizzare gli elementi che connotano la cultura organizzativa del reparto di Medicina
Fisica e Riabilitazione come più o meno centrata sul paziente; si analizzeranno quindi il
ruolo, la posizione e le rappresentazioni relative ai pazienti che si consolidano
all’interno dell’organizzazione. Nel fare ciò verranno considerati i punti di vista delle tre
principali categorie professionali che prendono parte alla realtà analizzata - medici,
fisioterapisti, infermieri -, le loro pratiche lavorative ed in particolare le loro relazioni
con i pazienti. In definitiva, un’attenzione particolare sarà rivolta alle micro – culture
che caratterizzano tali categorie professionali, con un focus specifico sulle
rappresentazioni del paziente di cui ognuna è portatrice e sulle loro implicazioni nelle
pratiche lavorative.
I punti di attenzione elencati vanno intesi secondo la definizione di sensitizing concepts
di Blumer (1969), anziché come concetti definitori: essi costituiscono pertanto una
guida nell’affrontare il caso empirico, garantendo la possibilità di autocorrezione e ri-
53
orientamento dell’indagine, mentre non corrispondono con rigide istruzioni sul “cosa
guardare”.
Lo scopo della presente ricerca è di tipo prettamente esplorativo: si cercherà,
attraverso l’utilizzo di thick descriptions, di enucleare alcuni punti di attenzione chiave
al fine di preparare il terreno per futuri interventi a supporto dello sviluppo di una
cultura Patient Centred.
3.3 Metodologia
3.3.1. Un disegno di ricerca qualitativo
La scelta di una ricerca di tipo qualitativo è motivata da due cluster di fattori:

Gli obiettivi guida della ricerca: non si vuole testare l’efficacia di un modello
stabilito a priori, bensì comprendere come e con quali forme i principi della
PCM possano (o meno) diffondersi nella cultura organizzativa di un reparto
ospedaliero. I metodi qualitativi consentono di far luce sulla complessità delle
diverse interpretazioni degli attori organizzativi, di capire ciò che i partecipanti
esperiscono nel contesto ed i significati che vi attribuiscono.

Il contesto della ricerca: siamo di fronte ad una situazione complessa, i dati che
si prevedono di raccogliere sono multi-contestuali, i fenomeni studiati non sono
stati operazionalizzati in modo definitivo; si ritiene quindi opportuno adottare
una metodologia che permetta di cogliere le diverse modalità di manifestarsi
dei fenomeni indagati.
3.3.2 Il metodo etnografico
Il presente paragrafo è dedicato ad un approfondimento del metodo che ha
caratterizzato la ricerca, al fine di metterne in luce le caratteristiche principali e di
giustificarne l’utilizzo alla luce degli obiettivi delineati in precedenza. La scelta di
54
utilizzare un approccio etnografico alla ricerca ha permesso di porre un’enfasi adeguata
sull’unicità del contesto, nonché sull’importanza di comprenderne gli avvenimenti, le
pratiche ed i valori sottesi. L’etnografia si presenta come il metodo principe quando
l’obiettivo di ricerca riguarda gruppi caratterizzati da una certa cultura. Nonostante le
centinaia di diverse definizioni fornite in letteratura, possiamo in generale definire la
cultura come un concetto astratto che racchiude un insieme eterogeneo di elementi:
credenze, valori, norme, disposizioni sociali, forme di espressione e comportamenti di
un gruppo di individui che informano e spiegano i modi con cui essi percepiscono il loro
mondo (Richard L., Morse M., 2007).
La scelta del metodo etnografico è stata giustificata anche dalla necessità di
“immergersi” nel contesto naturale dove la cultura analizzata si produce e riproduce
attraverso le pratiche lavorative. Tale metodo permette di ricostruire dall’interno il
profilo culturale della comunità studiata (Cardano et al., 2011), cioè a partire dal punto
di vista dei suoi membri: ci si pone quindi in una prospettiva emica. La prospettiva
emica è solitamente considerata alternativa a quella etica, che si caratterizza per essere
una visione esterna e scientifica della realtà (Fetterman, 1998): lo scopo dell’etnografia
è, in fondo, quello di produrre dati comprensibili che riflettano sul e dal punto di vista
dei partecipanti alla cultura studiata. Diversamente da quanto affermato dai pionieri
dell’etnografia classica, l’indagine etnografica non è finalizzata (né sarebbe in grado di)
fotografare la realtà tutta attraverso un’accurata e neutrale raccolta ed interpretazione
del materiale di campo (osservazioni, note, interviste,documenti); fulcro della ricerca è
invece l’analisi dei processi attraverso cui l’etnografo e i suoi informatori costruiscono la
realtà e la narrano. L’etnografia non cattura esperienze di vita in modo neutrale o
oggettivo (ammesso, poi, che ciò sia possibile), ma piuttosto fornisce narrazioni di
narrazioni, interpretazioni di interpretazioni; essa non può essere ridotta a una mera
descrizione che riflette una realtà autonoma e preesistente, ma costituisce un vero e
proprio processo sociale di produzione della realtà (Colombo, 1998). Le recenti critiche
mosse all’etnografia classica riconoscono che l’osservazione etnografica è “riflessiva”: i
processi di osservazione e descrizione di un contesto sociale coincidono, dunque, con
la sua produzione.
55
ETNOGRAFIA E STUDI ORGANIZZATIVI
Scrive Bonazzi (1995, p. 75) che, a partire dagli anni ‘70, il pendolo delle opzioni
metodologiche ed epistemologiche nel campo degli studi organizzativi si è decisamente
spostato in direzione dei metodi qualitativi. In particolare, dal 1979 – anno di
pubblicazione della prima etnografia organizzativa su Administrative Science Quarterly
– fino ad oggi, lo studio culturale delle organizzazioni ha avuto uno straordinario
sviluppo e si è affermato come uno dei filoni più importanti e accreditati della ricerca
organizzativa. Sembra aver preso piede, in alcuni ambiti dediti all’indagine qualitativa
delle organizzazioni, l’idea che ciò che davvero conta nella vita dell’organizzazione si
svolge al livello culturale(Louis, 1981, p. 250).
In letteratura, inoltre, alcuni autori descrivono l’etnografia come un metodo
particolarmente utile per comprendere le organizzazioni sanitarie (Savage J., 2007). Nel
presente studio sono state particolarmente valorizzate alcune grandi potenzialità
dell’etnografia: a) quella di rendere possibili confronti tra ciò che le persone dicono e
ciò che agiscono; b) quella di guidare nell’identificazione delle modalità attraverso cui
la struttura formale di un’organizzazione (regole, procedure, gerarchie decisionali) è
influenzata e modificata da sistemi sociali informali sorti all’interno dell’organizzazione;
c) quella di indicare come la conoscenza e le pratiche lavorative si generano e
rigenerano localmente nel contesto analizzato.
3.3.3 Gli strumenti della ricerca
Nel presente studio di caso sono state utilizzate tecniche di vario tipo: l’osservazione, la
raccolta di documenti e le interviste etnografiche. Di seguito viene riportata una breve
descrizione delle tecniche osservative e delle interviste etnografiche - utilizzate nella
fase di raccolta dei dati - al fine di metterne in luce la rilevanza per gli obiettivi preposti.
3.3.3.1 L’osservazione
In linea con la metodologia etnografica, anche nella presente ricerca è stato assegnato
56
all’osservazione un ruolo privilegiato. Essa è di norma utilizzata in combinazione con
altre tecniche; tuttavia, affinché una ricerca etnografica possa essere considerata
realmente tale, una quota rilevante della documentazione deve essere prodotta
attraverso l’osservazione delle azioni nel loro concreto svolgersi. Molti autori ritengono
che, nonostante il livello di partecipazione del ricercatore al contesto possa essere
variamente dosato, nelle ricerche sociali etnografiche sia opportuno parlare sempre di
osservazione partecipante, dal momento che non è possibile studiare il mondo sociale
senza esserne parte (Hammersley, Atkinson, 1983). L’osservazione partecipante non è
solo guardare (…) è aprirsi a un’esperienza che riguarda non solo l’occhio del
ricercatore, ma tutto il suo corpo, tutta la sua persona (Cardano et al., 2011, pp. 239). È
quasi superfluo, quindi, sottolineare la rilevanza della capacità del ricercatore di essere
auto-riflessivo ed utilizzare se stesso come strumento di indagine. Durante la fase della
raccolta dei dati, in particolare, la consapevolezza di sé è fondamentale: perché una
ricerca etnografica sia valida il ricercatore deve essere cosciente e cercare di esplicitare
il più possibile i propri valori culturali, le proprie credenze ed i propri pregiudizi, poiché
essi avranno sicuramente influenza sulla raccolta e l’analisi dei dati. L’atteggiamento
cognitivo del ricercatore dovrebbe essere quello descritto da Schutz (1944) attraverso
la metafora dell’estraneo: egli non dà nulla per scontato ed è in grado di accorgersi di
particolari che ai “nativi” appaiano banali o irrilevanti. Occorre perciò che il ricercatore
lavori su se stesso al fine di mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale, dato che,
avvicinandosi progressivamente al gruppo osservato, la sua sorpresa ed il suo stupore
di fronte al mondo dei nativi possono deteriorarsi velocemente. Anche la selezione
degli oggetti di osservazione deve essere il più possibile esplicita: restringere il campo
osservativo sta alla base della costruzione di un buon disegno di ricerca ed evita al
ricercatore la sensazione di essere “sommerso” dall’enorme quantità di informazioni
che potrebbero essere registrate. A questo proposito, Gobo (2001) distingue tre grandi
ambiti
di
oggetti
d’osservazione,
anche
interpretabili
come
tre
aspetti
contemporaneamente sempre presenti nelle scene sociali: le strutture sociali, le
interpretazioni/spiegazioni dei partecipanti ed il contesto dell’azione.
Le strutture sociali non sono altro che le convenzioni sociali, le quali si materializzano
57
nei rituali, nelle pratiche ricorrenti e nelle routine del gruppo/organizzazione
analizzato. Nel contesto ospedaliero un esempio di tali pratiche è il “giro” delle visite
svolto dai medici ogni mattina nelle camere dei propri pazienti.
Veniamo al secondo aspetto citato da Gobo (2001). Quando si parla di interpretazione
dei partecipanti ci si riferisce principalmente al linguaggio naturale che essi utilizzano.
Se, come aveva teorizzato Austin (1987), il linguaggio è una forma d’azione, allora i
discorsi e le conversazioni costruiscono e ri-costruiscono la struttura sociale, forniscono
indizi sulle gerarchie e sulle relazioni tra soggetti, costituiscono un osservatorio
privilegiato per avvicinarne le interpretazioni; in definitiva, i discorsi aiutano il
ricercatore a comprendere ciò che vede mettendo in luce il punto di vista dei nativi. Per
tutti questi motivi, il ricercatore dovrebbe cercare, nella stesura delle note
etnografiche, di evitare riformulazioni e riportare, per quanto possibile, il linguaggio
naturale dei soggetti osservati (il tema delle note etnografiche sarà approfondito più
avanti). Infine, per essere pienamente comprese, le azioni ed il linguaggio (o le azionidiscorso, se consideriamo anche il parlare una forma d’azione) devono essere inserite
in un contesto. Essendo le pratiche sociali sempre situate, l’osservazione si deve
necessariamente occupare anche dello spazio fisico (layout, arredi, artefatti, etc.), il
quale produce vincoli e risorse per l’azione. Nella presente ricerca sono stati presi in
considerazione tutti e tre gli aspetti elencati; tuttavia, considerando tanto l’oggetto di
studio quanto le effettive opportunità/limiti che hanno caratterizzato le sessioni
osservative, un’attenzione particolare è stata assegnata all’annotazione delle
conversazioni naturali: il linguaggio dei professionisti veicola infatti diverse
rappresentazioni del paziente e del suo ruolo all’interno del reparto.
È importante ricordare che le forme di osservazione e di partecipazione al contesto
evolvono solitamente nel corso del lavoro e della permanenza sul campo. Quanto al
primo aspetto, Spradley (1980) individua tre momenti caratteristici del processo
osservativo, legati tra loro da una relazione circolare (quindi da non immaginare come
una sequenza di fasi discrete): l’osservazione descrittiva, l’osservazione focalizzata e
l’osservazione selettiva. La ricerca si apre con l’osservazione descrittiva: in questa fase il
ricercatore ha come obiettivo una descrizione comprensiva e perciò necessariamente
58
di superficie del contesto di studio. Una metafora utile a spiegare questa fase del
processo è quella dell’obiettivo grandangolare: si osserva il mondo con un angolo di
campo molto ampio, sacrificando la nitidezza dei particolari per una visione d’insieme
(Cardano et al., 2011). A questa fase segue quella dell’osservazione focalizzata: dopo
aver acquisito una certa familiarità con il campo osservato, il ricercatore potrà dedicarsi
ad alcuni specifici oggetti da osservare, in sintonia con gli obiettivi e le domande di
ricerca stabiliti in un primo momento. Proseguendo con la metafora fotografica,
occorre a questo punto sostituire il grandangolo con un teleobiettivo più o meno
potente, a seconda appunto delle domande di ricerca. Infine, al crescere del grado di
dettagli richiesto, il ricercatore può passare all’osservazione selettiva. Con essa lo scopo
è spesso quello di testare ipotesi o trovare risposte ad interrogativi specifici: per questi
motivi l’osservazione selettiva è caratterizzata da una più rigorosa formalizzazione delle
procedure osservative. Osservazione selettiva e focalizzata si susseguono in modo
ciclico, associandosi spesso alla
LE FASI DELL'OSSERVAZIONE (Fonte: Cardano et al., 2011)
Schema 3.1
forma più generale e complessiva di
osservazione, cioè quella descrittiva
(Schema 3.1). Azioni e retroazioni
tra le modalità osservative portano
Osservazione
selettiva
Osservazione
descrittiva
a volte alla formulazione di nuovi
oggetti di ricerca (stabiliti solo in
teoria prima dell’accesso al campo)
o alla loro modifica (si veda a tal
proposito
Osservazione
focalizzata
il
paragrafo
3.5.1).
Rispetto invece al livello di presenza
del
ricercatore
nonostante
si
sul
campo,
sia
detto
e
che
l’osservazione etnografica dovrebbe sempre essere considerata - per sua natura partecipante, sono stati indicati in letteratura diversi gradi di partecipazione e
coinvolgimento al campo. Spradley (1980, pp. 58) ne ha individuati cinque,
esemplificati nella seguente tabella:
59
PARTECIPAZIONE E CONVOLGIMENTO (Fonte: Gobo, 2001)
Tabella 3.1
Tipi di partecipazione
Completa
Attiva
Moderata
Passiva
Non partecipazione
Grado di coinvolgimento
Alto
Medio – alto
Medio – basso
Basso
Nessuno
Per una descrizione approfondita dei livelli di partecipazione e coinvolgimento
dell’osservazione etnografica e per una discussione in merito ai rischi e benefici di
ognuna, si rimanda al testo di Gobo (2001). In questa sede basti dire che al minimo
grado di partecipazione (osservazione non partecipante), il ricercatore osserva le azioni
degli attori lontano dal loro orizzonte visivo (ad esempio, attraverso uno specchio
unidirezionale). Il più alto grado di coinvolgimento si realizza invece con la
partecipazione completa, nel contesto della quale il ricercatore non solo osserva da
vicino
il
campo
(partecipazione
moderata),
non
solo
viene
coinvolto
nell’apprendimento e messa in pratica delle attività quotidiane dei nativi
(partecipazione attiva), ma vive con i soggetti che studia e assume un ruolo prestabilito
che difficilmente potrà essere modificato nel corso della ricerca.
Le osservazioni svolte nel presente studio di caso sono state caratterizzate da un livello
di partecipazione moderato, cioè dove il ricercatore assume una posizione intermedia
tra l’essere un membro del gruppo che studia e l’esserne totalmente estraneo (Gobo,
2001, pp.82), e dall’essere semi-coperte (soltanto alcuni membri dell’organizzazione
erano a conoscenza della mia identità e del mio ruolo). In una fase avanzata della
ricerca è stata adottata anche un’ulteriore declinazione della tecnica osservativa: lo
Shadowing. I ricercatori che la utilizzano seguono un membro dell’organizzazione (o
gruppo, o comunità) in tutte le sue attività, come se fossero la sua ombra, ma senza
mai intervenire.
Ciò di cui l’osservatore fa esperienza durante l’osservazione etnografica è conservato
nei suoi appunti di campo: i protocolli (o note etnografiche). L’attività metodica di
redazione dei propri appunti è parte integrante dell’attività osservativa: l’utilizzo delle
60
note permette di cristallizzare l’esperienza dell’osservatore in un documento che è la
base per l’analisi e la successiva descrizione-interpretazione del contesto studiato.
Nella stesura dei protocolli occorre tenere a mente alcuni principi, o criteri pratici,
indicatici ancora una volta da Spradley (1980). Innanzitutto, il ricercatore deve
distinguere ed identificare i parlanti: riportare conversazioni o discorsi omettendone
l’autore metterà in difficoltà il ricercatore nel momento dell’analisi, specie se le note
verranno rilette dopo molto tempo. Se consideriamo il contesto organizzativo,
sappiamo - ad esempio - che ogni categoria professionale dispone di un proprio codice:
confondere le dichiarazioni degli attori provoca la perdita di insight preziosi su come le
diverse categorie articolano gli eventi, si rappresentano le gerarchie e costruiscono il
mondo organizzativo. Oltre ad identificare i linguaggi occorre poi – come già accennato
- riportare puntualmente ciò che i parlanti dicono (verbatim). Trascrivere il più
fedelmente possibile parole e termini nativi può essere utile per ricostruire i significati
attribuiti a cose ed azioni (Gobo, 2001). Riformulando i discorsi con il proprio
linguaggio, il ricercatore rischia invece di allontanarsi dall’obiettivo di descrivere il
contesto dalla prospettiva degli osservati. Infine, nelle note etnografiche si dovrebbero
riportare azioni – base, adottando un linguaggio il più possibile concreto, visivo, denso.
Andrebbero invece evitati termini mutuati dal codice linguistico delle scienze sociali:
essi costituiscono delle generalizzazioni di azioni particolari che, se molto utili nella fase
di analisi, possono invece risultare dannose durante la scrittura delle note.
Nella redazione dei protocolli etnografici, oltre a cercare di rispettare i principi esposti
da Spradley, si è seguito il metodo descritto da Gobo (2001) e da lui preso a prestito da
Schatzmann, Strauss (1973) e Corsaro (1985). Gli autori propongono di scomporre il
testo ottenuto in quattro sezioni, ciascuna delle quali contiene un diverso tipo di nota
etnografica (vedi schema 3.2). Le note osservative, sono descrizioni di eventi ed azioni
a cui il ricercatore ha assistito direttamente. Esse non dovrebbero contenere
interpretazioni del ricercatore (tipicamente veicolate da aggettivi qualificativi) ma
dovrebbero limitarsi a descrivere l’essenzialità fattuale degli eventi. Le note
metodologiche consistono invece in interrogativi o riflessioni su come rimediare ad
eventuali problemi sorti sul campo;si tratta, in definitiva, di un’istruzione o un
61
Note
osservative
Note
metodologiche
•Essenzialità
fattuale
•Descrivere, non
interpretare
• Promemtoria
•Istruzioni
•Riflessioni sul
metodo
Note teoriche
Note emotive
•Prime ipotesi di
teoria
•Reazioni
all'oggetto
•Emozioni e
sensazioni
QUATTRO TIPI DI NOTE ENTOGRAFICHE
Schema 3.2
promemoria ad uso dell’etnografo, un feedback sulla sua tattica osservativa. Le note
teoriche costituiscono il primo tentativo di sviluppare il significato generale di una o più
note osservative: segnalano elementi che meritano approfondimento e nascono
tipicamente al notare ricorrenze e ripetizioni. Infine, le note personali (o emotive)
raccolgono reazioni, sentimenti e sensazioni del ricercatore emerse durante la
permanenza sul campo; sono il risultato di una sorta di auto-analisi e saranno cruciali
nella fase di analisi dei dati, in quanto aiuteranno il l’etnografo a distinguere i vividi
ricordi delle proprie emozioni da ciò che è realmente accaduto.
A conclusione di questo affondo metodologico sull’osservazione etnografica,
indichiamo alcuni dei motivi per i quali tale tecnica è stata ritenuta particolarmente
valida nella presente ricerca. L’osservazione viene descritta in letteratura come una
delle tecniche più adatte nello studio della Patient Centred Medicine: Epstein e colleghi
(2005) ricordano che studi basati sulle testimonianze retrospettive di pazienti o
operatori sanitari potrebbero soffrire di un bias di giudizio. Inoltre, Roter (1989)
evidenzia che il bias di desiderabilità sociale generato dalla presenza di un osservatore
durante le interazioni tra i professionisti sanitari ed i pazienti è minimo, poiché gli
operatori si abituano velocemente alla presenza di quest’ultimo e tendono a esibire
nuovamente comportamenti spontanei.
62
3.3.3.2 Le interviste etnografiche
Le interviste condotte nel contesto dell’etnografia vengono descritte come interviste
discorsive che l’etnografo realizza sul campo nel corso del’indagine (Gobo, 2001). Le
interviste servono solitamente ad indagare i significati culturali utilizzati dagli attori e
ad approfondire aspetti della cultura osservata non del tutto chiari. Tuttavia, ed è il
caso della presente ricerca, le interviste possono anche essere svolte in una fase iniziale
dell’indagine individuando i cosiddetti key informants, cioè membri della cultura
analizzata particolarmente adatti a fornire informazioni e riflettere con il ricercatore su
di essa. A volte l’intervista è quindi anche una strategia per conoscere ed essere
accettati dai membri della cultura: è un modo per “rompere il ghiaccio” ed instaurare
un clima di fiducia e collaborazione. Negli scopi, quindi, l’intervista etnografica cerca di
imitare la tecnica osservativa: ciò che si vuole ottenere sono dati culturalmente
pregnanti, caratterizzati da descrizioni dense, concrete. Alcuni autori, nel descrivere il
tipo di domande che caratterizzano l’intervista, parlano di grand-tour question: ai
membri della cultura osservata si chiede di “portarci per mano” a conoscere il loro
mondo attraverso una descrizione complessiva e ad ampio raggio. Un ultimo elemento
rilevante, quanto ai contenuti, è che una grande potenzialità dell’intervista nel contesto
dell’etnografia è quella di permettere al ricercatore di confrontare i dati osservati con il
dichiarato degli attori ascoltati. Quanto alla conduzione, l’intervista etnografica si
differenzia in vari aspetti dalle interviste discorsive classiche; innanzitutto, se
intervistatore ed intervistato si conoscono già, il clima, la situazione emotiva ed il livello
di formalità che caratterizzano la situazione ne saranno almeno in parte influenzati.
Inoltre, le interviste non devono necessariamente essere programmate per tempo, ma
possono svolgersi estemporaneamente ed all’improvviso nel corso dell’osservazione sul
campo (Gobo, 2001). Infine, la durata dell’intervista varia a seconda dell’argomento
(più o meno circoscritto) ed il ricercatore non si deve preoccupare di portare a termine
il suo obiettivo cognitivo in una sola sessione, visto che eventuali dubbi o ambiguità
potranno essere sciolti con interviste successive.
63
3.4 Il disegno della ricerca
Lo studio di caso ha previsto un disegno qualitativo esplorativo mono-fase. I processi
che hanno avuto luogo nell’ambito di tale unica fase non hanno seguito una logica
sequenziale bensì una circolare e riflessiva, come verrà esposto nel paragrafo dedicato
al processo della ricerca (3.4.2).
3.4.1 Il campione della ricerca
Tanto il campione dei soggetti intervistati quanto il campione delle sessioni osservative
sono risultati dall’utilizzo della strategia della scelta ragionata (o campionamento
teorico). Nei metodi qualitativi si opta per la scelta ragionata quando, pur non
disponendo di informazioni complete sull’universo studiato, i casi vengono selezionati
in base al loro stato su una o varie proprietà rilevanti per la domanda di ricerca (Gobo,
2001). Inoltre, il campionamento teorico gode di tre caratteristiche: a) i casi vengono
scelti in base alla teoria da sviluppare, b) le dimensioni del campione possono mutare
nel corso della ricerca, c) vengono selezionati anche casi devianti (Silverman, 2000, pp.
105). Quanto alle interviste discorsive, il campionamento ha portato all’individuazione
di quattro soggetti (key informants), scelti in base alla loro posizione nell’organigramma
dell’Unità Operativa. Lo scopo è stato quello di raccogliere la testimonianza di
professionisti che, in reparto, svolgessero un ruolo di coordinamento rispetto alla
propria categoria professionale. Si è scelto quindi di intervistare la coordinatrice del
corpo infermieristico (Caposala), la coordinatrice dei medici (Caporeparto), il
coordinatore dei fisioterapisti ed il direttore di Unità Operativa (Primario). In linea con
la metodologia etnografica, il campionamento delle osservazioni ha riguardato
situazioni e non persone. Il campione è stato costruito durante lo svolgimento stesso
della ricerca, in seguito ad una serie di prime osservazioni descrittive “libere” svolte in
reparto. Per il campionamento delle sessioni osservative sono stati seguiti due diversi
criteri: il campionamento temporale ed il campionamento per eventi. Nel primo caso il
ricercatore osserva alcuni oggetti selezionati che si verificano in intervalli di tempo da
64
egli definiti. Nel caso della presente ricerca, tale strategia ha prodotto un campione di
osservazioni costituito da cinque sessioni osservative di tre ore ciascuna svolte in
luoghi chiave del reparto. Grazie alla selezione per eventi (dove invece il ricercatore
sceglie in partenza l’evento di suo interesse e lo osserva in tutta la sua durata)è stato
prodotto un campione eterogeneo di osservazioni: sono state svolte quattro sessioni
osservative aventi come oggetto i team multi professionali (circa due ore ciascuno) e
tre sessioni osservative svolte con la tecnica dello Shadowing, la cui durata è stata
delimitata dall’inizio e dalla fine del turno lavorativo dei professionisti osservati. Segue
una rappresentazione complessiva del campione della ricerca.
IL CAMPIONE DELLA RICERCA
Schema 3.3
Interviste
Osservazioni
Campionamento teorico
Campionamento
temporale
5 sessioni in luoghi
chiave del reparto
Campionamento per eventi
4 sessioni di Team
multiprofessionali
3 shadowing
Key Informants
3 Coordinatori e 1
Direttore Unità
Operativa
3.4.2 Il processo della ricerca
La ricerca etnografica si compone di una serie di operazioni che si ripetono e si
rinnovano con un tipico andamento circolare (Cardano et al., 2001). La domanda
cognitiva guida ed orienta il lavoro sul campo ma essa a sua volta viene ri-definita, rimodellata o articolata al suo interno dall’esperienza di partecipazione al contesto.
65
Anche l’analisi e la raccolta dei dati si intrecciano in un circolo di azione e retro-azione:
il lavoro sul campo rende disponibili materiali per l’analisi (le note etnografiche) e tale
analisi, oltre ad organizzare i dati, orienta nuovamente il lavoro sul campo (questo
processo riguarda, in diversa misura, tutti i disegni di ricerca qualitativi). Lo schema
interpretativo delineato con l’analisi viene elaborato, attraverso la scrittura, in una
cornice teorica. La scrittura, qui più che altrove, da mero strumento di
rappresentazione dei dati diviene essa stessa strumento di scoperta, parte inscindibile
dei metodi che conducono alla produzione degli asserti etnografici. (Richardson, 1994,
pp. 156).
IL CICLO DELLA RICERCA ETNOGRAFICA (Fonte: Cardano et al., 2011)
Schema 3.4
Scrittura e
teorizzazione
Domanda
cognitiva e
obiettivi di
ricerca
Analisi della
documentazione
Lavoro sul campo
La presente ricerca è stata caratterizzata da un andamento analogo. Nello specifico,
dopo una prima fase dedicata alla documentazione teorica in merito al costrutto di
Patient Centred Medicine ed, in particolare, alla sua implementazione negli ospedali, è
stata stesa una prima ipotesi degli obiettivi di ricerca. Quindi, dopo i primi contatti con i
“guardiani” del contesto scelto ed ottenuto il permesso di accesso, è iniziato il lavoro
sul campo. In reparto, nelle prime fasi di ricerca è stato raccolto materiale documentale
66
in merito al funzionamento dell’organizzazione, sono state svolte una serie di
osservazioni libere negli spazi del reparto e sono state condotte le interviste con i key
informants individuati. Una prima analisi dei dati ottenuti ha poi portato ad una
parziale modifica degli obiettivi formulati inizialmente ed ad una maggiore
focalizzazione della domanda e degli oggetti della ricerca. Quindi, è stato definito un
nuovo disegno della ricerca. Fatto ciò, si è tornati sul campo e si è proceduto alla
definitiva raccolta dei dati (il cui processo sarà esposto nel prossimo paragrafo). Una
volta sottoposti i dati ad analisi, si è infine passati alla stesura dei risultati.
Note di processo:
Nella prima stesura del progetto, l'indagine etnografica doveva svolgere un ruolo
introduttivo ed assai meno centrale di quanto è risultato accadere nella pratica. Erano
invece state previste delle interviste semi-strutturate da sottoporre ai pazienti ed ai
professionisti del reparto, in cui indagare le loro rappresentazioni, esperienze e pratiche
riguardo all'ospedalizzazione del paziente, con riferimento al tema della cultura Patient
Centred del reparto. Il motivo dei cambiamenti metodologici apportati in itinere sono
molteplici. Prima di tutto, fin dalla prima settimana di osservazioni etnografiche ho
potuto apprezzare la ricchezza e la pregnanza dei dati ottenuti tramite l'utilizzo di
questa metodologia. Ad ogni sessione osservativa si aprivano infatti nuovi interrogativi
e stimoli per la conoscenza, che avrebbero richiesto altre osservazioni per poter essere
soddisfatti; procedendo in questo modo è stato possibile raccogliere una grande
quantità di dati, sotto forma di thick descriptions, sul tema in questione. Inoltre,
considerate le caratteristiche dei pazienti ricoverati nel reparto, la tecnica dell'intervista
qualitativa semi-strutturata è risultata scarsamente applicabile. Infatti, nel reparto in
questione, i degenti sono generalmente molto anziani e spesso anche affetti da
problemi neurologici; con tali soggetti sarebbe stato poco plausibile prevedere un'ora
circa di intervista discorsiva – per di più discretamente impegnativa sotto il profilo
emotivo. D'altro canto, intercettare una fetta di pazienti in grado di affrontare
l'intervista avrebbe voluto dire falsare o, se non altro, “schiacciare” le caratteristiche del
reparto ai suoi utenti meno tipici, invece che considerare la totalità delle esperienze che
67
lo connotano. Si è perciò deciso di approfondire le tecniche osservative ed in generale
gli strumenti dell’indagine etnografica. Tale decisione ha comportato l'intensificazione
delle osservazioni e l'adozione della tecnica dello Shadowing.
3.5 Raccolta ed analisi dei dati
3.5.1 Raccolta dei dati

