SENTIRE A SCOLTARE o n l i n e m u s i c magazine P i c a s t ro NOVEMBRE N.13 A k r o n / Family R i o t Maker Ve l v e t Underground M a u r i zio Bianchi B a u s t elle M a r t a sui Tubi Wo l f Parade C l a p Your Hands Say Yeah No Wave Il lato buio della mela sentireascoltare in copertina No Wave il lato buio della mela SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore Edoardo Bridda Direttore responsabile Ivano Rebustini Provider NGI S.p.A. Copyright © 2005 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare sommario 19 4 News 9 Speciali No Wave, A k r o n / F a m i l y, P i c a s t r o , Riot Maker, S t a r v a t i o n s , C l i e n t e l e . . . 35 Recensioni Bonnie Pri n c e B i l l y, M a r t a S u i Tu b i , Liz Janes, P a t t e r n I s M o v e m e n t , S u sumu Yoko t a & R o t h k o , N i n e H o r s e s , Paul Welle r, W h y ? , Wo l f P a r a d e , C l a p Your Hand s S a y Ye a h . . . 6 3 Dal vivo Akron Fam i l y, L a n g h o r n e S l i m Scout Nible t t , K a i s e r C h i e f s . . . 67 Rubriche We Are De m o R a v e n S a d , C h e r i f Galal… 35 Classic Ma u r i z i o B i a n c h i , S h e l l a c , Tim Buckle y, S o f t B o y s Note a mar g i n e Ve l v e t U n d e r g r o u n d Cinema Il c a s t e l l o e r r a n t e d i H o w l , The Interpr e t e r, L a S p o s a c a d a v e r e Cose dell’a l t r o m o n d o B r u t P a r t y 63 Direttore Edoardo Bridda Direttore responsabile Ivano Rebustini Coordinamento Antonio Puglia Stefano Solventi Staff Valentina Cassano Daniele Follero Teresa Greco Hanno collaborato Antonio Amodei, Gianni Avella, Filippo Bordignon, Michele Casella, Antonello Comunale, Lorenzo Filipaz, Paolo Grava (aka Neon Eater), Manfredi Lamartina, Carlo Pastore, Giulio Pasquali, Marina Pierri, Italo Rizzo, Michele Saran, Gianluca Talia, Michele Vaccari, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale Adriano Tauber (1966-2004) Grafica Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda 73 sentireascoltare news a cura di Daniele Follero A Roger Waters deve essere proprio piaciuto l’incontro con i s u o i v e c c h i a m i c i - n e m i c i G i l m o u r, M a s o n e Wr i g h t . L’ e x - b a s s i sta dei Pink Floyd si è detto, infatti disponibile a portare avanti l’esperienza (ri)cominciata al Live 8 di quest’anno. “E’ stato divertente” ha detto Waters, “ci siamo incontrati per alcune prove ed è stato come indossare una vecchia scarpa”. Comoda, anche se un po’ consumata… A.A.A. cantante cercasi per supergruppo. I Superbass, band f o r m a t a d a P e t e r H o o k d e i N e w O r d e r, A n d y R o u r k e d e g l i S m i ths e Mani degli Stone Roses, sono alla ricerca di una voce Roger Waters (giovane e che abbia qualcosa da dire) per avviare l’ambizioso progetto… L’ e x - s t a r d e l g l a m G a r y G l i t t e r p o t r e b b e r e s t a r e i n c a r c e r e p e r quattro mesi, durante il processo che lo vede colpevole di abusi sessuali su minori in Vietnam… Dopo i R.E.M., Patti Smith ha fatto visita agli U2 sul palco del M a d i s o n S q u a r e G a r d e n d i N e w Yo r k i l 2 1 N o v e m b r e s c o r s o . L a Smith ha duettato con Bono in una cover di Instant Karma di John Lennon… Saranno i Prodigy ad aprire la quinta edizione del riesumato festival dell’Isola di Wight, che si terrà al Seaclose Park di N e w p o r t t r a i l 9 e l ’ 11 g i u g n o 2 0 0 6 … Pronto probabilmente per l’inizio di febbraio 2006 il nuovo album dei Belle & Sebastian. Durante le registrazioni di quello che sarà il successore di Dear Catastrophe Waitress la band ha l a v o r a t o a n c h e c o n i l p r o d u t t o r e d i B e c k To n y H o f f e r … Ve n d u t a p e r 6 5 . 5 0 0 e u r o u n a r a c c o l t a d i p o e s i e d i B o b D y l a n datata tra il 1959-60, periodo in cui Robert Zimmerman era studente all’Università del Minnesota. Alla stessa asta, presso C h r i s t i e ’ s d i N e w Yo r k è r i m a s t o i n v e n d u t o , i n v e c e i l t e s t o m a n o s c r i t t o d i N o t To To u c h T h e E a r t h d i J i m M o r r i s o n p e r l ’ a l b u m Waiting for The Sun dei Doors… I n u n l i c e o d i S a l f o r d , G r e a t e r M a n c h e s t e r, d u r a n t e l ’ o r a d i pranzo, gli studenti si sono trovati nella mensa della scuola nientemeno che i New Order, che hanno offerto una piccola performance all’insolito uditorio, attaccando per i seicento ra- sentireascoltare gazzi presenti con la loro famosa Blue Monday… To d d R u n d g r e n s a r à i l s o s t i tuto di Rick Ocasek nella reunion dei Cars, che si chiameNew ranno Cars per evitare problemi legali (un po’ come per il Nuovo PSI!). Elliot Easton e Greg Hawkes, membri originari della band divenuta famosa con simbolo del Drive, Live canzone Aid, hanno anche arruolato membri dei Tubes per le esibizioni dal vivo. Rundgren non sembra esal- tatissimo dalla cosa, almeno dalle prime dichiarazioni : “Io la vedo come una chance per le bollette, suona- re per un pubblico più vasto, lavorare con musicisti che mi piacciono e, auspicabilmente, divertirmi per un anno ” ... Flaming Lips pagarmi band inglese ci sono anche le non e x t e n d e d r e i s s u e s d i T h e To p , nonostante I Flaming Lips hanno messo T h e H e a d O n T h e D o o r, K i s s ha preferito dare buca al party a disposizione online sul sito Me Kiss Me Kiss Me e di Blue ed è rimasto a mettere a posto Myspace.com un assaggio del Sunshine dei Glove, band che la casa... loro prossimo album, At War nel 1983 vedeva insieme Smi- With The Mystics, previsto è rimasto i ustionato modesti ma, danni, Siouxsie I Mudhoney hanno terminato per l’inizio del 2006. Si tratta and The Banshees Steve Se- il loro nuovo album, nono per d i Y o u ’ v e G o t To H o l d O n , i l verin… l’etichetta Sub Pop, in uscita th e il bassista di primo brano edito dalla band il prossimo 6 marzo. La band dai tempi di Yoshimi Battles Bizzarro incidente a Michael si appresta inoltre a fare da The Pink Robots… Stipe. Il cantante dei R.E.M. spalla ai Pearl Jam per tut- ha te le date del loro prossimo rivelato d’essere rimasto I Cure non si arrendono. Dopo vittima lo scarso successo del prece- mestico dente lavoro in studio, la band di Robert Smith è pronta per mentre era vestito da uccello. v o r o i n s t u d i o d i E d d i e Ve d - rientrare in studio a gennaio Il frontman del gruppo statu- der e compagni… e registrare nuovi brani per il nitense s u c c e s s o r e d i T h e C u r e . L’ a l - vestito da pappagallo per an- I bum sarà il primo senza il ta- dare ad un party quando, per re alla vecchia e storica for- stierista Roger O’Donnell e il cause mazione, chitarrista sancirà il Perry ritorno Bamonte dello e “sto- do- tour in Sudamerica, a partire particola- dal 22 novembre. Previsto per re: gli ha preso fuoco la casa Aprile, invece, il prossimo la- sate, di un infortunio veramente stava indossando ufficialmente nel suo un impreci- appartamento Genesis potrebbero con Peter tornaGabriel alla voce. Sia Phil Collins sia di Manhattan si è sviluppato il rico” Porl Thompson. Intanto un piccolo incendio. Secondo si sono mostrati favorevoli a chitarrista Robert Smith sta lavorando a voci, che peraltro non trovano questa sorta di reunion, con- un dvd e ad alcune musiche riscontro, le fiamme si sareb- siderati per film, come ha dichiarato bero originate da una sigaret- quanto scarsi della band negli lui stesso. Nel cantiere della ta lasciata accesa. Il cantante ultimi anni. Ha dichiarato l’ex anche Steve i Hackett risultati al- sentireascoltare batterista: “Non sono affatto contrario. Sarei felice di tornare alla batteria e di lasciare il compito di cantare a Peter. Se ci dovesse essere una reunion, io ci sarei. Se non dovesse capitare, vorrebbe semplicemente dire che ci sono troppe cose da fare di mezzo”. E Gabriel? “Le possibilità per una reunion oggi sono migliori rispetto al passato…Ne parleremo presto”.. Anche se poi aggiunge: “per il momento non ci scommetterei sopra”… Partirà da Bergen il 20 novembre prossimo il tour europeo dell’anima più pop degli ex cLOUDDEAD, Why? che passerà anche Richard Ashcroft per l’Italia. Due le date: il 29 novembre a Roma (Circolo degli Artisti) e il 30 a Milano (Jail). Il giro del vecchio continente s i c o n c l u d e r à a B e r l i n o l ’ 11 d i c e m b r e i n s i e m e a d A l i a s , a l t r o nome importante della scuderia Anticon… Paul McCartney è il primo musicista a suonare per l’equipaggio di una navicella spaziale. E’ successo il 12 novembre, in collegamento con Anaheim in California, con Bill McArthur e V a l e r e To k a r e v , i d u e a s t r o n a u t i c h e d a p i ù d i q u a r a n t a g i o r n i s o n o a b o r d o d e l l o S p a c e S h u t t l e D i s c o v e r y. D u r a n t e i l c o n c e r t o M c C a r t n e y h a s u o n a t o p e r l o r o E n g l i s h Te a , d a l l ’ u l t i m o album Chaos And Creation In The Backyards e Good Day Sunshine dei Beatles… Uscirà il 23 gennaio del prossimo anno il nuovo album dell’ex Ve r v e R i c h a r d A s h c r o f t . K e y s To T h e Wo r l d ( q u e s t o i l t i t o l o dell’album) sarà preceduto dal singolo Break The Night With Colour, atteso per il 9 dello stesso mese… E’ pronto Idlewild, il film degli Outkast, che sarà accompagnat o d a u n d i s c o o m o n i m o . L’ a l b u m , p r e v i s t o p e r i l 5 d i c e m b r e , dovrebbe essere anticipato dal singolo Idlewild Blues… R o g e r D a l t r e y e P e t e To w n s h e n d r i t o r n e r a n n o i n s t u d i o a f e b braio con il progetto Who2, continuazione della storica band inglese dopo la morte inaspettata di John Entwistle. Daltrey sta anche lavorando con l’attore Mike Myers, che interpreterà il ruolo di Keith Moon, batterista defunto degli Who, in un film previsto nelle sale per il 2006… Fatti due calcoli e visto il successo dell’ultimo anno, Rufus Wainwright ha deciso di ri-pubblicare Want, il suo ultimo album in una edizione speciale che comprende sia Want One c h e W a n t Tw o o l t r e a d a l c u n i i n e d i t i t r a c u i s p i c c a n o l a c o v e r di Chelsea Hotel n.2 di Leonard Cohen e In With The Ladies, scritta a quattro mani con Alex Gifford dei Propellerheads. La data d’uscita è prevista per il 28 Novembre… I Beach Boys hanno accusato pubblicamente Cooper Owen della Brother Records Inc. che sarebbe in possesso di materiale della band californiana. Owen sostiene di avere tutto il diritto sentireascoltare a possedere quel materiale (secondo lui venduto una ventina d’anni fa) tra cui spartiti, foto e qualche registrazione inedita. Solo pubblicita? E a vantaggio di chi? La parola ai giudici… Dopo Alanis Morrisette e Bob Dylan, anche i Rolling Stones affidano la distribuzione di una raccolta di inediti alla catena tutte le filiali Starbucks degli U.S.A. e del Regno Unito a partire il 22 Novembre. Per fortuna il colosso del caffè non avrà l’esclusiva sulle vendite, come è stato invece per Live at the Gaslight 1962 di Dylan… Rufus Wainwright di caffetterie Starbucks. Rarities 1971-2003 sarà in vendita in Dopo la tanto sospirata reunion (e particolarmente voluta dal l o r o v e c c h i o f a n M o r r i s s e y ) l e N e w Yo r k D o l l s h a n n o p r e p a r a t o un video che documenti il loro ritorno alle scene. Con la regia d i G r e g W h i t e l y, N e w Y o r k D o l l d e b u t t e r à a N e w Yo r k e L o s Angeles il 28 ottobre per fare, poi (si spera) il giro del mondo. Intanto la band si prepara ad entrare in studio per registrare nuovo materiale per la Roadrunner Records atteso per la prossima primavera… Gli U2 e i Foo Fighters prenderanno parte a uno speciale TV dedicato alla figura di Johnny Cash, che andrà in onda negli U.S.A il prossimo 16 Novembre. All’appello hanno risposto anche un pezzo di storia del rock’n’roll come Jerry Lee Lewis. I Walk The Line: A Night With Johnny Cash coincide con la realizzazione del tanto atteso film sulla vita del cantante americano, I Walk The Line… Nick Cave sta preparando un tour “solo” per il prossimo anno, a partire dalla fine di gennaio. Ad accompagnare il cantautore non sarà la sua storica band al completo, i Bad Seeds, ma soltanto uno sparuto gruppetto di musicisti: Warren Ellis (violino), Martyn Casey (basso) e Jim Sclavunos (batteria)… S’intitola Guerolito la versione remix dell’intero album Guero di Beck. Il CD sarà disponibile dal prossimo 5 dicembre. La lista degli artisti e remixer che hanno lavorato su tutti i brani di Guero per trasformarlo in Guerolito non è ancora disponibile; al momento si sa solamente che, tra i partecipanti, sono da annoverare Adrock dei Beastie Boys e John King dei Dust Brothers… sentireascoltare speciale N o Wa v e Il lato buio della Mela d i Te r e s a G r e c o e A n t o n e l l o C o m u n a l e DNA Crogiolo di esperienze tra le più varie, la No Wave rappresenta l’essenza della vitalissima New York di fine anni ‘70 tra musica, sperimentazione, cinema, pop art e avanguardia. No Wave. Una sigla che ha già tutti i contorni del manifesto programmatico per un mondo in rovina. Quel mondo in rovina, tra la fine dei ’ 7 0 e l ’ i n i z i o d e g l i ’ 8 0 s i c h i a m a v a N e w Yo r k . Qualcosa di più di una semplice città, molto più affine ad un grande organismo vivente con cui imparare a convivere per evitare di essere soppresso o dimenticato nell’inferno delle periferie. Chiusi e schiacciati dal panorama urbano, dec e n n i p r i m a d e l l ’ 11 s e t t e m b r e , N e w Yo r k è g i à il grande buco nero del mondo. Un simile inferno metropolitano non poteva, però, che sviluppare al suo interno potenti e feroci anticorpi, contro il pericolo della deriva esistenziale. sentireascoltare Una fervente e ricchissima scena intellettuale che riporta alla mente il celebre adagio di Orson Welles: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. A l l a f i n e d e g l i a n n i ’ 7 0 N e w Yo r k d o w n t o w n è tra le più fertili scene artistiche del momento, un crogiolo di esperienze tra le più disparate: cinema, danza, scrittura, teatro, musica (influenze punk, garage, funk, free jazz, black music, musica d’avanguardia), arte (con im- No Wave, negare per esistere. Un drappello di intellettuali reietti e non musicisti incomincia piano piano a fare gruppo e a posizionarsi teoricamente agli antipodi dei valori estetici in voga. Sul fronte cinematografico si aprono le porte per un nuovo modo di fare cinema. Il cinema indipendente No Wave si sviluppa, a partire dal 1976, nella scena artistica e musicale dell’East Village newyorchese (“Era il quartiere degli artisti, dei punk, dei freaks, dei tossici e dei mez- Brian Eno all’epoca era reduce dalla composizione di Before and After Science e stava dando più di una mano sinistra a i Ta l k i n g H e a d s e a l B o w i e della trilogia berlinese, ed è proprio nel mentre della trilogia, precisamente tra Heroes e L o d g e r, c h e i l N o s t r o t r o v a il tempo e la vocazione per concepire quello che mancava alla non-scena newyorkese: un “non-manifesto”. Tom Verlaine zi matti” come ricorda Richard Kern), comprendendo, tra gli altri, autori come Amos Poe, Scott e Beth B., Eric Mitchell, Vivienne Dick, Jim Jarmush. Se la new wave era il riscatto pop dopo la dissoluzione del punk, allora la no wave era la degenerazione come reazione al riscatto e alla normalizzazione. Che a farsi promotore di una “non scena” così destabilizzante fosse poi, uno delle menti più lungimiranti e sottili dell’epoca, nonché uno degli anticipatori della new wave, con i suoi Roxy Music, è nell’ordine delle cose e del destino. Siamo nel 1979. La Antilles, sussidiaria della Island, pubblica una compilation, int i t o l a t a N o N e w Yo r k ( A n t i l les, 1979 / Lilith-Goodfellas, 2005), in cui quattro band locali si contendono la scena. Nelle intenzioni iniziali del Brian Eno curatore della raccolta, il lavoro avrebbe dovuto essere composto da un parterre molto più numeroso. Rimasero fuori dalla selezione finale i Theoretical Girls di Glenn Branca, i Boris Police Band, i Gynecologists, i Red T r a n s i s t o r , i To n e D e a t h e i Te r m i n a l . L a s p u n t a r o n o , i n v e ce, James Chance & the Cont o r s i o n s , Te e n a g e J e s u s & t h e Jerks, i Mars e i D.N.A. Nella primavera del 1978, si alternarono ai Big Apple Studios di Manhattan per registrare Glenn Branca Negare per esistere: No N e w Yo r k Lydia Lunch portanti ascendenze warholiane). B a n d c o m e i Ta l k i n g H e a d s e i Te l e v i s i o n d e t t a n o l ’ a g e n d a della scena in voga. Il CBGB’s è il tempio della nouvelle vague musicale. Sul suo palco un’intera generazione di musicisti, dai Cars di Ric Ocas e k a g l i s t e s s i Te l e v i s i o n , d a l Patti Smith Group ai Ramones, da Blondie ai Suicide, dagli Heartbreakers ai Cramps, consegnandosi alla storia come luogo culto per la musica rock e per la scena artistica dell’epoca. M a a N e w Yo r k l e c o s e n o n potevano certo svilupparsi s e g u e n d o , s i c e t s i m p l i c i t e r, i dettami dell’epoca. La new wave come musica di consumo di massa, in tutte le sue sfaccettature, dal più tenebroso e arcigno filone britannico alle sue forme più commercializzabili, passando per quelle più avant, doveva trovare un’ accoglienza quanto mai scontrosa e polemica, soprattutto tra le frange più estremiste e intransigenti dell’east side newyorkese. Artisti che subivano la fascinazione tanto del free jazz, quanto dell’avanguardia rumorista e che guardavano alle cose del mondo con un senso di disperazione e nichilismo, assolutamente incompatibili con il rinascimento musicale paventato da una “nuova ondata” di musicisti. sentireascoltare Debbie Harry e Duncan Hannah ognuno quattro brani a testa e andare a comporre la compilation orchestrata da Eno. I primi in lista sono James Chance & the Contorsions. A loro il compito di introdurre la raccolta e di chiarire subito l’estetica musicale di riferimento: ritmica sincopata, alterata, scomposta. Un tappeto percussivo che provoca il parossismo degli altri strumenti: sax e chitarre dinoccolate che esplodono in tutte le direzioni, basso ultra funky e voce imperiosa e nevrotica. I Can’t Stand Myself, cover di James Brown, lascia senza fiato. Un’apnea di tutti gli strumenti per inscenare un inferno in terra. E’ difficile rimanere indifferenti di fronte all’energia compressa e scaricata a piccole costanti raffiche che esplodono accordo dopo accordo. James Chance, si è poi confermato come uno dei musicisti più influenti e visionari della musica rock, mettendo in scena con i Blacks e come James White, una schizofrenia artistica, che era al tempo stesso esaltazione glamour e 10 sentireascoltare fisiologica espressione di irriverenza poetica. I Te e n a g e J e s u s & t h e J e r k s sono molto più teatrali e involuti. Melodie totalmente assenti e un fastidiosissimo modo di usare gli accordi di chitarra, come tappeto per le pantomime di Lydia Lunch. Brani come Burning Rubber e The Closet procedono quasi per inedia. Una pressoché totale assenza di voglia di vivere e un disagio esistenziale senza vie di salvezza. Rispetto alla carriera solista della L u n c h , i Te e n a g e J e s u s & t h e Jerks si muovono in un universo molto meno costruito, più diretto e grezzo. Ma sono qui, senza dubbio, i prodromi di The Queen of Siam e della degradazione di Fingered (di Richard Kern, 1986) A seguire, la raccolta passa a documentare l’estetica dei Mars. Un po’ i jolly dell’antologia, essendo molto meno famosi degli altri e presto scomparsi nel nulla. Eppure, le loro costruzioni sonore sono a dir poco originali, quasi naif, per il modo in cui si calano in una dimensione claustrofobica e alienata, con l’impressione di essere capitati nel posto più lugubre della terra, per caso. Tunnel è il titolo di uno dei quattro brani e di questo si tratta, di lunghi corridoi di sonorità scostanti e allucinate in cui calare la voce di Sumner Crane. C’è poco da aggiungere se non che i Sonic Yo u t h , c o m e f i g l i d ’ é l i t e d e l l a no wave, devono aver sicuramente amato i Mars e le loro chitarre “soniche”. A chiudere la raccolta i D.N.A. d i A r t o L i n d s a y. N o n s i p u ò dire che il panorama cambi radicalmente coordinate, ma sicuramente rispetto agli altri, i D.N.A. mostrano un atteggiamento più ironico e meno irritabile nei confronti della tradizione. Quello che non viene meno, è di sicuro il maltrattamento della chitarra. Lindsay la usa come un aggeggio da fabbrica: pochi accordi fuori tono usati, per altro, in maniera assai poco elegante e alternandoli con le sonorità sintetiche di Robin Crutchfield e il drumming meccanico di Ikue Mori. Size chiude alla grande la raccolta mostrando tutto il fascino dell’operazione no Mars wave: scomporre gli elementi che costituiscono una classica partitura rock e lasciare che ogni singolo componente mostri la bellezza che c’è dietro il rumore. Per forza di cose, la compilation non riesce a fotografare pienamente tutti gli angoli della scena. Quello che fa è dare un compendio delle sonorità che va a documentare, attraverso quattro case histories particolarmente significative. Se da un lato le intenzioni iniziali di Eno erano comunque quelle di disegnare un quadro molto più vasto, la storia si è poi occupata di dare credito alle altre esperienze innovative provenienti dalla scena, in particolare quelle di Glenn Branca (e, per filiazione dirett a , S o n i c Yo u t h ) e d e i L o u n g e Lizards. L’ e n s e m b l e d i G l e n n B r a n ca ha rappresentato un po’ l’anello di congiunzione tra la no wave ortodossa e il noise rock degli anni ’80, lavorando in maniera rivoluzionaria sull’applicazione del rumorismo chitarristico al minimalismo d ’ a v a n g u a r d i a d e i v a r i Te r r y R i l e y e L a M o n t e Yo u n g e d a n - do, tra l’altro, i natali artistici a Lee Ranaldo (tra i musicisti presenti nel fondamentale Ascension) e Thurston Moore. I Lounge Lizards di John Lurie invece, sono diventati subito un’esperienza sui generis, di commistione tra rock e jazz, ereditando dal primo piglio e dissonanze, e dal secondo ritmica ed estetica intellettuale; da notare nell’omonimo esordio (Eg, 1981), in un diretto legame con la no wave, la presenza della chitarra atonale e “ g r a t t u g i a t a ” d i A r t o L i n d s a y. N o N e w Yo r k , c o m u n q u e , c o m e ogni opera in anticipo sui tempi, fu accolta con sufficienza da pubblico e critica. A distanza di anni però, resta enorme il suo influsso sugli epigoni rumoristi. Tutta la scena newyorchese a venire non ne potrà p i ù f a r e a m e n o . S o n i c Yo u t h e Swans fonderanno parte della loro estetica noise su queste canzoni, Pussy Galore e Cop Shoot Cop ne proseguiranno le gesta fino all’approdo negli anni ’90; in tempi recenti, Blonde Redhead (omaggiando i DNA sin dal nome) e Liars hanno traghettato le sonorità no-wave nel nuovo millennio. Visioni sotterranee: il cinema No Wave (19761985) Il No Wave Cinema o New Cinema (dal nome di una sala di proiezione gestita da alcuni registi di quella scena) si sviluppa in un coacervo di influssi artistici a partire dal 1976, parallelamente al punk e al corrispettivo movimento musicale. E’ un cinema soggettivo, che nasce come negazione e rifiuto delle ideologie, ambientato in una metropoli degradata, frammentata, meltin’ pot di culture e esperienze borderline. Il No Wave nasce come cinema underground, low budget (girato spesso con mezzi di fortuna in super 8 e video e poi riversato in 16 mm), e vive di contaminazioni tra esperienze disparate (musica, soprattutto – molti dei registi erano anche musicisti - arti visive, poesia, letteratura, teatro). Si rifà idealmente ai b-movies hollywoodiani, al cinema indipendente americano dei primi anni ’60 (New American Cinema, John Cassavetes), ai film di Warhol, e alle avanguardie e u r o p e e q u a l i l a N o u v e l l e Va - s e n t i r e a s c o l t a r e 11 Stranger Than Paradise - Jim Jarmush gue francese e il Free Cinema inglese. Rappresenta le subculture, il nichilismo, la disperazione, la solitudine metropolitana di una generazione disillusa ma non per questo meno vitale. Contrariamente al cinema indipendente americano degli anni ’60, non narrativo, il No Wave si caratterizza infine per un ritorno alla narrazione, facendo proprie le tecniche del cinema indipendente; questo ritorno al narrativo che caratterizzerà poi i film-maker successivi (Jim Jarmush, John Sayles fra gli altri). Generazione Amos Poe vuota: Figura chiave del movimento è Amos Poe: regista, attore, sceneggiatore, assiduo frequentatore del CBGB’s. Anticipatore del No Wave è proprio il documentario punk The Blank Generation (1976), girato in 16 mm da Poe insieme a Ivan Kral del Patti Smith Group al CBGB’s, nel 1975, con riprese di band nascent i q u a l i Te l e v i s i o n , R a m o n e s , 12 sentireascoltare Ta l k i n g H e a d s , B l o n d i e , P a t t i Smith Group, Johnny Thunders & The Heartbreakers (con Richard Hell), Wayne County e altri gruppi. Il risultato è un vibrante filmato (simbolo dell’estetica del nuovo cinema) in b/n con il sonoro fuori sync ( le riprese erano mute, il sonoro è stato poi aggiunto da demo e live delle band), frammentato, convulso, sfalsato, che fa il paio con The Decline Of Western Civilization (1981) di Penelope Spheeris, film simbolo della scena punk di Los Angeles; un documento importante, che mette in luce il talento di Poe e mostra i primi passi di alcune delle band del successivo movimento new wave americano. In tempi recenti, Blank Generation è stato edito in dvd insieme a Dancin’ Barefoot, documentario autobiografico di Kral). spiro (Unmade Beds, 1976), in cui racconta la fine del sogno americano, (The Foreigner, 1977), l’alienazione, la psicosi, l’ossessione (Subway Riders, 1981); ad animare le pellicole alcuni dei protagonisti della scena sotterranea del tempo (Debbie Harry dei Blondie, Eric Mitchell, John Lurie dei Lounge Lizards, Lydia Lunch). Tra il ’76 e l’81 Poe mette a punto le tematiche del suo cinema in una trilogia underground, densa di richiami al Godard de Fino all’ultimo re- sentivo appartenevano allora a N e w Yo r k . ” In The Foreigner un agente segreto europeo arriva a New Yo r k i n c e r c a d e l s u o c o n t a t t o , Unmade Beds si apre con un appassionato omaggio: Rico v i v e a N e w Yo r k n e l ‘ 7 6 , m a l a sua mente è in Francia, negli anni ’60, durante la Nouvelle Va g u e ; è u n f o t o g r a f o e s i c r e de un gangster alla Belmondo di Fino all’ultimo respiro, un perdente romantico e idealista, è solo e si sente sradicato. Ecco come Poe ne parla: “ Vo l e v o c o m i n c i a r e d a d o v e aveva iniziato Godard: l’innocenza, il romanticismo, la vita bohemienne, tutte cose che che non troverà; sarà invece coinvolto in strane situazioni di misteri e intrighi che non capirà, fino al tragico epilogo. In questo film Poe cita all’inizio i suoi ispiratori: Godard, il Cassavetes di Shadows, Warhol. In Subway Riders infine, il suo primo film a colori, un noir nervoso e notturno, un sassofonista psicotico, interpretato sia dal regista che da John Lurie, attira vittime con la sua musica per poi ucciderle. Quello di Poe è un cinema che rappresenta e fa vivere la cultura del tempo, mescolando la forza del punk con l’energia delle avanguardie e del cinema warholiano: realismo, soggettivismo, nichilismo, storie urbane, solitudini metropolitane, alienazione in una città infernale. Il regista proseguirà poi con una carriera cinematografica più rassicurante e con il successo commerciale, arrivato nel 1984 con Alp h a b e t C i t y, m a q u e s t a è g i a un’altra storia. Altri no wavers: Scott e Beth B, Eric Mitchell, Vivienne Dick, James Nares A partire dal 1978, altri registi metteranno a punto le tematiche del New Cinema, sviluppandole verso forme che daranno vita nel decennio successivo ad ulteriori realtà oltre la no wave. Gli artisti multimediali Scott e Beth B. marito e moglie, realizzano insieme dal 1978 a l 1 9 8 3 a l c u n i f i l m t r a i l n o i r, i l m e l o d r a m m a , i l t h r i l l e r, i l dramma dark. The Black Box , un cortometraggio con Lydia L u n c h , G - M a n , L e t t e r s To D a d , T h e O f f e n d e r s , T h e Tr a p D o o r, The Vortex (questi ultimi due ancora con la Lunch), sono pellicole dense di violenza e oppressione, reali e metaforiche, nichilismo, disperazione, schiavitù sessuale; temi che ritroviamo anche nei successivi film di Beth dopo il divorzio dal marito e che influenzeranno il successivo “Cinema della trasgressione” di metà ’80 (Richard Kern, Nick Zedd). Eric Mitchell , francese di nascita, attore, regista, produttore, assiduo collaboratore di Poe (nonché attore in Unmade Beds e The Foreigner), realizza anche lui i suoi primi film a partire dal 1978: Kidnapped, (in cui si rifà stilisticamente ai primi film di Warhol; ne riprende infatti Vinyl, un adattamento del libro Arancia Meccanica, fatto prima di Kub r i c k ) , R e d I t a l y, U n d e r g r o u n d U.S.A., The Way It Is. Il regista si muove nell’area del cinema europeo esplorata da Poe, con omaggi a Bertolucci, Warhol e Jack Smith, raccontando l’alienazione, la noia, la disperazione della New Yo r k u n d e r g r o u n d e d e i s u o i personaggi. I suoi film più conosciuti restano Underground U.S.A.e The Way It Is; il primo un remake di Sunset Boulevard alla maniera warholiana (passando quindi per Heat, di Paul Morrisey), il secondo con Steve Buscemi e Vincent Gallo al loro debutto (quest’ultimo anche autore della colonna sonora). Nel 1979 Mitchell inaugura insieme a James Nares e Becky Johnston una sala di proiezione destinata a durare solo un anno, chiamata New Cinema (un altro dei nomi con cui il No Wave è conosciuto), in cui sono proiettati i film del movimento, contribuendo significativamente alla loro diffusione e dando così l’opportunità ai nuovi film-maker di mostrare il proprio lavoro. Degni di menzione anche altri d u e f i l m - m a k e r, Vi v i e n n e D i c k e James Nares . La prima, di origini irlandesi, è autrice di film più astratti rispetto ai canoni del New Cinema, ma per questo non meno potent i : G u e r i l l e r e Ta l k s , S h e H a d H e r G u n A l l R e a d y, B e a u t y Becomes the Beast, Liberty’s Booty. I protagonisti sono i soliti di quella scena: Lydia Lunch, Pat Place, chitarrista dei Contortions (She Had Her Gun All Ready) tra gli altri. Nares, di origini inglesi, musicista nei Contortions - e nei Del-Byzanteens con Jim Jarmusch – ha in verità pochi film all’attivo (Rome ‘78, No Japs At MyFuneral, Waiting For The Wind). Il primo, con Eric Mitchell, John Lurie, Lydia Lunch e James Chance, è un ironico remake dei kolossal hollywoodiani: un Caligola surreale e ironico, girato in low budget a N e w Yo r k . Downtown 81 e la New Yo r k d i B a s q u i a t Non si può non citare a questo punto un altro film importante in quanto testimonianza diretta di quegli anni (e di quella scena), che ha per protagonista un artista che muoveva i primi passi e che sarebbe diventato famosissimo con l’approvazione di Andy Warhol: Jean Michel Basquiat. Downtown 81, in origine chiam a t o N e w Yo r k B e a t , s c r i t t o e coprodotto dallo scrittore d i I n t e r v i e w, G l e n n O ’ B r i e n e diretto dal fotografo svizzero Edo Bertoglio, è stato girato nel 1980-1981, ma problemi finanziari ne interruppero subito la post produzione; dopo varie disavventure, è uscito solo nel 2000. La maggior parte del sonoro è andata persa: la voce dell’artista è stata infatti ri-doppiata dal poeta Saul Williams. Abbiamo così l’occasione di vedere in azione un diciannovenne Basquiat, pittore, graffitista, poeta e musicista non ancora celebre, ma dei c u i g r a f f i t i N e w Yo r k e r a g i à piena. Il film racconta una giornata di un giovane artista squattrinato, che cerca di vendere un quadro per fare un po’ di soldi; lo vediamo incontrare amici (di cui assiste alle p e r f o r m a n c e ) n e l l a N e w Yo r k downtown, da Soho all’East village, e lo seguiamo nelle s e n t i r e a s c o l t a r e 13 Basquiat in Downtown 81 sue peregrinazioni diurne e notturne. Nel cast sono presenti alcuni artisti di quella scena: la onnipresente Debor a h H a r r y, J a m e s W h i t e a n d t h e Blacks, D.N.A., Tuxedomoon, Amos Poe… Nella soundtrack figurano anche John Lurie, Lydia Lunch, i Suicide, Vincent G a l l o e i G r a y, i l g r u p p o d i B a s q u i a t . E m e r g e u n a N e w Yo r k che è il cuore delle tendenze artistiche, non più succube dell’Europa, in cui la pop art è la cultura americana di quegli anni. Basquiat frequenta i locali di Soho e dell’East Village, aiuta il maestro Warhol a superare una crisi creativa e diventerà ben presto un simbolo della società multirazziale newyorchese. Oltre il New Cinema: Jim Jarmush e il Cinema della trasgressione Resta da chiedersi quali tracce abbia lasciato un movimento così colto, articolato e a suo modo eversivo. I presupposti per essere un’esperienza culturale estemporanea 14 sentireascoltare perduta nel tempo non ci sono mai stati e, con il passare degli anni, lo stile e l’etica di questo cinema ha innervato le visioni delle nuove generazioni di autori “off”, lontani dai circuiti hollywoodiani e fieri esponenti di una cultura visiva di settore, marginale, di “periferia” . Un chiaro esempio è Jim Jarmush. Inizia in area prettamente no wave, con un film adorabile e minimalista come Stranger Than Paradise (1984): lividissimo bianco e nero, per una commedia surreale e sopra le righe con John Lurie a riempire le immagini del suo volto asciutto. Da qui in poi, i successivi film si allontaneranno sempre di più dai canoni ortodossi del movimento per diventare qualcosa di altro, più personale e legato alla poetica dell’autore, ma senza mai perdere quel carattere distaccato ed ironico nei confronti delle periferie umane e metropolitane. In questo è certamente simile a d H a l H a r t l e y, u n a l t r o g r a n - de continuatore dei dettami no wave. Sguardo disincantato, pessimismo sottile e divertito, romanticismo di fondo, i film di Hartley si ergono a piccoli manifesti per la provincia a m e r i c a n a . U n b e l i e v a b l e Tr u t h , Tr u s t , A m a t e u r , f i l m d e d i cati ad un’umanità marginale che si cimenta con i grandi temi dell’esistenza, così… quasi per caso. Altro discorso va essere fatto per il cosiddetto “Cinema della trasgressione”, una filiazione diretta e senza intermediazioni del New Cinema così come della pop art- che ne continua ed esaspera gli aspetti più provocatori e dissacranti. Figure come Richard Kern, Nick Zedd, Casandra Stark, Lung Leg e l’icona Lydia Lunch, concorreranno ad illustrare una serie di incubi in super-8 e corti di diffusione semi-clandestina, che danno un nuovo significato al termine “trasgressione”. Violenza e sessualità nei loro aspetti più morbosi costituiscono l’ossatura di una contro filo- sofia amorale senza compromessi. Una messinscena barbarica delle bassezze umane, che si diffonderà soprattutto attraverso una gran quantità di corti, di cui i più famosi rimangono certamente quelli girati da Richard Kern. Che poi Kern sia passato alla storia per aver filmato Jim Thirwell che sodomizza Lydia Lunch, diventando poi fotog r a f o p a t i n a t o d e l l e N e w Yo r k Girls non ne diminuisce la portata polemica e antagonista, coadiuvata dalle sonorità d e l d o p o n o w a v e : S o n i c Yo u th (per cui ha diretto lo storic o v i d e o d i D e a t h Va l l e y ‘ 6 9 ) , Swans, Foetus, Pussy Galore e JSBX, Bosshog, Breeders, Marilyn Manson. La lezione dissacrante e provocatoria del No Wave cinema forse è stata in parte anestetizzata dal sistema, che ne ha narcotizzato gli elementi più eversivi e diluito quelli più accomodanti, ma ancora oggi quel grappolo di artisti dell’east side newyorkese rappresenta una freccia acuminata nel fianco della cultura americana. Non resta che aspettare qualche nuovo ribelle che ne prosegua gli insegnamenti polemici, validi ieri come oggi. Discografia essenziale A A . V V. - New Yo r k Noise Filmografia essenziale (Soul Jazz, 2003) Amos Poe The Blank Generation (1976) James Chance & The Contortions – Buy/ Unmade Beds (1976) Off White (Munster Records-Goodfellas, The Foreigner (1977) 2003) Subway Riders (1981) Te e n a g e J e s u s & T h e J e r k s – E v e r y t h i n g (Ata, 1995) Mars & D.N.A. - John Gavanti (Atavistic, 1998) D.N.A. - DNA on DNA (No More Records - 2004) Theoretical Girls - Theoretical Girls ( Acute, 2002 ) Lydia Lunch – The Queen of Siam (Ata- Scott B. Beth B. The Black Box (1978) The Offenders (1980) T h e Tr a p D o o r ( 1 9 8 1 ) The Vortex (1983) Eric Mitchell vistic, 1998) Kidnapped (1978) Glenn Branca – The Ascension (Acute, Red Italy (1979) 2003) Underground U.S.A. (1980) The Lounge Lizards – The Lounge Lizar- The Way It Is (1984) ds (Eg, 1981) S o n i c Yo u t h - S / t ( N e u t r a l , 1 9 8 2 ) Vivienne Dick She Had Her Gun All Ready (1978) James Nares Rome ’78 (1978) Waiting For The Wind (1981) Edo Bertoglio Downtown 81 (2000) Jim Jarmush Stranger Than Paradise (1984) Down By Law (1986) M y s t e r y Tr a i n ( 1 9 8 9 ) Hal Hartley T h e U n b e l i e v a b l e Tr u t h ( 1 9 8 9 ) Tr u s t ( 1 9 9 0 ) Richard Kern The Right Side of My Brain (1984) Submit to Me (1985) Yo u K i l l e d M e F i r s t ( 1 9 8 5 ) Fingered (1986) Nick Zedd They Eat Scum (1979) Geek Maggot Bingo (1983) Whoregasm (1988) War Is Menstrual Envy (1990) sentireascoltare 15 interviste Akron/Family We are family di Marina Pierri In alcune famiglie ci si scontra senza incontrarsi mai e senza produrre niente, in altre capita che l’unione faccia la forza. E’ il caso degli Akron/ Family: quattro teste distinte per un unico, inattaccabile, corpo sonoro. 