RS
RICERCHE STORICHE
Anno XXXI
N. 81- Marzo 1997
Direttore
Salvatore Fangareggi
Direttore Responsabile
Sergio Rivi
Segretario
Antonio Zambonelli
Capo Redattore
C. Mario Lanzafame
Comitato di Redazione:
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Antonio Canovi,
Alberto Ferraboschi, Sereno Folloni,
Sergio Marini, Marco Paterlini,
Massimo Storchi, Antonio Torrenzano
Progetto grafico
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Direzione, Redazione,
Amministrazione
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ISTORECO
Istituto per la Storia della Resistenza
e della Società contemporanea
in provincia di Reggio Emilia
cod. fisco 80011330356
Registrazione presso il Tribunale di
Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967
Rivista quadrimestrale del!' ISTORECO
(Istituto per la storia della Resistenza
e della Soci~tà contemporanea di Reggio Emilia)
Le foto ospitate in questo numero sono selezionate dalla produzione "astratta" di Renzo
Vaiani. Risalgono alla fine degli anni '50 e agli
inizi del decennio del "boom" economico. Alcune di queste sono state esposte recentemente presso gli spazi della Libreria dell' Arco,
mentre altre dovevano diventare parte di una
mostra, curata da Vaiani stesso, che non ha
avuto seguito.
ERRATA CORRIGE
Nelle didascalie delle foto alle pagine 77 e 81
del precedente numero, sono state scambiate
le diciture relative alla redazione de "II Volontario della Libertà". Landa Landini è stato indicato come Ottavi o Tirelli e viceversa.
La storia è uguale a ogni altra disciplina. Ha bisogno di buoni operai e di buoni
capomastri, capaci di eseguire correttamente il lavoro secondo piani altrui. Ha bisogno
anche di alcuni buoni ingegneri. E costoro debbono vedere le cose da un poco più in
alto che dal basamento. Devono poter tracciare piani, vasti piani, larghi piani, alla cui
realizzazione possano poi lavorare utilmente i buoni operai e i buoni capomastri.
E per tracciare ampi e vasti piani, occorrono spiriti grandi ed elevati. Bisogna avere
una chiara visione delle cose.
Bisogna lavorare d'accordo con tutto il movimento del proprio tempo. Bisogna avere
orrore di quanto è meschino, angusto, povero, antiquato.
In breve, bisogna saper pensare.
(L. Febvre - 1941)
5
.. . ... .... ... . ... . ... .. .. . ... . ....
8
Editoriale
Massimo Storchi
12
Riflessioni
Salvatore Fangareggi
Antonio Zambonelli
18
Conversazioni
Enzo Santarelli
30
Saggi
Marco Fincardi
68
Mobilità bracciantile e secolarizzazione nella
pianura padana
Documenti
Giuseppe Dossetti
80
Una "storia in corso"
(a cura di Antonio Canovi)
Gli inediti di "Benigno"
(a cura di Salvatore Fangareggi)
Didattica
Antonio Brusa
Il nuovo curriculo di storia
112
Schede
(a cura di Alberto Ferraboschi)
120
Recensioni
Marco Fincàrdi
L' ambigua transizione. I processi ai fascisti
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Lavorare sulla memoria del passato significa anche confrontarsi
quotidianamente con la contemporaneità che pure quella memoria
contribuisce a formare ed elaborare. In un processo continuo di
verifica e analisi, i territori della ricerca vengono così progressivamente modificati e messi in discussione in un rapporto aperto con
altri percorsi culturali e con le sensibilità e le domande che si
evidenziano ai margini dell'attività storiografica in senso stretto.
MASSIMO STORCHI
Questo processo ha conosciuto, in un passato anche recente, troppi
vincoli e limiti contingenti legati a contesti variabili che hanno finito
per favorire, se non omissioni e trascuratezze, almeno pigrizie e
coazioni a ripetere schemi e percorsi ormai logori e incapaci di
rispondere alle esigenze di un reale che andava rapidamente modificandosi. Di questi limiti proprio la storiografia della Resistenza
ha subìto i danni maggiori, arrestandosi spesso in una compiaciuta
autocontemplazione e auto celebrazione che ha impedito poi, nella
maggior parte dei casi, di produrre risposte efficaci in occasione delle
ricorrenti campagne (di stampa e non) volte a ridiscutere -strumentalmente per la maggior parte dei casi- proprio il nodo legato alla
lotta armata e alla riconquista della democrazia. Questo blocco ha
impedito anche la maturazione di un corretto 'senso storico' diffuso,
aprendo il campo alla diffusione di prodotti di argomento storico
ma che con la storiografia non hanno nulla a che vedere. Di questi
fenomeni Reggio è stato (ed è) teatro ripetuto e fertile palcoscenico.
Da queste aporie giunge a scuotere la sensibilità dei testimoni e degli
addetti ai lavori la realizzazione di operazioni massmediologiche di
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indubbio effetto ma di altrettanto chiaro intento strumentale come
quelle prodotte negli ultimi tempi da radio e televisione di stato ("La
voce dei vinti" e l'intervista con il "Boia di Albenga"). La voce dei
"vinti", decontestualizzata e confezionata secondo canoni convincenti di 'imparzialità', arriva a mettere in mostra i ritardi accumulati
e ci richiama ad una riflessione e ci invita ad un maggior rigore
in futuro.
Quante volte infatti la voce dei "vincitori" è suonata opaca, ripetitiva, autoreferente. Impegnati a (ri)costruire una memoria che si
voleva la migliore possibile, almeno adeguata all'importanza dei
valori che avevano motivato quella scelta, ci si é ritirati dal confronto,
da quel continuo allargamento del territorio della ricerca che rimane
alla base di un approfondimento corretto e collettivamente utile.
Così oggi una memoria "bloccata" come quella dei reduci di Salò,
degli "sconfitti", ci pone di fronte, ancora una volta, al problema
di ridefinire limiti e schemi per un nuovo percorso storiografico che
sia in grado di riprendere i fili, spesso dispersi e taciuti, di una
esperienza che è stata, ed è, fondante della nostra società e del nostro
modo di concepire lo Stato e i rapporti politici in senso lato.
Si tratta di sfuggire alla strettoia fra revisionismo 'a la page' e
rivendicazionismo a tutti i costi per costruire una 'nuova storiografia'
della Resistenza alla quale tutti possano concorrere ma solo su basi
di rigore scientifico e di piena libertà ed autonomia. Non si tratta
di ricostruire, a tutti i costi, una definitiva "storia unica" nazionale,
ma di contribuire, portando alla luce i tanti nodi problematici, alla
ripresa di un confronto il più preciso e articolato possibile, prendendo
atto di come esistano memorie 'divise' fra vincitori e sconfitti, fra
chi scelse l'una parte o l'altra. Memorie sedimentate e inconciliabili.
Alla sensibilità e alla intelligenza di ogni cittadino poi la scelta
e le opzioni finali, ma in perfetta chiarezza di percorsi e con il
massimo di informazioni possibili per tutti.
Questo numero di RS, il sesto della nuova serie avviata nel 1995,
esce in una composizione differente dalla sua struttura ormai consolidata. La scomparsa, avvenuta nei mesi scorsi, di Giuseppe
Dossetti è sembrata un evento di tale rilevanza da giustificare tale
mutamento. Le lettere inedite del periodo della lotta armata, che
lO
vengono pubblicate, sono un elemento di grande interesse proprio
nel senso appena accennato, di fornire nuovi elementi e materiali
per riavviare una riflessione sulla nostra storia resistenziale e non.
In tutto ciò la figura di Giuseppe Dossetti, partigiano, uomo politico
e monaco mi sembra rappresentare una sintesi di grande efficacia
e spessore, capace di fornire abbondanza di spunti che la rivista vuole
soltanto accennare in larga sintesi.
RS vuole anche ricordare un'altro reggiano recentemente scomparso: Renzo Vaiani, al quale ero legato personalmente da stima e
amicizia pluriennali. Riservare alle sue immagini (realizzate a Milano
alla metà degli anni cinquanta) il consueto percorso iconografico é
un modo anche per ringraziare un artista (o forse meglio un 'artigiano' nel senso più alto del termine) che ha dato tanto per conservare la memoria di questa città, memoria che, con grande sensibilità e intelligenza, le istituzioni pubbliche hanno saputo tutelare
e difendere, assicurandosi già da tempo l'intero archivio fotografico
che la dinastia Vaiani (Mario, il padre, e Renzo) hanno contribuito
a costruire in quasi un secolo di attività.
1l
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o
.~
•
Giuseppe Dossetti ci ha lasciato ormai da ottuagenario, ma proprio
nel momento in cui il suo rinnovato impegno civile rendeva più
prezioso e indispensabile il suo messaggio.
SALVATORE FANGAREGGI
Egli ribadiva sovente che, secondo una storicamente consolidata
consuetudine, quando circostanze eccezionali lo richiedano è necessario che anche i monaci interrompano il silenzio per portare la
loro parola alla comunità civile.
La frequenza e la continuità degli interventi di Dossetti negli ultimi
anni, realizzati senza escludere alcuno degli attuali mezzi di comunicazione, rivelano una cosciente preoccupazione per l'avvenire della
Repubblica a fronte di improvvisate quando non maliziose, tendenze
riformatrici della carta costituzionale, anche nei suoi principi fondamentali.
Per scontata che sia l'affermazione, non può negarsi che sta a tutti
noi non lasciare cadere il suo ultimo messaggio.
Non si tratta soltanto di mantenere in vita e se possibile potenziare
i Comitati per la difesa della Costituzione.
Per evitare che, spentasi reco della liturgia esequiale, svanito
ormai il profumo d'incenso, si torni tutti a casa pronti ad erigere
un ideale monumento ad una straordinaria figura della storia d'ltalia
e della Chiesa cattolica, e d'uopo portare avanti i contenuti della
sua lezione, perché nella prossima stagione di rinnovamento istituzionale siano evitate involuzioni rifonnistiche- e pericolose tentazioni autoritarie.
Si profila dunque l'esigenza di un approfondimento della figura
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e del pensiero di Giuseppe Dossetti nella sua globalità, il che potrà
avvenire affrontando la sintesi dei tre aspetti fondamentali: il giurista,
il politico, l'uomo di Dio.
Non c'è dubbio che da sempre, Dossetti si ritenne consacrato, e
I:impegno pubblico non fu che una doverosa conseguenza per il suo
essere cristiano, motivata dalle contingenze storiche che non gli
consentirono di rimanere ai margini.
E' da augurarsi che si dia inizio ad una organica composizione
storico-biografica che non trascuri alcuno dei molteplici aspetti della
personalità di Dossetti
Per parte nostra, riteniamo di rendere omaggio alla memoria del
Dossetti della Resistenza, pubblicando alcune sue lettere inedite
inviate dalla montagna all'amico Ing. Domenico Piani, nelle ultime
settimane precedenti la Liberazione.
Un piccolo ma significativo contributo agli studiosi della vicenda
partigiana di Dossetti.
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1123 gennaio scorso è morta all'ospedale di Reggio, novantunenne,
la professoressa Lina Cecchini, dopo anni di una malattia alle ossa
che le aveva rattrappito il corpo senza spegnerne lo spirito. Per una
singolare coincidenza, il suo decesso è avvenuto a pochi giorni di
distanza di quello del monaco prof. Giuseppe Dossetti, a fianco del
quale Lina Cecchini era stata fin dai primi anni quaranta, partecipando a quei "Gruppi del Vangelo" che prepararono una generazione
di cattolici reggi ani alla Resistenza. La sua salma riposa ora nel
cimitero di Laterino, in provincia di Siena, di dove era originaria.
ANTONIO ZAMBONELLI
"Dossettiana" in politica, come nella ispirazione religiosa, dopo
aver partecipato alla lotta di liberazione Lina Cecchini fu protagonista
della costruzione della Democrazia cristiana in provincia di Reggio,
ed in particolare del Centro italiano femminile, contraltare dell'Unione donne italiane. Quando Dossetti , sconfitto nel confronto con De
Gasperi, si dimise da parlamentare, nel 1950, Lina Cecchini gli
subentrò in quanto prima dei non eletti, rimanendo però in carica
solo per pochi mesi.
Ma della professoressa Cecchini in tanti ricordano soprattutto il
ruolo di educatrice. Insegnante di filosofia e pedagogia all'Istituto
magistrale di Reggio dal 1937 al 1973, ha contribuito alla formazione
di centinaia di maestre e maestri. Non essendosi mai sposata,
dedicava interamente il suo tempo, oltre che all'associazionismo
cattolico, alla scuola ed ai suoi allievi. Il rapporto con questi ultimi
non si esauriva nelle lezioni o nei colloqui tra le mura scolastiche.
Chiunque, tra i suoi allievi, avesse bisogno di aiuto, sia sul piano
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intellettuale che su quello materiale, trovava in lei una disponibilità
totale.
Religiosissima, come testimonia la sua intera esistenza, parzialmente impegnata anche in politica, ebbe sempre un dialogo sereno
ed aperto con quanti, tra i suoi allievi, manifestassero posizioni ideali
anche antitetiche alle sue. Anzi, secondo la parabola della "pecorella
smarrita", era particolarmente attenta a chi si professasse "ateo" o
agnostico. Ma senza cingere nessuno d'assedio a scopo di proselitismo. Socraticamente, poneva più domande che fornire risposte
preconfezionate. Tutti i suoi atteggiamenti erano improntati ad un
impegno etico che le veniva in particolare dal suo amato Agostino
di Ippona, il padre della Chiesa al quale aveva dedicato, nel lontano
1934, il primo dei due soli libri di cui ci risulta sia stata autrice,
Il problema morale in S. Agostino, Reggio Emilia, Libreria editrice
"Frate Francesco", 1934; (il secondo, Facciamo del bene, R.E., 1965,
è una documentata biografia del francescano Padre Ruggero da
Vezzano Ligure, fondatore dell'Ordine delle "Piccole Figlie di S.
Francesco). L'altro Autore che le fu sempre particolarmente caro,
ed alla cui conoscenza chi scrive queste note è grato di essere stato
avviato, è il Blaise Pascal delle Pensées.
Una delle più toccanti testimonianze del suo impegno etico e civile,
la professoressa Cecchini la diede nel lontano 1938: il prof. Pardo,
ebreo, venne destituito da preside dll'Istituto magistrale di Reggio.
Dopo aver preso commiato dal corpo insegnanti, si incamminò verso
la stazione per rientrare a Bologna. Nell'atrio della stazione ebbe
la gradita sorpresa di trovare la prof. Cecchini ed alcune altre
insegnanti venute per un ulteriore saluto che fu anche gesto di
protesta contro le leggi razziste di Mussolini. Gli offrirono - come
ha testimoniato la vedova del prof. Pardo - "fiori, lettere, regali e
ricordi. Tra questi anche una sveglia con l'augurio 'che possa segnare
ore più liete".
La scelta resistenziale di Lina Cecchini veniva dunque da lontano
e si consolidò in vari momenti significativi. Dalla partecipazione al
convegno di Piacenza, estate 1942, del Movimento laureati cattolici
sul tema Se la morale cristiana legittimi la rivolta contro la tirannide,
alla presenza in quei "Gruppi del Vangelo" che si riunirono periodicamente, a Reggio, nella Sala capitolare del Vescovado, fino
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all'autunno del 1943, e che ebbero tra i relatori personalità come
don Primo Mazzolari.
Pochi giorni prima della sua morte, ricevette in ospedale la visita
di un altro protagonista della resistenza cattolica, don Angelo
Cocconcelli.
"Noi, alla nostra età, dobbiamo essere pronti ... ", le disse don
Angelo. "Ah, sono pronta! .. ", rispose Lina Cecchini.
Siamo certi che essa era davvero pronta, come il suo Agostino,
"alla pace del riposo, la pace del Sabato, la pace che non conosce
sera".
Nel rinnovare da queste pagine le condoglianze di Istoreco ai
famigliari della professoressa Cecchini, non possiamo fare a meno
di ricordare con commozione che Essa fu abbonata alla nostra rivista,
ininterrottamente, fin dalla fondazione.
17
.~
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Una listo ria in co rso"
D. Nell'introdurre la sua "Storia critica della Repubblica", pone
subito un'affermazione che ne restituisce la dichiarata problematicità: "un libro di storia, oggi, va sempre, in qualche misura,
controcorrente". Si riferisce ad una sorta di "oscuramento" indotto
dal gran brusio dei mezzi di comunicazione di massa o ad una
vocazione-" scomoda" quanto risorgente ad ogni epoca propria dello
storico?
a cura di
ANTONIO CANOVI
ENZO SANTARELLI
Enzo Santarelli è ordinario di storia contemporanea presso l'Università di Urbino, ha
partecipato alla guerra di liberazione e dal
1948 è stato- e rimane- un militante della
sinistra su posizioni comuniste.
Tra le sue importanti opere, segnaliamo in
particolare l'ultima, Storia critica della Repubblica, /'Italia dal 1945 al 1994, Milano,
Feltrinelli, 1996.
Santarelli. Mi riferivo, in prima istanza, fondamentalmente, alle
difficoltà peculiari che la storia oggi sembra incontrare. Si pensi a
certi slogans come "la morte delle storia", al ruolo dei mass-media
in tutta la vicenda del revisionismo storico e, in Italia, al torbido
gioco che si è innescato, fra il '93 e i1'94, su alcuni concetti o pseudo
concetti come "partitocrazia" e "consociativismo". Stimolato da Aldo
Garzia, ne avevo già parlato in un libretto dell'autunnno de1'94, che
peraltro era già pronto prima dell' estate, uscito per Datanews, Il vento
di destra. In Italia, in particolare, c'è stata una "deriva" che ha toccato
il potere e l'intellettualità, non senza reciproci rapporti. "Deriva" che
con maggiore o minore intensità dura tuttora e scava nel profondo
dei rapporti sociali e degli indirizzi culturali.
La normale e classica opera di revisione storiografica si è così
trasformata in una moda in cui a volte sembrano contare di più i
momenti giornalistici o politici che lo studio e la ricerca. In questa
Storia critica della Repubblica, ho dedicato qualche pagina a ricostruire (e in un certo senso a nobilitare) il percorso dell'idea di
"partitocrazia" dal tanfo fascistico e qualunquaio, come diceva
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Gabriele Pepe nell' immediato dopoguerra, al rilancio dei radicali che
in un certo senso ne sono gli epigoni, avendo trapiantato e spostato
" a sinistra" le tesi altrimenti pensate da Giuseppe Maranini. Se avessi
avuto più il spazio e più tempo, allo stesso modo si sarebbe potuto
ricostruire la vicenda della "rivoluzione italiana", fra "Corriere della
sera" e Mario Segni, di cui poi si impadronì una destra pseudoliberale e nostalgica. Voglio dire che tanti momenti di cronaca
attendono ancora di ricomporsi in un'autentica pagina di storia. A
me toccava, e avevo scelto, di inquadrare il tutto in un breve saggio,
in cui indubbiamente si avverte la passione civile e politica.
La domanda coglie alcune motivazioni psicologiche dell'autore,
anche i limiti che mi sono posto, pur nella riaffermata problematicità
storiografica. Nella nota introduttiva accenno al fatto di una lunga
incubazione e, quasi per contrasto, ai tempi rapidi di un libro scritto
di getto. In un dibattito alla libreria Bibli, a Roma, il primo in
assoluto, tenuto proprio alla immediata vigilia del 21 aprile, Lucio
Villari ha rilevato questa apparente aporia. Per rispondere fino in
fondo, sento dunque di dover richiamare il contesto tra attualità e
storia in cui il libro è stato concepito, è nato, ha esordito. Ma c'è
anche un contesto di diverso spessore, c'è un quadro ideale di
riferimento. Voglio solo ricordare, a questo proposito, l'antologia
storica su La lotta politica in Italia dall' Unità al 1925 apprestata
su uno sfondo di rara intensità da Nino Valeri.
Finito di stampare nel dicembre del 1945 e messo in circolazione
da Le Monnier all'inizio e con la data del 1946, quel libro recava
un sottotitolo che ancor oggi fa riflettere: Idee e documenti, una
coppia dialettica oggi quasi in disuso.
Ma quanti giovani comunisti e giovani democratici, delle più
diverse sfumature, si educarono e si esercitarono allora, in quel
vigoroso tornante della storia patria, sulle idee e i documenti che
riandavano a Mazzini, a Carducci, a Cavour, e passando per Croce,
Giolitti e Salvemini, rivelavano infine Sturzo, Gobetti, Gramsci? La
Storia critica, a petto di questi precedenti, vuoI essere, oltretutto,un
contributo alla saldatura fra una situazione e l'altra, fra una generazione e l'altra, un tramite indiretto al rinnovamento e riorientamento della cultura politica in Italia.
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D. Veniamo alla partizione del volume. La terminologia adottata
per raccontare il mezzo secolo di repubblica- in seguenza: "Transizione e metamorfosi", "Intermezzo", "I nodi una crisi"- imprime
al saggio l'andamento di una "storia in corso". Viene da pensare
che, a suo parere, la prima "anomalia" di questa vicenda italiana
stia nella refrattarietà ad essere categorizzata; l'ultimo capitolo, in
particolare, fa aperto voto di scetticismo (cfr. "Una rivoluzione
italiana" ?) e lascia il lettore entro una dimensione sospesa, insiema
suggestiva ma un poco frustrante.
Santarelli. È doppiamente giusto dire che si tratta di una "storia
in corso": nei fatti e nell'interpretazione. Non a caso parlo di "opera
aperta": una ricerca che ormai spetta a molti altri di proseguire,
discutere, elaborare. Del resto mi sono mosso sulla base di un gran
materiale bibliografico, di un dibattito storiografico e di opere storiche che, soprattutto sul primo periodo di vita della Repubblica,
hanno affrontato e posto alcune questioni di fondo. Invece -si veda
l'attuale confronto sugli anni settanta-, quanto al versante più recente
della nostra storia nazionale, il dissodamento nel dibattito e nella
ricerca sta appena affiorando. E vengo alla seconda parte della
domanda. Per questo, per una puntualizzazione sufficiente, debbo
esporre un mio punto di vista generale. È vero che il "messaggio"
di questo lavoro può essere più immediatamente inteso nella ricerca,
alquanto scontata e ripetiti va, delle peculiarità italiane nella refrattarietà della vicenda italiana ad essere categorizzata. Ma non ignorando alcuni classici punti di riferimento in questo senso, ho cercato
di calare le strutture e le immagini della odierna Italia in un contesto
molto più attuale e concreto, che lascio al lettore di ripercorrere e
approfondire. A mio avviso l'Italia odierna ha acquistato (e verrà
acquistando) una certa consapevolezza di essere sospesa e di muoversi come società e come economia, in definitiva come nazione,
fra Europa e Mediterraneo. Tutta la seconda metà del secolo, questi
ultimi decenni del Novecento, cos'altro vogliono dire se non la
grande trasformazione del boom economico, industriale, urbanistico,
con tutte le conseguenze di secolarizzazione, emancipazione delle
donne e dei giovani a petto dei poteri tradizionali, su cui hanno
insistito prima del sottoscritto Ginsborg, Scoppola e Lanaro?
Ma va anche veduto con chiarezza che l'Italia appartiene all'Europa meridionale, e forse gli attuali movimenti di opinione pubblica
22
e anche di disagio fra il Nord e il Sud, hanno questo significato
di ricerca e collocazione di un ruolo più consapevolmente diffuso
e stabile nella società, cultura, politica europea, senza perdere il senso
della tradizione mediterranea.
Quindi la crisi italiana attuale potrebbe essere anche interpretata
come una crisi di crescenza, di assestamento e insieme di rielaborazione del carattere e della società nazionale. È il contrario, su un
periodo sufficientemente ampio e in una prospettiva di qualche
respiro, di quanto non dicano oggi certi funebri vaticini sulla morte
della patria da riscattare soltanto muovendosi verso destra. E vengo
all'appunto di scetticismo nei confronti della cosiddetta "rivoluzione
italiana", per cui lascerei il lettore in una dimensione sospesa, forse
suggestiva ma un po' frustrante. In testa al volume avevo ripreso
alcune parole di Gobetti le ultime di Rivoluzione liberale: "A questo
punto è evidente che una nostra profezia riuscirebbe troppo interessata e, per quel che non nasce dal contesto, spetta piuttosto all'iniziativa del lettore". Ho troppo rispetto per i lettori per evitare,
comunque, di trarre conclusioni in un libro che intende esercitare
e provocare la critica storica. Perciò quei due o tre interrogativi che
aprono e costellano l'ultimo capitolo: "Una rivoluzione italiana? Un
nuovo trasformismo? Quale repubblica? Comprendo il senso sottilmente provocatorio della domanda: ma come anticipare i tempi?
Tutto il libro è un po' storia del presente. Anche i lettori di oggi,1997
e in una certa misura di domani, se il libro resisterà, potranno
sciogliere, con le loro forze, quei problemi. Il mio è un atteggiamento
di fiducia.
D. Il saggio, alleggerito della consueta retorica dell"'epilogo",
procede stendendo un ordito lasciato spesso sotto traccia, laddove
l'invenzione narrativa del!' "Intermezzo" consente di connotare
l'estrema coerenza dello sguardo. Per lo storico, infine, viene ritagliato un primato della "morale" il cui segno mi pare niente affatto
scontato: vi si riconosce il singolare stile della militanza intellettuale
(gli espliciti richiami a Gobetti e a Gramsci), e ancora una perorazione metodologica -a privilegiare le "memorie lunghe" che abitano la società a noi contemporanea- che merita qualche approfondimento.
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Santarelli. Suggestivi e pertinenti mi sembrano i richiami alla
militanza intellettuale, alla cerchia ideologica Gramsci-Gobetti, al
privilegiamento delle "memorie lunghe". E in effetti mi ero proposto,
forse in primissimo luogo, un appello-ripristino-rilancio della "memoria storica". Certo che questo nodo merita qualche approfondimento! Ma come vorrei che venisse letto questo libro? Dando più
spazio a certe cose e certe parole. Intendo dire che al di là della
militanza intellettuale, del tratto etico-politico che pure vi si può
leggere, del resto apertamente sottolineato, la critica e i dibattiti ai
quali ho partecipato, salvo poche voci, hanno lasciato un po' in ombra
o addirittura hanno trascurato alcuni fondamenti o pilastri dell'intero
discorso. Alludo qui ai momenti strutturali di tutto il lavoro. Per
esempio a tutto il capitolo, è il terzo, interamente dedicato agli anni
dello sviluppo economico, che non dimentica né l'analisi né il metodo
marxista. E qui debbo toccare altri due punti. Il primo riguarda la
partenza di queste pagine, i primi due capitoli che in un rapido giro
d'orizzonte impostano la prospettiva, per così dire, di tutto il lavoro.
La problematica della Resistenza, le opzioni della sinistra o delle
sinistre (avrebbero potuto essere diverse?) sono viste sullo sfondo
sia della vischiosità del riscatto anche umano e di massa dalle eredità
del fascismo e prefascismo sia dell'incombere di rapporti di forza
sociali e internazionali non troppo favorevoli a una svolta politica
progressista.
