Index
Quaderni camerti di studi romanistici
International Survey of Roman Law
IN RICORDO DI
FRANCO SALERNO
estratto
37
2009
JOVENE
EDITORE
NAPOLI
Index
Quaderni camerti di studi romanistici
International Survey of Roman Law
Direttore Luigi Labruna
Condirettore Cosimo Cascione
Sotto gli auspici
della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino
e del «Consorzio interuniversitario Gérard Boulvert
per lo studio della civiltà giuridica europea e per la storia dei suoi ordinamenti».
Organo del «Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano».
Presidente Pierangelo Catalano.
Comitato direttivo: Ignazio Buti, Luigi Capogrossi Colognesi, Pierangelo
Catalano, Giovanni Lobrano, Sandro Schipani.
Comitato di redazione: Carla Masi Doria; Felice Mercogliano; Francesca
Reduzzi Merola; Francesco Salerno†.
Scritti di:
Valeria Di Nisio
Daniela Di Ottavio
Federico Maria d’Ippolito
Maria D. Floría Hidalgo
Martin Avenarius
Luigi Garofalo
Okko Behrends
Vincenzo Giuffrè
Eva Cantarella
Patrizia Giunti
Sergio Capasso
Antonio Guarino
L. Capogrossi Colognesi Gábor Hamza
Cosimo Cascione
Luigi Labruna
Sergio Castagnetti
Francesca Lamberti
Alfonso Castro Sáenz
Paolo Mammola
Marcella Chelotti
Alessandro Manni
Ignacio Cremades
Dario Mantovani
M. Jesús Díaz Gómez
Luca Marocco
Oliviero Diliberto
Rosaria Mazzola
Marco Migliorini
Valerio Massimo Minale
Dieter Nörr
J. Michael Rainer
Natale Rampazzo
C. Sánchez-Moreno Ellart
Bernardo Santalucia
Paola Santini
Tullio Spagnuolo Vigorita
Armando Torrent
Fabiana Tuccillo
Carlo Venturini
Veruska Verratti
Francesco Verrico
Paolo Vigo
Andreas Wacke
In redazione:
Valeria Di Nisio; Alessandro Manni; Aglaia McClintock; Carlo Nitsch;
Natale Rampazzo; Paola Santini; Fabiana Tuccillo.
Segretaria: Daniela Piccione.
«QUAERERE»,
«QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
«Quaerere»,
«quaestio».
Inchiesta lessicale e semantica
25
Dario Mantovani
Quaeris — inquit — ex me, quod mihi quoque
est iamdiu in perpetua quaestione.
(Gell. 20.6.2)
1. Introduzione. — Molto si conosce del funzionamento del processo
criminale correntemente oggi chiamato quaestio e qualcosa s’intravede anche della sua storia. È il nome, invece, che continua ad essere sfuggente.
Nell’attesa che la pubblicazione delle voci pertinenti del Thesaurus Linguae Latinae dia alla ricerca una base piú solida e ragionata, cercherò —
nel breve tempo a disposizione — di accertare che cosa significhino il verbo quaerere e il sostantivo quaestio, quando siano usati in rapporto all’attività di repressione criminale in età repubblicana.
I nodi da sciogliere sono di due ordini, semantico e lessicale, cioè riguardano sia il modo in cui oggi volgiamo questi termini nelle lingue moderne sia il loro uso antico.
