Introduzione all’Orestea di Eschilo
Prima di affrontare direttamente l’Orestea, mi sembra opportuno
ricordare alcuni aspetti del fenomeno teatrale nella civiltà greca
classica, nella Grecia, cioè, del V—IV sec. a.C. Tutti gli studiosi
concordano nel sottolineare un primo aspetto fondamentale del
teatro greco: esso si rivolge ad una collettività, non a singoli
individui,presupponendo una fruizione diretta,immediata del testo,
basata sull’esperienza visiva e uditiva. L’intera collettività,
uscendo dalle occupazioni della vita quotidiana, si trova immersa
per alcuni giorni in una dimensione culturale di cui essa stessa è
partecipe — è noto che il cittadino povero riceveva dalla po/lij un
apposito contributo, il qewriko/n, due oboli per ogni giorno di
spettacolo, elargiti anche per indennizzare della giornata
lavorativa persa — partecipe anche per la particolare struttura
architettonica
del
teatro
greco,
che
vede
non
una
contrapposizione, come avviene nel teatro moderno, tra attori e
spettatori, ma una simbiosi tra questi e quelli, trovandosi
l”orchestra”, il luogo, cioè, dove danzava il coro, al centro
dell’emisfero su cui sedevano gli spettatori. Spettatori che, ci
ricorda Umberto Albini in una sua opera sul teatro greco, Nel nome
di Dioniso del 1991, partecipavano con tali reazioni emotive che
il più scatenato dei nostri loggioni poteva definirsi “pacifico”
in confronto alle platee ateniesi di allora. In segno di
disapprovazione,
dice
Aristotele
nell’Etica
Nicomachea,
si
masticavano rumorosamente i cibi, si tiravano proiettili di ogni
genere, fichi,olive,verdure,persino sassi, al punto che uno
spiritoso autore di commedie,una volta, distribuì egli stesso agli
spettatori una provvista di pietre prima dello spettacolo, ce lo
dice Ateneo; si fischiava (suri/ttw), si schiamazzava (klw/zw), si
pestavano i piedi (pternokope/w), si battevano le mani (krwte/w).
Naturalmente, questo comportamento del pubblico, per tenere a
freno le cui intemperanze c’erano i buttafuori o r(abdou=xoi, poteva
influenzare
anche
il
verdetto
della
giuria.
Commentando
questi atteggiamenti degli spettatori,lo studioso Charles Rowan
Beye (nel suo saggio su Letteratura e pubblico nella Grecia
antica, pubblicato in Italia nel 1979),dice che “la folla aveva
caratteristiche animali; l’atmosfera era carica di passione e di
una tensione che tradivano la natura volubile della massa”.
Un altro aspetto su cui dobbiamo brevemente soffermarci, e che
costituisce un elemento di abissale differenza tra il teatro
greco, in primis la tragedia, e il teatro moderno, è che il primo
fu
anzitutto
un
fenomeno
religioso,
svolgendosi
le
rappresentazioni teatrali in onore di Dioniso, il dio della danza,
della musica, delle pulsioni misteriose e prepotenti del nostro
inconscio, che, come è noto, il filosofo Federico Nietzsche, nella
sua famosa opera La nascita della tragedia, del 1871, contrappone
al dio luminoso e solare, Apollo. L’ara di Dioniso, la qume/lh, è al
centro dell’orchestra, le rappresentazioni teatrali hanno luogo in
occasione di speciali feste religiose che cadono in date e periodi
tradizionali, le Grandi Dionisie o Dionisie Cittadine, le Piccole
Dionisie, le Lenee, le Antesterie, tutte ricorrenti nel periodo
invernale—primaverile, quando meno impegnativi sono i lavori
campestri e le operazioni militari subiscono un’interruzione. Il
fatto che il teatro avesse in Grecia una funzione religiosa fa sì
che gli spettatori partecipassero non solo con lo stato d’animo di
chi vuole divertirsi, ma consapevoli di prendere parte ad un rito
collettivo,
dalle
finalità
essenzialmente
paideutiche.
Il
drammaturgo è consapevole di essere soprattutto un ‘demiurgo’, un
“consigliere” della comunità. “Chi è il miglior poeta?”, ci si
chiede nelle Rane di Aristofane parlando dei poeti tragici, e la
risposta è: ”Colui che sa dare buoni consigli alla città”.
Ma “educativa” la tragedia è anche perché, partecipando gli
spettatori emotivamente ai paqh/mata dei personaggi tragici,
vivendo in prima persona le vicende terribili che vedono sulla
scena, essi subiscono un effetto liberatorio dalle loro pulsioni
interne, si purificano da esse, ottenendo la ka/qarsij di cui parla
Aristotele. Ora, se il drammaturgo è anche un “opinionista”, è
chiaro che il teatro greco classico ha anche una finalità e una
funzione “politica” — pensiamo al significato politico della
commedia di Aristofane — e non può essere valutato e compreso se
lo consideriamo avulso dal tempo in cui opere che pure, per i
valori poetici in esse contenuti, trascendono il dato contingente,
sono state concepite. In questo senso, coglie molto bene il
problema lo studioso Jean Pierre Vernant quando, nell’opera
scritta con Pierre Vidal Naquet, Mito e tragedia nell’antica
Grecia, del 1972, afferma: ”La tragedia non è solamente una forma
d’arte; è un’istituzione sociale che, con la fondazione dei
concorsi tragici, la città instaura accanto ai suoi organi
politici e giudiziari. Instaurando sotto l’autorità dell’arconte
eponimo, nello stesso spazio urbano e secondo le stesse norme
costituzionali delle assemblee o dei tribunali popolari uno
spettacolo aperto a tutti i cittadini, diretto, interpretato e
giudicato dai rappresentanti qualificati delle diverse tribù, la
città si fa teatro; in un certo senso essa prende se stessa come
oggetto di rappresentazione e interpreta se stessa davanti al
pubblico”. A sua volta Luciano Canfora, nella sua Storia della
letteratura greca, afferma che “accanto all’assemblea popolare ed
ai tribunali il teatro è in Atene un pilastro del funzionamento
politico della comunità”, e altrove ribadisce che “fare teatro è,
in Atene, ma poi anche altrove, un’attività pubblica, un’attività
strettamente e formalmente connessa al funzionamento dello Stato.”
Ma questo esercita,a sua volta, un controllo attento sull’opera da
mettere
in
scena,
preliminarmente
sottoposta
al
vaglio
dell’arconte
eponimo
e
di
un’apposita
giuria.
Lo
dice
esplicitamente Platone nelle Leggi: “Saremmo completamente pazzi,
non solo noi, ma tutta la città, se vi autorizzassimo a fare ciò
che avete appena detto (cioè venire in città a recitare
liberamente drammi innanzi al pubblico), prima che i magistrati
abbiano valutato se avete o meno composto drammi che si possono
recitare, ed atti ad essere portati in pubblico”. Esisteva dunque
un severo controllo “politico” su quanto veniva messo in scena, e,
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anche sotto questo aspetto, non c’è dubbio che, come afferma
Degani nel suo saggio su Democrazia ateniese e sviluppo del dramma
attico, del 1979, ”che anche la tragedia greca, non meno della
commedia, rappresenti un vero e proprio ‘specchio’ del suo tempo,
rifletta la complessa realtà storica, sociale e politica entro la
quale è sorta e si è sviluppata, oggi non può più essere messo in
dubbio... Il poeta tragico è in realtà sempre engagé, intende
svolgere un compito di educatore tra i suoi concittadini, cui
propone, tra le pieghe del mito, la sua particolare visione del
mondo e, con essa, il suo implicito giudizio sulla realtà
contemporanea”. Il tragediografo evita le trame originali, non
inventa la vicenda che mette in scena, la trova nella ricca
tradizione leggendaria del periodo orale, cioè nel MITO, con le
innumerevoli e aggrovigliate varianti (vale la pena, a questo
proposito, di leggere l’interessante libro di Paul Veyne, I Greci
hanno creduto ai loro miti?, edito in Italia dal Mulino nel 1984).
Ma
il
drammaturgo
reinterpreta
di
volta
in
volta
il
mito, lo attualizza, per così dire, a seconda della sua personale
ispirazione, del momento storico, della finalità paideutica che
egli intende dare. Reinterpretando il mito, e attualizzandolo,
egli attua anche un confronto tra i valori eroici del passato e il
presente, il “suo” presente, che mette in discussione, e dalle
tensioni contrapposte tra il mito e la realtà presente si disegna,
appunto, l’uomo tragico, che costituisce anche una risposta, si
chiami Oreste, o Antigone, o Edipo, o Medea, a un dibattito
culturale, politico, filosofico in atto in quel determinato
momento nella città. Dicono gli studiosi Vernant e Vidal Naquet:
”L’universo tragico si colloca tra due mondi, ed è questo doppio
riferimento al mito, concepito ormai come appartenente a un tempo
trascorso ma ancora presente nelle coscienze, e ai nuovi valori
sviluppati con tanta rapidità dalla città di Pisistrato, di
Clistene, di Temistocle, di Pericle, che costituisce una delle sue
originalità e la molla stessa dell’azione. Nel conflitto tragico,
l’eroe, il re, il tiranno appaiono ancora ben inseriti nella
tradizione eroica e mitica, ma la soluzione del dramma sfugge
loro: essa non è mai data dall’eroe solitario, essa riflette
sempre il trionfo dei valori collettivi imposti dalla nuova città
democratica.”