Il secondo punto riguarda il tentativo di dare voce agli operai e
di farli parlare realmente in modo diretto o indiretto, in alcune
situazioni discriminanti. La mia non si può dire una storia di estrema
sinistra in senso ideologico, ma i rapporti di classe stanno al centro
di una certa visione sociale, attraversata da una dialettica mai
nascosta fra struttura e sovrastruttura. Non mancano dunque la lotta,
la vita e la presenza delle classi subalterne. Dai contadini calabresi
che avviano dall'autunno '43 uno dei più grandi movimenti di massa
dell'Italia postbellica, al disperdersi del bracciantato agricolo della
Padania: naturalmente ho portato all'attenzione del lettore una piccola serie di lavori di storia sociale del movimento operaio. Ma
l'aspetto che forse mi è più caro consiste nell'aver ricordato alcuni
semisconosciuti protagonisti o vittime: Turi Scordu, il minatore
morto a Marcinelle nel 1956, la figura di un solfataro disoccupato
perché scioperante che appare ne Il treno del sole di Ignazio Buttitta,
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o quell'operaio di Torino, si chiamava Otello Pacifico, che Alberto
Papuzzi ha ricordato nelle pagine de Il provocatore, a proposito del
sistema repressivo Fiat negli anni più duri della guerra fredda. O
infine la stessa sconfitta degli operai di fabbrica del nord-ovest, nelle
parole di uno scrittore come Volponi e di un delegato del sindacato
dei consigli, nella lotta del 1980. Curiosamente questo Giovanni
Falcone, che figura nell'indice del nomi, si chiamava come il giudice
poi caduto in Sicilia sotto i colpi della mafia. Ma non potevo
dimenticare, data questa impostazione né i capitani d'industria, né
alcuni grandi manager, nè quegli esponenti del nuovo capitalismo
rampante, alla Berlusconi, che segnano il trapasso dagli anni ottanta
ai novanta!
D. I nodi intepretativi così enfatizzati vengono colti nel fuoco
evenemenziale, e -la dialettica storiografica tra passato e futuro
acquisisce il senso di un processo che si colloca in un tempo a noi
prossimo ("presente"). Il "trasformismo" e il "familismo ", tra gli
altri, mi sono parse due categoria particolarmente vivide e invasive.
Le chiedo allora: in che modo vi legge la "crisi della nazione
italiana" sui cui ritorna ripetutamente nel volume?
Santarelli. Qui la risposta può essere più breve, proprio perché
ritengo che il discorso storico debba intrecciare gli eventi ai problemi,
sono alquanto lontano da ogni sorta di "modelli" e cerco di usare
con prudenza certe categorie. Ho puntualmente segnalato, nella crisi
dell' era democratica cristiana, il ricorrere del dibattito sul trasforrnismo
e l'attualità degli studi di Giampiero Carocci su questo terreno.
Del resto il trasformismo dei partiti è, oggi, sotto gli occhi di tutti.
Debbo dire che scrivendo ho usato questa discriminante; per esempio
la lotta delle classi, la contrapposizione ideologica fra gli schieramenti caratterizza tutto il periodo della nascente democrazia repubblicana e l'azione politica di uomini di uomini come De Gasperi
e Togliatti. Per Moro e il centro sinistra ho ancora raccolto suggestioni che vengono da certi confronti di Carocci. Quanto al Fascismo
sono abbastanza lontano da Banfield. Uso l'espressione, un po' ironicamente, a proposito dei nuovi arrivati della finanza, dell'industria,
del commercio, dalle radici padane, quindi lontani da Montegrano,
il villaggio meridionale studiato dal sociologo americano.
26
Sulla questione del "familismo" in sede storica mi sento più vicino
a Ferrarotti che a Ginsborg. Credo che nella mia interpretazione, o
meglio ricostruzione e visione delle cose e dei problemi, ci siano
più fili e motivi di quanto non possa apparire da una lettura che
pone al centro la coppia trasformismo-familismo. Infine non mi pare
di parlare testualmente di crisi della nazione italiana. Se mai è una
crisi a più livelli: sociale, morale, politico-istituzionale, economico.
Questo sì, una crisi della compagine italiana. Mi sento lontanissimo
dalle tesi sulla morte della patria. Chiudo il volume con le parole
di Alcide Cervi: sapienza contadina da una parte, innesto sulla
resistenza dall'altra. Per uscire da una crisi non meno composita e
certo più profonda di quella odierna.
D. Vi sono infine due nodi che, una volta sollevati, sembrano
ricadere un poco su se stessi, insomma restano veri, brucianti
"problemi" sui quali vorrei ritornasse. Mi riferisco all'influenza del
papato come crocevia tra politica nazionale e quadro internazionale
(lei parla di questi primi cinquant'anni come espressione di una
repubblica "guelfa" nel tempo della "guerra fredda "), e all' esplicito
timore nei confronti di un'economia di mercato sottratta al primato
della politica (laddove, alla luce delle note formulazioni circa la
"società dei due terzi ", ritorna sopra l'emergenza dei cosiddetti" ceti
medi ", sinora più evocati che studiati).
Santarelli. Non vorrei andare molto più in là di quello che ho
già scritto. Riferendomi fra l'altro al vecchio Labriola. Da parte mia
ho risolto la questione quasi con una battuta: l'Italia ha luoghi santi,
ma gli italiani se ne rendono conto, laicamente, troppo poco. Sul
Papato come crocevia: questo continuerà ad essere vero; il sogno
di "svaticanizzare" il paese corrisponde ad un pensiero debole e
fragile. Altri interventi ne avremo e ne abbiamo ancora sulla fine
del millennio, vedi finanziamenti alle scuole private o cattoliche, per
non parlare delle virulente campagne contro la legge sull'aborto.
L'espressione "repubblica guelfa" la derivo da Jemolo, è frutto degli
anni della guerra fredda e delle crociate anticomuniste; la utilizzo
poi in contrasto con la dichiarazione di decadenza o fine della prima
repubblica. In realtà cade una forma di governo della repubblica,
quella caratterizzata appunto dal predominio dello scudo crociato.
"Società dei due terzi": è ormai un problema globale, con addentellati
27
e manifestazioni molto particolari in Italia. Le forze sociali e intellettuali più consapevoli, su questo problema sono in allarme, e
questo può bastare almeno in sede storica. Forse oggi anche qualche
fetta marginale dei ceti medi si sente minacciata nella sua sicurezza
sociale. In ogni caso penso che si doveva dar conto di un problema
aperto, del suo venire avanti attraverso le maglie del nostro Mezzogiorno e attraverso la stessa crescita, non solo numerica, ma un
po' abnorme dei ceti intermedi, terziario finanziario ivi compreso.
Voglio soltanto aggiungere che fare storia della repubblica, degli
italiani in questi cinquanta anni, che pure ho vissuto, è stato per
me una notevole e continua scoperta. La scoperta dell'Italia (si
intitolava così un libro di Giorgio Bocca in pieno boom) non finisce
qui. Al senso di consapevolezza critica del passato e dello stesso
presente, torno ancora ad appellarmi. Del resto, sul piano cognitivo
e politico, toccherà soprattutto alle giovani generazioni che vengono
alla ribalta calarsi nel vivo del confronto ideale.
28
,
MOBILITA BRACCIANTILE E
SECOLARIZZAZIONE NELLA
CULTURA PADANA
GUASTALLA E MANTOVA ALLA FINE DEL XIX SECOLO
1 - Il lavoro itinerante
Dalla metà del XIX secolo alla metà del successivo - guardata
nel lungo periodo in cui avvenne la modernizzazione delle campagne
- l'emigrazione appare di scarso rilievo quantitativo nella pianura
a sud del Po. Eppure, negli ultimi tre decenni del XIX secolo la
mobilità territoriale del bracciantato ebbe una parte fondamentale nel
condizionare culture popolari e equilibri politici regionali, oltre che
per fornire alla seconda rivoluzione industriale quella che Marx definì
la "cavalleria leggera" del capitalismo. Senza una considerazione
attenta di questi dati, si perdono importanti elementi di comprensione
sulle trasformazioni sociali e culturali basilari per la politicizzazione
degli ambienti popolari nelle campagne emiliane e padane. L'importanza del fenomeno è stata rilevata da Hobsbawm.
MARCO FINCARDI
Ha conseguito il diploma di specializzazione
(D.E.A.) "Histoire et civilisation" presso
l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e il dottorato di ricerca "Crisi
etrasformazione della società" presso l'Università di Torino. Insegnante di scuola
media superiore, è attualmente ricercatore
con una borsa di studio presso l'Università
"Cà Foscari" di Venezia.
"Perfino le migrazioni temporanee o stagionali di mietitori o
costruttori di ferrovie italiani o irlandesi potevano spingersi ormai
al disopra degli oceani. [00'] Poiché di ferrovie se ne costruivano
dovunque, potevano non contare necessariamente sulla manodopera
locale, ma sviluppare un corpo di lavoratori nomadi [00']. Nella
maggior parte dei paesi industriali, questi erano reclutati fra i
marginali e gli instabili, pronti a lavorar sodo in condizioni difficili
per una buona paga, e a bersela o a giocarsela con altrettanta
caparbietà, ben poco pensando all'avvenire. [00'] Per gli sterratori
mobili, finito un grande progetto ne saltava sempre fuori un altro.
Uomini liberi ai confini dell'industria, scandalo per le persone rispettabili di tutte le classi, eroi di un folklore non ufficiale di
31
mascolinità, essi recitavano più o meno la stessa parte dei marinai
e dei minatori e cercatori di frontiera, benché guadagnassero meno
degli uni e non avessero la speranza di far fortuna degli altri. Nelle
società agrarie più tradizionali questi costruttori mobili formavano
un ponte non irrilevante fra la vita rurale e quella industriale.
Organizzati in gangs o squadre regolari sul modello dei mieti tori
stagionali, guidati da un capitano eletto che negoziava le condizioni
di lavoro e distribuiva i proventi del contratto, gruppi di contadini
poveri d'Italia, di Croazia o d'Irlanda facevano la spola da un capo
all'altro non solo di continenti, ma perfino di oceani, per fornire
1) ERIC J. HOBSBAWM, Il trionfo della borghesia 1848/1875, Roma-Bari, Laterza,
1979, pp. 247-248.
braccia ai costruttori di città, fabbriche o ferrovie."(l)
In diversi paesi europei e americani, i nativi chiamavano rondinelle
questi operai stagionali italiani - chiassosi, ma ammalati di nostalgia
- che arrivavano e ripartivano secondo le fluttuazioni cicliche del
mercato del lavoro, o addirittura condizionati, nei loro spostamenti
per il mondo, dalla stagione dei raccolti al loro paese.
2) Oltre agli studi della Divisione generale
di statistica del Ministero agricoltura, industria e commercio (da qui segnato con
MAIC, DGS), per la provincia mantovana, mi
rifaccio ad uno studio attento al dibattito
sull'emigrazione, ma che non fa le dovute
distinzioni tra l'emigrazione temporanea e
quella definitiva: MARCO GANDINI, Questione sociale ed emigrazione nel mantovano.
1873-1896, Mantova, Biblioteca Archivio,
1984. I dati sui flussi migratori dalla bassa
reggiana li ricavo dai passaporti rilasciati
dalla Sottoprefettura di Guastalla (ASRE, PS
Guastalla 1857-1886, B. 1867-1886 Passaporti esteo). I dati citati da Gandini sono
ricavati principalmente da una fonte analoga, relativa alla provincia di Mantova. Una
statistica ricavata dai passaporti ha due
limiti: tra chi otteneva il documento vi erano
persone che non partivano, mentre altre
partivano clandestinamente senza il documento. Per l'emigrazione intereuropea il
passaporto non era sempre indispensabile.
Mancano finora studi sull'emigrazione temporanea all'estero dalla
bassa padana. Il fenomeno, seppu,re iniziato precocemente, non ha
avuto l'ampiezza quantitativa sviluppata nelle province dell' arco
alpino, dove si è caratterizzata come un susseguirsi di esodi, prima
ancora che le popolazioni appenniniche prendessero a loro volta
strade simili. Poi, si tende a studiare la rilevanza degli emigranti
nei paesi d'arrivo, piuttosto che in quelli di partenza. Rimane così
occultato un aspetto dell'emigrazione, che ha avuto una consistente
portata storica, con vistosi effetti sulle culture rurali della pianura
emiliano-lombarda. Comunque, i dati attendibili sono di difficile
reperimentoC2). Alla fine del secolo scorso, il responsabile sanitario
dell'amministrazione provinciale di Mantova, in una dettagliata
inchiesta statistica sulla povertà e sull' assistenza pubblica nel territorio di sua competenza, dichiarò "quasi impossibile ritrarre dai
registri comunali notizie anche largamente approssimative dell'emigrazione temporanea, diretta specialmente in Francia ed in Germania", dal momento che si poteva giungere in quei paesi senza il
3) FRANCESCO BONSERVIZI, Inchiesta sulla
pellagra in provincia di Mantova, prefazione
di Cesare Lombroso, Mantova, Manuzio,
1899, p. 127.
passaportoC3). Secondo uno studio sulla provincia reggiana negli anni
sessanta, l'emigrazione temporanea dentro e fuori i confini d'Italia
coinvolse per il 64,5% lavoratori industriali e solo per il 31,8%
lavoratori agricoli; questi dati, desunti dal primo censimento nazionale e relativi all'emigrazione negli anni sessanta, non valutavano
32
ancora adeguatamente il fenomeno dell'emigrazione oltre frontiera(4).
Secondo il prefetto Giacinto Scelsi: "Gli emigrati all'estero si recano
per lo più in Francia, Austria e Germania, e pochissimi in America;
quelli che emigrano nel Regno preferiscono le Maremme Toscane,
La Spezia e le Province Meridionali dove si costruiscono strade
ferrate"(5). Sedici anni dopo, uno studio sociale sulla provincia reggiana segnalava per la bassa pianura che "un importantissimo elemento di risorsa per la classe dei cameranti proviene ora dalla
emigrazione temporaria, che nei Comuni inferiori della Provincia si
effettua su larga scala, e permette agli stessi operai di spedire alle
loro famiglie non tenui risparmi"(6). Lo stesso studio segnalava una
popolazione bracciantile, le cui presenze nel Guastallese oscillavano
notevolmente per i frequenti ingaggi nella costruzione di ferrovie
in paesi esteri(7).
4) GIACINTO SCELSI, Statistica generale
della provincia di Reggio nell'Emilia, Milano,
Bernardoni, p. XXIX.
5) Ibid.
6) Atti della Commissione permanente per
la pellagra nella provincia di Reggio per gli
anni 1883-84, Reggio E., Calderini, 1886 p.
34.
7) Ibid., p. 48.
2. Badili per lo sviluppo del capitalismo industriale
Coi mutamenti della geografia politica causati dalla guerra del
1859, le squadre bracciantili della bassa padana presero a migrare
frequentemente a nord del Po, dove gli austriaci necessitavano di
molta manodopera, per costruire in tempi rapidi nuove linee fortificate. Così, pure dopo la guerra del 1866 riprese massicciamente
l'emigrazione bracciantile oltre i nuovi confini nazionali, dove gli
austriaci apprestavano con urgenza il sistema difensivo del Trentino
e di Trieste. Il flusso migratorio stagionale era particolarmente
intenso dai paesi rivieraschi del Po, dove maggiore era l'eccedenza
di manodopera bracciantile e dove i terrazzieri si erano da tempo
adattati a questo genere di mobilità. Il sindaco di Gualtieri nell'inverno 1860 tentò di negare i passaporti ad alcune centinaia di
terrazzieri che andavano a lavorare per l'Austria; ma una sollevazione
popolare lo costrinse a recedere dal suo proposito patriotticO<8).
Già negli anni settanta i braccianti della bassa padana si recavano
in qualunque posto dell'Europa e dell'area mediterranea in cui
fossero richiesti sterratori. Furono soprattutto agenti di compagnie
ferroviarie a ingaggiarli, sapendo che le squadre della bassa padana
erano ormai specializzate nella costruzione delle massicciate, e ben
adattabili a quel genere di vita girovaga. In quel decennio, a molti
di questi terrazzieri divennero familiari le vie ferrate che conduce-
8) ANTONIO BESACCHI, L'osservatore del
giorno (manoscritto del XIX secolo conservato presso la Biblioteca "Maldotti" di
Guastalla), voI. III.
33
9) MAIC, DGS, Statistica generale della emigrazione italiana (consultati 22 volI., relativi
alle annate 1876, 1877-1878, 1879, 18801881, 1882, 1883, 1884-1885, 1886, 1887,
1888,1889,1890,1891,1892,1893,18941895,1896-1897,1898-1899,1900-1901,
1902-1903, 1904-1905, 1906-1907, 19081910), Roma, vari stampatori: Bodoniana,
Aldina, Fratelli Centenari, Camera dei deputati, Tip. dell'Opinione, Tip. cooperativa
romana, Bontempelli, Tip. nazionale Bertero,
Civelli, dal 1878 al 1911 (i dati quantitativi
vengono riportati in una successiva tabella).
Su quanto la mobilità, nel XIX e XX secolo
acceleri il mutamento della vita e della
mentalità popolari in area padana, esu come
tali mutamenti siano stati a lungo sottovalutati dagli studiosi, cfr. DAVID I. KERTZER,
DENNIS P. HOGAN, MASSIMO MARCOLlN,
Famiglia, economia e società. Cambiamenti
demografici e trasformazioni della vita a
Casalecchio di Reno (1861-1921), Bologna,
Il Mulino, 1991, pp. 107-149.
10) Atti della Commissione permanente per
la pellagra nella provincia di Reggio per gli
anni 1883-84, cit., pp. 34-35.
11) Oltre che dalle matrici dei passaporti,
le direzioni prese dall'emigrazione della
bassa padana sono segnalate dai giornali
locali, in particolare dalla "Gazzetta di Guastalla". Sui dati dell'emigrazione emiliana:
34
vano fino all'Italia meridionale, alla Scandinavia e alla Russia. Pure
l'emigrazione nell'Impero turco, cioè nelle coste orientali e africane
del Mediterraneo, divenne una tappa frequente di questi esodi
periodici. Nel 1882 e 1883 un centinaio di braccianti di Santa Vittoria
e di Gualtieri andarono a costruire strade ferrate in Senegal. Dal 1866
al 1869 i pochi passaporti rilasciati dalla Sottoprefettura di Guastalla
riguardarono in larga parte commercianti e ambulanti (suonatori,
artigiani e piccoli rivenditori), che si recavano per lo più in Austria.
Tra il marzo e il giugno del 1870, invece, la stessa Sottoprefettura
rilasciò quasi trecento passaporti, tutti a giornalieri in partenza per
l'Impero austro-ungarico. Da allora, il flusso delle migrazioni restò
abbondante fino all'inizio del XX secolo, riguardando essenzialmente
braccianti, che periodicamente - solitamente di anno in anno - rinnovavano il passaporto. Nel trentennio tra il 1876 e il 1906, nella
bassa padana, che aveva una popolazione di circa 150.000 abitanti,
furono rilasciati oltre 40.000 passaporti(91.
Ci si può chiedere come apparissero a questi operai le briciole
di cultura laica nazionale con cui la borghesia cercava con prudenza
di modernizzare la cultura rurale. Per quanto la maggior parte di
loro fossero poco istruiti o del tutto analfabeti, la loro esperienza
di lavoro in diversi continenti avrebbe potuto trovare probabilmente
angusta la retorica liberale di tanti notabili di provincia, con cui
avevano spesso rapporti poco cordiali. Oltre tutto, l'emigrazione
temporanea portava effettivamente un consistente flusso di denaro
alle famiglie proletarie(lOl, incoraggiandole a rivendicare propri diritti
e riconoscimento di un proprio rilevante ruolo sociale. Per un certo
periodo, dalla seconda metà degli anni settanta al 1896, il flusso
migratorio coinvolse anche famiglie coloniche dirette stabilmente in
Argentina e Brasile. Come in altre zone padane e nel Veneto, negli
anni della grande crisi agraria l'esodo delle famiglie coloniche commosse l'opinione pubblica. Ma nella bassa padana l'immagine degli
emigranti rimase essenzialmente legata alle squadre di braccianti - tutti
uomini maturi, raramente accompagnati dalla parente di uno di loro
che si prestava come cuoca - che in primavera partivano per qualche
regione dell'Europa centrale, facendo ritorno ad autunno inoltrato(ll).
Attilio Magri, grande affittuale a Gonzaga, assimilava il carriolante
mantovano ad un eroe del progresso, vedendolo legato ad un'agricoltura che si industrializzava e alle ferrovie che avanzavano.
Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal
Frignano (1860-1960), a cura di Maurizio
Mariani, Giovanna Martelli e Giuliano Muzzioli, Pavullo, Amministrazione comunale,
1993; L'emigrazione emiliano-romagnola in
Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi,
a cura di Giovanna Campani, Bologna,
Consulta per l'emigrazione e l'immigrazione
della Regione Emilia-Romagna, 1987. Sull'emigrazione mantovana: MARCO GANDINI,
"La bojel" e l'emigrazione manto vana nella
seconda metà dell'Ottocento, "Annali Istituto
Cervi", V (1983); IDEM, Questione sociale
ed emigrazione nel mantovano, Cit.; sull'emigrazione del secondo dopoguerra: GILBERTO CAVICCHIOLl, L'esodo dalle campagne del Mantovano, Mantova, Istituto
mantovano per la storia del movimento di
liberazione, 1991.
12) A. MAGRI, Il mio testamento agricolo
(manoscritto del XIX secolo conservato
presso la biblioteca comunale di Mantova),
p. 304. ANDREA BALLETTI, GIULIO GATTI,
Le condizioni dell'economia agraria nella
provincia di Reggio Emilia, Reggio E., Calderini, 1888, pp. 257-258; cfr. LUIGI TANARI, Circondario di Guastalla, in Atti della
Giunta per /'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma, Forzani,
1881-1886, VoI. Il, fase. I, pp. 378, 381.
Sulla notevole entità delle rimesse degli
emigrati temporanei della bassa padana, cfr.
Atti della Commissione permanente per la
pellagra nella provincia di Reggio per gli
anni 1883-84, cit., pp. 34-35.
"Mancando lavori in paese o nei lontani contorni, emigrano temporariamente in compatte brigate, trasportando seco un paiuolo ogni
dieci persone nella loro carriola spinta colla tracolla, laddove sanno
esservi lavoro ragguardevole di arginature o tracciati ferroviari, non
importa se entro i confini d'Italia, ma in Francia, in Germania, in
Svizzera o in Russia, dove i lavori sono pagati a 40, a 50 cent.i
l'ora, allettandosi così alla fatica minore ed ai relativamente grandi
guadagni." (12)
L'affinità col mestiere del terrazziere portò presto le squadre di
braccianti a cercare lavoro come minatori, in Svizzera e Germania,
soprattutto nella Lorena, poi anche in Pennsylvania. Ciò avvenne
man mano che nell'Europa e nel Nord America la seconda rivoluzione industriale sviluppò l'industria pesante.
3. - La cariola, il treno, il vaporetto
La partenza stagionale di centinaia di operai ed il loro ritorno da
lunghi soggiorni in numerosi paesi lontani arrivò a condizionare non
poco la cultura e gli equilibri sociali di alcuni paesi della bassa
padana. A differenza dei braccianti obbligati, che lavoravano soltanto
in agricoltura, senza spostarsi dal paese, e ricevendo retribuzioni
prevalentemente in natura, questi operai erano pagati in denaro. I
soldi di cui disponevano erano una rivoluzione nelle abitudini dei
lavoratori e delle famiglie, che da padroni più o meno occasionali
venivano compensati con residue quote di raccolto appena sufficienti
alla sopravvivenza e a perpetuare rapporti paternalistici tra ricchi e
poveri. Fuori dalla logica dell'autoconsumo, questi lavoratori non
erano più integrabili nelle tradizioni contadine, ma avevano un peso
nel determinare i costumi locali. La loro necessità di spendere per
acquistare beni di consumo che i coloni possedevano in base ai loro
contratti agricoli, e l'acquisita abitudine di comprare ciò che un
contadino italiano non immaginava neppure di potersi permettere,
spingeva molti a diffidare di loro, altri ad ammirarli. Gli studi socioeconomici sollecitati dall'Inchiesta Jacini li ritraevano come dei
disadattati, elemento di squilibrio nelle comunità rurali. Per la
provincia reggiana si distinguevano nettamente gli effetti dell' emigrazione dalla pianura o dall'Appennino:
"Dalla nostra provincia non si emigra definitivamente; che in rari
36
casi: l'emigrante parte sempre colla speranza e col proposito di
ritornare. Queste emigrazioni periodiche sono per lo più un bene
per l'agricoltura, perché avvengono nella classe dei braccianti nelle
zone del colle e della pianura e dei microscopici proprietari al monte
e allontanano quindi una parte degli individui che facilmente si
dedica ai furti campestri. I risparmi poi che gli emigranti della
montagna riportano a casa giovano a migliorare la condizione
economica in modo più stabile; gli emigrati della pianura imparano
all'estero talvolta scostumatezze e vizi non compensati forse dal
risveglio della mente e della cultura pratica che acquistano e non
sempre i sudati risparmi vengono spesi con giudizio."
(13)
Il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, già deputato del collegio
elettorale guastallese, notava che l'emigrazione temporanea metteva
a repentaglio gli equilibri sociali tradizionali nella sua tenuta agricola,
e probabilmente anche il suo ruolo paternalistico di notabile nel
13) A. BALLETTI, G. GATTI, Le condizioni
dell'economia agraria, cit., pp. 257-258; cfr.
L. TANARI, Circondario di Guastalla, cit., pp.
378, 381. Sulla notevole entità delle rimesse
degli emigrati temporanei della bassa padana, cfr. Atti della Commissione permanente
per la pellagra nella provincia di Reggio per
gli anni 1883-1884, cit., pp. 34-35.
villaggio di Palidano, in cui aveva i maggiori possedimenti:
"Sopra 182 braccianti 48 erano stati a lavorare in Francia, e ne
erano ritornati portando seco le leggende rivoluzionarie dell'89 e del
'93. Undici assenti sono in Argentina. [... ] Essi non tollerano più
ciò che pur tolleravano altre volte, perché tutto, intorno a loro, li
eccita a voler star meglio: fumano, vanno all' osteria, giuocano.
Tornando di Francia, dalla Svizzera, dalla Germania ne riportano seco
le abitudini di quegli operai. [... ] L'andare e venire dalla Francia
ha procurato da un lato dei risparmi e dall'altro dei vizi. I braccianti,
che si sono così procurati un discreto peculio, sono fra i più ardenti
fautori dello sciopero e dell'agitazione agraria".
(14)
L'arciprete don Luigi Parazzi, vicepresidente del Comizio agrario
di Viadana, individuava nei braccianti avventizi la causa dell'urbanizzazione dei costumi rurali nei paesi vicini al Po: un fenomeno
perturbatore che esasperava gli antagonismi tra ceti agiati e proletariato rurale. La caduta dei valori tradizionali, secondo questo
sacerdote, poneva seri problemi di ordine pubblico a cui avrebbero
14) C.. GUERRIERI, I contadini d'una parrocchia mantovana. AI/'on. senatore Pasquale
Vii/ari, in "Gazzetta di Mantova", 18 maggio
1885. Su Guerrieri, cfr. Memorie e lettere di
Carlo Guerrieri Gonzaga, in "Rassegna storica del Risorgimento", Il (1915), n. 1; Memorialisti italiani, a cura di Renato Giusti,
Mantova, L:arco, 1957, pp. 171-181; FEDERICO CHABOD, Storia della politica estera
italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza,
1951.
dovuto provvedere la polizia e gli uomini d'ordine, laici o religiosi
che fossero.
