MARTIRI RELIGIOSI
Brunetto
Salvarani
l 2010 è finito, con i ricordi più belli
della mia vita... spero che il 2011 sia
molto meglio... ho così tanti desideri
per il 2011, spero si realizzino! Per
favore Dio, stammi vicino e fa’ che
tutto si avveri». Le parole che Mariam
Fekry, per gli amici Mariouma, ragazza
egiziana appena ventiduenne, aveva riportato sul suo profilo di Facebook pochi minuti prima di avviarsi alla messa dell’ultimo dell’anno nella chiesa dei Due Santi (AlQiddissine) ad Alessandria, fecero rapidamente, all’epoca, il giro del mondo. Consumandosi e disperdendosi nel vento, peraltro, come di regola, nell’arco di pochi
giorni. Però quel messaggio – che campeggiava tra i gusti esibiti dalla giovane, i romanzi di Harry Potter e la musica dei Poets of Fall – divenne in fretta il più letto e
condiviso di Mariam, che da quella cena
del Signore non tornò più a casa: uccisa
da un fanatismo che ricorre a Dio per giustificare il suo disegno blasfemo contro
l’immagine più santa di Dio sulla terra,
l’uomo.
Così, il secondo decennio del terzo millennio (per le categorie temporali della cultura occidentale, pur se invalse nell’uso)
si apriva traumaticamente con una strage
I
di cristiani copti in un’antica città egiziana storicamente segnata da una naturale
convivenza di credi religiosi diversi. Un
attentato di enorme valenza simbolica:
quella copta, infatti, non è una presenza
artificiale o moderna, legata alla colonizzazione occidentale dell’Ottocento o all’azione evangelistica di gruppi al seguito
delle truppe impegnate, ad esempio, in
Iraq. I copti sono antichi quanto l’Egitto:
il loro nome deriva con ogni probabilità
dal termine greco aigyptos, egiziano. E la
chiesa copta, tradizionalmente, ha le sue
origini già nel primo secolo d.C., al tempo
dell’imperatore Nerone, quando nacque
sulla scia della predicazione dell’evangelista Marco, che ebbe come centro proprio
Alessandria.
Una vicenda dimenticata, che non ha sedimentato una memoria collettiva, se non,
si può immaginare, fra i parenti delle vittime. E che, peraltro – come tante altre
accadute negli ultimi anni, con un’accelerazione nelle scorse settimane che non può
non lasciarci sgomenti –, ci ha costretto a
rispolverare un vocabolario che ritenevamo (e speravamo) obsoleto: guerre di religione, antisemitismo, martiri della fede, apocalisse incombente; e a inventare una ter41
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la globalizzazione
dell’indifferenza
MARTIRI
RELIGIOSI
minologia nuova, a partire da terrorismo
globale, islamofobia e cristianofobia; a doverci chiedere: siamo di fronte a un tempo che sta rotolando verso un inevitabile
scontro di civiltà? Saremo costretti, volenti o nolenti, ad arruolarci nel nostro esercito, sotto le insegne del nostro Dio? E il
dialogo, con i suoi sogni di una pacificazione tra le fedi planetarie, è definitivamente sconfitto? Domande serie, quanto
legittime e cruciali. Da porsi ogni giorno,
anche oggi: alle quali cercherò di dare alcune (prime, parziali, modeste) risposte.
In tre passaggi.
è triste
ROCCA 1 MAGGIO 2015
Il primo. È triste, a ben vedere, la consuetudine che ci spinge all’emozione di massa, e alla relativa compassione, quando e
se a essere coinvolti in una catastrofe di
qualsiasi genere siano degli occidentali
(qualunque cosa tale aggettivo oggi significhi), o degli europei, o ancor più dei nostri
connazionali, in progressione geometrica.
È triste, perché – nell’unità della famiglia
umana che ci esorta a cogliere la dichiarazione conciliare Nostra aetate, di cui fra
pochi mesi celebreremo il cinquantesimo
anniversario (28/10/1965) – nel volto di
ogni uomo dovremmo essere capaci di vedere quello di un fratello, in ogni donna
una sorella, in ogni oppresso la vittima di
un’oppressione che non siamo riusciti a
impedire.
