RAPPORTO FINALE
TASK 2.1
REPORT SULLE TECNOLOGIE E I
SISTEMI DI PREVENZIONE
AMBIENTALE
Redazione
Verifica
Approvazione
L. Cutaia
E. Fiorini
M. Montalto
F. Sforza
A. Zampiga
V. Mazzocato
C. Peotta
M. Guido
A. Lomoro
V. Mazzocato
F. Frenquellucci
Rev. 1
Data emissione 30-06-2005
Cod. Doc.
Siam/RF/ZIP/2.1/02/05
SOMMARIO
1.
PARTE GENERALE __________________________________________________2
1.1
2.
Introduzione _________________________________________________________ 2
TECNOLOGIE E SISTEMI CHE OPERANO SUGLI INPUT DEI SISTEMI INDUSTRIALI_9
2.1.1
2.1.2
2.1.3
2.1.4
Vettori energetici ___________________________________________________________ 9
Approvvigionamento di materie prime__________________________________________ 10
Materie prime/seconde riciclate all’interno delle AI o verso altre AI __________________ 11
Utilizzo di BAT nei sistemi produttivi __________________________________________ 11
3.
TECNOLOGIE E SISTEMI CHE OPERANO SUGLI OUTPUT DEI SISTEMI
INDUSTRIALI __________________________________________________________14
3.1.1
3.1.2
3.1.3
3.1.4
3.2
Emissioni in atmosfera ______________________________________________________ 14
Depurazione acque civili e industriali __________________________________________ 40
Rumore __________________________________________________________________ 69
Tecnologie per il trattamento, la gestione e lo smaltimento dei rifiuti __________________ 74
Tecnologie e sistemi per il contenimento dell’inquinamento di suolo e sottosuolo 80
3.2.1
3.2.2
Generalità ________________________________________________________________ 80
La normativa nazionale _____________________________________________________ 87
3.3
Tecnologie e sistemi che operano sulle CONDIZIONI AL CONTORNO
INFRASTRUTTURALI _____________________________________________________ 88
3.3.1
3.4
Strumenti volontari___________________________________________________ 92
3.4.1
3.4.2
3.4.3
3.4.4
3.4.5
3.4.6
3.5
Il regolamento EMAS: origine ed evoluzione ____________________________________ 92
La norma ISO 14001 _______________________________________________________ 93
Differenze ed integrazioni tra Emas e ISO 14001 _________________________________ 93
La nuova norma 14001:2004 _________________________________________________ 95
Campi di Applicazione del Regolamento EMAS__________________________________ 98
Etichette e dichiarazioni ambientali ____________________________________________ 99
La Normativa Internazionale__________________________________________ 101
3.5.1
3.5.2
4.
Piano della mobilità per le merci e per il personale ________________________________ 88
LCA - life cycle assessment _________________________________________________ 101
Labelling e Life Cycle Assessment ___________________________________________ 104
INDAGINE _______________________________________________________105
4.1
Finalità ed obiettivi __________________________________________________ 105
4.2
Criteri per la messa a punto dei questionari______________________________ 105
4.3
Criteri di scelta dei destinatari_________________________________________ 107
4.4
Invio e restituzione dei questionari _____________________________________ 108
4.4.1
4.4.2
4.4.3
4.5
Elenco destinatari _________________________________________________________ 108
Questionari compilati e rinviati ______________________________________________ 110
Elaborazione dei risultati ___________________________________________________ 112
Conclusioni ________________________________________________________ 124
REPORT ON ENVIRONMENTAL TECHNOLOGIES AND
POLLUTION PREVENTION SYSTEMS
1.
PARTE GENERALE
1.1
INTRODUZIONE
L’espressione “area ecologicamente attrezzata” è stata introdotta nell’ordinamento
legislativo italiano dal D. Lgs. n. 112/98 che tratta del “Conferimento di funzioni e
compiti dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della Legge
n. 59 del 15 marzo 1997”, definita anche come “Legge Bassanini”. All’art. 26 il
legislatore italiano la definisce come area dotata di infrastrutture, di sistemi e di forme
di gestione necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell'ambiente.
Sul territorio nazionale si segnalano manifestazioni di interesse verso questo nuovo
concetto: esse offrono uno scenario di informazione abbastanza frammentario e
diversificato da regione a regione. L’espressione “area ecologicamente attrezzata” è
applicabile ad un’area industriale dedicata alla produzione e al settore manifatturiero,
qualora si vogliano progettare, realizzare e gestire contesti produttivi secondo criteri di
sostenibilità e di eco-efficienza.
Il moderno settore industriale è responsabile di ripercussioni negative sull’ambiente,
conseguenti all’adozione di un modello di produzione insostenibile. Lo sfruttamento
eccessivo di materie prime primarie, l’utilizzo di risorse energetiche non rinnovabili,
l’emissione di sostanze inquinanti, la produzione di rifiuti costituiscono oggi un punto
di debolezza per il comparto produttivo e manifatturiero. Quando l’industria produce
tali esternalità non è inserita sinergicamente nel contesto ambientale che la ospita.
L’approccio suggerito dall’ecologia industriale offre un’alternativa perseguibile qualora
si intenda realizzare gli obiettivi di sostenibilità in campo industriale, con lo scopo di
ridurre il consumo di materie prime primarie a favore del riutilizzo di materie prime
secondarie (o sottoprodotti industriali), di preferire fonti di energia rinnovabile, di
minimizzare il quantitativo in volume di rifiuti prodotti altrimenti destinati allo
smaltimento e alla messa a dimora, di avvicinarsi asintoticamente all’eliminazione di
ogni forma di inquinamento. Alla base della promozione di “aree industriali
ecologicamente attrezzate” risiede il principio di precauzione e prevenzione
dall’inquinamento, sullo sfondo dell’approccio suggerito dall’ecologia industriale,
grazie al quale vengono abbandonati i vecchi approcci end-of-pipe.
Non esiste una definizione univoca di ecologia industriale. L’ecologia industriale
formalmente emerse in seguito ad un incontro tenutosi nel 1991 alla Accademia
Nazionale delle Scienze ed è una disciplina che è stata segnalata dal Presidente del
Consiglio sullo Sviluppo sostenibile come “ il nuovo paradigma” nella protezione
ambientale, mentre il Consiglio Nazionale di Ricerca ha identificato questa prospettiva
emergente come una delle sei aree di ricerca che richiederanno attenzione per i prossimi
venti anni (Anastas e Breen, 1997). Le radici dell’ecologia industriale possono essere
rintracciate negli anni ‘60 quando venivano svolte le prime analisi sui sistemi
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produttivi; a ricevere su di sé l’attenzione mondiale fu però nel 1989 una ricerca della
General Motors condotta dagli scienziati Frosch e Gallopoulos, quando venne elaborata
la metafora di ecosistema industriale. Altri autori parlano semplicemente di ecoefficienza e vedono l’ecologia industriale come una disciplina che abbraccia
l’interazione tra l’industria e la società con i sistemi naturali. Allenby nel 1992
suggerisce che l’ecologia industriale potrebbe essere considerata come uno strumento
col quale è raggiunto e mantenuto lo sviluppo sostenibile. Tale strumento “consiste in
una visione sistemica sull’attività economica umana e le sue interazioni con i sistemi
biologici, chimici e fisici con l’obiettivo ultimo di stabilire e mantenere la specie umana
a livelli che siano sostenibili indefinitamente pur continuando l’evoluzione tecnologica,
economica e culturale” (Allenby, 1992). Alcuni contributi mirano a sottolineare il fatto
che il tradizionale sviluppo industriale è caratterizzato da un modello lineare che non
prevede il riciclo dei materiali e dell’energia e in modo approssimativo inizia con
l’estrazione, prosegue con l’uso e termina con la messa a dimora. Un modello lineare,
dunque, non prevede la chiusura del ciclo, ma attinge dall’ambiente risorse limitate e
restituisce all’ambiente esterno prodotti, che a fine uso sono destinati alla messa a
dimora, e sottoprodotti, che non vengono riutilizzati e reinseriti nello stesso ciclo di
produzione o in un ciclo di produzione di tipologia diversa. Alcune definizioni di
ecologia industriale forniscono delle considerazioni importanti riguardo la profonda
differenza tra il sistema industriale e il sistema naturale (sarebbe più opportuno definirlo
come ecosistema naturale). L’ecosistema naturale, infatti, non genera rifiuti e si articola
attraverso le interazioni tra i membri del sistema. Uno dei maggiori promotori
dell’ecologia industriale, Robert A. Frosh, sostiene che tale disciplina “è basata su una
semplice analogia con gli ecosistemi ecologici naturali (…). La struttura di sistema
dell’ecologia naturale e la struttura di un sistema industriale, o di un sistema economico,
sono estremamente simili” (Frosh, 1992). Sulla necessità di imitare gli ecosistemi
naturali interviene anche Tibbs con un interessante contributo: “L’ecologia industriale
coinvolge la progettazione delle infrastrutture industriali come se fossero una serie di
ecosistemi artificiali interconnessi che si interfacciano con l’ecosistema globale naturale
(…). Prende in considerazione lo schema dell’ambiente naturale come modello per
risolvere problemi ambientali, e per creare un nuovo paradigma per il sistema
industriale nel processo produttivo” (Tibbs, 1992). Tibbs nello stesso documento
descrive gli obiettivi che l’ecologia industriale si propone di raggiungere: “interpretare e
adattare la comprensione del sistema naturale e applicarlo alla progettazione di un
sistema artificiale, per cercare di ottenere un modello di industrializzazione che non sia
solo molto efficiente, ma anche intrinsecamente adattato alla tolleranza e alle
caratteristiche del sistema naturale. L’accento deve essere posto sulle forme di
tecnologia che lavorano in sinergia con i sistemi naturali e non contro di essi”. Per
Lowe un ulteriore obiettivo è quello di “rendere ciclici i sistemi industriali il più
possibile per realizzare un sistema a circuito chiuso, con accanto una completa attività
di riciclaggio dei materiali” (Lowe, 1993). Per completare la serie di definizioni,
l’ecologia industriale è considerata lo studio per eccellenza dei flussi di materia e
energia e la loro trasformazione in prodotti, sottoprodotti e rifiuti (Garner e Keoleian,
1995).
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Rapporto finale Task 2.1
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L’ecologia si occupa dello studio le relazioni tra gli organismi e l’ambiente in cui
vivono; tali relazioni includono le risposte fisiologiche degli individui, la struttura e le
dinamiche delle popolazioni, le interazioni tra le specie, l’organizzazione delle comunità
biologiche, i processi che coinvolgono l’energia e i materiali negli ecosistemi
(Ecological Society of America, 1993). Proporre l’espressione “ecologia industriale”
significa inserire tale disciplina nel campo più ampio dell’ecologia, in virtù del fatto che
tale approccio si propone di studiare le interazioni tra le imprese produttive, tra i loro
prodotti e processi, a livello di sistemi locali, regionali, nazionali e globali. Secondo il
Journal of Applied Ecology l’applicazione di principi, di idee, di metodi prettamente
appartenenti al campo dell’ecologia può essere effettuata nella complessa realtà
industriale in modo tale che sia favorita l’integrazione del sistema industriale con
l’ambiente esterno. L’approccio innovativo proposto dall’ecologia industriale, dunque,
consiste nel ritenere che la macchina industriale sia paragonabile a un organismo
inserito nell’ecosistema naturale con il quale è in grado di scambiare energia e materia.
L’ecosistema naturale globale, secondo gli studi di ecologia biologica, possiede le
seguenti caratteristiche:
- è formato da organismi che svolgono la loro attività individualmente o in
cooperazione tra loro;
- ogni organismo è inserito all’interno di un contesto sistemico di carattere dinamico;
- energia e materia circolano continuamente e si trasformano in forme più raffinate
(ad esempio, l’energia proveniente dal sole , immagazzinata nei combustibili
fossili);
- l’ecosistema naturale non genera rifiuti in quanto lo scarto di un organismo
costituisce nutrimento per un altro;
- tutto è riciclato sotto forma di nutrimento ed energia per gli organismi vivi o morti;
- la produzione e il consumo sono strettamente interconnessi;
- il sistema ambientale ha un carattere ciclico a circuito chiuso per cui ogni organismo
riceve e cede energia e materia esclusivamente all’interno dell’ecosistema senza
generare rifiuti di natura materiale ed energetica.
Virtualmente niente abbandona il sistema, in quanto ciò che rappresenta rifiuto è
utilizzato come substrato per altri organismi. L’ecologia industriale riconosce
l’analogia tra i sistemi naturali e industriali e considera i primi come modelli da imitare
per i secondi. L’obiettivo che si propone tale disciplina è quello di stimolare
l’evoluzione nell’approccio allo studio dei sistemi industriali in modo tale che si possa
condividere la stessa modalità di trattazione concernente ai sistemi naturali. Se si
intende imitare la natura nell’ambito industriale per promuovere i principi dell’ecologia
industriale è necessario puntare al raggiungimento di un equilibrio dinamico e un
elevato accordo di interconnessione e di integrazione che esiste e vige in natura,
caratterizzata altresì da un complesso sistema di feedback (Garner e Keoleian, 1995).
Entrambi i sistemi sono caratterizzati da cicli di energia, nutrienti e materiali. I cicli del
carbonio, dell’idrogeno, dell’azoto sono indispensabili per mantenere un ambiente
equilibrato. Alcuni flussi possono impattare sull’ambiente globale come per esempio
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l’accumulo di gas serra che provoca cambiamenti climatici globali.
Il sistema naturale si distingue per il suo carattere ciclico. Tale caratteristica pone le basi
per la formulazione dei concetti di simbiosi industriale, di ecosistema industriale ma
anche di metabolismo industriale.
La simbiosi industriale è un’applicazione dell’ecologia industriale che tenta di
ottimizzare i flussi di materia e di energia attraverso processi industriali a larga scala,
attraverso la cascata nell’uso di energia e nell’uso di sottoprodotti come alimentazione
per altri processi. Con la creazione collegamenti tra attività formalmente separate, le
domande di risorse come input e gli output (inquinamento e rifiuti) sono
significativamente ridotti. In questo modo la richiesta di materie prime del processo
seguente è parzialmente o totalmente coperta, in quanto è previsto il riutilizzo dei
sottoprodotti. In alcuni casi, può essere richiesto di praticare il condizionamento
dell’alimentazione per rendere utilizzabile un sottoprodotto come alimentazione in un
dato processo. L’uso di energia in cascata coinvolge il calore residuo presente nei
liquidi o nel vapore che può essere una o più volte utilizzato per provvedere al
riscaldamento o al raffreddamento in altri processi. L’energia possiede un suo grado di
qualità, strettamente dipendente dalla forma di energia considerata. L’energia elettrica è
quella di più alta qualità: il suo utilizzo determina una sua degradazione in forme di
energia di più bassa qualità.
Analogamente a quanto accade negli ecosistemi naturali, in cui vige la simbiosi come
forma di cooperazione tra gli organismi, le imprese presenti su uno stesso ambito
territoriale sono protagoniste di una rete di scambi di flussi di materia e di energia a
favore del riciclo e dell’uso a cascata dell’ energia stessa. In natura non esiste il concetto
di spreco, poiché i sottoprodotti di un organismo, o gli stessi organismi, diventano
alimento per altri. Adattare i concetti di biologia al mondo industriale consente a
quest’ultimo di ottimizzare non solo la sua performance ambientale, ma anche la sua
performance economica. Un ecosistema industriale è il risultato che si ottiene
dall’implementazione della simbiosi industriale. Consiste in una comunità o un network
di imprese e altre organizzazioni nell’ambito di una regione che scelgono di interagire
nello scambiarsi e fare uso di sottoprodotti e/o energia in modo da ottenere uno o più
dei seguenti vantaggi: riduzione dell’utilizzo di materie prime come input di un
processo industriale; riduzione dell’inquinamento; aumento dell’efficienza energetica
del sistema; riduzione in volume dei rifiuti prodotti; aumento nel numero e nella
tipologia di output di processo che hanno valore di mercato. Per porre in essere un
ecosistema industriale è necessario avere a disposizione informazioni molto dettagliate
sulle imprese e su altre entità presenti su uno stesso territorio a proposito di input e
output. Solo da una conoscenza approfondita delle esigenze di ogni componente
dell’ecosistema possono stabilirsi accordi per effettuare archi tra i nodi della rete
(Gertler, 1995).
Il metabolismo industriale è una disciplina che studia il legame tra i flussi di materia di
origine antropica e l’impatto potenziale delle attività economiche sull’ambiente. La
specie umana altera i cicli che governano e garantiscono l’equilibrio della natura.
Tecnicamente ogni bene e servizio può essere contabilizzato attraverso diversi
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“numerari”, come il denaro, l’acqua consumata, la CO2 emessa in atmosfera. Questo
approccio consentirebbe di accompagnare la consueta valutazione monetaria con altre
valutazioni sul costo ambientale. Il metabolismo industriale consente, infine, di
descrivere, contabilizzare, valutare il flusso in unità di massa di una certa sostanza dalla
biosfera alle varie branchie della tecnosfera per poi ritornare alla biosfera. Come accade
per un organismo vivente, un’impresa per svolgere la sua funzione, che è quella di
produrre un bene o un servizio, riceve in alimentazione, come flussi di input, materiali
ed energia, li sottopone a processi che li rendano disponibili in forme utilizzabili e
rispondenti a determinati standard, e parzialmente li espelle dal sistema sottoforma di
scarti. L’insieme di tali operazioni di “scomposizione” possono essere racchiuse nel
termine “metabolismo”. La conoscenza dello schema dei flussi di energia e materia
all’interno dell’economia di una comunità offre una lettura sistemica della situazione
presente attraverso lo sviluppo di indicatori di sostenibilità. Sia i pianificatori che i
cittadini sono supportati nelle decisioni dall’analisi di metabolismo industriale condotta
attraverso il calcolo di indici numerici la cui determinazione consente di stabilire il
grado di sostenibilità ambientale di un sistema. Uno di questi indici è, ad esempio,
calcolato rapportando le quantità di materie prime primarie e materie prime secondarie
in input ad un sistema produttivo.
A diretta implementazione dei presupposti di simbiosi industriale, è di grande rilievo
ricordare la duplice esperienza rappresentata dai Parchi Eco-industriali (EIP) e
dall’esempio di Kalundborg,. La prima esperienza deriva dall’impostazione statunitense
che ha promosso la realizzazione di queste realtà industriali principalmente in America
e in Asia; la seconda esperienza arriva, invece, da una cittadina danese di circa 20.000
abitanti sita a 100 chilometri ad ovest di Copenaghen dalla quale prendono spunto i
tentativi di gestione integrata tra varie imprese industriali site in uno stesso territorio. Le
strade percorribili sono dunque due: creare un ecosistema industriale in aree già
industrializzate manovrando i flussi di materia e di energia tra le imprese, come è
avvenuto e avviene tuttora a Kalundborg, oppure costruire ex novo aree industriali la cui
pianificazione include sin dall’inizio la composizione del tessuto industriale su cui
realizzare la simbiosi, come avviene nei Parche Eco-industriali americani e asiatici. I
due sistemi, dunque, differiscono profondamente in quanto a modalità di realizzazione,
sebbene il fine ultimo è per entrambe quello di realizzare un ecosistema industriale.
L’approccio di Kalundborg è di tipo “bottom up” per cui il sistema di relazioni tra le
imprese site nella cittadina danese nasce indipendentemente da un riferimento teorico,
che poi, in un secondo tempo, potrà essere utilizzato come supporto alla gestione. Da
semplici accordi tra due enti, basati sullo scambio di materia e di energia, ora a
Kalundborg, per motivi “fisiologici” e per i primi risultati ottenuti, si è considerato
molto vantaggioso proseguire in quella direzione tanto da sviluppare e mantenere un
solido progetto di simbiosi industriale. A Kalundborg, è attivo un progetto di simbiosi
industriale che coinvolge otto partner. Le singole attività, grazie ad accordi contrattuali
bilaterali, si scambiano tra loro materia ed energia, ottenendo vantaggi ambientali, tra
cui, in primis, la minimizzazione degli impatti ambientali, e parallelamente vantaggi
economici, che si traducono nella riduzione dei costi. Come sostiene Noel Brings
Jacobsen dell’Istituto di Simbiosi Industriale a Kalundborg, esiste una correlazione
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lineare tra il numero delle imprese localizzate su una stessa area e l’impatto ambientale
complessivo. La sollecitazione ambientale associata ad un’area industrializzata è uguale
alla somma delle sollecitazioni di ogni singola industria. Ciò significa che maggiore è il
numero di industrie riunite in un’area specifica, maggiore è l’impatto ambientale. A
Kalundborg, questa correlazione non vale, in quanto nella simbiosi industriale, grazie
alle relazioni tra i nodi della rete di scambi, si pratica l’economia delle risorse, il
risparmio energetico e la riduzione degli impatti negativi sull’ambiente.
I vantaggi apportati dalla realizzazione di un ecosistema industriale come quello
implementato a Kalundborg sono:
- Il riciclaggio dei sottoprodotti: il sottoprodotto di un’azienda diventa un’importante
risorsa per un’altra azienda.
- La riduzione nel consumo delle risorse, come acqua, carbone, petrolio, gesso,
fertilizzanti,ecc.
- La riduzione della pressione ambientale, in termini di riduzione nell’emissione di
CO2 e SO2, riduzione di scarichi di acque di rifiuto e meno inquinamento dei corsi
d’acqua,ecc.
- Un miglioramento nell’utilizzo di risorse energetiche, con l’uso di rifiuti gassosi
nella produzione di energia.
L’approccio statunitense, invece, è intrinsecamente diverso. Tale approccio è da
ritenersi di tipo “top-down”, in quanto è il contenuto metodologico e i presupposti
teorici ad informare e sostenere la progettazione di un ecosistema industriale, la sua
successiva implementazione e gestione.
Con riferimento al tessuto industriale italiano, sono state individuate, in un recente
studio, due forme di applicazione del concetto di area industriale ecologicamente
attrezzata, che possono eventualmente coesistere, riferite ad aree industriali nelle quali
siano presenti attività produttive differenti ovvero uguali:
Nel primo caso l’area industriale è vista come la sede in cui si realizza una prassi
simbiotica; l’insieme di imprese di tipologia diversa anima una rete di scambi di
materiali ed energia con l’obiettivo di minimizzare la produzione di rifiuti e il
consumo di materie prime, favorendo l’uso a cascata dei materiali e dell’energia, il
recupero e il riciclo, che presuppongono oltre che evidenti vantaggi in termini
ambientali anche consistenti risparmi in termini economici.
Nel secondo caso l’area industriale è vista come sede in cui si adottano strategie
di politica e di governo ambientale atte a migliorare le prestazioni ambientali di
ciascuna impresa e dell’area industriale nel suo complesso. In questo caso gli aspetti
ambientali, energetici e delle risorse sono governati in maniera integrata da un unico
soggetto che possiede non solo una visione sistemica dell’area, ma anche le
competenze necessarie per ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture e dei servizi
comuni e per gestire, ad esempio, i rifiuti, le acque reflue, le acque di pioggia,
l’energia, la mobilità e i trasporti non solo nel rispetto delle normative vigenti ma
anche, e soprattutto, in maniera da ridurre ulteriormente i carichi ambientali
prodotti.
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2.
TECNOLOGIE E SISTEMI CHE OPERANO SUGLI INPUT DEI
SISTEMI INDUSTRIALI
2.1.1 Vettori energetici
Il fabbisogno energetico delle aree industriali è connesso ad esigenze di produzione,
riscaldamento, climatizzazione, illuminazione, trasporto e costruzione.
La gestione dell’energia è strettamente connessa ad aspetti ambientali che vanno
dall’inquinamento atmosferico prodotto dalle centrali elettriche erogatrici a quelli
connessi con le produzioni delle singole aziende tra i quali particolare rilevanza hanno
le emissioni di anidride carbonica e il depauperamento di risorse non rinnovabili quali il
petrolio e il carbone.
Il risparmio in consumi energetici ottenuto a parità di produzione è uno dei principali
obiettivi che le aziende si pongono, essendo in esso compresi e intimamente legati
vantaggi di tipo economico e ambientale.
L’importanza dell’efficienza energetica risulta evidente in maniera trasversale
nell’ambito dei diversi settori produttivi. Ne è testimonianza la necessità individuata in
sede europea nel 2003 di una specifica linea guida sull’ecoefficienza (Energy
Efficiency) della cui redazione è stato incaricato uno dei Technical Working Group
(TWG) istituiti sulla base della direttiva 96/61/CE (IPPC).
Differentemente dalla maggior parte degli altri “best available techniques reference
documents (BREFs)” il documento pianificato non riguarderà un singolo settore
produttivo ma avrà un approccio di carattere generale.
Le considerazioni sulla gestione dell’energia che si vogliono ricavare dal questionario
riguardano:
- fabbisogno energetico dell’Area Industriale
- esistenza di impianti di cogenerazione
- esistenza di impianti basati su fonti energetiche alternative
- esistenza di una rete di teleriscaldamento
- esistenza di riutilizzi energetici interni
Le considerazioni sui vettori energetici utilizzati nelle Aree Industriali, infatti, devono
necessariamente ricomprendere valutazioni circa un uso razionale di essi in riferimento
ai principi dell’efficienza energetica. Un “uso razionale” che nella legislazione italiana
viene considerato come una vera e propria fonte energetica.
La legge N. 10 del 9 gennaio 1991 “Norme per l’attuazione del piano energetico
nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo
delle fonti rinnovabili di energia”, nell’Art. 1 definisce finalità e ambito di applicazione
della legge, favorendo e incentivando:
- L’uso razionale dell’energia.
- Il contenimento dei consumi di energia nella produzione e nell’utilizzo di manufatti.
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- L’utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia.
- La riduzione dei consumi specifici di energia nei processi produttivi.
- La sostituzione degli impianti nei settori a più elevata intensità energetica.
Ai fini della citata legge sono considerate fonti rinnovabili di energia o assimilate le
seguenti:
- Sole.
- Vento.
- Energia idraulica.
- Risorse geotermiche.
- Maree e moto ondoso.
- Trasformazione di rifiuti organici, inorganici e vegetali.
Sono considerate, inoltre, fonti di energia assimilate alle rinnovabili le seguenti:
- La cogenerazione, intesa come produzione combinata di energia elettrica o
meccanica e calore.
- Il calore recuperabile dai fumi di scarico, impianti termici, elettrici e da processi
industriali.
- I risparmi di energia conseguibili nella climatizzazione e nell’illuminazione degli
edifici con interventi sull’involucro edilizio e sugli impianti.
In un certo senso, dunque, l’uso razionale dell’energia può essere considerato come
una vera e propria fonte energetica rinnovabile.
2.1.2 Approvvigionamento di materie prime
Per motivazioni ambientali ed economiche è essenziale puntare ad una riduzione
consistente del prelievo di risorse e dei flussi di materiali e di inquinanti che le attività
umane immettono nell’ambiente. Utilizzando le risorse in modo più efficiente nel
sistema industriale è possibile conseguire questo obiettivo.
I mezzi per attuare questa strategia esistono e sono dati dalle attività di ricerca e
sviluppo tecnologico riguardanti processi produttivi volti a:
- ridurre il consumo di risorse e materie prime, soprattutto quelle non rinnovabili;
- prolungare la vita utile dei prodotti;
- sostituire tendenzialmente le merci ecologicamente problematiche;
- favorire il riciclaggio ed il riutilizzo dei prodotti non più servibili e della materia in
essi incorporata.
La riduzione dell’uso di risorse nel sistema economico italiano, consente di ridurre i
costi d’acquisto di materie prime all’estero, che rappresentano una voce passiva del
bilancio nazionale, e di stimolare la ricerca e lo sviluppo di nuovi processi e nuovi
prodotti ad elevata efficienza migliorando la competitività.
Sulla base delle risposte ai questionari si potrà avere una prima indicazione
sull’esistenza nelle Aree Industriali di sistemi per l’ottimizzazione e la riduzione del
consumo di risorse e sulla loro tipologia. Tali indicazioni dovranno poi essere
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confrontate con la normativa e le linee guida in materia. Un esempio può essere quello
della valutazione circa il grado di applicazione del DM n. 44 del 16 gennaio 2004
recepimento italiano della Direttiva 1999/13/CE detta comunemente "direttiva solventi".
Il decreto infatti cerca di incentivare la selezione, da parte delle aziende soggette, dei
solventi a minor impatto ambientale e di favorire il loro recupero e riutilizzo interno.
2.1.3 Materie prime/seconde riciclate all’interno delle AI o verso altre AI
L’integrazione tra le diverse aziende e i diversi settori industriali assume un ruolo
chiave come indicatore del valore aggiunto di un area industriale “ecologicamente
attrezzata”.
Il collegamento tra diverse società consente di creare opportunità di scambio dei
materiali di scarto nell’ambito dell’area industriale e individuare nuovi settori che
utilizzino tali materiali prodotti da altre imprese e/o settori. Un approccio integrato
risulta vantaggioso per i proprietari e per le singole società poiché facilita un impiego
efficiente delle risorse finanziarie, umane e naturali.
Il VI Programma d’Azione Ambientale UE 2000-2010 pone come priorità nel settore
rifiuti la riduzione della quantità e della pericolosità. A tal fine, prevede specifiche
azioni per intervenire alla fonte del processo produttivo delle merci. La gestione dei
rifiuti, come indicata nelle Direttive Comunitarie 91/156, 91/689 e 94/62, assegna allo
smaltimento una posizione residuale, considerando come prioritarie le attività di
riutilizzo, recupero di materia e recupero di energia.
Le strategie finalizzate al recupero di materia si avvalgono della ottimizzazione dei
sistemi di raccolta dei rifiuti, che dovranno comunque risultare efficaci sotto il profilo
tecnico, economico, ambientale e dello sviluppo del mercato del riciclo e del recupero
dei rifiuti e dei materiali ottenuti dal recupero degli stessi.
2.1.4 Utilizzo di BAT nei sistemi produttivi
Nei questionari di indagine, una apposita sezione è stata dedicata all’utilizzo di
tecnologie avanzate”. Non esiste a livello di distretto o di Area Industriale un BREF
(Bat reference Document) dedicato. Quindi il paragone tra le tecnologie adottate dalle
varie aziende del distretto o dagli eventuali impianti consortili e le cosiddette Migliori
Tecniche Disponibili dovrà essere fatto riferendosi caso per caso ai diversi processi e ai
diversi settori industriali.
Così come da impostazione del questionario, si intende trattare separatamente le
tecnologie in uso dedicate alla produzione e le tecnologie in uso dedicate
all’abbattimento e al controllo dei carichi inquinanti.
I dati raccolti sono destinati ad un confronto con le MTD (Migliori Tecniche
Disponibili) ovvero le tecniche e le tecnologie operativamente ed economicamente
perseguibili che garantiscono il più elevato livello di prestazioni ambientali da un punto
di vista integrato.
Il confronto si svolgerà, a livello nazionale, consultando i lavori (ove realizzati per il
processo indagato) redatte dai Gruppi Tecnici Ristretti (GTR) mediante i quali articola
le sue attività la Commissione Interministeriale per il supporto alla definizione delle
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linee guida per l'individuazione e l'utilizzazione delle migliori tecniche disponibili
(prevista dall'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 372/99 di recepimento della
direttiva del consiglio europeo 96/61/CE).
La direttiva 96/61/CE stabilisce i criteri con i quali gli Stati membri garantiscono
l'applicazione del principio IPPC (prevenzione e controllo integrati dell'inquinamento)
all'atto del rilascio dell'autorizzazione all'esercizio degli impianti di maggior
presumibile impatto sull'ambiente (elencati nell'allegato 1 della direttiva stessa).
Le linee guida in questione rappresentano la contestualizzazione alla realtà italiana dei
documenti di riferimento (i cosiddetti BAT Reference documents o BREF) che verranno
quindi considerati una fonte di dati di primaria importanza.
Dal confronto tra le MTD -BAT così individuate e descritte e lo stato dell’arte dei
processi indagati si potranno formulare ipotesi e proposte di risparmio energetico e di
sostituzione di tecnologie.
La BAT definite a livello comunitario spesso non si conciliano con gli aspetti tecnici ed
ambientali insiti in una particolare località. Uno dei maggiori problemi è quello legato
all’utilizzo delle BAT in impianti esistenti, per i quali l’efficienza e i vantaggi
dell’applicazione delle stesse risulta spesso minore di quanto si verifica in un nuovo
impianto. Anche questo aspetto merita quindi un approfondimento specifico e ci si
propone di affrontarlo in fasi successive facendo riferimento al BREF “Economic and
Cross-Media Issues under IPPC”, che aiuterà a valutare gli investimenti in migliore
tecnologia per gli impianti sulla base della loro prospettiva di vita utile e quindi di un
recupero economico negli anni a seguire.
Nel caso di comparti produttivi per cui non siano state ancora individuate linee guida
sulle migliori tecniche disponibili, si farà riferimento a principi di carattere generale e a
quanto disponibile su altr fonti di valutazione. Alla base di tali valutazioni vi saranno i
principi dell’allegato IV al decreto IPPC che riportiamo nella sua interezza:
Allegato IV
Considerazioni da tenere presenti in generale o in un caso particolare nella
determinazione delle migliori tecniche disponibili, secondo quanto definito all’art. 2
comma 1, lettera o), tenuto conto dei costi e dei benefici che possono risultare da
un’azione e del principio di precauzione e prevenzione.
1. Impiego di tecniche a scarsa produzione di rifiuti.
2. Impiego di sostanze meno pericolose.
3. Sviluppo di tecniche per il ricupero e il riciclo delle sostanze emesse e usate nel
processo, e, ove opportuno, dei rifiuti.
4. Processi, sistemi o metodi operativi comparabili, sperimentati con successo su scala
industriale.
5. Progressi in campo tecnico e evoluzione delle conoscenze in campo scientifico.
6. Natura, effetti e volume delle emissioni in questione.
7. Date di messa in funzione degli impianti nuovi o esistenti;
8. Tempo necessario per utilizzare una migliore tecnica disponibile.
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9. Consumo e natura delle materie prime ivi compresa l'acqua usata nel processo e
efficienza energetica.
10. Necessità di prevenire o di ridurre al minimo l'impatto globale sull'ambiente delle
emissioni e dei rischi.
11. Necessità di prevenire gli incidenti e di ridurne le conseguenze per l'ambiente;
12. Informazioni pubblicate dalla Commissione europea ai sensi dell'articolo 16,
paragrafo 2, della direttiva 96/61/CE, o da organizzazioni internazionali.
Infine, si vuole fare presente come per “tecnologie avanzate” non bisogna intendere le
sole risorse tecniche legate a strumenti e macchinari, ma anche le tipologie dei processi
produttivi. Insomma dovranno essere valutati e valorizzati quei meccanismi di
produzione che riducono l’inquinamento a monte e non “end of pipe”. L’obiettivo della
produzione pulita o cleaner production, infatti, è ridurre al minimo l’impatto ambientale
modificando il sistema di produzione di merci e sevizi oppure i prodotti stessi. Il
concetto chiave della produzione pulita è una migliore efficienza delle operazioni di
trasformazione e del ciclo di vita del prodotto considerato.
L’adozione di tecniche di produzione pulita consentono:
- risparmio energetico
- riduzione del consumo di materie prime
- riduzione o eliminazione dell’impiago di sostanze chimiche pericolose
- riduzione della produzione di rifiuti
Tutto questo con l’obiettivo finale di una riduzione delle emissioni in atmosfera e
dell’inquinamento del suolo e delle acque.
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3.
TECNOLOGIE E SISTEMI CHE OPERANO SUGLI OUTPUT
DEI SISTEMI INDUSTRIALI
3.1.1 Emissioni in atmosfera
Tecnologia di abbattimento
La necessità di limitare la presenza delle sostanze inquinanti nell’aria comporta spesso
l’utilizzo di svariati sistemi di abbattimento. Questi sistemi si sono rivelati pressoché
indispensabili nell’ambito delle attività industriali che producono inquinanti
aerodispersi in grandi quantità.
A seconda della loro funzione, le tecnologie di abbattimento degli inquinanti presenti
nelle emissioni industriali si suddividono in tre grandi categorie.
Nel caso in cui all’inquinante sia associato un valore economico rilevante, si scelgono
dei processi che permettono il suo recupero e l’eventuale riciclo, come l’adsorbimento
oppure la condensazione.
Se gli inquinanti presenti nelle emissioni sono caratterizzati da un buon potere calorifico
e non è molto conveniente dal punto di vista economico un loro recupero per riutilizzarli
nel ciclo produttivo, si procede invece al loro incenerimento con il recupero della loro
energia sotto forma termica.
Se i processi industriali comportano la liberazione di emissioni gassose ricche di
particolato si deve invece procedere all’abbattimento degli inquinanti mediante
l’utilizzo di sistemi come le camere a deposizione, i cicloni, i separatori ad umido, i
precipitatori elettrostatici o i filtri tessili.
Al fine di affrontare l’argomento in modo conciso e completo, le varie metodiche di
abbattimento sono presentate secondo i principali impianti utilizzati in ambito
industriale. Nella trattazione sono delineate le caratteristiche fondamentali, la
funzionalità, l’utilizzo e la verifica dell’efficienza di queste strutture. Il tutto è
comunque semplificato rispetto alla realtà industriale dove vengono spesso utilizzati più
apparati contemporaneamente.
Nel corso degli ultimi anni, sulla base di questi grandi sistemi di abbattimento sono stati
realizzati molti dispositivi fissi o portatili allo scopo di purificare l’aria negli ambienti
confinati lavorativi o abitativi di piccole dimensioni. In pratica questi dispositivi
vengono utilizzati per purificare l’aria dai contaminanti e per migliorare in questo modo
la qualità di vita abbattendo l’inquinamento indoor. Solitamente la loro struttura è
suddivisa in due o più parti adibite a funzioni diverse; spesso ad una zona di filtraggio
esterna per l’abbattimento del particolato in sospensione di dimensioni maggiori è
associato un filtro per l’abbattimento di polveri più piccole, spore, pollini e allergeni
vari. Un filtro a carboni attivi posizionato più internamente permette poi di assorbire le
sostanze gassose, fumi ed odori. Il flusso d’aria all’interno di questi dispositivi è
garantito da una ventola aspirante che fa defluire all’esterno anche l’aria depurata.
