SENTIRE A SCOLTARE
o n l i n e m u s i c magazine
P i c a s t ro
NOVEMBRE N.13
A k r o n / Family
R i o t Maker
Ve l v e t Underground
M a u r i zio Bianchi
B a u s t elle
M a r t a sui Tubi
Wo l f Parade
C l a p Your Hands Say Yeah
No Wave
Il lato buio della mela
sentireascoltare in copertina
No Wave
il lato buio della mela
SentireAscoltare online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590
del 28/10/05
Editore Edoardo Bridda
Direttore responsabile Ivano
Rebustini
Provider NGI S.p.A.
Copyright © 2005 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.
La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare
sommario
19
4 News
9 Speciali
No Wave, A k r o n / F a m i l y, P i c a s t r o ,
Riot Maker, S t a r v a t i o n s , C l i e n t e l e . . .
35 Recensioni
Bonnie Pri n c e B i l l y, M a r t a S u i Tu b i ,
Liz Janes, P a t t e r n I s M o v e m e n t , S u sumu Yoko t a & R o t h k o , N i n e H o r s e s ,
Paul Welle r, W h y ? , Wo l f P a r a d e , C l a p
Your Hand s S a y Ye a h . . .
6 3 Dal vivo
Akron Fam i l y, L a n g h o r n e S l i m
Scout Nible t t , K a i s e r C h i e f s . . .
67 Rubriche
We Are De m o R a v e n S a d , C h e r i f
Galal…
35
Classic Ma u r i z i o B i a n c h i , S h e l l a c ,
Tim Buckle y, S o f t B o y s
Note a mar g i n e Ve l v e t U n d e r g r o u n d
Cinema Il c a s t e l l o e r r a n t e d i H o w l ,
The Interpr e t e r, L a S p o s a c a d a v e r e
Cose dell’a l t r o m o n d o B r u t P a r t y
63
Direttore
Edoardo Bridda
Direttore responsabile
Ivano Rebustini
Coordinamento
Antonio Puglia
Stefano Solventi
Staff
Valentina Cassano
Daniele Follero
Teresa Greco
Hanno collaborato
Antonio Amodei, Gianni Avella, Filippo Bordignon, Michele Casella, Antonello Comunale,
Lorenzo Filipaz, Paolo Grava (aka Neon
Eater), Manfredi Lamartina, Carlo Pastore,
Giulio Pasquali, Marina Pierri, Italo Rizzo,
Michele Saran, Gianluca Talia, Michele Vaccari, Fabrizio Zampighi.
Guida spirituale
Adriano Tauber (1966-2004)
Grafica
Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda
73
sentireascoltare news
a cura di Daniele Follero
A Roger Waters deve essere proprio piaciuto l’incontro con i
s u o i v e c c h i a m i c i - n e m i c i G i l m o u r, M a s o n e Wr i g h t . L’ e x - b a s s i sta dei Pink Floyd si è detto, infatti disponibile a portare avanti
l’esperienza (ri)cominciata al Live 8 di quest’anno. “E’ stato
divertente” ha detto Waters, “ci siamo incontrati per alcune
prove ed è stato come indossare una vecchia scarpa”. Comoda,
anche se un po’ consumata…
A.A.A. cantante cercasi per supergruppo. I Superbass, band
f o r m a t a d a P e t e r H o o k d e i N e w O r d e r, A n d y R o u r k e d e g l i S m i ths e Mani degli Stone Roses, sono alla ricerca di una voce
Roger Waters
(giovane e che abbia qualcosa da dire) per avviare l’ambizioso
progetto…
L’ e x - s t a r d e l g l a m G a r y G l i t t e r p o t r e b b e r e s t a r e i n c a r c e r e p e r
quattro mesi, durante il processo che lo vede colpevole di abusi sessuali su minori in Vietnam…
Dopo i R.E.M., Patti Smith ha fatto visita agli U2 sul palco del
M a d i s o n S q u a r e G a r d e n d i N e w Yo r k i l 2 1 N o v e m b r e s c o r s o . L a
Smith ha duettato con Bono in una cover di Instant Karma di
John Lennon…
Saranno i Prodigy ad aprire la quinta edizione del riesumato
festival dell’Isola di Wight, che si terrà al Seaclose Park di
N e w p o r t t r a i l 9 e l ’ 11 g i u g n o 2 0 0 6 …
Pronto probabilmente per l’inizio di febbraio 2006 il nuovo album dei Belle & Sebastian. Durante le registrazioni di quello
che sarà il successore di Dear Catastrophe Waitress la band ha
l a v o r a t o a n c h e c o n i l p r o d u t t o r e d i B e c k To n y H o f f e r …
Ve n d u t a p e r 6 5 . 5 0 0 e u r o u n a r a c c o l t a d i p o e s i e d i B o b D y l a n
datata tra il 1959-60, periodo in cui Robert Zimmerman era
studente all’Università del Minnesota. Alla stessa asta, presso
C h r i s t i e ’ s d i N e w Yo r k è r i m a s t o i n v e n d u t o , i n v e c e i l t e s t o m a n o s c r i t t o d i N o t To To u c h T h e E a r t h d i J i m M o r r i s o n p e r l ’ a l b u m
Waiting for The Sun dei Doors…
I n u n l i c e o d i S a l f o r d , G r e a t e r M a n c h e s t e r, d u r a n t e l ’ o r a d i
pranzo, gli studenti si sono trovati nella mensa della scuola
nientemeno che i New Order, che hanno offerto una piccola
performance all’insolito uditorio, attaccando per i seicento ra-
sentireascoltare
gazzi presenti con la loro famosa Blue Monday…
To d d R u n d g r e n s a r à i l s o s t i tuto di Rick Ocasek nella reunion dei Cars, che si chiameNew
ranno
Cars
per
evitare
problemi legali (un po’ come
per il Nuovo PSI!). Elliot Easton e Greg Hawkes, membri
originari della band divenuta
famosa
con
simbolo
del
Drive,
Live
canzone
Aid,
hanno
anche arruolato membri dei Tubes per le esibizioni dal vivo.
Rundgren
non
sembra
esal-
tatissimo dalla cosa, almeno
dalle prime dichiarazioni : “Io
la vedo come una chance per
le
bollette,
suona-
re per un pubblico più vasto,
lavorare con musicisti che mi
piacciono e, auspicabilmente,
divertirmi per un anno ” ...
Flaming Lips
pagarmi
band inglese ci sono anche le
non
e x t e n d e d r e i s s u e s d i T h e To p ,
nonostante
I Flaming Lips hanno messo
T h e H e a d O n T h e D o o r, K i s s
ha preferito dare buca al party
a disposizione online sul sito
Me Kiss Me Kiss Me e di Blue
ed è rimasto a mettere a posto
Myspace.com un assaggio del
Sunshine dei Glove, band che
la casa...
loro prossimo album, At War
nel 1983 vedeva insieme Smi-
With
The
Mystics,
previsto
è
rimasto
i
ustionato
modesti
ma,
danni,
Siouxsie
I Mudhoney hanno terminato
per l’inizio del 2006. Si tratta
and The Banshees Steve Se-
il loro nuovo album, nono per
d i Y o u ’ v e G o t To H o l d O n , i l
verin…
l’etichetta Sub Pop, in uscita
th
e
il
bassista
di
primo brano edito dalla band
il prossimo 6 marzo. La band
dai tempi di Yoshimi Battles
Bizzarro incidente a Michael
si appresta inoltre a fare da
The Pink Robots…
Stipe. Il cantante dei R.E.M.
spalla ai Pearl Jam per tut-
ha
te le date del loro prossimo
rivelato
d’essere
rimasto
I Cure non si arrendono. Dopo
vittima
lo scarso successo del prece-
mestico
dente lavoro in studio, la band
di Robert Smith è pronta per
mentre era vestito da uccello.
v o r o i n s t u d i o d i E d d i e Ve d -
rientrare in studio a gennaio
Il frontman del gruppo statu-
der e compagni…
e registrare nuovi brani per il
nitense
s u c c e s s o r e d i T h e C u r e . L’ a l -
vestito da pappagallo per an-
I
bum sarà il primo senza il ta-
dare ad un party quando, per
re alla vecchia e storica for-
stierista Roger O’Donnell e il
cause
mazione,
chitarrista
sancirà
il
Perry
ritorno
Bamonte
dello
e
“sto-
do-
tour in Sudamerica, a partire
particola-
dal 22 novembre. Previsto per
re: gli ha preso fuoco la casa
Aprile, invece, il prossimo la-
sate,
di
un
infortunio
veramente
stava
indossando
ufficialmente
nel
suo
un
impreci-
appartamento
Genesis
potrebbero
con
Peter
tornaGabriel
alla voce. Sia Phil Collins sia
di Manhattan si è sviluppato
il
rico” Porl Thompson. Intanto
un piccolo incendio. Secondo
si sono mostrati favorevoli a
chitarrista
Robert Smith sta lavorando a
voci, che peraltro non trovano
questa sorta di reunion, con-
un dvd e ad alcune musiche
riscontro, le fiamme si sareb-
siderati
per film, come ha dichiarato
bero originate da una sigaret-
quanto scarsi della band negli
lui stesso. Nel cantiere della
ta lasciata accesa. Il cantante
ultimi anni. Ha dichiarato l’ex
anche
Steve
i
Hackett
risultati
al-
sentireascoltare batterista: “Non sono affatto contrario. Sarei felice di tornare
alla batteria e di lasciare il compito di cantare a Peter. Se ci
dovesse essere una reunion, io ci sarei. Se non dovesse capitare, vorrebbe semplicemente dire che ci sono troppe cose
da fare di mezzo”. E Gabriel? “Le possibilità per una reunion
oggi sono migliori rispetto al passato…Ne parleremo presto”..
Anche se poi aggiunge: “per il momento non ci scommetterei
sopra”…
Partirà da Bergen il 20 novembre prossimo il tour europeo dell’anima più pop degli ex cLOUDDEAD, Why? che passerà anche
Richard Ashcroft
per l’Italia. Due le date: il 29 novembre a Roma (Circolo degli
Artisti) e il 30 a Milano (Jail). Il giro del vecchio continente
s i c o n c l u d e r à a B e r l i n o l ’ 11 d i c e m b r e i n s i e m e a d A l i a s , a l t r o
nome importante della scuderia Anticon…
Paul McCartney è il primo musicista a suonare per l’equipaggio di una navicella spaziale. E’ successo il 12 novembre, in
collegamento con Anaheim in California, con Bill McArthur e
V a l e r e To k a r e v , i d u e a s t r o n a u t i c h e d a p i ù d i q u a r a n t a g i o r n i
s o n o a b o r d o d e l l o S p a c e S h u t t l e D i s c o v e r y. D u r a n t e i l c o n c e r t o M c C a r t n e y h a s u o n a t o p e r l o r o E n g l i s h Te a , d a l l ’ u l t i m o
album Chaos And Creation In The Backyards e Good Day Sunshine dei Beatles…
Uscirà il 23 gennaio del prossimo anno il nuovo album dell’ex
Ve r v e R i c h a r d A s h c r o f t . K e y s To T h e Wo r l d ( q u e s t o i l t i t o l o
dell’album) sarà preceduto dal singolo Break The Night With
Colour, atteso per il 9 dello stesso mese…
E’ pronto Idlewild, il film degli Outkast, che sarà accompagnat o d a u n d i s c o o m o n i m o . L’ a l b u m , p r e v i s t o p e r i l 5 d i c e m b r e ,
dovrebbe essere anticipato dal singolo Idlewild Blues…
R o g e r D a l t r e y e P e t e To w n s h e n d r i t o r n e r a n n o i n s t u d i o a f e b braio con il progetto Who2, continuazione della storica band
inglese dopo la morte inaspettata di John Entwistle. Daltrey
sta anche lavorando con l’attore Mike Myers, che interpreterà
il ruolo di Keith Moon, batterista defunto degli Who, in un film
previsto nelle sale per il 2006…
Fatti due calcoli e visto il successo dell’ultimo anno, Rufus
Wainwright ha deciso di ri-pubblicare Want, il suo ultimo album in una edizione speciale che comprende sia Want One
c h e W a n t Tw o o l t r e a d a l c u n i i n e d i t i t r a c u i s p i c c a n o l a c o v e r
di Chelsea Hotel n.2 di Leonard Cohen e In With The Ladies,
scritta a quattro mani con Alex Gifford dei Propellerheads. La
data d’uscita è prevista per il 28 Novembre…
I Beach Boys hanno accusato pubblicamente Cooper Owen della Brother Records Inc. che sarebbe in possesso di materiale
della band californiana. Owen sostiene di avere tutto il diritto
sentireascoltare
a possedere quel materiale (secondo lui venduto una ventina
d’anni fa) tra cui spartiti, foto e qualche registrazione inedita.
Solo pubblicita? E a vantaggio di chi? La parola ai giudici…
Dopo Alanis Morrisette e Bob Dylan, anche i Rolling Stones
affidano la distribuzione di una raccolta di inediti alla catena
tutte le filiali Starbucks degli U.S.A. e del Regno Unito a partire il 22 Novembre. Per fortuna il colosso del caffè non avrà
l’esclusiva sulle vendite, come è stato invece per Live at the
Gaslight 1962 di Dylan…
Rufus Wainwright
di caffetterie Starbucks. Rarities 1971-2003 sarà in vendita in
Dopo la tanto sospirata reunion (e particolarmente voluta dal
l o r o v e c c h i o f a n M o r r i s s e y ) l e N e w Yo r k D o l l s h a n n o p r e p a r a t o
un video che documenti il loro ritorno alle scene. Con la regia
d i G r e g W h i t e l y, N e w Y o r k D o l l d e b u t t e r à a N e w Yo r k e L o s
Angeles il 28 ottobre per fare, poi (si spera) il giro del mondo.
Intanto la band si prepara ad entrare in studio per registrare
nuovo materiale per la Roadrunner Records atteso per la prossima primavera…
Gli U2 e i Foo Fighters prenderanno parte a uno speciale TV
dedicato alla figura di Johnny Cash, che andrà in onda negli
U.S.A il prossimo 16 Novembre. All’appello hanno risposto anche un pezzo di storia del rock’n’roll come Jerry Lee Lewis.
I Walk The Line: A Night With Johnny Cash coincide con la
realizzazione del tanto atteso film sulla vita del cantante americano, I Walk The Line…
Nick Cave sta preparando un tour “solo” per il prossimo anno,
a partire dalla fine di gennaio. Ad accompagnare il cantautore
non sarà la sua storica band al completo, i Bad Seeds, ma soltanto uno sparuto gruppetto di musicisti: Warren Ellis (violino),
Martyn Casey (basso) e Jim Sclavunos (batteria)…
S’intitola Guerolito la versione remix dell’intero album Guero
di Beck. Il CD sarà disponibile dal prossimo 5 dicembre. La
lista degli artisti e remixer che hanno lavorato su tutti i brani
di Guero per trasformarlo in Guerolito non è ancora disponibile; al momento si sa solamente che, tra i partecipanti, sono
da annoverare Adrock dei Beastie Boys e John King dei Dust
Brothers…
sentireascoltare speciale
N o Wa v e
Il lato buio della Mela
d i Te r e s a G r e c o e A n t o n e l l o C o m u n a l e
DNA
Crogiolo di esperienze tra le più varie, la No Wave rappresenta l’essenza
della vitalissima New York di fine anni ‘70 tra musica, sperimentazione,
cinema, pop art e avanguardia.
No Wave. Una sigla che ha già tutti i contorni
del manifesto programmatico per un mondo in
rovina. Quel mondo in rovina, tra la fine dei
’ 7 0 e l ’ i n i z i o d e g l i ’ 8 0 s i c h i a m a v a N e w Yo r k .
Qualcosa di più di una semplice città, molto
più affine ad un grande organismo vivente con
cui imparare a convivere per evitare di essere soppresso o dimenticato nell’inferno delle
periferie.
Chiusi e schiacciati dal panorama urbano, dec e n n i p r i m a d e l l ’ 11 s e t t e m b r e , N e w Yo r k è g i à
il grande buco nero del mondo. Un simile inferno metropolitano non poteva, però, che sviluppare al suo interno potenti e feroci anticorpi, contro il pericolo della deriva esistenziale.
sentireascoltare
Una fervente e ricchissima scena intellettuale che riporta alla mente il celebre adagio di
Orson Welles: “In Italia, sotto i Borgia, per
trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In
Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno
prodotto? Gli orologi a cucù”.
A l l a f i n e d e g l i a n n i ’ 7 0 N e w Yo r k d o w n t o w n è
tra le più fertili scene artistiche del momento,
un crogiolo di esperienze tra le più disparate:
cinema, danza, scrittura, teatro, musica (influenze punk, garage, funk, free jazz, black
music, musica d’avanguardia), arte (con im-
No Wave, negare per esistere.
Un drappello di intellettuali
reietti e non musicisti incomincia piano piano a fare gruppo
e a posizionarsi teoricamente
agli antipodi dei valori estetici in voga. Sul fronte cinematografico si aprono le porte
per un nuovo modo di fare cinema. Il cinema indipendente
No Wave si sviluppa, a partire
dal 1976, nella scena artistica
e musicale dell’East Village
newyorchese (“Era il quartiere degli artisti, dei punk, dei
freaks, dei tossici e dei mez-
Brian Eno all’epoca era reduce dalla composizione di Before and After Science e stava
dando più di una mano sinistra
a i Ta l k i n g H e a d s e a l B o w i e
della trilogia berlinese, ed è
proprio nel mentre della trilogia, precisamente tra Heroes
e L o d g e r, c h e i l N o s t r o t r o v a
il tempo e la vocazione per
concepire quello che mancava
alla non-scena newyorkese:
un “non-manifesto”.
Tom Verlaine
zi matti” come ricorda Richard
Kern), comprendendo, tra gli
altri, autori come Amos Poe,
Scott e Beth B., Eric Mitchell,
Vivienne Dick, Jim Jarmush.
Se la new wave era il riscatto
pop dopo la dissoluzione del
punk, allora la no wave era la
degenerazione come reazione
al riscatto e alla normalizzazione. Che a farsi promotore
di una “non scena” così destabilizzante fosse poi, uno delle
menti più lungimiranti e sottili
dell’epoca, nonché uno degli
anticipatori della new wave,
con i suoi Roxy Music, è nell’ordine delle cose e del destino.
Siamo nel 1979. La Antilles, sussidiaria della Island,
pubblica una compilation, int i t o l a t a N o N e w Yo r k ( A n t i l les, 1979 / Lilith-Goodfellas,
2005), in cui quattro band locali si contendono la scena.
Nelle intenzioni iniziali del
Brian Eno curatore della raccolta, il lavoro avrebbe dovuto essere composto da un
parterre molto più numeroso.
Rimasero fuori dalla selezione finale i Theoretical Girls di
Glenn Branca, i Boris Police
Band, i Gynecologists, i Red
T r a n s i s t o r , i To n e D e a t h e i
Te r m i n a l . L a s p u n t a r o n o , i n v e ce, James Chance & the Cont o r s i o n s , Te e n a g e J e s u s & t h e
Jerks, i Mars e i D.N.A. Nella
primavera del 1978, si alternarono ai Big Apple Studios
di Manhattan per registrare
Glenn Branca
Negare per esistere: No
N e w Yo r k
Lydia Lunch
portanti ascendenze warholiane).
B a n d c o m e i Ta l k i n g H e a d s e
i Te l e v i s i o n d e t t a n o l ’ a g e n d a
della scena in voga. Il CBGB’s
è il tempio della nouvelle vague musicale. Sul suo palco
un’intera generazione di musicisti, dai Cars di Ric Ocas e k a g l i s t e s s i Te l e v i s i o n , d a l
Patti Smith Group ai Ramones, da Blondie ai Suicide,
dagli Heartbreakers ai Cramps, consegnandosi alla storia
come luogo culto per la musica rock e per la scena artistica dell’epoca.
M a a N e w Yo r k l e c o s e n o n
potevano
certo
svilupparsi
s e g u e n d o , s i c e t s i m p l i c i t e r,
i dettami dell’epoca. La new
wave come musica di consumo
di massa, in tutte le sue sfaccettature, dal più tenebroso e
arcigno filone britannico alle
sue forme più commercializzabili, passando per quelle
più avant, doveva trovare un’
accoglienza quanto mai scontrosa e polemica, soprattutto
tra le frange più estremiste
e intransigenti dell’east side
newyorkese. Artisti che subivano la fascinazione tanto del
free jazz, quanto dell’avanguardia rumorista e che guardavano alle cose del mondo
con un senso di disperazione
e nichilismo, assolutamente
incompatibili con il rinascimento musicale paventato da
una “nuova ondata” di musicisti.
sentireascoltare Debbie Harry e Duncan Hannah
ognuno quattro brani a testa e
andare a comporre la compilation orchestrata da Eno.
I primi in lista sono James
Chance & the Contorsions. A
loro il compito di introdurre la
raccolta e di chiarire subito
l’estetica musicale di riferimento: ritmica sincopata, alterata, scomposta. Un tappeto
percussivo che provoca il parossismo degli altri strumenti:
sax e chitarre dinoccolate che
esplodono in tutte le direzioni, basso ultra funky e voce
imperiosa e nevrotica. I Can’t
Stand Myself, cover di James
Brown,
lascia
senza
fiato.
Un’apnea di tutti gli strumenti per inscenare un inferno
in terra. E’ difficile rimanere
indifferenti di fronte all’energia compressa e scaricata a
piccole costanti raffiche che
esplodono accordo dopo accordo.
James Chance, si è poi confermato come uno dei musicisti più influenti e visionari
della musica rock, mettendo
in scena con i Blacks e come
James White, una schizofrenia artistica, che era al tempo
stesso esaltazione glamour e
10 sentireascoltare
fisiologica espressione di irriverenza poetica.
I Te e n a g e J e s u s & t h e J e r k s
sono molto più teatrali e involuti.
Melodie
totalmente
assenti e un fastidiosissimo
modo di usare gli accordi di
chitarra, come tappeto per le
pantomime di Lydia Lunch.
Brani come Burning Rubber
e The Closet procedono quasi per inedia. Una pressoché
totale assenza di voglia di vivere e un disagio esistenziale
senza vie di salvezza. Rispetto alla carriera solista della
L u n c h , i Te e n a g e J e s u s & t h e
Jerks si muovono in un universo molto meno costruito,
più diretto e grezzo. Ma sono
qui, senza dubbio, i prodromi
di The Queen of Siam e della
degradazione di Fingered (di
Richard Kern, 1986)
A seguire, la raccolta passa
a documentare l’estetica dei
Mars. Un po’ i jolly dell’antologia, essendo molto meno famosi degli altri e presto scomparsi nel nulla. Eppure, le loro
costruzioni sonore sono a dir
poco originali, quasi naif, per
il modo in cui si calano in una
dimensione claustrofobica e
alienata, con l’impressione di
essere capitati nel posto più
lugubre della terra, per caso.
Tunnel è il titolo di uno dei
quattro brani e di questo si
tratta, di lunghi corridoi di
sonorità scostanti e allucinate in cui calare la voce di Sumner Crane. C’è poco da aggiungere se non che i Sonic
Yo u t h , c o m e f i g l i d ’ é l i t e d e l l a
no wave, devono aver sicuramente amato i Mars e le loro
chitarre “soniche”.
A chiudere la raccolta i D.N.A.
d i A r t o L i n d s a y. N o n s i p u ò
dire che il panorama cambi radicalmente coordinate, ma sicuramente rispetto agli altri, i
D.N.A. mostrano un atteggiamento più ironico e meno irritabile nei confronti della tradizione. Quello che non viene
meno, è di sicuro il maltrattamento della chitarra. Lindsay
la usa come un aggeggio da
fabbrica: pochi accordi fuori
tono usati, per altro, in maniera assai poco elegante e alternandoli con le sonorità sintetiche di Robin Crutchfield e
il drumming meccanico di Ikue
Mori. Size chiude alla grande
la raccolta mostrando tutto
il fascino dell’operazione no
Mars
wave: scomporre gli elementi
che costituiscono una classica partitura rock e lasciare
che ogni singolo componente
mostri la bellezza che c’è dietro il rumore.
Per forza di cose, la compilation non riesce a fotografare
pienamente tutti gli angoli della scena. Quello che fa è dare
un compendio delle sonorità
che va a documentare, attraverso quattro case histories
particolarmente significative.
Se da un lato le intenzioni iniziali di Eno erano comunque
quelle di disegnare un quadro
molto più vasto, la storia si è
poi occupata di dare credito
alle altre esperienze innovative provenienti dalla scena,
in particolare quelle di Glenn
Branca (e, per filiazione dirett a , S o n i c Yo u t h ) e d e i L o u n g e
Lizards.
L’ e n s e m b l e d i G l e n n B r a n ca ha rappresentato un po’
l’anello di congiunzione tra la
no wave ortodossa e il noise
rock degli anni ’80, lavorando
in maniera rivoluzionaria sull’applicazione del rumorismo
chitarristico al minimalismo
d ’ a v a n g u a r d i a d e i v a r i Te r r y
R i l e y e L a M o n t e Yo u n g e d a n -
do, tra l’altro, i natali artistici
a Lee Ranaldo (tra i musicisti presenti nel fondamentale
Ascension) e Thurston Moore.
I Lounge Lizards di John Lurie
invece, sono diventati subito
un’esperienza sui generis, di
commistione tra rock e jazz,
ereditando dal primo piglio e
dissonanze, e dal secondo ritmica ed estetica intellettuale;
da notare nell’omonimo esordio (Eg, 1981), in un diretto
legame con la no wave, la presenza della chitarra atonale e
“ g r a t t u g i a t a ” d i A r t o L i n d s a y.
N o N e w Yo r k , c o m u n q u e , c o m e
ogni opera in anticipo sui tempi, fu accolta con sufficienza
da pubblico e critica. A distanza di anni però, resta enorme
il suo influsso sugli epigoni rumoristi. Tutta la scena newyorchese a venire non ne potrà
p i ù f a r e a m e n o . S o n i c Yo u t h e
Swans fonderanno parte della
loro estetica noise su queste
canzoni, Pussy Galore e Cop
Shoot Cop ne proseguiranno
le gesta fino all’approdo negli anni ’90; in tempi recenti,
Blonde Redhead (omaggiando
i DNA sin dal nome) e Liars
hanno traghettato le sonorità
no-wave nel nuovo millennio.
Visioni sotterranee: il
cinema No Wave (19761985)
Il No Wave Cinema o New Cinema (dal nome di una sala
di proiezione gestita da alcuni registi di quella scena)
si sviluppa in un coacervo di
influssi artistici a partire dal
1976, parallelamente al punk
e al corrispettivo movimento
musicale. E’ un cinema soggettivo, che nasce come negazione e rifiuto delle ideologie,
ambientato in una metropoli
degradata, frammentata, meltin’ pot di culture e esperienze borderline.
Il No Wave nasce come cinema
underground, low budget (girato spesso con mezzi di fortuna in super 8 e video e poi
riversato in 16 mm), e vive di
contaminazioni tra esperienze disparate (musica, soprattutto – molti dei registi erano
anche musicisti - arti visive,
poesia, letteratura, teatro).
Si rifà idealmente ai b-movies
hollywoodiani, al cinema indipendente americano dei primi
anni ’60 (New American Cinema, John Cassavetes), ai film
di Warhol, e alle avanguardie
e u r o p e e q u a l i l a N o u v e l l e Va -
s e n t i r e a s c o l t a r e 11
Stranger Than Paradise - Jim Jarmush
gue francese e il Free Cinema inglese. Rappresenta le
subculture, il nichilismo, la
disperazione,
la
solitudine
metropolitana di una generazione disillusa ma non per
questo meno vitale. Contrariamente al cinema indipendente americano degli anni ’60,
non narrativo, il No Wave si
caratterizza infine per un ritorno alla narrazione, facendo
proprie le tecniche del cinema
indipendente; questo ritorno
al narrativo che caratterizzerà poi i film-maker successivi
(Jim Jarmush, John Sayles fra
gli altri).
Generazione
Amos Poe
vuota:
Figura chiave del movimento
è Amos Poe: regista, attore,
sceneggiatore, assiduo frequentatore del CBGB’s. Anticipatore del No Wave è proprio il documentario punk The
Blank Generation (1976), girato in 16 mm da Poe insieme a Ivan Kral del Patti Smith
Group al CBGB’s, nel 1975,
con riprese di band nascent i q u a l i Te l e v i s i o n , R a m o n e s ,
12 sentireascoltare
Ta l k i n g H e a d s , B l o n d i e , P a t t i
Smith Group, Johnny Thunders
& The Heartbreakers (con Richard Hell), Wayne County e
altri gruppi.
Il risultato è un vibrante filmato
(simbolo
dell’estetica
del nuovo cinema) in b/n con
il sonoro fuori sync ( le riprese erano mute, il sonoro
è stato poi aggiunto da demo
e live delle band), frammentato, convulso, sfalsato, che
fa il paio con The Decline Of
Western Civilization (1981) di
Penelope Spheeris, film simbolo della scena punk di Los
Angeles; un documento importante, che mette in luce il
talento di Poe e mostra i primi passi di alcune delle band
del successivo movimento new
wave americano. In tempi recenti, Blank Generation è stato edito in dvd insieme a Dancin’ Barefoot, documentario
autobiografico di Kral).
spiro (Unmade Beds, 1976),
in cui racconta la fine del sogno americano, (The Foreigner, 1977), l’alienazione, la
psicosi, l’ossessione (Subway
Riders, 1981); ad animare le
pellicole alcuni dei protagonisti della scena sotterranea
del tempo (Debbie Harry dei
Blondie, Eric Mitchell, John
Lurie dei Lounge Lizards, Lydia Lunch).
Tra il ’76 e l’81 Poe mette a
punto le tematiche del suo
cinema in una trilogia underground, densa di richiami al
Godard de Fino all’ultimo re-
sentivo appartenevano allora
a N e w Yo r k . ”
In The Foreigner un agente
segreto europeo arriva a New
Yo r k i n c e r c a d e l s u o c o n t a t t o ,
Unmade Beds si apre con un
appassionato omaggio: Rico
v i v e a N e w Yo r k n e l ‘ 7 6 , m a l a
sua mente è in Francia, negli
anni ’60, durante la Nouvelle
Va g u e ; è u n f o t o g r a f o e s i c r e de un gangster alla Belmondo
di Fino all’ultimo respiro, un
perdente romantico e idealista, è solo e si sente sradicato. Ecco come Poe ne parla:
“ Vo l e v o c o m i n c i a r e d a d o v e
aveva iniziato Godard: l’innocenza, il romanticismo, la vita
bohemienne, tutte cose che
che non troverà; sarà invece
coinvolto in strane situazioni
di misteri e intrighi che non
capirà, fino al tragico epilogo.
In questo film Poe cita all’inizio i suoi ispiratori: Godard,
il Cassavetes di Shadows,
Warhol. In Subway Riders infine, il suo primo film a colori,
un noir nervoso e notturno, un
sassofonista psicotico, interpretato sia dal regista che da
John Lurie, attira vittime con
la sua musica per poi ucciderle.
Quello di Poe è un cinema che
rappresenta e fa vivere la cultura del tempo, mescolando la
forza del punk con l’energia
delle avanguardie e del cinema warholiano: realismo, soggettivismo, nichilismo, storie
urbane, solitudini metropolitane, alienazione in una città
infernale. Il regista proseguirà poi con una carriera cinematografica più rassicurante
e con il successo commerciale, arrivato nel 1984 con Alp h a b e t C i t y, m a q u e s t a è g i a
un’altra storia.
Altri no wavers: Scott
e Beth B, Eric Mitchell,
Vivienne
Dick,
James
Nares
A partire dal 1978, altri registi metteranno a punto le tematiche del New Cinema, sviluppandole verso forme che
daranno
vita
nel
decennio
successivo ad ulteriori realtà
oltre la no wave.
Gli artisti multimediali Scott
e Beth B. marito e moglie,
realizzano insieme dal 1978
a l 1 9 8 3 a l c u n i f i l m t r a i l n o i r,
i l m e l o d r a m m a , i l t h r i l l e r, i l
dramma dark. The Black Box
, un cortometraggio con Lydia
L u n c h , G - M a n , L e t t e r s To D a d ,
T h e O f f e n d e r s , T h e Tr a p D o o r,
The Vortex (questi ultimi due
ancora con la Lunch), sono
pellicole dense di violenza e
oppressione, reali e metaforiche, nichilismo, disperazione,
schiavitù sessuale; temi che
ritroviamo anche nei successivi film di Beth dopo il divorzio
dal marito e che influenzeranno il successivo “Cinema della trasgressione” di metà ’80
(Richard Kern, Nick Zedd).
Eric Mitchell , francese di nascita, attore, regista, produttore, assiduo collaboratore di
Poe (nonché attore in Unmade
Beds e The Foreigner), realizza anche lui i suoi primi film
a partire dal 1978: Kidnapped, (in cui si rifà stilisticamente ai primi film di Warhol;
ne riprende infatti Vinyl, un
adattamento del libro Arancia
Meccanica, fatto prima di Kub r i c k ) , R e d I t a l y, U n d e r g r o u n d
U.S.A., The Way It Is. Il regista si muove nell’area del
cinema europeo esplorata da
Poe, con omaggi a Bertolucci,
Warhol e Jack Smith, raccontando l’alienazione, la noia,
la
disperazione
della
New
Yo r k u n d e r g r o u n d e d e i s u o i
personaggi. I suoi film più conosciuti restano Underground
U.S.A.e The Way It Is; il primo
un remake di Sunset Boulevard
alla maniera warholiana (passando quindi per Heat, di Paul
Morrisey), il secondo con Steve Buscemi e Vincent Gallo al
loro debutto (quest’ultimo anche autore della colonna sonora). Nel 1979 Mitchell inaugura insieme a James Nares
e Becky Johnston una sala di
proiezione destinata a durare
solo un anno, chiamata New
Cinema (un altro dei nomi con
cui il No Wave è conosciuto),
in cui sono proiettati i film del
movimento, contribuendo significativamente alla loro diffusione e dando così l’opportunità ai nuovi film-maker di
mostrare il proprio lavoro.
Degni di menzione anche altri
d u e f i l m - m a k e r, Vi v i e n n e D i c k
e James Nares . La prima, di
origini irlandesi, è autrice di
film più astratti rispetto ai
canoni del New Cinema, ma
per questo non meno potent i : G u e r i l l e r e Ta l k s , S h e H a d
H e r G u n A l l R e a d y, B e a u t y
Becomes the Beast, Liberty’s
Booty. I protagonisti sono i
soliti di quella scena: Lydia
Lunch, Pat Place, chitarrista
dei Contortions (She Had Her
Gun All Ready) tra gli altri.
Nares, di origini inglesi, musicista nei Contortions - e nei
Del-Byzanteens con Jim Jarmusch – ha in verità pochi film
all’attivo (Rome ‘78, No Japs
At MyFuneral, Waiting For The
Wind). Il primo, con Eric Mitchell, John Lurie, Lydia Lunch
e James Chance, è un ironico
remake dei kolossal hollywoodiani: un Caligola surreale e
ironico, girato in low budget a
N e w Yo r k .
Downtown 81 e la New
Yo r k d i B a s q u i a t
Non si può non citare a questo punto un altro film importante in quanto testimonianza diretta di quegli anni (e
di quella scena), che ha per
protagonista un artista che
muoveva i primi passi e che
sarebbe diventato famosissimo con l’approvazione di Andy
Warhol: Jean Michel Basquiat.
Downtown 81, in origine chiam a t o N e w Yo r k B e a t , s c r i t t o
e coprodotto dallo scrittore
d i I n t e r v i e w, G l e n n O ’ B r i e n e
diretto dal fotografo svizzero
Edo Bertoglio, è stato girato
nel 1980-1981, ma problemi
finanziari ne interruppero subito la post produzione; dopo
varie disavventure, è uscito solo nel 2000. La maggior
parte del sonoro è andata persa: la voce dell’artista è stata infatti ri-doppiata dal poeta
Saul Williams.
Abbiamo così l’occasione di
vedere in azione un diciannovenne
Basquiat,
pittore,
graffitista, poeta e musicista
non ancora celebre, ma dei
c u i g r a f f i t i N e w Yo r k e r a g i à
piena. Il film racconta una
giornata di un giovane artista squattrinato, che cerca di
vendere un quadro per fare un
po’ di soldi; lo vediamo incontrare amici (di cui assiste alle
p e r f o r m a n c e ) n e l l a N e w Yo r k
downtown, da Soho all’East
village, e lo seguiamo nelle
s e n t i r e a s c o l t a r e 13
Basquiat in Downtown 81
sue peregrinazioni diurne e
notturne. Nel cast sono presenti alcuni artisti di quella
scena: la onnipresente Debor a h H a r r y, J a m e s W h i t e a n d t h e
Blacks, D.N.A., Tuxedomoon,
Amos Poe… Nella soundtrack
figurano anche John Lurie, Lydia Lunch, i Suicide, Vincent
G a l l o e i G r a y, i l g r u p p o d i B a s q u i a t . E m e r g e u n a N e w Yo r k
che è il cuore delle tendenze
artistiche, non più succube
dell’Europa, in cui la pop art
è la cultura americana di quegli anni. Basquiat frequenta i
locali di Soho e dell’East Village, aiuta il maestro Warhol
a superare una crisi creativa
e diventerà ben presto un simbolo della società multirazziale newyorchese.
Oltre il New Cinema:
Jim Jarmush e il Cinema della trasgressione
Resta da chiedersi quali tracce abbia lasciato un movimento così colto, articolato
e a suo modo eversivo. I presupposti per essere un’esperienza culturale estemporanea
14 sentireascoltare
perduta nel tempo non ci sono
mai stati e, con il passare degli anni, lo stile e l’etica di
questo cinema ha innervato le
visioni delle nuove generazioni di autori “off”, lontani dai
circuiti hollywoodiani e fieri
esponenti di una cultura visiva di settore, marginale, di
“periferia” .
Un chiaro esempio è Jim Jarmush. Inizia in area prettamente
no
wave,
con
un
film adorabile e minimalista
come Stranger Than Paradise (1984): lividissimo bianco e nero, per una commedia
surreale e sopra le righe con
John Lurie a riempire le immagini del suo volto asciutto. Da
qui in poi, i successivi film si
allontaneranno sempre di più
dai canoni ortodossi del movimento per diventare qualcosa
di altro, più personale e legato alla poetica dell’autore, ma
senza mai perdere quel carattere distaccato ed ironico nei
confronti delle periferie umane e metropolitane.
In questo è certamente simile
a d H a l H a r t l e y, u n a l t r o g r a n -
de continuatore dei dettami no
wave. Sguardo disincantato,
pessimismo sottile e divertito,
romanticismo di fondo, i film
di Hartley si ergono a piccoli manifesti per la provincia
a m e r i c a n a . U n b e l i e v a b l e Tr u t h , Tr u s t , A m a t e u r , f i l m d e d i cati ad un’umanità marginale
che si cimenta con i grandi
temi
dell’esistenza,
così…
quasi per caso.
Altro discorso va essere fatto per il cosiddetto “Cinema
della trasgressione”, una filiazione diretta e senza intermediazioni del New Cinema così come della pop art- che
ne continua ed esaspera gli
aspetti più provocatori e dissacranti. Figure come Richard
Kern, Nick Zedd, Casandra
Stark, Lung Leg e l’icona Lydia Lunch, concorreranno ad
illustrare una serie di incubi
in super-8 e corti di diffusione
semi-clandestina, che danno
un nuovo significato al termine “trasgressione”. Violenza
e sessualità nei loro aspetti più morbosi costituiscono
l’ossatura di una contro filo-
sofia amorale senza compromessi. Una messinscena barbarica delle bassezze umane,
che si diffonderà soprattutto
attraverso una gran quantità
di corti, di cui i più famosi rimangono certamente quelli girati da Richard Kern.
Che poi Kern sia passato alla
storia per aver filmato Jim
Thirwell che sodomizza Lydia
Lunch, diventando poi fotog r a f o p a t i n a t o d e l l e N e w Yo r k
Girls non ne diminuisce la
portata polemica e antagonista, coadiuvata dalle sonorità
d e l d o p o n o w a v e : S o n i c Yo u th (per cui ha diretto lo storic o v i d e o d i D e a t h Va l l e y ‘ 6 9 ) ,
Swans, Foetus, Pussy Galore
e JSBX, Bosshog, Breeders,
Marilyn Manson.
La lezione dissacrante e provocatoria del No Wave cinema
forse è stata in parte anestetizzata dal sistema, che ne ha
narcotizzato gli elementi più
eversivi e diluito quelli più
accomodanti, ma ancora oggi
quel grappolo di artisti dell’east side newyorkese rappresenta una freccia acuminata
nel fianco della cultura americana. Non resta che aspettare
qualche nuovo ribelle che ne
prosegua gli insegnamenti polemici, validi ieri come oggi.
Discografia essenziale
A A . V V.
-
New
Yo r k
Noise
Filmografia essenziale
(Soul
Jazz,
2003)
Amos Poe
The Blank Generation (1976)
James Chance & The Contortions – Buy/
Unmade Beds (1976)
Off White (Munster Records-Goodfellas,
The Foreigner (1977)
2003)
Subway Riders (1981)
Te e n a g e J e s u s & T h e J e r k s – E v e r y t h i n g
(Ata, 1995)
Mars & D.N.A. - John Gavanti (Atavistic,
1998)
D.N.A. - DNA on DNA (No More Records
- 2004)
Theoretical Girls - Theoretical Girls (
Acute, 2002 )
Lydia Lunch – The Queen of Siam (Ata-
Scott B. Beth B.