Il primo versante, quello del significato — e di conseguenza, il modo
in cui traduciamo oggi le parole latine — ha una valenza essenzialmente
metodologica, di pulizia linguistica, la cui importanza non è tuttavia da
sminuire, perché si sa che proprio tramite le parole spesso s’insinuano
idee estranee ai fenomeni antichi e vi si annidano precomprensioni capaci
di condizionare la ricostruzione di tali fenomeni. Il concreto pericolo è dimostrato, nel nostro caso, dal fatto che le traduzioni italiane scelgono termini che non hanno alcun apparente nesso semantico con il latino quaere* Una fotografia ritrae Bernardo Santalucia ad un convegno organizzato da Alberto Burdese nel 1988, attorniato da giovani studiosi. Era il 17 marzo di vent’anni fa,
il giorno prima che ne compisse cinquanta: in effetti, già si guardava a lui come ad un
punto di riferimento. Tale è rimasto, perché non ha mai deflettuto dalla linea della precisione giuridica e filologica, tracciando con la sua revisione critica dell’impostazione
mommseniana il quadro con cui ogni indagine, anche quando raggiunga conclusioni
differenti e persino opposte, deve misurarsi. L’attenzione rivolta da Santalucia al campo del diritto criminale è stata da tutti sentita come una delle linee di ricerca piú vive e
autentiche, benché lontana dagli itinerari attualizzanti nei quali si è cercata una soluzione alla crisi di vocazione della nostra disciplina. Quest’autenticità si direbbe sia alimentata, da un lato, dalla sua vocazione giuridica (di cui testimonia l’esordio come
magistrato), dall’altro, da un amore per l’antichità quasi antiquario, come sanno gli
amici che con lui hanno visitato il Foro romano o passeggiato per le vie di Roma, dove
riconosce sotto le mura odierne le vestigia degli edifici antichi, teatro degli episodi da
lui ricostruiti. Si sa che il governatore della provincia — e Santalucia è il governatore
di questa provincia degli studi — non poteva accettare dai provinciali se non dei piccoli doni e non piú che un munusculum posso offrirgli: siccome sa che è accompagnato
da un affetto e un rispetto profondi, confido che lo accetterà cordialmente. Grazie ad
Alberto Cavarzere dell’Università di Verona — anch’egli nella fotografia di vent’anni
fa — per l’amichevole lettura del dattiloscritto e i preziosi consigli.
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DARIO MANTOVANI
[2]
re/quaestio, ad esempio «tribunale» oppure «corte di giustizia criminale»
(intesi come organi collegiali con funzione giudicante). Lo stesso avviene
in inglese («criminal court», «standing commission»), tedesco («ständiger
Gerichtshof»), francese («tribunal criminel permanent») e spagnolo («tribunal penal permanente»). La mancanza di nesso semantico implica ovviamente che le parole moderne, da un lato, non trasmettano le idee antiche (quali che fossero: accertarlo sarà uno dei temi della nostra inchiesta)
e, dall’altro, che portino con sé idee estranee alla parola latina.
Il secondo versante da esplorare è quello dell’uso antico, da cui anzi
è metodologicamente necessario muovere, per poi accertare il contenuto
semantico e, di conseguenza, la fedeltà delle traduzioni moderne.
2. «Quaestio» e «quaerere» nella «Lex repetundarum Tabulae Bembinae». — Nell’intraprendere l’esame dell’uso antico — che ci porterà a
esplorare una porzione del lessico piú ampia delle sole parole quaestio e
quaerere, ossia a considerare anche altri vocaboli e locuzioni che costituivano il settore della lingua latina pertinente alla designazione del processo
criminale — occorre adottare come punto di partenza il linguaggio legislativo, perché le parole della legge determinano in modo prescrittivo (e non
solo descrittivo) la disciplina degli istituti (con efficacia che può considerarsi definitoria, cioè capace di attribuire un significato speciale a termini
della lingua comune): ciò vale in particolare per il processo criminale romano, la cui disciplina era essenzialmente posta da leges1. Nell’indagine
lessicale, sarà dunque data la precedenza agli usi normativi. Preciso anche
che l’indagine si manterrà nell’ambito dell’età repubblicana, non solo in
omaggio al Convegno in cui s’iscrive, dedicato appunto al diritto criminale di quest’età, ma anche perché cosí facendo si potranno evitare le eventuali deformazioni terminologiche successive al pieno vigore del sistema
delle leges iudiciorum publicorum, che, com’è noto, raggiunse l’apice nella
legislazione augustea, per poi iniziare una parabola discendente (quantunque non ancora precisamente determinata in tutti i suoi punti) 2.
Il documento piú ricco, sotto ogni profilo, è la cd. Lex repetundarum
conservata dalla Tabula Bembina, d’età graccana, che ripetutamente designa le funzioni dei soggetti del procedimento nel modo che segue:
1
Poiché vigeva una pluralità di leges iudiciorum publicorum e ciascun processo
era retto da una specifica legge (né la legislazione generale augustea modificò questa
varietà), a rigore non esisteva un lessico legislativo univoco, poiché ogni lex avrebbe
potuto ridefinire i termini da essa impiegati. Tuttavia, le leges iudiciorum publicorum il
cui tenore ci è noto sono, purtoppo, in numero minimo rispetto a quelle effettivamente emanate, sí che variazioni (sincroniche o diacroniche) nel lessico, se anche vi fossero
state, non sarebbero oggi piú rilevabili con sicurezza. 2 Va precisato che non sono qui
registrate tutte le occorrenze di quaestio/quaerere rinvenibili nelle fonti, nemmeno con
riguardo al piú ristretto campo del processo criminale e dell’età repubblicana, ma solo
il campione significativo, che può consentire di impostare l’esame. Da questo punto di
vista, la cernita qui proposta corrisponde a quelle del ThLL. che sono precedute da un
asterisco, a indicare appunto che non vi sono riportate tutte le occorrenze del lemma
presenti nelle fonti.