16 sentireascoltare Sono le undici di una mattina sperduta nella provincia bolognese, dalle parti della Porrettana, vicino all’autostrada. Ho seguito i quattro Akron/Family per due giorni, in occasione della data di Bari e di quella di Bologna, osservandoli alle prese con un estenuante tour europeo. All’indomani del concerto del Covo, sono pronti a issare le vele virtuali del loro furgone per salpare verso i lidi romani; ed io mi preparo a salutarli mentre il blu del loro (pare, scomodissimo) veicolo scompare tra le rotonde delle principali. Ci fermiamo a un bar dall’aria poco amena, vicino un distributore di benzina, e tutti si prendono un espresso e ne ordinano a ruota un altro: “lo sai, ci sono band che fumano un monte di marijuana, o band che bevono fino ad andare in coma etilico tanto perché hanno da bere gratis; noi siamo diversi. Noi beviamo caffè. E’ quella la nostra droga ufficial e ! ” m i a v e v a d e t t o R y a n Va n derhoof, chitarrista e quasi l e a d s i n g e r d e l l a F a m i l y. E d e l r e s t o , S e t h O l i n s k y, s e c o n d o chitarrista e polistrumentista che dietro gli occhiali nasconde degli occhi grigi scintillanti, oltre a fare il musicista lavora a tempo perso in un caffè di Brooklyn in cui dice di trovarsi molto a suo agio. “Peraltro mangiamo tutto il tempo, specie a colazione, quando siamo a casa, negli Stati Uniti” specifica quest’ultimo “ci siamo ribattezzati Snack-ron/ family”. Dana Jansenn, batterista composto e chic anche nelle prime ore spaccaossa della mattina, si gira una sigaretta e mi domanda come si domanda il prezzo in italiano. Gli altri tre - seguiti dal fedelissimo e torvo guidatore olandese del loro mezzo di locomozione - hanno un aspetto arruffato. Sono molto stanchi. E’ il primo anno che si trovano ad avere a che fare con le bellezze e le nefandezze del passare la vita tra una città ed un’altra, tra un confine e quello che subito gli succede sulla cartina. Miles Seaton, bassista scalmanato che adora fare sketch da pirata fingendo gamba di legno e rivolo di bava dalla bocca, mi aveva già confessato di avere “il cervello spappolato. Non è una bella sensazione, sai? Mi sembra che le mie facoltà mentali si siano preservate quel tanto che mi serve a suonare. Per il resto finisce che ci troviamo a farfugliare delle cose senza senso tra di noi, come se le nostre funzioni vitali si fossero ridotte all’essenziale: mangiare, dormire, andare in bagno, suonar e . I o m i s e n t o r e g r e d i t o . Tu t t i questi stimoli diversi, queste facce sempre diverse di luogo in luogo, finisce che mi stonano. Non mi lamento, è chiaro. Tu t t o q u e s t o è s p l e n d i d o , m o l to più di quanto ci siamo mai aspettati. Però siamo distrutti, si. E non è che l’inizio. Dopo Bari, Bologna e Roma resteremo in Italia ancora un po’. Ci f a c c i a m o Ta r c e n t o , B e r g a m o , Padova e poi andiamo a Londra. Suoniamo all’Astoria. E sai per chi apriamo? Devendra Banhart! Dovremo essere bravi a scaldare la folla per lui. Cercheremo di essere cazzoni e rumorosi come meglio possiamo”. Già, Devendra Banhart. Non esattamente uno qualsiasi dei nomi che accompagnano la nascita del giardino dell’alt. folk newyorkese negli angoli meno nascosti delle strade di una Brooklyn in crescente fermento - anzi, sicuramente il più fortunato dei nomi scovati dalla mente dell’angelo/demone della luce, l’ ex “cigno” Michael Gira, che dopo l’esperienza decennale nelle sue band ha canalizzato le sue forze nella scoperta di nuovi talenti. Secondo Seth “è inutile continuare a s p a r l a r e d i D e v e n d r a . Tu t t o questo dire che è peggiorato, che si è esaurito, che non fa ripetersi, mi dà un po’ sui nervi. Non credere che lo conosca bene, perché così non è. Questa storia della ‘scena’ newyorkese è ridicola; non so cosa pensi la gente, ma ‘noi’ d e l l a Yo u n g G o d e t a n t o m e n o ‘noi’ a Brooklyn non facciamo feste in cui ci sbronziamo e ci diamo a baccanali VIP o cose del genere. Spesso a malapena ci siamo visti: magari una volta ad un concerto, ci siamo presentati, abbiamo scambiato due parole. Nient’altro. Non è che fare parte dello stesso movimento, se un movimento esiste, fa automaticamente di te il migliore amico di quell’altro. Musica o non musica, è come nella realtà - semplicemente a certe persone ci si lega ed a certe no. Nel caso di Devendra, ti ripeto che non lo conosco. Però penso che dovremmo un po’ smettere di prenderci in giro: in lui c’è qualcosa di più della musica. E’ bello, per dirne una. Non si riesce a smettere di guardarlo quando è su di un palco. Cioè, io non riesco, ad esempio. E’ questione di carisma. Magari c’è gente che fa musica migliore della sua, o fa meglio la stessa musica, ma non è Devendra. Non vedo che problema ci dovrebbe essere ad accettare questo”. Gli chiedo cosa ne pensi, del resto di questo movimento che pure non esiste. E mi risponde che “gli Animal Collective sono favolosi. E chi altro c’è? Ho l’impressione che tu ne sappia molto più di me delle band newyorkesi”. Non so, Joanna Newsom o le Cocorosie. “Joanna la conosco pochissimo, è davvero bella...credo che sia la donna di Smog, quel furbacchione (che mi piace molto). Le Cocorosie non mi fanno impazzire. Ma Bianca sta ancora con Devendra?”. E per il resto, sono curiosa. “Adoro gli Oneida” mi dice, ed io penso anche che sentireascoltare 17 dal vivo la Family condivida anche più di qualche elemento con loro. Ma non mi accontento. Per curiosità, voglio saper e c o s a n e p e n s a d e i C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h , i l f e n o m e n o di Brooklyn del momento. Seth arriccia il naso e sbuffa con eloquenza, poi scuote la testa. “La fama ha le sue proprie coordinate. Hai presente gli Interpol, vero? E hai presente i Calla?” Rispondo che si, conosco entrambi; i secondi peraltro sono stati, anche loro, scoperti dal buon Gira. “Beh, il cantante dei Calla è un mio amico. Ci credi che all’inizio gli Interpol andavano in tour assieme e aprivano per i Calla? E poi guarda che è successo”. Ad ogni modo, pare che il pupillo d’oro Devendra Banhart sia stato rimpiazzato nel cuore coriaceo di Gira proprio d a l o r o : g l i A k r o n / F a m i l y, l a nuova e luccicante perla dell a s u a Yo u n g G o d R e c o r d s . U n gioiello così unico che l’ex Swan ha deciso di tenerli con sé a tempo pieno, facendosi da loro accompagnare in tour come componente fissa della sua band (li si può ascoltare in Sing “Other People”). “Non credo di aver fatto una sola intervista nella mia vita in cui non mi sia stato chiesto di parlare di Michael” gesticola Miles. E continua “lui è straordinario. Io non posso che ammirarlo. Oramai è sposato, ha la sua età. Abbiamo fatto poche date con lui perché credo che il suo cachet sia piuttosto alto e del resto se non ce lo ha lui un cachet alto...è in giro da una vita. E’ un genio. Io non posso essere che commosso pensando fino a che punto lui ci ha sostenuti ed elogiati in questi due anni. L’ h a i l e t t a l a p a g i n a d e l l a Yo u n g G o d c h e h a s c r i t t o l u i ? Cioè, lui non è un giornalista. Non ha lo stesso sguardo su di noi che, ad esempio, puoi avere tu. Lui ci conosce, siamo giovani e inesperti per lui, 18 s e n t i r e a s c o l t a r e voglio dire, abbiamo vent’anni e qualcosa a cranio; perciò è quasi paterno, è onesto, completamente spontaneo. Se qualcosa non va, non si fa problemi a rimproverarcelo ed il fatto è che è nella posizione di farlo non solo perché ha il dovere di essere più onesto degli altri, ma perché capisce fino in fondo quello che facciamo. Può dirlo, insomma, deve. Io, personalmente, gli sono attaccatissimo ma ti direi una cazzata se fingessi che è una persona facile da gestire. E’ un uomo incredibilmente intenso e forse io negli Akron/Family più degli altri ho avuto dei problemi a relazionarmi alla sua intensità. Non so, lo vedi come sono, anche sul palco. Sono esibizionista, mi piace divertirmi, fare ridere, sorridere la gente; non so. Lui è una persona affabilissima, ma anche molto cupa. Ha qualcosa negli occhi che tradisce la sua facciata, quasi sempre impeccabile. E’ bello, non trovi? Ed ha 52 anni!”. Più tardi, restando più o meno sull’argomento, faccio notare a Seth che su quella famosa pagina web del sito della Yo u n g G o d R e c o r d s , n e l l a d e scrizione che il santo patrono Gira fa di loro viene menzionato ed attribuitogli un modo di suonare particolare, quasi mistico; si chiama “AK-AK”. Gli chiedo cosa voglia dire esattamente e se è vero. Lui ride e mi risponde che “no, non vuole dire assolutamente niente, è una cosa che non esiste”. Un po’ stupita replico cosa mi avrebbe risposto alla domanda se gliel’avessi fatta in un’intervista formale e senza battere ciglio replica “ti avrei detto la stessa cosa; è uno scherzo!”. Mentre, a saluti ultimati, mi allontano nella mia macchina in rotta verso il centro di Bologna, mi sembra di essermi costruita un’immagine mentale abbastanza nitida di questa famiglia così fuori dagli sche- mi. Sebbene manchi un legame di parentela tra i quattro componenti, mi è parso che tra di loro esista una vera e propria alchimia caratteriale e persino fisica. Superata la fase delle lunghe barbe degli esordi e dell’uscita dello s p l e n d i d o S / T, d a i q u a t t r o v o l ti invernali coperti da cappelli e quant’altro delle foto promozionali sono emersi i visi da ventiduenni/venticinquenni di tutti i componenti. Ed i loro bei sorrisi nutriti dalla parlantina sciolta classificano ognuno di loro maniera differente: Dana, sincopatissimo dietro la g r a n c a s s a , è c l a s s y, h a s e m pre un po’ il piglio del lord inglese (le ragazze gli cadono ai piedi!); Miles è il più divertente ed il più divertito ed è energetico, chiacchierone, vivace; Ryan è il “bello” della band ma è anche il più calmo, il più dolce; anche Seth è molto tranquillo e sebbene possa apparire a prima vista il più introverso e complicato è in realtà solido, loquace e spiritoso. In altre parole, si tratta di individui diversi, che si completano a vicenda e che a ben guardare formano un unico temperamento multisfaccettato, complesso, difficilmente descrivibile a parole. ma poco importa: è sufficiente ascoltare la musica eloquente d i q u e s t i A k r o n / F a m i l y, d a l l a cui tavolozza nascono dipinti sonori ora figurativi ed ora astratti, nei quali, così come dovrebbe essere, i quattro colori principali si confondono in sfumature inedite, rare e per lo più ineffabili. interviste Picastro Intervista con Elizabeth Hysen di Manfredi Lamartina D o p o l o s t r a o r d i n a r i o e i n a t t e s o s u c c e s s o i n d i e d e l p r e c e d e n t e R e d Yo u r B l u e s , i canadesi Picastro tornano in pista con un nuovo, straziante disco, Metal Cares (vedi recensione su SA N°12), fatto di chitarre che crescono e seducono tra gli infiniti precipizi del post rock e la rigorosa classicità dello slowcore. Una strana e affascinante alchimia tra Mogwai, Low e Dirty Three, in cui svetta la voce malinconica di Liz Hysen, leader della band e protagonista di questa intervista. Come mai hai intitolato il nuovo cd Metal Cares? Qual è l’idea che sta alla base di questa frase? Inizialmente volevamo intitol a r l o S h a r k s A w a y, m a p o i h o pensato che forse era un’immagine troppo specifica per la nostra musica. Il nuovo titolo, Metal Cares, mi sembrava più appropriato quando mi venne i n t e s t a p e r l a p r i m a v o l t a . Vo - levo ovviamente qualcosa che rappresentasse l’intero album, e questo è ottimo per descrivere i sentimenti che dominano tutte le canzoni, che sono in bilico tra delicatezza e una certa dose di rozza violenza allo stesso tempo. In fase di composizione che cosa viene prima? La musica o i testi? Dipende dal pezzo. Solita- mente però cominciamo dalla musica, perché grazie alla melodia della voce o degli strumenti riusciamo a dare una forma più definita ai testi, che ne possono sposare l’atmosfera. La musica dei Picastro ha un alto tasso emotivo. Ma quali sono i sentimenti che ti piacerebbe suscitare in coloro che ascoltano una vostra sentireascoltare 19 canzone? Qualsiasi sentimento forte ed estremo mi renderebbe felice. Se la gente odiasse o disprezzasse Metal Cares andrebbe bene, e se i nostri brani fossero amati al punto da spingere l’ascoltatore a suonarli o a comporre canzoni proprie andrebbe bene ugualmente. Meglio questo di certe reazioni che invece stanno nel mezzo, senza prendere alcuna posizione al riguardo. Ma ritengo che ogni musicista la pensi così. Non credo che possa fare piacere sentirsi dire che un album che hai inciso è semplicemente “carino”. il brano originariamente era un po’ troppo rigido per i miei gusti. Le parti rumorose credo che diano maggior spessore e interesse alla canzone. Che cosa pensi dello scambio di file mp3 via internet? È un problema oppure ritieni che può essere un buon modo per far conoscere in giro qualcosa dei Picastro? Secondo me è una buona cosa. Se si ascolta più musica, se ne comprerà di più. Inoltre è davvero utile perché permette alla gente di scoprire nuovi gruppi. Io stessa consiglio a coloro che sono curiosi di sapere che cosa facciamo di scaricare un brano nostro da internet. Ad ogni modo, diamo molta attenzione all’aspetto grafico dei dischi, per invogliare le persone a comprarli originali. La caratteristica principale dei Picastro è l’alternarsi tra atmosfere dilatate tipiche del post rock e quelle più intime del folk. È difficile trovare un equilibrio tra le vostre due “anime” musicali? No, non è difficile. A me non piace dividere la musica in categorie rigide e separate. Ascolto molte band, ognuna delle quali ha uno stile completamente diverso dalle altre. A volte sono più interessata a un determinato genere, ma cerco di non fossilizzarmi. E comunque suono sempre ciò che mi lascia maggiormente soddisfatta, indipendentemente da qualsiasi influenza. 20 sentireascoltare Ve r r e t e q u i i n I t a l i a a f a r e qualche data? Certo. Saremo in Italia per il mese di marzo 2006. Mi sono trovata bene tutte le volte che ho suonato nel vostro Paese. ( l e g g i i l r e s t o d e l l a m o n o g r a f i a s u w w w. Parlando dei vostri concerti, è difficile mantenere sempre la stessa intensità di esecuz i o n e ? N o t o r i a m e n t e u n t o u r, soprattutto per una band indipendente, è stancante. Red Your Blues (2004) C’è una canzone molto bella, Skinnies, che parte come un classico pezzo folk ma che poi si evolve in direzioni più sperimentali e - per certi versi - rumorose. Ti andrebbe di parlare di come è nata? È un brano vecchio. Di solito lo suonavo da sola. In quel periodo non avevo la band, così spedii il pezzo a Dwayne Sodahberk, che aveva pubblicato alcuni album per la Tigerbeat6. Siamo stati in contatto per un po’ e abbiamo anche collaborato insieme. Per Skinnies gli dissi di farne ciò che voleva. Penso che quella sia stata la mossa giusta, perché In effetti non abbiamo mai fatto un tour più lungo di tre settimane. Penso che sarebbe molto duro suonare per due o tre mesi di fila. Inoltre non ci sono grandi cambiamenti tra un’esibizione e l’altra, quindi può essere difficile restare interessanti facendo sempre le stesse cose ogni sera. Ci sono comunque altre cose che mi piacciono della vita da t o u r, c o m e a d e s e m p i o v i s i t a r e posti nuovi e conoscere tante persone con cui scambiarsi pareri sulla musica. Tutto ciò ti spinge a continuare per questa strada. sentireascoltare.com) monografie Riot Maker Riot Thinkin di Edoardo Bridda e Marina Pierri Recentemente balzata a rango di cult act grazie alla distribuzione di Wide e alle critiche positive della stampa specializzata, l’etichetta friulana Riot Maker è una delle scene now on del panorama …off italiano I protagonisti sono tutti giovani, probabilmente il più vecchio non raggiunge i trent’anni, molti di loro hanno aspetti cartoneschi e perché no da videogioco d’annata della Lukas Art. Nelle parole dei suoi stessi fondatori, ovvero i due membri di FareSoldi, la monkey island in questione propone una traiettoria definita wrong way to pop. E dove starà lo sbaglio? In verità se di errore dobbiamo parlare non è quello d’incappare in facili intellettualismi o in popolari etichette quali gli ismi del caso o il glitch: scopo di questi Guybrush Trepwood è quello di far cozzare, clashare, generi e stilemi che ancor oggi nell’immaginario comune non possono coesistere né per il fighetto né per l’ultrà del centro sociale. Lo spirito - basta dare un occhio al merchandise a base di motoseghe, doughnuts da Homer Simpson e cappellini da drugstore americano per rendersene conto - è quello dei b-boys scazzati e impertinenti, quelli dalle braghe larghe e i capelli indie-rock, cresciuti in quel nord-est anni Novanta dove Mtv e massicce dosi di tv convivevano con l’hardcore autoctona, nel quale il mainstream pop si mescolava a un giro in discoteca l’estate, un tuffo nelle linee sagomate dei murales e un teletrasporto in un video di Beck. Così Britney e lo speaker truzzo che parla al microfono della disco di campagna, Bud Spencer e il musical all’italiana di Vianello e Walter Chiari sguazzano in uno scenario che potrebbe benissimo riportare la mente alla stagione Notte Vidal bolognese, con i Nuovi Cinema Inferno e i Johnson Rigeira del caso, eppure Riot Maker interseca la retta della famosa serata dello storico Link prevalentemente sul versante estetico-visivo e non tanto musicale. Non è la lounge music o lo spaghetti western a venir riesumato, piuttosto le biografie sonore dei vari personaggi fatte di giocattoli, rap, videomusic, e tanta tanta disco, subìta - afferma il Pasta - più che praticata. Un perno oltre a questo, a dir il vero c’è ed è il laptop, strumento cheap ma soprattutto congeniale a alcune delle sonorità dei nostri tempi elettronici. E nel macinino digitale ci entra di tutto: dallo scoppiettante pop dei recenti Mouse On Mars all’elettronica minuta e bofonchiosa dei Notwist (Amari), dall’action painting sonoro dei The Books (Ricciobianco) all’house dei Master At Work (Scuola Furano e FareSoldi). Dariella - membro degli “storici” Amari - non sbaglia quando riassume l’etichetta come la “nemica numero uno dell’indie rocker purista” e l’equivalente di un “cocktail martini con l’elettronica giocattolo e sentireascoltare 21 l’House più caciarona”. Più che avant, è disco an’dré! Eppure l’operazione, oltre alla più o meno inconsapevole impellenza del piccolo musicista pop-tronico tutto campionamenti e sintetizzatori “who is Elvis”, apre a palette di suoni scontatamente inediti. In questo senso Fare Soldi, Scuola Furano, Riccio Bianco e Amari riservano un’autentica ventata d’aria fresca, di sorrisi, dondoli di nuca e frivolezze e abbondati dose di tresciumi ben oliati. Amari Sembra che per gli Amari suonare sia un gioco. Si pensa ad un trio che marina la scuola per chiudersi con grande gusto in una di quelle stazioni di videogames vecchio stile, farcite dalle carcasse irregolari che inglobano schermi, pulsantoni e joysticks. Li si immagina divertirsi come dei Peter Pan senza età precisamente definibile. E si sorride. Dariella, il Pasta e il Cero sono il nucleo resistente della band, la zona inossidabilmente creativa di una piccola ma curata discografia che spesso e volentieri si serve di altri volti ed altre mani (specie dal vivo) per aggiungere qualche altro buon metallo alla lega. Ed in tutta evidenza la combinazione funziona, perchè all’indomani di Grand Master Mogol gli Amari si affermano come una delle band più scanzonate ed interessanti dell’intero panorama indie italiano. Ed “indie” è una di quelle parole gommose e versatili di cui ai tre fanciulli friulani piace abusare silenziosamente, di soppiatto: senza che la si consumi o la si pronunci a sproposito, la si usa come croce e delizia di un’estetica decisamente idiosincratica; basta solleticarla, parafrasarla con quel giusto senso dell’umorismo incantato/disincantato di 22 sentireascoltare cui, così bene, sanno infarcire le loro canzoni da Part(y)Time Jobs a Campo Minato. Amari - Gamera (Riotmaker, settembre 2003) Dunque, la domanda è: a che gioco giochiamo? Quale che sia il gioco, quali che siano le regole, il pericolo è dietro l’angolo. Se si è alle prese con uno di quei videogiochi vintage ambientati in un sottomarino ventimila leghe sotto i mari, si tratta di una piovra gigante; se si scrivono canzoni il nemico non è così facilmente identificabile, ma non meno minaccioso. Forse, si tratta di piacere: ma a chi, a cosa? Agli altri, a se stessi? A questa annosa domanda risponde Squadritto, l’opener di Gamera; una ventina di righe crude, tirate giù e annegate nella salsa che piace agli Amari, cioè un intruglio poco mescolato (perchè se ne possano sempre ben riconoscere gli ingredienti) di ironia cupa che si arrampica su di un hip-hop/pop destrutturato che fa fatica a resistere ai paletti della forma-canzone. La voce di Dariella è distante, prodotta come se venisse da un angolo non inquadrato, fuori-campo; le tastierine Casio e le percussioni lavorate dal Pasta e dal Cero gracchiano alle sue spalle e si spargono su dolce-amari anthems generazionali come Part(y)-Time Jobs. La band gira, volta e manipola suoni che schizzano ovunque. O forse sono i suoni a girare, voltare e manipolare la band. Ascoltando 5 Words si ha la sensazione che le parole stesse smettano di significare, limitandosi a suonare, echeggiare programmaticamente vuote in questa doppia sfida Nintendo tra l’uomo e la macchina. In ogni caso, gli Amari vanno allo spareggio a mento alzato. E con Gamera, lavoro tendenzialmente sperimentale e dunque difficile, i Nostri si aggiudicano l’attenzione che meritano. Al termine del gioco il sottomarino ha imparato come schivare i tentacoli della piovra gigante finendo per ignorare ogni volta la schermata del “game over”. Si ricomincia. Ogni volta più forti, più pronti, più esperti. (6.5/10) (m.p.) Amari - Grand Master Mogol (Riotmaker / Wide, settembre 2005) Così come Gamera, il nuovo disco degli Amari si nutre a grandi morsi di una passione per il retrogaming, chiamata in causa in maniera programmatica dalla grafica quanto dal sound. Eppure le cose sono cambiate. A differenza del lavoro precedente la tracklist di questa nuova piccola creazione Riotmaker si avvita attorno ai temi scomodi e difficili di un’adolescenza non-finita, indescrivibilmente lunga, dalla quale è faticoso uscire. Non c’è meno ironia, ma c’è più sincerità e, gioco di parole scontato ma calzante, molta più amarezza. Dariella, Pasta e Cero si (in)scrivono nelle canzoni spesso in toni personali, si e ci (in)cantano, (ri)suonando in un certo senso più maturi e risolti. Costruiscono una miniatura curata in ogni dettaglio di usuali paesaggi individuali nuovamente e diversamente percepiti, balzando con continuità sorprendente dal piccolo al grande: dai calzini a righe nuovi da abbinare per uscire la sera facendo bella figura, fino alla solitudine curata dall’intimità degli sconosciuti su un treno. Il fatto è che - fuor di metafora - si entra con grande facilità in c a n z o n i u n i v e r s a l i c o m e C a m p o m i n a t o o Tr e m e n d a m e n t e b e l l i , le si impara a memoria nel giro di due giorni. Le si succhia via. Le si (ri)vive agilmente proprio perchè il velo degli esordi, la distanza tra la musica e il testo, viene colmata. E’ importante pensare i pezzi nella cornice ben fatta dell’hip hop/indiepop in cui si inscrivono (reminiscente ancora una volta dei primi e migliori Casino Royale ma anche dei Death Cab for Cutie e di sentireascoltare 23 certo indie-electropop ad essi affine), ma è altrettanto importante pensare gli episodi della tracklist nella loro immediatezza e spontaneità. Come dire che per una volta è quasi bene non vivisezionare, non cercare di aprire questi giocattoli sonori atipici per contarne gli ingranaggi e le molle. E’ questione di andare oltre i generi o i paragoni, di condividere, di immedesimarsi e di lasciarsi andare. Bolognina Revolution peccherà di ingenuità, forse e La prima volta o Arte bruciante potranno suonare come ultimo singulto post-liceale, ma il loro fascino è proprio lì, in questo esercizio ostentato di giovinezza che è ben lontano dall’essere incosciente o gratuito. Insomma, Grand Master Mogol ci fa e ci è. Gli Amari si divertono e noi ci divertiamo con loro, come prima, più di prima. La novità è che, forse, tra i ghigni un pochino cinici ed il gusto per l’humour nero ci scappa qualche smorfia di malinconia. Il loro talento finalmente ci sembra canalizzato non solo in schemi sonori così curati e meticolosi o in effetti tesi e corposi - batterie calibrate ad hoc, chitarre eloquenti - ma anche in cantati sentiti, soggettivi, intensi. Grand Master Mogol merita un NB sul registro di scuola Riotmaker - quell’edificio coperto di graffiti e colori accessi in cui c h i b i g i a l e l e z i o n i p e r c o r r e r e a g i o c a r e a Te t r i s s i m e r i t a l a lode. (7.5/10) (m.p.) 24 sentireascoltare FareSoldi - Self Titled (Riotmaker, 2002) FareSoldi - One Nation Under A Grande Cassa (Riotmaker, 2005) L’ o c c h i o s t r i z z a o l t r a l p e m e n t r e i l m u l i n o m a c i n a c h i c a p i ù non posso. I campioni ritmici prediligono i breakbeat (senza disdegnare le sincopi), le chitarre scorazzano nell’aia dello Zio Sam (e ci sono pure le tartarughe…) e i synth, infine, istigano i ragazzi della (fumosa) camera accanto (nonché i loro cugini sulla via di Lignano Sabbiadoro). Dall’indie rock all’House, dal post-rock al Hip Hop, dalla lounge all’exotica, il progetto FareSoldi de il Pasta (già negli Amari) e Luka Carnifull è un’autentica invasione di ultracorpi sonori e la scaletta, prevalentemente strumentale (ma ricca di siparietti tratti da film trash, o presunti tali), è stracolma di citazioni e situazioni. Non si balla - anche se è dance - non rilassa - seppur non manchino momenti lunge - piuttosto l’ascoltatore viene invogliato a prendere il joystick in mano e giocare al sempre estenuante Wonder Boy (in Monster Land) delle associazioni e dei rimandi. In questo caso, a distanza di tre anni dall’esordio, la domanda più ovvia è “cosa sarà sviluppato da chi” e così l’errebì delle Persone che assomigliano a cose porta dritto agli Amari dell’ultimo Grand Master Mogol, la folktronica (con più di un r i f e r i m e n t o To r t o i s e ) d i S u p e r c o l a z i o n e I n F a m i g l i a r i c o r d a l a coesione elettroacustica di Ricciobianco, mentre i Daft Punkismi House palesati in Glenn Danzing troveranno sede fissa nell’album degli Scuola Furano (e negli stessi FareSoldi del sequel). Inutile dirlo, i ritmi, le sincopi, le virate (e le zampate) del mouse fanno girare la testa, proprio come è indicato negli eff e t t i i n d e s i d e r a t i d e l l a p a s t i c c a R i o t m a k e r, u n f a r m a c o c h e , a l posto dell’mdma, pare un cocktail di grappa, coca-cola e Big Bubble. Del resto, dietro alla copertina che ritrae Hulk Hogan, si nascondono i titolari dell’etichetta, e quell’omonimo FareSoldi, scheggia impazzita o sampler malcelato, troverà un pronipote maggiormente dance nel successivo sforzo sampledelico. (6.5/10). Abbandonati i riferimenti indie-rock e i breakbeats a favore di casse (quasi) dritte, Pasta e Carnifull dedicano il loro secondo lavoro - dal titolo emblematico One Nation Under A Big Cassa - alla sottocultura che maggiormente, nelle loro stesse parole, hanno subito nei novanta, quell’House Revolution che invase il divertimento notturno del Nord-Est negli anni novanta. L’ a l b u m m a n t i e n e l a s t e s s a p r o v e r b i a l e o s s e s s i o n e p e r i l g u a z zabuglio kitsch (genialoide il cut’n’paste pubblicitario di Le Aziende Informano) e gli spezzoni dei film più ridicoli (e in questa puntata pure dei vocalist più sfigati), tuttavia la collezione è maggiormente curata e - soprattutto - calibrata. A d i r l a t u t t a , p i ù c h e o l d s k o o l H o u s e o Te c h n o ( L a M u s i c a D e i Camion e Benvenuto Nel ‘92, Ragazzo Del Phuturo), c’è molta disco-music (Oratorio Faster) e funk (Calippo Dappertutto), con camei errebì direttamente dal catalogo Amari (Primi Baffi e Big In Jpg). Infine, genialata delle genialate (oppure, a scelta, motivo per il quale non comprare assolutamente il disco), una M i l i t a r i C h e G r i d a n o ( O d e 2 To r t o i s e ) c h e n o n è a l t r o c h e T N T To r t o i s e ( p e r a l t r o a u t e n t i c a f i s s a z i o n e d e i n o s t r i ) i n v e r s i o n e happy house, decisamente la cover definitiva per qualsiasi Oktoberfest che si rispetti. (6.5/10) (e.b.) sentireascoltare 25 Ricciobianco - Palmanova (Riotmaker, 2003) Se i FareSoldi sono caciarosi fabulatori della cultura stellestrisce e gli Amari degli adolescenti rapper che non si definiscono tali, all’interno della proposta dell’etichetta i Ricciobianco rappresentano senz’altro l’alfiere più avant dello scacchiere. Nati per mano di Dariella, il Cero (già Amari) e l’enigmatico Zoraide, ovvero Lorenzo Commisso (membro del collettivo performativo OK NO), il progetto, pur in continuità con il mood scazzato di casa, approda a una folktronica talmente al passo con i suoi tempi che, realizzato soltanto un anno prima, sarebbe sicuramente stato annoverato tra i precursori del genere inventato dai The Books. Proprio come il famoso duo aveva predicato nel 2002, Palmanova mescola sampeling acustico (prevalentemente chitarre trattate al laptop) e concreto (i consueti sampeling farfugliati e centrifugati), synth ambientali come glitch; in più però, rispetto al menù di un Thoughts For Food, troviamo abbondanti r i f e r i m e n t i r a d e n t i c e r t o p o s t - r o c k ( K a b u b i , $ h e e Te m p o r a l e i n temporeale paiono provenire dai Remix del primo album degli Aerial M) e più in generale, a prezzemolo, molte delle intuizioni delle scuole Karaoke Kalk e Staubgold (nessuna delle quali però presa con troppi crauti a contorno). È un lavoro mite, studiato, sornione (si ascoltino i breakbeats e i gracchi della piacevolissima Royal Cactus o il momento Amari di Whiskey & Videogames), che alle volte si fa un po’ prendere la mano da soluzioni abusate e “di moda”, ma che rappresenta un prodotto indie-tronico targato Italia che nulla ha da invidiare agli stranieri, anzi. (7.5/10) (e.b.) Scuola Furano - Self Titled (Riotmaker, 15 novembre 2004, distribuzione Wide da marzo 2005) Con l’esordio dei FareSoldi, Riot Maker aveva messo in chiara evidenza quali erano le coordinate dance predilette, nonché la filosofia di base. Gli Scuola Furano, ovvero il duo goriziano Borut Viola e il singer (pure co-produttore) Marco “Lil Booso” Busolini, non hanno fatto altro che sintonizzarsi su quelle frequenze e infilare un cocktail senza troppa frutta e ombrellini sul bordo del bicchiere. Il risultato va ben oltre le più rosee aspettative: l’approccio dei Daft Punk prende le forme di un flipper con le Roland al posto dei pulsanti e una ricca sampledelia ‘80 a sostituire i movimenti della pallina. C’mon Girls posside la spina dorsale di certa old skool rap impiantata in un corpo funk, dalle stesse coordinate, #iz4 riprende il melting-pot dei Basement Jaxx dalle fondamenta rielaborandolo nell’ottica di un nuovo Kish Kash, mentre Golden Gate e Chocolate Glazed puntano dritto a certo synthpop giocandosi un azzeccatissimo tocco House. È un abile gioco di riferimenti quello degli Scuola Furano, un modernariato da pista da ballo suonato con un tocco talmente leggiadro e vellutato da sembrare modernissimo. E attuale lo è d a v v e r o : s i a s c o l t i M i l k y w a y, o t t i m o s c a c c o m a t t o a l l a d i t t a degli Human After All, oppure Sam, stesso sublime approccio à la Jaxx prima maniera con un tocco di svacco friulano della casa. La classica Garage House di U&Me, suggella infine uno degli album dance italiani più azzeccati degli ultimi anni. (7.7/10) (e.b.) 26 sentireascoltare monografia Starvations nessuna alternativa di Stefano Solventi Benché non suonino affatto nuovi, non sono i soliti replicanti. Nelle loro canzoni c’è un ingrediente decisivo, un qualcosa che viene da dentro, non ha un bell’aspetto ma è tremendamente efficace. Romantici e feroci, febbrili e insidiosi, gli Starvations da Los Angeles perseguono una quintessenza country-punk come fosse la loro perfetta cifra espressiva. L’unica possibile. Ero molto scettico riguardo ai losangelini Starvations, come di tutte quelle band o sedicenti tali scagliate d’improvviso al centro dei riflettori a recitare la parte di fugaci campioncini emul-rock. Te m e v o i n s o m m a , a n z i n e e r o pressoché certo, d’incappare nell’ennesima congrega di bravi replicanti, refrattari all’inaudito, il talento (quando c’è) dissipato fiutando tracce di stilemi passati o trapassati. Però, fin dalle prime battute della prima loro canzone che mi sia capitato di udire (credo si trattasse di This Is W h a t Yo u Wa n t e d ? ) , p e r c e p i i chiaramente che ad agitarsi tra tutti quei fantasmi tirati in ballo (i Gun Club, i Birthday P a r t y, g l i X … ) , s i a g i t a v a u n senso di inevitabile, una febbrile mancanza di alternative, quasi che l’atrocità insita nella ragione sociale (tradotto starvations suona come “inedie”) fosse il motore che ne muove poetica ed estetica. Con quel brusco procedere ritmico, col livido rovello delle melodie, con la voce di Gabriel Hart – anche chitarrista nonché leader della band - che abortisce in partenza ogni serenità (solo qualche scampolo d’allegria è concessa, ma è un ridere in faccia al malanimo), gli Starvations - Starvies per gli amici - danno la sensazione di non aver avuto scelta: la febbrile commistione tra punk e country era (è) uno sbocco obbligato per i loro insopprimibili sfoghi. Chiave stilistica ben definita, al punto da profilarsi scontata, tuttavia fisiologicamente spuria, capace di beccheggiare tra estremi incandescenti (spingendosi – specie nel primo lavoro – fin quasi ai limite del metal) e squarci di livida irrequietezza (con quegli ostinati di piano e quelle frenesie di accordion che rimandano ai primi Bad Seeds), rammentando en passant la psichedelia acidula del Paisley undeground (versante Dream Syndicate). Pensa dunque una acuta vena garage a rendere palpitante la sagra cow punk, ma i fattori potrebbero essere tranquillamente invertiti: immaginate il John Mellencamp più ruvido spalleggiato dagli Stiff Little Fingers, o i Thin White Rope ad incrociare gighe con i Pogues. Il canto sfibrato e dissoc i a t o ( t r a J o e S t r u m m e r, R o bert Smith e Gordon Gano) si beve alcoliche malinconie pe- scate in un torbido periferico/ suburbano, bazzicando senza alcun timore il cupo fatalismo di Nick Cave (immerso in un mondo di peccatori all’ultimo stadio) e il delirium tremens l e t t e r a r i o d i To m W a i t s ( u n r o manticismo ferito fino al bianco delle ossa, a lambire i confini di un’epica dark). Se la formula è quindi tanto sperimentata da rasentare sistematicamente il “déja entendu”, se nelle canzoni - scritte peraltro con l’agilità sbrigativa e senza sconti di chi conosce bene la materia - nulla appare casuale, tutto è anzi così formulaico e scontato, la proposta finisce lo stesso col risultare credibile, perché suonata come se fosse questione di vita o (e) di morte, come se - lo ripeto - non ci fosse alternativa a questa pratica esorcistica e ben poco liberatoria. Una sensazione ottenuta investendo ogni granello della pasta sonora di tutta l’emotività possibile, fin quasi al limite della teatralità (capita talvolta di ravvisare elementi di nevrastenia “scenografica” tipicamente wave). Ovvero, tutto si compie in un più o meno confessato gioco delle parti, dove chi suona e sentireascoltare 27 chi ascolta si convince di fare tremendamente sul serio. Ad oggi, compiuto il settimo anno di carriera, del quintetto iniziale sono rimasti Ian H a r r o w e r a i t a m b u r i , Va n e s s a Gonzalez al piano e fisarmonica più, naturalmente, Gabriel Hart, mentre il chitarrista Leon Zalez è giunto a sostituire Ryan Hertz e Dave Clifford ha rimpiazzato JeanPaul Garnier al basso. Tre i dischi all’attivo, attraverso i quali l’unico cambiamento che sembra di percepire riguarda il peso specifico delle ombre, e gli spazi che il cuore dedica loro (chiamatela – se volete – maturazione). I lavori licenziati finora descrivono quindi una band decisa, coe- sa, coerente. Una band che non sposterà alcun orizzonte perché non persegue altri che se stessa: ma nel far questo, gli Starvations sono credibili come pochi. Blackout To Remember (Revenge, 2001) L’ e s o r d i o è f e b b r i l e , s f e r z a n t e , c r u d o . C o m e u n o s c h i a ff o c h e sgombra il tavolo per l’urgenza di posarvi un bicchiere, una bottiglia e una pistola: l’apparecchiatura minima per ingoiare disillusione, il fiele di tutta una gioventù tradita, il lamento ruvido delle prospettive accartocciate. Non c’è da andare per il sottile, quella pistola, quell’alcool, quello squallore languido e minaccioso portano marchi di fuoco: quello dei Gun Club, innanzitutto, come nella fulminante Girl Of Stone o nella ballad a gola cauterizzata di Whorelove. Un vero e proprio invasamento quello per la band di Jeffrey Lee Pierce che in Queen Bee’s Lament cavalca mefistofelici riff (d’accordion e chitarra) degni del primo Cave, spinto addirittura fino al limite del metal in On The Burn. I r r u z i o n i p u n k s u i s e n t i e r i d e l f o l k . Ve e m e n z a e s a s p e r a t a , c r o gioli ritmici, espettorazioni