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Camere a deposizione;
Predepurazione
Cicloni e multicicloni.
Filtri con pulizia a scuotimento
Filtrazione tessile
Filtri con pulizia ad inversione di flusso
Filtri con pulizia a getto d’aria compressa.
Elettrofiltri a secco con corona negativa
Precipitazione elettrostatica
Elettrofiltri ad umido con corona negativa
Elettrofiltri ad umido con corona positiva
Condensatori convenzionali
(contatto diretto o “a miscela” e condensatori a
superficie)
Condensazione
Condensatori refrigerativi
Condensatori criogenici
Torri a nebulizzazione
Abbattimento a umido
Torri a piatti forati
Torri con corpi di riempimento
Sistemi Venturi
Sistemi di abbattimento
Torce
Combustione
Combustori termici
Combustori catalitici
Adsorbimento
Adsorbimento a carboni attivi
Adsorbimento a zeoliti sintetiche
Biofiltrazione
Predepurazione
La predepurazione è un processo che si rende spesso necessario in campo industriale e
che consiste in un trattamento preliminare dell’aria contaminata tramite l’abbattimento
parziale degli inquinanti; i flussi pretrattati sono poi convogliati ad altri sistemi di
abbattimento più costosi ed efficaci che vengono sempre posti a valle dei predepuratori.
In genere questo processo viene attuato quando l’aria da trattare presenta una
concentrazione di polveri estremamente alta o quando deve essere rimosso del materiale
grossolano aerodisperso che potrebbe danneggiare i più fragili dispositivi di
depurazione.
I predepuratori sono strutturalmente molto semplici e vengono impiegati anche perché
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risultano economicamente molto convenienti: ad un costo d’investimento basso
associano un costo di manutenzione irrisorio; per le loro caratteristiche strutturali
presentano inoltre una notevole resistenza essendo privi di parti fragili o particolarmente
soggette all’usura.
I principali sistemi di predepurazione sono:
- le camere a deposizione;
- i cicloni e i multicicloni.
Il materiale si può accumulare a ridosso delle pareti e generare grossi problemi di
pulizia; per questo motivo si preferisce utilizzare i predepuratori solo quando
l’abbattimento non crea difficoltà nella rimozione delle polveri raccolte.
L’intasamento si può prevenire mediante l’utilizzo di opportuni indicatori del livello di
materiale raccolto sulle tramogge, inoltre in questi sistemi vi è di solito un indicatore
della pressione interna, dato che un aumento di pressione di solito sta ad indicare che si
è verificato un intasamento. Al contrario se la pressione interna cala, allora
probabilmente c’è un’erosione a livello dei condotti di uscita che provoca una perdita di
aria.
Per quanto riguarda l’efficienza dei cicloni, questa è strettamente relazionata alla
dimensione del particolato e cala bruscamente con le particelle con un diametro
inferiore a 2-5 micrometri. Quando la distribuzione delle dimensioni del particolato è
relativamente costante, le variazioni nella caduta di pressione lungo il ciclone
costituiscono un buon indicatore dei cambiamenti nell’efficacia della raccolta delle
polveri.
Un ottimo indicatore del funzionamento del sistema è anche l’opacità del flusso trattato:
se l’attività della sorgente dell'inquinamento rimane costante, allora un aumento
dell’opacità in uscita può indicare che il sistema di abbattimento non funziona
correttamente. Un esame delle condizioni generali del predepuratore può facilmente
individuare il problema, probabilmente dovuto alla presenza di punti di infiltrazione
d’aria esterna che possono determinare sia la risospensione del materiale raccolto che
perdite o condensazioni (da evitare perché possono portare alla corrosione dei
dispositivi).
Filtrazione tessile
La filtrazione tessile è un processo di abbattimento del particolato solido che si realizza
facendo passare il flusso d’aria contaminato attraverso dei filtri costituiti da fibre tessili
di varia natura. Una volta venivano utilizzati solo prodotti naturali, come la lana od il
cotone, caratterizzati da un’efficacia ed una resistenza relativamente basse; in seguito,
però, l’avvento di fibre sintetiche come il nylon ed il polipropilene ha permesso di
ottenere dei nuovi materiali più resistenti al logoramento, al calore, all’erosione ed
all’attacco delle sostanze corrosive. In alcuni casi vengono anche utilizzate le fibre di
vetro.
La filtrazione tessile è anche denominata “filtrazione a tessuto”, questo termine non è
comunque molto corretto in quanto nelle varie applicazioni industriali non ci si limita
all’utilizzo dei tessuti ma si impiegano anche feltri o addirittura agglomerati di fibre. Di
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solito i feltri garantiscono una migliore filtrazione ma necessitano di sistemi di pulizia
più complessi, mentre i tessuti vengono utilizzati con flussi d’aria a bassa velocità e
necessitano di una pulizia più occasionale.
Gli elementi filtranti possono essere strutturati a pannello, a cartuccia o a tasca, ma
molto più frequentemente presentano una forma cilindrica, per cui si parla spesso di
sacche o di maniche. I dispositivi più importanti sono sicuramente quelli a maniche per
cui nella trattazione si farà quasi esclusivamente riferimento a questa particolare
configurazione, anche se in definitiva quelli indicati sono tutti sistemi molto simili dal
punto di vista applicativo.
I filtri a fibre tessili sono estremamente diffusi perchè offrono il vantaggio di abbinare
un’alta efficienza ad un’azione di depurazione in genere indipendente dalla
composizione chimica del particolato. Le poche limitazioni al loro impiego si
manifestano quando nel flusso contaminato sono presenti delle polveri adesive oppure
del liquido che non si può eliminare; in questi casi, infatti, sulla superficie del filtro si
possono formare delle incrostazioni che vanno ad ostruire il passaggio dell’aria e quindi
la filtrazione. Allo stesso modo possono insorgere problemi quando si ha a che fare con
polveri, gas e vapori combustibili o potenzialmente esplosivi per cui risulta preferibile
l’utilizzo di altri sistemi di abbattimento, come i sistemi ad umido.
Nella filtrazione tessile l’efficienza nella cattura delle polveri è variabile nel tempo a
causa della stessa natura del filtro, per cui solitamente si preferisce valutare le varie
prestazioni sulla base della concentrazione delle polveri in uscita; in ogni caso
l’efficienza è sempre molto alta, supera il 99% e spesso raggiunge il 99,9%. Questo alto
rendimento è possibile perché nell’abbattimento entrano in gioco vari fattori: ad
un’azione di setaccio data dalla presenza delle fibre si aggiungono un effetto di
sbarramento, un’interazione di natura elettrostatica ed un effetto di inerzia dovuto alla
deviazione ed al rallentamento del flusso d’aria; la cattura del particolato di minori
dimensioni è anche facilitata dal continuo moto browniano a cui sono soggette le
particelle. Da notare che la stessa deposizione delle polveri sul materiale filtrante
favorisce l’ulteriore cattura di altro particolato aerodisperso in quanto aumenta
drasticamente l’azione del vaglio; in pratica tanto più il filtro è sporco, tanto più
aumenta l’efficienza di abbattimento.
Per mantenere la caduta di pressione entro limiti ragionevoli, è comunque necessario
effettuare una periodica pulizia del filtro.
Sulla base dei metodi utilizzati per rimuovere il deposito di polveri sugli elementi
filtranti si distinguono essenzialmente tre diversi dispositivi di abbattimento:
- i filtri con pulizia a scuotimento;
- i filtri con pulizia ad inversione di flusso;
- i filtri con pulizia a getto d’aria compressa.
La valutazione dell’efficienza dei sistemi di filtrazione tessile viene attuata in primo
luogo esaminando i vari parametri che entrano in gioco nell’abbattimento del particolato
aerodisperso.
Estremamente importante è la temperatura operativa dei vari filtri che deve sempre
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essere superiore al punto di condensazione dei vapori presenti nell’aria da depurare.
Infatti nel caso in cui l’acqua si condensasse, le gocce che si formerebbero andrebbero
ad inumidire lo strato di polveri già depositato sulla superficie del filtro; questo
comporta un aumento della resistenza al passaggio dell’aria ed un incremento nella
caduta di pressione. Inoltre l’acqua in fase liquida discioglie gli eventuali composti acidi
presenti nei depositi favorendone la dissociazione; il tutto porta alla corrosione dei vari
componenti dell’impianto, in primo luogo maniche ed intelaiature di sostegno. Infatti
quando si ha a che fare con processi industriali che generano emissioni umide e calde,
per evitare tutto ciò, il sistema di abbattimento viene solitamente preriscaldato prima
dell’utilizzo, anche se è già ben isolato.
L’ispezione condotta in loco con una strumentazione portatile permette di valutare la
caduta di pressione lungo gli elementi filtranti, per verificare che i valori rientrino nei
limiti di riferimento e che non vi siano degli intasamenti.
Anche l’individuazione delle infiltrazioni d’aria nell’impianto riveste un ruolo
fondamentale, in genere se sono udibili bisogna anche valutarne la portata.
Sicuramente l’osservazione ai camini di scarico risulta molto utile, in genere un
aumento delle emissioni visibili sta ad indicare una riduzione nell’efficienza di
abbattimento.
Uno sbuffo di polveri al camino di uscita può essere ricondotto agli elementi filtranti
oppure al sistema. Le perdite possono essere dovute alla rottura dei filtri, oppure ad un
problema di tenuta causato da una installazione non corretta, oppure ad un’inefficiente
filtrazione dovuta al fatto che non si usano gli elementi filtranti più idonei. In questi
impianti bisogna stare molto attenti che non si stacchino le sacche filtranti. La cosa può
essere dovuta ad un difetto dei supporti, ad un deposito di polveri eccessivo, ad un ciclo
di pulizia troppo frequente, ad uno scuotimento troppo violento, ad una
ripressurizzazione troppo elevata, e nei sistemi che usano aria compressa ad una
pressione eccessiva.
Il sistema può entrare in gioco nel caso in cui i compartimenti e i vari moduli non siano
perfettamente isolati oppure se vi è la presenza di giunture o connessioni rotte, mal
saldate o staccate.
Se l’impianto utilizza l’aria compressa bisogna valutarne il consumo. Se è eccessivo
può essere dovuto ad un ciclo di pulizia troppo frequente, oppure al fatto che le
pulsazioni sono troppo prolungate, o perché si impiega una pressione troppo elevata, o
ad un difetto nella valvola di regolazione.
L’impiego di un quantitativo insufficiente di aria compressa comporta l’impossibilità di
ripulire efficacemente i filtri. La cosa può essere dovuta ad una errata regolazione del
sistema, o all’utilizzo di tubazioni non adatte o difettate, a problemi al compressore, a
difetti nelle valvole, ecc.
Precipitazione elettrostatica
La precipitazione elettrostatica viene sfruttata principalmente per abbattere le emissioni
degli inquinanti sotto forma di particolato; in condizioni ottimali è in grado di abbattere
il particolato in sospensione con un’efficienza superiore al 99%.
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Il processo prevede l’utilizzo di un campo elettrico ad alta tensione che provvede a
caricare positivamente o negativamente le particelle solide o liquide presenti nelle
emissioni gassose. Il particolato carico elettricamente va quindi a depositarsi per
attrazione elettrostatica sull’elettrodo di raccolta da dove può essere rimosso come
materiale secco oppure dilavato con acqua. Qualche volta il particolato liquido viene
rimosso semplicemente facendolo scolare.
Questa rimozione si rende sempre indispensabile dato che lo strato di materiale che si
deposita diminuisce l’intensità di campo elettrico e quindi l’efficacia di abbattimento.
Convenzionalmente i precipitatori elettrostatici si distinguono in elettrofiltri a secco se
non prevedono l’utilizzo di acqua ed elettrofiltri ad umido in caso contrario.
Comunemente vi sono 3 tipi diversi di precipitatori elettrostatici:
- gli elettrofiltri a secco con corona negativa;
- gli elettrofiltri ad umido con corona negativa;
- gli elettrofiltri ad umido con corona positiva.
La corona non è nient’altro che la debole scarica elettrica che si manifesta alla
superficie del conduttore mantenuto ad alto potenziale elettrico. Lo strato d’aria attorno
al conduttore perde la capacità isolante e venendo ionizzato da questa scarica diventa
luminescente. A seconda della carica elettrica posseduta dall’elettrodo di emissione, la
corona si distingue in negativa o positiva.
Nella trattazione verrà dato maggiore risalto ai precipitatori elettrostatici a secco a
corona negativa in quanto sono di gran lunga i più diffusi.
La valutazione dell’efficienza degli elettrofiltri dovrebbe avere due obiettivi principali:
il primo è quello di verificare se effettivamente le emissioni rispettano i termini di legge
fissati per salvaguardare l’ambiente e la salute pubblica; il secondo obiettivo è invece
quello di individuare e risolvere gli eventuali problemi che possono comportare una
riduzione nell’efficienza di abbattimento degli inquinanti.
Tutti i problemi riscontrati dovrebbero essere registrati e descritti sempre
scrupolosamente; dalle registrazioni è possibile infatti determinare sia i punti
dell’impianto più soggetti a rottura, sia i vari fattori associati alle operazioni di processo
che sono responsabili dei vari malfunzionamenti.
L’ispezione sul campo risulta tanto più semplice quanto più il sistema di depurazione è
dotato di strumentazione di controllo.
Ogni scostamento dei valori rilevati da questo sistema rispetto a quelli di base potrebbe
indicare una diminuzione nell’efficacia di abbattimento degli inquinanti.
La maggior parte dei grandi elettrofiltri è ben equipaggiata, al contrario i sistemi più
piccoli possono avere una strumentazione limitata per cui si devono effettuare molti più
controlli di persona.
Dato il pericolo di subire delle scariche elettriche ad alto voltaggio, gli strumenti
portatili non dovrebbero mai essere utilizzati per effettuare delle misurazioni dei
parametri che non sono monitorati dalla strumentazione annessa all’elettrofiltro.
L’indicatore più diretto del rendimento dell’elettrofiltro è sicuramente l’opacità del
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flusso d’aria in uscita. Alcuni grandi precipitatori elettrostatici sono dotati di monitor
appositi detti opacimetri che sono in grado di rilevare anche le piccole deviazioni
nell’opacità media. Comunque le rilevazioni sulle emissioni visibili possono essere fatte
anche a vista, risulta infatti abbastanza facile intuire un malfunzionamento
dell’elettrofiltro se all’uscita compaiono degli sbuffi di fumo. In definitiva tutte le
osservazioni che vengono effettuate in merito forniscono delle informazioni utili per
valutare le performance del depuratore e per prevenire dei danni che potrebbero rendere
inutilizzabile il sistema. Spesso i picchi di opacità si possono ricondurre al rientro del
particolato nel flusso d’aria trattato durante l’azione dei percussori oppure ad un
aumento della presenza del particolato a monte dell’elettrofiltro. Facendo una
comparazione fra le frequenze dei picchi e i cicli di percussione o le attività di processo,
si può determinare se il problema è dovuto ad un aumento di concentrazione di
particolato in entrata oppure al cattivo funzionamento dell’elettrofiltro.
Anche le variazioni nella resistività del particolato possono comportare un aumento
delle emissioni a valle del precipitatore elettrostatico.
Vari problemi meccanici o elettrici possono invece essere individuati sulla base delle
variazioni del voltaggio, della corrente e del numero delle scariche elettriche.
Una diminuzione significativa del voltaggio, assieme ad un aumento della corrente e ad
un incremento nella velocità delle scariche può indicare un disallineamento degli
elettrodi.
Una periodicità ciclica nei valori del voltaggio, della corrente e delle scariche può essere
causata da un elettrodo di emissione che si è rotto e che sta ondeggiando nel flusso
d’aria da depurare.
Se c’è invece una diminuzione nel voltaggio assieme ad un aumento della corrente ed
una emissione di scariche bassa o addirittura nulla allora probabilmente c’è un corto
circuito.
Una diminuzione nel voltaggio assieme ad una diminuzione di corrente e ad un aumento
di emissioni di scariche può indicare che il sistema di pulizia con i percussori non
funziona.
In questo caso un esame all'interno dell'elettrofiltro è utile per identificare i percussori
che non funzionano.
Nell’esame dei percussori, oltre alle loro condizioni strutturali dovrebbe essere valutata
anche l’intensità delle percussioni e la loro frequenza in modo tale da regolarle sulla
base delle condizioni di resistività del particolato.
In generale, la frequenza delle percussioni è maggiore nella parte in corrispondenza
dell’entrata del flusso d’aria da trattare, dove la deposizione del particolato è maggiore,
mentre diminuisce progressivamente verso l’uscita.
Se la resistività è bassa, il particolato viene trattenuto debolmente e può disperdersi
nuovamente nel flusso d’aria trattato nel caso in cui venga attuata una frequenza o
un’intensità eccessiva nelle percussioni.
Se la resistività è alta il particolato resta adeso più tenacemente per cui serve una
maggiore intensità e frequenza. Ci sono comunque dei limiti pratici in quanto delle
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percussioni troppo vigorose e frequenti possono portare alla rottura dei percussori o ad
un disallineamento delle piastre di raccolta.
Un altro problema che si può verificare è quello delle infiltrazioni d’aria
nell’elettrofiltro. Queste infiltrazioni possono portare spesso ad una perdita
dell’isolamento degli elettrodi o alla corrosione delle parti metalliche a causa delle
condensazioni acide favorite dall’umidità. Un modo per identificare le infiltrazioni
consiste nell’esaminare gli scostamenti dalle condizioni standard del flusso d’aria
immediatamente a monte e poi a valle dell’elettrofiltro. Se la temperatura diminuisce
più del previsto o se vi è un aumento della concentrazione dell’ossigeno all’uscita allora
molto probabilmente vi sono dei punti dai quali si infiltra l’aria esterna. Con
un’ispezione in loco questi punti dovrebbero essere localizzati e riparati.
Condensazione
Nei processi di abbattimento tramite condensazione i vapori inquinanti vengono
rimossi dal flusso d’aria contaminato cambiandone lo stato fisico da gassoso a liquido;
una volta liquefatti, questi contaminanti vengono facilmente separati e spesso riutilizzati
nel ciclo produttivo.
Solitamente la condensazione può essere ottenuta o con un aumento di pressione o con
una riduzione di temperatura, qualche volta con una combinazione delle due cose.
Comunque, dato il costo operativo e di manutenzione dei sistemi a compressione, la
maggior parte dei condensatori per il controllo dell’inquinamento dell’aria si serve della
riduzione della temperatura.
Il processo di condensazione prevede il trasferimento del calore dal flusso d’aria da
depurare ad un’altra sostanza detta “di raffreddamento”. Quando una massa d’aria
carica di vapori viene raffreddata, le molecole presenti diminuiscono la loro energia
cinetica e si avvicinano al punto che le deboli forze elettrostatiche che interessano le
molecole le fanno condensare. La temperatura alla quale avviene questo processo viene
chiamata punto di rugiada. Man mano che i vapori si condensano in forma liquida,
diminuisce la loro concentrazione nel flusso d’aria trattato. Una volta liquefatti gli
inquinanti possono essere trasformati in sostanze meno pericolose, eliminati oppure
riutilizzati nel ciclo produttivo.
La condensazione può avvenire per contatto diretto se la sostanza di raffreddamento
interagisce direttamente con il flusso d’aria da depurare, per contatto indiretto se è
presente una barriera di separazione che impedisce la miscelazione.
L’efficienza generale dei sistemi a condensazione dipende essenzialmente dalla
temperatura operativa, ma in genere è superiore al 90%, in alcuni casi anche al 99%.
L’utilizzo dei condensatori è generalmente limitato a tutti quei processi che prevedono
emissioni di vapori inquinanti, soprattutto di natura organica, con alte concentrazioni e
basse portate. In alcuni casi il controllo degli inquinanti può essere eseguito utilizzando
esclusivamente la condensazione, la maggior parte delle applicazioni industriali
richiede, però, dei sistemi di abbattimento supplementari quando nelle emissioni
risultano presenti inquinanti che condensano molto difficilmente o del particolato
aerodisperso.
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Comunemente vi sono 3 tipi diversi di condensatori, suddivisi sulla base delle sostanze
utilizzate per causare l’abbassamento della temperatura:
- i condensatori convenzionali;
- i condensatori refrigerativi;
- i condensatori criogenici.
Come sempre, la verifica dell’efficienza dell’impianto di abbattimento è tanto più
semplice quanto più il sistema è equipaggiato dal punto di vista strumentale. La
maggior parte dei condensatori a refrigerazione e dei complessi sistemi criogenici ha
una strumentazione di controllo adeguata allo svolgimento di una corretta valutazione; i
sistemi più semplici possono avere, invece, una strumentazione limitata e devono essere
esaminati accuratamente tramite la misurazione diretta di vari parametri fondamentali.
Quindi, dopo aver verificato il rispetto dei limiti di legge delle emissioni, dovrebbero
essere valutati tutti i principali parametri relazionati al rendimento del sistema per
vedere se ci sono degli scostamenti dai valori di base, cosa che potrebbe indicare una
diminuzione nell’efficienza della raccolta dei contaminanti.
Per verificare la capacità operativa di un sistema di abbattimento degli inquinanti per
condensazione è sicuramente opportuno controllare la concentrazione dei vapori
organici presenti nel flusso d’aria depurato all’uscita. Se il sistema è dotato di un
analizzatore apposito, l’affidabilità dei dati raccolti dovrebbe essere valutata come parte
integrante della valutazione generale dell’impianto. Devono essere esaminate sia le
condizioni di prelievo dei campioni analizzati che l’integrità del sistema di
campionamento; devono essere visionate anche le frequenze e le procedure di
calibrazione dello strumento, nonché le registrazioni delle relative manutenzioni
ordinarie e straordinarie.
Gli analizzatori portatili non dovrebbero essere mai utilizzati in questa valutazione dato
che i sistemi di abbattimento a condensazione vengono spesso utilizzati nei processi
industriali che generano alte concentrazioni di vapori organici. E’ infatti possibile che,
durante un malfunzionamento, il flusso del gas in uscita presenti una concentrazione
esplosiva; in questo caso l’elettricità statica dello strumento portatile potrebbe fungere
da innesco e generare un’esplosione.
Un ottimo indicatore del rendimento di questi sistemi è la temperatura del flusso d’aria
trattato. Dato che la concentrazione in uscita è proporzionale alla pressione di vapore a
quella temperatura, una temperatura più alta della norma indica una diminuzione
nell’efficienza di raccolta (infatti se la temperatura è maggiore allora i vapori tendono a
condensarsi di meno e permangono nelle emissioni).
Un graduale incremento nel tempo della temperatura in uscita si verifica spesso se sulle
superfici dello scambiatore di calore vanno accumulandosi ghiaccio o composti organici
ghiacciati. Tutte queste incrostazioni devono essere periodicamente eliminate per
ripristinare il normale scambio termico.
Se i valori delle temperature in uscita vengono registrati, allora si potrebbero esaminare
attentamente per determinare le eventuali ciclicità degli incrementi termici. In questo
modo si è in grado di relazionare il problema allo svolgimento dei vari processi
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Rapporto finale Task 2.1
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industriali o ad eventuali fattori esterni non previsti.
Un indicatore indiretto del rendimento del sistema è anche la diminuzione della
differenza di temperatura fra il punto di entrata e quello di uscita della sostanza
raffreddante: sta ad indicare una riduzione nello scambio di calore, cosa che riduce
l’efficienza di abbattimento degli inquinanti.
Dovrebbe essere esaminata anche la portata della sostanza raffreddante in quanto una
sua riduzione determina una minore efficienza dell’impianto.
Se si è individuata una diminuzione della portata del flusso d’aria da trattare allora
probabilmente ci sono delle fughe e vi è una diminuzione nella raccolta dei
contaminanti. Da notare, comunque, che le basse portate possono anche essere il
risultato della formazione di ghiaccio o dell’accumulo di composti organici ghiacciati
all’interno del condensatore. Queste incrostazioni, oltre a limitare gli scambi termici,
impediscono fisicamente l’afflusso dell’aria all’interno.
Logicamente la valutazione dei vari parametri deve essere accompagnata da un attento
esame delle condizioni generali del sistema. Le parti più sollecitate possono essere
soggette ad erosione o a incrostazioni, e particolarmente sensibili sono gli ugelli dei
diffusori dei condensatori a miscela. Una diminuzione della temperatura in uscita può
indicare che c’è stata una corrosione a carico degli ugelli e quindi una maggiore portata
del liquido raffreddante.
Un aumento della temperatura in uscita può indicare invece che vi è un intasamento e
che c’è una portata minore.
Una particolare attenzione deve essere riposta anche agli scambiatori di calore in quanto
in alcune particolari applicazioni industriali possono essere soggetti ad intasamento per
l’accumulo del particolato aerodisperso. In questo caso sono di fondamentale
importanza le periodiche operazioni di manutenzione ordinaria e di pulizia.
Abbattimento a umido
I sistemi di abbattimento ad umido prevedono la rimozione degli inquinanti presenti in
un flusso gassoso contaminato mediante l’azione di un liquido, solitamente l’acqua; per
questo motivo simili impianti vengono anche definiti sistemi di lavaggio.
Per le particelle di diametro superiore ad un micrometro, il principale meccanismo che
entra in gioco nella depurazione è dato dall’impatto dei contaminanti con le gocce del
liquido o con le superfici bagnate delle strutture appositamente predisposte per favorire
un migliore abbattimento. L’acqua cattura questi contaminanti e li trascina via
permettendo così di ripulire il flusso inquinato.
Al contrario, per il particolato di diametro inferiore e per i gas la depurazione
avviene essenzialmente perchè i contaminanti vengono assorbiti nella sostanza liquida.
Questo processo che consiste nel passaggio selettivo di uno o più componenti da una
fase gassosa ad una liquida viene detto absorbimento.
L’absorbimento può essere sia di tipo fisico che chimico. Quello fisico si manifesta
quando i contaminanti si disciolgono nel mezzo liquido che funge semplicemente da
solvente; quello chimico avviene quando gli inquinanti reagiscono chimicamente con il
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liquido o con opportuni reagenti presenti all’interno di esso. Da notare che
l’absorbimento chimico può manifestarsi con reazioni reversibili oppure irreversibili a
seconda delle sostanze in gioco. Nel primo caso il liquido può essere recuperato dopo
un’opportuna rigenerazione, mentre nel caso delle reazioni irreversibili deve essere
necessariamente smaltito e rimpiazzato.
L’absorbimento è particolarmente utilizzato per il controllo degli inquinanti gassosi
presenti ad alte percentuali in volume, ma è applicabile anche a gas diluiti molto
solubili. In genere l’absorbente più utilizzato è l’acqua a meno che non vi sia la
necessità di abbattere contaminanti caratterizzati da una bassa solubilità, come gli
idrocarburi; in questo caso si utilizzano altri solventi a bassa volatilità e di natura
organica.
I fattori più importanti nel condizionare la solubilità dei contaminanti gassosi sono la
temperatura ed il pH del liquido. I gas inquinanti sono più solubili nei liquidi freddi che
non in quelli caldi e sono meno solubili nei liquidi che presentano un basso pH. Anche
la pressione del sistema può condizionare la solubilità, ma questa non è la variabile più
importante negli absorbitori utilizzati per il controllo dell’inquinamento dell’aria dato
che si opera per lo più a pressione atmosferica. Altri fattori che sono direttamente
relazionati al rendimento dell’absorbitore sono la superficie dell’area di contatto fra le
diverse fasi ed il tempo a disposizione per la diffusione dei contaminanti gassosi nel
liquido.
Nelle applicazioni industriali, in genere, è possibile ottenere la massima efficienza
nell’abbattimento contemporaneo di particolato e di gas solo quando i gas da eliminare
hanno un’altissima solubilità nel liquido di lavaggio. E’ anche preferibile che il
particolato sia presente a concentrazioni relativamente basse perchè spesso si formano
dei fanghi reflui particolarmente difficili da smaltire. Questa particolare situazione non
si verifica spesso, così, per rispondere meglio alle diverse esigenze tecniche, i
depuratori ad umido sono solitamente progettati o per l’eliminazione del particolato o
per l’abbattimento dei gas. Quindi a seconda delle esigenze industriali si dovrà scegliere
il tipo di impianto che meglio risponde alle richieste del caso e che garantisce allo stesso
tempo alta efficienza ed economicità.
Di solito l’efficienza nell’abbattimento del particolato supera il 95%, mentre per quanto
riguarda l’abbattimento dei gas e dei vapori l’efficienza varia dal 70 al 99%.
Bisogna comunque notare che alla depurazione dei flussi d’aria contaminati si
accompagna inevitabilmente la produzione di fanghi e di liquidi reflui che, in molti casi,
devono essere smaltiti dopo opportuno trattamento.
Le diverse soluzioni ingegneristiche hanno condotto alla realizzazione di un numero
estremamente elevato di sistemi di abbattimento ad umido, soprattutto perchè si
dimostrano estremamente utili quando i flussi contaminati presentano polveri, gas e
vapori potenzialmente combustibili o esplosivi. Comunque, in linea di massima,
semplificando molto possono essere individuati sostanzialmente quattro diverse
tipologie di impianti:
- le torri a nebulizzazione;
- le torri a piatti forati;
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- le torri con corpi di riempimento;
- i sistemi Venturi.
Tutti questi sistemi vengono anche definiti scrubber e sono estremamente diffusi sia
come tali che combinati strutturalmente tra loro o con altri sistemi di abbattimento.
Nella verifica dell’efficienza di questi sistemi di depurazione bisogna innanzitutto
accertare il rispetto dei termini di legge fissati per la tutela della salute e dell’ambiente;
in secondo luogo è opportuno individuare e risolvere tutti gli eventuali problemi che
possono comportare una riduzione nell’efficienza di abbattimento degli inquinanti. Di
fondamentale importanza sono anche le registrazioni relative ai cedimenti dei vari
componenti dello scrubber in quanto forniscono spesso ottime indicazioni sulle
condizioni dell’impianto.
Nel caso in cui il sistema non sia dotato di adeguati sistemi di controllo ben calibrati ed
in perfette condizioni, bisogna necessariamente valutare in prima persona tutta una serie
di parametri chimici e fisici che sono relazionati al corretto funzionamento
dell’impianto.
L’indicatore più diretto dell’efficienza del sistema è sicuramente l’opacità del flusso
d’aria in uscita: tanto più l’emissione si presenta opaca, tanto più dovrebbe essere
contaminata da particolato o da composti chimici di varia natura. Comunque, dato che il
flusso emesso è solitamente molto vicino alla saturazione, la presenza di umidità
condensante può rendere difficile l’osservazione. Per la stessa ragione i monitor che
rilevano l’opacità non vengono di norma utilizzati con questi sistemi, dato che non è
possibile distinguere l’offuscamento della luce dovuto al particolato da quello dovuto
alle goccioline d’acqua.
Un ottimo indicatore è anche la differenza di temperatura fra l’entrata e l’uscita dello
scrubber. Il flusso d’aria trattato con il liquido di lavaggio subisce inevitabilmente un
raffreddamento; se la temperatura all’uscita si presenta più alta del normale allora è
molto probabile che sia diminuita anche l’efficienza di abbattimento, magari a causa di
una diminuzione nella portata del liquido non accompagnata da una proporzionale
diminuzione della portata del flusso d’aria da depurare. Se queste portate vengono
monitorate in modo sistematico, durante l’ispezione si dovrebbero confrontare i valori
rilevati con quelli di riferimento.
Indicazioni indirette di una diminuzione di portata del liquido utilizzato per
l’abbattimento degli inquinanti includono la diminuzione della pressione nella pompa di
scarico o un aumento di pressione nei condotti che portano agli spruzzatori, dovuto di
solito all’intasamento dei diffusori.
Anche il pH dell’acqua in entrata ed in uscita dovrebbe essere valutato. Un pH in entrata
sopra il 10 può comportare un accumulo di incrostazioni che possono ostruire gli
spruzzatori, il letto di riempimento ed i piatti riducendo così la portata del liquido ed
ostacolando il contatto fra la fase gassosa e quella liquida. Il pH in uscita sotto il 6 può
comportare una grave corrosione delle componenti in metallo.
Anche le variazioni nella caduta di pressione hanno la loro importanza. Un aumento
nella caduta di pressione lungo il letto di un sistema a piatti o a corpi di riempimento
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può indicare l’intasamento del letto o dei piatti. Un aumento nella caduta di pressione in
uno scrubber venturi può essere causato da un aumento della portata del liquido o da
un’errata regolazione della valvola che determina l’apertura della sezione variabile dello
scrubber (in pratica è stata chiusa troppo).
Una diminuzione della caduta di pressione lungo uno scrubber a piatti può indicare la
rottura o il collasso dei piatti, mentre in uno scrubber venturi può essere causato da una
diminuzione della portata del liquido o dall’apertura eccessiva della sezione variabile.
In modo simile, anche la caduta di pressione lungo i dispositivi che vengono utilizzati
per eliminare le goccioline aerodisperse all’uscita delle emissioni fornisce
un’indicazione eccellente delle condizioni fisiche di queste strutture. L’incremento della
caduta di pressione di solito è dovuto ad un accumulo di materiale sulle superfici, cosa
che fa avvicinare le aperture attraverso cui deve passare l’emissione. Questo accumulo
causa così un aumento della velocità delle emissioni e spesso comporta un
convogliamento delle goccioline aerodisperse all’esterno.
Al contrario, una diminuzione nella caduta di pressione può indicare un cedimento
strutturale.
L’efficienza di questi dispositivi può comunque essere facilmente rilevata osservando il
camino e le aree adiacenti. Se è presente all’emissione una caduta di goccioline o se si
vedono dei rigagnoli o delle scoloriture attorno al camino, allora sicuramente vi sono
dei problemi che devono essere risolti.
Combustione
La combustione viene utilizzata per eliminare i contaminanti organici presenti nelle
emissioni gassose industriali quando non è possibile recuperare questi composti per
reintrodurli nel ciclo produttivo sia per difficoltà di natura tecnica che per motivazioni
esclusivamente economiche.
Il processo di combustione è molto utilizzato per rimuovere aerosol, vapori e gas
provenienti da sorgenti come gli sfiati degli impianti chimici o i forni di verniciatura e
consiste nell’ossidazione, sostenuta da fiamma, delle sostanze organiche aerodisperse.
Se i composti inquinanti sono costituiti solamente da carbonio ed idrogeno allora i
prodotti dell’ossidazione sono il biossido di carbonio ed il vapor d’acqua.
L’utilizzo dei sistemi a combustione può anche comportare la formazione degli
onnipresenti ossidi di azoto, nonché di particolato inorganico rappresentato per lo più
dalle ceneri del combustibile eventualmente utilizzato per alimentare la fiamma.
Se gli inquinanti contengono anche cloro, fluoro o zolfo, si possono formare vapori di
acido cloridrico, di acido fluoridrico, biossido di zolfo e vari altri inquinanti.
Nel caso in cui la combustione non sia completa, viene anche prodotta una enorme
varietà di sostanze chimiche che, oltre ad aumentare la precipitazione di particolato,
risultano spesso tossiche per l’uomo e nocive per l’ambiente (idrocarburi semplici e
complessi, alcoli, esteri, chetoni, aldeidi, ecc.).
Così, per eliminare la presenza di tutti questi inquinanti derivati, vi è spesso la necessità
di associare alla camera di combustione del sistema di depurazione anche un sistema di
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abbattimento dei fumi acidi mediante lavaggio oppure una seconda camera di
combustione in grado di ossidare i composti idrocarburici residui.
In generale i depuratori a combustione hanno un’efficienza di abbattimento degli
inquinanti aerodispersi maggiore del 95%, comunque alcuni sono progettati per
raggiungere delle efficienze superiori al 99%.
Nella trattazione saranno affrontati i tre diversi sistemi di abbattimento a combustione
più comunemente utilizzati:
- le torce;
- i combustori termici;
- i combustori catalitici.
La capacità di valutare i problemi durante un’ispezione sul campo dipende
essenzialmente dalla strumentazione di controllo di cui è fornito il sistema. La maggior
parte dei grandi impianti presenta una ricca strumentazione, invece quelli più piccoli
possono averne una ridotta all’osso. Quindi, dopo aver valutato il rispetto dei limiti di
legge delle emissioni, dovrebbero essere controllati i vari parametri fondamentali che
definiscono l’operatività generale del sistema per vedere se vi sono degli scostamenti
dai valori di routine e per capire se vi è una perdita di efficienza nell’ossidazione dei
composti inquinanti.
Anche se questi sistemi di abbattimento vengono utilizzati per eliminare gas che
generalmente non possono essere visti, l’opacità al camino è ancora un utile parametro
di ispezione.
In ogni caso, la misura più diretta del rendimento è la concentrazione dei vapori
organici nel flusso d’aria in uscita, nei combustori di solito misurata a valle dello
scambiatore di calore. Concentrazioni molto elevate in uscita potrebbero essere la
conseguenza di varie cause diverse: una bassa temperatura di combustione, problemi a
carico dei bruciatori, una miscelazione inadeguata delle massa d’aria, una ridotta
permanenza nella zona di ossidazione, una riduzione dell’attività del catalizzatore o un
corto circuito all’interno dello scambiatore di calore a causa di un intasamento o di un
cedimento strutturale.
Se vi è un monitor analizzatore installato permanentemente, bisogna valutare
l’affidabilità dei dati raccolti come parte della procedura generale di verifica
dell’efficienza del sistema. La valutazione include un’ispezione delle condizioni e
dell’integrità del sistema di campionamento ed una verifica della portata del campione
d’aria che deve essere esaminato. Oltre a questo, dovrebbero essere valutate le
frequenze e le procedure di calibrazione, nonché le registrazioni relative.
