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F O R E N S E
Bimestrale
Anno 5 – Gennaio‑Febbraio 2012
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N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma
nell'aprile del 2012
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
La ristrutturazione dei debiti civili
9
Corrado d'Ambrosio
Il mutuo nel terzo millennio: verso il superamento del dogma della realità 15
Nota a Cassazione civile, sez. I, 03 gennaio 2011, n. 14
Tonia Raia
Pignoramento presso terzi nei confronti della P.A.: la notificazione del pignoramento 24
Nota a Cassazione civile, sez. III, sent. 18 agosto 2011, n. 17349
Ermanno Restucci
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
A cura di Mario de Bellis e Daniela Iossa ]
32
34
In evidenza
Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Frattamaggiore ordinanza 19 gennaio 2012
37
Tribunale di Napoli, sez. XI, sentenza 25 luglio 2011, n. 9314 [ Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto ]
39
[ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
Diritto e procedura penale
La liquidazione delle spese di custodia in seguito ad archiviazione
del procedimento: competenza del P.m. e/o del G.i.p? 47
Enrico Campoli
L’aggravante speciale del delitto di estorsione delle “più persone riunite”
al vaglio delle Sezioni unite
49
Giuseppe Amarelli
Il contributo minimo di partecipazione ricavabile dal linguaggio intercettato 54
Nota a Corte di Appello di Napoli, sez. II pen., sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Angelo Pignatelli
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
58
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
61
64
Diritto amministrativo
L’avvalimento dei requisiti c.d. “soggettivi” di cui all’art. 39 del d.lgs. n. 163/2006
79
Alessandro Barbieri
Discutibile interazione tra il federalismo fiscale ed il principio costituzionale
di uguaglianza
84
Gaetana Marena
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
88
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
Il trattamento fiscale privilegiato degli immobili posseduti da enti ecclesiastici
al vaglio della Commissione Europea
93
Enza Sonetti
Il riparto di giurisdizione in materia tributaria nelle decisioni della Cassazione del 2011 101
Osservatorio di Giurisprudenza Tributaria
a cura di Raffaele Cantone
Diritto internazionale
Il respingimento in mare e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo 107
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Quid juris quando (non costituitosi in giudizio l’intimato) il ricorrente non abbia tempestivamente depositato l’avviso di ricevimento (cd. cartolina) della raccomandata postale fungente
113
da notifica? / Riccardo Esposito
Sui rapporti tra procedimento ordinario e procedimento di prevenzione: fin dove si spinge il cd.
principio di autonomia rispetto alla richiesta di revoca della misura di prevenzione? / Andrea Alberico
114
A quale giurisdizione appartengono le questioni meramente patrimoniali attinenti alla gestione
116
dei rifiuti disciplinate dal D.L. n. 90/2008? / Immacolata Maione
Recensioni
Il procedimento di espropriazione forzata: orientamenti, annotazioni processuali
121
e formule per gli adempimenti degli avvocati di Valerio Colandrea. Casa Editrice La Tribuna
A cura di Ermanno Restucci
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●
Le professioni
ed il loro futuro
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
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5
Tante volte e con vari intenti in questi ultimi mesi la poli‑
tica e il Governo Monti hanno affrontato il tema delle profes‑
sioni nel nostro Paese. Si sono tentate e tutt’ora si stanno
tentando varie strade pur di dare alle arti professionali nostra‑
ne una regolamentazione completa, disciplinandone nel com‑
plesso gli albi e i rispettivi accessi. Allo stesso tempo il tema
in argomento ha avuto interventi regolamentativi spot e im‑
provvisati che anzicchè facilitarne poi la disciplina generale ne
hanno ulteriormente complicato i già precari rapporti tra il
mondo della politica, quello delle professioni e i consumatorifruitori finali dei servizi professionali. Certamente la società
tra professionisti a prevalenza capitalistica, poi rettificata a
minusvalenza capitalistica in corso d’opera, non ha dato una
mano a questo percorso iniziato nelle diverse commissioni
parlamentari di disciplinare una volta per sempre il mondo
professionale. Lo scontro è tra una visione di industrializza‑
zione delle professioni ed un’idea di artigianato, di personali‑
tà della prestazione, ove il geometra, l’avvocato o il tecnico di
turno debbano svolgere la prestazione intuitu personae, pur
avvalendosi di una complessa organizzazione e di servizi vari.
Non è pensabile che quanto si debba svolgere sempre e comun‑
que personalmente e a mo’ di artigiano dall’oggi al domani si
industrializzi facendo venir meno ogni elemento della presta‑
zione individualistica. Non è pensabile che in nome di un
mercato professionale sempre più in crisi e dove la ricerca e la
richiesta di formazione del professionista è sempre più scarsa,
la politica, anzicchè introdurre dei correttivi a questa deriva,
finisca per cavalcare l’onda della semplificazione e legittimi
l’orrendo motto “tutti possono fare tutto”, senza che la meri‑
tocrazia e la professionalità abbia un suo quid. Come più
volte sostenuto il futuro delle professioni passa attraverso un
ritorno all’alta meritocrazia e alla dura e fondamentale forma‑
zione di ogni professionista che non può pensare di affacciar‑
si ad un mondo che è diventato industriale, quando invece
pensava essere di artigiani impegnati a svolgere la loro quoti‑
diana fatica. Il ritorno alla consulenza, alla disponibilità verso
il cliente, al fare strategia, costituiscono il futuro delle nostre
professioni. Il cliente-consumatore nel momento in cui entra
in uno studio professionale si aspetta di ricevere una presta‑
zione umana, professionale, dove il rapporto che si crea è de‑
terminante e frutto spesso di empatia. Non è pensabile invece
pensare ad un mondo delle professioni fatto a catene di mon‑
taggio industriale, dove la personalizzazione della prestazione
è scarsa e dove il rapporto cliente-professionista non si crea e
creerà mai. Ed allora se vogliamo che il nostro Paese sia la
culla di tanti avvocati brillanti in giro per il mondo, di tanti
medici che si fanno onore con scoperte innovative e di tanti
tecnici che con i loro progetti conquistano il fascino di altri
stati, non possiamo che augurarci che come è finita la mai
iniziata seconda repubblica, termini quell’accanimento dele‑
gittimante verso le professioni che c’è stato in Italia nell’ultimo
decennio. Ne vale il futuro di tanti di noi che quotidianamen‑
te svolgono con passione, impegno e dedizione la loro dura
giornata di professionisti.
Diritto e procedura civile
La ristrutturazione dei debiti civili
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Corrado d'Ambrosio
Il mutuo nel terzo millennio: verso il superamento del dogma della realità 15
Nota a Cassazione civile, sez. I, 03 gennaio 2011, n. 14
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Pignoramento presso terzi nei confronti della P.A.: la notificazione del pignoramento 24
Nota a Cassazione civile, sez. III, sent. 18 agosto 2011, n. 17349
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Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
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Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Frattamaggiore ordinanza 19 gennaio 2012
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Tribunale di Napoli, sez. XI, sentenza 25 luglio 2011, n. 9314 [ Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto ]
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[ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
civile
In evidenza
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●
La ristrutturazione
dei debiti civili
● Corrado d'Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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9
Sommario: Premessa. – 1. Le innovazioni realizzate dal
legislatore del 2010. - 1.1. (Segue) I passi falsi del legislatore
del 2010. - 2. Il “trattamento” del sovraindebitamento. -3.
De iure condendo.
Premessa
Il tema dell’indebitamento – o, piuttosto, del sovraindebi‑
tamento – delle famiglie, così come quello delle politiche legi‑
slative volte, a seconda dei casi, a prevenire, ovvero a dare una
sistemazione a tale fenomeno, si pone con particolare rilevan‑
za nell’attuale contesto economico e normativo1.
In altre parole, il problema di politica del diritto posto dal
sovraindebitamento è, in prima battuta, dato dalla necessità
di apprestare degli adeguati meccanismi di prevenzione; e, in
seconda battuta, rappresentato dalla necessità di prevedere
degli altrettanto adeguati meccanismi di trattamento2.
E’ di tutta evidenza, poi, che, in questa seconda eventua‑
lità, l’efficacia dei sistemi di trattamento dipenda dalla possi‑
bilità che il sovraindebitamento emerga quanto più precoce‑
mente possibile.
In questa prospettiva, pertanto, pare opportuno dare con‑
to, da un lato, di alcuni recenti interventi legislativi, che sem‑
brano porsi in maniera contraddittoria (o comunque “discon‑
tinua”) rispetto al tema della prevenzione del sovraindebita‑
mento delle famiglie, e, dall’altro, dei tentativi di addivenire
alla predisposizione di procedure al’interno delle quali possa
trovare adeguato trattamento il sovraindebitamento, una
volta che lo stesso si sia ormai manifestato.
Con riferimento al momento della prevenzione del sovrain‑
debitamento, vi è da registrare la emanazione del D. Lgs. n.
141/2010, che, tra l’altro, ha dato attuazione alla direttiva
comunitaria 2008/48/CE sul credito ai consumatori3.
E’ proprio dalla portata del decreto de quo che pare op‑
portuno prestare l’attenzione, per evidenziare, oltre ad alcuni
interventi che sanciscono la necessità che il sovraindebitamen‑
to dei consumatori venga affrontato in sede preventiva, anche
altri interventi che – per le conseguenze che implicano – sem‑
brano muoversi in senso contrario ad una piena tutela del
consumatore.
1. Le innovazioni realizzate dal legislatore del 2010
Non si può mancare di registrare come il decreto legislati‑
vo abbia sostanzialmente ribadito, anche se non declinato, il
contenuto della direttiva.
Molti aspetti della nuova disciplina del credito ai consu‑
matori si prestano ad essere interpretati (anche) in chiave di
prevenzione del sovraindebitamento: così la pubblicità (art. 4
1Sul punto F. Capriglione, Misure anticrisi tra regole di mercato e sviluppo
sostenibile, Torino, 2010, 25 ss.
2 G. Falcone, L’indebitamento delle famiglie e le soluzioni normative: tra misure di sostegno e liberazione dai debiti, in La ristrutturazione dei debiti civili e
commerciali, Milano, 2011, p. 189.
3II provvedimento è infatti intitolato “Attuazione della direttiva 2008/48/CE
relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonché modifiche del titolo VI del
testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla discipli‑
na dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria
e dei mediatori credi­tizi”. Un commento a tale disciplina in G. De cristofaro,
La nuova disciplina dei contratti di credito ai consumatori e la riforma del t.u.
bancario, in Contratti, 2010, 1041 ss.; si veda anche la Circolare Serie Legale
n. 24, del 13 settembre 2010, emanata dalla Associazione Bancaria Italiana.
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
della direttiva)4; l’informazione precontrattuale (artt. 5-7)5; il
diritto di recesso (art. 22)6.
Tra gli aspetti toccati dalla direttiva (forse “indirettamen‑
te”), tuttavia, ve ne è uno che assume una importanza deter‑
minante nella prevenzione del sovraindebitamento, vale a
dire quello del “prestito responsabile”: principio che – pur non
essendo fissato in modo espli­cito (differentemente da quanto
prevedeva la proposta di direttiva) – è comunque indubbia‑
mente presente nel corpo del provvedimento, che sottolinea
l’importanza che gli intermediari si astengano dal concedere
“prestiti in modo irresponsabile” o senza avere precedente‑
mente valu­tato la solvibilità del prestatario.
La norma di riferimento è comunque l’art. 8 della Diret‑
tiva, inti­tolato alla “valutazione del merito di credito”, che
afferma che “gli Stati membri provvedono affinchè, prima
della conclusione del con­tratto di credito, il creditore valuti il
merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni
adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove
necessario, ottenute consultando la banca dati pertinente”.
Ancorché scomparso dalla rubrica della norma, il concet‑
to di “prestito responsabile” appare comunque presente nel
suo interno, giacché pare evidente che questo debba intender‑
si come il credito concesso a seguito di una valutazione preli‑
minare del merito creditizio.
Sennonchè, almeno in prima battuta, tale connotazione
non sembra allargare l’area della diligenza professionale esi‑
gibile dal “buon banchiere”, caratterizzata dal canone di cui
all’art. 1176, co. 2, c.c., essendo certamente la valutazione del
merito creditizio, una delle attività nelle quali maggiormente
si esplica la professionalità della banca.
Peraltro, indicazioni ulteriori si riscontrano nella stessa
direttiva, soprattutto dove – nel considerando 26 – si afferma
che “i creditori dovrebbero avere la responsabilità di verifica‑
re individualmente il merito creditizio dei consumatori”.
Probabilmente, è proprio il concetto di “valutazione indi‑
viduale” quello che meglio connota il principio del prestito
responsabile.
4Vengono indicate le informazioni pubblicitarie di base da fornire, riguardanti,
principalmente: il tasso debitore, fisso o variabile, corredato di informazioni
relative alle spese comprese nel costo totale del credito al consumatore; in caso
di credito sotto forma di dilazione di pagamento per una data merce o un dato
servizio, il prezzo in contanti e l’importo degli eventuali pagamenti anticipati;
se del caso, l’importo totale che il consumatore è tenuto a pagare e l’importo
delle rate.
5Le informazioni riguardano il tipo di credito, l’identità e l’indirizzo del credito‑
re, l’importo totale del credito e le condizioni di prelievo, e la durata del con‑
tratto di credito.
Devono comprendere, inoltre, il tasso debitore, le condizioni che ne disciplina‑
no l’applicazione, nonché i periodi, le condizioni e la procedura per la sua
modifica, il tasso annuo effettivo globale e l’importo totale che il consumatore
è tenuto a pagare, e, infine, l’importo, il numero e la periodicità dei pagamenti
che il consumatore deve effettuare.
Ma anche, se del caso, l’esistenza di spese che il consumatore è tenuto a pagare
al notaio all’atto della conclusione del contratto, l’eventuale obbligo di ricorre‑
re a una polizza assicurativa, il tasso degli interessi in caso di ritardi di paga‑
mento, e le modalità di modifica dello stesso.
Le informazioni devono inoltre contemplare un avvertimento circa le conse‑
guenze dei mancati pagamenti, le informazioni sulle garanzie richieste, sull’esi‑
stenza o l’assenza del diritto di recesso e del diritto al rimborso anticipato.
I consumatori hanno anche il diritto di ricevere gratuitamente, su richiesta,
copia della bozza del contratto di credito, nonché del diritto del creditore a
ottenere un indennizzo e le relative modalità di calcolo.
6 Chi ricorre al credito avrà il diritto di recedere dal contratto entro due settima‑
ne senza giustificazioni, e di rimborsare gli importi dovuti in anticipo versando
un indennizzo.
c i v i l e
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F O R E N S E
Non trova, quindi, conferma l’opinione secondo la quale
la prevenzione del sovrindebitamento deve essere generale,
men­tre la cura deve essere personale7.
È l’obbligo di valutazione individuale (e per di più com‑
piuta non una tantum, ma continuativamente nel corso del
rapporto) ad aprire le porte, anche nella materia del credito
ai consumatori, al principio di “adeguatezza”, di “adattabili‑
tà”, introducendo quindi la responsabilità, in capo alla banca,
di “rendere conto” della scelta operata, finanziando concre‑
tamente il consumatore (accountability)8.
Parrebbe, in so­stanza, che, con l’affermazione del princi‑
pio del prestito responsabile, si introduca correlativamente
anche uno specifico obbligo di consu­lenza gravante sul finan‑
ziatore9.
In realtà, la lettura del testo della direttiva si presterebbe
anche ad un altro tipo di considerazioni, che si fonda sulla
nozione di “adeguati chiarimenti” contenuta nell’art. 5.610.
In questa prospettiva, sembrerebbe che la banca assuma,
piuttosto, l’onere di fornire informazioni adeguate al cliente,
affinché egli stesso (e non, si badi, la banca) prevenga ad una
valutazione di adeguatezza del prodotto.
È bene dire come il legislatore abbia preferito non prende‑
re posizione sul tema, in quanto il nuovo art. 124-bis del
Testo Unico Bancario si limita a riprodurre il contenuto
dell’art. 8 della Direttiva, attribuendo alla Banca d’Italia il
compito di dettare disposi­zioni di attuazione.
In assenza di una esplicita scelta di campo del legislatore,
sarà, quindi, necessariamente la Banca d’Italia a definire i
contenuti ed i limiti di tale responsabilità.
Occorre interrogarsi su quali siano le sanzioni per aver
prestato credito irresponsabilmente, vale a dire, se la conces‑
sione di credito “non responsabile” – oltre che essere, ovvia‑
mente, sanzionabile dal punto di vista dei controlli di vigilan‑
za – possa essere fatta valere dallo stesso consumatore, non
sotto il profilo della validità del contratto di credito, bensì
sotto quello di una responsabilità di tipo contrattuale (acce‑
dendo alla tesi secondo cui il principio del prestito responsa‑
bile fonderebbe in capo alla banca un “obbligo di protezione”,
la cui violazione sarebbe, per l’appunto, di natura contrattua‑
le), ovvero di tipo extracontrattuale, in quanto riconducibile
alla clausola generale del danno ingiusto.
Qualche interprete, nel commentare il testo della proposta
di direttiva, aveva ipotizzato la configurabilità di una respon‑
sabilità risarcitoria, da poter opporre in compensazione con
la domanda di restituzione del capitale.
7 G. Falcone, op. cit., p. 192.
8Sul punto L. Stanohellini, // credito “irresponsabile” alle imprese e ai pri­vati:
profili generali e tecniche di tutela, in Società, 2007, 402. Per quanto riguarda
il concetto di “accountability”, si veda la voce Accountability, in L. bruni - S.
Zamagni, Dizionario di economia civile, Roma, 2009, 17.
9L. Vionudelli, La Direttiva Comunitaria in materia di credito ai consuma­tori,
in F. Vella (a cura di), Banche e mercati finanziari, Torino, 2009, 244.
10 Gli Stati membri provvedono affinché i creditori e, se del caso, gli intermediari
del credito forniscano al consumatore chiarimenti adeguati, in modo che questi
possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze e
alla sua situazione finanziaria, eventualmente illustrando le informazioni pre‑
contrattuali che devono essere fornite conformemente al paragrafo 1, le carat‑
teristiche essenziali dei prodotti proposti e gli effetti specifici che possono avere
sul consumatore, incluse le conseguenze del mancato pagamento. Gli Stati
membri possono adattare le modalità e la portata di tale assistenza e stabilire
chi la fornisce, tenendo conto del contesto particolare nel quale il contratto di
credito è offerto, del destinatario e del tipo di credito offerto.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
A conclusioni non dissimili paiono pervenire gli interpreti
che considerano l’obbligo di assistenza come una responsabi‑
lità del finanziatore in termini di obbligazione di risultato11.
In effetti, in tale contesto, si prefigura una responsabilità
nei confronti dello stesso consumatore che accede al credito,
che sembra partire, peraltro, dal presupposto che egli non
abbia avuto ruolo alcuno nella conces­sione del credito irre‑
sponsabile.
Il che non è necessariamente vero, avendo potuto versare
in una posizione di piena consapevolezza in merito alle con‑
seguenze della sua scelta, rispetto alla quale si può porre fi‑
nanche il problema di un concorso di colpa del finanziato (art.
1227 c.c.).
Ma qui riposa, probabilmente, il vero limite della discipli‑
na del credito (ir)responsabile.
Se è vero che esiste un divieto positivo di concedere credi‑
to irresponsabile, e se è vero che tale divieto è posto in una
funzione preventiva del sovraindebitamento, appare chiaro
che l’unica valenza operativa del divieto potrà dispiegarsi
unicamente tenendo conto delle caratteristiche del sovrainde‑
bitamento: il che rimanda alla necessità di disporre di una
procedura speciale all’interno della quale poter sanzionare il
comportamento irresponsabile del finanzia­tore.
Il principio del “prestito responsabile” assume, inoltre, un
ruolo tanto più centrale, in quanto si faccia mente alla circo‑
stanza che l’idea di scelte di consumo responsabili rappresen‑
ta un momento centrale di tutta la riflessione (non soltanto
giuridica) sul consumerismo12.
È stato evidenziato come sia lo stesso mercato ad orienta‑
re il consuma­tore – privo di strumenti critici – verso bisogni
irrazionali, con la conseguenza di aggravare, piuttosto che
misurare, il proprio livello di indebitamento13.
È per questo motivo che la tematica del prestito responsa‑
bile si lega a filo doppio con quella dell’educazione finanziaria
(pure sancita nello stesso considerando 26 della direttiva).
L’educazione finanziaria altro non è se non una particola‑
re manifestazione del più generale principio della “educazione
del consumatore” al consumo, che il Co­dice del Consumo
definisce come “diritto fondamentale” (art. 2, co. 2, lett. d)).
In sostanza, l’educazione finanziaria è vista come lo stru‑
mento per superare le asimmetrie informative tra finanziato‑
re e consumatore – o, come pure si è efficacemente affermato,
la “infantilizzazione del consumatore”14 – e mettere, così, in
condizione quest’ultimo di avere una propria “cittadinanza
economica”15.
11 G. Falcone, op. cit., p. 194.
12 Per tutti L. ceccarini, Consumare con impegno, Roma-Bari, 2008, VII-IX,
dove si assume la necessità di un uso etico del denaro, in maniera tale che il
consumo diventi “strumento di critica, anziché oggetto di critica”, canale di
inclusione politica. È qui da mettere in evidenza come il tema rappresenti uno
snodo cruciale in cui si interse­cano scelte di politica legislativa con riflessioni
maturate a livello sociologico. Tra queste ultime è necessario ricordare, in
particolare: Z. Bauman, Homo consumens, Gardolo, 2007; id., Consumo,
dunque sono, Roma-Bari, 2007; id., L’etica in un mondo di consu­matori,
Roma-Bari, 2010; L. Leonini - R. Sassatelli (a cura di), Il consumo critico,
Roma-Bari, 2008.
13 D. Galletti, La ripartizione del rìschio di insolvenza, Bologna, 2006, 104107.
14L’espressione è di B. R. Barber, Consumisti. Da cittadini a clienti, Torino, 2010,
119 ss.
15Il concetto di “cittadinanza economica” è sviluppato da A. Cortina, Per una
etica del consumo, Madrid, 2002, 138 ss.
2 0 1 2
11
Il criterio del prestito “re­sponsabile”, da un lato, e la edu‑
cazione finanziaria del consumatore, dall’altro, rappresentano
quindi i due strumenti prescelti per colmare il “gap” informa‑
tivo.
1. 1. (Segue) I passi falsi del legislatore del 2010
Tuttavia, all’interno del d.lgs. n. 141, è dato registrare anche
dei “passi falsi” del legislatore, che sembrano introdurre un
elemento di incertezza in ordine alla disciplina applicabile.
E tali “passi falsi” si registrano non nel momento in cui il
legi­slatore nazionale procede a dare attuazione al disposto
della direttiva comunitaria, bensì proprio quando si appresta
– con un afflato, se non con un “furore”, codificatorio – a far
confluire all’interno del Testo Unico norme, pensate per il
consumatore o anche e soprattutto per il consumatore, già
presenti all’interno dell’ordinamento, ma il cui inserimento
all’interno della disciplina del Testo Unico rischia di avere
conseguenze applicative forse sfuggite all’attenzione degli
stessi compi­latori.
Uno di questi “passi falsi” si è avuto con la ricezione,
all’interno del Testo Unico Bancario, di alcune disposizioni
già dettate nel decreto legge n. 7 del 2007, convertito dalla
legge n. 40 dello stesso anno, noto ai più come “decreto
Bersani-bis”: e, precisamente, della norma in materia di “por‑
tabilità” dei mutui (o, meglio, delle ipoteche).
è indubbia l’importanza di tale disciplina, giacché la por‑
tabilità rappresenta uno strumento importante di “rinegozia‑
zione”, da un punto di vista sostanziale, del debito del mutua‑
tario, e, quindi, può essere vista anche come uno strumento
importante per la prevenzione del sovraindebitamento16.
A seguito dell’inserimento del nuovo art. 120-quater del
Testo Unico Bancario, introdotto dal d. lgs n. 141/2010,
nell’ambito della disciplina della trasparenza, all’interno del
capo II del Titolo VI del Testo Unico Bancario, non è più
possibile argomentare, quanto all’ambito soggettivo di appli‑
cabilità, che la norma trovi applicazione unicamente alla
surrogazione avente ad oggetto linee di credito concesse a
soggetti che abbiano concluso il relativo contratto in qualità
di “consumatori”.
Dal momento, quindi, che non vi è traccia di richiami
alla norma di cui all’art. 120-quater nella disciplina del cre‑
dito ai con­sumatori, potrebbe pervenirsi alla conclusione che
le norme in tema di surrogazione non trovino applicazione
laddove il contratto di credito rientri nella disciplina, per
l’appunto, del “credito ai consumatori”: cioè che la normativa
non possa applicarsi proprio a quelle fattispecie per le quali
era stata originariamente pensata.
Sotto il versante del recepimento, all’interno del Testo
Unico bancario, della disciplina in materia di surrogazione,
deve registrarsi, quindi, un sostanziale – ancorché forse inav‑
vertito – “arretramento” della posizione di tutela del consu‑
matore, proprio su di un tema sensi­bile – come anticipato –
rispetto al fronte della prevenzione del sovraindebitamento.
2. Il “trattamento” del sovraindebitamento.
Il “sovraindebitamento”, allo stato, non è una categoria
giuridica del nostro ordinamento.
16 G. Falcone, op. cit., p. 198.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Alcuni tentativi di definizione del sovraindebitamento ne
indivi­duano il confine proprio utilizzando come parametro la
“ragionevo­lezza” – e, dunque, in ultima analisi, la stessa
“responsabilità” – ammettendo che si ha sovraindebitamento
a partire dal omento in cui “finisce l’atto di indebitamento
(ragionevole, proporzionato, prudente; conveniente)”17.
Ma, deve evidenziarsi come, in assenza di indici normati‑
vi, ogni tentativo di classificazione corre il rischio di difetta‑
re per nominalismo.
Così, si è ipotizzato che il sovraindebitamento possa con‑
sistere in una situazione che lede o minaccia la capacità di
onorare ordinata­mente le obbligazioni scadute: senza, cioè,
che tale stato sia in grado di fondare un giudizio prospettico
in ordine alla circostanza che quella capacità sia venuta meno
in modo reversibile o irreversibile.
In questa prospettiva, quindi, si è affermato che il sovrain‑
debitamento è l’antica­mera dell’insolvenza.
Del resto, la circostanza che, nell’ordinamento domestico,
la no­zione di insolvenza sia stata tradizionalmente associata
all’imprenditore commerciale privato che abbia certe dimen‑
sioni, determina una vera e propria “remora culturale” rispet‑
to alla possibilità di immaginare una vera e propria “insol‑
venza del consumatore”.
Eppure, il dibattito storiografico ha chiarito che è sostan‑
zialmente inconsistente una differenza in ordine alla natura
oggettiva dell’insol­venza commerciale rispetto a quella civile18.
Soltanto apparentemente, l’art. 1186 c.c19. evoca una no‑
zione di insolvenza diversa da quella di cui all’art. 51. fall.
Non è, poi, attuale una distinzione che fondi l’insolvenza
civile sull’insufficienza patrimoniale, ed una insolvenza com‑
merciale sul venir meno del credito.
L’attuale assetto delle procedure concorsuali – che conti‑
nua ad ancorarsi alla ricorrenza di specifiche qualità sogget‑
tive del debitore – non consente di dare – nella prospettiva
“curativa” – una risposta di tipo “concorsuale” attraverso il
ricorso a specifiche procedure di ge­stione della crisi 20.
È un fatto che, in un’ottica di politica legislativa, molti
ordina­menti hanno adottato, quale “risposta” al problema,
istituti di tipo esdebitatorio.
È noto come il legislatore italiano abbia fatto proprio un
simile istituto – con il d.lgs. n. 5 del 2006 – unicamente pren‑
dendo in considerazione l’imprenditore commerciale (indivi‑
duale), e non anche il “debitore civile” o il “consumatore”,
lasciando che le ragioni di credito nei confronti di quest’ulti‑
mo tramitino nelle procedure ese­cutive individuali 21.
Questa scelta, peraltro, parte da un presupposto che non
trova ulteriore riscontro nella realtà: vale a dire la convinzio‑
ne per cui è l’imprenditore commerciale (e non il debitore ci‑
17 G. Falcone, op. cit., p. 199.
18Sul punto, E. Frascaroli Santi, Insolvenza e crisi dell’impresa, Padova,
1999.
19 Articolo 1186. Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il
creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenu‑
to insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o
non ha dato le garanzie che aveva promesse.
20Sul punto F. Maimeri, Il quadro comunitario e le proposte italiane sul sovraindebitamento delle persone fisiche, in AGE, 2004, 421 ss.
21Sul punto A. Castagnola, L’insolvenza del debitore civile nel sistema della
responsabilità patrimoniale, in AGE, 2004, 245-253; G. Falcone, La posizione del con­sumatore e gli istituti esdebitatorì nelle recenti evoluzioni degli ordinamenti concorsuali, in Dir. fall, 2006, I, 841 ss.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
vile) che “si indebita di più”, sicché gli effetti dell’insolvenza
dell’imprenditore commerciale sarebbero più gravi di quelli
dell’insolvenza del debitore civile22.
Sennonché, proprio l’esplosione del sovraindebitamento
derivante dalle operazioni di credito al consumo (nella quale,
forse, deve riconoscersi un ruolo eziologico alla concessione
di “prestito irresponsabile”) ha messo in luce la totale inade‑
guatezza di un simile punto di par­tenza.
Nello stesso tempo, dati di analisi economica del diritto
hanno portato ad evidenziare come l’accesso del debitore ci‑
vile a procedure di tipo concorsuale consenta, a quest’ultimo,
di ricorrere anche a specifici rimedi, tra cui, per l’appunto, i
meccanismi esdebitatori, ove previsti.
In questo senso, si è evidenziato come, talora, “il fallimen‑
to sia anche un’opportunità”23.
E, se così è, privare della possibilità dì ac­cedervi una (va‑
stissima) categoria di cittadini (tutti coloro che non rientrano
nell’ambito di applicazione dell’art. 1 1. fall.) potrebbe finan­
che rappresentare un “vulnus” al principio di eguaglianza
costituzio­nalmente tutelato24.
Si aggiunga, inoltre, come la previsione di istituti esdebi‑
tatori rappresenterebbe comunque una limitazione al princi‑
pio generale di responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c.,
e, come tale, andrebbe considerata non alla stregua di una
regola, sibbene di ecce­zione, da calibrarsi in ragione della ri‑
correnza di specifici interessi me­ritevoli di tutela.
Quale che sia la definizione che si voglia dare alla esdebi‑
tazione, si deve aggiungere come quest’ultima possa conse‑
guire a circostanze che nulla hanno a che vedere, non soltan‑
to con la condotta del creditore, ma anche con quella del de‑
bitore: a questo riguardo, è stata proposta la distinzione tra
sovraindebitamento attivo e sovraindebitamento passivo, a
seconda che questa situazione trovi origine in comportamen‑
ti del debitore, ovvero in circo­stanze allo stesso estranee25.
Tuttavia, non è certo che tale tipo di classificazione possa
avere un qualche rilievo, anche in una prospettiva “de jure
condendo”: tale distinzione potrebbe, per esempio, essere pro‑
dromica alla previsione di strumenti di trattamento maggior‑
mente dut­tili per il caso di sovraindebitamento passivo, rispetto
a quelli da prevedersi per il caso di sovraindebitamento attivo.
Ma la insufficienza, da un punto di vista di politica legi‑
slativa, di tale ricostruzione, emerge solo se si faccia mente
22Una analitica ricostruzione storica e comparatistica sui problemi della estensio‑
ne di procedure “concorsuali” ai consumatori in D. Spagnuolo, L’insolvenza
del consumatore, in Contratto e Impresa, 2008, 668-699.
23 Così si esprime la Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parla­
mento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato
delle Regioni dal titolo Superare la stigmatizzazione del fallimento aziendale per una politica della seconda possibilità, del 5 ottobre 2007. Si vedano anche
le considerazioni di D. gal­letti, La ripartizione del rischio di insolvenza, cit.,
104-107, dove si evidenzia il “biso­gno di concorsualità” anche con riferimento
alla posizione del consumatore, e la sostan­ziale mancanza di razionalità di una
scelta di politica legislativa che escluda quest’ultimo dalla applicazione di
procedure concorsuali.
24L. Panzani, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2006.
25 Così J. Pulgar Ezquerra, El presupuesto objetivo de la prevención y tradi­
mento de las crìsis económicas de los consumidores , in M. Cuena Casas - J.L.
Colino Mediavilla (coordinato da), Endeudamiento del consumidor e insolvencia familiar, Cizur Menor, 2009, distingue tra sovraindebitamento attivo
(che può essere conseguenza del prestito irresponsabile e anche di pratiche
commerciali scorrette) e indebitamento passivo, estraneo a qualsiasi assunzione
di volontà o di responsabilità (si pensi all’inci­denza della perdita del rapporto
di lavoro, della malattia, delle separazioni, ecc.).
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
alla circostanza che una delle ragioni del sovraindebitamento
può essere proprio quel “pre­stito irresponsabile” (vale a dire
concesso secondo criteri difformi da quanto previsto dall’art.
124-ter Tub) che, alla luce della classifica­zione appena pro‑
posta, dovrebbe piuttosto considerarsi fonte di un sovrainde‑
bitamento “attivo”.
Ma proprio l’attribuzione alla banca di un obbligo di
protezione, o comunque di un obbligo di attivarsi diligente‑
mente per individuare il prodotto più adatto per il cliente
consumatore, potrebbe portare a considerare meno degna di
protezione la ragione creditoria del finan­ziatore la cui con‑
dotta sia contraria a tali canoni.
Si potrebbe configurare, de jure condendo, la possibilità
di sanzionare in altro modo il comportamento della banca:
partendo dal presupposto della applicabilità al consumatore
di una procedura concorsuale, si ipotizzerebbe di trattare
concorsualmente il cre­dito della banca “irresponsabile”, come
credito subordinato26.
Tale soluzione, peraltro, non risulta praticabile nell’ordi‑
namento domestico, proprio per l’assenza, allo stato, della
previsione di proce­dure “concorsuali” che vedano coinvolto
il consumatore.
Di tali procedure – attualmente inesistenti – si possono,
quindi, soltanto predicare i caratteri “auspicabili”: primo fra
tutti, appare senz’altro la possibilità di attivarsi in maniera tale,
da consentire la emersione precoce del sovraindebitamento.
3. De iure condendo
Vi è notizia di una proposta di legge (la n. 2364, c.d.
“progetto Centaro”) già approvata dal Senato (ed in attesa
della approvazione da parte della Camera)27.
Ma, parallelamente, è da registrare un progetto di Rifor‑
ma, ela­borato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commer‑
cialisti, che si muove sul medesimo terreno (in seguito, per
brevità, “proposta CNDC”).
Per quanto alternativi, i due meccanismi paiono muoversi
en­trambi nel senso di estendere alla disciplina dei soggetti non
fallibili (dunque non soltanto dei consumatori), meccanismi
di ristrutturazione in senso lato dei debiti (e, forse, di “con‑
corsualità”), in parte assimila­bili a quelli fatti propri dalla
legge fallimentare a seguito della riforma del 2005 (e delle
successive, ulteriori riforme).
Nello stesso tempo, i due progetti evidenziano alcune
differenti “scelte di campo”, che costituiscono altrettante
importanti occasioni di riflessione.
Preliminarmente, occorre rilevare che il progetto Cen‑
taro si muove nel solco di un accordo di ristrutturazione che
produce effetto “ unicamente nei confronti di coloro che
all’accordo partecipano”; men­t re, al contrario, il progetto
CNDC – probabilmente anche sulla scorta del positivo apprez‑
zamento di esperienze di diritto comparato – intro­duce (anche
terminologicamente) una vera e propria “esdebitazione”.
Per quanto riguarda la delimitazione del presupposto
sogget­tivo del procedimento (definita “procedimento per la
composizione delle crisi da sovraindebitamento”), il “proget‑
26 G. Falcone, op. cit., p. 203.
27 F. Di Marzio, Sulla composizione negoziale delle crisi da sovrin­debitamento,
in Dir. fall, 2010, 659 ss.
2 0 1 2
13
to Centaro” prevede una particolare procedura, volta a “por‑
re rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette
né assoggettabili alle vigenti proce­dure concorsuali”28; in
modo corrispondente, ma forse tecnicamente più preciso, la
proposta CNDC individua il presupposto soggettivo nella
qualità di insolvente civile (definito come “qualsiasi debitore
al quale la legge attribuisca soggettività giuridica, che dimo‑
stri di non essere assoggettabile alle procedure previste dall’ar‑
ticolo 1 della legge fallimentare, e di versare nella condizione
di insolvenza civile”).
Quanto al presupposto oggettivo, il progetto Centaro lo
indivi­dua nel “sovraindebitamento”, definito come “una si‑
tuazione di perdurante squilibrio economico tra le obbliga‑
zioni assunte e il patrimonio disponibile per farvi fronte”.
La proposta CNDC, peraltro, probabil­mente più avverti‑
ta della circostanza che la procedura riguarda soggetti “ete‑
rogenei” – vale a dire imprenditori “sotto soglia” e consuma‑
tori – individua un duplice criterio di individuazione del pre‑
supposto og­gettivo, questa volta definito “insolvenza civile”.
Questa, a sua volta, è definita come “la situazione nella
quale il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmen‑
te le proprie obbligazioni, oppure è titolare di un patrimonio
nel quale l’entità delle passività, ivi comprese quelle derivanti
da garanzie prestate nell’interessi di terzi, sopravanza l’am­
montare delle attività”.
In realtà deve cogliersi, nel disegno di legge 2364, un
particolare “asimmetrico”: infatti, dopo aver definito, come
scopo della procedura, quello di “porre rimedio alle situazio‑
ni di sovraindebitamento”, si chiarisce che il debitore che può
acce­dervi non è soltanto quello che si trovi in detto stato, ma
anche quello che “non è in condizione di adempiere regolar‑
mente alle proprie obbli­gazioni”29.
Inoltre, sembra difettare il giudizio prognostico in ordine
alla capacità di adempiere regolarmente alle proprie obbliga‑
zioni (eviden­ziato dalla mancanza dell’avverbio “più”, che
compare invece nell’art. 5, co. 2, 1. fall.): pare, quindi, che la
proposta rifugga dalla opportunità di prendere posizione sul
carattere reversibile o irreversibile della crisi, per cui la nozio‑
ne che più pare avvicinarsi al presupposto oggettivo di tale
procedura è lo “stato di crisi” di cui all’art. 160 1. fall..
Entrambi i progetti, peraltro, individuano delle “condi‑
zioni di meritevolezza” per poter accedere alla procedura.
Tra questi, partico­lare rilevanza sembra rivestire la circo‑
stanza di non avere beneficiato, in un lasso di tempo anterio‑
re, di precedenti “ristrutturazioni” o “esdebitazioni”.
La variabile temporale, in effetti, sembra rivestire par­
ticolare importanza, perché appare di tutta evidenza come la
possibilità di ricorrere (troppo) frequentemente a meccanismi
di ristrutturazione o di esdebitazione finirebbe con il favorire
comportamenti irresponsabili da parte del debitore.
È probabilmente sulla scorta di tali considera­zioni, che il
28 Dimenticando, peraltro, che, se mai, assoggettabile alle vigenti procedure
concorsuali è un “soggetto” (l’imprenditore commerciale privato che abbia
certe dimen­sioni) e non una “situazione”; e dimenticando altresì di precisare se
l’assoggettamento alle vigenti procedure concorsuali dipenda unicamente dalla
qualità soggettiva del debi­tore, ovvero anche da una diversa nozione e consi‑
stenza del presupposto oggettivo (a ciò aggiungendosi la circostanza, non se‑
condaria, che le “vigenti procedure concorsuali” non presentano necessaria‑
mente il medesimo presupposto oggettivo).
29 F. Di Marzio, op. cit.
civile
Gazzetta
14
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
progetto CNDC allunga a dieci il periodo di tre anni, che il
progetto Centaro stabilisce come segmento temporale nel qua‑
le il debi­tore non deve avere avuto accesso alla procedura.
Un altro aspetto decisivo nella prospettazione di una po‑
sitiva soluzione al sovraindebitamento (o alla insolvenza civi‑
le) è la considerazione della capacità professionale del debito‑
re di poter proporre un accordo.
Nel disegno 2364 è previsto che, al riguardo, il debitore
possa giovarsi dell’ausilio degli “organismi di composizione
della crisi”.
Que­sti ultimi possono essere costituiti da enti pubblici
“con adeguate ga­ranzie di indipendenza e professionalità”, e
sono iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero
della giustizia, che ne determina i criteri e le modalità di
iscrizione; possono, peraltro, essere iscritti di diritto gli orga‑
nismi di conciliazione costituiti presso le CCIAA, il se­
gretariato sociale ex art. 22, co. 4, lett. a) della legge n.
328/2000, gli ordini professionali degli avvocati, dei commer‑
cialisti ed esperti conta­bili, e dei notai.
Sul punto, la proposta CNDC appare percorrere una
strada completamente diversa, cercando di recepire in manie‑
ra più ra­dicale i meccanismi previsti per gli accordi di ristrut‑
turazione ex art. 182-ò/s.
Viene, infatti, previsto che l’accordo di esdebitazione civi‑
le, che sarà oggetto di una richiesta di omologazione, debba
essere accompa­gnato dalla “relazione redatta da un profes‑
sionista abilitato”.
Questi è “un professionista in possesso dei requisiti di cui
all’art. 67, terzo comma, della legge fallimentare”, il quale è
chiamato ad “attestare la fattibilità del piano”, che dia atto:
a) della veridicità dei dati aziendali, per le sole domande
presentate da imprenditori; b) delle attività poste in essere per
la rilevazione di tutte le passività dell’insolvente civile alla
data di presentazione della domanda;
c) delle attività poste in essere per la inventariazione di
tutte le attività risultanti nella disponi­bilità dell’insolvente
civile alla medesima data;
d) delle attività poste in essere per la formulazione del
giudizio di fattibilità.
Le attività del professionista, in tale sede, ricalcano in par‑
te quelle del “professionista attestatore” nell’ambito del concor‑
dato preventivo (art. 161, comma 3, 1. fall.): di più, nell’obbli‑
gare il professionista a chiarire la metodologia che ha condotto
alla attestazione, la previsione,, indirettamente, assicura che
l’attestazione stessa sia anche adeguamente motivata.
Il ruolo del professionista emerge anche successivamente,
vale a dire in fase di esecuzione dell’accordo di esdebitazione:
è il professionista (che non è necessariamente colui che ha
redatto la relazione da accompagnare alla richiesta di omolo‑
gazione) colui che deve dare esecuzione all’accordo in nome e
per conto dell’insolvente civile.
Nel progetto Centaro, in­vece, l’organismo di composizione
incarica un liquidatore, o risolve le difficoltà insorte nella ese‑
cuzione dell’accordo, vigilando sulla esecu­zione dello stesso.
Un altro tema sul quale i due progetti adottano soluzioni
di­verse è quello del trattamento dei creditori non aderenti
all’accordo.
Il progetto Centaro, infatti, sul modello dell’art. 182-bis
1. fall., assume la necessità che questi ultimi vengano pagati
regolarmente (tanto che occorre verificare non soltanto il
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
raggiungimento dell’accordo, ma anche la sua idoneità ad
assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei).
Nel progetto CNDC, si stabilisce una duplice soluzione, a
seconda che l’insolvente civile sia un imprenditore oppure no.
In que­st’ultimo caso, è previsto che “a seguito della omolo‑
gazione, l’accordo di esdebitazione civile concluso dall’impren‑
ditore è vincolante per tutti i creditori anteriori alla data di de‑
posito del ricorso di omologazione”; nel primo, invece, è vinco‑
lante soltanto per i creditori (oltre che per i titolari di diritti re‑
ali e personali su beni di proprietà o in pos­sesso del debitore) che
siano stati individuati nel ricorso presentato dal debitore.
Questa modalità di individuazione dell’efficacia dell’accor‑
do si lega in modo diretto con la individuazione dei debiti per
i quali ha luogo l’esdebitazione: infatti, nel concetto di “passi‑
vità rilevate” – che sono le “obbligazioni rilevanti ai fini dell’ac‑
cordo di esdebitazione ci­vile” – si specifica che queste sono
date, per l’imprenditore, “da tutte le obbligazioni per titolo o
causa anteriore al deposito del ricorso per l’omologazione
dell’accordo di esdebitazione civile”, mentre, per gli altri debi‑
tori, “dalle obbligazioni espressamente inserite nell’accordo di
esdebitazione”, restando esclusi dal concetto di “passività rile‑
vate” gli “obblighi di mantenimento e alimentari, nonché le
sanzioni penali e amministrative di carattere pecuniario che
non sono accessorie a debiti ricompresi nell’accordo di esdebi‑
tazione civile, ed estinti con l’esecu­zione dello stesso”.
Tanto il progetto Centaro, quanto il progetto CNDC –
infine – stabiliscono meccanismi di blocco delle azioni esecu‑
tive o cautelari individuali sul patrimonio del debitore: evi‑
denziano, cioè, un in­dice marcato di “concorsualità”.
Ciò potrebbe condurre a ritenere – similmente a quanto
autorevolmente sostenuto da una parte della dot­t rina con
riferimento agli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis30
– che le procedure ipotizzate rappresentino delle vere e proprie
pro­cedure concorsuali.
Ma, se così è, occorre allora prendere atto che l’ordina‑
mento domestico si sta avviando verso il riconoscimento di
una “concorsualità” al di fuori dell’ambito soggettivo che ne
ha stori­camente condizionato la ricorrenza.
Questo, peraltro, suggerisce imme­diatamente la proposi‑
zione di un’ulteriore questione: se sia ancora attuale la plura‑
lità delle procedure concorsuali, che pure caratterizza il nostro
ordinamento, o non sia, piuttosto, da riprendere in considera‑
zione l’idea (dalla quale erano partiti i lavori di riforma della
legge fallimentare, poi orientatisi diversamente) della oppor‑
tunità di un unico procedi­mento, seppur caratterizzato da
specificità in relazione alle qualità soggettive del debitore.
Ove mai il legislatore si orientasse nel senso di recepire
una delle due opzioni attualmente formulate, il confronto con
questo tema fini­rebbe inevitabilmente per trasformarsi nella
prossima “sfida” del si­stema concorsuale italiano.
30E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova,
2009.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
Il mutuo nel terzo millennio:
verso il superamento
del dogma della realità
Nota a Cassazione civile, sez. I,
03 gennaio 2011, n. 14
● Tonia Raia
Avvocato
2 0 1 2
15
Mutuo – Natura reale – Perfezionamento del contratto – Consegna
di assegno circolare accettato “ome denaro contante” – Sufficienza
Il mutuo è contratto di natura reale che si perfeziona con
la consegna della cosa mutuata ovvero con il conseguimento
della disponibilità giuridica della cosa; ne consegue che la
traditio rei può essere realizzata attraverso la consegna dell’assegno (nella specie, circolare interno, intestato alla parte e con
clausola di intrasferibilità) alla parte mutuataria, che abbia
dichiarato di accettarlo «come denaro contante», rilasciandone quietanza a saldo.
Cass. civ., sez. I, 03 gennaio 2011, n. 14
(Omissis)
Svolgimento del processo
Con vari atti di citazione, PO.MA., M.R, V.C. e B.E. si
opponevano al precetto loro notificato e all’esecuzione per
espropriazione immobiliare, promossa nei loro confronti dalla
BANCA […], in relazione ad un mutuo intercorso tra le parti.
Si costituiva nei diversi procedimenti la Banca convenuta,
chiedendo il rigetto delle domande e in subordine, la condanna
degli attori al pagamento della somma dovuta.
Si procedeva alla riunione delle cause.
Veniva disposta ed espletata consulenza tecnica contabile.
Il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, con
sentenza in data 5-2-2003, rigettava le opposizioni. Con cita‑
zione, notificata in data 12-6-2003, P.M. + 4, proponevano
appello avverso la predetta sentenza.
Costituitosi il contraddittorio, la Banca chiedeva rigettarsi
l’appello e, in subordine, condannarsi gli appellati al pagamen‑
to della somma dovuta.
La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza in data 23-22005, rigettava l’appello.
Ricorrono per Cassazione P.M. e R., nonché B. E. e V. C
..
Resiste, con controricorso, e propone ricorso incidentale
condizionato, la Banca.
Le parti hanno depositato memorie per l’udienza.
Motivi della decisione
Eccepiscono preliminarmente i ricorrenti la tardività del
controricorso ( ricorso notificato in data 11-8-2005; controri‑
corso, in data 29-9-2005), senza l’osservanza del termine
temporale di 40 giorni, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 369 e 370 c.p.c.
L’eccezione è fondata, considerando che per le operazioni
all’esecuzione non vale la sospensione dei termini nel periodo
feriale. Va pertanto dichiarato inammissibile il controricorso (
e il ricorso incidentale condizionato).
La controricorrente, nella memoria per l’udienza, lamenta
che gli odierni ricorrenti, i quali agiscono in proprio e in quan‑
to eredi di PO. MA., non abbiano fornito prove della loro as‑
serita qualità ereditaria.
La questione, rilevabile d’ufficio, va esaminata, prescinden‑
do dalla dichiarata inammissibilità del controricorso (e della
conseguente memoria). Va osservato che, nel ricorso, i ricor‑
renti , precisano, con chiarezza, di agire in proprio e quali
eredi di PO. MA. che dichiarano deceduto nelle more del giu‑
dizio. La resistente Banca non contesta compiutamente la
qualità di eredi dei ricorrenti, limitandosi a sostenere che essi
avrebbero dovuto fornirne prova.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Ciò fa nella memoria per l’udienza, ma tale richiesta di
produzione documentale, per il rispetto del principio del con‑
traddittorio, avrebbe dovuto effettuarsi nel controricorso, per
permettere ai ricorrenti, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., di produr‑
re idonea documentazione. Ciò, prescindendo, ancora una
volta, dalla effettuata declaratoria di inammissibilità del con‑
troricorso.
Passando all’esame dei motivi del ricorso, va precisato che,
con il primo, i ricorrenti lamentano, violazione dell’art. 474,
615 c.p.c. e 1458 c.c. (art. 360 c.p.c., n.3), sostenendo l’inter‑
venuta risoluzione del contratto di mutuo, contenente clausola
risolutiva espressa, ostativa all’operatività del titolo esecutivo.
Il motivo va rigettato, in quanto infondato.
Va osservato, così correggendo la motivazione della sen‑
tenza impugnata, che richiama appunto tale clausola, pur
negando che la risoluzione impedisca la messa in esecuzione
del titolo, che, nella specie, non di clausola risolutiva e di riso‑
luzione si deve parlare, ma di applicazione della disciplina del
mutuo, e specificamente dell’art. 1819 c.c. per cui se è stata
convenuta, come nella specie, restituzione rateale dell’oggetto
del mutuo e il mutuatario non adempie l’obbligo del pagamen‑
to, anche di una sola rata, il mutuante può chiedere l’imme‑
diata restituzione dell’intero.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano violazione
degli artt. 1813, 1814 c.c. ( art. 360 c.p.c., n.3), sostenendo che
il contratto in esame sarebbe nullo per difetto di causa, per
mancata erogazione della somma mutuata.
Il motivo va rigettato, siccome infondato.
Non può certo mettersi in dubbio la realità del contratto,
che si perfeziona con la consegna della cosa mutuata. Tuttavia
è costante l’orientamento di questa Corte (per tutte, Cass. N.
2483 del 2001), nel senso che debba realizzarsi, al riguardo, la
“disponibilità giuridica” della cosa. Nella specie, come chiari‑
sce il Giudice a quo, dal contratto emerge che la parte mutua‑
taria ha dichiarato di prendere atto della consegna dell’assegno
(circolare interno, intestato alla parte e con clausola “ Non
trasferibile”) e di accettarlo “ come denaro contante”, rila‑
sciandone ampia quietanza a saldo.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano violazione del
D.P.R. n. 69 del 1971, art. 15 (art. 360 c.p.c., n.3), trattando‑
si nella specie, di contratto di finanziamento, così giustifican‑
dosi il richiamo al predetto decreto presidenziale, contenuto
nel contratto in esame “ in carta libera, ed esente ai sensi del
D.p.D. 601,” nonché l’uso del termine “finanziamento” per
definire il contratto stesso.
Precisano altresì i ricorrenti che il contratto sarebbe affet‑
to da nullità, in mancanza della clausola di destinazione, e
comunque non sarebbe suscettibile di diretta esecuzione.
Anche tale motivo va rigettato in quanto infondato. Come
chiarisce il Giudice a quo. Il rinvio al D.P.R. 601 riguarda le
agevolazioni fiscali che vengono concesse, qualora il mutuo
abbia una durata superiore ai 18 mesi, ai sensi del predetto
D.P.R., art. 15; non ha rilevanza decisiva, in tal senso, l’utiliz‑
zo del termine “finanziamento” precisa la sentenza impugna‑
ta che il nomen juris è comunque quello di “ mutuo ipotecario,”
e proprio l’assenza della clausola di destinazione indica pale‑
semente che si tratta di mutuo ordinario. Possono essere trat‑
tati congiuntamente, perché strettamente connessi, i motivi
quarto, quinto e sesto: si lamenta violazione degli artt.360
c.p.c., nn. 1 e 5, in relazione alle risultanze dell’erogazione
c i v i l e
Gazzetta
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della somma, dell’ art. 198 c.p.c. (la nullità della consulenza
tecnica, per esame di documentazione non prodotta) , dell’art.
111 Cost., art. 184 c.p.c. e 74, 87 disp. att. c.p.c., per violazio‑
ne del contraddittorio derivante dalla ritardata produzione, nel
giudizio di primo grado, dell’assegno in originale.
Anche tali motivi vanno rigettati, in quanto infondati.
Da un lato la consulenza tecnica non poteva certo contrad‑
dire la circostanza dell’avvenuta erogazione del mutuo, con le
modalità suindicate, (consegna di assegno circolare non tra‑
sferibile, considerato come denaro contante). Come chiarisce
la sentenza indicata, il C.T.U. ha accertato secondo il quesito
formulato, che non ha dato luogo ad opposizione alcuna delle
parti, “esaminati gli atti e i documenti presenti nei fascicoli ed
ottenuti mediante accesso alla banca,” che i mutuatari accre‑
ditarono la somma mutuata sul loro conto e costituirono
certificato di deposito di pari importo. Non si ravvisa, per
quanto si è osservato, nullità alcuna nell’espletamento della
consulenza tecnica ( è appena il caso di precisare che la banca
poteva sicuramente nominare, quale consulente di parte un
suo funzionario). E’ del resto assai significativa l’affermazione
del Giudice a quo, per cui la consulenza tecnica poteva ritener‑
si superflua, in quanto i mutuatari avevano rilasciato ampia
quietanza del recepimento della somma mutuata.
Quanto all’asserita violazione del contraddittorio, per
tardiva produzione dell’assegno in originale, effettuata
all’udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado,
va precisato, come ancora una volta chiarisce il Giudice a quo,
che non si trattava di documento nuovo, ma solo dell’origina‑
le della copia, prodotta tempestivamente dalla banca.
Con il settimo ed ultimo motivo, i ricorrenti denunciano
violazione dell’art. 480 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n.3), sostenendo
la nullità del precetto che non distinguerebbe tra capitale ed
interessi.
Anche tale motivo, infondato, va rigettato. Come precisa
il Giudice a quo, contestualmente al precetto veniva notificata
copia esecutiva del contratto di mutuo, nel quale erano indivi‑
duati tutti gli elementi per determinare la misura degli interes‑
si. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Le spese seguono
la soccombenza.
(Omissis)
1. La categoria dei contratti reali.
La sentenza che si annota s’inserisce nel novero delle pro‑
nunce con cui la Suprema Corte ha chiarito che nel mutuo il
requisito della consegna si realizza attraverso ogni meccanismo
in grado di porre la somma mutuata nella disponibilità giuri‑
dica del mutuatario e costituisce l’occasione per una breve ri‑
flessione sulla configurazione tradizionale del mutuo nel siste‑
ma positivo.
Riflessione che non può non prendere le mosse se non
dall’annosa disputa dottrinale che coinvolge la categoria dei
contratti reali.
È noto che il contratto1 si perfeziona con l’ accordo delle
1 F. GALGANO, Il contratto, Padova, 2011, p. 251; R. PLENTEDA, Categorie
di contratti, in Il contratto, a cura di L. Viola, Torino, 2009, p. 63 ss.; A. M.
BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Torino, 2002, p. 290 ss.; G. MARINI, La
conclusione del contratto, in Casi e questioni di diritto privato, XXI, Il contratto in generale, a cura di R. Alessi, G. Grisi, II, Milano, 2002, p. 631; P.M.
VECCHI, Il principio consensualistico. Radici storiche e realtà applicativa,
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g e n n a i o • f e b b r a i o
parti: da quel momento esso produce tutti i suoi effetti, siano
essi effetti reali oppure effetti obbligatori. In linea generale
l’accordo delle parti è necessario e sufficiente per perfezionare
il contratto. La consegna della cosa che forma oggetto del
contratto è esecuzione del già perfezionato contratto. In alcuni
casi, però, il processo perfezionativo del contratto esige che
all’apporto volitivo delle parti si accompagni la c.d. traditio rei,
poiché solo in presenza dell’accordo e della consegna della
cosa può dirsi formato, e dunque in grado di operare, lo speci‑
fico criterio di riferimento dell’assetto di interessi alle parti.2 I
contratti che, secondo il principio generale, si perfezionano per
il solo accordo delle parti sono detti consensuali; agli altri si
suole dare il nome di contratti reali. Sono contratti reali3 , oltre
alla donazione manuale di modico valore (art.783 c.c.), il de‑
posito (art.1766 c.c.), il comodato (art. 1803 c.c.), il contratto
costitutivo di pegno (art. 2786 c.c.), il riporto (art.1548 c.c.), il
contratto estimatorio (art.1556 c.c.), il mutuo (art. 1813 c.c.).
In questi, prima della consegna non c’è contratto, ma c’è
uno degli elementi della fattispecie complessa (consenso +
traditio) di cui è formato il contratto reale. Pertanto la conse‑
gna non è effetto obbligatorio del contratto, ma un elemento
costitutivo dello stesso4 .
Da tempo, è stato evidenziato5 come i tradizionali metodi
di classificazione dei contratti risultino attualmente inadegua‑
ti a cogliere con pienezza la complessa e variegata realtà che
vorrebbero rappresentare, al punto da indurre l’interprete a
dubitare dell’effettiva opportunità di una classificazione della
materia contrattuale.
L’interprete, infatti, lamenta la difficoltà di dover forzata‑
mente ricondurre i dati della prassi in uno schema (quello del
contratto, e conseguentemente delle sue classificazioni) la cui
larghezza originaria risulta attualmente inadeguata, poiché
nella sua interna articolazione soffre della semplicità e linea‑
rità suggerita dalla recezione di antiche e ormai superate
strutture economico-sociali.
In particolare, sia in area francese, che in area italiana la
crescente centralità assunta dal contratto consensuale moder‑
2
3
4
5
Torino, 1999, p. 1; L. FRANCARIO, La classificazione dei contratti. Contratti ad effetti reali, contratti reali, in I contratti in generale, a cura di G. Alpa e
M. Bessone, Torino, 1991, p. 601ss.
C. Donisi, Il contratto con se stesso, Napoli, 1992, p. 122.
D. Carusi, La disciplina della causa, in I contratti in generale, a cura di E.
Gabrielli, Torino, 2006, p. 662; F. CAMILLETTI, Alcune riflessioni sul principio consensualistico e sui contratti reali, in Impresa, 2005; G. MARINI, Promessa ed affidamento nel diritto dei contratti, Napoli, 1995, p. 285; F. MA‑
STROPAOLO, Consegna e forma nei contratti reali, in Arch. Giur., 1993, p.
359 ss.;G. MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Comm. del. cod. civ. , IV,
2, Torino, 1980, p. 40; E. M. BARBIERI, V. NAPOLETANO, M. NOVITà, I
contratti reali, in Giur. sist. civ. e comm., diretta da W. Bigiavi, Torino, 1979,
p. 11; A. CHECCHINI, Rapporti non vincolanti e regola di correttezza, Pado‑
va, 1977, p. 200; L. RICCA, Contratto e permuta atipica, Milano, 1974, p. 79;
G. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, p. 76 ss.; G. PALERMO, Funzione
illecita e autonomia privata, Milano, 1970, p. 146, n. 138; S. ROMANO, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel diritto privato, Milano,
1961, p. 77; G. OSTI, Contratto, in Noviss. dig. it., IV, Torino, 1959, p. 483;
M. ALLARA, La vendita. I. L’introduzione. II. Contenuto del contratto, Tori‑
no, 1958, p. 43; U. MAJELLO, Custodia e deposito, Napoli, 1958, p. 266ss.;
A. DALMARTELLO, Appunti in tema di contratti reali, contratti restitutorii e
contratti sinallagmatici, in Riv. dir. civ., 1955, p. 817 ss.;G. GORLA, Il contratto, I, Milano, 1954, p. 76; F. CARRARA, La formazione dei contratti,
Milano, 1915, p. 319.
Cass. Civ., sez. un., 21 giugno 2005, n. 13294, in I Contratti, 2006, p. 214.
E. GABRIELLI, I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, in Trattato dei
contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, 2006, p. 44.
2 0 1 2
17
no, ha indotto molti autori6 a ritenere che anche i contratti
tradizionalmente configurati come reali possono essere con‑
clusi in forma puramente consensuale, a prescindere cioè
dall’effettiva dazione materiale del bene. Si sostiene, infatti,
che l’esistenza dei contratti reali se era concepibile in ordina‑
menti improntati a un rigido formalismo dove gli accordi
vincolanti erano tipici, non trova, invece, giustificazione in
sistemi nei quali opera il principio di autonomia7 contrattuale
(1322 c.c.), in forza del quale ogni accordo lecito produce ef‑
fetto in virtù del solo consenso.
La realità, 8 in definitiva, sarebbe un istituto ormai supera‑
to, idoneo a figurare in un museo di storia giuridica anziché
nella dogmatica moderna.9
L’esistenza della categoria stessa è stata, altresì, contestata
da chi10 rileva che nei contratti reali la traditio non è un ele‑
mento strutturale del contratto, ovvero un elemento della
fattispecie contrattuale, ma attiene alla fase meramente esecu‑
tiva e, precisamente costituisce il primo, in ordine cronologico,
degli effetti del contratto. A conferma di ciò si indicano gli artt.
1812 e 1821 c.c. che prevedono una responsabilità rispettiva‑
mente a carico del comodante e del mutuante per i danni ca‑
gionati al comodatario ed al mutuatario dagli eventuali vizi
delle cose date in prestito, e si arriva ad affermare la sussisten‑
za di un’obbligazione di consegnare per mezzo del fatto che
ogni responsabilità ha per precondizione l’esistenza di un’ob‑
bligazione.11
Un tentativo di riscatto12 è stato effettuato cercando di
perseguire e portare alle estreme conclusioni il parallelismo fra
il procedimento di conclusione dei contratti reali13 e l’art. 1327
c.c. Partendo dalla premessa che l’esecuzione di cui all’art.1327
c.c. avrebbe una duplice valenza, negoziale ed esecutiva al
contempo, si è sostenuto che medesima valenza sarebbe da
riconoscersi alla consegna nei contratti reali, con la conseguen‑
za che quest’ultimi, oltre a trovare nell’art. 1327 c.c. espresso
fondamento, non dovrebbero essere considerati eccezionali14 .
Tuttavia da attenta dottrina15 si è fatto notare che, a pre‑
scindere dalla considerazione in ordine al diverso ruolo che
consenso e inizio esecuzione assolvono nei rispettivi ambiti,
significativo è il fatto che mentre la consegna, in quanto tale,
è fortemente, se non esclusivamente, caratterizzata dal dare,
lo stesso non si può dire per l’esecuzione.
Quest’ultima, infatti, può consistere in un dare, in un
consegnare, ma anche in un facere o non facere non ricondu‑
cibili a quel connotato di materialità che, invece, disegna e
6 P. GALLO, La causa del contratto, in Trattato del contratto, 2, il contenuto-gli
effetti, Milano, 2010, p.1008.
7 R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F.
Vassalli, Torino, 1975, p. 613 ss.
8 T. O. SCOZZAFAVA, Gli interessi monetari, Napoli,1984, p.11.
9 P. J. VERDAN, Riflessioni sulla validità della categoria dei contratti reali, in
Studi in memoria di E. Albertario, II, Roma, 1953, p.746.
10 G. DI MAJO, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, p. 347ss.
11 A.M. GIOMARO, P. MOROSINI, Mutuo nel diritto romano, medievale e
moderno, in Dig. Disc. priv., sez. civ., XI, Torino, 1994, p. 604.
12 G. MARINI, La consegna, in I contratti in generale. Il diritto privato nella
giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino, 2000, p. 442.
13 D. CENNI, La formazione del contratto tra realità e consensualità, in Contr.
impr.,1997, p. 990 ss.
14 A.M. BENEDETTI, La conclusione del contratto mediante esecuzione della prestazione, in I contratti in generale. Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P.
Cendon, Torino, 2000, p.34.
15 C. MANCINI, La realità come scelta atipica, in Riv. dir. comm., 1999, p. 400 ss.
civile
Gazzetta
18
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
caratterizza l’elemento consegna, anche nella più “smaterializ‑
zata” delle concezioni che di essa si voglia prendere in consi‑
derazione.
La dottrina16 più risalente, soprattutto quella a cavallo fra
il codice del 1865 e quello vigente, era solita giustificare la
categoria dei contratti reali basandosi sul postulato per cui non
ci si può obbligare a restituire ciò che non si è ancora ricevuto;
la realità veniva configurata, dunque, quale imprescindibile
corollario della peculiare natura del contratto, in quanto, ap‑
punto, restitutorio.17
In senso contrario, si è opportunamente rilevato18 che nel
nostro ordinamento ci sono contratti consensuali, come la
locazione e l’anticresi, che prevedono l’obbligo della restituzio‑
ne e contratti reali, come la donazione di modico valore e la
caparra, dove tale obbligo è escluso o è solo eventuale.
In un’ottica differente altra parte della dottrina19 spiega il
fenomeno della realità rappresentando la consegna come «il
veicolo necessario, la forma essenziale della volontà impegna‑
tiva». Esiste, in sostanza, tra la volontà impegnativa e la con‑
segna un rapporto inscindibile di contenuto a forma, per il
quale la legge attribuisce rilevanza giuridica soltanto ad un
regolamento contrattuale il cui carattere impegnativo sia ma‑
nifestato mediante consegna.
Ma neanche tale ricostruzione può condividersi perché,
come è stato autorevolmente20 sostenuto, la forma serve a con‑
ferire all’atto certezza e univocità e a garantirne la serietà
mentre la traditio, essendo un atto amorfo, incolore che inter‑
viene in una molteplicità di contratti per gli scopi più svariati,
non risponde a tali esigenze. Come non si può accogliere nean‑
che quell’opinione21 che ritiene la struttura reale del contratto
la più idonea a realizzarne la causa poiché elimina ogni dila‑
zione e rende sicura ed immediata la realizzazione dell’interes‑
se del promissario. Di contro, infatti, si è obiettato22 che addur‑
re a sostegno della categoria dei contratti reali la considerazio‑
ne che lo scopo economico degli stessi non possa realizzarsi
senza la traditio, non è costruttivo, ciò sul rilievo che anche lo
scopo economico della locazione non può realizzarsi senza la
consegna della cosa al conduttore e, tuttavia, il contratto si
perfeziona indipendentemente da essa, con la semplice assun‑
zione della corrispondente obbligazione da parte del locatore.
Attualmente sembra divenuta opinione comune23 e senz’al‑
tro da preferire quella che individua nella realità una partico‑
lare modalità di formazione del contratto, ove la traditio 24
caratterizza essenzialmente il procedimento, chiudendone la
sequenza. Le dichiarazioni o i comportamenti delle parti, in
tale particolare meccanismo, creano, qualificandola, una si‑
tuazione giuridica nella quale la consegna si colora assumendo
specifico valore di atto conclusivo del procedimento.
16 A. Zaccaria, La prestazione in luogo dell’adempimento fra novazione e negozio modificativo del rapporto, Milano, 1987, p. 56.
17 D. Cenni, op. cit., p. 111ss.
18 G. Panzarini, Lo sconto dei crediti e dei titoli di credito, Milano, 1984,
p.77.
19 P. Forchielli, I contratti reali, Milano, 1952, p.100.
20 A. Dalmartello, op. cit., p. 853.
21 G. Adilardi, Il contratto preliminare, Padova, 2008, p. 130ss; P. D’AMICO,
La categoria dei cc. dd. contratti reali«atipici», in Rass. dir. civ., 1984, p. 358ss.;
U. Natoli, I contratti reali, Milano, 1975, p. 27 ss.
22 M. Ferrante, Negozio giuridico, Milano, 1950, p.107.
23 A. Rizzi, L’accettazione tardiva, Milano, 2008, p. 434.
24 G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p. 82 ss.
c i v i l e
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2. Sulla natura giuridica del contratto di mutuo
Con particolare riferimento al mutuo l’art. 1813 c.c. sta‑
bilisce che «è il contratto col quale una parte consegna all’al‑
tra una determinata quantità di denaro o di altre cose fungi‑
bili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa
specie e qualità».
Emerge dalla disciplina 25 che gli effetti tipici prodotti dal
contratto, ai fini della realizzazione dell’assetto di interessi
caratterizzante questa operazione creditizia, sono costituiti
dal trasferimento della proprietà, in favore del mutuatario,
delle cose mutuate (art.1814 e 1821c.c.), dall’obbligazione del
mutuatario di restituire il tantundem ( artt.1813, 1816, 1817,
1818 e 1819 c.c.) e, nel mutuo oneroso, dall’obbligazione del
medesimo di corrispondere gli interessi (artt. 1815, 1820
c.c.).
La dottrina tradizionale26 - facendo leva sull’interpreta‑
zione letterale e logica dell’art. 1813 c.c., («… una parte
consegna all’altra…»), sulla tradizione storica, sui precedenti
legislativi (l’art. 1819 del codice del 1865, ripreso dall’art.
1892 del codice napoleonico, usava anch’esso l’espressione
«consegna all’altra»), sui lavori preparatori, e, infine, sulla
relazione al codice, 27 ove è detto che «anche il nuovo codice
considera la tradizionale caratteristica della consegna delle
cose mutate quale requisito di perfezione del mutuo» - ne
difende la collocazione nell’ambito dei contratti reali.
L’esigenza di trovare un punto di raccordo tra gli schemi
normativi e l’economia moderna, che richiede speditezza e si‑
curezza nella circolazione dei beni, ha indotto altra parte
della dottrina28 a considerare il mutuo come un contratto con‑
sensuale la cui fonte andrebbe individuata nell’art. 1822 c.c.,
contrariamente a quanto sostenuto dai tradizionalisti, 29 e dal‑
25 A. LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, contratti di alienazione, di godimento, di credito, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica, P. Zatti, Milano, 1995, p.
710.
26 G. FAUCEGLIA, Sub artt. 1803-1860. Dei singoli contratti, a cura di D. Va‑
lentino, in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Torino, 2011, p. 119; L. DI
BONA, Sub artt. 1813-1822, in Codice civile, a cura di G. Perlingieri, Napoli,
2010, p. 2031 ss; M. C. IANNINI, Il rapporto. Struttura e natura del contratto di mutuo, in Il mutuo. Il sistema delle tutele, a cura di G. Cassano, Padova,
2009, p. 6 ss.; F. A. MAGNI, Il mutuo, in Diritto civile, diretto da N. Lipari,
P. Rescigno, Milano, 2009, p. 865 ss.; R. CRISTOFARI, Sub artt. 1813-1822,
in Cod. civ. comm., a cura di P. Cendon, Milano, 2009, p. 237ss.; I. VOLPE,
Mutuo, in Appalti, contratti e convenzioni, Milano, 2008, p. 963; P. M. VEC‑
CHI, Il mutuo, in Il mutuo e le altre operazioni di finanziamento, a cura di V.
Cuffaro, Bologna, 2005, p. 9; L. POLESE, Perfezionamento del mutuo e realità, nota a Cass., 28 agosto 2004, n. 12711, in I contratti, 2005, p. 149; A.
ANGIULI, Clausole «esorbitanti» nel mutuo di scopo e garanzie amministrative (Dell’obbligo dell’ente pubblico mutuatario di restituire alla Cassa depositi e prestiti quod nunquam accepit), nota a Cons. Stato, sez. III, 25 giugno 1991,
n. 1020, e nota a Cons. Stato, sez. III, 27 giugno 1989, n.692, in Dir. proc.
Amm., 1997, p. 608; B. GARDELLA TEDESCHI, Deposito, comodato,
mutuo,in Riv. dir. civ.,II, 1995, p. 650; M. FRAGALI, Mutuo. Libro Quarto:
delle obbligazioni, artt. 1813-1822, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja,
G. Branca, Bologna-Roma, 1966, p.6; G. GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, in Tratt. dir. priv., diretto da G. Grosso, F. Santoro Passarelli, V, 7, Milano,
1972, p. 60.
27 R.D. COGLIANDRO, Il mutuo, in Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di G. Capozzi, Milano, 2002, p. 305.
28 F. CARRESI, Il comodato e il mutuo, in Tratt. dir. Civ., diretto da F. Vassalli,
VIII, 3, Torino, 1950, p.101.
29 C.A. GIUSTI, Banche e mutui. Dalla portabilità alla rinegoziazione, Roma,
2011, p. 24; R. CRISTOFARI, Mutuo e risoluzione del contratto, in Il diritto
privato oggi, diretto da P. Cendon, Milano, 2002, p. 252 ss; V. FEDELI, A.
MARTINELLI, La promessa di mutuo, in Il mutuo. Il sistema delle tutele, a
cura di G. Cassano, Padova, 2009, p. 369ss.; V. FARRO, Il contratto preliminare, Torino, 2006, p. 246; P. VITALONE, Il contratto preliminare, Torino,
2005, p. 139; N. VISALLI, La promessa di mutuo nell’ambito della teoria del
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g e n n a i o • f e b b r a i o
la giurisprudenza sia di legittimità30 sia di merito31 che ravvi‑
sano nella suddetta disposizione il preliminare di mutuo.
Secondo questo indirizzo dottrinale il nostro ordinamen‑
to contempla due disposizioni in contrasto tra di loro: quella,
di cui all’art. 1813 c.c., che disciplina il mutuo come contrat‑
to reale e quella, di cui all’art. 1822 c.c., che tende a configu‑
rarlo come consensuale. Fra le due norme avrebbe prevalenza
la seconda perchè il contratto produce effetti in virtù della
sola volontà manifestata dalle parti, indipendentemente
dall’onere della traditio rei.