Raccolta di materiale documentale: settembre – ottobre 2011. In un primo
momento lo scopo è stato quello di raccogliere dati per la comprensione
generale dell’organizzazione ospedaliera (organigramma, sito internet, etc.).
Successivamente, è stato raccolto materiale (formale ed informale) inerente al
funzionamento dell'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. In
particolare si è cercato di ottenere materiale utile al fine di comprendere il
percorso del paziente nel reparto (dal ricovero alla dimissione), i flussi
comunicativi tra le diverse professionalità, le occasioni di scambio/incontro la i
diversi professionisti, i compiti e le mansioni di ognuno. L’obiettivo è stato
quello di ottenere una descrizione delle pratiche che caratterizzano il reparto
(redatta da insiders dell’organizzazione), con un focus specifico sulla relazione
tra il paziente ed il personale ospedaliero. Nonostante la raccolta di materiale
documentale abbia caratterizzato intensamente soprattutto le fasi iniziali
dell’indagine, tale attività è proseguita durante tutto il corso del lavoro sul
campo.

Interviste: ottobre 2011. Sono state condotte tre interviste esplorative ad alcuni
key informants del reparto (primario, coordinatore infermieristico – Caposala,
coordinatore medici – Caporeparto e coordinatore fisioterapisti) in merito al
loro punto di vista sul percorso del paziente ed alle loro pratiche lavorative in
relazione con il paziente. I colloqui (come spesso avviene nelle ricerche
etnografiche) sono stati svolti in situazioni informali e non pianificate: uno dei
colloqui è stato infatti caratterizzato dalla presenza di due attori organizzativi
(coordinatore del terapisti e primario), seppur non in modo continuativo. Le
68
interviste sono state audio-registrate e sbobinate.

Osservazione partecipante: ottobre 2010- febbraio 2012.
 Osservazione libera (descrittiva) negli spazi del reparto (circa una
settimana).
 Cinque sessioni osservative focalizzate in punti chiave del reparto (guardiole
infermieristiche, palestra di reparto, corridoi del reparto). Gli oggetti di tali
sessioni sono stati: le conversazioni tra professionisti e tra questi ed i
pazienti, lo spostamento ed i flussi del personale e dei pazienti, gli artefatti
più significativi (che connotano la cultura del reparto e orientano azioni e
relazioni attorno al paziente), il layout e gli spazi fisici del reparto. Le
interazioni tra pazienti e professionisti sono state l’oggetto principe di tutte
le osservazioni svolte. Un’attenzione particolare è stata dedicata al
linguaggio utilizzato.
 Quattro sessioni osservative focalizzate dei team multi professionali
(settimanali di controllo ed individuali di ingresso. Vedi par 3.6 “Il contesto
del caso”). Gli oggetti di osservazioni sono stati: gli scambi comunicativi tra
professionisti, con un’attenzione specifica al linguaggio utilizzato nel parlare
dei pazienti, e gli artefatti usati.

Shadowing di tre professionalità chiave del reparto: un medico, un fisioterapista
ed un infermiere case - manager. Durante tali sessioni gli oggetti dell’osservazione
sono stati: le interazioni con i pazienti, i luoghi e gli spazi attraversati, gli scambi
con le altre professionalità.
Le sessioni osservative sono state accompagnate dalla produzione di note etnografiche,
redatte sempre in loco su un taccuino e poi riportate al computer su documenti Word.
3.5.2 Analisi dati
Le interviste sono state audio-registrate e successivamente trascritte attraverso MS
Word. Il contenuto delle interviste è stato poi sottoposto ad analisi del contenuto.
69
Alcune categorie individuate erano state previste, in quanto sollecitate dalle domande
rivolte ai soggetti, mentre altre sono emerse dalle narrazioni spontanee dei soggetti.
Come accennato, le osservazioni hanno portato alla produzione di un ricco ed ingente
materiale scritto (protocolli etnografici), anch’esso riportato su documenti di MS Word
ed organizzato nelle quattro categorie descritte nel paragrafo 3.3.3.1. L’analisi dei testi
di alcune osservazioni etnografiche unita all’analisi delle interviste e del materiale
documentale ha portato alla produzione una griglia di lettura (processo bottom-up),
utilizzata poi nell’analisi di del resto del materiale etnografico. Tale griglia organizza la
cultura del reparto su tre grandi livelli:
1) la rappresentazione che i professionisti sanitari hanno dei pazienti
2) la relazione professionisti – paziente
3) il reparto come organizzazione più o meno centrata sul paziente.
Il materiale etnografico è quindi stato riletto sulla base della gerarchia individuo –
relazione – organizzazione emersa dai dati stessi (processo top-down).
Il prodotto finale nell’analisi consiste in un modello interpretativo multilivello della
cultura Patient Centred che sarà esposto e discusso nel prossimo capitolo.
3.6 Accesso al campo
A differenza di altri tipi di indagine in cui il ricercatore visita l’organizzazione o il
contesto scelto per tempi ristretti, la ricerca etnografica necessita di una maggiore
disponibilità di accesso al campo. Il requisito della disponibilità restringe sensibilmente
il numero di contesti in cui è possibile svolgere una ricerca etnografica (Gobo, 2001).
Inoltre, quando l’osservazione è palese (cioè resa nota ai soggetti del campo e non
dissimulata) l’ottenimento del permesso di accesso non è che il momento iniziale di un
processo - più o meno lungo - in cui le energie ed il tempo del ricercatore saranno
dedicati all’ottenimento della fiducia e del consenso dei soggetti osservati, pena
l’incontro di forti resistenze alla comprensione. Cassel (1988) parla di due tipi di
strategie di accesso al campo: l’accesso al luogo fisico (getting in) e l’accesso sociale
(getting on). Durante l’accesso fisico, un ruolo determinante è giocato da due figure
70
tipiche: l’intermediario ed il garante. L’intermediario è colui che crea il contatto tra il
ricercatore ed uno o più membri dell’organizzazione scelta. Il garante è invece colui che
mette in relazione l’etnografo con l’organizzazione stessa: a differenza dell’informatore,
il garante infatti è un insider del gruppo. Nelle organizzazioni formali, il garante si
incarna solitamente nel soggetto di grado superiore rispetto al responsabile
dell’organizzazione oggetto di studio. L’accesso sociale passa invece spesso attraverso la
conoscenza
e
l’ottenimento
della
fiducia
dei
custodi
(o
gatekeepers)
dell’organizzazione. I custodi sono soggetti appartenenti alla cultura osservata e
svolgono, tra gli altri, un ruolo di controllo territoriale dell’organizzazione o del gruppo
(Gobo, 2001). Nel caso della presente ricerca, l’accesso fisico e sociale al campo è
avvenuto grazie ad una figura che ha ricoperto tanto il ruolo di garante quanto quello di
custode, nello specifico il direttore di Unità Operativa – U.O. (con cui è presente un
legame familiare). Dopo aver condiviso con il direttore gli obiettivi dello studio e dopo
aver negoziato le regole relative alla mia permanenza sul campo, mi è stato possibile
avere accesso ai luoghi del reparto di Riabilitazione. Il direttore della U.O. mi ha
successivamente
presentato
ad
altri
custodi
dell’organizzazione
(Segretaria,
Caporeparto – responsabile dei medici, Caposala – responsabile del corpo
infermieristico). Anche con queste figure è avvenuta una condivisione degli obiettivi di
ricerca ed una negoziazione relativa alla mia presenza sul campo. In particolare, è stato
deciso che avrei potuto avere accesso a tutti gli spazi del reparto tranne che alle
camere dei pazienti; mi è stato tuttavia permesso di avere accesso alle stanze dei
degenti durante le osservazioni condotte attraverso la tecnica dello Shadowing. Alcune
delle figure che hanno svolto il ruolo di custode sono diventate, in un secondo
momento, anche dei preziosi informatori. Gli informatori (o key-informants) sono
membri del gruppo osservato che rivestono funzioni di cruciale importanza per
l’etnografo, in quanto permettono di accelerare la comprensione della cultura oggetto
di indagine. Con alcuni informatori selezionati sono state svolte, infatti, delle vere e
proprie interviste, come è stato descritto nella sezione dedicata alla raccolta dei dati
(3.5.2). Gli informatori hanno rivestito un ruolo vitale durante tutta la durata
dell’indagine etnografica. Essi mi hanno accompagnato nella scoperta dei luoghi
71
chiave, indicato documenti ed oggetti carichi di significati culturali, permesso di
cogliere il senso di azioni e parole; in definitiva, mi hanno svelato nuovi schemi di
comprensione.
3.7 Il contesto del caso
Al fine di inquadrare il contesto dove è stato svolto il Case Study, vengono di seguito
riportati alcuni dati relativi al Policlinico ed i suoi principi organizzativi ed all'Unità
Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. I dati sono stati tratti dal sito internet,
dalla documentazione raccolta e dalle interviste esplorative ai key-informants.
3.7.1 La struttura organizzativa del Policlinico
Il Policlinico xxx è attualmente è organizzato in 7 Dipartimenti comprendenti 91 Unità
Operative (U.O.); è dotato di 1758 posti letto con un organico di 5355 dipendenti
compresi i ricercatori e i medici universitari. Vi si effettuano circa 72.000 ricoveri
all'anno e 4.000.000 prestazioni specialistiche per esterni. L'Azienda Ospedaliera xxx è
un Ospedale città-giardino situato nel cuore della città: si estende per circa 1,8 Km di
lunghezza, le U.O. che la compongono sono distribuite in 31 Padiglioni.
Una descrizione completa di dipartimenti, uffici di staff e direzioni esula dai fini dello
studio di caso. È però importante inquadrare la posizione organizzativa dell'Unità
Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione. Le tipologie di strutture organizzative
riguardano tanto l'area assistenziale che quella di direzione aziendale. In questa sede
vengono approfondite le etichette organizzative conferite alle strutture dell'area
assistenziale.
Unità Operative: rappresentano, dopo il Dipartimento, le aggregazioni più ampie di
risorse umane e tecniche e ricomprendono al loro interno le altre strutture
organizzative. “Unità operativa” è il nome che acquisisce in ambito assistenziale la
“Struttura complessa”. Esse rappresentano l’articolazione interna del Dipartimento ad
72
Attività Integrata (DAI). Ciascuna Struttura complessa fa parte di un solo DAI e possiede
autonomia tecnico-professionale e gestionale-organizzativa, limitatamente alle risorse
e ai programmi negoziati ed assegnati in modo specifico. Nell’area della Direzione
Aziendale le strutture complesse acquisiscono invece la denominazione di “Direzione”.
Ciascuna struttura complessa può afferire ad un solo Dipartimento, ove costituito o ad
una delle Direzioni Aziendali (Direzione Generale, Direzione Sanitaria, Direzione
Amministrativa); essa opera per le specifiche competenze in autonomia tecnicoprofessionale e gestionale- organizzativa, con responsabilità piena dell’utilizzo delle
risorse assegnate e degli obiettivi stabiliti.
Dipartimenti: Aggregazione di Unità Operative (o, nell'area aziendale, Direzioni) e di
strutture semplici a valenza dipartimentale, con autonomia tecnico-professionale
nonché gestionale, nei limiti degli obiettivi e delle risorse attribuiti. In ambito
assistenziale, l’Azienda adotta l’organizzazione dipartimentale come modello ordinario
di gestione operativa. Vengono costituiti i Dipartimenti ad Attività Integrata (DAI) con il
compito di garantire l’esercizio integrato delle attività assistenziali, di didattica e di
ricerca.
Programma: ulteriore articolazione organizzativa prevista in ambito assistenziale. Esso
è un modello organizzativo trasversale che consente, nell'arco di un periodo di tempo
definito e in relazione a determinati processi assistenziali o di ricerca di rilievo
aziendale, la programmazione e l’organizzazione unitaria di attività e competenze
fornite da professionisti afferenti a strutture organizzative, anche diverse.
73
Organigramma del Policlinico
74
3.7.2 L'Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione
La U.O. è una struttura sanitaria ad elevata complessità, a direzione ospedaliera,
afferente al Dipartimento di medicina interna dell'invecchiamento e malattie
nefrologiche. La missione della U.O. di Medicina Fisica e Riabilitazione è quella di offrire
programmi riabilitativi a persone con differenti patologie (principalmente neurologiche
e ortopediche) in fase acuta e post-acuta, con l'obiettivo di ridurre al minimo la
disabilità di cui soffrono i pazienti e permettere loro la massima autonomia possibile9.
L'offerta di servizi della U.O. di Medicina Fisica e Riabilitativa comprende:
7. attività di Riabilitazione Intensiva svolte nel reparto di degenza e in Day
Hospital;
8. attività riabilitative a supporto alle degenze di riabilitazione estensiva post
acuzie (PARE);
9. percorsi diagnostico - terapeutico aziendali quali ad esempio il percorso stroke
(ictus), il percorso fratturato di femore, i percorsi della patologia neonatale e
pediatrica, garantendo la pronta presa in carico di tutti i soggetti con disabilità;
10. consulenze fisiatriche e presa in carico riabilitativa nelle U.O. del Policlinico10.
Come si legge, all'U.O. afferiscono tanto il day-hospital quanto il reparto di degenza.
Lo studio di caso sarà limitato al solo reparto di degenza.
Il reparto di riabilitazione intensiva si occupa in modo particolare di individui affetti da
disabilità complesse correlate prevalentemente a ictus, patologie degenerative del
sistema nervoso, esiti di politraumatismi gravi, esiti di trapianti, patologie ortopediche
patologie reumatologiche maggiori, esiti di amputazioni. Questo obiettivo è raggiunto
attraverso la formulazione di un progetto riabilitativo personalizzato.
L'organizzazione del reparto prevede un accesso preferenziale riservato ai pazienti
interni, cioè precedentemente ricoverati in altri reparti del Policlinico, che necessitano
di un trattamento riabilitativo intensivo; esistono, in particolare, due percorsi
strutturati di accesso: il percorso Stroke ed il percorso dell'ortogeriatria (frattura di
9
Descrizione tratta da sito internet del Policlinico.
Vedi nota n. 15, p. 92.
10
75
femore, protesi d'anca, etc.). I pazienti che necessitano di un trattamento fisioterapico
ricevono una consulenza da parte dei medici fisiatri quando sono ancora ricoverati nel
reparto di provenienza. In base all'urgenza ed alla disponibilità di posti letto, i pazienti
vengono poi accolti nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione. Nonostante
l'accesso preferenziale riservato ai pazienti interni, è comunque presente una
percentuale di pazienti provenienti da altre strutture della regione o da fuori regione.
La degenza media dei pazienti è di circa tre settimane.
Il reparto consta di cinquantadue posti letto. Data le necessità di organizzare un
numero consistente di operatori sanitari e pazienti, esistono due guardiole mediche e
due guardiole infermieristiche. Il reparto è quindi organizzato in quattro settori, ossia
gruppi di posti letto, localizzati fisicamente in ciascuno dei due corridoi del reparto.
All'ala A (il primo corridoio entrando nel reparto) afferiscono il primo ed il secondo
settore (dodici posti letto ciascuno), mentre all'ala B il terzo e quarto settore
(quattordici posti letto ciascuno). Ogni ala è presidiata da una guardiola medica (due
medici strutturati) e da una guardiola infermieristica (dodici infermieri e otto OSS operatori socio-sanitari). I medici si occupano sempre della stessa ala, mentre gli
infermieri e gli OSS vedono tutti i pazienti in quanto ruotano periodicamente su tutti i
settori.
Come si può dedurre, l'organico del reparto è composto da diverse categorie di
professionisti:
a) Medici Fisiatri

1 medico - Direttore di Unità Operativa (primario)

1 medico - Caporeparto

4 medici responsabili di reparto (2 per ala)

3 medici (normalmente si occupano del Day Hospital, cooperano con la
gestione del reparto attraverso le guardie pomeridiane e del sabato)

Circa 10 specializzandi (5 per ala)
b) Corpo infermieristico

1 Caposala – coordinatore del corpo infermieristico

25 infermieri di cui 4 infermieri Case Manager
76

16 OSS (Operatori Socio Sanitari)
c) Terapisti

1 Coordinatore dei terapisti

21 fisioterapisti

5 logopedisti
ORGANIZZAZIONE PER SETTORI
Tabella 3.2
Ala A
1° settore
(12 pazienti)



Ala B
2° settore
(12 pazienti)
2 medici + specializzandi
12 infermieri (2 case manager)
8 OSS (+ OSS in formazione)
3° settore
(14 pazienti)