Alla luce di queste considerazioni che abbiamo cercato di
organizzare,accingiamoci dunque ad una lettura dell’Orestea, che,
come sapete, è l’unica trilogia a noi pervenuta intera del teatro
greco. Essa fu messa in scena nel 458 a.C. in Atene insieme con il
dramma satiresco Proteo ora perduto; Eschilo era ormai vicino ai
70 anni, essendo nato nel 525 a.C., e la vittoria da lui riportata
con questa trilogia fu anche l’ultima delle 13 ottenute nel corso
della sua vita, che si sarebbe conclusa di lì a due anni, nel 456
a Gela, in Sicilia.
Quale è la situazione politica di Atene in quegli anni? Tre anni
prima della messa in scena della trilogia, dunque nel 462—61, il
partito democratico guidato da Efialte e dal giovane Pericle aveva
drasticamente ridotto il potere politico dell’Areopago,il vecchio
consiglio degli arconti usciti di carica che costituiva una sorta
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di roccaforte aristocratica, esercitando,dice Canfora, “una specie
di potere ‘tutorio’ sullo Stato e sulla stessa legislazione”,
tanto è vero che Aristotele lo definì “fulakh\ th=j politei=aj”. Si
verificarono in città gravi tumulti e, nel corso di questi,
Efialte venne assassinato da un sicario degli oligarchi. D’altra
parte, proprio in quelle circostanze il leader del partito
conservatore, Cimone, si trovava impegnato a fianco di Sparta nella
guerra contro Itome, in Messenia, ma, pur filospartano, venne
bruscamente congedato da Sparta, perché il contingente ateniese da
lui guidato non era riuscito a venire a capo di niente. Umiliata,
Atene passò,per ritorsione,a stringere un’alleanza con Argo,
tradizionale avversaria di Sparta nel Peloponneso. Più volte, come
vedremo,nel corso dell’Orestea si inneggia a questo patto di
fedeltà tra Atene ed Argo, che Eschilo si augura rimanga eterno.
La città di Argo, peraltro, appare anche nelle Supplici: è infatti
in Argo che si rifugiano le cinquanta Danaidi, inseguite dai loro
sgraditi pretendenti: ad esse Pelasgo, re della città, offre
generosa ospitalità, dopo aver sentito il parere dei suoi
cittadini.
Eschilo si ispirò per l’Orestea ad un mito antichissimo, una cui
eco è già nell’Odissea omerica, nel cui XI libro Agamennone,
evocato dal mondo dei morti, racconta come egli sia perito non per
colpa di tempeste o di genti selvagge, “ma Egisto,che mi tramava
morte e rovina,/ m’uccise e la mia sposa funesta, chiamandomi in
casa,/ a banchetto, come s’uccide un toro alla greppia./ Così
morii, della morte più triste; e intorno gli altri compagni/ eran
scannati senza pietà”. Accanto a lui,racconta Agamennone, venne
uccisa Cassandra, per mano di Clitemestra, e invano egli tentò di
proteggerla dalla mano omicida. “La cagna/ se n’andò via, non ebbe
cuore, mentre scendevo nell’Ade,/ di chiudermi gli occhi con le
sue mani, e serrarmi la bocca”. Anche nella perduta versione
lirico—corale di questa fosca vicenda, fattane da Stesicoro, di
cui conosciamo il contenuto, e nella Pitica XI di Pindaro,
Clitemestra compie di propria mano l’assassinio del marito. Ma
sulla stirpe di Atreo gravava una maledizione antichissima: diceva
infatti la leggenda che Tantalo, un re asiatico figlio di Zeus,per
mettere alla prova l’onniscienza divina, avesse ucciso suo figlio
Pelope e ne avesse imbandito le carni come cibo alla mensa degli
dei. Per questo era stato punito nell’Ade all’eterna pena di fame
e sete. Pelope, richiamato in vita da Ermes che gli sostituì con
una spalla d’avorio quella già addentata da Demetra (di questo
particolare si ricorderà Pindaro nell’Olimpica I), ottenuta in
moglie Ippodamia figlia di Enomao re dell’Elide, ne ebbe due
figli, Atreo e Tieste, il primo sovrano di Micene, l’altro di
Argo. Insorto un odio violento tra i due, Tieste, che aveva
sedotto la moglie del fratello ed era stato perciò da questi
esiliato, riuscì a persuadere un figlio di Atreo, Plistene,
insieme con il quale era fuggito da Argo e che aveva allevato come
suo figlio, a andare a Micene per uccidere suo padre. Scoperta la
cosa, Atreo mise a morte, ignorando chi fosse, il giovane, poi,
appresa la verità, si vendicò nel modo più atroce: invitati a
banchetto, a Micene, Tieste e i suoi due figli, fingendo di
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volersi rappacificare, uccise all’insaputa del padre i due
giovinetti, ne fece a pezzi i corpi e li imbandì a Tieste. Questi,
conosciuta l’orribile verità, maledisse l’intera stirpe dì Atreo.
I figli di Atreo, Agamennone e Menelao, furono cacciati da Micene
ad opera di Egisto,l’unico dei figli di Tieste salvatosi, che, per
vendetta, uccise Atreo. I due Atridi, fuggiti a Sparta, sposarono
due donne spartane, Agamennone Clitemestra, Menelao Elena, e in
seguito compirono l’impresa di Troia, dopo che Agamennone aveva
recuperato il regno di Micene, cacciandone Egisto. È ora da notare
che in Eschilo Agamennone è sovrano non di Micene ma di Argo, e
questa variante del mito è certamente dovuta ad una forma di
omaggio verso la città alleata. Questa preistoria,per così dire,
dell’Orestea ci introduce nell’intrico delle vicende di un ge/noj,
una stirpe maledetta, come maledetta era la stirpe dei Labdacidi,
cui Eschilo aveva dedicato la tetralogia Laio — Edipo — Sette
contro Tebe — Sfinge, messa in scena nel 467 a.C. Ma se questa era
stata la preistoria remota del dramma, c’era un antefatto più
recente, e altrettanto sanguinoso: per consentire alla sua flotta
di salpare essendo questa trattenuta in Aulide da venti contrari,
Agamennone aveva dovuto sacrificare sua figlia Ifigenia (che
appare in alcune varianti del mito anche con il nome di
Ifianassa), subordinando il proprio affetto paterno a quella che
chiameremmo “ragion di Stato”; ma questo aveva scatenato nella
moglie Clitemestra un forte risentimento nei confronti del marito,
così che ella, spinta anche dalla frustrazione dei tanti anni in
cui era dovuta vivere sola mentre il marito era lontano, si era
concessa ad un amante, quell’Egisto figlio di Tieste, che nutriva
altrettanto rancore verso il cugino Agamennone. Debbo premettere
ora che per le citazioni mi sono servito della traduzione di
Valgimigli (1948, poi BUR 1980), pur riconoscendo non poca
bellezza poetica e suggestione alla traduzione di Pier Paolo
Pasolini (Einaudi, 1960), poco rispettosa, però, a parer mio, del
linguaggio poetico eschileo.
L’Agamennone si apre con una fantastica visione di fuochi notturni
che si rincorrono dalla Troade ad Argo e che annunciano la caduta
di Troia. La vedetta, stanca di vegliare di notte sull’alta torre
di Argo, esulta all’apparire di quei fuochi, ma all’esultanza si
mescola subito, nelle sue parole, un cupo senso di angoscia, che
nella PARODO, cantata dal coro di vecchi argivi, trova una sua
giustificazione: il ratto di Elena, causa della guerra, è
paragonato ad avvoltoi che, “dolenti dei figli strappati loro dal
nido/ in alto sul nido volteggiano”, mentre Zeus “spedisce contro
i predatori le Erinni”. Chi sono le “Erinni”? Le “Erinni”, “Le
Irate”, sono raffigurate come geni alati, con capelli intrecciati
a serpenti; esse tengono in mano torce o fruste. Loro dimora è
l’Erebo. Sono forze primitive, odiose anche agli dei. Vendicatrici
dei delitti contro la famiglia, esse proteggono l’ordine sociale e
perseguitano chiunque tenti di violarlo con la sua u(/brij. Già nella
Parodo dell’Agamennone appare questo riferimento alle Erinni,
molto significativo perché, come osserva lo studioso Vincenzo Di
Benedetto in un lavoro fondamentale su Eschilo, L’ideologia del
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potere e la tragedia greca, (1978) le “Erinni sono non a caso una
costante in tutta la trilogia”, non soltanto persecutrici di chi
ha versato il sangue materno ma anche strumento della giustizia di
Zeus, che appare come il garante di una norma universale. Un
tempo, narra poi il coro, si presentò ai due Atridi, capi
dell’esercito, una visione profetica: due aquile che divoravano
una lepre, presagio della distruzione di Troia. Appare in questa
immagine uno dei temi caratteristici dell’Orestea, quello della
caccia e del sacrificio, che è stato ampiamente studiato da Pierre
Vidal Naquet in un saggio del 1969, per cui la tematica venatoria,
come dice Albini, ”intesse un sottile ordito per tutta l’opera”,
conferendo “un alone più selvaggio e quasi animalesco alla
vicenda”. La seconda parte della Parodo, che inizia con l’inno a
Zeus — “Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace
essere chiamato, con questo ti invoco” — presenta poi uno dei
motivi di fondo della concezione religiosa eschilea, la legge del
pa/qei ma/qoj: ”Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali, facendo
valere la legge che sapere è soffrire. Geme anche nel sonno,
dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e così agli uomini
anche loro malgrado giunge saggezza; e questo è beneficio dei numi
che saldamente seggono al sacro timone del mondo”. Si apre a
questo punto, per noi, un problema: come interpretare il
personaggio di Agamennone, di cui il Coro ricorda il sacrificio
compiuto, di Ifigenia sua figlia? Un arrogante e vanitoso, come è
sembrato a vari studiosi, anche a proposito della famosa scena dei
tappeti purpurei, o un uomo intimamente tormentato, costretto
dalla necessità ad agire, come sarà poi per Oreste, facendo forza
alla propria volontà? Certamente, un personaggio della cultura
epico—eroica,
di
cui
Eschilo
coglie
ora
la
drammatica
problematicità: ”Mala sorte è la mia se obbedienza rifiuto, mala
sorte se la figlia sacrifico... Quale delle due sorti è peggiore?”