Se non c’è un analizzatore fisso, allora le misure delle concentrazioni degli inquinanti
devono essere effettuate tramite un analizzatore portatile. Comunque è necessario
utilizzare un sistema di diluizione per impedire che l’alta temperatura possa danneggiare
gli strumenti. Dato che questi analizzatori hanno una limitata capacità di aspirazione, le
misurazioni devono essere effettuate nella porzione del condotto di uscita che presenta
una pressione interna positiva.
Sia gli analizzatori fissi che quelli portatili possono fornire delle indicazioni accurate
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della concentrazione in uscita quando sono calibrati per specifici composti presenti nel
flusso d’aria trattato; spesso per effettuare queste calibrazioni si utilizzano così dei gas
di riferimento come il metano, il propano, l’esano o il 1,3 butadiene.
Il parametro operativo più importante per valutare il rendimento di un combustore
termico è la temperatura in uscita del flusso d’aria trattato. Questa viene sempre
monitorata dato che viene utilizzata per controllare l’erogazione del combustibile ai
bruciatori. Delle temperature inferiori alla norma implicano una diminuzione nella
distruzione dei contaminanti dato che aumentano di conseguenza i tempi di reazione.
Inoltre, quando la temperatura scende sotto i 700°C, le condizioni di equilibrio fanno sì
che l’ossidazione del carbonio porti alla formazione di monossido di carbonio, più che
di anidride carbonica.
Per valutare il rendimento di un combustore catalitico si prendono in esame sia le
temperature in entrata che quelle in uscita, dato che la differenza di temperatura è
direttamente relazionata all’ammontare di vapori organici che vengono distrutti. Vi è la
possibilità, comunque, che vi sia una diminuzione di questa differenza perché ci sono
meno vapori organici contaminanti in entrata; per questo la situazione dovrebbe essere
valutata mediante l’utilizzo di un analizzatore portatile o magari fisso, già installato allo
scopo di individuare il limite inferiore di esplosività.
Una diminuzione nella differenza di temperatura può anche manifestarsi se vi è una
perdita dell’attività del catalizzatore, dato che in questo modo vengono ossidati meno
composti organici. Se viene monitorata in continuo anche la temperatura in uscita, allora
le registrazioni dovrebbero essere esaminate per individuare le escursioni di temperatura
maggiori, dato che queste potrebbero danneggiare il catalizzatore o il sistema dello
scambiatore di calore a valle.
L’aumento della temperatura nel flusso d’aria da trattare lungo lo scambiatore di calore
fornisce un’utile indicazione delle sue condizioni fisiche. L’accumulo di particolato
nello scambiatore di calore riduce l’efficienza di trasferimento, cosa che comporta una
richiesta supplementare di combustibile per mantenere alte le temperature.
Un altro parametro molto utile è la portata dei flussi in entrata ed in uscita. Una
diminuzione delle portate in entrata può essere relazionata ad una diminuzione nella
raccolta dei contaminanti alla sorgente; una diminuzione in uscita sta generalmente ad
indicare che ci sono delle perdite o delle fughe nell’impianto.
Adsorbimento
L’adsorbimento è un fenomeno che consiste nell’adesione e nel concentramento di
sostanze disciolte o aerodisperse a ridosso della zona superficiale di un corpo.
Nel campo dei sistemi di bonifica delle emissioni si sfrutta questo processo facendo
fluire l’aria da trattare attraverso un materiale poroso; il materiale, detto adsorbente, è in
grado di trattenere gli inquinanti sulla sua superficie e permette così di ripulire il flusso
dai contaminanti volatili.
L’adsorbimento viene generalmente utilizzato quando l’aria è contaminata da uno o due
composti pregiati che devono essere riutilizzati nei processi industriali; in questo caso il
materiale adsorbente permette di raccogliere queste sostanze per poi reimpiegarle nel
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ciclo produttivo.
Il processo di adsorbimento viene utilizzato anche in presenza di un gran numero di
composti organici a bassa concentrazione: non essendo economicamente vantaggioso
procedere alla loro raccolta, bisogna necessariamente preconcentrare questi inquinanti
per adsorbimento per poi eliminarli tramite combustione termica o catalitica.
Sulla base della natura delle forze che impegnano il materiale adsorbente e l’inquinante,
cioè la sostanza adsorbita, si possono distinguere l’adsorbimento chimico e quello
fisico.
L’adsorbimento chimico non viene molto utilizzato in quanto i legami chimici che si
vengono ad instaurare tra sostanza adsorbente e contaminante pregiudicano l’utilizzo
continuativo del sistema: una volta formatisi i legami bisogna necessariamente
rimpiazzare la sostanza adsorbente.
Nell’adsorbimento fisico, invece, la molecola contaminante viene trattenuta sulla
superficie del materiale adsorbente da deboli forze elettrostatiche. In questo caso il
materiale adsorbente può essere facilmente riutilizzato dopo un processo di
rigenerazione che consiste in definitiva nella rimozione del contaminante.
In questi sistemi gli adsorbenti più utilizzati sono quelli che permettono di attuare la
rigenerazione. Le numerose applicazioni industriali prevedono il raro utilizzo del gel di
silice, dell’allumina attivata e dei polimeri sintetici, molto diffuse sono invece le zeoliti
sintetiche ed estremamente utilizzato è il carbone attivo.
Tutti questi materiali sono caratterizzati da una microporosità talmente elevata da
garantire loro uno sviluppo superficiale impressionante. La superficie per unità di peso è
quasi sempre superiore a 500 metri quadrati per ogni grammo di materiale per cui le
sostanze in grado di legarsi sono quantitativamente molto elevate.
I sistemi di adsorbimento si impiegano spesso per la rimozione dei composti organici e
possono essere utilizzati nell’ambito di un’ampia gamma di concentrazioni che varia da
10 ppm a circa 10000 ppm. Il limite superiore di concentrazione è essenzialmente
dovuto al pericolo di esplosione che si può verificare quando la concentrazione totale
dei composti organici volatili supera il 25% del LEL e può essere soggetta a forti
oscillazioni.
Per quanto riguarda l’efficacia nell’abbattimento, un sistema ad adsorbimento
predisposto nel modo più appropriato è generalmente in grado di rimuovere dal 95 al
98% dei contaminanti organici presenti nell’aria.
Tra i sistemi di adsorbimento più diffusi si ricordano:
- adsorbimento a carboni attivi
- adsorbimento a zeoliti sintetiche
La verifica dell’efficienza dei sistemi di depurazione per adsorbimento risulta
abbastanza semplice negli impianti più complessi che dispongono di uno o più
analizzatori installati permanentemente; in questo caso bisogna sempre ricordarsi di
verificare il funzionamento di tali strumenti esaminando sia le frequenze che le
procedure di calibrazione, le varie registrazioni delle relative manutenzioni ordinarie e
straordinarie, le condizioni di prelievo dei campioni analizzati e l’integrità del sistema
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di campionamento.
Da notare che gli adsorbitori progettati per operare al 10-25% del limite inferiore di
esplosività hanno solitamente anche un monitor che riporta il valore di LEL nel
condotto di entrata per appurare se la concentrazione degli inquinanti rientra nel range
prestabilito.
Nel caso in cui gli impianti non siano equipaggiati con una strumentazione di controllo
adeguata, i vari parametri fondamentali relazionati al rendimento dell’impianto devono
essere esaminati direttamente da chi effettua le verifiche.
La prima misurazione da attuare è sicuramente la rilevazione della concentrazione dei
vapori organici presenti nel flusso d’aria già trattato. La misurazione dell’aria depurata
deve essere effettuata con un analizzatore portatile dotato di spia indicatrice del livello
di esplosività, per non incorrere in pericolosi incidenti. Se non vi è saturazione del
materiale adsorbente, la concentrazione dei contaminanti in uscita dovrebbe essere
all’incirca uguale a quella che caratterizza un materiale nuovo o appena rigenerato; nel
caso in cui la concentrazione sia maggiore, allora l’impianto può avere qualche
problema. A tal proposito bisogna sottolineare che, solitamente, anche un aumento della
concentrazione in entrata può portare ad un corrispondente incremento all’uscita, a
meno che non venga aumentata la frequenza di rigenerazione. Dato che gli analizzatori
portatili hanno una limitata capacità di aspirazione, le misurazioni devono essere
effettuate nella porzione del condotto che presenta una pressione interna positiva.
Se la rigenerazione avviene mediante un flusso di vapore, allora le misure non
dovrebbero essere effettuate quando il materiale adsorbente si trova nel suo ciclo di
spurgo (cioè nel periodo in cui il letto viene deidratato e raffreddato); infatti le
goccioline d’acqua e l’alta umidità potrebbero danneggiare lo strumento utilizzato.
Una delle variabili che condiziona maggiormente il rendimento degli adsorbitori (e che
per questo bisogna sempre controllare) è la temperatura del flusso d’aria da trattare. Un
aumento della temperatura comporterà sostanzialmente una riduzione della capacità del
letto adsorbente, cosa che provoca spesso un aumento delle emissioni. Se questi valori
termici vengono registrati sistematicamente, allora esaminandoli si possono anche
determinare le eventuali anomalie che si verificano nel tempo per individuarne le
possibili cause.
Un ottimo indicatore del rendimento del sistema è anche la caduta di pressione lungo il
letto del materiale adsorbente. Il carbonio attivo, ad esempio, con il passar del tempo
sedimenta e si compatta, facendo sì che vi sia un aumento della caduta di pressione
rispetto ai valori abituali. La coesione di molti granuli di carbone comporta una
diminuzione della capacità del materiale adsorbente e si accompagna spesso ad una
riduzione nella distribuzione del flusso d’aria da trattare. L’aumento nella caduta di
pressione può essere causato anche da un accumulo di particolato nella parte del letto
dove il flusso è in entrata oppure dal collasso parziale o completo del letto fisso a causa
della corrosione della griglia di supporto o anche dall’accumulo di materiale organico
condensato. Il tutto provoca una diminuzione nella capacità di adsorbimento ed un
conseguente aumento delle emissioni.
Un altro fattore condizionante è la portata dell’aria da trattare: se è eccessiva può
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provocare potenziali rotture dell’impianto. In questo caso indicatori importanti
dell’aumento della portata sono l’aumento della caduta di pressione e l’incremento della
pressione statica a carico del rivestimento.
Nella verifica dell’efficienza degli adsorbitori bisogna anche comparare con i valori di
riferimento sia la frequenza di rigenerazione che i tempi del ciclo di adsorbimentodesorbimento. La diminuzione in frequenza o in durata della rigenerazione riduce
spesso la capacità del letto di carbonio, cosa che può comportare un aumento delle
emissioni.
Bisognerebbe anche verificare se la quantità di materia organica raccolta rientra nei
parametri di base; infatti se la quantità di vapori organici che entrano nell’adsorbitore è
costante, una riduzione nell’ammontare di inquinante raccolto sta sempre ad indicare
una riduzione dell’efficienza dell’abbattimento.
Infine dovrebbero essere valutate le condizioni fisiche del sistema di adsorbimento.
Varie parti del sistema e, in particolar modo, la base dei supporti e i condotti di uscita
possono essere soggetti a corrosione a causa della formazione di composti acidi,
soprattutto se si accumulano dei liquidi magari dovuti alla condensazione dell’umidità
che si libera durante il ciclo di spurgo.
Biofiltrazione
La biofiltrazione è un processo di abbattimento degli inquinanti aerodispersi che sfrutta
l’ossidazione biologica: l’aria contaminata viene fatta passare attraverso un mezzo nel
quale sono presenti dei microrganismi in grado di decomporre gli inquinanti
utilizzandoli come fonte di nutrimento.
In pratica il sistema permette di ottenere gli stessi risultati della combustione, ad
eccezione del fatto che l’ossidazione dei composti organici volatili ad anidride
carbonica non avviene termicamente ma biologicamente; se i composti contengono
zolfo, azoto o cloro, allora i sottoprodotti dell’ossidazione sono sali minerali.
Queste applicazioni sono economicamente più convenienti dei sistemi a combustione
sia nella costruzione che nella manutenzione, ma richiedono comunque una buona
progettazione perchè dimostrino un utilizzo ottimale. Anche la gestione dei biofiltri può
rivelarsi abbastanza complessa, dato che le variabili implicate nel corretto abbattimento
degli inquinanti sono molte e tutte di notevole importanza.
In genere la biofiltrazione si impiega con i flussi d’aria che contengono una
concentrazione di inquinanti relativamente bassa, di solito inferiore a 1000 ppm, e la
maggior parte delle applicazioni trattano flussi con una concentrazione variabile tra 5 e
500 ppm.
L’efficienza di abbattimento dei composti organici volatili supera spesso il 95% e per
questo motivo i biofiltri vengono utilizzati per eliminare un’ampia varietà di inquinanti
organici spesso caratterizzati dall’avere un odore insopportabile. Gli alcoli, gli eteri, le
aldeidi e i chetoni si biodegradano velocemente, gli alcani impiegano più tempo, mentre
i composti aromatici necessitano di un tempo di ossidazione ancora maggiore; anche i
composti solforati possono essere facilmente trattati, mentre i composti organoalogenati
presentano grosse difficoltà.
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Rapporto finale Task 2.1
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Una piccola puntualizzazione è comunque doverosa: nel caso in cui nel flusso d’aria da
trattare siano presenti alcune sostanze che risultino tossiche ai microorganismi, si deve
necessariamente utilizzare un altro tipo di sistema di abbattimento e non la
biofiltrazione.
Variabili implicate
I microrganismi utilizzati nei biofiltri possono essere di diversa natura: funghi, lieviti,
muffe e soprattutto batteri. Tutti comunque sono estremamente sensibili alla
temperatura del flusso dell’aria da trattare.
La maggior parte dei filtri a biossidazione opera essenzialmente con batteri mesofilici,
fra i 20 e i 40°C circa. Le temperature relativamente elevate garantiscono un biofiltro
più attivo e richiedono un tempo di trattamento più breve. Quelle al di sopra dei 40°C
causano una diminuzione dell’efficienza di abbattimento perché provocano la morte dei
microrganismi. Al contrario, le temperature inferiori riducono la velocità metabolica
delle reazioni, cosa che comporta l’utilizzo di volumi filtranti maggiori per ottenere la
stessa efficienza di abbattimento realizzabile con temperature più alte. Per ovviare a
questi problemi è spesso necessario condizionare le emissioni da trattare; per esempio se
le emissioni sono ad alta temperatura si possono utilizzare sia il raffreddamento
evaporativo che quello forzato. Le installazioni negli ambienti freddi richiedono invece
l’utilizzo di vapore per riscaldare il flusso d’aria da trattare.
L’efficienza nell’abbattimento è direttamente legata al numero di microrganismi
presenti, numero che è estremamente dipendente dal grado di umidità presente nel
mezzo filtrante. Se un flusso di aria secca viene immesso nel mezzo, l’umidità viene
rimossa velocemente ed il numero dei batteri presenti crolla, parallelamente
all’efficienza di rimozione degli inquinanti. Quindi una progettazione ideale dovrebbe
fare in modo che il flusso d’aria in entrata sia quasi a saturazione. A seconda della
particolare configurazione dell’impianto, l’umidità relativa può variare al mutare delle
condizioni ambientali, per cui l’umidità dovrebbero essere rilevata sia in stagioni
diverse che durante la giornata ed anche in occasione di cambiamenti nei processi
produttivi.
Anche l’eventuale presenza di particolato può creare grossi problemi: accumulandosi
sul materiale filtrante ostacola l’afflusso dell’aria nel mezzo dove sono presenti i
microrganismi. Per eliminare questo problema, di solito si utilizzano dei sistemi di
pretrattamento, come ad esempio gli scrubber venturi che servono sia per umidificare
che per rimuovere le polveri. Si impiegano qualche volta anche dei filtri elettrostatici,
oppure dei sistemi per mantenere la temperatura del flusso d’aria al di sopra della
temperatura di condensazione e polimerizzazione se gli inquinanti si possono
condensare nel filtro.
Un fattore estremamente importante per la sopravvivenza dei microrganismi è il pH del
mezzo in cui si trovano. Composti acidificanti come l’acido solfidrico, il cloruro di
metile o l’ammoniaca comportano la formazione di acidi (solforico, cloridrico e nitrico)
che abbassano notevolmente il pH. Per questo, con il passar del tempo, gli agenti
neutralizzanti si esauriscono e bisogna riampiazzare il mezzo filtrante.
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Dato che i biofiltri utilizzano degli organismi viventi, è bene ricordare che bisogna
provvedere periodicamente al loro nutrimento. In questo senso il biofiltro deve essere
utilizzato in modo pressochè continuativo, cercando cioè di evitare che i microrganismi
muoiano per mancanza dell’apporto degli inquinanti. Spesso è anche necessario fornire
un adeguato nutrimento che garantisca gli elementi fondamentali nel giusto rapporto
quantitativo.
Tipologia degli impianti
Come già accennato, il flusso d’aria da trattare necessita spesso di un condizionamento
preliminare prima di essere immesso nel materiale filtrante. Per questo motivo l’aria
contaminata viene prefiltrata per eliminare le polveri e i grassi che potrebbero ostruire i
pori del biofiltro causando un incremento eccessivo della differenza di pressione ed
ostacolando così la depurazione. Successivamente l’effluente subisce un processo di
umidificazione che spesso permette di raggiungere anche la temperatura adatta alla
sopravvivenza dei microrganismi all’interno del filtro.
Una volta effettuato il condizionamento, l’aria viene immessa nel biofiltro vero e
proprio, facendola passare attraverso un reticolo che permette un afflusso regolare. Il
corpo filtrante è costituito da un materiale di supporto caratterizzato dall’avere un’estesa
superficie per unità di volume ed è composto solitamente da materiale organico, anche
per fornire ai microrganismi il necessario apporto di sostanze nutritive nei periodi non
operativi. Per prevenire l’eventuale consumo di questo supporto, in alternativa vengono
anche utilizzati dei materiali inerti ricoperti da composti organici, fra cui il carbone
attivo che facilita l’assorbimento degli inquinanti.
La popolazione microbica si trova nella sottilissima pellicola d’acqua che, per l’alta
umidità, ricopre il materiale filtrante; questi microrganismi proliferano degradando i
vari composti inquinanti che si disciolgono nello strato acquoso. Risulta chiaro, quindi,
che tanto più i contaminanti dell’effluente sono solubili, tanto maggiore sarà la loro
eliminazione.
Il flusso d’aria da trattare viene convogliato nel corpo filtrante dal basso verso l’alto e,
dopo un adeguato tempo di contatto, viene immesso direttamento in atmosfera
attraverso il camino di scarico. Nel caso in cui nell’effluente fossero presenti ancora
inquinanti, allora si utilizzano degli ulteriori sistemi di abbattimento, come scrubber o
dispositivi a carboni attivi.
Gli impianti di abbattimento a biofiltrazione prevedono nella loro progettazione anche
un sistema per il trattamento del percolato che si forma nel corso del trattamento, uno
che garantisce il lavaggio del corpo filtrante e spesso uno che permette la
somministrazione del nutrimento ai microrganismi nei periodi non operativi.
I sistemi di abbattimento tramite biofiltrazione sono degli impianti concettualmente
semplici e che garantiscono spesso degli alti rendimenti. Purtroppo la resa può essere
drasticamente ridotta da tutta una serie di fattori che necessariamente devono essere
monitorati perché il sistema mantenga l’efficienza che lo caratterizza.
I biofiltri più complessi dispongono di uno o più analizzatori installati permanentemente
per rilevare la concentrazione degli inquinanti sia all’entrata che all’uscita; in questo
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Rapporto finale Task 2.1
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caso bisogna sempre ricordarsi di verificarne il funzionamento esaminando sia le
frequenze che le procedure di calibrazione, le registrazioni delle varie manutenzioni
ordinarie e straordinarie, le condizioni di prelievo dei campioni analizzati e l’integrità
del sistema di campionamento.
Spesso sono anche presenti dei sistemi di controllo automatici per mantenere e
registrare gli appropriati valori di pH e di umidità all’interno del mezzo. Il parametro
dell’umidità è di fondamentale importanza in quanto l’essiccazione porterebbe
all’uccisione dei microrganismi, mentre un eccesso d’acqua nel corpo filtrante
comporterebbe la formazione di una condizione di anaerobiosi. La mancanza di
ossigeno è particolarmente controindicata in quanto innesca tutta una serie di reazioni di
fermentazione e di imputridimento che liberano nell’aria una gran quantità di composti
volatili puzzolenti; in pratica il biofiltro diventa una fonte di inquinamento, più che un
sistema per eliminarlo.
Di fondamentale importanza è anche il controllo della temperatura dell’effluente dopo il
condizionamento preliminare: bisogna accertarsi che il biofiltro operi all’interno delle
temperature prescritte dal costruttore del sistema.
Un ottimo indicatore del rendimento dell’impianto è anche la caduta di pressione lungo
il sistema. Una elevata differenza di pressione può indicare l’otturazione del corpo
filtrante a causa dei depositi di polveri e grassi e questo comporta un crollo
dell’efficienza dell’abbattimento. Da notare che spesso la pressione eccessiva può
portare anche alla rottura del corpo filtrante, per cui ad una diminuzione dell’efficienza
non si accompagna la drastica diminuzione della pressione; in questo caso
un’indicazione dell’integrità del biofiltro può essere fornita dalla concentrazione degli
inquinanti all’uscita, che risulta notevolmente più alta della norma.
Infine dovrebbero essere controllate le condizioni fisiche del biofiltro. Varie parti del
sistema e, in particolar modo, la base dei supporti e i condotti di uscita possono essere
soggetti a corrosione a causa della formazione di composti acidi, soprattutto se si
accumulano dei liquidi.
La struttura deve essere perfettamente integra e non deve permettere che vi sia una
perdita che possa contaminare il terreno circostante o la falda acquifera sottostante.
Sistemi di controllo e monitoraggio
Il monitoraggio degli inquinanti dell’aria rappresenta la misurazione degli agenti
aerodispersi potenzialmente pericolosi per la salute o per l’ambiente. Il processo non si
limita, però, alla mera raccolta dei dati, in quanto le misure ricavate vengono utilizzate
per valutare l’esposizione agli inquinanti mediante una comparazione con degli
appropriati valori di riferimento estrapolati da un gran numero di studi scientifici
specifici ed accurati.
La filosofia che sta alla base della valutazione dell’esposizione si fonda sulla
determinazione dei valori di concentrazione delle sostanze tramite degli approcci
induttivi e deduttivi. Nel primo caso si utilizzano delle misurazioni dirette, ottenute
mediante l’impiego di analisi chimico/fisiche, sensori o strumenti più o meno complessi
e realizzati per ricavare dei dati reali di concentrazione degli agenti in esame.
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L’approccio deduttivo, invece, si basa su tutta una serie di dati meno diretti, dai quali si
calcola la concentrazione presunta degli inquinanti nell’aria.
Il monitoraggio si fonda essenzialmente sui metodi induttivi, in modo particolare
nell’ambito degli studi volti a valutare la sicurezza occupazionale, a patto che i risultati
individuati rispecchino fedelmente le concentrazioni degli agenti pericolosi ai quali
sono esposti i lavoratori. In alcuni casi però, è estremamente difficile rapportare la
concentrazione degli inquinanti rilevata nei punti di campionamento alla realtà
espositiva, per cui risulta conveniente integrare i dati sperimentali con una valutazione
più organica, che può sfruttare anche dei calcoli più o meno complicati o dei modelli
matematici opportuni.
Il discorso si può chiarire con due esempi molto semplici. Un conto è monitorare
l’esposizione al monossido di carbonio di un impiegato che lavora in un ufficio
confinante con un’autorimessa, un altro è valutare l’esposizione al biossido di azoto
della popolazione di una città. Nel primo caso basta posizionare un sistema di misura a
fianco della scrivania dove il dipendente lavora e raccogliere i dati dopo le canoniche
otto ore; nel secondo caso, da un singolo punto di campionamento di una centralina
ambientale, si dovrebbe desumere l’esposizione all’agente inquinante di tutti gli
abitanti, anche di quelli che risiedono a chilometri di distanza. Risulta quindi evidente la
difficoltà di questa ultima valutazione, spesso inficiata da fattori condizionanti esterni
come la presenza di fonti inquinanti circoscritte, la diversa dispersione nelle varie zone,
la presenza di eventuali fattori interferenti localizzati, ecc.
Nei casi più semplici, si può procedere alla determinazione della concentrazione degli
inquinanti aerodispersi con il solo approccio induttivo, in altri con il solo metodo
matematico-deduttivo; nei casi più complicati, invece, risulta sempre preferibile un
approccio globale che preveda l’integrazione dei dati analitici con le elaborazioni
matematiche.
In questa parte del sito verrà trattato il monitoraggio dell’aria nelle sue diverse tipologie,
facendo riferimento pure ai sistemi predittivi e quindi ai modelli matematici. Una
particolare attenzione verrà anche posta sui sistemi di misura degli inquinanti,
specialmente di tipo quantitativo.
Data la complessità dell’argomento, è opportuno affrontare il tema illustrando dapprima
dei concetti base che permetteranno di valutare più compiutamente i vari aspetti del
problema.
Il controllo delle emissioni in atmosfera, unitamente al monitoraggio della qualità
dell'aria, costituisce uno dei momenti conoscitivi fondamentali per l'individuazione
delle cause che portano al deterioramento della composizione naturale della bassa
atmosfera.
Il controllo delle emissioni consente di valutare l'efficacia delle azioni adottate sui
processi produttivi, sulle tecnologie di produzione e/o di abbattimento degli effluenti
gassosi, miranti alla riduzione delle pressioni sulla matrice "aria".
I controlli alle emissioni sono finalizzati alla:
- verifica del rispetto delle autorizzazioni, di cui al DPR 203/88 e/o dei limiti in
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Rapporto finale Task 2.1
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-
emissione, di cui al DM 12 luglio 1991;
conoscenza in termini quali-quantitativi delle pressioni in atmosfera, in un
determinato territorio;
acquisizione di informazioni sulla correlazione tra i processi produttivi e gli "output
"nella matrice aria;
acquisizione di dati sperimentali per la costruzione di fattori di emissione per
determinati settori produttivi;
valutazione della qualità dell'aria attraverso l'utilizzo di modellistica diffusionale;
verifica dell'efficacia dei provvedimenti adottati per la riduzione delle emissioni, a
seguito di modifiche apportate sui processi produttivi, alle materie prime, ai sistemi
di abbattimento degli effluenti, ecc.
Sviluppo di sistemi di rilevamento e controllo degli inquinanti in atmosfera
Il problema del controllo e della pianificazione ambientale ha acquistato negli ultimi
anni una grande rilevanza dal punto di vista sia scientifico sia applicativo in quanto non
è ancora chiaro quali siano gli effetti che le attività antropiche hanno sui sistemi naturali
e sugli esseri viventi. Ciò è particolarmente vero nel caso dell'inquinamento
atmosferico. Anche la legislazione corrente ha ormai recepito che il problema del
monitoraggio va inquadrato come strumento conoscitivo che deve consentire di definire
le priorità di intervento. Non a caso i piani di tutela e risanamento si articolano in tre
fasi: la prima rivolta alla caratterizzazione del territorio e del sistema delle attività
antropiche, la seconda rivolta all'individuazione degli interventi ottimali per ridurre le
emissioni di inquinanti, la terza di verifica degli effetti conseguiti.
Questo insieme di problemi è stato affrontato nel progetto ed i principali risultati
conseguiti sono i seguenti:
- è stato sviluppato un sistema di telerilevamento attivo che consente di misurare
contemporaneamente la concentrazione in quota di più inquinanti gassosi e del
particolato. La sperimentazione di tale tecnica sarà proseguita nell'ambito di una
convenzione tra Provincia di Potenza ed INFM;
- è stata sviluppata una tecnica che consente di misurare indici sintetici della qualità
dell'aria;
- sono state sviluppate tecniche basate sull'uso dei diodi laser che consentono di
misurare gli inquinanti anche quando essi siano presenti in concentrazioni molto
basse;
- e' in corso l'analisi di fattibilità di una rete a basso costo per il rilevamento
dell'inquinamento urbano basata sull'accoppiamento di diodi laser e fibra ottica;
- e' stata studiata l'integrazione di tecniche di monitoraggio chimico-fisiche e
biologiche, in situ ed in telerilevamento, in automatica e non;
- e' stato implementato un modello che consente di individuare l'insieme degli
interventi ottimali per ridurre le emissioni in atmosfera tenendo conto non solo delle
attività per la produzione di beni e servizi ma anche dei processi di riciclaggio e
smaltimento.
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Rapporto finale Task 2.1
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Alcuni dei principali limiti delle attuali reti di monitoraggio riguarda il fatto che esse
danno informazioni solo sulle concentrazioni al suolo. Ciò rende difficile interpretare
correttamente le complesse dinamiche dei fenomeni di inquinamento.
Nell'ambito del progetto è stato sviluppato un sistema di telerilevamento degli
inquinanti che consente di conoscere contemporaneamente la distribuzione
tridimensionale di più inquinanti mediante la tecnica LIDAR. Lo strumento sviluppato è
estremamente innovativo in quanto si basa su di un nuovo tipo di sorgente che copre
con continuità un ampio intervallo spettrale; siccome ogni inquinante è caratterizzato da
specifiche bande spettrali questo equivale ad aumentare il numero d'inquinanti che
possono esser rivelati. Il sistema, altamente automatizzato, opera attualmente su cinque
canali contemporaneamente per la rivelazione di specie gassose e del particolato. Un
ulteriore problema affrontato nel progetto è stato quello dell'abbassamento delle soglie
di rivelabilità degli inquinanti. Ciò è stato realizzato accoppiando sistemi a diodi laser
con cavità che consentono di simulare un percorso in atmosfera di circa 700 m. E'
inoltre allo studio un sistema di monitoraggio alla scala urbana, basato su sorgenti a
diodo laser e reti in fibra ottica, che consentira' la rivelazione degli inquinanti in vari
punti di misura usando un'unica sorgente emittente ed un unico rivelatore, abbassando
così i costi di installazione e gestione delle reti, che al momento sono abbastanza elevati
con tutti i risvolti che ne derivano per gli enti incaricati delle politiche di controllo del
territorio.
Infine è stato sviluppato un approccio alle reti di monitoraggio basato sull'integrazione
di tecniche chimico-fisiche e biologiche, in situ ed in telerilevamento, in automatica e
non, che utilizza i Sistemi Geografici Informativi per descrivere il territorio nei suoi vari
aspetti (rete di monitoraggio dell'impianto SATA-FENICE di San Nicola di Melfi).
Un ulteriore aspetto del problema riguarda il contenimento delle emissioni in atmosfera.
E' stato sviluppato un modello che consente di individuare gli interventi ottimali a ciò
necessari. Il modello si basa su una descrizione accurata dell' intero sistema di
produzione di beni e servizi e consente un approccio "globale" al problema
individuando il mixing delle fonti di energia ottimale e l'insieme delle tecnologie più
appropriate con cui soddisfare la domanda di usi finali di energia e
contemporaneamente diminuire le emissioni. Esso individua anche gli strumenti, quali
incentivazioni, tasse, tariffe, piu' utili a favorire la penetrazione di tali tecnologie sul
mercato. Per la prima volta al mondo, tale modello e' stato implementato in modo da
tener conto dei flussi di materiali e del ciclo di vita dei prodotti valutando i costi
ambientali connessi con il riciclaggio e lo smaltimento.
Normativa
DPR 24 maggio 1988, n. 203
Ha attuato le direttive 80/779/CEE, 82/884/CEE, 84/360/CEE e 85/203/CEE
concernenti norme in materia di qualità dell'aria, relativamente a specifici agenti
inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali.
DPCM 21 luglio 1989
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Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per l'attuazione e l'interpretazione del
Dpr 203/1988.
DM 12 luglio 1990
Stabilisce le linee guida per il contenimento delle emissioni degli impianti esistenti
come definiti dal DPR 203/1988 e dal DPCM 21 luglio 1989, i valori di emissione
minimi e massimi per gli impianti esistenti, i metodi generali di campionamento, analisi
e valutazione delle emissioni, i criteri per l'utilizzazione di tecnologie disponibili per il
controllo delle emissioni e i criteri temporali per l'adeguamento progressivo degli
impianti esistenti.
DPR 25 luglio 1991
Ha modificato il DPCM 21 luglio 1989, indicando (allegato I) le attività che producono
un inquinamento poco significativo, che rimangono quindi escluse dal campo di
applicazione del DPR 203/1988, e che pertanto non devono essere autorizzate.
D.M. 21 dicembre 1995
Disciplina dei metodi di controllo delle emissioni in atmosfera dagli impianti industriali
DLgs 4 agosto 1999, n. 351
Attuazione della direttiva 96/62/CE in materia di valutazione e di gestione della qualità
dell'aria ambiente
DM 4 ottobre 1999
Proroga dei termini di adeguamento dei valori limite di emissione delle polveri
relativamente ad imprese di produzione del vetro
DM 25 agosto 2000
Aggiornamento dei metodi di campionamento, analisi e valutazione degli inquinanti, ai
sensi del DPR 24 maggio 1988, n. 203.
DM 1° giugno 2001
Recepimento della rettifica alla direttiva 1997/68/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 16 dicembre 1997 concernente i provvedimenti da adottare contro
l'emissione di inquinanti gassosi e particolato inquinante prodotti dai motori a
combustione interna destinati all'installazione su macchine mobili non stradali.
DPCM 8 marzo 2002
Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini
dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche tecnologiche degli impianti
di combustione.
DM 2 aprile 2002, n. 60
Recepimento della direttiva 1999/30/CE del Consiglio del 22 aprile 1999 concernente i
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Rapporto finale Task 2.1
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valori limite di qualità dell'aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli
ossidi di azoto, le particelle e il piombo e della direttiva 2000/69/CE relativa ai valori
limite di qualità dell'aria ambiente per il benzene ed il monossido di carbonio.
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3.1.2 Depurazione acque civili e industriali
Il processo di depurazione delle acque di scarico civili ed industriali è costituito
principalmente da quattro fasi:
1. trattamento meccanico;
2. trattamento biologico
3. trattamento chimico – fisico;
4. trattamento e smaltimento dei fanghi.
Tali fasi a loro volta possono essere ulteriormente suddivise in sezioni specifiche.
TRATTAMENTI MECCANICI
Con i trattamenti meccanici si eliminano dalle acque reflue urbane, affluenti
all'impianto di depurazione, le sostanze grossolane mediante una separazione fisica.
Tale separazione avviene specificamente nelle seguenti fasi:
Asportazione materiale lapideo
Il materiale lapideo, trasportato dalle acque di scarico, cade in apposita fossa inserita
all'interno del canale di adduzione da dove, tramite benna di carico a chiusura idraulica
accoppiata a carro ponte o mediante coclea, viene asportato e scaricato in contenitore
scarrabile.
Grigliatura grossolana
Con la grigliatura grossolana vengono trattenuti i materiali aventi dimensioni superiori
ai 2 ÷ 5 centimetri (legno, stracci, materiale vario) trasportati dalle acque reflue; la
griglia è costituita da una intelaiatura in acciaio avente barre poste verticalmente e
distanziate di 2 ÷ 5 cm. L'asporto del materiale trattenuto dalle barre può essere fatto in
modo manuale od automatico in funzione della tipologia della griglia.
Grigliatura fine
La grigliatura fine serve a trattenere le particelle sospese aventi dimensioni superiori ad
1 ÷ 1,5 millimetri; il mercato offre diverse tipologie costruttive di griglie fini ad es. a
gradini, a tamburo, a disco, ecc. Trattasi sempre di macchine a funzionamento
automatico. Il materiale trattenuto viene inviato ad un compattatore per mezzo di coclea
e insaccato.
Dissabbiatore
Con la dissabbiatura vengono trattenute le sabbie fini trasportate dalle acque reflue; la
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Rapporto finale Task 2.1
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separazione fisica avviene in apposita vasca che, in funzione della tipologia costruttiva,
può essere, di tipo circolare con asporto per aspirazione centrale delle sabbie, oppure di
tipo rettangolare con asporto per aspirazione delle sabbie mediante pompa installata in
carro ponte va e vieni. Le sabbie estratte sono inviate al dissabbiatore statico munito di
coclea inclinata per il caricamento del cassone contenitore.
1.5 Sollevamento
Generalmente le acque reflue urbane devono essere sollevate alfine di consentire loro di
attraversare le diverse sezioni dell'impianto di depurazione che si susseguono
idraulicamente. Il sollevamento può essere posto, in funzione delle quote, sia
successivamente alla asportazione del materiale lapideo sia successivamente ai
pretrattamenti meccanici sopra descritti. Le acque vengono sollevate alle successive
sezioni dell'impianto per mezzo di pompe di tipo sommergibile installate in pozzi di
sollevamento adeguatamente attrezzati con paratoie di separazione.
Omogeneizzazione
In funzione della tipologia di impianto può essere presente una vasca avente lo scopo sia
di omogeneizzare il carico inquinante affluente sia di equalizzare le portate da inviare ai
successivi trattamenti. All'interno della vasca sono installati dei miscelatori
sommergibili ed un sistema di aerazione per evitare fenomeni di anaerobiosi.
TRATTAMENTI BIOLOGICI
Con i trattamenti biologici s'intende eliminare dalle acque reflue urbane, affluenti
all'impianto di depurazione, le sostanze organiche ed inorganiche che possono essere
assimilate in via aerobica e/o anaerobica da parte dei batteri e dei microrganismi che
fanno parte dell'ecosistema.
Nel trattamento biologico dove viene favorita la crescita e le riproduzione batteriche si
distinguono le seguenti fasi:
Denitrificazione
Con la denitrificazione viene ridotta la quantità dei nitrati presenti nel liquame trattato,
che verrà successivamente avviato allo scarico.