4° settore
(14 pazienti)
2 medici + specializzandi
12 infermieri (2 case manager)
8 OSS (+ OSS in formazione)
Tutte le camere dei pazienti contengono quattro letti, tranne quattro camere da due
letti. Ogni camera è dotata di un bagno attrezzato. Ogni lunedì (ala A) e mercoledì (ala
B) mattina il primario effettua le visite di tutti i pazienti.
3.7.3 Sintesi del percorso del paziente11
Una volta ricoverato nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione12, viene
accompagnato alla sua camera da parte di un infermiere e, lo stesso giorno, viene
visitato dal medico fisiatra, il quale stende il progetto riabilitativo personalizzato. Il
secondo giorno il paziente riceve un'accoglienza al letto da parte del fisioterapista e
dell'infermiere Case Manager di riferimento. L’infermiere Case Manager condivide con
gli infermieri standard le principali attività e pratiche lavorative. Tuttavia egli svolge un
ruolo molto importante durante la presa in carico del paziente: è presente tutte le
mattine e si occupa del caso del paziente, monitorandone il percorso riabilitativo. Gli
11
La descrizione del percorso del paziente è stata tratta sia da documenti formali prodotti dal Reparto
(vedi Cap. 4) sia dalle osservazioni e dalle interviste svolte durante il lavoro sul campo.
12
Da questo momento, per comodità, ci si riferirà al Reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione come al
Reparto di Riabilitazione.
77
infermieri Case Manager si occupano infatti esclusivamente dei 12 pazienti loro
assegnati, mentre gli altri infermieri turnano su tutti i pazienti. Durante l’accoglienza, il
paziente conosce i professionisti con cui interagirà maggiormente durante la degenza;
gli operatori, a loro volta, prendono atto della capacità di muoversi del paziente e del
suo livello di autonomia. Il progetto riabilitativo steso dal medico viene condiviso con
gli altri professionisti in un team iniziale che avviene dopo circa 3-5 dal ricovero del
paziente. Settimanalmente, poi, i professionisti si riuniscono in un altro team per
monitorare la situazione di tutti i pazienti di un'ala.
Durante la degenza, il paziente trascorre tra una e tre ore al giorno in palestra, dove
effettua il trattamento fisioterapico accompagnato dal suo fisioterapista di riferimento,
e/o il trattamento logopedico, negli appositi locali adibiti a tale funzione. Nel resto
della sua giornata, il paziente si trova all'interno delle strutture del reparto (camera,
soggiorno, corridoi) o all’esterno del reparto (per esempio, nel bar dell’ospedale).
Il percorso del paziente sarà illustrato in modo più approfondito nella terza sezione
dell’analisi dei dati (paragrafo 4.4); tuttavia è stato ritenuto utile introdurlo in questa
sede, al fine di poter meglio comprendere alcuni riferimenti e concetti esposti nel
prossimo capitolo.
78
Figura 3.1
PLANIMETRIA DI REPARTO
79
CAPITOLO 4
Risultati della ricerca:
i tre livelli della Patient Centred Culture
“Non più ottico ma spacciatore di lenti | per improvvisare occhi contenti, | perché le
pupille abituate a copiare | inventino i mondi sui quali guardare.”
Fabrizio De Andrè13
4.1 Alla ricerca di un modello interpretativo
In questo ultimo capitolo della tesi verranno presentati i risultati dello studio
etnografico condotto presso il reparto di Riabilitazione. Come si è visto nel paragrafo
inerente alla metodologia della ricerca, i processi di raccolta ed analisi dei dati non
sono stati svolti seguendo una logica sequenziale. L’analisi del materiale etnografico ha
anzi accompagnato tutte le fasi del lavoro sul campo; le prime elaborazioni hanno
permesso di focalizzare e ricentrare gli obiettivi del fieldwork, avvicinando così,
progressivamente, l’oggetto di ricerca scelto. Data la grande quantità e l’eterogeneità
del materiale etnografico raccolto, è sorta ben presto la necessità di individuare un
principio organizzatore alla luce del quale rileggere e presentare i dati in una forma
comprensibile ed ordinata, ma che, al contempo, consentisse di salvaguardarne la
ricchezza originaria. Soprattutto in vista di quest’ultimo obiettivo si è deciso di
escludere l’opzione tassonomica (uno dei possibili outcome della ricerca etnografica)
come forma di presentazione dei dati. Le tassonomie hanno infatti il vantaggio di
presentare i dati in modo strutturato ed organizzato, raggruppando classi di oggetti
sulla base di caratteristiche comuni e spiegandone le relazioni reciproche. Tuttavia –
come ricordano Richard e Morse (2009, p. 75) – le tassonomie non descrivono processi.
Nel caso della presente ricerca, come si vedrà in seguito, l’analisi è invece fortemente
centrata sulla descrizione di transazioni, negoziazioni ed interazioni, motivo per il quale
13
Fabrizio De Andrè (1979), “Un ottico”.
80
il principio organizzatore adottato lascia ampio spazio alla narrazione di processualità.
Le prime letture del materiale completo hanno portato all’individuazione di alcuni
nuclei concettuali particolarmente pregnanti e ricorrenti. Tali “nodi” di significato, nello
specifico, sono parsi degli utili orientatori per l’individuazione delle forme (più o meno
esplicite) che la Patient Centredness assume del contesto analizzato. In definitiva, dal
tentativo di far dialogare i dati osservati con alcune dimensioni rilevanti della teoria
della Medicina Centrata sul Paziente, è emersa una prima griglia di lettura alla luce
della quale i dati sono stati organizzati. Risultato finale delle operazioni qui
sinteticamente descritte è stata la costruzione di un modello interpretativo multilivello
della cultura Patient Centred nel reparto Riabilitazione, che sarà proposto e descritto
nel dettaglio nei paragrafi seguenti. La tabella 4.1 ne costituisce una rappresentazione
sintetica.
IL MODELLO MULTILIVELLO DELLA CULTURA PATIENT CENTRED
Tabella 4.1
Le rappresentazioni individuali:
il paziente nella mente dei professionisti
CULTURA PATIENT CENTRED
Medici: Il corpo sofferente
Fisioterapisti: Il corpo incerto
Corpo
Infermieri: Il corpo dipendente
Individuo
Medici e Fisioterapisti:
Le emozioni considerate
Infermieri:
Le emozioni subìte
Soggetto sociale
Medici e Fisioterapisti:
Storia di vita e complessità sociale
Infermieri:
Il paziente come degente
81
Definizioni e negoziazioni
di proprietà
La relazione
professionisti – paziente
Il possesso dello spazio
La disposizione del tempo
L’accesso al corpo
L’uso del linguaggio
I documenti
Livello di formalizazione
L’organizzazione
Gli artefatti
Spazi e Oggetti
Dispositivi microorganizzativi
Team e lavoro di Equipe
La comunicazione inter- e
intra-professionale
La rete attorno al paziente
Distanza dal paziente e
permeabilità dei confini
L’utilizzo del modello qui proposto consente di leggere la cultura Patient Centred del
reparto su tre “livelli di diffusione”: le rappresentazioni individuali, la relazione e
l’organizzazione. Il materiale etnografico ha fornito preziosi insight riguardo alle
modalità condivise dagli operatori sanitari di rappresentarsi il paziente e di relazionarsi
con esso. Tali dimensioni sono state cruciali nell’informare il terzo livello dell’analisi,
riguardante le modalità organizzative con cui le pratiche Patient Centred vengono
progettate ed implementate. Già da queste poche battute è possibile intuire come i tre
livelli previsti nel modello non costituiscano dei silos di significati tra loro indipendenti,
ma siano anzi profondamente interconnessi: ogni livello superiore dipende da – ed al
contempo ri-orienta – quello inferiore.
82
Infatti, è facile ipotizzare che i modi in cui i professionisti si rappresentano i pazienti
abbiano rilevanti ricadute sulle caratteristiche delle loro reciproche relazioni; viceversa,
le ripetute esperienze di interazione ri-orientano incessantemente l’idea che gli
operatori sanitari hanno dei degenti, in una ricorsività di cui pare impossibile
individuare il punto d’origine. La sedimentazione di esperienze relazionali tra pazienti e
professionisti porta poi, nel lungo periodo, a strutturare e formalizzare le pratiche
lavorative che informano il funzionamento globale dell’organizzazione; viceversa
l’organizzazione, nel breve termine, impone vincoli ed offre opportunità allo sviluppo
della relazione tra operatori e pazienti attraverso la regolazione dei tempi, l’adozione di
policies, l’imposizione di norme e la strutturazione di procedure (schema 4.1).
INTERAZIONI TRA LIVELLI DELLA PATIENT CENTRED CULTURE
Schema 4.1
LE RAPPRESENTAZIONI INDIVIDUALI
influenzano comportanti e creano stili
interattivi che (ri)costruiscono...
LE RELAZIONI PROFESSIONISTI - PAZIENTI
a lungo termine influenzano le partiche che
caratterizzano...
L'ORGANIZZAZIONE
LE RAPPRESENTAZIONI INDIVIDUALI
accumulandosi, costruiscono e riorientano
LE RELAZIONI PROFESSIONISTI - PAZIENTI
impone vincoli e costrusce possibilità per..
L'ORGANIZZAZIONE
Dalla tabella 4.1 si può notare, infine, che il grado di articolazione delle categorie
individuate è diverso a seconda dei livelli analizzati: mentre nella schematizzazione del
livello rappresentazionale individuale è stato possibile giungere ad un’articolazione
dettagliata, ciò non è stato altrettanto fattibile per i livelli relazionale ed organizzativo.
83
Questi ultimi sono infatti il risultato di continue transazioni e co-costruzioni tra pazienti
e professionisti, la cui forzata categorizzazione provocherebbe uno “schiacciamento”
della realtà descritta, risultato incompatibile – e, soprattutto, inutile – ai fini della
presente analisi. I prossimi paragrafi sono dedicati alla descrizione dettagliata del
modello multilivello proposto.
4.2 Le rappresentazioni individuali
IL PAZIENTE NELLA MENTE DEI PROFESSIONISTI
Che cosa pensano i professionisti sanitari dei pazienti? Che idea ne hanno? È questo il
primo livello dello schema presentato, ed è in questa sede che proveremo a rispondere
agli interrogativi appena formulati. Come è stato accennato nell’introduzione, le
rappresentazioni individuali dei professionisti sono profondamente interconnesse con il
livello successivo dello schema proposto, quello dell’interazione operatori - paziente.
Tale interconnessione è circolare e ricorsiva: da un lato, è plausibile ipotizzare che gli
schemi mentali siano il risultato delle esperienze di interazione con i pazienti
accumulate nel tempo dai professionisti; dall’altro, viceversa, il modo di pensare al
paziente potrebbe influenzare il comportamento e lo stile di interazione con i pazienti
incontrati giorno per giorno. Per tenere a mente il quadro generale, ricordiamo inoltre
che le rappresentazioni individuali e le relazioni interpersonali forniscono indizi sulla
cultura organizzativa in cui esse prendono forma; tale cultura, in quanto insieme di
assunti, valori e regole tacite, si costruisce anche grazie al sedimentarsi quotidiano di
cognizioni, interazioni e pratiche dei suoi membri.
I risultati di seguito esposti derivano principalmente dall’analisi dei testi delle interviste
etnografiche e dai dati ottenuti attraverso le osservazioni dei team multi professionali.
Sappiamo infatti che il livello delle rappresentazioni individuali è intercettabile
soprattutto indagando il dichiarato: ascoltare i professionisti parlare dei loro pazienti,
analizzarne il linguaggio e le modalità espressive, hanno costituito le principali vie
84
d’accesso al loro universo cognitivo ed emotivo14.
Nel presente paragrafo, le rappresentazioni del paziente che caratterizzano le tre
principali categorie professionali del reparto (medici, infermieri e fisioterapisti)
verranno analizzate separatamente. Alcune caratteristiche dei pazienti “tipici” del
reparto
di
Riabilitazione
(l’età
mediamente
anziana,
il
quadro
clinico
multiproblematico, la presenza frequente di problemi neurologici) portano tuttavia gli
operatori a condividere una serie di aspettative nei loro confronti. In particolare, tutte
le categorie professionali sembrano condividere la convinzione che il paziente, a volte,
non è in grado di partecipare al processo della cura. Del parere del paziente in merito
alla valutazione della propria autonomia fisica non ci si può sempre fidare, pena il
mettere a repentaglio la sua stessa incolumità.
“Esistono tante piccole cose che ti fanno capire se di quel paziente ci si può fidare
quando ti dice - Riesco a fare per conto mio- o se è meglio dirgli – No, veniamo noi a
mobilizzarla-. Se il paziente non è affidabile e gli si concede autonomia senza le
opportune sicurezze si mette in pericolo il paziente”
(Da intervista al Coordinatore dei fisioterapisti)
Inoltre, i professionisti sanno che il paziente potrebbe mentire: a volte a causa dei
problemi neurologici, a volte a causa dell’inconsapevolezza o dell’incapacità di valutare
la propria autonomia. Mediamente si tratta quindi di bugie involontarie.
… La specializzanda chiede alla paziente: “Ma davvero te l’hanno già data (la terapia)?
Non dici le bugie? Guarda che lo scopro eh…”. La paziente conferma di averla già
ricevuta. La specializzanda esce dalla camera della paziente e appena fuori dalla
camera incontra un’infermiera con il carrello dei medicinali. La specializzanda dice
all’infermiera che la paziente con cui ha appena parlato preferisce la terapia come le è
stata sottoposta stamattina, cioè con le compresse spezzate invece che sbriciolate.
L’infermiera risponde che lei non ha ancora dato nessuna terapia alla paziente! La
14
I nomi propri riportati nelle verbalizzazioni sono stati inventati e sostituiti agli originali durante la
redazione dell’analisi dei dati.
85
specializzanda dice: “Allora ha mentito! (sorride) Le ho appena chiesto se l’avesse presa
e mi ha detto di sì.. pensa te!”. Nota emotiva: La specializzanda non sembra essere
infastidita o eccessivamente sorpresa.. guarda anche me e sorride.
(Da osservazione nei corridoi di reparto)
Alcuni professionisti sembrano estendere questa rappresentazione di inaffidabilità
anche ai parenti/care-giver:
Fisioterapista: “Per me conviene dire ai familiari che la signora starà dentro altre 3-4
settimane, anche se penso che poi servirà qualcosa di più (…) Perchè se noi diciamo che
la teniamo 2-3 mesi loro iniziano a muoversi tra 4.. La mia paura è quella.”
(Da osservazione di un team multi-professionale)
Un’ipotesi di modello: il paziente come un iceberg
Dall’analisi dei dati relativi alle diverse rappresentazioni di paziente che caratterizzano
le tre principali categorie professionali (medici, infermieri, fisioterapisti), è emerso un
modello ad “iceberg”: il paziente sembra essere immaginato su diversi livelli di
complessità, più o meno visibili e più o meno presenti nell’immaginario dei
professionisti. Tali livelli sono:

Il corpo del paziente: è lo strato più superficiale, la classica punta dell’iceberg. I
diversi operatori differiscono nelle modalità di rappresentarsi il corpo del
paziente (malattia, grado di dipendenza e di disabilità) e nella centralità che
esso assume rispetto alla rappresentazione del paziente in generale.

Il paziente come individuo: questo livello comprende tutto ciò che sta “dietro e
oltre” il corpo del paziente; si tratta cioè della sfera emozionale, i bisogni
immaginati, le capacità e l’autorevolezza riconosciute.