[3]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
27
Lex. rep. Tab. Bemb. 1-4: [quoi …] | 2. … in annos singolos pequniae
quod siet amplius (sestertium) n(ummum) … ] | 3. … ablatum captum coactum conciliatum auersumue siet … | 4. de ea re eius petitio nominisque
delatio esto, pr(aetoris) quaestio esto, ioudicium ioudicatio leitisque aestumatio, queiquomque ioudic[es ex h(ace) l(ege) erunt eorum h(ace) l(ege)
esto] 3.
Dopo avere descritto la fattispecie d’illecito, la legge attribuisce alla
vittima — alla quale si riferiscono i pronomi quoi e eius — la legittimazione alla domanda e all’accusa (petitio nominisque delatio), al pretore la
quaestio e ai giudici, infine, il ioudicium, la ioudicatio e la leitis aestumatio
ossia il giudizio, la decisione sulla colpevolezza o meno dell’imputato e, in
caso di colpevolezza, la stima del valore della condanna alle restituzioni
(trattandosi appunto di pecuniae repetundae, che vengono richieste con la
petitio).
Le attribuzioni sono puntigliosamente ripetute alla l. 6, frammento
di una disposizione che sembra riferirsi a un’azione alieno nomine:
Lex. rep. Tab. Bemb. 6: …] quaestio eius pr(aetoris) esto, ioudicium<q>ue ioudicatio litisque aestumatio, queiquomque ioudicium ex h(ace)
l(ege) erunt eorum h(ace) l(ege) esto4.
3
Adotto il testo nell’ed. di M.H. Crawford, Roman Statutes I (London 1996) 65
ss., nr. 1. Le ll. 1-4 sopra riportate appartengono a (almeno) due capitoli distinti. Poiché essi corrono paralleli, si è attinto da entrambi, cosí da riferire le porzioni di testo
meglio conservate nel bronzo senza ricorrere alle integrazioni moderne, attesa la natura
terminologica dell’indagine qui condotta. 4 La clausola ricorrente che descrive le funzioni dei iudices presenta, nel corso della legge, alcuni guasti e anche alcune varianti,
tali da determinare un’ambiguità, che conviene esplicitare. In particolare, alla l. 6 sopra
riportata, nell’espressione queiquomque ioudicium … erunt il termine ioudicium non
può che intendersi come forma anomala del genitivo pl. di ioudices, con valore di partitivo (ossia «chiunque farà parte dei giudici»; per la costruzione, cfr. Sall. Cat. 37.10:
quicumque aliarum atque senatus partium erant; per un’altra possibile attestazione del
gen. pl. -ium, v. Cic. Ad Q. fr. 2.1.2, ma v. ThLL. VII.2 597, 37, s.v. «iudexo»). Di qui la
possibilità che ioudicium abbia lo stesso valore di genitivo plurale anche nella sequenza
immediatamente precedente ioudicium ioudicatio leitisque aestumatio, che sarebbe perciò un’espressione parallela a praetoris quaestio esto (cfr. l. 4): «dei giudici (sia) la ioudicatio e la litis aestimatio». Non avremmo perciò, come normalmente s’interpreta, un
trinomio formato da tre sostantivi al nominativo singolare (il cui primo elemento sarebbe ioudicium sost. neutro, nel senso di «giudizio»), bensí un binomio preceduto dal
genitivo di iudices. A favore della possibile esclusione di iudicium sost. neutro milita
anche il fatto che tutti gli altri sostantivi che nella legge designano le funzioni dei soggetti del processo sono deverbali con il suffisso -tio (quaestio, petitio, nominis delatio,
iudicatio, litis aestimatio); infine, è evidente la prossimità semantica fra iudicium e iudicatio, che potrebbe suggerire — per evitare la ridondanza — di escludere il primo termine dalla descrizione delle funzioni dei iudices (ma su ciò v. infra nt. 13). Che, nonostante questi spunti, si tratti piú probabilmente del nom. sing. n. ioudicium (= iudicium) — e che dunque ioudicium ioudicatio leitisque aestumatio sia un trinomio —
sembra imposto, innanzitutto, dalla sintassi della frase, che renderebbe altrimenti difficile giustificare il doppio genitivo ioudicum - eorum (salvo intendere queiquomque
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DARIO MANTOVANI
[4]
Rispetto alla norma precedente, si può notare in questa, dal punto di
vista stilistico, l’inversione dell’ordine delle parole — quaestio eius praetoris esto — giustificata forse dal fatto che di quel pretore si era già parlato
in precedenza.