La denitrificazione è il processo biologico di riduzione dei nitrati per mezzo di batteri
denitrificanti presenti in ambiente anossico. I microrganismi denitrificanti
metabolizzano la sostanza organica utilizzando come fonte di ossigeno l'ossigeno dei
nitrati e riducendo quest'ultimi ad azoto.
I residui della reazione di denitrificazione, in sintesi, sono: microrganismi e azoto
gassoso.
La reazione avviene in vasche di opportune dimensione dove vengono posti in contatto i
fanghi di ricircolo, contenenti i batteri denitrificanti, e/o il liquame proveniente dal
processo di ossidazione - nitrificazione, contenenti i nitrati, e le acque reflue in ingresso
che contengono il carbonio organico biodegradabile.
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Ossidazione - Nitrificazione
Con la ossidazione - nitrificazione vengono ridotte le quantità di sostanze organiche e di
ammoniaca presenti nelle acque reflue urbane.
L'ossidazione è il processo biologico di metabolizzazione delle sostanze organiche e di
ossidazione dell'ammoniaca, per mezzo di batteri aerobi e nitrificanti.
I residui della reazione di ossidazione - nitrificazione, in sintesi, sono: microrganismi,
nitrati, acqua e anidride carbonica.
La reazione avviene in vasche di opportune dimensione dove vengono posti in contatto
le acque reflue provenienti dalla omogeneizzazione e/o dalla denitrificazione con i
microrganismi aerobi e nitrificanti e l'ossigeno loro necessario per il metabolismo; i
microrganismi, comunemente denominati fango biologico, vengono mantenuti in
concentrazione di circa 3 ÷ 5 gr./lt.
A mezzo di un sistema di compressione e distribuzione di aria in microbolle viene
fornito l'ossigeno necessario alla metabolizzazione delle sostanze organiche e alla
ossidazione dell'ammoniaca contenuti nel liquame.
Il processo di ossidazione - nitrificazione determina una crescita batterica, quantificata
in circa 0,2 ÷ 0.3 gr. per kg. di COD trattato, che deve essere giornalmente asportata e
smaltita.
Decantazione/Ricircolo fanghi
La decantazione è la fase di separazione fisica del fango biologico, prodotto nel
trattamento di ossidazione, dall'acqua depurata che lo contiene.
La decantazione viene effettuata in vasche circolari munite di sistema raschia fanghi.
Il fango depositatosi sul fondo del decantatore con una concentrazione di circa 6 ÷ 8
gr./lt. viene, tramite pompe, in parte ricircolato nelle vasche di ossidazione con lo scopo
di mantenere in queste la concentrazione ottimale di microrganismi ed in parte,
denominato "fango di supero", inviato al trattamento fanghi.
TRATTAMENTI CHIMICO - FISICI
Lo scopo dei trattamenti chimico - fisici è quello di rimuovere dalle acque trattate
biologicamente le sostanze colloidali e sospese residue, parte delle sostanze organiche
non biodegradabili (colore e tensioattivi) e i microrganismi residui.
Chiariflocculazione
La chiariflocculazione è un trattamento effettuato con lo scopo di eliminare dalle acque
trattate biologicamente parte delle sostanze sospese e colloidali.
Il contatto fra acqua da trattare, sale di alluminio e polielettrolita avviene in una vasca di
reazione munita di agitazione lenta.
La separazione del fiocco di fango dall'acqua limpida che lo contiene viene effettuata in
decantatori di tipo lamellare.
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Decolorazione - Ozonizzazione
Le acque trattate presentano una colorazione residua derivante dalla presenza di
coloranti non metabolizzati nel processo biologico.
Al fine di ridurre o eliminare detta colorazione vengono utilizzati prodotti organici
decoloranti, dosati nella vasca di ossidazione, oppure si applica il processo di
ossidazione mediante reazione con ozono.
Ozonizzazione
L'ozonizzazione consente una reazione di ossidazione violenta fra l'ozono (O3) e le
residue sostanze organiche presenti nell'acqua trattata, prima di essere avviata allo
scarico.
L'ozono ha anche un effetto battericida.
L'ozono viene prodotto in reattori sottoponendo l'ossigeno gassoso a scariche elettriche.
La miscela gassosa di ossigeno e ozono viene inviata alle vasche di contatto, a tenuta di
gas, dove è diffusa nell'acqua attraverso setti porosi.
TRATTAMENTO E SMALTIMENTO FANGHI
I microrganismi cresciuti a seguito della metabolizzazione delle sostanze organiche, il
cosiddetto "fango di supero", sono allontanati dal sistema depurativo e smaltiti nel
seguente modo:
Digestione
La digestione è un processo biologico finalizzato alla riduzione della massa di
microrganismi separati con il fango di supero; può essere di tipo anaerobico o aerobico.
I residui della reazione di digestione, dopo la riduzione della massa di microrganismi
sono in sintesi:
- per la digestione anaerobica: metano, idrogeno solforato;
- per la digestione aerobica: acqua e anidride carbonica
In quest'ultimo caso il fango di supero asportato dai decantatori secondari viene inviato
alla vasca di digestione aerobica dove viene ossidato con ossigeno, insufflando aria e/o
ossigeno gassoso.
Addensamento
Con l'addensamento del fango digerito si riduce ulteriormente il volume della massa
separandone l'acqua contenuta sino ad ottenere una concentrazione di sostanza secca di
circa 30 ÷ 40 gr./lt.
Il fango proveniente dal ricircolo fanghi e/o dalla digestione aerobica viene addensato e
successivamente disidratato, mentre l'acqua drenata è ricircolata in testa alla linea acqua
dell'impianto.
Disidratazione meccanica
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I fanghi provenienti dall'addensamento e/o dalla digestione biologica vengono
ulteriormente ridotti di volume mediante disidratazione meccanica in centrifughe.
Dopo centrifugazione il fango, contenente circa il 18 ÷ 20% di sostanza secca, è avviato
allo stoccaggio per mezzo di coclee trasportatrici e/o pompe monovite.
Stoccaggio
In attesa del conferimento per lo smaltimento finale come rifiuto speciale, il fango
disidratato viene stoccato in appositi silos muniti di sistema di caricamento dei cassoni
adibiti al trasporto.
Essiccazione
Il fango stoccato nel silos, prima di essere avviato allo smaltimento, può essere
ulteriormente disidratato in impianto di disidratazione termica a film sottile; dopo
l'essiccamento il contenuto di sostanza secca nel fango si eleva a circa il 80 ÷ 90 %.
PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DEGLI IMPIANTI BIOLOGICI
Per eliminare le sostanze organiche da acque di scarico sono usati oggigiorno su vasta
scala dei processi biologici che distruggono tali sostanze con meccanismi analoghi a
quelli d'autodepurazione di un corpo idrico, ma con la differenza di una maggiore
velocità e una maggiore resa di trasformazione.
Come in natura, così in ambito tecnologico, le condizioni in cui i processi biologici di
spurgo idrico si realizzano possono essere aerobiche o anaerobiche: cioè caratterizzate
dall'intervento dell'ossigeno o dalla sua assenza. In entrambi i casi sono interessati
microrganismi eterotrofi, che cioè abbisognano di sostanze organiche come apportatrici
di materiale cellulare plastico e come substrato di produzione energetica che non sono
però in grado di autosintetizzare direttamente (al contrario degli autotrofi) e pertanto
rientrano nella catalogazione ecologica dei consumatori.
Nei processi biologici artificiali volti a depurare le acque, come del resto in natura,
operano anche microrganismi che possono essere attivi sia in senso aerobico che in
senso anaerobico (i microrganismi facoltativi), risultando determinato il loro tipo
d'attività dalle condizioni ambientali in cui vengono a trovarsi.
La scelta del tipo di microrganismi e delle condizioni operative viene fatta sulla base dei
risultati che si vogliono ottenere: preferendosi adozione d'attività microbiologiche
aerobiche, di tipo veloce, quando il depurare l'acqua è lo scopo principale, ed
anaerobiche se si vuol produrre energia alternativa, in forma di biogas, attraverso un
percorso più lento richiedente minori dispendi energetici.
La caratteristica principale dei processi aerobici consiste nell'utilizzazione dell'ossigeno
disciolto nell'acqua, in condizioni favorevoli a mantenere l'attività dei microrganismi. Il
risultato è la produzione di molto materiale biologico flocculento che rimane attaccato
alle superfici delle apparecchiature di trattamento in certi tipi d'impianto e che resta
disperso nella massa del liquido in altri tipi d'impianto. In ogni caso i fiocchi di
materiale biologico aggregano particelle colloidali fini e adsorbono altre sostanze
disciolte.
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Un'altra constatazione riguarda l'ottenimento di sostanze altamente ossidate quali CO2 e
H2O (ed anche di anioni quali (NO2-, NO3-, ecc.). Affinché i microrganismi si
mantengano attivi bisogna che la concentrazione di ossigeno in soluzione non sia mai
inferiore ad un certo livello; sicché occorre rifornirlo continuamente con dispositivi
adeguati.
Nei processi anaerobici la crescita dei microrganismi, energeticamente alimentata dalla
rottura dei legami chimici che porta a convertire in CH4 (oltre che in NH3, H2S e PH3) e
CO2 l' 80 ¸ 90% delle sostanze organiche presenti nell'acqua, è bassa; i fanghi sono
perciò scarsi e facilmente smaltibili. In questi processi non è richiesta energia per
fornire ossigeno al sistema ma solo per scaldare alquanto l'ambiente. Peraltro il metano
ottenuto ("biogas") può essere utilizzato per produrre energia in quantità eccedente
quella necessaria all'esercizio del processo che lo ha fatto formare.
Metodi di sfruttamento dei microrganismi aerobici
I principali processi tecnologici in cui si sfruttano microrganismi aerobici comportano:
- uso di filtri percolatori e biodischi;
- trattamenti con sistemi a fanghi attivi;
- adozione di bacini d'ossidazione ("lagune aerate"),
nel contesto di altre strutture impiantistiche di supporto e complemento.
I filtri percolatori sono costituiti da un letto poroso, formato da materiale in pezzatura
grossolana (sassi, carbon fossile) disposti alla rinfusa o da materiali di forma prestabilita
(mattoni, fogli di plastica) normalmente sagomati ad alveare. Si tratta di strutture che
forniscono una vasta superficie per unità di volume, che si ricopre di film biologico
attivo. La distribuzione dell'acqua da trattare, che scorrendo sul film biologico consente
la trasformazione biochimica delle sostanze organiche convogliate, è affidata ad un
sistema a braccio ruotante o ad un meccanismo di spruzzatori collocati sopra tutta la
sezione del letto in azione.
La massa cellulare in crescita viene continuamente rinnovata perché tutta quella in
eccesso si stacca a fiocchi dal film biologico e fuoriesce con l'effluente. Sul fondo del
filtro è predisposto un sistema di drenaggio dell'acqua trattata che viene inviata ad un
sedimentatore secondario nel quale si separa dal fango biologico. L'ossigeno utilizzato
dai biochimismi è in piccola parte quello presente originariamente nell'acqua da trattare,
più quello che l'acqua acquista nell'atto in cui si distribuisce sul letto e soprattutto quello
che si discioglie nel velo liquido del letto poroso sia naturalmente e sia a seguito del
risucchio d'aria provocato dal drenaggio dell'acqua attraverso pavimento forellato. Per
incrementare ulteriormente l'apporto d'ossigeno si può aumentare la velocità di
circolazione dell'aria nel letto poroso in confronto a quella che si ha in condizioni di
tiraggio naturale.
I biodischi sono costituiti da una batteria di strutture discoidali sorretta da un albero
centrale e alloggiata in una vasca semicilindrica orizzontale. L'albero viene fatto ruotare
lentamente (2 ¸ 5 giri al minuto), sicché i dischi vengono ad avere le superfici
alternativamente esposte per metà all'atmosfera e per metà al liquame che riempie la
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vasca. I dischi hanno diametri fino a 2 ¸ 3 m e sono di materia plastica (polistirene o
resine ureiche espansi). Talvolta si adottano involucri cilindrici di rete metallica
contenenti vari materiali di riempimento o anche corpi cilindrici costituiti da fogli di
polietilene collegati reciprocamente in modo da formare una sagoma <<a nido d'api>>
d'elevata superficie specifica; raggiungendosi i 35 ¸ 40 m2/m3. La manutenzione dei
biodischi è assai limitata per la semplicità dell'apparecchiatura ed essa consiste
essenzialmente, oltre che in normali disintasamenti, nel controllo e nella periodica
lubrificazione delle parti in movimento.
I fanghi attivi non sono altro che fanghi prodotti in un trattamento biologico ossidativo
delle acque fatti maturare attraverso ripetuto riciclo. In questo modo infatti
s'incrementano nei fanghi gli agenti della catalisi enzimatica, con il duplice effetto di
accelerare i fenomeni ossidativi e rendere più integrale l'utilizzazione dell'ossigeno
apportato. Le fasi fondamentali coinvolte in questo trattamento sono la produzione di
materiale biologico che si aggrega in fiocchi e l'adsorbimento su questi delle sostanze da
rimuovere per ossidazione biocatalitica. Per favorire l'adsorbimento e la successiva
ossidazione è necessario che i fiocchi siano mantenuti in sospensione e riforniti
d'ossigeno. L'operazione si compie in vasche per lo più rettangolari, rifornite d'ossigeno
e dotate della possibilità di mantenere sospesi i fiocchi bioattivi attraverso una di queste
tre tecnologie:
- per diffusione d'aria;
- per agitazione meccanica;
- a sistema misto.
Le vasche d'areazione, costruite in cemento o prefabbricate in ferro opportunamente
protetto, ricevono l'acqua presedimentata e i fanghi attivi di riciclo oltre a scaricare in
continuo la miscela aerata in vasca di sedimentazione secondaria. L'effluente depurato
viene mandato a destinazione ed i fanghi scaricati sono smistati tra il riciclo e lo spurgo.
Le lagune aerate sono bacini d'ossidazione consistenti in vasche di grande volume,
ricavate mediante scavo e riporto di terra, impermeabilizzate se la natura del terreno lo
richiede, solitamente di profondità non superiore a 2 m. I tempi di residenza dell'acqua
trattata in lagune aerate sono lunghi e così l'ossidazione è possibile senza riciclo di
fanghi. La fornitura d'ossigeno è effettuata con turbine galleggianti o con sistema a
diffusione d'aria per lagune più profonde di 1,5 m. Nei bacini d'ossidazione di modesta
profondità (1 ¸ 1,5 m) la luce raggiunge il fondo provocando sviluppo d'alghe dotate
d'attività fotosintetica che contribuisce pure a rifornire d'ossigeno l'ambiente. Se la
profondità dei bacini supera i 2 m, sul fondo si viene a stabilire una zona non aerata
funzionante in regime anaerobico.
Campi di applicazione ed efficienza dei metodi di sfruttamento di
microrganismi aerobici.
I filtri percolatori a basso e medio carico vengono normalmente utilizzati per trattare
effluenti urbani e consentono di ottenere gradi di rimozione di BOD5 anche fino al 95
%. I filtri ad alto carico sono particolarmente adatti per trattare liquami derivanti da
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scarichi domestici abbinati a quelli di attività agroalimentari (allevamenti di polli e
macelli, ad esempio) o industriali (di fabbriche di birra, di raffineria di petrolio, ecc.) ed
arrivano a rimuovere una media del 60 ¸ 70 % del BOD5 dell'influente iniziale.
Con sistemi a biodischi si possono trattare liquami provenienti da concerie, da macelli,
da industrie lattiero-casearie e da stabilimenti farmaceutici; oltre che da agglomerati
urbani d'ordine massimo di 100.000 abitanti. L'efficienza del trattamento è in relazione
soprattutto con le dimensioni della superficie dei biodischi. Nel caso di scarichi urbani,
orientativamente si va da rimozione di BOD5 dell' 80 % sfruttando 1 m2 di superficie di
dischi per abitante alla rimozione di circa il 95 % del BOD5 iniziale adottando 3 m2 di
superficie per abitante.
Il trattamento a fanghi attivi è, di tutti i metodi basati sullo sfruttamento di
microrganismi aerobici per trattare scarichi contenenti sostanze organiche, di gran lunga
il preferito. Esso infatti si presta, variando il quantitativo d'aria fornito e il sistema
d'aerazione, la modalità di flusso, l'età del fango, il rapporto di riciclo del fango e il suo
tempo di residenza, ad ogni tipo di scarico urbano o industriale. Spesso si opera
abbinando i processi di depurazione dei due gruppi di scarico, realizzando se occorre
preventivi procedimenti di depurazione degli effluenti industriali attraverso trattamenti
chimici. L'efficienza di rimozione del BOD5 con sistema a fanghi attivi variamente
modificato oscilla in margini piuttosto ampi: andando dal 75 % per carichi normalmente
trattati al 95 % prolungando l'aerazione, caricando progressivamente la vasca
d'aerazione o, se la fonte d'ossigeno è economica, "aerando" con ossigeno puro.
Le lagune aerate, il cui sfruttamento è favorito dalla disponibilità d'ampi spazi, da
tollerabilità di miasmi e da insolazione, si prestano in particolare per trattare effluenti
industriali inquinati da sostanze organiche come idrocarburi, fenoli, ammine e derivati,
aldeidi e micropolimeri.
Metodi di sfruttamento di microrganismi anaerobici.
La biodepurazione anaerobica per processi fermentativi causati da attività batteriche e
sfruttata di solito per trattare scarichi liquidi d'elevato BOD5 (> 2.000 mg/l), presenta
rispetto ai trattamenti aerobici dei vantaggi:
-
minor costo d'esercizio;
-
possibilità di trattamento anche nel caso di alimentazione discontinua;
-
possibilità di realizzarsi anche in corrispondenza di quantità di sostanze nutritive dei
microrganismi nei liquami minori di quelle richieste dai processi aerobici;
-
limitata produzione di fanghi;
-
sviluppo di gas ricco in metano ed utilmente impiegabile.
Le industrie da cui più frequentemente possono provenire gli scarichi liquidi da
biodepurare anaerobicamente sono principalmente:
-
conserviere;
-
farmaceutiche;
-
birrarie;
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-
lattiero-casearie;
-
allevamento.
Ai processi di depurazione che sfruttano microrganismi anaerobici appartengono anche
le "fosse settiche": cioè le vasche di ridotte dimensioni alle quali arrivano liquami che,
per opera dell'abbondante flora batterica locale, formano schiume superficiali agenti da
scudo nei confronti dell'atmosfera. Il fango di fondo vasca di tanto in tanto va rimosso e
deve essere reso asettico per clorazione, data l'alta carica batterica, anche di tipo
fortemente patogeno che include. Tipiche apparecchiature che sfruttano depurazione
biologica anaerobica delle acque sono le vasche Imhoff, d'uso assai diffuso in passato
ma ora notevolmente ridotto e fatto quasi sempre in impianti di piccole dimensioni.
I tempi di residenza in processi di biodepurazione anaerobica vanno da una decina di
giorni a poco meno di due mesi, ed il carico organico rimosso, misurato in COD, varia
dal 70 al 98 % curando opportunamente i parametri operativi (temperatura, pH, tempi,
ecc.). Tuttavia, data l'elevata concentrazione iniziale di sostanze organiche, quando
l'efficienza della rimozione è meno del 90 % gli effluenti devono essere generalmente
sottoposti ad ulteriori processi depurativi.
Processi bionitrificanti e biodenitrificatori.
Attualmente nella maggior parte degli impianti di rimozione dell'azoto dagli effluenti di
processi industriali e da scarichi agricoli è adottata la nitrificazione-denitrificazione
biologica.
La nitrificazione biologica consiste nell'ossidazione biochimica dell'azoto ammoniacale
per mezzo di batteri nitrificanti autotrofi (batteri chemiosintetici, in quanto utilizzano
l'energia ricavata dalla rottura dei legami chimici per produrre autonomamente il
materiale biorganico per il loro sostentamento). Il processo può essere condotto in
reattori a film biologico (filtri percolatori e biodischi) o in reattori con biomassa in fase
dispersa (impianti a fanghi attivati). Il chimismo del processo è duplice: in un primo
tempo l'azoto organico dell'influente viene rapidamente trasformato in composto
ammonico e successivamente, per catalisi operata da batteri nitrosomonas e nitrobacter,
rispettivamente, l'azoto ammonico viene portato ad azoto nitrico secondo queste
schematiche reazioni:
Durante la nitrificazione avviene anche una spinta rimozione delle sostanze organiche,
come in un normale processo biossidativo.
La denitrificazione consiste invece nella trasformazione dell'azoto nitrico in azoto
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molecolare, in ambiente anaerobico. In pratica però o si ricorre a lenta agitazione
meccanica o si insuffla una portata controllata d'aria, così da creare agitazione
sufficiente ad evitare sedimentazione della biomassa ma non tanto intensa da recare
all'ambiente un apprezzabile contenuto di ossigeno.
Se la denitrificazione segue la nitrificazione occorre reintegrare nel sistema un substrato
carbonioso che faccia da donatore di elettroni nel processo di riduzione dei nitrati.
La fonte di carbonio più frequentemente impiegata è il metanolo; nel qual caso la
reazione d'ossidoriduzione enzimaticamente catalizzata si può cosi' rappresentare:
NO3-+0,833 CH3OH+0,167 H2CO3 ® 0,5 N2(g)+1,33 H2O+HCO3-.
TRATTAMENTO DEI FANGHI
I processi di depurazione delle acque comportano produzione di fanghi che derivano
dalla separazione dei materiali in sospensione, dalla precipitazione di sostanze disciolte,
dall'aggiunta di prodotti chimici e soprattutto dalla trasformazione di sostanze organiche
in massa cellulare microbica. Altra fonte di fanghi sono poi gli scarichi civili ed
industriali contenenti una gran vasta quantità di solidi in sospensione, prodotti del
metabolismo, emulsioni varie, solventi, soluzioni acide ecc.; in pratica una vastità di
sostanze inorganiche ed organiche oltre ad una enormità di microrganismi.
I fanghi di per sé e perché fermentano emanano in generale cattivi odori e spesso sono
infettivi; inoltre deturpano l'ambiente per voluminosità ed aspetto. Occorre dunque
ispessirli, disattivarli, smaltirli direttamente o dopo essiccamento.
I fanghi possono subire ispessimento a gravità in apparecchi ispessitori simili ai
sedimentatori, dotati di meccanismi rotanti che rompono in vario modo i fiocchi di
fango allontanandone i gas e l'acqua occlusa. Il fango ispessito viene estratto dal
pozzetto centrale ed il liquido separatosi, surnatante, viene raccolto da canalette
periferiche. Si può anche operare ispessimento per flottazione, previa aggiunta di
additivi chimici che modificano la superficie delle particelle per farvi aderire le bolle
d'aria. Così tali particelle vengono portate in superficie dove formano un denso strato
che ne favorisce la rimozione.
I fanghi sono sistemi biologicamente attivi, se si vogliono smaltire senza ricorso ad
essiccamenti ad alte temperature (350 ¸ 400 °C) o ad incenerimenti, bisogna disattivarli.
Per rendere i fanghi biologicamente disattivati si possono attuare digestioni o
lagunaggio microbiologici. Si ha digestione aerobica ossidando per aerazione in vasche
aperte il fango. Il processo è impiantisticamente economico ma fa perdere del biogas e
richiede forti spese d'agitazione e d'aerazione, perché la concentrazione di ciò che viene
trattato è circa decupla di quella del contenuto delle acque analogamente lavorate nei
processi a fanghi attivi. Più utile ed usata è la digestione anaerobica: complesso
procedimento biochimico nel quale numerosi gruppi di microrganismi anaerobici e
facoltativi assimilano e degradano la materia organica. In un primo tempo si verificano
fermentazioni acide ed in un secondo tempo gli acidi formati sono degradati a CO2 e
CH4 ("biogas").n
aerobica
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Tipo di fango
Temperature
A basso carico
Ambiente
A medio carico
30 ¸ 40 °C
Ad alto carico
35 ¸ 60 °C
Tempi di ritenzione Numero degli stadi
(giorni)
e tipi di stadio
30 ¸ 60
10 ¸ 20
Microrganismi
rimossi
Ad un solo stadio
100 % Entamoeba
hystolytica ed
Escherichia coli, 92
A due stadi: 1)senza
% Salmonella
riciclo fanghi; 2)con
typhosa, 90 %
riciclo fanghi
Mycobacterium
tubercolosis
Il lagunaggio, terzo metodo di stabilizzazione dei fanghi, si pratica quando si dispone di
terreni non troppo lontani dall'impianto di trattamento, sufficientemente isolati e non
costosi. Il lagunaggio consiste nel trattare i fanghi in bacini con argini e fondo in terra,
profondi circa 1,5 m, dagli accessi controllabili. Il metodo implica semplicemente un
lungo immagazzinamento dei fanghi (ordine di 24 ¸ 36 mesi). Il liquame supernatante
che si forma in parte evapora ed in parte, come già quello dei processi di digestione,
viene ritrattato biologicamente.
Dopo stabilizzazione i fanghi possono essere prima portati ad un contenuto d'acqua di
circa il 70% (disidratazione) e successivamente ad un contenuto dell'ordine del 10%
(essiccamento). La disidratazione si può compiere, previa una eventuale ulteriore fase
di ispessimento, principalmente per centrifugazione , ma anche per filtrazione
sottovuoto in filtri Dorr-Oliver od operando in filtripressa. L' essiccamento dei fanghi
disidratati si fa avvenire in speciali forni flash o in forni rotativi operanti a 350 ¸ 400 °C.
Già a tali temperature viene meno ogni causa di cattivo odore e di infezione.
I fanghi già dopo stabilizzazione possono essere smaltiti per spandimento sul suolo, con
il duplice vantaggio di utilizzare il contenuto organico come umificante e parte del
contenuto minerale come fertilizzante. La stessa cosa si può fare, in dipendenza dal tipo
di terreno, solo dopo aver oltre che stabilizzato disidratato il fango. Talvolta viene
praticato il semplice interramento o confinamento in discariche controllate, anche di
fanghi più o meno ancora attivi. Oggigiorno però sempre più spesso i fanghi subiscono
combustione (incenerimento) dopo ispessimento e disidratazione. A questo tipo di
smaltimento dei fanghi si ricorre, in particolare, quando non esistono richieste di fanghi
stabilizzati od essiccati (ad es. per uso agricolo). L'incenerimento si fa in forni a ripiani
o in forni "a letto fluidizzato": i primi agenti da 550 a 1.000 °C e gli altri da 760 ad 820
°C. Le ceneri prodotte da qualunque tipo di fango trovano usi nell'industria ceramica e
soprattutto si prestano a fare da "ingredienti" nella preparazione di conglomerati per
costruzioni. Si usa anche disperdere, al largo, in mare le ceneri di fanghi di spurgo
d'acque.
IMPIANTI DI FLOTTAZIONE
La flottazione per mezzo di aria disciolta rappresenta la migliore soluzione per la
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separazione dalle acque, civili ed industriali, dei solidi sospesi e sedimentabili. Gli
impianti di chiarificazione che impiegano questo principio, hanno numerosi vantaggi
rispetto ad altri tipi di chiarificatori tradizionali che hanno tempi di ritenzione molto alti,
in genere da 1 a 4 h, mentre il tempo di ritenzione di un flottatore è di circa 3 minuti.
Il processo di flottazione è quasi istantaneo, non ha bisogno di vasche in c.a. e di
contatto per la flocculazione. I flottatori producono una minore quantità di fanghi, in
quanto i solidi sospesi non devono essere appesantiti con la soluzione di calce idrata per
essere separati dall’acqua ma solo pressurizzati con aria compressa a 5,5 – 6 ate.
Nei vecchi sedimentatori non c’è possibilità di variare la portata, mentre gli impianti di
flottazione lo consentono facilmente. Per questi motivi gli impianti di flottazione ad aria
disciolta ed a basso battente idraulico hanno sostituito gli obsoleti sedimentatori poco
flessibili e molto lenti.
La flottazione si ottiene con la pressurizzazione di una parte delle acque depurate, nella
quale viene disciolta una certa quantità di aria compressa a 5,5–6 ate; dopo la
decompressione, questa miscela libera le bollicine d’aria che vengono inglobate nei
fiocchi di solidi in formazione e li trascinano in superficie. I fanghi vengono estratti
contemporaneamente da una coclea raschia fanghi posta sul ponte mobile.
La pressurizzazione dell’acqua può essere totale, riguardando l’intera portata
dell’impianto, oppure parziale in base alle esigenze dell’utilizzatore e riguarda solo una
parte di acqua chiarificata, che viene aggiunta alla portata di esercizio prevista.
Campi d'impiego:
-
Disoleazione ( Lavorazione sott’olio)
Eliminazione sostanze grasse ( Ind. Casearie )
Trattamento ( Reflui Industriali )
Trattamento ( Liquami civili )
Trattamento acque primarie ( Deferrizzazione )
Recupero materie prime ( Cellulosa )
Eliminazione Fecce ( Ind. Vinicole )
Petrolchimico (Eliminazione petrolio)
IMPIANTI OSMOSI
L’osmosi inversa è un processo di separazione dei corpi estranei dall’acqua mediante
l’utilizzo di membrane semipermeabili. Queste sono strutture che permettono il
passaggio dell’acqua, ma ritengono gli elementi minerali disciolti, i colloidi e i batteri.
Il trattamento di osmosi inversa consiste nel forzare l’acqua attraverso una membrana
semipermeabile per separare i corpi estranei disciolti, di origine sia organica che
inorganica, pur avendo dimensione dei posi minima, in ordine di micron, l’osmosi
inversa non opera una filtrazione convenzionale, ma un tipo di filtrazione della
“filtrazione tangenziali”.
Nella filtrazione convenzionale, l’intera soluzione acquosa da filtrare e ogni impurità
troppo grande per passare attraverso i pori del mezzo filtrante, spinta attraverso il mezzo
filtrante, viene trattenuta o intrappolata dal mezzo stesso.
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Nella filtrazione tangenziale, vi sono due flussi in uscita dal sistema: il concentrato,
ovvero il flusso che contiene quelle impurità che vengono respinte o che non passano
attraverso la membrana; il permeato, ovvero il flusso che viene spinto ed attraversa la
membrana generando l’acqua osmotizzata.
Consumi e vantaggi economici
L’osmosi inversa oltre a non avere consumo di prodotti chimici consente un notevole
risparmio economico nel tempo, rispetto agli altri tipi di depurazione delle acque di
pozzo per uso industriale e potabile. Il sistema consuma solo energia elettrica e tale
consumo è assorbito dalla pompa di alimentazione ad alta pressione, poiché il processo
depurativo si esplica con la sola pressione creata dalla pompa sull’acqua e quindi sulle
membrane, è previsto un lavaggio periodico, al fine di ottenere una lunga durata delle
stesse. E’ consigliabile effettuare un’analisi chimica delle acque necessaria al
dimensionamento.
Gli impianti sono automatici e forniti preassemblati su strutture o cabinati costruiti in
acciaio inox.
Campi d'impiego:
-
Potabilizzazione
Dialisi
Industriale
Floricoltura
Recupero salamoie
Concentrazione di succhi
Dissalazione acqua di mare
IMPIANTI ADDOLCITORI
Gli addolcitori industriali consentono l’eliminazione della durezza temporanea
dall’acqua, costituita principalmente da molecole di carbonati di calcio e magnesio.
L’addolcimento si effettua facendo passare l’acqua grezza su un letto di resine
cationiche forti, che vengono rigenerate con acido cloridrico ottenuto da una soluzione
di salamoia.
Durante il processo di addolcimento, il contenuto di calcio e magnesio della resina
scambiatrice aumenta dall’alto alla base del letto di resina; la capacità operativa di
scambio diminuisce gradualmente e non appena il contenuto di calcio e magnesio
nell’acqua depurata, supera un certo limite prefissato deve essere effettuata la
rigenerazione che riporta la resina nella forma sodica.
Per effettuare la rigenerazione, la concentrazione di salamoia deve essere di circa il 10–
15%. Le principali fasi di funzionamento di un addolcitore sono: esercizio,
rigenerazione, lavaggio e controlavaggio.
Addolcire l’acqua, quindi, significa rimuovere i sali incrostanti trasformandoli nei
rispettivi sali solubili.
Principali applicazioni
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Rapporto finale Task 2.1
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Gli addolcitori sono utilizzati per decalcificare le acque di Alimentazione di: generatori
di vapori, acque di raffreddamento, lavorazione lavanderie e tintorie industriali, acque
madri, ecc.
IMPIANTI FILTRAZIONE
La filtrazione è uno dei primi e fondamentali trattamenti per la chiarificazione delle
acque e consiste principalmente nel trattenere i solidi sospesi sedimentabili e non,
presenti nelle acque primarie, facendoli passare attraverso gli interstizi di un letto
filtrante in modo da rendere un affluente limpido e chiarificato.
I solidi sospesi non sedimentabili sono costituiti da particelle solide (fanghi, limo),
sostanze argillose e colloidali di dimensioni ridotte e di difficile sedimentabilità, che si
vengono a trovare nelle acque primarie superficiali e di profondità, in misura tale da
impedirne gli usi sia a scopo civile che industriale.
La filtrazione su quarzo
Il filtro è costituito da letti stratificati di quarzite naturale in granulometrie molto fini
(0,4/0,8 mm.) in modo da ottenere una porosità del letto filtrante di almeno il 50%del
volume unitario.
I filtri chiarificatori vengono adottati per chiarificazioni a valle di trattamenti diversi,
come ad esempio la potabilizzazione, la deferrizzazione, l'addolcimento alla calce/soda,
le filtrazioni di acqua per piscina, ecc. Gli impianti di filtrazione sono comunque
preceduti nella quasi totalità dei casi da trattamenti preliminari di coagulazione e di
sedimentazione. I filtri di tipo verticale, alimentati in pressione e costituiti da letti di
materiale eterogeneo e incoerente, permettono di ottenere portate molto alte anche con
torbidità elevate. I letti filtranti sono costituiti da materiale ad alto o diverso peso
specifico in modo da poter contenere l'espansione del letto in controlavaggio e
permettere al filtro di espellere anche le particelle filtrate più pesanti senza fuga di
materiale filtrante. Essi vengono inoltre utilizzati per rifinire la fase biologica di alcuni
impianti di depurazione per il trattamento di acque di scarico, di lavorazioni industriali.
Principio di funzionamento
Il ciclo di servizio di un filtro chiarificatore è stabilito e controllato da un
programmatore a tempo o volumetrico. Alla fine di ogni ciclo di servizio generalmente
della durata di un ciclo lavorativo, si deve provvedere a ripristinare il potere di
filtrazione del letto filtrante facendo il lavaggio con acqua. Detti lavaggi sono
programmabili ed avvengono tramite l'impulso di un timer programmabile inserito nella
centrale di comando valvole, con il quale si comanda anche la durata degli stessi.
Il lavaggio si divide in due parti:1°Controcorrente 2° Equicorrente.
Le fasi sopra descritte sono comandate e controllate automaticamente dalla centrale
posta sul pannello frontale dove sono evidenti le fasi effettuate dal filtro. Due
pressostati differenziali provvedono allo scambio delle colonne filtranti.
La filtrazione su carbone attivo
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Rapporto finale Task 2.1
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I filtri a carbone attivo di tipo verticale alimentati a pressione e costituiti da letti di
materiale eterogeneo ed incoerente, permettono di ottenere portate molto alte anche con
torbidità elevate (oltre 50 mg/lt ). I letti filtranti sono costituiti da materiale a basso
peso specifico in modo da poter contenere l'espansione del letto in controlavaggio e
permettere al filtro di espellere anche le particelle filtrate più pesanti senza fughe di
materiale filtrante.
La tecnica della filtrazione su carbone attivo granulare particolarmente adatta per la
eliminazione del cloro, dell'ozono, del permanganato, contaminanti organici, (cattivi
odori, B.O.D., cattivi sapori, saponi e tensioattivi ecc.)I filtri che proponiamo sono
completamente automatici; non richiedono operazioni con consumo di prodotti chimici,
ma solo di un lavaggio per il riassetto dello strato filtrante con la stessa acqua da
reintegrare a quella consumata.
IMPIANTI DI LAVAGGIO
Le principali fasi di processo sono:
L’OMOGENEIZZAZIONE, viene realizzata in una vasca di raccolta posta a monte
dell’impianto al fine di rendere omogenee e costanti le caratteristiche chimiche del
refluo da depurare.
La FLOCCULAZIONE, si realizza nel primo scomparto dell’impianto con
l’immissione un prodotto chimico in polvere regolata da un dosatore a coclea provvisto
di motovariatori di giri. La miscelazione, tra refluo da depurare ed il prodotto chimico,
viene assicurata da un agitatore a lenti giri.
La SEDIMENTAZIONE, avviene nello stesso scomparto della fase di flocculazione
dopo la fermata dell’agitatore e del dosatore. La fase solida costituita dai fanghi
formatisi nel precedente trattamento si raccoglie sul fondo del sedimentatore, mentre il
surnatante, costituisce la parte depurata e, tramite lo scarico automatico laterale, viene
convogliato in una vasca di rilancio per essere sottoposto alla fase di filtrazione su
carbone attivo.
Il DRENAGGIO DEI FANGHI sedimentati, avviene in un sistema automatico di
filtrazione a sacchi per il drenaggio e la compattazione. I fanghi drenati ed insaccati,
verranno affidati ad una ditta autorizzata al trasporto dalla Regione ed inviati in
discarica.
La FILTRAZIONE SU CARBONE ATTIVO del refluo depurato, viene realizzato in un
filtro a pressione automatico, che provvede ad ottimizzare le caratteristiche chimiche del
refluo. Sono note, infatti, le proprietà adsorbenti del carbone attivo che oltre a trattenere
i solidi sospesi, eventualmente presenti, riesce ad adsorbire i tensioattivi, cloro e
sostanze organiche.