Il paziente come soggetto sociale: tale ultimo livello è il più “sommerso” ed il
meno visibile tra le corsie del reparto. Gli operatori differiscono nel modo di
86
rappresentarsi l’esistenza nel tempo (prima e dopo il ricovero) del paziente ed il
suo essere parte di un contesto sociale complesso.
Un’ipotesi alla base del modello è che se un operatore è in grado di rappresentarsi il
livello maggiormente “sommerso” (gli aspetti meno visibili nel contesto del reparto),
considererà, molto probabilmente, anche il livello più esposto e superficiale, ma non
necessariamente viceversa. Un punto d’attenzione meritano anche le interazioni tra
livelli, soltanto a volte presenti nelle rappresentazioni dei professionisti. Lo schema 4.2
costituisce una rappresentazione grafica del modello proposto.
SCHEMA 4.2
IL PAZIENTE NELLA MENTE DEGLI OPERATORI
87
4.2.1 Il medico
IL CORPO
Nelle rappresentazioni dei medici, è costante l’attenzione all’impatto che il dolore fisico
può avere sull’esperienza di degenza del paziente. Nella gamma delle loro possibilità e
compatibilmente con la quantità di terapie previste per il paziente, la tendenza dei
medici è quella di eliminarlo, o per lo meno di cercare di ridurlo. Il dolore, infatti, ha
ripercussioni tanto sul benessere emotivo del paziente, quanto sulla possibilità di
capitalizzare gli effetti delle cure riabilitative. In altre parole, la percezione di dolore
fisico può rallentare il lavoro fisioterapico ed inibirne i risultati benefici sul paziente.
Il medico dice alla paziente “Le faccio un buchino nel piede signora, che questo dolore
lo dobbiamo togliere”
(Da osservazione - Shadowing di un medico)
La malattia del paziente, in generale, ha un ruolo fondamentale nelle rappresentazioni
dei medici. Nel seguente scambio un medico utilizza il nome di una malattia per parlare
di un paziente.
Il medico spiega agli altri operatori chi è il paziente citato. Il medico dice: “è la Klepsiella
nuova, è andato di là in isolamento..” (La Klepsiella è un batterio che gira per il reparto,
i pazienti che hanno contratto la malattia vengono isolati dagli altri in attesa che
guariscano). (Da osservazione di un team multi-professionale)
L’INDIVIDUO
La sfera emotiva del paziente è presente nella rappresentazione dei medici. In
particolare, i medici ritengono che essa, proprio come il dolore fisico, possa avere delle
ripercussioni importanti sull’efficacia della terapia prevista. Da questo punto di vista
l’esperienza dei medici è forse caratterizzata da una minore partecipazione personale
alla quotidianità ed al vissuto dei pazienti rispetto a quella degli infermieri; sembra
88
esserci, però, più consapevolezza dell’impatto di questi fattori sul successo della cura (è
quindi prevista un’ interazione tra i primi due livelli del modello).
L’infermiera dice alla dott.sa che la paziente non vuole la supposta di glicerina. La
dott.sa spiega all’infermiera che questa paziente è molto arrabbiata. Il medico dice: (la
paziente)“va presa un po’ con le pinze, con calma.. perché lei rifiuta tutto, le cure, tutto.
Si sente sola, si sente un po’ abbandonata.”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
La dottoressa prende la parola: “c'è un dolore che è un po' da rigidità e un po' da
artrosi, ma secondo me è anche molto psicologico.. perchè è depressissima lei..”
(Da osservazione di un team multi-professionale)
L’ospedale stesso, sembrano sostenere i medici, può essere responsabile della
compromissione del miglioramento della salute dei pazienti: esistono infatti pazienti
che andrebbero dimessi il prima possibile perché l’esperienza della degenza tende a
deprimerli e pregiudica così anche l’effetto benefico delle terapie.
Il medico, nello spiegarmi la situazione della paziente, dice che la permanenza in
ospedale ha aggravato le condizioni della vista della paziente, l’ha anche fatta
diventare un po’ afasica. Dice: “lei non ne può più di stare ricoverata”.
(Da intervista ad un medico)
Altri pazienti invece si sentono protetti dall’ambiente del reparto.
Medico: “alcuni pazienti hanno bisogno più di altri di essere dimessi il più in fretta
possibile, perché vivono male l’ospedale... altri pazienti invece si sentono protetti ,
sanno che suonano e qualcuno arriva e quindi preferiscono stare qui”
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
89
È rilevante quindi che, nell’immaginario dei medici, i pazienti non siano una categoria
compatta che presenta bisogni stereotipati. A tal proposito, nel dichiarato, i medici si
rappresentano il bisogno di socializzazione dei pazienti: condividere l’esperienza della
degenza e le problematiche ad essa connesse avrebbe, sostiene un medico, un effetto
benefico per pazienti. Tuttavia il reparto mancherebbe di spazi di socializzazione
dedicati al paziente.
Il medico dice che secondo lui non andrebbe lasciata alla discrezione dei pazienti la
scelta di socializzare o meno in spazi dedicati, ma si dovrebbe attivamente incentivare,
per esempio creando delle sale da pranzo, dove i pazienti possano mangiare insieme e
condividere i loro problemi. Il salotto, dice, non è adeguato perché non ci stanno molte
persone. Alcuni pazienti andavano lì per mangiare insieme ma capita raramente,
perché la maggior parte del tempo i pazienti stanno nelle loro camere.
(Da intervista ad un medico)
Tale aspetto fa pensare anche che i medici pensino al paziente come un soggetto
inserito in una rete, caratterizzato da bisogni sociali e non come individuo isolato; tale
ipotesi sarà approfondita nella spiegazione del terzo livello del modello “iceberg”.
Anche il benessere dei pazienti nella loro quotidianità (disponibilità di spazio, riparo da
rumori molesti, comfort delle camere) è un punto di attenzione per i medici.
In guardiola, il medico dice ad una specializzanda: “Quando sono stato nella stanza di
una paziente, l’ho vista mangiare sul letto tutta ripiegata perché sul tavolo della
camera non c’era posto… assurdo.”
(Da Shadowing di un medico)
Un ultimo aspetto merita di essere menzionato. Durante la sessione osservativa
condotta attraverso la tecnica dello Shadowing, il medico da me seguito non ha
negoziato nessuna regola rispetto alle mie attività; i pazienti non sono stati, pertanto,
avvisati del mio ruolo in reparto né del motivo della mia presenza, nonostante io abbia
90
avuto accesso alle loro camere. Tale elemento fornisce un piccolo indizio rispetto alla
(scarsa) autorevolezza riconosciuta ai pazienti ed al riconoscimento del loro diritto di
accesso alle informazioni.
IL SOGGETTO SOCIALE
I medici iniziano a rappresentarsi il paziente già da prima del suo ingresso in reparto.
Essi infatti conoscono alcuni pazienti attraverso le consulenze esterne15. Spesso quindi
il paziente inizia ad esistere nella mente dei medici già da prima del ricovero, in un
momento precedente rispetto agli altri operatori. Un altro elemento ricorrente è
l’attenzione dedicata dai medici alla situazione sociale del paziente: i care-giver
presenti, il tipo di assistenza familiare che gli è (e gli sarà) garantita, il tipo di barriere
architettoniche della sua abitazione. Spesso questo aspetto viene sondato già dal
primo colloquio con il paziente. Tale attenzione costituisce un indizio rilevante rispetto
ad una dimensione chiave della medicina centrata sul paziente: la considerazione del
paziente come persona nella sua interezza. Infine, tale elemento implica la capacità dei
medici di proiettarsi nel futuro del paziente, dopo le dimissioni.
Medico a paziente appena ricoverata: “A casa c’è qualcuno che la aspetta?” La paziente
annuisce. Medico: “Ma lei a casa ha delle scale da fare?” la paziente dice di no. Medico:
“benissimo. E si muove bene, ha spazio?” la paziente risponde: “sono 110 metri..”. Il
medico: “ah direi che si muove bene allora”.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Medico si rivolge alla fisioterapista: “in verità il suo problema poi è soprattutto sociale
perchè mi dicevano che lei (la paziente) manteneva tutta la famiglia... che disastro! Mi
ha fatto anche pena perchè la figlia è all'ultimo anno di scienze motorie e va bè, ma il
figlio ha appena iniziato l'università, era anche portato ma ha dovuto lasciare perché
non ce la fanno..”
15
Come si è detto nel capitolo 3, i pazienti ricoverati nel reparto di Riabilitazione sono spesso pazienti
provenienti da altri reparti del Policlinico. Prima del trasferimento in Riabilitazione, tali degenti vengono
sottoposti a visite mediche preliminari effettuate dai medici fisiatri del reparto di Riabilitazione. Tali visite
sono definite “consulenze esterne”.
91
(Da osservazione di un team multi-professionale)
In definitiva, il paziente esiste nella mente dei medici sia prima del ricovero che dopo la
dimissione. La loro rappresentazione del paziente è tridimensionale: il paziente è una
storia di vita che si inserisce nella complessità sociale.
4.2.2 L’infermiere
Mentre sta sistemando i turni del giorno dopo, la Caposala poi mi guarda e dice “forse
possiamo chiedere a Elisa (io) di fare la mattina di domani!” l’infermiera B. interviene:
“sì, tanto ormai è esperta, ha conosciuto tutti i pazienti!”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Apriamo questa sessione con lo scambio citato perché esso chiama in causa una
questione fondamentale: essere “esperti” coincide, nella dichiarazione dell’infermiera,
con l’aver conosciuto tutti i pazienti. In effetti, i pazienti sono al centro di quasi tutte le
pratiche lavorative quotidiane degli infermieri. Si noti, a questo proposito, che gli
infermieri a volte si riferiscono ai pazienti utilizzano il nome di pratiche e routine
organizzative (si ricordi che il medico utilizzava invece il nome della malattia del
paziente).
L’infermiera vede un’OSS dirigersi con un paziente in carrozzina verso la guardiola. Dice:
“Questo potrebbe essere il mio ingresso”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Vediamo ora che “forma” assume il paziente nella mente degli infermieri utilizzando il
modello di analisi proposto.
IL CORPO
Per gli infermieri, il corpo del paziente è il fulcro della quotidianità delle loro pratiche
92
lavorative. Nei discorsi tra professionisti emerge con forza la rappresentazione del
paziente come, prima di tutto, un corpo dipendente: un corpo da muovere, lavare,
spostare, di cui prendersi cura, da accompagnare nel percorso di guarigione. È comune
che il paziente non sia autonomo nemmeno nell’espletare i suoi bisogni primari:
nutrizione ed evacuazioni sono aspetti di cui gli infermieri si devono spesso fare carico.
L’infermiere ha quindi una rappresentazione del paziente estremamente incentrata sui
bisogni del corpo. Anche nei team multi-professionali, il ruolo degli infermieri è quello
di comunicare e condividere il livello di autonomia sfinteriale dei pazienti, la loro
capacità di nutrirsi autonomamente, di praticare l’igiene quotidiana, la regolazione del
ritmo sonno-veglia. Si vede quindi come l’infermiere partecipi di aspetti collegati con le
funzioni vitali di base del paziente.
L’infermiera tira la tenda intorno al letto di una paziente e inizia a cambiarla, le dice
“Ne ha fatta tanta signora! Erano tanti giorni eh”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
L’infermiera, parlando con un medico, dice: “noi stamattina siamo riusciti a farla fare a
tutti, anche a quello che erano al 3° o 4° giorno.. ma la (nome paziente) zero, si rifiuta”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Le infermiere a volte sembrano però sottovalutare la pregnanza e le conseguenze del
dolore fisico provato dai pazienti. È possibile che esse si immaginino i pazienti come un
po’ “capricciosi”; questo segna una netta differenza rispetto alle rappresentazioni dei
medici. L’idea che gli infermieri hanno dei degenti è, in questo senso, leggermente
infantilizzata. Gli infermieri non sembrano rappresentarsi le ripercussioni che il dolore e
la sofferenza fisica hanno sul benessere generale del paziente: parrebbe mancare, nella
mente degli infermieri, un collegamento tra i primi due livelli indicati del modello
“iceberg” (si veda lo schema 4.2).
L’infermiere D. comunica all’ infermiera B. che c’è una paziente che lamenta male ai
93
piedi e non vuole andare in palestra. L’infermiera B. dice che secondo lei la paziente ci
deve andare, quindi decide di avvisare la dott.sa M. La dottoressa spiega il perché la
paziente potrebbe avere male ai piedi. La dottoressa dice “Potrebbe essere un
problema reale, non è lei che si lamenta…”. L’infermiere D risponde: “non lo mettiamo
in dubbio, però..”.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Un’infermiera sta parlando di un paziente che non parla italiano:“sì, c'ha un dolore ma
noi che ne sappiamo? Non lo capiamo! Poi, non mangia da seduto..”.Interviene una
specializzanda: “È perchè non riesce..” Caporeparto: “..Certo, per forza non riesce se gli
fa male..”
(Da osservazione di un team-multiprofessionale)
Nota emotiva
... il vissuto portato dagli infermieri mi sembra essere (rispetto a quello dei medici) più
carico emotivamente e più umanizzato, pregno di una conoscenza personale, quasi
intima… ma meno attento all'aspetto della sofferenza fisica, a cui invece i medici
appaiono molto sensibili.
(Da osservazione di un team-multiprofessionale)
L’INDIVIDUO
Come è possibile intuire, gli infermieri partecipano concretamente all’esperienza di
degenza
del
paziente
e
vivono
in
prima
persona
gli
effetti
dei
loro
miglioramenti/peggioramenti. Gli infermieri sono esposti ad emozioni molto intense;
anche per questo, forse, hanno imparato a difendersi…
Un’infermiera dice all’infermiera B “Se vedi che faccia ha adesso la (nome paziente)…
anche se sei una pietra ti prende male… mi dispiace così tanto… non c’è proprio niente
da fare. Lei non ne vuole più sapere.. a me non prende quasi mai male perché io sono
un po’ stronza.. ma questa volta.. mi dispiace proprio”. Mentre parla è quasi commossa.
94
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
La partecipazione degli infermieri all’esperienza personale del paziente è quasi
inevitabile, data la quotidianità e la frequenza delle loro interazioni; in questo senso
tale partecipazione è involontaria, forse subìta, comunque parte e conseguenza delle
pratiche lavorative.
A differenza dei medici, il cui grado di partecipazione all’esperienza del paziente è
meno intenso, gli infermieri non sembrano però rappresentarsi il tipo di impatto che le
emozioni hanno sulla malattia o sugli effetti della cura (si veda quanto detto sulla
mancanza di un collegamento immaginato tra i primi due livelli del modello).
Infine, anche in questo caso non viene riconosciuta al paziente un’autorevolezza tale da
rendere necessaria la comunicazione del mio ruolo:
Note teoriche
L’infermiera non fa accenno alla possibilità di avvisare i pazienti e/o i parenti della mia
presenza come osservatrice. Inoltre non mi chiede come si svolgerà la mia
osservazione, cosa dovrò fare nello specifico, non vengono negoziate delle “regole”..
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
IL SOGGETTO SOCIALE
L’orizzonte temporale del paziente è, nella mente degli infermieri, praticamente
assente. La loro rappresentazione dei pazienti sembra essere piuttosto schiacciata sul
presente: gli infermieri sono gli addetti alla cura quotidiana del paziente durante la
degenza. La situazione sociale del paziente non è quasi mai discussa né menzionata
dagli infermieri, né durante i team né durante il resto delle loro pratiche lavorative. In
definitiva, il paziente nella mente degli infermieri sembrerebbe coincidere con il
degente: i confini della sua esistenza sono delimitati da ricovero e dimissione.
La fisioterapista dice, parlando della situazione post-dimissione di una paziente: “ io
penso che lei a casa abbia preso qualche precauzione..”, chiede conferma agli altri
95
operatori, l’infermiera interviene: “io di questa cosa con lei non ne ho mai parlato..”
(Da osservazione di un team multi-professionale)
4.2.3 Il fisioterapista
IL CORPO
Il corpo del paziente è al centro anche della rappresentazione dei fisioterapisti.
Particolarmente rilevante è la dimensione dell’autonomia del paziente, in quanto in
essa consiste l’obiettivo ultimo della fisioterapia. L’autonomia chiama in causa anche il
tema dell’auto-percezione fisica del paziente: perché i miglioramenti ottenuti in
palestra siano trasferiti nella quotidianità dei pazienti, il paziente deve esserne
consapevole e sentirsi sufficientemente fiducioso.
“… il paziente deve avere un recupero motorio tale da consentire di fare questi
trasferimenti il più possibile in autonomia perchè altrimenti sarebbero buoni tutti a
prenderlo di peso e a metterlo lì. Ma in un reparto di riabilitazione bisogna cercare di
far sì che quello che guadagni in palestra lo trasferisci a tutti i momenti della tua vita
quotidiana, perchè in palestra ci verrà un'ora o due .. le altre 22 23 ore sta in reparto…”
(da intervista a Coordinatore dei fisioterapisti)
Corpo e mente del paziente
non sembrano essere dimensioni separate nelle
rappresentazioni dei fisioterapisti: lo scopo della riabilitazione non è solo quello di
“rimettere in piedi” il malato, ma di consentirgli di riacquisire controllo e sicurezza di
sé. La dimensione fisica della riabilitazione è quindi strettamente embricata con quella
psicologica. Questo aspetto sarà adeguatamente approfondito nell’analisi delle
relazioni fisioterapista – paziente.
Paziente e fisioterapista sono seduti ad un tavolo, il paziente compone e poi scompone
la torre di cubi di gommapiuma che la fisioterapista gli aveva detto di costruire, la
fisioterapista gli sorregge sempre un po’ il braccio che sta usando. Fisioterapista: “hai
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visto che bravo che sei stato? Sei convinto, di questa cosa?” Paziente: “sì, sì.”
Fisioterapista: “Oh, menomale che non è un’idea mia allora!
(da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
L’INDIVIDUO
Ogni paziente è un individuo con la sua storia ed il suo portato personale: questo
aspetto caratterizza tanto le rappresentazioni di questa categoria professionale quanto
le interazioni nel contesto della fisioterapia. I fisioterapisti si rappresentano i pazienti
come molto spesso angosciati: gli incidenti subìti hanno generato in loro paure
profonde legate al proprio corpo. Come già accennato, parte integrante dello scopo
della fisioterapia è far riacquisire al paziente fiducia e consapevolezza di sé, in modo da
guidarlo gradualmente verso l’autonomia.
La fisioterapista mi spiega la storia della paziente che stiamo per incontrare. È una
signora giovane, circa 40 anni, con un bimbo di 4. Ha avuto una dissezione dell’arteria
vertebrale che è una patologia piuttosto rara. Ha una disartria, cioè non riesce ad
articolare le parole. La fisioterapista mi dice: “è già andata in piedi, all’inizio era molto
angosciata ma adesso sta migliorando e fa grossi passi avanti velocemente”. Ripete più
volte “è una persona molto carina”. Dice “è già in piedi ma c’è ancora molto lavoro da
fare”
(da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
La previsione di riacquistare la propria autonomia sembra suscitare nel paziente
sentimenti ambivalenti: da una parte grande eccitazione ma dall’altra altrettanta paura
(di cadere, di andare troppo in fretta, di danneggiare il proprio corpo). I fisioterapisti
sembrano consapevoli di questi aspetti ed adeguano la terapia alle percezioni ed alle
preferenze del paziente. Tuttavia a volte è possibile rilevare una tensione tra la volontà
di rispettare e credere in quanto il paziente dichiara e la protezione che l’ospedale deve
garantire ai pazienti: non sempre infatti i pazienti sono in grado di essere obiettivi sulle
proprie capacità motorie (si veda quanto detto a proposito delle aspettative condivise
da tutti gli operatori). Più spesso, comunque, i fisioterapisti sembrano pensare che i
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pazienti abbiano bisogno di una piccola “spinta” per poter fare effettivi progressi nient’altro, in fondo, che la necessaria funzione di tensione in avanti di ogni forma di
pedagogia.
Fisioterapista e paziente entrano in camera, i suoi compagni salutano la paziente, c’è
anche la mamma della paziente che dice alla fisioterapista (riferendosi alla figlia): “Oh,
che bello vederla in piedi”. La fisioterapista dice: “Questa carrozzina sta diventando un
po’come la copertina di Linus, prima o poi bisognerà toglierla..”, la mamma dice che la
paziente a volte ha ancora paura. La fisioterapista dice: “sì, ci vorrà ancora un po’ ma
prima o poi iniziamo lo svezzamento..”
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Concludo questa sezione indicando un aspetto che marca una grande differenza tra la
categoria dei fisioterapisti e le due precedentemente analizzate. Nel nostro primo
incontro, la fisioterapista ha negoziato con me le regole della sessione osservativa
(Shadowing) e ne ha voluto conoscere gli scopi. Una volta discussi questi aspetti, la
fisioterapista mi ha comunicato la sua intenzione di informare i pazienti della mia
presenza e del mio ruolo. La decisione della professionista dice dell’autorevolezza
riconosciuta ai pazienti e della volontà di costruire con loro un rapporto fondato sulla
trasparenza e sul rispetto.
Noto che quando la fisioterapista non conosce i pazienti, chiede loro se la mia presenza
gli crei problemi. Quando invece si tratta di pazienti con cui ha già un rapporto da
tempo, la mia presenza e gli scopi della mia presenza vengono comunicati. Se il
paziente non ha problemi, procedono con la fisioterapia.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
IL SOGGETTO SOCIALE
Come i medici, i fisioterapisti si rappresentano il paziente anche dopo la dimissione.
Nei fisioterapisti, ciò consiste nell’accertarsi che gli apprendimenti del paziente si
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stabilizzino e possano essere messi in pratica anche al di fuori della palestra. Come è
stato più volte sottolineato, alla base del successo di tale obiettivo stanno le percezioni
dello stesso paziente: riuscire ad infondere fiducia e sensazione di auto-controllo è un
fattore chiave nella progressiva riconquista di autonomia del paziente.
Fisioterapista: “Dai, ora ci sdraiamo e poi torniamo su”. Il paziente si sdraia.
Fisioterapista: “sei andato giù tranquillo..” Paziente: “sì, discreto”. Fisioterapista: “tutte
queste cose che ti dico te le devi ricordare tu perché tra due giorni sei a casa e ti devi
lavare, andare a letto, tutto da solo..”.
Infine, nella mente dei fisioterapisti uno spazio importante è occupato dal care – giver
del paziente: la fisioterapia è modulata anche sulla base della rete sociale in cui il
paziente è inserito.
4.3 La relazione
PAZIENTI E PROFESSIONISTI: DEFINIZIONI E NEGOZIAZIONI DI PROPRIETÀ
“E senza gli uni gli altri non sarebbero nulla e ormai sia noi che loro abbiamo
dimenticato perché combattiamo“
Italo Calvino16
In questa sezione verrà preso in analisi il secondo livello dello schema proposto: quello
che riguarda la relazione tra pazienti e professionisti. Ricordiamo, a tale proposito, che
la valorizzazione della relazione medico - paziente è una delle sei dimensioni del
modello di PCM proposto da Stewart et al. (1995), così come lo è la promozione di
alleanza terapeutica nel modello di Mead e Bower (2000). Coerentemente con il
contesto analizzato e con lo sguardo adottato nella conduzione della ricerca, verranno
16
Italo Calvino (1993). Il cavaliere inesistente. Milano: Mondadori.
99
descritte le relazioni che il paziente intesse non soltanto con il medico ma anche con le
altre due figure principali interessate alla sua presa in carico: l’infermiere ed il
fisioterapista. Il livello relazionale media tra quello organizzativo e quello individuale: le
interazioni tra degenti e professionisti hanno quindi importanti ripercussioni sia sulla
rappresentazione dei pazienti che si sedimenta nella mente degli operatori, sia sulle
pratiche lavorative che, a lungo termine, si consolidano nell’organizzazione. D’altro
canto, e viceversa, l’idea che i diversi professionisti hanno dei pazienti (livello
individuale) impatta sui loro stili e comportamenti interattivi, e le norme e procedure
stabilizzatesi nell’organizzazioni (livello organizzativo) costituiscono vincoli e possibilità
all’interno dei quali la relazione professionisti-paziente prende forma.
La relazione professionisti - pazienti è stata analizzata con la finalità esplicita di mettere
in luce comportamenti che siano indizi o veri e propri indicatori di una cultura
organizzativa (più o meno) Patient Centred. Come per il livello individuale, anche nella
descrizione di quello relazionale si considererà ognuna delle tre categorie professionali
per le sue caratteristiche specifiche. Tuttavia, in questo caso, l’analisi è stata condotta a
partire dall’individuazione di quattro dimensioni comuni, ritenute rilevanti per la
tematizzazione e messa a confronto delle diverse relazioni analizzate. Si tenga conto
che l’osservazione delle tre diadi ha portato alla produzione di un materiale molto
diversificato al suo interno: la maggior ricchezza dei dati relativi ad alcune coppie
operatore – paziente è risultata tanto dalla maggiore frequenza ed intensità della
relazione considerata quanto dalle più assidue opportunità di osservare sul campo lo
svolgersi delle interazioni.
Nella redazione di questa parte di analisi sono stati utilizzati prevalentemente dati
ottenuti tramite la tecnica dello Shadowing e le sessioni osservative in luoghi chiave del
reparto:il livello relazionale, a differenza di quello rappresentativo individuale, viene
intercettato infatti attraverso l’osservazione di fatti ed azioni più che attraverso
dichiarazioni verbali.
Quattro ancoraggi per analizzare la relazione
Ogni forma di relazione di cui facciamo esperienza si caratterizza, tra le altre cose, per
100
l’esistenza di regole più o meno esplicite, a seconda della formalità che connota il
legame. L’esistenza di tali regole diventa tipicamente palese nel momento in cui esse
vengono violate. Nel contesto ospedaliero alcune relazioni sono fortemente
determinate dai ruoli organizzativi, mentre resta poco spazio per la personalizzazione
del rapporto. Altre, invece, grazie al loro sussistere nel tempo ed alla frequenza delle
interazioni che le costruiscono e ricostruiscono, non sono connotate soltanto dalle
reciproche aspettative di ruolo. In entrambi casi alcune specifiche dimensioni
sembrano avere un forte impatto sulla costruzione della relazione tra pazienti e
professionisti. Introdurremo tali dimensioni attraverso i seguenti interrogativi: di chi è
l’ospedale?, quali sono gli attori con più peso decisionale?, chi determina i confini
spaziali, le regole, lo scandire della giornata? Tutti questi aspetti sono emblematici nel
determinare la presenza di una cultura centrata o meno sul paziente; agli elementi
citati sottende un’unica, complessiva dimensione: quella della proprietà. Rispetto al
concetto di proprietà risulta emblematico il contributo di Fontanella (2011), la quale –
attraverso la rivisitazione di una propria esperienza di degenza – ha analizzato la
comunicazione nella realtà ospedaliera dal punto di vista della linguistica: (…) i linguisti
la chiamano comunicazione diseguale. Si trova soprattutto in certi ambienti: l’ospedale,
la scuola, il tribunale (…). Diseguale perché, in quegli ambienti, le persone non hanno lo
stesso potere, e tutto ciò che accade ne risente. Anche quello che viene detto e fatto.
Nella comunicazione diseguale si riscontra in particolare uno sbilanciamento nel
possesso dello spazio, del tempo e della lingua (…). Continua Fontanella (2011, pp. 7-9),
parlando della relazione tra pazienti e operatori dell’ospedale: ero, come quasi tutti i
malati, in una situazione di grande svantaggio (….)Le cause di diseguaglianza sono
(anche) banali: tu, medico o infermiere, stai bene, hai il camice e ti muovi in uno spazio
che conosci bene; io sto male, anche molto, e non soltanto non ho il camice ma per
forza di cose mi hanno anche tolto i vestiti, tutto mi è estraneo e mi spaventa. Tu puoi
muoverti e mi giri attorno guardandomi dall’alto, e io sto qua disteso e ti guardo dal
basso in alto, come il più derelitto dei bambini. Sono spaventato, confuso, puoi farmi
quello che vuoi”. Le riflessioni di Fontanella hanno avuto un ruolo di grande rilevanza
nell’analisi dei dati osservativi. Innanzitutto, il pensiero dell’autrice mette in luce
101
l’inevitabile squilibrio che caratterizza la relazione paziente – operatore sanitario,
specialmente nelle prime fasi della degenza. È mia opinione che lo sforzo dei
professionisti sanitari dovrebbe essere quello di tener conto, il più possibile, delle
conseguenze di tale grande svantaggio. Inoltre, le riflessioni relative alla comunicazione
diseguale sono state un’utile guida nell’individuazione di quattro categorie ricorrenti,
che consistono in diverse declinazioni del concetto di proprietà: il possesso dello
spazio, l’accesso al corpo (dei malati), la disposizione del tempo e l’utilizzo del
linguaggio (schema 4.3). Alla luce di tali ancoraggi l’analisi del livello relazionale può
fornire rilevanti insight al tema della ricerca. Di seguito verranno descritte le quattro
categorie individuate,
approfondendo nello specifico le modalità con cui esse
connotano la relazione tra i professionisti ed i pazienti.
QUATTRO CATEGORIE PER L’ANALISI DELLA RELAZIONE
Schema 4.3
Il possesso
dello spazio
L'uso del
linguaggio
DEFINIZIONI E
NEGOZIAZIONI
DI PROPRIETÀ
L'accesso al
corpo
La
disposizione
del tempo
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4.3.1 Il possesso dello spazio
Sappiamo che le relazioni si sostanziano e si costruiscono grazie al ripetersi di
interazioni, e che tali interazioni avvengono sempre in un contesto; sono, cioè, sempre
situate. Il fatto che il reparto sia considerato il luogo deposto alla cura (nel suo senso
più ampio) dei malati oppure uno spazio in cui il paziente non è nient’altro che un
ospite (più o meno atteso e gradito), marca una sostanziale differenza nel processo di
costruzione del rapporto operatore sanitario – paziente. Consideriamo l’ospedale:
alcuni ci lavorano, magari da tanto tempo, e più il tempo passa e più potrebbero
pensare davvero che quel posto sia loro (…). Intanto (i pazienti) sono troppi, poi sono
dei perfetti estranei, hanno i parenti, vogliono ciò che non si può o non si vuole fare.
Invadono uno spazio non loro (Fontanella, 2011, p.8 ).
La dott.sa si affaccia alla guardiola infermieristica e dice all’infermiera: “B., allora il
paziente (nome paziente) resta eh!”. Infermiere: “ok sì.. fossero tutti così i pazienti…
per il fastidio che mi dà…”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Il senso del possesso degli spazi può essere veicolato in molti modi: il grado di libertà
d’accesso e movimento, la necessità o meno di permessi ufficiali per l’attraversamento
dei confini, la facilità o difficoltà di raggiungere le persone che vi abitano o lavorano.
L’ipotesi è che tanto più i pazienti sono autorizzati a frequentare liberamente gli spazi,
tanto più potremo dedurre che chi ci lavora li ritiene anche e sostanzialmente di loro
proprietà (Fontanella, 2011).
Quanto alla figura dei medici, la dimensione dello spazio assume rilevanza se declinata