Ifigenia uccisa, dunque,come “capra selvatica”, e il Coro insiste
nel sottolineare lo strazio che il padre avrà provato nel vedere
sua figlia condotta, imbavagliata, all’altare, mentre alla sua
mente torna il ricordo di quando la ragazza cantava “con casta
voce” in occasione dei banchetti. Concludendo il suo canto, il
Coro ribadisce: ”Solo a chi ha sofferto, bilancia di giustizia
concede sapienza. Il futuro, dopo accaduto lo puoi conoscere.
Prima, segua suo corso”. Dal momento del sacrificio di sua figlia
inizia dunque, per Agamennone, un processo psicologico che lo
porterà alla moderazione. Ma è a questo punto che l’apparizione
sulla scena di Clitemestra, seguita dalle ancelle, polarizza su di
sé l’attenzione, con la sua personalità complessa, agitata da un
groviglio di sentimenti difficili a districarsi tra loro, rancore
per il marito che le ha ucciso la figlia, sorda gelosia quando
vedrà accanto a lui la schiava-concubina Cassandra, dedizione
passionale all’amante Egisto, che, da parte sua, odia Agamennone:
simulatrice e dissimulatrice, ella rievoca la corsa dei segnali di
fuoco, che hanno annunciato la caduta di Troia e l’imminente
ritorno dello sposo, ma alla sua mente si presentano le scene
della distruzione della città, in un viluppo di corpi ansimanti
nella violenza e nella morte. Ma le sue parole suonano ambigue:
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quando ella parla di “male sofferto dai morti” saremmo indotti a
pensare ai Troiani uccisi, ma forse ella pensa alla figlia
sgozzata. Così la frase famosa: ”Donna io sono, e pensieri di
donna tu ascolti da me” acquista qui significato sinistro:
ella è donna, ma anche madre, e il desiderio di vendetta si annida
nel suo cuore. Nel I Stasimo il Coro, dopo l’invocazione a Zeus
che ha gettato “una fittissima rete” sulle torri di Troia per cui
nessun nemico è potuto sfuggire al “laccio” della schiavitù,
introduce un altro concetto fondamentale della religiosità
eschilea quale appare nella trilogia: i Troiani hanno violata la
“santità dei diritti”, e per questo gli dèi, che sono tutt’altro
che inerti, anzi, che sempre, prima o poi intervengono, li hanno
puniti: “Bene supremo è misura. Innocente sia la fortuna e basti a
chi è savio”. Si esprime in queste parole quell’elogio della
povertà che è tutt’uno con l’ideale di una condizione di vita
umile e modesta, altro tema ricorrente della trilogia. Dice ancora
il Coro: ”Io preferisco una prosperità che non provochi invidia:che
io né sia un distruttore di città né veda la mia vita sotto il
dominio
di
un
altro”.
Se
è
vero
che,
come
ha notato il grande filologo Eduard Fraenkel nel suo studio
sull’Agamennone del 1950, è evidente in queste parole il
riferimento allo fqo/noj qew=n,in linea con tanta parte della poesia
arcaica greca, da Esiodo a Solone, è anche vero che,nella menzione
che il Coro fa, nella seconda parte dello Stasimo, dei tanti
guerrieri greci caduti sotto le mura di Troia, che, partiti tra
gli auspici dei familiari, tornarono “ceneri e urne”, si esprime
non soltanto una recisa condanna della guerra, ma viene capovolta,
in certo senso, come ha osservato Di Benedetto, la concezione
tirtaico—estetizzante della guerra: belli, eu)/morfoi, sono i caduti
in guerra, ma assurda e sproporzionata è stata questa, perché “per
colpa di una donna altrui tutti morirono”. Gli dèi prima o poi
puniranno il colpevole di tanti lutti, servendosi delle Erinni,
che, nelle parole del Coro, appaiono strumento di Zeus.
L’araldo che entra in scena, all’inizio del II Episodio, per
annunciare l’imminente ritorno in patria di Agamennone conferma che
i Greci hanno fatto terra bruciata della città nemica: Agamennone,
egli dice, “ha distrutto Troia con la zappa di Zeus realizzatore
di giustizia; con questa zappa il suolo è stato dissodato e sono
scomparsi altari e templi degli dèi, e tutto il seme della terra è
stato distrutto”, parole che, lungi dall’avere un significato di
legittimo orgoglio per la vittoria conseguita, assumono una
risonanza sinistra, che preannuncia i disastri cui l’armata
sarebbe
andata
incontro
nel
viaggio
di
ritorno.
Già ridotti al rango di bestie irsute e selvagge durante la
guerra, i soldati, nel no/stoj hanno dovuto patire il fuoco e il
mare avverso: navi infrante, legni che cozzano paurosamente tra
loro, il mare cosparso di cadaveri. Sinistra suona, in questo
momento, la voce di Clitemestra: ”Venerato sposo! Quale giorno a
una donna può splendere più dolce di questo?” Ella auspica che il
ritorno di Agamennone avvenga il più presto possibile: troverà
nella sua casa la sposa fedele, ”cagna di guardia a lui amica, ai
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nemici nemica, sempre la stessa”. Da “donna onesta” qual è, ella
può proclamare alta la verità. Tutto intessuto di metafore attinte
al mondo della caccia è il II Stasimo, una condanna nei confronti
di Elena, l’adultera maledetta, il “leoncino” allevato in casa da
un pastore, che, dopo aver giocato con i bambini, svela la sua
vera natura sanguinaria, sgozza le bestie, inonda di sangue la
casa ed è “come una Erinni, cagione di pianti e di lutti a tutte
le spose”. Innumerevoli cacciatori armati di scudi, poluandroi/ te
fera/spidej kunagoi\, si sono lanciati sulla traccia della nave di
Elena, e anche la guerra di Troia è ora descritta come una caccia
selvaggia. Per contro, Eschilo riafferma per bocca del Coro che
“Giustizia risplende nei fumosi tuguri perché il vivere onesto
ella onora”, rifuggendo dalle regge costellate d’oro e dalle mani
insanguinate:
l’elogio
della
povertà,
dunque,
contrapposto
all’ideale della guerra, ma anche l’affermazione che, se i Greci
hanno compiuto un atto di giustizia punendo i Troiani che hanno
ospitato la coppia adultera, essi hanno poi sbagliato commettendo
atti empi contro i templi degli dèi: Zeus ha punito la loro
potenza non perché invidioso di essa, ma perché si sono macchiati
di u(/brij.
Alto sul carro da guerra,con accanto la concubina Cassandra sua
preda entra in scena Agamennone, all’inizio del III Episodio, e il
Coro,pur salutandolo con parole festose — “O re distruttore di
Troia, prole di Atreo”, non manca di esprimere riserve sul suo
operato: ”...e tu non bene reggesti il governo dei tuoi pensieri
sacrificando a morte uomini valorosi per riportare qui un’impudica
che di qui aveva lei stessa voluto partire”. Improntato ad un
sentimento religioso, di moderazione è il discorso con cui
Agamennone replica alle parole del Coro: egli ringrazia in primo
luogo gli dèi, poi presenta la spedizione di Troia come
assolutamente legittima, perché il ratto di Elena è stato una
“rapina
arrogante”,
“xa)rpaga\j u(perko/pouj”
,dove
l’aggettivo
“u(perko/pouj” rimanda all’avverbio u(perko/pwj del I stasimo, usato a
proposito della “gloria oltre misura” che attira il fulmine di
Zeus e le nere Erinni. Non solo, ma Agamennone dichiara anche di
voler convocare un’assemblea popolare in modo che non sia lui solo
a deliberare: egli si mostra rispettoso della volontà popolare.
