Fred Gardaphè, Vinegar and Oil
"Eh, Francesco, come va in questi giorni?"
Frank spat out at him, "Jesus Christ! When are you gonna stop talkin Italian? Huh? You've been in
this country for how long? and you still talkin that way."
Mario leaned forward, gripped his knees and stared at Frank.
"I doan know what'sa matter for you. You speak Italian. Tu capisci quello che ho detto!"
Mario shouted and leapt from his chair heading straight for the grappa bottle and hauled it back by
its neck to the couch.
"Yeah, I can understand you. But this is America. For Christsakes why don't you speak American!
That's what the hell you're supposed to speak in this country."
"Che problema c'hai di parlare tutte e due lingue? Summatime is you 'ave to speak Italian; you know,
so you doan forget. I doan see what'sa wrong wid it. Why does it bodder you, Francesco, huh?"
"What's wrong? I'll tell you what's wrong. It's not American."
"You're right, is not American," and the Mario laughed, "Eeets Italian! So tell me Mistah 'Merican,
why you doan like to speak you own langaweech?"
"Why don't I speak Italian? I'll tell you why. Because nobody, but nobody in this country speaks
Italian. For crying out loud! You're the only one I know who still speaks it. My customers don't
speak it; if I spoke Italian all the time like you, I'd lose my whole damn business."
"But we not talkin the bizaness now. It'sa Domenica. Business isa close. Eh, paesan, we come from
the same country. We part of the same family. I jus' ask you a question and you get all fire up.
What'sa matter for you?"
"Listen Mario, when are you gonna stop talkin like you're still in the old country. It's no wonder you
never made it further than that steel factory."
Lo dicevano tutti che Frankie Benet aveva in sé un po’ dei suoi nonni,
soprattutto da quando suo padre era morto. Era cresciuto nella convinzione che
nonno Ranello non sarebbe mai stato un vero americano. Era uno di quei
personaggi del passato, fuori posto nel mondo degli astronauti e della televisione.
Un emigrante mai sbarcato davvero, che continuava a portarsi sempre dietro il
passato in un sacco di iuta – un fardello che ne faceva un uomo lento nell’America
moderna e frenetica.
Quel suo strano miscuglio di italiano e inglese metteva in imbarazzo Frankie e lo
faceva infuriare soprattutto quando il nonno gli si rivolgeva in quel modo davanti
agli amici – quelli che Mario chiamava “merdicani” come se il fatto di non essere
italiani fosse di per sé una maledizione. Non adoperava neanche uno dei prodotti
che Frankie riteneva essenziali per vivere in America e si vantava di non aver mai
usato lo shampoo, né il deodorante e di non aver mai mangiato verdure in scatola,
né bevuto una goccia di vino fatto in fabbrica.
Nonno Benet era tutto un altro tipo, un figurino nei suoi abiti Kuppenheimer[i] e
nelle scarpe Florsheim[ii]. Non si sarebbe mai detto che un tempo anche lui era
stato un emigrante. Parlava inglese con un accento italiano leggerissimo che
conferiva un certo mistero alle sue parole. Nonno Benet era il classico emigrante
che ormai era diventato americano, con il futuro nella tasca posteriore dei
pantaloni, nel portafoglio tra i contanti e le foto di famiglia. Sia Frank Senior che
Mario, dopo aver investito tanto nel Nuovo Mondo speravano di raccogliere i
frutti di tante lotte cui erano sopravvissuti con il nipote Frank Junior. Tutti e due
nutrivano speranze segrete per quel primo nipote.
NOTE
Hyphen-nation
Sitting atop the hyphen provides a marvelous view, but no direction.
Does one face foreword or backword? Look behind or ahead?
The hyphen is incomplete: there is no where to go. […]
Lacking the two slight marks that gives the arrow its certainty,
the hyphen is incomplete: there is no where to go.
Existing between two cultures, it is an eternal bridge
with barriers and guards at both ends.