nel grado di accessibilità – percepita dal paziente – di questa categoria professionale. Il
contatto tra medico e pazienti è sempre stabilito dai primi: mentre, infatti, il paziente è
in grado di chiamare un infermiere attraverso l’utilizzo del “campanello” situato vicino
al suo letto, non sono previste modalità che consentano al paziente di mettersi in
contatto direttamente con un medico. Non di rado i pazienti utilizzano la figura degli
infermieri come “ambasciatori” della loro richiesta di incontro con i medici. Questi
103
ultimi, infine, non passano molto tempo nei corridoi e nelle camere dei pazienti, se non
durante la visita mattutina di routine (“il giro”).
Nei due corridoi del reparto predominano decisamente, per quantità di tempo e
frequenza di presenza, gli infermieri e gli OSS. I medici li intravedo mentre passano da
una stanza all'altra durante il giro, ma in generale si vedono abbastanza raramente.
(Da osservazione nel corridoio di reparto)
In definitiva, i medici non sembrano partecipare attivamente alla negoziazione della
proprietà dello spazio ed essi sono la figura professionale più difficile da raggiungere
per i degenti. Se prendiamo in considerazione la categoria degli infermieri, si profila un
quadro completamente diverso. Essi sono, infatti, il primo operatore con cui il paziente
si interfaccia al ricovero.
La segretaria sta accompagnando un familiare e sua madre (futura paziente) nel
soggiorno di reparto, gli dice “Faccia pure accomodare lì la mamma, ora arriva
l’infermiera e vi accompagna in camera”. (Dopo 5 minuti) arriva un’infermiera che si
rivolge alla paziente: “Eccoci. Ce la fa da sola signora? Piano piano?”, la paziente dice di
sì. Infermiera: “venga venga che la metto nella camerina”
(Da osservazione nel corridoio di reparto)
Si noti l’utilizzo dell’espressione “mettere in camera”: tra gli infermieri è molto
frequente, tanto nello svolgimento quanto nella narrazione delle loro pratiche
lavorative, l’utilizzo di espressioni “passivizzanti” (L’infermiera va dalla paziente, lei le
chiede “com’è la mia giornata?”, l’infermiera risponde che ora la lavano, poi la lasciano
riposare un po’ e poi la portano in palestra.”; infermiera: “Non si faccia portare via che
le sistemo prima la carrozzina..”); tale aspetto verrà approfondito nelle prossime
sezioni. In questo contesto è invece importante sottolineare l’intensità e la frequenza
delle interazioni tra infermieri e pazienti negli spazi del reparto. A tal proposito, si è già
detto che i pazienti possono contattare gli infermieri in ogni momento della giornata,
104
grazie all’uso del campanello; la maggioranza dei pazienti, inoltre, non attraversa gli
spazi del reparto in modo autonomo ma ha bisogno di essere condotto sulla sedia a
rotelle (compito svolto quasi sempre da infermieri). Si consideri poi che gli infermieri
sono responsabili anche dell’igiene quotidiana dei pazienti che non sono in grado di
praticarla autonomamente. È forse proprio a motivo di tale intensa compartecipazione
che la categoria degli infermieri mostra un senso di proprietà sugli spazi molto più
elevato rispetto ai medici. Il possesso è veicolato in vari modi: ne è un esempio
l’autorevolezza che gli infermieri si riconoscono nello stabilire le regole di
comportamento dei pazienti (cosa essi possono e cosa non possono fare).
Infermiera “Da noi è ingestibile questo paziente qua. A parte che non si capisce perchè
parla solo rumeno (…) Poi, non mangia da seduto… Poi, non si vuole alzare quando lo
diciamo noi. Poi a mezzogiorno va a letto perchè sennò non mangia. Non si vuole alzare
al pomeriggio tranne che un'ora, poi quando arriva la cena torna a letto..”.
Nota emotiva: il racconto è molto emotivo, è portato in modo molto vivido, caldo,
traspare la difficoltà a trattare e ad interagire con questo paziente...
(Da osservazione di un team multi – professionale)
A posteriori, è possibile leggere nel disagio dell’infermiera il suo disappunto per la
“ribellione” del paziente alle norme del reparto: gli infermieri sembrerebbero
interpretare il ruolo di garanti del “buon funzionamento” dell’organizzazione. A
connotare la relazione paziente – infermieri si aggiunge poi un’altra forma di
negoziazione, oltre a quella delle regole di comportamento: essa consiste nella
dialettica permesso - divieto d’accesso.
Una signora (familiare di una paziente) entra nella camera, chiede: “aspetto fuori?”.
Subito l’infermiera dice alla signora: “Deve aspettare fuori signora” e poi a me: “Mi
chiudi la porta?”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Si consideri che esplicite norme organizzative stabiliscono che i familiari abbiano diritto
105
di permanenza in reparto senza limitazioni tra le ore 6.00 e le ore 22.00. Tuttavia, tali
regole stabiliscono anche che i parenti non possano restare nelle stanze dei pazienti
mentre i medici o gli infermieri stanno effettuando il “giro” di visite mattutino o
durante la distribuzione dei pasti. Il messaggio comunicato dall’infermiera nello
scambio precedente è quindi giustificato/determinato dalle norme stabilite
dall’organizzazione. Tuttavia, il linguaggio scelto per trasmetterlo veicola un senso di
proprietà sullo spazio che non è giustificato dal contesto. La porta chiusa è una
barriera, fisica e simbolica, di cui gli operatori si servono per marcare l’autorità
decisionale dell’organizzazione sul paziente. Un punto di riflessione: se il reparto fosse
considerato anche dei malati e dei loro parenti, si sceglierebbe quel modo per chiedere
ad amici/familiari di allontanarsi momentaneamente?
Le dialettica permesso – divieto d’accesso non riguarda tuttavia soltanto i degenti ed i
loro familiari, ma regola anche il comportamento atteso dei professionisti:
L’infermiera spinge la paziente in carrozzina verso il bagno e socchiude la porta. Da
fuori sento l’infermiera che dice: “Va bene l’acqua o è troppo calda?”. Un Infermiere
uomo entra in bagno senza bussare, si accorge della presenza dell’infermiera e della
paziente ed esce subito. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Si veda come lo stesso artefatto (la porta chiusa) sia in grado, in un caso, di impedire al
familiare l’accesso alla camera dei pazienti, ma nell’altro venga ignorato dall’operatore:
la libertà di accesso dall’infermiere sembra essere data per scontata.
Un ulteriore livello di accesso è costituito da un sistema di tende che compone la
struttura del letto dei pazienti. Quando vengono tirate (per esempio durante le
pratiche di igiene quotidiana), le tende nascondono completamente alla vista l’intero
letto, garantendo una maggior privacy e riducendo il senso di espropriazione dello
spazio probabilmente vissuto dal paziente. Tuttavia, sembra che tale artefatto non
possa proteggere dagli occhi i malati di operatori sconosciuti.
Una OSS entra in camera, cerca l’infermiera. Per andare a parlare con lei entra nel
106
sistema di tendine tirate dove l’infermiera sta medicando un paziente. Non chiede né
dice niente al paziente. L’infermiera saluta la OSS e le dice “già che sei qui tienimi il
piede mentre metto i cerotti”.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Infine, sul versante relazionale, sono particolarmente significativi gli scambi che
mostrano azioni dirette alla negoziazione o alla “sfida” della proprietà dello spazio:
In bagno sento delle voci, c’è un paziente con la moglie. Un infermiere prova ad entrare
ma la porta è chiusa a chiave. L’infermiere dice: “non vi dovete chiudere dentro!”, la
moglie risponde: “ma se ci sono io…”. Infermiere: “non fa niente.. sapete che uno c’è
rimasto chiuso dentro una settimana?”, sdrammatizza.. Dopo poco i due escono,
l’infermiere gli sorride.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
In corridoio c’è un paziente che, con un cellulare, fa suonare ad alto volume alcune
canzoni, si sentono in tutto il corridoio. Le infermiere passando lo guardano, qualcuna
fa dei commenti ma nessuna gli dice direttamente di spegnere la musica (almeno per
10 minuti). (Da osservazione nel corridoio di reparto)
In conclusione, la dimensione della proprietà dello spazio (rispetto delle regole e
presidio dei confini) appare estremamente rilevante nelle interazioni pazienti –
infermieri, tanto da far pensare, in metafora, agli infermieri come ai guardiani degli
spazi del reparto.
Quanto ai fisioterapisti, il quadro appare nuovamente molto diverso. Si tenga conto
anzitutto che le interazioni tra i pazienti e quest’ultima categoria professionale
raramente avviene all’interno del reparto: la riabilitazione è svolta infatti nella palestra,
che si trova sullo stesso piano ma è esterna al reparto. Per questo motivo, il tema della
negoziazione della proprietà dello spazio di vita del paziente non riguarda direttamente
i fisioterapisti. Tuttavia, esistono alcuni elementi che connotano la relazione
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fisioterapisti - pazienti i quali sembrano riconducibili a questo dominio di significati. Si
pensi, ad esempio, alla tendenza dei fisioterapisti a responsabilizzare i pazienti nei
confronti degli strumenti prestati loro durante la terapia riabilitativa.
La fisioterapista appoggia i due bastoni sulla carrozzina e dice al paziente “questi ora
sono i suoi, li porti lei domani, se li ricordi eh!”
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Chiedere ai pazienti di avere cura degli oggetti, etichettarli come “di loro proprietà”, per
quanto temporaneamente, potrebbe attenuare il senso di estraneità vissuto nel
contesto
del
reparto;
tale
elemento
si
configura
infatti
come
rilevante
nell’empowerment del paziente. In ogni caso, è lecito ipotizzare che nella relazione
fisioterapista – paziente la dimensione dello spazio non sia una variabile di importanza
eguale alle altre, in particolare se confrontata con il ruolo del tempo e del rapporto con
il corpo del paziente. Questi aspetto saranno trattati nei prossimi paragrafi.
4.3.2 La disposizione del tempo
Tutte le relazioni, indipendentemente dal motivo e dal contesto della loro nascita,
accadono e si modificano nel tempo. Il tempo che dedichiamo alle relazioni è una
dimensione fondante della loro esistenza ed essenza. È facile quindi intuire che anche
le relazioni paziente – professionista sono fortemente influenzate dalla disponibilità e
dall’uso del tempo che le connota. Tale categoria di analisi, rispetto alle altre tre, è
forse quella maggiormente determinata dal funzionamento dell’organizzazione. Se in
questo contesto è utile considerare il tempo delle interazioni come un marcatore di
opportunità o vincoli per la relazione, occorre ricordare che tale dimensione è il
risultato di norme e procedure prevalentemente stabilite “dall’alto” e quindi non
direttamente attribuibili alla volontà dei professionisti. Sono forse i medici l’unica
categoria professionale che sembra godere di una certa libertà nel modulare il tempo
da dedicare ai pazienti, come vedremo più avanti. Si è già detto che le interazioni
108
strutturate medico – paziente avvengono su base quotidiana durante il “giro”: ogni
mattina il medico, seguito da un gruppo di cinque o sei specializzandi/e si reca nelle
camere dei pazienti per visitarli, se necessario, o semplicemente monitorare la loro
situazione. È curioso che i medici parlino spesso del giro delle visite utilizzando un
diminutivo:
Dopo circa mezzora dal suo arrivo, il medico dice ad una specializzanda: “Allora,
andiamo a fare un giretto?” La specializzanda annuisce, anche le altre specializzande
presenti in guardiola li seguono ed inizia il giro di visite nelle stanze.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Si noti che, rispetto al giro delle infermiere, quello effettuato dai medici è
effettivamente più corto e veloce. In questo “rituale” il tempo delle interazioni medico
– paziente è solitamente limitato (qualche minuto a paziente). Le sequenze di azioni
che contraddistinguono le interazioni sono le seguenti: saluti iniziali (“Come va?”),
domande del medico relativamente ad eventuali aspetti problematici (clinici o legati
alle terapie), discussione in merito ad eventuali uscite in permesso durante il
finesettimana, eventuali consigli, saluti finali. Segue un esempio di interazione durante
il rituale del giro:
Infine (il medico e le specializzande) passano all’ultima paziente della stanza. È una
paziente con chiare difficoltà a parlare e forse non italiana. Il medico la saluta, parla
lentamente e scandendo le parole, chiede: “che giornata è oggi Andrea? Buona o non
buona?”La paziente accenna ad un dolore che ha all’occhio, ma quando il medico cerca
di farle approfondire lei non riesce più a parlare ed a spiegarsi.. Il medico dice alla
paziente “dillo in spagnolo se vuoi”.. ma non ottiene risposta. Allora il medico continua
“comunque Andrea, ti va di andare a casa in permesso questo finesettimana?”, la
paziente dice di sì e sorride. Poi le dice che la vedrà più tardi, la saluta e saluta anche
sua madre, che è seduta affianco a lei. (Da osservazione – Shadowing di un medico)
109
La fase del “come va?”, la presenza di domande che veicolano l’interessamento alla
persona nella sua interezza sono indizi importanti relativamente al tema della
centratura sul paziente.
Come accennato, inoltre, il medico sembra essere l’unico dei tre professionisti osservati
ad avere a disposizione una certa quantità di tempo da destinare, a sua discrezione, al
monitoraggio o al controllo di pazienti che lo necessitino.
Il medico esce dal reparto. Si reca in palestra, da solo. Va vicino a Carla, la paziente con
sindrome di Down che si lamenta spesso. Lei sta mettendo dei piccoli peluche su un
girello con la fisioterapista, che le dice “ora li portiamo un po’ in giro eh Carla, come si
fa coi bimbi”. (…) Poi a il medico e la fisioterapista provano a far alzare la paziente per
portarla a camminare con il girello, lei però urla e si lamenta. Medico: “dove ti fa male
Carla? Dai alzati da sola, noi non ti tocchiamo…”. Dopo molti tentativi inutili riescono a
far alzare la paziente (il medico si complimenta con la fisioterapista per la pazienza),
osserva la paziente che cammina, osserva soprattutto come muove le gambe. Dopo
qualche minuto di cammino la fanno risedere. Il medico la saluta, torniamo in reparto.
Mentre camminiamo per tornare nella guardiola il medico mi parla della paziente e del
fatto che ogni tanto monitora la situazione in palestra per vedere come procede la
riabilitazione.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Il vincolo temporale che contraddistingue le interazioni di routine tra medico e
paziente, tuttavia, non gioca a favore dello stabilirsi di un’alleanza terapeutica. Questo
aspetto marca una radicale differenza tra le relazioni medico – paziente e quelle
fisioterapista – paziente. Il paziente vede infatti il fisioterapista per un numero
prestabilito di ore al giorno (solitamente da una a tre) nella palestra del reparto.
Durante tale lasso di tempo, i due soggetti sono i soli partecipanti all’interazione.
Questo aspetto – unito al fatto che, di norma, il paziente viene preso in cura da un
fisioterapista che rimane lo stesso durante tutta la degenza – favorisce notevolmente lo
sviluppo di una alleanza terapeutica e di un rapporto connotato da un grado di
110
confidenza negoziabile da parte dei pazienti. Si pensi infatti a quanto detto rispetto agli
infermieri: l’intimità che contraddistingue il rapporto tra questi ed i pazienti è spesso
più subìta che voluta, a causa tanto dell’intensa convivenza nello spazio quanto della
dipendenza fisica di alcuni pazienti. Il rapporto che i pazienti instaurano con il
fisioterapista, invece, è fortemente basato, oltre che sulle cure riabilitative,
sull’interazione verbale. L’ora di riabilitazione costituisce un setting spaziale e
temporale all’interno del quale il paziente può “dosare” il livello di intimità e
confidenza del rapporto. In tale setting il paziente si relaziona privatamente con il
fisioterapista: le sue parole vengono ascoltate soltanto dal professionista in questione.
Tale aspetto, che potrebbe passare inosservato, assume una rilevanza cruciale se
pensiamo alla scarsa privacy che contraddistingue le relazioni durante la degenza del
paziente (le interazioni con i medici e gli infermieri avvengono sempre in camera, e
sono quindi sempre esposte alla presenza di altri pazienti od operatori).
La fisioterapista incoraggia la paziente a provare a muovere il piede e la paziente
lentamente lo riesce a muovere. Fisioterapista: “bravissima!”, poi si rivolge più a bassa
voce alla paziente: “ma mi dica, come mai questo fidanzamento a 16 anni?”, Paziente:
“eh, indovini un po’..” Fisioterapista: “era incinta?”. La paziente conferma e per circa 5
minuti racconta alla fisioterapista la storia della sua famiglia.
La paziente e la fisioterapista si salutano, vanno camminando insieme verso un letto, la
paziente dice che questo weekend ha visto suo figlio. (….) La paziente racconta di aver
fatto il bagno nel weekend aiutata dalla madre. Fisioterapista: “menomale, che bella
sensazione, no?”. Chiacchierano ancora un po’ tra loro, mentre la paziente si prepara
per gli esercizi. (…) Paziente a fisioterapista: “lo sai che ho usato il computer? Non
riuscivo a fare il doppio clic all’inizio ma poi sono riuscita. All’inizio non mi ricordavo
l’ordine dei tasti ma poi mi è tornato in mente.. ” Fisioterapista: “oh, che soddisfazione!
Se decidi di lasciarlo qui mi raccomando chiudilo a chiave negli armadietti!” (Da
osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
111
Come si legge negli scambi riportati, a volte è il paziente stesso ad iniziare a raccontare
aspetti della propria vita personale, anche se non stimolato direttamente dalle
domande dei fisioterapisti. È quindi probabile che nella mente del paziente si siano
accumulate esperienze connotate dall’interesse del fisioterapista nei suoi confronti, e
che egli si rappresenti il fisioterapista come un operatore con cui è possibile
condividere aspetti della propria vita personale. In questo contesto, comunque, basti
dire che il tempo dell’ora di riabilitazione costituisce una vera e propria risorsa
relazionale.
Infine, le interazioni infermiere – paziente sono più simili, per setting e durata, a quelle
descritte parlando della categoria dei medici. Con essi gli infermieri condividono il
rituale del “giro”: ogni mattina questi ultimi si recano nelle camere dei pazienti, li
aiutano ad alzarsi per andare in bagno (qualora ne siano in grado), li assistono nelle
attività di igiene personale ed effettuano le procedure mediche stabilite per ogni
paziente (misurazione febbre e pressione, somministrazione di medicine, medicazione
di eventuali ferite, etc.). È importante sottolineare che non è sempre lo stesso
infermiere a prendere in cura il paziente durante il giro; si possono facilmente
immaginare le conseguenze a livello rispetto della privacy percepita dal paziente che
questo elemento comporta. Inoltre, a differenza di fisioterapisti e medici, gli infermieri
non stimolano quasi mai il paziente con domande aperte. Concludendo, nonostante gli
infermieri passino più tempo nelle camere dei pazienti di quanto non facciano i medici,
questa dimensione non sembra costituire una leva per lo sviluppo di una relazione
personalizzata con il paziente. Ciò è dovuto molto probabilmente all’intervento di altri
fattori ostacolanti la costruzione di un rapporto connotato da una certa confidenza:
l’intercambiabilità degli operatori e la presenza costante di terzi durante le relazioni
potrebbero essere, in questo senso, vincoli rilevanti.
4.3.3 L’accesso al corpo
Ciascuno di noi ha attorno a sé uno spazio privato, personale, che permettiamo di
invadere solo in determinate circostanze e a determinate persone. In ospedale gli
112
aspetti prossemici sono fondamentali perché una loro buona gestione da parte degli
operatori può attenuare il senso di espropriazione che provano i malati (Fontanella,
2011, p. 53). Il tema del corpo dei pazienti è stato già trattato nell’analisi del livello
rappresentazionale dei professionisti. In questa sezione verranno invece approfondite
le relazioni tra operatori e pazienti alla luce delle diverse modalità di accesso al corpo
dei primi sui secondi. È utile ricordare, prima di addentrarci nell’analisi, la rilevanza
anche simbolica che il corpo assume in un reparto di riabilitazione. All’entrare nel
reparto i pazienti sono spesso incapaci di camminare o addirittura di mantenere la
posizione eretta; si trovano perciò in una situazione di estrema dipendenza. La
missione del reparto è quella di ridurre al minimo la disabilità di cui soffrono i pazienti
e permettere loro di riconquistare la massima autonomia possibile. Si può immaginare
quindi il tipo di investimento, fisico ed emotivo, del paziente sulla cura riabilitativa. Non
di rado il corpo del paziente subisce una vera e propria trasformazione; credo sia
opportuno ricordare a questo proposito che qualsiasi grande cambiamento, anche
qualora si sostanzi in un miglioramento, sottende aspetti minacciosi ed angoscianti che
non possono essere ignorati. Gli aspetti appena menzionati riguardano soprattutto la
relazione che si instaura tra il paziente ed il proprio fisioterapista, cioè colui che, di
fatto, “rimette in piedi” il paziente.
La fisioterapista si allontana un attimo, il paziente (che sarà dimesso nel pomeriggio)
dice ad altre pazienti che si trovano in palestra vicino a lui: “eh, la pressione...sono un
emotivo feroce io...”. La fisioterapista torna, gli dice “ci vediamo nel pomeriggio” e noto
che il paziente si commuove. La fisioterapista dice “sono proprio fortunata io, che ho i
pazienti che mi vogliono bene… Guardi che è consentito commuoversi una sola volta al
giorno qui, per oggi siamo a posto allora!”. Il paziente piange, è molto commosso, le
prende il braccio e poi le dice “che Dio ti benedica”. Si salutano.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
I fisioterapisti, dato l’obiettivo principe delle cure cioè quello di rendere autonomo il
paziente attraverso un percorso riabilitativo personalizzato, tengono in grandissima
113
considerazione la percezione che il paziente ha del proprio corpo. È molto frequente,
nei loro dialoghi, l’uso di domande che sondano la sicurezza percepita dal paziente nel
muoversi, la percezione di dolore ed anche il livello di paura nello svolgere certi
movimenti.
Fisioterapista a paziente, durante lo svolgimento di alcuni esercizi di ginnastica passiva:
“Orietta però se c’è qualcosa, se sei stanca, me lo dici subito, ok? Io sono abituata
così..” (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
La fisioterapista chiede alla paziente: “Ma mi spieghi bene, perché è un problema di
piedi secondo lei?”, paziente: “non lo so, ma vanno meglio le gambe che i piedi”.
Fisioterapista: “questo sì.. ma anche il bacino lo sente debole?” Paziente: “sì..”.
Fisioterapista: “mentre la schiena va bene anche senza appoggio..?” Paziente: “sì sì,
qualcosa ancora funziona..”
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Quanto agli aspetti prossemici, le ripetute osservazioni di interazioni mi hanno
permesso di notare che i fisioterapisti tendono a dare indicazioni ai pazienti “a voce”
evitando, per quanto possibile, la manipolazione fisica diretta. È frequente che il
fisioterapista spieghi dettagliatamente al paziente gli esercizi prima di iniziarli, o lo
guidi in tempo reale dandogli indicazioni descrittive; la correzione “fisica” sul paziente
viene effettuata solo qualora sia inevitabile, per esempio laddove il paziente presenti
difficoltà nella comprensione. Le affermazioni del fisioterapista sono inoltre quasi
sempre argomentate.
Il paziente, per girarsi, mette il bastone davanti ai piedi. Fisioterapista: “No no,
Giuseppe il bastone non va davanti ai piedi”. Il paziente arriva vicino al tavolo, mette le
mani sul tavolo e riesce a sedersi piegandosi lentamente e spostando il peso
all’indietro. Fisioterapista: “Bravo, ma devi sempre controllare che ci sia la sedia eh!”.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
114
La fisioterapista mette le scarpe al paziente e gli dice “Mi serve che mi ascolti bene
adesso, eh mister!”. Il paziente ricorda alla fisioterapista che su un ginocchio non può
fare affidamento perché ha l’artrosi, la fisioterapista lo rassicura e gli dice che lo sa. Poi
aggiunge: “Mi ascolti bene mister.. abbiamo quattro punti di appoggio quindi il
ginocchio non è mai lasciato da solo..”. La fisioterapista poi spiega al paziente l’ordine
dei movimenti da eseguire con i bastoni e gli spiega anche come sedersi..
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Tutti questi elementi veicolano l’impegno dei fisioterapisti nella responsabilizzazione
del paziente e sottolineano l’autorevolezza a lui riconosciuta nel processo di cura.
Come è stato detto più volte, consentire ai pazienti di percepirsi come soggetti attivi,
protagonisti della propria guarigione è una dimensione molto rilevante della Patient
Centre Care.
Si potrebbe dire che il fisioterapista svolga anche una funzione di “specchio” del corpo
per il paziente: egli riconsegna a parole alcune sensazioni che i malati non
comprendono, o a cui non sanno più dare un nome:
La fisioterapista fa fare dei passi avanti e indietro alla paziente, a un certo punto la
paziente ha un piccolo cedimento su una gamba, la fisioterapista le chiede cosa abbia
sentito. La paziente non riesce bene a descrivere la sensazione, la fisioterapista dice
“Hai sentito qualcosa perché ti si è piegato il ginocchio!”.
(Note teoriche) È come se alcuni pazienti si fosse dimenticati come si debba fare per
svolgere alcune operazioni complesse. Per esempio, osservando Rossana mi sembra che
una volta che le vengono spiegati i singoli movimenti necessari per compiere l’azione lei
è poi in grado di farla.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Infine, il rispetto per il corpo del paziente e la tendenza a non intervenire su di esso
115
attraverso la manipolazione fisica non esclude che il corpo sia un elemento
protagonista della relazione paziente – fisioterapista. Ciò emerge specialmente nei
momenti iniziali della riabilitazione, in cui il livello di dipendenza e disabilità dei degenti
può essere molto rilevante e i pochi esercizi che è possibile svolgere sono quelli di
ginnastica passiva. Si veda a titolo di esempio il piccolo rituale del passaggio carrozzina
– letto, a cui gli operatori si riferiscono a volte con l’espressione “tecnica
dell’abbraccio”.
Le due fisioterapiste spostano la paziente sul letto, con la solita “tecnica dell’abbraccio”:
la paziente viene aiutata a sollevarsi dalla sedia a rotelle, abbraccia una fisioterapista,
la quale le sorregge il busto con le braccia. Poi la paziente esegue dei piccoli passettini
laterali (sempre abbracciata alla fisioterapista), si gira di spalle verso il letto e si siede.
L’altra fisioterapista intanto sposta la sedia a rotelle da dietro la paziente e infine le alza
le gambe sul letto.
Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista
Anche la categoria professionale dei medici è caratterizzata dall’attenzione e dal
rispetto per il corpo del malato, coerentemente con quanto è emerso nella descrizione
del loro livello rappresentazionale. Ricordiamo infatti che i medici si distinguono per la
rilevanza attribuita al dolore fisico ed alla sofferenza del paziente. Questo aspetto
diventa tangibile durante le interazioni.
In corridoio il primario incontra un paziente in sedia a rotelle, si salutano. Il primario
chiede: “Ha usato la protesi allora?” il paziente: “sì ma non ho molta confidenza..”.
Primario: “Bè, ci vuole tanto per riuscire ad avere confidenza... Ma le fa male?”
paziente: “no, no”. Il primario continua: “riesce ad appoggiarsi al braccio?”, paziente:
“eh, per questo sto facendo dei sacrifici enormi”. Gli mostra la mano ed il polso sotto un
tutore.. il primario raddrizza una bicchierino di plastica pieno di caffè che il paziente ha
appoggiato sulla carrozzina. Poi il paziente dice: “Comunque alla fine era la scelta
giusta..”. Si salutano. (Da osservazione in corridoio di reparto)
116
Quando “invadono” lo spazio privato dei malati, i medici quasi sempre chiedono il
permesso, avvisano il paziente di quello che sta per succedere e se sentirà dolore o
fastidio.
Medico, in consulenza esterna, si rivolge alla paziente: “La possiamo visitare signora?”
…
Il medico ripete alla paziente “Le faccio un buchino eh, fa un po’ male in questo punto”.
…
La paziente si lamenta un po’, sottovoce. Medico: “ok, fatto”. Specializzanda: “pensava
peggio eh?”, la paziente annuisce.
(passaggi tratti da osservazione – Shadowing di un medico)
Si consideri anche che al medico è affidata un’enorme responsabilità, in merito alla
cura del corpo del paziente: quella cioè di comprendere se le lamentele dei pazienti
(specie quelli con problemi neurologici) dipendano o meno dalla percezione di dolore.
La parente della paziente (con sindrome di Down) chiede al medico: “Ma quando fa
così è perché ha dei dolori?”, medico: “facciamo una gran fatica a capirlo.. a volte ha
fatto così anche quando non aveva niente.. poi non possiamo sempre riempirla di
farmaci.” (Da osservazione – Shadowing di un medico)
Infine, un aspetto prossemico che mi è sembrato molto rilevante riguarda un
comportamento ricorrente di medici e specializzandi: essi tendono ad inginocchiarsi
per parlare con i pazienti seduti sulla sedia a rotelle. Avere gli occhi alla stessa altezza
quando ci si parla è uno degli elementi che danno l’immediata sensazione di parità
(Fontanella, 2011).
Quanto alla categoria professionale degli infermieri, abbiamo più volte sottolineato
l’intensa condivisione degli spazi e l’intimità un po’ “forzata” che contraddistingue la
117
loro relazione con i pazienti. Il corpo del paziente è un elemento centrale all’interno di
tale relazione. Le principali mansioni degli infermieri riguardano infatti la pulizia dei
pazienti, le medicazioni, il controllo della febbre o di altri parametri indicati dai medici,
il controllo delle evacuazioni. Quest’ultimo aspetto in particolare ricorre spesso anche
nelle conversazioni tra operatori. La necessaria intimità che caratterizza il rapporto tra
infermieri e corpo del paziente è quindi connotata anche da aspetti un po’ sgradevoli.
Infermiera a paziente: “Giulia, bella donna, lei ieri mi ha rifiutato una supposta di
glicerina e quindi oggi è da clistere.. perché me l’ha rifiutata? Tanto bisogna farla prima
o poi.. quindi oggi o la fa da sola oppure clistere, perché più resta lì peggio è”.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
… l'infermiera torna e dice alle altre infermiere: “C'è da mettere una sonda a Gianni,
che meraviglia!” (ironicamente). Poi continua “Ci sarà da mettere anche un sacchetto?..
(prende una sonda incartata da uno scaffale e chiede) questa basterà?”. Un'altra
infermiera le chiede: “Se vuoi la metto io se ti dà fastidio...”
(Da osservazione in guardiola infermieristica)
Tuttavia, le infermiere sembrano avere imparato a sdrammatizzare sul tema delle
evacuazioni:
L’altra infermiera chiama l’infermiera B. per riprendere la paziente dal bagno. L’altra
infermiera, entrando in bagno, si lamenta. L’infermiera B. dice: “eeh un po’ di puzza non
ha mai ucciso nessuno”.
…
L’infermiera tira la tenda intorno al letto di una paziente e dice “Ne ha fatta tanta