Determinazioni chimico-analitiche
I metodi di campionamento e di analisi sono così definiti:
Metodo di riferimento: "Una metodica già collaudata e che dà sufficienti garanzie di
precisione ed accuratezza ai fini degli obiettivi dell'analisi. Qualora la metodica sia stata
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Rapporto finale Task 2.1
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proposta a livello Comunitario, essa sarà accettata come metodo di riferimento.
L'I.S.P.E.S.L., l'I.S.S. ed il C.N.R. hanno il compito di fornire le raccomandazioni
tecniche e tutte le informazioni utili alla buona realizzazione delle misure."
Metodo equivalente: "Un metodo in grado di fornire la misura del parametro
considerato, confrontabile con il metodo di riferimento, seguendo le norme di buona
tecnica."
Il campionamento
Le operazioni di campionamento relative all'analisi delle acque devono essere effettuate
sia in base a criteri generali di rappresentatività e di casualità (validi per qualsiasi altro
prodotto), sia in base a criteri più specifici e caratteristici.
Rappresentatività significa che le caratteristiche del campione devono rispecchiare al
massimo le caratteristiche medie dell'acqua in esame, sia dal punto di vista qualitativo
che quantitativo. Nel caso in cui interessi evidenziare eventuali caratteristiche di
inomogeneità da un punto all'altro del corpo idrico, come pure la non costanza nel
tempo di tali caratteristiche, il criterio di rappresentatività deve essere ovviamente
limitato a quei particolari punti o istanti di cui, o in cui, si intende valutare le
caratteristiche.
Il requisito di casualità è altrettanto essenziale in quanto consente di impostare le
operazioni di campionamento da un punto di vista statistico, particolarmente utile per
indagini d'un certo rilievo.
I campioni devono essere prelevati in recipienti perfettamente puliti e con tappo a
tenuta. Per determinazioni molto delicate occorrono bottiglie di vetro neutro, lavate con
miscela cromica, poi pulite più volte con acqua distillata, ed infine essiccate in stufa.
Per determinazioni correnti si possono utilizzare anche bottiglie di polietilene o di
acciaio inossidabile. È opportuno pulire il recipiente con l'acqua in esame, prima del
prelievo del campione, e riempire quanto più possibile la bottiglia prima di chiuderla,
per evitare che vi rimangano bolle d'aria. Per il prelievo di acque di fiume è opportuno
prelevare il campione al centro della corrente, a 20-25 cm dal pelo dell'acqua. Nel caso
dei laghi, o comunemente di acque non correnti, si devono eseguire prelievi a varie
profondità con adatti campionatori.
Vi sono determinazioni che devono essere necessariamente eseguite in situ: tra queste
sono da citare la temperatura, il pH, il potenziale redox, il cloro libero, la conducibilità
elettrolitica, l'ossigeno disciolto; per quest'ultimo saggio è indispensabile procedere
almeno alla fissazione del campione, e lo stesso dicasi per i solfuri. Tra il prelievo del
campione e l'esecuzione dell'analisi deve passare il minor tempo possibile; i campioni in
attesa di analisi devono essere tenuti in frigorifero a temperatura leggermente superiore
a 0 °C, affinché non gelino. Infine su ogni campione devono essere riportati tutti i dati
che lo riguardano come ad esempio il luogo di provenienza, la data, l'ora e il punto
esatto del prelievo, la temperatura del campione e quella ambiente, ecc.
Caratteri organolettici dell'acqua
Il termine organolettico si riferisce ai caratteri che cadono direttamente ed
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immediatamente sotto il dominio dei sensi: ossia l'aspetto (e particolarmente il colore),
l'odore e il sapore. Si ricordi che un'acqua pura deve essere assolutamente incolore e
limpida, inodore ed insapore (a parte il contributo delle diverse salinità). La percezione
del colore, dell'odore e del sapore, è quanto mai soggettiva, e pertanto la descrizione che
ne verrà fatta non potrà avere doti di esattezza scientifica; tuttavia sono state stabilite
alcune regole che attenuano l'arbitrarietà del responso analitico, accrescendo quindi
l'utilità di questi saggi.
Colore.
Un'esatta identificazione e valutazione del colore di un'acqua può essere eseguita
mediante lo spettrofotometro di Pulfrich, determinando le frequenze alle quali si
verificano gli assorbimenti maggiori.
Nella pratica comune si impiega generalmente un metodo alquanto empirico, descritto
da Hazen, consistente nel confrontare il campione in esame con una serie di standard
contenenti quantità crescenti di cloroplatinato di potassio e cloruro di cobalto. Il
confronto può avvenire per visione diretta nei tubi di Nessler, oppure con un
colorimetro fotoelettrico. Da una soluzione base dei due sali precedentemente
menzionati, alla quale si assegna arbitrariamente un grado di colore pari a 500 ("unità
colore" corrispondente a 1 mg/l di platino), si preparano per diluizione gli standard tra 1
e 500. Nella pratica non è però opportuno preparare standard di valore superiore a 100;
se il campione in esame ha una colorazione più forte, lo si diluisce con acqua distillata
tenendone conto nel calcolo. Talvolta è più conveniente fare il confronto con una serie
di dischi di vetro o plexiglass, di colorazione corrispondente a quella dei campioni al
platino-cobalto, applicati sul fondo di un tubo di Nessler pieno d'acqua distillata.
Odore
Secondo la Royal Commission of Sewage Disposal, gli odori che indicano
inquinamento cloacale appartengono alle seguenti categorie:
a) odori putridi (dovuti all'idrogeno solforato);
b) odor di pesce (dovuto ad ammine organiche);
c) odore di vermi (dovuto a sostanze fosforate);
d) odore di terra (dovuto all'humus).
L'odore di "stantio" è dovuto all'effetto combinato delle cause c) e d); se prevale
l'ultima, l'odore risultante può non essere fortemente sgradevole. Invece, dalla somma
delle cause a) e b) deriva sovente un tanfo insopportabile, avvertibile anche se l'acqua
contiene ancora un po' di ossigeno disciolto, qualora sul fondo vi sia fango in
putrefazione. Le acque residue industriali contengono sovente numerose sostanze
naturali o sintetiche che producono le più diverse sensazioni olfattive.
Un metodo semplice per l'esecuzione del test sull'odore richiede la presenza di due
operatori. il primo operatore prepara una serie di campioni (naturalmente l'acqua in
esame è il campione n° 1), ottenuti mediante diluizione dell'acqua da analizzare con
acqua sicuramente inodore, e li introduce in beute con tappo a smeriglio numerate.
Successivamente egli fa annusare all'altro analista i campioni, cominciando da quelli più
diluiti, ma non in stretto ordine di diluizione, ed alternandoli con un campione di acqua
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inodore. Il secondo analista deve solamente dire quando avverte l'odore. I risultati sono
espressi come soglia di sensibilità, definita come la massima diluizione alla quale
l'odore è ancora percepibile. Naturalmente la vetreria da impiegare per questo test deve
essere scrupolosamente pulita, e l'operatore che annusa i campioni deve trovarsi in un
locale ove non entri alcun odore. Salvo il caso in cui si compiono ricerche di particolare
delicatezza è sufficiente lavorare a temperatura ambiente.
Sapore.
È noto dalla fisiologia che l'uomo percepisce solo quattro sapori, e precisamente: agro,
salato, amaro e dolce. La sensazione che si ha comunemente di avvertire molti altri
sapori dipende non tanto dalla combinazione dei quattro gusti suddetti, quanto
dall'influenza dell'odorato, come è dimostrato dal fatto che le persone raffreddate
trovano sovente insipidi i cibi. Regola fondamentale del chimico è quella di non
assaggiare mai sostanze che non siano sicuramente innocue; pertanto la prova del sapore
deve essere fatta solo su campioni d'acqua che siano già stati sottoposti ad analisi. La
tecnica da impiegare è identica a quella già descritta per la rilevazione degli odori, e
così pure il modo di esprimere i risultati.
Determinazioni tecnico analitiche.
Trasparenza.
La determinazione della trasparenza avviene con una prova di scrittura: si ottiene così
un'espressione numerica della limpidità dell'acqua.
Un cilindro di vetro incolore a fondo piano tarato in cm lineari (non cm3) e munito di
rubinetto di scarico, lateralmente appena sopra il fondo, viene fissato con uno stativo e
un morsetto. La metodica consiste in una prova di scrittura in lettere maiuscole,
corrispondente alla norma tedesca DIN3,5 , stampata chiaramente con inchiostro nero,
nel seguente modo: ABCDEFGHILMNOP con 3,5 mm di larghezza delle lettere e con
il fondo del cilindro che deve trovarsi 20 mm sopra il campione di scrittura. Si esegue la
lettura immediatamente dopo la raccolta del campione d'acqua, in luce diurna chiara e
diffusa o, in mancanza, in luce diffusa artificiale. Si riempie il cilindro con l'acqua in
esame fino alla tacca superiore, se ne scarica la quantità sufficiente a rendere la scrittura
chiaramente leggibile, infine si legge il livello dell'acqua sulla divisione centimetrica.
Occorre operare rapidamente, per evitare la deposizione delle sostanze sospese.
Torbidità.
La torbidità è una diminuzione della trasparenza dell'acqua, dovuta alla presenza di
sostanze solide sospese, costituite da particelle finissime, incapaci di sedimentare in un
tempo ragionevolmente breve. Le particelle in sospensione determinano un
assorbimento di certe lunghezze d'onda luminose, dipendente tra l'altro dal numero e
dalle dimensioni delle particelle suddette. Entro certi limiti, e soprattutto quando le
particelle sono molto fini e di dimensioni relativamente uniformi, si può ritenere valida
la legge di Lambert-Beer. In pratica, si confronta spettrofotometricamente (più
correttamente, in questo caso, nefelometricamente) l'assorbimento del campione in
esame con una curva di taratura costruita mediante sospensioni di silice colloidale
(Kieselguhr) in acqua, aventi concentrazione nota. Il risultato si esprime in mg/l di silice
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(unità nefelometriche di torbidità, NTU).
Sostanze solide sedimentabili.
Si determina il volume delle sostanze sospese suscettibili di depositersi in due ore sul
fondo del recipiente; a tale scopo, si cerca di riprodurre fedelmente le condizioni
esistenti in un bacino di sedimentazione. L'apparecchiatura da utilizzare è un cono
Imhoff tarato e della capacità di un litro. Se il contenuto di sostanze sedimentabili è
elevato si preferisce usare un cono munito di rubinetto che consente di simulare, alla
fine del saggio, le operazioni di spurgo dei fanghi da un bacino di sedimentazione. Il
risultato si esprime in ml di sostanze sedimentabili per un litro d'acqua in due ore.
Sostanze solide sospese.
Si dicono sostanze solide sospese quelle sostanze che si possono separare mediante
mezzi meccanici energetici (filtrazione sotto vuoto o, meglio, centrifugazione) dalla fase
liquida, che deve rimanere limpida. Una sospensione è una dispersione di solidi in un
liquido, che si può separare nei suoi costituenti appunto con mezzi meccanici; tra questi
la centrifugazione è il più veloce e sicuro. Nella pratica analitica, appunto, questa
determinazione viene effettuata centrifugando l'acqua in esame, sifonando il liquido
surnatante e raccogliendo le sostanze solide che verranno seccate in stufa o con lampada
a raggi infrarossi, raffreddati in essiccatori e quindi pesati. Eventualmente si può
procedere a calcinazione in muffola determinando in questo modo, sempre per pesata, il
contributo delle sostanze inorganiche ed organiche alla quantità totale di solidi sospesi. I
risultati sono espressi in mg/l.
Sostanze oleose e grasse.
Si trasferiscono, mediante un'estrazione liquido-liquido in imbuto separatore, le
sostanze grasse e oleose contenute nel campione d'acqua (opportunamente acidificato)
ad un adatto solvente (solitamente tetracloruro di carbonio, CCl4). Successivamente si
distilla quest'ultimo (preferibilmente sotto vuoto) e si pesa il residuo. Per maggiore
precisione è preferibile riferire i risultati come "sostanze estraibili in CCl4 a freddo"
anziché come sostanze oleose e grasse, espresse in mg/l.
Stabilità relativa (saggio di putrescibilità).
Il campione d'acqua da analizzare viene lasciato a riposo in assenza di aria in una beuta
a tappo smeriglio, in presenza di blu di metilene. Se le sostanze organiche in esso
contenute vanno in putrefazione, essi sviluppano composti riducenti (in particolare H2S)
i quali decolorano il blu di metilene. Il saggio fornisce pertanto un indice dell'attitudine
delle sostanze organiche contenute nell'acqua in esame a subire una demolizione
anaerobica e viene eseguito in un armadio termostatato a 20 °C per almeno 5 giorni (la
stabilità è accettabile se la decolorazione supera i 5 giorni). Il risultato si esprime in
giorni occorrenti per la decolorazione.
Carbonio organico totale (TOC).
Con questo parametro viene misurata la quantità totale di sostanze organiche, ivi
comprese quelle particolarmente resistenti all'ossidazione e che difficilmente possono
essere ossidate in condizioni naturali o anche in condizioni di laboratorio (BOD, COD
ecc.). Per la sua determinazione si ricorre ad una combustione ad alta temperatura dei
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composti organici contenuti nell'acqua, con conseguente produzione di CO2 , la quale
può essere misurata mediante rivelatore infrarosso.
Potenziale redox.
Il parametro "potenziale redox" serve a dare un'indicazione globale del potere ossidante
dell'acqua, prescindendo dagli equilibri delle singole coppie redox che ne sono
responsabili. Per la sua determinazione si utilizza un potenziometro, correlato da una
coppia di elettrodi calomelano/platino. In genere un potenziale superiore a 200 mV è
indice di processi ossidativi in atto, mentre sotto i 50 mV è da escludere la presenza di
ossigeno libero nell'acqua.
Conducibilità.
Questo parametro dipende dalle componenti ioniche dell'acqua e costituisce quindi una
misura diretta del suo contenuto salino. La sua determinazione viene effettuata mediante
i conduttometri che si dimostrano strumenti particolarmente adatti sia per misure
discontinue di laboratorio, sia per il controllo continuo di impianti ove sia importante
rilevare eventuali variazioni di composizione dell'acqua nel tempo. Questo parametro,
che viene espresso in µS/cm, nella maggior parte delle acque naturali è compreso tra
100 e 1.000, ma non sono rare le acque che presentano valori esterni a questo intervallo.
Come riferimento si rammenti che per l'acqua distillata assume un valore inferiore a 2.
La temperatura.
Questo parametro fisico è di notevole interesse in quanto fattore condizionante tutte le
cinetiche delle reazioni che avvengono nel corpo idrico. Una sua variazione può infatti
alterare, talvolta in modo irreversibile, gli equilibri chimici e biochimici dell'acqua. Per
le acque sorgive la misura della temperatura fornisce preziose indicazioni sulle
caratteristiche della falda in quanto, un valore costante alla sorgente, testimonia
un'origine profonda, che non risente cioè delle variazioni né diurne né stagionali della
temperatura esterna. Ciò al contrario delle acque di falda freatica, e ancor più di quelle
superficiali, che sono soggette ad escursioni termiche più o meno ampie. Valori normali
della temperatura di una buona acqua potabile sono compresi tra i 9 e i 12 °C, ma sono
comunque tollerate temperature sino a 25 °C. Valori superiori sono indizio di
inquinamento termico, di cui le cause più frequenti risiedono negli scarichi caldi delle
acque di raffreddamento, o di altra natura, prodotti dalle industrie. Questo fatto si
ripercuote sfavorevolmente sul bilancio dell'ossigeno, con tutte le conseguenze negative
che il fatto può comportare sia direttamente, a causa della sua diminuita solubilità, sia
indirettamente attraverso il maggior consumo di ossigeno che l'aumentato metabolismo
della flora acquatica comporta (ciò è stato già trattato nella sezione "Inquinamento delle
acque").
Acidità.
In genere un'acqua viene considerata acida se il suo pH è inferiore a quello di viraggio
dell'indicatore metilarancio (3,4). Poiché una tale acidità può essere dovuta soltanto alla
presenza di acidi minerali liberi, o anche a notevoli quantità di sali di acidi forti (cloruri,
solfati, nitrati) con basi deboli, un'acqua con queste caratteristiche deve essere
considerata anomala. Valori superiori a 3,4 , rientranti pur sempre nel campo acido,
sono principalmente dovuti ad anidride carbonica libera e quindi possono far rientrare
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l'acqua nel campo della normalità. L'acidità viene determinata mediante titolazione con
NaOH 0,01 N usando la fenolftaleina come indicatore. Il relativo parametro viene
espresso in meq/l di base consumata. Il pH ideale dei corpi idrici biologicamente attivi è
compreso approssimativamente tra 7 e 8,3. Le acque naturali, tuttavia, possono
presentare un'acidità (come precedentemente si è detto) o una basicità superiore a tali
limiti a causa della qualità e/o della quantità delle sostanze presenti. Valori inferiori a
3,4 o superiori a 8,5 sono indizio di componenti meno comuni e probabilmente di
inquinamento. Per le acque destinate all'alimentazione umana la CE ha fissato il pH tra
6,5 e 9,5. Il pH viene misurato per via potenziometrica usando un elettrodo indicatore a
vetro ed uno al calomelano come riferimento.
Ossidabilità al permanganato.
Con questo metodo si può determinare un parametro aspecifico, definito genericamente
come sostanze organiche, ma definito più correttamente come ossidabilità al
permanganato. Esso consiste in una ossidazione a caldo e prolungata (10 minuti) con
KMnO4 in ambiente acido per H2SO4. In queste condizioni solo le sostanze organiche
meno resistenti subiscono l'ossidazione, mentre vengono ossidati taluni ioni inorganici
come ad esempio gli ioni ferroso, nitroso, solfito, solfuro, ecc. Ciò depone a favore della
seconda definizione, più generica, ma anche più aderente alle caratteristiche del metodo.
Riducendo il tempo di reazione a 3 minuti, questo metodo può essere convenientemente
impiegato per misurare la domanda immediata d'ossigeno (IOD ovvero "ossigeno
consumato secondo Kübel").
Domanda chimica di ossigeno (COD).
Secondo questo metodo le sostanze organiche vengono ossidate a caldo con bicromato
in ambiente acido, usando il solfato d'argento come catalizzatore. Per evitare
l'ossidazione dei cloruri (in quanto questa non avviene nei corpi idrici naturali), il
campione viene addizionato di solfato mercurico, infine un refrigerante a ricadere evita
la perdita di sostanze volatili e mantiene costanti nel tempo (2 ore) le condizioni di
reazione. Il risultato si esprime in mg/l di ossigeno consumato.
Domanda biochimica di ossigeno (BOD).
Il campione di acqua in esame viene frazionato in due parti e portato a pH 7. Sulla
prima si determina subito l'ossigeno libero contenuto dopo termostatazione a 20 °C;
sulla seconda si effettua la stessa determinazione dopo incubazione di 5 giorni al buio e
alla stessa temperatura di 20 °C. La differenza tra queste misure corrisponde
all'ossigeno consumato per attività biologiche (BOD). Affinché questo parametro
assuma il significato voluto, nel campione in esame ossigeno e microrganismi devono
essere eccedenti rispetto alle sostanze biodegradabili, in modo che soltanto queste
ultime fungano da fattore limitante delle reazioni e la misura di ossigeno effettuata
corrisponda alla quantità di tali sostanze. La soluzione di semina viene impiegata
solamente se i batteri non sono contenuti a sufficienza nell'acqua in esame. Il risultato
viene espresso in mg/l di ossigeno consumato e può raggiungere valori unitari per acque
poco inquinate e 1.000 per scarichi ad alto grado d'inquinamento.
Ossigeno disciolto (OD)
Metodo Winkler.
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Rapporto finale Task 2.1
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Lo ione manganoso in soluzione alcalina è ossidato dall'ossigeno disciolto nell'acqua ad
acido manganoso. Questo, trattato con acidi forti, restituisce l'ossigeno consumato il
quale in presenza di ioduri, libera iodio, titolabile con tiosolfato:
- Mn2++2 OH-+1/2 O2 ® H2MnO3¯;
- H2MnO3+2 H+® Mn2++2 H2O+O;
- 2 I-+O+2 H+ ® I2+H2O.
Per questa determinazione si fa uso di un apposito bottiglino di capacità esattamente
nota evitando attentamente di provocare formazione di bolle d'aria. Il risultato si
esprime in mg/l di ossigeno disciolto.
SATURAZIONE DI OSSIGENO A PRESSIONE ATMOSFERICA 760 TORR
Temperatura
acqua (°C)
Saturazione (mg/l)
Temperatura
acqua (°C)
Saturazione (mg/l)
0
8,6
13
5,6
1
8,4
14
5,4
2
8
15
5,25
3
7,8
16
5,2
4
7,6
17
4,9
5
7,2
18
4,8
6
7
19
4,7
7
6,8
20
4,5
8
6,6
21
4,4
9
6,4
22
4,3
10
6,2
23
4,2
11
6
24
4,1
12
5,8
25
4
È molto utile esprimere la quantità di ossigeno disciolto come valore percentuale
rispetto al limite di saturazione in determinate condizioni di temperatura e pressione
atmosferica: in tal caso si trova che una buona acqua (non di falda) deve contenere oltre
il 90 % d'ossigeno, mentre valori al di sotto del 75 % sono indizio d'inquinamento.
Alcalinità
L'acqua in esame viene titolata con acido forte, usando come indicatori dapprima la
fenolftaleina e quindi il metilarancio. Il consumo di acido nella prima titolazione può
essere dovuto alla presenza di CO32-, OH-, PO43-, ecc., mentre l'acido consumato nella
seconda titolazione dipende da HCO3-, HPO42-, ecc. In base a questi consumi si possono
calcolare due parametri aspecifici (alcalinità alla fenolftaleina e alcalinità al
metilarancio), nonché tre parametri specifici (idrossidi, carbonati e bicarbonati). Questa
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Rapporto finale Task 2.1
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seconda possibilità richiede che le altre specie presenti, oltre alle tre citate, diano un
contributo trascurabile all'alcalinità, la qual cosa è spesso verificata. Indicando con F il
volume d'acido consumato con la fenolftaleina e con M quello consumato in presenza
del metilarancio, si possono presentare 5 casi:
1. F=0, M≠0: non avendosi alcalinità alla fenolftaleina sono presenti i soli
bicarbonati;
2. F≠0, M=0: sono assenti sia bicarbonati che carbonati e quindi sono presenti i
soli idrossidi;
3. F=M≠0: sono presenti i soli carbonati;
4. F>M≠0: sono presenti soltanto idrossidi e carbonati;
5. M>F≠0: sono presenti solo carbonati e bicarbonati.
I parametri aspecifici dell'alcalinità si esprimono in meq/l ed in particolare si ha
rispettivamente alcalinità alla fenolftaleina o al metilarancio se nella titolazione si
consuma acido solamente col rispettivo indicatore utilizzato. I parametri specifici sono
espressi in mg/l.
Residuo fisso
Si fa evaporare un conveniente volume d'acqua in esame fino a secchezza, e il residuo
viene riscaldato ad una temperatura determinata. Si definisce quindi un residuo a 100
°C che corrisponde alla quantità totale di soluto ivi compresa eventuale acqua di
cristallizzazione, un residuo a 180 °C che risulta totalmente privo di acqua ma contiene
ancora anche la maggior parte delle sostanze organiche, ed infine un residuo fisso a 550
°C che corrisponde alle sole sostanze minerali. In ogni caso il residuo viene espresso in
mg/l ed occorre sempre esprimere la temperatura alla quale è stato determinato.
Durezza
La durezza si determina complessometricamente titolando l'acqua in esame con acido
etilendiamminotetracetico (EDTA), usando come indicatore il nero eriocromo T (NET).
Le reazioni implicate nella formazione del complesso in un'analisi di questo tipo,
indicando con EH22- l'EDTA, sono le seguenti: EH22-+Mg2+ ® EMg2-+2 H+; EH22-+Ca2+
® ECa2-+2 H+. L'acqua in esame viene tamponata a pH 10, riscaldata a circa 45 °C e
quindi si procede a titolazione ottenendo in questo modo la durezza totale. Riscaldando
invece un'altra aliquota fino all'ebollizione per 30 minuti e procedendo a titolazione
come fatto prima, si ottiene la durezza permanente. Con ebollizione prolungata avviene
la seguente trasformazione: Me(HCO3)2 ® MeCO3¯+CO2+H2O. Defalcando dalla
durezza totale quella permanente, si ottiene la durezza temporanea (dovuta appunto a
bicarbonati dei metalli della durezza). I parametri vengono espressi in °F.
Durezza calcica e magnesiaca
Si esegue una determinazione complessometrica con EDTA, impiegando come
indicatore la muresside (purpurato d'ammonio), che assume colorazione rossa in
presenza di ioni Ca2+ e viola in sua assenza. La durezza magnesiaca è calcolabile per
differenza tra durezza totale e durezza calcica che viene determinata esattamente come
precedentemete detto. Lo ione Mg2+ non interferisce nella determinazione della durezza
calcica in quanto al valore di pH di lavoro (> 12) precipita sotto forma di Mg(OH)2.
Cloro
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Dicesi "cloro residuo totale" la quantità di cloro che rimane dopo un certo tempo in un
campione di acqua sottoposto a trattamento di clorazione. Si indica col termine di "cloro
libero" il cloro presente come ione ipoclorito o acido ipocloroso; e con quello di "cloro
combinato" il cloro presente sotto forma di clorammine. Il cloro reagisce con la ortotolidina formando un composto di colore giallo, determinabile spettrofotometricamente
a lunghezza d'onda di 440 nm. L'aggiunta di arsenito di sodio (NaAsO2) permette di
distinguere le due forme di cloro (libero e combinato). Il risultato si esprime in mg/l di
cloro.
Cloruri
Metodo argentometrico di Mohr.
Lo ione Cl- viene titolato con nitrato d'argento ed il punto di fine titolazione viene
rivelato dall'indicatore cromato di potassio; viene effettuata anche una prova in bianco
titolando acqua distillata. In questo genere di titolazioni sono implicate reazioni di
precipitazione: Ag++Cl- ® AgCl¯ , Il pH ottimale è tra 6 e 9. La titolazione può essere
condotta anche per via conduttometrica. I risultati sono espressi in mg/l.
Bromuri
Metodo argentometrico di Mohr.
Si esegue esattamente come prima, tenendo in dovuto conto le possibili interferenze
reciproche soprattutto in base alle rispettive concentrazioni. Anche in questo caso si
possono effettuare titolazioni conduttometriche. Il parametro è espresso in mg/l.
Ioduri
Metodo argentometrico di Mohr già descritto o determinazione spettrofotometrica dopo
ossidazione di I- con reagenti quali BrO3- o Ce4+ in presenza di salda d'amido che si
colora in blu di intensità proporzionale alla concentrazione di I2 sviluppato. Si può
anche far sviluppare iodio, estrarlo con solventi quali CHCl3 o CCl4 e quindi dosarlo
direttamente con lo spettrofotometro. Il parametro è espresso in mg/l.
Fluoruri
In soluzione acida lo zirconio reagisce con la eriocromocianina R e forma un complesso
rosso. Il fluoruro forma con lo zirconio un complesso incolore più stabile (ZrF62-),
pertanto la presenza di fluoruro fa diminuire proporzionalmente l'intensità della
colorazione rossa. In pratica si effettuano misure di colore alla lunghezza d'onda di 540
nm e si costruisce una curva di taratura con soluzioni standard. Il risultato è espresso in
mg/l.
Silice
La silice reagisce con molibdato d'ammonio dando origine ad un complesso che viene
ridotto con acido 1-ammino-2-naftol-4-solfonico con produzione di una colorazione blu
di cui si misura l'intensità a 650 nm con uno spettrofotometro. Il risultato è espresso in
mg/l di SiO2 , si tenga presente che 1 mg di SiO2 = 0,46 mg di Si.
Anidride carbonica libera
Dicesi "anidride carbonica libera" quella parte di anidride carbonica presente in
soluzione sotto forma di CO2 e di H2CO3 indissociato. Con i termini "anidride
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carbonica semicombinata e combinata" si indicano rispettivamente le quantità di
anidride carbonica presenti in soluzione come ione HCO3- e come ione CO32-. L'acido
carbonico (in larga maggioranza sotto forma di H2O+CO2 piuttosto che H2CO3) viene
titolato con NaOH per via potenziometrica, fino al pH di formazione del bicarbonato.
Essendo però questa tecnica molto soggetta ad errori e particolarmente delicata, si
preferisce determinare il tenore di anidride carbonica libera mediante nomogrammi,
fondati sugli equilibri chimico-fisici, che prendono in considerazione il pH e l'alcalinità
dell'acqua espressa in mg/l di CaCO3. L'anidride carbonica libera è misurata in mg/l di
CO2.
Borati
Si misura spettrofotometricamente a 580 nm (dopo riposo di 40 - 60 minuti) l'intensità
d'assorbimento del complesso rosso-violetto ottenuto dai borati per reazione con acido
carminico. Costruita come al solito la curva di taratura, con l'ausilio di soluzioni
standard, si ricava la concentrazione di borati che verrà espressa come mg/l di boro.
Solfati
Determinazione turbidimetrica.
Questo metodo si basa sulla formazione di BaSO4 che deve tuttavia rimanere in
sospensione finissima senza precipitare. Ciò si ottiene addizionando alla sospensione
sostanze stabilizzatrici adatte, quali ad esempio tensioattivi, elettroliti, liquidi viscosi,
ecc. Inoltre si dovrà effettuare la misura turbidimetrica del campione incognito e quella
degli standard nelle stesse condizioni operative, con speciale riguardo al tempo. In ogni
caso la grandezza che viene misurata è la pseudo-assorbanza, dovuta all'intercettazione
della luce da parte delle particelle in sospensione. La determinazione dei solfati può
anche essere fatta per via ponderale e conduttometrica. Il parametro si esprime in mg/l
di SO42-.
Ammoniaca
L'ammoniaca forma con il reattivo di Nessler (HgI42-) un precipitato bruno che, per
tracce di ammoniaca, resta in soluzione colloidale gialla: 2 HgI42-+3 OH-+NH3 ®
[NH2Hg2O]I+7 I-+2 H2O. Le misure di assorbanza vengono effettuate a 420 nm ed il
risultato si esprime in mg/l di ione ammonio (NH4+).
Nitriti
Metodo di Griess.
L'acido solfanilico viene diazotato dai nitrati presenti nelle acque e il diazocomposto
così ottenuto, copulandosi con l'a-naftilammina, produce un colorante azoico rosso
(reazione di Griess) il cui massimo di assorbimento è a 520 nm. Il risultato è espresso in
mg/l.
Nitrati
Metodo alla brucina.
I nitrati danno con la brucina (alcaloide derivato della stricnina) un composto di
ossidazione rosso, instabile, che dopo un certo tempo assume una colorazione gialla.
Entrambi i composti possono essere utilizzati per la determinazione colorimetrica, ma il
secondo presenta una migliore ripetibilità; il suo massimo di assorbimento è a 410 nm.
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Rapporto finale Task 2.1
64
Questo parametro analitico viene espresso in mg/l di NO3-.
Fosfati
Metodo al blu di molibdeno.
I fosfati presenti nell'acqua vengono trattati con molibdato ammonico e trasformati in
fosfomolibdato in base alla seguente reazione: HPO42-+12 MoO42-+3 NH4++11 H2O ®
(NH4)3PO4 ·12 MoO3+23 OH-. Per concentrazioni dell'ordine di 1 mg/l il
fosfomolibdato ha una debole colorazione gialla o appare del tutto incolore. Trattato con
riducenti quali acido ascorbico, idrochinone, cloruro stannoso, esso si trasforma in blu
di molibdeno, un composto in cui in Mo si trova contemporaneamente a diversi stati
d'ossidazione. Le letture spettrofotometriche possono essere effettuate nella banda tra
650 e 800 nm. Il parametro relativo si esprime in mg/l di P2O5.
Solfuri.
Metodo al blu di metilene.
L'ossidazione della dimetil-para-fenilendiammina ad opera del cloruro ferrico ed in
presenza di solfuro, porta alla formazione del blu di metilene, un colorante tiazinico con
massimo di assorbimento a 670 nm. Questo parametro viene espresso in mg/l di H2S.
Ferro
Il ferro (III) presente nell'acqua viene ridotto mediante idrossilammina a ione ferroso il
quale, trattato con orto-fenantrolina, si trasforma in un chelato rosso, stabile in un
campo di pH compreso tra 2 e 9, con massimo di assorbimento a 508 nm. Il parametro
viene espresso in mg/l di Fe.
Cromo
Metodo alla difenilcarbazide.
La difenilcarbazide in presenza di ioni bicromato dà un composto d'ossidazione rosso
viola con massimo di assorbimento a 540 nm. Per la determinazione del cromo totale
nelle acque occorre una ossidazione preliminare del Cr3+ mediante persolfato, mentre
per il dosaggio del solo cromo esavalente, si procede direttamente alla determinazione
spettrofotometrica. Il risultato viene espresso in mg/l di cromo precisando, ove
richiesto, il suo stato di ossidazione nel campione di acqua in esame.
Manganese
Il manganese viene ossidato in ambiente acido, mediante persolfato, a permanganato
colorato di violetto, del quale si musara l'assorbanza a 525 nm. Il risultato è espresso in
mg/l.
Alluminio
L'alluminio reagisce con l'aluminon (sale ammonico dell'acido aurintricarbonico)
formando una lacca rossa, della quale si misura l'assorbanza a 525 nm. Il parametro
viene espresso in mg/l.
Rame
Gli ioni rame formano con la dietanolammina e il solfuro di carbonio un complesso
giallo del quale si misura l'assorbanza a 425 nm. Il risultato è espresso in mg/l di rame.
Nichel
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
65
Il nichel forma con la dimetilgliossima un complesso rosso fragola che può essere
determinato gravimetricamente o spettrofotometricamente a 530 nm. Il risultato si
esprime in mg/l.
Zinco
Lo zinco forma con lo ione ferrocianuro Fe(CN)64- un precipitato colloidale suscettibile
di dosaggio colorimetrico a lunghezza d'onda di 650 nm. Il risultato è espresso in mg/l
di zinco.
Cadmio
Il cadmio reagisce con ditizone formando un composto di colore rosso di cui, previa
estrazione con cloroformio, si misura l'assorbanza a 518 nm. Il risultato è espresso in
mg/l di cadmio.
Piombo
Tracce di piombo reagiscono con solfuro di sodio formando solfuro di piombo
colloidale, di colore bruno-nerastro, del quale si misura l'assorbanza a 410 nm. Il
relativo parametro è espresso in mg/l.
Mercurio
Il mercurio monovalente viene ossidato a bivalente dal permanganato ed i composti
organico-mercurici vengono mineralizzati con acido solforico, riscaldando in microKjeldahl. Dopo estrazione selettiva con cloroformio, il mercurio è dosato per titolazione
diretta con di-b-naftiltiocarbazone. Il risultato si esprime in mg/l di mercurio.
Arsenico
I composti di arsenico pentavalente vengono ridotti con cloruro stannoso ad arsenico
trivalente; questo, mediante idrogeno nascente generato per reazione di granuli di zinco
con acido concentrato, è ulteriormente ridotto ad arsina AsH3 volatile che viene
assorbita da una soluzione di dietilditiocarbammato di argento. Questo reagente forma
con l'arsina un colorante rosso di cui si determina l'assorbimento a 535 nm. Il risultato si
esprime in mg/l di arsenico, tenendo presente che 1 mg di As = 1,32 mg As2O3 = 1,53
mg As2O5.
Molibdeno
Il molibdeno reagisce con il solfocianuro di potassio (KSCN), in presenza di cloruro
stannoso, formando un complesso di colore arancio che può essere dosato
spettrofotometricamente a 475 nm. È importante raffreddare i reattivi a 15 °C prima del
loro impiego, al fine di assicurare una colorazione regolare. Il risultato si esprime in
mg/l di molibdeno.
Sodio, potassio e litio
Vengono determinati per fotometria di fiamma in emissione alle lunghezze d'onda di
589 nm per il sodio, 768 nm per il potassio e 679 nm per il litio. Costruita la curva di
taratura con l'ausilio di soluzioni standard, si ricavano i risultati che verranno espressi in
mg/l dei rispettivi cationi alcalini.
Cianuri
Il cianuro si può titolare con nitrato d'argento, usando come indicatore la p-
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
66
dimetilamminobenzilidenrodanina. Se il tenore di cianuro è inferiore a 2 mg/l, lo si fa
reagire con cloramina T e con un reagente piridina-pirazolone. Si forma una colorazione
rosa che col tempo diviene blu e si stabilizza; si misura l'intensità di tale colorazione a
620 nm dopo 30 - 40 minuti di riposo. Il risultato si esprime in mg/l di ioni cianuro.
Fenoli
Dopo distillazione, i composti fenolici vengono fatti reagire con 4-ammino-antipirina
formando un composto giallo estraibile con cloroformio e dosabile colorimetricamente a
460 nm. Il risultato si esprime in mg/l di fenolo (C6H5OH).
Detergenti anionici (MBAS)
Sotto questo nome si comprendono le sostanze attive al blu di metilene, o MBAS, le
quali costituiscono la parte attiva della maggior parte dei detergenti sintetici. In pratica,
si tratta quasi sempre di ABS (alchilbenzensolfonati non biodegradabili) ovvero di LAS
(alchilbenzensolfonati a catena lineare, biodegradabili). Pertanto il saggio qui descritto,
eseguito prima e dopo una prova di biodegradazione, è atto a definire il grado di
biodegradabilità di un detergente. In pratica si fa reagire la parte attiva del detergente
con blu di metilene e si estrae mediante cloroformio il complesso blu formatosi; quindi
si misura l'assorbanza del complesso a 650 nm. Il risultato si esprime in mg/l di
detergente anionico.