The Black Box (1978)
The Offenders (1980)
T h e Tr a p D o o r ( 1 9 8 1 )
The Vortex (1983)
Eric Mitchell
vistic, 1998)
Kidnapped (1978)
Glenn Branca – The Ascension (Acute,
Red Italy (1979)
2003)
Underground U.S.A. (1980)
The Lounge Lizards – The Lounge Lizar-
The Way It Is (1984)
ds (Eg, 1981)
S o n i c Yo u t h - S / t ( N e u t r a l , 1 9 8 2 )
Vivienne Dick
She Had Her Gun All Ready (1978)
James Nares
Rome ’78 (1978)
Waiting For The Wind (1981)
Edo Bertoglio
Downtown 81 (2000)
Jim Jarmush
Stranger Than Paradise (1984)
Down By Law (1986)
M y s t e r y Tr a i n ( 1 9 8 9 )
Hal Hartley
T h e U n b e l i e v a b l e Tr u t h ( 1 9 8 9 )
Tr u s t ( 1 9 9 0 )
Richard Kern
The Right Side of My Brain (1984)
Submit to Me (1985)
Yo u K i l l e d M e F i r s t ( 1 9 8 5 )
Fingered (1986)
Nick Zedd
They Eat Scum (1979)
Geek Maggot Bingo (1983)
Whoregasm (1988)
War Is Menstrual Envy (1990)
sentireascoltare 15
interviste
Akron/Family
We are family
di Marina Pierri
In alcune famiglie ci si scontra senza incontrarsi mai e senza produrre
niente, in altre capita che l’unione faccia la forza. E’ il caso degli Akron/
Family: quattro teste distinte per un unico, inattaccabile, corpo sonoro.
16 sentireascoltare
Sono le undici di una mattina
sperduta nella provincia bolognese, dalle parti della Porrettana, vicino all’autostrada.
Ho seguito i quattro Akron/Family per due giorni, in occasione della data di Bari e di quella di Bologna, osservandoli
alle prese con un estenuante
tour europeo. All’indomani del
concerto del Covo, sono pronti a issare le vele virtuali del
loro furgone per salpare verso i lidi romani; ed io mi preparo a salutarli mentre il blu
del loro (pare, scomodissimo)
veicolo scompare tra le rotonde delle principali.
Ci fermiamo a un bar dall’aria
poco amena, vicino un distributore di benzina, e tutti si
prendono un espresso e ne
ordinano a ruota un altro: “lo
sai, ci sono band che fumano
un monte di marijuana, o band
che bevono fino ad andare in
coma etilico tanto perché hanno da bere gratis; noi siamo
diversi. Noi beviamo caffè. E’
quella la nostra droga ufficial e ! ” m i a v e v a d e t t o R y a n Va n derhoof, chitarrista e quasi
l e a d s i n g e r d e l l a F a m i l y. E d e l
r e s t o , S e t h O l i n s k y, s e c o n d o
chitarrista e polistrumentista
che dietro gli occhiali nasconde degli occhi grigi scintillanti, oltre a fare il musicista lavora a tempo perso in un caffè
di Brooklyn in cui dice di trovarsi molto a suo agio. “Peraltro mangiamo tutto il tempo,
specie a colazione, quando
siamo a casa, negli Stati Uniti” specifica quest’ultimo “ci
siamo ribattezzati Snack-ron/
family”.
Dana Jansenn, batterista composto e chic anche nelle prime
ore spaccaossa della mattina, si gira una sigaretta e mi
domanda come si domanda il
prezzo in italiano. Gli altri tre
- seguiti dal fedelissimo e torvo guidatore olandese del loro
mezzo di locomozione - hanno un aspetto arruffato. Sono
molto stanchi. E’ il primo anno
che si trovano ad avere a che
fare con le bellezze e le nefandezze del passare la vita
tra una città ed un’altra, tra
un confine e quello che subito
gli succede sulla cartina. Miles Seaton, bassista scalmanato che adora fare sketch da
pirata fingendo gamba di legno e rivolo di bava dalla bocca, mi aveva già confessato di
avere “il cervello spappolato.
Non è una bella sensazione,
sai? Mi sembra che le mie facoltà mentali si siano preservate quel tanto che mi serve
a suonare. Per il resto finisce
che ci troviamo a farfugliare
delle cose senza senso tra di
noi, come se le nostre funzioni vitali si fossero ridotte
all’essenziale: mangiare, dormire, andare in bagno, suonar e . I o m i s e n t o r e g r e d i t o . Tu t t i
questi stimoli diversi, queste
facce sempre diverse di luogo
in luogo, finisce che mi stonano. Non mi lamento, è chiaro.
Tu t t o q u e s t o è s p l e n d i d o , m o l to più di quanto ci siamo mai
aspettati. Però siamo distrutti,
si. E non è che l’inizio. Dopo
Bari, Bologna e Roma resteremo in Italia ancora un po’. Ci
f a c c i a m o Ta r c e n t o , B e r g a m o ,
Padova e poi andiamo a Londra. Suoniamo all’Astoria. E
sai per chi apriamo? Devendra
Banhart! Dovremo essere bravi a scaldare la folla per lui.
Cercheremo di essere cazzoni
e rumorosi come meglio possiamo”.
Già, Devendra Banhart. Non
esattamente uno qualsiasi dei
nomi che accompagnano la
nascita del giardino dell’alt.
folk newyorkese negli angoli meno nascosti delle strade
di una Brooklyn in crescente
fermento - anzi, sicuramente il più fortunato dei nomi
scovati dalla mente dell’angelo/demone
della
luce,
l’
ex “cigno” Michael Gira, che
dopo l’esperienza decennale
nelle sue band ha canalizzato le sue forze nella scoperta di nuovi talenti. Secondo
Seth “è inutile continuare a
s p a r l a r e d i D e v e n d r a . Tu t t o
questo dire che è peggiorato, che si è esaurito, che non
fa ripetersi, mi dà un po’ sui
nervi. Non credere che lo conosca bene, perché così non
è. Questa storia della ‘scena’
newyorkese è ridicola; non so
cosa pensi la gente, ma ‘noi’
d e l l a Yo u n g G o d e t a n t o m e n o
‘noi’ a Brooklyn non facciamo
feste in cui ci sbronziamo e ci
diamo a baccanali VIP o cose
del genere. Spesso a malapena ci siamo visti: magari una
volta ad un concerto, ci siamo
presentati, abbiamo scambiato due parole. Nient’altro. Non
è che fare parte dello stesso
movimento, se un movimento
esiste, fa automaticamente di
te il migliore amico di quell’altro. Musica o non musica,
è come nella realtà - semplicemente a certe persone ci si
lega ed a certe no. Nel caso
di Devendra, ti ripeto che non
lo conosco. Però penso che
dovremmo un po’ smettere di
prenderci in giro: in lui c’è
qualcosa di più della musica.
E’ bello, per dirne una. Non si
riesce a smettere di guardarlo
quando è su di un palco. Cioè,
io non riesco, ad esempio. E’
questione di carisma. Magari
c’è gente che fa musica migliore della sua, o fa meglio
la stessa musica, ma non è
Devendra. Non vedo che problema ci dovrebbe essere ad
accettare questo”.
Gli chiedo cosa ne pensi, del
resto di questo movimento che
pure non esiste. E mi risponde che “gli Animal Collective sono favolosi. E chi altro
c’è? Ho l’impressione che tu
ne sappia molto più di me
delle band newyorkesi”. Non
so, Joanna Newsom o le Cocorosie. “Joanna la conosco
pochissimo, è davvero bella...credo che sia la donna di
Smog, quel furbacchione (che
mi piace molto). Le Cocorosie non mi fanno impazzire.
Ma Bianca sta ancora con Devendra?”. E per il resto, sono
curiosa. “Adoro gli Oneida” mi
dice, ed io penso anche che
sentireascoltare 17
dal vivo la Family condivida
anche più di qualche elemento
con loro. Ma non mi accontento. Per curiosità, voglio saper e c o s a n e p e n s a d e i C l a p Yo u r
H a n d s S a y Ye a h , i l f e n o m e n o
di Brooklyn del momento. Seth
arriccia il naso e sbuffa con
eloquenza, poi scuote la testa. “La fama ha le sue proprie coordinate. Hai presente
gli Interpol, vero? E hai presente i Calla?” Rispondo che
si, conosco entrambi; i secondi peraltro sono stati, anche
loro, scoperti dal buon Gira.
“Beh, il cantante dei Calla è
un mio amico. Ci credi che all’inizio gli Interpol andavano
in tour assieme e aprivano per
i Calla? E poi guarda che è
successo”.
Ad ogni modo, pare che il pupillo d’oro Devendra Banhart
sia stato rimpiazzato nel cuore coriaceo di Gira proprio
d a l o r o : g l i A k r o n / F a m i l y, l a
nuova e luccicante perla dell a s u a Yo u n g G o d R e c o r d s . U n
gioiello così unico che l’ex
Swan ha deciso di tenerli con
sé a tempo pieno, facendosi
da loro accompagnare in tour
come componente fissa della sua band (li si può ascoltare in Sing “Other People”).
“Non credo di aver fatto una
sola intervista nella mia vita
in cui non mi sia stato chiesto di parlare di Michael” gesticola Miles. E continua “lui
è straordinario. Io non posso
che ammirarlo. Oramai è sposato, ha la sua età. Abbiamo
fatto poche date con lui perché credo che il suo cachet
sia piuttosto alto e del resto
se non ce lo ha lui un cachet
alto...è in giro da una vita. E’
un genio. Io non posso essere
che commosso pensando fino
a che punto lui ci ha sostenuti
ed elogiati in questi due anni.
L’ h a i l e t t a l a p a g i n a d e l l a
Yo u n g G o d c h e h a s c r i t t o l u i ?
Cioè, lui non è un giornalista.
Non ha lo stesso sguardo su
di noi che, ad esempio, puoi
avere tu. Lui ci conosce, siamo giovani e inesperti per lui,
18 s e n t i r e a s c o l t a r e
voglio dire, abbiamo vent’anni e qualcosa a cranio; perciò è quasi paterno, è onesto,
completamente spontaneo. Se
qualcosa non va, non si fa
problemi a rimproverarcelo ed
il fatto è che è nella posizione di farlo non solo perché ha
il dovere di essere più onesto
degli altri, ma perché capisce fino in fondo quello che
facciamo. Può dirlo, insomma, deve. Io, personalmente,
gli sono attaccatissimo ma ti
direi una cazzata se fingessi
che è una persona facile da
gestire. E’ un uomo incredibilmente intenso e forse io negli
Akron/Family più degli altri ho
avuto dei problemi a relazionarmi alla sua intensità. Non
so, lo vedi come sono, anche
sul palco. Sono esibizionista,
mi piace divertirmi, fare ridere, sorridere la gente; non so.
Lui è una persona affabilissima, ma anche molto cupa. Ha
qualcosa negli occhi che tradisce la sua facciata, quasi
sempre impeccabile. E’ bello,
non trovi? Ed ha 52 anni!”.
Più tardi, restando più o meno
sull’argomento, faccio notare
a Seth che su quella famosa pagina web del sito della
Yo u n g G o d R e c o r d s , n e l l a d e scrizione che il santo patrono
Gira fa di loro viene menzionato ed attribuitogli un modo
di suonare particolare, quasi
mistico; si chiama “AK-AK”.
Gli chiedo cosa voglia dire
esattamente e se è vero. Lui
ride e mi risponde che “no,
non vuole dire assolutamente niente, è una cosa che non
esiste”. Un po’ stupita replico
cosa mi avrebbe risposto alla
domanda se gliel’avessi fatta in un’intervista formale e
senza battere ciglio replica “ti
avrei detto la stessa cosa; è
uno scherzo!”.
Mentre, a saluti ultimati, mi
allontano nella mia macchina
in rotta verso il centro di Bologna, mi sembra di essermi
costruita un’immagine mentale abbastanza nitida di questa
famiglia così fuori dagli sche-
mi. Sebbene manchi un legame di parentela tra i quattro
componenti, mi è parso che
tra di loro esista una vera e
propria alchimia caratteriale
e persino fisica. Superata la
fase delle lunghe barbe degli esordi e dell’uscita dello
s p l e n d i d o S / T, d a i q u a t t r o v o l ti invernali coperti da cappelli
e quant’altro delle foto promozionali sono emersi i visi
da ventiduenni/venticinquenni
di tutti i componenti. Ed i loro
bei sorrisi nutriti dalla parlantina sciolta classificano ognuno di loro maniera differente:
Dana, sincopatissimo dietro la
g r a n c a s s a , è c l a s s y, h a s e m pre un po’ il piglio del lord inglese (le ragazze gli cadono
ai piedi!); Miles è il più divertente ed il più divertito ed
è energetico, chiacchierone,
vivace; Ryan è il “bello” della band ma è anche il più calmo, il più dolce; anche Seth
è molto tranquillo e sebbene
possa apparire a prima vista
il più introverso e complicato è in realtà solido, loquace
e spiritoso. In altre parole,
si tratta di individui diversi,
che si completano a vicenda
e che a ben guardare formano
un unico temperamento multisfaccettato, complesso, difficilmente descrivibile a parole.
ma poco importa: è sufficiente
ascoltare la musica eloquente
d i q u e s t i A k r o n / F a m i l y, d a l l a
cui tavolozza nascono dipinti sonori ora figurativi ed ora
astratti, nei quali, così come
dovrebbe essere, i quattro colori principali si confondono
in sfumature inedite, rare e
per lo più ineffabili.
interviste
Picastro
Intervista con Elizabeth Hysen
di Manfredi Lamartina
D o p o l o s t r a o r d i n a r i o e i n a t t e s o s u c c e s s o i n d i e d e l p r e c e d e n t e R e d Yo u r B l u e s ,
i canadesi Picastro tornano in pista con un nuovo, straziante disco, Metal
Cares (vedi recensione su SA N°12), fatto di chitarre che crescono e seducono tra
gli infiniti precipizi del post rock e la rigorosa classicità dello slowcore. Una strana e affascinante alchimia tra Mogwai, Low e Dirty Three, in cui
svetta la voce malinconica di Liz Hysen, leader della band e protagonista
di questa intervista.
Come mai hai intitolato il
nuovo cd Metal Cares? Qual
è l’idea che sta alla base di
questa frase?
Inizialmente volevamo intitol a r l o S h a r k s A w a y, m a p o i h o
pensato che forse era un’immagine troppo specifica per la
nostra musica. Il nuovo titolo,
Metal Cares, mi sembrava più
appropriato quando mi venne
i n t e s t a p e r l a p r i m a v o l t a . Vo -
levo ovviamente qualcosa che
rappresentasse l’intero album,
e questo è ottimo per descrivere i sentimenti che dominano tutte le canzoni, che sono
in bilico tra delicatezza e una
certa dose di rozza violenza
allo stesso tempo.
In fase di composizione che
cosa viene prima? La musica
o i testi?
Dipende dal pezzo. Solita-
mente però cominciamo dalla musica, perché grazie alla
melodia della voce o degli
strumenti riusciamo a dare
una forma più definita ai testi, che ne possono sposare
l’atmosfera.
La musica dei Picastro ha un
alto tasso emotivo. Ma quali
sono i sentimenti che ti piacerebbe suscitare in coloro che ascoltano una vostra
sentireascoltare 19
canzone?
Qualsiasi sentimento forte ed
estremo mi renderebbe felice.
Se la gente odiasse o disprezzasse Metal Cares andrebbe
bene, e se i nostri brani fossero amati al punto da spingere l’ascoltatore a suonarli o a
comporre canzoni proprie andrebbe bene ugualmente. Meglio questo di certe reazioni
che invece stanno nel mezzo,
senza prendere alcuna posizione al riguardo. Ma ritengo
che ogni musicista la pensi così. Non credo che possa fare piacere sentirsi dire
che un album che hai inciso è
semplicemente “carino”.
il brano originariamente era
un po’ troppo rigido per i miei
gusti. Le parti rumorose credo
che diano maggior spessore e
interesse alla canzone.
Che cosa pensi dello scambio di file mp3 via internet?
È un problema oppure ritieni che può essere un buon
modo per far conoscere in
giro qualcosa dei Picastro?
Secondo me è una buona cosa.
Se si ascolta più musica, se
ne comprerà di più. Inoltre è
davvero utile perché permette alla gente di scoprire nuovi gruppi. Io stessa consiglio
a coloro che sono curiosi di
sapere che cosa facciamo di
scaricare un brano nostro da
internet. Ad ogni modo, diamo
molta attenzione all’aspetto
grafico dei dischi, per invogliare le persone a comprarli
originali.
La caratteristica principale
dei Picastro è l’alternarsi
tra atmosfere dilatate tipiche del post rock e quelle
più intime del folk. È difficile trovare un equilibrio tra
le vostre due “anime” musicali?
No, non è difficile. A me non
piace dividere la musica in
categorie rigide e separate.
Ascolto molte band, ognuna
delle quali ha uno stile completamente diverso dalle altre. A volte sono più interessata a un determinato genere,
ma cerco di non fossilizzarmi.
E comunque suono sempre ciò
che mi lascia maggiormente
soddisfatta, indipendentemente da qualsiasi influenza.
20 sentireascoltare
Ve r r e t e q u i i n I t a l i a a f a r e
qualche data?
Certo. Saremo in Italia per il
mese di marzo 2006. Mi sono
trovata bene tutte le volte che
ho suonato nel vostro Paese.
( l e g g i i l r e s t o d e l l a m o n o g r a f i a s u w w w.
Parlando dei vostri concerti,
è difficile mantenere sempre
la stessa intensità di esecuz i o n e ? N o t o r i a m e n t e u n t o u r,
soprattutto per una band indipendente, è stancante.
Red Your Blues (2004)
C’è una canzone molto bella,
Skinnies, che parte come un
classico pezzo folk ma che
poi si evolve in direzioni più
sperimentali e - per certi versi - rumorose. Ti andrebbe di
parlare di come è nata?
È un brano vecchio. Di solito lo suonavo da sola. In quel
periodo non avevo la band,
così spedii il pezzo a Dwayne
Sodahberk, che aveva pubblicato alcuni album per la Tigerbeat6. Siamo stati in contatto
per un po’ e abbiamo anche
collaborato insieme. Per Skinnies gli dissi di farne ciò che
voleva. Penso che quella sia
stata la mossa giusta, perché
In effetti non abbiamo mai
fatto un tour più lungo di tre
settimane. Penso che sarebbe
molto duro suonare per due o
tre mesi di fila. Inoltre non ci
sono grandi cambiamenti tra
un’esibizione e l’altra, quindi può essere difficile restare interessanti facendo sempre le stesse cose ogni sera.
Ci sono comunque altre cose
che mi piacciono della vita da
t o u r, c o m e a d e s e m p i o v i s i t a r e
posti nuovi e conoscere tante persone con cui scambiarsi pareri sulla musica. Tutto
ciò ti spinge a continuare per
questa strada.
sentireascoltare.com)
monografie
Riot Maker
Riot Thinkin
di
Edoardo Bridda e Marina Pierri
Recentemente balzata a rango di cult act grazie alla distribuzione di Wide
e alle critiche positive della stampa specializzata, l’etichetta friulana
Riot Maker è una delle scene now on del panorama …off italiano
I protagonisti sono tutti giovani, probabilmente il più vecchio non raggiunge i trent’anni, molti di loro hanno aspetti
cartoneschi e perché no da videogioco d’annata della Lukas
Art.
Nelle parole dei suoi stessi
fondatori, ovvero i due membri di FareSoldi, la monkey
island in questione propone
una traiettoria definita wrong
way to pop. E dove starà lo
sbaglio? In verità se di errore
dobbiamo parlare non è quello d’incappare in facili intellettualismi o in popolari etichette quali gli ismi del caso
o il glitch: scopo di questi
Guybrush Trepwood è quello
di far cozzare, clashare, generi e stilemi che ancor oggi
nell’immaginario comune non
possono coesistere né per il
fighetto né per l’ultrà del centro sociale.
Lo spirito - basta dare un occhio al merchandise a base di
motoseghe, doughnuts da Homer Simpson e cappellini da
drugstore americano per rendersene conto - è quello dei
b-boys scazzati e impertinenti, quelli dalle braghe larghe e
i capelli indie-rock, cresciuti
in quel nord-est anni Novanta
dove Mtv e massicce dosi di
tv convivevano con l’hardcore
autoctona, nel quale il mainstream pop si mescolava a un
giro in discoteca l’estate, un
tuffo nelle linee sagomate dei
murales e un teletrasporto in
un video di Beck.
Così Britney e lo speaker
truzzo che parla al microfono della disco di campagna,
Bud Spencer e il musical all’italiana di Vianello e Walter
Chiari sguazzano in uno scenario che potrebbe benissimo
riportare la mente alla stagione Notte Vidal bolognese,
con i Nuovi Cinema Inferno e i
Johnson Rigeira del caso, eppure Riot Maker interseca la
retta della famosa serata dello storico Link prevalentemente sul versante estetico-visivo
e non tanto musicale. Non è
la lounge music o lo spaghetti western a venir riesumato,
piuttosto le biografie sonore
dei vari personaggi fatte di
giocattoli, rap, videomusic, e
tanta tanta disco, subìta - afferma il Pasta - più che praticata.
Un perno oltre a questo, a dir
il vero c’è ed è il laptop, strumento cheap ma soprattutto
congeniale a alcune delle sonorità dei nostri tempi elettronici. E nel macinino digitale ci
entra di tutto: dallo scoppiettante pop dei recenti Mouse
On Mars all’elettronica minuta e bofonchiosa dei Notwist
(Amari), dall’action painting
sonoro dei The Books (Ricciobianco) all’house dei Master
At Work (Scuola Furano e FareSoldi).
Dariella - membro degli “storici” Amari - non sbaglia quando riassume l’etichetta come
la “nemica numero uno dell’indie rocker purista” e l’equivalente di un “cocktail martini
con l’elettronica giocattolo e
sentireascoltare 21
l’House più caciarona”. Più
che avant, è disco an’dré! Eppure l’operazione, oltre alla
più o meno inconsapevole impellenza del piccolo musicista
pop-tronico tutto campionamenti e sintetizzatori “who is
Elvis”, apre a palette di suoni
scontatamente inediti.
In questo senso Fare Soldi,
Scuola Furano, Riccio Bianco
e Amari riservano un’autentica ventata d’aria fresca, di
sorrisi, dondoli di nuca e frivolezze e abbondati dose di
tresciumi ben oliati.
Amari
Sembra che per gli Amari suonare sia un gioco. Si pensa ad
un trio che marina la scuola
per chiudersi con grande gusto in una di quelle stazioni
di videogames vecchio stile,
farcite dalle carcasse irregolari che inglobano schermi,
pulsantoni e joysticks. Li si
immagina divertirsi come dei
Peter Pan senza età precisamente definibile. E si sorride.
Dariella, il Pasta e il Cero
sono il nucleo resistente della
band, la zona inossidabilmente creativa di una piccola ma
curata discografia che spesso
e volentieri si serve di altri
volti ed altre mani (specie dal
vivo) per aggiungere qualche
altro buon metallo alla lega.
Ed in tutta evidenza la combinazione
funziona,
perchè
all’indomani di Grand Master
Mogol gli Amari si affermano
come una delle band più scanzonate ed interessanti dell’intero panorama indie italiano.
Ed “indie” è una di quelle parole gommose e versatili di cui
ai tre fanciulli friulani piace
abusare silenziosamente, di
soppiatto: senza che la si consumi o la si pronunci a sproposito, la si usa come croce
e delizia di un’estetica decisamente idiosincratica; basta
solleticarla, parafrasarla con
quel giusto senso dell’umorismo incantato/disincantato di
22 sentireascoltare
cui, così bene, sanno infarcire le loro canzoni da Part(y)Time Jobs a Campo Minato.
Amari - Gamera (Riotmaker, settembre 2003)
Dunque, la domanda è: a che gioco giochiamo? Quale che sia
il gioco, quali che siano le regole, il pericolo è dietro l’angolo.
Se si è alle prese con uno di quei videogiochi vintage ambientati in un sottomarino ventimila leghe sotto i mari, si tratta di
una piovra gigante; se si scrivono canzoni il nemico non è così
facilmente identificabile, ma non meno minaccioso. Forse, si
tratta di piacere: ma a chi, a cosa? Agli altri, a se stessi?
A questa annosa domanda risponde Squadritto, l’opener di Gamera; una ventina di righe crude, tirate giù e annegate nella
salsa che piace agli Amari, cioè un intruglio poco mescolato
(perchè se ne possano sempre ben riconoscere gli ingredienti)
di ironia cupa che si arrampica su di un hip-hop/pop destrutturato che fa fatica a resistere ai paletti della forma-canzone.
La voce di Dariella è distante, prodotta come se venisse da
un angolo non inquadrato, fuori-campo; le tastierine Casio e
le percussioni lavorate dal Pasta e dal Cero gracchiano alle
sue spalle e si spargono su dolce-amari anthems generazionali
come Part(y)-Time Jobs. La band gira, volta e manipola suoni
che schizzano ovunque. O forse sono i suoni a girare, voltare
e manipolare la band. Ascoltando 5 Words si ha la sensazione
che le parole stesse smettano di significare, limitandosi a suonare, echeggiare programmaticamente vuote in questa doppia
sfida Nintendo tra l’uomo e la macchina.
In ogni caso, gli Amari vanno allo spareggio a mento alzato.
E con Gamera, lavoro tendenzialmente sperimentale e dunque
difficile, i Nostri si aggiudicano l’attenzione che meritano. Al
termine del gioco il sottomarino ha imparato come schivare i
tentacoli della piovra gigante finendo per ignorare ogni volta la
schermata del “game over”. Si ricomincia. Ogni volta più forti,
più pronti, più esperti. (6.5/10) (m.p.)
Amari - Grand Master Mogol (Riotmaker / Wide, settembre 2005)
Così come Gamera, il nuovo disco degli Amari si nutre a grandi
morsi di una passione per il retrogaming, chiamata in causa in
maniera programmatica dalla grafica quanto dal sound. Eppure
le cose sono cambiate. A differenza del lavoro precedente la
tracklist di questa nuova piccola creazione Riotmaker si avvita
attorno ai temi scomodi e difficili di un’adolescenza non-finita,
indescrivibilmente lunga, dalla quale è faticoso uscire. Non
c’è meno ironia, ma c’è più sincerità e, gioco di parole scontato ma calzante, molta più amarezza. Dariella, Pasta e Cero
si (in)scrivono nelle canzoni spesso in toni personali, si e ci
(in)cantano, (ri)suonando in un certo senso più maturi e risolti.
Costruiscono una miniatura curata in ogni dettaglio di usuali
paesaggi individuali nuovamente e diversamente percepiti, balzando con continuità sorprendente dal piccolo al grande: dai
calzini a righe nuovi da abbinare per uscire la sera facendo
bella figura, fino alla solitudine curata dall’intimità degli sconosciuti su un treno.
Il fatto è che - fuor di metafora - si entra con grande facilità in
c a n z o n i u n i v e r s a l i c o m e C a m p o m i n a t o o Tr e m e n d a m e n t e b e l l i ,
le si impara a memoria nel giro di due giorni. Le si succhia via.
Le si (ri)vive agilmente proprio perchè il velo degli esordi, la
distanza tra la musica e il testo, viene colmata. E’ importante
pensare i pezzi nella cornice ben fatta dell’hip hop/indiepop
in cui si inscrivono (reminiscente ancora una volta dei primi e
migliori Casino Royale ma anche dei Death Cab for Cutie e di
sentireascoltare 23
certo indie-electropop ad essi affine), ma è altrettanto importante pensare gli episodi della tracklist nella loro immediatezza e spontaneità. Come dire che per una volta è quasi bene non
vivisezionare, non cercare di aprire questi giocattoli sonori
atipici per contarne gli ingranaggi e le molle. E’ questione di
andare oltre i generi o i paragoni, di condividere, di immedesimarsi e di lasciarsi andare. Bolognina Revolution peccherà
di ingenuità, forse e La prima volta o Arte bruciante potranno
suonare come ultimo singulto post-liceale, ma il loro fascino
è proprio lì, in questo esercizio ostentato di giovinezza che è
ben lontano dall’essere incosciente o gratuito.
Insomma, Grand Master Mogol ci fa e ci è. Gli Amari si divertono e noi ci divertiamo con loro, come prima, più di prima. La
novità è che, forse, tra i ghigni un pochino cinici ed il gusto per
l’humour nero ci scappa qualche smorfia di malinconia.
Il loro talento finalmente ci sembra canalizzato non solo in
schemi sonori così curati e meticolosi o in effetti tesi e corposi - batterie calibrate ad hoc, chitarre eloquenti - ma anche in
cantati sentiti, soggettivi, intensi.
Grand Master Mogol merita un NB sul registro di scuola Riotmaker - quell’edificio coperto di graffiti e colori accessi in cui
c h i b i g i a l e l e z i o n i p e r c o r r e r e a g i o c a r e a Te t r i s s i m e r i t a l a
lode. (7.5/10) (m.p.)
24 sentireascoltare
FareSoldi - Self Titled (Riotmaker, 2002)
FareSoldi - One Nation Under A Grande Cassa (Riotmaker, 2005)
L’ o c c h i o s t r i z z a o l t r a l p e m e n t r e i l m u l i n o m a c i n a c h i c a p i ù
non posso. I campioni ritmici prediligono i breakbeat (senza
disdegnare le sincopi), le chitarre scorazzano nell’aia dello Zio
Sam (e ci sono pure le tartarughe…) e i synth, infine, istigano
i ragazzi della (fumosa) camera accanto (nonché i loro cugini
sulla via di Lignano Sabbiadoro).
Dall’indie rock all’House, dal post-rock al Hip Hop, dalla lounge
all’exotica, il progetto FareSoldi de il Pasta (già negli Amari)
e Luka Carnifull è un’autentica invasione di ultracorpi sonori e
la scaletta, prevalentemente strumentale (ma ricca di siparietti
tratti da film trash, o presunti tali), è stracolma di citazioni e
situazioni.
Non si balla - anche se è dance - non rilassa - seppur non manchino momenti lunge - piuttosto l’ascoltatore viene invogliato
a prendere il joystick in mano e giocare al sempre estenuante
Wonder Boy (in Monster Land) delle associazioni e dei rimandi.
In questo caso, a distanza di tre anni dall’esordio, la domanda più ovvia è “cosa sarà sviluppato da chi” e così l’errebì
delle Persone che assomigliano a cose porta dritto agli Amari
dell’ultimo Grand Master Mogol, la folktronica (con più di un
r i f e r i m e n t o To r t o i s e ) d i S u p e r c o l a z i o n e I n F a m i g l i a r i c o r d a l a
coesione elettroacustica di Ricciobianco, mentre i Daft Punkismi House palesati in Glenn Danzing troveranno sede fissa
nell’album degli Scuola Furano (e negli stessi FareSoldi del
sequel).
Inutile dirlo, i ritmi, le sincopi, le virate (e le zampate) del
mouse fanno girare la testa, proprio come è indicato negli eff e t t i i n d e s i d e r a t i d e l l a p a s t i c c a R i o t m a k e r, u n f a r m a c o c h e , a l
posto dell’mdma, pare un cocktail di grappa, coca-cola e Big
Bubble.
Del resto, dietro alla copertina che ritrae Hulk Hogan, si nascondono i titolari dell’etichetta, e quell’omonimo FareSoldi,
scheggia impazzita o sampler malcelato, troverà un pronipote maggiormente dance nel successivo sforzo sampledelico.
(6.5/10).
Abbandonati i riferimenti indie-rock e i breakbeats a favore di
casse (quasi) dritte, Pasta e Carnifull dedicano il loro secondo
lavoro - dal titolo emblematico One Nation Under A Big Cassa
- alla sottocultura che maggiormente, nelle loro stesse parole,
hanno subito nei novanta, quell’House Revolution che invase il
divertimento notturno del Nord-Est negli anni novanta.
L’ a l b u m m a n t i e n e l a s t e s s a p r o v e r b i a l e o s s e s s i o n e p e r i l g u a z zabuglio kitsch (genialoide il cut’n’paste pubblicitario di Le
Aziende Informano) e gli spezzoni dei film più ridicoli (e in
questa puntata pure dei vocalist più sfigati), tuttavia la collezione è maggiormente curata e - soprattutto - calibrata. A
d i r l a t u t t a , p i ù c h e o l d s k o o l H o u s e o Te c h n o ( L a M u s i c a D e i
Camion e Benvenuto Nel ‘92, Ragazzo Del Phuturo), c’è molta disco-music (Oratorio Faster) e funk (Calippo Dappertutto),
con camei errebì direttamente dal catalogo Amari (Primi Baffi e
Big In Jpg). Infine, genialata delle genialate (oppure, a scelta,
motivo per il quale non comprare assolutamente il disco), una
M i l i t a r i C h e G r i d a n o ( O d e 2 To r t o i s e ) c h e n o n è a l t r o c h e T N T
To r t o i s e ( p e r a l t r o a u t e n t i c a f i s s a z i o n e d e i n o s t r i ) i n v e r s i o n e
happy house, decisamente la cover definitiva per qualsiasi Oktoberfest che si rispetti. (6.5/10) (e.b.)
sentireascoltare 25
Ricciobianco - Palmanova (Riotmaker, 2003)
Se i FareSoldi sono caciarosi fabulatori della cultura stellestrisce e gli Amari degli adolescenti rapper che non si definiscono tali, all’interno della proposta dell’etichetta i Ricciobianco
rappresentano senz’altro l’alfiere più avant dello scacchiere.
Nati per mano di Dariella, il Cero (già Amari) e l’enigmatico
Zoraide, ovvero Lorenzo Commisso (membro del collettivo performativo OK NO), il progetto, pur in continuità con il mood
scazzato di casa, approda a una folktronica talmente al passo
con i suoi tempi che, realizzato soltanto un anno prima, sarebbe sicuramente stato annoverato tra i precursori del genere
inventato dai The Books.
Proprio come il famoso duo aveva predicato nel 2002, Palmanova mescola sampeling acustico (prevalentemente chitarre
trattate al laptop) e concreto (i consueti sampeling farfugliati
e centrifugati), synth ambientali come glitch; in più però, rispetto al menù di un Thoughts For Food, troviamo abbondanti
r i f e r i m e n t i r a d e n t i c e r t o p o s t - r o c k ( K a b u b i , $ h e e Te m p o r a l e i n temporeale paiono provenire dai Remix del primo album degli
Aerial M) e più in generale, a prezzemolo, molte delle intuizioni delle scuole Karaoke Kalk e Staubgold (nessuna delle quali
però presa con troppi crauti a contorno).
È un lavoro mite, studiato, sornione (si ascoltino i breakbeats e i gracchi della piacevolissima Royal Cactus o il momento
Amari di Whiskey & Videogames), che alle volte si fa un po’
prendere la mano da soluzioni abusate e “di moda”, ma che
rappresenta un prodotto indie-tronico targato Italia che nulla
ha da invidiare agli stranieri, anzi. (7.5/10) (e.b.)
Scuola Furano - Self Titled (Riotmaker, 15 novembre 2004,
distribuzione Wide da marzo 2005)
Con l’esordio dei FareSoldi, Riot Maker aveva messo in chiara
evidenza quali erano le coordinate dance predilette, nonché la
filosofia di base. Gli Scuola Furano, ovvero il duo goriziano
Borut Viola e il singer (pure co-produttore) Marco “Lil Booso”
Busolini, non hanno fatto altro che sintonizzarsi su quelle frequenze e infilare un cocktail senza troppa frutta e ombrellini
sul bordo del bicchiere. Il risultato va ben oltre le più rosee
aspettative: l’approccio dei Daft Punk prende le forme di un
flipper con le Roland al posto dei pulsanti e una ricca sampledelia ‘80 a sostituire i movimenti della pallina.
C’mon Girls posside la spina dorsale di certa old skool rap impiantata in un corpo funk, dalle stesse coordinate, #iz4 riprende il melting-pot dei Basement Jaxx dalle fondamenta rielaborandolo nell’ottica di un nuovo Kish Kash, mentre Golden Gate
e Chocolate Glazed puntano dritto a certo synthpop giocandosi
un azzeccatissimo tocco House.
È un abile gioco di riferimenti quello degli Scuola Furano, un
modernariato da pista da ballo suonato con un tocco talmente
leggiadro e vellutato da sembrare modernissimo. E attuale lo
è d a v v e r o : s i a s c o l t i M i l k y w a y, o t t i m o s c a c c o m a t t o a l l a d i t t a
degli Human After All, oppure Sam, stesso sublime approccio
à la Jaxx prima maniera con un tocco di svacco friulano della casa. La classica Garage House di U&Me, suggella infine
uno degli album dance italiani più azzeccati degli ultimi anni.
(7.7/10) (e.b.)
26 sentireascoltare
monografia
Starvations
nessuna alternativa
di Stefano Solventi
Benché non suonino affatto nuovi, non sono i soliti replicanti. Nelle loro
canzoni c’è un ingrediente decisivo, un qualcosa che viene da dentro, non ha
un bell’aspetto ma è tremendamente efficace. Romantici e feroci, febbrili e
insidiosi, gli Starvations da Los Angeles perseguono una quintessenza country-punk come fosse la loro perfetta cifra espressiva. L’unica possibile.
Ero molto scettico riguardo
ai
losangelini
Starvations,
come di tutte quelle band o
sedicenti tali scagliate d’improvviso al centro dei riflettori a recitare la parte di fugaci campioncini emul-rock.
Te m e v o i n s o m m a , a n z i n e e r o
pressoché certo, d’incappare nell’ennesima congrega di
bravi replicanti, refrattari all’inaudito, il talento (quando
c’è) dissipato fiutando tracce
di stilemi passati o trapassati. Però, fin dalle prime battute della prima loro canzone
che mi sia capitato di udire
(credo si trattasse di This Is
W h a t Yo u Wa n t e d ? ) , p e r c e p i i
chiaramente che ad agitarsi
tra tutti quei fantasmi tirati in
ballo (i Gun Club, i Birthday
P a r t y, g l i X … ) , s i a g i t a v a u n
senso di inevitabile, una febbrile mancanza di alternative,
quasi che l’atrocità insita nella ragione sociale (tradotto
starvations suona come “inedie”) fosse il motore che ne
muove poetica ed estetica.
Con quel brusco procedere
ritmico, col livido rovello delle melodie, con la voce di Gabriel Hart – anche chitarrista
nonché leader della band - che
abortisce in partenza ogni serenità (solo qualche scampolo
d’allegria è concessa, ma è un
ridere in faccia al malanimo),
gli Starvations - Starvies per
gli amici - danno la sensazione di non aver avuto scelta: la
febbrile commistione tra punk
e country era (è) uno sbocco
obbligato per i loro insopprimibili sfoghi. Chiave stilistica ben definita, al punto da
profilarsi
scontata,
tuttavia
fisiologicamente spuria, capace di beccheggiare tra estremi incandescenti (spingendosi
– specie nel primo lavoro – fin
quasi ai limite del metal) e
squarci di livida irrequietezza
(con quegli ostinati di piano
e quelle frenesie di accordion
che rimandano ai primi Bad
Seeds), rammentando en passant la psichedelia acidula del
Paisley undeground (versante
Dream Syndicate).
Pensa dunque una acuta vena
garage a rendere palpitante la
sagra cow punk, ma i fattori
potrebbero essere tranquillamente invertiti: immaginate il
John Mellencamp più ruvido
spalleggiato dagli Stiff Little
Fingers, o i Thin White Rope
ad incrociare gighe con i Pogues. Il canto sfibrato e dissoc i a t o ( t r a J o e S t r u m m e r, R o bert Smith e Gordon Gano) si
beve alcoliche malinconie pe-
scate in un torbido periferico/
suburbano, bazzicando senza
alcun timore il cupo fatalismo
di Nick Cave (immerso in un
mondo di peccatori all’ultimo
stadio) e il delirium tremens
l e t t e r a r i o d i To m W a i t s ( u n r o manticismo ferito fino al bianco delle ossa, a lambire i confini di un’epica dark).
Se la formula è quindi tanto
sperimentata da rasentare sistematicamente il “déja entendu”, se nelle canzoni - scritte
peraltro con l’agilità sbrigativa e senza sconti di chi conosce bene la materia - nulla
appare casuale, tutto è anzi
così formulaico e scontato,
la proposta finisce lo stesso
col risultare credibile, perché
suonata come se fosse questione di vita o (e) di morte,
come se - lo ripeto - non ci
fosse
alternativa
a
questa
pratica esorcistica e ben poco
liberatoria. Una sensazione
ottenuta investendo ogni granello della pasta sonora di
tutta l’emotività possibile, fin
quasi al limite della teatralità (capita talvolta di ravvisare
elementi di nevrastenia “scenografica” tipicamente wave).
Ovvero, tutto si compie in un
più o meno confessato gioco
delle parti, dove chi suona e
sentireascoltare 27
chi ascolta si convince di fare
tremendamente sul serio.
Ad oggi, compiuto il settimo
anno di carriera, del quintetto iniziale sono rimasti Ian
H a r r o w e r a i t a m b u r i , Va n e s s a
Gonzalez al piano e fisarmonica più, naturalmente, Gabriel Hart, mentre il chitarrista Leon Zalez è giunto a
sostituire Ryan Hertz e Dave
Clifford ha rimpiazzato JeanPaul Garnier al basso. Tre i
dischi all’attivo, attraverso i
quali l’unico cambiamento che
sembra di percepire riguarda
il peso specifico delle ombre,
e gli spazi che il cuore dedica loro (chiamatela – se volete – maturazione). I lavori
licenziati
finora
descrivono
quindi una band decisa, coe-
sa, coerente. Una band che
non sposterà alcun orizzonte
perché non persegue altri che
se stessa: ma nel far questo,
gli Starvations sono credibili
come pochi.
