Diritto Civile Contemporaneo
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Anno I, numero I, aprile/giugno 2014
IL CONVIVENTE ESTROMESSO DALL’ABITAZIONE PUÓ ESERCITARE
L’AZIONE DI REINTEGRAZIONE
Riccardo Omodei Salè IL CONVIVENTE ESTROMESSO DALL’ABITAZIONE PUÓ ESERCITARE
L’AZIONE DI REINTEGRAZIONE
di Riccardo Omodei Salè, Professore aggregato nell’Università di Verona
La Corte di Cassazione con sentenza n. 7 del 2 gennaio 2014 ha riconosciuto al
convivente more uxorio, che sia stato estromesso in modo violento o clandestino
dalla casa di abitazione, la legittimazione ad esercitare l’azione di spoglio,
inserendosi così nella scia di quel recente orientamento giurisprudenziale, che pare
in via di progressiva affermazione (cfr., da ultimo, Cass., 14 giugno 2012, n. 9786;
Cass., 21 marzo 2013, n. 7214, clicca qui), secondo cui il potere di fatto esercitato
dal convivente sull’immobile altrui non potrebbe essere assimilato a quello proprio
dell’ospite, ma integrerebbe una detenzione qualificata (rectius: autonoma), come
tale tutelata in via interdittale (per una panoramica della varie tesi formulate al
riguardo dalla dottrina, v. E. Carbone, Possesso e detenzione nella famiglia di fatto,
in Riv. trim. dir. prov. civ., 2011, p. 37 ss.).
Nel caso di specie, il proprietario di un appartamento concedeva il medesimo in
comodato gratuito al fratello, il quale vi andava ad abitare con la propria
convivente. Durante la degenza ospedaliera cui il comodatario era stato costretto a
causa di un grave incidente stradale, il proprietario, con l’aiuto di un terzo,
cambiava la serratura dell’appartamento, impedendo così alla convivente del
fratello di rientrarvi.
La convivente esperiva, quindi, azione di spoglio avanti il Tribunale di Torino, che
accoglieva la domanda. Tale decisione veniva, tuttavia, riformata dalla Corte
d’Appello di Torino, sulla base del rilievo che, in favore dell’attrice, non fosse
configurabile né una situazione di possesso, posto che la relazione intrattenuta con
la cosa dal convivente della stessa trovava fonte in un rapporto contrattuale (vale a
dire il comodato intercorso con il fratello), del quale l’attrice medesima era
consapevole, né di detenzione qualificata (rectius: autonoma), dovendosi intendere
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disposizione della ricorrente per ragioni di precaria ospitalità.
Il giudizio approdava, pertanto, in Cassazione, la quale, con la pronuncia in esame,
ha parimenti escluso che la convivente potesse vantare una situazione di possesso
sull’immobile, essendo la relazione con la res iniziata in forza di un contratto di
comodato, e non avendo la ricorrente successivamente posto in essere atti volti a
negare l’altrui possesso per affermarne uno proprio. Peraltro, ad avviso della S.C.,
la qualità di convivente del comodatario doveva intendersi comunque tale da
legittimare l’attrice all’esercizio dell’azione di spoglio, come detentrice qualificata
(rectius: autonoma) del bene. Richiamandosi anche al recente orientamento della
giurisprudenza di legittimità cui si è accennato all’inizio, i Giudici Supremi hanno,
infatti, statuito che, «in considerazione del rilievo sociale che ha ormai assunto per
l’ordinamento la famiglia di fatto, la convivenza more uxorio, quale formazione
sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di
abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita comune, un potere di fatto
basato su un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da
ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione
qualificata (rectius: autonoma), che ha titolo in un negozio giuridico di tipo
familiare».
La pronuncia in questione – e così, più in generale, l’orientamento di cui la stessa
costituisce espressione – se può anche apparire apprezzabile per l’intento di venire
incontro all’esigenza di tutela del convivente estromesso dall’abitazione, non
sembra, tuttavia, conciliarsi pienamente con il nostro sistema possessorio.
Occorre, invero, considerare come il codice civile, in materia di detenzione, operi
una summa divisio fra detenzione normale, o tutelata, e una detenzione «per
ragioni di servizio o di ospitalità», sfornita, viceversa, di tutela possessoria (cfr. art.
1168, 2° co., c.c.). La differenza profonda sussistente fra queste due forme di
detenzione si coglie, in particolare, sotto il profilo della diversa natura del potere di
fatto esercitato dal detentore. Nella detenzione normale, il detentore tiene, infatti,
la cosa del possessore mediato (normalmente il proprietario) nella propria
disponibilità allo scopo di ottenere direttamente dalla stessa, quale oggetto finale ed
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da altri osservato – la detenzione della cosa viene a trovarsi «al centro della scena»
(così R. Sacco – R. Caterina, Il possesso, 2a ed., in Trattato di diritto civile e
commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni,
Milano, 2000, p. 194). In questi casi, poi, sottostante alla detenzione, è dato
normalmente rinvenire un titolo idoneo a porre l’ingerenza del detentore in
contrasto con il potere del possessore, le cui prerogative risultano, pertanto,
limitate con effetto (sia pure temporaneamente) irreversibile (si pensi, in via
emblematica, a quanto avviene in seguito alla concessione di un bene in locazione),
cosicché non solo il possessore considera alterato lo statuto del proprio bene, ma
lo stesso reputano i terzi, mediante la loro presa d’atto sociale collettiva.