adenoidali, chitarre a coltellate: i Thin White Rope sull’orlo del collasso epatico in Whiskey Summer/Gin Fall, la scorribanda circa Pogues tra bettole e praterie di Boys From The Country Hell, l’asprezza sdegnosa dello Strummer giovane e gli angoli bruschi Crazy Horse di Curse Of The Loner. Poi, sottopelle, percepibili a squarci, inafferrabili amarezze (come nel ridanciano delirio pseudo-Wynn di Church Of The Doublecross), laconiche alternanze tra quiete e nevras t e n i a ( l e a s c e n d e n z e To m W a i t s / J i m M o r r i s o n d i R i n g f i n g e r ) , i n c a n t i s u l p u n t o d ’ i n c e n d i a r s i ( i l v a l z e r s c a b r o Yo u R u i n e d X mas, tra impeto sventato Jonathan Richman e strisciante teatralità Richard Hell). Country dark acido per il nuovo millennio. (7.1/10) Get Well Soon (Gold Standard Laboratories / Goodfellas, 2003) Cigolano e deragliano le corde, innescando riff fulminanti e brumosi, disegnando strisce di luce nel fosco. Il drumming è una questione di melma ed altre indefinibili sostanze (che immaginiamo con un brivido). Spuntano fisarmoniche, pianoforti e violini come parvenze d’anima (strumenti pilotati - sarà forse un caso? – da gentili fanciulle), perché c’è ancora un’anima, e con essa dei conti da saldare. Insomma, forma e sostanza mantengono quello che annunciava e prometteva il predecessore con qualche piccola apertura – diciamo così – spirituale, b a r b a g l i d i l u c e n e l f o s c o . L’ a s c o l t o r i m a n e c o m u n q u e e s p e rienze vibrante: per quella tribolazione Crazy Horse esplosa con piglio Clash che è Red Wine; per il modo in cui Oh Deputy! – graffiante e violento come un Bad Seeds, storto e angoloso come un Violent Femmes – tenta di scalzare piano piano la pelle dal cuore; per l’aria da ultima sbronza di Recipe For A Mess, valzer benedetto dalla scabra carezza di un violino (è J u l i e C a r p e n t e r, d e i G r o p i u s ) ; p e r l ’ o r d i g n o w a v e c h e s i a g i t a 28 sentireascoltare in American Funeral. Perché in Post-Climax Exhaustion capisci che Grant Lee Buffalo e Afghan Whigs non sono passati invano. Per la marcetta agra imbastita sul blues avariato di Not Me This Time, la cui macchinazione di triangoli, percussioni, vocoder e diavolerie varie rimanda allo spiritato bailamme di Swordfishtrombones. Passano come figuranti gli altri pezzi, una ripetizione di strategie roots punk che riesce a non sembrare mai stanca: c’è sempre un’insidia nascosta da qualche parte, tra una distorsione compressa e lo sputo acido del canto, nel tremolare rapido di personaggi che non fanno né ricevono sconti, intricati nel proprio scampolo di maledizione. Canzoni di furia irrisolta, di nero disincanto e decrepito asfalto, talmente desuete da sembrare archetipo di se stesse. Hanno la forza di farti credere che se scendi a patti con loro puoi trovarle vere. Sembrano il grido rabbioso di qualcuno da qualche parte, ora. (7.4/10) Gravity’s a Bitch (Gold Standard Laboratories / Goodfellas, 2005) Il terzo album degli Starvations è un campione di concisione e coerenza: dura meno di mezz’ora e propone con pochissime variazioni lo stesso, mordace e febbrile linguaggio dei lavori precedenti. Malgrado ciò, ti lascia soddisfatto, ti colpisce come un proiettile di polvere e sangue, ti attraversa come una frustata di libeccio. Se l’energia esplosiva è pressoché intatta, le ombre invece s’ispessiscono, le ballate punteggiano la scaletta con accorato tormento, al punto da far baluginare più spesso di quanto preventivato la romantica inquietudine di Nick Cave. Come nel piano che indica la luna, tra la foga d’organo e l’ebbro tremore chitarristico di Corner Of My Eye. Cave anche nella sua versione più furente, come negli spurghi acidi di cui è p e r v a s a P u r g a t o r y, b a l l a t a c a r a c o l l a n t e e a m a r a , e n e l l ’ i m p e t o d i s p e r a t o d i W h e r e Wa s I ? , m e n t r e n e l l a d o l c e a g r a D a r e Yo u To F o r g e t – c o n q u e l p i a n o s p e r s o t r a c o l p i d i g r a n c a s s a - p i ù che al Re Inchiostro viene da pensare al torbido languore di un Lanegan via Gun Club. Alla band di Jeffrey Lee Pierce ci saremmo arrivati comunque, e ci mancherebbe altro: ad evocarla ci pensano in sequenza Nightshade Sweats e This Poison, tra chitarre derapanti e addensamenti pianistici (la prima), tra ferocia sorniona e tzigana teatralità (la seconda). Sappiamo come non manchino mai precisi riferimenti nella musica degli Starvations, eppure non smetti un momento di credere che Gabriel Hart e compagnia si m a c e r i n o i n u n a u t e n t i c o r o v e l l o d a o u t s i d e r, b e s t i e s t r a n e d e l l’indie rock che altro non sono, cocciutamente alle prese con un’ossessione che gli permetterà forse di vivacchiare, mai di assaporare la fregola delle charts. Poco male, ciò che davvero conta è l’urgenza cui deve esser data voce: come fantasmi che spingono per sciabolare l’aria, come una snervante percezione di disagio che rivanga una centrifuga Violent Femmes-ClashPogues (l’abrasiva Rising Horizon), che mastica un tango ubriaco come avrebbe fatto il Bob Geldolf ante-Live Aid (nella rugginosa Empty Piano), che medita blues-rock serrato, asciutto, nevrastenico come nella title-track, fino ad un urlo conclusivo che non sembra (non è) per nulla liberatorio. (7.1/10) sentireascoltare 29 monografia Clientele luoghi non luoghi di Stefano Solventi Sotto la coltre soporifera di un’Italia dormiente, il seme della psichedelia si agita attorno all’universo mistico-religioso dei Father Murphy. La creatura di Federico Zanatta, eminenza grigia del Madcap Collective, Vittorio Demarin e Chiara Lee, porta allo scoperto una vivacità musical-letteraria che a casa nostra stenta ancora ad essere apprezzata. Una strana band, votata all’impalpabilità. Ma è proprio questa l’intuizione che ne giustifica l’esistenza (ed il nostro apprezzamento). Il pop sognante ricavato dall’ossessione sixties, dalle pagliuzze incandescenti raccolte in coda al bolide psych-errebì, sta immerso in una caligine languida, pigra, come se un’apatia esistenziale le togliesse la potenzialità d’azione. Come se una nostalgia struggente ovattasse 30 sentireascoltare irrimediabilmente i sensi, o piuttosto una precisa volontà d’apatia, svaporeggiata in opposizione (una forma d’opposizione tra le altre) al volgere impietoso del presente (ad una delle tante angolazioni del presente). Un gioco giocato sul filo di tenui contraddizioni, ecco: delicatezza e ridondanza, acidità e torpore, quel certo intellettualismo che permette loro di citare Joseph Cornell e De Chirico tra un semplice batticuore e l’altro. Difficile individuare l’ingrediente decisivo, facile perdersi tra i morbidi solchi scavati traccia per traccia, intanto che le strutture si spampanano disperdendo quietamente i riferimenti, e quello che sembra un chorus forse era un bridge e la strofa si scorda di tornare e quella melodia così struggente non si sa bene dove sia andata a liquefarsi. Originari di Hampshire ma presto stabilitisi a Londra - come da percorso standard per i tanti passionari del pop and roll - Alasdair Maclean (voce e chitarre), James Hornsey (basso) e Mark Keen (batteria) iniziano a sfornare una sfilza di singoli registrati con i pochi mezzi a disposizione. Canzoni che – come si dice – non spaccano la membrana degli altoparlanti: dei Left Banke la delicata trepidazione, dei Galaxie 500 il fangoso onirismo, d e i Ve l v e t U n d e r g r o u n d l a d e c a d e n z a d i a f a n a , d e g l i Yo L a Te n g o l ’ i n d o l e n z i t o i n c a n t e simo, dei Byrds il trillo visionario. Di nessuno di costoro però il graffio, il piglio di chi vuole (azzarda) lo squarcio, l’andare oltre. Il tutto compiuto alla luce di una pigrizia che diremmo esistenziale, indotta come una condanna, subita come si subisce una nebbia o una recessione. Sembrano guardarsi bene dall’inseguire il pezzo sbranaclassifiche, anzi le loro composizioni migliori hanno tutte quest’aria un po’ indefinita da eccellente “lato B”. D’altronde, la fama è un’eventualità resa difficile dalle stesse premesse estetiche: se i Clientele hanno uno scopo, sembra più quello di definire canzone dopo canzone un luogo poetico, mentale e sentimentale, dove comanda un senso di apnea incantata e sonnacchiosa, dove una nebbia smorza le capriole delle emozioni, dove un’appiccicosa nostalgia è un modo (il loro modo) di perorare il presente. Non stupisce, almeno non troppo, che passino inosservati tra i tumulti e la brama di next b i g t h i n g d e l l a C i t y. S t u p i s c e semmai che dall’altra parte d e l l ’ o c e a n o – N e w Yo r k p e r la precisione – ci si accorga ed innamori di loro. Time Out, la bibbia degli spettacoli nella grande mela, elegge I had To S a y T h i s / M o n d a y ’ s R a i n come singolo dell’anno 2000, e tanto basta perché l’occhiuta Merge decida di scritturare il trio. Nasce così Suburban Light, adunata di tredici pezzi usciti in vario formato dei quali appunto solo Monday’s Rain registrato in studio, gli altri frutto di sessioni “casal i n g h e ” . L’ a c c o g l i e n z a n e g l i States è molto buona, tanto quanto l’indifferenza nella madrepatria (dove è distribuita dalla piccola Pointy). Ma il dado è tratto, i Clientele sono una band con una strada da percorrere. Prima che la nebbia l’ingoi. Suburban Light (Pointy/Merge, novembre 2000) Un disco bello e impalpabile, vagamente sdolcinato eppure aspro, in intimo colloquio con la parte più tenera (perché ferita) del cuore. E coeso, malgrado non si tratti che d’una raccolta di ep. D’altronde, l’orizzonte estetico dei Clientele è chiarissimo, malgrado le nebbie, le penombre, il tremolio instancabile dei timbri nella scatola (magica) della nostalgia. Accade così che queste tredici tracce, concepite e realizzate lungo tre anni di fruttuosa messa a punto, puntino le stesse coordinate, una sorta di terra di nessuno ad un palmo dallo shoegaze e a due dal jingle jangle più madreperlaceo, tra la decadenza e il sogno ad occhi socchiusi, uno stare attonito tra squallore reale ed irrefrenabile desiderio d’astrazione. Ci sono, nascosti nel vapore che tutto pervade e ovatta, una sacra insidia, una tossica inquietudine, un languido scivolare tra giorni e periferie a perdere. Ingredienti omeopatici ma fondamentali, li avverti nella sottile disperazione che accompagna l a m e l o d i a a d e n o i d a l e d i I H a d To S a y Y e s , n e l l a m e c c a n i c i t à indolenzita dell’arpeggio in Reflection After Jane, nel repentino incendio che striglia i pastelli e le ombre di As Night Is Falling. Irrequietezze sotto pelle, spossatezze che virano febbrili, mormorii pigri che diventano minacciosi bisbigli: una corda tesa tra due lati dello stesso spleen, quello festoso, dolciastro, visionario da una parte, e dall’altra quello malsano, impotente, succube. Sfila così un drappello di palpitanti contraddizioni, Rain che cova un rimpianto amaro nella fantasmagoria byrdsiana, le voci madreperlacee di Saturday che sembrano un corpo estraneo nel mesto intreccio velvettiano, Monday’s Rain che impasta di languore un ordito Left Banke, Bicycles che stende una coltre Galaxie 500 sulla vivace latineria delle bacchette… Ogni affrancamento si rivela illusorio, cade sotto il peso di sentenze soffici ma inappellabili, mentre il cuore perde colpi e il respiro diventa un’eventualità. In questo quadro, la bellezza può essere solo un estatico rimpianto: vedi la toccante flagran- s e n t i r e a s c o l t a r e 31 z a L A’ s d i W e C o u l d W a l k To g e t h e r , l a f i a b e s c a a r r e n d e v o l e z z a M o n k e e s d i ( I Wa n t Yo u ) M o r e T h a n E v e r , l a s o l e n n e q u a d r a t u r a jingle-jangle di An Hour Before The Light, l’ebbrezza hawaiana in un cincischio Dylan di Lacewings. Non deve stupire troppo poi che tra questi piani sfalsati s’intrometta l’errebì strascicato Joseph Cornell, riferimento diretto ad uno dei più stranianti artisti del novecento, organizzatore di un immaginario fantastico assemblato di elementi concreti, votato al ricongiungimento con la dimensione infantile, in un progetto di oggettivazione totale della nostalgia. A ben vedere, è un po’ anche il metodo di MacLean, Hornsey e Keen, fatte tutte le proporzioni del caso. (7.2/10) Lost Weekend ep (Acuarela, marzo 2002) Narra la leggenda che il titolo di questo ep sarebbe tutt’altro che gratuito. Le cinque canzoni in scaletta dovrebbero infatti aver visto la luce in un fine settimana di sbracamento dopo una sbronza colossale. A sentirle, ci si può anche credere. C’è un senso di ulteriore appannamento sensoriale, un languido procedere di dolcezza in amarezza, una vena di rimpianto che ammorba il brodo già malaticcio del Suburban Light, che rende sottile anche l’aria più viziata, seducendo con la sua indolenza ferita: vedi come la rumba vischiosa di North School Drive sembri smaterializzarsi tra i palpeggiamenti flebili del piano; oppure come Kelvin Parade si trascini tra cambi di tempo e d’umore, il codice genetico errebì scientemente disinnescato. The Violet Hour (Merge, febbraio 2003) Il primo vero album: quando il respiro deve farsi lungo, calcolarsi su una collana di battiti. Roba di cui essere preoccupati. Invece, sorprende la capacità di adattamento dei Clientele alla nuova “unità di misura”. Troviamo ancora – certo – quelle schegge di malanimo, quel brodo lattiginoso, quei respiri trattenuti, quei sottili miracoli melodici sull’orlo del deliquio, però c’è uno scarto, c’è una scossa: un più stringente pulsare RnB, l’ispessimento soul delle trame, il gusto della sorpresa (proped e u t i c i c a m b i d i u m o r e - c o m e i n W h e n Yo u a n d I We r e Yo u n g - e di tempo - come in coda a Lamplight) lo scabro profilarsi delle corde che ad un tratto - come vedremo - deragliano in sorprendente distorsione. Un suono tornato presente e vivo dal limbo struggente dei sentimenti vagheggiati, appena più defilato rispetto al normale (come un’aritmia costante) però vivido, flagrante, attuale. Nel complesso le intuizioni melodiche stanno al di sotto la quota (a tratti vertiginosa) di Suburban Light, tuttavia mantengono una commovente e pervicace fragilità. Come se grattassero quello stesso muro, come se bazzicassero quelle stesse trame, ma sapendo di non poter mancare ad un appuntamento che cambierà per sempre le cose, ragion per cui è il caso di scoprire la mano, di gettare tutti i dadi sul tavolo. Ecco quindi lo stomp narcotizzato di House On fire e la fatamorgana latinfolk di Haunted Melody, ecco l’assorta meraviglia di Missing (antichi sogni Crosby Stills and Nash contagiati d’inquietudine europea) e le frizzanti derive jazz-blues di Porcelain (con quel basso che rivanga un insospettabile rimpianto Morphine). Aggiunge peso specifico la cura dei dettagli, vedi la tensione piano-silenzio in Prelude, il riverbero insistito dell’arpeggio in Lamplight (come dita sulla pelle di un lago) o la densità sciropposa indolente di slide e synth in Voices In The Mall. Sorprende poi la breve aspersione latina di Jamaican Rum Rhum- 32 sentireascoltare ba, scheggia che rivendica importanti ascendenze scozzando imprevedibilmente le carte del futuro, mentre l’interlocuzion e Ve l v e t U n d e r g r o u n d d i E v e r y b o d y ’s G o n e è s e m p l i c e m e n t e quanto già sapevamo nelle loro corde, qui al meglio. Nel finale la tensione trova un bellissimo apice con The House Always Wins, country blues incantato che si strugge in una lunga esplosione trattenuta, alla maniera di certi Red House Painters (quel crepitare di corde al limite della compostezza è un’autentica sorpresa), ottimamente ricondotto tra i soliti sentieri vaporosi dalla conclusiva Policeman Getting Lost, intarsio folk affondato in una caraffa d’assenzio, di memoria liquefatta, di malinconia sigillata. (7.1/10) Ariadne ep (Acuarela, marzo 2004) Superato l’esame del primo album, i Clientele sono a tutti gli effetti una band che fa sul serio. Il contratto con la Merge non impedisce loro tuttavia di concedersi nuovamente alla Acuarela per continuare la tradizione degli ep “esplorativi”. Ariadne infatti - come Lost Weekend - copre spazi sonori più sciolti e meditati, azzarda direzioni e scopre angoli che arricchiscono il profilo espressivo del trio britannico. Soprattutto in questo caso, l’approccio concettuale della loro visione sonora si sovrappone e spesso s’impone al tipico folk-pop sognante. Non a caso il programma è aperto da un breve preludio di piano, note sparute, sospese nel loro frusciante riverbero: s’intitola Enigma, e punta dritto all’angoscia gelificata che pervade la celebre pittura di De Chirico (esposta a Londra nel 2003) cui è dedicato il disco, tornandoci poi sopra con Ariadne Sleeping, ancora un piano solingo come una fosca tenerezza Satie. Molto di più azzarda The Sea Inside A Shell, lunga perpetuazione d’organi e ondivaghe rifrazioni sintetiche pervase d’all a r m e E n o / W y a t t e a n g o s c i o s o d i s v e l a m e n t o Te r r y R i l e y : d i r e sorprendente è poco. Stando a queste, sembrerebbe di avere a che fare con una sorta di dark side dei Clientele, però le due tracce rimanenti percorrono strade più consone, addirittura quintessenziali come l’arpeggio tremolante e le premure di basso brumoso di Summer Crowds In Europe, mentre la conclusiva Impossible – l’unico brano cantato - spiana struggente melodia e piglio angoloso con fare malfermo fino alla psichedelia dissanguata dell’assolo (sarà ripresa, opportunamente smerigliata e impreziosita, su Strange Geometry): quasi a voler incastonare il desueto nel consueto, l’indagine nell’ordinario, a dimostrare una versatilità insidiosa nel loro sognante cuore pop. E ribadire la peculiarità di una band solo apparentemente normale. (6.9/10) Strange Geometry (Merge, luglio 2005) Tra cerchi da far quadrare e perimetri che per un istante sembrano chiusi e dopo un attimo non sai prevederne l’esito, si arriva al secondo album. Affidata la produzione all’esperto Brian O’Shaughnessy (già membro dei Safe), i Clientele propongono in Strange Geometry la loro tipica calligrafia con lievi ma significative variazioni. Ad esempio spandendo su tutto una sbrigliatezza che occhieggia ora i primi R.E.M. (il jangle che o c c h i e g g i a d i e t r o l a c a l i g i n e d i M y O w n F a c e I n s i d e T h e Tr e e s ) , ora gli Eels (tra gli archi squillanti, l’impertinenza errebì e l ’ a c c o r a t o d i s a r m o d i E . M . P. T. Y. ) q u a n d o n o n a d d i r i t t u r a i p r i m i Bee Gees (nell’asprigna tenerezza soul di Geometry Of Lawns o nella ninna nanna zuccherata di Step Into The Light). La psichedelia stirata, sfibrata, sfilacciata, fino a farsi friabile, s e n t i r e a s c o l t a r e 33 una rielaborazione nostalgica, un fervente auto-inganno: come i Byrds sciropposi nella rabbia sedata di Since K Got Over Me, come i Jefferson Airplane più quieti nella sonnacchiosa trepidazione di Spirit, come i Left Banke narcotizzati nel soul raref a t t o d i ( I C a n ’ t S e e m To ) M a k e Y o u M i n e . Più interessante è però l’assiduo ricorso al dissolvimento delle strutture, come se alla rarefazione di umori e atmosfere debba corrispondere la vaporizzazione degli schemi classici del folkpop. Da cui lo spaesamento che pervade il programma come un retrogusto, nel bridge che scompagina le carte di When I Came H o m e F r o m T h e P a r t y ( s p o s s a t e z z a v a l z e r, s e n s o d ’ i r r i m e d i a bile), nei found sounds e negli ectoplasmi d’opera di K (dream folk acidulo, un’ombra di piano), nel talkin’ diaristico di Losing Haringey (crema folk baluginante, realismo e fatalismo, archi e coretti) e soprattutto in quella Impossible che domina la solennità degli archi, l’intreccio liquido degli arpeggi, il jangle liquoroso, l’amarezza disincantata del chorus per poi sfrangiarsi, dipanare altri fili, lalleggiare, divagare, mortificarsi e infine consumarsi nell’acidità stridula di un assolo di chitarra. Se le intuizioni melodiche non sorprendono né deludono, i Clientele danno comunque la sensazione di procedere: attraverso i palpiti delle loro nebbie e dei loro mal di cuore, togliendo la terra sotto ai piedi dell’ovvio, del quieto consueto. Con l’inesorabilità di chi si è perso in un sogno e non sa uscirne. Con la dedizione accorata di chi persegue una perfetta dissolvenza in grigio: perfetta, all’uopo, è la conclusiva Six Of Spades. (7.1/10) 34 sentireascoltare recensioni Baustelle La Malavita (Warner / Atlantic, 2005) Una volta la mia amica Shelley Jackson mi confidò di avere capito una cosa: i Cuori Neri, mi disse, quelli più pesanti del peso stesso, sono troppo pesanti perché la realtà li possa sostenere, e così la bucano, sprofondando nelle voragini della vita, fino al sogno che le sta sotto. “Pensa – aggiunse – se ci sedessimo sul bordo e se gettassimo una lenza sapendo quale esca usare, se anche prendessimo all’amo il cuore, riusciremmo a s o l l e v a r l o ? ” . M i p i a c e r e b b e r e i n c o n t r a r e S h e l l e y, n o n l a v e d o da un po’. Ricambierei il favore donandole qualcosa che rappresenti esattamente l’incarnazione estetica più alta di quello c h e l e i c h i a m a C u o r e N e r o . Ta l k i n g a b o u t B a u s t e l l e , s ì . L e r e g a l e r e i i l l o r o u l t i m o L a M a l a v i t a : qualcosa di italiano che all’estero non soffra di reumatismi, allo stesso tempo internazionale e contemporaneo nei suoni, moderno nelle strutture, esagerato nel songwriting e assolutamente letterario nei testi. Alla lettura dei quali, son sicuro, Shelley rimarrebbe un po’ così. Sono tante le cose che questo disco porta con sé. Innanzitutto una rottura, con la dipartita di Fabrizio Massara, piccolo grande genio dei suoni, colui che ha profondamente inciso sui Baustelle sintonizzati su frequenze vicine ai Pulp. Ma se da un lato è crollata una certezza, e alla band toccherà ripensarsi dal vivo (Massara ha partecipato alle registrazioni del disco), dall’altro c’è un Francesco Bianconi che ha preso definitivamente il volo. Citazionista di buon gusto, lettore malato di vita e attore in primo luogo di se stesso, dandy dalla morbosa attrazione verso le donne e verso il sesso, il cantante - sempre più testa, voce ed espressione di quello che i Baustelle sono e vogliono rappresentare - esplode in quanto a presenza, e il suo Cuore Nero buca le tessitura del disco sprofondando fino al sogno ultimo della sua vita, che Bianconi ci narra con una classe e uno stile oltre i confini dei generi. La prova di questo grande talento sta nella dimestichezza con la quale Bianconi racconta Milano, città in cui ha vissuto nell’ultimo periodo per lavoro e per costrizione, ma anche per amore: Milano che il primo anno quanto è difficile, Milano che dopo le sei si colora di vita, Milano che portami via e Milano che in fondo un po’ di bene te lo voglio. Porta Ticinese, i Navigli si sosti t u i s c o n o a g l i s c e n a r i d e l l e s t o r i e b a u s t e l l i a n e - v e d i i l c a r c e r e n e l l e Va c a n z e d e l l ’ 8 3 - , s e m p r e però ancorate a una visione pessima del mondo, ai suicidi, al sesso, alla droga, alle sigarette, al male di vivere e alla bellezza salvifica dell’arte (“estetica anestetica”). Il disco oscilla tra aperture orchestrali e frasi memorabili, ritornelli già cult e contrappunti strumentali che dimostrano quanto i Baustelle siano cresciuti, anche tecnicamente, in questi anni c o r o n a t i d a d u e d i s c h i s t u p e n d i ( p r o d o t t i d a A m e r i g o Ve r a r d i a l c o n t r a r i o d e l l a M a l a v i t a , c h e vede Carlo U. Rossi dietro il mixer). Non è un caso che a proposito dei Provinciali - canzone incredibilmente pop, per chi ha vissuto in provincia si trasformerà subito in un inno – Bianconi abbia dichiarato: “Ai tempi di Sussidiario ne avevamo registrato una versione che faceva cagare. Molti pensano che il Sussidiario fosse volutamente naif: in realtà suonavamo davvero male”. Ma il disco annovera altre piccole storie che in realtà hanno grandi obiettivi, come Il Corvo Joe (scritta per Celentano) e il capolavoro A vita bassa (cantata in duetto assieme a una Rachele sempre più grande voce della musica italiana), l’unica canzone che riesca a raccontare senza retorica - ispirandosi a un articolo di giornale - il dramma esistenziale non capito, ma somatizzato dagli adolescenti, ai quali - in un mondo di divi, starlette e pin up (“la personalità se la può permettere solo una piccola élite”) – non resta che portare lo slip D&G sopra la vita dei jeans. In un disco stupendo, di immaginario e musica, i Baustelle hanno fermato il mondo in crisi. E senza esserne perfettamente consapevoli, lo hanno salvato. (8.0/10) Carlo Pastore sentireascoltare 35 (P)neumatica - Ultimi attimi (Desvelos / Audioglobe,- ottobre 2005) Gli (P)neumatica condividono la produzione artistica del loro secondo album con Giorgio Canali. Peccato però che di questo loro (probabile) mentore non abbiano l’urgenza laconica, il cinismo sferzante, l’asciuttezza insidiosa. Ok, occorre fare i conti con l’età, impossibile chiedere a dei giovani per quanto ruspanti quelle doti che solo un vissuto logorante e formidabile, coi sogni sistematicamente triturati e i mostri sotto il letto, può elargire. Però dai giovani ci si attenderebbe almeno quell’abbandono totale, quel precipitare un po’ angelico un po’ demoniaco, quel cavalcare il bolide come un martire sbruffone, insomma l’istinto sempre davanti al calcolo a domare ogni eventuale impegno. E se una posa deve essere, che se ne faccia quantomeno apoteosi. Invece, questi quattro ragazzi da Cagliari ci mettono impegno con lodevole impegno, congetturano testi mai banali, spendono rabbia e parossismo, teatralità e ossessione, salvo poi guardare ad un rock mordace vorreie s s e r e - S o n i c Yo u t h s t r i n a t o di sincopi e spigoli funk, cui tentano di adattare il fagotto delle buone intenzioni. Inutilmente. O quasi. Infatti, se escludiamo la cupa ebbrezza di Percorso (valzer blues debitore della beatles i a n a I Wa n t Yo u S h e ’s S o Heavy, le chitarre che si aggirano in un vicolo velenoso), l’afflato insidioso de Il mio compleanno (vaghe insidie psych watersiane, uno scivolare letterario Marlene Kuntz) e massì il curioso patchwork stilistico di Nuda dentro (strofe wave come un allarme ibrido Psychedelic Furs/R.e.m., il chorus è schietta espettorazione Afterhours), il programma è una carrellata di velleità e piccole catastrofi. Se non ci 36 sentireascoltare pensa la disarmante piattezza di un ritornello a rovinare la portata (vedi Senza ombra o Atti di me), è un assolo inutile (Good bye Charlie!) o un’interpretazione vocale scadente (Labbranere), e a poco valgono certe ideuzze intriganti, che sia una chitarrina John Frusciante o una disputa Fluxus o un denso caracollare Thalia Zedek. I testi, dicevamo: provate a leggere quello di A-strato, senza musica intendo, e vi accorgerete quanto funzioni bene con la sua angoscia strisciante indigerita. Peccato che finisca per inciampare tra galoppi post-core e strofe funkeggianti, imbolsendo e imbolsendosi. D’altro canto, segnali di vita come La velocità del tempo, seppur eccessivamente derivativi, lasciano aperto qualche spiraglio per il futuro. Consiglierei un nutritivo time out, e ritentare. (5.6/10) Stefano Solventi AA. VV. - Kalk Seeds – A Karaoke Kalk Compilation – (Karaoke Kalk / Wide, 2005) Le sue origini affondano negli anni novanta e nella minimal techno di Colonia. A otto anni dai suoi primi passi, l’etichetta tedesca Karaoke Kalk (il cui nome fa riferimento a un quartiere di Colonia), trasferitasi a Berlino, ha cominciato a vestire tutt’altri panni. Seppure non abbandonando i territori della musica elettronica, la label allarga il proprio campo d’azione spingendosi fino in Giappone a scoprire talenti. Il risultato è un grande allargamento dei propri orizzonti musicali, che dalla techno di nicchia si spingono verso territori più ibridi e più “accessibili”. Un avant-pop che passa attraverso l’ambient, l’electro e il pop da classifica con grande disinvoltura e idee fresche. Kalk Seeds prova a fotografare la situazione attuale della label tra nomi storici come Donna Regina e März e nuove leve come Kandis e Sora & Garland. Dieci delle sedici tracce (più un video di Pluramon) sono inedite, una sorta di presentazione, di passerella delle prossime produzioni firmate Karaoke Kalk. E’ impossibile restare indifferenti a un arco tanto ampio di musiche così diverse. Nell’enorme pentolone si ritrovano insieme le composizioni classicheggianti per pianofort e e v i o l o n c e l l o d i Ta k e o To yama (Der Meteor) e il raffinato pop da classifica di Saving Juno di Roman, che sta per uscire con il suo secondo album. Divertenti e interessanti gli italo-giapponesismi di Ta k a g i M a s a k a t s u ( M i o P i a n to) e lo pseudo-cabarettismo alla tedesca di Leichtmetall (Wir Sind Blumen). La simpatica electro di Hausmeister (Pumer), che ricorda i Mouse On Mars più bonaccioni, e le costruzioni ritmiche di Pascal Schäefer (Tic Tic) riportano all’anima più techno della K.K.. Tutto scorre tranquillo in questo disco e la speranza di trovarvi qualcosa di buono lascia il posto all’attesa di passare dall’assaggino al pasto completo. Avanti pure con le nuove produzioni, siamo curiosi... (7.0/10) Daniele Follero AA.VV. - Dream Brother: The Songs Of Tim & Jeff Buckley (Full Time Hobby / Audioglobe, 3 ottobre 2005) L’ e n n e s i m a u s c i t a n e l n o m e d e i B u c k l e y, i n u n p e r i o d o c h e - guarda caso - vede sia il figlio che il padre (in misura maggiore) protagonisti di una grande rivalutazione. Se da una parte fa piacere vedere le nuove generazioni accostarsi a questi due straordinari artisti, dall’altra però si alza il muro di scetticismo costruito a colpi di cofanetti, ristampe, outtakes che negli ultimi anni ci hanno letteralmente sommerso. Ma non starò qui a perdermi in futili considerazioni su quanto la signora Guibert (madre e moglie) abbia giocato su tali operazioni di marketing, non racconterò le travagliate vicende familiari di Tim e Jeff (raccontate nel libro di David Browne, di cui si riprende il titolo e che ha curato le note di copertina), né tanto meno azzarderò semplicistici confronti tra i due (uno sport praticato da molti). Non è questo il luogo e non è questo il caso, visto che Dream Brother: The Songs Of Tim & Jeff Buckley è un tributo fatto con il cuore. Con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. I nomi che si sono voluti cimentare con un repertorio di certo non facile sono tanti e tutti di una certa importanza, anche se provenienti da diversi ambiti artistici: dai Magic Numbers e Sufjan Stevens, ai Bitmap e Matthew Herbert. Bizzarro accostamento, vero, ma allo stesso tempo il segno tangibile di un sentito omaggio che deriva dall’influenza esercitata o da una genuina ammirazione verso entrambi. A partire dagli stessi Magic Numbers, alle prese con una S i n g A S o n g F o r Yo u d i Ti m i n cui sono i leggiadri intrecci melodici a primeggiare, proprio per compensare gli evidenti limiti vocali. Quando poi t o c c a a M i c a h P. H i n s o n r i v i s i t a r e Ya r d O f B l o n d e G i r l s d i Jeff, pare di sentire una sua registrazione casalinga, tanta è l’intimità che traspare dai suoi toni baritonali e l’abilità con cui lascia a casa l’elettricità della versione originale. Dal canto suo, Stevens riveste She Is di un’inconfondibile delicatezza fatta di voce soffusa e arpeggi di chitarra, mentre King Creosote infarcisce Grace di armonica, chiudendola con una coda campionata che difficilmente si sarebbe potuta immaginare. Interpretazioni personali, che cercano di unire la fedeltà ai modelli con la fedeltà al proprio modo di fare musica, rimanendo quindi riconoscibili. C’è anche chi preferisce ricalcare le linee già tracciate, senza sperticarsi troppo in ricercatezze e limitandosi a scremare gli arrangiamenti (è il caso della versione acustica di Mojo Pin di Adem e di Morning Theft di Stephen Fretwell), ma ci sono anche dei veri e propri esperimenti che farebbero venire un collasso agli estimatori e fan della famiglia Buckley: parlo dell’elettronica minimale di Matthew Herbert in Everybody H e r e Wa n t s Yo u , a c c o m p a g n a ta dalla sensualità vocale di Dani Siciliano (una trasfigurazione della ballata dai cori gospel in uno straniante beat, che ne smorza i toni drammatici), parlo del funk cibernetico - riuscito solo a metà - dei Bitmap in Dream Brother, e della bellissima No Man Can Find The War in versione folktronica dei Tunng, tutta fingerpicking e banjo e drumming sottile con innesti electro. Una varietà generosa che si avvicina ad una materia complessa, senza alcuna volontà di uguagliarla o, peggio, presunzione di superarla. Solo un modo per ricordare con devozione due artisti di indiscusso valore, dove devozione significa mantenere la propria cifra stilistica anche a costo di radicali cambiamenti. Ed è così che un tributo dovrebbe sempre essere. (7.0/10) Va l e n t i n a C a s s a n o August Born - S/t (Drag City / Wide, 2005) Curioso e decisamente agli estremi di un’ipotetica gaussiana che preveda un’estetica esoterico-folkeggiante in ascissa, assieme ad una modulazione vocalistico-strumentale in ordinata, il duo, composto da Ben Chasny dei Six Organs of Admittance ed il batterista giapponese Hiroyuki Usui, esordisce con un album totalmente radicato nelle meraviglie digitali, dove partiture incomplete trovano parziale solennità nell’associazione sonora che il lavoro propone, filosoficamente. Lo sciame ne risulta biforcato, bifronte, un sodalizio tra teste d’altrove, freakettone ma underground, eclettico e s i n u s o i d e . Ve n g o n o i n m e n t e i Can più disarticoli, venati dal blues sequenziale sostanziato da un non comune spirito metalinguistico. I due compositori non parlano neppure la stessa lingua, eppure la multistrumentazione messa in gioco è costruita su tempi spuri ma non dispari, dove feedback e percussioni accompagnano il tratto distintivo del fingerpic k i n g d i C h a s n y. L’ a r t e d i U s u i è tuttavia concretata dall’appartenenza al blues delle origini, sacrale e terrestre, tale da ispirare sinergicamente il talento del chitarrista antistante. Birds & Sun & Clay suona un outtake degli Organ’s mentre Song Of The Dead è una schermaglia d’idee, un cucito di silenzi senza evoluzione. La simbiosi arriva in More Dead Bird Blues, quando la voce incantata frantuma una chitarra scheletrica ancheggiante su tamburi ipnotizzati. I n A L o t L i k e Yo u e Yo u W i l l Be Warm l’osmosi diviene empatia, le riflessioni non distinguono lo specchiarsi dei due musicisti e l’album chiude con il mutualismo di una gemma psichedelica. August Born paluda l’idea artistica mediante il concetto di “non traducibilità fortuita” col quale, sebbene entrambi le parti non intendano cosa segnali l’altra, la musica che casualmente scaturisce dalla sfida pretende di redimersi in una qualche direzione. La meditazione acid folk lascia spazio a frammenti di gradualismo minimale che, ansiosamente, torna sui passi dell’estremi- sentireascoltare 37 smo, solennemente incantato nel tentativo di agganciare una perfezione stilistica. È un album importante, magnifico… forse tra i migliori dell’anno, trascendente, infernale e celestiale. Ogni nota appare un meanwhile di una medium visionaria, anticipatrice, divinatoria. Probabilmente un masterpiece, se non allignasse tra i neofiti... (7.3/10) Antonio Amodei BeeQueen - The Bodyshop (Important Records, 2005) Ci sono voluti tre anni per questa nuova uscita dei Beequeen (l’album precedente, Ownliness, risale al 2002, ed è in tutto e per tutto il prequel di The Bodyshop) e si sente. La passione con cui la band stende un manto porpora di synth e arpeggi celati rivela il gran lavoro di rifinitura; nulla sembra lasciato a metà, e la cura con cui ogni canzone è stata confezionata spicca oltre gli standard musicali del genere, passando da un ambient meticcio di sonorità industriali a un quasi effettivo folklore americano. Folklore comunque sfigurato, oscuro, mai spensierato o conforme alle tradizioni. Se il folk fosse una bilancia, e su uno dei due piatti mettessimo Eels, sull’altro comparirebbero (misteriosamente) i Beequeen, un po’ malaticci, sigaretta in mano, con i loro spleen solitari, la batteria misurata e le incursioni syntetiche. C’è poi da aprire una piccola parentesi sulle propensioni non-strumentali della band: il lupo perde il pelo, ma non il vizio, verrebbe da dire; è intuibile un passato fortemente condizionato da macc h i n e c a l c o l a t r i c i e c o m p u t e r, ma - fatto tesoro di ciò che hanno imparato - i Beequeen riescono a non cadere mai nel banale o nel lezioso. Perchè folk, dunque? Perchè la band ricorda a tratti le Short Stories dei Lilium di 38 s e n t i r e a s c o l t a r e P a s c a l H u m b e r t e J e a n Yv e s To l a ( S a d S h e e p ) , g l i a r p e g g i in mid-distortion sono quanto mai avvolgenti (Swag Cave), e c’è addirittura una cover di B l a c k E y e d D o g d i M r. N i c k Drake interpretata in maniera originale dalla calda voce di Marie-Louise Munck (Antenne). Ma vediamo di tirare le somme. The Bodyshop - un disco non easy listening, che richiede diverso tempo e diversi ascolti per essere assimilato nella sua minimale complessità - non deluderà i seguaci della lunare band Beequeen: come Ownliness suggeriva, la nuova fatica segna un distacco dai lavori precedenti, completando un percorso iniziato anni fa.. Per tutti gli altri, può essere la chiave per aprire la porta a un