Blackout To Remember (Revenge, 2001)
L’ e s o r d i o è f e b b r i l e , s f e r z a n t e , c r u d o . C o m e u n o s c h i a ff o c h e
sgombra il tavolo per l’urgenza di posarvi un bicchiere, una
bottiglia e una pistola: l’apparecchiatura minima per ingoiare
disillusione, il fiele di tutta una gioventù tradita, il lamento
ruvido delle prospettive accartocciate. Non c’è da andare per
il sottile, quella pistola, quell’alcool, quello squallore languido
e minaccioso portano marchi di fuoco: quello dei Gun Club, innanzitutto, come nella fulminante Girl Of Stone o nella ballad a
gola cauterizzata di Whorelove. Un vero e proprio invasamento
quello per la band di Jeffrey Lee Pierce che in Queen Bee’s
Lament cavalca mefistofelici riff (d’accordion e chitarra) degni
del primo Cave, spinto addirittura fino al limite del metal in On
The Burn.
I r r u z i o n i p u n k s u i s e n t i e r i d e l f o l k . Ve e m e n z a e s a s p e r a t a , c r o gioli ritmici, espettorazioni adenoidali, chitarre a coltellate: i
Thin White Rope sull’orlo del collasso epatico in Whiskey Summer/Gin Fall, la scorribanda circa Pogues tra bettole e praterie di Boys From The Country Hell, l’asprezza sdegnosa dello
Strummer giovane e gli angoli bruschi Crazy Horse di Curse Of
The Loner. Poi, sottopelle, percepibili a squarci, inafferrabili
amarezze (come nel ridanciano delirio pseudo-Wynn di Church
Of The Doublecross), laconiche alternanze tra quiete e nevras t e n i a ( l e a s c e n d e n z e To m W a i t s / J i m M o r r i s o n d i R i n g f i n g e r ) ,
i n c a n t i s u l p u n t o d ’ i n c e n d i a r s i ( i l v a l z e r s c a b r o Yo u R u i n e d X mas, tra impeto sventato Jonathan Richman e strisciante teatralità Richard Hell). Country dark acido per il nuovo millennio.
(7.1/10)
Get Well Soon (Gold Standard Laboratories / Goodfellas,
2003)
Cigolano e deragliano le corde, innescando riff fulminanti e
brumosi, disegnando strisce di luce nel fosco. Il drumming è
una questione di melma ed altre indefinibili sostanze (che immaginiamo con un brivido). Spuntano fisarmoniche, pianoforti
e violini come parvenze d’anima (strumenti pilotati - sarà forse
un caso? – da gentili fanciulle), perché c’è ancora un’anima,
e con essa dei conti da saldare. Insomma, forma e sostanza
mantengono quello che annunciava e prometteva il predecessore con qualche piccola apertura – diciamo così – spirituale,
b a r b a g l i d i l u c e n e l f o s c o . L’ a s c o l t o r i m a n e c o m u n q u e e s p e rienze vibrante: per quella tribolazione Crazy Horse esplosa
con piglio Clash che è Red Wine; per il modo in cui Oh Deputy!
– graffiante e violento come un Bad Seeds, storto e angoloso
come un Violent Femmes – tenta di scalzare piano piano la
pelle dal cuore; per l’aria da ultima sbronza di Recipe For A
Mess, valzer benedetto dalla scabra carezza di un violino (è
J u l i e C a r p e n t e r, d e i G r o p i u s ) ; p e r l ’ o r d i g n o w a v e c h e s i a g i t a
28 sentireascoltare
in American Funeral. Perché in Post-Climax Exhaustion capisci
che Grant Lee Buffalo e Afghan Whigs non sono passati invano. Per la marcetta agra imbastita sul blues avariato di Not
Me This Time, la cui macchinazione di triangoli, percussioni,
vocoder e diavolerie varie rimanda allo spiritato bailamme di
Swordfishtrombones.
Passano come figuranti gli altri pezzi, una ripetizione di strategie roots punk che riesce a non sembrare mai stanca: c’è
sempre un’insidia nascosta da qualche parte, tra una distorsione compressa e lo sputo acido del canto, nel tremolare rapido
di personaggi che non fanno né ricevono sconti, intricati nel
proprio scampolo di maledizione. Canzoni di furia irrisolta, di
nero disincanto e decrepito asfalto, talmente desuete da sembrare archetipo di se stesse. Hanno la forza di farti credere
che se scendi a patti con loro puoi trovarle vere. Sembrano il
grido rabbioso di qualcuno da qualche parte, ora. (7.4/10)
Gravity’s a Bitch (Gold Standard Laboratories / Goodfellas,
2005)
Il terzo album degli Starvations è un campione di concisione e
coerenza: dura meno di mezz’ora e propone con pochissime variazioni lo stesso, mordace e febbrile linguaggio dei lavori precedenti. Malgrado ciò, ti lascia soddisfatto, ti colpisce come un
proiettile di polvere e sangue, ti attraversa come una frustata
di libeccio. Se l’energia esplosiva è pressoché intatta, le ombre invece s’ispessiscono, le ballate punteggiano la scaletta
con accorato tormento, al punto da far baluginare più spesso
di quanto preventivato la romantica inquietudine di Nick Cave.
Come nel piano che indica la luna, tra la foga d’organo e l’ebbro tremore chitarristico di Corner Of My Eye. Cave anche nella sua versione più furente, come negli spurghi acidi di cui è
p e r v a s a P u r g a t o r y, b a l l a t a c a r a c o l l a n t e e a m a r a , e n e l l ’ i m p e t o
d i s p e r a t o d i W h e r e Wa s I ? , m e n t r e n e l l a d o l c e a g r a D a r e Yo u
To F o r g e t – c o n q u e l p i a n o s p e r s o t r a c o l p i d i g r a n c a s s a - p i ù
che al Re Inchiostro viene da pensare al torbido languore di un
Lanegan via Gun Club.
Alla band di Jeffrey Lee Pierce ci saremmo arrivati comunque,
e ci mancherebbe altro: ad evocarla ci pensano in sequenza
Nightshade Sweats e This Poison, tra chitarre derapanti e addensamenti pianistici (la prima), tra ferocia sorniona e tzigana teatralità (la seconda). Sappiamo come non manchino mai
precisi riferimenti nella musica degli Starvations, eppure non
smetti un momento di credere che Gabriel Hart e compagnia si
m a c e r i n o i n u n a u t e n t i c o r o v e l l o d a o u t s i d e r, b e s t i e s t r a n e d e l l’indie rock che altro non sono, cocciutamente alle prese con
un’ossessione che gli permetterà forse di vivacchiare, mai di
assaporare la fregola delle charts. Poco male, ciò che davvero
conta è l’urgenza cui deve esser data voce: come fantasmi che
spingono per sciabolare l’aria, come una snervante percezione
di disagio che rivanga una centrifuga Violent Femmes-ClashPogues (l’abrasiva Rising Horizon), che mastica un tango ubriaco come avrebbe fatto il Bob Geldolf ante-Live Aid (nella rugginosa Empty Piano), che medita blues-rock serrato, asciutto,
nevrastenico come nella title-track, fino ad un urlo conclusivo
che non sembra (non è) per nulla liberatorio. (7.1/10)
sentireascoltare 29
monografia
Clientele
luoghi non luoghi
di Stefano Solventi
Sotto la coltre soporifera di un’Italia dormiente, il seme della psichedelia
si agita attorno all’universo mistico-religioso dei Father Murphy. La creatura di Federico Zanatta, eminenza grigia del Madcap Collective, Vittorio
Demarin e Chiara Lee, porta allo scoperto una vivacità musical-letteraria
che a casa nostra stenta ancora ad essere apprezzata.
Una strana band, votata all’impalpabilità. Ma è proprio
questa l’intuizione che ne giustifica l’esistenza (ed il nostro apprezzamento).
Il pop sognante ricavato dall’ossessione
sixties,
dalle
pagliuzze
incandescenti raccolte in coda al bolide
psych-errebì, sta immerso in
una caligine languida, pigra,
come se un’apatia esistenziale le togliesse la potenzialità d’azione. Come se una nostalgia struggente ovattasse
30 sentireascoltare
irrimediabilmente i sensi, o
piuttosto una precisa volontà
d’apatia, svaporeggiata in opposizione (una forma d’opposizione tra le altre) al volgere impietoso del presente (ad
una delle tante angolazioni
del presente).
Un gioco giocato sul filo di
tenui
contraddizioni,
ecco:
delicatezza
e
ridondanza,
acidità e torpore, quel certo
intellettualismo che permette
loro di citare Joseph Cornell
e De Chirico tra un semplice
batticuore e l’altro. Difficile
individuare l’ingrediente decisivo, facile perdersi tra i morbidi solchi scavati traccia per
traccia, intanto che le strutture si spampanano disperdendo quietamente i riferimenti, e
quello che sembra un chorus
forse era un bridge e la strofa
si scorda di tornare e quella
melodia così struggente non
si sa bene dove sia andata a
liquefarsi.
Originari di Hampshire ma presto stabilitisi a Londra - come
da percorso standard per i
tanti passionari del pop and
roll - Alasdair Maclean (voce
e chitarre), James Hornsey
(basso) e Mark Keen (batteria)
iniziano a sfornare una sfilza
di singoli registrati con i pochi mezzi a disposizione. Canzoni che – come si dice – non
spaccano la membrana degli
altoparlanti: dei Left Banke la
delicata trepidazione, dei Galaxie 500 il fangoso onirismo,
d e i Ve l v e t U n d e r g r o u n d l a d e c a d e n z a d i a f a n a , d e g l i Yo L a
Te n g o l ’ i n d o l e n z i t o i n c a n t e simo, dei Byrds il trillo visionario. Di nessuno di costoro
però il graffio, il piglio di chi
vuole (azzarda) lo squarcio,
l’andare oltre. Il tutto compiuto alla luce di una pigrizia che
diremmo esistenziale, indotta
come una condanna, subita
come si subisce una nebbia
o una recessione. Sembrano
guardarsi bene dall’inseguire il pezzo sbranaclassifiche,
anzi le loro composizioni migliori hanno tutte quest’aria
un po’ indefinita da eccellente
“lato B”. D’altronde, la fama
è un’eventualità resa difficile
dalle stesse premesse estetiche: se i Clientele hanno uno
scopo, sembra più quello di
definire canzone dopo canzone un luogo poetico, mentale
e sentimentale, dove comanda
un senso di apnea incantata e
sonnacchiosa, dove una nebbia smorza le capriole delle
emozioni, dove un’appiccicosa nostalgia è un modo (il loro
modo) di perorare il presente.
Non stupisce, almeno non troppo, che passino inosservati
tra i tumulti e la brama di next
b i g t h i n g d e l l a C i t y. S t u p i s c e
semmai che dall’altra parte
d e l l ’ o c e a n o – N e w Yo r k p e r
la precisione – ci si accorga
ed innamori di loro. Time Out,
la bibbia degli spettacoli nella grande mela, elegge I had
To S a y T h i s / M o n d a y ’ s R a i n
come singolo dell’anno 2000,
e tanto basta perché l’occhiuta Merge decida di scritturare
il trio. Nasce così Suburban
Light, adunata di tredici pezzi usciti in vario formato dei
quali appunto solo Monday’s
Rain registrato in studio, gli
altri frutto di sessioni “casal i n g h e ” . L’ a c c o g l i e n z a n e g l i
States è molto buona, tanto quanto l’indifferenza nella
madrepatria (dove è distribuita dalla piccola Pointy). Ma il
dado è tratto, i Clientele sono
una band con una strada da
percorrere. Prima che la nebbia l’ingoi.
Suburban Light (Pointy/Merge, novembre 2000)
Un disco bello e impalpabile, vagamente sdolcinato eppure
aspro, in intimo colloquio con la parte più tenera (perché ferita)
del cuore. E coeso, malgrado non si tratti che d’una raccolta di
ep. D’altronde, l’orizzonte estetico dei Clientele è chiarissimo,
malgrado le nebbie, le penombre, il tremolio instancabile dei
timbri nella scatola (magica) della nostalgia. Accade così che
queste tredici tracce, concepite e realizzate lungo tre anni di
fruttuosa messa a punto, puntino le stesse coordinate, una sorta di terra di nessuno ad un palmo dallo shoegaze e a due dal
jingle jangle più madreperlaceo, tra la decadenza e il sogno ad
occhi socchiusi, uno stare attonito tra squallore reale ed irrefrenabile desiderio d’astrazione.
Ci sono, nascosti nel vapore che tutto pervade e ovatta, una
sacra insidia, una tossica inquietudine, un languido scivolare
tra giorni e periferie a perdere. Ingredienti omeopatici ma fondamentali, li avverti nella sottile disperazione che accompagna
l a m e l o d i a a d e n o i d a l e d i I H a d To S a y Y e s , n e l l a m e c c a n i c i t à
indolenzita dell’arpeggio in Reflection After Jane, nel repentino
incendio che striglia i pastelli e le ombre di As Night Is Falling.
Irrequietezze sotto pelle, spossatezze che virano febbrili, mormorii pigri che diventano minacciosi bisbigli: una corda tesa
tra due lati dello stesso spleen, quello festoso, dolciastro, visionario da una parte, e dall’altra quello malsano, impotente,
succube. Sfila così un drappello di palpitanti contraddizioni,
Rain che cova un rimpianto amaro nella fantasmagoria byrdsiana, le voci madreperlacee di Saturday che sembrano un corpo
estraneo nel mesto intreccio velvettiano, Monday’s Rain che
impasta di languore un ordito Left Banke, Bicycles che stende
una coltre Galaxie 500 sulla vivace latineria delle bacchette…
Ogni affrancamento si rivela illusorio, cade sotto il peso di
sentenze soffici ma inappellabili, mentre il cuore perde colpi e
il respiro diventa un’eventualità. In questo quadro, la bellezza
può essere solo un estatico rimpianto: vedi la toccante flagran-
s e n t i r e a s c o l t a r e 31
z a L A’ s d i W e C o u l d W a l k To g e t h e r , l a f i a b e s c a a r r e n d e v o l e z z a
M o n k e e s d i ( I Wa n t Yo u ) M o r e T h a n E v e r , l a s o l e n n e q u a d r a t u r a
jingle-jangle di An Hour Before The Light, l’ebbrezza hawaiana
in un cincischio Dylan di Lacewings. Non deve stupire troppo
poi che tra questi piani sfalsati s’intrometta l’errebì strascicato Joseph Cornell, riferimento diretto ad uno dei più stranianti
artisti del novecento, organizzatore di un immaginario fantastico assemblato di elementi concreti, votato al ricongiungimento
con la dimensione infantile, in un progetto di oggettivazione
totale della nostalgia. A ben vedere, è un po’ anche il metodo di MacLean, Hornsey e Keen, fatte tutte le proporzioni del
caso. (7.2/10)
Lost Weekend ep (Acuarela, marzo 2002)
Narra la leggenda che il titolo di questo ep sarebbe tutt’altro
che gratuito. Le cinque canzoni in scaletta dovrebbero infatti
aver visto la luce in un fine settimana di sbracamento dopo
una sbronza colossale. A sentirle, ci si può anche credere. C’è
un senso di ulteriore appannamento sensoriale, un languido
procedere di dolcezza in amarezza, una vena di rimpianto che
ammorba il brodo già malaticcio del Suburban Light, che rende
sottile anche l’aria più viziata, seducendo con la sua indolenza
ferita: vedi come la rumba vischiosa di North School Drive sembri smaterializzarsi tra i palpeggiamenti flebili del piano; oppure come Kelvin Parade si trascini tra cambi di tempo e d’umore,
il codice genetico errebì scientemente disinnescato.
The Violet Hour (Merge, febbraio 2003)
Il primo vero album: quando il respiro deve farsi lungo, calcolarsi su una collana di battiti. Roba di cui essere preoccupati. Invece, sorprende la capacità di adattamento dei Clientele
alla nuova “unità di misura”. Troviamo ancora – certo – quelle
schegge di malanimo, quel brodo lattiginoso, quei respiri trattenuti, quei sottili miracoli melodici sull’orlo del deliquio, però
c’è uno scarto, c’è una scossa: un più stringente pulsare RnB,
l’ispessimento soul delle trame, il gusto della sorpresa (proped e u t i c i c a m b i d i u m o r e - c o m e i n W h e n Yo u a n d I We r e Yo u n g
- e di tempo - come in coda a Lamplight) lo scabro profilarsi
delle corde che ad un tratto - come vedremo - deragliano in
sorprendente distorsione. Un suono tornato presente e vivo dal
limbo struggente dei sentimenti vagheggiati, appena più defilato rispetto al normale (come un’aritmia costante) però vivido,
flagrante, attuale.
Nel complesso le intuizioni melodiche stanno al di sotto la
quota (a tratti vertiginosa) di Suburban Light, tuttavia mantengono una commovente e pervicace fragilità. Come se grattassero quello stesso muro, come se bazzicassero quelle stesse
trame, ma sapendo di non poter mancare ad un appuntamento
che cambierà per sempre le cose, ragion per cui è il caso di
scoprire la mano, di gettare tutti i dadi sul tavolo. Ecco quindi
lo stomp narcotizzato di House On fire e la fatamorgana latinfolk di Haunted Melody, ecco l’assorta meraviglia di Missing
(antichi sogni Crosby Stills and Nash contagiati d’inquietudine
europea) e le frizzanti derive jazz-blues di Porcelain (con quel
basso che rivanga un insospettabile rimpianto Morphine).
Aggiunge peso specifico la cura dei dettagli, vedi la tensione
piano-silenzio in Prelude, il riverbero insistito dell’arpeggio in
Lamplight (come dita sulla pelle di un lago) o la densità sciropposa indolente di slide e synth in Voices In The Mall. Sorprende poi la breve aspersione latina di Jamaican Rum Rhum-
32 sentireascoltare
ba, scheggia che rivendica importanti ascendenze scozzando
imprevedibilmente le carte del futuro, mentre l’interlocuzion e Ve l v e t U n d e r g r o u n d d i E v e r y b o d y ’s G o n e è s e m p l i c e m e n t e
quanto già sapevamo nelle loro corde, qui al meglio.
Nel finale la tensione trova un bellissimo apice con The House Always Wins, country blues incantato che si strugge in una
lunga esplosione trattenuta, alla maniera di certi Red House
Painters (quel crepitare di corde al limite della compostezza è
un’autentica sorpresa), ottimamente ricondotto tra i soliti sentieri vaporosi dalla conclusiva Policeman Getting Lost, intarsio
folk affondato in una caraffa d’assenzio, di memoria liquefatta,
di malinconia sigillata. (7.1/10)
Ariadne ep (Acuarela, marzo 2004)
Superato l’esame del primo album, i Clientele sono a tutti gli
effetti una band che fa sul serio. Il contratto con la Merge non
impedisce loro tuttavia di concedersi nuovamente alla Acuarela per continuare la tradizione degli ep “esplorativi”. Ariadne
infatti - come Lost Weekend - copre spazi sonori più sciolti e
meditati, azzarda direzioni e scopre angoli che arricchiscono
il profilo espressivo del trio britannico. Soprattutto in questo
caso, l’approccio concettuale della loro visione sonora si sovrappone e spesso s’impone al tipico folk-pop sognante. Non
a caso il programma è aperto da un breve preludio di piano,
note sparute, sospese nel loro frusciante riverbero: s’intitola
Enigma, e punta dritto all’angoscia gelificata che pervade la
celebre pittura di De Chirico (esposta a Londra nel 2003) cui
è dedicato il disco, tornandoci poi sopra con Ariadne Sleeping, ancora un piano solingo come una fosca tenerezza Satie.
Molto di più azzarda The Sea Inside A Shell, lunga perpetuazione d’organi e ondivaghe rifrazioni sintetiche pervase d’all a r m e E n o / W y a t t e a n g o s c i o s o d i s v e l a m e n t o Te r r y R i l e y : d i r e
sorprendente è poco. Stando a queste, sembrerebbe di avere
a che fare con una sorta di dark side dei Clientele, però le
due tracce rimanenti percorrono strade più consone, addirittura quintessenziali come l’arpeggio tremolante e le premure di
basso brumoso di Summer Crowds In Europe, mentre la conclusiva Impossible – l’unico brano cantato - spiana struggente
melodia e piglio angoloso con fare malfermo fino alla psichedelia dissanguata dell’assolo (sarà ripresa, opportunamente smerigliata e impreziosita, su Strange Geometry): quasi a voler
incastonare il desueto nel consueto, l’indagine nell’ordinario,
a dimostrare una versatilità insidiosa nel loro sognante cuore
pop. E ribadire la peculiarità di una band solo apparentemente
normale. (6.9/10)
Strange Geometry (Merge, luglio 2005)
Tra cerchi da far quadrare e perimetri che per un istante sembrano chiusi e dopo un attimo non sai prevederne l’esito, si arriva al secondo album. Affidata la produzione all’esperto Brian
O’Shaughnessy (già membro dei Safe), i Clientele propongono in Strange Geometry la loro tipica calligrafia con lievi ma
significative variazioni. Ad esempio spandendo su tutto una
sbrigliatezza che occhieggia ora i primi R.E.M. (il jangle che
o c c h i e g g i a d i e t r o l a c a l i g i n e d i M y O w n F a c e I n s i d e T h e Tr e e s ) ,
ora gli Eels (tra gli archi squillanti, l’impertinenza errebì e
l ’ a c c o r a t o d i s a r m o d i E . M . P. T. Y. ) q u a n d o n o n a d d i r i t t u r a i p r i m i
Bee Gees (nell’asprigna tenerezza soul di Geometry Of Lawns
o nella ninna nanna zuccherata di Step Into The Light). La
psichedelia stirata, sfibrata, sfilacciata, fino a farsi friabile,
s e n t i r e a s c o l t a r e 33
una rielaborazione nostalgica, un fervente auto-inganno: come
i Byrds sciropposi nella rabbia sedata di Since K Got Over Me,
come i Jefferson Airplane più quieti nella sonnacchiosa trepidazione di Spirit, come i Left Banke narcotizzati nel soul raref a t t o d i ( I C a n ’ t S e e m To ) M a k e Y o u M i n e .
Più interessante è però l’assiduo ricorso al dissolvimento delle
strutture, come se alla rarefazione di umori e atmosfere debba
corrispondere la vaporizzazione degli schemi classici del folkpop. Da cui lo spaesamento che pervade il programma come un
retrogusto, nel bridge che scompagina le carte di When I Came
H o m e F r o m T h e P a r t y ( s p o s s a t e z z a v a l z e r, s e n s o d ’ i r r i m e d i a bile), nei found sounds e negli ectoplasmi d’opera di K (dream
folk acidulo, un’ombra di piano), nel talkin’ diaristico di Losing
Haringey (crema folk baluginante, realismo e fatalismo, archi
e coretti) e soprattutto in quella Impossible che domina la solennità degli archi, l’intreccio liquido degli arpeggi, il jangle liquoroso, l’amarezza disincantata del chorus per poi sfrangiarsi, dipanare altri fili, lalleggiare, divagare, mortificarsi e infine
consumarsi nell’acidità stridula di un assolo di chitarra.
Se le intuizioni melodiche non sorprendono né deludono, i
Clientele danno comunque la sensazione di procedere: attraverso i palpiti delle loro nebbie e dei loro mal di cuore, togliendo la terra sotto ai piedi dell’ovvio, del quieto consueto. Con
l’inesorabilità di chi si è perso in un sogno e non sa uscirne.
Con la dedizione accorata di chi persegue una perfetta dissolvenza in grigio: perfetta, all’uopo, è la conclusiva Six Of
Spades. (7.1/10)
34 sentireascoltare
recensioni
Baustelle
La Malavita (Warner / Atlantic, 2005)
Una volta la mia amica Shelley Jackson mi confidò di avere
capito una cosa: i Cuori Neri, mi disse, quelli più pesanti del
peso stesso, sono troppo pesanti perché la realtà li possa sostenere, e così la bucano, sprofondando nelle voragini della
vita, fino al sogno che le sta sotto. “Pensa – aggiunse – se ci
sedessimo sul bordo e se gettassimo una lenza sapendo quale
esca usare, se anche prendessimo all’amo il cuore, riusciremmo
a s o l l e v a r l o ? ” . M i p i a c e r e b b e r e i n c o n t r a r e S h e l l e y, n o n l a v e d o
da un po’. Ricambierei il favore donandole qualcosa che rappresenti esattamente l’incarnazione estetica più alta di quello
c h e l e i c h i a m a C u o r e N e r o . Ta l k i n g a b o u t B a u s t e l l e , s ì . L e r e g a l e r e i i l l o r o u l t i m o L a M a l a v i t a :
qualcosa di italiano che all’estero non soffra di reumatismi, allo stesso tempo internazionale e
contemporaneo nei suoni, moderno nelle strutture, esagerato nel songwriting e assolutamente
letterario nei testi. Alla lettura dei quali, son sicuro, Shelley rimarrebbe un po’ così.
Sono tante le cose che questo disco porta con sé. Innanzitutto una rottura, con la dipartita di
Fabrizio Massara, piccolo grande genio dei suoni, colui che ha profondamente inciso sui Baustelle sintonizzati su frequenze vicine ai Pulp. Ma se da un lato è crollata una certezza, e alla
band toccherà ripensarsi dal vivo (Massara ha partecipato alle registrazioni del disco), dall’altro c’è un Francesco Bianconi che ha preso definitivamente il volo. Citazionista di buon gusto,
lettore malato di vita e attore in primo luogo di se stesso, dandy dalla morbosa attrazione verso
le donne e verso il sesso, il cantante - sempre più testa, voce ed espressione di quello che i
Baustelle sono e vogliono rappresentare - esplode in quanto a presenza, e il suo Cuore Nero
buca le tessitura del disco sprofondando fino al sogno ultimo della sua vita, che Bianconi ci
narra con una classe e uno stile oltre i confini dei generi.
La prova di questo grande talento sta nella dimestichezza con la quale Bianconi racconta Milano, città in cui ha vissuto nell’ultimo periodo per lavoro e per costrizione, ma anche per amore:
Milano che il primo anno quanto è difficile, Milano che dopo le sei si colora di vita, Milano che
portami via e Milano che in fondo un po’ di bene te lo voglio. Porta Ticinese, i Navigli si sosti t u i s c o n o a g l i s c e n a r i d e l l e s t o r i e b a u s t e l l i a n e - v e d i i l c a r c e r e n e l l e Va c a n z e d e l l ’ 8 3 - , s e m p r e
però ancorate a una visione pessima del mondo, ai suicidi, al sesso, alla droga, alle sigarette,
al male di vivere e alla bellezza salvifica dell’arte (“estetica anestetica”).
Il disco oscilla tra aperture orchestrali e frasi memorabili, ritornelli già cult e contrappunti strumentali che dimostrano quanto i Baustelle siano cresciuti, anche tecnicamente, in questi anni
c o r o n a t i d a d u e d i s c h i s t u p e n d i ( p r o d o t t i d a A m e r i g o Ve r a r d i a l c o n t r a r i o d e l l a M a l a v i t a , c h e
vede Carlo U. Rossi dietro il mixer). Non è un caso che a proposito dei Provinciali - canzone incredibilmente pop, per chi ha vissuto in provincia si trasformerà subito in un inno – Bianconi abbia dichiarato: “Ai tempi di Sussidiario ne avevamo registrato una versione che faceva cagare.
Molti pensano che il Sussidiario fosse volutamente naif: in realtà suonavamo davvero male”.
Ma il disco annovera altre piccole storie che in realtà hanno grandi obiettivi, come Il Corvo Joe
(scritta per Celentano) e il capolavoro A vita bassa (cantata in duetto assieme a una Rachele
sempre più grande voce della musica italiana), l’unica canzone che riesca a raccontare senza
retorica - ispirandosi a un articolo di giornale - il dramma esistenziale non capito, ma somatizzato dagli adolescenti, ai quali - in un mondo di divi, starlette e pin up (“la personalità se
la può permettere solo una piccola élite”) – non resta che portare lo slip D&G sopra la vita dei
jeans.
In un disco stupendo, di immaginario e musica, i Baustelle hanno fermato il mondo in crisi. E
senza esserne perfettamente consapevoli, lo hanno salvato. (8.0/10)
Carlo Pastore
sentireascoltare 35
(P)neumatica - Ultimi
attimi (Desvelos / Audioglobe,- ottobre 2005)
Gli (P)neumatica condividono
la
produzione
artistica
del loro secondo album con
Giorgio Canali. Peccato però
che di questo loro (probabile)
mentore non abbiano l’urgenza laconica, il cinismo sferzante, l’asciuttezza insidiosa.
Ok, occorre fare i conti con
l’età,
impossibile
chiedere
a dei giovani per quanto ruspanti quelle doti che solo un
vissuto logorante e formidabile, coi sogni sistematicamente
triturati e i mostri sotto il letto, può elargire. Però dai giovani ci si attenderebbe almeno
quell’abbandono totale, quel
precipitare un po’ angelico un
po’ demoniaco, quel cavalcare il bolide come un martire
sbruffone, insomma l’istinto
sempre davanti al calcolo a
domare ogni eventuale impegno. E se una posa deve essere, che se ne faccia quantomeno apoteosi. Invece, questi
quattro ragazzi da Cagliari ci
mettono impegno con lodevole
impegno, congetturano testi
mai banali, spendono rabbia
e parossismo, teatralità e ossessione, salvo poi guardare
ad un rock mordace vorreie s s e r e - S o n i c Yo u t h s t r i n a t o
di sincopi e spigoli funk, cui
tentano di adattare il fagotto
delle buone intenzioni. Inutilmente. O quasi.
Infatti, se escludiamo la cupa
ebbrezza di Percorso (valzer
blues debitore della beatles i a n a I Wa n t Yo u S h e ’s S o
Heavy, le chitarre che si aggirano in un vicolo velenoso),
l’afflato insidioso de Il mio
compleanno
(vaghe
insidie
psych watersiane, uno scivolare letterario Marlene Kuntz)
e massì il curioso patchwork
stilistico di Nuda dentro (strofe wave come un allarme ibrido Psychedelic Furs/R.e.m., il
chorus è schietta espettorazione Afterhours), il programma è una carrellata di velleità
e piccole catastrofi. Se non ci
36 sentireascoltare
pensa la disarmante piattezza
di un ritornello a rovinare la
portata (vedi Senza ombra o
Atti di me), è un assolo inutile
(Good bye Charlie!) o un’interpretazione vocale scadente
(Labbranere), e a poco valgono certe ideuzze intriganti,
che sia una chitarrina John
Frusciante o una disputa Fluxus o un denso caracollare
Thalia Zedek. I testi, dicevamo: provate a leggere quello
di A-strato, senza musica intendo, e vi accorgerete quanto funzioni bene con la sua
angoscia strisciante indigerita. Peccato che finisca per inciampare tra galoppi post-core
e strofe funkeggianti, imbolsendo e imbolsendosi. D’altro
canto, segnali di vita come
La velocità del tempo, seppur
eccessivamente derivativi, lasciano aperto qualche spiraglio per il futuro. Consiglierei
un nutritivo time out, e ritentare. (5.6/10)
Stefano Solventi
AA. VV. - Kalk Seeds – A Karaoke Kalk Compilation – (Karaoke Kalk / Wide, 2005)
Le sue origini affondano negli
anni novanta e nella minimal
techno di Colonia. A otto anni
dai suoi primi passi, l’etichetta tedesca Karaoke Kalk (il
cui nome fa riferimento a un
quartiere di Colonia), trasferitasi a Berlino, ha cominciato a
vestire tutt’altri panni.
Seppure non abbandonando i
territori della musica elettronica, la label allarga il proprio
campo d’azione spingendosi
fino in Giappone a scoprire talenti. Il risultato è un grande
allargamento dei propri orizzonti musicali, che dalla techno di nicchia si spingono verso
territori più ibridi e più “accessibili”. Un avant-pop che
passa
attraverso
l’ambient,
l’electro e il pop da classifica
con grande disinvoltura e idee
fresche.
Kalk Seeds prova a fotografare la situazione attuale della label tra nomi storici come
Donna Regina e März e nuove leve come Kandis e Sora
& Garland. Dieci delle sedici
tracce (più un video di Pluramon) sono inedite, una sorta
di presentazione, di passerella delle prossime produzioni
firmate Karaoke Kalk.
E’ impossibile restare indifferenti a un arco tanto ampio
di musiche così diverse. Nell’enorme pentolone si ritrovano insieme le composizioni
classicheggianti per pianofort e e v i o l o n c e l l o d i Ta k e o To yama (Der Meteor) e il raffinato pop da classifica di Saving
Juno di Roman, che sta per
uscire con il suo secondo album. Divertenti e interessanti gli italo-giapponesismi di
Ta k a g i M a s a k a t s u ( M i o P i a n to) e lo pseudo-cabarettismo
alla tedesca di Leichtmetall
(Wir Sind Blumen). La simpatica electro di Hausmeister
(Pumer), che ricorda i Mouse
On Mars più bonaccioni, e le
costruzioni ritmiche di Pascal
Schäefer (Tic Tic) riportano all’anima più techno della
K.K..
Tutto scorre tranquillo in questo disco e la speranza di trovarvi qualcosa di buono lascia
il posto all’attesa di passare
dall’assaggino al pasto completo. Avanti pure con le nuove produzioni, siamo curiosi...
(7.0/10)
Daniele Follero
AA.VV. - Dream Brother: The
Songs Of Tim & Jeff Buckley
(Full Time Hobby / Audioglobe, 3 ottobre 2005)
L’ e n n e s i m a u s c i t a n e l n o m e
d e i B u c k l e y, i n u n p e r i o d o c h e
- guarda caso - vede sia il figlio che il padre (in misura
maggiore) protagonisti di una
grande rivalutazione. Se da
una parte fa piacere vedere le
nuove generazioni accostarsi
a questi due straordinari artisti, dall’altra però si alza il
muro di scetticismo costruito
a colpi di cofanetti, ristampe, outtakes che negli ultimi
anni ci hanno letteralmente
sommerso. Ma non starò qui
a perdermi in futili considerazioni su quanto la signora
Guibert (madre e moglie) abbia giocato su tali operazioni
di marketing, non racconterò
le travagliate vicende familiari di Tim e Jeff (raccontate
nel libro di David Browne, di
cui si riprende il titolo e che
ha curato le note di copertina), né tanto meno azzarderò semplicistici confronti tra
i due (uno sport praticato da
molti). Non è questo il luogo e
non è questo il caso, visto che
Dream Brother: The Songs Of
Tim & Jeff Buckley è un tributo fatto con il cuore. Con tutti
i pregi e i difetti che questo
comporta.
I nomi che si sono voluti cimentare con un repertorio di
certo non facile sono tanti e
tutti di una certa importanza,
anche se provenienti da diversi ambiti artistici: dai Magic
Numbers e Sufjan Stevens,
ai Bitmap e Matthew Herbert.
Bizzarro accostamento, vero,
ma allo stesso tempo il segno
tangibile di un sentito omaggio che deriva dall’influenza
esercitata o da una genuina
ammirazione verso entrambi.
A partire dagli stessi Magic
Numbers, alle prese con una
S i n g A S o n g F o r Yo u d i Ti m i n
cui sono i leggiadri intrecci
melodici a primeggiare, proprio per compensare gli evidenti limiti vocali. Quando poi
t o c c a a M i c a h P. H i n s o n r i v i s i t a r e Ya r d O f B l o n d e G i r l s d i
Jeff, pare di sentire una sua
registrazione casalinga, tanta
è l’intimità che traspare dai
suoi toni baritonali e l’abilità
con cui lascia a casa l’elettricità della versione originale.
Dal canto suo, Stevens riveste
She Is di un’inconfondibile delicatezza fatta di voce soffusa
e arpeggi di chitarra, mentre
King Creosote infarcisce Grace di armonica, chiudendola
con una coda campionata che
difficilmente si sarebbe potuta immaginare. Interpretazioni personali, che cercano di
unire la fedeltà ai modelli con
la fedeltà al proprio modo di
fare musica, rimanendo quindi riconoscibili. C’è anche chi
preferisce ricalcare le linee
già tracciate, senza sperticarsi troppo in ricercatezze
e limitandosi a scremare gli
arrangiamenti (è il caso della
versione acustica di Mojo Pin
di Adem e di Morning Theft di
Stephen Fretwell), ma ci sono
anche dei veri e propri esperimenti che farebbero venire un
collasso agli estimatori e fan
della famiglia Buckley: parlo
dell’elettronica
minimale
di
Matthew Herbert in Everybody
H e r e Wa n t s Yo u , a c c o m p a g n a ta dalla sensualità vocale di
Dani Siciliano (una trasfigurazione della ballata dai cori
gospel in uno straniante beat,
che ne smorza i toni drammatici), parlo del funk cibernetico - riuscito solo a metà - dei
Bitmap in Dream Brother, e
della bellissima No Man Can
Find The War in versione folktronica dei Tunng, tutta fingerpicking e banjo e drumming
sottile con innesti electro.
Una varietà generosa che si
avvicina ad una materia complessa, senza alcuna volontà
di uguagliarla o, peggio, presunzione di superarla. Solo un
modo per ricordare con devozione due artisti di indiscusso valore, dove devozione significa mantenere la propria
cifra stilistica anche a costo
di radicali cambiamenti. Ed è
così che un tributo dovrebbe
sempre essere. (7.0/10)
Va l e n t i n a C a s s a n o
August Born - S/t (Drag City
/ Wide, 2005)
Curioso e decisamente agli
estremi di un’ipotetica gaussiana che preveda un’estetica esoterico-folkeggiante in
ascissa, assieme ad una modulazione
vocalistico-strumentale in ordinata, il duo,
composto da Ben Chasny dei
Six Organs of Admittance ed il
batterista giapponese Hiroyuki
Usui, esordisce con un album
totalmente radicato nelle meraviglie digitali, dove partiture incomplete trovano parziale solennità nell’associazione
sonora che il lavoro propone,
filosoficamente.
Lo sciame ne risulta biforcato, bifronte, un sodalizio tra
teste
d’altrove,
freakettone
ma underground, eclettico e
s i n u s o i d e . Ve n g o n o i n m e n t e i
Can più disarticoli, venati dal
blues sequenziale sostanziato da un non comune spirito
metalinguistico. I due compositori non parlano neppure la
stessa lingua, eppure la multistrumentazione messa in gioco è costruita su tempi spuri
ma non dispari, dove feedback
e percussioni accompagnano
il tratto distintivo del fingerpic k i n g d i C h a s n y. L’ a r t e d i U s u i
è tuttavia concretata dall’appartenenza al blues delle origini, sacrale e terrestre, tale
da ispirare sinergicamente il
talento del chitarrista antistante.
Birds & Sun & Clay suona un
outtake degli Organ’s mentre Song Of The Dead è una
schermaglia d’idee, un cucito di silenzi senza evoluzione. La simbiosi arriva in More
Dead Bird Blues, quando la
voce incantata frantuma una
chitarra scheletrica ancheggiante su tamburi ipnotizzati.
I n A L o t L i k e Yo u e Yo u W i l l
Be Warm l’osmosi diviene empatia, le riflessioni non distinguono lo specchiarsi dei due
musicisti e l’album chiude con
il mutualismo di una gemma
psichedelica.
August Born paluda l’idea artistica mediante il concetto
di “non traducibilità fortuita”
col quale, sebbene entrambi
le parti non intendano cosa
segnali l’altra, la musica che
casualmente scaturisce dalla
sfida pretende di redimersi in
una qualche direzione. La meditazione acid folk lascia spazio a frammenti di gradualismo
minimale che, ansiosamente,
torna sui passi dell’estremi-
sentireascoltare 37
smo, solennemente incantato
nel tentativo di agganciare
una perfezione stilistica. È un
album importante, magnifico…
forse tra i migliori dell’anno,
trascendente, infernale e celestiale. Ogni nota appare un
meanwhile di una medium visionaria, anticipatrice, divinatoria. Probabilmente un masterpiece, se non allignasse
tra i neofiti... (7.3/10)
Antonio Amodei
BeeQueen - The Bodyshop (Important Records, 2005)
Ci sono voluti tre anni per
questa nuova uscita dei Beequeen
(l’album
precedente,
Ownliness, risale al 2002, ed
è in tutto e per tutto il prequel
di The Bodyshop) e si sente.
La passione con cui la band
stende un manto porpora di
synth e arpeggi celati rivela il
gran lavoro di rifinitura; nulla
sembra lasciato a metà, e la
cura con cui ogni canzone è
stata confezionata spicca oltre gli standard musicali del
genere, passando da un ambient meticcio di sonorità industriali a un quasi effettivo
folklore americano. Folklore
comunque sfigurato, oscuro,
mai spensierato o
conforme
alle tradizioni.
Se il folk fosse una bilancia, e
su uno dei due piatti mettessimo Eels, sull’altro comparirebbero (misteriosamente) i
Beequeen, un po’ malaticci,
sigaretta in mano, con i loro
spleen solitari, la batteria misurata e le incursioni syntetiche. C’è poi da aprire una
piccola parentesi sulle propensioni non-strumentali della
band: il lupo perde il pelo, ma
non il vizio, verrebbe da dire;
è intuibile un passato fortemente condizionato da macc h i n e c a l c o l a t r i c i e c o m p u t e r,
ma - fatto tesoro di ciò che
hanno imparato - i Beequeen
riescono a non cadere mai nel
banale o nel lezioso.
Perchè
folk,
dunque?
Perchè la band ricorda a tratti
le Short Stories dei Lilium di
38 s e n t i r e a s c o l t a r e
P a s c a l H u m b e r t e J e a n Yv e s
To l a ( S a d S h e e p ) , g l i a r p e g g i
in mid-distortion sono quanto
mai avvolgenti (Swag Cave),
e c’è addirittura una cover di
B l a c k E y e d D o g d i M r. N i c k
Drake interpretata in maniera
originale dalla calda voce di
Marie-Louise Munck (Antenne).