La medesima terminologia si ripete con frequenza nella lex epigrafica graccana; fra le clausole meglio conservate s’annoverano quelle finali,
che devono questa condizione favorevole al fatto di essere scritte due volte nella Tabula Bembina, poiché l’incisore è caduto in un colossale errore
per omeoteleuto, ripetendo tutto il testo dalla l. 79 in avanti. Proprio in
questa sezione meglio conservata troviamo due norme pertinenti alla nostra indagine, che è interessante mettere a confronto. La prima è quella
che conferisce il premio della cittadinanza al non-romano che abbia avuto
il maggiore merito nell’ottenere la condanna dell’imputato di cui ha deferito il nomen:
Lex rep. Tab. Bemb. 76: De ceiuitate danda. Sei quis eor[u]m quei
ceiuis Romanus non erit, ex hace lege alteri nomen [… ad praetor]em
quoius ex hace lege quaestio erit, detolerit, et is eo iudicio hace lege condemnatus erit … [ipse ceiuis Romanus iustus esto … (cfr., per le integrazioni, la l. 77 e 83).
ioudicium erunt come una parentetica esplicativa del primo genitivo ioudicium). A favore del trinomio con iudicium n. sing. viene, inoltre, la clausola iudicium litisque aestumatio che compare alla l. 41: sei vo]let quoius ex h(ace) l(ege) [n]ominis delatio erit ei
eius rei pe[titio esto … de]que ea re hace lege iudicium litisque aestumatio essto … In
questo caso, è sicuro che iudicium sia il sost. n. sing., ed è dunque verosimile che, alla l.
41, il legislatore non abbia fatto altro che ridurre a due elementi quello che altrove è
appunto il trinomio iudicium iudicatio leitisque aestumatio. Va aggiunto che la clausola
viene normalmente tradotta intendendola come un trinomio: cosí, per tutti, Crawford,
RS. I cit. 85 (l. 6: «whoever shall be jurors according to this statute, they are to have
trial, right of judgment, and assessment of damages according to this statute»). Si noti,
peraltro, a sottolineare l’esistenza di un effettivo problema testuale, che lo stesso
Crawford, RS. I cit. 65, dopo avere tradotto ioudicium con «trial», sente coerentemente
l’esigenza di correggere in l. 6 queiquomque ioudic<es>, e integra di conseguenza nella
mutila l. 4 ioudic[es, contro Mommsen, che, viceversa, teneva ferma alla l. 6 la forma
attestata queiquomque ioudicum e suppliva in base ad essa la l. 4 ioudic[ium (da notare
anche la diversa integrazione della l. 26 proposta dai due studiosi). Per finire, nella Lex
Irnitana vi sono almeno due luoghi che possono essere portati a confronto. Il primo,
tratto dal cap. 88 (intitolato De reciperatoribus reiciendis sorte ducendis dandis), reca il
binomio iudicatio litisque aestumatio: Qui [tum] reci[perat]o[res] dati erunt, eorum de
his rebus iudicatio li[tis]que [aestumatio e]sto. Questo parallelo potrebbe perciò dare
motivo di intendere ioudicium nella Tab. Bemb. come gen. pl. di ioudices. Tuttavia, la
stessa legge betica, al cap. 69 (De iudicio pecuniae communis), descrive cosí le funzioni
giudiziarie dei decuriones locali: … de eo decurionum conscriptorumue cognitio iudicatio
litisque aestumatio esto. Questa clausola contiene perciò un trinomio, nel quale cognitio
ha il posto — e anche verosimilmente il significato — che nella Tab. Bemb. ha ioudicium. Quest’ultima testimonianza, oltre che per la struttura trinomiale, è importante
perché presenta la medesima peculiare distribuzione di asindeto (cognitio iudicatio) e
congiunzione (litisque aestimatio) che si trova nella Tab. Bemb. Pur non potendosi del
tutto escludere l’interpretazione binomiale, quella trinomiale sembra in definitiva piú
fondata (v. anche infra nt. 13).
