Università LUISS “Guido Carli”
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea in
Scienze Politiche
Dopo la Ragione.
Eric Voegelin e Michael Oakeshott
fra crisi del liberalismo
e rinascita del pensiero conservatore.
Relatore:
Prof. Sebastiano MAFFETTONE
Tesi di Laurea di:
Tommaso MILANI
Matricola: 057462
Anno Accademico 2008/2009
Indice Generale
Avvertenza relativa alle indicazioni bibliografiche………………………………..
p. 4
Cap. I.
Introduzione. Conservatorismo: uno, nessuno, centomila
par. I: Un secolo conservatore? ……………………………………………….
p. 6
par. II: Il potere delle idee …………………………………….........................
p. 8
par. III: La definizione situazionale e i suoi limiti ……………………….........
p. 12
par. IV: Alle radici dell’ideologia conservatrice ……………...........................
p. 14
Cap. II.
La vita e i tempi dell’ordine liberale
par. I: Capire il New Deal: il ruolo delle idee …………………………………
par. I.1: Contro l’economia classica: Adolf A. Berle e Rexford G. Tugwell …..
par. I.2: Rinnovare il liberalismo: John Dewey e John Maynard Keynes ............
par. I.3: La scienza politica al servizio della trasformazione: Charles E.
Merriam …………………………………………………………………………
p. 17
p. 26
p. 32
p. 38
par. II: L’entrata in guerra: declino e tramonto della «Old Right» ……………. p. 44
par. III: Il secondo dopoguerra: il trionfo delle scienze sociali e l’esaurimento
del riformismo ………………………………….................................................. p. 50
par. IV: L’eredità del New Deal: il “liberal consensus” ……………………….. p. 56
Cap. III.
Liberalismo rivisitato: Berlin, Talmon, Hayek, Niebuhr
par. I: Liberalismo realista e liberalismo critico ……………………………….. p. 73
par. II : C’est la faute à Rousseau: la critica all’Illuminismo giacobino ……… p. 80
par. II.1: Isaiah Berlin e i nemici della libertà umana ………………………… p. 80
par. II.2: Jacob L. Talmon e la democrazia totalitaria ………………………… p. 84
par. III: Commercianti contro ingegneri: Friedrich A. Von Hayek ……………
p. 87
par. IV: Il disincanto di una superpotenza: Reinhold Niebuhr ………………... p. 93
par. V. Conclusioni …………………………………………………………….. p. 102
2
Cap. IV.
Verso un ordine post-liberale: Eric Voegelin e Michael Oakeshott
par. I: Le ragioni di un confronto ………………………………… ……..
p. 106
par. II: La cecità della scienza politica contemporanea ………………….
p. 109
par. III: La rappresentanza distorta ………………………………………
p. 118
par. IV: Razionalismo e liberalismo ………………………………………
p. 127
par. V: Gnosticismo e politica della fede …………………………………
p. 137
par. VI: Gli spazi perduti della politica: balzo nell’essere e conversazione …
p. 145
par. VII: Epilogo: un breve incontro ………………………………………….
p. 151
Cap. V.
Conclusione. Il conservatorismo fra stabilità e reazione
par. I: Preservare o rifondare? ..……………………………………………….
p. 153
par. II: Ideologia debole contro ideologie forti ………………………………
p. 161
***
Bibliografia …………………………………………………………………………….
p. 167
3
Avvertenza relativa alle indicazioni bibliografiche
Nel corso di questa ricerca si è fatto ampio ricorso a testi in lingua non italiana, gran parte dei quali
non tradotti. È opportuno segnalare che, laddove il titolo del testo riportato è esclusivamente quello
originale, la traduzione dei passi citati è stata realizzata dall’autore del presente lavoro. Laddove,
invece, il titolo originale si accompagna al riferimento alla traduzione italiana, il testo riportato
coincide con quest’ultima.
4
Alla loro felicità quel governo lavora volentieri, ma vuole essere l’unico agente e il solo arbitro di quella felicità;
esso provvede alla loro sicurezza, previene e sopperisce
alle loro necessità, li aiuta a conseguire i loro piaceri, si
occupa dei loro principali problemi, dirige le loro industrie, regola le successioni e spartisce la loro eredità;
perché non dovrebbe risparmiare loro tout court la fatica
di pensare e il fastidio di vivere?
ALEXIS DE TOCQUEVILLE, 1840
Oggi assistiamo a una trasformazione di grande importanza nella società, a un’enorme espansione del Potere.
Le rivoluzioni e i colpi di Stato che punteggiano la nostra epoca non sono altro che episodi insignificanti, che
accompagnano l’avvento del protettorato sociale.
Una potenza benefica veglierà su ogni uomo, dalla culla
alla tomba, una potenza che porrà riparo ai mali che lo
affliggono, anche a quelli originati da lui, dirigerà il suo
sviluppo individuale e lo orienterà verso l’uso più appropriato delle sue forze. Per un corollario necessario, essa
dovrà disporre di tutte le risorse della società al fine di
portarle al più alto grado di rendimento e di moltiplicare,
così, le sue opere benefiche.
Il Potere assume in qualche modo il compito di realizzare la felicità pubblica e privata; una clausola indispensabile di questo contratto sarà che tutte le proprietà, tutte le
forze produttive, tutte le libertà gli dovranno essere concesse; i materiali, cioè, e la manodopera senza i quali esso non potrà adempiere a un compito tanto gigantesco. Si
tratta, dunque, di costruire un immenso patriarcato o, se
si preferisce, un matriarcato, dal momento che ci viene
detto che la potenza collettiva deve esser animata da sentimenti materni.
BERTRAND DE JOUVENEL, 1945
Il socialismo può servire a insegnare in modo assai brutale e incalzante tutti i pericoli delle accumulazioni di
potere statale, e in questo senso ad ispirare diffidenza
contro lo Stato stesso. Quando la sua voce rauca proromperà nel grido di guerra: “Quanto più Stato possibile!”, in un primo momento questo grido diverrà così più
fragoroso che mai; ma tosto proromperà, con forza tanto
maggiore, anche l’altro grido opposto: “Quanto meno
Stato è possibile!”.
FRIEDRICH NIETZSCHE, 1878
5
I.
Introduzione
Conservatorismo: uno, nessuno, centomila
I. Un secolo conservatore?
Nel dicembre 1999 Robert S. Redmond dava alle stampe un articolo significativamente intitolato «A conservative century». Il Novecento si chiudeva, sosteneva Redmond, con il partito conservatore inglese «al nadir delle sue fortune», ma ciò non poteva oscurare il fatto che «per due terzi
del ventesimo secolo i Tories avevano governato il Paese, in solitudine o alla guida di una coalizione 1 ».
L’analisi di Redmond era corroborata da ulteriori dati empirici, che avevano da qualche
tempo attirato l’attenzione degli studiosi. In quattordici delle ventisei tornate elettorali, il partito di
Salisbury e MacMillan aveva conseguito una robusta maggioranza parlamentare, e in altre otto aveva comunque beneficiato di una maggioranza relativa. Solo in quattro occasioni – 1906, 1945, 1966
e 1997 – la sua sconfitta poteva dirsi netta, e in appena tre casi la percentuale dei voti ottenuti era
scesa sotto il 40%. Non a caso Anthony Seldon e Stuart Ball, nel 1994, avevano impiegato
l’etichetta di «conservative century» per sintetizzare il “secolo breve” inglese 2 .
L’espressione ha conosciuto un certo successo anche in ambito statunitense. Gregory
Schneider, ad esempio, ne ha fatto il titolo di un suo recente lavoro, evidenziando come una concezione inizialmente impopolare ed elitaria, fatta propria da ristretti gruppi di intellettuali, si sia trasformata nel collante ideologico di un imponente movimento di massa 3 . Ma già nel 1993 Irving
Kristol (probabilmente il vero ideatore della formula) riteneva di poter scorgere un nuovo «secolo
conservatore» all’orizzonte 4 .
Di primo acchito, la definizione, se applicata retrospettivamente, appare meno calzante al
caso americano che a quello britannico. Dall’osservatorio privilegiato di fine secolo, non si può dire
che il Grand Old Party – la formazione più sensibile ai valori del conservatorismo 5 – abbia goduto
1
R. S. REDMOND, A Conservative Century, in Contemporary Review, vol. 275, 1999.
Cfr. A. SELDON, S. BALL, A Conservative Century: the Conservative Party since 1900, Oxford, Oxford University
Press 1994. Cfr. anche E. H. H. GREEN, Ideologies of Conservatism: Conservative Political Ideas in the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press 2004, p. 1.
3
Cfr. G. SCHNEIDER, The Conservative Century: from Reaction to Revolution, Lanham, Rowman & Littlefield Publisher, 2008.
4
I. KRISTOL, The Coming ‘Conservative Century’, “Wall Street Journal”, 1 febbraio 1993; ora in I. KRISTOL, Neoconservatism: the autobiography of an idea, Chicago, Ivan R. Dee Publisher 1999, pp. 363-368.
5
Il Partito Repubblicano non può comunque essere definito come un partito conservatore, né come il partito conservatore americano. È corretto dire, semmai, che storicamente il conservatorismo è stato una delle anime del Partito Repubblicano, sia pure tra le più influenti. Sul punto, cfr. M. C. BRENNAN, Turning Right in the Sixties: The Conservative
2
6
di un predominio paragonabile a quello dei Tories. Esso ha espresso, fra il 1901 e il 2000, undici
presidenti su diciotto, ma i democratici hanno controllato entrambi i rami del Congresso dal 1933 al
1947, dal 1955 al 1981 e dal 1987 al 1995. Nel XX secolo, un solo presidente repubblicano eletto
dopo il New Deal – Ronald Reagan – ha goduto dell’appoggio del Senato per un intero mandato. E
quando il Partito dell’elefante, dopo un quarantennio, è riuscito a strappare la Camera ai rivali, nel
1994, opinionisti e commentatori hanno descritto l’evento in termini quasi miracolosi. Uomini
schierati su posizioni conservatrici hanno quindi guidato il Paese, ma il più delle volte lo hanno fatto in condizioni di «governo diviso» 6 .
Una simile impostazione, tuttavia, ci rivela una porzione assai ridotta di verità, e nemmeno
la più importante. Va anzitutto precisato che il conservatorismo americano ha storicamente goduto
di una cospicua rappresentanza anche all’interno del partito democratico, soprattutto negli Stati del
Sud: il che rende arduo, per non dire impossibile, identificare una sconfitta dei repubblicani con
un’avanzata degli ideali liberal, e viceversa 7 . In secondo luogo, misurazioni e percentuali scontano
una loro intrinseca limitazione: esse non comunicano nulla sulla linea più o meno moderata assunta
dai partiti, né chiariscono in che misura le metamorfosi in seno all’opinione pubblica abbiano modificato lo spettro politico. Ad una simile difficoltà si può ovviare – in prima approssimazione – esaminando la performance di partiti che s’identificano organicamente con un certo patrimonio ideologico: ad un successo delle forze socialiste si può far corrispondere un riallineamento verso sinistra
degli orientamenti politici; ad uno delle forze moderate, un riallineamento verso destra, e così via. È
questo il caso della Gran Bretagna e di buona parte del resto d’Europa. Ma laddove simili scorciatoie sono impraticabili – poiché, ad esempio, la pluralità dei cleavages presenti in seno alla società
fa sì che destra e sinistra non siano compiutamente incarnate da due o più partiti alternativi 8 – sol-
Capture of the GOP, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1995, pp. 6-18; A. S. REGINER, Upstream. The
Ascendance of American Conservatism, New York, Threshold 2008, pp. xiii-xvi.
6
W. C. BINNING, L. E. ESTERLY, P. A. SCRACIC, Encyclopedia of American Parties, Campaigns, and Elections, Westport, Greenwood Publishing Group 1999, pp. 451-454. Sulla formula «devided government» cfr. M. FIORINA, Divided
Government, New York, MacMillan 1992; G. C. JACOBSON, The Electoral Origins of Divided Government: Competition in U.S. House Elections, 1946-1988, Boulder, Westview Press 1990.
7
N. V. BARTLEY, The New South, Baton Rouge, Louisiana University Press 1995, cap. II e III; K. FREDERICKSON, The
Dixiecrat Revolt and the End of the Solid South, 1932-1968, Chapel Hill, North Carolina University Press 2001; N. C.
RAE, Southern Democrats, New York, Oxford University Press, 1994, esp. pp. 65-110. Sul peso dei dixiecrats
all’interno del Partito Democratico dagli anni ’40 agli anni ’90, si vedano le statistiche contenute in N. W. POLSBY, How
Congress Evolves: Social Bases of Institutional Change, New York, Oxford University Press 2004, pp. 75-80. Cfr.
anche G. R. BOYNTON, Southern Conservatism: Constituency Opinion and Congressional Voting, in The Public Opinion Quarterly, vol. 29, n. 2, 1965, pp. 259-269.
8
Negli Stati Uniti, le divisioni etniche hanno contribuito (e probabilmente contribuiscono tuttora) a determinare
l’adesione ad un partito almeno quanto le inclinazioni ideologiche. I repubblicani sono tradizionalmente appoggiati da
buona parte dell’elettorato wasp e di pelle bianca, mentre i democratici sono il punto di riferimento politico delle altre
minoranze (neri, ispanici, ebrei…). Cfr. D. KNOKE, R. B. FELSON, Ethnic Stratification and Political Cleavage in the
United States 1952-1968, in The American Journal of Sociology, Vol. 80, No. 3, 1974, p. 630. Ciò ha indotto Robert
Novak, nei primi anni ’70, ad auspicare la nascita di un “partito democratico etnico” (Cfr. R. NOVAK, Unmeltable Ethnics. Politics & Culture in American Life, New Brunswick, Transaction Publishers 1996 (1a ed. 1972), pp. 314-344).
7
tanto lo studio delle piattaforme, dei programmi e dei valori ispiratori delle forze in competizione
può chiarire quale sia, al tempo X, la cultura predominante in un dato sistema politico 9 .
Ebbene: optando per questo approccio, emerge come l’America sia divenuta, fra il 1968 e il
2000, un Paese più conservatore. Nell’efficace sintesi di Giuseppe Mammarella, «la naturale reazione alle vicende degli anni ’60, che nel giudizio dell’americano medio ha portato tanti liberal su
posizioni troppo radicali, è lo spostamento a destra del pendolo politico. Presto esso si manifesterà
con una crescita di consensi per il partito repubblicano e una lenta erosione delle posizioni e anche
dei programmi del partito democratico, in parallelo all’accentuarsi di una ideologia conservatrice e
neoconservatrice che negli anni a venire inciderà profondamente sulla vita politica del paese, sui valori e sulla cultura 10 ». In questa prospettiva, l’elezione di Carter e quella – duplice – di Clinton non
possono essere interpretate come segnali in vera e propria controtendenza, giacché il primo, ha notato Arthur M. Schlesinger Jr., «divenne il presidente democratico più conservatore dai tempi di
Grover Cleveland, un secolo prima (…). Da una prospettiva più ampia le differenze tra Reagan e
Carter appariranno meno importanti delle loro affinità. Entrambi i presidenti risposero con ardore
all’impulso conservatore che percepivano nella nazione 11 », mentre il secondo aderì ai valori del
centrismo e della Terza Via 12 .
II. Il potere delle idee
Formulare un modello interpretativo organico in grado di spiegare le affermazioni delle forze conservatrici in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante il XX secolo esula dagli obiettivi di
questo scritto. È comunque indubbio che tale modello dovrebbe basarsi su una pluralità di fattori,
alcuni strutturali, altri contingenti. Naturalmente – come ripetutamente evidenziato dalla storiografia, che tradizionalmente privilegia un approccio idiografico – queste affermazioni sono state conPer una visione d’insieme, corredata da ampi richiami a studi settoriali, cfr. J. G. GIMPEL, Separate Destinations: Migration, Immigration, and the Politics of Places, Ann Arbor, University of Michigan Press 1999, esp. pp. 1-30.
9
Sul concetto di cultura politica, cfr. G. A. ALMOND, S. VERBA, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy
in Five Nations, Princeton, Princeton University Press 1963, G. A. ALMOND, S. VERBA, Un approccio allo studio della
cultura politica, in G. SARTORI (a cura di), Antologia di scienza politica, Bologna, Il Mulino 1970, pp. 215-222.
10
G. MAMMARELLA, Liberal e Conservatori: l’America da Nixon a Bush, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 7. Secondo
Mammarella, il fenomeno culminerà con le elezioni del 1980, contraddistinte dal «prevalere di una nuova coalizione di
forze economiche e sociali, di una filosofia politica fondata sulla riproposizione integrale dei principi fondamentali sui
quali per due secoli si è retta l’America, e infine di una nuova cultura legata allo spostamento da Est a Ovest dei settori
più avanzati dell’economia nazionale e dei centri creativi e più dinamici della società americana» (G. MAMMARELLA,
Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza 1993, p. 468). Cfr. anche R. M. CRUNDEN, A Brief History of American Culture, Armony, North Castle Books 1996, pp. 291-332. Anche analisi di segno opposto, che negano
una svolta conservatrice negli anni ’80, riconoscono comunque un «esaurimento del liberal momentum» durante gli anni ’70 (T. W. SMITH, Liberal and Conservative Trends in the United States Since World War II, in The Public Opinion
Quarterly, vol. 54, n. 4, 1990, pp. 479-507).
11
A. M. SCHLESINGER JR., The Cycles of American History, Boston, Houghton Mifflin Books 1999 (1a ed. 1986) p. 33.
12
Sul centrismo “necessario” di Bill Clinton, cfr. J. F. HARRIS, The Survivor: Bill Clinton in the White House, New
York, Random House 2005.
8
seguite localmente, in momenti storici determinati, interagendo con elementi autoctoni e congiunturali. Per limitarci al caso americano, è innegabile che la «straordinaria crescita delle forze religiose
in politica», in virtù della mobilitazione di congregazioni ed associazioni di fedeli, del cui apporto
«ha beneficiato soprattutto la destra 13 » abbia favorito l’ascesa di Ronald Reagan, così come la scarsa credibilità del presidente Carter abbia contribuito a determinare l’esito delle elezioni del 1980 14 .
Ampliando ulteriormente la prospettiva, si potrebbe probabilmente individuare un nesso fra il declino economico dell’URSS e la popolarità di un progetto che «puntava essenzialmente a liberare la
produzione e distribuzione della ricchezza dalla supervisione e gestione statale 15 », e così via.
Eppure – senza voler sminuire l’apporto di queste componenti – ciò che preme evidenziare è
il ruolo della variabile ideologica, la quale possiede una sua autonomia ed un suo peso.
Il presupposto da cui la nostra analisi muove, infatti, è che il conservatorismo sia
un’ideologia, nell’accezione debole del termine: intendendo, con ciò, «un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi16 ».
Per dimostrare la bontà di tale impostazione, evidenzieremo ora le carenze presenti negli approcci interpretativi che non valorizzano adeguatamente il fattore ideologico (dimostrazione a contrario).
Anzitutto, sono da avversare le tesi di quanti scorgono nel conservatorismo un fenomeno
culturalmente sterile, incapace di incidere in profondità nella civic culture e di modificarne i presupposti. Se ad esempio, come ha sostenuto Larry Schwab, «negli anni ’80 gli Stati Uniti sono rimasti nella stessa era politica cominciata negli anni ’30. Nessun cambiamento fondamentale si è verificato nell’opinione pubblica, nelle idee politiche e nelle politiche pubbliche per far entrare il sistema politico in una nuova era, repubblicana e conservatrice» 17 , allora come dar conto della funzione moderatrice esercitata dalla Nuova Destra sulle ambizioni riformatrici dei suoi oppositori 18 ?
E come mai numerosi osservatori, a cavallo del nuovo millennio, hanno individuato nella fase conclusiva del Novecento un periodo complessivamente favorevole all’«ordine dell’egoismo» 19 , non
13
D. PLOTKE, The success and anger of the modern American Right, in D. BELL (ed.), The Radical Right, New Brunswick, Transactions Publishers 2002, p. LXII
14
Cfr. G. M. POMPER, The Election of 1980: Reports and Interpretations. New York, Chatham 1980.
15
Z. BAUMAN, Europe: an Unfinished Adventure, Cambridge, Polity 2004, tr. it. L’Europa è un’avventura, Bologna, Il
Mulino 2006, p. 74.
16
«Nel suo significato debole, “ideologia” designa il genus, o una species variamente definita, dei sistemi di credenze
politiche: un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi» (M. STOPPINO, Potere e teoria politica, ECIG, Genova 1983, p. 103).
17
L. M. SCHWAB, The Illusion of a Conservative Reagan Revolution, New Brunswick, Transaction Publishers 1991, p.
225.
18
Esemplare, in questo senso, la ricostruzione, realizzata da Mark Mazower, dell’impatto che il thatcherismo ebbe sui
leader europei, anche socialdemocratici (cfr. M. MAZOWER, Dark Continent: Europe’s Twentieth Century, New York,
Alfred A. Knopf 1999, pp. 327-360).
19
Con l’espressione «ordine dell’egoismo» John Dunn ha inteso designare le forze antiegualitarie e stabilizzatrici che
costituiscono una delle anime delle moderne democrazie rappresentative. Tale ordine si basa su un’offerta rivolta dai
governanti ai governati «che non è un’entità fissa e immutabile, ma una formula altamente flessibile e sempre parzial9
soltanto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti? «Assistiamo alla sconfitta storica, di un’ampiezza
senza precedenti, dei valori della sinistra» proclamava nel 1997 Alain Caillé, nella seconda delle
sue Trenta tesi 20 . «Sotto certi aspetti le somiglianze con il periodo con il periodo di poco meno di
cent’anni fa sono sorprendenti» rifletteva Ralf Dahrendorf un anno dopo. «Una lunga fase di crescente prosperità sotto le insegne liberali sta dietro di noi (così all’inizio del secolo). Adesso le insegne sono neoliberali» 21 . Secondo Perry Anderson, dalla fine della Guerra Fredda in poi «le idee di
destra hanno guadagnato terreno, il centro vi si è adattato, e la sinistra, parlando in generale, batte in
ritirata» 22 . Mentre Andrew Sullivan, rievocando il keynesismo e alle politiche sociali degli anni
’40-’60, ha formulato nel 2006 un giudizio in linea con lo spirito dei tempi: «oggi è difficile credere
che qualcuno abbia davvero riposto fiducia in queste cose» 23 . Le voci riportate – e se ne potrebbero
citare molte altre – sono accomunate dal riconoscimento di un mutato atteggiamento di individui e
gruppi sociali nei confronti delle istituzioni e dello spazio pubblico; conseguenza, questa, di una trasformazione culturale figlia dell’età reaganiana e thatcheriana, e del credo conservatore che l’ha accompagnata 24 .
In secondo luogo, vanno respinte le tesi che sottendono un’immagine, meno tranchant e pertanto più credibile, del conservatorismo come agglomerato di risposte locali a problemi locali, contraddistinte dalla valorizzazione, caso per caso, delle soluzioni maggiormente conformi al senso
comune e agli usi autoctoni 25 . Se davvero il conservatorismo fosse riconducibile al tradizionalismo
mente oscura. Essa unisce un minimo riconoscimento a un’estesa tutela dei requisiti istituzionali dell’ordine
dell’egoismo, attraverso la garanzia del diritto di proprietà, la regolamentazione del commercio e un opportuno equilibrio tra imposizione fiscale sufficiente a garantire la scurezza e adeguata protezione da tutte le forme di espropriazione
(compresa appunto la tassazione), affinché l’ordine dell’egoismo proceda a ritmo sostenuto sulla sua strada.
L’estensione del riconoscimento e il livello della protezione offerta vengono continuamente negoziati»: così J. DUNN,
Setting the People Free: The Story of Democracy, London, Atlantic Books 2005, tr. it. Il mito degli uguali. La lunga
storia della democrazia, Milano, Egea-Università Bocconi Editore 2006, p. 158.
20
A. CAILLÉ, Trenta Tesi per la Sinistra, Roma, Donzelli 1997, pp. 6-8.
21
R. DAHRENDORF, Bilanz und Hoffnung, in «Der Spiegel», 45/1998, ora in R. DAHRENDORF, La società riaperta. Dal
crollo del muro alla guerra in Iraq, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 265.
22
P. ANDERSON, Spectrum. From Left to Right in the World of Ideas, London, Verso 2005, p. xiv.
23
A. SULLIVAN, The Conservative Soul, New York, Harper 2006, p. 17.
24
R. BUCKLEY, Up for Conservatism, in The American Conservative, I, 2009. Sul ricorso all’espressione “credo”, cfr.
D. T. KOYZIS, Political Visions and Illusions: A Survey and Christian Critique of Contemporary Ideologies, Downers
Grove, InterVarsity Press 2003, pp. 75-78.
25
Relativismo e localismo contribuiscono a comporre l’identità conservatrice: non stupisce, quindi, che Jerry Z. Muller
abbia concluso una sintetica trattazione di esso riconoscendone «le inevitabili varietà» (J. Z. MULLER, Conservatism: an
Anthology of Social and Political Thought from David Hume to the Present, Princeton, Princeton University Press 1997,
pp. 3-31). Il punto, semmai, è se relativismo e localismo riassumano in sé il conservatorismo nella sua interezza. Significativa, in questo senso, la posizione di Roger Scruton, secondo cui «il conservatorismo esalta lealtà storiche, identità
locali e quel tipo di impegno a lungo termine che scaturisce tra la gente grazie alle sue circoscritte e limitate affermazioni. Mentre il socialismo e il liberalismo sono sostanzialmente globalistici nei loro scopi, il conservatorismo è prettamente locale». Ciononostante, Scruton, lamentando «i ripetuti insuccessi nel lasciare un segno nel mondo delle idee» da
parte dei Tories, rivendica l’importanza di «delineare le aree in cui il pensiero filosofico è necessario se la posizione
conservatrice vuole diventare intellettualmente convincente» (R. SCRUTON, A political philosophy, London-New York,
Continuum 2006, p. VIII-IX, tr. it. Manifesto dei conservatori, Milano, Raffaello Cortina Editore 2007, pp. 5-6).
10
localistico 26 , e si esaurisse in esso, come spiegare, ad esempio, l’associazione, che tuttora perdura
nell’immaginario collettivo, di due leader di paesi diversi, come Ronald Reagan e Margareth Thatcher 27 ? E come giustificare l’influsso da loro esercitato su numerosi policy makers al di fuori del
mondo anglosassone 28 ?
Simili esempi dimostrano come il conservatorismo possa strutturarsi in modelli capaci di attecchire all’interno di sistemi socio-economici assai variegati, e ciò dovrebbe indurre ad una più accorta disamina della sua articolazione teorica.
Non ci si può accontentare, in conclusione, di una concezione che scorga nei successi di partiti e movimenti conservatori un prodotto di fattori meramente endogeni a singoli Paesi, e la contemporaneità di tali successi a mere giustapposizioni cronologiche. Per abbandonare un simile, ingiustificato riduzionismo, occorre aggiungere almeno un quid: e questo quid è rappresentato, per
l’appunto, dall’ideologia. È anche al messaggio conservatore che bisogna guardare; al suo radicamento, alla vitalità dei suoi principi e all’impatto che è in grado di esercitare sui processi sociopolitici. È ben vero che gli stessi conservatori si mostrano inclini, non di rado, a presentarsi come
esponenti di un pensiero a-ideologico, ossia estraneo ed immune alle ideologie 29 . Ma, al di là di simili tendenze – spesso di natura tattica, strategica 30 – , non si può negare la cruciale funzione di legittimazione che il conservatorismo, al pari di ogni altra ideologia, svolge nel processo elettorale, e
più in generale nel processo politico.
26
La differenza fra conservatorismo e tradizionalismo è colta, fra gli altri, da A. AUGHEY, G. JONES, W. T. M. RICHES,
The Conservative Political Tradition in Britain and the United States, Pinter, London 1992, pp. 13. Cfr. anche B.
CRICK, The Strange Quest for an American Conservatism, in Review of Politics, vol. 17, n. 3, 1955, pp. 359-376.
27
Cfr., ad. es., P. PIERSON, Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchment, New
York, Cambridge University Press 1994. Sulla stima reciproca dei due leaders, cfr. i loro interventi raccolti nel volume
di M. RESPINTI (a cura di), Ronald W. Reagan. Un americano alla Casa Bianca, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005,
pp. 82-101.
28
Secondo Margaret Hanson e James J. Hentz, «gli anni ’80 e i primi anni ’90 hanno visto un’ondata neoliberale investire le aree del mondo in via di sviluppo», in particolare l’Africa subsahariana, nella quale «almeno 29 paesi hanno conosciuto quasi un decennio di riforme strutturali, alcuni un periodo più lungo» (M. HANSON, J. J. HENTZ, Neocolonialism and Neoliberalism in South Africa and Zambia, in Political Science Quarterly, vol. 114, n. 3, 1999, p. 479).
29
Michael Freeden ha rilevato come l’«immagine profondamente radicata di anti-intellettualismo» cui il conservatorismo è associato è generalmente condivisa dai conservatori stessi (M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 408).
Roger Scruton ha così riassunto la medesima attitudine: «I conservatori sono di vario genere. Ma essi condividono
l’opinione secondo cui la politica si mantiene, o dovrebbe mantenersi, più sul piano della conoscenza pratica che su
quello della conoscenza teoretica» (R. SCRUTON, Review of “Conservatism” by T. Honderich, in The Philosophical
Quarterly, vol. 41, n. 163, 1991, p. 256).
30
La capacità, da parte del conservatorismo, di riorganizzarsi programmaticamente attorno a valori differenti, talora incompatibili, per reagire ad un tentativo di trasformazione repentina e radicale dell’ordine sociale presuppone che esso
non sia declinato secondo modalità eccessivamente restrittive e rigide. È questa flessibile eterogeneità a rendere il conservatorismo «un modo di pensare e un contenuto di pensiero che può essere usato, se necessario, in difesa delle cose
come sono» contrapponendo una forza eguale e contraria ai sostenitori di una riforma dell’ordine sociale: da questo
punto di vista, fra radicalismo e conservatorismo esiste una corrispondenza, dal momento che entrambi sono «fragili
nella loro dichiarazione di intenti, fatte salve le linee generali» (F. WILSON, A Theory of Conservatism, in The American
Political Science Review, vol. 35, n. 1, 1941, pp. 29-43. Corsivo mio).
11
È l’ideologia, più o meno consapevolmente adottata, a filtrare infatti la percezione che i cittadini hanno dei loro interessi, dei loro bisogni, delle loro aspettative; è l’ideologia a mediarne la
percezione della realtà e ad indurli a fissare le loro “scale di preferenze” in un modo anziché in un
altro; è l’ideologia, infine, a garantire i processi di auto-identificazione simbolica in grado di orientare il voto 31 . Non stupisce, quindi, che proprio un conservatore dichiarato abbia fatto del primato
delle idee sugli interessi materiali un punto centrale della propria proposta teorica 32 . Le nostre idee,
diceva Alain, sono i nostri occhiali.
III. La definizione situazionale e i suoi limiti
Ciò chiarito, occorre compiere un passo ulteriore, e domandarsi se l’ideologia conservatrice
si presti ad uno studio autonomo ed oggettuale, o non vada interpretata principalmente in chiave
funzionalista, ponendola in stretta correlazione con gli equilibri socio-politici che vorrebbe preservare. In questo secondo caso, il problema della “conservazione” travalicherà la sfera propriamente
concettuale e si sovrapporrà alla disamina dei processi sociologici.
Va rilevato, in effetti, che forze tecnicamente “conservatrici”, cioè contraddistinte
dall’opposizione ad una determinata trasformazione istituzionale, emergono in seno a ciascun sistema politico ogniqualvolta il rischio di una paventata trasformazione si profila all’orizzonte. Dalla
Grecia antica sino ai nostri giorni, non appena determinati gruppi hanno manifestato la volontà di
riformare o di sostituire le istituzioni esistenti, altri gruppi – che dall’assetto vigente ottenevano, o
ritenevano di ottenere, maggiori benefici – hanno reso esplicito il loro disaccordo ed elaborato dottrine in grado di legittimare la loro pretesa di salvaguardia dello status quo. È appena il caso di notare che la dialettica fra “innovatori” e “conservatori” è elemento strutturale dello sviluppo politico,
destinata a verificarsi sempre e comunque, dal momento che la vita associata non si regge mai su un
esercizio cristallizzato e incontestato dal potere, bensì conosce margini di assestamento ed evoluzione, nei quali il contrasto fra ideologie alternative, e gruppi sociali con finalità antitetiche, finisce
col riprodursi 33 .
All’interno di questa prospettiva può essere meglio compresa la definizione situazionale del
conservatorismo, elaborata da Samuel P. Huntington in aperta polemica con quanti lo identificano
con «un sistema di idee autonomo e con una sua generale validità» . Per Huntington, invece, il con31
Sui processi di auto-identificazione, cfr. P. J. CONOVER, S. FELDMAN, The Origins and Meaning of Liberal/Conservative Self-Identifications, in American Journal of Political Science, vol. 25, n. 4, 1981, pp. 617-645.
32
Il riferimento è a Irving Kristol. Sul punto, cfr. F. FELICE, Prospettiva neocon. Capitalismo, democrazia, valori nel
mondo unipolare, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005, pp. 115-116. Felice riporta anche una frase di N. Podhoretz, secondo cui i neoconservatori possono essere definiti “gramsciani” per l’attenzione che prestano alla sfera culturale (N.
PODHORETZ, Neoconservatism: an Eulogy, in «Commentary», marzo 1996, p. 26).
33
Cfr. D. FISICHELLA, Politica e mutamento sociale, Lungro di Cosenza, Costantino Marco Editore 1999.
12
servatorismo costituirebbe «quel sistema di idee utilizzato per giustificare ogni ordine sociale stabilito, indipendentemente da quando o dove esso trovi la propria origine, e utilizzato contro ogni sfida
alle fondamenta di questo e della sua stessa esistenza, indipendentemente dalla parte da cui tale sfida provenga 34 ».
Huntington espone argomenti convincenti a sostegno della propria posizione, e lo fa con lo
stile brillante, accattivante e sofisticato che contraddistingue i suoi scritti. Permane, nondimeno, un
chiaro limite nel suo approccio: il pervenire ad una definizione meramente formale ed esteriore del
conservatorismo, che trascura variabili cruciali quali la natura dell’ordine sociale da preservare, le
modalità del cambiamento istituzionale, i sistemi di valori interiorizzati da gruppi ed individui.
Huntington pone al centro dell’analisi la dicotomia staticità / mutamento, intrinsecamente avalutativa e descrittiva, in luogo di quella desta / sinistra, assiologica e normativa. Apparentemente, il conservatorismo sembra identificarsi in entrambi i casi con il primo dei due poli. In verità,
un’applicazione rigorosa della definizione situazionale potrebbe ad esiti piuttosto paradossali: si
giungerebbe a classificare come “conservatori”, per citare qualche esempio storico, gli esponenti
delle gerarchie militari dell’URSS, custodi dell’ortodossia marxista-leninista, ostili a Gorbacev, o i
minatori dello Yorkshire protagonisti del lungo sciopero contro le privatizzazioni governative nel
1984-1985. Conclusione, questa, che potrà risultare utile a fini tassonomici nello studiare processi
di transizione da un regime politico all’altro 35 , ma appare fuorviante e inadeguata se applicata alla
storia delle idee 36 .
Sorge peraltro spontaneo domandarsi cosa abbia spinto Huntington ad adottare un approccio
così rigido, assolutizzando l’approccio sociologico e negando alla radice la possibilità di formulare
una teoria positiva e organica del conservatorismo: «il conservatorismo appare differente da tutte le
altre ideologie ad esclusione del radicalismo: ad esso manca ciò che potremmo definire un ideale
concreto […]. Non esiste alcun ideale conservatore che svolga la funzione di termine di giudizio.
Nessuno scienziato politico ha mai descritto un’utopia conservatrice. In ogni società saranno sempre presenti delle istituzioni da conservare, ma non ci saranno mai delle istituzioni conservatrici 37 ».
34
Cfr. S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an Ideology, in The American Political Science Review, vol. 51, n. 2, 1957,
pp. 454-473, tr. it. (parziale) in C. MONGARDINI, M. L. MANISCALCO (a cura di), Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Milano, Franco Angeli 1999, pp. 165-179. I passi citati sono reperibili alla p. 455 (tr. it.
pp. 166-167). Corsivi miei.
35
La dialettica fra conservatori e progressisti (in senso “situazionale”) è ampiamente scandagliata proprio da Huntington nel suo studio sui processi di democratizzazione dal 1974 al 1990 (cfr. S. P. HUNTINGTON, The Third Wave : Democratization in the Late Twentieth Century, Norman, University of Oklahoma Press 1991).
36
Michael Freeden scorge, giustamente, nell’incapacità di spiegare perché il conservatorismo possa assumere connotati
aggressivi e “rivoluzionari”, come fece il thatcherismo britannico, un limite strutturale del posizonalismo huntingtoniano (M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, op. cit., p. 331, tr. it. p. 424).
37
S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an ideology, in The American Political Science Review, op. cit., pp. 457-458, tr.
it. pp. 170-171.
13
Huntington estremizza alcuni tratti tipici del conservatorismo (la vaghezza contenutistica, il
polimorfismo programmatico, l’antiutopismo, etc.) per negare la validità di un’analisi oggettuale.
Perché? In fondo, proprio in quegli anni, Robert Nisbet aveva tentato di elaborare
un’interpretazione sistemica e metodologicamente rigorosa del conservatorismo, enucleandone concetti essenziali da declinare adeguatamente nella fase storica e nel contesto culturale di riferimento 38 .
In verità – ed è una notazione necessariamente fugace, poiché esula dal nostro attuale percorso – Huntington propone la teoria situazionale per rimarcare il proprio distacco dai teorici del
«nuovo conservatorismo» americano affermatosi nel secondo dopoguerra. Con argomentazioni e vis
polemica non dissimili da quelle sfoggiate negli stessi anni da Arthur Schlesinger 39 , Huntington critica aspramente la deriva “ideazionale” impressa al conservatorismo da autori come Kirk e Viereck:
«Con il desiderio di importare il senso europeo dell’aristocrazia nell’America borghese, sognano ricordando un epoca con meno democrazia, meno eguaglianza, meno industrialismo, un’età in cui solo un’élite deteneva il potere e le masse sapevano restare al proprio posto […]. Al posto di
un’energica difesa della democrazia costituzionale americana, i libri di Kirk sono pieni di un desiderio forzato, sentimentale, nostalgico ed antiquato per una società che è tramontata. Kirk e i suoi
discepoli sono fuori tempo e fuori luogo nell’America contemporanea 40 ». E ciò perché Huntington
vede nel classical liberalism l’unica tradizione intellettuale in grado di difendere le istituzioni americane durante la Guerra Fredda. In altre parole, un pensiero conservatore autonomo sarebbe inutile,
poiché spetterebbe ai liberal esercitare un ruolo conservatore e difensivo al cospetto della sfida incarnata dal sistema sovietico 41 .
IV. Alle radici dell’ideologia conservatrice
38
Cfr., ad es., R. NISBET, Conservatism and Sociology, in The American Journal of Sociology, vol. 58, n. 2, 1952, pp.
167-175. Nisbet metteva in guardia contro una lettura esclusivamente psicologica del conservatorismo, a scapito dello
studio delle idee, «conservatrici non soltanto nel senso, superficiale, che ciascuna di esse ha come referente un aspetto
della società che concerne il mantenimento o la conservazione dell’ordine, ma nell’importante senso che tutte queste
parole sono parti integranti della storia intellettuale del conservatorismo europeo» (ibidem, p. 167). Su Nisbet, cfr. B. L.
STONE, Robert Nisbet. Communitarian Traditionalist, Wilmington, ISI Books 2000.
39
Sul punto, cfr. cap. II par. IV del presente scritto.
40
S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an ideology, in The American Political Science Review, op. cit., p. 471, tr. it. p.
176.
41
«Le istituzioni americane rappresentano un modello di liberalismo, partecipazione popolare e democrazia. Esse possono essere difese nella maniera migliore da coloro che credono nel liberalismo, nel controllo popolare e nella democrazia. Come gli aristocratici erano i conservatori nella Prussia del 1820 ed i proprietari di schiavi erano i conservatori
negli Stati del sud del 1850, così i liberaldemocratici possono diventare i conservatori dell’America di oggi […]. Oggi
la necessità primaria non è più rappresentata dalla creazione di un numero maggiore di istituzioni liberaldemocratiche,
quanto alla difesa di quelle tra di esse che sono già presenti. Questa difesa richiede che i liberaldemocratici mettano da
parte la loro ideologia liberaldemocratica e che accettino i valori del conservatorismo per tutta la durata della minaccia
portata alle istituzioni americane» (S. P. HUNTINGTON, Conservatism as an Ideology, in The American Political Science
Review, op. cit., p. 167, tr. it. p. 178).
14
Respinta, quindi, la prospettiva huntingtoniana, possiamo ora domandarci: quali elementi
hanno favorito l’affermarsi di un’influente ideologia conservatrice nell’ultimo trentennio? Quali
spazi, nell’ambito della teoria politica e nei processi di legittimazione delle scelte collettive, sono
stati occupati dalla Nuova Destra?
L’interrogativo è vasto, e non è nostra intenzione avanzare una risposta esauriente. Il presente lavoro, tuttavia, suggerisce una possibile – benché necessariamente parziale – interpretazione. Lo
sviluppo del liberalismo razionalistico, fra gli anni ’30 e gli anni ’50, rappresentò una fase di straordinario rilievo nella storia del pensiero politico contemporaneo. L’esperimento del New Deal costituì un tentativo inedito e, per molti versi, rivoluzionario di coniugare libertà individuale e sicurezza
sociale. Quando quella formula politica e quel paradigma teorico si esaurirono – in parte a causa di
fattori esogeni, riconducibili alla crescita economica e ai rapporti di forza internazionali; in parte
sotto l’influsso di nuove interpretazioni del pensiero liberale –, il conservatorismo ebbe modo di attecchire. La crisi de liberalismo progressista, quindi, è la precondizione ideologica ed istituzionale
dell’affermazione thatcheriana e reaganiana negli anni ’70.
Tale impostazione si riflette nell’organizzazione del presente scritto.
Il capitolo II verterà su una ricostruzione della parabola dell’«ordine liberale», dagli anni ’30
agli anni ’50. Ci concentreremo, in particolare, sul rapporto di cooperazione instauratosi fra liberalismo e scienze sociali, che costituì un elemento imprescindibile nella formulazione del paradigma
progressista.
Il capitolo III, attraverso l’analisi comparata di alcune opere – risalenti tutte nel 1952 – di
quattro autori (Berlin, Talmon, Hayek e Niebuhr), evidenzia il graduale distacco, in seno alla tradizione liberale, dal radicalismo politico e dalla carica riformatrice propria del New Deal Liberalism.
Tale processo coincise con un parallelo affioramento di concetti e sensibilità limitrofi alla tradizione
conservatrice.
Il capitolo IV, dedicato alle figure di Eric Voegelin (1901-1985) e di Michael Oakeshott
(1901-1990), si sforza di ricostruire i punti nodali di quella concezione critica della modernità che
rappresenta il nucleo duro del pensiero conservatore contemporaneo. In Voegelin e Oakeshott è infatti possibile a nostro avviso, rinvenire i tratti principali della polemica conservatrice contro il razionalismo politico: dal rifiuto del costruttivismo illuministico alla denunzia dei pericoli insiti nel
processo di secolarizzazione, dalla critica alla metodologia delle scienze sociali di derivazione positivistica all’avversione per l’ingegneria sociale, nonché una ridefinizione dei compiti e dei limiti che
contraddistinguono la sfera politica.
Il capitolo V, infine, espone alcune riflessioni conclusive, relative all’effettiva contiguità tra
la riflessione di Voegelin e di Oakeshott e la sensibilità neoconservatrice.
15
Possiamo riassumere come segue l’oggetto del presente lavoro: svolgere un’analisi comparata di alcuni scritti di due filosofi politici, alla luce: a) della loro elaborazione teorica precedente
e successiva; b) del contesto culturale di riferimento (elemento statico); c) delle tendenze evolutive
che andavano affermandosi all’interno di tale contesto (elemento dinamico) 42 .
Il metodo che ci sforzeremo di seguire si basa sull’integrazione dell’analisi teorica con ampi
riferimenti eventografici. Le idee – è il caso di ribadire – non si diffondono nel vuoto pneumatico.
Esse interagiscono con avvenimenti specifici e contingenti: traggono forza da essi ovvero ne sono
indebolite; ma, nel contempo, possono a loro volta influenzare lo svolgimento di tali eventi, inducendo gli attori ad orientare le proprie scelte in un senso anziché in un altro, a privilegiare determinate opzioni in virtù di specifiche, non neutre, gerarchie di valore.
Ed è, appunto, nello spazio sottile, ma pur sempre esistente, fra vincoli di natura storica ed
istituzionale e creatività della filosofia politica che prende forma – al pari di ogni altra ideologia – la
«visione» 43 che contraddistingue il conservatorismo contemporaneo. Nostro compito è cogliere i
tratti salienti della sua genesi.
42
L’importanza del contesto è ampiamente sottolineata negli scritti metodologici di Q. Skinner. Cfr., in particolare, Q.
SKINNER. Meaning and Understanding in the History of Ideas, in Visions of Politics, vol I., Cambridge, Cambridge
University Press 2002, pp. 57-89. Alcuni scritti metodologici di Skinner (fra cui quello citato) sono apparsi in lingua
italiana in Q. SKINNER, Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino 2001.
43
Cfr. S. WOLIN, Politics and Vision, Princeton, Princeton University Press 2004, pp. 17-20. Il termine “visione”, nel
lessico di Wolin, contiene in sé elementi descrittivi, ma anche una forte carica emotiva e creativa.
16
II.
La vita e i tempi dell’ordine liberale
Il “piano” e l’ordine sono presenti, anche in forma latente, in tutti i processi industriali, nelle progettazioni, nei
preventivi, negli schemi organizzativi, nello studio dei
tempi, nei grafici che nella centrale motrice registrano i
valori di produzione giorno per giorno, ora per ora […].
Quello che ancora deve essere perfezionato è l’applicazione di queste tecniche industriali al più vasto ordinamento sociale.
Lewis Mumford, Technics and Civilization, 1934 44
I voted for Him for lots o' jobs, I'd vote His name again;
He tried to find an honest job for every idle man;
This world was lucky to see Him born…
Woody Guthrie, Dear Mrs. Roosevelt, 1945 45
I. Capire il New Deal: il ruolo delle idee
Nel 1978, tracciando un bilancio della storiografia statunitense sul New Deal, Ellis W. Hawley notava come studi recenti avessero incrinato la tradizionale immagine di un’America divisa
fra haves – il mondo degli affari arricchitosi negli anni ’20, ostile all’azione riformatrice di Roosevelt – ed haves not – operai, azionisti, piccoli imprenditori travolti dalla Grande Depressione, sostenitori del Presidente. Un’impostazione così schematica, da un lato, non riusciva a spiegare come
mai le due parti, malgrado l’asprezza dello scontro, avessero continuato a condividere alcuni princìpi e valori fondamentali; dall’altro, trascurava linee di conflitto più sottili, quasi capillari, che dividevano élites consolidate ed emergenti, gruppi etnici e culturali, sostenitori ed oppositori della modernizzazione.
Ulteriori complicazioni emergevano affrontando lo sviluppo, dagli anni ’30 in poi,
dell’organizzazione. Quest’ultima poteva essere descritta come una “zona grigia”, né interamente
statale, né del tutto privata, dominata da una burocrazia altamente specializzata; un ambito «che si
formava tra il mercato e la politica e sviluppava la sua disciplina e le sue ricompense 46 ». I suoi
membri «stabilirono nuovi servizi ed infrastrutture amministrative per correggere quelli che essi
percepivano come carenze del sistema di mercato o dell’apparato politico; e cercando nuove fonti di
autorità, essi permisero ad élite manageriali o tecniche di impadronirsi di grandi spazi politici e di
44
L. MUMFORD, Technics and Civilization, Hartcourt, Brace and Co. 1934, tr. it. Tecnica e Cultura, Milano, Net 1995,
p. 422.
45
Cit. in P. SEEGER (ed.), Woody Guthrie Folk Songs, London-New York, Berkeley Books 1973, pp. 18-19.
46
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, Bologna, il Mulino 1981, pp. 331-339, spec. p. 332.
17
erigere e fortificare le loro basi di potere47 ». L’organizzazione rappresentava il punto di contatto fra
governo ed imprese, il luogo in cui funzionari e manager dei due settori si confrontavano e cooperavano, creando i presupposti per un più armonico bilanciamento fra tutela dell’interesse pubblico
ed iniziativa privata. Simili strutture avevano ben presto dato vita ad un’incontrollata proliferazione
di collegi, commissioni ed altri circoscritti centri di potere, maldisposti verso qualsiasi ipotesi di coordinamento o di razionalizzazione. «Come in numerose società europee, un pluralismo mal funzionante ha dato adito non ad un commonwealth socialista o ad una regolamentazione statale, ma ad un
certo livello di “corporativizzazione”, radicata nei “governi privati” approvati pubblicamente o sostenuti dallo Stato, in un’infrastruttura di comitati di consultazione che collegano l’azione pubblica
a quella privata, in consigli nazionali di coordinazione economica, ed in giudici esperti di ciò che è
“illuminato” e fattibile 48 ».
Oltre ad approfondirne le modalità di affermazione e le trasformazioni successive, era necessario, secondo Hawley, comprendere se e in che misura la corporativizzazione statunitense fosse
«un’espressione istituzionale di particolari tipi di culture o di storie nazionali49 ». Questo perché «gli
studiosi hanno tendenzialmente considerato il cambiamento istituzionale come l’opera di uomini
non legati ad alcuna ideologia che affrontavano situazioni o problemi particolari. Tuttavia le analisi
recenti del pensiero degli ambienti finanziari, politici, sindacali e professionali hanno scoperto una
varietà di individui o gruppi che hanno dato voce a ideali organizzativi con caratteristiche sia pluralistiche che corporative 50 ». Dopotutto, non andava dimenticato che «l’idea di disciplinare la combattività di un gruppo attraverso l’introduzione di una componente corporativa piuttosto che statalista ha avuto in America i suoi ideologi 51 ».
Concepire la corporazione come un modello alternativo tanto allo statalismo quanto al laissez-faire, conferendole i caratteri di progetto autonomo, comportava la messa di discussione di un
altro luogo comune, alimentato dal più consolidato approccio storiografico: l’idea che il centro politico rappresentasse un punto d’incontro meramente compromissorio fra sostenitori di un Welfare
47
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., ibidem
48
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., p. 333.
49
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., ibidem.
50
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., p. 334.
51
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., ibidem.
18
circoscritto e simpatizzanti del capitalismo temperato. Si poteva ipotizzare, invece, l’esistenza di un
«liberalismo corporativo», in grado di bilanciare radicalismi opposti, e la cui forza si era mostrata
soprattutto nei periodi di crisi. «Se non è stato un fattore importante di cambiamento istituzionale»
sottolineava Hawley, questo liberalismo «ha avuto le sue ripercussioni sui comportamenti politici
ed intellettuali, e merita un’analisi molto più approfondita di quella che ha ricevuto sinora 52 ».
Qualora l’esistenza del liberalismo corporativo fosse stata confermata da indagini più accurate, le rappresentazioni canoniche del New Deal sarebbero state profondamente ridiscusse: non un
progetto politico favorevole ai ceti deboli, come pretendevano i progressisti, né un esperimento di
parziale collettivizzazione del sistema economico, come lo giudicavano i conservatori, bensì il tentativo di dar vita ad «uno stato che avrebbe organizzato un complesso di interessi riconosciuti ed avrebbe poi agito come componente della funzione coordinatrice e pianificatoria svolta da quello
stesso complesso 53 ». Questa impostazione avrebbe permesso di affermare che «molto di ciò che accadde negli anni Trenta faceva parte di un vecchio modello e si può ben sintetizzare non tanto come
un risultato della lotta di classe o come l’avvento del “grande governo”, ma come lo sforzo di un
ordinamento sociale pluralistico con fedeltà liberali di trovare strutture private ed élites capaci di
correggerne i difetti e le presunte disfunzioni 54 ». In una prospettiva di ancor più lungo periodo, sarebbe stato possibile concludere «che il cardine della storia americana moderna non consiste nella
lotta di classe, nel conflitto tra mondo degli affari e governo, o tra mercato e stato; consiste semmai
in un pluralismo organizzativo in cui le agenzie statali collaborarono e si unirono agli ordini privati;
in crisi ricorrenti derivanti da carenze di coordinamento e della resistenza ai valori organizzativi; nel
persistere della fiducia nei valori liberali e nelle possibilità di realizzarli attraverso strutture corporative che impiegavano progetti e discipline private 55 ».
Vale la pena di soffermarsi sulle argomentazioni di Hawley per due ordini di ragioni. Anzitutto perché esse abbozzano un approccio sintetico, in grado di offrire una chiave di lettura parzialmente unitaria per un fenomeno complesso e denso di contraddizioni quale il New Deal 56 . In se52
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., p. 335.
53
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., p. 336.
54
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., pp. 337-338.
55
E. W. HAWLEY, The Discovery and Study of Corporate Liberalism, in Business History Review, LII, n. 3, 1978, pp.
309-320, tr. it.(parziale) La scoperta e lo studio di un liberalismo corporativo, in M. VAUDAGNA (a cura di), Il New
Deal, op cit., p. 338.
56
Sulle contraddizioni del New Deal, cfr. H. W. ARNDT (ed.), The Economic Lessons of the Nineteen-Thirties, London,
Oxford University Press 1944, pp. 34-35; W. LEUCHTENBURG, Franklin D. Roosevelt and the New Deal, New York,
Harper & Row 1963, pp. 167-197; P. ABBOTT, The Exemplary Presidency: Franklin D. Roosevelt and the American
Political Tradition, Amherst, University of Massachusetts Press 1990, pp. 186-187; D. RODGERS, Atlantic Crossings:
19
condo luogo, esse sottolineano l’importanza di ricondurre l’affermazione del modello organizzativo
corporativo anche all’influsso di alcune idee, od elaborazioni teoriche. Ed è su questo secondo aspetto che concentreremo la nostra attenzione.
Sostenere, come si intende fare in questa sede, che le origini del New Deal affondino in idee
e teorie – idee relative ad un determinato rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, teorie incentrate
sulle modalità di gestione della conflittualità sociale, sulla ridistribuzione del reddito, sui doveri sociali di uno Stato democratico – potrebbe apparire un punto tanto ovvio da non meritare alcuna discussione preliminare.
Eppure, ancora un certo fascino esercita l’interpretazione “consensualista” (o classica)
dell’età rooseveltiana proposta da autori come Richard Hofstadter e Arthur M. Schlesinger Jr., interamente focalizzata sull’abilità strategica e la spregiudicatezza del Presidente, assistito da uomini
descritti come pragmatici ed anti-ideologici 57 . Parallelamente sopravvive, soprattutto fra economisti
e sociologi, la tendenza a considerare la «grande trasformazione» degli ’30 il prodotto oggettivo e
necessitato di determinati fattori, quasi che i policy-makers del tempo si fossero limitati a prendere
atto delle mutate condizioni sociali ed avessero agito nell’unico modo possibile per superare la crisi 58 . Tanto nel primo quanto nel secondo caso, la riflessione filosofico-politica avrebbe giocato un
ruolo secondario, tutt’al più residuale, nel determinare priorità e modalità di intervento da parte dei
riformatori.
È quindi opportuno, anzitutto, sottoporre ad una concisa critica entrambi tali orientamenti.
Per quanto concerne l’interpretazione classica, è indubbio che la personalità di Roosevelt –
come rilevato soprattutto da Hofstadter 59 – rappresenti un elemento imprescindibile nel quadro del
Social Politics in a Progressive Age, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press 1998, pp. 409-415; E. D.
RUSSELL, New Deal Banking Reforms and Keynesian Welfare State Capitalism, New York, Routledge 2008, pp. 15-30,
65-82.
57
Cfr. R. HOFSTADTER, The Age of Reform: From Bryan to FDR, New York, Knopf 1955; A. M. SCHLESINGER, The
Age of Roosevelt, Boston, Houghton Miffin 1957.
58
William H. Leuchtenburg ha citato una domanda rivoltagli da Herbert Stein, consigliere economico di Nixon e Ford,
che perfettamente sintetizza questo punto di vista: «Cos’ha di tanto speciale il New Deal? Qualsiasi parte del mondo voi
consideriate, vi renderete conto che negli anni ’30 essa ha conosciuto un’espansione dello Stato. Il New Deal è soltanto
una variante di un’inevitabile tendenza mondiale» (W. E. LEUCHTENBURG, The New Deal at the End of the Twentieth
Century, in S. M. MILKIS, J. M. MILEUR (ed.), The New Deal and the Triumph of Liberalism, Amherst, University of
Massachusetts Press 2002, pp. 23-30, spec. p. 25). Ma già negli anni ’60 Louis Booker Wright rilevava come fra gli
storici esistesse un «generale accordo sulla natura, il significato e l’inevitabilità del New Deal» (L. B. WRIGHT, The
Democratic Experience: a Short American History, Chicago, Scott Foresman 1963, p. 415). Vanno in genere collocate
in questo filone le opere di quanti scorgono nella graduale crescita delle funzioni di governo un processo lineare ed inarrestabile, che attraversa la storia statunitense dalla fine del XIX secolo in poi (cfr. ad. es. H. G. VATTER, J. F. WALKER,
The Inevitability of Government Growth, New York, Columbia University Press 1990; B. C. CAMPBELL, The Growth of
American Government: Governance from the Cleveland Era to the Present, Bloomington, Indiana University Press
1995; T. FOSTER, The Inevitability of Government, in Challenge, vol. 40, n. 4, 1997, pp. 83-95). Tale processo, peraltro,
è quasi sempre descritto in termini quantitativi, anziché qualitativi: il che non permette di distinguere, ad esempio, una
crescita della spesa pubblica cagionata da un rafforzamento del settore militare da una dovuta ad un innalzamento dei
sussidi.
59
Cfr. R. HOFSTADTER, The American Political Tradition and the Men who Made it, New York, Knopf 1948, pp. 315352.
20
New Deal, nonché, in termini più generali, la dimostrazione di come il carisma di un leader possa
concretamente influenzare il corso degli eventi, orientandoli in un senso anziché in un altro. Seymour Martin Lipset, in ricerche approfondite ed assai documentate, ha dimostrato come Roosevelt
abbia deliberatamente scelto di riunire tutte le forze antisistema all’interno della propria piattaforma
politica, impedendo la nascita di un terzo partito di massa, populista e socialista, negli Stati Uniti 60 .
Con riferimento alla sua politica estera, Henry Kissinger è arrivato a sostenere che il Presidente avrebbe comunque condotto l’America in guerra, con o senza l’aggressione giapponese a Pearl Harbor 61 .
Ma queste considerazioni, che pure meritano spazio ed attenta considerazione, non giustificano la reductio ad Roosevelt di un processo politico più che decennale, che ha coinvolto, con gradi
e responsabilità diverse, l’apparato governativo, l’industria privata, l’amministrazione, il sistema
giudiziario, il sistema informativo, e la cui eredità continua a far discutere non i soli Stati Uniti, ma
l’intera opinione pubblica occidentale 62 . La suggestiva immagine, proposta da Hofstadter, di Roosevelt come «patrizio alla ricerca del compromesso» è utile ad inquadrare la condizione psicologica
in cui operò il Presidente, non la sua azione riformatrice, né il lascito di essa. Roosevelt – non va
dimenticato – fu parte del New Deal, non il New Deal. E poiché, in ogni ambito dell’agire umano,
la condotta dei singoli attori rileva, rispetto a fattori esogeni, quanto più la disamina è circoscritta a
livello spaziale e temporale 63 , si può ragionevolmente sostenere che la mentalità o la cultura del
Presidente siano del tutto irrilevanti in una macrointerpretazione tanto delle sue riforme, quanto del
loro retaggio istituzionale.
Quanto all’insistenza sul “senso pratico” dei riformatori, il giudizio secondo cui «la grande
energia» sprigionata dal New Deal «risiedeva nell’istintivo rigetto, da parte di persone pratiche,
60
Cfr. ad es. S. M. LIPSET, Why Is There No Socialism in the United States? in S. SLUZAR (ed.), Sources of Contemporary Radicalism, Boulder, Westview Press 1977, pp. 31-149; Radicalism or Riformism: The Sources of Working-Class
Politics, in American Political Review, n. 77, 1983, pp. 1-18.
61
Cfr. H. KISSINGER, Diplomacy, New York, Simon & Schuster 1994, tr. it. L’arte della diplomazia, Milano, Sperling
& Kupfer 1996, pp. 300-301.
62
Per una panoramica delle trasformazioni introdotte dal New Deal nel campo dell’amministrazione, cfr. B. J. COOK,
Burocracy and Self-Government: Reconsidering the Role of Public Administration in American Politics, Baltimore,
Johns Hopkins University Press 1996, pp. 98-130. Sull’impatto del New Deal, cfr. B. J. SILVER, E. SLATER, The Social
Origins of World Hegemonies, in G. ARRIGHI, B. J. SILVER, I. AHMARD (ed), Chaos and Governance in the Modern
World System, Minneapolis, University of Minnesota Press 1999, pp. 151-216, spec. pp. 204-205; M. VAUDAGNA, A
Checkered History; The New Deal, Democracy, and Totalitarianism in Transatlantic Welfare States, in L. MOORE, M.
VAUDAGNA (ed.), The American Century in Europe , Ithaca, Cornell University Press 2003, pp. 219-242.
63
Riprendendo una terminologia cara a Kenneth Waltz, possiamo interpretare l’abbandono di una chiave di lettura roosevelt-centrica e culturalmente riduttivista del New Deal come tappa necessaria al passaggio da una prima ad una seconda ed una terza «immagine» di esso, quelle in cui le azioni dei singoli attori – Presidente, new dealer, loro oppositori
… – vanno considerate alla luce dell’«insieme di condizioni di costrizione» in cui essi operano, derivanti dal sistema
politico nazionale e/o internazionale. La metafora delle immagini è esposta in K. WALTZ, The Man, the State and The
War, New York, Columbia University Press 1959. La citazione è tratta da K. WALTZ, Theory of International Politics,
Reading, Addison-Wesley 1979, tr. it. Teoria della politica internazionale, Bologna, Il Mulino 1987, p. 155).
21
energiche e compassionevoli, di dogmi assoluti 64 » merita un ridimensionamento. Si può convenire
con chi sottolinea come le riforme rooseveltiane siano state «una risposta a una crisi e non un programma elaborato in anticipo per riformare la società, l’economia e lo Stato65 »; non, però, accettare
l’immagine fittizia, oltre che poco credibile, di un’equipe di riformatori del tutto scevri da preconcetti o distorsioni culturali, che si sarebbero affidati al puro e semplice “common sense” per dar vita
ad un ampliamento «senza precedenti per velocità ed estensione 66 » dei compiti di regolazione affidati al governo 67 . Come notato da Tiziano Bonazzi, assumere questo punto di vista implicherebbe
«un’indebita semplificazione», basata sulla rimozione del «sicuro e moderno tessuto teorico sul
quale si fondano lo sperimentalismo e il “pragmatismo” dei newdealer 68 ».
La tendenza a concepire il New Deal in termini rozzamente deterministici si mostra ancor
più inadeguata a cogliere il peso svolto dal dibattito teorico e dalle evoluzioni dottrinali. Se l’interpretazione classica aveva il merito di sottolineare incertezze e cambi di rotta nell’agenda del Presidente, pur sottostimando l’impatto della cultura politica, i “deterministi” sorvolano sulla conflittualità esistente fra le diverse anime del movimento. È ragionevole presumere, ad esempio, che il sistema economico statunitense sarebbe oggi significativamente diverso se i sostenitori delle riforme
“strutturali” e della pianificazione, fra il 1937 e il 1940, non avessero perso influenza su Roosevelt a
beneficio dei keynesiani, che preferivano agire tramite l’emissione monetaria 69 . Un simile scontro
non può essere adeguatamente compreso senza riconoscere l’esistenza di un articolato dibattito dottrinale, ed ammettendo così che il New Deal avrebbe potuto intraprendere strade diverse da quelle
effettivamente battute 70 .
64
A. M. SCHLESINGER, The Age of Roosevelt, op. cit. vol. III, p. 647.
C. FOHLEN, Il New Deal negli Stati Uniti, in N. TRANFAGLIA, M. FIRPO (a cura di), La storia. Il mondo attuale (19191981), vol. III, Torino, Utet 1986, p. 251.
66
A. ROMASCO, The Politics of Ricovery: Roosevelt’s New Deal, New York, Oxford University Press 1983, p. 219.
67
Un estimatore di Hofstadter, Alan Brinkley, ha ammesso che l’aver «chiaramente sottovalutato il livello d’influenza
esercitato dall’ideologia progressista sui policy-makers del New Deal» sia un punto debole della sua opera più nota (A.
BRINKLEY, Richard Hofstadter’s the Age of Reform: a Reconsideration, in Reviews in American History, vol. 13, n. 3,
1985, pp. 462-480, spec. p. 475). Secondo Ethan Fishman, Schlesinger confonde pragmatismo e prudenza: mentre il
primo insiste sui risultati tangibili e manca di una “visione guida”, la prudenza in senso classico è compatibile con la
difesa di alcuni principi che guidino la pratica politica. La condotta di Roosevelt, suggerisce Fishman, sembra più conforme al secondo fra questi atteggiamenti (E. FISHMAN, The Prudential FDR, in M. J. ROZELL, W. D. PEDERSON, FDR
and the Modern Presidency: Leadership and Legacy, Westport, Praeger 1997, pp. 147-166, spec. p. 160).
68
T. BONAZZI, Il New Deal e il Leviatano: la cultura politica della tradizione riformatrice americana, in T. BONAZZI,
M. VAUDAGNA (a cura di), Ripensare Roosevelt, Milano, Franco Angeli 1986, pp. 60-98, spec. pp. 61-62.
69
John W. Jeffries ha ricostruito questo dibattito, periodizzando il New Deal in tre fasi e sostenendo che il liberalismo
americano abbia cambiato indirizzo, «passando dall’enfasi sulle riforme strutturali e la sicurezza economica nel primo e
nel secondo New Deal, al liberalismo keynesiano dell’abbondanza» nel terzo (J. W. JEFFRIES, The “New” New Deal:
FDR and American Liberalism, 1937-1945, in Political Science Quarterly, vol. 105, n. 3, 1990, pp. 397-418, spec. p.
398). Cfr. anche A. BRINKLEY, The New Deal and the Idea of State, in . FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of
the New Deal Order: 1930-1980, Princeton, Princeton University Press 1989, pp. 85-121, che distingue fra «sostenitori
della regolamentazione» e «sostenitori dell’approccio fiscale» (spec. p. 94).
70
È questo l’argomento cruciale di quanti scorgono nel New Deal una “rivoluzione incompleta”, caratterizzata da un
progressivo esaurimento della spinta riformatrice (cfr. ad. es. T. SKOCPOL, America’s Incomplete Welfare State: the
Limits of New Deal Reforms and the Origins of the Present Crisis, in M. REIN, G. ESPRING-ANDERSEN, L. RAINWATER
65
22
Affondare lo studio del New Deal da un punto di vista ideologico impone una ridefinizione
delle priorità di ricerca. Il nostro obiettivo, infatti, non sarà offrirne una interpretazione globale, né
studiarne le ricadute sul sistema politico americano od internazionale attraverso una molteplicità di
profili (economico, sociale, giuridico…).
Nostro compito sarà, invece, cercare di comprendere attraverso quali elaborazioni teorica i riformatori, nel corso degli anni ’30, riuscirono ad imprimere un inedito e – per molti aspetti
– rivoluzionario cambio di rotta al liberalismo americano. Quest’ultimo ruppe, infatti, i ponti con
quella che James Holt ha definito «tradizione antistatalista71 » e promosse una più intensa attività di
intervento in campo economico e sociale da parte del potere politico. I liberal abbandonarono la
tradizionale fiducia, ritenuta “dogmatica”, verso il mercato deregolamentato e tentarono di coniugare democrazia rappresentativa e sicurezza sociale 72 .
La battaglia che si consumò attorno al New Deal, ha giustamente rilevato Eric Forner, verteva sul significato del concetto di libertà e sulla filosofia (il liberalismo) che ne faceva il proprio valore fondante. L’interrogativo che divideva gli americani era lo stesso che, nel 1937, un economista
aveva così formulato: «la libertà politica è ristretta o allargata dalla regolamentazione economica? 73 ». I liberal propendevano per l’allargamento. Roosevelt «trasformò il termine “liberalismo” da
sinonimo di governo debole e di economia del laissez-faire, nella fede in uno Stato interventista e
socialmente impegnato, un’alternativa sia al socialismo sia al capitalismo senza regole. Rivendicò
inoltre il termine “libertà” dai conservatori e lo rese uno slogan mobilitante del New Deal 74 ».
Poiché, come egli aveva proclamato, «gli uomini in stato di necessità non sono uomini liberi 75 », compito delle istituzioni doveva diventare l’alleviamento – e, in prospettiva, il definitivo superamento – di tale condizione, correggendo direttamente discriminazioni ed abusi, ovvero promuovendo condizioni di favore per le categorie svantaggiate: veterani, lavoratori, salariati, donne,
(ed.), Stagnation and Renewal in Social Policy: the Rise and Fall of Policy Regimes, Armonk, M. E. Sharpe 1987, pp.