È triste, eppure è così: perché le pulsioni
identitarie che ormai ci divorano, e l’abitudine a considerare il cristianesimo (qualunque cosa tale sostantivo indichi oggi)
poco più che lo sfondo integratore ormai
trascorso di un continente vecchio e sfibrato, e il gioco a rimpiattino dei media
disposti solo a soffiare sul fuoco, a questo
ci spingono. Con poche, pochissime difese immunitarie da parte nostra.
Perciò, se fossimo disponibili a metterci
in gioco, credo che le orrende stragi di cristiani (e di ebrei, yazidi, zoroastriani, musulmani...), rappresenterebbero una formidabile chance per ripensare al nostro modo
di essere cristiani in questa porzione di pianeta, che – se ci fosse ancora un Sören
Kierkegaard a raccontarlo – non potremmo che definire borghese, tranquillizzante,
abitudinario. A basso prezzo, insomma.
Così, se applaudiamo papa Francesco che,
qualche giorno fa, ha avuto il coraggio di
chiamare genocidio il genocidio perpetrato scientificamente dai Giovani Turchi contro gli armeni un secolo fa, poi proseguiamo come se nulla fosse.
Eppure, quanto sta accadendo in Nigeria,
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Pakistan, Iraq, Siria, Kenia è davvero
un’occasione preziosa per mettere in discussione quanto abbiamo colto del messaggio di Gesù, e soprattutto la sua proclamazione di una differenza che ci invita
ad amare il nemico, a non vederlo più
come tale, a educarci alla gestione di conflitti che, stando alla vulgata, dovrebbero
essere non componibili, e irrimediabili.
un Dio che ha cambiato indirizzo
Da tempo papa Francesco, paradossalmente accusato da alcuni troppo zelanti
difensori della fu-civiltà cristiana di starsene silenzioso in proposito, sta esortando l’opinione pubblica a prendere sul serio due elementi di fondo: il primo, che
stiamo assistendo a un’escalation di violenza su scala mondiale (la «terza guerra
mondiale a pezzi», ha detto più volte) che
vede nel ruolo di vittime, come dicevamo,
non solo cristiani di diverse confessioni,
ma anche ebrei e musulmani non allineati sulle posizioni del sedicente Stato Islamico; il secondo, che, nonostante tanto
scialo di sofferenza inutile, non dovremmo abituarci a leggere questo scenario in
progress come una guerra di religione. Perché non lo è, intanto; e perché farlo equivarrebbe a dare ragione a chi ragione non
ha, ed è in larga parte responsabile dei
massacri quotidiani di cui sopra. «Sulla
persecuzione dei cristiani la comunità internazionale non sia muta e inerte», ha
esortato Bergoglio in occasione del Regina Coeli il lunedì dell’Angelo. Un richiamo
che richiede un lavoro complesso e impegnativo, quello rivolto dal papa alla comunità internazionale, ai cristiani e a
quelli che chiamiamo i corpi intermedi
della società civile.
Auspicando, mi pare, un’azione internazionale sotto l’egida dell’Onu. Ma, attenzione, il coinvolgimento della comunità internazionale comporta anche assumersi
altre responsabilità, come l’attuazione di
politiche che intervengano efficacemente
contro la fame nel mondo, che affrontino
con coraggio lo scandalo della continua
vendita di armi da parte dei mercanti di
morte, e che favoriscano una giusta mobilità internazionale dei migranti: e significa, ritengo, uscire da quell’ipocrisia di fondo europea e statunitense che ha contribuito a inventare la comoda categoria dell’islam moderato, delegando paradossalmente all’Arabia Saudita il ruolo di interlocutore privilegiato quando quel paese
foraggia il fanatismo e non conosce cosa
siano i diritti civili. Ecco dunque che fare,
nel frattempo, da parte della (cosiddetta)
ecumenismo del sangue
Un ultimo passaggio. Certo, da cristiani,
ritengo anche si debba tornare a convincerci della forza rivoluzionaria della preghiera, forza di cui si sta perdendo traccia. Siamo entrati in una fase nuova. Rispetto al passato, il nome di cristiano è
tranquillamente associabile a una situazione di martirio. In un contesto liturgico
come quello pasquale, il papa ha detto, con
pacatezza, che nei luoghi dove il cristianesimo è giovane e in ascesa, esso è anche
nel mirino del terrore internazionale.