[5]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
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Questa clausola rispetta la terminologia già rilevata nelle clausole iniziali. È importante peraltro notare che il legislatore, dovendo riferirsi al
processo nel suo complesso, non parla di quaestio — che è appunto solo
la funzione del pretore — bensí usa il termine iudicium (et is eo iudicio
hace lege condemnatus erit). Si tratta di una scelta lessicale forse incoraggiata dal fatto che, in questa clausola, il processo è considerato sotto il
profilo della condanna dell’imputato (dunque, nel suo momento di «giudizio»); sta di fatto che la scelta è ripetuta in altri capitoli della stessa legge
e che dunque doveva essere sentita come la piú appropriata per dare un
nome al procedimento nel suo complesso5.
Una variazione formale — per quanto riguarda la designazione della
funzione del pretore — s’incontra invece nella norma sulla praeuaricatio,
che affida al medesimo pretore e agli stessi giudici che avevano partecipato al processo principale il compito di decidere se l’accusatore abbia colluso con l’imputato6:
Lex rep. Tab. Bemb. 75: De praeuaricatione. Praetor quei ex hace
lege quaeret, qua de re ei prae[tori eisque ioudicibus quei ex h(ace) l(ege)
ad eam rem io]udicandam adfuerint, quei uiuent, eorum maiorei parti satis factum erit, nomen, quod ex [hace lege quis detulerit, praeuaricationis
causa eum detulisse …]7.
5
L’uso di iudicium — che è anche il primo elemento del (probabile) trinomio
che descrive la funzione dei iudices — a designare l’intero processo è ripetuto nelle seguenti clausole: l. 30 [praetor …] … facito utei ioudicium p[ (forse relativa all’annuncio
della data di celebrazione del processo); l. 39 …]e iudicium adesse possit, de ea re praetori … (a proposito della valutazione da parte del pretore di cause che impediscano ad
un giudice di essere presente al giudizio); l. 43 …] iudicium fieri oportebit (forse a proposito di un aggiornamento); l. 46 pr(aetor) quei ex h(ace) l(ege) iu[dicium exercebit
(nel caso in cui piú di un terzo dei giudici affermi di non potere emettere il verdetto, il
pretore ripete l’ordine di giudicare); l. 69-71 quod] | ex hace lege <iu>dic[i]um fieri
oportebit, quom ex hace lege fieri oportebit, nei quis magistratus proue magistratu proue
[quo inperio inp]ediu[nto quo]minus setiusue fiat iudiceturue neiue quis eum quei ex
hace lege iudicium exercebit neiue eum que[i ex h(ace) l(ege) iudicabit neiue eum quei ex
h(ace) l(ege) petet neiue eum unde petetur — ab eo iudicio auocato neiue] | auocarier
iubeto neiue abducito neiue abducier iubeto neiue facito quo quis eorum minus ad id iudicium adesse poss[it neiue facito quo minus iudic]i uerba audeire, in consilium eire, iudicare liceat, neiue iudicium dimitere iubeto (clausola protettiva, che vieta a magistrati e
promagistrati di compiere atti che impediscano lo svolgimento del processo e in particolare che impediscano la presenza di uno dei soggetti del processo, l’ascolto delle
udienze e la partecipazione al voto oppure dispongano la sospensione del giudizio). Va
menzionata per completezza anche la formula con la quale alla l. 72 si descrive la posizione potestativa di pretore e questore, dove si fa menzione — oltre a magistratura e
imperium — anche di iudicium: sei is praetor quei ex hace lege quaeret seiue is quaestor
quoi aerarium] uel urbana prouincia obuenerit eo magistratu iudicioue inperioue abierit
abdicaueritu[e. Sulla locuzione della l. 11, quaestione iudicio[q]ue poplico, v. infra § 5.
6
Con questa norma lo stesso pretore è investito anche di un potere giudicante; infatti,
il satis facere — ossia la prova dell’avvenuta praeuaricatio — ha per complemento di
termine non solo la maggioranza dei giudici, ma anche il praetor (ei praetori ). 7 Cfr.,
per le integrazioni, l. 82.