35-58).
71
Cfr. J. HOLT, The New Deal and the American Anti-Statist Tradition, in J. BRAEMAN, R. H. BREMNER, D. BRODY
(ed.), The New Deal: the National Level, Colombus, Ohio State University Press 1975, pp. 27-49.
72
Sul versante opposto, l’ex Presidente Herbert Hoover e la American Liberty League di democratici conservatori come
Dean Acheson e Al Smith ribadirono la propria fedeltà al liberalismo classico ottocentesco. Non a torto, George Lloyd
ha intravisto nello scontro ideologico fra Hoover e Roosevelt, «le due facce del liberalismo», un conflitto «sulle stesse
questioni su cui dibatte la politica contemporanea» (G. LLOYD, Introduction, in G. LLYOD (ed.), The Two Faces of Liberalism: How the Hoover-Roosevelt Debate Shapes the 21th Century, Salem, M&M Scrivener Press 2006, pp. 1-24,
spec. p. 1). Sull’American Liberty League, cfr. F. RUDOLPH, The American Liberty League, 1934-1940, in The American Historical Review, vol. 56, n. 1, 1950, pp. 19-33, in cui il programma dell’associazione è definito «una vigorosa e
ben argomentata difesa dell’individualismo e del liberalismo ottocentesco, una elaborazione più esplicita e precisa di
quella che si possa trovare da qualsiasi altra parte nella storia americana» (ibidem, p. 20).
73
Cfr. T. V. SMITH, Political Liberty Today: Is it Being Restricted or Enlarged by Economic Regulation?, in American
Political Science Review, n. 31, 1937, pp. 243-252.
74
E. FORNER, The Story of American Freedom, New York, W. W. Norton & Company 1998, tr. it. Storia della libertà
americana, Roma, Donzelli 2000, pp. 264-280, spec. p. 271.
75
F. D. ROOSEVELT, An Economic Bill of Rights, in S. I. ROSENMAN (ed), The Public Papers and Addresses of Franklin
D. Roosevelt, New York, Random House 1938-1950, vol. 13, p. 32.
23
bambini, minoranze etniche e religiose. La battaglia contro lo “stato di necessità” comprendeva tanto il riconoscimento del ruolo del sindacato, concepito come indispensabile controparte della grande
industria, quanto la creazione di un moderno sistema previdenziale basato su sussidi, gran parte dei
quali destinati a pensionati e disoccupati76 .
È questa metamorfosi del liberalismo che approfondiremo, nel presente capitolo. Ciò impone alcuni sacrifici ed accorgimenti metodologici.
Tralasceremo, anzitutto, ogni riferimento alle concrete realizzazioni della amministrazione
Roosevelt. La storia istituzionale rappresenterà, per così dire, lo sfondo della nostra discussione, ma
non verificheremo in che misura ed in quali occasioni le idee astratte ebbero incidenza sulle singole
misure di policy-making.
In secondo luogo, ci avvarremo di coordinate cronologiche diverse da quelle della storiografia evenemenziale. Il liberalismo “rooseveltiano” può essere descritto come un insieme di idee, mai
espresse in forma sistematica, alcune preesistenti, altre sviluppatesi nel corso della sua amministrazione, che egli promosse e con cui orientò il proprio operato politico 77 . Tali, idee, tuttavia, gli sopravvissero e continuarono ad esercitare una forte influenza sulla scena pubblica. Il liberalismo dei
new dealer conobbe un profondo radicamento nella cultura americana, esercitando un ruolo di primo piano nel dibattito pubblico sino ai primi anni ’50, e – sia pure in forma edulcorata – per tutto il
decennio successivo.
Ecco perché il presente capitolo si spinge ben oltre gli anni ’30, e delinea un quadro che
lambisce gli anni ’60. La nostra attenzione, in altri termini, non si concentrerà sul New Deal in senso stretto, bensì sulla fase di consolidamento di quello che alcuni storici hanno definito New Deal
Order, e che altri preferiscono chiamare Liberal Order, o Democratic Order 78 .
Tali espressioni designano, certo, una peculiare distribuzione di potere all’interno del sistema americano, un assetto stabilizzato che coinvolgeva il Presidente ed il congresso, il governo federale ed i singoli stati, gli elettori ed il sistema partitico. Ma, come Gary Gerstle e Steve Fraser hanno
opportunamente evidenziato, esse sono utili a scandagliare anche «i fondamentali cambiamenti […]
76
S. J. SAVAGE, FDR’s Party Leadership, in M. J. ROZELL, W. D. PEDERSON, FDR and the Modern Presidency: Leadership and Legacy, op. cit., pp. 119-132; C. SINYAI, Schools of Democracy: a Political History of the American Labor
Movement , Ithaca, ILR Press 2006, pp. 110-135; J. SINGLETON, The American Dole: Unemployment Relief and the
Welfare State in the Great Depression, Westport, Greenwood Press 2000, pp. 1-26; G. MINK, The Wages of Motherhood: Inequality in the Welfare State, Ithaca, Cornell University Press 1995, pp. 123-150.
77
La reciproca influenza fra pensatori liberali e riformatori rooseveltiani è evidenziata nell’eccellente lavoro di J. R. PIPER, Ideologies and Institutions: American Conservative and Liberal Governance Prescriptions since 1933, Lanham,
Rowman & Littlefield 1997, pp. 13-14.
78
Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit.; S. F. HAYWARD,
The Age of Reagan. The Fall of the Old Liberal Order, Roseville, Forum 2001; D. PLOTKE, Building a Democratic Political Order: Reshaping American Liberalism in the 1930s and the 1940s, Cambridge, Cambridge University Press
1996. Secondo la celebre periodizzazione di Arthur M. Schlesinger sr., il ciclo politico progressista iniziò nel 1931 e si
esaurì attorno al 1947: questa scansione cronologica corrisponde, appunto, al consolidamento del New Deal Order descritto nel presente capitolo (cfr. A. M. SCHLESINGER SR., Paths to the Present, New York, Macmillan 1949).
24
nell’economia della nazione, nella struttura sociale e nella cultura politica 79 ». Benché sia possibile
impiegare il concetto di New Deal Order in senso restrittivo 80 , è assai più proficuo estenderlo allo
studio delle «élites economiche, dei network di policy-making, delle ideologie e dei programmi politici che hanno dato forma alla distribuzione del potere e influenzato il carattere di quest’epoca.
Sono proprio queste élites, questi programmi e queste ideologie – fattori, nella vita politica della
nazione, che gli studiosi dei sistemi elettorali hanno tendenzialmente sottostimato – che il nostro
termine “ordine politico” vuole ricomprendere 81 ».
Il presente capitolo può essere considerato un contributo allo studio del New Deal Order, incentrato sull’analisi dei suoi connotati ideologici. Questi ultimi saranno individuati nella combinazione di tre differenti aree di riflessione e di studio: i progetti di economia organizzata avanzati da
autori come Adolf A. Berle e Rexford G. Tugwell; il “nuovo liberalismo” proposto da John Dewey
e da John Maynard Keynes; le scienze sociali promosse da Charles E. Merriam (par. I). Benché non
sempre convergenti, questi filoni contribuirono a definire una nuova concezione dell’ordine politico, retto non più dalla sola interazione spontanea fra portatori di interessi privati, ma anche dal riconoscimento di spazi di «sperimentazione» politica, in cui nuovi diritti e nuove libertà potevano essere garantiti.
Esamineremo quindi le tesi dei principali oppositori del New Deal, esponenti di una visione
più tradizionale del liberalismo. Evidenzieremo, inoltre, l’impatto che ebbe la Seconda Guerra
Mondiale nel determinare la loro emarginazione dalla scena pubblica (par. II).
In seguito, sottolineeremo le difficoltà che il liberalismo progressista dovette affrontare fra il
1945 e il 1950, e come, proprio in quegli anni, le scienze sociali accrebbero la loro influenza sulla
vita intellettuale americana (par. III).
Mostreremo infine come il liberalismo, nel corso degli anni ’50, smarrisse poco a poco i caratteri riformistici e progressivi acquisiti negli anni ’30, e – pur continuando a rappresentare la cultura politica prevalente – perdesse in vitalità ed in capacità di interpretare bisogni ed aspirazioni
emergenti (par. IV).
Ascesa, consolidamento, declino: sono queste le tappe cruciali che ripercorreremo, studiando l’ordine liberale in un’ottica ideologica.
I.1 Contro l’economia classica: Adolf A. Berle e Rexford Tugwell
79
Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit., p. x. Corsivo mio.
Per un approccio di questo tipo, focalizzato soprattutto sulle coalizioni elettorali ed i partiti, I. W. MORGAN, Beyond
the Liberal Consensus: a Political Hisoty of the United States since 1965, New York, St. Martin’s Press 1994, pp. 1220.
81
Cfr. S. FRASER, G. GERSTLE (ed.), The Rise and Fall of the New Deal Order: 1930-1980, op. cit., p. xi.
80
25
Il 22 ottobre 1928, davanti ad un’assemblea di sostenitori, il candidato repubblicano alle
Presidenziali, Herbert Hoover, promise, se eletto, di smantellare controlli e regolamentazioni risalenti all’entrata in guerra. Metodi e strumenti inevitabili durante un conflitto potevano rappresentare
una seria minaccia in tempo di pace, divenendo la premessa per un «dispotismo centralizzato che si
fa carico di responsabilità mai assunte in precedenza, acquista poteri autocratici e si immischia negli
affari dei cittadini». Già sul finire degli anni ’10, ammoniva Hoover, si era profilato lo scontro fra
«il sistema americano dell’individualismo radicale e la filosofia europea, basata su dottrine opposte,
dottrine come il paternalismo e il socialismo di stato». Quello scontro si era ora trasferito sul suolo
statunitense. Hoover sosteneva di aver toccato con mano, in qualità di Ministro del Commercio, i
guasti prodotti dall’ampliamento delle competenze del governo federale, «le tirannie, le ingiustizie,
la distruzione dell’autogoverno, la sottovalutazione degli istinti profondi che spingono le persone
verso il progresso». Sceglierlo come Presidente avrebbe significato difendere i «prìncipi di decentramento, libertà ordinata, eguali opportunità, e libertà individuale», grazie ai quali «l’esperimento
americano ha prodotto un livello di benessere senza eguali nel resto del mondo». Seguiva una profezia, rimasta celebre: «Si sta avvicinando l’abolizione della povertà, la fine della paura e del bisogno, che mai l’umanità ha raggiunto in precedenza 82 ».
Cinque anni dopo – anni scanditi dal tracollo di Wall Street, del collasso del sistema produttivo, dell’esplosione della disoccupazione di massa – il giurista e new dealer Adolf A. Berle 83 sostenne la necessità di rivisitare criticamente molti degli assunti su cui si era basata la teoria economica dominante, e su cui uomini come Hoover avevano costruito la propria credibilità pubblica:
«Per diverse generazioni i governi hanno fondato le loro scelte sulla teoria dell’equilibrio naturale
delle forze economiche. La legge della domanda e dell’offerta avrebbe regolato i prezzi […]. Il produttore efficiente avrebbe avuto successo mentre l’inefficiente sarebbe fallito, e ciò avrebbe mantenuto la capacità produttiva al passo con le necessità di consumo. Se ci fosse stato bisogno di crediti,
i banchieri li avrebbero forniti; mentre ad una eccessiva erogazione creditizia, sarebbe seguito un
periodo di inflazione generale che avrebbe ridotto il debito. Tutto ciò era acquisito nella teoria di
governo dell’epoca, che si basava essenzialmente sulle teorie economiche classiche di Adam
Smith 84 ».
82
H. HOOVER, Campaign Speech. New York, October 22, 1928, in G. LLYOD (ed.), The Two Faces of Liberalism: How
the Hoover-Roosevelt Debate Shapes the 21th Century, op. cit., pp. 35-39, spec. pp. 35-36.
83
Adolf A. Berle (1895-1971) è ricordato anzitutto come uno dei primi e più autorevoli studiosi delle corporations nel
sistema americano. Uomo di punta nei trust di Franklin D. Roosevelt, insegnò Corporate Law presso la Harvard
University. Su Berle, cfr. J. A. SCHWARZ, Liberal: Adolf A. Berle and the Vision of an American Era, New York, Free
Press 1987).
84
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine, n. 19, 1933, pp. 4-5, tr. it.
in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, Roma, Gangemi 2007, p. 103.
26
Sennonché, la rivoluzione industriale aveva permesso che l’organizzazione divenisse una
forza interna al sistema economico. Organizzazione aveva significato, almeno inizialmente, investimenti capillari e mirati, ma ben presto essa aveva creato una discrasia nei meccanismi di allocazione che regolavano la legge della domanda e dell’offerta. Berle avvertiva che «noi non possiamo
più fare affidamento sulla teoria economica dell’equilibrio naturale per provvedere ai bisogni umani. L’effetto dell’organizzazione è tale da alterare e ritardare in misura fino ad ora indispensabile le
forze che tendono a ristabilire l’equilibrio 85 ».
Tali forze, beninteso, non erano del tutto scomparse: esse, lentamente, continuavano ad operare, ma necessitavano tempi lunghi per assestarsi. Tutto ciò non offriva alcuna garanzia a quanti si
trovavano improvvisamente espulsi dal mercato e faticavano a rientrarvi. «Si può dire che il New
Deal sia soltanto un riconoscimento del fatto che gli esseri umani non possono essere definitivamente sacrificati a milioni per gli effetti delle forze economiche aggravati dal fattore organizzativo.
Inoltre, si può fare appello al mero processo organizzativo che può produrre il meccanismo economico, per evitare il terribile pedaggio sulla vita, la salute e la felicità che impone una ristrutturazione nelle attuali condizioni 86 ».
Tra i problemi che Roosevelt aveva affrontato con maggior risolutezza vi erano quelli connessi alla concentrazione industriale. E questo perché «prima d’ora si presumeva che l’industria fosse fatta di imprese, dirette a fini privati di guadagno, fornitrici di merci e servizi richiesti dal paese:
invece è molto più di questo. È infatti uno dei canali principali attraverso i quali si distribuisce il
reddito nazionale 87 ». Una più equilibrata distribuzione di tale reddito avrebbe garantito l’accesso ai
consumi a fasce crescenti della popolazione, creando un ciclo virtuoso fra crescita della produzione
ed innalzamento dei salari. «Nel pensiero politico» sosteneva Berle «questo è un nuovo modo per
considerare il problema della ricchezza. I comunisti parlano di abolizione completa della proprietà
privata e della necessità di distribuire direttamente beni e servizi; così concepiscono la giustizia sociale. I sociologi pensano ad un reddito distribuito egualmente, basandosi sulla teoria che una vasta
classe media o, meglio, una nazione fatta di persone in possesso di mezzi limitati, forma le basi per
una vita nazionale più sana. Allo studioso di provata tempra spetta il compito di elaborare la semplice equazione che senza una distribuzione sufficientemente ampia del reddito nazionale non ci so-
85
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem.
86
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 104.
87
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 105.
27
no abbastanza compratori per far lavorare gli impianti e che se gli impianti vengono chiusi per mancanza di lavoro anche i salari e gli stipendi crollano 88 »
Mobilitazione ed organizzazione erano i principi guida dell’azione di Roosevelt, il trait
d’union fra iniziative come la NRA, la legislazione sull’agricoltura, la disciplina del settore dei trasporti. Simili interventi avevano «lo scopo di introdurre nel sistema economico una forza organizzativa da usare per controbilanciare gli effetti della mancanza di coordinazione, per assicurare che gli
oneri del riassestamento vengano equamente distribuiti e che nessun gruppo sociale sia brutalmente
sacrificato alle esigenze imposte dall’equilibrio economico 89 ».
L’unica alternativa realistica alle riforme, secondo Berle, era la completa socializzazione del
sistema produttivo. Ciò avrebbe comportato requisizioni di massa, la trasformazione di produttori e
fornitori di servizi in agenzie distributive del governo, la soppressione di debiti e crediti, la creazione di un sistema di tesseramento che riconoscesse ad ogni cittadino un potere d’acquisto necessario
ad ottenere i beni di prima necessità.
Questa ipotesi, tuttavia, presentava due punti deboli. Da un lato, essa avrebbe eliminato
l’incentivo del profitto individuale, e ciò avrebbe forse comportato una diminuzione dell’efficienza
produttiva. «Non credo» affermava però Berle, con un argomento che avrebbe fatto inorridire Hoover e gli individualisti, «che questa obiezione sia molto seria. Quel che sappiamo circa la produzione ai fini del profitto individuale ci basta per rilevare che essa è tanto spesso efficiente quanto inefficiente; che mentre il profitto individuale in una piccola impresa è un fattore di efficienza, in una
grande impresa la ricerca del profitto si risolve con ogni probabilità in un saccheggio su vasta scala 90 ». Più seria era la seconda critica, che evidenziava l’impossibilità, da parte del governo, di sfruttare al meglio talenti e capacità dei cittadini. Ciò avrebbe richiesto l’elaborazione di criteri più dettagliati nell’allocazione delle risorse, tali da permettere, ad esempio, alle persone più istruite di beneficiare di servizi migliori.
La socializzazione, comunque, sarebbe stata una soluzione estrema, da adottare temporaneamente ed unicamente in condizioni di emergenza. Berle non si diceva del tutto terrorizzato da una
tale eventualità: dal momento che «la gente non cambia le proprie abitudini facilmente», e quindi un
sistema sovietico in terra americana «assomiglierebbe molto di più al Rotary Club o alle Confraternite delle quattro ferrovie che non al Soviet di Mosca 91 ». La sua predilezione andava, comunque,
88
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 106.
89
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 109.
90
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 111.
91
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 113.
28
alla «via […] della moderazione e della ricostruzione92 » che saggiamente Roosevelt aveva deciso di
seguire.
Per Berle, e per i new dealer moderati, una puntuale opera legislativa e la creazione di organismi ad hoc avrebbero permesso il ripristino del corretto funzionamento per il sistema capitalistico.
Radicali come Rexford Tugwell 93 miravano, invece, al superamento del capitalismo competitivo, e
all’abbandono della «concezione del governo come un residuo di poteri destinati ad essere abbandonati uno dopo l’altro quando altri corpi sociali fossero in grado di assumerli 94 ».
Esisteva, secondo Tugwell, un sentimento diffuso in base al quale il governo avrebbe dovuto
assumere compiti più vasti della semplice regolamentazione: «come si possono alleviare le difficoltà in cui si dibattono gli agricoltori senza l’organizzazione a livello federale di nuove istituzioni? In
quale altro modo i lavoratori possono realizzare le loro aspirazioni? 95 ». Né le leggi antitrust, né le
commissioni governative, del resto, si erano mostrate efficaci contro i mali prodotti dalla concorrenza sfrenata, come dimostrato dallo sfruttamento dei lavoratori, dalla bassa qualità dei prodotti,
dalla nascita di monopoli di fatto, e questo perché «l’abilità dei legali delle corporations ha superato
quella dei legislatori e dei governanti 96 ». La grave crisi che attanagliava l’America poteva essere
superata, ma soltanto abbandonando preclusioni verso nuovi ordinamenti politici, economici, sociali. «La sfida agli uomini di governo è molto simile a quella che abbiamo dovuto affrontare non molti anni fa per assicurare il mondo alla democrazia. Ritenemmo allora che si trattasse di una crisi tanto grave da dover fare appello a tutte le nostre riserve di energia umana e di capacità di governo.
Per una volta, tutte le forme tradizionali di organizzazione furono abbandonate a favore di quelle
che imponevano le imminenti vicende 97 ». Quella guerra di cui Hoover aveva denunciato il potenziale impatto autoritario sulla mentalità e la costituzione materiale statunitensi diveniva per Tugwell un
esempio di audacia e di apertura alla sperimentazione 98 .
92
A. A. BERLE Jr., The Social Economics of the New Deal, in The New York Times Magazine , n. 19, 1933, pp. 4-5, tr.
it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem.
93
Rexford G. Tugwell (1891-1979), economista agrario, protagonista del primo Brain Trus di Rooseveltt, si dimise nel
1936 quando la Resettlement Administration da lui guidata finì nel mirino del Congresso con l’accusa di socialismo. Fu
in seguito presidente della Commissione pianificatrice della città di New York e Governatore di Porto Rico. Su Tugwell, cfr. B. STERNSHER, Rexford Tugwell and the New Deal, New Brunswick, Rutgers University Press 1964.
94
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 77.
95
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 78.
96
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 82
97
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 83. Corsivo mio.
98
Già nel 1918, Tugwell aveva definito la Prima Guerra Mondiale un «laboratorio sociologico» ed aveva guardato con
simpatia alle conquiste sociali del socialismo di guerra (Cfr. R. G. TUGWELL, The War-Time Sociological Laboratory,
in Nation, CVI, 1918, pp. 258-259; America’s War-Time Socialism, in Nation, CXXIV, 1927, pp. 364-367). La mobilitazione bellica aveva fortemente suggestionato progressisti come Dewey o Veblen, che vi avevano intravisto una possibilità di ascesa sociale per classi e gruppi etnici svantaggiati, nonché un ottimo esempio di compenetrazione fra politica
29
La richiesta di sicurezza economica proveniente dai cittadini – «sicurezza di accedere ai beni
di una vita semplice, sicurezza di lavorare, sicurezza in caso di malattia e di vecchiaia 99 »– andava
soddisfatta con piani nazionali e forme di integrazione e coordinamento tra le imprese. La pianificazione settoriale era un’illusione, poiché regolamentare un settore avrebbe comportato ricadute sugli
altri, e solo un intervento esteso garantito gli effetti previsti. Pianificazione significava, per Tugwell, assegnare alle imprese i capitali sufficienti per vendere le merci ad un prezzo eguale al costo
di produzione; limitare la libertà di circolazione dei capitali; evitare che l’eccessiva competizione
comportasse la saturazione del mercato e portasse alcuni produttori al fallimento. Simili progetti,
che non esigevano radicale discontinuità con la conformazione costituzionale americana, avrebbero
comunque richiesto un ampliamento dei poteri del governo federale. Ad opporvisi sarebbero stati,
profetizzava Tugwell, cogliendo peraltro nel segno, «i fautori del laissez-faire come filosofia economico-politica. Subito dopo, i sostenitori più convinti dell’autonomia statale contro l’ingerenza federale, perché le nuove disposizioni indicherebbero chiaramente la necessità di un governo federale.
Da un ultimo, ci sarebbe l’opposizione, ne possiamo essere sicuri, da parte di un certo numero di interessi costituiti, come quelli rappresentati dagli avvocati costituzionalisti, dai consulenti di società
e da altri che esercitano la professione legale e trovano il loro più lucroso campo di attività nei diabolici tentativi di eludere le leggi vigenti100 ».
Successivamente, sarebbe stato necessario intervenire su prezzi e tariffe, nell’ottica di un
riequilibrio delle disuguaglianze. «I prezzi per i consumatori dovrebbero essere fissati localmente
da uffici di un comitato per il controllo che operano tramite le amministrazioni regionali. I prezzi
delle merci destinate alla produzione – materie prime grezze o semilavorate –entrerebbero a far parte di un piano per impedire alle imprese più forti di sfruttare quelle più deboli e per regolamentare i
rapporti interaziendali 101 ».
La pianificazione ipotizzata da Tugwell si distingueva da quella propugnata dai socialisti
perché non sarebbe stata interamente imposta dall’esterno, da parte dello Stato, bensì presupponeva
un coinvolgimento attivo delle aziende e delle associazioni industriali. Queste ultime «dovrebbero
formare i propri organismi di pianificazione e le strutture direttive centrali allo scopo di mantenere
certi livelli di concorrenza e di controllare i prezzi massimi e i salari minimi. Per la gestione ordinailluminata e progresso tecnologico. William Leuchtenburg è arrivato a sostenere che le forme di pianificazione introdotte sotto Wilson abbiano rappresentato un modello mutuato dai new dealer (cfr. A. F. DAVIS, Reform and World War I,
in American Quarterly, vol. 19, n. 3, 1967, pp. 516-533; W. LEUCHTENBURG, The New Deal and the Analogue of War,
in J. BRAEMAN, R. H. BREMNER, E. WALTERS (ed.), Change and Continuity in Twentieth Century, Columbus, Ohio State University Press 1965, pp. 81-143).
99
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 84.
100
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 93
101
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 95-96.
30
ria questa struttura direttiva agirebbe senza interferenze esterne mentre, per l’affiliazione di più
gruppi industriali, verrebbe istituita una commissione centralizzata di queste associazioni con la
funzione di mediare e integrare le diverse componenti». Una struttura gerarchica avrebbe permesso
di premiare con incentivi le industrie più disciplinate, nonché di finanziare fondi economici, a beneficio dei disoccupati, più ricchi rispetto al sistema sui sussidi: il che avrebbe rappresentato «il primo
passo americano verso la sicurezza sociale 102 ».
Queste e molte altre idee, però, avrebbero trovato applicazione solo se e quando gli americani avessero compreso l’urgenza di una rifondazione del sistema produttivo, emancipandosi da gran
parte dei dettami della scuola economica classica. «Questo bisogno non è ancora avvertito con chiarezza dagli americani, in parte perché essi non hanno capito i progressi tecnici che sono avvenuti introno a loro, in parte perché ci sono potenti interessi che hanno gran voce in capitolo, che non gradiscono il cambiamento 103 ». Occorreva persuadere l’americano medio che l’immagine ottocentesca di
piccole imprese in competizione fra loro era del tutto inadeguata a descrivere la società americana,
dominata da trust e colossi industriali, e che un rafforzamento del potere centrale era inevitabile per
evitare che le grandi imprese sfuggissero alla giurisdizione dei singoli Stati. I new dealer si vedevano costretti ad agire in un quadro di norme costituzionali antiquate, il che spiegava contraddizioni
ed incertezze nel loro operato. Eppure, il successo delle loro riforme si sarebbe basato sulla capacità, da parte del governo federale, di dimostrare «di conoscere l’industria più degli industriali stessi 104 ». Superiore conoscenza, per Tugwell, implicava la percezione chiara che bisognasse «escogitare un sistema di relazioni tra le imprese in cui ogni unità sia complementare a ciascun altra ed in cui
la cooperazione – in luogo dell’attuale conflittualità – sia il principio ispiratore 105 ». Soltanto un assetto così congegnato avrebbe garantito un giusto punto d’equilibrio fra esigenze delle imprese e
salvaguardia dell’interesse pubblico.
I.2. Rinnovare il liberalismo: John Dewey e John Maynard Keynes
La sfiducia nutrita da Berle, Tugwell ed altri new dealer verso il metodo concorrenziale e
l’individualismo possessivo non si basava su una teoria politica coerentemente espressa. La filoso-
102
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 99.
103
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 100.
104
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., p. 102.
105
R. G. TUGWELL, The Industrial Discipline and the Governmental Arts, New York, Columbia University Press 1933,
pp. 189-219 tr. it. in F. VILLARI (a cura di), La Grande Crisi e le riforme di Roosevelt, op. cit., ibidem.
31
fia di John Dewey 106 rappresentò invece un punto di riferimento per quanti, sull’onda delle riforme
rooseveltiane, iniziarono a declinare il liberalismo in chiave democratica e progressista.
In una conferenza del 1934 107 , Dewey descrisse il liberalismo tradizionale come
un’ideologia funzionale alla rivolta contro il mondo aristocratico e feudale, in cui la rivendicazione
dei diritti di libertà era associata al desiderio di emancipazione dall’oppressione politica, economica, religiosa. Il liberalismo dei secoli XVIII e XIX postulava l’esistenza di un ordine naturale, costituito da leggi oggettive, con cui il potere politico non avrebbero dovuto interferire: «l’intervento
governativo nell’industria e nello scambio era considerato una violazione non solo della libertà individuale, ma anche delle leggi naturali108 ».
Questa dottrina, sosteneva Dewey, aveva reso un servizio egregio alla causa della libertà, ma
non era riuscita a superare il suo limite congenito: «la mancanza di percezione della relatività storica 109 ». Tale mancanza comportava che l’individuo, esaltato dai liberali, fosse concepito come
«qualcosa di dato, completo in sé» e la libertà «un possesso bell’e pronto, che necessita soltanto della rimozione delle barriere esterne per manifestarsi in tutto se stesso 110 ». In questo modo, concepito
alla stregua di un atomo nella teoria newtoniana, l’individuo veniva isolato dal suo contesto temporale e spaziale, ed il nesso fra individualismo e libertà veniva a costituire una «verità assoluta ed eterna, buona per tutti i tempi e tutti i luoghi 111 ».
Assolutizzare una delle possibili concezioni della libertà aveva trasformato, secondo Dewey,
molti liberali in pseudo-liberali: fra costoro potevano essere annoverati Hoover, gli esponenti della
Liberty League, e tutti coloro i quali «fossilizzavano e soffocavano aspirazioni generose 112 » in nome del passato. Pur servendosi delle parole d’ordine della tradizione liberale, i vetero-liberali lottavano «per qualcosa di profondamente diverso», e tendevano a servirsi di «idee che un tempo erano
state armi di emancipazione come mezzi per conservare il potere e la ricchezza che avevano conquistato 113 ». La loro stessa incapacità di capire che ciò che era progressista nel XIX secolo poteva
considerarsi reazionario nel XX testimoniava la loro mancanza di senso storico.
Contrapporre individuo e Stato, infatti, poteva avere un senso sotto un regime tirannico ed
assolutista, ma risultava assurdo in democrazia, e finiva per gettare discredito sull’idea stessa di in106
John Dewey (1859-1952) filosofo e pedagogista, fu l’esponente più autorevole del progressismo americano. Teorico
dello sperimentalismo, si occupò anche di psicologia e si dedicò alla politica attiva nei ranghi della sinistra newyorkese
nel corso degli anni ’30. Su Dewey, cfr. A. RYAN, John Dewey and the High Tide of American Liberalism, New YorkLondon, Norton 1995.
107
Molti dei concetti enunciati in questa conferenza saranno esposti in modo esteso e più approfondito nel volume Liberalism and Social Action (1935) (cfr. J. DEWEY, Liberalism and Social Action, New York, Putnam’s Son 1935).
108
J. DEWEY, The Future of Liberalism, in The Journal of Philosophy, vol. 32, n. 9, 1935, pp. 225-230, spec. p. 225.
109
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., spec. p. 226.
110
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
111
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
112
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
113
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
32
dividualità, associata a comportamenti egoistici ed antisociali. «Gli amari frutti» di questa mentalità
erano facilmente riscontrabili nella difesa ad oltranza, promossa dai liberali ortodossi, «della sfrenata libertà di impresa 114 ».
Il nuovo liberalismo, emancipato dalla tentazione di assolutizzare valori storicamente determinati, avrebbe dovuto riconoscere che «un individuo non è qualcosa di fisso, di già pronto. È qualcosa di acquisito, e di acquisito non in condizioni di isolamento, ma con l’aiuto ed il supporto di alcune condizioni, culturali e fisiche – includendo, fra quelle culturali, le istituzioni economiche, giuridiche e politiche, così come la scienza e le arti 115 ». I liberali dovevano rendersi conto che «le condizioni
sociali
possono
restringere,
distorcere
e
pressoché
impedire
lo
sviluppo
dell’individualità 116 ». Per questo le istituzioni politiche non avrebbero dovuto meramente difendere
la libertà esistente, bensì promuoverla e diffonderla attraverso nuove forme, e con nuovi metodi.
Logicamente, poiché «il contenuto dell’individuo e della libertà mutano al mutare del tempo; vale per il mutamento sociale ciò che vale per lo sviluppo del singolo, nel passaggio
dall’infanzia alla maturità 117 », i liberali avrebbero dovuto accettare lo sperimentalismo. «La connessone fra relatività storica e metodo sperimentale è istintiva. Tempo significa cambiamento. Il significato dell’individualità, in rapporto alle politiche sociali, muta al mutare delle condizioni in cui
l’individuo vive. Il precedente liberalismo, essendo assolutista, era anche antistorico 118 ». Il nuovo
liberalismo avrebbe dovuto, al contrario, accettare una «continua ricostruzione» delle idee di individualità e di libertà, alla luce dei mutamenti nelle relazioni sociali. «Un metodo sperimentale si basa
sulla ricognizione del cambiamento temporale nelle idee e nelle politiche sociali, in modo tale che
le seconde possano coordinarsi con i fatti, anziché opporvisi 119 ». Qualsiasi altro approccio alla tradizione liberale, sosteneva Dewey, degenerava nel concettualismo, nell’illusoria pretesa di poter valutare idee e concetti in una dimensione extrastorica.
Relativismo storico e sperimentalismo rappresentavano le stelle polari di un liberalismo che
non si contrapponeva al radicalismo politico, «se col termine radicalismo si intende l’adozione di
politiche che comportino un drastico cambiamento sociale, anziché uno graduale 120 ». Al contrario,
pur sottolineando l’opportunità di uno «studio intelligente del mutamento sociale 121 », volto ad individuare le migliori procedure per introdurre una riforma, non vi era nulla, nel liberalismo, che lo costringesse ad essere «una dottrina all’acqua di rose, impegnata nella ricerca del compromesso e fa114
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 227.
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
116
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
117
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
118
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 228
119
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
120
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
121
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
115
33
vorevole a riforme di piccolo rango 122 ». Esisteva, invece, un conflitto con quelle forme di radicalismo che giudicavano irrinunciabile un sovvertimento violento dell’ordine esistente. Questo perché,
secondo Dewey, l’essenza del liberalismo consisteva nella «massima fiducia nell’intelligenza 123 ». E
poiché, per un liberale autentico, era sempre necessario valutare le conseguenze pratiche dei principi professati, nonché rapportare fini e mezzi, era assurdo sostenere che metodi dittatoriali potessero
essere funzionali all’affermazione di un più elevato grado della libertà umana.
Nell’America degli anni ’30, tuttavia, un contrasto con i radicali era da escludere poiché erano i reazionari, e non i radicali, ad esercitare un controllo quasi dittatoriale della forza – nella
stampa e nella scuole, nell’esercito e nelle forze di polizia –: «la sola ragione per cui costoro non richiedono l’utilizzo della forza è che già ne sono in possesso, cosicché la loro politica consistere nel
nascondere questo fatto con frasi idealistiche – di cui l’attuale uso dei principi della libertà e della
libera iniziativa è un esempio 124 ». I liberali, per contrastare un così vasto e solido blocco d’interessi,
erano chiamati a servirsi di tutte le forze intellettuali a disposizione, e a chiarire che per loro «il significato pratico della libertà va molto al di là della relazione fra individuo e governo, per tacere
della mostruosa dottrina secondo cui, in ogni circostanza, l’azione governativa e la libertà individuali si trovano in sfere separate e indipendenti l’una dall’altra125 ». La libertà dei liberali avrebbe
dovuto essere anzitutto una libertà culturale, una «libertà completa dello spirito umano» raggiungibile soltanto in condizioni di «effettiva opportunità di condividere le risorse culturali della civiltà 126 ». Ogni declinazione della tradizione liberale che non ponesse la libertà spirituale, anziché
quella strettamente economica, al centro del propria azione poteva considerarsi «degenerata e deludente 127 ».
La filosofia politica di Dewey, debitrice tanto del pragmatista William James quanto dei riformatori degli anni ’10 128 , poteva essere descritta come «l’articolazione dottrinale del gospel progressista», un credo che scorgeva nel metodo scientifico e nella pedagogia gli strumenti essenziali
ad un’emancipazione, concreta e quotidiana, degli esseri umani 129 .
122
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
J. DEWEY, The Future of Liberalism, p. 229. Corsivo mio.
124
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
125
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., p. 230.
126
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
127
J. DEWEY, The Future of Liberalism, op. cit., ibidem.
128
Cfr. R. GALE, William James (1842-1910) and John Dewey (1859-1952): the Odd Couple, in P. A. FRENCH, H. K.
WETTSTEIN (ed.), The American Philosophers, Boston, Blackwell 2004, pp. 149-167; D. ROSS, The Origins of American Social Science, Cambridge-New York, Cambridge University Press 1991, pp. 162-171.
129
A. E. MURPHY, John Dewey and American Liberalism, in The Journal of Philosophy, vol. 57, n. 13, 1960, pp. 420436, spec. p. 422. Nadia Urbinati ha notato che «Dewey incorpora la dimensione ideale dell’uomo in una nozione di
democrazia come regno ideale, il solo luogo dove può aversi un ininterrotto processo di accomodamento tra la realtà
ideale e il mondo del quotidiano e del sociale» (N. URBINATI, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Roma, Donzelli 1997, p. 136). È proprio questa declinazione in chiave progressista della democrazia – ha sottolineato Giovanna Cavallari – a separare Dewey dai liberali “proceduralisti” alla Schumpeter: «Dewey
insiste invece sulle capacità innovative del sistema democratico, che consistono – come ha scritto uno dei suoi più noti
123
34
Eppure – al di là di alcune influenze e suggestioni prettamente americane 130 – è possibile
cogliere una consonanza profonda fra la proposta di rinnovamento del liberalismo avanzata da Dewey e quella che John Maynard Keynes aveva sostenuto, in modo frammentario e asistematico 131 ,
nell’Inghilterra degli anni ’20 132 . Essa emerge nitidamente dalla lettura di due testi complementari,
il saggio La fine del laissez-faire, pubblicato nel 1926, e la conferenza Am I a Liberal?, di qualche
mese precedente.
Ripercorrendo le principali tappe dell’affermazione del liberoscambismo come dottrina sociale, Keynes notava come gli economisti avessero svolto un ruolo di primo piano nel legittimare
l’idea di un armonica combinazione fra interesse privato e benessere collettivo, basata sull’assunto
secondo cui «gli individui che perseguono il proprio illuminato interesse in condizioni di libertà
tendono sempre a promuovere nello stesso tempo l’interesse generale 133 ». Poiché tale assunto si era
dimostrato, alla prova dei fatti, falso, si rendeva necessaria un’opera di smascheramento di pregiudizi, dogmi e luoghi comuni che ruotavano attorno al ruolo dello Stato nel settore economico. «Non
è vero che sia prescritta una “libertà naturale” per le attività economiche degli individui. Non esiste
alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a quelli che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e quelli sociali coincidano sempre; né è condotto quaggiù in modo che coincidano134 ».
Proprio gli economisti avrebbero potuto individuare casi concreti in cui un più marcato intervento pubblico avrebbe permesso di accrescere il benessere diffuso. Con un’intuizione divenuta
poi centrale nel progetto di “capitalismo organizzato” dei new dealer, Keynes affermava: «Credo
che in molti casi la dimensione ideale per l’unità di controllo e di organizzazione sia un punto intermedio fra l’individuo e lo stato moderno. Ritengo perciò che il progresso stia nello sviluppo e nel
interpreti americani – nel “chiamare donne e uomini a costruire comunità nelle quali ogni individuo possa contare sulle
necessarie opportunità e risorse per realizzare pienamente le proprie capacità e i propri poteri attraverso la vita politica,
sociale e culturale”» (G. CAVALLARI, Introduzione a J. DEWEY, Scritti politici, Roma, Donzelli 2003, p. IX).
130
Cfr. J. CAMPBELL, Understanding John Dewey: Nature and Cooperative Intelligence, Chicago, Open Court 1995,
pp. 2-7.
131
Questa frammentarietà è probabilmente all’origine dello scarsissimo interesse nutrito dagli studiosi verso il pensiero
politico di Keynes, che risulta pressoché nullo se confrontato a quello suscitato dalle sue teorie economiche. È prevalsa
l’immagine di un Keynes indifferente alla teoria politica, o quantomeno a fondare in modo teoreticamente adeguato le
proprie idee politiche (cfr. A. HANSEN, The American Economy, New York, McGraw-Hill 1957, p. 152; C. WALIGORSKI, Liberal Economics and Democracy: Keynes, Galbraith, Thurow, and Reich, Lawrence, University Press of Kansas
1997, p. 38). Una lettura di Keynes come «political thinker» è stata, tuttavia, recentemente avanzata da più parti (cfr. P.
F. DRUCKER, The Ecological Vision: Reflections on the American Condition, New Brunswick, Transaction Publisher
1993, pp. 119-120; B. BIGGS, Hedge Hogging , Hoboken, Wiley 2006, pp. 290-292).
132
La connessione fra Keynes e il “nuovo liberalismo” inglese è ben colta in P. CLARKE, The Keynesian Revolution in
the Making, 1924-1936, Oxford, Oxford University Press 1988, spec. pp. 229-230.
133
J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 19711989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta, Torino, Utet 2005, pp. 107-134, spec. p. 112.
134
J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 19711989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta, op. cit., spec. p. 126.
35
riconoscimento di enti semiautonomi entro lo stato: questi enti avrebbero come unico criterio di azione, nel proprio campo, il bene pubblico come essi lo concepiscono, e dalle loro deliberazioni sarebbero esclusi movimenti di vantaggio privato135 ». Simili strutture non avrebbero affossato il capitalismo, ma l’avrebbero anzi preservato, rendendolo più solido e stabile. E benché esso fosse criticabile da molti punti di vista, concludeva Keynes, «da parte mia, credo che il capitalismo saggiamente governato, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualsiasi altro sistema ora in vista per quel che riguarda la realizzazione di obiettivi economici 136 ».
Proprio il partito liberale, che aveva più titoli dei laburisti e dei conservatori per parlare in
nome della libertà individuale e del mercato, avrebbe potuto contribuire a sgomberare il campo dal
«ciarpame del passato»: «a mio avviso non vi è spazio oggi (se non nell’ala sinistra del partito conservatore) per quanti rimangono legati all’individualismo vecchio stile e al laissez-faire integrale,
nonostante il grande contributo che essi hanno dato al progresso nel XIX secolo. Dico questo non
perché ritenga che tali dottrine fossero sbagliate nelle condizioni che le hanno generate (vorrei aver
appartenuto a quel partito, se fossi nato cent’anni prima!), ma perché non sono più applicabili alle
condizioni moderne 137 ». I nuovi liberali sarebbero stati chiamati ad accettare con maturità e consapevolezza il fatto che «in futuro il governo dovrà assumersi molte responsabilità che in passato ha
evitato. E per assolverle non serviranno né i ministri né il Parlamento 138 », ma i già citati «enti semiautonomi od organismi amministrativi 139 », da far coesistere, in un equilibrio non semplice ma
possibile, accanto alle istituzioni democratico-rappresentative.
Keynes elencava una serie di problematiche sociali – biopolitiche, si direbbe oggi 140 – divenute, da private che erano, questioni pubbliche, e in quanto tali oggetto di disciplina normativa:
«controllo delle nascite e uso degli anticoncezionali, legislazione matrimoniale, trattamento giuridico dei reati sessuali e delle anormalità sessuali, posizione economica delle donne, organizzazione
135
J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 19711989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta, op. cit., pp. 126-127. Corsivo mio.
136
J. M. KEYNES, The End of Laissez-Faire, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 19711989, vol. IX, pp. 272-294, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta, op. cit., p. 132. Corsivo mio.
137
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. La fine del laissez-faire, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, op. cit.,
p. 252.
138
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore 1994, pp. 248-258, spec. pp. 253254.
139
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 254.
140
La nozione di biopolitica, ha notato Laura Bazzicalupo, sottende una «sempre maggiore pervasività del dominio politico nell’ambito del biologico» (L. BAZZICALUPO, Biopolitica, in R. ESPOSITO, C. GALLI (a cura di), Enciclopedia del
pensiero politico, Roma-Bari, Laterza 2000, p. 70).
36
economica della famiglia 141 ». Tutto ciò – assieme alla gestione della moneta, altro ambito tradizionalmente lasciato agli equilibri scaturenti nel mercato – richiedeva una ridefinizione stessa della nozione di libertà individuale, chiamata a coesistere con forme di controllo e di sanzione che garantissero la convivenza pacifica. «Per metà, almeno, il libro della saggezza dei nostri statisti si basa su
teorie vere un tempo, in tutto o in parte, ma che diventano di giorno in giorno meno vere. Dobbiamo» insisteva Keynes, rivolgendosi ad una platea di liberali, «inventare una nuova saggezza per
una nuova epoca. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo agitarci, mostrarci eterodossi, pericolosi, disobbedienti ai nostri progenitori 142 ».
Non stupisce quindi che Keynes l’eterodosso, colui che sollecitava il liberalismo inglese a
«trovare nuovi strumenti e nuovi criteri politici per controllare e intervenire nel funzionamento delle
forze economiche, di modo che non interferiscano oltre misura con i criteri validi oggi in materia di
stabilità sociale e di giustizia sociale 143 », nel 1933 si rivolgesse a Roosevelt con una lettera aperta il
cui incipit incarna alla perfezione speranze, obiettivi e slancio etico del nuovo liberalismo, razionalista e costruttivista: «Voi siete diventato il vessillo di tutti coloro che in ogni paese cercano di correggere i mali della nostra condizione per mezzo di esperimenti ragionati, nel contesto dell’attuale
sistema sociale. Se voi fallirete, sarà gravemente pregiudicata la possibilità di trasformare il mondo
secondo schemi razionali ed esso resterà in balia dell’ortodossia e della rivoluzione. Ma se voi avrete successo, metodi nuovi e più arditi verranno sperimentati ovunque e noi potremo datare il primo
capitolo di una nuova era economica del vostro ingresso alla presidenza 144 ».
Ma, affinché quell’era potesse nascere, e l’ideologia del New Deal Order trovare una formulazione organica, era necessario un ulteriore contributo teorico, senza il quale le intuizioni di Berle e
Tugwell, la filosofia sociale di Dewey e la nuova economia keynesiana non avrebbero potuto coesistere entro un quadro comune. Quest’ultimo contributo venne offerto dalle scienze sociali.
I.3. La scienza politica al servizio della trasformazione: Charles E. Merriam
Il liberalismo razionalistico, sperimentale e relativista di John Dewey presupponeva una solida alleanza fra liberalismo e scienze sociali 145 . Soltanto lo «studio intelligente del mutamento so141
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 254.
142
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 257.
143
J. M. KEYNES, Am I a Liberal?, in The Collected Works, New York, Macmillan-St. Martin Press 1971-1989, vol. IX,
pp. 295-306, tr. it. Sono un liberale?, in Esortazioni e profezie, op. cit., p. 258.
144
J. M. KEYNES, The Collected Works, op. cit., vol. XII, pp. 457-468, tr. it. in J. M. KEYNES, Come uscire dalla crisi,
Bari, Laterza 1983, pp. 107-116.
145
Cfr. T. V. KAUFMAN-OSBORN, John Dewey and the Liberal Science of Community, in The Journal of Politics, vol.
46, n. 4, 1984, pp. 1142-1165. Kaufman-Osborn sottolinea che fra i compiti attribuiti da Dewey alle scienze sociali rien37
ciale» avrebbe garantito quella declinazione flessibile ed evolutiva delle idee di individualismo e di
libertà che i liberali assolutisti negavano; soltanto il liberalismo avrebbe permesso che le elaborazioni teoriche degli scienziati sociali trovassero concreta applicazione in campo politico. Già da
tempo Dewey sosteneva che «il compito della filosofia e della scienza politica è contribuire a creare
metodi che permettano sperimentazioni meno alla cieca, meno in balia degli accidenti, svolte in
modo più intelligente, cosicché gli uomini possano trarre profitto dai propri errori146 ». Questi metodi avrebbero avuto un’enorme rilevanza pratica, dal momento che la scienza era «il mezzo supremo
per compiere in modo valido tutte le valutazioni, in tutti gli aspetti della vita umana sociale 147 ».
Esistevano condizioni di particolare favore, in America, per tentare una simile cooperazione.
Diversamente da quanto era avvenuto in Europa, negli Stati Uniti non si era un verificato un
Methodenstreit fra sostenitori di un approccio umanistico tradizionale ed uno scientifico allo studio
delle problematiche sociali: il ricorso a metodologie sperimentali, basate sulla verifica empirica, aveva anzi trovato nel pragmatismo un terreno di incontro tra filosofia e sapere operativo 148 . Le simpatie statunitensi per l’«illuminismo applicato» – l’idea secondo cui la ragione poteva essere impiegata in modo rigoroso e sistematico per promuovere il benessere sociale – avevano, per giunta, un
radicamento storico ed erano condivise da un vasto numero di intellettuali 149 .
Tutto ciò, però, valeva all’interno dell’accademia, all’interno di una élite intraprendente, ma
numericamente ristretta e non sempre influente. Fuori da essa, negli anni ’20, a dominare era lo spirito anti-intellettualistico, che diffidava della commistione tra potere politico ed esperti150 . Un simile punto di vista era ampiamente rappresentato nel Congresso, nella stampa, nelle chiese e nel mondo dell’associazionismo religioso. La scienza sociale attecchì rapidamente in campo universitario,
ma fu vista con scetticismo od avversata al di fuori di esso 151 .
tra anche la creazione di un nuovo linguaggio politico, diverso da quello tramandato di generazione in generazione.
Questo nuovo linguaggio avrebbe dovuto essere astratto ed avalutativo (cfr. ibidem, pp. 1150-1153).
146
J. DEWEY, The Public and Its Problems, New York, Henry Holt 1927, p. 34, citato in J. FARR, John Dewey and
American Political Science, in American Journal of Political Science, vol. 43, n. 2, 1999, pp. 520-541, spec. p. 523.
147
J. DEWEY, Theory of Valuation, Chicago, Chicago University Press 1939, p. 66, citato in A. E. MURPHY, John
Dewey and American Liberalism, op. cit., spec. p. 425. Corsivi miei.
148
Cfr. T. BONAZZI, Storia e scienze sociali: il lavoro dello storico come professione negli Stati Uniti, in N. TRANFAGLIA (a cura di), Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, vol. 10, Firenze, La Nuova Italia 1983, pp. 751770; B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, Berkeley, University of California 1964,
pp. 88-94.
149
R. DAHRENDORF, Die Angewandte Aufklärung. Gesellschaft und Soziologie in Amerika, R. Piper & Co. Verlag,
München 1963, tr. it. Società e sociologia in America, Bari, Laterza 1967, pp. 21-31.
150
Come ha ben chiarito Richard Hofstadter, l’anti-intellettualismo andava di pari passo con l’antistatalismo: riformatori e i tecnocrati venivano considerati elementi potenzialmente autoritari, perché lontani dalle esigenze degli “uomini di
strada” e desiderosi di servirsi dei poteri di governo per sovvertire l’ordine sociale americano (Cfr. R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963).
151
Gli stessi scienziati sociali, ha notato Merle Curti, evitarono, almeno inizialmente, di trarre le conseguenze più radicali dall’applicazione del metodo sperimentale, per il timore di essere accostati a chi, nei regimi autocratici, mirava a
soggiogare integralmente la condotta umana (M. CURTI, The Growth of American Thought, New York, Harper and Brothers Publishers 1951, tr. it. Storia della cultura e della società americana, Venezia, Neri Pozza 1959, p. 755),
38
Tutto ciò contribuì ad avvicinare i social scientists ai liberali progressisti come Dewey. Ad
unirli vi erano, oltre alla scarsa capacità di incidere sulla scena pubblica, alcune idee comuni, alcune
premesse teoriche che contribuirono ad avvicinare le loro riflessioni.
Tanto i primi quanto i secondi sostenevano quella che Francis G. Wilson ha definito «teoria
laica o scientifica dell’intelligenza». In base a tale concezione, «la ragione e l’attività mentale sono
un prodotto selettivo dell’evoluzione e solo in parte consapevole. La nascita biologica del pensiero
umano è la storia completa dell’evoluzione delle forme animali e la psicologia umana si può studiare sotto importanti aspetti quasi ad ogni livello dell’intelligenza animale. Non vi è distinzione, quindi, tra scienze naturali e morali; non c’è un ordine morale dipendente dall’intelligenza e volontà di
Dio; e infine la prova di una proposizione qualsiasi può essere unicamente scientifica o empirica. La
prova viene dalla scienza, e la scienza nasce dallo studio dell’esperienza, perché nemmeno l’attività
della mente può aggiungere o sottrarre qualcosa alla natura. Il lavoro della mente è, per sé stesso,
parte del processo dell’esperienza 152 ».
In secondo luogo, essi condividevano quella «fede nella plasmabilità quasi illimitata della
natura umana 153 » in cui Dahrendorf individuava un tratto saliente del razionalismo americano. Non
deve stupire che tanto Dewey quanto i social scientists degli anni ’20, ’30 e ’40 si siano assiduamente occupati di educazione e propaganda: l’una e l’altra, infatti, rappresentano momenti di manipolazione dell’uomo, occasioni in cui l’individuo poteva essere indirizzato verso condotte egoistiche ed antisociali, ovvero indotto ad abbracciare i principi del civismo democratico 154 .
Tanto gli scienziati sociali quanto i riformatori, infine, erano persuasi dell’«inadeguatezza
del vecchio ordine 155 », di cui rigettavano la comprensione intuitiva e non sistematica dell’azione
sociale, nonché l’adesione acritica a regole e modelli di condotta tradizionali.
Ecco perché, al di là di alcune, significative differenze di fondo 156 , le scienze sociali statunitensi condividevano con il liberalismo progressista l’essere «animate, se non proprio dall’utopia,
dalla volontà di riforma nel senso più ampio della parola, dall’ambizione di conoscere di manipola-
152
F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il
pensiero politico americano, Venezia, Neri Pozza 1959, pp. 476-477.
153
R. DAHRENDORF, Die Angewandte Aufklärung. Gesellschaft und Soziologie in Amerika, R. Piper & Co. Verlag,
München 1963, tr. it. Società e sociologia in America, op. cit., p. 26.
154
Si accosti, per esempio, la definizione della scienza politica come «scienza del civic training» proposta da C. E. Merriam (cfr. C. E. MERRIAM, The Making of Citizens: A Comparative Study of Methods of Civic Training, Chicago, University of Chicago Press 1931) al progetto di educazione democratica elaborato da Dewey (J. DEWEY, Democracy and
Education: an Introduction to the Philosophy of Education, New York, The Macmillan Company 1929). In materia di
propaganda, cfr. ad es. L. A. LOWELL, Public Opinion and Popular Government, New York, Longmans-Green 1913 e
ancora J. DEWEY, The Public and Its Problems, op. cit.
155
B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, Berkeley, University of California 1964, p
95.
156
Su alcune conflittualità metodologiche ed epistemologiche fra il liberalismo di Dewey e gli scienziati sociali, cfr. P.
MANICAS, John Dewey and American Social Science, in L. A. HICKMAN, Reading Dewey: Interpretations for a Postmodern Generation, Bloomington, Indiana University Press 1998, pp. 43-62.
39
re 157 ». Ed ecco perché esse – aggirando la rivendicazione di avalutatività che caratterizzava il loro
statuto epistemologico 158 – proponevano, al pari del liberalismo, «una filosofia della cittadinanza in
cui la capacità di adattamento perpetuo al nuovo era supportata dall’informazione e delle azioni
svolte in comune. Il risultato fu che le tendenze democratiche delle scienze sociali e le convinzioni
ideologiche degli scienziati politici americani si trovarono a coesistere armoniosamente. Costoro erano allo stesso tempo buoni cittadini democratici e rigorosi, nonché difensori obiettivi dell’ethos
scientifico 159 ».
Esemplare, in questo senso, è la parabola intellettuale e personale di Charles E. Merriam 160 ,
da considerare – assieme ad Harold Laswell e Vladimer O. Kay – il fondatore della moderna scienza politica statunitense.
Nel 1921, Merriam rilevava che «in tempi relativamente recenti la teoria politica è entrata in
contatto con forze che debbono per tempo modificare le sue procedure da un punto di vista estremamente concreto. La dottrina, relativamente recente, secondo cui le idee politiche e i sistemi politici – al pari di altre idee sociali e di altri sistemi sociali – sono un prodotto dell’ambiente, tanto
nell’ottica del determinismo economico o di quello ambientale, rappresentano una sfida a tutti i sistemi di pensiero 161 ». Ancor più rivoluzionario era il «processo di misurazione, comparazione e
standardizzazione […], stimolato dall’opera di migliaia di pazienti investigatori, che ricercano la
verità attraverso masse di fatti misurabili e comparabili162 ». Si sarebbe potuto tentare qualcosa di
analogo in campo politico?
Sì, secondo Merriam, ma un impulso decisivo sarebbe dovuto venire dalle istituzioni pubbliche. Eppure, allo stato attuale, «i ricercatori più equipaggiati, nei centri di studio meglio equipaggiati, difficilmente dispongono di strumenti comparabili con quelli dei migliori studi legali, dei migliori ingegneri, o dei migliori esperti nel campo delle corporation […]. Le scienze politiche e sociali
sono state, in genere, sopravanzate dalle cosiddette scienze “naturali” – ora l’aggettivo “naturali” è
157
R. ARON, La Société Américaine et Sa Sociologie, in Cahiers Internationaux de Sociologie, XXVI, 1959, pp. 55-68,
spec. pp. 59-60.
158
Nel secondo dopoguerra, fu David Easton a enunciare in forma compiuta i principi metodologici della scienza politica in senso moderno. Vale la pena di elencarli: «1) la ricerca di regolarità e di uniformità; 2) la subordinazione di ogni
asserzione alla verifica empirica; 3) l’adozione di precisi metodi di ricerca; 4) la quantificazione; 5) l’avalutatività» (D.
EASTON, The Current Meaning of “Behavioralism”, in J. C. CHARLESWORTH (ed.), Contemporary Political Analysis,
New York, Free Press 1967, tr. it. Teorie e metodi in scienza politica, Bologna, Il Mulino 1971, pp. 52-53.
159
J. SHKLAR, Redeeming American Political Theory, in American Political Science Review, vol. 85, n. 1, 1991, pp. 315, spec. p. 14.
160
Charles E. Merriam (1874-1953), docente presso l’Università di Chicago, fu a lungo l’animatore dell’American Political Science Association e membro dell’amministrazione cittadina. Dopo aver servito il governo federale nel primo
conflitto mondiale, collaborò in misura crescente con la Presidenza, divenendo consulente di Hoover, Roosevelt e Truman. Su Merriam, cfr. B. D. KARL, Charles E. Merriam and the Study of Politics, Chicago, University of Chicago Press
1974).
161
C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, vol. 15, n. 2, 1921, pp.
173-185, spec. p. 174. Corsivo mio.
162
C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. ibidem.
40
caduto in disuso – che sono di gran lunga meglio supportate da ricercatori e da attrezzature per la
ricerca 163 ». Per colmare lo scarto creatosi, sarebbe stato necessario «lo sforzo organizzato e persistente di molti studenti […]. Con l’aiuto di varie agenzie governative, di numerosi centri studio, e
forse di fondi di ricerca privata, i professionisti nel campo della scienza politica potrebbero essere
posti in condizioni di servirsi di dati e di assistenza utili per un uso tecnico. Ma, sino ad allora, siamo costretti a zoppicare, là dove ci muoviamo 164 »
Cinque anni dopo, tracciando un bilancio dell’impatto esercitato dal sapere applicativo sulla
cultura americana, Merriam si mostrava più ottimista. In campo urbanistico, «centri di ricerca, dentro e fuori dalle mura universitaria, sono fioriti in tutto il paese, e ricercatori municipali hanno materialmente contribuito ad un’analisi intelligente dei fenomeni di urbanizzazione e a dirigerne lo sviluppo 165 ». Significativi successi erano stati riscontrati nello studio dei partiti, della teoria politica,
delle relazioni internazionali, nel diritto. Raduni e convegni nazionali avevano affrontato questioni
metodologiche inerenti le discipline del ramo. Esisteva un nutrito gruppo di periodici che promuoveva la moderna politologia. «Il numero di studenti seri è ovviamente cresciuto, per numero e per
livello di preparazione, ma il punto è che il gruppo è ancora circoscritto e penosamente inadeguato
ai compiti che è chiamato ad affrontare 166 ».
Malgrado gli esiti soddisfacenti, Merriam poteva lamentare l’ostracismo che alcune autorità
politiche e molti colleghi riservavano alla loro attività. Da un lato, i social scientist dovevano fronteggiare «la diffusa tendenza popolare al fondamentalismo politico 167 », che ostacolava la libertà di
ricerca e di pensiero; dall’altro, gli stessi scienziati politici erano considerati con scetticismo da studiosi affermati, e addirittura da altri scienziati sociali. Eppure, tutto lasciava presupporre che, indipendentemente dai regimi politici che sarebbero apparsi nel futuro, la politica non sarebbe scomparsa, ed anzi avrebbe rafforzato il proprio legame con le scienze applicate: «poiché la complessità delle relazioni sociali cresce, ci sarà probabilmente in futuro più politica; più regole governative e più
regolamentazioni, mentre prima ve ne erano meno 168 ».
Anche per questo, Merriam suggeriva di abbandonare la capziosa separazione fra economia
e politica, che trascurava una verità fondamentale: tanto l’una quanto l’altra si occupavano di problemi sociali. «Nella realtà, la politica e l’economia non sono mai state separata, o almeno non hanno mai divorziato […]. Uno dei problemi di base dell’organizzazione sociale è quello della relazione fra unità organizzative politiche ed economiche e l’autorità. Questo problema caratterizza tutte le
163
C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 175.
C. E. MERRIAM, State of the Study of Politics, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 176.
165
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, vol. 20, n. 1, 1926, pp.
1-13, spec. p. 1.
166
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 3
167
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., ibidem.
168
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 5.
164
41
organizzazioni, quelle urbane, le stateli, le nazionali e le internazionali. Ma è un problema che concerne l’economia o la politica? 169 ». Era impossibile tracciare una nitida linea di distinzione.
Concludendo, il politologo di Chicago poteva affermare che «sta divenendo evidente, in misura crescente, che i problemi di base dell’organizzazione e della condotta politica vanno riaffrontati alla luce delle nuove scoperte e delle nuove tendenze; che va riesaminata la natura del governo in
una società di massa; che bisogna esplorare nuovamente i caratteri ed il grado di interesse popolare
verso l’attività di governo, e i metodi per servirsene; che possiamo servirci della scienza tanto per
contribuire a far finire una guerra quanto per scatenarne una; che i meccanismi e i processi politi
devono essere soggetti ad una assai più minuziosa analisi di quella che finora hanno ottenuto dagli
studenti delle tecniche di governo, da un punto di vista molto più approfondito, e da angolazioni diverse 170 ». Secondo Merriam, anche le scienze naturali avrebbero offerto un aiuto straordinario
all’impresa, poiché le une e le altre «procedono insieme in uno sforzo comune, e uniscono le loro
forze nella più grande impresa che l’umanità abbia sinora fronteggiato: la comprensione, tramite
l’intelletto, ed il controllo del comportamento umano 171 ».
Idee come quelle di Merriam non avevano, di per sé, ricadute sovversive sul piano politico.
Negli anni ’10, i sociologi si limitavano a suggerire che, «debitamente consultati, potevano insegnare alla nuova generazione come si potesse ottenere un futuro sicuro 172 ». Ma la crisi del 1929 spalancò nuovi spazi a beneficio degli intellettuali, e galvanizzò le loro pretese di riorganizzare in termini razionali l’ordinamento sociale. «Alle menti ribelli d’America sembrò che ciascuna delle loro
profezie si avverasse. Alla fine lo splendido edificio del capitalismo cadeva, e gli intellettuali, in
larga parte già disavvezzati dal sostenere il vecchio sistema, erano portati ad accettare i giudizi degli
spiriti americani rivoluzionari 173 ».
Questa “rivoluzione” non fu simboleggiata, però, da figure quali l’agitatore socialista, o
l’irrazionalista di destra 174 . La vera cifra del New Deal – e del New Deal Order che ne scaturirà –
può essere rinvenuta nello straordinario ruolo che venne conferito agli esperti.
Nasceva l’ingegneria politica, ossia un metodo di risoluzione dei conflitti che presupponeva
contiguità, sia fisica che ideologica, fra decisori politici e specialisti: «esiste un problema; manca la
169
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 8.
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 11.
171
C. E. MERRIAM, Progress in Political Research, in The American Political Science Review, op. cit., spec. p. 12.
172
F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il
pensiero politico americano, Venezia, Neri Pozza 1959., p. 489.
173
F. G. WILSON, The American Political Mind: a Textbook in Political Theory, New York, McGraw-Hill 1949, tr. it. Il
pensiero politico americano, op. cit., pp. 498-499.
174
Secondo John Diggins, «il fascismo ottenne una certa approvazione in campo democratico poiché, come primo esempio di una società caratterizzata da un sistema economico misto e gestita in modo tecnologico, rappresentava una
sfida inedita, una innovazione storica che apriva la strada a nuove possibilità di pianificazione». A ciò si accompagnava,
tuttavia, una forte ripugnanza per i metodi violenti e non democratici con cui i partiti fascisti tendevano ad impossessarsi del potere (J. DIGGINS, Flirtation with Fascism: American Pragmatic Liberals and Mussolini’s Italy, in The American
Historical Review, vol. 71, n. 2, 1966, pp. 487-506, spec. p. 505).
170
42
conoscenza necessaria per risolverlo o per scegliere fra soluzioni alternative; la ricerca genera la
conoscenza mancante; e una soluzione è raggiunta. Tipicamente si renderà necessario un solo studio. Esso, con i suoi dati, le sue analisi e le sue conclusioni, inciderà sulle scelte dei decisionmakers. È implicita in questo approccio, l’esistenza di un accordo sui fini. Si assume che i decisori
e i ricercatori concordino su quale debba essere lo stato di cose finale desiderabile175 ». I fini su cui
un gran numero di scienziati sociali e decisori politici ebbero occasione di convergere, dagli anni
trenta sino alla fine del decennio successivo, erano quelli del liberalismo progressista, formulato da
autori come Dewey e Keynes, che a loro volta ben si conciliavano con la corporate economics delineata da Berle e Tugwell.
L’apporto degli intellettuali al New Deal, ha rimarcato Richard Hofstadter, nasceva da esigenze tanto spirituali quanto materiali. «Al pari di tutti gli altri ceti, il ceto intellettuale aveva sofferto per la crisi economica, avevano conosciuto anch’essi la disoccupazione, anche il loro morale era
rimasto scosso. Il New Deal dette lavoro a migliaia di giovani giuristi ed economisti, i quali affluirono in massa a Washington per entrare nei nuovi enti di regolazione che ivi erano stati creati. I
progetti della WPA e della NYA relativi alla ricerca, all’arte e al teatro aiutarono artisti e disoccupati, intellettuali e studenti universitari. Ancor più importante di questo aiuto pratico fu il sostengo
morale, fortissimo: usando teorici e professori come consiglieri e ideologi, il New Deal stabilì tra la
forza della mente e il potere un rapporto che non c’era mai stato a memoria d’uomo, un legame
strettissimo che non c’era più stato dai tempi dei Padri Fondatori176 ».
È vero che il rapporto fra trust di intellettuali e classe politica fu tutt’altro che lineare e pacifico. Dewey e Keynes lamentarono le modalità incerte e contraddittorie d’intervento dei New
Dealer, Merriam ribadì in più occasioni che «l’organizzazione dei vecchi sistemi di valore e della
nuova scienza in forme e pratiche coerenti con i problemi emergenti» era tutt’altro che compiuta,
mentre i riformatori più audaci finirono sulla graticola della propaganda di destra 177 .
Eppure, gli anni ’30 rappresentarono un momento straordinario nella storia dell’illuminismo
applicato. E questo perché il riconoscimento dell’importanza dell’intellettuale «non avvenne più alle condizioni caldeggiate dai gentleman-riformatori dei decenni precedenti […]. Ora invece i diritti
dell’intelletto non dipendevano dalla posizione sociale degli uomini che lo impersonavano, ma dal
175
R. BULMER, The Uses of Social Research, London, Allenò and Unwin 1982, p. 42, cit. in A. PANEBIANCO, Le scienze sociali e i limiti dell’illuminismo applicato, in A. PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica. Tradizioni di ricerca, modelli, teorie, Bologna, Il Mulino 1989, pp. 563-596, spec. p. 568.
176
R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in America, Torino, Einaudi 1968, p. 213.
177
R. B. WESTBROOK, John Dewey and American Democracy, Ithaca, Cornell University Press 1991, pp. 441-442; D.
D. DILLARD, The Economics of John Maynard Keynes; The Theory of Monetary Economy , New York, Prentice-Hall
1948, p. 157; C. E. MERRIAM, Politics in Its Place, in International Journal of Ethics, vol. 46, n. 2, 1936, pp. 127-150,
spec. p. 150; R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in America, op. cit., pp. 214-215.
43
fatto che questi uomini potevano servire per mobilitare e dirigere l’inquietudine critica e le energie
riformatrici del paese. L’intelletto fu riabilitato non per la sua presumibile influenza conservatrice,
ma per l’aiuto che poteva dare alla trasformazione 178 »
Affermatisi in un’età di crisi economica, il liberalismo progressista e le scienze sociali conobbero una straordinaria popolarità e diffusione a ridosso della Seconda Guerra Mondiale. La circostanza non è causale. Proprio come Dewey aveva ammonito vent’anni prima, la guerra offriva
«possibilità sociali 179 »: occasioni di sperimentazione in campo economico, ma anche opportunità di
ascesa per gruppi etnici e sociali emarginati. E l’esaltazione dell’organizzazione fatta dai New
Dealer rappresentava pur sempre «un equivalente morale della guerra»: un modo per mobilitare, in
tempo di pace, energie e risorse altrimenti inespresse, mal distribuite o sprecate 180 .