signora! Erano tanti giorni eh”, poi l’infermiera B. cambia la signora.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Come i medici, anche gli infermieri tendono a chiedere il permesso o se non altro ad
118
avvisare il paziente quando “invadono” il suo spazio privato.
Infermiera a paziente: “Claudio, visto che sono 3 giorni che non fai la cacca e oggi non
vai in palestra perché hai la febbre, ti va, se sei d’accordo, di fare una supposta di
glicerina?” Il paziente dice che va bene. L’infermiera esce dalla stanza per andare a
prendere la supposta, torna dopo pochi secondi, poi va a somministrarla al paziente,
dopo aver tirato le tende. Dice “Allora vado eh..”.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Gli aspetti evidenziati fanno pensare che le infermiere si rappresentino la necessità di
rispettare il corpo del paziente e, di fatto, lo facciano nelle loro azioni “dirette”. La
relazione paziente – infermieri, in definitiva, è connotata da comportamenti che
indicano la volontà di rispettare il corpo del malato. Tuttavia, il dolore fisico dei pazienti
– anche in quanto poco rappresentato nella mente degli infermieri – non sembra
essere propriamente gestito da questi ultimi. Questo aspetto si può notare – per
differenza rispetto a medici e fisioterapisti – anche dall’assenza di domande finalizzate
direttamente ad indagare la presenza di un’eventuale sofferenza.
Infermiera, parlando (lamentandosi) di un paziente: “Poi, non mangia da seduto..”.
Interviene una specializzanda “è perché non riesce, anche se ha il busto si deve
tenere..”, Caporeparto: “..per forza non riesce se gli fa male..”. (…) Infermiera: “ sì, c'ha
un dolore ma noi che ne sappiamo? Non lo capiamo!“
(Da osservazione di un team multi – professionale)
Lo scambio presentato fa pensare che gli infermieri non si percepiscano in grado di
gestire il dolore fisico, né comprendano la rilevanza che questo può avere nella
determinazione di atteggiamenti e comportamenti dei pazienti: mancherebbe quindi,
come ipotizzato, la rappresentazione di una relazione tra il corpo “sofferente” del
malato ed il suo mondo personale, fatto di pensieri, comportamenti ed emozioni.
119
4.3.4 L’uso del linguaggio
In questa sezione si ha come obiettivo quello di analizzare la relazione tra operatori
sanitari e pazienti alla luce di una delle sue più potenti ed esplicite espressioni: il
linguaggio. Si è detto, parlando del metodo etnografico, che soffermarsi sulle parole e
sui termini utilizzati dal gruppo osservato può essere utile per ricostruire i significati
attribuiti a cose ed azioni. Aggiungiamo qui che il linguaggio utilizzato nelle interazioni,
in quanto veicolo di intenzioni e rappresentazioni reciproche, ruoli attesi ed
autorevolezza riconosciuta, può diventare un importante indicatore della centratura sul
paziente.
Quanto alla categoria dei medici, una prima considerazione riguarda la comprensibilità
della lingua: capire ed essere capiti, in ospedale, è fondamentale. Tra le corsie di
reparto - quindi in un ambiente specializzato - si ha l’abitudine di usare parole che
pochi conoscono, sentono, leggono e ancor meno usano abitualmente. Numerose
osservazioni permettono di affermare che non di rado il linguaggio utilizzato dai medici
non viene compreso dai degenti o dai loro familiari; per questo essi, a volte, richiedono
esplicitamente riformulazioni o spiegazioni.
Il medico dice al padre di un paziente: “È stato previsto l’innesto di un lembo sulla
mano, ma quella mano è rigida, per me non ha senso…” continua a parlare per un po’
delle conseguenze di questa operazione. Quando il medico finisce di parlare il padre
chiede cosa significhi “innesto di lembo”..
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Considerata la ricorrenza di situazioni analoghe, è lecito pensare che i medici non si
rappresentino
o
comunque
non
agiscano
per
prevenire
il
problema
dell’incomprensione. Questo aspetto diventa cruciale se ripensiamo all’inevitabile
posizione di svantaggio che caratterizza i malati in ospedale: sembrerebbe infatti che
non sempre i pazienti si arroghino il diritto di chiedere al medico di “tradurre” quanto
dichiarato in un linguaggio a loro comprensibile.
120
Una specializzanda sta visitando una paziente appena arrivata, altre specializzande
assistono. Dice: “A me qui sembra fascite plantare..”. Le altre specializzande
annuiscono, la paziente guarda, non reagisce. La specializzanda prosegue nella visita.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Eppure l’accesso alle informazioni, in ospedale, è un aspetto fondamentale, anche nel
dichiarato dei professionisti. L’informazione, in ospedale, va affrontata con la stessa
precisione con cui si predispone una terapia. Deve essere progettata, programmata,
proposta, verificata. L’informazione sorregge la degenza dei pazienti e dei loro parenti e
ne determina la qualità (Fontanella, 2011, p. 129). L’ipotesi è che nell’utilizzo che i
medici fanno del linguaggio avvenga qualcosa di simile a quanto si è osservato rispetto
all’uso dello spazio da parte degli infermieri: i medici comunicano il senso proprietà
sull’ospedale attraverso l’adozione di una lingua privata ed inaccessibile al paziente. Se
quindi immaginiamo gli infermieri come simbolici “guardiani” dello spazio, potremmo
vedere nei medici i “custodi” delle informazioni. Riportiamo un episodio che potrebbe
rappresentare un’ulteriore conferma di questa ipotesi. L’episodio osservato dice di una
sorta di isolamento – rimozione del paziente dal contesto relazionale:
Consulenza esterna. Il medico si rivolge al paziente (è molto anziano): “Carlo
buongiorno, come andiamo? Si ricorda di me? Come sta andando con la terapia?” il
paziente fa molta fatica a parlare, ma sembra aver compreso la domanda. Il medico si
rivolge ad una delle dottoresse che è presente in camera e le chiede che diagnosi è
stata fatta. La dottoressa risponde, spiega tutto davanti al paziente. Poi parlano della
situazione familiare del paziente, sempre davanti a lui ma senza interpellarlo… lui li
guarda ma non reagisce. Poi la dott.sa dice al medico che il paziente non va in palestra
da tre giorni. Medico, al paziente: “com’è che non va in palestra?”. Una delle
dottoresse, abbastanza bruscamente: “Se poi si ferma non cammina più!”. Medico e
dottoressa parlano della diagnosi, mi sembra di capire sia abbastanza grave anche
perché parlano di “trattamenti fini a loro stessi” e “forma a rapida degenerazione”. Ne
121
parlano sempre davanti al paziente (che comunque mi sembra in grado di
comprendere) ma senza mai interpellarlo..
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
In un ambiente come l’ospedale un attore comunicativo poco visibile e poco interattivo
accentua il rischio di rimozione dal contesto comunicativo (Fontanella, 2011, p. 81). La
conseguenza più frequente è che gli altri parlino in loro presenza dimenticando che ciò
che dicono sarà ascoltato. Oltre ad aver parzialmente rimosso il malato dalla
comunicazione, mi sembra rilevante sottolineare che una dottoressa fa uso del registro
della minaccia (“Se poi si ferma non cammina più!”). L’uso della minaccia, considerando
la posizione svantaggiata del paziente che abbiamo spesso discusso, aumenta il
sospetto di essere in presenza di una comunicazione diseguale. Un altro elemento del
linguaggio che fa pensare alla finalità, forse inconsapevole, di marcare una distanza tra
il mondo dei pazienti e quello dei medici è l’adozione di formule “noi – loro”, che
sottolineano cioè l’appartenenza a due gruppi ben diversi e separati:
Medico (riferendosi al peso della signora): “Lo vede signora che fatica che fa a
muoversi? Questo non è colpa dei medici però…”
Paziente: “lo so lo so, so… Ah guardi, ci vuole una pazienza con i vecchi!”
Medico: “ah ma tanto lo diventeremo anche noi..”.
Paziente: “e speriamo di sì! Però vivrete di più voi..”
Medico: “e perché signora?”
Paziente: “perché voi avete studiato.. e poi perché aiutate noi..”.
Medico: “Sì ma siamo anche più stanchi e stressati..”
Paziente: “guardi che ho lavorato anche io sa..”
Interviene la specializzanda : “e cosa faceva?”
Paziente: “l’operaia”.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
La ricorrenza dei pronomi personali – usati da entrambi i soggetti – marca
122
l’impermeabilità dei confini tra le due categorie e crea un potente effetto in- group –
out-group. Si può immaginare che questo aspetto non faciliti la costruzione di una
relazione non stereotipata, né favorisca la creazione di alleanza terapeutica o la ricerca
di un terreno comune (dimensioni, queste ultime, presenti nei modelli di PCM proposti
nel capitolo 1). È necessario però sottolineare che quanto appena descritto non
caratterizza tutte le interazioni medico – paziente. Inoltre, l’effetto in-group – outgroup è mitigato da un fattore che appare parzialmente contraddittorio e che riguarda
aspetti non verbali della comunicazione: i medici adattano spesso il tono ed il ritmo
della voce alla condizione dei pazienti ed all’aspettativa delle loro capacità di
comprensione. Inoltre, le specializzande, soprattutto con i familiari, parlano
solitamente in modo molto gentile e trasmettono grande serenità.
Mentre torniamo in reparto si sente ancora la voce della paziente Carla (paziente con
sindrome di Down) che si lamenta. Il medico decide di andare a vedere cos’abbia, va
davanti al letto della paziente e le parla un po’, le chiede cosa c’è che non va e come
mai urla tanto.. poi nel salutarla dice: “Ciao Carla.. ciao… allora, se c’è qualcosa vengo
subito io, però non ti voglio più sentire urlare inutilmente, capito Carla?” . Parla con un
tono molto calmo e gentile e la paziente sembra tranquillizzarsi.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Infine, non sembra esserci una norma fissa nell’uso del registro del “tu” o del “lei” tra
medico e paziente; in un primo momento di conoscenza tuttavia i medici tendono a
dare quasi sempre del lei al paziente. Lo stesso vale per gli infermieri i quali però, una
volta conosciuto il paziente, passano quasi sempre al “tu”. La variabilità del registro di
linguaggio utilizzato dagli infermieri con i diversi pazienti (più o meno formale, uso del
“lei” o del “tu”, più o meno connotato dalla presenza di sdrammatizzazioni, scherzi ed
ironia) fa pensare ad una relazione con ampi margini di sviluppo durante la degenza. È
rilevante sottolineare che, nella comunicazione pazienti – infermieri, l’uso dei pronomi
serve spesso ad una finalità speculare ed opposta rispetto a quanto osservato con i
medici. Si veda come nel seguente scambio, ad esempio, il “noi” dell’infermiera veicoli
123
la volontà di creare alleanza e partnership con il paziente, escludendo (grazie al registro
dello scherzo) un altro infermiere:
L’infermiera sta medicando la paziente, le dice: “Prova a tirare su il piede… bravissima!
Dai che facciamo anche un po’ di ginnastica.. benissimo.. promossa!”. Poi, sempre
mentre medica la paziente, l’infermiera dice ad un altro infermiere “ah abbiamo già
fatto noi, non abbiamo mica bisogno di te, è stata bravissima questa signora qui”.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Il linguaggio delle infermiere indica di frequente una partecipazione personale ed
emotiva ai miglioramenti del paziente:
Paziente: “come le sembra che vada?” Infermiera: “molto bene guardi, sono proprio
contenta. La ferita va molto meglio”. (Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Infine, quando gli infermieri devono somministrare ai pazienti le terapie (prescritte dai
medici), ricorre l’uso di domande o formule per sondare il volere e le preferenze del
paziente:
Infermiera a paziente: “Se va bene per lei, signora, le darei una supposta di glicerina”
….
Infermiera a paziente: “Le pastiglie le preferisce sbriciolate?”
….
Un’infermiera entra in guardiola e dice: “Vado a dire alla dott.sa M. che la (nome
paziente) non ha voluto prendere le medicine”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Questo indizio è parzialmente contraddittorio con la scarsa autorevolezza riconosciuta
al paziente nella gestione e nel possesso degli spazi (lì, il suo parere non è quasi mai
richiesto). D’altro canto, possiamo ipotizzare che esista una dissimmetria tra gli ambiti
124
in cui gli infermieri riconoscono autorevolezza ai pazienti: ai malati sarebbe
riconosciuto il diritto di decidere se accettare o meno le cure mediche, ma non quello
di esprimere le loro preferenze rispetto alla privacy, all’accesso ed alla gestione degli
spazi (si veda l’ipotesi degli infermieri come guardiani dello spazio).
Passiamo, infine, a considerare il ruolo del linguaggio nella relazione fisioterapista –
paziente. Nonostante la categoria professionale dei fisioterapisti, come quella dei
medici, sia caratterizzata dalla presenza di un gergo specializzato, è infrequente la sua
adozione nelle interazioni con i pazienti. La lingua con cui i fisioterapisti parlano ai
malati si caratterizza per essere semplice, concreta e molto comprensibile.
Parlando dei poggiapiedi della carrozzina, il paziente dice che uno, il sinistro, è piccolo.
La fisioterapista risponde;: “ascolta Andrea, tu non hai un piede grande e uno piccolo… i
poggiapiedi sono uguali ma il piede sinistro ti scappa in avanti. Guarda, c’è un tavolino
trasparente sopra la carrozzina così tu puoi controllare meglio e stai attento a quando
ti scappa il piede….”
Quando vengono utilizzati termini che il paziente potrebbe non comprendere sono
quasi sempre i fisioterapisti stessi a riformulare, senza bisogno che sia il paziente a
richiederlo:
La fisioterapista sta compilando, insieme al paziente, la scheda di valutazione: “ Guardi
(e mostra al paziente) in ingresso la motricity era a 1 e ora è a 73.. vuol dire che prima
non c'era risposta, che le gambe e le braccia erano molli...direi che possiamo ritenerci
soddisfatti!”. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Grazie all’utilizzo di un linguaggio comune, i fisioterapisti garantiscono al paziente un
accesso molto semplice alle informazioni relative alla cura, ai progressi ed agli obiettivi
più o meno raggiunti. Anche nella gestione del linguaggio sono tangibili gli sforzi dei
fisioterapisti diretti all’empowerment del paziente.
Il paziente dice “forse c'erano le condizioni per migliorare... vediamo quando riesco
125
anche a camminare..!”. Fisioterapista:“guardi Bruno che le ribadisco, lei sta già
camminando! Una volta che comincia a fare i primi passi poi si può solo migliorare, il
difficile è iniziare. E visto che non ci sono dei vizi tipo una spinta da un lato o dall'altro,
lei può solo migliorare ora.. vedrà che piano piano...”. Continua a compilare la scheda.
Mentre compila legge ad alta voce: “metto autonomia in casa eh...”
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Lo stile è spesso informale e stimola la vicinanza con il paziente invece che sottolineare
la distanza determinata dai ruoli. Ad esempio i fisioterapisti raramente danno del “lei”
ai pazienti che conoscono da tempo (ad eccezione dei pazienti molto anziani) ed è
frequentissimo l’utilizzo del nome proprio. Anche i malati tendono a dare del “tu” e a
chiamare per nome il fisioterapista, elemento che riduce l’effetto in-group – out-group.
Si ricordi, a questo proposito, l’esclusività del rapporto tra il paziente ed il fisioterapista,
che resta lo stesso durante tutta la degenza. Il seguente scambio avviene tra una
fisioterapista ed una paziente appena ricoverata, durante la prima ora di palestra e
circa mezzora dopo essersi conosciute:
Fisioterapista: “ora provi a sollevare un po’ il sedere.. respiri però! Che non facciamo un
corso in apnea!”. La paziente guarda la fisioterapista e le dice “Se lasciassimo di là il lei
e ci prendessimo il tu?”. La fisioterapista ride e dice che va bene.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Altri elementi che veicolano alleanza terapeutica e mitigano la distanza definita dai
diversi ruoli sono l’utilizzo dei verbi alla prima persona plurale, come a comprendere la
figura del fisioterapista nelle azioni che svolgerà il paziente (“Diamoci una raddrizzata
ora”, “Venga, proviamo ad alzarci in piedi”) ed il frequente utilizzo di complimenti e
verbi premianti. I fisioterapisti mostrano la volontà di partecipare ai piccoli passi avanti
dei paziente e di infondere in loro fiducia e sicurezza di sé; si è visto infatti come tali
elementi siano considerati determinanti nei progressi dei malati.
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La fisioterapista avvicina la carrozzina al letto ed il paziente fa lo spostamento
carrozzina-letto aggrappandosi alla fisioterapista e ruotandosi per arrivare a sedersi sul
letto. Fisioterapista: “Sei stato bravissimo!”, paziente: “Grazie, Luisa”, fisioterapista:
“Grazie niente, hai fatto tutto tu!”
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Abbiamo già visto come il fisioterapista stimoli moltissimo il paziente con domande di
vario genere. Lo conferma anche un dato metodologico: mentre durante le
osservazioni delle interazioni medico – paziente o medico – infermiere io non sia quasi
mai riuscita a riportare le risposte del paziente (in quanto brevi e sporadiche), i
protocolli etnografici delle interazioni fisioterapisti – paziente sono ricchi di parole dei
pazienti. Infine, nel dare istruzioni o correggere i pazienti, i fisioterapisti utilizzano
spesso lo scherzo ed il registro dell’ironia.
La fisioterapista dice sorridendo alla paziente “ora mi fai un po’ Carla Fracci sulle
punte”. Mentre la paziente fa l’esercizio la fisioterapista le ricorda la postura corretta,
dice “guarda che le spalle non ti servono”. Durante tutta la durata degli esercizi sul
tappetino paziente e fisioterapista sono una affianco all’altra, la fisioterapista la
guarda, a volte la corregge. Le sorride quasi tutto il tempo. Fisioterapista: “ti riposi un
attimo ora… ti vuoi stendere?” la paziente annuisce.
(Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista)
Anche il linguaggio non verbale (i frequenti sorrisi, il guardare negli occhi) veicola la
volontà di stabilire una relazione fondata su rispetto e fiducia.
In questa sezione abbiamo visto come le tre diadi professionista – paziente siano
caratterizzate da diverse relazioni. Gli elementi che fungono da indicatori di una
maggior o minore centratura sul paziente sono molteplici ed eterogenei; tali elementi
non sono sempre coerenti tra loro, ed anzi sembrano comporre quadri ad elevata
complessità di lettura. D’altro canto questo dato ci parla dell’inadeguatezza –
127
nell’affrontare il tema della Patient Centred Care nelle sue implicazioni relazionali – di
semplificazioni e riduzionismi. La dimensione della negoziazione di proprietà sembra
essere un utile ancoraggio ed un efficace organizzatore dei principali elementi
osservati. Si è visto come le diverse categorie professionali instaurino relazioni con i
pazienti caratterizzate dalla diversa modulazione del senso della proprietà, a sua volta
declinato nell’uso degli spazi e del linguaggio, nella disposizione del tempo e
nell’accesso al corpo. L’interazione di questi fattori dà origine ad un quadro sì
complesso ma non disgregato, e comunque utilizzabile per la comprensione di asset
fondamentali nel contesto della relazione professionista sanitario – paziente. Infine, è
bene ricordare che gli indicatori scelti sono derivati da un’analisi avente come oggetto e
scopo l’individuazione di una cultura organizzativa più o meno centrata sul paziente. Il
livello relazionale è stato quindi descritto a partire da una prospettiva
(necessariamente parziale), la quale ha poi informato la “lente” attraverso cui guardare
ai dati: la prospettiva culturale dell’organizzazione, dal cui angolo visuale la relazione
tra pazienti e professionisti prende forma soprattutto nel sedimentarsi di
rappresentazioni, pratiche e valori condivisi.
4.4 L’organizzazione
IL REPARTO CENTRATO SUL PAZIENTE
“L’organizzazione non è un a priori, ma è frutto della convergenza di bisogni, desideri e
opzioni diverse, negoziabili nelle differenti culture e utilizzabili per speranze diverse”
E. Spaltro17
Eccoci finalmente giunti all’analisi della cultura Patient Centred declinata a livello
organizzativo, oggetto primario della ricerca e scopo dichiarato fin dai primi step della
sua progettazione. Anteporre a questa sezione l’analisi delle ricadute individuali e
relazionali della cultura Patient Centred ha permesso a chi legge di toccare con mano la
17
SPALTRO (1990). Complessità. Introduzione alla psicologia delle organizzazioni complesse. Bologna:
Pàtron
128
complessità degli aspetti da considerare nell’affrontare il poliedrico tema della cura
centrata sul paziente applicata alla realtà organizzativa. D’altro canto, le
rappresentazioni mentali che i professionisti sanitari hanno dei pazienti, così come la
forma che esse assumono nel contesto nella relazione, costituiscono indizi del tipo di
cultura condivisa e ricorsivamente co-costruita dagli operatori nel loro contesto
lavorativo. Analizzare la cultura Patient Centred dal punto di vista organizzativo è anche
l’obiettivo più sfidante di questa tesi, sia per i molteplici livelli di complessità che esso
chiama in causa sia per la varietà di angolature teoriche che potrebbero orientare
l’analisi. La scelta metodologica che ha guidato l’analisi dei dati è stata quella di non
partire da una specifica teoria della cultura organizzativa mutuata dalla psicologia delle
organizzazioni ma di lasciar parlare artefatti, routine, pratiche, procedure e tutto ciò
che nell’organizzazione stessa emerge rispetto al tema della cultura Patient Centred.
Non è stata perciò eseguita un’analisi culturale esaustiva del reparto. Certamente gli
ancoraggi teorici che hanno orientato la ricerca degli elementi organizzativi relativi alla
centratura sul paziente (il classico “paio d’occhiali” che filtra l’osservazione) sono stati
mutuati da diversi autori (che citerò di volta in volta); si è lasciato, però, che a guidare
l’analisi fossero in primo luogo le manifestazioni di quella che potremmo definire una
volontà organizzativa (risultata dal sedimentarsi di assunti, valori e pratiche lavorative)
di mettere il paziente al centro del processo di cura. Per facilitare la comprensione dei
molti elementi che sono stati osservati, si è deciso di organizzare l’analisi seguendo
l’immaginaria linea di un continuum che va da un minimo ad un massimo livello di
formalizzazione delle manifestazioni della cultura Patient Centred. Al massimo livello di
formalizzazione incontriamo la prima macro – categoria descritta, cioè quella degli
artefatti organizzativi. Secondo la classica teoria della esposta da Schein (1999), gli
artefatti costituiscono l’aspetto più visibile e concreto della cultura organizzativa. La
loro analisi permette di inferire quali valori ed assunti la sorreggono e ne informano il
funzionamento. Si parlerà poi di un dispositivo micro-organizzativo, in particolare del
lavoro in team e dell’equipe multi-professionale: la decisione di porre tale categoria ad
un livello intermedio di formalizzazione è motivata dal suo essere, al contempo, un
processo organizzativo standardizzato ed un luogo di produzione di significati
129
utilizzabile dai diversi soggetti implicati per diversi scopi ed in diverse accezioni. Infine
si tratterà il tema della rete “informale” e non strutturata che si crea attorno al
paziente, risultato del ciclo sedimentazione-ricostruzione delle pratiche lavorative
Patient Centred. Nella stesura di questa sezione sono stati utilizzati materiali derivati da
ogni genere dato raccolto: interviste, materiale documentale e protocolli osservativi.
Fare rete attorno
al paziente
Il team multi professionale e il
lavoro di equipe
Gli artefatti
Patient Centred
LIVELLO DI FORMALIZZAZIONE DELLE CATEGORIE DI ANALISI
Schema 4.4
4.4.1 Gli artefatti come simbolo del paziente al centro
Quando si entra in una qualsiasi organizzazione, gli artefatti costituiscono il livello più
immediato di osservazione: essi sono ciò che si vede, si ascolta, si tocca. In altre parole,
attraverso gli artefatti la cultura si palesa nel tempo e nello spazio ed ha un immediato
impatto emotivo. Nonostante la loro esplicita, fruibile esistenza, gli artefatti non sono
immediatamente comprensibili nei loro significati e nelle loro funzioni (essendo tali
aspetti costruiti socialmente). Quindi, sebbene la cultura si renda esplicita anche
attraverso gli artefatti (oltre che tramite comportamenti manifesti, rituali, clima e valori
dichiarati) la sua essenza è data dagli assunti taciti condivisi (Schein, 1999).
Nell’introdurre il tema degli artefatti, è necessario anche menzionare il ruolo che tale
eterogeneo insieme di oggetti organizzativi può assumere nella produzione di
130
conoscenza. Distinguiamo innanzitutto due diversi registri di conoscenza che
riguardano i contesti organizzati: una esplicita, teorica, espressa e contenuta nelle
tecnologie, pubblicamente accessibile ed una tacita, implicita, informale, radicata nelle
pratiche e nelle routine lavorative. Gli artefatti giocano un’importante funzione nella
costruzione e nel mantenimento di questo secondo tipo di conoscenza (Argyris, Schön,
1996; Baitsch, 1993, 1996; Schulz, 2008), sempre soggetto a negoziazioni e transazioni
sociali. Gli artefatti, come mediatori tra i soggetti e le loro azioni e relazioni con il
contesto organizzativo, diventano così uno degli strumenti principe per la condivisione
di conoscenza (Nicolini et al., 2003; Feldman, Pentland, 2003; D’Adderio, 2010).
Nonostante gli interessantissimi sviluppi che emergerebbero dall’approfondire come,
all’interno del reparto, gli artefatti orientino, costruiscano e modifichino le pratiche
lavorative, non è questa la sede dove tale analisi potrà essere adeguatamente condotta
(tanto per limiti di spazio e tempo quanto per l’insufficienza del materiale osservativo
raccolto). Ci si auspica però che la presente tesi possa rappresentare un punto di
partenza perché questa ed altre indagini più focalizzate possano essere portate avanti
in futuro. L’obiettivo del paragrafo 4.4.1 è quello di indicare e descrivere alcuni artefatti
organizzativi particolarmente rilevanti in quanto, plausibilmente, risultato del
sedimentarsi di pratiche, valori ed assunti diretti a mettere il paziente al centro del
funzionamento del reparto.
CICLO ARTEFATTI – PRATICHE
Schema 4.5
Pratiche
lavorative
la loro ripetizione e sedimentazione
porta alla creazione di..
modificano, strutturano,
vincolano e orientano le..
Artefatti
131
4.4.1.1 I documenti
I documenti che permeano la vita organizzativa sono di fondamentale importanza
nell’indagine culturale: da slogan, manuali, resoconti di discorsi, depliant di
presentazione dell’organizzazione traspaiono ideologie, identità, struttura gerarchica e,
nel caso della presente ricerca, attenzione e focalizzazione sull’esperienza del
paziente/utente. Di seguito saranno descritti i documenti prodotti dall’Unità Operativa
di Medicina Fisica e Riabilitazione, ritenuti rilevanti per l’analisi della cultura centrata
sul paziente. Lo sforzo costante sarà quello di confrontare il livello “pubblico”, cioè
scritto ed esplicitato nei documenti, con le dichiarazioni dei professionisti e con il
materiale prodotto dalle osservazioni sul campo. A questo proposito Schein ricorda che
il confronto tra gli artefatti ed valori dichiarati è di cruciale importanza: come principio
generale, il modo per approfondire i livelli culturali è attraverso l’identificazione delle
incoerenze e dei conflitti che si osservano fra i comportamenti pubblici, le politiche, le
regole, la pratica (gli artefatti) e i valori dichiarati come sono formulati nelle
affermazioni, nelle linee di condotta e in altre comunicazioni manageriali (Schein, 1999,
pp. 59).
Aspetto comune a tutti i documenti analizzati è la sottolineatura di una dimensione
molto rilevante ai fini della presente ricerca, in quanto possibile indizio di una cultura
organizzativa orientata a soddisfare i bisogni del paziente: viene spesso menzionato
l’obiettivo di costruire per il paziente un percorso personalizzato, che tenga cioè conto
delle sue necessità e dei suoi bisogni. Consideriamo ora i documenti selezionati
singolarmente.
L’informativa di reparto: si presenta come una risma composta da quattro facciate.
L’informativa viene consegnata al paziente ed ai suoi familiari subito dopo il ricovero ed
ha lo scopo di far conoscere al paziente le norme, i soggetti di riferimento ed alcune
caratteristiche dell’organizzazione – reparto.
132
“L'informativa di reparto serve a spiegare al paziente come è organizzato..chi è il
medico referente, il coordinatore infermieristico…”
(Da intervista a Caposala)
Di quanto si legge nel ritaglio sopra riportato18, ai fini di individuare indizi della
presenza di un cultura centrata sul paziente, è importante sottolineare la dimensione
dell’accoglienza e dell’impegno nella presa in carico del paziente, manifestata anche
dall’accortezza dalla tempestività e con cui il reparto informa il paziente delle figure che
saranno un punto di riferimento durante la degenza. Quanto allo scambio di
informazioni tra pazienti, familiari e Staff sanitario durante, vengono citati i team
individuali, descritti come incontri specificamente dedicati a questo scopo. Tuttavia,
come si vedrà in seguito, i team individuali (previsti a 3 – 5 giorni dal ricovero del
paziente) non vedono coinvolto, salvo casi particolari, né il paziente né i suoi parenti.
Quanto invece allo scambio di informazione non strutturato (“durante il trattamento”),
18
Le evidenziature sono state aggiunte posteriormente ed ai fini dell’analisi.
133
ciò che è scritto nel documento è confermato dalla dichiarazione della Caporeparto
durante un’intervista:
“La comunicazione con il familiare avviene anche quotidianamente… noi siamo sempre
in reparto, i familiari sono abituati che quotidianamente vengono a parlare con noi. La
riabilitazione va condivisa con un parente.”
Ricorre, in questo importante artefatto, la dimensione della personalizzazione del
processo di cura, elemento chiave della Patient Centredness:
Dai pochi stralci riportati, è già possibile notare la rilevanza che il reparto conferisce al
team riabilitativo: ai fini della riuscita della cura dei pazienti, è indispensabile poetr
contare sulla funzionalità dell’equipe multi-professionale. È proprio per la sua rilevanza
nel contesto del reparto che si è deciso di dedicare a questo tema un paragrafo a sé
stante.
Oltre
alla
personalizzazione,
il
documento
dimostra
l’attenzione
dell’organizzazione ad un altro fattore cruciale della PCM: la considerazione della
persona nella sua interezza, come emerge dalle politiche di accesso ai familiari e di
uscita in permesso del paziente durante il finesettimana.
134
Sembrerebbe presente anche un’attenzione alla privacy dei pazienti: si chiede infatti ai
parenti “la massima collaborazione per favorire le attività assistenziali e tutelare la
privacy dei pazienti”. A questo proposito si ricordi quanto emerso nella discussione in
merito al possesso dello spazio di reparto: si potrebbe ipotizzare che la privacy dei
degenti andrebbe tutelata, oltre che attraverso la regolazione del comportamento dei
familiari, anche tramite la segnalazione di questo aspetto, fondamentale quanto spesso