tetro mondo fatto anche di ruote cigolanti e ingranaggi arrugginiti. Non un capolavoro, ma un buon prodotto, considerando l’attuale indigestione da dancefloorrock. (7.0/10) M i c h e l e Va c c a r i Marco Bellotti – Prodotto Da Mia Madre (N3 / Self, Maggio 2005) Cantante, compositore, fonico e arrangiatore, il cannibalesco Marco Bellott se la canta e se la suona con padronanza assoluta della materia ed una consapevolezza che rasenta l’arroganza positiva dei grandi. E licenzia un disco che unendo un cantautorato già maturo ad un’invidiabile ed attenta scelta degli arrangiamenti, fonde elementi di elettronica, rock e folk cantautorale italiano. Tutte componenti che, tenute insieme da una vena melodica ispirata quanto originale, concorrono ad una (naturale) collocazione del prodotto finale nel contesto di una scena romana (vedi il duetto con Zampaglione dei Tiromancino c o n t e n u t o i n Tr e n o ) d i c u i f a parte ma cui non appartiene artisticamente. Poiché già da questo primo disco emergono elementi sufficienti al fine di individuare uno stile del tutto personale e riconoscibile. Vuoi per il falsetto ed il timbro à la Ivan Graziani, vuoi per una scrittura sempre accompagnata da una caustica ed amara ironia. Prodotto Da Mia Madre suona, infatti, come un atto d’autobiografica denuncia, nient’altro che un mezzo di cui il poliedrico autore si serve per puntare l’indice contro una società meritocratica e pirandelliana. Una critica costruttiva, forte di un genuino bisogno di riscatto che non scade mai in mero vittimismo ma fornisce lucidi spunti di riflessione (Centro Asociale e Solo Dicendo La Verità). Decisivo in proposito si rivela il trasferimento affrontato in età adolescenziale – insieme alla madre, cui è dedicata una straordinaria dichiarazione d’amore con I Fiori Di Mia Madre appunto – dalla nativa Bari alla capitale. Un distacco vissuto apparentemente senza traumi ma con il quale l’artista è verosimilmente ancora costretto a confrontarsi, come risulta evidente nell’esuberante Io Secondo Me: il brano in assoluto più autobiografico e malato del disco, in cui si cerca di esorcizzare qualche fantasma del passato. Una dimostrazione abbagliante di un talento di livello superiore ribadito di canzone in canzone, che lascia ben poco spazio di manovra alle critiche negative e fa ben sperare per il futuro. L’ u n i c a m a c c h i a , a l o n e a n z i su questo candido lenzuolo è rappresentato dall’abuso del falsetto che, alla lunga, appesantisce l’ascolto. Un utilizzo più parco avrebbe sicuramente reso più agile il contesto tutto. (7.1/10) G i a n l u c a Ta l i a recensioni Akron/Family Angels of Light (Young God Records, ottobre 2005) A diversi mesi dal più che esauriente self/titled, la band scoperta da Michael Gira torna con uno split che, paradossalmente, li vede a lavoro da entrambi “i lati”, sia come solisti che come parte strumentale degli Angels of Light. Dall’incipit della Side A la stanza viene riempita dal canto a cappella di Awake, reminiscente di Because dei sempiterni Beatles di Abbey Road, tra le fonti d’ispirazione dichiarate del quartetto. Le succedono la ben più noisy Moment, che si muove leggera al di fuori della forma-canzone nel terreno bene arato del country psichedelico, e Future Myth che è una lunga e per lo più tranquilla cavalcata (otto minuti) melodica, sorretta ancora una volta dal cantato corale. Tra i momenti migliori di questa piccola nuova raccolta di brani vanno sicuramente annoverati, da un lato, l’impatto di Dylan Pt II che riecheggia i Built to Spill di Keep It Like a Secret e, dall’altro, quell’episodio compatto, piacevolmente e genuinamente anni settanta che è invece Raising The Sparks. La zona Angels of Light, la Side B, è molto più “classica”. Si parte con la cover di Dylan, in pieno stile Gira, di I Pity The Poor Immigrant e si prosegue in grande stile con il disordine regolato dei sette minuti di The Provider, fino ad una Mother/Father dai ritmi tribali che ancora una volta riprende le fila del decennale discorso idiosincratico e tematico dell’autore/talent scout ed ad un’accorata, potente, Come For My Woman. In molti hanno parlato degli Akron/Family accostandoli a The Band di Bob Dylan, personaggio qui omaggiato a più riprese. Il paragone si regge essenzialmente su di un’analogia fin troppo semplice: gli A/F come la Band negli Angels of Light di un Bob Dylan che è Gira. Eppure, come successe alla Band, il quartetto resta in piedi anche da solo, cammina bene, fa passi da gigante. In certi casi supera il maestro. E forse lo supera anche in questo split: i risultati sono quasi all’altezza dei rispettivi lavori precedenti, ma la parte degli Akron/Family nello specifico sembra muovere da coordinate leggermente differenti, finendo per risultare la zona davvero s a l i e n t e d e l d i s c o . I l c a n t a t o , a d e s e m p i o , l a s c i a t o s o l i t a m e n t e a R y a n Va n d e r h o o f o p p u r e a S e t h O l i n s k y, q u e s t a v o l t a c o i n v o l g e p i ù p i e n a m e n t e t u t t i i m e m b r i d e l l a b a n d f a t t a e c c e z i o n e per Oceanside, intonata dalla voce sorprendentemente tonda e piena di un Miles Seaton finora ufficialmente silenzioso. (7.5/10) Marina Pierri sentireascoltare 39 Kevin Blechdom - Eat My Heart Out (Chicks On Speed / Wide, 14 giugno 2005) La macilenta Kevin Blechdom (vero nome Kristen Erickson) stavolta l’ha fatta grossa. Partita in quarta in duo con Blevin Blectum (Bevin Kelley) a formare - alla faccia degli scioglilingua - le Blectum From Blechdom, con quel loro dischetto meraviglia di The Messy Jesse Fiesta (Deluxe, 2000), si è data alla carriera solista. Tra il 2001 e il 2003 registra tre EP di surreale computer-pop (The Inside Story e I Love Presets su T i g e r b e a t 6 e Yo u r B u t t s u D u dini), poi raccolti in Bitches Without Britches (Chicks On Speed, 2003), che spiazzano la critica. Coming, l’ouverture del nuovo album su Chicks On Speed non potrebbe essere più sfavillante: sormonto di pulsazioni eterogenee, ma tutte vitali nel loro slancio sonoro (sampler vibrante, synth elementare, gorgheggi, canto languido), florilegio Wendy Carlos del moog euforico, e finale esplosione con drum machine e coro gospel. Ed è tutto un susseguirsi frenetico di invenzioni spavalde, asprigne nelle loro associazioni di musical digitale, melodie burlesche e infantili, sonorità naif, sensibilità retrò, ma con un sapiente gusto vintage a riequilibrare il tutto. Così nei cambi di registro (cartoon, EBM, new romantic g l a m - o r i e n t e d ) d i To o M u c h To To u c h , n e l b r e v i s s i m o s i p a r i e t t o c l o w n e s c o d i Yo u G o t Yo u r l s e l f , n e l l ’ a p o c a l i s s i p e r MIDI e strilli vocali di Runaway Or Stay, nel kitsch cabaret di The Porcupine And The Jellyfish, nella gag a perdifiato di W h a t Yo u Wa n n a B e l i e v e , n e l l’assalto di Cypress Hill stil i z z a t i d i L o v e Yo u F r o m T h e Heart, nelle solenni storpiature poptroniche They Might B e G i a n t s d i To r t u r e C h a m b e r , nello Zappa schizoide di The- 40 sentireascoltare re Are Other People, la cara Blechdom mette a zittire tutti. Dall’altra parte abbiamo addirittura brani in cui quest’impavida cantautrice azzarda m o m e n t i d i r i f l e s s i o n e . D a y To Day è una ballad atmosferica banjo-driven non dimentica di citazioni doo-wop, Suspended In Love fa staffetta tra marimba sdolcinati e lentoni in tempo ternario, con parodia della Madame Butterfly annessa, e Johnny ripercorre surrealment e g l i W h o d i To m m y . Eat My Heart Out è un panegirico sonoro di parole d’amore argute e velatamete sibilline, il cui valore emerge soprattutto in opposizione ad arrangiamenti che sono - per contrasto - esuberanti, kitsch e chic ad un tempo. La Blechdom vocalist è impacciata e passionale, e tanto basta. Presente una traccia video contente Count d o w n To N o t h i n g , m i n i - m u s i c a l g i r a t o c o n L u c i l e D e s m o r y. (7.0/10) Michele Saran Susanne Brokesch - Emerald Stars (Chicks On Speed / Southern, 19 settembre 2005) La parabola artistica di Susanne Brokesch, ben lungi dall’attraversare fasi calanti, appare comunque in situazione stazionaria. Questa giovane produttrice austriaca (base ormai stabile a Vienna), il cui recente passato discografico è fatto di 7”, sonorizzazioni per happening e uscite su lunga distanza (Sharing The Sunhat, 1 9 9 7 e S o E a s y, H a r d To P r a c tice, 2003; entrambi su Disko B), approda al classico lavoro ambizioso negli intenti ma un po’ sfocato negli effetti. E m e r a l d S t a r s , i l t e r z o L P, è diviso - prima ancora che per tracce - in aree tematico-stilistiche. La più sponsorizzata, come pure anticipata nei live set in collaborazione con Jon Turi (anche co-ideatore e cocompositore), è quella centrale, composta da riletture digitali di alcune pagine pia- nistiche dell’illustre connazionale Hugo Wolf. Verschwiegene Liebe, Stille Liebe, Der Soldat, il doppio brano Nachtzauber e Nachtzauber (Fantasie), Das Staendchen sono revisioni aleatorie e stereofoniche dei temi originali del compositore, tramite trilli di suoni estatici, beat da pizzica digitale, scomposizioni di timbri. I brani che incorniciano questa zona classicheggiante sono invece meno pretenziosi, sebbene The Missing Records Are Private - vero punto forte del disco - sia una lunga digressione ambientale sfigurata da particelle digitali in gravitazione, ritmica instabile, eventi sonori rumoristici in subfrequenza. The Art Of Missing The Bus rotea tra melanconie Boards Of Canada e campanelli che generano c o n c e r t i a s t r a l i , e To G o B a c k è un’altra passerella stellare tra campioni di vocalizzi e andirivieni di sciami luminescenti. Like A Hologram è invece meno graffiante, anche a causa della parte vocale (che spulcia i lati peggiori di Mia D o i To d d e R a c h e l H a d e n ) , e Heroes (History - Mix) - remix della versione Oasis-iana del classico di Bowie, dai battiti trancedelici pronunciati, è soprassedibile. La quasi-title track che apre e chiude il disco (The Emerald Stars In The Sky e relativa Reprise) infine fa storia a sé: sostrato di percussioni, atmosfera cosmico-orrorifica data d a o s t i n a t i g r a v i d e l s a m p l e r, s y n t h t h r i l l e r. S u s a n n e B r o k e sch espone sopra tutto e tutti l’arte di procedere a corrente alternata: brilla negli accostamenti di turgido naturalismo, decadente classicismo e arcana magia cosmica, mettendone in reazione i tessuti di suono, si eclissa in parte quando crede di sorprendere le restrizioni di genere tramite il colpo ad effetto. La proposta di una loro obliqua rilettura, in ogni caso, è costantemente in evidenza. (6.5/10) Michele Saran Clue To Kalo - One Way, It’s Every Way (Leaf / Wide, 20 settembre 2005) Mark Mitchell, mente dietro i l p r o g e t t o C l u e To K a l o , s i può considerare come uno degli artisti più puri degli ultimi anni. Una contaminazione trasversale, un ibrido immaginifico, chiamatelo come vi pare; di fatto, a partire da laptop, folktronica, IDM e sampling soffusi, talvolta ne esce qualcosa di meno convenzionale del resto, della pervicace “scena” o “filone” che sia. Appunto, qualcosa di puro. Come il suo secondo album (seguito dell’esordio timidino di Come H e r e W h e n Yo u S l e e p w a l k ; Mush, 2003), quello con cui il ragazzo di Adelaide fa realizzare ai (pochi) seguaci di pubblico come sia in grado di fare sul serio. C o n b r a n i c o m e C o m e To M e a n A Natural Law è già spettacolo. Sax annunciatori, impasti di synth e un greve vocalismo creano una tensione tutta particolare, a-ritmica ma ugualmente marcata. La seguente accelerazione prelude ad una coda strumentale che ha tutta l’insostenibilità metafisica della Little Red Riding Hood Hit The Road di Wyattiana memoria. Nine Thousand Nautical Miles prosegue nella stessa direzione, con oasi di suono color pastello, andamento da walzer electro, vib r a z i o n i u m b r a t i l i d e l s a m p l e r, e una successiva metamorfosi impregnata di chitarre acustiche che porta alla trasfigurazione para-sinfonica della chiusa. La formula si ripete, mostrandone tutti i possibili risvolti armonici e timbrici. In The Just Is Enough emerge una dimensione maggiormente cantautoriale, con piano dolcissimo e chitarre cullanti, e un intermezzo strumen- tale da far invidia al miglior J J C a l e . T h e Te n s e C h a n g e s è quasi electro-raga d’estasi Mark Hollis, con evoluzioni smooth-soul in versi liberi. A s To m m y F i x e s F i g h t , d o p o un’altra sospensione ambientale, attacca con soavi incisi di piano elettrico e clavicembalo per poi alzarsi in un’apoteosi orchestrale di fiati e chitarre distorte, e in una finale danza campestre-digitale. Seconds When It’s Minutes è quasi un aggiornamento delle s o t t i g l i e z z e a c i d - f o l k d i To m Rapp, ma reso obliquo da cutup, cambi di tempo, parentesi strumentali. Riprendendo e fortificando un’idea electro-coloristica di p o s t - r o c k c h e f u d i F o u r Te t , Manitoba, Dntel e Pram, l’album impagina dieci gemme di montaggio sonoro-musicale, centrate su armonie diafane, forme asimmetriche, tonico slancio emotivo. Opera splendidamente ripetitiva, con un’idea palindroma sullo sfondo che corre tra Intro (The Yo u n g e r T h e O l d ) e O u t r o ( T h e O l d e r T h e Yo u n g ) c o m e un messaggero stilistico a scombinare strutture e increspare pattern su pattern. Nei live show Mitchell è aiutato da Curtis Leaver (chitarra) e Alan Beverley (batteria). (7.1/10) Michele Saran Constantines – Tournament Of Hearts (Sub Pop / Audioglobe, Ottobre 2005) Che oramai il marchio Sub Pop non sia più sinonimo di sonorità aspre e, in particolare di quelle, è un fatto. Siamo distanti anni luce dal grunge, ed il recente restyling ha fatto della label una prolifica fucina di talenti (Wolf Parade e Rogue Wave tra gli ultimi in ordine di tempo) spesso agli antipodi musicali con quelli dei tempi d’oro di Seattle. Una volta metabolizzato cotanto cambiamento diventa facile accettare – avendo anche a che fare con un generale esubero di offerta - sporadici passi falsi e qualche mela senza bollino. Sembra il caso di questa band canadese alla terza fatica, che non riporterà certamente indietro le lancette di quindici anni per l’etichetta di Seattle. Il quintetto - dopo il discreto successo del precedente Shine A Light (Sub Pop/Audioglobe, 2003) – si ripresenta con un disco che non brilla per originalità ma che si distingue per asciuttezza. Ora, aldilà delle considerazioni soggettive di ognuno e dei gusti personali, non si può negare che certi territori, musicalmente parlando, risultino sdrucciolevoli sia per pubblico che per critica, e parlando di soluzioni musicali come l’asciuttezza si può far notte. Per farla breve, da queste parti gli arrangiamenti scheletrici non hanno convinto. Per snellire la struttura delle canzoni ne vengono tarpate le ali, come una sorta di freno a mano. Tutto sommato il disco parte bene, con la batteria secca e corrosa dai riverberi di Draw Us Lines, e continua meglio, con l’incalzante Hotline Operators(!) che, divisa tra gentilezze à la Dulli e sferzate hard core, ben dispone. Se non chè la doppietta si rivela quantomai ingannevole, poiché il fuoco appiccato non viene ravvivato, e l’ambiente col passare dei minuti si raffredda sempre più. Il risultato è un disco spezzato in due parti, con un lato b inequivocabilmente non all’altezza. Mentre nella prima parte infatti trovano spazio anche la piacevolmente melodica Lizaveta – l’unica traccia ad essere risparmiata dalla moria degli arrangiamenti, potendone vantare di orchestrali perfino – e per l’alt-country della ballata Soon Enough, il resto della passeggiata non è certo accompagnato da rose e fiori. C’è davvero poca fantasia in questi 37 minuti e, tra un col- sentireascoltare 41 po al cerchio e uno alla botte, si giunge a una sufficienza senza infamia ne lode. In questi casi si usa dire che di un disco del genere nell’ anno 2005 non se ne sentiva propriamente il bisogno. Sposiamo la formula. (6.0/10) G i a n l u c a Ta l i a Francesco Cusa “Skrunch” – Psicopatologia del serial killer Switters – The Anabaptist Loop (Improvvisatore Involontario / Wide, 2005) Francesco Cusa, siciliano di Catania, è la mente che sta dietro al progetto Improvvisatore Involontario: una combinazione di artisti in maggioranza provenienti dagli ambienti jazzistici che, nella ricerca di nuove forme, puntano tutto sull’interdisciplinarietà. Un termine che dà l’idea di accademismo, ma che nella pratica si trasforma in un interessante (anche se un po’ ortodosso) approccio al jazz e al rock. Laureato al D.A.M.S. di Bologna, Francesco si forma professionalmente come musicista in questa città. Proprio qui entra in contatto con musicisti del calibro di Mirko Sabatini e Cristina Cavalloni, per poi entrare a far parte del collettivo Bassesfere, con cui partecipa al festival Angelica. E’ in quel periodo, una decina d’anni fa, che Cusa comincia a girare l’Europa, suonando con Paolo Fresu, Steve Lacy e Elliot Sharp. Questo suo exploit in campo jazzistico non gli preclude il rapporto con il mondo del rock, al quale pure si era sentito legato: dagli Zu a Roy Paci , sono svariate le escursioni del batterista quarantenne in questo ambito. Ma Cusa non si limita a suonare. Molto attento alla letteratura e al teatro (partecipa, tra l’altro, al collettivo letterario Wu Ming) sembra perseguire 42 sentireascoltare l’ideale ambizioso della correlazione delle varie espressioni artistiche all’interno della modalità performativa dell’improvvisazione. Il quintetto Skrunch (oltre a Cusa, autore e batterista: Carlo Natoli alla chitarra baritono, Paolo Sorge alla chitarr a e l e t t r i c a , To n y C a t t a n o a l trombone e Gaetano Santoro al sax tenore) di cui è a capo si muove proprio in questa direzione, unendo la recitazione alla musica. Difficilissimo dare un senso a un lavoro dal titolo Psicopatologia di un serial killer “ispirato liberamente a Il Giovane Holden di Salinger e agli scritti autobiografici di Frank Zappa”, se non attraverso il filtro di un sarcasmo totale e totalizzante. Alle voci di quattro attori (tra cui Saku Ran, famoso attore nipponico proveniente dall’esperienza del teatro No) spetta il compito di esprimere a parole la psicologia del killer attraverso brevi testi recitati, alla musica quello di commentare le parole o creare immagini autonome. Purtroppo non sempre la musica riesce a sublimare il sarcasmo e la grande fantasia creativa delle premesse. La schizofrenia del presunto killer si traduce in un jazz che non rifiuta quasi mai l’organizzazione, che poche volte sfocia nella libertà assoluta o nell’inatteso sorprendente, incanalandosi spesso e volentieri in un jazz-rock a metà tra Bitches Brew di Davis e i primi Soft Machine (Nonsense, Dr. Akagi): riff minimali e assolutamente rockettari introducono fiumi di assolo che superano anche i 15 minuti. E’ in Where’s S. Kubrick che meglio si compie la tensione espressiva di questo disco, con un riff roccioso alla chitarra elettrica e una digressione centrale ai limiti della psichedelia. (7.0/10) Nella seconda uscita della neonata etichetta-proget- to (distribuita in Italia dalla Wide), Cusa toglie i panni del leader per accompagnare il sassofonista Gianni Gebbia in t r i o i n s i e m e a V i n c e n z o Va s i (basso elettrico, voce e theremin). Switters è il nome del personaggio principale di un recent e l i b r o d i To m R o b b i n s : u n agente della Cia che ha preso una direzione totalmente autonoma rispetto alla sua missione. Ancora una volta una forte ironia di fondo al limite del surrealismo pone le premesse a un disco molto bello, anche se, anche in questo caso, un po’ ortodosso. Anche Gebbia è molto noto nei circoli jazzistici italiani (bolognesi in particolare). Lo ricordo per una stupenda performance insieme al batterista Lukas Ligeti (che qui mi viene in mente ascoltando le suggestive sfumature di Langley) durante la scorsa edizione di Angelica. Sassofonista di gran classe, non si abbandona mai al semplice rumorismo o agli estremismi zorniani ricercando in maniera quasi neoclassica un fraseggio molto vicino al largo respiro di Coltrane, senza però risultare antiquato. Questo disco sembra un vero e proprio omaggio al sassofonista americano, ma forse è proprio questo il rammarico. 17 brevi pezzi che esaltano il suono morbido, arioso e modale del sax di Gebbia, scorrono veloci in un disco che non si discosta quasi mai dai canoni del jazz classico. L’ a p p o r t o d e g l i a l t r i d u e m u s i cisti è importante ma mai determinante nel rapporto con il sax, che prevale praticamente sempre; si fanno comunque notare le fantasie di Cusa e la potenza imponente e sicura d e l b a s s o d i Va s i . Fa un po’ rabbia dover limitare il proprio giudizio su uno dei più interessanti jazzisti italiani solo perché non ha osato di più. Ma a conti fatti Gebbia recensioni Bonnie “Prince” Billie Summer In The Southeast (Sea Note/Wide, ottobre 2005) Un attimo di sconcerto: il vecchio Will s’è beccato il virus. Le conseguenze sono micidiali: chiusura della vena e via con la rivisitazione ad libitum del campionario (di norma il proprio, se occorre anche quello altrui). Pare che ne siano particolarmente colpiti i post-dylaniani, specie quelli con la barba da patriarchi e la solennità nel taschino. Da noi ha fatto clamore il caso De Gregori, che dopo oltre un quindicennio ancora stenta ad uscirne (è lecito dubitare che ce la faccia). E il principe Billie? Prima ci spiazza con un “best of” in chiave Nashville (il buon Sings Greatest Palace Music dello scorso anno), e oggi raddoppia con la qui presente antologia live. Tutto ciò nell’imminenza della pubblicazione di un disco di cover assieme ai To r t o i s e . C o s a p e n s a r e , d u n q u e ? D a v v e r o q u e l l a s p l e n d i d a , d o l e n t e v e n a s i s t a o t t u r a n d o ? Boh. Intanto, però, c’è questo Summer In The Southeast, dove ben 17 titoli - dal periodo Palace fino alle più recenti uscite in solitario – vengono letteralmente sbattuti sul palco a far vedere ciò che possono (ancora). Ovvero, la dimensione live permea, preme ai bordi, forza le strutture, trasfigura: prendete all’uopo una Break Of Day o una Ease Down The Road, felicemente strigliate da un vivido piglio folk-psych (quasi come certe cosine dei Grateful Dead meno visionari), o l’iniziale Master And Everyone, dove gli scheletri sono sparpagliati da una febbre acida che r a m m e n t a c e r t e m i n i m a l i s c o r r i b a n d e Ve l v e t U n d e g r o u n d . I t r e m o l i i , i l c i n c i s c h i o c o u n t r y r o c k , quel caracollare come una trottola sul punto di fermarsi, gli incanti e i disincanti intossicati: c’è tutto quello che ci saremmo attesi, ma c’è anche un brusco fare i conti con gli spigoli, la polvere, l’elettricità, il tirarsi l’un l’altro che s’innesca sui ogni palco seminato a rock. Quindi è uno sgomitare contro i limiti e le limitazioni, un cavalcare le immancabili avversità, il tentativo di domare il flusso imbizzarrito, riuscendoci in fin dei conti malgrado tutte le sbavatur e , r i u s c e n d o c i a l l a l u c e d i u n a f r a n c h e z z a d i s a r m a n t e c h e f a p a l p i t a r e B e a s t F o r T h r e e e Ta k e H o w e v e r L o n g Yo u Wa n t d i q u e l p o c o c h e è l o r o r i c h i e s t o , c h e a n n e g a l a s o l e n n i t à d i P u s h k i n o l a s t o r t a a l l e g r i a d i S e n d M y L o v e To Y o u n e l l ’ u b r i a c a t u r a d e l v i a g g i a r e ( e d i q u a l c h e b i c c h i e r e di scotch). Una franchezza che non prevede virtuosismi né contempla fedeltà, non levigatezze né zampillii cristallini, ma solo di regolare al massimo ogni questione, con la calligrafia – se non con la competenza – che nessun altro possiede. Che nessun altro possiede. Godetevi dunque una Wolf Among Wolves che sembra inzuppata nelle onde di una sperduta spiaggia younghiana, una Death For Everyone inturgidita di watt, una Madeleine Mary dal cuore nero e sanguinante come un Jason Molina d’annata, una O Let It Be che gironzola tra Crazy Horse, Nirvana e allucinazioni The Doors, e ovviamente una I See A Darkness che procede come un tronco cavo da incendiarsi lungo il cammino. Insomma, l’avrete capito: scherzavamo. Nessun virus per Will Oldham. Solo un’altra delle sue. Fatta piuttosto bene, anche questa. (6.7/10) Stefano Solventi sentireascoltare 43 suona benissimo e il suo stil e è b e n r i c o n o s c i b i l e ( S e r o v, Mustang Sally Blues), il trio dà l’impressione di essere molto affiatato, ma non fa venire i brividi. Da premio, comunque, la conclusiva Ballata delle multinazionali (andamento sornione e basso funkeggiante) e Salvatore Pagano, uno dei brani in cui meglio viene fuori lo stile più originale ed espressivo di Gebbia, fatto di piccoli sussulti che si trasformano progressivamente in bellissimi fraseggi. (7.0/10) Daniele Follero Dirotta su Cuba - Jaz (Jazzet / Edel, novembre 2005) Non lo definirei un ascolto coinvolgente. Anzi. Perlopiù scorre via come acquetta colorata. Quasi non ci fai caso e - oplà - non c’è più. Eppure, continuo ad ascoltare. Così amichevole, ma così distante. Distante dall’idea che il pop, per quanto divertente/ spensierato, debba portare i segni del travaglio (essendo l’espressione sempre e comunque soggetta ai processi di nascita, come qualsiasi creaturina viva). Un’idea che comporterebbe l’immediata archiviazione di questo Jaz. Ma anche un’idea del cazzo, a ben vedere. E infatti - oplà - altro giro altra corsa col pop dei Dirotta su Cuba. Che non mi fa impazzire, che non mi sposta di parecchio l’umore, però piacevolmente mi distrae, mi coccola a furia di exotic-mambo dolciastri e sbruffoncelli, di jungle-jazz adrenalinizzati James Bond, di soul-funk dal groove gommoso, di tropicalismi vaghi e svagati... Ci sono queste melodie semplici, immediate, conformi ad un design vivace che non ammette pieghe o sbavature. Sembrano superfici che quasi puoi toccare, sensazione tattile levigata, da polimero inscalfibile, eternamente tiepido, impermeabile. Tutto ciò può suonare artificioso, invece è la lo- 44 sentireascoltare gica conseguenza di un gioco giocato nel pieno rispetto delle regole, imposte dagli stessi giocatori. Lo stesso potrei dire di Marquica, o meglio della sua voce, da sirena vamp, da side-woman flessuosa, da club fumettistico/cinematico, meno torbida che morbida, più squillante che eccitante. Ma a convincermi è soprattutto la folta leggerezza delle orchestrazioni, nelle quali convivono tastiere calligrafiche e globuli elettronici, trombe diafane (virtuali?) e sax starnazzanti (reali), ulteriori ottoni e fatui legni (a cura della Fantomatik Orchestra), acide svirgolate di hammond e tremolanti sgocciolii di Rodhes, eppoi inusitati miasmi western, bassi elastici e corposi, cori ora imprendibili ora impellenti tipo Sly e famiglia di pietra... Il coktail viene servito con una certa disinvoltura, scende in gola come potrebbe un moderno Carosone passato al setaccio Art of Noise. Fidando tantissimo sulla guarnizione, ovverosia la confezione: i pastelli very stylish, la complessa rilegatura, le fincature morbide, credits a profusione, ogni pagina una sorpresa, persino il dischetto stampato a mo’ di vinile, insomma se non è il package più sfizioso della storia poco ci manca. Il che sposta il discorso altrove, più o meno sul punto della questione: che Jaz vada cioè trattato al modo di una strepitosa idea regalo, gradevole per chiunque spiacevole per nessuno, irresistibilmente generica nella sua ricercatezza, irreprensibilmente potabile e t r e n d y. N a t a l e è a l l e p o r t e . Pensateci. (6.2/10) Stefano Solventi Dorian Gray - Tempi Supplementari (K-Factor – Shinseiki / Audioglobe, 2005) Erano gli inizi degli anni Novanta quando i Dorian Gray scorazzavano per gli allora poco illuminati bassifon- di dell’underground italiano. Una parabola artistica che durò giusto il tempo di tre album – dal ’92 al ’98 – e qualche soddisfazione personale – tournée in Cina quando era ancora territorio off-limits - e che, a quanto pare non tutti hanno dimenticato, se è vero che ora la K-rec ne ripropone una rivisitazione gustosa con q u e s t o Te m p i s u p p l e m e n t a r i . A sentire i diretti interessati, si tratterebbe di un progetto discografico di natura semiantologica, una sorta di raccolta canonica degli episodi più significativi nobilitata da qualche versione remixata di vecchi brani e da una traccia video. Interessante il risultato finale, che al di là delle reali motivazioni di fondo serve comunque a dar voce ad una realtà forse defilata e un tantino fuori tempo - considerati i canoni estetici attuali - ma qualitativamente tutt’altro che trascurabile. A dimostrarlo una formula che sa mescolare chitarre taglienti e generose basi elettroniche, depressioni vocali e malinconie meccaniche, dilatazioni lisergiche e ritmiche quasi tribali e che dà vita ad un immaginario sonoro legato in ugual misura agli anni Ottanta più oscuri e a direttive quasi industrial. Tra le cose migliori del disco spiccano i tre minuti arrembanti della barrettiana Astronomy Domine, innalzata dalla band a rapido succedersi di riff granitici di chitarra e scambi di batteria, il balbettante incedere di Anni Striscianti e il remix alla Trent Reznor de La Conoscenza Del Fatto, che con i suoi nove minuti decadenti ed ipnotici costituisce lo zenit emozionale di tutta l’opera. (6.3/10) Fabrizio Zampighi Dottor Livingstone - L’assenza (I.Presume / EMI, ottobre 2005) È un marchio, il Festival di recensioni Pattern Is Movement Stowaway (Noreaster Failed Industries, 13 Settembre 2005) ll fatto che l’anno scorso l’esordio di questa band americana sia stato praticamente ignorato rende l’idea di quanto vasto e dispersivo sia, allo stato attuale, il panorama della popular music. Per fortuna il quartetto originario di Philadelphia non ha tardato a ripresentarsi con un secondo album, ancora più bello del precedente e che invoca giustizia. La novità di Stowaway rispetto a The (Im)possibility Of Longing (Noreaster Failed Industries, 2004) è l’entrata in scena di Alisa Rose (violino) e Rachel Turner Houk (violoncello) accanto al nucleo principale composto da Corey Duncan, Daniel McClain, Christopher Ward e Andrew Thiboldeaux. E la differenza si fa notare immediatamente, con gli archi che spesso seguono la stessa linea melodica della voce, creando un effetto di amplificazione timbrica del cantato che ricorda molto lo stile del Robert Wyatt solista. Le influenze canterburiane nei Pattern Is Movement - volute o involontarie che siano - non possono del resto passare inosservate, ma il riferimento a certo progressive degli anni Settanta non risulta mai diretto, impregnato com’è di post-rock. In un percorso musicale coerente sembrano incontrarsi le anime più innovative di certo rock “colto”, che da più di trent’anni si diverte a decostruire la materia originaria per creare qualcosa che ne oltrepassi i confini: dai S o f t M a c h i n e a i S o n i c Y o u t h , d a i To r t o i s e a g l i G a s t r D e l S o l , d a g l i S l i n t a B r i a n E n o . Stowaway è un disco senza sbavature. La musica dei Nostri sembra giocare direttamente con il concetto di pattern preso a prestito dal nome: frasi brevi, reiterate e accostate al fine di creare un movimento delle immagini dall’apparente staticità, come in un montaggio cinematografico d i S e r g e j i E j z e n s t e i n ( v e d i i l r i t m o o s s e s s i v o d i P e o p l e A n d To u c h o l e r a p i d e t r a s f o r m a z i o n i della batteria cutleriana di Never Liked This Time Of Day, alla ricerca di dialoghi melodici con il violoncello e la chitarra). Una spanna al di sopra di tutti gli altri brani dell’album sono poi She Already Knows It e Silver Queen, che incarnano alla perfezione - accentuandole - le due principali idee costitutive del loro sound: se nella prima viene fuori l’approccio più nineties, con la fantasia a richiamare degli Slint senza distorsioni, ma intrisi di tastiere (ritmi squadrati, un po’ math, addolciti dagli archi), nella seconda invece una batteria convulsa e una chitarra più graffiante, unite al violoncello, ricordano la triade Cutler-Frith-Born, nucleo fondamentale di Henry Cow e Art Bears. Molto interessante ed efficace anche la presenza di tre brevi interludi, che spostano l’attenzione su suoni dal sapore più ethno, come nel caso di una Korà africana (o l’imitazione del suo suono, non ci è dato confermarlo) che si inserisce tra gli altri strumenti a corda per dare vita a un affascinante gioco poliritmico. Peccato non poterli vedere dal vivo in Italia, almeno per ora. Un (8.0/10) senza se e senza ma. Daniele Follero sentireascoltare 45 Sanremo. I Dottor Livingstone ci sono passati. Ci hanno fatto, ci fanno, ci faranno i conti (giusto o sbagliato che sia). Non che questo sembri scoraggiarli, così come il fatto che nel frattempo la CGD li abbia scaricati. Oggi, rivisto l’organico, fondata un’etichetta propria (denominata - con puntuale senso del calembour - I.Presume), tentano il contropiede col terzo album, perseguendo un pop ammiccante, figlio di tante influenze e altrettante riverenze, perlopiù sintetico ma capace di ricercatezze “da camera”, felicemente semplificato però mai “facile”. Quest’ultimo aspetto, soprattutto, mi sembra lampante: anche quando con Sulla mia pelle sembrano l’ibrido perfetto tra i Depeche Mode e i New Order più melodici, anche quando con Ci sei sempre tu il ritornello consuma una melodia piuttosto scontata, c’è sempre un ingrediente che perturba o mitiga, che stilla preziosismi nell’infuso, che sia lo strisciante languore Portishead,o quelle chitarre algide/spezzettate memori d’animali floydiani, o ancora quel sitar che nobilita l’etno funk divertito di Tutto è relativo, o lo pseudo clavicembalo tra gli sfrigolii e l’urgenza di Anna. Nella diffusa padronanza di mezzi e strutture, nella sostanziale felicità dell’ispirazione, manca forse una specificità forte, manca uno scarto più netto dall’aura Subsonica (che pervade ad esempio la funkeria ghignante di Strega), manca alla voce di Anna Basso - comunque bella - l’artificiosità umana o se volete il calore inumano di una Goldfrapp (ciò che avrebbe forse reso irresistibile il malioso arazzo electro soul – archi orientaleggianti, algebriche palpitazioni Battiato, post trip-hop ingentilito rhodes di Mai più). Forse però la carenza decisiva non è di quelle 46 sentireascoltare che si possano biasimare: mi riferisco, signore e signori, al genio. Quel genio che non s’inventa, non si compra, non si fa. C’è, o non c’è. Ci fosse stato, Piccolo attimo sarebbe più che la gradevole commistione Mùm-Depeche Mode, il tango fanciullesco di Resto a letto si sarebbe smarcato dai lampanti sospetti Ustmamò (evitando magari il ricorso a quell’orrido sax zuccherino, nel senso – ahinoi – di Fornaciari), avremmo guardato più alla sostanza di Le ragazze di Osaka che non al guizzo d’averla voluta rivisitare (non male comunque né l’idea né il risultato; l’originale – per la cronaca – è di Eugenio Finardi). Alla fine non è un caso che d e L’ a s s e n z a s i a n o p r e s e n t i due versioni, la prima sbrigliata lungo asciuttezze ritmiche Underworld e sulla di loro strisciante stilizzazione/trasfigurazione degli eighties, la seconda preferibile per quell’abbandono soul tra synth alieni, un piano “ingenuo” e il gioco d’archi avvolgente. Una dimostrazione di versatilità, certo, che però tradisce anche la mancanza di una direttrice preminente: resta la sensazione che avremmo potuto imbatterci in altre due, tre, dieci versioni dello stesso pezzo, anzi di ognuna delle canzoni in scaletta. Trovare l’inappellabile versione di se stessi sarà il prossimo esame per i Dottor Livingstone. (6.3/10) Stefano Solventi Early Man - Closing In ( Matador/Self, 2005) La prima notazione fondamentale che viene alla mente durante l’ascolto degli Early Man riguarda l’etichetta che lo licenzia: come diavolo è possibile che la blasonata Matador Records, già al lavoro con personaggi di grande calibro e stimatissima label dedita alla divulgazione di una sorprendente varietà di generi musi- cali abbia deciso di dare alle stampe questo Closing In? Il dilemma si rende sempre più ossessivo man mano che i brani si sostituiscono gli uni agli altri, vomitando una febbricitante agonia di chitarroni come non si sentivano da trentacinque anni a questa parte. I Motorhead come, fortunatamente, non li avete mai sentiti, con voci in falsetto e non una sola nota di originalità o quanto meno di ironia. Non dubito però che qualcuno li possa comunque apprezzare, il cattivo gusto è proprio di questo mondo. (2.0/10) Michele Casella FdB – Manuale per funambolisti (K-Factor / Venus, 2005) Chi siano i funambolisti del titolo del debutto discografico d e g l i F. d B n o n è d a t o s a p e r lo. Certo è però che i quattro musicisti nascosti dietro alla sigla non danno l’impressione di essere gente a cui piace perdersi in disquisizioni inutili, impegnati come sono a far urlare le chitarre, picchiare la batteria e vibrare le corde vocali. Se ne sarebbe accorto anche un bambino, figuratevi se poteva sfuggire ad uno navigato come Giorgio Canali, che qui approfitta dell’occasione per indirizzare le spinte creative della band in almeno un brano - ?Maida - pescando a piene mani da quell’immaginario ruvido e graffiante che è la sua attuale estetica di riferimento. L’ i n t e r v e n t o c i r c o s c r i t t o d e l l’ex C.S.I. nobilita il suono e influenza il mood di