Come ebbe a dichiarare Franklin D. Roosevelt nel 1944, il “dottor New Deal” aveva ceduto
il posto al dottor “Win the War” 181 . Ma metodi ed obiettivi rimasero gli stessi, e il conflitto bellico
si rivelò decisivo nell’emarginare dalla scena pubblica i più intransigenti oppositori del “nuovo liberalismo”.
II. L’entrata in guerra: declino e tramonto della «Old Right»
Nel corso degli anni ’30, intellettuali e politici schierati a destra polemizzarono con durezza
contro lo sperimentalismo dei New Dealer, denunciando la perdita di senso pratico dei leader politici, manipolati da individui «trascinati fuori da una spoglia e fetida aula scolastica […] e buttati su
un trono quasi adatto a Caligola, a Napoleone I o a J. Pierpont Morgan 182 ». Il secondo conflitto
mondiale, tuttavia, impose una attenuazione della conflittualità interna, e spinse un numero crescen178
R. HOFSTADTER, Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in America, op. cit., pp. 188-189. Corsivo mio.
179
J. DEWEY, What Are We Fighting For?, in Independent, XCIV, 1918, p. 480, cit. in J. M. COOPER (ed.), Causes and
Consequences of World War I, New York, Quadrangle Books 1972.
180
Cfr. W. JAMES, The Moral Equivalent in War, in W. JAMES, Writings 1902-1910, New York, Literary Classics of
the United States 1987, pp. 1281-1293. La descrizione del New Deal come una guerra contro i potentati economici, gli
interessi costituiti e la povertà che ne scaturiva non si limitava alla retorica rooseveltiana. Prova ne sia, ad esempio,
l’idea di Richard T. Ely di costituire un esercito regolare di disoccupati con cui fronteggiare le emergenze interne (cfr.
R. T. ELY, Hard Times. The Way In and the Way Out, With a Special Consideration of the “Seen and Unseen”, New
York, The Macmillan Company 1931).
181
F. D. ROOSEVELT, Complete Press Conferences of Franklin D. Roosevelt, New York, Da Capo Press 1972, vol. 22,
cit. in H. E. EVANS, The Hidden Campaign: FDR’s Health and the 1944 Election, Armonk, M. E. Sharpe 2002, p. 29.
182
H. L. MENCKEN, The New Deal Mentality , in American Mercury , vol. XXXVIII. 1936, p. 4, cit. in R. HOFSTADTER,
Anti-intellectualism in American Life, New York, Knopf 1963, tr. it. Società e intellettuali in America, op. cit., pp. 217.
Nel 1934, un manifesto politico approvato dal Republican National Committee descrisse la battaglia contro il New Deal
come una difesa di una civiltà plurisecolare, che quattro anni di amministrazione democratica avrebbe potuto distruggere. Benché, con la candidatura di Alf Landon nel 1936, il Partito Repubblicano si assestasse su una linea decisamente
più moderata, l’immagine di un New Deal profondamente un-american si consolidò nell’immaginario della destra americana (cfr. A. J. LICHTMAN, White Protestant Nation. The Rise of American Conservative Movement, New York, Athlantic Monthly Press 2008, pp. 85-86; D. CRITCHLOW, The Conservative Ascendancy, in D. CRITCHLOW, N. MACLEAN,
Debating the American Conservative Movement: 1945 to the Present, Lanham, Rowman & Littlefield 2009, pp. 1-157,
spec. p. 9).
44
te di oppositori di Roosevelt a riconoscere l’utilità della cooperazione fra esperti e potere politico:
non per promuovere la libertà progressiva, come auspicato da Dewey, ma per sconfiggere la minaccia dell’Asse.
L’entrata in guerra finì con lo screditare, anzitutto, quel complesso e contraddittorio conglomerato di posizioni passate alla storia sotto l’etichetta di «isolazionismo». Non di una omogenea
e coerente dottrina si trattava, quanto piuttosto di un impulso – ha notato Ronald E. Powaski – «antico quanto la nazione stessa», una nazione nata dal desiderio di emanciparsi dai vincoli religiosi
prima, ed economici poi, imposti dal Vecchio Continente 183 . Il «rifiuto di impegni politici e militari
nei confronti di, o in alleanza con, potenze straniere, particolarmente quelle europee», che, secondo
Manfred Jonas, costituisce l’essenza dell’atteggiamento isolazionista 184 , accomunava leader, intellettuali e simpatizzanti dalla sinistra radicale all’estrema destra. Socialisti come Norman Thomas,
elitisti come Lawrence Dennis e ammiratori del militarismo tedesco come Charles Lindbergh condividevano l’obiettivo, principalmente difensivo, di mantenere gli Stati Uniti al di fuori del reticolo
di rapporti di forza, e alla logica di potenza ad essi sottesa, che reggeva le relazioni fra Stati in Europa e in Asia. Le «controversie di vecchia data interne alla famiglia delle nazioni», per dirla con
Lindbergh, non avrebbero dovuto condizionare l’operato americano, né nelle forme canoniche della
diplomazia bilaterale, né in quelle proprie delle nascenti organizzazioni internazionali. A guidare la
classe politica avrebbe dovuto essere, sostenne il senatore William E. Borah, la cura dell’interesse
americano e l’impegno devoto degli americani verso se stessi 185 .
Adottare un indirizzo isolazionista in politica estera non significava, tuttavia, propugnare la
totale estraniazione degli Stati Uniti dallo scenario internazionale. Come intuì Albert K. Weinberg,
il principio della libertà d’azione non andava confuso con il desiderio di inattività, né il rifiuto
dell’entanglement (coinvolgimento) presupponeva di per sé l’assenza di rapporti amichevoli con altri Paesi 186 . Le amministrazioni Harding, Coolidge e Hoover – almeno sino alla crisi del 1929-1930
– avevano dimostrarono come il disimpegno verso la Società delle Nazioni, la sfiducia nei confronti
dell’ordine internazionale emerso a Versailles, la rivendicazione dell’“eccezionalismo” statunitense
183
Cfr. S. ADLER, The Isolationist Impulse: Its Twentieth-Century Reaction, London, Abelard-Schuman, 1957; R. E.
POWASKI, Toward an entangling alliance: American isolationism, internationalism and Europe, 1901-1950, New York,
Greenwood press 1991, p. xi.
184
Cfr. M. JONAS, Isolationism, in A. DE CONDE (ed.), Encyclopaedia of American Foreign Policy: Studies of the Principal Movements and Ideas, New York, Scribner’s 1978, pp. 496-506.
185
Per una ricognizione ad ampio raggio sull’isolazionismo statunitense alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, cfr.
M. JONAS, Isolationism in America: 1935-1941, Imprint Publications, Chicago 1990, J. D. DOENECKE, J. E. WILTZ,
From Isolation to War, Arlington Heights, Harlan Davidson 1991. La frase di Lindbergh è riportata da J. D. DOENECKE,
Isolationism, in AA. VV., American Conservatism. An Encyclopedia, Washington, ISI Books 2006, p. 442. Le parole di
Borah sono citate in G. MARTEL (ed.), American Foreign Relations Reconsidered: 1890-1993, New York, Routledge
1994, p. 90.
186
A. K. WEINBERG, International Affairs: The Historical Meeting of the American Doctrine of Isolation, in The American Political Science Review, vol. 34, n. 3, 1940, pp. 539-547.
45
fossero pienamente compatibili con una politica economica liberoscambista, in grado di imporre
una sfera d’influenza americana nell’area asiatica 187 .
Il nesso fra libertà individuale, Stato minimo, apertura dei mercati internazionali ed isolazionismo era al centro della proposta teorica della cosiddetta Old Right, un agglomerato di intellettuali e uomini politici che ebbero in riviste come The Freeman e American Mercury il loro centro
di aggregazione 188 . Ad accomunarli, in prima istanza, era «una profonda ostilità ed antipatia nei
confronti del potere del governo». All’intervento pubblico contrapponevano la difesa della libertà
del singolo, e del libero mercato come istituzione più idonea a garantirne la libera scelta. «La Old
Right applicava la propria avversione al governo tanto in politica interna quanto in quella estera», e
concepiva l’imperialismo come una inevitabile conseguenza dell’ampliamento del potere politico a
scapito della società civile 189 . Richiamandosi alla Scuola di Manchester di Bright e Cobden, i suoi
esponenti ritenevano che un mercato internazionale deregolamentato avrebbe favorito il reciproco
armonizzarsi degli interessi tra le nazioni, mentre la guerra rappresentava il logico corollario della
centralità conferita agli apparati statuali nelle relazioni internazionali. Così, se da un lato rigettavano l’idea di una comunità internazionale costituita da monadi autarchiche, separate l’una dall’altra
da dazi e barriere doganali, dall’altro rifiutavano l’idea wilsoniana di un “direttorio mondiale”, dietro cui scorgevano il tentativo di riprodurre a livello sopranazionale le medesime logiche di subordinazione ed oppressione che contraddistinguevano la politica interna. «Crediamo che una lega delle nazioni sia inevitabile, e che essa si realizzerà automaticamente e spontaneamente» sosteneva nel
1919 il filosofo Albert J. Nock, una tra le voci più autorevoli della Old Right. «La rimozione delle
barriere economiche e delle restrizioni ora imposte dai governi sull’industria ed il commercio produrrà, io credo, la stessa libera unione economica tra le nazioni del mondo di quella che oggi prevale tra gli Stati Uniti d’America; e noi pensiamo che una libera unione economica sia l’unico mezzo
per ottenere qualcosa». La Società delle Nazioni, al contrario, era caratterizzata da una logica antiegualitaria che poneva alcune grandi potenze in una posizione di dominio. «I governi degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone sono la lega delle nazioni; sono il suo consiglio esecutivo; essi nominano falsi direttori; essi trascurano qualsiasi qualificazione dei candidati; essi sono,
187
Secondo William Appleman Williams e gli storici revisionisti a lui vicini, l’immagine di un’America isolazionista
negli anni ’20 rappresenta una vera e propria leggenda (cfr. W. A. WILLIAMS, The Legend of Isolationism in the 1920’s,
in «Science & Society», vol. 18, 1954, pp. 1-20). Molto dipende dall’accezione che al termine «isolazionismo» si intende conferire: esso può infatti essere impiegato per definire una linea di disimpegno politico volta a promuovere
l’interscambio commerciale.
188
Per una dettagliata trattazione della pubblicistica della Old Right, cfr. R. LORA, W. H. LONGTON (ed.), The Conservative Press in Twentieth-Century America, Westport, Greenwood Press 1999, pp. 269-303, pp. 305-319.
189
M. ROTHBARD, The Foreign Policy of the Old Right, in Journal of Libertarian Studies, vol. 2, n. 1 (1978), pp. 85-96,
in spec. p. 85.
46
in breve, un’oligarchia assoluta ed irresponsabile 190 ». Per Nock, insomma, pace e libertà sarebbero
andate a braccetto soltanto se mezzi economici, e non politici, avessero regolato i rapporti fra i popoli 191 . Il libertarismo di Nock, ha sintetizzato Walter E. Grinder, «si traduce in un radicale laissezfaire o nella filosofia politica anarchica della Old Right, secondo la quale l’unico scopo delle istituzioni “politiche” è impedire qualsiasi intervento coattivo nei pacifici affari dei membri della società.
È la filosofia politica dell’anti-statalismo 192 ».
Ad indirizzare i teorici della Old Right verso l’opzione neutralista non era, però, soltanto la
fiducia verso le potenzialità pacificatrici del libero commercio. A terrorizzarli era l’eventualità che
gli Stati Uniti compissero a ritroso il cammino che Herbert Spencer giudicava proprio della civiltà
moderna: divenendo cioè, da società industriale che erano, una società militare 193 . L’artefice di questa involuzione aveva, ai loro occhi, un nome ed un cognome preciso: Franklin D. Roosevelt. Il
New Deal, sostenne a più riprese il polemista John T. Flynn, poteva essere considerato la variante
americana del fascismo europeo. Esso condivideva con i regimi totalitari «l’idea di riordinare la società creando un’economia pianificata e coercitiva, anziché libera, nella quale il mondo degli affari
sarebbe stato riunito in grandi gilde od immense strutture corporative, combinando elementi di autogoverno o supervisione governativa con una politica economica nazionale di sostegno a queste
strutture». Un’organizzazione di questo tipo, supportata dall’indebitamento pubblico perpetuo, da
centri autonomi di pianificazione e dall’inarrestabile ampliamento della burocrazia, sarebbe sfociata
nel militarismo. Esso, infatti, avrebbe garantito posti di lavoro, cospicui guadagni per le imprese del
settore della difesa, coesione sociale. «Il militarismo» annotava sarcasticamente Flynn nel 1944 «è
uno di quegli affascinanti lavori pubblici sulla quale un gran numero di membri della comunità può
far convogliare il proprio consenso 194 ».
La posizione di Flynn, per quanto radicale, era tutt’altro che isolata. Storici come Harry Elmer Barnes e persino generali come Robert R. McCormick condividevano il timore che gli Stati U190
A. J. NOCK, The Ends and the Means, in The State of the Union: Essays in Social Criticism, Indianapolis, Liberty
Press 1991, pp. 77-79 e 79, citato in A. DONNO, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Firenze, Le Lettere 2004, pp. 26-27. Il libro di Donno contiene un lungo saggio dedicato alla figura di A. J. Nock.
191
La distinzione fra mezzi economici (basati sullo spontaneo incontro delle volontà) e mezzi politici (intrinsecamente
coercitivi) è al centro dell’opus magnum di Nock (A. J. NOCK, Our Enemy the State, New York, W. Morrow &
Company, 1935, tr. it. Il nostro nemico, lo Stato, Macerata, Liberilibri, 1995).
192
W. E. GRINDER, Introduction to A. J. Nock, Our Enemy the State, San Francisco, Fox & Wilkes 1994 (1a ed 1935),
p. XI, citato in A. DONNO, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, op. cit., p. 18.
193
Su Spencer, cfr. T. GRAY, Herbert Spencer’s Liberalism – from Social Statics to Social Dynamics, in R. BELLAMY
(ed.), Victorian Liberalism: Nineteenth Century Political Thought and Practice, London, Routledge 1990, pp. 110-130.
Sul rapporto fra liberalismo economico e pacifismo nella cultura inglese, e fra la Scuola di Manchester e Spencer in particolare, cfr. G. ALDOBRANDINI, The Wishful Thinking. Storia del pacifismo inglese nell’Ottocento, LUISS University
Press 2009, p. 89-107, spec. 100-101.
194
J. T. FLYNN, As We Go Marching, New York, Doran 1944, pp. 193-194 e 198. Citato in M. ROTHBARD, For a New
Liberty. The Libertarian Manifesto, Auburn, Ludwig Von Mises Institute 2006 (1° ed 1973) pp. 351-352. Su Flynn, cfr.
J. M. MOSER, Right Turn: John T. Flynn and the Transformation of American Liberalism, New York, New York University Press 2005, spec. pp. 112-137.
47
niti potessero trasformarsi in una potenza imperiale retta da un’economia di guerra 195 . Il rapporto
della Commissione Nye e saggi come Road to War (1935), che addebitavano la partecipazione al
primo conflitto mondiale alla collusione fra potere politico ed industria militare, sembravano rafforzare le loro tesi 196 . Alla «inorridita reazione contro la rivoluzione rooseveltiana, contro il Grande
Balzo in Avanti verso il collettivismo che aveva inebriato gli intellettuali socialisti e fatto infuriare i
devoti cultori delle istituzioni e dei severi limiti posti al governo centrale», essi associavano la convinzione che «il coinvolgimento in una guerra su larga scala, specialmente per motivi globali e non
nazionali, avrebbe trasformato l’America in uno Stato-Guarnigione permanente, che avrebbe distrutto la libertà americana e i limiti costituzionali nella misura in cui avesse esteso l’Impero americano all’estero 197 ». Non va dimenticato che alcuni irriducibili, come Barnes o Frank Chodorov, anni dopo avrebbero individuato nell’attivismo persecutorio di Joseph McCarthy una minaccia più
concreta e reale per il popolo americano di quanto non lo fossero i progetti espansionistici di Stalin 198 .
L’aggressione subita il 7 dicembre 1941 assestò il colpo di grazia alle pretese isolazioniste
di mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. Flynn, Barnes ed altri intellettuali appartenenti alla
galassia della Old Right furono licenziati dai periodici cui collaboravano con l’accusa di antipatriottismo. In un clima di intolleranza crescente, quasi un’anticipazione della futura ondata maccartista,
una trentina di neutralisti di destra finirono sottoprocesso per sedizione nel 1944, un anno dopo che
un pamphlet di successo, “Under Cover”, aveva sommariamente riunito isolazionisti, antisemiti e
filohitleriani sotto l’etichetta di «the Nazi underworld of America» 199 .
La disfatta del fronte isolazionista, tuttavia, non può essere addebitata al solo attacco subito
a Pearl Harbor. Collocando il casus belli in una prospettiva più ampia, è facile di come tale sconfitta
fu anzitutto culturale. Dal 1939 in avanti, infatti, l’amministrazione Roosevelt aveva intrapreso una
massiccia opera di mobilitazione, diretta a sconfiggere gli umori neutralisti presenti nel Paese. La
195
Su Barnes, cfr. A. GODDARD (ed.), Harry Elmer Barnes, Learned Crusader; the New History in Action, Colorado
Springs, R. Myles 1968. Su McCormick, cfr. R. N. SMITH, The Life and Legend of Robert R. McCormick, 1880-1955,
Boston, Houghton Miffin Company 2003, spec. pp. 387-419.
196
Sulla Commissione Nye e le sue conseguenze, cfr. J. DUROSELLE, Histoire Diplomatique de 1919 à Nos Jours, Paris,
Dalloz 1990, tr. it. Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano, LED 1998, pp. 297-298.
197
M. ROTHBARD, Life in the Old Right, in J. SCOTCHIE, The Paleoconservatives: New Voices of the Old Right, New
Brunswick, Transaction Publishers 1999, pp. 19-30, spec. pp. 19 e 22
198
Per una panoramica sui diversi atteggiamenti degli intellettuali libertarians di fronte alla Guerra Fredda, cfr. N.
BJERRE-POULSEN, Right face: organizing the American conservative movement 1945-65, Copenhagen, Museum Tusculanum 2002, pp. 98-100.
199
G. BORGOGNONE, La destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 19.
L’accostamento al maccartismo è sviluppato in L. P. RIBUFFO, United States Vs. Williams: the Roosevelt Administration
and the Far Right, in M. R. BELKNAP (ed.), American Political Trials, Westport, Greenwood Press 1994, pp. 179-206.
Sul “Great Sedition Trial” del 1944, cfr. R. W. STEELE, Free Speech in the Good War, New York, St. Martin’s Press
1999, pp. 223-234.
48
retorica presidenziale, culminata nella celeberrima enunciazione delle «quattro libertà» 200 , descriveva la lotta antinazista come la continuazione, su scala mondiale, della battaglia antischiavista di
Lincoln. La libertà del “nuovo liberalismo” non poteva essere frenata dai confini artificiali delle nazioni. L’impossibilità di vivere in un mondo «per metà libero e per metà schiavo», come recitava un
popolare manifesto dell’Office of War Information, traeva origine, non da ultimo, dalla consapevolezza che lo sviluppo tecnologico permetteva di colpire un numero crescente di obiettivi: per secoli
– notò il generale George Marshall – la configurazione geografica del continente americano aveva
garantito agli Stati Uniti l’immunità da attacchi esterni, ma la situazione era drasticamente mutata
nel precedente ventennio 201 . L’immagine di un’America pacifica, liberoscambista e neutrale in un
mondo dominato da potenze bellicose e militariste rappresentava soltanto una pia illusione 202 .
Si trattò quindi di uno scontro fra due visioni antitetiche, l’una – quella della Old Right – che
rivendicava la bontà dei mezzi tradizionali (a cominciare dalla cosiddetta «diplomazia del dollaro» 203 ) per salvaguardare gli interessi americani; l’altra, di matrice rooseveltiana, che ne postulava
l’inadeguatezza e non escludeva a priori la possibilità di un impegno diretto in Asia ed in Europa.
E fu l’argomento tecnologico avanzato dagli scienziati sociali, assai più di quello democratico-umanitario, sposato dai liberali progressisti, a fare breccia tra gli oppositori del Presidente. Arthur H. Vandenberg, senatore repubblicano del Michigan, uno dei più accaniti sostenitori delle leggi
200
Sulla funzione del concetto di libertà nella retorica interventista rooseveltiana, Cfr. E. FORNER, The Story of American Freedom, New York, W. W. Norton & Company 1998, tr. it. Storia della libertà americana, op. cit., pp. 291-328.
Le implicazioni internazionalistiche delle “quattro libertà” sono sottolineate da J. DOENECKE, Storm on the Horizon:
The Challenge to American Intervention, 1939-1941, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers, 2000, pp. 43-44.
201
La frase di Marshall compare in M. S. SHERRY, In the Shadow of War. The United States since the 1930s, New Haven, Yale University Press 1997, p. 44, citata da M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, op. cit., p.
254. Ma si veda anche il discorso di F. D. Roosevelt del 14 aprile 1939 all’Unione Panamericana: «La famiglia delle
nazioni americane può oggi con pieno diritto parlare al resto del mondo. Noi abbiamo un interesse, più ampio della mera difesa del nostro continente circondato dai mari. Oggi noi siamo consapevoli che lo sviluppo della prossima generazione renderà gli oceani che ci separano dal Vecchio Mondo così stretti che le nostri abitudini e le nostre azioni saranno
necessariamente coinvolte con le altrui, che ci piaccia o meno. Al di là di ogni dubbio, nel giro di pochi anni flotte aree
sorvoleranno gli oceani con la medesima facilità con cui oggi sorvolano i mari chiusi d’Europa. Pertanto, il funzionamento dell’economia mondiale diverrà necessariamente unitario; nessuna disfunzione, in futuro, potrà evitare ripercussioni ovunque» (F. D. ROOSEVELT, in The Public Papers and Addresses of Franklin D. Roosevelt, Random House, New
York 1938-1950, vol. 9, pp. 198-199).
202
Il nesso fra sicurezza interna ed alleanze internazionali venne esplicitamente messo in risalto da Roosevelt nel 1940.
«Alcuni fra noi sembrano ritenere che le guerre in Europa ed in Asia non siano affar nostro. Ma è una questione di vitale importanza per noi che gli artefici delle guerre in Asia e in Europa non ottengano il controllo degli oceani che li condurrebbero a questo emisfero. Centodiciassette anni fa la dottrina Monroe fu concepita dal nostro Governo come strumento difensivo a fronte di una minaccia proveniente da un’alleanza europea. Non esisteva alcun “accordo non scritto”.
Tuttavia, esisteva il sentimento, dimostratosi storicamente corretto, che noi, in qualità di vicini, potessimo risolvere
qualsiasi disputa con strumenti pacifici. È un dato di fatto che per tutto questo tempo l’emisfero occidentale non è stato
oggetto di aggressioni dall’Europa e dall’Asia. Qualcuno può seriamente credere che ci vedremo costretti a temere un
attacco se una libera Gran Bretagna rimarrà il nostro più potente alleato navale nell’Atlantico? Può qualcuno seriamente
credere, al contrario, che rimarremmo in pace se le potenze dell’Asse fossero i nostri vicini?» (F. D. ROOSEVELT, Radio
Address, 29 december 1940, riprodotto in F. D. ROOSEVELT, Rendezvous with destiny; addresses and opinions of
Franklin Delano Roosevelt, selected and arranged with factual and historical references and summaries by J.B.S.
Hardman, New York, The Dryden Press 1944, pp. 164-171).
203
J. L. THOMAS, The Great Republic: a History of American People, Lexington, Heath & C. 1985, tr. it. La nascita d
una potenza mondiale, Bologna, Il Mulino 1988, pp. 178-181.
49
di neutralità adottate fra il 1935 e il 1939, lo pose al centro di un noto discorso, pronunziato nel gennaio 1945. La tecnologia, sostenne, aveva reso irrilevanti le difese naturali degli Stati Uniti. Si rendeva quindi necessaria la creazione di meccanismi di sicurezza collettiva in grado di garantire
l’interdipendenza fra le nazioni. Per conseguire tale scopo, sarebbe stato necessario sviluppare una
politica estera condivisa, capace di travalicare le divisioni partitiche. Vandenberg – che si sarebbe
distinto, in qualità di delegato, alla Conferenza di San Francisco nella primavera del 1945 – riuscì
ad imporre la propria linea, inizialmente minoritaria, al suo stesso partito 204 .
Nel secondo dopoguerra, il declino di figure come Robert A. Taft e il fallimento di campagne neoisolazioniste quali il Bricker Amendment segnarono la definitiva emarginazione della Old
Right dallo scenario politico americano 205 . La nuova destra che ne prese il posto si mostrò assai più
incline a sostenere massicci investimenti nel settore della difesa e ad implementare una strategia anticomunista su scala mondiale. Una destra che – ha rilevato Allen Guttman –, rivendicando la primazia dell’ordine sociale e delle gerarchie istituzionali su diritti e pretese del singolo, si mostrava
sensibile alle sirene del militarismo più di quanto non lo fosse la generazione precedente, ancorata
ai valori dell’individualismo e del limited government 206 .
III. Il secondo dopoguerra: il trionfo delle scienze sociali e l’esaurimento del riformismo
Quando la guerra arrivò a Monterey e a Cannery Row tutti più o meno combatterono, in un modo o nell’altro. Quando cessarono le ostilità ognuno aveva le sue ferite.
204
Per un quadro sintetico, ma compendioso, dell’approdo all’internazionalismo di Arthur H. Vandenberg, cfr. J. A.
GAZELL, Arthur H. Vandenberg, Internationalism and the United Nations, in Political Science Quarterly, vol. 88, n. 3
(1973), pp. 375-395, spec. 385-386 per il discorso del 10 gennaio 1945. Una lettura più estesa è offerta da C. D. TOMPKINS, Senator Arthur H. Vandenberg: the Evolution of a Modern Republican, 1884-1945, East Lansing, Michigan State University Press 1970. La storiografia individua nella scelta di Dwight D. Eisenhower come candidato alle presidenziali del 1952 il momento di approdo definitivo del mainstream repubblicano all’internazionalismo. È però indubbio
che il sostegno alla Dottrina Truman e al coinvolgimento nella Guerra Fredda garantito da uomini come Vandenberg,
Dewey e J. F. Dulles abbia rappresentato una precondizione necessaria per la candidatura di Eisenhower. Sul tema, cfr.
R. E. DARILEK, A Loyal Opposition in Time of War: The Republican Party and the Politics of Foreign Policy from
Pearl Harbor to Yalta, Westport, Greenwood Press 1976.
205
Sull’approccio alla politica estera di Robert A. Taft nel secondo dopoguerra e la sua tardiva conversione alla Guerra
Fredda, cfr. C. E. WUNDERLIN, Robert A. Taft: Ideas, Tradition and Party in U.S. Foreign Policy, Lanham, SR Books,
pp. 107-175. cfr. Sul Bricker Amendment, cfr. L. EDWARDS, The Conservative Revolution: The Movement that Remade
America, New York, Free Press 1999, pp. 73-74; A. J. LICHTMAN, White Protestant Nation. The Rise of American
Conservative Movement, op cit., pp. 187-188.
206
Cfr. A. GUTTMANN, The Conservative Tradition in America, New York, Oxford University Press 1967, pp. 100-102.
Questo punto di vista fu chiaramente espresso nel 1947 da James Burnham, un ex trozkista convertitosi alla nuova destra, allorché sostenne che «l’unica alternativa all’impero mondiale comunista è un impero americano che sia, se non
dotato di confini formalmente mondiali, capace almeno di esercitare un controllo decisivo sul mondo» (J. BURNHAM,
The Struggle for the World, New York, The John Day Company 1947, p. 182). Pochi anni dopo, William F. Buckley jr.
affermava che dovere dei conservatori era «sostenere la creazione di ampi eserciti e grandi forze dell’aria, l’energia atomica, l’intelligence, la produzione di guerra, e i custodi del potere centrale a Washington» (W. F. BUCKLEY Jr., A
Young Republican View, in Commonweal, 25 Jan. 1952, pp. 392-393, spec. p. 393).
50
Le ditte produttrici di scatolame condussero la guerra facendo sospendere le
restrizioni sulla pesca e acchiapparono tutto il pesce. Fu fatto per motivi patriottici, ma i pesci non tornarono più. Come quella storia delle ostriche in
Alice nel Paese delle Meraviglie, “Se li erano mangiati tutti”. Lo stesso nobilissimo impulso che fece abbattere le foreste dell’Ovest e adesso fa pompare l’acqua dalla terra della California più velocemente di quanto non ne
possa tornare con le piogge. Quando avremo il deserto la gente sarà triste;
proprio come successe a quelli di Cannery Row quando tutte le aringhe furono prese, inscatolate e mangiate. Le fabbriche grigio-perla del tetto di lamiera ondulata tacevano e un guardiano che faceva la ronda era l’unico segno di vita. La strada, che un tempo risonava dallo strepito dei camion, era
vuota e tranquilla 207 .
La provincia americana stanca ed infiacchita descritta da Steinbeck, un luogo in cui la guerra
era «rimasta addosso a tutti», può rappresentare un’ottima metafora della situazione di stallo in cui
il nuovo liberalismo si trovò sul finire degli anni ’40. La Old Right era stata spazzata via, la diffidenza verso la cooperazione fra potere politico e scienza sociale fortemente attenuata. La guerra era
stata, per molti versi, una prosecuzione del New Deal con altri mezzi, ed il Partito Democratico – in
cui i liberal ormai si identificavano – era una realtà strutturata su scala nazionale 208 .
Eppure, proprio la guerra aveva indotto la classe politica ad accantonare i progetti di riforma
più radicali, potenziando il settore militare a scapito del welfare 209 . Ne scaturì una latente conflittualità sociale, culminata nell’ondata di scioperi di massa fra il 1945 e il 1947 210 .
Non solo. Proprio in quegli anni i liberal si trovarono costretti a fronteggiare una contraddizione culturale, interna al campo riformatore, ben riassunta dal paradosso formulato da Leucthenburg: «quanto più il New Deal riusciva nei suoi intenti, tanto più demoliva se stesso. Quanto più
prospero diveniva il paese, tanto più la gente tornava ai soli valori che conoscesse, quelli collegati a
una società individualistica, avida di successo211 ».
Per la prima volta, il “nuovo liberalismo” dovette infatti affrontare le sfide di una società
opulenta, che proiettava la propria ricchezza sull’intero globo. «La seconda guerra mondiale ampliò
207
J. STEINBECK, Sweet Thursday, New York, Viking Press 1954, tr. it. Quel fantastico giovedì, Milano, Mondadori
1965, p. 11.
208
Particolarmente significativo era stato il coinvolgimento di donne e minoranze etniche nello sforzo produttivo, il che
era in linea con l’obiettivo di espandere il mercato del lavoro promosso dai new dealer (Cfr. S. E. HIRSCH, No Victory at
the Work Place: Women and Minorities at Pullman during World War II, in L. A. ERENBERG, S. E. HIRSCH (ed.), The
War in American Culture: Society and Consciousness during World War II, Chicago, University of Chicago Press 1996,
pp. 241-262). Sul rapporto fra strutturazione del Partito Democratico ed affermazione delle organizzazioni sindacali,
cfr. M. DUBOFSKY, The State & Labor in Modern America, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1994, pp.
169-195, spec. pp. 188-195.
209
Cfr. B. WADDELL, The War Against the New Deal: World War II and American Democracy, DeKalb, Northern Illinois University Press; A. BRINKLEY, The End of Reform: New Deal Liberalism in Recession and War, New York,
Knopf 1995. Il libro di Brinkley è, ad oggi, la più documentata opera che ripercorra il progressivo esaurimento del New
Deal nel coso degli anni ’40.
210
Cfr. P. Y. NICHOLSON, Labor’s Story in the United States, Philadelphia, Temple University Press 2004, pp. 242-250.
211
W. LEUCHTENBURG , Franklin D. Roosevelt and the New Deal: 1932-1940, New York, Harper & Row 1963, tr. it.
Roosevelt e il New Deal, Bari, Laterza 1976, pp. 251-252.
51
a dismisura il gap di potenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. La superiorità statunitense si fece netta ed indiscussa. A fronte di un’Europa e di un Giappone devastati e prostrati dal conflitto, gli
Stati Uniti emersero dalla guerra più floridi che mai. Tra il 1939 e il 1945 il PIL statunitense crebbe
più dell’80%, sotto lo stimolo delle esigenze militari e del conseguente incremento degli investimenti federali. La produzione industriale aumentò a tassi del 15% annuo. A fine conflitto il 75%
delle spese militari complessive erano statunitensi. Gli USA possedevano i due terzi delle risorse
aurifere mondiali. Il sistema di Bretton Woods aveva fatto del dollaro la principale valuta del sistema internazionale. In termini assoluti, le economie delle altre due grandi potenze rimaste, Gran Bretagna e Unione sovietica, corrispondevano a circa un quinto di quella degli Stati Uniti 212 ». E il trend
era destinato a perdurare: «agli inizi degli anni ’50, l’America, col 6% della popolazione mondiale,
produceva da sola la metà di tutti i beni prodotti nel mondo 213 ».
Gli storici concordano nel riconoscere il nesso causale fra coinvolgimento bellico e rilancio
economico. Si può anzi dire, con Horst Dippel, che «la guerra fece quello che non era riuscito al
New Deal 214 ». Secondo Maldwyn A. Jones, «i disoccupati scesero dai 9 milioni del giugno 1940 ai
780.000 del settembre 1943. Anzi, fu difficile trovare un numero sufficiente di operai per le industrie militari 215 ». Mammarella calcola che «dal 1° luglio 1940 al 31 dicembre 1941 le fabbriche e i
cantieri americani avevano prodotto ventitremila aerei di ogni tipo, 4.258 carri armati e 1.800.000
tonnellate di naviglio; era solo l’inizio. A poche settimane dallo scoppio del conflitto, il presidente
Roosevelt già indicava i nuovi obiettivi da raggiungere nei due anni successivi: una produzione di
quarantacinquemila aerei nel 1942 da portare a centomila nel 1943, quarantacinquemila carri armati
nel 1942 da portare a settantacinquemila nel 1943 e un aumento del tonnellaggio mercantile da otto
milioni di tonnellate nel 1942 a dieci milioni del 1943. I traguardi indicati da Roosevelt sembrarono
allora utopistici ai suoi stessi collaboratori, ma le realizzazioni non dovevano discostarsi molto dagli
obiettivi dichiarati, e in certi casi li superarono. In totale, nei cinque anni dal luglio 1940 al luglio
1945, l’industria americana produceva 296.601 aerei e 86.388 carri armati, mentre i cantieri varavano quasi settantacinquemila mezzi navali di ogni tipo per più di sessantatre milioni di tonnellate 216 ».
212
M. DEL PERO, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo 1776-2006, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 277.
R. PETRIGNANI, L’era americana. Gli Stati Uniti da Franklin D. Roosevelt a George W. Bush, Bologna, Il Mulino
2001, p. 113.
214
H. DIPPEL, Geschichte der Usa, Beck, Műnchen 1996, tr. it. Storia degli Stati Uniti, Carocci 2002, p. 105.
215
M. A. JONES, The Limits of Liberty. American History 1607-1980, Oxford-New York, Oxford University Press 1983,
tr. it. Storia degli Stati Uniti: dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Milano, Bompiani 2002, p. 458.
216
G. MAMMARELLA, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma-Bari, Laterza 2003, pp. 112-113. Ulteriori statistiche relative alla produzione bellica sono reperibili in appendice a S. E. MORISON, H. S. COMMAGER, The
Growth of the American Republic, New York, Oxford University Press, 1950, tr. it. Storia degli Stati Uniti d’America,
Firenze, La Nuova Italia 1974, pp. 1235-1237.
213
52
Nessun Paese avrebbe potuto sostenere un simile sforzo produttivo senza una solida struttura
economica alle spalle, unita alla disponibilità di un’ingente forza lavoro. Entrambi questi elementi
sono stati evidenziati da Paul Kennedy: «L’autorizzazione del 1940 a raddoppiare la flotta da combattimento della marina, il piano dell’aviazione dell’esercito per creare 84 stormi composti da 7.800
aerei da guerra e la creazione (tramite il Selettivi Service and Training Act) di un esercito di quasi
un milione di uomini, ebbero conseguenze sull’economia, la quale non soffriva, come quella italiana, francese o britannica, di gravi problemi strutturali, ma era semplicemente sottoutilizzata a causa
della Depressione». L’entrata in guerra degli Stati Uniti rappresentò davvero – nota Kennedy parafrasando Yamamoto – il risveglio di un gigante 217 .
Questo gigantesco sforzo produttivo non era destinato a restare senza conseguenze. Se il gigante si era ridestato, se la disoccupazione era stata riassorbita, il liberalismo progressista avrebbe
comunque continuato a esercitare fascino sull’elettorato? O non era vero piuttosto, come alcuni
membri dell’amministrazione Truman sembravano ventilare, che il riformismo economico, risposta
ad esigenze transitorie, dovesse essere definitivamente archiviato218 ?
Lo scenario internazionale, inoltre, assunse ben presto contorni assai diversi da quelli prospettati dai liberal. Nel 1945, gli Stati Uniti – ha notato Ennio di Nolfo –«erano l’unica potenza capace di essere presente al tempo stesso su tutti i continenti del globo: dominante in quello americano; liberatoria e garante in Europa; presente e influente in Africa, nonostante i limiti posti dalla
competenza giuridica francese o inglese; presente in varie parti dell’Asia; prevalente nell’Oceania».
Non l’espansione territoriale, ma la supremazia economica, tecnologica e militare sancivano inequivocabilmente il nuovo primato 219 . Si ponevano così, anche a livello internazionale, le premesse
per la diffusione del modello americano su scala globale: un modello imperniato su liberaldemocrazia ed economia di mercato, certo, ma che esorbitava dalla sfera propriamente politica, pervadendo
usi, costumi, atteggiamenti, modi di porsi e di comunicare. Di lì a poco, l’ascesa dell’«irresistibile
impero 220 », che Henry R. Luce nel 1941 aveva entusiasticamente descritto come «vulcano degli i-
217
P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000,
New York, Random House 1987, tr. it. Ascesa e Declino delle Grandi Potenze, Milano, Garzanti 1989, p. 461.
218
Cfr. J. BELL, The Liberal State on Trial: the Cold War and American Politics in the Truman Years, New York, Columbia University Press 2004, pp. 150-181 Va inoltre precisato che l’amministrazione Truman fu composta prevalentemente da esponenti centristi o della destra del partito, e che «per le cariche minori Truman si orientò nettamente verso
esponenti del mondo industriale e finanziario. Delle 125 più importanti nomine a posizioni federali fatte nel corso del
’46-’49, 77 andarono a banchieri, finanzieri uomini d’affari, 31 a militari e 17 ad avvocati e consulenti economici legati
al mondo degli affari» (G. MAMMARELLA, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Roma-Bari, Laterza 1993, pp. 4043, spec. p. 41).
219
E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 603. Sul
tema, cfr. anche E. DI NOLFO, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo ad
oggi, Roma-Bari, Laterza 2008, pp. 148-164.
220
Cfr. V. DE GRAZIA, Irresistible Empire. America’s Advance through 20th Century Europe, Cambridge, The Belknap
Press of Harvard University 2006.
53
deali di Libertà e di Giustizia» del XX secolo 221 , non sarebbe rimasta circoscritta all’ambito – astratto e spesso intangibile per l’uomo comune – dei rapporti di forza internazionali, ma si sarebbe
riverberata nel quotidiano, innescando processi ora di adesione ed identificazione, ora di rifiuto e
diversificazione 222 .
L’esito vittorioso della guerra alimentava nei liberal la convinzione di poter instaurare un
ordine internazionale pacifico e duraturo 223 , ma l’ipotesi si dimostrò errata. L’Unione sovietica, che
nel 1945 «non aveva ancora fatto breccia sul piano della politica di potenza, nel senso che non aveva raggiunto una reale eguaglianza di possibilità con la più forte delle potenze avversarie 224 », si trasformò ben presto in un temibile rivale, una minacciosa superpotenza con cui nessuna cooperazione
era realizzabile. La sconfitta della Germania hitleriana apparve sempre più soltanto la prima fase di
uno scontro più vasto, che contrapponeva i difensori della libertà ai sostenitori del «totalitarismo» termine che in quegli anni si prese a circolare con insistenza, tanto nella pubblicistica quanto negli
studi accademici 225 .
Ripresa produttiva e «guerra fredda» misero a dura prova il liberalismo progressista, che
proponeva una definizione non economicistica della libertà e tendeva a trasferire il proprio ottimismo antropologico nel campo delle relazioni internazionali. Non così le scienze sociali, che dal secondo conflitto mondiale avevano ricevuto un impulso ancor più forte di quello impresso loro dal
New Deal, ed avevano individuato nuovi campi di applicazione e di studio 226 .
Un riconoscimento inequivocabile del ruolo pubblico delle scienze venne dalla lettera con
cui Roosevelt, nel 1944, chiese suggerimenti a specialisti del settore, suggerendo che una loro mag-
221
H. R. LUCE, The American Century, in Life Magazine, n. 10, 1941, in M. J. HOGAN (a cura di), The Ambiguous Legacy: U.S. Foreign Relations in the "American Century", Cambridge, Cambridge University Press 1999, pp. 11-30.
222
Cfr. A. STEPHAN, The Americanization of Europe. Culture, Diplomacy and Anti-Americanism since 1945, New
York-Oxford, Berghan 2006; M. KAZIN, J. A. MCCARTIN (a cura di), Americanism: New Perspectives on the History of
an Ideal, Chapel Hill, University of North Carolina 2006, pp. 169-262.
223
È possibile scorgere questo convincimento dietro l’attivismo diplomatico di Henry Hopkins, inviato a Mosca nel
1945 per dialogare con Stalin (cfr. W. D. MISCAMBLE, From Roosevelt to Truman: Postdam, Hiroshima and the Cold
War, Cambridge-New York, Cambridge University Press 2007, pp. 154-162). Il principale sostenitore della possibilità
di un intesa pacifica con l’URSS era il vicepresidente uscente Henry A. Wallace, che nel 1948 ruppe con i democratici e
partecipò alla corsa alla Casa Bianca guidando un raggruppamento progressista (cfr. G. WHITE, J. MAZE, Henry A. Wallace: His Search for a New World Order, Chapel Hill, University of North Carolina Press 1995).
224
A. HILLGRUBER, Der Zweite Weltkrieg 1939-1945, Kohlhammer, Verlag 1982, tr. it. Storia della Seconda Guerra
Mondiale. Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze, Roma-Bari, Laterza 1987, p. 203 Sul lascito del Secondo
Conflitto Mondiale, cfr. N. WERTH, Histoire de l’Union Soviétique: de l’Empire Russe à l’Union Soviétique1900-1990,
Paris, Puf 1990, tr. it. Storia dell'Unione Sovietica: dall'impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti, 19001991, Bologna, Il Mulino 1993, pp. 395-405.
225
Sulle implicazioni ideologiche presenti nel concetto di totalitarismo, cfr. A. GLEASON, Totalitarianism: the Inner History of the Cold War, Oxford, Oxford University Press 1995.
226
Cfr. C. J. FRIEDRICH, Instruction and Research: Political Science in the United States in Wartime, in The American
Political Science Review, vol. 41, n. 5, 1947, pp. 978-989; D. P. HANEY, The Americanisation of Social Science: Intellectuals and Public Responsibility in the Post War United States, Philadelphia, Temple University Press 2008, pp. 2245. Si pensi, ad esempio, al vasto impiego delle scienze statistiche, che di lì a poco sarebbero state estese allo studio della psicologia e del comportamento sessuale (cfr. T. ADORNO (ET AL.), The Authoritarian Personality, New York, Harper
1950; A. KINSEY (ET AL.), Sexual Behavior in the Human Female, Philadelphia, Saunders, 1953).
54
giore e decisori politici sarebbe andata a tutto vantaggio del governo 227 . Gli scienziati, assai più dei
filosofi politici, iniziarono a rappresentare un punto di riferimento per coloro i quali desideravano
«riformare»: e ciò che valeva per le scienze naturali, a maggior ragione valeva per le scienze umane.
Alla base del behaviouralism – il nuovo filone inaugurato dalla scienza politica – vi era
l’idea che «la comprensione e l’interpretazione del comportamento politico logicamente precedono
e forniscono la base per ogni tentativo di utilizzare le cognizioni politiche nella soluzione di concreti ed urgenti problemi sociali 228 ». Il vaglio degli esperti diveniva, così, una tappa indispensabile nella formazione di qualsiasi proposta di legge, o di intervento amministrativo. La forza delle scienze
sociali, ha notato Bernard Crick, risiedeva nella loro capacità di confinare sullo sfondo i problemi
metafisici, e di considerare tutti i valori un «riflesso delle strutture sociali229 ». Soltanto gli scienziati
sociali, pertanto, erano credibili interpreti della vita collettiva, gli unici in grado di contromisure risposte valide alle sfide cui la democrazia era sottoposta.
Ne scaturì una crescente commistione fra liberalismo progressista e scienze sociali, che infranse l’equilibrio instauratosi, all’intero del New Deal Order, negli anni ’30. Non erano più le
scienze sociali a porsi al servizio di un’idea filosofica di libertà, bensì era la filosofia a dover accettare l’optimum di libertà che le scienze sociali le imponevano 230 .
I liberali tesero sempre più ad appropriarsi dello stile e della mentalità degli scienziati sociali, mentre questi tesero sempre più a professarsi liberali. Ancora una volta, ad unirli era il desiderio
di amministrare razionalmente i rapporti socio-politici. Proprio come Humbolt Fisher, figura chiave
del romanzo capolavoro di Saul Bellow, gli uni e gli altri erano persuasi che «arrivò un tempo
(all’inizio dell’Evo Moderno) in cui la vita perse, a quanto pare, la capacità di organizzarsi da sé.
227
M. A. DENNIS, Reconstructing Sociotechnical Order: Vannevar Bush and US Science Policy, in S .JASANOFF (ed.),
States of Knowledge: the Co-Production of Science and Social Order, London-New York, Routledge 2004, pp. 225253, spec. pp. 240-242.
228
D. EASTON, The Current Meaning of “Behavioralism”, in J. C. CHARLESWORTH (ed.), Contemporary Political
Analysis, New York, Free Press 1967, tr. it. Teorie e metodi in scienza politica, op. cit., pp. 53. Corsivo mio.
229
B. CRICK, The American Science of Politics: Its Origins and Condition, op. cit. 224.
230
Leo Strauss ha sintetizzato i termini del conflitto fra scienza politica e filosofia politica: «come le scienze naturali si
reggono sulle loro gambe, e tutt’al più offrono involontariamente materiali ai filosofi della natura per le loro speculazioni, così la scienza politica si regge da par suo e tutt’al più offre involontariamente materiali per le speculazioni dei
filosofi politici. Considerando il contrasto che c’è fra la solidità che la prima cerca e la pietosa pretenziosità dell’altra, è
abbastanza ragionevole liberarsi in un sol colpo di tutte le vaghe e futili speculazioni dei filosofi politici, piuttosto che
porsi nel solco di una tradizione tanto decrepita quanto screditata. Le scienze, sia naturali sia politiche, sono dichiaratamente non-filosofiche. Hanno bisogno solo di un genere di filosofia: quella metodologica, o logica. Ma queste discipline non hanno nulla a che spartire con la filosofia politica. La scienza politica “scientifica” è incompatibile, infatti, con
la filosofia politica» (L. STRAUSS, What is Political Philosophy? (1959) in An Introduction to Political Philosophy: Ten
Essays, Detroit, Wayne University Press 1989, pp. 3-58, spec. p. 8). Il politologo che sostenne con maggior forza la necessità di liberarsi dalla “dottrina”, per lasciare campo libero alla scienza politica, fu Harold Laswell (cfr. R. SEIDELMAN, E. J. HARPHAM, Disenchanted Realists: Political Science and the American Crisis, 1884-1984, Albany, State
University of New York Press 1985, pp. 133-137. Il testo contiene un interessante comparazione fra l’opera di Merriam
– che concepiva le scienze sociali come strumenti al servizio dell’azione politica – e quella di Laswell, secondo cui non
esiste ambito discrezionale di azione politica sottratta ai dettami delle scienze sociali).
55
Andava riorganizzata, e gli intellettuali se ne assunsero il compito». Ed al richiamo del potere, fedeli alla convinzione che «l’impresa umana – così grandiosa e infinitamente varia – dovesse essere
ormai gestita da persone eccezionali», essi reagivano con la stessa sicurezza sfoggiata da Humboldt:
«Well, why not? 231 ».
Nel 1950, Gabriel A. Almond poteva affermare che le università costituivano il luogo privilegiato in cui «un consensus democratico poteva essere alimentato ed una disciplina democraticoelitaria incoraggiata 232 ». Proprio di questo consensus dobbiamo occuparci, per comprendere le evoluzioni in seno al New Deal Order, e il progressivo deterioramento del liberalismo progressista che
seguì.
IV. L’eredità del New Deal: il “liberal consensus”
L’America, allora come oggi, era il sanatorio di ogni genere di possibile statistica. Ci prendevamo grande cura delle statistiche. Cercavamo di capirle.
Facevamo il possibile per mantenerle in salute. Per noi i numeri erano importanti, perché qualsiasi paura avessimo che la nostra mente potesse andare
in pezzi veniva in gran parte esorcizzata dall’appagamento del sapere con
precisione in quale modo eravamo spinti alla follia, a quanti decibel, a quanti mach, a quale forza di resistenza aerodinamica. Per cui c’era come un trasferimento di pazzia, uno sdoppiamento, fra i numeri in sé e chi li creava e li
accudiva. Ne avevamo un bisogno estremo, era evidente. Con i numeri eravamo in grado di celare i dubbi. I numeri rendevano sopportabile il presente,
preannunciavano gli impressionanti eccessi del futuro e fornivano una sottile
configurazione illusoria ai ricordi del passato, per quel che valevano. Eravamo tutti scienziati nati. Tempo di guerra o di pace che fosse, la conta delle
vittime per noi era tutto 233 .
Nell’ottobre del 1972, il settimanale Neewsweek pubblicò un numero speciale dedicato agli
anni ’50. Sotto al titolo Yearning for the Fities: The Good Old Days, compariva una sorridente
Marylin Monroe in abito da sera – impegnata a cingere pudicamente i capelli con una mano, dietro
la nuca –. Decisi a onorare quegli «anni semplici», cui l’americano medio poteva legittimamente
guardare con ammirazione, i redattori si abbandonarono ad una prosa celebrativa e nostalgica. I
Nifty Fifties, gli splendidi Cinquanta, apparivano un’oasi di serenità ed equilibrio, lontana dalle incertezze e dai timori dei decenni successi. Proprio come i protagonisti dell’omonima commedia di
231
S. BELLOW, Humboldt’s Gift, New York, Penguin Books 1996 (1a ed. 1973), p. 29, tr. it. Il dono di Humboldt, Milano, Rizzoli 1976, pp. 35-36.
232
G. A. ALMOND, The American People and Foreign Policy , New York, Hartcourt, Brace 1950, p. 234, citato in N.
GILMAN, Mandarins of the Future: Modernization Theory in Cold War America , Baltimore, Johns Hopkins University
Press 2003, p. 53.
233
D. De LILLO, Americana, Boston, Houghton Miffin 1971, tr. it di M. Pensante, Americana, Milano, Il Saggiatore
2000, p. 164.
56
Tim Kelly, i giovani del tempo potevano trascorrere ore a conversare su Pat Boone e Chuck Berry,
e a ballare sulle loro note 234 .
Benché illusoria, e finanche grottesca nella sua deformazione, l’immagine idilliaca di un decennio quieto ha radici profonde nell’immaginario americano. L’«ideologia nazionale dell’ottimismo 235 », in cui Gabriel Kolko ha individuato una costante nella storia statunitense, trova negli anni
’50 una delle espressioni più alte, facendone un’età in cui «uomini puntigliosamente vestiti in completo e cravatta e donne con acconciature impeccabili e abiti sgargianti sembravano più interessati
ad essere parte della nuova, benestante classe media, godendone la prosperità, che non a protestare
per le ineguaglianze sociali o le ingiustizie politiche 236 ».
Gli anni Cinquanta, ovviamente, furono anche altro: un’epoca frenetica, in cui l’isteria anticomunista, la corsa agli armamenti, gli scontri fra America bianca e minoranze etniche lasciavano
intravedere nodi irrisolti, destinati a riemergere in stagioni successive 237 . Eppure, soprattutto dal
1953 in poi, un numero crescente di statunitensi cominciò a guardare con fiducia alle opportunità
offerte dallo sviluppo industriale e tecnologico. Fra il 1950 e il 1960 il prodotto nazionale lordo
passò da 355,3 a 452.2 miliardi di dollari, con un aumento del 27%, pari al 4-4,5 % anno. La crescita annuale – con un tasso che superava quello riscontrato mediamente fra il i1 1913 e il 1950 – benché incostante, alimentò le aspettative della middle class. In un decennio, il potere d’acquisto delle
famiglie aumentò di un terzo. Politiche fiscali restrittive ebbero ricadute positive sull’inflazione,
mentre la disoccupazione – se si eccettua una punta nel 1958 – non superò mai il 5%. A trainare la
ripresa fu il boom edilizio, oltre alla generalizzata crescita dei consumi: un numero crescente di americani divenne proprietario della propria abitazione, attrezzandola con elettrodomestici sempre
più moderni e, talora, rivoluzionari. Fra il 1948 e il 1955, due famiglie americane su tre acquistarono un televisore. Nacque così l’Home Teathre, l’intrattenimento domestico. Accanto a film e notiziari, nuove produzioni “in serie” allietavano le serate degli americani: a cominciare dalle sitcom,
produzioni in serie che esaltavano gli agi della vita familiare. La più popolare, I Love Lucy, incentrata sulle vicissitudini di una madre desiderosa di sfondare nel mondo dello spettacolo, fu celebrata
da Time e divenne oggetto di venerazione per milioni di telespettatori. Nel 1989, il Presidente George H. W. Bush conferì alla protagonista una Medal of Freedom postuma, nello stesso anno in cui
la prestigiosa onorificenza, riservata a individui che avessero offerto «un contributo particolarmente
234
D. T. MILLER, M. NOVAK, The Fifties: The Way We Really Were, Garden City, Doubleday 1977, pp. 3-4; T. KELLY,
The Nifty Fifties: a Musical Comedy Tribute to the 1950s, Denver, Pioneer Drama Service 1997.
235
G. KOLKO, Main Currents in Modern American History, New York, Harper 1976, p. 10.
236
AA.VV., America in the 20th Century, North Baltimore, Marshall Cavendish Corporation 2003, p. 726
237
Cfr, ad. es., J. FOREMAN (ed.), The Other Fifties: Interrogating Midcentury American Icons, Urbana, University of
Illinois Press 1997.
57
meritevole alla sicurezza, agli interessi nazionali degli Stati Uniti, alla pace mondiale, alla cultura »,
veniva attribuita al teorico del «contenimento», George Kennan 238 .
La mirabolante crescita della produttività costitutiva la chiave di volta del sistema – un sistema che sembrava in grado di offrire una generalizzata espansione delle chances di vita e scardinare ogni forma di conflittualità sociale – 239 . La superiorità era garantita dall’efficienza dell’operaio
medio, che si rifletteva nella minore quantità di ore lavorative (minuziosamente conteggiate) necessarie per acquistare beni di primaria necessità, rispetto ad un collega europeo o sovietico 240 . La rinnovata fiducia verso la prosperità che un’economia di mercato poteva garantire finì per soffocare,
poco a poco, l’avversione contro la grande impresa e le concentrazioni oligopolistiche radicatasi ai
tempi del New Deal 241 .
Nel 1953, David E. Lilienthal, un uomo d’affari divenuto esponente di primo piano della
tecnocrazia rooseveltiana, direttore della TVA (Tennessee Valley Authority) 242 dal 1941 al 1946,
diede alle stampe Big Business: a New Era. Nel saggio, Lilienthal sosteneva la necessità di abbandonare la tendenza a favorire unità organizzative ed economiche di ridotte dimensioni. «Noi siamo
in grado» scriveva Lilienthal «di soddisfare la domanda domestica ed internazionale grazia alla nostra capacità produttiva, ma potremo farlo soltanto se sfrutteremo a fondo il nostro talento
nell’organizzare su larga scala e nell’amministrare l’industria, la ricerca, la distribuzione, il credito,
la conservazione delle risorse». Un’analisi attenta, secondo Lilienthal, avrebbe dimostrato i molti
238
Sulla crescita economica statunitense, Cfr. J. D. GOULD, Economic Growth in History: Survey and Analysis, London,
Methuen 1972, pp. 22. 31; J. PATTERSON, Grand Expectations: the United States 1945-1974, New York, Oxford University Press 1996, p. 312; M. RUSHEFSKY, Public Policy in the United States: at the Dawn of the Twenty-First Century,
Armony, M.E. Sharpe 2003, pp. 64-66. Sulla diffusione della televisione e l’impatto dell’Home Theatre, cfr. L. SPIGEL,
Make Room for TV: Television and the Family in Ideal in Postwar America, Chicago, Chicago University Press 1992,
spec. pp. 99-135. Su I Love Lucy, cfr. M. M. DALTON, I Love Lucy: Television and Gender in Postwar Domestic Ideology, in M. M. DALTON, L. R. LINDER (ED.), The Sitcom Reader: America Viewed and Skewed, Albany, State of New
York University Press 2005, pp. 99-109.
239
Come giustamente rileva Meier, «l’opinione americana concepiva la transizione verso una società dell’abbondanza
come un problema ingegneristico, non politico» (C. S. MEIER, The Politics of Productivity: Foundation of American
International Economic Policy After World War II, in International Organization, vol. 31, n. 4 (1977), pp. 607-633,
esp. p. 615). Un’opinione perfettamente riassunta da John K. Galbraith: «Sull’importanza della produzione non c’è nessuna divergenza fra repubblicani e democratici, destra e sinistra, bianchi e negri, cattolici e protestanti […]. Gli scienziati godono di un discreto prestigio nella nostra epoca, ma perché siano veramente utili noi ancora pretendiamo che essi siano al servizio di uomini che si dedicano alla produzione […]. Questo nostro ansioso interesse per la produzione è il
risultato culminante di potenti fattori psicologici e storici, ai quali possiamo sperare di sottrarci soltanto con un atto di
volontà. La produttività, come abbiamo visto, ci ha messo in grado di evitare o di attenuare le tensioni una volta provocate dallo stato di ineguaglianza e dai suoi inadeguati rimedi, ed è essa è diventata il centro dei nostri sforzi per ridurre
l’insicurezza […]. La produzione occupa nella nostra mente un posto così notevole, che noi sentiamo che essa lascerebbe un vuoto incolmabile, se venisse confinata ad un ruolo più modesto» (J. K. GALBRAITH, The Affluent Society, Houghton Miffin, Boston 1998 (1a ed. 1958), pp. 99-10, tr. it. La società opulenta, Torino, Boringhieri 1972, pp. 149-151).
240
Cfr. I. KRAVITZ, Work Time Required to Buy Food, 1937-1950, in Monthly Labor Review, 70, 1951, pp. 487-493.
241
Particolarmente intensa fu, a riguardo, l’attività di propaganda svolta dalla business community, impegnata a promuovere l’idea che gli industriali, assai più della classe politica, fossero in grado di soddisfare i bisogni delle comunità
locali (cfr. E. A. FONES-WOLF, Selling Free Enterprise: the Business Assault on Labor and Liberalism, 1945-1960, Urbana, University of Illinois Press 1994, pp. 158-186).
242
La TVA era – ed è tuttora – una corporation operante nel settore idroelettrico e dei trasporti nell’area del fiume Tennessee, istituita da Roosevelt nel 1933. Sulla TVA, cfr. E. C. HARGROVE, Prisoners of Myth: the Leadership of the Tennessee Valley Authority, 1933-1990, Princeton, Princeton University Press 1994.
58
vantaggi che la grandezza (Bigness) avrebbe garantito al popolo americano: maggiore stabilità, un
output produttivo più elevato, una competizione più valida al servizio degli acquirenti. La grandezza avrebbe rafforzato tanto la sicurezza nazionale quanto quella privata. Nell’armonico quadro tracciato da Lilienthal, le uniche perplessità riguardavano i mezzi, non i fini. La stessa concezione di libertà uscita trasfigurata. Non si trattava più – ha notato Michael J. Sandel – di difendere i diritti di
cittadinanza dei piccoli proprietari, stritolati dal grande capitale e ostaggio delle grandi compagnie;
andava, al contrario, garantita la loro libertà di scelta, la libertà di muoversi senza interferenze
all’interno del mercato, che avrebbe offerto loro un numero crescente di beni e servizi. Nella prospettiva di Lilienthal, si trattava di abbandonare un sogno antico – l’individuo indipendente, impegnato in un’attività autonoma e di circoscritte dimensioni – per coltivarne uno nuovo: «un mondo di
grandi macchine, con l’uomo al comando, che inventa e si serve di queste creature inanimate per edificare un nuovo genere di indipendenza»: l’indipendenza che scaturisce dal dominio assoluto
dell’uomo sulla natura, e dalla illimitata capacità di sfruttarla e di piegarla ai suoi fini 243 . Al liberalismo succedeva la tecnocrazia.
Questa tendenza affiorava con forza nella pubblicistica progressista del tempo, sempre più
impregnata di un lessico d’ispirazione scientifica. Secondo Stuart Chase, polemista ed ideatore, nel
1932, dell’espressione “New Deal”, la Nuova Società avrebbe conosciuto il definitivo «trionfo degli
esperti», ossia degli «ingegneri», termine col quale la rivista Time soleva definire i manager di successo 244 . Nessun campo sarebbe rimasto escluso. «L’applicazione del metodo scientifico alle cose
umane», avrebbe condotto a benefici enormi, se soltanto fosse stata superata l’ottusità dei politici e
dell’uomo comune. Nel suo The Proper Study of Mankind (1948) – un vero e proprio manifesto intellettuale –, venivano elencati i numerosi problemi cui un sapiente intervento governativo avrebbe
potuto porre rimedio: «disoccupazione delle masse, mancanza di mezzi di sostentamento nella vecchiaia, lavoro dei fanciulli, scioperi, crolli nei trasporti, alloggi e quartieri poveri, istruzione pubblica, erosione del suolo, delitti, sgombro delle immondizie – problemi che gli individui isolati non
posso risolvere». Compiaciuto, Chase citava l’attivismo del mondo accademico nel creare gruppi di
lavoro in grado di approfondire i fenomeni citati ed elaborare possibili contromisure. «Il Social
Science Research Council ha creato dei comitati per lo studio della situazione. Le università hanno
aperto corsi di amministrazione pubblica, hanno istituito scuole specializzate per laureati, come la
Littauer a Harvard, e formato interi dipartimenti che lavorano sulle tecniche amministrative, come
243
D. LILIENTHAL, Big Business: a New Era, New York, Arno Press 1973 (1a ed. 1953), pp. 10-11; M. SANDEL, Democracy’s Discontent: America in Search of a Public Philosophy, Cambridge, Belknap Press of Harvard University
1996, pp. 272-273. Su Lilienthal, cfr. S. NEUSE, David E. Lilenthal: The Journey of American Liberal, Knoxville, University of Tennessee Press 1996.
244
P. A. NDIAYE, Nylon and Bombs: DuPont and the March of Modern America, Baltimore, Johns Hopkins University
Press 1997, p. 218.
59
nell’Università della California. Nell’amministrazione d’una grande città, i metodi moderni includono la nomina d’un amministratore, l’organizzazione di un sistema uniforme per i conteggi, un
piano urbanistico, la costruzione di case e l’eliminazione di quartieri poveri, l’apertura di parchi e
campi di gioco, l’istituzione di grandi centri ricreativi come quello di Jones Beach, presso New
York». Una tanto fruttuosa cooperazione fra intellighenzia e potere non avrebbe dovuto limitarsi,
però, all’ambito locale. «Il President’s Committee on Administrative Management, diretto da Charles E. Merriam, ha dato contributi originali al problema dei grandi mutamenti avvenuti negli ultimi
anni nei compiti della presidenza americana, affermando che, a causa degli interessi particolari e dei
gruppi che fanno pressione con richieste diverse, i quali impacciano l’attività del congresso, solo il
Presidente può ora rappresentare veramente tutto il popolo». Diffidenti verso l’ordinario funzionamento della democrazia rappresentativa, uomini come Chase speravano che un ampliamento delle
competenze presidenziali, oltre alla compenetrazione di scienze sociali e scienze naturali, potessero
rinnovare profondamente l’ordinamento americano. La Nuova America sarebbe dovuta assomigliare ad una gigantesca TVA, una sorta di falansterio in cui sarebbero coesistite fianco a fianco «sia le
scienze sociali sia quelle naturali – fisica, chimica, installazioni per l’energia atomica, biologia, ingegneria, amministrazione pubblica, relazioni del lavoro, economia, sociologia, società cooperative,
conservazione del suolo, cicli idrologici, antropologia sociale, medicina, salute pubblica…–. Può
darsi che la TVA trovi una formula base per arrivare a una conciliazione con la macchina, una
formula attraverso cui semplici cittadini, uomini d’affari, lavoratori, funzionari del governo e professionisti, cooperino tutti per il reciproco benessere, e attraverso cui la decentralizzazione sia portata fino al limite compatibile con il sistema dell’energia elettrica e gli imperativi della tecnica».
Lungi dall’essere irrealizzabile, il Grande Disegno – quello di una «struttura politica in cui
la dottrina scientifica dell’uomo nella società sia applicata a beneficio del popolo» – era però ostacolato dall’«arretratezza culturale. L’interdipendenza delle tecniche moderne rende necessari oggi
interventi governativi su larga scala, ma secondo le credenze di molti solidi cittadini delle classi più
ricche, tali interventi sono “dannosi”». Gli stessi leader di partito, peraltro, avrebbero dovuto padroneggiare al meglio i mezzi di comunicazione di massa, affinché tutti i potenziali sostenitori del processo riformatore potessero essere coinvolti. È sintomatica, a riguardo, la critica che Chase sollevava all’indirizzo di Roosevelt. Se egli avesse reso più capillare la sua propaganda, anziché presentarsi come alfiere dei poveri contro i benestanti, il suo consenso sarebbe stato maggiore. «Sfortunatamente egli vide la situazione in termini di battaglia, di buoni contro cattivi, quando invece non era
affatto così. Diede ai “cattivi” una quantità di titoli sgradevoli: “strozzini”, “monarchici dell’economia” e simili. Naturalmente questo infuriò i ricchi, che concentrarono su Roosevelt tutte le delusioni e le paure che la depressione economica aveva fatto nascere in loro. Se il Presidente avesse
60
parlato in nome di tutto il popolo che la depressione aveva colpito o sconcertato e l’avesse spronato
a muoversi, come unità compatta, verso la ricostruzione e la libertà dalla paura, molto meno odio si
sarebbe rovesciato su di lui 245 ».
Il magico mondo di Stuart Chase – un mondo compiutamente pacificato, in cui i contrasti
potevano essere appianati grazie a tecnologie più sofisticate, a progetti più audaci, e a moderne tecniche di persuasione che indirizzassero l’opinione pubblica verso gli scopi prefissati dai governanti 246 – poteva apparire attraente ad un gran numero di persone, soprattutto se depurato dai suoi risvolti più radicali. Pochi americani avrebbero condiviso l’entusiasmo di Chase per la pianificazione
centralizzata; molti di più avrebbero sottoscritto la sua affermazione secondo cui lo scienziato sociale, «lavorando in una squadra di specialisti, tenendo presenti tutte le caratteristiche, stando
all’erta contro le astrazioni e ricercando sempre i fatti, potrà far presente a un governo se i suoi piani abbiano una possibilità di successo o siano simili alle macchine per il moto perpetuo 247 ». Essere
contrari al socialismo non significava essere favorevoli al governo limitato, opponendosi coinvolgimento di specialisti nel processo di decisionale. Nell’America degli anni ’50, notava Bruno Leoni,
esisteva un big government, ma il collettivismo era guardato con simpatia da appena un quarto della
popolazione 248 .
Questo big government era entusiasticamente appoggiato da opinionisti, tecnici e specialisti,
che operarono con entusiasmo non inferiore a quanti nella generazione precedente, erano accorsi a
Washington per entrare nei brain trust. «La maggior parte degli intellettuali»– sostennero i partecipanti ad un simposio della «Partisan Review», periodico capofila della sinistra anticomunista ame245
S. CHASE, The Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948,
tr. it. Studio dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, Milano, Bompiani 1952, pp. 5, 347, 348, 19,
349, 415. Corsivo mio. Su Chase, cfr. R. B. WESTBROOK, Tribute of the Technostructure: The Popular Economics of
Stuart Chase, in American Quarterly, vol. 32, n. 4, 1980, pp. 387-408, ricco anche di riferimenti biografici.