"È con vera compiacenza che si fa fede essere i campagnuoli
stabilmente accordati coi Proprietari di fondi la classe più quieta,
più contenuta, più relativamente agiata, e nella quale lo spirito di
37
famiglia, di compattezza morale è più vivo, e generalmente forte
e fecondo di virtù. Al contrario i campagnuoli, o braccianti, che hanno
un lavoro avventizio, sono la vera feccia della infima classe sociale,
la gente più scostumata, sempre pronta al furto campestre, alle
gozzoviglie, al far baccano, all'abbandonare vecchi genitori, spose
e figliuoli, per darsi al vagabondaggio, al turpe accattonaggio, all'uscire del proprio paese in cerca di lavori lucrosi, onde soddisfare
alle passioni più disoneste. Non è che costoro non trovino lavoro
in ogni tempo dell'anno, generalmente parlando e fatta eccezione
a speciali circostanze di territoriali sventure. Neppure è a dirsi che
il loro lavoro non venga retribuito convenientemente; [... ] allucinati
da esagerate notizie, che ricevono, di grossi lucri giornalieri all'estero, o ai lavori di costruzioni lontane di strade ferrate od altro, vi
si recano spensierati, ed ivi dimorano lungo tempo scordati della
famiglia, sciupando in stravizi il guadagno del loro lavoro, non
compensando neppure le spese di viaggio che per lo più vengono
loro anticipate o dai Municipj, o dai privati, a'quali le carpiscono
o con strepiti o con mentite promesse e talora con minacce. Dopo
lunghi mesi, rifiniti, sciancati, guasti più che dalle fatiche sostenute,
dai vizj colà imparati o continuati, giungono a casa peggiori di prima,
più insolenti, più svogliati, più irosi contro i proprietarj, più pretenziosi. È naturale così fatti proletarj, mestieranti della miseria, sieno
guardati con diffidenza dai proprietarj stessi, e posposti sempre ad
altri: è allora che essi si trovano qui senza lavoro; che si danno al
furto campestre, al vivere a zonzo, alle spalle delle povere mogli,
della pubblica beneficienza; finché viene per essi altra opportunità
di dar le spalle al luogo nativo, per continuare la vita di prima. E
gli è a questo modo che da alquanti anni abbiamo da una parte un
numero straordinario di persone che si danno al fare il bracciante
avventizio, e dall'altra parte un aumento sensibilissimo di figlie e
spose derelitte, senza dire del decuplo almeno delle bettole riboccanti
ognora di coteste criminose genti, che eruttano insolenze e bestemmie
contro l'ordine pubblico, contro la proprietà, contro la moralità.
Questo nero quadro delle condizioni di tal classe della nostra società,
se merita se ne impensierisca chi sta a capo della cosa pubblica,
esclude, a subordinato giudizio dello scrivente, la necessità di
migliorare la condizione economica de' giornalieri campagnuoli, e
ammette quella di pensare al rifiorimento della pubblica moralità.
38
Nel caso più concreto d'emigrazione non si esclude la probabilità
che gli emigranti sieno sobillati da tal uni o interessati nella cosa,
o vaghi di perturbare con essa l'ordine sociale." (15)
Queste valutazioni sulla legittimità dei bisogni espressi dagli
emigranti variavano anche secondo le alleanze sociali costruite nelle
singole comunità, che facevano apparire più o meno legittimi i
bisogni del proletariato. Diciotto capifamiglia - braccianti giornalieri
ed artigiani - che nel primo semestre del 1876 avevano chiesto per
le proprie famiglie una ottantina di passaporti per il brasile, erano
qualificati dal sindaco democratico di Sermide uomini rispettabili
e laboriosi, non "mossi dalla smania di divenire proprietari e dalle
interessate insinuazioni di agenti arruolatori", ma che "emigrano
nella lusinga di migliorare la loro condizione", qualificata "triste",
perché "il lavoro dei braccianti è meschinamente retribuito." (16)
15) Archivio di stato di Mantova (ASMN),
Atti della polizia italiana (API), B. 229, f.
Comizi agrari, relazione del Comizio agrario
del Distretto di Viadana al Prefetto di Man·
tova, 21 agosto 1876.
16) ASMN, API, B. 229, f. Statistiche emigrazione, relazione dell'assessore anziano
del municipio di Sermide (8 settembre
1876).
4 - La sfida dell'emigrare
Nel 1876 l'emigrazione della bassa padana divenne improvvisamente il centro di un aspro dibattito politico sulla questione sociale,
per effetto di una serie di mutazioni economiche, sociali e politiche,
che segnarono una svolta epocale. Il primo governo della sinistra
storica e il programma esposto da Depretis a Stradella - in particolare
nella proposta di abolire la tassa sul macinato, ma anche in quella
di allargare il suffragio elettorale - contribuirono a suscitare dibattiti,
mobilitazioni e allarmi nei diversi ceti sociali. La concomitanza di
perduranti allagamenti - causa della scarsità dei raccolti del mais,
del grano e dei legumi - e di malattie che devastarono le coltivazioni
del riso e della vite, fecero di quell'annata una delle peggiori, per
la bassa padana. Gli agricoltori, e in particolare gli affittuali, già
danneggiati dall'alluvione del 1872-1873, ne subirono le conseguenze e ridussero drasticamente le spese in manodopera e in migliorie
fondiarie, decurtando i salari, e non assumendo braccianti nel periodo
invernale. Anche gli allevamenti domestici dei bachi da seta, che
per le famiglie dei lavoratori rurali costituivano una importante
integrazione di reddito, vennero tralasciati, a causa della pebrina(l7).
In una simile congiuntura, la crescita dell'emigrazione dei braccianti avventizi contagiò anche gli spesati, mettendo il panico tra
gli imprenditori agricoli. L'arrivo nella bassa padana dell'incettatore
17) La situazione economico-sociale del
1876 era descritta dettagliatamente nella
relazione del Comizio agrario del distretto di
Sermide, inviata al prefetto di Mantova il 23
agosto 1876, in ASMN, API, B. 229, f.
Comizi agrari.
39
18) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, ci!.
19) ENRICO PAGLIA, Conferenza pel miglioramento materiale e morale del contadino
mantovano, a cura di Rinaldo Salvadori, in
La boje! Ipotesi di ricerca, Mantova, Biblioteca archivio, 1983, p. 185.
20) Ibid., p. 186.
40
di manodopera Giacomo Grassi, agente che promuoveva emigrazioni
nella colonia Alessandra, nello stato brasiliano del Paranà, creò in
una parte della bassa reggiana e della provincia mantovana un
fermento di vaste dimensioni: in un rincorrersi di voci e di smentite,
di attese spropositate sui vantaggi che attendevano i lavoratori oltre
l'atlantico, dal gennaio all'ottobre del 1876 in una vasta zona non
si parlò d'altro. In molti paesi i capifamiglia disdirono i contratti
colonici, si procurarono passaporti e fedi parrocchiali, e vendettero
le masserizie.
Si ebbe la generale sensazione che una parte consistente della
popolazione rurale della provincia di Mantova e dei circondari
emiliani di Guastalla, Mirandola e Carpi fosse sul punto di espatriare.
Fissata la sua sede a Rolo, nel circondario guastallese, l'agente Grassi
era cercato ovunque dai coloni, come il tramite verso il sogno di
un paese dove ci fossero terra e abbondanza per tutti. Tutti i giornali
della zona, assieme agli annunci pubblicitari di Grassi, pubblicarono
articoli e corrispondenze sui pericoli che attendevano durante il
viaggio e all'arrivo nei paesi tropicali i coloni inesperti, che non
erano mai usciti dal proprio villaggio. Il quotidiano degli internazionalisti mantovani, "La Favilla", accusò gli agricoltori di aver
ridotto in uno stato miserabile la popolazione rurale e di essere perciò
i responsabili dell'esodo dalle campagne padane, che tutti temevano
imminente. Con immediate polemiche tra chi le approvava e chi le
condannava, queste argomentazioni del giornale dell'estrema sinistra
ebbero un forte e durevole impatto sull'opinione pubblica(18). Il
notabilato mantovano era propenso a vedere nella crescita del fenomeno migratorio una manifestazione d'irrequietezza sociale, non
dovuta a bisogni materiali:
"L'emigrazione stabile all'estero e principalmente al Brasile assunse anche tra noi negli ultimi anni il carattere più di una allucinazione epidemica che d'una necessità economica, poiché la
maggior parte degli emigranti non furono reclutati tra i braccianti
disobbligati, ma tra gli spesati, i piccoli possidenti e gl'indebitati."(19)
Scorse perciò nel fermento che si era creato un "germe latente
di dissoluzione sociale"(20) e cercò di serrare le file dell'imprenditoria
agraria, per farle ritrovare il consenso dei ceti subalterni e per
controbattere le critiche degli agitatori rivoluzionari. Affermando che
in uno stato di precaria sopravvivenza non erano i coloni, ma i soli
"giornalieri, principalmente se di debole costituzione o dediti al
vizio", il Comizio agrario di Mantova fece presente alla prefettura
che "La Favilla" sollevava una polemica esasperata con finalità
sovversive:
21) IDEM, La provincia di Mantova, in Atti
della Giunta sull'inchiesta agraria, eit., val.
VI ,ase.
f
IV,p. 878 .
22) P. VILLARI, Leltere meridionali ed altri
scritti, Firenze, Le Monnier, 1878, pp. 314.
"Fomenta l'avversione alla laboriosità all'economia ed alle altre
virtù domestiche e sociali degli agricoltori; e quel che è peggio la
divisione degli animi e l'odio verso i proprietari. Tanto più dannosa
riesce tale propaganda in quanto che la classe dei contadini è di scarsa
istruzione, facile perciò ad essere ingannata e diffidente nell' accettare
i consigli di persone sagge; le quali d'altronde non sono sempre le
più zelanti nell'agguerrire i contadini contro le insidie deplorate, né
le più coraggiose ad affrontare le questioni sociali."(21)
Il deputato Pasquale Villari aveva avuto modo di notare a Boretto
la consueta mobilità dei lavoratori della bassa padana, che coinvolgeva numerosi piccoli proprietari e artigiani, dalla vita non dissimile
a quella dei braccianti avventizi:
"Il contadino doveva assai spesso spendere e pagare per la terra
più di quello che ne cavava. Per mettere in pari il suo bilancio, doveva
andare a strappare giunchi sulle rive del Po, arrivando qualche volta
fino a Ferrara, dormendo sugli argini, pigliando le febbri, tessendo
stuoie l'inverno, e spesso non riuscendo con ciò a vincere la fame(22l.
Ma percorrendo il circondario durante la campagna elettorale
dell'autunno 1876, Villari constatò che il fenomeno della mobilità
territoriale stava bruscamente ampliandosi di proporzioni e divenendo un fattore di instabilità sociale, anziché una valvola di sfogo.
Villari vide in ciò un segnale che il mondo subalterno si stava
mettendo in movimento, facendo mancare ai ceti superiori la certezza
di avere la situazione sociale sotto controllo.
Gli animi parevano disposti a riconoscere tutta la gravità e l'importanza della questione. E come non riconoscerla dinanzi alle
domande insistenti, continue, di emigrare? Ci si raccontava di bande
che passavano la notte, con bandiera spiegata, gridando: Viva l'America! Ci si raccontava di famiglie intere, che si apparecchiavano ad
andar nel Brasile. Qualche Sindaco aveva detto loro: - Ma che fate?
Voi avrete un viaggio lungo e penoso, a cui le donne, i bimbi, i
vecchi non reggeranno; andrete in un paese dove troverete la febbre
gialla. - E gli era stato risposto con calma: - Lo sappiamo. Ma
42
23) Ibid., pp. 314-315. Cfr. P. VILLARI, Discorso agli eleffori del Collegio di Guastalla,
27 settembre 1876, Ivi, pp. 296-302; "La
Minoranza. Giornale di Reggio Emilia", 1, 8
e 15 ottobre 1876; "La Gazzetta di Guastalla", 8 ottobre 1876.
24) Il Deputato di Guastalla in pellegrinaggio
pel suo Collegio, in "La Minoranza", 1 ottobre 1876.
l'inverno si avvicina e abbiamo di fronte la fame. Peggio di così
non ci può toccare. Ci assicuri contro la fame e non partiremo. E fu necessario tacere. Alcuni ci chiesero se in Italia vi erano terre
deserte, dove si potesse trovare lavoro." (23)
La mancata elezione di Villari nel collegio guastallese fu indicativa
della posizione scomoda di chi avesse sposato la causa degli emigranti, anche da posizioni moderate. Già svantaggiato per i suoi
legami con la destra storica, che non era più al governo, il professore
napoletano divenne politicamente sospetto per il suo puntare il dito
sulla questione sociale. Tra i suoi stessi sostenitori ci fu chi dichiarò
"che le emigrazioni annuali dei braccianti succedono per capriccio
e non per necessità." (24)
5 . I dubbi sulle cause dell'emigrazione
25) ASMN, API, B. 229, f. Statistica emigrazione e f. Comizi agrari.
44
La prefettura ed il Comizio agrario di Mantova, immediatamente
sollecitati dal governo di Depretis, nell'estate promossero un'inchiesta capillare presso tutti i municipi e i Comizi agrari della provincia
mantovana, per individuare le cause del problema ed i mezzi per
risolverlo. Il questionario dell'inchiesta aveva una certa impostazione
tendenziosa, per la prevenzione che mostrava verso i nuovi costumi
popolari, specialmente nell'ultima domanda, in cui si chiedeva "Quali
siano le abitudini dei coloni salariati e degli agricoltori avventizi
rispettivamente; specificando se e in quale proporzione gli uni e gli
altri frequentino le osterie ed altri luoghi pubblici, si abbandonino
al dissipamento e alla gozzoviglia"(25). A diversi sindaci e presidenti
di Comizi agrari di tendenza conservatrice, questa domanda apparve
un invito ad esprimere pregiudizi verso il bracciantato. Descrissero
perciò una situazione di salari adeguati, o addirittura sovrabbondanti,
resi insufficienti dalle eccessive pretese o dalla viziosità dei lavoratori. Diversi interpellati espressero serie preoccupazioni che l'emigrazione, assottigliando l'offerta di lavoro bracciantile, causasse
aumenti dei salari. Ma non mancarono voci discordanti che attribuirono le cause del malcontento agli affittuali, che omettevano le
migliorie ai fondi, aggravando la generale disoccupazione invernale.
Oppure ci fu chi suggerì l'estensione dei diritti civili, con l'adozione
del suffragio universale e l'estensione dell'istruzione pubblica, per
dare alla popolazione rurale quel senso d'appartenenza alla nazione
dimostrato dai contadini di quei paesi europei verso cui gli emigrati
si dirigevano. Le risposte variavano nettamente se a darle erano
esponenti dell'imprenditoria agricola oppure esponenti delle libere
professioni, in particolare medici.
Il quadro della società mantovana che emergeva dall'inchiesta del
1876 era comunque di una popolazione rurale ancora sostanzialmente
immersa nei costumi tradizionali, nonostante i mutamenti politicoeconomici e i nuovi comportamenti determinati dalla crescente
presenza bracciantile. La classe dirigente locale riteneva accettabili
le condizioni di vita dei coloni. Ma il riferimento per far ritenere
un relativo benessere quello dei sal<rriati fissi, o dei mezzadri, era
la miseria insostenibile degli avventizi, che rappresentava l'incubo
delle famiglie coloniche e le rendeva facilmente accontentabili. Gli
avventizi risultavano quasi sempre privi di lavoro nei mesi freddi
e piovosi e per buona parte delle cattive annate. Le loro donne e
i loro figli lavoravano solo durante la bella stagione, con salari
inconsistenti. Da diversi paesi della bassa padana, donne e bambini
passavano il Po e percorrevano molti chilometri, durante la bella
stagione, per andare a lavorare nelle risaie del distretto di Ostiglia,
retribuiti con 40-50 centesimi a giornata. Le case degli obbligati e
degli avventizi erano ugualmente povere; sempre sovraffollate quelle
dei secondi, che pagavano affitti sproporzionati al salario. L'abbigliamento era ritenuto appena bastante i reggere i rigori dell' inverno.
La dissipatezza dei braccianti - denunciata dai compilatori del
questionario con particolare riguardo agli avventizi - nelle concrete
descrizioni delle loro "gozzoviglie" si riduceva a ben misera cosa.
La situazione nei dintorni di Sermide - uno dei distretti in cui nel
1876 si era concentrata la domanda di emigrare, come conseguenza
di ripetute inondazioni - mostrava un' economia stremata, più che
una improvvisa dissoluzione dell'etica contadina tradizionale.
"Come le condizioni economiche dei lavoratori avventizi sono
tristi, non meno floride sono quelle dei salariati, ai quali si darà uno
stentato nutrimento perché non mojano di fame. [... ] Il difetto stà
nei mezzi e nel salario che non è mai congruo all'opera che viene
prestata ed ai bisogni della famiglia di chi lo presta. Il contadino
in generale e le masse agricole specialmente sono religiose di pratica;
frequentano le Chiese per abitudine, non sono dediti a stravizii ed
alle gozzoviglie; alle Domeniche soltanto vanno alle Osterie a bere
45
del vino che nel corso della settimana non usano; i loro costumi
sono semplici, il progresso però e l'istruzione hanno influito a
ingentilirli un poco e perciò è infiltrato anche in loro del lusso; unica
abitudine che in generale ha attecchito fra loro è quella di fumare;
ma la volontà di lavorare nel nostro contadino non fa difetto. in
presenza delle suaccennate condizioni, l'emigrazione nel Mandamento non prese proporzioni gravi, moltissimi sono si muniti di fedi
parrochiali dell'intera famiglia, molti hanno richiesto il passaporto
per l'estero, ma fra l'idea di emigrare e l'andar via effettivamente
26) ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari,
relazione del presidente del Comizio agrario
di Sermide (23 agosto 1876).
vi corre un abisso. Non sonovi sobillatori od istigatori all'emigrazione." (26)
Ma dalle risposte al questionario appariva chiaro che il panico tra
possidenti e affittuali era stato creato dalla percezione che quella
prima grande ondata migratoria era stata solo un sintomo iniziale
di una crisi di più vasta portata, che annunciava una generale trasformazione di comportamenti e atteggiamenti del proletariato rurale.,
Il sindaco di Ostiglia, nella zona risicola, era il più esplicito a
descrivere un distacco dalla mentalità tradizionale e dai mestieri
agricoli da parte delle nuove generazioni:
"In quanto alla educazione della prole di tutti i Coloni tanto
obbligati quanto avventizj consiste nell'avvezzarla per tempo alle
occupazioni d'arginatura. Essi sono abitualmente operosi e le loro
qualità educativo-politiche-morali-intellettive non potrebbero essere
definite che con tinte grossolane conformi ai sentimenti di persone
nate e vissute nell'ignoranza la più crassa, estranee quindi ad ogni
delicata emozione che deriva da una coscienza del bene e dalla
ripugnanza al male; vero è che nella loro ruvidezza di animo valsero
in passato ad infrenarne gli eccessivi impulsi a danno sociale le
dottrine religiose più tradizionalmente subite che intese, ma ormai
le nuove tendenze dei tempi inspirate al civile progresso paralizzarono quei benefici effetti sulla generazione che passa, rendendole
grave la disparità del suo stato da quello degli abbienti, da aspirare
27) Ivi, relazione del sindaco di Ostiglia (26
agosto 1876, riveduta e nuovamente inviata
il 2 dicembre 1876).
ad un benessere che non potendo conseguire in patria vorrebbero
Essi trovare in lontane contrade, esponendosi anche a sagrifizi e
pericoli purché facilmente vi riescano".(27)
Solo una parte dei sindaci e agricoltori interpellati ammise che
fossero le frustrazioni della condizione bracciantile - priva di gratificazioni nell'immediato e di speranze in un miglioramento futuro
46
- ad alienare questi lavoratori nell'ambiente rurale e a spingerli ad
una scelta tra antagonismo verso i consueti equilibri comunitari, o
accettazione della propria espulsione dall' agricoltura e dalla vita
paesana:
"Questo è il famoso dilemma a cui ricorre la disgraziata classe,
che si abbandona alla panacea della emigrazione. Troppo generale
è il movimento per poter supporre che solo l'abitudine alla gozzoviglia e la poca propensione al lavoro sospinga queste masse ad
affrontare i pericoli di un lungo viaggio e l'incertezza di un fosco
avvenire. Né i soli suggerimenti di persone interessate potrebbero
avere tale forza ed efficacia di far abbandonare a questi terrieri, che
non si allontanarono giammai più al di là dell'ombra del loro
campanile, le antiche tradizioni e le care lusinghe della loro patria.
Più potenti incentivi, che si riassumono nei bisogni della vita,
debbono avere trascinato i voleri di costoro a tale ardita e straordinaria rivoluzione." (28)
Le città padane, rimaste sostanzialmente calate nella dimensione
di un' economia agricola, non offrivano alcuno sbocco ad un'immi-
28) ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari,
relazione dell'ex presidente del Comizio
agrario di Castiglione delle Stiviere (12 settembre 1876).
grazione rurale. Per chi non riusciva a sostenere i disagi della
periodica estromissione dall'attività agricola, la fuga in città era una
strada preclusa; tentata sì, più volte, ma senza una prospettiva di
inserimento per chi giungeva dalla campagna. Proprio questi campagnoli non assimilati dal tessuto urbano costituivano il maggiore
contingente della città verso l'emigrazione oltre oceano. Nel 1881
il presidente del Comizio agrario mantovano constatava:
"Continua pure l'immigrazione dei contadini in città, sebbene
anch'essa sia ora notevolmente scemata, per una fallace speranza
di pronti guadagni e coll'affidamento delle pigioni meno care in città
che in campagna e della facilità di fruirvi delle elargizioni della
pubblica e della privata beneficienza ed esercitarvi il minuto ladroneggio sui fondi suburbani." (29)
La scelta di un'emigrazione temporanea all'estero cambiava al
bracciante il mestiere, le abitudini, gli orizzonti mentali e le relazioni
sociali; ma gli permetteva di non allontanare dal paese la famiglia
29) E. PAG LlA, Conferenza pel miglioramento materiale e morale del contadino mantovano, cit., p. 186. Cfr. ASMN, API, B. 229,
f. Statistica emigrazione, relazione del sindaco di Mantova (I novembre 1876).
e di non recidere le proprie radici culturali. Mantenere aperta nel
paese una sfida con quelli che considerava i propri antagonisti sociali,
diveniva anzi un elemento importante dell'identità dell'emigrante
stagionale. Nell'inchiesta del 1876, il sindaco di Quingentole aveva
47
30) ASMN, API, B. 229, f. Statistiche emigrazione, relazione del sindaco di Quingentole, 17 ottobre 1876.
31) Sul ruolo decisivo degli emigranti stagionali nella formazione del movimento
operaio in Italia, ANDREINA DE CLEMENTI,
Appunti sulla formazione della classe operaia in Italia, "Quaderni storici", XI (1976),
f. Il (n. 32), pp. 698-705; EMILIO FRANZINA, Operai, braccianti esocialisti nel Veneto
bianco, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità
ad oggi. Il Veneto, pp. 701-703. Sul rapporto
tra conflittualità bracciantili e emigrazione
nell'area padana: GUIDO CRAINZ, Padania.
Il mondo dei braccianti dall'Ottocento alla
fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994.
32) E. PAGLIA, La provincia di Mantova, cit.,
p. 879.
48
risposto: "I contadini sono quasi tutti analfabeti. Essi non hanno
principi politici, perché non li conoscono, perché da secoli sono tenuti
lontani dalla pubblica cosa, segregati dal civile consorzio, depressi,
maltrattati, condannati a servire, servir sempre. Essi non hanno che
un odio speciale per tutti gli abbienti perché in loro vedono i proprii
oppressori; ed io credo che benedirebbero con feroce entusiasmo alla
mano che li aiutasse a sollevarsi, da qualunque parte venisse". Quello
descritto a Quingentole era ancora lo spirito delle jacqueries; ma
proprio la mobilità geografica dei lavoratori e il diffondersi della
moderna cultura associativa stavano modificando la prospettiva dei
conflitti nella società rurale(30).
Il formarsi delle prime aggregazioni politiche del proletariato rurale
divenne un referente per questo genere di antagonismi(31).
6 - Paesi di "vagabondi"
Tra il 1877 e il 1879, la grande proprietà mantovana si mobilitò
nel tentativo di costituire un associazionismo rurale che coinvolgesse
il bracciantato in una solida alleanza sociale sotto la tutela degli
agrari, per recuperare la credibilità di un ordine sociale scosso dai
fermenti che accompagnarono la grande ondata migratoria del 1876.
Su sollecitazione del Comizio agrario di Mantova, l'aristocrazia
terriera e i possidenti borghesi più in vista della provincia manto vana
promossero ben tre istituzioni, tutte gravitanti attorno all'Accademia
virgiliana di Mantova, finalizzate a procurare occupazione invernale
dei lavoratori agricoli e ad incoraggiar:e tra loro il risparmio e il
mutualismo previdenziale. L'inconcludenza di questi tentativi degli
agrari mantovani fu ammessa dalla stessa Inchiesta Jacini:
"Dura in tutta la sua triste realtà il bisogno di migliorare la condizione economica e morale del contadino, principalmente avventizio,
non tanto per impedire 1'emigrazione dei malcontenti traviati o viziosi,
quanto per trattenere i volonterosi e bene intenzionati." (32)
L'astio degli imprenditori agricoli verso gli emigranti stagionali
- più che da una propensione di questi operai a dissipare il salario
ricevuto all'estero - potrebbe essere motivato da bisogni, costumi
e idee che 1'estrema mobilità bracciantile immetteva nella sociabilità
paesana. Solo Attilio Magri - affittuale educato a inserirsi nel mondo
dei notabili e a divenire un imprenditore moderno proprio attraverso
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33) A. MAGRI, 1/ mio testamento agrario
(manoscritto del XIX secolo conservato
presso la Biblioteca comunale di Mantova),
pp. 304-305.
34) Sui processi di politicizzazione della
sociabilità popolare in Italia, alla fine del XIX
secolo, cfr. MARIA MALATESTA, 1/ concetto
di sociabilità nel/a storia politica italiana
del/'Ottocento, in "Dimensioni e problemi
della ricerca storica", 1992, n. 1; GILLES
PECOUT, Politisation et monde paysan en
Toscane, ciI.; MAURIZIO RIDOLFI, 1/ partito
del/a repubblica, Milano, Angeli, 1989; Idem,
1/ Psi e la nascita del partito di massa. 18921922, Roma-Bari, Laterza, 1992; FRANCO
RAMELLA, Aspetti del/a socialità operaia
nel/'Italia del/'Ottocento, in Storiografia francese e italiana a confronto sul fenomeno
associativo, a cura di Maria Teresa Maiullari,
Torino, Fondazione "L. Einaudi", 1990.
35) MARCO FINCARDI, L'associazionismo
garibaldino in un'area padana, tra strategie
politiche locali eextralocali, in "Bollettino del
Museo del Risorgimento" (Bologna), XXXIX
(1995).
36) CiI. in: M. GANDINI, Questione sociale
ed emigrazione, ciI., pp. 50-51.
i viaggi all'estero - non si mostrò prevenuto verso tali mutamenti
del costume paesano e descrisse con chiarezza il ruolo di mediatore
di cultura urbana che questo proletariato emergente assolveva nell'ambiente rurale:
"Quando poi ritornano, sono essi che nelle riunioni serali e domenicali coi compaesani casalinghi - che essi chiamano gli invalidi
- raccontando la miglior vita e il miglior trattamento degli operaj
in confronto di quanto in patria, gettano i semi di quel malumore
destinato prossimamente a produrre i propri frutti nella già febbrile
quistione sociale." (33)
Negli anni ottanta, i notabili avevano sotto gli occhi ciò che pochi
anni prima poteva essere solo vagamente intuibile. L'inchiesta del
1876 temeva la devianza del bracciante avventizio e paventava che
i paesi potessero essere contagiati dallo spirito ribellistico e dalla
mancanza di parsimonia degli emigranti. Ma nell'inchiesta si condannava la «viziosità» dei comportamenti di alcuni individui; non
si percepiva e non si riusciva a concepire una propensione dei
proletari ad associarsi spontaneamente(34), o anche solo a muoversi
collettivamente, senza che la loro mobilitazione fosse dovuta all'intervento di qualche notabile o a particolari condizioni di esasperazione popolare che ricorrentemente sfociavano in tumulti annonari.