tutta l’opera, a testimoniarlo lo schema doppia chitarra, basso, batteria su cui si regge il disco. Una soluzione strumentale che sfiora territori quasi punk nella già citata ?Maida, alternanze dissonanti in Ecco un esempio, stoner da appartamento in Genetica, quattro quarti in bilico tra silenzi e rumore in 102 anni. A cavalcate di watt talvolta non lontane da certi – vecchi – Afterhours, si alternano momenti di stasi riflessiva che, pur tradendo una certa ricerca – soprattutto nei testi - paiono tuttavia meno incisivi delle prime, in virtù di scelte melodiche non del tutto chiare e per qualche incertezza formale. Si parla tuttavia di facezie più che di difetti veri e propri, che non impediscono di considerare Manuale per funambolisti un’opera comunque riuscita. (6.0/10) Fabrizio Zampighi Marta Sui Tubi - C’è Gente Che Deve Dormire (Eclectic Circus / V2-Edel, ottobre 2005) Due anni dopo il debutto, i Marta sui Tubi ritornano ancor più potenti di come li avevamo lasciati. Parlano, cantano, sussurrano, lasciano in libertà le frequenze radio, si ficcano il r’n’r nelle vene (omaggiando i padri Beatles con una rispett o s a To m o r r o w n e v e r k n o w s , oppure chiamando Bobby Solo quale inopinato – ma plausibile - cerimoniere), rappano con il piglio acido dei Red Hot Chili Peppers, chiamano amici e compagni di sventura a cantare e controcantare (Moltheni, Benvegnù, Enrico Gabrielli, Sara Piolanti), si scavano dentro una nostalgia che sa di qualcosa lasciato indietro, non-dimenticato, indigerito… Già dalle prime note, da quella Via Dante che rende cosmica un’insoddisfazione periferica (tra Jimmy Page e la tarantella, tra Dante Alighieri e – appunto! - Bobby Solo), l’album mostra tutta la forza che sciorinerà senza sbavature lungo l ’ i n t e r o p r o g r a m m a . Ve r a c e l a meridionalità, sgorgante il testosterone, palpabile il colore sulla pelle e blasfemo l’amore per la melodia nostrana. C’è molto sberleffo, ironia, gioco di italiani emigranti che rifanno gli italiani all’estero, pro- verbiali pasticche emo-energetiche che un po’ – ebbene sì - fanno pensare ad un’altra coppia magica del rock, Eddie Ve d d e r e S t o n e G o s s a r d ( c o m e in Perché non pesi niente, scioglilingua a voci intrecciate con la chitarra a spandere clangori ritmici e armoniche speziate, oppure nella ballata amarognola di La tua argenteria, dove gli struggimenti Ve d d e r s i s t e m p e r a n o c o n u n Dalla giovane visionario). L’ a l b u m r e s p i r a d i u n a c i t t à . È Milano. Milano che sostituisce la sonnolenta e placida Bologna. Quel capoluogo che macina le ore, che non dorme. I Nostri lo vivono con il proverbiale spirito degli emigranti di giù, dei compagnoni che dopo pasta-al-sugo-condominio escono per le strade e rantolano, sognano, s’ubriacano. Nervosi lo erano prima, agitati lo sono ora: ma è quello stato insofferente ed esuberante per nulla parente dello stress dei cittadini della metro, neppure del via e vai delle case e degli uffici. Una nevrosi fruttuosa che sfocia nell’art-rock à la RUNI d i L’ a m a r o a m o r e ( t r a p u n g o li sintetici e ritmica funk, tra bass-clarinet e febbrili accelerazioni) e nel folk-blues di Ti mento (che rimanda a certo John Martin indemoniato), trovando un principio di requie nel folk blues di Cenere, dove i vocalizzi ossequiano una lunare inquietudine da fare invidia al primo (e migliore) Dave Matthews. Ok, un po’ si sono imborghesiti, certo, ed è un bene finché significa guadagnarci in consapevolezza, ciò che li rende capaci di giocare in libertà con le strutture, sciorinando u n a d i s i n v o l t a L’ a b b a n d o n o , nuda e cruda e complessa assieme, con quel quasi-recitato nostalgico/esistenziale che va a risolversi nelle ostinate sovrapposizioni di archi e voci. Il loro, ora più che mai, è il viaggiare da Italiani Storici, di chi si muove là dove li porta il lavoro. E la vita. C’è bisogno di loro. (7.5/10) Stefano Solventi e Edoardo Bridda Forastiere - Circolare (Accordature Aperte/3Lune Records, ottobre 2005) Il pop-rock è una bolgia, un circo, un tugurio: si sgomitano sensazioni in eccesso, iridescenze caudali per riff turgidi, dozzinali uncini melodici un tanto a spot, accumulo stilizzato di pattern e strategie di seduzione. Forastiere, invece. Pino Forastiere si presenta con un’opera seconda che probabilmente nessuno troverà il tempo di amare, o quel poco di forza che basterebbe ad affrontarla, a confrontarla con quel che dentro circola e cova. Una chitarra. E basta. Null’altro, perché non c’è modo di infilare nell’elenco dei credits la materia di cui sono fatte queste tracce (canzoni?), traiettorie incrociate e singulti in bilico e meditazioni da cantilena serale mentre l’oriente veste e sveste umori l a t i n i . L’ a n i m a d i F o r a s t i e r e è indigena e forestiera: gentili follie folk-blues, riverberi tiepidi e sospensioni delicate, sudamerica e oriente, il fingerpicking che collassa su pennate sferzanti, la melodia che si estenua per abdicare d’un tratto al richiamo del ritmo. I miraggi Red House Painters dell’iniziale In.Out o l’invasamento John Martyn di Full. Oppure la ballata fiabesca, un po’ filastrocca per bambini un po’ trepida meditazione adulta, di Lo gnomo. Oppure l’avvitarsi di una serafica uggia Tim Buckley nei trapassi blues, nelle vibrazioni tese, nelle ostinazioni angolose di Dominic (dedicata a Dominic Frasca, musicista sperimentale newyorkese). Oppure il J a m e s Ta y l o r c o l t o d a e s t a s i muta di Ripresa, o gli esotici struggimenti Jim O’Rourke di Nordamerica. Oppure quel sentireascoltare 47 soffio mediterraneo che da Scirocco (traccia numero 9) a Moresco (traccia 12 e ultima) carezza lieve tentazioni da tarantella blues, i riff corposi che s’inclinano rock (Marecorrente), spampanandosi jazz, ombreggiandosi flamenco. Furtiva e solenne, ma sempre di una gentilezza imbarazzante, la musica di Forastiere non permette alla tecnica (puntuale, puntigliosa, rodata da esperienze in ambito etnico, jazz e sperimentale) di soverchiare la comunicativa. Ne risulta un disco prezioso, un disco-isola che ha l’ambizione un po’ disperata di definire punti di contatto e connessione più vivi, col mondo e nel mondo. (6.9/10) Robb – genuflesso sul mausoleo di Strummer – e dal fascio di chitarre (ben tre) intento a stampare pleonasmi post-’78. Non basta quindi l’apprezzamento di un Morrissey (la cui influenza peraltro si rintraccia nell’uso dei cori) a sollevare questo quarto album dei Goldblade al di fuori dei confini del genere, nel cui perimetro invece costituisce sicuramente un evento. (6.0/10) Lorenzo Filipaz Liz Janes & Create(!) - Self Titled (Asthmatic Kitty / Wide, 4 novembre 2005) Non c’è molto da stupirsi a leggere del successo che i Goldblade hanno riscosso in Russia, non solo per le inflessioni nazionali che il pubblico dell’Est può aver colto in un brano come Stereo Gangsta, ma soprattutto per via dell’identità ultra-territorializzata che il gruppo inglese spiattella visivamente e musicalmente, di facile presa presso culture “vergini” più sensibili alle “uniformi” di genere. Così proclami anti-governo Forse è presto, dopo appena due album in studio (marchiati a fuoco nel suono e nella p r o d u z i o n e d a M r. A m e r i c a Sufjan Stevens), confrontarsi con il passato, se poi parliamo di un passato ingombrante come quello dell’America rurale, fatto di folk, gospel, spiritual dalla forte connotazione religiosa e dalla grande valenza che in quella cultura assumono. Potrebbe sembrare - e non nascondiamo il dubbio che in realtà lo sia - un riempitivo, un modo per ovviare alla mancanza d’ispirazione, un po’ quello che succede con i cover album. Ci si accosta così con una certa diffidenza a questa omonima nuova uscita di Liz Janes e del collettivo free jazz Create(!), di casa a Los Angeles, (sacrosanti, per carità), ribellismo proletario e punk melodico in abbondanza convergono al millimetro con look, note di copertina e titoli battaglieri. Non mancano le sporadiche uscite dagli schemi: oltre alla già citata kalinka punk di Stereo Gangsta, un surf marpione da Pulp Fiction spunta dalle note di Fighting In The Dancehall, mentre il classico riff di Jack The Ripper alimenta All We Got Is Rebel Songs e un’anomala anima swing si manifesta in Government Lies. Ma il tutto è seppellito sotto il rauco canto Oi di John che senza troppe remore vanno a ripescare vecchi standard tradizionali rimpolpandoli di fresca linfa vitale. Il risultato, contro tutte le aspettative e le rimostranze del caso, è notevole, ma d’altronde che la ragazza avesse una certa familiarità e sapesse maneggiare con estrema cura la materia era già evidente con il precedente Poison & Snakes (2004). In questi sei brani la maturità della sua voce cresce, mostrando le sue complesse architetture, tra acute volte e profonde cripte, sminuzzando Stefano Solventi Goldblade – Rebel Songs (Captain Oi / Foreign Affairs, 2005) 48 sentireascoltare gli arrangiamenti e ricomponendo i pezzi a suo piacimento, nella prospettiva di una moderna destrutturazione della memoria storica. Ed ecco che Lonesome Valley diventa una ballata cristallina dai colori del mare, con l’arpeggio di chitarra ad indicare la rotta e il banjo a illuminarla, mentre Be My Husband sprofonda, trasfigurata, in un abisso di rumori, di colpi di spazzole e piatti che accompagnano un sussurro greve (affine per trasporto e pathos alla versione di Nina Simone), lo stesso vale per il ronzio di All The Pretty Horses, tre minuti di preghiera pagana. Con Jesus Is A Dying Bed-Maker l’orizzonte si apre a influenze jazzistiche più canoniche, volatili, ma non per questo imprecise, tutto il contrario di quanto succede in Run, Old J e r e m i a h / K e e p Yo u r H a n d On The Plow, in cui la sezione ritmica (percussione e battiti di mani) guida un accelerato blues aperto da un classico coro gospel, con la voce di Liz imbevuta di alcol e arrochita dal fumo. Sigilla questo excursus una tenue Careless Love, che si innalza tra controcanti e fiati penetranti, a ricordare quanto un classico possa far bene all’anima. Non un lavoro originale dal punto di vista compositivo, dunque, forse a tratti anche frammentario, ma sicuramente una lodevole rivisitazione che mostra il coraggio e il carattere di Liz Janes, in attesa di avere presto sue notizie. (6.9/10) Va l e n t i n a C a s s a n o Jonathan Kane - February (Table Of The Elements / Wide, 2005) Cofondatore degli Swans, chitarra ritmica di Rys Chatman e L a M o n t e Yo u n g , J o n a t h a n Kane, al primo lavoro solista della sua proteiforme carriera, cita compulsivamente lo stratificarsi del sound chatamiano, ottemperando alla pro- recensioni Why? Elephant Eyelash (Anticon, 2005) Che la fine dei cLOUDDEAD abbia portato alla scissione di quell’anima una e trina che ha generato due tra i migliori dischi di inizio millennio, lo si era già notato nell’esordio solista di Odd Nosdam e nella miriade di progetti solisti messi in campo con una disarmante prolificità da Dose One. Una scissione che ha messo in risalto gli ingredienti costituenti il sound del trio: da una parte l’ambient, dall’altra l’hip hop più sperimentale e avanguardista. Ascoltando Elephant Eyelash si capisce subito da dove proveniva quel terzo elemento, quella spiccata vena m e l o d i c a e p i ù s i n c e r a m e n t e p o p c h e c a r a t t e r i z z a v a Te n . U n t e n t a t i v o s p i a z z a n t e q u e l l o d i Yo n i W o l f a k a W h y ? , c h e s i improvvisa cantautore. Un tuffo nel pop che si lascia alle spalle le esperienze precedenti in maniera più radicale rispetto agli altri due ex compagni d’avventura. Il musicista di Oakland non si allontana mai dalla forma canzone, dando molto spazio alla chitarra e al pianoforte, ma senza tralasciare le tessiture elettroniche in perfetto stile Anticon. Un azzardo per la stessa etichetta newyorchese, che per la prima volta promuove un album molto lontano dai suoi pur molto ampi confini musicali. La delusione di chi ha amato i cLOUDDEAD potrebbe essere molto forte al primo ascolto. Eppure (almeno è quello che è successo a me), questa delusione lascia il posto molto velocemente al sincero e piacevole sentimento di leggerezza che può suscitare un buon disco pop. E non dico avant perché la parola non gli si addice. F r a s i s e m p l i c i , r i t o r n e l l i p o c o a r d i t i m a c h e s p e s s o f u n z i o n a n o a m e r a v i g l i a ( R u b b e r Tr a i t s ) , l’hip hop appena sfiorato di Crushed Bones, canzoni che starebbero benissimo (e magari gli donerebbero un po’ di freschezza in più) in uno degli album degli U2 (Gemini; il riff di chitarra di Sanddollars che sembra quasi campionato da Zooropa), una voce fragile, mai sopra le righe, a tratti ingenua e delicata. N o n m a n c a n o l e b a n a l i t à ( l e r o m a n t i c h e r i e u n p o ’s c o n c l u s i o n a t e d i Yo Yo B y e B y e ) , c o m p e n s a te ampiamente dalle atmosfere un po’ più tese di Waterfall, il pezzo che più ricorda il recente passato di Why? Alla luce di questo esordio il signor Wolf sembra avere buone possibilità, viste le premesse, di uscire dalla penombra in cui amano muoversi gli artisti della Anticon e proiettarsi verso un pubblico più indifferenziato e meno radicale. In parte ci auguriamo che questo avvenga, considerato l’apporto che la sua ottima vena di songwriter potrebbe fornire al pop. Ma che non se ne allontani troppo.. (6.5/10) Daniele Follero sentireascoltare 49 pulsione seventies del krautrock alla Neu!. Peccato, si fa per dire, dover fare i conti con il blues… Cinque brani cinque d’eccellente, decibelistico, power blues minimale e giudizioso; ispirazioni dilatate, quasi cosmiche; una mente autostradale, proiettata nelle ombre di ciò che è a venire. Il viaggio inteso più come tappa che come trip, salva però il nostro dalle secche orchestral i . L’ a l b u m c o n f e r m a a n c h e l e personali, di tappe: la storia di un uomo e di un artista di culto e, se nel traditional Motherless Child, si possono auscultare lagne di psicopatologia autoreferenziale, in Curl avvertiamo un senso di familiarità pregressa. Una nostalgia. Un blues catartico alligna sopra un drumming solido e ingenuo, dronico. Certi Skullflower tornano a ronzare alle orecchie, quantunque l’approccio fiorisca radicalmente diverso. Prendere un riff non è difficile; alterarlo, addizionarlo, sottrarlo, tenere un buon ritmo senza annoiare: questo non è tanto facile, come attesta un esagerato numero di albums tediosissimi troppo frettolosamente distribuiti. L’ a n i m a d i q u e s t i s u o n i , t u t t a via, è morfinomane ma con un cuore diastolico che non crepa mai. Lo si capisce fino alla fine, in quel dead end in cui si caccia per altri 12 epici minuti di circolarità a pelle, sanguigna, lavica di colate deltoidi. Pops riduce notevolmente le distanze, un melting pot senza gloria, e Sis immagina un’ipnotica ballata scheletrale, minimale e saltellante, una totentanz di krafterkiana pulsione. Profondità dense e tremendamente entranti, perigliose; albeggi impressivi, brividi di futuro. Un avvenire evocato in backwards e in forwards, all’unisono. Il tipo di suono affabulatorio, tintinnante, appestato: una musica che possiamo raccogliere in una notte di luna piena 50 sentireascoltare in qualche sperduto villaggio fantasma dell’Aspromonte, lontano dai bagliori del rumore e col classico whiskey stretto in mano. Come nella Ta v o l a d e g l i E l e m e n t i , a p e r i o dica però. (7.2/10) Antonio Amodei Kill The Thrill – Tellurique (Season Of Mist / Audioglobe, 2005) Formatisi nel 1989 a Ginevra, i Kill The Thrill vantano un curriculum di tutto rispetto. Nati come trio, Nicholas Dick (voce, chitarra e prog r a m m i n g ) , M a r y l i n To g n o l l i (basso voce e programming) e Frederick de Benedetti (voce, chitarra e programming) hanno esordito al fianco di mostri – quasi - sacri del rock anni ’90, facendo da supporto ai concerti di Killing Joke, Big Chief, Einsturzende Neubaut e n e Yo u n g G o d s . L ’ i n f l u e n z a diretta di questi ultimi è particolarmente evidente nella musica dei tre svizzeri, complice la produzione di David Webber (Treponem Pal e, appunto, Yo u n g G o d s ) p e r i l p r i m o a l bum della band, Dig (1993). Dopo la pausa di De Benedetti, assente nel secondo album del 1996 Low (assenza che ha propiziato la collaborazione esterna di Erkam), il trio si è ricompattato in occasione della terza uscita, 203 Barriers (1999) ed ha provato a contenere la furia degli esordi attraverso una musica che, pur attingendo a generi di per sé “estremi” come l’industrial, si mostra più attenta alla composizione e meno spigolosa nelle sonorità. Sono queste le premesse che conducono a Te l l u r i q u e , q u a r t o c a p i t o l o della discografia dei Kill The Thrill. Per quanto l’impostazione e il sound nel suo complesso richiamino il metal nelle sue espressioni più “pesanti” ( d o o m , s t o n e r, i n d u s t r i a l - m e tal), non si ha mai l’impressione di ascoltare un disco di genere. I suoni sono sempre molto corposi e compatti, come se gli strumenti a suonare fossero il doppio. Difficile farsi un’idea immediata di un disco in cui la pesantezza del doom aggraziato dei Paradise Lost di Draconian Times va a braccetto con le atmosfere ambient dei più r e c e n t i Yo u n g G o d s e i l n e o industrial dei Nine Inch Nails. La tendenza ad atmosfere ombrose e oscure, che in più di un’occasione fa pensare al dark (Like Cement), prevale, in qualche occasione grazie all’inserimento di tappeti di tastiere (Mistaken Solutions). Questa sorta di doom- industriale lascia a volte il posto a tecnicismi interessanti e non gratuiti che fanno pens a r e p e r u n a t t i m o a i Vo i v o d (Head); altre a un approccio più puramente rock che li trasforma in dei Motorhead futuristi (Permanent Imbalance). Se si aggiunge il richiamo ai Godflesh di Streetcleaner (Us And Them) e lo spiazzante finale in stile Pink Floyd (!), con tanto di tastiere tenute e chitarre ululanti di The Finish il quadro è completo. Si definiscono un crossover tra metal, industrial, post-rock e new wave. Cosa abbiano a che vedere con la new wave è davvero un mistero. Ma va bene lo stesso. (7.0/10) Daniele Follero La Crus - Infinite possibilità (Warner, ottobre 2005) Il nuovo disco dei La Crus – settimo lavoro in dieci anni è una triplice manifestazione: letteraria, grazie al racconto di Leonardo Colombati contenuto nel libretto; cinematografica, in virtù del DVD allegato dove dieci “corti” provenienti da varie edizioni del Milano Film Festival sono riadattati alle canzoni del disco, divenendone perfetti video-clip; e, ovviamente (?), musicale. Tre momenti che s’integrano senza pestarsi i piedi, senza togliersi spazio o angolazione o visuale, anzi arricchendosi spesso e volentieri l’un l’altro. Per limitarsi al disco e alle canzoni, potremmo sbilanciarci affermando che la ditta Giovanardi & Malfatti ha conseguito con Infinite possibilità l’ideale compimento del proprio percorso artistico, di una carriera forse non eccelsa però ricca di spunti, dalle traiettorie non sempre prevedibili (non si passa da Piero Ciampi all’elettronica così tanto per fare, senza talento da spendere e pegni da pagar e ) . L’ i n t e n z i o n e è f i n d a s u bito chiara: asciugare le forme, sottoporle ad un “levare” sapiente, ricoprirle di patina trepida ma equilibrata, quindi abbracciare tutte intere le istanze del pop d’autore, infilandosi nel solco tra modernità e tradizione. I risultati sono buoni, a tratti molto buoni: capitano così valzer-soul segmentati da crude apprensioni dEUS (Giorni migliori); capita d’incrociare il p a s s o d i Te n c o t r a a s c e n s i o ni pop-prog Tiromancino (La prima notte di quiete, ospite a i c o r i M a r i o Ve n u t i ) ; c a p i t a che certe brume David Sylvian convivano con una magra trepidazione Andrea Chimenti tra glitcherie e percussioni sparse à la Mùm (nella title track); capitano esili algori funk in stile Royksopp (Libera la mente) e arpeggi R.E.M. tra liquorose inquietudini soul (I miei ritratti). Capita soprattutto una Su in soffitta che strascica penombre tra slittamenti tropicali(sti) rimembrando un po’ il Tim Buckley di Blue Melody e un po’ il Nick Drake di F r u i t Tr e e , p e r n o n d i r e d e i v o calizzi pastello in stile Wyatt del bridge: nomi grossi, certo, però sono un bendiddio che si mantiene lieve e sospeso, in una luce di discreta riverenza, senza che alcuna velleità ne macchi l’esito. Una semplicità non semplicistica ma illuminante, la stessa che muove il pop vivace e screziato di Mondo sii buono, in splendido contrasto con l’allarmata invocazione del testo (ispirato alla poesia Al mondo di Andrea Zanzotto). Proprio come la migliore poesia, Infinite possibilità sa essere generoso e discreto, serbatoio di sensazioni (speranze, desolazioni, amarezze, epifanie...) a rilascio graduale. Pop per cuori agili, che indugiano sulla profondità di ogni superficie. (7.2/10) promozione entrambe le band potrebbero conquistarsi spazi più ampi, sempre che ciò rientri negli intenti. (7.0/10) Lorenzo Filipaz Maltomini Marco - Animal Ferox (Alpha South / Audioglobe, ottobre 2005) Come sta messo il garage in Europa? La Nicotine Recor- Un Rino Gaetano depravato Squallor (La vagabonda); gli Skiantos falcidiati da crudeltà Breat Easton Ellis; filastrocche Dylan Dog rilette da Sukia ( L’ a n i m a l e ) ; u n B u g o h o u s e funk senza più argini né residua decenza (Merda); una Donatella Rettore convertita al più lercio pseudo-punk; un Cristiano Malgioglio posseduto (gli piacerebbe...) dal più laido Iggy Stooge (T’ammazzo). Lurido come un Lou Reed di d s d i To r t o n a c i s p a r a q u a t t r o colpi di risposta, due per fronte: al di qua e al di là delle Alpi. I francesi Hi-Fi Killers (nome mutato dal primo stage-name d i K i m F o w l e y, H i p p i e K i l l e r, nessun contatto ovviamente con l’omonimo duo dub-reggae) lamentano la sciatteria del cliché garage-punk fatto di giacche di pelle, jeans rotti e magliette che vanno strette, loro lo fanno elegante! La loro proposta musicale, ruvida e rauca quanto basta, è pure insolitamente stilosa, nella costruzione del riff e nel dispiegarsi di voci e strumenti, specie nella travolgente Get A Move On. I vinili degli MC5 e prima ancora degli Stones vegliano dall’alto sorridenti. I nostrani Los Dragos puntano invece di più su un edonismo cantinaro fatto di ritmo incalzante e indiavolate basslines, avvicinandosi a realtà contemporanee come Cato Salsa Experience o l’ultimo Billy Childish ma ad una velocità decisamente più vertiginosa. Attitudine in abbondanza su entrambi i lati di questo sette-pollici, a dimostrazione che il Continente non sta a guardare. Con un po’ di più plastilina avariata, fatiscente come dei CCCP lobotomizzati (Elettroshock), sciamannato e vetroso come una Loredana Berté all’ultimo stadio. Grado zero? Quasi. Troppo atroce per suonare demenziale, un gorgo squallido e beota di testi, suoni, melodie inqualificabili. Da non crederci, da non volerci credere che possano somigliare così tanto a quel che brulica ad altezza di marciapiede. In certe periferie, in certe stanze, in certe feste, in certe teste. Non caricaturale, non parodistico, ma reale fino all’iperreale, fino al patologico. Erotico come un bubbone nel pieno della purulenza. Sventato, non procrastinabile, grottesco. E poi? Poi Maltominimarco ti spara due cover stoniane, riscrivendone il testo a modo suo: una Sono il tuo re che rifà Paint it black in chiave sadomaso, e soprattutto quella Gay che rende Sympathy for the devil sardonica, scostumata, febbrile al punto da funzionare alla grande, surclassando ad esempio la bolsa rilettura Guns and Roses (ok, non ci voleva molto). A dire il vero, c’è anche un’altra cover non “dichiarata”, quella Stefano Solventi Los Dragos / Hi-Fi Killers (The) – Split EP 7” (Nicotine, 2005) sentireascoltare 51 Op negra chiaramente debitrice di Hey negrita, nel segno di una sbracata e irrecuperabile scorrettezza. Grado zero? Di più. E poi, non ti va a chiudere il programma con un’allucinazione cupa, spiazzante, un gorgo folk zeppeliniano, malsano e fuori fuoco, strascicato e antico, come un Branduardi sotto benzedrina o un Langhorne Slim senza più cuore, il blues stregato da una notte di mefitico trasalimento (La dolce morte)? Potete scommetterci che lo fa. Questo teppista dell’antirock’n’roll. Questo pezzo di genio. (7.1/10) Stefano Solventi Midaircondo - Shopping For Images (Type / Wide, 7 novembre 2005) Ve n t o f r e d d o d a l l a S v e z i a . A portarlo sulla penisola italica sono le Midaircondo, tre giovani fanciulle di Gothenburg: Lisa Nordström, Lisen Rylander e Malin Dahlstrom. Impegnate per tutta la scorsa estate in una intesa attività live culminata nella performance del Sonar di Barcellona (ma hanno anche partecipato al Kals’Art di Palermo), approdano finalmente al disco d’esordio, Shopping For Images. Ed ascoltandolo non è difficile credere ai commenti entusiastici che, in contemporanea con il loro girovagare, si sono accumulati, come se di volta in volta il pubblico fosse stato inconsapevolmente sedotto. Punto di forza, infatti, è la dimensione immaginifica che la combinazione di laptop, synth e strumenti acustici (voce, sassofono e flauto) porta con sé e che si concretizza, in sede di live, nelle sperimentazioni visuali da loro stesse costruite. Spazi infiniti di desolato romanticismo, castelli di sabbia di ineluttabile malinconia, profondi respiri di struggente inquietudine si sposano alle eteree latitudini musicali che 52 sentireascoltare le ragazze vanno ad esplorare, dall’opener track Eva Stern, Shake It (reiterazione a-temporale per sax, flauto, voci e beat cardiaci) al m a n t r a b j ö r k i a n o C o u l d Yo u Please Stop (loop industriali e basso insistente a complicare un crescendo di synth e stratificazione vocale), dall’abbacinante luccichio pop di Serenade (un cantato pieno e avvolgente stagliato su un morbido eco di piano, sortilegio del terzetto Delay/AGF/ Armstrong) all’improvvisazione di Coffeeshop e Lo-Fi Love (mesmerica sovrapposizione industrial). Luoghi della fantasia spiati dal buco della serratura di una porta microscopica, dove per entrare è necessario sapersi tramutare in ombra e scivolare sotto di essa. Un altrove in cui si affacciano il jazz sfilacciato di Susanna Wallumrød (le cupe e sensuali inflessioni di Sorry in un caffè di periferia) e le chincaglierie giocattolo di Colleen (Who’s Playing), un minimalismo che per contrasto si nutre di una fervida immaginazione e che potrebbe sembrare, di primo acchito, freddo, se non addirittura glaciale per la sua astrazione. Ma il segreto, per chi voglia addentrarsi in questi cunicoli visionari, è l’abbandono, il trasporto, il sentire con la totalità dei sensi ancora prima che con le orecchie, ciascuno inseguendo le proprie chimere. Proprio come le tre Midaircondo provano a suggerire nelle loro creative performance live. (7.0/10) Va l e n t i n a C a s s a n o Mr Brace - Salvate il mio maglione dalle tarme (Tafuzzy, 2005) Mr Brace ha messo su famiglia. Non più solista fiancheggiato da benevoli amici ma quasi-gruppo e si sente, non solo perché la strumentazione risponde di più a quella di una band (più batteria, più elettri- ca, più pianoforte), ma soprattutto per il raffinarsi dell’intreccio musicale: si acuisce la “psicologia sonora” del disco, la punteggiatura, i rimandi da canzone a canzone, di pari passo all’impreziosirsi dell’arrangiamento – veramente sorprendente alla luce della totale indipendenza in fase di produzione. Scenari che come al solito impattano con i testi stralunati dell’autore, i quali a lungo andare t’intontiscono neanche avessi fumato un prato di cactus, infilandoti nel cervello metafore e sinestesie che - come quando la lucidità latita - non sapresti se definirle cripticamente geniali o irrimediabilmente cretine (intuito a bolle che continuano a scoppiare…). Ma il mestiere della sciarada di Mr Brace è cresciuto anzichenò, come si ravvisa dal gioco di rime e assonanze di Ieri che denota un’originale attitudine a ghermire quotidiane banalità ‘sì da cavarne l’assurdo per accostamento Salame & Caffè per l’appunto. Tutta farina che ingrossa il sacco del Nostro il quale, anche grazie alla dimensione più collettiva, si slega dalla sudditanza a Mr Oldham consegnadosi ad un’estetica dello sbilenco amica - non allieva – di Waits e Capossela (Baricentro), Banhart e Bugo (Salame & Caffè), anche perché il nonsense qui s’increspa in superficie e lascia intravedere altro, magari una grande canzone, anche se per un attimo (Io Chi Sono). Ruggine poi, col suo video rutilante ad opera di Francesca Grilli e Alessandro Cavallini, ci farebbe godere non poco se passasse per qualche rete televisiva ad ora di pranzo. (6.7/10) Lorenzo Filipaz Mujaji - On a Bridge Between Clouds (Nomadic, novembre 2005) Te r z a p r o v a t a r g a t a M u j a j i (per i curiosi: googleggiando si evince essere il nome recensioni Susumu Yokota & Rothko Distant Sounds Of Summer (Lo Recordings / Wide, 2005) Bisogna sciogliersi talvolta. Se non ce la fate con quest’album, difficilmente troverete attualmente di meglio. Questa collabor a z i o n e d i Yo k o t a c o n l ’ a v a n t p i o n i e r e R o t k h o a p p a r e l a p i ù accessibile, andando a memoria. Una mistura di voci sublimi, quelle della Caroline Ross, basso risonante e spazi infiniti di creativo tour de force minimale che ovulano bellezza e profondità chiaroscurali. Vicine, talvolta, alle calme inquietudini di u n p a c i f i c o R y C o o d e r, i t o n i d i a f a n i e c r i s t a l l i n i d ’ a d a m a n t i na suggestione, suggeriscono elegie di sensibilità british folk. Ta l a l t r a , i s i n g u l t i b e a t s e l ’ a m b i e n t s o t t o l i n g u a l e f u n g o n o d a ansiolitica collisione con supernaturalistici scenari di reminiscenza Mad Lib. Nessun senso di confusa disparità, nessuna malcelata inquietudine: coerenza e perdita, un meraviglioso pannello di suoni dal mondo crepuscolare dei rifrangenti marini. Un master di sottigliezze, un classico per generazioni laptop, elegante e sperimentale, generoso, classico ed elettronico, sublime capolavoro d’evocazioni spirituali. Un fantastico contemporaneo entro cui immergersi e perdersi. Come un pittore di strada, Rotkho crea in gigantesco acquerello di colori spumeggianti, frattalici, frecce dritte al cuore, momenti d’appropriata beltà. Probabilmente uno dei più intensi lavori dell’anno, avvolgente, accattivante, una collaborazione rimarcabilmente triste, atmosferica, stranita. Nonostante l’apertura di Deep in Mist, ammiccante crossover intriso di bit, Waters Edge tarantola con Steve Reich, mentre un curioso 4/4 alla Clash tachicarde Path Fades Into Forest. Lit BY Moonlight smeriglia un fraseggio greeniano (Peter) sopra un tessuto di marimbas; Clear Space è u n v e l l u t a t o e d a c c e s s i b i l e , e s t e t i z z a n t e e “ s h a d e o s o ” s o u l a l i e n o . L’ a r c a n o p a n ì c o , a p o t r o p a i c o e magnogreco, fenomenizza Reflections and Shadows, tentato dall’aletheica mostruosità di una Fata Morgana dove galleggiano i cucù. La chiusa di Floating Moon dispensa infine memorabili mileux, evanescenze carezzevoli, patetiche, eleganti, emozionanti, etereoscopiche spemi dall’ignoto. Considerevole… (7.0/10) Antonio Amodei sentireascoltare 53 di una divinità africana della pioggia), al secolo i due fratelli Jed e Seth, statunitensi di Brooklyn, germogliati in un bel humus hip hop e downtempo e infine convertitisi ad un electro-pop piuttosto onirico e obliquamente folk. Da qualche mese si sono trasferiti sull’altra sponda dell’oceano, a Londra per la precisione, portandosi dietro le bozze di queste canzoni incise in un paio di appartamenti newyorchesi. S u l l e r i v e d e l Ta m i g i d e v o n o aver pescato le giuste vibrazioni, visto che a missaggio concluso il risultato è un disco mediamente buono e a tratti buonissimo. Nell’insieme, le undici tracce di On a Bridge Between Clouds compongono un programma compatto, imperniato sull’interazione tra la visionarietà sonnacchiosa in stile Radar Bros (sensazione rafforzata dal disarmo timbrico della voce), cremosità spacey vagamente allucinate (tra le iridescenze del Brian Eno più abboccato e i primi Goldfrapp), incedere greve Arab Strap (coagulato sul tumido basso trip-hop) e rifrazioni dolciastre come omeopatie My B l o o d y Va l e n t i n e . S t a b i l i t a l a formula - e conseguita grazie ad un saggio utilizzo di chitarre, drum machine, organi, synth e tapes - va detto che il merito principale dei fratellini sta nell’aver dribblato in souplesse il rischio (concreto) della ripetitività, in virtù dell’assorta trepidazione della scrittura, dell’accorta modulazione emotiva. Si (tra)passa cioè dal caracollare brumoso di The Aim (folk ballad masticata dai synth con effetto citazionista Beck) alla dolcezza speziata di Quiet Show (quel razzolare tenero fra chitarre e tastiere, tra cuori infranti e stelle placide come un Badly Drawn Boy raga), dal soul screziato della title track (alla voce la brava Maria Solheim) allo straniante post-errebì di But- 54 sentireascoltare terfly (sintetizzatori eighties, found sounds ectoplasmatici), e ancora dalla quiete febbrile d i To S t o n e ( i m p r o v v i s i i n c e n di di chitarra Grant Lee Buffalo) al folk-blues caliginoso di Byrdseye Cabaret (un sardonico Steve Wynn trasfigurato electro). E’ un pop gradevole, in definitiva, condito da quella giusta dose di fiele e mistero, forse appena troppo sfuggente e de-sostanziato per covare sogni di gloria commerciale, come dimostra la stupenda Bobby Fischer durante la quale, vuoi per la malinconia sospesa, vuoi per l’indefinita mestizia di quel timbro vocale, vuoi per l’accorata serenità di quelle arpe e quei flauti (sintetici), capita di pensare al Nick Drake nel guado tra ammiccamenti catchy e trepida pensosità. Non potrebbe esserci chiosa migliore, immagino. (7.1/10) Stefano Solventi Julien Neto - Ler Fumeur de Ciel (Type / Wide, 2005) U n ’ a t m o s f e r a n o i r, r o m a n t i c a e melanconica, aleatoria proprio come il fumo dei camini parigin i s o t t o i l c i e l o s t e l l a t o d i Va n Gogh, questo è Ler Fumeur de Ciel, il primo album di Julien N e t o p e r l a Ty p e n o n c h é i l p r i mo a suo nome. Non vi è traccia di ritmiche, soltanto synth atmosferici, piccoli samples e scrosci di nastri qua e la. È un lavoro estremamente omogeneo, senza baratri di vacuità ma neppure momenti d’accelerazione, il fluttuare delle note segue infatti (e l’autore stesso a confessarcelo) un proprio corso narrativo, come un libro senza parole. Un cd prezioso. (7.0/10) Edoardo Bridda Nine Horses – Snow Borne Sorrow (Samadhisound / Self, ottobre 2005) Per i meno attenti un disco come Snow Borne Sorrow potrebbe suonare inaspettato, visto le sperimentazioni del precedente Blemish, ma chi segue con attenzione le vicende di David Sylvian sarà a conoscenza del precedente Out In The Sticks, mini-lp accreditato a Sylvian, Burnt Friedman e Jaki Liebezeit dove l’ex Japan (alla voce in una delle tre song del mini) ritornava sulla strada maestra del jazz da camera, della ballata d’autore; il classico Sylvian, insomma. Rimasto fuori dai nostri confini, quel mini vede la diretta emanazione nel progetto Nine Horses, sigla che vede il buon David accompagnato dal vecchio collega (e fratello) Steve Jansen, il citato Friedman, il sempre fido Sakamoto e nuovi arruolati che rispondono a Arve Henriksen (la tromba dei Supersilent) e Stina Nordenstam. Quindi, addio totale alle avanguardie di Blemish? Lungi da noi affermarlo, resta il fatto che Snow Borne Sorrow non ha niente di quel disco se non la voce di Sylvian, che torna protagonista al cospetto di arrangiamenti che lavorano per la sua indistinguibile tonalità come dimostra il soulful jazzato di A History Of Holes, ennesimo saggio di eleganza in musica graziato da un Henriksen che forse non sarà il Jon H a s s e l l d i B r i l l i a n t Tr e e s , m a in quanto a pathos non gli è assolutamente secondo. Jazz dalle sembianze noir anche per Wonderful World, un sinistro swing impreziosito dall’ugola fanciullesca della Nordenstam che dice la sua anche nel gospel sensuale di Atom And Cell mentre Serotonin ricorda, con quel suo mood dance, i Japan più “dancefloor”. Dicevamo prima di Out In The Sticks, disco che qui rivive in due canzoni come The Day The Earth Stole Heaven (riarrangiata nel cantato, assente nella versione originale) e una The Librarian resa sì bellissima da un intro che riprende la Obscured by 5 (da Secret Rhythms del 2002) della coppia Burnt Friedman & Jaki Liebezeit, ma il citazionismo attuato (con gentile concessione degli interessati, presumo) non pregiudica il prodotto finito che, per inciso, entra di diritto nei classici dell’uomo. Un disco che forse non sarà il massimo dell’originalità questo Snow Borne Sorrow, ma bello e rispettoso perché sincero parto di una mente che dopo 25 e passa anni di carriera, riesce nell’impossibile gesto di “ripetersi” senza scimmiottarsi. (6.8/10) Gianni Avella Osram – Inglese Subacqueo (Zahr / Goodfellas, 2005) Per qualche minuto sembra che il miracolo si sia ripetuto ancora una volta. Il display dello stereo segnala il primo brano, Coniglio Miao. E, come una fenice, il post rock risorge dalle sue ceneri, rinnovando il proprio stile e continuando a produrre emozioni che scavano sotto pelle per colpire il cuore. Poi, però, l’iniziale euforia va scemando. E alla fine d e l l ’ u l t i m a t r a c c i a , Tr e n o D i Sant’Anna, ciò che rimane è