Il filone interpretativo sul fronte della consensualità32 sug‑
gerisce anche una lettura congiunta degli artt. 1813 c.c. e 1822
c.c., dai quali si trarrebbe una tipizzazione del mutuo gratuito
e reale e del mutuo oneroso e consensuale. Tale orientamento
si fonda sulla teoria che giustifica la realità del mutuo con la
circostanza, peraltro sporadica, della sua gratuità. In tale
ipotesi la consegna terrebbe luogo della causa dal momento
che il sacrificio patrimoniale del promittente non sarebbe
sorretto dall’interesse alla controprestazione. Lo stesso proble‑
ma non si proporrebbe laddove le parti si facciano carico di
sacrifici reciproci, dove la consegna, che nel primo caso impri‑
me un carattere contrattuale ad un accordo di solito basato su
rapporti di solidarietà, qui viene inserita nell’ambito del mo‑
mento adempitivo.
Sempre nell’ambito dell’orientamento consensualista va
segnalato un ulteriore indirizzo dottrinale33 che ha elaborato
un’articolata ricostruzione dei contratti reali. In questa pro‑
spettiva il mutuo viene configurato come il contratto con il
quale due parti regolano fra loro le modalità d’esazione di un
credito, avente per oggetto denaro o altri beni fungibili, appo‑
nendovi uno o più termini, dietro l’eventuale corresponsione
di un interesse, ed attribuiscono ad un successivo loro atto, la
consegna, l’effetto di far sorgere quel credito, ove esso non
preesista al contratto.
Secondo questa ricostruzione nei contratti reali,34 la conse‑
gna resta un elemento esterno alla struttura del contratto e al
quale l’efficacia del contratto è, nella sostanza, sospensivamente
condizionata, senza che sorga comunque alcun obbligo di con‑
segnare la cosa. L’accordo sarebbe immediatamente vincolante
ed irrevocabile, ma comunque subordinato ad una concausa di
efficacia il cui verificarsi dipende dalla libera scelta del poten‑
ziale tradens. La promessa di mutuo, secondo questa teorica
interpretativa, conterrebbe l’impegno giuridicamente vincolante,
di consegnare. Tuttavia, in considerazione di un favor del legi‑
slatore verso lo schema del mutuo reale, la validità della promes‑
sa di mutuo sarebbe subordinata all’accertamento, in concreto,
della meritevolezza dell’interesse perseguito dalle parti.35
contratto reale, in Riv. dir. civ., 2000, p. 82 ss.
30 Cass. civ., sez. I, 15 luglio 1994, n. 6686, in Banca borsa tit. cred., 1996, II, p.
41; Cass. civ., sez. III, 16 settembre 1986, n. 5630, in Giur. it., 1988, I, p. 313;
Cass. civ. sez. III, 18 giugno1981, n. 3980, in Giust. civ., 1982, p. 204.
31 Trib. Roma, sez. X, 3 aprile 2006, in Juris data; App. Roma, 8 aprile 1986, in
Banca borsa tit. cred., 1987, II, p. 280.
32 A.M. GIOMARO, P. MOROSINI, op. cit., p. 600; R. SACCO, Causa e consegna nella conclusione del mutuo, del deposito, del comodato, in Banca borsa
tit. cred., I, 1971, p. 511.
33 V. DI GRAVIO, Teoria del contratto reale e promessa di mutuo, Milano, 1989, p.
225 ss.
34 N. CIPRIANI, La natura dei contratti di comodato, Napoli, 2002, p.100ss.
35 M. LIBERTINI, Sub artt.1813-1822, in Comm. cod. civ., diretto da P. Cendon,
IV, Torino, 1991, p. 1460.
2 0 1 2
19
L’elaborazione36 ulteriore tende a conciliare le opposte te‑
orie della realità e della consensualità, basate rispettivamente
sulle norme codificate negli artt. 1813 e 1822 c.c. Si giunge
così ad un nuovo inquadramento, più flessibile e capace di
adeguarsi alle nuove istanze degli operatori economici, per il
quale, allo schema tipico del mutuo reale si affiancherebbero
corrispondenti contratti di mutuo obbligatorio, che possono
essere liberamente stipulati fra le parti nel rispetto della meri‑
tevolezza di interessi cui l’art. 1322 c.c. subordina il riconosci‑
mento e la conseguente tutela. Per la concreta qualificazione
in tal senso, risultano rilevanti l’onerosità del prestito, la du‑
rata del rapporto e, segnatamente, la circostanza che mutuan‑
te sia un soggetto istituzionalmente dedito alla concessione del
credito.
Nonostante l’abilità argomentativa posta a fondamento
delle diverse tesi rappresentate, la soluzione più coerente con
il quadro normativo vigente appare quella volta a considerare
la figura disciplinata negli artt. 1813 e 1814 c.c. come un con‑
tratto reale, e la fattispecie disciplinata dall’art. 1822 c.c. come
un accordo di tipo preliminare.
I dubbi37 concernenti la compatibilità tra la struttura del
preliminare e quella del contratto di mutuo trovano il loro
fondamento sia nella difficoltà di estendere alla consegna del
bene la prescrizione dell’identità di forma, sia nella ritenuta
inapplicabilità dello strumento tipico di tutela previsto dall’art.
2392 c.c. Con evidente forzatura,38 in entrambi i casi, del det‑
tato normativo: poiché, per un verso, la prescrizione di identi‑
tà della forma non coinvolge la consegna, che è arbitrario ri‑
condurre a forma del mutuo; e, per altro verso, la pur ritenuta
impraticabilità del meccanismo ex art. 2932 c.c., non esclude
l’interesse al preliminare, la cui garanzia di tutela ben può ri‑
posare sul più generale meccanismo risarcitorio ex art. 1218,
2910 ss. c.c.
Com’è stato correttamente osservato39, il preliminare di
contratto reale trova la sua ragion d’essere proprio in quanto
strumento in grado di assicurare alle parti quella certezza
circa gli esiti dell’operazione, la quale invece non deriva dall’ac‑
cordo che gli interessati raggiungono nell’ambito della sequen‑
za tipica relativa ai contratti reali.
3. La traditio mediante assegno circolare
L’analisi dello sviluppo storico dei fenomeni monetari40
consente di rilevare l’esistenza di un filo conduttore comune
rappresentato proprio da un progressivo processo di affranca‑
mento della moneta da un qualche elemento di materialità, in
termini di minore presenza nella lega metallica, utilizzata ai
fini della coniazione, di entità pregiate, ovvero di emersione di
fattispecie in cui si assiste al manifestarsi della moneta in ma‑
36 A. CERVINI, Mutui in valuta e rischio di cambio fra realità e presupposizione,
in Giust. civ., 1996, p. 327; U. MAJELLO, Scritti di diritto patrimoniale, Na‑
poli, 1992, p. 96.
37 E. SERRAO, Il contratto preliminare, Padova, 2002, p. 52.
38 M.R. MORELLI, Sull’ammissibilità del preliminare e su altri aspetti della
problematica attuale del contratto di mutuo, nota a Cass., 18 giugno 1981, n.
3980, in Giust. civ.,1982, p. 208.
39 A. ORESTANO, La conclusione del contratto mediante consegna della cosa, a
cura di C. Granelli, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, Milano,2006,
p. 306.
40 D. SALOMONE, Obbligazioni pecuniarie e nuove forme di moneta, in Giust.
civ., 2006, p. 525.
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
niera sempre più astratta dal ricorrere ad un supporto fisico
della stessa.
È dato di comune esperienza l’affermarsi di tendenze legi‑
slative41 nazionali incoraggiate anche dalle organizzazioni so‑
pranazionali, volta a limitare, se non ad escludere, l’uso del
contante. Sono proprio le banconote il veicolo rappresentativo
delle unità monetarie che con maggior frequenza e facilità
vengono utilizzate dalle organizzazioni criminali per far cir‑
colare e tesaurizzare i ricavi di attività illecite, sia perché il
carattere assolutamente anonimo delle banconote ostacola
controlli fiscali e finanziari che oggi sono ritenuti indispensa‑
bili non solo per perseguire gli illeciti di natura fiscale, finan‑
ziaria ed in genere di qualsiasi attività criminale, ma anche per
assicurare il corretto svolgimento dell’attività economica nella
concorrenza e nella libertà del mercato.
La moneta diventa così mera rappresentazione astratta di
un ammontare di denaro esistente nelle casse dello Stato che
diviene, per così dire, il creatore del danaro in quanto dispone
l’emissione della moneta quale mezzo di pagamento legalmen‑
te riconosciuto. Tale trasformazione42 del denaro in mera ideal
unit è simbolo e sintomo di un ormai evolutasi considerazione
del tutto astratta dell’unità monetaria, tale per cui oggetto
della prestazione dell’obbligazione pecuniaria non può più,
come lo fu in passato, essere considerato l’obbligo di consegna
di cose mobili fungibili, quanto semmai il trasferimento della
disponibilità di un valore patrimoniale espresso in un determi‑
nato ammontare.
Sulla scia di una inveterata tradizione43 - si pensi alla con‑
segna, a distanza o longa manu dei romani, in virtù della
quale si ha valida traditio anche senza che vi sia apprensione
materiale della cosa da parte dell’accipiens - è ricorrente in
giurisprudenza44 l’affermazione secondo la quale il mutuo si
perfeziona quando viene attribuito al mutuatario la “giuridica
disponibilità” ovvero “un potere esclusivo sulla cosa.”
È soprattutto nella prassi bancaria che nascono forme di
traditio in termini di mera disponibilità giuridica della cui
effettiva rispondenza ai connotati della realità è spesso lecito
dubitare.
Ad esempio, la sentenza in epigrafe, ragguaglia alla datio
rei, sufficiente ad integrare la realità del rapporto, la consegna
di un assegno circolare al mutuatario.
41 B. INZITARI, L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria nella società
contemporanea:tramonto della carta moneta e attribuzione pecuniaria per
trasferimento della moneta scritturale, in Banca borsa tit. cred., 2007, 2, p.
133.
42 V. PICCININI, In tema di adempimento delle obbligazioni pecuniarie mediante assegno circolare, nota a Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2006, n. 14957, in
Banca borsa tit. cred., 2007, 2, p. 137.
43 R. TETI, In tema di consegna del mutuo, nota a Cass. civ., 15 luglio 1994, n.
6686, in Banca borsa tit. cred., 1996, p. 46.
44 Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2011, n. 14270, reperibile su: www.personaedanno.it; Cass. civ., sez. III, 22 aprile 2010, n. 9541, in Mass. giust. civ., 2010, p.
583; Trib. Milano, sez. II, 23 gennaio 2008, n. 1008, in Giustizia a Milano,
2008, p. 22; Cass. civ., sez. I, 28 agosto 2004, n. 17211, in I contratti, 2005,
p. 147 ss.; Trib. Verona, 20 ottobre 2003, in Giur. mer., 2004, p. 1109; Cass.
civ., sez. III, 5 luglio 2001, n. 9074, in Mass. Giust. civ., 2001, p. 1332; Cass.,
civ., sez. I, 21 febbraio 2001, n. 2483, in Mass. giust. civ., 2001, p. 284; Cass.
civ., sez. I, 8 marzo 1999, n. 1945, in Foro it., 1999, I, p. 2569; Cass. civ., 13
agosto 1999, n. 8634, in Fall., 2000, p. 429; Cass. civ., 21 luglio 1998, n. 7116,
in Contr., 1999, p. 373; Cass. civ., sez. I, 12 ottobre 1992, n. 11116, in Banca
borsa tit. cred., , 1994, II, p.21; Cass. civ., 9 maggio 1991, n. 5193, in Dir. fall.,
1991, II, p. 900.
c i v i l e
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La dottrina45 che si è occupata della natura giuridica
dell’assegno circolare, ha evidenziato come la sua origine
storica vada ricercata nell’esigenza di assicurare la circolazione
del denaro senza i rischi che per il destinatario potessero deri‑
vare dall’assegno bancario. Si tratta, infatti, di un mezzo di
pagamento particolarmente qualificato, perché implica un’ob‑
bligazione di pagamento cartolarmente assunta da un istituto
di credito.
I dati che in modo peculiare consentono una definizione
di esso come strumento di circolazione del denaro vanno indi‑
viduati nel fatto che l’assegno circolare46 può essere emesso
solo da parte di una banca autorizzata la quale a sua volta
deve avere presso la Banca d’Italia un deposito cauzionale a
garanzia di tutti gli assegni che emette. Inoltre l’emissione è
possibile solo se chi la richiede abbia presso la banca emitten‑
te, somme disponibili corrispondenti all’importo del titolo ri‑
chiesto.
Alla luce di queste osservazioni, autorevole dottrina47 ritie‑
ne che sebbene il debitore viene liberato solo con la riscossione
dell’assegno, la semplice emissione dello stesso integra gli
estremi di cui all’art.1813 c.c.
È stato rilevato,48 tuttavia, che sarebbe pura finzione di‑
scettare della realità del mutuo, sia pure della variante della
realità differita. Fino a quando il mutuatario non porta all’in‑
casso l’assegno e fino a quando l’assegno non gli viene mate‑
rialmente49 pagato oppure accreditato sul conto corrente, egli
non diventa titolare del bene “danaro.”
Nel caso di pagamento mediante assegni non vi è dunque
perfetta contestualità fra l’accordo delle parti e la consegna del
bene, bensì una leggera sfasatura temporale fra queste due
vicende. Se pertanto la datio di un assegno circolare, secondo
la dottrina e la giurisprudenza, equivale a disponibilità giuri‑
dica, questa disponibilità non significa immediata possibilità
di ottenere la somma di denaro oggetto del mutuo. Manca
l’equivalenza economica con la consegna del numerario.50
4. Le ragioni che rendono necessaria la configurazione del mutuo
come contratto consensuale
Il mutuo51, com’è noto, risale alle origini del diritto romano,
ed affonda le sue radici in un’epoca di economia agricolo pasto‑
45 G. GIACOBBE, Spunti in tema di esercizio del diritto di riscatto, con particolare riferimento alla corresponsione delle somme di cui all’art. 1503 c.c. mediante assegno circolare, nota a Cass. civ., 14 aprile 1975, n. 1412, in Giust.
civ., 1976, p. 1414.
46 N. ABRIANI, Diritto commerciale, Milano, 2011, p. 69; F. GALGANO, I titoli di credito, in Tratt. dir. civ., Padova, 2010, p. 99; P. BONTEMPI, Diritto
bancario e finanziario, Milano, 2009, p. 511; B. CALIENDO, Dell’assegno
circolare, in I titoli di credito, a cura di G. Laurini, Milano, 2009, p. 621ss; G.
SPATAZZA, L’assegno, in I titoli di credito, 7, in Tratt. dir. comm., diretto da
G. Cottino, Padova, 2006, p. 649 ss.
47 L. NIVARRA, G. WERTHER ROMAGNO, Il mutuo, Milano, 2000, p. 114;
D. CENNI, La formazione del contratto tra realità e consensualità, Padova,
1998, p. 344ss; E. SIMONETTO, I contratti di credito, Padova, 1994, p. 238
ss.; R. TETI, Il mutuo, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 12, Torino,
1985, p.673; M. FRAGALI, op. cit, p.159.
48 F. SCAGLIONE, Comodato e mutuo, in I contratti gratuiti, a cura di A. Palaz‑
zo, S. Mazzarese , in Il Trattato dei contratti, Torino, 2008, p. 415 ss.
49 V. SANGIOVANNI, Contratto mutuo e consegna del bene, nota a Trib. Latina,
sez. dist. Terracina, 18 maggio 2010, in I Contratti, 2010, p. 984.
50 A. ROVEDA, Il contratto di mutuo tra consenso e realità, in Mutui ipotecari.
Riflessioni giuridiche e tecniche contrattuali, Milano, 1999, p. 405.
51 A. SACCOCCIO, Mutuo reale e mutuo consensuale nel sistema giuridico latino americano, in Roma e America. Diritto romano comune, 2009, 27, p.102.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
rale in cui era molto diffusa l’usanza di prestarsi sementi, derra‑
te o piccole somme di denaro per superare momenti di difficoltà.
Si trattava di un contratto essenzialmente gratuito, che rientrava
nell’ambito di relazioni di collaborazione amichevole.52
Nella realtà odierna il mutuo53 non risponde soltanto a
necessità di carattere sociale, ma soprattutto ad esigenze di
tipo economico tanto da essere considerato il prototipo dei
contratti di credito.
La configurazione reale dell’istituto54, pertanto, mal si
concilia con l’andamento del mercato il quale reclama forme di
finanziamento vincolanti in forza del mero consenso, al fine di
una maggiore snellezza e rapidità nelle operazioni di credito.
È opportuno sottolineare che già in sede di lavori prepara‑
tori55 il mutuo, prima di essere ripresentato come contratto
reale, fu considerato dapprima come contratto reale e consen‑
suale insieme (art. 626 del progetto della Commissione reale
della riforma dei codici per il quale il mutuo «è un contratto
col quale una delle parti dà o promette di dare, …»), e succes‑
sivamente come contratto consensuale (art. 615 del progetto
preliminare).56
Correttamente è stato osservato57 che la fattispecie civilisti‑
ca del mutuo - proprio perché fa riferimento alla tradizione del
contratto così come sviluppatasi in seguito all’esperienza stori‑
ca nell’ambito della teoria dei contratti reali - prescinde dalle
complesse articolazioni che possono assumere, nella pratica dei
traffici, sia la “consegna”delle cose sia le modalità con cui il
contratto può realizzare gli interessi concreti delle parti, nonché
le caratteristiche soggettive del mutuatario o del mutuante.
Le stesse ragioni addotte a sostegno della realità del con‑
tratto sono prive di un riscontro tangibile ed effettivo.
Si è sostenuto58 che il carattere reale sia rispondente ad un’
esigenza di protezione del mutuante «il quale dovrebbe così
poter soppesare esattamente, attraverso la concreta consegna
delle cose, il sacrificio economico cui va incontro e non essere
vincolato da una semplice promessa di consegnare. Di modo
che gli resti possibile, fino all’ultimo, di valutare l’opportunità
della stipulazione, in rapporto sia alle condizioni economiche
del debitore, sia alle condizione economiche sue proprie».
Nell’economia59 del nostro tempo, il mutuo di denaro, e
soprattutto il mutuo concesso dalle banche, assume notevole
52 R. D. COGLIANDRO, op. cit., p. 298.
53 L. TAMMARO, I contratti reali e le corrispondenti figure di contratti consensuali, in Diritto civile, giurisprudenza e casi pratici, a cura di U. Di Benedetto,
Rimini, 1997, p.721.
54 R. CALVO, Contratti e mercato, Torino, 2006, p. 368; M. AVAGLIANO,
Contratto di mutuo fondiario e incarico al notaio, in Notariato, 2000, p. 59; V.
CARBONE, Mutuo: «traditio rei», e strumenti alternativi alla consegna, nota
a Cass., 12 ottobre 1992, n. 11116, in Corriere giur., 1992, p. 1329; O. PRO‑
SPERI, Mutuo di scopo e pesca marittima, in Dir. e Giur., 1987, p. 689, n. 80;
A. PIRAINO LETO, Prestiti reali e prestiti consensuali, in Vita not., 1977, p.
582 ; ID, La crisi del contratto reale, in Giust. civ., 1977, p. 63; G. GHIRARDI,
Interpretazione della « realità » del mutuo, nota a Cass. 2 ottobre 1972, n. 2796,
in Giust. civ., 1973, p.1009; M. SARGENTI, La realità del mutuo e la sua attuazione mediante apertura di credito, in Foro pad., 1972, p. 10.
55 L. AVANZATO, Mutuo, in Enc. forense, IV, Milano, 1959, 1178.
56 M. DE TILLA, Donazione,Permuta, Mediazione, Mandato, Mutuo,Comodato.
Il diritto immobiliare, in Trattato sistematico di giurisprudenza ragionata per
casi, Milano, 1995, p. 547.
57 G. FAUCEGLIA, op. cit., p. 120.
58 M.R. MORELLI, Del mutuo, in Comm. teorico pratico al cod. civ., diretto da
A. De Martino, Roma, 1977, p. 95ss.
59 F. GALGANO, F. MARRELLA, Diritto e prassi del commercio internazionale,
in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da F. Galgano, Padova, 2010, p.
609.
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diffusione: l’imprenditore, spesso, prende a prestito il denaro
occorrente per l’acquisto di fattori produttivi (per comperare
le materie prime, per pagare la retribuzione ai dipendenti) e lo
restituisce al termine del ciclo produttivo, dopo avere venduto
i prodotti. Anche i comuni privati ricorrono spesso al mutuo,
specie per l’acquisto di case per l’abitazione. Ma, è noto che
tale contratto60 viene impiegato in operazioni di credito che
non si realizzano più nell’esclusivo interesse dell’accipiens, ma
anche del tradens, essendo normalmente prevista la correspon‑
sione di interessi sulle somme mutuate, oltre che dell’intero
sistema economico e finanziario. Il mutuante61 è normalmente
contraente forte, non solo in senso economico, ma anche in
senso giuridico, tenuto conto che la concessione del finanzia‑
mento si attua generalmente sulla base di capitolati generali
predisposti dagli Istituti di credito, che stabiliscono la misura
degli interessi, la prestazione delle garanzie, i tempi e i modi
della restituzione della somma.
Si è, altresì, rilevato62 che «la funzione del mutuo è quella
di consentire al mutuatario l’immediata ed esclusiva disponi‑
bilità delle cose mutuate, di fornire una sicurezza maggiore di
quella che è propria dei contratti consensuali con efficacia
obbligatoria, rispetto ai quali la realizzazione del risultato
appare legata ad un fatto insicuro e dilatorio quale è l’adempi‑
mento dell’obbligazione di consegnare, nonché di eliminare il
rischio di un incerto, o comunque non immediato soddisfaci‑
mento dell’interesse dell’accipiens».
Dall’analisi delle ricorrenti prassi contrattuali63 utilizzate
dalle banche emerge chiaramente che la manifestazione del
consenso e la consegna della res nella sfera giuridica-patrimo‑
niale del mutuatario con la libertà di utilizzarla per i propri
fini, si collocano in tempi diversi in quanto la disponibilità
della somma non riesce ad essere attribuita mai contestual‑
mente alla stipulazione del contratto.
Invero, la configurazione del mutuo in chiave consensua‑
listica64 si pone in un ottica di rafforzamento della posizione
del mutuatario perché, rappresentando la consegna solo
l’adempimento di un’obbligazione assunta dal mutuante,
quest’ultimo potrà, in caso di inadempienza, essere condanna‑
to ad erogare la somma, essendosi il contratto già perfeziona‑
to con il semplice accordo di mutuo.
Nella pratica odierna, si assiste alla “decolorazione” della
realità65 del mutuo con contratti stipulati solo consensu.
Un tipo peculiare di mutuo è il c.d. mutuo di scopo,66 che
60 F.C. CATANESE, Riflessioni sui contratti reali, in Giust. civ., II, 1984, p. 290 ss.
61 M. GAZZARA, Crediti speciali, prestito a consegna differita e consensualità
del mutuo, in Banca borsa e tit. cred., 1995, p. 340.
62 U. NATOLI, op. cit., p. 28.
63 A. ROVEDA, op. cit., p. 415.
64 L. FALTONI, Il mutuo unilaterale, in scritti in onore di M. Comporti, a cura
di S. Pagliantini, E. Quadri, D. Sinesio, Milano, 2008, II, p. 1243.
65 P. DAGNA, Profili civilistici dell’usura, Torino, 2008, p. 303.
66 B. QUATRARO, F. DIMUNDO, La verifica dei crediti nelle procedure concorsuali. Contratti bancari, parabancari e del mercato finanziario, Milano, 2011,
p. 340; A. SCOTTI, In tema di mutuo di scopo, nota Trib. Nola, sez. fall., 24
febbraio 2009, in Dir. giur., 2010, p. 319; M. COGNOLATO, I l credito finalizzato: il credito al consumo, in Obbligazioni e contratti, 2006, p. 156; A.
LUMINOSO, Il mutuo di scopo e i finanziamenti agevolati, in Manuale di
diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2006, p. 648 ss.; A.
GEMMA, Destinazione e finanziamento, Torino, 2005, p. 38; D. LA ROCCA,
Il mutuo di scopo, in Il mutuo e le altre operazioni di finanziamento, a cura di
V. Cuffaro, Bologna, 2005, p. 177; R. PERCHINUNNO, Il mutuo di scopo,
in I contratti del commercio, dell’ industria e del mercato finanziario, diretto
da F. Galgano, Torino, 1995, p. 659; G. FAUCEGLIA, Il contratto di finanzia-
civile
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la giurisprudenza67 definisce come «fattispecie consensuale,
onerosa ed atipica, idonea ad assolvere una funzione crediti‑
zia». Con tale contratto - che trova la propria base di legitti‑
mazione all’interno della prassi mercantile e nella legislazione
speciale in tema di finanziamenti agevolati - il mutuatario si
obbliga a destinare la somma corrispostagli dal mutuante per
il conseguimento dell’obiettivo liberamente concordato o im‑
posto dalla legge. Se ne deduce che, in paragone allo schema
tradizionale del contratto di mutuo, s’inserisce in questa par‑
ticolare fattispecie un elemento distintivo rappresentato
dall’obbligo di rispettare il vincolo di destinazione; detto altri‑
menti, il nesso di corrispettività poggia non solo sull’eventua‑
le obbligazione di pagamento degli interessi ma, altresì,
sull’adempimento della finalità concordata o imposta.68
Il credito fondiario69 invece è una forma generica di credi‑
to immobiliare, mediante il quale gli istituti bancari concedo‑
no crediti ai proprietari fondiari, con garanzia ipotecaria di
primo grado. Esso è destinato a soddisfare le necessità econo‑
miche del proprietario di un immobile che può essere rustico
od urbano. Dalla considerazione70 che nel d.lgs. 1° settembre
1993, n. 385 ( T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia,
entrato in vigore il 1° gennaio 1994) il termine «mutuo fondia‑
rio» viene sostituito da quello di «finanziamento», non sembra
più dubitabile la natura consensuale del finanziamento ipote‑
cario di cui all’art. 38 del T.U.
L’evoluzione del contratto71 è intrinsecamente connesso al
progresso delle tecnologie che condizionano i rapporti di scam‑
bio. Il contratto si apre necessariamente agli strumenti informa‑
tici, alla c.d. multimedialità e, in particolare, al nuovo spazio
cibernetico offerto da Internet, in grado di agevolare enorme‑
mente le negoziazioni, connettendo in tempo reale più computers
tra loro annullando le distanze e riducendo al minimo i costi.
L’era digitale72 ha imposto una riflessione sulle tradiziona‑
li forme giuridiche e sul se esse possono essere in qualche
modo plasmate ed adattate alla nuova realtà o se, di contro,
sia necessaria la creazione di nuove regole.
Autorevole dottrina73 ritiene sicuramente compatibile l’uti‑
lizzo del contratto telematico con una struttura meramente
consensuale avente ad oggetto programmi negoziali, fermo
restando che il contratto potrà perfezionarsi al momento
dell’accordo, anche se i tipici effetti restitutori, si produrranno
solo in seguito all’effettiva consegna; così il mutuatario assu‑
merà l’obbligo di restituire la somma solo dopo che il mutuan‑
te ne abbia effettuato la consegna.
Interessante notare, dando uno sguardo alle c.d. fonti
scientifiche del diritto dei contratti, come la linea di tendenza
sia quella di superare il profilo della realità.
I principi Unidroit74 mostrano anzi di escluderne implicitamen‑
te la rilevanza75 laddove stabiliscono che «un contratto è concluso,
modificato o sciolto con il semplice consenso delle parti, senza
bisogno di ulteriori requisiti» (art. 3.2 del testo italiano).
Nella medesima rotta si sono indirizzati anche i Principi
Lando:76 infatti l’art.2:101, dopo aver stabilito che il contratto
è concluso quando le parti hanno manifestato la volontà di
vincolarsi giuridicamente ed hanno raggiunto un accordo
sufficiente, precisa che non occorre alcun altro requisito. Come
spiega la nota all’articolo de quo i Principi non richiedono il
requisito della causa, presente nei sistemi di civil law a diritto
romano francese, né quello della consideration proprio del
contratto di common law, né richiedono che per la conclusio‑
ne di determinati contratti il bene debba essere consegnato
alla parte destinata a riceverlo. Quindi, anche una promessa
di mutuo e una promessa di ricevere un bene in deposito pro‑
ducono effetti prima di essere eseguite.77
Diversamente il Codice europeo dei contratti78 , che lascia
mento assistito da agevolazione. Profili strutturali e funzionali, in Quaderni di
giur. comm., Milano, 1985, p. 202; V. ALLEGRI, Credito di scopo e finanziamento bancario delle imprese, Milano, 1984, p. 33. P. POLLICE, Soggetto
privato e ausilio finanziario pubblico. Mutuo e destinazione nel credito agevolato, Napoli, 1984, p. 160; E. BUONOCORE, Profili civilistici del mutuo
agevolato, in Problemi giuridici delle agevolazioni finanziarie alle imprese, a
cura di Costi e Libertini, Milano, 1982, p. 252.
67 Cass. civ., sez. III, 3 dicembre 2007, n. 25180, in Riv. not., 2009, p. 442; Cass.
civ., sez. III, 9 maggio 2007, n. 10569, in Mass. giust. civ., 2007, p.5; Cass. civ.,
sez. III, 19 maggio 2003, n. 7773, in I Contr., 2003, p. 1131.
68 R. CALVO, I singoli contratti, casi e problemi, Torino, 2004, p. 212.
69 A. FERRUCCI, C. FERRENTINO, A. AMORESANO, La tutela dei diritti
patrimoniali degli acquirenti di immobilida costruire ed istituti collegati, Mila‑
no, 2008, p. 310; G. FALCONE, Le operazioni di credito fondiario alla luce
delle disposizioni del decreto legge n. 7 del 2007, convertito nella legge n.40 del
2007(c.d. « decreto Bersani bis » ) in Dir. fall., 2007, p. 723 ss.; A. C. VACCA‑
RIO BELLUSCIO, Mutuo fondiario e divieto di anatocismo: falso problema o
persistente querelle?, nota a Cass., 31 gennaio 2006, n. 2140, in Corr. giur.,
2007, p. 400; C. BRESCIA MORRA, U. MORERA, L’impresa bancaria, in
Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del notariato, diretto da P. Perlingieri,
Napoli, 2006, p. 64; C.M. TARDIVO, Le operazioni di finanziamento immobiliare e il contratto di mutuo: innovazioni normative e giurisprudenziali e recente evoluzione della prassi bancaria, in Vita not., 2006 p. 106 ss; F. GIOR‑
GIANNI, C.M. TARDIVO, Diritto bancario, Milano, 2006, p. 697 ss.; G.
FAUCEGLIA, I contratti bancari, in Tratt. di dir. comm., diretto da V. Buono‑
core, Torino, 2005, p. 413.; M. G. SAMPIETRO, Contratto di mutuo fondiario e incarico al notaio, in Vita not., 2003, p. 516 e ss; P. BOERO, Le ipoteche,
in Giur. sist. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1999, p. 931.
70 F. BACCHI, M. GIACOBBE, La derogabilità delle norme sul credito fondiario,
in Riv. not., 1996, p. 811.
71 M. PENNASILICO, Sub artt. 1321-1324, in Codice civile, a cura di G. Perlin‑
gieri, 2010, Napoli, p. 370.
72 A. RUSSO, La tutela del consumatore nel commercio elettronico ed il ruolo
della giurisprudenza nazionale e sovranazionale , in Diritto e giurisprudenza,
2011, p. 21.
73 A. CENICCOLA, Il contratto telematico, reperibile su:www.giuristitelematici.it.
74 E. FINAZZI AGRO,’L’effettiva incidenza dei principi Unidroit nella risoluzione delle controversie internazionali: un’indagine empirica, in Diritto del commercio internazionale, 2009, p.557 ss.; F. GALGANO, Il contratto, in Contr.
e impr., 2007, p. 733; F. MARRELLA, La nuova lex mercatoria: principi
unidroit ed usi dei contratti del commercio internazionale, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Pa‑
dova, 2003, p. 103; A. DI MAJO, I «principles» dei contratti commerciali tra
civil law e common law, in Riv. dir. civ., 1995, p. 617; M. J. BONELL, Un
«codice» internazionale nel diritto dei contratti. I Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali, Milano, 1995, p. 89 ss.
75 A. GALASSO, Il comodato, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F.
Messineo e continuato da L. Mengoni, Milano, 2004, p. 88.
76 R. ZIMMERMANN, Lo ius commune e i Principi di diritto europeo dei
contratti: rivisitazione moderna di un’antica idea, in Contr. Impr. Europa, 2009,
p. 101; C. CASTRONOVO, S. MAZZAMUTO, Manuale di diritto privato
europeo, 2, Milano, 2007, 454; S. TONDO, Verso un codice europeo dei
contratti, in Vita not., 2006, p. 121; A. GUIDO, M. ANDENAS, Fondamenti
del diritto privato europeo, Milano, 2005, p. 353; C. RESTIVO, La conclusione del contratto nei Principi di diritto europeo, in Europa e diritto privato,
2003, p. 885 ss.
77 L. VALLE, Progetti per la realizzazione di un diritto comune europeo dei contratti, in Contratto e impresa. Europa, 2000, p. 700.
78 P. STEIN, Norme fondamentali: in tema di accordo, contenuto, forma, interpretazione del contratto nel «codice europeo dei contratti», in Riv. dir. civ.,
2007, p. 229; R. RASCIO, Il diritto civile europeo tra ricerca dell’unità e tradizioni nazionali, in Contratto e diritto uniforme, a cura di C. Venditti e L. Gatt,
Napoli, 2005, p. 187 ss.; G.B. FERRI, Validità e patologie nel Code européen
des contrats, in Europa e diritto privato, 2005, p. 922; C. M. BIANCA, Recensione a Code européen des contrats, in Realtà sociale ed effettività della norma:
scritti giuridici, Milano, 2002, p. 719.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
alla libera determinazione delle parti,79 e non all’adozione di
uno specifico tipo di contratto, sia esso d’origine legale o so‑
ciale, la scelta di dare rilievo o meno alla consegna. A norma
del secondo comma dell’art. 34, infatti, «les contract réels se
concluent à travers la remise effective de la chose qui doit en
faire l’object, sauf si en vertu de la volonté des parties ou de
la coutume il faut considèrer que celles-ci ont voulu conclure
un contrat consensuel atypique».
Nel Libro secondo del CEC, in corso di redazione, ampio
spazio è riservato alla trattazione dei contratti di deposito, di
prestito d’uso e di consumo. In particolare, 80 si sta discutendo
se per il problema della realità sia prospettabile una scelta tra
le seguenti soluzioni: considerare come reali il deposito, il se‑
questro convenzionale, il comodato e il mutuo, con la possibi‑
lità dell’applicazione dell’art. 34 del CEC, in caso di accordi
intervenuti prima della consegna; oppure considerare consen‑
suali tali contratti come appare avvenire in vari ordinamenti
continentali, lasciando immodificato il testo dell’art. 34 del
CEC (la categoria dei contratti reali residuerebbe comunque
con la presenza del pegno, del contratto estimatorio e del ri‑
porto); o, ancora, valutate l’esperienza inglese e l’inclinazione
di certa dottrina, contemplare come reali i contratti gratuiti e
invece consensuali quelli onerosi, salva la riserva di cui all’art.
34 del progetto per il contratto consensuale atipico, stante ivi
il richiamo alla volontà delle parti o agli usi; o, infine, lasciare
il più ampio spazio all’autonomia privata, consentendo alle
parti di scegliere liberamente, ma espressamente, l’una o l’altra
via, ossia la realità o la consensualità, e indicando quale debba
considerarsi, in caso di dubbio, la soluzione che ha effetto.
Particolarmente significativa è, poi, l’esperienza81 matura‑
ta in Germania dove con l’introduzione della legge 11 ottobre
2001, di riforma del diritto delle obbligazioni è stata profon‑
damente rinnovata la disciplina del contratto che è stata distri‑
buita in due titoli distinti: il titolo 3, recante la disciplina del
mutuo di somme di denaro, ed il titolo 7, nel quale si trova la
disciplina del mutuo di cose diverse dal denaro. Al § 488 BGB
il Darlehen viene configurato come un «contratto bilaterale in
virtù del quale il mutuante si obbliga, sin dal momento della
formazione del consenso, a mettere a disposizione del mutua‑
tario una somma di denaro nell’importo convenuto, mentre
quest’ultimo si obbliga a pagare l’interesse dovuto e a restitu‑
ire alla scadenza il capitale ricevuto».
In Francia, invece, è stata la Cour de Cassation,82 con
sentenza del 28 marzo 2000, ad escludere la realità del mutuo
tutte le volte in cui il mutuante eserciti professionalmente
l’attività creditizia.
A ciò si aggiunga che in alcuni ordinamenti giuridici euro‑
79 G. TERRANOVA, I contratti nel sistema del codice civile: un modello per un
codice europeo dei contratti?, in Banca borsa tit. cred., 2008, p.522.
80 G. GANDOLFI, Il libro secondo («Des contrats en particulier») del «Code
européen des contrats», in Riv. dir. civ., 2005, p. 672.
81 C.W. CANARIS, La riforma del diritto tedesco delle obbligazioni: contenuti
fondamentali e profili sistematici del Gesetzur Modernisierung des Schuldrechts.
Testo italiano delle norme del BGB interessate dalla riforma e nota bibliografica, a cura di G. De Cristofaro, Padova, 2003, p. 211; R. VOLANTE, Il mutuo
consensuale. Crisi del modello romanistico di contratto reale e prospettive per
un diritto comune europeo (a proposito della sentenza 28.3.2000 della Corte
di cassazione francese e della riforma del diritto delle obbligazioni in Germania),
in Quad. fiorentini, 2001, II, p. 869.
82 P.L. FAUSTI, Il Mutuo, in Tratt. dir. civ. Cons. naz. not., diretto da P. Perlingie‑
ri, Napoli, 2004, p. 45ss.
2 0 1 2
23
pei la consensualità del mutuo costituisce una regola da tempo
consolidata.
Così in Svizzera l’art. 312 del codice delle obbligazioni
considera valida la promessa di prestare, a prescindere dalla
consegna effettiva e senza distinguere tra contratti a titolo
oneroso e a titolo gratuito.83
Secondo il Codice civile polacco il mutuo84 è un contratto
in forza del quale il mutuante si obbliga a trasferire in proprie‑
tà del mutuatario una determinata quantità di denaro o di
cose generiche, mentre il mutuatario si obbliga a restituire
quella stessa quantità di denaro o di cose dello stesso genere e
della stessa qualità (art.720).
In Inghilterra è solo nel 1602 che, grazie allo Slade’s Case,
si giunge finalmente a riconoscere in termini generali la vali‑
dità del contract consensuale fondato sulla consideration. 85
Evoluzione questa che non tardò a manifestare i suoi effetti
anche in materia di loan.
Attualmente si ravvisa nel loan 86 of money «a contract
whereby a person lends or agrees to lends a sum of money to
another in consideration of a promise express of implied to
repay that sum..».
Dal quadro delineato parrebbe, nonostante i vari tentativi,
compiuti dalla dottrina tradizionale e dalla giurisprudenza sia
di legittimità che di merito, per giustificare e per adeguare il
requisito della realità alla prassi del moderno mercato del cre‑
dito, non esservi più spazio per il vecchio e blasonato mutuo.
La sentenza che si annota, invece, uniformandosi al con‑
solidato orientamento giurisprudenziale sancisce la natura
reale del mutuo, requisito ritenuto soddisfatto con la consegna
della cosa mutuata ovvero con il conseguimento della dispo‑
nibilità giuridica della stessa da parte del mutuatario. Nello
specifico, i giudici di legittimità ritengono perfezionato il con‑
tratto di mutuo mediante la consegna di un assegno circolare.
Tale conclusione, tuttavia, non può essere condivisa perché,
come si è cercatodi mettere in evidenza la mera dazione
dell’assegno circolare non attribuisce al mutuatario l’immedia‑
ta disponibilità della res oggetto del mutuo. Quello che, invero,
non si comprende è l’ostinazione a voler preservare a tutti i
costi la concezione reale del mutuo quando nella quotidianità
dei traffici commerciali si ammettono forme di consegna, per
così dire, spiritualizzate, le quali rendono la realità del con‑
tratto un concetto dai contorni piuttosto evanescenti, al
punto da sfumare verso l’impalpabilità.
Ormai i tempi sono cambiati e sono maturi per intrapren‑
dere un lavoro di modernizzazione della disciplina del contrat‑
to di mutuo, sul modello della legislazione germanica, al fine
di adeguare gli schemi normativi a quelle che sono le vere
esigenze della realtà economica.
civile
Gazzetta
83 F. MASTROPAOLO, I contratti reali, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco,
Torino, p. 547.
84 W. CZACHORSKI, Il diritto delle obbligazioni. Profili generali, 1980, Napoli,
p. 327ss.
85 P. GALLO, Introduzione al diritto comparato. Istituti giuridici, Torino, p.178 ss.
86 M. L. RUFFINI GANDOLFI, I contratti reali nella prospettiva di una codificazione europea:elementi per una discussione, in Studi Palazzo, Torino, 2009,
III, p. 697.
24
D i r i t t o
●
Pignoramento presso terzi
nei confronti
della P.A.: la notificazione
del pignoramento
Nota a Cassazione civile, sez. III,
sent. 18 agosto 2011, n. 17349
● Ermanno Restucci
Avvocato
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Nullità della notificazione e sanatoria dell’atto – Ordinanza assegnazione: possibilità di opposizione agli atti esecutivi o appello
– Titolo esecutivo e correzione di errore materiale
1. In tema di espropriazione presso terzi, quando esecutata sia un amministrazione dello Stato, l’atto di pignoramento va notificato presso gli uffici dell’avvocatura dello Stato nel
cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale
è portata la causa. È nulla la notificazione effettuata presso
gli uffici della amministrazione.
2. La nullità della notificazione dell’atto di pignoramento
è sanata per il raggiungimento dello scopo quando la opposizione agli atti esecutivi è proposta al solo scopo di lamentare tale nullità, non anche a quello di far valere la nullità correlata della ordinanza di assegnazione quale atto conclusivo
del processo esecutivo, che sia stato invalidamente introdotto,
e di chiedere, pertanto, la revoca o l’annullamento della ordinanza di assegnazione medesima.
Il termine di cui allo art. 617 c.p.c. decorre dalla conoscenza legale dell’atto, sicchè, quando a produrre tale conoscenza serve la notificazione, la nullità di questa impedisce
che si determini la sanatoria intrinseca dell’atto oggetto di
opposizione. 3. Il rimedio esperibile avverso le ordinanze di
assegnazione conclusive del pignoramento presso terzi è individuato nella opposizione agli atti esecutivi anche quando
si denunci un vizio formale dell’atto. ovvero, ove si attribuisca
alla ordinanza valore di sentenza che abbia inciso sulle posizioni sostanziali di diritto soggettivo del creditore e del debitore, la impugnazione dell’appello.
4. Il principio cardine del processo esecutivo per il quale,
essendo il titolo esecutivo a condizione necessaria della azione esecutiva, esso deve esistere nel momento in cui questa è
iniziata, è rispettato quando, posta a base della esecuzione a
base della esecuzione una sentenza costituente titolo esecutivo giudiziale, questa sia stata successivamente corretta a seguito di procedimento di correzione di errore materiale ex
art. 284 es. c.p.c. e la esecuzione prosegua sulla base della
parte corretta della sentenza, poiché la correzione di errore
materiale non comporta di per sé la formazione di un nuovo
e differente titolo esecutivo.
Cassazione civile, sez. III, sent. 18 agosto 2011, n. 17349
Pres. Amatucci, Rel. Barreca
(Omissis)
Svolgimento del processo
1.- Il Ministero della Salute propose opposizione all’ese‑
cuzione ed opposizione agli atti esecutivi nella procedura per
pignoramento presso terzi introdotta da P.N. per ottenere
l’esecuzione della sentenza del Tribunale di Roma n. 3944 del
2000.
Dedusse l’opponente che il pignoramento era affetto da
nullità perchè era stato notificato presso la sede dell’Ammini‑
strazione e non presso l’Avvocatura di Stato, in violazione del
R.D. n. 1611 del 1933, art. 11; che comunque era illegittimo
per inidoneità del titolo, inesattezza dei conteggi e per inter‑
venuto integrale pagamento del dovuto.
2.- Con sentenza n. 12836 del 16/6/2008 il Tribunale di
Roma ha rigettato l’opposizione agli atti esecutivi ed ha accol‑
to parzialmente l’opposizione all’esecuzione, dichiarando
l’inesistenza del diritto dell’opposta di procedere al recupero
coattivo delle somme richieste in precetto a titolo di rivaluta‑
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
zione; ha dato atto dell’avvenuto pagamento del residuo cre‑
dito dovuto; ha compensato le spese processuali.
3.- Avverso la sentenza del Tribunale, per la parte in cui
ha deciso l’opposizione all’esecuzione, propone ricorso stra‑
ordinario per cassazione P.N., a mezzo di due motivi, illustra‑
ti da memoria. Il Ministero resiste con controricorso ed, a sua
volta, propone ricorso incidentale basato su tre motivi, a cui
la P. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
I ricorsi, principale ed incidentale, vanno riuniti.
1.- Va preliminarmente esaminato il secondo motivo del
ricorso incidentale che riguarda la statuizione della sentenza
concernente il rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi, poi‑
chè ha natura pregiudiziale.
Con tale motivo il Ministero della Salute deduce violazio‑
ne o falsa applicazione dell’art. 144 cod. proc. civ. e del R.D.
30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11, per essere stato l’atto di
pignoramento notificato presso l’amministrazione e non pres‑
so l’Avvocatura di Stato.
Il ricorrente incidentale critica la sentenza di merito che, a
fondamento del rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi av‑
verso l’atto di pignoramento, ha posto due distinte ragioni:
- l’atto di pignoramento presso terzi non rientra tra quelli
tassativamente indicati dalla normativa, della quale è denun‑
ciata la violazione, poichè, non introducendo nè proseguendo
una “causa”, cioè una controversia andrebbe notificato all’am‑
ministrazione, e non all’Avvocatura di Stato;
- anche ove si opinasse diversamente, il vizio, che non
comporterebbe nullità assoluta perchè la notificazione è per‑
venuta al soggetto debitore, seppure non al domiciliatario,
sarebbe stato sanato con la proposizione dell’opposizione.
1.1.- A sostegno della critica della prima ragione della
decisione l’Avvocatura richiama il precedente di questa Corte
costituito dalla sentenza n. 4665 del 28 febbraio 2007, che
affermò che l’atto di pignoramento presso terzi, quando debi‑
tore sia un’amministrazione dello Stato è soggetto alla disci‑
plina dettata dall’art. 144 cod. proc. civ. e dal R.D. n. 1611
del 1933, art. 11 e la relativa notificazione è nulla se eseguita
direttamente presso l’amministrazione anzichè presso l’ufficio
locale dell’Avvocatura di Stato competente per territorio.
Con riguardo alla seconda ratio decidendi, l’Avvocatura
sostiene che il citato precedente di legittimità avrebbe affermato
che l’eventuale opposizione non avrebbe efficacia sanante della
nullità, quando non proposta soltanto per denunciare tale nul‑
lità, ma anche per far dichiarare tempestivo ed efficace un suo
atto successivo, compiuto non appena avuta conoscenza della
notifica del pignoramento -ad esempio un pagamento eseguito
prima dell’udienza fissata per la dichiarazione del terzo.
2.- Ritiene il Collegio di dover confermare i principi
espressi nel precedente citato in ricorso, con le precisazioni di
cui appresso.
Va, in primo luogo, ribadito il seguente principio di dirit‑
to: “In tema di espropriazione presso terzi, quando esecutata
sia un’amministrazione dello Stato, l’atto di pignoramento va
notificato presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato nel cui
distretto ha sede l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale e
portata la causa.
è nulla la notificazione effettuata presso gli uffici dell’am‑
ministrazione”.
2 0 1 2
25
Il pignoramento presso terzi è una fattispecie a formazio‑
ne progressiva che si perfeziona mediante la dichiarazione
positiva e non contestata del terzo pignorato ovvero, in alter‑
nativa, mediante la sentenza che accerta l’obbligo del terzo
(cfr., tra le tante, di recente Cass. n. 2473/09), equipollenti sul
piano funzionale (cfr. Cass. n. 19059/06) anche se tra loro
radicalmente diverse. La richiesta di accertamento dell’obbli‑
go del terzo introduce un giudizio ordinario di cognizione che
si conclude con una sentenza idonea al giudicato (cfr. Cass. n.
12513/03; S.U. n. 25037/08; n. 1948/09). Se va riaffermato
che l’istanza di introduzione di tale giudizio non può ritener‑
si implicitamente contenuta nell’atto di pignoramento (cfr.
Cass. n. 6449/03) e deve, pertanto, essere proposta quando si
verifichino presupposti dell’art. 548 cod. proc. civ., essa è
tuttavia una domanda giudiziale (cfr., Cass. n. 1167/99) che
assume una forma del tutto peculiare. Non si richiede infatti
che il creditore istante rediga e notifichi un atto di citazione;
è sufficiente che l’istanza venga formulata all’udienza fissata
dal giudice dell’esecuzione per la dichiarazione del terzo, e si
considera così validamente proposta nei confronti dei presen‑
ti; tanto più che, dopo la modifica apportata all’art. 548 cod.
proc. civ., dal D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, nemmeno si
pongono più i problemi connessi all’eventuale riassunzione del
giudizio dinanzi al giudice competente (per la quale, nel vec‑
chio regime, cfr. Cass. n. 2979/79; n. 2286/96). Quindi, pur
non essendo introdotto con l’atto di pignoramento, il giudizio
di accertamento dell’obbligo del terzo, su istanza del creditore,
segue senza soluzione di continuità nell’ambito del procedi‑
mento, la dichiarazione mancata, negativa o contestata.
Per tali ragioni, valorizzando anche il dato letterale
dell’art. 543 cod. proc. civ., n. 4, va ribadito che, essendo atto
che può dare inizio ad un processo ordinario, l’atto di pigno‑
ramento presso terzi va notificato con l’osservanza del dispo‑
sto del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11.
Va inoltre riaffermato che una diversa soluzione non po‑
trebbe trovare giustificazione nemmeno nella disciplina det‑
tata dal D.Lgs. 31 dicembre 1996, n. 669, art. 14, convertito
dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, in ragione di quanto disposto
dal comma 1 bis introdotto dalla L. 23 dicembre 2000, n. 388,
art. 147, poichè “la disposizione sulla notifica del pignoramen‑
to presso un determinato ufficio della pubblica amministra‑
zione non riguarda le amministrazioni dello Stato, ma solo gli
enti pubblici non economici” (così Cass. n. 4665/07 cit.).
Va peraltro precisato che la nullità in parola non riguarda
l’atto di pignoramento, ma soltanto la sua notificazione.
Quindi, quest’ultima è, in primo luogo, rinnovabile previa
assegnazione di un termine da parte del giudice dell’esecuzio‑
ne (arg. ex art. 291 cod. proc. civ.) per eseguire la notificazio‑
ne dell’atto di pignoramento, erroneamente notificato agli
uffici dell’amministrazione dello Stato, presso l’Avvocatura
di Stato competente per territorio. Inoltre, la relativa nullità
è soggetta alla sanatoria di cui agli artt. 156 - 160 cod. proc.
civ.; si deve ritenere che l’atto abbia raggiunto lo scopo quan‑
do l’Avvocatura di Stato, una volta conosciuto l’atto, propon‑
ga opposizione, nell’interesse dell’amministrazione, al solo
scopo di lamentare tale nullità (cfr. Cass. n. 4665/07 cit.). In
applicazione dei principi generalmente affermati con riguardo
all’art. 617 cod. proc. civ., infine, la nullità relativa alla noti‑
ficazione del pignoramento è sanata se non dedotta nel termi‑
ne di decadenza decorrente dalla conoscenza legale che si sia
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
avuta di un atto successivo, che lo presupponga (cfr., da ulti‑
mo, Cass. n. 10099/09; n. 11597/10).
3.- Peraltro, l’applicazione dei principi di cui sopra non com‑
porta le conseguenze invocate dal Ministero, ricorrente inciden‑
tale, attesi il peculiare svolgimento che il processo esecutivo ha
avuto nel caso di specie ed i contenuti dell’opposizione, all’ese‑
cuzione ed agli atti esecutivi, proposta dall’esecutato.
Risulta dal ricorso incidentale e dalla sentenza impugnata
che la procedura venne introdotta con atto di pignoramento
notificato presso il Ministero della Salute il 6 agosto 2004 per
un credito dell’importo di Euro 618.561,28, rivendicato sulla
base della sentenza n. 3944/01 del Tribunale di Roma; che,
alla prima udienza, tenuta il 7 novembre 2005, la creditrice
aveva dato atto dell’avvenuto pagamento della somma di
Euro 118.278,00 ed, attesa la dichiarazione positiva del terzo
pignorato, aveva insistito per l’assegnazione della differenza;
che il giudice dell’esecu2:ione aveva rinviato all’udienza del
28 novembre 2005 per il deposito dei conteggi aggiornati ed,
all’esito di tale udienza, in data 1 dicembre 2005, aveva emes‑
so una prima ordinanza di assegnazione per l’importo di
Euro 180.650,00 a titolo di sorte, rinviando per chiarimenti;
che, con altra ordinanza, in data 16 gennaio 2006, il giudice
dell’esecuzione aveva assegnato l’ulteriore somma di Euro
235.528,91, a titolo di interessi legali sul capitale in quanto
“dovuti comunque per legge”; che invece non era stata asse‑
gnata la somma richiesta a titolo di rivalutazione, era stato
quindi mantenuto il vincolo sul residuo pignorato ed era sta‑
to fatto rinvio all’udienza del 30 marzo 2006; che a tale
udienza era stata fatta opposizione da parte del Ministero ed
il giudice dell’esecuzione, con successiva ordinanza del 2/7
ottobre 2006, aveva sospeso l’esecuzione e disposto per l’ini‑
zio del giudizio dì merito; che, dopo regolare introduzione,
questo si era concluso con la sentenza oggetto della presente
impugnazione.
Non è quindi in contestazione che vi siano state due ordi‑
nanze di assegnazione, nelle date del 1 dicembre 2005 (per la
sorte capitale) e del 16 gennaio 2006 (per gli interessi legali
maturati sul capitale).
3.1.- L’opposizione agli atti esecutivi è stata proposta
contro l’atto di pignoramento, ma non contro tali ultime or‑
dinanze.
Non può infatti revocarsi in dubbio che, con riferimento
all’opposizione agli atti esecutivi, il termine di cui all’art. 617
cod. proc. civ., decorre dalla conoscenza legale dell’atto, sic‑
chè, quando a produrre tale conoscenza serva la notificazione,
la nullità di questa impedisce che si determini la sanatoria
intrinseca all’atto oggetto di opposizione (cfr. Cass. n.
11646/02 cit.; n. 4665/07).
Pertanto, nel caso di specie, ben avrebbe potuto il Mini‑
stero della Salute, per il tramite dell’Avvocatura di Stato,
proporre opposizione tardiva (rectius, in ritardo) avverso le
citate ordinanze di assegnazione, anche oltre il termine
all’epoca vigente (in considerazione del testo dell’art. 617 cod.
proc. civ., applicabile ratione temporis), deducendo il vizio
della notificazione dell’atto di pignoramento a due scopi: in
primo luogo, per sostenere che non vi era stata la sanatoria
implicita delle ordinanze di assegnazione, malgrado non fos‑
sero state opposte nel termine di cinque giorni decorrente ri‑
spettivamente dal 1 dicembre 2005 e dal 16 gennaio 2006,
perchè la parte destinataria non aveva avuto legale conoscen‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
za di esse a causa della nullità della notificazione dell’atto
introduttivo della procedura esecutiva; in secondo luogo, per
sostenerne l’illegittimità c.d. derivata perchè emesse, appunto,
in una procedura esecutiva irregolarmente instaurata.
Si sarebbe così fatta applicazione dei principi più volte af‑
fermati da questa Corte in tema di rimedio esperibile avverso
le ordinanze di assegnazione conclusive del pignoramento
presso terzi, individuato nell’opposizione agli atti esecutivi tra
l’altro quando, come nel caso di specie, si denunci un vizio
formale dell’atto (cfr., tra le tante, Cass. n. 8013/97, n. 3070/98,
n. 6331/99, 6083/06; ed impregiudicata - poichè non rilevante
in questa sede, in cui nessuna impugnazione è stata proposta
avverso le ordinanze conclusive del processo esecutivo - la
questione della possibile alternativa dell’impugnazione con
l’appello: cfr. Cass. n. 2745/07, n. 4337/10, n. 5529/11).
3.2.- Invece, per come risulta dagli atti, con il ricorso in
opposizione del 30 marzo 2006 e, comunque, con l’atto in‑
troduttivo del giudizio contenzioso concluso con la sentenza
oggetto della presente impugnazione, il Ministero propose
due distinte opposizioni.
Un’opposizione, della quale meglio si dirà nel prosieguo,
al fine di contestare che la creditrice procedente potesse pre‑
tendere somme ulteriori oltre quelle spontaneamente corrispo‑
ste dal Ministero, perchè tale pagamento, intervenuto nelle
more, avrebbe comportato l’estinzione integrale del debito
(relativo alla condanna portata dalla sentenza posta a base del
precetto) per adempimento, e ciò anche in conseguenza del
fatto che, secondo l’opponente, sarebbero stati errati i calcoli
effettuati in precetto: entrambe tali doglianze hanno un unico
comune petitum volto all’accertamento dell’insussistenza del
diritto della parte istante di procedere in via esecutiva o di
proseguire nell’esecuzione, perchè le somme pretese non tro‑
verebbero fondamento nel titolo esecutivo; si tratta, con tutta
evidenza, di un’opposizione all’esecuzione, della quale si dirà
trattando del terzo motivo del ricorso incidentale.
Un’altra opposizione, correttamente qualificata sia dall’op‑
ponente Ministero che dal giudice del merito come opposizio‑
ne agli atti esecutivi, avente ad oggetto esclusivamente l’atto
di pignoramento.
Come rilevato dal Tribunale, non venne proposta opposi‑
zione alcuna avverso le ordinanze di assegnazione; tanto è
vero che non risulta proposta alcuna domanda di revoca o
annullamento di queste.
In ragione del contenuto di tale ultima opposizione agli
atti, si è venuta a determinare proprio quella sanatoria della
nullità della notificazione dell’atto di pignoramento che il
giudice di merito ha dichiarato, e che il Ministero infondata‑
mente contesta con il motivo di ricorso incidentale in esame.
E’ vero che la notificazione dell’atto di pignoramento era
nulla, ed in tale senso va corretta la motivazione della senten‑
za impugnata ex art. 384 cod. proc. civ., u.c..
Tuttavia, la nullità si è sanata perchè l’opposizione agli
atti esecutivi è stata proposta soltanto per fare valere tale
nullità, e non anche per farne conseguire la declaratoria di
nullità delle ordinanze di assegnazione ed ottenerne la rimo‑
zione. In conclusione, va affermato il seguente principio di
diritto: “La nullità della notificazione dell’atto di pignoramen‑
to è sanata per il raggiungimento dello scopo quando l’oppo‑
sizione agli atti esecutivi è proposta al solo scopo di lamenta‑
re tale nullità, non anche a quello di far valere la nullità cor‑
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g e n n a i o • f e b b r a i o
relata dell’ordinanza di assegnazione, quale atto conclusivo
del processo esecutivo, che sia stato invalidamente introdotto,
e di chiedere, pertanto, la revoca o l’annullamento dell’ordi‑
nanza medesima”.
Proprio l’applicazione dei principi affermati dal preceden‑
te n. 4665/07, invocato in ricorso, come sopra precisati, com‑
porta il rigetto del secondo motivo del ricorso incidentale.
4.- Va trattato a questo punto, perchè strettamente con‑
nesso con le questioni da ultimo affrontate, il terzo motivo
del ricorso incidentale.
Al fine di censurare l’affermazione contenuta nella senten‑
za impugnata secondo cui il Ministero, una volta costituitosi
in giudizio, non avrebbe contestato i conteggi effettuati da
controparte e non avrebbe chiesto l’annullamento delle ordi‑
nanze di assegnazione, il Ministero ricorrente incidentale
denuncia un vizio di motivazione sul fatto che, invece, sareb‑
be stato “espressamente richiesto l’annullamento delle ordi‑
nanze di assegnazione in data 1/12/05 ed in data 16/01/06”.
In ciò si sostanzierebbe, secondo il Ministero, il “fatto con‑
troverso” sul quale la motivazione sarebbe viziata.
Per comprendere appieno la portata della presente decisio‑
ne occorre premettere che quando il Ministero accenna ad una
domanda di “annullamento” delle ordinanze di assegnazione
non fa affatto riferimento – per come già risulta da quanto
argomentato a proposito del secondo motivo di ricorso inci‑
dentale – ad un’opposizione agli atti esecutivi che abbia ri‑
guardato l’illegittimità di tali ordinanze e sulla quale il giudi‑
ce dell’esecuzione non si sarebbe pronunciato, omettendo
perciò di dichiarare l’illegittimità e/o la nullità e/o l’inefficacia
delle ordinanze del 1 dicembre 2005 e del 16 gennaio 2006.
Infatti, se così fosse, il Ministero avrebbe dovuto formu‑
lare una censura di omesso esame della domanda, denuncian‑
do la violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza di corri‑
spondenza tra il chiesto e il pronunciato, e prospettando
quindi, direttamente e immediatamente, la sussistenza di un
error in procedendo; in effetti, per come chiaramente si evin‑
ce dall’illustrazione del motivo, è con tale illustrazione coe‑
rente la censura, formulata dal Ministero, di vizio di motiva‑
zione, poichè è denunciata l’erronea interpretazione del con‑
tenuto o dell’ampiezza della domanda. Si tratta di un tipico
accertamento di fatto, riservato al giudice di merito e insin‑
dacabile in Cassazione salvo che sotto il profilo, appunto,
della erronea, insufficiente, contraddittoria, illogica motiva‑
zione della decisione impugnata.
Nell’illustrare il motivo di ricorso, il ricorrente incidenta‑
le riporta testualmente il contenuto del ricorso in opposizione,
da cui risulta che è vero che, con l’opposizione, si sia conte‑
stata “la logica di calcolo adottata dalla creditrice” (definita
“incomprensibile” e quindi confutata dall’opponente, voce
per voce), ma la contestazione è stata proposta soltanto per il
profilo rilevante come opposizione all’esecuzione (non anche
per quello attinente all’opposizione agli atti esecutivi, essendo
stata questa proposta soltanto avverso l’atto di pignoramento).
Più in particolare, l’opponente, nel citato ricorso, nemmeno
menziona le dette ordinanze di assegnazione, ma si limita a
sostenere che i calcoli effettuati dalla creditrice non sarebbe‑
ro comprensibili ed anzi sarebbero errati per eccesso; coeren‑
temente con tale causa petendi, non formula una domanda di
annullamento o di revoca delle ordinanze di assegnazione, ma
avanza una domanda di restituzione di indebito, per quanto
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27
già assegnato in eccesso, e comunque di accertamento di
estinzione del debito per adempimento, per quanto invece
effettivamente dovuto.
4.1.- La sentenza impugnata coglie perfettamente sia il
petitum che la causa petendi della domanda, quindi corretta‑
mente interpreta proprio quella parte del ricorso introduttivo
dell’opposizione che il Ministero riporta alla pagina 10 del
ricorso incidentale.
Si legge, infatti, nella sentenza impugnata che trattasi di
un’opposizione all’esecuzione e che questa va reputata “am‑
missibile, seppur avanzata solo dopo l’emissione di ben due
ordinanze di assegnazione, in quanto proposta ad esecuzione
ancora in corso”.
L’affermazione è corretta, tenuto conto della peculiarità
dello svolgimento concreto del procedimento esecutivo di che
trattasi.
Infatti, l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 cod. proc.
civ., è il provvedimento che conclude il processo di espropria‑
zione presso terzi. Ed è pertanto con riferimento alla fattispe‑
cie processuale tipica che si è formata la giurisprudenza sopra
richiamata a proposito dei rimedi esperibili avverso l’ordinan‑
za di assegnazione, sia da parte del debitore esecutato, che da
parte del terzo pignorato. Sempre con riferimento alla fisio‑
logia del processo si è altresì affermato -come ricordato anche
dal Tribunale nella sentenza impugnata- che l’opposizione
all’esecuzione è esperibile per tutto il corso del processo, fino
a quando questo non si sia concluso, nel presupposto che tale
conclusione sia quella prevista dal codice di rito, vale a dire
un’ordinanza di assegnazione unica ed emessa una volta per
tutte. Con la conseguenza che avverso tale ordinanza non è
mai esperibile un’opposizione all’esecuzione, ma soltanto,
come detto sopra, un’opposizione agli atti esecutivi ovvero ove si acceda all’orientamento sostenuto di recente da questa
Corte, pure sopra richiamato - l’impugnazione dell’appello
(quando si attribuisca all’ordinanza il valore di sentenza, che
abbia inciso sulle posizioni sostanziali di diritto soggettivo
del creditore e del debitore).
La peculiarità del caso di specie (e non la sola, come si
vedrà trattando del ricorso principale) sta nel fatto che le or‑
dinanze di assegnazione, per così dire, “intermedie” (o co‑
munque parziali) lasciarono impregiudicata una parte del
credito rivendicato dalla procedente (la prima, infatti, riguar‑
dò il capitale, e non decise sull’assegnazione di somme per
interessi e rivalutazione; la seconda riguardò gli interessi, e
non decise sull’assegnazione per rivalutazione): proprio con
riferimento alla parte di credito rispetto al quale non vi era
stata assegnazione, si sarebbe ancora potuto contestare ex art.
615 cod. proc. civ., il diritto della procedente di agire, o meglio
di proseguire l’esecuzione (come correttamente ritenuto dal
Tribunale). Ovviamente, non avrebbe potuto il rimedio
dell’opposizione all’esecuzione essere ammissibilmente espe‑
rito avverso quella parte del credito per il quale oramai la
procedura esecutiva doveva reputarsi conclusa con le ordinan‑
ze di assegnazione.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto ammissibile l’opposizione
all’esecuzione nei limiti anzidetti e, come si dirà trattando del
primo motivo di ricorso principale, l’ha (erroneamente) accol‑
ta per le somme ancora dovute per rivalutazione.
Rilevato inoltre che era stata avanzata anche la domanda
di ripetizione delle somme assegnate in eccesso, ha invece
civile
Gazzetta
28
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
rigettato tale domanda affermando che “la mancata tempe‑
stiva opposizione avverso le ordinanze di assegnazione con la
loro rimozione in sede giudiziale non consente di accogliere
la domanda di ripetizione di quanto eventualmente assegnato
in eccesso (in quanto postula una previa pronunzia di illegit‑
timità delle ordinanze ex art. 553 c.p.c.)”, così facendo appli‑
cazione dei principi esposti.
4.3.- Pertanto, è vero che, così come denunciato col terzo
motivo del ricorso incidentale, il Tribunale ha completamen‑
te omesso di considerare i conteggi effettuati dall’Ammini‑
strazione ed è vero che ha reputato non meritevole di accogli‑
mento la contestazione del Ministero per la sua “genericità”.
Tuttavia, oltre a questa, ed a prescindere da questa, ha rite‑
nuto che la somma -così come contestata dal Ministero con
riferimento alla pretesa della creditrice per capitale ed inte‑
ressi (fatta salva la rivalutazione, di cui si dirà infra)- fosse
stata “complessivamente già assegnata”: con la conseguenza,
per un verso, di non dover più procedere ad ulteriore assegna‑
zione; per altro verso? di non poter restituire quanto eventual‑
mente corrisposto in eccesso, per non essere state opposte le
ordinanze di assegnazione.
4.4.- In conclusione, il terzo motivo di ricorso incidentale
è inammissibile per difetto di interesse per la parte in cui la‑
menta che non siano stati nuovamente effettuati i calcoli del
dovuto sulla base dei conteggi proposti dal Ministero, perchè,
anche se si fosse dato integralmente seguito a tali conteggi,
rideterminando in conformità ad essi le somme dovute alla
creditrice, comunque non si sarebbe potuta accogliere la do‑
manda di restituzione di quanto indebitamente assegnato.
Per la parte in cui, invece, il motivo è volto a censurare il
rigetto della domanda di restituzione, esso è infondato. La
motivazione del rigetto è congrua e logica, poichè corretta‑
mente interpreta la domanda proposta e ne trae la conseguen‑
za dell’infondatezza per la preclusione derivante dall’emissio‑
ne delle due ordinanze di assegnazione.
4.5.- Il presupposto di tale ritenuta preclusione – vale a
dire la mancata proposizione di opposizione avverso le ordi‑
nanze di assegnazione – non è smentito dal contenuto del
ricorso in opposizione, come detto al precedente punto 4.
La sussistenza di siffatta preclusione – vale a dire la vera
e propria ratio decidendi della statuizione impugnata – non è
stata invece, in sè, oggetto di censura, sotto il profilo della
violazione di legge ed è comunque corretta per quanto esposto
ai precedenti punti 4.1. e 4.2.
Va quindi rigettato anche il terzo motivo di ricorso inci‑
dentale.
5.- Va detto qui, per ragioni di comodità espositiva, del
primo motivo del ricorso incidentale.
Con tale motivo il Ministero denuncia la violazione o
falsa applicazione degli artt. 156, 474, 479 e 480 cod. proc.
civ., nonchè del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, per avere la P.
dichiarato di agire, e quindi avere agito, sulla base della sen‑
tenza di primo grado e quindi, secondo il ricorrente inciden‑
tale, l’intera procedura esecutiva sarebbe nulla per difetto di
titolo esecutivo poichè, in virtù dell’effetto sostitutivo dell’ap‑
pello, la sentenza di primo grado, già al momento della noti‑
ficazione del pignoramento, sarebbe stata già caducata per
essere intervenuta la sentenza d’appello e quindi la creditrice
avrebbe dovuto agire in forza di tale sentenza.
Il motivo pone una questione nuova rispetto ai motivi
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
proposti con l’opposizione agli atti e con l’opposizione all’ese‑
cuzione. Sostiene, peraltro, il ricorrente incidentale che,
malgrado tale novità (che quindi, implicitamente, riconosce),
la questione sarebbe rilevabile d’ufficio ed, a sostegno di
questa affermazione, cita la giurisprudenza di questa Corte
formatasi sulla rilevabilità d’ufficio, in ogni stato e grado del
processo, e quindi anche in Cassazione, della mancanza del
titolo esecutivo.
Nella situazione prospettata col motivo in esame, però,
contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non si ver‑
te in un’ipotesi di mancanza o caducazione sopravvenuta di
titolo esecutivo, bensì nella diversa ipotesi della sostituzione
del titolo esecutivo costituito dalla sentenza di primo grado
con quella di secondo grado, prima dell’inizio dell’esecuzione.
E’ vero che in ipotesi siffatte il titolo esecutivo è costituito
dalla sentenza d’appello ed, ove si intenda procedere ad ese‑
cuzione forzata, questa seconda sentenza va notificata al de‑
bitore (cfr., da ultimo, Cass. n. 29205/08). Tuttavia, la situa‑
zione che consegue all’omessa notifica, essendo incontestati
l’esistenza ed il contenuto della sentenza di secondo grado,
non è affatto equiparabile alla mancanza assoluta del titolo
esecutivo, che impedisce il corso del processo esecutivo; il
titolo esecutivo c’è ed è riconosciuto da entrambe le parti,
soltanto che di esso non è stata fatta notificazione nè menzio‑
ne nel precetto; si tratta di vizi attinenti alla regolarità degli
atti e/o del processo esecutivo, sanabili ove non tempestiva‑
mente dedotti con l’opposizione agli atti esecutivi.
Peraltro, nel caso di specie, nemmeno di sanatoria si trat‑
ta, poichè la doglianza è stata proposta per la prima volta col
ricorso per cassazione e quindi il motivo è inammissibile.
5.1.- Nell’illustrare lo stesso primo motivo del ricorso
incidentale, il ricorrente propone una censura subordinata al
mancato accoglimento della prima, di cui si è detto sopra.
Aggiunge, infatti, che, anche ove si ritenesse legittima l’ese‑
cuzione intrapresa, il titolo esecutivo costituito dalla sentenza
della Corte d’Appello n. 3650/2002 sarebbe stato comunque
parzialmente caducato per essere stato accolto il ricorso per
cassazione avverso questa sentenza e per essere stata cassata
la condanna del Ministero al pagamento della somma dovuta
per indennizzo una tantum di cui alla L. n. 238 del 1997, art.
1, comma 2, part. 2^.
Anche questa censura subordinata è inammissibile, sia
pure per una ragione diversa da quella di cui sopra.
Rispetto ad essa sarebbe infatti applicabile la giurispru‑
denza sopra richiamata a proposito della rilevabilità d’ufficio
della caducazione sopravvenuta del titolo esecutivo. Tuttavia,
questo principio è valido quando il titolo esecutivo venga
meno nel corso dell’esecuzione e/o del giudizio di opposizione
all’esecuzione. Nel caso di specie, per quanto risulta dalle
considerazioni già svolte a proposito degli altri motivi del ri‑
corso incidentale, la somma riconosciuta a titolo di indenniz‑
zo una tantum è stata, quanto al capitale ed agli interessi,
corrisposta con ordinanze di assegnazione rispetto alle quali
è in questa sede preclusa ogni valutazione.
Resta, ovviamente, fermo ed impregiudicato il diritto del
Ministero di agire per la restituzione dell’indebito, essendo
venuta meno, con la sentenza irrevocabile e conclusiva del
giudizio di merito, la statuizione giudiziale solo provvisoria‑
mente esecutiva sulla base della quale si è compiuta l’esecu‑
zione (cfr. Cass. n. 7036/03).
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
6.- Va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso
principale proposta dal Ministero resistente, sull’assunto che,
essendo stata la sentenza impugnata pronunciata su un’oppo‑
sizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, regolata dall’art.
618 bis cod. proc. civ., comma 1, avverso tale sentenza sareb‑
be previsto il rimedio dell’appello, quanto meno con riferi‑
mento all’opposizione all’esecuzione, con conseguente inam‑
missibilità del ricorso straordinario.
Il giudizio di opposizione concluso con la sentenza ogget‑
to della presente impugnazione è stato introdotto con ricorso
del 30 marzo 2006, mentre la sentenza è stata pubblicata il
16 giugno 2008:
pertanto, il procedimento è regolato dall’art. 618 bis cod.
proc. cìv., nel testo modificato dalla L. 24 febbraio 2006, n.