Nel Mantovano, un legame tra emigrazione e intensificazione delle
agitazioni operaie divenne percepibile a partire dal 1876. Fu anche
questa preoccupazione a spingere il governo ad ordinare con urgenza
l'inchiesta provinciale sulle cause dell'emigrazione. Ed anche i
successivi propositi del notabilato di dar vita a un associazionismo
mutualistico rurale furono sollecitati da simili timori. Dal 1869 nella
provincia si erano già registrati alcuni scioperi agrari. La propaganda
rivoluzionaria era particolarmente intensa, soprattutto nel capoluogo
ed in altri centri in cui esistevano solidi nuclei di reduci garibaldini
con un ascendente tra le associazioni mutualistiche operaie(35). Nell'ottobre 1876 vennero affissi in tutta la provincia avvisi di un'assemblea domenicale da tenere a Mantova, "per tutti i lavoratori di
ogni arte e mestiere [... ] per deliberare sul fatto dell'emigrazione,
quei provvedimenti che saranno ritenuti del caso" (36). Alla riunione
affluirono oltre duemila persone, in maggioranza accorse nella
convinzione di garantirsi il modo per espatriare in breve tempo. I
promotori del comizio popolare erano i redattori de "La Favilla",
50
che impostarono tutta la discussione sulla questione sociale e sulla
necessità di associare i lavoratori, deludendo una parte delle aspettative del pubblico. Tra le deliberazioni dell'assembea, la prima
prevedeva "di sospendere l'emigrazione". Si rivendicava poi l'abolizione della tassa gravante sui meno abbienti, a cominciare da quella
sul macinato. Si sollecitava poLla concessione del suffragio universale. Ma la deliberazione più importante stabiliva "di istituire una
associazione generale di tutti i lavoratori d'ogni arte e mestiere e
tutti solidali", che aveva come scopo essenziale la rivendicazione
di tariffe salariali di operai e braccianti.
Il 10 dicembre del 1876 venne costituita ufficialmente l'Associazione generale dei lavoratori di città e campagna, patrocinata dal
capitano garibaldino Francesco Siliprandi e diffusa soprattutto nella
media pianura mantovana. Era la prima associazione di resistenza
formata in Italia tra lavoratori rurali, originale anche nel tentativo
di superare le barriere tra diversi mestieri, che ancora chiudevano
l'associazionismo operaio nell'ottica corporativa. Subito fatta sorvegliare strettamente dal ministro degli interni Nicotera, l'associazione fu sciolta dalla polizia nella primavera successiva, appena
accennò a promuovere vaste dimostrazioni bracciantili(37).
Nel 1882, durante il primo grande sciopero agrario padano iniziato nel Gonzaghese e propagatosi in diverse province lungo il
corso del Po - un volantino cantato e distribuito dai cantastorie nelle
fiere recriminava - in rima - che gli operai, ex combattenti nelle
guerre risorgimentali, si trovavano a cercare altre patrie all'estero,
per riuscire a campare, a causa dell' esosità dei padroni. La canzone,
scritta dal bracciante Cesare Rossi, di Bondeno di Gonzaga, era
significamente intitolata Lamento di italiani prima di partire per lo
stato felicissimo di Francia. Terminando con incitamenti insurrezionali, fu il documento sovversivo che sindaci e polizia si mobilitarono
maggiormente a sequestrare, durante l'agitazione del 1882(38). Fino
37) ASMN, API, B. 481; Resoconto del Comizio popolare sull' emigrazione tenuto domenica 22 ottobre 1876 nell' Anfiteatro Virgiliano in Mantova, Ivi, Segna, 1876; M.
Gandini, Questione sociale ed emigrazione,
cit., pp. 49-54, 209-215, 219-222.
38) ASMN, API, B. 420.
all'inizio del XIX secolo fu osservabile un'alternanza tra periodi di
intensi flussi migratori e periodi di intense conflittualità sociali. La
principale ondata migratoria fu quella degli anni seguiti alla sconfitta
del movimento degli scioperi agrari sviluppato si tra il 1882 e il 1885.
I rapporti tra emigranti stagionali e associazionismo classista
rimasero intensi. Il movimento di resistenza e l'associazionismo
proletario ebbero la maggiore intensità nei paesi limitrofi alle due
51
39) Sul rapporto tra conflitti sociali, legami
comunitari ed emigrazione nell'Italia liberale,
cfr. AAVV, Gli italiani fuori dall'Italia. Gli
emigrati italiani nei movimenti operai dei
paesi d'adozione (1880-1940), Milano, Angeli, 1983; FRANCO RAM EllA, Terra e telai.
Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell'Ottocento, Torino, Einaudi, 1984;
BRUNO CARTOSIO, Lavoratori negli Stati
Uniti, Milano, Arcipelago, 1989; PATRIZIA
AUDENINO, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una
vallata alpina, Milano, Angeli, 1990; AAVV,
Donne che vanno, donne che restano.
Emigrazione e comportamenti femminili, a
cura di Paola Corti, in "Annali Istituto Cervi",
XII (1990); PAOLA CORTI, Paesi d'emigranti. Mestieri, itinerari, identità collettive, Milano, Angeli, 1990; RAUl MERZARIO, Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase di industrializzazione
del Comasco, Bologna, Il Mulino, 1989;
MARCO PORCEllA, La fatica e la Merica,
Genova, Sagep, 1986; L'emigrazione biellese
fra Ottocento e Novecento, a cura di Valerio
Castronovo, Milano, Electa, 1988, 2 volI.
sponde del Po, dove si concentrava il bracciantato avventizio e aveva
la massima frequenza il fenomeno dell'emigrazione temporanea.
Faticarono invece a prendere vigore nei paesi dove più consistente
era stata l'emigrazione permanente. Uno studio più approfondito di
questi meccanismi socio-culturali richiede ricerche più approfondite,
che partano dalla lettura di dati dettagliati(39). La bassa padana, negli
ultimi tre decenni del XIX secolo, ebbe comunque l'aspetto di una
terra d'emigrazione. In quel periodo, le partenze dai paesi limitrofi
al Po costituirono una parte consistente dell'emigrazione in Lombardia ed una parte ben rilevante in Emilia, regione quest'ultima dove
i flussi migratori erano limitati, grazie alla tenuta del sistema
mezzadrile(40). Il tasso di crescita demografica, in rapida ascesa nel
XIX secolo, nella bassa padana ebbe un brusco arresto dal 1876,
a causa dell' emigrazione. L'emigrazione permanente caratterizzò
soprattutto i paesi nella cui economia rurale prevaleva la presenza
di micro-proprietari, duramente colpiti dalla crisi agraria. I distretti
di Revere e di Sermide e i comuni di Poviglio e Boretto furono
particolarmente interessati da questo fenomeno. Poco avvertibile
risultò la flessione demografica nel distretto di Gonzaga, pure esso
interessato da una discreta emigrazione temporanea e permanente,
ma compensata dalla formazione del centro industriale di Suzzara.
Solo dopo il 1896 la decisa ripresa dell'economia agricola locale
abbassò sensibilmente il tasso d'emigrazione.
40) F. BONSERVIZI, Inchiesta sulla pellagra,
ciI., pp. 128-129; COMMISSARIATO GENERALE DELL'EMIGRAZIONE, Annuario statistico dell'emigrazione italiana dal 1876 al
1925, con notizie sull'emigrazione negli anni
1869-1875, Roma, Comm. gen. emigrazione, 1926; MAIC, DGS, Statistica generale
della emigrazione italiana, ciI.; ISTAT, Sviluppo della popolazione italiana dal 1861 al
1961, in "Annali di statistica", XCIV (1965),
serie VIII, VoI. XVII, pp. 635-648; ATHOS
BEllETTINI, La popolazione italiana. Un
profilo storico, Torino, Einaudi, 1987, pp.
202-209.
Comuni
Gualtieri
Boretto
Poviglio
Brescello
ProVo di
Reggio E.
52
Popolazione
Circoli Socialisti
Organismi aderenti
alla Camera del Lavoro
num.
soci
Proporzione
su 1000 abito
num.
soci
Proporzione
su 1000 abit
6.316
3.808
5.537
4480
19
4
3
9
2.794
360
178
728
442
94
32
162
2
1
3
4
355
30
96
116
56
7
17
25
274495
425
33482
122
106
5.256
19
EMIGRAZIONE NEI CIRCONDARIO DISTRETTI DELLA BASSA PADANA A SUD DEl PO, TRA ENZA E PANARO
Sermide
1876
1877
1878
1879
1880
1881
1882
1883
1884
1885
1886
1887
1888
1889
1890
1891
1892
1893
1894
1895
1896
1897
1898
1899
1900
1901
1902
1903
S.
p
10
5
10
6
4
187
18
77
144
7
4
29
9
295
85
53
2137
169
222
299
339
146
120
43
99
20
43
85
73
72
139
266
13
81
77
12
7
17
20
1
29
1
39
182
109
27
64
Gonzaga
Revere
P.
5
143
143
112
39
16
40
53
251
430
132
71
1253
252
272
269
242
120
330
107
83
15
12
30
56
S.
5
2
2
46
1
27
3
142
140
9
22
11
1
3
3
13
23
111
71
37
213
Guastalla
tol. Bassa Padana
p
S.
P.
S.
p
S.
219
97
313
599
85
113
123
87
85
140
84
19
32
17
36
22
23
35
7
5
102
40
59
97
18
56
373
251
428
410
51
81
21
10
7
79
24
27
206
46
245
277
824
575
251
554
172
55
5
357
236
259
180
120
603
755
919
589
323
175
203
172
137
92
171
18
218
278
431
85
14
14
410
791
645
533
455
284
370
21
15
168
299
282
67
229
95
337
563
2512
1157
451
4568
811
778
1036
1420
779
1074
468
422
207
223
216
298
670
836
324
298
245
765
886
1060
700
342
210
501
614
181
218
294
37
231
400
494
145
140
46
528
1547
1076
1025
1142
1
5
10
26
963
365
76
624
218
229
463
839
174
210
164
115
21
51
80
48
339
414
154
125
151
117
48
121
7 - Un biglietto di andata e ritorno
I paesi in cui era dominante la presenza del bracciantato avventizio
- in genere quelli immediatamente a ridosso del Po e quelli in cui
era più diffusa la risaia stabile - si caratterizzarono maggiormente per
una emigrazione temporanea all' estero, in stretto rapporto con una
intensa crescita dell'associazionismo classista. Dal 1886 - subito dopo
la repressione del movimento de "La boi!" - un rapido sviluppo di
cooperative di lavoro fu esplicitamente motivato come una difesa delle
comunità locali dallo spopolamento causato dall' emigrazione(41). Dopo
un decennio, anche il movimento delle leghe bracciantili ebbe scopi
analoghi. Si voleva impedire che 1'emigrazione - che lasciava le
abitazioni del bracciantato abitate solo da donne, giovanissimi e anziani
- deteriorasse i rapporti comunitari e famigliari tradizionali.
41) MANLlO BONACCIOLl, AMLETO RAGAZZI, Resistenza, cooperazione, previdenza nella provincia di Reggio Emilia (18861925), Reggio E., Cooperativa lavoranti tipografi, 1925, pp. 32-33, 185-187; La parola
alle cifre, in "La Giustizia", 1 maggio 1905.
Anche durante lunghi e travagliati soggiorni all'estero, i braccianti
sollecitavano i parenti rimasti a casa, perché pagassero le loro quote
53
42) Numerose leltere in questo senso sono
depositate in: Archivio comunale di Gualtieri,
Cooperativa braccianti di S. Vittoria, B. 4.
43) Sugli scambi di sociabilità ed esperienze
politiche tra i paesi da cui i lavoratori provenivano a quelli in cui arrivavano, cfr.
GILLES PECOUT, Dalla Toscana alla Provenza. Emigrazione epoliticizzazione nelle campagne (1880-1910), in "Studi storici", 1990,
n. 3; MARCO FINCARDI, Primo Maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana, Reggio E., Camera del lavoro, 1990,
Val I, pp. 269-289.
44) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, cit., pp. 69-86.
45) Socialisti e non, controluce. L'epistolario
di Camillo Prampolini, Parma, La nazionale,
1966, pp. 285-286, 343; Archivio centrale
dello Stato - Roma (ACS), Casellario politico
(CP), Gioacchino Artoni.
54
nelle associazioni proletarie che avevano fondato, per mantenere
questo essenziale punto di riferimento nel loro paese(42).
Socialisti e radicali crearono già all'inizio degli anni ottanta delle
reti provinciali di collegamento per questi organismi proletari paesani. Nei paesi in cui la forte concentrazione del bracciantato
avventizio e la particolare incidenza dell'emigrazione temporanea si
combinavano con una posizione favorevole rispetto alle vie di
comunicazione, si ebbe anche un considerevole incremento della
sociabilità ricreativa. Tali fenomeni mutarono durevolmente la vita
comunitaria tradizionale, conferendo un nuovo assetto alla sociabilità
paesana. Costumi e modi di pensare appresi all'estero furono portati
nei paesi padani dagli emigranti stagionali. Ma i modi di vivere di
cui si stavano appropriando i lavoratori, in quegli anni di rapide
trasformazioni dei comportamenti collettivi, lasciavano le proprie
impronte anche all'esterol43 ). Nonostante la difficoltà a reperire documentazione sulla vita degli emigrati all'estero, si possono fare a
questo proposito alcuni esempi significativi. Nel 1888, dopo la
repressione del movimento "La boi!", la costruzione delle ferrovie
nel Costa Rica fu bloccata da uno sciopero durato parecchi mesi,
condotto da un migliaio di operai padani, in massima parte provenienti dall'Oltrepò mantovanol44). In Pennsylvania, i minatori di
Gualtieri promossero una società di mutuo soccorso, una filodrammatica, due cooperative ed il circolo socialista "Camillo Prampolini"(45). Distinguendosi da altri gruppi regionali di emigrati italiani,
che appena possibile celebravano la festa patronale del paese d'origine, gli emigrati della bassa padana mostrarono fin dall'inizio un
appassionato attaccamento alle ritualità dellO Maggio, che in patria
erano vietate da Crispi. Si riunivano festosamente attorno a un'identità oppositiva, per reazione al senso di spaesamento provato in patria
come all'estero; ma queste ritualità li portavano pure a costruire un
sistema di relazioni più ampio dei loro ristretti gruppi paesani. A
Zurigo - dove lo sciopero dello Maggio 1895 fu osservato essenzialmente dagli immigrati stranieri, che parteciparono alla dimostrazione raggruppati nei differenti gruppi etnici - l'esule Andrea Costa
testimoniò di aver sentito l'odore di casa unendosi allo spezzone
padano del corteo:
"Anche l'Italia, l'Italia socialista, ha fatto sventolare la sua bandiera sovra il lungo corteo; anche l'Italia oppressa dai deplorati, ha
dato il suo contingente di dimostranti. Eravamo più di un centinaio
parte di Gualtieri, parte di Reggio e di Mantova; un bel gruppetto
di soldati pieno d'entusiasmo". (46)
Fu attorno alla sua rete di relazioni con questi nuclei della bassa
padana che l'esule reggiano Antonio Vergnanini, spalleggiato dallo
studente gualtierese Alessandro Mazzoli, creò il tessuto politicosindacale dell' organizzazione dei lavoratori italiani in Svizzera.
Nel 1894, per i provvedimenti crispini contro l'associazionismo
socialista e anarchico, quaranta braccianti di Gualtieri furono condannati ad alcuni mesi di carcere, per aver costituito nel loro paese
la Lega socialista e aver dato un orientamento socialista alla locale
Società operaia e alla filarmonica. Dalla Svizzera in cui abitualmente
lavoravano, molti di loro si trasferirono negli Stati Uniti - dove già
era presente un piccolo nucleo di minatori gualtieresi - per trascorrervi alcuni anni d'esilio. Alessandro Mazzoli - giovane discendente
da una famiglia dell'aristocrazia reggiana, che era stato il loro leader
a Gualtieri - si sottrasse pure lui alla cattura, rifugiandosi presso i
compaesani in Svizzera. Da lì nel 1895 raggiunse i nuclei dei
compaesani oltre l'Atlantico, con l'incarico di dare un più ampio
respiro alle associazioni che questi avevano costituito in Pennsy1vania. Nel 1896, con la fondazione della Federazione socialista
italiana negli Stati Uniti e del giornale "Il Proletario", dai precari
circoli locali di questi immigrati emiliani prese forma la rete associativa che da allora collegò la sinistra italo-americana(47). Dopo
alcuni anni, amnistiati dal reato associativo per cui erano stati
condannati, i socialisti gualtieresi ripresero a far ritorno al paese.
Nel 1899 Mazzoli divenne il primo sindaco socialista di Gualtieri;
e poco dopo, appena i socialisti ebbero la maggioranza nell'amministrazione provinciale reggiana, ne divenne il presidente.
Per i lavoratori della bassa padana all'estero, il mantenimento della
propria identità d'origine si fissò prevalentemente su comportamenti
e simbologie legati all'associazionismo classista. Ma nei loro paesi
ebbe unà tendenza analoga anche l'emigrazione stagionale - maschile
e femminile - all'interno della pianura padana. L'emigrazione stagionale delle mondarisi iniziò e andò intensificandosi dall'apparire
della crisi agraria, con la drastica riduzione della risaia stabile nella
bassa padana e nel distretto di Ostiglia, in cui precedentemente
cercava lavoro il bracciantato di tutta l'area circostante. Una statistica
46) Da Zurigo. Tutti fratelli, "La Bandiera
socialista" (Reggio E., numero unico degli
esuli in Svizzera), 23 maggio 1895.
47) Sul ruolo degli emigrati gualtieresi nel
movimento operaio americano, cfr. RUDOLPH
J. VECOLl, Pane egiustizia. Breve storia del
movimento operaio in America, in "Movimento operaio e socialista", XXII (1976),
IDEM, The italian immigrants in the United
States labor movement from 1880 to 1929,
in Gli italiani fuori d'Italia. Gli emigrati italiani
nei movimenti operai dei paesi d'adozione
(1880-1940), Milano, Angeli, 1983; ELISABETTA VEZZOSI, La Federazione socialista
italiana del Nord America (1911-1921), tesi
di laurea, Università di Firenze, Facoltà di
lettere e filosofia, a.a. 1979-1980; IDEM, 1/
socialismo indifferente. Immigrati italiani e
Socialist Party negli Stati Uniti del primo
Novecento, Roma, Edizioni lavoro, 1991;
GRAZIA DORE, Socialismo italiano negli
Stati Uniti, in "Rassegna di politica e di
storia", XIV (1968), nn. 159-160-161-162;
ANNA MARIA MARTELLONE, Per una storia
della sinistra italiana negli Stati Uniti: riformismo e sindacalismo, 1880-1911, in Il
movimento migratorio italiano dal/'unità
nazionale ai giorni nostri, a cura di Franca
Assante, Napoli, Istituto Italiano per la storia
dei movimenti sociali e delle strutture sociali, 1976.
55
48) A. BALLETTI, G. GATTI, Le condizioni
dell'economia agraria, cit., p. 257. Si trattava
di oltre 1'1 % della popolazione complessiva
della provincia, ma è facilmente presumibile
che la gran parte di questo contingente
provenisse dal circondario di Guastalla.
49) Archivio comunale di Gualtieri, Cooperativa braccianti di S. Vittoria, B. 2, circolare
della Federazione delle cooperative, datata
29 gennaio 1892.
50) Lotte agrarie in Italia. La Federazione
nazionale dei lavoratori della terra, a cura
di Renato Zangheri, Milano, Fondazione Feltrinelli, 1960; M. BONACCIOLl, A. RAGAZZI,
Resistenza, cooperazione, previdenza, cit.
51) LOUIS PEROUAS , Refus d'une religion,
religion d'un refus en Umousin rural: 18801940, Paris, Editions de l'Eco le des hautes
études en sciences sociales, 1985, pp. 6578; sull'importanza che l'emigrazione e i
mutamenti della vita economico-sociale
hanno avuto nel diffondere la secolarizzazione in Italia, cfr. SILVIO LANARO, L'Italia
nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, pp. 127-129.
relativa alla provincia reggiana nel 1887 indicava che "circa 2500
persone, presso a poco in egual numero maschi e femmine si recano
ogni anno ne' territori di Mortara, Voghera e Pavia per la mondatura
del riso"(48). Già nell'ultimo quindicennio del XIX secolo, la bassa
padana costituì il maggiore serbatoio di manodopera stagionale per
la Lomellina. Dal 1890 una rete capillare di cooperative di lavoro
si formò nella bassa reggiana, modenese e mantovana, in risposta
ad una legge da tempo sollecitata dalle associazioni bracciantili, che
favoriva le società cooperative negli appalti di lavori pubblici. Il loro
coordinamento venne gestito da Federazioni provinciali delle cooperative. Tali organismi si assunsero anche la gestione della mobilità
di una parte sempre più consistente dei contingenti di mondarisi
diretti dalla bassa padana in Lomellina e Piemonte(49). Nel 1901,
quando fu costituita la struttura nazionale della Federterra, le sedi
del suo ufficio statistica per l'emigrazione e del suo segretariato per
l'emigrazione delle mondarisi furono fissate nella bassa padana; a
dirigere questi due servizi, assieme ad altri importanti organismi
sindacali della provincia reggiana, fu un operaio gualtierese: Nico
Gasparini (50).
8 - Fede in un mondo da scoprire
L'emigrazione, soprattutto quella temporanea, viene considerata
dai sociologi della religione una delle principali cause sociali dell'indifferenza religiosa sviluppatasi nei secoli XIX e XX. Si tende
cioè a cercare fuori dalla sfera ecclesiastica, nelle condizioni di vita
delle popolazioni, le origini della secolarizzazione delle mentalità
collettive(51). La mobilità geografica, contatti frequenti con l'ambiente
cittadino, il distacco da attività rurali per un lavoro industriale, o
un più generico cambiamento di mestiere, sono abitualmente fenomeni accompagnati da un distacco dalla mentalità tradizionale e dalla
religiosità rurale. Gli emigrati rimanevano solitamente estranei alle
feste ed ai luoghi di culto dei paesi stranieri, riconoscendosi malamente in simboli religiosi, chiese, santi e solennità diversi da quelli
del proprio villaggio. Vivendo nei cantieri, trascuravano le pratiche
religiose domenica; e nei giorni di paga frequentavano coi propri
compagni di lavoro le bettole e talvolta i bordelli.
Ritornando ai loro paesi, frequentavano poco la chiesa, dedicando
56
piuttosto i giorni festivi ai divertimenti. Prestavano generalmente
minore attenzione ai riti di passaggio celebrati coi sacramenti,
considerando distrattamente il senso di appartenenza alla chiesa
cattolica. Ascoltavano con maggiore attenzione le novità culturali,
che li rendevano scettici verso i dogmi di fede ed i principi morali
del cattolicesimo, oltre che renderli poco riverenti all'autorità del
sacerdote.
Non era tanto l'emigrazione in sé, ma le abitudini sociali contratte
dai lavoratori fuori dal proprio paese, ad allontanare dalla pratica
religiosa e dai contatti col circuito parrocchiale. La nuova sociabilità
laica poteva perciò trovare un solido supporto tra quegli operai che
trascorrevano molti anni della propria vita percorrendo l'Europa ed
altri continenti alla ricerca di lavoro. Ciò non toglie però che, in
alcuni paesi a forte emigrazione, le simbologie religiose abbiano
rafforzato la loro presa su quelli che restavano; in tal caso, mantenere
in alta considerazione i simboli religiosi poteva diventare espressione
della volontà di sopravvivenza della comunità locale, coinvolgendo
talvolta anche gli emigrati nella riscoperta del potere aggregante della
religione paesana.
Uno studio storico-sociologico di Serge Bonnet, sui boscaioli delle
Argonne nei secoli XVIII e XIX, analizza la religiosità in un ambiente
di lavoratori migranti, abbastanza simile a quello della bassa padana
bracciantile<52l. Per Bonnet, la scarsa propensione del bracciante/
manovalè verso la ritualità ecclesiastica è diretta conseguenza della
sua debole integrazione sociale e religiosa, che lo spinge a cercare
fuori dalle istituzioni tradizionali i riferimenti della propria identità.
Questo proletariato, allontanandosi da abitudini domestiche e paesane
che non gli garantivano più la sopravvivenza, nel XIX secolo
sviluppò rapidamente proprie tradizioni fondate sulla mobilità. In
alcune località delle Argonne, la decadenza delle cappelle rurali fu
anche effetto dell'allontanamento fisico e culturale degli emigranti
stagionali dalla ritualità cattolica di villaggio. La domenica di questo
proletariato era trascorsa tra il lavoro e l'osteria. La vita di questi
operai non era più scandita dalle settimane del calendario cristiano,
ma dalle bisbocce per festeggiare i ritorni al paese, dopo mesi
d'assenza. L'osservanza del precetto pasquale, così importante nel
legare la popolazione cattolica alla parrocchia, era per questi operai
difficoltosa; e quando anche avessero avuto modo di trascorrere la
52) SERGE BONNET, Les "sauvages" de Futeau, verriers et bucherons d'Argonne aux
XVI/le et XIXe siècles, in Christianisme et
monde ouvrier, a eura di François Bédarida
e Jean Maitron, Pari s, Les éditions ouvrières, 1975 (Cahier du "Mouvement soeial", n. 1) pp. 187-222.
57
s=
Pasqua al proprio paese, si mostravano poco propensi a confessarsi
e comunicarsi. L'immersione nella sociabilità laica e i frequenti
contatti con l'associazionismo democratico e anticlericale li portavano a disprezzare la religiosità di chi viveva nelle campagne e nei
boschi, isolato dalla cultura urbana(53l. I notabili e il parroco avevano
una presa molto limitata su questi sradicati, che traevano le fonti
di sostentamento prevalentemente dall'esterno del proprio paese
d'origine. Tale indipendenza suscitava verso la loro vita l'invidia e
la curiosità dei compaesani, facendo di essi dei modelli per chi
desiderava rompere e modificare la ripetitività dei costumi e dei
rapporti paesani(54l. Tanto più che la morale rurale arcaica sembrava
appartenere ad un mondo patriarcale che si stava disgregando con
la tradizionale famiglia contadina, in cui era abitudine impartire a
bambini e adulti un'educazione domestica intrisa di valori e simboli
religiosi. Secondo Bonnet, dunque, nell' est della Francia fu la
mobilità geografica - più che il diffondersi di nuove ideologie - il
fattore modernizzante dei comportamenti collettivi, soprattutto alla
fine del XIX secolo.
I parroci della bassa padana sembrarono avere verso l'emigrazione
stagionale le stesse preoccupazioni dei parroci delle Argonne citati
da Bonnet. Nella Cronistoria della Parrocchia di Meletole, don
Flaminio Longagnani ha riassunto le difficoltà incontrate dall' azione
pastorale dei suoi predecessori, in un villaggio rurale interessato
intensamente dalle migrazioni bracciantili:
"Don Cantoni continua a deplorare la piaga della Emigrazione,
che aumenta paurosamente, anche "se non è sempre la necessità
economica a determinarla". Infatti egli dice che molti giovani
emigrano per il solo desiderio di avventura, e per sottrarsi alla autorità
domestica. Questi emigranti, infatti, ritornano dalla Svizzera, dalla
Francia o dalla Germania "insubordinati e sprezzanti sia delle leggi
divine che di quelle umane e domestiche". [00'] Varie cose avevano
favorito e favorivano il diffondersi delle idee antireligiose e anticlericali, che già avevano costituito il pane della liberaI-massoneria.
La emigrazione che, per ragione di lavoro, fin dal 1862 e seguenti,
i nostri operai disoccupati erano costretti ad effettuare, portandosi
in Francia, in Isvizzera, in Germania e anche in America del Nord,
in mezzo a paesi protestanti, aveva favorito il diffondersi del concetto
che i Preti e la Chiesa avevano sempre tenuto nella ignoranza il
53) Ibid., p. 215.
54) Ibid., pp. 217-218.
59
55) Manoscritto conservato presso l'Archivio diocesano di Reggio Emilia, VoI. III, pp.
93, 100-101.
56) ATTILIO BRUNIALTI, L'esodo degli italiani e la legge sull'emigrazione, in "Nuova
antologia", Val. XLVI, luglio 1888, p. 96.