Pesticidi, diserbanti e affini
Questa categoria di sostanze viene determinata prevalentemente mediante metodi
cromatografici strumentali quali la gascromatografia e la cromatografia liquida ad alte
prestazioni (HPLC).
Classica retta di lavoro per ricavare le concentrazioni incognite di analiti
da misure di assorbanza o fotometriche
Principale normativa di riferimento
DLgs n. 152 del 11 maggio 1999
Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva
91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva
91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati
provenienti da fonti agricole", a seguito delle disposizioni correttive ed integrative di cui
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
67
al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258
DLgs n. 258 del 18 agosto 2000
Disposizioni correttive ed integrative del DLgs 11 maggio 1999, n. 152, in materia di
tutela delle acque dall'inquinamento, a norma dell'articolo 1, comma 4, della legge 24
aprile 1998, n. 128
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
68
3.1.3 Rumore
Normativa
Normativa comunitaria
Con l'introduzione delle nuove politiche ambientali la Comunità Europea (CE) ha
elaborato il quinto programma d'azione a favore dell'ambiente, iniziando in tal modo a
porre attenzione al problema dell'inquinamento acustico. Questo programma fissava gli
obiettivi da conseguire entro l'anno 2000 al fine di ridurre i livelli di esposizione al
rumore della popolazione dell'Unione Europea (EU).
Da questa iniziativa ha preso spunto la creazione del Libro Verde della Commissione
Europea “Politiche future in materia di inquinamento acustico” (novembre 1996), che
riassume la situazione nella CE e individua i settori in cui l'azione della Comunità può
contribuire alla riduzione dei livelli di inquinamento da rumore. Inoltre la Commissione
Europea ha sviluppato, sempre in materia di “inquinamento acustico”, un nuovo testo
basato sulla responsabilità condivisa tra la UE, le singole nazioni e le diverse autorità
locali al fine di standardizzare e rendere maggiormente uniforme le diverse azioni da
svolgere. Questo documento è stato scritto nel 1998 sulla base dei seguenti criteri:
- costituire un gruppo di lavoro, composto da esperti, con il compito di assistere la
Commissione nello sviluppo delle leggi sul rumore;
- esigere dalle autorità competenti degli stati membri la formazione delle mappe
strategiche del rumore secondo alcuni indicatori armonici al fine di pianificare le
azioni da realizzare per ridurre il rumore e per informare la popolazione sugli effetti
derivanti dall'esposizione al rumore;
- favorire l'emanazione della direttiva sulle “apparecchiature” usate all'aperto, con il
fine di semplificare la legislazione sul rumore emesso in tali circostanze;
- tenere aggiornata la legislazione esistente nella UE al fine di dare supporto agli
investimenti economici nella ricerca in materia di fonti di emissione di rumore (ad
esempio il traffico stradale, gli aeromobili, le ferrovie, ecc.).
Il Parlamento e il Consiglio Europeo hanno adottato inoltre le seguenti direttive:
- Direttiva 2002/49/CE del 25 giugno 2002, relativa alla determinazione e alla
gestione del rumore ambientale;
- Direttiva europea sul rumore ambientale, proposta COM (2000) 468 definitivo 2000/0194 (COD), presentata dalla Commissione nel luglio 2000.
Normativa nazionale
I principali riferimenti legislativi per il contenimento dell’inquinamento acustico sono
rappresentati, a livello nazionale, dalla Legge Quadro n.447 del 26/10/1995 e dal
DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) del 14/11/1997 per la
“Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore”.
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Rapporto finale Task 2.1
69
La Legge Quadro n.447 del 26/10/1995 - "Legge quadro sull'inquinamento acustico" che stabilisce i principi fondamentali in materia di tutela dell'ambiente esterno e
dell'ambiente abitativo dal rumore, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 117 della
Costituzione. La legge individua le competenze dello Stato, delle regioni, delle
province, le funzioni e i compiti dei comuni. Allo Stato competono principalmente le
funzioni di indirizzo, coordinamento o regolamentazione della normativa tecnica e
l'emanazione di atti legislativi su argomenti specifici.
Le Regioni promulgano apposite leggi che definiscono, tra le altre cose, i criteri per la
suddivisione in zone del territorio comunale (zonizzazione acustica). Su questo settore
molte regioni sono già intervenute. Alle regioni spetta inoltre la definizione di criteri da
seguire per la redazione della documentazione di impatto acustico, delle modalità di
controllo da parte dei comuni e l'organizzazione della rete dei controlli. La parte più
importante della legge regionale riguarda, infatti, l'applicazione dell'articolo 8 della
Legge Quadro 447/95.
La Legge Quadro riserva ai Comuni un ruolo centrale con competenze di carattere
programmatico e decisionale. Oltre alla classificazione acustica del territorio, spettano
ai Comuni la verifica del rispetto della normativa per la tutela dall'inquinamento
acustico all'atto del rilascio delle concessioni edilizie, la regolamentazione dello
svolgimento di attività temporanee e manifestazioni, l'adeguamento dei regolamenti
locali con norme per il contenimento dell'inquinamento acustico e, soprattutto,
l'adozione dei piani di risanamento acustico nei casi in cui le verifiche dei livelli di
rumore effettivamente esistenti sul territorio comunale evidenzino il mancato rispetto
dei limiti fissati. Inoltre, i Comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti sono
tenuti a presentare una relazione biennale sullo stato acustico del comune.
DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) del 14/11/1997 –
“Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore”. I diversi valori limite sono
riportati nelle tabelle A, B e C.
Tabella A: valori limite di emissione - Leq in dB(A)
Classi di destinazione d'uso del territorio
Tempi di riferimento
Diurno (06.00 - 22.00)
Notturno (22.00 - 06.00)
I aree particolarmente protette
45
35
II aree prevalentemente residenziali
50
40
III aree di tipo misto
55
45
IV aree di intensa attività umana
60
50
V aree prevalentemente industriali
65
55
VI aree esclusivamente industriali
65
65
Tabella B: valori limite assoluti di immissione - Leq in dB(A)
Classi di destinazione d'uso del territorio
Tempi di riferimento
Diurno (06.00 - 22.00)
Notturno (22.00 - 06.00)
I aree particolarmente protette
50
40
II aree prevalentemente residenziali
55
45
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
70
III aree di tipo misto
60
50
IV aree di intensa attività umana
65
55
V aree prevalentemente industriali
70
60
VI aree esclusivamente industriali
70
70
Tabella C: valori di qualità - Leq in dB(A)
Classi di destinazione d'uso del territorio
I aree particolarmente protette
Tempi di riferimento
Diurno (06.00 - 22.00)
Notturno (22.00 - 06.00)
47
37
II aree prevalentemente residenziali
52
42
III aree di tipo misto
57
47
IV aree di intensa attività umana
62
52
V aree prevalentemente industriali
67
57
VI aree esclusivamente industriali
70
70
Definizioni:
- Valori limite di emissione: il valore massimo di rumore che può essere emesso da
una sorgente sonora, misurato in prossimità della sorgente stessa;
- Valori limite assoluti di immissione: il valore massimo di rumore immesso
nell'ambiente esterno dall'insieme di tutte le sorgenti;
- Valori di qualità: i valori di rumore da conseguire nel breve, nel medio e nel lungo
periodo con le tecnologie e le metodiche di risanamento disponibili, per realizzare
gli obiettivi di tutela previsti dalla Legge Quadro.
La tabella seguente riporta i riferimenti legislativi nazionali specifici per tipologia di
sorgente di emissione.
Sorgente
Rumore da traffico stradale
Rumore ferroviario
Rumore aeroportuale
Impianti industriali
Riferimento legislativo
Decreto Ministero dell’Ambiente 16/3/1998
Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri
14/11/1997
Decreto Ministero dell’Ambiente 16/3/1998
Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri
14/11/1997
Decreto Presidente della Repubblica
18/11/1998
Decreto Ministero dell’Ambiente 31/10/1997
Decreto Ministro dell’Ambiente 20/5/1999
Decreto Presidente della Repubblica
9/11/1999
Decreto Ministro dell’Ambiente 3/12/1999
Decreto Ministero dell’Ambiente 16/03/1998
Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri
14/11/1997
Decreto Ministero dell’Ambiente 11/12/1996
Sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri
danzante, di pubblico spettacolo e nei
16/4/1999
pubblici esercizi
Attività motoristiche
Decreto Presidente della Repubblica
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
71
Sorgenti sonore specifiche
Caratterizzazione acustica del territorio
Piani di risanamento acustico per le
infrastrutture di trasporto
3/4/2001
Decreto Ministero dell’Ambiente 16/3/1998
Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri
14/11/1997
Norma UNI 9433, 1995
Norma UNI 10855, 1999
Norma UNI 9884, 1997
Decreto Ministero dell’Ambiente 29/11/2000
Elenco della normativa nazionale
DM 3.12.99 (G.U. 10 dicembre 1999, n.289)
Procedure antirumore e zone di rispetto degli aeroporti
DPR 9.11.99 n°476 (G.U. 17 dicembre 1999, n.295)
Regolamento recante modificazioni al DPR 11.12.97 n° 496, concernente il divieto di
voli notturni
LEGGE 25.6.99 n° 205 (G. U. 28 giugno 1999, n.149)
Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema
penale e tributario
Indicazioni applicative al DPCM 16.4.99 n° 215
DPCM 16.4.99 n° 215 (G.U. 2 luglio 1999, n.153)
Regolamento recante norme per la determinazione dei requisiti acustici delle sorgenti
sonore nei luoghi di intrattenimento danzante e di pubblico spettacolo e nei pubblici
esercizi
LEGGE 23.12.98 n° 448, art.60 (G.U. 29 dicembre 1998, n.302 S.O.)
Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo
LEGGE 9.12.98 n° 426 (G.U. 14 dicembre 1998,n. 291)
Nuovi interventi in campo ambientale
DPR 18.11.98 n°459 (G.U. 4 gennaio 1999, n.2)
Regolamento recante norme di esecuzione dell'art. 11 della legge 447/95 in materia di
inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario
DPCM 31.3.98 (G.U. 26 maggio 1998, n.120)
Atto di indirizzo e coordinamento recante criteri generali per l'esercizio dell'attività di
tecnico competente in acustica, ai sensi della L. 26 ottobre 1995, n.447
DM 16.3.98 (G.U. 1 aprile 1998 n.76)
Tecniche di rilevamento e di misurazione dell'inquinamento acustico
DPR 11.12.97 n° 496 (G.U. 26 gennaio 1998, n.20)
Regolamento recante norme per la riduzione dell'inquinamento acustico prodotto dagli
aeromobili civili
DPCM 5.12.97 (G.U. 22 dicembre 1997, n.297)
Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici
DPCM 14.11.97 (G.U. 1 dicembre 1997, n.280)
Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore
DM 31.10.97 (G.U. 15 novembre 1997)
Metodologia di misura del rumore aeroportuale
DPCM 18.9.97 (G.U. 6 ottobre 1997, n.233)
Determinazione dei requisiti delle sorgenti sonore nei luoghi di intrattenimento
danzante
DM 11.12.96 (G.U. 4 marzo 1997, n.52)
Applicazione del criterio differenziale per gli impianti a ciclo produttivo continuo
LEGGE 26.10.95 n° 447 (G.U. 30 ottobre 1995, n.254 S.O.)
Legge quadro sull'inquinamento acustico
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
72
DLvo 15.8.91 n° 277 (G.U. 27 agosto 1991 n.200 S.O.)
Attuazione delle direttive n°80/1107/CEE, n°82/605/CEE, n°83/477/CEE,
n°86/188/CEE, n°88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi
derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma
dell'art.7 della legge 212/90
DPCM 1.3.91 (G.U. 8 marzo 1991, n.57)
Limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell'ambiente esterno
DM 18.12.75 (G.U. 2 febbraio 1976,n. 29)
Norme tecniche aggiornate relative alla edilizia scolastica, ivi compresi gli indici
minimi di funzionalità didattica, edilizia ed urbanistica da osservarsi nella esecuzione di
opere di edilizia scolastica
DM 1444 2.4.68 (G.U. 16 aprile 1968, n.97)
Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra fabbricati e rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti. ai sensi
della L. 6 agosto 1967, n.765
Circolare del Ministro dei Lavori Pubblici n° 3150 del 22.5.67
Criteri di valutazione e collaudo dei requisiti acustici negli edifici
Circolare del Ministro dei Lavori Pubblici n° 1769 del 30.4.66
Criteri di valutazione e collaudo dei requisiti acustici nelle costruzioni edilizie
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
73
3.1.4 Tecnologie per il trattamento, la gestione e lo smaltimento dei rifiuti
Premessa
In termini di prestazione operativa dell’area industriale è importante avere informazioni
riguardo tutta l’attività di gestione dei rifiuti.
Alla luce dell’attuale politica nazionale e comunitaria, nel questionario si da ampia
enfasi al concetto di Gestione Integrata dei Rifiuti, in quanto risulta una strategia
necessaria per poter governare in modo sostenibile un processo dai complessi aspetti
tecnici, economici, amministrativi, legali e ambientali, quali sono quelli di un’area
industriale.
Tale tipo di gestione può essere realizzata attraverso uno schema logico descritto in Fig.
1.
PREVENZIONE
RIFIUTI
RECUPERO DELLA MATERIA
(Riutilizzo e Riciclaggio)
SMALTIMENTO IN
DISCARICA
RECUPERO
ENERGETICO
Fig. 1 - Gestione Integrata Rifiuti
Sulla base della prescrizioni previste dalla gestione integrata, oltre alla diminuzione dei
quantitativi di rifiuti prodotti, si deve prevedere una strategia per:
- privilegiare il recupero, il riuso e il riciclaggio della materia;
- predisporre impianti per il recupero dell’energia intesa come produzione di calore
e/o energia elettrica.
Normativa
Il D. Lgs. n. 22 del 5 febbraio 1997 (Decreto Ronchi), rappresenta la legge quadro in
materia di rifiuti, attuando alcune fra le più importanti direttive europee (direttiva
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
74
91/156/CEE sui rifiuti, direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi, direttiva 94/62/CE
sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).
Il sistema introdotto dal D. Lgs. n. 22/97, essendo basato sulla gestione integrata a
differenza di norme previgenti come il D.P.R. 915/82, implica uno spostamento della
centralità sull’intero ciclo di vita dei rifiuti, dove lo smaltimento rappresenta il momento
conclusivo, riservato in via residuale alle frazioni non più recuperabili.
Il Decreto Ronchi non disciplina tutte le tipologie di rifiuti; sono esclusi dal campo di
applicazione una serie di materiali e sostanze elencati nell’art. 8 che sono disciplinati da
specifiche disposizioni di legge.
In termini di gestione integrata una novità è rappresentata dalla Direttiva IPPC che
introduce il concetto di Autorizzazione Ambientale Integrata mentre dal punto di vista
delle tecnologie si da importanza alle BAT (migliori tecniche disponibili).
Recupero di Materia e di Energia
Ai fini del recupero si possono citare due dei 71 provvedimenti che rendono operativi
gli obiettivi del D. Lgs. 22/97; in particolare il D.M. 5 febbraio 1998 – “Individuazione
dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli
articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22” e il D.M. 12 giugno 2002
n. 161 – “Regolamento attuativo degli articoli 31 e 33 del D. Lgs. 5 febbraio 1997 n.22,
relativo all'individuazione dei rifiuti pericolosi che è possibile ammettere alle procedure
semplificate”.
In questi decreti si evidenzia come tra le operazioni di recupero siano presenti anche il
recupero energetico dei rifiuti cosi come il loro impiego sul suolo; è bene sottolineare
che l’attività di stoccaggio dei rifiuti destinati al recupero è considerato come
operazione di recupero (messa in riserva).
Se le attività di recupero non rientra tra quelle indicate nel D.M. 5/2/98 e nel D.M.
161/02, sarà soggetta ad autorizzazione in forma ordinaria ai sensi degli art. 27 e 28 del
D. Lgs. 22/97.
I prodotti ottenuti dal recupero per non essere assoggettati al regime ordinario dei rifiuti
devono rispondere a determinate caratteristiche e in particolare non devono presentare
caratteristiche di pericolo superiori a quelle dei prodotti ottenuti dalla lavorazione di
materie prime vergini, inoltre devono essere destinati in modo effettivo ed oggettivo in
cicli di produzione o di consumo.
Nel caso in cui i prodotti ottenuti dal recupero dei rifiuti sono destinati a venire a
contatto con alimenti ci si deve attenere a quanto previsto dal D.M. 21 marzo 1973.
Oltre alle prescrizioni tecniche previste alle singole voci, il D.M. 5/2/98 e il D.M.
161/02 stabiliscono che devono essere osservate le prescrizioni e i valori limite per le
emissioni in atmosfera; tali prescrizioni sono differenziate per le attività di recupero a
freddo, rispetto a quelle che comportano l’impiego di rifiuti in cicli termici.
Una rilevante novità introdotta con il D.M. 5/2/98 è rappresentata dal concetto di
Materia Prima Secondaria (MPS); dal contesto delle norme tecniche e dalla Direttiva
91/156/CEE di deduce che le MPS rappresentano il risultato della valorizzazione del
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
75
rifiuto, effettuata a valle di una serie di trattamenti finalizzati al recupero del materiale,
alla verifica della compatibilità ambientale ed al raggiungimento di standard
merceologici definiti. Come tali le MPS risultano comparate ad una materia prima o ad
un prodotto e, in quanto tali, completamente escluse dalle norme dei rifiuti.
Questa condizione è raggiungibile soltanto da alcuni rifiuti e seguendo specifici
trattamenti indicati dal decreto; i rifiuti con le relative voci sono: carta ( 1.1 e 1.2), vetro
(2.1, 2.2 e 2.3), rottami ferrosi (3.1), rottami non ferrosi (3.2), plastica (6.1 e 6.2), inerti
(7.1), tessili (8.3 e 8.9), legno (9.1 e 9.2).
Pertanto una volta verificata la rispondenza agli standard merceologici ed ambientali, le
MPS possono essere impiegate in sostituzione delle materie prime vergini,
compatibilmente con le caratteristiche prestazionali, senza alcun ulteriore adempimento
derivante dalle norme sui rifiuti.
Smaltimento
Uno degli ultimi provvedimenti, ritenuto fondamentale per il decollo di un sistema
integrato di gestione dei rifiuti basato su logiche economiche-industriali di tipo
distrettuale, è il D. Lgs. n. 36 del 13 gennaio 2003, di recepimento della Direttiva
1999/31/CE in materia di discariche ed il D.M. 13 marzo 2003 relativo ai criteri di
ammissibilità dei rifiuti in discarica.
Tali provvedimenti inducono nell’ordinamento nazionale la nuova disciplina in materia
di discariche e comporteranno notevoli cambiamenti nel settore, dando un efficace
contributo nell’impostare un sistema di gestione integrata basato anche qui sul
riciclaggio e recupero energetico.
Modalità di gestione
La costruzione di un sistema integrato deve prevedere il passaggio da una struttura
semplice basata sul destinare i rifiuti direttamente in discarica (ciò vuol dire perdere
risorse materiali ed energetiche) alla realizzazione di una struttura flessibile ed
articolata, composta da diverse attività.
Nello schema di Fig. 2 sono elencate le principali attività di gestione dei rifiuti.
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RACCOLTA
Cernita
Raggruppamento rifiuti per il trasporto
Raccolta differenziata
RECUPERO
9 Trasporto per il recupero
9 Trasporto per lo smaltimento
SMALTIMENTO
TRASPORTO
Prelievo
Allegato C del D. Lgs. 22/97
Allegato B del D. Lgs. 22/97
ALTRE ATTIVITA’
ATTIVITA’ DI GESTIONE
9
9
9
9
9
9
9
9
9
Deposito temporaneo
Miscelazione
Bonifica e messa in riserva de siti inquinati
Commercio e intermediazione dei rifiuti
Gestione impianti
Fig. 2 - Attività di Gestione dei Rifiuti
L’adesione da parte di tutte le aziende del distretto industriale al processo descritto
prevede la pianificazione di diverse attività di tipo organizzativo e tecnico e in
particolare c’è bisogno di:
- promuovere sistemi tendenti ad intercettare a monte del conferimento, i materiali
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
77
recuperabili dai rifiuti speciali;
- promuovere sistemi tecnici e produttivi tendenti a ridurre la quantità e la
pericolosità dei rifiuti prodotti;
- sviluppare azioni di recupero-riutilizzo all’interno dei cicli di produzione anche
attraverso incentivi all’innovazione tecnologica;
- sottoscrivere accordi volontari fra industrie e attività economiche presenti nel
distretto industriale, finalizzati a massimizzare le possibilità di recupero reciproco
fra gli scarti prodotti;
- adottare sistemi di gestione ambientale (es. ISO 14000, EMAS);
- integrare per quanto possibile la gestione dei rifiuti speciali con quella dei rifiuti
urbani, in modo da consentire il conseguimento di efficaci e vantaggiose economie
di scala;
- valutare l’efficienza del sistema di gestione dei rifiuti attraverso un bilancio lungo
l’intero ciclo di vita di un prodotto o servizio sia in termini economici che
ambientali (Life Cycle Assessment - LCA).
In Fig. 3 è schematizzata la logica di gestione integrata, applicata all’Area o Distretto
Industriale.
RSU
Prodotti
Consumo
Rifiuti industriali
Materie
prime
Produzione
Recupero e riciclo
Emissioni
Gestione
Rifiuti
Smaltimento
AREA INDUSTRIALE / DISTRETTO INDUSTRIALE
Fig. 3 - Gestione Integrata nell’Area/Distretto Industriale
Tecnologie
Come già detto, le tecniche di trattamento e gestione dei rifiuti devono avere due
obiettivi primari:
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
78
- riduzione della quantità
- riduzione della pericolosità
Entrambi gli obiettivi possono essere raggiunti agendo sui processi industriali, anche
mediante l’adozione delle migliori tecnologie (BAT) nei processi industriali.
I BREFs sui singoli comparti industriali contemplano sempre le corrette modalità di
prevenzione, riduzione e trattamento/smaltimento dei rifiuti concernenti il processo di
produzione esaminato. Di conseguenza le migliori tecniche applicabili andranno
verificate caso per caso.
A livello di Distretto o Area Industriale, sarà invece importante valutare l’esistenza di
centri baricentrici di trattamento/smaltimento ottimizzati per le tipologie di rifiuto da
essa generati.
Le tecnologie impiegate in tali aziende di trattamento/smaltimento potranno essere
valutate utilizzando gli stessi concetti di individuazione delle BAT presentati nel
paragrafo ad esse dedicato.
Facendo un rapido esame dei BREFs emanati si possono fare i seguenti esempi:
- Il BREF sui metalli non ferrosi copre l’intera filiera del recupero dei rifiuti prodotti
alla fine del processo di produzione;
- Il BREF specifico per le industrie di produzione della carta copre parte della filera
del recupero. La selezione e la preparazione del rifiuto-carta non sono esplicitate,
ma sono trattati gli step per la rimozione degli inchiostri;
- I BREFs su acciaio e ferro, sul vetro e sull’incenerimento, non contemplano il
pretrattamento degli scarti ma hanno apposite indicazioni sull’utilizzo dei rifiuti nei
processi;
- I BREFs sulle raffinerie e sui grandi volumi di sostanze chimiche organiche,
menzionano che l’utilizzo di sottoprodotti/residui/rifiuti come alimento nel processo
produttivo attraverso complessi cicli di recupero è divenuta una pretica
standardizzata. Non è molto chiaro se questo possa includere rifiuri generati da altri
processi e non vi è un approfondimento sugli aspetti inerenti l’uso di tali materiali
come materia prime alternativa;
- I BREFs su allevamenti e sottoprodotti animali ha numerosi riferimenti alla gestione
dei rifiuti. Sebbene non sia un BREF dedicato in maniera specifica al trattamento
dei rifiuti, è interessante notare la presenza di indicazioni sull’incenerimento delle
carcasse (l’incenerimento delle carcasse è escluso dalla Direttiva quadro
sull’incenerimento);
- Il BREF sul cemento tratta solo in maniera superficiale gli aspetti relativi ai rifiuti;
- Il BREF sul tessile prende in considerazione l’uso di fibre sintetiche e naturali ma
non le fibre riciclate.
Infine devono essere tenute in considerazione le BAT esistenti specifiche per il
trattamento dei rifiuti che sono state improntate sui seguenti settori:
- impianti di selezione;
- incenerimento;
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Rapporto finale Task 2.1
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- rigenerazione oli usati;
- trattamento meccanico biologico.
Rientrando gli impianti di gestione dei rifiuti nell’allegato 1 della direttiva IPPC,
l’applicazione dalle BAT deve essere considerata una condizione obbligatoria. Per quel
che riguarda le discariche l’autorizzazione all’esercizio ai sensi del D.lgs. 36 del 2003
viene considerata già di per se una garanzia dell’adozione delle migliori tecniche.
3.2
TECNOLOGIE E SISTEMI PER IL CONTENIMENTO DELL’INQUINAMENTO
DI SUOLO E SOTTOSUOLO
3.2.1 Generalità
Con il termine “siti contaminati” ci si riferisce a tutte quelle aree nelle quali, in seguito
ad attività umane svolte o in corso, è stata accertata un'alterazione puntuale delle
caratteristiche naturali del suolo, da parte di un qualsiasi agente inquinante presente in
concentrazioni superiori a determinati limiti tabellari stabiliti per un certo riutilizzo
(limiti stabiliti dal D.M. 471/99 attuativo dell'articolo 17 del D. Lgs. 22/97).
Rientrano in questa definizione di siti le contaminazioni locali del suolo soprattutto in
aree industriali attive o dimesse, nonché in aree interessate da smaltimenti abusivi o non
ambientalmente corretti di rifiuti, mentre ne sono escluse le contaminazioni diffuse
dovute sia ad emissioni in atmosfera che ad utilizzi agricoli;
gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale eseguiti servono a ridurre il danno
ambientale eliminando i pericoli di contaminazione delle altre matrici, permettendo
solamente un recupero parziale della funzionalità del suolo, ad esempio per una
determinata destinazione d’uso, mentre solo in alcuni casi tali operazioni hanno portato
ad un recupero totale della funzionalità stessa.
L’attività di gestione dei siti contaminati deve comunque tener presente che sotto il
nome di sito contaminato sono comprese situazioni estremamente diverse, in quanto
caratterizzate da differenti dimensioni e livelli di visibilità, nonché e soprattutto da un
diverso grado di rischio.
La Comunicazione della CE - COM(2002)179 - afferma che “l’introduzione di
contaminanti nel suolo può danneggiare o distruggere alcune o diverse funzioni del
suolo e provocare una contaminazione indiretta dell’acqua. La presenza di contaminanti
nel suolo oltre certi livelli comporta una serie di conseguenze negative per la catena
alimentare e quindi per la salute umana e per tutti i tipi di ecosistemi e di risorse
naturali. Per valutare l’impatto potenziale dei contaminanti del suolo, è necessario non
solo valutarne la concentrazione, ma anche il relativo comportamento e il meccanismo
di esposizione per la salute umana.”
Questa affermazione ci permette di comprendere bene il significato di “contaminazione
ambientale” nel suo duplice aspetto di contaminazione puntuale, o siti contaminati, e
contaminazione diffusa: si parte dunque da questa prima distinzione per effettuare poi
successive classificazioni.
I siti contaminati possono essere suddivisi in tre principali categorie:
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Rapporto finale Task 2.1
80
-
Siti industriali: aree dove è stata o è aperta una qualsiasi attività industriale o
commerciale;
- Siti rifiuti: aree usate per lo smaltimento di rifiuti;
- Siti militari: aree che sono state o sono usate per qualsiasi scopo militare,
produzione di armi compresa.
Per l’individuazione e la caratterizzazione dei siti sono stati elaborati diversi tipi di
indicatori.
Classificazione dei siti da bonificare:
- Siti inquinati da amianto
- Siti inquinati da TENORM
- Siti minerari dismessi
- Gestione dei sedimenti contaminati
- Brownfields
Siti inquinati da amianto
A oltre dieci anni dalla L.257/92, che stabiliva la “cessazione dell’impiego
dell’amianto”, questo minerale è ancora presente su tutto il territorio nazionale con
conseguente pericolo per la salute delle persone che lavorano o vivono in tali aree.
Il problema della diffusione dell’amianto è una questione di grande rilevanza, perché il
tasso di mortalità collegato alle malattie causate dall’asbesto è in aumento e perciò
diventa sempre più necessario intervenire nei siti contaminati da amianto con attività di
bonifica finalizzate ad evitare esposizioni indebite dei lavoratori o della popolazione
residente.
Nella bonifica di un sito con presenza di amianto intervengono diverse leggi: oltre al già
citato D.M. 6 settembre 1994, si deve far riferimento al D.M. 471/99, decreto che ha
definitivamente regolamentato la bonifica di suolo, sottosuolo e acque sotterranee, e al
D.M. 14 maggio 1996.
Il D.M. 471/99 “stabilisce i criteri, le procedure e le modalità per la messa in sicurezza,
la bonifica e il ripristino ambientale dei siti contaminati”, nonché “i limiti di
accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque
sotterranee”. Il DM 6 settembre 1994 contiene i principi per la valutazione del rischio,
per garantire la sicurezza durante gli interventi di bonifica e i metodi per svolgerli. Il
D.M. 14 maggio 1996 è il disciplinare tecnico che si può direttamente applicare alla
bonifica dei siti contaminati; in particolare riguarda i siti estrattivi, i siti dimessi e le
tubazioni e i serbatoi in amianto-cemento. Questa norma si occupa anche della
contaminazione del terreno da amianto.
Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ha individuato 50 Siti
Contaminati di Interesse Nazionale che devono essere sottoposti a bonifica, in molti dei
quali è presente contaminazione da amianto. In alcuni l’amianto costituisce la fonte
principale di inquinamento, come ad esempio Bagnoli, Balangero, Bari Fibronit, Broni,
Biancavilla, Casale Monferrato, Emarese; in altri l’asbesto è uno dei vari fattori di
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
81
rischio presenti (ad esempio nei siti di Falconara marittima, Gela, Livorno, Napoli
orientale, Piombino, Taranto, Trieste, Venezia), in altri, infine, è solo una componente
limitata (litorale domizio – flegreo, Serravalle Scrivia, litorale vesuviano). Quando si
parla di bonifiche d’amianto, comunque, le problematiche che si riscontrano sono
spesso comuni e riconducibili alle seguenti classi:
- ex insediamenti produttivi;
- insediamenti industriali con presenza di amianto in qualità di manufatti, materie
prime;
- insediamenti con presenza di amianto in depositi rifiuti;
- cave di “pietra verde” dimesse;
- insediamenti realizzati con materiali contenenti amianto;
- centrali termiche, mezzi rotabili, navi.
Per comprendere a fondo quanto sia grave la problematica legata a questo tipo di
inquinamento è bene fare un riassunto delle situazioni rinvenute nei Siti di Interesse
Nazionale per i quali l’amianto rappresenta la prima fonte di contaminazione.
Il sito di Balangero, in Piemonte, appartiene alla categorie delle cave di pietra verde
dimesse. Questa è stata la più grande d’Europa (circa 310 ettari) e l’inquinamento che la
caratterizza è dovuto perciò alla residua presenza di questo minerale, il quale è
localizzato nella zona di estrazione, nello stabilimento e negli impianti per la
lavorazione dell'amianto, nonché nelle due discariche lapidee e nelle vasche di
decantazione fanghi.
Un’altra area interessata da una presenza diffusa di manufatti di amianto, alcuni dei
quali in stato di avanzato degrado e pertanto altamente pericolosi, è Casale Monferrato.
In essa sono presenti la zona industriale ex-Eternit ed il territorio dei Comuni compresi
nella ex-USL 76, dove furono utilizzati polveri di tornitura dei tubi Eternit, sfridi e
scarti di lavorazione in sottotetti, cortili, strade o aree sportive, nonché coperture di
edifici pubblici e privati in eternit.
Anche il sito di Bagnoli, come il precedente, è caratterizzato dalla coesistenza di
contaminazione sia in ex insediamenti produttivi, che nell’abitato civile. In particolare
al suo interno sono stati individuati siti industriali dimessi come l’area ex ILVA ed ex
Eternit (quest’ultimo caratterizzato dalla presenza di asbesto), lo stabilimento di
produzione di fertilizzanti (Federconsorzi), lo stabilimento di produzione del cemento
(Cementir), basi militari e i comuni inclusi nel territorio della conca di Agnano,
comprendente le relative Terme.
Importante è anche il sito di Emarese, in Val D’Aosta, ubicato ad un'altitudine di 1.370
m circa s.l.m e con un'estensione di circa 40.000 mq. L'area presenta cumuli ingenti di
amianto in scaglie, derivanti dalle vecchie attività di cava, con conseguente dispersione
in atmosfera delle fibre libere dai cumuli.
Merita particolare attenzione l’area di Bari Fibronit, ubicata nel centro cittadino, su di
una vasta superficie di 148.000 mq. L’insediamento produttivo è stato adibito, dal 1934
al 1985, alla produzione di manufatti in cemento amianto ed è perciò interessata da un
grave inquinamento dovuto alla pregressa attività lavorativa ed all’incauta gestione dei
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Rapporto finale Task 2.1
82
rifiuti e delle materie prime contenenti amianto.
Un altro caso molto difficile è rappresentato da Biancavilla, in provincia di Catania. Il
sito è costituito da una cava ubicata in località Monte Calvario, in prossimità del centro
abitato di Biancavilla, dalla quale si estraeva del pietrisco lavico contaminato da
materiali fibrosi della famiglia dell'amianto e da molti edifici del centro storico di
Biancavilla, costruiti con malte e intonaci prodotti attraverso la macinazione della roccia
proveniente dalla cava citata. La presenza diffusa dell’amianto in forma disperdibile sia
nel sito di estrazione che nel centro abitato, le preoccupanti evidenze epidemiologiche
di incremento della mortalità per patologie riconducibili all'amianto portano a ritenere la
situazione ad elevato rischio sanitario ed ambientale.
E’ da citare infine il sito di Tito (Potenza). E’ un’area di 51 ettari circa di proprietà della
ex Liquichimica. Si tratta di un complesso industriale dimesso, precedentemente adibito
alla produzione di fertilizzanti, nel quale sono presenti fabbricati e impianti in parte
demoliti o in evidente stato di abbandono. La contaminazione prevalente del sito
consiste nella presenza di capannoni con coperture in eternit e rifiuti contenenti
amianto, abbandonati sul suolo.
Siti inquinati da TENORM (Technologically Enhanced Naturally-Occurring
Radioactive Materials)
Nelle rocce che formano la crosta terrestre sono contenuti diversi radionuclidi di origine
naturale che contribuiscono a produrre il livello di radiazioni detto di background, al
quale tutti gli esseri viventi risultano naturalmente esposti.
Alcune attività umane, estraendo e processando i materiali della crosta terrestre, hanno
prodotto un’alterazione del livello naturale di radiazioni, attraverso l’incremento della
probabilità di esposizione per l’uomo a tali materiali, conseguente alla rimozione di essi
dalla loro originaria e inaccessibile collocazione, e/o l’incremento della concentrazione
di radionuclidi in essi contenuti.
In questo modo si sono prodotti i cosiddetti TENORMs - Technologically Enhanced
Naturally-Occurring Radioactive Materials.
I principali radionuclidi presenti nei TENORM sono gli isotopi naturali a lunga vita del
Radio, Torio e Uranio e i loro prodotti di decadimento radioattivo (come il Radon e il
Potassio 40).
I TENORM sono caratterizzati da concentrazioni di radionuclidi ampiamente variabili
in funzione della diversità dei materiali e/o dei processi cui sono stati sottoposti, e
l’entità del rischio da essi prodotto è dovuta, oltre che al loro livello di radioattività
(nella maggior parte dei casi basso) e ai loro volumi, alle specifiche caratteristiche
fisico-chimiche.
Per la loro derivazione naturale e a causa degli enormi volumi in gioco, ai TENORM
non vengono applicate le medesime regolamentazioni stabilite per i residui
dell’industria nucleare.
Attualmente non si ha a disposizione una chiara regolamentazione normativa che orienti
la gestione di tali materiali, resa ulteriormente difficoltosa dal fatto che nelle aree
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
83
oggetto di contaminazione da TENORM, risulta spesso presente anche una
contaminazione di tipo convenzionale, per lo più chimico.
Sorgenti di TENORM:
- industria che utilizza minerali fosfatici per la produzione di acido fosforico e di
fertilizzanti;
- lavorazione di minerali nella estrazione di stagno, ferro-niobio da pirocloro e
alluminio da bauxite;
- lavorazione di sabbie zirconifere e produzione di materiali refrattari;
- lavorazione di terre rare;
- lavorazione ed impiego di composti del torio, per quanto concerne elettrodi per
saldatura con torio, produzione di lenti o vetri ottici e reticelle per lampade a gas;
- produzione di pigmento al biossido di titanio;
- estrazione e raffinazione di petrolio ed estrazione di gas.
Attualmente in Italia è stata rinvenuta una contaminazione da TENORMs all’interno
della perimetrazione di due Siti Contaminati di Interesse Nazionale, quello di Porto
Marghera (Venezia) e quello di Gela (Caltanisetta).
In entrambi i casi sopra citati i TENORMs sono costituiti da fosfogessi, prodotti di
scarto derivanti nel caso di Porto Marghera da un’attività industriale dismessa di
produzione di fertilizzanti e nel caso di Gela da passati processi industriali di
produzione di acido fosforico.
Siti minerari dismessi
L’articolo 22 della legge 179/02 (“Disposizioni in materia ambientale”) fa riferimento al
censimento di tutti i siti minerari abbandonati, senza meglio specificarli.