Anche Pelasgo, nelle
Supplici, si era rivelato rispettoso della
volontà popolare e, come abbiamo già ricordato, aveva espresso la
volontà di consultare l’assemblea popolare prima di accogliere in
Argo, di cui è sovrano, le Danaidi. Torna anche, nelle parole di
Agamennone,l’immagine del “leone”, riferita, in questo caso,agli
Achei che, usciti dai fianchi del “giovane mostro”, cioè del
cavallo di Troia, balzarono fuori armati: ”...era un leone
affamato che solo quando ebbe leccato anche il sangue della
famiglia del re fu satollo”. “Un capolavoro di ipocrisia e
falsità”: così Di Benedetto definisce il discorso di risposta di
Clitemestra. Dopo aver dichiarato il proprio amore di sposa e
ricordato la sua lunga attesa del marito lontano, ella ricorda
quante volte le giunsero false notizie della sua morte, ma le sue
parole contengono oscure allusioni — il tema della rete mortale 8
a quello che poi avverrà: ”Se tante ferite quest’uomo avesse avute
quante da fonti diverse ne arrivavano voci, più fori che una rete
da pesca avrebbe avuto il suo corpo. E se tante volte egli fosse
morto quante di momento in momento mi venivano a dire, tre corpi
come un secondo Gerione avrebbe potuto vantare di avere, tre volte
sarebbe stato sepolto nel suo mantello di terra, ogni volta in
ognuno dei suoi tre corpi sarebbe morto”. Più volte, ella
racconta,disperata,
fu
sul
punto
di
impiccarsi.
A
questo
proposito, ci ricorda Nicole Loreaux nel suo saggio Come uccidere
tragicamente una donna (Laterza 1998), il suicidio al femminile
era l’impiccagione, non la spada, arma nobile per eccellenza, e
perciò riferita all’uomo. Poi, passando al sarcasmo, ella dice che
“con l’animo finalmente ricreato posso ben salutare quest’uomo, il
cane che guarda l’ovile, la gòmena che salva la nave, la stabile
colonna che sostiene l’alto tetto della casa... Gioia grande
sfuggire alla mala ventura”. E sono purpurei tappeti quelli che
ora le ancelle, per suo ordine, srotolano davanti ai piedi di
Agamennone, quale segno di omaggio al sovrano — “Voglio che sotto
i suoi piedi fiorisca un cammino di rosse porpore...e la Giustizia
lo scorga” — ma anche sinistro presagio di sangue. Davanti a
quello sfarzo di colori, Agamennone prova un senso di orrore,
quasi: ”Non distendere tappeti, non farmi invidiato il cammino.
Gli dèi vogliono essere onorati così. Che un mortale posi il piede
su tale belleza di colori, non è senza sgomento per me. Come un
uomo tu mi devi onorare, non come un dio”. Egli si appella alla
“moderazione” e teme — quasi una sopravvivenza dell’omerico ai)dw/j -,
il giudizio del popolo. Tuttavia,vinto dalle argomentazioni della
moglie, egli si lascia togliere i calzari e si avvia, riluttante,
entro la reggia. Commenta Jean Pierre Vernant: ”Dal mometo che
Agamennone ha posato il piede sul tappeto, il dramma è consumato.
E se la tragedia continua ancora per un po’ di tempo, essa non
potrebbe aggiungere nulla che non sia già fin d’ ora compiuto.
Passato, presente, futuro sono venuti a fondersi in un solo e
identico significato, rivelato e condensato nel simbolismo di
questo atto di u(/brij empia”. Dice lo studioso che Agamennone,
accettando di calpestare i rossi tappeti, rivela, in fondo, la
debolezza del suo animo, lui che ha tollerato anche che i templi
di Troia fossero distrutti, lui in cui, pur intimamente
tormentato, rivivono i crimini più antichi degli Atridi. “In
questo punto culminante della tragedia — dice lo studioso — dove
tutto viene a confluire, è il tempo degli dèi che spunta sulla
scena e si mostra nel tempo degli uomini”. Piene di sarcasmo le
battute con cui Clitemestra accompagna l’ingresso del marito nella
reggia: ”Il tuo ritorno al focolare domestico è come d’inverno un
soffio di tepore che annuncia l’estate”, poi, con una segreta
preghiera a Zeus: ”All’opera che stai per adempiere, devi tu
provvedere”.
Subito dopo, il Coro intona il III Stasimo, dominato da un cupo
senso di angoscia, che viene definito “non richiesto e non
pagato”, au)todi/daktoj, un lugubre “lamento funebre delle Erinni”, la
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cui presenza costituisce una specie di motivo ricorrente della
trilogia. Il Coro è consapevole che la paura che scuote il suo
animo non è dovuta a fattori emotivi, è invece motivata da una
realtà orribile che si sta preparando, davanti alla quale non
resta che pregare. E torna, nelle sue parole, l’elogio della
povertà, ancora di salvezza contro la violenza: ”Bastano i doni
abbondanti e molteplici del cielo, bastano i doni della terra che
si rinnova nei solchi ogni anno, per allontanare la fame”. Il IV
Episodio,
che
anticipa
la
catastrofe,
dilata
la
vicenda
dell’Agamennone in una preistoria del ge/noj degli Atridi densa di
orrore e di sangue. All’invito rivoltole da Clitemestra a seguirla
dentro la reggia, Cassandra — di cui il Coro dice che è ormai
“dentro una rete mortale” e che “ai modi pare una bestia or ora
catturata” — uscendo dal silenzio in cui è stata finora, prorompe
in un grido selvaggio, perché di lei si è ora impadronito Apollo,
che la fa profetare: ed è una serie di scene dense di orrore quella
che viene rievocata, la macabra cena di Tieste, ”gole scannate e
carni cotte” che il padre ha divorato, poi ella parla di un uomo
preso in una “rete mortale”, una “rete” da caccia che la sua
compagna di letto, la “complice che uccide” gli tenderà, e
quell’uomo sarà come una “giovenca”, che il toro uccide con le sue
nere corna, mentre gioisce “la turba insaziata delle Erinni”. Il
parlare come in trance di Cassandra è apparso al Fraenkel un
qualche cosa che sta “tra il canto e quel selvaggio lamento noto
agli Ateniesi dalle rappresentazioni rituali delle donne in lutto
in Oriente”. Anche il dialogo lirico tra Cassandra e il Coro è
impregnato
di
visioni
terribili:
“un
leone
imbelle
che si ravvolge in un letto”, una donna infernale che evoca il
ricordo di mitici mostri, una “bipede leonessa, che, assente il
generoso leone, in letto si giacque col lupo”. “Lei è — aggiunge
Cassandra — che anche me ucciderà”. Ma ecco che, nelle ultime
parole della profetessa, appare già l’immagine di un futuro
vendicatore, e sarà altro sangue: ”Non però invendicata lasceranno
gli dèi la mia morte. Altri a suo tempo verrà vendicatore nostro:
a uccidere sua madre il figlio da lei generato, e a punire gli
uccisori
del
padre”.
Poi
Cassandra
si
avvia
verso
il palazzo. Subito dopo si odono dall’interno le disperate grida
di dolore di Agamennone, si apre la grande porta centrale che
lascia scorgere il suo cadavere riverso in una tinozza d’argento e
appena ricoperto da un grande manto rosso. Accanto al suo
cadavere, quello di Cassandra. Clitemestra,che irrompe sulla scena
con l’arma omicida in mano, una scure insanguinata, non è più una
donna, ma l’antico genio vendicatore della stirpe maledetta
l’a)la/stwr che ha compiuto il sacrificio: e)/sfaca, ella dice, usando
il verbo sfa/zw, termine usato per le vittime sacrificali, ed è un
selvaggio grido di feroce gioia quello che ella lancia: ”La mia
vittoria,la compiuta vittoria, venne. Ritardò, ma venne. E ora qui
sono, dove ho colpito; qui sto, dove ho compiuto il debito mio.
Sì, questo ho fatto. E anche il modo ti voglio dire. Perché costui
non sfuggisse al suo destino, perché scampo non avesse, in una
rete senza uscita, come in una rete da pesci, io lo ravvolgo. Oh,
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quale fastoso mantello di morte! Due volte lo colpisco; due volte
egli grida; e lascia cadere giù le sue membra. E su lui caduto un
terzo colpo aggiungo per dono votivo a Zeus salvatore dei morti. E
così morendo egli rutta fuori la sua anima. Irrompe dalla ferita
un getto violento di nero sangue, e mi percuote, e mi sembra uno
spruzzo di rugiada, e io ne gioisco...” Gli studiosi si sono
proposti il problema se il tema della “rete” sia un’invenzione
eschilea o si tratti di metafora anteriore a lui: in nessun testo
letterario prima di Eschilo appare questo tema, ma in una pi/nac di
Gortina, probabilmente del V sec. a.C. è rappresentata Clitemestra
nell’atto di colpire Agamennone, alle cui spalle Egisto sembra
tendere una rete. A livello antropologico, l’uccisione di
Agamennone può ricordare l’antichissimo rito sacrificale del Re
del Grano o Paredro, e la sua sostituzione con un altro compagno
della Grande Madre. Clitemestra usa inoltre la bipenne, o la/bruj,
arma sacra sacrificale, uccide la sua vittima in una vasca da
bagno, e anche questo si riconduce al rito di purificazione. A sua
volta, Cassandra, nel suo delirio profetico, vide uccidere un
toro, vittima sacrificale. Il Coro appare sgomento per quanto è
avvenuto, e compiange la sorte del re il cui corpo giace “in
questo tessuto di ragna”, ricordando alla donna che “oltraggio
risponde ad oltraggio... Chi preda è predato, chi uccide è
ucciso”. Finché Zeus rimarrà tutore delle leggi, chi ha fatto
patire è destinato a sua volta a patire. Di fronte alle accuse
sempre più aperte del Coro, Egisto esorta le guardie a colpire i
vegliardi, ma Clitemestra, stanca di lutti — “già troppi ne
mietemmo, triste mietitura” le trattiene. Ma è già apparso,
attraverso le parole del Coro, un futuro vendicatore: ”Ma c’è
Oreste; Oreste vede la luce, è vivo, ritornerà qui accompagnato da
buona fortuna, e con la forza del suo pugno vittorioso ucciderà
lui costoro, tutti e due insieme”. Come oppressa dal delitto che
pure ha or ora commesso con gioia feroce, Clitemestra si augura
che abbia termine “questa follia di consanguinei che l’un l’altro
si uccidono”.