57) M. GANDINI, Questione sociale ed emigrazione, cit., pp. 65-66.
60
popolo, per meglio sfruttarlo assieme ai Capitalisti." (55)
Appare quindi evidente la sfasatura tra gli atteggiamenti verso la
religione di questi migranti e quelli propri dei migranti permanenti,
soprattutto quelli provenienti dalle aree montane. Spesso, i secondi
- almeno esteriormente - esasperavano il proprio conservatorismo
identitario, anche in campo religioso, cercarido di fondare su determinati stereotipi, riguardanti le proprie tradizioni d'origine, una
identità da giocare nei processi di adattamento nelle società straniere
in cui cercavano di integrarsi. D'altronde, i vescovi di Guastalla e
di Mantova, ed il loro clero, non assunsero verso l'emigrazione una
sensibilità ed una capacità d'iniziativa raffrontabili a quella del
vescovo di Piacenza, Giovan Battista Scalabrini. Un articolo della
"Nuova antologia" descrisse con molta enfasi la partenza dalla
provincia di Mantova di "interi villaggi col parroco in testa." (56) Si
trattava di una immagine oleografica, palesemente esagerata. La
partenza di parroci mantovani al seguito del loro gregge non trova
riscontri negli archivi diocesani, né in quelli civili o nella stampa
locale. Anche nell'area dell'Oltrepò, che fu la più interessata dall'emigrazione nella provincia mantovana, le numerose partenze non
determinarono un calo della popolazione tale da ridurre - se non
momentaneamente - l'alta densità demografica caratteristica della
zona. I villaggi della bassa padana rimasero comunque sovrappopolati; ed i loro parroci rimasero tutti nella propria canonica, a cercare
di garantire una stabilità a equilibri rurali tradizionali sempre più
compromessi. Un impegno costante di molti parroci dell'Oltrepò
mantovano fu invece quello di fornire consigli e informazioni ai
parrocchiani che intendevano partire, o di tenere contatti tra gli
emigrati e le famiglie; contatti resi difficoltosi dai precari canali di
comunicazione e dalla scarsa familiarità della gente di campagna con
la scrittura. In certi casi - almeno quando si trattava di famiglie
coloniche, prive di esperienza nella mobilità geografica e professionale, ignare di qualunque cosa estranea alla realtà agricola locale
- i parroci svolsero un ruolo di mediazione culturale per una parte
dei lavoratori che abbandonavano il paese(57). In generale, le loro
prediche cercavano di scoraggiare la mobilità. Tutte le notizie che
ricevevano dal clero operante nei paesi dove i lavoratori si trasferivano, davano prospettive sconfortanti sulla conservazione della fede
e della moralità tra gli emigrati.
Una lettera pastorale del vescovo Giuseppe Sarto nel 1887 incitò
parroci ad occuparsi dell'assistenza spirituale a chi desiderava
partire, e ad intrattenere rapporti con quelli che dall'estero mantenevano contatti con la parrocchia in cui erano nati. Lo scritto del
vescovo di Mantova non entrò nel merito delle condizioni economico-sociali che originavano l'emigrazione, limitando la riflessione
alle conseguenze etico religiose del fenomeno. Ai parroci rivolgeva
la raccomandazione di ammonire i fedeli sui rischi a cui sottoponevano la propria vita e la propria anima andando in America. A
chi partiva, i parroci dovevano saper dare tutti i ragguagli su come
contattare chiese e missionari cattolici all' estero, per poter conservare
anche in un paese straniero la propria fede ed i propri riti religiosi.
A questo scopo, ad ogni partente la parrocchia doveva rilasciare un
certificato attestante i sacramenti ricevuti; ed ai capifamiglia o ai
più devoti andava fornito il libretto del catechismo diocesand 58l . Ma
le famiglie coloniche, che partivano con la benedizione del parroco,
portando addosso immagini dei santi, erano quelle che in genere non
facevano più ritorno, restando oltre oceano alla ricerca di terra da
coltivare. Le loro partenze mettevano in crisi la vita parrocchiale,
senza essere di stimolo a nuovi rapporti religiosi nelle comunità
paesane. Nell'anno record dell'emigrazione, il 1891, a Borgofranco
Po fu persino sospesa la sagra del santo patrono, talmente i sentimenti
comunitari erano rimasti depressi per la recente partenza di numerose
famiglie<59 l.
58) Archivio diocesano di Mantova, Fondo
curia vescovile, Lettere pastorali (LP),
Mons. G. Sarto, 19 agosto 1887.
59) "La Provincia di Mantova", 26 agosto
1891.
9 - Passaporti per il mondo nuovo
A colmare gli scompensi che l'emigrazione creava nell'assetto
comunitario tradizionale contribuì notevolmente il forte sviluppo
dell'associazionismo democratico. Questo associazionismo creò
nuove prassi solidaristiche, che supplivano all'indebolimento delle
strutture familiari tradizionali, o alla caduta dei valori paternalistici,
fino a pochi decenni prima vincolanti i proprietari a soccorrere i
poveri. L'instaurarsi di questi nuovi sistemi di relazioni comunitarie
si inserì nella generale crisi della pratica religiosa e dei legami
parrocchiali e ne ampliò gli effetti. Delle solennità cattoliche, l'emigrante stagionale apprezzava solo il fermento profano ed i raduni
popolari in occasione delle sagre: buone occasioni per fare baldoria
61
e per narrare o esibire ciò che si era visto o appreso nei viaggi. I
periodici ritorni delle squadre di braccianti emigrati rivitalizzavano
i divertimenti paesani, incrementando il diffondersi di spazi ricreativi
profani. Impossibilitati a trovare uno spazio proprio negli immobili
culti parrocchiali, trasferivano dalla sfera religiosa a quella del
divertimento il piacere di riunirsi ed il bisogno di rafforzare le proprie
relazioni comunitarie(60).
Tali tendenze al mutamento della vita paesana furono ben visibili
dove l'emigrazione temporanea era maggiormente diffusa. A Gualtieri, dove si concentrava larga parte dell'emigrazione stagionale
industriale, si ebbe contemporaneamente la maggiore concentrazione
dell' associazionismo proletario. Per avere una dimensione approssimativa del fenomeno, si tenga presente che, negli anni ottanta del
secolo scorso, i lavoratori diretti temporaneamente all'estero da
Gualtieri costituivano all'incirca i due terzi degli emigranti temporanei del circondario guastallese, un terzo di quelli della provincia
reggiana e la metà di quelli della bassa padana. Si tenga pure presente
che la popolazione gualtierese costituiva allora all'incirca il 10% di
quella del circondario guastallese, il 2,4% di quella della provincia
reggiana e il 4% di quella della bassa padana. L'emigrazione temporanea di braccianti avventizi, che andavano a fare gli sterratori
o i minatori, raggiungeva quindi livelli elevatissimi. Gualtieri era
un riferimento d'obbligo per ditte come la Colajanni di Genova, che
reclutavano manovalanza per la costruzione di canali, porti, strade,
ponti e soprattutto ferrovie, in ogni parte del mondo. L'emigrazione
permanente da Gualtieri si mantenne invece nella media dei paesi
della bassa padana. Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX,
in tutta la zona, Gualtieri era il paese più citato dalla stampa laica
e da quella cattolica, per la frequenza di funerali civili e per l'alto
numero di bambini non battezzati. Ben quattro società o circoli del
comune di Gualtieri furono tra i 194 rappresentati nel 1892 al
congresso del Partito dei lavoratori tenuto si a Genova; al successivo
congresso nazionale tenutosi a Reggio, nel 1893, le associazioni
socialiste del comune di Gualtieri furono cinque (su complessive 295
nazionali). Si possono poi raffrontare i dati sull'associazionismo
classista a Gualtieri, nel 1905, con quelli di tre comuni limitrofi,
pure essi con una elevata emigrazione, ma a carattere permanente(61).
60) Sul ruolo degli emigrati nelle ritualità
paesane: G.L. BRAVO, Festa contadina e
società complessa, Milano, Angeli, 1984.
61) Fonte:
litica della
rente alla
Socialista,
Organizzazione economica e poProvincia di Reggio Emilia adeCamera del lavoro e al Partito
"La Giustizia", 1 maggio 1905.
63
62) Archivio di stato di Reggio E., PS Guastalla 1857-1886, B. 1867-1886 Passaporti
esteri.
63) ADOLFO ZAVARONI, La linea, la sezione,
il circolo. L'organizzazione socialista reggiana dalle origini al fascismo, Reggio E.,
Quorum, 1990, pp. 137-140; FULVIO SIMONAZZI, ROLANDO CAVANDOLI, Gualtieri.
Vita di una comunità, Ivi, Amministrazione
comunale, 1983, pp. 165-173; SERAFINO
PRATI, Una storia dentro la storia, "L'Almanacco", I (1982), n. 1.
64) Per una interessante comparazione tra
l'economia rurale della bassa e della media
pianura emiliana e della zona appenninica,
in rapporto all'emigrazione e ai conflitti
sociali: ASMN, API, B. 229, f. Comizi agrari,
relazione del Comizio agrario di Modena (11
dicembre 1876). Cfr. Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano, cit., pp. 163165.
64
Nei comuni di Boretto e Poviglio, l'emigrazione aveva riguardato
essenzialmente famiglie coloniche di piccoli proprietari e mezzadri,
per lo più dirette stabilmente in Argentina e Brasile(62). Nel comune
di Brescello avevano avuto un peso rilevante sia l'emigrazione
permanente di famiglie coloniche. che quella temporanea di braccianti
avventizi; ma il distacco massiccio dal paese era stato temperato dallo
sviluppo di qualche attività industriale nel paese. A Brescello, ma
ancora di più a Gualtieri, ci fu una considerevole adesione femminile
all'associazionismo classista: un fenomeno che alla fine del XIX
secolo era ancora insolito nelle campagne. Nelle famiglie bracciantili
di quei paesi, la lontananza dei padri e dei fratelli, per buona parte
dell'anno, aveva come conseguenza una più aperta partecipazione
delle donne alla sociabilità paesana, soprattutto se esse - molto spesso
si trattava di truciolaie - avevano una loro attività lavorativa indipendente(63) .
Per individuare le condizioni in cui la mobilità'geografica divenne
un radicale fattore di trasformazione sociale, è interessante mettere
a confronto gli effetti culturali dell'emigrazione nella bassa padana
con quelli riscontrabili per l'emigrazione dall' Appennino emiliano.
In questa seconda area, la tradizionale transumanza, l'afflusso nella
bassa padana durante i grandi lavori delle colture cerealicole, l'attrazione dei lavori industriali in Europa e in America svuotavano
i villaggi e i borghi montanari dalla popolazione maschile adulta,
per lunghi periodi.
Si trattava essenzialmente di un'emigrazione temporanea, dato il
tenace attaccamento delle popolazioni montanare ai loro paesi e ai
fazzoletti di terra che quasi ogni famiglia possedeva(64). Anche gli
emigranti dall' Appennino emiliano si caratterizzavano per una tendenza ad opinioni politiche radicali e spesso per uno spiccato
anticlericalismo dei più giovani. Ma nei paesi regolarmente privati
della popolazione maschile adulta, la tendenza all'associazionismo
era scarsissima e particolarmente difficoltosa. Nei microscopici
villaggi e casolari dell' Appennino, abitati in permanenza solo da
donne, bambini e anziani, l'identità locale e le relazioni comunitarie
si continuarono a proiettare tenacemente su una capillare rete di
parrocchie. Le parrocchie dell' Appennino reggiano, nella maggior
parte dei casi comprendevano all'incirca duecento anime: tutti gli
abitanti erano quindi personalmente noti al parroco, spinto anche
EMIGRAZIONE ALL'ESTERO DALLE PROVINCE DI MANTOVA E REGGIO, SECONDO I DATI UFFICIALI
Emigranti
7000
~
-I-
6000
I
~
r
5000
~
~I
~.
~
4000
~
3000
2000
i
1000
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1876 1677 1878/
1879 lB80 1881:
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1882 18S3 1884!
1885 1866 1887
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1888 1889 1890
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1891 1892 1893
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1895 1898
Dalla provincia di
Reggio
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1903 1904 1905
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Annl
Dai circondari o distretti della bassa padana
nelle rispettive province di Mantova e RegBio
65) MAIC, DGS, Circoscrizioni ecclesiastiche
in relazione colle circoscrizioni amministrative, cit., pp. 264-266.
66) Su questi temi intervenne nel 1901 il
deputato del collegio di Guastalla, Adelmo
Sichel, nel congresso costitutivo della Federterra (Lotte agrarie in Italia, cit., p. 58; cfr.
S. MARGINI, Cenni sull'agricoltura, cit., p.
26). Su scioperi etumulti contro i lavoratori
veneli, nelle risaie della bassa mantovana,
cfr. ASMN, API, B. 487. Sulle difficolla
dell'organizzazione socialista ad avere una
presenza regolare nella zona appenninica
emiliana: ADOLFO ZAVARONI, La linea, la
sezione, il circolo, cit.; M. FINCARDI, Primo
Maggio reggiano. Il formarsi della tradizione
rossa emiliana, Reggio E. Camere del lavoro
di Reggio e Guastalla, VoI. Il, pp. 200-205;
SANDRO SPREAFICO, La chiesa di Reggio
Emilia tra antichi e nuovi regimi, VoI. Il,
Bologna, Cappelli, 1982.
66
dalla povertà del proprio beneficio a cercare stretti rapporti coi
parrocchiani(65). Nel XIX secolo si registrò quindi nella zona appenninica l'apparente paradosso di un' opinione pubblica orientata a
sinistra e al laicismo, mentre le comunità locali rimanevano solidamente legate alla rete parrocchiale, nonostante la crisi che l'emigrazione provocava nei loro costumi tradizionali. All'inizio del XX
secolo, quando la cultura del movimento operaio si diffuse dalla bassa
padana a tutta la pianura emiliana, la zona appenninica vi si mantenne
quasi impermeabile. Nelle povere comunità montanare, la cui agricoltura era scarsamente produttiva e difficilmente modernizzabile,
con una proprietà fondiaria frazionata in modo esasperato, con microproprietà coltivate da chi non era idoneo ad emigrare, il principale
antagonista di classe era normalmente l'usuraio, contro cui non era
possibile combattere sindacalmente. Proprio per questa estraneità alla
cultura organizzativa del movimento operaio, i lavoratori che in
primavera scendevano dall'Appennino per la zappatura ed altre
operazioni agricole nella bassa padana, erano spesso accolti con
ostilità, perché considerati crumiri, come accadeva pure agli immigrati dal Veneto, per la stessa ragione(66). Dai primi anni del XX
secolo, appena il clero promosse anche in montagna una rete associativa cooperativa e previdenziale gravitante sulle parrocchie, le
identità paesane dell' Appennino emiliano si polarizzarono per lo più
stabilmente nelle rappresentanze istituzionali del cattolicesimo politico, con una tendenza antitetica a quella della pianura.
Gli inediti di "Benigno"
Dall'archivio di Sereno Folloni riportiamo tre lettere di "Benigno"
Giuseppe Dossetti. Folloni ha ottenuto tali lettere, scritte nella
primavera del 1945, dalla famiglia dell'Ing. Domenico Piani.
Piani, leader della Democrazia Cristiana in città, era stato esponente del PPI di Sturzo; sarà il primo Segretario provinciale della
Democrazia Cristiana reggiana.
Pur avendo scelto lo pseudonimo partigiano di "Fontana", notiamo
che Dossetti si rivolge a lui alternando, per ragioni di sicurezza, i
nomi di "Paolo" e "Graziano".
Traspare infatti dalle missive la costante preoccupazione per la
sorte di Piani, ormai sospettato dai fascisti, e dunque il timore di
un arresto, che avrebbe significato probabile tortura e magari condanna a morte. Da poche settimane si era concluso il processo ad
Angelo Zanti con l'avvenuta fucilazione dello stesso, e la condanna
di Carlo Calvi, Luigi Ferrari e Gino Prandi alla pena capitale al
momento sospesa. Ma anche la situazione in montagna è tutt'altro
che facile; al proposito le parole di Dossetti sono di una chiarezza
a cura di
SALVATORE FANGAREGGI
Tutta la corrispondenza partigiana - che
veniva trasmessa a mezzo di staffette con
l'obbligo in caso di pericolo di ingoiare il
foglio - contiene esclusivamente i nomi di
battaglia.
È pertanto indispensabile, per la comprensione dei testi, l'identificazione delle persone
citate.
Monti: Col. Augusto Berti - Valori: Pietro
Pollara - Eros: Oidimo Ferrari -Franceschini:
Pasquale Marconi - Ermes: Ermanno Oossetti - Franchi: Gismondo Veroni - Pezzi:
. Ettore Barchi - Marzi: Cesare Campioli Bianca: Lina Cecchini - Carlini: Sergio Vecchia - Rosario: Sandra Codazzi - Gabrielli:
Antonio Grandi; - Mariani: conte Carlo Calvi
di Coenzo -"Sandro" è il figlio Alessandro
- Ferruccio: Alfio Ruggeroni - Marco di Rivalta: Edgardo Castagnetti.E' probabile che
con "l'agronomo" Oossetti indicasse Mario
Morelli (il padre di Giorgio Morelli "II Solitario").
Non si è in possesso, al momento, di elementi di identificazione per "Luca", "Bruno
di Cella", "Ala", "Bianchi, l'ingegnere socialista" e il "Curato di Bianca".
tale da non richiedere commento.
Da qui l'utilità della presenza di un prestigioso esponente della
resistenza cattolica come Domenico Piani da affiancare ai fratelli
Dossetti e Pasquale Marconi.
Si ha l'impressione che Dossetti non abbia la convinzioné della
prossima fine del conflitto, che invece avverrà da lì a poche settimane
e dubita della "fretta degli Alleati".
69
D'altronde il giorno di Pasqua vedrà ancora la cruenta battaglia
di Cà Marastoni in cui saranno particolarmente impegnate le forze
cattoliche con un duro contributo di sangue.
Le relazioni di Dossetti a Piani appaiono di impietosa sincerità
soprattutto in ordine ai contrasti con le forze comuniste per questioni
di metodologia nella lotta.
Le consegnamo nella loro integrità alla storia della lotta di liberazione.
Caro Graziano,
dopo la lettera tua portatami da Ala non ho più avuto nulla. Quindi
non ho avuto risposta a quella mandatami a mezzo del Curato di
(?) che mi aveva portato su il tuo biglietto e al quale avevo anche
affidato i verbali delle riunioni tenute al Comando e la copia della
dichiarazione presentata dai nostri rappresentanti delle tre Provincie.
Spero che tu avrai ricevuto tutto. Ad ogni modo mi occorre che
tu mi risponda su tutto: tu devi portare pazienza, ma i tuoi scritti
devono essere un po' più diffusi sia nel rispondere ai miei, sia nel
darmi notizia della situazione di costì.
Ed ora eccoti alcuni dati e precisazioni:
I) Anzitutto quanto a te: se tu proprio non vuoi venire su, tu devi
almeno conservare da costì le funzioni di nostro Capo; esponendoti
molto poco (perché io resto sempre convinto che tu sia gravemente
indiziato) e cercando per contro di assicurare al massimo le informazioni necessarie a noi perché non perdiamo il contatto con gli
sviluppi politici della pianura.
II) Non tu (perché ripeto non devi farti pescare) ma qualche altro
deve predisporre una rete di diffusione dei materiali propagandistici,
che speriamo di mandare presto giù. Noi in proposito potremo fare
molto (abbiamo ormai tutto, caratteri, macchina, proprio una macchina da stampa, inchiostri e carta; ci manca solo un compositore
veloce, perché abbiamo solo degli apprendisti. Dovresti cercarlo e
mandarlo su; potremmo anche pagarlo).
III) Per Pasqua uscirà il primo numero del giornaletto (ciclostilato)
della Brigata. Subito dopo prepareremo fogli di propaganda. Intanto
70
abbiamo ristampato quel foglio che era stato diffuso giù: "Alcune
idee sulla Democrazia Cristiana".
IV) Ti mando copia di una circolare, mandata ieri ai Parroci della
zona. Scrivimi le tue osservazioni. Ne stiamo preparando un' altra
per i dirigenti e un' altra per il movimento femminile. A proposito
del quale movimento femminile, che qui si sta iniziando con successo, avremmo bisogno che Bianca si decidesse a venire su.
V) Quanto alla situazione generale, qui vengono notizie contraddittorie: abbiamo sentito anche noi messaggi dei Comandi Alleati
ai Partigiani, da vari indizi riteniamo che i tedeschi si apprestino
a ritirarsi. Ma certo ci sono anche altri segni, i quali fanno pensare
che gli alleati, soprattutto per ragioni politiche, non abbiano gran
fretta nell' avanzare e occupare le provincie settentrionali. Vari
rapporti pervenutici da Roma, sono in questo senso. Quindi bisogna
mettere sul novero delle probabilità anche quella che, i tedeschi si
ritirino, ma che prima della occupazione intercorra un certo spazio.
Ora, prove sicure ci sono per ritenere che in questa eventualità i
comunisti tenterebbero di instaurare almeno per alcuni giorni un
regime militare loro (soprattutto valendosi delle SAP) e soprattutto
di fare in via sommaria l'immediata epurazione che temono di non
potere fare dopo. Dato questo, tu capisci quanto possa essere necessario di ricostruire in una maniera o nell' altra il nostro controllo
sulle SAP della pianura. E' sempre più urgente il trovare un nostro
da porre nel Comando SAP.
VI) Come tu saprai vi è stato un rastrellamento o meglio puntata
nella zona di Baiso-Carpineti. La SAP nonostante il copioso armamento (era stato loro distribuito da qualche giorno molto materiale
fornito dalla Missione Americana di Ferruccio) hanno fatto una figura
ignomignosa: ed erano parecchie centinaia.
Marzi stesso che si trovava colà (mentre io ero purtroppo a letto)
è venuto poi da me, ammettendo che le cose erano andate molto
male e che si era rivalutata l' inefficenza militare delle SAP. Gli unici
che hanno combattuto sono state le Fiamme Verdi: sei in tutto, quante
erano nella zona (tra gli altri il nostro [grafia indecifrabile].
VII) Appena sarà possibile, mi recherò a Baiso e Carpineti. Qui
i comunisti stanno compiendo non solo atti arbitrari continui (rapine,
prelevamenti, uccisioni frequentissime) ma quel che è peggio stanno
71
conducendo una violentissima campagna intimidatoria contro i
nostri: tra l'altro minacciano di disarmo e di morte ogni giovane che
venga con noi. Ho già predisposto perché questi fatti vengano
documentati (il rastrellamento, ha interrotto la Istruzione). Appena
avrò un complesso adeguato di prove, sferrerò un'offensiva di estrema
energia. Credo proprio che sia giunto il momento di rispondere alla
violenza con l'energia, per far sentire che non siamo disposti a
tollerare un nuovo fascismo.
VIII) Da Roma, tramite il figlio di Bianchi (l'ingegnere socialista)
arrivato cinque giorni fa in aereo, ci sono pervenuti sette milioni
per saldare debiti contratti dai Partigiani sino al 31 dicembre. Oggi
dovranno stabilire i criteri per la distibuzione. Prevedo battaglie.
IX) La stessa persona (mi pare che costì si chiamasse Carloni)
ci ha portato anche Istruzioni del Governo: purtroppo verbali. Ad
ogni modo vi si parla tra l'altro di "Abolizione, là dove è possibile
(7!), dei Commissari e militarizzazione delle formazioni".
X) Oggi ci sarà riunione tra Comando Unico, Comando modenese
e Comitato per decidere della insistente richiesta da parte dei
modenesi di passare il nostro territorio, per la restrizione della loro
zona, in seguito ai movimenti tedeschi. Purtroppo la nostra Brigata
dovrà farne le spese. Anche per questo, ci sarà battaglia.
XI) Vorrei approfittare della riunione, anche per ritornare sulle
decisioni precedenti, circa la posizione dei Nostri al Comando, che
ancora i Comunisti cercano di sabotare, non applicando in pratica
il principio dellla nostra partecipazione ad ogni controllo.
XII) Quanto allo scambio dei prigionieri, i comunisti (Marzi)
compreso, forse sotto le insistenze di Eros, hanno fatto di tutto per
impedire persino l'inizio delle trattative, complicando enormemente
le richieste procedurali preliminari e approfittando del fatto che io
ero legato al letto. Tanto per tua norma.
Le trattative formalmente non sono ancora interrotte, ma ormai
non vi è quasi nulla da sperare, tanto più che gli stessi inglesi della
Missione (con un abuso di potere, perché esorbita dalle loro funzioni
di collegamento) sono intervenuti per vietare lo scambio.
XIII) Come forse saprai i nostri modenesi hanno istallato una Radio
emittente ("Radio Emilia", onda di 41-42 metri: ore 7,45/12,15/13/72
queste due sono le trasmissioni meglio sentite; 19,45/23)- Collaboreremo anche noi - Bisogna che tu faccia fare molta propaganda.
(Si ascolta meglio al mattino)
Addio e tantissimi auguri per la Santa Pasqua.
Benigno
Tu dovresti sin da ora preparare una relazione molto dettagliata
sulla nostra attività ab inizio sino ad oggi, sia come attività interna
di Partito, sia come attività di C. L., sia come attività di liberazione.
Ho visto che a Firenze, alcuni partiti hanno avuto un grande successo
preparando in anticipo questa relazione, già stampata, e pubblicandola con qualche aggiunta, appena sono arrivati gli alleati. Tu solo
puoi farla, almeno per il periodo fino al 30 novembre.
Caro Graziano
22/3/mattina
Ala mi ha portato ieri sera la tua del 17. Non ne sono soddisfatto.
Dice e disdice. Perciò quanto alla tua situazione personale, ti ripeto
formalmente che tu devi venire su e riprendere le tue funzioni di
nostro Capo, interrotte il 30 novembre.
In particolare non dovresti nemmeno lontanamente temere di
mettermi in imbarazzo. lo non desidero altro. Per giunta ora ti scrivo
da letto con una forma influenzale, ma in effetti anche per uno stato
di esaurimento, che mi impedirà forse di lavorare. Quanto alla tua
famiglia tu non devi preoccuparti: è con assoluta serietà che ti ripeto
che tu potrai sistemarla ottimamente qui. Tu non puoi avere affatto
l'idea delle condizioni della zona e della facilità del viaggio, almeno
quando sia fatto a tappe senza fretta. Ti ripeto poi che noi ci
impegnamo a provvedere quanto può essere necessario a te e ai tuoi.
Per il cibo in particolare che può occorrere a te e alla tua famiglia,
esso è già garantito con abbondanza. Vedrei dunque il tuo distacco
da Reggio una difficoltà: cioé la possibilità per te di svolgere ancora
un lavoro utile in pianura. Ma questa possibilità a mio giudizio ormai
ti è venuta meno; Tu restando in basso sciupi con frammenti di
attività, scarsamente efficaci e pericolosissimi tempo e capacità che
potresti ben più utilmente e sistematicamente impiegare qui a vantaggio non solo della montagna, ma anche della pianura. Mi dici
73
che quando io sono salito, tu eri quasi deciso ad accompagnarmi.
Non lo credo. lo allora non ti dissi nulla perché intendendo scendere,
volevo tutelare al massimo il mio segreto.
Ti abbraccio e ti aspetto, tuo
Benigno
Caro Paolo,
non so se avrai avuto il mio biglietto di sabato scorso. Ti riassumo
brevemente gli eventi degli ultimi giorni:
ieri martedì abbiamo concluso le conversazioni comuni con il c.L.
e del Comando Unico.
I risultati sono per noi molto soddisfacenti, in quanto abbiamo
conquistato varie posizioni. Dipenderà da noi ora esercitare un effettivo controllo in condizioni di parità con gli altri.