L’Africa è un continente strategico per il
cristianesimo non solo dal punto di vista
demografico; forse, esso rappresenta persino il futuro del cristianesimo, o di una
sua buona fetta, in tutte le sue contraddi-
zioni e speranze. In questa luce, già alla
fine del 2013, in un’intervista a La Stampa, Francesco aveva evidenziato che ormai
esiste un ecumenismo del sangue, la cui
origine viene da lontano. In effetti, già nei
primi secoli della loro storia i cristiani si
misero a raccogliere i nomi dei martiri locali, nella consapevolezza che, come intuì
il teologo africano Tertulliano (II sec.), «il
sangue dei cristiani è il seme dei cristiani». Nel quarto secolo a Nicomedia, e pochi decenni dopo presso Aquileia, si avvertì
poi il bisogno di rafforzare il senso della
comunione universale tra le chiese, componendo varie liste di martiri locali, fino a
produrre una raccolta globale dei testimoni: è il celebre Martirologio geronimiano.
Nel tempo delle divisioni infracristiane, i
martirologi cominciarono a subire un’evoluzione contraria, rispetto a quella che ne
aveva caratterizzato mille anni di storia:
si decise infatti di aggiungere soltanto i
nomi dei martiri appartenenti alla propria
chiesa. L’inversione di tendenza si è avuta, significativamente, con la diffusione
sempre più convinta del movimento ecumenico, quando la contraddizione al vangelo rappresentata dalle divisioni tra cristiani è apparsa chiara, finalmente, agli
occhi di tanti credenti. Così, Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente (1994), osservava: «La
Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di
martiri... La testimonianza resa a Cristo
sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti... L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più
convincente» (n. 37). E la sua successiva
enciclica Ut unum sint riprendeva il tema,
in maniera decisa: «In una visione teocentrica, noi cristiani abbiamo già un martirologio comune... Sebbene in modo invisibile, la comunione non ancora piena della nostra comunità è in verità cementata
saldamente nella piena comunione dei santi. Questi santi vengono da tutte le Chiese». Sulla stessa linea si è posto dunque
papa Francesco, spiegando in quella stessa intervista dedicata a numerosi argomenti cosa egli intenda per ecumenismo del
sangue: «alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una
Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato.
Per coloro che uccidono, siamo cristiani.
Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l’unità».
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società civile: eccellere nella loro mission,
non stancarsi di investire in modelli positivi, promuovere le best practices, sostenere i diritti civili, lavorare sulla giustizia
sociale, sviluppare relazioni, produrre conoscenza e cultura della pace, del dialogo
e della solidarietà.
È impossibile non registrare una mancanza allarmante di pensiero e di ragionamenti che spiegano cosa sta accadendo nel
mondo. E non rimanere inerti significa,
altresì, mettersi in gioco e contrapporsi in
tutti i modi a quella che lo stesso Francesco, la prima volta a Lampedusa, ha definito la globalizzazione dell’indifferenza. Siamo sempre più indifferenti davanti alle
ingiustizie sociali, economiche e politiche.
Mentre il nostro inveterato eurocentrismo
non ci sta facendo cogliere che la stessa
scelta di un papa venuto dal Sud, e quasi
dalla fine del mondo, ha ulteriormente velocizzato il panorama mondiale che ci
mostra un Dio che ha cambiato indirizzo.
In più, non conosciamo il mondo islamico, ci accontentiamo di luoghi comuni e
di slogan superati, e siamo superficiali nei
confronti delle dinamiche che l’attraversano. La narrativa contemporanea si è focalizzata su un ipotetico scontro tra islam e
cristianesimo: la stessa retorica del 2001,
dopo l’attentato alle Twin Towers. Ma non
è così. Lo scontro è tutto interno alla frammentata galassia islamica, sospesa tra
differenti modelli, stili di vita, idee di potere. Sì, l’Isis sta vincendo l’egemonia dell’immaginario, e colonizzando le menti di
chi si può ritagliare uno spazio e un ruolo
da protagonista tra i confini che delineano un potenziale terreno di scontro. E
l’ideologia jihadista è un pericolo per i musulmani stessi che vengono associati a quel
brand, pur rigettandolo.
Brunetto Salvarani
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