52, art. 16; alla sentenza vanno applicate le norme dell’art.
616 cod. proc. civ. (nel testo vigente tra 1 marzo 2006 ed il 4
luglio 2009, vale a dire nel testo che prevedeva l’ultimo inciso
introdotto dalla L. n. 52 del 2006, art. 14), quanto all’oppo‑
sizione all’esecuzione, e dell’art. 618 cod. proc. civ., quanto
all’opposizione agli atti esecutivi.
Orbene, la norma dell’art. 618 bis cod. proc. civ. richiama
le disposizioni previste per le controversie individuali di lavo‑
ro “in quanto applicabili” e si intitola al “procedimento”: va
pertanto intesa nel senso che superata la fase dinanzi al giudi‑
ce dell’esecuzione, secondo quanto disposto dal testo riforma‑
to del comma 2 - il procedimento deve essere introdotto, ai
sensi degli artt. 616 e 618 cod. proc. civ., cioè a seguito di
un’ordinanza dello stesso giudice dell’esecuzione che fissa il
relativo termine, ma le modalità per l’introduzione sono quel‑
le previste dalle norme sulle controversie individuali di lavoro,
così come tali norme regolano il successivo procedimento;
questo si chiude con una sentenza. Il regime impugnatorio
della sentenza che conclude il giudizio regolato dall’art. 409
cod. proc. civ., e segg., è tuttavia quello ordinario, poichè l’art.
433 cod. proc., e segg., regolano diversamente il procedimen‑
to d’impugnazione, ma non derogano alla previsione dell’art.
339 cod. proc. civ.. Considerate tale ultima norma e quelle dei
richiamati artt. 616 e 618 cod. proc. civ., nel testo applicabile
ratione temporis (avuto riguardo alla data di pubblicazione
della sentenza impugnata), va affermato che la causa di oppo‑
sizione all’esecuzione conclusa con sentenza pubblicata nel
periodo compreso tra il 1 marzo 2006 ed il 4 luglio 2009 e la
causa di opposizione agli atti esecutivi sono decise con senten‑
ze non appellabili anche se relative alle materie trattate nei
capi 1^ e 2^ del titolo 4^ del libro secondo del codice di rito,
quindi anche se il relativo procedimento è stato disciplinato
dalle norme previste per le controversie individuali di lavoro.
7.- Il primo motivo di ricorso principale è fondato e va
accolto.
Con tale motivo la ricorrente P. impugna il capo della
sentenza di merito con la quale non le è stato riconosciuto il
diritto alla rivalutazione (così, di fatto, accogliendo l’opposi‑
zione all’esecuzione da parte del Ministero) e denuncia, con
riferimento all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, la vio‑
lazione o falsa applicazione dell’art. 287 cod. proc. civ., in
relazione sia agli artt. 546, 549 e 553 cod. proc. civ., sia agli
artt. 615, 616 e 617 cod. proc. civ..
Deduce la ricorrente che la sentenza posta a base del pre‑
cetto e quindi dell’esecuzione, resa dal Tribunale di Roma in
favore della P. il 5 marzo 2001 col n. 3944, che, nel disposi‑
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tivo, non conteneva la condanna del Ministero della Salute al
pagamento della rivalutazione e degli interessi, era stata suc‑
cessivamente corretta, a seguito di istanza presentata dalla
stessa P., ai sensi dell’art. 287 cod. proc. civ., con provvedi‑
mento di correzione di errore materiale reso il 16 maggio
2006, che non era stato oggetto di impugnazione. Sostiene la
ricorrente che, avendo la sentenza corretta riconosciuto il
diritto della creditrice procedente alla rivalutazione ed agli
interessi, avrebbe errato il giudice dell’opposizione nel negar‑
le tale diritto, sul presupposto che esso non fosse contempla‑
to nel titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione.
7.1.- In effetti, il Tribunale, dopo aver premesso che la
sentenza azionata non ha proceduto alla liquidazione degli
accessori ed avere però riconosciuto il diritto agli interessi
(perchè “comunque dovuti per legge ex art. 1284 cc e perchè
espressamente riconosciuti dal debitore nell’atto con il quale ha
corrisposto spontaneamente parte del debito”), ha escluso il
diritto al pagamento di un importo a titolo di rivalutazione “in
quanto non espressamente liquidata nel titolo azionato”; quan‑
to a quest’ultimo, ha escluso la rilevanza del provvedimento di
correzione di errore materiale, così motivando: “il tardivo
(dopo l’emissione della sentenza di appello) provvedimento
(peraltro emesso in violazione della norma di cui all’art. 281
c.p.c.) di correzione della sentenza di primo grado nel senso di
integrare la pronuncia con la condanna anche al pagamento di
tale accessorio è privo di effetti in quanto accede ad una sen‑
tenza ormai superata da quella di appello che ha sostituito,
confermandola nel merito, la sentenza di primo grado”.
7.2. L’affermazione è in contrasto col disposto dell’art. 287
cod. proc. civ., nonchè dell’art. 288 cod. proc. civ., u.c., come
interpretato dall’univoca giurisprudenza di legittimità.
Il provvedimento di correzione di errore materiale soprav‑
venuto non può certo essere considerato tamquam non esset
come è stato invece fatto dal giudice a quo.
Trova, infatti, applicazione l’art. 288 cod. proc. civ., u.c.
- secondo cui le sentenze assoggettate alla procedura di cor‑
rezione possono essere impugnate relativamente alle parti
corrette nel termine ordinario, decorrente dal giorno in cui è
stata notificata l’ordinanza di correzione - essendo la norma
riferibile all’ipotesi in cui l’errore corretto sia tale da determi‑
nare un qualche obbiettivo dubbio sull’effettivo contenuto
della decisione, quando, in particolare, si assuma che il pro‑
cedimento sia stato attivato in difetto dei presupposti previsti
dall’art. 287 cod. proc. civ., ovvero si lamenti, come nel caso
di specie, che sia stato utilizzato per riformare impropriamen‑
te la decisione, della quale si è chiesta la correzione, dando
luogo ad una surrettizia violazione del giudicato (cfr. Cass. n.
22658/04, n. 6969/06, n. 28189/08, n. 19668/09).
Pertanto, il Ministero della Salute avrebbe dovuto impu‑
gnare nei termini di legge, con l’appello o con la revocazione
ex art. 395 n. 5 cod. proc. civ., la sentenza quale risultante
dalla correzione apportatavi dall’ordinanza del 16 maggio
2006.
In mancanza, la sentenza è oramai passata in giudicato
anche quanto alla condanna del Ministero al pagamento
della rivalutazione.
7.3.- Nè vale sostenere - come fatto col controricorso, ri‑
prendendo l’argomento utilizzato dalla sentenza oggetto
della presente impugnazione- che nel caso di specie la senten‑
za di primo grado sarebbe stata definitivamente sostituita
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dalla sentenza della Corte d’Appello, che ne avrebbe determi‑
nato la caducazione.
Infatti, la vicenda processuale è quella che risulta dagli
atti di cui sopra e dagli ulteriori richiami contenuti nel ricor‑
so e nella sentenza impugnata, e precisamente la seguente:
- sentenza di primo grado, posta a base dell’azione esecuti‑
va, emessa dal Tribunale di Roma il 5 marzo 2001;
- sentenza di secondo grado, di conferma della sentenza di
primo grado, emessa dalla Corte d’Appello di Roma il 6
agosto 2003;
- provvedimento di correzione dell’errore materiale della
prima sentenza pronunciato il 16 maggio 2006;
- sentenza che ha cassato senza rinvio la sentenza d’appello,
su ricorso del Ministero, limitatamente al riconoscimento
dell’indennizzo una tantum di cui alla L. n. 238 del 1997,
art. 1, comma 2, part. 2^, emessa da questa Corte dei
Cassazione il 19 gennaio 2009.
Risulta dalla sentenza impugnata che la Corte d’Appello
ha ritenuto che la rivalutazione non fosse stata riconosciuta
con la sentenza di primo grado e che, pertanto, ha espressa‑
mente omesso di pronunciarsi sulla richiesta avanzata in tale
sede dal Ministero debitore di non riconoscere la rivalutazio‑
ne, affermando di non potersi pronunciare “perchè manca la
statuizione attributiva dei danni da svalutazione”.
Consegue che, non risultando che tale affermazione con‑
tenuta nella sentenza d’appello, sia stata fatta oggetto di ri‑
corso per Cassazione, su di essa si è formato il giudicato con
la decorrenza del relativo termine di impugnazione a far data
dalla notificazione della sentenza d’appello od, in mancanza,
del termine dell’art. 327 cod. proc. civ..
Comunque, è certo che il provvedimento ex art. 287 cod.
proc. civ., pronunciato il 16 maggio 2006, sia intervenuto
dopo la pronuncia della sentenza d’appello e la sua irrevoca‑
bilità quanto al capo concernente la rivalutazione.
Ne segue che la sentenza di primo grado relativamente
alla parte corretta è passata in giudicato dopo il passaggio in
giudicato della sentenza d’appello, sicchè non può che preva‑
lere su quest’ultima.
7.4.- Poichè, peraltro, la definitiva condanna del Ministe‑
ro al pagamento di una somma a titolo di rivalutazione è
stata ottenuta mediante l’integrazione dell’(originaria) senten‑
za di primo grado, è sempre quest’ultima il provvedimento
costituente titolo esecutivo, che, posto a base dell’esecuzione,
permane fino al suo compimento.
Si vuole con ciò significare che il principio cardine del
processo esecutivo per il quale, essendo il titolo esecutivo
condizione necessaria dell’azione esecutiva, esso deve esistere
nel momento in cui questa è iniziata, non si può formare
successivamente e deve permanere per tutta la durata dell’ese‑
cuzione (cfr., tra le tante, Cass. 24 maggio 2002, n. 7631, in
motivazione) è rispettato quando, posta a base dell’esecuzio‑
ne una sentenza costituente titolo esecutivo giudiziale, questa
sia stata successivamente corretta a seguito di procedimento
di correzione di errore materiale ex art. 287 cod. proc. civ., e
segg., e l’esecuzione prosegua sulla base della parte corretta
della sentenza, poichè la correzione di errore materiale non
comporta, di per sè, la formazione di un nuovo e diverso ti‑
tolo esecutivo (cfr. Cass. n. 8060/07); qualora si assuma, in‑
vece, che con la correzione della sentenza si sia dato luogo ad
una differente statuizione, la sentenza relativamente alla
c i v i l e
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parte corretta va impugnata ai sensi dell’art. 288 cod. proc.
civ., comma 4; in mancanza di impugnazione (o di rigetto,
anche in rito, di questa), l’esecuzione validamente prosegue
(anche) sulla base della parte corretta della sentenza.
8.- L’accoglimento del primo motivo del ricorso principa‑
le comporta la cassazione della sentenza impugnata nei limi‑
ti di cui sopra.
Potendo essere assunta una decisione nel merito, ai sensi
dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, va dichiarato il diritto
di P. N. ad agire esecutivamente per ottenere il pagamento
delle somme dovute dal Ministero della Salute a titolo di ri‑
valutazione monetaria.
Quanto alla decisione sulle spese del grado di merito -og‑
getto di censura col secondo motivo del ricorso principale (col
quale è denunciata la violazione degli artt. 91-95, 615, 616 e
617 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ.,
comma 1, n. 3)- si ritiene, invece, corretta la statuizione di
compensazione, contenuta nella sentenza impugnata, pur
dovendo essere modificata la motivazione, in conseguenza
dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.
La compensazione va infatti riconosciuta per giusti motivi
(ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 2, nel testo appli‑
cabile ratione temporis, vale a dire quello risultante dalla
modificazione apportata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263)
perchè, malgrado il rigetto di entrambe le opposizioni, le ra‑
gioni del Ministero opponente sono state disattese per motivi
attinenti prevalentemente a t preclusioni processuali venutesi
a determinare a causa dell’anomalo andamento del processo
esecutivo, per nulla imputabile alla condotta del Ministero
medesimo (ma dovuto piuttosto alla necessità riscontrata da
parte del giudice dell’esecuzione di richiedere chiarimenti e/o
integrazioni alla parte creditrice procedente).
9. - Le medesime considerazioni giustificano la compen‑
sazione delle spese del giudizio di cassazione.
(Omissis)
Nota a sentenza
1. La Suprema Corte, con la decisione in esame ribadisce
che l’atto di pignoramento presso terzi va notificato con la os‑
servanza del disposto di cui all’art. 11 del R.D. 1611 del 1933.
Secondo la Corte, infatti, il pignoramento presso terzi
rappresenta una fattispecie a formazione progressiva che si
perfeziona all’atto della dichiarazione positiva ed incontesta‑
ta da parte del terzo pignorato o, alternativamente, attraverso
la sentenza che accerta l’obbligo del terzo.
Detta richiesta introduce un ordinario giudizio di cogni‑
zione che si conclude con una sentenza avente la forza del
giudicato e la istanza, da proporsi nella ipotesi prevista dello
art. 548 c.p.c., è una domanda giudiziale dalla forma pecu‑
liare, non richiedendosi che il creditore rediga e notifichi un
atto di citazione, essendo sufficiente che la relativa istanza sia
formulata alla udienza fissata dal giudice della esecuzione,
considerandosi validamente proposta nei confronti delle par‑
ti presenti.
Ritiene pertanto la Suprema Corte che il giudizio di accer‑
tamento dell’obbligo del terzo segua senza soluzione di con‑
tinuità nell’ambito del procedimento esecutivo, la dichiara‑
zione (mancata negativa o contestata). Per siffatte ragioni,
anche valorizzando la disposizione dell’art. 543, n. 4, c.p.c.,
i Giudici hanno affermato (ribadendo quanto già disposto con
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g e n n a i o • f e b b r a i o
sentenza n.4665/2007) che – in ipotesi di esecuzione bei con‑
fronti di una amministrazione - il pignoramento presso terzi
va notificato all’ente e non alla Avvocatura dello Stato, pena
la nullità della notificazione stessa.
2. Con la decisione in esame si è anche affermato che la
nullità – a seguito della notificazione eseguita presso gli uffi‑
ci dell’Ente – non riflette l’atto di pignoramento, ma soltanto
la sua notificazione, che è rinnovabile previa assegnazione di
un termine da parte del G.E. se erroneamente eseguita; diver‑
samente la nullità è soggetta alla sanatoria di cui agli artt.
156-160 c.p.c. se una volta raggiunto lo scopo l’atto è impu‑
gnato al solo fine di lamentare detta nullità, comunque sana‑
ta se non dedotta nel termine di decadenza decorrente dalla
conoscenza legale di un atto successivo (cfr. Cass.
11597/10).
3. Con la citata decisione la Suprema Corte ha riafferma‑
to il principio secondo cui il rimedio esperibile avverso le
ordinanze di assegnazione conclusive del pignoramento pres‑
so terzi è individuato nella opposizione agli atti esecutivi
quando, tra l’altro, si denunci un vizio formale dell’atto op‑
pure nell’appello, qualora si attribuisca alla ordinanza il va‑
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lore di sentenza, purché abbia inciso sulle posizioni sostan‑
ziali di diritto soggettivo, sia del debitore che del debitore.
4. La Cassazione, nella sentenza in commento, affronta
anche altra problematica circa il mutamento del titolo esecu‑
tivo in corso della esecuzione.
Viene ribadito il principio, cardine del processo esecutivo,
per quale, costituendo il titolo esecutivo condizione necessaria
della azione esecutiva (nulla executio sine titulo), deve esiste‑
re – quale condizione necessaria e sufficiente, nel momento in
cui è iniziata la procedura esecutiva e permanere per tutta la
durata della stessa. Tale principio, afferma la Cassazione,
appare rispettato allorquando il titolo esecutivo è costituito
da sentenza corretta ex art. 287 c.p.c. nel corso della esecu‑
zione e questa ultima prosegue sulla base della sentenza cor‑
retta, non comportando la correzione della sentenza la for‑
mazione di un nuovo e diverso titolo esecutivo. Allorquando,
invece, la correzione della sentenza dia luogo ad un differen‑
te pronunzia, la sentenza è soggetta alla impugnativa ex art.
288 n. 4 c.p.c.; mancando tale gravame la esecuzione prosegue
validamente sulla base della parte corretta della sentenza,
valido titolo esecutivo.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
e
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c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Appalto pubblico – Art. 38, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 163 del
2006 – Valutazione di inaffidabilità da parte della stazione appaltante – Ampia discrezionalità – Sindacato da parte del giudice
amministrativo – Limiti – Adozione del criterio della “non condivisione” – Superamento dei limiti esterni della giurisdizione
In tema di appalti pubblici le Sezioni Unite della Corte di
cassazione, con due sentenze in pari data, hanno affermato
che il Consiglio di Stato eccede dai limiti della propria giurisdizione, sconfinando nella sfera della discrezionalità amministrativa, qualora – in relazione all’impugnazione di provvedimenti di esclusione dalla possibilità di partecipare ad un
bando di gara per inaffidabilità dell’appaltatore – li annulli
sulla base della non condivisione degli elementi posti dalla
P.A., senza ravvisare la pretestuosità di tale valutazione.
Cassazione civ., sez. unite, sentenza 17 febbraio 2012, n.
2313
Pres. Preden, Est. Macioce
Avvocato – Onorari – Liquidazione – Ricorso al capo dell’ufficio –
Giudice collegiale o monocratico.
È stata rimessa alle Sezioni Unite la questione – su cui si
è ravvisato un contrasto fra le sezioni semplici, ove la domanda sia stata proposta in via monitoria – se il ricorso proposto
dall’avvocato per la liquidazione del suo onorario debba essere deciso dal tribunale in composizione collegiale, come
dispone la lettera dell’art. 29 della legge 13 giugno 1942, n.
794 e discende dalla natura camerale del procedimento, oppure dal giudice monocratico, atteso che la controversia non
rientra fra i giudizi con riserva di collegialità, di cui all’art.
50-bis c.p.c.
Cassazione civ., sez. II, ordinanza interlocutoria n. 2476 del
21 febbraio 2012
Pres. Schettino, Est. Bucciante
Esecuzione forzata – Vendita – Aggiudicazione del bene oggetto
di espropriazione – Successivo accertamento dell’inesistenza del
titolo esecutivo – Effetti – Art. 187-bis disp. att. c.p.c. – Incidenza
sul diritto dell’aggiudicatario al trasferimento del bene – Rimessione alle Sezioni Unite
La Terza Sezione Civile, tenuto conto dell’esistente contrasto giurisprudenziale, nonché del coinvolgimento di questione di massima di particolare importanza, ha rimesso alle
Sezioni Unite di pronunciarsi in ordine all’incidenza, in base
all’art. 187-bis disp. att. c.p.c., dell’accertamento dell’inesistenza del titolo esecutivo sui diritti dei terzi aggiudicatari o
assegnatari del bene esecutato.
Cassazione civ., sez. III, ordinanza interlocutoria 20 febbraio
2012, n. 2472
Pres. Petti, Est.. Amendola
Impugnazioni civili – Citazione di appello – Mancanza dell’avvertimento di cui all’art. 163, terzo comma, n. 7, c.p.c. – Nullità – Limiti – Lesione del diritto di difesa – Specificazione – Necessità
La Seconda Sezione, ponendosi in consapevole contrasto
con un precedente orientamento della Suprema Corte, ha
affermato che, nell’ipotesi in cui venga proposto ricorso per
cassazione ai sensi dell’art. 360 n.4 c.p.c. da parte dell’appellato contumace in secondo grado per l’omesso avvertimento
relativo alle conseguenze della costituzione tardiva, di cui
all’art. 163, terzo comma, n. 7, c.p.c., nell’atto di citazione di
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appello, notificato al difensore costituito in primo grado, non
si determina un “error in procedendo” sanzionato dalla nullità del procedimento di secondo grado e dal conseguente
rinvio per la rinnovazione della citazione in appello, quando
il ricorrente non sia in grado neppure di indicare quale pregiudizio al proprio diritto di difesa sia derivato da tale omissione, non potendosi ravvisare, in tale ipotesi una concreta
violazione dei principi regolatori del giusto processo anche
ai sensi dell’art. 360 bis n. 2 c.p.c.
Cassazione civ., sez. II, sentenza 30 dicembre 2011, n.
30652
Pres. Petitti, Est. D’Ascola
Procedimento civile – Sospensione del processo – Procedimento
sommario di cognizione di cui all’art. 702-bis c.p.c. – Illegittimità
della sospensione per pregiudizialità disposta nell’ambito del
rito sommario
La Terza Sezione ha affermato che, se nel corso di un
procedimento sommario di cognizione, ex art. 702– bis
c.p.c., insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad
altro giudizio, il giudice deve disporre il passaggio al rito
della cognizione piena, secondo quanto disposto dall’art.
702-ter, terzo comma, c.p.c.. perciò illegittima l’adozione,
nell’ambito del rito sommario, di un provvedimento di sospensione del processo.
Cassazione civ., sez. III, ordinanza 2 gennaio 2012, n. 3
Pres. Finocchiaro, Est. Frasca
Processo civile – Azione di petizione ereditaria pendente in appello
– Domanda di accertamento giudiziale della paternità naturale
proposta in separato giudizio da una delle parti del giudizio precedente – Sospensione della causa ereditaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
– Regolamento di competenza – Rimessione alle Sezioni Unite
La Seconda Sezione Civile ha rimesso alle Sezioni Unite,
trattandosi di questione di particolare importanza, la deci-
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sione circa i rapporti esistenti tra la sospensione necessaria
del processo di cui all’art. 295 c.p.c. e la sospensione facoltativa di cui all’art. 337, secondo comma, c.p.c., sia in generale che con particolare riferimento al caso specifico, nel
quale la causa pregiudicante (pendente in appello) è relativa
alla materia dello stato delle persone.
Cassazione civ., sez. II, ordinanza interlocutoria 13 gennaio
2012, n. 407
Pres. Felicetti, Est. Carrato
Processo civile – Notificazione per pubblici proclami – Presupposti di fatto e formalità relative – Mancanza – Conseguenze
Il giudice del merito può sindacare la mancanza dei presupposti di fatto in forza dei quali è autorizzata la notificazione per pubblici proclami e il convenuto contumace può,
pertanto, denunciare in appello l’effettiva insussistenza di
detti presupposti. Peraltro, ove la notifica anzidetta sia stata
effettuata senza le formalità prescritte dall’art. 150 c.p.c.,
essa è inesistente.
Cassazione civ., sez. II, sentenza 19 dicembre 2011, n.
27520
Pre. Oddo, Est. Bertuzzi
Separazione fra coniugi – Assegnazione della casa familiare –
Successiva revoca – Sentenza che definisce il giudizio – Titolo
esecutivo – Ordine di rilascio – Necessità – Esclusione
La Terza Sezione ha ritenuto che anche l’ordine di revoca
dell’assegnazione della casa familiare, contenuto nella sentenza con cui il tribunale definisce il giudizio di separazione
fra coniugi, è titolo esecutivo per il rilascio, senza necessità
che, con la pronuncia, sia esplicitato altresì un apposito comando, rivolto al coniuge ex affidatario e diretto al suo allontanamento dall’immobile.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 31 gennaio 2012, n. 1367
Pres. Petti, Est. Carluccio
civile
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Rassegna di merito
●
A cura di
Mario De Bellis
e Daniela Iossa
Avvocati
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Attuazione del provvedimento cautelare reclamato – Competenza
– Snellimento delle forme di attuazione – Determinazione – Esecuzione di un facere infungibile – Poteri sostitutivi dell’ausiliario.
a) Il provvedimento cautelare confermato dal Collegio in
sede reclamo, la natura sostitutiva, che pure generalmente si
riconosce a tale ultima decisione, non sposta l’imputazione
del provvedimento dal giudice che ha disposto originariamente la misura al giudice del riesame; tale soluzione, seguita da
autorevole dottrina, risulta anche più funzionale agli scopi
del presente procedimento, essendo senza dubbio più opportuno attribuire la direzione dell’esecuzione della misura cautelare ad un giudice unico anzicchè al Collegio (ex multiis,
Cass. 6 febbraio 2004 n. 2235).
b) Lo snellimento delle forme di attuazione di una misura
cautelare determinativa di un obbligo di facere rispetto al
modello prefigurato dagli artt. 605 ss. c.p.c. si sostanzia a)
nella unificazione della fase di determinazione del contenuto
dell’obbligo e di determinazione delle modalità di attuazione
(quest’ultima non più posticipata ex art. 612 c.p.c.); b) nell’assenza della preventiva notificazione del titolo esecutivo e del
precetto; c) nella facoltà del Giudice di avvalersi di attività di
altri ausiliari, se del caso appositamente designati anziché
dell’ufficiale giudiziario; d) nella non necessarietà dell’avviso
ex art. 608 c.p.c.; e) nella improponibilità dei rimedi oppositivi, essendo ogni tipo di controllo devoluto allo stesso Giudice della cautela, che decide con ordinanza emanando “i
provvedimenti opportuni”, e pertanto in forma sommaria,
pur nel rispetto del contraddittorio.
c) La natura infungibile del facere, a cui è obbligata l’amministrazione inadempiente, non esclude il ricorso ad un
ausiliario, incaricato di portare ad effettiva esecuzione la
decisione del Giudice della cautela, in sostituzione del destinatario del dictum cautelare; l’ausiliario del Giudice è soggetto ai criteri adottati dall’amministrazione che è chiamato a
sostituire;gli atti dell’ausiliario de quo sono sottoposti al
controllo immanente ed esclusivo di questo Giudice.
Trib. Napoli, sez. X, ordinanza 21 dicembre 2011.
Giud. att. C. d’Ambrosio
Reddito di cittadinanza – Giurisdizione del giudice ordinario –
Sussiste – Natura del diritto – Competenza per materia – Rimessione al giudice di pace (art. 353 c.p.c.) – Contrasto con il principio
della ragionevole durata del processo
a) Sono devolute alla cognizione del Giudice ordinario le
controversie dirette al riconoscimento ed alla corresponsione
del reddito di cittadinanza (cfr. Cass. S.U. 9/7/2010, n.
18460). Trattasi della prestazione di un diritto sociale fondamentale – come previsto espressamente dalla Legge Regionale n. 2/2004 istitutiva di tale beneficio (art. 1 comma 1) – che
spetta, nei limiti delle risorse disponibili, ai soggetti che, in
presenza delle condizioni previste, “ne fanno richiesta”. Si
configura, pertanto, in capo a tali soggetti, un diritto soggettivo perfetto che trova la sua fonte direttamente nella legge
ed il cui riconoscimento non presuppone alcun potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, la quale è tenuta,
unicamente, a verificare la sussistenza delle condizioni reddituali e l’inserimento degli aventi diritto negli appositi elenchi
predisposti dai Comuni sulla base delle domande ricevute
(art. 3 comma 3 e art. 6 comma 1). La conseguenza che ne
deriva è che tali controversie rientrano senz’altro nella giuri-
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sdizione del Giudice ordinario, configurandosi una cognizione su diritti soggettivi perfetti.
b) Le controversie concernenti tale beneficio appartengono alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del
lavoro in quanto il reddito di cittadinanza costituisce una
prestazione di natura sicuramente assistenziale per la quale
trova applicazione l’art. 442 c.p.c. Infatti i provvedimenti
legislativi in materia di reddito di cittadinanza evidenziano
la sussistenza di un nesso funzionale tra i servizi sociali, quali che siano i settori di intervento, (famiglia, minori, anziani,
emarginati, indigenti) e la rimozione o il superamento di situazioni di svantaggio o di bisogno, per la promozione del
benessere fisco o psichico della persona, a prescindere dalla
sua occupazione lavorativa o dalla costituzione di un rapporto assicurativo e dalla natura temporanea della prestazione.
c) Ne discende che il Giudice di Pace in caso di rimessione della causa ex art. 353 c.p.c. dovrebbe limitarsi ad una
pronuncia dichiarativa della propria incompetenza per materia, senza poter entrare nel merito della domanda. Tale
soluzione processuale, ancorché conforme formalmente alla
disciplina del codice di rito, si pone in contrasto con il principio della durata ragionevole del processo espressamente
sancito dall’art. 111 comma 3° Cost., nonché dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La conseguenza è che occorre adottare soluzioni interpretative che
evitino il compimento di attività processuali sostanzialmente superflue rispetto all’obiettivo da raggiungere che rimane,
in ogni caso, quello di ottenere una decisione nel merito
della domanda quanto più celere possibile rispetto al momento dell’instaurazione del giudizio. Ne consegue che, affermata la giurisdizione del Giudice ordinario – per effetto della
riforma della sentenza di primo grado – la causa va senz’altro
rimessa alla Sezione Lavoro del Tribunale, che pronuncerà,
quale Giudice di primo grado.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 23 gennaio 2012, n.
Giud. C. d’Ambrosio
Responsabilità medica – Onere probatorio – Principio di specifica
e tempestiva contestazione – Oggetto dell’obbligazione – Inadempimento – Responsabilità contrattuale – Esonero – Responsabilità oggettiva ex Art. 2050 – Prova liberatoria – Consenso
validamente prestato – Esclusione
a) La mancata specifica contestazione è equiparata alla
prova, in quanto il fatto non specificamente contestato non
ha bisogno di prova perché le parti ne hanno disposto, vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di
convincersi della sua esistenza; la mancata contestazione
assume la fisionomia di un comportamento univocamente
rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi
da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato
e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso
dall’ambito degli accertamenti richiesti; la necessità di provare un fatto insorge, infatti, solo se sia specificamente contestato; la contestazione, però, deve essere specifica; la
contestazione per essere specifica deve contrastare il fatto
avverso con un altro fatto diverso o logicamente incompatibile oppure con una difesa che appaia seria per la puntualità
dei riferimenti richiamati; la genericità della contestazione è
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parificata alla mancata contestazione; la mancata contestazione e la contestazione generica assumono, quindi, il valore
di prova.
È ius receptum che il giudice di merito può fondare il suo
convincimento anche su una prova presuntiva semplice, atteso che non trattasi di mezzo di prova di rango inferiore agli
altri (con l’unica ovvia eccezione della prova legale), che
potrà costituire, pertanto, anche l’unica fonte per la formazione del suo convincimento e ciò anche se tale presunzione
sia in contrasto con le altre prove acquisite e sia tale da far
ritenere inattendibili gli altri elementi di giudizio.
b) In tema di responsabilità del medico, infatti, nelle
prestazioni mediche, l’oggetto dell’obbligazione, ossia il risultato utile che il creditore ha diritto di attendersi, non è
soltanto l’impegno conforme alle regole dell’arte del medico,
bensì il risultato positivo che ci si attende da quel genere di
operazione; ne consegue che l’onere probatorio gravante sul
presunto medico responsabile non è dato semplicemente
dalla prova della mancanza di colpa, ovvero dalla diligenza
nell’espletamento dell’operazione, ma, ex art. 1218 c.c., il
medico o l’ente chiamato a rispondere dovrà provare l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile, ossia il
c.d. caso fortuito in senso lato, in difetto rimanendo a suo
carico la causa rimasta ignota (v. Trib. Monza, 15 marzo
2006). È infatti “in re ipsa” che, se la sua condotta è professionalmente adeguata, non può essere dannosa, cioè non può
comportare, di per sé, l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una patologia ulteriore; per questa configurazione logica, non si può non ritenere che siano a carico del
professionista le cause ignote e che, ove non sia possibile
individuare con certezza la causa, equivalendo la causa dubbia alla causa ignota, la responsabilità ricada sul medico che
non abbia adempiuto il suo onere della prova, in ordine alla
sua adeguata diligenza (Trib. Varese, giud. unico dott. Buffone, 16/2/10 n. 16, in www.altalex.it); non si può non ritenere che siano a carico del soggetto che deve individuare la
causa del danno per dimostrare in concreto la sua adeguata
diligenza, cioè del professionista sanitario, le cause ignote.
Se quindi non è possibile individuare con certezza la causa,
equivalendo la causa dubbia alla causa ignota, la responsabilità ricade sul medico che non ha adempiuto, infatti, il suo
onere della prova in ordine alla sua adeguata diligenza.
c) La natura pericolosa o meno di una certa attività, per
i fini di cui all’art. 2050 c.c., va valutata tenendo conto:
della probabilità statistica di eventi dannosi; dell’entità dei
danni ragionevolmente prevedibili; della natura intrinseca
dei mezzi impiegati per lo svolgimento dell’attività. Debbono
ritenersi pericolose, ai sensi dell’art. 2050 c.c.: l’attività
espressamente qualificata tale dalla legge di pubblica sicurezza e dal relativo regolamento ovvero dalle varie leggi
speciali aventi per scopo la prevenzione dei sinistri e la tutela della pubblica incolumità; l’attività la cui potenzialità lesiva costituisce uno dei suoi naturali attributi e, cioè, la cui
pericolosità sia intrinseca; l’attività esercitata con mezzi
potenzialmente lesivi.
L’attività chirurgica soddisfa gli ultimi due requisiti innanzi indicati.
Invero, l’attività chirurgica, proprio in considerazione di
quei rischi (nosocomiali e iatrogeni) in buona parte ineliminabili, è inquadrabile nella fattispecie di cui all’art. 2050 c.c,
civile
Gazzetta
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vale a dire come attività pericolosa. Lo svolgimento di siffatta attività, pertanto, determina, alla stregua della citata
norma (art. 2050 c.c.), in caso di eventi dannosi, l’inversione
dell’onere della prova, con l’obbligo a carico dell’esercente
del risarcimento, salva la dimostrazione di aver adottato
tutte le misure idonee ad evitare il danno.
È ius receptum che: “la responsabilità del sanitario per
violazione dell’obbligo di informazione e di acquisizione del
consenso del paziente - avente ad oggetto le principali carat‑
teristiche e natura del trattamento chirurgico o terapeutico
da eseguire, la specifica indicazione clinica in relazione a
determinate patologie, l’estensione possibile o prevedibile dei
risultati ed i rischi annessi -, si configura non soltanto quando
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il sanitario ometta totalmente di riferire al paziente della
natura della cura, dei relativi rischi e delle possibilità di suc‑
cesso ma anche quando ritenga di sottoporre per approvazio‑
ne al paziente un modulo del tutto generico ed incompleto,
dal quale non sia possibile desumere con certezza che il pa‑
ziente abbia ottenuto in modo esaustivo le informazioni ne‑
cessarie relative al trattamento da effettuarsi”; “il consenso
non si considera validamente prestato se il paziente ha sotto‑
scritto un modulo del tutto generico, dal quale non è possibi‑
le desumere con certezza che abbia ottenuto in modo esausti‑
vo le informazioni dovutegli”.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 17 novembre 2011, n.
Giud. C. d’Ambrosio
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In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sezione distaccata di Frattamaggiore
ordinanza 19 gennaio 2012
Giud. Serrao D’aquino
Trascrizione domanda negatoria servitutis – Normativa antisismica – Presupposti – Opponibilità terzi – Art. 111 c.p.c.
L’inapplicabilità dell’istituto della successione a titolo
particolare nel diritto controverso (art. 111 c.p.c.) in tema di
violazione di normativa antisismica. La domanda tesa all’accertamento del mancato rispetto della normativa antisismica
necessità di trascrizione quale actio negatoria servitutis. La
rinuncia del precetto all’obbligo di fare, in sede di reclamo,
incide sulla materia del contendere [1].
Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo
[1] L’ordinanza de qua sottende una vicenda processuale introdotta con la no‑
tifica di atto di citazione del 27 settembre 2004 ad istanza del sig. A. C.. Il
convenuto, proprietario di un immobile attiguo a quello dell’attore, spiega‑
va verso quest’ultimo plurime domande riconvenzionali, tra cui la richiesta
di “accertamento della violazione da parte dell’attore nella realizzazione
della tromba di scale in cemento armato, descritta in premessa in violazione
delle “Norme tecniche per le costruzioni in zona sismica” di cui al Decreto
del Ministero dei LL.PP. del 16.1.1996”e conseguire “il ripristino dello
stato dei luoghi, ovvero condannarsi l’attore alla realizzazione di giunto
tecnico, caratterizzato da distacco tra le costruzioni proporzionale alle altezze delle stesse in ossequio della normativa vigente”. Il Tribunale di Na‑
poli, sez. distaccata di Frattamaggiore, dott. Graziano, con sentenza n.
237/2010, così provvedeva: a) dichiara la cessazione della materia del contendere con riguardo alla domanda giudiziale proposta nei confronti della
convenuta sig.ra D.C.; b) rigetta la domanda giudiziale proposta nei confronti del convenuto sig. D.U.;c) in accoglimento delle domande riconvenzionali contenute nei capoversi contrassegnati dai numeri 4) e 5) delle
conclusioni rassegnate nella comparsa di risposta depositata in cancelleria
in data 23 novembre 2004, condanna l’attore sig. C.A., a provvedere, a
propria cura e spese, all’esecuzione di tutte le opere e lavori necessari all’adeguamento delle dimensioni relative al giunto tecnico (di cui al punto C. 4.
2. del Decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 16 gennaio 1996) posto
tra il pilastro circolare della cassa scale di proprietà del suddetto attore,
sita in Sant’Antimo (NA), alla via Padre Antonino n. 3, ed il muro maestro
comune all’immobile di proprietà del convenuto, sito in Sant’Antimo (NA),
alla Piazza G i, angolo via A, così come indicate nelle pagine 13 e14 della
Relazione di Consulenza Tecnica d’Ufficio depositata in Cancelleria in data
24 settembre 2007, nonché all’installazione del giunto tecnico suddetto
anche tra i restanti muri portanti, pilastri e travi dei rampanti e dei ballatoi
della scala di proprietà del suddetto attore sig. C.A. ed il muro maestro
relativo sempre all’immobile di proprietà del convenuto sig. D.U.;d) condanna altresì l’attore sig. C.A.al pagamento, in favore del convenuto sig.
D.U., della somma di € 514,36 ( euro cinquecentoquattordici/36 ) a titolo
di risarcimento danni, oltre agli interessi legali, al tasso previsto dall’art 1284
cod. civ., dalla data della pubblicazione della presente sentenza fino all’effettiva corresponsione;e) rigetta le domande riconvenzionali contenute nei
capoversi contrassegnati dai numeri 6) e 7) delle conclusioni rassegnate
nella comparsa di risposta depositata in Cancelleria in data 23 novembre
2004; f) condanna, ancora, l’attore sig. C.A.al pagamento, in favore del
convenuto sig. D.U., delle spese del presente giudizio che si liquidano,
complessivamente, in € 9.962,50 ( euro novemilanovecentosessantadue/50)
di cui € 2.200,00 ( euro duemiladuecento/00) per diritti ed € 7.762,50 (€
settemilasettecentosessantadue/50) per onorari di causa, oltre al rimborso
spese generali, I.V.A. e Cassa Previdenza Avvocati come per legge;g) dispone la distrazione delle spese di lite come sopra liquidate, in favore dell’Avv.
* * , quale difensore del convenuto sig. D.U. e dichiaratosi anticipatario
delle medesime;g) dichiara interamente compensate, tra l’attore sig. C.A. e
la convenuta sig.ra D. C., le spese del presente giudizio;
h) pone definitivamente a carico dell’ attore sig. C.A., il pagamento delle spese
relative alla Consulenza Tecnica d’Ufficio, come già liquidate in atti nell’im‑
porto complessivo di € 1.836,53 ( euro milleottocentotrentasei/53); i) dispone
la trasmissione di: 1) copia della comparsa di risposta depositata in Cancelleria
in data 23 novembre 2004 nell’interesse del convenuto sig. D.U.; 2) copia di
tutta la documentazione prodotta dalla difesa del predetto convenuto; 3) copia
della relazione di Consulenza Tecnica d’Ufficio depositata in Cancelleria in
2 0 1 2
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Trib. Napoli, sezione distaccata di Frattamaggiore, ordinanza
19 gennaio 2012
Giud. Serrao D’aquino
(Omissis)
Il G., visto che la sentenza è di molto successiva al 2006,
che la trascrizione incide su diritto sostanziale di terzi e non
è … assimilabile alla ratio e alla perdita di facoltà processua‑
le. E con le relative conseguenze in tema di overruling; ritenu‑
to che l’opposizione è fondata dalla G.I., ritenuta la causa
matura per la decisione.
PQM.
Conferma la sospensione dell’esecuzione relativamente a
G.I. rinvia per la prec. concl. al 5.06.14. Si comunichi.
data 24 settembre 2007 con tutti gli allegati alla stessa; 4) copia della presente
sentenza, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, per
tutti gli accertamenti, valutazioni e conseguenti determinazioni in merito
all’eventuale esercizio dell’azione penale, in ordine a quanto indicato nell’ulti‑
mo capoverso della motivazione relativa a tale pronuncia.
In costanza del giudizio in parola, segnatamente nel settembre 2006, il sig. C.A.
donava il bene immobile oggetto di causa in favore di sua moglie, tale G.I..
Con atto di precetto ritualmente notificato, il sig. D.U. intimava al sig. C.A. e
alla sig.ra G.I., ex art. 111 c.p.c., a provvedere a quanto previsto dalla richia‑
mata sentenza. Avverso il precetto in parola la sig.ra G.I.ha spiegato opposi‑
zione all’esecuzione adducendo l’inopponibilità della sentenza del Tribunale
di Napoli sez. distaccata di Frattamaggiore n. 327/10, e l’inoperatività nel
caso di specie dell’istituto dell’art. 111 c.p.c., stante la sua estraneità alla do‑
manda spiegata dall’esecutante. Il Tribunale di Napoli sez. dist. di Frattamag‑
giore, dott. Serrao D’Aquino, quale G.E., sciogliendo la riserva del 2 dicembre
2010, con ordinanza emessa fuori udienza dell’08-13 gennaio 2011, così
provvedeva: “il G. visto l’art. 111 c.p.c. ed il ….. (parola incomprensibile)
della giur. di legittimità, sospende la prov esececuzione della sentenza”.
Spiegato reclamo da parte del D.U., il Tribunale di Napoli, sez. 5, rel. Dott.
F. Abete, con ordinanza emessa in Camera di Consiglio del 15.04.2011, a
fronte della espressa rinuncia della G.I. “ all’opposizione al precetto per quanto riguarda la condanna all’obbligo di fare” , ha dichiarato “cessata la materia
del contendere”.
L’ordinanza in commento appare non conciliabile ed assolutamente avulsa
dalla dichiarata cessazione della materia del contendere, giusta la formulata
rinuncia all’opposizione al precetto da parte della G.I., contraria all’orienta‑
mento costante ed univoco sia della giurisprudenza e della dottrina in tema,
ed erronea nella parte qua riconduce la domanda giudiziaria spiegata dal D.U.
all’istituto della negatoria servitutis e per ciò stesso inopponibile alla G.I.
L’espressione utilizzata dalla reclamata innanzi al Collegio è stata qualificata
ed intesa correttamente come manifestazione di rinuncia alla domanda
(all’azione) proposta nei confronti dell’esecutante D.U., determinando una
pronuncia non di carattere processuale, ma di merito. Sia la dottrina che la
giurisprudenza sono concordi che, come nel caso di specie, l’ordinanza di
cessazione della materia del contendere resa dal Collegio sostanzi una pro‑
nuncia nel e sul merito (Cfr. Cass. sez. lav. 2268/1999; Cass 8219/96; Cass 23
aprile 1966 n.1047) idonea ed efficiente all’eccezione di cosa giudicata sostan‑
ziale non di mera pronuncia processuale (quale è quella estintiva del processo).
La rinunzia all’azione, che è efficace anche senza accettazione delle contropar‑
ti, e che impone declaratoria di cessazione della materia del contendere, è
ammissibile, quale espressione del principio dispositivo in qualunque processo
civile” (Cass. 8219/96; Cass. 2268/99). Coerentemente la rinuncia ad una
impugnazione (come nel caso di specie), risolvendosi in una manifestazione di
abdicazione, non agli atti ma alla domanda (di rimozione del provvedimento
impugnato) , dà luogo al passaggio in giudicato della decisione contestata, e,
quindi, ad una cessazione della materia del contendere sull’oggetto del grava‑
me, indipendentemente dalla accettazione della controparte” ( Cass. 4499/96).
Su tali premesse è di tutta evidenza che il pronunciamento del Collegio risul‑
tasse vincolante verso il G.E., recte assorbente sui fatti di causa, con l’effetto
che, non appare giustificabile la conferma della “sospensione dell’esecuzione
relativamente a G.I.”, per avere questa espressamente ed inequivocabilmente
rinunciato all’opposizione.
La spiegata, ma rinunciata opposizione si basava sulla sentenza della Suprema
Corte di Cassazione del 16 giugno 2006 n. 13523 che, per la prima volta,
sconfessando il suo costante, univoco ed inalterato orientamento, ha ritenuto
indispensabile la trascrizione della domanda giudiziaria anche in tema di negatoria servitutis ai fini della sua opponibilità ai terzi, anche con riferimento
alla distanza legale tra fabbricati. Il G.E. ritiene fondato tale assunto … “l’op-
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
posizione è fondata dalla G.I.”, e con esso inapplicabile al caso in esame
l’istituto previsto dall’art. 11.c.p.c..
Sotto l’aspetto squisitamente positivo l’inapplicabilità delle disposizioni di cui
agli artt.874, 876, 884 cod. civ. - secondo le quali il proprietario del fondo
contiguo al muro altrui ha la facoltà, rispettivamente, di chiederne la comunio‑
ne forzosa, di innestarvi il proprio muro, di costruirvi il proprio edificio in ap‑
poggio, perché è invece necessario che ogni costruzione costituisca un organismo
a sé stante, mediante l’adozione di giunti o altri opportuni accorgimenti idonei
a consentire la libera ed indipendente oscillazione degli edifici - nelle zone in cui
vige la legge 25 novembre 1962, n.1684, risulta dirimente nell’evidenziare
l’errore interpretativo in cui è incorso l’opponente e il G.E. laddove hanno rite‑
nuto inopponibile al terzo G.I. la domanda spiegata dal D.U., qualificandola la
stessa quale esercizio di mera servitù prediale. L’interesse e la portata pubblici‑
stica della norma imperativa richiamata, il carattere “reale” dei suoi precetti,
l’indisponibilità del diritto a costruire in capo ai singoli proprietari di immobili
limitrofi nei termini e modi di cui agli art. 834 e ss., esclude l’applicabilità al
caso in esame dell’ipotesi normativa prevista dall’art. 2643, n.4 c.c. (Cian Tra‑
bucchi, Commentario breve al Codice Civile, Cedam) e per esso l’applicazione
del principio di cui alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 16
giugno 2006 n. 13523. La natura imperativa della normativa antisismica, l’in‑
teresse pubblicistico ad esso sotteso, travalica gli interessi personali, svilisce sul
nascere la qualificazione della spiegata domanda ad un’ipotesi di servitù predia‑
le, recte di una negatoria servitutis e per essa la necessarietà della sua trascrizio‑
ne ai fini della opponibilità ai terzi (Roberto Triola, La Trascrizione, Giappi‑
chelli; Ferri – Zanelli, La trascrizione immobiliare, Zanichelli) . L’interesse
pubblicistico della normativa in esame travalica gli interessi personali: l’ordina‑
mento individua e prescrive le relative sanzioni che, come detto non possono
essere declassate ad un esercizio di un mero interesse privatistico e, come tale,
riconducibile ad un’ipotesi di negatoria servitutis.
Sussistono, dunque, nel caso in esame i presupposti materiali e giuridici dell’ap‑
plicabilità dell’istituto disciplinato dall’art. 111 c.p.c..
Fugata, dunque la riconducibilità ad un’ipotesi di actio negatoria servitutis la
domanda spiegata dal D.U., per tuziorismo ei evidenzia che l’invocazione del
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principio dell’overruling formulata dal G.E. per giustificare la sospensione della
sentenza verso l’opponente, ovvero l’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c., è impro‑
pria e non condivisibile. Nella valutazione del giudice risulta prevalere il lasso
temporale trascorso tra la sentenza sottesa all’esecuzione in parola il pronuncia‑
mento della Suprema Corte di Cassazione S.U. 13523/2006 …. “la sentenza è di
molto successiva al 2006” e alla non assimilabilità alla “ratio di esercizio di facoltà processuale”. Il G.E. non ha considerato che la sentenza del 16 giugno 2006
n. 13523 è stata resa in costanza del processo di primo grado e che sino ad essa
l’orientamento della Cassazione, unitamente alla dottrina, escludeva la trascri‑
zione della domanda giudiziaria avente ad oggetto un’actio negatoria servitutis
(Cfr Cass. 10563/2001 in Mass. Giur. It., 2001; Cass. 8258/1990; Cass.
3699/2003; Cass. .3623/1999; Cass. 5116/1998). La giurisprudenza delle Sezio‑
ni Unite contribuisce a garantire la “certezza del diritto” nell’ordinamento (v. art.
65 ord. giud.) così divenendo il suo precedente tendenzialmente vincolante per il
giudice di merito, il revirement giurisprudenziale può avere le forme e l’ impatto
dello jus superveniens. Nei regimi di common law tale ipotesi viene identificata
nell’istituto del cd. Overruling, a cui si correla il problema dell’efficacia nel
tempo dell’abrogazione del precedente che è del tutto affine, per effetti, all’abro‑
gazione della norma positiva. Le garanzie processuali e sostanziali postulate nel
Common Law in tema di limitazione della retroattività del mutamento giurispru‑
denziale, giusta il metodo del cd. prospective overruling, non può limitarsi, come
prospettato dal G.E., all’esercizio di mere “facoltà processuali”, dovendosi rite‑
nere sussistente, ove prevalente tale tesi, un violento strappo ai principi costitu‑
zionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost. La specifica temporalità dell’esperimento
della domanda riconvenzionale da parte del sig. D.U. (due anni prima del pro‑
nunciamento della Cassazione e sei anni prima della sentenza di primo grado)
vuole inapplicabile il mutato orientamento giurisprudenziale, di cui alla sentenza
del 13 giugno 2006 n. 13523, dovendosi allo stesso riconoscere la pari se non
prevalente posizione sostanziale e processuale meritoria di tutela, giusta il prin‑
cipio dell’affidamento, rispetto alla posizione di un terzo “titolare di una situazione giuridica collegata da un rapporto di dipendenza o derivazione rispetto a
quello accertato nella sentenza”, quale successore a titolo particolare del diritto
controverso ed oggetto di accertamento giudiziario.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sez. XI, sentenza 25 luglio 2011,
n. 9314
Giud. Cozzolino
Danno da emotrasfusione di sangue infetto – Azione di solo accertamento – Condanna solidale e cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale – Sussistenza. Sussiste la cumulabilità della responsabilità contrattuale
ed extracontrattuale in materia di risarcimento danni derivante da emotrasfusione di sangue infetto anche per le sole
azioni dichiarative, ovvero di accertamento del diritto leso,
e ciò con riferimento sia al danneggiato che ha agito per il
riconoscimento del danno diretto, che per i congiunti che
39
hanno agito per il riconoscimento del danno riflesso, rimettendo ad una successiva azione la quantificazione dei danni
sofferti.[1]
(Omissis)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato l’11-12 aprile 2008, i sigg.
P.A, L.M., V.A., V.A., V.A., traevano innanzi questo Tribu‑
nale l’Azienda Ospedaliera Universitaria Consorziale policli‑
nico di Bari e il ministero della salute e, - dopo aver premesso
che il sig. P.A. marito dell’attrice L.M. e padre delle attrici V,
V, e V, fu sottoposto, il giorno 10 giugno 1996, presso l’Azien‑
da Ospedaliera Universitaria Consorziale policlinico di Bari
ad intervento chirurgico a causa di una ferita da arma da
fuoco, - narravano che durante l’operazione il sig. P.A. fu
Nota redazionale a cura di Gaetano Scuotto
[1] Con la sentenza in oggetto il danno da emotrasfusioni di sangue infetto riveste
nuovamente la doppia qualificazione: natura contrattuale ed extracontrattua‑
le. La binarietà, come sottolineato dal Tribunale di Napoli, è dettata dal fatto
che (sebbene) “…l’unico legittimato passivo a titolo di responsabilità extra‑
contrattuale è il Ministro della Salute, mentre in capo al medico responsabile
del trattamento ed alla struttura ospedaliera, sia essa pubblica, privata o con‑
venzionata, residua una responsabilità esclusivamente di tipo contrattuale,
rispettivamente in forza del c.d. “contatto sociale qualificato” e del modello
contrattuale tipico di spedalità” (Cass. 25277/2009).
Sulla responsabilità contrattuale – apparendo quella extracontrattuale pacifica
in riferimento al chiaro quadro normativo ed a pacifica giurisprudenza – la
S.C. con la ormai storica sentenza a Sez. Un. n. 577 del 11.01.2008 ha ridotto
l’onere probatorio a carico dell’attore il quale è tenuto solo alla produzione di
una fonte negoziale esistente e valida (contratto di spedalità), e nel contempo
ha stigmatizzato che per la natura contrattuale del rapporto l’onere è solo a
carico della struttura: “Nella fattispecie, quindi, avendo l’attore provato il
contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno assunto (epatite), alle‑
gando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfu‑
sione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale
inadempimento non vi era stato, poichè non era stata effettuata una trasfusio‑
ne con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non
era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualun‑
que ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al
momento del ricovero. 7.1. Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del
contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli
obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabi‑
lità, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo
dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla
identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd.
tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all’art. 1176 c.c.
nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver
violato nella singola fattispecie. 7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata,
la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del
ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di
riparto dell’onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del
danno da inadempimento contrattuale”. A tale interpretazione si sono poi
adeguate le successive sezioni semplici con le sentenze nn. 3847/2011,
10060/2010, 1538/2010 (precedentemente Cass. 1.9.1999, n. 9198; Cass.
8.1.1999, n. 103; Cass. 8.5.2001, n. 6386; Cass. 11.3.2002, n. 3492; di recen‑
te v. Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 29.7.2004, n. 14488; Cass. 14.7.2004, n.
13066; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. n. 19133 del 2004; Cass. 9085 del
2006; Cass. 1698 del 2006. In dottrina v. PARADISO, La responsabilità
medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 325 ss.).
La responsabilità del Ministero della Salute, per quanto ripetutamente affer‑
mato dalla Suprema Corte, non da ultimo dalle Sezioni Unite, si delinea a
partire dal 1970, ovvero da quando si poteva conoscere del virus B. In buona
sostanza la sentenza 581/08 ha – sinteticamente – stabilito “Posto che, anche
in base alla normativa vigente quando si sono verificati i fatti, sull’amministra‑
zione sanitaria gravavano obblighi di vigilanza in materia di sangue umano e
che all’epoca risultava oggettivamente nota ai più alti livelli scientifici la pos‑
sibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto, può ritenersi, in assenza
di fattori alternativi, che l’omissione delle attività doverose sia stata causa
dell’insorgenza della patologia da Hbv, Hcv o Hiv nei soggetti emotrasfusi o
assuntori di emoderivati, già a partire dalla data di conoscenza dell’Hbv, in
2 0 1 2
quanto relativamente agli altri due virus non si configurano eventi autonomi
e diversi, bensì solo forme di manifestazione patogene del medesimo evento
lesivo dell’integrità fisica”. La piena responsabilità del Ministero della Salute
è riconducibile alla ratio della legge n. 592 del 14.07.1967 con cui il Legisla‑
tore conferiva al Ministero il compito di emanare le direttive tecniche per la
organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla
raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per
uso trasfusionale nonché alla preparazione dei suoi derivati attribuendogliene
la vigilanza ed il controllo. Il Tribunale di Roma (tra le altre Trib. Roma Sez.
II civile – Sentenza 28 dicembre 2006 – 3 gennaio 2007 1, Giudice Bochicchio,
nonchè Trib. Roma n. 23097 del 14.06.20012), così come anche di Napoli e
Corte di Appello Roma, in numerosissime pronunce hanno ritenuto che
l’evento dannoso, almeno sotto il profilo giuridico, è sempre lo stesso e consi‑
ste nella lesione dell’integrità psico-fisica del soggetto sottoposto alla pratica
trasfusionale. Pertanto è all’evento lesivo che occorre fare esclusivo riferimen‑
to nella valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana ed
in particolare, del nesso di causalità materiale con la condotta omissiva del
Ministero della Salute e dell’elemento soggettivo della colpa. La serie causale
delle modalità di trasmissione dell’HCV è ben nota fin dagli anni 70, ovvero
da quando si riteneva che l’epatite C avesse le stesse modalità di trasmissione
dell’apatite B. In buona sostanza la etiologia tra HBC, HIV, HCV è identica,
come del resto sottolineato a chiare lettere dalla circolare del Ministero della
Salute n. 64/1983 dove si legge che “i dati epidemiologici e clinici orientano
verso una etiologia virale a trasmissione sessuale e parenterale simile a quella
dell’epatite B”. Ne consegue che l’adozione di cautele previste per l’una (HBV)
avrebbe anche impedito la insorgenza dell’altra (HCV) ... ma ciò evidentemen‑
te è attribuibile solo ed esclusivamente alla omissione del Ministero della Sa‑
lute, il quale ha così violato sia norme cautelari scritte, sia regole non scritte
di comune prudenza a tutela della salute umana e pubblica3. L’art. 46 del D.P.R.
n. 1256 del 1971 testualmente recita: “Non può essere accettato come dona‑
tore o datore chi, sottoposti a visita medica generale, risulti che: a) sia o sia
Sez. II civile – Sentenza 28 dicembre 2006 – 3 gennaio 2007 (Giudice Bochic‑
chio): “La responsabilità del Ministro della Salute, legittimato passivo nell’azione di risarcimento del danno da trasfusione di sangue infetto, non si configura
come responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 2050 del Cc, bensì come illecito
aquiliano ex art. 2043 del Cc. Circa il nesso di causalità, assume valenza colposa anche la condotta omissiva antecedente alla scientifica prevedibilità
dell’evento, se evitabile mediante il rispetto delle norme cautelari poste a tutela
dell’integrità psicofisica dell’individuo”.
2
T. Roma, 14-06-2001. “Il ministro della sanità risponde, in ragione delle funzioni apicali attribuitegli dall’ordinamento per la tutela del diritto alla salute,
dei danni da contagio causati dall’uso di sangue infetto da parte di privati, ai
sensi della clausola generale dell’art. 2043 c.c. (omesso controllo o negligente
vigilanza) e non per esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.)” – in Corriere giur., 2001, 1204.
3
In ambienti scientifici americani si ritiene che l’adozione generalizzata e tempe‑
stiva nei primi anni ’80 delle metodiche alternative di ricerca della presenza nel
sangue dell’antigene rivelatore dell’epatite B, ovvero, di una pregressa esposi‑
zione del donatore a questo virus, ovvero, in genere, un miglior controllo sulla
purezza del sangue secondo le metodologie già conosciute, avrebbe consentito
di ridurre dell’80% il rischio di trasfondere sangue infetto da HIV (S.A. Galel,
J. D. Lifson, E. G. Engleman, Prevention of Aids Trasmission Through screening
of the blood supply, in Annual Review of immunology, 1995, 13:201-27).
1
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
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F O R E N S E
duto esclusivamente in capo al Ministero della Salute, organo
cui la legge demanda ogni potere in materia di controllo del‑
le emotrasfusioni. La difesa dell’Azienda Ospedaliera Univer‑
sitaria Consorziale policlinico di Bari, sempre in via prelimi‑
nare, deduceva l’inammissibilità della domanda risarcitoria
per non essere essa cumulabile con la richiesto di indennizzo
ex lege 210/1992; in via preliminare eccepiva la prescrizione
del diritto, in quanto il contagio da sangue infetto era avve‑
nuto nel 1996 e l’atto introduttivo del presente giudizio era
stato notificato nell’aprile del 2008, ovvero ampiamente de‑
corso il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art.
2947 c.c., che andava applicato al casi in esame riconducibile
all’art. 2043 c.c.,, osservava, comunque, che il termine di
prescrizione era da reputarsi decorso anche nell’ipotesi in cui
la responsabilità fosse reputata di natura contrattuale.
Nel merito, deduceva l’assoluta infondatezza della doman‑
da degli attori e la mancanza di ogni elemento di prova della
stessa. In ogni caso, chiedeva di essere autorizzata a chiama‑
re in causa la Nuova Tirrenia Spa per garantita e manlevata
in ipotesi di condanna.
Concludeva per il rigetto della domanda, o in subordine,
per riduzione del quantum, in ogni caso da porre a carico
della chiamata in garanzia. Vinte le spese.
Autorizzata la chiamata in causa della Nuova Tirrena,
differita la prima udienza ex art. 269 cpc e notificato l’atto di
chiamata in causa del terzo, si costituiva in giudizio la com‑
pagnia assicuratrice, che eccepiva la prescrizione del diritto
fatto valere in giudizio, sia che la responsabilità della propria
garantiva fosse qualificata come extracontrattuale sia con‑
trattuale e deduceva l’infondatezza della domanda. Conclu‑
deva per il rigetto dell’azione. Vinte le spese.
Precisate le domande e le eccezion, la causa veniva repu‑
tata matura per decisione e trattenuta in decisione con il ter‑
mine ridotto di cui all’art. 190 cpc.
sottoposto ad una trasfusione di sangue; essi, inoltre, espone‑
vano che, in data 10 gennaio 2003, il sig. P.A. avendo appu‑
rato di essere affetto da “epatopatia cronica HCV correlata”,
patologia con carattere di irreversibilità, avanzava domanda
di riconoscimento dei benefici previsti dalla legge 25 febbraio
1992 n. 210 recante disposizioni in materia di “Indennizzo a
favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irre‑
versibile a causa di vaccinazione obbligatorie, trasfusioni e
somministrazioni di emoderivati”.
All’esito degli accertamenti e delle visite previste dalla
legge, la Commissione medico ospedaliera, con verbale n. 1084
del 29 aprile 2004, riconobbe che il sig. P.A. aveva contratto
la patologia in occasione delle emotrasfusioni effettuate nel
1996, e che tali risultanza gli furono comunicate con nota
della giunta regionale della Campania del 16 luglio 2004.
I sigg.ri P.A., L.M., V.A, V.A., V.A., quindi, lamentavano
che, a cagione della grave malattia invalidante contratta dal
sig. P.A., costui aveva subito gravissimi danni consistenti
nella riduzione dell’aspettativa di vita, nella oramai inesisten‑
te partecipazione alla vita sociale e familiare e che tale soffe‑
renze erano patite anche da coniuge e dalle tre figlie – anche
esse attrici- ivi compresa la maggiore V. che, dopo aver con‑
tratto matrimonio nel 2001, aveva stabilito la sua residenza
nello stesso stabile ove vivono i genitori.
Gli attori, quindi, concludevano per l’accertamento della
responsabilità dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Con‑
sorziale policlinico di Bari e del Ministero della Salute, e per
la condanna dei convenuti a risarcire tutti i danni patiti da
quantificarsi anche in separato giudizio. Vinte le spese.
Si costituiva in giudizio il Ministero della Salute che ecce‑
piva, in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva
deducendo l’esclusiva responsabilità, in caso di contagio da
sangue infetto a causa di emotrasfusioni, in capo all’Ente
ospedaliero e/o al personale medico che aveva effettuato l’in‑
tervento. Nel merito, la difesa erariale deduceva l’infondatez‑
za della domanda rilevando che essa, in ogni caso, avrebbe
dovuto superare l’onere della prova, così come delineato
nell’art. 2043 c.c.; inoltre, lamentava la mancata quantifica‑
zione e di ogni allegazione dei danni lamentati e, infine, de‑
duceva la non cumulabilità della domanda di risarcimento con
quella di indennizzo. Concludeva per il rigetto delle domande.
Vinte le spese.
Si costituiva in giudizio l’Azienda Ospedaliera Universita‑
ria Consorziale policlinico di Bari che eccepiva il difetto di
legittimazione passiva, per essere la responsabilità dell’acca‑
Motivi della Decisione
Le domande degli attori sono fondate e vanno accolte per
quanto di ragione.
- In via preliminare, vanno respinte le eccezioni di difetto
di legittimazione passiva sollevate sia dalla difesa dell’ Ospe‑
dale di Bari sia dal Ministero della Salute.
Quanto all’eccezione sollevate dalla difesa dell’Azienda
Ospedaliera Universitaria Consorziale policlinico di Bari, va
rilevato che gli attori hanno espressamente dedotto nei con‑
fronti della convenuta la responsabilità contrattuale in ragione
stato affetto da: epatite virale, lues, coronopatie, neoplasie maligne, malattie al‑
lergiche, tendenza alle emorragie, episodi epilettici e convulsivi; b) sia affetto dal
malattie croniche: cardiovascolari, renali, epatiche, del sangue; c) sia o sia stato
affetto da: malattie tubercolari, reumatiche, alcolismo, intossicazione da droghe,
ulcera gastroduodenale o altre malattie che, a giudizio del medico, controindi‑
chino la donazione di sangue (ad esempio empatie congenite, esposizione ad
agenti chimici o fisici che possono essere causa di anemia)”. L’art. 47 del richia‑
mato D.P.R. afferma che “non possono esere temporaneamente accettati come
donatori o datori: a) gli affetti di brucellosi se non clinicamente guariti da alme‑
no due anni; b) gli affetti da malaria se non clinicamente guariti da almeno sei
mesi; c) le donne in stato di gravidanza e per un anno dopo il parto; d) gli affetti
da malattie acute, comprese le malattie veneree; e) i convalescenti; f) coloro che
abbiano subito interventi chirurgici negli ultimi sei mesi, a meno che non si
tratti di interventi di lieve entità; g) coloro che negli ultimi sei mesi abbiano rice‑
vuto una trasfusione di sangue, plasma, fibrogeno o altri derivati che possono
trasmettere l’epatite; h) coloro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti
con epatici; i) coloro che denuncino foci infettivi attivi o che presentino piaghe,
lesioni non cicatrizzate da estrazioni dentarie o processi suppurativi in atto; l)
coloro che siano stati vaccinati da meno di un anno contro la rabbia, da meno
di due mesi contro il vaiolo o la febbre gialla, da meno di due settimane contro
la poliomielite, l’influenza, il morbillo, il tifo, il colera, il tetano, la difterite; m)
coloro che abbiano ricevuto sieri animali terapeutici da meno di un mese; n)
coloro che siano diminuiti di peso nell’ultimo anno senza giustificato motivo”.
Tanto basta a delineare, incontrovertibilmente, che il Ministero della Salute sin
dal 1971, se solo si fosse comportato diligentemente, era in grado di evitare il
diffondersi ed il dilagare di questo terribile virus C! Tutte le successive leggi e
regolamenti in materia non possono che rafforzare quanto con il D.P.R. 1256 del
1971 affermato e ricondotto, in tema di responsabilità, a carico del Ministero,
con particolare riferimento alla lettera b) art. 46 e lettera g) art. 47.
L’unico mezzo per prevenire la trasmissione delle infezioni virali conosciute sin
dal 1966, era rappresentato dall’esclusione dei soggetti a rischio nelle donazio‑
ni (accurata anamnesi, individuazione dei comportamenti a rischio, infezioni
recenti, come previsto dal D.P.R. 1256 del 1971, art. 46, comma b ed art. 47,
comma g ed h) dal dosaggio delle transaminasi del donatore (Circolare del
Ministero della Sanità n. 50 del 28/03/1966), dalla ricerca sierologia degli an‑
tigeni e dei relativi anticorpi.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
della circostanza che la trasfusione di sangue – rilevatosi poi
infetto – avvenne in occasione dell’intervento chirurgico cui fu
sottoposto A. presso il nosocomio in data 10 giugno 1996.
Riservata ogni valutazione circa l’accertamento della re‑
sponsabilità dell’Ospedale, nessun dubbio può sussistere
circa l’esistenza e la validità della fonte negoziale dedotta in
giudizio - e ciò alla luce della risalente e costanze giurispru‑
denza sul c.d. contatta sociale – secondo cui nel momento in
cui il cittadino paziente si ricovera presso un ente ospedaliero
pubblico o privato si perfeziona tra le parti un autonomo
contratto detto contratto di spedalità (cfr. Cass. civ. sez. uni‑
te 11 gennaio 2008 n. 577 cui si è conformata la sezione
semplice III con le sentenze n. 3847 del 17 febbraio 2011; n.
10060 del 27 aprile 2010; n. 1538 del 26 gennaio 2010; sulla
piena portata di detto orientamento si dovrà tornare).
Va osservato che, nello specifico, la responsabilità contrat‑
tuale della struttura per l’ipotesi di trasfusione di sangue in‑
fetto, è stata espressamente affermata dalla Suprema Corte di
Cassazione, sez. III con sentenza n. 25277 del 1 dicembre
2009.
Ne consegue, che va affermata la legittimazione passiva
dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Consorziale policlini‑
co di Bari in quanto la convenuta può reputarsi titolare del
rapporto sostanziale dedotto in giudizio, stante l’avvenuta
prova del ricovero del sig. P.A. (vedi cartella clinica), circo‑
stanza che, in ogni caso, non è stata contestata.
- Quanto, invece, all’eccezione di difetto di legittimazione
passiva del Ministero della Salute, va rilevato che la già citata
sentenza n. 25277/2009 della sez. III della Corte di Cassazio‑
ne ha testualmente statuito “In materia di danno da emotrasfusione l’unico legittimato passivo a titolo di responsabilità
extracontrattuale è il Ministero della Salute, mentre in capo
al medico responsabile del trattamento ed alla struttura
ospedaliera, sia essa pubblica, privata o convenzionata, residua una responsabilità esclusivamente di tipo contrattuale,
rispettivamente in forza del c.d. contatto sociale qualificato
e del modello contrattuale atipico definito di spedalità”.
In realtà, la responsabilità extracontrattuale del Ministe‑
ro della salute, per l’ipotesi di omesso espletamento delle
funzioni di c.d. emovigilanza cui è legislativamente tenuto,
era già stata affermata dalla Sezione Unite della Cassazione
con la sentenza n. 584 dell’11 gennaio 2008.
Invero, la funzione di vigilanza in ordine alla raccolta e
distribuzione del sangue umano e dei suoi derivati, la cui
fonte normativa primaria è costituita dall’art.1 della Legge 13
marzo 1958 n. 296 e dalle successive modificazioni e integra‑
zioni, non appare scalfita nemmeno dalla riforma del Titolo
V della Costituzione della Repubblica Italiana il cui art. 117
novellato dalla Legga costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001,
al comma III, prevede che la tutela della salute sia una di
quelle materie a c.d. legislazione concorrente con le regioni
per le quali il potere di direttiva e controllo è rimasto in capo
allo Stato.
Ne discende che va affermata la legittimazione passiva del
Ministero della Salute perché era titolare della funzione
dell’interesse pubblico generico della tutela della salute ex art.
32 e dell’interesse specifico al controllo sulle funzioni di c.d.
emovigilanza ex lege 296/1958 e successive modifiche.
- Ancora in via preliminare, non merita accoglimento
l’eccezione di inammissibilità della domanda risarcitoria per
2 0 1 2
41
aver il sig. P.A. richiesto l’indennizzo ex lege 210/92; a parte
l’evidente considerazione che nel presente giudizio è stata
azionata anche la pretesa risarcitoria dei suoi stretti congiun‑
ti, in merito la giurisprudenza ha stabilito che le due doman‑
de possono essere contemporaneamente proposte, salva la
necessità di scomputare integralmente dalle somme liquida‑
bili a titolo di risarcimento quelle ricevute a titolo di inden‑
nizzo (Cfr. Cass. civ., sez. Un. 11/01/2008 n. 584).
- Sempre in via preliminare, va rilevato che non può esse‑
re esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa
del Ministero della salute per essere essa difesa decaduta dal
potere processuale di proporla.
L’eccezione di prescrizione, infatti, è un’eccezione di me‑
rito non rilevabile d’ufficio, che a mente del combinato dispo‑
sto dagli art.166 e 167 cod.proc.civ., così come novellato la
Legge 14 maggio 2005 n.80 entrata in vigore il 1 marzo 2006
(applicabile al presente giudizio), deve essere proposta con la
comparsa di costituzione e risposta da depositarsi almeno
venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata in ci‑
tazione.
Ebbene, atteso che la prima udienza di comparizione fis‑
sata incitazione era quella del 16 ottobre 2008, il convenuto
che avesse voluto proporre l’eccezione di prescrizione avrebbe
dovuto costituirsi in giudizio entro e non oltre il 25 settembre
2008. La difesa erariale, invece, si è costituita in giudizio
solo il 17 novembre 2008 quindi quando era ampiamente
trascorso il termine; era, pertanto, decaduta dal potere di
sollevare l’eccezione di prescrizione, a nulla rilevando l’avve‑
nuto differimento dell’udienza al giorno 3 aprile 2009 a se‑
guito dell’istanza di chiamata in causa del terzo operata
dalla difesa della Azienda Ospedaliera Universitaria Consor‑
ziale Policlinico di Bari.
Sul punto, la Corte Costituzionale ha dichiarato manife‑
stamente infondate e/o inammissibili tutte le questioni di le‑
gittimità costituzionale relative allo slittamento dei termini di
cui all’art.166 cod.proc.civ. per il caso diverso dall’art.168 bis
V comma cod.proc.civ. (cfr Corte costituzionale., 6 maggio
2009, n.134).
Del resto, nemmeno si può sostenere che la mera istanza
di chiamata in causa del terzo con domanda di differimento
della prima udienza possa ineluttabilmente determinare lo
spostamento della stessa e quindi del termine di venti giorni
prima cui all’art.166 cod.proc.civ. Sul punto, va osservato che
le sezioni unite hanno chiarito che in tema di chiamata in
causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi
di litisconsorzio necessario è discrezionale il provvedimento
del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire
la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il
giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per
la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla
base di esigenza di economia processuale e di ragionevole
durata del processo (cfr. Cass.civ., Sez.Unite, 23 febbraio
2010, n.4309).
- Ancora in via preliminare, va, invece, esaminate e disat‑
tesa l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa dell’Azien‑
da Ospedaliera Universitaria Consorziale Policlinico di Bari.
In merito, va osservato che come chiarito dalla sentenza
n.581 dell’11 gennaio 2008 della suprema Corte di Cassazio‑
civile
Gazzetta
42
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ne a sezioni unite “Il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per
contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo
decorre, a norma degli artt.2935 e 2947 cod.civ., non dal
giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o
può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al
comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.”
Con tale pronuncia, la Cassazione ha anche precisato che
nell’ipotesi di emotrasfusione da sangue infetto, il termine di
prescrizione decorre dal momento della presentazione della
domanda di indennizzo, e non dal momento in cui vi è stato
l’esito degli accertamenti da parte degli organi deputati; ciò in
quanto l’inoltro dell’istanza di indennizzo può essere conside‑
rato sicuro e affidabile indice di percezione del danno ingiusto
conseguente a comportamento doloso o colposo del terzo.