Il C.U. è stato riorganizzato. I comunisti avevano proposto la
sostituzione del Comandante: noi abbiamo potuto evitarla. Resta
Monti comandante, Miro vice comandante, Eros commissario generale, Franceschini vice Comm. Gen .. Ma questi avrà un sostituto
permanente, coi suoi stessi poteri e il suo diritto al voto in seno
al Comando (sostituto abbiamo designato Ermes, mio fratello).
Inoltre noi otteniamo un ispettore generale di tutte le Brigate, membro
del comando con diritto di voto e funzione di relatore su tutte le
questioni. Non abbiamo ancora designato la persona.
Le Fiamme Verdi avranno per forza (dato. quello che mi hai
comunicato tu) i loro commissari ma designati tutti da noi.
Il Commissario Generale avrà un personale composto anche di
elementi nostri: anzi a questo proposito stamani abbiamo designato
un nostro come redattore dei giornali del Commissariato.
Valori che era stato ignomignosamente sostituito al Comando della
Polizia è stato nominato presidente di una commissione di inchiesta
permanente del C.U., la quale è stata istituita apposta con la funzione
di istruire tutti i processi e compiere con pieni poteri (anche sulla
polizia) tutte le inchieste nei casi più gravi.
Le S.A.P. della zona propriamente partigiana verranno progres74
~ --./'-,)
\
sivamente riassorbite nelle Formazioni; mentre quelle della zona
subpartigiana sono poste alle dipendenze di un comando S.A.P. della
montagna (composto da Franchi e Pezzi) alla sua volta dipendente
dal C.U. Questo noi abbiamo richiesto, per sottrarre le S.A.P. dalla
dipendenza dalle Brigate Garibaldi.
I) I consigli comunali (che hanno dato così cattiva prova) se non
sciolti saranno praticamente sostituiti dal C.L. che dovranno avere
tutti i poteri, alle dipendenze del C.L. Montagna.
Il) Inoltre tutta una serie di altre deliberazioni, rivolte a farci partecipare meglio al controllo delle Intendenze degli arruolamenti, ecc ..
Mando, appena trascritti, tutti i verbali delle riunioni. E ora
veniamo a noi. Con Franceschini e gli altri amici abbiamo deciso
di costituire in montagna un centro politico nostro delle montagne
ed un centro politico nostro provinciale. Abbiamo già impiantato
l'ufficio. Stiamo impiantando qui la tipografia che serve a stampare
giornali e manifesti per la montagna, per le Formazioni e per la
pianura. Inoltre secondo quanto mi ha detto Marzi (che pare verrà
anche lui a stare in montagna; a proposito io non gli ho ancora detto
che sto qui) è probabile che il C. Provo almeno come organo deliberante si insedi in zona partigiana conservando a Reggio un
semplice organo di esecuzione e di collegamento. In vista di questo:
Ti prego categoricamente (anzi ti ordino in nome di tutti) di salire
in montagna per assumere la direzione del nostro centro politico
provinciale.
III) Di non pensare a nessun ostacolo; noi provvederemo a darti
finché occorra, quanto è giusto e doveroso che tu abbia per i bisogni
tuoi e della tua famiglia.
IV) Se credi, possiamo trovare in zona partigiana o sub partgiana
una casa per tua moglie e i tuoi bambini.
V) Però tu devi prima di partire, designare costì il nostro sostituto
a Reggio nei seguenti organi: a) c.L. oppure organo esecutivo: per
questo non fidarti di Luca che è un inconcludente.
Cerca di ritrovare Carlini, oppure il nonno oppure l'agronomo,
oppure un giovane sacerdote (per esempio il curato di Bianca che
è disposto a lavorare) tu devi farlo subito e darmi assicurazioni in
proposito. Tieni presente al riguardo che Marzi e i suoi ritengono
76
un tuo ritorno nel c.L. troppo pericoloso, non solo per te ma anche
per loro. Marzi tuttavia ha accettato di incontrarsi con te, una volta.
Si servirà del curato di Bianca come tramite. b) Un nostro rappresentante del Comm. S.A.P. alla peggio potrebbe essere Bruno di Cella
per il quale ci potrebbe servire Rosario: oppure Marco di Rivalta;
non vedo altri. c) Un nostro rappresentante al Com. piazza (per questo
forse ho in lista io un elemento). Infine occorre che tu combini bene
per una base di collegamento costì perché noi possiamo mandare
o ricevere notizie dalla pianura. Ti mando copia della dichiarazione
che d'accordo con Parma, Modena abbiamo presentato ai rispettivi
c.L. I comunisti si sono riservati di rispondere. Con Modena siamo
collegati quotidianamente.
P.S. (15 - 3 - ' 45) Una prima copia di questa lettere doveva scendere
ieri per la solita staffetta. Ma dato l'allarme in zona, non è partita
che stamani e non so se ti perverrà. Ti mando quindi una seconda
copia insieme ai verbali delle riunioni più importanti. Ho avuto
stamani il tuo biglietto del giorno II. Mi dici che avete designato
Luca: è un ingenuo e un arruffone. Può andare bene con i socialisti
e non con i comunisti. Quanto a te ti ripeto che devi venire in
montagna. Per il servizio di staffette che temo si sia interrotto rivolgiti
alla moglie Pezzi che una volta alla settimana sale per incontrare
il marito presso Gabrielli. Avverti la signora di Mariani che Sandro
è su con me.
Ed ora una cosa molto importante. I comunisti stanno facendo di
tutto per mandare giù anni alle loro squadre sottraendole ad ogni
controllo e facendone dei magazzini segreti (ne ho le prove). Gli
inglesi hanno sospeso il rifornimento di armi anche per le Formazioni
della montagna. Le F. V. avrebbero centocinquanta nuove reclute ora
disarmate. Per contro la Missione Americana di Ferruccio (ufficiale
italiano filocomunista) ha ottenuto un lancio per le S.A.P. reggiane
e Modenesi. Sono state già mandate alla pianura molte armi, tra le
quali trenta mitra americani e due mortai da 81. Bisogna che voi
costì ne rivendichiate una parte per le nostre squadre di Cella,
Montecchio, Poviglio, ecc. Per conto nostro cercheremo di ottenere
la sospensione anzi la cessazione dei lanci per le S.A.P. della pianura
e invece la ripresa dei rifornimenti per le formazioni della montagna.
Il mio pensiero è che noi dobbiamo, per l'oggi e ancor più per il
77
domani, impedire l'accumularsi di altre armi in pianura. Scrivi il
tuo parere in proposito.
Ho saputo ancora che al c.u. è arrivato un milione per il Comitato
da Roma. Ritengo che noi dovremmo preferire che esso rimanga
qui anziché scendere a Reggio, dove non ne possiamo controllare
l'impiego. lo caldeggierò questa soluzione.
Benigno
Cavriago - III elementare 1920-21
Primo a sinistra in seconda fila: Giuseppe
Dossetti
In prima fila secondo da destra con le
bretelle: don Angelo Cocconcelli
78
Il nuovo curriculo di storia
Il decreto Berlinguer sul programma di storia
Tre giorni fa il ministro Berlinguer ha firmato a Firenze il decreto
con cui introduce lo studio del '900 nella scuola. Non è che prima
del decreto fosse proibito studiare il '900, ma era di fatto impossibile
per noti problemi di curricolo: l'ampiezza del programma dell'ultimo
anno, che comprende '800 e "900, fa sì che si arrivi al massimo
alla seconda guerra mondiale. Però la 2a Guerra Mondiale, la Costituzione, la nascita della repubblica, sono argomenti di 50 anni fa,
che noi adulti sentiamo come contemporanei perché abbiamo un'idea
unitaria del '900; ma che un ragazzo di 16 o 18 anni registra nella
sua mente allo stesso titolo del paleolitico superiore, mentre per lui
la storia contemporanea reale è quella che egli vive. Quindi fare il
'900 non può significare solo arrivare a fare la Resistenza. Siamo
alla fine del secolo e dobbiamo cominciare a capire che la storia
ANTONIO BRUSA
Di ANTONIO BRUSA, docente di didattica
della storia all'Università di Bari, segnaliamo
le principali opere sull'argomento:Guida al
manuale di storia, Roma, Editori Riuniti,
1985; 1/ laboratorio storico, Firenze, La
Nuova Italia, 1991; 1/ manuale di storia, e
1/ programma di storia, Firenze, La Nuova
Italia, 1991 ;La programmazione di storia,
Firenze, La Nuova Italia, 1992.
E' inoltre autore di numerosi saggi e articoli
su libri e riviste specializzate, in particolare
su "I viaggi di Erodoto", di cui è membro
del comitato di direzione, ed è curatore delle
seguenti raccolte di UD per docenti di storia
delle scuole medie:Dal manuale al/a storia
locale, Milano, Ed.Scolastiche Bruno Mondadori, 1992; Laboratorio, vo11.1, 2, 3,
Milano, Ed.Scolastiche Bruno Mondadori,
1994, 1996.
contemporanea deve essere vista anche secondo la definizione
soggettiva dei ragazzi, cioè come la storia che essi vivono; ed è
importante fare entrare nelle scuole un momento in cui ciò che essi
sentono e di cui parlano diventa oggetto non solo del tema di attualità,
ma di studio storico, su cui provare la bontà degli strumenti storici
nel problematizzare, periodizzare, ragionare ecc.
Per ottenere l'insegnamento del '900 nell'ultimo anno di ogni
ciclo, però, il ministro ha fatto sì che già dall'anno venturo - a meno
che il decreto venga ritirato, come io spero - i bambini di prima
media avranno un programma che va dalla preistoria alla scoperta
dell' America: ovvero, rispetto ad oggi, dovranno fare due anni in
Il testo, rivisto dall' autore, riproduce la
conferenza svoltasi il 7/11/96 nell' Aula
Magna dell'ltg "C. Levi" di Reggio Emilia.
Tale conferenza, assieme a quella di A. De
Bernardi del 13/11/96 sulle rilevanze sto riografiche del '900, introduceva il corso di
aggiornamento-laboratorio organizzato da
Istoreco nel 1996/97, sul nuovo curriculo di
storia nella secondaria superiore.
81
uno! Invece la nuova periodizzazione per le scuole superiori è:
1° anno:
la storia dalle origini al II secolo d.C.
2° anno:
dall'età dei Severi alla crisi del XIV secolo
3° anno:
dalla metà del '300 alla metà del '600
4° anno:
dalla metà del '600 a fine '800
5° anno:
il '900.
C'è dunque un programma molto, troppo pesante al biennio,
dopodiché gli studenti sapranno benissimo il Barocco, visto che in
terza si arriva solo al 1650 (poi dovrete girarvi i pollici chiedendovi
cos'altro fare) mentre subito dopo dovrete rimettervi a correre perché
in quarta non è uno scherzo arrivare da metà del '600 a fine '800!
Che problema mette in luce il decreto Berlinguer, per le superiori
e più an~ora per le medie? Mette in luce esattamente il problema
del curricolo: cioè il fatto che se si ripete ad ogni ciclo scolastico
tutta la storia generale, come si fa in Italia e come il decreto conferma,
o si rende talmente affollata l'agenda dei contenuti da non potere
mai fare niente in modo accettabile; oppure, come è il caso di questo
decreto, per fare bene una cosa, si rovinano tutte le altre: come
potranno gli insegnanti di prima media fare in 60 ore preistoria, storia
antica e storia medievale non lo so proprio, e neppure immagino
cosa potranno essere i manuali.
IL CURRICOLO DI STORIA
Questo decreto girava da un po' di tempo; avendo una copia del
NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI testo provvisorio, ho approfittato del fatto che dovevo tenere un
seminario a Braunsweich, dove c'è il Centro internazionale di studi
di didattica della storia, per svolgere lì una ricerca comparativa, e
vedere come fanno il curricolo verticale di storia nelle altre parti
d'Europa. Si può dire intanto che in Europa non ha spazio quella
premessa che in Italia ha sempre impedito di ragionare, secondo la
quale, "se non si segue la cronologia, allora è la morte della storia".
Le esperienze europee sono talmente varie che ci dicono che la storia
insegnata non muore, indipendentemente dalle diverse esperienze che
si fanno. Quali sono gli elementi comuni che ho trovato nei programmi attualmente vigenti ? In primo luogo, la tendenza comune
ai paesi maggiori è di evitare la ripetizione ciclica dei contenuti.
Gli unici paesi che seguono il modello ciclico come l'Italia sono
la Grecia e l'Albania: non sono esempi molto luminosi ... Tutti gli
82
altri paesi tendono invece a specializzare lo studio della storia
secondo i diversi cicli di scolarità, sostanzialmente in questo modo:
nella scuola elementare si fanno attività di conoscenza generale delle
questioni storiche, fondazione dei pre-requisisti, immagini generali
della storia e qualche quadro storico-sociale. Poi, la secondaria
inferiore è il momento in cui fanno la storia generale, dal passato
fino ai giorni nostri, ma con la fondamentale differenza, rispetto a
noi, che la distribuiscono su quattro o su cinque anni: non c'è nessuno
stato (se non la solita Grecia) che la fa in tre anni. Sottolineo questo
aspetto perché fare la storia generale in tre anni significa condannarsi
a quel dilemma che il decreto Berlinguer ha messo in evidenza, e
di cui ho appena parlato. Rispetto alla situazione europea, la soluzione che si potrebbe attuare in Italia è ovvia: con l'elevamento
dell'obbligo, noi avremmo un triennio più un biennio che ci permetterebbero di fare per bene, in cinque anni, la storia generale.
Dunque in Europa la storia generale (come in matematica le
addizioni) si fa una volta, per bene, poi non la si fa più rifare. Nelle
scuole superiori dei paesi europei ci sono duy tendenze: una, assolutamente maggioritaria (Germania, Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Svizzera e paesi dell'Europa settentrionale) che prevede temi
d'approfondimento, con l'intento di coinvolgere studenti ormai
maturi su temi e problemi di rilievo. L'altra tendenza, o se si vuole
l'eccezione, è la Francia, che ripete il programma cronologico
lineare, ma lo fa a partire dal '700: dal '700 al 1914 nel primo anno,
dal 1914 al 1945 nel secondo, dal 1945 a oggi nell'ultimo anno.
Un altro elemento comune a quasi tutti i paesi europei è l'impostazione di una didattica coinvolgente e attiva, tanto che in qualche
modo si rovescia l'assunto della didattica italiana, che cerca di
coinvolgere gli allievi, di farli giocare quando sono piccoli; e che
poi, via via che crescono, considera finito il tempo dei giochi, e passa
alla "storia vera", cioè alle lezioni frontali secondo il modello
universitario. Anche in Europa esistono due modelli di insegnamento:
quello tradizionale, dell'insegnante che entra, spiega, interroga; e
quello moderno, dell'insegnante che fa apprendere secondo pratiche
operative, cioè porta del materiale in classe, fa lavorare e discutere
gli studenti, con una funzione prevalente di sollecitatore delle idee,
coordinatore delle intelligenze, guida alla scoperta, organizzatore
delle attività. Ma è questo secondo modello che gli stati propongono,
83
••
••
.--,. -.••
anche per le superiori, tanto che in alcuni Uinder tedeschi è previsto
che gli studenti scelgano i programmi assieme ai professori: scelta
guidata, sia chiaro, con voluminosi sussidi sui criteri di scelta dei
contenuti. E queste scelte sono le più svariate: ad esempio in
Westfalia-Renania uno dei quattro contenuti dell'ultimo anno è
l'Ellenismo, e il fatto di non seguire la sequenza lineare non crea
paure sul famoso "senso del tempo": un po' perché la trama generale
se la sono già fatta prima, un po' perché ormai tutti gli studi di
psicologia cognitiva, e le stesse esperienze dirette che abbiamo, ci
dicono che il senso del tempo non si apprende perché tu insegnante
spieghi i fatti nell'ordine cronologico, ma si apprende quando su
un argomento proponi un'esercitazione che alleni a costruire il senso
del tempo. I contenuti di storia nelle scuole superiori europee sono
coinvolgenti per gli studenti, sono concepiti come strutture operative,
non solo come conoscenze, e vengono selezionati in modo circoscritto: quattro all'anno, o in alcuni casi solo due. Queste esperienze
europee dovrebbero valere per noi non certo come legge, ma come
parametro di riferimento rispetto alle nostre preoccupazioni.
Infatti, secondo me, un curricolo delle superiori dovrebbe essere
LA STORIA DEGLI ACCADEMICI E LA STORIA A SCUO- composto da un numero limitato di unità didattiche (4 o 5), su
LA: DUE LINGUE DIVERSE ... altrettanti nuclei di contenuti; da un certo numero di pratiche operative tra un'Unità Didattica e l'altra, e da una serie di altre attività
che concernono l'acquisizione di strumenti inerenti il tempo, i
documenti, la capacità di problematizzare. Di queste attività parlerò
dopo. Diciamo intanto che l'asse portante dovrebbe essere l'insieme
di questi 4 o 5 contenuti: con quali criteri sceglierli?
Su questo ho l'esperienza del lavoro nella Commissione Brocca
di cui faccio parte dal 1990. Da allora la commissione non è ancora
riuscita a licenziare il programma definitivo di storia, perché quello
che è uscito, e che forse qualcuno di voi segue, non è ancora
soddisfacente. Perciò abbiamo continuato a riunirci e a litigare per
cinque anni senza risultati: da una parte c'erano gli storici (Villari,
Arnaldi, insomma i grandi della consulta degli storici), dall'altra i
didattici, cioè io e un paio di insegnanti. Il ragionamento che fanno
gli storici è il seguente: la storia è fatta di queste cose ... tra cui ci
sono questi aspetti imprescindibili: allora, se vuoi sapere la storia,
sono questi che devi imparare. Questo però è un ragionamento giusto,
86
dico io, se vuoi fare lo storico. Invece il ragionamento che fa, o
che secondo me dovrebbe fare il docente, è un altro, poiché egli
si trova di fronte un ragazzo che non deve fare lo storico, bensì
imparare ad utilizzare le conoscenze storiche per arrangiarsi nel
mondo contemporaneo, cioè per vivere nel suo mondo. Quindi io
insegnante alla storia chiederò certo delle cose vere, profonde,
importanti sul piano storico, ma: l) non ho interesse a chiedere tutte
le cose importanti della storia; 2) mi interessa chiedere quelle cose
che sono importanti in questo momento. Ecco perché il programma
dovrebbe cambiare rapidamente: non c'è nulla di così deperibile
come la didattica perché le cose importanti per l'attuale generazione
di studenti sono diverse da quelle della generazione di quattro anni
fa. Per il momento, i paesi attestati su questa impostazione sono
Francia e Germania, che cambiano continuamente i programmi
proprio perché hanno il polso di questi cambiamenti vorticosi delle
generazioni che si succedono. L'Italia è il caso opposto: visto che
i programmi di storia attualmente in vigore risalgono al 1960, si può
supporre che se li si rifà adesso, dureranno altri quarant' anni, per
cui gli storici che fanno i programmi tendono a pensare all'eternità.
Accade così che noi cerchiamo alcune cose (quelle 4 o 5 di cui dicevo
prima) mentre loro, gli storici, ne scelgono altre.
Ma c'è un'altra questione che ci divide: supponiamo di avere
deciso che uno degli oggetti importanti sia, ad esempio, la seconda
guerra mondiale. Bene, voi sapete che, dal punto di vista didattico,
non si è ancora detto niente, perché bisogna indicare ad esempio
a quale livello di profondità, da quale prospettiva affrontare la 2a
Guerra Mondiale.
E qui si è rotta definitivamente la Commissione Brocca, perché
gli storici hanno accettato di fare 4 o 5 argomenti l'anno, ma quando
siamo andati a definirne il grado di analiticità, io proponevo di
indicare solo le coordinate generali, e al suo interno una serie di
temi che il docente sceglierà e combinerà come vuole, come riesce.
Invece, dall' altra parte, gli storici dicevano: no, la 2a Guerra Mondiale
è questa ... e partivano con un lungo elenco di sotto-contenuti. Il
risultato era che il programma Brocca nella sua ultima versione aveva
una somma di 200 contenuti per anno, che per 5 anni fanno 1000
contenuti (come, ad esempio, il patto di Monaco). Se si seguisse
questa indicazione, un insegnante dovrebbe passare l'intero anno a
87
spiegare, al ritmo di tre contenuti all'ora. Questo mio ragionamento,
che vedo incontra il vostro consenso, in Commissione veniva ripudiato, perché i professori universitari non hanno affatto l'idea che
questo sia un problema. Dicevano infatti: ma no, basta accennare
e poi passare avanti ... Ciò che non capisce il professore universitario
- e che forse ha difficoltà a capire anche una larga parte dei docenti
della scuola media - è che questo "accennare e passare avanti" ha
senso per chi la storia la sa già, non per chi la storia deve impararla.
Gli studenti, invece, percepiscono inequivocabilmente ciò che è
trattato in fretta come qualcosa che non ha importanza, di cui non
ha senso occuparsi.
Non a caso, da varie rilevazione statistiche sappiamo che la storia,
tra le varie discipline, non è né particolarmente amata, né particolarmente odiata, diciamo che è indifferente. E qui si apre la contraddizione tra una classe di adulti, e al suo interno una classe politica,
che si strappa i capelli sull'importanza vitale della storia, e i giovani
che sono sostanziale indifferenti di fronte alla storia e alla sua
supposta importanza. Per questo è giusta ed è vitale la decisione
collettiva di migliaia di vostri colleghi, e penso anche vostra, di dire:
no, con i ragazzi adulti, all'ultima occasione che abbiamo per
appassionarli a questa disciplina, per farne loro capire il senso, o
ci fermiamo e discutiamo, oppure, se continuiamo a sfogliare il
dizionario della storia, raccontando i fatti e magari facendo le
prediche agli studenti perché non lo considerano importanti, ci
condanniamo a perdere la battaglia dell'apprendimento.
IL RAPPORTO TRA
ABILITÀ E CONTENUTI
88
Torniamo alla questione di quei 4-5 contenuti l'anno (contenuti
come, ad esempio, la 2a Guerra Mondiale, la nascita dello stato, o
la rivoluzione francese). Il problema è il loro grado di finezza, ovvero
quanto dobbiamo fare di questi argomenti. Lo schema che ora vedete
(due spirali attorno a un tronco di cono rovesciato) è tratto dal curricolo
nazionale inglese e rappresenta il loro curricolo verticale, che va dai
sei anni fino a quella che per noi sarebbe la secondaria superiore
(tenendo conto delle differenze del sistema scolastico inglese). Il tronco
di cono rovesciato che vedete rappresenta le conoscenze. Allora, le
4 conoscenze che faremo all'inizio del curricolo verticale saranno
conoscenze piccole. Ma che significa "conoscenze piccole"? Significa
nuclei di sapere che saranno: a) molto generali; b) non numerosi; c)
retti da modelli semplici; d) espressi in linguaggi accessibili.
All'ultimo stadio della formazione, cioè nella parte alta del cono,
le conoscenze saranno sempre 4 ma molto "grandi", cioè sorrette
da una grande quantità di documenti, di pagine, di informazioni. Nel
caso danese, addirittura, c'è da una parte un manualetto molto smilzo
per tutti tre gli anni, e la gran parte del lavoro è occupato da soli
due contenuti, uno di storia danese, l'altro di storia mondiale: hanno
un'ampia libertà nella scelta di questi contenuti, ma una dettagliata
definizione del numero di pagine, di fotografie, ecc. Questo è
importante, perché entrando in una logica curricolare la quantità dei
materiali non è un indice di memorizzazione, è indice di qualità delle
abilità. Osservate le due spirali delio schema: una rappresenta le
abilità specifiche, l'altra le abilità trasversali. Hanno questa forma
perché sono sempre le stesse che si ripresentano, però a livelli più
alti, cioè permettono all'allievo di gestire quantità di conoscenze
sempre maggiori. Lo schema è basato dunque sul principio che
all'aumentare delle abilità aumentino le conoscenze, e non viceversa.
Apparentemente questo curricolo assomiglia a quello italiano: se
diamo un nome a una conoscenza, ad esempio Annibale, questa
occupa in terza elementare mezza paginetta, alla scuola media una
pagina e mezzo, alle superiori dieci pagine, all'università il corso
monografico. La somiglianza però è solo apparente, in realtà è
l'esatto opposto: nella ciclicità italiana si aumentano le conoscenze
e si suppone che per ciò stesso aumentino le abilità, cioè che lo
studente impari a ragionare. Invece secondo gli inglesi è l'aumento
delle capacità di ragionare che porta all'aumento delle conoscenze,
come si vede facilmente dagli esempi delle loro Unità. In ciascuna
ci sono i contenuti, gli esercizi, le operazioni che fa il docente, in
forma di esempio: ebbene, nei modelli che ho visto, tutti previsti
per Unit di 20 ore, non compare mai, per il docente, l'espressione
"fa lezione", come non esiste, riferito allo studente, il verbo indifferenziato "studia", proprio perché tutto si basa sul "fare operazioni",
ed è facendo operazioni di qualità sempre più alte che gli studenti
possono masticare quantità di contenuti sempre più vasti e difficili.
All'inizio del curricolo, oltre a dosare i contenuti, devo preoccuparmi soprattutto dei livelli di partenza degli studenti in termini di
capacità. Ad esempio una ricerca di alcuni anni fa, svolta prima in
Inghilterra poi in Italia, dimostrava che la maggior parte dei ragazzi
89
non possedeva un modello molto elementare come quello che tiene
insieme le due figure fondamentali della produzione nel mondo
contemporaneo, l'imprenditore e l'operaio: li posso rappresentare con
due palline e due frecce: una freccia che rappresenta il salario,
dall'imprenditore verso l'operaio, l'altra freccia in senso inverso che
rappresenta il lavoro, le due variabili in correlazione tra loro. Le
differenze dei punti di vista, delle attese dei due soggetti rispetto
alla correlazione di queste due variabili spiega tutti i problemi sociali,
almeno dal tumulto dei Ciompi ad oggi. Scoprire che il 75% dei
ragazzi di 15 anni non sa gestire questo modello semplice significa
che questi ragazzi, messi davanti a tre pagine di descrizione del
tumulto dei Ciompi, non hanno la capacità di problematizzarle, cioè
percepiscono quella vicenda come un'avventura, non dissimile da
Cappuccetto rosso o Annibale, in cui qualcuno subisce catastrofi,
vince o perde, ecc. Bisogna allora vedere all'inizio la capacità di
gestire i testi che hanno gli studenti, e sulla base di questa regolare
le operazioni da fare sulle pagine della prima DD, e dosare in termini
progressivi sia le quantità di materiale sia le operazioni da far fare.
LE ABILITÀ TRASVERSALI
90
Per abilità trasversali si intendono quelle che regolano i rapporti
tra ragazzo e testo (scritto, iconico, ecc.) e non in una particolare
materia, ma in tutte. Facciamo l'esempio dell'abilità di saper cercare
delle notizie, a livelli sempre più autonomi. lo posso dire a un
ragazzino: "a pagina x ci sono 5 notizie importanti su Napoleone:
sottolineale". E' un esercizio di livello piuttosto basso di autonomia,
in quanto sono indicate sia la pagine che il termine di controllo,
cioè le 5 notizie, ed è "facile" l'oggetto, cioè Napoleone. Posso
invece chiedergli di sottolineare, tra pag.30 e pag.70 del manuale,
ciò che riguarda la formazione del mercato europeo tra '500 e '600.