In uno studio del 1967 sul I Stasimo delle Coefore il Lebeck ha
dimostrato che il secondo dramma della trilogia, che prende nome
dalle portatrici di offerte che costituiscono il Coro,ha non
soltanto la stessa struttura di fondo dell’Agamennone ma ne forma
anche l’esatta contropartita. “Là dove una vittima (Agamennone) è
ricevuta dal suo assassino (Clitemestra) - nota lo studioso — un
assassino (Oreste) è ricevuto dalla sua vittima (Clitemestra), la
donna che l’accoglie (Clitemestra) intrappola l’uomo che ritorna
(Agamennone), nel primo caso, mentre nel secondo è l’uomo (Oreste)
che ritorna a intrappolare la donna che l’accoglie”. Potremmo
perciò dire che le Coefore sono una fuga contrappuntata rispetto
all’Agamennone. Possiamo cogliere tuttavia, tra i due drammi, una
differenza di fondo, messa in evidenza dallo Zeitlin prima ancora
che da Vidal Naquet: scompare quasi del tutto il tema del
“sacrificio empio”, presente nell’Agamennone, perché Oreste, pur
sacrificando mostruosamente la madre, è l’esecutore della volontà
di Apollo. Torna dunque in patria, dopo molti anni da che ne era
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dovuto fuggire fanciullo, Oreste, seguito dall’amico Pilade, per
eseguire l’ordine dell’oracolo di Apollo: vendicare il padre. Il
Coro di ancelle guidate da Elettra, sorella di Oreste, si reca per
ordine di Clitemestra, angosciata da tristi presagi, sulla tomba
di Agamennone con funebri libagioni, e la ragazza rimane
incuriosita dalla ciocca di capelli che Oreste si è tagliato e ha
deposto sulla tomba paterna, e che le sembrano simili ai suoi,
come pure le pare di riconoscere una strana somiglianza tra le orme
dei piedi impresse nella sabbia e quelle della sua gente. Fin
dall’inizio del I Episodio il carattere di Elettra appare
disegnato a tutto tondo: ella è una giovinetta pura, che attende
con ansia un vendicatore del sangue paterno: questo, Elettra
chiede nella sua invocazione ad Ermes ctonio, e anche di essere
più casta di sua madre. Ella contrappone alla kalh/ a)ra\, la
preghiera maledetta elevata da Clitemestra mediante l’invio delle
offerte, la kakh\ a)ra/, la triste maledizione che ella stessa
scaglia contro gli assassini di suo padre. Tornano continuamente
anche nelle Coefore quelle metafore ispirate al mondo della caccia
che Vidal Naquet ha messo in evidenza come caratteristiche della
trilogia. Così, nel vagheggiamento da parte del Coro di un
vendicatore, si dice: ”Qual eroe armato di lancia verrà a liberare
la casa? Chi tra le mani lo scitico Are ricurvo in opere di guerra
agitando? Chi per l’elsa impugnando la spada che uccide da
presso?”. Oreste dovrà agire come un cacciatore, di “persuasione
astuta”(peiqw\ doli/a)e in seguito il Coro dirà di lui: ”È venuto
colui che, lottando nell’ombra, sa con l’astuzia portare a
compimento il castigo”. Di Elettra si dirà che ha un “cuore di
lupo”, ad Oreste più volte verrà associata l’immagine del serpente
- tale appare nel sogno alla madre, quando le sembra di vedere suo
figlio attaccato in tal forma al suo seno - ed egli stesso dirà di
sé: ”Sono io, divenuto serpente, che la ucciderò!” Ma anche
Clitemestra diventa, nelle parole di Oreste, una bestia: ”Vedi la
prole dell’ aquila fatta priva del padre, del padre fra i nodi
ucciso e le spire di una vipera immonda”, e alla donna che, sul
punto di essere uccisa dai figlio, grida quelle parole tremende:
”Ahimé, ahimé, questo è il serpe che generai, il serpe che
nutrii!”, il Coro risponde:”È venuto nella dimora di Agamennone il
doppio leone, il doppio Ares”, colui che “mozza di un colpo felice
la testa dei due serpenti”. Ben a ragione Vidal Naquet può parlare
di “bestiario delle Coefore”, tanto più se si pensa che il segno
di riconoscimento tra Oreste, venuto fuori dal nascondiglio in cui
si era celato, e la sorella è proprio un tessuto ricamato un tempo
da Elettra, in cui è rappresentata una scena di caccia, qh/reion
grafh/n, e, nel I episodio, Elettra, invocando il padre, dirà: “La
rete (a)mfi/blhstron) ricorda, dove ti avvolsero, e il laccio
inusato”. Nel Commo che si sviluppa dopo il riconoscimento dei due
fratelli, Oreste, Elettra e il Coro elevano un’invocazione ad
Agamennone e al mondo degli Inferi perché intervengano nella
punizione degli assassini. È da notare, a proposito di questo
commo, che Oreste ed Elettra intonano il loro canto davanti alla
tomba del padre, e questo, a livello antropologico, potrebbe far
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pensare agli antichissimi canti funebri in onore di eroi
divinizzati che, secondo alcuni studiosi, potrebbero essere
all’origine stessa del genere tragico.
In tale invocazione, le Moire, personificazioni del destino
individuale, appaiono associate ad Ate e alle Erinni. È stato
notato come, nel corso di questo grandioso Commo, si verifichi una
presa di coscienza da parte di Oreste, che finora si era sentito
strumento del dio, in personaggio pienamente responsabile della
propria azione: ”O Zeu, o Zeu, tu che dall’imo dell’Ade, anche se
tarda, punitrice vendetta dirigi contro mani audaci e nefande di
mortali..., ebbene anche su genitori la vendetta egualmente si
compia”. Quasi a commento, il Coro afferma: ”Ma è legge che stille
di sangue a terra versate nuovo sangue domandano ancora. E strage
invoca l’Erinni, vendetta dei morti già morti, che vendetta su
vendetta conduce”. Oreste appare ora in preda ad un selvaggio
furore di vendetta: egli già pregusta, per così dire, l’uccisione
di Egisto, sì che la Erinni “insaziata di strage puro sangue berrà
nella terza libagione”, terza perché la prima è stata quella del
sangue dei figli di Tieste, la seconda del sangue di Agamennone,
la terza, che nei banchetti era riservata a Zeus salvatore, sarà
quella che libererà Argo dai due adulteri. Sul I Stasimo delle
Coefore si sono soffermati con particolare attenzione due
studiosi, Untersteiner, in un saggio del 1972, e Degani: lo
Stasimo, il cui incipit sembra anticipare quello dell’Antigone
sofoclea (“Molti sono gli orrori/che la terra alimenta,terribili,/
che il mare chiude tra le sue braccia,/ i mostri che i mortali han
di contro:/ .../Ma chi dirà l’audacia illimitata/ della mente
dell’uomo?”) contiene una specie di storia del progresso umano
in cui, secondo Degani, possiamo ravvisare un’eco della concezione
anassagorea; prendono però corpo in esso una serie di donne del
mito travolte, tutte, da passioni violente e infernali, e tra
tutte domina Clitemestra, ormai vicina ad espiare le sue colpe:
”Ecco la spada! Ed il figlio sangue su sangue accumula ancora, e
nel sangue lava a suo tempo l’antica sozzura la tenebrosa Erinni”.