un disco semi-strumentale che è lontano dal lasciare importanti strascichi nelle orecchie di chi ascolta. Ed è un peccato. Perché i sardi Osram dimostrano di aver appreso molto bene la lezione del post rock. Aiutati in questo dalla mano esperta di Fabio Magistrali in cabina di regia, i quattro maneggiano con sicurezza i propri strumenti. Ma se la confezione è ben fatta – splendida in alcuni casi – è il contenuto che lascia un po’ a desiderare. Anzi, per essere più corretti, stanca. È come vedere lo studente più bravo della classe che, a un certo punto, decide di non impegnarsi più e di vivere di espedienti. Uno spreco di talento che lascia l’amaro in bocca. Per cui non bastano le incursioni rumorose di Calamauro Gigante per tenere alta la tensione, così come serve a poco l’esasperante lentezza di Naso Pigreco, ballata dall’anima melodrammatica e psichedelica. Se non altro gli Osram hanno dalla loro una buona dose di autoironia, come dimostrano i surreali titoli scelti per i brani. E bisogna ammettere che in un paio di occasioni dimostrano in pieno il loro potenziale (la già citata Coniglio Miao e la canzone che dà il titolo al cd). Ma alla lunga Inglese Subacqueo manca di personalità e di belle melodie. Non toglie nulla al genere di riferimento, ma neanche aggiunge qualcosa. (5.5/10) Manfredi Lamartina Panthers - Things Are Strange ( City Slang / V2, 2005) Apparentemente selvaggi ed intransigenti, ritmicamente esagitati e fisicamente sudaticci, i Panthers sorvolano la nuova scena newyorchese per proiettarsi dritti dritti nel periodo d’oro del rock’n’roll; ciononostante, la formula magica che miscela gli MC5 con gli Stooges stavolta non sembra funzionare, tanto da lasciare nel puro anonimato musicale le dieci tracce che compongono Things Are Strange. Non si tratta di cattive intenzioni o di completa mancanza di talento, il problema è che non si riesce a scorgere un minimo accento di originalità o di approccio personale al furore rock causato dal continuo sfregare di chitarre elettriche. Una bottiglia incendiaria scagliata nel vuoto. (4.0/10) Michele Casella Pulse - Self Titled (Pippola Music, 2005) Pulse alias Marco Galardi, batterista di lungo corso col pallino dell’elettronica. Cioè, come a dire, Pulse è il punto di convergenza delle esperienze ritmico-soniche di Galardi, una sezione del flusso, una cristallizzazione dei fotogrammi. La restituzione di un vissuto intenso e frastagliato: the love you take is equal to the love you make, più o meno. Di più, forse. Come l’impasto tra fusion pseudo-davisiana e scenografie Blade Runner di Sal’AAM Aleicum, ad esempio, con quel sax a giocare tra fisicità e virtualità, col tramestio pensoso del drumming a germogliare nell’incertezza tra solido e aereo, tra stabile e impalpabile. Vo l e n d o i p o t i z z a r e u n f i l o r o s so che leghi questi nove strumentali - dove Galardi sovrintende i tamburi (ovviamente) e le macchine col non trascurabile aiuto di un pugno di amici strumentisti - sembrerebbe più una riflessione sulla giuntura “in fieri” tra forme sintetiche ed analogiche, su questa collisione che avviene da decenni (in spregio alla fulmineità microprocessoristica), che non una mera esposizione dell’arte conseguita dal Nostro in q u i n d i c i a n n i d i c a r r i e r a . Va detto che quest’ultima opzione rischia talora d’imporsi, come nella stancante efficacia danzereccia di Light (turgido funk digitale M.A.R.S.S. style) o lungo l’icastica estenuazione gilmouriana di Aracnos (ruvidità wave tra fremiti elettronici e pulsazioni cavernose come una scheggia impazzita da Animals). Più spesso però l’eterogeneità del programma funziona da carburante, incendiando prima intrecci electro/etnici (il frinito austero del sarangi tra minacciose emulsioni digitali ne Il genio della lampada, lo sfarfallio delle percussioni nella fauna aliena di Dangeridoo) e poi sbrigliatezze jazz (nel funk strinito e spacey di The uncles, nell’acidula improvvisazione zawinuliana di Chafanga’s Time), arrivando a paventare con K una tensione caliginosa, un contrasto tra i vapori radioattivi dei synth e la ruvidità del cello elettrico, sentireascoltare 55 che la fa quasi sembrare una reincarnazione attualizzata dei mitologici High Tide. Non sarà certo per le intuizioni melodico/soniche che ameremo questo disco, né per una peculiare genialità d’arrangiamento o per l’abilità sugli strumenti. Piuttosto, per l’equilibrio/squilibrio tra le parti, per il frigido interplay tra gli “strumenti” (o meglio tra le “voci”) che sembra sfidare una sorta d’incompatibilità e sancire quindi una distanza, un malumore esistenziale, l’impossibilità a parlare con una voce sola sullo stesso sfondo delle stesse prospettive. Forse il valore (il fascino, il messaggio) di questo disco sta in quello che non è riuscito del tutto a dire. (6.8/10) Stefano Solventi Steve Spacek – Space Shift (Sound In Color / Family Affair) Steve Spacek è il nome nuovo del modern-soul. Meglio essere categorici fin dall’inizio. Lui che poi tanto nuovo non è, visti i trascorsi nel gruppo a sua immagine e “nome” Spacek (due album all’attivo di elegante e raffinato deepsoul), decide uno step in solo che suona come una vera manna dal cielo per i quanti orfani dell’ormai disperso D’Angelo e per i molti stufi delle pose plastiche del mainstream-hero Craig David. Space Shift ha quella tempra “black” affine ai grandi del genere, e non si bestemmia se si tirano in ballo figure storiche come il George Clinton post-Parliament/Funkadelic (cioè quello immerso nel digitale), Curtis Mayfield e il santone Marvin Gaye. Non a caso uno dei tanti episodi vincenti di Steve, Smoke, è un mirabile duetto con quel Leon Ware che di Gaye f u p r o d u t t o r e ( i n I Wa n t Yo u , anno 1976), musicista e fidato amico. La scissione (momentanea?) dal gruppo ha fatto sì che il nostro si misurasse con 56 sentireascoltare se stesso e le sue idee, ma Steve non si dimentica di amici come Morgan, il collega negli Spacek che dimena beat in molte delle tracce ivi contenute, incluso il singolo 3 Hours Of Fun, un contagioso groove in 4/4 che Pharrell sicurament e i n v i d i e r à , c o s i c o m e D o l l a r, in collaborazione con J Dilla dei Slum Village, farà impallidire Prince è il suo ultimo ritorno al pure-funk. In più di un occasione sembra intravedere quello che Cody ChesnuTT ha rappresentato per il soul underground due stagioni or sono, soprattutto per la metrica incantevole, per come scivolano le canzoni e per quel tocco magico che solo i beneficiari di pelle nera posseggono: un episodio come So Many Ways ad esempio, anche se peregrino connubio di soul astratto e fattezze elettroniche materializza inedite e affascinanti prospettive futuristiche, cosi come Love Yu Be storpia una base techno per scivolare dritta nella club-culture più smaliziata. L’ i n c a n t e v o l e f a l s e t t o d i D a y s Of My Life evince ovvie radici afro; Hey There, nella sua sinteticità, trasuda la necessaria sensualità per preparare il fraseggio conclusivo di Look Into My Eyes, un lento e leggero viaggio nella Motown di primi anni ’70.Resta poco da aggiungere se non di consigliare a tutti, ma proprio a tutti i fanatici del black-sound l’ascolto del disco più cool del 2005. (7.0/10) Gianni Avella Static – Re: Talking About Memories (City Centre Offices / Wide, 7 novembre 2005) Che il tedesco Hanno Leichtmann, titolare del progetto Static, faccia parte del giro dell’indietronica che conta è quasi banale dirlo. Basta infatti ascoltare questo nuovo l a v o r o , R e : Ta l k i n g A b o u t M e mories, per capire dove la musica andrà a parare: ritmiche sintetiche e – a volte – irregolari, tastiere che coesistono con chitarre appena accennate e qualche sporadico intervent o v o c a l e . L’ i n i z i a l e R e t u r n O f She è il manifesto programmatico dell’arte di Static, che riassume al meglio tutti i tratti caratteristici dell’indietronica con l’aggiunta della voce apatica e post-moderna d i R o n a l d L i p p o k d e i Ta r w a t e r . Ed è anche il punto più alto e convincente del disco, che col passare dei minuti sembra perdere un po’ di personalità tra tentazioni electro mutuat e d a i To R o c o c o R o t ( A S o n g F o r Yo u ) e d i m e n t i c a b i l i b a l l a te folk-troniche (Never Never e Point Of Hope). Le influenze che saltano fuori all’ascolto inevitabilmente diminuiscono l’effetto sorpresa di un cd che, a conti fatti, mira ad altro. Il piede seguirà il tempo rotondo di Colours In Patches senza chiedere certificati di origine controllata, così come la testa andrà ritmicamente su e giù con Sync & Sake, mentre il cuore batterà per la conclusiva e beatlesiana The Moon Had A Crack. Ma è chiaro che tra un’infatuazione e un innamoramento ce ne passa parecchio. (6.5/10) Manfredi Lamartina Rosie Thomas - If Songs Could Be Held (Sub Pop / Audioglobe - novembre 2005) L’ a r i a f r a g i l e m a v i s p a , u n a virginale inquietudine da cameretta inesplorata, da vitalità inespressa, costretta in un piccolo mondo di trepidazioni carta e penna. Rosie Thomas ha 27 anni, è originaria di Detroit ed è al terzo album per la Sub Pop: tutte cose che difficilmente si desumerebbero dall’ascolto di questo If songs could be held, undici pezzi facili però intensi, prevedibili m a a c c u r a t i . L’ o t t i m a c o l o n n a sonora per chiunque senta il bisogno d’ingannare l’attesa tra un album e l’altro del gentil fenomeno Norah Jones, e in genere per tutti quelli che come Rosie - covano una più o meno conclamata ossessione per i Fleetwood Mac di Landslide e/o la Joni Mitchell di California. Quel placido procedere tra incanti circospetti, tra mestizie mute, tra impalpabili collassi emotivi (le gentilezze indolenzite di Clear As A B e l l e S i n c e Yo u ’ v e B e e n around). Quelle carezze dolciastre da passeggiata sentimentale, mano nella mano tra luci declinanti, in un pastello d’organo e chitarrine (Let It Be Me, cover di Gilbert Becaud assieme ad un flemmatico Ed Harcourt). Rari e contenuti i guizzi, giusto per dribblare la narcosi senza turbare l’estatica immersione, come nella nostalgica Time Goes Away, col ritornello che sembra una Beth Orton colta da parossismo Alanis Morrisette. Non stona certo qualche barbaglio country-pop à la Lucinda Williams(tra le morbide volute errebì di Loose Ends), ma va decisamente meglio quando una certa voglia d’austerità comporta angoscie sparute (il serico primo piano sdoppiato di Death Came And Got Me) e madreperlacee mestizie (il v a l z e r i n o c o n c l u s i v o To m o r r o w, i n p r a t i c a g l i E e l s c o l f r e no tirato). In definitiva, trattasi di una parata di banalissime, perfette ballate d’amore. Nulla da eccepire, se è proprio questo che si va a cercare. Del resto, la cura dei dettagli si fa apprezzare in più di un’occasione: impalpabili brume di tromboni, misurati inneschi di w u r l i t z e r, t e p o r i d ’ o r g a n o , g l i archi diafani e mai stucchevoli, la pastosa densità dei timbri... Manca però a Rosie il passo in avanti, la capacità ad esempio di misurarsi col gospel senza sbiadirlo (It D o n ’ t M a t t e r To T h e S u n , s a piente formalità da Hootie & the Blowfish femminini) e in generale la forza di additare i propri (presunti) idoli senza sembrarne il bignami di turno (di Stevie Nicks in Pretty Dress, di Sandy Denny in Clear As S Bell...). Innocua e commovente come una nebbiolina pomeridiana. (6.0/10) Stefano Solventi Uncut – Those Who Were Hung Hang Here (Cargo / Audioglobe, 14 ottobre 2005) In tempi in cui quindici minuti di hype non si negano a nessuno non c’è da scomporsi se, congiuntamente al gesto di introdurre nel lettore il cd di una band accreditata di essere l’ultima frontiera del new wave-revival, succede di avvertire forte e chiaro il rullare di tamburi che precede il fendente di mannaia del critico-boia. Secondo gli ultim i r i l e v a m e n t i I S TAT s i t r a t t a una suggestione - condivisa e legittima - che a volte si rivela ancora - vivaddio - eccessiva. E’ il caso dei canadesi (ma và?) Uncut, bravi a mischiare le carte in tavola presentandosi con una Understanding The New Violence che, pur ricordando i Franz Ferdinand, è una dichiarazione d’intenti. Un 4/4 circolare irrorato da chitarre mascoline che fissa dei precisi parametri. Mancano qui infatti i patinati cliché di genere che hanno fatto strage di cuori nell’underground c o m e s u M t v, m a n c a n o i r i tornelli-slot machine cari agli emul rockers che grazie ad essi hanno conosciuto la cima delle classifiche. E manca sicuramente il tiro radiofonico, poichè anche canzoni quali Buried With Friends o Day Breaks Red Light, pur battendo la via del riff accattivante abbinato a ritmiche serrate (più o meno danzerecce), non lasciano dubbi, scovarvi qualche motivo cantabile è impresa ardua. Una scelta precisa di Ian Worang, cantante e leader decadente del gruppo, che immergendosi in acque dalle tinte dark - inabissandosi o semplicemente galleggiandovi - non concede alcunché alla melodia spicciola se non n e l p o t e n z i a l e s i n g o l o Ta k e n In Sleep. Una cavalcata che assume toni epici – gli stessi che hanno fatto la fortuna dei nostrani Klimt 1918 – e imbastisce una trama armoniosa attraverso la quale le sei sottili, ma affilatissime, corde si divertono ad aprire dei varchi, squarciandola. Ad onor di cronaca vanno poi ricordati i trascorsi di Worang e del suo ex compagno Jack F a i r l e y, t i t o l a r i d i u n f u d u o elettronico la cui eredità sonora è ancora ben riconoscibile nelle strutture di alcune canzoni. Copilot, col suo synth gettato in pasto ad una furia quasi noise, su tutte. Nel complesso un lavoro valido e ben assemblato che, seppur tra alti e bassi, riesce ad aggiungere qualcosa alla cifra stilistica dell’ondata di gruppi della new wave-revival. Un disco insomma per coloro che guardando gli Interpol non vedono altro che una cricca di fighette impomatate senza gli attributi necessari per riuscire a fare rock’n’roll. (6.9/10) G i a n l u c a Ta l i a Viarosa – Where The Killers Run (Pronoia / Foreign Affairs. 2005) Il crooning vellutato e maledetto di chi fuma l’ultima sigaretta sotto un lampione guardando l’highway che porta verso il deserto, Nick Cave, Gun Club e Dirty Three a dare le coordinate per un folk-rock fortemente cantautorale e d’atmosfera. Questi sono i Viarosa: chitarre in dormiveglia ma con l’occhio sul distorsore, abbandoni di violini in riva all’oceano, e brume vocali maschie, lievemente raucedinose, dolci ma riflessive, pacate ma con la fiammella che brucia dentro. Se c’è una regione, anzi una città dove Where The Killers Run sembra registrato, questa è sicuramente Tucson: sentireascoltare 57 recensioni Paul Weller As Is Now (V2 / Edel, 7 ottobre 2005) A quasi trent’anni dal mod-revival in chiave punk dei suoi Jam, a venti dalle sofisticatezze soul-pop con gli Style Council e a dieci da quello Stanley Road che ne ha lanciato la carriera sol i s t a , m r. P a u l We l l e r è b e n l o n t a n o d a l m e t t e r s i i n p a n t o f o l e . Archiviata la stagione d’oro del brit-pop di cui era stato padrino (guadagnandosi presso i connazionali l’epiteto di Modfather), non pago di venire omaggiato anche dalle giovani leve del rock britannico (Kaiser Chiefs e Maximo Park in testa), l’ex Cappuccino Kid torna in gran forma sfornando un disco nuovo di zecca, che segue di appena un anno l’interlocutorio cover album Studio 150. As Is Now ci restituisce un Weller perfettamente a suo agio, che non sente il peso degli anni e dell’esperienza ma ne fa anzi tesoro (come quasi sempre negli ultimi tempi, d’altronde). Ecco quindi che, armato di mestiere e classe in egual misura, gioca le sue carte migliori e snocciola uno dopo l’altro una serie di episodi godibilissimi, tanto d i s t a n t i t r a l o r o q u a n t o e ff i c a c i : l ’ i n i z i a l e B l i n k A n d Yo u ’ l l M i s s I t è f u n k e a g g r e s s i v a q u a n t o basta, Here’s The Good News è un quasi vaudeville che si colora di soul nel middle eight (un po’ come se la Band si fosse formata nelle periferie di Londra); All On A Misty Morning è un country folk portato da un riff che più classico non si può, la conclusiva The Pebble And The Boy è dolente e crepuscolare come ogni ballata pianistica che si rispetti. O v v i a m e n t e g l i a m o r i s o n o q u e l l i d i s e m p r e ( e g u a i s e n o n f o s s e c o s ì ) : d a i K i n k s d i P a p e r Tr a c k ai Lennon e Dylan dell’appassionata Savages fino ai Traffic di Bring Back The Funk, tutto assimilato con la consueta maestria, senza tralasciare il gusto per la citazione “colta” (vedi espedienti tipicamente beatlesiani come l’attacco psichedelico in reverse di Fly Little Bird, o gli inserti di jam session alla fine delle canzoni). E poi, Come On / Lets’ Go fa inumidire il ciglio per quanto ricorda i Jam (mancano solo le armonizzazioni di Bruce Foxton); The Start Of Forever richiama English Rose nell’incipit, I Wanna Make It Alright è gentile e soft come ai tempi del Cafè Bleu; e anche se non è tutto oro quel che luce (in Pan risuona un’enfasi simil prog che nell’insieme stona un po’), la serratissima From The Floorboards Up inasprisce i toni come un vecchio singolo del ‘79. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Ma è sempre un piacere sapere che una delle personalità più sincere e squisitamente uncompromising degli ultimi 30 anni di rock goda ancora di ottima salute. (7.0/10) Antonio Puglia sentireascoltare 58 tanti, troppi i riferimenti desertici di certi accorgimenti - il tocco sulle pelli, il banjo appena accennato – che ammiccano dritti al pop-country dei Calexico; e invece i Viarosa di Richard Neuberg (voce e chitarra) vengono da Londra, suonano da quasi cinque anni e annoverano tra le loro fila ex membri di Willard Grant Conspiracy e Cornershop. Pur non negando le radici americane della loro musica, i Nostri rivendicano un personale approccio al folk-country a stelle e strisce, che amano chiamare “Anglicana” (risposta britannica ad “Americana”); a nostro avviso però non basta far suonare un banjo come se si stesse per intonare un antico madrigale, specialmente se ascoltando il disco i nomi che vengono in mente sono tutto fuorché inglesi: i Buckley - padre e figlio - nella title track (immaginate un ibrido tra Dream Brother e Chase The Blues Away), i già citati Dirty Three in Boy e The Violet Hour (con tanto di sega in sottofondo), il Lanegan ultima maniera (soprattutto in quella Only Child, che viene dritta da Field Songs), il white soul di casa Tindersticks / Devics, evidente in certe trame sonore. Tuttavia, la maggior parte dei brani ha quel giusto appeal che merita almeno un ascolto per gli appassionati del genere, accompagnato da grande mestiere e da un’ottima produzione; e quindi ballad quali Poor Mans Prayer, i sonnolenti risvegli di Blindfold (in pieno country feeling) e la notturna Wake (vicinissima alla Magic And Loss di Lou Reed) scorrono come il buon malto s’accompagna alle sigarette. (6.5/10) Edoardo Bridda e Antonio Puglia Who Made Who - Self Titled (Gomma / Wide, 5 settembre 2005) Arduo quesito. Poteva veni- re fuori qualcosa di buono da un gruppo che, ispirandosi ai F r a n z F e r d i n a n d , ! ! ! e D FA , h a preferito distinguersi dal luogo comune condendo l’intingolo con coriandolo Donna Summer e tabasco Jimmy Sommerville al posto del consueto prezzemolo per branzino new wave? Che basti poi prender casa in Bavaria (l’etichetta Gomma) e ragione sociale da un album dei Re del kitch AC/DC per fuoriuscire dalla mischia degli emuli del funk punk londinese e degli sniffa cowbell di Manhattan? Gli Who Made Who potrebbero rappresentare una possibile risposta ai quesiti esistenziali di quel gruppuscolo di trozchisti che di tutto il revival possibile non hanno visto passare né il tram del Bronsky Beat nè tanto meno quello di certa disco-music da sopravvivenza gay in salsa punk. Certo, se il power-trio danese non riuscirà a dar loro alcuna risposta in termini filosofici, sicuramente dispenserà consigli per gli acquisti sottoforma di pregevoli farsetti e ritmi sincopati nel più classico synth pop (un lato Y fatto di Rose e Space For Rent), con un bel po’ di testosterone funk punk felpatamente ostinato (un lato X compilato da Out The Door, Monkeys). Cromosomi scombisciati a sufficienza dunque, buoni per destare la curiosità negli aficionados delle next (in questo caso medium) thing del momento, soprattutto se il platter sembra l’ideale soundscape per smuovere le voglie danzerecce del camionista di Legnago. Ritmi metronomici uno-due, appeal cow boy wave da Depeche Mode a pranzo coi Wall Of Voodoo (Space For Rent, G o t To B e T h e r e ) , d i s c o m u sic dal basso angolare (Johnny Lucky), coretti ugolari Bee Gees transistorizzati e affogati in salsa tartara (Cigar), pasticci space-funk in odor di no wave (Hello Empty Room) e q u a l u n q u i s m o Ta l k i n g H e a ds (Happy Girl) non mancano d’intrattenere, eppure un’automaticità diffusa, una serie d’inframmezzi che sembrano lì per prender tempo (si ascolt i G o t To B e T h e r e , O u t T h e Door), nonché una parata di languide strofe tanto cool ma presto noiose, puzzano di torta bruciata. Certo, quel forno a microonde che sono gli show dal vivo - dove i Nostri si vestono da tre allegri ragazzi morti vestiti da scheletri e suonano come un power trio esageratamente chitarroso - è incandescente, tuttavia non basta saccheggiare certe pose glam rock e tanto meno azzeccare qualche melodia posticcia (il singolo Space For Rent) per superare l’hype stagionale. Fossero usciti tre anni fa avrebbero goduto di elogi e insulti (come successe per i !!!), ora, a buon diritto, rappresentano un trio di pagliacci funk-punk particolarmente smaniosi, ma con la spina dorsale fin troppo dinoccolata. Ai ballerini sotto strobo l’arduo t e s t d e l d a n c e f l o o r. A c a s a c i annoiamo un po’. (5.5/10) Edoardo Bridda Windsor For The Derby – Giving Up The Ghost (Secretly Canadian / Wide, 2005) Se proprio vogliamo trovare una differenza tra gli Interpol e i Windsor For The Derby bisogna fare attenzione ai suoni. Nel primo caso, infatti, le chitarre in delay sono ben delineate in tutto il loro splendore hi-fi, mentre nel secondo la situazione è diametralmente opposta: grezzi e strabordanti oltre il lecito di riverberi, i Windsor si caratterizzano per la loro orgogliosa attitudine a bassa fedeltà, che ne fa una band più ostica rispetto ai diretti concorrenti. Che poi, alla fine, l’origine della specie risale comunque allo stesso ramo genetico: i Cure degli anni ’80 – quel- sentireascoltare 59 recensioni Wolf Parade Apologies To The Queen Mary (Sub Pop / Audioglobe, 3 ottobre 2005) Clap Your Hands Say Yeah S/t (Clap Your Hands Say Yeah, 28 giugno 2005; Wichita / V2 gennaio 2006) Che l’ostinata e anfetaminica new wave del nuovo millennio si stia finalmente evolvendo? L’ u l t i m o f e n o m e n o d a a s c r i v e r e a l r e v i v a l d i q u e s t i a n n i s o n o i canadesi Wolf Parade, un combo istintivo e coriaceo che attinge dalla vena harsh e folky dei migliori Violent Femmes per infarcirla dell’ugola istericamente NY ’78 del sempre di moda David Byrne. Non è tutto qui: per gli stessi motivi, sulla piazza p o t r e b b e f a r l o r o d a c o n t r a l t a r e l a n e w s e n s a t i o n f r o m B r o o k l y n , i C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h , anch’essi intenti ad innestare linfa vitale in un linguaggio che sembra essere diventato preponderante negli ultimi tempi (alla faccia degli intenti emulatori). I Wolf Parade, che esordiscono su Sub Pop dopo un promettente Ep, vengono da Montreal, ma al piglio energico e teatralmente emozionale dei pluridecorati e pluriorchestrati compaesani Arcade Fire (il loro riferimento più ovvio) preferiscono un voluttuoso wave-pop, asciutto eppure sofisticato, rasposamente melodico eppur detonante. Sorta di agresti pensatori della new wave cittadina, Dan Boeckner e soci ambiscono a una forma canzone mutuata dal folk ma appassionata e febbrile, basata su riff metronomici dove i giochi delle sovrapposizioni vedono, oltre alla strumentazione tipicamente rock, uno stuolo di piani, pianole, organi e organetti (a dare alla formula uno spiazzante svolazzo spacey c’è perfino un theremin). Se volete, dei Feelies sposati all’indie (dei ’90, nei dintorni dei Pixies), oppure dei Modern Lovers all’Irish pub nella più sincera, logorroica e romantica delle ubriacature. D a l l ’ i n i z i a l e Yo u A r e A R u n n e r A n d I A m M y F a t h e r ’s S o n , m a r z i a l e e s g r a z i a t a , a l l a p i ù v i v a c e Grounds For Divorce, a farla da padrone sono delle concitate marcette, un espediente che culmina nei tempi più corposamente rock di Fancy Claps e in quelli decisamente anthemici (alla Arcade Fire, appunto) di I’ll Believe In Anything. Del resto, come c’è il tempo per ballare (grazie anche ad alcuni degli accorgimenti di casa Franz Ferdinand) e urlare fuori dalla finestra (per merito dell’energia contagiosa del cantante), non mancano ballate come la cupa e pessimista Modern World (vicina a certi Violent Femmes), la strascicata e intossicata Same Ghost Every Night (come l’avrebbero gradita i Flaming Lips qualche anno fa) e la più classica e romantica di tutte, Dinner Bells (con quelle tastierine che fanno tanto Cure mid-’80). E se la carne al fuoco pare già sufficiente, sulle cadenze intermedie troviamo le inerpicate strategie pop di Shine A Light e This Heart’s On Fire , nonché quelle più trasandatamente goliardiche di Dear Sons And Daughters Of Hungry Ghosts (in cui Boeckner pare fare il verso a Paul Banks). Nessun dubbio: A p o l o g i e s To T h e Q u e e n M a r y è u n f i u m e i n p i e n a s p a s m o d i c o e sentimentale, con un grande, grandissimo, pregio: quello di trasformare la disperazione in gioia incontrollata. Pazienza se manca quel singolo che li farà ricordare al primo ascolto, il messaggio è comunque arrivato. (6.7/10) D a l c a n t o l o r o , i C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h s o n o g i à u n o d e i casi discografici dell’anno. Il loro debutto, pubblicato in proprio all’inizio dell’estate scorsa, non è stato ancora distribuito a livello internazionale (se ne occuperanno Wichita e V2 nel gennaio 2006), eppure da qualche mese la stampa sotterranea e tutto l’indie che conta non fanno che parlarne; c’è da immaginare che una volta sbarcati in U.K. le copertine saranno tutte sentireascoltare 60 p e r q u e s t i c i n q u e r a g a z z i p r o v e n i e n t i d a N e w Yo r k e P h i l a d e l p h i a , p r o p r i o c o m e è s u c c e s s o a i loro illustri predecessori Strokes e Interpol. In questo caso a venire rispolverate non sono né l e c h i t a r r e d i To m V e r l a i n e n é l o s p l e e n t e t r o e r o m a n t i c o d i I a n C u r t i s , e a d i r l a t u t t a s t a v o l t a il giochino dei rimandi non è così scontato. S e l a d i s c e n d e n z a B y r n e / T h o m Yo r k e d e l c a n t o l a g n o s o e s t r a s c i c a t o d i A l e c O u n s w o r t h è i n negabile, i CYHSY interpretano l’idioma (new) new wave con un piglio che ha sì la catchyness di J u l i a n C a s a b l a n c a s & c o . , m a a t t i n g e a l l o s t e s s o m o d o a l l a a r t - w a v e d i Te l e v i s i o n P e r s o n a l i t i e s e Suicide (quelli di Dream Baby Dream, per intenderci), partendo da un indubbio sostrato folk; insomma, un po’ come se i cinque di Is This It? avessero frequentato la scuola d’arte anziché le passerelle di moda e si fossero fatti le ossa al Greenwich Village . Si passa così da un upt e m p o s t r o k e s - i a n o c o m e H e a v y M e t a l a u n o s t r u m e n t a l e i n f i n g e r p i c k i n g ( B l u e Tu r n i n g G r a y ) , d a l l o s t r i l l o d a f i e r a d i C l a p Y o u r H a n d s ! ( t r a i l D y l a n d i R a i n y D a y W o m e n … e To m W a i t s , c o n tanto di organetto) a una versione colta dei Killers (In This Home On Ice), da un carillon spettrale asportato da Pet Sounds (Sunshine & Clouds) ai Radiohead di Stop Whispering ripassati a t t r a v e r s o i Ve l v e t U n d e r g r o u n d d e l l a “ b a n a n a ” ( L e t t h e C o o l G o d d e s s R u s t Aw a y ) , a t t r a v e r s o p o t e n z i a l i h i t c o m e l ’ i n t e r p o l e s c a T h e S k i n o f M y Y e l l o w C o u n t r y Te e t h o i l s i n g o l o s b i l e n c o I s This Love (con un synth che fa tanto Grandaddy). Aggiungete al programma tre pezzi forti come O v e r a n d O v e r A g a i n ( c h e p u ò v a n t a r e u n v e r s o c o m e “ Yo u l o o k l i k e D a v i d B o w i e / B u t y o u ’ v e nothing new to show me”), Gimme Some Salt (densa di scazzo Lou Reed / Pavement) e la conc l u s i v a U p o n T h i s T i d a l Wa v e o f Yo u n g B l o o d ( i B e l l e A n d S e b a s t i a n q u a n d o p a s t i c c i a n o c o i sintetizzatori), e il quadro è pressoché completo. Tutto molto carino, ma alla fine resta un po’ la sensazione di essersi persi qualcosa, che poi è tipica di certi esordi (anche se, diciamoci la verità, il vecchio trucco di chiudere un disco col rumore della puntina che si alza dal piatto funziona sempre). (6.8/10) Edoardo Bridda e Antonio Puglia li pornografici e disintegrati – e naturalmente i padrini di tutto quanto fa dark e depressione, i Joy Division. Dunque basta fare uno più uno per ottenere Giving Up The Ghost. Ovviamente il discorso non può esaurirsi così, perché l’album, anche se derivativo, sa imporsi alle orecchie dell’ascoltatore. Shadows, con la sua andatura solenne, vive di atmosfere malate e nerissime, come se nel cielo del 2000 non ci fosse più spazio per la luce ma solo per le ombre e le tenebre. Praise, di contro, assume i contorni di un omaggio veloce e sentito al post-punk crepuscolare di vent’anni fa. Come dire che niente è più moderno di ciò che moderno non è più. tato. Non si esce vivi dagli anni ’80, diceva qualcuno sei anni fa. Questo è certamente vero – quando il gioco si fa pesante e il tutto diventa una parodia macchiettistica di scarsa qualità – ma attenzione a non esagerare. I Windsor For The Derby hanno pagato ampiamente dazio a coloro che sono venuti prima. Ciò nonostante suonano buone canzoni dark. E per la generazione antagonista al monopolio paninaro dei Duran Duran è nuovamente tempo di gloriosi amarcord. (7.0/10) E se The Front predilige chitarre acustiche adornate da effetti cristallini di sottofondo – un’oasi di pace all’interno di uno scenario apocalittico – la successiva Giving Up sembra spazzare via ogni certezza di quiete con una deriva strumentale dai toni dimessi nella forma ma drammatici nel risul- Non c’è molto da dire su questo nuovo disco di Steve Wynn. Davvero. E’ ormai assodato come l’ex Dream Syndicate sappia districarsi tra profondità e sbrigliatezza, sciorinare l’energia di un ventenne e la pensosità del quarantenne con una disinvoltura che non potresti definire altrimenti che Manfredi Lamartina Steve Wynn & The Miracle 3 ...tick...tick...tick (Blue Rose / IRD, settembre 2005) rock. Quel rock essenziale e umorale (chitarre, batteria, piano, organo, qualche effetto sulla voce e nulla più) capace di fare liturgia e baccano, poesia e incendio. Quel rock che lui ama più che se stesso, o almeno più che la sua manifestazione fisica e mediatica (da sempre spiegazzato angelo wendersiano con l’inquietudine nascosta sottopelle). Ecco, il programma di …tick… tick…tick (una bomba sul punto d’esplodere? E dove?) è una delle tante possibili realizzazioni pressoché perfette di questa “poetica”, visto con quale agilità si passi dal riffarama distorto di Wired alla folk ballad tesa e younghianamente indolenzita di Freak S t a r, d a l c o u n t r y - p s y c h s c o r butico di Killing Me alle cupe ascendenze errebì d i Yo u r Secret. Come al solito, Wynn – accompagnato dagli ormai fidi Miracle 3 – non inventa nulla. Non un grammo di ciò che si sente rivela combinazioni inaudite. Di peculiare c’è Wynn stesso, la sua totale dedizione alla causa, la fidu- sentireascoltare 61 cia nel fatto che il rock possa scavalcare l’ostacolo, sbrecciare il non-detto. Così ci ritroviamo di a fronteggiare la lunga Deep End, sognante e dispersa come malinconia Flaming Lips (ma senza la loro sistematica disarticolazione/ trasfigurazione), il piano e la lap steel a disegnare miraggi declinanti, la tradizione (il country folk) come base, supporto, presidio della visione ultraterrena Pink Floyd, ed ecco, ecco che ci trema dentro qualcosa. Similmente avviene, seppure in diverso grado e intensità, con le sgroppate tra sincopi funk di Wild Mercury (che tra chitarre al vetriolo e sospensioni in punta di piano rimanda a certe sfuriate dell ’ u l t i m o C a v e ) , c o l To m P e t t y a go-go di Bruises, con quell a Tu r n i n g O f f T h e T i d e c h e è praticamente una Vampir e B l u e s ( N e i l Yo u n g , O n t h e beach, per quei due o tre a cui sfuggiva) riesumata da un bagno anfetaminico. In ognuna, amarezza e fatalismo vanno a braccetto in una giostra febbrile, affrontando le sterzate e sferzate della vita con beffardo savoir faire (la dolceagra C i n d y , I t Wa s A l w a y s Yo u , i l garage blues di All The Squares Go Home con due organi incendiari). Infine cercando e trovando compimento nella c o n c l u s i v a N o To m o r r o w , n e t tamente divisa in due parti: la prima svelta dal cuore agro, tre assolo in contemporanea che s’intrecciano pungolando il nervo della questione, Steve che nell’ultima strofa si nevrastenizza bowianamente; la seconda più quieta apre ad una pacificazione/rassegnazione emotiva, dove paradossalmente il “no tomorrow” diventa additivo amorevole. Il finale ci lascia dunque questa contraddizione, questa speranza tigliosa. Pura essenza Wynn. (6.5/10) Stefano Solventi 62 sentireascoltare ZU – The Way Of The Animal Powers (Xeng / Wide, Novembre 2005) Nuovo cambio di formazione, con relativa – ennesima - trasformazione musicale per la band romana, che questa volta si avvale del fondamentale apporto del violoncellista Fred Lonberg-Holm. La collaborazione con quest’ultimo, che nel suo curriculum può vantare nomi grandiosi, tra cui quello di Anthony Braxton, testimonia del grande credito che i Nostri hanno acquisito negli ambienti dell’avant-jazz internazionale. The Way Of The Animal Powers (nato grazie alla collaborazione con la giovane etichetta italiana Xeng) spazza via quell’approccio quasi punk, violento e irruento che aveva caratterizzato la band in precedenza, per spostare il sound su un avant-jazz più riflessivo e pacato, ma non per questo di semplice ascolto. L’ a t t i t u d i n e r o c k d e g l i Z u n o n si perde, ma sopravvive nei singoli elementi. Alla base c’è tanta improvvisazione. Un’improvvisazione che nella sua libertà più o meno esplicitata, mira all’unità timbrica piuttosto che alla separazione dei singoli elementi. Il violoncello e il sax di Luca Mai raggiungono un affiatamento coinvolgente e molto stimolante all’ascolto ( To m A r a y a I s O u r E l v i s , T h e Aftermath) e la compattezza diventa una caratteristica sonora facilmente percepibile per tutta la durata del lavoro (circa 25 minuti). Un lavoro tutto strumentale che lascia spazio solo in un’occasione alla voce del batterista Jacopo Battaglia (Every Seagull Knows), che si occupa anche dei campionamenti in Anatomy Of A Lost Battle. Primitivismo ripetitivo, spigolature no wave e umorismo farciscono la base avant-jazz-rock di un disco bello, impegnativo, vivo. Non rivoluzionario, ma sicuramente imperdibile per gli amanti del rock avanguardista. (7.0/10) Daniele Follero dal vivo Akron/Family - La Bohemienne, Bari (8 novembre 2005) Ci si aspettava un gruppo alt. folk, una pila di melodie ispirate e più o meno strutturate, appena spruzzate di effetti e giocattoli vari ed eventuali quello che la band definisce “bric à brac” - così come compaiono su disco. E invece, sulla piattaforma del club jazz barese La Bohemienne (locale su cui, dopo vari spostamenti di location, è caduta la scelta degli organizzatori), gli Akron / Family propongono un set basato essenzialmente sull’alternanza programmatica di crescendo e diminuendo, silenzi acustici ed orge spaccatimpani costruite ad hoc, che li avvicinano notevolmente alla psichedelia o al noise. Si parte a cappella, con la beatlesiana Awake, dal nuovo split con gli Angels of Light (che sono poi sempre loro più il santo patrono Michael Gira), che a meno della metà si frantuma in una free-form/noise in cui la band pare trovarsi perfettamente a suo agio (il tutto ricorda molto da vicino i migliori Animal Collective). Dana Janssen picchia sulla batteria, mentre Miles Seaton al basso, al centro, si contorce come se fosse preso da un attacco epilettico. Dal vivo molte canzoni si capovolgono nel loro quasiopposto formale, come succede alla splendida Suchness, cantata e scritta da Seth Olins k y, a l l a s e c o n d a c h i t a r r a , banjo, campanelle e persino, a tratti, percussioni. Nel caos programmato del quartetto qualcos’altro resta fedele allo spirito del lavoro casalingo del loro self/titled: è il caso di Running, Returning, fiore all’occhiello dell’album. La canzone, scritta e cantata d a R y a n Va n d e r h o o f , h a f a t t o gridare agli Akron/Family come ai nuovi Radiohead e qualora la prova hi-fi non fosse stata convincente a sufficienza, ascoltarla stasera spaccata in una prima parte strettamente melodica (solo chitarra e voce) e in una seconda eseguita nel full sound delle sezioni al completo toglie ogni dubbio: è drammatica, tesa, dolcissima - condensazioni di pathos ed armonia