30
DARIO MANTOVANI
[6]
Dal punto di vista sintattico, il fenomeno da rilevare è che alla forma
con il sostantivo praetor cuius ex hac lege quaestio erit — quale si trova
nella clausola De ceiuitate danda (l. 76) poco sopra esaminata — viene qui
preferita la forma verbale praetor quei ex hace lege quaeret 8 . Dal punto di
vista semantico vi è perfetta sinonimia fra le due forme: proprio per questo, la variazione mette bene in risalto che il termine quaestio non si riferisce a un organo (come le traduzioni «tribunale» o «corte di giustizia» indurrebbero a pensare), bensí all’attività del pretore, appunto il quaerere:
lo dice la frase praetor quei ex hac lege quaeret 9.
L’esame del lessico legislativo del II secolo a.C. offre dunque all’inchiesta semantica un primo risultato. Dalla lex epigrafica si ricava che quaestio (e
quaerere) è termine che definisce la funzione del praetor de pecuniis repetundis (per il primo anno d’applicazione della legge, sarebbe stato il pretore
quei inter peregrinos ious deicet: l. 12), funzione distinta da quella dei iudices,
cui spetta il iudicium, la iudicatio ed, eventualmente, la litis aestimatio. Di
conseguenza, quaestio non è un termine che definisca l’intero processo criminale, se non per sineddoche, ossia la parte (la funzione del pretore) per il
tutto. Il legislatore preferiva riferirsi all’insieme con il termine iudicium (l.
39; 46; 69-71; 76), forse perché attribuiva il maggior rilievo alla funzione
giudicante svolta dalla giuria oppure semplicemente perché si trattava del
termine-categoria nel quale veniva piú spontaneo inquadrare l’istituto congegnato dalla Lex repetundarum nel suo insieme (con riguardo cioè non solo
alla funzione dei iudices, ma anche a quella del pretore).
3. «Quaestio» e «quaerere» in altre «leges publicae». — Com’è noto,
oltre alla lex epigrafica graccana, non disponiamo di molti altri testi legislativi che concernono il processo criminale svolto dal pretore con i giudici. Ad ogni modo, quando è possibile un confronto, questi testi confermano il lessico utilizzato dalla Lex repetundarum Tabulae Bembinae. In particolare, il frammento A di Chiusi, che reca disposizioni per le ricompense
agli accusatori in un processo criminale, usa la locuzione che abbiamo imparato a conoscere, con ogni probabilità riferita a un pretore (oppure a un
iudex quaestionis): qu]oius h(ac) l(ege) quaestio erit co[… (l. 7, ed.
Crafword, RS. I cit. 223).
8
La forma verbale praetor quei ex hace lege quaeret ricorre anche alle l. 8; 12; 26;
31; 35; 39; 47; 55; 69; 72 (per limitarsi ai luoghi non interamente restituiti dagli editori;
un’integrazione moderna introduce alla l. 5 entrambe le forme, quella con sostantivo e
quella con verbo). La stessa variante verbale impiegata per il praetor ricorre anche per
l’accusatore (cioè per colui al quale spettano la petitio e la nominis delatio), che alla l. 9
è cosí descritto: quei ex h(ace)] l(ege) pequniam petet nomenque detuler[it] (cfr. anche
l. 58). 9 V. già in questo senso, sinteticamente, G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in ANRW. II/14 (Berlin-New
York 1982) 724 e nt. 5; V. Giuffrè, Il diritto penale nell’esperienza romana (Napoli
1989) 58; D. Mantovani, Il pretore giudice criminale in età repubblicana, in Athenaeum
78 (1990) 23 e nt. 16 (di cui la presente indagine intende costituire la documentazione
analitica); C. Venturini, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana (Pisa
1996) 77; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma 2 (Milano 1998) 103
nt. 1 («… il termine quaestio … in origine designava l’attività del magistrato …»).
[7]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
31
Spostandoci dalle testimonianze epigrafiche, cioè dal documento
diretto di leges, a resoconti indiretti, spicca fra i piú affidabili la trascrizione offerta da Ulpiano della Lex Cornelia de sicariis et ueneficis,
che può considerarsi l’unica lex iudicii publici il cui tenore ci sia sufficientemente noto nella forma e formalismo originari fuori dei reperti
epigrafici10. In particolare, si consideri il resoconto del primo caput
proposto da Ulpiano,
7 de off. procos., Coll. 1.3.1: Capite primo Legis Corneliae de sicariis
cauetur, ut is praetor iudexue quaestionis, cui sorte obuenerit quaestio de
sicariis eius quod in urbe Roma propius<ue> mille passus factum sit, uti
quaerat cum iudicibus, qui ei ex lege sorte obuenerint, de capite eius, qui
cum telo ambulauerit hominis necandi furtiue faciendi causa, hominemue
occiderit, cuiusue id dolo malo factum erit.