Wendel Aicock
Wendel Aicock scrisse la poesia in occasione del suo intervento al Nono Simposio di Letteratura Comparata “Et
Since 1776: The Many Voices of America,” citato anche in Melus 7.1 (1980).
Hyphen-nation
A. J. Tamburri, To Hyphenate or Not to Hyphenate?The Italian/American Writer. An other American, Toronto:
Guernica, 1991.
“hyphenate writers” → quanti scrivono in bilico sul
“trattino” – “hyphen” tra due lingue e due culture.
Il trattino non è un segno diacritico neutro, ma
piuttosto un grafema ideologicamente indiziato
capace di creare una distanza tra due culture
Il trattino riproduce un’immagine del cosiddetto
“hyphenate writer” che coincide perfettamente con
quella che di lui ha la cultura dominante
Anthony Julian Tamburri → sceglie di sostituire al trattino una barra
→ sostiene che le regole e le convenzioni grammaticali
sono costruzioni arbitrarie messe in atto da quanti
hanno il potere di farlo, convenzioni con cui si
rinforzano, in modo sottile e spesso impercettibile,
pregiudizi inerenti alle strutture grammaticali stesse:
“Graphically depicted, we have:
Italian-American
[…] the substitution of the slash for the hyphen is not necessarily the removal of
one diacritical mark by another as may have been the reader’s initial
inference […]. Instead, my suggestion to adopt the slash in place of the
hyphen involves not removing the hyphen but, more precisely, tilting it on its
end by forty-five degrees, as depicted below:
Italian—American → Italian/American”
[…] it actually bridgens the physical gap between the two terms, thus
bringing them closer together. Indeed, the greater physical vicinity […]
should aid in closing the ideological gap. Secondly, the integrity of the
grammatical rule requiring a grapheme between two such terms in an
adjectival phrase would remain intact. (pp.46-7).
Canone e anticanone
Il trattino
Il trattino → è previsto da una precisa regola grammaticale quando i due t
termini abbiano funzione di aggettivo
Il trattino → rimanda alla questione del canone e dell’anticanone.
Il trattino → istituisce un sottogenere nella letteratura americana, quella
italoamericana, una categoria che altrimenti non esisterebbe e che
appare, tuttavia, di difficile definizione.
Il trattino → rafforza la nozione di canone in quanto apparato di testi la cui origine
va rintracciata in maniera esclusiva nella cultura inglese o in quella
americana.
Il trattino → incarna la riluttanza propria della classe dominante a accettare i nuovi
arrivati tenuti a distanza proprio da questo grafema, che, secondo
Daniel Aaron, nega agli emigranti il diritto di essere membri a pieno
titolo della comunità di cui pur sono legittimati a far parte sulla base di
quanto attestano i documenti in loro possesso e le leggi in loro
favore.
Gianfranca Balestra, Giovanna Mochi (cura di), Ripensare il canone. La letteratura inglese e
angloamericana, Roma: Artemide, 2007.
Daniel Aaron, “The Hyphenate Writer and American Letters,” Smith Alumnae Quarterly (July
1964): 213-7.
“For [Aaron], the hyphen initially represented older North Americans’ hesitation
to accept the new/comer; it was their way, in Aaron’s words, to “hold him at
hyphen’s length, so to speak, from the established community”.
Anthony Julian Tamburri, To hyphenate or Not to Hyphenate?, cit., pp. 30-1.
Daniel Aaron indica tre stadi che uno scrittore non anglo-americano deve
attraversare per passare dalla condizione di “hyphenation” a quella di
“dehyphenation”.
Scrittore al primo stadio:
– “[the] pioneer spokesman for the […] unspoken for”
– il pioniere che diventa portavoce dei gruppi etnici, razziali e culturali ai margini della
società privi di alcuna possibilità di verbalizzare il loro pensiero.
Scrittore al secondo stadio:
- meno motivato a compiacere il gruppo dominante, abbandona l’uso dei preconcetti nel
tentativo di demistificare gli stereotipi negativi.