Ma vediamo di tirare le somme. The Bodyshop - un disco
non easy listening, che richiede diverso tempo e diversi
ascolti per essere assimilato
nella sua minimale complessità - non deluderà i seguaci
della lunare band Beequeen:
come Ownliness suggeriva, la
nuova fatica segna un distacco dai lavori precedenti, completando un percorso iniziato
anni fa.. Per tutti gli altri, può
essere la chiave per aprire la
porta a un tetro mondo fatto
anche di ruote cigolanti e ingranaggi arrugginiti. Non un
capolavoro, ma un buon prodotto, considerando l’attuale
indigestione
da
dancefloorrock. (7.0/10)
M i c h e l e Va c c a r i
Marco Bellotti – Prodotto Da
Mia Madre (N3 / Self, Maggio
2005)
Cantante, compositore, fonico
e arrangiatore, il cannibalesco
Marco Bellott se la canta e se
la suona con padronanza assoluta della materia ed una consapevolezza che rasenta l’arroganza positiva dei grandi. E
licenzia un disco che unendo
un cantautorato già maturo ad
un’invidiabile ed attenta scelta degli arrangiamenti, fonde
elementi di elettronica, rock e
folk cantautorale italiano.
Tutte componenti che, tenute
insieme da una vena melodica ispirata quanto originale,
concorrono ad una (naturale)
collocazione del prodotto finale nel contesto di una scena romana (vedi il duetto con
Zampaglione dei Tiromancino
c o n t e n u t o i n Tr e n o ) d i c u i f a
parte ma cui non appartiene
artisticamente. Poiché già da
questo primo disco emergono
elementi sufficienti al fine di
individuare uno stile del tutto personale e riconoscibile.
Vuoi per il falsetto ed il timbro à la Ivan Graziani, vuoi
per una scrittura sempre accompagnata da una caustica
ed amara ironia.
Prodotto Da Mia Madre suona, infatti, come un atto d’autobiografica denuncia, nient’altro che un mezzo di cui il
poliedrico autore si serve per
puntare l’indice contro una
società meritocratica e pirandelliana. Una critica costruttiva, forte di un genuino bisogno di riscatto che non scade
mai in mero vittimismo ma fornisce lucidi spunti di riflessione (Centro Asociale e Solo
Dicendo La Verità).
Decisivo in proposito si rivela il trasferimento affrontato
in età adolescenziale – insieme alla madre, cui è dedicata
una straordinaria dichiarazione d’amore con I Fiori Di Mia
Madre appunto – dalla nativa
Bari alla capitale.
Un distacco vissuto apparentemente senza traumi ma con
il quale l’artista è verosimilmente ancora costretto a confrontarsi, come risulta evidente nell’esuberante Io Secondo
Me: il brano in assoluto più
autobiografico e malato del
disco, in cui si cerca di esorcizzare qualche fantasma del
passato.
Una dimostrazione abbagliante di un talento di livello superiore ribadito di canzone in
canzone, che lascia ben poco
spazio di manovra alle critiche negative e fa ben sperare
per il futuro.
L’ u n i c a m a c c h i a , a l o n e a n z i
su questo candido lenzuolo è
rappresentato dall’abuso del
falsetto che, alla lunga, appesantisce l’ascolto. Un utilizzo
più parco avrebbe sicuramente reso più agile il contesto
tutto. (7.1/10)
G i a n l u c a Ta l i a
recensioni
Akron/Family
Angels of Light (Young God Records, ottobre 2005)
A diversi mesi dal più che esauriente self/titled, la band scoperta da Michael Gira torna con uno split che, paradossalmente, li vede a lavoro da entrambi “i lati”, sia come solisti che
come parte strumentale degli Angels of Light.
Dall’incipit della Side A la stanza viene riempita dal canto a
cappella di Awake, reminiscente di Because dei sempiterni Beatles di Abbey Road, tra le fonti d’ispirazione dichiarate del
quartetto. Le succedono la ben più noisy Moment, che si muove
leggera al di fuori della forma-canzone nel terreno bene arato
del country psichedelico, e Future Myth che è una lunga e per lo più tranquilla cavalcata (otto
minuti) melodica, sorretta ancora una volta dal cantato corale. Tra i momenti migliori di questa
piccola nuova raccolta di brani vanno sicuramente annoverati, da un lato, l’impatto di Dylan Pt
II che riecheggia i Built to Spill di Keep It Like a Secret e, dall’altro, quell’episodio compatto,
piacevolmente e genuinamente anni settanta che è invece Raising The Sparks.
La zona Angels of Light, la Side B, è molto più “classica”. Si parte con la cover di Dylan, in pieno stile Gira, di I Pity The Poor Immigrant e si prosegue in grande stile con il disordine regolato
dei sette minuti di The Provider, fino ad una Mother/Father dai ritmi tribali che ancora una volta
riprende le fila del decennale discorso idiosincratico e tematico dell’autore/talent scout ed ad
un’accorata, potente, Come For My Woman.
In molti hanno parlato degli Akron/Family accostandoli a The Band di Bob Dylan, personaggio
qui omaggiato a più riprese. Il paragone si regge essenzialmente su di un’analogia fin troppo
semplice: gli A/F come la Band negli Angels of Light di un Bob Dylan che è Gira. Eppure, come
successe alla Band, il quartetto resta in piedi anche da solo, cammina bene, fa passi da gigante. In certi casi supera il maestro. E forse lo supera anche in questo split: i risultati sono
quasi all’altezza dei rispettivi lavori precedenti, ma la parte degli Akron/Family nello specifico
sembra muovere da coordinate leggermente differenti, finendo per risultare la zona davvero
s a l i e n t e d e l d i s c o . I l c a n t a t o , a d e s e m p i o , l a s c i a t o s o l i t a m e n t e a R y a n Va n d e r h o o f o p p u r e a
S e t h O l i n s k y, q u e s t a v o l t a c o i n v o l g e p i ù p i e n a m e n t e t u t t i i m e m b r i d e l l a b a n d f a t t a e c c e z i o n e
per Oceanside, intonata dalla voce sorprendentemente tonda e piena di un Miles Seaton finora
ufficialmente silenzioso. (7.5/10)
Marina Pierri
sentireascoltare 39
Kevin Blechdom - Eat My
Heart Out (Chicks On Speed /
Wide, 14 giugno 2005)
La macilenta Kevin Blechdom
(vero nome Kristen Erickson)
stavolta
l’ha
fatta
grossa.
Partita in quarta in duo con
Blevin Blectum (Bevin Kelley) a formare - alla faccia
degli scioglilingua - le Blectum From Blechdom, con quel
loro dischetto meraviglia di
The Messy Jesse Fiesta (Deluxe, 2000), si è data alla carriera solista. Tra il 2001 e il
2003 registra tre EP di surreale computer-pop (The Inside Story e I Love Presets su
T i g e r b e a t 6 e Yo u r B u t t s u D u dini), poi raccolti in Bitches
Without Britches (Chicks On
Speed, 2003), che spiazzano
la critica.
Coming, l’ouverture del nuovo album su Chicks On Speed
non potrebbe essere più sfavillante: sormonto di pulsazioni eterogenee, ma tutte vitali
nel loro slancio sonoro (sampler vibrante, synth elementare, gorgheggi, canto languido), florilegio Wendy Carlos
del moog euforico, e finale
esplosione con drum machine
e coro gospel. Ed è tutto un
susseguirsi frenetico di invenzioni spavalde, asprigne nelle
loro associazioni di musical
digitale, melodie burlesche e
infantili, sonorità naif, sensibilità retrò, ma con un sapiente gusto vintage a riequilibrare il tutto.
Così nei cambi di registro
(cartoon, EBM, new romantic
g l a m - o r i e n t e d ) d i To o M u c h
To To u c h , n e l b r e v i s s i m o s i p a r i e t t o c l o w n e s c o d i Yo u G o t
Yo u r l s e l f , n e l l ’ a p o c a l i s s i p e r
MIDI e strilli vocali di Runaway
Or Stay, nel kitsch cabaret di
The Porcupine And The Jellyfish, nella gag a perdifiato di
W h a t Yo u Wa n n a B e l i e v e , n e l l’assalto di Cypress Hill stil i z z a t i d i L o v e Yo u F r o m T h e
Heart, nelle solenni storpiature poptroniche They Might
B e G i a n t s d i To r t u r e C h a m b e r ,
nello Zappa schizoide di The-
40 sentireascoltare
re Are Other People, la cara
Blechdom mette a zittire tutti.
Dall’altra parte abbiamo addirittura brani in cui quest’impavida
cantautrice
azzarda
m o m e n t i d i r i f l e s s i o n e . D a y To
Day è una ballad atmosferica
banjo-driven non dimentica di
citazioni doo-wop, Suspended
In Love fa staffetta tra marimba sdolcinati e lentoni in tempo ternario, con parodia della
Madame Butterfly annessa, e
Johnny ripercorre surrealment e g l i W h o d i To m m y .
Eat My Heart Out è un panegirico sonoro di parole d’amore
argute e velatamete sibilline,
il cui valore emerge soprattutto in opposizione ad arrangiamenti che sono - per contrasto
- esuberanti, kitsch e chic ad
un tempo. La Blechdom vocalist è impacciata e passionale,
e tanto basta. Presente una
traccia video contente Count d o w n To N o t h i n g , m i n i - m u s i c a l g i r a t o c o n L u c i l e D e s m o r y.
(7.0/10)
Michele Saran
Susanne Brokesch - Emerald
Stars (Chicks On Speed /
Southern, 19 settembre 2005)
La parabola artistica di Susanne Brokesch, ben lungi
dall’attraversare fasi calanti,
appare comunque in situazione stazionaria. Questa giovane produttrice austriaca (base
ormai stabile a Vienna), il cui
recente passato discografico è
fatto di 7”, sonorizzazioni per
happening e uscite su lunga
distanza (Sharing The Sunhat,
1 9 9 7 e S o E a s y, H a r d To P r a c tice, 2003; entrambi su Disko
B), approda al classico lavoro
ambizioso negli intenti ma un
po’ sfocato negli effetti.
E m e r a l d S t a r s , i l t e r z o L P, è
diviso - prima ancora che per
tracce - in aree tematico-stilistiche. La più sponsorizzata,
come pure anticipata nei live
set in collaborazione con Jon
Turi (anche co-ideatore e cocompositore), è quella centrale, composta da riletture
digitali di alcune pagine pia-
nistiche dell’illustre connazionale Hugo Wolf. Verschwiegene Liebe, Stille Liebe, Der
Soldat, il doppio brano Nachtzauber e Nachtzauber (Fantasie), Das Staendchen sono
revisioni aleatorie e stereofoniche dei temi originali del
compositore, tramite trilli di
suoni estatici, beat da pizzica digitale, scomposizioni di
timbri.
I brani che incorniciano questa
zona
classicheggiante
sono invece meno pretenziosi,
sebbene The Missing Records
Are Private - vero punto forte del disco - sia una lunga
digressione ambientale sfigurata da particelle digitali in
gravitazione,
ritmica
instabile, eventi sonori rumoristici in subfrequenza. The Art
Of Missing The Bus rotea tra
melanconie Boards Of Canada e campanelli che generano
c o n c e r t i a s t r a l i , e To G o B a c k
è un’altra passerella stellare tra campioni di vocalizzi e
andirivieni di sciami luminescenti. Like A Hologram è invece meno graffiante, anche a
causa della parte vocale (che
spulcia i lati peggiori di Mia
D o i To d d e R a c h e l H a d e n ) , e
Heroes (History - Mix) - remix
della versione Oasis-iana del
classico di Bowie, dai battiti
trancedelici pronunciati, è soprassedibile.
La quasi-title track che apre e
chiude il disco (The Emerald
Stars In The Sky e relativa
Reprise) infine fa storia a sé:
sostrato di percussioni, atmosfera cosmico-orrorifica data
d a o s t i n a t i g r a v i d e l s a m p l e r,
s y n t h t h r i l l e r. S u s a n n e B r o k e sch espone sopra tutto e tutti
l’arte di procedere a corrente
alternata: brilla negli accostamenti di turgido naturalismo,
decadente classicismo e arcana magia cosmica, mettendone
in reazione i tessuti di suono,
si eclissa in parte quando crede di sorprendere le restrizioni di genere tramite il colpo
ad effetto. La proposta di una
loro obliqua rilettura, in ogni
caso, è costantemente in evidenza. (6.5/10)
Michele Saran
Clue To Kalo - One Way, It’s
Every Way (Leaf / Wide, 20
settembre 2005)
Mark Mitchell, mente dietro
i l p r o g e t t o C l u e To K a l o , s i
può considerare come uno degli artisti più puri degli ultimi
anni. Una contaminazione trasversale, un ibrido immaginifico, chiamatelo come vi pare;
di fatto, a partire da laptop,
folktronica, IDM e sampling
soffusi, talvolta ne esce qualcosa di meno convenzionale del resto, della pervicace
“scena” o “filone” che sia. Appunto, qualcosa di puro. Come
il suo secondo album (seguito
dell’esordio timidino di Come
H e r e W h e n Yo u S l e e p w a l k ;
Mush, 2003), quello con cui
il ragazzo di Adelaide fa realizzare ai (pochi) seguaci di
pubblico come sia in grado di
fare sul serio.
C o n b r a n i c o m e C o m e To M e a n
A Natural Law è già spettacolo. Sax annunciatori, impasti
di synth e un greve vocalismo
creano una tensione tutta particolare, a-ritmica ma ugualmente marcata. La seguente accelerazione prelude ad
una coda strumentale che ha
tutta
l’insostenibilità
metafisica della Little Red Riding
Hood Hit The Road di Wyattiana memoria. Nine Thousand
Nautical Miles prosegue nella
stessa direzione, con oasi di
suono color pastello, andamento da walzer electro, vib r a z i o n i u m b r a t i l i d e l s a m p l e r,
e una successiva metamorfosi
impregnata di chitarre acustiche che porta alla trasfigurazione para-sinfonica della
chiusa.
La
formula
si
ripete,
mostrandone tutti i possibili risvolti armonici e timbrici. In
The Just Is Enough emerge
una dimensione maggiormente cantautoriale, con piano
dolcissimo e chitarre cullanti, e un intermezzo strumen-
tale da far invidia al miglior
J J C a l e . T h e Te n s e C h a n g e s
è quasi electro-raga d’estasi Mark Hollis, con evoluzioni smooth-soul in versi liberi.
A s To m m y F i x e s F i g h t , d o p o
un’altra sospensione ambientale, attacca con soavi incisi
di piano elettrico e clavicembalo per poi alzarsi in un’apoteosi orchestrale di fiati e chitarre distorte, e in una finale
danza
campestre-digitale.
Seconds When It’s Minutes è
quasi un aggiornamento delle
s o t t i g l i e z z e a c i d - f o l k d i To m
Rapp, ma reso obliquo da cutup, cambi di tempo, parentesi
strumentali.
Riprendendo
e
fortificando
un’idea electro-coloristica di
p o s t - r o c k c h e f u d i F o u r Te t ,
Manitoba, Dntel e Pram, l’album impagina dieci gemme di
montaggio
sonoro-musicale,
centrate su armonie diafane, forme asimmetriche, tonico slancio emotivo. Opera
splendidamente ripetitiva, con
un’idea palindroma sullo sfondo che corre tra Intro (The
Yo u n g e r T h e O l d ) e O u t r o
( T h e O l d e r T h e Yo u n g ) c o m e
un messaggero stilistico a
scombinare strutture e increspare pattern su pattern. Nei
live show Mitchell è aiutato da
Curtis Leaver (chitarra) e Alan
Beverley (batteria). (7.1/10)
Michele Saran
Constantines – Tournament Of
Hearts (Sub Pop / Audioglobe,
Ottobre 2005)
Che oramai il marchio Sub
Pop non sia più sinonimo di
sonorità aspre e, in particolare di quelle, è un fatto. Siamo
distanti anni luce dal grunge,
ed il recente restyling ha fatto della label una prolifica fucina di talenti (Wolf Parade e
Rogue Wave tra gli ultimi in
ordine di tempo) spesso agli
antipodi musicali con quelli
dei tempi d’oro di Seattle.
Una volta metabolizzato cotanto cambiamento diventa facile accettare – avendo anche
a che fare con un generale
esubero di offerta - sporadici passi falsi e qualche mela
senza bollino. Sembra il caso
di questa band canadese alla
terza fatica, che non riporterà
certamente indietro le lancette di quindici anni per l’etichetta di Seattle. Il quintetto
- dopo il discreto successo del
precedente Shine A Light (Sub
Pop/Audioglobe, 2003) – si ripresenta con un disco che non
brilla per originalità ma che si
distingue per asciuttezza.
Ora, aldilà delle considerazioni soggettive di ognuno e
dei gusti personali, non si può
negare che certi territori, musicalmente parlando, risultino
sdrucciolevoli sia per pubblico che per critica, e parlando di soluzioni musicali come
l’asciuttezza si può far notte.
Per farla breve, da queste
parti gli arrangiamenti scheletrici non hanno convinto.
Per snellire la struttura delle
canzoni ne vengono tarpate le
ali, come una sorta di freno a
mano. Tutto sommato il disco
parte bene, con la batteria
secca e corrosa dai riverberi
di Draw Us Lines, e continua
meglio, con l’incalzante Hotline Operators(!) che, divisa tra
gentilezze à la Dulli e sferzate hard core, ben dispone.
Se non chè la doppietta si rivela quantomai ingannevole,
poiché il fuoco appiccato non
viene ravvivato, e l’ambiente
col passare dei minuti si raffredda sempre più.
Il risultato è un disco spezzato in due parti, con un lato
b inequivocabilmente non all’altezza. Mentre nella prima
parte infatti trovano spazio
anche la piacevolmente melodica Lizaveta – l’unica traccia
ad essere risparmiata dalla
moria degli arrangiamenti, potendone vantare di orchestrali perfino – e per l’alt-country
della ballata Soon Enough, il
resto della passeggiata non è
certo accompagnato da rose e
fiori.
C’è davvero poca fantasia in
questi 37 minuti e, tra un col-
sentireascoltare 41
po al cerchio e uno alla botte, si giunge a una sufficienza senza infamia ne lode. In
questi casi si usa dire che di
un disco del genere nell’ anno
2005 non se ne sentiva propriamente il bisogno. Sposiamo la formula. (6.0/10)
G i a n l u c a Ta l i a
Francesco Cusa “Skrunch”
– Psicopatologia del serial
killer
Switters – The Anabaptist Loop
(Improvvisatore Involontario / Wide, 2005)
Francesco Cusa, siciliano di
Catania, è la mente che sta
dietro al progetto Improvvisatore Involontario: una combinazione di artisti in maggioranza
provenienti
dagli
ambienti jazzistici che, nella
ricerca di nuove forme, puntano tutto sull’interdisciplinarietà. Un termine che dà l’idea
di accademismo, ma che nella pratica si trasforma in un
interessante (anche se un po’
ortodosso) approccio al jazz e
al rock.
Laureato al D.A.M.S. di Bologna, Francesco si forma professionalmente come musicista in questa città. Proprio qui
entra in contatto con musicisti
del calibro di Mirko Sabatini e
Cristina Cavalloni, per poi entrare a far parte del collettivo
Bassesfere, con cui partecipa
al festival Angelica. E’ in quel
periodo, una decina d’anni fa,
che Cusa comincia a girare
l’Europa, suonando con Paolo Fresu, Steve Lacy e Elliot
Sharp.
Questo suo exploit in campo jazzistico non gli preclude il rapporto con il mondo
del rock, al quale pure si era
sentito legato: dagli Zu a Roy
Paci , sono svariate le escursioni del batterista quarantenne in questo ambito.
Ma Cusa non si limita a suonare. Molto attento alla letteratura e al teatro (partecipa, tra
l’altro, al collettivo letterario
Wu Ming) sembra perseguire
42 sentireascoltare
l’ideale ambizioso della correlazione delle varie espressioni artistiche all’interno della
modalità performativa dell’improvvisazione.
Il
quintetto
Skrunch
(oltre
a Cusa, autore e batterista:
Carlo Natoli alla chitarra baritono, Paolo Sorge alla chitarr a e l e t t r i c a , To n y C a t t a n o a l
trombone e Gaetano Santoro
al sax tenore) di cui è a capo
si muove proprio in questa direzione, unendo la recitazione
alla musica.
Difficilissimo dare un senso
a un lavoro dal titolo Psicopatologia di un serial killer
“ispirato liberamente a Il Giovane Holden di Salinger e agli
scritti autobiografici di Frank
Zappa”, se non attraverso il
filtro di un sarcasmo totale e
totalizzante. Alle voci di quattro attori (tra cui Saku Ran,
famoso attore nipponico proveniente dall’esperienza del
teatro No) spetta il compito di
esprimere a parole la psicologia del killer attraverso brevi testi recitati, alla musica
quello di commentare le parole o creare immagini autonome. Purtroppo non sempre
la musica riesce a sublimare
il sarcasmo e la grande fantasia creativa delle premesse.
La schizofrenia del presunto
killer si traduce in un jazz che
non rifiuta quasi mai l’organizzazione, che poche volte
sfocia nella libertà assoluta
o nell’inatteso sorprendente,
incanalandosi spesso e volentieri in un jazz-rock a metà tra
Bitches Brew di Davis e i primi
Soft Machine (Nonsense, Dr.
Akagi): riff minimali e assolutamente rockettari introducono fiumi di assolo che superano anche i 15 minuti. E’ in
Where’s S. Kubrick che meglio
si compie la tensione espressiva di questo disco, con un
riff roccioso alla chitarra elettrica e una digressione centrale ai limiti della psichedelia. (7.0/10)
Nella
seconda
uscita
della neonata etichetta-proget-
to (distribuita in Italia dalla
Wide), Cusa toglie i panni del
leader per accompagnare il
sassofonista Gianni Gebbia in
t r i o i n s i e m e a V i n c e n z o Va s i
(basso elettrico, voce e theremin).
Switters è il nome del personaggio principale di un recent e l i b r o d i To m R o b b i n s : u n
agente della Cia che ha preso
una direzione totalmente autonoma rispetto alla sua missione. Ancora una volta una
forte ironia di fondo al limite
del surrealismo pone le premesse a un disco molto bello, anche se, anche in questo
caso, un po’ ortodosso.
Anche Gebbia è molto noto
nei circoli jazzistici italiani
(bolognesi in particolare). Lo
ricordo per una stupenda performance insieme al batterista
Lukas Ligeti (che qui mi viene
in mente ascoltando le suggestive sfumature di Langley)
durante la scorsa edizione di
Angelica. Sassofonista di gran
classe, non si abbandona mai
al semplice rumorismo o agli
estremismi zorniani ricercando in maniera quasi neoclassica un fraseggio molto vicino
al largo respiro di Coltrane,
senza però risultare antiquato.
Questo disco sembra un vero
e proprio omaggio al sassofonista americano, ma forse è
proprio questo il rammarico.
17 brevi pezzi che esaltano il
suono morbido, arioso e modale del sax di Gebbia, scorrono
veloci in un disco che non si
discosta quasi mai dai canoni
del jazz classico.
L’ a p p o r t o d e g l i a l t r i d u e m u s i cisti è importante ma mai determinante nel rapporto con il
sax, che prevale praticamente sempre; si fanno comunque
notare le fantasie di Cusa e
la potenza imponente e sicura
d e l b a s s o d i Va s i .
Fa un po’ rabbia dover limitare
il proprio giudizio su uno dei
più interessanti jazzisti italiani solo perché non ha osato
di più. Ma a conti fatti Gebbia
recensioni
Bonnie “Prince” Billie
Summer In The Southeast (Sea Note/Wide, ottobre 2005)
Un attimo di sconcerto: il vecchio Will s’è beccato il virus. Le
conseguenze sono micidiali: chiusura della vena e via con la
rivisitazione ad libitum del campionario (di norma il proprio, se
occorre anche quello altrui). Pare che ne siano particolarmente
colpiti i post-dylaniani, specie quelli con la barba da patriarchi e la solennità nel taschino. Da noi ha fatto clamore il caso
De Gregori, che dopo oltre un quindicennio ancora stenta ad
uscirne (è lecito dubitare che ce la faccia). E il principe Billie? Prima ci spiazza con un “best of” in chiave Nashville (il
buon Sings Greatest Palace Music dello scorso anno), e oggi
raddoppia con la qui presente antologia live. Tutto ciò nell’imminenza della pubblicazione di un disco di cover assieme ai
To r t o i s e . C o s a p e n s a r e , d u n q u e ? D a v v e r o q u e l l a s p l e n d i d a , d o l e n t e v e n a s i s t a o t t u r a n d o ?
Boh. Intanto, però, c’è questo Summer In The Southeast, dove ben 17 titoli - dal periodo Palace
fino alle più recenti uscite in solitario – vengono letteralmente sbattuti sul palco a far vedere
ciò che possono (ancora). Ovvero, la dimensione live permea, preme ai bordi, forza le strutture,
trasfigura: prendete all’uopo una Break Of Day o una Ease Down The Road, felicemente strigliate da un vivido piglio folk-psych (quasi come certe cosine dei Grateful Dead meno visionari),
o l’iniziale Master And Everyone, dove gli scheletri sono sparpagliati da una febbre acida che
r a m m e n t a c e r t e m i n i m a l i s c o r r i b a n d e Ve l v e t U n d e g r o u n d . I t r e m o l i i , i l c i n c i s c h i o c o u n t r y r o c k ,
quel caracollare come una trottola sul punto di fermarsi, gli incanti e i disincanti intossicati:
c’è tutto quello che ci saremmo attesi, ma c’è anche un brusco fare i conti con gli spigoli, la
polvere, l’elettricità, il tirarsi l’un l’altro che s’innesca sui ogni palco seminato a rock.
Quindi è uno sgomitare contro i limiti e le limitazioni, un cavalcare le immancabili avversità, il
tentativo di domare il flusso imbizzarrito, riuscendoci in fin dei conti malgrado tutte le sbavatur e , r i u s c e n d o c i a l l a l u c e d i u n a f r a n c h e z z a d i s a r m a n t e c h e f a p a l p i t a r e B e a s t F o r T h r e e e Ta k e
H o w e v e r L o n g Yo u Wa n t d i q u e l p o c o c h e è l o r o r i c h i e s t o , c h e a n n e g a l a s o l e n n i t à d i P u s h k i n o
l a s t o r t a a l l e g r i a d i S e n d M y L o v e To Y o u n e l l ’ u b r i a c a t u r a d e l v i a g g i a r e ( e d i q u a l c h e b i c c h i e r e
di scotch). Una franchezza che non prevede virtuosismi né contempla fedeltà, non levigatezze
né zampillii cristallini, ma solo di regolare al massimo ogni questione, con la calligrafia – se
non con la competenza – che nessun altro possiede. Che nessun altro possiede.
Godetevi dunque una Wolf Among Wolves che sembra inzuppata nelle onde di una sperduta
spiaggia younghiana, una Death For Everyone inturgidita di watt, una Madeleine Mary dal cuore
nero e sanguinante come un Jason Molina d’annata, una O Let It Be che gironzola tra Crazy
Horse, Nirvana e allucinazioni The Doors, e ovviamente una I See A Darkness che procede come
un tronco cavo da incendiarsi lungo il cammino. Insomma, l’avrete capito: scherzavamo. Nessun
virus per Will Oldham. Solo un’altra delle sue. Fatta piuttosto bene, anche questa. (6.7/10)
Stefano Solventi
sentireascoltare 43
suona benissimo e il suo stil e è b e n r i c o n o s c i b i l e ( S e r o v,
Mustang Sally Blues), il trio dà
l’impressione di essere molto
affiatato, ma non fa venire i
brividi. Da premio, comunque,
la
conclusiva
Ballata
delle multinazionali (andamento
sornione e basso funkeggiante) e Salvatore Pagano, uno
dei brani in cui meglio viene
fuori lo stile più originale ed
espressivo di Gebbia, fatto
di piccoli sussulti che si trasformano progressivamente in
bellissimi fraseggi. (7.0/10)
Daniele Follero
Dirotta su Cuba - Jaz (Jazzet
/ Edel, novembre 2005)
Non lo definirei un ascolto
coinvolgente. Anzi. Perlopiù
scorre via come acquetta colorata. Quasi non ci fai caso
e - oplà - non c’è più. Eppure,
continuo ad ascoltare. Così
amichevole, ma così distante. Distante dall’idea che il
pop, per quanto divertente/
spensierato, debba portare i
segni del travaglio (essendo
l’espressione sempre e comunque soggetta ai processi di nascita, come qualsiasi
creaturina viva). Un’idea che
comporterebbe l’immediata archiviazione di questo Jaz. Ma
anche un’idea del cazzo, a ben
vedere. E infatti - oplà - altro
giro altra corsa col pop dei
Dirotta su Cuba. Che non mi
fa impazzire, che non mi sposta di parecchio l’umore, però
piacevolmente mi distrae, mi
coccola a furia di exotic-mambo dolciastri e sbruffoncelli,
di jungle-jazz adrenalinizzati
James Bond, di soul-funk dal
groove gommoso, di tropicalismi vaghi e svagati... Ci sono
queste melodie semplici, immediate, conformi ad un design vivace che non ammette
pieghe o sbavature. Sembrano
superfici che quasi puoi toccare, sensazione tattile levigata, da polimero inscalfibile,
eternamente tiepido, impermeabile. Tutto ciò può suonare artificioso, invece è la lo-
44 sentireascoltare
gica conseguenza di un gioco
giocato nel pieno rispetto delle regole, imposte dagli stessi giocatori. Lo stesso potrei
dire di Marquica, o meglio della sua voce, da sirena vamp,
da side-woman flessuosa, da
club fumettistico/cinematico,
meno torbida che morbida, più
squillante che eccitante.
Ma a convincermi è soprattutto la folta leggerezza delle orchestrazioni, nelle quali convivono tastiere calligrafiche
e globuli elettronici, trombe
diafane (virtuali?) e sax starnazzanti (reali), ulteriori ottoni e fatui legni (a cura della
Fantomatik Orchestra), acide
svirgolate di hammond e tremolanti sgocciolii di Rodhes,
eppoi inusitati miasmi western,
bassi elastici e corposi, cori
ora imprendibili ora impellenti
tipo Sly e famiglia di pietra...
Il coktail viene servito con
una certa disinvoltura, scende in gola come potrebbe un
moderno Carosone passato al
setaccio Art of Noise. Fidando tantissimo sulla guarnizione, ovverosia la confezione: i
pastelli very stylish, la complessa rilegatura, le fincature
morbide, credits a profusione, ogni pagina una sorpresa,
persino il dischetto stampato
a mo’ di vinile, insomma se
non è il package più sfizioso
della storia poco ci manca. Il
che sposta il discorso altrove, più o meno sul punto della
questione: che Jaz vada cioè
trattato al modo di una strepitosa idea regalo, gradevole
per chiunque spiacevole per
nessuno, irresistibilmente generica nella sua ricercatezza,
irreprensibilmente potabile e
t r e n d y. N a t a l e è a l l e p o r t e .
Pensateci. (6.2/10)
Stefano Solventi
Dorian Gray - Tempi Supplementari (K-Factor – Shinseiki
/ Audioglobe, 2005)
Erano gli inizi degli anni Novanta quando i Dorian Gray
scorazzavano
per
gli
allora poco illuminati bassifon-
di dell’underground italiano.
Una parabola artistica che
durò giusto il tempo di tre album – dal ’92 al ’98 – e qualche soddisfazione personale
– tournée in Cina quando era
ancora territorio off-limits - e
che, a quanto pare non tutti
hanno dimenticato, se è vero
che ora la K-rec ne ripropone
una rivisitazione gustosa con
q u e s t o Te m p i s u p p l e m e n t a r i .
A sentire i diretti interessati,
si tratterebbe di un progetto
discografico di natura semiantologica, una sorta di raccolta canonica degli episodi
più significativi nobilitata da
qualche versione remixata di
vecchi brani e da una traccia
video. Interessante il risultato
finale, che al di là delle reali motivazioni di fondo serve
comunque a dar voce ad una
realtà forse defilata e un tantino fuori tempo - considerati
i canoni estetici attuali - ma
qualitativamente tutt’altro che
trascurabile.
A dimostrarlo una formula che
sa mescolare chitarre taglienti
e generose basi elettroniche,
depressioni vocali e malinconie meccaniche, dilatazioni lisergiche e ritmiche quasi tribali e che dà vita ad un
immaginario sonoro legato in
ugual misura agli anni Ottanta
più oscuri e a direttive quasi
industrial.
Tra le cose migliori del disco
spiccano i tre minuti arrembanti della barrettiana Astronomy Domine, innalzata dalla band a rapido succedersi
di riff granitici di chitarra e
scambi di batteria, il balbettante incedere di Anni Striscianti e il remix alla Trent
Reznor de La Conoscenza Del
Fatto, che con i suoi nove minuti decadenti ed ipnotici costituisce lo zenit emozionale
di tutta l’opera. (6.3/10)
Fabrizio Zampighi
Dottor Livingstone - L’assenza (I.Presume / EMI, ottobre
2005)
È
un
marchio,
il
Festival
di
recensioni
Pattern Is Movement
Stowaway (Noreaster Failed Industries, 13 Settembre 2005)
ll fatto che l’anno scorso l’esordio di questa band americana
sia stato praticamente ignorato rende l’idea di quanto vasto
e dispersivo sia, allo stato attuale, il panorama della popular
music. Per fortuna il quartetto originario di Philadelphia non
ha tardato a ripresentarsi con un secondo album, ancora più
bello del precedente e che invoca giustizia.
La novità di Stowaway rispetto a The (Im)possibility Of Longing (Noreaster Failed Industries, 2004) è l’entrata in scena
di Alisa Rose (violino) e Rachel Turner Houk (violoncello) accanto al nucleo principale composto da Corey Duncan, Daniel
McClain, Christopher Ward e Andrew Thiboldeaux. E la differenza si fa notare immediatamente, con gli archi che spesso seguono la stessa linea melodica
della voce, creando un effetto di amplificazione timbrica del cantato che ricorda molto lo stile
del Robert Wyatt solista.
Le influenze canterburiane nei Pattern Is Movement - volute o involontarie che siano - non
possono del resto passare inosservate, ma il riferimento a certo progressive degli anni Settanta non risulta mai diretto, impregnato com’è di post-rock. In un percorso musicale coerente
sembrano incontrarsi le anime più innovative di certo rock “colto”, che da più di trent’anni si
diverte a decostruire la materia originaria per creare qualcosa che ne oltrepassi i confini: dai
S o f t M a c h i n e a i S o n i c Y o u t h , d a i To r t o i s e a g l i G a s t r D e l S o l , d a g l i S l i n t a B r i a n E n o .
Stowaway è un disco senza sbavature. La musica dei Nostri sembra giocare direttamente con il
concetto di pattern preso a prestito dal nome: frasi brevi, reiterate e accostate al fine di creare
un movimento delle immagini dall’apparente staticità, come in un montaggio cinematografico
d i S e r g e j i E j z e n s t e i n ( v e d i i l r i t m o o s s e s s i v o d i P e o p l e A n d To u c h o l e r a p i d e t r a s f o r m a z i o n i
della batteria cutleriana di Never Liked This Time Of Day, alla ricerca di dialoghi melodici con
il violoncello e la chitarra). Una spanna al di sopra di tutti gli altri brani dell’album sono poi
She Already Knows It e Silver Queen, che incarnano alla perfezione - accentuandole - le due
principali idee costitutive del loro sound: se nella prima viene fuori l’approccio più nineties,
con la fantasia a richiamare degli Slint senza distorsioni, ma intrisi di tastiere (ritmi squadrati,
un po’ math, addolciti dagli archi), nella seconda invece una batteria convulsa e una chitarra
più graffiante, unite al violoncello, ricordano la triade Cutler-Frith-Born, nucleo fondamentale
di Henry Cow e Art Bears.
Molto interessante ed efficace anche la presenza di tre brevi interludi, che spostano l’attenzione su suoni dal sapore più ethno, come nel caso di una Korà africana (o l’imitazione del suo
suono, non ci è dato confermarlo) che si inserisce tra gli altri strumenti a corda per dare vita a
un affascinante gioco poliritmico. Peccato non poterli vedere dal vivo in Italia, almeno per ora.
Un (8.0/10) senza se e senza ma.
Daniele Follero
sentireascoltare 45
Sanremo. I Dottor Livingstone ci sono passati. Ci hanno
fatto, ci fanno, ci faranno i
conti (giusto o sbagliato che
sia). Non che questo sembri
scoraggiarli, così come il fatto che nel frattempo la CGD li
abbia scaricati. Oggi, rivisto
l’organico, fondata un’etichetta propria (denominata - con
puntuale senso del calembour
- I.Presume), tentano il contropiede col terzo album, perseguendo un pop ammiccante,
figlio di tante influenze e altrettante riverenze, perlopiù
sintetico ma capace di ricercatezze “da camera”, felicemente semplificato però mai
“facile”. Quest’ultimo aspetto,
soprattutto, mi sembra lampante: anche quando con Sulla mia pelle sembrano l’ibrido
perfetto tra i Depeche Mode e
i New Order più melodici, anche quando con Ci sei sempre tu il ritornello consuma
una melodia piuttosto scontata, c’è sempre un ingrediente che perturba o mitiga, che
stilla preziosismi nell’infuso,
che sia lo strisciante languore Portishead,o quelle chitarre algide/spezzettate memori
d’animali floydiani, o ancora
quel sitar che nobilita l’etno
funk divertito di Tutto è relativo, o lo pseudo clavicembalo
tra gli sfrigolii e l’urgenza di
Anna.
Nella diffusa padronanza di
mezzi e strutture, nella sostanziale felicità dell’ispirazione, manca forse una specificità forte, manca uno scarto
più netto dall’aura Subsonica
(che pervade ad esempio la
funkeria ghignante di Strega),
manca alla voce di Anna Basso - comunque bella - l’artificiosità umana o se volete il
calore inumano di una Goldfrapp (ciò che avrebbe forse
reso irresistibile il malioso
arazzo electro soul – archi
orientaleggianti,
algebriche
palpitazioni
Battiato,
post
trip-hop ingentilito rhodes di Mai più). Forse però la carenza decisiva non è di quelle
46 sentireascoltare
che si possano biasimare: mi
riferisco, signore e signori,
al genio. Quel genio che non
s’inventa, non si compra, non
si fa. C’è, o non c’è. Ci fosse
stato, Piccolo attimo sarebbe
più che la gradevole commistione Mùm-Depeche Mode, il
tango fanciullesco di Resto a
letto si sarebbe smarcato dai
lampanti
sospetti
Ustmamò
(evitando magari il ricorso a
quell’orrido sax zuccherino,
nel senso – ahinoi – di Fornaciari),
avremmo
guardato
più alla sostanza di Le ragazze di Osaka che non al guizzo
d’averla voluta rivisitare (non
male comunque né l’idea né il
risultato; l’originale – per la
cronaca – è di Eugenio Finardi).
Alla fine non è un caso che
d e L’ a s s e n z a s i a n o p r e s e n t i
due versioni, la prima sbrigliata lungo asciuttezze ritmiche Underworld e sulla di loro
strisciante
stilizzazione/trasfigurazione degli eighties, la
seconda preferibile per quell’abbandono soul tra synth
alieni, un piano “ingenuo” e il
gioco d’archi avvolgente. Una
dimostrazione di versatilità,
certo, che però tradisce anche
la mancanza di una direttrice
preminente: resta la sensazione che avremmo potuto imbatterci in altre due, tre, dieci
versioni dello stesso pezzo,
anzi di ognuna delle canzoni
in scaletta. Trovare l’inappellabile versione di se stessi
sarà il prossimo esame per i
Dottor Livingstone. (6.3/10)
Stefano Solventi
Early Man - Closing In ( Matador/Self, 2005)
La prima notazione fondamentale che viene alla mente durante l’ascolto degli Early Man
riguarda l’etichetta che lo licenzia: come diavolo è possibile che la blasonata Matador Records, già al lavoro con
personaggi di grande calibro e
stimatissima label dedita alla
divulgazione di una sorprendente varietà di generi musi-
cali abbia deciso di dare alle
stampe questo Closing In?
Il dilemma si rende sempre
più ossessivo man mano che
i brani si sostituiscono gli uni
agli altri, vomitando una febbricitante agonia di chitarroni come non si sentivano da
trentacinque anni a questa
parte. I Motorhead come, fortunatamente, non li avete mai
sentiti, con voci in falsetto e
non una sola nota di originalità o quanto meno di ironia.
Non dubito però che qualcuno
li possa comunque apprezzare, il cattivo gusto è proprio di
questo mondo. (2.0/10)
Michele Casella
FdB – Manuale per funambolisti (K-Factor / Venus, 2005)
Chi siano i funambolisti del titolo del debutto discografico
d e g l i F. d B n o n è d a t o s a p e r lo. Certo è però che i quattro
musicisti nascosti dietro alla
sigla non danno l’impressione di essere gente a cui piace
perdersi in disquisizioni inutili, impegnati come sono a far
urlare le chitarre, picchiare la
batteria e vibrare le corde vocali.
Se ne sarebbe accorto anche
un bambino, figuratevi se poteva sfuggire ad uno navigato
come Giorgio Canali, che qui
approfitta dell’occasione per
indirizzare le spinte creative
della band in almeno un brano
- ?Maida - pescando a piene
mani da quell’immaginario ruvido e graffiante che è la sua
attuale estetica di riferimento.