Ne discende che questa forma di detenzione – che si potrebbe anche denominare
autonoma, nel senso di autosufficiente, in quanto da sola in grado di soddisfare
l’interesse del soggetto che esercita il potere di fatto – risulta protetta in via
possessoria erga omnes, ossia tanto nei confronti del possessore mediato (il
proprietario) quanto nei confronti dei terzi. Diversamente, invece, nella detenzione
«per ragioni di servizio o di ospitalità», l’ingerenza del detentore nel bene altrui ha
un obiettivo differente ed ulteriore rispetto alla mera disponibilità della cosa:
quest’ultima, infatti, risulta strumentale vuoi all’esecuzione o alla ricezione di una
prestazione di facere, nel caso di detenzione «per ragioni di servizio», vuoi al
godimento dell’altrui compagnia, nell’ipotesi di detenzione «per ragioni di
ospitalità».
In questa diversa forma di detenzione – che si potrebbe, per converso, chiamare
non autonoma, ossia non autosufficiente, poiché l’ingerenza nel bene altrui appare
soltanto strumentale ad un obiettivo diverso ed ulteriore rispetto alla disponibilità
della cosa –, difetta, quindi, un titolo in grado di porre il potere del detentore in
contrasto con quello del possessore, di modo che non solo il possessore non
considera alterato lo statuto del proprio bene, ma anche il detentore è consapevole
che la propria posizione è reversibile, in quanto totalmente dipendente dalla
volontà del possessore, e come tale è riconoscibile pure dai terzi. Dal che consegue
il diniego di tutela interdittale sia verso il possessore mediato (il proprietario) sia,
appunto, verso i terzi.
Se, dunque, quella così tratteggiata è la configurazione della detenzione
(rispettivamente tutelata e non tutelata) nel contesto del nostro sistema
possessorio, sembra, allora, potersi affermare che, sebbene non appaia possibile
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stante la differente intensità dei rispettivi legami affettivi, oltre che la diversa
rilevanza sociale e giuridica dei rapporti in questione, nondimeno la natura del
relativo potere di fatto – sulla quale si è appena veduto essere fondata la
distinzione fra detenzione difendibile e non difendibile, ai sensi dell’art. 1168, 2°
co., c.c. – si rivela sostanzialmente analoga: anche l’immissione del convivente
nell’abitazione altrui, così come si è detto poc’anzi avvenire per l’ospite, non ha,
infatti, lo scopo diretto ed esclusivo di consentire il godimento dell’immobile, ma
risulta, piuttosto, strumentale rispetto alla realizzazione di un programma più
ampio, in tal caso rappresentato dall’attuazione della convivenza stessa, la quale
non costituisce un titolo idoneo a porre l’ingerenza del convivente in contrasto con
il potere del possessore, ed appare, inoltre, in ogni momento reversibile, di modo
che la figura dell’ospite e quella del convivente, sotto il profilo possessorio,
dovrebbero intendersi assoggettate alla medesima disciplina (cfr., in questo senso,
R. Sacco – R. Caterina, Il possesso, cit., p. 204 ss.; R. Omodei Salè, La detenzione e
le detenzioni. Unità e pluralismo nelle situazioni di fatto contrapposte al possesso,
Padova, 2012, p. 217 ss.; in giurisprudenza, v. Cass., 2 ottobre 1974, n. 2555; Cass.,
14 giugno 2001, n. 8047).
Ed è appena il caso di sottolineare come, in tale prospettiva, il diniego di tutela
interdittale debba evidentemente valere tanto nell’ipotesi in cui l’estromissione del
convivente dall’abitazione avvenga ad opera del partner, titolare della proprietà o di
altro diritto (reale o personale di godimento) sul bene, quanto lì dove – come
accaduto nella vicenda sottoposta al vaglio della S.C. nel caso di specie – la stessa
sia stata posta in essere da un terzo. Il nostro legislatore, nella norma di cui all’art.
1168, 2° co., c.c., ha reso, infatti, assoluta la discriminazione fra detenzione protetta
e non protetta, nel senso che tanto il riconoscimento quanto il diniego di tutela
possessoria operano sempre erga omnes (cfr. R. Sacco – R. Caterina, Il possesso,
cit., p. 189; C. Tenella Sillani, Possesso e detenzione, in Digesto delle discipline
privatistiche, sez. civile, XIV, Torino, 1996, p. 20), in ciò differenziandosi da
quanto ha disposto, invece, il legislatore francese, il quale, in seguito alla riforma
del 1975, ha esteso la tutela possessoria (sia contro lo spoglio che contro le
molestie) anche in favore del detentore, ma ha configurato siffatta tutela come
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«contre tout autre que celui de qui il tient ses droits» (art. 2278, 2° co., Code civil),
vale a dire nei confronti dei terzi, ma non (anche) del possessore mediato (v., in
proposito, Gobeaux, L’extension de la protection possessoire au benefice des
detenteurs, in Rép. Defrénois, 1976, p. 374 ss.). Naturalmente, la ricostruzione qui
proposta della situazione di fatto in cui viene a trovarsi il convivente rispetto
all’immobile altrui non esclude che possano poi sopraggiungere circostanze o fatti
tali da determinarne l’evoluzione in una situazione possessoria tutelata, secondo il
meccanismo previsto dall’art. 1141, 2° co., c.c.: nuova situazione di potere che non
potrebbe, tuttavia, originarsi in virtù della mera prosecuzione per lungo tempo
della convivenza stessa, posto che il semplice trascorrere degli anni non integra
alcuna delle fattispecie (causa proveniente da un terzo od opposizione del
detentore nei confronti del possessore) cui la norma testé ricordata tassativamente
ricollega la possibilità di una evoluzione di una situazione possessoria in altra
maggiormente rilevante (v., ancora, R. Omodei Salè, La detenzione e le detenzioni.
Unità e pluralismo nelle situazioni di fatto contrapposte al possesso, cit., p. 221).
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