Da ciò discende che, nel caso in esame, il termine di pre‑
scrizione del diritto degli attori non decorre dal 10 giugno
1996 (data della trasfusione), bensì dal 10 gennaio 2003 (da‑
ta della presentazione della domanda di indennizzo), ragione
per cui il diritto degli attori nei confronti dell’Azienda Ospe‑
daliera Universitaria Consorziale Policlinico di Bari non era
prescritto al momento dell’introduzione del presente giudizio
(15 aprile 2008 data di ricezione della notificazione dell’atto
introduttivo da parte dell’Ente Ospedaliero convenuto).
La responsabilità della struttura sanitaria, infatti, alla luce
del costante e consolidato orientamento giurisprudenziale già
menzionato, è di natura contrattuale e sopporta il termine di
prescrizione ordinario decennale di cui all’art.2946 cod.civ.
Sussiste, pertanto, il diritto degli attori ad essere risarciti
dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Consorziale Policlinico
di Bari: il termine andava a scadere il 10 gennaio 2013.
Nel merito, le domande degli attori sono fondate.
Avuto riguardo alla domanda di accertamento della re‑
sponsabilità contrattuale dell’Azienda Ospedaliera Consor‑
ziale Policlinico di Bari, va necessariamente premesso che in
giurisprudenza può dirsi oramai consolidato l’orientamento,
(cui si è già fatto cenno), a mente del quale tra il cittadinopaziente e l’Ente ospedaliero pubblico o privato cui egli si
rivolge, sorge, per il solo effetto del ricovero, un contratto
atipico (c.d. contratto di spedalità) autonomo e distinto da
quello intercorrente tra medico e paziente, e ciò in forza del
c.d. contatto sociale.
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha specifi‑
cato che, con tale contratto, la struttura assume nei confron‑
ti del cittadino-paziente – e ciò in forze del principio dell’af‑
fidamento – tutta una serie di obbligazioni sue proprie, come
ad esempio quella della messa a disposizione di personale
medico ausiliario e paramedico, dell’apprestamento dei me‑
dicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per even‑
tuali complicazioni, obbligazioni che presentano il tratto
dell’autonomia e della distinzione da quelle gravati su perso‑
nale medico che effettua la prestazione (cfr. Cass.Civ. Sez.III
n. 3847 del 17 febbraio 2011; Cass.civ.sez.III n.10060 del 27
aprile 2010; Cass. Civ.sez.III n.1538 del 26 gennaio 2010;
Cass.civ. Sez.unite 11 gennaio 2008 n.577).
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
La più rilevante caduta pratica di tale impostazione – oltre
al più ampio spettro di tutela offerto al cittadino che lamenti
l’aggravamento o l’insorgenza della patologia a cagione della
responsabilità del medico o della struttura – si coglie sotto il
profilo della distribuzione dell’onere probatorio nel caso di
esperimento della domanda giudiziale risarcitoria, che va ri‑
partito, come chiarito dalle pronunce appena citate, alla luce
dei principi della Cassazione a sezioni unite, con la sentenza
n. 13533/2001, ha fissato chiarendo, una volta e per tutte,
l’esatta portata normativa dell’art. 1218 cod.civ.
In altri termini, una volta ricondotto il rapporto tra citta‑
dino e l’Ente ospedaliero nello schema della responsabilità
contrattuale, ne discende che chi agisce per il ristoro dei dan‑
ni subiti a cagione della prestazione medica e/o ospedaliera è
solo tenuto a provare il contratto (rectius contatto sociale), il
danno patito ed il nesso eziologico tra la prestazione e l’even‑
to dannoso, essendo, invece, sufficiente la mera allegazione
dell’inadempimento.
Spetta all’Ente ospedaliero o al medico, che vogliano
sollevarsi dalla responsabilità, l’onere di provare il corretto
adempimento delle obbligazioni su di essi gravanti oppure che
l’evento dannoso è avvenuto senza loro colpa.
Ciò detto, posto che questo Giudice condivide il detto
orientamento e non ritiene di doversene discostare, facendo
applicazione al caso in esame dei principi , può dirsi accerta‑
ta la responsabilità dell’Ospedale di Bari.
Gli attori, infatti, hanno dato prova dell’avvenuta stipu‑
lazione del contratto (rectius contatto) con il deposito della
cartella clinica; del resto, la circostanza non è nemmeno stata
contestata dalla difesa della convenuta.
Essi, inoltre, hanno anche provato l’insorgenza della pa‑
tologia, il nesso eziologico ovvero la sua dipendenza dalla
trasfusione cui il sig. A. fu sottoposto durante l’intervento
chirurgico in data 10 giugno 1996.
Sullo specifico punto va osservato che dal verbale della
Commissione medica Ospedaliera, che sottopose a visita il
sig. A., si evince alla voce Considerazioni Medico legali che
uno dei donatori “…è risultato non idoneo per ipertransami‑
nemia” (cfr. pag. 3), motivo per cui l’organo amministrativo
riteneva verosimilmente esistente il nesso eziologico.
Di contro, l’Azienda ospedaliera Universitaria Consorzia‑
le Policlinico di Bari, non ha assolto l’onere della prova su
essa gravante ovvero non ha dato prova né di aver corretta‑
mente adempiuto le obbligazioni su di esso gravanti, né,
tantomeno, di che l’evento dannoso si verificò per fatto a sé
non imputabile.
Orbene, alla luce di quanto sopra esposto, la domanda spie‑
gata nei confronti dell’ l’Azienda ospedaliera Universitaria
Consorziale Policlinico di Bari, pertanto, merita accoglimento.
- Passando all’esame della responsabilità extracontrattua‑
le del Ministero della Salute, gli attori, con l’atto introduttivo,
hanno dedotto la responsabilità extracontrattuale del Mini‑
stero della Salute per non aver conseguito l’attività di control‑
lo e coordinamento previsto dalla legge.
In merito, va premesso che, rispetto a quanto previsto in
tema di responsabilità contrattuale, chi agisce deducendo la
responsabilità extracontrattuale sopporta un onere probato‑
rio maggiore, perché tenuto a provare non solo il danno e il
nesso eziologico tra la condotta altrui e l’evento lesivo patito,
ma anche il dolo e la colpa del danneggiante.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
Posto che per quanto attiene alla prova del danno e del
nesso eziologico non possono non valere le medesime consi‑
derazioni già svolte, per quanto riguarda la prova dell’elemen‑
to psicologico della colpa, va osservato che in giurisprudenza
(Cass. civ. sez. un. 581/2008) è stato affermato il principio
secondo il quale la colpa specifica dell’Amministrazione è
ravvisabile, ex art. 43 cod. pen., nella misura in cui non ha
osservato gli obblighi di vigilanza imposti dalla legge (come
si legge a pag. 3 del verbale della Commissione Medica Ospe‑
daliera, posto che uno dei donatori del sig. A. era affetto da
ipertransaminasemia).
Sul punto, appare necessario rilevare che, proprio in ma‑
teria di responsabilità medica, si è affermato il recente orien‑
tamento giurisprudenziale detto della “vicinanza della prova”
o “di riferibilità”, secondo cui l’applicazione del regime della
distribuzione dell’onere della prova non può mai condurre
alla conseguenza iniqua di far gravare il rischio dell’incertez‑
za della prova sulla parte debole – ovvero il paziente – che, di
fatto si trova nella posizione sommamente difficile se non
impossibile di acquisire dati sanitari che, di contro, sono nel‑
la immediata e agevole disponibilità della struttura (Cass. civ.
sez. III n. 3847 del 17 febbraio 2011; Cass. civ. sez. III n. 10060
del 27 aprile 2010; Cass. civ. sez. III del 26 gennaio 2010).
L’operatività di tale principio consente di temperare la
rigida applicazione del principio dell’onere della prova, facen‑
done gravare il peso maggiore sulla parte che è (appunto) più
vicina alla prova, consentendo al cittadino-paziente anche di
assolverlo facebdo ricorso a presunzioni.
Dall’applicazione dei principi appena citati al caso in
esame, consente di ritenere accertata la responsabilità extra‑
contrattuale del Ministero della salute per l’evento dannoso
subito dagli attori.
E difatti, ove si consideri, che, come detto, nessun dubbio
– stante l’intervenuto accertamento della Commissione Me‑
dica Ospedaliera – può sussistere circa la contrazione della
patologia a causa dell’emotrasfusione che fu eseguita durante
l’intervento chirurgico del 10 giugno 1996, la colpa specifica
dell’Amministrazione, ovvero l’inosservanza di norme e di
regolamenti in materia di c.d. emovigilanza, può ritenersi
presunta proprio in forza della circostanza che il sangue
trasfuso al sig. A. si rilevò infetto a causa del ricorso a dona‑
2 0 1 2
43
tore non verosimilmente idoneo. Si può ragionevolmente
presumere che ciò accadde perché non furano effettuati i ne‑
cessari controlli di legge.
Il Ministero della Salute aveva facoltà di provare il con‑
trario, ma non ha fornito alcun elemento di prova.
Nel caso in esame, appare evidente che far ricadere sugli
attori l’onere di provare la colpa specifica ex art. 2043 c.c. e
43 c.p. del Ministero della Salute per non aver l’Amministra‑
zione osservato, nel 1996 e negli anni precedenti, le norme
legislative e regolamentari in materia di c.d. emovigilanza
significa richiedere agli stessi una prova impossibile da darsi,
e quindi conculcare l’art. 24 Cost.
Diversamente, il Ministero della Salute avrebbe potuto
agevolmente provare di aver rispettato negli anni di riferimen‑
to le leggi e i regolamenti in materia di c.d. emovigilanza, ma
non ha fornito alcun elemento di prova.
Ne discende che la domanda di risarcimento del danno da
illecito extracontrattuale avanzata nei confronti del Ministe‑
ro della Salute merita accoglimento perché è risultata fondata
e provata.
- Infine, va osservato che nessun rilievo può assumere la
circostanza che gli attori non né quantificato né provato il
danno di cui chiedono il ristoro.
Essi, infatti, hanno domandato una condanna generica dei
convenuti, riservandosi solo in separato giudizio di quantifi‑
care e provare il danno subito.
In merito, in giurisprudenza si è affermato in caso di ri‑
chiesta di “condanna generica al risarcimento del danno è
sufficiente accertare con modalità sommaria e valutazione
probabilistica la portata dannosa dell’inadempimento, dovendosi invece rinviare al separato giudizio l’accertamento
in concreto del danno e la sua quantificazione” (Appello
Roma, sez. II, 4 febbraio 2010).
Nel caso in esame, non può esserci dubbio sul fatto che,
date le conseguenze della patologia contratta dall’attore, ap‑
pare verosimile che A.P. ed i suoi stretti congiunti abbiano
patito i danni che lamentano, la cui esistenza e valutazione
sarà oggetto di separato giudizio.
Le spese seguono la soccombenza, e si liquidano in dispo‑
sitivo.
(Omissis)
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
La liquidazione delle spese di custodia in seguito ad archiviazione
del procedimento: competenza del P.m. e/o del G.i.p ? 47
Enrico Campoli
L’aggravante speciale del delitto di estorsione delle “più persone riunite”
al vaglio delle Sezioni unite
49
Giuseppe Amarelli
Il contributo minimo di partecipazione ricavabile dal linguaggio intercettato 54
Nota a Corte di Appello di Napoli, sez. II pen., sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Angelo Pignatelli
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
58
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
61
64
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
La liquidazione delle spese
di custodia in seguito
ad archiviazione
del procedimento:
competenza del P.m. e/o
del G.i.p?
● Enrico Campoli
Giudice per le indagini preliminari c/o Tribunale di Nola
2 0 1 2
47
La Suprema Corte di Cassazione in alcune decisioni1 ha
sancito la competenza del Giudice per le Indagini Prelimina‑
ri, - e non del Pubblico Ministero -, a provvedere alla liqui‑
dazione delle spese di custodia allorchè la richiesta è stata
formulata dall’interessato successivamente al provvedimento
di archiviazione.
In particolare, i giudici di legittimità hanno annullato
senza rinvio il provvedimento con cui il G.i.p. si era dichia‑
rato incompetente, - individuando al contempo la competen‑
za della Parte Pubblica -, ritenendo che tale atto fosse abnor‑
me in quanto “si pone al di fuori dello schema normativo
indicato dal legislatore e determina una situazione di stasi
processuale”.
Il ragionamento attraverso cui si è giunti ad affermare il
suddetto principio di diritto è, invero, assai sintetico e tauto‑
logico: i caposaldi attorno a cui ha fatto perno lo stesso sono
stati, difatti, i seguenti:
l’art. 168, comma 1, del d.P.R. 30/5/2002 n. 1152 “dispone che la liquidazione dell’indennità di custodia è effettuata
con decreto del magistrato che procede. Da tale disposizione
si evince che, in caso di archiviazione ... , la competenza
spetti al G.i.p., il quale ha definito il procedimento”;
inoltre “.... detta interpretazione è in linea con quanto
stabilito dall’art. 263, comma 1, c.p.p. 3 secondo cui la competenza a provvedere sulle cose in sequestro è del Giudice, a
meno che non siano in corso le indagini preliminari, nel
corso delle quali soltanto è prevista la competenza del P.m.
Al riguardo, si chiarisce appunto che il G.i.p., il quale ha
emesso il provvedimento conclusivo, ha assunto una deliberazione che estende la competenza a provvedere, oltre che
sull’istanza di restituzione di cose sequestrate in qualsiasi
momento distinto dalla fase delle indagini preliminari, anche
su quella di liquidazione delle spese di custodia dello stesso
bene la cui restituzione il G.i.p. è chiamato a decidere”.
In breve, da un lato si afferma, con evidente confusione
terminologica, che magistrato che procede, in seguito al de‑
creto di archiviazione, è il G.i.p. avendo egli definito il pro‑
cedimento, - dando ai verbi procedere e definire significati
sovrapposti laddove, essi sono, invece, palesemente antitetici
-, e dall’altro si richiama, impropriamente, a sostegno di tale
tesi, la competenza a provvedere in caso di istanza di restitu‑
zione di cose in sequestro (probatorio).
Va, in ordine a tale ultimo punto, evidenziato che il ri‑
chiamo all’art. 263 c.p.p. è sistematicamente erroneo per una
serie di ragioni:
• esso ha ad oggetto tutt’altra materia, e cioè le decisioni
da assumere in merito alle cose in sequestro probatorio e
non a chi competa provvedere alla liquidazione delle re‑
lative spese, statuizione quest’ultima affidata a norma
speciale;
• esso costituisce un richiamo assolutamente parziale atte‑
1 Cass., sezione IV, sentenza 23 gennaio 2008, n. 9434.
2 Art. 168 cit.: “La liquidazione dell’indennità di custodia è effettuata con de‑
creto di pagamento, motivato, del magistrato che procede”.
3 Art. 263 c.p.p.: “La restituzione delle cose sequestrate è disposta dal giudice
con ordinanza ... (terzo comma) Nel corso delle indagini preliminari sulla re‑
stituzione ... il pubblico ministero provvede con decreto motivato ... (quarto
comma) Contro il decreto del pubblico ministero gli interessati possono pro‑
porre opposizione sulla quale il giudice provvedere a norma dell’art. 127”.
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
so che non solo vi sono anche le cose sottoposte a sequestro
preventivo, - la cui disciplina procedimentale dell’art. 321
c.p.p. è parzialmente diversa non essendo deputato al Pm
di provvedere in caso di diniego bensì solo di esprimere
parere contrario -, ma la liquidazione delle spese di custo‑
dia riguarda necessariamente anche lo cose sottoposte poi
a confisca.
Ad avviso dell’estensore di questa nota la ricostruzione
sistematica della competenza alla liquidazione va impostata
in tutt’altro modo.
Occorre, innanzi tutto, escludere qualsiasi riverbero inter‑
pretativo tra le norme relative alla competenza a provvedere
sulla restituzione delle cose in sequestro e quelle sulla compe‑
tenza a decidere sulle liquidazioni delle spese spettanti al
custode : esse non solo hanno ad oggetto materie diverse ma
rispondono anche a canoni di legge autonomi.
Per quanto riguarda l’individuazione della competenza
alla liquidazione delle spese di custodia successivamente al
decreto di archiviazione occorre osservare che la disposizione
di cui all’art. 168 cit. risulta all’evidenza speciale rispetto a
quella dettata dall’art. 665, 1° co., c.p.p., a norma del quale
“salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere
dell’esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha
deliberato”: ebbene, proprio nell’art. 168 cit. va individuata
quella diversa disposizione di legge cui la clausola di riserva
contenuta nell’art. 665 c.p.p. espressamente rimanda.
Nel caso in cui la richiesta di liquidazione è stata presen‑
tata dopo il provvedimento di archiviazione del procedimen‑
to da parte del G.i.p., esclusa la possibilità di attribuire
competenza ad hoc al giudice dell’esecuzione (per espressa
previsione normativa contraria), “magistrato che procede”,
– in difetto di diversa previsione normativa –, non può che
essere il Pubblico Ministero depositario, nei propri archivi,
del fascicolo, tenuto conto che il G.i.p., successivamente ad
esso, non conserva alcuna residua competenza.
Il rilievo svolto da ultimo appare assorbente, in quanto il
legislatore, nell’ottica di semplificazione posta a fondamento
dell’emissione del Testo Unico in materia di spese di giustizia,
ha inteso equiparare, a taluni fini, p.m. e giudice, fissando
determinate competenze in capo a quello che, di volta in vol‑
ta, si trovi ad avere la disponibilità degli atti.
è del tutto evidente che l’uso dell’espressione “magistrato
che procede” ha inteso volutamente individuare sia nel p.m.
che nel Giudice i destinatari delle norme suddividendone la
competenza a seconda della fase procedimentale (o proces‑
suale) in cui il procedimento versa.
Va, altresì evidenziato che successivamente all’archiviazio‑
ne il p.m. è l’organo competente per legge in ordine all’unico
possibile atto di impulso successivo, e cioè la richiesta di ria‑
pertura della indagini : ben può, difatti, la Parte Pubblica non
far propria, ad esempio, una richiesta in tal senso provenien‑
te dalla persona offesa non trasmettendo al G.i.p. la medesi‑
ma: ciò conferma che l’autorità procedente, in seguito ad ar‑
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chiviazione, non è il G.i.p. bensì il p.m. intervenendo il primo
solo allorché l’Ag procedente - cioè il pubblico ministero - ri‑
tiene, come suo potere, di attivare la procedura ad hoc.
Non appare, inoltre, inopportuno, al riguardo, ricordare
che il Testo unico segue la delega conferita al Governo ai
sensi dell’art. 7, 1° e 2° co., l. 8.3.1999, n. 50, come modifi‑
cato dall’art. 1 l. 24.1.2000, n. 340, norma che prevede
l’emanazione di testi unici intesi a riordinare, tra le altre, le
materie elencate nelle leggi annuali di semplificazione, nell’ot‑
tica del riordino e dell’armonizzazione delle norme legislative
e regolamentari, da compiersi alla luce dei criteri e principi
direttivi espressamente menzionati, ed in particolare, nell’ot‑
tica della semplificazione e della coerenza sistematica della
normativa.
Ebbene, con specifico riguardo ai profili procedurali ed
organizzativi, il Testo unico è stato delegato a riscrivere l’as‑
setto normativo esistente in modo fortemente innovativo in
termini di semplificazione e razionalizzazione, snellendo i
procedimenti, riducendo i tempi, eliminando fasi inutili, sop‑
primendo organi e fasi endoprocedimentali superflue (Cfr.
Relazione illustrativa del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia premesse generali).
Rilievi, quest’ultimi, che confermano la ragionevolezza
dell’attribuzione di una competenza ad hoc, qui sostenuta, al
magistrato che ha in disponibilità il fascicolo cui attiene
l’istanza di liquidazione.
A riprova ulteriore della fondatezza di tale assunto, può
esser richiamata, a contrario, la disciplina dettata dall’art.
116, 2° co., c.p.p. in tema di competenza all’autorizzazione al
rilascio di copie, fissata, dopo la definizione del procedimen‑
to, in capo al giudice che ha emesso il provvedimento di ar‑
chiviazione: in assenza di norma contenente disposizioni
analoghe, deve ritenersi che il legislatore non abbia voluto
dettare una disciplina simile.
è pacifico, anche per la dottrina in materia più autorevo‑
le, che, nel caso in cui il custode non sia già stato liquidato,
non è in alcun modo consentito attribuire al G.i.p. “anche la
competenza relativa ai provvedimenti propri della parte pub‑
blica e da questa ingiustificatamente, ma soprattutto illegit‑
timamente omessi. Deve pertanto concludersi che, anche nel
caso di avvenuta archiviazione del procedimento, permanga
la originaria competenza del p.m. nel provvedere alle liquida‑
zioni (…) dei custodi la cui attività sia cessata prima dell’ar‑
chiviazione”.
In definitiva, è ragionevole concludere che in seguito
all’archiviazione del procedimento competente a decidere
sulla liquidazione delle spese al custode, - allorchè la richiesta
è stata depositata successivamente al decreto di archiviazione
-, è il p.m qualora abbia egli provveduto alla restituzione del
bene mentre la competenza va individuata in capo al G.i.p.
solo ove sia stato quest’ultimo a provvedere alla restituzione
e/o alla confisca del bene in sequestro.
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●
L’aggravante speciale
del delitto di estorsione
delle “più persone riunite”
al vaglio delle Sezioni unite
● Giuseppe Amarelli
Ricercatore Universitario “Federico II”
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Sommario: 1. Premessa – 2. L’orientamento “oggettivoletterale” – 3. L’orientamento “soggettivo-estensivo” – 4. La
possibile soluzione della controversia interpretativa – 4.1.
Attraverso il criterio linguistico – 4.2. Il criterio logico-sistematico – 4.3. Il criterio teleologico
1. Premessa
Con l’ordinanza che si annota, la sezione II della Corte di
Cassazione ha rimesso alla decisione delle Sezioni unite la se‑
guente questione di diritto “se per la sussistenza della circo‑
stanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista
per il delitto di estorsione dall’art. 629, comma 2 c.p., sia ne‑
cessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel
luogo e al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia,
ovvero sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepi‑
sca che la violenza o la minaccia provenga da più persone”.
La richiesta ai sensi dell’art. 618 c.p.p. di un simile inter‑
vento chiarificatore si è resa necessaria dal momento che sul
punto si è andato delineando un contrasto interpretativo di
tipo orizzontale e sincronico incapace di trovare una condivi‑
sa soluzione definitiva1. Nella stessa giurisprudenza di legit‑
timità degli ultimi anni, infatti, figurano sia decisioni di segno
positivo che richiedono la simultanea presenza delle due o più
persone nel luogo e nel momento della commissione della
condotta, sia decisioni di segno opposto che, al contrario, si
accontentano della mera percezione da parte della vittima
della provenienza della minaccia da parte di più persone.
È evidente come una divergenza ermeneutica di questo
tipo attenti in maniera forte alle sempre irrinunciabili aspira‑
zioni alla certezza del diritto, alla conoscibilità (accessability)
e prevedibilità (predictability) delle conseguenze penali im‑
plicate dai propri comportamenti ed al valore vincolante
della lettera della legge in materia penale. A rendere ancor
meno tollerabile oggi l’esistenza di discrasie di questo calibro
contribuisce anche la più o meno esplicita enunciazione di
questi principi nell’art. 7 della CEDU e, soprattutto, nelle
decisioni della giurisprudenza della Corte EDU che hanno
riguardato tale articolo contribuendo a svelarne i suoi molte‑
plici significati; ed invero l’innalzamento del principio di
prevedibilità e conoscibilità/colpevolezza del comando legale
al rango di principio sub-costituzionale dopo le celebri sen‑
tenze gemelle del 2007 impone al giudice interno – in passa‑
to più disinvolto quando aveva come parametro di riferimen‑
to i soli principi nazionali di analogo contenuto – di omolo‑
gare l’interpretazione delle disposizioni interne ad esso2 .
2. L’orientamento “oggettivo-letterale”
Prima di provare a fornire una risposta a tale quesito
così impegnativo e di provare ad anticipare i possibili argo‑
menti che le Sezioni unite potranno eventualmente utilizzare
per risolverlo in maniera appagante e coerente con i principi
generali del sistema penale, può essere utile ricostruire per
1Sulle diverse tipologie di contrasti interpretavi che possono emergere in giuri‑
sprudenza si veda A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale, 2ª
ed., Torino, 2007.
2Le inferenze tra diritto penale nazionale ed i principi della CEDU letti alla luce
della giurisprudenza della Corte EDU sono state, da ultimo, profondamente
trattate da V. Zagrebelsky-V. Manes, a cura di, La Convenzione europea dei
diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011.
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sommi capi i due diversi orientamenti emersi nella giurispru‑
denza delle sezioni semplici negli ultimi anni3 .
Secondo un primo indirizzo interpretativo, più risalente
nel tempo, ma di recente tornato in auge, la circostanza ag‑
gravante speciale delle più persone riunite prevista dall’art.
629, comma 2 c.p. attraverso il rinvio all’art. 628, comma 1,
n. 1 c.p. deve ritenersi integrata dando risalto al profilo og‑
gettivo-materiale in essa descritto della effettiva presenza
contestuale di almeno due persone nel luogo e nel momento
della consumazione della condotta costrittiva o minacciosa.
Ad avviso di questa parte della giurisprudenza della Supre‑
ma Corte l’aggravante delle più persone riunite nel delitto di
estorsione non si identifica “con una generica ipotesi di con‑
corso di persone nel reato, ma richiede la simultanea presenza
di non meno di due persone nel luogo e nel momento in cui si
realizza la violenza o la minaccia, in quanto solo in tal modo
hanno luogo quegli effetti fisici e psichici di maggiore pressio‑
ne sulla vittima che ne riducono significativamente la forza di
reazione e giustificano il rilevante aumento di pena”4 .
Nell’ipotesi in cui la vittima della condotta estorsiva si
limiti a percepire che la minaccia promani da più persone
sebbene concretamente rivolta da una sola soltanto l’aggra‑
vante in parola di cui all’art. 629, comma 2 c.p. non deve ri‑
tenersi configurata, trovandosi al più al cospetto di una ipo‑
tesi di concorso eventuale di persone nel reato realizzato
nella forma della compartecipazione morale e punibile ai
sensi dell’art. 110 c.p., ma senza l’aggravio di pena previsto
per la contestuale presenza dei correi nel luogo e nel momen‑
to della commissione del fatto5.
Tale interpretazione dell’aggravante in parola – avallata
da ultimo anche dalla sezione VI della Suprema Corte che in
una recente decisione ha ribadito come per la sussistenza di
questa figura circostanziale sia assolutamente indispensabile
la simultanea presenza di due o più persone nel luogo e nel
momento della commissione della condotta estorsiva6 – origi‑
na da un approccio ermeneutico fedele al tenore letterale
della legge e rigorosamente rispettoso del principio di legalità
nella sua duplice declinazione della precisione/determinatezza
e del divieto di analogia. Il senso della locuzione viene cioè
ricavato all’interno dei limiti massimi del campo semantico
del lemma “riunite”, secondo quanto imposto al giudice in
materia penale proprio dal divieto di applicazione analogica
costituzionalmente presidiato.
3. L’orientamento “soggettivo-estensivo”
Secondo un diverso e contrapposto orientamento emerso
e consolidatosi nella giurisprudenza degli ultimi anni fino ai
recenti revirèment ora analizzati, la circostanza aggravante
speciale delle più persone riunite prevista dall’art. 629, comma
2 c.p. con riferimento all’art. 628, comma 1, n. 1 c.p. non
richiede per la sua sussistenza la necessaria presenza simulta‑
nea di più persone riunite. Essa altresì è configurabile anche
3In argomento cfr. C. Baccaredda Boy, Art. 629, in Codice penale commentato, a cura di Marinucci-Dolcini, Milano, 2011, 6231; R. Taverna, Estorsione,
in I reati contro il patrimonio, a cura di S. Fiore, Torino 2010, 414.
4In tal senso cfr. Cass., sez. II, 11 giugno 2010, n. 24367; conforme: Cass., sez.
II, 22 aprile 2009, n. 25614.
5In questi termini Cass., sez. II, 11 giugno 2010, n. 24367 cit.
6 Così Cass., sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 41359.
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se la minaccia o la violenza siano state esercitate da un solo
soggetto, essendo sufficiente che la vittima percepisca che
tale condotta provenga da più persone, “avendo tale fatto, per
se stesso, maggiore effetto intimidatorio”7. Vale a dire che ai
fini della sua configurabilità non si reputa necessario accer‑
tare il requisito oggettivo espressamente richiesto dalla legge
della effettiva compresenza dei concorrenti al momento della
commissione del reato, bensì si ritiene sufficiente accertare il
requisito soggettivo del rafforzato metus ingenerato nella
vittima, spostando così il baricentro del giudizio di sussun‑
zione del fatto concreto nel tipo criminoso dal comportamen‑
to materiale dei concorrenti espressamente preso in conside‑
razione dalla norma all’atteggiamento soggettivo del soggetto
passivo di cui non vi è invece menzione.
Questa diversa soluzione ermeneutica è stata sostenuta
anche in alcune recenti decisioni della sezione II e della sezio‑
ne I della Suprema Corte in cui è stato rilevato che tale circo‑
stanza aggravante ricorre in assenza del requisito della simul‑
tanea presenza fisica di più persone nel locus e nel tempus
commissi delicti, essendo sufficiente ad integrarla l’acquisi‑
zione della sensazione da parte del soggetto passivo del reato
che “la minaccia provenga non solo dal singolo che la proffe‑
risce, ma che costui manifesti le comuni, perverse, intenzioni
di più persone, di cui si faccia portavoce”8 .
Inoltre, proseguendo nello stesso solo esegetico, la sezione
II della Cassazione in un’altra recente pronuncia ha afferma‑
to che l’aggravante delle più persone riunite nel delitto di
estorsione sussiste anche quando la persona offesa del reato
riceva le minacce per mezzo di una comunicazione telefonica
e percepisca che l’autore della comunicazione manifesti le
intenzioni minacciose non solo sue ma di più persone di cui è
portavoce9. In realtà, però, tale situazione appare diversa ri‑
spetto a quella oggetto della questione devoluta alle Sezioni
unite, dal momento che in questo caso è ben possibile ritene‑
re configurata l’aggravante de qua senza ricorrere ad acroba‑
zie ermeneutiche. Siccome la minaccia può essere realizzata
nelle modalità più disparate e, quindi, anche per mezzo del
telefono, in questa eventualità essa potrà anche essere concre‑
tamente operata da più persone riunite che, simultaneamente,
nello stesso luogo e nello stesso momento, manifestano le
loro richieste estorsive alla vittima facendole percepire la
maggiore vis compulsiva della loro contestuale presenza.
Orbene, se l’orientamento “oggettivo” trova la sua ratio
nelle fondamentali esigenze del garantismo individuale e del‑
la legalità formale, questo contrapposto indirizzo di tipo
“soggettivo” trova invece la sua ragione giustificatrice nelle
contrapposte esigenze di difesa sociale ed in valutazioni di
opportunità politico-criminale. Tale soluzione ermeneutica è,
infatti, legittimata dalla volontà dei giudici di agire supplendi causa all’inerzia del legislatore rispetto all’allarme sociale
ed alle domande di inasprimento sanzionatorio suscitate dal‑
la piaga del racket e del “pizzo” e di approntare de facto una
risposta particolarmente severa nei confronti di quelle con‑
dotte estorsive tragicamente diffuse nei territori controllati
7 Di questo avviso è Cass., sez. V, 19 giugno 2009, n. 35054.
8In tal senso cfr. Cass., sez. II, 14 maggio 2010, n. 23038; analogamente Cass.,
sez. I, 24 ottobre 2007, n. 46524.
9 Cass., sez. II, 21 marzo 2008, n. 16657.
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dalla criminalità organizzata10 . In questi contesti è invero
frequente che la violenza o la minaccia siano materialmente
realizzate da parte di una sola persona ma esplicitamente “per
conto” di uno o più mandanti appartenenti ad un’organizza‑
zione criminale incidente in quel luogo, alimentando così un
maggiore stato di turbamento e paura nella vittima pari a
quello suscitato nei casi di contestuale presenza dei concor‑
renti sul luogo del delitto.
4. La possibile soluzione della controversia interpretativa
Le ragioni a sostegno delle tesi ora esposte appaiono en‑
trambe, sotto diversi profili, comprensibili. Occorre ora cer‑
care di intendere quale tra le due debba essere preferita dalle
Sezioni unite nel rispetto dei principi generali del diritto pe‑
nale e delle sue esigenze di coerenza e ragionevolezza.
4.1. Attraverso il criterio linguistico
Innanzi tutto, una corretta soluzione del quesito dovrebbe
prendere le mosse da un’attenta lettura delle disposizioni
oggetto della controversia che tenga conto sia del dato seman‑
tico o grammaticale, sia di quello logico-sistematico, sia infi‑
ne di quello teleologico11 , vale a dire di tutti i parametri che
dovrebbero sempre guidare l’interprete nel ripetuto attraver‑
samento della spirale ermeneutica tra fatto concreto e tipo
criminoso astratto e nell’opera di co-definizione dell’area di
significato a quest’ultimo attribuibile12 .
Ebbene, in primo luogo, utilizzando il criterio semantico
o grammaticale che tende ad individuare il senso della norma
facendo leva sul significato lessicale dei termini in essa utiliz‑
zati, balza subito agli occhi come l’art. 629, comma 2 c.p. – il
cui contenuto è definito tramite un rinvio esplicito dall’art.
628, comma 1, n. 1 c.p. – faccia derivare testualmente l’au‑
mento di pena rispetto alla fattispecie base al requisito delle
“più persone riunite”. È, dunque, evidente che nella costru‑
zione di questa aggravante il legislatore abbia inteso espres‑
samente dare risalto al dato oggettivo-materiale rappresenta‑
to dalla effettiva ‘riunione’ contestuale di due o più persone
nel momento della commissione della condotta estorsiva vio‑
lenta o minacciosa, volendo tramite tale precisazione lingui‑
stica differenziare nettamente l’ipotesi de qua da quella del
mero concorso eventuale punibile ai sensi del combinato di‑
sposto dell’art. 110 c.p. e dell’art. 629, comma 1 c.p.
In forza di questa struttura letterale e tenendo conto del
valore vincolante che dovrebbe avere in materia penale il prin‑
cipio di precisione e di determinatezza enunciato nell’art. 25,
comma 2 Cost., tale aggravante sembra, infatti, definire una
fattispecie plurisoggettiva necessaria propria per la cui confi‑
gurazione non è sufficiente la mera compartecipazione crimi‑
10Sul punto cfr. G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte speciale. I delitti
contro il patrimonio, 5 ª ed., Bologna, 2007, 150, i quali rilevano come il legi‑
slatore per ora si sia limitato alla istituzione di un fondo di solidarietà per le
vittime di richieste estorsive.
11In argomento, per una sintetica ma incisiva ricostruzione dei canoni ermeneu‑
tici utilizzabili in ambito penale si rinvia a G. Fiandaca-E. Musco, Diritto
penale. Parte generale, 6ª ed., Bologna, 2009, 118 ss.
12Su tali percorsi ermeneutici e sulle difficoltà di distinguere una interpretazione
fedele al dato letterale da una contrastante con il divieto di analogia, si veda da
ultimo M. Vogliotti, Dove passa il confine, Torino, 2011; nonché la interes‑
sante indagine di O. Di Giovine, Tra analogia e interpretazione estensiva, in
Criminalia, 2010, 363.
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nosa in una delle sue molteplici forme, bensì è necessario un
quid pluris, un elemento peculiare ulteriore, che le conferisca
il rango di fatto autonomo e più grave distinto dal concorso
eventuale nella fattispecie base, e questo elemento è costituito
proprio dalla simultaneità della presenza delle persone nel
momento e nel luogo della commissione del delitto. Ciò signi‑
fica che, come in tutti i reati plurisoggettivi necessari propri,
se la condotta realizzata dal concorrente non sia sussumibile
in quella descritta dalla fattispecie normativa perché priva
delle caratteristiche peculiari da essa richiesta, essa sarà co‑
munque punibile a diverso titolo in base alle disposizioni ge‑
nerali in materia di concorso eventuale di cui all’art. 110 e ss.
c.p. ed al loro combinato disposto con la meno grave fattispe‑
cie base di cui al primo comma dell’art. 629 c.p.
Inoltre, che questo sia il significato da attribuire all’espres‑
sione utilizzata dal legislatore in questa occasione lo si evince
anche se si parte dal presupposto condiviso oramai da larga
parte della dottrina che le parole non abbiano un’area seman‑
tica preesistente e predefinita, ma che quest’ultima si definisca
gradualmente attraverso le interazioni con la realtà fenome‑
nologica con cui esse si confrontano nella spirale ermeneuti‑
ca13 . Se si ritiene, cioè, che il significato dell’enunciato norma‑
tivo sia variabile e sfuggente ad un tentativo di definizione in
chiave puramente semantica e la sua ricerca implichi “un’ope‑
razione complessa di natura pragmatica al cui interno spicca
l’uso che a partire da un certo momento venga fatto delle
parole nonché l’intenzione impressa alla proposizione lingui‑
stica complessiva, vale a dire, in termini penalistici, la ratio
dell’incriminazione”14 .
Ed infatti, anche ricercando il significato possibile
dell’enunciato “più persone riunite” tramite questo dialogo
reiterato tra fatto e diritto appare difficile sostenere che esso
possa essere individuato nel dato soggettivo della percezione
della vittima, piuttosto che in quello oggettivo della effettiva
compresenza simultanea delle persone nel luogo e nel momen‑
to della commissione del reato. Facendo leva su tale moduli‑
stica ermeneutica di carattere pragmatistico non si riesce ad
avallare una lettura dell’espressione “più persone riunite” che
prescinda dalla concreta compresenza dei concorrenti nel
locus commissi delicti, essendo proprio questo il dato che ha
indotto il legislatore ad attribuire un maggior disvalore pena‑
le a tale fattispecie circostanziale rispetto a quella base.
4.2. Il criterio logico-sistematico
Ad analoghe conclusioni sembrerebbe condurre anche il
criterio ermeneutico logico-sistematico che ricerca il senso
della disposizione incriminatrice ricostruendo le connessioni
concettuali esistenti tra essa e le altre norme del sistema pe‑
nale, e che assume un rilievo particolarmente significativo in
un caso come questo dove l’aggravante non è espressamente
descritta nella fattispecie che incrimina il delitto di estorsione
circostanziata, bensì è individuata per relationem con la fat‑
tispecie che incrimina il delitto di rapina e dove, quindi,
l’interpretazione alla luce delle altre norme correlate appare
indispensabile per garantirne la ragionevolezza.
13In argomento si rinvia, da ultimo, a O. Di Giovine, Tra analogia e interpretazione estensiva, cit., 363.
14 Di Giovine, Tra analogia e interpretazione estensiva, cit., 363.
penale
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L’art. 629 c.p., infatti, dopo aver descritto nel primo com‑
ma i requisiti strutturali della fattispecie estorsiva base, nel
secondo comma si limita a disporre tramite un rinvio esplicito
che “la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa
da euro 1.032 a euro 3.098, se concorre taluna delle circostan‑
ze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.
La struttura normativa di questa circostanza ad effetto
speciale ricostruita tramite il rinvio alla circostanza puntual‑
mente prevista nell’art. 628 c.p. dovrebbe già condizionare in
partenza l’interprete e vincolarlo ad una interpretazione della
stessa che tenga conto e si allinei a quella elaborata per la
identica situazione considerata nella fattispecie precedente a
cui rinvia.
La medesima locuzione impiegata in due fattispecie incen‑
trate sulla stessa modalità realizzativa, la violenza o la minac‑
cia, dovrebbe infatti essere letta unitariamente, senza differen‑
ze di sorta.
Se, invece, si analizza l’interpretazione che di questa ag‑
gravante ha dato la giurisprudenza in ordine al delitto di ra‑
pina di cui all’art. 628 c.p. si constata la profonda divergenza
rispetto a quella fornita in relazione al caso in esame dell’estor‑
sione.
Ed invero, per quanto concerne la rapina, secondo l’avviso
unanime della Suprema Corte e della dottrina, ai fini della
configurazione di tale aggravante ad effetto speciale descritta
dall’art. 628, comma 3, n. 1 c.p. è sempre necessaria la simul‑
tanea ed effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento
del fatto15 a prescindere però dalla commissione della violenza
o della minaccia da parte di ciascuno di essi16 . Diversamente,
il mero accordo delle volontà dei compartecipi al delitto di
rapina integra unicamente un’ipotesi peculiare di concorso di
persone rilevante ai sensi della fattispecie plurisoggettiva even‑
tuale generata dal combinato disposto degli artt. 628, comma
1 e 110 c.p.
Muovendo da tale angolo visuale, contrariamente a quanto
sostenuto in materia di estorsione, si ritiene che questa circostan‑
za ricorra anche quando la vittima non abbia avvertito la pre‑
senza di più persone coalizzate ai suoi danni e non abbia subito
quindi una maggiore intimidazione, considerato che la sua ratio
consiste nella maggiore pericolosità del fatto, dovuta all’apporto
causale del correo al momento e sul luogo del delitto17.
Ora, utilizzando un canone interpretativo di tipo logicosistematico che ricostruisce il senso del tipo criminoso alla
luce di quello ad esso attribuito anche nella fattispecie nor‑
mativa di riferimento non sembra possibile accogliere altra
interpretazione che quella oggettiva e, dunque, ritenere im‑
prescindibile anche nell’estorsione il requisito della effettiva
presenza dei correi al momento della commissione della con‑
dotta incriminata.
Peraltro, questa opzione ermeneutica sembrerebbe impo‑
sta anche da una lettura dell’aggravante in esame che tenga
conto, per evidenti motivi di ragionevolezza ed uguaglianza,
15In tal senso cfr. Cass. 10 giugno 1974, Messina, CED 129081. C. Baccaredda
Boy-Lalomia, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, VIII, 345.
16Su tale specifico profilo si veda Cass. 23 giugno 1981, CED 149461, in Riv.
pen., 1981, 681.
17In tal senso, da ultimo, Cass. 12 marzo 2008, n. 15416. Per altre decisioni di
analogo contenuto si rinvia a D. C. Baccaredda Boy, in Codice penale commentato, cit., 6194.
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del significato attribuito alla stessa identica espressione “più
persone riunite” in altre fattispecie incriminatrici che ad essa
fanno ricorso o come elemento costitutivo di autonome figu‑
re criminose o come elemento circostanziale speciale.
Certamente, per la rilevanza che riveste, il primo parame‑
tro normativo da prendere in considerazione dovrebbe essere
l’art. 609 octies c.p. che incrimina il delitto di violenza ses‑
suale di gruppo a titolo di fattispecie autonoma utilizzando
come elemento connotativo del diverso tipo criminoso rispet‑
to al delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p.
proprio il requisito delle “più persone riunite”.
Ebbene in questo caso la dottrina e la giurisprudenza
hanno sostenuto una lettura di questa espressione collimante
con quella elaborata in relazione al delitto di rapina. Secondo
il loro avviso unanime tale locuzione evoca situazioni e con‑
cetti parzialmente differenti da quelli propri del mero concor‑
so eventuale ed individua un reato necessariamente plurisoggettivo proprio il cui quid pluris rispetto alla mera compar‑
tecipazione criminosa ex art. 110 c.p. è costituito dal fatto che
al momento e nel luogo della commissione del reato i parteci‑
panti siano riuniti.
Affinché si possa ritenere configurata questa fattispecie
così severamente punita è quindi indispensabile che i concor‑
renti siano tutti presenti sul luogo del crimine ed, in qualche
misura, attivamente partecipi della violenza perpetrata18 , es‑
sendo proprio questa la ratio della sua costruzione come
fattispecie autonoma dotata di una cornice edittale molto più
rigorosa rispetto alla violenza sessuale di cui all’art. 609 bis
c.p.19. L’inasprimento della risposta repressiva sarebbe cioè
legittimato dal rafforzato disvalore sociale dei reati contro la
libertà sessuale commessi in aggregazioni, soprattutto se
violente20 . In altre parole, “la previsione autonoma del reato
di violenza sessuale di gruppo si giustificherebbe per gli effet‑
ti fisici e psicologici che, a causa della pluralità degli aggres‑
sori e della loro contemporanea presenza, si producono sulla
vittima della violenza sessuale”21.
Da una simile interpretazione dell’art. 609 octies c.p. è
discesa come conseguenza indiretta che, al contrario, tutte le
volte in cui manchi il dato della simultanea presenza nel luo‑
go e nel momento della commissione della violenza sessuale,
non si debba ritenere configurata l’ipotesi criminosa in paro‑
la, bensì un mero concorso morale ex art. 110 c.p. nel delitto
18Sul punto cfr. M. Donini, Commento all’art. 9, in A. Cadoppi, Commentario
delle norme contro la violenza sessuale e la pedofilia, Padova, 2006, 241, il
quale osserva come “l’aspetto centrale del differenziato disvalore d’azione atto
a trasformare un semplice concorso eventuale nella fattispecie autonoma della
violenza di gruppo, è dato dal fatto che il contributo alla violenza si intensifica
e si aggrava per effetto della simultanea presenza e interazione delle condotte”.
Sul punto cfr. D. Proverbio-C. Gaio, Art. 609 octies, in Codice penale commentato, cit., 5899 s.
19Molto chiaramente in questi termini si è pronunciata Cass. 1 giugno 2000, n.
6464, Avitabile, CED 216978 , in Cass. pen., 2002, 2282; Cass. 13 novembre
2003, P., in Cass. pen., 2005, 1278; Cass. 1 giugno 2000, n. 1349, Giannuzzi
e altro, in Studium iur., 2000, 1280. In queste sentenze è stato infatti ribadito
che “la commissione di atti di violenza sessuale di gruppo si distingue dal
concorso di persone nel reato di cui all’art. 609 bis, proprio perché non è suf‑
ficiente l’accordo delle volontà dei compartecipi al delitto, ma è necessaria la
simultanea, effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della consu‑
mazione del reato”.
20In tal senso cfr. D. Proverbio-C. Gaio, Art. 609 octies, cit., 5899.
21 Così M. Donini, Commento, cit., 238. In giurisprudenza, conformemente, cfr.
Cass. 3 giugno 1999, n. 11541, Bombari e altro, in Foro it., 2000, II, 86.
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di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p.22 .
Ed ancora, tale interpretazione della locuzione “più per‑
sone riunite” sembrerebbe imposta anche da un raffronto con
quella ad essa datane nelle altre fattispecie circostanziali che
la prevedono, vale a dire gli artt. 339 e 385 c.p. In entrambe
queste ipotesi, ad avviso della dottrina e della giurisprudenza,
è richiesta per la configurazione delle rispettive aggravanti la
simultanea e consapevole presenza di tutte le persone sul
luogo del reato anche se non è necessario il previo concerto,
bastando un accordo subitaneo o un’implicita intesa 23 .
Anzi, in questi casi, secondo un orientamento minoritario,
sarebbe richiesto il requisito soggettivo della percezione da
parte della vittima del reato della provenienza della condotta
criminosa da parte di più persone riunite, ma non come elemen‑
to esclusivo da cui far dipendere la sussistenza della circostan‑
za aggravante, bensì come elemento ulteriore da affiancare a
quello oggettivo-materiale della effettiva riunione dei correi24 .
Peraltro, è opportuno rilevare che secondo una parte della
dottrina quando il significato letterale proprio e prevalente di
un enunciato linguistico viene ampliato al di là di quanto è
consentito da questo criterio logico-sistematico non si ha più
un’interpretazione estensiva, ma una illegittima applicazione
analogica in contrasto con l’art. 25, comma 2 Cost.25.
4.3. Il criterio teleologico
Infine, questa lettura oggettiva dell’aggravante del delitto
di estorsione dovrebbe essere ulteriormente accreditata anche
da un’interpretazione di matrice anti-formalistica che tenda
a valorizzare il criterio teleologico e tenga conto dello scopo
e della funzione politico-criminale della stessa.
Se si valuta la ratio del sensibile aggravamento di pena
previsto dall’art. 629, comma 2 c.p. rispetto alla figura crimi-
22 Da ultimo, si veda Cass., sez. II, 8 giugno 2011, n. 26369, che ha affermato che
il concorso di persone nel reato di violenza sessuale può configurarsi solo nella
forma del concorso morale con l’autore materiale della condotta criminosa
senza che il concorrente sia presente sul luogo del delitto. Più esplicitamente
ancora in questo senso si veda Cass. 27 gennaio 2009, n. 7336, in Guida dir.,
2009, 13, 92, che ha osservato che il concorso eventuale nel delitto di cui all’art.
609 bis c.p. può configurarsi nella sola ipotesi del concorso morale in tutti i
casi in cui un terzo, pur non partecipando agli atti di violenza sessuale e pur
non essendo presente sul luogo del delitto, abbia istigato, consigliato, aiutato,
agevolato il singolo autore materiale della violenza. Nello stesso senso cfr. Cass.,
sez. III, 12 ottobre 2007, n. 42111.
23In questo senso cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II,
Milano, 2007, 384. Sul punto, per approfondimenti si rinvia ai commenti ai
rispettivi articoli nel Codice penale commentato, a cura di G. Marinucci-E.
Dolcini, cit.
24In questi termini Cass. 4 luglio 1989, Casalino, CED 182256 , in Riv. pen.,
1990, 688.
25 Di tale avviso è G. Carcaterra, Tra analogia e interpretazione estensiva, in
Criminalia, 2010, 351.
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nis base nel caso di condotta estorsiva realizzata da più per‑
sone riunite ci si rende conto che è da ravvisare nel dato og‑
gettivo della maggiore forza intimidatrice esercitata dalla si‑
multanea presenza nel luogo e nel momento della commissio‑
ne del delitto dai concorrenti e non in quello soggettivo della
percezione della provenienza della condotta da parte di più
persone. Se, dunque, il tipo criminoso descritto dalla fattispe‑
cie circostanziale in parola è funzionale ad inasprire la rispo‑
sta punitiva nei confronti del reato di estorsione solo ed uni‑
camente nell’ipotesi in cui esso sia realizzato materialmente
da più persone riunite perché tale caratteristica modale
dell’esecuzione ne aggrava il disvalore sociale producendo un
vulnus ancor più marcato ed evidente sui beni giuridici della
libertà di autodeterminazione della vittima e del patrimonio,
è evidente che in esso non possa essere sussunta la diversa
ipotesi di estorsione proveniente da parte di più persone ma‑
terialmente commessa da una sola.
L’art. 629, comma 2 c.p., difatti, non prende in conside‑
razione il primo evento che deve essere causato dalla condot‑
ta violenta o intimidatoria del reo, vale a dire la coartazione
della volontà del soggetto passivo, bensì unicamente la mo‑
dalità commissiva della condotta violenta o minacciosa pre‑
cisando che essa assume un maggiore disvalore sociale e di‑
viene, quindi, bisognosa e meritevole di un diverso e più seve‑
ro trattamento sanzionatorio nel caso in cui provenga da più
persone riunite.
Nel caso opposto, ci si trova, al più, al cospetto invece che
della fattispecie plurisoggettiva necessaria propria descritta
dalla circostanza aggravante speciale dell’art. 629, comma 2
c.p. e punita con sanzioni ancor più severe, di una mera fat‑
tispecie plurisoggettiva eventuale risultante dal combinato
disposto degli artt. 110 c.p. e 629, comma 1 c.p.
penale
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Corte di Appello di Napoli, SEZ. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. C. Maddalena, Giudice Est. R. Catena, C. Alifano
Il contributo minimo
di partecipazione ricavabile
dal linguaggio intercettato
Nota a Corte di Appello di Napoli, sez. II pen.,
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
● Angelo Pignatelli
p e n a l e
Partecipe ad associazione mafiosa – Individuazione di un ruolo
dinamico e funzionale ricavabile dal linguaggio intercettato –
Rispetto del principio di legalità Il ruolo di un associato deve essere valutato alla luce di
specifici ed incontrovertibili elementi probatori che consentano di escludere categoricamente la possibilità che le vicende
di riferimento siano vicende personali dei soggetti coinvolti,
per quanto di matrice illecita, non essendo sufficiente la richiesta di intervento dell’indiscusso capo clan, elemento
considerato di per sé sufficiente per attribuire il ruolo di associati anche a coloro nei cui confronti il capo clan è richiesto
di intervenire, essendo detta possibilità, per l’appunto, una
eventualità probabile sul piano delle ipotesi, ma non per
questo dotata di una rafforzata valenza rispetto ad altre ipotesi ricostruttive altrettanto plausibili, in assenza di elementi
probatori che consentano di inquadrare in maniera certa il
contesto ed attribuire ai soggetti coinvolti un ruolo chiaro.
Avvocato
Nota a sentenza
La sentenza della Corte di appello interviene nell’ambito di
una decisione adottata, in primo grado, con le forme del rito
abbreviato, ed affronta una vicenda associativa di tipo mafioso
organizzata, i cui scopi riguardano il controllo delle attività
economiche, anche attraverso la gestione monopolistica di in‑
teri settori commerciali e la consumazione di estorsioni ai
danni di tutti gli operatori commerciali e degli imprenditori di
un area geografica, di cui a vario titolo facevano parte diversi
componenti della medesima famiglia aventi ruoli e funzioni
diverse anche per lo spaccio di sostante stupefacenti.
La decisione svolge un’importante considerazione di me‑
rito sugli elementi captativi utilizzati a fini di prova richia‑
mando, l’attenzione sulle inderogabili regole di accertamento
probatorio che devono presiedere la dimostrazione della con‑
dotta di partecipazione ad un’associazione criminosa ponen‑
dosi come una garanzia contro la criminalizzazione di fatti
interiori e/o atteggiamenti esteriori riprovevoli ma non offen‑
sivi del bene giuridico protetto dalla norma incriminata.
Preliminarmente viene dichiarata l’inammissibilità dell’ap‑
pello del p.m. e successivamente la sentenza si sofferma sulla
delicata problematica relativa alla corretta individuazione del
contributo minimo di partecipazione ricavabile dal linguaggio
intercettato di cui l’estensore indica i criteri interpretativi più
autorevoli del Supremo Collegio valorizzando nella valutazio‑
ne della prova soprattutto il principio di stretta legalità.
A tal fine, per attribuire valenza indiziaria al contenuto di
una conversazione telefonica e/o ambientale, di natura auto‑
accusatoria e/o etero accusatoria, per l’estensore «il giudice di
merito deve accertare che il significato delle conversazioni
intercettate sia connotato dai criteri di chiarezza, decifrabilità dei significati ed assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini
di dubbio sul significato complessivo della conversazione»1.
1 Cass. pen., sez. VI, 3 maggio 2006, n. 29350, Rispoli; conf.: Cass. pen., sez.
IV, 28 ottobre 2005, n. 23262; Cass. pen., sez. IV, 10 giugno 2005, n. 232576;
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Ciò posto, la sentenza, prima di giungere alla individua‑
zione del ruolo di partecipe, si apprezza per lo sforzo inter‑
pretativo profuso nella ricerca tra i due tradizionali modelli
partecipativi dai quali le Sezioni unite Mannino del 2005
hanno poi stigmatizzato la «condotta tipica di partecipazione
al reato associativo».
Non pare inutile ricordare, benché sia cosa nota come per
il primo modello cd. “organizzatorio” la condotta partecipa‑
tiva si configura quando il soggetto è organicamente inserito
nel tessuto organizzativo e nel tessuto di relazioni del sodali‑
zio, sì da assumervi un ruolo e una funzione, per modo che
ne possa desumere l’affectio societatis per facta concludentia
(vale a dire anche in mancanza di una affiliazione formale)2.
Per il secondo modello la condotta partecipativa si realiz‑
za quando venga accertato un «contributo causale apprezza‑
bile» recato dal soggetto alla vita del sodalizio, contributo che
può assumere forma e contenuto variabile (trattandosi di
condotta a forma libera, purché ridondante a vantaggio
dell’organizzazione). 3 In linea con l’autorevole approdo a cui
sono pervenute le Sezioni unite Mannino4, la dottrina più re‑
cente sviluppa un terzo criterio sincretistico in forza del quale
pur esaltandosi, da un lato, la componente organizzatoria ri‑
chiamata dal concetto della “organica compenetrazione con
il tessuto organizzativo del sodalizio” con l’assunzione di un
ruolo «dinamico e funzionale» con il quale il soggetto si met‑
te a disposizione del sodalizio, dall’altro, ridefinisce il concet‑
to di contributo causale elevando il medesimo contributo
causale nello stesso «organico inserimento del soggetto nel
tessuto organizzativo delle relazioni del sodalizio» che di per
sé costituisce un reale apporto alla vita dell’ente associativo. 5
Gli intrecci familiari dei componenti del sodalizio oggetto
del giudizio di appello, hanno indotto l’estensore ad affronta‑
re poi con particolare equilibrio l’aspetto delle “relazioni tra
sodali” indicando, di volta in volta, la rilevanza probatoria
da attribuire ai cd. rapporti di comparatico e/o alle cd. concezioni familistiche da cui sono caratterizzate spesso talune
compagini criminose.6
In quest’ottica, la sentenza pone una interessante distin‑
zione tra attività poste in essere in un “contesto illecito” da
attività poste in essere in un “contesto illecito di tipo organizzato” «non potendosi assumere come corollario che qualsivoglia attività facente capo a soggetti inseriti in una compagine associativa ovvero gravitanti attorno alla stessa sia
per ciò solo un’attività da ascrivere a quelle funzionali all’organizzazione, dovendo anche questa circostanza essere oggetto di prova rigorosa».
Cass. pen., sez. IV, 2 aprile 2003, Qehalliu Luan.
2 Cfr. la definizione è tratta da G.Turone, Il delitto di associazione mafiosa, II
Ed. Giuffrè, che richiama la definizione data dall’insigne autore G. Fiandaca.
3Sempre G. Fiandaca, Orientamenti della Cassazione in tema di partecipazione
e concorso nell’associazione criminale, in A.A. V.V., Criminalità organizzata e
sfruttamento delle risorse territoriali, a cura di M. Barillaro, Milano 2004.
4 sez. un., 12 luglio 2005, (dep. 20 settembre 2005) Mannino.
5 Cfr. G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, op.cit.
6 Da ultimo hanno affrontato la problematica Cass. sez. I, 28 settembre 2007,
(dep. 25 ottobre 2007), n. 39495; Cass. pen., sez. I, sent. 16 febbraio 2010, (dep.
06 maggio 2010), n. 17206 la quale ha considerato la rilevanza di tali legami
qualora «le condotte costituiscano attività oggettivamente omogenee agli scopi
del sodalizio criminoso, apprezzabili come concreto e causale contributo all’esi‑
stenza ed al rafforzamento dello stesso, volontariamente poste in essere, doven‑
dosi distinguere fra volontarietà della condotta e motivi della stessa.»
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Il risultato a cui si perviene nella individuazione del “ruolo di partecipe” bandisce ogni forma di automatismo probatorio procedendo ad una analisi contestualizzata dei rappor‑
ti sottostanti all’habitus familiare in cui i conversanti collo‑
quiano tanto da tener sempre distinti le attività dei singoli
rispetto a quelle attività eseguite nell’interesse dell’associa‑
zione così da sottolineare come da alcune conversazioni
«appariva lecito dedurre che verosimilmente gli interlocutori parlassero di denaro oggetto di contrattazione usuraria,
ma ciò non significava che detta attività era automaticamente funzionale agli scopi dell’organizzazione, in quanto appariva altrettanto plausibile, che dei soggetti che fanno parte
di un’organizzazione criminale possano dedicarsi, per scopi
puramente individuali ad attività criminose che non rientrano negli scopi strutturali dell’organizzazione.»
Tale disamina assume maggiore rilevanza quando i sog‑
getti coinvolti sono avvinti da legami familiari che rendono
ontologicamente consapevole la conoscenza degli interessi
illeciti partecipati nell’ambito familiare e/o di convivenza.
In tale evenienza, avverte il Giudicante che «il possibile
profilo partecipativo penalmente rilevabile si sovrappone e
si compenetra inestricabilmente con l’empatia familiare,
non necessariamente significativa sul piano penale ma altrettanto legittimamente inquadrabile in un’ottica di partecipazione familistica, anche in base a regole interne a
gruppi familiari caratterizzati da logiche di rigida supremazia interna».
In tali casi, è bene evitare il rischio di attribuire automa‑
ticamente un ruolo di partecipazione penalmente rilevante
ad un membro della famiglia «quasi per diritto ereditario o
per conseguenza necessitata della sua appartenenza ad un
determinato ambito familiare».
Proprio in relazione al citato ambito familiare, è utile
riportare l’analisi che in sentenza si compie di una frase pro‑
nunciata da una imputata nel corso di un colloquio captato
nella Casa Circondariale di Poggioreale, laddove la stessa
invitava il marito di fare ciò che il cognato, ossia il proprio
fratello, gli suggeriva.
Tale affermazione, chiarisce l’interprete, può sia essere
interpretata come subordinazione al capo indiscusso del clan
sia come subordinazione familistica, ovvero come un preci‑
pitato di entrambe.
In altri termini, anche se l’imputata con il suo esplicito
invito possa aver dimostrato di riconoscere un ruolo apicale
in capo al fratello ciò può sicuramente essere significativo di
una sua adesione morale al contesto, ma non per questo e
non solo per questo dimostrativo di una sua partecipazione
alla compagine criminosa, non apparendo «la mera adesione
morale significativa in termini di contributo penalmente
rilevante, soprattutto allorquando la stessa sia sovrapponibile, come nel caso di specie, ad una adesione ad interessi di
rilievo familiare in contesti storicamente connotati da una
concezione della famiglia che si pone come antecedente logico ed antropologico rispetto alla concezione del clan malavitoso di stampo camorristico».
Ben consapevole che il contributo partecipativo minimo
ad una associazione non debba sempre risolversi in un atti‑
vità materiale laddove è sufficiente anche la mera manifesta‑
zione di impegno con cui l’affiliato mette a disposizione il
proprio contributo al fine di ampliare e rafforzare le poten‑
penale
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zialità operative della compagine criminosa7, l’estensore ritie‑
ne che di fronte a contesti familiari e/o amicali maggiore
deve essere lo sforzo dell’interprete.
In quest’ottica è indispensabile enucleare, da un «contesto
poliedrico e per definizione ambivalente», quegli elementi che
individuino e precisino non solo una mera connivenza ed una
mera compartecipazione emotiva della imputata a vicende che
vedono direttamente coinvolti propri familiari o conoscenti,
ovvero una sua mera adesione verbale a fenomeni a lei ben noti,
ma essenzialmente quegli «elementi certi ed univoci che concorrano ad individuare un ruolo specifico e funzionale della
imputata nel contesto organizzato, nonché coerente e strutturato rispetto alle finalità dell’organizzazione medesima.»8
Detto ruolo non può consistere in una vaga adesione ver‑
bale ad affermazioni di terzi, né può consistere in una sempli‑
ce estrinsecazione di consapevolezza in ordine a determinate
vicende di chiara matrice illecita, ma «deve apparire coerente con un apporto funzionale al mantenimento in vita dell’organizzazione medesima, ancorché non cristallizzato in una
specifica modalità operativa».9
In questa prospettiva ed in conformità degli insegnamen‑
ti delle sez. un. ritiene l’estensore che il ruolo di un associato
«deve essere valutato alla luce di specifici ed incontrovertibili elementi probatori che consentano di escludere categoricamente la possibilità che le vicende di riferimento siano vicende personali dei soggetti coinvolti, per quanto di matrice illecita, non essendo sufficiente la richiesta di intervento
dell’indiscusso capo clan, elemento considerato di per sé
sufficiente per attribuire il ruolo di associati anche a coloro
nei cui confronti il capo clan è richiesto di intervenire, essendo detta possibilità, per l’appunto, una eventualità probabile sul piano delle ipotesi, ma non per questo dotata di una
rafforzata valenza rispetto ad altre ipotesi ricostruttive altrettanto plausibili, in assenza di elementi probatori che
consentano di inquadrare in maniera certa il contesto ed
attribuire ai soggetti coinvolti un ruolo chiaro.»
La decisione si fa apprezzare anche per lo sforzo continuo
che si coglie nel suo iter argomentativo di confrontarsi con il
principio di stretta legalità nella individuazione della reale
dimensione probatoria della condotta partecipativa eviden‑
ziando, nel contempo, le conseguenze che scaturirebbero
dall’adesione alla opposta tesi accusatoria la quale valorizzan‑
do i meri rapporti familiari come indici sintomatici della
consapevole partecipazione all’associazione finisce per «invertire l’onere della prova a carico di quei soggetti legati da
vincoli familiari con membri di clan camorristici degradando
il rigore della prova in quella che sarebbe una vera e propria
deriva interpretativa surrettiziamente introdotta attraverso
una attenuazione del meccanismo valutativo in relazione a
fenomeni di estrema gravità come quelli di criminalità organizzata, per i quali, si badi, non è previsto un diverso regime
di accertamento probatorio.»
E’ a questo punto, che la sentenza giunge al fulcro della
sua analisi probatoria censurando senza mezze misure talune
prassi giurisprudenziali, con le quali si tenta di assemblare
nella categoria del notorio fenomeni che in concreto si tradu‑
cono in una valutazione di massima di comportamenti ed
atteggiamenti di per sé non univocamente significativi, ma
che vengono ad essere interpretati con criteri aprioristici al‑
lorquando inseriti in un determinato contesto criminoso
forzando il principio di stretta legalità.
Netta è infine la distinzione operata dall’estensore tra
l’ambito penale e l’ambito della morale nel senso che «la comunanza di mentalità, la partecipazione emotiva e la conoscenza di determinate vicende, anche di spessore criminoso,
sicuramente possono aver un rilievo significativo sul piano
della connivenza, rafforzata peraltro dal legame familiare,
ma non possono tradursi, con un meccanismo di indiscriminato appiattimento contenutistico e semantico, nell’attribuzione di un ruolo penalmente rilevante in una organizzazione di stampo camorristico.»
La correttezza dell’assunto riportato in sentenza si coglie
anche nella proiezione contenutistica del principio di materialità di un diritto penale del fatto in forza del quale si vuo‑
le rendere inaccessibili alla sanzione penale idee, stati d’animo,
sentimenti, atteggiamenti interiori ben descritte in sentenza
come quelle «zone opache di vicinanza ai fenomeni criminosi che, pur essendo riprovevoli sul piano etico e sociale, non
si traducono in un evidente e specifico contributo alla vita
dell’associazione ma rappresentano, piuttosto, una condivisione di sistemi di vita basati su regole sociali alternative,
stratificatesi in una evoluzione delle relazioni interpersonali
e familiari secondo modalità e modelli alternativi ed impermeabili alle regole dello Stato.»
Con poche ma incisive battute la sentenza sottolinea che
non è consentito strumentalizzare la norma penale per inqua‑
drare come reati quelle che sono essenzialmente «manifestazioni di mentalità ed atteggiamenti, per quanto riprovevoli
essi siano, dovendosi, piuttosto, operare sul piano della prevenzione da un lato e, dall’altro, sul piano della introduzione,
evidentemente attraverso canali diversi da quello rappresentato dalla sola norma penale, dei modelli e delle categorie
relazionali di riferimento consensualmente accettate dalla
maggioranza dei cittadini facenti parte di una comunità
statale in un determinato momento storico.»10
In questa prospettiva, la sentenza delinea una netta distin‑
zione, sul piano probatorio, tra la connivenza e la compartecipazione criminosa, assegnando alla prima categoria quelle
circostanze di per sé ambigue, concretantesi non in condotte
significative ma in frasi ed affermazioni colloquiali variamen‑
te interpretabili, soprattutto se «dette frasi ed affermazioni non
si accompagnano ad ulteriori elementi che ne possano integrare univocamente il significato. Invero, manifestare la propria
consapevolezza di determinate vicende, in assenza di ulteriori elementi, non consente di elevare tale sola conoscenza in
assunzione di un ruolo specifico rilevante sul piano penale.».
7In tal senso lucidamente cfr. Ingroia, L’associazione di Tipo mafioso, Milano
1993; C. Visconti, Il tormentato cammino del concorso esterno nel reato associativo, in for. It., 1994.
8Esplicito richiamo operato dall’estensore al cd. modello organizzatorio.
9Esplicito richiamo operato dall’estensore alla necessità anche di un chiaro
contributo causale secondo il cd “modello causale”.
10L’assunto riportato in sentenza ripercorre gli insegnamenti dei Giudici Ermelli‑
ni, in Cass. pen., sez. VI, 12 giugno 2009, n. 24469, i quali hanno ribadito
come le frequentazioni con pericolosi pregiudicati possono assurgere ad indizi
di pericolosità ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione, ma vanno
sempre valutati con estrema prudenza quando vogliono essere utilizzati come
indizio di appartenenza mafiosa.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
La circostanza che l’appello riguardava una decisione
emessa nel corso di un giudizio abbreviato, consente all’inter‑
prete di segnalare sotto un profilo squisitamente processuale,
come la stessa scelta del rito non comporti automaticamente
di applicare un diverso metro di valutazione del compendio
probatorio. In particolare, avverte l’estensore che «il grado di
plausibilità di una opzione investigativa può essere utilizzato
per indirizzare significativamente lo svolgimento delle successive acquisizioni investigative, allo scopo di dotare di consistenza probatoria l’ipotesi o lo spunto emerso dal materiale
captato, ma non può trasferirsi automaticamente sul piano
della certezza necessaria per addivenire ad una sentenza di
condanna, indipendentemente dalla scelta del rito; il rito
abbreviato, infatti, rappresenta sicuramente una opzione
processuale a prova contratta, ma ciò non implica un diverso
metro di valutazione del compendio probatorio, non essendo
consentito attribuire valore di certezza processuale a ciò che
si appalesa come non univocamente significativo e la cui
plausibilità si manifesta unicamente sul piano congetturale,
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restando sfornito del necessario apporto di ulteriori elementi
che avrebbero dovuto essere ricercati qualora, come nel caso
di specie, il compendio intercettivo non appaia univocamente
interpretabile in relazione alla categoria di reato ascritta
all’imputato». Una decisione, dunque, che non solo risolve il
caso facendo buon governo dei principi noti ma si fa anche
apprezzare per lo sforzo di rendere più cogenti, anche in am‑
bito associativo organizzato, il principio di stretta legalità
nella valutazione della prova contro un suo utilizzo in chiave
sintomatica della pericolosità individuale rendendo inaccessi‑
bili alla sanzione penale idee, stati d’animo, sentimenti, atteg‑
giamenti interiori di vicinanza a determinanti ambienti, richie‑
dendo sempre una “esteriorità” al comportamento punibile.
In altri termini, la proiezione contenutistica della sentenza
appare, pienamente rispettosa del principio di materialità del
reato, perché “non reprime (..) un “modo di essere” della
persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo di
una norma quale la partecipazione ad una associazione cri‑
minale la cui determinatezza è piuttosto ampia.
penale
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CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 18
gennaio 2012, (ud. 24 novembre 2011), n. 1855
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
●
e
a cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
Le Sezioni unite sul versamento di contributi previdenziali quale
causa di non punibilità della precedente omissione
***
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite è la
seguente: «Se, ed eventualmente a quali condizioni, la notifica del decreto di citazione a giudizio sia da ritenere equivalente, nei procedimenti per il reato di omesso versamento
delle ritenute assistenziali e previdenziali all’I.N.P.S., alla
notifica dell’accertamento della violazione, non effettuata,
e ciò ai fini del decorso del termine di tre mesi per il pagamento di quanto dovuto, che rende non punibile il fatto».
Il prevalente indirizzo interpretativo ritiene che, nel caso
non risulti certa la contestazione o la notifica dell’avvenuto
accertamento delle violazioni, il termine di tre mesi concesso
al datore di lavoro per provvedere al versamento dovuto –
rendendo operante la causa di non punibilità prevista dalla l.
n. 638 del 1983, art.2, comma 1bis, come modificato dal d.lgs.
n. 211 del 1994- decorre dalla data di notifica del decreto di
citazione per il giudizio, sicché qualora detto termine non sia
decorso al momento della celebrazione del dibattimento,
l’imputato può chiedere al giudice un differimento dello stes‑
so al fine di provvedere all’adempimento (sez. III, sentenza 28
settembre 2004, n. 41277, De Bernardis; comuni al citato
indirizzo anche sez. III, sentenza 16 maggio 2007, n. 27258,
Venditti; sez. III, sentenza 25 settembre 2007, n. 38501, Fal‑
zoni; sez. III, sentenza 14 giugno 2011, n. 29616, Vescovi).
Secondo l’opposto indirizzo interpretativo, l’effettuazione
di una valida contestazione o di una valida notifica dell’ac‑
certamento della violazione ed il successivo decorso del ter‑
mine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica senza il
versamento delle somme dovute si configurano invece come
una condizione di procedibilità dell’azione penale. Ne deriva
che in mancanza della contestazione o della notifica dell’ac‑
certamento della violazione ed in mancanza del decorso del
termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica, l’azio‑
ne penale non può essere iniziata con la conseguenza che
nemmeno può essere emesso un valido decreto di citazione a
giudizio (sez. III, sentenza 04 aprile 2006, n. 19212, Bianchi;
conforme al citato indirizzo anche sez. F, sentenza 05 agosto
2008, n. 44542, Varesi).
Il percorso argomentativo utilizzato dal Supremo Conses‑
so per giungere alla soluzione del quesito prevede , in primo
luogo sull’ente previdenziale l’obbligo di assicurare la regola‑
rità della contestazione o della notifica dell’accertamento
delle violazioni e attendere il decorso del termine di tre mesi,
in caso di inadempimento, prima di trasmettere la notizia di
reato al pubblico ministero.
Sarà, poi, compito dello stesso pubblico ministero verifi‑
care che l’indagato sia stato posto concretamente in condizio‑
ne di esercitare la facoltà di fruire della causa di non punibi‑
lità, notiziando, nel caso di esito negativo di detta verifica,
l’ente previdenziale perché adempia all’obbligo di contesta‑
zione o di notifica dell’accertamento delle violazioni imposto
dal d.l. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 bis.
Analogamente, il giudice di entrambi i gradi di merito
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dovrà provvedere alla verifica che l’imputato sia stato posto in
condizione di fruire della causa di non punibilità, accogliendo,
in caso di esito negativo, l’eventuale richiesta di rinvio formu‑
lata dall’imputato, finalizzata a consentigli di provvedere al
versamento delle ritenute, tenuto conto che la legge già prevede
la sospensione del decorso della prescrizione per il periodo di
tre mesi concesso al datore di lavoro per il versamento, sicché
tale sospensione giustifica il rinvio del dibattimento anche in
assenza di una espressa previsione normativa.
Per dare concretezza ed effettività all’esercizio della facoltà
da parte dell’imputato di effettuare il versamento delle ritenu‑
te all’ente previdenziale si deve rilevare che l’avviso dell’accer‑
tamento inviato dall’ente al datore di lavoro contiene l’indica‑
zione del periodo cui si riferisce l’omesso versamento delle ri‑
tenute ed il relativo importo, la indicazione della sede dell’ente
presso il quale deve essere effettuato il versamento entro il
termine di tre mesi all’uopo concesso dalla legge e l’avviso che
il pagamento consente di fruire della causa di non punibilità.