L’azione diventa a questo punto incalzante: mettendo in atto il
piano concertato con la sorella, Oreste si presenta a Clitemestra
come un forestiero venuto dalla Focide e le racconta, tenendo in
mano un’urna cineraria, la falsa notizia della morte di Oreste. La
donna ha una reazione di apparente disperazione, che è stata
variamente interpretata dagli studiosi: dolore sincero o intima
gioia all’apprendere che l’unico pericolo che ancora la minacciava
è scomparso? Certo è che sono sincere le lacrime della vecchia
nutrice Cilissa, che ricorda con infinito dolore Oreste bambino:
”Oh, i suoi acuti strilli, che mi facevano, la notte, andare su e
giù per la stanza. E quanti e che affanni per lui. E tutto, ora,
inutilmente”. Inesorabile, il Coro, nel III Stasimo, esorta Oreste
alla vendetta: ”Abbi nel cuore il cuore di Pèrseo, e dritto
colpisci. Ai tuoi morti laggiù sotto terra, ai tuoi vivi quassù,
rendi la grazia che attendono, soddisfa lor funebre ira, dentro la
casa poni la tua vendetta di sangue, e chi uccise uccidi”. Anche il
sopraggiungere di Egisto, fatto accorrere tramite la vecchia
Cilissa e perplesso a sua volta per la notizia della morte di
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Oreste, è salutato dal Coro con parole piene di minacce: ”Ecco che
ora tagli di spade omicide già grondano sangue”. Oreste, afferma
il Coro, protetto dal dio, recupererà, con le leggi, ”fiaccole e
fuochi per la libertà”. L’azione ai sviluppa ora in modo
incalzante. Entrato Egisto nella reggia, si odono le sue grida
disperate, e un servo esce dal palazzo gridando che Egisto è stato
colpito a morte. A Clitemestra che, accorsa, gli chiede che cosa
stia accadendo, il servo risponde con una frase famosa: ”Io dico
che i morti uccidono i vivi”, che è da intendere non tanto e non
solo nel senso che un creduto morto, Oreste, ha ucciso Egisto, ma
che questi in realtà è stato ucciso da Agamennone stesso, morto,
per mano di suo figlio, vivo. A questa notizia si ridesta in
Clitemestra l’antico demone della stirpe degli Atridi, e la donna
si disegna nella sua selvaggia vitalità. Ella chiede una “scure
mortale”, un’arma: “Ch’io veda se vincitori siamo, o vinti. A
questo io giunsi ormai del mio triste destino.” Poi, con sùbito
passaggio psicologico, ella si abbandona alla disperazione, nel
vedere il cadavere di Egisto — “Ahi,sventura! Morto sei amatissimo
Egisto” — per tornare subito dopo madre, e aggrapparsi, lei, la
nemica, l’adultera omicida, al figlio, da cui invoca pietà:
”Fermati, o figlio, abbi rispetto, o figlio, di questo seno, su
cui tante volte il capo ti cadde nel sonno, e tu seguitavi con le
tue gengive a suggere il dolce latte che ti nutriva”. Siamo giunti
con questa scena all’acme drammatico dell’intera trilogia: il
matricidio, osserva Canfora, rappresenta la rottura col mondo
ancestrale, simboleggiato,come ha scritto anche i Lesky, dal “seno
di tutte le nascite in cui la madre è tutto”. È proprio a questo
punto che su Oreste, immoto, incapace di agire, scende, come da
remote dimensioni, la voce di Pilade, che gli ricorda l’ordine di
Apollo: ”Meglio avere nemici gli uomini tutti anzi che gli dèi”.
Nel drammatico dialogo che ora si sviluppa tra madre e figlio,
quando Clitemestra ricorda al figlio anche le colpe del padre,
l’altro, con non poca brutalità, le contesta il diritto di
accusare chi lavora e si dà da fare per mantenere la casa: è
l’uomo, dice Oreste, che “nutre” la sua sposa, la quale deve
soltanto essergli grata di questo. Tornano, nelle battute della
sticomitia, le metafore attinte al mondo della caccia: ”Guàrdati —
dice Clitemestra — sàlvati dalle cagne rabbiose della madre”, e,
mentre il figlio la trascina all’interno del palazzo: ”Ahimé,
ahimé, questo è il serpe che generai, il serpe che nutrii”,
immagini di un “bestiario” che tornano anche nelle parole spietate
che Oreste pronuncia davanti ai cadaveri di Egisto e Clitemestra,
nell’Esodo: ”Io dico che se nata era murena o vipera, solo che
l’avesse toccato uno, neppure morso, lo avrebbe reso cadavere
putrido, nel furore della sua scellerata natura. E questo (volge
l’occhio al peplo dove Agamennone fu irretito e ucciso) come lo
debbo chiamare, con quale parola anche s’io trovi la parola più
mite? laccio da fiera, drappo da inviluppare un morto da capo a
piedi nella sua... bara? di/ktuon me\n ou)=n, a)/rkun t’a)/n ei)/poij “Meglio
rete; ma anche trappola puoi dire; sì, è un peplo che scende fino
ai piedi... per legarli!”
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A proposito della “bara”, in realtà Oreste usa la parola droi/th, che
è la vasca da bagno, dove il re fu ucciso. Eppure, un misterioso
senso di alienazione invade ora Oreste. Tutt’altro che fiero di
aver vendicato il sangue paterno, egli dice che andrà ora lontano,
al santuario del dio, “esule, errante, lungi dalla mia terra”.
Inutilmente il Coro gli ricorda, riprendendo l’immagine del
“serpente” apparsa nelle parole ultime di Clitemestra, che egli ha
liberato Argo, “dei due draghi con mano felice mozzando le teste”.
Una terrificante visione, invisibile agli altri, si presenta al
suo animo, e fa ora di lui, cacciatore, un cacciato: ”Ahi,ahi!
Quali femmine sono queste! Nere tuniche hanno, come Gòrgoni, e le
chiome
attorte
di
serpi
fitte...
Ahi,
non
posso
più
rimanere”. Le creature spaventose lo circondano, sono lì, presenti
— l’aggettivo ai(/de, che torna più volte nelle sue parole,
sottolinea ossessivamente questa presenza: esse gocciano sangue
dagli occhi, danzano intorno a lui una ridda selvaggia. È vera
l’osservazione del Di Benedetto, che, dopo il matricidio, “lo
spazio dato da Eschilo alle Erinni nella trilogia si dilata
enormemente e le divinità del mondo degli Inferi tendono ad
occupare tutta la scena”. Non esse sono, “opinioni”, ”fantasie”,
quasi, come vorrebbe definirle il Coro, ma creature in carne ed
ossa, che Oreste realmente “vede”, coerentemente con il modello
culturale primitivo di cui esse sono espressione - penso all’opera
di Dodds, I Greci e l’irrazionale, del 1973 - e l’animo di Oreste
è travolto dalla paura, un terrore che lo getta in una fuga
disperata, ci vien fatto di pensare all’ “Urlo” di Munch — e
mentre egli scompare, il Coro rievoca le sventure della casa degli
Atridi: ”Dove mai finirà, dove mai cesserà, finalmente mutata,
placata, la furia di Ate?”
Il Prologo delle Eumenidi, recitato dalla sacerdotessa di Apollo,
la Pizia — è da tenere presento che in quest’ultima tragedia della
trilogia Eschilo ha introdotto una “scena multipla”, che prevede
tre scene contemporaneamente presenti, il tempio di Apollo in
Delfi, il tempio di Atena sull’acropoli di Atene e, in mezzo tra i
due templi, lo spazio aperto per l’Areopago, che sarà occupato
nella parte conclusiva della tragedia dagli Aeropagiti - è tutto
pervaso da profonda religiosità: si sono avvicendate nel luogo
divinità, ognuna delle quali ha contribuito, senza violenza, ou)de\
pro\j bi/an, a rendere sacro il luogo, fino ad Apollo. Ma la
sacerdotessa non può dimenticare, nella sua preghiera, Pallade
Pronàia, da un lato, Dioniso, dall’altro, che guidò le Baccanti
-e)strath/ghsen - contro Pènteo e preparò la morte di questi, ”come
cani a una lepre”. Si disegna così un intreccio di mondo civile e
di più remota ferinità, su cui regna, altissimo,u(/yiston, Zeus. Un
orribile spettacolo si presenta però alla Pizia, entrata nel
tempio e subito uscitane sgomenta: un viluppo di donne,anzi,non
donne, dice la sacerdotessa correggendosi, ma Gòrgoni, o Arpie, si
avviluppa sopra un uomo piegato in atto di supplice presso
l’o)mfalo/j, la pietra bianca che, nel tempio di Apollo, rappresenta
il centro della terra. Quelle creature mostruose, che, a
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differenza delle Arpie, “sono senz’ali..., e nere,e repugnanti
alla vista. E russano, ed esalano fiati che ammorbano, e
sgradevoli umori stillano dagli occhi”, e, aggiunge la donna,
hanno strani guarnimenti, che non è lecito portare nei templi né
nelle case”, alludendo ai serpenti che cingono loro il capo, sono
addormentate. Nel dialogo che, uscita la Pizia, si svolge tra
Oreste e Apollo, entrato in scena dalla porta del tempio, le
Erinni vengono definite da Apollo “vergini maledette, queste
vecchie vergini nate in un tempo remoto. Nessuno ci congiunge con
loro, né dio né uomo né bestia selvatica”, nate per il male, che
gli dèi dell’Olimpo hanno in odio. Oreste, dice Apollo, troverà
rifugio da costoro nella città di Atene, dove dovrà venerare il
simulacro di Pallade. Là Apollo troverà “i giudici della contesa”
e il mezzo per liberare Oreste dalle maledette. “Fui io — dichiara
il dio — che ti indussi a colpire il seno di tua madre”.
Con una invenzione di forte impatto emotivo, che ricorda
l’apparizione del fantasma di Dario nei Persiani, Eschilo
introduce ora l’ombra di Clitemestra che si leva dal centro
dell’orchestra e che appare in sogno alle Erinni addormentate,
perché, come ella dice, “L’anima di chi dorme è tutto uno
splendore di occhi che vedono”. Clitemestra ricorda “le notturne
cene di sacrifici” da lei offerte alle Erinni,e le rimprovera per
essersi lasciate sfuggire Oreste, “come un cerbiatto,..., con un
agile salto, fra mezzo le reti tese”, e le Erinni emettono nel
sonno sordi mugolii, mormorii o lamenti indistinti: mu/zw, mugmo/j, e
destandosi, ancora semisommerse nel sonno, esse si abbandonano
ancora ad un “più lungo e acuto mogolìo” (mugmo\j diplou=j o)cu/j). Al
qual proposito Di Benedetto sottolinea come il nesso tra le Erinni
e “un mondo disumano e barbaro” si realizzi anche attraverso la
ripresa, a distanza, di questo verbo poco frequente nei testi
letterari. Eccole poi agitarsi freneticamente e incitarsi
a vicenda alla caccia selvaggia - labe\ labe\ labe\ labe\ fra/zon esortate da Clitemestra: ”Soffiagli contro a costui un tuo soffio
di sangue; col tuo alito, col fuoco delle tue viscere, disseccalo,
stagli dietro, consumalo, dagli addosso ancora una seconda volta!”