sottovalutato, ai professionisti. Infine, all’interno dell’informativa di reparto sono
contenuti due ulteriori documenti: il codice in materia di protezione dei dati personali
e le informazioni per il rilascio della cartella clinica. Quanto al primo documento è
importante sottolinearne un aspetto: è esplicitamente previsto che il paziente possa
“opporsi in tutto o in parte per motivi legittimi al trattamento dei dati che lo
riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta”. Sottolineo l’esistenza di
questa clausola perché, durante un’intervista, la coordinatrice del corpo infermieristico
sottintende che il paziente non abbia in effetti altra scelta che acconsentire al
trattamento dei propri dati:
Parlando dell’informativa di reparto: “poi bè contiene un documento con tutto il
135
discorso della legge sulla privacy che è obbligato a dare..”
Quanto all’altro documento citato, esso spiega come il paziente possa richiedere una
copia della propria cartella clinica una volta dimesso dal reparto. La cartella clinica è, di
per sé, un artefatto molto interessante. Da circa due anni, nel Policlinico, la cartella è
“unica”: questo significa, da un lato, che la cartella è uguale e standardizzata in tutti i
reparti; dall’altro che essa è una sola per ogni paziente e contiene tanto i documenti di
competenza medica quanto la documentazione infermieristica.
“Questo vuol dire che la cartella clinica segue il paziente in qualsiasi reparto
dell'ospedale in cui venga trasferito, non se ne apre una nuova ad ogni trasferimento
ma si inserisce tutto nella stessa cartella. La cartella deve seguire il paziente, queste
sono le regole”. (Da intervista a medico)
Si ricordi che, durante la degenza, il paziente non ha diritto a visionare la propria
cartella clinica. Questo dato è stato oggetto di discussione con la caposala durante la
già menzionata intervista sul campo.
Io: “I pazienti hanno accesso alla cartella clinica durante la degenza?”
Caposala: “No no assolutamente, non possono guardare la loro documentazione.”
Io: “Come mai?”
C: “Penso che sia proprio un discorso di.. come dire... segreto professionale. Perchè è
vero che tu stai gestendo una persona e gli devi dire quello che gli sta succedendo, però
lui non è autorizzato a vedere la tua documentazione. La vede solo alla dimissione.
Penso che ci sia proprio una legge che...legato penso anche a un conflitto nel senso che
poi uno vede scritta una cosa..è come se.. è come se lui potesse vedere a libro aperto
tutto quello che gli sta succedendo, invece tu devi filtrare.”
Io: “Ho capito.”.
C: “Non puoi andare lì a dirgli “Ah oggi lei ha la CPK così” piuttosto che... ci sono diversi
modi di... poi immagina che noi siamo responsabili della documentazione, figurati se
136
anche il paziente può accedere siamo rovinati... parenti e pazienti.. No, la
documentazione rimane nostra però il paziente può richiederla al momento della
dimissione”
Esistono a mio avviso molti modi di analizzare ed interpretare il senso della
conversazione appena riportata: se da un lato è corretto pensare che la normativa
tuteli il paziente dal trovarsi in balia di dati che non sarebbe in grado di decifrare (a
causa dell’inaccessibilità del linguaggio) e che potrebbero quindi metterlo in una
condizione di disagio, dall’altro è impossibile non notare la ricorrenza della dimensione
del possesso, discussa nella precedente sezione dell’analisi. L’uso frequente dei
possessivi, il ricorrere del tema della responsabilità, la scelta delle parole (“siamo
rovinati”, “assolutamente no”) sembrano ricondurre ad una rappresentazione di
paziente come di un soggetto avido di informazioni ma incapace di comprenderle, e
perciò potenzialmente in grado di compromettere il funzionamento organizzativo. Si
intravede qui un elemento a sostegno di un’ipotesi che verrà esposta nei prossimi
paragrafi e che in questa sede mi limito ad accennare. Sotteso a molte procedure
standardizzate del reparto, potrebbe esistere una doppia finalità, ossia un duplice
scopo protettivo: da un lato, nel dichiarato, le norme che regolano il processo di cura
servirebbero a proteggere il paziente ed a tutelarne i diritti, dall’altro tali normative
potrebbero essere finalizzate a difendere i professionisti ed il reparto stesso dal
paziente e dai suoi potenziali “attacchi”. Sul doppio registro della funzione protettiva
delle norme e delle pratiche si tornerà quando verrà affrontato il tema dell’equipe
multi-professionale.
Nonostante la lunga divagazione, è parso opportuno riportare in questa sede le
osservazioni in merito alla percezione di proprietà del materiale documentale del
paziente. Tali osservazioni, infatti, fanno luce sulle modalità di utilizzo di artefatti
cruciali nell’esperienza di ospedalizzazione dei degenti. Torniamo ora all’analisi degli
altri documenti selezionati.
“Il percorso del paziente ed il lavoro in team”: a differenza dell’informativa di reparto,
137
questo documento, prodotto dall’Unità Operativa, è ad uso interno; esso è presentato
come un protocollo che “ha lo scopo di illustrare il percorso riabilitativo dei paziente
degente nel reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione e l’organizzazione del lavoro
Dell’Equipe Riabilitativa (EQR). Esso è destinato a tutto il personale dell’Unità”19. La
produzione del documento è seguita ad un’azione di miglioramento intrapresa da un
gruppo di lavoro interprofessionale a cui hanno partecipato le rappresentanze di tutti
gli operatori di Unità. A sottolinearne la rilevanza, riconosciuta in prima persona dalle
figure di coordinamento, è la descrizione del protocollo come del “documento
emblema del nostro reparto” (Da intervista a Caposala).
Lo sforzo costante che sottende l’intero protocollo è quello di esplicitare,
standardizzare e formalizzare il più possibile il percorso del paziente dal momento del
ricovero a quello della dimissione ed i principi regolativi dei momenti di team.
“Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato le importanti difformità esistenti
nel percorso del paziente concludendo che percorsi di cura strutturati e procedure
standardizzate sono utili per migliorare la pianificazione, la continuità assistenziale e
l’efficienza, per ridurre il consumo di risorse, diminuire le eterogeneità di
comportamenti, facilitare l’introduzione di linee guida e lo sviluppo di attività di audit”.
L’artefatto rappresenta la concretizzazione di una rilevante presa di coscienza da parte
dell’organizzazione: quella che vede, nel valore aggiunto delle cure erogate dal reparto,
la connessione e la messa in comune dei diversi apporti professionali alla presa in
carico del paziente. In altre parole, nel protocollo si cristallizza lo sforzo organizzativo di
fondare le attività del reparto sull’integrazione multi - professionale.
“La presa in carico dei pazienti è di tipo “globale” e sottintende una forte integrazione
tra fisioterapisti e operatori del reparto, medici e infermieri. Per ogni paziente viene
predisposto un “progetto” riabilitativo personalizzato ed attuati “programmi”
19
Qualora non sia riportata esplicitamente un’altra fonte, le citazioni riportate a descrizione del
documento “Il percorso del paziente ed il lavoro in team” sono tratte dal testo del documento stesso. Le
sottolineature sono state aggiunte posteriormente, mentre le scritte in grassetto sono tali anche nel
documento originale.
138
riabilitativi specifici. La metodologia di lavoro in equipe prevede incontri strutturati
degli operatori per monitorare il programma in corso, stabilire i nuovi obiettivi e
predisporre un piano di dimissione razionale condiviso con il paziente e la famiglia.”
Si vede come, anche in questo caso, ricorrano le importanti dimensioni Patient Centred
della personalizzazione e della partecipazione attiva di pazienti e familiari al processo di
cura. Per progetto riabilitativo individuale (PRI) “si intende un insieme di proposizioni
elaborate per un determinato paziente che tiene conto in maniera globale dei bisogni
del paziente e delle sue preferenze, delle menomazioni, disabilità e abilità residue e
recuperabili; definisce gli esiti desiderati; definisce nelle linee generali i tempi previsti, le
azioni e le condizioni necessarie al raggiungimento degli esiti; costituisce il riferimento
per ogni intervento svolto dall’equipe riabilitativa”. Inoltre, il documento descrive
(prima) e schematizza (poi) il percorso riabilitativo del paziente e le modalità di lavoro
in Equipe. Al secondo tema sarà dedicato un paragrafo a sé. Quanto al primo, ne
riportiamo qui una sintesi, utilizzando le stesse etichette riportate nel protocollo per la
descrizione di ogni fase:
1) Accettazione – accoglienza: il primo giorno di degenza è dedicato alla accoglienza e
presa in carico da parte di medici e infermieri. Al paziente viene affidato un posto letto
da parte dell’infermiere Case Manager (CM), il quale effettua una prima valutazione del
paziente in merito agli aspetti comportamentali, allo stato di coscienza ed
all’autonomia nello svolgimento delle attività di vita. Il medico visita il paziente e
stende il progetto riabilitativo individuale. Il secondo giorno avviene la presa in carico
da parte dei fisioterapisti. Congiuntamente, fisioterapista e infermiere si recano al letto
del paziente e valutano la mobilità del paziente, la postura ed eventuali ausili necessari.
“L’idea è di avere uno scambio di informazioni anche se sommario che dia alle due
figure (…) un’idea rispetto alle sue condizioni di partenza (…) alle sue limitazioni”
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
In queste fasi è previsto uno scambio di informazioni con il paziente ed i familiari in
139
“colloqui informali”.
2) Condivisione e socializzazione del progetto riabilitativo: dopo tre ed entro cinque
giorni dal ricovero del paziente viene programmato il team individuale. A tale incontro
strutturato partecipano il medico fisiatra, l’infermiere Case Manager ed il fisioterapista
di riferimento del paziente; il team ha lo scopo di condividere in modo sintetico e
veloce (15-20 minuti) i problemi del paziente e di delineare i principali obiettivi previsti.
Lo strumento utilizzato in tale riunione è la scheda individuale, di cui si parlerà in
seguito. Gli informatori ascoltati durante le interviste sono unanimi nel confermare
che, salvo casi eccezionali, né il paziente né i suoi familiari sono presenti a questo
team.
3) Realizzazione dei programmi riabilitativi: vengono quindi avviate le procedure
assistenziali – riabilitative, i programmi di educazione terapeutica, il training al paziente
e care giver, eventuali incontri con paziente e famiglia di informazione e condivisione.
4) Monitoraggio – valutazione: durante la degenza, vengono regolarmente verificati il
raggiungimento degli obiettivi e l’adeguatezza dei programmi e dei processi previsti.
Tale monitoraggio avviene soprattutto in un particolare momento strutturato: il team
settimanale. Ad esso partecipano la caporeparto, i due medici strutturati di ogni ala del
reparto, i due infermieri CM responsabili di ogni ala, il coordinatore dei fisioterapisti, il
logopedista (al bisogno) e l’assistente sociale (al bisogno). In tale riunione lo strumento
utilizzato è la scheda settimanale, compilata dalla caporeparto.
5) Dimissione – restituzione del paziente: è una fase cruciale del percorso “che deve
essere preparata con anticipo in accordo con il paziente e la famiglia”. In questa fase
sarà consegnata al paziente la lettera di dimissione a cui si allega il report della scala
BIM (spiegato in seguito). Verranno discusse le necessità assistenziali riabilitative alla
dimissione ed eventuali accordi con territorio e con il medico curante per garantire la
continuità assistenziale.
140
La puntuale proceduralizzazione del percorso del paziente fa pensare al
riconoscimento, da parte dell’organizzazione, dell’importanza di standardizzare le
pratiche al fine di garantire un positivo processo di cura. Quanto ad ulteriori
dimensioni Patient Centred, mi sembra importante sottolineare la previsione di
dispositivi finalizzati a garantire al paziente un efficace reinserimento nel proprio
contesto di vita (considerazione dell’intera persona, continuità assistenziale). Rispetto
però alla perizia con cui è strutturato il passaggio di informazioni tra i membri
dell’equipe riabilitativa, lo scambio di informazioni tra professionisti e pazienti/
familiari sembra non aver diritto ad un’analoga proceduralizzazione. Le riunioni tra
pazienti e familiari, tanto durante la degenza quanto alla dimissione, non sono infatti
momenti formalizzati, ma vengono attivati al bisogno. “Solo nei casi clinicamente più
complessi sono previste riunioni di tutti i componenti della EQR con la famiglia.
Solitamente dopo la valutazione il medico fisiatra di riferimento si fa carico di
informare circa la diagnosi e i trattamenti necessari, analogamente anche gli altri
operatori informano il paziente sugli aspetti di loro competenza.”A questo proposito è
interessante sottolineare che, parlando delle riunioni tra paziente/famiglia ed equipe
riabilitativa, il medico le descriva come momenti richiesti dai professionisti per avvisare
di eventuali problematiche insorte nel progetto riabilitativo (aggravamento della
situazione
internistica,
sopravvalutazione
delle
potenzialità
e
necessario
ridimensionamento degli obiettivi, etc.), mentre il coordinatore dei fisioterapisti
sostenga che tali riunioni siano più spesso richieste dai familiari stessi. Si può ipotizzare
che questa diversa rappresentazione derivi dalla differente distanza dal paziente che
connota le esperienze dei medici e quelle dei fisioterapisti, essendo questi ultimi
probabilmente più esposti al vissuto ed alle aspettative dei malati e dei loro cari. Di
questo ed altri argomenti affini si parlerà nel paragrafo 4.3.3, quando si approfondirà il
tema della rete attorno al paziente.
Scheda dei team individuale e settimanale: i due documenti sono stati pensati come
un supporto alla condivisione degli obiettivi iniziali (il primo) ed al monitoraggio del
loro raggiungimento durante il processo di cura (il secondo). La loro compilazione
141
avviene durante i team (individuali e settimanali). La differenza fondamentale, a livello
di soggetti che partecipano alla loro compilazione, riguarda soltanto la categoria
professionale dei fisioterapisti: mentre a stendere gli obiettivi iniziali sarà, insieme al
medico ed all’infermiere CM di riferimento, il fisioterapista che si occupa del paziente,
a monitorarne il raggiungimento nel team settimanale sarà invece il coordinatore del
fisioterapisti, il quale “porta la voce” del fisioterapista suddetto. In entrambe le schede
gli obiettivi sono categorizzati in sei classi: stabilità internistica, competenze
comunicativo - cognitive, funzioni senso - motorie, mobilità - trasferimenti, autonomia
nella cura di sé, riadattamento ed inserimento; si può notare come alcune aree siano
prettamente di competenza medica mentre altre chiamino in causa la professionalità
di infermieri, fisioterapisti o logopedisti.
BIM (Barthel Index Modificato): come il protocollo del percorso del paziente e lavoro
in team, si tratta di un documento ad uso dei professionisti. In questa sede non si
vuole descrivere il protocollo in sé (che consiste in una guida per gli operatori alla
compilazione della scala Barthel) ma si vuole invece sottolineare la rilevanza che
assume il report con scala Barthel nella restituzione finale al paziente. Il Barthel Index
include dieci dimensioni relative alle attività primarie nella cura di sé; ciò che misura è
il livello di indipendenza del paziente nel loro svolgimento. Lo score di punteggio è una
scala da 0 a 20 con incrementi di 1 punto (ad ogni area può essere assegnato il
punteggio di 0/1/2/3). Il massimo punteggio per ogni area rappresenta il “peso” con
cui quell’area contribuisce al punteggio totale. La scala Barthel viene compilata
all’ingresso (tra il secondo ed il quarto giorno di degenza) ed all’uscita del paziente
(durante gli ultimi tre giorni prima della dimissione); della sua compilazione sono
responsabili infermieri e fisioterapisti (ognuno relativamente ad alcune delle dieci
aree, come indicato a lato di ogni area). Segue uno stralcio del Barthel Index che ne
esemplifica la struttura.
142
Stralcio di BARTHEL INDEX
Figura 4.1
Alla luce della presente analisi ciò che è rilevante è che i risultati della compilazione del
BIM portano alla configurazione di un istogramma che raffigura efficacemente i
miglioramenti registrati dal paziente durante la degenza in ospedale per ogni area di
funzionamento. Tale istogramma, completo di report esplicativo, viene restituito al
paziente alla dimissione. L’artefatto è di facile comprensione per i pazienti e dà quindi
loro la possibilità di avere una visione complessiva degli effetti del processo di cura.
143
REPORT BARTHEL INDEX
Figura 4.2
144
Lo sforzo di consegnare al paziente una restituzione finale che egli sia in grado di
comprendere e che a sua volta lo metta in grado di valutare il processo sembra
costituire un indizio rilevante della presenza di un orientamento Patient Centred.
4.4.1.2 Oggetti e Spazi
Nel parlare della dimensione spaziale come elemento organizzatore della relazione tra
professionisti e pazienti, sono stati menzionati la funzione dichiarata e l’uso effettivo di
molti artefatti del reparto: le tendine attorno al letto del paziente, il bagno, le porte (e
la libertà di attraversare i confini che queste demarcano), la gestione degli spazi di vita
del degente in generale. Alcuni artefatti rilevanti ai fini dell’analisi della cultura Patient
Centred non sono tuttavia stati ancora menzionati.
In reparto è presente un armadio in cui vengono tenuti dei vestiti di riserva per
eventuali pazienti che ne avessero bisogno. Questo artefatto sembra emblematico
perché veicola il messaggio che il reparto abbia imparato a farsi carico del tipo di
problemi dei suoi specifici pazienti.
In corridoio c’è una signora (paziente) vestita in modo strano, avvicinandomi noto che
ha addosso molte coperte tenute insieme da delle spille da balia. L’infermiera chiede:
“Avete trovato i pantaloni per lei?” una OSS dice di no. Infermiera: “Vado a vedere io”.
Mi spiega che in un armadio tengono dei vestiti di riserva per eventuali pazienti che ne
avessero bisogno. (…) L’infermiera va in guardiola, prende il telefono e chiama la
palestra, avvisa che c’è una paziente che sta andando in palestra che non ha addosso i
pantaloni e in reparto non hanno trovato un paio da prestarle a causa della sua taglia.
Parla della situazione sociale - abbastanza compromessa - della paziente, dice che ha
fatto mandare a casa gli unici pantaloni che aveva.
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Anche durante le interviste alle figure di coordinamento è emerso più volte il tema
della complessità della situazione sociale che spesso caratterizza i degenti. La presenza
145
di vestiti dedicati ai pazienti che ne fossero rimasti sforniti è segno di un
apprendimento organizzativo costruito sulla base dell’esperienza.
Oltre che oggetti concreti, anche la progettazione e l’utilizzo di spazi formalmente
dedicati a degenti e famiglie sono artefatti che occorre tenere in considerazione
nell’indagare la centratura sul paziente. Come si può vedere dalla piantina di reparto
(p. 79), tra le due guardiole infermieristiche si incontra una sala piuttosto grande: il
soggiorno di reparto. Nel soggiorno sono presenti due ampi divani, due lunghe
scrivanie con varie sedie, una televisione, un frigo. Su quest’ultimo è affisso un foglio
che riporta la scritta “FRIGO PER UTENTI” e le regole per il suo utilizzo (allegare un
post-it con il proprio nome o numero di letto al cibo che si conserva nel frigo comune).
Durante le sessioni osservative negli spazi del reparto, ho ipotizzato che il soggiorno
rappresenti uno spazio di socializzazione molto più per i familiari che per i pazienti, i
quali invece passano la maggior parte del loro tempo nelle loro camere. Capita invece
frequentemente che i familiari utilizzino lo spazio del soggiorno per aspettare di poter
visitare i loro cari; in queste occasioni ho spesso osservato l’insorgere spontaneo di
conversazioni.
Nota teorica
Mi sembra che il salotto funzioni molto bene come spazio che garantisce la possibilità
di scambi confidenziali tra i familiari dei pazienti, scambi all’insegna della condivisione
di esperienze. Mi capita infatti spesso di vedere parenti che arrivano in reparto molto
prima di quando effettivamente possono vedere i pazienti.
(Da osservazione nel corridoio di reparto)
A proposito degli spazi dedicati al paziente ed ai suoi cari, è interessante riportare le
affermazioni di un medico:
Il medico mi dice che riguardo agli spazi pensati e dedicati al paziente il loro reparto
non è dei migliori rispetto ad altri reparti di riabilitazione più moderni. Dice che secondo
lui non andrebbe lasciata alla discrezione dei pazienti la scelta di socializzare o meno,
146
ma anzi che la socializzazione dovrebbe essere attivamente incentivata, per esempio
creando delle sale da pranzo, dove i pazienti mangino insieme e possano condividere i
loro problemi.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
In effetti, data la sua ampiezza, il soggiorno non riuscirebbe ad ospitare più di otto nove pazienti durante i pasti. Un elemento, apparentemente banale, che però sembra
essere molto funzionale al fine di rendere il soggiorno un reale spazio di condivisione è
la presenza (tuttavia non stabile) di un piccolo carrello a due ripiani. Sul piano
superiore vi si trovano due thermos (uno di tè e uno di caffè d’orzo), alcuni bicchieri di
plastica e delle bustine di zucchero. Nel ripiano inferiore del carrellino ci sono alcune
confezioni di biscotti e fette biscottate. Dietro ai due thermos si trova un cartoncino
con scritto “l'angolo delle coccole”. Quando è presente il carrellino - angolo delle
coccole, il soggiorno si popola di molti pazienti che, per esempio al rientro dalla
palestra, bevono un tè insieme. In definitiva, il soggiorno rappresenta nel reparto un
luogo ricco di potenzialità per lo sviluppo della dimensione “sociale” dell’esperienza di
degenza. Sembrerebbe però che il paziente abbia bisogno di oggetti concreti attorno a
cui organizzare occasioni di condivisione e socializzazione, e l’angolo delle coccole ne è
un esempio lampante. L’inserimento di artefatti con analoghe funzioni potrebbe
rappresentare una modalità semplice ed economica per curare gli aspetti appena
descritti e migliorare la qualità generale dell’esperienza di degenza.
4.4.2 Il team multi – professionale ed il lavoro di equipe
Nella descrizione delle pratiche lavorative del reparto si è potuto apprezzare quanto la
dimensione del team sia ricorrente e cruciale. Si è già parlato dei team individuali e
settimanali e dei loro rispettivi scopi; ciò a cui è dedicato il presente paragrafo è invece
un affondo sul funzionamento ed i principi, impliciti ed espliciti, che caratterizzano la
dimensione del lavoro d’equipe. Nell’introdurre questo argomento, può essere utile
fare nuovamente riferimento ad artefatti documentali prodotti dal reparto di
147
Riabilitazione. Le immagini che seguono sono tratte da un poster appeso in un
corridoio del reparto.
POSTER DEL LAVORO IN EQUIPE
Figura 4.3
Il lavoro in team sottende momenti cruciali della presa in carico del malato ed è
definito come ciò, nel concreto, consente di mettere il paziente al centro del processo
di cura: si vede come, ai fini della presente ricerca, approfondire il tema dell’equipe e
delle pratiche ad esso relative diventa perciò un obiettivo imprescindibile. Un secondo
artefatto che può essere d’aiuto nel comprendere come l’organizzazione si rappresenti
il funzionamento dell’equipe riabilitativa è il già citato documento del percorso del
paziente e lavoro in team, dove si legge: l’ Equipe riabilitativa (EQR) è un gruppo di
lavoro composto da professionisti che operano in modo integrato e coordinato insieme
alla persona disabile e alla sua famiglia, realizzando gli interventi assistenziali e
riabilitativi necessari. E’ composta da professionisti (il medico fisiatra, l’infermiere,
l’OSS, il fisioterapista, il logopedista) che, pur autonomi nelle decisioni riguardanti le
148
scelte tecniche, esplicitano e condividono obiettivi comuni attraverso momenti
strutturati di confronto. L’ EQR non dovrebbe essere vissuta come un gruppo di persone
che lavorano in modo indipendente per curare, in base alle loro competenze, un aspetto
specifico della disabilità del paziente. Anche il risultato finale non può essere visto solo
come la somma degli sforzi di ogni competenza. L’EQR è intesa come un gruppo di
professionisti con differenti competenze che condividono valori comuni e soprattutto
lavorano per perseguire lo stesso obiettivo.
Si ricordi innanzitutto che le definizioni appena lette sono state formalizzate in
documenti ufficiali: ai fini della presente analisi culturale è opportuno sottolineare la
decisione organizzativa di diffondere la vision del lavoro in team attraverso alcuni
artefatti, uno dei quali è stato definito – non a caso – il “documento emblema del
reparto” (Caposala). Si può dire che tanto l’organizzazione formale quanto i suoi
portavoce si rappresentino il lavoro d’equipe, quando funzionale e ben condotto, come
il reale valore aggiunto del reparto di Riabilitazione.
La dimensione della dell’integrazione professionale è ricorrente e si spinge fino
all’auspicio di una condivisione valoriale. Non è quindi un caso che, durante le
interviste ai coordinatori delle diverse categorie professionali, sia emerso in modo
altrettanto frequente il tema della fatica:
“Sono momenti faticosi a volte, a volte molte difficili, non sempre si hanno le stesse
idee riguardo ai casi.. ma alla fine ne deve uscire qualcosa di non troppo
contraddittorio”
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
“Il motivo per cui abbiamo congeniato questo protocollo che cerchiamo faticosamente
di portare avanti è proprio per la caratteristica del nostro paziente di avere una serie di
problemi embricati”
(Da intervista a primario)
Un altro aspetto formalizzato dell’equipe è il ruolo di conduzione: esso spetta al medico
149
fisiatra. Il Fisiatra svolge il ruolo di conduttore e pertanto deve tendere a creare un
clima costruttivo, tutelando la partecipazione di tutti e cooperando attivamente alla
gestione di eventuali conflitti attraverso la discussione e il raggiungimento del
consenso. (Da documento Percorso del paziente e lavoro in team).
Già da queste poche battute, è possibile notare la ricorrenza del tema di eventuali
conflitti e disaccordi, e della necessità di risolverli. Questo elemento ci dà la possibilità
di approfondire l’ipotesi, soltanto accennata nel paragrafo 4.4.1, del doppio registro di
protezione che connota le procedure del reparto. Funzione esplicita del team multi professionale è quella di creare un setting in cui i diversi operatori si incontrino per
integrare le rispettive aree di competenza.
“È, o per lo meno dovrebbe essere, uno dei momenti di integrazione multi professionale
in cui idealmente il paziente è al centro ed ognuno riscontra a che punto è, che margine
di lavoro abbiamo”
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
Altra funzione del team ampiamente condivisa dagli operatori nelle loro dichiarazioni è
quella di “ricentrare il progetto sul paziente” ed arrivare ad una visione comune, o per
lo meno ad una negoziazione accettata da tutte le parti in gioco, in modo da poter
riconsegnate a pazienti e famiglie una visione univoca. Il team, in definitiva,
proteggerebbe il paziente dalle pericolose conseguenze di una comunicazione
disgregata e non condivisa da parte dei professionisti.
“ll team serve anche per ricentrare il progetto... anche quando non tutti sono molto
d'accordo… Bisogna cercare di capirne le motivazioni ma alla fine parlare con una sola
voce per non confondere il paziente… Parlare tutti con la stessa lingua”.
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
“Quando si è in disaccordo ci si chiuda, si litighi, ma al paziente poi si deve arrivare a
dire qualcosa di non troppo contraddittorio”
150
(Da intervista a primario)
Le parole dei professionisti forniscono in questo senso una spiegazione alla – più volte
menzionata – assenza del paziente e del familiare durante i team: nelle riunioni
d’equipe il paziente è sì “al centro”, ma idealmente; se così non fosse, anzi, verrebbe
meno la funzione tutelante dei team, cioè quella consegnare al paziente una
restituzione informativa univoca e coerente. Alle parole dei professionisti sottende
però un’altra funzione dei momenti di equipe: quella cioè di proteggere l’equipe stessa
dal paziente.
“Al paziente deve arrivare qualcosa di non troppo contraddittorio.. anche perché non
per fare un discorso egoistico ma a volte è capitato che per uno stupido malinteso si
siano create polemiche e reclami scritti… Capitano pazienti che non aspettano altro che
il momento che ci sia una discrepanza tra quello che dicono i diversi operatori per
giocarci sopra e approfittarne o per altri motivi…”
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
Ecco quindi che il “parlare tutti la stessa lingua” non soltanto rassicura, tranquillizza,
tutela il paziente ma è anche la condizione che protegge l’organizzazione dall’essere
messa sotto attacco dal paziente stesso.
Tuttavia, è possibile affermare che l’equipe multi-professionale del reparto in questione
non è dominata da un funzionamento di base del tipo attacco - fuga (descritto da Bion
come un assunto che organizza i comportamenti di un gruppo allo scopo implicito di
difendersi o aggredire qualcuno o qualcosa da cui si sente minacciato). La dimensione
auto-protettiva del team è certo presente, ma almeno in egual misura è presente lo
sforzo di evitare al paziente il vissuto di “disgregazione” causato da eventuali
incoerenze informative. Nel seguente scambio (avvenuto durante un team individuale)
vediamo, ad esempio, come la caporeparto richiami i professionisti a rifocalizzarsi sulla
funzione di integrazione multi - professionale del team:
151
(parlando della dimissione di una paziente)
Fisioterapista: “bisognerà tenerla un po' eh”.
Logopedista: “forse bisognerà avvertire subito i parenti...”.
Fisioterapista: “si sì, bisognerà dire subito ai parenti che i tempi saranno brevi perchè
altrimenti loro aspettano all'ultimo per organizzarsi, e poi al limite la si tiene un po' di
più. Perchè tanto devono organizzare chi la assiste, l'ambiente, la carrozzina.. per me
conviene dire a loro che la si tiene da adesso altre 3-4 settimane anche se penso che poi
servirà qualcosa di più..”
Caporeparto.: “ah, di sicuro servirà di più”.
Fisioterapista: “però se noi diciamo che la teniamo 2-3 mesi loro iniziano a muoversi da
4.. la mia paura è quella.
Caporeparto: “ sì ma ora parliamo di quello che ci diciamo qui, tra noi, non ai parenti.
Poi ai parenti vediamo.”
(Da osservazione di un team multi – professionale)
Passiamo ora a qualche considerazione conclusiva in merito al funzionamento del
team. Come dichiarato nei documenti ufficiali, il medico svolge il ruolo di conduttore: è
lui che regola le tempistiche, dà la parola, ricorda gli obiettivi da raggiungere. Se un
team è molto breve è quasi sempre perché il medico che lo conduce dispone di poco