– si espone ad una doppia critica da parte degli esponenti della cultura dominante e da
parte degli stessi membri del suo gruppo etnico che si sentono rappresentati in modo
falsato e distorto
Scrittore al terzo stadio:
- si muove dai margini verso il centro essendosi ormai appropriato della cultura e degli
strumenti del gruppo dominante necessari per avere successo, tra cui la lingua propria
della classe dominante
Scrittore al primo stadio
→
racconta le storie di quanti appartengono alla sua stessa etnia al fine di
fare piazza pulita degli stereotipi radicati nella società
→ crea personaggi che incarnano proprio quegli stessi stereotipi che lui
intende combattere;
→ riesce ad accattivarsi le simpatie del lettore, utilizzando nei suoi testi
tratti riconoscibili che la cultura dominante associa con specifici gruppi
etnici, razziali e culturali.
→ riesce a rabbonire il lettore, mostrandosi particolarmente conciliante nei
confronti del gruppo dominante;
→ ingaggia un gioco effettivamente pericoloso e rischioso con i lettori cui
offre la possibilità di godere e di divertirsi per un’ultima volta con gli
stereotipi messi in campo dall’autore – che ignora o dimentica le ingiustizie
e le offese subite nel corso degli anni – in cambio della loro disponibilità a
cambiare idea sul gruppo etnico in esame.
“In so doing, this writer may actually create characters possessing some of the
very same stereotypes, with the specific goals, however, of
1) winning over the sympathies of the suspicious members of the dominant
group,
2) humanizing the stereotyped figure and thus dissipating prejudices.”
Lo scrittore riesce, in effetti, a rabbonire il lettore,
mostrandosi particolarmente conciliante nei confronti
del gruppo dominante:
“It was as if he were saying to his suspicious and opinionated
audience: “Look, we have customs and manners that may
seem bizarre and uncouth, but we are respectable people
nevertheless and our presence adds flavour and variety to
American life. Let me convince you that our oddities – no
matter how quaint and amusing you find them – do not
disqualify us from membership in the national family”.[i]
Daniel Aaron, “The Hyphenate Writer and American Letters,” cit..
Scrittore al secondo stadio
“By no means therefore as conciliatory as the
first-stage writer, this person readily indicates the
disparity and, in some cases, may even engage in
militant criticism of the perceived restrictions
and oppression set forth by the dominant
group.”
Anthony Julian Tamburri, To hyphenate or Not to Hyphenate?, cit., pp. 30-1.
Scrittore al terzo stadio
“…more strongly than his/her predecessors, this writer
feels entitled to the intellectual and cultural heritage of the
dominant group.”
Questo scrittore, comunque, come osserva Aaron, non
rinuncia né abbandona l’eredità culturale del suo gruppo etnico,
bensì la trascende per trasportare le esperienze particolari nella più
ampia sfera dell’immaginazione generale.
Daniel Aaron → la linea di demarcazione tra i tre stadi dell’evoluzione da
“hyphenate writer” a “de-hyphenate writer” non è sempre
netta.
Julian Tamburri → si assiste all’attraversamento di tutti e tre gli stadi nel corso
della carriera di un singolo autore come avviene ad es. per
Mario Puzo con The Godfather (1969) di e per Helen Barolini
con Umbertina.
Helen Barolini → Love in the Middle Ages → la storia d’amore di una coppia di
mezza età in cui le origini etniche
e l’etnicità sono lo sfondo della
vicenda.
Helen Barolini, Umbertina, New York, Seaview, 1979.
Helen Barolini, Love in the Middle Ages, William Morrow, 1986.
1.
2.
3.
4.
Rose Basile Green ipotizza quattro stadi che lo scrittore etnico deve
attraversare:
“need for assimilation”,
“revulsion”,
“counter-revulsion”,
“rooting”.
(Rose Basile Green, The Italian-American Novel: A document of the Interaction of Two Cultures,
Madison, NJ, Farleigh Dickinson University Press, 1974, capp. 4-7.)