del genere non si sentivano dai tempi di Kid A. Si prosegue con I ’ l l B e O n Wa t e r, m o m e n t o d i tranquillità che lascia spazio quasi immediatamente ad una tempesta ritmica largamente improvvisata in cui tutti e quattro i membri della band si alzano in piedi e cominciano a pestare il pestabile, condendo il tutto con feedback assordanti. Appena più tardi, fedeli allo schema della calma dopo la tempesta - e della tempesta dopo la calma - gli Akron/Family si spostano in mezzo al pubblico ed intonano senza amplificazione una sorta di salmo arrotolato attorno al verso centrale “love and space”, ancora una volta rigorosamente a cappella. La capacità di fare silenzio del pubblico di questo locale jazz ben fuori dell’impero viene messa a dura prova, quindi praticamente il canto si riverbera soltanto nei primi schieramenti di tavolini. La band ringrazia e a cose fatte si sposta ancora una volta, l’ultima, sul palco. E si cimenta con l’esecuzione di uno dei nuovi pezzi extra-album d’esordio, Raising the Sparks, cantata contemporaneamente da tutti i componenti, tra arrangiamenti profondamente 70’s e urlati onomatopeici. E’ finita. E mentre la “famiglia” si sposta a raccattare qualche drink i più interessati sembrano piuttosto basiti. Live dell’anno? Marina Pierri Langhorne Slim – Kulturni Dom, Gorizia (2 novembre 2005) A proposito di Langhorne Slim. Leggendone su pagine anglofone lo trovavamo accanto a nomi come Roy Acuff e Bill Monroe, non potevamo non essere d’accordo: When The Sun’s Gone Down affonda deliberatamente nel puro bluegrass anni ’40 e nell’honkytonk dei ’50, certo inaffiando la formula con pesanti dosi di benzedrina, come un 33 giri mandato a 45. Ma sulla stampa italica quel paragone pressantissimo coi Violent Femmes ci sembrava forzato, non inesatto per carità, ma dettato più dalla presenza di Malachi figlio-di-Victor DeLorenzo in organico che da una reale discendenza stilistica. Ci dobbiamo ricredere. Qui a Gorizia - senza banjo, armonica, fiati e tutta la masnada di amici che il nostro Slim è solito portarsi appresso (e coi quali ha registrato dal vivo il suo primo EP Electric Love Letter l’anno scorso, ndr), in formazione sentireascoltare 63 Scout Niblett unplugged a tre, chitarra-contrabbasso-batteria - il paragone con la band dal Wisconsin non ci fa più storcere il naso. Lo sguardo di Slim è sempre affetto da venereo strabismo verso Nashville e il cosiddetto “Piedmont” (più che al free e al punk dei VF), ma la sezione ritmica fa la differenza. È proprio Malachi quel batterista? Il suo stile porta in ogni caso il marchio DeLorenzo, per l’andatura da locomotiva delle bacchette contrappuntata da squadrati e incalzanti colpi di cassa Pam! Pam! Pam! - assenti su disco - che stimolano fisicamente il battimano. E Paul? Il contrabbassista è pure in linea con la tradizione (?) di Ritchie, con quei poderosi saliscendi sulle corde. Langhorne Slim trova così un terreno ideale per i suoi numeri da busker con-tutti-i-crismi, con le sue scarpe rotte, il 64 sentireascoltare completino di velluto sdrucito, il cappello di feltro, la voce nasale e le danze e i girotondi forsennati in cui si lancia.La scaletta sembra essere decisa di volta in volta dai tre musici, che si mandano ampi sorrisi e cenni d’intesa, nonché fragorose sghignazzate dietro ai numeri più goffi del front-man, dettagli secondari che però accentano il clima di assoluta positività del concerto. La perfetta intesa non solo musicale fra i tre si fa sentire, sicchè ai cori urlati il pubblico non può fare a meno di rispondere, non solo nei classici stomp I Will, In The Midnight, ma anche nei brani che su disco apparivano più rilassati come Electric Love Letter (con quel flò-oò-oò-oòw che rapisce inevitabilmente gli avventori), mentre in pezzi come I L o v e To D a n c e S l i m h a m o d o di divagare in lazzi e battute. Ve n g o n o e s e g u i t i a n c h e i b r a n i esclusivi dell’EP come Lord e pure qualche inedito (una cover del gruppo famigerato?). Le poltroncine dell’auditorium del Kulturni Dom s’impegnano a frenare gli entusiasmi, ma col ritmo di Loretta Lee Jones è impossibile stare fermi e, anche dopo il bis, è inevitabile volerne ancora. Gioia e umiltà che confortano, nessuna next big thing, “solo” un buon amico in più. Lorenzo Filipaz Scout Niblett - Circolo degli Artisti, Roma (16 novembre 2005) Quattro anime stasera, al Circolo degli Artisti. Seduti ai pochi tavoli in fondo al locale, che chiacchierano e sorseggiano vino. Come sempre, in queste occasioni, quando cioè la popolarità dell’artista in programma raggiunge al massimo te, il tuo amico a cui hai fatto sentire il disco e tuo cugino, che è più piccolo e quindi va educato. Poco male. Non c’è ressa all’entrata, c’è spazio in abbondanza all’interno e soprattutto si respira. Condizioni ottimali per ascoltare quella piccola furia di Scout Niblett, una esile biondina dalla chitarra infuocata e voce di velluto. Ve s t i t a d i n e r o , c o n u n a b i to smilzo dall’orlo scucito ed un fermaglio tra i capelli a caschetto (niente parrucca, questa volta), presenta il suo ultimo Kidnapped By Neptune (Lain / Goodfellas, maggio 2005) con tutta la sua timidezza, abbagliante quando è in perfetta solitudine (la toccante litania di Relax), con gli occhi cerulei persi nel vuoto o piantati per terra che fuoriescono, per contrasto, dal pallido viso. Un’ugola che riesce a zittire anche i più distratti tra i presenti, capitati da queste parti per puro caso, e che divora con la sua potenza, l’aggressività che non sospetti possa nascondere, che non riesci a capire da quale parte del corpo venga fuori, quando accende di elettricità la sua chitarra e si fa accompagnare alla batteria dal quel metronom o v i v e n t e c h e è To d d T r a i n e r (insieme ad Albini, la ragazza ha 2/3 di Shellac al seguito…), impietoso macinatore di ritmo, tanto da scuotere anche il pavimento. Essenziale, lineare, ripetitiva fino all’ipnotismo, Scout, divisa tra il suo strumento principe e la batteria , come nella suadente Pom Poms dall’andamento strascicato, ma capace di improvvise virate, di scosse sismiche dal suono pulito e diretto (lo scalpitio scintillante di Kidnapped By Neptune, le asperità grunge di Lullaby For Scout In 10 Ye a r s ) , d i b a l z i u m o r a l i d e c i samente femminili. Più di un’ora di rigenerante vigore e assieme delicatezza, che spazza via qualsiasi dub- bio: Cat Power un concerto del genere non arriverà mai a farlo. Va l e n t i n a C a s s a n o Marta Sui Tubi - LaCasa139, Milano (10 ottobre 2005) Ci sono gruppi che sembrano condannati a suscitare reazioni contrastanti, incapaci come sono di passare inosservati, e irrimediabilmente destinati a dividere. I Marta Sui Tubi sono tra questi. Succede così che, come coloro i quali per sentito dire continuano ad interrogarsi sulle origini del criptico nome della band (intenti come gli idioti a fissare il dito ignari del bellissimo squarcio di cielo apertosi sulle loro teste), ugualmente chi ne sottovaluta la reale abilità continuerà a covare il sospetto che certe evoluzioni vocali e strumentali, su disco siano una cosa e su palco un’altra. Ma fin qui, si sa, è storia vecchia. Ciò che sconcerta è invece la loro capacità di saper stupire di volta in volta anche i fan di vecchia data. Perché anche portando sulle spalle decine di frequentazioni, tra centri sociali e fugaci apparizioni sul cartellone di inverosimili festival, non sarà facile dimenticare questa serata. E’ la prima del tour di C’è Gente Che Vuole Dormire e ci si ritrova ammassati ed in piedi a ridosso del piccolo palco della Casa 139. Un locale che, pur facendo dell’ accoglienza la propria bandiera, ha sempre ospitato agevolmente le loro esibizioni passate come quelle di artisti più affermati. Non questa volta, però, visto che il consueto salotto in cui generalmente si assiste agli spettacoli placidamente assisi al proprio tavolino o al massimo accucciati al suolo, è preso d’assalto da un’orda di giovani milanesi improvvisamente accesisi di una travolgente passione nei confronti di que- sto trio siculo. Un entusiasmo che, se late durante l’esecuzione dei primi pezzi tratti dal nuovo disco, letteralmente deflagra in un’ inaudita partecipazione, non appena risuonano le prime note del fortunato s i n g o l o Ve c c h i D i f e t t i . E’ l’apoteosi. Tutto il pubblico canta, come mai era successo, sortendo un effetto karaoke che in certi frangenti assume toni surreali. Lo sbigottimento iniziale, che non più è solo dei fan ma soprattutto dei visibilmente increduli componenti della band, lascia, come da copione, spazio al puro godimento e il concerto si trasforma in una marcia trionfale che sa tanto di consacrazione. Il giusto riconoscimento per un gruppo formidabile che dal vivo trova la propria reale dimensione anche monetizzando al massimo la propria spontanea vena comica, che non fa mancare gag esilaranti, tra siparietti e frecciate non propriamente politically correct. Adesso i soliti noti non vedranno l’ora di dar fiato alle proprie trombe, ma stasera non c’è tempo per spendersi e perdersi in aride discussioni sul sesso degli angeli o su q u e l l o d i M t v. S t a s e r a a p p l a u diamo tre ragazzi che hanno fatto il botto. G i a n l u c a Ta l i a Kaiser Chiefs - Circolo degli Artisti, Roma (14 novembre 2005) È stato sufficiente trovarsi nelle prossimità dell’ingresso del Circolo degli Artisti per capire che tipo di concerto avrebbe avuto luogo quella sera: un evento, non una band che suona e sta promuovendo il proprio disco d’esordio, come accade normalmente. Già, perché non solo il concerto è sold out, ma molta gente resta fuori, e ciò la dice lunga sulla notorietà dei Kaiser Chiefs. È un pubblico molto variegato, per età ed aspetto, quello che aspetterà a lungo l’inizio del sentireascoltare 65 S i s u s s e g u o n o M o d e r n Wa y, B o r n To B e A D a n c e r , N a N a Na Na, ognuna accompagnata da un rituale diverso, che si tratti dello stage diving o dell’appendere il microfono ad una trave del soffitto, lo show è interamente incentrato su Wilson. I musicisti si dimostrano comunque all’altezza del compito, le tastiere di Nick “Peanut” Baines e la chitarra di Andrew White ricamano motivi sixties che sottolineano le ascendenze dei K a i s e r, i v a r i X T C , K i n k s , J a m e Blur (i parenti più prossimi del quintetto, cui manca però la verve genialoide del gruppo di Albarn). C’è anche il tempo per un siparietto karaoke, Wilson invita una ragazza sul palco a cantare Oh My God, riscuotendo pure discreti applausi. Chiudono i tre quarti d ’ o r a d i l i v e c o n u n b i s , Ta k e my temperature, inclusa solo nell’edizione giapponese del 66 sentireascoltare Kaiser Chiefs live, tuttavia non si tratta di un pubblico casuale, ma che sembra conoscere i testi e fa i c o r i a l m o m e n t o g i u s t o . Ve niamo al dunque: niente gruppo spalla, la band, il cui nome deriva da una squadra di calcio sudafricana, sale sul palco alle undici meno un quarto, accompagnata dall’intro di un pezzo dei Dire Straits ( Money for nothing, sì,proprio quella lì!), una scelta davvero di cattivo gusto, e quel che è peggio, non credo si trattasse di ironia. I Kaiser aprono con Saturday Night, sciorinano diligentemente l’album d’esordio, Employment, bruciano già al terzo pezzo il sing o l o E v e r y d a y I L o v e Yo u L e s s And Less, in pratica suonano come un gruppo consumato (e pensare che il biondastro vocalist Ricky Wilson è reduce da un collasso sul palco…) Tutto qui, allora? Le canzoni conservano il sound pulito e dall’impatto istantaneo del cd, giusto un po’ più nervose, come si conviene di fronte ad un pubblico in visibilio. cd. Ci si domanda se ricorderemo i Kaiser Chiefs tra una stagione o due, la sensazione è che dietro le canzoni (comunque ben scritte, levigate e derivative quel tanto che basta) non ci sia una vera identità da band. Forse solo il secondo album svelerà le reali doti degli albionici. Un chiaro segnale delle ambizioni del gruppo, invece, è dato dal merchandising: magliette, cravatte, sciarpe da stadio, spillette, di tutto …tranne i dischi. Italo Rizzo we are demo a cura di Stefano Solventi Inauguriamo la rubrica con quattro lavori molto diversi tra loro. Si parte con Raven Sad, al secolo il toscano Samuele Santanna Boschelli. Suona la chitarra in non specificati gruppi progressive rock, ma - come egli stesso si premura di informarci – i suoi veri punti di riferimento sono altri: Nick Drake, Red House Painters, Jackson Brown. A sentire le tracce in scaletta di Raven Sad and other stories – in cui fa le veci di produttore, autore, chitarrista e cantante - direi più Sparklehorse e Robyn Hitchcock (come nell’incedere tra il marionettistico e l’allibito di Stars) con frequenti declinazioni Mojave 3, il cui sdrucciolare onirico è evidente in Movin’ around e nel finale di Those good words. Organi e pianoforti, chitarre elettrificate o meno, valzer mesti e frusti, trasporti obliqui come talora gli Elbow (si ascolti Bartender), bucoliche digressioni folk/prog (a complicare la magia liquida di The hell we have), cupezze baldanzose circa Dire Straits (Try to understand) e addirittura brumose collisioni spacey (Have no time): l’insieme è un po’ malfermo, sembra quasi reclamare una produzione più robusta e consapevole, ma la scrittura è piuttosto ispirata, figlia evidente di una passione genuina. Peccato per la pronuncia inglese, un po’ legnosetta, che finisce col guastare il già non brillantissimo timbro vocale: perché non fare un pensierino all’italico idioma? Anyway , non merita meno di 6.5/10. Sembrano invece a loro agio con l’inglese i Cherif Galal, progetto circa il quale ahinoi non ci è dato sapere molto. Per notizie più precise non resta che attendere che il loro sito esca dal desolante stato di “under construction”. Dunque considereremo omonimo questo disco, ma la verità è che un titolo non è stato ancora deciso, e in compenso non c’è neppure uno straccio di copertina con relative note. Se non altro le idee sonore sono chiare e vivide: un folk-pop bagnato di vapori sintetici eighties, nel solco di un’accomodante propensione melodica che gioca con certe crepuscolari suggestioni Psychedelic F u r s / Te a r s For Fears, come appare chiaro in quella The mirror che potrebbe essere un cocktail soffice e ombroso di The ghost in you e Pale shelter . Sette pezzi agili, a volte un po’ troppo ruffianelli (il romantic-AOR di My u n i v e r s e , l a f a l s a r i g a Ve r v e / Smiths della conclusiva Travelmind) ma sempre ben curati, sorretti da idee efficaci e quasi mai gratuite, come le iridescenze spaziali nella trepida I’m thinking about u (For u) o quello stemperare l’empito A-Ha tra burle New Order in Fears ‘n troubles. Ok, non è il genere che mi fa sobbalzare, però il fatto che una band ancora in fieri se ne esca con tante intuizioni e immediatezza da fare impallidire i primi Starsailor che mi vengono in mente, mi sembra evento considerevole. E meritevole di un ricco 7.0/10. Chi invece non ci fa mancare credits e copertina (puntuali i primi, piacevolmente demoniaca l’altra) sono i Pater Nembrot, trio romagnolo dedito ad un blues rock acido e febbrile, capace di masticare sardoniche disanime à la Marta sui Tubi(i testi sono in italiano), strafottenza QotSA e nevrosi Fu Manchu con brusca naturalezza. Sentiteli come negli otto pezzi che compongono questo Hombre scarlatte masticano rumba infernale e trame stoner (accade in Bonsai, tra sfrigolamenti Hendrix e coretti fantasma), sentiteli scattare funk e garage nel boogie stecchito di Elettrica noia, sentiteli ripercorrere cimiteriali brume Black Sabbath, scorribande Motorhead e sabbiosità Kyuss nella conclusiva, ipertrofica Se un giorno è grigio il mondo. A tratti lo stereotipo l’inchioda, ma a riscattarli ci pensano l’asprezza beffarda, quella sottile vena parodistica e una laconicità che potrebbe insegnare qualcosa agli One Dimensional Man. Senza contare la disinvoltura con cui in Fastidi danzanti crogiolano torrida psichedelia, frenetici tribalismi e scellerati vortici sci-fi, o come quasi ovunque il canto faccia slalom tra amarezza e understatement, dimostrando ulteriormente quanto il frutto sia già bello maturo. Bravi, 7.2/10. Con l’ultimo cd-r cambia drasticamente lo scenario, il panorama, l’atmosfera. Macbeth è un altro di poche parole. Di lui (lui?) non ci è dato sapere che lo pseudonimo, una mail stringata & pacata, l’impalpabile angoscia della copertina e - naturalmente - le canzoni di Con un brivido in seconda battuta. Canzoni? Sì, almeno per come si possano concepire alla luce di quel post-rock che, dopo l’iniziale tabula rasa, è tornato sul sentireascoltare 67 campo di battaglia a soccorrere i corpicini disastrati, inventandosi nuova tenerezza e nuove trepidazioni. Canzoni, certo, fragili e mute, in cerca di riscatto tra la decadenza e la poesia del quotidiano. Potremmo tirare un filo invisibile tra Early Days Miners e Giardini di Mirò e nel mezzo rintracciare le coordinate di queste architetture palpitanti. Che molto però devono anche all’esotismo nordico dei Mùm (le evanescenze, il piano elementare, l’incedere placido tra spazi vaporizzati di Piccole solitudini a colazione) e alla allure pop-soul di certi Lali Puna (i riverberi d’organo, di chitarrine e di elettroniche varie in Rester ou sortir?). Frammenti delicati, romanticismo angoscioso, sensi di perdita e strane elevazioni, sensi di vuoto che disseppelliscono addirittura i Songs: Ohia più scarni (in Quello strano silenzio dopo l’abbraccio) quando non i Floyd di Wellcome to the machine (in La sequenza delle anime erranti). Prima che pensiate di avere già dato con questo genere di cose, sappiate che ne sono convinto anch’io, e che pure questo disco mi ha intrigato come una ragnatela di zucchero, misteriosamente amara. Da tenere d’occhio, soprattutto se saprà spostare l’obiettivo in manier a d e c i s i v a . Vo t o 7 . 1 / 1 0 . 68 sentireascoltare classic Maurizio Bianchi Plasticità e forme dell’anima di Filippo Bordignon Il padre della musica industrial italiana. Tra i più affascinanti misteri dell’underground di sempre, Maurizio Bianchi racconta con precisione e schiettezza un percorso artistico di estremo rigore alla ricerca delle radici primordiali del Suono. Dietro il volto dell’uomo e davanti a quello di Dio. Ricordando l’esibizione londinese dei Pink Floyd tenutasi il 29 Aprile del 1967 all’Alexander Palace Daevid Allen rilasciò il seguente commento: “Syd Barrett suonò la slide e mi esplose il cervello: sentivo echi di tutta la musica ascoltata nella mia vita, con reminescenze di Bartok e di dio sa solo che altro”. L’ a b i l i t à d i c e r t i m u s i c i s t i s t a proprio nell’inglobare, con estrema naturalezza, le proprie esperienze/ convinzioni sonore e di plasmare un prodotto sì originale ma aperto ad esperienze sensoriali completamente diverse a seconda dell’ascoltatore. Non è abilità di molti e (ancor più) è inspiegabile a parole cosa intercorra a determinare la buona riuscita di certe operazioni artistiche. Ma anche l’Italia può vantare, in ambito (pop)olare (altro discorso sarebbe da tenersi in sede di musica colta analizzando l’opera dei vari Berio, Nono, Scelsi…) una figura prestigiosa e underground che risponde al nome di Maurizio Bianchi. Di lui non si conoscono che scarsi particolari: nato a Pomponesco in provincia di Mantova nel 1955 (oggi risiede a Milano) esercitò la professione di giornalista musicale dalla secon- da metà dei ’70 fino all’83 per Mucchio Selvaggio, Rockerilla e Ultimo Buscadero. Fu tra i primi a parlare di punk, new wave, no-wave in maniera approfondita e con cognizione di causa. Poi la musica. Nel fondamentale Manuale della cultura industriale (Shake Underground edizioni) lo si definisce “(…) figura carismatica e quasi mitica”. Persino la sua immagine è stata per molto tempo un mistero; non c’è tuttavia traccia di pretenziose strategie di mistificazione dell’idolo alternativo, non c’è, assicuro, nulla di forzato nel mistero della sua vita/ opera (che ogni filosofia è in fondo un autobiografia scevra di nomi ed episodi). La sua opera vanta continue ripubblicazioni, e una voglia sfrenata di ‘possedere’ la sua discografia spinge i fan della prima ora nella giungla delle registrazioni semi-ufficiali, dei bootleg, delle costose edizioni straniere, delle preziosità da collezione di certe raccolte di musica estrema pubblicate dal mercato giapponese. Dopo una prima esperienza di punkrock (di cui non esistono documentazioni sonore) Maurizio, battezzatosi Sacher Pelz, autoproduce quattro album oggi raccolti in un cofanetto a titolo Mutation For A Continuity (Ees’t, 2002). Si tratta di C a i n u s , V e n u s , C e a s e To E x i s t e Ve l o u r s ; a l b u m q u e s t i , registrati tra l’agosto del ’79 e il marzo dell’80. Angoscianti elucubrazioni strumentali di derivazione concreta filtrate attraverso l’estetica industrial ma già indicative di uno stile personalissimo che trascende ogni descrizione. Il sentireascoltare 69 ritmo è inesistente, non sono utilizzati strumenti musicali; è, in breve, una musica fatta di niente (nell’accezione più elevata del concetto come saprà intendere, vent’anni più in là, Thomas Brinkman nel suo capolavoro Klick). Queste improvvisazioni, questo caos controllato trovano forse una chiave di lettura adeguata parlando di muzak del nichilismo assoluto. I titoli parlano chiaro: Satan Slaves, Massacre On Cielo D, La Cartilage Palpitant. Così come la Metal Machine Music di Lou Reed o la Broken Music di Milan Knizak, anche questi pezzi posso essere ascoltati a partire da qualsiasi solco del vinile: l’effetto non cambia. Non esiste un intro, non è rintracciabile un filo conduttore che faccia leva sul principio dell’enfasi. Tutto è perversamente obnubilato dalla lettura di un mondo alla deriva. Ma se il rumorismo dei Throbbing Gristle necessita quattro individui e quattro intenzioni al soldo di uno scopo più o meno preventivato (distruzione e ricos- 70 sentireascoltare truzione) in Bianchi una sola mente è in grado di delineare con forza e credibilità spazi fisici ben definiti e agghiaccianti. Intenzionalmente simile a certe orge sonore di Nigel Ayers (mente del progetto Nocturnal Emissions) e del giapponese Merzbow (coi quali, tra l’altro, il nostro era in contatto) l’unicità dell’opera di Bianchi sta in una sorta di indescrivibile sfibramento di una tensione dinamica ben tratteggiata solo attraverso l’ascolto dei suoi album. Il resto è retorica. Disquisire su un titolo piuttosto che un altro pare intellettualizzazione da salotto borghese. La sua opera va letta in blocco. Le sue immagini vanno condivise o rinnegate. A nome MB escono poi lavori epici che fanno del nostro il godfather del movimento industrial internazionale: Symphony For A Genocide, Menses (’81), Triumph Of The Will , Weltanschauung (’82), Regel, Mectpyo Bakterium (’83). Tutte (o quasi) tappe autoprodotte. Tutti tasselli recentemente rimasterizzati (per quanto possibile) e più o m e n o r e p e r i b i l i a l l i n k w w w. theesonicabyss.com/mb.html. M a l a l i s t a c o n t i n u a : D a s Te s tament, Endometrio (’82), Carcinosi, The Plain Truth (’83) e Armaghedon (’84) sottolineano l’evoluzione e l’affinamento di un talento indiscutibile attraverso anticipazioni di death ambient e drone-music per incubi terminali. Non ci sono canti o cantanti nell’opera di Bianchi. Egli rifiuta le concessioni all’orecchio del P-Orridge di D i s c i p l i n e o d e i N o n d i To t a l Wa r. È e s t r a n e o a l l e v i r a t e neo-psichedeliche di famiglia P s y c h i c T V. N o n s u o n a ‘ e l e t tronico’ quanto Merzbow ne gratuitamente provocatorio, alla Mathausen Orchestra. Nei suoi articoli, nelle note di copertina, nelle immagini impiegate per gli album tutto sa di ‘manifesto’ e tutto, in maniera obliqua e talvolta criptica, respira una profonda conoscenza storico-musicale unita al gusto per la boutade apocalittica dopo la quale il mondo potrebbe anche spezzarsi a metà. Le sue parole vanno studiate, le sue intenzioni propagandate quanto più possibile. Già da una registrazione come Endometrio non si trattava più di industrial secondo un dettame italico; la soluzione è il conio di una musica ‘bionica’ “(…)ottenuta in contrapposizione alla musica per sintetizzatore e a quella ottenuta con l’impiego del calcolatore” (dalle note di copertina di Endometrio). Suoni cioè, ricavati sinteticamente dalla manipolazione e trasformazione di sorgenti elettroniche preregistate. Il nostro punta all’asetticità, a tratteggiare un decorativismo inguardabile, o meglio, difficilmente ascoltabile. Un Brian Eno al contrario, s’azzarderà. Poi la svolta: a partire dall’84 l’artista si ritira dalle scene (complice la conversione alla Chiesa d e i Te s t i m o n i d i G e o v a ) . L a scoperta di un Dio sopra ogni altra volontà pare destinarlo a ben altri percorsi ma inaspettatamente, nel ’98, esce il primo capitolo di una trilogia metafisica che sancisce una rinascita artistica di tutto rispetto. La trilogia è composta da Colori (Ees’t ’98), First Day Last Day (Ees’t, ’99) e Dates (Ees’t, 2001) e il territorio è quello di un ambient dalle tinte filosofiche e religiose. Le più recenti pubblicazioni invece sembrano riaffiancarsi alle cacofonie degli ’80; da segnalare senza dubbio alcuno Frammenti (Ees’t, 02), Antarctic Mosaic (Ees’t, ’03) e Cycles (Ees’t, ’04) che esplora la possibilità tra loop e pause. Degne di menzione, tra le molte collaborazioni dalla sua fitta discografia, gli album a tiratura limitata Chaotische Fraktale (Ees’t, 2003) operato? Parlavi di Thomas Leer quando nessuno lo aveva sentito nominare... Sia la musica che la scrittura mi hanno attirato sin da ragazzo, ma in definitiva è stata la mia istintività a darmi l’influsso maggiore. e L e t z t e Te c h n o l o g i e ( E e s ’ t 2004) con il compositore Sandro Kaiser (in arte Frequency In Cycles Per Second) responsabile, assieme a MB, pure delle immagini manipolate al pc in esclusiva per Sentireascoltare. L’ i n t e r v i s t a Maurizio, quali erano i tuoi rapporti con la Industrial Records e con i suoi fondatori? Agli esordi c’era un vivo interessamento da parte mia, ma poi si è affievolito quando sono riuscito a creare un mio discorso personale, non più condizionato dalle altrui elucubrazioni. Come giudichi la reunion di ‘istituzioni’ come Throbbing Gristle? Visti recentemente dal vivo, devo ammetterlo, suonano piuttosto assorbiti da un genere ormai trito e ritrito. La domanda è perciò: possibile aggiornare l’industrial? Non voglio addentrarmi su opinioni riguardo i Throbbing Gristle, ma penso che l’aggiornamento sia dettato dalla volontà di volersi confrontare con l’evolversi dei tempi, senza vane ripetizioni. Come giudichi la svolta dance di alfieri industrial come Cabaret Vo l t a i r e e Clock D VA ? No comment. Fine musicologo e abile scrittore, a chi attribuisci la maggiore influenza nel tuo Hai mai subito la fascinazione di un certo tipo di nichilismo intellettualistico? Solamente quando disarticolavo le mie recensioni su Rockerilla e sul Mucchio Selvaggio. Con che criterio scegli il materiale che finirà in un album? Non seguo un criterio ben definito ma mi lascio guidare e sopraffare dagli eventi improvvisati. I l Ta o i s m o s o s t i e n e c h e i l movimento di ‘opposizione a’ sfocia inevitabilmente in un atteggiamento di rigidità mentale (e, ad essere precisi, pure fisica). Contro cosa ti scagliavi durante il tuo primo periodo? Contro lo sterile conformismo e la futilità del materialismo. Persisti in qualche accorata opposizione pure oggi? Oggigiorno mi oppongo con tutto me stesso alla passività e alla staticità mentale, radici di ogni futile pregiudizio. Ti giudichi un puro, una persona costantemente alla ricerca della purezza o un puritano? Sono costantemente proiettato al raggiungimento della Purezza, cosa tra l’altro irraggiungibile allo stato attuale delle cose; ma questo sforzo costante mi permette di rimanere vivo. In un intervista a Radio Popolare dell’83 parlavi di un Nuovo Inizio. Quel cambiamento avvenne, ma dentro di te. I più giudicano il tuo ritiro dalle scene una conse- guenza dell’avvicinamento a l l a C h i e s a d e i Te s t i m o n i d i Geova. Credo però che un’altra determinante sia stata la volontà di non incappare in manierismi auto-reverenziali. Com’è andata, in verità? Entrambe le ipotesi sono valide. Quello che già altre volte ho menzionato in interviste precedenti è che quel momentaneo abbandono è scaturito dalla volontà di evitare inutili e vane ripetizioni, e dal fatto che avevo già espresso tutto ciò che era in mio possesso. Fino ad oggi hai rinunciato alla possibilità di diffondere la tua opera attraverso un sito internet ufficiale che faccia luce sulla tua vasta produzione. In rete le informazioni che ti riguardano sono piuttosto esigue e le tue immagine pressoché inesistenti. Perchè? La Ees’t Records si sta organizzando in tal senso e fra breve si vedranno i risultati. Sei affascinato dalle nuove possibilità della tecnologia? Cosa utilizzi oggi? Com’è cambiato il tuo modus operandi rispetto al tuo primo periodo? Non sono molto affascinato dalla tecnologia, infatti ne uso solo lo stretto indispensabile e, ad esempio, sto tuttora impiegando cose un po’ datate (uso di nastri e di registratori analogici) probabilmente per sentirmi più vicino alle radici della musica sperimentale dei gloriosi anni cinquanta. Qualcuno ha detto: “ La Religione è un lago sterminato al quale si dissetano tanti uomini diversi; ognuno di loro avrà la sensazione di ‘abbeverarsi’ ad un acqua diversa dall’altro ma si tratta in realtà solo di un illusione”. Prendendo per buona questa definizione non sembra poi tanto necessario dirsi di una ‘fazione’ rispetto che di un altra. Esiste una forza spe- sentireascoltare 71 ciale nell’appartenere a questa rispetto che a quella? Se sì non pensi si tratti di un concetto discriminatorio? Ci sono molte dottrine e filosofie al riguardo ma io mi rimetto a ciò che disse il più grande uomo che sia mai esistito, Gesù Cristo: “La vera Libertà deriva dal conoscere l’unica Ve r i t à ” e c h i è i l d e p o s i t a r i o d e l l ’ u n i c a Ve r i t à ? L’ u n i c o v e r o Dio, colui che non è stato fatto a immagine e somiglianza dell’Uomo. Kerouac, per definire la venuta di una generazione umana e angelica al contempo scrisse: “Saranno saggi come serpenti ma inoffensivi come colombe”. Questa definizione mi fa pensare alle azioni dei grandi uomini creativi, a coloro che formularono nuovi linguaggi (James Joyce, Erik Satie, Marcel Duchamp...). Aveva forse ragione Allen Ginsberg nell’affermare che in un mondo ipotetico il potere sarebbe stato concesso ai soli artisti? Innanzitutto Kerouac prese a p r e s t i t o q u e l l a f r a s e d a l Va n gelo che recita: “Siate innocenti come colombe, ma cauti come serpenti”, pur se l’applicazione è diversa… non desidero ipotizzare nessun potere concesso ai soli artisti, ma a l l ’ a r t i s t a c o n l a ‘ A’ m a i u s c o la, il vero Dio, colui che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza affinché riflettesse le sue incommensurabili e meravigliose qualità. Qual’è la differenza tra il rumore evocato da, chessò, Karlheinz Stockhausen ed il tuo? E, in ambito rumorista, qual’è la differenza tra il rumore evocato da te e quello di, ad esempio, Boyd Rice? Preferisco non fare confronti o paragoni. Ognuno è responsabile del… rumore che produce. Sovente le tue opere a nome Sacher Pelz e MB erano arricchite da criptiche note in lingua inglese che, ad ogni 72 sentireascoltare modo, lasciano intendere la volontà di esprimere un concetto ben preciso. Credi che dalla tua musica, frutto per buona parte di un improvvisazione programmata, si possa estrarre il significato che si ritiene più opportuno o le note sopra dette dovrebbero determinare delle coordinate mentali nell’ascoltatore? Preferisco optare per la seconda soluzione. Puoi credere ad una musica in cui non sia esattamente identificabile il significato? Puoi credere in qualcosa in cui non sia esattamente identificabile il significato? Quando un senso non c’è lo si inventa? Posso credere a una musica identificabile in un significato personale, lontano anni luce dalla musica impersonale, quella senza alcun significato. Genet sosteneva che un artista si deve assumere le responsabilità di ciò che crea e delle emozioni che suscita attraverso la sua opera. Cosa pensi di aver indotto nell’ascoltatore di Sacher Pelz? E in quello dell’ultimo Maurizio Bianchi, in quello di Cycles ad esempio? Senti questa responsabilità? Sono pienamente d’accordo sulle responsabilità e la differenza fra le emozioni indotte dal progetto Sacher Pelz e da un lavoro recente come Cycles, quindi non ho nulla da aggiungere. La musica potrà mai recuperare quello status di elemento destabilizzante che aveva un tempo? Penso che la musica non abbia mai avuto questo effetto, ma è l’interpretazione che gli da l’ascoltatore a renderla destabilizzante oppure no. Credi che la vita sia frenata dai preconcetti? Quali sono i più temibili? C’è il pregiudizio e la parzialità, mentre il più temibile è il timore di qualcosa di nuovo e di inconsueto. Ma questo fa parte della futilità umana… Ogni volta che ascolto i tuoi album colgo una forte componente ‘materica’ e, seppure si tratti di pezzi relativamente lunghi, non riesco a tediarmi. A differenza dei wall of sound dei TG (spiccatamente eroticizzanti) il tuo suono mi risulta perfino spirituale. Devo anche aggiungere che la tua opera per intero mi fa immaginare un uomo d’una delicata timidezza. Ci sono andato vicino? Ci sei andato molto vicino. Comunque preferisco, per una questione di coerenza, che siano sempre gli altri a trarre delle conclusioni su di me. Infatti, non per nulla i nostri occhi sono rivolti verso l’esterno… ma se qualche volta fossero rivolti più verso il nostro Io interiore, allora molte cose cambierebbero, eccome! note a margine a cura di Giulio Pasquali Velvet Underground Doug Yule e la reunion del ‘93 Che cos’è un gruppo rock? Qual è la sua natura? Che cosa lo definisce? Le alterne vicende dei Velvet Underground, dall’uscita di John Cale alla discussa reunion del 1993 sono una possibile risposta a questi questiti. A volte le vicissitudini di alcune band portano a chiedersi cosa sia un gruppo rock, quale sia la sua natura, cosa lo definisca. Il nome? La formazione? La linea stilistica? Per dire, i Pink Floyd posticci di Gilmour e Mason sono i Pink Floyd o ne hanno semplicemente il nome? E quali sono i v e r i Ye s , s e c o n t i a m o c h e l a formazione ritenuta “classi- ca” in realtà è durata (salvo reunion degli ultimi tempi) un anno e mezzo sui primi venticinque? Analoghe domande le pone l a r e u n i o n d e i Ve l v e t U n d e r - sentireascoltare 73 ground, avvenuta nel ‘93 e terminata dopo pochi mesi a causa del riaffiorare di antichi dissapori e conflitti di ego, gli stessi che nel 1968 avevano portato Lou Reed a cacciare John Cale dalla band, dando il via a una sorta di soap opera dal finale a sorpresa. Allora il gallese era stato sostituito dal giovane (e meno talentuoso, s e p u r b r a v o ) D o u g Yu l e , m a le manovre del manager Steve Sesnick per fare di costui il leader del gruppo a scapito di Reed avevano poi portato quest’ultimo ad abbandonare i VU durante le registrazioni del quarto disco, Loaded (Atlantic, 1970), tra l’altro in un momento in cui anche Moe Tucker si era momentaneamente allontanata dalla band perché incinta. Yu l e p o r t e r à a n c o r a a v a n t i p e r q u a l c h e t e m p o i l n o m e Ve l v e t Underground, chiamando a sé gli illustri sconosciuti Walter Powers e Willie Alexander e imbarcandosi in una serie di concerti che toccheranno anche l’Europa (immortalati nel cofanetto Final Vu, pubblicato solo in Giappone nel 2001 dalla Captain Trip); dopo l’abbandono definitivo della Tucker - che era stata preceduta da Sterling Morrison nel 1971 - verrà infine pubblicato il famigerato Squeeze (Polydor / Loaded febbraio 1973), regis t r a t o d a l s o l o Yu l e c o n I a n Paice dei Deep Purple. Da molti considerato come l’album dell’infamia, è praticamente un’innocua raccolta di canzoni nello stile del Reed di Loaded, con titoli come Jack & Jane (i protagonisti della ben più illustre Sweet Jane) a dare ulteriore conferma del “ p a r a d o s s o ” d e g l i u l t i m i Ve l vet Underground: una band fantasma, tenuta in piedi soltanto dal ricordo di ciò che fu; inutile dire che l’impatto di Squeeze fu praticamente nullo, già alla sua uscita un pezzo raro per il mercato dei collezionisti. 