Il RD 1443/27 all’art.2 definisce come miniere i siti destinati alla “ricerca e
coltivazione" delle seguenti sostanze ed energie:
- minerali utilizzabili per l'estrazione di metalli, metalloidi e loro composti, anche se
detti minerali siano impiegati direttamente;
- grafite, combustibili solidi, liquidi e gassosi, rocce asfaltiche e bituminose;
- fosfati, sali alcalini e magnesiaci, allumite, miche, feldspati, caolino e bentonite,
terre da sbianca, argille per porcellana e terraglia forte, terre con grado di
refrattarietà superiore a 1630 gradi centigradi;
- pietre preziose, granati, corindone, bauxite, leucite, magnesite, fluorina, minerali di
bario e di stronzio, talco, asbesto, marna da cemento, pietre litografiche;
- sostanze radioattive, acque minerali e termali, vapori e gas.”
Dall’elenco sopra riportato appare chiaro come nella definizione di siti minerari vanno
comprese non solo le miniere propriamente dette, ma anche i giacimenti di idrocarburi e
geotermici, nonché le sorgenti di acque minerali e termali e alcuni siti con coltivazione
a cielo aperto.
D’altra parte il DPR del 9/4/1959 n.159 (“Norme di polizia delle miniere e delle cave”)
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Rapporto finale Task 2.1
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fa riferimento a siti abbandonati solo per quanto riguarda la cessazione “dell’esercizio di
una miniera o cava sotterranea” (art. 39), concentrando l’attenzione sul concetto di
“sotterraneo” (“A cura dell’imprenditore il sotterraneo deve essere tenuto in normale
manutenzione e accessibile …” ).
Infine, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi e dei campi geotermici è a sua volta
regolata dalla L. 6/57, che istituisce, tra le altre cose, il “Comitato tecnico per gli
idrocarburi e la geotermia”, separando di fatto l’ambito delle coltivazioni mediante
pozzi di perforazione da quello delle coltivazioni in sotterraneo.
Di conseguenza, tenendo anche in conto che la cessazione della coltivazione mediante
pozzi è subordinata al ripristino delle condizioni di partenza attraverso la chiusura
cementata dei pozzi stessi, l’ambito del censimento dei siti minerari abbandonati è stato
circoscritto a:
- Miniere con coltivazione in sotterraneo;
- Miniere a cielo aperto che comportano attività di sbancamento (miniere di carbone,
di marna per cemento, ecc.);
- Cave coltivate in sotterraneo.
Gestione dei sedimenti contaminati
I sedimenti rappresentano un comparto ambientale estremamente complesso, con
modalità di formazione, caratteristiche chimico-fisiche, organismi viventi e tipi di
contaminazione estremamente variabili.
I materiali prodotti dalla degradazione meteorica (sia fisica che chimica), dall’erosione
o formatisi direttamente per precipitazione chimica o per fissazione biogena, vengono
trasportati dalla forza di gravità, dalle acque, dal vento o dai ghiacci in zone dove
avviene la sedimentazione e l’accumulo. Lungo il tragitto tra luogo di provenienza e di
deposizione finale si attuano normalmente vari processi, quali variazioni delle modalità
di trasporto, della composizione e della tessitura del materiale.
Quella dei sedimenti contaminati è una problematica piuttosto recente e, soprattutto nel
nostro Paese, ricerche e risorse investite in tale settore risultano molto limitate. La
scarsa attenzione a tale problematica è dovuta in gran parte all’assenza di una
Normativa ad hoc in materia. Infatti, contrariamente a quanto si è verificato in altri
Paesi (quali Stati Uniti, Olanda e Germania), in Italia non è stata ancora emanata una
legge che regolamenti organicamente il problema dei sedimenti; a tutt’oggi confrontarsi
con il problema sedimenti si riduce al dragaggio ed al conferimento in discarica
controllata del materiale proveniente da aree portuali.
Il primo passo nella gestione dei sedimenti contaminati è normalmente il dragaggio, che
deve essere realizzato avendo cura di minimizzare la perdita di sedimenti e/o il rilascio
di contaminanti nell’ambiente acquatico. Dato che la maggior parte dei contaminanti è
legata alle particelle fini, che sono quelle più facilmente possono passare nuovamente in
sospensione, si cerca di minimizzare tale fenomeno attraverso attrezzature innovative e
controlli mirati, oltre che con speciali barriere (cortine, schermi limosi, galleggianti,
ecc.).
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
85
Il materiale dragato viene di norma stoccato in maniera permanente o provvisoria in
apposite aree opportunamente predisposte; lo stoccaggio può riguardare sia i sedimenti
dragati che i residui da trattamenti preliminari e/o trattamenti dei sedimenti stessi. Una
diffusa forma di stoccaggio è il camping: il materiale contaminato (contaminazione
moderata) viene disposto sul fondo, su una superficie piana a formare un cumulo, quindi
si procede al ricoprimento con un “tappo” di materiale non contaminato al fine di isolare
fisicamente e chimicamente la contaminazione. Il confinamento è un tipo di stoccaggio
molto diffuso, consiste nel collocare il materiale in siti o strutture progettati per
contenere e controllare i sedimenti contaminati. Spesso si tratta di discariche controllate,
in cui i sedimenti possono essere impiegati per il ricoprimento giornaliero o per la
costruzione di setti e coperture. Un’alternativa alla discarica commerciale è
rappresentata dai CDF (Confined Disposal Facility), o vasche di colmata: si tratta di una
struttura ad elevato grado di contenimento che consente lo stoccaggio, per un tempo
indefinito, dei sedimenti maggiormente contaminati ed il successivo monitoraggio della
fuoriuscita dei contaminanti. Una vasca di colmata deve anche provvedere
all’essiccamento dei sedimenti per avere una maggiore compattazione e massimizzare lo
spazio.
Brownfields
Sono definibili come “brownfields” quei siti che hanno ospitato in passato insediamenti
produttivi attualmente dismessi o sotto-utilizzati e per i quali il recupero è ostacolato da
una situazione, reale o potenziale, di inquinamento.
Si tratta di siti che, sebbene degradati e con conseguente impatto sulle matrici
ambientali e sugli insediamenti circostanti, sono in genere già dotati di tutte le opere di
urbanizzazione (luce, acqua, gas, rete fognaria ecc.) e ubicati in prossimità di linee e
raccordi di trasporto.
Si possono distinguere tre principali categorie di brownfields, che richiedono differenti
approcci e strategie di recupero:
- siti interni a centri abitati che ospitavano insediamenti manifatturieri caratteristici
del XIX secolo, o attrezzature a servizio di ferrovie e porti, successivamente
dimessi, o trasferiti in aree più periferiche, a seguito dei processi di sviluppo
economico e di crescita della città;
- grandi zone industriali, spesso costiere, che hanno visto lo sviluppo ed il successivo
declino di settori produttivi quali l’industria chimica, le acciaierie, l’attività
estrattiva, l’industria meccanica. Questi siti possono essere di notevoli dimensioni.
In tal caso sono definiti megasiti, e possono determinare impatti ambientali e socioeconomici su scala regionale. Necessitano, di conseguenza, di estesi lavori di
decontaminazione e ripristino, con considerevoli costi che, il più delle volte,
rendono indispensabile l’intervento pubblico. La loro bonifica e riqualificazione
richiedono l’adozione di soluzioni tecniche avanzate ed, in particolare, di un
approccio integrato all’intero sito, al fine di definire priorità e obiettivi di bonifica
secondo un bilancio di costi ambientali e benefici socio-economici;
- siti extraurbani, un tempo connessi con attività primarie quali l’agricoltura,le attività
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Rapporto finale Task 2.1
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forestali o con l’industria mineraria.
I siti possono trovarsi in via di dismissione, dismessi di recente oppure dismessi da
molti anni.
Nei primi due casi si può verificare che la presenza attiva della proprietà favorisca il
rapido recupero e la trasformazione del sito, specie se è di piccole o medie dimensioni.
Nel terzo caso, i siti si configurano come veri e propri “vuoti” urbani, ormai isolati dal
contesto circostante e possono quindi richiedere, per la loro rivitalizzazione, progetti di
recupero partecipati, tesi a ricostruire il loro rapporto con la città.
Attualmente in Italia manca un censimento dei siti brownfields, tranne che per la
Provincia di Milano dove ne sono stati stimati per circa 1260 ettari. Le Regioni con il
maggior numero di brownfields sono comunque quelle del nord, in particolare la
Lombardia, il Piemonte e il Veneto in cui, nei decenni passati, si è avuto il più intenso
sviluppo industriale. Il centro-sud si caratterizza per la presenza di poche ma estese zone
industriali, testimoni di uno sviluppo concentrato in un limitato numero di aree.
Considerando i dati disponibili relativi a 50 siti contaminati “di interesse nazionale”
risulta che il 72% sono siti industriali. Si tratta di insediamenti prevalentemente
localizzati in ambiti urbani o sub-urbani e, nel 44% dei casi, costieri. Oltre la metà
supera i 100 ettari; tra i maggiori ci sono Taranto, Brindisi e Venezia Porto Marghera.
Alcune aree sono definibili come “multisiti” in quanto contengono più di un sito (es.
Sassuolo-Scandiano, con 19 siti). Nel 42% dei casi si tratta di aree industriali
“eterogenee”, comprendenti cioè diverse industrie, mentre nel 28% di aree “omogenee”
ossia con una sola industria. Nel 30% dei casi si tratta di siti con presenza di discariche.
Tra i principali settori industriali a cui collegare lo sviluppo dei siti emergono il settore
chimico, quello petrolchimico, siderurgico e metalmeccanico. I siti attualmente in
produzione risultano il 61%, ma in quasi la metà degli insediamenti sono presenti
stabilimenti dismessi o in via di dismissione.
A titolo di esempio, tra le più importanti esperienze di recupero sul territorio nazionale
si possono citare: a Sesto S. Giovanni, il recupero delle aree delle ex grandi fabbriche
Breda, Marelli, Falk (reindustrializzazione e insediamenti terziari); a Venezia, Porto
Marghera (riconversione delle aree per nuovi insediamenti industriali, logistici e
terziari); a Genova, l’area di Campi (circa 22 ettari occupati da uno stabilimento
siderurgico trasformati in un nuovo polo produttivo diversificato, con circa 100 aziende
e 1800 addetti); a Napoli, l’area ex siderurgica di Bagnoli (realizzazione di un
insediamento integrato con attrezzature per il turismo e il tempo libero, attività
produttive ad alto contenuto tecnologico, interventi di edilizia residenziale).
3.2.2 La normativa nazionale
Decreto Legislativo 5 febbraio 1997 n° 22
Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi
e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (pubblicato in G.U. 15
febbraio 1997, n.38, S.O.)
Legge 9 dicembre 1998, n° 426
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Nuovi interventi in campo ambientale (pubblicata in G.U. 14 dicembre 1998, n.
291)
Decreto Ministeriale 25 ottobre 1999, n° 471
Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la
bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'articolo 17 del
D.Lgs. 5 febbraio 1997, n.22, e successive modificazioni e integrazioni
(pubblicato in G.U. 15 dicembre 1999, n.293, S.O.)
È il regolamento tecnico di attuazione dell'art.17 del D.Lgs 22/97, entrato in
vigore il 16/12/99.
Fissa criteri e procedure amministrative da seguire nella bonifica dei siti
contaminati;
Definisce i "valori limite di concentrazione per il suolo/sottosuolo e per le acque"
superati i quali il sito in oggetto dovrà essere considerato inquinato.(All. 1). Nel
caso del suolo, i limiti sono fissati in funzione della destinazione d'uso (rispetto
alla pregressa normativa regionale toscana, il DM non stabilisce limiti per i suoli
agricoli):
- verde pubblico e privato - residenziale
- siti ad uso commerciale - industriale
Il decreto:
- Individua le procedure per il prelievo e l'analisi dei campioni (All. 2);
- Fissa i criteri per la redazione del progetto di bonifica (All. 4);
- Fissa i criteri per gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, bonifica e
ripristino ambientale, per le misure di sicurezza e messa in sicurezza
permanente (All. 3).
Legge 23 dicembre 2000, n° 388
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2001, pubblicata in G.U. 29 dicembre 2000, n.302, S.O.)
Legge 23 marzo 2001, n° 93
Disposizioni in campo ambientale (pubblicata in G.U. 4 aprile 2001, n.79)
D. M. Ambiente 18 settembre 2001, n. 468
Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati
3.3 TECNOLOGIE E SISTEMI CHE OPERANO
CONTORNO INFRASTRUTTURALI
SULLE
CONDIZIONI AL
3.3.1 Piano della mobilità per le merci e per il personale
Il mobility manager
La figura professionale del Mobility Manager è stata introdotta dal Decreto Ministeriale
Ronchi del 27 Marzo 1998, secondo cui aziende ed Enti pubblici con più di 300
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Rapporto finale Task 2.1
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dipendenti per unità locale, ed imprese con complessivamente oltre 800 dipendenti,
devono individuare un responsabile della mobilità del personale.
Nell'ambito del Decreto si delineano due figure professionali:
- il Mobility Manager di azienda
- il Mobility Manager di area.
Il Mobility Manager di azienda ha l'incarico di ottimizzare gli spostamenti sistematici
dei dipendenti, con l'obiettivo di ridurre l'uso dell'auto privata adottando “il piano degli
spostamenti casa-lavoro (PSCL)”, teso a favorire soluzioni di trasporto alternativo a
ridotto impatto ambientale, quali car pooling, car sharing, trasporto pubblico a chiamata,
navette, ecc.
Gli obiettivi da perseguire riguardano pertanto, la generale riduzione del traffico
veicolare privato e delle sue nocive conseguenze quali, consumo energetico,
inquinamento atmosferico ed acustico, riduzione di emissioni di gas serra e di incidenti
stradali, dando la priorità a strategie volte ad assicurare la mobilità delle persone e il
trasporto delle merci in modo efficiente.
Dal 2000 il Mobility Manager aziendale si confronta con il Mobility Manager di area.
Il Mobility Manager di area è una figura di supporto e coordinamento dei responsabili
della mobilità aziendale, istituita presso l'Ufficio Tecnico del Traffico, ed adibita a
mantenere i collegamenti con le strutture comunali e le aziende di trasporto locale, a
promuovere le iniziative di mobilità di area, a monitorare gli effetti delle misure adottate
e coordinare i PSCL delle aziende.
L'azienda deve comunicare la nomina del Mobility Manager aziendale al Mobility
Manager di area del Comune.
Attraverso le loro aziende, e quindi, attraverso la figura del Mobility Manager, i fruitori
passivi del trasporto possono divenire protagonisti attivi , e in qualche modo orientare le
scelte di mobilità decise dall'amministrazione comunale, nel pieno interesse della
collettività.
La normativa nazionale
Il Decreto Interministeriale ''Mobilità Sostenibile nelle Aree Urbane'' del 27/03/1998, ha
stabilito una strategia di azione finalizzata a perseguire gli impegni assunti dall'Italia
nella conferenza di Kyoto, ed ha promosso linee di intervento per ridurre l'inquinamento
e la congestione da traffico, nelle aree urbane.
Il decreto istituisce la figura professionale del Mobility Manager, definendo le “strutture
di supporto alle reti cittadine dei responsabili della mobilità aziendale”.
Nello specifico:
- Istituzione, presso le imprese e gli enti pubblici con unità locali con più di 300
dipendenti e presso imprese con complessivamente più di 800 addetti in più sedi, di
un responsabile della mobilità aziendale (Mobility Manager d'azienda) e l'adozione
del piano degli spostamenti casa-lavoro del personale dipendente.
- Istituzione, da parte dei comuni, di una struttura di supporto e di coordinamento tra i
responsabili della mobilità aziendale, che mantiene i collegamenti con le
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
89
amministrazioni comunali e le aziende di trasporto (Mobility Manager d'area).
Al fine di ottimizzare la mobilità collettiva come alternativa necessaria alla mobilità
privata, nel suddetto decreto, e nei successivi, sono previste ulteriori iniziative, quali
l'incentivazione di uso collettivo ottimale delle autovetture e di forme di multiproprietà
(Car sharing), veicoli elettrici, GPL, metano o carburanti alternativi, veicoli elettrici su
due ruote e taxi collettivo.
DM Ambiente 27 Marzo 1998 “Mobilità sostenibile nelle aree urbane” (G.U. n.179
del 3 agosto 1998)
Obiettivo:
Il risanamento e la tutela della qualità dell'aria.
Politiche:
La riduzione dei gas serra e l'attuazione delle linee di intervento stabilite a Kyoto nel
Dicembre 1998.
Azioni:
- Le Regioni devono adottare entro il 30/6/1999 il piano regionale per il risanamento
e la tutela della qualità dell'aria (DM 20/5/1991);
- I Sindaci dei comuni di cui all. III DM 25/11/1994 e quelli indicati dalle regioni,
adottano misure di prevenzione e riduzione di emissioni inquinanti in caso di
superamento dei limiti previsti dal DM 25/11/1994 e 16/5/1996;
- Istituzione del Mobility Manager di azienda;
- I Comuni di cui sopra, incentivano forme di carpooling e carsharing, l'uso collettivo
e la multiproprietà con mezzi ''ecologici'' (elettrici, ibridi, gas naturale, GPL);
- Il rinnovo del parco autoveicolare pubblico in quota parte dal 5% nel 1998 al 50%
nel 2003, con mezzi ecologici.
DM Ambiente 20 Dicembre 2000 “Incentivazione dei programmi proposti dai MM
aziendali” (G.U. n.80 del 5 aprile 2001)
Obiettivo:
La riduzione strutturale e permanente dell'impatto ambientale derivante dal traffico.
Politiche:
Interventi di organizzazione e gestione della domanda di mobilità e attuazione di
politiche radicali di mobilità sostenibile.
Azioni:
- Introduzione della figura del MM di area;
- Inserimento di PSCL facoltativi per aree industriali, artigianali, commerciali, di
servizi, poli scolastici e sanitari o aree che ospitano manifestazioni anche
temporanee con specifici MM d'area e aziendali;
- Cofinanziamento per tutti i comuni.
DM Ambiente 20 Dicembre 2000 “Promozione del car sharing” (G.U. n.80 del 5
aprile 2001)
Obiettivo:
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Rapporto finale Task 2.1
90
La riduzione strutturale e permanente dell'impatto ambientale derivante dal traffico.
Politiche:
L'attivazione di politiche di mobilità sostenibile.
Azioni:
- Integrazione e completamento del progetto di realizzazione del sistema coordinato
ed integrato di servizi locali di car sharing.
DM Ambiente 21 Dicembre 2000 “Programmi radicali per la mobilità sostenibile”
(G.U. n.80 del 5 aprile 2001)
Obiettivo:
La riduzione strutturale e permanente dell'impatto ambientale derivante dal traffico.
Politiche:
Un cofinanziamento di progetti per “aree di intervento”.
Azioni:
- Trasporto collettivo innovativo;
- Road e area pricing;
- Trasporto pubblico elettrico;
- Mezzi ecologici;
- Monitoraggio dell'inquinamento atmosferico;
- Progetti dimostrativi di carburanti alternativi.
Il trasporto intermodale delle merci
Il Trasporto intermodale è una tipologia particolare di trasporto, effettuato, come dice il
nome, con l'ausilio di una combinazione di mezzi diversi come camion e treno o camion
e nave.
Caratteristica di questo tipo di trasporto è che la merce viene sistemata presso la
fabbrica o presso il magazzino di uno spedizioniere in uno specifico contenitore, da
dove non viene mossa fino al raggiungimento della destinazione finale. Questa
mancanza di manipolazioni intermedie garantisce evidentemente un minor rischio di
danneggiamento del contenuto, un minor costo di trasbordo tra mezzi di tipo diverso e
garantisce spesso anche una maggiore velocità nell'effettuazione del trasporto.
Dopo che l'aumento del traffico internazionale di merci aveva creato la necessità di una
soluzione di questo tipo, si è cercato di trovare un modo per standardizzare il più
possibile questo tipo di trasporto, arrivando a dei primi accordi internazionali negli anni
'50.
L'ottimizzazione del trasporto è partita dalla base e si può far risalire, come primo
passo, all'inizio dell'uso abituale del pallet, per proseguire poi con l'invenzione del
container che ha rivoluzionato le tecniche di trasporto sulle lunghissime distanze,
specialmente di quelle che prevedevano, oltre ad una parte di trasporto terrestre una
parte di trasporto via nave.
Oggi il trasporto intermodale (detto anche combinato) si svolge principalmente in 2
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Rapporto finale Task 2.1
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modi, in un primo caso con l'ausilio del container che viene agganciato di volta in volta,
secondo la necessità, su un autocarro speciale, su un vagone ferroviario o sul ponte di
una nave. Il secondo caso, utilizzato perlopiù sulle medie distanze, prevede il carico
della merce su un semirimorchio stradale, il trasferimento dello stesso ad una vicina
stazione ferroviaria, il successivo trasferimento a mezzo treno sino ad una stazione
prossima alla località di destinazione ed infine l'ultimo tratto, per effettuare la consegna
delle merci, nuovamente effettuato su strada.
La normativa nazionale
Schema di decreto ministeriale sul trasporto intermodale (Previsto dalla legge 311/2004
- "Finanziaria 2005") (in progress)
DPR 22 dicembre 2004, n. 340 (Legge 166/2002 - Disciplina delle agevolazioni
tariffarie, in materia di servizio di trasporto ferroviario di passeggeri e
dell'incentivazione del trasporto ferroviario combinato, accompagnato e di merci
pericolose - Stralcio)
Legge 1° marzo 2005, n. 32 (Delega al Governo per il riassetto normativo del settore
dell'autotrasporto di persone e cose)
Dlgs 30 settembre 2004, n. 268 (Attuazione della direttiva 2001/16/Ce in materia di
interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale)
Legge 1 agosto 2002, n. 166, “Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti”, con
particolare riferimento a:
- Art. 37. (Disposizioni sugli interporti)
- Art. 38. (Disposizioni in materia di trasporto ferroviario e interventi per lo sviluppo
del trasporto ferroviario di merci)
3.4
STRUMENTI VOLONTARI
3.4.1 Il regolamento EMAS: origine ed evoluzione
Il regolamento EMAS nella sua prima versione approvata il 29 giugno 1993 era basato
su tre elementi peculiari:
- La condizione del rispetto della normativa in campo ambientale da parte
dell’azienda che intende aderire ad EMAS;
- la previsione di un nuovo strumento di comunicazione, denominato Dichiarazione
Ambientale;
- La fase di verifica EMAS
- La procedura di certificazione, prevista dal regolamento, si concludeva con
l’iscrizione del sito industriale nel registro dei siti certificati EMAS ad opera
dell’organismo competente a livello nazionale.
L’impresa registrata aveva come risultato finale la possibilità di rendere noto ai propri
interlocutori il riconoscimento del Sistema di Gestione Ambientale, attraverso due
strumenti pubblicitari (la dichiarazione di partecipazione al sistema ed il logo EMAS)
previsti dal regolamento.
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Rapporto finale Task 2.1
92
La commissione ha iniziato a lavorare sulla revisione del regolamento sin dal 1997.
Dopo un lungo e dettagliato processo di revisione e rielaborazione, il nuovo
regolamento comunitario (2001/761/CE) è stato approvato il 14 febbraio 2001, entrando
in vigore il 27 aprile 2001.
Per quanto riguarda gli elementi di novità contenuti nel regolamento EMAS II, il
principale riguarda l’estensione della possibilità di registrazione e certificazione a tutti i
settori di attività con impatto ambientale.
In particolare, le novità introdotte nel regolamento EMAS II, possono essere descritte in
sintesi nei seguenti punti:
- Ampliamento della possibilità di adesione a EMAS a ogni società, azienda, autorità
o istituzione di natura pubblica o privata
- Riconoscimento della riproduzione dei Sistemi di gestione ambientale certificati
ISO 14001 nei successivi percorsi di ecogestione per la registrazione EMAS.
- Istituzione di riunioni periodiche del Organismi competenti e di accreditamento
- Disciplina per l’utilizzo del logo EMAS
- Inclusione della autorità ambientali nella procedura di registrazione dei siti
- Rinnovato invito a stimolare la partecipazione al sistema dei lavoratori e delle
piccole e medie imprese.
Nel percorso di eco-gestione, un’organizzazione deve analizzare e valutare, oltre che gli
aspetti ambientali diretti (emissioni atmosferiche, scarichi idrici, rifiuti, rumore, ecc.)
anche quelli indiretti. Tali aspetti riconducibili a quelli diretti, ma per essi
l’organizzazione in esame ha un controllo gestionale condiviso con almeno un soggetto
esterno.
Per quanto riguarda l’elemento innovativo introdotto, relativo al formale
riconoscimento della validità dei contenuti della norma ISO 14001 come riferimento per
l’attuazione di un Sistema di Gestione Ambientale, si ritiene importante sottolineare le
principali differenze tra i due schemi ISO ed EMAS, che tuttavia, permangono.
3.4.2 La norma ISO 14001
La norma 14001
fa parte degli standard internazionali ISO 14000, adottati
dall’International Organization for Standardization (ISO), e avente per oggetto i Sistemi
di Gestione Ambientale. Lo standard ISO 14000 è nato come risposta ad esigenze
diverse, quali i rapporti commerciali ed i rapporti tra imprese. Lo standard UNI EN ISO
14001, nato nel 1996 e recentemente aggiornato (2004), si caratterizza per essere una
norma riconosciuta a livello internazionale, pur essendo regolata a livello privatistico, e
per la partecipazione aperta a tutti i settori.
3.4.3 Differenze ed integrazioni tra Emas e ISO 14001
Le differenze tra la norma e tra il regolamento EMAS possono essere riassunte in
sintesi, come di seguito:
- Le norme ISO hanno fonte giuridica privata, derivante da un mutuo riconoscimento
di Organismi di normazione nazionali, mentre EMAS ha natura giuridica pubblica
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
93
ed è pertanto regolamentato da Organismi pubblici.
- Nella gestione del Programma Ambientale EMAS chiede, oltre al consolidamento
del proprio Sistema di Gestione Ambientale, di garantire una gestione indirizzata
verso un ciclo di miglioramento delle prestazioni ambientali continuo nel tempo.
- Il regolamento EMAS pone maggiore attenzione sugli aspetti ambientali indiretti.
- Il regolamento EMAS è riconosciuto a livello europeo, mentre la norma ISO 14001
a livello internazionale.
- Solo EMAS chiede e predispone una Dichiarazione Ambientale.
Il regolamento EMAS riveste, pertanto, un ruolo di eccellenza nella gestione
dell’ambiente, sia per i contenuti specifici, sia per l’aspetto della comunicazione; questa
prevede l’elaborazione e pubblicazione di una Dichiarazione Ambientale convalidata da
un verificatore accreditato, come strumento per fornire al pubblico e ad altri soggetti
interessati informazioni sull’impatto e sulle prestazioni ambientali dell’organizzazione,
nonché sul continuo miglioramento delle prestazioni ambientali.
La connessione tra ISO 14000 ed EMAS avviene nell’ambito del Sistema di Gestione
ambientale, il quale secondo quanto indicato dalla sezione A del Regolamento EMAS
prevede che debba essere attuato in conformità dei requisiti previsti dallo standard EN
ISO 14001:1996 (2004).
Il SGA deve essere progettato prendendo in considerazione i macro-aspetti di figura 1.1.
Attuazione e
funzionamento
Controlli e
azioni correttive
MIGLIORAMENTO CONTINUO
Pianificazione
Riesame della direzione
Figura 1.1
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
94
Il SGA è definito come quella “parte del sistema complessivo di gestione comprendente
la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le
procedure, i processi e le risorse per sviluppare, mettere in atto, realizzare, riesaminare e
mantenere la politica ambientale”.
Attraverso, quindi, un SGA conforme al Reg. EMAS/ISO 14001 l’azienda realizza un
processo circolare volto al miglioramento continuo delle proprie prestazioni ambientali
attraverso:
- pianificazione delle attività,
- realizzazione delle attività pianificate,
- verifica delle modalità di esecuzione delle attività e valutazione sull’apporto di
azioni correttive,
- analisi delle prestazioni ambientali raggiunte con lo svolgimento delle attività
pianificate e definizione, attraverso la nuova pianificazione, di nuove azioni volte al
miglioramento continuo.
Requisiti
Contenuti
POLITICA AMBIENTALE
Definizione
Pianificazione
Aspetti ambientali
Prescrizioni legali e altre
Obiettivi e traguardi
Programma/i di gestione ambientale
Attuazione e
funzionamento
Struttura e responsabilità
Formazione, sensibilizzazione e competenze
Comunicazione
Documentazione del Sistema di Gestione Ambientale
Controllo della documentazione
Controllo Operativo
Preparazione alle emergenze e risposta
Controlli e azioni
correttive
Sorveglianza e misurazioni
Non-conformità, azioni correttive e preventive
Registrazioni
Audit del Sistema di gestione Ambientale
Riesame della direzione
Revisione
3.4.4 La nuova norma 14001:2004
La norma, pubblicata per la prima volta nel 1996, è stata di recente revisionata e, dal 15
novembre 2004, è in vigore la nuova edizione. E' previsto un periodo di transizione, per
coloro che sono in possesso della certificazione, per adeguarsi alla edizione 2004 della
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Rapporto finale Task 2.1
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norma.
Le differenze sostanziali tra la norma pubblicata nel 1996 ed il suo aggiornamento del
2004, possono essere riassunte in sintesi come di seguito:
UNI EN ISO 14001-1996
UNI EN ISO 14001-2004
4.1 Requisiti generali
4.1 Requisiti generali
• Miglioramento continuo del SGA
• Definire il campo di applicazione del SGA
4.3.1 Aspetti ambientali
4.3.1 Aspetti ambientali
• Considerare gli sviluppi nuovi o pianificati di attività,
prodotti e servizi
4.3.2 Prescrizioni legali e altre
4.3.2 Prescrizioni legali e altre prescrizioni
• Determinare come le prescrizioni si applicano ai
propri aspetti ambientali
• Tenerle in considerazione nello stabilire e attuare il
SGA
4.3.3 Obiettivi e traguardi
4.3.3 Obiettivi, traguardi e programmi
4.3.4 Programmi di Gestione Ambientale
4.4.1 Struttura e responsabilità
4.4.2
Formazione,
competenze
4.4.1 Risorse, ruoli, responsabilità e autorità
sensibilizzazione
e 4.4.2 Competenza, formazione e consapevolezza
• Estendere al personale che opera per conto
dell'organizzazione
• (Conservare le registrazioni)
4.4.4 Documentazione del SGA
4.4.4 Documentazione
Puntualizzare che comprende:
• Politica, obiettivi e traguardi ambientali
• Descrizione del campo di applicazione del SGA
• Descrizione dei principali elementi del SGA e delle
loro interrelazioni e riferimenti a documenti correlati
• Documenti e registrazioni richiesti dalla norma
•
Quelli ritenuti necessari per un'efficace
pianificazione, attuazione e controllo dei processi
relativi agli aspetti
ambientali significativi
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Rapporto finale Task 2.1
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UNI EN ISO 14001-1996
UNI EN ISO 14001-2004
4.4.5 Controllo della documentazione
4.4.5 Controllo dei documenti
• (Approvare i documenti prima dell'emissione)
• Identificare e gestire in forma controllata i documenti
di origine esterna ritenuti necessari per pianificare,
attuare e controllare.
4.4.7 Preparazione alle emergenze e risposta
4.4.7 Preparazione e risposta alle emergenze
• Rispondere alle emergenze reali
-
4.5.2 Valutazione del rispetto delle prescrizioni
•
Conservare le registrazioni delle valutazioni
periodiche di conformità alle prescrizioni legali o
sottoscritte.
4.5.3 Non-conformità e azioni correttive e
azioni preventive
4.5.2 Non-conformità e azioni correttive e
preventive
Puntualizzare che comprende:
• Identificazione e correzione delle non conformità e
azioni per mitigare gli impatti ambientali
• Esame delle non conformità, determinazione delle
cause e azioni per evitare il ripetersi
• Valutare se necessarie azioni per prevenire le non
conformità
• (Registrare i risultati delle azioni correttive e
preventive)
• Riesaminare l'efficacia delle azioni correttive e
preventive
4.5.3 Registrazioni
4.5.4 Controllo delle registrazioni
4.5.4 Audit del sistema di gestione ambientale
4.5.5 Audit interno
Specificare:
• Responsabilità e requisiti per pianificare, condurre e
registrare gli audit
•
Criteri, campo di applicazione,
metodologia degli audit
frequenza
e
La selezione degli auditor e la conduzione degli audit
deve assicurare obiettività e imparzialità
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Rapporto finale Task 2.1
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UNI EN ISO 14001-1996
UNI EN ISO 14001-2004
4.6 Riesame della direzione
4.6 Riesame della direzione
Gli elementi in ingresso devono comprendere:
• I risultati degli audit interni e delle valutazioni sul
rispetto delle prescrizioni legali e sottoscritte
• Le comunicazioni provenienti dalle parti interessate,
compresi i reclami
• Le prestazioni ambientali dell'organizzazione
• Il grado di raggiungimento degli obiettivi e traguardi
• Lo stato delle azioni correttive e preventive
• Lo stato di avanzamento delle azioni previste dai
precedenti riesami della direzione
• I cambiamenti di situazioni circostanti, compresi
quelli alle prescrizioni legali e sottoscritte
• Le raccomandazioni per il miglioramento
Gli elementi in uscita devono comprendere,
coerentemente con l'impegno al miglioramento
continuo, tutte le decisioni e azioni relative a possibili
modifiche di:
• Politica, obiettivi e traguardi ambientali
• Altri elementi del SGA
3.4.5 Campi di Applicazione del Regolamento EMAS
La linea guida recepita nell’ambito della decisione della Commissione del 7 settembre
2001 (2001/681/CE), ha preso in esame differenti casi, prevedendo, per ciascuno di
questi, una specifica descrizione del tipo di organizzazione identificabile:
- Organizzazioni che operano in un unico sito
- Organizzazioni più piccole che operano all’interno di un sito più grande
- Organizzazioni che operano in più siti con prodotti e servizi identici o simili, con
prodotti e servizi diversi.
- Organizzazioni per le quali non è possibile definire adeguatamente un sito specifico
- Organizzazioni che controllano siti temporanei
- Organizzazioni indipendenti da registrare come un’organizzazione comune
- Piccole imprese che operano un grande territorio determinato e producono prodotti
o servizi identici o simili
- Autorità locali e istituzioni governative.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
98
Ai fini del presente documento risultano molto interessanti almeno due casi.
Il primo è il caso delle organizzazioni indipendenti operanti in un’area limitata,
ma che hanno anche funzioni e campi d’azione diversi, nonché differenti e specifiche
amministrazioni. Questi soggetti possono desiderare di mettere in comune le loro
risorse per chiedere ed ottenere una registrazione comune EMAS. In tal caso, devono
mettersi nelle condizioni di dimostrare di avere una comune responsabilità per la
gestione degli aspetti e degli impatti ambientali significativi; inoltre, di aver raggiunto
accordi definiti relativi agli obiettivi di miglioramento ambientale relativi all’intera area
occupata dalle imprese.
E’ importante sottolineare come, in questi casi, il logo EMAS può essere utilizzato solo
dall’organizzazione che ha raggiunto la registrazione e, quindi, solo in connessione con
l’area industriale in quanto tale, e non con le singole imprese in essa operanti. Di
conseguenza, i criteri che presiedono ad una registrazione di un’area industriale
possono essere individuati nella compatibilità delle politiche ambientali delle singole
imprese con quella concordata per l’intera area, una comune responsabilità nella
gestione ambientale dell’area, con perdita della registrazione se anche solo un’impresa
non è più nelle condizioni richieste dal regolamento.
Il secondo caso, analogo ma non simile, è quello che contempla la situazione di
piccole imprese in un vasto territorio con la stessa produzione.
Quando un’area è troppo vasta ed include molte imprese con differenti tipi di
produzione, o anche nel caso dei distretti industriali dove sono presenti molte piccole
imprese che coesistono con altre che garantiscono i servizi di pubblica utilità, o ancor
con la presenza di aree residenziali, diviene necessario incentivare la partecipazione di
tutti i soggetti ad un percorso comune.
L’attuazione di ciò richiede l’attivazione di un organismo promotore dell’iniziativa, la
redazione ed approvazione di uno studio di fattibilità del programma definito, la verifica
indipendente della credibilità degli obiettivi ambientali stabiliti ed un’analisi della loro
realizzabilità anche dal punto di vista economico.
Una volta che questi obiettivi ed i traguardi ambientali siano stati stabiliti e riconosciuti
come fattibili e credibili, ciascuna organizzazione che operi nell’area (PMI, servizi
pubblici, Autorità Locali, altri operatori, ecc.) può dotarsi di un proprio Sistema di
Gestione Ambientale finalizzato al programma di miglioramento ambientale per l’intera
area e, quindi, richiedere la registrazione EMAS secondo una procedura semplificata. Al
momento della verifica ispettiva, il verificatore dovrà in questo caso, in sostanza,
limitarsi a controllare solo lo specifico contributo della singola impresa al programma
generale di miglioramento ambientale dell’area, nonché a verificare che il relativo
Sistema di Gestione Ambientale e la relativa Dichiarazione Ambientale siano coerenti
con la possibilità di perseguimento del predetto programma generale.
3.4.6 Etichette e dichiarazioni ambientali
Ecolabel
Il regolamento 880/92 CEE (Ecolabel), approvato dal consiglio dei Ministri CEE nel
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
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febbraio del 1992, sottolinea il carattere di complementarietà dell’Ecolabel rispetto ai
marchi ecologici, esistenti e futuri, e la volontà di creare le condizioni per giungere a un
marchio di qualità ecologica valido in tutta la Comunità.
La comparsa del marchio europeo di qualità ecologica si affianca infatti ad altri marchi
nazionali di qualità ambientale, riconosciuti pubblicamente e presenti da alcuni anni,
tanto in alcuni paesi della comunità quanto in altre nazioni.