246
Ma non certamente dalla filosofia. In che conto Chase tenesse la teoria politica lo si ricava da un giudizio di Hartcourt Morgan, anch’egli dirigente della TVA, che Chase cita in modo ammirato: «Hartcourt Morgan osserva come le
teorie economiche e politiche sulle società umane furono formulate dai Greci e da altri antichi molto tempo prima che il
mondo fisico fosse interamente investigato dagli scienziati. Lo studio delle società umane nei corsi universitari è ancora
pieno di questi venerabili indovinelli, rudimentali o informi, secondo il caso. È ora compito degli scienziati sociali, dice
il dr. Morgan, “spazzar via i detriti delle morte ideologie da Aristotele a Marx e accingersi a un nuovo inizio, combinando le note provvidenze e proibizioni della natura con le capacità e potenzialità dell’uomo moderno» (S. CHASE, The
Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948, tr. it. Studio
dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, op. cit., 1952, p. 79)
247
S. CHASE, The Proper Study of Mankind. An Inquiry into the Science of Human Relations, New York, Harper 1948,
tr. it. Studio dell’umanità. Inchiesta per una scienza delle relazioni umane, op. cit., p. 426
248
«La Seconda Guerra Mondiale e quella di Corea hanno accelerato il fenomeno dell’espansione delle attività governative, aumentando l’apparato burocratico federale, che in determinati periodi ha assistito ad un aumento dei suoi impiegati dell’imponente somma di 1500 nuovi funzionari al giorno; come se il totale dei dipendenti dovesse raggiungere,
come si è detto, una cifra uguale a quella rappresentata dai membri del partito comunista russo, e una cifra superiore agli arruolati nell’esercito, nella marina e nell’aviazione nordamericana messi insieme […]. Ma sarebbe comunque un
grave errore concludere da questi dati che il sistema americano è oggi irrimediabilmente orientato verso il collettivismo.
Come ho appena ricordato, il 75% dei nordamericani si ritiene in buona fede contrario al collettivismo» (B. LEONI, La
polémica “liberista” contemporànea en los Estados Unidos de America, in Revista de Estudios Politicos, n. 88, 1956,
pp. 3-29, tr. it. La polemica “liberista” contemporanea negli Stati Uniti, in Il pensiero politico moderno e contemporaneo, Macerata, Liberilibri 2008, pp. 377-410, spec. pp. 382, 384.
61
ricana, nel 1952 – «non accetta più l’alienazione come il destino dell’artista in America; al contrario, costoro desiderano fortemente essere parte della vita americana. Un numero crescente di intellettuali hanno cessato di concepire se stessi come ribelli ed esuli. Essi sono ora persuasi che i loro
valori […] possano essere realizzati in America, e in relazione con la condizione attuale della vita
americana 249 ».
Questo “essere parte”, questo rinnovato coinvolgimento, non va inteso in termini soltanto
immateriali. Nello stesso anno, un rapporto dell’Accademia Nazionale delle Scienze offriva un quadro dettagliato della situazione della ricerca accademica negli Stati Uniti. L’aspetto più significativo
riguardava il crescente ruolo del finanziamento governativo, passato dai 240 milioni di dollari del
1941 al miliardo e 600.000 del 1952. «Nel 1930, il Governo finanziava il 15% del budget complessivo nazionale per la ricerca, pari a 166 milioni di dollari. Oggi, il Governo paga per il 50% dei
complessivi 3 miliardi annuali. Lo stesso Governo è la prima fonte di finanziamento in campi di ricerca quali l’energia atomica, le armi da guerra, e l’aeronautica. Finanzia una parte maggioritaria
della ricerca in ambito agricolo, geologico e medico. Per la chimica e la biologia, il suo contributo è
ancora ridotto, ma, negli anni recenti, esso ha esteso i propri interessi alla psicologia applicata, le
cosiddette “risorse umane” 250 ». Il mutamento non era soltanto quantitativo. Una quota crescente di
fondi – dal 62% del 1949 all’80% del 1960, secondo i calcoli di David Noble – venne attribuita gestita dal Dipartimento della Difesa, ed utilizzata per sostenere progetti relativi alla sicurezza nazionale 251 .
Situazione anomala per gli Stati Uniti, gran parte dell’expertise si trovò a lavorare, direttamente od indirettamente, per un breve od un lungo periodo, alle dipendenze del potere politico 252 .
Ne scaturì – ha notato Patrick Joseph McGrath –una vera e propria militarizzazione della scienza, la
quale rappresentò «il culmine di un lungo processo di mutamento ideologico e istituzionale, prodotto dalle ambizioni politiche e professionali degli scienziati non meno che da quelle delle autorità
249
Il manifesto fu successivamente pubblicato nella rivista medesima (Our Country and Our Culture, in Partisan Review, 19, May-June 1952, pp. 282-284). Sulla Partisan Review e la sua linea editoriale nel corso della Guerra Fredda,
cfr. T. A. COONEY, The Rise of the New York Intellectuals: Partisan Review and Its Circle, 1934-1945, Madison,
University of Wisconsin Press 1996, pp. 251-269.
250
E. W. SCOTT (ed.), Applied Research in the United States; Report of the National Academy of Sciences, National
Research Council to the Mutual Security Agency, under project TA-OEEC-83, March 1st 1952, p. 13
251
D. NOBLE, Academia Incorporated, in Science for People, January-February 1983, cit. in J. FELDMAN, Universities
in the Business of Repression : the Academic-Military-Industrial Complex and Central America, Boston, South End
Press 1989, p. 151.
252
«Solo nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’esercito americano cominciò ad avvalersi di consulenti civili, e un
vasto numero di intellettuali (alcuni dei quali ex new dealer) vennero coinvolti nell’attività di pianificazione e di esecuzione. Alla fine della guerra, per mantenere questo legame, l’aeronautica creò la Rand Corporation (Ricerca e Sviluppo); l’esercito ebbe un analogo “brain trust” nell’Operation Research Office presso la Johns Hopkins University e la
CIA, se non proprio al di fuori del governo, poteva operare in condizioni di immunità nella supervisione del settore» (D.
RIESMAN, The American Crisis (1960), in Abundance for What?, New Brunswick, Transaction 1993, pp. 28-51, spec. p.
28).
62
politiche e militari 253 ». Lungi dall’essere imposti dall’esterno, principi e codici di condotta venivano spontaneamente accettati da promettenti neolaureati desiderosi di far parte della nuova “élite del
potere”: essa garantiva posti di lavoro, opportunità di carriera, nonché un elevato prestigio sociale 254 .
Poteva così accadere che cultori di relazioni internazionali come Henry Kissinger, Walt R.
Rostow o McGeorge Bundy scalassero i vertici tanto dell’accademia quanto dell’amministrazione; e
che illustri politologi come Samuel P. Huntington, accanto ai tradizionali impieghi didattici, svolgessero un’intensa attività di consulenze a beneficio della CIA 255 . Nel 1959, il presidente di Harvard, Nathan Pursey, poteva orgogliosamente affermare: «il genere di attività di cui ci occupiamo,
nelle classi e nei laboratori di Cambridge, sta offrendo un vasto contributo agli immensi sforzi nazionali che stiamo facendo, e che saremo in futuro costretti a compiere, per farci carico delle acquisite responsabilità nel mondo, lottando contro il nostro mortale nemico, l’URSS 256 ». E ciò che valeva per l’Ivy League, a maggior valeva per i medi e piccoli atenei sparpagliati per il Paese, le cui
modeste risorse finanziarie rendevano più allettanti i generosi contratti governativi 257 .
«I venticinque anni fra il 1945 e il 1970 segnarono il momento in cui la nazione formava la
propria élite nei campus» ha ricordato il teologo Jacob Neusner: un periodo in cui «camminando da
un ufficio accademico all’altro, in un qualsiasi campus americano, un avviso del presidente del
college, del rettore o del preside dichiarava di poter impiegare quasi ogni disciplina nella battaglia
nazionale. E il governo avrebbe certamente offerto i fondi per sostenere ciò che il presidente del
college era in grado di inventare 258 ». In modo non dissimile, Edward Said – che nei primi anni ’50
faceva il suo ingresso, in qualità di «scolaretto appena arrivato dal Medio Oriente», nel mondo accademico statunitense, ha osservato: «Grossomodo dal 1945 al 1975, il credo ufficiale che in America regnò virtualmente incontrastato esigeva che nel Terzo Mondo libertà equivalesse automaticamente a libertà dal comunismo. Di qui la tesi infinite volte rielaborata da legioni di sociologi, antropologi, studiosi di scienze politiche ed economisti, secondo cui “sviluppo” non ha a che fare con
253
P. J. MCGRATH, Scientists, Business and the State, 1890-1960 , Chapel Hill, University of North Carolina Press
2002, p. 130.
254
Cfr. C. W. MILLS, The Power Elite, New York, Oxford University Press 1956.
255
Cfr. K. BIRD, The Color of Truth: McGeorge Bundy and William Bundy, Brothers in Arms: a Biography, New York,
Simon & Schuster 1998, pp. 99-116; 117-153; G. D. CLEVA, Henry Kissinger and the American Foreign Policy, Lewisburg, Bucknell University Press 1989, pp. 118-121; I. OREN, Our Enemies and US: America’s Rivalries and the Making
of Political Science, Ithaca, Cornell University Press 2003, pp. 1-22, spec. pp. 2-4;
256
Citato in J. TRUMPBOUR (ed.), How Harvard Rules: Reason in the Service of Empire, Boston, South End Press 1989,
p. 51.
257
Cfr. A. C. MILLS, Cia Off Campus: Building the Movement Against Agency Recruitment an Research, Boston, South
End Press 1991. Il volume elenca numerosi esempi di partecipazione, soprattutto finanziaria, da parte del Governo Federale a programmi di ricerca, pubblicazioni, e simili. Cfr. anche A. D. GROSSMAN, Neither Dead nor Red, London,
Routledge 2001, spec. pp. 41-68
258
J. NEUSNER, N. M. M. NEUSNER, The Price of Excellence: Universities in Conflict during the Cold War Era, New
York, Continuum 1995, pp. 81, 34
63
l’ideologia, è portato soltanto dall’Occidente e comporta il decollo dell’economia, la modernizzazione, l’anticomunismo nonché l’adesione di alcuni leader politici a patti di alleanza formale con gli
Stati Uniti […]. Stupisce sempre rilevare in quale ampia misura, negli anni in quale ampia misura,
negli anni in cui gli Stati Uniti contendevano l’egemonia mondiale all’Unione Sovietica, l’ordine
del giorno della sicurezza nazionale influenzasse le priorità e l’orientamento della ricerca accademica […]. Soltanto adesso cominciamo a poco a poco ad aprire gli occhi: il Dipartimento di stato e il
Ministero della Difesa hanno sovvenzionato la ricerca universitaria nel campo della scienza e della
tecnica più di qualsiasi altro singolo donatore, soprattutto al Mit e a Stanford, dove per decenni sono
affluiti i finanziamenti maggiori. Ma in quegli anni le stessa facoltà di scienze sociali, e anche di
scienze umane, ricevettero dal governo la loro parte di fondi generalmente finalizzati alla stessa agenda. 259 ».
Il nuovo scenario delineatosi era tanto eclatante da non lasciare indifferente nemmeno
l’establishment. Una certa diffidenza verso i «problem-solvers», intellettuali che «si facevano vanto
del loro essere “razionali”, spaventosamente al di sopra di ogni “sentimentalismo”, e innamorati
della “teoria”, il mero mondo dello sforzo mentale 260 » parve affiorare, sul finire degli anni ‘50, persino tra le mura della Casa Bianca. Nel suo celebre quanto profetico Farewell Address, pronunciato
il 17 gennaio 1961, il Presidente uscente Eisenhower non si limitò a denunciare la pericolosità del
«complesso militare-industriale» – basato sulla collusione fra potere politico, economico e militare
–, ma ne chiarì limpidamente i presupposti. All’origine di tutto vi era la rivoluzione tecnologica dei
decenni passati, durante la quale «la ricerca era divenuta centrale, più specializzata, complessa e costosa. Una percentuale decisamente crescente è condotta da, o sotto la direzione del, Governo Federale. Oggi», dichiarava l’ex generale «l’inventore solitario, che armeggia nel suo ufficio, è stato sopravanzato da équipe di scienziati in laboratori e campi di sperimentazione. Allo stesso modo,
l’università libera, che storicamente ha rappresentato la sorgente delle libere idee e della scoperta
scientifica, ha conosciuto una rivoluzione nella conduzione della ricerca. In parte per gli elevati costi richiesti, un contratto governativo diviene virtualmente un sostituto per la curiosità intellettuale.
Al posto di ogni vecchia lavagna ci sono ora centinaia di nuovi computer. La prospettiva di un dominio della comunità intellettuale da parte degli impieghi federali, delle allocazioni dei progetti, e
del potere del danaro è sempre presente – e vi si deve guardare con apprensione. Ma, pur trattando
259
E. SAID, Representations of the Intellectual, New York, Pantheon Books 1994, tr. it. Dire la verità. Gli intellettuali e
il potere, Milano, Feltrinelli 1995, p. 117; pp. 88-89.
260
H. ARENDT, Lying in Politcs. Reflections on the Pentagon Papers, New York, Hartcourt Brace Jovanovich 1972, tr.
it. La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, Genova, Marietti 2006, p. 21. Continua la Arendt: «In virtù del loro appetito per l’azione e del loro amore per le teorie, difficilmente avranno la pazienza tipica dello scienziato
di aspettare che le teorie e le spiegazioni ipotetiche siano verificate o inficiate dai fatti. Invece, saranno tentati di adattare la loro realtà – che, dopotutto, è stata creata dagli uomini e avrebbe potuto essere altrimenti – alla loro teoria, liberandosi mentalmente dalla sua sconcertante contingenza» (ibidem, p. 23).
64
le ricerche e le scoperte scientifiche con rispetto, come dovremmo, è nostro dovere stare all’erta
contro l’eguale ed opposto rischio che la politica stessa divenga prigioniera dell’élite scientificotecnologica 261 ».
Sarebbe stata la Guerra del Vietnam – una «unwinnable war» durata tredici anni, scandita da
ripetute quanto inefficaci escalation panificate dal Pentagono, e da numerose rivelazioni sulle modalità di disinformazione e propaganda messe in campo dall’apparato governativo – a dimostrare la
fondatezza dei timori di Eisenhower, incrinando la fiducia dell’opinione pubblica nelle capacità dei
«migliori e più brillanti», come David Halberstam definì, non senza ironia, i componenti
dell’entourage kennediano 262 . Sino ad allora, tuttavia, i liberal rimassero i dominatori, quasi indiscussi, della scena pubblica.
È indicativo, però, che tale centralità fosse garantita dai trionfi del sapere applicativo, e non
dall’affermazione di una idea «forte» di libertà, come era avvenuto nel corso del New Deal 263 .
Lo straordinario sviluppo delle scienze sociali, l’elaborazione di una politica estera condivisa, l’anticomunismo, il sostegno allo sviluppo economico favorirono il costituirsi di un’agenda politica condivisa, cui il liberalismo diede voce. Geodfrey Hodgson ha definito «liberal consensus»
l’insieme questo insieme di precetti, che contrassegnavano il discorso pubblico statunitense ed erano condivisi da tutti i policy-makers: «1) Il sistema americano basato sulla libertà d’impresa è differente dall’antico capitalismo. È democratico. Crea abbondanza. Possiede un potenziale rivoluzionario per la giustizia sociale; 2) La chiave di questo potenziale è la produzione: nello specifico,
l’accrescimento della produzione, o la crescita economica. Ciò rende possibile far incontrare il crescente bisogno di risorse da parte della gente. Il conflitto sociale fra le classi per il controllo delle
risorse (quella che Marx definiva “la locomotiva della storia”) è pertanto divenuta obsoleta e superflua; 3) Pertanto esiste una naturale armonia fra gli interessi, all’interno della società. La società
americana sta diventando più eguale. È un processo che tende ad abolire, o forse ha già abolito, le
classi sociali. I capitalisti sono stati sorpassati dai manager. I lavoratori stanno diventando membri
261
D. D. EISENHOWER, Public Papers of the Presidents of the United States: Dwight D. Eisenhower, 1961, Washington,
GPO 1961, pp. 1045-1050. Citato in J. E. CLELLAN III, H. DORN, Science and Technology in World History: an Introduction, Baltimore, Johns Hopkins University Press 2006, p. 433. Corsivo mio.
262
La definizione della campagna militare in Vietnam come di una «immoral and unwinnable war» è attribuita ad un
membro dell’amministrazione Johnson, George Ball (L. C. GARDNER, T. GETTINGER (ed.), The Search for Peace in
Vietnam, 1964-1968, College Station, Texas A&M University Press 2004, pp. 74-75); cfr. anche J. PRADOS, Vietnam:
the History of an Unwinnable War, 1945-1975, Lawrence, University Press of Kansas 2009. Per una trattazione generale della propaganda governativa interna, cfr. R. W. CHANDLER, War of Ideas: the U.S. Propaganda Campaign in Vietnam, Boulder, Westview Press 1981; una ricostruzione dell’operato della lobby a sostegno del governo di Ngo Dinh
Diem (composta da giornalisti, accademici, leader politici) è al centro di J. T. FISHER, “A World Made Safe for Diversity”. The Vietnam Lobby and the Politics of Pluralism, 1945-1963, in C. G. APPLY, Cold War Constructions: the Political Culture of United State Imperialism, 1945-1966, Amherst, University of Massachusetts Press 2000, pp.217-237.
Cfr. D. HALBERSTAM, The Best and the Brightest, Random House, New York 1972.
263
Per una visione ad ampio raggio su questa evoluzione, cfr. il fondamentale T. LOWI, The New Public Philosophy:
Interest-Group Liberalism, in T. FERGUSON, J. ROGERS, The Political Economy: Reading in the Politics and Economics
of American Public Policy, Armony, M. E. Sharpe 1984, pp. 49-66.
65
della classe media; 4) I problemi sociali possono essere risolti alla stregua dei problemi industriali.
Il problema è dapprima identificato; programmi sono disegnati per risolverlo, da un governo illuminato dalle scienze sociali; il denaro ed altre risorse – come uomini specializzati – sono allora coinvolti nella risoluzione del problema in qualità di imput; gli output sono prevedibili; i problemi saranno risolti; 5) La principale minaccia a questo benefico sistema viene dagli aderenti delusi del
marxismo. Gli Stati Uniti e i sui alleati, il Mondo Libero, deve pertanto impegnarsi in una prolungata battaglia contro il comunismo; 6) Al di là della minaccia comunista, è dovere e destino degli Stati
Uniti esportare i benefici del sistema della libera impresa al resto del mondo 264 ».
Ma, appunto, di consensus si trattava; non di un credo battagliero da contrapporre a qualche
ideologia rivale o a qualche interesse costituito. La raffigurazione più efficace della nuova collocazione dei liberal nello spettro politico fu fornita da Arthur M. Schlesinger Jr. e dal suo «centro vitale». Esso non indicava né un progetto definito, né un programma politico, bensì un luogo, un punto
di contatto fra moderati di diversi partiti, intenzionati a conservare il modello di vita americano,
proteggendolo dagli opposti estremismi 265 .
Salta agli occhi la pochezza della riflessione filosofico-politica dei progressisti negli anni
’50, se paragonata ai successi delle scienze applicate. L’inverno dei filosofi politici – come ebbe a
definire il proprio tempo Peter Laslett, nel 1956 – altro non era che il logico sbocco di una cultura
che affrontava i problemi collettivi in termini eminente empirici e avalutativi, una conseguenza della visione positivista secondo cui il come, e non il perché, doveva costituire la principale preoccupazione del buon professionista intellettuale 266 . Hannah Arendt denunciò nel 1958 le pericolose implicazioni mistificanti insite nell’analisi della vita associata elaborata dai comportamentisti. «Le
leggi della statistica sono valide solo quando si applicano a grandi numeri o a lunghi periodi, e i
singoli atti o eventi possono apparire statisticamente solo come deviazioni o eccezioni […].
L’applicazione della legge dei grandi numeri o dei lunghi periodi alla politica o alla storia non significa niente altro che la deliberata obliterazione della loro vera sostanza, ed è vano cercare un
senso nella politica o un significato nella storia quanto tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante […]. In nessun modo si può dire che
la uniformità statistica sia un innocuo ideale scientifico; essa è il dichiarato ideale politico di una
264
G. HODGSON, America in Our Time: From World War II to Nixon, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2005 (1a ed. 1978), pp. 67-98, spec. p. 76.
265
Cfr. A. M. SCHLESINGER JR., The Vital Center: The Politics of Freedom, Boston, Houghton Miffin 1949; A. L.
HAMBY, Beyond the New Deal: Harry S. Truman and American Liberalism, London-New York, Columbia University
Press 1973, pp. 279-282. M. Sperling MCAULIFFE, Crisis On the Left: Cold War Politics and American Liberals, 19471954, Amherst, University of Massachusetts Press 1978, pp. 130-145.
266
P. LASLETT (ed.), Philosophy, Politics and Society, Oxford, Blackwell 1956, p. VII.
66
società che, interamente sommersa nella routine della vita quotidiana, accetta la prospettiva scientifica intrinseca nella sua esistenza 267 ». Ma la sua era quasi una voce nel deserto.
Nel 1946, Lionel Trilling aveva scritto: «nella nostra classe colta i liberal predominano.
Cercare di chiarire il significato di “liberalismo” sarebbe un’impresa ardua: qui intendo soltanto dire che la nostra classe colta diffida, seppur in modo blando, dell’incentivo del profitto, crede nel
progresso, nella scienza, nella legislazione sociale, nella pianificazione, nella cooperazione internazionale, forse soprattutto quando vi è coinvolta la Russia 268 ». L’atteggiamento benevolo verso
l’URSS e la diffidenza verso l’impresa privata erano andati rapidamente scemando, ma l’influenza
dei liberal nel campo delle idee a Washington era rimasta sostanzialmente intatta. Né i confini concettuali del liberalismo americano si erano fatti più nitidi – al contrario, essi apparivano estremamente malleabili e vaghi. Era il prezzo del potere; o, per meglio dire, dell’egemonia culturale. Poiché tutti (o quasi) si definivano liberal, il liberalismo aveva smarrito un significato autonomo, obiettivi specifici propri. Esso finì con inaridire lentamente, affievolire poco a poco, mostrandosi incapace di intercettare i fermenti che – da destra e da sinistra – si manifestavano nel Paese. Pur conservando il proprio prestigio pubblico e la propria influenza sui policy-makers, esso assomigliò sempre
più ad un generico richiamo all’“ingegneria sociale a spizzico”, al benessere pubblico, alla ricerca
del compromesso fra mondo del lavoro e mondo della produzione 269 .
Assecondando il moderatismo, la stabilità sociale, il centrismo, gli intellettuali liberal si trovarono ben presto a fronteggiare una stagione di riflusso e di disimpegno con armi spuntate. Se –
come sosteneva Norman Podhoretz – le nuove generazioni stavano riscoprendo le gioie del conformismo, che non significava stupidità e inconsapevole adesione alle convenzioni, quanto piuttosto
una genuina emancipazione dall’infantilismo radicale 270 , compito dei progressisti era loro offrire
267
H. ARENDT, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Pres 1958, tr. it. Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani 2003, pp. 31-32. Corsivo mio.
268
L. TRILLING, The Liberal Imagination, Garden City, Doubleday Anchor 1950, pp. VII, 93-94.
269
Secondo Alonzo L. Hamby, «il “centro vitale” diede al liberalismo una definizione può in linea con il significato storico del termine e lo preservò, facendone una forza importante, per non dire trionfante, della politica americana» (A. L.
HAMBY, Beyond the New Deal: Harry S. Truman and American Liberalism, op. cit., p. 505). Il limite della visione di
Hamby consiste nel confondere la vitalità di un’idea con la sua permanenza nelle stanze dei bottoni. È senza dubbio vero che il liberalismo “riveduto e corretto” continuò a influenzare l’operato dei decisori politici, ma – presso l’opinione
pubblica – esso finì per significare poco o nulla. Così, nel 1962, Nelson Rockefeller aveva giuoco facile nel descriverlo
come un concetto «artificiale, che distorce le questioni e confonde i cittadini […], uno slogan che sostituisce il pensiero» (N. ROCKEFELLER , The Future of Federalism, Cambridge, Harvard University Press 1962, p. 21). Né, col senno di
poi, si poteva dire del tutto infondata la denuncia di Frank S. Meyer nel 1964: «La bancarotta intellettuale del liberalismo collettivista che ha dominato il pensiero americano nell’ultimo mezzo secolo diventa giorno dopo giorno più ovvia.
L’immaginazione, la verve, la passione spirituale che un tempo lo aveva caratterizzato, nei giorni in cui si dirigeva verso la conquista del potere, sono state da tempo rimpiazzate da una stanca ripetizione di slogan privi di contenuto, e oggi
a sostenerlo c’è solo il penso e l’inerzia della burocrazia» (F. S. MEYER, Freedom, Tradition and Power, in F. S. MEYER (ed.), What is Conservatism?: a Timely, Important and Provocative Examination of American Conservatism by
Twelve Leading Conservative Thinkers and Spokesman, New York, Holt, Rinehart & Winston 1964, pp. 7-22, spec. p.
7)
270
Citato in D. T. MILLER, M. NOVAK, The Fifties: The Way We Really Were, op. cit., p. 237. Va ricordato, a riguardo,
che Norman Podhoretz continuò a frequentare ambienti liberal sino alla fine degli anni ’50, prima di divenire
67
era una saggia gestione dell’esistente, in cui la selezione di una classe dirigente capace contava più
della costruzione di un’alternativa programmatica. Se Daniel Bell era nel giusto nel sostenere che
«sono rimasti in pochi a credere, seriamente, che si possano proporre “progetti” e, ricorrendo alla
“ingegneria sociale”, dar vita a nuove utopie armoniciste», ma ancor meno numerosi erano i loro
oppositori, sostenitori di un ritorno al laissez-faire, i liberal potevano limitarsi a ripetere ostinatamente il loro mantra deideologizzato: «l’accettazione del Welfare State; l’auspicabilità di un potere
decentrato; un sistema a economia mista e il pluralismo politico 271 ».
È piuttosto sorprendente l’atteggiamento distaccato o assente con cui numerosi esponenti del
liberalismo degli anni ’50 e ’60 assistettero al manifestarsi di fenomeni antichi e nuovi, contrastanti
con l’immagine di una realtà armonica, equilibrata e secolare. Pochi si accorsero del lento riapparire
di una religiosità «orientata alla famiglia, assai consapevole della guerra fredda, ed intimamente
tradizionalista nel suo tentativo di adeguarsi ad una società in rapida crescita e in fase di cambiamento 272 ». Ancora meno parvero intuire lo snaturamento di espressioni chiave del frasario liberal,
come la rooseveltiana “libertà dal bisogno”: una libertà sempre più spesso interpretata come facoltà
di accedere al mercato di beni e servizi, possibilità di consumare ed accrescere il proprio standard di
vita senza interferenze da parte dello Stato. A fronte di chi, come lo storico David Potter, sosteneva
che il funzionamento della democrazia americana dipendesse dall’immensa prosperità materiale,
suggerendo implicitamente che riducendo o ridistribuendo quest’ultima, anche la democrazia sarebbe stata messa a repentaglio, i liberali avevano poco o nulla da obiettare. Anzi, economisti come
George H. Hildebrand assicuravano che «l’opportunità per i consumatori di avere un ampio margine
di autogoverno è parte dell’idea liberale essa stessa. La concezione liberale è del tutto compatibile
con alcune protezioni o funzioni svolte dallo Stato, ma la sua enfasi è posta sullo sviluppo delle capacità di autogoverno individuale in tutti i campi della vita umana 273 ».
Il progressivo affievolimento della spinta riformatrice dei liberal fra il 1950 e il 1960 parvero confermare una celebre intuizione di Alexis de Tocqueville, secondo cui l’estensione e il godimento dei diritti di proprietà rappresentano il miglior argine contro ogni radicale sconvolgimento
un’autorità nel campo neoconservatore. È peraltro significativo che l’addio al liberalismo di Podhoretz sia avvenuto in
coincidenza con l’esplosione della cultura beatnik, nel quale egli scorgeva una rivolta neotribale contro valori di razionalità e temperanza propri della middle class americana, rivolta cui troppi liberal guardavano con condiscendenza (M.
FRIEDMAN, The Neoconservative Revolution. Jewish Intellectuals and the Shaping of a Public Policy, Cambridge,
Cambridge University Press 1999, pp. 34-35). Podhoretz ha ricostruito il proprio percorso di avvicinamento al neoconservatorismo in un denso volume autobiografico (N. PODHORETZ, Breaking Ranks. A Political Memoir, New York,
Harper & Row 1979).
271
D. BELL, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Cambridge, Harvard University
Press 2000 (1a ed. 1960), pp. 402-403.
272
R. S. ELLWOOD, The Fifties Spiritual Marketplace: American Religion in a Decade of Conflict, New Brunswick,
Rutgers University Press 1997, p. 16.
273
K. DONOHUE, Freedom from Want: American Liberalism and the Idea of Consumer, Baltimore, Johns Hopkins University 2003, pp. 276-277; G. H. HILDEBRAND, Consumer Sovereignty in Modern Times, in American Economic Review, vol. 41. n. 2, 1951 19-33, spec. p. 31.
68
dell’ordine politico 274 . L’America più ricca si riscopriva anche più moderata, e l’unica strategia che
i liberal seppero contrapporre a questo slittamento fu il richiamo all’illuminismo applicato, la fiducia nelle potenzialità dello studio empirico della politica e della società.
Nessuno meglio del paladino di una “nuova generazione di americani”, John F. Kennedy,
presenziando alla consegna delle laurea presso l’Università di Yale nel giugno 1962, seppe dar voce
all’atteggiamento di sfiducia verso la teoria politica astratta che contrassegnava il «centro vitale».
Nel suo discorso egli affermò solennemente: «i principali problemi interni del nostro tempo sono
più delicati e meno semplici. Essi non hanno a che fare con scontri di fondo in campo filosofico o
ideologico, ma con modi e mezzi per raggiungere obiettivi comuni – con la ricerca di soluzioni sofisticate per la questioni complesse e ostinate […]. [Antichi stereotipi] si frappongono fra noi e la soluzione di problemi gravi e complessi. Non è la prima volta che dibattiti del passato finiscono con
l’oscurare la realtà del presente. Ma il danno che potrebbe scaturirne è oggi maggiore di quanto non
lo fosse in passato, poiché oggigiorno la sicurezza del mondo interno – l’intero futuro della libertà –
dipende, quanto mai in precedenza, da una sensibile e lucida amministrazione degli affari interni
degli Stati Uniti […]. Ciò che è in gioco nelle nostre decisioni economiche oggi non è una qualche
grande battaglia fra ideologie rivali che possano coinvolgere in modo appassionato il paese, ma la
gestione pratica di un’economia moderna […]. Le etichette politiche e le impostazioni ideologiche
non hanno niente a che fare con le soluzioni 275 ».
Kennedy era in errore. La filosofia politica non era morta, l’ideologia non si era dissolta, e
nuove idee andavano rapidamente germogliando. Troppo impegnati a restare a metà del guado, i liberals non si accorsero del radunarsi di truppe nemiche su entrambi i lati del fiume, e finirono accerchiati.
Alla loro sinistra, patirono l’offensiva della cosiddetta New Left, un eterogeneo movimento
reso coeso dal “gran rifiuto” della società industriale, della quale contestavano le pratiche repressive
e guerrafondaie, il disprezzo per l’individualità, la celebrazione della sensibilità piccolo-
274
A. DE TOCQUEVILLE, De la Démocratie en Amérique, Paris, Pagnerre 1848, parte II°, cap. XXI, tr. it. La democrazia
in America, Milano, Rizzoli 1982, pp. 670-672.
275
J. F. KENNEDY, Public Papers of the Presidents of the United States: John F. Kennedy, 1962, vol. 2, Washington,
CPO 1962, pp. 470-475, cit. in J. N. GIGLIO, S. G. RABE, Debating the Kennedy Presidency, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers 2003, pp. 173-180. Corsivi miei. Per rendersi conto di quanto la retorica kennediana fosse influenzata
dal «liberalismo della guerra fredda», si ponga a confronto il presente discorso con S. HOOK, Heresy Yes – But Conspiracy No, in New York Times Magazine, 9 july 1950, pp. 2-33, ora in E. SCHRECKER (ed.) The Age of McCarthysm. A
Brief History with Documents, New York, Palgrave 2002, pp. 263-270. Qui Hook afferma: «I problemi che una società
liberale deve affrontare sono di dimensioni terrificanti. Essi non possono essere risolti citando Jefferson, né mettendo
fuori legge il partito comunista e quanti vi gravitano attorno con qualche legge speciale. Essi richiedono un’intelligenza
costruttiva, la scoperta e l’applicazione di tecniche in ogni campo in cui minacce cospiratorie verranno mosse al funzionamento delle istituzioni liberali, senza però creare cospirazioni ancora maggiori» (ibidem, p. 267. Corsivo mio).
69
borghese 276 . Nel suo One-Dimensional Man (1964), che presto divenne il testo di riferimento per
attivisti e simpatizzanti, Marcuse – con argomenti non troppo dissimili da quelli di Arendt 277 – attaccava frontalmente l’epistemologia operazionista, secondo cui gli unici concetti utilizzabili dalla
scienza erano quelli descrivibili in termini di operazioni. Sulla scorta di tale metodo, «molti dei
concetti capaci di recare i più gravi turbamenti vengono “eliminati” […]. L’assalto dell’empirista
radicale […] fornisce in tal modo agli intellettuali la giustificazione metodologica per svuotare di
senso l’attività della mente: forma di positivismo che, col suo diniego di elementi trascendenti dalla
Ragione, costituisce il riscontro accademico del comportamento sociale richiesto». Nell’ottica di
Marcuse, le scienze sociali finivano con lo svolgere una funzione eminentemente repressiva, poiché
la loro era la «parola che ordina e organizza, che induce le persone a fare, a comprare, e ad accettare 278 ». La frattura col liberalismo tradizionale, che aveva fatto dell’avalutatività scientifica posta al
servizio dell’amministrazione un punto cruciale della propria Weltanschauung, non poteva essere
più netta. La furibonda guerriglia urbana scatenata per le strade di Chicago nel 1968, durante la
Convention del Partito Democratico, fu la rappresentazione emblematica non soltanto di uno scontro generazionale, ma dello spalancarsi di una voragine culturale: da un lato, i giovani radicali sostenitori di Eugene McCarthy; dall’altro le forze di polizia agli ordini del sindaco Daley, che – agli
occhi dei dimostranti – incarnavano quel modello di spietato ed efficiente apparato coercitivo di cui
liberal moderati si servivano per conservare l’egemonia nel campo progressista 279 .
La sfida mossa al cold war liberalism da destra avvenne con modalità meno irruente ed appariscenti, ma non per questo si rivelò meno letale. Inizialmente, la comparsa di volumi come Conservatism Revisited: the Revolt Against the Revolt 1815-1949 (1949) di Peter Viereck, The Conservative Mind (1953) di Russell Kirk o A Quest for Community: a Study in Ethics of Order and Freedom (1953) di Robert Nisbet fu giudicata un fenomeno transitorio, privo di solide radici nella tradizione americana. In un’ironica recensione, Arthur M. Schlesinger Jr. paragonò tali autori a cavalieri
senza macchia o a dinoccolati galantuomini irritati dalla società di massa. Il loro tentativo di imporre una «controrivoluzione nella filosofia politica» si sarebbe rivelato fallimentare: il conservatori276
Sulla cultura politica della New Left, cfr. I. UNGER, The Movement: a History of the American New Left, 1959-1972,
New York, Mead and Company 1974; W. BREINES, Community and Organization in the New Left, 1962-1968: the
Great Refusal, New Brunswick, Rutgers University Press 1989.
277
Cfr, soprattutto H. ARENDT, On Violence, New York, Hartcourt Brace & Co. 1970.
278
H. MARCUSE, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Boston, Beacon Press
1964. tr. it. L’uomo ad una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi 1967, pp. 35,
104. Sul rapporto fra Marcuse e la New Left, cfr. D. KELLNER, Introduction: Radical Politics, Marcuse and the New
Left, in H. MARCUSE, The New Left and the 1960’s, New York-London, Routledge 2005, pp. 1-37.
279
Per un’accurata ricostruzione degli scontri di Chicago, cfr. D. FABER, Chicago ’68, Chicago, Chicago University
Press 1988. Un sondaggio realizzato due mesi dopo gli scontri rivelava un dato significativo: se il 36% dei sostenitori di
McCarthy riteneva che la polizia avesse abusato della forza, soltanto il 22% fra quanti appoggiavano il vincitore moderato della Convenzione, Humphrey, condividevano questa opinione: una percentuale molto simile – 19% – la si riscontrava fra i supporter del repubblicano Nixon (J. P. ROBINSON, Public Reaction to Political Protest: Chicago 1968, in
The Public Opinion Quarterly, vol. 34, n. 1 (1970), pp. 1-9, esp. p. 3).
70
smo, nobile quanto ininfluente, assomigliava ad una «pianta da serra, coltivata con cura nelle accademie da uomini che sognano di dimorare in residenze di marmo». L’unica forma di conservatorismo in grado di attecchire negli Stati Uniti – una società priva di un passato feudale alle spalle – era
quello degli industriali, dei banchieri e dei leader politici: le stesse categorie cui i teorici come Kirk
e Viereck, colmi d’ammirazione per l’aristocrazia britannica, guardavano con disprezzo 280 . Contrariamente alle previsioni di Schlesinger, però, il pensiero conservatore trovò terreno fertile al di fuori
dell’accademia, generando organizzazioni militanti, circoli, associazioni, riviste, fondazioni e centri
studi. La sorprendente conquista della nomination repubblicana del 1964 da parte di Barry Goldwater rappresentò soltanto una delle tappe che segnarono l’ascesa del movimento 281 .
I tempi cambiarono, e i ruoli si rovesciarono in modo beffardo. A trentatré di distanza dalla
sua recensione, Schlesinger sottoscrisse un appello, pubblicato dal New York Times, a difesa del liberalismo, «una delle più antiche e nobili tradizioni» americane, di cui teorici e leader conservatori
– a cominciare dal Presidente Reagan – si facevano ormai pubblicamente beffa 282 . Quella dottrina –
in cui Schlesinger, Louis Hartz, Trilling, e molti altri, avevano identificato la sola tradizione politica
autenticamente americana – era soggetta, negli anni ’80, ad un’offensiva tale da trasformare il relativo aggettivo, liberal, in un «termine denigratorio, da cui qualsiasi politico intenzionato a correre
per un incarico nazionale avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga 283 ».
Se, nel breve periodo, fu la Nuova Sinistra a svelare con maggior forza le contraddizioni del
liberal consensus, evidenziando il latente autoritarismo di una concezione che sostitutiva
l’amministrazione asettica al discorso politico, e soffocava gli interrogativi più profondi e radicali
sotto una ridda di grafici, tabelle e misurazioni statistiche, nei decenni successivi fu soprattutto la
destra a beneficiare del discredito in cui versavano il New Deal e il centro vitale.
L’affermazione delle categorie intellettuali conservatrici non fu un processo né rapido né lineare, che non si intende ripercorrere in questa sede 284 . Ciò che tenteremo di sviluppare, nel capitolo seguente, è una disamina più approfondita della crisi interna al liberalismo razionalistico dopo la
Seconda Guerra Mondiale, da un punto di vista non più storico, bensì teorico. Esamineremo dibattiti
e concetti all’origine di tali crisi, e cercheremo di comprendere quali assunti furono contestati, ridiscussi, ridefiniti. Individueremo alcuni autori ed alcune opere di riferimento – ricorrendo, ovviamente, ad una drastica semplificazione –. Al termine, saranno forse più chiare le modalità tramite
280
A. M. SCHLESINGER, The Politics of Nostalgia, in Reporter, vol. 2 (1955), pp. 9-12, ora in A. J. SCHLESINGER Jr.,
The Politics of Hope and the Bitter Heritage: American liberalism in the 1960s, Princeton-Oxford, Princeton University
Press 2008, pp. 92-104.
281
Su Goldwater, cfr. A. DONNO, Barry Goldwater. Valori americani e lotta al comunismo, Firenze, Le Lettere 2008.
282
A Reaffirmation of Principle, New York Times, 26 october 1988, p. 21.
283
B. J. CRAIGE, American Patriotism in a Global Society, Albany, State University of New York Press 1996, p. 103.
284
Con riferimento agli Stati Uniti, la ricostruzione più convincente è quella di G. NASH, The Conservative Intellectual
Movement in America since 1945, Wilmington, ISI Books 1998.
71
cui si svolse lo svuotamento del paradigma teorico del liberalismo razionalistico, e gli spazi che tale
svuotamento concesse alla formulazione di una ideologia alternativa – l’ideologia conservatrice.
72
III.
Liberalismo rivisitato:
Berlin, Talmon, Hayek, Niebuhr
Non cerchiamo nella democrazia le sublimi sottigliezze
delle sue virtù, ma le sue caratteristiche reali, che ci portano a constatare appunto che la sua essenza risiede
nell’accettazione della pacifica concorrenza.
Raymond Aron, Démocratie et Révolution, 1952 285 .
I socialisti hanno portato un bel po’ di colore e di diversità nella vita americana, e in un certo senso ci dispiace
lasciarceli alle spalle. Ma vale la pena di notare che è stato un sforzo politico autenticamente americano a sconfiggerli.
Redattore anonimo, Life, 1952 286 .
I. Liberalismo realista e liberalismo critico
I travagliati anni ’30 rappresentano, come detto, lo sfondo storico entro cui la tradizione liberale fu costretta, volente o nolente, a reinventarsi. Se, in Europa, essi coincisero con una stagione
di crisi e decadenza degli ideali liberali – soppiantati da nuovi princìpi e nuove forme di integrazione sociale, dalla nazionalizzazione delle masse al “socialismo di guerra” 287 –, negli Stati Uniti si
verificò piuttosto un processo di contaminazione: il liberalismo riuscì ad offrire un quadro teorico
credibile entro cui convogliare le istanze di riforma, accettando di dialogare con correnti culturali e
movimenti – dal populismo al radicalismo – che il Grande Crollo del 1929 aveva riportato in auge 288 . Esso assunse caratteri più marcatamente razionalistici e costruttivistici; guardò con favore ad
285
R. ARON, Introduction à la Philosophie Politique. Démocratie et Révolution, Paris, Editions de Fallois 1997, tr. it.
Introduzione alla filosofia politica. Democrazia e rivoluzione, Lungro di Cosenza, Costantino Marco 2005, p. 38.
286
A Farewell to Socialism, in Life, n. 24, 16 giugno 1952, p. 22.
287
L’espressione «crisi e decadenza» è utilizzata da G. BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, Roma-Bari, Laterza
1990, pp. 255. Sugli anni ’30, valga per tutti l’icastico giudizio formulato da Simone Weil nel 1934: «Mai l’individuo è
stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai pensieri, ma persino di pensare […]. In apparenza quasi tutto ai nostri giorni si realizza metodicamente; la scienza è sovrana, il macchinismo invade poco a poco tutto l’ambito del lavoro, le statistiche assumono
un’importanza crescente e, su un sesto del globo, il potere centrale tenta di regolare l’insieme della vita sociale in base a
dei piani […]. La vita pratica assume un carattere sempre più collettivo, e l’individuo in quanto tale è sempre più insignificante […]. Quanto all’insieme della vita sociale, questa dipende da fattori così numerosi, ciascuno dei quali è impenetrabilmente oscuro e mischiato con gli altri in rapporti inestricabili, che a nessuno verrebbe neppure l’idea di tentare di concepirne il meccanismo. Così la funzione sociale più essenzialmente legata all’individuo, quella che consiste nel
coordinare, dirigere, decidere, oltrepassa le capacità individuali e diventa in una certa misura collettiva e come anonima» (S. WEIL, Réflexions sur les Causes de la Liberté et de l’Oppression Sociale, Paris, Gallimard 1955, tr. it. Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi 1983, pp. 108-111).
288
Un tentativo di riallacciare il liberalismo newdealista al riformismo populista, incarnati rispettivamente da Franklin
D. Roosevelt e da Andrei Jackson, è presente in A. M. SCHLESINGER JR., The Age of Jackson, Boston, Little, Brown and
Company 1945. Cfr. B. O’CONNOR, A Political History of the American Welfare System: When Ideas Have Consequences, Lanham, Rowan & Littlefield 2003, p. 40.
73
una crescita dei poteri di regolamentazione ed intervento da parte del governo, in modo da controbilanciare la grande industria; individuò nella sicurezza sociale una precondizione per il godimento
pieno dei diritti di libertà e di cittadinanza. Nacque un “nuovo liberalismo”, un liberalismo «pragmatico» che mirava a limitare anche il potere dei privati e non concepiva il libero mercato come un
luogo di interscambio neutrale fra soggetti paritetici 289 .
Tuttavia, malgrado la popolarità che conobbe tra le due guerre, questa declinazione della filosofia politica liberale non soppiantò integralmente altri filoni interni alla medesima tradizione – a
cominciare dal più antico, ancorato agli scritti di Locke e Hume, che concepiva la libertà in termini
essenzialmente negativi, e le istituzioni pubbliche come enti funzionali alla sua protezione 290 . Ciò
accrebbe notevolmente la complessità e l’eterogeneità della famiglia liberale; una caratteristica che
permane tuttora, e che rende opportuno dotarsi di mappe concettuali per orientarsi al suo interno.
Ragionando non più in termini storici, bensì teorici, possiamo tracciare una linea di demarcazione fra liberalismo realista e liberalismo critico 291 . Con questi termini designiamo due poli, due
centri di gravitazione attorno cui si ruotano molteplici versioni, interpretazioni, riformulazioni della
teoria politica liberale, sovente in contrasto tra loro. Tale bipartizione ha un’evidente utilità tassonomica, poiché permette di enucleare le controversie emerse in seno al paradigma liberale, nonché
di abbozzare una topografia – un atlante, nelle parole di Raimondo Cubeddu – della tradizione stessa 292 .
È bene precisare, comunque, che tale impostazione non è l’unica possibile. William A. Galston ha ad esempio distinto un liberalismo dell’autonomia da un liberalismo della diversità. Il primo
pone l’accento sull’esigenza di tutelare la libertà di scelta individuale, anche all’interno di gruppi –
elettivi o meno – di cui il singolo fa parte; il secondo sottolinea con maggior forza l’opportunità di
289
Charles W. Anderson, esplicitamente richiamandosi all’eredità di Dewey e Commons, ha definito il «liberalismo
pragmatico» americano nei termini seguenti: «Il liberalismo pragmatico concerne l’applicazione dei principi liberali alle
varie forme di azione sociale organizzata, ai “modi collettivi di azione” che emergono ed evolvono dando forma e contenuto alla società liberale, altrimenti nulla più che una struttura formale. Possiamo analizzare e criticare le associazioni
e le iniziative alla luce dei valori liberali […]. Il liberalismo pragmatico presume che esista una dimensione “pubblica”
per quanto riguarda istituzioni e associazioni generalmente definite “private” nel liberalismo classico. Per il liberalismo
pragmatico le associazioni umane rappresentano tutte modi per svolgere funzioni pubbliche, e a tutte si applicano i criteri di valutazione propri della vita pubblica» (C. W. ANDERSON, Liberalismo pragmatico, in Biblioteca della Libertà,
vol. XXIII, n. 102, 1988, pp. 39-63, ora in AA.VV., 1980-2000. Vent’anni di cultura liberale nelle pagine di «Bdl»:
un’antologia, vol. I, Biblioteca della Libertà, XXXIX, n. 173-175, 2004, pp. 85-104, spec. 88-89).
290
Negli Stati Uniti, i sostenitori del liberalismo classico si richiamano spesso all’autorità di Thomas Jefferson, e sono
talora classificati come “jeffersoniani”. Esemplare, in questo senso, l’interpretazione del pensiero politico di Jefferson
offerta da J. T. ADAMS, The Living Jefferson, New York, Scribner’s Sons 1936. Sulle origini del “jeffersonismo”, cfr. L.
M. BASSANI, Il pensiero politico di Thomas Jefferson. Libertà, proprietà, autogoverno, Milano, Giuffré 2002, spec. pp.
263-274; E. S. GAUSTAD, On Jeffersonian Liberty, in J. C. BRAUER (ed.), The Lively Experiment Continued, Macon,
Mercer University Press 1987, pp. 85-104.
291
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, Roma, Donzelli 1996, pp. 69-95.
292
Cfr. R. CUBEDDU, Atlante del liberalismo, Roma, Ideazione 1997.
74
tutelare il pluralismo culturale all’interno di una società libera 293 . Privilegiamo, in questa sede, la
distinzione fra liberalismo critico e liberalismo realista non perché essa sia, necessariamente, la
chiave di lettura più valida dei differenti filoni della tradizione liberale; ma perché – sottolineando
alcune significative differenze di natura epistemologica, ed evidenziando un differente atteggiamento verso la sfera economica – permette di mettere a fuoco molti dei tratti peculiari degli autori di
cui, nei paragrafi successivi, ci occuperemo.
Tanto il liberale realista quanto il liberale critico sono favorevoli ad istituzioni politiche basate sul consenso. Entrambi condividono l’assunto secondo cui «le maggiori istituzioni sociali –
quelle politiche, a cominciare dallo stato, ma anche da quelle economiche, a partire dal mercato –
sono legittimate se e solo se esiste un consenso di chi le vive e le pratica, che le giustifichi 294 ». Tale
consenso deve basarsi su preferenze espresse da individui singoli, universalmente concepiti come
indistinguibili l’uno dall’altro. «Il liberalismo filosofico ci appare così come una giustificazione teorica dell’ordine sociale a partire dalla libertà individuale, giustificazione la cui principale caratteristica consiste nell’essere basata su una dottrina consensualista delle istituzioni 295 ».
Sennonché i liberali non concordano sulle modalità di accertamento di tale consenso. A detta del realista, «le istituzioni […] sono giustificate dal consenso effettivo e reale di chi le vive nel
loro ambito. Ogni ulteriore argomento, politico o teorico che sia, pro o contro tale consenso effettuale, sarebbe pretestuoso e magari perverso, perché capace di generare esiti autoritari nella misura
in cui un individuo o un’élite potrebbero adoperarlo a sostegno delle proprie tesi, non sempre condivise dagli altri 296 ». Nella prospettiva realista, è estremamente arduo – per non dire infattibile – sostituire un consenso ipotetico a quello concretamente riscontrabile all’interno di comunità esistenti
ed operanti. Da qui l’insistenza sui limiti e la fallibilità della conoscenza umana: «è impossibile, per
così dire, mettersi nei panni degli altri, come per sostituirsi loro nelle decisioni politiche, anche perché – data la debolezza della ragione umana in generale – non siamo in grado di penetrare nei loro
sentimenti e credenze 297 ». A ciò si aggiunge una scarsa fiducia nell’altruismo e l’individuazione
dell’interesse privato come motore primario dell’agire umano. «Ne segue sovente una forma di di293
Le due diverse interpretazioni del liberalismo, rileva Galston, inducono a promuovere due differenti modelli di associazione libera: «Secondo il modello autonomistico, la libertà di associazione è soggetta al limite che la struttura interna
e le pratiche di tutti i gruppi devono conformarsi ai requisiti dell’autonomia individuale […]. Il modello di diversità
dell’associazione libera basato sulla diversità è molto diverso. Da questa prospettiva, i gruppi possono essere illiberali
nella loro struttura e nelle loro pratiche, finché la libertà di ingresso e di uscita è salvaguardata con zelo da parte dello
Stato» (W. Galston, Two Concepts of Liberalism, in Ethics, vol. 105, n. 3, 1995, pp. 516-534, spec. p. 533).
294
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., pp. 70-71.
295
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., p. 71.
296
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., ibidem.
297
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., ibidem.
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scontinuismo tra etica e politica […], che privilegia la realtà delle istituzioni e della storia, rispetto
ad una fondazione morale, come base della libertà. Siamo al cospetto, in sostanza, di un liberalismo
realista, attento alla storia, preoccupato del disegno istituzionale, tendenzialmente economicistico,
motivazionalmente prudente, antropologicamente pessimistico ed epistemologicamente scettico 298 »
Al contrario, secondo il liberale critico, è possibile ed auspicabile «cercare di andare oltre le
preferenze effettuali, anche perché il modo in cui le preferenze si formano non è ritenuto irrilevante
allo scopo di considerarle significative rispetto alla giustificazione dell’ordine 299 ». Diventa prioritario comprendere il contesto entro cui le preferenze effettive si sono formate, poiché condizioni di
vita improprie o discriminazioni possono averle rese inautentiche o scarsamente rappresentative. Si
può, pertanto, giungere a sostituire il consenso concreto con uno ipotetico, puramente razionale, che
riproduca ciò che gli individui avrebbero realmente scelto, se posti in condizioni di eguaglianza. Un
simile sforzo sottende, come è ovvio, un certo grado di fiducia nella razionalità individuale, un minor pessimismo epistemologico ed una connessione più stretta fra etica e politica. «Siamo al cospetto, in sostanza, di un liberalismo critico, più filosofico che politico, meno realistico e più idealistico,
più basato sull’etica che sull’economia, motivazionalmente più ricco, antropologicamente più ottimista ed epistemologicamente più fiducioso 300 ».
Tutto ciò si ripercuote sul diverso atteggiamento dei liberali nei confronti delle altre culture
politiche. «Il liberalismo realista che parte dalle preferenze effettuali, infatti, tende a prendere molto
sul serio la storia istituzionale e la cultura tramandata, e quindi è limitrofo al rispetto della tradizione, che è tipico del conservatorismo […]. Inoltre, per la sua stessa natura, il liberalismo realista insiste sulle preferenze delle persone così come sono. Non è, quindi, particolarmente interessato a progetti di emancipazione individuale o sociale, o perlomeno ritiene che questi possano avvenire soltanto in maniera spontanea. L’interazione tra i privati, e non la sfera pubblica, viene così di solito
considerata il luogo reale dell’integrazione sociale e della partecipazione concreta alla vita collettiva 301 ». Viceversa, il liberalismo critico si avvicina al radicalismo, «poiché la visione normativa di
ciò che si dovrebbe preferire in condizioni ideali rassomiglia a una teoria critica e revisionista dei
bisogni 302 ». La sfera pubblica, anziché quella privata, diviene l’ambito primario entro cui individui
e comunità possono emanciparsi o autorealizzarsi, e non soltanto soddisfare interessi reciproci.
298
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., pp. 71-72.
299
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., p. 72.
300
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., ibidem.
301
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., p. 73.
302
S. MAFFETTONE, Liberalismo filosofico contemporaneo, in S. MAFFETTONE, S. VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, op. cit., ibidem.
76
La distinzione fra realisti e critici ci permette di inquadrare in modo adeguato la riscoperta
del liberalismo classico operata in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu, questa, una
congiuntura storica in cui la sensibilità degli autori liberali progressivamente slittò dal polo critico
verso il polo realista. Il liberalismo “antico” – l’unico, secondo intellettuali come Hayek o Mises,
che potesse essere considerato tale 303 – pareva offrire un argine più sicuro contro il marxismoleninismo, una dottrina variamente descritta come iperdemocratica, democratico-totalitaria, iperrazionalista, ultraegualitaria 304 . Al cospetto della minaccia collettivista, la libertà negativa teorizzata
da Isaiah Berlin – «l’area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da altri» – garantiva una trincea robusta, una linea Maginot da contrapporre alle velleità progettuali e riformatrici di
filosofi e ideologues 305 . Una concezione, questa, che non avrebbe entusiasmato le masse, né soddisfatto gli intellettuali radicali, ma che costituiva pur sempre – come il liberalsocialista Norberto
Bobbio non cessava di ricordare agli esponenti del marxismo teorico italiano – una condizione indispensabile affinché esistesse un sistema realmente democratico-rappresentativo, e la partecipazione
dei cittadini non si trasformasse in un rito di genuflessione plebiscitaria innanzi ai governanti 306 .
In che modo si realizzò questo riavvicinamento al polo realista? Esso prese le mosse, anzitutto, da un riesame della cultura illuminista settecentesca. Poiché il comunismo – diversamente dal
303
Hayek distingue fra liberalismo evoluzionistico, di matrice anglosassone, e liberalismo razionalistico, prevalentemente continentale. Quest’ultimo, tuttavia, è spesso raffigurato come una degenerazione del primo, anziché come una
sua variante (Cfr. F. A. VON HAYEK, Liberalism, in New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of
Ideas, Chicago, University of Chicago Press 1978, pp. 119-151). Per la critica hayekiana al liberalismo continentale,
cfr. D. P. O’ BRIEN, Hayek as an Intellectual Historian, in J. BIRNER, R. VAN ZIJP (ed.), Hayek, Co-ordination and Evolution: His Legacy in Philosophy, Politics, Economics, and the History of Ideas, London, Routledge 1994, pp. 343-374,
spec. pp. 351-355. Non dissimile la visione di Mises (Cfr. L. VON MISES, Liberalism: the Classical Tradition (1a ed.
1927), Indianapolis, Liberty Fund 2005, pp. 198-201).
304
La convergenza fra marxismo, illuminismo radicale e millenarismo era stata sostenuta, già negli anni ’30, da Carl L.
Becker, in un volume di grande fortuna editoriale (C. L. BECKER, The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers, New Haven, Yale University Press 1932). Non stupisce che gli scritti di Becker – scomparso nel 1945 – siano
stati abbondantemente riscoperti nel corso degli anni ’50, allorché prese piede una lettura fortemente critica della Rivoluzione francese (cfr., ad es., C. W. SMITH, Carl Becker: On History and the Climate of Opinion, Ithaca, Cornell
University Press 1956).
305
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, Oxford, Clarendon Press 1958, tr. it. Due concetti di libertà, in Libertà, Milano,
Feltrinelli 2005, pp. 169-222, spec. p. 172. La metafora della linea Maginot applicata al concetto di libertà negativa
compare in C. TAYLOR, What’s Wrong with Negative Liberty, in A. RYAN (ed.), The Idea of Freedom, Oxford, Oxford
University Press 1979, pp. 175-193, tr. it. Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in I. CARTER, M. RICCIARDI (a cura di), L’idea di libertà, Milano, Feltrinelli 1996, pp. 75-99, spec. p. 80.
306
«La volontà come autonomia presuppone una situazione di libertà come non impedimento. In altre parole, una generale situazione di larga liceità è condizione necessaria per la formazione di una volontà autonoma. Si può dare una società in cui i cittadini godano di certe libertà senza averle essi stessi volute (si pensi alle costituzioni octroyées). Non
può esistere una società in cui i cittadini diano origine ad una volontà generale nel senso rousseauiano senza esercitare
alcuni fondamentali diritti di libertà» (N. BOBBIO, Politica e cultura (1a ed. 1955), Torino, Einaudi 2005, pp. 146-147).
Su una linea sostanzialmente analoga, argomentava Sartori: «La messa a fuoco del problema della libertà politica è
quella liberale, poiché è la libertà da e non la libertà di che segna la demarcazione tra libertà ed oppressione politica.
Quando si definisce la libertà come un “potere di”, il potere di libertà (dei cittadini) ed il potere di coercizione (dello
Stato) tornano a commescolarsi, e non c’è più modo di distinguere il problema dei limiti e del controllo sul potere politico, da quello inverso del controllo e dei vincoli imposti dal potere politico. La libertà al positivo si può adoperare in
tutte le direzioni e per qualsiasi scopo; è solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non impedimento,
che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro» (G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino 1957, pp. 208-209).
77
nazionalsocialismo – non si prestava ad essere liquidato come un puro e semplice cedimento alla
barbarie, diveniva essenziale inquadrarne le origini all’interno della tradizione filosofica occidentale. Comprensibilmente, l’attenzione fu attratta dalla Rivoluzione francese e dalla sua involuzione
terroristica sotto Robespierre. Il giacobinismo venne interpretato come l’antecedente più prossimo
del leninismo, mentre la dittatura della Comitato di Salute Pubblica segnò, simbolicamente, il punto
di rottura fra liberalismo costituzionale e radicalismo egualitario 307 .
In modo pressoché consequenziale, i liberali classici riscoprirono la figura di Edmund Burke. Egli era stato, sì, l’inflessibile censore degli avvenimenti del 1789-1790, ma aveva anche simpatizzato per la rivoluzione americana – una «rivoluzione costituzionale», basata sulla difesa di antiche guarentigie e poteri locali, e non un salto nel buio compiuto sulla base di teorie puramente astratte 308 . Burke, inoltre, forniva solidi strumenti epistemologici contro il razionalismo “forte”. La
visione burkeana dello sviluppo istituzionale si ispirava a principi scettici e fallibilisti, ed era naturalmente diffidente verso ogni tentativo di “direzione cosciente” dell’ordine sociale. Ragioni non
troppo dissimili regalarono al cattolico liberale Lord Acton una rinnovata popolarità nell’America
dei primi anni ’50 309 .
Parallelamente, venne teorizzato l’abbandono di un’antropologia ottimistica e di ogni concezione che vedesse nella politica un campo aperto al dispiegamento di forze compiutamente razionali. Il problema del male, associato alla corruzione della natura umana, assunse un peculiare rilievo
307
La critica al costituzionalismo francese, che indirettamente aveva spianato la strada all’onnipotenza del governo assembleare, poteva, negli Stati Uniti, essere fatta risalire addirittura agli scritti dell’ex presidente John Quincy Adams
(1767-1848), implacabile censore dell’opzione monocamerale (cfr. R. SAMUELSON, John Adams and the Republic of
Laws, in B. P. FROST, J. SIKKENGA (ed.), History of American Political Thought, Lanham, Lexington Books 2003, pp.
114-131).
308
Rielaborando tesi già esposte nel suo The American Revolution: a Constitutional Interpretation (1924), lo storico di
Harvard Charles H. McIlwain ribadiva nel 1940 lo stretto rapporto fra antico costituzionalismo inglese e moderno costituzionalismo americano. Il punto di raccordo era rappresentato proprio dall’autore delle Reflections on the Revolution in
France: «Nel 1791 Burke, mentre combatteva le dottrine estremiste dei radicali, riaffermava espressamente la sua antica
opinione che gli americani, nella loro lotta contro l’Inghilterra, erano stati “nella medesima relazione con l’Inghilterra in
cui questa si era stata con Giacomo II nel 1688”» (C. H. MCILWAIN, Constitutionalism: Ancient and Modern, Ithaca,
Cornell University Press 1940, tr. it. Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, Il Mulino 1990, p. 30). Le interpretazioni «costituzionali» della Rivoluzione americana sono ampiamente discusse in N. MATTEUCCI, La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, Il Mulino 1987.
309
Rivelatore, a riguardo, un giudizio di Hayek: «Nel diciannovesimo secolo, l’individualismo vero è stato rappresentato in maniera esemplare nell’opera di due dei più grandi storici e filosofi della politica vissuti in quell’epoca: Alexis de
Tocqueville e Lord Acton. Mi sembra che questi due uomini abbiano sviluppato quello che vi era di meglio nella filosofia politica dei filosofi scozzesi, di Burke e dei whig inglesi, con più successo di qualsiasi altro scrittore io conosca» (F.
A. VON HAYEK, Individualism: True and False, London, Routledge & Kegan Paul 1949, tr. it. Individualismo: quello
vero e quello falso, Soveria Mannelli, Rubbettino 1997, pp. 42-43). Ed è parimenti significativo che Gertrude Himmelfarb, autrice di un importante studio su Acton nel 1952, abbia in seguito contrapposto l’illuminismo angloamericano di
Hume e Burke, rispettoso dei diritti individuali e dei costumi tradizionali, a quello di ascendenza francese, anarchico e
dispotico (Cfr. G. HIMMELFARB, Lord Acton: a Study in Conscience and Politics, Chicago, University of Chicago Press
1952; G. HIMMELFARB, The Roads to Modernity: the British, French, and American Enlightenments, New York, Knopf
2004).
78
nella trattazione delle relazioni internazionali, alle cui sfide l’idealismo liberaldemocratico pareva
offrire risposte inadeguate 310 .
Con ciò, la transizione del mainstream liberale dal polo critico al polo realista poteva dirsi
compiuta. L’interesse prioritario dei teorici si concentrò sull’individuazione del livello minimo di
coercizione richiesta per il mantenimento di una società libera: un’impostazione che, enfatizzando il
rapporto oppositivo fra individuo e Stato, si riallacciava al costituzionalismo ottocentesco 311 . Anche
i presupposti universalistici al cuore del liberalismo vacillarono. Occorreva elaborare una «più profonda, più realistica versione del liberalismo, emendata […] dalle aspettative compiacenti del XVIII
e XIX secolo, che si dedicasse non alla creazione di un’utopia cosmopolita, ma alla difesa di una
umana gestione delle scelte difficili, il che è inseparabile dalla condizione umana 312 ». A questo scopo le teorie pluraliste – esaltando la diversità e svalutando il potenziale creativo della ragione –
permettevano di creare un solco fra la tradizione liberale e l’idea di progresso, emancipando la prima da una filosofia della storia che, dati ormai per assodati i rapporti fra Illuminismo e totalitarismo, veniva percepita come destabilizzante ed ingombrante 313 .
Esamineremo ora in modo più dettagliato questa parabola, soffermandoci su alcune opere
salienti, pubblicate tutte nel 1952. Tale coincidenza cronologica risulta nel contempo casuale e significativa. Casuale, perché gli autori di cui ci occuperemo (riconducibili tutti, sia pure con molte
precauzioni e distinguo, al campo liberale) elaborarono i loro scritti indipendentemente l’uno
310
Un acuto pessimismo antropologico accomunava tanto Reinhold Niebuhr, di cui ci occuperemo, quanto Hans J. Morgenthau, altro grande esponente della tradizione realista non appartenente al filone liberale: neoagostiniano quello del
primo; di derivazione hobbesiana quello del secondo (sul realismo hobbesiano di Morgenthau, cfr. M. C. WILLIAMS,
The Realist Tradition and the Limits of International Relations, Cambridge, Cambridge University Press 2005, pp. 82127, spec. 125-127).
311
Nel 1989, Judith Shklar – che già rifletteva su questi temi fra gli anni ’50 e ’60 – avrebbe coniato l’efficace dizione
«liberalismo della paura» per proporre un’interpretazione del liberalismo che insisteva, in modo quasi esclusivo, sulla
tutela delle minoranze, sì da farle uscire da una condizione di minorità e angoscia. Secondo Shklar, «il liberalismo deve
mantenersi ristretto nel campo della politica e limitarsi a reprimere gli abusi di potere, in modo da rimuovere il fardello
della paura e del privilegio dalle spalle di donne e uomini adulti, cui va permesso di condurre le proprie vite in accordo
con le loro credenze e preferenze, almeno finché non impediscono agli altri di fare lo stesso» (J. SHKLAR, Liberalism of
Fear in N. ROSENBLUM, Liberalism and the Moral Life, Cambridge, Harvard University Press 1989, pp. 21-38, spec. p.
31). Shklar, al pari di altri liberali degli anni ’50, può essere considerata una sostenitrice della moralità negativa, poiché
compito primario della politica è, a suo avviso, «l’estirpazione o la minimizzazione della crudeltà, il summum malum»
(J. ALLEN, The Place of Negative Morality, in Political Theory, vol. 29, n. 3, 2001, pp. 337-363, spec. p. 340). L’impatto dell’esperienza totalitaria sui suoi scritti è evidenziato in M. WALZER, On Negative Liberalism, in B. YACK (ed.), Liberalism Without Illusions: Essays on Liberal Theory and the Political Vision of Judith N. Shklar, Chicago, University
of Chicago Press 1996, pp. 17-24, in cui il liberalismo di Shklar – ebrea lettone fuggita dal paese durante l’occupazione
hitleriana – viene definito «una barriera contro il nazismo in particolare e contro la polizia segreta in generale» (spec. p.
17).
312
Questo giudizio, formulato da George Crowder a proposito di Isaiah Berlin, ben sintetizza, a mio avviso, un’esigenza
condivisa dai principali autori liberali del tempo (G. CROWDER, Isaiah Berlin: Liberty and Pluralism, Cambridge, Polity 2004, p. 2).
313
Sul rapporto fra liberalismo e pluralismo, cfr. J. GRAY, Agonistic Liberalism e From Post-Liberalism to Pluralism, in
G. W. SMITH (ed), Liberalism: Critical Concepts in Political Theory, vol. 4, London-New York, Routledge 2002, pp. 326; 27-39.
79
dall’altro, fatta salva un’eccezione 314 . Significativa, perché appunto tale indipendenza testimonia
quanto profonda fosse la crisi del liberalismo critico, posto in discussione da più voci, nonché da
prospettive molteplici.
II. C’est la faute à Rousseau: la critica all’Illuminismo giacobino
II.1 Isaiah Berlin e i nemici della libertà umana
Nell’autunno del 1952 il Terzo Programma radiofonico della BBC trasmise un ciclo di conferenze intitolato Freedom and Its Betrayal. Le sei puntate, ognuna delle quali incentrata su un pensatore politico del XVIII o del XIX secolo, riscossero un notevole successo di pubblico e garantirono una certa popolarità all’oratore ed autore dei testi, il quarantatreenne Isaiah Berlin 315 .
Promettente accademico ad Oxford, Berlin fornì un’interpretazione del razionalismo settecentesco ad influire profondamente sulla cultura politica conservatrice e liberale moderata 316 . Dei
sei nemici della libertà scelti da Berlin, due – Helvétius e Rousseau – erano ascrivibili alla tradizione illuminista; altri due – Fichte ed Hegel – avevano ammirato la rivoluzione francese; Saint-Simon
era stato un estimatore di Voltaire, mentre De Maistre, il grande controrivoluzionario, aveva compreso così a fondo la sfida rappresentata dai Lumi da poter esser considerato «ultramoderno, nato
non tanto dopo quanto prima della sua epoca 317 ».
Berlin non credeva che all’origini delle tragedie novecentesche vi fosse il culto della Dea
Ragione; o, per meglio dire, che il culto della Dea Ragione fosse sufficiente a spiegarne le origini.