L’ i n t e r v e n t o c i r c o s c r i t t o d e l l’ex C.S.I. nobilita il suono
e influenza il mood di tutta l’opera, a testimoniarlo lo
schema doppia chitarra, basso, batteria su cui si regge il
disco. Una soluzione strumentale che sfiora territori quasi
punk nella già citata ?Maida,
alternanze dissonanti in Ecco
un esempio, stoner da appartamento in Genetica, quattro
quarti in bilico tra silenzi e
rumore in 102 anni.
A cavalcate di watt talvolta
non lontane da certi – vecchi
– Afterhours, si alternano momenti di stasi riflessiva che,
pur tradendo una certa ricerca
– soprattutto nei testi - paiono tuttavia meno incisivi delle
prime, in virtù di scelte melodiche non del tutto chiare e
per qualche incertezza formale.
Si parla tuttavia di facezie più
che di difetti veri e propri, che
non impediscono di considerare Manuale per funambolisti
un’opera comunque riuscita.
(6.0/10)
Fabrizio Zampighi
Marta Sui Tubi - C’è Gente
Che Deve Dormire (Eclectic
Circus / V2-Edel, ottobre
2005)
Due anni dopo il debutto, i
Marta sui Tubi ritornano ancor
più potenti di come li avevamo lasciati. Parlano, cantano,
sussurrano, lasciano in libertà
le frequenze radio, si ficcano
il r’n’r nelle vene (omaggiando
i padri Beatles con una rispett o s a To m o r r o w n e v e r k n o w s ,
oppure chiamando Bobby Solo
quale inopinato – ma plausibile - cerimoniere), rappano
con il piglio acido dei Red Hot
Chili Peppers, chiamano amici
e compagni di sventura a cantare e controcantare (Moltheni, Benvegnù, Enrico Gabrielli, Sara Piolanti), si scavano
dentro una nostalgia che sa
di qualcosa lasciato indietro,
non-dimenticato, indigerito…
Già dalle prime note, da quella
Via Dante che rende cosmica
un’insoddisfazione periferica
(tra Jimmy Page e la tarantella, tra Dante Alighieri e – appunto! - Bobby Solo), l’album
mostra tutta la forza che sciorinerà senza sbavature lungo
l ’ i n t e r o p r o g r a m m a . Ve r a c e l a
meridionalità, sgorgante il testosterone, palpabile il colore
sulla pelle e blasfemo l’amore
per la melodia nostrana. C’è
molto sberleffo, ironia, gioco
di italiani emigranti che rifanno gli italiani all’estero, pro-
verbiali pasticche emo-energetiche che un po’ – ebbene
sì - fanno pensare ad un’altra
coppia magica del rock, Eddie
Ve d d e r e S t o n e G o s s a r d ( c o m e
in Perché non pesi niente,
scioglilingua a voci intrecciate con la chitarra a spandere
clangori ritmici e armoniche
speziate, oppure nella ballata
amarognola di La tua argenteria, dove gli struggimenti
Ve d d e r s i s t e m p e r a n o c o n u n
Dalla giovane visionario).
L’ a l b u m r e s p i r a d i u n a c i t t à .
È Milano. Milano che sostituisce la sonnolenta e placida
Bologna. Quel capoluogo che
macina le ore, che non dorme. I Nostri lo vivono con il
proverbiale spirito degli emigranti di giù, dei compagnoni
che dopo pasta-al-sugo-condominio escono per le strade
e rantolano, sognano, s’ubriacano. Nervosi lo erano prima, agitati lo sono ora: ma è
quello stato insofferente ed
esuberante per nulla parente dello stress dei cittadini
della metro, neppure del via
e vai delle case e degli uffici. Una nevrosi fruttuosa che
sfocia nell’art-rock à la RUNI
d i L’ a m a r o a m o r e ( t r a p u n g o li sintetici e ritmica funk, tra
bass-clarinet e febbrili accelerazioni) e nel folk-blues di
Ti mento (che rimanda a certo
John Martin indemoniato), trovando un principio di requie
nel folk blues di Cenere, dove
i vocalizzi ossequiano una lunare inquietudine da fare invidia al primo (e migliore) Dave
Matthews.
Ok, un po’ si sono imborghesiti, certo, ed è un bene finché
significa guadagnarci in consapevolezza, ciò che li rende
capaci di giocare in libertà
con le strutture, sciorinando
u n a d i s i n v o l t a L’ a b b a n d o n o ,
nuda e cruda e complessa assieme, con quel quasi-recitato
nostalgico/esistenziale che va
a risolversi nelle ostinate sovrapposizioni di archi e voci.
Il loro, ora più che mai, è il
viaggiare da Italiani Storici,
di chi si muove là dove li porta il lavoro. E la vita. C’è bisogno di loro. (7.5/10)
Stefano Solventi e Edoardo
Bridda
Forastiere - Circolare (Accordature Aperte/3Lune
Records, ottobre 2005)
Il pop-rock è una bolgia, un
circo, un tugurio: si sgomitano sensazioni in eccesso, iridescenze caudali per riff turgidi, dozzinali uncini melodici
un tanto a spot, accumulo stilizzato di pattern e strategie
di seduzione. Forastiere, invece. Pino Forastiere si presenta con un’opera seconda
che
probabilmente
nessuno
troverà il tempo di amare, o
quel poco di forza che basterebbe ad affrontarla, a confrontarla con quel che dentro
circola e cova. Una chitarra. E
basta. Null’altro, perché non
c’è modo di infilare nell’elenco dei credits la materia di cui
sono fatte queste tracce (canzoni?), traiettorie incrociate e
singulti in bilico e meditazioni da cantilena serale mentre
l’oriente veste e sveste umori
l a t i n i . L’ a n i m a d i F o r a s t i e r e
è indigena e forestiera: gentili follie folk-blues, riverberi
tiepidi e sospensioni delicate,
sudamerica e oriente, il fingerpicking che collassa su pennate sferzanti, la melodia che
si estenua per abdicare d’un
tratto al richiamo del ritmo. I
miraggi Red House Painters
dell’iniziale In.Out o l’invasamento John Martyn di Full.
Oppure la ballata fiabesca,
un po’ filastrocca per bambini un po’ trepida meditazione
adulta, di Lo gnomo. Oppure
l’avvitarsi di una serafica uggia Tim Buckley nei trapassi
blues, nelle vibrazioni tese,
nelle ostinazioni angolose di
Dominic (dedicata a Dominic
Frasca, musicista sperimentale newyorkese). Oppure il
J a m e s Ta y l o r c o l t o d a e s t a s i
muta di Ripresa, o gli esotici struggimenti Jim O’Rourke
di Nordamerica. Oppure quel
sentireascoltare 47
soffio mediterraneo che da
Scirocco (traccia numero 9) a
Moresco (traccia 12 e ultima)
carezza lieve tentazioni da
tarantella blues, i riff corposi
che s’inclinano rock (Marecorrente), spampanandosi jazz,
ombreggiandosi flamenco.
Furtiva e solenne, ma sempre
di una gentilezza imbarazzante, la musica di Forastiere non permette alla tecnica
(puntuale, puntigliosa, rodata
da esperienze in ambito etnico, jazz e sperimentale) di soverchiare la comunicativa. Ne
risulta un disco prezioso, un
disco-isola che ha l’ambizione un po’ disperata di definire
punti di contatto e connessione più vivi, col mondo e nel
mondo. (6.9/10)
Robb – genuflesso sul mausoleo di Strummer – e dal fascio
di chitarre (ben tre) intento a
stampare pleonasmi post-’78.
Non basta quindi l’apprezzamento di un Morrissey (la cui
influenza peraltro si rintraccia
nell’uso dei cori) a sollevare
questo quarto album dei Goldblade al di fuori dei confini
del genere, nel cui perimetro
invece costituisce sicuramente un evento. (6.0/10)
Lorenzo Filipaz
Liz Janes & Create(!) - Self
Titled (Asthmatic Kitty /
Wide, 4 novembre 2005)
Non c’è molto da stupirsi a
leggere del successo che i
Goldblade hanno riscosso in
Russia, non solo per le inflessioni nazionali che il pubblico dell’Est può aver colto in
un brano come Stereo Gangsta, ma soprattutto per via
dell’identità
ultra-territorializzata che il gruppo inglese
spiattella visivamente e musicalmente, di facile presa presso culture “vergini” più sensibili alle “uniformi” di genere.
Così
proclami
anti-governo
Forse è presto, dopo appena
due album in studio (marchiati a fuoco nel suono e nella
p r o d u z i o n e d a M r. A m e r i c a
Sufjan Stevens), confrontarsi
con il passato, se poi parliamo di un passato ingombrante come quello dell’America
rurale, fatto di folk, gospel,
spiritual dalla forte connotazione religiosa e dalla grande
valenza che in quella cultura
assumono. Potrebbe sembrare
- e non nascondiamo il dubbio
che in realtà lo sia - un riempitivo, un modo per ovviare
alla mancanza d’ispirazione,
un po’ quello che succede con
i cover album.
Ci si accosta così con una certa diffidenza a questa omonima nuova uscita di Liz Janes
e del collettivo free jazz Create(!), di casa a Los Angeles,
(sacrosanti, per carità), ribellismo proletario e punk melodico in abbondanza convergono al millimetro con look, note
di copertina e titoli battaglieri. Non mancano le sporadiche uscite dagli schemi: oltre
alla già citata kalinka punk di
Stereo Gangsta, un surf marpione da Pulp Fiction spunta
dalle note di Fighting In The
Dancehall, mentre il classico
riff di Jack The Ripper alimenta All We Got Is Rebel Songs e un’anomala anima swing
si manifesta in Government
Lies. Ma il tutto è seppellito
sotto il rauco canto Oi di John
che senza troppe remore vanno a ripescare vecchi standard
tradizionali rimpolpandoli di
fresca linfa vitale. Il risultato, contro tutte le aspettative
e le rimostranze del caso, è
notevole, ma d’altronde che
la ragazza avesse una certa
familiarità e sapesse maneggiare con estrema cura la materia era già evidente con il
precedente Poison & Snakes
(2004).
In questi sei brani la maturità della sua voce cresce, mostrando le sue complesse architetture, tra acute volte e
profonde cripte, sminuzzando
Stefano Solventi
Goldblade – Rebel Songs
(Captain Oi / Foreign Affairs,
2005)
48 sentireascoltare
gli arrangiamenti e ricomponendo i pezzi a suo piacimento, nella prospettiva di una
moderna destrutturazione della memoria storica. Ed ecco
che Lonesome Valley diventa
una ballata cristallina dai colori del mare, con l’arpeggio
di chitarra ad indicare la rotta
e il banjo a illuminarla, mentre Be My Husband sprofonda, trasfigurata, in un abisso
di rumori, di colpi di spazzole e piatti che accompagnano un sussurro greve (affine
per trasporto e pathos alla
versione di Nina Simone), lo
stesso vale per il ronzio di All
The Pretty Horses, tre minuti di preghiera pagana. Con
Jesus Is A Dying Bed-Maker
l’orizzonte si apre a influenze jazzistiche più canoniche,
volatili, ma non per questo
imprecise, tutto il contrario
di quanto succede in Run, Old
J e r e m i a h / K e e p Yo u r H a n d
On The Plow, in cui la sezione
ritmica (percussione e battiti
di mani) guida un accelerato
blues aperto da un classico
coro gospel, con la voce di Liz
imbevuta di alcol e arrochita
dal fumo. Sigilla questo excursus una tenue Careless Love,
che si innalza tra controcanti
e fiati penetranti, a ricordare
quanto un classico possa far
bene all’anima. Non un lavoro originale dal punto di vista
compositivo, dunque, forse a
tratti anche frammentario, ma
sicuramente una lodevole rivisitazione che mostra il coraggio e il carattere di Liz Janes,
in attesa di avere presto sue
notizie. (6.9/10)
Va l e n t i n a C a s s a n o
Jonathan Kane - February
(Table Of The Elements /
Wide, 2005)
Cofondatore degli Swans, chitarra ritmica di Rys Chatman
e L a M o n t e Yo u n g , J o n a t h a n
Kane, al primo lavoro solista
della sua proteiforme carriera, cita compulsivamente lo
stratificarsi del sound chatamiano, ottemperando alla pro-
recensioni
Why?
Elephant Eyelash (Anticon, 2005)
Che la fine dei cLOUDDEAD abbia portato alla scissione di
quell’anima una e trina che ha generato due tra i migliori dischi
di inizio millennio, lo si era già notato nell’esordio solista di
Odd Nosdam e nella miriade di progetti solisti messi in campo
con una disarmante prolificità da Dose One. Una scissione che
ha messo in risalto gli ingredienti costituenti il sound del trio:
da una parte l’ambient, dall’altra l’hip hop più sperimentale e
avanguardista. Ascoltando Elephant Eyelash si capisce subito
da dove proveniva quel terzo elemento, quella spiccata vena
m e l o d i c a e p i ù s i n c e r a m e n t e p o p c h e c a r a t t e r i z z a v a Te n .
U n t e n t a t i v o s p i a z z a n t e q u e l l o d i Yo n i W o l f a k a W h y ? , c h e s i
improvvisa cantautore. Un tuffo nel pop che si lascia alle spalle le esperienze precedenti in
maniera più radicale rispetto agli altri due ex compagni d’avventura.
Il musicista di Oakland non si allontana mai dalla forma canzone, dando molto spazio alla chitarra e al pianoforte, ma senza tralasciare le tessiture elettroniche in perfetto stile Anticon. Un
azzardo per la stessa etichetta newyorchese, che per la prima volta promuove un album molto
lontano dai suoi pur molto ampi confini musicali.
La delusione di chi ha amato i cLOUDDEAD potrebbe essere molto forte al primo ascolto. Eppure
(almeno è quello che è successo a me), questa delusione lascia il posto molto velocemente al
sincero e piacevole sentimento di leggerezza che può suscitare un buon disco pop. E non dico
avant perché la parola non gli si addice.
F r a s i s e m p l i c i , r i t o r n e l l i p o c o a r d i t i m a c h e s p e s s o f u n z i o n a n o a m e r a v i g l i a ( R u b b e r Tr a i t s ) ,
l’hip hop appena sfiorato di Crushed Bones, canzoni che starebbero benissimo (e magari gli
donerebbero un po’ di freschezza in più) in uno degli album degli U2 (Gemini; il riff di chitarra
di Sanddollars che sembra quasi campionato da Zooropa), una voce fragile, mai sopra le righe,
a tratti ingenua e delicata.
N o n m a n c a n o l e b a n a l i t à ( l e r o m a n t i c h e r i e u n p o ’s c o n c l u s i o n a t e d i Yo Yo B y e B y e ) , c o m p e n s a te ampiamente dalle atmosfere un po’ più tese di Waterfall, il pezzo che più ricorda il recente
passato di Why?
Alla luce di questo esordio il signor Wolf sembra avere buone possibilità, viste le premesse,
di uscire dalla penombra in cui amano muoversi gli artisti della Anticon e proiettarsi verso un
pubblico più indifferenziato e meno radicale. In parte ci auguriamo che questo avvenga, considerato l’apporto che la sua ottima vena di songwriter potrebbe fornire al pop. Ma che non se
ne allontani troppo.. (6.5/10)
Daniele Follero
sentireascoltare 49
pulsione seventies del krautrock alla Neu!. Peccato, si
fa per dire, dover fare i conti con il blues… Cinque brani
cinque d’eccellente, decibelistico, power blues minimale e
giudizioso; ispirazioni dilatate, quasi cosmiche; una mente
autostradale, proiettata nelle
ombre di ciò che è a venire. Il
viaggio inteso più come tappa che come trip, salva però il
nostro dalle secche orchestral i . L’ a l b u m c o n f e r m a a n c h e l e
personali, di tappe: la storia di un uomo e di un artista
di culto e, se nel traditional
Motherless Child, si possono
auscultare lagne di psicopatologia autoreferenziale, in Curl
avvertiamo un senso di familiarità pregressa. Una nostalgia. Un blues catartico alligna
sopra un drumming solido e
ingenuo, dronico. Certi Skullflower tornano a ronzare alle
orecchie,
quantunque
l’approccio fiorisca radicalmente
diverso. Prendere un riff non è
difficile; alterarlo, addizionarlo, sottrarlo, tenere un buon
ritmo senza annoiare: questo
non è tanto facile, come attesta un esagerato numero di albums tediosissimi troppo frettolosamente distribuiti.
L’ a n i m a d i q u e s t i s u o n i , t u t t a via, è morfinomane ma con un
cuore diastolico che non crepa mai. Lo si capisce fino alla
fine, in quel dead end in cui si
caccia per altri 12 epici minuti
di circolarità a pelle, sanguigna, lavica di colate deltoidi. Pops riduce notevolmente
le distanze, un melting pot
senza gloria, e Sis immagina
un’ipnotica
ballata
scheletrale, minimale e saltellante,
una totentanz di krafterkiana
pulsione. Profondità dense e
tremendamente entranti, perigliose; albeggi impressivi,
brividi di futuro. Un avvenire evocato in backwards e in
forwards, all’unisono. Il tipo
di suono affabulatorio, tintinnante, appestato: una musica che possiamo raccogliere in una notte di luna piena
50 sentireascoltare
in qualche sperduto villaggio
fantasma
dell’Aspromonte,
lontano dai bagliori del rumore e col classico whiskey
stretto in mano. Come nella
Ta v o l a d e g l i E l e m e n t i , a p e r i o dica però. (7.2/10)
Antonio Amodei
Kill The Thrill – Tellurique
(Season Of Mist / Audioglobe,
2005)
Formatisi nel 1989 a Ginevra, i Kill The Thrill vantano
un curriculum di tutto rispetto. Nati come trio, Nicholas
Dick (voce, chitarra e prog r a m m i n g ) , M a r y l i n To g n o l l i
(basso voce e programming) e
Frederick de Benedetti (voce,
chitarra e programming) hanno esordito al fianco di mostri
– quasi - sacri del rock anni
’90, facendo da supporto ai
concerti di Killing Joke, Big
Chief, Einsturzende Neubaut e n e Yo u n g G o d s . L ’ i n f l u e n z a
diretta di questi ultimi è particolarmente evidente nella musica dei tre svizzeri, complice
la produzione di David Webber (Treponem Pal e, appunto,
Yo u n g G o d s ) p e r i l p r i m o a l bum della band, Dig (1993).
Dopo la pausa di De Benedetti, assente nel secondo album
del 1996 Low (assenza che ha
propiziato la collaborazione
esterna di Erkam), il trio si è
ricompattato in occasione della terza uscita, 203 Barriers
(1999) ed ha provato a contenere la furia degli esordi attraverso una musica che, pur
attingendo a generi di per sé
“estremi” come l’industrial, si
mostra più attenta alla composizione e meno spigolosa
nelle sonorità. Sono queste
le premesse che conducono
a Te l l u r i q u e , q u a r t o c a p i t o l o
della discografia dei Kill The
Thrill.
Per
quanto
l’impostazione
e il sound nel suo complesso richiamino il metal nelle
sue espressioni più “pesanti”
( d o o m , s t o n e r, i n d u s t r i a l - m e tal), non si ha mai l’impressione di ascoltare un disco
di genere. I suoni sono sempre molto corposi e compatti,
come se gli strumenti a suonare fossero il doppio. Difficile farsi un’idea immediata
di un disco in cui la pesantezza del doom aggraziato
dei Paradise Lost di Draconian Times va a braccetto con
le atmosfere ambient dei più
r e c e n t i Yo u n g G o d s e i l n e o industrial dei Nine Inch Nails. La tendenza ad atmosfere
ombrose e oscure, che in più
di un’occasione fa pensare al
dark (Like Cement), prevale,
in qualche occasione grazie
all’inserimento di tappeti di
tastiere (Mistaken Solutions).
Questa sorta di doom- industriale lascia a volte il posto
a tecnicismi interessanti e
non gratuiti che fanno pens a r e p e r u n a t t i m o a i Vo i v o d
(Head); altre a un approccio
più puramente rock che li trasforma in dei Motorhead futuristi (Permanent Imbalance).
Se si aggiunge il richiamo ai
Godflesh di Streetcleaner (Us
And Them) e lo spiazzante finale in stile Pink Floyd (!),
con tanto di tastiere tenute
e chitarre ululanti di The Finish il quadro è completo. Si
definiscono un crossover tra
metal, industrial, post-rock e
new wave. Cosa abbiano a che
vedere con la new wave è davvero un mistero. Ma va bene
lo stesso. (7.0/10)
Daniele Follero
La Crus - Infinite possibilità
(Warner, ottobre 2005)
Il nuovo disco dei La Crus –
settimo lavoro in dieci anni è una triplice manifestazione:
letteraria, grazie al racconto
di Leonardo Colombati contenuto nel libretto; cinematografica, in virtù del DVD allegato
dove dieci “corti” provenienti
da varie edizioni del Milano
Film Festival sono riadattati
alle canzoni del disco, divenendone perfetti video-clip;
e, ovviamente (?), musicale.
Tre momenti che s’integrano
senza pestarsi i piedi, senza
togliersi spazio o angolazione o visuale, anzi arricchendosi spesso e volentieri l’un
l’altro. Per limitarsi al disco
e alle canzoni, potremmo sbilanciarci affermando che la
ditta Giovanardi & Malfatti ha
conseguito con Infinite possibilità l’ideale compimento del
proprio percorso artistico, di
una carriera forse non eccelsa però ricca di spunti, dalle
traiettorie non sempre prevedibili (non si passa da Piero Ciampi all’elettronica così
tanto per fare, senza talento
da spendere e pegni da pagar e ) . L’ i n t e n z i o n e è f i n d a s u bito chiara: asciugare le forme, sottoporle ad un “levare”
sapiente, ricoprirle di patina
trepida ma equilibrata, quindi abbracciare tutte intere le
istanze del pop d’autore, infilandosi nel solco tra modernità e tradizione.
I risultati sono buoni, a tratti
molto buoni: capitano così valzer-soul segmentati da crude
apprensioni dEUS (Giorni migliori); capita d’incrociare il
p a s s o d i Te n c o t r a a s c e n s i o ni pop-prog Tiromancino (La
prima notte di quiete, ospite
a i c o r i M a r i o Ve n u t i ) ; c a p i t a
che certe brume David Sylvian
convivano con una magra trepidazione Andrea Chimenti tra
glitcherie e percussioni sparse à la Mùm (nella title track);
capitano esili algori funk in
stile Royksopp (Libera la mente) e arpeggi R.E.M. tra liquorose inquietudini soul (I miei
ritratti).
Capita
soprattutto
una Su in soffitta che strascica penombre tra slittamenti
tropicali(sti) rimembrando un
po’ il Tim Buckley di Blue Melody e un po’ il Nick Drake di
F r u i t Tr e e , p e r n o n d i r e d e i v o calizzi pastello in stile Wyatt
del bridge: nomi grossi, certo,
però sono un bendiddio che si
mantiene lieve e sospeso, in
una luce di discreta riverenza, senza che alcuna velleità
ne macchi l’esito. Una semplicità non semplicistica ma illuminante, la stessa che muove
il pop vivace e screziato di
Mondo sii buono, in splendido contrasto con l’allarmata
invocazione del testo (ispirato alla poesia Al mondo di Andrea Zanzotto).
Proprio come la migliore poesia,
Infinite
possibilità
sa
essere generoso e discreto,
serbatoio di sensazioni (speranze, desolazioni, amarezze,
epifanie...) a rilascio graduale. Pop per cuori agili, che
indugiano sulla profondità di
ogni superficie. (7.2/10)
promozione entrambe le band
potrebbero conquistarsi spazi
più ampi, sempre che ciò rientri negli intenti. (7.0/10)
Lorenzo Filipaz
Maltomini Marco - Animal
Ferox (Alpha South / Audioglobe, ottobre 2005)
Come sta messo il garage in
Europa? La Nicotine Recor-
Un Rino Gaetano depravato
Squallor (La vagabonda); gli
Skiantos falcidiati da crudeltà
Breat Easton Ellis; filastrocche Dylan Dog rilette da Sukia
( L’ a n i m a l e ) ; u n B u g o h o u s e funk senza più argini né residua decenza (Merda); una
Donatella Rettore convertita
al più lercio pseudo-punk; un
Cristiano Malgioglio posseduto
(gli piacerebbe...) dal più laido Iggy Stooge (T’ammazzo).
Lurido come un Lou Reed di
d s d i To r t o n a c i s p a r a q u a t t r o
colpi di risposta, due per fronte: al di qua e al di là delle
Alpi.
I francesi Hi-Fi Killers (nome
mutato dal primo stage-name
d i K i m F o w l e y, H i p p i e K i l l e r,
nessun contatto ovviamente
con l’omonimo duo dub-reggae) lamentano la sciatteria
del cliché garage-punk fatto
di giacche di pelle, jeans rotti
e magliette che vanno strette, loro lo fanno elegante! La
loro proposta musicale, ruvida
e rauca quanto basta, è pure
insolitamente
stilosa,
nella
costruzione del riff e nel dispiegarsi di voci e strumenti,
specie nella travolgente Get A
Move On. I vinili degli MC5 e
prima ancora degli Stones vegliano dall’alto sorridenti.
I nostrani Los Dragos puntano invece di più su un edonismo cantinaro fatto di ritmo
incalzante e indiavolate basslines, avvicinandosi a realtà contemporanee come Cato
Salsa Experience o l’ultimo
Billy Childish ma ad una velocità decisamente più vertiginosa. Attitudine in abbondanza su entrambi i lati di questo
sette-pollici, a dimostrazione che il Continente non sta
a guardare. Con un po’ di più
plastilina avariata, fatiscente
come dei CCCP lobotomizzati (Elettroshock), sciamannato
e vetroso come una Loredana
Berté all’ultimo stadio. Grado zero? Quasi. Troppo atroce per suonare demenziale,
un gorgo squallido e beota di
testi, suoni, melodie inqualificabili. Da non crederci, da
non volerci credere che possano somigliare così tanto a
quel che brulica ad altezza di
marciapiede. In certe periferie, in certe stanze, in certe
feste, in certe teste. Non caricaturale, non parodistico, ma
reale fino all’iperreale, fino al
patologico. Erotico come un
bubbone nel pieno della purulenza. Sventato, non procrastinabile, grottesco.
E poi? Poi Maltominimarco ti
spara due cover stoniane, riscrivendone il testo a modo
suo: una Sono il tuo re che
rifà Paint it black in chiave
sadomaso, e soprattutto quella Gay che rende Sympathy
for the devil sardonica, scostumata, febbrile al punto da
funzionare alla grande, surclassando ad esempio la bolsa rilettura Guns and Roses
(ok, non ci voleva molto). A
dire il vero, c’è anche un’altra
cover non “dichiarata”, quella
Stefano Solventi
Los Dragos / Hi-Fi Killers
(The) – Split EP 7” (Nicotine,
2005)
sentireascoltare 51
Op negra chiaramente debitrice di Hey negrita, nel segno di una sbracata e irrecuperabile scorrettezza. Grado
zero? Di più. E poi, non ti va
a chiudere il programma con
un’allucinazione cupa, spiazzante, un gorgo folk zeppeliniano, malsano e fuori fuoco,
strascicato e antico, come un
Branduardi sotto benzedrina
o un Langhorne Slim senza
più cuore, il blues stregato
da una notte di mefitico trasalimento (La dolce morte)?
Potete scommetterci che lo
fa. Questo teppista dell’antirock’n’roll. Questo pezzo di
genio. (7.1/10)
Stefano Solventi
Midaircondo - Shopping For
Images (Type / Wide, 7 novembre 2005)
Ve n t o f r e d d o d a l l a S v e z i a . A
portarlo sulla penisola italica
sono le Midaircondo, tre giovani fanciulle di Gothenburg:
Lisa Nordström, Lisen Rylander e Malin Dahlstrom. Impegnate per tutta la scorsa estate in una intesa attività live
culminata nella performance
del Sonar di Barcellona (ma
hanno anche partecipato al
Kals’Art di Palermo), approdano finalmente al disco d’esordio, Shopping For Images. Ed
ascoltandolo non è difficile
credere ai commenti entusiastici che, in contemporanea
con il loro girovagare, si sono
accumulati, come se di volta
in volta il pubblico fosse stato
inconsapevolmente sedotto.
Punto di forza, infatti, è la dimensione immaginifica che la
combinazione di laptop, synth e strumenti acustici (voce,
sassofono e flauto) porta con
sé e che si concretizza, in
sede di live, nelle sperimentazioni visuali da loro stesse
costruite.
Spazi infiniti di desolato romanticismo, castelli di sabbia di ineluttabile malinconia,
profondi respiri di struggente
inquietudine si sposano alle
eteree latitudini musicali che
52 sentireascoltare
le ragazze vanno ad esplorare, dall’opener track Eva
Stern, Shake It (reiterazione a-temporale per sax, flauto, voci e beat cardiaci) al
m a n t r a b j ö r k i a n o C o u l d Yo u
Please Stop (loop industriali
e basso insistente a complicare un crescendo di synth e
stratificazione vocale), dall’abbacinante luccichio pop di
Serenade (un cantato pieno
e avvolgente stagliato su un
morbido eco di piano, sortilegio del terzetto Delay/AGF/
Armstrong) all’improvvisazione di Coffeeshop e Lo-Fi Love
(mesmerica
sovrapposizione
industrial).
Luoghi della fantasia spiati dal buco della serratura di
una porta microscopica, dove
per entrare è necessario sapersi tramutare in ombra e
scivolare sotto di essa. Un
altrove in cui si affacciano
il jazz sfilacciato di Susanna
Wallumrød (le cupe e sensuali
inflessioni di Sorry in un caffè
di periferia) e le chincaglierie
giocattolo di Colleen (Who’s
Playing), un minimalismo che
per contrasto si nutre di una
fervida immaginazione e che
potrebbe sembrare, di primo
acchito, freddo, se non addirittura glaciale per la sua
astrazione. Ma il segreto, per
chi voglia addentrarsi in questi cunicoli visionari, è l’abbandono, il trasporto, il sentire con la totalità dei sensi
ancora prima che con le orecchie, ciascuno inseguendo le
proprie chimere. Proprio come
le tre Midaircondo provano a
suggerire nelle loro creative
performance live. (7.0/10)
Va l e n t i n a C a s s a n o
Mr Brace - Salvate il mio maglione dalle tarme (Tafuzzy,
2005)
Mr Brace ha messo su famiglia. Non più solista fiancheggiato da benevoli amici ma
quasi-gruppo e si sente, non
solo perché la strumentazione
risponde di più a quella di una
band (più batteria, più elettri-
ca, più pianoforte), ma soprattutto per il raffinarsi dell’intreccio musicale: si acuisce la
“psicologia sonora” del disco,
la punteggiatura, i rimandi da
canzone a canzone, di pari
passo
all’impreziosirsi
dell’arrangiamento – veramente
sorprendente alla luce della
totale indipendenza in fase di
produzione. Scenari che come
al solito impattano con i testi
stralunati dell’autore, i quali
a lungo andare t’intontiscono neanche avessi fumato un
prato di cactus, infilandoti nel
cervello metafore e sinestesie
che - come quando la lucidità
latita - non sapresti se definirle cripticamente geniali o irrimediabilmente cretine (intuito
a bolle che continuano a scoppiare…). Ma il mestiere della
sciarada di Mr Brace è cresciuto anzichenò, come si ravvisa
dal gioco di rime e assonanze
di Ieri che denota un’originale attitudine a ghermire quotidiane banalità ‘sì da cavarne
l’assurdo per accostamento Salame & Caffè per l’appunto. Tutta farina che ingrossa
il sacco del Nostro il quale,
anche grazie alla dimensione
più collettiva, si slega dalla
sudditanza a Mr Oldham consegnadosi ad un’estetica dello sbilenco amica - non allieva
– di Waits e Capossela (Baricentro), Banhart e Bugo (Salame & Caffè), anche perché
il nonsense qui s’increspa in
superficie e lascia intravedere
altro, magari una grande canzone, anche se per un attimo
(Io Chi Sono). Ruggine poi,
col suo video rutilante ad opera di Francesca Grilli e Alessandro Cavallini, ci farebbe
godere non poco se passasse
per qualche rete televisiva ad
ora di pranzo. (6.7/10)
Lorenzo Filipaz
Mujaji - On a Bridge Between
Clouds (Nomadic, novembre
2005)
Te r z a p r o v a t a r g a t a M u j a j i
(per i curiosi: googleggiando si evince essere il nome
recensioni
Susumu Yokota & Rothko
Distant Sounds Of Summer (Lo Recordings / Wide, 2005)
Bisogna sciogliersi talvolta. Se non ce la fate con quest’album,
difficilmente troverete attualmente di meglio. Questa collabor a z i o n e d i Yo k o t a c o n l ’ a v a n t p i o n i e r e R o t k h o a p p a r e l a p i ù
accessibile, andando a memoria. Una mistura di voci sublimi,
quelle della Caroline Ross, basso risonante e spazi infiniti di
creativo tour de force minimale che ovulano bellezza e profondità chiaroscurali. Vicine, talvolta, alle calme inquietudini di
u n p a c i f i c o R y C o o d e r, i t o n i d i a f a n i e c r i s t a l l i n i d ’ a d a m a n t i na suggestione, suggeriscono elegie di sensibilità british folk.
Ta l a l t r a , i s i n g u l t i b e a t s e l ’ a m b i e n t s o t t o l i n g u a l e f u n g o n o d a
ansiolitica collisione con supernaturalistici scenari di reminiscenza Mad Lib. Nessun senso di confusa disparità, nessuna
malcelata inquietudine: coerenza e perdita, un meraviglioso pannello di suoni dal mondo crepuscolare dei rifrangenti marini. Un master di sottigliezze, un classico per generazioni laptop,
elegante e sperimentale, generoso, classico ed elettronico, sublime capolavoro d’evocazioni
spirituali. Un fantastico contemporaneo entro cui immergersi e perdersi. Come un pittore di
strada, Rotkho crea in gigantesco acquerello di colori spumeggianti, frattalici, frecce dritte al
cuore, momenti d’appropriata beltà. Probabilmente uno dei più intensi lavori dell’anno, avvolgente, accattivante, una collaborazione rimarcabilmente triste, atmosferica, stranita.
Nonostante l’apertura di Deep in Mist, ammiccante crossover intriso di bit, Waters Edge tarantola con Steve Reich, mentre un curioso 4/4 alla Clash tachicarde Path Fades Into Forest. Lit BY
Moonlight smeriglia un fraseggio greeniano (Peter) sopra un tessuto di marimbas; Clear Space è
u n v e l l u t a t o e d a c c e s s i b i l e , e s t e t i z z a n t e e “ s h a d e o s o ” s o u l a l i e n o . L’ a r c a n o p a n ì c o , a p o t r o p a i c o
e magnogreco, fenomenizza Reflections and Shadows, tentato dall’aletheica mostruosità di una
Fata Morgana dove galleggiano i cucù. La chiusa di Floating Moon dispensa infine memorabili
mileux, evanescenze carezzevoli, patetiche, eleganti, emozionanti, etereoscopiche spemi dall’ignoto. Considerevole… (7.0/10)
Antonio Amodei
sentireascoltare 53
di una divinità africana della
pioggia), al secolo i due fratelli Jed e Seth, statunitensi
di Brooklyn, germogliati in un
bel humus hip hop e downtempo e infine convertitisi ad un
electro-pop piuttosto onirico e
obliquamente folk. Da qualche
mese si sono trasferiti sull’altra sponda dell’oceano, a
Londra per la precisione, portandosi dietro le bozze di queste canzoni incise in un paio
di appartamenti newyorchesi.
S u l l e r i v e d e l Ta m i g i d e v o n o
aver pescato le giuste vibrazioni, visto che a missaggio
concluso il risultato è un disco
mediamente buono e a tratti
buonissimo. Nell’insieme, le
undici tracce di On a Bridge
Between Clouds compongono
un programma compatto, imperniato sull’interazione tra la
visionarietà sonnacchiosa in
stile Radar Bros (sensazione
rafforzata dal disarmo timbrico della voce), cremosità spacey vagamente allucinate (tra
le iridescenze del Brian Eno
più abboccato e i primi Goldfrapp), incedere greve Arab
Strap (coagulato sul tumido
basso trip-hop) e rifrazioni
dolciastre come omeopatie My
B l o o d y Va l e n t i n e . S t a b i l i t a l a
formula - e conseguita grazie
ad un saggio utilizzo di chitarre, drum machine, organi,
synth e tapes - va detto che
il merito principale dei fratellini sta nell’aver dribblato in
souplesse il rischio (concreto)
della ripetitività, in virtù dell’assorta
trepidazione
della
scrittura, dell’accorta modulazione emotiva.
Si (tra)passa cioè dal caracollare brumoso di The Aim
(folk
ballad
masticata
dai
synth con effetto citazionista
Beck) alla dolcezza speziata
di Quiet Show (quel razzolare tenero fra chitarre e tastiere, tra cuori infranti e stelle
placide come un Badly Drawn
Boy raga), dal soul screziato della title track (alla voce
la brava Maria Solheim) allo
straniante post-errebì di But-
54 sentireascoltare
terfly (sintetizzatori eighties,
found sounds ectoplasmatici),
e ancora dalla quiete febbrile
d i To S t o n e ( i m p r o v v i s i i n c e n di di chitarra Grant Lee Buffalo) al folk-blues caliginoso
di Byrdseye Cabaret (un sardonico Steve Wynn trasfigurato electro). E’ un pop gradevole, in definitiva, condito
da quella giusta dose di fiele
e mistero, forse appena troppo sfuggente e de-sostanziato per covare sogni di gloria
commerciale, come dimostra
la stupenda Bobby Fischer
durante la quale, vuoi per la
malinconia sospesa, vuoi per
l’indefinita mestizia di quel
timbro vocale, vuoi per l’accorata serenità di quelle arpe
e quei flauti (sintetici), capita
di pensare al Nick Drake nel
guado tra ammiccamenti catchy e trepida pensosità. Non
potrebbe esserci chiosa migliore, immagino. (7.1/10)
Stefano Solventi
Julien Neto - Ler Fumeur de
Ciel (Type / Wide, 2005)
U n ’ a t m o s f e r a n o i r, r o m a n t i c a e
melanconica, aleatoria proprio
come il fumo dei camini parigin i s o t t o i l c i e l o s t e l l a t o d i Va n
Gogh, questo è Ler Fumeur de
Ciel, il primo album di Julien
N e t o p e r l a Ty p e n o n c h é i l p r i mo a suo nome. Non vi è traccia di ritmiche, soltanto synth
atmosferici, piccoli samples e
scrosci di nastri qua e la. È un
lavoro estremamente omogeneo, senza baratri di vacuità
ma neppure momenti d’accelerazione, il fluttuare delle note
segue infatti (e l’autore stesso a confessarcelo) un proprio
corso narrativo, come un libro
senza parole. Un cd prezioso.
(7.0/10)
Edoardo Bridda
Nine Horses – Snow Borne
Sorrow (Samadhisound / Self,
ottobre 2005)
Per i meno attenti un disco
come Snow Borne Sorrow potrebbe suonare inaspettato,
visto le sperimentazioni del
precedente Blemish, ma chi
segue con attenzione le vicende di David Sylvian sarà a conoscenza del precedente Out
In The Sticks, mini-lp accreditato a Sylvian, Burnt Friedman
e Jaki Liebezeit dove l’ex Japan (alla voce in una delle tre
song del mini) ritornava sulla
strada maestra del jazz da camera, della ballata d’autore;
il classico Sylvian, insomma.
Rimasto fuori dai nostri confini, quel mini vede la diretta
emanazione nel progetto Nine
Horses, sigla che vede il buon
David accompagnato dal vecchio collega (e fratello) Steve
Jansen, il citato Friedman, il
sempre fido Sakamoto e nuovi arruolati che rispondono a
Arve Henriksen (la tromba dei
Supersilent) e Stina Nordenstam.
Quindi, addio totale alle avanguardie di Blemish? Lungi da
noi affermarlo, resta il fatto
che Snow Borne Sorrow non
ha niente di quel disco se non
la voce di Sylvian, che torna
protagonista al cospetto di arrangiamenti che lavorano per
la sua indistinguibile tonalità
come dimostra il soulful jazzato di A History Of Holes, ennesimo saggio di eleganza in
musica graziato da un Henriksen che forse non sarà il Jon
H a s s e l l d i B r i l l i a n t Tr e e s , m a
in quanto a pathos non gli è
assolutamente secondo. Jazz
dalle sembianze noir anche per
Wonderful World, un sinistro
swing impreziosito dall’ugola
fanciullesca della Nordenstam
che dice la sua anche nel gospel sensuale di Atom And Cell
mentre Serotonin ricorda, con
quel suo mood dance, i Japan
più “dancefloor”.
Dicevamo prima di Out In The
Sticks, disco che qui rivive
in due canzoni come The Day
The Earth Stole Heaven (riarrangiata nel cantato, assente nella versione originale) e
una The Librarian resa sì bellissima da un intro che riprende la Obscured by 5 (da Secret Rhythms del 2002) della
coppia Burnt Friedman & Jaki
Liebezeit, ma il citazionismo
attuato (con gentile concessione degli interessati, presumo) non pregiudica il prodotto
finito che, per inciso, entra di
diritto nei classici dell’uomo.
Un disco che forse non sarà il
massimo dell’originalità questo Snow Borne Sorrow, ma
bello e rispettoso perché sincero parto di una mente che
dopo 25 e passa anni di carriera, riesce nell’impossibile gesto di “ripetersi” senza
scimmiottarsi. (6.8/10)
Gianni Avella
Osram – Inglese Subacqueo
(Zahr / Goodfellas, 2005)
Per qualche minuto sembra
che il miracolo si sia ripetuto ancora una volta. Il display
dello stereo segnala il primo
brano, Coniglio Miao. E, come
una fenice, il post rock risorge
dalle sue ceneri, rinnovando
il proprio stile e continuando
a produrre emozioni che scavano sotto pelle per colpire il
cuore. Poi, però, l’iniziale euforia va scemando. E alla fine
d e l l ’ u l t i m a t r a c c i a , Tr e n o D i
Sant’Anna, ciò che rimane è
un disco semi-strumentale che
è lontano dal lasciare importanti strascichi nelle orecchie
di chi ascolta.