La qualità ecologica nei vari paesi viene valutata secondo degli standard i qualità che
considerano diversi parametri, a seconda del paese:
- Paesi scandinavi: ciclo di vita del prodotto, il contenuto in sostanze pericolose e
l’impatto ambientale complessivo
- Germania: ciclo di vita, tutti gli aspetti di protezione ambientale, l’usabilità e
sicurezza del prodotto.
- Giappone: considera che nella produzione del prodotto devono essere applicate
misure di prevenzione dall’inquinamento, che lo smaltimento del prodotto, dopo
l’uso, deve essere semplice, che il suo uso deve comportare un risparmio energetico
o di risorse, che il prodotto deve corrispondere a tutte le normative e standard
vigenti sulla qualità e sicurezza, che il suo prezzo non deve essere eccessivamente
più elevato di quello di altri prodotti con la stessa funzione.
- Canada: Ciclo di vita del prodotto.
- In Italia, l’orientamento del Ministero dell’ambiente e del governo è quello di
adottare il regolamento CEE 880/92.
”E' uno strumento ad adesione volontaria che viene concesso a quei prodotti e servizi
che rispettano criteri ecologici e prestazionali stabiliti a livello europeo. L'ottenimento
del marchio costituisce, pertanto, un attestato di eccellenza che viene rilasciato solo a
quei prodotti/servizi che hanno un ridotto impatto ambientale. I criteri sono
periodicamente sottoposti a revisione e resi più restrittivi, in modo da favorire il
miglioramento continuo della qualità ambientale dei prodotti e servizi.
I criteri ambientali si applicano a tutti i beni di consumo (eccetto alimenti, bevande, e
medicinali) e ai servizi. I criteri sono definiti a livello europeo per gruppi di
prodotto/servizio, usando l'approccio "dalla culla alla tomba" (LCA - valutazione del
ciclo di vita) che rileva gli impatti dei prodotti sull'ambiente durante tutte le fasi del loro
ciclo di vita, iniziando dall'estrazione delle materie prime, dove vengono considerati
aspetti volti a qualificare e selezionare i fornitori, passando attraverso i processi di
lavorazione, dove sono gli impatti dell'azienda produttrice ad essere controllati, alla
distribuzione (incluso l'imballaggio) ed utilizzo, fino allo smaltimento del prodotto a
fine vita. ” (www.apat.gov.it).
Dichiarazione Ambientale di Prodotto
La Dichiarazione Ambientale di Prodotto, meglio nota come EPD (Environmental
Product Declaration) è, in sintesi, uno strumento pensato per migliorare la
comunicazione ambientale fra produttori, da un lato (business to business), e
distributori e consumatori, dall'altro (business to consumers). La EPD, prevista dalle
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
100
politiche ambientali comunitarie, e derivante dalle norme della serie ISO 14020, è
fondata sull'esplicito utilizzo della metodologia LCA, cardine attorno a cui ruota la
Dichiarazione e fondamento metodologico da cui scaturisce l'oggettività delle
informazioni fornite. Pur mantenendo l'attenzione al prodotto, sia esso merce o servizio,
le aziende hanno la possibilità di comunicare le proprie strategie e l'impegno ad
orientare la produzione nel rispetto dell'ambiente valorizzando il prodotto stesso.
3.5
LA NORMATIVA INTERNAZIONALE
L’espansione nell’utilizzo degli strumenti di comunicazione ambientale e il bisogno di
regole che consentano di valutare la validità dei marchi di qualità econologica e delle
dichiarazioni ambientali hanno spinto l’ISO a sviluppare norme in materia.
Tali standard sono compresi nelle norme della serie ISO 14020, ovvero:
ISO 14020: Environmental labels and declarations – General principles
Questa norma stabilisce le linee guida per lo sviluppo delle etichette e delle
dichiarazioni ambientali, e non è stata realizzata con lo scopo di consentire la
certificazione e la registrazione.. Ai suoi principi generali sono coerenti tutti gli altri
standard della serie, che contengono requisiti specifici rispetto ai diversi programmi di
labelling.
ISO 14021: Environmental labels and declarations – Self – declared environmental
claims (Type II – Environmental Labelling) – Principles and procedures.
Questa norma specifica i requisiti per le autodichiarazioni relative a istanze,
dichiarazioni, simboli e grafici riguardanti i prodotti. Introduce i termini comunemente
usati e le modalità per un loro uso corretto. Descrive inoltre una metodologia di
valutazione e verifica dei contenuti ambientali delle autodichiarazioni.
ISO 14024: Environmental labels and declarations – Type I – Environmental Labelling)
– Principles and procedures.
Questa norma riguarda la selezione delle categorie di prodotto, i criteri ambientali per i
prodotti e le caratteristiche funzionali dei prodotti nonché le modalità di valutazione e
dimostrazione della conformità. Stabilisce anche le procedure di certificazione delle
etichette e delle dichiarazioni ambientali. Ecolabels
ISO 14025: Environmental labels and declaration – Type III Environmental
declarations.
Si tratta, in sostanza, di un metodo per rappresentare in modo breve, sintetico e chiaro, i
dati essenziali per individuare gli aspetti ambientali rilevanti di un prodotto. (EPD)
3.5.1 LCA - life cycle assessment
La Valutazione del Ciclo di Vita (Life cycle assessment) viene definita come un
processo per identificare i carichi ambientali associati ad un prodotto, processo o
attività, passando dall'estrazione e trasformazione delle materie prime, fabbricazione del
prodotto, trasporto e distribuzione, utilizzo, riuso, stoccaggio, riciclaggio, fino alla
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
101
dismissione.
La SETAC , Society of Environmental Toxicology and Chemistry1, definisce la LCA
come:
La valutazione degli aggravi ambientali associati a un prodotto, a un processo o a una
attività attraverso l’identificazione e la quantificazione dei materiali, dell’energia
utilizzata e dei rifiuti immessi nell’ambiente. La valutazione comprende l’intero ciclo
di vita del prodotto, processo o attività, dall’estrazione e lavorazione delle materie
prime, alla fabbricazione di componenti e al successivo assemblaggio, al trasporto e alla
distribuzione, all’utilizzo, al riciclo, al riuso, allo stoccaggio e allo smaltimento finale.
Identifica e valuta anche l’opportunità di realizzare miglioramenti sul prodotto, processo
o attività.
La stima del ciclo di vita è uno strumento preventivo che consente innanzitutto
l’applicazione strategica alla progettazione di nuovi prodotti, processi o servizi, poiché
permette di avere accesso alle informazioni ambientali necessarie per individuare i punti
di forza e di debolezza e quindi di operare le scelte più opportune per il miglioramento
delle prestazioni
Una LCA è fondamentalmente una tecnica quantitativa che permette di determinare
fattori di ingresso (materia prime, uso di risorse, energia, ecc) e di uscita (consumi
energetici, produzione di rifiuti, emissioni inquinanti) dal ciclo di vita di ciascun
prodotto valutandone i conseguenti impatti ambientali.
Attraverso la realizzazione di una LCA si finiranno allora con l'individuare le fasi e i
momenti in cui si concentrano maggiormente le criticità ambientali, i soggetti che
dovranno farsene carico (produttore, utilizzatore ecc.) e le informazioni necessarie per
realizzare gli interventi di miglioramento.
Come riconoscimento della sua validità ed utilità è stata pubblicata tra le norme ISO la
14040, che descrive appunto i criteri generali e la metodologia attraverso cui
effettuare un LCA: essa rappresenta un riferimento importante per la diffusione di tali
studi in quanto sviluppata e riconosciuta in ambito internazionale all'interno del più
vasto corpus di norme (serie ISO 14000) sui sistemi di gestione ambientale.
Le norme della serie ISO 14040
Il comitato TC 207 dell’International Standard Organization ha inserito tra le norme
della famiglia ISO 14000 anche quelle relative alla stima del ciclo di vita, definite
usualmente come le norme della serie 14040, al fine di regolamentare la materia e
proporre una metodologia operativa il più riproducibile possibile.
A questa famiglia normativa appartengono i seguenti standard:
- ISO 14040 – Valutazione del ciclo di vita – Principi e quadro di riferimento
- ISO 14041 – Valutazione del ciclo di vita – Definizione dell’obiettivo e del campo
di applicazione e analisi dell’inventario
1
Documento edito nel ’93 con titolo Guidelines for LCA: a code of practice.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
102
-
ISO 14042 – Life cycle Assessment – Life Cycle impact assessment
ISO 14042 – Life cycle Assessment – Life Cycle impact interpretation
ISO 14049 – Life Cycle Assessment – Examples of application of ISO 14041 to
goal and scope definition and inventory analysis.
Le fasi dell’LCA
La procedura in base alla quale condurre una LCA passa attraverso le seguenti quattro
fasi:
1. Definizione degli obiettivi (Goal and scope definition)
2. Definizione del bilancio Ambientale (Inventory o LCI)
3. Valutazione degli impatti (Impact Assessment)
4. Analisi dei possibili miglioramenti (Interpretation): ricerca dei legami e punti di
contatto con le altre tecniche di gestione ambientale (ISO 14043).
Definizione degli obiettivi
Nella fase della definizione degli obiettivi vengono evidenziate:
le motivazioni per effettuare lo studio tra cui per esempio le opzioni di miglioramento
delle criticità eventualmente riscontrate. E' prevista l'individuazione ed analisi di
scenari ottimali di gestione del fine vita con lo scopo di ottimizzarne gli aspetti
ambientali, tenendo conto di considerazioni economiche e delle esperienza in atto.
Inoltre, può costituire ulteriore motivazione l'utilizzo dei risultati dello studio come
punto di partenza per valutare l’applicabilità dei criteri di Ecolabel o operare una
Dichiarazione Ambientale di Prodotto.
- le applicazioni previste
- i destinatari dello studio
Definizione del bilancio Ambientale (Inventory o LCI)
La fase di Inventory necessita del reperimento dei dati relativi alle quantità di energia e
di materiali che costituiscono gli ingressi e le uscite in tutto il ciclo di vita del prodotto
fra cui per esempio:
- Elenco materiali e pesi dei componenti
- Consumi energetici termici ed elettrici, (compresa la quota di uffici, magazzini, ecc)
attribuibili alla produzione
- Consumi idrici
- Schema impianti e consumi relativi
- Emissioni al camino (composizione, concentrazione ed origine)
- Logistica in ingresso e uscita (almeno per i componenti principali): mezzi di
trasporto usati, distanza, fattore di carico medio ecc.
- Consumi per trasporto interno (muletti, ecc.)
- Informazioni su impianto di depurazione acque (tipologia, consumi, acqua trattata,
smaltimento dei fanghi)
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
103
-
Rifiuti prodotti: categorie, quantità, destino
Valutazione degli impatti (Impact Assessment) e Analisi dei possibili
miglioramenti (Interpretation)
La fase di valutazione degli impatti consente di evidenziare le criticità e da lì il passo
successivo conduce alla ricerca delle opzioni di miglioramento tenendo conto: dei costi,
della tecnologia disponibili e dei possibili benefici.
3.5.2 Labelling e Life Cycle Assessment
E’ già stato segnalato come questi due strumenti presentino l’analogia di orientarsi
entrambi verso i prodotti e come sia naturale la loro integrazione.
In seno all’UK Ecolabelling Board, l’organismo britannico per lo sviluppo del marchio
di qualità ecologica, esiste un’apposita Commissione per l’Eco-Labelling e l’LCA che
ha messo a punto una linea guida per l’applicazione del LCA nell’ambito dello schema
comunitario per l’ottenimento dell’ECOLABEL.
Nella tabella seguente vengono specificati i momenti in cui l’LCA può essere di
supporto all’interno di ciascuna fase dell’ECOLABEL.
N.°
Fase decisionale dell’Ecolabel
1
Fase
preliminare
(selezione
Attività LCA per l’Ecolabel
categorie
di Nessuna
prodotto)
2
Studio di mercato
Nessuna
3
Inventario
Definizione
degli
obiettivi/Analisi
dell’inventario
4
Valutazione degli impatti ambientali
Valutazione degli impatti e proposte
per la definizione dei criteri
5
Definizione dei criteri
Nessuna
6
Presentazione della proposta alla Commissione
Nessuna
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
104
4.
INDAGINE
4.1
FINALITÀ ED OBIETTIVI
Tra i criteri di definizione delle aree ecologicamente attrezzate è importante rilevare
che:
1. la localizzazione e la progettazione devono rispondere a requisiti urbanistici e
territoriali determinati dalle caratteristiche e dai vincoli del territorio in cui l’area
si inserisce e dalle esigenze ed obiettivi degli attori che nel territorio operano;
2. all’interno dell’area devono essere presenti infrastrutture e servizi comuni
progettati e gestiti in modo da massimizzare l’efficienza nell’uso delle risorse da
parte delle singole aziende insediate e da minimizzare il loro impatto
sull’ambiente circostante. A tal fine le infrastrutture ed i servizi devono essere
inseriti in un più ampio Piano di Gestione dell’area industriale, che indichi, sulla
base di una specifica analisi della situazione, gli obiettivi da raggiungere e le
modalità attraverso le quali ottenerli.
L’indagine presso le aree industriali inserite nell’analisi ha avuto, pertanto, quale
obiettivo l’individuazione delle caratteristiche della loro gestione, con particolare
riferimento alle tematiche ambientali.
In particolare, si è voluto appurare quali tecnologie, impianti e procedure operative, con
particolare riferimento a quelle comuni, vengano impiegati all’interno delle aree
industriali per evitare o minimizzare gli impatti ambientali.
Sono inoltre stati indagati gli strumenti di pianificazione territoriale e di controllo delle
attività delle aree industriali posti in essere dagli enti locali di riferimento di tali aree.
4.2
CRITERI PER LA MESSA A PUNTO DEI QUESTIONARI
È stato deciso di effettuare l’indagine attraverso la somministrazione di due questionari,
in modo da poter disporre di uno strumento omogeneo per la raccolta delle informazioni
nelle diverse aree analizzate.
I questionari riguardano l’analisi delle tecnologie, impianti e procedure operative, con
particolare riferimento a quelle comuni, impiegati all’interno delle aree industriali per
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
105
evitare o minimizzare gli impatti ambientali, e gli strumenti di pianificazione territoriale
e di controllo delle attività delle aree industriali posti in essere dagli enti locali di
riferimento. Entrambi gli strumenti sono sviluppati sia attraverso domande a risposta
multipla che attraverso domande a risposta aperta
Sono stati individuati quali destinatari dei questionari, i soggetto gestori delle aree
industriali, in considerazione del fatto che la loro presenza e le modalità che attuano
nella gestione delle diverse tematiche all’interno del territorio è un ulteriore criterio di
individuazione delle aree ecologicamente attrezzate, ed anche per aumentare, con la
presenza di un interlocutore chiaramente individuato all’interno dell’area, le possibilità
di risposta positiva.
Il primo questionario si suddivide in 13 sezioni più una scheda preliminare dell’area.
La scheda indaga le caratteristiche generali dell’area e delle aziende quali:
•
l’estensione dell’area industriale
•
il numero di aziende presenti
•
la tipologia delle aziende
•
il numero complessivo di dipendenti nell’area
•
i dati di produzione per tipologia d’imprese
•
la presenza di un sistema di gestione ambientale comune
•
la presenza di figure di riferimento per diversi ambiti di intervento
•
la presenza di problematiche ambientali di particolare rilevanza.
Le successive sezioni indagano la realtà dell’area secondo le seguenti tematiche
d’intervento:
a) aria
b) acqua
c) rifiuti
d) risorse energetiche
e) rumore
f) trasporti
g) tutela del paesaggio
h) procedure comuni
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
106
i) azioni comuni presso le pubbliche amministrazioni
j) riduzione del consumo di risorse
k) utilizzo di tecnologie avanzate
l) suolo e sottosuolo
Il secondo questionario affronta gli strumenti pianificazione e controllo messi in atto
dagli enti locali nei confronti delle aree industriali ed i rapporti di collaborazione e
convenzione con enti e organizzazioni per la realizzazione di progetti a favore dell’area.
Si sviluppa attraverso 16 domande, suddivise a loro volta in ulteriori quesiti a
specificazione della risposta principale.
4.3
CRITERI DI SCELTA DEI DESTINATARI
Nel campione individuato per l’analisi sono state prioritariamente inserite le 8 aree
industriali partner nel progetto SIAM e che saranno successivamente oggetto della
sperimentazione del modello di area industriale sostenibile.
Il campione è poi stato completato inserendo nell’analisi alcune aree industriali che
soddisfacessero i seguenti criteri:
1. esistenza di un soggetto gestore dell’area;
2. distribuzione delle aree sul territorio italiano.
La presenza di un soggetto gestore all’interno dell’area è stata ritenuta una caratteristica
importante. Tale condizione, infatti, rispetta un elemento che tutte le leggi regionali sin
qui emanate individuano come prioritario, e individua allo stesso tempo un interlocutore
con cui rapportarsi per la raccolta dei dati necessari all’analisi, aumentando le
possibilità di risposta.
Per l’individuazione delle aree non inserite nel progetto SIAM ci si è avvalsi anche della
collaborazione di FICEI, la Federazione Italiana dei Consorzi Industriali, che ha
informato i circa 60 consorzi associati delle finalità del progetto in corso.
Le aree inserite nell’analisi sono gestite principalmente da Consorzi per lo Sviluppo
Industriale (disciplinati dalla L. 634/1957, L 64/1986, L 317/1991), che hanno lo scopo
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
107
di promuovere le condizioni necessarie per la creazione e lo sviluppo di attività
produttive nel settore dell’industria attraverso:
•
l’ottimizzazione dell’offerta di infrastrutture e di suoli;
•
la migliore ubicazione e locazione delle imprese secondo le esigenze;
•
l’offerta di servizi alle imprese;
•
la difesa ed il controllo ambientale.
L’area del Macrolotto di Prato invece, è gestita da CONSER, una società cooperativa
consortile a responsabilità limitata che ha quali soci le aziende stesse.
La situazione economica, industriale ed infrastrutturale dell’Italia si presenta in modo
eterogeneo sul territorio. Il nord del Paese è stato caratterizzato da una forte
industrializzazione nei decenni scorsi, soprattutto con la nascita di piccole e medie
imprese. Nel sud Italia, invece, l’industrializzazione è stata frenata a causa di una
concomitanza di fattori economico-sociali.
Per tali ragioni si è ritenuto opportuno inserire nell’indagine aree industriali localizzate
in diverse parti del territorio italiano, che potessero fornire un quadro complessivo della
realtà delle aree industriali nel nostro Paese.
4.4
INVIO E RESTITUZIONE DEI QUESTIONARI
4.4.1 Elenco destinatari
Aree partner del progetto SIAM
•
area industriale di Mongrando
•
area industriale di Padova
•
area industriale di Arquà Polesine/Villamarzana (RO)
•
macrolotto industriale di Prato
•
area industriale di Frosinone
•
area industriale di Rieti – Cittaducale
•
area industriale della Maiella (CH)
•
area industriale di Molfetta.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
108
Aree non inserite nel progetto SIAM
•
area industriale Ponte Rosso (PN)
•
are industriale Monfalcone (GO)
•
area industriale Udine
•
area industriale Aussa-Corno (UD)
•
area industriale di Trieste (TS)
•
area industriale Jesi (AN)
•
are industriale Ancona (AN)
•
area industriale Corinaldo (AN)
•
area industriale Ostra (AN)
•
area industriale Avellino
•
area industriale di Trapani
•
area industriale Ferrara
•
area industriale Ostellato
•
area industriale Crotone
•
area industriale Potenza
•
area industriale Reggio Calabria
•
area industriale di Matera
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
109
Rappresentazione delle aree industriali a cui sono stati inviati i questionari
Le aree partner nel progetto SIAM sono segnate in rosso
Le aree non inserite nel progetto SIAM sono segnate in verde
4.4.2 Questionari compilati e rinviati
A fronte di 25 aree a cui sono stati somministrati i questionari per l’analisi, sono stati
raccolti 16 questionari compilati per quanto riguarda l’analisi delle tecnologie, impianti
e procedure operative, con particolare riferimento a quelle comuni, impiegati all’interno
delle aree industriali per evitare o minimizzare gli impatti ambientali, mentre si è avuto
un minor riscontro (10 questionari restituiti) per quanto riguarda gli strumenti
pianificazione e controllo messi in atto dagli enti locali nei confronti delle aree
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
110
industriali.
Elenco Questionari Tecnologie Ricevuti
• area industriale di Mongrando
•
area industriale di Padova
•
area industriale di Arquà Polesine/Villamarzana (RO)
•
macrolotto industriale di Prato
•
area industriale di Frosinone
•
area industriale di Rieti – Cittaducale
•
area industriale di Molfetta.
•
are industriale Monfalcone (GO)
•
area industriale Udine
•
area industriale Aussa-Corno (UD)
•
area industriale Jesi (AN)
•
are industriale Ancona (AN)
•
area industriale Corinaldo (AN)
•
area industriale Ostra (AN)
•
area industriale di Potenza
•
area industriale di Trapani
Elenco Questionari sugli strumenti di pianificazione ricevuti
• area industriale di Mongrando
•
area industriale di Padova
•
area industriale di Arquà Polesine/Villamarzana (RO)
•
macrolotto industriale di Prato
•
area industriale di Rieti – Cittaducale
•
area industriale di Molfetta.
•
are industriale Monfalcone (GO)
•
area industriale Udine
•
area industriale Aussa-Corno (UD)
•
area industriale di Trapani
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
111
Alcuni questionari sono stati rinviati direttamente via e-mail compilati, per altri sono
state fatte delle interviste dirette presso l’ente gestore. In alcuni casi si è provato a
ricontattare i consorzi per poter avere maggiori informazioni sulle risposte fornite ma
ciò non ha inciso sulla completezza delle risposte poiché le informazioni non erano in
possesso del gestore. Si può evidenziare inoltre che non si è riscontrata una sostanziale
differenza nella completezza delle risposte tra i questionari ritornati via mail dai
destinatari e quelli compilati in loco dai partner del progetto.
Nel caso dell’area di Molfetta, si è provveduto ad un’ulteriore analisi presso le aziende
per la raccolta di alcuni dati mancanti. Anche tale approfondimento non ha modificato
in modo sostanziale la qualità dei dati raccolti.
4.4.3 Elaborazione dei risultati
Una prima considerazione da farsi, riguarda il grado di risposta ai quesiti posti: le
risposte risultano essere talvolta molto precise e puntuali, talaltra molto vaghe o del
tutto assenti. In linea generale si ha un discreto riscontro nel quadro complessivo dei
questionari, con un numero maggiore di questionari pervenuti riguardanti le tecnologie
rispetto alle informazioni fornite sulla pianificazione territoriale. A fronte di domande
spesso a risposta chiusa con possibilità di specifiche in successivi punti a risposta
aperta, si sono avute un numero soddisfacente di risposte nei quesiti chiusi, raramente
supportati da integrazioni a tali asserzioni richieste dai quesiti a risposta aperta.
Il parametro che si è scelto di utilizzare è la “prestazione ambientale”, ovvero una
percentuale ricavata attraverso le risposte positive rispetto a un totale di risposte
predefinito. Il totale delle risposte è stato scelto tenendo conto delle caratteristiche più
significative per ogni tematica (acqua, aria, rifiuti…), riportate nelle domande relative
nei questionari. E’ sembrato inoltre opportuno procedere all’elaborazione non
utilizzando dei pesi diversi per ogni risultanza, in quanto tale assunzione implica
indirettamente una prevalenza di una caratteristica ambientale su un’altra; assunzione
peraltro difficilmente giustificabile di fronte alla necessità di avere una serie di
parametri descrittivi della totalità degli aspetti impattanti sull’ambiente relativi a un’area
industriale. Si è quindi proceduto alla semplice media dei risultati totali ottenuti,
derivati da una serie di schede relative a ogni area industriale indagata.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
112
La disomogeneità della quantità e della qualità dei dati ha comportato semplificazioni
nelle modalità di elaborazione dei dati contenuti e ha consentito un approfondimento
solo parziale delle tecnologie attualmente sviluppate e applicate all’interno delle aree
industriali indagate.
Si riporta l’analisi delle risposte fornite per singola tematica:
Aria
Si
No
Emissioni significative
7
9
Abbattimento emissioni
2
14
Rete fissa di
monitoraggio
6
10
Parziale
A fronte di 7 realtà in cui sono state individuate emissioni significative, solamente in 2
aree avviene un abbattimento delle emissioni e solo nel caso del consorzio di Rieti sono
specificate le modalità con cui tale abbattimento avviene (ciclone, filtri a maniche,
carboni attivi).
In 6 aree sono presenti delle reti fisse di monitoraggio; tali reti, e la rispettiva azione di
rilevamento però, non sono gestite dall’ente gestore, che nella maggior parte dei casi,
non è in possesso dei dati rilevati, ma dalle Aziende Regionali competenti.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative all’aria nelle diverse
aree:
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
113
Prestazioni ambientali - Aria
100%
100%
90%
80%
70%
60%
50%
50%
50%
50%
50%
50%
50%
40%
30%
20%
10%
Z.
R
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-
Acqua
Si
No
Esistenza depurazione
10
6
Pre-trattamento privato
2
4
10
Acque di prima pioggia
4
6
6
Rete idrica per usi non potabili
10
6
Rete fognaria
16
Parziale
La tematica acqua risulta essere quella affrontata in modo più completo all’interno delle
aree; ciò è determinato probabilmente dalla più organica legislazione vigente in merito
agli scarichi e più in generale alla qualità delle acque.
La rete fognaria risulta sempre presente all’interno delle aree indagate, supportata da
impianti di depurazione talvolta esclusivi, talaltra a servizio dell’intero territorio. E’ da
sottolineare che dei 10 depuratori dichiarati, non tutti sono ad uso esclusivo dell’area e
gestiti direttamente, e risulta pertanto difficile ottenere informazioni complete circa le
loro caratteristiche.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
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114
Si riportano di seguito le informazioni dei gestori:
•
ZIU: depurazione primaria con una linea acque e una linea a fanghi
•
ZIP: depuratore comunale, depurazione primaria a trattamento chimico-fisico
•
Aussa-Corno: depurazione primaria, con trattamento chimico fisico biologico
•
Ancona: depurazione comunale
•
Corinaldo: depurazione primaria, monoblocco sedimentatore-ossidatore e vasca di
contatto
•
Jesi: depuratore comunale, con depurazione primaria, secondaria, terziaria e
fitodepurazione
•
Ostra: depurazione primaria, monoblocco ad ossidazione totale
•
Potenza: depurazione secondaria a fanghi attivi con riutilizzo delle acque in parte
industriale, secondari ossidativi, terziari a sabbia a gravità
•
Frosinone: 2 impianti di depurazione primaria chimico-fisico biologico e un
impianto terziario di recupero delle acque con osmosi inversa a sabbia e carboni
attivi
•
Rieti: primaria a fanghi attivi
Gli impianti di pre-trattamento, così come le strutture per le acque di prima pioggia,
solo in pochi casi risultato a sevizio esclusivo dell’area, ma è significativo il fatto che
tali operazioni vengano svolte piuttosto in forma privata presso le singole aziende. Le
acque di prima pioggia sono prevalentemente trattate con disoleatori privati.
In dieci aree sono presenti reti idriche per usi non potabili, ma non si hanno dati circa le
loro caratteristiche.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative all’acqua nelle
diverse aree:
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
115
Prestazioni ambientali - Acqua
100%
100%
90%
80%
80%
80%
80%
70%
60%
60%
60%
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20%
20%
20%
20%
10%
Z.
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-
Rifiuti
Si
No
Esistenza impianto specifico
recupero rifiuti
2
14
Smaltimento/riciclo
4
12
Termodistruzione
3
13
Area di stoccaggio esclusiva
1
15
Parziale
Altro
Come si evidenzia dalle risposte ottenute, il trattamento dei rifiuti è fatto da aziende
specializzate. Non si hanno indicazioni riguardo ad impianti di recupero dei rifiuti
esclusivamente dedicati all’area. La termodistruzione, ove presente, non è gestita
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
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116
direttamente dal gestore dell’area, ma da soggetti privati o aziende del settore. In un
solo caso l’area è dotata di un’area di stoccaggio esclusiva.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative ai rifiuti nelle
diverse aree:
Prestazioni ambientali - Rifiuti
100%
90%
80%
70%
60%
50%
50%
50%
50%
40%
30%
25%
25%
25%
25%
20%
10%
Z.
Risorse Energetiche
Si
No
Esistenza impianto di cogeneraz.
3
13
Investimenti su energie alternative
3
13
Teleriscaldamento
Parziale
16
Altro
Dai dati rilevati risulta che la gestione delle tematiche energetiche avviene
principalmente secondo usi tradizionali. Alcuni interventi circoscritti sono stati attuati
nelle seguenti aree:
•
Monfalcone: impianto fotovoltaico con potenza di picco 10+20kW e
producibilità annua 36000kW/anno con allacciamento in rete in bassa tensione.
•
Aussa-Corno: un tetto fotovoltaico
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0%
117
•
Frosinone: impianti di cogenerazione aziendali nonché centrali termiche
aziendali
•
Rieti: impianto di cogenerazione consortile con biogas come combustibile e
produzione di energia elettrica, installata 260 kW, a fronte di una richiesta
energetica stimata di 20MW/anno.
•
Trapani: impianti di cogenerazione aziendali e rete a metano attiva; investimenti
per energia eolica e fotovoltaica per illuminazione dell’area.
•
Prato: è stata effettuata una ricognizione degli impianti (centrali aziendali)
determinando un fabbisogno di 80 GW/anno
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative alle risorse
energetiche nelle diverse aree:
Prestazioni ambientali - Risorse energetiche
100%
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70%
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50%
50%
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25%
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25%
20%
10%
Z.
Rumore
Si
Mappatura acustica
Strutture per l’abbattimento
acustico
No
Parziale
16
5
11
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
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118
Allo stato attuale non risulta sia stata eseguita la mappatura acustica in nessuna delle
aree in esame. Tuttavia 5 aree hanno effettuato degli interventi per la limitazione
dell’inquinamento acustico, in particolar modo attraverso la piantumazione di quinte di
alberi ad alto fusto o la creazione di fasce alberate di adeguato spessore. La zona
industriale di Aussa-Corno ha provveduto all’installazione di cabine insonorizzate,
pannelli e barriere anti-rumore.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative al rumore nelle
diverse aree:
Prestazioni ambientali - Rumore
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Trasporti
Si
No
Esistenza raccordo ferroviario
10
6
Intermodalità fluvio-marittima
2
14
Mobility manager
3
13
Parziale
Altro
La tematica dell’intermodalità risulta ben sviluppata per quanto riguarda l’integrazione
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
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119
tra il trasporto merci su gomma e su rotaia: infatti in 10 delle 16 aree esaminate è
presente un raccordo ferroviario.
Per quanto riguarda l’intermodalità fluvio-marittima, questa risulta più limitata poiché
vincolata dalle caratteristiche geomorfologiche del territorio.
La tematica della specifica pianificazione dei trasporti all’interno dell’area risulta,
invece, scarsamente sviluppata, dal momento che solo 3 aree possono contare sulla
presenza di un mobility manager.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative ai trasporti nelle
diverse aree:
Prestazioni ambientali - Trasporti
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-
Tutela del Paesaggio
Presenza di aree verdi
Si
No
11
5
Parziale
La tutela del paesaggio risulta legata al solo parametro quantitativo della presenza di
aree verdi, in funzione degli standard a verde previsti dagli strumenti urbanistici.
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
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Procedure Comuni
Procedure Consortili
Si
No
10
6
Parziale
Il quadro d’insieme delle procedure consortili attuate all’interno delle aree risulta molto
frammentato e legato alle specificità e criticità di ogni singola area. L’attività prevalente
risulta essere legata alla formazione di carattere ambientale, senza tuttavia fornire
particolari indicazioni.
Azioni comuni con la Pubblica Amministrazione
Azioni intraprese o in programma
Si
No
7
9
Parziale
Le azioni comuni con la Pubblica Amministrazione in atto sono principalmente
orientate alla realizzazione di progetti specifici all’interno dell’area.
Riduzione dei Consumi di Risorse
Si
No
Riutilizzo degli scarti produttivi
16
Riutilizzo energetico
16
Altro
3
Parziale
13
Il riutilizzo a scopo di recupero o di produzione energetica coinvolge direttamente le
singole aziende , risultando perciò di difficile applicazione a livello di area.
Vi sono esperienze a livello di telecontrollo della pubblica illuminazione (Rieti) e di
riciclo delle acque nel ciclo produttivo tessile (Prato).
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative alla riduzione dei
consumi delle risorse nelle diverse aree:
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
121
Prestazioni ambientali - Riduzione del consumo delle risorse
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Utilizzo di Tecnologie Avanzate
Si
No
Nel comparto produttivo
3
13
Abbattimento/controllo carichi
inquinanti
2
14
Altro
Parziale
16
Anche l’implementazione nel ciclo produttivo di tecnologie avanzate risulta di
competenza delle singole aziende, per questo motivo raramente i soggetti gestori
dell’area sono a conoscenza di tali tecnologie.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative all’utilizzo di
tecnologie avanzate nelle diverse aree:
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Prestazioni ambientali - Tecnologie avanzate
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Suolo e sottosuolo
Si
No
Procedure di controllo e
monitoraggio
3
13
Controllo di qualità delle acque
3
13
Siti da bonificare: bonifica
programmata
3
13
Parziale
La gestione degli interventi di controllo e di bonifica del suolo e del sottosuolo, laddove
presenti, sono gestite dalle Agenzie Regionali competenti.
Si presenta di seguito il grafico delle prestazioni ambientali relative al suolo e al
sottosuolo nelle diverse aree:
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Prestazioni ambientali - Suolo e sottosuolo
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CONCLUSIONI
L’analisi delle informazioni riportate nei questionari raccolti evidenzia come le diverse
tematiche ambientali siano gestite in modo indipendente da diversi soggetti competenti
e non rientrino all’interno di un Piano di Gestione dell’area complessivo.
Questa situazione comporta l’impossibilità da parte del gestore dell’area di poter
disporre dei dati relativi ai fabbisogni dell’area e alle caratteristiche specifiche e
prestazionali delle infrastrutture e dei servizi comuni relative alle diverse aree di
intervento. Diventa pertanto impossibile valutare l’adeguatezza delle infrastrutture e dei
servizi presenti nella aree, rispetto alle effettive necessità.
La prestazioni ambientali all’interno delle diverse aree, devono poi essere valutate
tenendo presente la fase di sviluppo dell’area. Dall’analisi risulta, infatti, che le aree che
raggiungono prestazioni migliori sono aree in completamento, e quindi con una gestione
più consolidata del territorio ed una variabilità minore dei cambiamenti derivanti dagli
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insediamenti, mentre le aree in espansione, o in fase di realizzazione, si attestano su
prestazioni ambientali inferiori che potrebbero però essere soggette a maggiori
evoluzioni con l’espansione dell’area.
In particolar modo si segnalano l’area di Arquà Polesine/Villamarzana, un’area
attualmente in fase di realizzazione per la quale alcune infrastrutture non sono ancora
state pianificate, e l’area industriale di Mongrando per la quale, la attuale presenza di
sole 2 aziende non giustifica l’attivazione di infrastrutture e servizi specifici che
potranno invece essere previsti successivamente all’insediamento di un maggior numero
di imprese.
Procedendo ad un’analisi delle tecnologie utilizzate nelle aree industriali italiane, una
prima considerazione da farsi riguarda la concentrazione dei dati, numerosi nell’ambito
del trattamento delle acque rispetto a quelli disponibili per le altre tematiche ambientali.
Per quel che riguarda le acque, i dati sono presenti in modo quasi sistematico per ogni
questionario e denotano un buon approfondimento tecnico, almeno in termini
descrittivi, indice di una buona conoscenza del processo e delle tecnologie esistenti
nell’area. Le tecniche utilizzate per ridurre il carico inquinante sono molteplici e diverse
per ogni area, sia per la fase depurativa primaria, sia per la secondaria e terziaria.
La tematica delle emissioni in atmosfera risulta accompagnata da un minor numero di
dati: tale mancanza è probabilmente dovuta al fatto che tali tecnologie sono impiegate
direttamente dalle aziende al loro interno, dovendosi differenziare a seconda delle
diverse tipologie di produzione, rendendo più complessa una loro valutazione.
Per quanto riguarda i rifiuti, si nota come sia ancora non consolidata la pratica di riciclo
per il riutilizzo delle cosiddette “materie prime secondarie” in ambito d’area industriale;
spesso i rifiuti risultano essere gestiti da aziende municipalizzate secondo un piano
complessivo per il territorio. Gli impianti segnalati, di cui peraltro non si hanno
specifiche tecniche, riguardano la sola termodistruzione.
Per quanto riguarda le risorse energetiche, si può notare una diffusa metanizzazione
degli
impianti
industriali.
Tale
scelta
è
determinata
in
modo
sostanziale
dall’economicità di tale risorsa e dalla facilità di approvvigionamento. Risultano invece
ancora scarsamente utilizzate fonti di energia rinnovabile e ciò è probabilmente dovuto,
oltre ad una complessità tecnica per la produzione, ai notevoli costi correlati rispetto
Progetto Life Ambiente 524/04 SIAM
Rapporto finale Task 2.1
125
all’efficacia delle attuali tecnologie.
Un altro ambito d’intervento interessante risulta quello della mobilità, che inizia ad
essere oggetto di studio soprattutto nell’ottimizzazione dei percorsi e dei tempi di
percorrenza. È importante rilevare inoltre le prime esperienze di car-sharing per lo
spostamento dei dipendenti all’interno delle aree e l’impiego di mezzi di trasporto a
basso impatto ambientale.
Si riportano negli allegati 2.1 e 2.2 copia dei questionari distribuiti per l’analisi. I
questionari compilati saranno consultabili presso il capo progetto.
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Rapporto finale Task 2.1
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RAPPORTO FINALE TASK 2.1