Joseph Lopreato, Italian Americans (New York, Random House, 1979).
e Paul Campisi, “Ethnic Family Patterns: The Italian Family in the
United States “ (in The American Journal of Sociology 53.6, May 1948).
analizzano in modo simile le diverse generazioni di migranti italiani.
Anthony Tamburri:
“With regard to […] Lopreato’s e Campisi’s “third generation” […]
I would state here, briefly, that I see the writer of this generation
subsequent to Aaron’s “third-stage writer”, who eventually returns
to his/her ethnicity through the process of re(dis)covery.”
(Anthony Julian Tamburri, To Hyphenate or Not to Hyphenate, cit., p. 29.)
Marshall Grossman, “The Violence of the Hyphen in
Judaeo-Christian”, Social Text 22 (Spring 1989): 115-122.
Grossman si è occupato della funzione del trattino in
relazione alle complesse dinamiche di integrazione
relative agli ebrei cristiani:
“[the hyphen sets up an] internalized hierarchy
between one identification and its syncretic sequel,
[for which] the hyphen asserts the addition of a
second term without the erasure of the first, in a
way that preserves the original term as the mark of
its difference from itself.”
Il trattino → rafforza la contrapposizione tra due
gruppi etnici, ancora una volta dal
punto
di vista di quello egemonico:
“That is to say, “a type of idelogical chiasmus, disguised
by homonimy, seems to develop in this situation: as if
the dominant culture were saying to the ethnic group,
Of course, we’re all Americans, but there are Americans and
then there are Americans, in which case the signifier,
‘Americans’, figures as a polyvalent term whose various
signified can be utilized or discarded according to the
exigencies of the situation.
Anthony Julian Tamburri, To Hyphenate or Not to Hyphenate, cit., pp. 45-46.
L’etimologia della parola hyphen affonda le radici
nell’idea di soggiogare e dominare, come attesta
l’origine linguistica del termine che viene da “hupo”, “under” e “hen”, neutro di “heis”, “one”:
“Indeed, from an etymological standpoint, the
hyphen may also be considered an obliterating
diacritical mark. […] Thus it has its roots in
domination and subjugation.”
Anthony Julian Tamburri, To Hyphenate or Not to Hyphenate, cit., p.44.
William Boelhower, “The
Immigrant Novel as Genre,”
MELUS 8.1 [1981]: 3-14.
William Boelhower, Immigrant
Autobiography in the United States,
Venice, Italy, Essedue Edizioni,
1982.
William Boelhower, Through a
Glass Darkly: Ethnic Semiosis in
American Literature, Venice,
Italy, ed. Helvetia, 1984.
Il romanzo di immigrazione si
configura come genere
letterario, anche se in questo
caso si guarda alla letteratura
da una prospettiva semiotica
di produzione di segni.
Il segno etnico è relazione
interpretativa che mette in
rapporto corrispondenze
semantiche diverse.
Rose Basile Green → la letteratura italoamericana è il risultato
dell’interazione tra la cultura di provenienza e
quella americana di arrivo
Robert Viscusi → afferma con sicurezza che tale interazione ha
coinvolto più di due culture etniche, regionali,
prenazionali e nazionali e che tutte hanno
fornito motivi e figure a quella che si configura
come una letteratura contestualmente italiana e
americana.
Robert Viscusi → il senso profondo del lavoro letterario non è
individuare nella produzione artistica dei vari
scrittori i contributi delle singole culture etniche:
“Nonetheless, though I would be the last one to deny the
possibilities of pleasures in a contrapuntal ethnography, it seems to
me that such an approach would evade the burden of literary work,
which is precisely to discover how to answer those needs that only
literature can meet, by providing both ontological orientation and
historical authority.” (266)
Harlem, 1880
“Gennaro Accucci actually found a place in this confusion, and sent for his
family. But he did not send for his family before he had succeeded in what
he called, and all his fellow immigrants called, “making America.”
“Making good” is an approximation, but without body and expression.