Ed è un peccato. Perché i sardi Osram dimostrano di aver
appreso molto bene la lezione del post rock. Aiutati in
questo dalla mano esperta di
Fabio Magistrali in cabina di
regia, i quattro maneggiano
con sicurezza i propri strumenti. Ma se la confezione è
ben fatta – splendida in alcuni
casi – è il contenuto che lascia un po’ a desiderare. Anzi,
per essere più corretti, stanca. È come vedere lo studente
più bravo della classe che, a
un certo punto, decide di non
impegnarsi più e di vivere di
espedienti. Uno spreco di talento che lascia l’amaro in
bocca. Per cui non bastano le
incursioni rumorose di Calamauro Gigante per tenere alta
la tensione, così come serve
a poco l’esasperante lentezza
di Naso Pigreco, ballata dall’anima melodrammatica e psichedelica.
Se non altro gli Osram hanno
dalla loro una buona dose di
autoironia, come dimostrano i
surreali titoli scelti per i brani. E bisogna ammettere che in
un paio di occasioni dimostrano in pieno il loro potenziale
(la già citata Coniglio Miao e
la canzone che dà il titolo al
cd). Ma alla lunga Inglese Subacqueo manca di personalità
e di belle melodie. Non toglie
nulla al genere di riferimento,
ma neanche aggiunge qualcosa. (5.5/10)
Manfredi Lamartina
Panthers - Things Are Strange ( City Slang / V2, 2005)
Apparentemente selvaggi ed
intransigenti,
ritmicamente
esagitati e fisicamente sudaticci, i Panthers sorvolano la
nuova scena newyorchese per
proiettarsi dritti dritti nel periodo d’oro del rock’n’roll; ciononostante, la formula magica
che miscela gli MC5 con gli
Stooges stavolta non sembra
funzionare, tanto da lasciare
nel puro anonimato musicale
le dieci tracce che compongono Things Are Strange. Non si
tratta di cattive intenzioni o di
completa mancanza di talento,
il problema è che non si riesce
a scorgere un minimo accento
di originalità o di approccio
personale al furore rock causato dal continuo sfregare di
chitarre elettriche. Una bottiglia incendiaria scagliata nel
vuoto. (4.0/10)
Michele Casella
Pulse - Self Titled (Pippola
Music, 2005)
Pulse alias Marco Galardi,
batterista di lungo corso col
pallino dell’elettronica. Cioè,
come a dire, Pulse è il punto di convergenza delle esperienze ritmico-soniche di Galardi, una sezione del flusso,
una cristallizzazione dei fotogrammi. La restituzione di un
vissuto intenso e frastagliato:
the love you take is equal to
the love you make, più o meno.
Di più, forse. Come l’impasto
tra fusion pseudo-davisiana e
scenografie Blade Runner di
Sal’AAM Aleicum, ad esempio,
con quel sax a giocare tra fisicità e virtualità, col tramestio pensoso del drumming a
germogliare
nell’incertezza
tra solido e aereo, tra stabile
e impalpabile.
Vo l e n d o i p o t i z z a r e u n f i l o r o s so che leghi questi nove strumentali - dove Galardi sovrintende i tamburi (ovviamente) e
le macchine col non trascurabile aiuto di un pugno di amici
strumentisti - sembrerebbe più
una riflessione sulla giuntura
“in fieri” tra forme sintetiche
ed analogiche, su questa collisione che avviene da decenni (in spregio alla fulmineità
microprocessoristica),
che
non una mera esposizione dell’arte conseguita dal Nostro in
q u i n d i c i a n n i d i c a r r i e r a . Va
detto che quest’ultima opzione rischia talora d’imporsi,
come nella stancante efficacia danzereccia di Light (turgido funk digitale M.A.R.S.S.
style) o lungo l’icastica estenuazione gilmouriana di Aracnos (ruvidità wave tra fremiti
elettronici e pulsazioni cavernose come una scheggia
impazzita da Animals). Più
spesso
però
l’eterogeneità
del programma funziona da
carburante, incendiando prima intrecci electro/etnici (il
frinito austero del sarangi tra
minacciose emulsioni digitali ne Il genio della lampada,
lo sfarfallio delle percussioni
nella fauna aliena di Dangeridoo) e poi sbrigliatezze jazz
(nel funk strinito e spacey di
The uncles, nell’acidula improvvisazione zawinuliana di
Chafanga’s Time), arrivando a
paventare con K una tensione
caliginosa, un contrasto tra i
vapori radioattivi dei synth e
la ruvidità del cello elettrico,
sentireascoltare 55
che la fa quasi sembrare una
reincarnazione
attualizzata
dei mitologici High Tide.
Non sarà certo per le intuizioni
melodico/soniche
che
ameremo questo disco, né per
una peculiare genialità d’arrangiamento o per l’abilità sugli strumenti. Piuttosto, per
l’equilibrio/squilibrio
tra
le
parti, per il frigido interplay
tra gli “strumenti” (o meglio
tra le “voci”) che sembra sfidare una sorta d’incompatibilità e sancire quindi una distanza, un malumore esistenziale,
l’impossibilità a parlare con
una voce sola sullo stesso
sfondo delle stesse prospettive. Forse il valore (il fascino,
il messaggio) di questo disco
sta in quello che non è riuscito del tutto a dire. (6.8/10)
Stefano Solventi
Steve Spacek – Space Shift
(Sound In Color / Family
Affair)
Steve Spacek è il nome nuovo
del modern-soul. Meglio essere categorici fin dall’inizio.
Lui che poi tanto nuovo non
è, visti i trascorsi nel gruppo a sua immagine e “nome”
Spacek (due album all’attivo
di elegante e raffinato deepsoul), decide uno step in solo
che suona come una vera manna dal cielo per i quanti orfani
dell’ormai disperso D’Angelo
e per i molti stufi delle pose
plastiche del mainstream-hero
Craig David. Space Shift ha
quella tempra “black” affine
ai grandi del genere, e non
si bestemmia se si tirano in
ballo figure storiche come il
George Clinton post-Parliament/Funkadelic (cioè quello
immerso nel digitale), Curtis
Mayfield e il santone Marvin
Gaye. Non a caso uno dei tanti
episodi vincenti di Steve, Smoke, è un mirabile duetto con
quel Leon Ware che di Gaye
f u p r o d u t t o r e ( i n I Wa n t Yo u ,
anno 1976), musicista e fidato
amico. La scissione (momentanea?) dal gruppo ha fatto sì
che il nostro si misurasse con
56 sentireascoltare
se stesso e le sue idee, ma
Steve non si dimentica di amici come Morgan, il collega negli Spacek che dimena beat in
molte delle tracce ivi contenute, incluso il singolo 3 Hours
Of Fun, un contagioso groove
in 4/4 che Pharrell sicurament e i n v i d i e r à , c o s i c o m e D o l l a r,
in collaborazione con J Dilla
dei Slum Village, farà impallidire Prince è il suo ultimo ritorno al pure-funk.
In più di un occasione sembra
intravedere quello che Cody
ChesnuTT ha rappresentato
per il soul underground due
stagioni or sono, soprattutto per la metrica incantevole,
per come scivolano le canzoni
e per quel tocco magico che
solo i beneficiari di pelle nera
posseggono: un episodio come
So Many Ways ad esempio,
anche se peregrino connubio di soul astratto e fattezze
elettroniche materializza inedite e affascinanti prospettive
futuristiche, cosi come Love
Yu Be storpia una base techno per scivolare dritta nella
club-culture
più
smaliziata.
L’ i n c a n t e v o l e f a l s e t t o d i D a y s
Of My Life evince ovvie radici afro; Hey There, nella sua
sinteticità, trasuda la necessaria sensualità per preparare il fraseggio conclusivo di
Look Into My Eyes, un lento e
leggero viaggio nella Motown
di primi anni ’70.Resta poco
da aggiungere se non di consigliare a tutti, ma proprio a
tutti i fanatici del black-sound
l’ascolto del disco più cool del
2005. (7.0/10)
Gianni Avella
Static – Re: Talking About
Memories (City Centre Offices
/ Wide, 7 novembre 2005)
Che il tedesco Hanno Leichtmann, titolare del progetto
Static, faccia parte del giro
dell’indietronica che conta è
quasi banale dirlo. Basta infatti ascoltare questo nuovo
l a v o r o , R e : Ta l k i n g A b o u t M e mories, per capire dove la musica andrà a parare: ritmiche
sintetiche e – a volte – irregolari, tastiere che coesistono
con chitarre appena accennate
e qualche sporadico intervent o v o c a l e . L’ i n i z i a l e R e t u r n O f
She è il manifesto programmatico
dell’arte
di
Static,
che riassume al meglio tutti i
tratti caratteristici dell’indietronica con l’aggiunta della
voce apatica e post-moderna
d i R o n a l d L i p p o k d e i Ta r w a t e r .
Ed è anche il punto più alto
e convincente del disco, che
col passare dei minuti sembra
perdere un po’ di personalità
tra tentazioni electro mutuat e d a i To R o c o c o R o t ( A S o n g
F o r Yo u ) e d i m e n t i c a b i l i b a l l a te folk-troniche (Never Never
e Point Of Hope).
Le influenze che saltano fuori all’ascolto inevitabilmente
diminuiscono l’effetto sorpresa di un cd che, a conti fatti,
mira ad altro. Il piede seguirà
il tempo rotondo di Colours In
Patches senza chiedere certificati di origine controllata,
così come la testa andrà ritmicamente su e giù con Sync &
Sake, mentre il cuore batterà
per la conclusiva e beatlesiana The Moon Had A Crack. Ma
è chiaro che tra un’infatuazione e un innamoramento ce ne
passa parecchio. (6.5/10)
Manfredi Lamartina
Rosie Thomas - If Songs Could
Be Held (Sub Pop / Audioglobe - novembre 2005)
L’ a r i a f r a g i l e m a v i s p a , u n a
virginale inquietudine da cameretta inesplorata, da vitalità inespressa, costretta in un
piccolo mondo di trepidazioni
carta e penna. Rosie Thomas
ha 27 anni, è originaria di Detroit ed è al terzo album per
la Sub Pop: tutte cose che difficilmente si desumerebbero
dall’ascolto di questo If songs could be held, undici pezzi
facili però intensi, prevedibili
m a a c c u r a t i . L’ o t t i m a c o l o n n a
sonora per chiunque senta il
bisogno d’ingannare l’attesa
tra un album e l’altro del gentil fenomeno Norah Jones, e
in genere per tutti quelli che come Rosie - covano una più o
meno conclamata ossessione
per i Fleetwood Mac di Landslide e/o la Joni Mitchell di
California. Quel placido procedere tra incanti circospetti,
tra mestizie mute, tra impalpabili collassi emotivi (le gentilezze indolenzite di Clear As
A B e l l e S i n c e Yo u ’ v e B e e n
around). Quelle carezze dolciastre da passeggiata sentimentale, mano nella mano tra
luci declinanti, in un pastello
d’organo e chitarrine (Let It
Be Me, cover di Gilbert Becaud
assieme ad un flemmatico Ed
Harcourt). Rari e contenuti i
guizzi, giusto per dribblare la
narcosi senza turbare l’estatica immersione, come nella
nostalgica Time Goes Away,
col ritornello che sembra una
Beth Orton colta da parossismo Alanis Morrisette. Non
stona certo qualche barbaglio country-pop à la Lucinda
Williams(tra le morbide volute
errebì di Loose Ends), ma va
decisamente meglio quando
una certa voglia d’austerità
comporta angoscie sparute (il
serico primo piano sdoppiato
di Death Came And Got Me)
e madreperlacee mestizie (il
v a l z e r i n o c o n c l u s i v o To m o r r o w, i n p r a t i c a g l i E e l s c o l f r e no tirato).
In definitiva, trattasi di una
parata di banalissime, perfette ballate d’amore. Nulla da
eccepire, se è proprio questo che si va a cercare. Del
resto, la cura dei dettagli si
fa apprezzare in più di un’occasione: impalpabili brume di
tromboni, misurati inneschi di
w u r l i t z e r, t e p o r i d ’ o r g a n o , g l i
archi diafani e mai stucchevoli, la pastosa densità dei
timbri... Manca però a Rosie
il passo in avanti, la capacità ad esempio di misurarsi
col gospel senza sbiadirlo (It
D o n ’ t M a t t e r To T h e S u n , s a piente formalità da Hootie &
the Blowfish femminini) e in
generale la forza di additare
i propri (presunti) idoli senza
sembrarne il bignami di turno (di Stevie Nicks in Pretty Dress, di Sandy Denny in
Clear As S Bell...). Innocua e
commovente come una nebbiolina pomeridiana. (6.0/10)
Stefano Solventi
Uncut – Those Who Were Hung
Hang Here (Cargo / Audioglobe, 14 ottobre 2005)
In tempi in cui quindici minuti di hype non si negano a
nessuno non c’è da scomporsi se, congiuntamente al gesto di introdurre nel lettore il
cd di una band accreditata di
essere l’ultima frontiera del
new
wave-revival,
succede
di avvertire forte e chiaro il
rullare di tamburi che precede il fendente di mannaia del
critico-boia. Secondo gli ultim i r i l e v a m e n t i I S TAT s i t r a t t a
una suggestione - condivisa e
legittima - che a volte si rivela ancora - vivaddio - eccessiva.
E’ il caso dei canadesi (ma
và?) Uncut, bravi a mischiare
le carte in tavola presentandosi con una Understanding
The New Violence che, pur ricordando i Franz Ferdinand, è
una dichiarazione d’intenti. Un
4/4 circolare irrorato da chitarre mascoline che fissa dei
precisi
parametri.
Mancano
qui infatti i patinati cliché di
genere che hanno fatto strage di cuori nell’underground
c o m e s u M t v, m a n c a n o i r i tornelli-slot machine cari agli
emul rockers che grazie ad
essi hanno conosciuto la cima
delle classifiche. E manca sicuramente il tiro radiofonico,
poichè anche canzoni quali Buried With Friends o Day
Breaks Red Light, pur battendo la via del riff accattivante abbinato a ritmiche serrate
(più o meno danzerecce), non
lasciano dubbi, scovarvi qualche motivo cantabile è impresa ardua. Una scelta precisa
di Ian Worang, cantante e leader decadente del gruppo, che
immergendosi in acque dalle
tinte dark - inabissandosi o
semplicemente
galleggiandovi - non concede alcunché
alla melodia spicciola se non
n e l p o t e n z i a l e s i n g o l o Ta k e n
In Sleep. Una cavalcata che
assume toni epici – gli stessi
che hanno fatto la fortuna dei
nostrani Klimt 1918 – e imbastisce una trama armoniosa
attraverso la quale le sei sottili, ma affilatissime, corde si
divertono ad aprire dei varchi,
squarciandola.
Ad onor di cronaca vanno poi
ricordati i trascorsi di Worang
e del suo ex compagno Jack
F a i r l e y, t i t o l a r i d i u n f u d u o
elettronico la cui eredità sonora è ancora ben riconoscibile nelle strutture di alcune
canzoni. Copilot, col suo synth gettato in pasto ad una furia quasi noise, su tutte. Nel
complesso un lavoro valido e
ben assemblato che, seppur
tra alti e bassi, riesce ad aggiungere qualcosa alla cifra
stilistica dell’ondata di gruppi della new wave-revival. Un
disco insomma per coloro che
guardando gli Interpol non vedono altro che una cricca di
fighette impomatate senza gli
attributi necessari per riuscire a fare rock’n’roll. (6.9/10)
G i a n l u c a Ta l i a
Viarosa – Where The Killers
Run (Pronoia / Foreign Affairs. 2005)
Il crooning vellutato e maledetto di chi fuma l’ultima sigaretta sotto un lampione guardando l’highway che porta verso il
deserto, Nick Cave, Gun Club
e Dirty Three a dare le coordinate per un folk-rock fortemente cantautorale e d’atmosfera. Questi sono i Viarosa:
chitarre in dormiveglia ma con
l’occhio sul distorsore, abbandoni di violini in riva all’oceano, e brume vocali maschie,
lievemente raucedinose, dolci
ma riflessive, pacate ma con
la fiammella che brucia dentro. Se c’è una regione, anzi
una città dove Where The Killers Run sembra registrato,
questa è sicuramente Tucson:
sentireascoltare 57
recensioni
Paul Weller
As Is Now (V2 / Edel, 7 ottobre 2005)
A quasi trent’anni dal mod-revival in chiave punk dei suoi Jam,
a venti dalle sofisticatezze soul-pop con gli Style Council e a
dieci da quello Stanley Road che ne ha lanciato la carriera sol i s t a , m r. P a u l We l l e r è b e n l o n t a n o d a l m e t t e r s i i n p a n t o f o l e .
Archiviata la stagione d’oro del brit-pop di cui era stato padrino (guadagnandosi presso i connazionali l’epiteto di Modfather), non pago di venire omaggiato anche dalle giovani leve
del rock britannico (Kaiser Chiefs e Maximo Park in testa), l’ex
Cappuccino Kid torna in gran forma sfornando un disco nuovo
di zecca, che segue di appena un anno l’interlocutorio cover
album Studio 150.
As Is Now ci restituisce un Weller perfettamente a suo agio,
che non sente il peso degli anni e dell’esperienza ma ne fa anzi tesoro (come quasi sempre
negli ultimi tempi, d’altronde). Ecco quindi che, armato di mestiere e classe in egual misura,
gioca le sue carte migliori e snocciola uno dopo l’altro una serie di episodi godibilissimi, tanto
d i s t a n t i t r a l o r o q u a n t o e ff i c a c i : l ’ i n i z i a l e B l i n k A n d Yo u ’ l l M i s s I t è f u n k e a g g r e s s i v a q u a n t o
basta, Here’s The Good News è un quasi vaudeville che si colora di soul nel middle eight (un
po’ come se la Band si fosse formata nelle periferie di Londra); All On A Misty Morning è un
country folk portato da un riff che più classico non si può, la conclusiva The Pebble And The
Boy è dolente e crepuscolare come ogni ballata pianistica che si rispetti.
O v v i a m e n t e g l i a m o r i s o n o q u e l l i d i s e m p r e ( e g u a i s e n o n f o s s e c o s ì ) : d a i K i n k s d i P a p e r Tr a c k
ai Lennon e Dylan dell’appassionata Savages fino ai Traffic di Bring Back The Funk, tutto assimilato con la consueta maestria, senza tralasciare il gusto per la citazione “colta” (vedi espedienti tipicamente beatlesiani come l’attacco psichedelico in reverse di Fly Little Bird, o gli
inserti di jam session alla fine delle canzoni). E poi, Come On / Lets’ Go fa inumidire il ciglio
per quanto ricorda i Jam (mancano solo le armonizzazioni di Bruce Foxton); The Start Of Forever richiama English Rose nell’incipit, I Wanna Make It Alright è gentile e soft come ai tempi
del Cafè Bleu; e anche se non è tutto oro quel che luce (in Pan risuona un’enfasi simil prog che
nell’insieme stona un po’), la serratissima From The Floorboards Up inasprisce i toni come un
vecchio singolo del ‘79.
Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Ma è sempre un piacere sapere che una delle personalità
più sincere e squisitamente uncompromising degli ultimi 30 anni di rock goda ancora di ottima
salute. (7.0/10)
Antonio Puglia
sentireascoltare 58
tanti, troppi i riferimenti desertici di certi accorgimenti
- il tocco sulle pelli, il banjo
appena accennato – che ammiccano dritti al pop-country
dei Calexico; e invece i Viarosa di Richard Neuberg (voce e
chitarra) vengono da Londra,
suonano da quasi cinque anni
e annoverano tra le loro fila
ex membri di Willard Grant
Conspiracy e Cornershop.
Pur non negando le radici
americane della loro musica,
i Nostri rivendicano un personale approccio al folk-country
a stelle e strisce, che amano
chiamare “Anglicana” (risposta britannica ad “Americana”); a nostro avviso però non
basta far suonare un banjo
come se si stesse per intonare
un antico madrigale, specialmente se ascoltando il disco
i nomi che vengono in mente
sono tutto fuorché inglesi: i
Buckley - padre e figlio - nella
title track (immaginate un ibrido tra Dream Brother e Chase
The Blues Away), i già citati
Dirty Three in Boy e The Violet Hour (con tanto di sega in
sottofondo), il Lanegan ultima
maniera (soprattutto in quella Only Child, che viene dritta
da Field Songs), il white soul
di casa Tindersticks / Devics,
evidente in certe trame sonore. Tuttavia, la maggior parte
dei brani ha quel giusto appeal
che merita almeno un ascolto
per gli appassionati del genere, accompagnato da grande
mestiere e da un’ottima produzione; e quindi ballad quali
Poor Mans Prayer, i sonnolenti risvegli di Blindfold (in pieno country feeling) e la notturna Wake (vicinissima alla
Magic And Loss di Lou Reed)
scorrono come il buon malto
s’accompagna alle sigarette.
(6.5/10)
Edoardo Bridda e Antonio
Puglia
Who Made Who - Self Titled
(Gomma / Wide, 5 settembre
2005)
Arduo
quesito.
Poteva
veni-
re fuori qualcosa di buono da
un gruppo che, ispirandosi ai
F r a n z F e r d i n a n d , ! ! ! e D FA , h a
preferito distinguersi dal luogo
comune condendo l’intingolo
con coriandolo Donna Summer
e tabasco Jimmy Sommerville
al posto del consueto prezzemolo per branzino new wave?
Che basti poi prender casa in
Bavaria (l’etichetta Gomma) e
ragione sociale da un album
dei Re del kitch AC/DC per
fuoriuscire dalla mischia degli emuli del funk punk londinese e degli sniffa cowbell di
Manhattan?
Gli Who Made Who potrebbero
rappresentare una possibile
risposta ai quesiti esistenziali
di quel gruppuscolo di trozchisti che di tutto il revival possibile non hanno visto passare né il tram del Bronsky Beat
nè tanto meno quello di certa
disco-music da sopravvivenza
gay in salsa punk. Certo, se
il power-trio danese non riuscirà a dar loro alcuna risposta in termini filosofici, sicuramente dispenserà consigli
per gli acquisti sottoforma di
pregevoli farsetti e ritmi sincopati nel più classico synth
pop (un lato Y fatto di Rose e
Space For Rent), con un bel
po’ di testosterone funk punk
felpatamente ostinato (un lato
X compilato da Out The Door,
Monkeys). Cromosomi scombisciati a sufficienza dunque,
buoni per destare la curiosità
negli aficionados delle next
(in questo caso medium) thing
del momento, soprattutto se il
platter sembra l’ideale soundscape per smuovere le voglie
danzerecce del camionista di
Legnago.
Ritmi
metronomici
uno-due,
appeal cow boy wave da Depeche Mode a pranzo coi Wall
Of Voodoo (Space For Rent,
G o t To B e T h e r e ) , d i s c o m u sic dal basso angolare (Johnny Lucky), coretti ugolari Bee
Gees transistorizzati e affogati in salsa tartara (Cigar),
pasticci space-funk in odor di
no wave (Hello Empty Room)
e q u a l u n q u i s m o Ta l k i n g H e a ds (Happy Girl) non mancano
d’intrattenere, eppure un’automaticità diffusa, una serie
d’inframmezzi che sembrano lì
per prender tempo (si ascolt i G o t To B e T h e r e , O u t T h e
Door), nonché una parata di
languide strofe tanto cool ma
presto noiose, puzzano di torta bruciata. Certo, quel forno a microonde che sono gli
show dal vivo - dove i Nostri
si vestono da tre allegri ragazzi morti vestiti da scheletri e suonano come un power
trio esageratamente chitarroso - è incandescente, tuttavia
non basta saccheggiare certe
pose glam rock e tanto meno
azzeccare
qualche
melodia
posticcia (il singolo Space
For Rent) per superare l’hype
stagionale.
Fossero usciti tre anni fa
avrebbero goduto di elogi e
insulti (come successe per i
!!!), ora, a buon diritto, rappresentano un trio di pagliacci funk-punk particolarmente
smaniosi, ma con la spina dorsale fin troppo dinoccolata. Ai
ballerini sotto strobo l’arduo
t e s t d e l d a n c e f l o o r. A c a s a c i
annoiamo un po’. (5.5/10)
Edoardo Bridda
Windsor For The Derby – Giving Up The Ghost (Secretly
Canadian / Wide, 2005)
Se proprio vogliamo trovare
una differenza tra gli Interpol
e i Windsor For The Derby bisogna fare attenzione ai suoni. Nel primo caso, infatti, le
chitarre in delay sono ben delineate in tutto il loro splendore hi-fi, mentre nel secondo la
situazione è diametralmente
opposta: grezzi e strabordanti oltre il lecito di riverberi, i
Windsor si caratterizzano per
la loro orgogliosa attitudine a
bassa fedeltà, che ne fa una
band più ostica rispetto ai diretti concorrenti.
Che poi, alla fine, l’origine
della specie risale comunque
allo stesso ramo genetico:
i Cure degli anni ’80 – quel-
sentireascoltare 59
recensioni
Wolf Parade
Apologies To The Queen Mary (Sub Pop / Audioglobe, 3 ottobre
2005)
Clap Your Hands Say Yeah
S/t (Clap Your Hands Say Yeah, 28 giugno 2005; Wichita / V2
gennaio 2006)
Che l’ostinata e anfetaminica new wave del nuovo millennio si
stia finalmente evolvendo?
L’ u l t i m o f e n o m e n o d a a s c r i v e r e a l r e v i v a l d i q u e s t i a n n i s o n o
i canadesi Wolf Parade, un combo istintivo e coriaceo che attinge dalla vena harsh e folky dei migliori Violent Femmes per
infarcirla dell’ugola istericamente NY ’78 del sempre di moda
David Byrne. Non è tutto qui: per gli stessi motivi, sulla piazza
p o t r e b b e f a r l o r o d a c o n t r a l t a r e l a n e w s e n s a t i o n f r o m B r o o k l y n , i C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h ,
anch’essi intenti ad innestare linfa vitale in un linguaggio che sembra essere diventato preponderante negli ultimi tempi (alla faccia degli intenti emulatori). I Wolf Parade, che esordiscono
su Sub Pop dopo un promettente Ep, vengono da Montreal, ma al piglio energico e teatralmente
emozionale dei pluridecorati e pluriorchestrati compaesani Arcade Fire (il loro riferimento più
ovvio) preferiscono un voluttuoso wave-pop, asciutto eppure sofisticato, rasposamente melodico eppur detonante.
Sorta di agresti pensatori della new wave cittadina, Dan Boeckner e soci ambiscono a una forma
canzone mutuata dal folk ma appassionata e febbrile, basata su riff metronomici dove i giochi
delle sovrapposizioni vedono, oltre alla strumentazione tipicamente rock, uno stuolo di piani,
pianole, organi e organetti (a dare alla formula uno spiazzante svolazzo spacey c’è perfino
un theremin). Se volete, dei Feelies sposati all’indie (dei ’90, nei dintorni dei Pixies), oppure dei Modern Lovers all’Irish pub nella più sincera, logorroica e romantica delle ubriacature.
D a l l ’ i n i z i a l e Yo u A r e A R u n n e r A n d I A m M y F a t h e r ’s S o n , m a r z i a l e e s g r a z i a t a , a l l a p i ù v i v a c e
Grounds For Divorce, a farla da padrone sono delle concitate marcette, un espediente che culmina nei tempi più corposamente rock di Fancy Claps e in quelli decisamente anthemici (alla
Arcade Fire, appunto) di I’ll Believe In Anything. Del resto, come c’è il tempo per ballare (grazie
anche ad alcuni degli accorgimenti di casa Franz Ferdinand) e urlare fuori dalla finestra (per
merito dell’energia contagiosa del cantante), non mancano ballate come la cupa e pessimista
Modern World (vicina a certi Violent Femmes), la strascicata e intossicata Same Ghost Every
Night (come l’avrebbero gradita i Flaming Lips qualche anno fa) e la più classica e romantica di
tutte, Dinner Bells (con quelle tastierine che fanno tanto Cure mid-’80). E se la carne al fuoco
pare già sufficiente, sulle cadenze intermedie troviamo le inerpicate strategie pop di Shine A
Light e This Heart’s On Fire , nonché quelle più trasandatamente goliardiche di Dear Sons And
Daughters Of Hungry Ghosts (in cui Boeckner pare fare il verso a Paul Banks). Nessun dubbio:
A p o l o g i e s To T h e Q u e e n M a r y è u n f i u m e i n p i e n a s p a s m o d i c o
e sentimentale, con un grande, grandissimo, pregio: quello di
trasformare la disperazione in gioia incontrollata. Pazienza se
manca quel singolo che li farà ricordare al primo ascolto, il
messaggio è comunque arrivato. (6.7/10)
D a l c a n t o l o r o , i C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h s o n o g i à u n o d e i
casi discografici dell’anno. Il loro debutto, pubblicato in proprio all’inizio dell’estate scorsa, non è stato ancora distribuito
a livello internazionale (se ne occuperanno Wichita e V2 nel
gennaio 2006), eppure da qualche mese la stampa sotterranea
e tutto l’indie che conta non fanno che parlarne; c’è da immaginare che una volta sbarcati in U.K. le copertine saranno tutte
sentireascoltare 60
p e r q u e s t i c i n q u e r a g a z z i p r o v e n i e n t i d a N e w Yo r k e P h i l a d e l p h i a , p r o p r i o c o m e è s u c c e s s o a i
loro illustri predecessori Strokes e Interpol. In questo caso a venire rispolverate non sono né
l e c h i t a r r e d i To m V e r l a i n e n é l o s p l e e n t e t r o e r o m a n t i c o d i I a n C u r t i s , e a d i r l a t u t t a s t a v o l t a
il giochino dei rimandi non è così scontato.
S e l a d i s c e n d e n z a B y r n e / T h o m Yo r k e d e l c a n t o l a g n o s o e s t r a s c i c a t o d i A l e c O u n s w o r t h è i n negabile, i CYHSY interpretano l’idioma (new) new wave con un piglio che ha sì la catchyness di
J u l i a n C a s a b l a n c a s & c o . , m a a t t i n g e a l l o s t e s s o m o d o a l l a a r t - w a v e d i Te l e v i s i o n P e r s o n a l i t i e s
e Suicide (quelli di Dream Baby Dream, per intenderci), partendo da un indubbio sostrato folk;
insomma, un po’ come se i cinque di Is This It? avessero frequentato la scuola d’arte anziché
le passerelle di moda e si fossero fatti le ossa al Greenwich Village . Si passa così da un upt e m p o s t r o k e s - i a n o c o m e H e a v y M e t a l a u n o s t r u m e n t a l e i n f i n g e r p i c k i n g ( B l u e Tu r n i n g G r a y ) ,
d a l l o s t r i l l o d a f i e r a d i C l a p Y o u r H a n d s ! ( t r a i l D y l a n d i R a i n y D a y W o m e n … e To m W a i t s , c o n
tanto di organetto) a una versione colta dei Killers (In This Home On Ice), da un carillon spettrale asportato da Pet Sounds (Sunshine & Clouds) ai Radiohead di Stop Whispering ripassati
a t t r a v e r s o i Ve l v e t U n d e r g r o u n d d e l l a “ b a n a n a ” ( L e t t h e C o o l G o d d e s s R u s t Aw a y ) , a t t r a v e r s o
p o t e n z i a l i h i t c o m e l ’ i n t e r p o l e s c a T h e S k i n o f M y Y e l l o w C o u n t r y Te e t h o i l s i n g o l o s b i l e n c o I s
This Love (con un synth che fa tanto Grandaddy). Aggiungete al programma tre pezzi forti come
O v e r a n d O v e r A g a i n ( c h e p u ò v a n t a r e u n v e r s o c o m e “ Yo u l o o k l i k e D a v i d B o w i e / B u t y o u ’ v e
nothing new to show me”), Gimme Some Salt (densa di scazzo Lou Reed / Pavement) e la conc l u s i v a U p o n T h i s T i d a l Wa v e o f Yo u n g B l o o d ( i B e l l e A n d S e b a s t i a n q u a n d o p a s t i c c i a n o c o i
sintetizzatori), e il quadro è pressoché completo. Tutto molto carino, ma alla fine resta un po’
la sensazione di essersi persi qualcosa, che poi è tipica di certi esordi (anche se, diciamoci
la verità, il vecchio trucco di chiudere un disco col rumore della puntina che si alza dal piatto
funziona sempre). (6.8/10)
Edoardo Bridda e Antonio Puglia
li pornografici e disintegrati
– e naturalmente i padrini di
tutto quanto fa dark e depressione, i Joy Division. Dunque
basta fare uno più uno per ottenere Giving Up The Ghost.
Ovviamente il discorso non
può esaurirsi così, perché
l’album, anche se derivativo,
sa imporsi alle orecchie dell’ascoltatore. Shadows, con la
sua andatura solenne, vive di
atmosfere malate e nerissime,
come se nel cielo del 2000
non ci fosse più spazio per la
luce ma solo per le ombre e le
tenebre. Praise, di contro, assume i contorni di un omaggio
veloce e sentito al post-punk
crepuscolare di vent’anni fa.
Come dire che niente è più
moderno di ciò che moderno
non è più.
tato.
Non si esce vivi dagli anni
’80, diceva qualcuno sei anni
fa. Questo è certamente vero
– quando il gioco si fa pesante e il tutto diventa una parodia macchiettistica di scarsa
qualità – ma attenzione a non
esagerare. I Windsor For The
Derby hanno pagato ampiamente dazio a coloro che sono
venuti prima. Ciò nonostante
suonano buone canzoni dark.
E per la generazione antagonista al monopolio paninaro
dei Duran Duran è nuovamente tempo di gloriosi amarcord.
(7.0/10)
E se The Front predilige chitarre acustiche adornate da
effetti cristallini di sottofondo
– un’oasi di pace all’interno di
uno scenario apocalittico – la
successiva Giving Up sembra
spazzare via ogni certezza di
quiete con una deriva strumentale dai toni dimessi nella
forma ma drammatici nel risul-
Non c’è molto da dire su questo nuovo disco di Steve Wynn.
Davvero. E’ ormai assodato
come l’ex Dream Syndicate
sappia districarsi tra profondità e sbrigliatezza, sciorinare l’energia di un ventenne e
la pensosità del quarantenne
con una disinvoltura che non
potresti definire altrimenti che
Manfredi Lamartina
Steve Wynn & The Miracle 3 ...tick...tick...tick (Blue Rose
/ IRD, settembre 2005)
rock. Quel rock essenziale e
umorale
(chitarre,
batteria,
piano, organo, qualche effetto
sulla voce e nulla più) capace di fare liturgia e baccano,
poesia e incendio. Quel rock
che lui ama più che se stesso,
o almeno più che la sua manifestazione fisica e mediatica
(da sempre spiegazzato angelo wendersiano con l’inquietudine nascosta sottopelle).
Ecco, il programma di …tick…
tick…tick (una bomba sul punto d’esplodere? E dove?) è
una delle tante possibili realizzazioni pressoché perfette
di questa “poetica”, visto con
quale agilità si passi dal riffarama distorto di Wired alla
folk ballad tesa e younghianamente indolenzita di Freak
S t a r, d a l c o u n t r y - p s y c h s c o r butico di Killing Me alle cupe
ascendenze
errebì
d i Yo u r
Secret. Come al solito, Wynn
– accompagnato dagli ormai
fidi Miracle 3 – non inventa
nulla. Non un grammo di ciò
che si sente rivela combinazioni inaudite. Di peculiare
c’è Wynn stesso, la sua totale
dedizione alla causa, la fidu-
sentireascoltare 61
cia nel fatto che il rock possa
scavalcare l’ostacolo, sbrecciare il non-detto. Così ci ritroviamo di a fronteggiare la
lunga Deep End, sognante e
dispersa come malinconia Flaming Lips (ma senza la loro
sistematica
disarticolazione/
trasfigurazione), il piano e la
lap steel a disegnare miraggi declinanti, la tradizione (il
country folk) come base, supporto, presidio della visione
ultraterrena Pink Floyd, ed
ecco, ecco che ci trema dentro
qualcosa. Similmente avviene,
seppure in diverso grado e intensità, con le sgroppate tra
sincopi funk di Wild Mercury
(che tra chitarre al vetriolo e
sospensioni in punta di piano
rimanda a certe sfuriate dell ’ u l t i m o C a v e ) , c o l To m P e t t y
a go-go di Bruises, con quell a Tu r n i n g O f f T h e T i d e c h e
è praticamente una Vampir e B l u e s ( N e i l Yo u n g , O n t h e
beach, per quei due o tre a cui
sfuggiva) riesumata da un bagno anfetaminico. In ognuna,
amarezza e fatalismo vanno a
braccetto in una giostra febbrile, affrontando le sterzate e
sferzate della vita con beffardo savoir faire (la dolceagra
C i n d y , I t Wa s A l w a y s Yo u , i l
garage blues di All The Squares Go Home con due organi
incendiari). Infine cercando
e trovando compimento nella
c o n c l u s i v a N o To m o r r o w , n e t tamente divisa in due parti: la
prima svelta dal cuore agro,
tre assolo in contemporanea
che s’intrecciano pungolando il nervo della questione,
Steve che nell’ultima strofa
si nevrastenizza bowianamente; la seconda più quieta apre
ad una pacificazione/rassegnazione emotiva, dove paradossalmente il “no tomorrow”
diventa additivo amorevole. Il
finale ci lascia dunque questa
contraddizione, questa speranza tigliosa. Pura essenza
Wynn. (6.5/10)
Stefano Solventi
62 sentireascoltare
ZU – The Way Of The Animal
Powers (Xeng / Wide, Novembre 2005)
Nuovo cambio di formazione,
con relativa – ennesima - trasformazione musicale per la
band romana, che questa volta si avvale del fondamentale
apporto del violoncellista Fred
Lonberg-Holm. La collaborazione con quest’ultimo, che
nel suo curriculum può vantare
nomi grandiosi, tra cui quello
di Anthony Braxton, testimonia
del grande credito che i Nostri
hanno acquisito negli ambienti dell’avant-jazz internazionale. The Way Of The Animal
Powers (nato grazie alla collaborazione con la giovane
etichetta italiana Xeng) spazza via quell’approccio quasi
punk, violento e irruento che
aveva caratterizzato la band
in precedenza, per spostare il
sound su un avant-jazz più riflessivo e pacato, ma non per
questo di semplice ascolto.
L’ a t t i t u d i n e r o c k d e g l i Z u n o n
si perde, ma sopravvive nei
singoli elementi.
Alla base c’è tanta improvvisazione.
Un’improvvisazione
che nella sua libertà più o
meno esplicitata, mira all’unità timbrica piuttosto che alla
separazione dei singoli elementi. Il violoncello e il sax
di Luca Mai raggiungono un
affiatamento coinvolgente e
molto stimolante all’ascolto
( To m A r a y a I s O u r E l v i s , T h e
Aftermath) e la compattezza diventa una caratteristica
sonora facilmente percepibile
per tutta la durata del lavoro (circa 25 minuti). Un lavoro
tutto strumentale che lascia
spazio solo in un’occasione
alla voce del batterista Jacopo Battaglia (Every Seagull
Knows), che si occupa anche
dei campionamenti in Anatomy
Of A Lost Battle. Primitivismo
ripetitivo, spigolature no wave
e umorismo farciscono la base
avant-jazz-rock di un disco
bello, impegnativo, vivo. Non
rivoluzionario, ma sicuramente
imperdibile per gli amanti del
rock avanguardista. (7.0/10)
Daniele Follero
dal vivo
Akron/Family - La Bohemienne, Bari (8 novembre 2005)
Ci si aspettava un gruppo alt.
folk, una pila di melodie ispirate e più o meno strutturate,
appena spruzzate di effetti e
giocattoli vari ed eventuali quello che la band definisce
“bric à brac” - così come compaiono su disco.
E invece, sulla piattaforma
del club jazz barese La Bohemienne (locale su cui, dopo
vari spostamenti di location,
è caduta la scelta degli organizzatori), gli Akron / Family
propongono un set basato essenzialmente sull’alternanza
programmatica di crescendo
e diminuendo, silenzi acustici ed orge spaccatimpani
costruite ad hoc, che li avvicinano notevolmente alla psichedelia o al noise. Si parte
a cappella, con la beatlesiana
Awake, dal nuovo split con gli
Angels of Light (che sono poi
sempre loro più il santo patrono Michael Gira), che a meno
della metà si frantuma in una
free-form/noise in cui la band
pare trovarsi perfettamente a
suo agio (il tutto ricorda molto da vicino i migliori Animal
Collective).
Dana
Janssen
picchia sulla batteria, mentre
Miles Seaton al basso, al centro, si contorce come se fosse
preso da un attacco epilettico. Dal vivo molte canzoni si
capovolgono nel loro quasiopposto formale, come succede alla splendida Suchness,
cantata e scritta da Seth Olins k y, a l l a s e c o n d a c h i t a r r a ,
banjo, campanelle e persino,
a tratti, percussioni. Nel caos
programmato
del
quartetto
qualcos’altro resta fedele allo
spirito del lavoro casalingo
del loro self/titled: è il caso
di Running, Returning, fiore
all’occhiello dell’album.