Come ha chiarito George Crowder, «l’archeologia berliniana del totalitarismo, che aveva avuto inizio con il moderno tradimento della libertà ed era continuata con lo studio dello scientismo illuminista e la successiva reazione controilluminista, raggiunge il suo livello più profondo con l’analisi
del monismo morale. Secondo Berlin, le radici dei peggiori orrori del ventesimo secolo non affon314
L’eccezione è rappresentata da Talmon, che ebbe contatti con Berlin già nel 1947, e col quale condivise alcune idee
destinate ad incidere sulla stesura di The Origins of Totalitarian Democracy (cfr. G. GRAEME, Counter-enlightenments:
From the Einghteenth-Century to the Present, London-New York, Routledge 2006, pp. 91-92). Berlin ha rievocato il
proprio rapporto con Talmon in un breve articolo commemorativo (I. BERLIN, A Tribute to My Friend, Forum, n. 38,
1980, pp. 1-4).
315
Le conferenze furono successivamente raccolte e pubblicate dal curatore delle opere di Berlin, Henry Hardy, nel volume I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University
Press 2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, Milano, Adelphi 2005.
316
Sino ad allora poteva dirsi paradigmatica la rappresentazione dualista della democrazia liberale esposta – sempre dal
1952 – da George H. Sabine. Da un lato, vi era la tradizione anglosassone, humeana e burkeana, imperniata sulla libertà
individuale e il governo costituzionale, dall’altro quella continentale, riconducibile a Rousseau, che valorizzava i diritti
di cittadinanza e la sovranità popolare. Sennonché, per Sabine i due modelli si completavano vicendevolmente, e la moderna democrazia liberale poteva essere descritta come un virtuoso compromesso fra queste due anime (G. SABINE, The
Two Democratic Traditions, in Philosophical Review, n. 61, 4, 1952, pp. 451-474).
317
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 205.
80
dano soltanto nelle nozioni di libertà positiva, o nei sogni di pianificazione tecnocratica
dell’Illuminismo, né nell’irrazionalismo di pensatori come Maistre e Hamann, ma nella credenza,
centrale nella filosofia occidentale, secondo cui tutte le domande hanno una sola risposta, e tutte le
risposte si combinano l’una con l’altra in un’unica, sistematica configurazione della realtà 318 ». E
tuttavia, ciò malgrado – o forse proprio per questo – Berlin non vedeva nella dicotomia Illuminismo
/ Antilluminismo una contrapposizione fra civiltà e barbarie, quanto piuttosto una dialettica fra due
movimenti di idee contrapposti, all’interno dei quali operava – sia pure a livelli ed intensità diverse
– la vocazione monista 319 .
In cosa consistesse, questa vocazione, Berlin lo chiarì in numerosi dei suoi saggi, non ultimo
un breve resoconto autobiografico in cui, a molti anni di distanza dalle conferenze del 1952, descrisse il proprio atteggiamento nei confronti del razionalismo settecentesco. Il passo merita di essere riportato integralmente, perché trasmette efficacemente il senso di distacco e di sfiducia con cui
Berlin guardava alle certezze implicite nella filosofia dei Lumi:
Abbagliati dagli spettacoli successi delle scienze naturali nel loro secolo e in quelli
che l’avevano preceduto, uomini come Helvétius, d’Holbach, d’Alembert e Condillac, e propagandisti di genio come Voltaire e Rousseau, si convinsero che una volta
scoperto il metodo giusto sarebbe stato possibile portare alla luce la verità essenziale nel campo della vita sociale, politica, morale e personale – quel tipo di verità che
aveva ottenuto così grandi trionfi nelle indagini rivolte al mondo esterno. Gli Enciclopedisti credevano nel metodo scientifico in quanto unica chiave per accedere a
questa conoscenza: Rousseau e altri credevano in verità eterne scoperte mediante
gli strumenti dell’introspezione. Ma quali che fossero le loro divergenze, essi appartenevano a una generazione convita di essere sulla via che conduceva alla soluzione di tutti i problemi che avevano afflitto l’umanità fin dai suoi inizi.
Al di sotto di quest’idea stava una tesi più ampia: ossia che tutte le vere domande
debbono ammettere una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo false; altrimenti le domande non possono essere autentiche domande. Non può non esistere
una via che conduce chi pensa con chiarezza a trovare le risposte giuste a queste
domande, nei mondi della morale, della politica e della società non meno che in
quello delle scienze naturali, si tratti oppure no dello stesso metodo; e una volta riunite insieme tutte le risposte giuste alle più profonde domande morali, sociali e
politiche che occupano (o dovrebbero occupare) l’umanità, il risultato costituirà la
soluzione finale di tutti i problemi dell’esistenza. Naturalmente, può darsi che non
troveremo mai queste risposte: è possibile che gli esseri umani siano troppo confusi
dalle loro emozioni, o troppo stupidi, o troppo sfortunati per essere in grado di arrivarci; o può darsi che le risposte siano troppo difficili, i mezzi inadeguati, le tecniche troppo complicate da scoprire; ma comunque sia, se le domande sono autentiche domande, le risposte debbono esistere. Se noi non riusciamo a conoscerle, ci
riusciranno forse i nostri successori, e se neppure loro ci riusciranno, allora Adamo
nel Paradiso le conosceva, o se non lui gli angeli; e se neppure gli angeli sanno le
318
G. CROWDER, Isaiah Berlin: Liberty and Pluralism, op. cit., p. 125.
Appare riduttiva, quindi, la sintesi offerta da Enzo Traverso, secondo cui Berlin concepirebbe il totalitarismo come
un «prolungamento dell’eredità dell’anti-illuminismo» (E. TRAVERSO, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano,
Bruno Mondadori 2002, p. 108). In verità, per Berlin, il totalitarismo affonda le proprie radici tanto nell’antiilluminismo quanto nell’illuminismo, essendo un precipitato della tendenza monista che attraversa l’intera filosofia occidentale.
319
81
risposte, sicuramente Dio le conosce – insomma, le risposte non possono non esistere.
Se le risposte alle domande sociali, morali e politiche vengono scoperte, allora, conoscendole per ciò che sono – ossia la verità – gli uomini non potranno non seguirle, perché non saranno minimamente tentati di agire in modo diverso. Una vita perfetta può dunque essere concepita. Magari non è raggiungibile ma in linea di principio deve potersene formare il concetto – in effetti, non si non può credere, per
motivi di principio, nella possibilità di scoprire le uniche risposte vere alle grandi
domande dell’umanità.
Era, questa, una tendenza non circoscrivibile all’Illuminismo, poiché coinvolgeva l’intera
tradizione occidentale: tendenza, però, che l’Illuminismo aveva radicalizzato, in virtù del proprio
scientismo 320 . Berlin concludeva con una significativa notazione personale relativa al monismo:
«Non so perché io abbia sempre guardato con scetticismo a questa credenza pressoché universale,
ma è così. Può essere una questione di temperamento, ma è un fatto 321 »
L’autore che più di ogni altro aveva declinato in senso autoritario il proprio razionalismo era, a detta di Berlin, Jean-Jacques Rousseau. Nella sua lecture del 1952, Berlin contestò anzitutto
l’interpretazione di quanti, facendo dell’autore del Contratto Sociale un protoromantico, sottovalutavano il ruolo che egli conferiva alla ragione. Essa poteva al contrario offrire, secondo Rousseau,
una soluzione definitiva e permanente ai principali problemi di ordine etico, politico o sociale.
«Come nelle scienze una risposta vera data da uno scienziato sarà accettata da tutti gli altri scienziati che siano altrettanto ragionevoli, così in etica e in politica la risposta razionale è la risposta giusta:
la verità è una, soltanto l’errore è molteplice322 ». Il problema che assillava Rousseau era la conciliazione di libertà individuale ed obbligazione politica. Dove si situava il punto di equilibrio? Questo
era l’interrogativo al centro della riflessione contrattualista, da Hobbes a Locke. «Era giocoforza arrivare a un compromesso; e la soluzione (l’individuazione di una linea di confine) la si trovava in
armonia con quella che a ciascuno sembrava essere la vera costituzione della natura umana 323 ».
Quest’approccio, tuttavia, appariva del tutto insoddisfacente a Rousseau. Poiché dignità umana e libertà coincidevano, e la libertà presupponeva una completa capacità di autodeterminazione, qualsiasi compromesso fra libertà ed autorità andava respinto. «Cedere “un poco” della nostra libertà è
come morire un poco, disumanizzarci un poco […]. La libertà dell’uomo – la sua capacità di sce-
320
Col termine «scentismo» Berlin indica la pretesa di applicare i metodi delle scienze naturali allo studio dei processi
sociali. L’antiscentismo di Berlin – più radicale di quello di Popper e di Hayek – lo indusse a respingere anche il modello di spiegazione nomologico-deduttivo di Carl G. Hempel, nonché la pretesa di oggettività delle scienze sociali (cfr. E.
DI NUOSCIO, Il mestiere dello scienziato sociale. Un’introduzione all’epistemologia delle scienze sociali, Napoli, Liguori 2006, pp. 57-58).
321
I. BERLIN, My Intellectual Path, in New York Review of Books, n. XLV, 8, 1998, ora in The Power of Ideas, Princeton, Princeton University Press 2000, tr. it. Il potere delle idee, Milano, Adelphi 2003, pp. 28-31.
322
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 60.
323
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 63.
82
gliere i propri fini in piena indipendenza e autonomia – è per Rousseau un valore assoluto; e dire di
un valore che è assoluto equivale a dire che nessun compromesso è possibile a suo riguardo 324 ».
Come si concilia il valore assoluto della libertà con le imposizioni derivanti dalla vita in società? La questione sembrerebbe irrisolvibile poiché, per Rousseau, le leggi umane non sono espedienti convenzionali od utilitari per assicurare l’ordine; esse esprimono, al contrario, dettami razionali, cui l’uomo intimamente sente, per ragioni di coscienza, di doversi sottomettere. «Ci troviamo
così di fronte a un paradosso. Abbiamo due valori assoluti: il valore assoluto della libertà e il valore
assoluto delle regole giuste. E non ci è lecito alcun compromesso fra i due […]. Né l’uno né l’altro
dei due principi assoluti permette deroghe: derogare dalla libertà significa uccidere l’anima immortale dell’uomo; derogare dalle regole significa accettare qualcosa di assolutamente sbagliato, assolutamente cattivo, assolutamente perverso 325 ».
Non potendo scegliere fra autorità e libertà, Rousseau giunse così a sostenere che libertà e
autorità coincidevano. Alla stregua di un «matematico folle, il quale abbia trovato una soluzione
non già semplicemente vera, ma dimostrabile mediante regole logiche talmente ferree che nessuno
riaprirà mai più la questione 326 », egli descrisse il loro contrasto come apparente: i due valori assoluti, in verità, non entravano in conflitto, poiché erano la stessa cosa.
La dottrina della volontà generale era l’espediente unanimistico con cui Rousseau conciliò
libertà e coercizione, fondendo l’una nell’altra. «Tale coincidenza deriva dal fatto che se si vuole
che gli uomini siano al contempo liberi e capaci di vivere insieme in società e di obbedire alla legge
morale, bisogna che vogliano soltanto ciò che la legge morale comanda 327 ». Da un lato esistono le
pulsioni egoistiche, atomistiche, individualiste, ciò che gli uomini apparentemente desiderano e che
li porta a scontrarsi gli uni con gli altri; ma, ad un livello più intimo e profondo, esiste una volontà
autentica, davvero razionale, intrinsecamente buona, pienamente compatibile con la ragione e la volontà altrui. È questa la teoria che Berlin definisce dell’“io reale”, e che Rousseau ha lasciato in eredità a tutte le ideologie autoritarie e illiberali dei secoli XIX e XX. «Costringere un uomo a essere
libero significa costringerlo a comportarsi in una maniera razionale. Un uomo libero è un uomo che
ottiene ciò che vuole; e ciò che realmente vuole è un fine razionale. Se non vuole un fine razionale,
non si può dire che voglia davvero; se non vuole un fine razionale, ciò che vuole non è una vera libertà, ma una falsa libertà […]. Non c’è alcun motivo per cui agli esseri umani si debbano offrire
324
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford,
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 67.
325
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford,
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 70.
326
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford,
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 73.
327
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford,
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 81.
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delle scelte, delle alternative, quando l’alternativa giusta è una sola. Non c’è dubbio che debbano
scegliere, poiché se non scelgono non sono spontanei, non sono liberi, non sono esseri umani; ma se
non scelgono l’alternativa giusta, se scelgono l’alternativa sbagliata, è perché non è attivo il loro vero io. Non sanno ciò che cos’è il loro vero io mentre io, che sono saggio, che sono razionale, che
sono il grande e benevolo legislatore – io lo so 328 ».
Con ciò, Rousseau – mosso dall’esigenza di tutelare la libertà assoluta, una libertà integrale
ed incorrotta – aveva finito con l’avallare un benevolente collettivismo paterno, che negava alla radice ogni legittimo dissenso e giustificava l’onnipotenza dei governanti. Era stato, paradossalmente,
il suo sincero e smisurato amore per la libertà umana a farlo diventare «uno dei più sinistri e formidabili nemici della libertà nell’intera storia del pensiero moderno 329 ».
II.2 Jacob L. Talmon e la democrazia totalitaria
Un’interpretazione ampiamente convergente con quella di Berlin, esposta però in più forma
sistematica, venne proposta dallo storico israeliano Jacob Talmon nel fortunato The Origins of Totalitarian Democracy 330 . Talmon – nato in Palestina nel 1916, studi a Parigi e a Londra sul tema del
messianesimo nell’età medioevale 331 – scorgeva nel XVIII secolo un periodo storico contraddistinto non dalla semplice involuzione degli ideali democratici, bensì dalla nascita di una vera e propria
teoria democratico-totalitaria contrapposta a quella tradizionale, di ascendenza liberale. «In realtà,
secondo la prospettiva più ampia e valida della metà del ventesimo secolo», notava in apertura, con
un occhio all’Unione Sovietica, «la storia degli ultimi centocinquant’anni sembra una preparazione
sistematica per il grave conflitto tra democrazia empirica e democrazia liberale da una parte e democrazia totalitaria e messianica dall’altra, conflitto in cui consiste la crisi mondiale contemporanea 332 ».
La democrazia empirica e liberale «procede per tentativi ed errori, e considera i sistemi politici espedienti pragmatici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uomo», senza avere la pretesa
di realizzare una completa eguaglianza in ogni sfera dell’esistenza umana. La democrazia messianica e totalitaria, al contrario, muove dal presupposto dell’esistenza di una «sola e assoluta verità
328
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., pp. 86-87.
329
I. BERLIN, Freedom and Its Betrayal: Six Enemies of Human Liberty, Princeton-Oxford, Princeton University Press
2002, tr. it. La libertà e i suoi traditori. Sei nemici della libertà umana, op. cit., p. 88.
330
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino 2000.
331
Sulla vita ed il pensiero politico di Talmon, cfr. M. HACOHEN, Jacob Talmon Between Zionism and Cold War Liberalism, in History of European Ideas, vol. 34, n. 2, 2008, pp. 146-157.
332
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 5.
84
politica», conoscibile e realizzabile. Essa opera conseguentemente in modo dogmatico, applicando
rigidamente alla realtà principi dottrinari e astratti, affinché, presto o tardi, un ordine definitivo ed
immanente, compiutamente armonico e depoliticizzato, si instauri fra gli uomini. Così, mentre la
democrazia liberale si batte per la riduzione della coercizione, e ritiene che l’armonia ideale sia raggiungibile unicamente tramite «prove e riprove», in un futuro indefinito, la democrazia totalitaria
non lesina l’imposizione forzata dei propri scopi, considerando a portata di mano il Paradiso Terrestre 333 .
La democrazia totalitaria, secondo Talmon, aveva conosciuto la propria Età dell’Oro in
Francia, negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione. È nell’Illuminismo radicale di Helvétius e Holbach, di Morelly e Mably, che affondano le proprie radici tanto la sanguinosa parentesi
giacobina quanto le manovre cospiratorie del babouvismo. Un ruolo di primo piano spetta, comunque, a Rousseau. «L’amore per la disciplina rappresentava il sogno invidioso del paranoico tormentato 334 » scrive Talmon, riproponendo suggestioni psicologiche già presenti nelle conferenze radiofoniche di Berlin. L’accanimento di Talmon nei confronti di Rousseau è rivelatore della profonda
sfiducia nutrita dall’autore nei confronti dell’intera tradizione del liberalismo razionalistico. Era stato Rousseau ad inculcare nel lessico del contrattualismo una massiccia dose di collettivismo autoritario. Era stato Rousseau a postulare l’esistenza di una volontà generale unica e intelligibile, una
volta accantonati pregiudizi ed interessi particolari. Era stato Rousseau, soprattutto, a scorgere
nell’esercizio della sovranità «la convalida di una verità 335 ». In altri termini, «Rousseau dimostra
chiaramente la stretta relazione tra la sovranità popolare portata all’estremo e il totalitarismo». E ciò
perché aveva sovrastimato, e persino frainteso, gli effetti della partecipazione popolare alla vita
pubblica: «egli era inconsapevole del fatto che l’assorbimento totale e profondamente emotivo nella
attività politica collettiva è destinato a soffocare ogni forma di vita privata, che l’agitazione della
folla riunita può esercitare una forte pressione tirannica e che l’estensione dell’ambito della politica
a tutte le sfere dell’interesse della capacità degli uomini, senza lasciare posto allo svolgimento
dell’attività casuale ed empirica, era la via più breve verso il totalitarismo. La libertà è più sicura
nei paesi in cui la politica non è considerata importantissima e in cui vi sono numerosi livelli di attività apolitica privata e collettiva, sebbene non via tanta democrazia popolare diretta, che nei paesi
in cui la politica supera facilmente ogni cosa e il popolo siede in assemblea permanente 336 ».
333
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., pp. 8-9.
334
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 58.
335
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 65.
336
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 69. Corsivo mio.
85
Lo scetticismo nutrito da Talmon verso le società ad alto tasso di partecipazione politica ben
si conciliava con il suo moderatismo, che trapelava in più punti del testo. Fra le critiche mosse al
giacobinismo, vi era, ad esempio, l’aver trascurato «le forze viventi intangibili e senza forma, le
tradizioni, le sostanze imponderabili, le abitudini, l’inerzia e l’indolente conservatorismo» della natura umana, nonché «le caratteristiche nazionali e locali» che contribuiscono a determinare i caratteri della vita politica di un popolo 337 . Questo atteggiamento trovava piena espressione nelle Conclusioni, che del volume rappresentano una sezione sostanzialmente autonoma, e meritano un’analisi
più accurata.
La democrazia totalitaria, sosteneva Talmon, non aveva cessato di esercitare il proprio influsso sulla cultura occidentale con Robespierre, ma aveva pervaso il marxismo teorico. Anzi, «il
marxismo stesso fu soltanto una, senz’altro la più vitale, delle varie versioni dell’ideale democratico
totalitario, che si sono susseguite negli ultimi centocinquant’anni 338 ». Ideale che, alimentato dal
«sentimento del progresso continuo verso una soluzione del dramma storico», finì col pervertire i
valori dell’individualismo liberale, giacché «ebbe in origine un atteggiamento troppo perfezionista
verso di essi 339 ». Mirando alla distruzione delle istituzioni e alla cancellazione dell’eredità del passato, esso mitizzò l’uomo, spogliandolo «di tutti quegli attributi che non sono compresi nella sua
comune umanità». Così facendo, lo pose interamente alla mercé del potere illimitato e senza freni
dello Stato. Pertanto, se «nel giacobinismo l’individualismo e il collettivismo appaiono insieme per
l’ultima volta, in equilibrio instabile340 », col babouvismo persino l’argine della proprietà privata fu
infranto, e la pretesa di instaurare una ortodossia uniformante fu estesa anche alla sfera economica.
«Prima che il diciottesimo secolo terminasse, l’estremo individualismo si trasformò dunque completamente in un sistema di coercizione collettivista. Tutti gli elementi e tutte le configurazioni della
democrazia totalitaria emersero o si delinearono prima del volgere del secolo 341 ».
Col fallimento della Comune di Parigi, le forze espressione dell’utopismo rivoluzionario in
Occidente erano scese a patti con l’ordine costruito e decisero di competere per la conquista del potere nel rispetto della legge.«Lo spirito rivoluzionario dilagò allora verso est finché trovò la sua sede
337
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., pp. 8-9, pp. 188-189.
338
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 341.
339
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 342.
340
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 343.
341
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 345.
86
naturale in Russia, dove ricevette un nuovo impulso dal risentimento creato da generazioni di oppressione e dalla predisposizione degli Slavi al messianismo 342 ».
Che ammonimento trarre dalle vicende del secolo passato? Secondo Talmon, «la lezione più
importante da trarre da questa ricerca è l’incompatibilità dell’idea di un credo che tutto comprende e
tutto risolve, con la libertà 343 ». Il più grave errore dei sostenitori della democrazia totalitaria era stato concepire la libertà come possibile unicamente nello stadio ultimo della vita politica, ossia nel
momento in cui ogni forma di dissenso o di contestazione è stata rimossa, e dunque l’esercizio della
libertà stessa risulta sterile. «la libertà non ha senso senza il diritto di opporsi e la possibilità di differire». Un simile errore derivava da una visione distorta della natura umana, che aveva indotto i rivoluzionari a vedere nella pluralità delle forme di vita e delle organizzazioni sociali «un cattivo accidente, uno sfortunato residuo, un’aberrazione temporanea». Per Talmon, nelle cui parole è facile
scorgere più di un’eco della filosofia burkeana, «il regno della dottrina esclusiva e tuttavia onnirisolutiva della democrazia totalitaria si oppone agli insegnamenti della natura e della storia». E ciò
perché «la natura e la storia mostrano la civiltà come l’evoluzione di una molteplicità di gruppi dovuti all’esistenza sociale e a tentativi sociali comuni formati storicamente e pragmaticamente, e non
come la realizzazione dell’uomo astratto su un unico piano di esistenza 344 ».
Il pericolo che l’edificazione di nuove istituzioni ad opera di una ristretta cerchia di “eletti”
– siano essi i membri della Convenzione o i moderni pianificatori – finisse per annichilire la spontaneità della vita sociale era per Talmon ancora attuale nell’epoca del Welfare State. Dal momento
che «la questione della libertà è legata indissolubilmente al problema economico», l’accentramento
e l’irrigimentazione economica avrebbero potuto metterla a repentaglio, se non distruggerla. «La libertà», concludeva l’autore, «è meno minacciata dagli sviluppi oggettivi che si verificano per così
dire da soli, e senza alcun contesto di un credo messianico, che da una religione messianica che vede in questi sviluppi una realizzazione solenne 345 ». Forse l’avvento dello Stato assistenziale era
davvero una “necessità storica”, ma ciò non esimeva gli intellettuali dal vigilare sulla sua realizzazione e, nel caso, denunciarne le degenerazioni autoritarie.
III. Commercianti contro ingegneri: Friedrich A. Von Hayek
342
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 346.
343
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., ibidem.
344
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 348
345
J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, London, Secker & Warburg 1952, tr. it. Le origini della democrazia totalitaria, op. cit., p. 349. Corsivo mio.
87
La prudente apertura concessa al Welfare State da Talmon non era condivisa da Friedrich A.
Von Hayek, che nel 1944 l’aveva descritto la pianificazione economica come il primo passo verso
l’instaurazione di regimi totalitari in Occidente346 . Pur essendo favorevole a circoscritte forme di
intervento pubblico, che garantissero la produzione di quei beni che i processi di mercato non avrebbero potuto offrire 347 , Hayek costantemente denunziò i rischi che il progetto assistenziale comportava per una società libera. A suo avviso, tale progetto traeva origine da un’errata interpretazione
dei compiti delle scienze sociali, da cui scaturiva l’illusoria pretesa di poter dirigere e manipolare
liberamente la condotta umana, soprattutto a livello aggregato. Si può dire che l’opposizione hayekiana al razionalismo costruttivista avesse anzitutto un fondamento epistemologico: è la limitata
possibilità di conoscere – che accomuna pianificatori, scienziati sociali e operatori nel mercato – a
rendere impraticabile una direzione dei processi economici che sia allo stesso tempo centralizzata
ed efficiente 348 .
Alla critica della concezione “scientista” delle scienze sociali è dedicata la prima parte di
The Counter-Revolution of Science, raccolta di saggi scritti nel corso degli anni ’40. Nel seguito
dell’opera Hayek ripercorreva le origini dell’impostazione “scientista” nella storia delle idee, concentrandosi sul positivismo di Comte e Saint-Simon 349 .
È forse opportuno rimarcare come la polemica antiscientista di Hayek non fosse rivolta contro i metodi della scienza naturale in sé e per sé, ma contro la loro acritica trasposizione nel campo
346
Cfr. F. A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, Chicago, Chicago University Press 1944. Sulla ricezione dell’opera
negli Stati Uniti, cfr. T. ROSENHOF, Freedom, Planning and Totalitarianism: The Reception of F. A. Hayek’s «Road to
Serfdom», in Canadian Review of American Studies, n. 5, 1974, pp. 149-165. Significativo è il commento al libro che
Charles E. Merriam (cfr. cap. II, par. I.III), formulò, in presenza di Hayek, nel corso di una trasmissione radiofonica:
«Mi occupo di pianificazione da circa quaranta anni – pianificazione a Chicago, pianificazione statale, pianificazione
regionale, pianificazione nazionale a Washington – e non mi pare che la nostra pianificazione stesse portando alla
schiavitù, anzi portava piuttosto alla libertà, all’emancipazione, ai più elevati livelli della personalità umana. Ritengo
che questo libro non sia particolarmente significativo nel nostro campo eccetto per il fatto che tende a confondere le
persone riguardo al significato della pianificazione in questo paese» (il giudizio di Merriam è riportato in F. A. VON
HAYEK, Hayek on Hayek. An Autobiographical Dialogue, Chicago, University of Chicago Press 1994, pp. 97-98).
347
Secondo Raimondo Cubeddu, Hayek «ritiene che per produrre alcune tipologie di beni, i cosiddetti collective goods,
lo Stato sia indispensabile. Hayek individua la distinzione tra teoria liberale e teoria democratica nel fatto che mentre la
prima tende a porre dei limiti alla produzione politica di collective goods, la teoria democratica non si occupa di stabilire un limite e lo delega al risultato di una competizione elettorale» (R. CUBEDDU, Hayek tra Menger e Mises in U. TERNOWETZ (a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003,
pp. 65-96, spec. p. 75). Sulla necessità – sottolineata da Hayek – di azioni governative a tutela dei soggetti più deboli,
esclusi dal mercato, ha insistito Dario Antiseri (cfr. ad es. D. ANTISERI, Ragioni della razionalità. Proposte teoriche,
Soveria Mannelli, Rubbettino 2004, pp. 432-434).
348
Nelle parole di John Gray, secondo Hayek «l’impossibilità del socialismo è epistemologica. Non è un problema di
motivazioni o di volontà, di egoismo o della limitata simpatia che intercorre fra uomini e donne, ma dell’incapacità di
qualsiasi ordine sociale in cui il mercato sia stato soppresso o distorto di utilizzare in modo efficace le conoscenze pratiche di cui i cittadini dispongono» (J. GRAY, Hayek on Liberty, Oxford-New York, Blackwell 1986, p. 40).
349
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, Firenze, Vallecchi 1967. Su questa parte dell’opera, si veda, a mo’ di introduzione, J. BIRNER,
F. A. Hayek’s Research Programme, in U. TERNOWETZ (a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di
Economia, op. cit., pp. 209-250, spec. pp. 229-234).
88
dell’attività umana 350 . Hayek si curava di aggiungere che, assai spesso, non vi era coincidenza fra i
metodi effettivamente impiegati nel campo delle scienze della natura e quelli che i loro estimatori
tentavano di imporre nel campo delle scienze sociali. Lo scientismo poteva quindi essere correttamente descritto come una riproduzione – spesso distorta – del metodo scientifico, contraddistinta
dalla «meccanica e acritica applicazione di certi abiti di pensiero a campi diversi da quelli nei quali
si sono formati 351 ».
L’atteggiamento scientista comportava, secondo Hayek, l’occultamento di almeno una diversità sostanziale tra scienze naturali e scienze sociali: quella relativa ai rispettivi oggetti
d’indagine. Mentre gli scienziati naturali si occupano di corpi inanimati, e dunque possono – anzi,
debbono – emanciparsi da pregiudizi e credenze fallaci comunemente nutrite nei confronti della natura, le scienze sociali (o morali) non possono trascurare idee e motivazioni che spingono gli uomini
ad orientare la propria condotta in un modo anziché in un altro 352 . Il mondo che interessa la scienza
naturale «non è quello dei nostri concetti o delle nostre sensazioni, quali dati immediati
dell’esperienza. Suo obiettivo è la riorganizzazione di tutta la nostra esperienza del mondo esterno
e, per raggiungerlo, essa è costretta non solo a riplasmare le nostre concezioni, ma anche a far astrazione delle qualità sensibili, sostituendovi una diversa classificazione dei fenomeni 353 ». Viceversa,
le scienze sociali, correttamente intese, si occupano delle «azioni coscienti o riflesse dell’uomo,
quelle cioè compiute da un soggetto che abbia preliminarmente effettuato una scelta fra diverse alternative possibili 354 ». Tali scelte vengono effettuate sulla base non di un «corpus di dottrina dotato
di consistenza e di coerenza proprie», bensì di conoscenze che «esistono soltanto nella forma parziale, diffusa e frammentaria in cui si manifestano nelle innumerevoli menti singole 355 ».
350
Il bersaglio polemico di Hayek, al pari di Mises e del suo maestro Menger, non è il valore conoscitivo della scienza
naturale, bensì «la mitizzazione della scienza e l’attribuzione ad essa di un potere salvifico che la trasforma, in una società laica, nell’equivalente della fede. Nella prospettiva di Hayek la modernità non è quindi il punto d’arrivo di un processo iniziato con la razionalizzazione e con la secolarizzazione del cristianesimo, e giunto alla sua inevitabile conclusione nel relativismo e nel nichilismo. Non si tratta tanto di riconoscere nella modernizzazione l’ineluttabile esito di un
processo, quanto una serie di errori che è possibile evitare di ripetere» (R. CUBEDDU, Friedrich A. Von Hayek, Roma,
Borla 1995, p. 80).
351
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 14.
352
Come riassume Eammon Butler, «i materiali grezzi che dobbiamo analizzare in economia e nelle altre scienze sociali
non sono oggetti fisici, passibili di una descrizione oggettiva senza riferimento agli scopi umani. I materiali grezzi delle
scienze sociali sono gli uomini e le cose come “appaiono” agli uomini. Ogni tentativo di spiegare il comportamento
umano nella comunità, prescindendo dalle attitudini e motivazioni degli uomini stessi, è perciò destinato a fallire» (E.
BUTLER, Hayek – His Contribution to the Political and Economic Thought of Our Time, London, Temple 1983, tr. it.
Friedrich A. Hayek, Pordenone, Studio Tesi 1986, p. 196).
353
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 24.
354
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 27.
355
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 32.
89
Evidenziando l’importanza che le idee rivestono nel campo delle scienze sociali, Hayek precisava come tale rilevanza andasse però circoscritta alle idee costitutive: «mentre nelle scienze della
natura il contrasto fra l’oggetto della ricerca e la spiegazione che ne diamo coincide con l’abituale
distinzione fra le idee e fatti oggettivi, nelle scienze sociali è necessario introdurre una distinzione
fra le idee costitutive, che sono cioè parte integrante dei fenomeni che intendiamo spiegare e le idee
che noi medesimi, o le persone stesse di cui vogliamo spiegare le azioni, possiamo esserci fatti a
proposito di tali fenomeni. Queste ultime idee non sono generatrici di strutture sociali, ma teorie intorno alle strutture stesse 356 ». L’approccio scientista, che tendeva a trascurare l’importanza delle idee del primo tipo, finiva per abbracciare quelle del secondo, fondando le proprie teorie su concezioni puramente speculative dell’ordine sociale 357 .
A questo punto, la critica di Hayek si estendeva dallo scientismo ai suoi parenti più prossimi, il collettivismo metodologico (anticamera di quello politico) e lo storicismo. Ciò che rileva, ai
fini della nostra trattazione, è invece la disamina di uno specifico aspetto della mentalità scientista
denunciata da Hayek: la simpatia per tutto ciò che è coscientemente diretto, deliberatamente progettato; e la susseguente esaltazione della figura dell’ingegnere, la cui figura rappresenterebbe il prototipo dell’illuminato riformatore sociale.
Secondo la mentalità corrente, ampiamente influenzata da idee scientiste, «il fatto che qualcosa non risulti guidato in modo “cosciente” come un tutto, è considerato già di per sé un difetto,
una prova della sua irrazionalità e della necessità di sostituirlo integralmente con qualche congegno
che sia frutto di intenzionale progettazione 358 ». Una recente radicalizzazione di questa tendenza poteva essere riscontrata nella «richiesta di esercitare un controllo cosciente della mente umana 359 »,
riscontrabile in autori come L. T. Hobbhouse, Joseph Needham o Karl Mannheim. Ad accomunarli
era la convinzione «che, studiando la ragione umana dal di fuori come totalità compiuta, si possano
scoprire le leggi del suo sviluppo in maniera più completa e più profonda di quella consentitaci da
una paziente esplorazione di essa dal di dentro, che segua fedelmente lo svolgimento dei processi
nei quali si esplica l’interazione delle menti singole 360 ».
L’atteggiamento iper-razionalistico, che presuppone la possibilità di un’illimitata crescita
delle facoltà intellettive dei soggetti, sconfinava paradossalmente nell’irrazionalismo, nella misura
356
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 39.
357
Sul punto, cfr. D. ANTISERI, Friedrich A. Von Hayek e il compito delle scienze sociali teoretiche, in U. TERNOWETZ
(a cura di), Friedrich A. Von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, op. cit, pp. 27-64, spec. p. 30-33.
358
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 105.
359
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 106.
360
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 107.
90
in cui rifiutava di accettare l’esistenza di ordini spontanei, non deliberatamente progettati, più efficaci di quelli scaturiti da una pianificazione. Secondo Hayek, «la presuntuosa aspirazione che la
“ragione” diriga la propria crescita può avere, in pratica, soltanto l’effetto di porre limitazioni a
questa crescita, di ridurne l’attività soltanto al perseguimento di quei risultati che la mente direttiva
individuale riesce a pervenire 361 ».
Su questo punto si consumava la frattura fra individualismo e collettivismo. Il primo, «conscio delle limitazioni intrinseche della singola mente umana, si propone di mostrare come l’uomo
che vive in società riesca, utilizzando le risultanti del processo sociale, ad accrescere i suoi poteri
con l’ausilio delle conoscenze che sono in quelle implicite e delle quali non è mai interamente consapevole 362 ». Il secondo «non si accontenta della parziale conoscenza che di questo processo si può
acquisire dal di dentro, e che di fatto rappresenta tutto quello che l’individuo può ottenere, ma fonda
le sue pretese di controllo cosciente sulla presunzione di poter abbracciare questo processo come
una totalità compiuta e utilizzare tutte le conoscenze in forma sistematicamente integrata». Portato
alle conseguenze più estreme, ma logiche, l’approccio collettivista induce a simpatizzare per «un
sistema nel quale tutti i membri della società diventano meri strumenti di un’unica mente direttiva e
tutte le forze sociali spontanee, cui di fatto è dovuta la crescita delle mente, si estinguono 363 ».
Il campo in cui l’ideale di un controllo cosciente dei fenomeni sociali aveva riscontrato più
successo era quello economico. Qui, la diffusione delle idee scientiste aveva garantito notevole popolarità alla figura dell’ingegnere, cui pianificatori e tecnocrati si richiamavano, da un punto di vista
tanto simbolico quanto operativo. Contestando tali analogie, Hayek elencava alcune diversità sostanziale fra le competenze richieste agli ingegneri e quelle necessarie alla gestione di una società
moderna.
In primo luogo, «i compiti tipici dell’ingegnere sono compiuti in se stessi: egli deve occuparsi di un obiettivo singolo, controlla l’insieme degli sforzi necessari al suo perseguimento e dispone, a tal fine, di una certa e prestabilita quantità di risorse». In altri termini, l’ingegnere dispone
della totalità dei dati necessari allo svolgimento dei propri compiti, in una fase anteriore alla realizzazione dell’opera. Ciò lo pone nella privilegiata condizione di poter operare in modo apparentemente indipendente, «in un mondo nettamente separato ed esclusivamente suo proprio 364 ». Egli può
361
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., pp. 109-110.
362
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 110.
363
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 111.
364
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 115.
91
quindi prescindere da considerazioni relative al tempo ed al luogo, poiché la sua conoscenza è circoscritta ad elementi invariabili, privi di connessioni con specifiche situazioni umane.
Tuttavia, questa raffigurazione era ampiamente illusoria, nella misura in cui trascurava le
molte variabili che l’ingegnere può dare per scontate, ma che rappresentano presupposti indispensabili allo svolgimento della sua professione. «I suoi piani si integrano nel più vasto complesso delle
attività sociali, perché egli li fonda su dati che il mercato gli offre; inoltre, egli può considerare il
suo lavoro come qualcosa di compiuto in se stesso, semplicemente perché non è costretto a interessarsi anche di come il mercato possa procuragli ciò di cui ha bisogno 365 ». Nella misura in cui beneficia di conoscenze disperse altrui, l’ingegnere dipende da processi di mercato – ad esempio, nella
fissazione del livello medio dei prezzi – non meno di qualunque altro individuo.
Secondariamente, «l’ideale dell’ingegnere, la cui realizzazione egli ritiene impedita dalla
presenza di forze economiche “irrazionali”, si fonda sulla sua conoscenza delle proprietà oggettive
delle cose e si presenta normalmente sotto la specie di qualche optimum meramente tecnico di validità universale 366 ». La mentalità ingegneristica tende a generalizzare condizioni che, concretamente, non possono prescindere da elementi contingenti, a cominciare dalla scarsità di capitale.
Secondo Hayek, «l’applicazione delle tecniche ingegneristiche all’intera società presuppone
che chi la dirige possieda di quest’ultima la stessa conoscenza completa che l’ingegnere ha del suo
limitato settore di attività. La pianificazione economica centralizzata non è che l’applicazione dei
principi dell’ingegneria all’insieme della società, in base al presupposto che sia possibile codesta
centralizzazione integrale di tutte le conoscenze necessarie 367 ».
Alla figura dell’ingegnere poteva essere contrapposta quella del commerciante, più coerente
col paradigma individualista patrocinato da Hayek. Questi svolge una professione più “sociale”,
maggiormente interconnessa con quella di altri uomini. «Con la sua attività egli contribuisce a farci
progredire di qualche passo verso il raggiungimento ora di questo ora di quel fine, senza partecipare
mai a tutte le fasi del processo che conduce al soddisfacimento di un bisogno finale 368 ». Il suo obiettivo è utilizzare al meglio i mezzi particolari di cui dispone, e la conoscenza su cui può basarsi –
benché circostanziale, mai riassumibile in enunciati generali, né sempre valida – non è meno utile di
quella scientifica, malgrado il discredito gettato su di essa dal razionalismo costruttivista. Soltanto i
singoli commercianti, infatti, sanno sfruttare al meglio le risorse effettivamente presenti nel merca365
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 116.
366
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 117.
367
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 118.
368
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 119.
92
to, e benché ciascuno di essi disponga di una quota estremamente ridotta d’informazione, la loro interazione garantisce un’allocazione più efficiente di quanto non potrebbe fare un singolo pianificatore. «Ed è appunto nella sua qualità di persona che deve tener conto di questi fatti che il commerciante si troverà sempre in conflitto con gli ideali dell’ingegnere, con i cui piani egli interferisce, e
sarà perciò sempre oggetto della sua antipatia 369 ».
L’avversione ingegneristica per il mercato traeva origine da un fraintendimento nei confronti
dei compiti dell’organizzazione sociale. Lo scopo di quest’ultima, sosteneva Hayek, non è unificare
conoscenze disperse, ma metterle a frutto. «Il fatto che nessuna mente singola può conoscere più di
una frazione di ciò che è noto all’insieme di tutte le menti degli altri individui, fissa dei limiti precisi all’entità dei miglioramenti che una direzione cosciente può conseguire rispetto ai risultati raggiunti per la via dei processi sociali non-coscienti 370 ». Compito delle scienze morali sarà allora evidenziare i limiti di tale direzione cosciente, e sottolineare che la rinunzia all’iper-razionalismo è in
verità un sacrifico necessario per il progresso sociale, «un’abnegazione che i singoli dovrebbero
sentirsi sollecitati a compiere per accrescere i poteri della collettività, per liberare le conoscenze e le
energie di innumerevoli individui la cui utilizzazione non potrebbe mai aver luogo in una società diretta coscientemente dall’alto 371 ». Poteva essere la cultura umanistica – «lo studio della storia o della letteratura, delle arti o del diritto 372 » – a fornire i necessari anticorpi contro il culto della tecnologia e della scienza che sempre più connotava l’educazione dell’epoca, e che induceva le menti più
brillanti, una volta disilluse dai fallaci ideali razionalisti, a gettarsi a capofitto nell’irrazionalismo
estremo 373 .
IV. Il disincanto di una superpotenza: Reinhold Niebuhr
Se pensatori come Berlin e Talmon avevano segnalato la tentazione autoritaria insita nel liberalismo razionalistico e Hayek aveva aspramente polemizzato contro i sostenitori della “direzione
369
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., pp. 119-120.
370
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 121.
371
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 118.
372
F. A. VON HAYEK, The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr.
it. L’abuso della ragione, op. cit., p. 124.
373
L’idea che l’educazione classica possa rappresentare un antidoto al razionalismo costruttivistico ed al materialismo
era già stata avanzata dai cosiddetti New Humanists nel corso degli anni ’20 (cfr. J. D. HOEVELER, JR, The New Humanism. A Critique of Modern America, 1900-1940, Charlottesville, University Press of Virginia 1977). Nel secondo dopoguerra, il conservatore Leo Strauss sostenne una linea simile, contrapponendo l’educazione “liberale” in senso umanistico a quella tecnico-scientifica di derivazione positivistica. In linea con Hayek, Strauss affermava che «l’educazione
liberale, che si basa nel costante rapporto con i più illustri pensatori, prepara alla forma più eccelsa di modestia, per non
dire di umiltà» (L. STRAUSS, Liberalism Ancient and Modern (1a ed. 1968), Chicago, University of Chicago Press 1995,
p. 8).
93
cosciente” dei processi sociali, nessuno quanto Reinhold Niebuhr – teologo e pastore protestante –
denunciò i pericoli che ottimismo ed idealismo creavano nel campo delle relazioni internazionali.
Niebuhr fu un pensatore complesso, il cui itinerario intellettuale appare meno lineare di quello di
altri teorici a lui coevi. Malgrado ciò, il suo ascendente fu enorme. È difficile, per non dire impossibile, individuare una cultura politica statunitense – dal socialismo al neoconservatorismo, dal liberalismo al repubblicanesimo – che non si sia confrontata con l’insegnamento di Niebuhr, e non abbia
tratto alimento dal suo magistero 374 . Come ebbe a scrivere di lui Arthur M. Schlesinger Jr., «nessun
uomo ha avuto tanta influenza, come predicatore, su questa generazione e nessun predicatore ha mai
influito tanto sul mondo laico 375 ».
Da dove trasse origine l’autorità di Niebuhr? Come mai un uomo di chiesa, dotato di una
prosa profonda ma non scorrevole, che faceva ampio ricorso a metafore bibliche e scriveva in una
prospettiva fortemente connotata in senso religioso, si trasformò, fra gli anni ’40 e ’50, in uno dei
più ascoltati analisti della politica estera statunitense? Una possibile risposta – che non intende essere esaustiva, ma si limita a cogliere una delle implicazioni del «caso Niebuhr» – può forse essere la
seguente: Niebuhr, dagli anni ’30 in poi, fu il più rigoroso ed implacabile critico (da sinistra) del liberalismo idealista e razionalista statunitense. Quando gli Stati Uniti, fra il 1941 e il 1951, sperimentarono le asprezze di una guerra mondiale e dell’impegno internazionale in funzione anticomunista – in un contesto che sembrava confermare molte delle intuizioni della scuola realista nel campo delle relazioni internazionali 376 – le sue idee assunsero un fascino ed un rilievo particolari. Fra i
liberal, tenere un atteggiamento “niebuhriano” era il modo migliore per ancorare l’opzione anticomunista ad una visione comunque progressista e solidaristica. A destra, un rafforzamento del prestigio di Niebuhr contribuiva a gettare discredito sul liberalismo perfezionista e positivista, egemone
dai tempi del New Deal 377 .
374
Sull’impossibilità di una eredità univoca del pensiero di Niebuhr, cfr. J. W. COOPER, Reviving the Legaci of Reinhold
Niebuhr, in Teaching Political Science, 16:1, 1988, pp. 29-32.
375
A. M. SCHLESINGER JR., Reinhold Niebuhr’s Role in American Political Thought and Life, in C. W. KEGLEY, R. W.
BRETALL (ed.), Reinhold Niebuhr: His Religious, Social and Political Thought, New York, Macmillan 1956, p. 149.
376
«Il realismo politico ritornò in auge dopo il fallimento dell’appeasement negli anni ’30, il trauma della Seconda
Guerra Mondiale, e l’inizio della Guerra Fredda. Il realismo riguadagnò importanza dopo che dittature e guerra avevano
trasformato buona parte del mondo in un cumulo di rovine. Questo approccio intellettuale sembrava cogliere nel segno
nell’addossare la guerra e la lotta per il potere ad un lato malvagio della natura umana» (P. JAMES, International Relations and Scientific Progress: Structural Realism Reconsidered, Columbus, Ohio State University Press 2002, pp. 5-6).
Non va dimenticato che Edward H. Carr, nel suo The Twenty Years’ Cris: 1919-1939 – uno dei volumi che più ha contribuito al rilancio del paradigma interpretativo realista durante gli anni ’40 –, definisce The Moral Man and Immoral
Society di Niebuhr una delle due opere che più hanno influenzato il suo pensiero (cfr. E. H. CARR, The Twenty Years’
Crisis: 1919-1939. An Introduction to the Study of International Relations, London, Macmillan 1940, tr. it. Utopia e
realtà. Un’introduzione allo studio della politica internazionale, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009, p. 8).
377
Ha scritto il liberal Daniel Bell nel 1988, ripercorrendo la genesi della propria opera più nota: «Vivere negli anni
Trenta e Quaranta è stato come entrare stare in una casa degli orrori, sotto il segno della paura. C’erano i campi di sterminio nazisti, una barbarie che andava oltre ogni immaginazione per le persone civili; e i campi di concentramento sovietici, che stendevano un drappo funebre su ogni visione utopistica. Che spiegazione si poteva offrire? Una concezione
naturalista, come quello avanzata da Sidney Hook, sosteneva che essi erano il prodotto dei modelli culturali di quelle
94
L’intera riflessione filosofica e teologica di Niebuhr ruotava attorno al problema della natura
umana e della sua corruzione. Decisivo era stato l’incontro col pensiero di Karl Barth, che lo aveva
indotto ad abbandonare le rassicuranti certezze del protestantesimo liberale. Se il contemptus mundi
andava respinto, in quanto espressione di grettezza morale e disimpegno, il cristianesimo non poteva essere però essere degradato al rango di un’etica sociale, da abbracciare mediante il semplice ricorso alla ragione. Il “salto nella fede” imponeva una visione più profonda e problematica della persona umana, nonché l’elaborazione di un messaggio potenzialmente in grado di operare in modo
critico ed oppositivo nei confronti delle strutture socio-economiche esistenti 378 . L’avversione di
Niebuhr nei confronti del protestantesimo liberale traeva origine, inoltre, da concrete esperienze di
vita: a cominciare dal contatto quotidiano con la classe operaia di Detroit negli anni ’20, composta
da uomini sottopagati e malnutriti, ai quali le congregazioni religiose sembravano offrire soltanto
un’ipocrita difesa dello status quo ed un’acritica esaltazione del progresso. «Le chiese americane»
annotava Niebuhr sul suo diario «sono nel complesso interamente perpetrate dagli interessi e dai
pregiudizi delle classi medie. Credo che sia un ottimismo infondato aspettarsi da loro un serio contributo alla riorganizzazione della società». E ancora: il liberalismo religioso «apprezza troppo poco
la tragedia della vita per capire la croce» 379 .
Su questo terreno si consumò la frattura con John Dewey ed i liberali razionalisti, con cui
Niebuhr condivideva l’avversione per i guasti prodotti dal mercato deregolamentato. Se, per Dewey, le contraddizioni della società moderna potevano essere superate mediante un “nuovo liberalismo”, pragmatico e costruttivista, in grado di rimuovere le cause della conflittualità fra gruppi ed
interessi 380 , per Niebuhr tutto ciò si riduceva ad uno sterile esercizio di utopismo, poiché trascurava
un elemento cruciale: l’innato egoismo umano, che impediva di fissare un limite universale e condiviso ai bisogni di ciascuno. «La speranza che ci possa essere un giorno una società ideale, in cui
ciascuno possa senza alcun limitazione trarre dall’organizzazione produttiva e sociale quanto gli
serve, non tiene in alcun conto i limiti della natura umana. L’uomo avrà sempre abbastanza immasocietà ed erano quindi fenomeni storici distinti. Contraria a questa era l’opinione neoagostiniana di Reinhold Niebuhr,
che scorgeva in tali orrende azioni la ricorrente duplicità della natura umana, dell’uomo quale uomo duplex, che nell’età
moderna cerca l’infinito e precipita nell’idolatria quando supera i limiti del finito. Per me e per i miei amici, la spiegazione di Niebuhr era la più convincente. Come ho scritto in questo volume, “la nostra è una generazione che ha trovato
la sua saggezza nel pessimismo, nel male, nella tragedia e nella disperazione”». (D. BELL, The End of Ideology: On the
Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, op. cit., p. 415). Sul versante opposto, è significativo l’apprezzamento rivolto a Niebuhr da Thomas S. Eliot nel 1953: «È fonte di grande soddisfazione per me trovare una così stretta consonanza
con la sua sensibilità politica, specialmente alla luce del fatto che i nostri punti di partenza sono profondamente diversi»
(citato in C. C. BROWN, Niebuhr and His Age : Reinhold Niebuhr’s Prophetic Role and Legacy, Harrisburg, Trinity
Press International 2002, p. 191). Giudizio che un neoconservatore come Michael Novak sembra nella sostanza condividere (cfr. M. NOVAK, On Cultivating Liberty: Reflections On Moral Ecology, Lanham, Rowman & Littlefield 1999,
pp. 201-212, spec. pp. 203-204).
378
Cfr. C. LASCH, The True and Only Heaven: Progress and Its Critics, New York, Norton 1991, tr. it. Il paradiso in
terra. Il progresso e la sua critica, Milano, Feltrinelli 1992, pp. 350-351.
379
Citato in G. ZORZI, Il realismo cristiano di Reinhold Niebuhr, Bologna, EDB 1984, pp. 66-67.
380
Cfr. cap. II, par. I.2.
95
ginazione per desiderare più cose del necessario e sarà sempre abbastanza egoista da sentire più urgenti i suoi bisogni che quelli degli altri»381 .
L’antiutopismo di Niebuhr, la sua insistenza sulla natura inevitabilmente precaria ed incompiuta di ogni sforzo rivolto al perfezionamento morale o politico, lo indussero ad una precoce opposizione al marxismo 382 . La pretesa di pacificazione incarnata dal mito della società aclasssista ed
apolitica gli sembrava un viatico sicuro verso l’oppressione e la negazione dei più elementari valori
umani. Nel 1931, in un articolo su Atlantic Monthly, paragonò il comunismo sovietico ad una religione basata sui testi di Marx e Lenin anziché sulla Bibbia, ed il regime che ne era scaturito ad una
sorta di ordine monastico, all’interno del quale un’aristocrazia carismatica – periodicamente purificata dalle purghe – deteneva un potere assoluto ed arbitrario. Il testo di Niebuhr sottolineava elementi che il dibattito sulle «religioni politiche» avrebbe messo in luce soltanto alcuni anni dopo, e
va notato che la sua pubblicazione, a ridosso della crisi del ’29, coincideva con un periodo di notevole popolarità dell’esperimento sovietico in vasti settori della sinistra americana, cui Niebuhr apparteneva 383 . Tre anni dopo, in un saggio dai toni quasi apocalittici, aveva ribadito che la civiltà materialista e capitalista era destinata a crollare, ma la speranza di un mondo più equo ed umano non
avrebbe potuto essere affidata ad ideologie che consideravano l’ingiustizia un problema puramente
sociale e negavano la forza della carità cristiana: il riferimento al marxismo era esplicito 384 .
È impossibile ripercorrere, nemmeno per sommi capi, le successive tappe della riflessione
niebuhriana. Gli aspetti evidenziati sin qui, tuttavia, sono essenziali per comprendere la peculiare
381
R. NIEBUHR, Moral Man and Immoral society; a Study in Ethics and Politics, New York, Scribner’s Sons 1932, tr.
it. Uomo morale e società immorale, Milano, Jaca Book 1968, p. 139. L’obiezione citata, rivolta ai marxisti, è analoga a
quella rivolta ai liberali, poiché anch’essi s’illudono che l’uomo possa frenare razionalmente i propri impulsi acquisitivi: «Il crescere della giustizia sociale dipende in qualche misura dall’estendersi della razionalità. Ma i limiti della ragione fanno sì che sia una meta impossibile l’azione morale pura, soprattutto nel campo delle intricate e complesse relazioni collettive. Gli uomini non saranno mai del tutto ragionevoli, e la proporzione di ragionevolezza contenuta negli impulsi diventa sempre minore mano a mano che passiamo dalla vita individuale a quella dei gruppi sociali» (ibidem, p.
32). Sul contrasto con Dewey, cfr. D. F. RICE, Reinhold Niebuhr and John Dewey: an American Odyssey, Albany, State
University of New York Press 1993, spec. pp. 17-28.
382
Eppure, dato il suo eclettismo, non deve stupire che Niebuhr si sia servito di alcuni elementi di derivazione marxiana– soprattutto di matrice sociologica – per attaccare l’armonicismo liberale e l’illusione secondo cui la fascia benestante della popolazione avrebbe spontaneamente accettato programmi di riforma favorevoli ai ceti più deboli (cfr. R. H.
STONE, Professor Reinhold Niebuhr: a Mentor to the Twentieth Century, Louisville, Westminster / John Knox Press
1992, pp. 88-90).
383
R. NIEBUHR, The Religion of Communism, in Atlantic Monthly, CXLVII, 1931, citato in M. RUBBOLI, Politica e religione negli Usa. Reinhold Niebuhr e il suo tempo (1892-1971), Milano, Franco Angeli 1986, pp. 140-141. Basti pensare che il celebre testo di Eric Voegelin – autore di cui ci occuperemo nel capitolo successivo – intitolato Die Politischen Religionen risale al 1938. Non si può dire che il testo di Niebuhr goda di grande notorietà fra gli studiosi. Emilio
Gentile, ad esempio, ha citato Niebuhr in un volume sul tema, ma si è rifatto ad un suo articolo del 1935 (cfr. E. GENTILE, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza 2001, pp. 5, 124). In verità, già quattro anni prima Niebuhr aveva chiara l’immagine del marxismo come religione immanentizzata.
384
Cfr. R. NIEBUHR, Reflections on the End of an Era, New York, Scribner’s Son 1934. Curiosamente, le Reflections
sono l’opera in cui Niebuhr concede maggior credito all’apporto che il marxismo può offrire all’interno di una società
democratica, ma sono anche il primo testo in cui prepotentemente affiora il tema del peccato originale, l’idea per cui
«negli esseri umani esiste un elemento oscuro ed attivo, che oppone resistenza a tutti i tentativi di miglioramento, tanto
sotto il profilo educativo quanto sotto il profilo fisico» (G. MCKENNA, The Puritan Origins of American Patriotism,
New Haven, Yale University Press 2007, p. 252).
96
critica della politica estera americana elaborata da Niebuhr durante gli anni ’40 e ’50, un originale
impasto di idealismo e realismo destinato ad avere una vasta eco negli studi specialistici.
Un primo approccio a questioni internazionali è rinvenibile nell’ultimo capitolo di The Children of Light and the Children of Darkness (1944), probabilmente il suo libro più celebre. Obiettivo
di Niebuhr era offrire «una giustificazione più forte e stringente» della democrazia, «una rivendicazione più alta e realistica di quella che è stata offerta dalla cultura liberale 385 ». In cosa consisteva
questa giustificazione? Essenzialmente nel suo temperato pessimismo antropologico, in base al quale l’uomo, pur essendo capace di distinguere il bene dal male, vive nella perpetua incapacità di realizzarlo in modo compiuto. Ne seguiva che «la capacità di giustizia dell’uomo rende possibile la
democrazia, ma la sua inclinazione rende la democrazia necessaria386 », poiché è la medesima fragilità della natura umana a rendere indesiderabile il governo assoluto387 . Col termine democrazia,
Niebuhr non designava tanto un ideale, una configurazione metastorica dell’“ottimo governo”,
quanto piuttosto un insieme di accorgimenti istituzionali e procedurali volti a limitare l’uso della
coercizione da parte dei detentori del potere. «La democrazia è un metodo per trovare soluzioni, approssimative e temporanee, per problemi altrimenti irrisolvibili388 », scrive Niebuhr, con una frase
che pare riecheggiare Popper e Schumpeter. Nella dominante retorica democratica, tuttavia, questa
consapevolezza finiva per smarrirsi. L’errore più grave degli idealisti era credere che fosse possibile
«risolvere facilmente la tensione e il conflitto fra interesse individuale ed interesse generale 389 ». Ciò
induceva i liberali ad accrescere a dismisura la sfera autonoma a disposizione del singolo individuo,
senza interrogarsi a fondo se tale libertà non finisse per sconfinare in quella altrui, e similarmente
spingeva i marxisti a non interrogarsi sull’organizzazione della futura società socialista. Benché storicamente e socialmente contrapposti, marxismo e liberalismo condividevano il medesimo errore di
fondo: «il marxismo era il credo sociale e il pianto sociale di quelle classi che sapevano, per
l’esperienza della propria miseria, che il credo dei liberali ottimisti non era che una trappola e una
delusione. Il marxismo insisteva nell’affermare che il conflitto sociale nelle società democratiche
385
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, Roma, Gangemi 2002, p. 47.
386
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 48.
387
L’affermazione di Niebuhr può essere accostata al noto aforisma di Lord Acton, secondo cui «il potere tende a corrompere, ed il potere assoluto corrompe in maniera assoluta». Sul punto, cfr. P. VIERECK, Unadjusted Man in the Age of
Overadjustment: Where History and Literature Intersect, New Brunswick, Transaction Publishers 2004, p. 50).
388
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 117.
389
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 54.
97
sarebbe dovuto divenire sempre più aperto e si sarebbe chiuso amaramente. Ma il marxismo era anche convinto che, dopo il trionfo delle classi subalterne, sarebbe emersa una nuova società nella
quale sarebbe stata stabilita, fra tutte le forze sociali, esattamente quell’armonia che Adam Smith
aveva considerato come una possibilità per ogni tipo di società. Le somiglianze tra la teoria classica
del laissez-faire e la visione del millennio anarchico del marxismo sono significative, quali che siano le differenze superficiali 390 ».
Recuperando categorie bibliche, Niebuhr riteneva che liberali e marxisti potessero essere definiti “figli della luce”, mentre conservatori, nazionalisti, militaristi e sostenitori di ulteriori forme di
particolarismo fossero “figli delle tenebre”. «Possiamo definire i cinici morali, che non conoscono
altra legge se non quella della propria volontà, con le parole della Scrittura: “figli di questo mondo”
o “figli delle tenebre”. Coloro i quali credono, invece, che l’interesse egoistico debba essere ricondotto sotto la disciplina di una legge superiore, possono essere chiamati “figli della luce” 391 ». Il più
grave limite dei figli della luce risiedeva nella cecità, nell’incapacità di cogliere le più profonde pulsioni dell’animo umano. «I “figli delle tenebre” sono il male perché non riconoscono alcuna legge
sopra di sé. Essi sono saggi, sebbene malvagi, perché capiscono il potere dell’interesse egoistico. I
“figli della luce” sono virtuosi perché hanno coscienza di una legge superiore rispetto alla propria
volontà ma, solitamente, sono stolti perché non riconoscono la potenza della volontà e sottostimano
il pericolo dell’anarchia sia nella comunità nazionale sia in quella internazionale 392 ». Il grande paradosso, secondo Niebuhr, consisteva quindi nella cronica incapacità dei “buoni” di misurarsi col
problema del Male, nell’affrontarlo e nello sconfiggerlo. Tanto il liberalismo quanto il marxismo, al
pari delle altre forme di secolarismo, avevano preferito lasciarsi sommergere «da un’ondata di ottimismo sociale senza limiti 393 », condannandosi all’impotenza e lasciando campo libero ai loro rivali.
«Il risultato di questa cecità per i fatti tragici e ovvi della storia sociale umana, è che la democrazia
ha dovuto difendersi dalla frode e dalla malizia dei “figli delle tenebre” mentre i suoi leaders e sta-
390
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., pp. 68-69.
391
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 55.
392
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 56.
393
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 59.
98
tisti congetturavano intorno a piani astratti e abortivi per la creazione di comunità nazionali e internazionali perfette 394 ».
Con ciò, beninteso, Niebuhr non invitava i figli della luce ad unirsi ai figli delle tenebre; la
logica di potenza che detta legge sulla Terra non avrebbe dovuto indurli ad abbondare i loro meritori obiettivi, che Niebuhr variamente evoca come superamento del particolarismo, rafforzamento della fratellanza, instaurazione di una comunità tendenzialmente universale 395 . I figli della luce, al contrario, avrebbero dovuto comprende il significato delle aspre lezioni impartite loro dai successi dai
figli delle tenebre, ed accettare la tragicità insita nella condizione umana. «La preservazione della
civiltà democratica richiede la saggezza del serpente e l’innocuità della colomba. I “figli della luce”
devono armarsi della saggezza dei “figli delle tenebre” ma rimanere liberi dalla loro malvagità; essi
devono conoscere il potere dell’egoismo nella società umana senza dargli giustificazione
morale 396 ».
Partendo da queste premesse, Niebuhr gettava uno sguardo inquieto e disincantato sulla politica estera statunitense. «Durante tutto il secolo scorso, e particolarmente, dopo la prima guerra
mondiale, i nostri “figli della luce” liberali hanno dispiegato innumerevoli piani di ordine mondiale,
tutti caratterizzati dalle illusioni tipiche degli universalisti semplicisti. Erano tutti basati sull’assunto
che la logica intrinseca al carattere universalistico dell’imperativo morale e all’interdipendenza globale di una civiltà tecnica avrebbe portato ineluttabilmente e naturalmente le istituzioni politiche a
conformarsi ad essa. Tutti sottovalutavano la potenza delle vitalità particolari e limitate nella storia
umana. Essi mancarono di tener conto della persistenza e della potenza dell’orgoglio delle nazioni e
di comprende la forza inerziale delle lealtà tradizionali397 ».
Questo eccesso di ottimismo, di perfezionismo e di volontarismo contribuiva a rendere precaria la posizione degli Stati Uniti sullo scenario mondiale. «Se l’America raggiungerà la maturità,
il segno di ciò si avrà nella sua capacità di assumere responsabilità permanenti nella comunità delle
nazioni. Noi dobbiamo cercare di mantenere un atteggiamento critico verso i nostri impulsi di potenza, che dovrà essere informato dall’umile riconoscimento del fatto che il possesso del potere è,
394
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 60.
395
È questo aspetto a rendere Niebuhr non pienamente assimilabile al realismo politico. Per lui, il principe di Machiavelli non è un modello di condotta, bensì il simbolo di chi «non conosce altra legge se non quella del proprio volere e
potere» (R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique
of Its Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della
democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 55).
396
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 74.
397
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 144.
99
per ogni nazione, una tentazione a usarlo con ingiustizia. L’innocenza o l’inesperienza relative nella
gestione del potere non sono una garanzia di virtù; al contrario sono un pericolo proprio per il raggiungimento della virtù. Il possesso del potere, d’altra parte, dà responsabilità che non possono essere evitate, anche se sappiamo che esse non possono essere sostenute senza un certo grado di corruzione egoistica 398 ».
Era, dopotutto, questa “inevitabile corruzione” a costituire l’ironia della storia americana –
come recitava il titolo di un suo lavoro, pubblicato nel 1952 399 . La Guerra Fredda vedeva gli Stati
Uniti impegnati in una lotta estrema per la libertà e contro la tirannide, uno scenario che la presenza
di armi nucleari rendeva tragico. Ma la situazione conteneva anche elementi ironici: «i nostri sogni
di pura virtù si sono dissolti in una situazione in cui l’esercizio della responsabilità verso la comunità delle nazioni è possibile soltanto avvicinandosi al crimine rappresentato dalla bomba atomica. E
l’ironia è accresciuta dai convulsi sforzi degli idealisti di sfuggire alla dura realtà, fantasticando su
progetti di un ideale ordine mondiale privi di rilevanza alcuna, a fronte tanto dei pericoli che attualmente corriamo, quanto dei nostri impellenti obblighi 400 ». Il sogno di sottoporre l’intera storia
sotto al controllo della volontà umana era andato in frantumi, ma i “figli della luce” faticavano ad
rassegnarsi, accettando l’impossibilità di guidare con mano salda il corso degli eventi verso traguardi di pace e giustizia. «La condizione di frustrazione storica in cui troviamo diviene doppiamente
ironica se si pensa che il potere che si contrappone alla realizzazione delle nostre più profonde speranze è alimentato da un credo demoniaco, politico-religioso, che è persuaso di poter trovare una
via di fuga dal problema della forza e della debolezza umana in un modo più semplice persino del
nostro. Secondo il credo comunista, è possibile per l’uomo, in un particolare momento della propria
storia, compiere il balzo dal regno della necessità al regno della libertà. La crudeltà del comunismo
in parte deriva dalla convinzione di trovarsi sul punto di compiere quel salto e di avere la storia nelle proprie mani 401 ».
Ancora una volta, per Niebuhr, era necessario liberarsi dal provvidenzialismo inconsapevole
che animava le ideologie secolari. «Nel mondo descritto dai liberali, i mali della natura umana e
della storia sono ricondotti ad alcune istituzioni sociali, all’ignoranza o a qualche altro correggibile
difetto della natura o degli uomini. La dottrina comunista è ancora più esplicita, e pertanto ancor più
pericolosa. Essa ascrivere le origini del male nell’istituzione della proprietà privata. La sua abolizione, sotto i regimi comunisti, ha indotto a ritenere come una cosa innocente la più vasta concen-
398
R. NIEBUHR, The Children of Light and the Children of Darkness. A Vindication of Democracy and a Critique of Its
Traditional Defense, New York, Scribner’s Son 1944, tr. it. I figli della luce e i figli delle tenebre. Il riscatto della democrazia e critica della sua difesa tradizionale, op. cit., p. 157.
399
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), Chicago, Chicago University Press 2008.
400
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 1.
401
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, pp. 2-3.
100
trazione di potere nella storia umana. Il distillato di malvagità prodotto da queste rivendicazioni
d’innocenza è abbastanza ironico. Ma è ancor più ironico il fatto che il cosiddetto mondo libero
debba macchiarsi di colpe per scongiurare il pericolo comunista 402 ».
L’ironia della storia americana rifletteva, per Niebuhr, un’ironia più profonda e superiore,
che coinvolgeva ogni essere umano, del quale rappresentava, per così dire, un elemento distinto, caratterizzante la sua condizione. L’uomo pecca non perché vi sia costretto, né perché liberamente
scelga di farlo, ma poiché, essendo imperfetto, non è in grado di prevedere appieno le conseguenze
delle proprie azioni. Egli usa in modo improprio le facoltà di cui dispone, e ciò spesso lo conduce a
situazioni paradossali. «L’uomo è una creatura ironica, dal momento che dimentica di non essere
solo creatore, ma anche creatura403 », ed è appunto tale dimenticanza a renderlo debole, incapace di
disgiungere le buone intenzioni dai buoni esiti.
È stato sostenuto che le idee di Niebuhr abbiano finito per alimentare la logica di contrapposizione frontale tra le superpotenze successiva al 1947, e che ciò sia stato reso possibile dalla loro
banalizzazione e volgarizzazione – processo cui Niebuhr si prestò in modo consapevole 404 . A dire il
vero, Niebuhr evitò sempre di sposare in modo acritico la politica estera dell’epoca, come testimoniano l’ostilità verso l’amministrazione Eisenhower e la contrarietà all’impegno in Vietnam, in cui
scorgeva un’ulteriore espressione della stupidità dei “figli della luce” 405 . È vero invece, ad un livello meno superficiale, che il suo desiderio di emancipare la politica dall’utopia, facendone «un concreto progetto per il futuro dell’uomo, attenta sia alla natura umana che alle contingenze
storiche 406 », rispecchiava la condizione di profonda crisi ed incertezza in cui versavano gli
intellettuali progressisti. Ciò, forse, aiuta a comprendere come mai un autore non enfatico come Arthur M. Schlesinger Jr. abbia evocato con toni appassionati il suo incontro intellettuale e personale
con Niebuhr 407 . O perché recensori non apologetici definirono The Irony of American History, alla
sua uscita, come «un’irresistibile specchio dei nostri tempi», un’opera in grado di «raggiungere con
402
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 4.