Per avere la certezza, quindi, che l’imputato sia stato posto
in grado di fruire della causa di non punibilità il giudice di
merito, così come prima di lui il pubblico ministero, dovran‑
no verificare, nel caso di omessa notifica dell’accertamento,
se l’imputato sia stato raggiunto in sede giudiziaria da un
atto di contenuto equipollente all’avviso dell’ente previdenzia‑
le che gli abbia consentito, sul piano sostanziale, di esercitare
la facoltà concessagli dalla legge.
Sulla scorta della pregressa disamina le Sezioni unite,
statuiscono che: «il decreto di citazione a giudizio è equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari
di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all’imputato,
contiene gli elementi essenziali del predetto avviso».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 17
febbraio 2012, (ud. 27 ottobre 2011), n. 6624
Perdita di efficacia della misura coercitiva per fini estradizionali
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimes‑
so alle Sezioni unite è la seguente: «se la misura coercitiva ai
fini estradizionali perda efficacia nel caso in cui lo Stato richiedente non prenda in consegna l’estradando nel termine
di legge a causa della sospensione dell’efficacia, disposta dal
giudice amministrativo, del provvedimento ministeriale di
concessione dell’estradizione».
Un primo orientamento ritiene che l’estradando detenuto
deve essere rimesso in libertà, se l’efficacia del decreto di
estradizione viene sospesa, in via cautelare, dal giudice am‑
ministrativo, con conseguente mancata esecuzione della
consegna nel termine stabilito; ciò perché la legge non preve‑
de l’intervento del detto giudice come causa di sospensione o
di proroga dei termini di durata della misura restrittiva appli‑
cata, che non possono in nessun caso superare quelli indero‑
gabili previsti per la consegna dall’art. 708 c.p.p., e art. 18
della Convenzione Europea di estradizione, posto che una
contraria soluzione si porrebbe in palese contrasto con i prin‑
cipi fissati dall’art. 13 della Costituzione (sez. VI, sentenza 20
marzo 2007, n. 12677, Cipriani; sez. VI, sentenza 12 aprile
2 0 1 2
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2007, n. 17624, Sogorovic; sez. VI, sentenza 13 novembre
2008, n. 44441, Orvidas; sez. VI, sentenza 06 dicembre 2007,
n. 6567, Imperiale).
Altro orientamento, invece, esclude, nell’ipotesi conside‑
rata, la perdita di efficacia della misura cautelare personale e
ritiene la durata della custodia disciplinata dall’art. 303 c.p.p.,
comma 4, ovvero attinta da una causa sospensiva iussu iudicis (provvedimento del giudice amministrativo), al pari di
quanto avviene nel procedimento ordinario ex art. 304 c.p.p.,
comma 1, lett. a), (sez. VI, sentenza 11 marzo 2011, n. 12451,
Pilatasig; sez. VI, sentenza 08 maggio 2006, n. 29261, Cipria‑
ni; sez. VI, sentenza 08 febbraio 2006, n. 10110, Cipriani;
sez. VI, sentenza 09 aprile 2002, n. 19830, Aboud Maisi).
La Corte preliminarmente rilevava che, per effetto della
eseguita consegna allo Stato richiedente della persona recla‑
mata, era venuto meno l’interesse di questa al ricorso, per cui
nel dichiarava l’inammissibilità.
Al riguardo, puntualizzava la Corte che con specifico ri‑
ferimento alla materia estradizionale, ricorre l’ipotesi di so‑
pravvenuta carenza d’interesse all’impugnazione del provve‑
dimento reiettivo della richiesta d’inefficacia della misura
cautelare personale per decorrenza dei termini massimi di cui
all’art. 708 c.p.p., comma 6, e 18, par. 4, della Convenzione
Europea di estradizione, nel caso in cui l’estradando, in pen‑
denza dell’impugnazione, sia stato effettivamente consegnato
allo Stato richiedente.
Non va sottaciuto, prosegue la Corte che la cautela perso‑
nale adottata nell’ambito della procedura di estradizione
passiva è finalizzata essenzialmente a soddisfare l’esigenza di
scongiurare il pericolo di fuga dell’estradando, per garantirne
la consegna allo Stato richiedente. E’ pur vero, come già han‑
no avuto modo di statuire precedentemente le Sezioni unite
(sentenza 28 maggio 2003, n. 26156, Di Filippo), che l’esau‑
rimento della fase giurisdizionale del procedimento di estra‑
dizione, conclusosi con sentenza irrevocabile favorevole
all’estradabilità del soggetto sottoposto a misura coercitiva,
non preclude il controllo giurisdizionale sulla richiesta di re‑
voca o di sostituzione o di inefficacia della misura medesima,
se detta richiesta è fondata su profili evidenziatisi soltanto
nella fase amministrativa e non attinenti alla sussistenza del‑
le condizioni, già accertate in via definitiva, per la concedibi‑
lità dell’estradizione, ma è anche vero che, ove, in esecuzione
del decreto ministeriale di estradizione, sia avvenuta di fatto
la consegna della persona allo Stato richiedente, viene meno
l’interesse alla definizione del procedimento de libertate, che,
avendo natura incidentale rispetto a quello di estradizione ed
essendo funzionale all’obiettivo da quest’ultimo perseguito,
non ha più ragion d’essere, per avere comunque assolto, in via
definitiva, la sua funzione strumentale alla consegna della
persona richiesta, uscita ormai dal campo di operatività della
giurisdizione dello Stato italiano, che non è più in grado di
incidere sullo status libertatis del medesimo soggetto.
Né, in tale ipotesi, l’interesse all’impugnazione della mi‑
sura custodiale sofferta a fini estradizionali può essere ravvi‑
sato nella prospettiva dell’esercizio del diritto alla riparazione
per ingiusta detenzione.
In conclusione la Suprema Corte pronunciava i seguenti
principi di diritto: «nell’ambito del procedimento di estradizione per l’estero, l’intervenuta consegna allo Stato richiedente della persona reclamata comporta l’inammissibilità,
penale
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per sopraggiunta carenza d’interesse, dell’impugna- zione
proposta dalla medesima persona contro il provvedimento
di rigetto della richiesta di revoca o di inefficacia della misura cautelare coercitiva disposta a suo carico nel corso dello
stesso procedimento, stante la natura incidentale della quaestio libertatis rispetto alla procedura di estradizione e avendo la cautela personale esaurito la sua funzione strumentale
alla consegna»;
ed ancora:
«nell’ipotesi considerata, l’interesse all’impugnazione del
provvedimento sulla libertà personale adottato a fini estradizionali non può essere ravvisato neppure nella prospettiva
di ottenere la riparazione per ingiusta detenzione, in quanto
il conseguimento di tale obiettivo è incompatibile con la
pronuncia della sentenza - irrevocabile - favorevole all’estradizione».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 15
febbraio 2012, (ud.27 ottobre 2011), n. 5859
Recidiva in caso di estinzione della pena pregressa per esito positivo dell’affidamento in prova
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimes‑
so alle Sezioni unite può così essere enunciata «se l’estinzione di
ogni effetto penale prevista dall’art. 47, comma 12, Ord. Pen.,
in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova al
servizio sociale, comporti che della relativa condanna non
possa tenersi conto agli effetti della recidiva».
Un primo indirizzo riteneva che l’effetto estintivo di cui
all’art. 47, comma 12, Ord. Pen., non comportando la cancella‑
zione della iscrizione della condanna nel casellario giudiziale (in
cui anzi deve essere inserita anche la menzione dell’esito dell’af‑
fidamento in prova), non impediva alla sentenza di condanna di
dispiegare i suoi effetti ai fini della rilevanza della recidiva;
tanto più, si osservava, che l’effetto estintivo era “rapportato
alla sola pena detentiva e non anche a quella pecuniaria” e che
la disposizione in esame si riferiva genericamente “ad ogni altro
effetto penale (...) non avendo riguardo specificamente agli ef‑
fetti penali della condanna (a differenza di quanto risulta invece
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dalla lettera dell’art. 178 c.p. sulla riabilitazione)” (sez. VI, sen‑
tenza 06 maggio 2004, n. 26093, Tomasoni, Rv. 229745; e, in
termini analoghi, sez. VI, sentenza 14 maggio 2004, n. 28378,
Orsini, Rv. 229593).
A tale orientamento se ne contrappone un altro, secondo il
quale l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena de‑
tentiva ed ogni altro effetto penale, diviene operante la disposi‑
zione di cui all’art. 106 c.p., comma 2, “in base alla quale non
si tiene conto, agli effetti della recidiva, delle condanne per le
quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena,
qualora (...) estingua anche gli effetti penali” (sez. IV, sentenza
22 marzo 2007, n. 14513, Crestaz.; sez. III, sentenza 13 maggio
2010, n. 27689, R., Rv. 247925).
L’analisi del Supremo Consesso premetteva che l’art. 47,
comma 12, Ord. Pen., nella sua originaria formulazione, così
recitava: “L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena
e ogni altro effetto penale”. La norma era stata interpretata
dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (tra cui sez. un, 27
settembre 1995, n. 27, Sessa, Rv. 202272) nel senso che l’effetto
estintivo ivi previsto era riferibile alla sola pena detentiva (dato
che ad essa si riferiva tutta la disciplina e la ratio dell’istituto) e
una questione di costituzionalità proposta da un giudice di
merito che sosteneva la riferibilità della previsione alla intera
pena, sia detentiva sia pecuniaria, venne dichiarata manifesta‑
mente inammissibile dalla Corte cost. con ord. n. 410 del 1994,
in quanto devolutiva di questione meramente interpretativa.
Intervenne quindi il legislatore con il d.l. 30 dicembre 2005,
n. 272, conv. dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49, così riformulan‑
do la norma: “L’esito positivo del periodo di prova estingue la
pena detentiva ed ogni altro effetto penale. Il tribunale di
sorveglianza, qualora l’interessato si trovi in disagiate condi‑
zioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecu‑
niaria che non sia stata già riscossa”. Veniva così in sostanza
convalidata in via normativa la linea giurisprudenziale della
Corte di cassazione, ma al contempo era prevista la declara‑
toria di estinzione della pena pecuniaria per il condannato che
versi in disagiate condizioni economiche.
Ne deriva, conclusivamente, per le sez. un. la pronuncia
del seguente principio di diritto: «l’estinzione di ogni effetto
penale prevista dall’art. 47, comma 12, Ord. Pen., in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizio
sociale (al servizio sociale), comporta che della relativa condanna non possa tenersi conto agli effetti della recidiva».
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Rassegna di legittimità
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A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
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Esecuzione - In genere - Spese processuali - Vincolo di solidarietà
- Successione di leggi nel tempo - Contestazioni fatte al riguardo
dal condannato - Attribuzione al giudice dell’esecuzione penale Sussistenza.
La questione relativa alla persistenza, a seguito dell’abrogazione dell’art. 535, comma secondo, c.p.p., del vincolo di
solidarietà della condanna alle spese del procedimento penale, in tal senso già emessa, rientra nelle attribuzioni del giudice dell’esecuzione penale.
Cass., sez. un., sentenza 29 settembre 2011, n. 491 (dep. 12 gennaio 2012) Rv. 251266
Pres. Lupo, Est. Cortese, Imp. Pislor, P.M. Spinaci (Conf.)
(Rigetta, App. Milano, 04 maggio 2010)
Esecuzione - In genere - Spese processuali - Vincolo di solidarietà
- Successione di leggi nel tempo - Rilevanza preclusiva dell’art. 2,
comma quarto, c.p. - Sussistenza.
L’esclusione del vincolo di solidarietà conseguente all’abrogazione dell’art. 535, comma secondo, c.p.p., non ha effetto
sulle statuizioni di condanna alle spese emesse anteriormente
in tal senso e passate in giudicato, e ciò non per la natura
processuale della suddetta disposizione abrogatrice, cui va
invece riconosciuta natura di norma sostanziale, bensì in
forza della preclusione di cui all’ultimo inciso del comma
quarto dell’art. 2 c.p.
Cass., sez. un., sentenza 29 settembre 2011, n. 491 (dep. 12 gennaio 2012) Rv. 251267
Pres. Lupo, Est. Cortese, Imp. Pislor, P.M. Spinaci (Conf.)
(Rigetta, App. Milano, 04 maggio 2010)
Impugnazioni - Appello - Decisioni in camera di consiglio - Impedimento dell’imputato - Richiesta di partecipazione - Forme di
manifestazione - “Facta concludentia” - Sufficienza.
Nel giudizio d’appello avverso la sentenza pronunciata
all’esito del rito abbreviato la richiesta di partecipazione da
parte dell’imputato impedito può essere tratta anche da “facta
concludentia” da cui possa desumersi la sua inequivoca manifestazione di volontà di comparire all’udienza camerale.
Cass., sez. un., sentenza 27 ottobre 2011, n. 4694
(dep. 07 febbraio 2012) Rv. 251272
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Casani ed altri, P.M. Ciani (Parz.
Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Roma, 16 ottobre 2007)
Impugnazioni - Cassazione - Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Prescrizione del reato prima della sentenza d’appello - Ricorso proposto esclusivamente al fine di dedurre la causa estintiva - Ammissibilità.
È ammissibile il ricorso per cassazione proposto all’esclusivo fine di dedurre la prescrizione del reato maturata prima
della pronunzia della sentenza impugnata e non rilevata dal
giudice d’appello. (Fattispecie in cui la prescrizione si era compiuta oltre sei anni prima dell’inizio del giudizio d’appello).
Cass., sez. V, sentenza 11 luglio 2011, n. 47024
(dep. 20 dicembre 2011) Rv. 251209
Pres. Amato, Est. Fumo, Imp. Varone, P.M. Fraticelli (Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Reggio Calabria, 24 giugno 2010)
Imputabilità - In genere (capacità di intendere e di volere) - Rapporti con il dolo - Autonomia delle nozioni - Fondamento.
penale
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Il riconoscimento della diminuente del vizio parziale di
mente è pienamente compatibile con la sussistenza del dolo,
poiché l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere,
e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito,
costituiscono nozioni autonome ed operanti su piani diversi,
sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto
alla seconda.
Cass., sez. VI, sentenza 13 ottobre 2011, n. 47379
(dep. 20 dicembre 2011) Rv. 251183
Pres. De Roberto, Est. Calvanese, Imp. Dall’Oglio, P.M.
D’Angelo (Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Venezia, 25 novembre 2009)
Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Giudice competente - Provvedimento emesso da giudice incompetente ex art.
27 c.p.p. - Successivo provvedimento emesso nei termini da giudice competente - Effetti sostitutivi - Conseguenze in tema di riesame - Indicazione.
Il provvedimento di custodia cautelare adottato dal G.i.p.
che, contestualmente, si dichiari incompetente viene sostituito, a tutti gli effetti, dall’ordinanza pronunciata tempestivamente dal giudice competente, ossia entro il termine di venti
giorni previsto dall’art. 27 c.p.p. Ne consegue che la decisione
del tribunale del riesame avente ad oggetto l’ordinanza emessa dal giudice incompetente non ha alcuna incidenza sullo
“status libertatis” dell’imputato, che trova la propria regolamentazione unicamente nel provvedimento pronunciato dal
giudice competente, di talché alla prima ordinanza cautelare
non può essere riconosciuta alcuna efficacia preclusiva.
Cass., sez. VI, sentenza 26 settembre 2011, n. 45909 (dep. 09 dicembre 2011) Rv. 251180
Pres. Mannino, Est. Rotundo, Imp. Platone e altri. P.M. Maz‑
zotta (Conf.)
(Dichiara inammissibile, Trib. Bologna, 02 aprile 2011)
Previdenza e assistenza (Assicurazioni sociali) - Contributi - Reato
di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali
- Assenza di contestazione e di notifica dell’avvenuto accertamento della violazione - Notifica del decreto di citazione a giudizio Rilevanza ai fini della decorrenza del termine di tre mesi per
provvedere alla regolarizzazione - Condizioni.
In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, ai fini della causa di non punibilità del pagamento tempestivo di quanto dovuto, il decreto di citazione
a giudizio è equivalente alla notifica dell’avviso di accertamento solo se, al pari di qualsiasi altro atto processuale indirizzato all’imputato, contenga gli elementi essenziali del
predetto avviso, costituiti dall’indicazione del periodo di
omesso versamento e dell’importo, la indicazione della sede
dell’ente presso cui effettuare il versamento entro il termine
di tre mesi concesso dalla legge e l’avviso che il pagamento
consente di fruire della causa di non punibilità.
Cass., sez. un., sentenza 24 novembre 2011, n. 1855
(dep. 18 gennaio 2012) Rv. 251268
Pres. Lupo, Est. Lombardi, Imp. Sodde, P.M. Fedeli (Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Cagliari, 03 novembre 2010)
Reati contro il patrimonio - Delitti - Appropriazione indebita Fattispecie - Mandato - Mandato a vendere - Mandatario che si
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appropria della somma ricavata dall’adempimento del mandato
- Reato - Sussistenza.
Commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, dopo aver adempiuto il mandato a vendere, trattenga definitivamente la somma ricavata dalla vendita invece di rimetterla al mandante.
Cass., sez. II, sentenza 29 novembre 2011, n. 46586
(dep. 15 dicembre 2011) Rv. 251221
Pres. Sirena, Est. Rago, Imp. P.G. e P.C. in proc. Semenzato e
altro, P.M. Delehaye (Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Milano, 11 marzo 2011)
Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - In genere - Accesso abusivo ad un sistema
informatico - Abuso di qualità - Reato autonomo - Esclusione Circostanza aggravante - Sussistenza.
La fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce
una circostanza aggravante del delitto previsto dall’art. 615
ter, comma primo, c.p. e non un’ipotesi autonoma di reato.
Cass., sez. un., sentenza 27 ottobre 2011, n. 4694
(dep. 07 febbraio 2012) Rv. 251270
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Casani ed altri, P.M. Ciani (Parz.
Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Roma, 16 ottobre 2007)
Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violazione di domicilio - In genere - Accesso abusivo ad un sistema informatico - Soggetto autorizzato - Reato - Sussistenza - Condizioni.
Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p. colui che,
pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema
informatico o telematico protetto violando le condizioni ed
i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite
dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza
del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente
motivato l’ingresso nel sistema.
Cass., sez. un., sentenza 27 ottobre 2011, n. 4694
(dep. 07 febbraio 2012) Rv. 251269
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Casani ed altri, P.M. Ciani (Parz.
Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Roma, 16 ottobre 2007)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - Rivelazione di segreti di ufficio - Reato di pericolo concreto - Sussistenza.
Il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio riveste natura
di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto nel
senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé
e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a
mezzo della notizia da tenere segreta.
Cass., sez. un., sentenza 27 ottobre 2011, n. 4694
(dep. 07 febbraio 2012) Rv. 251271
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Casani ed altri, P.M. Ciani (Parz.
Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Roma, 16 ottobre 2007)
Reati contro l’ordine pubblico - Contravvenzioni - Concernenti
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l’inosservanza dei provvedimenti di polizia - Esercizio abusivo
dell’attività di parcheggiatore - Reato - Esclusione - Illecito amministrativo - Sussistenza.
L’esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore integra
l’illecito amministrativo previsto dall’art. 7, comma quindicesimo-bis, c.d.s., e non il reato di inosservanza dei provvedimenti
dell’autorità previsto dall’art. 650 c.p., stante l’operatività del
principio di specialità di cui all’art. 9 della l. n. 689 del 1981.
Cass., sez. I, sentenza 6 dicembre 2011, n. 47886
(dep. 22 dicembre 2011) Rv. 251184
Pres. Giordano, Est. Caprioglio, Imp. Srioua, P.M. Aniello
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, Trib. Salerno, 02 luglio 2010)
Reati fallimentari – Bancarotta fraudolenta – In genere - Bancarotta per dissipazione - Consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti - Differenze.
La fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione
si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti,
sotto il profilo oggettivo, per l’incoerenza, nella prospettiva
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delle esigenze dell’impresa, delle operazioni poste in essere e,
sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell’autore
della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per
scopi del tutto estranei alla medesima.
Cass., sez. V, sentenza 19 ottobre 2011, n. 47040
(dep. 20 dicembre 2011) Rv. 251218
Pres. Fumo, Est. Zaza, Imp. Presutti, P.M. Volpe (Diff.)
(Annulla con rinvio, App. Firenze, 30 novembre 2009)
Reo – Concorso di persone nel reato - Circostanze attenuanti –
Partecipazione di minima importanza al reato - Reato di rapina Ruolo del palo - Riconoscibilità dell’attenuante - Esclusione.
Non è riconoscibile la circostanza della partecipazione di
minima importanza a colui che, nel corso di una rapina, abbia
ricoperto il ruolo di “palo” e, successivamente, si sia posto
alla guida della vettura utilizzata dai rapinatori per la fuga.
Cass., sez. II, sentenza 29 novembre 2011, n. 46588
(dep. 15 dicembre 2011) Rv. 251223
Pres. Sirena, Est. Rago, Imputato: Eraky El Sayed e altro, P.M.
Delehaye (Diff.)
(Rigetta, App. Milano, 02/03/2011)
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DIRITTO PENALE
Rassegna di merito
e
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Giuseppina Marotta
Avvocato
Associazione per delinquere: attività illecita dei singoli partecipi
– Scopo e finalità associativa – Esclusione – Configurabilità di
scopi puramente individuali
(art. 416 c.p.)
Un contesto illecito non è automaticamente un contesto
illecito di tipo organizzato, non potendosi assumere come
corollario che qualsivoglia attività facente capo a soggetti
inseriti in una compagine associativa ovvero gravitanti attorno alla stessa sia per ciò solo un’attività da ascrivere a quelle
funzionali all’organizzazione, dovendo anche questa circostanza essere oggetto di prova rigorosa. Ne discende che, ad
esempio, seppure da alcune conversazioni sia lecito dedurre
che verosimilmente si parli di denaro oggetto di contrattazione usuraria, ciò non significa che detta attività sia automaticamente funzionale agli scopi dell’organizzazione, perché
altrettanto plausibile, in termini teorici, è che dei soggetti che
fanno parte di un’organizzazione criminale possano dedicarsi per scopi puramente individuali ad attività criminose che
non rientrano negli scopi strutturali dell’organizzazione.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Associazione per delinquere: circostanze aggravanti del metodo
mafioso – Forme e caratteristiche
(art. 7 l. 203/91)
L’art. 7 legge 203/91 ha previsto un’aggravante ad effetto
speciale che prevede un aumento di pena da un terzo alla
metà per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art 416
bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività
delle associazioni previste dallo stesso articolo. Si tratta di
un’espressione articolata che individua sostanzialmente - due
forme di aggravante, tra loro equiparate quanto agli effetti.
La prima ricorre allorquando gli agenti, pur senza essere
partecipi o concorrere in reati associativi. delinquono con
metodo mafioso ponendo in essere una condotta idonea ad
esercitare una particolare coazione psicologica con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’ organizzazione
criminale. La seconda, quella cioè dell’agevolazione, postula,
invece, che il reato sia commesso al fine specifico di favorire
l’attività dell’associazione di tipo mafioso. Il dolo specifico è
pertanto richiesto solo in questo caso e non anche nella prima
ipotesi, relativa all’utilizzo del metodo mafioso.
Tribunale Nola coll. B)
sentenza 13 gennaio 2012, n. 95
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Associazione per delinquere: connivenza e compartecipazione
criminosa – Differenze – Limiti
(art. 416 c.p.)
Non può, ritenersi che attraverso la norma penale si
possano colpire quelle zone opache di vicinanza ai fenomeni
criminosi che, pur essendo riprovevoli sul piano etico e sociale, non si traducono in un evidente e specifico contributo
alla vita dell’associazione ma rappresentano, piuttosto, una
condivisione di sistemi di vita basati su regole sociali alternative, stratificatesi in una evoluzione delle relazioni inter-
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personali e familiari secondo modalità e modelli alternativi
ed impermeabili alle regole dello Stato. Non possono, cioè,
attraverso la norma penale, essere inquadrati come reati
quelle che sono essenzialmente manifestazioni di mentalità
ed atteggiamenti, per quanto riprovevoli essi siano, dovendosi, piuttosto, operare sul piano della prevenzione da un
lato e, dall’altro, sul piano della introduzione, evidentemente attraverso canali diversi da quello rappresentato dalla
sola norma penale, dei modelli e delle categorie relazionali
di riferimento consensualmente accettate dalla maggioranza
dei cittadini facenti parte di una comunità statale in un determinato momento storico. Né, conseguentemente, sul
piano probatorio, può confondersi il piano della connivenza
con quello della compartecipazione criminosa, attribuendosi rango di prova a circostanze di per sé ambigue, concretantesi non in condotte significative ma in frasi ed affermazioni
colloquiali variamente interpretabili, soprattutto se dette
frasi ed affermazioni non si accompagnano ad ulteriori elementi che ne possano integrare univocamente il significato.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Colpa - Infortuni sul lavoro: ambito di applicazione della normativa antinfortunistica
(art. 42 c.p.)
La tutela penale apprestata dalla normativa antinfortunistica concerne la sicurezza del lavoratore durante l’attività
lavorativa nell’ambiente di lavoro, sia nel settore pubblico
che nel settore privato, sia per i lavoratori subordinati che
per quelli autonomi, con un’estensione di obblighi per i titolari di cantieri, opifici, imprese anche verso chiunque acceda
a tali impianti, stante il dovere di non esporre alcuno ai rischi
generici o ambientali derivati dalla attività del soggetto gravato per legge, per contratto o per assunzione di fatto dalla
obbligazione di garanzia (cfr. in tal senso Cass. pen., sez 4°
sentenza 14.07.2006 n. 30587). Quindi, anche il privato
committente, proprietario di un immobile, che affidi lavori
edili in economia ad un lavoratore autonomo, assume la
posizione di garanzia dalla quale deriva per il predetto committente l’obbligo di imporre i dispositivi di sicurezza previsti
per i lavoratori subordinati al lavoratore autonomo e di verificarne l’utilizzo effettivo, nonché l’obbligo di verificare la
professionalità ed idoneità tecnica del lavoratore medesimo
(cfr. Cass. pen. sez.4° sentenza 9.07.2010 n. 42465).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa - Infortuni sul lavoro: appalti – Obblighi e doveri del committente
(art. 42 c.p.)
In materia di infortuni sul lavoro, nel caso di appalto di
lavori di ristrutturazione edilizia il committente, anche quando non si ingerisce nella loro esecuzione, rimane comunque
obbligato a verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione ai lavori
affidati. In altri termini, il committente di lavori dati in appalto deve adeguare la sua condotta a due fondamentali regole di
diligenza e prudenza: a) scegliere l’appaltatore e più in genere
il soggetto al quale affida l’incarico, accertando che la persona,
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alla quale si rivolge, sia non soltanto munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e
professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della
stessa; b) non ingerirsi nella esecuzione dei lavori.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa - Infortuni sul lavoro: assenza di misure di prevenzione –
Responsabilità del datore di lavoro – Sussistenza
(art. 42 c.p.)
Qualora l’infortunio sia derivato dall’assenza o inidoneità delle relative misure di prevenzione, la responsabilità del
datore di lavoro non è esclusa dal comportamento di altri
destinatari degli obblighi di prevenzione che abbiano a loro
volta dato occasione all’evento, quando quest’ultimo risulti
comunque riconducibile alla mancanza od insufficienza delle predette misure e si accerti che le stesse, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del verificarsi di quell’evento (cfr.
sentenza sez.4 nr.43966 del 06/11/2009 Imputato: Morelli).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo,
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa - Infortuni sul lavorio: comportamento anomalo del lavoratore – Esimente per dirigente – Esclusione
(art. 42 c.p.)
L’eventuale colpa concorrente dei lavoratori non può
tuttavia spiegare alcun effetto esimente per i soggetti aventi
l’obbligo di garantire la sicurezza e che si siano resi responsabili di violazioni di prescrizioni in materia antinfortunistica
(sez. 4, sentenza n. 10121 del 23/01/2007 ud. imputato: Masi e altro). Nessuna rilevanza può, dunque, assumere il comportamento del lavoratore disattento ed imperito ai fini di
escludere la responsabilità del dirigente, laddove l’infortunio
sia derivato dalla originaria mancata adozione e predisposizione delle misure di sicurezza che se attuate, sarebbero valse
a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento
anomalo del lavoratore. Secondo il costante orientamento
della Suprema Corte di legittimità, il comportamento anomalo del lavoratore può acquisire valore di causa sopravvenuta
da sola sufficiente a cagionare l’evento solo quando sia assolutamente estraneo al processo produttivo ovvero alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento esorbitante e del tutto imprevedibile ed abnorme rispetto al lavoro
posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile
intervento e prevedibile scelta del lavoratore. Viceversa, laddove detto comportamento, ancorché avventato, disattento o
imprudente sia stato posto in essere nel contesto dell’attività
lavorativa svolta, non può ritenersi eccezionale ed imprevedibile e, dunque, non esime il datore di lavoro da responsabilità
(Cass. pen., sez. IV, sent. 8/04/1993 n.3495; Cass. pen., sez.
IV, sent. 23/06/2005 n. 38850 ric. Minotti+altri; Cass. pen.,
sez. IV, sent. 29/01/2007 n.16422 ric. Di Vincenzo).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa – Infortuni sul lavoro: obbligo di vigilanza del datore di lavoro – Limiti
(art. 42 c.p.)
L’obbligo di vigilanza che incombe sul datore di lavoro,
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dirigente e preposto non può dilatarsi sino al punto di imporre una presenza continua sul luogo di lavoro ed una sorveglianza costante del lavoratore, né si estende fino al dovere di
impedire eventi lesivi dipendenti da comportamenti anomali,
imprevedibili o eccezionali posti in essere dal lavoratore subordinato, in violazione degli ordini e direttive ricevute che
interrompono il nesso di causalità. Né gli obblighi di vigilanza e di controllo che gravano sul datore di lavoro vengono
meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui sono demandati dalla legge compiti
diversi intesi ad individuare i fattori di rischio, ad elaborare
le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza
relative alle varie attività aziendali (cfr. sez. 4, sentenza n.
27420 del 20/05/2008 Imputato: Verderosa e altro).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa: criteri di accertamento – Nesso di causalità – Necessità
(art. 40 c.p.)
L’accertamento giudiziale della responsabilità colposa richiede, dunque, la verifica della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta e l’evento lesivo (art.40 c.p.) nel senso
che quest’ultimo deve essere stato determinato dall’azione od
omissione quale sua diretta conseguenza sulla base del criterio
della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. In altri termini,
occorre accertare sulla base di una ricostruzione logica se,
laddove l’azione posta in essere non fosse stata realizzata,
l’evento lesivo non si sarebbe verificato ovvero, nella causalità omissiva, se l’azione doverosa omessa avrebbe impedito il
verificarsi dell’evento lesivo (causalità normativa). Va poi
evidenziato che, nel caso di concorso di più cause ciascuna
idonea e sufficiente in modo autonomo a produrre l’evento,
per il principio riconosciuto dall’ordinamento della equivalenza delle cause concorrenti (art.41 c.p.), il nesso di causalità
può essere escluso solo se interferisca nel processo causale un
fattore autonomo, eccezionale, atipico ed imprevedibile e,
come tale, assorbente rispetto alla incidenza delle altre cause
e della condotta dell’agente da considerarsi tamquam non esset
(cfr. Cass. pen., sez. V, sent. 15/05/1991 n. 5249 Rossini).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Colpa: infortuni sul lavoro - Colpa dei dirigenti e preposti – Prevenzione rischi – Doveri – Sussistenza
(art. 42 c.p.)
Gli obblighi che incombono sui dirigenti e preposti, ciascuno per le rispettive qualità e competenze, per giurisprudenza pacifica, non si esauriscono nel potere-dovere di impartire direttive, di predisporre mezzi di sicurezza ed adottare misure di prevenzione idonee a prevenire i rischi di eventi
lesivi, ma si estendono altresì al dovere di informare i dipendenti dei rischi connessi all’attività lavorativa ed all’ambiente di lavoro, nonché al dovere di vigilare sull’effettivo utilizzo
dei mezzi protettivi e sulla puntuale attuazione da parte del
lavoratore delle misure di sicurezza nonché e di esigerne il
rispetto e l’osservanza anche contro la sua stessa volontà (cfr.
tra le altre Cass. pen. sez. IV 3/06/1995 n. 6486; Cass. pen.
sez. IV 30/05/1991 n.5835).
Tribunale Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
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Colpa medica: accertamento della responsabilità – Opportunità
di disporre perizia
(art. 42 c.p.)
La scienza medica non è certamente una scienza esatta e
che i consulenti, in quanto professionisti, indipendentemente da loro ruolo di consulenti del p.m., della parte civile o
dell’imputato, devono essere considerati tecnicamente credibili, a meno di non avere specifiche ragioni, per ritenere che
le loro valutazioni tecniche siano assolutamente contrastanti con le conoscenze comunemente accettate nel loro specifico professionale. Ne deriva che, di fronte a valutazioni ed a
spiegazioni medico – specialistiche spesso non del tutto comprensibili ad un non esperto del campo, soprattutto allorquando si scende in dettagli tecnici difficilmente valutabili
appieno da parte di un giurista, regola di buon senso imporrebbe di disporre una perizia in dibattimento per poter verificare la possibilità di ottenere un quadro ricostruttivo che
costituisca una sintesi delle più o meno apparentemente diverse conclusioni cui sono giunti i consulenti di parte. Ciò in
quanto il giudice, al di là del suo essere in astratto peritus
peritorum, mediamente non dispone di cognizioni tecniche
così specialistiche da consentirgli in piena consapevolezza di
valutare le determinazioni di consulenti di parti processualmente contrapposte, con la conseguenza che nella pratica si
finisce, in molti casi, per aderire fideisticamente quanto
immotivatamente alle conclusioni degli esperti di una delle
parti, con conseguenze facilmente intuibili sulla solidità della motivazione; mentre il ricorso alla perizia dibattimentale,
strumento previsto dal codice di rito, certamente non attribuisce al giudicante delle competenze maggiori rispetto a
discipline specialistiche del tutto eccentriche rispetto al suo
sapere, ma gli consente di poter fare affidamento con maggiore certezza sulle conclusioni di specialisti che non rappresentano alcuna parte.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: nesso causale – Accertamento – Criteri
(art. 42 c.p.)
La necessità di individuare il nesso causale in termini di
certezza, ovviamente non la certezza oggettiva risultante da
elementi inconfutabili sul piano della oggettività storica e
scientifica, ma la certezza processuale cui può pervenirsi attraverso la valorizzazione degli elementi del caso in esame, secondo i criteri logici imposti dalla valutazione della prova indiziaria ex art. 192 c.p.p.; altrettanto evidentemente l’insufficienza
o la contraddittorietà del riscontro probatorio sul nesso causale, ovvero, in altre parole, il ragionevole dubbio sulla reale
efficacia condizionante della condotta omissiva del medico
rispetto ad altri fattori interagenti, ovvero fattori alternativi,
comportano la neutralizzazione dell’ipotesi accusatoria.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2012, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: nesso causale – Reati omissivi – Criteri di valutazione
(art. 42 c.p.)
Il percorso valutativo che il giudice deve compiere, in ogni
caso, non impone però, sia chiaro, la necessità che venga
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raggiunto un convincimento di colpevolezza e, quindi, di
sussistenza del nesso di causalità solo quando si possa escludere ogni tipo di dubbio, anche il più remoto o immaginario
che sia, ovvero un dubbio meramente ipotetico e teorico, di
tipo speculativo. Sempre in relazione all’aspetto del nesso di
causalità, infatti, va osservato come attualmente si tenda a
far maggiormente leva sull’aspetto della causalità piuttosto
che su quello della colpa ovvero della rimproverabilità del
comportamento, soprattutto in relazione alla causalità per
reati omissivi, e ciò perché in campo medico, maggiormente,
la causalità presenta ampi margini di incertezza.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: prevedibilità dell’evento – Criteri di accertamento
(art. 42 c.p.)
La responsabilità penale per colpa postula, oltre alla
sussistenza di una condotta violatrice di regole cautelari,
anche la prevedibilità ex ante dell’evento, in quanto riconducibile al novero di quelli che le stesse regole cautelari mirano
a prevenire” (Cassazione penale, sez. IV, 1 ottobre 2008, n.
39882, Zocco). In detta sentenza la S.C. ha specificato che
“nei reati colposi la causalità dell’azione (o dell’omissione)
che ha condizionato l’evento va esclusa non soltanto qualora
risulti, con valutazione ex post, che sopravvenute concause
qualificate siano state da sole sufficienti a determinare l’evento (come prevede l’art. 41, comma 2, c.p.), ma anche qualora
l’evento non sia ex ante prevedibile. Sotto quest’ultimo profilo, l’individualizzazione della responsabilità penale impone
di verificare non soltanto se la condotta colposa abbia concorso a determinare l’evento, ma se l’autore della stessa, o
l’uomo di media consapevolezza, potesse prevedere quello
specifico sviluppo causale. Ed in tal senso la violazione della
regola cautelare non è sufficiente; occorra altresì chiedersi se
l’evento derivatone (per quanto riguarda l’omicidio colposo,
la morte per come verificatasi hic et nunc) rappresenti o meno la concretizzazione del rischio che la regola stessa mirava
a prevenire (cfr. Sez. IV, 18 marzo 2004, Fatuzzo). Si impone,
pertanto, una valutazione di prevedibilità o imprevedibilità
dell’evento per stabilire se quello concretamente verificatosi
sia, come afferma autorevole dottrina ‘tipico’. L’inosservanza delle regole cautelari può, invero, dare luogo ad una responsabilità colposa soltanto per gli eventi che le regole
stesse mirano ad evitare. La regola cautelare può, dunque,
concretizzarsi nei confronti dell’evento soltanto qualora
l’evento sia prevedibile ex ante“.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: responsabilità omissiva -Accertamento – Valutazione di dati scientifici – Limiti
(art. 42 c.p.)
L’accertamento della responsabilità omissiva in campo
medico, deve concentrarsi non tanto e, soprattutto, non
unicamente sulla spiegazione causale scientifica,ma soprattutto sulla corroborazione logica che emerge dall’istruttoria
dibattimentale rispetto alla regola scientifica evidenziata. Ciò
perché il progresso scientifico e la poliedricità e rilevanza
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degli interessi coinvolti hanno determinato un processo di
standardizzazione della regola cautelare, nel senso che proprio l’alto grado di tecnicismo di molte attività professionali,
esclude che l’individuazione della regola cautelare possa essere affidata unicamente o prevalentemente all’ elaborazione
individuale e soggettiva del medico operante, cha magari fida
su una personale esperienza, reale o presunta.
Proprio per questa ragione, in relazione a molte attività
rilevanti per il tipo di interessi su cui esse vanno ad incidere,
sono state da tempo elaborate regole cautelari generali, come
quelle evincibili, in relazione alle specifiche attività mediche,
nell’elaborazione di protocolli e di linee guida provenienti da
organismi tecnici di settore. E’ ovvio che la standardizzazione delle regole tecniche non si deve tradurre in automatismo,
nel senso di ritenere sussistente la colpa tutte le volte in cui
vi sia stata la violazione della regola cautelare, posto che la
condotta medica è, di per sé, ontologicamente mutevole,
dovendosi adattare alle esigenze del caso concreto, che spesso sfuggono ad ogni tipo di standardizzazione.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: violazione di regole comportamentali inserite
nelle indicazioni per il taglio cesare dettate dalla Regione Campania – Responsabilità – Sussistenza
(art. 42 c.p.)
La condotta del medico ginecologo che, in violazione di norme comportamentali dettate in tema di taglio cesareo, ha
effettuato le rilevazioni del battito cardiaco fetale con intervalli estremamente lunghi, deve ritenersi negligente ed imprudente stante la metodologia usata (rectius, non usata) per
controllare la presenza e la permanenza nonché le condizioni
del battito cardiaco fetale e, quindi, le condizioni di benessere del feto, non essendo egli ricorso al tracciato cardiotocografico costante né avendo praticato un controllo che, se
anche praticato con gli strumenti tradizionali, avrebbe dovuto essere praticato con modalità del tutto diverse. Ed infatti
in virtù delle “Indicazioni per il taglio cesareo” della Regione
Campania nella parte in cui si occupano del controllo del
benessere fetale in travaglio di parto – si rileva che “lo scopo
di monitorare il benessere fetale in travaglio di parto attivo è
quello di identificare precocemente l’ipossia per prevenire
l’asfissia…..le evidenze sembrano indicare ancora estremamente attuale ed affidabile il monitoraggio del battito cardiaco fetale con la metodica tradizionale dell’ascoltazione intermittente mediante stetoscopio di Pinard o strumento doppler,
ogni 30 minuti durante la fase attiva del periodo dilatante ed
ogni 15 minuti nel periodo espulsivo”. Quanto il comportamento concreto tenuto dal dott. Rullo si fosse discostato da
dette regole comportamentali appare evidente dalla lettura
della cartella clinica, in cui, come in precedenza visto.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa medica: violazione regola cautelare – Conseguenze – Criteri di valutazione della responsabilità
(art. 42 c.p.)
E’necessaria l’accurata considerazione del profilo di rim-
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proverabilità soggettiva della violazione della regola cautelare, dovendosi, quindi, valutare con attenzione ed in maniera approfondita anche le condizioni concrete e soggettive in
cui il medico ha operato, soprattutto a fronte di un errore di
tipo valutativo ed esecutivo, come appare essere quello relativo al caso di specie. L’errore valutativo deve essere considerato tenendo presente la differente condizione in cui si trovano, rispettivamente, il medico ex ante - nell’immediatezza
della necessità di operare determinate scelte a fronte della
specificità del caso concreto - ed il perito ex post, allorquando è chiamato ad accertare la violazione della regola comportamentale. Ne consegue che l’errore di valutazione, per
essere penalmente rilevante, deve essere espressione concreta
di un atteggiamento di superficialità in relazione alle emergenze del caso concreto e non limitarsi ad una constatazione
della violazione della regola cautelare prescindendo dalle
circostanze concrete del fatto.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 7 dicembre 2011, n. 5762
Pres. Est. Catena
Colpa professionale: criteri di accertamento – Principio della
probabilità logica – Applicabilità
(art. 42 c.p.)
Il Giudice è tenuto a verificare la correttezza dell’operato
del soggetto che riveste per legge una posizione di “garanzìa”
e, come tale, obbligato al rispetto delle leges artis del settore,
secondo un giudizio logico ex ante (ossia collocandosi mentalmente al momento in cui la condotta è stata posta in essere, sulla base delle circostanze concrete del fatto e dell’evidenza disponibile), di talché si possa escludere l’interferenza
di fattori alternativi pregnanti e possa affermarsi con alto
grado di credibilità razionale (dunque, con una percentuale
prossima a cento), che la condotta dell’agente sia stata la
conditio sine qua non dell’evento lesivo e che il suddetto
evento lesivo non si sarebbe verificato laddove vi fosse stata
la necessaria perizia, ovverossia il rispetto da parte del “garante” delle regole cautelari stabilite dalla miglior scienza ed
esperienza del settore (il principio della “probabilità logica”
relativamente all’accertamento giudiziale del nesso di causalità è stato sancito dalla Suprema Corte in tema di colpa
professionale medica nella nota sentenza Cass. pen., sez.
unite 11/09/2002, n. 30328 Franzese).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Concorrenza illecita: nozione ed elementi costitutivi.
(art. 513 bis c.p.)
La condotta tipica consiste nel compimento di atti di
concorrenza, caratterizzati dalla violenza o minaccia, nello
esercizio di un’attività imprenditoriale nei confronti di aziende operanti nello stesso settore. La previsione non sanziona.
infatti, ogni forma di concorrenza oltre i limiti legali, ma la
turbativa arrecata al libero mercato in un clima di intimidazione e con metodi violenti. Sul punto, la giurisprudenza
della Corte di Cassazione ha chiarito che la norma tende a
impedire quei comportamenti intimidatori che attraverso
l’uso strumentale della violenza e della minaccia incidono su
quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza non solo libera, ma anche lecitamente attuata. Ai fini del
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reato, in altri termini, si richiede l’esistenza di comportamenti caratterizzati da minaccia o violenza idonei a realizzare una
concorrenza illecita, cioè a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive di terzi con forme
di intimidazione tipiche della criminalità organizzata.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 13 gennaio 2012, n. 95
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Estorsione: evento del reato – Non conseguimento del risultato
– Configurabilità del solo tentativo
(art. 56, 629 c.p.)
Se la costrizione, che deve seguire alla violenza o minaccia,
attiene all’evento del reato, l’ingiusto profitto con altrui danno
si atteggia a ulteriore evento del medesimo, sicché si ha solo
tentativo nel caso in cui la violenza o la minaccia non raggiungono il risultato di costringere una persona al ‘Tacere” ingiunto. (Cassazione penale, sez. II, 10 giugno 2008, n. 24068).
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 13 gennaio 2012, n. 95
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Estorsione: imposizione al soggetto passivo di un rapporto negoziale – Sussistenza del reato
(629 c.p.)
Sussiste una “estorsione contrattuale”, quando la lesione
patrimoniale arrecata non consiste tanto in una coartata
sottrazione di beni, quanto in una imposizione al soggetto
passivo di un rapporto negoziale non liberamente accettato:
onde, nella relativa ipotesi, l’elemento dell’ingiusto profitto
con altrui danno risiede nel fatto che il contraente-vittima
deve essere costretto al rapporto, in violazione della propria
autonomia negoziale, venendo ad essergli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme da
lui ritenute più confacenti ed opportune.
Tribunale Nola, coll. B)
sentenza 13 gennaio 2012, n. 95
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Falso ideologico commesso dal privato: domande degli aspiranti
sulla base di docenze – Sussistenza
(art. 483 c.p.)
Sussiste il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, nel caso di dichiarazione resa in apposito
modulo di previsione del bando – con espressa comminatoria
di sanzioni penali nel caso di mendaci dichiarazioni – preordinata ad introdurre un criterio selettivo delle domande degli
aspiranti sulla base dei giorni di docenza, elemento temporale che costituisce parametro di selezione ai fini dell’utile
inserimento negli elenchi istituiti ex D.M. 85/2005.
Tribunale di Napoli, G.M. Paglionico
sentenza 2 dicembre 2011, n. 16036
Frode nel commercio: condotta punibile – Tentativo - Configurabilità
(art. 515 c.p.)
L’art. 515 c.p. punisce la condotta di chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale ovvero di in uno spaccio
aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile
per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenien-
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za, quantità qualità diverse da quella dichiarata o pattuita
qualora il fatto non costituisca più grave reato. Il delitto di
frode nell’esercizio del commercio è configurabile anche se il
prodotto consegnato non sia alterato o nocivo alla salute del
consumatore, in quanto il reato è integrato dalla semplice
messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato.
E’ altresì configurabile il tentativo di frode in commercio che
non richiede l’effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita
del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o
quantità da quelle dichiarate o pattuite.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1832
Frode nel commercio: ristorazione – Consegna di cibo diverso da
quello indicato nel menù – Sussistenza del reato
(art. 515 c.p.)
Con riferimento alla detenzione in esercizi di ristorazione
di alimenti surgelati non indicati come tali nel menù, la giurisprudenza di legittimità oramai prevalente ha ritenuto
sussistente il tentativo di frode in commercio e ciò indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il
singolo avventore (cfr. sul punto Cass. pen., sez. 3, sentenza
n. 6885 del 18/11/2008 Imputato: Chen). Invero, la semplice inclusione del prodotto nell’apposita lista configura una
proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e,
come tale, rivela in sé una univoca volontà di porre in vendita il prodotto. In altri termini, la idoneità ed univoca direzione degli atti verso la consegna di cibo diverso da quello
“pattuito” -ovverosia risultante dal menù- è configurata
dalla semplice disponibilità del cibo stesso nella cucina del
ristorante, a prescindere dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1832
Ignoranza legge penali: applicabilità alle contravvenzioni – Limiti e presupposti
(art. 5 c.p.)
Anche l’ignoranza della legge penale, che di regola non
può essere invocata a norma dell’art. 5 c.p., può scusare
l’autore dell’illecito qualora sia inevitabile, e quindi incolpevole, facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, pur
se contravvenzionale. Tale condizione deve ritenersi sussistente per il cittadino comune, soprattutto se sfornito di
specifiche competenze, allorché egli abbia assolto il dovere di
conoscenza con l’ordinaria diligenza attraverso la corretta
utilizzazione dei mezzi di informazione, di indagine e di ricerca dei quali disponga (cfr. Cass. pen., sez. 1, sentenza n.
25912 del 18/12/2003 Imputato: Garzanti). Quanto alla
buona fede giuridicamente rilevante, la condotta del trasgressore deve ritenersi scusabile ed incolpevole laddove la mancata coscienza della illiceità del fatto derivi (non dalla mera
ignoranza in sé della legge penale ma) da circostanze positive
ed oggettive esterne all’agente -il quale ha comunque l’onere
di dimostrare di avere compiuto tutto quanto poteva per
osservare la norma violata- quali un comportamento concludente dell’autorità amministrativa che induca il soggetto al
convincimento della liceità del suo agire (cfr. sez. 3, sentenza
n. 46671 del 05/10/2004 Imputato: Sferlazzo; conf. sez. 3,
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sentenza n. 49910 del 04/11/2009 Imputato: Cangialosi e
altri: “La buona fede che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo ben può essere determinata da un
fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1832
Infortuni sul lavoro: obblighi del lavoratore – Necessità – Limiti
(art. 42 c.p.)
Con riferimento agli obblighi del lavoratore, l’art.6 d.P.R.
547/55 (trasfuso nell’art.5 d.lgs.626/1994) impone agli stessi lo scrupoloso utilizzo dei mezzi di protezione e l’osservanza della normativa di prevenzione e delle misure di sicurezza
disposte dal datore di lavoro, ancorché trattasi di soggetti
privi di autonomia e potere decisionale a carico dei quali
sussiste solo il dovere di attenersi fedelmente alle direttive
impartite e di osservare le regole di prevenzione. La citata
norma prevede altresì l’obbligo del lavoratore di segnalare al
dirigente o al preposto le deficienze dei dispositivi e mezzi di
protezione e le condizioni di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi, in caso di urgenza e nell’ambito delle
proprie competenze, per eliminare o ridurre i pericoli, nonché
il divieto di compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non siano di loro competenza e che possano compromettere la sicurezza dei lavoratori.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 7 febbraio 2012, n. 395
Istigazione alla corruzione: criteri di valutazione sulla idoneità
della proposta
(art. 322 c.p.)
Il Giudice di merito è tenuto, dunque, ad operare una
prudente valutazione sulla idoneità potenziale della proposta
ad indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario
al proprio dovere d’ufficio ovvero ad ometterlo onde verificare se essa possa intendersi seriamente operata e ciò alla
stregua dei complessivi elementi di fatto, considerando la
natura ed entità della controprestazione richiesta, le condizioni dell’offerente e del richiesto nonché le circostanze di
tempo e di luogo in cui l’episodio si colloca. Trattasi di indagine rimessa al prudente ragionevole apprezzamento di fatto
del giudice, insindacabile in sede di legittimità
Tribunale di Napoli, sez. I
sentenza 13 febbraio 2012, n. 2467
Pres. Occhiofino, Est. Bottillo
Istigazione alla corruzione: elementi costituti
(art. 322 c.p.)
La norma sanziona la condotta del privato che offra o
prometta denaro o altra utilità ad un pubblico ufficiale per
indurlo a compiere un atto del proprio ufficio (1° comma) o
un atto contrario al dovere d’ufficio, ovvero ad omettere o
ritardare un atto del proprio ufficio (comma 2°). Ai fini della configurabilità del reato di istigazione alla corruzione, è
sufficiente la semplice offerta o promessa, senza che sia necessario che l’offerta abbia una giustificazione, né che sia
specificata l’utilità promessa o quantificata la somma di
denaro, essendo sufficiente la prospettazione, da parte
dell’agente, dello scambio illecito. E’ però necessario che
penale
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l’offerta sia caratterizzata da adeguata serietà e concretezza
e sia idonea alla realizzazione dello scopo di induzione. In
altri termini, l’offerta deve essere in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio sì che sorga il pericolo che lo stesso accetti l’offerta
o la promessa La ratio della previsione incriminatrice è quella infatti di proteggere il retto funzionamento ed il prestigio
della P.A. contro il pericolo che coloro che ne fanno parte
possano cedere alla venalità per compiere un atto contrario
ai doveri di ufficio o per ometterlo o ritardarlo in ragione
dell’offerta o della promessa di denaro o di altra utilità.
Tribunale di Napoli, sez. I
sentenza 13 febbraio 2012, n. 2467
Pres. Occhiofino, Est. Bottillo
Istigazione alla corruzione: idoneità dell’azione – Valutazione –
Criteri
(art 322 c.p.)
L’idoneità dell’azione deve essere valutata con un giudizio
ex anteche tenga conto di una serie di fattori quali l’entità e
natura del compenso, le qualità personali del destinatario ed
ogni altra connotazione e circostanza del caso concreto. Il
delitto deve quindi escludersi se manchi l’idoneità potenziale
dell’offerta o della promessa a conseguire lo scopo perseguito
dall’autore. Pur non rilevando in sé la mera tenuità del denaro o dell’utilità offerta, è tuttavia imprescindibile, ai fini della
idoneità dell’azione, che, in ogni caso, tale offerta non si connoti per la assoluta risibilità ictu oculi del suo valore così come
la promessa non deve presentare il carattere della “ragionevole inipotizzabilità realizzativa della stessa”. In altri termini, la
proposta deve ritenersi potenzialmente inidonea ad indurre il
pubblico ufficiale ad omettere un atto del proprio ufficio, non
essendo in sé capace di “turbare” psicologicamente il pubblico
ufficiale e di far sorgere il rischio che lo stesso sia invogliato ad
accettarla proprio per l’assenza di ogni attrattiva.
Tribunale di Napoli, sez. I
sentenza 13 febbraio 2012, n. 2467
Pres. Occhiofino, Est. Bottillo
Istigazione alla corruzione: mancata accettazione – Configurabilità del tentativo – Esclusione
(art. 322 c.p.)
Ebbene le circostanze di fatto sopra esposte configurano,
sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo, il reato di
istigazione alla corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio in quanto è chiaro che l’offerta di denaro formulata
dall’imputato era diretta ad indurre i militari operanti – quindi pubblici ufficiali – ad omettere un atto del proprio ufficio
ossia la sua compiuta identificazione e la redazione degli
atti consequenziali ai reati ravvisati. In particolare al riguardo si rileva che – per costanze giurisprudenza della Suprema
Corte non è configurabile in relazione alla fattispecie in esame l’ipotesi del tentativo. Infatti “Presupposto del delitto di
cui all’art. 322 c.p. e la mancata accettazione da parte del
pubblico funzionario della offerta o della promessa fatta dal
privato. La fattispecie criminosa configura in sostanza un
tentativo di corruzione attiva che il legislatore ha elevato a
figura autonoma di reato per evitare che potessero rimanere
impuniti, per il principio sancito dall’art. 115 c.p. in ordine
alla istigazione non accolta, fatti tendenti ad insidiare il sen-
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so di rettitudine e di disinteresse che deve sempre accompagnare l’Esercizio delle pubbliche finzioni. Non è, pertanto,
configurabile il tentativo rispetto all’ipotesi criminosa di cui
all’art. 322.
Tribunale di Nola, coll. C)
sentenza 16 febbraio 2012, n. 493
Pres. Di Iorio, Est. Cervo, Napolitano
Omissione atti di ufficio: omesso deposito della relazione da
parte del consulente tecnico di ufficio – Omessa giustificazione
del reiterato ritardo – Sussistenza del reato
(art. 328 co. 2 c.p.)
La condotta posta in essere dal medico-legale incaricato
di svolgere una consulenza tecnica nell’ambito della causa
civile previdenziale, il quale, in qualità di pubblico ufficiale
nell’esercizio di una pubblica funzione, consistita nell’omettere il deposito della consulenza tecnica – atto dovuto da
compiersi senza ritardo- decorso il termine di trenta giorni
dalla richiesta formulata per iscritto dal Giudice ed omettendo di fornire altresì giustificazioni per il ritardo, integra il
reato di omissione degli atti di ufficio ai sensi del comma 2
dell’art. 328 c.p.
Tribunale di Napoli, sez. I
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
sentenza 31 gennaio 2012, n. 1458
Tentativo: desistenza attiva – Recesso – Caratteristiche e differenze
(art. 56 co. 3 c.p.)
La configurabilità della desistenza volontaria prevista
dall’alt. 56 c.p., comma 3, non può essere confusa o sovrapposta con l’ipotesi del recesso prevista dal cit. art. 56 c.p.,
comma 4. Le due ipotesi introducono invero situazioni speculari alla specifica duplice connotazione del tentativo di
reato punibile precisata dall’art. 56 c.p., comma 1, a secondo
che - nel diacronica dinamica della condotta antigiuridica non sia portata a compimento la “azione” del soggetto
agente (c.d. tentativo incompiuto) ovvero non si produca lo
specifico “evento” lesivo che perfeziona o consuma il reato
(c.d. tentativo compiuto). È dunque evidente, in base al tenore letterale delle disposizioni dell’art. 56 c.p., comma 3 e 4,
che la desistenza “volontaria” deve incidere sulla azione tipica del reato, la cui esecuzione sia stata già avviata dal soggetto (che, ove la precedesse, non sarebbe configurabile neppure
l’ipotesi di un tentativo di reato), laddove il recesso volontario
o attivo impedisce il verificarsi dell’evento (effetto storico e
giuridico) di una azione materiale che ha già esaurito il suo
sviluppo. Nel primo caso la desistenza all’azione integra in
senso tecnico più che un tentativo attenuato, come talvolta
sostenuto, una vera e propria esimente di carattere speciale
determinata da opzioni di politica criminale connesse all’affievolirsi della carica offensiva della condotta illecita. Viceversa il recesso volontario, che si inscrive in un processo di
più avanzata lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice, impedendo soltanto l’evento di una azione illecita
esaurita nei suoi caratteri ontologici, integra una circostanza
attenuante speciale del reato (consumato o tentato).
Tribunale di Nola, coll. A)
sentenza 31 gennaio 2012, n. 282
Pres. Est. Aschettino
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procedura penale
Elezione di domicilio: sottoscrizione – Necessità
(art. 161 c.p.p.)
L’elezione di domicilio contenuta nel verbale di polizia
giudiziaria che il dichiarante rifiuti di sottoscrivere - mancando il dato della formale e concreta riferibilità della dichiarazione al soggetto dichiarante - deve essere considerata
“tamquam non esset”, in quanto il rifiuto della sottoscrizione implica il rifiuto di eleggere il domicilio, con la conseguenza che legittimamente gli atti devono essere notificati, ex art.
161, comma quarto, cod. proc. pen., presso il difensore.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Esecuzione: errore di fatto, in iudicando o in procedendo – Limiti
e poteri del giudice
(art. 665 c.p.)
In ossequio al principio generale dell’intangibilità del
giudicato, una volta verificatosi il passaggio in giudicato
della sentenza, “la problematica dell’errore di fatto, in iudicando o in procedendo, in cui sia incorso il giudice della
cognizione in una sentenza divenuta irrevocabile, è estranea
alla competenza del giudice dell’esecuzione (cfr. Cass. pen.,
sentenze n. 294 del 1995 e n. 28 del 1969; ordinanza n. 413
del 1999,’ordinanza n. 14 del 2000), dinanzi a tale giudice
possono essere dedotte esclusivamente le questioni concernenti l’esistenza e la validità del titolo esecutivo (cfr. Cass.
sentenze nn. 515/98 - 1599/94 - 3287/91).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza del 13 febbraio 2012, n. 272
Esecuzione: poteri e facoltà del giudice dell’esecuzione in tema di
pena sospesa
(art. 665 c.p.p. – 163 c.p.)
Il potere del giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena non ha una portata generale ma è del tutto eccezionale e non può essere esteso ad
altre ipotesi oltre quelle testualmente previste dalle norme,
stante il principio della intangibilità del giudicato. La sospensione condizionale dell’esecuzione della pena è, infatti, istituto ordinariamente attinente al processo di cognizione, in
quanto in esso il giudice ha tutti gli elementi necessari di
valutazione per formare il suo convincimento; viceversa,
intervenuta la sentenza irrevocabile di condanna, trova attuazione la regola fondamentale dell’intangibilità del giudicato e ad essa è possibile derogare soltanto nei casi eccezionali espressamente stabiliti da specifiche norme, ovverossia
nel caso di riconoscimento del concorso formale o della
continuazione ex art.671 c.p.p. che non siano già stati già
esclusi nella fase di cognizione (cfr. ex plurimis Cass. sez. 1,
sentenza n. 48512 del 18/11/2004; conf. sez. 1, sentenza n.
38296 del 21/09/2001), nonché, secondo la più recente interpretazione costituzionalmente orientata offerta dai giudici di legittimità (cfr. sez. 1, sentenza n. 46236 del 06/10/2004;
sez. 3, sentenza n. 13651 del 2002; sez. unite sentenza n.
4687 del 20/12/2005), nel caso di revoca di sentenze di
condanna per abolitio criminis da parte del Giudice dell’esecuzione qualora, a seguito della stessa revoca e della conseguente eliminazione della pena relativa, risulti rispettato il
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complessivo limite di pena previsto dall’art. 163 c.p.p.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza del 13 febbraio 2012, n. 272
Impugnazioni: appello p.m. privo di nuovi elementi rispetto alla
fase cautelare – Inammissibilità
(art. 581 lett. c c.p.p.)
Deve ritenersi inammissibilità l’appello del p.m. che,
limitandosi,a riproporre il contenuto della richiesta di misura cautelare, non ha fornito alcun elemento ulteriore, né in
fatto né in diritto, idoneo a rivisitare le valutazioni di due
diverse autorità giudiziarie (il G.i.p. in sede di applicazione
della misura ed il Tribunale Distrettuale del Riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p.), in relazione alle quali il p.m. ha in
realtà prestato acquiescenza non avendole impugnate. Appare appena il caso di ricordare come sia stato affermato dalla
Corte di Cassazione che “è inammissibile per difetto di specificità l’appello del p.m. che si limiti a riprodurre una memoria prodotta nel corso del giudizio di primo grado” (Cass.
pen., sez. III, 5 maggio 2010, n. 29612).
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Impugnazioni: genericità dei motivi – Inammissibilità – Previsione
L’impugnazione è inammissibile per genericità dei motivi
se manca ogni indicazione della correlazione tra le ragioni
argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le
affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel
vizio di aspecificità”. In realtà la carenza di specificità rende
l’atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado
di giudizio ed a provocare, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla
sola dichiarazione di inammissibilità; in tale ipotesi si è in
presenza di una causa di inammissibilità originaria del gravame, con la conseguente inidoneità dell’atto a produrre
l’impulso necessario per dar vita al giudizio di impugnazione
(cfr.: Cass. pen., sez. V, 29 novembre 2000, Maglieri; Cass.
pen., sez. VI, 17 febbraio 1998, Sacco; Cass. pen., sez. II, 12
marzo 1998, Caroleo; Cass. pen., sez. I, 28 marzo 1996).
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Impugnazioni: giudice di appello – Esame critico della decisione
impugnata – Specificità dei motivi – Necessità
(art. 581 lett. c) c.p.p.)
E’ attribuito al giudice di appello la funzione di rivalutare la decisione alla luce delle argomentazioni proposte dalle
parti proprio con i motivi di gravame; detto esame del giudice dell’appello è, cioè, un esame critico della decisione, sollecitato proprio dalle argomentazioni contenute nell’atto di
impugnazione che consentano di rileggere e di rivalutare l’iter
logico – motivazionale del giudizio di primo grado e di eventualmente modificarlo, prendendo come riferimento proprio
le specifiche critiche alle individuate ragioni argomentative
del provvedimento impugnato. Ma se il giudizio di secondo
grado è un giudizio di critica della decisione, come ritiene
anche la prevalente dottrina, tale esercizio deve essere svolto
penale
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proprio in relazione alla specificità delle considerazioni critiche proposte con i motivi di appello, non potendosi, al
contrario, risolvere in una pedissequa rivisitazione di precedenti argomentazioni sulla base di doglianze generiche. Ciò
sarebbe, al di là di ogni ulteriore considerazione, del tutto
superfluo e priverebbe di qualsivoglia funzione il giudizio di
appello, che si risolverebbe in una sorta di inutile ripetizione
del giudizio di primo grado.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
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Restituzione nel termine: fase preprocessuale - Prova della effettiva conoscenza del procedimento – Criteri
(art. 175 c.p.p.)
Nella fase preprocessuale in cui vi è stata soltanto la nomina del difensore d’ufficio, la prova della effettiva conoscenza del procedimento dovrebbe fondarsi su mere presunzioni:
da un lato, il soggetto, per il solo fatto che gli è stato nominato un difensore d’ufficio, dovrebbe presumere che le indagini
prevedibilmente si svilupperanno in un processo; dall’altro,
per il solo fatto di essere stato invitato dalla polizia giudiziaria
ad “eleggere domicilio” e gli è stato nominato un difensore
d’ufficio a lui sconosciuto, dalla mancata presa di contatti con
tale difensore dovrebbe inferirsi automaticamente la volontà
di accettare una condanna senza difesa. Di contro,in virtù
delle pronunce della Suprema Corte di Cassazione, si evidenzia come, in ragione dei modi e tempi della elezione di domicilio e della nomina del difensore d’ufficio avvenuti nella fase
preprocessuale, unitamente all’assenza di qualsivoglia rapporto fiduciario, debba ritenersi, di fatto, altamente probabile che
l’imputato non abbia avuto conoscenza effettiva del procedimento, di talché è fondata la richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Impugnazioni: obbligo di specificità – Sussistenza
(art. 581 c.p.p.)
L’obbligo della specificità dell’impugnazione, sancito
dall’art. 581, lett. c), c.p.p., non riguarda unicamente le singole censure, ma anche gli elementi e le argomentazioni che le
sostengono; l’impugnazione, in altri termini, deve essere argomentata in modo da rendere possibile il sindacato del giudice
attraverso l’individuazione dei capi e dei punti della decisione
impugnata e delle questioni dedotte. Il requisito della specificità dei motivi, di cui alla lettera c) dell’art. 581 c.p.p., è infatti strettamente ricollegato al requisito dell’individuazione dei
capi e dei punti della decisione impugnata, di cui alla lettera
a) del medesimo articolo; esso, cioè, trova la sua ragione
d’essere nella necessità di porre il giudice dell’impugnazione
in grado di individuare i punti ed i capi del provvedimento
impugnato oggetto delle censure: ne deriva che l’onere di specificità investe non solo le singole censure ma anche gli elementi che le sostengono, per cui la mancanza di specificità dei
motivi va riscontrata anche nel caso in cui manchi la correlazione tra i motivi posti a base del gravame e quelli posti dal
giudice censurato alla base della propria motivazione (cfr.,
Cass. pen., sez. III, 6 luglio 207, n. 35492, Tasca).
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Restituzione nel termine: limiti del giudice dell’impugnazione
(art. 175 c.p.p.)
Il giudice dell’impugnazione, ove questa sia stata proposta in seguito alla restituzione nel termine concessa dal giudice dell’esecuzione che ha respinto la richiesta di non esecutività della sentenza, non può poi dichiarare l’impugnazione
inammissibile per tardività, non potendo sindacare la decisione del giudice dell’esecuzione, divenuta definitiva (cfr. in
tal senso ex plurimis sez. 3, sentenza n. 9477 del 14/01/2009
Rv. 243011 Imputato: Qafa).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Restituzione nel termine: conoscenza di provvedimento contumaciale - Onere di allegazione – Sussistenza
(art. 175 c.p.p.)
Ai fini della restituzione nel termine per l’impugnazione,
la mera deduzione della mancata conoscenza di un provvedimento contumaciale ritualmente notificato, non accompagnata dall’indicazione delle ragioni di tale mancata conoscenza, non è sufficiente a vincere la presunzione, sebbene non
assoluta, di conoscenza del provvedimento (cfr. Cass. sez. 3,
sentenza n. 17965 del 08/04/2010). E, pertanto, il condannato contumaciale che intenda chiedere la restituzione nel
termine per l’impugnazione per non aver avuto conoscenza
del procedimento o del provvedimento e senza avere volontariamente rinunciato a comparire o a proporre impugnazione, seppure non abbia l’onere di provare detta condizione,
ha comunque l’onere, ove la richiesta sia proposta oltre il
termine di trenta giorni a far data dalla notifica della condanna al difensore d’ufficio, di allegare i fatti da cui dedurre
che sia venuto a conoscenza della condanna in epoca diversa
e successiva (cfr. sez. 2, sentenza n. 12791 del 08/03/2011).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Restituzione nel termine: notifica al difensore di ufficio – Conoscenza del processo – Esclusione ed irrilevanza
(art. 175 c.p.p.)
Nel caso in cui il processo si sia svolto ritualmente in
contumacia ed ancorché l’imputato sia stato validamente
rappresentato nel processo dal difensore d’ufficio presso il
quale erano state effettuate le notifiche dell’estratto contumaciale ex art. 161 c.p.p., l’avvenuta notifica della sentenza
contumaciale al difensore d’ufficio non dimostra affatto, a
differenza della notifica al difensore di fiducia, la certa ed
effettiva conoscenza delle vicende del processo da parte
dell’imputato e la sua volontaria scelta di non presenziare,
salvo che la conoscenza non emerga aliunde, ovvero non si
dimostri che il difensore d’ufficio sia riuscito a rintracciare il
proprio assistito e a instaurare un effettivo rapporto professionale con lo stesso sicché, in assenza di prova della conoscenza o della rinunzia, la remissione in termini va concessa.
Secondo i giudici di legittimità, la rinuncia non può essere
desunta in sé dalla mera circostanza che l’imputato avesse
eletto domicilio presso il difensore nominatogli d’ufficio
(occorrendo invece la prova, anche indiretta, della esistenza
di essa) ed oltretutto, non spetta al condannato provare in
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positivo la mancanza di conoscenza e di rinunzia che la norma presume in difetto di elementi contrari.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Restituzione nel termine: poteri e limiti del giudice dell’esecuzione
(art. 175 c.p.p.)
Il giudice dell’esecuzione, investito della questione di nullità/invalidità del titolo esecutivo e contestualmente della
istanza di restituzione nel termine per impugnare in ragione di
difetto di effettiva conoscenza dello stesso, è tenuto pregiudizialmente a verificare la validità del suddetto titolo e, qualora
ne abbia accertato l’esecutività, è tenuto altresì ad esaminare
autonomamente la successiva istanza di cui all’art. 175 c.p.p.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 20 febbraio 2012
Rito Abbreviato: valutazione del compendio probatorio intercettivo – Criteri e limiti
(art. 438 c.p.p.)
Il grado di plausibilità di una opzione investigativa può
essere utilizzato per indirizzare significativamente lo svolgimento delle successive acquisizioni investigative, allo scopo di
dotare di consistenza probatoria l’ipotesi o lo spunto emerso
dal materiale captato, ma non può trasferirsi automaticamente sul piano della certezza necessaria per addivenire ad una
sentenza di condanna, indipendentemente dalla scelta del
rito; il rito abbreviato, infatti, rappresenta sicuramente una
opzione processuale a prova contratta, ma ciò non implica un
diverso metro di valutazione del compendio probatorio, non
essendo consentito attribuire valore di certezza processuale a
ciò che si appalesa come non univocamente significativo e la
cui plausibilità si manifesta unicamente sul piano congetturale, restando sfornito del necessario apporto di ulteriori elementi che avrebbero dovuto essere ricercati qualora il compendio intercettivo non appaia univocamente interpretabile
in relazione alla categoria di reato ascritta all’imputato.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 27 ottobre 2011, n. 5178
Pres. Maddalena, Est. Catena
Leggi penali speciali
Armi: detenzione di fucile ereditato – Omessa denuncia – Sussistenza del reato
(l. 497/74)
La condotta di non aver denunciato il fucile ereditato dal
padre circostanza, integra il delitto artt. 10 e 14 l. 497/74 per
aver illegalmente detenuto l’arma, atteso che anche in caso
di acquisizione a titolo ereditario, per consolidata giurisprudenza di legittimità, si impone la denuncia di detenzione da
parte dell’avente causa (cfr. sul punto da ultimo Cass. pen.
sez. 1 sentenza nr. 19899 del 30 aprile 2003).
Tribunale di Nola, coll. A)
sentenza 11 gennaio 2012, n. 68
Pres. Est. Aschettino
Edilizia: normativa antisismica – Concetto di costruzione rilevante
(art. 95 T.U.)
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Nel concetto di costruzione rilevante ai fini della normativa antisismica rientra qualsiasi opera a prescindere dal titolo abilitativo richiesto e dalle sue caratteristiche o dimensioni, attesa la finalità della legge che è quella di consentire
il controllo preventivo e documentale dell’attività edile eseguita in zone sismiche (cfr. Cass n. 10640 del 1985; 21 luglio
1992 n. 8140; Cass. sez. 3^ n. 7353 del 1995; 2 giugno n.
1999 n. 6923). Dunque, la vigilanza sull’attività edilizia nei
territori sismici demandata all’ufficio tecnico della regione,
si affianca a quella ordinaria demandata all’autorità comunale basata sul rilascio di un titolo abilitativo conforme alle
prescrizioni urbanistiche ed edilizie. Ne discende che tutte le
opere per le quali è richiesto un titolo abilitativo, sia esso il
permesso di costruire o la denuncia d’inizio dell’attività,
devono essere preventivamente denunciate anche all’ufficio
tecnico della Regione se realizzate in zone sismiche come nel
caso in esame, con obbligo di deposito del progetto onde
consentire la verifica della staticità. Del pari, anche per gli
“interventi liberi” s’impone l’obbligo della preventiva denuncia ed il rispetto della normativa tecnica antisismica (mentre,
quali interventi di manutenzione ordinaria, non sono soggetti all’autorizzazione di cui all’articolo 94 del T.U.).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1828
Edilizia: normativa antisismica - Presupposti ed applicazione
(art. 95 T.U.)