La canzone, scritta e cantata
d a R y a n Va n d e r h o o f , h a f a t t o
gridare agli Akron/Family come
ai nuovi Radiohead e qualora
la prova hi-fi non fosse stata convincente a sufficienza,
ascoltarla stasera spaccata in
una prima parte strettamente melodica (solo chitarra e
voce) e in una seconda eseguita nel full sound delle sezioni al completo toglie ogni
dubbio: è drammatica, tesa,
dolcissima - condensazioni di
pathos ed armonia del genere non si sentivano dai tempi di Kid A. Si prosegue con
I ’ l l B e O n Wa t e r, m o m e n t o d i
tranquillità che lascia spazio
quasi immediatamente ad una
tempesta
ritmica
largamente improvvisata in cui tutti e
quattro i membri della band si
alzano in piedi e cominciano
a pestare il pestabile, condendo il tutto con feedback
assordanti. Appena più tardi,
fedeli allo schema della calma dopo la tempesta - e della
tempesta dopo la calma - gli
Akron/Family si spostano in
mezzo al pubblico ed intonano senza amplificazione una
sorta di salmo arrotolato attorno al verso centrale “love
and space”, ancora una volta rigorosamente a cappella.
La capacità di fare silenzio
del pubblico di questo locale
jazz ben fuori dell’impero viene messa a dura prova, quindi
praticamente il canto si riverbera soltanto nei primi schieramenti di tavolini. La band
ringrazia e a cose fatte si sposta ancora una volta, l’ultima,
sul palco. E si cimenta con
l’esecuzione di uno dei nuovi
pezzi extra-album d’esordio,
Raising the Sparks, cantata
contemporaneamente da tutti i
componenti, tra arrangiamenti profondamente 70’s e urlati
onomatopeici.
E’ finita. E mentre la “famiglia” si sposta a raccattare
qualche drink i più interessati
sembrano piuttosto basiti.
Live dell’anno?
Marina Pierri
Langhorne Slim – Kulturni
Dom, Gorizia (2 novembre
2005)
A proposito di Langhorne Slim.
Leggendone su pagine anglofone lo trovavamo accanto a
nomi come Roy Acuff e Bill
Monroe, non potevamo non
essere d’accordo: When The
Sun’s Gone Down affonda deliberatamente nel puro bluegrass anni ’40 e nell’honkytonk dei ’50, certo inaffiando
la formula con pesanti dosi di
benzedrina, come un 33 giri
mandato a 45. Ma sulla stampa italica quel paragone pressantissimo coi Violent Femmes
ci sembrava forzato, non inesatto per carità, ma dettato
più dalla presenza di Malachi
figlio-di-Victor DeLorenzo in
organico che da una reale discendenza stilistica. Ci dobbiamo ricredere. Qui a Gorizia
- senza banjo, armonica, fiati e tutta la masnada di amici
che il nostro Slim è solito portarsi appresso (e coi quali ha
registrato dal vivo il suo primo
EP Electric Love Letter l’anno scorso, ndr), in formazione
sentireascoltare 63
Scout Niblett
unplugged a tre, chitarra-contrabbasso-batteria - il paragone con la band dal Wisconsin
non ci fa più storcere il naso.
Lo sguardo di Slim è sempre
affetto da venereo strabismo
verso Nashville e il cosiddetto
“Piedmont” (più che al free e
al punk dei VF), ma la sezione
ritmica fa la differenza.
È proprio Malachi quel batterista? Il suo stile porta in ogni
caso il marchio DeLorenzo,
per l’andatura da locomotiva
delle bacchette contrappuntata da squadrati e incalzanti
colpi di cassa Pam! Pam! Pam!
- assenti su disco - che stimolano fisicamente il battimano.
E Paul? Il contrabbassista è
pure in linea con la tradizione (?) di Ritchie, con quei poderosi saliscendi sulle corde.
Langhorne Slim trova così un
terreno ideale per i suoi numeri da busker con-tutti-i-crismi, con le sue scarpe rotte, il
64 sentireascoltare
completino di velluto sdrucito,
il cappello di feltro, la voce
nasale e le danze e i girotondi
forsennati in cui si lancia.La
scaletta sembra essere decisa
di volta in volta dai tre musici,
che si mandano ampi sorrisi e
cenni d’intesa, nonché fragorose sghignazzate dietro ai
numeri più goffi del front-man,
dettagli secondari che però
accentano il clima di assoluta
positività del concerto.
La perfetta intesa non solo
musicale fra i tre si fa sentire, sicchè ai cori urlati il pubblico non può fare a meno di
rispondere, non solo nei classici stomp I Will, In The Midnight, ma anche nei brani che
su disco apparivano più rilassati come Electric Love Letter
(con quel flò-oò-oò-oòw che
rapisce inevitabilmente gli avventori), mentre in pezzi come
I L o v e To D a n c e S l i m h a m o d o
di divagare in lazzi e battute.
Ve n g o n o e s e g u i t i a n c h e i b r a n i
esclusivi dell’EP come Lord e
pure qualche inedito (una cover del gruppo famigerato?).
Le poltroncine dell’auditorium
del Kulturni Dom s’impegnano
a frenare gli entusiasmi, ma
col ritmo di Loretta Lee Jones è impossibile stare fermi
e, anche dopo il bis, è inevitabile volerne ancora. Gioia
e umiltà che confortano, nessuna next big thing, “solo” un
buon amico in più.
Lorenzo Filipaz
Scout Niblett - Circolo degli
Artisti, Roma (16 novembre
2005)
Quattro anime stasera, al Circolo degli Artisti. Seduti ai
pochi tavoli in fondo al locale, che chiacchierano e sorseggiano vino. Come sempre,
in queste occasioni, quando
cioè la popolarità dell’artista in programma raggiunge
al massimo te, il tuo amico a
cui hai fatto sentire il disco e
tuo cugino, che è più piccolo e
quindi va educato. Poco male.
Non c’è ressa all’entrata, c’è
spazio in abbondanza all’interno e soprattutto si respira.
Condizioni ottimali per ascoltare quella piccola furia di
Scout Niblett, una esile biondina dalla chitarra infuocata e
voce di velluto.
Ve s t i t a d i n e r o , c o n u n a b i to smilzo dall’orlo scucito ed
un fermaglio tra i capelli a
caschetto (niente parrucca,
questa volta), presenta il suo
ultimo Kidnapped By Neptune (Lain / Goodfellas, maggio
2005) con tutta la sua timidezza, abbagliante quando è
in perfetta solitudine (la toccante litania di Relax), con gli
occhi cerulei persi nel vuoto o
piantati per terra che fuoriescono, per contrasto, dal pallido viso. Un’ugola che riesce
a zittire anche i più distratti tra i presenti, capitati da
queste parti per puro caso, e
che divora con la sua potenza,
l’aggressività che non sospetti possa nascondere, che non
riesci a capire da quale parte
del corpo venga fuori, quando
accende di elettricità la sua
chitarra e si fa accompagnare
alla batteria dal quel metronom o v i v e n t e c h e è To d d T r a i n e r
(insieme ad Albini, la ragazza ha 2/3 di Shellac al seguito…), impietoso macinatore di
ritmo, tanto da scuotere anche
il pavimento. Essenziale, lineare, ripetitiva fino all’ipnotismo, Scout, divisa tra il suo
strumento principe e la batteria , come nella suadente Pom
Poms dall’andamento strascicato, ma capace di improvvise
virate, di scosse sismiche dal
suono pulito e diretto (lo scalpitio scintillante di Kidnapped
By Neptune, le asperità grunge di Lullaby For Scout In 10
Ye a r s ) , d i b a l z i u m o r a l i d e c i samente femminili.
Più di un’ora di rigenerante
vigore e assieme delicatezza,
che spazza via qualsiasi dub-
bio: Cat Power un concerto
del genere non arriverà mai a
farlo.
Va l e n t i n a C a s s a n o
Marta Sui Tubi - LaCasa139,
Milano (10 ottobre 2005)
Ci sono gruppi che sembrano
condannati a suscitare reazioni contrastanti, incapaci come
sono di passare inosservati,
e irrimediabilmente destinati
a dividere. I Marta Sui Tubi
sono tra questi.
Succede così che, come coloro i quali per sentito dire continuano ad interrogarsi sulle
origini del criptico nome della
band (intenti come gli idioti a
fissare il dito ignari del bellissimo squarcio di cielo apertosi sulle loro teste), ugualmente chi ne sottovaluta la reale
abilità continuerà a covare il
sospetto che certe evoluzioni vocali e strumentali, su disco siano una cosa e su palco
un’altra.
Ma fin qui, si sa, è storia vecchia. Ciò che sconcerta è invece la loro capacità di saper
stupire di volta in volta anche
i fan di vecchia data. Perché
anche portando sulle spalle
decine di frequentazioni, tra
centri sociali e fugaci apparizioni sul cartellone di inverosimili festival, non sarà facile
dimenticare questa serata. E’
la prima del tour di C’è Gente
Che Vuole Dormire e ci si ritrova ammassati ed in piedi a
ridosso del piccolo palco della
Casa 139. Un locale che, pur
facendo dell’ accoglienza la
propria bandiera, ha sempre
ospitato agevolmente le loro
esibizioni passate come quelle di artisti più affermati.
Non questa volta, però, visto
che il consueto salotto in cui
generalmente si assiste agli
spettacoli placidamente assisi
al proprio tavolino o al massimo accucciati al suolo, è preso d’assalto da un’orda di giovani milanesi improvvisamente
accesisi di una travolgente
passione nei confronti di que-
sto trio siculo. Un entusiasmo
che, se late durante l’esecuzione dei primi pezzi tratti dal
nuovo disco, letteralmente deflagra in un’ inaudita partecipazione, non appena risuonano le prime note del fortunato
s i n g o l o Ve c c h i D i f e t t i .
E’ l’apoteosi. Tutto il pubblico
canta, come mai era successo,
sortendo un effetto karaoke
che in certi frangenti assume
toni surreali. Lo sbigottimento
iniziale, che non più è solo dei
fan ma soprattutto dei visibilmente
increduli
componenti
della band, lascia, come da
copione, spazio al puro godimento e il concerto si trasforma in una marcia trionfale che
sa tanto di consacrazione. Il
giusto riconoscimento per un
gruppo formidabile che dal
vivo trova la propria reale dimensione anche monetizzando
al massimo la propria spontanea vena comica, che non fa
mancare gag esilaranti, tra
siparietti e frecciate non propriamente politically correct.
Adesso i soliti noti non vedranno l’ora di dar fiato alle
proprie trombe, ma stasera
non c’è tempo per spendersi
e perdersi in aride discussioni sul sesso degli angeli o su
q u e l l o d i M t v. S t a s e r a a p p l a u diamo tre ragazzi che hanno
fatto il botto.
G i a n l u c a Ta l i a
Kaiser Chiefs - Circolo degli
Artisti, Roma (14 novembre
2005)
È stato sufficiente trovarsi nelle prossimità dell’ingresso del
Circolo degli Artisti per capire che tipo di concerto avrebbe avuto luogo quella sera:
un evento, non una band che
suona e sta promuovendo il
proprio disco d’esordio, come
accade
normalmente.
Già,
perché non solo il concerto è
sold out, ma molta gente resta
fuori, e ciò la dice lunga sulla
notorietà dei Kaiser Chiefs. È
un pubblico molto variegato,
per età ed aspetto, quello che
aspetterà a lungo l’inizio del
sentireascoltare 65
S i s u s s e g u o n o M o d e r n Wa y,
B o r n To B e A D a n c e r , N a N a
Na Na, ognuna accompagnata da un rituale diverso, che
si tratti dello stage diving o
dell’appendere
il
microfono
ad una trave del soffitto, lo
show è interamente incentrato su Wilson. I musicisti si
dimostrano comunque all’altezza del compito, le tastiere
di Nick “Peanut” Baines e la
chitarra di Andrew White ricamano motivi sixties che sottolineano le ascendenze dei
K a i s e r, i v a r i X T C , K i n k s , J a m
e Blur (i parenti più prossimi
del quintetto, cui manca però
la verve genialoide del gruppo
di Albarn). C’è anche il tempo per un siparietto karaoke,
Wilson invita una ragazza sul
palco a cantare Oh My God,
riscuotendo pure discreti applausi. Chiudono i tre quarti
d ’ o r a d i l i v e c o n u n b i s , Ta k e
my temperature, inclusa solo
nell’edizione giapponese del
66 sentireascoltare
Kaiser Chiefs
live, tuttavia non si tratta di
un pubblico casuale, ma che
sembra conoscere i testi e fa
i c o r i a l m o m e n t o g i u s t o . Ve niamo al dunque: niente gruppo spalla, la band, il cui nome
deriva da una squadra di calcio sudafricana, sale sul palco alle undici meno un quarto,
accompagnata
dall’intro
di un pezzo dei Dire Straits (
Money for nothing, sì,proprio
quella lì!), una scelta davvero
di cattivo gusto, e quel che è
peggio, non credo si trattasse di ironia. I Kaiser aprono
con Saturday Night, sciorinano diligentemente l’album
d’esordio, Employment, bruciano già al terzo pezzo il sing o l o E v e r y d a y I L o v e Yo u L e s s
And Less, in pratica suonano
come un gruppo consumato (e
pensare che il biondastro vocalist Ricky Wilson è reduce
da un collasso sul palco…)
Tutto qui, allora? Le canzoni conservano il sound pulito
e dall’impatto istantaneo del
cd, giusto un po’ più nervose,
come si conviene di fronte ad
un pubblico in visibilio.
cd. Ci si domanda se ricorderemo i Kaiser Chiefs tra una
stagione o due, la sensazione è che dietro le canzoni
(comunque ben scritte, levigate e derivative quel tanto
che basta) non ci sia una vera
identità da band. Forse solo
il secondo album svelerà le
reali doti degli albionici. Un
chiaro segnale delle ambizioni del gruppo, invece, è dato
dal merchandising: magliette,
cravatte, sciarpe da stadio,
spillette, di tutto …tranne i
dischi.
Italo Rizzo
we are demo
a cura di Stefano Solventi
Inauguriamo la rubrica con
quattro lavori molto diversi tra
loro. Si parte con Raven Sad,
al secolo il toscano Samuele Santanna Boschelli. Suona
la chitarra in non specificati
gruppi progressive rock, ma
- come egli stesso si premura di informarci – i suoi veri
punti di riferimento sono altri:
Nick Drake, Red House Painters, Jackson Brown. A sentire
le tracce in scaletta di Raven
Sad and other stories – in cui
fa le veci di produttore, autore, chitarrista e cantante - direi più Sparklehorse e Robyn
Hitchcock (come nell’incedere
tra il marionettistico e l’allibito di Stars) con frequenti
declinazioni Mojave 3, il cui
sdrucciolare onirico è evidente in Movin’ around e nel finale
di Those good words. Organi
e pianoforti, chitarre elettrificate o meno, valzer mesti e
frusti, trasporti obliqui come
talora gli Elbow (si ascolti
Bartender), bucoliche digressioni folk/prog (a complicare
la magia liquida di The hell
we have), cupezze baldanzose
circa Dire Straits (Try to understand) e addirittura brumose collisioni spacey (Have no
time): l’insieme è un po’ malfermo, sembra quasi reclamare una produzione più robusta
e consapevole, ma la scrittura
è piuttosto ispirata, figlia evidente di una passione genuina. Peccato per la pronuncia
inglese, un po’ legnosetta, che
finisce col guastare il già non
brillantissimo timbro vocale:
perché non fare un pensierino all’italico idioma? Anyway ,
non merita meno di 6.5/10.
Sembrano invece a loro agio
con l’inglese i Cherif Galal,
progetto circa il quale ahinoi
non ci è dato sapere molto.
Per notizie più precise non
resta che attendere che il loro
sito esca dal desolante stato
di “under construction”. Dunque considereremo omonimo
questo disco, ma la verità è
che un titolo non è stato ancora deciso, e in compenso
non c’è neppure uno straccio di copertina con relative note. Se non altro le idee
sonore sono chiare e vivide:
un folk-pop bagnato di vapori
sintetici eighties, nel solco di
un’accomodante propensione
melodica che gioca con certe
crepuscolari
suggestioni
Psychedelic
F u r s / Te a r s
For
Fears, come appare chiaro in
quella The mirror che potrebbe essere un cocktail soffice e
ombroso di The ghost in you e
Pale shelter . Sette pezzi agili, a volte un po’ troppo ruffianelli (il romantic-AOR di My
u n i v e r s e , l a f a l s a r i g a Ve r v e /
Smiths della conclusiva Travelmind) ma sempre ben curati, sorretti da idee efficaci
e quasi mai gratuite, come le
iridescenze spaziali nella trepida I’m thinking about u (For
u) o quello stemperare l’empito A-Ha tra burle New Order in
Fears ‘n troubles. Ok, non è
il genere che mi fa sobbalzare, però il fatto che una band
ancora in fieri se ne esca con
tante intuizioni e immediatezza da fare impallidire i primi
Starsailor che mi vengono in
mente, mi sembra evento considerevole. E meritevole di un
ricco 7.0/10.
Chi invece non ci fa mancare
credits e copertina (puntuali i
primi, piacevolmente demoniaca l’altra) sono i Pater Nembrot, trio romagnolo dedito ad
un blues rock acido e febbrile,
capace di masticare sardoniche disanime à la Marta sui
Tubi(i testi sono in italiano),
strafottenza QotSA e nevrosi
Fu Manchu con brusca naturalezza. Sentiteli come negli otto
pezzi che compongono questo Hombre scarlatte masticano rumba infernale e trame
stoner (accade in Bonsai, tra
sfrigolamenti Hendrix e coretti fantasma), sentiteli scattare
funk e garage nel boogie stecchito di Elettrica noia, sentiteli ripercorrere cimiteriali
brume Black Sabbath, scorribande Motorhead e sabbiosità
Kyuss nella conclusiva, ipertrofica Se un giorno è grigio
il mondo. A tratti lo stereotipo
l’inchioda, ma a riscattarli ci
pensano l’asprezza beffarda,
quella sottile vena parodistica
e una laconicità che potrebbe
insegnare qualcosa agli One
Dimensional Man. Senza contare la disinvoltura con cui in
Fastidi
danzanti
crogiolano
torrida psichedelia, frenetici
tribalismi e scellerati vortici
sci-fi, o come quasi ovunque
il canto faccia slalom tra amarezza e understatement, dimostrando ulteriormente quanto
il frutto sia già bello maturo.
Bravi, 7.2/10.
Con l’ultimo cd-r cambia drasticamente lo scenario, il panorama, l’atmosfera. Macbeth
è un altro di poche parole.
Di lui (lui?) non ci è dato sapere che lo pseudonimo, una
mail stringata & pacata, l’impalpabile angoscia della copertina e - naturalmente - le
canzoni di Con un brivido in
seconda battuta. Canzoni? Sì,
almeno per come si possano
concepire alla luce di quel
post-rock che, dopo l’iniziale tabula rasa, è tornato sul
sentireascoltare 67
campo di battaglia a soccorrere i corpicini disastrati, inventandosi nuova tenerezza e
nuove trepidazioni. Canzoni,
certo, fragili e mute, in cerca
di riscatto tra la decadenza e
la poesia del quotidiano. Potremmo tirare un filo invisibile tra Early Days Miners e
Giardini di Mirò e nel mezzo
rintracciare le coordinate di
queste architetture palpitanti.
Che molto però devono anche
all’esotismo nordico dei Mùm
(le evanescenze, il piano elementare,
l’incedere
placido
tra spazi vaporizzati di Piccole solitudini a colazione) e
alla allure pop-soul di certi
Lali Puna (i riverberi d’organo, di chitarrine e di elettroniche varie in Rester ou sortir?).
Frammenti delicati, romanticismo angoscioso, sensi di perdita e strane elevazioni, sensi
di vuoto che disseppelliscono
addirittura i Songs: Ohia più
scarni (in Quello strano silenzio dopo l’abbraccio) quando
non i Floyd di Wellcome to the
machine (in La sequenza delle anime erranti). Prima che
pensiate di avere già dato con
questo genere di cose, sappiate che ne sono convinto
anch’io, e che pure questo disco mi ha intrigato come una
ragnatela di zucchero, misteriosamente amara. Da tenere
d’occhio, soprattutto se saprà
spostare l’obiettivo in manier a d e c i s i v a . Vo t o 7 . 1 / 1 0 .
68 sentireascoltare
classic
Maurizio Bianchi
Plasticità e forme dell’anima
di Filippo Bordignon
Il padre della musica industrial italiana. Tra i più affascinanti misteri dell’underground di sempre, Maurizio Bianchi racconta con precisione e
schiettezza un percorso artistico di estremo rigore alla ricerca delle radici primordiali del Suono. Dietro il volto dell’uomo e davanti a quello di
Dio.
Ricordando
l’esibizione
londinese dei Pink Floyd tenutasi il 29 Aprile del 1967
all’Alexander Palace Daevid
Allen rilasciò il seguente commento: “Syd Barrett suonò la
slide e mi esplose il cervello:
sentivo echi di tutta la musica ascoltata nella mia vita,
con reminescenze di Bartok
e di dio sa solo che altro”.
L’ a b i l i t à d i c e r t i m u s i c i s t i s t a
proprio
nell’inglobare,
con
estrema naturalezza, le proprie esperienze/ convinzioni
sonore e di plasmare un prodotto sì originale ma aperto
ad esperienze sensoriali completamente diverse a seconda
dell’ascoltatore. Non è abilità
di molti e (ancor più) è inspiegabile a parole cosa intercorra a determinare la buona
riuscita di certe operazioni artistiche. Ma anche l’Italia può
vantare, in ambito (pop)olare
(altro discorso sarebbe da
tenersi in sede di musica colta analizzando l’opera dei vari
Berio, Nono, Scelsi…) una
figura prestigiosa e underground che risponde al nome
di Maurizio Bianchi. Di lui non
si conoscono che scarsi particolari: nato a Pomponesco in
provincia di Mantova nel 1955
(oggi risiede a Milano) esercitò la professione di giornalista musicale dalla secon-
da metà dei ’70 fino all’83 per
Mucchio Selvaggio, Rockerilla
e Ultimo Buscadero. Fu tra i
primi a parlare di punk, new
wave, no-wave in maniera approfondita e con cognizione
di causa. Poi la musica. Nel
fondamentale Manuale della
cultura industriale (Shake Underground edizioni) lo si definisce “(…) figura carismatica
e quasi mitica”. Persino la
sua immagine è stata per molto tempo un mistero; non c’è
tuttavia traccia di pretenziose strategie di mistificazione
dell’idolo alternativo, non c’è,
assicuro, nulla di forzato nel
mistero della sua vita/ opera
(che ogni filosofia è in fondo
un autobiografia scevra di
nomi ed episodi).
La sua opera vanta continue
ripubblicazioni, e una voglia
sfrenata di ‘possedere’ la sua
discografia spinge i fan della
prima ora nella giungla delle
registrazioni semi-ufficiali, dei
bootleg, delle costose edizioni straniere, delle preziosità
da collezione di certe raccolte
di musica estrema pubblicate
dal mercato giapponese. Dopo
una prima esperienza di punkrock (di cui non esistono documentazioni sonore) Maurizio,
battezzatosi Sacher Pelz, autoproduce quattro album oggi
raccolti in un cofanetto a titolo Mutation For A Continuity (Ees’t, 2002). Si tratta di
C a i n u s , V e n u s , C e a s e To E x i s t e Ve l o u r s ; a l b u m q u e s t i ,
registrati tra l’agosto del ’79
e il marzo dell’80. Angoscianti
elucubrazioni strumentali di
derivazione concreta filtrate
attraverso
l’estetica
industrial ma già indicative di uno
stile personalissimo che trascende ogni descrizione. Il
sentireascoltare 69
ritmo è inesistente, non sono
utilizzati strumenti musicali;
è, in breve, una musica fatta
di niente (nell’accezione più
elevata
del
concetto
come
saprà intendere, vent’anni più
in là, Thomas Brinkman nel
suo capolavoro Klick). Queste
improvvisazioni, questo caos
controllato
trovano
forse
una chiave di lettura adeguata parlando di muzak del
nichilismo assoluto. I titoli
parlano chiaro: Satan Slaves,
Massacre On Cielo D, La Cartilage Palpitant. Così come
la Metal Machine Music di
Lou Reed o la Broken Music
di Milan Knizak, anche questi
pezzi posso essere ascoltati a
partire da qualsiasi solco del
vinile: l’effetto non cambia.
Non esiste un intro, non è rintracciabile un filo conduttore
che faccia leva sul principio
dell’enfasi.
Tutto è perversamente obnubilato dalla lettura di un
mondo alla deriva. Ma se il
rumorismo dei Throbbing Gristle necessita quattro individui
e quattro intenzioni al soldo
di uno scopo più o meno preventivato (distruzione e ricos-
70 sentireascoltare
truzione) in Bianchi una sola
mente è in grado di delineare
con forza e credibilità spazi
fisici ben definiti e agghiaccianti. Intenzionalmente simile a certe orge sonore di Nigel Ayers (mente del progetto
Nocturnal Emissions) e del
giapponese Merzbow (coi quali, tra l’altro, il nostro era in
contatto) l’unicità dell’opera
di Bianchi sta in una sorta di
indescrivibile sfibramento di
una tensione dinamica ben
tratteggiata
solo
attraverso
l’ascolto dei suoi album. Il
resto è retorica. Disquisire su
un titolo piuttosto che un altro
pare intellettualizzazione da
salotto borghese. La sua opera va letta in blocco. Le sue
immagini vanno condivise o
rinnegate. A nome MB escono
poi lavori epici che fanno del
nostro il godfather del movimento industrial internazionale: Symphony For A Genocide, Menses (’81), Triumph
Of The Will , Weltanschauung
(’82), Regel, Mectpyo Bakterium (’83). Tutte (o quasi) tappe
autoprodotte.
Tutti
tasselli
recentemente
rimasterizzati
(per quanto possibile) e più
o m e n o r e p e r i b i l i a l l i n k w w w.
theesonicabyss.com/mb.html.
M a l a l i s t a c o n t i n u a : D a s Te s tament, Endometrio (’82), Carcinosi, The Plain Truth (’83) e
Armaghedon (’84) sottolineano
l’evoluzione e l’affinamento
di un talento indiscutibile attraverso anticipazioni di death
ambient e drone-music per incubi terminali.
Non ci sono canti o cantanti
nell’opera
di
Bianchi.
Egli
rifiuta
le
concessioni
all’orecchio del P-Orridge di
D i s c i p l i n e o d e i N o n d i To t a l
Wa r. È e s t r a n e o a l l e v i r a t e
neo-psichedeliche di famiglia
P s y c h i c T V. N o n s u o n a ‘ e l e t tronico’ quanto Merzbow ne
gratuitamente
provocatorio,
alla
Mathausen
Orchestra.
Nei suoi articoli, nelle note
di copertina, nelle immagini
impiegate per gli album tutto sa di ‘manifesto’ e tutto,
in maniera obliqua e talvolta
criptica, respira una profonda
conoscenza
storico-musicale
unita al gusto per la boutade
apocalittica dopo la quale il
mondo potrebbe anche spezzarsi a metà. Le sue parole
vanno studiate, le sue intenzioni propagandate quanto più
possibile.
Già da una registrazione come
Endometrio non si trattava più
di industrial secondo un dettame italico; la soluzione è il
conio di una musica ‘bionica’
“(…)ottenuta
in
contrapposizione alla musica per sintetizzatore e a quella ottenuta
con l’impiego del calcolatore”
(dalle note di copertina di Endometrio). Suoni cioè, ricavati
sinteticamente
dalla
manipolazione e trasformazione di sorgenti elettroniche
preregistate. Il nostro punta
all’asetticità, a tratteggiare un
decorativismo inguardabile, o
meglio, difficilmente ascoltabile. Un Brian Eno al contrario, s’azzarderà. Poi la svolta:
a partire dall’84 l’artista si
ritira dalle scene (complice
la conversione alla Chiesa
d e i Te s t i m o n i d i G e o v a ) . L a
scoperta di un Dio sopra ogni
altra volontà pare destinarlo
a ben altri percorsi ma inaspettatamente, nel ’98, esce il
primo capitolo di una trilogia
metafisica che sancisce una
rinascita artistica di tutto rispetto. La trilogia è composta
da Colori (Ees’t ’98), First
Day Last Day (Ees’t, ’99) e
Dates (Ees’t, 2001) e il territorio è quello di un ambient
dalle tinte filosofiche e religiose. Le più recenti pubblicazioni invece sembrano riaffiancarsi alle cacofonie degli
’80; da segnalare senza dubbio alcuno Frammenti (Ees’t,
02), Antarctic Mosaic (Ees’t,
’03) e Cycles (Ees’t, ’04) che
esplora la possibilità tra loop
e pause. Degne di menzione,
tra le molte collaborazioni
dalla sua fitta discografia, gli
album a tiratura limitata Chaotische Fraktale (Ees’t, 2003)
operato? Parlavi di Thomas
Leer quando nessuno lo aveva sentito nominare...
Sia la musica che la scrittura
mi hanno attirato sin da ragazzo, ma in definitiva è stata
la mia istintività a darmi l’influsso maggiore.
e L e t z t e Te c h n o l o g i e ( E e s ’ t
2004) con il compositore Sandro Kaiser (in arte Frequency
In Cycles Per Second) responsabile, assieme a MB, pure
delle immagini manipolate al
pc in esclusiva per Sentireascoltare.
L’ i n t e r v i s t a
Maurizio, quali erano i tuoi
rapporti con la Industrial
Records e con i suoi fondatori?
Agli esordi c’era un vivo interessamento da parte mia,
ma poi si è affievolito quando
sono riuscito a creare un mio
discorso personale, non più
condizionato dalle altrui elucubrazioni.
Come giudichi la reunion di
‘istituzioni’ come Throbbing
Gristle? Visti recentemente
dal vivo, devo ammetterlo,
suonano piuttosto assorbiti
da un genere ormai trito e ritrito. La domanda è perciò:
possibile aggiornare l’industrial?
Non voglio addentrarmi su
opinioni riguardo i Throbbing
Gristle, ma penso che l’aggiornamento sia dettato dalla
volontà di volersi confrontare
con l’evolversi dei tempi, senza vane ripetizioni.
Come giudichi la svolta dance di alfieri industrial come
Cabaret
Vo l t a i r e
e
Clock
D VA ?
No comment.
Fine
musicologo
e
abile
scrittore, a chi attribuisci la
maggiore influenza nel tuo
Hai mai subito la fascinazione di un certo tipo di nichilismo intellettualistico?
Solamente quando disarticolavo le mie recensioni su Rockerilla e sul Mucchio Selvaggio.
Con che criterio scegli il
materiale che finirà in un album?
Non seguo un criterio ben definito ma mi lascio guidare
e sopraffare dagli eventi improvvisati.
I l Ta o i s m o s o s t i e n e c h e i l
movimento di ‘opposizione
a’ sfocia inevitabilmente in
un atteggiamento di rigidità
mentale (e, ad essere precisi, pure fisica). Contro cosa
ti scagliavi durante il tuo
primo periodo?
Contro lo sterile conformismo
e la futilità del materialismo.
Persisti in qualche accorata
opposizione pure oggi?
Oggigiorno mi oppongo con
tutto me stesso alla passività
e alla staticità mentale, radici
di ogni futile pregiudizio.
Ti giudichi un puro, una persona costantemente alla ricerca della purezza o un puritano?
Sono costantemente proiettato al raggiungimento della Purezza, cosa tra l’altro irraggiungibile allo stato attuale
delle cose; ma questo sforzo
costante mi permette di rimanere vivo.
In un intervista a Radio Popolare dell’83 parlavi di un
Nuovo Inizio. Quel cambiamento avvenne, ma dentro
di te. I più giudicano il tuo
ritiro dalle scene una conse-
guenza
dell’avvicinamento
a l l a C h i e s a d e i Te s t i m o n i d i
Geova. Credo però che un’altra determinante sia stata la
volontà di non incappare in
manierismi auto-reverenziali. Com’è andata, in verità?
Entrambe le ipotesi sono valide. Quello che già altre volte ho menzionato in interviste
precedenti è che quel momentaneo abbandono è scaturito
dalla volontà di evitare inutili
e vane ripetizioni, e dal fatto
che avevo già espresso tutto
ciò che era in mio possesso.
Fino ad oggi hai rinunciato
alla possibilità di diffondere la tua opera attraverso un
sito internet ufficiale che
faccia luce sulla tua vasta
produzione. In rete le informazioni che ti riguardano
sono piuttosto esigue e le
tue immagine pressoché inesistenti. Perchè?
La Ees’t Records si sta organizzando in tal senso e fra
breve si vedranno i risultati.
Sei affascinato dalle nuove
possibilità della tecnologia?
Cosa utilizzi oggi? Com’è
cambiato il tuo modus operandi rispetto al tuo primo
periodo?
Non sono molto affascinato
dalla tecnologia, infatti ne
uso solo lo stretto indispensabile e, ad esempio, sto tuttora
impiegando cose un po’ datate
(uso di nastri e di registratori
analogici) probabilmente per
sentirmi più vicino alle radici
della musica sperimentale dei
gloriosi anni cinquanta.
Qualcuno ha detto: “ La Religione è un lago sterminato al
quale si dissetano tanti uomini diversi; ognuno di loro
avrà la sensazione di ‘abbeverarsi’ ad un acqua diversa dall’altro ma si tratta in
realtà solo di un illusione”.
Prendendo per buona questa
definizione non sembra poi
tanto necessario dirsi di una
‘fazione’ rispetto che di un
altra. Esiste una forza spe-
sentireascoltare 71
ciale nell’appartenere a questa rispetto che a quella? Se
sì non pensi si tratti di un
concetto discriminatorio?
Ci sono molte dottrine e filosofie al riguardo ma io mi rimetto a ciò che disse il più grande uomo che sia mai esistito,
Gesù Cristo: “La vera Libertà
deriva dal conoscere l’unica
Ve r i t à ” e c h i è i l d e p o s i t a r i o
d e l l ’ u n i c a Ve r i t à ? L’ u n i c o v e r o
Dio, colui che non è stato fatto a immagine e somiglianza
dell’Uomo.
Kerouac, per definire la venuta di una generazione umana e
angelica al contempo scrisse:
“Saranno saggi come serpenti ma inoffensivi come colombe”. Questa definizione mi fa
pensare alle azioni dei grandi
uomini creativi, a coloro che
formularono
nuovi
linguaggi (James Joyce, Erik Satie,
Marcel
Duchamp...).
Aveva
forse ragione Allen Ginsberg
nell’affermare che in un mondo ipotetico il potere sarebbe
stato concesso ai soli artisti?
Innanzitutto Kerouac prese a
p r e s t i t o q u e l l a f r a s e d a l Va n gelo che recita: “Siate innocenti come colombe, ma cauti
come serpenti”, pur se l’applicazione è diversa… non desidero ipotizzare nessun potere
concesso ai soli artisti, ma
a l l ’ a r t i s t a c o n l a ‘ A’ m a i u s c o la, il vero Dio, colui che ha
creato l’uomo a sua immagine
e somiglianza affinché riflettesse le sue incommensurabili
e meravigliose qualità.
Qual’è la differenza tra il
rumore evocato da, chessò,
Karlheinz Stockhausen ed il
tuo? E, in ambito rumorista,
qual’è la differenza tra il rumore evocato da te e quello
di, ad esempio, Boyd Rice?
Preferisco non fare confronti
o paragoni. Ognuno è responsabile del… rumore che produce.
Sovente le tue opere a nome
Sacher Pelz e MB erano arricchite da criptiche note in
lingua inglese che, ad ogni
72 sentireascoltare
modo, lasciano intendere la
volontà di esprimere un concetto ben preciso. Credi che
dalla tua musica, frutto per
buona parte di un improvvisazione programmata, si possa estrarre il significato che
si ritiene più opportuno o le
note sopra dette dovrebbero
determinare delle coordinate
mentali nell’ascoltatore?
Preferisco optare per la seconda soluzione.
Puoi credere ad una musica
in cui non sia esattamente
identificabile
il
significato? Puoi credere in qualcosa
in cui non sia esattamente
identificabile il significato?
Quando un senso non c’è lo
si inventa?
Posso credere a una musica
identificabile in un significato
personale, lontano anni luce
dalla
musica
impersonale,
quella senza alcun significato.
Genet sosteneva che un artista si deve assumere le responsabilità di ciò che crea
e delle emozioni che suscita attraverso la sua opera.
Cosa pensi di aver indotto
nell’ascoltatore
di
Sacher
Pelz? E in quello dell’ultimo
Maurizio Bianchi, in quello
di Cycles ad esempio? Senti
questa responsabilità?
Sono pienamente
d’accordo
sulle responsabilità e la differenza fra le emozioni indotte dal progetto Sacher Pelz
e da un lavoro recente come
Cycles, quindi non ho nulla da
aggiungere.
La musica potrà mai recuperare quello status di elemento destabilizzante che aveva
un tempo?
Penso che la musica non abbia mai avuto questo effetto,
ma è l’interpretazione che gli
da l’ascoltatore a renderla destabilizzante oppure no.
Credi che la vita sia frenata
dai preconcetti? Quali sono
i più temibili?
C’è il pregiudizio e la parzialità, mentre il più temibile è
il timore di qualcosa di nuovo
e di inconsueto. Ma questo fa
parte della futilità umana…
Ogni volta che ascolto i tuoi
album colgo una forte componente ‘materica’ e, seppure si tratti di pezzi relativamente lunghi, non riesco
a tediarmi. A differenza dei
wall of sound dei TG (spiccatamente eroticizzanti) il
tuo suono mi risulta perfino spirituale. Devo anche
aggiungere che la tua opera
per intero mi fa immaginare
un uomo d’una delicata timidezza. Ci sono andato vicino?
Ci sei andato molto vicino.
Comunque preferisco, per una
questione di coerenza, che
siano sempre gli altri a trarre
delle conclusioni su di me. Infatti, non per nulla i nostri occhi sono rivolti verso l’esterno… ma se qualche volta
fossero rivolti più verso il nostro Io interiore, allora molte
cose cambierebbero, eccome!
note a margine
a cura di Giulio Pasquali
Velvet Underground
Doug Yule e la reunion del ‘93
Che cos’è un gruppo rock? Qual è la sua natura? Che cosa lo definisce? Le
alterne vicende dei Velvet Underground, dall’uscita di John Cale alla discussa reunion del 1993 sono una possibile risposta a questi questiti.
A volte le vicissitudini di alcune band portano a chiedersi
cosa sia un gruppo rock, quale sia la sua natura, cosa lo
definisca. Il nome? La formazione? La linea stilistica?
Per dire, i Pink Floyd posticci di Gilmour e Mason sono i
Pink Floyd o ne hanno semplicemente il nome? E quali sono
i v e r i Ye s , s e c o n t i a m o c h e l a
formazione ritenuta “classi-
ca” in realtà è durata (salvo
reunion degli ultimi tempi) un
anno e mezzo sui primi venticinque?
Analoghe domande le pone
l a r e u n i o n d e i Ve l v e t U n d e r -
sentireascoltare 73
ground, avvenuta nel ‘93 e
terminata dopo pochi mesi a
causa del riaffiorare di antichi
dissapori e conflitti di ego, gli
stessi che nel 1968 avevano
portato Lou Reed a cacciare
John Cale dalla band, dando il
via a una sorta di soap opera
dal finale a sorpresa. Allora il
gallese era stato sostituito dal
giovane (e meno talentuoso,
s e p u r b r a v o ) D o u g Yu l e , m a
le manovre del manager Steve Sesnick per fare di costui
il leader del gruppo a scapito
di Reed avevano poi portato
quest’ultimo ad abbandonare
i VU durante le registrazioni del quarto disco, Loaded
(Atlantic, 1970), tra l’altro in
un momento in cui anche Moe
Tucker si era momentaneamente allontanata dalla band
perché incinta.
Yu l e p o r t e r à a n c o r a a v a n t i p e r
q u a l c h e t e m p o i l n o m e Ve l v e t
Underground, chiamando a sé
gli illustri sconosciuti Walter
Powers e Willie Alexander e
imbarcandosi in una serie di
concerti che toccheranno anche l’Europa (immortalati nel
cofanetto Final Vu, pubblicato solo in Giappone nel 2001
dalla Captain Trip); dopo l’abbandono definitivo della Tucker - che era stata preceduta
da Sterling Morrison nel 1971
- verrà infine pubblicato il famigerato Squeeze (Polydor /
Loaded febbraio 1973), regis t r a t o d a l s o l o Yu l e c o n I a n
Paice dei Deep Purple. Da
molti considerato come l’album dell’infamia, è praticamente un’innocua raccolta di
canzoni nello stile del Reed di
Loaded, con titoli come Jack
& Jane (i protagonisti della
ben più illustre Sweet Jane)
a dare ulteriore conferma del
“ p a r a d o s s o ” d e g l i u l t i m i Ve l vet Underground: una band
fantasma, tenuta in piedi soltanto dal ricordo di ciò che
fu; inutile dire che l’impatto
di Squeeze fu praticamente
nullo, già alla sua uscita un
pezzo raro per il mercato dei
collezionisti.
74 sentireascoltare
E i “ v e r i ” Ve l v e t U n d e r g r o u n d ?