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit., p. 156.
404
Cfr. M. L. KLEINMAN, A World of Hope, a World of Fear: Henry A. Wallace, Reinhold Niebuhr, and American Liberalism, Columbus, Ohio State University Press, pp. 297-302.
405
Questi ed altri aspetti sono adeguatamente sottolineati M. HALLIWELL, The Constant Dialogue. Reinhold Niebuhr &
American Intellectual Culture, Lanham, Rowman & Littlefield 2005, pp. 200-215, spec. pp.204, 214.
406
G. ZORZI, Il realismo cristiano di Reinhold Niebuhr, op. cit., pp. 157-158.
407
«La mia generazione era stata educata a considerare la natura umana come benigna e la società umana come perfettibile. Il male era una superstizione teologica. Le riforme pedagogiche e istituzionali avrebbero svolto il ruolo di salvatori
della società. Queste erano le premesse del progressismo americano di buon cuore, pieno di speranza, nello stile di John
Dewey. Ma tali premesse, viste alla funesta luce di Hitler e Stalin, apparivano superficiali e vacillanti. È ovvio che la
natura umana ha i suoi abissi oscuri che vanno oltre il campo d’azione del progressismo convenzionale […]. [Grazie a
Niebuhr] arrivai a comprendere che il peccato originale, una questione che ero disposto ad accettare non come verità
rivelata, ma come potente metafora, minava le pretese assolutiste e poneva confini marcati alla saggezza e alle aspirazioni umane. E la presa di coscienza della colpa originaria non implica passività o rinuncia: questa era l’idea che avevo
sentito per la prima volta all’Harvard Memorial Church. L’uomo è allo stesso tempo libero e vincolato, creatore così
come creatura della storia; è costretto ad agire o a subire l’ingiustizia. Il suo sapere è frammentario, la sua giustizia illusoria; i suoi movimenti corrotti, ma pur nella consapevolezza dell’aleatorietà del suo sforzo l’uomo è costretto a lottare.
Agisce meglio quando capisce la sua inerente fallibilità e la sua piccolezza di fronte all’eterno […]. La personalità di
403
101
ta, come «un’irresistibile specchio dei nostri tempi», un’opera in grado di «raggiungere con audacia» profonde e radicate verità storiche 408 , e ancora ad un quindicennio di distanza se ne celebrasse
il benefico impatto sulla storiografia statunitense 409 .
A conti fatti, se è vero, come Friedrich A. Von Hayek andava sostenendo in quegli anni, che
le idee più potenti ed influenti non sono quelle appartenenti ad una singola corrente intellettuale, ma
quelle che accomunano tutte le correnti, giacché esse rappresentano il perimetro entro cui il dibattito è confinato 410 , la popolarità di Niebuhr può essere considerata il punto di non ritorno dell’egemonia liberale. La piattaforma liberal, il substrato che aveva contraddistinto la vita pubblica americana per circa un ventennio, aveva orami confini quanto mai incerti e porosi. Uomini che avevano
sostenuto il New Deal e il Fair Dear, che si erano identificati con Dewey e Tugwell, eleggevano a
loro mentore un pensatore neoagostiniano, che aveva trascorso gran parte della propria vita a contestarli e che, proprio in The Irony of American History, aveva descritto le comunità politiche come
entità «soggette ad una crescita organica» assai più che ad una razionale: espressioni ed argomentazioni, queste, che avvicinavano Niebuhr alla sensibilità conservatrice 411 . Il prestigio di cui godette
Niebuhr nel corso degli anni ’50 rappresentò il punto di massimo scostamento della cultura progressista dalle proprie radici ottimistiche, razionalistiche, costruttivistiche. Fare un passo oltre Niebuhr
– un passo che filosofi come Voegelin e Oakeshott compirono – avrebbe significato ridiscutere la
tradizione liberale non più dall’interno, ma contestarla da fuori, ossia da prospettive che non rivendicavano legame alcuno, né formale né sostanziale, con i valori e gli assunti propri del liberalismo.
V. Conclusioni
La polemica contro-illuministica di Talmon e Berlin, la denunzia dell’ingegneria sociale fatta da Hayek, la rifondazione antropologica del progressismo sollecitata da Niebuhr testimoniano un
Niebuhr rafforzava la sua filosofia. Nella vita un motivo di tristezza è che la scoperta che le persone sono meno grandi
dei libri che scrivono. Niebuhr non deluse mai» (A. M. SCHLESINGER JR., A life in the Twentieth Century, Boston,
Houghton Miffin 2000, tr. it. Il mio secolo americano: ricordi di una vita, 1917-1950, op. cit., pp. 611-613).
408
C. PAGE SMITH, Review at The Irony of American History, in The William and Mary Quarterly, vol. 9, n. 3, 1952, pp.
416-419, spec. p. 419; J. HIGHAM, Review at The Irony of American History, in The Mississippi Valley Historical Review, vol. 39, n. 2, 1952, pp. 357-358, spec. p 358. Per un punto di vista più critico, C. STROUT, Niebuhr’s Irony and
American History, in American Quarterly, vol. 5, n. 2, 1953, pp. 174-177.
409
Cfr. H. F. MAY, A Meditation on an Unfashionable Book, in Christianity and Crisis, XXVIII, n. 9, 1968.
410
«In ogni epoca, il contenuto dei dibattiti è costituito dai temi sui quali dissentono le maggiori correnti culturali. Ma,
da un punto di vista generale, il clima intellettuale di un’epoca è sempre determinato da quel fondo comune di idee che
le correnti stesse, pur nella loro contrapposizione, condividono. Queste idee costituiscono le premesse implicite di ogni
ragionamento, la piattaforma comune e incontestabile su cui si fonda ogni dibattito» (F. A. VON HAYEK, The CounterRevolution of Science: Studies on the Abuse of Reason, Glencoe, Free Press 1952, tr. it. L’abuso della ragione, op. cit.,
p. 236).
411
R. NIEBUHR, The Irony of American History (1a ed. 1952), op. cit, p. 142. Sul punto, cfr. A. DONNO, In nome della
libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, op. cit., p. 69. Non a torto Charles C. Brown ha rilevato come in
quest’opera Niebuhr avesse «incorporato consapevolmente temi cari al conservatorismo burkeano nel suo pensiero» (C.
C. BROWN, Niebuhr and His Age : Reinhold Niebuhr’s Prophetic Role and Legacy, op. cit, p. 192)
102
profondo malessere verso il liberalismo critico, così come esso era stato declinato in Occidente dagli anni ’30 in avanti.
Può apparire curioso, peraltro, che nessuno di questi autori abbia accettato l’etichetta di
“conservatore”, o rivendicato la propria appartenenza alla destra.
Al momento della stesura delle sue lectures, Berlin poteva essere descritto come un liberalsocialista. Era stato un sincero ammiratore di Franklin D. Roosevelt, di cui aveva apprezzato tanto
la sua politica esterna quanto la sua politica interna, da lui definita «il compromesso più costruttivo
tra libertà individuale e sicurezza economica di cui sia stato testimone il proprio tempo». Cittadino
inglese, nel 1945 aveva sostenuto il Labour e il suo vasto programma di riforme sociali. Nel 1950
aveva preferito sostenere il partito liberale, perché insoddisfatto dell’atteggiamento tiepido tenuto
da Clement Atlee verso il neonato stato di Israele. Le sue simpatie andavano alla socialdemocrazia
britannica, concepita essenzialmente come realizzazione interclassista dei principi del liberalismo
ottocentesco 412 .
Talmon era un convinto sionista, sostenitore di uno Stato – quello ebraico – nato con tratti
marcatamente socialisti, soprattutto in campo economico. Pur mantenendo un forte distacco dalla
politica attiva, i valori che ispirarono la sua opera possono essere descritti come liberaldemocratici
ed umanistici. Il tratto saliente del suo profilo pubblico fu la rivendicazione d’appartenenza nazionale, il suo essere «totalmente impegnato, in termini di lealtà e di coinvolgimento, verso Israele, inteso come ideale e come realtà, a favore del suo sviluppo e della sua sopravvivenza 413 ».
Hayek impugnò carta e penna nel 1960 per rimarcare, in un poscritto al suo The Constitution
of Liberty, ciò che lo divideva dai conservatori, dei quali non condivideva la tendenza a confidare
nell’autorità e nella coercizione, l’immobilismo, lo scetticismo verso le regole astratte e l’assenza di
chiari principi guida nell’azione politica 414 . Ed anche se questa difesa non ha convinto tutti gli studiosi della sua opera – più o meno simpatetici nei suoi confronti
415
–, la sua figura non può essere
agevolmente ricondotta né al conservatorismo tradizionale, né al neoconservatorismo, né al liberta-
412
L’ammirazione di Berlin per Roosevelt traspare chiaramente nel suo saggio Mr. Churchill and FDR, in Atlantic
Monthly, 184, n. 5, 1949, ora in I. BERLIN, Personal Impressions, New York, Viking Press 1981, tr. it. Impressioni personali, Milano, Aldelphi 1988, pp. 13-48. Il giudizio sul New Deal compare in Political Ideas in the Twentieth Century,
in Foreign Affairs, n. 3, 1950, ora in I. BERLIN, Liberty, Oxford, Oxford University Press 2002, tr. it. op. cit., pp. 57-96,
spec. p. 86. Per una rassegna delle idee politiche di Berlin fra il 1945 e il 1950, cfr. M. IGNIATIEFF, Isaiah Berlin. A life,
New York, Metropolitan Books 1998 tr. it. Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Roma, Carocci 2003, pp. 216-217.
413
Y. ARIELI, Jacob L. Talmon. An Intellectual Portrait, in Y. ARIELI, N. ROTENSTREICH (ed.), Totalitarian Democracy
and After : International Colloquium in Memory of Jacob L. Talmon, Jerusalem, 21-24 June 1982, Jerusalem, Magnes
Press-Hebrew University 1984, pp. 1-34, spec. p. 2.
414
Cfr. F. A. VON HAYEK, Why I Am Not a Conservative in The Constitution of Liberty, Chicago, Chicago University
Press 1960, pp. 397-411.
415
Cfr., ad. es., H. GISSURARSON, Hayek’s Conservative Liberalism, New York, Garland Publisher 1987; N. MATTEUCCI, Friedrich A. Von Hayek alla ricerca di un ordine spontaneo, in Filosofi politici contemporanei, Bologna, Il Mulino
2001, pp. 145-186, spec. p. 186.
103
rismo 416 . Il suo «old whiggism» lo rende una personalità a sé stante, e per molti versi anomala, nel
panorama intellettuale del XX secolo 417 .
Niebuhr, infine, continuò a sostenere il Partito Democratico, e benché, col passare degli anni, avesse riconosciuto al conservatorismo piena legittimità intellettuale, continuò tuttavia a deprecarne le conseguenze politiche con argomenti analoghi a quelli utilizzati nel 1954, allorché aveva
accusato Russell Kirk di servirsi del realismo di Burke per promuovere l’accettazione acritica delle
gerarchie, dell’ineguaglianza, del conformismo e dello status quo 418 .
Tuttavia, proprio questa riluttanza ad accettare una collocazione al di fuori del campo liberale, accompagnata dall’insoddisfazione per ciò che il liberalismo era divenuto dagli anni ’30 in poi,
dimostra una volta di più come questi autori abbiano vissuto e scritto in un’età di transizione. Il loro
lascito intellettuale non si sottrae ad un paradosso: decisi a rifondare la tradizione di cui si sentivano
parte o con cui dialogavano, riorientandola verso nuove necessità teoriche e pratiche, paradossalmente contribuirono ad affossarla. I loro argomenti, infatti, funsero da stimolano a quanti non volevano emendare o restaurare il liberalismo, ma superarlo – dando vita ad un ordine politico radicalmente alternativo a quello vigente. Probabilmente non esiste un solo pensatore conservatore vivente, in Europa o negli Stati Uniti, che non abbia un debito verso Berlin, Talmon, Hayek o Niebuhr.
Naturalmente, il tracollo del liberalismo non fu né rapido né automatico. Intercorre sempre
un certo lasso di tempo – insegna John Maynard Keynes – tra la formulazione di un’idea ed il momento in cui essa entra a far parte del senso comune 419 . Quando la reazione esplose, tuttavia, essa
stupì non pochi osservatori per la sua irruenza. Sul finire degli anni ’70, l’opinione pubblica parve
volgere definitivamente le spalle al liberalismo positivista e avalutativo degli «intellettuali tecnici» 420 , un liberalismo il cui criterio ultimo – come Nicola Matteucci aveva notato – «resta spesso
416
Il complesso rapporto fra Hayek e l’universo delle destre è ampiamente trattato in A. GAMBLE, Hayek. The Iron
Cage of Liberty, Cambridge, Polity Press 1996, tr. it. FRIEDRICH A. VON HAYEK, Bologna, Il Mulino 2005, pp. 169-209.
417
Si veda anche il gustoso paradosso con cui Hayek descrive le proprie convinzioni politiche nella sua autobiografia:
«Sto diventando un Whig burkeano […]. Io semplicemente ritengo che Burke fosse fondamentalmente un Whig; e penso che anche Adam Smith lo fosse. Abbastanza curiosamente, penso lo sia anche la signora Thatcher – e sono certo di
non avergliene mai parlato. L’ultima volta che l’ho incontrata, ha detto: “So che lei vorrebbe fare di me una Whig; e
invece no, io sono una Tory». Dunque lei aveva chiaramente intuito il mio punto di vista» (F. A. VON HAYEK, Hayek on
Hayek: an Autobiographical Dialogue, op. cit., p. 125).
418
Cfr. R. NIEBUHR, Liberalism and Conservatism, in Christianity and Society, n. 20, 1954-1955, pp. 3-4.
419
«Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto all’affermazione progressiva delle
idee. Non però immediatamente, ma dopo un certo intervallo; giacché nel campo della filosofia economica e politica
non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa dopo che essi abbiano passato l’età di venticinque o trent’anni;
cosicché le idee che i pubblici funzionari e gli uomini politici e perfino gli agitatori applicano agli avvenimenti correnti
non è probabile che siano le più recenti. Ma presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituti, che sono pericolose sia
nel bene, sia nel male» (J. M. KEYNES, The General Theory of Employment, Interest and Money, London, Macmillan
1936, tr. it. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet 2005, p. 577).
420
Cfr. G. P. PRANDSTRALLER, L’intellettuale-tecnico, Milano, Edizioni di Comunità 1968. L’Intellettuale-tecnico, secondo Prandstraller, si serve del proprio sapere in modo applicativo, e non si preoccupa – diversamente dall’intellettuale
filosofo – di riflettere sull’essenza od il fondamento ontologico dei fenomeni. Agli occhi dell’intellettuale-tecnico, «la
strada migliore perché l’uomo riacquisti il senso pieno della vita sembra passare proprio attraverso l’allentamento della
104
quello dell’efficienza di un sistema dato, non i problemi di libertà che esso presenta421 ». E poco importava, in fondo, se gli elettori si mostravano attratti più dalle personalità carismatiche alla guida
della Nuova Destra che dalle idee li ispiravano 422 : era comunque impossibile comprendere la popolarità di personaggi come Ronald Reagan e George W. Bush Sr. senza tener conto dell’intensa mobilitazione popolare che li supportava 423 .
La torsione impressa al lessico politico e ai fondamenti delle public policies dai conservatori
negli anni ’70 e ’80 rappresentava una trasformazione assai più radicale di quanto i realisti degli anni ’50 avrebbero preteso da un liberalismo rivisitato e corretto. Ma – è noto – le conseguenze inintenzionali si verificano anche nel campo delle idee.
IV.
tensione verso l’assoluto» (ibidem, p. 84). Egli può quindi essere descritto tanto un artefice quanto un prodotto della secolarizzazione, e dell’inclinazione «agnostica» (p. 85) nel rapportarsi con i problemi ultimi che essa reca con sé.
421
N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna, Il Mulino 1972, pp. 88-89. Matteucci definiva «tecnocratico» questo liberalismo, in realtà intrinsecamente antiliberale. Un simile atteggiamento era pienamente riscontrabile, a suo avviso, nella moderna scienza politica americana: «se vuole progettare il futuro, le interessano solo i
dati del comportamento dell’uomo, non i suoi valori, le funzioni e non la sostanza dei fenomeni. Infatti spesso il politologo si interessa solo al controllo tecnico dei processi sociali, non a una presa di coscienza storico-politica da parte degli
individui, per orientare la loro azione nella vita sociale: l’ingegnere sociale non pensa certo a persuadere gli uomini, a
far loro comprendere il senso dei fatti, tutto preso, com’è, dal compito di migliorare “tecnicamente” i meccanismi del
sistema. La sua è una logica economica o amministrativa, non etica o politica» (ibidem).
422
Cfr. J. A. SCHOENWALD, A Time for Choosing: The Rise of Modern American Conservatism, Oxford, Oxford University Press 2001, p. 12.
423
Sergio Fabbrini ha intravisto nella rinnovata centralità della leadership un tentativo di reagire alla crisi dei partiti politici nel sistema istituzionale americano: essa «ha una responsabilità affatto principale in tale difficoltà della società civile a rappresentarsi politicamente e, nello stesso tempo, quella crisi contribuisce a rendere più acuto il bisogno di una
identità politica da parte della società civile e delle sue componenti. Il legame carismatico e plebiscitario tra la Presidenza e il popolo (the people), costituisce la forma specifica della risposta che i reaganiani hanno cercato di offrire a
quel bisogno». Fabbrini ha anche definito «mobilitazione non partecipata» la base del consenso reaganiano, chiarendo
che, pur non manifestandosi nelle canoniche forme di adesione partitica, questo consenso si è coagulato «introno ad issues particolari che non di rado attraversano gli individui, i gruppi e le classi sociali» (S. FABBRINI, Neoconservatorismo e politica americana. Attori e processi politici in una società in trasformazione, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 194,
311).
105
Verso un ordine post-liberale:
Eric Voegelin e Michael Oakeshott al paragone
Una civiltà cannibalesca, dove la giungla ha invaso la
città e alla cui formazione attendono statisti e filosofi,
banchieri e operai, arsi da una frenesia di suicidio […].
Questo può succedere, perché la guida della città può essere affidata a una politica senza morale, e cioè senza
guida. E allora tu vedi che la morale è la protezione della
tua esistenza fisica, della tua ricchezza, del tuo lavoro:
della tua umanità insomma; mentre l’assenza della morale, sollecitando l’invadenza del disumano, apre l’accesso
alla città dannata, dove governa l’Omicida.
Igino Giordani, Disumanesimo, 1949 424
Machiavelli rompe con la Grande Tradizione e inizia
l’Illuminismo. Resta da vedere se l’Illuminismo meriti il
suo nome o se il suo vero nome non sia Oscuramento.
Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli, 1957 425
I. Le ragioni di un confronto
Eric Voegelin e Michael Oakeshott sono due autori profondamente diversi. Lo sono nelle rispettive biografie, prima ancora che sotto il profilo teorico. Da un lato, un esule tedesco, già allievo
di Hans Kelsen e docente a Vienna, emigrato negli Stati Uniti dopo l’Anschluss del 1938; dall’altro,
uno storico con vasti interessi filosofici, studente a Cambridge e in seguito professore in alcune fra
le più note università del Paese 426 . Diversità che, presumibilmente, si riflettono nel rispettivo approccio allo studio dei classici del pensiero politico, alla problematizzazione del rapporto fra ragione e trascendenza, al legame con la propria tradizione nazionale.
Eric Voegelin fu un mitteleuropeo costretto ad espatriare, che assistette in prima persona
all’affermazione del nazionalsocialismo e dedicò larga parte della propria opera ad indagarne le origini profonde: «il fenomeno Hitler non si esaurisce nella sua persona. Il suo successo va compreso
nel contesto di una società moralmente ed intellettualmente in rovina, in cui personalità che, in alti
casi, risulterebbero grottesche e marginali conquistano il potere politico perché rappresentano perfettamente le persone che li ammirano 427 ». Ed è appunto la crisi della civiltà – una crisi che è sì «ci-
424
I. GIORDANI, Disumanesimo, Roma, Città Nuova 2007, pp. 32-33.
L. STRAUSS, Thoughts on Machiavelli, Glencoe, Free Press 1958, tr. it. Pensieri su Machiavelli, Milano, Giuffré
1970, p. 203.
426
Per i rispettivi profili autobiografici, cfr. E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, New Brunswick, Transaction Publishers 2000; P. FRANCO, Michael Oakeshott: an Introduction, New Haven, Yale University Press 2004.
427
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, p. 18 (cfr. tr. it. Riflessioni Autobiografiche, Milano, Giuffré 1993, p. 93. Mi discosto qui dalla non troppo fedele versione italiana).
425
106
vica», ossia politica, ma anche e soprattutto spirituale – a costituire una linea rossa (forse la principale) nella riflessione voegeliniana 428 .
Oakeshott fu invece – e si considerò sempre – un fedele interprete della tradizione inglese. Il
conservatorismo di Oakeshott è incomprensibile se si ignora la peculiarità della società britannica, o
quantomeno la percezione che i suoi estimatori ne hanno: la capacità di evolvere nella continuità,
l’attitudine a mediare – e ad arginare, quando necessario – il cambiamento richiamandosi al senso
comune e all’esperienza 429 . Essere conservatori, per Oakeshott, significava contrastare non soltanto
il laburismo in sé e per sé, ma le «categorie della politica continentale», che non avrebbero dovuto
attecchire oltremanica 430 . La sua prospettiva fu, per molti aspetti, “insulare”, e non aveva torto Bernard Crick quando giudicava impossibile comprenderne il pensiero trascurando la visceralità dello
spirito tory 431 .
Proprio queste diversità, tuttavia, rendono il raffronto particolarmente stimolante. Se personalità così diverse per formazione, sensibilità, ambiente intellettuale e prospettive di ricerca giunsero a condividere alcune idee e preoccupazioni nei confronti del proprio tempo; se entrambe avvertirono l’inadeguatezza di alcuni concetti cruciali nel discorso filosofico corrente; se l’una e l’altra, infine, si sforzarono di superare alcune preclusioni – che potremmo definire «chiusure» – nella riflessione filosofico-politica dell’epoca, allora la comparazione si rende necessaria: per cogliere, beninteso, tanto le similarità quanto gli elementi di diversificazione.
Vale la pena di segnalare, una volta di più, l’importanza dell’elemento temporale.
Eric Voegelin mise a punto la categoria di gnosticismo, di cui si servì per ricostruire la decadenza del pensiero filosofico-politico moderno, fra il 1951 e il 1952, preparando il ciclo di conferenze alla base di The New Science of Politics. Rationalism in Politics di Oakeshott risale al 1947, e
di cinque anni dopo la stesura di The Politics of Faith and the Politics of Skepticism, che recupera
precedenti intuizioni, riformulandole in modo dicotomico.
Nel III° capitolo del presente lavoro abbiamo già evidenziato la natura non puramente accidentale delle coincidenze cronologiche nella storia delle idee. In un brevissimo periodo di tempo,
autori diversi sottolinearono limiti e storture del liberalismo razionalista: alcuni – come Berlin,
Talmon, Hayek e Niebuhr – rifacendosi in qualche misura al liberalismo classico; altri – tra essi, E428
Cfr. J. HERNDON, Eric Voegelin and the Problem of Christian Political Order, Columbia, University of Missouri
Press 2007, pp. 19-27.
429
Su questa visione dell’ordinamento inglese, cfr. L. COMPAGNA, Gli opposti sentieri del costituzionalismo, Bologna,
Il Mulino 1999; M. PICCININI, Corpo politico, opinione pubblica, società politica. Per una storia dell’idea inglese di
costituzione, Torino, Giappichelli 2000, spec. pp. 1-9.
430
M. OAKESHOTT, Contemporary British Politics, in The Cambridge Journal, I, 1947-1948, pp. 474-490, spec. pp.
479-480.
431
Sull’insularità del pensiero britannico, cfr. il classico di J. T. MERZ, A History of European Thought in the Nineteenth Century, New York, Dover Publications 1965 (1a ed. 1903). Sull’anima tory di Oakeshott, cfr. B. CRICK, The
World of Michael Oakeshott, or The Lonely Nihilist, in Ecounter, 20, 1963, pp. 65-74.
107
ric Voegelin e Michael Oakeshott – muovendosi fuori da questo perimetro. Di nascita di un ordine
liberale si è parlato, con riferimento agli anni ’30; di percorso verso un ordine post-liberale 432 si sta
per discutere, privilegiando la ricostruzione teorica su quella politico-istituzionale.
Meno chiaro appare la connessione spaziale: perché affrontare, in un’analisi sinora focalizzata esclusivamente sugli Stati Uniti, un pensatore inglese come Oakeshott? La risposta è duplice.
Da un lato, riprendendo una metafora formulata a proposito di Tocqueville, potremmo dire di aver
guardato alla America come ad una sorta di laboratorio, un punto d’osservazione privilegiato in cui
esaminare fenomeni destinati ad estendersi al resto del mondo433 . Ciò costituisce una parte di verità.
Vi è però, un secondo aspetto, di natura prettamente storica, da considerare: la vittoria laburista del
1945 e la susseguente edificazione del Welfare State in Gran Bretagna. Sottraendo ad Alexander
Gerschenkron un’espressione celebre 434 , possiamo considerare Clement Attlee il «sostituto specifico» di Franklin D. Roosevelt, l’uomo che si propose di modernizzare il sistema sociale britannico
ampliando l’assistenza pubblica e incrementando la regolamentazione del mercato, sulla scia dell’esperienza bellica 435 . Ciò avvicina la figura di Oakeshott a quella della Old Right americana: non
perché egli ne condividesse l’antistatalismo ortodosso, ma perché, da difensore della tradizione,
sperimentò da vicino le conseguenze di una nuova declinazione, in senso costruttivistico e progressivo, dell’idea di libertà. Come Joseph Schumpeter suggerì in quegli anni, con l’ingresso delle forze
di sinistra al governo le vicende inglesi si ponevano nel solco di quelle americane, e tanto le prime
quanto le seconde sembravano procedere in modo spedito verso una qualche forma di socialismo di
stato 436 .
Un’ultima precisazione riguarda le modalità di comparazione. Non è nostra intenzione estendere l’analisi all’intera opera di Voegelin e Oakeshott. Ci concentreremo, al contrario, su un ristretto numero di scritti, redatti in un periodo di tempo circoscritto. Riferimenti ad altri testi saranno
saltuari e ristretti all’essenziale. Non analizzeremo ciascuno dei singoli testi, bensì alcuni problemi
comuni. Sarà nostra cura, infine, non soffermarci soltanto sul punto di affinità più trasparente fra i
due: l’avversione al totalitarismo. Impostare il raffronto in questi termini risulterebbe generico e
fuorviante, e non metterebbe in luce, soprattutto, la posizione critica di Voegelin e Oakeshott verso
432
L’espressione è tratta dal bel volume di T. V. MCALLISTER, Revolt Against Modernità. Leo Strauss, Eric Voegelin &
the Search for a Postliberal Order, Lawrence, University Press of Kansas 1995, in cui però essa non viene mai tematizzata.
433
La paternità della metafora del laboratorio è controversa, venendo riproposta – senza fonte – in quasi tutti gli studi su
Tocqueville. Cfr., la fra le tante, F. M. DE SANCTIS, Tempo di democrazia: Alexis de Tocqueville, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane 1986, p. 127.
434
Cfr. A. GERSCHENKRON, Economic backwardness in historical perspective, a book of essays, Cambridge, Belknap
Press of Harvard University Press, 1962.
435
Per un più approfondito approccio storico, cfr. P. HENNESSY, Never Again: Britain 1945-51, London, Jonathan Cape
1992; K. LAYBOURN (ed.), Modern Britain Since 1906: a Reader, London, I. B. Tauris 1999, pp. 206-229.
436
J. SCHUMPETER, Capitalism, Socialism and Democracy, New York, Harper 1950, tr. it. Capitalismo, socialismo e
democrazia, Milano, Etas Kompass 2001, pp. 384-385.
108
quelle deviazioni della cultura occidentale che del totalitarismo sono all’origine, ma non soltanto
nel totalitarismo si esprimono. Ecco perché, a nostro avviso, è opportuno muovere da un altro punto
di partenza: la critica alla metodologia delle scienze empiriche della politica, che costituisce il primo passo verso una critica organica al pensiero liberale.
II. La cecità della scienza politica contemporanea
The New Science of Politics di Eric Voegelin inizia con un’ampia introduzione metodologica. L’autore dichiara, sin dalle primissime righe, l’esigenza di restaurare la scienza politica, intendendo con ciò «un ritorno alla consapevolezza dei princìpi, non un puro e semplice ritorno al contenuto specifico di soluzioni del passato 437 ».
Questo ritorno consiste, dunque, in una riteorizzazione: si tratta di ridiscutere criticamente i
princìpi fondanti la disciplina. Ma l’idea stessa che una restaurazione fosse indispensabile sottendeva un giudizio fortemente negativo sulle condizioni in cui versava la scienza politica coeva: «una
restaurazione della scienza politica si rende necessaria perché si è perduta la consapevolezza dei
princìpi. In realtà, il processo di riteorizzazione si presenta come un’opera di ricostruzione dopo il
fenomeno di distruzione della scienza che caratterizzò l’era del positivismo nella seconda metà del
secolo decimonono 438 ».
Il positivismo, secondo Voegelin, si basa sulla combinazione di due assunti. Il primo afferma l’intrinseca validità dei metodi propri delle scienze naturali e suggerisce che la loro estensione
alle altre scienze possa essere gravido di successi. «Di per sé, questa convinzione sarebbe stata
un’innocua idiosincrasia, destinata a dissolversi non appena gli entusiastici ammiratori del metodo
additato a modello lo avessero messo alla prova nell’ambito della loro scienza, constatando che, nonostante la sua applicazione, non si conseguivano i successi sperati 439 ». Il secondo assunto, tuttavia,
impedisce ai positivisti di prendere atto del loro fallimento, e rappresenta – assai più del primo –
una minaccia per la natura stessa della scienza. In base ad esso, i metodi delle scienze naturali divengono criteri di validità teorica generale: è teorico soltanto ciò che si presta ad essere analizzato
mediante tali metodi. «Dalla combinazione di questi due presupposti è derivata la ben nota serie di
asserzioni che uno studio della realtà non si può considerare scientifico soltanto se usa i metodi delle scienze naturali; che i problemi formulati in altri termini sono illusori; che le questioni metafisi-
437
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, Borla, Roma 1999, p. 35.
438
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 36.
439
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 37.
109
che in particolare, le quali non ammettono risposta in base ai metodi delle scienze dei fenomeni, devono essere accantonate; che gli aspetti dell’essere non accessibili ad una esplorazione condotta con
i metodi proposti a modello sono estranei alla scienza e, al limite, che tali aspetti addirittura non esistono 440 ».
Già si delinea, qui, uno dei tratti salienti della critica voegeliniana al pensiero moderno:
l’incapacità di affrontare problemi più vasti di quelli confinabili entro un angusto perimetro metodologico. Per ora, basti comunque notare che Voegelin va ben oltre la critica allo scientismo formulata da Hayek 441 . L’errore del positivismo non consiste soltanto nell’acritico trasferimento del metodo sperimentale nel campo dell’attività umana, né nell’illusoria pretesa di liberazione dai pregiudizi tramandati che caratterizzerebbe lo studioso “libero da valori”: secondo Voegelin, il positivista
fallisce perché identifica i problemi empirici con la totalità dei problemi. In altre parole, perché rescinde il legame intercorrente fra scienze dell’uomo e metafisica.
Estremamente significativa è la descrizione del corretto approccio scientifico esposta da Voegelin. «La scienza prende avvio dall’esistenza prescientifica dell’uomo; dalla sua inserzione nel
mondo con il suo corpo, con la sua anima, con il suo intelletto, con il suo spirito; dalla sua fondamentale presa su tutti gli ambiti dell’essere, resa possibile dal fatto che la sua natura li compendia
tutti. Da questa fondamentale partecipazione conoscitiva, carica di passione, emerge poco a poco la
consapevolezza della via da seguire, del methodos, per raggiungere alla spassionata contemplazione
dell’ordine propria dell’atteggiamento speculativo 442 ». L’uomo partecipa – fisicamente e spiritualmente – alla realtà. Ciò non comporta, come pretenderebbe il positivista, una qualche attenuazione
delle sue facoltà interpretative o critiche. Questa partecipazione costituisce, al contrario, una forma
di esperienza, l’essere-nel-mondo. Sperimentare l’essere-nel-mondo è la precondizione indispensabile affinché vi sia scienza. La scienza si pone in un rapporto di tensione con l’autointerpretazione
pre-scientifica, poiché ne costituisce una più sofisticata rielaborazione, ma non arriva mai a negarla,
e permette – una volta individuato il metodo giusto – di pervenire alla contemplazione
dell’Essere 443 . Anche quest’ultimo aspetto merita una sottolineatura. Al pari di Aristotele, per Voegelin non l’azione, bensì la contemplazione dell’ordine è il fine ultimo della scienza politica. La
scienza politica, nella sua più intima essenza, non è un sapere operativo. La cesura con la tradizione
dell’illuminismo applicato, retta dalla logica baconiana del scientia propter potentiam, non potrebbe
essere più netta.
440
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 37.
441
Cfr. cap. III, par. III del presente lavoro.
442
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 38.
443
Sulla metodologia voegeliniana, cfr. l’approfondito lavoro di E. MORANDI, La società accaduta: tracce di una nuova
scienza sociale in Eric Voegelin, Milano, Franco Angeli 2000.
110
E proprio alla contestazione del positivismo Voegelin dedica una sezione rilevante
dell’introduzione. Con tale termine, precisa Voegelin, non va disegnata «la dottrina di questo o quel
pensatore di rilievo», quanto piuttosto «il principio generale» che logicamente precede le sue «particolari manifestazioni concrete 444 »: questo principio consiste appunto, nella pretesa intelligibilità
dei fenomeni umani grazie al ricorso ad un metodo totalmente empirico. Voegelin mira, quindi, ad
individuare l’essenza del positivismo, senza però ricondurne le molteplici versione entro un quadro
unitario tramite il metodo compositivo. È bene avere chiaro sin da ora questo approccio, poiché Voegelin lo riproporrà nella disamina del liberalismo.
Tre sono, a suo giudizio, le conseguenze negative della mentalità positivistica nello studio
dei problemi umani. In primo luogo, l’accumulazione di fatti, frutto di un’interpretazione puramente
formale del metodo di ricerca. Poiché, per il positivista, il valore di un’asserzione dipende esclusivamente dal rispetto di alcune regole procedurali, «tutte le asserzioni relative ai fatti risultano elevate alla dignità di scienza, indipendentemente dalla loro importanza, nella misura in cui derivano da
un corretto uso del metodo 445 ». In secondo luogo, «la manipolazione di materiali interessanti in base a erronei principi teorici. Studiosi di gran merito hanno consacrato una immensa erudizione alla
digestione di materiali storici e il loro sforzo è stato in gran parte sprecato,m perché i loro principi
di selezione e interpretazione dei fatti non avevano un adeguato fondamento teorico, ma derivavano
dal Zeitgeist, da preferenze politiche o da personali idiosincrasie 446 ». Vi è, infine, l’illusoria pretesa
di distinguere giudizi di fatto e giudizi di valore.
Qui è opportuno fare chiarezza, onde evitare di scorgere in Voegelin un ideologo, o quantomeno uno studioso indifferente verso il rischio che le scienze dell’uomo subiscano un’involuzione
acritica e propagandistica. Al contrario, egli riconosce a tale distinzione il merito di sgombrare il
campo da alcuni pericolosi equivoci: «Nella misura in cui la lotta contro i giudizi di valori fu una
lotta contro l’opinione acritica camuffata da scienza politica, essa ebbe il salutare effetto di una purificazione teorica 447 ». La distinzione, nondimeno, è infondata da un punto di vista teorico, poiché
presuppone una distinzione artificiale fra tipologie di asserzioni che, le une e le altre, coesistono
fianco a fianco in una concezione più antica – e più rigorosa – delle scienze dell’uomo: «né l’etica e
la politica classica, né l’etica e la politica cristiana contengono “giudizi di valore”, ma studiano,
empiricamente e criticamente, i problemi dell’ordine che derivano dall’antropologia filosofica come
444
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 39.
445
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., pp. 40-41.
446
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica , op. cit., p. 42.
447
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., pp. 44-45.
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
111
parte di una ontologia generale. Soltanto quando l’ontologia non fu più considerata una scienza e
quando, di conseguenza, l’etica e la politica non poterono più essere intese come scienze dell’ordine
in cui la natura umana raggiunge la massima attuazione, questo ambito della conoscenza poté diventare sospetto ed essere considerato come un campo nel quale si esprimevano soltanto opinioni
soggettive e acritiche 448 ».
Voegelin ha, dunque, un atteggiamento ambivalente verso la distinzione fra Werturteil e Tatsachenurteile. Le riconosce una qualche utilità contingente, volta a frenare gli eccessi del soggettivismo interpretativo, ma la giudica inidonea a fornire una solida base all’opera di restaurazione che
è deciso a intraprendere. «Né la più scrupolosa cura nel mantenere “libero da giudizi di valore” il
lavoro concreto dello studioso, né il più coscienzioso rispetto del metodo critico nello stabilire i fatti
e le relazioni di causalità, potevano impedire alle scienze storiche e politiche di sprofondare nella
palude del relativismo 449 ». L’opera che più di ogni altra, secondo Voegelin, testimonia il fallimento
del programma di ricerca positivistico è quella di Max Weber.
La riflessione weberiana si concentrò sulla costruzione di tipi ideali, caratterizzati dalla individuazione di regolarità tra fenomeni e da un certo numero di nessi causali intercorrenti fra essi.
«Una scienza siffatta non sarebbe stata in grado di dire a qualcuno se doveva essere un economista
liberale o un socialista, un costituzionalista democratico o un rivoluzionario marxista, ma poteva
indicargli quali sarebbero state le conseguenze di un eventuale tentativo di trasposizione nella pratica politica dei valori da lui professati. Da una parte, c’erano i “valori” dell’ordine politico, al di là di
qualsiasi valutazione critica; dall’altra, c’era una scienza della struttura della realtà che poteva essere utilizzata come conoscenza tecnica dell’uomo politico 450 ».
Questa impostazione riflette, per Voegelin, una ratio incompiuta: essa giunge all’analisi della causalità dell’azione, ma si arresta di fronte ai princìpi. Ciò porta Weber a identificare la realtà
come un universo demoniaco in cui valori indimostrabili ed indiscutibili configgono l’uno con
l’altro. Eppure, lo stesso Weber mostrò di intuire la potenziale distruttività della prospettiva “politeistica”, e si impegnò ad individuare contromisure efficaci in grado di limitarne gli effetti, soprattutto sul piano politico.
La prima via indicata fu il riconoscimento di un’etica della responsabilità, distinta dall’etica
dell’intenzione. «Questa weberiana “etica della responsabilità” non è affatto cosa da poco. Weber la
mise a punto per raffrenare l’ardore rivoluzionario degli intellettuali politici dogmatici, soprattutto
448
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 44.
449
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 45.
450
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 46.
112
dopo il 1918, e per rendere familiare il principio secondo il quale gli ideali non giustificano né i
mezzi né i risultati dell’azione, l’azione coinvolge nella colpa e la responsabilità degli effetti politici
ricade direttamente sull’uomo che ne è stato la causa 451 ».
In secondo luogo, egli elaborò un giudizio fortemente pessimistico sulla politica del tempo,
in cui l’elemento demoniaco dominava oramai su quello razionale.
Egli, infine, concretamente dimostrò, tramite l’insegnamento, che una corretta relazione pedagogica non poteva basarsi sulla completa neutralizzazione dei valori. È interessante soffermarsi
brevemente su questo aspetto, perché le obiezioni di Voegelin evidenziano una latente contraddizioni del modello ingegneristico, già trattate nel cap. II 452 : l’idea che la collaborazione fra istituzioni pubbliche, scienziato politico e studente possa avvenire in forma compiutamente depoliticizzata.
«La concezione weberiana della scienza, per esempio, presupponeva una relazione sociale fra
scienziato e uomo politico, resa attiva nell’istituzione di una università, dove lo scienziato come
maestro illustra ai suoi discepoli, ai futuri homines politici, la struttura della realtà politica. A questo
punto sorge spontanea la domanda: quali finalità dovrebbe avere siffatta illustrazione? 453 ». Secondo
Voegelin, «insegnare in una università una scienza della politica libera da giudizi di valore sarebbe
senza senso se non ci si proponesse di influenzare i valori dei discepoli mettendo a loro disposizione
una conoscenza oggettiva della realtà politica. Nella misura in cui fu un grande maestro, Weber praticamente smentì la sua convinzione che i valori fossero decisioni demoniache454 ». La relazione fra
maestro ed allievo, ma anche fra docente e potere politico è quindi tutto fuorché neutrale: poiché
l’educazione coinvolge la sfera valoriale, e le università sono funzionali alla creazione di figure
pubbliche, la pretesa di neutralità assoluta, nel processo formativo – ma, potremmo aggiungere, anche in quello decisionale – , è illusoria.
La vera grandezza di Weber, tuttavia, non risiede negli espedienti elaborati per aggirare
l’arbitrarietà della metodologia positivista, ma nell’avere indirettamente reintrodotto lo studio dei
princìpi: non entro una prospettiva filosofica – il che, per Weber, sarebbe stato errato – , bensì entro
una storica. «L’“oggettività” della scienza di Weber poteva derivare solo dagli autentici princìpi
dell’ordine quali erano stati scoperti ed elaborati nella storia del genere umano. Poiché nella situazione intellettuale di Weber l’esistenza di una scienza dell’ordine non poteva essere ammessa, il suo
451
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 47.
452
Cfr. cap. II, par. III del presente lavoro.
453
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., ibidem.
454
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 48.
113
contenuto (o la maggior parte possibile di esso) doveva essere recuperato attribuendo alle sue espressioni il carattere di fatti e fattori causali della storia 455 ».
Le notevoli acquisizioni conoscitive contenute negli studi sociologici di Weber furono almeno in parte inficiate da incongruenze ed omissioni. Fra queste ultime, Voegelin cita l’assenza di
uno studio dedicato al cristianesimo anteriore alla Riforma. «La ragione dell’omissione appare ovvia: non è possibile impegnarsi in un serio studio del cristianesimo medievale senza scoprire tra i
suoi “valori” la credenza in una scienza razionale dell’ordine umano e sociale e specialmente del diritto naturale 456 »: proprio ciò che il positivismo considerava illegittimo. Ciò malgrado, egli ebbe il
merito di reintrodurre – sia in modo né coerente né esplicito – lo studio dei princìpi: «Egli aveva ridotto ad absurdum il principio di una scienza libera da giudizi di valore […]. Quando Weber costruì
il grande edificio della sua sociologia (che è poi la scappatoia positivistica dalla scienza
dell’ordine), egli non si dedicò affatto a tutti i “valori” come eguali. Egli non si dedicò affatto a una
inutile raccolta di materiali qualunque, ma manifestò sensibilmente preferenze per fenomeni ritenuti
“importanti” nella storia del genere umano; e seppe fare una netta distinzione fra grandi civiltà e fenomeni secondari, meno importanti, come pure tra “religioni mondiali” e fenomeni religiosi di scarsa importanza. In mancanza di un principio di teorizzazione razionalmente fondato, egli si lasciò
guidare non dai “valori”, ma dall’auctoritas maiorum e dalla propria sensibilità per quanto c’è di
più elevato 457 ».
Da grande studioso, Weber si sforzò di superare le contraddizioni del positivismo. Da positivista, ne rimase in parte prigioniero. Voegelin se ne congeda con un suggestivo ritratto, che ne sottolinea la levatura quasi titanica: «L’evoluzione del genere umano verso la razionalità della scienza
positiva era per Comte uno sviluppo nettamente progressivo: per Weber era un processo di disincantamento e di dedivinizzazione del mondo. Col suo acuto rimpianto per la scomparsa dell’incanto
divino dal mondo, con la sua accettazione del razionalismo come una fatalità da sopportare ma non
da desiderare, col manifesto rincrescimento che la sua anima non fosse all’unisono col divino, egli
mostrò chiaramente di sentirsi partecipe del dolore di Nietzsche […]. Egli sapeva quel che cercava,
ma qualcosa gli impedì di trovarlo. Egli vide la terra promessa, ma non poté entrarvi 458 ».
Riassumendo, si può quindi dire, in estrema sintesi, che per Voegelin il positivismo sia: a)
una negazione della scienza dell’ordine classica e cristiana; b) un atteggiamento di «chiusura» verso
455
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 49.
456
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 51.
457
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., pp. 52-53.
458
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 54.
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
114
la trattazione dei princìpi, e l’approdo ad un’antropologia filosofica in grado di problematizzare, ad
un livello metafisico, l’esistenza umana; c) l’indebito tentativo di imporre alle scienze umane i metodi propri delle scienze naturali. Le sue conseguenze sono relativistiche, sotto il profilo gnoseologiche, e nichilistiche, sotto quello politico 459 .
In Michael Oakeshott manca una discussione critica della metodologia positivistica paragonabile a quella di Voegelin; eppure, è possibile individuare, in alcuni passi dei suoi scritti, una profonda avversione alla commistione fra attività scientifica ed attività politica, nonché fra storiografia
e sapere applicativo. Voegelin avversa l’epistemologia positivistica in sé e per sé, come obnubilamento dei princìpi primi e della riflessione meta-empirica; Oakeshott contesta, principalmente, la
presunzione scientifica – connessa al positivismo – di inglobare ed imprigionare il reale, facendo
della scienza il criterio ultimo di valutazione della condotta umana. Pur con differenze significative,
tanto Voegelin quanto Oakeshott scorgono in un certo modo di intendere la scienza una forma di
υβρις: per Voegelin, essa risiede nella negazione della trascendenza; per Oakeshott, in quella della
pluralità delle sfere conoscitive che caratterizzano l’esistenza.
Una rigida distinzione fra storia, scienza e pratica è rinvenibile nel primo saggio di grande
rilievo di Oakeshott, Experience and Its Models (1933). Essa va citata perché aiuta ad inquadrare
l’atteggiamento separatista con cui l’autore affrontò, fin dai primi anni di attività, il tema.
Oakeshott descrive infatti queste tre sfere come ambiti autonomi del pensiero, totalmente indipendenti l’una dalle altre. La conoscenza umana è il frutto di reciproche interconnessioni fra queste tre sfere, ognuna delle quali si serve di criteri propri e interpreta la realtà secondo le modalità
che le competono. La specificità della scienza risiede nell’osservazione sub specie quantitatis. Tale
prospettiva, in sé e per sé del tutto legittima e coerente con i propri presupposti, non può rivendicare
alcuna forma di primato sulle altre sfere. Né possono farlo la pratica – sotto cui ricade l’attività politica – o la filosofia, la quale, lungi dal rappresentare una forma di sintesi di tutte le branche della
scienza, rappresenta soltanto una possibile modalità conoscitiva. Nella mappa della conoscenza di
Oakeshott, ha notato Giovanni Giorgini, «ciascun universo di esperienza appare in sé “sovrano”, e
con una propria identità da difendere. In quanto autofondato costituisce un tutto omogeneo e coerente, assolutamente “impenetrabile” agli altri mondi; esso, infatti, non rappresenta un “dominio”
specifico di esistenza, uno stadio dell’esperienza che può essere superato, bensì una modificazione,
l’adozione di un punto di vista limitato nell’osservare la totalità. In questo senso, parlare di una “po-
459
Su questi aspetti, cfr. A. BIRAL, Voegelin e la restaurazione politica, in G. DUSO (a cura di), Filosofia e pratica del
pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 53-68; V. DINI, Phronesis:
scienza politica, virtù esistenziale. Eric Voegelin e l’ontologia dell’etica e della politica, in R. RANCINARO (a cura di),
Ordine e storia in Eric Voegelin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988, pp. 49-58.
115
litica scientifica” o di una “storia scientifica” è una mostruosità, una totale ignoratio elenchi 460 »,
come Oakeshott definisce il tentativo di applicare le peculiarità di un mondo di esperienza ad un altro. Ciò pone Oakeshott in una condizione di curiosa ambivalenza verso il positivismo. «In effetti,
ci sono chiare somiglianze fra la visione che Oakeshott ha della scienza e quella dei positivisti logici dell’epoca. Tuttavia, ciò che Oakeshott stava in verità facendo era rivolgere il positivismo contro
se stesso, servendosene per mostrare i suoi limiti 461 ».
La necessità di distinguere fra conoscenza scientifica e conoscenza storica riemerge con
chiarezza nel saggio The Activity of Being an Historian, del 1958, e nel volume On History and Other Essays, del 1983, che riunisce saggi inediti del periodo precedente (la datazione è tuttavia incerta). Oakeshott non ricorre più all’immagine delle sfere distinte – sintomo di un’evoluzione del
suo pensiero a riguardo 462 –, ma ribadisce l’impossibilità di mescolare pensiero pratico e riflessione
storica. Il primo, in particolare, non può pretendere di ricavare assunti normativi dallo studio del
passato, né fare di quest’ultimo materiale passivo per la verifica di qualche generalizzazione teorica
(le “leggi”) 463 .
L’uomo pratico «riconosce e si interessa soltanto a quegli eventi del passato che può mettere
in relazione con le attività del presente. Egli guarda al passato per spiegare il mondo presente, per
giustificarlo, o per renderlo un luogo più confortevole e meno misterioso». In quest’ottica, «il passato consiste in avvenimenti che si ritiene abbiano contribuito o non contribuito ad uno stato di cose
successivamente verificatosi, ovvero che siano favorevoli od ostili a uno stato di cose desiderato 464 ». Ma questo non può, né deve essere il punto di vista dello storico, per il quale «il passato non
è visto in rapporto al presente, e non è trattato come se fosse il presente». Il passato non può diventare occasione per scindere gli avvenimenti “opportuni” da quelli “inopportuni”, e tanto meno gli
avvenimenti necessari da quelli accidentali. Diversamente da quanto crede l’uomo pratico,
«l’intervento di un Papa non modifica il corso degli eventi, bensì è il corso degli eventi, e conseguentemente la sua azione non è un intervento. X non è morto “troppo presto”: è morto quando è
morto. Y non ha dissipato le sue risorse a causa di una serie di guerre inutili: le guerre appartengono
al corso degli eventi effettivo, non a qualche corso immaginario, definibile come illegittimo 465 ».
460
G. GIORGINI, L’avventura filosofica di Michael Oakeshott, in Filosofia Politica, n. 2, anno I, 1987, pp. 377-402,
spec. p. 384.
461
L. O’SULLIVAN, Oakeshott on History, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2003, p. 93 (cfr. anche pp. 92-96,
pp. 107-110).
462
Cfr. G. GIORGINI, L’avventura filosofica di Michael Oakeshott, op. cit., pp. 377-402, spec. pp. 385-389,
O’SULLIVAN, Oakeshott on History, op. cit., 151-162; E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and
Politics, Columbia, University of Missouri Press 2006, pp. 63-65.
463
Cfr. S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo. Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate” della società, Milano,
Vita e Pensiero 1999, pp. 28-32; T. NARDIN, Oakeshott’s Philosophy of the Social Science, in C. ABEL, T. FULLER (ed.),
The Intellectual Legacy of Michael Oakeshott, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2005, pp. 220-237.
464
in Rationalism in Politics, Indianapolis, Liberty Fund 1991 (1a ed. 1962), p. 168.
465
in Rationalism in Politics, op. cit., p. 169.
116
Ciò parrebbe avvicinare il metodo storico al metodo scientifico: «si potrebbe dire che
l’attività dello storico (alla luce della sua emancipazione da un interesse pratico verso il passato)
dimostri un interesse negli eventi passati in sé e per sé, indipendentemente da eventi presenti o successivi. In breve, potremmo riconoscergli quello che io, in senso generale, ho chiamato atteggiamento “scientifico” verso il passato 466 ». Ma, così facendo, vi è il rischio di imbattersi in uno «scoglio»: si potrebbe arrivare a credere che «là dove conduce l’attività dello scienziato (divenendo via
via più specifica), l’attività dello storico dovrebbe seguirla». E che «l’interesse dello scienziato per
le cause astratte e per le condizioni necessarie e sufficienti467 » debba essere emulato da chi scrive la
storia. Non è così, poiché, sostiene Oakeshott, «la ragione di questo interesse, da parte dello scienziato, è l’applicazione [di cause astratte e condizioni necessarie e sufficienti] a situazioni ipotetiche 468 ». Lo storico, viceversa, si occupa di casi singoli, non della loro astrazione e generalizzazione,
in modo da formulare analogie. Servirsi della conoscenza storica per fini sperimentali significherebbe, del resto, sprofondare nuovamente in quella dimensione pratica di cui si è detto: ecco perché,
se uno scienziato può operare in condizioni di «combustione od ossidazione», facendo scaturire la
reazione prevista dalla combinazione di elementi, lo storico non può farlo senza tradire il proprio
scopo, schiettamente idiografico. Applicare il metodo scientifico alla storia può essere «eccitante e
può (per un certo tempo) distogliere l’attenzione dalla comprensione storica in senso proprio 469 »,
ma – euristicamente – l’impresa si dimostrerà fallimentare.
In On History and Other Essays, la prospettiva è – se possibile – radicalizzata. Gli eventi
storici appaiono come «misteri circondati da misteri 470 », e su di essi opera un potente filtro linguistico. La lingua stessa è un precipitato storico, di cui abbiamo una conoscenza frammentaria e parziale. Oakeshott parla degli avvenimenti storici come di rappresentazioni (performances), in cui coesistono molteplici manifestazioni dell’attività umana. Quella di Oakeshott, ha rilevato Elizabeth C.
Corey, è una «concezione assolutamente non-teleologica del passato 471 », in cui scompaiono sia la
dimensione didascalica – propria dell’attività pratica – che quella deduttivo-previsionale – propria
della scienza –. Tutto ciò avvicina la comprensione storica alla sfera propria dell’estetica 472 .
466
in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 170-171.
in Rationalism in Politics, op. cit., p. 171.
468
in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 171-172.
469
in Rationalism in Politics, op. cit., p. 174.
470
M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, Indianapolis, Liberty Fund 1999 (1a ed. 1983)
p. 53.
471
E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 64.
472
Cfr. W. H. DRAY, William Oakeshott’s Theory of History, in P. KING, B. C. PAREKH (ed.), Politcs and Experience:
Essays Presented to Professor Michael Oakeshott On the Occasion of His Retirement, Cambridge, Cambridge University Press 1968, pp. 19-42, spec. pp. 32-33.
467
117
Sottoponendo a critica il modello nomologico 473 , Oakeshott sostiene che sia impossibile, «in
una ricerca, indagare una situazione storica in modo anatomico, astrarne caratteristiche quantificabili e, qualora fossero sufficientemente numerose, collocarle in un grafico, per spiegare tale situazione
come una struttura composta da relazioni». Questa non è storia, ma «cliometria». Gli eventi storici
non possono essere ridotti «a esempi di caratteri ricorrenti, i fatti antecedenti e susseguenti non possono essere reciprocamente correlati, e capire ciò che significano è possibile solo all’interno di una
ricostruzione consequenziale 474 ». Persino la causalità, così come la intendono i positivisti, va ridefinita: è più opportuno parlare di «relazione contingente 475 » tra fatti anteriori e posteriori. «La ricerca storica non è un esercizio esplicativo, né è l’occasione per risolvere un problema; è l’impegno
a capire, a comprendere in modo discorsivo e ad immaginare il carattere di un avvenimento storico.
Prende le mosse da ciò che è sopravvissuto, fra presente e passato, e si regge ad ogni passo soltanto
grazie alla lettura di ciò che suggerisce l’evidenzia delle circostanze 476 ».
Senza addentrarci ulteriormente nella teoria storiografica oakeshottiana, possiamo già avere
un quadro chiaro dei limiti che, per Oakeshott, caratterizzano la comprensione scientifica dell’agire
umano. Da un lato, troviamo una distinzione rigida – che Oakeshott attenuerà col passare degli anni,
ma a cui non rinunzierà mai – fra attività pratica ed attività scientifica. Dall’altro, la convinzione
che sia la storia – e non la scienza sociale – ad offrirci un’immagine più veritiera della condotta umana in quanto esistenza storica. Il «razionalismo in politica», di cui tratteremo nei paragrafi successivi, altro non è che una ignoratio elenchi, ossia il travisamento epistemologico operato da chi
ritiene possibile trasformare la conoscenza umana in una «enciclopedia di informazioni», ovvero ridurla «alla “conoscenza fisica” 477 », a fini costruttivistici e manipolativi.
III. La rappresentanza distorta
Tanto Voegelin quanto Oakeshott forniscono numerosi esempi di distorsioni concettuali positivistiche nel lessico della teoria politica. Ci concentreremo ora sull’idea di rappresentanza, al centro di The New Science of Politics. Non risulta che questo tema sia stato affrontato da Oakeshott in
modo organico. Una critica del significato corrente di democrazia rappresentativa è comunque rinvenibile in alcuni saggi risalenti agli anni ’50, ed essa ci servirà come elemento di raccordo col paragrafo successivo, dedicato alla critica del liberalismo razionalistico.
473
Per una trattazione specifica, cfr. R. TSENG, The Sceptical Idealist: Michael Oakeshott as Critic of the Enlightenment, Thorverton-Charlottesville, Imprint Academic 2003, pp. 48-70, spec. pp. 63-66.
474
M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 99.
475
M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 101.
476
M. OAKESHOTT, Historical Events, in On History and Other Essays, p. 103.
477
in Rationalism in Politics, op. cit., p. 195.
118
È stato giustamente osservato che The New Science of Politics è un «testo centrato sulla nozione di rappresentanza 478 ». Come si spiega tale centralità? Secondo i parametri filosofico-politici
correnti, dopotutto, la rappresentanza è soltanto uno dei problemi che la teoria politica è chiamata a
discutere, né più né meno importante di altre questioni concernenti il giusto ordine sociale 479 . Per
Voegelin, invece, essa costituisce «il problema centrale della teoria politica 480 ».
È bene premettere che il nostro interrogativo non verte sul ruolo che l’idea di rappresentanza
ricopre nella filosofia politica di Voegelin481 , bensì, più banalmente, sul perché egli muova proprio
da una critica all’idea moderna di rappresentanza per tentare di dimostrare l’opportunità di restaurare la scienza politica classico-cristiana.
La tesi che si intende qui sostenere è che, secondo Voegelin, l’inadeguatezza della nozione
di rappresentanza moderna dimostra, meglio di ogni altra, l’incapacità del liberalismo positivista di
aprirsi alla trascendenza. Conseguentemente, tale incapacità testimonia l’inadeguatezza del bagaglio
teorico con cui i liberali positivisti intendono fronteggiare la minaccia totalitaria 482 : tema oggetto
del paragrafo IV. Per verificare la validità di questa tesi, è necessario ripercorrere, sia pure in modo
sommario, l’argomentazione voegeliniana.
Voegelin distingue, anzitutto, una rappresentanza definita elementare da una definita esistenziale. L’una non necessariamente si contrappone all’altra; la seconda, tuttavia, è precondizione
per il corretto esercizio della prima 483 .
La rappresentanza in senso elementare può essere descritta come il processo scaturente dal
rispetto di alcune norme formali volte a garantire un rapporto fiduciario fra elettore ed eletto; «una
sorta di delega immediata di opinioni ed interessi individuali 484 ». «Nei dibattiti politici, nella stampa, nella pubblicistica, paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera, i Paesi bassi
o i regimi scandinavi sono normalmente considerati paesi a istituzioni rappresentative. In tali contesti il termine ricorre come un simbolo di una realtà politica 485 ». È possibile elencare una pluralità di
caratteristiche riscontrabili nei sistemi democratico-rappresentativi: fra esse, l’esistenza di elezioni
478
C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari, Laterza 2009, p. 209.
Cfr. S. VECA, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-32; V. MURA, Categoria della politica. Elementi
per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004.
480
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 34.
481
Sul punto, cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, Bologna, Clueb 1989, pp. 47-53;
482
«Il modello gnostico liberale […] proprio per reagire ai rischi del lato totalitario della gnosi distrugge quella tensione
[verso l’Essere] in senso contrario, cioè elimina senz’altro la trascendenza e crede che la forma politica possa scaturire
da una rappresentanza elementare, la cui misura è sì individualistica, ma è anche tutta immanente, ovvero privata del
rapporto articolante con l’assenza della trascendenza (in modo, in senso lato, nichilistico)» (C. Galli, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., pp. 219-220)
483
Cfr. F. MERCADANTE, La democrazia plebiscitaria, Milano, Giuffré 1974, pp. 219-220.
484
C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., p. 210.
485
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 65.
479
119
periodiche, il costituirsi di determinati rapporti di forza fra potere esecutivo e potere legislativo,
un’estensione sufficientemente ampia del suffragio. «Nella teorizzazione delle istituzioni rappresentative, a questo livello, i concetti che entrano nella costruzione del tipo descrittivo si riferiscono a
semplici dati del mondo esterno. Si riferiscono ad ambiti geografici, ad esseri umani che vi risiedono, a uomini e donne, alla loro età, al loro voto che consiste nel porre dei segni su pezzi di carta accanto a nominativi in essa segnati, ad operazioni di spoglio e di calcolo che porteranno alla designazione di altri esseri umani come deputati, al comportamento di rappresentanti che si esprimerà in atti formali riconoscibili come tali attraverso dati esterni, etc. 486 »
Questi «dati del mondo esterno», tuttavia, rappresentano soltanto una delle sfaccettature del
problema rappresentativo; arrestarsi a questo livello, sostiene Voegelin, significherebbe trascurare
la «struttura esistenziale» che opera dietro e prima rispetto alle forme rappresentative in senso elementare, una struttura altrimenti destinata a «rimanere in ombra 487 ». A Voegelin non interessa demolire la definizione di rappresentanza in senso elementare; al contrario, gli preme chiarire che «il
tipo elementare di istituzioni rappresentative non esaurisce il problema della rappresentanza 488 ».
Tale non-esaurimento è dimostrato dall’esistenza dell’Unione Sovietica. «Mentre si può negare radicalmente che il governo sovietico rappresenti il popolo, non ci può essere dubbio alcuno
sul fatto che il governo sovietico rappresenta la società sovietica in quanto società politica pronta
all’azione nella storia. Gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficaci
nell’ambito nazionale, nel senso che i comandi governativi trovano obbedienza nel popolo, a parte il
loro margine, politicamente irrilevante, di inefficacia; e l’Unione Sovietica è una potenza sulla scena della storia perché il governo sovietico può in realtà manovrare un’enorme macchina militare alimentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica 489 ».
L’esempio ci fa intuire il modo in cui Voegelin riformula il problema della rappresentanza.
Tale nozione abbraccia ora il problema fondamentale dell’ordine politico: il rapporto comando/obbedienza, la possibilità che i membri di una comunità – di un ordine, nella terminologia voegeliniana – compiano azioni latu sensu collettive sotto la guida di uno o più leader 490 . «Le società
politiche, per essere pronte all’azione, devono avere una struttura interna che consenta ad alcuni dei
loro membri – il legislatore, il governo, il principe, il sovrano, il magistrato, etc., secondo la terminologia delle diverse epoche – di ottenere abituale obbedienza per i loro atti di comando; e questi
486
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago
nuova scienza politica , op. cit., p. 66.
487
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago
nuova scienza politica , op. cit., p. 68.
488
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago
nuova scienza politica , op. cit., p. 68.
489
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago
nuova scienza politica , op. cit., p. 69.
490
C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., pp. 231-232,
Press 1952, tr. it. La
Press 1952, tr. it. La
Press 1952, tr. it. La
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120
atti devono servire la necessità esistenziali della società, come la difesa del regno e
l’amministrazione della giustizia – se è lecito richiamare questa classificazione medievale dei fini.
Tali società, con la loro organizzazione interna per l’azione, non esistono come entità cosmiche
immutabili dall’eternità, ma crescono nella storia: questo processo per cui esseri umani si costituiscono in una società per l’azione è quello che noi chiamiamo articolazione di una società 491 ».
Vale la pena di rimarcare il carattere necessario di tale articolazione. Una società o è articolata o non è. Affinché sia «pronta per l’azione», una società ha bisogno che le azioni di alcuni – i
“rappresentanti” – siano imputate alla società nel suo complesso. Ciò implica, in altre parole, che
queste azioni detengano una «forza obbligante 492 » nei confronti dei restanti membri della società.
Allorché tale forza obbligante viene meno, per ragioni materiali ovvero spirituali 493 , l’ordine politico si disgrega 494 .
La dissoluzione dell’ordine è quindi il pericolo incombente che l’interpretazione in senso elementare della rappresentanza reca con sé. Ciò è chiarito dal lungo excursus storico che Voegelin
dedica alla dottrina della rappresentanza in Occidente, da John Fortescue a Maurice Hariou. Non ci
interessa, in questa sede, ripercorrerlo minuziosamente; conta però rilevare come, secondo Voegelin, nella nozione moderna di rappresentanza «il simbolo “popolo” ha finito con l’assorbire i due significati che si erano mantenuti distinti nel Medioevo, quando senza resistenze emozionali si raparla
di «regno» e di «sudditi» 495 ». Questo assorbimento, per Voegelin, non è affatto una conquista 496 .
Non lo è perché fa del populus l’elemento caratterizzante l’ordine politico, laddove quest’ultimo è
invece frutto di un complesso processo di articolazione, che trova nel regnum la sintesi compiuta 497 .
491
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 70.
492
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., ibidem.
493
«Una società politica può dissolversi non solo per la disintegrazione delle credenze che fanno di essa un’unità attiva
nella storia; essa può venire distrutta anche a causa della dispersione dei suoi membri in maniera tale che la comunicazione tra essi diventi fisicamente impossibile o, più radicalmente, a causa del loro sterminio fisico; può anche subire
gravi danni, distruzione parziale del patrimonio tradizionale e lunga paralisi a causa della eliminazione di quei membri
attivi che sul piano politico e intellettuale costituiscono le minoranza dirigenti di una società» (E. VOEGELIN, The New
Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op.
cit., p. 65)
494
«Con il simbolo “articolazione” si intende quel processo storico per cui le società politiche, le nazioni, gli imperi sorgono e cadono, come pure le evoluzioni e rivoluzioni che hanno logo fra i due estremi della nascita e della caduta» (E.
VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova
scienza politica , op. cit., p. 74).
495
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 71.
496
Va infatti notato come, per Voegelin, esperienze sempre più intense ed articolate della trascendenza vanno di pari
passo con una crescita della differenziazione nel linguaggio politico atto a interpretarle (sul concetto di differenziazione,
cfr.. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 54-55)
497
Rievocando l’idea di rappresentanza medievale, Voegelin scrive: «il punto interessante, sotto il profilo teorico, è che
i rappresentanti delle comunità articolate, quando si riuniscono a consiglio formano comunità di un ordine più elevato,
fino al vertice, costituito dal Parlamento bicamerale, che si considera consiglio rappresentativo di una società ancor più
vasta, il regno nella sua interezza. Col progredire dell’articolazione della società, dunque, si sviluppa un particolare organo rappresentativo composito, insieme con il simbolismo che ne esprime l’intera struttura gerarchica» (E. VOEGELIN,
121
Questo regnum, secondo John Fortescue, poteva essere considerato alla stregua di un corpus
mysticum, ossia un’unione di persone animate da un motore spirituale definito intencio populi.
«Questa “intencio populi” è il centro del corpo mistico del regno; ricorrendo ancora una volta ad
una analogia organica, Fortescue parlò di essa come del cuore, che trasmette al capo e alle membra
del corpo, come sua corrente sanguigna nutritiva, le provviste per la prosperità del popolo. Si faccia
attenzione, in questo contesto, alla funzione dell’analogia organica: essa non serve a identificare un
dato membro di una società con un corrispondete organo del corpo, ma, al contrario, essa tende a
sottolineare che il centro animatore di un corpo sociale non è individuabile in alcuno dei suoi membri umani. La “intencio populi” non è localizzata né nel rappresentante regale, né nel popolo come
moltitudine di soggetti, ma è l’intangibile centro vivificante del regno nel suo complesso 498 ».
La “intencio populi” è quindi qualcosa di assai diverso dal «principio maggioritario temperato» che disciplina, secondo i teorici della democrazia liberale, il funzionamento delle istituzioni
rappresentative 499 . L’“intencio populi” – che potremmo definire la tensione umana verso uno o più
principi ordinatori, nonché il centro vivificatore di un ordine – costituisce il fulcro della rappresentanza esistenziale.
Proprio come il regnum ed il populus sono entità distinte, ma gerarchicamente ordinate (poiché il primo, sovraordinato, racchiude in sé il secondo, subordinato), così la “intencio” è all’origine
del processo di articolazione sociale più di quanto non lo siano le maggioranze numeriche scaturenti
dalla competizione per il voto popolare. L’“intencio” può essere equiparata, secondo Voegelin,
all’idéé directrice in cui Maurice Hauriou individua il «centro attivo 500 » dello Stato. Essa garantisce
l’effettiva rappresentatività di un ordine politico, non perché – è il caso di ribadirlo – la rappresentanza elementare sia una forma distorta di rappresentanza, ma perché, da sola, non è in grado di garantire l’esistenza di rappresentanti in senso esistenziale. Scrive con chiarezza Voegelin, sintetizzando la lezione di Hauriou: «non basta che un governo sia tale in senso costituzionale (il nostro tipo elementare di istituzioni rappresentative); esso deve essere rappresentativo anche nel senso esistenziale di realizzare l’idea dell’istituzione 501 ». Non contrapposizione, dunque, ma integrazione. E
questo perché «se un governo è rappresentativo soltanto in senso costituzionale, sarà spazzato via,
The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica , op. cit., pp. 71-72).