74 sentireascoltare E i “ v e r i ” Ve l v e t U n d e r g r o u n d ? In quello stesso momento, Reed e Cale conducevano a gonfie vele le rispettive carriere soliste (con Berlin e Rock’n’Roll Animal l’uno, con Paris 1919 l’altro); i VU erano per entrambi acqua passata, se si eccettua l’estemporanea reunion avvenuta al Bataclan di Parigi il 29 gennaio 1972, che vide Reed, Cale e una rediviva Nico protagonisti di un memorabile concerto acustico (per anni disponibile in bootleg, e pubblicato ufficialmente soltanto nel 2003 dalla Alchemy). Da allora, il nome Ve l v e t U n d e r g r o u n d v e r r à u f ficialmente riesumato soltanto nel 1993, quando i superstiti della formazione originale (Reed, Cale, Morrison, Tucker) tornarono clamorosamente insieme per un tour europeo e un album dal vivo (il doppio Live MCMIXIII, Sire, novembre 1993)e per il progetto poi abortito - di un album in studio. Due anni dopo Sterling Morrison muore, e Lou Reed dichiara che a quel punto non p o t r a n n o p i ù e s s e r c i i Ve l v e t Underground. “Eravamo quattro. Adesso siamo tre. Non potrà mai essere come era”. ne che sono passate nei suoi ranghi durante la sua storia, i VU non sono certo quattro: si avvicinano piuttosto alla decina di persone e (almeno) tre incarnazioni. Ma, si obietterà, ha ragione Lou Reed: i veri VU sono i “primi” perché hanno fatto i dischi migliori, q u e l l i d i Yu l e e r a n o i V U s o l o di nome, e se Squeeze ormai è introvabile e non viene ristampato ci sarà anche un motivo. Sul nome, però, lo stesso D o u g Yu l e ( s e m p r e c o n t r a r i a t o dall’esclusione dalla reunion del ’93 e dalle severe critiche ai “suoi” VU) ha detto: “Negli anni ‘60 i gruppi erano democratici e nessuno imponeva nulla a nessuno: se si litigava ci si divideva e la maggioranza si teneva il nome”. Da una parte questa sembrò una forma di rispetto per il passato glorioso di un gruppo costituito da quattro personalità eccezionali che insieme avevano saputo creare qualcosa di superiore alla somma dei loro valori individuali; un omaggio alla versione “storica”, “pura” dei VU. Dall’altra però fa chiedere secondo quale principio e quale idea di gruppo rock non possono esistere i VU senza Sterling Morrison, visto anche che la formazione “storica” l’aveva rotta lo stesso Reed dopo i primi due dischi cacciando C a l e : f o r s e T h e Ve l v e t U n d e r g r o u n d ( Ve r v e , 1 9 6 9 ) e L o a ded sono degli apocrifi come Squeeze? Se decidiamo che un gruppo rock è l’insieme delle perso- I “ s u o i ” Ve l v e t U n d e r g r o u n d sarebbero perciò legittimi, esattamente quanto i primi: tra l’altro i membri storici, a parte Cale, se n’erano anche andati d a s o l i . . . A Yu l e s i p o t r e b b e obiettare intanto che i gruppi spesso non erano democratici per niente - per dirne uno, i Creedence Clearwater Revival - e men che meno i VU, nei quali Reed aveva, come detto, imposto la cacciata di Cale (e non solo); e poi che di solito il nome di un gruppo è posseduto legalmente da qualcuno che decide cosa farne, spesso secondo le richieste commerciali della casa discografica. Dire che i veri VU sono i primi perché erano quelli originali e hanno fatto i dischi migliori significa opporre alla concez i o n e “ d e m o c r a t i c a ” d i Yu l e e a quella legale-amministrativa un’altra idea di gruppo rock, che distingue un nome vuoto da un progetto musicale vivo ed ispirato. Proprio a questo proposito qualcuno, pur ammirando il buon livello delle performance e la magia che i quattro ricreavano sul palco, era rimasto perplesso dai concerti del 1993: la quasi assenza di canzoni nuove (Coyote è ben poca cosa) e delle leggendarie improvvisazioni (a parte la cacofonia old velvet style di Hey Mr. Rain) aveva fatto pensare a molti che l’unico scopo del progetto fosse accontentare chi per vari motivi non aveva potuto vedere il gruppo all’epoca; come vendere una cartolina di un vecchio gruppo realizzata per monetizzare una fama postuma. C’era chi non trovava naturale che dopo oltre vent’anni i quattro si ritrovassero imbalsamati in un’immagine di altri tempi a suonare gli stessi pezzi dei giorni d’oro, in più con la stranezza di Cale che suonava le canzoni di album su cui non aveva suonato. Ma i motivi per cui la reunion era invece perfettamente legittima sono, curiosamente, gli stessi che fanno nascere qualche perplessità sulle affermazioni di Lou Reed. Se Morrison aveva abbandonato la musica da anni e la produzione discografica di Tucker era stata sporadica, la carriera solista di Cale si era invece mantenuta su alti livelli e Lou Reed aveva appena prodotto un’eccellente t r i l o g i a d i d i s c h i – N e w Yo r k , Songs For Drella (proprio insieme a Cale) e Magic And Loss): non si trattava di certo di quattro musicisti bolliti senza più niente da dire, che ricorrono a una reunion come ultima spiaggia. Non c’è nulla di strano nell’idea che quattro musicisti a un certo punto decidano di collaborare di nuovo e di percorrere insieme i pas- si successivi del loro cammino musicale. Inoltre i gruppi sono degli organismi vivi: nella storia del rock ci sono state band che hanno mantenuto sempre la stessa formazione, ma altre nel tempo hanno cambiato organico e stile, e non necessariamente in peggio. Alla fine, quello che conta è l’interazione tra i musicisti che in quel momento si trovano a suonare insieme, conta ciò che effettivamente producono e non l’ossequio al passato o a ciò che il pubblico sia aspetta dal gruppo. Ora, se è troppo pretendere che senza Reed il gruppo potesse mantenere lo stesso nome ed essere considerato la stessa band, d’altra parte è stato accettato tranquillamente che esistessero dei VU senza Cale. Dunque perché non senza Morrison? Certo il chitarrista aveva un ruolo fondamentale nel suono della band, più di quanto facciano supporre le sue pochissime firme sui brani, ma non si capisce perché Reed, Cale e Tucker non potrebbero oggi decidere di fare un disco i n s i e m e . A n c h e c o m e Ve l v e t Underground: perché rifiutare l’idea di un’ evoluzione, di un cambiamento per un grup- po che già era passato per un processo simile? A quel punto esso avrebbe seguito il corso naturale di gioventù, maturità e invecchiamento solitamente occultato nella dorata immutabile adolescenza del pop. In fondo i membri del gruppo sono stati tra i principali artefici della trasformazione del rock da prodotto usa-e-getta fatto da giovani per giovani e legato inesorabilmente all’età, a contenitore universale all’interno del quale ognuno può tracciare le proprie coordinate ed inserire i propri contenuti. Sia chiaro, nessuno li obbliga a riprovare periodicamente a rifare i VU, e ha ragione Reed quando dice che non sarebbe com’era. Il rinascere poi dei conflitti di un tempo deve averli sconsigliati dal riprovarci, e a un certo punto avranno anche scelto di percorrere altre strade. Ma dire che non ci possono essere più i VU perché non c’è più Sterling Morrison non ha nessun fondamento, né nella storia del rock né in quella dei VU stessi, a meno di non pensare che il gruppo debba rimanere uguale all’immagine di un tempo. O forse ce l’ha, se analiz- sentireascoltare 75 ziamo il lato delle dinamiche umane dei gruppi musicali, che tanta parte hanno avuto anche nella storia di questa meravigliosa band. Forse Morrison era colui che riusciva ad ammortizzare almeno parzialmente i contrasti tra le due personalità di Reed e Cale. I quali, è vero, avevano fatto insieme Songs for Drella, ma in quel momento non stavano rimettendo in discussione il nome dei VU. E se è difficile stabilire cosa sia davvero un gruppo rock –un nome, un insieme di persone, un progetto musicale, un contratto, un certo stile o altro – sappiamo bene cos ’ e r a n o i Ve l v e t U n d e r g r o u n d : la band che aveva permesso a un giovane poeta-rocker come Lou Reed di cominciare ad esprimersi davvero e di lasciare la sua fondamentale impronta nel rock, e che al rock aveva introdotto un geniale musicista d’avanguardia come John Cale, il quale aveva arricchito questa musica di elementi fino a quel momento ad essa estranei; qualcosa di più di un semplice gruppo musicale, un’esperienza artistica ed umana totale nella quale erano entrati anche l’amicizia con Warhol, i contatti con avanguardie artistiche e situazioni in cui si definiva il clima di una città in un’epoca - N e w Yo r k a l l a f i n e d e g l i a n n i ‘60- esperienze importanti di amore, crescita e droga. Qualcosa insomma di così grande da non poter essere affrontato e/o ridiscusso senza “l’aiuto degli amici” a ranghi il più possibile completi: senza tra gli altri, ma evidentemente più degli altri, il sostegno del caro, insostituibile, Sterling Morrison. (contributi di Antonio Puglia) 76 sentireascoltare classic album sonante e distorto e dei testi provocatori e nichilisti tipici degli ensembles albiniani un marchio di fabbrica. La scena si inaridisce però velocemente tra scioglimenti tragici e prematuri (Surgery) e normalizzazione e ammorbidimento del suono (Helmet, Cop Shoot Cop). 1993. Albini scende in campo. R e c l u t a t i To d d T r a i n e r ( R i f l e Sport) alla batteria e Bob Wes t o n ( Vo l c a n o S u n s ) a l b a s s o , forma gli Shellac, dal nome di una colla prodotta con sterco di insetti. Anticipato da 3 singoli formidabili (Rude Gesture, Uranus e The Bird Is The Most Popular Finger), esce At Action Park, quello che ad oggi può essere considerato il suo capolavoro. Se gli Shellac - At Action Park ( Touch&Go, 1994 ) 1989. Dopo aver dato vita a due fra i più innovativi e influenti gruppi rock degli anni ‘80, Big Black e Rapeman, Steve Albini si ritira dalle scene in segno di protesta contro il music business, continuando l’attività di produttore e ingegnere del suono, legando il suo nome a opere come In Utero, Surfer Rosa e Rid Of Me e lanciando band di culto come gli Slint (è dietro le quinte dell’esordio Tw e e z ) e J e s u s L i z a r d ( d e l l ’ e x c o m p a g n o D a v i d W. S i m s ) . Intanto i semi piantati dal Grande Nero e dallo Stupratore danno vita ad una delle scene più originali della storia del rock stelle e strisce, cresciuta sotto terra mentre in superfice si affermano le bands di Seattle e le riot girls. Etichette come Amphetamine R e p t i l e , To u c h & G o e T r a n c e Syndicate fanno del suono dis- Unsane squarciano i timpani dell’ascoltatore usando la motosega e i Killdozer li squassano a martellate, gli Shellac li incidono accuratamente con il bisturi. La prima impressione ascoltando l’album è che la furia e la disperazione vengano incanalate in un sadismo freddo e consapevole, ma non meno inquietante. Il suono, al contrario di altre bands che utilizzano strati di rumore per sommergere l’ascoltatore con un wall of sound indecifrabile di fuzz e feedback, è scarno, elementare, palpabile. I tre strumenti, invece di generare sabbie mobili, innalzano una catena montuosa, il suono è in rilievo, si può vedere. La direzione presa dagli Shellac è quella di sfrondare il rock, di semplificarne le trame ma non il disegno (“Mi affascinerebbe una musica rock da un accordo solo.” dichiara il Nostro all’epoca). L’ a t t a c c o v i e n e a ff i d a t o a d Albini che tortura la chitarra prima che entrino Trainer e Weston in una messa psychojazz a condire un delirio su baseball e razzismo. Il brano non ha riferimenti nel rock classico, è destrutturato e in un certo modo sgraziato, come la coda dell’aritmico strumentale Pull The Cup, dove chitarra e batteria diventano una l’eco dell’altra, dopo una suite math-rock coinvolgente che anticipa certe geometrie tipiche dei Don Caballero, ricche di scarti e inserti di chitarra/ basso/batteria. Crow si apre con un basso implacabile e sferzante, porta al limite la ferocia vocale e sonora e con un finale maniacale può essere considerato l’apice del disco. Se alcuni passaggi si riallacciano al passato di Albini (A Minute e Dog And Pony Show), altri sono inaspettati, come The Idea Of North, dove il recitato di Steve è immerso in un’atmosfera che anticipa certo post-rock di marca Constellation, o come l’intro funky schizoide di Song Of The Minerals o la melodia orientaleggiante del frammento Boche’s Dick. La jam spregiudicata Il Porno S t a r, a t t r a v e r s o f u n a m b o l i c h e divagazioni,implosioni e sottrazioni, porta a compimento la decomposizione del noise rock e chiude un album svonvolgente, vero epitome del rock rumoroso degli anni 90. Paolo Grava Tim Buckley – Greetings From L.A. (Warner, 1972) Una delle voci più coraggiose, estreme, stellari che abbiano mai attraversato membrana di altoparlante, si ritrovò in quel 1972 - appena venticinquenne - con almeno cinque capolavori alle spalle (le mirabilie folk blues di Goodbye And Hello, Happy Sad e Blue Afternoon, più le supreme trasfigurazioni “free” di Lorca e Starsailor) e due famiglie da sfamare, in un mondo che si voltava dall’altra parte, ne irrideva le intenzioni giudicandole astruse velleità. Risultato: pochi dollari in saccoccia, depressione strisciante, tossicodipendenza e alcolismo a mordergli i talloni. Comprensibile che alla lunga le insistenti blandizie del ma- sentireascoltare 77 nager Herb Cohen e dei suoi discografici (tra cui lo stesso Frank Zappa, tra i titolari della Third Story) convincessero Tim ad abbandonare le prove tecniche d’assoluto per concedersi alle (bieche) sirene del mercato. Questo per quanto riguarda le cronache. Poi c’è il resto, su cui – per fortuna - possiamo perlopiù fantasticare: ovvero, una strategia di mimetismo, un consapevole degrado, quel lasciarsi ingoiare da forme terrene, scavare nella polpa del mestiere senza mai soggiacergli, per poi – attenzione - cospirare da lì quelle traiettorie imprendibili, quelle architetture caustiche e celestiali, lo spasmo del corpo in rotta verso l’estasi. Tim insomma ingoiò il rospo di buon grado, capì la necessità di cambiare il livello dello scontro ed il campo di battaglia. Ciò che gli interessava era proseguire la sua guerra di confine: ecco quindi apparire sulla scena un Buckley inedito, insolitamente sobrio, puntuale ed efficiente durante le sessioni di Greetings From L.A. I nuovi compagni di viaggio erano session-man navigati come il chitarrista Joe Falsia e produttori occhiuti come Jerry Goldstein. La nuova calligrafia erano il rock, il soul, il rhythm and blues. Un progetto in cui Tim - evaporate le riluttanze iniziali - sembrò gettarsi con foga, coinvolgendosi fino all’ultima fibra, liberando una creatività scattante e furiosa, culminata nell’improvvisa- 78 sentireascoltare zione in studio di Hong Kong B a r, b l u e s o n e s o r d i d o c h e s i protraeva per circa un’ora di cui fu stampato un riassunto di sette minuti e poco più. Da questa - che pure è la traccia più scarna di un programma che prevede arrangiamenti squillanti e ruffiani ai limiti del kitsch - si capiscono molte cose: Buckley insegue e ottiene una misura sconcertante, l’interpretazione si mantiene entro ranghi insospettabili, la voce - un’aquila in piccionaia - sembra tagliarsi le frequenze dalla gola. Insomma, pare proprio che Tim un po’ “ci faccia”, come nelle foto a francobollo del retro-copertina in cui – l’aria da dandy bohemién della west coast – si presta al ruolo dell’ecologista scazzato con tanto di maschera antigas. Che è comunque una maschera, e questo va tenuto presente. Così come va tenuto presente che un disco di Buckley non è e mai sarà un disco qualsiasi. Basti sentire come nella conclusiva Make It Right arrivi a spennellare di soul spigoloso una melodia altrimenti destinata a soccombere sotto gli archi eccessivi, oppure con quale disarmante facilità riesca a schernire e lacerare la freg o l a m a r p i o n a d i G e t O n To p , aspergendola di sensualità problematica e malsana, confondendo jodel, gospel e free jazz nella sclerotica improvvisazione centrale (in cui l’organo di Kevin Kelly proprio non riesce a tenere il passo). La maschera, dicevamo: proprio questo insistere su argomenti torbidi e dissoluti, spesso oltre il limite della cosiddetta decenza, ha tutto l’aspetto di una negazione premeditata, come volersi ancorare al terreno, stendersi una coperta di carne addosso, seppellire il navigatore di stelle in un sarcofago di eminente normalità. Buckley spinge il gioco fino in fondo, a costo di allibirci con quel pasticcio da B.B. King in sedicesimi che è Move With Me (con i suoi ottoni lascivi, i censurabili coretti femminili, il piano da club sfigato), e col funky soul automatico di Devil Eyes, o semplicemente di tediarci col boogie rock di Nighthawkin (una grinta sfocata, l’umoralità di plastilina tra congas e southern guitars). Ma se è il prezzo da pagare affinché possiamo goderci Sweet S u r r e n d e r, v a b e n i s s i m o : q u i finalmente - tra torpori soul ed eccessi d’orchestrazione, in mezzo a una palpitazione esotica di congas e batteria - la voce arriva a palpare i confini del concepibile, sfarfallando inquieta, graffiando decolli acuminati, digrignando, sussultando, liberando indefinibili convulsioni. Non certo ai livelli toccati album addietro, ma - parlando di una tale voce in un tale contesto – comunque un’autentica meraviglia. E’ ironico quindi – a parte il senso di tragedia che si porta dentro – prendere atto del clamoroso fallimento commerciale di questo disco, accolto tiepidamente dalla stampa, boicottato dalle radio (ufficialmente a causa delle tematiche “troppo spinte”) e finanche esecrato dai fans della prima e della seconda ora, stizziti dal “tradimento” i n c h i a v e e a s y. Becco e bastonato, Tim Buckl e y. A p o c h i p a s s i d a l l ’ a b i s s o , uomo incapace di quiete dietro l’artista in crisi, tenacemente rannicchiato in un bozzolo di regole e competenze, costretto ad inventarsi un’inedita umiltà quasi fosse l’ultima chance (lo era?) di un’anima troppo fragile e tempestosa. Un artista in crisi, certo. Eppure, quella voce: sbruffona e aliena, viscerale ed eterea, corpo e spirito una cosa sola, magnifico propellente d’inaudito. Trascurarla all’epoca fu uno dei soliti scherzi bastardi del destino. Farlo oggi, uno sbadato delitto tra i tanti. Stefano Solventi Soft Boys – Underwater Moolight (Armageddon, 1980 / Matador, 2001) Te m p i s t r a n i , i p r i m i a n n i O t t a n t a i n t e r r a b r i t a n n i c a . Te m pi in cui i suoni roboanti e maleducati del punk scemavano inesorabilmente in favore delle decadenti stramberie claustrofobiche della nascente new wave e dove l’irriverenza di band come Sex Pistols, Buzzcocks, Damned veniva rapidamente soggiogata e annichilita dalle turbe psichico-esistenziali dei lacrimosi Joy Division, Cure, Bauhaus. Difficile in un clima musicale plumbeo e rassegnato come quello ipotizzare una rinascita musicale a tinte forti, ancora più complicato procrastinare l’avvento di esperienze sonore legate a filo doppio alla cultura psichedelica e poppeggiante dei Sixties. Eppure tra le viuzze malandate della Cambridge universitaria, scaldati dai rari sprazzi di sole di un cielo grigio per contratto, nascevano nel ’78, su iniziativa di Robyn Hitchcock, K i m b e r l e y R e w, M a t t h e w S e l i g m a n , e M o r r i s W i n d s o r, i Soft Boys. Immaginatevi la scena: un club di periferia, stipato fino all’inverosimile di revanscisti della spilla da balia e depressi cronici dal muso lungo. Sul palco gli headliner della serata, quattro malandrini dal coretto facile che citando indirettamente il William Burroughs di The Soft Machine, si fanno chiamare “ i ragazzi soffici” e cantano di vibrazioni positive. Può esserci qualcosa di meno cool e più fuori tempo di tutto questo? E infatti i Nostri rimarranno una band di culto fino all’ ’82, anno che sancirà definitivamente la fine della loro avventura. Un peccato se si pensa a A Can Of Bees. acerba raccolta di psichedelia retroattiva farc i t a d i c h i t a r r e à l a Te l e v i s i o n e data alle stampe dal gruppo nel ‘79.; quasi una tragedia se ci si attarda a considerare l’opera pubblicata un anno dopo, quell’Underwater Moonlight che sancirà definitivamente l’ingresso del quartetto nello scintillante quanto misconosciuto empireo della neo-psichedelia inglese. Tra le tracce del disco trovano posto i Byrds più jingle jangle e i tracciati irregolari di Captain Beefheart, le deviazioni acide di Syd Barrett e l’afflato melodico di certi Beatles, l’approccio strumentale dell’art rock americano e un’indole squisitamente pop, in un emulsionespigolosa ed eccentrica, fuori sincrono e surreale, policroma e fantasiosa. Una musica che imbastardisce il punk storpiandolo nell’inno politico di I Wanna Destroy Yo u – i n v e t t i v a d e d i c a t a a l l’allora primo ministro inglese Margaret Thatcher -, si srotola in armonie corali e anfetaminiche degne dei migliori Beach Boys in Positive Vibrations, cita il Bowie più cavernoso tra i colpi di riff che decorano il blues drogato di I Got The Hots, si abbandona ad arpeggi alla Byrds “otto miglia più in alto” in The Queen Of Eyes. Dal cilindro del gruppo non escono soltanto conigli bianchi ma una varietà di creature fantastiche degne del miglior Carroll, insoliti scarti melodici e progressioni mai banali, a dimostrarlo il crescendo di I n s a n e l y J e l o u s e To n i g h t , l o s t r u m e n t a l e d i Y o u ’ l l H a v e To Go Sideways o l’ironica title track. Se la personalità delle armonie non passa inosservata, lo stesso dicasi per i testi di Hitchcock: una ratatouille di cieli cremosi, bulbi elettrici, gelosie insane, vecchi pervertiti,insetti che scorrono sottopelle, parte integrante di un immaginario narrativo figlio delle ossessioni di Syd Barrett ma al tempo stesso estremizzatosi verso un’esaltazione dell’accostamento insolito, del gusto per l’iperbole. Un disco da classificare alla voce “pop psichedelico” , sopravvissuto all’inesorabile trascorrere del tempo in virtù della forte personalità ed eguagliato soltanto da quel Nextdoorland che nel 2002 sancirà la reunion ufficiale della cricca di Hitchcock. Fabrizio Zampighi sentireascoltare 79 rubrica la sera della prima a c u r a d i Te r e s a G r e c o Il castello errante di Howl (di Hayao Miyazaki – Giappone, 2004) Dal Castello di Cagliostro al Castello di Howl. La sapienza scenografica di Miyazaki ha pochi eguali. Gran parte del piacere della visione di un suo film deriva anche dallo studio degli ambienti, dal vedere i personaggi muoversi in un vasto spettro di soluzioni, che vanno dal fitto boschivo di Nausicaä e Mononoke, al gotico claustrofobico delle torri di Indastria e Cagliostro, fino a respirare a pieni polmoni la natura aperta, solare e incontaminata delle varie distese di Highharboar e To t o r o . I l c a s t e l l o e r r a n t e d i H o w l t r a d i s c e a l l ’ i s t a n t e l a m a n o del suo autore. Il tratto si è ormai fatto così sottile e raffinato, che parrebbe impossibile vederne un’ ulteriore evoluzione. I fondali sono di rara bellezza, secondi probabilmente solo a quelli de La città incantata e Mononoke (sebbene la texture d e l l a G i u n g l a To s s i c a d i N a u s i c a ä r i m a n g a l a s u a c o s t r u z i o n e più visionaria). La città del film ha un appeal da romanzo ottocentesco e assomiglia a quella di Kiki, seppure piena di un fascino fin de siècle, che a quella mancava. Data per assodata, quindi, un’evoluzione nella continuazione per quanto riguarda grafica e design, Il castello errante di Howl rappresenta per Miyazaki il luogo per tentare di percorrere strade nuove. La storia, tratta dal romanzo di Diana Wynne Jones, garantisce all’autore la possibilità di muoversi dentro un universo di riferimenti in linea con la sua poetica: la guerra, l’ideale femminile, l’evoluzione esistenziale da affrontare, la metamorfosi metaforica, l’alternanza aperto-chiuso, l’amicizia e la morale come motore dei rapporti umani, lo scontro tra diverse ideologie. Rispetto al solito articolarsi lineare degli eventi, il film sceglie però di seguire una sovrapposizione sempre più complessa dei piani del racconto: un labirinto di accadimenti, che da poco più della metà del film, perde il bandolo della matassa, per ritrovarlo, in fretta e furia, prima dello scoccare della fine. Un passo falso nella sceneggiatura cui Miyazaki difficilmente va incontro. L’ a u t o r e g i a p p o n e s e s i l a s c i a a n d a r e n o n s o l o n e l l e m o d a l i t à narrative, ma anche nel modo di caratterizzare i protagonisti. L’ e s e m p i o p i ù e v i d e n t e è H o w l . B e l l o e d a n n a t o , d a i t r a t t i s p i golosi, laddove il “maestro delle anime” è noto per il privilegiare fattezze rotonde e cadenze morbide. Probabile richiamo ironico al bishonen tipico dello shojo manga, il bello e imbronciato peculiare dei manga con tematiche romantiche, Howl è un adone devoto alla superficialità dell’esistenza. Un inedito trattamento viene riservato anche a Sophie, la protagonista femminile. Grigia e algida da giovane, Miyazaki ce la presenta come una ragazza scialba, priva di interesse e interessi (la 80 sentireascoltare visione del castello errante, dalla finestra, la annoia…). La maturazione a vera e propria eroina, piena di passione e fervore, paradossalmente, si verificherà solo dopo la metamorfosi in anziana. Il castello errante di Howl è un film minore e di passaggio, che soffre di alcune soluzioni non compiute e di una sceneggiatura farraginosa. Eppure…ci sono più cose in un film minore di Miyazaki di quante ce ne siano in tutta la produzione hollywoodiana attuale. Un premio come miglior attore non prot a g o n i s t a a l f u o c h e r e l l o - d e m o n e C a l c i f e r, p e r c o r t e s i a ! Antonello Comunale The Interpreter (di Sydney Pollack - USA / GB / Francia, 2005) “Con questo film volevo soprattutto provare a valorizzare il peso delle parole a discapito delle lotte armate, volevo tentare di far comprendere quanto queste siano importanti nella comunicazione tra i popoli più di ogni arma da fuoco, più di ogni bomba”. Sydney Pollack To r n a S y d n e y P o l l a c k i n u n t h r i l l e r c h e m i s c h i a p o l i t i c o e p r i vato, terrorismo internazionale e dolorose scelte personali, un film in cui per la prima volta è stato dato il permesso di girare all’interno del palazzo dell’ONU, complice una sceneggiatura in cui si sottolinea più volte l’importanza dell’organizzazione nella mediazione dei conflitti internazionali.La vicenda si snoda nel tentativo, da parte degli agenti federali, di impedire l’assassinio del dittatore di uno stato africano, assassinio di cui un’ interprete delle Nazioni Unite, africana bianca, ha sentito casualmente parlare nel raro dialetto da lei conosciuto. Parallelamente avviene l’incontro di due persone, l’interprete (Nicole Kidman) e un agente federale (Sean Penn), che la protegge, che si scoprono complici nel dolore recente che li accomuna (la morte della moglie di lui, la sparizione del fratello per lei) e che trovano il modo di comunicare profondamente, nonostante reciproche diffidenze, incontrandosi spiritualmente e scoprendo le loro affinità. Un film parzialmente riuscito, a tratti retorico, con una sceneggiatura non messa a fuoco, che vorrebbe rinnovare i fasti del thriller politico anni ’70 del regista (I tre giorni del cond o r, 1 9 7 5 ) e n o n v i r i e s c e , n o n o s t a n t e l a c u r a n e l d i r i g e r e g l i attori (marchio del regista; ottime le interpretazioni dei protagonisti), e una costruzione narrativa che si svolge per sovrapposizioni successive creando tensione crescente, ma con una lentezza che è caratteristica di Pollack. Solo a tratti emergono le peculiarità stilistiche dell’autore, sommerse in una sceneggiatura banalizzata e in una scrittura dei caratteri che resta alla superficie, senza mai scavare e far emergere le ambiguità presenti nei due interpreti. Un’occasione sprecata. Te r e s a G r e c o La Sposa Cadavere (di Mike Johnson e Tim Burton - GB 2005) D o p o l ’ a n t e p r i m a a l l o s c o r s o f e s t i v a l d i Ve n e z i a e i l q u a s i s c o n tato successo di pubblico una volta uscito nelle sale, cos’altro si può dire che non sia stato già detto su La Sposa Cadavere, l’attesissimo ritorno di Tim Burton all’animazione in stopmotion dopo The Nightmare Before Christmas? Prescindendo dall’alta qualità tecnica (il film è stato progettato e realizzato in un arco di tempo di dieci anni), quel che resta è una favola s e n t i r e a s c o l t a r e 81 noir ispirata a una vecchia fiaba ebraico-russa, in cui la paura di non essere all’altezza della persona amata coinvolge il giovane Victor in un incubo gotico, da cui sarà molto difficile uscire. Trascinato dalla Sposa cadavere, alla quale si scopre involontariamente legato a causa di un tragico equivoco, si trova quindi implicato in un una situazione più grande di lui, che lo porterà ad affrontare un viaggio di crescita e conoscenza nell’aldilà. La contrapposizione mondo dei vivi/mondo dei morti, uno dei temi burtoniani sin dai tempi di Beetlejuice, qui si tinge di ironia surreale, ribaltandone il classico schema: il mondo dei vivi, gotico e vittoriano, in cui predominano le ombre, è grigio, gretto, egoista; quello dell’aldilà è coloratissimo e gioioso, in un tripudio di danze e musiche. Un modo per esorcizzare ironicamente la paura della morte? Per sfuggire al grigio mondo reale dei vivi? La storia semplice e romantica del raggiungimento della vera sposa Victoria, che è alla base del film, offre alla fine il pretesto per un viaggio all’interno di noi stessi e delle nostre paure più profonde: dalla morte, all’inadeguatezza nei confronti delle situazioni, al rapporto bene / male; temi affrontati con la consueta leggerezza e ironia. Il ritmo che pervade la sceneggiatura rende la storia fluida, i personaggi sono ben caratterizzati e si muovono in ambienti mozzafiato che sono una gioia per gli occhi, dalle diverse sfumature di grigi e azzurri di foreste e case ai colori vivi dell’aldilà, un chiaro omaggio di Burton a Mario Bava. Non mancano inoltre i consueti riferimenti e le citazioni filmiche (dai primi cartoni Disney - Skeleton Dance - al corridoio di bare che ricorda Il gabinetto del dottor Caligari, fino a Via col vento - la famosa frase “francamente, cara, me ne infischio” fatta dire a uno scheletro con baffetti!), né tantomeno le invenzioni ironiche, dal verme parlante consigliere solerte della sposa che vive nel suo occhio semovente, al cagnolino scheletro (che richiama quello del corto Frankenweenie), ai ragni tessitori… Va l e v a l a p e n a d i a s p e t t a r e c o s ì a l u n g o . Te r e s a G r e c o 82 sentireascoltare rubrica cose dell’altro mondo a cura di Ivano Rebustini Per gli Impossibili: l’album dei Brut Party uscito durante la Grande Guerra. E poi, Inaudito: il progetto benefico di Aiuola Dischi “Adotta un nonno”, Sufjan & Garfunkel sulle orme di Simon & Garfunkel; Incredibles News, nuovo cantante per quel che resta dei Queen, proposta inaccettabile di Mick Jagger per il disco natalizio di Sir Bob Geldof; Robbie Williams e Michael Stipe a Parole in libertà. GLI IMPOSSIBILI Brut Party The Golden Cup Of Coffee (Drag ‘n Domino, 1915-18) di Neon Eater Ci risiamo. A ridosso dei clamorosi trionfi di Bloc Park e Franz Art, ecco farsi largo un’altra giovane formazione che mette in bella copia quanto udito nei primi anni Ottanta in Austria e strizza l’occhio al sound tipico della no wave di Leeds. I Brut P a r t y, M i c h a e l K a n e ( v o c e e c h i t a r r a ) , P a u l B u r u l c i c h ( c h i t a r r a e voce), Jacqueline Kapranos (voce e basso) e David Conway (basso e voce), sono un combo scozzese di Newcastle di quattro elementi anarchici e irriverenti, giunto alla prima prova discografica dopo un paio di fortunati singoli usciti alla fine d e l 1 9 1 4 . L’ i n t r o d i S h e ’s H e a r i n g L e s s a n d L e s s ( 5 0 m i n u t i d i s o n o r i t à d r e a m p u n k s p a r a t e a palla tra primissimi U2 e certo indie pop à la Duran Duran), affidata a sola voce e headbang, richiama subito alla memoria i conterranei Belle and Ferdinand, ma si cambia subito tono nella s t r a z i a n t e b a l l a d R u s t e d W a l l s O f M a t i n e e , c o n u n b a s s o s m a c c a t a m e n t e Te a r s F o r C u r e c h e ci conduce verso un brano nella migliore tradizione indie d’oltremanica, A Million Arms Around My Night, ritmo sincopato di chitarre rabbiose e testo very british, abbastanza perché Frank E. Smith dei Gang Of Heads s’incazzi un po’. L’ a b b o n d a n z a q u a s i n i e t z s c h e a n a d i c a r b u r a n t e f a p e r ò i n g o l f a r e i l m e c c a n i s m o , a l p u n t o c h e già dopo pochi pezzi senz’altro belli e maledetti, il loro omonimo disco d’esordio sembra un Frankenstein incapace di reggersi in piedi, sepolto da una cifra stilistica nauseante che raccoglie il passato contestualizzandolo e aprendo la strada a chitarre ispide a orologeria, tempi retoricissimi in levare, elettricità liquida, basso incalzante e onnipresente, soli spastici e ipertrofici (di scuola Jarvis Foxx). Per non dire di quella Amanda che è pura devozione Mark Black (dal grattugiamento divertente e dancereccio di chitarra al corettino sornione e sordido della bassista Jacqueline). Tutto, in The Golden Cup of Coffee, è un continuo rimando alla libidine platonica della musica inglese fatta con chitarre agrodolci, basso a 24 carati, batteria emul glam e una tastiera diagonale. Alla lunga però sfugge l’identità complessiva del progetto. Anche se, attenzione, qui c’è tutto quello di cui avete bisogno: i Sixties, rappresentati dallo spudorato supermarket-style in metallo, i Seventies dalla magniloquenza revival che si riduce all’urgenza di vestirsi in camicia e cravatta working class, gli Eighties dalla memoria squisitamente ludica di matrice dance, i Nineties dalla cicca nella birra squisitamente pop-wave che ricorda il disco giusto al momento giusto dello Strummer malato in perfetto stile dark. Oppure, enjoy anche questa volta, e avanti il prossimo. Non ci sembra affatto poco. (5.2/10) s e n t i r e a s c o l t a r e 83 INAUDITO Autori Vari - Adotta un nonno (Meglio tardi che Mei) (Aiuola Dischi, 2005) Dopo l’exploit di Marta sui Tubi (il duetto con Bobby Solo in Via Dante nell’ultimo C’è gente che deve dormire), si è aperta una sorta di gara tra le etichette indie, obiettivo una compilation nella quale band con nomi di donna duettassero con arzilli nonnetti della musica leggera italiana. La gara è stata vinta da Aiuola Dischi, che si è catapultata nei negozi con questo Adotta un nonno, sottotitolo Meglio tardi che Mei (che non c’entra un cazzo, ma spezza una lancia a favore della protesta dei Perturbazione nei confronti delle scelte generaliste prese dai vertici del meeting di Faenza). Tra le sigle coinvolte nel progetto, il cui ricavato sarà devoluto alla re s i d e n z a p e r c a n t a n t i i n p e n s i o n e “ C a s e t t a i n C a n a d a ” , s i s e g n a l a n o : Va l e n t i n a d o r m e c o n J i m m y Fontana per l’inesorabilmente platonica The World, cover in inglese de Il mondo; Maisie & Piero Focaccia (Alberto Scotti ha dichiarato: “Non so niente di lui, ma il suo cognome è una garanzia”) in Stessa spiaggia stesso mare; Non voglio che Clara + Mal con una versione evocativa e r a l l e n t a t i s s i m a d i B e t t y B l u . ( i . r. ) Sufjan & Garfunkel - America (Manhattan Records, 2005) Dando ragione a chi ha visto in lui il vero, unico erede di Paul Simon, nei ritagli di tempo lasciatigli dalla sua attività di “turista per caso” Sufjan Stevens ha inciso un disco con Art Garfunkel, l’altra metà del celeberrimo duo. Un concept album geografico, si potrebbe dire, e del resto basta scorrere la lista dei brani: dalla title track America a Bleeker Street, da The 59th Street B r i d g e S o n g a T h e O n l y L i v i n g B o y i n N e w Yo r k , S u f j a n & G a r f u n k e l r i p e r c o r r o n o l e p i s t e t r a c ciate “coast to coast” dalla coppia, più volte scoppiata e ricomposta, di Bridge Over Troubled W a t e r . E p e r i l g r a n f i n a l e , M y L i t t l e To w n , S t e v e n s h a c h i a m a t o S i m o n i n p e r s o n a , i n s i e m e a J a m e s G a r f u n k e l , f i g l i o d i A r t , e a g l i i m m a n c a b i l i E v e r l y B r o t h e r s . ( i . r. ) INCREDIBLES NEWS Licenziato Paul Rodgers (“Ci siamo resi conto che a noi non serviva un cantante”, ha spiegato Brian May), quel che è rimasto dei Queen ha deciso di sostituire l’ex vocalist dei Free con Jus t i n H a w k i n s d e i D a r k n e s s : “ P a u l n o n h a m a i a c c e t t a t o d i i n d o s s a r e l e t u t i n e d i F r e d d i e M e r c u r y, m e n t r e J u s t i n n o n v e d e l ’ o r a ” , h a a g g i u n t o R o g e r Ta y l o r . S d e g n o s o s i l e n z i o d a p a r t e d i J o h n D e a c o n , d a s e m p r e c o n t r a r i o a s p e c u l a z i o n i n e l n o m e d e l l a “ R e g i n a ” . ( i . r. ) L’ u s c i t a d i W h a t I R e a l l y Wa n t F o r C h r i s t m a s , l ’ a l b u m n a t a l i z i o d i B r i a n W i l s o n , h a i n o c u l a t o u n a pulce nell’orecchio di Sir Bob Geldof, che ha subito messo in cantiere un analogo progetto, a sostegno dei bambini poveri della Lapponia. Dopo aver ottenuto il sì convinto di Bono e Paul M c C a r t n e y, p r i m o i n t o p p o q u a n d o l ’ e x B o o m t o w n R a t s s i è r i v o l t o a i R o l l i n g S t o n e s : M i c k J a g ger non gli ha detto di no, ma ha proposto al malcapitato Bob una versione, riveduta e corretta, d i u n a n t i c o h i t d e l l e “ P i e t r e ” , r e i n t i t o l a t o S y m p a t h y F o r T h e L o r d . ( i . r. ) PA R O L E I N L I B E R T À Michael Stipe: “Non sono mai stato così imbarazzato in vita mia. Ero lì, vestito da pappagallo, pronto per andare al party del mio amico ... (la legge sulla privacy ci ha obbligato a cancellare da questa rubrica il nome e anche il cognome dell’amico di Stipe, N.d.R.), quando mi ha preso fuoco la casa. Poi vaglielo a spiegare a quel pompiere, conciato com’ero, che non era una scusa. Lasciamo perdere poi quando quello stronzo ha cominciato a cantare Light My Fire...”. ( i . r. ) Robbie Williams: “Una dichiarazione dopo aver vinto l’Mtv Europe Music Awards come miglior cantante? Io dico sempre: non sono queste le cose importanti. Comunque ho dimostrato a tutti che sono tornato, e a chi non credeva in me, che l’infortunio al ginocchio è solo un brutto ricordo. Dedico questa vittoria a una famosa pornostar morta la scorsa settimana di Aids e a Maradona, che prima di dimagrire è stato trattato molto male dai media. E adesso torno in silenzio s t a m p a ” . ( i . r. ) 84 sentireascoltare