L’art. 95 T.U., che riproduce integralmente il contenuto
del previgente art. 20 della legge n. 64 punisce chiunque
violi le disposizioni contenute nel presente capo ( 4°) e nei
decreti interministeriali di cui agli artt. 52 ed 83 del T.U.
sanzionando con l’ammenda da 206 euro a 10329 euro, la
condotta (descritta negli artt.93 e 94) di chi intenda procedere a costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni in zone sismiche ed ometta di dare preavviso scritto allo sportello
unico (che provvede a trasmettere copia al competente ufficio
tecnico della regione art. 93) ovvero di chi inizi ad eseguire i
lavori in assenza di autorizzazione (art. 94). In altri termini,
tale normativa è finalizzata a salvaguardare la staticità dei
fabbricati in relazione ai fenomeni sismici e, quindi, l’incolumità pubblica sia nella fase di progettazione che in quella
di esecuzione. Tale normativa, a ben vedere, non distingue
tra opere interne ed opere esterne, imponendo il controllo di
qualsiasi costruzione, riparazione o sopraelevazione.
Tribunale di Napoli, Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1828
Edilizia: opere penalmente sanzionabili – Caratteristiche e presupposti
(d.P.R. 380/01)
La fattispecie di cui all’art.44 lett. B) del d.P.R. 380/2001
sanziona penalmente l’esecuzione di opere in assenza o difformità dalla concessione edilizia e sono da reputarsi tali
tutti gli interventi che comportano significativi aumenti di
superficie o volume, modifiche della sagoma, alterazione dei
prospetti. In altri termini, la sanzione penale è riservata agli
interventi edilizi che incidono in modo significativo sul territorio comportando aumenti planovolumetrici e, dunque, una
significativa trasformazione dell’assetto edilizio ed urbanistico che richiede necessariamente l’autorizzazione della Pub-
penale
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
blica Amministrazione deputata alla sua tutela attraverso il
rilascio della concessione edilizia. L’art.10 del T.U. sull’edilizia prescrive il preventivo rilascio del permesso di costruire
per le nuove costruzioni e per gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento delle superfici e dei volumi; di contro, gli altri interventi per i quali
non è richiesto il permesso di costruire possono essere assentiti con semplice denuncia d’inizio attività a norma dell’articolo 22 primo e secondo comma purché siano conformi agli
strumenti urbanistici vigenti, la cui inosservanza integra una
mera violazione amministrativa ex art. 37 comma 1 T.U.
Viceversa e salvo diverse disposizioni previste dalla disciplina
regionale o dagli strumenti urbanistici, possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, in base all’art. 6 T.U., solo gli
interventi di manutenzione ordinaria, quelli rivolti all’eliminazione delle barriere architettoniche ( qualora non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni ovvero di
manufatti che alterino la sagoma degli edifici) nonché le opere temporanee per l’attività di ricerca nel sottosuolo in aree
esterne al centro edificato (interventi liberi).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1828
Edilizia: realizzazione di soppalco di modeste dimensioni che non
costituisca un vano abitabile – Intervento di ristrutturazione
edilizia – Necessità di permesso di costruire – Esclusione
(d.P.R. 380/01)
La realizzazione di un soppalco di modeste dimensioni
che non ha determinato un aumento di superficie utilizzabile,
non ha modificato il volume o sagome dell’immobile, né la
destinazione di uso, è non costituisca un vano abitabile, è
assentibile con la denuncia di inizio lavori “semplice”, la cui
mancanza è sanzionata solo amministrativamente. Ciò in
quanto trattasi di un intervento di modeste dimensioni che
non può inquadrarsi negli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti un organismo planovolumetrico integralmente o parzialmente diverso, bensì negli interventi minori
poiché, seppure ha determinato un aumento della superficie
in concreto utilizzabile, non ha modificato il volume o la sagoma dell’immobile, né ha indotto il mutamento della destinazione d’uso, né infine, pare possa costituire un vero e proprio vano abitabile (in ragione dell’altezza ridotta) sicché
esso è assentibile con la denuncia d’inizio lavori “semplice”
in forza degli artt. 10-22 T.U. 380/2001 e della Legge Regione Campania n.19/2001. L’assenza della D.I.A. è sanzionata
quale illecito amministrativo sicché s’impone la pronuncia
assolutoria con la formula di cui al dispositivo.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1828
Inquinamento: ambito applicativo – Presupposti
(d.lgs. 152/06)
Le disposizioni in tema di inquinamento atmosferico di
cui al d.P.R. 24/5/1988 n. 203 (artt.24-25), testo abrogato e
trasfuso nel d.lgs. 152/2006 (artt.267 e segg.; le sanzioni
sono previste dall’art.279) con il quale sussiste continuità
normativa, concerne ogni tipo di impianto anche di modeste
dimensioni- che può dar luogo ad emissioni nell’atmosfera dì
agenti inquinanti, intendendosi per tali le polveri, i fumi
p e n a l e
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ovvero altre sostanze che si sprigionano dall’attività lavorativa in grado di incidere sulle condizioni normali dell’atmosfera e di modificare la salubrità dell’aria. In altri termini,
l’inquinamento ricomprende “…quello ingenerato da tutti
gli impianti destinati alla produzione, al commercio, all’artigianato ed ai servizi dai quali derivi anche uno solo degli
effetti contemplati dal citato d.P.R. n. 203, ovvero una alterazione delle normali condizioni ambientali o delle risorse
biologiche e della salubrità dell’aria.” (Cass. sez. 3, sentenza n. 38936 del 28/09/2005 Imputato Riva ed altro).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1831
Inquinamento: difetto di autorizzazione di un impianto – Caratteristiche
(d.lgs. 152/06)
Il reato di esercizio di un impianto esistente in difetto di
autorizzazione, è configurabile indipendentemente dalla circostanza che le emissioni superino i valori limite stabiliti, in
quanto non si tratta di un reato di danno ma di un reato formale o di condotta che tende a garantire un controllo preventivo da parte della P.A. La normativa in esame impone, pertanto, a chiunque attivi un impianto idoneo a produrre
agenti atmosferici inquinanti di munirsi della necessaria autorizzazione regionale e di comunicare alle autorità competenti l’esercizio dell’impianto produttivo di immissioni atmosferiche. La realizzazione di un impianto che produce emissioni in atmosfera in difetto di autorizzazione ha natura permanente, protraendosi sino a quando il responsabile dell’impianto non presenti, anche oltre il termine prescritto, la domanda di autorizzazione per le emissioni atmosferiche prodotte (cfr. Cass. sez. 3, sentenza n. 12436 del 20/02/2008).
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1831
Inquinamento: emissioni poco significative – Rilevanza – Esclusione
(d.P.R. 175/91)
Il d.P.R. 25 luglio 1991 ha introdotto la distinzione tra
attività che provocano emissioni poco significative ed impianti a ridotto inquinamento atmosferico, stabilendo, all’art. 2,
che le attività ad inquinamento atmosferico poco significativo non necessitano di autorizzazione, per le quali l’autorità
amministrativa può prevedere un obbligo di comunicazione.
Per le attività a ridotto inquinamento atmosferico, ai sensi
del d.P.R. 25 luglio 1991, art. 5, comma 1, le regioni e le
altre autorità di cui al d.P.R. n. 203 del 1988, art. 17 autorizzano in via generale le predette attività di cui all’art. 4; ai
sensi dell’art. 5 cit., comma 2 le amministrazioni possono
altresì predisporre procedure specifiche anche con modelli
semplificati di domande di autorizzazione in base ai quali le
quantità e qualità delle emissioni siano deducibili dall’indicazione delle quantità di materie prime ed ausiliarie utilizzate nel ciclo. Orbene, da tali disposizioni si evince chiaramente che occorre sempre un specifico provvedimento regionale
o delle altre autorità indicate dal d.P.R. n. 203 del 1988, art.
17 che o autorizzi in via generale l’esercizio delle attività a
ridotto inquinamento atmosferico, individuandole specificamente, ovvero predisponga procedure specifiche di autorizzazione con modelli semplificati, altrimenti trovano sempre
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applicazione le sanzioni di cui al d.P.R. n. 203 del 1988.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1831
Inquinamento: esercizio attività senza autorizzazione – Fattispecie penalmente rilevanti
(d.P.R. 175/91)
La possibilità di esercitare l’attività senza chiedere l’autorizzazione è concessa dal d.P.R. 25 luglio 1991 solo per gli
impianti con emissioni poco significative, di talché mentre
sono assoggettate alla normativa generale di autorizzazione
o di controllo le attività a ridotto inquinamento atmosferico
elencate nell’allegato 2 del d.P.R. 25 luglio 1991, n. 175, ne
sono esenti solo quelle i cui impianti provocano inquinamento atmosferico poco significativo, elencate nell’allegato 1 del
medesimo d.P.R. (cfr. sez. 3, 200603963, Di Sarno, RV
233484; conf. sez. 3, 20.12.2002 n. 3880, Cardillo, RV
224180; sez. 3, 4.10.2002 n. 40557, Stramazzo, RV 222702
e a ultimo sentenza citata Migali). Per tali attività, la Pubblica Amministrazione può imporre l’obbligo di comunicazione
con la conseguenza che, ove tale obbligo sia stato imposto,
la inosservanza, priva di sanzione penale sotto la vigenza del
d.P.R. 203/88 ora abrogato, configura invece, dal 29 aprile
2006 (data di entrata in vigore del d.lgs. 3.4.2006 nr. 152),
il reato di cui all’art. 279, comma terzo.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 6 febbraio 2012, n. 1831
Omesso versamento di contributi INPS: effettiva corresponsione
delle retribuzioni – Modalità di acquisizione di tale prova
(l. 638/83)
Il reato di omesso versamento all’INPS delle ritenute
previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei
lavoratori si configura solo nell’ipotesi in cui vi sia stata effettiva corresponsione delle retribuzioni mensili da parte del
datore di lavoro e non già nel caso in cui tale corresponsione
non vi sia stata. All’uopo, la prova idonea e sufficiente del
pagamento della retribuzione ai dipendenti può essere acquisita in virtù dei modelli D.M. 10 predisposti dal datore di
lavoro ed inoltrati all’ente previdenziale illustrativi degli
emolumenti versati a titolo di retribuzione e delle somme
trattenute a titolo contributivo. Invero, pur trattandosi di
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meri prospetti illustrativi senza alcuna validità ai fini contabili o fiscali, tale documentazione aziendale appare tuttavia
indicativa dell’avvenuto pagamento della retribuzione laddove, non sia stata fornita prova da parte dell’imputato della
mancata corresponsione.
Tribunale di Nola, G.M. Minauro
sentenza 9 febbraio 2012, n. 418
Stranieri: delitti di inottemperanza all’ordine di allontanamento
puniti all’art. 14 ter e quater d.lgs. 286/98 – Modifiche normative
e successione di leggi – Applicabilità del d.l. 89/11 a fatti verificatisi prima della entrata in vigore – Esclusione
(d.l. 89/11- d.lgs. 286/98)
L’applicabilità della nuova norma ai fatti commessi anteriormente al d.l. 89/2011 va esclusa pur essendo la nuova
formulazione dell’art. 14 co. 5 ter e quater d.lgs. n. 286/1998,
introdotta con il d.l. 89/2011, norma più favorevole rispetto
alla precedente (dal momento che in luogo della pena detentiva è prevista la sola pena della multa), sussistendo tra le due
fattispecie delineate dal legislatore una “discontinuità sostanziale del tipo di illecito”. L’attuale formulazione dei delitti di
cui all’art. 14 “non può dirsi in continuità normativa con la
precedente versione, in tal modo confermando l’avvenuta
abolitio criminis, non solo per il distacco temporale intercorso
tra la sua emanazione e l’emissione della direttiva comunitaria,
ma anche per la diversità strutturale dei presupposti e la differente tipologia della condotta richiesta per integrare l’illecito penale in esame. Invero, in base alla nuova normativa,
all’intimazione di allontanamento può pervenirsi solo dopo
l’esito infruttuoso dei meccanismi agevolatori della partenza
volontaria ed allo spirare del periodo di trattenimento presso
un centro a ciò deputato”. La nuova incriminazione è dunque
applicabile solo ai fatti verificatisi dopo la sua entrata in vigore. Per contro, la “vecchia” formulazione dell’art. 14 co. 5 ter
e quater, dal momento che è stata dichiarata dalla Corte di
giustizia UE incompatibile con le disposizioni della direttiva
2008/115/CE, ancorchénelle more sia entrato in vigore il d.l.
89/2011, non può più trovare applicazione con la conseguenza che l’imputato per tale delitto deve essere assolto perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
ordinanza 6 febbraio 2012, n. 327
penale
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Diritto amministrativo
L’avvalimento dei requisiti c.d. “soggettivi” di cui all’art. 39 del d.lgs. n. 163/2006
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Alessandro Barbieri
Discutibile interazione tra il federalismo fiscale ed il principio costituzionale
di uguaglianza
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Gaetana Marena
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
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(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
amministrativo
A cura di Almerina Bove
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●
Sommario: Premessa; 1. La matrice comunitaria del principio dell’avvalimento; 2. La direttiva 2004/18/CE; 3. Il
Codice dei contratti pubblici; 4. Aspetti problematici.
L’avvalimento
dei requisiti c.d.
“soggettivi” di cui
all’art. 39 del d.lgs.
n. 163/2006
Premessa
La presente trattazione muove dal contrasto giurispruden‑
ziale esistente in merito alla possibilità per un impresa di ri‑
correre all’avvalimento di cui all’art. 49 del Codice dei Con‑
tratti Pubblici di tutti quei requisiti che, pur non rientrando
tra quelli indicati nell’elenco di cui all’art. 38 d.lgs. 163/2006,
hanno comunque natura soggettiva in quanto strettamente
collegati alla capacità, appunto, soggettiva dell’operatore
economico quali, a titolo esemplificativo, la certificazione di
qualità, l’iscrizione in Albi speciali, ovvero l’iscrizione alla
Camera di Commercio che l’amministrazione può, ai sensi
dell’art. 39 d.lgs. cit., richiedere per la partecipazione ad una
procedura ad evidenza pubblica.
Come noto, infatti, per partecipare ad una gara pubblica
è necessario che l’operatore sia qualificato soggettivamente ed
oggettivamente; possegga, in sintesi, tanto quei requisiti rela‑
tivi all’affidabilità morale e professionale quanto quei requi‑
siti relativi alla capacità economica, finanziaria e tecnicoorganizzativa.
Tuttavia, mentre i requisiti soggettivi contemplati dall’art.
38 del Codice dei Contratti Pubblici non sono suscettibili di
alcuna forma di avvalimento – in quanto l’art. 49 del d.lgs.
cit. prescrive che sia l’impresa ausiliaria sia l’ausiliata debbano
rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38 del Codice dei Con‑
tratti Pubblici –, i secondi possono formare oggetto di avva‑
limento laddove si tratti di acquisire risorse e mezzi funziona‑
li all’esecuzione di un contratto pubblico.
Il problema, a ben vedere, si pone proprio con riferimento
alla possibilità di avvalersi in sede di gara di tutti gli altri requi‑
siti inseriti dalle Stazioni Appaltanti nei bandi di gara che, pur
esulando da quelli di cui all’art. 38 d.lgs. cit., hanno natura
spiccatamente soggettiva in quanto acquisiti sulla base di ele‑
menti collegati alla capacità soggettiva/operativa dell’impresa.
A titolo esemplificativo, e con specifico riferimento alla
possibilità da parte di un operatore economico di avvalersi di
una certificazione di qualità di altra impresa, la problematica
è stata risolta – non senza contrasti giurisprudenziali ancora
oggi esistenti – privilegiandosi una visione sostanzialistica1 nel
● Alessandro Barbieri
Avvocato
1 Cfr. in terminis Cons. Stato, sez. III, 18 aprile 2011, n. 2344 secondo “cui sul
piano letterale, l’articolo 49 del codice dei contratti pubblici, nel disciplinare
l’istituto dell’avvalimento, non contiene alcuno specifico divieto in ordine ai
requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale strumento, che
assume una portata generale. D’altra parte, è fuori discussione che, nell’ottica
dell’ordinamento comunitario, l’avvalimento miri ad incentivare la concorrenza, nell’interesse delle imprese, agevolando l’ingresso nel mercato di nuovi
soggetti: pertanto, deve essere evitata ogni lettura aprioristicamente restrittiva
dell’ambito di operatività della nuova disciplina. In questa prospettiva, non
persuade l’indirizzo interpretativo espresso dall’Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici (peraltro, sulla base di una motivazione piuttosto sintetica e ancora non consolidato), che ha affermato l’esistenza di un divieto assoluto e inderogabile di ricorrere all’avvalimento, per dimostrare la disponibilità dei requisiti soggettivi di “qualità”. Tuttavia, una volta ammessa l’astratta operatività dell’avvalimento, non può essere trascurata l’evidente difficoltà “pratica” di
dimostrare, in concreto, l’effettiva disponibilità di un requisito che, per le sue
caratteristiche, è collegato all’intera organizzazione dell’impresa, alle sue procedure interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello svolgimento delle
attività. In questo contesto, è onere della concorrente dimostrare che l’impresa
ausiliaria non si impegna semplicemente a “prestare” il requisito soggettivo
richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l’obbligazione di mettere a
amministrativo
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
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senso che l’impresa ausiliaria assume in concreto l’obbligazio‑
ne di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata tutte le
proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le
parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità.
La centralità della messa a disposizione delle risorse ne‑
cessarie nell’ambito del sinallagma che caratterizza il contrat‑
to di avvalimento, è stato, peraltro, ribadita dal Legislatore
all’art. 88 del Regolamento di attuazione del Codice dei Con‑
tratti Pubblici (D.P.R. n. 207/2010) che prescrive l’indicazio‑
ne puntuale ed analitica delle risorse e dei mezzi prestati.
Per converso, continuano a sussistere evidenti lacune e
zone d’ombra con riferimento alla possibilità di avvalersi del
requisito relativo all’iscrizione alla Camera di Commercio la
quale, pur non rientrando tra i requisiti elencati dall’art. 38
Codice dei Contratti, materializza, senza tema di smentita,
un requisito strettamente collegato alla capacità soggettiva
dell’operatore economico.
sia aggiudicato l’appalto4, tanto per la qualificazione alla sin‑
gola gara, quanto per l’ottenimento della attestazione SOA.
La giurisprudenza comunitaria ha elaborato l’avvalimen‑
to (nella prospettiva che un’impresa non può essere esclusa da
una gara di appalto per il fatto di non disporre in proprio di
tutte le competenze necessarie per l’esecuzione della presta‑
zione) con riferimento al rapporto intercorrente tra le società
appartenenti allo stesso gruppo, ponendo attenzione al fatto
che l’utilizzo di referenze esterne sia accompagnato dalla
prova della disponibilità dei mezzi necessari5.
È comprensibile, dunque, come una siffatta costruzione,
nella misura in cui è volta a reperire un punto di equilibrio
tra l’obiettivo della massima partecipazione e la garanzia di
una prestazione di qualità in favore del soggetto appellante,
non sia incompatibile con un’estensione dell’ambito di appli‑
cazione dell’istituto dell’avvalimento da parte del legislatore
comunitario.
1. La matrice comunitaria del principio dell’avvalimento
Il diritto comunitario ha da tempo ammesso, prima in via
pretoria e poi attraverso atti normativi, che un prestatore per
comprovare il possesso di requisiti economici, finanziari e
tecnici di partecipazione ad una gara di appalto, possa fare
riferimento alla capacità di altri soggetti, a condizione che sia
in grado di provare di disporre in concreto ed effettivamente
dei mezzi di tali soggetti necessari e funzionali all’esecuzione
del contratto 2.
Da tanto emerge, dunque, che con riferimento alle gare di
appalto di rilievo comunitario, il principio generale dell’avva‑
limento trovava applicazione anche prima dell’entrate in vi‑
gore della direttiva comunitaria 2004/18/CE e del suo recepi‑
mento nell’ordinamento italiano3.
Tale principio cristallizza la portata e gli effetti dell’istituto
dell’avvalimento, diversamente definito come “possesso mediato ed indiretto dei requisiti”, tale per cui deve ritenersi “consentito ad un operatore, che non soddisfi da solo i requisiti
minimi prescritti per partecipare alla procedura di aggiudicazione di un appalto, di far valere presso l’autorità aggiudicatrice le capacità di terzi ai quali conta di ricorrere qualora gli
2. La direttiva 2004/18/CE
La direttiva 2004/18/CE si pone come logico sviluppo di
tale assetto giurisprudenziale, codificando il principio del
possesso per relationem dei requisiti, ed in particolare dispo‑
nendo che un operatore economico può, se dal caso e per un
determinato appalto, fare affidamento sulle capacità (econo‑
miche, finanziarie e tecniche), di altri soggetti; in tale caso,
l’operatore deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatri‑
ce di disporre dei mezzi necessari, ad esempio mediante pre‑
sentazione dell’impegno a tale fine di questi soggetti (artt. 47,
secondo comma, 48, terzo comma, della direttiva n. 2004/18/
CE, ma anche art. 54 sesto comma, della direttiva 2004/17/
CE concernente i settori c.d. speciali).
La disciplina comunitaria tratteggia solo un limite moda‑
le del ricorso all’avvalimento, imponendo al concorrente av‑
valente l’onere di fornire all’amministrazione la dimostrazio‑
ne della concreta disponibilità dei mezzi facenti capo all’im‑
presa avvalsa e necessari per l’espletamento dell’appalto6.
La prova da assolvere sembra essere duplice: a) da un lato
occorre comprovare il possesso, da parte del terzo, dei requi‑
siti prescritti dalla lex specialis della gara; b) dall’altro lato,
deve, più specificatamente, essere dimostrata la disponibilità
dei mezzi del soggetto di cui si spendono i requisiti7.
disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le
proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti)”; Tar Campania,
Salerno, sez. I, 28 luglio 2011, n. 1398; in senso contrario Tar Campania,
Napoli, sez. I, 13 ottobre 2011, n. 4769, secondo cui “secondo l’orientamento
giurisprudenziale prevalente, condiviso dal Collegio, la certificazione di qualità,
attenendo strettamente all’organizzazione aziendale per come implementata
dall’imprenditore, costituisce requisito soggettivo non passibile di avvalimento”;
secondo un orientamento meno rigido “a disciplina dell’articolo 49 non pone
alcuna limitazione all’avvalimento se non per i requisiti strettamente personali,
di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti, mentre il
requisito della certificazione di qualità - in quanto connesso ad una procedura
con la quale un soggetto verificatore esterno all’impresa, terzo e indipendente
e a ciò autorizzato, fornisce attestazione scritta che un’attività è conforme ai
requisiti specificati da norme tecniche, garantendone la validità nel tempo attraverso un’adeguata sorveglianza – dovrebbe essere acquisito come requisito
speciale di carattere (pur sempre) tecnico- organizzativo e come tale suscettibile di avvalimento”(Tar Basilicata, 3 maggio 2010, n. 224; cfr. Consultazione
on line, l’avvalimento nelle procedure di gara, www.avcp.it).
2 Cfr. Corte Giust. CE, 2 dicembre 1999, in causa C-176/98, Holst Italia; Corte
Giust. CE, 14 aprile 1994, in causa C-389/92, Ballast Nedam Groep I; Corte
Giust. CE, 18 dicembre 1997, in causa C-5/97, Ballast Nedam Groep II.
3 Cfr. Cons. Stato, sez, VI, 3 febbraio 2006, n. 383; Cons. Stato, sez. V, 28 set‑
tembre 2005, n. 5194; Cons. Stato, sez. VI, 20 dicembre 2004, n. 8145.
4 Cfr. Zucchelli, L’avvalimento, in I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di De Nictolis, Milano, 2007, 562.
5Sotto il profilo della comprova dei requisiti, con la sentenza Soc. Holst Italia,
la Corte di Giustizia ha pure fissato l’ulteriore principio, secondo il quale, in
caso di avvalimento, la capacità tecnica può essere dimostrata, in vista dell’ag‑
giudicazione dell’appalto pubblico di servizi, anche solo indicando la disponi‑
bilità di mezzi appartenenti a parti diverse da quella concorrente nel procedi‑
mento di aggiudicazione dell’appalto, chiarendo come la direttiva n. 92/50/CE
vada interpretata nel senso di consentire il riferimento alle capacità di altri
soggetti per comprovare il possesso dei requisiti economici, finanziari e tecnici
di partecipazione alla gara di appalto, qualunque sia la natura giuridica dei
vincoli tra le imprese, a condizione che siano in grado di provare l’effettiva
disponibilità dei mezzi necessari all’esecuzione del contratto. L’autorità aggiu‑
dicatrice dovrà, pertanto, verificare l’effettiva disponibilità dei mezzi durante il
periodo di durata dell’appalto, mentre il concorrente avrà comunque l’onere di
fornire compiuta dimostrazione di disporre effettivamente di tali mezzi e capa‑
cità. La verifica dell’ente aggiudicatore è volta, in particolare, a sincerarsi che
l’offerente abbia effettivamente a disposizione i mezzi durante l’intero periodo
di durata dell’appalto (cfr. Giovanni Balocco, L’avvalimento nei contratti
pubblici, Italia Oggi, 2009, 19).
6 Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, 10 ottobre 2006, n. 10233.
7Martinelli, La capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli
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Come si vede, dunque, la tendenza comunitaria era – ed è
– quella di ammettere il ricorso allo strumento dell’avvalimen‑
to con limitazione dei vincoli e delle prescrizioni imposte ai
potenziali concorrenti8.
3. Il Codice dei contratti pubblici
L’art. 49 del Codice delinea la disciplina dell’avvalimento
recependo ed, al contempo, dando attuazione alla normativa
contenuta nella direttiva 2004/18/CE.
Dall’interpretazione dell’art. 49, infatti, si ricava che l’av‑
valimento concerne i requisiti oggettivi di ordine speciale (e
non anche i requisiti di ordine generale previsti dall’art. 38 del
Codice dei contratti pubblici, del cui possesso deve essere
allegata autocertificazione), economico - finanziari e tecnici,
ivi compresa l’attestazione SOA (pur costituendo la stessa una
qualificazione «personale») senza limitazioni sotto il profilo
qualitativo e quantitativo, con conseguente ammissibilità di
una pluralità di soggetti avvalsi.
Da tanto ne discende, in astratto, il rischio che i concor‑
renti “si trasformino in scatole vuote, meri organizzatori del
lavoro altrui, poiché potendo avvalersi praticamente di tutti
i requisiti di ordine speciale potrebbero limitare la loro organizzazione ad una segreteria di coordinamento”9, o meglio
ad un “centro di imputazione di rapporti giuridici, privo
tuttavia di qualunque substrato tecnico, organizzativo e
finanziario”10 ovvero ancora ad una sorta di “holding dai
contorni oscuri”11.
Giova evidenziare come il d.lgs 163/2006 non contenga
una definizione dell’avvalimento; dal comma 2, lett. f),
dell’art. 49 del d.lgs cit. si ricava che trattasi di un contatto
mediante il quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti
del concorrente a fornire i requisiti ed a mettere a disposizio‑
ne le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto; si
tratta, sotto il profilo negoziale, di un contratto consensuale
ad effetti obbligatori.
Secondo una parte della dottrina, il contratto di avvali‑
mento è riconducibile nello schema della «promessa del fatto
del terzo», di cui all’art. 1381 del c.c., pur discostandosene
nella fase relativa alla partecipazione alla gara, ed in quella
di esecuzione12.
L’avvalimento si configura come una “fattispecie complessa, in cui il contratto in virtù del quale l’impresa ausiliaria si
obbliga nei confronti del concorrente rappresenta solo una
appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella legge comunitaria n. 62/2005,
a cura di Garofoli e Sandulli, Milano, 2005, 629.
8 Cfr. Costantini-Stendardi, L’avvalimento nel Codice degli Appalti pubblici,
in www.giustamm.it/private/new_2006.
9 Zucchelli, L’avvalimento, op. cit., 601.
10 Mangani, Avvalimento, tipologia contrattuale e regime di responsabilità, in
www.giustamm.it).
11 Cirillo, L’avvalimento: sintesi tra subprocedimento e negozio giuridico, in
www.giustizia-amministrativa.it).
12 In effetti, nonostante quest’ultima fattispecie normativa sia la più calzante tra
quelle prese in esame, tuttavia mal si concilia con il regime delle responsabilità
previsto dal Legislatore nazionale in materia di avvalimento. Più segnatamente,
in virtù di quanto previsto nel comma IV dell’art. 49 del Codice, il concorrente
e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della Stazione
Appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto: la suddetta ob‑
bligazione solidale, pertanto, mal si concilia con il regime di responsabilità
derivante dall’art. 1381 del cod. civ., in applicazione del quale nessuna conse‑
guenza è prevista in capo al terzo che rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto
promesso (cfr. Giovanni Balocco, L’avvalimento nei contratti pubblici, Italia
Oggi, 2009, 33).
2 0 1 2
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componente di essa, e neppure la più importante”13 come
testimonia il fatto che (il contratto) non è necessario allorchè
l’obbligo dell’impresa ausiliaria a vincolarsi verso la stazione
appaltante discende dall’appartenenza allo stesso gruppo
societario di cui fa parte l’impresa concorrente (art. 49, com‑
ma 2, lett. g).
4. Aspetti problematici
Come accennato nelle premesse della presente trattazione,
la questione maggiormente problematica riguarda la richiesta
normalmente contenuta nei bandi, ai sensi dell’art. 39 del
D.lgs 163/2006, che le imprese posseggano il requisito
dell’iscrizione alla Camera di Commercio14 per attività coin‑
cidenti15 con quelle oggetto dell’appalto.
Resta, dunque, da stabilire se sia possibile avvalersi, al
fine di mutuare il suddetto requisito, dello strumento dell’av‑
valimento disciplinato dall’art. 49 del Codice dei Contratti.
Va al riguardo, evidenziato che “l’istituto dell’avvalimento, così come disciplinato dall’art. 49…è di applicazione generale e consente al partecipante ad una gara di avvalersi dei
requisiti di carattere economico-finanziario – tecnico di ogni
altro soggetto”16.
Sulla scorta di tale orientamento, una parte della giuri‑
sprudenza ritiene che non vi è ragione di adottare una inter‑
pretazione restrittiva dell’art. 49 D.lgs cit. escludendo dall’am‑
bito dei requisiti per i quali è ammesso l’avvalimento, un re‑
quisito di carattere formale, quale l’iscrizione nel registro
dell’imprese per una determinata attività.
In maggior dettaglio, è stato chiarito che “i requisiti di
idoneità professionale, di cui all’art. 39 del codice, vanno tenuti ben distinti dal requisiti generali di partecipazione alle
procedure di affidamento, disciplinati dall’art. 38. Per questi
ultimi evidentemente non è ammissibile alcuna forma di avvalimento trattandosi di requisiti soggettivi che devono essere
posseduti da ogni singola impresa che intenda partecipare ad
una procedura per la scelta di un contraente con la P.A.”17.
Con la conseguenza per cui tale avvalimento può essere
“interno” ovvero “esterno”: vale a dire che è ben possibile
13 Cirillo, L’avvalimento: sintesi tra subprocedimento e negozio giuridico, op.
cit.
14L’art. 39 del d.lgs 163/2006 prevede, anzi tutto, la facoltà della stazione appal‑
tante di chiedere ai concorrenti di provare la propria iscrizione nel registro
delle imprese di cui all’art. 2188 cod. civ.: si tratta del registro tenuto presso la
Camera di Commercio, industria, artigianato e agricoltura oggi disciplinato
dalla Legge 29 dicembre 1993, n. 580 e dal suo regolamento attuativo (D.P.R.
7 dicembre 1995, n. 581), che ha sostituito il vecchio registro delle società, a
lungo rimasto in via transitoria l’unica forma di pubblicità esistente per i sog‑
getti esercenti attività imprenditoriali. Oltre all’iscrizione nei registri commer‑
ciali, la norma in esame al comma 4 prevede anche la facoltà di chiedere ai
concorrenti il possesso di determinate autorizzazioni amministrative o l’appar‑
tenenza a determinate associazioni professionali. Al riguardo, è stata opportu‑
namente sottolineata la differenza ontologica tra questa previsione e quella
relativa all’iscrizione nel registro; nel senso che mentre quest’ultima costituisce
un adempimento formale giuridicamente indispensabile per lo svolgimento
dell’attività imprenditoriale, al contrario il rilascio di un’autorizzazione (si
pensi a quelle previste dalla legge in materia di attività di smaltimento rifiuti)
presuppongono accertamenti sull’idoneità del soggetto a svolgere in concreto
le relative attività: pertanto, tale secondo requisito appartiene all’area dei re‑
quisiti di capacità tecnica del concorrente (cfr. Del Castello – Galtieri –
Realfonso, Appalti pubblici di servizi, Milano, 2002, 210).
15 Cfr. Consultazione on line, L’avvalimento nelle procedure di gara, www.avcp.it.
16 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3762; da ultimo cfr. Cons. Stato,
sez. V, ordinanza n. 512, 2 febbraio 2011.
17 Cfr. Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 8 maggio 2010, n. 656.
amministrativo
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82
d i r i t t o
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partecipare alla gara in raggruppamento temporaneo di im‑
prese del quale faccia parte almeno un soggetto iscritto nel
registro delle imprese, oppure è possibile ricorrere all’avvali‑
mento di tale requisito posseduto da un soggetto terzo (che
non partecipi alla medesima gara) conformemente alle dispo‑
sizioni di cui all’art. 49, d.lgs. 163/06 e s.m.i.
E ciò in quanto, “se è indubbio che i requisiti di carattere
morale e di generica affidabilità (quali l’inesistenza di precedenti penali ostativi, la regolarità contributiva, il rispetto
della normativa «antimafia»), devono essere posseduti da
ciascuna delle imprese del raggruppamento partecipante alla
procedura, per l’accertamento dei requisiti di idoneità tecnica, finanziaria ed economica, e degli altri requisiti richiesti
dall’Amministrazione nel bando, come nel caso “dell’iscrizione alla C.C.I.A.A. Registro delle imprese o R.E.A. per l’attività inerente all’appalto”, le imprese partecipanti possono
dimostrare le qualità ed i requisiti di ammissibilità specifici
richiesti facendo riferimento agli attributi di altri soggetti,
componenti del raggruppamento partecipante alla procedura
in qualità, quindi, di soggetti offerenti ed obbligati”18 ovvero
18 Cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, n. 137/2006 secondo cui “risulta
aderente al caso di specie la decisione Consiglio di stato, sez. V, 28 settembre
2005, n. 5194, avente ugualmente ad oggetto una gara regolata - come la
presente - dal D. Lgs. n. 157/95 (per l’affidamento pluriennale del servizio di
gestione e manutenzione degli impianti di pubblica illuminazione, in quel caso;
per il servizio di gestione e manutenzione della piscina comunale, in questo).
Ebbene, in tale occasione il Giudice amministrativo di appello ha enunciato, ai
capi 5 e 6 della pronuncia in diritto, i seguenti principi: - L’art. 31, n. 3, della
direttiva “servizi” 92/50/CEE (ma uguale previsione è contenuta nell’art. 26
della direttiva “lavori”, n. 93/37/CE), permette al prestatore di provare la capacità economico-finanziaria richiesta mediante qualsiasi documento che
l’amministrazione aggiudicatrice ritenga appropriato; allo stesso modo, per ciò
che attiene alla capacità tecnica, l’art. 32, n. 2, lett. c), della direttiva “servizi”
(e, del pari, l’art. 27 della direttiva “lavori”) prevede espressamente la possibilità di comprovarla mediante l’indicazione dei tecnici o degli organismi tecnici,
siano essi o meno parte integrante dell’impresa concorrente, di cui la stessa
disporrà per l’esecuzione dell’appalto. Pertanto, un operatore che non soddisfi
da solo i requisiti minimi prescritti per partecipare alla procedura di aggiudicazione, ben può far valere, a tali fini, le capacità di terzi cui conti di ricorrere in
caso di aggiudicazione> (cfr. capo 5); -Tali conclusioni sono state avvalorate,
nel tempo dalle sentenze della Corte di Giustizia (causa C-389/92 Ballast Nedam
Groep I; C-5/97 Ballast Nedam Groep II; C-176/98), che hanno interpretato
le norme anzidette nel senso che consentono, per la valutazione dei criteri cui
deve soddisfare un imprenditore all’atto dell’esame di una domanda di abilitazione presentata da una persona giuridica dominante di un gruppo, di tenere
conto delle società che appartengono a tale gruppo, purché la persona giuridica di cui è causa provi di avere effettivamente a disposizione i mezzi di dette
società, necessari per l’esecuzione degli appalti (più recentemente tali principi
sono stati normati dal legislatore comunitario con la direttiva 2004/18/CE,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi che, agli articoli 47 e 48, prevede che un
operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità - economico-finanziarie e/o tecniche - di altri soggetti,
a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi, purché
dimostri di disporre dei mezzi necessari a tal fine)>: ancora capo 5 “Se è vero
che la giurisprudenza comunitaria in tema di avvalimento si è sviluppata avendo a riferimento fattispecie in cui la società madre partecipava direttamente
alla gara, non di meno essa ha affermato un principio di più vasta portata, in
virtù del quale è da ritenere che “un operatore economico può, se del caso e per
un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a
prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi (articoli 47
e 48 della direttiva 2000/18/CE relativa a “lavori, servizi e forniture”; norme
analoghe sono contenute nella direttiva 2004/17/CE relativa ai settori speciali).
11. Il Collegio condivide i principi affermati nella predetta decisione, confermando un propri precedente specifico (T.A.R. per l’Emilia – Romagna - Bologna, sez. II, 2872 del 3 novembre 2006 ) rilevando che essi si pongono in linea
di continuità con le elaborazioni della precedente giurisprudenza amministrativa, tanto di I che di II grado. Ad esempio, secondo il Consiglio di stato sez.
VI, 17 settembre 2003 n. 5287, <La giurisprudenza comunitaria è chiara: per
Corte giustizia Comunità europee, 02-12-1999, n. 176/98 la direttiva del
consiglio 18 giugno 1992 n. 92/50/Cee, in tema di appalti di servizi, va interpretata nel senso che consente a un prestatore, per comprovare il possesso dei
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F O R E N S E
di avvalersi di altro operatore per la dimostrazione di tale
requisito.
Più di recente, poi, è stato chiarito che lo specifico requi‑
sito dell’iscrizione presso la Camera di Commercio di cui
all’art. 39 del d.lgs 163/2006 si configura, ad un tempo, qua‑
requisiti economici, finanziari e tecnici di partecipazione a una gara d’appalto
di servizi, di far riferimento alle capacità di altri soggetti, qualunque sia la natura giuridica dei vincoli che il partecipante ha con essi, a condizione che il
soggetto interessato sia in grado di provare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti. Tale prova è atipica, non limitata a particolari mezzi, e può
essere data mediante mezzi che attestino l’esistenza di rapporti giuridici idonei
a provare l’effettiva disponibilità di tali capacità in capo ai partecipanti alla
gara. Nella specie, l’avvio dei procedimenti di fusione, l’impegno a concluderli
prima dell’inizio del rapporto di appalto, l’esistenza di un gruppo societario
facente capo ad una holding, dominata da un unico soggetto, i rapporti di
controllo totalitario esistenti fra le imprese del gruppo avviate peraltro a fusione per incorporazione sono tutte circostanze apprezzabili ai sensi della nota
giurisprudenza comunitaria.> Analogamente, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez.
III, 30 aprile 2003 n. 1090, ha ritenuto legittima la partecipazione alla gara
dell’impresa (e la successiva aggiudicazione alla medesima) la quale aveva dichiarato nella propria offerta che, per l’effettivo espletamento del servizio
messo a gara, si sarebbe interamente avvalsa della proprie controllate, addirittura senza ricorrere né alla forma del RTI né al subappalto. E ciò, sulla base
del richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che, con le pronunce Sez. V, 14 aprile 1994, in causa C-389/92 (Ballast Nedam Groep I) e Sez.
III, 18 dicembre 1997, in causa C-5/97 (Ballast Nedam Groep II), ha espressamente affermato che “…l’aggiudicazione (…) può essere chiesta non solo da
una persona fisica o giuridica che provveda direttamente all’esecuzione dell’opera, ma altresì da una persona che la faccia eseguire tramite agenzie o succursali (…) ovvero da un raggruppamento di imprenditori, a prescindere dalla sua
forma giuridica…” e che “…una holding che non esegue direttamente le opere,
perché le consociate che se ne occupano sono persone giuridiche distinte, non
può per tale motivo essere esclusa dalle procedure di partecipazione agli appalti di lavori pubblici…” (vedi altresì i precedenti conformi dello stesso TAR
Lombardia - III Sezione (nn. 1190 del 14 aprile 2000 e 195 del 26 gennaio
2001), nonché alla citata pronuncia Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1695 del 25
marzo 2002. Può, pertanto, ritenersi ormai consolidato l’orientamento della
giurisprudenza la quale ha avuto occasione di precisare più volte che “secondo
l’avviso espresso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 2 dicembre 1999 in causa C-176/1998), in tema di appalti di servizi la direttiva n.
50/1992, al fine di comprovare il possesso dei requisiti di idoneità tecnica,
economica e finanziaria di partecipazione ad una gara, consente al concorrente di fare riferimento alla capacità di altri soggetti, qualunque sia la natura
giuridica dei vincoli con il partecipante, a condizione che egli sia in grado di
provare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti (V. Cons. Stato, sez.
VI, 11 aprile 2006, n. 2010; Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2005, n. 5194;
Cons. Stato, sez.V, 16 novembre 2005 n. 6403; Cons Stato, sez. V, n. 645/2003).
12. Detto principio, di derivazione comunitaria, immeditamente operativo nel
nostro ordinamento, con riguardo agli appalti di servizi, risulta ora generalizzato ed esteso a tutti i pubblici appalti, dalla direttiva unificata n. 18/2004 del
31.3.2004 (da recepire entro il 31.1.2006), e recepito puntualamente dall’articolo 49 del nuovo codice dei contratti di cui al D. lgs. 163 del 2006, consentendosi all’operatore economico o ad un raggruppamento di operatori economici, se del caso e per un determinato appalto, di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
questi ultimi, al fine della prova della capacità economica e finanziaria. In tal
caso deve dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di
questi soggetti (art. 47, commi 2 e 3). 13. La fattispecie di cui qui è causa rientra a maggior ragione nella sfera di applicazione degli anzidetti principi in cui
il requito in discussione, costituito dall’iscrizione alla C.C.I.A.A. Registro delle
imprese o R.E.A. per l’attività inerente all’appalto, è puntualmente posseduto,
come rilevato nelle censure dedotte, dall’altra società componente del costituendo raggruppamento d’imprese partecipante alla procedura. Invero, è indubbio
che i requisiti di carattere morale e di generica affidabilità (quali l’inesistenza
di precedenti penali ostativi, la regolarità contributiva, il rispetto della normativa «antimafia»), devono essere posseduti da ciascuna delle imprese del raggruppamento partecipante alla procedura.. Invece, per l’accertamento dei requisiti di idoneità tecnica, finanziaria ed economica per la partecipazione ad
appalti di servizi, e degli altri requisiti richiesti dall’Amministrazione nel bando,
come nel caso “dell’iscrizione alla C.C.I.A.A. Registro delle imprese o R.E.A.
per l’attività inerente all’appalto”, le imprese partecipanti possono dimostrare
le qualità ed i requisiti di ammissibilità specifici richiesti facendo riferimento
agli attributi di altri soggetti, componenti del raggruppamento partecipante
alla procedura in qualità, quindi, di soggetti offerenti ed obbligati (di recente
per un caso analogo Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Roma,
Sezione Terza Ter, Sentenza del 25 agosto 2006, n. 7515)”.
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le requisito di ammissione e quale requisito di qualificazione
tecnico professionale; di talché attenendo alla capacità e
quindi all’idoneità allo svolgimento di una determinata atti‑
vità può costituire oggetto di avvalimento ai sensi dell’art. 49
del Codice dei Contratti Pubblici19.
Di avviso contrario tanto una parte della dottrina 20 quan‑
to della giurisprudenza la quale ha chiarito che “sono insucettibili di avvalimento i [soli] requisiti generali di cui agli art.
38 e 39 del d.lgs 163/2006, insomma quei requisiti di onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente correlati al
soggetto, alla sua idoneità a porsi come valido ed affidabile
contraente per l’amministrazione”21.
Segnatamente, secondo tale orientamento, possono essere
oggetto di avvalimento ai sensi dell’art. 49 d.lgs cit. unica‑
mente i requisiti inerenti la capacità economica, finanziaria,
tecnica ed organizzativa e non già i requisiti di idoneità pro‑
fessionale ex art. 39 Codice dei Contratti Pubblici desumibi‑
le dall’iscrizione camerale22.
E ciò in quanto l’avvalimento non può mai abilitare l’im‑
presa a svolgere attività non rientranti nel proprio oggetto
sociale il quale costituisce, dunque, il limite di partecipazione
alla gara 23.
A ben vedere, il requisito di che trattasi ha natura pretta‑
mente soggettiva attenendo alla situazione personale dell’ope‑
ratore e alla sua professionalità in termini di struttura orga‑
nizzativa sotto il profilo delle risorse umane e strumentali per
l’esercizio di una determinata attività.
Ciò posto, è evidente che consentire l’avvalimento ai sensi
dell’art. 49 del D.lgs 163/2006 dell’iscrizione alla Camera di
Commercio contemplata dall’art. 39 del D.lgs cit., anche a
voler accedere all’orientamento sostanzialistico e/o intermedio
che impone all’impresa ausiliaria di mettere a disposizione
tutta l’organizzazione aziendale coincidente con l’oggetto so‑
ciale, significherebbe ammettere un “sostanziale svuotamento
del soggetto appaltatore che, in paradosso, può ridursi ad una
scatola vuota il cui contenuto è fornito dall’esterno”24.
In tale ipotesi, dunque, l’impresa ausiliata diverrebbe tito‑
lare solo formalmente del rapporto con la Stazione Appaltan‑
te assumendo, al più, una funzione di supervisione e di coor‑
dinamento dell’attività dell’impresa ausiliaria producendo
“una scissione tra la titolarità formale del contratto e la materiale esecuzione dello stesso, che sarebbe la logica conseguenza della carenza in capo all’impresa principale (e titolare del contratto) dei requisiti necessari per partecipare alla
gara e, quindi, per eseguire la prestazione”25.
Conclusivamente, e nonostante la questione non pare es‑
sere ancora risolta in sede giurisprudenziale, l’iscrizione
19 Cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 11 aprile 2011, n. 875; Tar Sicilia, Catania,
sez. III, 20 ottobre 2011, n. 2500.
20 Cfr. Claudio Zucchelli, L’avvalimento, op. cit., 599 secondo cui “non si
pone neppure un problema nei confronti dei requisiti di cui agli artt. 39 e 40
del codice (iscrizione in registri vari e qualificazione per eseguire i lavori) che
sono sicuramente estranei all’avvalimento atteso che anche la direttiva [2004/18/
CE] li considera distintamente nell’art. 46”.
21 Cfr. Tar Basilicata, Potenza, sez. I, 3 maggio 2010, n. 220.
22 Cfr. Tar Puglia, Bari, sez. I, 6 luglio 2011, n. 1454.
23 Cfr. C.G.A., 22 giugno 2006, n. 299; Cons. Stato, sez. VI, 22 marzo 2004, n.
1459; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2003, n. 2554.
24 cfr. Claudio Zucchelli, in Avvalimento dei requisiti di altre imprese, www.
giustizia-amministrativa.it.
25 Tar Lazio, Roma, sez. II ter, 22 dicembre 2011, n. 10080.
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83
presso la Camera di Commercio per una data attività ai sen‑
si dell’art. 39 del d.lgs 163/2006 – requisito, come detto,
soggettivo e personalissimo che si pone a monte dell’avvio
dell’attività stessa – presuppone l’esistenza di una specifica
organizzazione aziendale necessaria per assicurare il corretto
espletamento del sinallagma contrattuale: organizzazione
aziendale, dunque, caratterizzata dall’impiego di attrezzature
e competenze specifiche che non potrebbero essere oggetto di
avvalimento se non attraverso il completo “distacco” delle
risorse dell’impresa ausiliaria in favore dell’ausiliata e che fi‑
nirebbe per snaturare l’istituto contemplato dall’art. 49 d.lgs.
cit. per piegarlo ad una logica della sussistenza solo formale
dei requisiti prescritti dalla lex specialis.
amministrativo
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
●
Discutibile interazione
tra il federalismo fiscale
ed il principio costituzionale
di uguaglianza
● Gaetana Marena
Avvocato e Dottore di ricerca
in Diritto Amministrativo- Università degli Studi
Napoli-Federico II
Gazzetta
F O R E N S E
Problemi di intangibilità del principio di uguaglianza si
pongono esattamente nel nuovo assetto organizzativo, che si
è venuto delineando in Italia all’indomani della legge delega
del 2009, dove, nonostante il tentativo di improntare il fede‑
ralismo fiscale cooperativo1 al rigoroso rispetto dei principi di
solidarietà e di coesione sociale, sembrerebbe che le scelte di
ripartizione delle risorse finanziarie tra il centro e la periferia
non garantiscano pienamente una equa parità di trattamento
tra i cittadini delle diverse Regioni. L’obiettivo principale
della riforma è sicuramente quello di riordinare su nuove
basi l’attuale sistema di finanziamento delle prestazioni dei
vari livelli amministrativi decentrati 2. In primo luogo, vengo‑
no individuate le spese relative ai livelli essenziali delle presta‑
zioni (LEP), contenute nell’art. 117 Cost., rientranti tra le
materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, preve‑
dendo per queste un prescrittivo obbligo di copertura integra‑
le del fabbisogno necessario al loro finanziamento. Diversa‑
mente, le altre funzioni erogate concretamente dalle Regioni,
ma non rientranti in quelle appena indicate, devono ricorrere
alla perequazione delle capacità fiscali per essere finanziate.
Una posizione intermedia è quella del trasporto pubblico lo‑
cale e degli interventi speciali ex art. 119 Cost. 3, a cui è riser‑
vata una disciplina diversa dei criteri di finanziamento. In
questo modo (ed in ciò consiste uno dei principali obiettivi
della riforma), il bilancio statale viene alleggerito di tutte
quelle voci di spesa il cui finanziamento verrà trasferito agli
enti territoriali, fermi restando gli obblighi derivanti dagli
interventi perequativi e speciali. Il nuovo assetto previsto
dalla riforma stabilisce che sia lo Stato a determinare i livelli
essenziali delle prestazioni, da garantire equamente su tutto
il territorio nazionale, in condizioni di efficienza e di appro‑
priatezza, stabilendo, nel contempo, i costi standard che defi‑
niscono i relativi fabbisogni per ciascuna realtà regionale.
L’intero meccanismo distributivo si fonda, allora, su due forme
diverse di perequazione: la prima riguarda la necessaria indi‑
viduazione dei fabbisogni necessari per la copertura dei livel‑
li essenziali delle prestazioni attraverso la definizione dei costi
standard uguali per tutto il territorio nazionale; la seconda,
attinente alle altre funzioni, fa riferimento alla capacità fisca‑
le ed, a differenza della prima, si sostanzia in una perequazio‑
ne tendenziale, ma non assoluta rispetto alle differenze esi‑
stenti tra le diverse aree territoriali.
Un significativo profilo problematico pone il nesso inestri‑
cabile che avvince i costi, i fabbisogni e la determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni4. Un primo aspetto fonda‑
1 F. Pizzetti, Un federalismo per unificare il paese e rafforzare la democrazia.
Commento all’art. 1, in V. Nicotra, F. Pizzetti, S. Scozzese (a cura di), Il
federalismo fiscale, Roma, 2009, p. 13 e ss.
2 A. De Pretis, Il federalismo fiscale in Italia: pericoli e potenzialità di una riforma ambiziosa, in A. De Pretis (a cura di), federalismo fiscale “learning by
doing”: modelli comparati di raccolta e distribuzione del gettito tra centro e
periferia, Milano, 2010, p. 79-120.
3 Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei
diritti della persona o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle
loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali
in favore di determinati Comuni, province, Città metropolitane e Regioni.
4Il tema dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale costituisce un tema
assai complesso che non può che trovare una semplice menzione in rapporto ai
meccanismi di perequazione previsti dal novellato art. 119. Si rinvia, perciò, a
E. Balboni, Il concetto di “livelli essenziali e uniformi” come garanzia in ma-
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mentale attiene alla distinzione, non sempre accolta da certa
dottrina5, tra i livelli essenziali delle prestazioni e di assisten‑
za e quelli non essenziali6. La scelta del legislatore rispetto
all’individuazione dei LEP si è mantenuta in linea con l’asset‑
to precedente, per lo meno nella fase precedente. Da un lato,
l’ambito di determinazione è limitato ai tre settori sanità,
assistenza ed istruzione, così come avveniva prima della legge
n. 42 del 2009. Dall’altro, vengono confermati i LEP fissati
dalla legislazione precedente. Attualmente, i livelli essenziali
sono previsti in svariate e disomogenee disposizioni normati‑
ve. In materia di sanità ed istruzione la legge di riferimento è
la legge n. 53 del 20037, in materia di assistenza è la legge n.
328 del 20008. Vi sono, tuttavia, altre norme che richiamano
i LEP in settori che spaziano dai servizi pubblici locali alle
attività trasfusionali, dalla previdenza sociale al diritto di
accesso agli atti amministrativi. Nella prassi, accade, assai di
frequente, che la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni (Lep) sia strettamente connessa al processo di
allocazione distributiva delle risorse, ma non necessariamen‑
te è cosi’. Anzi, si può ragionevolmente asserire che la deter‑
minazione dei Lep potrebbe anche non essere considerata
condizione necessaria e preliminare ai fini dell’individuazione
dei fabbisogni standard degli enti territoriali. Se, a dire il
vero, si erigesse il principio autonomistico come criterio di‑
rettivo fondamentale, il processo di determinazione dei costi
delle funzioni attribuite agli enti territoriali e dei conseguenti
fabbisogni standard dovrebbe necessariamente tener conto di
teria di diritti sociali, in Le istituzioni del Federalismo, 2001, p. 1103; N. Dirindin, Il diritto alla salute e livelli essenziali di assistenza, in San. Pubbl., 2000,
p. 1013; M. Luciani, Il nuovo Titolo V della Costituzione. Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in Il lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, 2002, p. 7; L. Torchia, Sistema di Welfare e federalismo, in
Quad. Cost., 2002, p. 734 e ss.; A. Poggi, Istruzione formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regionale e autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche, in Le Regioni, 2002, p. 279.
5Secondo F. Puzzo, prime considerazioni in merito alla legge delega di attuazione dell’art. 119 della Costituzione, in Astrid-online, 5 maggio 2009; F. Bassanini - G. Macciotta, Il disegno di legge sull’attuazione del federalismo fiscale
all’esame del Senato. Osservazioni e rilievi sul testo del relatore, in Astrid-online, 5 gennaio 2009, la diversificazione tra funzioni fondamentali e non fon‑
damentali non avrebbe fondamento nel dettato costituzionale. Le argomenta‑
zioni a sostegno di questa tesi si fondano sul rilievo che l’art. 119 Cost. preve‑
de che per tutte le funzioni attribuite alla competenza regionale e locale conse‑
gua l’integrale finanziamento, tenendo conto dell’effettiva capacità fiscale di
ciascun territorio per valutare l’eventuale ammontare delle risorse che debba
derivare dal fondo perequativo. Secondo E. Vigato, Federalismo fiscale e
principio di uguaglianza, in A. Benazzo (a cura di), Federalismi a confronto,
dalle esperienze straniere al caso veneto, Milano, 2010, p. 325-350, tali obie‑
zioni sono superabili rilevando che, nello sforzo all’efficienza che informa la
delega, la distinzione tra livelli essenziali e non essenziali appare coerente con
la prescrizione costituzionale, proprio ai fini del reale rispetto dei principi di
uguaglianza, unità e differenziazione. Le funzioni non fondamentali non sono,
infatti, collegate a diritti civili e sociali che necessitino di garanzia uniforme su
tutto il territorio nazionale. Ai LEP è, invece, sottesa l’idea per cui ad entità
sociali ed economiche diverse debbano corrispondere standard omogenei, nel
delicato equilibrio tra tutela dei diritti essenziali ed autonomia dei soggetti
chiamati ad attuare la riforma.
6Secondo C. Tucciarelli, La legge n. 42 del 2009: oltre l’attuazione del federalismo fiscale, in Riv. Di Diritto Tributario, 2010, n. 1, p. 76, la legge delega
del 2009 rappresenta la molla per portare a compimento la determinazione dei
livelli essenziali, in quanto è proprio da essi che occorre prendere le mosse per
la determinazione del fabbisogno standard.
7Legge n. 53 del 2003, recante delega al Governo per la definizione delle norme
generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di
istruzione e formazione professionale.
8La legge n. 328 del 2000, recante Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali.
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85
specifici fattori territoriali, prescindendo dalla previa indivi‑
duazione dei Lep. Ragionando diversamente, si arriverebbe
alla paradossale conseguenza di confinare il coinvolgimento
del sistema delle autonomie locali soltanto alle funzioni estra‑
nee ai Lep9.
Per quanto concerne, poi, il nuovo criterio operativo del
costo standard10, il passaggio da un sistema basato sulla spe‑
sa storica11, in cui lo Stato assegna le risorse in misura corri‑
9Muovendo, anzitutto, da un’impostazione decisamente più pragmatica, bisogna
analizzare il reale significato semantico del concetto del livello essenziale di
prestazione, per cogliere appieno lo snodo cruciale della riforma. Senza dubbio,
si tratta di una materia, che ha sollecitato l’attenzione del legislatore in diverse
occasioni. Si parte dalla legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario
Nazionale e dalla successiva n. 328 del 1990, le quali, benchè volte a garantire
i livelli essenziali dei medesimi, però, non hanno fornito alcuna precisa defini‑
zione. La legge costituzionale consacra il concetto di livello essenziale, attraver‑
so la novella dell’art. 117, il quale, al comma 2, riserva allo Stato la determina‑
zione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Per livello essenziale,
allora, s’intende lo standard di prestazioni che sia idoneo ad assicurare un
certo livello di benessere alla collettività, in ossequio al principio di uguaglian‑
za sostanziale. G. Rivosecchi, in la determinazione dei fabbisogni standard
degli enti territoriali: un elemento di incertezza nella vita italiana al federalismo
fiscale, in www.federalismi.it, 8, 2011, sottolinea che uno dei nodi maggior‑
mente critici della riforma è, senza dubbio, costituito dalla distinzione tra
funzioni riconducibili ai Lep ed altre funzioni, dette libere, e che, nel procedi‑
mento parlamentare, gran parte del dibattito sull’originario disegno di legge si
è concentrato sull’ampliamento delle prime o, quanto meno, sulla necessità di
garantire un adeguato finanziamento anche alle seconde, al fine di assicurare il
principio costituzionale del finanziamento integrale delle funzioni. La segmen‑
tazione delle funzioni ha dapprima determinato, come conseguenza prevedibi‑
le, la spinta degli enti territoriali per includere gran parte delle funzioni loro
attribuite tra quelle riconducibili ai Lep, in quanto soltanto per queste ultime
sembrerebbe effettivamente garantita la copertura finanziaria e, successivamen‑
te, il rischio di confinare il coinvolgimento delle autonomie nel processo di
determinazione dei fabbisogni standard alle sole funzioni libere. La stessa legge
2009, n. 42 interviene in merito, nella parte in cui distingue le spese delle Re‑
gioni tra quelle riconducibili ai Lep e le altre spese, includendo espressamente
tra le prime gli interventi per la sanità, l’assistenza e le spese per lo svolgimento
delle funzioni amministrative in materia di istruzione. Analogamente, per gli
enti locali vengono ascritte alla prima categoria le funzioni afferenti all’istru‑
zione pubblica ed al settore sociale.
10Volendo far riferimento al dibattito scientifico che si è sviluppato sul tema, si
può, anzitutto, fare accenno a due possibili interpretazioni del concetto di costo
standard: la prima che identifica il costo standard con il costo di produzione
efficiente; la seconda che intende il costo standard come il costo di erogazione
efficiente ed adeguato. L’anello di congiunzione è rappresentato dal fabbisogno
standard, per cui si rende necessario moltiplicare il costo standard per quantità
di prestazioni, a loro volta effettive o standard. È intuitivo rilevare che se in
Italia vi fossero popolazioni e servizi omogenei per appropriatezza, quantità e
qualità, il costo standard sarebbe dato dalla spesa pro capite più bassa. In re‑
altà, la fissazione di standard come se la funzione di produzione fosse unica e
condivisa, rischierebbe di imporre limitazioni in contrasto con i principi stessi
del federalismo. Passando alla metodologia di calcolo del costo standard, il
dibattito scientifico propende per due approcci: quello microanalitico e quello
macroanalitico. Il primo consiste nel considerare esplicitamente tutti i dati
monetari e fisici coinvolti, definendo di ciascuno il livello standard. Si scontra
con la complessità della definizione analitica dei costi di produzione di ciascu‑
na prestazione, data la vastità di un’infinita serie di variabili strutturali e la
necessità di un costante aggiornamento delle prestazioni incluse nei LEP. Il se‑
condo propone, invece, di partire da un dato monetario nazionale, scelto ex
ante in sede politica, applicando coefficienti correttivi territoriali di natura
tecnica. Presenta, inoltre, il rischio di addossare il processo di definizione delle
risorse disponibili a monte, a livello centrale, senza le contaminazioni derivan‑
ti dalle inefficienze prodotte a valle dalle singole amministrazioni. Nella fase
iniziale, il legislatore potrebbe optare per il dato storico; successivamente sarà
di capitale importanza individuare, nell’ambito della dinamica dei servizi, il
livello di efficienza da assumere come standard generale.
11 Per decenni, il sistema di finanziamento regionale e locale ha seguito la spesa
storica dei singoli enti, caratterizzata da forti sperequazioni, con la conseguente
produzione di distorsioni, inefficienze e l’allargamento del divario tra Nord e
Sud. Su piano della struttura dell’economia reale, l’Italia è un Paese diviso: le
differenze in termini di prelievo e spesa pro-capite delle Pubbliche Amministra‑
zioni derivano dalla struttura economico-sociale dei diversi territori ma anche
da prassi viziate da logiche assistenzialistiche. Secondo un recente studio messo
a punto da Confindustria in collaborazione con l’IPI, Istituto per la Produzione
amministrativo
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d i r i t t o
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spondente al livello di spesa sostenuta in precedenza dagli
enti locali, aggravando le situazioni dissesto già presenti12 , ad
uno fondato sul costo e sul fabbisogno standard consentirà di
ottenere un maggiore tasso di efficacia delle decisioni di spe‑
sa, cercando, pertanto, di trasformare il binomio spesa stori‑
ca/inefficienza - costo standard/efficienza in un federalismo
fiscale che realizzi compiutamente i principi costituzionali di
solidarietà ed uguaglianza. Se è sicuramente vero che esiste
una sostanziale uniformità nel ritenere che i costi standard
rappresentino un modello economico di riferimento sul quale
fondare il finanziamento integrale delle prestazioni e dei ser‑
vizi essenziali, è altrettanto vero che si profilano incertezze
sulla loro determinazione contenutistica ed estimativa. In
realtà, né la legge delega né il decreto legislativo n. 216 del
2010 forniscono alcuna definizione univoca dello stesso,
bensì si limitano a disciplinare soltanto le metodologie adot‑
tate, i soggetti ed i procedimenti per il definitivo superamen‑
to del criterio della spesa storica13. Il legislatore non dà indi‑
cazioni di calcolo14, come era naturale attendersi in una legge
Industriale (Lo studio Check-up del Mezzogiorno è stato presentato ad aprile
2010 dall’Area Mezzogiorno di Confindustria e dal Centro Studi dell’IPI, in
www. confindustria.it), allo stato attuale esiste una vera e propria “emergenza
Sud”, per cui si riscontra la minore efficienza dei servizi pubblici, la scarsità
delle infrastrutture e di innovazione, la ripresa dell’emigrazione, un tasso di di‑
soccupazione del 36% rispetto al Centro-Nord.
Il Rapporto SVIMEZ (Rapporto SVIMEZ 2009 sull’economia del Mezzogiorno,
in http://web.mclink.it, Roma, 16 luglio 2009, p. 4) dimostra come il Meridione
non riesca a recuperare il gap di sviluppo: se nel 1951 veniva prodotto il 23,9%
del PIL nazionale, sessant’anni dopo la quota è rimasta sostanzialmente invaria‑
ta (23,8%). Anche la Corte dei Conti (Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, in www.corteconti.it, 14 maggio 2010, p. 68) ha recentemente
auspicato il superamento delle contraddizioni nella ridefinizione e nel governo
strategico delle relazioni finanziarie tra livelli di governo, nel senso della respon‑
sabilizzazione e dell’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali.
12 T. Martinez- A. Ruggeri- C. Salazar, Lineamenti di diritto regionale. Appendice di aggiornamento. Il federalismo fiscale secondo la legge n. 42 del 2009,
Milano, 2009, p. 7.
13 Benchè, in ossequio a quanto suggerito da alcune impostazioni prevalentemen‑
te aziendalistiche, statistiche ovvero econometriche, la determinazione dei costi
standard possa avvenire nel modo più diverso, è noto che gli stessi riassumano,
in generale, l’esito quantitativo del processo di corretta predefinizione del costo
di riferimento della produzione di un servizio nella condizione di migliore effi‑
cienza/utilità, ma, quanto alla loro effettiva individuazione e, segnatamente, agli
effetti che produrranno sulla determinazione dei fabbisogni degli enti territoria‑
li nonché sulla copertura finanziaria delle funzioni loro attribuite, tutto dipende
dalla costruzione di parametri preventivi di misurazione che è rimessa al legisla‑
tore delegato. La circostanza, però, che il costo standard si configuri come
grandezza economica, si riflette sulla difficoltà di individuare, nella determina‑
zione dei fabbisogni standard, parametri comuni a tutti gli enti territoriali, che
adottano un sistema di contabilità basata sulla competenza giuridica.
Di qui l’auspicio ad un modulo organizzatorio, fondato prevalentemente
sull’armonizzazione degli enti territoriali, che introduce all’innovativa nozione
di coordinamento dinamico della finanza pubblica, intesa come strumento fi‑
nalizzato a realizzare l’obiettivo della convergenza dei costi e dei fabbisogni
standard dei vari livelli di governo nonché un percorso di convergenza degli
obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni ed alle funzioni fonda‑
mentali di cui all’art. 117 Cost. La legge delega introduce, allora, un istituto
inedito, denominato patto di convergenza, volto appunto a conseguire quel
coordinamento dinamico della finanza pubblica, finalizzato ad agevolare il ri‑
allineamento dei costi e dei fabbisogni standard dei vari livelli di governo. Il
patto di convergenza sembrerebbe configurarsi come una sorta di patto di
stabilità interno dai contenuti più estesi, indicando un insieme di regole per il
coordinamento in senso dinamico della finanza pubblica che il Governo è
chiamato a definire annualmente nella legge di stabilità previo confronto con
le autonomie locali. Ai sensi dell’art. 18 della legge delega, il Governo è tenuto
a proporre norme di coordinamento dinamico della finanza pubblica finalizza‑
te a realizzare l’obiettivo della convergenza dei costi e dei fabbisogni standard
dei vari livelli di governo nonché un percorso di convergenza degli obiettivi di
servizio ai livelli essenziali delle prestazioni ed alle funzioni fondamentali.
14La scelta di non definire una metodologia di calcolo ha destato qualche per‑
plessità. Si veda A. Tardiola, Il ruolo del costo standard nella riforma federalista del welfare, in La rivista delle politiche sociali, 2008, fasc. 3, p. 212, ove
Gazzetta
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delega, rinviando ai decreti attuativi il compito di riempire di
contenuti economici la definizione di costo standard15. Una
delle questioni più urgenti che si pone afferisce, infatti, all’in‑
dividuazione di parametri certi per la sua determinazione
precisa, tenendo conto di tutte le possibili variabili, quali la
dimensione dei territori, le condizioni socio-economiche, le
specificità istituzionali, strutturali ed organizzative. È, sicu‑
ramente necessario premettere che il costo standard è una
grandezza economica e non finanziaria, che, in omaggio alle
teorie aziendalistiche, rappresenta lo strumento per valutare
l’efficienza con un’azienda o un reparto vengono gestiti e per
fissare obiettivi a medio termine nell’ambito del controllo di
gestione. Dal confronto tra i costi standard ed i costi effettivi,
possono trarsi valutazioni sull’efficienza del management
ovvero sulla validità delle politiche aziendali, trattandosi di
parametri ai quali comparare l’intera gestione economica.
Nella prospettiva della legge delega del 2009, il concetto
viene utilizzato in modo parzialmente diverso, come strumen‑
to di controllo e programmazione. In qualità di strumento di
controllo, fornisce la base informativa per valutare in termini
economici il divario tra comportamento economico atteso e
comportamento economico effettivo. Come strumento di
programmazione, definisce obiettivi che presuppongono il
comportamento atteso da parte dei responsabili della gestio‑
ne delle risorse disponibili. Si è detto, da più parti, che il Fe‑
deralismo fiscale, delineato nella legge delega del 2009, non
rappresenterebbe un perfetto punto di equilibrio tra efficien‑
za ed equità; al contrario, sarebbe iniquo perché discrimina
territorialmente individui identici, appartenenti alla medesima
nazione16. Si è anche sottolineato che la legge delega del 2009
crea una situazione paradossale, decisamente differente da
quella esistente negli altri Stati federali, dove di ha una pere‑
quazione fiscale che mira a ridurre le differenze legate allo
standard di vita degli abitanti, mentre la tutela dei livelli es‑
senziali delle prestazioni è assicurata esclusivamente da alcu‑
ne clausole di salvaguardia, che intervengono solo dopo una
prima perequazione delle risorse sulla base della capacità fi‑
scale. Con la legge delega si rovescia, invece, questo criterio:
i livelli essenziali assumono una rilevanza assoluta rispetto al
resto. La perequazione totale avverrà inducendo tutti gli enti
ad avere i livelli essenziali al costo standard, a prescindere
dalle imposte loro attribuite. Ad avviso di chi scrive, invece,
il federalismo fiscale rappresenta un meccanismo, che, se
correttamente attuato, può realmente far in modo che i livel‑
li decentrati di governo perseguano quegli obiettivi di efficien‑
si coglie l’occasione per evidenziare “che i modelli organizzativi e gestionali
delle Regioni e delle aziende fanno riferimento ad un mix di fattori produttivi
in molti casi-purtroppo territorialmente concentrati- così inappropriati ed
inefficienti rispetto a quelli virtuosi, da costruire un serio vincolo all’introdu‑
zione di una regola al costo standard omogeneo a livello nazionale”. Si veda,
altresì, E. JORIO, Federalismo fiscale:costi standard in cerca d’autore, in Astridonline, 3 giugno 2010. L’autore rileva che “i costi standard risultano solo
enunciati e, dunque, non minimamente presumibili, dal momento che essi sono
destinati a venire fuori, esclusivamente, a seguito di più o meno difficoltosi
procedimenti matematico-statistici, fondati sulle diverse teorie economiche
adattabili al riguardo per determinare, con verosimile precisione, i cosiddetti
valori medio-convenzionali”.
15Si veda C. Buccico, Alcuni spunti di riflessione sull’attuazione del federalismo
fiscale, in Rass. Tributaria, n. 5, 2009, p. 1328.
16 È quanto sottolinea E. Vigato, Federalismo fiscale e principio di uguaglianza,
in A. Benazzo (a cura di), Federalismi a confronto, dalle esperienze straniere
al caso veneto, Milano, 2010, p. 324-350.
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za ed economicità dell’azione amministrativa. Il tutto contem‑
perato con la giusta preservazione del principio di uguaglian‑
za dei cittadini e del loro inviolabile diritto ad usufruire dei
livelli essenziali delle prestazioni in ogni ambito territoriale.
Certamente, l’introduzione del criterio del costo standard,
quale parametro economico a cui rapportare l’erogazione dei
livelli essenziali delle prestazioni rischia di alimentare, alme‑
no apparentemente, quelle situazioni discriminatorie già esi‑
stenti tra le varie Regioni, nel momento in cui la determina‑
zione oggettiva del costo, rimessa, come tale, agli organi di
vertice centrale dello Stato, non considera e non può, per
certi aspetti, considerare tutte le sfumature sociali e ed eco‑
nomiche caratterizzanti ogni singola Regione. Quindi, prima
facie, il meccanismo distributivo, per come impostato, sem‑
brerebbe realmente creare delle situazioni di difficoltà per le
Regioni, le quali devono impegnarsi ad erogare le prestazioni
essenziali al costo standard e, laddove non riescano a rientra‑
re nei limiti economici prefissati, dovranno sostenerne la
differenza. A livello di tutela dei cittadini, effettivamente
sembrerebbe che chi vive in una Regione, economicamente
più prospera, potrà godere di condizioni di maggiore vantag‑
gio, legate alle più elevate possibilità economiche della Regio‑
ne, che, pertanto, è in grado di assicurare la produzione di
livelli essenziali ed a condizioni di particolare efficienza. Il
tutto a discapito, eventualmente, del cittadino che risiede in
una diversa realtà regionale, connotata da carenza di risorse
economiche. Ma è anche vero che l’erogazione del servizio
essenziale da parte di ciascun livello di governo, da un lato, e
la stessa fruizione del medesimo da parte del cittadino, dall’al‑
tro, sono pienamente assicurate dal Nord al Sud, dal momen‑
to che la legge introduce, proprio allo scopo di ridurre le
differenze di capacità fiscale esistenti, il meccanismo del fon‑
do perequativo. Il fondo perequativo nasce, allora, come una
forma di sanatoria per quella che, di primo acchito, si presen‑
ta proprio come la reale debolezza della riforma fiscale, eli‑
dendo tutte quelle situazioni discriminatorie che potrebbero
venire in evidenza dall’operatività dei meccanismi distributi‑
vi. Attraverso la partecipazione alle quote del fondo perequa‑
tivo, rispondenti proprio alla finalità di solidarietà sociale di
cui all’art. 2 della Costituzione, ogni Regione, che non riesca
con i tributi propri, autonomi o derivati, a garantire l’eroga‑
zione dei livelli essenziali, può ricorrere ad una forma di fi‑
nanziamento che funga da supporto alle sue carenze di bilan‑
cio ed ottenere, conseguentemente, il raggiungimento
dell’obiettivo. Le discriminazioni tra i cittadini, in questo
modo, verrebbero palesemente contenute e, con la volontà
degli amministratori locali, addirittura ridotte, dal momento
che tutti i cittadini di ciascuna Regione godrebbero di quelli
che rappresentano servizi ineliminabili, come la sanità, l’assi‑
stenza e l’istruzione. Potrebbero, a questo punto, residuare
forme di differenziazione locale, legate alle diverse modalità
con cui la produzione di questi servizi vengano assicurate e
sulle quali incidono, in maniera pregnante ed, al contempo,
inevitabile, le condizioni economiche delle singole Regioni.