498
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 76.
499
Cfr. ad es. G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino 1957, pp. 15-28.
500
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 80.
501
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 81. Corsivi miei.
122
presto o tardi, da un capo rappresentativo in senso esistenziale; e molto probabilmente il nuovo capo
esistenziale non sarà neppure rappresentativo in senso costituzionale 502 ».
Quest’ultima osservazione aiuta a comprendere l’atteggiamento ambivalente tenuto da Voegelin nei confronti della rappresentanza elementare, che si presta ad essere paragonato a quello, di
metodo, relativo alla distinzione weberiana fra giudizi di fatto e giudizi di valore 503 . La rappresentanza elementare svolge indubbiamente un ruolo importante, nella misura in cui dà voce ai molteplici interessi affioranti all’interno di una società (laddove la distinzione weberiana è utile a scindere le opinioni infondate dai giudizi critici). Essa, tuttavia, è inadatta a comprendere in modo approfondito il processo di articolazione di un ordine politico, così come la metodologia weberiana è cieca rispetto ai princìpi teorici che dovrebbero guidare la scienza politica. La controprova è fornita,
nel primo caso, dall’Unione Sovietica – ossia dall’esistenza di società articolate e pronte all’azione
non governate con metodo democratico –; nel secondo caso, dalla filosofia classica e cristiana antecedente la Riforma – ovvero dall’esistenza di scienze umane che riconoscono all’ontologia dignità
di scienza –.
Esiste, però, una differenza di fondo non trascurabile. Pur apprezzando alcune ricadute pratiche della distinzione weberiana, Voegelin ritiene necessario superarla; ma, al contrario, non prospetta alcun “superamento”, in termini istituzionali, del modello liberaldemocratico. Ciò che gli preme sottolineare è che «la fondamentale questione» dell’esistenza di una società politica non può essere affrontata tramite la «pura e semplice descrizione della realizzazione esterna» di essa 504 . Non
può perché questa esistenza – che, per Voegelin, coincide con l’articolazione – è sempre problematica, e mai pienamente conciliata con il funzionamento formale delle istituzioni. «Hauriou ha indicato con molta energia come la rappresentanza in senso elementare non costituisca una garanzia
contro la disgregazione e riarticolazione esistenziale di una società. Quando un rappresentante non
adempie al suo compito esistenziale, la legalità della sua posizione non può salvarlo; quando una
minoranza creativa, per usare la terminologia di Toynbee, diventa una minoranza di dominio, corre
il pericolo di essere sostituita da una nuova minoranza creativa 505 ».
Se la nozione di rappresentanza elementare, di per sé, non produce effetti disgreganti, li genera invece il dogmatismo di quanti circoscrivono il problema della rappresentatività di un ordine
502
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., ibidem.
503
Cfr. cap. IV, par. II del presente lavoro.
504
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 81.
505
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 82.
123
politico al grado di rappresentanza elementare in essa praticato: primi fra tutti, i liberali506 . L’errore
del riduzionismo liberale, cui si perviene applicando in modo acritico la dottrina elementare della
rappresentanza, non risiede quindi nel dare «per scontata la struttura esistenziale che sta dietro alle
istituzioni rappresentative 507 », ma nel fatto di negarla alla radice. Per il liberale, sembra suggerire
Voegelin, non esiste alcuna “intencio populi”, alcuna “idée directrice”, poiché l’essenza della democrazia risiede, a suo avviso, nel governo popolare. La discussione sull’ordine politico può essere
circoscritta allo studio empirico, poiché il liberale – al pari, come vedremo, del totalitario – nega alla metafisica la dignità di scienza, e tende a fare dell’articolazione dell’ordine un problema squisitamente intramondano. È appunto questa negazione, questo occultamento a precludere al liberalismo la possibilità di una visione ampia, aperta alla trascendenza, dell’ordine 508 . Non diversamente
dalle ideologie totalitarie, il discorso politico liberale è confinato all’immanenza.
L’opposizione trascendenza/immanenza è invece estranea alla riflessione oakeshottiana. Se
Aristotele e Platone sono i punti di riferimento dichiarati di Voegelin, Oakeshott si muove entro una
prospettiva saldamente terrena: il suo punto di riferimento è Hobbes, in cui non scorge – come fa
invece Voegelin – l’espressione di un razionalismo degenerato, scaturito dagli sconvolgimenti prodotti dalle guerre di religione 509 , bensì un pensatore scettico, influenzato dalla tradizione epicurea,
in cui è impossibile trovare «qualsiasi idea del governo come strumento di perfezionamento o di
miglioramento umano 510 ». Sul punto, quindi, la distanza fra i due autori non potrebbe essere maggiore 511 .
506
«Dal punto di vista politico, la tesi di Voegelin significa inoltre che le istituzioni rappresentative liberaldemocratiche
– ovvero il livello della legalità costituzionale, della rappresentanza elementare – non sono sufficienti a garantire la vittoria contro le “minoranze creative”, cioè contro i progressisti liberal che spianano la via agli attivisti gnostico-totalitari.
La possibilità che la società occidentale esista in forma articolata gli appare insomma massimamente minacciata» (C.
GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, op. cit., p. 235).
507
G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, in R.
RANCINARO (a cura di), Ordine e storia in Eric Voegelin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988, pp. 95-112, spec.
p. 100. Cammarota, peraltro, nota successivamente come Hans Kelsen, recensendo criticamente The New Science of Politics, «prenda in considerazione la rappresentanza solo in senso elementare ed esistenziale, senza citare nemmeno la
rappresentanza di una verità trascendente: infatti il suo relativismo filosofico gli impediva di considerare una qualsiasi
verità trascendente» (p. 102). È appunto questa incapacità di comprendere il nesso fra rappresentanza politica e rappresentanza trascendente a costituire, per Voegelin, la cecità del liberalismo.
508
Ha così riassunto Michael P. Federici: «La rappresentanza elementare non può essere compresa isolandola da altri
aspetti dell’idea di rappresentanza. Gli aspetti istituzionali del governo non esistono, o non funzionano, in modo indipendente dalla ricerca di significato e di autocomprensione da parte dell’uomo» (M. P. FEDERICI, Eric Voegelin: the Restoration of Order, Wilmington, ISI Books 2002, p. 62).
509
Sull’interpretazione voegeliniana di Hobbes, cfr. C. GALLI, Strauss, Voegelin, Arendt lettori di Thomas Hobbes: tre
paradigmi interpretativi della forma politica della modernità, in G. DUSO (a cura di), Filosofia e pratica del pensiero:
Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 25-52.
510
M. OAKESHOTT, On Human Conduct, London, Clarendon Press 1975, p. 79.
511
Gli scrtti di Oakeshott su Hobbes sono raccolti in M. OAKESHOTT, Hobbes on Civil Association, Oxford, Blackwell
1975. In estrema sintesi, possiamo dire che, mentre per Voegelin Hobbes appartiene al novero di quei pensatori che
hanno preteso di edificare una nuova società politica con mezzi puramente razionali, in una prospettiva interamente intramondana, Oakeshott considera Hobbes «un nemico della perfezione», che ritiene compito delle istituzioni politiche
garantire norme universali ed astratte, anziché conferire loro fini specifici da perseguire (cfr. D. CANDREVA, The Enemies of Perfection: Oakeshott, Plato and the Critiche of Rationalism, Lanham, Lexington Books 2005, pp. 101-105).
124
Eppure, se Voegelin ricorre all’analisi dell’idea di rappresentanza per dimostrare
l’inadeguatezza teorica del positivismo, Oakeshott polemizza con non minor forza contro la definizione di democrazia rappresentativa dominante nel senso comune.
Col termine democrazia, sostiene Oakeshott nel 1957, si suole designare «una concreta modalità di governo», oppure «certe caratteristiche del modo con cui si governa 512 ». La diversa sfumatura, apparentemente di poco conto, ha in verità conseguenze significative, poiché la prima definizione si concentra sulla costituzione che contraddistingue il governo; la seconda guarda invece agli
impegni e ai compiti di cui il governo si fa carico. In questa seconda accezione, il governo democratico tende a identificarsi col suffragio universale, l’estensione della programmazione economica, il
rafforzamento della Camera dei Comuni, ed ulteriori correttivi istituzionali promossi dai progressisti.
Sennonché, come scritto due anni prima, «la democrazia è qualcosa di più antico dell’idea
astratta contenuta nella sua dottrina 513 ». Essa non va confusa con la sua ideologizzazione, ossia con
un insieme di principi astratti da realizzare, sempre e dovunque, a prescindere dal momento storico
o dalle tradizioni nazionali. Nel lessico corrente, «la “democrazia” appare […] come un oggetto del
quale è possibile chiedere: “che cos’è?”; un oggetto – o un insieme di condizioni – in cui i democratici, dopo aver risposto alla domanda, possono vivere, proprio come se fosse una casa, o che possono provare a costruire, quasi si trattasse di una navicella spaziale 514 ». Lungi dall’essere un congegno artificiale o la risultante di una riflessione astratta sul “governo del popolo”, la democrazia rappresenta il precipitato dell’esperienza storica europea, basata sul governo della legge (rule of law)
ed il riconoscimento di diritti individuali. Essa ha avuto origine da governi, originariamente non
democratici, sufficientemente forti per «mantenere l’ordine, senza il quale le aspirazioni
dell’individuo non possono essere realizzate 515 », ma non abbastanza per opprimere oltre misura
l’individuo stesso. «In un primo tempo, i metodi riconosciuti per trasformare gli interessi in diritti
erano giudiziali: i “parlamenti” e i “consigli” del Medioevo erano principalmente corpi giudiziari.
Ma da queste corti della legge emerse uno strumento che poneva maggiore enfasi nel convertire tali
interessi in diritti e doveri: nacquero i corpi legislativi 516 ». Lo Stato moderno estende, in modo uni-
512
M. OAKESHOTT, Democracy in England (1957), in What is History ? And Other Essays, Exeter-Charlottesville, Imprint Academics 2004, pp. 279-282, spec. p. 279.
513
M. OAKESHOTT, The Social and Political Doctrines of Contemporary Europe (1939), in What is History ? And Other
Essays, op. cit., pp. 149-160, spec. p. 153.
514
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History ? And Other Essays, op. cit., pp. 245254, spec. p. 253.
515
M. OAKESHOTT, The Masses in Modern Politics (1961), in Rationalism in Politics, Indianapolis, Liberty Fund 1991,
pp. 363-384, spec. p. 369.
516
M. OAKESHOTT, The Masses in Modern Politics (1961), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 363-384, spec.
ibidem..
125
versale ed uniforme, i privilegi feudali alla popolazione intera. È il rule of law a costituire, secondo
Oakeshott, l’essenza della democrazia 517 .
Oltre che con l’esperienza storica, la concezione corrente di democrazia rappresentativa deve fare i conti con la struttura e i compiti propri di qualsiasi organizzazione politica. Come affermato in altra sede, non è del tutto scorretto dire che un governo è rappresentativo «se è assemblato e
composto in modo tale da “rappresentare” tutte le diverse classi, gli interessi, le credenze, le opinioni 518 ». Tale “rappresentanza” non deve però entrare in contrasto con i compiti propri di uno Stato,
al quale non spetta la tutela di un fine specifico, bensì la salvaguardia di quelle condizioni giuridiche tali per cui una pluralità di fini possa liberamente esplicarsi in seno alla società civile 519 .
Non è possibile, in questa sede, addentrarci nella teoria dell’associazione civile di Oakeshott, che costituisce probabilmente il suo contributo teorico più noto 520 . Ci basti rilevare come la
metafora che meglio descriva l’attività di governo sia per Oakeshott quella dell’arbitrato. «In altre
[metafore], il governare è inteso come un’attività di gestione di un tipo o di un altro; il compito del
governante è imprimere direzione, ispirazione ed energia alle attività di cui si occupa. Ma quando
l’attività di governo è concepita come un arbitrato, il suo compito non è offrire direzione ed energia,
bensì garantire un controllo di un altro tipo 521 ». La distorsione più frequente, impressa da liberali
razionalisti e socialisti, al concetto di rappresentanza democratica consiste appunto nel volere conferire al governo un fine specifico, da perseguire mediante gli strumenti coercitivi di cui lo Stato dispone. Tale pretesa rispecchia la tendenza a concepire l’attività politica come «l’acquisizione del
potere e dell’autorità per imporre condizioni sostantive di vita a chi ne è soggetto – condizioni come
la prosperità, o la virtù». La tradizione del rule of law, espressa dalla figura del giudice-arbitro, suggerisce al contrario che l’azione politica consista nel «il prevenire che ogni singola condizione sostantiva sia imposta a scapito di tutte le altre 522 ». Oakeshott non contesta, dunque, la legittimità della rappresentanza democratica, bensì le possibili ricadute teleologiche che il governo rappresentativo possono avere sul rule of law e l’attività di governo. Riassume bene George Feaver: «Per Oakeshott, in sintesi, è valido quel tipo di democrazia che presuppone un certo grado di civilizzazione, in
cui la socievolezza può fiorire; che si coniuga con l’autorità ultima dello Stato e induce la politica a
517
Sul punto, cfr. anche M. OAKESHOTT, The Rule of Law, in On History and Other Essays, op. cit., pp. 129-178.
M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283300, spec. p. 285.
519
«Una molteplicità non regolamentata di associazioni spontanee finalizzate a un obiettivo può esistere soltanto dove
lo Stato non è esso stesso un’associazione finalizzata a un obiettivo» (M. OAKESHOTT, On Human Conduct, op. cit., p.
316).
520
Per una introduzione, cfr. S. COTELLESSA, Il ragionevole disaccordo. Hayek, Oakeshott e le regole “immotivate”
della società, op. cit., pp. 83-89.
521
M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283300, spec. p. 296.
522
M. OAKESHOTT, Current Ideas about Government (1959), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 283300, spec. p. 298.
518
126
restringere i propri spazi; che consapevolmente cerca di trovare un compromesso con la monarchia,
o col repubblicanesimo aristocratico; e che abbraccia la politica dello scetticismo e
dell’individualità, assai più che quella della fede e del collettivismo 523 ».
Preoccupazioni, queste, avvicinano Oakeshott alla sensibilità propria del liberalismo realista,
e lo pongono agli antipodi del liberalismo critico524 .
IV. Razionalismo e liberalismo
Abbiamo sin qui rilevato come tanto Voegelin quanto Oakeshott si schierino contro la metodologia positivistica ed evidenziato ciò che li separa dalla concezione “progressista” della democrazia rappresentativa. Sulla scorta di quanto detto, è possibile esaminare, in modo più approfondito, le
critiche di entrambi alla tradizione liberale.
L’uno e l’altro si professano oppositori della forma mentis ideologica, che identificano con
la proliferazione degli “ismi” nel discorso politico. «Per molti di noi» scriveva Oakeshott nel 1955
«la politica è diventata un’attività in cui spesso ci riteniamo in grado di prendere decisioni solo
quando abbiamo trovato risposta a domande come: cos’è la libertà? Cos’è la giustizia? Cos’è la democrazia? E il socialismo? E il liberalismo? E il comunismo, eccetera525 ». Questa ideological politics finisce per irretire il pensiero, imprigionandolo in assiomi indiscutibili. Così, «il “liberale” ritiene che alle persone dovrebbe essere permesso di pensare e di dire quello che credono. Egli ha orrore
della censura, in ogni sua forma, ed ha una sensibilità eccessiva al benché minimo sentore che qualche opinione è stata messa a tacere. Eppure, capita che si trovi in situazioni in cui il giudizio pratico
gli fa ritenere che le opinioni proferite siano troppo pericolose per essere tollerate. Così, egli accetta
un compromesso con i suoi principi liberali, ma è infelice, si sente in colpa, e considera sé stesso un
traditore 526 ». Ciò accade perché la politica ideologica non solo muove dal significato delle parole
per ricavare princìpi d’azione, ma anche perché «la condotta che scaturisce dalla politica ideologica
ci costringe a confrontarci con situazioni che ci inducono a indagare in modo perpetuo quei principi,
523
G. FEAVER, Regimes of Liberty. Michael Oakeshott on Representative Democracy, in C. ABEL, T. FULLER (ed.), The
Intellectual Legacy of Michael Oakeshott, Exeter-Charlottesville, Imprint Academic 2005, pp. , 132-159, spec. p. 157.
Per il riferimento alla politica dello scetticismo e alla politica della fede, si veda il par. VI di questo capitolo.
524
Cfr. cap. III par. I del presente lavoro. E, tuttavia, la sua posizione è ancor più radicale, poiché – ha sottolineato John
Gray – Oakeshott respinge in toto «il progetto di liberale di fissare, tramite una teoria o una dottrina, gli scopi propri ed
i limiti dell’autorità di governo, determinandoli una volta per sempre, sforzo tentato da Locke, Kant o J. S. Mill, o, nei
nostri tempi, da Rawls e Nozick […]. Per Oakeshott, al pari di Aristotele, il discorso politico è una forma di ragionamento pratico, ed in virtù di ciò non può mai gli si può mai chiedere di andare oltre, o di raggiungere il livello di certezza che si trova (almeno secondo Aristotele) nelle scienze teoretiche» (J. GRAY, Post-liberalism, Studies in Political
Thought, London, Routledge 1993, pp. 40-41)..
525
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245254, spec. p. 246
526
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245254,, ibidem.
127
come se tale indagine fosse il modo più intelligente ed onesto per risolvere i dilemmi 527 » in cui ci
imbattiamo. L’ideologia è una cristallizzazione del pensiero che tende, pertanto, a rafforzarsi al crescere delle sfide cui l’ideologia stessa è sottoposta. È ben vero che Oakeshott propone un significato
alternativo di ideologia: «uno specifico modo di comportarsi, definito in base a principi generali»,
derivante dalla «propensione a comportarsi in certi modi 528 ». Così intesa, l’ideologia «non si riferisce ad un oggetto ideale; non ci si può aspettare che ci dica nulla su come comportarci; ci comunica
soltanto qualcosa sul modo in cui possiamo riflettere in modo profittevole sui problemi 529 » . Ma è,
chiaramente, un modo assai peculiare di concepire l’ideologia, soprattutto perché essa viene integralmente privata di qualsiasi contenuto prescrittivo/normativo, e la si vuole fondata, sempre e comunque, su qualche esperienza diretta. L’ideologia di cui parla Oakeshott è quanto di meno utopistico si possa immaginare 530 .
Rationalism in Politics del 1947 è l’opera in cui l’avversione per il liberalismo costruttivistico assume i contorni più netti, benché esso non venga mai direttamente citato. In questo saggio –
uno fra i più ambiziosi e celebri di Oakeshott – a finire sotto accusa è addirittura il ruolo che il pensiero politico moderno ha inteso conferire alla ragione, così come il nesso intercorrente fra secolarizzazione e ideologizzazione della politica.
Oakeshott precisa subito – e Voegelin sicuramente si sarebbe detto d’accordo – che il razionalismo contro cui polemizza è quello moderno, post-rinascimentale: «non c’è dubbio che, in superficie, esso rifletta la luce del razionalismo proprio di età più antiche, ma, nel profondo, possiede caratteristiche che sono esclusivamente sue 531 ». Il successo di tale razionalismo è stato notevole, cosicché «oggigiorno, quasi tutta la politica è diventata razionalista, o quasi razionalista 532 ». Esso, tuttavia, non limita il proprio influsso alla vita associata. Poiché le sue radici affondano in una precisa
concezione antropologica, significativi riflessi se ne hanno anche in ambito gnoseologico, morale e
religioso.
È razionalista, secondo Oakeshott, l’individuo che predica l’indipendenza di pensiero ed il
rifiuto di ogni autorità, al di fuori di quella conferita alla ragione. Il razionalista è «il nemico
dell’autorità, del pregiudizio, di ciò che è abituale, consuetudinario, o semplicemente tradiziona-
527
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245254, spec. p, 248.
528
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245254, spec. p, 251.
529
M. OAKESHOTT, Conduct and Ideology in Politics (1955), in What is History? and Other Essays, op. cit., pp. 245254, spec. p. 252.
530
Solo in questo secondo senso Oakeshott accetta, coerentemente, di definirsi conservatore (cfr. M. OAKESHOTT, On
Being Conservative (1956), in Rationalism in Politics, op. cit., 407-437).
531
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. p. 5
532
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem.
128
le 533 ». Scettico verso tutto ciò che è proviene dal passato, non lo è nei confronti della possibilità di
separare con sicurezza il vero dal falso, di liberarsi dai preconcetti e dalle imperfezioni. Confida in
una ragione universale, comune a tutto il genere umano, ma – malgrado questa esteriore forma di
egualitarismo – nell’intimità del proprio cuore è «un individualista, che trova difficile credere che
qualcuno possa pensare, onestamente e con chiarezza, qualcosa di diverso da ciò che pensa lui 534 ».
Il razionalista limita le esperienze a quelle che può compiere di persona; non riconosce validità alle altrui. L’esperienza, a suo avviso, non si accumula di generazione in generazione e, di conseguenza, il passato è soltanto un fardello. Egli manca sia di negative capability – la capacità di accettare l’esistenza di misteri insondabili tramite l’esperienza – che di negative enthusiasm – il gusto
per l’ignoto e la sfera non razionale. Introducendo un termine che, negli scritti di Voegelin, diverrà
centrale, Oakeshott definisce «gnostica 535 » l’impostazione mentale del razionalista, per il quale la
ragione si riduce ad uno «strumento neutrale, finemente messo a punto 536 » mediante cui costruirsi
un’identità finalmente libera da tutto ciò che è imposto o tramandato.
Così facendo, il razionalista si emargina volontariamente dalla dimensione pratica, rinchiudendosi in una prigione psicologica che, poco a poco, lo separa dal reale. «La sua mente non ha atmosfera, non conosce cambi di stagione né di temperatura; il suo percorso intellettuale, per quanto è
possibile, è impermeabile a tutte le influenze esterne ed avanza nel vuoto. Avendo tagliato tutti i
ponti con la tradizionale conoscenza della società, e negato valore a qualsiasi educazione che sia
qualcosa di più di un addestramento ad una tecnica di analisi, egli è incline a considerare l’umanità
inesperta nel fronteggiare tutti i momenti critici della vita 537 », benché – nota sarcasticamente Oakeshott – l’umanità sappia benissimo come sopravvivere.
L’atteggiamento razionalista, che tende a diffondersi in ogni ambito dell’esistenza, è penetrato con forza persino nella sfera politica, ove un ruolo chiave viene svolto da ciò che è «tradizionale, circostanziale, transitorio 538 ». Ma di tutto ciò il razionalista non si cura. Poiché l’unica forma
di cambiamento che accetta è quella indotta e cosciente, è cieco innanzi alle evoluzioni spontanee
che avvengono in seno alla tradizione. Non a caso – come Hayek negli stessi anni notava 539 – «il carattere cui il razionalista si ispira è quello dell’ingegnere, la cui mente (si crede) è controllata tramite una tecnica appropriata, e il cui primo passo consiste nel disinteressarsi di tutto ciò che non ha direttamente a che fare con le sue intenzioni specifiche 540 ». «L’assimilazione della politica all’inge533
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics
535
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536
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537
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics
538
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics
539
Cfr. cap. III par. III del presente lavoro.
540
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics
534
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 6.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. ibidem.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. p. 7.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec. ibidem.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec, p. 7.
(1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 9.
129
gneria 541 », sostiene Oakeshott, tende a ridurla a strumento per la soddisfazione di bisogni immediati. Il razionalista «guarda alle circostanze per individuare i problemi, ma rifiuta il loro aiuto nel formulare le soluzioni 542 ». La politica del razionalista mira all’uniformità e alla perfezione, e questi è
incapace di intenderla se non come «risoluzione di problemi 543 ». Proprio come il Rousseau di Berlin 544 , il razionalista è convinto che «non ci può essere spazio per preferenze che non siano razionali, e che tutte le preferenze razionali necessariamente coincidono 545 ». Espressioni concrete di questo
atteggiamento , sono per Oakeshott, «il progetto della cosiddetta ri-unione delle Chiese Cristiane,
della diplomazia aperta, di una tassa unica, di una amministrazione che non abbia “ulteriori qualifiche al di fuori delle proprie abilità personali”, la società coscientemente pianificata, il Rapporto Beveridge, il Voto alle Donne, il Catering Wages Act, la distruzione dell’Impero Austro-Ungarico, lo
Stato Mondiale (di H. G. Wells o di qualcun altro), ed il recupero del Gaelico come lingua ufficiale
dell’Eire 546 ».
Contrariamente a quanto crede il razionalista, afferma Oakeshott, esistono in realtà due forme di conoscenza: quella tecnica, «formulata in regole che sono, o possono essere, deliberatamente
apprese, ricordate e, come si suol dire, messe in pratica 547 », e quella pratica, che «esiste solo
nell’uso, non è riflessiva e, diversamente dalla tecnica, non può essere condensata in regole 548 ». A
prima vista sembra emergere il problema della conoscenza dispersa, che avrebbe indotto Hayek a
sostenere la superiorità del mercato rispetto alla pianificazione 549 . In verità, Oakeshott sta pensando
ad una forma di sapere che si avvicina molto alla sensibilità artistica: non a caso, egli cita la cucina,
la pittura, la musica e la poesia tra i campi in cui sapere pratico e sapere tecnico si mescolano indissolubilmente. Anche in ambito scientifico «nessuna scoperta significativa è stata mai raggiunta
semplicemente seguendo le regole 550 ». Benché i caratteri della conoscenza pratica non vengano mai
chiariti, essa si presta ad essere descritta come un sapere intuitivo, parzialmente filtrato dall’esperienza 551 .
541
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem.
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 9.
543
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 10.
544
Cfr. cap. III, par. I del presente lavoro.
545
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 11.
546
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., ibidem.
547
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 12.
548
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, ibidem.
549
Cfr. cap. III par. III del presente lavoro.
550
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 13.
551
«La conoscenza pratica si acquista precisamente nel modo in cui uno si impadronisce della moralità ordinaria: tramite l’esperienza, il che significa con la pratica e l’attività. Se la conoscenza tecnica di suonare il piano può essere trasmessa da un libro, la conoscenza pratica la soltanto sedendo a fianco di un pianista esperto. Essa consiste
nell’osservare e nel tentare di riprodurre ciò che uno ha osservato – non solo da un punto di vista fisico, ma anche nei
modi, nei sentimenti, nelle abitudini dell’essere musicista, da un punto di vista generale» (E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 162).
542
130
Vale la pena di soffermarsi ora su una notazione storica presente nel saggio. Ricostruendo le
origini del razionalismo moderno, Oakeshott esamina le figure di Bacone e Cartesio e si domanda
quali circostanze abbiano permesso alle loro idee di esercitare un influsso così vasto sulla cultura
occidentale. Il motivo principale risiederebbe nel «declino della fede nella Provvidenza: una tecnica
benefica e infallibile rimpiazzò un Dio benefico e infallibile552 ». Il legame fra razionalismo e secolarizzazione non è ulteriormente approfondito in Rationalism in Politics, ma va comunque rilevato
come Oakeshott individui in Pascal il vero oppositore di Cartesio. Alla pretesa razionalistica di considerare conoscenza soltanto la conoscenza scientifica, Pascal contrappone «la dottrina della probabilità: l’unica conoscenza certa è certa in virtù della propria parzialità; il paradosso è che la conoscenza “probabile” contiene una parte più consistente di verità della conoscenza certa553 ». Oakeshott non sembra cogliere, comunque, il nesso fra scetticismo e fede nel pensiero di Pascal 554 . La
dimensione entro cui si muove resta, una volta, ancora interamente secolare 555 .
Nelle pagine conclusive del saggio, l’attenzione si concentra sui pericoli che l’approccio razionalistico comporta per una corretta educazione. Il rischio non consiste nella pretesa – condivisa
dal nazionalsocialismo e dal comunismo – di bandire ogni forma di educazione diversa dalla somministrazione della dottrina razionalistica dominante, bensì nel «progetto di non concedere spazio a
qualsiasi forma di educazione che non sia generalmente razionalistica nei suoi fondamenti 556 ». Il
fatto che il razionalismo abbia «iniziato a corrompere risorse ed istituzioni educative della nostra
società 557 » è dimostrato dal gran numero di tecnici che stanno facendo il loro ingresso in ambito
accademico: «la domanda di tecnici è ora così grande che le istituzioni adibite a preparali risultano
insufficienti, e le università si stanno attrezzando per soddisfare la domanda. La sinistra frase
“l’università ha preparato (trained) donne e uomini” si sta radicando, e non solo nel vocabolario del
Ministero dell’Istruzione 558 ».
Dalla lettura di Conduct and Ideology in Politics e di Rationalism in Politics possiamo quindi concludere che, per Oakeshott, il razionalismo: a) è il modo predominante di concepire la politica
nel mondo contemporaneo; b) si basa sull’erronea riduzione della conoscenza alla conoscenza tecnica; c) tende ad affermarsi in tutti i campi dell’attività umana; d) è una minaccia per una corretta
552
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 23.
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., pp. 22-23.
554
Cfr. D. ANTISERI, Come leggere Pascal, Milano, Bompiani 2005.
555
Oakeshott si serve del concetto di “idolatria” per definire la moralità del self-made man razionalista, ma, ancora una
volta, il riferimento è accidentale e non approfondito (cfr. M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 41).
556
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 37.
557
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 39.
558
M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 5-42, spec., p. 40.
553
131
educazione; e) conosce formulazioni molteplici, a seconda dei principi professati dall’ideologia razionalistica di turno: nel novero di tali formulazioni, figura anche il liberalismo 559 .
Anche Voegelin giunse a considerare il liberalismo come una proiezione delle tendenze razionalistiche operanti in seno alla civiltà occidentale. In una conferenza tenuta pressò l’Università
Cattolica Bavarese, nel 1960, scelse di esaminarlo sotto quattro profili: politico, economico, religioso e scientifico. Politicamente, il liberalismo consiste nella «opposizione a certi abusi, che devono
essere eliminati. Il liberalismo si oppone anzitutto allo stato di polizia di vecchio stampo; per cui è
contro l’invadenza del potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario; in ambito costituzionale,
pretende la separazione dei poteri 560 ». Economicamente, «significa repulsione per le antiche restrizioni legali, che limitano la libera attività economica 561 », la quale è animata da un illuminato interesse individuale. Da un punto di vista religioso, mira non tanto alla separazione fra Chiesa e Stato,
bensì «rigetta la rivelazione e il dogma come fonti di verità 562 ». La sua prospettiva scientifica consiste nell’«assunto dell’autonomia della ragione umana immanente come fonte di conoscenza. I liberali parlano di libera ricerca nel senso di liberazione dalle “autorità”, il che significa liberazione
non solo dalla rivelazione e dal dogmatismo, ma anche dalla filosofia classica, il cui rifiuto è motivo
d’onore, vista la sua commistione con la scolastica medievale 563 ».
È bene precisare che Voegelin, pur enucleandone i tratti specifici, non identifica il liberalismo come la dottrina di questo o quel pensatore, ma lo ritiene parte di «un movimento occidentale
comune 564 », una fase nel «movimento politico secolare565 » che contraddistingue la modernità. La
comprensione del pensiero liberale, al pari di quello positivista 566 , non può non vertere sulla sua essenza, sul principio generale che precede le singole manifestazioni concrete. Bisogna pertanto sottoporre a critica non i singoli autori liberali, presi singolarmente, ma – verrebbe da dire – «il liberalismo come concezione della vita 567 », posizione filosofica coerente che concepisce il problema
dell’ordine in termini rigorosamente secolari 568 .
559
Paul Franco ha sostenuto che, soprattutto con On Human Conduct, Oakeshott ha tentato di «purificare il liberalismo
dal materialismo e dall’economicismo con cui storicamente si è mescolato» (P. FRANCO, The Political Philosophy of
Michael Oakeshott, New Heaven, Yale University Press 1990, p. 159). Possiamo estendere tale riflessione e chiederci
se l’intera opera di Oakeshott non sia un tentativo di emancipare la tradizione del rule of law dal razionalismo politico
cui comunemente è associata.
560
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, in The Review of Politics, vol. 36, n. 6, 1974 (testo originale in lingua
tedesca del 1960), pp. 504-520, spec. p. 514.
561
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 515.
562
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., ibidem.
563
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., ibidem.
564
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 504.
565
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 505.
566
Cfr. par. II del presente capitolo.
567
Mutuo la definizione dall’omonimo saggio di Benedetto Croce (cfr. B. CROCE, La concezione liberale come concezione della vita, in Etica e Politica, Bari, Laterza 1967 (1a ed. 1931), pp. 235-243).
568
Secondo Voegelin, è appunto l’essere parte di un movimento comune a rendere il liberalismo tanto eterogeneo, storicamente e geograficamente: (cfr. E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 506).
132
Ciò premesso, risulta chiaro che Voegelin condivide con Oakeshott la tesi secondo cui il liberalismo razionalistico consiste in una forma di ribellione contro l’autorità. Sennonché
l’emancipazione liberale descritta da Oakeshott è principalmente una rivolta contro il passato, le usanze tramandate, le consuetudini plurisecolari, e la practical kwnoledge che recano con sé; mentre
la rivolta delineata da Voegelin è essenzialmente spirituale, volta a immanentizzare la ragione e a
ripudiare la dimensione trascendente.
«L’idea del mutamento pacifico, e di una politica basata sull’adattamento temporale alla situazione sociale, che – nell’età della rivoluzione industriale – muta rapidamente, è oggi divenuta
una costante di tutte le forme di liberalismo 569 ». Diversamente dai totalitari, i liberali ambiscono ad
una qualche forma di stabilità sociale, e, per ottenerla, contemperano «una visione liberale
dell’economia con la politica del Welfare State 570 ».
Ma ciò li rende davvero capaci di fronteggiare compiutamente, da un punto di vista intellettuale, il totalitarismo? Se, come Voegelin sostenne a più riprese, quest’ultimo consiste in un processo di ridivinizzazione della politica 571 , ed è esso stesso un prodotto della secolarizzazione, può
un’ideologia secolare come quella liberale contrapporvisi con efficacia?
La risposta, per Voegelin, è negativa. E ciò emerge con chiarezza dalla lettura di almeno due
suoi scritti: la recensione del 1947 dedicata a The Myth of the State di Ernst Cassirer, pubblicato postumo un anno prima, e quella – più nota – a The Origins of Totalitarianism di Hannah Arendt, del
1953.
Nella prima, dopo avere reso omaggio a Cassirer, Voegelin rileva come l’opera, malgrado
l’erudizione contenutavi, sollevi forti perplessità nel lettore più accorto: «l’ammirazione per la
grande maestria dell’autore si mescola inevitabilmente con un senso di sgomento, risultato dalla
constatazione che vengono tralasciate questioni fondamentali 572 ».
Ciò che Voegelin contesta a Cassirer è un’implicita filosofia della storia, basata sull’assunto
che «il pensiero dell’uomo evolva da un originario stadio mitico verso una penetrazione del mondo
sempre più razionale: i feticci del mito aprirebbero la strada alla ragione e alla scienza 573 ». Questo
punto di vista, di derivazione comtiana, culmina nella convinzione secondo cui «a coronare
l’edificio della scienza è la sociologia, che dissolverà le ultime ombre degli idola fori: una visione
della scienza che nello studio della società riscontra gli stessi modi di ragionare, la stessa esattezza
569
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 509.
E. VOEGELIN, Liberalism and Its History, op. cit., spec., p. 514.
571
Cfr. G. SEBBA, Introduzione alla filosofia politica di Eric Voegelin. Il mito della comunità e la società razionalistica,
Roma, Astra 1985, pp. 82-85.
572
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino 2001, pp. 131-135, spec. p. 131.
573
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino 2001, ibidem.
570
133
metodologica propria della fisica e della chimica 574 ». La proliferazione di miti politici del XX secolo, connessi all’affermazione dei regimi totalitari, dimostrerebbe, per Cassirer, che l’umanità non è
ancora in grado di approdare ad una percezione compiutamente razionale del mondo e del proprio
ruolo all’interno di esso 575 .
Secondo Voegelin, concepire l’evoluzione del pensiero occidentale come un cammino verso
un più compiuto stadio di razionalità è possibile soltanto distorcendo gli scritti di numerosi autori
del passato. Platone e Machiavelli, ad esempio, possono essere considerati alfieri del razionalismo
soltanto trascurando la centralità, nei loro scritti, di due elementi prettamente “mitici”: l’anima socratica e la virtù del Principe. Ma c’è di più: Cassirer non sembra rendersi conto che il pensiero mitico esiste, ed anzi si rafforza, in parallelo all’espandersi della razionalità: «il nuovo mito nasce perché il vecchio è stato distrutto 576 ». Secondo Voegelin, «il mito è un elemento indispensabile per la
costruzione di un ordine sociale 577 », e la pretesa di liberarsene può avere conseguenze tragiche, poiché «il nuovo mito che prende inevitabilmente il posto di quello passato può risultare molto sgradevole. Il Mito dello Stato è scritto come se all’autore non fosse mai venuto in mente che alterare un
mito, a meno che non sia migliore di quello da mettere al suo posto, è un passatempo pericoloso 578 ».
Nella seconda recensione, Voegelin giudica meritevole di attenzione l’opera di Arendt, poiché tenta di analizzare criticamente un fenomeno complesso, variamente connotato nello spazio e
nel tempo, come quello del totalitarismo, in una fase storica in cui la scienza politica (torna qui la
critica metodologica esposta nell’introduzione di The New Science of Politics) ha smarrito princìpi
rigorosi e trascura l’antropologia filosofica. Ciò malgrado, il meritorio tentativo è inficiato dalle carenze di fondo che contraddistinguono la concezione positivistica di scienza: il libro «reca le ferite
dello stato insoddisfacente della teoria a cui abbiamo alluso 579 ». I deragliamenti teorici rinvenibili
in esso «rivelano la confusione intellettuale della nostra epoca e mostrano in modo più convincente
574
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGEAnni di guerra, op. cit., spec. p. 132.
575
Sarebbe interessante comparare le posizione filosofica di Cassirer con quella – del tutto speculare – del liberal statunitense Sidney Hook, secondo cui il totalitarismo non deriva da un eccesso di razionalismo, ma dall’applicazione ancora
imperfetta dei metodi razionalistici alla risoluzione dei problemi sociali (cfr. S. HOOK, The New Failure of Nerve, in
Partisan Review, vol. 10, n. 1, 1943, pp. 2-23).
576
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., spec. p. 133.
577
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., ibidem.
578
E. VOEGELIN, Review, “The Myth of the State” in Journal of Politics, IX, n. 3, 1947, pp. 445-447, tr. it. in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., ibidem.
579
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 162.
LIN,
134
di qualsiasi argomento perché le idee totalitarie trovano un consenso di massa e lo troveranno ancora per molto tempo 580 ».
Dopo aver ripercorso e lodato la ricostruzione storica arendtiana, Voegelin ne contesta
l’assunto. «La trattazione dei movimenti del tipo totalitario al livello di situazioni e di cambiamenti
sociali, come anche dei tipi di governo da essi determinati, è soggetta a conferire alla causalità storica un’aura di fatalità 581 ». Arrestarsi a questo livello – che coincide, potremmo osservare, con la
sua descrizione elementare, o empirica – significa precludersi la possibilità di interpretare il totalitarismo in modo più profondo, evidenziandone i tratti di malattia spirituale del proprio tempo: «la malattia spirituale è l’agnosticismo delle masse moderne, e i paradisi o gli inferni sono i suoi sintomi,
ma le masse soffrono della malattia sia che si trovino nel loro paradiso che nel loro inferno 582 ».
Accettare questa chiave di lettura implicherebbe una diversa organizzazione dei materiali,
nonché una diversa impostazione di ricerca. «Se il disagio spirituale è la caratteristica decisiva che
distingue le masse moderne da quelle dei secoli passati, ci si aspetterebbe che lo studio del totalitarismo non fosse delimitato dal crollo istituzionale delle società nazionali e la crescita delle masse
socialmente superflue, ma piuttosto dalla genesi del disagio spirituale, semplicemente perché la risposta del crollo istituzionale reca chiaramente i segni di esso 583 »
La tesi proposta da Voegelin – provocatoria, ma coerente con i propri presupposti filosofici
– è che Arendt non sia in grado di analizzare tale disagio poiché essa stessa lo condivide e ne è espressione. In The Origins of Totalitarianism è rintracciabile l’idea che «i movimenti totalitari non
si propongono di porre un rimedio ai mali sociali mediante i cambiamenti industriali, ma vogliono
creare un millennio nel senso escatologico mediante la trasformazione della natura umana584 ». Questa trasformazione, tuttavia, è concepibile solo tramite un pervertimento della fede cristiana nella
perfezione, trasferita dalla trascendenza all’immanenza. Pervertimento che, afferma Voegelin, è
condiviso da Arendt quando sottolinea «”le necessarie limitazioni” 585 » che alla modificazione della
natura umana andrebbero poste.
«Quando ho letto questa frase, non ho quasi creduto ai miei occhi. “Natura” è un concetto
filosofico: esso denota che si identifica una cosa come una cosa di questo genere e non di un altro.
580
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 163.
581
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 166.
582
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 167.
583
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, pp. 167-168.
584
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 168.
585
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, ibidem.
135
Una “natura” non può essere cambiata o trasformata; un “cambiamento della natura” è una contraddizione in termini; il cercare di alterare la “natura” di una cosa significa distruggere la cosa 586 ».
Di tutto ciò Arendt sembra però essere inconsapevole: «l’autrice infatti adotta l’ideologia
immanentista, assume un “atteggiamento aperto” riguardo le atrocità totalitarie, considera la questione del “cambiamento della natura” come una materia che va determinata con il principio della
“prova e dell’errore”, e dal momento che la “prova” non si è potuta ancora servire delle possibilità
offerte da un laboratorio globale, la questione resta in sospesa per il momento 587 ». Ciò non significa, sottolinea Voegelin, che la Arendt conceda qualche attenuante alla spietatezza del nazismo o del
comunismo. Simili affermazioni, tuttavia, «riflettono un tipico atteggiamento liberale, progressista e
pragmatista verso i problemi filosofici […]. E questo atteggiamento è infatti di generale importanza
perché rivela quanto terreno hanno in comune i liberali e i totalitari: l’immanentismo essenziale che
li unisce supera alquanto le differenze di carattere che li dividono 588 ».
Voegelin conclude il proprio affondo con una frase che, ai fini della nostra trattazione, è della massima importanza: «la vera linea divisoria della crisi contemporanea non corre fra liberali e totalitari, ma fra i trascendentalisti religiosi e filosofici da un lato e i settari immanentisti liberali e totalitari dall’altro 589 ».
Conta poco, ai fini della nostra analisi, quanto Voegelin abbia davvero compreso della riflessione di Arendt; preme invece rilevare il nesso che egli individua fra determinate interpretazioni
del totalitarismo e i presupposti filosofici del totalitarismo medesimo. Da qui deriva l’impossibilità,
da parte dei liberali, di pensare il totalitarismo come qualcosa di diverso da una forma di pazzia, di
smarrimento della ragione. E proprio alla categoria di follia – sostiene Voegelin nella sua History of
Political Ideas 590 – ricorsero nell’Ottocento i positivisti liberali come Littré, per spiegare come mai
il loro maestro, Auguste Comte, avesse teorizzato una religione civile con cui rimpiazzare quelle rivelate. Il liberale, «vivendo nell’illusione che i problemi si possano risolvere intaccando il prestigio
di una Chiesa o abolendola del tutto, è fortemente sorpreso e addirittura spaventato quando gli si
presenta davanti una nuova variante dello spirito, a lui ancora meno gradita del cristianesimo, che
reclama di essere istituzionalizzata al posto di quella Chiesa di cui si è appena liberato 591 ». Pur es586
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 168-169.
587
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec., p. 169.
588
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, ibidem.
589
E. VOEGELIN, Review, “The Origins of Totalitarianism” in The Review of Politics, XV, 1953, pp., 68-85, tr. it. in E.
VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 161-170, spec, p. 169.
590
Va sottolineato che il volume From Enlightment to Revolution, citato in seguito, è un estratto della mai pubblicata
History of Political Ideas, redatta sul finire degli anni ’40.
591
E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla
Rivoluzione, Roma, Gangemi 2005, p. 174.
136
sendo animato da una sincera buona fede, egli «ha delle carenze che gli impediscono di essere sensibile ai problemi spirituali e di affrontarli in modo adeguato 592 ». Di fronte all’avanzata di un processo che egli stesso ha contribuito ad innescare, non può che arretrare, poco a poco, su posizioni
sempre più retrograde, ma è incapace di organizzare una reazione efficace. «La rottura di Littré con
Comte si deve alla paura che questi provò di fronte allo spettro della dittatura, sebbene egli fosse
cieco alla logica inerente al passaggio di Comte dal “positivismo intellettuale” alla sua forma religiosa. Per quanto si possa dire delle virtù e dei vizi di ognuno, non c’è molto da scegliere fra loro:
il liberale positivista riduce il senso dell’umanità al potere che, grazie alla scienza, si ha sulla natura
e sull’uomo, il quale rimane così privato della propria dimensione spirituale. L’escatologista dittatoriale raccoglie invece i castrati e trapianta in loro il suo spirito. L’uno fa il gioco dell’altro, e mediante questa interazione la crisi continua sempre più rapidamente il suo corso 593 ». Alla fine del
quale, ammonisce Voegelin in The New Science of Politics, vi è appunto la società totalitaria,
«l’approdo finale della ricerca gnostica di una teologia civile 594 ».
V. Gnosticismo e politica della fede
Per Voegelin, è impossibile comprendere le carenze del pensiero liberale senza inquadrarne
le origini in un processo più vasto, risalente al Medioevo: l’affermazione dello gnosticismo. Anche
per Oakeshott – che esprime in modo meno drastico a riguardo 595 – esistono tendenze, operanti in
seno alla tradizione moderna, che trasformano la politica in un’attività volta a promuovere
l’uniformità e l’oppressione. Per entrambi, queste forme degenerate di pensiero derivano da un rapporto distorto con la religione: esse sottendono, in estrema sintesi, una pretesa escatologica che vede
nel mondo un luogo adatto alla realizzazione di una compiuta e definitiva società giusta.
Sono sei, secondo Voegelin, le caratteristiche che contraddistinguono lo gnostico: «1) Bisogna evidenziare, anzitutto, che lo gnostico è insoddisfatto dalla situazione attuale. Questo, di per sé,
non è sorprendente. Tutti noi abbiamo motivo per non essere completamente soddisfatti di qualche
aspetto della situazione in cui ci troviamo; 2) Non molto comprensibile è, invece, il secondo aspetto
dell’atteggiamento gnostico: la credenza che gli inconvenienti della situazione derivino dal fatto che
592
E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla
Rivoluzione, op. cit., , ibidem.
593
E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it. Dall’Illuminismo alla
Rivoluzione, op. cit., p. 175. Corsivi miei.
594
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , op. cit., p. 202.
595
Va comunque precisato che Voegelin non identifica tutto il pensiero moderno con lo gnosticismo, pur considerando
lo gnosticismo la forma più influente di filosofia post-rinascimentale apparsa in Occidente. Sulla funzione e le origini
della categoria nella filosofia politica di Voegelin, cfr. P. J. OPITZ, Le tesi sullo gnosticismo. Osservazioni sull’interpretazione della modernità del mondo occidentale in Eric Voegelin, in Filosofia Politica, XIII, n. 2, 1999, pp. 225-242.
137
il mondo sia intrinsecamente poco organizzato […]; 3) La terza caratteristica è la credenza che salvarsi dal male del mondo sia possibile; 4) Da ciò segue la convinzione che l’ordine dell’essere debba essere mutato nel corso di un processo storico. Un mondo buono può evolvere, storicamente, a
partire da un mondo disorganizzato […]; 5) Col quinto punto giungiamo al tratto gnostico vero e
proprio: la convinzione che un cambiamento nell’ordine dell’essere dipenda dall’azione umana; che
un atto che porti alla salvezza sia possibile attraverso lo sforzo dell’uomo; 6) se è possibile, comunque, operare un cambiamento strutturale nell’ordine dell’essere dato, allora la sfida dello gnostico
diviene scovare le prescrizioni per questo cambiamento. La conoscenza – “gnosis” – del metodo per
alterare l’essere è la centrale preoccupazione dello gnostico. Come sesta caratteristica
dell’atteggiamento gnostico, pertanto, riconosciamo la costruzione di una formula di salvezza per sé
e per il mondo, così come la prontezza con cu lo gnostico si presenta in qualità di profeta, che proclamerà ciò che sa riguardo alla salvezza della genere umano 596 ».
Gnostico è colui il quale volta le spalle alla trascendenza e si cala in modo compiuto in una
dimensione intramondana. Per lui, la realtà non ha una struttura stabile, immodificabile dall’uomo –
quella che Voegelin definisce, sulla scia di Platone, metaxy 597 – bensì è malleabile; si presta ad essere alterata e manipolata. Egli, inoltre, è incapace di praticare la metafisica, o di intuire il rapporto
esistente fra politica ed antropologia filosofica. Voegelin conia il termine «logofobia» per descrivere il disprezzo con cui lo gnostico tratta i problemi ontologici 598 .
Non è possibile indagare qui, in modo approfondito, le molteplici sfaccettature che Voegelin
individua in questa figura. Va però sottolineato come lo gnosticismo cerchi di rovesciare quel rapporto di de-divinizzazione della realtà introdotta dal cristianesimo. «La vita delle prime comunità
cristiane non risultò stabile sul piano dell’esperienza concreta, ma oscillò tra l’attesa escatologica
della parousia che avrebbe realizzato il regno di Dio e l’interpretazione della Chiesa come apocalisse di Cristo nella storia. Poiché la parousia non si verificò, la Chiesa di fatto passò da una escatologia del regno nella storia a una escatologia della perfezione ultrastorica e soprannaturale 599 ». Il
grande artefice della svolta fu Sant’Agostino. Nel De Civitate Dei «egli liquidò apertamente come
“ridicola favola” la credenza nel millennio e, quindi, affermò risolutamente che il regno millenario
era il regno di Cristo nella sua Chiesa nel tempo presente, che sarebbe continuato fino al giudizio
finale e all’avvento del regno eterno nell’aldilà 600 ». Grazie all’influsso di Agostino, «il chiliasmo
596
E. VOEGELIN, Ersatz Religion: The Gnostic Mass Movement in Our Time (1a ed. 1960), in Science, Politics, Gnosticism, Willington, ISI Books 2002, pp. 59-88, spec. pp. 64-65.
597
Cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 63-71.
598
Cfr. M. P. FEDERICI, Eric Voegelin. The Restoration of Order, op. cit., pp. 56-58.
599
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., pp. 143-144.
600
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., pp. 144-145.
138
giudaico venne bandito insieme con il politeismo, allo stesso modo che il monoteismo era stato
bandito assieme con il monoteismo pagano, metafisico. In questo modo, la Chiesa diventava
l’universale organizzazione spirituale di santi e di peccatori che professano la loro fede in Cristo,
come rappresentante della civitas Dei nella storia, riflesso dell’eternità nel tempo. E, parallelamente,
in base a questa concezione, l’organizzazione di potere della società diventava una rappresentazione
temporale dell’omo, nel senso specifico di una rappresentanza di quella parte della natura umana
che si dissolverà con la trasfigurazione de tempo nell’eternità. L’unica società cristiana risultò così
articolata nei suoi due ordini, spirituale e temporale. Nella sua articolazione temporale, essa accettava la conditio humana senza illusioni chiliastiche, mentre elevava l’esistenza naturale mediante la
rappresentanza del destino spirituale attraverso la Chiesa 601 ».
E proprio contro tale separazione insorge Gioacchino da Fiore, il primo grande gnostico.
Mentre Agostino distingueva tra storia profana, basata sul succedersi degli imperi, e storia sacra, incentrata sul ruolo della Chiesa e di Cristo, Gioacchino e i suoi seguaci – che Voegelin identifica, fra
gli altri, in Voltaire, Comte, Saint Simon, Hegel, Marx – aboliscono questa distinzione. «La nuova
età di Gioacchino avrebbe portato una maggiore pienezza spirituale nella storia, ma ciò non sarebbe
stato determinato da un’eruzione dall’interno: esso sarebbe venuto da una nuova irruzione trascendentale dello Spirito. L’idea di un incremento completamente immanentistico di pienezza spirituale
si andò affermando piuttosto lentamente, nel corso di un lungo processo che potrebbe essere compendiato nella formula “dall’umanesimo all’illuminismo”: solo nel secolo diciottesimo, con l’idea
di progresso, l’incremento di significato nella storia divenne un fenomeno intramondano, senza irruzioni trascendentali. Qualificheremo come “secolarizzazione” questa seconda fase del processo di
immanentizzazione 602 ».
Alla base di tutto, vi è l’esigenza di sottrarsi alla condizione di insicurezza in cui versa il vero cristiano. «Il tentativo di immanentizzare il significato dell’esistenza è, in sostanza, il tentativo di
assicurare alla nostra conoscenza del trascendente una presa più salda di quella consentita dalla cognitio fidei, dalla cognizione della fede; e le esperienze gnostiche offrono questa più salda presa
perché esse dilatano l’anima a tal punto dia includere Dio nell’esistenza dell’uomo 603 ». La “scorciatoia” gnostica avviene «mediante un ripiegamento dalla trascendenza e conferendo all’uomo e alla
sua azione intramondana un significato di compimento escatologico 604 ». L’essenza della modernità
601
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 145.
602
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., pp. 154-155.
603
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 159.
604
E. VOEGELIN, The New Science of Politics,
nuova scienza politica, op. cit., p. 164.
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
139
risiede, dunque, in un processo di distaccamento dal cristianesimo agostiniano e nella sua sostituzione con le ideologie immanentistiche e totalizzanti. «Quanto maggiore è la frenesia con cui tutte
le energie umane vengono consacrate alla grande impresa della salvezza attraverso l’azione immanente al mondo, tanto più gli esseri umani che si impegnano in questa impresa si allontanano dalla
vita dello spirito. E poiché la vita dello spirito è la fonte dell’ordine nell’uomo e nella società, i successi di una civiltà gnostica divengono causa del suo declino. Una civiltà può quindi progredire e
regredire nello stesso tempo – ma non indefinitamente. C’è un limite a questo processo ambiguo; e
il limite è raggiunto quando una setta attivistica, che rappresenta la verità gnostica, organizza la civiltà in un impero di suo dominio. Il totalitarismo, inteso come dominazione esistenziale di attivisti
gnostici, è la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso 605 ».
La figura di Agostino ha un ruolo di primo piano anche negli scritti di Oakeshott 606 . Fin dai
suoi primi lavori, Agostino è colui che ha distinto città divina e città terrena, sostenendo l’impossibilità, per la seconda, di assicurare la salvezza dell’anima. «Per Agostino», scrive nel 1946, «iustitia e pax, che costituiscono i frutti dell’associazione civile, non sono nulla di più che un rimedio necessario per conseguenze immediate derivanti dal peccato originale; essi hanno una relazione specifica con la giustizia di Dio e la pax coelestis, ma non possono di per sé condurre alla “unione, perfettamente ordinata unione dei cuori nella gioia di Dio, e di ciascuno con l’altro in Dio” 607 ». È
l’antiutopismo di Agostino, fondato sulla consapevolezza che il perseguimento di fini “oggettivi”
non esaurisce la vita umana, né costituisce la componente più elevata di essa, a suscitare l’interesse
di Oakeshott.
Si comprende perché, dunque, in The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, la contrapposizione fra due modi antitetici di intendere la vita associata ruoti attorno ai nomi di Agostino
(rappresentante della seconda) e di Pelagio (rappresentante della prima). Pelagiana è la vocazione
perfezionista e costruttivista ad identificare un mondo giusto, in cui il dissenso sia bandito e
l’esistenza appiattita sulla sfera politica. Pelagiana è l’attitudine a pretendere dall’uomo più di quanto la sua natura possa effettivamente offrire. Pelagiana, infine, è la tendenza a scorgere nel mondo
qualcosa da sfruttare, anziché da contemplare e di cui godere.
Tre sono, secondo Oakeshott, le caratteristiche fondamentali della politica della fede. In
primo luogo, la convinzione che «la perfezione, o la salvezza, sia qualcosa da acquistare in questo
mondo; l’uomo può essere redento nella storia. Ed è sulla base di questo elemento che tale modo di
605
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., pp. 166-167.
606
Cfr. G. WORTHINGTON, Michael Oakeshott and the City of God, in Political Theory, vol. 28, 3, 2000, pp. 377-398.
607
M. OAKESHOTT, Introduction to Leviathan (1946) in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 221-294, spec. p. 292.
140
intendere la politica può essere, in maniera rilevante e rivelatrice, definito “pelagiano” 608 ». In secondo luogo, la persuasione che, affinché tale scopo sia raggiunto, è impossibile affidarsi all’azione
individuale, necessariamente disordinata e incostante: «il principale agente del miglioramento, che
culmina nella perfezione, è il governo. Pertanto, da ciò discende che l’attività di governo viene concepita come forma di controllo e di organizzazione dell’attività umana mirante al raggiungimento
della perfezione dell’uomo 609 ». Né il primo né il secondo di questi atteggiamenti sono riscontrabili
unicamente nella politica della fede; ma entrambi questi scopi si fondono in essa, e vi compaiono in
forma radicalizzata (questo il terzo punto). «Questo stile politico richiede una doppia fiducia: che il
potere necessario [per perseguire gli obiettivi prefissati] sia effettivamente disponibile, o possa essere creato; e la convinzione che, anche se non sappiamo esattamente in cosa consista la perfezione,
conosciamo la strada che ci permette di raggiungerla […]. Nella politica della fede, la decisione e
l’impresa politica possono essere concepite come la risposta ad una ispirata intuizione di cosa è il
bene pubblico, o la conclusione di un ragionamento razionale; esse sono mai, però, espedienti temporanei, o qualcosa che si fa affinché le cose possano procedere regolarmente. Conseguentemente,
in virtù di questa interpretazione della politica, le istituzioni del governo non saranno trattate come
mezzi che permettono agli eventi di fare il loro corso, né come congegni per implementare decisioni
di qualche genere, ma come strumenti per arrivare alla “verità”, per eliminare l’“errore” e fare in
modo che tale “verità” prevalga 610 »
«Chiaramente» aggiungeva Oakeshott «appartiene a questo stile politico detenere il potere
con soddisfazione, assai più che l’esserne imbarazzati; e nessuna quantità di potere sarà considerata
eccessiva […]. In proporzione al potere che avrà a disposizione, l’attività di governo, in questa ottica, diverrà puntuale, inquisitoria, priva di indulgenza: la società sarà trasformata in un panopticon e
i governanti saranno i guardiani-osserviatori dall’alto (panoverseers) 611 ». Questi ultimi si disinteresseranno della legalità formale, delle procedure e dei limiti costituzionali, e baderanno soprattutto
all’efficace perseguimento dei fini che si sono imposti. Inoltre, «sarà proprio di questo modo di governare, votato al perseguimento della perfezione, a richiedere non mera obbedienza, né sottomissione al soggetto, ma approvazione, ed anche amore. Il dissenso e la disobbedienza saranno puniti,
non in qualità di condotte turbolente, ma come “errore” e “peccato” […]. Infine, dovere del governo
– un dovere che sopravanza tutti gli altri – sarà perseguire l’elevazione morale, il che porterà a con-
608
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, New Haven-London, Yale University Press
1996, p. 23
609
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 24.
610
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 27.
611
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 28-29.
141
siderare i politici, e i loro collaboratori, come servitori, leader e salvatori della società, tutto nello
stesso tempo 612 »
La politica della fede, pur non essendo – come vedremo – l’unico atteggiamento verso la politica riscontrabile in età moderna, costituiva comunque, per Oakeshott, una delle concezioni dominanti del suo tempo, avendo tratto enorme forza dalla nascita dello Stato moderno, del cui avvento
non fu generatrice, ma, tutt’al più, «figlia casuale 613 ». Mentre il Medioevo poteva essere descritto
come un’età in cui la società aveva assunto forme policentriche e frammentate, priva di nuclei decisionali onnipotenti in grado di dominare un territorio, «l’aver riunito in un solo centro poteri di governo estremamente diffusi 614 » costituì il presupposto storico della diffusione della politica della
fede in Occidente. «L’instancabile, inquisitoria, onnipresente mano del governo stava iniziando a
poter raggiungere ogni luogo, inducendo i sudditi a ritenere che nulla potesse restare al di là del suo
controllo, e spalancando agli scrittori in vena di speculazioni l’immagine di illimitate possibilità future 615 ». Proprio in quel periodo, lo straordinario sviluppo della tecnologia – nelle comunicazioni,
nei sistemi di credito, nella navigazione, nella burocrazia – rendeva ancor più suggestiva la crescita
dell’apparato pubblico. «Lo spettacolo di un governo dotato di tanto potere già a sua disposizione,
combinato con la previsione di quello che sembrava potesse acquisire, grazie al perfezionamento
delle tecniche di controllo e di direzione delle attività umana – perfezionamento che egli stesso poteva favorire – provocò un gran numero di reazioni 616 ». I sostenitori della politica della fede lo celebrarono «con applausi entusiasti, come l’alba di un una nuova era di felicità, sinora mai ritenuta
possibile 617 ».
Il primo, grande esponente della nuova tradizione fu Francis Bacon. Diversamente da altri
autori che avevano elaborato teorie sulle modalità di impiego del potere – su tutti, Machiavelli –
Bacon non proponeva una visione pessimistica della natura umana. Egli teorizzava, al contrario,
l’esistenza di un progresso materiale «da perseguire o imporre, che egli intendeva non come una un
diritto autoevidente del genere umano, quanto piuttosto come una restaurazione di ciò che l’umanità
aveva smarrito dai tempi della Caduta 618 ». Tale progresso poteva essere identificato col benessere.
«Bacon fu inspirato dalla capacità, che intravide nella razza umana, di conquistare il proprio “benessere” (well-being) 619 », e ritenne che tale sforzo potesse essere meglio perseguito da un governo
inteso come «garante unico della perfezione e primum mobile nell’impresa della salvezza monda612
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 29-30.
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., pp. 45-46.
614
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 48.
615
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 49.
616
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 50
617
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem.
618
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit.,, p. 53.
619
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Sceptcism, op. cit.,, p. 55.
613
142
na 620 », anziché dallo spontaneismo individualistico. «In poche parole […], gli scritti di Francis
Bacon dimostrano che, anche prima della fine del sedicesimo secolo, il governo aveva acquisito il
potere necessario per dar vita alla politica della fede, che in effetti si era posto su questa strada, e
che i principi di questo stile politico stavano iniziando a diffondersi: tanto lo stile che la comprensione di questo stile erano senza dubbio emersi 621 ».
Nei secoli successivi, la politica della fede aveva assunto due distinte varianti: una religiosa
ed una economicista. La prima, sostiene Oakeshott, «può essere compresa solo nel contesto della
storia moderna 622 », caratterizzata dalla frattura della Res Publica Christiana e dall’affermazione
della Riforma. «La politica del puritanesimo inglese apparve inizialmente come una politica di opposizione; essa si contrapponeva al governo dell’epoca e, in particolare, alla situazione ecclesiastica 623 ». Ben presto, però, gli esponenti più radicali del movimento raggiunsero posizioni molto più
estreme: «per costoro, l’attività di governo era in tutto e per tutto l’attività della Grazia che si imponeva sulla natura, per raggiungere le condizioni identificate con la “Salvezza” 624 ». Pelagiani
anch’essi, aspiravano a «stabilire una comunità sacra in cui l’unica distinzione intercorreva fra i
santi (chiamati a governare) e i non rigenerati (destinati ad essere governati) 625 ». La seconda, invece, identificava i compiti propri del governo col «dirigere e l’integrare tutte le attività dei soggetti,
cosicché esse possano convergere nel perseguimento di una condizione descrivibile come “benessere” o “prosperità”, che costituisce il genere di perfezione cui può ambire l’umanità 626 ». Politica della fede anch’essa, poiché – al pari del puritanesimo – presupponeva l’esistenza di un fine ultimo
oggettivo, raggiungibile razionalmente, alla cui realizzazione ci si poteva opporre solo per motivi di
futile egoismo. «La “sicurezza” divenne dapprima salute (Welfare) e quindi “salvezza”; il “lavoro”
divenne dapprima diritto, quindi dovere; “tradimento” fu infedeltà rispetto alla morale, ovvero rispetto ad un credo religioso; e ogni minima [esigenza] fu ricondotta all’espressione massima ella
“libertà al bisogno” e al godimento della felicità, i quali vennero proclamati come diritti 627 ». Benché Oakeshott non faccia alcun nome, è possibile che si riferisca a forme pre-marxiane di egualitarismo socialista, come quello dei diggers di Winstanley. Terza formulazione – ma Oakeshott dice poco o nulla a riguardo –, quella dei philosophes illuministi.
Giunti a questo punto, va precisato che Oakeshott non respinge la politica della fede in
quanto tale – e in ciò si distingue dal giudizio voegeliniano sullo gnosticismo –, quanto piuttosto le
620
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem.
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 56.
622
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 58.
623
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 59.
624
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 60.
625
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., ibidem.
626
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 61.
627
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 63.
621
143
sue espressioni più estreme, accettate dai più in modo acritico. Ad esse preferisce contrapporre la
politica dello scetticismo, i cui numi tutelari sono «Agostino, Pascal, Hobbes, Locke, Halifaz, Hume, Burke, Paine, Bentham, Coleridge, Burckhardt, Tocqueville, Acton 628 ». Da costoro il «governo
è inteso come un’attività specifica, e in particolare è concepito come disgiunto dal perseguimento
della perfezione umana. Da un punto di vista intellettuale, si può pervenire a questa separazione in
più modi: o concependo la perfezione umana come qualcosa che non riguarda la sfera mondana,
oppure conferendo perseguimento di tale perfezione qualche altra istituzione, distinta dal governo 629 ». Ma esso si concilia anche – e non è una precisazione di poco conto, se paragonata al trascendentalismo di Voegelin – con il puro e semplice agnosticismo: la convinzione di poter capire
poco, ed apprendere poco, riguardo alla natura umana.
«La separazione priva l’attività di governo di quella finalità omnicomprensiva (il perseguimento del bene comune) che è alla base della politica della fede. Il compito del governo, qui, non è
quello di calarsi nei panni di architetto, progettando il modo perfetto di vivere, o (come la politica
della fede lo intende) di migliorare il modo di vivere, o qualsiasi modo di vivere in tutto e per tutto 630 ». Anche la politica dello scetticismo aspira a garantire l’esistenza di un ordine, ma
quest’ordine è sempre inteso come precario e imperfetto; lo Stato essere caricato di mansioni più o
meno estese, essere più o meno forte, ma è sempre e comunque limitato, a cominciare dai fini per
cui è istituto. «Partendo, teoreticamente, da un’interpretazione della condotta umana che postula il
conflitto, e vedendo che non c’è modo di abolirlo, senza sopprimere molte altre cose allo stesso
tempo, lo scettico non è disposto a dimenticare che le cariche di governo sono occupate da uomini
della stessa pasta di cui sono fatti i governati – uomini, cioè, sempre pronti, allorché giungono al
potere, ad andare oltre i propri compiti e imporre alla comunità “un ordine” particolarmente favorevole ai loro interessi o (per un eccesso di generosità e di ambizione) a stabilire qualcosa che va molto al di là dell’ordine. Ed è per questa ragione, appunto, che la politica dello scetticismo tende a
centellinare la quota di potere conferita al governo 631 »
Lo scettico non pensa che la discussione sia necessaria per dimostrare la verità, bensì che
rappresenti un’occasione per valutare molteplici aspetti che tendono ad essere dimenticati o fraintesi; ritiene che esistano attività più ricche, e più complesse, della politica, e che – infine – «il governare non è proprio nulla di entusiasmante, e che non spetta al governo chiedere entusiasmo per i
suoi servizi. I governanti vanno onorati e rispettati, ma non tenuti in alta considerazione: e la loro
628
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 129.
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit.,, p. 31.
630
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 32.
631
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 33.
629
144
principale virtù sarà il non pretendere di possedere un’abilità divina nel dirigere l’attività dei governati – dis te minorem quod geris imperas 632 »
«La storia moderna (con riferimento all’attività di governo)» scrive ancora Oakeshott, «è una concordia discors di questi due stili: e credo che quelli scorgono il trionfo della fede nel fallimento dello scetticismo, o il trionfo dello scetticismo nel collasso della fede, siano in errore 633 ». Ma se è vero
che la cultura politica europea trae alimento e vitalità da questi poli, e ognuno di essi, preso singolarmente, si rivelerebbe «autodistruttivo 634 », sarebbe erroneo collocare Oakeshott in una posizione
di equidistanza da entrambe. Le sue simpatie vanno chiaramente alla sceptical politics. Proprio come la costruzione della Torre di Babele, la politica della fede ha qualcosa di «empio 635 ».
L’insegnamento dell’apologo biblico consiste, appunto, nella messa in guardia contro «una forma di
vita morale che è pericolosa per l’individuo e disastrosa per la società. Per l’individuo, è un azzardo
che può portare una ricompensa quando i limiti di una società, che non è parte dello stesso azzardo,
vengono superati; per la società, è una mera follia 636 ».