Come è stato notato da vari studiosi, la Parodo, che ora prende
corpo e che in senso stretto non è tale perché il Coro è già
nell’Orchestra, rievoca anche nella struttura metrica i qrh=noi, gli
antichi canti di lutto: in particolare, le prime due coppie
strofiche si articolano in una strofe all’insegna del lamento e
dell’autocommiserazione, e in un’antistrofe dove prevale invece il
tono violento e aggressivo: A.”Ahimé ahimé, un guaio mi è
capitato, compagna... B. Oh sì, guai su guai patimmo e vani... A.
Tristissimo danno, ahimé, insopportabile danno! Fuori delle reti
si è buttata la bestia, è fuggita. B. Il sonno ci ha vinte, la
preda l’abbiamo perduta...” ANTISTROFE A. Ah, figlio di Zeus, un
predone tu sei... B. E noi, vecchie dee, tu giovane dio calpesti.
A... per favorire il tuo supplice, uomo nemico agli dèi, funesto
alla madre. Ce l’hai predato il matricida, tu dio”. Il Coro
insiste nel descrivere i segni che i rimproveri di Clitemestra
hanno lasciato sull’animo delle Erinni: pari a colpi di staffile,
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le ha straziate nel fianco, nel fegato, ed esse mettono in
discussione il senso di giustizia di Apollo, che tollera che
l’ònfalo del suo tempio sia insozzato dal sangue del matricida.
“Passò oltre le leggi divine — dicono di Apollo le Eririni — e
violò le antichissime Moire”. Si evidenzia così il drammatico
conflitto tra due diversi ordini sociali: da una parte le Erinni,
che rappresentano il vecchio ordine tribale, fondato sulla
parentela per parte di madre, che costituisce un vincolo più
stretto del matrimonio stesso, dall’altro Apollo, sostenitore del
nuovo diritto patrilineo, che tutela la superiorità dell’uomo
sulla donna, e la santità del vincolo matrimoniale. La natura
selvaggia delle Erinni è ribadita, nel I Episodio, da Apollo, che,
improvvisamente uscito dal tempio, avanza protendendo l’arco
contro le Erinni, e le esorta a lasciare la sua dimora: ”Là dove
tagliano teste, dove strappano occhi, dove sgozzano; là dove seme
di fecondità distruggono e fiore di giovinezza avvizzisce; là dove
si vedono mutilazioni e lapidazioni, dove si odono mugghi e gemiti
di gente trafitta per la schiena e confitta in terra da pali, là è
la Vostra sede. Mi udite? Queste sono le orgie che vi deliziano,
tutta la vostra figura lo dice; per questo gli dèi vi maledicono.
Antri di leoni insaziati di strage voi dovete abitare,e non
spargere su altri, in questo tempio fatidico, la vostra sozzura”.
Della gente impalata si dice che mu/zousin, il verbo già usato a
proposito del mugolìo delle Erinni. Nella Sticomitia che si svolge
tra la Corifea ed Apollo, questi viene accusato di essere il vero
responsabile del matricidio perché Oreste ha obbedito al suo
ordine: nelle battute incalzanti si articola così il tema del
processo che di lì a poco si terrà in Atene: ”Ma io
— proclama la Corifea — il sangue di una madre m’incita, farò
giustizia di lui, non cesserò di dargli, come cane, la caccia”.
Avvalendosi dell’invenzione scenica che abbiamo già detto, Eschilo
introduce ora Oreste che, fuggendo da Delfi e percorrendo
l’Orchestra vuota, giunge ad Atene, e si prosterna davanti al
simulacro di Atena, davanti al tempio della dea, da cui invoca
protezione contro l’a)la/stwr, il demone malefico della stirpe di
Atreo. Subito dopo, con un secondo ingresso nell’Orchestra
(Epiparodo) irrompono le Erinni per dare la caccia a Oreste, come
cani “dietro un cerbiatto ferito”, sulla traccia di “pozze di
sangue, gocce di sangue”: ”Da te io voglio di feroce bevanda
pascere la mia sete”, esse gridano rivolte ad Oreste. Ed è una
specie di danza orgiastica quella che esse danzano, nel I Stasimo,
facendo quasi un incantesimo caratterizzato, a livello espressivo,
dall’Efimnio, un ritornello che dà al canto un ritmo magico—
primitivo, anche mediante l’uso della paratassi, con parole
accostate l’una all’altra senza articolazioni sintattiche: ”Una
danza, una danza vogliamo danzare, un canto di orrore vogliamo
cantare; e dire in che modo alle sorti degli uomini la nostra
congrega dà ordine e legge”, e ancora: “E per la vittima questo
canto, follia, dissennatezza devastatrice della mente, inno
proveniente dalle Erinni, imprigionatore della mente, senza cetra,
disseccamento per gli uomini”. È stato giustamente osservato, a
questo proposito, che il canto delle Erinni, definito da loro
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stesse, mou=san stugera/n, “poesia odiosa”, si oppone nettamente alla
poetica omerica del te/rpein ,“dilettare”. La potenza delle Erinni si
disegna dunque in questo Stasimo in tutta la sua terribilità:
memori delle colpe, sorde al pianto degli uomini, indifferenti
all’onore e al disprezzo, relegate dagli altri dèi in un mondo di
tenebra, esse sono le Venerande (semnai/), orrido è il loro cammino,
tenace la volontà di vendetta che le anima. Davanti ad esse, alta
sull’acropoli, si staglia ora l’immagine di Atena, e quanto il
linguaggio delle Erinni è stato violento e sfrenato, tanto le
parole della dea sono pacate, solenni: ”Da lungi, dal lontano
Scamandro, udii il richiamo di una voce. Prendevo possesso di una
terra che a me del loro bottino avevano assegnato i capi e i
guerrieri Achei”. Si svolge così, nel I Episodio, alla presenza di
Atena, un’anticipazione del processo: le Erinni ed Oreste
esprimono ciascuno le proprie ragioni, le prime con linguaggio
pauroso, l’altro, con calma non priva di pathos: ”Appena ritornato
mio padre a casa, in malo modo fu ucciso; mia madre lo uccise,
donna di nero cuore - kelaino/frwn -. Lo ravviluppò in una rete
insidiosa; e fu quella rete che diede a me testimonianza
dell’eccidio del bagno. Ritornato poi io, dopo il lungo esilio, a
casa, uccisi mia madre. Non nego questo: morte con morte, a
vendetta del padre amato”. Consapevole della difficoltà di
decidere una questione così grave, non volendo deludere il
supplice né privare le Erinni dei loro diritti, Atena dichiara che
istituirà un apposito tribunale, l’AREOPAGO, cui spetterà il
compito di giudicare dei delitti di sangue, e che sarà composto
dai migliori cittadini di Atene.
Al tribunale oggetto di violente contestazioni politiche nel suo
tempo, Eschilo attribuisce dunque un’origine antichissima, che
affonda le sue radici nel mito. Un particolare significato assume,
nello svolgimento concettuale delle Eumenidi, il II Stasimo, che
costituisce anche un anello di collegamento con il III ed ultimo
Episodio. In esso Eschilo sviluppa un tema già anticipato in più
parti della trilogia, quello della paura (fo/boj) che viene ora
strettamente connesso con il ge/noj degli Atridi al fine di
preparare l’affermazione del principio di giustizia che deve
regolare la po/lij. “Vedrete voi ora a quali rovine porteranno le
nuove leggi se la causa — il delitto! — di questo matricida dovrà
prevalere — dicono le Erinni -. Dai propri figli i genitori ferite
e morti si dovranno d’ora innanzi aspettare”. La visione che si
apre alle parole delle Erinni è quella di uno Stato in cui
prevarranno crudeltà e violenza. Invece, proclamano le Erinni, “È
bene talvolta il terrore. È bene che sul cuore degli uomini abbia
il suo posto di guardia. Il dolore giova a saggezza” (swfronei=n u(po\
ste/nein): ritorna in questa affermazione il concetto del ma/qoh
pa/qei, e il poeta esorta implicitamente al swfronei=n, che
costituisce uno dei grandi motivi etici e politici dell’Orestea.