Come si può costatare, il legislatore sillano (il quale è certo ricalcasse
modelli anteriori) adotta una formulazione analoga a quella impiegata in
età graccana dalla legge de pecuniis repetundis. Come la legge graccana,
quella sillana sull’omicidio attribuisce (per sorte) al praetor (oppure al iudex quaestionis) la quaestio. Inoltre, il praetor è anche qui distinto dai iudices (sebbene non si usi, almeno in questo contesto, un termine specifico
per la funzione di questi ultimi). Un altro profilo da rimarcare è che viene
spontaneo al redattore della legge Cornelia usare esplicativamente quaerere riferendosi a quaestio, cosí come avviene nella Lex repetundarum Tabulae Bembinae (ove si alternano le forme praetor cuius ex hac lege quaestio
erit e praetor qui ex hac lege quaeret). La legge Cornelia, infatti, dispone
che il pretore (o iudex quaestionis) cui sia capitata per sorte la quaestio de
sicariis debba quaerere de capite eius qui cum telo ambulauerit hominis necandi furtiue faciendi causa, hominemue occiderit, cuiusue id dolo malo factum erit. La norma si può leggere insomma come se si articolasse in una
sorta di doppia formulazione, prima sintetica e poi analitica. Per fare un
confronto, è costruita in modo analogo a una glossa lessicografica: al lemma quaestio de sicariis segue per cosí dire la sua spiegazione distesa, in forma verbale. Al di là della sua forma peculiare, la norma ci conferma che le
traduzioni moderne tendono abusivamente a ipostatizzare «quaestio», intendendola come «corte di giustizia» in materia di sicarii (dunque come
un organo giurisdizionale dotato di una determinata competenza); stando
invece alle parole romane, quando la legge attribuisce la quaestio significa
semplicemente che il pretore deve quaerere. La quaestio è un’attività, l’attività di quaerere.
Che questa sia la lettura corretta è confermato da Cicerone, che parafrasa la stessa legge Cornelia (relativamente al capitolo de ueneficis) in
questo modo:
10
417 ss.
J.L. Ferrary, Lex Cornelia de sicariis et veneficis, in Athenaeum 79 (1991)
32
DARIO MANTOVANI
[8]
Cluent. 148: Iubet lex ea, qua lege haec quaestio constituta est, iudicem quaestionis, hoc est Q. Voconium, cum iis iudicibus qui ei obuenerint
(uos appellat, iudices) quaerere de ueneno11.
Abbandoniamo infine i testi legislativi per esaminare l’impronta che
essi hanno lasciato nelle fonti atecniche, in particolare per accertare se la
distinzione fra quaestio e iudicium/iudicatio — come funzioni rispettivamente del pretore (o iudex quaestionis) e dei iudices — fosse accolta anche
nella lingua comune12.
La distinzione stabilita dalla Lex repetundarum graccana fra queste
due funzioni è riflessa nitidamente nell’orazione pro Rabirio Postumo. Cicerone, che contesta l’applicabilità al suo cliente della norma quo pecunia peruenisset della Lex Iulia de pecuniis repetundis, tiene a esibire la sua esperienza maturata in tutti i ruoli del processo de repetundis, in cui — a suo dire —
mai era accaduto qualcosa del genere. La descrizione è puntigliosa:
Cic. Rab. Post. 9: Accusaui de pecuniis repetundis, iudex sedi, praetor quaesiui, defendi plurimos: nulla pars quae aliquam facultatem discendi adferre posset <a> me afuit.
In quest’apostrofe, Cicerone ricorda di avere giocato in tutti i ruoli.
Accusaui si riferisce ovviamente all’accusa da lui intentata a Verre, iudex
sedi al fatto di essere stato giudice giurato (circostanza a noi non altrimenti nota), praetor quaesiui al ruolo di pretore de pecuniis repetundis ricoperto nel 66, defendi plurimos alle numerose difese da lui sostenute (basti qui
pensare, in materia di repetundae, alla pro Pisone e alla pro Flacco e, del
resto, l’attività di Cicerone come patrono era sotto gli occhi di tutti, dato
che si era nel 54, anno di un turbinoso impegno forense, scandito da almeno dieci arringhe). È chiaro che, in particolare, la distinzione iudex
sedi, praetor quaesiui corrisponde a quella che si trova nella lex repetundarum epigrafica.