E' la stessa operazione, ma a livelli molto più alti: sfogliare 40 pagine
da solo è un'abilità che, se non insegnata, egli non apprende da solo;
lo stesso vale per la sottolineatura, che va insegnata, altrimenti poi
mi arriva all'università e continua a sottolineare tutto. Imparare a
cercare le informazioni riguardanti Napoleone o il mercato, poi, è
un'operazione concettualmente analoga, ma di qualità totalmente
diversa: è facile attribuire a Napoleone le informazioni a lui riferite,
quand'anche le connessioni sul testo non siano di immediata evidenza. Invece per il mercato bisogna passare attraverso i concetti
di domanda, offerta, traffici internazionali, ecc. Eppure il primo
esercizio che faccio fare in 3a media a ragazzini che hanno seguito
questo metodo è il seguente: dico loro che, siccome dobbiamo fare
rapidamente l' '800, si divideranno in quattro gruppi: quello dell'economia, quello della società, quello della cultura, quello dei
rapporti internazionali, e selezioneranno il materiale relativo alI' '800
(in tutto 150 pagine), col quale costruiranno un racconto, che ci
servirà poi per altre operazioni. Quei ragazzi di 3a media lo fanno
nello spazio di un paio di settimane, non perché siano più intelligenti
dei loro coetanei, ma perché avevano fatto prima una serie di
operazioni minime che li hanno messi in grado di operare con 150
pagine. Questo riguarda le abilità trasversali, ovvero, ripeto, quelle
riferite al trattamento dei testi: selezionare, classificare, costruire
scalette, racconti, problemi; distinguere tra testi argomentativi,
descrittivi, o narrativi; saper porre domande adeguate al testo,
sapere fare lo scanning, cioè prevedere dalla lettura veloce di un
indice il contenuto di un testo; essere in grado di gestire le proprie
capacità di lettura sapendo fare la lettura veloce, la lettura analitica,
la lettura di ricerca, la lettura di piacere.
Oltre alle abilità trasversali ci sono quelle specifiche, cioè disciplinari, sulle quali mi soffermerò dopo. Ora, invece, sull'importanza
di tenere conto delle capacità iniziali degli studenti, vorrei sottolineare che quei ragazzi di 3a media che gestivano molte pagine
sull'800 in tempo relativamente breve, all'inizio della la media
avevano fatto una UD basata solo sulla gestione delle fotografie del
primo capitolo, riguardante la preistoria. Questo perché si prevedeva
che avessero scarse capacità di lettura, di utilizzazione dei documenti
e di problematizzazione. Infatti, qui non siamo in un ambiente
didattico di spiegazioni-interrogazioni, dove non ci si pone problemi
di apprendimento, dove a rigore non c'è problema di curricolo ma
solo di gestione di programma. Qui invece, in un ambiente didattico
cooperativo-operativo, devo impostare il lavoro a partire dalle capacità del ragazzo: non per fermarmi a quelle capacità, ovviamente,
ma perché se la didattica è un fatto di cooperazione tra me e lui,
e se lui deve lavorare attivamente, deve poter partire dalle sue
capacità per progredire; se il primo esercizio che gli propongo è tre
metri al di sopra delle sue capacità, lui proverà dieci volte senza
LE CAPACITÀ INIZIALI
DEGLI STUDENTI, IL
TEMPO A DISPOSIZIONE
91
riuscire e all'undicesima mi interpreterà nel modo più semplice e
tradizionale: prof, io leggo e ti dico quello che ho capito.
All'inizio del curricolo, perciò, anche se teoricamente potremmo
lavorare in modo che gli studenti facciano la maggior parte delle
cose che gli storici giudicano importanti relativamente al contenuto
scelto, praticamente ciò non accade mai. Infatti, se voglio fare 4 UD,
ho 15 ore teoriche per ciascuna (2 ore settimanali per 30 settimane
di anno scolastico), che è un limite rigido da tenere come una cosa
sacra all'inizio della programmazione, e in queste ore non posso
tenere conto di tutte le rilevanze poste dallo storico, ma, come dicevo,
all'inizio di la media potrò fare solo un aspetto della preistoria. Il
resto, che lo storico giudica irrinunciabile, non lo farò, o al massimo
sarà oggetto di una lezione frontale, che servirà solo a sgravarmi
la coscienza. Per questo i contenuti iniziali saranno di bassissimo
livello di approfondimento, anzi io sostengo che chi inizia una
programmazione deve "bruciare" i primi contenuti (un po' come il
primo giro di una partita a carte che serve a spiegare le regole al
giocatore che non le conosce). Bisogna sacrificare all'altare dell'apprendimento le prime cose da fare: guai a farle "bene", cioè in modo
approfondito, perché tutto il resto dopo non funziona. Partiamo da
un livello "basso", poi procediamo a spirale, cercando di incrementare la quantità delle operazioni che il ragazzo deve fare sul manuale
o su quant' altro voi porterete in classe, in modo che possa incrementare anche le conoscenze.
Per riassumere, quando costruisco una programmazione curricolare, non devo pensare solo ai contenuti, ma devo definire prima
alcune cose formali: 1) quanti contenuti e in quanto tempo; 2) quale
sarà il loro livello di finezza; 3) quale è il livello di abilità di partenza
degli studenti. Questo va stabilito in anticipo, a manuale chiuso,
perché se poi lo apro e comincio a fare il "gioco della torre" su
cosa scartare, non è possibile andare avanti perché sul manuale tutto
è importante.
Un criterio che ho proposto qualche anno fa è quello delle differenti
scale spaziali, che serve anche per superare criticamente una condizione attuale dell'insegnamento, nel quale si mescolano solitamente
in un'unica narrazione elementi di dimensione spazio-temporale
totalmente diversi: eventi mondiali, europei, nazionali, qualche volta
92
locali. La maggior parte dei curricoli europei tende invece a differenziare questi diversi livelli, ad esempio in certi paesi si fa un
anno storia mondiale, un altro anno la storia nazionale. Noi però
potremmo utilizzare queste quattro dimensioni spaziali in modo
diverso, facendo corrispondere a ciascuna di esse modelli di ampiezza
e profondità diversa (questa, attenzione, è la condizione, altrimenti
diventano quattro raccontini). Magari le DD possono differenziarsi
anche perché una è di tipo economico, una di tipo politico, una
riguarda una biografia, ecc. Ad esempio, nel primo anno di scuola
superiore, potrei dire:
l) La dimensione mondiale interessante è quella degli scambi
intercontinentali basati su quelli che Maurice Lombard chiamava i
prodotti strategici, cioè prodotti di alto valore sociale che possono
andare in luoghi lontani e che non sono deperibili nel tempo. Ebbene,
per lungo tempo molte di queste merci (oro, avorio, legni pregiati,
schiavi) erano prodotte in Africa, arrivavano in Europa o nell'area
mediterranea del vicino Oriente, dove venivano elaborate in vario
modo; lì c'era anche una forte domanda per altri due prodotti strategici orientali (la seta e le spezie), per cui l'oro arrivato dall'Africa
prendeva la strada dell'estremo Oriente, dove attivava un'altra
economia. Questo è lo schema mondiale che funziona fino al 1500
d.C., dentro al quale potete mettere tanti soggetti: i Sumeri che
l'hanno avviato, l'impero assiro, l'impero romano, bizantino, i
Sassanidi, Carlo Magno.
2) Poi, sempre in classe prima, entrerei dentro una di queste
regioni, il Mediterraneo.
Qual è il fenomeno che mi interesserebbe? Potrebbe essere il
Mediterraneo delle città, cioè l'urbanizzazione che si diffonde su tutte
le coste del Mediterraneo, facendolo diventare un'area aggregata
dalla civilizzazione urbana. Dal punto di vista del popolamento, delle
lingue e delle religioni sono 500-600 città diversissime, ma tutte
costellano le coste e attraverso i loro traffici mescolano merci, dei
(ad esempio Afrodite, Istarte, Venere: la stessa, cambia solo il nome),
strutture politiche: cioè sono poleis, ovvero società in cui l'aspetto
fondamentale non è tanto la gestione del territorio - la polis ha un
rapporto disastroso col territorio, che essa si limita a sfruttare, a
differenza delle società idrauliche come l'Egitto, che vivono nella
cura del territorio - quanto i rapporti umani che si sviluppano al
ALLA DOMANDA SUi
POSSiBiLI CRiTERi
Di SELEZiONE
DEi CONTENUTI.
93
proprio interno, quindi il problema della politica, e tra le città del
Mediterraneo ci si scambia continuamente questo problema politico.
Come esempio potrò prendere l'impero romano, o la polis greca,
e lavorerò su questo.
3) Mi sposto poi a un livello nazionale, quello italiano, visto che
siamo qui. In Italia potrei fare ad esempio l'argomento del popolamento italico, un argomento presente in tutti i manuali europei,
perché all'Italia viene riservato un trattamento speciale proprio per
il suo popolamento composito. Su questo le ultime ricerche ci
raccontano una cosa straordinaria, cioè che tutto il variegato popolamento italico (Piceni, Etruschi, Iapigi, ecc) in realtà è un'invenzione, nel senso che tutti questi non sarebbero in realtà mai esistiti
come popoli. Il libro di R.Perone, L'Italia alle soglie del protostorico,
Laterza, 1996, sostiene infatti che attorno al 3000 a.c. la penisola
italica era abitata da piccolissimi gruppi di 20-30 persone, bande
che vivevano in nicchie, campavano dello sfruttamento del territorio
e integravano l'alimentazione con la rapina a danno dei vicini. Col
tempo da queste popolazioni si crearono degli aggregati e delle
strutture gentilizie, che intorno al 1000 si costituirono in federazioni.
Poi, di fronte all'arrivo dall'esterno dei Greci, che avevano una
precisa identità di popolo, questi si dissero: ma perché non siamo
anche noi un popolo? e quindi si inventarono un nome e una storia
che non era mai esistita: si inventarono cioè di essere Piceni, Sanniti,
Iapigi, ecc., ma queste cose iniziarono nell'VIII secolo e non avevano
un passato, furono invenzioni politiche, per cui l'etnia fu un'invenzione politica, sulla quale poi si costruì una storia di rapporti politici
che ebbe un esito politico. Questo è un esempio di contenuto sulla
storia d'Italia come fatto politico di lunga durata, su cui potrei
costruire la terza DD.
4) Poi, siccome siamo a Reggio Emilia e voglio che i ragazzi
abbiano di questo territorio l'idea di un posto che anch'esso produce
storia, farò un'DD di storia reggiana, che ovviamente io non conosco
e non so quindi esemplificare, ma che certamente si può costruire
in vari modi.
Anche se l'ho improvvisato adesso, questo potrebbe essere un buon
programma di storia antica: 4 DD della durata teorica di 15 ore
ciascuno, con le diverse scale spaziali. Non so se avete mai visto
quel documentario dal titolo "Potenze di IO" (Ed.Zanichelli) nel
94
quale inizialmente di vede l'universo grande come un punto; poi si
entra e si vedono, successivamente, le galassie, il sistema solare, la
terra, l'Italia, un prato e giù giù fino alle molecole, agli atomi, ai
quark: ogni volta l'obiettivo si restringe di lO, facendo cambiare
l'ordine dei problemi. Il legame tra i vari contenuti è di tipo formativo, non contenutistico: in quel documentario come nel nostro
curricolo basato su differenti ordini di grandezza, il ragazzo impara
che, secondo le diverse scale spaziali, deve cambiare ordine di
problemi, per cui vedrà contenuti diversi. Quello spaziale è uno dei
criteri di scelta dei contenuti, ma ce ne sono altri.
Questo è importante, anzi è il motivo che fa sì che io stia qui,
mentre, in generale, rifiuto di fare delle conferenze, delle lezioni
frontali, che non trovo molto utili. Però, dove ci sono degli Istituti
storici che funzionano, dove c'è la possibilità di mettere insieme degli
insegnanti, allora vado volentieri, perché l'unica possibilità di risolvere questo problema è la cooperazione didattica. Hai detto bene:
se l'DD è costruita veramente, tu più di una DD all' anno non
costruirai. Allora l'unica soluzione è che attraverso la cooperazione
e la razionalizzazione delle forze, ognuno di voi produca una o due
DD l'anno, che col tempo vanno a formare un patrimonio comune
sul quale potrai lavorare. Ce ne sono anche di già pronte e pubblicate
(sui "I viaggi di Erodoto", sulla collana Laboratorio della
B.Mondadori, su altre varie pubblicazioni), fatte dai gruppi di insegnanti che seguo io, da quelli che segue Maurizio Gusso, Ivo
Mattozzi: è chiaro che poi le DD vanno adattate, combinate,
modificate sulla base della propria situazione ed esigenze. In ogni
SUL PROBLEMA DEI
CARICHI DI LAVORO
caso, io consiglio di procedere all'inizio col doppio binario, cioè di
fare una parte del programma in modo tradizionale, e cominciare
a innovare solo su una piccola parte, quella che si riesce. Il grosso
del lavoro per il docente non dovrebbe essere quello di produrre,
ma di prendere e combinare, adattare; poi, c'è la parte di creatività
che verrà riservato a particolari momenti, ma è assurdo pretendere
che uno sia creativo per 60 ore all'anno. E non bisogna aspettare,
per costruire le DD, di avere il manuale perfetto, che non ci sarà
mai. Questo tipo di lavoro si può fare su qualunque manuale, anzi,
io mi sono convinto che in un certo senso, per imparare a fare le
DD, più brutto è il manuale meglio è: fai prima, e se riesci a fare
95
"parlare" un brutto manuale, poi riesci su tutto. In un certo senso
la povertà di strumenti didattici è uno stimolo, mentre avere materiali
buoni può far pensare che tutto sia già risolto, mentre non è cOSÌ.
In ogni caso, l'DD sul manuale è abbastanza semplice da costruire,
più complicati sono altri tipi di DD.
La continuità storica è in larga misura un mito. lo stesso come
SULLA CONTINUITÀ STORICA,
storico,
se prima di fare una ricerca su un certo argomento dovessi
SULLA NECESSITÀ DI SAPERE
andare a prima, e a prima del prima, non fare mai la ricerca. Noi
IL "PRIMA" PER CAPIRE
storici "tagliamo", accontentandoci di poche sommarie indicazioni
IL "POI, SUI "TAGLI".
di precedenza, e poi andiamo direttamente sull'argomento. C'è
piuttosto un'ideologia della formazione storica, che la presenta come
padronanza di un continuum temporale che non sarebbe possibile
interrompere. Ma questo è falso, e lo si può verificare a livello
mondiale presso tutti coloro che studiano storia. E' dentro al problema storico, se lo costruisci correttamente, che troverai gli elementi
di soluzione del problema stesso, e gli elementi per porre ulteriori
interrogativi. In termini pratici, comunque, il consiglio è: taglia,
anche drasticamente, e se hai dei problemi psicologici impiega due
ore per lezioni di raccordo: ogni tanto, va bene anche la classica
narrazione. Ma la questione del collegamento si pone in realtà in
altri termini, come problema da affrontare con gli studenti. Ad
esempio, dopo che avete lavorato su due contenuti storici staccati,
poni l'interrogativo: come possiamo collegarli tra di loro? (ovviamente, supposto che siano collegabili). Infatti la formazione storica
non consiste nel ricevere dal professore le cose che segnano la
continuità, ma nel costruire storicamente i nessi tra un elemento e
l'altro.
L'idea illusoria della continuità storica produce poi note deformazioni di apprendimento: non è vero che dopo i greci vengano i romani,
che dopo i romani vengano i longobardi, però il ragazzo apprende
così. La formazione storica vera consiste proprio nel non cadere in
quest'equivoco, in questa forma illusoria. Però, attenzione, questo
non è meno vero quando entriamo in età più vicine a noi per le
quali usiamo lenti di ingrandimento più approfondite. Perché quando
dici "le conseguenze della prima guerra mondiale furono ... ", troverai
solo due storici d'accordo, e tutti gli altri in disaccordo. Ciò che
noi sappiamo, e di conseguenza ciò che è formazione stori~a, è la
98
natura probabilistica delle cause: non esiste in storia il rapporto
diretto causa-effetto, ma esistono sciami causali, complicità tra effetti
e cause, per cui ciò che bisogna apprendere è che ogni fenomeno
storico esiste a livelli di molte dimensioni, ciascuna delle quali
interagisce con i tempi successivi in modi che sono sia indipendenti
sia in interazione tra di loro.
Dietro il falso problema della continuità storica, c'è semmai un
altro ordine di problemi, da affrontare molto laicamente: il problema
dei fatti dovuti, quelli che "non si possono non sapere". Diciamo
cioè che nella nostra società, come è doveroso che entrando in una
casa si dica buon giorno, e che alla domanda chi è il presidente della
repubblica si risponda Scalfaro, allo stesso modo si deve sapere chi
è stato Dante, chi è stato Annibale ecc. Su questo, potremmo passare
in rassegna all'inizio dell'anno, sul manuale, quali sono quelle 30
cose di cui bisogna conoscere l'esistenza: le mettiamo in evidenza
e le sottoponiamo a un apprendimento tradizionalissimo, un gioco
molto aperto con gli studenti, del tipo "ragazzi, queste cose le dovete
sapere, magari le studiate a memoria, ci togliamo il pensiero e poi
andiamo a fare formazione".
Prima ho distinto abilità trasversali e abilità specifiche, e ho detto
alcune cose sulle prime. Vorrei occuparmi ora delle seconde, che
sono di due tipi:
1) le abilità riguardanti l'uso dei documenti, non però da finalizzare, come a volta mi capita di vedere fare, alla contemplazione
del lavoro dello storico, tipo l'entrare nella bottega dello storico, o
il vedere dietro le quinte. Si tratta piuttosto di un'abilità strettamente
legata a uno dei più grandi e più antichi obiettivi degli insegnanti
di storia: quello che tutti chiamate spirito critico. Ma che cosa vuoI
dire spirito critico? E' la capacità di valutare lo statuto delle conoscenze. Ad esempio io dico che Mussolini fu un dittatore, e lo dico
in quanto storico: cosa significa che lo dico in quanto storico? Non
certo che ciò che dico io valga di più, bensì che se lo dico dal punto
di vista storico è una conoscenza ottenuta attraverso la manipolazione
documentaria, cioè una conoscenza di cui so rendere conto sia
rispetto alla massa documentaria da cui è stata ricavata, sia rispetto
ai metodi di utilizzazione, sia rispetto alla valutazione delle conoscenze che ho ottenuto spremendo quei documenti. Queste rende
LE ABILITÀ SPECIFICHE:
SUI DOCUMENTI, SUL
TEMPO
99
criticabile la conoscenza storica, cioè permette di trasformare in
problema tutto ciò che noi abbiamo dal punto di vista storico, e
permette di valutare le conoscenze. In questo c'è una profonda istanza
democratica della conoscenza, perché al fondo c'è un atteggiamento
del tipo: questa conoscenza che io ho ottenuto potresti ottenerla anche
tu se seguissi questo metodo, non è qualcosa di esoterico, è conseguita attraverso procedure comunicabili e trasparenti. Non credo
però che avremo tempo di fare esemplificazioni sull'uso dei documenti, per i quali rinvio alla sezione specifica dei tre volumi del
Laboratorio (op.cit.).
2) le abilità riguardanti il tempo, sulle quali mi soffermerò di più,
visto che le vostre domande hanno toccato maggiormente questo
aspetto. In primo luogo, da storici moderni, più che di tempo
dovremmo parlare di tempo-spazio: infatti non esiste in storia il
tempo in quanto tale, ma esiste sempre un tempo che definisce degli
spazi: ad esempio il tempo del commercio mediterraneo individua
uno spazio preciso, comprendente Mediterraneo, Oceano Indiano e
Cina; il tempo dello stato individua uno spazio che all'inizio e fino
all'800 è solo europeo, e che nel nostro secolo diventa uno spazio
mondiale. Il tempo è sempre funzione dello spazio e viceversa, per
noi storici.
Inoltre il tempo è funzione dei problemi: il tempo, per gli storici,
non è la cronologia, è il problema che crea il tempo. Ad esempio,
vuoi vedere il rapporto uomo-donna ? Questo problema crea un
tempo che va fino alle origini dell'umanità. Vuoi invece indagare
il problema della rappresentanza ? Questo si pone con la rivoluzione
francese, quindi su un arco temporale molto più breve. La capacità
di correlare problemi e tempi, secondo me, è il vertice della formazione storica a cui si può giungere a livelli superiori, ed è un
vertice di livello formativo molto importante da un punto di vista
civico. Pensate a come normalmente si impostano i problemi rispetto
a quanto accade tutti i giorni, da Tangentopoli alla violenza, sui quali
si notano la difficoltà delle persone che ne parlano non adoperando
strumenti storici. Se non riesci ad individuare gli spazi di pertinenza
per la soluzione dei problemi, il problema che tu hai col tuo vicino
che è, poniamo, di Bari, ti diventa un problema generale di rapporto
nord-sud, mentre probabilmente è un problema molto particolare di
scostumatezza individuale; o, viceversa, problemi di ordine generale
100
vengono visti sotto l'ottica di simpatia o antipatia personale, ed è
il caso fondamentale dell'incultura politica che si va sviluppando
a livello mondiale: pensate, abbiamo i più grandi problemi mai
capitati nelle mani degli uomini - perché effettivamente siamo in
società democratiche - e li gestiamo in termini di simpatia personale,
per cui voto Clinton piuttosto che Dole perché mi dà fiducia, perché
è serio, appunto i criteri che regolano la vita quotidiana. Insomma,
la capacità del trovare i tempi e gli spazi pertinenti ai problemi è
decisiva in quella che chiamiamo l'educazione storica al servizio
della democrazia. Inoltre ciò mi permette una grandissima libertà
di scelta dei contenuti storici: non è più una stranezza che in
Germania si faccia l'Ellenismo all'ultimo anno delle superiori, se
questo argomento serve a dare profondità storica a un problema
importante come il significato di 'civilizzazione europea'.
Ancora sul tempo, è possibile distinguere due tipi di abilità, che
io chiamo cosÌ:
2.1) le abilità formali, cioè datare, costruire cronologie, usare
tavole sinottiche, ecc., che sono già state ampiamente trattate dal
prof. Ivo Mattozzi, e sulle quali trovate tante esercitazioni anche su
questo testo (Laboratorio, cit.)
2.2) le abilità sostanziali, quelle che mi interessano di più, e che
considero l'essenza del lavoro storico: lo storico costruisce il tempo
mediante concetti. I concetti che servono di più agli studenti sono
quelli che io chiamo le mappe storico-geografiche, di cui alcune sono
fondamentali. Ad esempio, credo di essere riuscito ad organizzare
tutta la storia generale in tre mappe, sulle quali si possono mettere
i fatti man mano che li si incontra.
La prima mappa è quella che ho chiamato mappa dell'Oceano
Indiano, e che ho spiegato prima. L'Oceano Indiano, sul quale si
scambiano prodotti e idee tra Oriente e Occidente, viene aperto dai
TUTTA LA STORIA GENERALE
IN TRE MAPPE STORICOGEOGRAFICHE
Sumeri, con le loro barche rotonde sospinte dai venti Alisei. In
seguito, tra il 500 a.C. e il 1500 d.C., questo Oceano funge da sistema
di connessione tra i grandi imperi, ma il gioco è sempre lo stesso:
l'Africa che produce, l'Europa come primo gestore, la Cina come
secondo gestore. Bisogna vedere come funziona, e come e perché
finisce questo circuito millenario. La rottura si ha con l'arrivo dei
101
portoghesi, che aprono la porta dell' Atlantico e si insediano direttamente nell'Oceano Indiano: ciò spiega la crisi dei primi due decenni
del '500, e l'alleanza tra turchi, persiani, indiani, cristiani orientali
e veneziani che si mettono insieme per cacciare i portoghesi, con
la conseguente ripresa del Mediterraneo. Notate a questo proposito:
se guardiamo i fenomeni nell'ottica del Mediterraneo, si vedono i
turchi e gli europei che si combattono tra loro, mentre se assumiamo
questa prospettiva mondiale vediamo una parte degli europei e gran
parte dei popoli dell'Oceano Indiano che combattono insieme contro
un'altra parte degli europei. In seguito, all'inizio del '600, arrivano
nell'Oceano Indiano i popoli dell' Europa più occidentale, atlantici
(Portogallo, Olanda, Inghilterra), poco sensibili a quello che accade
sulla frontiera continentale e del Mediterraneo orientale, e invece
molto sensibili a quanto accade nell'Oceano Indiano, e fanno fuori
definitivamente i vecchi gestori degli scambi tra Oriente e Occidente.
Da questo momento, dall'inizio del '600, inizia un altro modello,
un' altra mappa, che ben conoscete: quella dell' Atlantico, cioè del
commercio triangolare tra Europa (in particolare Inghilterra e Olanda), Africa, America, che regola il processo di accumulazione in larga
parte del mondo. Il circuito parte da Inghilterra e Olanda che
mandano perline e vecchi fucili in Africa in cambio di schiavi
impiegati nelle piantagioni americane; dall' America tornano in
Inghilterra canna da zucchero e cotone, alimentando un altro circuito:
qui infatti arriva tutta la ricchezza della Francia più tutta la ricchezza
dell'Oceano Indiano che prima gli Olandesi poi gli Inglesi hanno
sottratto agli antichi gestori. Questa mappa rende conto di tutti i fatti
di questo genere che accadono tra il '600 e la prima o la seconda
guerra mondiale. Dentro questa mappa avviene il mutamento epocale
della storia contemporanea: il centro del mondo, inizialmente a
Londra, con la prima guerra mondiale si sposta a New York.
La terza mappa, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, vede
la decadenza dell'Oceano Atlantico in favore del Pacifico, nuovo
gestore della ricchezza mondiale con due grandi nuovi centri sulle
sue opposte sponde: il Giappone e la California. In futuro non so
cosa succederà.
In questo modo, con queste tre mappe, ho creato delle grandi
bacheche spazio-temporali, molto concrete (tre oceani), diverse dalle
periodizzazioni tradizionali (il Rinascimento, il Barocco ... ), mappe
102
in cui andiamo a collocare dei fatti man mano che li impariamo:
questo impero, questa battaglia, questo problema economico ... dove
li mettiamo e perché? perché si passa da un modello all'altro ?
e qual è il loro destino? cosa succede se il centro ridiventa l'Europa,
o il solo Giappone ?
L'insieme di queste tre mappe è il primo modello temporale, è
la presentazione più semplice che io riesco a formulare della storia
generale. Come vedete ve l'ho raccontata in dieci minuti; può essere
oggetto di tre ore di lezione, ma anche di quadri, bacheche che
secondo me sono molto più concrete della freccia del tempo, e
aiutano di più anche in senso mnemonico.
L'altra forma di strutturazione delle abilità spazio-temporali è
ANCORA SUL TEMPO
STORICO, I CONCETTI
Charles Tilly, PERIODIZZANTI: LO STATO
quella dei concetti periodizzanti. Faccio l'esempio del concetto di
stato, uno dei più semplici, che trovate nell'opera di
Lo stato moderno. Lo stato è un sistema di centralizzazione del potere
con tre caratteristiche:
l) l'unicità del potere, ovvero l'assenza di contropoteri interni:
che non c'era al tempo dell'imperatore Federico II di Svevia, il
quale, quando diceva qui comando io, trovava l'opposizione del papa,
dei comuni, ecc., e avevano ragione tutti, nel senso che c'era una
compresenza di poteri nello stesso territorio.
2) drenaggio delle risorse verso il centro:
che non c'era affatto, contrariamente a quanto si dice comunemente, al tempo degli "esosi" Bizantini, o dell' "esoso" Carlo Magno:
questi infatti riuscivano a raccogliere appena il 5% del prodotto
interno lordo, come ci ricorda Carlo Cipolla. In secondo luogo, i
sovrani medievali non drenavano un bel· niente, perché dovevano
spostarsi per consumare in loco le ricchezze loro dovute, altrimenti
non le avrebbero ottenute.
3) il monopolio della violenza legittima, interna ed esterna:
cioè l'autorità centrale che concentra nelle sue mani l'autorità di
portare la spada sia per regolare l'ordine interno (polizia) sia per
difendere i confini (esercito).
Lo stato non inventa niente, tutte queste funzioni esistevano da
prima, ma esistevano separatamente.