Ai deino/n,a “ciò che incute terrore” il drammaturgo attribuisce
dunque
una
funzione
di
vigilanza
sulla
collettività:
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“Senza freno di leggi non lodare la vita, né senza libertà. Sempre
il giusto mezzo prevalga. Questo volle il dio, che i casi diversi
diversamente sorveglia e dirige”. Sembra di avvertire l’eco di
certi versi soloniani, quando le Erinni affermano: ”Rispetta
l’altare di Giustizia. Non ti seduca guadagno a rovesciarlo con
piede sacrilego, perché il castigo sopravverrà”: è evidente in
questa esortazione alla “reverenza dovuta” (se/baj) che dovrà
regnare nella po/lij il nesso che il vecchio poeta intende mettere
in evidenza tra vita politica e principi etico—religiosi. La nuova
istituzione politica che ora sorgerà per volere di Atena,
l’Areopago, tanto più dovrà essere rispettato e temuto perché
sopravvive in esso quell’antico sentimento di paura che proviene e
si incarna nelle Erinni. Così introdotto, il III ed ultimo
Episodio rappresenta la conclusione non solo artistica, ma anche
concettuale
del
lungo
percorso
dell’Orestea.
Uscendo
dai
rispettivi templi appaiono Apollo e Atena, mentre gli Areopagiti
prendono posto al centro del fronte scenico, dove gli inservienti
hanno posto i seggi per i giudici e le urne per il voto. In basso,
nell’Orchestra, il Coro delle Erinni. È una scena di massa quella
che ora si svolge davanti ai nostri occhi. Dice a questo proposito
Di Benedetto: ”La ragione per cui Eschilo ha voluto questa
partecipazione
popolare
è
facilmente
comprensibile.
Il
destinatario della trilogia era la po/lij ateniese, alla quale in
particolare nella parte finale delle Eumenidi veniva proposto un
modello di ordinamento politico (ed etico—religioso) e la po/lij
ateniese Eschilo volle che fosse presente nel teatro”. È un
processo giudiziario in piena regola quello che ora si svolge
davanti ai nostri occhi,e che ci riporta alla memoria certe
orazioni lisiane. Apollo, Atena, la Corifea, Oreste affermano,
talora in serrate sticomitie, le loro ragioni, e quanto la Corifea
è aggressiva e incalzante — “Fu dunque Zeus, tu dici, che dettò a
te quest’oracolo, e fu l’oracolo che intimò a Oreste di vendicare
la morte del padre senza fare nessun conto del rispetto dovuto alla
madre?” — tanto Apollo risponde con calma olimpica, non
disdegnando le tesi maschiliste che già conosciamo, per poi
rievocare le fasi dell’omicidio di Agamennone: ”Poi, nella vasca,
lo
avvolse
di
un
mantello”
—
ma
si
usa
la
parola
fa/roj, che ha il doppio significato, di “mantello” e “lenzuolo
funebre” — lo chiuse nell’artificio di un peplo - daida/lw pe/pl% - lo
impigliò in una rete inestricabile, e lo colpì”. Prima che i
giudici procedano al voto, Atena rivolge un’allocuzione alla
città, e non tanto la divinità poliade, quanto Eschilo stesso
parla direttamente ai suoi concittadini: ”Ascoltatemi, o cittadini
di Atene; udite che cosa è questo ordine da me qui istituito, voi
che per primi siete chiamati a giudicare in una causa di sangue...
Su questo colle Reverenza e Paura - se/baj e fo/boj - che di Reverenza
è cognata impediranno ai. cittadini di fare offesa a Giustizia,
quando non vogliono essi stessi sovvertire le leggi...
Né anarchia né dispotismo - to\ mh/t’a)/narxon mh/te despotou/menon... questa è la regola che ai cittadini amanti della patria consiglio
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di osservare; e di non scacciare del tutto dalla città il timore,
perché senza il timore nessuno dei mortali opera secondo
giustizia”. Come è evidente, si tratta di una esortazione alla
concordia sociale e politica, in un momento di drammatca tensione
all’interno della po/lij. A queste parole di Atena corrisponderà,
alla conclusione delle Eumenidi, quanto diranno le Erinni divenute,
appunto, ”Benevole”: “Anche fo voti che mai nella nostra città si
odano fremiti di discordia civile, insaziata di mali. Né mai la
polvere delle nostre strade si abbeveri di nero sangue di cittadini
per strappare alle case, in collere vendicatrici di morti, altri
morti. E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime
odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai
mortali”. Mentre avviene la votazione e durante lo scrutinio dei
voti si sviluppa un serrato contrasto dialettico tra Apollo e le
Erinni, in cui, è stato notato, rimbalzano certi termini dall’uno
alle altre con sferzante veemenza, fino al beffardo “nikh/sw d’e)gw/”,
“Vincerò io”, detto da Apollo. Per ultima, Atena getta il
suo voto, che è di assoluzione, motivato da una totale adesione ai
diritti del padre: ”Madre che mi abbia generato io non ho. Il mio
cuore, esclusi legami di nozze, è tutto per l’uomo. Io sono
solamente del padre. E così il destino di una donna omicida del
proprio sposo a me non importa: lo sposo importa, custode del
focolare domestico”. Oreste, assolto per il voto di Atena, ma non
eticamente giustificato, leva un inno di ringraziamento a Pallade
Atena e alla città,in cui, oltre all’elogio di Atene vincitrice,
non molti anni prima della messa in scena della trilogia, nelle
guerre persiane, trova posto anche la celebrazione della summaxi/a
tra Argo e Atene: ”Giuro che mai uomo argivo verrà qui a capitanare
un esercito in guerra. Io sarò morto allora, ma contro chi osasse
violare il giuramento anche dalla tomba insorgerò... Salute a te,
Atena, e a te, popolo di Atene. Invincibili siano ai nostri nemici
le nostre battaglie; e a noi e a voi salvezza e vittoria.” Si leva
però ora, rabbioso, nell’Epilogo, il grido di protesta delle
Erinni, che si sentono private dei propri diritti, e che si
traduce, a somiglianza delle antiche trenodie, in coppie di pezzi
lirici ripetuti: ”Ahi giovani dèi, voi siete che le leggi antiche
avete calpestato e a me dalle mani la preda avete strappata!
Umiliata, avvilita mi avete! Ahimé, ahimé! Ma collere gravi su
questa terra cadranno! Veleno,veleno, a pagarmi il dolore patito,
gocce di veleno che brucino ogni germe fecondo spremerò dal mio
cuore”. Le “miserabili figlie della Notte”, dustuxei=j Nukto\j
a)timopenqei=j, come si autodefiniscono, ”dolenti per il dolore
ricevuto” minacciano ogni male ad Atene, ma Atena le affronta con
benevole, pacate parole, le ammansisce, le placa, promettendo loro
eterna riconoscenza della città: ”Tu dunque su questa mia terra
non spargere coti insanguinate che affilino armi e cuori di
giovani e contese e rovine furenti... e i miei cittadini non
aizzarli, come si aizzano i galli, a guerre civili, a violenze di
fratelli contro i fratelli. Con nemici di fuori sia, se ha da
essere,la guerra...” Le Erinni si lasciano a poco a poco
persuadere, e si trasformano così da persecutrici in benefiche
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protettrici della città, in Eumenidi, perché sempre, garantisce
Atena, esse saranno onorate e temute in Attica. Con felice
osservazione, Vidal Naquet commenta: “La trasformazione delle
Erinni in Eumenidi non muterà la loro natura. Divinità della
notte, esse sono oggetto della festa notturna che conclude la
trilogia. Esse ricevono normalmente le loro vittime sgozzate, le
loro offerte sacrificali: I loro sfa/gia e le loro qusi/ai. Ma ormai
esse, protettrici della crescita, hanno diritto alle primizie,
“offerte di nascita e offerte di imene”. Si passa così dal
vocabolario della caccia e della natura selvaggia a quello
dell’agricoltura e della vita civile: ”Sarà mia grazia — canta ora
il Coro delle Eumenidi — che venti maligni non rechino danno alle
piante; che il soffio dell’arsura non bruci alle viti e agli ulivi
le gemme e si arresti alle soglie del nostro paese; che non
serpeggi tra le mèssi il triste morbo che fa morire le ‘spighe;
che le floride greggi nutrite dai prati partoriscano al tempo
dovuto i loro parti gemelli; e che le ricchezze scavate dalla
terra, dono di Ermes, sempre dimostrino agli dèi riconoscenza del
dono”. Atena ha esortato le Erinni a comportarsi d’ora in poi come
il futopoimh/n, il “pastore delle piante”, il giardiniere, che sa
quali erbe cattive e impure deve estirpare. Cesserà dunque la
legge della vendetta privata: sarà l’Areopago, in cui troveranno
la loro legittima sede fo/boj e se/baj a dettare legge, con la
sacralità della sua istituzione, sui delitti di sangue, e il
“selvaggio” delle antiche Erinni, ora incivilito, sarà volto al
progresso della comunità.
Con la grande processione notturna che si muove alla luce delle
torce e che accompagna le Eumenidi, dispensatrici di prosperità,
nell’antro sotterraneo dove saranno venerate, si conclude l’intera
trilogia, che si era aperta con una visione altrettanto
fantastica, la corsa notturna delle fiaccole dalla Troade ad Argo.
Opera tra le più complesse non soltanto della letteratura classica
ma di ogni tempo, mi piace ricordare, per concludere, il giudizio
che diede sull’Orestea il grande studioso inglese George Thomson
nel suo studio su Eschilo e Atene, del 1949: ”Di tutte le
caratteristiche dell’Orestea, la più notevole è costituita
dall’unione organica tra la tragedia e la comunità da cui era
emersa e per cui era rappresentata: cioè dalla perfetta armonia fra
la poesia e la vita”.
Prof. Antonio Ramini
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