Something both finer and coarser clings to the expression. There is the
suggestion of envy on the part of the user and also of contempt. For it
means that a nobody […], a good-for-nothing on the other side, had
contrived by hook or crook in this new, strange country, with its
queer ways and its lack of distinctions, to amass enough money to strut
about and proclaim himself the equal of those who had been his superiors
in the Old Country.
And if one said of himself that he had made America, he said it with an
air of rough boasting, implying “I told you so” or “Look at me.” Although
he knew that his spectators would beinclined to despise him for the word,
he threw out his chest. And yet there were comfort and solidity, the double
Il destino allegorico dell’eroe italoamericano
È questo il destino allegorico
– Sperimentare la morte con tutti i suoi riti
– Prendere parte alla processione in quanto forma celebrativa che
li accompagna durante la trasformazione finale in divinità.
Emanuel Carnevali, (autobiografia allegorica), Il primo dio
Pietro Di Donato, (romanzo) Christ in Concrete
Mario Puzo, (romanzo), The Godfather
→ insistono sullo stesso impulso alla deificazione
→dimostrano che la forza della scrittura italoamericana trae
origine dall’adattamento all’impulso all’allegorizzazione proprio
dei migranti italiani in America.
Emanuel Carnevali, Il primo dio, a cura di Maria Pia Carnevali, Milano, Adelphi, 1978 e 1994.
Pietro Di Donato, Christ in Concrete. 1939. Indianapolis and New York:Bobbs-Merrill, 1966.
Pietro Di Donato, Christ in Concrete
Eroe e protagonista → il muratore Geremio
→ muore cadendo da un ponteggio e il suo corpo
è sepolto nel cemento tanto che i suoi compagni
impiegheranno due giorni per recuperare il corpo.
→ il giovane muore il Venerdì Santo e il corpo
viene recuperato solo la Domenica di Pasqua
→ la comunità dei migranti tiene un lungo
discorso al suo funerale in cui Geremio viene
prima paragonato e poi identificato con il Cristo
Risorto.
“to make America” → ripropone a distanza di secoli l’ambizione dei conquistadores che
volevano letteralmente inventare un nuovo continente e
contestualmente re-inventare se stessi.
Gennaro → come ogni altro eroe delle saghe dei migranti → condivide la stessa ambizione
e viene in America non solo per sfuggire a qualcosa, ma anche per dimostrare
la sua ipotesi.
→ La storia del giovane → consiste in una serie di esperimenti che lo porteranno
alla fine a provare e a dimostrare la sua ipotesi.
→ È disposto a fare di tutto per dare vita al suo Io immaginario nella sua
immaginaria America, un luogo in cui Gennaro ha proiettato una precisa
architettura e struttura sociale che replica la piramide di nobili e galantuomini
che ha lasciato in Italia
→ Realizza il suo sogno, soddisfa la sua ambizione → ma il meccanismo del
romanzo richiede che lui, morendo, paghi un prezzo per il trionfo celebrato.
Viscusi → è logico e necessario che la sua vicenda di successo sulla
terra si concluda con la morte che consiste nel passaggio
ad un mondo altro in cui Gennaro può essere divinizzato e
assumere le sembianze morali di un dio.
Mario Puzo, The Godfather, 1969
→ l’identificazione di Don Corleone con (il mito di) Dio Padre non è
completa e viene sviluppata con una certa ironia
→ la statura divina di Don Vito Corleone nasce dalla sofferenza e dallo
spirito di lealtà.
→ quello che lo trasforma in mito è la statura dell’emigrante che ha “fatto
l’America”
“The temptation, of course, is to read this divinization as a straightforward
embourgeoisemente of the poor migrants. This is a narrow interpretation,
however, and altogether insensitive to the persistence of religious feeling
that allows Italian American literary tradition to assign this status almost
reflexively to its dead heroes.”
Robert Viscusi, “A Literature Considering Itself: The
Allegory of Italian America”, cit., p.273.
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