Ma, ad avviso di chi scrive, la differenziazione locale è am‑
missibile, nel momento in cui può rappresentare un vero e
proprio valore sociale, se, in una dinamica tipicamente com‑
petitiva, spinge verso a forme di migliore e più produttiva
efficienza pubblica ed induce, in uno spirito armonicamente
emulativo, a raggiungere risultati sempre più proficui. Lo
2 0 1 2
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stesso principio di uguaglianza sostanziale giustifica e con‑
sente ciò, laddove consente di trattare situazioni diverse in
modo diverso. Ed, a questo punto, può essere utile citare
Bordignon, per il quale “vi è una violazione del principio di
uguaglianza, se i cittadini non ricevono i medesimi servizi
essenziali, indipendentemente dalla Regione di residenza. Non
vi è violazione, tuttavia, se i cittadini di alcune realtà territo‑
riali ricevano di più di questi servizi, purchè a tutti siano
garantiti quelli essenziali”17.
17Vedi M. Bordignon, Alcune tesi sul federalismo fiscale, in Economia italiana,
2005, n. 2, p. 369-370.
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d i r i t t o
●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice
dei contratti pubblici
di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Avvocato-Dirigente presso la Regione Campania
a m m i n i s t r at i v o
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F O R E N S E
Appalto integrato di progettazione esecutiva o di esecuzionerequisiti di ordine generale ex art. 38 - devono sussistere anche in
capo al soggetto incaricato dell’attività di progettazione (art. 38
d.lgs. 163/2006)
In presenza di un appalto integrato di progettazione esecutiva o di esecuzione il possesso dei requisiti di ordine generale prescritti dall’art. 38 del d.lgs. 163/2006 deve sussistere
anche in capo al soggetto incaricato dell’attività di progettazione dal soggetto partecipante.
Del resto la ratio agevolatrice del concorrente, ancorchè
unico, della prevista possibilità di indicare il progettista non
può incidere sulla necessità che sia garantita quanto meno
tendenzialmente l’affidabilità e l’onorabilità nei riguardi di chi
venga comunque in rapporto diretto con la P.A., indipendentemente dal soggetto destinatario del pagamento del corrispettivo e su cui ricada la responsabilità da inadempimento.
Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2012, n.178
Pres. Giancarlo Coraggio; Est. Claudio Contessa
Irregolarità e/o incompletezza delle dichiarazioni relative al subappalto – preclude all’aggiudicatario la possibilità di avvalersi
del subappalto (art. 118 d.lgs. n. 163/2006)
L’eventuale irregolarità e/o incompletezza della dichiarazione resa in sede di offerta circa le opere, i servizi e le forniture che il concorrente intenda subappaltare non costituisce
causa di esclusione dalla gara, ma preclude a chi ne sia risultato aggiudicatario, la possibilità in fase di lavori, di fare ricorso al subappalto.
Ciò sul rilievo, per cui, le condizioni di ammissibilità del
subappalto, di cui all’art.118 del codice degli appalti non
appaiono unicamente intese a tutelare l’interesse dell’Amministrazione committente all’immutabilità dell’affidatario, ma
tendono invece a evitare che nella fase esecutiva del contratto si pervenga attraverso modifiche sostanziali dell’assetto di
interessi scaturito dalla gara pubblica a vanificare proprio
quell’interesse pubblico che ha imposto lo svolgimento di una
procedura selettiva e legittimato l’individuazione di una determinata offerta come la più idonea a soddisfare le esigenze
della collettività, cui l’appalto è preordinato.
Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2012, n. 262
Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Antonio Bianchi
Procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta – calcolo della
soglia di anomalia – clausole della lex specialis che consentano
arrotondamenti – sono di stretta interpretazione ed insuscettibili di applicazione estensiva
Secondo l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa, nella delicata fase di individuazione dell’offerta più
bassa e di determinazione della soglia di anomalia, ogni arrotondamento costituisce una deviazione dalle regole matematiche da applicare in via automatica, cosicché gli arrotondamenti sono consentiti soltanto e espressamente previsti dalle
norme speciali di gara e nei limiti dalle stesse consentiti.
Pertanto le norme di gara che consentono tali arrotondamenti sono di stretta interpretazione e non sono suscettibili
di applicazione estensiva.
Tar Campania - Napoli, sez. VIII, 26 gennaio 2012, n. 411
Pres. Antonino Savo Amodio; Est. Gianluca Di Vita
Requisiti di affidabilità morale e dichiarazioni dirette a compro-
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varne il possesso – clausole della lex specialis più restrittive nei
confronti dei soggetti cessati dalle cariche aziendali – inammissibilità
Se per un verso va riconosciuta la potestà della stazione
appaltante di estendere la portata degli accertamenti richiesti, con il limite della proporzionalità e non discriminazione,
sarebbe nondimeno incongruo ritenere che per gli esponenti
aziendali cessati vengano richiesti adempimenti documentali più articolati di quelli previsti per i soggetti in carica.
Pertanto è ragionevole interpretare la disciplina di gara nel
senso di prevedere per i soggetti cessati, pur nell’osservanza
delle prescrizioni stabilite dall’art. 38, un ambito più ristretto della documentazione prescritta, piuttosto che un ambito
ampliativo, da riferire ai soli esponenti aziendali in carica.
Tar Campania - Napoli, sez. I, 31 gennaio 2012, n. 475
Pres. Antonio Guida; Est. Fabio Donadono
Requisiti di capacità economica e finanziaria - clausola della lex
specialis che consenta la produzione di documenti alternativi alle
referenze di due istituti bancari – omissione – illegittimità – non
sussiste, stante il principio di etero integrazione automatica della lex
specialis con norme imperative (art. 41, comma 3, d.lgs. 163/2006)
Il concorrente escluso dalla gara per non aver prodotto
alcuna documentazione idonea a comprovare il possesso dei
requisiti di capacità economica e finanziaria non può dolersi del fatto che il bando di gara non prevedesse espressamente la possibilità di provare i requisiti in questione con altri
documenti idonei, secondo quanto previsto dall’art. 41,
comma 3; e ciò perché quando la lex specialis della gara non
riproduca una norma imperativa dell’ordinamento giuridico
soccorre il meccanismo di integrazione automatica, sicché,
analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi
degli art. 1374 e 1339, c.c., si colmano in via suppletiva le
eventuali lacune del provvedimento adottato (Cons. Stato,
sez. VI, 13 giugno 2008, n. 2959).
Ne deriva l’automatica applicabilità dell’art. 41, comma
3, del d.lgs. n. 163/2006, nel senso che il beneficio della
possibilità di provare altrimenti detto requisito deve ritenersi operante indipendentemente da un’espressa previsione da
parte della lex specialis di gara.
Cons. Stato, sez. V, 31 gennaio 2012, n.467
Pres. Stefano Baccarini; Est. Antonio Amicuzzi
Requisiti di capacità economica e finanziaria - documentazione
alternativa alle referenze bancarie – omissione, imputata all’assenza di una clausola espressa nella lex specialis - obbligo della
stazione appaltante di disporre l’integrazione documentale – non
sussiste (art. 41, comma 3, d.lgs. 163/2006)
La mancata produzione della documentazione di cui
all’art. 41, comma 3- diretta a comprovare il possesso dei
requisiti di capacità economica e finanziaria in luogo delle
referenze bancarie- non può essere imputata all’assenza di
una clausola espressa della lex specialis, né può essere “sana-
2 0 1 2
89
ta” attraverso la regolarizzazione postuma.
Ed invero, il rimedio da ultimo indicato non si applica al
caso in cui l’impresa concorrente abbia integralmente omesso di presentare la documentazione la cui produzione è richiesta a pena di esclusione; solo qualora la documentazione
prodotta da un concorrente ad una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, di guisa che sussista
un indizio del possesso del requisito richiesto, l’Amministrazione non può pronunciare l’esclusione dalla procedura, ma
è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il
contenuto di un documento già presente, costituendo siffatta attività acquisitiva un ordinario modus procedendi, ispirato all’esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma.
Cons. Stato, sez. V, 31 gennaio 2012, n.467
Pres. Stefano Baccarini; Est. Antonio Amicuzzi
Requisiti di capacità economica e finanziaria e tecnico organizzativa – insussistenza – esclusione – automatico incameramento
della cauzione provvisoria (art. 48, comma 1, d.lgs. 163/2006)
L’esclusione dalla gara per l’accertata mancanza di uno
dei requisiti di capacità economica e finanziaria e tecnico
organizzativa determina ai sensi dell’art.48 comma 1 del
Codice dei Contratti l’escussione della cauzione provvisoria
prestata e la segnalazione del fatto all’Autorità di Vigilanza
dei contratti pubblici per i provvedimenti di cui all’art.6
comma 11 dello stesso codice.
Infatti anche a voler ammettere la non automaticità della
misura dell’incameramento della cauzione in seguito ad un
provvedimento di esclusione da una gara, la stessa non può
essere comunque esclusa quando, come nel caso di specie,
risulti accertata la carenza sul piano sostanziale dei requisiti
di capacità economica e tecnico organizzativa che l’impresa
avrebbe dovuto possedere per partecipare alla gara.
Cons. Stato, sez. III, 4 gennaio 2012, n.3
Pres. Pier Giorgio Lignani; Est. Dante D’Alessio
Requisiti di ordine generale – insussistenza – esclusione – funzione sanzionatoria tassativa – inammissibilità dell’estensione a
fattispecie diverse (art. 48 d.lgs. 163/2006)
In materia di contratti pubblici, le sanzioni che determinano l’esclusione dalla gara, l’escussione della cauzione
provvisoria e la segnalazione del fatto all’Autorità di Vigilanza sono riferibili esclusivamente a cause relative ai requisiti di capacità economico – finanziaria e tecnico organizzative della concorrente e non anche ai requisiti richiesti ai fini
della partecipazione alla gara di cui all’art. 38 del d.lgs
163/2006.
Infatti la mancanza di requisiti di carattere generale ex
art 38 è sanzionata con la sola esclusione, avendo l’art.48
una funzione sanzionatoria tassativa, non estensibile a ipotesi di tipo diverso.
Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2012, n.80
Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Adolfo Metro
amministrativo
Gazzetta
Diritto tributario
Il trattamento fiscale privilegiato degli immobili posseduti da enti ecclesiastici
al vaglio della Commissione Europea
93
Enza Sonetti
Il riparto di giurisdizione in materia tributaria nelle decisioni della Cassazione del 2011 101
Osservatorio di Giurisprudenza Tributaria
tributario
a cura di Raffaele Cantone
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
●
Il trattamento fiscale
privilegiato
degli
immobili
●
Clelia Buccico
Professore aggregato di Diritto tributario
posseduti
presso la Seconda Università degli Studi di Napoli
da enti ecclesiastici
al vaglio
della Commissione
Europea
● Enza Sonetti
Dottore in Giurisprudenza
2 0 1 2
93
Sommario: Premessa - 1. L’esenzione prevista dall’art. 7
co. 1 lett. i) - 1.1. Le altre misure oggetto dell’analisi della
Commissione - 2. La procedura avviata dalla Commissione
Europea - 2.1. La valutazione inerente alla sussistenza
dell’aiuto - 2.2. Ultimi sviluppi della vicenda.
Premessa
Con l’approvazione del decreto Salva Italia1 , è stata antici‑
pata in via sperimentale a decorrere dall’anno 2012, l’applica‑
zione dell’imposta municipale propria (IMU) 2 . L’art. 13 del
D.L. 201/2011 prevede infatti che l’applicazione dell’imposta,
destinata ad entrare a regime a partire dall’anno 2015, sia
anticipata, seppur in maniera sperimentale a partire da
quest’anno. La nuova imposta ingloberà l’Ici e l’Irpef sui red‑
diti fondiari degli immobili non concessi in locazione.
Presupposto dell’IMU, che ricalca la disciplina dettata
dall’art 1 del decreto Ici3, è il possesso di immobili. Soggetto
passivo è il proprietario di immobili, di terreni , aree edifica‑
bili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali
o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impre‑
sa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abita‑
zione, enfiteusi, superficie sugli stessi4.
La nuova imposta sugli immobili, però, a differenza dell’Ici
ha ad oggetto anche l’abitazione principale del soggetto passi‑
vo, le pertinenze della stessa ed i fabbricati rurali sia ad uso
abitativo che ad uso strumentale allo svolgimento di attività
agricole.
La sottoposizione dell’abitazione principale a tassazione,
che era stata abrogata nel 2008, è stata accompagnata da un
notevole inasprimento del carico fiscale, dato dalla rivaluta‑
zione delle rendite. È infatti previsto che la base imponibile
dell’Imposta municipale propria sia costituita dal valore
dell’immobile definito ex art. 5 cc. 1, 3, 5, 6 Decreto Ici ovve‑
ro applicando alle rendite catastali vigenti al 1 gennaio dell’an‑
no di imposizione e rivalutate del 5% i moltiplicatori così come
aggiornati dall’art. 13 co. 4. 5.
La nuova imposta municipale s’inserisce in una manovra
molto gravosa economicamente per i contribuenti ed in parti‑
colare per i ceti meno abbienti, che sono stati chiamati ad af‑
frontare dei sacrifici non indifferenti per consentire al Paese di
uscire dall’emergenza. Le parole chiave utilizzate dal Governo
dei tecnici per presentare le nuove misure sono state “rigore,
equità e crescita”.Ciò nonostante, le principali critiche alla
manovra, che in non poche occasioni hanno assunto caratteri
1 Cfr. D.l. 6 dicembre 2011, conv. con L. 214/2011.
2 Cfr. art. 13, d.l. n. 201/2011 cit.
3 Cfr, “Riordino della finanza degli Enti locali” d.lgs. 504 del 30 dicembre 1992,
in seguito Decreto Ici.
4 Cfr. art. 3, decreto Ici.
5 Cfr. “Per i fabbricati iscritti in catasto, il valore è costituito da quello ottenuto
applicando all’ammontare delle rendite risultanti in catasto, vigenti al 1° genna‑
io dell’anno di imposizione, rivalutate del 5 per cento ai sensi dell’articolo 3,
comma 48, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, i seguenti moltiplicatori: a.
160 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale A e nelle categorie catastali
C/2, C/6 e C/7, con esclusione della categoria catastale A/10; b. 140 per i fab‑
bricati classificati nel gruppo catastale B e nelle categorie catastali C/3, C/4 e
C/5; b-bis. 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale D/5; c. 80 per
i fabbricati classificati nella categoria catastale A/10; d. 60 per i fabbricati clas‑
sificati nel gruppo catastale D, ad eccezione dei fabbricati classificati nella cate‑
goria catastale D/5; tale moltiplicatore è elevato a 65 a decorrere dal 1° gennaio
2013; e. 55 per i fabbricati classificati nella categoria catastale C/1”. Art. 13 co.
4 d.l. 201/2011, cit.
tributario
Gazzetta
94
d i r i t t o
demagogici e strumentali, hanno riguardato la scarsa inciden‑
za dei provvedimenti tesi a favorire l’equità e la crescita.
In particolare fra le molte polemiche che hanno seguito
l’approvazione del decreto salva Italia, ha acceso un dibattito
particolarmente fervido la decisione di lasciare intatta la di‑
sciplina dettata dall’art. 7 co.1 lett. i) del decreto Ici, che
prevede un regime fiscale agevolativo per gli immobili utiliz‑
zati dagli enti ecclesiastici, peraltro già esclusi dalla rivaluta‑
zione delle rendite catastali6 .
I dati al riguardo sono contrastanti: secondo le stime del
Ministero delle Finanze l’esenzione ex art. 7 citata , consideran‑
do tutti gli enti non commerciali che beneficiano della stessa,
realizza ogni anno una perdita di gettito pari a circa cento
milioni di Euro7 mentre per l’Associazione Nazionale Comuni
Italiani la perdita, considerando il solo patrimonio immobilia‑
re degli enti ecclesiastici in cui si svolgono attività commerciali,
ammonterebbe addirittura a seicento milioni di Euro8 .
La problematica di seguito analizzata verte principalmen‑
te intorno alla previsione del decreto Ici in virtù della quale
gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali, fra i quali
rientrano gli enti ecclesiastici, godono dell’esenzione dall’im‑
posta qualora esercitino una delle attività indicate dall’arti‑
colo stesso9. La norma nel corso degli anni è stata più volte
oggetto di revisione e di aspre polemiche, soprattutto perché
da più parti è stato contestato spesso l’utilizzo “abusivo”
dell’esenzione. L’individuazione della commercialità dell’atti‑
vità svolta, che farebbe venir meno il diritto all’agevolazione,
considerata in questo caso la natura del soggetto esercitante,
è soventemente di difficile individuazione.
Nel 2006 alcuni rappresentanti politici nazionali hanno
denunciato per la prima volta alla Commissione Europea il
regime di favore previsto a favore degli enti ecclesiastici, che
secondo gli stessi costituirebbe un aiuto di Stato in contrasto
con le norme europee che regolano la concorrenza all’interno
del mercato comune.
L’indagine, archiviata in un primo momento e poi ripresa
sulla spinta delle pressioni provenienti dai denuncianti italia‑
ni non ha ad oggetto solo il regime di esenzione previsto dal
decreto Ici, bensì anche l’art. 149 del Tuir il quale nel preve‑
dere le ipotesi in cui l’ente non commerciale perde tale quali‑
fica, ne esclude l’applicazione proprio con riguardo agli enti
ecclesiastici.
1. L’esenzione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i)
L’ente non commerciale per espressa previsione normativa
è quell’ente pubblico e privato diverso dalle società, i trust che
non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo
del risparmio, residenti nel territorio dello Stato10. Nulla vieta
pertanto a tali enti di esercitare attività commerciale, purché
6 Cfr. Bruno E.- Mobili M. “La rivalutazione delle rendite esclude la Chiesa”
tratto dal Sole24ore del 9 dicembre 2011.
7 Cfr. Relazione finale del Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale del
22.11.2011.
8 Cfr.“Ici Chiesa, Ue: “Progresso la proposta di Monti”. Anci: nelle casse dei
Comuni 600 milioni”tratto da Repubblica del 16 febbraio 2012.
9 Cfr. D.lgs. 504/92, art. 7 co. 1 Lett. i).
10 Cfr. Art. 73 co. 1 lett. c) Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con
D.P.R. 917/1986, in seguito TUIR.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
tale attività non sia svolta in maniera esclusiva o principale11.
Gli enti ecclesiastici, civilmente riconosciuti dall’Accordo
modificativo del Concordato Lateranense per la chiesa Cat‑
tolica12 e dalle intese fra lo Stato e le altre confessioni religio‑
se rientrano ai fini fiscali nella categoria degli enti non com‑
merciali ex art. 73 co1 lett. c) del Tuir.
Avendo al riguardo gli enti ecclesiastici la l. 222/85 appli‑
cativa dell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense
prevede all’art. 15 che gli enti ecclesiastici possano svolgere a
determinate condizioni attività diverse da quelle di religione
e di culto, ivi comprese le attività commerciali, senza perdere
la qualifica di ente ecclesiastico. La condizione affinché pos‑
sano esser svolte anche attività diverse da quelle di religione
o culto è che le stesse siano esercitate nel rispetto della strut‑
tura e della finalità di tali enti13 .Inoltre secondo quanto di‑
sposto dagli accordi di Villa Madama14 , tali attività sono
soggette alle leggi dello Stato relative ed al regime tributario
previsto per le medesime.
Fatta questa doverosa premessa, è possibile procedere
all’analisi della disciplina dettata dall’art. 7 citato15.
La norma prevede che sono esenti dall’imposta gli immo‑
bili utilizzati dagli enti non commerciali destinati esclusiva‑
mente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali,
sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive,
nonché delle attività di cui all’ articolo 16, lettera a), della
legge 20 maggio 1985, n. 222 ovvero quelle dirette all’eser‑
cizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del
clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’edu‑
cazione cristiana16 .
La ratio dell’esenzione è legata alla particolare rilevanza
sociale riconosciuta dal legislatore a tali attività.
Fra il 2005 ed il 2006 la disciplina inerente all’esenzione
Ici per gli immobili utilizzati dagli enti ecclesiastici è stata
oggetto di diversi interventi legislativi che hanno generato non
poca confusione in ordine alle condizioni necessarie per poter
fruire dell’esenzione.
Ma procediamo con ordine.
Nel 2005 il d.l. n. 163 aveva previsto all’art. 6 che l’esenzio‑
ne di cui all’art. 7 summenzionato, doveva intendersi applica‑
bile anche in caso di immobile utilizzato per attività diverse da
quelle istituzionali, ovvero per quelle di assistenza, beneficenza,
istruzione, educazione e cultura, pur se svolte in forma com‑
merciale purché connesse a finalità di religione o di culto.
Il collegamento con le finalità di religione e di culto, am‑
pliava notevolmente il campo di applicazione dell’esenzione
11Cfr. Tatulli F., “La qualificazione degli enti non profit ed i caratteri distintivi
degli enti non commerciali e delle Onlus” in Il fisco, 2006, n. 11, fasc. n. 1, p.
1651.
12 Cfr. L. 121/1985.
13 Cfr. Art. 7, n. 3, Accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18
febbraio 1984.
14 Cfr. Accordo fra la repubblica italiana e la Santa Sede, cit.
15 Per un ulteriore approfondimento si veda: Marini, “Contributo allo studio
dell’imposta comunale sugli immobili”, Milano 2000; Rivetti , “La disciplina
tributaria degli enti ecclesiastici. Profili di specialità tra attività no profit o for
profit”, Giuffré, 2008.
16 La distinzione fra attività istituzionali e non, degli enti ecclesiastici è contenuta
rispettivamente alle lett.a) e b) della l.222/1985 citata, Nel primo gruppo rien‑
trano le attività di religione e di culto mentre nel secondo quelle di assistenza,
beneficenza, istruzione educazione e cultura ed in ogni caso le attività commer‑
ciali o a scopo di lucro.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
ma creava al tempo stesso una grave disparità, rendendosi
applicabile solo agli enti ecclesiastici.
Va sottolineato che tale interpretazione della norma age‑
volativa fu accolta favorevolmente in ambito ecclesiastico,
tant’è che la CEI, con Nota dell’Ufficio Nazionale per i pro‑
blemi giuridici aveva sottolineato che quanto disposto con
l’art. 6 fosse già in realtà insito nella disciplina dettata dal
decreto Ici e che pertanto l’esenzione, contrariamente a quan‑
to affermato dalla giurisprudenza di legittimità che dava
un’interpretazione più restrittiva della norma, dovesse essere
riconosciuta anche qualora l’attività esercitata fosse conside‑
rata commerciale ai fini fiscali17.
La questione però è stata facilmente superata, stante la
mancata conversione in legge del decreto.
In seguito la l. 284/2005 con l’art. 7 co. 2 bis aveva dispo‑
sto che l’esenzione dovesse intendersi applicabile alle attività
indicate dall’art. 7 citato, a prescindere dalla natura eventual‑
mente commerciale delle stesse. A quest’ultima norma dovreb‑
be riconoscersi il carattere di norma di interpretazione auten‑
tica, stante la successiva disposizione ex art. 1 co. 133 della
finanziaria 2006, che modificando l’art. 7, comma 2-bis, ora
citato, aveva espressamente escluso che per eventuali paga‑
menti effettuati prima della data di entrata in vigore della
legge di conversione del decreto 248, potesse farsi luogo a
rimborsi e restituzioni d’imposta.
L’ultima revisione della disciplina è arrivata con il decreto
Bersani: la novità introdotta ruota intorno all’avverbio “esclu‑
sivamente” che è stato inserito dall’art. 39 nell’art. 7 co 2-bis,
ora citato. L’esenzione infatti spetta, tutt’oggi alle attività
indicate dalla lett. i) co. 1 art. 7 che non abbiano natura
“esclusivamente” commerciale18 .
Stante dunque la veloce progressione di norme sul punto si
è acceso in giurisprudenza un dibattito inerente soprattutto la
natura dell’ultima modifica introdotta. La natura interpreta‑
tiva della norma contenuta nel decreto Bersani, infatti avrebbe
avuto riflessi non indifferenti per le casse dello Stato.
La CTR di Napoli, con decisione n.50/31/1119 depositata
il 18.02.11 nell’accogliere l’appello di un Comune che aveva
contestato l’esercizio di attività commerciale ad un ente eccle‑
siastico, ha effettuato una importate analisi delle modifiche
che si sono succedute in relazione all’esenzione prevista
dall’art. 7 citato fra il 2005 ed il 2006, negando alle stesse la
natura di norme di interpretazione autentica, essendo piutto‑
sto norme innovative. Logico corollario di tale affermazione
è che le norme sopravvenute non potevano trovare applicazio‑
ne per le fattispecie pregresse alla loro entrata in vigore.
Diversamente si è espressa la CTR del Lazio20 la quale ha
attribuito alla novella ex art. 39 l. 248/2006 carattere di
norma di interpretazione autentica.
La legge d’interpretazione autentica, mira a precisare il
significato di una precedente disposizione legislativa consen‑
tendo di individuare l’intenzione del legislatore intesa come
voluntas legis. Secondo l’orientamento consolidato, “la qua-
17 Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Nota dell’Ufficio Nazionale per i problemi
giuridici del 29/09/2005.
18 Cfr. D.l. 4 luglio 2006, n. 223.
19 Cfr. Comm. Trib. Reg. Campania, sent. n. 50/31/11 del 18.02.11, Comm. Trib.
Reg. Lazio, sent. 222/10/2008 del09/01/2008.
20 Cfr. CTR Lazio, sent. 203/37/2011 del 19/07/2011.
2 0 1 2
95
lificazione di leggi di interpretazione autentica spetta a quelle leggi o a quelle disposizioni che, riferendosi e saldandosi
con altre disposizioni (quelle interpretate) intervengono esclusivamente sul significato normativo di queste ultime (senza
perciò intaccarne od integrarne il dato testuale), chiarendone
o esplicitandone il senso (ove considerato oscuro) ovvero
escludendone o enucleandone uno dei sensi ritenuti possibili,
al fine in ogni caso di imporre all’interprete un determinato
significato normativo della disposizione interpretata”21. Sono
dirette pertanto ad eliminare tutti gli altri possibili significati
che non coincidono da quello voluto originariamente dal legi‑
slatore22 . Tornando al caso concreto che qui ci interessa, la
questione inerente alla natura delle norme deve tener necessa‑
riamente conto, delle peculiarità proprie della legislazione
tributaria: anche in tale campo, infatti sono ammesse norme
di interpretazione autentica. Occorre però ricordare che lo
Statuto dei diritti del contribuente pur prevedendo all’art. 1
co. 2 un’eccezione al principio generale di irretroattività delle
disposizioni tributarie subordina l’adozione di norme inter‑
pretative in materia tributaria alla presenza di casi ecceziona‑
li e soprattutto all’utilizzo di leggi ordinarie che si qualifichi‑
no di interpretazione autentica23 .
In ogni caso, in attesa di ulteriori chiarimenti provenienti
dalla giurisprudenza é indubbio che il riconoscimento della
natura interpretativa o meno della norma pende come “una
spada di Damocle” su numerosi procedimenti ancora in corso.
A prescindere dalla irretroattività o meno della disposi‑
zione introdotta con la l. 233/2006 però, il problema fonda‑
mentale era – ed è tutt’oggi – comprendere quando “un’atti‑
vità non abbia natura esclusivamente commerciale” e possa
quindi godere dell’esenzione.
Al riguardo la circolare 2/DF ha sostenuto che “un’attività o è commerciale o non lo è, non essendo possibile individuare una terza categoria di attività”24 . La commercialità
dovrebbe dirsi presente solo nelle ipotesi in cui l’attività sia
condotta secondo gli elementi tipici dell’economia di mercato
e siano assenti le finalità di solidarietà sociale sottese all’esen‑
zione prevista dall’art. 7 citato. La ratio del trattamento fisca‑
le privilegiato risiede infatti, come è stato già sottolineato,
nella meritevolezza dei soggetti, delle finalità perseguite e
dall’altro nella rilevanza sociale delle attività svolte.
Ancora la circolare 2/DF , sulla scia di numerose pronun‑
ce della Corte di Cassazione ha individuato i requisiti che
devono caratterizzare le attività svolte, affinché possa essere
riconosciuta l’esenzione, qui esaminata. Per poter accordare
il regime di favore devono infatti sussistere contemporanea‑
mente due condizioni: una di carattere soggettivo ed una
oggettivo.
In ordine alla condizione soggettiva la circolare prevede
che l’attività deve essere svolta da un ente non commerciale
che deve, oltre che utilizzare, anche possedere l’immobile.
21 Cfr. Corte Cost. , sent. n. 223 del 3 febbraio 1988; Corte Cost, n. 30 del 3
febbraio 1993, Corte Cost.n. 397 del 23 novembre 1994 , Corte Cost. n. 422
del 14 dicembre 1994.
22 Cfr. Corte Cost. n. 209 del 2010;n. 525 del 2000, n. 374 del 2002, n. 26 del
2003, n. 274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009.
23 Per un ulteriore approfondimento si veda: Amatucci F. “L’efficacia nel tempo
della norma tributaria”, Giuffré, 2005.
24 Circolare 26 gennaio 2009, n. 2/DF del Ministero delle Finanze.
tributario
Gazzetta
96
d i r i t t o
L’art. 59 co. 1 lett. c) d.lgs. 446/97 prevede infatti che i comu‑
ni possano ammettere con regolamento l’esenzione purché i
fabbricati oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente
non commerciale utilizzatore 25. Anche la giurisprudenza di
legittimità ha affermato che l’esenzione per gli immobili ex
art. 7 citato compete allorché sussista la duplice condizione
dell’utilizzazione diretta da parte dell’ente possessore e della
esclusiva destinazione ad attività che non siano produttive di
reddito26 .
Per quanto riguarda invece la condizione oggettiva, occor‑
re far riferimento alle attività indicate dall’art. 7 citato: l’esen‑
zione è riconosciuta a patto che l’immobile venga utilizzato
per una delle attività ivi indicate.
Preliminarmente va sottolineato che la lettera della norma
è chiara in relazione al requisito oggettivo in quanto non fa
riferimento genericamente agli immobili destinati all’esercizio
delle attività istituzionali degli enti non commerciali, bensì a
quelli utilizzati dai predetti enti per lo svolgimento di speci‑
fiche attività tassativamente indicate dall’art. 7 citato27.
Il requisito oggettivo comunque, così come ha precisato la
Corte di Cassazione in più di un’occasione deve essere desun‑
to non già dall’attività indicata in Statuto, bensì da quella
realmente esercitata: “La sussistenza del requisito oggettivoche in base ai principi generali è onere del contribuente dimo‑
strare- non può essere desunta esclusivamente sulla base di
documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immo‑
bile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività
pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta in concreto con
le modalità di un’attività commerciale”28 .
Inoltre, é opportuno segnalare che la giurisprudenza ha
quasi sempre escluso il riconoscimento dell’esenzione allorché
solo una parte delle attività svolte nell’immobile fosse ricon‑
ducibile a quelle tassativamente indicate dall’art. 7 citato.
“Là dove, infatti, sia risultato accertato in fatto che, ben‑
ché la destinazione sociale dell’ente soggettivamente esente
rientri nel paradigma della norma agevolativa, essa in concre‑
to si associ ad essa attività diversa, non contemplata, l’esen‑
zione non può essere riconosciuta, stante il divieto non solo
di applicazione analogica, ma anche d’interpretazione esten‑
siva, posto in riferimento alla legge speciale dall’art. 14 delle
disposizioni preliminari al codice civile29”.
È pertanto irrilevante che l’attività commerciale svolta
dall’ente non abbia carattere esclusivo o prevalente rispetto a
quella che fa scattare il diritto all’esenzione ex art. 7, doven‑
dosi piuttosto considerare in questo caso i caratteri oggettiva‑
mente commerciali di gestione della stessa. L’esenzione è in‑
fatti prevista in via generale solo per gli immobili destinati
25 Cfr. La Corte Costituzionale nel dichiarare manifestamente infondata la que‑
stione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) D.lgs. 446/97, per
violazione degli artt. 3, 23, 53, 76, 77 della Costituzione ha chiarito che la
norma ha solo lo scopo di assicurare ai comuni la facoltà di prevedere l’appli‑
cazione dell’esenzione solo per i fabbricati, escludendone l’applicazione , in
deroga all’art. 7 co. 1 lett. i) per le aree fabbricabili ed i terreni agricoli. Corte
Cost. ord. Del 19 dicembre 2006 n. 429.
26 Cfr. Cass., Sez.Un., sent. 28160 del 26 novembre 2008.
27 Cfr. Ielo G., Tributi locali –Ici- Esenzione- Immobili ricettivi di enti non commerciali soggetti all’imposta, in Casi e questioni della riforma tributaria- Caso
2386.
28 Cfr. Cass., sent. 5485/2008; 20776/2005; Cass., sent. n. 23703 del 15 novem‑
bre 2007.
29 Cfr. Cass., sent. n. 10092 del 13 maggio 2005.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
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direttamente ed in via esclusiva allo svolgimento delle attività
indicate nell’art. 7 citato, del decreto Ici, purché esercitate
secondo leggi estranee a quelle di mercato30 . Nulla vieta per‑
tanto ad un ente ecclesiastico di svolgere attività di tipo com‑
merciale: la natura dell’ente esercente però non modifica la
natura dell’attività stessa e soprattutto, le norme applicabili
al suo svolgimento rimangono - anche agli effetti tributari quelle previste per le attività commerciali, senza che rilevi che
l’ente la svolga, oppure no, in via esclusiva, o prevalente31.
Contrariamente si perverrebbe all’irragionevole risultato
di garantire l’applicazione del regime agevolativo ad attività
palesemente commerciali, con conseguente violazione non
solo degli artt. 3 e 53 della Costituzione, ma soprattutto per
quel che qui ci interessa dell’art. 107 del TFUE che prevede il
divieto di aiuti di Stato32 .
Ciò posto, è doveroso a questo punto sottolineare come la
vicenda dell’esenzioni Ici per gli immobili degli enti ecclesia‑
stici non è può dirsi nonostante l’indagine in corso, del tutto
conclusa. Paradossalmente negli ultimi anni gli interventi
normativi che si sono succeduti al riguardo sulla spinta delle
pressioni provenienti da Bruxelles, hanno creato ulteriore
confusione: il precedente Governo infatti nello schema di
decreto legislativo in materia di federalismo fiscale municipa‑
le che introduceva l’Imu aveva cancellato all’art. 5 co. 8
l’esenzione prevista per gli immobili utilizzati dagli enti non
commerciali fin ora esaminata33 , salvo poi fare un passo in‑
dietro nel marzo 2011 con l’approvazione del d.lgs. n 23:
all’art. 9 co. 8 fra le ipotesi di esenzioni Imu, riappariva, la
tanto contestata lett. i) dell’art. 734 .
Il decreto Salva Italia, infine, non è intervenuto sul punto,
lasciando intatto 35il beneficio fiscale oggetto dell’analisi del‑
la Commissione europea.
1.1. Le altre misure oggetto dell’analisi della Commissione
Oggetto dell’analisi della Commissione Europea però,
come già sottolineato, non è solo la disciplina dettata dal
decreto Ici, ma anche la quella dettata dagli artt. 6 del d.p.r.
601/73 e 149 del Tuir.
30 Cfr. Cass., sez. Tributaria, sent. 16728 del 16/07/2010; Comm,Trib.Reg.Lazio,
Roma sent. 37/10/2011, del 01/02/2011.
31 Cfr. Cass., sez. Tributaria, sent. 4645 del 08/03/2004.
32 “Salvo deroghe contemplate dai Trattati, sono incompatibili con il mercato
interno, nella misura in cui incidano sugli scambi fra Stati membri, gli aiuti
concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che
favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la
concorrenza”.Art. 107 n.1 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,
in seguito TFUE.
33 Cfr. “Sono esenti dall’imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo
Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle
province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dagli
enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’art. 7, comma 1, lettere
b), d), e), f), ed h), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504” Schema
di decreto legislativo 4 agosto 2010 “Disposizioni in materia di federalismo
fiscale municipale”, Art. 5 co. 8.
34 Cfr. “Sono esenti dall’imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo
Stato, nonchè gli immobiliposseduti,nelproprioterritorio,dalleregioni,dallepro
vince,dai comuni, dalle 10 comunita’ montane, dai consorzi fra detti enti,ove
non soppressi,dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano,inoltre,le esenzioni previste dall’articolo
7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), h), ed i) del citato decreto legislativo n. 504
del 1992” Decreto legislativo del 14 marzo 2011 n. 23, art. 9 co. 8.
35 Cfr. “Restano ferme le disposizioni dell’articolo 9 e dell’articolo 14, commi 1
e 6 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23”, Art. 13, co. 13. d.l. 201/2011
conv. con l. 214/2011.
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g e n n a i o • f e b b r a i o
L’art. 6 co. 1 lett.c) d.p.r. 601/73 prevede la riduzione alla
metà dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, qualo‑
ra si tratti di enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di
beneficienza o di istruzione.
Occorre quindi comprendere se l’ente ecclesiastico possa
essere o meno equiparato a quelli aventi per legge fini di be‑
neficenza o di istruzione. Al riguardo l’Agenzia delle entrate
con Risoluzione n. 91 del 19.07.2005 ha precisato che tale
esenzione compete anche agli enti ecclesiastici, per le attività
dirette ai fini di religione e culto, ossia per quelle previste
dall’art. 15 l. 222/198. 36 L’amministrazione finanziaria, ri‑
chiamando delle pronunce del Consiglio di Stato e della
Corte di Cassazione ha attribuito all’agevolazione ex art. 6
citato, natura meramente oggettiva che non spetta in ragione
della natura del soggetto esercente, quanto piuttosto in ragio‑
ne delle attività svolte, considerate dal legislatore particolar‑
mente meritevoli di tutela. La ratio della norma, per tale ra‑
gione comporta quale conseguenza che anche le attività “di‑
verse” da quelle dirette a fine di religione o di culto, possano
rientrare eccezionalmente nel regime agevolativo qualora si
pongano in un particolare rapporto di strumentalità imme‑
diata e diretta con tali obiettivi. Deve quindi trattarsi di
quelle attività secondarie, ovvero esercitate in maniera non
esclusiva o prevalente, che pur presentando caratteri di com‑
mercialità sono “in concreto intrinseche al fine di religione e
di culto” mentre sarà escluso il nesso di strumentalità diretta
ed immediata ogni volta che “l’attività, volta al procacciamento di mezzi economici, per la sua natura intrinseca o per
la sua estraneità al fine di religione o culto non sia con esso
coerente in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine, ovvero quando si tratti di
un’attività volta al procacciamento di mezzi economici da
impiegare in un’ulteriore attività direttamente finalizzata ,
quest’ultima, al culto o alla religione”37.
In relazione a tale disciplina la Commissione ha ritenuto
che potesse trattarsi di un aiuto di stato esistente ma la que‑
stione non è stata trattata nella procedura di infrazione che
qui ci occupa.
L’art. 149 del Tuir invece è oggetto, insieme alla disciplina
ex art. 7 co. 1 lett. i ), della procedura di indagine, riaperta
nell’ottobre del 2010. L’art. 149 nel prevedere le ipotesi in cui
un ente non commerciale perda tale qualifica, ne esclude
l’applicazione con riguardo agli enti ecclesiastici . Nello spe‑
cifico la norma prevede che un ente non commerciale perde
tale qualifica allorché eserciti prevalentemente attività com‑
merciale per un intero periodo di imposta ed al co. 2 indica i
criteri per la perdita della qualifica 38 . Al successivo co. 4,
36 Cfr. Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 91/E del 19 luglio 2005.
37 Cfr. Ris. Agenzia delle Entrate n. 91/E del 19 luglio 2005; Cass. sent. 1633/95,
Consiglio di Sato, Parere n.1296 del 8 ottobre 1991.
38 Cfr. “Ai fini della qualificazione commerciale dell’ente si tiene conto anche dei
seguenti parametri:
a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto
degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività;
b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore
normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali;
c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate
istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative;
d) prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese”, Art. 149 co. 2 TUIR.
2 0 1 2
97
però prevede che tale disposizione non si applichi agli enti
ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti
civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche. La norma
appare perfettamente coerente con quanto previsto dagli ac‑
cordi di Villa Madama del febbraio 1984 e dal seguente
protocollo del 15 novembre dello stesso anno. L’art. 7 n. 3
degli Accordi di Villa Madama prevede espressamente la
possibilità per tali enti di esercitare attività diverse da quelle
di religione o di culto.
In ordine invece al riconoscimento ai fini civilistici dei
predetti enti, l’art. 1 del protocollo del novembre 1984, pre‑
vede che “gli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o
di culto, possono essere riconosciuti come persone giuridiche
agli effetti civili con decreto del Presidente della Repubblica,
udito il parere del Consiglio di Stato”. Da tali norme emerge
dunque chiaramente che lo Stato si limita a riconoscere la
personalità giuridica agli enti riconosciuti ed approvati dalle
autorità ecclesiastiche anche nell’ipotesi in cui gli stessi svol‑
gano attività diverse da quelle istituzionali. Le disposizioni
contenute nel protocollo del 15 novembre, infatti si pongono
in un rapporto di specialità rispetto alla disciplina dettata dal
codice civile in materia di persone giuridiche: ne deriva per‑
tanto “l’impossibilità di applicare agli enti ecclesiastici, le
norme civilistiche in materia di costituzione, struttura, am‑
ministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private
con la conseguenza che l’amministrazione nell’esaminare le
domande di riconoscimento degli enti ecclesiastici agli effetti
civili verifica che il fine di religione o di culto sia costitutivo
ed essenziale”39.
Gli enti ecclesiastici, dunque, a prescindere dall’attività
esercitata e dalla prevalenza dei redditi annui derivanti dall’at‑
tività commerciale eventualmente svolta, rispetto a quelle
derivanti dall’attività istituzionale e dalla prevalenza delle
immobilizzazioni relative all’attività commerciali rispetto
alle altre attività, non possono mai perdere la natura di enti
non commerciali.
2. La procedura avviata dalla Commissione Europea
Nel 2006 è stato sottoposto al vaglio della Commissione
Europea il trattamento fiscale privilegiato attribuito agli enti
non commerciali derivante dal combinato disposto degli art.
7 co. 1 lett. e 6 del D.P.R. 601/73, affinché ne fosse valutata
compatibilità col diritto comunitario ed in particolare con
l’art. 107 del Trattato. L’indagine era stata però prontamente
archiviata in seguito alla ricezione di due lettere provenienti
dalle autorità italiane con le quali si evidenziavano le modifi‑
che introdotte in materia Ici.
Il lungo braccio di ferro instaurato con la Commissione
da parte dei denuncianti, durante i quali Bruxelles ha chiesto
più volte informazioni alle autorità italiane e prove agli istan‑
ti circa gli effetti sulla concorrenza e sugli scambi della misu‑
re di favore è durato ben quattro anni.
Solo nel 2010 la Commissione ha deciso di proseguire
39 Cfr. “Scambio di Note con Allegati 1 e 2 tra la Repubblica Italiana e la Santa
Sede costituente un’intesa tecnica interpretativa ed esecutiva dell’Accordo
modificativo del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 e del successivo
Protocollo del 15 novembre 1984, 10 aprile-30 aprile 1997”, in Bolgiani, “La
Chiesa Cattolica in Italia-Normativa Pattizia”, p. 137.
tributario
Gazzetta
98
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
l’indagine probabilmente a seguito delle continue pressioni
provenienti dai denuncianti italiani. Gli stessi, infatti avevano
nel frattempo avviato due procedimenti – poi cancellati dal
ruolo- di fronte al Tribunale dell’Unione Europea, con i quali
chiedevano l’annullamento della decisione della Commissione
contenuta nella lettera del 15 febbraio 2010, che rigettava le
richieste di indagine in merito al regime fiscale privilegiato
previsto per gli enti non commerciali40 . La procedura,riaperta
nell’ottobre 2010, dovrebbe concludersi a breve.
Entrando nel merito dell’indagine occorre precisare che la
decisione in quella sede è stata di limitarne l’oggetto all’ana‑
lisi della compatibilità con l’art. 107 del TFUE solo agli artt.
7 co. 1 lett. i) del D.lgs. 504/92 e dell’art. 149 del Tuir.
In relazione all’art. 6 del D.P.R. 601/73, infatti, nonostan‑
te la supposta possibilità che la misura potesse configurare un
aiuto di stato esistente, la scelta di Bruxelles è stata di tratta‑
re la stessa in un diverso procedimento.
In merito alle due norme oggetto di analisi invece la Com‑
missione ha analizzato dapprima la disciplina da esse dettata
ed in secondo luogo le posizioni delle autorità italiane al ri‑
guardo.
Nelle risposte fornite fra il 2006 e il 2010, le autorità
italiane hanno specificato che l’uso commerciale di immobili
da parte di enti non commerciali è già tassato, mentre l’esen‑
zione prevista dall’art. 7 citato sarebbe giustificata dalla logi‑
ca del sistema fiscale: nello specifico, sarebbe coerente con il
sistema fiscale italiano la previsione di un trattamento diffe‑
renziato fra le attività a fini di lucro e le attività a carattere
sociale, quali quelle assistenziali, caritatevoli e religiose. 41
Inoltre gli immobili a cui viene riservato il regime fiscale più
favorevole sarebbero identificati, non in base ai fini istituzio‑
nali indicati negli statuti degli enti non commerciali, bensì in
base a criteri oggettivi, ovvero secondo principi di utilità e
beneficio sociale dell’attività ivi svolta.
L’art. 149, secondo le autorità italiane, invece sarebbe
volto a garantire la competenza esclusiva del Ministero dell’in‑
terno in materia di riconoscimento degli enti ecclesiastici
come persone giuridiche agli effetti civili e dunque indiretta‑
mente della sua qualifica di ente non commerciale. Inoltre, al
fine di dimostrare l’inesistenza della selettività del beneficio,
che farebbe configurare un aiuto di stato, le autorità naziona‑
li hanno specificato che la denominazione di ente ecclesiasti‑
co, quale ente non commerciale che si avvantaggia del dispo‑
sto ex art. 149 co. 4, non è riferito solo agli enti di culto cat‑
tolico, ma anche a quelli appartenenti ad altre confessioni
religiose.
2.1. La valutazione inerente alla sussistenza dell’aiuto
La realizzazione degli obiettivi previsti dall’art. 2 del
TUE 42 presuppone necessariamente che non siano alterate in
40 Cfr. cause T-192/10, Ferracci/Commissione (GU C 179 del 3.7.2010, p. 45) e
T-193/10, Scuola Elementare Maria Montessori/Commissione (GU C 179 del
3.7.2010, p. 46).
41 Cfr. Comunicazione della Commissione Europea all’Italia del 21.12.2010 - C
348/21, p. 33.
42 Cfr. “L’Unione si prefigge i seguenti obiettivi:
- promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e pervenire a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della
coesione economica e sociale e l’instaurazione di un’unione economica e mo-
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F O R E N S E
alcun modo le condizioni di concorrenza all’interno del mer‑
cato europeo, attraverso misure che avvantaggino alcuni
soggetti a discapito di altri. In tale ottica “funzionalista”
l’attenzione del legislatore comunitario è stata rivolta a neu‑
tralizzare degli effetti distorsivi della concorrenza, che neces‑
sariamente derivano dalla coesistenza dei diversi sistemi fi‑
scali nazionali43 .
Fra le diverse misure adottate al tal fine riveste una parti‑
colare importanza il divieto di aiuti di stato previsto dall’art.
107 del TFUE 44 .
L’art. 107 prevede l’incompatibilità con il mercato interno
nella misura in cui incidano sugli scambi fra Stati membri,
degli aiuti concessi dagli Stati ovvero mediante risorse statali
sotto qualsiasi forma, che favorendo talune imprese o talune
produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
Deve trattarsi dunque di misure “selettive” ovvero applicate
non in via generale, non giustificabili in virtù della natura o
della struttura del sistema generale tributario45 e che siano
tali da falsare in atto o in potenza, la concorrenza all’interno
del mercato unico.
Nel corso degli anni l’attività svolta dalla Commissione e
dalla Corte di Giustizia, diretta a valutare la sussistenza di
tali misure ha permesso di delineare i caratteri dell’aiuto di
Stato con maggior chiarezza.
In particolare è stato chiarito che la nozione di aiuto di
stato non può essere circoscritta all’ipotesi di erogazione di
sovvenzioni, avendo un contenuto molto più ampio: “esso
vale infatti a designare non soltanto delle prestazioni positive
del genere delle sovvenzioni stesse, ma anche degli interventi
i quali, in varie forme alleviano gli oneri che normalmente
gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza senza essere sovvenzioni in senso stretto ne hanno la stessa natura e producono identici effetti”46 . Violano il divieto secondo
l’orientamento consolidato, le concessioni fiscali e gli investi‑
menti di fondi pubblici effettuati in circostanze in cui un in‑
netaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità dalle disposizioni del presente trattato,
- affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante
l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe condurre ad
una difesa comune, a norma delle disposizioni dell’articolo 17,
- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione,
- conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia
in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima,
- mantenere integralmente l’acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare
in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente trattato allo scopo di garantire l’efficacia dei
meccanismi e delle istituzioni comunitarie.
Gli obiettivi dell’Unione saranno perseguiti conformemente alle disposizioni
del presente trattato, alle condizioni e secondo il ritmo ivi fissati, nel rispetto
del principio di sussidiarietà definito all’articolo 5 del trattato che istituisce la
Comunità europea” Art. 2, Versione Consolidata del Trattato sull’Unione
Europea (in seguito TUE)
43 Cfr. F. Fichera, Fisco ed Unione Europea, L’acquis Communautaire, in Rivista
di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2003, LXII,p. 429 e ss.
44 Per un ulteriore approfondimento si veda: Tesauro G., “Diritto dell’Unione
Europea”Cedam 2010, Boria P. “Diritto Tributario Europeo”, Giuffré 2010.
45 Cfr. CGCE, sent. 2 luglio 1974, causa 173/73, Italia/Commissione, Racc., p. 70
46 Cfr. CGCE 15.03.1994, C-387/92, Banco Exterior de España SA, CGCE,23
febbraio 1961, causa 30/59, De Gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg/Alta
Autorità, p. 39.
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
vestitore privato non avrebbe apportato il suo sostegno 47.
È irrilevante inoltre che l’aiuto sia stato concesso dallo
Stato o da enti pubblici o da privati che lo Stato istituisca o
designi per amministrare l’aiuto stesso 48 .
Non deve trarre però in inganno la lettera dell’art. 107
allorché fa riferimento al concetto di impresa. Nel diritto
della concorrenza, infatti la nozione di impresa è alquanto
ampia49: comprende infatti qualsiasi entità che eserciti un’at‑
tività economicamente rilevante, industriale, commerciale o
di prestazione di servizi 50 . Si prescinde inoltre dallo status
giuridico dell’impresa o dalle modalità di finanziamento.
È escluso invece dal concetto di impresa per la disciplina
comunitaria della concorrenza, un ente che contribuisce o
esercita un servizio pubblico di carattere sociale, la cui attivi‑
tà sia svolta cioè secondo leggi estranee alle leggi di mercato51.
Ed è proprio al carattere sociale delle attività svolte da tali
enti che le Autorità italiane fanno riferimento per giustificare
l’esenzione prevista dal decreto Ici.
La compatibilità delle misure agevolative in materia di Ici
e di attribuzione del carattere di ente non commerciale, viene
in discussione invece, proprio perché le attività svolte dagli
enti non commerciali rientrano pienamente nel campo di
applicazione del diritto UE della concorrenza.
A tal riguardo occorre precisare che trattandosi di materia
rientrante nel campo dell’imposizione diretta, gli Stati con‑
servano ampi margini di sovranità sulla stessa. La valutazio‑
ne circa una eventuale violazione del diritto europeo, deve
essere quindi effettuata prendendo quale termine di paragone
gli obiettivi indicati all’art. 2 del TUE. Occorre infatti verifi‑
care se le misure adottate dagli Stati membri in materia di
imposte dirette, siano compatibili con le libertà di circolazio‑
ne previste dal trattato e con la disciplina dettata in materia
di aiuti di stato dal Trattato52 .
In ogni caso secondo la Commissione, l’agevolazione
prevista dalla disciplina italiana, comporta l’impiego di risor‑
se statali derivante dalla rinuncia ad un gettito fiscale per
importo corrispondente all’abbattimento dell’imposta.
In proposito, è necessario sottolineare che il rapporto fra
agevolazioni fiscali ed aiuti di stato è stato spesso oggetto
delle attenzioni da parte della Corte di Giustizia Europea. Se
però con riferimento al campo dei tributi armonizzati, come
per il caso dell’Iva53 , la Corte si è spinta fino ad affermare che
la rinuncia al potere impositivo è incompatibile con il diritto
47 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs nelle cause riunite C-278/92,
C-279/92 e C-280/92, Spagna contro Commissione, Racc. 1994, parte I, pag.
4103, punto 28: «È erogato un aiuto statale ogni volta che uno Stato membro
mette a disposizione di un’impresa fondi che nel naturale corso degli eventi un
investitore privato, che applichi criteri commerciali ordinari senza tener conto
di fattori sociali, politici o filantropici, non avrebbe fornito».
48 Cfr. CGCE Sent. C- 290/83, Commissione contro Francia, Racc. 1985, parte I,
p. 439, punto 14; causa C-482/99, Francia contro Commissione, Racc. 1985,
p. 4397, punti 36-42.
49 Cfr. CGCE 8 giugno 1981, C-78/70 Deutsche Grammophon,, p. 18.
50 Cfr. CGCE, 23 aprile 1991 C-41/90 hofner c/Macroton GmbH, p. 21.
51 Cfr, CGCE 4 marzo 2003, C- 319/99, FENIN /Commissione p. 36 e ss.; sent.
19 gennaio 1994 C- 364/92 SAT Fluggesellschaft mbH contro Eurocontrol, p.
25-30.
52 Cfr. Alfano R., “Condoni fiscali :ulteriori vincoli europei e possibili effetti interni”, in Diritto e pratica tributaria internazionale, Vol.VIII, n. 2, 2011, p.
491.
53 Il funzionamento del sistema comune Ivacostituisce un interesse primario
dell’ordinamento europeo, dal momento che il bilancio Ue viene finanziato
anche con parte dell’Iva riscossa dagli Stati membri.
2 0 1 2
99
comunitario54 , non può farsi analogo ragionamento in relazio‑
ne ai tributi non armonizzati, quale ad esempio è l’Ici. In rela‑
zione a tali tributi infatti, sembra doversi ricondurre la que‑
stione nell’alveo della disciplina relativa agli aiuti di Stato.
Proprio per tale ragione lo Stato che intende disporre un’age‑
volazione fiscale a determinati soggetti, deve prima consentire
alla Commissione di valutare la compatibilità della stessa con
la disciplina degli aiuti di Stato, notificandogli tale misura.
Il divieto di aiuti di Stato infatti, non è assoluto potendo
essere derogato, se sussistono delle particolari ragioni di ca‑
rattere sociale o economico55.
Confrontati i sistemi di riferimento (illustrati ai paragrafi
1.1. e 1.2) con la disciplina in materia di aiuti di Stato la
Commissione ha ritenuto che le misure in esame possano in
teoria considerarsi incompatibili con il mercato interno, pre‑
sentando i caratteri propri degli aiuti di stato: le stesse infatti,
in base alle informazioni possedute dalla Commissione
all’epoca potevano considerarsi “selettive” e soprattutto non
giustificabili in base alle deroghe previste dal Trattato. Sono
state inoltre considerate misure potenzialmente in grado di
incidere sugli scambi fra i Paesi membri e di falsare o minac‑
ciare di falsare la concorrenza 56 .
Come è stato già precisato, i criteri adottati dall’Italia per
escludere la natura commerciale di tali attività,non trovano
corrispondenza con i caratteri propri delle attività di natura
economica previste dalle norme europee in materia di concor‑
renza, stante l’irrilevanza ai fini della configurazione degli
aiuti di Stato delle finalità perseguite dall’ente.
Le attività indicate dall’art. 7 citato possono essere, infat‑
ti svolte sia da enti commerciali che da enti non commerciali,
tale per cui il riconoscimento dell’esenzione solo a questi ul‑
timi, basato sull’assenza di elementi tipici dell’economia di
mercato nella gestione della stesse e nella presenza delle fina‑
lità di solidarietà sociale sottese all’esenzione, contrasterebbe
54 Cfr. CGCE sent. del 17 luglio 2008 C-132/06 Commissione delle Comunità
europee contro Repubblica italiana e sent. del 11 dicembre 2008 C- 174/07
Commissione delle Comunità europee contro République italienne.
55 Cfr. “Sono compatibili con il mercato interno:
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che
siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti;
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da
altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Repubblica federale
di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui
sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio,
su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la
presente lettera.
3. Possono considerarsi compatibili con il mercato interno:
a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di
vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui all’articolo 349, tenuto conto della
loro situazione strutturale, economica e sociale;
b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di
comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento
dell’economia di uno Stato membro; 30.3.2010 Gazzetta ufficiale dell’Unione
europea C 83/91 ITc) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche,sempre che non alterino le condizioni degli
scambi in misura contraria al comune interesse;
d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio,
quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione
in misura contraria all’interesse comune;
e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta
della Commissione”. Art. 107 co. 2, TFUE.
56 Cfr. Comunicazione della Commissione Europea all’Italia del 21.12.2010 , cit.
p. 63.
tributario
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ugualmente con il diritto della concorrenza UE. La qualifica‑
zione di una misura, quale aiuto di Stato, prescinde infatti, lo
si ribadisce dagli obiettivi perseguiti 57.
Stesso discorso può farsi per l’art. 149 del Tuir, rispetto al
quale la Commissione ritiene che possa configurarsi una
misura selettiva, stante la possibilità riservata solo ad enti
ecclesiastici ed associazioni sportive dilettantistiche di man‑
tenere la qualifica di ente non commerciale anche nel caso in
cui vengano meno i requisiti propri dello stesso.
L’epilogo della procedura d’infrazione è ancora tutto da
scrivere, ma dall’analisi del ragionamento della Commissione
possono facilmente comprendersi le non poche preoccupazioni
delle autorità italiane che qualora fosse accertata la natura di
aiuto di stato delle misure esaminate, dovrebbero adempiere
all’ingiunzione di recuperare quanto indebitamente non versa‑
to all’erario dagli enti ecclesiastici con consistenti ripercussioni
sulle finanze statali ed in particolare degli enti locali.
2.2. Ultimi sviluppi della vicenda
In questi giorni, il Governo tecnico guidato dal Prof. Ma‑
rio Monti in concomitanza con le celebrazioni dei Patti Late‑
ranensi, ha annunciato che presenterà un emendamento in
materia di esenzioni Ici per gli immobili posseduti da enti
ecclesiastici58 . La decisione, si legge in una nota del Governo,
è dettata principalmente dalla necessità di evitare una decisio‑
ne sfavorevole all’Italia che avrebbe quale diretta conseguenza
l’obbligo di recuperare gli aiuti illegittimamente elargiti sotto
forma di esenzione con conseguenze non indifferenti per le
finanze statali. Stando a quanto anticipato l’emendamento
dovrebbe comportare il mantenimento dell’esenzione solo per
gli immobili nei quali si svolge in modo esclusivo un’attività
non commerciale e la possibilità di limitare l’esenzione alla
sola frazione di unità nella quale si svolge l’attività di natura
non commerciale previa emanazione di un meccanismo di
dichiarazione vincolata a direttive rigorose stabilite dal Mini‑
stro dell’economia e delle finanze circa l’individuazione del
rapporto proporzionale tra attività commerciali e non com‑
merciali esercitate all’interno di uno stesso immobile59.Dopo
anni di aspre polemiche il Governo spera di chiarire ulterior‑
mente ed in modo definitivo la questione.
Beninteso, l’aver tollerato per anni l’uso abusivo che è
stato fatto delle norme che disciplinano l’esenzione Ici è parso
e continua ad apparire una grave disparità. Ciò nonostante,
va sottolineato come in non poche occasioni la discussione
abbia assunto un carattere ingiustificatamente anticlericale:
l’esenzione prevista dall’art. 7 citato del decreto Ici, non ri‑
guarda infatti solo gli enti ecclesiastici ma gli immobili utiliz‑
zati da tutti gli enti non commerciali che esercitano le attività
ivi indicate. Per comprendere i numeri dell’ampia platea di
soggetti che godono del beneficio, basti pensare a titolo esem‑
plificativo agli immobili utilizzati da Onlus, associazioni
sportive dilettantistiche fondazioni liriche, Ong che rientrano
nel campo di applicazione dell’esenzione.
57 Cfr. CGCE10.1.2006, C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze, Racc. 2006,
p. I-289, pp. 136-138.
58 Cfr. Ici e immobili della Chiesa: il Governo riscriverà le regole. La Cei: Sia riconosciuto il valore del noprofit, Tratto da Il sole24ore del 15 febbraio 2012.
59 Cfr. “Esenzione imposta comunale immobili enti non commerciali” Comuni‑
cato del Governo italiano del 15 febbraio 2012.
Gazzetta
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Come già sottolineato, la questione è particolarmente
complessa ed intricata soprattutto perché a prescindere dalle
conseguenze patrimoniali che potrebbero derivare da una
decisione negativa della Commissione Europea, permane il
problema relativo all’abuso che è stato fatto di tale disciplina
e dell’inidoneità degli strumenti di contrasto utilizzati sino ad
oggi per reprimere tali condotte.
Tale prospettiva, rafforza l’idea che un intervento in ma‑
teria era ed è sì necessario ma nell’ambito di una revisione da
effettuarsi a livello meramente nazionale.
Sarebbe stato infatti più logico infatti adottare criteri
chiari per prevenire l’abuso della qualifica di no profit da
parte di soggetti che non possedevano i requisiti necessari
piuttosto che far seguire sulla spinta delle pressioni europee
interventi legislativi contraddittori e confusi.
In relazione alla individuazione della natura della norma
introdotta con il decreto Bersani, ad esempio non possono
nascondersi delle perplessità derivanti dalla scelta fatta dal
legislatore di non qualificare chiaramente la natura della
norma. Il principio di certezza del diritto e la trasparenza che
dovrebbero informare il rapporto fra fisco e contribuente non
possono essere sacrificati in virtù di esigenze “elettorali” o di
finanza pubblica dovendo piuttosto essere il risultato del bi‑
lanciamento dei contrapposti interessi del cittadino da un
lato, all’invariabilità delle norme a lui favorevoli e dello Stato
dall’altro, alla sussistenza del caso eccezionale che giustifica
l’adozione di norme di interpretazione autentica.
Sul versante comunitario, invece la questione è probabil‑
mente giunta ad un punto di svolta: le intenzioni del Governo
Monti sembrano essere state accolte con particolare favore da
parte del Commissario Ue alla Concorrenza Joaquin Almunia
e potrebbero quindi rivelarsi determinanti per la chiusura
della procedura che sino a pochi giorni fa, secondo i ben in‑
formati, lasciava presagire con elevata probabilità un esiti
negativi.
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●
Il riparto di giurisdizione
in materia tributaria
nelle decisioni
della Cassazione del 2011
Osservatorio di Giurisprudenza Tributaria
●
a cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
2 0 1 2
101
Sono trascorsi ormai dieci anni da quando la legge finan‑
ziaria del 2002 (in particolare, l’art. 12, comma 2, della legge
28 dicembre 2001, n. 448) ha riscritto integralmente uno dei
più importanti articoli della legge di contenzioso di tributario,
l’art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 che individua –
come recita la sua rubrica – l’ “oggetto della giurisdizione
tributaria”.
Un decennio in cui quella norma è risultata interessata da
modifiche legislative e da decisioni demolitorie della Corte
Costituzionale che, sia pure muovendosi su direttrici opposte,
ne hanno, almeno in parte, rimodulato la portata.
Il legislatore, infatti, é intervenuto nel corso degli anni in
più occasioni, in modo non sempre coerente, ma con un obiet‑
tivo chiaro; voler, cioè, ampliare l’ambito della “competenze”
delle commissioni tributarie; una scelta fatta sopratutto per
decongestionare la intasatissima giurisdizione ordinaria ma in
una prospettiva anche di attribuire, in modo più razionale,
materie specialistiche a giudici con competenze specifiche.
La Corte Costituzionale, invece, con un’impostazione
molto rigorosa, ha fissato precisi paletti; il giudice tributario
resta un giudice speciale, non in contrasto con l’art. 102, com‑
ma 2, Cost., solo perché preesistente alla stessa Costituzione,
e quindi legittimato dalla VI disposizione transitoria, ma con
un ambito di competenze ben determinato (quello dei tributi),
insuscettibile di ogni forma di estensione.
In questa divaricazione netta di posizioni, hanno rischiato,
in una fase di inevitabili incertezze normative, di rimanere
pregiudicate sia le esigenze del cittadino contribuente – che
vuol sapere a chi rivolgersi per far valere le sue eventuali ra‑
gioni di doglianza contro gli atti di un’amministrazione fisca‑
le, negli ultimi anni molto più attiva nel recupero dell’evasione
– sia quelle della stessa Amministrazione - che in tempi relati‑
vamente accettabili vuol sapere se la sua azione di controllo
sia stata legittimamente esercitata.
Oggi è possibile fare il punto della situazione, anticipan‑
dosi come si sia ormai raggiunta una tendenziale stabilità
negli orientamenti giurisprudenziali, sia perché il legislatore
ha opportunamente smesso di intervenire sulla materia sia
perché le indicazioni del Giudice delle leggi si stanno via via
traducendo in decisioni della Cassazione che, anche attraverso
un esame casistico, vanno individuando con sempre maggiore
precisione le materie che spettino all’uno o all’altro giudice.
Prima, però, di passare in rassegna i più importanti arresti
della suprema Corte sull’argomento intervenuti nel 2011, è
indispensabile un brevissimo esame delle modifiche legislative
e degli interventi demolitori della Consulta di cui finora si è
fatto solo cenno.
L’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, nella sua originaria
formulazione, era strutturato come una sorta di elenco di
quali imposte, oggetto di eventuali controversie, spettavano
alla giurisdizione tributaria.
Scelta che, improntata ad un’opzione analitica considerata
idonea ad evitare problemi ermeneutici, appariva per molti
aspetti inopportuna quantomeno perché imponeva ad un legi‑
slatore, prodigo nella creazioni di nuovi di tributi, di dover
continuamente aggiornare l’elenco.
Con la già citata legge del 2001, si inverte l’impostazione
e si abbandona l’opzione casistica.
Il nuovo comma 1, infatti, contiene, nel suo primo alinea,
un’indicazione dal sapore quasi più programmatico che pre‑
tributario
Gazzetta
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d i r i t t o
cettivo, affermando che “appartengono alla giurisdizione
tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di
ogni genere e specie, compresi quelli regionali, provinciali e
comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale,
nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni ammini‑
strative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi
e ogni altro accessorio”.
Nel successivo alinea del comma 1 e nel comma 2 sono
poi previste l’esclusione dalla giurisdizione tributaria delle
controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tri‑
butaria, successivi alla notifica della cartella di pagamento, e
la spettanza ad essa delle controversie in materia di classa‑
mento.
In questa forma la norma resiste poco più di tre anni;
nella giurisprudenza, soprattutto di merito, a seguito dell’ab‑
bandono dell’elencazione specifica delle materie, si materia‑
lizzano tantissime questioni ermeneutiche e cresce a dismisu‑
ra l’incertezza su quale sia il giudice a cui rivolgersi per nu‑
merose tipologie di controversie.
Il legislatore, per fugare autoritativamente i dubbi, inter‑
viene con l’art. 3 bis del d.l. n. 203 del 2005 conv. in l. 248
del 2005 (uno dei cd collegati alla manovra del 2006), con
due modifiche, interpolando sia il comma 1 che il comma 2
dell’articolo 2, più volte citato.
Nel comma 1, infatti, si aggiungono due parole, “comun‑
que denominati” – utili a superare quelle interpretazioni rigi‑
damente nominalistiche – subito dopo quelle già presenti
“tributi di ogni genere e specie”; nel comma successivo, inve‑
ce, si indicano - andando in chiara controtendenza rispetto
alla scelta della riforma del 2001 - alcune materie come espres‑
samente di competenza delle commissioni tributarie, in par‑
ticolare le controversie sulla debenza del canone per l’occupa‑
zione di spazi ed aree pubbliche (COSAP), del canone per lo
scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimen‑
to dei rifiuti urbani nonché quelle attinenti l’imposta o il ca‑
none comunale sulla pubblicità ed il diritto sulle pubbliche
affissioni.
A distanza di poco meno di un anno, un’altra modifica
legislativa, pure contenuta in un decreto d’urgenza nell’ambi‑
to dei collegati alla finanziaria, cerca questa volta più che di
sopire i contrasti (pur esistenti) di evitare che una massa rile‑
vante di contenzioso si scarichi sul giudice ordinario.
La lotta all’evasione fiscale, infatti, aveva reso necessario
l’utilizzo di strumenti di pressione, anche psicologica, nei
confronti del contribuente (ci si riferisce, in particolare,
all’ipoteca sugli immobili ed al cd fermo amministrativo sui
mobili registrati) e l’azione dell’Amministrazione era stata
frenata dalle enormi incertezze dei giudici di merito - ordina‑
ri, tributari ed amministrativi - su chi fosse il giudice a cui
rivolgersi per le inevitabili controversie sorte. Le Sezioni Uni‑
te, con due pronunce a distanza di pochi mesi [Sez. un., n.
2053, 31/1/2006, n. 16136 (CED Cass n. 587285); Sez. un.,
n. 14701, 23/6/2006, (CED Cass n. 593269)], avevano indivi‑
duato nel giudice ordinario quello competente sulle contro‑
versie sul cd. fermo amministrativo.
Con l’art. 35, comma 26 quinques, del d.l. n. 223 del 2006,
convertito in l. n. 248 del 2006 (uno dei collegati alla manovra
del 2007), si tenta di ribaltare la scelta delle Sezioni Unite;
non si interviene, però, sull’art. 2 della legge di contenzioso
tributario ma sull’art. 19 della medesima rubricato “atti im‑
t r i b u ta r i o
Gazzetta
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pugnabili ed oggetto del ricorso” e si introducono, nell’elenco
ivi previsto, le lettere e-bis) ed e-ter) indicandosi, quali atti
impugnabili dinanzi le commissioni tributarie, rispettivamen‑
te l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del
d.P.R. n. 602 del 1973 ed il fermo dei beni mobili registrati
previsto nell’art. 86 del medesimo d.P.R.; in tal modo indiret‑
tamente si amplia l’ambito della giurisdizione tributaria.
Il 2008 è, invece, l’anno delle due fondamentali decisioni
della Consulta, intervenute, a distanza di pochi mesi e con un
nucleo motivazionale sostanzialmente comune.
Il giudice delle Leggi indica i limiti invalicabili da parte
del legislatore nell’attribuzione di materie alle commissioni
tributarie, ricavandoli, come si è sopra accennato, dall’art.
102, comma 2 Cost., e dalla VI disp. trans.. Le due norme,
lette congiuntamente, consentono al legislatore di poter attri‑
buire alle commissioni tributarie le sole controversie di natu‑
ra tributaria.
Partendo da questa premessa deriva, quale conseguenza
necessaria, l’incostituzionalità di tutte quelle disposizioni che
o amplino la competenza anche a materie non tributarie o che
qualifichino come tributarie materie che non lo sono, in quan‑
to, di fatto, istitutive di un giudice speciale in contrasto con
il divieto costituzionale.
In particolare, con la prima delle due sentenze la Corte –
C. Cost. 14 marzo 2008, n. 64 - dichiara illegittimo l’art. 2
d.lgs. n. 546 del 92, come modificato dall’art. 3 bis, comma
1 d.l. 203 del 2005, convertito dalla l. n. 248 del 2005, nella
parte in cui assegna alla giurisdizione tributaria le controver‑
sie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi
ed aree pubblici (la cd COSAP), canone che non ha natura
tributaria; con la seconda – C. Cost. 14 maggio 2008, n. 130
- dichiara incostituzionale il medesimo art. 2 nella parte in
cui attribuisce – secondo l’interpretazione fornitane dal dirit‑
to vivente - le controversie relative alle sanzioni comunque
irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano
alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria.
Le due decisioni della Consulta, al di là dei casi specifici
affrontati, hanno fornito criteri ermeneutici precisi su come
individuare i confini del riparto della giurisdizione, lasciando
poi, di fatto, quasi integralmente alla Cassazione il compito
di stabilire se le materie oggetto della controversia del caso
concreto rientrino o meno nel genus “tributi”.
E ciò che è avvenuto dal 2009 in poi da parte soprattutto
delle Sezioni unite, mentre la Consulta è intervenuta di nuovo,
in poche occasioni, quando si è tratto di vagliare la costituzio‑
nalità dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui
esplicitamente individua una certa materia come di competen‑
za delle commissioni tributarie; nei casi in cui lo ha fatto, però,
ha dichiarato l’infondatezza dell’eccezione, confermando l’op‑
zione legislativa per l’attribuzione delle materia alle commis‑
sioni tributarie; in questo senso, C. Cost, 24 luglio 2009, n.
238 con riferimento alla tariffa di igiene ambientale (TIA) e
C. Cost. 8 maggio 2009, n. 141 con riferimento al canone per
l’installazione degli impianti pubblicitari (CIMP).
Nel 2011 gli arresti, in massima parte delle Sezioni Unite,
sull’argomento in trattazione, sono stati comunque numerosi
e, per comodità espositiva, possono essere ripartiti in tre ti‑
pologie.
Nella prima si possono annoverare tutte quelle decisioni
che hanno danno continuità a precedenti orientamenti della
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g e n n a i o • f e b b r a i o
Suprema Corte, confermando quanto già affermato in pro‑
nunce pubblicate in anni precedenti.
Seguendo il criterio temporale, vanno segnalati i seguenti
principi di diritto; al giudice tributario bisogna rivolgersi per
la controversia avente ad oggetto il provvedimento di rigetto
dell’istanza di rateizzazione di un debito, se quest’ultimo
abbia, però, natura tributaria [Sez. un., n. 5928, 14/3/ 2011,
(CED Cass n. 616602) massimata come conforme a Sez. un.,
n. 7612 del 30/3/2010, (CED Cass n. 612356)]; spetta, invece,
alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relati‑
va al canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche
(COSAP) [Sez. un., n. 7190 del 30/3/2011, (CED Cass n.
616786) massimata come conforme a Sez. un. n. 28161, 26/11
2008, (CED Cass n. 605706)]; deve essere presentata alle
commissioni tributarie l’opposizione avverso cartella esatto‑
riale per il pagamento della tassa per l’occupazione di aree
pubbliche (TOSAP), a nulla rilevando che il contribuente
fondi l’opposizione sulla circostanza di avere già corrisposto,
per il suolo oggetto di occupazione, il canone di concessione
(COSAP) [Sez. un., n. 11967 del 31/5/2011, (CED Cass n.