VI. Gli spazi perduti della politica: balzo nell’essere e conversazione
Abbiamo sin qui ripercorso alcune tappe nella riflessione di Eric Voegelin e Michael Oakeshott, concentrandoci su snodi rilevanti. In principio, abbiamo evidenziato la critica mossa da entrambi alle pretese totalizzanti della metodologia positivistica. In secondo luogo, ci siamo concentrati sul problema della rappresentanza, che tanto Voegelin quanto Oakeshott impostano in modo
differente rispetto al mainstream liberale e progressista. Successivamente abbiamo indagato la loro
contestazione del razionalismo, focalizzandoci sulla sua variante liberale. Il nostro sguardo si è infine allargato allo gnosticismo e alla politica della fede, le forme più estreme cui è pervenuto un certo
filone della tradizione intellettuale moderna.
Resta da chiedersi, una volta esaurita la disanima della pars destruens antirazionalistica: esiste una pars costruens nella filosofia di Voegelin e Oakeshott? Quale spazio, in particolare, essi intendono conferire alla politica? Essa manterrebbe la predominanza che il razionalismo “gnostico” le
ha conferito? Ovvero verrebbe sopravanzata da forme differenti di azione o di condotta?
Non è nostra intenzione, in questa sede, offrire una risposta esaustiva ad un quesito tanto
complesso, che ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi. Gianfranco Zanetti ha ad esempio rilevato che «la nozione di ordine, in Voegelin, è tutta giudicata sul rischio, sull’incertezza,
632
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepiticism, op. cit., p. 38.
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 30.
634
M. OAKESHOTT, The Politics of Faith and the Politics of Scepticism, op. cit., p. 113.
635
M. OAKESHOTT, The Tower of Babel (1948), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 465-487, spec. p. 466.
636
M. OAKESHOTT, The Tower of Babel (1948), in Rationalism in Politics, op. cit., pp. 465-487, spec. pp. 476-477.
633
145
sull’impossibilità di qualsiasi progetto politico “forte” 637 ». E Luigi Franco si è spinto oltre, sostenendo che «sembra difficile poter attribuire a Voegelin l’intenzione di costruire un orizzonte anche
solamente critico-normativo, dal momento che il cuore del suo discorso mette capo al nocciolo filosofico che sta al centro di ogni esperienza 638 ». Parimenti, Elizabeth C. Corey ha sottolineato che
«Oakeshott intende la politica come un’attività che non guida, ma segue 639 ». E Michael Freeden ha
affermato che «respingendo la possibilità di elevarsi al di sopra del concreto e del particolare, Oakeshott rinuncia ad applicare una facoltà critica esterna, in particolare la possibilità di utilizzare frammenti di esperienza per ricombinarli in un modello esortativo differente 640 ».
Ciò che possiamo fare, invece, è richiamare l’attenzione su due elementi, presenti negli scritti di Voegelin e Oakeshott, che lasciano intravedere nuovi “spazi politici” in senso lato, nuovi ambiti in cui individuo e comunità possano recuperare un momento di interazione e di (precario) equilibrio.
Voegelin definisce «salto nell’essere» (leap in being) il momento in cui un individuo fa esperienza diretta della trascendenza. È stato giustamente scritto: «La coscienza, di fronte agli irrigidimenti e ai simboli ossificati che ipostatizzano surrettiziamente la tensione dell’anima verso il fondamento trascendente che la ordina, può attingere in se stessa una più alta comprensione della trascendente fonte dell’ordine. È questa la chance che Voegelin concede all’uomo sul piano esistenziale, ciò che lo rende più propriamente umano: nella profondità dell’anima giace in qualche modo la
possibilità di rimettere tutto in discussione, di rinnovare la radicalità della questione del fondamento
e di rivendicare per la propria più differenziata comprensione un maggior grado di luminosità e trasparenza 641 ». Ma questa esperienza, lungi dall’essere meramente individuale, può coinvolgere interi
popoli. Voegelin così interpreta l’Esodo israelitico dall’Egitto alla Terra Promessa, o il viaggio intrapreso dai pellegrini olandesi ed inglesi verso il Nuovo Mondo 642 . Del tutto analogo, del resto, è
l’impatto della filosofia socratica sull’ordine della polis: una radicale ridiscussione delle pratiche
quotidiane di vita. «Voegelin chiarisce che, col termine esodo, intende “un movimento del cuore”. Il
nuovo stato di esistenza, il volgere le spalle al mondo, crea una tensione fra l’ordine socio-politico
esistente e l’anima trasformata, e spesso questa tensione induce a una fuoriuscita (exodus)
dall’ordine esistente 643 ».
637
G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., p. 93.
L. FRANCO, Storia e politica nella riflessione di Eric Voegelin, in R. RANCINARO (a cura di), Ordine e Storia in Eric
Voegelin, op cit, p. 143-166, spec. p. 161.
639
E. C. COREY, Michael Oakeshott on Religion, Aesthetics, and Politics, op. cit., p. 156.
640
M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory: A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 414.
641
Cfr. G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., pp. 70-71.
642
Cfr. E. VOEGELIN, Order and History, vol I: Israel and Revelation, Louisiana State University Press 1956.
643
M. FEDERICI, Eric Voegelin: the Restoration of Order, op. cit., p. 157.
638
146
Si travisa però la natura del leap in being se lo si intende come un programma d’azione, un
insieme di proposizioni normative vincolanti. Il leap in being è l’opposto delle imposture intellettuali gnostiche, perché non cristallizza il problema dell’ordine, non imprigiona l’umanità in una
simbologia perpetua, non sbarra la strada a nuove aperture verso l’essere. «L’esodo è il tempo del
rinnovamento, della rigenerazione spirituale che radicalizza nuovamente la questione del fondamento perfezionandone la valenza differenziante 644 ». Non esisterà mai, rileva ancora Zanetti, un leap in
being definitivo, una manifestazione storicamente determinata dell’Essere che precluda alla coscienza nuove esplorazioni, destinate a riflettere in nuove articolazioni sociali. «L’esodo non può
mai, perciò, offrire soluzioni belle e pronte al problema dell’ordine politico; non è un pacchetto di
informazioni sistematiche né un progetto di fondazione. L’esodo, al contrario, consta ad ogni suo
verificarsi dell’impossibilità storica di una fondazione politica in senso stretto 645 ».
Tutto ciò avvicina, e molto, la filosofia di Voegelin al misticismo. Vena, questa, che si manifesterà in tutta la sua forza nell’ultimo volume di Order and History e in Anamnesis 646 . A riguardo, vale la pena di riferire l’opinione di Ellis Sandoz, suo allievo ed amico: «Fu Eric Voegelin uno
scienziato fin dentro al midollo? Sì. Fu un filosofico mistico in tutta la sua opera, dagli anni ’20 sino alla fine dei suoi giorni. Sì – come ha dichiarato lui stesso sul finire degli anni ’60. Si può contemporaneamente essere sia filosofi mistici che scienziati politici, nel senso filosofico che Platone e
Aristotele hanno conferito [a queste espressioni] nell’antichità classica? Sì, e questa fu la posizione
di Voegelin per come io la intendo, così come penso la intendesse lui, e come ho tentato di esporla
negli studi che gli ho dedicato 647 ». E ha aggiunto: «L’atteggiamento di Voegelin alla fine dei suoi
giorni è quello di un uomo che vive in una condizione di “apertura reattiva” (responsive openness)
al richiamo divino. Ritiene che la sfida non riguardi Dio, ma la verità dell’esistenza umana, nella
quale il ruolo persuasivo del filosofo non è mutato sin dall’antichità: quello di insistente difensore
della realtà – provata (experienced) nella propagazione della verità esistenziale. Questa è la vera
vocazione dello studioso. Ammesso possa esistere una “risposta” alla domanda che si pone colui
che medita senza fine, essa può essere trovata nell’esistenza di un’Unità (Oneness) divina, oltre la
pluralità degli Dei e delle cose. Alla fine della lunga battaglia, Voegelin [comprende che] la Realtà
provata-simboleggiata (experienced-symbolized) è un’unità misteriosa, ordinata e disordinata nel
contempo, che si pone in stato di tensione, diretta verso la perfezione del suo Oltre (Beyond) – non
verso un sistema 648 ».
644
G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., p. 78.
G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, op. cit., ibidem.
646
Cfr. M. P. MORISSEY, Consciousness and Trascendence: the Theology of Eric Voegelin, Notre Dame-London, University of Notre Dame Press 1994.
647
E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, Columbia, University of Missouri Press 2006, p. 157.
648
E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, op. cit., p. 169.
645
147
Ciò che ci interessa rimarcare, in questa sede, è che l’esperienza mistica non solo ha – sia
pure indirettamente – ricadute politiche, ma abbraccia una pluralità di esperienze gnoseologiche.
«Nell’esperienza dell’amore per l’origine dell’essere che trascende il mondo, nell’amore (philia)
per ciò che è saggio (sophon), nell’amore (eros) verso il buono (agathon) ed il bello (kalon), l’uomo
diventa filosofo. Da queste esperienze emerge l’immagine dell’ordine dell’essere. All’aprirsi
dell’anima – questa è la metafora che Bergson usa per descrivere l’evento – l’ordine diviene visibile
anche nel suo Fondamento e nella sua origine, nell’Oltre (Beyond), la platonica epekeina, a cui
l’anima partecipa, soffre e conquista la propria apertura 649 ». Senza spingerci oltre, non fosse altro
per le ambiguità che l’ermetica prosa voegeliniana reca con sé, possiamo comunque notare che il
leap in being è anche un’esperienza estetica. Questa sfumatura è stata ben colta da Gianfranco Lami. Egli cita un passo dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis: «“Io non so, ma mi sembra che ci siano due vie verso la conoscenza della storia umana. L’una, la via dell’esperienza, difficile e sterminata, con infinite incurvature; l’altra, un salto soltanto, la via dell’osservazione interna. Il viandante
della prima deve ricavare una cosa dall’altra con penosi calcoli, mentre l’altro può osservare, con
uguale immediatezza, la natura di ogni avvenimento e di ogni osa, considerarla nei suoi vari rapporti virtuali, e paragonarla con tutto il resto, come figure su una tavola 650 ». E commenta: «Non so se
Voegelin conoscesse espressamente l’Enrico di Novalis, pure è certo che l’analogia, non solo dal
punto di vista dei concetti, ma anche dal punto di vista delle parole impiegate, risulta impressionante. Ebbene, senza cadere nella banalità di una identificazione, che farebbe di Voegelin una specie di
epigono del romanticismo tedesco di inizio secolo verrebbe la voglia di proseguire il confronto, solo
perché incuriositi dalla definizione che i “mercanti” indirizzano alla volta del suo interlocutore: Enrico è un “poeta”. Il suo modo di ragionare è “poesia”, e “poetico” il suo atteggiarsi a fronte del
mondo 651 ».
Questo elemento ci conduce a Oakeshott, che proprio alla dimensione estetica si rivolge per
elaborare una visione della vita civile alternativa a quella razionalistica. Timothy Fuller, uno degli
interpreti più sottili ed empatici del suo pensiero, ne ha riassunto l’intera filosofia con la formula «la
poetica della vita civile 652 ». E perché proprio la poetica? Perché è nelle arti che l’uomo può riscoprire il valore dell’individualità, ma anche della riflessione non teleologica, della meditazione,
dell’incertezza. In Experience and its Model, del 1933, Oakeshott accosta religione ed estetica. Non
considerando – come invece farà in seguito – la vita pratica come una forma deteriore di esistenza,
649
E. VOEGELIN, Science, Politics and Gnosticism (1a ed. 1959), in Science, Politics and Gnosticism, op. cit.,, pp. 1314.
650
G. LAMI, Introduzione, in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 5-45, spec. p. 14.
651
G. LAMI, Introduzione, in E. VOEGELIN, Anni di guerra, op. cit., pp. 5-45, ibidem.
652
T. FULLER, The Poetics of Civil Life, in J. NORMAN, The Achievement of Michael Oakeshott, London, Duckworth
1993, pp. 67-81.
148
ma riconoscendole la stessa dignità della scienza o della filosofia 653 , suggerisce che «la forma più
profonda e positiva di vita pratica è quella dell’artista o del mistico654 ». Oakeshott «colloca se stesso nella rispettabile tradizione filosofica moderna che vede nel “disinteresse” la caratteristica centrale dell’esperienza estetica […]. Per Oakeshott la poesia è un genere di attività disinteressata 655 »,
così come lo sono la musica, o la conversazione. E appunto a quest’ultimo tema è dedicato il saggio
The Voice of Conversation in the Education of Mankind, del 1948.
«Le persone dicono che la vita è una cosa; ma io preferisco concepirla come una conversazione. La conversazione è in fondo un’arte, la più civilizzata e la più civilizzatrice delle arti - comparabile soltanto quella a culinaria. L’arte culinaria non nacque né per caso (come Charles Lamb
sembra ritenere), né (come ci dicono gli antropologi) come rito di purificazione primitiva; è iniziata
quando il piacere (non il mero nutrimento) è stato associato al mangiare, ossia quando si iniziò a
mangiare per il gusto di mangiare. E la conversazione fiorisce appunto dal senso di piacere che si ha
nel parlare. Essa si manifesta ogni qualvolta uno indulge nel parlare per il gusto di farlo, senza ulteriori motivi, ed essendosi emancipato dalla servitù di dover attendere, per farlo, un soggetto appropriato, un maestro, o anche un’occasione 656 ». Se, per Voegelin, è la trascendenza a sottrarre il filosofo dai pericoli della “vita inautentica”, Oakeshott scorge nella conversazione una dimensione esistenziale di gratuità estrema, del tutto scevra da interessi materiali. «L’arte della conversazione si
basa sull’’accettazione della convenzione secondo cui parlare non significa né ricercare una verità,
né propagandare un credo, ma realizzare un’unione (partnership) nel piacere intellettuale 657 ». La
conversazione è un viaggio avventuroso, ma privo di meta; non prevede che alcuni siano sconfitti
né che alcuni vincano; non è del tutto ironica, né completamente seria. «L’obiettivo non è persuadere, o convincere, non piegare un rivale col ragionamento, o tramite l’eloquenza; non è informare o
migliorare, ma – semplicemente parlare in un modo tale per cui ciò che viene detto spinge a parlare
di qualcos’altro 658 ». Al buon conversatore manca il desiderio di dominare gli altri; non c’è pensiero
che provi la validità di alcunché, nessuna tesi da dimostrare, nessun piano da seguire. La conversazione ha successo se chi la pratica ha successo nel «mantenere questo delicato aereo equilibrio,
mantenendo in vita qualcosa che, miracolosamente, ha visto la luce 659 ».
653
Cfr. cap. IV par. II del presente lavoro.
Cfr. M. OAKESHOTT, Experience and Its Models, op. cit., p. 296.
655
Cfr. E. PODOKSIK, The Voice of Poetry in the Thought of Michael Oakeshott, in The Journal of History of Ideas, vol.
63, n. 4, 2002, pp. 717-733, spec. p. 726.
656
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 187.
657
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec., p. 188.
658
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 190.
659
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec., ibidem.
654
149
Proprio come la trascendenza voegeliniana, la conversazione ha un effetto dirompente sulle
certezze granitiche, i simboli consuetudinari. Nella conversazione scompaiono i “fatti”, intesi come
oggetti statici e chiusi in sé stessi, poiché«l’arte della conversazione è precisamente un’arte della
dissoluzione; essa disintegra le forme fisse che gli uomini pratici hanno imposto al mondo e rivela
ciò che avvicina cose apparentemente distanti l’una dall’altra 660 ». Oakeshott si richiama ad autore
caro a Voegelin, Aristotele, per fissare il numero ideale di partecipanti – cinque – per dedicarsi a
questa attività. Essa è sì sociale, ma, nel contempo, riflette predisposizioni individuabili nel singolo.
«La conversazione è meramente la voce dell’anima naturaliter conversationalis. E coloro che sono
disposti a parlare secondo i canoni della conversazione useranno la voce della conservazione quando saranno soli, o quando parleranno unicamente a se stessi» 661 .
Il campo che più di ogni altro può trarre beneficio dalle virtù della conversazione è, appunto,
la politica. E qui torna, prepotentemente, il tema già affrontato nel par. III: la degenerazione della
rappresentanza. «La politica democratica è stata pervertita e portata in rovina dall’averla identificata
con il potere del popolo, il governo della maggioranza, la propagazione di una fede dogmatica ed il
perseguimento di un modo di vivere da imporre egualmente a tutti gli uomini 662 ». Eppure la tradizione britannica, immune da quel razionalismo che Oakeshott paragona ad una forma di ubriachezza, ci offre un’immagine diversa dell’esistenza rettamente vissuta. «Tutta la vita è necessariamente
imperfetta; è piena di opportunità, ma povera di certezza. La politica della conversazione è la sola a
riconoscere questa necessaria imperfezione. È la politica che, in tempi grami, fa meno danno di qualunque altra, avendo risorse interne sue proprie che la tengono lontana da impegni irreparabili. È il
solo stile politico che riconosce, in modo univoco, che governanti e governati non sono né dei, né
eroi, ma uomini mortali in un mondo di uomini mortali663 ». Ed ecco che la conversazione, da passatempo, assurge a vera e proprio stile di vita: il solo stile “civile” che «accetta le condizioni inevitabili della vita umana e ne tira fuori il meglio 664 ».
Se l’alternativa all’ingegnere razionalista risiede, per Voegelin, nel mistico, nel “poeta”, nel
pensatore, Oakeshott opta per la figura del conversatore. Pur con notevoli differenze, mistico e conversatore condividono alcune somiglianze non superficiali. Non hanno verità a portata di mano da
diffondere, né società perfette da edificare. Non ritengono la ragione umana uno strumento autosuf660
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 192.
661
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec. p. 193.
662
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec. pp. 194-195.
663
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec, p. 196.
664
M. OAKESHOTT, The Voice of Conversation in the Education of Mankind (1948), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 187-200, spec, p. 198.
150
ficiente con cui orientarsi nel reale. Partecipano ad un flusso di eventi che non possono, né intendono padroneggiare appieno. Considerano i sistemi chiusi come una paralisi del pensiero. Rigettano
come materialista le interpretazioni utilitaristiche dell’azione individuale. Hanno un atteggiamento
critico verso la modernità, che – almeno in parte – identificano con un tentativo di alterare i caratteri
più profondi della natura umana. Sono antiutopisti. Accettano la democrazia liberale, ma ne scorgono i fraintendimenti e le debolezze. La loro percezione dell’universo è caratterizzata da un senso di
incertezza; la condotta umana sempre segnata dalla consapevolezza del limite.
La filosofia di Voegelin e Oakeshott non può essere definita «politica» in senso stretto, eppure è densa di implicazioni politiche, poiché frontalmente configge con le modalità più diffuse con
cui la politica è stata teorizzata e praticata in Occidente nel secolo XX.
VII. Epilogo: un breve incontro
«Il professor Voegelin, della Louisiana, non è il genere di scrittore che si guarda spesso attorno, per capire se i suoi lettori stanno al passo con lui. Tiene un passo celere, e ignora le grida “aspettami!” che provengono da molti dei suoi compagni di viaggio. Per di più, è sempre in movimento; se uno resta per un momento all’ombra della sua saggezza, appena rialza lo sguardo si rende
conto di non vederlo più. E, inoltre, ha la sconcertante abitudine di puntare una strada per poi percorrerne un’altra 665 ». Inizia così, fra sottile ironia e sottesa ammirazione, la recensione che Michael
Oakeshott dedicò a The New Science of Politics di Eric Voegelin. Questo breve scritto, di per sé non
molto significativo, merita comunque di essere citato, poiché fu l’unica occasione in cui uno dei due
studiosi commentò un’opera dell’altro.
Oakeshott non esita a definire il testo, pur riscontrandovi alcuni limite, «uno dei più illuminanti saggi sul carattere della politica europea che sia apparso nell’ultimo mezzo secolo 666 ».
L’apprezzamento è indicativo. Proseguendo nella lettura, tuttavia, è percepibile un velato scetticismo, soprattutto nei confronti delle implicazioni radicali che la difesa voegeliniana della trascendenza porta con sé. Agli occhi di Oakeshott, la tesi della ridivinizzazione della politica come reazione al cristianesimo, «posta in modo così grezzo, può apparire implausibile 667 ». Essa, inoltre, sottovaluta l’incidenza delle contingenze storiche sul pensiero filosofico. Tuttavia, ammette Oakeshott,
665
M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234,
spec, p. 229.
666
M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234,
spec, ibidem.
667
M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234,
spec, p. 232.
151
«nei capitoli centrali, [Voegelin] spiega il processo in modo tale da risultare convincente 668 ». Ma il
vero punto critico è un altro, già fugacemente emerso nell’analisi comparata svolta sin qui: il diverso atteggiamento nei confronti della tradizione.
Secondo Oakeshott, il vero limite di Voegelin consiste nella «sottovalutazione dello sforzo e
nella vitalità di quello che, nella storia moderna cristiana, può essere definito neo-agostinismo politico 669 », ossia del pessimismo antropologico alla base della politica dello scetticismo 670 . Questo filone non si è esaurito; sopravvive e può vanificare, o quantomeno arginare l’entusiasmo dei razionalisti. Per Oakeshott, apprezzare pienamente il presente è possibile soltanto se si guarda con deferenza al passato: e ciò vale sia per i costumi ed i modi di agire, sia per la riflessione politica.
Ma ciò che Voegelin non desidera, appunto, è ancorare la propria filosofia a qualche elaborazione teorica preesistente 671 . Non deve stupire che Hume – il grande scettico, cui Oakeshott, in
modo più o meno esplicito, sovente si richiama 672 – sia, agli occhi di Voegelin, “conservatore” nel
senso deteriore del termine: un difensore dello status quo, che idealizza la società dell’epoca pur
rendendosi conto che ciò «è equivalente a un’assenza di princìpi 673 ». La ricerca dell’ordine è un
processo sempiterno, mai concluso, che impone sforzi teoretici inediti, nuovi 674 . Ecco perché la filosofia di Voegelin è – almeno in parte – destinata a confliggere con quella di Oakeshott, così come
con quella di ogni pensatore che tenda ad identificarsi con forme di pensiero già affermatesi storicamente. 675 . Come gli scrisse, in una lettera privata, Leo Strauss: «Detta in una frase: io credo che
la filosofia, in senso platonico, sia possibile e necessaria – mentre tu credi che la filosofia così concepita sia resa obsoleta dalla rivelazione676 ». Ciò che vale per Platone, vale per qualunque altro filo-
668
M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234,
spec, ibidem.
669
M. OAKESHOTT, “The New Science of Politics” (1953), in What is History? And Other Essays, op. cit., pp. 229-234,
spec, ibidem.
670
Cfr. cap. IV par. V del presente scritto.
671
Ha suggerito Dario Caroniti, cercando di spiegare il disinteresse di Voegelin per la figura di Burke, che esso deriva
dalla scelta «di fondare il proprio credo conservatore su determinati aspetti della cultura occidentale e non sulle particolari strutture politiche e sociali che in un dato momento si sono affermate» (D. CARONITI, Introduzione a E. VOEGELIN,
Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, Roma, Gangemi 2005, pp. 7-32, spec. p. 27).
672
Cfr. W. J. COATS, JR., Oakeshott and His Contemporaries: Montaigne, St. Augustine, Hegel, et al., Selinsgrove, Susquehanna University Press 2000, pp. 89-102.
673
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII: Revolution and the New Science, Columbia, Missouri University
Press 1999, cit. in M. FEDERICI, Eric Voegelin: The Restoration of Order, op. cit., p. 152.
674
E ciò vale sia per il contenuto, sia per il metodo. Ha notato Gianfranco Lami: «come è consentito accedere all’uno
metafisico attraverso i sentieri non segnati dalla esperienza del trascendente di una Chiesa, così la singola via può illuminarsi per chi ha occhi sufficientemente penetranti. Del resto, non esiste grazia che non debba venir aiutata individualmente. Anzi, su questo punto le insistenze di Voegelin si fanno chiarificatrici e prescinderne significherebbe non
comprendere a pieno il messaggio della sua ontologia» (G. LAMI, Introduzione a Eric Voegelin: dal mito teocosmogonico al sensorio della trascendenza: la ragione degli antichi e la ragione dei moderni, Milano, Giuffré 1993, p.
247).
675
Rileva Federici: «la vera risposta al rivoluzionario e al radicale non è, suggerisce Voegelin, la dottrina giusta, ma
l’anima ordinata in modo giusto» (M. FEDERICI, Eric Voegelin: The Restoration of Order, op. cit., p. 153).
676
Citato in E. SANDOZ, Republicanism, Religion and the Soul of America, op. cit., p. 134.
152
sofo: il sensorio della trascendenza è sempre attivo, e il salto nell’essere sempre possibile. È questa
opportunità, per Voegelin, a garantire l’esistenza di una «società aperta 677 ».
V.
Conclusione
Il conservatorismo fra difesa e reazione
Margareth Thatcher sopportava a fatica gli argomenti in
difesa della tradizione e del cambiamento graduale, e aveva scarsissimo rispetto per le venerabili istituzioni che
le si contrapponevano. Il parlamentare conservatore Julian Critchley disse di lei una volta che non poteva concepire un’istituzione senza desiderare di colpirla con la
sua borsetta.
Ian Adams, Ideology and Politics in Britain Today,
1998 678
La madre di Reagan educò il figlio ad una variante particolarmente rigida del protestantesimo […]. Quando corse per la Presidenza, [Reagan] mescolò la teologia cristiana conservatrice con gli attacchi allo statalismo. Se
questa visione religiosa e politica era indigesta a molti
americani, per milioni di essi dava invece voce ai valori
e alle convinzioni immutabili dell’America, che risalivano ai Padri Fondatori.
David Lynn Holmes, The Faith of the Founding Fathers,
2006 679
I. Preservare o rifondare?
In una conferenza del 1956, Michael Oakeshott mise a fuoco le caratteristiche di fondo del
conservatorismo, giudicandolo – prima ancora che un insieme di princìpi e di idee coerenti – una
«disposizione 680 ». Proprio della mentalità conservatrice è «preferire il familiare all’ignoto, il provato al non provato, il fatto al mistero, l’attuale al possibile, il limitato all’illimitato, il vicino al distante, il sufficiente al sovrabbondante, il conveniente al perfetto, la risata dell’oggi alla felicità
dell’utopia 681 ». Quest’approccio alla vita – destinato ad avere, come vedremo, conseguenze anche
sul piano politico – può derivare da una scelta consapevole, ovvero da una propensione «che si ma677
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, Milano, Giuffré 1993, p. 177-185.
678
I. ADAMS, Ideology and Politics in Britain Today, Manchester, Manchester University Press 1998, p. 82.
679
D. L HOLMES, The Faith of the Founding Fathers, Oxford-New York, Oxford University Press 2006, p. 175.
680
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, Indianapolis, Liberty
Fund 1991, p. 407.
681
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 408.
153
nifesta, in modo più o meno frequente, nelle preferenze e nelle avversioni, e non è scelta, né coltivata in modo specifico 682 ».
Suo malgrado, il conservatore è perennemente costretto a convivere col cambiamento; la sua
indole, nondimeno, lo induce a non accettare il mutamento indiscriminato, o le trasformazioni radicali. Egli è incline «ad apprezzare ciò che è presente e disponibile 683 », poiché prova attaccamento
ed affetto verso ciò che già conosce. Quando cambiare significa rompere con la tradizione, il conservatore soffre per ciò che viene sacrificato, «non perché quel che è andato perduto fosse intrinsecamente migliore di ogni ipotesi di miglioramento, né perché ciò che l’ha rimpiazzato sia incapace
di dargli gioia, ma perché quel che è andato perduto è qualcosa che già gli piaceva, che aveva già
imparato ad apprezzare, ed egli non avverte alcun legame con ciò che lo ha sostituito 684 ».
Con ciò, il conservatore non parteggia per l’immobilismo assoluto; tiene però un atteggiamento prudente, critico verso ciò che è nuovo. A turbarlo non è mai la stabilità, quanto piuttosto
l’ipotesi di uno stravolgimento improvviso. Poiché innovare senza migliorare è follia, i progressi
potenziali vanno verificati e soppesati con cura. I cambiamenti circoscritti sono preferibili ai cambiamenti drastici; le perdite devono sempre superare i vantaggi. «Qualunque sia l’innovazione, si
può star certi che il cambiamento sarà più ampio di quanto si credesse; vi sarà allora perdita, così
come guadagno; e perdite e guadagni non saranno equamente distribuiti fra le persone coinvolte.
C’è la possibilità che i benefici derivati siano più grandi di quelli calcolati; ma c’è anche il rischio
che portino al peggio 685 ».
Essere conservatori significa prediligere il conosciuto all’ignoto, operare con cautela al cospetto del pericolo, anche se ciò urta con la mentalità corrente. «C’è un pregiudizio favorevole verso ciò che non è stato ancora tentato. Facilmente presumiamo che ogni cambiamento, in qualche
modo, porti al meglio, e ci lasciamo convincere facilmente che tutte le conseguenze della nostra attività di innovatori siano di per sé miglioramenti, o – quantomeno – un ragionevole prezzo da pagare per ciò che desideriamo 686 ». È questo pregiudizio che induce a guardare alle antiche credenze
morali e religiose come a motociclette ed apparecchi televisivi oramai antiquati: «l’occhio si concentra sempre sul nuovo modello 687 ».
Al contrario, secondo Oakeshott, vi sono «circostanze in cui una disposizione [conservatrice] rimane non appropriata, ma assolutamente appropriata 688 » e relazioni del tutto conformi alla
sensibilità conservatrice, nei loro tratti fondamentali. Fra queste ultime possono essere annoverati
682
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 409.
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., ibidem.
684
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 409-410.
685
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 411.
686
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 414.
687
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., ibidem.
688
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 415.
683
154
tutti i rapporti «che trovano la loro ragione in se stessi, che danno piacere per ciò che sono e non per
quel che offrono 689 »: l’amicizia, il cameratismo, la conversazione. Simili forme di interazione non
si basano sul do ut des, in vista del raggiungimento di un fine; esse, al contrario, si reggono sulla
condivisione di esperienze, sulla partecipazione emotiva, sul senso di soddisfazione che origina la
presenza dell’altro. Più in generale, «quando la stabilità è più vantaggiosa del miglioramento, quando la certezza ha più valore della speculazione, quando un errore condiviso è superiore ad una verità
controversa, quando il male è più tollerabile della cura, quando soddisfare le aspettative è più importante del fatto che esse siano o non siano giuste, quando una regola di qualche sorta è preferibile
al rischio di non averne alcuna, la disposizione ad essere conservatori è appropriata più di ogni altra; e, in base a qualsiasi disamina della condotta umana, queste situazioni si verificano in un numero non trascurabile di circostanze 690 ».
Politicamente, il conservatorismo consiste nel trasferimento di questa sensibilità – prudente,
scettica, refrattaria a rapporti dettati da ragioni meramente utilitaristiche o strumentali – dalla sfera
privata alla sfera pubblica. «Io non credo che [il conservatorismo] abbia a che fare con particolari
convinzioni sull’universo, sul mondo, o sulla condotta umana in generale. Esso è legato, al contrario, a certe convinzioni relative all’attività del governare e agli strumenti di governo […]. Non ha
nulla a che vedere con la legge naturale o l’ordine provvidenziale, nulla da spartire con la morale o
con la religione; consiste nell’osservazione del nostro corrente modo di vivere, combinato alla convizione […] che governare è un’attività specifica e limitata, consistente nella salvaguardia e nella
custodia di regole generali di condotta, intese non come piani imposti per azioni specifiche, bensì
come strumenti che permettono alle persone di svolgere, con il minimo della frustrazione, le attività
che decidono di intraprendere 691 ».
L’idea che compito dello Stato sia custodire regole maturate dall’esperienza, applicandole in
modo quanto più rigoroso e imparziale, rappresenta, per Oakeshott, il nucleo duro della conservative politics. «Compito del governo non è imporre convinzioni o attività a coloro che sono sottoposti
ad esso, né educarli, né renderli migliori da qualche punto di vista; non galvanizzarli in vista
dell’azione, e tanto meno indurli a coordinare le loro attività in modo che non sorga alcun conflitto.
Compito del governo è meramente regnare (to rule). Questa è un’attività specifica e limitata, che
facilmente si corrompe quando viene combinata con qualche altra, ma che, nelle presenti circostanze, resta indispensabile 692 ». Ciò non significa rendere il governo impotente, o sottovalutarne
l’importanza: il suo ruolo consiste nel «risolvere alcuni dei contrasti scaturiti dalle diverse convin-
689
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit.,, p. 416.
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 418.
691
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 423-424.
692
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 427.
690
155
zioni e attività; nel mantenere la pace 693 », non sopprimendo la diversità e il pluralismo, bensì offrendo un quadro giuridico di riferimento (vinculum juris) in cui pratiche diverse, svolte con fini diversi, possano civilmente coesistere.
E quando le regole di condotta, salvaguardate dallo Stato, necessiteranno di modifiche, «il
conservatore non avrà nulla a che spartire con innovazioni progettate per situazioni meramente ipotetiche; egli preferirà imporre (enforce) una regola di cui già dispone, piuttosto che crearne una
nuova; penserà che è opportuno ritardare la modifica delle regole se sarà chiaro che il cambiamento
non sarà momentaneo; sarà sospettoso dei propositi di cambiamento più ampi di quanto la situazione richieda; diffiderà della richiesta, da parte dei governanti, di poteri straordinari per realizzare
grandi mutamenti, e di quei proclami generali che si richiamano al “bene pubblico” o alla “sicurezza sociale” […]. In parole povere, egli sarà incline a concepire la politica come un’attività i cui preziosi attrezzi vengono sostituiti poco a poco, nel tempo, e non come un’occasione di stravolgere ogni volta, in modo perpetuo, l’intero equipaggiamento 694 ».
Il conservatorismo di cui scrive Oakeshott – che, per inciso, non sta ricostruendo in modo
asettico un paradigma filosofico, bensì dando voce alla propria concezione filosofico-politica – può,
entro certi limiti, essere ricondotto al tradizionalismo 695 : in base a tale visione, esistono regole di
condotta, scaturenti dalla pratica, che le istituzioni pubbliche sono chiamate a riconoscere e salvaguardare; essere conservatori significa arginare la pretesa di alterare o di negare l’esistenza di tali
regole da parte dei razionalisti (che vorrebbero introdurne di nuove).
Ma che fare quando una tradizione è stata pesantemente intaccata, e sostituita da un nuovo
corpus teorico? Che fare quando le stesse categorie del discorso politico sono state corrotte da forme distorte di pensiero, manipolate dai demolitori della tradizione intellettuale pre-esistente?
Questa è la condizione in cui si trovò ad operare Eric Voegelin, nell’America positivista degli anni ’50. «Lo gnosticismo non domina assolutamente e incontrastato il campo», scriveva in conclusione a The New Science of Politics, poiché andava tenuto presente «che la tradizione classica e
cristiana della società occidentale è ancora viva; che l’emergere di una resistenza spirituale e intellettuale contro lo gnosticismo in tutte le sue varianti è un fattore importante nella nostra società; che
la ricostruzione di una scienza dell’uomo e della società è uno degli eventi più importanti
dell’ultimo mezzo secolo e, considerata retrospettivamente, potrà forse apparire in futuro come
l’evento più importante del nostro tempo 696 ».
693
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 428.
M. OAKESHOTT, On Being Conservative (1956) in Rationalism in Politics and Other Essays, op. cit., p. 431.
695
Cfr. R. STAAL, The Irony of Modern Conservatism, in International Political Science Review, vol. 8, n. 4, 1987, pp.
343-353; C. COWELL, The Redefinition of Conservatism, Houndmills, MacMillan 1986, p. 114 J. AGASSI, Science and
Culture, Dordecht, Kluwer Academic Publishers 2003, p. 378.
696
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica , Borla, Roma 1999, p. 204.
694
156
Questa rivolta contro la rivolta 697 , da realizzare all’interno di società in cui «la civiltà passa
per reazione e l’alienazione morale per progresso 698 », assumeva inevitabilmente i caratteri di un rovesciamento, del tutto analogo a quello che Augusto Del Noce ha colto nell’interpretazione voegeliniana del processo di secolarizzazione 699 . Il rigetto dall’esperienza trascendente, l’espulsione del
sacro della sfera pubblica, il trionfo della razionalità pragmatica, lungi dal rappresentare
l’emancipazione definitiva da ogni oscurantismo, costituivano invece il «mito del mondo nuovo 700 », contro cui il saggio era chiamato ad uno strenuo sforzo di resistenza e di contrasto, morale
ed intellettuale.
Chi ha tentato di ricostruire l’impatto dell’opera di Eric Voegelin sul movimento conservatore ha sovente rimarcato la difesa del modello democratico anglo-americano contenuto nelle ultime
pagine di The New Science of Politics 701 . Senza arrivare a definire quelle considerazioni «deboli» e
«contraddittorie», come fa Giuseppe Duso 702 , le si può comunque considerare scarsamente rilevanti
ed incisive, soprattutto perché collocate in appendice ad un saggio incompatibile – ha giustamente
sottolineato Carlo Galli – con ogni interpretazione manichea della Guerra Fredda 703 .
697
Mi avvalgo qui della formula coniata da Peter Viereck per definire la rinascita del conservatorismo occidentale (Cfr.
VIERECK, Conservatism Revisited: the Revolt Against the Revolt (1815-1949), London, John Lehman 1950).
698
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La
nuova scienza politica, op. cit., p. 216
699
Cfr. A. DEL NOCE, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, in E. VOEGELIN, La nuova scienza politica. Bola, Roma 1999, pp. 7-28, spec. p. 7.
700
È questo il titolo della traduzione italiana di Science, Politics and Gnosticism (cfr. E. VOEGELIN, Il mito del mondo
nuovo, Milano, Rusconi 1970).
701
«La rivoluzione inglese, nel secolo diciottesimo, si compì in un’epoca in cui lo gnosticismo non aveva ancora suito
la sua radicale secolarizzazione […]. La rivoluzione americana, benché i suoi dibattiti fossero più profondamente influenzati dalla psicologia dell’Illuminismo, ebbe tuttavia anch0essa la buona sorta di giungere a conclusione nel clima
istituzionale e cristiano dell’Ancien Régime […]. La società occidentale nel suo complesso è una civiltà quanto mai stratificata, nella quale le democrazie americana e inglese rappresentano lo strato tradizionale più antico e più saldamente
consolidato della civiltà stessa, mentre l’area germanica ne costituisce lo strato più spiccatamente moderno. In una situazione di questo genere resta una favilla di speranza, perché la democrazia americana e inglese, che più saldamente
rappresentano la verità dell’anima, sono anche le potenze più forti sul piano esistenziale» (E. VOEGELIN, The New Science of Politics, an Introduction, Chicago, University of Chicago Press 1952, tr. it. La nuova scienza politica, op. cit., p.
226). Sul punto, cfr. R. KIRK, Enemies of the Pernanent Thngs: Observations of Abnormality in the Literature and Politics, New Rochelle, Arlington House 1969, pp. 253-281; B. COOPER, Introduction in E. VOEGELIN, The Collected
Works of Eric Voegelin, vol. 13, Columbia, University of Missouri Press 2001, pp. 1-8.
702
G. DUSO, Filosofia pratica o pratica della filosofia? La ripresa della filosofia pratica ed Eric Voegelin, in G. DUSO
(a cura di), Filosofia e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli 1988,
pp. 159-191, spec. p. 191.
703
«Se si prescinde dal contesto teorico in cui questo pensiero è nato, e dai risultati scientifici che ha conseguito, è indubbio che buona parte del ductus argomentativo della Nuova Scienza Politica deriva da un evidente disagio di Voegelin davanti alla modernità dispiegata, comunista o capitalista che sia; da un’insofferenza vetero-europea davanti tanto
alla società chiusa quanto alla società aperta; da un rifiuto sia del pensiero dialettico (hegelismo e marxismo) sia del razionalismo costruttivistico (Hobbes) sia delle recenti forme fenomenologiche di sapere sociale (Weber)» (C. GALLI,
Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari, Laterza 2009, p. 235). E, in altra sede, lo stesso
Galli colloca Voegelin nel novero di quei pensatori propensi «a non riconoscersi intellettualmente in nessuno dei due
protagonisti del conflitto di civiltà allora in corso, a non schierarsi ideologicamente né con gli Usa né con l’Urss, poiché
in quel dualismo di superficie essi scoprono un’identica matrice teorica: i due nemici in realtà forniscono due declinazioni diverse del medesimo tipo di rapporto fra le società umane e la natura, la storia, la politica» (C. GALLI, Lo sguardo
di Giano: saggi su Carl Schmitt, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 153-154).
157
Assai più interessanti e pertinenti, invece, sono i riferimenti – rinvenibili qua e là negli
scritti di Voegelin – al modo in cui contrapporsi al degrado intellettuale e politico cagionato dai
movimenti gnostici. Pur non costituendo un’organica teoria della reazione, essi lasciano intuire una
modalità di “rieducazione” alla filosofia politica rettamente intesa che prevede un coinvolgimento
diretto degli intellettuali. Va infatti notato come la battaglia contro il secolarismo, pur prendendo le
mosse da un’attività cosciente del singolo, non si limita alla sfera individuale, alla stregua di una testimonianza morale.
Nota infatti Voegelin che «nessuno è obbligato a prendere parte alla crisi spirituale di una
società; al contrario, ciascuno è chiamato a sottrarsi a questa follia e a vivere in ordine la propria vita 704 ». Sennonché proprio l’aggressività distruttiva del credo gnostico impedisce ad un gran numero
di persone di mantenere inalterato il proprio legame con la trascendenza. «L’uomo è essenzialmente
sociale; vivere nella verità contro l’apparenza allorché il potere di una società è schierato al fianco
dell’apparenza costituisce per l’anima di molti un fardello impossibile da sopportare, e difficile da
tollerare per quella di pochi 705 ». Affinché sia possibile sottrarsi all’«accecamento dell’anima 706 » e
alla ri-divinizzazione della realtà ad opera delle ideologie, la società intera è pertanto chiamata ad
uno sforzo collettivo di liberazione dall’imprigionamento che il razionalismo illuministico le impone. «Si devono ricostruire le categorie fondamentali dell’esistenza, dell’esperienza, della coscienza
e della realtà. Ed allo stesso tempo si devono esplorare le tecniche e le strutture delle deformazioni
che ingombrano la vita quotidiana, ed elaborare concetti con i quali classificare le forme della deformazione esistenziale ed i suoi modi di espressione simbolica 707 ». Nello specifico quadro storico
dell’America del tempo, la restaurazione avrebbe comportato uno scontro frontale contro l’intellighenzia e la cultura accademica.
Le Riflessioni Autobiografiche, rilasciate da Voegelin all’allievo ed amico Ellis Sandoz nei
primi anni ’70, sono un documento di primaria importanza per poter comprendere l’idiosincrasia
con cui Voegelin guardava al progressismo americano, identificato con le élite dominanti nel mondo universitario. «È necessario riconoscere che un’ampia fascia di intellettuali americani è antiamericana – anche se vorrebbe negarlo –; e si tratta di quello stesso antiamericanismo reperibile tra gli
intellettuali europei. Questo antiamericanismo, comunque, a parte alcuni movimenti estremisti, non
è assolutamente vero comunismo; se non altro perché, eccetto pochi studiosi, i più ardenti intellettuali liberal non sono abbastanza alfabetizzati per leggere pensatori della statura di Hegel o Marx.
704
E. VOEGELIN, Science, Politics and Gnosticism (1959) in Science, Politics and Gnosticism, Wilmington, ISI Books
2007, p. 17.
705
E. VOEGELIN, Order and History, vol. III: Plato and Aristotle, Columbia, University of Missouri Press 2001 (1a ed.
1956), p. 133.
706
E. VOEGELIN, Order and History, vol. III: Plato and Aristotle, op. cit., ibidem.
707
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, op. cit., p. 161
158
Ciò che abbiamo non è un movimento comunista o marxista, ma un grottesco movimento paramarxista, che sempre fallisce nella pratica, perché i problemi considerati da Marx travalicano ampiamente l’orizzonte delle sue capacità di comprensione. Eppure, anche in questa forma volgare, i movimenti di questo tipo sono un fattore di disturbo all’interno della società […]. Ciò che realmente è
accaduto è stato il costituirsi di un movimento intellettuale, sconsiderato ed in parte analfabeta, che
inavvertitamente si è polarizzato rispetto alla realtà sociale americana ponendosi al di fuori di essa,
e che ora deve pagare il prezzo della sconfitta per la sua svista pragmatica 708 ».
La stessa opposizione alla guerra in Vietnam appariva a Voegelin una dimostrazione del
grado di corruzione intellettuale in cui versavano gli Stati Uniti: se la campagna del Tet poteva essere spacciata come una disfatta americana, ed il sostegno alla Cambogia in funzione di opposizione
al Vietnam del Nord essere equiparato ad un’aggressione imperialista da parte americana, allora
l’incapacità di interpretare in modo onesto l’attualità politica poteva dirsi totale. «Dal momento che
questa malattia degli intellettuali non si limita ai giornalisti o ai commentatori televisivi ma che essa
è penetrata profondamente nel mondo accademico, e attraverso quest’ultimo nell’educazione delle
giovani generazioni, diventa necessario riconoscere in queste tendenze un pericolo per il governo
democratico, che deve fare dopo tutto affidamento sul contatto con la realtà da parte della gente709 ».
E concludeva: «Oggi dobbiamo confrontarci con una forza socialmente omogenea di aggressiva disonestà intellettuale che pervade il mondo accademico ed altri settori della società. Una situazione
che richiederà correzione, in una forma o nell’altra, qualora dovesse farsi davvero critica 710 ».
Non è chiaro a che genere di correzione, nell’immediato, pensasse Voegelin, e a lungo si potrebbe discutere se un’ostilità tanto veemente contro i liberal fosse una logica conseguenza della sua
posizione filosofica, ovvero di esperienze dirette e personali all’interno dell’ambiente intellettuale
americano 711 .
E tuttavia è difficile non scorgere una forte affinità fra il desiderio di ridefinire le coordinate
di fondo del dibattito pubblico che animava Voegelin e quello al centro della proposta neoconserva708
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, op. cit., p. 179.
709
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, op. cit., p. 181
710
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, op. cit., ibidem. Corsivo mio.
711
Si vedano ancora le Riflessioni autobiografiche, nel punto in cui Voegelin spiega ciò che lo spinse a trasferirsi da
un’università della East Coast ad una del profondo Sud, sul finire degli anni ’30: «Bennington fu per me un’esperienza
del tutto nuova, che all’epoca potei assorbire soltanto parzialmente, perché la mia conoscenza di fondo della società
americana era piuttosto difettosa. Capii inoltre che non sarei voluto rimanere nonostante l’offerta molto seducente di
assistant professorship con salario di 5.000 dollari per l’anno successivo. La ragione per la quale rifiutai l’offerta cercando qualcos’altro era l’ambiente della costa orientale. A Bennington, in particolare, notai una forte componente di
sinistra, che comprendeva alcuni comunisti professi all’interno della facoltà, ma molti di più tra gli studenti.
Quest’ambiente non mi piaceva molto di più di quanto mi fosse piaciuto quello nazionalsocialista che avevo appena abbandonato» (E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections , Baton Rouge, Louisiana State University 1989, tr. it. Riflessioni Autobiografiche, op. cit., p. 126).
159
trice 712 . Il passo che meglio rispecchia questa comunanza di intenti lo si ritrova in From Enlightment to Revolution, nelle pagine dedicate al liberalismo francese post-comtiano. In esse, Voegelin respinge il gradualismo come valido metodo di risoluzione dei problemi politici, allorché una
società versa in uno stato di crisi. «Una società è per definizione in uno stato di crisi quando le sue
capacità di porre rimedio, sempre che ve ne siano, risultano socialmente inefficaci. I problemi sociali che richiedono un’immediata soluzione non possono essere risolti, perché è assente nella classe
dirigente la forza spirituale e morale necessaria alla bisogna. In questa situazione, il consiglio di fare ciò che non si è fatto, siccome non può essere fatto, è ovviamente inutile. Il suggerimento non è
soltanto vano, ma si aggiunge perfino alla gravità della crisi, giacché sottrae attenzione alla ricerca
di una vera alternativa 713 ».
Questa «vera alternativa», per Voegelin, non consisteva certo in un programma di riforme
«stagnanti», bensì nella «restaurazione della sostanza spirituale nella classe dirigente di una società, con la conseguente restaurazione della forza morale atta a creare un giusto ordine sociale 714 ».
L’accenno è fugace, l’idea non sviluppata, ma lascia intravedere una sorta di élitismo dello spirito
non troppo distante da quello di Leo Strauss, e certamente limitrofo, per terminologia e sensibilità,
alla dichiarazioni d’intenti di alcune frange del fondamentalismo cristiano 715 . Erano, forse, simili
suggestioni a indurre l’intellettuale di destra Brent Bozell, speech-writer di Barry Goldwater, a richiamarsi esplicitamente a Voegelin quando, nel 1964, davanti a una platea di 18.000 giovani attivisti dell’associazione conservatrice YAF (Young Americans for Freddom), declinò un manifesto in
difesa dell’America cristiana 716 . E un’eco se ne avverte nel celebre discorso del Presidente Reagan
contro l’Impero del Male, tenuto alla National Association of Evangelicals, nel 1983: «Sono lieto di
essere qui con voi oggi che mantenete gli Stati Uniti grandi perché li mantenete giusti. Solo attraverso il vostro impegno e le preghiere vostre e di milioni di altre persone possiamo sperare di sopravvivere a questo secolo pericoloso, mantenendo vivo questo esperimento compiuto nella libertà,
712
Cfr. S. T. FRANCIS, Beautiful Losers. Essays on the Failure of American Conservatism, Columbia, University of
Missouri Press 1993, pp. 88-94; W. E. PEMBERTON, Exit With Honor: the Life and Presidency of Ronald Reagan,
Armony, M. E. Sharp 1997, pp. 46-47; R. SCRUTON, Gentle Regrets: Thougths From a Life, London-New York, Continuum 2005, pp. 37-38.
713
E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Duke University Press 1975, tr. it Dall’illuminismo alla rivoluzione,
Roma, Gangemi 2007, p. 210.
714
E. VOEGELIN, From Enlightment to Revolution, Durham, Duke University Press 1975, tr. it Dall’illuminismo alla
rivoluzione, Roma, Gangemi 2007, ibidem. Corsivo mio.
715
Sulla destra religiosa, cfr. J. L. HIMMELSTEIN, To the Right: the Transformation of American Conservatism, Berkeley, University of California Press 1990, pp. 97-12. Si consideri anche la seguente affermazione di Voegelin: «la relazione tra scienza e potere, con la conseguente dannosa estensione del segmento utilitaristico dell’esistenza, hanno introdotto nella civiltà moderna un consistente elemento di cultura magica. La tendenza a restringere il campo
dell’esperienza umana all’area della ragione, della scienza e dell’azione pragmatica, la tendenza a sopravvalutare
quest’area in relazione al bios theoretikos e alla vita dello spirito, la tendenza a fare di tutto ciò l’unica preoccupazione
dell’uomo e rendendola predominante sul piano sociale attraverso la pressione economica nelle cosiddette società libere
e attraverso la violenza negli stati totalitari, tutte queste tendenze sono parte di un processo culturale dominato dall’idea
di operare sulla sostanza dell’uomo grazie agli strumenti della volontà pragmaticamente concepita» (FER, p. 210).
716
A. S. REGNERY, Upstream: the Ascenance of American Conservatism, New York, Thhreshold Editions 2008, p. 262.
160
che è la speranza ultima e migliore dell’uomo. Voglio che sappiate che questa Amministrazione è
motivata da una filosofia politica che individua la grandezza degli Stati Uniti in voi, che siete il popolo, e nelle vostre famiglie, nelle vostre chiese e nei quartieri e nelle comunità che voi animate: vale a dire nelle istituzioni che sostengono e nutrono valori quali la sollecitudine per gli altri e il rispetto del Rule of Law di cui Dio è il signore 717 ».
Oakeshott è animato dal desiderio di arginare, temperare, smorzare il nuovo; Voegelin aspira a rifondare l’antico. Ma se il primo può fare riferimento ad usi e costumi esistenti, ad equilibri istituzionali già instauratisi – forte è il richiamo, abbiamo visto, al rule o law inglese –, il secondo
non può che ragionare in termini di restaurazione e di rovesciamento 718 . Voegelin percepisce e, in
qualche misura, vive in prima persona il paradosso dei conservatori tradizionalisti, i quali – ha scritto Ted V. McAllister – «si ritrovano con poco da conservare 719 ». E ne trae le debite conseguenze:
«la sola opzione concreta in questi tempi è cercare la ricostruzione, assai più che la conservazione 720 ».
II. Conservatorismo: una prospettiva di indagine
Nel 1994, uno dei massimi studiosi del liberalismo newdealer, Alan Brinkley, tentava di rispondere al provocatorio interrogativo che Leo P. Ribuffo rivolgeva ai colleghi: «Perché c’è tanto
conservatorismo negli Stati Uniti e come mai così pochi storici ne sanno qualcosa 721 ». Rilevava
Brinkley: «Molti storici hanno narrato la storia dello sviluppo politico e culturale americano nel XX
secolo enfatizzando il trionfo di uno Stato liberale-progressista, e di un sensibilità moderna, cosmopolita, che l’ha accompagnato e che in larga misura l’ha sostenuto722 ». Esistevano, però, altri studiosi che, soprattutto in tempi recenti, avevano evidenziato caratteristiche diverse del sistema statunitense, come «la cronica debolezza dello Stato progressista, le enormi difficoltà dei liberal
nell’assicurare e nel mantenere vive le lealtà popolari, e l’impegno persistente di altre forze (molte
717
Cfr. AA.VV., Tear Down This Wall: The Reagan Revolution – A National Review History, New York, Continuum,
2004, pp. 30-37, spec. p. 31.
718
Cfr. M. FRANZ, Brothers under the Skin: Voegelin and the Common Experiential Wellsprings of Spiritual Order and
Disorder in Society, in G. HUGHES, The Politics of the Soul: Eric Voegelin on the Religious Experience, Lanham,
Rowman & Littlefield Publishers 1999, pp. 139-162, che evidenzia come la filosofia di Voegelin sia destinata a confliggere con ogni posizione politica meramente passatista od immobilista.
719
T. MCALLISTER, Revolt against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin & the Search for a Post-Liberal Order, Lawrence, University of Kansas 1995, p. 278.
720
T. MCALLISTER, Revolt against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin & the Search for a Post-Liberal Order, Lawrence, University of Kansas 1995, ibidem.
721
Cfr. L. P. REBUFFO, Why There is So Much Conservatism in the United States and Why Do So Few Histrians Know
About it, in The American Historical Review, vol. 99, n. 2, 1994, pp. 438-449.
722
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, in The American Historical Review, vol. 9, n. 2, 1994, pp.
409-429, spec. p. 409.
161
delle quali, per mancanza di un termine migliore, chiamiamo in genere conservatrici) in una battaglia, irrisolta, per definire la natura culturale e politica dell’America 723 ».
Lo sviluppo di questo filone revisionista era in qualche modo conseguenza dell’incapacità,
da parte di un gran numero di intellettuali liberal, di comprendere la potenza del messaggio conservatore. «Le spiegazioni, offerte da quegli studiosi, relative alla “destra radicale”, o “nuova Destra”,
o “rivolta pseudo-conservatrice”, lasciavano poco spazio alla tesi secondo cui i conservatori erano
persone le cui idee e lamentele andavano prese sul serio, e che la destra avrebbe meritato attenzione,
come elemento distinto della tradizione politica americana […]. Il risultato fu che la tendenza, da
parte degli studiosi “consensualisti” a spiegare il conservatorismo americano come un tipo di patologia – uno “stile paranoico”, una “politica simbolica”, un “prodotto dell’ansietà di status”, una “aberrazione irrazionale, o semi-razionali, rispetto ad un mainstream consolidato 724 » .
Questo atteggiamento, tuttavia, non era più accettabile negli anni ’90: troppa acqua era passata sotto i ponti, affinché il conservatorismo potesse essere considerato una forma di devianza
momentanea. E poiché esso «si compone di un vasto numero di idee, impulsi e conformazioni, e
molti conservatori non avvertono l’obbligo di scegliere fra impulsi in conflitto tra loro, persino incompatibili», diventava necessario fissare alcuni eventi cruciali che ne chiarissero la genesi.
Uno di essi, notava Brinkley, era sicuramente il New Deal. «Ciò che giungemmo a conoscere come “liberalismo” a metà del ventesimo secolo, in America, veniva ad identificarsi con un ripudio consapevole degli elementi antistatalisti propri della tradizione del liberalismo classico. Esso
rappresentava, piuttosto, il fondamento per costruire le condizioni di uno Stato più attivo e più potente (benché uno in cui le idee di diritti individuali giocavano un ruolo importante, spesso centrale) 725 ». Al cospetto dell’amministrazione Roosevelt, coloro che si professavano “veri liberali” difesero «i diritti individuali contro l’“ingegneria sociale” e il paternalismo della sinistra 726 ». Su questo
fronte, uomini come Friedrich A. Hayek, Milton Friedman e Michael Oakeshott rappresentarono
«una voce importante a favore del libertarianism nella società moderna, ed una spina nel fianco del
“collettivismo” che si diffondeva a macchia d’olio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante gli
anni ’30 727 ».
A costoro si aggiunsero, negli anni ’50, «un numero di intellettuali conservatori (molti dei
quali non erano parte dell’élite tradizionale, né southerners)», i quali «lanciarono uno strenuo assalto alla visione libertaria e relativistica della società, e sottolinearono l’importanza dei valori traman-
723
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 410.
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 411-412.
725
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 415.
726
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 416.
727
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., ibidem.
724
162
dati e delle norme tradizionali 728 ». Autori come Russell Kirk, ma anche difensori della filosofia
classica come Strauss sostenevano che «la teoria politica liberale, con la sua enfasi sulla libertà individuale e la moralità soggettiva, il suo entusiasta rifiuto della legge naturale […] conduce al nichilismo – o è identica al nichilismo 729 ». Anche i «cattolici conservatori (fra questi, il più noto William
F. Buckley) avevano da tempo nel mirino il relativismo e lo smoderato individualismo dei liberali
moderni 730 », cui contrapponevano un modello di comunità organica di stampo tomista e medievale.
Gli anni ’70, infine, segnarono l’affermazione del fondamentalismo religioso organizzato.
«L’obiettivo della destra fondamentalista era sfidare i valori scientifici e secolari della cultura moderna, valori che i liberal erano giunti a considerare norme vincolanti. Molti liberal furono pertanto
stupiti, ed anche sconcertati, dall’improvviso, violento assalto a simboli del progresso come la secolarizzazione della cultura popolare, l’insegnamento dell’evoluzionismo, la separazione fra Chiesa e
Stato 731 ». Per i sostenitori della destra cristiana, la linea di confine divideva «quelli che credono che
le leggi e le politiche pubbliche derivino da credenze religiose e coloro che invece rigettavano tale
assunto 732 ».
La combinazione di queste forse faceva sì che «alla fine degli anni ’80, era più possibile liquidare il fondamentalismo conservatore in America come una peculiarità di una civiltà rurale declinante 733 », che la modernizzazione sospingeva inesorabilmente nell’oblio. Contrariamente a quanto i liberal avevano creduto, «era possibile, per una persona, essere membro della stabile e opulenta
classe media, far parte del mondo moderno burocratizzato, abbracciare una cultura consumistica,
raggiungere e godere del successo mondano, ma nel contempo aggrapparsi a credenze religiose e
culturali che sono agli antipodi di alcune nozioni basilari della modernità 734 ». Se i liberal continuavano a considerare l’America «una società votata al moderno razionalismo, alla libertà di ricerca,
alla scienza, e soprattutto al progresso», ormai andava riconosciuta l’esistenza di un vasto numero
di statunitensi «descrivevano l’America come una società assai differente: un bastione dei valori
tradizionali (o “familiari)” e della fede tradizionale in un’età sempre più senza Dio; una cittadella di
rigore morale nel mondo corrotto; l’unica, autentica Nazione Cristiana sulla terra 735 »
Bisognava ammettere, concludeva Brinkley, che la modernità progressista, che un vasto
numero di studiosi, con fare compiaciuto, dava per scontata, considerandola inattaccabile […] può
non essere, nei fatti, tanto radicata quanto pensano costoro. Bisogna ammettere che il culto della
728
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 420.
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., pp. 420-421.
730
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 421.
731
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 423.
732
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., ibidem.
733
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 424.
734
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 427.
735
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 428.
729
163
modernità non è ancora davvero incontestato; che, anche in America, alcuni dei valori e delle istituzioni basilari di una società moderna non hanno ottenuto piena legittimazione da un vasto, e politicamente influente, segmento della popolazione 736 »
***
L’esposizione del diverso atteggiamento – difensivo l’uno, restaurativo l’altro – suggeriti da
Oakeshott e Voegelin nei confronti del filone razionalistico-costruttivistico della modernità conclude idealmente il nostro itinerario. Affinché essi possano essere adeguatamente contestualizzati, bisogna fare riferimento al quadro storico delineato nelle pagine precedenti, e al breve excursus di Alan Brinkley riportato qui sopra.
L’analisi svolta nel presente lavoro ha preso il via da un chiarimento preliminare relativo alla nozione di conservatorismo: questo termine non designa – abbiamo sostenuto nel capitolo I – un
puro e semplice atteggiamento difensivo, culturalmente sterile, di fronte all’innovazione; né rappresenta una risposta locale a problemi locali. Ancor meno si presta ad essere inquadrato in termini
funzionali: essere conservatori non implica riconoscersi sempre e comunque nello status quo, ma
prevede la possibilità di alterare, persino in modo radicale, gli equilibri socio-politici che reggono la
vita di una comunità.
La problematicità dell’atteggiamento conservatore riemerge con forza in chiusura. Senza volersi avventurare in ulteriori delimitazioni e definizioni, bisogna comunque chiedersi: può esistere
una teoria politica conservatrice in senso proprio? Il conservatorismo è davvero un’opzione alternativa, ma analoga nella sua articolazione concettuale, al liberalismo, al socialismo, al nazionalismo, e
alle altre elaborazioni dottrinali che hanno caratterizzato «l’epoca delle ideologie 737 »? Ovvero è destinato a vivere di luce riflessa, contrapponendosi di volta in volta a quelle enunciazioni filosofiche,
e a quelle rivendicazioni politiche, che destabilizzano, nei fatti o in potenza, l’armonia della res publica?
La questione è complessa quanto controversa, eppure lo studio degli scritti di Eric Voegelin
e di Michael Oakeshott ci indirizza verso una possibile – benché parziale – risposta, diversa dalle
due appena ipotizzate. In termini descrittivi, il conservatorismo può essere definito come un’ideologia in senso debole, poiché costituisce (recuperiamo qui la citazione di cui ci avvalemmo nel primo capitolo) «un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di gui-
736
A. BRINKLEY, The Problem of American Conservatism, op. cit., p. 429.
Cfr. K. BRACHER, Zeit der Ideologien : eine Geschichte politischen Denkens im 20. Jahrhundert, Stuttgart : Deutsche Verlags-Anstalt 1982.
737
164
dare i comportamenti politici collettivi738 ». Guidare, però, non significa progettare. Da un punto di
vista normativo, infatti, il conservatorismo è radicalmente ostile all’ideologia in senso forte 739 : rifiuta cioè il pensiero sistemico, basato su inferenze da postulati indimostrabili; rigetta l’utopismo,
ossia la pretesa di edificare società pacificate e perfette; respinge la possibilità di un cambiamento
cosciente dell’organizzazione sociale con metodi puramente razionali. L’ordine politico, nella concezione conservatrice – ha rilevato Michael Freeden – non può prescindere da una qualche fonte di
legittimazione extra-individuale ed extra-razionale 740 : sia essa la tradizione, la trascendenza, o qualsiasi altra forza che prescinda dal volontario consenso formulato da individui liberi e responsabili.
La Ragione perde quel ruolo attivo, creativo e costruttivo che le ha conferito larga parte della tradizione moderna. La politica cessa di essere un terreno neutro di sperimentazione, in cui la natura
umana trova compiuta armonizzazione in un dato assetto istituzionale, sia esso lo Stato costituzionale, la società senza classi, la Nazione o l’Impero. Dice ancora bene Freeden: nella visione conservatrice, la politica «rifiuta deliberatamente di occuparsi dei fini e dei valori umani universali e della
realizzazione del potenziale umano nell’ambito di strutture organizzative appositamente create 741 ».
Per il vero conservatore, ha rimarcato Russell Kirk, i problemi politici sono, in ultima istanza problemi morali e religiosi 742 . L’ordine non è il prodotto dell’attività consapevole degli individui; sono
gli individui che, al contrario, appartengono a qualche forma di ordine, cui partecipano in modo più
o meno consapevole, e con cui – più o meno consapevolmente – convivono.
Quando quest’ordine viene negato, aggredito o infranto, il conservatore sveste i panni di
“moderato” per trasformarsi in “radicale”743 . Le pagine di Voegelin sono illuminanti in questo senso. Di fronte alla corruzione intellettuale, alla menzogna, al rifiuto della dimensione vitalizzante e
vincolante che l’ordine reca con sé, il conservatore reagisce. E reagisce aggredendo, sradicando,
smantellando quelle istituzioni, quelle teorie, quegli ideali di «società giusta» che il razionalismo ha
proposto, realizzato, difeso. Per il conservatore – momentaneamente trasformatosi in rivoluzionario
– la distruzione costituisce una forma di decontaminazione; è necessaria per garantire il ripristino
delle condizioni minime affinché l’ordine – il vero ordine – possa nuovamente esplicarsi in tutte le
sue potenzialità.
738
«Nel suo significato debole, “ideologia” designa il genus, o una species variamente definita, dei sistemi di credenze
politiche: un insieme di idee e di valori riguardanti l’ordine politico e avente la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi» (M. STOPPINO, Potere e teoria politica, ECIG, Genova 1983, p. 103).
739
Sul concetto di ideologia in senso forte, cfr. G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino 1987, pp.
111-137
740
M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino 2000, p. 428.
741
M. FREEDEN, Ideologies and Political Theory. A Conceptual Approach, Oxford, Clarendon Press 1996, tr. it. Ideologie e teoria politica, op. cit., p. 421
742
Cfr. R. KIRK, The Conservative Mind, from Burke to Santayana, London, George W. Allen 1954, pp. 17-20.
743
Cfr. G. DAHL, Radical Conservatism and the Future of Politics, Nottingham, Trent University 1999; R. B. TOPLIN,
Radical Conservatism: the Right’s Political Religion, Lawrence, University Press of Kansas 2006.
165
***
Valutare modalità e tempi della rivolta conservatrice, che sul piano politico è stata incarnata
dall’Amministrazione Reagan negli Stati Uniti e dal governo Thatcher in Gran Bretagna, prescinde
dagli obiettivi di questa analisi. Quest’ultima si è sforzata di collocare, al contrario, gli scritti di Eric
Voegelin e Michael Oakeshott nell’arco di una parabola intellettuale più ampia, sintetizzabile come
l’ascesa e il declino del liberalismo razionalistico (cap. II). Nell’arco di un ventennio (1932-1952),
la società statunitense conobbe una ridefinizione profonda dell’idea di libertà e una nuova declinazione, in senso progressista, della tradizione liberale. Quando, sul finire degli anni ’40, il progetto
del New Deal mostrò chiari segni di esaurimento, alcuni autori se ne allentarono, pur mantenendosi
all’interno di una prospettiva liberale (cap. III). Eric Voegelin e Michael Oakeshott, al contrario,
ruppero in modo radicale con quella tradizione, impostando una critica globale alla modernità che li
rende protagonisti, e nel contempo precursori, del riemerge del conservatorismo come forza politica
di primo piano all’interno delle società contemporanee (cap. IV).
Un’ultima considerazione concerne la metodologia alla base del presente lavoro.
Spazi pressoché equivalenti sono stati dedicati al quadro storico ed alla trattazione filosofica.
Non è un caso. È profonda convinzione di chi scrive che la connessione fra storia e teoria, fra trasformazioni istituzionali e pensiero critico sia più stretta, e nel contempo più oscura, di quanto tendenzialmente si creda. Attualmente, non possiamo far altro che sottoscrivere la saggia e prudente
osservazione di Karl Mannheim: «l’emergere e lo sparire dei problemi del nostro orizzonte intellettuale sono governati da un principio di cui non siamo ancora pienamente consapevoli 744 ». Ma, proprio come Mannheim, possiamo ragionevolmente affermare che «i complessi rapporti sussistenti tra
i diversi problemi, in un dato tempo e luogo, vanno in ogni caso, considerati nel quadro generale
della società in cui si danno, anche se esso non può sempre fornirci un’idea esatta di tutti i particolari 745 ».
La speranza, da parte di chi scrive, è che il presente lavoro contribuisca – nel suo piccolo – a
ribadire che né l’analisi storica, né la riflessione teorica, se isolate l’una dall’altra, possano garantire
una comprensione adeguata dell’agire politico.
744
K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn, F. Cohen 1929, tr. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino 1972, p.
121.
745
K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, Bonn, F. Cohen 1929, tr. it. Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino 1972, ibidem.
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