Se questo è il concetto, vediamo ora la periodizzazione che esso
determina:
103
- secoli XI-XV- la formazione delle centralizzazioni:
ad esempio, Federico II inventa la burocrazia, che centralizza
alcune risorse; Filippo IV il Bello tenta di centralizzare il potere,
ma quando cerca di centralizzare la violenza non ci riesce, tant' è
vero che di lì a poco c'è la guerra dei 100 anni, con gli inglesi come
contropotere sul suo territorio.
- secolo XVI- nascita dello stato, in Europa:
con Francia, Inghilterra, ma anche Milano, Firenze, Venezia, non
conta la dimensione. Quindi in Europa nel '500 ci sono alcuni stati,
mentre gli altri continuano come prima. Ma questa struttura riscuote
successo e suscita un processo imitativo, per cui:
- secoli XVII-XVIII- lo stato si afferma in tutta Europa:
ovvero, tutti quelli che comandano in Europa, a qualsiasi titolo
comandino (monarchie, repubbliche, città indipendenti), vogliono
fare queste tre centralizzazioni. Il problema è che l'esistenza dello
stato richiede non tanto le frontiere, ma i confini: infatti finché esiste
una frontiera (che non è impermeabile, rigida, a differenza del
confine), e una molteplicità di poteri territoriali, non c'è bisogno di
alcun segnale per terra; ma quando su un territorio comanda uno
solo, bisogna sapere i limiti esatti di quel territorio. E il sistema più
diffuso tra le genti umane per fissare i confini è quello di ammazzarsi:
è infatti rarissimo il caso di confini tracciati senza spargimento di
sangue (vedi l'esempio recentissimo della Bosnia). Per questo, in
quei due secoli c'è il massimo storico di bellicosità nella storia
europea: circa 100 anni di guerra e 100 anni di pace, e alcune di
queste guerre sono assolutamente comparabili per potenza distruttiva
a quelle moderne (si vedano i lO milioni di morti e lo spopolamento
di intere regioni dell'Europa centrale durante la guerra dei 30 anni).
- sec.xIX- semplificazione del sistema degli Stati in Europa:
all'inizio dell'800, lo stato si è affermato in tutta Europa, con circa
300 unità statali, che creano al posto del suddito un nuovo soggetto
antropologico, il cittadino. Si pone allora il problema delle grandi
potenze: cioè se lo stato deve avere una certa base di ricchezza, e
se la forza dipende dal numero degli abitanti, stati troppo grandi
diventano troppo potenti (vedi la Francia napoleonica), per cui ci
deve essere un ordine di grandezza tale che assicuri un equilibrio.
Entro questo processo, inverso rispetto al precedente, di accorpa104
mento di piccoli stati (per cui si passa da 300 a 30 Stati), si hanno
i grandi movimenti di unificazione nazionale dell' '800, i due più
grandi (italiano e tedesco) più altri minori. Polanij dice che questo
periodo delle grandi potenze è quello che assicura il massimo periodo
di pace in Europa: infatti su 100 anni ce ne sono solo 3 di guerra
tra le potenze europee. In questo secolo, dunque, gli stati si affermano
nel continente che diventa il centro del mondo.
- sec.xX- lo stato si afferma nel mondo :
all'inizio del nostro secolo, c'è in tutto il resto del mondo una
corsa a fare altrettanto, per cui dai 40 stati di inizio secolo si arriva
al numero attuale di 190, e tutto il mondo viene segnato da confini,
escluso il continente antartico: prima c'erano spazi liberi tra gli stati,
c'erano formazioni politiche non statuali, ora in tutto il pianeta non
esistono più spazi non statuali. Quindi nel '900 noi abbiamo lo stato
che è la forma di governo e di organizzazione dello spazio vincente
sul pianeta. Ragionando sul lungo periodo, chiediamoci quali sono
le ragioni del successo dello stato, da cosa dipende il gigantesco
processo di imitazione che abbiamo indicato. Fondamentalmente la
ragione è che funziona, cioè riesce a governare le grandi variabili
del vivere complesso della società.
Ma, ecco il paradosso attuale: alle soglie del 2000 noi abbiamo
un mondo interamente suddiviso in stati, ma nessuno di essi è più
in grado di risolvere al suo interno i problemi fondamentali: l'
ambiente; la dinamica della popolazione, la guerra, il controllo della
finanza, del capitale, del lavoro, o la questione dell'identità: tutti
i grandi problemi, dal buco dell'ozono, all'arrivo degli immigrati,
al "chi sono io", rimandano a organismi sovra-statuali.
Questo concetto di stato mi fa capire un modo di vivere nella storia;
divide il tempo in termini di periodizzazioni; e mi permette non di
risolvere, ma di affrontare in modo corretto una serie di problemi,
con una logica e un certo spirito critico: perché se arriva uno e dice
"se mi eleggete vi risolvo il problema dell'ambiente", o "vi creo
tanti posti di lavoro", vuoI dire che questa persona non si rende conto
della dimensione spazio/temporale dei problemi, quanto meno non
ha periodizzato correttamente la storia del mondo secondo il concetto
visto ora.
105
Ecco cosa intendo per concetti: oltre a quello di stato ne posso
prendere altri, quattro o cinque, ad esempio il rapporto con l'ambiente, il rapporto uomo-donna, la cittadinanza, la società: ognuno
di questi concetti è tale che mi crea una diversa organizzazione del
tempo e mi permette di capire dei problemi. Questo significa sapere
cos'è il tempo storico. Mi rendo conto che per molti di noi è
importante sapere cos'è il Rinascimento, il Barocco, ecc; però
secondo me questo era vitale quando in Italia c'erano duecentomila
persone letterate che avevano modulato la propria vita sulle letture,
sull'idea del bello, ecc. Quando invece sono cinquanta milioni di
italiani che devono entrare nella storia, il Barocco è importante, ma
probabilmente non è così vitale come dei problemi, dei modi di
organizzazione del tempo che toccano direttamente qualcosa che noi
viviamo: lo stato, la popolazione, ecc. Dobbiamo chiederci se le
periodizzazioni a cui siamo abituati (Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Barocco, Illuminismo, Romanticismo, Positivismo) funzionino rispetto agli studenti di oggi e ai problemi di oggi, o se non
sia più corretto creare strutturazioni temporali nelle quali i problemi
in cui vivono i giovani d'oggi e in cui viviamo anche noi creino
un rapporto più forte tra quello che siamo e i problemi che viviamo.
Lo schema seguente lo propongo a voi, ma in classe lo farei solo
UN ALTRO CONCETTO
PERIODIZZANTE: L'IMMAGI- verso la fine del curricolo, dopo avere già impostato l'analisi, a
maglie più o meno larghe, di vari tipi di società: lo schema riguarda
NE DELLA SOCIETÀ
!'immagine che abbiamo della società.
Una prima forma è quella a strati, o se volete piramidale, tipica
dell' '800, condivisa da Marx, Weber, Comte: è il modello strutturale,
a due piani, con sopra i datori di lavoro e sotto i prestatori di mano
d'opera, che genera una serie di parole-concetti: classe, strato, ceto,
ecc. E' l'immagine di una società che si è organizzata rispetto al
problema della produzione, che definisce i diversi ruoli: proprietari
dei mezzi di produzione, lavoratori o solo consumatori.
Nel '900, dagli anni venti o trenta, si diffonde anche un altro
modello, quello funzionale, tipico di Parsons, Keynes, composto da
insiemi variamente correlati tra loro: scuola, industria, finanza,
agricoltura, giustizia, amministrazione, ecc. Chiamiamo questo
modello funzionale perché c'è un macro-sistema diviso in sotto106
)
insiemi, e la logica è quella di definire a cosa serva ciascuna parte,
e in che relazioni stia rispetto alle altre.
Il modello attuale è diverso: oggi la società si rappresenta come
un insieme disordinato e casuale di punti (vedi la rappresentazione
dei moti browniani), ovvero di individui, ciascuno dei quali crea
propri sistemi di organizzazione, cioè di collegamento con gli altri
punti, con reti variabili. Nel primo sistema sopra indicato io so
immediatamente chi sono, sulla base della mia posizione nella sfera
produttiva. Nel secondo sistema so dove sono e a cosa serve la mia
collocazione per il funzionamento complessivo. Invece nel terzo
sistema, quello attuale, sono uno che deve cercarsi gli elementi di
relazione. Non si vive più in uno spazio i cui segnali siano connotatori
di identità, di appartenenza, di sopravvivenza; ciascuno deve attraversare spazi, tempi, ecc., alla ricerca di quegli elementi e creandosi
una specie di "elenco telefonico" mentale: un po' come il cacciatore
preistorico, che doveva crearsi le mappe mentali del territorio.
Questo produce problemi formativi decisivi perché in questa
situazione, o gli individui vengono dotati di sistemi mentali sofisticati
per gestire quello che ho chiamato "elenco telefonico", cioè la rete
dei rapporti, o se non è così l'alternativa che l'individuo ha per vivere
è quella di ricreare segni di riconoscimento nel territorio o nel gruppo
di appartenenza. Per me l'analfabetismo di ritorno consiste nel fatto
che i ragazzi, ma anche gli adulti, anche i ceti governativi italiani
non hanno ricevuto nell'istruzione superiore schemi, strumenti
adeguati per vivere in questo universo, per trovarvi un senso. In
assenza di questi strumenti, l'individuo viene costretto a segnare,
marcare il territorio come i cani. Così fanno le bande giovanili, con
le bombolette a spruzzo, secondo un uso che nacque a New York
per poi diffondersi come una moda. Ma lo stesso si fa a livello
politico: se non ho schemi che mi permettano di gestire i processi
di globalizzazione e al contempo di individualizzazione spinta attualmente in corso, dirò che per sopravvivere dobbiamo marcare
questo territorio, e separare chi può stare dentro, e chi stando fuori
non deve entrare. L'altro elemento di identità è il gruppo di appartenenza. Nella nota ricerca sui giovani di A.Cavalli (ora l'Istituto
Cattaneo ha rifatto tale ricerca, e tra poco la pubblicherà), egli ha
trovato esattamente questo: ragazzi che non hanno avuto la possibilità
di una forte strutturazione spazio-temporale, regrediscono a livello
108
di territorio e di piccolo gruppo, rispetto al quale ci sono da una
parte quelli che ne fanno parte, dall' altra tutti gli altri (la politica,
i genitori, la scuola, ecc.), ed è nel gruppo che si creano gli elementi
di razionalità minima per vivere.
Che cos'è dunque la società? Nell'800 è stata quel modello, a
metà del '900 è stata quell'altro, oggi probabilmente è questo.
L'insieme di questi tre schemi è anch'esso un modo che mi permette
di periodizzare ma al contempo di trovare qualcosa che serva a
riflettere su ciò che accade.
110
Per lungo tempo terreno incontrastato dell'erudizione locale, la
"microstoria" negli ultimi anni ha assunto una sua dignità scientifica
conseguendo apprezzabili risultati anche dal punto di vista dell'analisi interpretativa. In questo nuovo filone di ricerca si colloca l'interessante ricerca di Cesare Grazioli dedicata alle vicende politiche
di Scandiano nel quadriennio del primo dopoguerra.
ALBERTO FERRABOSCHI
Il libro, ricalcando l'ormai canonica periodizzazione del "biennio
rosso" (1919-20) e "biennio nero" (1921-22), si articola in cinque
brevi ma assai densi capitoli. Prendendo le mosse dalla parabola del
socialismo scandianese del quale viene messo in evidenza la sostanziale fragilità all'interno del "prampolinismo", l'Autore passa ad
esaminare nel secondo capitolo le nuove forme di presenza sociale
e politica dei cattolici, delle quali viene colto l'anima "rurale" della
sezione scandianese del partito popolare; all'amministrazione locale
è invece dedicata il capitolo centrale del libro la cui analisi evidenzia
i limiti strutturali di una gestione amministrativa, prima liberale e
poi, dal 1920, socialista, forzatamente condizionata dalla crisi finanziaria e dalle pesanti ingerenze prefettizie. Nella quarta sezione,
incentrata attorno all' ascesa del fascismo locale, Grazioli si confronta
con il ritardo organizzativo e la fragilità politica del fascismo scandianese mentre nel capitolo conclusivo viene affrontato il problema
dei limiti interpretativi del socialismo e del cattolicesimo politico
di fronte della crescita del movimento fascista.
Ben attento a collocare le vicende scandianesi all'interno dello
scenario politico-culturale della provincia, l'Autore non manca di
113
soffermarsi su alcune peculiarità tali da rendere gli avvenimenti
scandianesi un caso di studio particolarmente interessante. Come
infatti è stato rilevato (Marco Sagrestani, Un collegio elettorale
nell'età giolittiana: Correggio, Bologna, Li Causi Editore, 1984) la
tradizione politica del collegio elettorale a cui Scandiano apparteneva, si distinse già nel corso dell'età giolittiana per essere una sorta
d'isola liberale nel "mare rosso" dell'Emilia, consentendo l'elezione
del deputato liberale Vittorio Cottafavi ininterrottamente dal 1900
al 1913. La relativa fragilità del movimento cooperativo scandianese
con il conseguente indebolimento nel tessuto sociale consente
pertanto a Grazioli di giustificare la sostanziale debolezza del socialismo prampoliniano nella terra del Boiardo.
Al di là degli esiti ultimi del lavoro, resta sicuramente l'interesse
per una metodologia di ricerca capace di avvalersi di fonti inedite
quali i verbali processuali della pretura di Scandiano, grazie ai quali
l'Autore ha potuto verificare il forte aumento del tasso di violenza
politica a partire dal 1921.
Se dunque il superamento della società "rurale" ottocentesca ed
il passaggio verso la società di massa del primo dopoguerra rimane
il nodo storiografico fondamentale su cui verificare la genesi ed il
successivo sviluppo del "modello reggiano", non si può non salutare
con particolare favore il contributo di Grazioli grazie al quale viene
gettata nuova luce sulla complessità della "via reggiana" alla
modemizzazione.
CESARE GRAZIOLl, Anni rossi, anni neri,
Ripatransone, Edizioni Sestante, 1995.
114
Le fonti letterarie possono essere utilizzate nella ricerca storica?
E quale significato rivestono per lo storico contemporaneista? Una
risposta a questi interrogativi può essere trovata nelle pagine della
interessante pubblicazione curata dal Comune di Cavriago insieme
all'Istoreco e dedicata alla letteratura del fenomeno resistenziale. Se
il ricorso alle fonti letterarie costituisce una comune pratica metodologica per la storiografia di guerra, tuttavia le suggestioni della
narrazione resistenziale possono contribuire a esemplificare le potenzialità innovative insite nei testi letterari per la ricerca storica;
all'interno di una storiografia che, grazie ad importanti opere di
sintesi come quella di Claudio Pavone, sembra avere ormai raggiunto
una sua compiuta maturazione, la mediazione semantica consente
di innervare con l'analisi delle mentalità e delle memorie collettive
una ricerca destinata necessariamente a superare ogni impostazione
événementielle. In questa prospettiva appaiono particolarmente
condivisibili le osservazioni di Antonio Canovi sulla capacità della
letteratura resistenzale di "comporre una riflessione contemporanea,
tale da rimettere in circolo memorie già date per trapassate nel tempo
presente"(p. XV), consentendo di indagare le mentalità dei combattenti ed al tempo stesso divenendo un antidoto alle sacre rappresentazioni.
ALBERTO FERRABOSCH I
Frutto di un paziente lavoro di schedatura effettuato da un gruppo
di insegnanti e bibliotecari, il volume propone una serie di romanzi
di derivazione sia resistenziale che fascista, composti in un arco
cronologico che dal '45 giunge ai nostri giorni, offrendo una inedita
115
e suggestiva rivisitazione della Resistenza; la struttura pentapartita
di ogni testo (nota bio-bibliografica, la trama, la costruzione dell'intreccio, il paesaggio e il simbolico, la retorica della violenza)
consente infatti una interpretazione in chiave "memorialistica"
dell'esperienza resistenziale rivissuta da gran parte dagli autori
attraverso il filtro del linguaggio romanzato. In effetti, al di là della
mediazione letteraria, nei testi di Fenoglio, Vittorini, Caproni, Bolis,
Rimanelli, Mazzantini, Viganò e degli altri autori si coglie con
chiarezza la tensione autobiografica che anima ed ispira le narrazioni
degli ex combattenti per i quali,
come osserva Stefano Calabrese,
la "guerra civile" finisce per configurarsi come un incessante ed
inviolabile rito di passaggio.
Nata dunque con l'esplicita intenzione di conservare e costruire
la memoria dell'esperienza resistenziale, è nella dimensione simbolica che la letteratura trova lo strumento più efficace per rappresentare
l'universo di emozioni e sentimenti della guerra; risiede pertanto
nella possibilità di sondare nel profondo della memoria collettiva,
gettando una nuova luce sulle giustificazioni extrapolitiche alla base
delle scelte resistenziali, l'importanza del recupero delle fonti letterarie per la storiografia sulla resistenza.
S. Calabrese (a cura di), Parole in guerra.
Romanzo e Resistenza, Modena, Mucchi
Editore, 1996.
116
Il tragico e glorioso 1943 significò per l'Italia l'aggravarsi della
sudditanza nei confronti dell' alleato germanico. Uno degli aspetti
meno approfonditi finora dalle ricerche storiografiche è rappresentato
dalla sorte di centinaia di migliaia di militari italiani situati nei vari
fronti dello scacchiere bellico al momento dell' armistizio e catturati
dalla Wermacht.
SALVATORE FANGAREGGI
Se la necessità di manodopera era una costante di rilievo per
l'immane sforzo di produzione bellica delle truppe hitleriane, fu
tuttavia elevatissimo il numero di soldati italiani impiegati nelle forze
combattenti: un fenomeno che ha trovato nell' autore un attento e
meticoloso ricercatore.
Migliaia di documenti ritrovati e decifrati alla luce delle linee di
politica militare del Terzo Reich, a partire dalle inflessibili direttive
del generale Keitel, da cui può dedursi una ferrea quanto perfezionata
organizzazione militare, nonostante le sorti della guerra, dopo le
battaglie di Stalingrado e di El Alamein fossero ormai compromesse
per il Terzo Reich.
Lo studio di Giannocolo ha, può dirsi, carattere di completezza
per quanto possibile nelle difficoltà di ricerca.
Una certezza è, tra le altre, amara e inesorabile: mancano all'
appello, a conti fatti, cinquantasettemila soldati italiani dei quali non
si conoscerà mai la sorte.
Al di là delle cifre, la ricerca si articola sulle modalità di reclutamento, sulle dure condizioni dei militari, sulla corrispondenza e
la censura, queste ultime sorrette da una copiosa documentazione
117
fotografica.
Altrettanto dicasi per la parte svolta dalla Croce Rossa, unica
istituzione faticosamente e parzialmente tollerata dalla Germania.
A sostegno dei risultati delle sue indagini, l' autore nella seconda
parte del volume, tutta documentaria, propone l'esatta definizione
di duemila formazioni germaniche, indicando con la sigla I.M.1. la
presenza di internati italiani.
Il libro di Giannocolo- che già aveva approfondito in un precedente
volume la storia e le condizioni dei militari italiani internati nei campi
di concentramento in Germania- pur nella sua essenzialità documentaria, ha il merito di indagare con lodevole originalità un fenomeno
finora insufficentemente o quasi per nulla affrontato dai ricercatori.
GIANNI GIANNOCOLO, I militari italiani nelle
formazioni germaniche 1943-1945, Reggio
Emilia, Unigraf ed. 1996.
118
,
i~I
I
,
L'ambigua transizione.
I processi ai fascisti
Pubblicata negli Stati Uniti nel 1991 (dall'University of North
Carolina Press), sulla base di ricerche condotte negli anni ottanta,
l'opera appare nelle librerie italiane con ritardo inspiegabile, un po'
sospetto. Ciò ne limita abbastanza l'incisività rispetto ai dibattiti
infiammati che le questioni relative a fascismo e resistenza continuano a sollevare, a mezzo secolo di di stanza. Vista la datazione,
l'opera ignora le laceranti polemiche italiane sul "Chi sa parli" e
quelle che hanno accompagnato i successi elettorali delle destre. Ma
l'estraneità a certi livelli di polemica può essere un punto a favore
di una ricerca storica condotta con criteri scientifici. A suo sfavore
gioca invece notevolmente, sul piano storiografico, l'ignorare quasi
del tutto la vicenda Gladio: condizione che permette all'autore di
rivalutare nella sostanza, senza troppe cautele, un ruolo democratizzante degli Alleati epuratori, a fronte di colpevoli reticenze,
omissioni e inefficienze degli italiani. Protezioni e benevolenze verso
fascisti sarebbero state ricorrenti da parte di autorità e notabili legati
a casa Savoia, talvolta presenti negli inglesi, poco riscontrabili negli
americani. Solo in una nota si accenna a "un interesse partiColare"
dell'O.S.S. all'incolumità del principe Junio Valerio Borghese. Sotto
questo aspetto, il quadro interpretativo complessivo della vicenda
appare già in buona parte da ridefinire, e diversi episodi da reinterpretare. Superficiali appaiono anche le considerazioni sulla riorganizzazione dei servizi segreti del Regno, nel 1944-45, specialmente
in relazione al caso Rovatta (pp. 160-161). Dove invece l'autore si
mostra meno benevolo verso gli Alleati è nel valutare il loro atteg-
MARCO FINCARDI
121
giamento diffidente - analogo a quello dei governi monarchi ci- verso
il movimento partigiano dell'Italia settentrionale: una dIffidenza che
a Liberazione avvenuta si è convertita in atteggiamento repressivo.
Tra gli ambienti compromessi col regime, Domenico ignora del tutto
i religiosi: la loro posizione era difficilmente vagliabile dalla giustizia
civile e può avere lasciato poche tracce archivistiche; ma pare poco
probabile che tutte le fonti consultate dall'autore, soprattutto angloamericane, non ne facciano menzione. Anche dell' al1lJ1istia voluta
da Togliatti si dà un'interpretazione piuttosto rozza e approssimativa.
Il fatto·che a giudicare fatti tanto controversi sia un americano, pone
talora il lettore italiano di fronte a analisi inconsuete e giudizi
sorprendenti. Ci si trova pure di fronte a spigliatezze nei giudizi,
che occasionalmente sconfinano nella superficialità. Diverse improprietà lessicali paiono dovute anche alla traduzione.
Con tutti questi limiti che balzano all' occhio, Processo ai fascisti
resta un'opera rilevante. In Italia è la prima completa e organica
trattazione di questo argomento, a lungo eluso dalla storiografia, a
causa di evidenti rimozioni dalla memoria nazionale. Il tema ha
lungamente prodotto imbarazzi a una nazione, e in primo luogo alla
sua classe dirigente, che - sostiene l'autore - negli anni quaranta non
ha saputo regolare i conti con la propria storia, e ha dovuto perciò
edulcorare o dimenticare molte immagini del proprio passato fascista.
In Francia - dove l'epurazione c'è effettivamente stata, e ha perciò
prodotto un'ampia pubblicistica - il dibattito è invece stato a lungo
controverso e vivace. La breve durata del regime di. Vichy ha limitatamente compromesso la borghesia francese, e ciò ha facilitato
la classe dirigente nel condurre i processi a criminali e collaborazionisti con determinazione e inflessibilità. In Italia, un ventennio
di compromissioni delle classi dirigenti col fascismo ha fatto sì che
queste adottassero ogni possibile reticenza e ostruzionismo nei
processi ai fascisti, non attuandone, o tutt'al più vanificandone la
messa in stato d'accusa; aiutate in questo da una vasta "zona grigia"
di popolazione che col regime ha intrattenuto rapporti ambigui,
magari occasionali, e dopo la guerra ha temuto di essere chiamata
in causa. Al di sopra delle vicende italiane, il problema delle epurazioni nei cambi di regimi viene giustamente inquadrato anche
sociologicamente, con frequenti e interessanti riflessioni, che hanno
. però il limite di riferirsi genericamente a schieramenti ideologici,
122
più che alle quotidiane relazioni sociali instaurate da un potere
totalitario.
Il libro di Domenico evidenzia con chiarezza gli abili tentativi dei
conservatori e le molteplici forme di opportunismo che hanno
permesso alle élites sociali e a una grande massa di funzionari di
mantenere influenza, autorità e potere dopo il crollo del regime. Si
sofferma sulla "ovvia complicità col fascismo di industriali e imprenditori" (pur non interrogando si sui ruoli dei potentati economici
determinanti per l'ascesa del fascismo, che vanno ben oltre la mera
complicità). Vi vengono descritte nei loro molteplici aspetti le
ambiguità e gli ostruzionismi che hanno impedito o vanificato la
messa in stato d'accusa dei fascisti in quanto tali. Accanto alle
posizioni dei vari partiti, anche la posizione del clero e del Vaticano
viene esaminata in riferimento alle iniziative conciliatrici cattoliche,
tese a evitare e delegittimare moralmente l'epurazione. E così pure
'-è mostrata una gestione sensazionalistica e mistificante delle notizie
sull' epurazione date dalla stampa, che ha orientato l'attenzione
dell'opinione pubblica prevalentemente verso le colpe di figure
strategicamente marginali del regime: su uomini e donne con ruoli
appariscenti, più che sui reali detentori del potere. Una situazione
- sottolinea ripetutamente l'autore - già riscontrabile nei lunghi mesi
in cui il Centro-Nord dell'Italia è rimasto sottoposto al regime di
terrore nazifascista, e al Centro-Sud l'epurazione era la questione
al centro di qualunque dibattito politico. In quel periodo, i funzionari
e i quadri militari di Salò non si sono sentiti minacciati dai blandi
provvedimenti di defascistizzazione nella zona controllata dagli
alleati e dai governi monarchici. Solo nel caso della fucilazione del
questore di Roma Caruso, a fine settembre 1944, l'apparato di Salò
ha mostrato una scomposta inquietudine, annunciando rappresaglie
a Bologna, Reggio e Torino. A guerra conclusa, anche le corti speciali
istituite nel Nord - decisamente più attive e motivate nell'opera di
defascistizzazione - hanno messo sotto accusa i collaborazionisti, più
che i fascisti in quanto tali. Domenico nota che rarissimi, e con
conseguenze irrilevanti, sono stati i processi a squadristi per gli
omicidi e le molteplici violenze dell'inizio degli anni venti. I gravi
reati politici commessi nel ventennio sono stati di fatto ignorati; e
così pure non sono stati toccati dai tribunali i profitti illeciti di regime,
o le appropriazioni di edifici delle associazioni dei lavoratori da parte
124
del regime. Nella magistratura, le richieste di epurazione si sono
immediatamente incagliate. E sono stati questi magistrati a giudicare
indiziati di reati di cui molti di loro avrebbero potuto essere accusati.
Così come sono stati questi magistrati a giudicare - spesso con
atteggiamento ostile - i partigiani indiziati di reati durante e dopo
la guerra di liberazione: un aspetto della questione su cui nel libro
si trovano solo fugaci accenni, senza interrogativi sulla correttezza
del metodo e sul significato politico complessivo di tali processi.
La situazione dell'ordine pubblico nel dopoguerra e le esecuzioni
sommarie di fascisti da parte di partigiani vengono chiaramente
giudicate illegali e inquietanti, ma correttamente inquadrate nel loro
contesto storico, raffrontate a paesi come Francia, Belgio, Norvegia
e Filippine, dove violente sono state le ritorsioni spontanee contro
i collaborazionisti. In questa prospettiva vengono pure inquadrati il
dopoguerra emiliano e la sua "anomalia", raffrontati anche alle
situazioni di altre regioni settentrionali dove 1'eliminazione fisica di
fascisti ha toccato punte notevolmente più alte che in Emilia.
ROY PALMER DOMENICO, Processo ai
fascisti. 1943-1948. Storia di un'epurazione
che non c'è stata, con una breve testimonianza di Alessandro Galante Garrone, Milano, Rizzoli, 1996.
125
Finito di stampare
nel mese di novembre 1996
dali 'AGE grafico-editoriale,
Reggio Emilia
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a cura di - Istoreco