617304) massimata come conforme a Sez. un., n. 15593 del
3/7/2009, (CED Cass n. 608718)]; si deve adire il giudice or‑
dinario nel caso in cui la controversia abbia ad oggetto un
provvedimento di fermo di beni mobili registrati (o un mero
preavviso di fermo), quando il credito posto a fondamento del
provvedimento restrittivo non abbia natura tributaria, mentre
l’identico provvedimento andrà impugnato dinanzi le com‑
missioni tributarie quando riguardi crediti tributari [Sez. un.,
n. 20931, 12/10/2011, (CED Cass n. 618896) massimata come
conforme a Sez. un., n. 11087, del 7/5/2011, (CED Cass n.
512767)]; quest’ultima sentenza è particolarmente importan‑
te perché oltre ad occuparsi del riparto di giurisdizione indica
anche quale sia il giudice ordinario competente, e cioè il tri‑
bunale, in virtù della natura esecutiva del provvedimento in
discussione [Sez. un., n. 20931, 12/10/2011, (CED Cass n.
618897)]; spetta pure al giudice ordinario il potere di decide‑
re sull’opposizione ad ordinanza-ingiunzione emessa
dall’Agenzia delle entrate nei confronti di un committente che
abbia conferito un incarico professionale ad un dipendente
pubblico senza la previa autorizzazione amministrativa
dell’ente di appartenenza e che abbia omesso di comunicare
al predetto ente l’ammontare dei compensi corrisposti [Sez.
un. n. 22884, del 4/11/2011, (CED Cass n. 619501) massima‑
ta come conforme a Sez. Un. n. 15382 dell’1/7/2009, (CED
Cass n. 608752)].
Nella seconda categoria rientrano due decisioni con cui la
Cassazione ha escluso la natura tributaria dell’oggetto della
controversia ed ha attribuito la competenza al giudice ordi‑
nario.
In particolare, ha ritenuto che la controversia con cui un
contribuente richiede ad una società concessionaria della ri‑
scossione dei tributi locali “la restituzione della somma
corrisposta, a titolo di IVA, in occasione del pagamento
della Tariffa di igiene ambientale (TIA), spetti alla giurisdizione ordinaria, perchè soggetto passivo dell’imposta è esclusivamente colui che effettua la cessione dei beni o la prestazione di servizi (quindi la società concessionaria) e la controversia in questione non ha ad oggetto un rapporto tributario
tra contribuente ed Amministrazione, ma un rapporto di
natura privatistica fra privati, che comporta un accertamen-
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to, meramente incidentale, in ordine alla debenza dell’imposta contestata” [Sez. un. n. 2064 del 28/1/2011, n. 2064,
(CED Cass n. 616311)]. è una conclusione si pone in continu‑
ità con precedenti consolidati della stessa Cassazione quando
ha affermato, ad esempio, che le controversie tra sostituto
d’imposta e sostituito, relative al legittimo e corretto esercizio
del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte, versate diretta‑
mente dal sostituto, volontariamente o coattivamente, non
sono attratte alla giurisdizione del giudice tributario, ma ri‑
entrano nella giurisdizione del giudice ordinario [Sez. Un, n.
15031, del 26/6/2009, n. 15031, (CED Cass n. 608816)], o che
spetti al giudice ordinario la giurisdizione “in ordine alla
domanda proposta dal consumatore finale nei confronti del
professionista o dell’imprenditore che abbia effettuato la
cessione del bene o la prestazione del servizio per ottenere la
restituzione delle maggiori somme addebitategli in via di rivalsa per effetto dell’applicazione di un’aliquota asseritamente superiore a quella prevista dalla legge poiché, infatti,
soggetto passivo dell’imposta è esclusivamente colui che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi e quindi
la controversia in questione non ha ad oggetto un rapporto
tributario tra contribuente ed Amministrazione finanziaria,
ma un rapporto di natura privatistica tra soggetti privati, che
comporta un mero accertamento incidentale in ordine all’ammontare dell’imposta applicata in misura contestata” [Sez.
un. n. 2775 dell’8/2/2007 (CED Cass n. 594804)].
L’altra statuizione fa invece riferimento alle speciali elargizioni per le vittime del terrorismo e loro familiari, gli art.
11 e 12 della legge 3 agosto 2004, n. 206; secondo la Cassa‑
zione “anche in riferimento a controversie aventi ad oggetto
il beneficio dell’esenzione dall’IRPEF delle somme erogate a
titolo di pensione, previsto dall’art. 2 della legge 23 novembre
1998, n. 407, e dall’art. 3 della legge n. 206 del 2004, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario (e non già quella
esclusiva delle commissioni tributarie), avendo il legislatore
inteso derogare, anche nella materia tributaria, alle norme
sulla attribuzione della giurisdizione ad autorità giurisdizionali diverse dal giudice ordinario” [Sez. un. n. 17078
dell’8/8/2011, (CED Cass n. 618581)].
Il terzo gruppo, infine, è quello numericamente più signi‑
ficativo; vi rientrano tutte quelle decisioni con cui si è ritenu‑
to di individuare la natura tributaria della controversia, attri‑
buendone quindi la cognizione alle commissioni tributarie.
Di seguito, per maggiore completezza e per consentire di
apprezzare l’iter logico seguito dalla Corte, saranno riportate,
seguendo il criterio temporale, le massime ufficiali:
“Sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le
controversie concernenti l’opposizione ad una sanzione
amministrativa per detenzione di apparecchi da intrattenimento in difformità dalle regole previste dall’art. 110 del r.d.
18 giugno 1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza), non avendo tale sanzione natura tributaria, in
quanto consegue alla violazione di norme volte a garantire
un corretto svolgimento negli esercizi pubblici della gestione
di apparecchi da intrattenimento, ed è preposta a reprimere,
nel pubblico interesse, attività abusive e, dunque, illecite che
possano pregiudicare, per effetto dell’installazione e dell’utilizzo di apparecchi non conformi alle prescrizioni ed alle
caratteristiche di legge, la regolarità delle giocate” [Sez. un.,
n. 23109, 16/11/2010, (CED Cass n. 614850)].
tributario
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d i r i t t o
“Appartiene alla giurisdizione tributaria la controversia
avente ad oggetto la debenza, nei confronti della SIAE,
delle somme dovute, ai sensi dell’art. 181-bis della legge 22
aprile 1941, n. 633, per l’apposizione sui supporti multimediali del previsto contrassegno. Infatti, dette somme hanno
i connotati di una imposta di scopo, destinata a finanziare la
spesa pubblica per l’esercizio della specifica attività di controllo affidata alla SIAE, in quanto il contrassegno ha una
funzione a vantaggio della collettività, e non del richiedente
che ne sopporta il costo, consistente nell’autenticazione del
prodotto ai fini della sua commercializzazione, in modo da
garantire il consumatore della sua legittima provenienza attraverso uno strumento di immediata verificabilità” [Sez. un.
n. 1780, del 26/1/2011, (CED Cass n. 616197)].
“La controversia concernente il pagamento del contributo annuale previsto dall’art. 14 del d.lgt. 23 novembre
1944, n. 382 a carico degli avvocati ed a favore del Consiglio
nazionale forense (CNF) è devoluta alla giurisdizione tributaria, in quanto il contributo in questione, a dispetto del
nome, va considerato un tributo, sia perché, riferendosi anche
ad esso, il comma 2 dell’art. 7 del medesimo d.lgt. parla di
“tassa annuale”, sia per il suo carattere di doverosità, sia,
infine, perchè la prestazione in questione è collegata alla
necessità di fornire la provvista dei mezzi finanziari necessari all’ente delegato dall’ordinamento per il controllo dell’albo
professionale” [Sez. un. n. 1782 del 26/1/2011 (CED Cass n.
616342); negli stessi termini, massimata come conforme, Sez.
un. n. 6601 del 23/3/2011, (CED Cass n. 616643)].
“Spetta alla giurisdizione tributaria il giudizio che concerne un avviso di accertamento emesso per mancata effettuazione di ritenute alla fonte da parte del datore di lavoro,
in qualità di sostituto d’imposta, con irrogazione delle conseguenti sanzioni amministrative” [Sez. VI, n. 7662 del
4/4/2011 (CED Cass n. 617563)].
“Il ricorso avverso una cartella esattoriale con cui l’Amministrazione chiede il pagamento del contributo unificato
per atti giudiziari va presentato al giudice tributario, avendo
tale contributo natura di entrata tributaria” [Sez Un., n. 9840
del 5/5/ 2011, (CED Cass n. 616998)].
“È devoluta alla giurisdizione del giudice tributario l’impugnazione del provvedimento della Presidenza del Consiglio
dei Ministri con cui viene revocato il credito imposta, previsto dall’art. 4, commi da 181 a 186 e 189 della l. 24 dicembre
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2003, n. 350, a favore delle imprese editrici, in misura corrispondente ad una percentuale della spesa che sarebbe stata
sostenuta nell’anno 2004 per la carta utilizzata per la stampa delle testate edite e dei libri, in quanto tale beneficio,
avendo l’effetto di ridurre l’importo dell’imposta altrimenti
dovuta, è da considerarsi un’agevolazione tributaria, il cui
diniego o la cui revoca sono impugnabili dinanzi alla Commissione tributaria, in base all’espressa previsione dell’art.
19, lett. h) del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546” [Sez. Un. n.
9841, del 5/5/2011, (CED Cass n. 617552)].
“La giurisdizione del giudice tributario - che si estende
alla cognizione “di tutte le controversie aventi ad oggetto i
tributi di ogni genere o specie”, con la sola esclusione degli
atti dell’esecuzione tributaria, fra i quali non rientrano, per
espressa previsione degli artt. 2 e 19 del d.lgs. n. 546 del
1992, né le cartelle esattoriali né gli avvisi di mora - include
anche la controversia relativa ad una opposizione all’esecuzione, nella specie attuata con un pignoramento presso terzi
promosso con riguardo al mancato pagamento di tasse automobilistiche, quando oggetto del giudizio sia la fondatezza
del titolo esecutivo, non rilevando la formale qualificazione
come “atto dell’esecuzione” del predetto pignoramento ed
invece contestandosi le cartelle esattoriali emesse per tasse
automobilistiche che si ritengano non dovute, in quanto relative ad auto già demolite” [Sez. un. n. 14667, del 5/5/2011,
(CED Cass n. 618199)].
“In tema di IVA, la controversia avente ad oggetto la
richiesta di rimborso - sul presupposto che le operazioni di
acquisto siano esenti - avanzata all’Amministrazione finanziaria da un soggetto che, operando nell’esercizio di una
professione o di un’impresa, acquista beni e servizi strumentali ai fini di tale esercizio spetta alla giurisdizione tributaria,
avendo ad oggetto la debenza di un tributo con efficacia di
giudicato nei confronti dell’Amministrazione medesima, in
quanto l’art. 19, lett. g) del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546
non limita o modifica il criterio generale di attribuzione
della giurisdizione siccome fissato nell’art. 2 del medesimo
d.lgs., ma si limita a prevedere un’azione generale di rimborso, individuando uno specifico atto (il rifiuto di restituzione)
la cui impugnazione costituisce un veicolo necessario per
l’introduzione del processo innanzi alle commissioni tributarie” [Sez. V., n. 12433 dell’8/6/2011, (CED Cass n.
618400)].
Diritto internazionale
[ A cura di Francesco Romanelli ]
Il respingimento in mare e la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo 107
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
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Il respingimento in mare
e la Convenzione europea
dei Diritti dell’Uomo
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
2 0 1 2
107
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo – Giurisdizione degli
Stati – Rimedi effettivi – Espulsione – Vittime – Esaurimento dei
rimedi interni – Proibizioni delle espulsioni collettive degli stranieri – Obbligazioni positive
Il respingimento di stranieri avvenuta nel contesto di intercettazioni in acque internazionali da parte delle autorità
di uno Stato nell’esercizio della sovranità nazionale, il cui
effetto sia di impedire che migranti raggiungano i confini
dello Stato o anche di respingerli verso un altro Stato, costituisce esercizio della giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della
Convenzione che impegna la responsabilità dello Stato in
questione ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 4.
La consegna dei migranti ad un Paese terzo che non abbia
sottoscritto la Convenzione obbliga lo Stato ad assicurare
loro le garanzie ed i diritti sanciti dalla Convenzione stessa.
In caso di respingimento in acque internazionali, la mancata
predisposizione delle misure atte a raccogliere le richieste di
asilo dei singoli migranti e l’indicazione di un porto di destinazione e di sbarco diverso da quello su cui si fa effettivamente rotta costituisce violazione dell’art. 13 della Convenzione.
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Sezione, senten‑
za 23 febbraio 2012, H. J. e altri c/ Italia, Ricorso n.
27765/09.
Il respingimento in mare e la Convenzione europea dei Diritti
dell’Uomo
Il dispositivo della sentenza la cui massima è stata sopra
riportata è il seguente:
- dichiara, all’unanimità, ammissibile il ricorso per violazio‑
ne dell’art. 3 della Convenzione;
- dichiara, all’unanimità, che vi sia stata violazione dell’art.
3 della Convenzione perché i ricorrenti furono esposti al
rischio di maltrattamenti in Libia e rigetta l’eccezione
preliminare del Governo italiano relativa alla carenza
dello status di vittime dei ricorrenti;
- dichiara, all’unanimità che vi sia stata violazione dell’art.
3 della Convenzione perché i ricorrenti sono stati esposti
al rischio di essere rimpatriati in Somalia ed Eritrea;
- dichiara ammissibile, all’unanimità, il ricorso per viola‑
zione dell’art. 4 del Protocollo n. 4;
- dichiara, all’unanimità che vi sia stata violazione dell’art.
4 del Protocollo n. 4;
- dichiara ammissibile, all’unanimità, il ricorso per viola‑
zione del combinato disposto dell’art. 13 e dell’art. 3 della
Convenzione e dell’art. 4 del Protocollo n. 4;
- dichiara, all’unanimità che vi sia stata violazione del com‑
binato disposto dell’art. 13 e dell’art. 3 della Convenzione
e dell’art. 4 del Protocollo n. 4 e rigetta l’eccezione preli‑
minare del Governo italiano relativo al mancato esauri‑
mento dei rimedi interni;
- condanna, all’unanimità, lo Stato convenuto a) al paga‑
mento in favore dei ricorrenti, nel termine di mesi tre, dei
seguenti importi: i) € 15.000,00 ciascuno, al netto di ogni
tassazione applicabile, per i danni non patrimoniali, som‑
ma che deve essere depositata fiduciariamente presso i
rappresentanti dei ricorrenti in loro favoro; ii) € 1.575,74,
in totale, al netto di ogni tassazione applicabile, per la
refusione delle spese; b) al pagamento degli interessi mo‑
ratori allo spirare del termine di tre mesi al tasso pari al
tasso marginale di sconto praticato dalla Banca Centrale
internazionale
Gazzetta
108
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
Europea maggiorato di tre punti percentuali.
La pesante condanna della Corte Europea è stata inflitta
all’Italia in relazione ad un respingimento di profughi in alto
mare, ad opera di alcune unità della Guardia di Finanza e
della Guardia Costiera, avvenuto nel 2009.
I ricorrenti, undici cittadini somali e tredici cittadini eri‑
trei, facevano parte di un gruppo di circa 200 persone che
erano salpate dalla Libia a bordo di tre imbarcazioni con lo
scopo di raggiungere le coste italiane.
Il 6 maggio 2009, quando le imbarcazioni erano a circa
35 miglia nautiche a sud di Lampedusa, in un area ricadente
sotto la giurisdizione maltese per quanto attiene alla ricerca
e salvataggio (Search and Rescue Region of responasability),
esse furono intercettate da tre unità della Guardia di Finanza
e della Guardia Costiera.
Gli occupanti delle imbarcazioni furono trasferiti a bordo
delle navi militari italiane e riportati a Tripoli. I ricorrenti
hanno dichiarato che le autorità italiane non li informarono
della loro reale destinazione né provvidero ad identificarli.
Tutti i loro effetti personali, inclusi i documenti di identità
furono confiscati dal personale militare.
Al loro arrivo al porto di Tripoli, dopo dieci ore di viaggio,
i migranti furono forzatamente obbligati a lasciare le navi
italiane e consegnati alle autorità libiche.
Si legge nella motivazione della sentenza che il Ministro
degli Interni italiano dell’epoca, Roberto Maroni (LN), affer‑
mò che l’operazione di intercettazione del naviglio in acque
internazionali e di respingimento dei migranti verso la Libia
fosse la conseguenza dell’entrata in vigore alla data del
4.2.2009 dell’accordo bilaterale concluso con la Libia e che
essa costituiva un importante punto di svolta nella lotta con‑
tro l’immigrazione clandestina.
In un’audizione al Senato della Repubblica del 25.5.2009,
il medesimo uomo politico affermò che tra il 6 ed il 10 maggio
di quell’anno più di 471 migranti irregolari erano stati inter‑
cettati in acque internazionali e trasferiti in Libia grazie a
quegli accordi bilaterali. Complessivamente l’Italia nel corso
del 2009 ha condotto nove operazioni di intercettazione in
acque internazionali.
In quell’anno erano note sia la situazione di conflitto en‑
demico in Somalia ed Eritrea – la Corte riporta nella propria
sentenza i numerosi documenti internazionali al riguardo – sia
le condizioni di detenzione inumana, maltrattamenti e torture
(tra cui stupri reiterati su donne e bambini) inflitte ai migran‑
ti costretti nei campi sotto il controllo delle autorità libiche.
Ciò non ha fermato le autorità politiche italiane né i mili‑
tari che hanno eseguito gli ordini ricevuti1 dall’imbarcare
1 L’art. 25.2 del DPR 18.7.1986 n. 545 “Regolamento di disciplina militare”, in
vigore all’epoca dei fatti, disponeva che “Il militare al quale venga impartito
un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore deve, con spirito di
leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Secondo quanto disposto dalle norme di principio, il militare al quale viene impartito un
ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire
l’ordine ed informare al più presto i superiori”. V. ora l’art. 1349.2 del D. Lgv.
15.3.2010 n. 66: “Il militare al quale è impartito un ordine manifestamente
rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque
manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più
presto i superiori”. V. inoltre l’art. 729.2 DPR 15.3.2010 n. 90, Testo unico
delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare.
Gazzetta
F O R E N S E
consapevolmente in acque internazionali persone in difficoltà,
con ciò sottoponendoli alla giurisdizione italiana (le unità
navali battenti bandiera nazionale – tanto più il naviglio mi‑
litare costituiscono, come è noto, territorio dello stato, ai
sensi dell’art. 4 del Codice della Navigazione)2 . Il personale
militare non ha provveduto alla loro identificazione; non ha
provveduto a verificare la sussistenza delle condizioni per la
concessione dell’asilo; ha sbarcato contro la loro volontà es‑
seri umani esponendoli al rischio concreto di maltrattamenti,
persecuzione, tortura e morte; non ha consentito loro di ri‑
volgersi all’autorità giudiziaria italiana per la valutazione
delle loro singole posizioni.
Tale condotta, riferibile naturalmente allo Stato in quan‑
to tenuta da militari in servizio in acque internazionali, in
esecuzione, peraltro, di disposizioni ricevute dalla catena
gerarchica sino alla superiore autorità politica, integra la
2 è principio generalmente accettato del diritto internazionale che le obbligazio‑
ni assunte dallo Stato con la sottoscrizione dei Trattati internazionali compor‑
tino la responsabilità internazionale dello Stato non solo per le azioni condotte
all’interno del territorio nazionale ma anche per quelle condotte in ambito
extra-territoriale: Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Haitian
Centre for Human Rights et al. US, case 10.675, report No. 51/96, OEA/
Ser.L./V/II.95, doc. 7 rev., 13 March 1997, para. 157, dove si afferma che non
vi sono limitazioni geografiche alle obbligazioni di non respingimento risultan‑
ti dall’art. 33 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati. Nel provve‑
dimento si dichiara che le azioni di respingimento, nel caso specifico compiute
dal Governo degli Stati Uniti, violassero l’art. XXVII della Dichiarazione Ame‑
ricana dei Diritti Umani. V. pure l’Opinione circa l’applicazione extraterritoria‑
le delle obbligazioni di non respingimento ai sensi della Convenzione 1951
relativa allo status di rifugiato ed al protocollo aggiuntivo 1967, del 26.1.2007
nonchè il “Background note on the protection of asylum-seekers and refugees
at sea” del 18.3.2002, par. 18, resa dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite
per I Rifugiati in risposta alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, in
International Legal Materials, 32, 1993, p. 1215, e “Brief Amicus Curiae: The
Haitian Interdiction case 1993”, in International Journal of Refugee Law, 6,
1994, pp. 85-102. Nel caso Regina v. Immigration Officer at Prague Airport
and another (Respondents) ex parte European Roma Rights Centre and others
(Appellants), 9.12.2004, para. 26, la House of Lords ha affermato: “There
would appear to be general acceptance of the principle that a person who leaves
the state of his nationality and applies to the authorities of another state for
asylum, whether at the frontier of the second state or from within it, should not
be rejected or returned to the first state without appropriate enquiry into the
persecution of which he claims to have a well-founded fear.” In para. 21, Lord
Bingham of Cornhill clearly indicated that he followed the Inter-American
Commission’s ruling in the Haiti case (“The appellants’ position differs by an
order of magnitude from that of the Haitians, whose plight was considered in
Sale, above, and whose treatment by the United States authorities was under‑
standably held by the Inter-American Commission of Human Rights (Report
No. 51/96, 13 March 1997, para 171) to breach their right to life, liberty and
security of their persons as well as the right to asylum protected by article
XXVII of the American Declaration of the Rights and Duties of Man, of which
the Commission found the United States to be in breach in para 163.”, with
my underlining). V. inoltre, la dichiarazione dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite sull’asilo territorial adottata il 14.12.1967: UNGA resolution
2312 (XXII), A/RES/2312(XXII), second la quale “No person referred to in
article 1, paragraph 1, shall be subjected to measures such as rejection at the
frontier or, if he has already entered the territory in which he seeks asylum,
expulsion or compulsory return to any state where he may be subjected to
persecution.” Inoltre, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, nelle
sue conclusion e raccomandazioni nel second report sugli USA (CAT/C/USA/
CO/2, 2006, paras. 15 and 20) afferma che lo Stato deve assicurare che “l’ob‑
bligo di non respingimento sia reso pienamente efficace nei confronti delle
persone sotto il suo effettivo controllo dovunque siano situate nel mondo” e in
J.H.A. c/ Spagna (CAT/C/41/D/323/2007) (2008), che ritenne sussistere la re‑
sponsabilità della Spagna relativa all’obbligo di non respingimento nel caso di
blocco di migranti per mare. Cfr. inoltre: General Comment No. 31: The Nature
of the General Legal Obligation Imposed on States Parties to the Covenant,
CCPR/C/21/Rev.1/Add.13, 2004, para. 12, che sottolinea che lo Stato deve
rispettare il principio di non respingimento “per ogni persona nel proprio ter‑
ritorio e sotto il proprio controllo” (Concluding Observations of the Human
Rights Comm.: USA, CCPR/79/Add.50, 1995, para. 284; Kindler v. Canada,
Commentary No. 470/1991, 30 July 1993, para. 6.2; ARJ v. Australia, Com‑
mentary No. 692/1996, 11 August 1997, para. 6.8).
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g e n n a i o • f e b b r a i o
violazione, come riconosciuto all’unanimità dalla Corte,
dell’art. 3 e 13 della Convenzione europea nonché dell’art. 4
del Protocollo n. 4.
A fronte delle gravissime doglianze dei ricorrenti, che
hanno lamentato la violazione di diritti garantiti dall’ordina‑
mento nazionale e di rango costituzionale, la difesa del Go‑
verno italiano si è incentrata preliminarmente sul difetto di
procura dei difensori dei ricorrenti, quindi sulla carenza di
giurisdizione italiana, in quanto l’intervento delle navi mili‑
tari non ha sottoposto a “diretto ed immediato controllo”
dello Stato i migranti (sic!). La difesa italiana ha contestato
nel merito la mancanza di prova circa l’effettivo status di
vittime dei ricorrenti, la circostanza che la Libia avesse sotto‑
scritto alcuni trattati internazionali in materia di protezione
dei rifugiati e che avesse consentito l’apertura a Tripoli di
uffici dell’ UNHCR e dell’Organizzazione mondiale dell’Im‑
migrazione.
Sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione.
La Corte ha reiterato il principio secondo cui la deporta‑
zione indiretta, attraverso la cooperazione di uno Stato terzo,
lascia intatta la responsabilità dello Stato contraente ed a
tale Stato si richiede, in accordo con la giurisprudenza conso‑
lidate, di assicurare che le persone in questione non siano
esposte a rischio concreto di essere soggette a trattamenti
contrari all’art. 3 in caso di rimpatrio3 .
La Corte ha affermato ancora che è un problema dello
Stato che procede al rimpatrio assicurarsi che lo Stato inter‑
mediario offra sufficienti garanzie atte ad impedire che la
persona interessata sia deportata nel proprio paese di origine
senza la necessaria valutazione dei rischi che in tale evenienza
sarebbe chiamata ad affrontare. La Corte ha osservato inoltre
che tale obbligo è tanto più importante quando lo Stato inter‑
mediario non sia parte della Convenzione.
La Corte ha inoltre dichiarato che non fosse proprio com‑
pito quello di valutare l’eventuale violazione della Convenzione
in caso di rimpatrio dei ricorrenti bensì di accertare se vi fosse‑
ro sufficienti garanzie che le parti interessate non fossero arbi‑
trariamente rimpatriate nei paesi di origine quando essi aveva‑
no validi argomenti per sostenere che il loro rimpatrio avrebbe
costituito una violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Secondo le organizzazioni internazionali UNHCR e Hu‑
man Rights Watch, i cittadini eritrei rimpatriati affrontano la
tortura e la detenzione in condizioni inumane per il solo fatto
di aver lasciato il proprio paese in maniera irregolare. Per
quanto riguarda la Somalia, la Corte, già nel ricorso Sufi and
Elmi 4 , la Corte ha notato che il livello di violenza nella città
di Mogadiscio espone i cittadini di quel paese che siano for‑
zosamente rimpatriati a transitare in aree afflitte da conflitti
armati ed a cercare rifugio in campi profughi dove le condi‑
zioni di vita non sono assicurate. Le informazioni relative a
questi due paesi sono prima facie evidenti e nemmeno sono
state oggetto di discussione nel dibattimento.
La Corte ha rigettato le difese del Governo italiano in
ordine alle garanzie offerte dalla Libia. E’ stato osservato che
la presenza a Tripoli di un ufficio di rappresentanza UNHCR
3 Cfr., T.I. c/ Regno Unito, sentenza n. 43844/98, ECHR 2000-III.
4 Sufi e Elmi c/ Regno Unito, ricorsi riuniti 8319/07 e 11449/07 sentenza del
28/06/2011.
2 0 1 2
109
non costituisce di per sé la protezione di coloro che richiedo‑
no asilo, attesa anche la posizione delle autorità libiche
dell’epoca che non riconoscevano lo status di rifugiato.
Secondo la Corte, le autorità italiane al momento del
trasferimento in Libia conoscevano o avrebbero dovuto cono‑
scere che vi fossero insufficienti garanzie di protezione per le
persone interessate dal rischio di essere arbitrariamente rim‑
patriate nei loro paesi di origine con particolare riguardo alla
mancanza di ogni procedura di asilo e dell’impossibilità di far
riconoscere alle autorità libiche lo status di rifugiato ricono‑
sciuto dall’UNHCR.
Sulla violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4.
Sulla doglianza della violazione del divieto di espulsione
collettiva degli stranieri, il Governo italiano si è difeso soste‑
nendo che tale divieto si applichi solo a coloro che si trovino
sul territorio nazionale a seguito di ingresso illegale, mentre
nel caso sottoposto all’esame della Corte, si è di fronte al di‑
verso caso del respingimento alle frontiere.
La Corte non ha condiviso la posizione del Governo sul
punto. E’ stato innanzitutto notato che l’art. 4 del Protocollo
n. 4 non pone di per sé alcun ostacolo alla sua applicazione
extraterritoriale. I giudici di Strasburgo rilevano che la norma
non fa alcun riferimento alla nozione di “territorio”, riferi‑
mento esplicitamente contenuta dall’art. 3 del medesimo
Protocollo, nonché dall’art. 1 del Protocollo n. 7 in materia
di divieto di espulsione degli stranieri legalmente residenti.
La Corte ha trovato conforto alla propria interpretazione
anche dalla lettura dei lavori preparatori che espressamente
affermano che l’adozione di tali norme non potranno in alcun
modo essere interpretati in modo da giustificare misure di
espulsione collettive che hanno avuto luogo nel passato.
La Corte ha ritenuto che, secondo la consolidata giuri‑
sprudenza della Commissione e della Corte, lo scopo dell’art.
4 del Protocollo n. 4 sia di prevenire la possibilità per gli
Stati di deportare un gruppo di stranieri senza esaminare le
loro personali condizioni e conseguentemente senza consen‑
tire loro di sostenere le proprie ragioni contro le misure di
espulsione prese dinanzi ad una competente autorità.
Se cioè, ha affermato la Corte, l’art. 4 del Protocollo n. 4,
fosse applicabile solo alle espulsioni collettive dal territorio
nazionale degli Stati contraenti la Convenzione, una signifi‑
cativa componente dei modelli attuali di migrazione non ri‑
cadrebbe nell’ambito della norma, nonostante il fatto che la
condotta che si intende proibire possa avvenire all’esterno del
territorio nazionale ed in particolare, come nel caso in esame,
in acque internazionali. L’art. 4 sarebbe così inefficace proprio
riguardo a quei migranti che avendo preso il mare, spesso a
rischio della propria vita, e non essendo riusciti a raggiungere
i confini di Stato, non avrebbero titolo per chiedere l’esame
della propria posizione, diversamente da coloro che hanno
viaggiato per terra. E se è vero che la nozione di giurisdizione
è principalmente territoriale mentre la nozione di espulsione
è anche territoriale, è pur vero che quando lo Stato contraen‑
te decida di far valere la propria giurisdizione eccezionalmen‑
te al di fuori del proprio territorio ciò impedisca che tale
esercizio prenda la forma di un’espulsione collettiva.
La giurisprudenza della Corte, peraltro, ha già affermato
che anche la specialità dell’ambiente marino non può giustifi‑
care l’esistenza di un’area al di fuori della legge dove i singoli
individui non siano coperti da un ordinamento giuridico ca‑
internazionale
Gazzetta
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pace di assicurare loro la fruizione dei diritti e delle garanzie
assicurate dalla Convenzione che gli Stati si sono impegnati
ad assicurare a chiunque all’interno della loro giurisdizione5.
La Corte non contesta il diritto degli Stati di stabilire le
proprie politiche di immigrazione. Ma sottolinea che la ge‑
stione della complessa problematica non può in alcun modo
giustificare il ricorso a pratiche che non siano compatibili con
la Convenzione europea che, come tutti i trattati internazio‑
nali, deve essere interpretata in buona fede alla luce dell’og‑
getto e degli scopi del trattato e secondo il principio di effet‑
tività6 .
Sulla violazione degli art. 3 e 13 della Convenzione.
I ricorrenti hanno lamentato la violazione degli artt. 3 e
13 della Convenzione poiché il respingimento era un atto il‑
legale e non è stato loro concesso di sottoporre tale atto al
controllo di legittimità delle competenti autorità giudiziarie
italiane.
Il Governo si è difeso sostenendo che essendo i fatti avve‑
nuti a bordo di navi era impossibile garantire ai ricorrenti il
diritto di rivolgersi ad un giudice e che in ogni caso era pos‑
sibile per i ricorrenti rivolgersi ai Tribunali penali italiani per
il perseguimento dei reati compiuti dal personale militare
responsabile del respingimento.
La Corte ha preso atto del riconoscimento da parte del
Governo italiano che a bordo delle unità impegnate nell’ope‑
razione di respingimento non fossero stati imbarcati interpre‑
ti né consulenti legali né fosse stata adottata alcuna misura
atta all’identificazione dei singoli migranti né a raccogliere le
eventuali richieste di asilo. Ha rilevato che mentre i ricorren‑
ti hanno provato attraverso numerose testimonianze che il
personale militare aveva comunicato che il gruppo sarebbe
stato portato sul territorio italiano – circostanza vanamente
negata dalla difesa della Repubblica italiana.
In linea generale, secondo la giurisprudenza della Corte,
l’art. 13 della Convenzione garantisce, a livello nazionale, la
disponibilità di un rimedio per assicurare l’effettività dei dirit‑
ti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione stessa in qua‑
lunque forma possa occorrere. L’effetto di tale norma è quindi
di richiedere un rimedio domestico tale da soddisfare il requi‑
sito del contraddittorio. Lo scopo dell’obbligazione degli Stati
contraenti ai sensi dell’art. 13 varia a seconda delle doglianze
dei ricorrenti. Ma in ogni caso il rimedio deve essere effettivo
e l’effettività, naturalmente, non dipende dalla certezza dell’esi‑
to favorevole al ricorrente, né l’autorità cui si riferisce la norma
deve essere necessariamente un’autorità giudiziale, ma se non
lo è, i suoi poteri e le sue guarentigie devono essere tali da as‑
sicurare che le decisioni prese siano efficaci. La Corte arriva ad
affermare che seppure il singolo rimedio assicurato dalla legge
nazionale non soddisfi interamente i requisiti dei cui all’art. 13
richiamato, è sufficiente che l’insieme dei rimedi previsti dall’or‑
dinamento nazionale, lo faccia7.
La giurisprudenza della Corte ha anche affermato che le
doglianze di un cittadino che richieda asilo relative alla cir‑
costanza che il suo trasferimento verso uno Stato terzo lo
esporrebbe a trattamenti proibiti dall’art. 3 della Convenzio‑
ne debba essere necessariamente sottoposto al rigoroso scru‑
tinio di un’autorità nazionale 8 , che garantisca principalmente
l’indipendenza e la valutazione di ogni istanza presentata
qualora sussista il fondato timore di un reale rischio di trat‑
tamento contrario all’art. 3 e, secondariamente, la possibilità
di sospensione delle misure impugnate.
La necessità dell’esistenza di un potere sospensivo è indi‑
spensabile per poter considerare effettivo il rimedio naziona‑
le ai sensi dell’art. 139. La possibilità di sospendere il respin‑
gimento è connesso all’irreversibile natura del danno che
potrebbe derivare se il richio di tortura o di sottoposizione a
trattamenti inumani o degradanti si concretizzasse10 .
Nel caso sottoposto all’esame della Corte, i giudici di
Strasburgo hanno ritenuto che i ricorrenti siano stati privati
di ogni rimedio che avrebbe consentito loro di sottoporre al
vaglio dell’autorità le loro doglianze ai sensi dell’art. 3 della
Convenzione e dell’art. 4 del Protocollo n. 4 e di ottenere at‑
traverso il rigoroso esame delle loro istanze che la misura del
respingimento fosse eseguita.
Circa la difesa del Governo italiano per la quale i ricor‑
renti avrebbero avuto la possibilità di presentare ai Tribunali
penali italiani le proprie doglianze circa lo sbarco in Libia, la
Corte ha rilevato che anche se tale rimedio fosse stato concre‑
tamente praticabile, le condizioni di cui all’art. 13 della Con‑
venzione non sarebbero state evidentemente soddisfatte da un
procedimento penale a carico del personale militare a bordo
delle unità della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera,
fintanto che non fosse stata soddisfatta l’esigenza di una so‑
spensiva del respingimento.
In conclusione, la politica dei respingimenti in mare, sen‑
za la verifica della sussistenza delle condizioni per procedere
all’eventuale concessione, caso per caso, dello status di rifu‑
giato, costituisce di per sé una violazione dei diritti umani
assicurati dalla Convenzione sottoscritta a Roma nel 1950.
Tale pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’Uomo,
che appare una bocciatura di un certo modo semplicistico di
affrontare un problema serissimo qual è quello del governo
dei flussi migratori dai paesi in via di sviluppo e della prote‑
zione dei rifugiati, segue di pochi mesi la sentenza della Cor‑
te di Giustizia dell’Unione Europea del 28 aprile 201111 che
aveva dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione ed in
particolare con gli artt. 15 e 16 della direttiva 2008/115/CE,
l’art. 14, comma 5–ter, del decreto legislativo n. 286/1998,
che prevedeva la possibilità di punire con la reclusione sino a
quattro anni la mera mancata cooperazione dell’interessato
alla procedura di espulsione.
5 Medvedyev e altri c/ Francia, [GC], n. 3394/03, 29.3.2010
6 Mamatkulov e Askarov c/ Turchia, [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, § 123,
ECHR 2005-I, 6.2.2003
7 Kudła c/ Polonia [GC], n. 30210/96, § 157, ECHR 2000-XI
8 Shamayev e altri c/ Georgia e Russia, n. 36378/02, § 448, ECHR 2005-III
9 Conka c/ Belgio, n. 51564/99, ECHR 2002-I
10 Gebremedhin [Geberamadhien] c/ Francia, n. 25389/05, § 66, ECHR 2007-II
11 CGUE, 28.4.2011 in C–61/11 PPU, in questa Rivista.
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Quid juris quando (non costituitosi in giudizio l’intimato) il ricorrente non abbia tempestivamente depositato l’avviso di ricevimento (cd. cartolina) della raccomandata postale fungente
113
da notifica? / Riccardo Esposito
Sui rapporti tra procedimento ordinario e procedimento di prevenzione: fin dove si spinge il cd.
principio di autonomia rispetto alla richiesta di revoca della misura di prevenzione? / Andrea Alberico
114
questioni
A quale giurisdizione appartengono le questioni meramente patrimoniali attinenti alla gestione
116
dei rifiuti disciplinate dal D.L. n. 90/2008? / Immacolata Maione
F O R E N S E
●
DIRITTO processuale CIVILE
Quid juris quando (non
costituitosi in giudizio
l’intimato) il ricorrente non
abbia tempestivamente
depositato l’avviso di
ricevimento (cd. cartolina) della
raccomandata postale fungente
da notifica?
● Riccardo Esposito
Dottore in Giurisprudenza
Ai fini dell’analisi della presente
questione è utile partire dal caso con‑
cretamente posto all’attenzione della
Suprema Corte.
Nella specie parte appellante depo‑
sitava in cancelleria appello notificato
all’appellato a mezzo posta, omettendo
di produrre l’avviso di ricevimento. La
Corte all’udienza di discussione, non
potendo verificare la regolare costitu‑
zione del contraddittorio, ordinava di
notificare nuovamente l’atto introdutti‑
vo, utilizzando il potere di cui all’art.
291 c.p.c. (applicabile, anche al proces‑
so di secondo grado in virtù di un richia‑
mo contenuto nell’art. 359 c.p.c., nelle
ipotesi di nullità della notificazione).
All’udienza di discussione all’uopo
fissata, l’appellante, per fatto a lui non
imputabile, nuovamente non produceva
la cd. cartolina; la Corte territoriale, a
causa della detta inerzia processuale,
essendo stato violato il termine peren‑
torio concesso ex art. 291 c.p.c. ed es‑
sendosi consolidata la nullità proces‑
suale ivi prevista, dichiarava improce‑
dibile l’appello, facendo passare in giu‑
dicato la sentenza di primo grado.
Avverso tale decisione l’appellante
presentava ricorso per Cassazione. La
Sezione lavoro investita ha esaminato la
seguente questione, vale a dire: la man‑
cata produzione dell’avviso di ricevi‑
mento può configurare un elemento
costitutivo del procedimento notificato‑
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 2
rio in mancanza del quale la notifica
può essere qualificata come nulla o
inesistente?
In realtà, la questione era già stata
trattata dal massimo consesso giurisdi‑
zionale nazionale che, con la sentenza
n. 627 del 14 gennaio 2008, sembrava
aver dissipato definitivamente i contra‑
sti giurisprudenziali.
Sul punto, le soluzioni astrattamen‑
te ipotizzabili sono tre.
In primo luogo, la notifica potrebbe
essere considerata nulla, rendendo di
conseguenza utilizzabile il meccanismo
di cui all’art. 291 c.p.c.
Tale ricostruzione, che è stata a
lungo seguita dalla giurisprudenza (si
veda, a titolo esemplificativo, Corte di
appello di Napoli sez. Lavoro con sen‑
tenza n. 4608/06 del 20 giugno 2006)
non è più ipotizzabile, essendo contraria
alla disciplina legislativa che ha recepi‑
to il principio della scissione del perfe‑
zionamento della notifica per il notifi‑
cante e per il destinatario, come sancito
dalla Corte Cost. con la sentenza n.
477/2002.
Pare di tutta evidenza che, essendo
stabilito all’art. 149, comma 4 c.p.c.
(aggiunto dall’art. 2 della L. 28 dicem‑
bre 2005, n. 273) che la notifica si
perfeziona, per il soggetto notificante,
al momento della consegna del plico
all’ufficiale giudiziario, non è ipotizza‑
bile che la mancata produzione dell’av‑
viso di ricevimento comporti la nullità
del procedimento notificatorio, essendo
quest’ultimo già perfezionato.
In secondo luogo, la notifica potreb‑
be essere considerata inesistente.
Tale opzione interpretativa, soste‑
nuta dalla giurisprudenza di legittimità
(Cass. 24877/2006, Cass. 10506/2006,
Cass. 2722/2005) anche dopo l’inter‑
vento della Consulta del 2002, non
permette di utilizzare il potere di rinno‑
vazione della notifica di cui all’art. 291
c.p.c. e, portata alle sue estreme conse‑
guenze logiche, non consentirebbe di
ritenere la costituzione del destinatario
come idonea a sanare il vizio per rag‑
giungimento dello scopo (come sostenu‑
to dalla giurisprudenza di legittimità
più r i s a le nt e C a s s . 187/ 19 70 e
338/1972).
Tale estrema soluzione - pur restan‑
do ferma la qualificazione di inesistenza
del procedimento notificatorio in caso
di omessa produzione dell’avviso di ri‑
cevimento “è stata superata, essendosi,
113
in seguito, affermato l’orientamento
secondo il quale la costituzione del
convenuto vale ad integrare essa stessa
“la prova, sia pur presuntiva, dell’avvenuto ricevimento dell’atto, e così della
regolarità del contraddittorio” (cfr.
Cass., n. 3271/86, nonché, ex multis,
nn. 5141/94 e 3764/95).
In terzo luogo, come è preferibile, la
notificazione potrebbe essere considera‑
ta perfezionata, ma sprovvista di un
supporto probatorio idoneo.
La produzione dell’avviso di ricevi‑
mento non rappresenterebbe quindi
elemento costitutivo del procedimento
di notificazione, ma servirebbe unica‑
mente per provare, l’intervenuta conse‑
gna dell’atto al destinatario, la data
della stessa nonché l’identità e l’idoneità
della persone a mani della quale è stata
eseguita.
Tale ultima soluzione (di recente
seguita dalla Cass., sez. lavoro, sent. n.
24489/11 del 21 novembre 2011 che
ripercorre l’iter interpretativo della ci‑
tata sentenza n. 627 del 14 gennaio
2008 delle Sezioni Unite) è la più ade‑
rente al dettato normativo ed ha, però,
dei necessari corollari: non incidendo la
omessa produzione dell’avviso di rice‑
vimento sulla validità della notifica,
quest’ultima non potrà essere rinnovata
ex art. 291 c.p.c.; nel caso in cui non
venga fornita prova della regolare costi‑
tuzione del contraddittorio tramite la
c.d. cartolina, il giudizio dovrà essere
dichiarato inammissibile.
L’impossibilità di utilizzare il mec‑
canismo di cui all’art. 291 c.p.c. potreb‑
be condurre però all’estrema conse‑
guenza della dichiarazione di inammis‑
sibilità della domanda, facendo incor‑
rere in gravissime decadenze (come, ad
esempio, il passaggio in giudicato della
sentenza ove il giudizio si trovi in grado
di appello) anche la parte avveduta che
abbia depositato l’atto introduttivo
notificato (rectius consegnato all’uffi‑
ciale giudiziario).
La Corte Costituzionale con la sen‑
tenza n. 477/2002, supra richiamata,
ha, però, escluso che “dal mancato completamento dell’attività di notifica per
fatto non riconducibile ad errore o negligenza del disponente possa derivare
per lo stesso un effetto di decadenza”.
A tale inconveniente si può porre
rimedio utilizzando l’istituto della ri‑
messione in termini di cui all’art. 153,
comma 2, c.p.c. che costituisce, oramai
questioni
Gazzetta
114
(a seguito della riforma introdotta dalla
L. 20 dicembre 1995, n. 534 e della L.
18 giugno 2009 n. 69), un istituto di
portata generale del nostro ordinamen‑
to. In tal modo viene salvaguardato
l’interesse del notificante, discendente
direttamente dall’art. 24 Cost., a non
vedersi addebitare il mancato esito del‑
la procedura notificatoria tutte le volte
che non si sia verificato per sua colpa.
Il difensore avveduto, a cui non sia
stata restituita la cd. cartolina, dovrà
dunque innanzitutto domandare di es‑
sere rimesso in termini ex art. 153,
comma 2, c.p.c. per la produzione
dell’avviso stesso, offrendo la prova
della non imputabilità della causa della
omessa produzione nonché di aver espe‑
rito i rimedi che la legge appresta per il
caso che l’avviso di ricevimento non sia
stato restituito o sia stato smarrito dal
servizio postale.
Dovrà, in pratica, depositare docu‑
mentazione dalla quale risulti che, con
anticipo congruo, rispetto all’udienza
di trattazione ha richiesto il duplicato
che l’Amministrazione postale è tenuta
a rilasciare nel caso di smarrimento
dell’originale secondo quanto previsto
dalla legge 890 del 20 novembre 1982
all’art. 6, comma 1.
Tornando al caso pratico più sopra
esposto, la Suprema Corte (Cass., sez.
Lavoro, sent. n. 24489/11 del 21 novem‑
bre 2011), sebbene abbia rigettato il ri‑
corso, ha corretto ed integrato la moti‑
vazione dalla Corte territoriale, affer‑
mando che quest’ultima ha erronea‑
mente collocato la vicenda nell’alveo
dell’improcedibilità, “anziché pronunciare la declaratoria di inammissibilità
dell’appello con contestuale implicita
revoca dell’ordinanza di rinnovazione
della notificazione, in precedenza adottata ai sensi dell’art. 291 c.p.c., in assenza dei relativi presupposti”.
Ciò posto, la Cassazione afferma
che la motivazione della sentenza impu‑
gnata andrà modificata ed integrata, ai
sensi dell’art. 384, secondo comma,
c.p.c., statuendo che il gravame sarebbe
dovuto essere dichiarato inammissibile
per difetto di prova dell’avvenuto perfe‑
zionamento del procedimento notifica‑
torio (e della tempestiva attivazione al
fine del conseguimento dell’avviso di
ricevimento ovvero del rilascio dall’am‑
ministrazione postale di copia dell’av‑
viso) e, dunque, dell’avvenuta insatura‑
zione del contraddittorio.
Gazzetta
q u e s t i o n i
A questo punto, dovrebbe risultare
evidente che il ricorso per Cassazione
non è stato accolto in quanto l’appellan‑
te non aveva fornito alcuna prova docu‑
mentale circa la tempestiva attivazione
al fine del conseguimento dell’avviso di
ricevimento.
Invero, tale prova potrebbe consen‑
tire (anche per più di una volta, nella
poco probabile ipotesi in cui l’ammini‑
strazione postale rimanga più volte
colpevolmente inerte) la rimessione di
parte appellante ex art. 153, comma
secondo, c.p.c.
E’ stato detto da autorevole dottrina
che il formalismo comincia dove il diritto finisce (Salvatore Satta, Il forma‑
lismo del processo, in Il mistero del
processo, Adelphi, 1994, 84), la que‑
stione esaminata può far comprendere
che, anche ove il problema appaia sem‑
plice, possa essere complicato dalle so‑
luzioni ricevute.
F O R E N S E
●
DIRITTO PROCESSUALE penale
Sui rapporti tra procedimento
ordinario e procedimento di
prevenzione: fin dove si spinge
il cd. principio di autonomia
rispetto alla richiesta di revoca
della misura di prevenzione?
● Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale,
Università di Napoli “Federico II”
La diversa natura del processo ordi‑
nario rispetto al procedimento di pre‑
venzione ha orientato il legislatore al
riconoscimento del cd. principio di au‑
tonomia tra i due giudizi (si vedano
oggi gli artt. 29-30 del D. Lgs. 159/2011,
cd. codice antimafia).
Mentre il procedimento ordinario,
infatti, si orienta verso l’accertamento
della colpevolezza dell’imputato, ed è
presidiato dalla regola di favore dell’oltre ogni ragionevole dubbio, il giudizio
di prevenzione si caratterizza per un
contenuto decisamente minus, che si
sostanzia esclusivamente nel giudizio di
pericolosità del proposto, sia esso un
soggetto ovvero un bene. Ed è proprio
su questa base che si rinviene la ratio
della scelta in favore del principio di
autonomia: trattandosi di procedimen‑
ti con oggetti differenti, e soprattutto
con tempistiche radicalmente distanti,
non ha senso precludere un accertamen‑
to medio tempore di pericolosità quan‑
do ancora non si abbia certezza della
colpevolezza del proposto.
Il principio di autonomia, però, non
può per ciò solo comportare l’assoluta
insensibilità tra i due procedimenti. Non
si può, in altri termini, far prevalere in
ogni caso ed ad ogni costo un accerta‑
mento di carattere più limitato (quello
sulla pericolosità) su un sindacato am‑
pio e completo come quello del procedi‑
mento ordinario, a patto che, natural‑
mente, la vicenda storica oggetto di
entrambi i giudizi sia la medesima.
F O R E N S E
È necessario, allora, indagare i rap‑
porti tra giudicato penale di assoluzione
e persistenza di una misura di preven‑
zione non più impugnabile.
All’esito del giudizio ordinario, l’ac‑
certamento che verrà a cristallizzarsi
nella decisione avrà valore e carattere
assoluto di verità; una verità incontro‑
vertibile e tendenzialmente intangibile.
Parlare, allora, di autonomia dei pro‑
cedimenti è consentito e mantiene senso
giuridico a patto che la verità del proces‑
so ordinario, e gli strumenti adoperati per
conseguirla, non inficino, o peggio, non
falsifichino, l’accertamento limitato del
procedimento di prevenzione.
In altri termini, non appare possibi‑
le invocare il principio di autonomia per
censurare la novità della prova che
fondi la richiesta di revoca della misura
di prevenzione nell’ipotesi in cui il pro‑
cedimento ordinario porti alla luce una
verità fattuale che è in sé nuova nella
misura in cui sconfessa in radice – o
meglio ex tunc – l’ipotesi su cui si è in‑
nescata la vicenda di prevenzione.
L’istituto della revoca ex art. 7,
comma 2, L. 1423/1956, pur ricalcando
i caratteri del mezzo di impugnazione
straordinario della revisione ex art. 630
c.p.p., riflette pur sempre la particola‑
rità del procedimento di prevenzione, e
non può che ripeterne l’oggetto (arg. in
conformità a Cass., Sez. Un. 57/2007).
Il senso di questo “mezzo di revisio‑
ne”, in altre parole, è quello di consenti‑
re – in qualsiasi momento – un nuovo
giudizio in presenza di un aliquid novi
rispetto a materiale indiziario impiegato
nel procedimento di prevenzione, so‑
pravvenuto ovvero preesistente ma non
conosciuto. Come chiarito, infatti, dalla
sentenza n. 57/2007, lo scopo della re‑
voca è quello di “accertare, oggi per
allora, e nello spazio non precluso dalla
definitività del provvedimento, l’originaria insussistenza dei presupposti che
hanno condotto alla sua emanazione.
Infatti la dimostrazione dell’insussistenza non è tanto diretta a far cessare gli
effetti di una confisca legittimamente
imposta, quanto a farne palese un vizio
d’origine. Talché, una volta riconosciuta l’invalidità del titolo, la ritenuta irreversibilità dell’ablazione non esclude la
possibilità di una restituzione”.
La revoca, dunque, ben può fondar‑
si sull’acclarata falsità della prova
adoperata in sede di irrogazione della
misura. Detta falsità, infatti, può deri‑
g e n n a i o • f e b b r a i o
2 0 1 2
vare dalla contrarietà della stessa alla
verità, unica ed insindacabile, accertata
definitivamente nel giudizio ordinario.
Per il principio di non contraddizione
delle decisioni giudiziali, e di stabilità
delle sentenze definitive, il giudicato
ordinario successivo che accerti l’insus‑
sistenza – ove non addirittura la falsità
– di elementi emersi – ma non verificati
– in un procedimento di prevenzione, è
destinato a prevalere senza che alcun
giudice possa operare su di esso un
sindacato di merito, pena la messa in
discussione del giudicato stesso.
Mantenendo in vita la misura di
prevenzione, invece, si determinerebbe
una situazione per la quale gli elementi
posti a sostegno del giudizio di perico‑
losità avrebbero la capacità di resistere
all’accertamento sulla loro insussisten‑
za decretato da una sentenza passata in
cosa giudicata, il che, implicitamente,
insinuerebbe più di un dubbio sull’es‑
senza e sul significato sistematico del
giudicato.
Il giudizio di pericolosità, dunque,
non può – a parità di fatto concreto –
mantenere il suo carattere di stabilità
qualora si trovi in contrasto con un
giudizio pieno di assoluzione nel merito,
successivo in ordine di tempo, e che
prenda in considerazione, confutandoli,
tutti e ciascuno gli elementi a sostegno
della proposta.
Coerente con l’impostazione sinora
conferita al problema è la funzione
dell’istituto della revoca il quale, mu‑
tuando le sembianze del giudizio di re‑
visione, è deputato a dimostrare l’inva‑
lidità genetica del giudizio sulla perico‑
losità del proposto. Come chiarito re‑
centemente dalla Suprema Corte, “La
revoca del provvedimento di confisca
- deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, comma terzo, della L. n. 575 del 1965 (disposizioni contro la mafia) - presuppone, ex art. 7, comma secondo, della L.
n. 1423 del 1956 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica
moralità), che esso sia affetto da invalidità genetica, con la conseguenza che,
in tal caso, deve essere rimosso per
rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione
dell’errore giudiziario, non ostandovi
l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi. (La Corte ha altresì affermato
che la relativa istanza, inerendo all’ambito della rivedibilità del giudicato di
115
cui agli artt. 630 e ss. cod. proc. pen.,
postula l’acquisizione di prove nuove
sopravvenute alla conclusione del procedimento, ovvero l’inconciliabilità di
diversi provvedimenti giudiziari, oppure che il procedimento di prevenzione
si fondi su atti falsi o su un altro reato,
elementi, comunque, tutti preordinati
a dimostrare l’insussistenza di uno o
più dei presupposti del provvedimento
di confisca; valutazione rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile, ove congruamente motivato, in sede di legittimità)” (così Cass.,
Sez. 1, Sentenza n. 21369 del 14/05/2008
Cc. (dep. 28/05/2008 ) Rv. 240094).
Non è casuale che la Suprema Corte
si soffermi sul contrasto tra provvedi‑
menti giudiziari ovvero sulla falsità
degli atti su cui si sia fondato il giudizio
di prevenzione.
La Corte, infatti, non si limita a
trattare della potenzialità, in funzione
di revoca, dell’emersione di prove nuo‑
ve, ma estende il giudizio de quo anche
all’ipotesi della sopravvenienza di un
provvedimento che possa determinare,
da solo, il risultato di invalidità geneti‑
ca dell’accertamento di prevenzione.
Il Supremo Collegio, in altri termini,
non preclude al giudice della revoca di
comparare l’accertamento definitivo di
merito con l’accertamento definitivo di
prevenzione; non preclude, dunque, un
raffronto globale tra i due provvedimen‑
ti, finalizzato alla verifica della tenuta
di quello meno approfondito rispetto a
quello connotato da un accertamento
che si sia, invece, spinto funditus.
Come, altresì, non è precluso un
giudizio parziario sulla falsità del sin‑
golo atto del procedimento di preven‑
zione, purché, naturalmente, questo
atto abbia la capacità diretta di inficia‑
re l’intero giudizio.
questioni
Gazzetta
116
q u e s t i o n i
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
A quale giurisdizione
appartengono le questioni
meramente patrimoniali
attinenti alla gestione dei rifiuti
disciplinate dal D.L. n. 90/2008?
● Immacolata Maione
Dottoressa in Giurisprudenza
Il Tribunale di Napoli, con ordinan‑
za del 6 febbraio 2012 (Dott. Gatto), ha
dichiarato il proprio difetto di giurisdi‑
zione per appartenersi la controversia
alla giurisdizione del Tribunale Ammi‑
nistrativo Regionale del Lazio, in meri‑
to ad un ricorso promosso ex art. 702
c.p.c. da una cooperativa di vigilanza
che agiva per il mancato pagamento di
fatture emesse per attività di custodia
privata, espletata presso siti di stoccag‑
gio ed impianti di CDR nei confronti di
una società per azioni mandataria della
costruzione del sito (parte convenuta),
in virtù di un contratto di appalto sti‑
pulato con il Commissario di Governo
a cura del Dipartimento della Protezio‑
ne Civile della Presidenza del Consiglio
dei Ministri (terzo chiamato in causa).
Ciò posto, il g.o. partenopeo, rite‑
nuto che ai sensi dell’art. 4 del D.L. n.
90/2008, convertito in L. n. 123/2008,
sono devolute alla giurisdizione esclusi‑
va del giudice amministrativo tutte le
controversie, anche in ordine alla fase
cautelare, comunque attinenti alla com‑
plessiva azione di gestione dei rifiuti,
seppure posta in essere con comporta‑
menti dell’amministrazione pubblica o
dei soggetti alla stessa equiparati, ha
declinato la propria giurisdizione dispo‑
nendo la riassunzione del giudizio di‑
nanzi al TAR Lazio.
Al riguardo, giova osservare che tale
disciplina è stata ripresa nell’art. 133 del
D.lgs. n. 104/2010 (codice del processo
amministrativo) che tra le controversie
devolute alla giurisdizione amministra‑
tiva esclusiva indica, alla lettera p, quel‑
le “comunque attinenti alla complessiva
azione di gestione del ciclo rifiuti, sep‑
pure posta in essere con comportamenti
della p.a. riconducibili, anche mediata‑
mente, all’esercizio di un pubblico pote‑
re, quand’anche relative a diritti costitu‑
zionalmente contemplati”.
Sul punto, è intervenuta anche la
Corte Costituzionale che, con sentenza
n. 35/2010, ha risolto il conflitto sorto
in merito alla corretta interpretazione
della determinazione sulla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo,
riconoscendone la legittimità. Da tale
sentenza, difatti, possono trarsi i se‑
guenti principi di diritto:
a) nella definizione dei confini della
giurisdizione esclusiva è necessario
che la controversia involga situazio‑
ni di interesse legittimo e di diritto
soggettivo costituzionalmente con‑
template;
b) nelle materie devolute alla giurisdi‑
zione amministrativa è richiesto che
l’amministrazione agisca come auto‑
rità e cioè attraverso la spendita di
poteri amministrativi, che possono
essere esercitati sia mediante atti
unilaterali e autoritativi sia median‑
te moduli consensuali, ai sensi della
L. n. 241/1990, sia infine mediante
comportamenti, purchè questi ulti‑
mi siano posti in essere nell’esercizio
di un potere pubblico e non consi‑
stano, invece, in meri comportamen‑
ti materiali, avulsi da tale esercizio;
c) ’espressione “azione di gestione dei
rifiuti”, di cui alle norme suindicate,
va intesa nel senso che l’attività
della pubblica amministrazione de‑
ve essere preordinata all’organizza‑
zione o alla erogazione del servizio
pubblico di raccolta e smaltimento
dei rifiuti.
Pertanto, rapportando i principi di
diritto innanzi espressi alla suesposta
questione affrontata dal Tribunale di
Napoli, occorre evidenziare che essa
rientra nella complessiva azione di gestione dei rifiuti, in quanto involgerebbe
una situazione giuridica di interesse
legittimo preordinata ad un uso celere
e corretto del potere conferito alla Pub‑
blica Amministrazione, tale da assicu‑
rare la prosecuzione del servizio stret‑
tamente connessa al diritto della con‑
troparte di percepire il compenso per
l’opera svolta.
Difatti, nel caso di specie sussiste
una strettissima correlazione sul piano
fattuale, logico e giuridico tra le vicende
Gazzetta
F O R E N S E
dei debiti dell’amministrazione e/o dei
soggetti alla stessa equiparati ed il cor‑
retto soddisfacimento degli interessi
della collettività.
Sul punto è intervenuta anche un’al‑
tra sentenza emessa sempre dal Tribu‑
nale di Napoli n. 8875/2009 (Dott.ssa
Del Giudice), in merito ad una contro‑
versia sollevata da una s.p.a. per presta‑
zioni rese nei confronti del Commissa‑
rio di Governo per l’Emergenza Rifiuti
in Campania, riguardanti l’affidamento
del servizio di raccolta e smaltimento
dei rifiuti solidi urbani autorizzato per
mera delibera dall’ente pubblico.
Tale sentenza, non contestando la
sussistenza delle prestazioni effettiva‑
mente rese, sia pure senza valido titolo
contrattuale, ha stabilito che la società
ricorrente avrebbe potuto “in presenza
di tutti gli altri presupposti di legge,
agire per l’indebito arricchimento, di‑
nanzi però al giudice amministrativo, ai
sensi dell’art. 4, co.1 D.L. n. 90/2008,
convertito nella L. n.123/2008”.
A sostegno di tale tesi occorre men‑
zionare, altresì, un’ altra sentenza emes‑
sa dal Tribunale di Milano, VI sez.civi‑
le, nel 1 febbraio 2011 (Dott.ssa Maria
Carla Rossi), nel procedimento recante
R.G. n. 82991/08, nella quale si dichia‑
ra che per le questioni concernenti
“l’azione di gestione dei rifiuti posta in
essere dalla pubblica amministrazione
e soggetti equiparati, esse sono devolu‑
te al G.A. sulla base della semplice esi‑
stenza di un collegamento tra la contro‑
versia e l’azione amministrativa di ge‑
stione dei rifiuti, seppure posta in esse‑
re con comportamenti”.
Pertanto, in virtù del richiamo alla
globalità dell’attività della p.a. in mate‑
ria di gestione dei rifiuti, si ritiene che
la giurisdizione del G.A. sussista anche
qualora tale gestione sia posta in essere
dalla pubblica amministrazione con
meri comportamenti materiali.
In realtà, il punto non è pacifico,
sussistendo un diverso orientamento
giurisprudenziale che ritiene sussistere la
giurisdizione esclusiva del giudice ammi‑
nistrativo soltanto per i comportamenti
costituenti espressione di un potere am‑
ministrativo e non anche per quelli me‑
ramente materiali posti in essere dall’am‑
ministrazione al di fuori dell’esercizio di
una attività autoritaria.
A tal riguardo si evidenzia una sen‑
tenza del TAR Lazio n. 3482/2008 se‑
condo la quale, ai sensi dell’art. 4 D.L.
F O R E N S E
n. 90/2008, convertito, con modifica‑
zioni, dalla L. n. 123/2008, sono devo‑
lute alla giurisdizione esclusiva del giu‑
dice amministrativo tutte le controver‑
sie comunque attinenti alla complessiva
azione di gestione dei rifiuti, ma con
esclusione delle ipotesi in cui controver‑
te in merito alla sussistenza o meno del
diritto patrimoniale quale quello al
corrispettivo spettante al privato per
l’attività di gestione svolta.
A sostegno di tale tesi è intervenuta
anche la Corte di Cassazione (S.U.
n.16032/2010) che, all’uopo, ha dichia‑
rato la giurisdizione del giudice ordina‑
rio, in quanto nel caso di specie, era
venuto in rilievo un aspetto prettamen‑
te patrimoniale relativo alla gestione
dei rifiuti.
Nello specifico, il Supremo Collegio
ha ritenuto operante la giurisdizione del
giudice ordinario con riguardo alla do‑
manda con cui un consorzio, istituito in
virtù di una convenzione con la regione
Campania per la costruzione e la gestio‑
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ne degli impianti e dei servizi di smalti‑
mento dei rifiuti solidi urbani, chiedeva
ad uno dei comuni che ne facevano parte
il pagamento di somme, a titolo di corri‑
spettivi dovuti per l’attività prestata.
La Corte ha, difatti, rilevato che la
convenzione non rappresenta un accor‑
do sul contenuto del procedimento au‑
torizzatorio, bensì è un atto ad esso
esterno, ancorché collegato, non ineren‑
te alla fase pubblicistica del rapporto
gestita dalla Regione, ma appartenente
ad una distinta fase privatistica relativa
ai rapporti tra Consorzio e Comune;
pertanto, quest’ultimo, non operando
quale delegato della Regione, non pote‑
va essere qualificato come amministra‑
zione procedente, mentre il fatto che la
delibera di autorizzazione richiedesse
un’apposita convenzione non ha impli‑
cato una traslazione di potere o coinvol‑
gimento del Comune nell’esercizio della
suddetta competenza regionale.
Tale orientamento sembra conforme
alla soluzione adottata dal D.lgs n.
117
104/2010 di cui all’art. 133 lett. p, in linea
di continuità con l’art. 4 D.lgs. n. 90/2008,
laddove devolve alla giurisdizione ammi‑
nistrativa esclusiva le controversie co‑
munque attinenti alla complessiva azione
di gestione del ciclo rifiuti, aggiungendo
che tali comportamenti sono quelli “riconducibili, anche mediatamente,
all’esercizio di un pubblico potere”.
Di fronte al contrastante quadro
giurisprudenziale appare preferibile
propendere per l’accoglimento del suin‑
dicato orientamento giurisprudenziale
che ritiene la giurisdizione del G.a. sen‑
za eccezioni di sorta, anche in conside‑
razione del senso omnicomprensivo del
linguaggio impiegato dal legislatore per
le previste ipotesi di giurisdizione esclu‑
siva (“tutte le controversie… comunque
attinenti alla complessiva azione... sep‑
pure posta in essere con comportamen‑
ti), valevole a rendere inequivocabile la
ratio legis di attribuzione alla cognizio‑
ne del g.a. della totalità delle controver‑
sie afferenti la gestione dei rifiuti.
questioni
Gazzetta
Recensioni
Il procedimento di espropriazione forzata: orientamenti, annotazioni processuali
121
e formule per gli adempimenti degli avvocati di Valerio Colandrea. Casa Editrice La Tribuna
recensioni
A cura di Ermanno Restucci
F O R E N S E
●
Il procedimento
di espropriazione forzata:
orientamenti, annotazioni
processuali e formule
per gli adempimenti
degli avvocati
di Valerio Colandrea.
Casa Editrice La Tribuna
● A cura di Ermanno Restucci
Avvocato
Il volume rappresenta una guida al
processo esecutivo immobiliare, settore
dell’esecuzione dove sono state intro‑
dotte importanti innovazioni.
L’opera si propone di ricostruire il
percorso del processo esecutivo tra le
prassi virtuose degli ultimi anni e le ri‑
forme che lo han no interessato.
Comprende una ricca casistica ed una
trattazione completa del processo di
espropriazione forzata individuale .
Il volume, suddiviso in XI capitoli,
inizia con la trattazione del titolo ese‑
cutivo, per poi trattare del precetto, del
pignoramento ( distinguendo tra beni
mobili, immobili e presso terzi), del ri‑
medio della conversione del pignora‑
mento, della possibilità dell’intervento
dei creditori, della vendita dei beni pi‑
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gnorati (mobili ed immobili) della asse‑
gnazione forzata dei beni.
Si completa con la trattazione della
distribuzione del ricavato. Un capitolo
a parte è dedicato ai rimedi contro
l’abuso dei mezzi di esecu zione.
Il volume recentemente edito nella col‑
lana Memo, è uno strumento aggiorna‑
to, si semplice e pronta consultazione e
fornisce risposte pronte, chiare ed esau‑
rienti ai molteplici dubbi, anche di or‑
dine pratico, che si possono presentare
nella pratica del procedimento di esecu‑
zione.
L’Autore, operatore del diritto, muo‑
vendo da rigorose premesse teoriche,
analizza ed approfondisce tutte le tema‑
tiche processuali di maggiore interesse
nell’ambito del processo esecutivo for‑
nendo al professionista – sia esso avvo‑
cato che magistrato – una ottima guida
ricca di soluzioni giuridiche e delle ne‑
cessarie indicazioni dei singoli adempi‑
menti prescritti dalla legge per ciascun
istituto.
Seguendo questa impostazione, i
vari argomenti sono suddivisi in tre
sezioni:
a) breve introduzione dottrinale (esau‑
stiva degli elementi fondamentali
dell’istituto processuale trattato);
b) testo degli articoli di legge (norma‑
tiva di riferimento);
c) commento dell’istituto trattato (orien‑
tamenti) incentrato sui principali ed
orientamenti giurisprudenziali;
d) riferimenti giurisprudenziali con la
indicazione delle più recenti e signi‑
ficative pronunzie sull’argomento;
e) paragrafo “Memo”- nel quale sono
121
contenuti i principali suggerimenti
pratici che forniscono valide e precise
indicazioni operative sia in ordine
alle istanze da predisporre che in or‑
dine ai provvedimenti da assumere.
Il volume pertanto appare una otti‑
ma guida operativa e di frequente con‑
sultazione, riportando, tra l’altro, gli
eventuali termini di prescrizione e di
decadenza, l’autorità competente alla
quale indirizzare le domande, ( finan‑
che l’elenco dei documenti da allegare)
il tutto corredato dal testo di formule
esplicative e fornisce una lettura com‑
pleta dell’argomento dai principi giuri‑
dici alla prassi applicativa
Al volume è allegato un CD-ROM
contenente tutte le formule riportate
nell’Opera e le pronunzie giurispruden‑
ziali richiamate.
L’opera fa parte della collana “Me‑
mo”, curata da Marcello Sinisi e Fulvio
Troncone – magistrati in servizio presso
il Tribunale di Napoli – che comprende
anche altri titoli quali “ Il procedimen‑
to per la convalida di sfratto” (autore il
dr. Cesare Taraschi) e “Il processo del
lavoro” (di cui è autore il dr. Roberto
Pellecchia).
Entrambe dette due pubblicazioni
offrono al lettore - utilizzando il mede‑
simo schema sopra descritto per il volu‑
me della espropriazione forzata – una
panoramica completa al lettore sotto il
profilo delle soluzioni giuridiche e dei
singoli adempimenti come previsti dalla
normativa; anche alle due opere da ul‑
timo richiamate ssono allegati CDROM contenenti le formule e la giuri‑
sprudenza richiamata nel testo.
recensioni
Gazzetta
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
corte d’appello
corte di cassazione
Napoli, sez. II, sent. 7.12.2011, n. 5762 s.m.
Napoli, sez. II, sent. 27.10.2011, n. 5178 (con nota di Pignatelli)
sez. II, ord. interlocutoria 21.02.2012, n. 2476 s.m.
sez. III, ord. interlocutoria 20.02.2012, n. 2472 s.m.
sez. un., sent. 17.02.2012, n. 2313 s.m.
sez. III, sent. 31.01.2012, n. 1367 s.m.
sez. II, ord. interlocutoria 13.01.2012, n. 407 s.m.
sez. I, sent. 03.01.2011, n. 14 (con nota di Raia)
sez. III, ord. 2.01.2012, n. 3 s.m.
sez. II, sent. 30.12.2011, n. 30652 s.m.
sez. II, sent. 19.12.2011, n. 27520 s.m.
sez. III, sent. 18.08.2011, n. 17349 (con nota di Restucci)
tribunale
Trib. Napoli, sez. X, sent. 2.03.2012, n. 2565
Trib. Napoli, sez. distaccata di Frattamaggiore, ord. 19.01.2012 (con nota
di Micillo)
Trib. Napoli, sez. X, ord. 21.12.2011
Trib. Napoli, sez. X, sent. 18.11.2011, n. 12606
Trib. Napoli, sez. XI, sent. 25.07.2011, n. 9314 (con nota di Scuotto)
Diritto e procedura penale
corte di cassazione
ssez. I, sent. 06.12.2011, n. 47886 s.m.
sez. II, sent. 29.11.2011, n. 46586 s.m.
sez. II, sent. 29.11.2011, n. 46588 s.m.
sez. un., sent. 24.11.2011, n. 1855 (con nota di Pignatelli)
sez. un., sent. 27.10.2011, n. 6624 (con nota di Pignatelli)
sez. un., sent. 27.10.2011, n. 5859 (con nota di Pignatelli)
sez. un., sent. 27.10.2011, n. 4694 s.m.
sez. IV, sent. 19.10.2011, n. 47040 s.m.
sez. VI, sent. 13.10.2011, n. 47379 s.m.
sez. un., sent. 29.09.2011, n. 491 s.m.
sez. VI, sent. 26.09.2011, n. 45909 s.m.
sez. V, sent. 11.07.2011, n. 47024 s.m.
tribunale
Napoli, G.M., ord. 20.02.2012 s.m.
Nola, coll. C), sent.16.02.2012, n. 493 s.m.
Napoli, sez. I, sent. 13.02.2012, n.2467 s.m.
Napoli, G.M., ord. 13.02.2012, n. 272 s.m.
Nola, G.M., sent. 9.02.2012, n. 418 s.m.
Napoli, G.M., sent. 7.02.2011, n. 395 s.m.
Napoli, G.M., sent. 6.02.2012, n 1832 s.m.
Napoli, G.M., sent. 6.02.2012, n.1831 s.m.
Napoli, G.M., sent. 6.02.2012, n.1828 s.m.
Napoli, G.M., ord. 6.02.2012, n. 327 s.m.
Napoli, G.M., sent. 2.12.2011, n. 16036 s.m.
Napoli, sez. I, sent. 31.01.2012, n.1458 s.m.
Nola, coll. A), sent. 31.01.2012, n. 282 s.m.
Nola, coll. B), sent. 13.01.2012, n. 95 s.m.
Nola, coll. A), sent. 11.01.2012, n. 68 s.m.
Diritto amministrativo
tar
Napoli, sez. I, sent. 31.01. 2012, n. 475 s.m.
Napoli, sez. VIII, sent. 26.01. 2012, n. 411 s.m.
consiglio di stato
sez. V, sent. 31.01.2012, n.467 s.m.
sez. V, sent. 23.01.2012, n. 262 s.m.
sez. VI, sent.18.01.2012, n.178 s.m.
sez. V, sent. 11.01.2012, n. 80 s.m.
sez. III, sent. 4.01.2012, n. 3 s.m.
Diritto internazionale
corte di giustizia dell’unione europea
Grande Sezione, sent. 23 febbraio 2012, H. J. e altri c/ Italia, Ricorso n.
27765/09 (con nota di Romanelli)
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Gazzetta Forense n. 1 del 2012