tempo. Inoltre, coerentemente con quanto esposto nell’analisi del livello
rappresentazionale dei medici, anche nei team si osserva come siano quasi
esclusivamente questi ultimi a richiamare l’attenzione sugli aspetti post-dimissione dei
pazienti. I team hanno rappresentato l’oggetto osservativo principe ai fini dello
sviluppo delle ipotesi e delle riflessioni che saranno esposte nel prossimo paragrafo,
relative alla rete “informale” e non strutturata che si crea attorno al paziente durante la
degenza. Inoltre, durante i team è stato possibile confrontare “in diretta” i diversi
registri con cui i professionisti descrivono il paziente: questa possibilità è stata la fonte
di preziosi insight per la stesura di tutti i livelli dell’analisi.
152
4.4.3 Fare rete attorno al paziente
Nei precedenti paragrafi si è visto come gli artefatti, le pratiche e le procedure
formalizzate all’interno del reparto di Riabilitazione siano accomunate dall’esplicito
obiettivo di porre il paziente come fulcro e baricentro del processo di cura. L’obiettivo
di questo paragrafo è quello di riflettere su aspetti meno strutturati dell’organizzazione;
ci si chiede quindi in che misura le politiche e gli artefatti Patient Centred siano un
antecedente per il buy in dei professionisti nella causa. La centratura sul paziente,
come si è spesso ricordato, non consiste in un piano d’azione né è una lista di
procedure da implementare. Si tratta invece di un cambiamento culturale che richiede
il coinvolgimento e l’impegno a lungo termine di tutti i livelli dell’organizzazione oltre
che la generale disposizione ad accettare quotidianamente nuove sfide (Frampton et
al., 2008). Ci si chiede, in sostanza quanto la mission – dichiarata ed esplicita – di
mettere il paziente al centro sia perseguita dagli operatori anche al di fuori dei vincoli e
delle normative formalizzate. Per cercare di rispondere a tale quesito si prenderanno in
considerazione i momenti della vita organizzativa non scanditi o regolati da procedure
ufficiali. Consideriamo, ad esempio, come avviene la comunicazione interprofessionale
al di fuori dei momenti di team. Un aspetto comune a tutti i professionisti è quello di
rappresentarsi chiaramente il fatto che la cura del paziente sia garantita dalla
funzionalità del sistema, cioè dalla rete che si costruisce attorno a lui.
“La caratteristica del nostro paziente è di avere una serie di problemi embricati che
richiedono professionisti, non solo medici e specialisti, ma anche non medici, che
devono lavorare insieme per gli stessi obiettivi”
(Da intervista a primario)
Si è detto che, salvo casi specifici, non sono previste riunioni strutturate tra pazienti,
familiari ed equipe riabilitativa: salvaguardare la comunicazione con il paziente durante
la sua giornata (tra le corsie del reparto) diventa quindi cruciale.
153
(C'è un momento in cui il paziente vede i professionisti tutti insieme?) Sì, nei colloqui se
avvengono ma spesso anche quotidianamente perchè capita che il Case Manager vada
in palestra a vedere come si muove il paziente o capita che siano i colleghi
(fisioterapisti) ad andare in reparto a far vedere come si comporta… Il medico fisiatra
va in palestra e quindi certe cose le sa già, ne ha già parlato con il terapista..
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
La rete attorno al paziente non si realizza quindi soltanto negli scambi a cui egli
partecipa in prima persona, ma consiste anche nelle comunicazioni non strutturate tra i
diversi professionisti durante il processo di cura. È attraverso questa rete informale che
i professionisti si scambiano informazioni cruciali per la garanzia di un processo di cura
integrato. A questo proposito, si vede come gli infermieri si mettano molto spesso in
comunicazione (telefonica o face to face) con i fisioterapisti per avvisarli con anticipo di
eventuali problematiche o cambiamenti relativi al transito dei pazienti in palestra.
Altrettanto frequentemente, sono i fisioterapisti a riaccompagnare i pazienti alle loro
camere oppure a recarsi in reparto per controllare la loro situazione qualora siano stati
segnalati dei problemi.
“L’infermiera vede una OSS e le dice di avvisare la moglie di un paziente che questa
mattina ha la palestra alle h 8.00. L’infermiera va a chiedere al paziente in questione
cosa vuole per colazione, poi avvisa la OSS, in modo che gliela possa portare (dopo la
palestra, immagino). Arriva in guardiola il Coordinatore dei Fisioterapisti e ricorda
all’infermiera che c’è il paziente X che deve andare in palestra alle 8.00, l’infermiera
risponde che lo sa e ha già avvertito la moglie”
La figura degli OSS, che non è stata presa in analisi nella presente ricerca in quanto
maggiormente impegnata nell’assistenza dei professionisti che in quella dei pazienti,
svolge un ruolo comunque importante per garantire il buon funzionamento della rete e
degli scambi comunicativi.
Dalle osservazioni è emersa poi la presenza di un’intensa comunicazione tra la
154
categoria dei medici e quella degli infermieri. Quando sono i primi a stimolarla,
l’obiettivo è quasi sempre quello di ottenere informazioni su alcuni parametri
“infermieristici” della situazione del paziente (febbre, evacuazioni, autonomia
nell’alimentazione, accettazione o meno delle terapie previste). Quando invece sono gli
infermieri a recarsi nella guardiola medica, le comunicazioni riguardano quasi sempre
una consulenza in merito ad alcune decisioni per le quali è ritenuto necessario
ascoltare il parere dei medici.
L’infermiera sta compilando la scheda infermieristica di una paziente appena
ricoverata, dice ad una specializzanda: “Io alla (nome paziente) ho tirato su solo una
sponda del letto.. non le tirerei su anche l’altra anche se nell’altro ricovero le aveva su
tutte e due, questa cosa è da pensare un po’.. per il rischio cadute.. adesso lo chiedo alla
dottoressa M.”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Gli scambi tra fisioterapisti e medici sono meno frequenti, ma occorre tenere conto che
essi hanno luogo anche in palestra, oltre che all’interno del reparto. Gli scambi
comunicativi più assidui, infine, sono di tipo intra-professionale e si verificano
all’interno della categoria degli infermieri, tanto in momenti prestabiliti della giornata
(ad esempio, al cambio di turno – circa alle h 13.00 – in cui l’infermiere Case Manager
aggiorna gli infermieri del pomeriggio sulla situazione dei pazienti) quanto durante lo
svolgimento del turno stesso.
In corridoio, davanti alla guardiola, l’infermiera B. dice a infermiera S.: “Grilli ti dice
qualcosa?”, infermiera S.: “no”. Infermiera B: “e Ceteri”?”, infermiera S.: “quello sì, ma
non è mio”. Infermiera B.: “sai che ha l'ecocardio stamattina?”
(Da osservazione – Shadowing di un’infermiera)
Gli scambi informativi di cui si è parlato impattano sulla vita quotidiana del paziente
non meno di quanto non lo facciano gli aspetti clinici e più specificamente assistenziali:
155
è per questo motivo che, nel considerare l’esperienza vissuta dai malati durante la
degenza, occorre tenere i considerazione anche la funzionalità della rete informale. È
possibile ipotizzare che questa rete svolga un’importante funzione tutelante per il
paziente, senza che in ciò si intraveda la stessa ambivalenza (doppio registro della
finalità protettiva, si veda il paragrafo 4.4.2) che sembrava connotare alcuni artefatti e
pratiche formalizzate. La rete garantisce, ad esempio, che gli interessi del paziente non
siano messi in secondo piano rispetto alle priorità di alcuni membri dell’organizzazione:
Una specializzanda riferisce al medico che lo specialista che ha appena chiamato che
dovrebbe venire in reparto per effettuare una consulenza forse non verrà, poiché è
presente una sola prenotazione di consulenza per oggi e lo specialista non si vuole
spostare per così poco... Medico: “ma che discorso è? Noi teniamo qui il paziente una
settimana in più perché loro non vogliono venire per una consulenza? Aspetta che
richiamo”.
È anche possibile, tuttavia, che la rete a sostegno della comunicazione
interprofessionale fallisca nel suo scopo. Il seguente estratto mostra le conseguenze
che tale fallimento può avere nell’esperienza del paziente:
Racconto di una fisioterapista
Il paziente si è fratturato il femore (…) viene ricoverato ed operato. Nell’intervento
sono state applicate delle viti all’osso che però il chirurgo non è riuscito ad avvitare fino
in fondo perché, al farlo, si creava una frattura nell’osso del paziente che aumentava
progressivamente di lunghezza. Per questo motivo il paziente avrebbe dovuto stare più
tempo a riposo di quanto viene previsto normalmente. A causa però di una mancanza
di comunicazione o di un fraintendimento tra i due chirurgi ortopedici che hanno in cura
il paziente (quello che effettuato l’operazione ed un altro, che evidentemente invece gli
dava istruzioni in merito alla riabilitazione), avviene un incidente. Il paziente dopo
l’operazione fa i primi tentativi di camminare con il girellino seguendo le istruzioni di
uno dei due ortopedici, ma quando viene visto dall’altro (quello che ha operato) viene
156
bruscamente avvertito che sta mettendo in grave pericolo la sua ripresa in quanto le viti
non sono state saldate. La fisioterapista dice: (al chirurgo) “gli sono schizzati gli occhi
fuori dalle orbite .Al paziente sono stati fatti fare grossissimi passi indietro nel percorso
riabilitativo, gli hanno requisito gli strumenti e dato ordine di non camminare per un
po’”.
Il percorso ora procede anche se con molta cautela. Il paziente però,
comprensibilmente, si è molto spaventato per l’accaduto, perché ha temuto di aver
compromesso le proprie possibilità di recupero ed aver peggiorato la situazione della
frattura. In seguito gli è stato assicurato che non è così, ma nonostante questo il
paziente ha ancora abbastanza paura ed si mostra titubante durante gli esercizi di
riabilitazione. (Da osservazione – Shadowing di una fisioterapista).
In definitiva, il fatto che i professionisti si rappresentino l’importanza cruciale della
funzionalità della rete è sicuramente un indizio della loro volontà di tutelare il paziente
ed il suo percorso di cura; si tenga conto infatti che, al di fuori dei momenti di equipe
strutturati e formalizzati, l’efficacia delle rete dipende massimamente dai loro sforzi
congiunti.
Se decidessimo di rappresentare graficamente la rete, uno dei primi problemi che
dovremmo affrontare sarebbe quello di stabilire a che distanza dal paziente si
posizionano le diverse categorie professionali. L’esperienza di degenza dei malati è
infatti connotata da una grande variabilità nelle occasioni di incontro con gli operatori;
altrettanto variabile è il livello di accessibilità che li caratterizza. Nell’analisi del livello
relazionale abbiamo avuto modo di descrivere il tempo come un marcatore di
possibilità e vincoli per la relazione tra professionisti e pazienti; adottando invece la
prospettiva organizzativa, il tempo delle interazioni diventa un fattore che differenzia la
distanza e la posizione degli operatori relativamente al paziente. Gli infermieri, ad
esempio, sono la categoria professionale che condivide maggiormente il tempo e lo
spazio di vita con i pazienti; essi, inoltre, sono massimamente accessibili al paziente, a
differenza dei medici (che non possono essere contattati direttamente dai malati). Gli
infermieri, essendo spesso fisicamente presenti nei corridoi e nelle stanze di reparto,
rappresentano anche l’interfaccia principale tra il reparto ed i familiari.
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Un signore arriva davanti al vetro della guardiola infermieristica: “Sono il figlio di X, mi
sa dire dove posso trovare l'assistente sociale?” chiede a un'infermiera che è dentro la
guardiola. L'infermiera gli risponde che la può trovare dalle 12 in poi e gli dice che il suo
studio è fuori dal reparto a sinistra. Familiare: “posso andare subito?” Infermiera:
“provi ma di solito c'è tra le 12 e le 12.30”
(Da osservazione in guardiola infermieristica)
In definitiva, in un’ipotetica rappresentazione della rete attorno al paziente, la
categoria professionale degli infermieri sarebbe quella a lui più prossima. I medici si
caratterizzano invece per una condivisione minore del tempo e dello spazio di vita dei
malati, oltre che per una minore accessibilità. Inoltre, data la presenza costante degli
specializzandi durante le visite, accade molto raramente che medico e paziente
abbiano la possibilità di incontrarsi privatamente; è facile immaginare che questo
vincolo abbia rilevanti ripercussioni sulla vicinanza – lontananza dal medico percepita
dai pazienti. Una possibile conseguenza di quello che, durante le osservazioni, è stato
soprannominato l’effetto “branco” (la presenza costante, a seguito del medico, di circa
cinque specializzandi) è anche la possibile sensazione di overwhelming provata dai
pazienti durante le visite svolte collettivamente.
“Mentre il medico visita la paziente e le parla, una specializzanda deve prendere la
pressione. Dice alla paziente “Braccio…”, la signora però sta ascoltando il medico.
Specializzanda incalza: “Signora, braccio!”, la paziente ora la sente e le porge il braccio,
mentre il medico le sta ancora parlando.
(Da osservazione – Shadowing di un medico)
Ai fini della presente riflessione, comunque, basti dire che il confine tra il mondo dei
medici e quello dei pazienti sembra essere maggiormente impermeabile, così come
maggiore è la distanza che li separa. Quanto ai fisioterapisti ed alla loro posizione
relativa nella rete attorno al paziente, si può dire che il confine che delimita tale
158
categoria professionale si connoti per un livello intermedio di permeabilità (non sono
così accessibili ai pazienti come gli infermieri ma nemmeno così lontani come i medici).
Appare inoltre necessario dedicare una breve riflessione al concetto di presa in carico
del paziente ed a come questa è descritta da alcuni operatori.
“Il paziente entra e dopo essere stato visto dal medico viene preso in carico, è un
momento che noi chiamiamo accoglienza. Durante l’accoglienza al letto del paziente
l'idea è di avere uno scambio di informazioni anche se sommario che dia alle due figure
principalmente interessate alla presa in carico del paziente un’idea rispetto alle
condizioni di partenza”.
(Da intervista a coordinatore dei fisioterapisti)
Sembrerebbe, leggendo queste parole, che il medico visiti e consegni una diagnosi, ma
che non sia di fatto coinvolto nella presa in carico del paziente, che viene rappresentata
come compito degli operatori che hanno una “manualità diretta” sul paziente e che si
occupano degli aspetti della sua quotidianità.
Coordinatore dei fisioterapisti: “sì perchè la presa in carico di un nuovo paziente in
questa divisione è un qualcosa che non è solo riabilitativo fisioterapico ma è soprattutto
infermieristico”
Primario: “..medico e infermieristico..”
Coordinatore dei fisioterapisti: “eh si, medico anche”.
(Da intervista a primario e coordinatore dei fisioterapisti)
Infermiera, parlando di una paziente: “poi questa signora qua è continente, cammina..
ma vuole il pannolone e non vuole andare in bagno!”
Medico: “è una paziente anche psichiatrica questa...”
Infermiera: “lo so, ma la veda lei dottoressa..!”
Medico: “ma la vedo io!”
Infermiera: “no!..non la vede quando...non la vede!” (decisa, vagamente risentita)
159
Medico: “allora non la vedo...” (ironica)
(Da osservazione di un team multi – professionale)
Pur considerando che gli scambi riportati risultino da testimonianze parziali e
frammentarie di cosa significhi presa in carico del paziente, sembra ricorrente una
sorta di esclusione del medico da alcuni aspetti che la caratterizzano: il medico visita,
l’infermiere accoglie; il medico diagnostica, il fisioterapista accompagna; i medici
decidono, gli altri prendono in carico.
Il reparto di
Riabilitazione
Schema 4.6
LA RETE ATTORNO AL PAZIENTE: DISTANZE E PERMEABILITÀ DEI CONFINI
Nelle osservazioni dei team multi - professionali è stato possibile apprezzare, infine,
l’evidente differenza di registri su cui si posizionano gli infermieri rispetto ai medici:
l’esperienza che i primi descrivono è estremamente personale, in parte sofferta,
sicuramente connotata da una grande vicinanza all’universo dei pazienti, mentre gli
160
interventi dei medici veicolano una sensazione di pieno controllo della situazione. Tutti
gli elementi menzionati, in definitiva, contribuiscono a delineare un quadro in cui,
immaginando il paziente al centro della rete, i professionisti si posizionano a diverse
distanze da quest’ultimo, circoscritti da linee di confine più o meno permeabili.
4.5 Riflessioni conclusive
In questo capitolo è stato illustrato ed analizzato un modello multilivello per l’analisi
della cultura Patient Centred. Si è visto come ogni “strato” del modello informa una
parte fondamentale del funzionamento organizzativo che tuttavia non è isolata o
indipendente dalle altre due. Nel descrivere il paziente come oggetto delle
rappresentazioni individuali degli operatori, si è detto che i medici ed i fisioterapisti
sembrano avere la possibilità di considerare il degente nella sua “tridimensionalità”,
ossia di dare rilevanza alle dimensioni sociale e temporale che lo caratterizzano. Gli
infermieri appaiono invece come i responsabili del qui ed ora del paziente ricoverato: la
loro intensa partecipazione alla vita dei degenti in corsia (a tratti più subìta che gestita)
potrebbe precludere la possibilità di vedere nel paziente anche una storia di vita
inserita nella complessità sociale. Nell’affrontare il livello relazionale (tra pazienti e staff
ospedaliero) si è ipotizzato che esistano norme implicite per la negoziazione e la
definizione di proprietà. Tempo, linguaggio, spazio ed accesso al corpo sarebbero gli
oggetti su cui tali transazioni si giocano e ricostruiscono quotidianamente. Una delle
ipotesi più rilevanti avanzate in questo senso è che i medici, accanto alla loro esplicita
funzione, svolgano il ruolo di metaforici guardiani delle informazioni: l’utilizzo di una
lingua non sempre comprensibile ai pazienti renderebbe complessa la loro
partecipazione ed inclusione nel processo di cura. Gli infermieri si profilano invece, in
questo contesto, come - altrettanto metaforici - guardiani dello spazio: le modalità di
utilizzo degli artefatti e delle barriere fisiche presenti in reparto fanno pensare ad una
volontà di demarcazione del territorio; territorio che, col sedimentarsi di un’intensa
compartecipazione – anche emotiva – alla vita di reparto, viene sempre più percepito
come di loro proprietà, relegando il paziente alla condizione di “ospite”. Quanto ai
161
fisioterapisti, è importante ricordare le potenti implicazioni emotive della riabilitazione
e l’estrema rilevanza della loro gestione ai fini del buon esito del processo di cura: in
questo senso, i fisioterapisti si profilano come lo specchio del corpo dei pazienti,
essendo questi ultimi impegnati in una terapia finalizzata alla riconquista della propria
autonomia e della confidenza necessaria a capitalizzarne i risultati. Infine,
nell’analizzare l’ultimo livello del modello interpretativo proposto, si è parlato della
grande rilevanza attribuita al lavoro in team ed all’equipe riabilitativa: questo dato ci
parla della consapevolezza (nei professionisti) della necessità di garantire al paziente un
processo di cura coerente ed integrato. Un’ipotesi da verificare è quella che la
dimensione del team sia talvolta utilizzata dagli operatori sanitari in modo difensivo: la
disposizione di un setting a cui il paziente non può accedere sembra assumere
un’implicita funzione di organizzazione della contro offensiva, a difesa dai potenziali
“attacchi” dei degenti verso il Reparto. Tuttavia, tra le funzioni dell’equipe riabilitativa,
quella della tutela del paziente e della sua famiglia non passa mai in secondo piano: i
professionisti sembrano conoscere i deleteri effetti cognitivi ed emotivi di una
comunicazione incoerente e frammentata e l’utilizzo del dispositivo micro-organizzativo
del team sembra essere connotato da questa considerazione. Si è visto poi come la
dimensione di equipe non si limiti ad esistere nei momenti strutturati ed imposti
dall’organizzazione: i professionisti hanno creato un network informale (fatto di scambi
di informazioni, passaggi di conoscenze, condivisione di know how ed esperienza) che
parrebbe essere finalizzato a garantire l’esistenza di una solida rete di protezione
attorno al paziente. Infine, si è ipotizzato che l’organizzazione – Reparto abbia appreso
a vedere nel paziente il fulcro del processo di assistenza, come mostrano la quantità di
artefatti e simboli che parlano di una esplicita mission Patient Centred; con il passare
del tempo sembra essersi sedimentata, nelle pratiche lavorative, una volontà
organizzativa di porre il paziente al centro del processo di cura. Tuttavia, tali
cristallizzazioni della cultura Patient Centred, a causa di modalità routinizzate del loro
utilizzo, non sembrano sempre essere in grado di “diffondersi” al livello delle relazioni
operatori – paziente. A questo scopo, potrebbe giocare un ruolo determinante la
mediazione delle rappresentazioni individuali che i professionisti hanno dei pazienti.
162
È proprio nelle interazioni tra i tre livelli del modello proposto che è possibile
individuare, a mio avviso, la chiave di volta per progettare interventi finalizzati al
perseguimento della Patient Centredness nei contesti organizzativi complessi. In questo
ambito, nessun cambiamento può essere calato dall’alto o realizzato attraverso
l’imposizione di procedure standardizzate. Occorre, invece, ingaggiare le persone: dalla
loro volontà e coinvolgimento nella causa dipende la messa in pratica di policies
prestabilite ed il rispetto di regole e statuti formalizzati. Infine, dai professionisti
sanitari dipende massimamente l’esperienza soggettiva vissuta dal paziente durante la
degenza.
L’utilizzo del modello multilivello qui proposto ha consentito di esporre in modo
coerente i molti ed eterogenei dati raccolti sul campo attraverso gli strumenti della
ricerca etnografica. La scelta di avvalersi abbondantemente di verbalizzazioni tratte dai
protocolli etnografici ha dato vita ad un’analisi in grado di lasciare intravedere la
ricchezza originaria dei dati, permettendo al lettore di avvicinare la realtà sociale
indagata e di “toccare con mano” i fenomeni descritti.
I tre livelli di complessità hanno chiamato in causa modalità di analisi a volte anche
molto distanti tra loro. Si potrebbe dire che lo studio sia stato caratterizzato da uno
sguardo a cavallo tra “clinica” e “organizzazione”: a mio parere, è proprio nella
possibilità di esplorare questa terra di mezzo con l’adeguata attrezzatura che sta la
ricchezza dell’approccio psicologico alla teoria delle organizzazioni.
163
CONSIDERAZIONI FINALI E PROSPETTIVE FUTURE
La presente tesi nasce con l’obiettivo di esplorare un territorio scarsamente
considerato in letteratura: l’implementazione della Patient Centred Medicine a livello
organizzativo, in vista del miglioramento dell’esperienza dei pazienti ricoverati negli
ospedali. Il primo capitolo ha permesso di mettere a fuoco la cornice teorica sulla cui
base sono state formulate le prime riflessioni ed ipotesi pragmatiche. Nel secondo
capitolo sono stati raccolti i contributi, presenti in letteratura, che affrontano il tema
dell’applicazione della Patient Centredness al contesto ospedaliero. Grazie a tali
contributi è stato possibile intravedere la complessità che connota gli interventi di
cambiamento organizzativo nella direzione di una maggior centratura sul paziente. Il
capitolo, in particolare, ha permesso di introdurre il tema della dialettica cultura –
struttura organizzativa: si è ipotizzato che, ai fini di un processo di cura e di
un’assistenza maggiormente Patient Centred, gli interventi a modifica degli aspetti hard
degli ospedali siano sì utili, ma non sufficienti a garantire il raggiungimento
dell’obiettivo. Gli investimenti strutturali, in definitiva, se non supportati da una cultura
Patient Centred, rischiano di svuotarsi di significato e perdere di efficacia. Coltivare e
diffondere una cultura Patient Centred, d’altra parte, non consiste nell’introduzione di
policies o di programmi discreti; la sua vera essenza è racchiusa nei valori e nelle
attitudini che supportano l’implementazione di tali programmi. In assenza di tale
visione complessiva, i programmi potranno sì adempiere a specifici obiettivi, ma
falliranno nel coltivare un’organizzazione autenticamente centrata sul paziente. È
proprio in ragione della rilevanza attribuita alla cultura organizzativa nell’ambito della
Patient Centred Medicine che si è deciso di sviluppare uno studio di caso che vedesse
in essa il suo oggetto specifico. A questo scopo è seguita, inoltre, l’adozione del metodo
etnografico,
il quale – come argomentato nel terzo capitolo – più di ogni altro
approccio qualitativo permette di valorizzare l’unicità della cultura del contesto scelto. I
risultati dello studio sono stati analizzati e discussi nel quarto capitolo; vorrei invece
dedicare queste ultime considerazioni ad una riflessione metodologica, dato che alla
scelta dell’approccio adottato è seguita una profonda modifica degli oggetti di ricerca
164
ed un parziale ri-orientamento degli obiettivi iniziali.
Una prima considerazione riguarda l’ineguagliabile ricchezza delle tecniche
etnografiche. Nonostante la mia limitata esperienza pregressa in fatto di fieldwork
all’interno della cornice metodologica etnografica, posso affermare che l’osservazione,
tecnica principe di questo approccio alla ricerca, pone certamente delle sfide ma offre,
al contempo, un universo di nuove possibilità. Fin dai primi giorni di lavoro sul campo è
stato chiaro che, quando si parla di Medicina Centrata sul Paziente, fermarsi al livello
del dichiarato potrebbe risultare molto limitante – motivo per il quale le sole interviste
discorsive non avrebbero portato ai risultati qui discussi. L’osservazione, d’altro canto,
permette di valorizzare dimensioni meno “dicibili”, ma altrettanto cruciali per la ricerca
in questo ambito. La tecnica dello Shadowing in particolare si è rivelata una fonte di
conoscenza di valore inestimabile nell’analisi delle pratiche lavorative dei professionisti
sanitari. La metodologia adottata ha dato vita ad un materiale sì ricco e denso di
potenziali apprendimenti, ma di difficile gestione ai fini di restituire una sintesi che
rispondesse agli obiettivi dichiarati e, soprattutto, che fosse fruibile nell’ambito della
presente tesi. I protocolli etnografici, il materiale documentale raccolto, i testi delle
interviste sul campo, danno accesso a molti possibili livelli di analisi, addentrandosi nei
quali la complessità sembra accrescere in modo esponenziale rendendo assai
complessa la restituzione di un “quadro complessivo”. L’individuazione di un principio
organizzatore è stata perciò indispensabile. Tuttavia, il tentativo è stato quello di far
emergere dai dati stessi, in un processo bottom – up, una griglia di lettura; dal suo
utilizzo è risultata la costruzione del modello multilivello descritto nel capitolo
precedente.
Il presente studio è di tipo fondativo ed esplorativo. A mio avviso, l’analisi ha la
potenzialità di dare avvio a fertili riflessioni sulle modalità con cui i professionisti e
l’organizzazione stessa si rappresentano il paziente e ne organizzano l’assistenza;
inoltre, come spesso sottolineato, il modello presentato offre l’opportunità di
soffermarsi sulle interazioni tra i diversi livelli di complessità evidenziati e su come esse
diano vita ad ostacoli ma anche a possibilità per il perseguimento della centratura sul
paziente. Tuttavia, ai fini di salvaguardare la validità del presente lavoro, è necessario
165
chiedersi se ci sia, e quale sia, la sua utilità pragmatica, nonchè quali linee di ricerca
esso apra per eventuali sviluppi futuri. Per quanto credo sia utile sottolineare
nuovamente la natura esplorativa della ricerca descritta e la necessità di approfondire il
lavoro sul campo al fine di verificare le ipotesi formulate, è mia opinione che un’utilità
concreta del lavoro esista, soprattutto nell’ottica della produzione di una conoscenza
fruibile per i membri dell’organizzazione. Restituire ciò che è stato osservato ai
professionisti impiegati nel reparto potrebbe essere, in altre parole, un modo per
ingaggiare gli operatori in un progetto di cambiamento organizzativo partecipato,
nonché per avviare un ciclo di produzione di conoscenza a partire dalla rielaborazione
della propria esperienza.
Nel tentativo di tracciare linee progettuali per il futuro, credo valga la pena sottolineare
che, quando si parla di cambiamenti organizzativi in materia di Patient Centredness,
l’intervento sarà realmente efficace soltanto laddove una preliminare ricerca sul campo
abbia indicato da dove partire: è questo, in effetti, lo scopo ultimo del lavoro qui
presentato. Progettare interventi di cambiamento nella direzione della Patient
Centredness chiama in causa azioni diverse dalla formazione “a pioggia” o da altri
interventi standardizzati: è mia opinione che i dispositivi progettati in tal senso
dovrebbero emergere dal contesto indagato, per poi in esso radicarsi. In definitiva,
l’esperienza condotta nell’ambito della presente tesi suggerisce che, quando si parla di
Patient Centredness, potrebbe risultare idonea l’adozione di un disegno ispirato alla
Ricerca – Intervento: soltanto in questo modo è possibile garantire che il cambiamento
sperato attecchisca e si diffonda in tutti gli “strati” dell’organizzazione. Si ricordi, a
questo proposito, che tanto a livello individuale quanto gruppale, il tema della
centratura sul paziente è potenzialmente in grado di mobilitare forti resistenze (si
vedano le considerazioni, sviluppate nel capitolo 1, riguardo al difficile superamento
del modello biomedico tradizionale): considerare le rappresentazioni degli operatori
sanitari sembra essere quindi un passaggio inevitabile, per garantire il quale il progetto
di intervento non deve consistere in un’azione sulle ma con le persone.
Infine, ci si potrebbe chiedere se sia economicamente sostenibile, in particolare per le
strutture sanitarie pubbliche, portare avanti questo tipo di disegni di ricerca.
166
L’interrogativo è certamente aperto, ma è probabile che anteporre una fase di ricerca
alle azioni di miglioramento e/o cambiamento organizzativo sia l’unico modo per poter
avere una qualche certezza nell’efficacia dell’intervento, nonchè nel fatto che i suoi
effetti non vengano rapidamente “rimossi” da difese collettive nate da resistenze al
cambiamento. La ricerca etnografica come base dell’intervento organizzativo potrebbe,
in definitiva, garantire la profondità dei cambiamenti avviati ed il perdurare dei loro
effetti.
Le riflessioni riportate in questa sede e nel precedente capitolo non garantiscono né
impongono linee d’azione precise, ma hanno il pregio di indicare gli ambiti organizzativi
su cui parrebbe più urgente intervenire, al fine di diffondere pratiche e processi di cura
che vedano nel paziente il loro baricentro.
167
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l`ospedale centrato sul paziente: studio