In quello stesso momento,
Reed e Cale conducevano a
gonfie vele le rispettive carriere soliste (con Berlin e
Rock’n’Roll Animal l’uno, con
Paris 1919 l’altro); i VU erano
per entrambi acqua passata,
se si eccettua l’estemporanea
reunion avvenuta al Bataclan
di Parigi il 29 gennaio 1972,
che vide Reed, Cale e una
rediviva Nico protagonisti di
un memorabile concerto acustico (per anni disponibile in
bootleg, e pubblicato ufficialmente soltanto nel 2003 dalla
Alchemy). Da allora, il nome
Ve l v e t U n d e r g r o u n d v e r r à u f ficialmente riesumato soltanto
nel 1993, quando i superstiti della formazione originale
(Reed, Cale, Morrison, Tucker) tornarono clamorosamente insieme per un tour europeo
e un album dal vivo (il doppio
Live MCMIXIII, Sire, novembre 1993)e per il progetto poi abortito - di un album in
studio. Due anni dopo Sterling
Morrison muore, e Lou Reed
dichiara che a quel punto non
p o t r a n n o p i ù e s s e r c i i Ve l v e t
Underground. “Eravamo quattro. Adesso siamo tre. Non potrà mai essere come era”.
ne che sono passate nei suoi
ranghi durante la sua storia,
i VU non sono certo quattro:
si avvicinano piuttosto alla
decina di persone e (almeno)
tre incarnazioni. Ma, si obietterà, ha ragione Lou Reed: i
veri VU sono i “primi” perché
hanno fatto i dischi migliori,
q u e l l i d i Yu l e e r a n o i V U s o l o
di nome, e se Squeeze ormai
è introvabile e non viene ristampato ci sarà anche un motivo. Sul nome, però, lo stesso
D o u g Yu l e ( s e m p r e c o n t r a r i a t o
dall’esclusione dalla reunion
del ’93 e dalle severe critiche
ai “suoi” VU) ha detto: “Negli
anni ‘60 i gruppi erano democratici e nessuno imponeva
nulla a nessuno: se si litigava
ci si divideva e la maggioranza si teneva il nome”.
Da una parte questa sembrò
una forma di rispetto per il
passato glorioso di un gruppo
costituito da quattro personalità eccezionali che insieme
avevano saputo creare qualcosa di superiore alla somma
dei loro valori individuali; un
omaggio alla versione “storica”, “pura” dei VU. Dall’altra però fa chiedere secondo
quale principio e quale idea
di gruppo rock non possono
esistere i VU senza Sterling
Morrison, visto anche che la
formazione
“storica”
l’aveva rotta lo stesso Reed dopo
i primi due dischi cacciando
C a l e : f o r s e T h e Ve l v e t U n d e r g r o u n d ( Ve r v e , 1 9 6 9 ) e L o a ded sono degli apocrifi come
Squeeze?
Se decidiamo che un gruppo
rock è l’insieme delle perso-
I “ s u o i ” Ve l v e t U n d e r g r o u n d
sarebbero
perciò
legittimi,
esattamente quanto i primi: tra
l’altro i membri storici, a parte
Cale, se n’erano anche andati
d a s o l i . . . A Yu l e s i p o t r e b b e
obiettare intanto che i gruppi
spesso non erano democratici
per niente - per dirne uno, i
Creedence Clearwater Revival
- e men che meno i VU, nei
quali Reed aveva, come detto,
imposto la cacciata di Cale (e
non solo); e poi che di solito
il nome di un gruppo è posseduto legalmente da qualcuno
che decide cosa farne, spesso
secondo le richieste commerciali della casa discografica.
Dire che i veri VU sono i primi
perché erano quelli originali
e hanno fatto i dischi migliori
significa opporre alla concez i o n e “ d e m o c r a t i c a ” d i Yu l e e
a quella legale-amministrativa
un’altra idea di gruppo rock,
che distingue un nome vuoto
da un progetto musicale vivo
ed ispirato.
Proprio a questo proposito
qualcuno, pur ammirando il
buon livello delle performance e la magia che i quattro
ricreavano sul palco, era rimasto perplesso dai concerti
del 1993: la quasi assenza di
canzoni nuove (Coyote è ben
poca cosa) e delle leggendarie improvvisazioni (a parte la
cacofonia old velvet style di
Hey Mr. Rain) aveva fatto pensare a molti che l’unico scopo
del progetto fosse accontentare chi per vari motivi non
aveva potuto vedere il gruppo
all’epoca; come vendere una
cartolina di un vecchio gruppo realizzata per monetizzare una fama postuma. C’era
chi non trovava naturale che
dopo oltre vent’anni i quattro
si
ritrovassero
imbalsamati
in un’immagine di altri tempi a suonare gli stessi pezzi
dei giorni d’oro, in più con la
stranezza di Cale che suonava le canzoni di album su cui
non aveva suonato. Ma i motivi per cui la reunion era invece perfettamente legittima
sono, curiosamente, gli stessi che fanno nascere qualche
perplessità sulle affermazioni
di Lou Reed.
Se Morrison aveva abbandonato la musica da anni e la
produzione
discografica
di
Tucker era stata sporadica,
la carriera solista di Cale si
era invece mantenuta su alti
livelli e Lou Reed aveva appena prodotto un’eccellente
t r i l o g i a d i d i s c h i – N e w Yo r k ,
Songs For Drella (proprio insieme a Cale) e Magic And
Loss): non si trattava di certo di quattro musicisti bolliti
senza più niente da dire, che
ricorrono a una reunion come
ultima spiaggia. Non c’è nulla
di strano nell’idea che quattro
musicisti a un certo punto decidano di collaborare di nuovo
e di percorrere insieme i pas-
si successivi del loro cammino
musicale. Inoltre i gruppi sono
degli organismi vivi: nella storia del rock ci sono state band
che hanno mantenuto sempre
la stessa formazione, ma altre
nel tempo hanno cambiato organico e stile, e non necessariamente in peggio. Alla fine,
quello che conta è l’interazione tra i musicisti che in quel
momento si trovano a suonare insieme, conta ciò che effettivamente producono e non
l’ossequio al passato o a ciò
che il pubblico sia aspetta
dal gruppo. Ora, se è troppo
pretendere che senza Reed il
gruppo potesse mantenere lo
stesso nome ed essere considerato la stessa band, d’altra
parte è stato accettato tranquillamente che esistessero
dei VU senza Cale. Dunque
perché non senza Morrison?
Certo il chitarrista aveva un
ruolo fondamentale nel suono della band, più di quanto
facciano supporre le sue pochissime firme sui brani, ma
non si capisce perché Reed,
Cale e Tucker non potrebbero
oggi decidere di fare un disco
i n s i e m e . A n c h e c o m e Ve l v e t
Underground: perché rifiutare l’idea di un’ evoluzione, di
un cambiamento per un grup-
po che già era passato per un
processo simile?
A quel punto esso avrebbe
seguito il corso naturale di
gioventù, maturità e invecchiamento solitamente occultato nella dorata immutabile
adolescenza del pop. In fondo i membri del gruppo sono
stati tra i principali artefici
della trasformazione del rock
da prodotto usa-e-getta fatto
da giovani per giovani e legato inesorabilmente all’età, a
contenitore universale all’interno del quale ognuno può
tracciare le proprie coordinate
ed inserire i propri contenuti.
Sia chiaro, nessuno li obbliga a riprovare periodicamente a rifare i VU, e ha ragione Reed quando dice che non
sarebbe com’era. Il rinascere
poi dei conflitti di un tempo
deve averli sconsigliati dal riprovarci, e a un certo punto
avranno anche scelto di percorrere altre strade. Ma dire
che non ci possono essere più
i VU perché non c’è più Sterling Morrison non ha nessun
fondamento, né nella storia
del rock né in quella dei VU
stessi, a meno di non pensare
che il gruppo debba rimanere
uguale all’immagine di un tempo. O forse ce l’ha, se analiz-
sentireascoltare 75
ziamo il lato delle dinamiche
umane dei gruppi musicali,
che tanta parte hanno avuto
anche nella storia di questa
meravigliosa band. Forse Morrison era colui che riusciva ad
ammortizzare almeno parzialmente i contrasti tra le due
personalità di Reed e Cale. I
quali, è vero, avevano fatto
insieme Songs for Drella, ma
in quel momento non stavano
rimettendo in discussione il
nome dei VU.
E se è difficile stabilire cosa
sia davvero un gruppo rock
–un nome, un insieme di persone, un progetto musicale,
un contratto, un certo stile
o altro – sappiamo bene cos ’ e r a n o i Ve l v e t U n d e r g r o u n d :
la band che aveva permesso
a
un
giovane
poeta-rocker
come Lou Reed di cominciare ad esprimersi davvero e di
lasciare la sua fondamentale
impronta nel rock, e che al
rock aveva introdotto un geniale musicista d’avanguardia
come John Cale, il quale aveva arricchito questa musica di
elementi fino a quel momento
ad essa estranei; qualcosa di
più di un semplice gruppo musicale, un’esperienza artistica
ed umana totale nella quale
erano entrati anche l’amicizia con Warhol, i contatti con
avanguardie artistiche e situazioni in cui si definiva il
clima di una città in un’epoca
- N e w Yo r k a l l a f i n e d e g l i a n n i
‘60- esperienze importanti di
amore, crescita e droga.
Qualcosa
insomma
di
così
grande da non poter essere affrontato e/o ridiscusso senza
“l’aiuto degli amici” a ranghi il
più possibile completi: senza
tra gli altri, ma evidentemente
più degli altri, il sostegno del
caro, insostituibile, Sterling
Morrison.
(contributi di Antonio Puglia)
76 sentireascoltare
classic
album
sonante e distorto e dei testi
provocatori e nichilisti tipici
degli ensembles albiniani un
marchio di fabbrica. La scena
si inaridisce però velocemente tra scioglimenti tragici e
prematuri (Surgery) e normalizzazione e ammorbidimento
del suono (Helmet, Cop Shoot
Cop).
1993. Albini scende in campo.
R e c l u t a t i To d d T r a i n e r ( R i f l e
Sport) alla batteria e Bob Wes t o n ( Vo l c a n o S u n s ) a l b a s s o ,
forma gli Shellac, dal nome di
una colla prodotta con sterco
di insetti. Anticipato da 3 singoli formidabili (Rude Gesture, Uranus e The Bird Is The
Most Popular Finger), esce
At Action Park, quello che
ad oggi può essere considerato il suo capolavoro. Se gli
Shellac - At Action Park (
Touch&Go, 1994 )
1989. Dopo aver dato vita a due
fra i più innovativi e influenti
gruppi rock degli anni ‘80, Big
Black e Rapeman, Steve Albini
si ritira dalle scene in segno
di protesta contro il music business, continuando l’attività
di produttore e ingegnere del
suono, legando il suo nome a
opere come In Utero, Surfer
Rosa e Rid Of Me e lanciando band di culto come gli Slint
(è dietro le quinte dell’esordio
Tw e e z ) e J e s u s L i z a r d ( d e l l ’ e x
c o m p a g n o D a v i d W. S i m s ) .
Intanto i semi piantati dal
Grande Nero e dallo Stupratore danno vita ad una delle
scene più originali della storia del rock stelle e strisce,
cresciuta sotto terra mentre in
superfice si affermano le bands di Seattle e le riot girls.
Etichette come Amphetamine
R e p t i l e , To u c h & G o e T r a n c e
Syndicate fanno del suono dis-
Unsane squarciano i timpani
dell’ascoltatore usando la motosega e i Killdozer li squassano a martellate, gli Shellac
li incidono accuratamente con
il bisturi. La prima impressione ascoltando l’album è che la
furia e la disperazione vengano incanalate in un sadismo
freddo e consapevole, ma non
meno inquietante. Il suono, al
contrario di altre bands che
utilizzano strati di rumore per
sommergere l’ascoltatore con
un wall of sound indecifrabile
di fuzz e feedback, è scarno,
elementare, palpabile. I tre
strumenti, invece di generare
sabbie mobili, innalzano una
catena montuosa, il suono è
in rilievo, si può vedere. La
direzione presa dagli Shellac
è quella di sfrondare il rock,
di semplificarne le trame ma
non il disegno (“Mi affascinerebbe una musica rock da un
accordo solo.” dichiara il Nostro all’epoca).
L’ a t t a c c o v i e n e a ff i d a t o a d
Albini che tortura la chitarra
prima che entrino Trainer e
Weston in una messa psychojazz a condire un delirio su
baseball e razzismo. Il brano non ha riferimenti nel rock
classico, è destrutturato e in
un certo modo sgraziato, come
la coda dell’aritmico strumentale Pull The Cup, dove chitarra e batteria diventano una
l’eco dell’altra, dopo una suite math-rock coinvolgente che
anticipa certe geometrie tipiche dei Don Caballero, ricche
di scarti e inserti di chitarra/
basso/batteria.
Crow si apre con un basso
implacabile e sferzante, porta al limite la ferocia vocale
e sonora e con un finale maniacale può essere considerato l’apice del disco. Se alcuni passaggi si riallacciano
al passato di Albini (A Minute
e Dog And Pony Show), altri
sono inaspettati, come The
Idea Of North, dove il recitato
di Steve è immerso in un’atmosfera che anticipa certo
post-rock di marca Constellation, o come l’intro funky schizoide di Song Of The Minerals
o la melodia orientaleggiante
del frammento Boche’s Dick.
La jam spregiudicata Il Porno
S t a r, a t t r a v e r s o f u n a m b o l i c h e
divagazioni,implosioni e sottrazioni, porta a compimento
la decomposizione del noise
rock e chiude un album svonvolgente, vero epitome del
rock rumoroso degli anni 90.
Paolo Grava
Tim Buckley – Greetings From
L.A. (Warner, 1972)
Una delle voci più coraggiose,
estreme, stellari che abbiano
mai attraversato membrana di
altoparlante, si ritrovò in quel
1972 - appena venticinquenne
- con almeno cinque capolavori alle spalle (le mirabilie folk
blues di Goodbye And Hello,
Happy Sad e Blue Afternoon,
più le supreme trasfigurazioni
“free” di Lorca e Starsailor) e
due famiglie da sfamare, in un
mondo che si voltava dall’altra
parte, ne irrideva le intenzioni
giudicandole astruse velleità.
Risultato: pochi dollari in saccoccia, depressione strisciante, tossicodipendenza e alcolismo a mordergli i talloni.
Comprensibile che alla lunga
le insistenti blandizie del ma-
sentireascoltare 77
nager Herb Cohen e dei suoi
discografici (tra cui lo stesso
Frank Zappa, tra i titolari della Third Story) convincessero
Tim ad abbandonare le prove
tecniche d’assoluto per concedersi alle (bieche) sirene
del mercato.
Questo per quanto riguarda le
cronache. Poi c’è il resto, su
cui – per fortuna - possiamo
perlopiù fantasticare: ovvero,
una strategia di mimetismo, un
consapevole degrado, quel lasciarsi ingoiare da forme terrene, scavare nella polpa del
mestiere senza mai soggiacergli, per poi – attenzione - cospirare da lì quelle traiettorie
imprendibili, quelle architetture caustiche e celestiali,
lo spasmo del corpo in rotta
verso l’estasi. Tim insomma
ingoiò il rospo di buon grado,
capì la necessità di cambiare il livello dello scontro ed
il campo di battaglia. Ciò che
gli interessava era proseguire
la sua guerra di confine: ecco
quindi apparire sulla scena un
Buckley inedito, insolitamente
sobrio, puntuale ed efficiente
durante le sessioni di Greetings From L.A. I nuovi compagni
di viaggio erano session-man
navigati come il chitarrista
Joe Falsia e produttori occhiuti come Jerry Goldstein.
La nuova calligrafia erano il
rock, il soul, il rhythm and
blues. Un progetto in cui Tim
- evaporate le riluttanze iniziali - sembrò gettarsi con
foga, coinvolgendosi fino all’ultima fibra, liberando una
creatività scattante e furiosa, culminata nell’improvvisa-
78 sentireascoltare
zione in studio di Hong Kong
B a r, b l u e s o n e s o r d i d o c h e s i
protraeva per circa un’ora di
cui fu stampato un riassunto
di sette minuti e poco più. Da
questa - che pure è la traccia più scarna di un programma che prevede arrangiamenti
squillanti e ruffiani ai limiti
del kitsch - si capiscono molte
cose: Buckley insegue e ottiene una misura sconcertante,
l’interpretazione si mantiene
entro ranghi insospettabili, la
voce - un’aquila in piccionaia
- sembra tagliarsi le frequenze dalla gola. Insomma, pare
proprio che Tim un po’ “ci faccia”, come nelle foto a francobollo del retro-copertina in
cui – l’aria da dandy bohemién
della west coast – si presta al
ruolo dell’ecologista scazzato con tanto di maschera antigas. Che è comunque una
maschera, e questo va tenuto
presente.
Così come va tenuto presente
che un disco di Buckley non è
e mai sarà un disco qualsiasi.
Basti sentire come nella conclusiva Make It Right arrivi a
spennellare di soul spigoloso
una melodia altrimenti destinata a soccombere sotto gli archi eccessivi, oppure con quale disarmante facilità riesca
a schernire e lacerare la freg o l a m a r p i o n a d i G e t O n To p ,
aspergendola
di
sensualità
problematica e malsana, confondendo jodel, gospel e free
jazz nella sclerotica improvvisazione centrale (in cui l’organo di Kevin Kelly proprio non
riesce a tenere il passo). La
maschera, dicevamo: proprio
questo insistere su argomenti torbidi e dissoluti, spesso
oltre il limite della cosiddetta decenza, ha tutto l’aspetto
di una negazione premeditata,
come volersi ancorare al terreno, stendersi una coperta di
carne addosso, seppellire il
navigatore di stelle in un sarcofago di eminente normalità.
Buckley spinge il gioco fino in
fondo, a costo di allibirci con
quel pasticcio da B.B. King in
sedicesimi che è Move With
Me (con i suoi ottoni lascivi,
i censurabili coretti femminili,
il piano da club sfigato), e col
funky soul automatico di Devil Eyes, o semplicemente di
tediarci col boogie rock di Nighthawkin (una grinta sfocata, l’umoralità di plastilina tra
congas e southern guitars). Ma
se è il prezzo da pagare affinché possiamo goderci Sweet
S u r r e n d e r, v a b e n i s s i m o : q u i
finalmente - tra torpori soul
ed eccessi d’orchestrazione,
in mezzo a una palpitazione
esotica di congas e batteria
- la voce arriva a palpare i
confini del concepibile, sfarfallando inquieta, graffiando
decolli acuminati, digrignando,
sussultando,
liberando
indefinibili convulsioni. Non
certo ai livelli toccati album
addietro, ma - parlando di una
tale voce in un tale contesto
– comunque un’autentica meraviglia. E’ ironico quindi – a
parte il senso di tragedia che
si porta dentro – prendere
atto del clamoroso fallimento
commerciale di questo disco,
accolto
tiepidamente
dalla
stampa, boicottato dalle radio
(ufficialmente a causa delle tematiche “troppo spinte”)
e finanche esecrato dai fans
della prima e della seconda
ora, stizziti dal “tradimento”
i n c h i a v e e a s y.
Becco e bastonato, Tim Buckl e y. A p o c h i p a s s i d a l l ’ a b i s s o ,
uomo incapace di quiete dietro
l’artista in crisi, tenacemente rannicchiato in un bozzolo
di regole e competenze, costretto ad inventarsi un’inedita umiltà quasi fosse l’ultima
chance (lo era?) di un’anima
troppo fragile e tempestosa.
Un artista in crisi, certo. Eppure, quella voce: sbruffona
e aliena, viscerale ed eterea,
corpo e spirito una cosa sola,
magnifico propellente d’inaudito. Trascurarla all’epoca fu
uno dei soliti scherzi bastardi del destino. Farlo oggi, uno
sbadato delitto tra i tanti.
Stefano Solventi
Soft Boys – Underwater Moolight (Armageddon, 1980 /
Matador, 2001)
Te m p i s t r a n i , i p r i m i a n n i O t t a n t a i n t e r r a b r i t a n n i c a . Te m pi in cui i suoni roboanti e maleducati del punk scemavano
inesorabilmente in favore delle decadenti stramberie claustrofobiche
della
nascente
new wave e dove l’irriverenza di band come Sex Pistols,
Buzzcocks,
Damned
veniva
rapidamente soggiogata e annichilita dalle turbe psichico-esistenziali dei lacrimosi
Joy Division, Cure, Bauhaus.
Difficile in un clima musicale
plumbeo e rassegnato come
quello ipotizzare una rinascita
musicale a tinte forti, ancora
più complicato procrastinare
l’avvento di esperienze sonore
legate a filo doppio alla cultura psichedelica e poppeggiante dei Sixties.
Eppure tra le viuzze malandate della Cambridge universitaria, scaldati dai rari sprazzi di
sole di un cielo grigio per contratto, nascevano nel ’78, su
iniziativa di Robyn Hitchcock,
K i m b e r l e y R e w, M a t t h e w S e l i g m a n , e M o r r i s W i n d s o r, i
Soft Boys.
Immaginatevi la scena: un club
di periferia, stipato fino all’inverosimile di revanscisti della
spilla da balia e depressi cronici dal muso lungo. Sul palco gli headliner della serata,
quattro malandrini dal coretto facile che citando indirettamente il William Burroughs
di The Soft Machine, si fanno
chiamare “ i ragazzi soffici”
e cantano di vibrazioni positive. Può esserci qualcosa di
meno cool e più fuori tempo di
tutto questo? E infatti i Nostri
rimarranno una band di culto
fino all’ ’82, anno che sancirà
definitivamente la fine della
loro avventura.
Un peccato se si pensa a A
Can Of Bees. acerba raccolta
di psichedelia retroattiva farc i t a d i c h i t a r r e à l a Te l e v i s i o n
e data alle stampe dal gruppo nel ‘79.; quasi una tragedia se ci si attarda a considerare l’opera pubblicata un
anno dopo, quell’Underwater
Moonlight che sancirà definitivamente l’ingresso del quartetto nello scintillante quanto
misconosciuto empireo della
neo-psichedelia inglese.
Tra le tracce del disco trovano
posto i Byrds più jingle jangle
e i tracciati irregolari di Captain Beefheart, le deviazioni
acide di Syd Barrett e l’afflato melodico di certi Beatles,
l’approccio strumentale dell’art rock americano e un’indole squisitamente pop, in un
emulsionespigolosa ed eccentrica, fuori sincrono e surreale, policroma e fantasiosa.
Una musica che imbastardisce
il punk storpiandolo nell’inno
politico di I Wanna Destroy
Yo u – i n v e t t i v a d e d i c a t a a l l’allora primo ministro inglese
Margaret Thatcher -, si srotola
in armonie corali e anfetaminiche degne dei migliori Beach
Boys in Positive Vibrations,
cita il Bowie più cavernoso
tra i colpi di riff che decorano
il blues drogato di I Got The
Hots, si abbandona ad arpeggi
alla Byrds “otto miglia più in
alto” in The Queen Of Eyes.
Dal cilindro del gruppo non
escono soltanto conigli bianchi ma una varietà di creature
fantastiche degne del miglior
Carroll, insoliti scarti melodici e progressioni mai banali,
a dimostrarlo il crescendo di
I n s a n e l y J e l o u s e To n i g h t , l o
s t r u m e n t a l e d i Y o u ’ l l H a v e To
Go Sideways o l’ironica title
track.
Se la personalità delle armonie non passa inosservata,
lo stesso dicasi per i testi
di Hitchcock: una ratatouille
di cieli cremosi, bulbi elettrici, gelosie insane, vecchi
pervertiti,insetti che scorrono
sottopelle, parte integrante di
un immaginario narrativo figlio
delle ossessioni di Syd Barrett ma al tempo stesso estremizzatosi verso un’esaltazione dell’accostamento insolito,
del gusto per l’iperbole.
Un disco da classificare alla
voce “pop psichedelico” , sopravvissuto
all’inesorabile
trascorrere del tempo in virtù della forte personalità ed
eguagliato soltanto da quel
Nextdoorland che nel 2002
sancirà la reunion ufficiale
della cricca di Hitchcock.
Fabrizio Zampighi
sentireascoltare 79
rubrica la sera della prima
a c u r a d i Te r e s a G r e c o
Il castello errante di Howl (di Hayao Miyazaki –
Giappone, 2004)
Dal Castello di Cagliostro al Castello di Howl. La sapienza
scenografica di Miyazaki ha pochi eguali. Gran parte del piacere della visione di un suo film deriva anche dallo studio
degli ambienti, dal vedere i personaggi muoversi in un vasto
spettro di soluzioni, che vanno dal fitto boschivo di Nausicaä
e Mononoke, al gotico claustrofobico delle torri di Indastria e
Cagliostro, fino a respirare a pieni polmoni la natura aperta,
solare e incontaminata delle varie distese di Highharboar e
To t o r o . I l c a s t e l l o e r r a n t e d i H o w l t r a d i s c e a l l ’ i s t a n t e l a m a n o
del suo autore. Il tratto si è ormai fatto così sottile e raffinato, che parrebbe impossibile vederne un’ ulteriore evoluzione.
I fondali sono di rara bellezza, secondi probabilmente solo a
quelli de La città incantata e Mononoke (sebbene la texture
d e l l a G i u n g l a To s s i c a d i N a u s i c a ä r i m a n g a l a s u a c o s t r u z i o n e
più visionaria). La città del film ha un appeal da romanzo ottocentesco e assomiglia a quella di Kiki, seppure piena di un
fascino fin de siècle, che a quella mancava.
Data per assodata, quindi, un’evoluzione nella continuazione
per quanto riguarda grafica e design, Il castello errante di
Howl rappresenta per Miyazaki il luogo per tentare di percorrere strade nuove. La storia, tratta dal romanzo di Diana Wynne
Jones, garantisce all’autore la possibilità di muoversi dentro
un universo di riferimenti in linea con la sua poetica: la guerra, l’ideale femminile, l’evoluzione esistenziale da affrontare,
la metamorfosi metaforica, l’alternanza aperto-chiuso, l’amicizia e la morale come motore dei rapporti umani, lo scontro
tra diverse ideologie. Rispetto al solito articolarsi lineare degli eventi, il film sceglie però di seguire una sovrapposizione
sempre più complessa dei piani del racconto: un labirinto di
accadimenti, che da poco più della metà del film, perde il bandolo della matassa, per ritrovarlo, in fretta e furia, prima dello
scoccare della fine. Un passo falso nella sceneggiatura cui
Miyazaki difficilmente va incontro.
L’ a u t o r e g i a p p o n e s e s i l a s c i a a n d a r e n o n s o l o n e l l e m o d a l i t à
narrative, ma anche nel modo di caratterizzare i protagonisti.
L’ e s e m p i o p i ù e v i d e n t e è H o w l . B e l l o e d a n n a t o , d a i t r a t t i s p i golosi, laddove il “maestro delle anime” è noto per il privilegiare fattezze rotonde e cadenze morbide. Probabile richiamo
ironico al bishonen tipico dello shojo manga, il bello e imbronciato peculiare dei manga con tematiche romantiche, Howl è
un adone devoto alla superficialità dell’esistenza. Un inedito
trattamento viene riservato anche a Sophie, la protagonista
femminile. Grigia e algida da giovane, Miyazaki ce la presenta
come una ragazza scialba, priva di interesse e interessi (la
80 sentireascoltare
visione del castello errante, dalla finestra, la annoia…). La
maturazione a vera e propria eroina, piena di passione e fervore, paradossalmente, si verificherà solo dopo la metamorfosi
in anziana. Il castello errante di Howl è un film minore e di
passaggio, che soffre di alcune soluzioni non compiute e di una
sceneggiatura farraginosa. Eppure…ci sono più cose in un film
minore di Miyazaki di quante ce ne siano in tutta la produzione
hollywoodiana attuale. Un premio come miglior attore non prot a g o n i s t a a l f u o c h e r e l l o - d e m o n e C a l c i f e r, p e r c o r t e s i a !
Antonello Comunale
The Interpreter (di Sydney Pollack - USA / GB / Francia,
2005)
“Con questo film volevo soprattutto provare a valorizzare il peso delle parole a discapito delle lotte armate, volevo tentare di far comprendere quanto queste siano importanti nella comunicazione tra i
popoli più di ogni arma da fuoco, più di ogni bomba”.
Sydney Pollack
To r n a S y d n e y P o l l a c k i n u n t h r i l l e r c h e m i s c h i a p o l i t i c o e p r i vato, terrorismo internazionale e dolorose scelte personali, un
film in cui per la prima volta è stato dato il permesso di girare
all’interno del palazzo dell’ONU, complice una sceneggiatura
in cui si sottolinea più volte l’importanza dell’organizzazione nella mediazione dei conflitti internazionali.La vicenda si
snoda nel tentativo, da parte degli agenti federali, di impedire
l’assassinio del dittatore di uno stato africano, assassinio di
cui un’ interprete delle Nazioni Unite, africana bianca, ha sentito casualmente parlare nel raro dialetto da lei conosciuto.
Parallelamente avviene l’incontro di due persone, l’interprete
(Nicole Kidman) e un agente federale (Sean Penn), che la protegge, che si scoprono complici nel dolore recente che li accomuna (la morte della moglie di lui, la sparizione del fratello
per lei) e che trovano il modo di comunicare profondamente,
nonostante reciproche diffidenze, incontrandosi spiritualmente
e scoprendo le loro affinità.
Un film parzialmente riuscito, a tratti retorico, con una sceneggiatura non messa a fuoco, che vorrebbe rinnovare i fasti
del thriller politico anni ’70 del regista (I tre giorni del cond o r, 1 9 7 5 ) e n o n v i r i e s c e , n o n o s t a n t e l a c u r a n e l d i r i g e r e g l i
attori (marchio del regista; ottime le interpretazioni dei protagonisti), e una costruzione narrativa che si svolge per sovrapposizioni successive creando tensione crescente, ma con una
lentezza che è caratteristica di Pollack. Solo a tratti emergono
le peculiarità stilistiche dell’autore, sommerse in una sceneggiatura banalizzata e in una scrittura dei caratteri che resta
alla superficie, senza mai scavare e far emergere le ambiguità
presenti nei due interpreti. Un’occasione sprecata.
Te r e s a G r e c o
La Sposa Cadavere (di Mike Johnson e Tim Burton - GB 2005)
D o p o l ’ a n t e p r i m a a l l o s c o r s o f e s t i v a l d i Ve n e z i a e i l q u a s i s c o n tato successo di pubblico una volta uscito nelle sale, cos’altro
si può dire che non sia stato già detto su La Sposa Cadavere, l’attesissimo ritorno di Tim Burton all’animazione in stopmotion dopo The Nightmare Before Christmas? Prescindendo
dall’alta qualità tecnica (il film è stato progettato e realizzato
in un arco di tempo di dieci anni), quel che resta è una favola
s e n t i r e a s c o l t a r e 81
noir ispirata a una vecchia fiaba ebraico-russa, in cui la paura di non essere all’altezza della persona amata coinvolge il
giovane Victor in un incubo gotico, da cui sarà molto difficile
uscire. Trascinato dalla Sposa cadavere, alla quale si scopre
involontariamente legato a causa di un tragico equivoco, si trova quindi implicato in un una situazione più grande di lui, che
lo porterà ad affrontare un viaggio di crescita e conoscenza
nell’aldilà.
La contrapposizione mondo dei vivi/mondo dei morti, uno dei
temi burtoniani sin dai tempi di Beetlejuice, qui si tinge di
ironia surreale, ribaltandone il classico schema: il mondo dei
vivi, gotico e vittoriano, in cui predominano le ombre, è grigio,
gretto, egoista; quello dell’aldilà è coloratissimo e gioioso, in
un tripudio di danze e musiche. Un modo per esorcizzare ironicamente la paura della morte? Per sfuggire al grigio mondo
reale dei vivi? La storia semplice e romantica del raggiungimento della vera sposa Victoria, che è alla base del film, offre
alla fine il pretesto per un viaggio all’interno di noi stessi e
delle nostre paure più profonde: dalla morte, all’inadeguatezza nei confronti delle situazioni, al rapporto bene / male; temi
affrontati con la consueta leggerezza e ironia. Il ritmo che
pervade la sceneggiatura rende la storia fluida, i personaggi
sono ben caratterizzati e si muovono in ambienti mozzafiato
che sono una gioia per gli occhi, dalle diverse sfumature di
grigi e azzurri di foreste e case ai colori vivi dell’aldilà, un
chiaro omaggio di Burton a Mario Bava. Non mancano inoltre
i consueti riferimenti e le citazioni filmiche (dai primi cartoni
Disney - Skeleton Dance - al corridoio di bare che ricorda Il
gabinetto del dottor Caligari, fino a Via col vento - la famosa frase “francamente, cara, me ne infischio” fatta dire a uno
scheletro con baffetti!), né tantomeno le invenzioni ironiche,
dal verme parlante consigliere solerte della sposa che vive nel
suo occhio semovente, al cagnolino scheletro (che richiama
quello del corto Frankenweenie), ai ragni tessitori…
Va l e v a l a p e n a d i a s p e t t a r e c o s ì a l u n g o .
Te r e s a G r e c o
82 sentireascoltare
rubrica cose dell’altro mondo
a cura di Ivano Rebustini
Per gli Impossibili: l’album dei Brut Party uscito durante la Grande
Guerra. E poi, Inaudito: il progetto benefico di Aiuola Dischi “Adotta un nonno”, Sufjan & Garfunkel sulle orme di Simon & Garfunkel;
Incredibles News, nuovo cantante per quel che resta dei Queen, proposta inaccettabile di Mick Jagger per il disco natalizio di Sir Bob
Geldof; Robbie Williams e Michael Stipe a Parole in libertà.
GLI IMPOSSIBILI
Brut Party
The Golden Cup Of Coffee (Drag ‘n Domino, 1915-18)
di Neon Eater
Ci risiamo. A ridosso dei clamorosi trionfi di Bloc Park e Franz
Art, ecco farsi largo un’altra giovane formazione che mette
in bella copia quanto udito nei primi anni Ottanta in Austria e
strizza l’occhio al sound tipico della no wave di Leeds. I Brut
P a r t y, M i c h a e l K a n e ( v o c e e c h i t a r r a ) , P a u l B u r u l c i c h ( c h i t a r r a
e voce), Jacqueline Kapranos (voce e basso) e David Conway
(basso e voce), sono un combo scozzese di Newcastle di quattro elementi anarchici e irriverenti, giunto alla prima prova
discografica dopo un paio di fortunati singoli usciti alla fine
d e l 1 9 1 4 . L’ i n t r o d i S h e ’s H e a r i n g L e s s a n d L e s s ( 5 0 m i n u t i d i s o n o r i t à d r e a m p u n k s p a r a t e a
palla tra primissimi U2 e certo indie pop à la Duran Duran), affidata a sola voce e headbang,
richiama subito alla memoria i conterranei Belle and Ferdinand, ma si cambia subito tono nella
s t r a z i a n t e b a l l a d R u s t e d W a l l s O f M a t i n e e , c o n u n b a s s o s m a c c a t a m e n t e Te a r s F o r C u r e c h e
ci conduce verso un brano nella migliore tradizione indie d’oltremanica, A Million Arms Around
My Night, ritmo sincopato di chitarre rabbiose e testo very british, abbastanza perché Frank E.
Smith dei Gang Of Heads s’incazzi un po’.
L’ a b b o n d a n z a q u a s i n i e t z s c h e a n a d i c a r b u r a n t e f a p e r ò i n g o l f a r e i l m e c c a n i s m o , a l p u n t o c h e
già dopo pochi pezzi senz’altro belli e maledetti, il loro omonimo disco d’esordio sembra un
Frankenstein incapace di reggersi in piedi, sepolto da una cifra stilistica nauseante che raccoglie il passato contestualizzandolo e aprendo la strada a chitarre ispide a orologeria, tempi
retoricissimi in levare, elettricità liquida, basso incalzante e onnipresente, soli spastici e ipertrofici (di scuola Jarvis Foxx). Per non dire di quella Amanda che è pura devozione Mark Black
(dal grattugiamento divertente e dancereccio di chitarra al corettino sornione e sordido della
bassista Jacqueline). Tutto, in The Golden Cup of Coffee, è un continuo rimando alla libidine
platonica della musica inglese fatta con chitarre agrodolci, basso a 24 carati, batteria emul
glam e una tastiera diagonale.
Alla lunga però sfugge l’identità complessiva del progetto. Anche se, attenzione, qui c’è tutto
quello di cui avete bisogno: i Sixties, rappresentati dallo spudorato supermarket-style in metallo, i Seventies dalla magniloquenza revival che si riduce all’urgenza di vestirsi in camicia
e cravatta working class, gli Eighties dalla memoria squisitamente ludica di matrice dance, i
Nineties dalla cicca nella birra squisitamente pop-wave che ricorda il disco giusto al momento
giusto dello Strummer malato in perfetto stile dark. Oppure, enjoy anche questa volta, e avanti
il prossimo. Non ci sembra affatto poco. (5.2/10)
s e n t i r e a s c o l t a r e 83
INAUDITO
Autori Vari - Adotta un nonno (Meglio tardi che Mei) (Aiuola Dischi, 2005)
Dopo l’exploit di Marta sui Tubi (il duetto con Bobby Solo in Via Dante nell’ultimo C’è gente
che deve dormire), si è aperta una sorta di gara tra le etichette indie, obiettivo una compilation
nella quale band con nomi di donna duettassero con arzilli nonnetti della musica leggera italiana. La gara è stata vinta da Aiuola Dischi, che si è catapultata nei negozi con questo Adotta
un nonno, sottotitolo Meglio tardi che Mei (che non c’entra un cazzo, ma spezza una lancia a
favore della protesta dei Perturbazione nei confronti delle scelte generaliste prese dai vertici
del meeting di Faenza). Tra le sigle coinvolte nel progetto, il cui ricavato sarà devoluto alla re s i d e n z a p e r c a n t a n t i i n p e n s i o n e “ C a s e t t a i n C a n a d a ” , s i s e g n a l a n o : Va l e n t i n a d o r m e c o n J i m m y
Fontana per l’inesorabilmente platonica The World, cover in inglese de Il mondo; Maisie & Piero
Focaccia (Alberto Scotti ha dichiarato: “Non so niente di lui, ma il suo cognome è una garanzia”) in Stessa spiaggia stesso mare; Non voglio che Clara + Mal con una versione evocativa e
r a l l e n t a t i s s i m a d i B e t t y B l u . ( i . r. )
Sufjan & Garfunkel - America (Manhattan Records, 2005)
Dando ragione a chi ha visto in lui il vero, unico erede di Paul Simon, nei ritagli di tempo lasciatigli dalla sua attività di “turista per caso” Sufjan Stevens ha inciso un disco con Art Garfunkel,
l’altra metà del celeberrimo duo. Un concept album geografico, si potrebbe dire, e del resto
basta scorrere la lista dei brani: dalla title track America a Bleeker Street, da The 59th Street
B r i d g e S o n g a T h e O n l y L i v i n g B o y i n N e w Yo r k , S u f j a n & G a r f u n k e l r i p e r c o r r o n o l e p i s t e t r a c ciate “coast to coast” dalla coppia, più volte scoppiata e ricomposta, di Bridge Over Troubled
W a t e r . E p e r i l g r a n f i n a l e , M y L i t t l e To w n , S t e v e n s h a c h i a m a t o S i m o n i n p e r s o n a , i n s i e m e a
J a m e s G a r f u n k e l , f i g l i o d i A r t , e a g l i i m m a n c a b i l i E v e r l y B r o t h e r s . ( i . r. )
INCREDIBLES NEWS
Licenziato Paul Rodgers (“Ci siamo resi conto che a noi non serviva un cantante”, ha spiegato
Brian May), quel che è rimasto dei Queen ha deciso di sostituire l’ex vocalist dei Free con Jus t i n H a w k i n s d e i D a r k n e s s : “ P a u l n o n h a m a i a c c e t t a t o d i i n d o s s a r e l e t u t i n e d i F r e d d i e M e r c u r y,
m e n t r e J u s t i n n o n v e d e l ’ o r a ” , h a a g g i u n t o R o g e r Ta y l o r . S d e g n o s o s i l e n z i o d a p a r t e d i J o h n
D e a c o n , d a s e m p r e c o n t r a r i o a s p e c u l a z i o n i n e l n o m e d e l l a “ R e g i n a ” . ( i . r. )
L’ u s c i t a d i W h a t I R e a l l y Wa n t F o r C h r i s t m a s , l ’ a l b u m n a t a l i z i o d i B r i a n W i l s o n , h a i n o c u l a t o u n a
pulce nell’orecchio di Sir Bob Geldof, che ha subito messo in cantiere un analogo progetto, a
sostegno dei bambini poveri della Lapponia. Dopo aver ottenuto il sì convinto di Bono e Paul
M c C a r t n e y, p r i m o i n t o p p o q u a n d o l ’ e x B o o m t o w n R a t s s i è r i v o l t o a i R o l l i n g S t o n e s : M i c k J a g ger non gli ha detto di no, ma ha proposto al malcapitato Bob una versione, riveduta e corretta,
d i u n a n t i c o h i t d e l l e “ P i e t r e ” , r e i n t i t o l a t o S y m p a t h y F o r T h e L o r d . ( i . r. )
PA R O L E I N L I B E R T À
Michael Stipe: “Non sono mai stato così imbarazzato in vita mia. Ero lì, vestito da pappagallo,
pronto per andare al party del mio amico ... (la legge sulla privacy ci ha obbligato a cancellare
da questa rubrica il nome e anche il cognome dell’amico di Stipe, N.d.R.), quando mi ha preso fuoco la casa. Poi vaglielo a spiegare a quel pompiere, conciato com’ero, che non era una
scusa. Lasciamo perdere poi quando quello stronzo ha cominciato a cantare Light My Fire...”.
( i . r. )
Robbie Williams: “Una dichiarazione dopo aver vinto l’Mtv Europe Music Awards come miglior
cantante? Io dico sempre: non sono queste le cose importanti. Comunque ho dimostrato a tutti
che sono tornato, e a chi non credeva in me, che l’infortunio al ginocchio è solo un brutto ricordo. Dedico questa vittoria a una famosa pornostar morta la scorsa settimana di Aids e a Maradona, che prima di dimagrire è stato trattato molto male dai media. E adesso torno in silenzio
s t a m p a ” . ( i . r. )
84 sentireascoltare
Scarica

Il lato buio della mela