4. Excursus: «iudex quaestionis». — Assodato che il legislatore distingue la quaestio dal iudicium, cioè i compiti rispettivamente del praetor (o
iudex quaestionis) da una parte e dei giudici dall’altra, conviene tornare
con maggiore attenzione su una locuzione già sfiorata in piú occasioni,
11
La parafrasi ciceroniana della norma sull’avvelenamento attenua una possibile
interpretazione della norma relativa ai sicarii, ossia che in realtà l’espressione quaestio
de sicariis pur essendo riassuntiva rispetto alla successiva esplicazione verbale, presenti
rispetto ad essa una maggiore astrazione e tenda al significato (che oggi le viene solitamente) attribuito, di «corte di giustizia relativa ai sicari». Dal confronto, si vede, invece, che la specificazione sintetica della competenza può indifferentemente essere apposta al sostantivo quaestio (come nella norma de sicariis) o al verbo quaerere (come nella
parafrasi della norma de ueneno). Ciò tende a escludere che l’espressione quaestio de
sicariis fosse intesa come riferita (almeno principalmente) a un organo e non invece a
un’attività. 12 Un caso in cui, invece, la distinzione terminologica non è rispettata è
Cic. Balb. 52: … iudicum qui huic quaestioni praefuerunt.
[9]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
33
nella quale i due termini (quaerere e iudicare) invece si congiungono13 . Ciò
avviene nel titolo iudex quaestionis, che era attribuito a titolari della quaestio diversi dal praetor, scelti di solito fra gli aedilicii. Questa figura meriterebbe uno studio apposito: basti dire che per Mommsen essa compariva
solo nella quaestio de sicariis et ueneficis, mentre altri — fra i quali Santalucia — le attribuiscono una maggiore diffusione, cioè estesa a tutte le
quaestiones14.
Di questa terminologia s’incontra già uno spunto nella Lex repetundarum graccana, alla l. 62, dove si parla di un iudex quei eam rem quaesierit queiue iudex ex hace lege fac[tus erit, che è coinvolto negli aspetti patrimoniali dell’esecuzione della condanna. Tuttavia, è difficile pensare a un
titolo specifico di iudex quaestionis: si tratta probabilmente di un sinonimo di praetor quei eam rem quaesierit15.
13
Va qui precisato, un volta per tutte, che non vi è precisa equivalenza semantica fra iudicium e iudicatio, ossia i due primi termini del (probabile) trinomio impiegato
dalla Lex rep. Tab. Bemb. per descrivere la funzione dei iudices, accanto alla litis aestimatio. Tuttavia, è altrettanto evidente che iudicatio/iudicium appartengono (insieme a
iudex) al medesimo campo semantico, quello di iudicare, tanto che si potrebbe pensare
che iudicium costituisca una sorta di termine riassuntivo, inclusivo delle due funzioni
di iudicatio (nel senso di accertamento della colpevolezza) e litis aestimatio (stima delle
res repetundae e della pena). Inteso, invece, in senso piú autonomo (sebbene mai completamente distinto), iudicium potrebbe alludere alla fase di cognizione che prelude al
verdetto, alla stregua di cognitio in Irn. 69. Va inoltre osservato che iudicatio con riferimento alla funzione giudiziaria è parola praticamente mai usata fuori dai testi normativi (Lex riualicia in Fest. p. 458.5 L.; Urs. 61; 66; Lex imp. Vesp. l. 38; Irn. 69; 88; v.
anche Ulp. 3 l. Iul. Pap., D. 50.16.131.1), mentre, nelle fonti letterarie, assurge a termine tecnico della retorica, dove indica il tema della decisione (Rhet. Her. 1.26: ex ratione defensionis et ex firmamento accusationis iudicii quaestio nascatur oportet: eam nos
iudicationem, Graecei crinomenon appellant). V. ThLL. VII.2 603, s.v. «iudicatio» e Cornifici Rhetorica ad C. Herennium. Introduzione, testo critico, commento a c. di G. Calboli (Bologna 1993) 228 s. 14 Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht II3 (Leipzig 1887)
586 ss. (cruciali sono gli elenchi dei casi concreti in cui sia citato, in fonti epigrafiche o
letterarie, un iudex quaestionis, che secondo l’a. sono tutti riferiti a processi per omicidio oppure, se non risulta la titolarità del processo per omicidio, non sono neppure
esplicitamente attribuiti a una quaestio diversa; la situazione delle fonti può tuttavia
cambiare sensibilmente qualora s’includano nelle testimonianze pertinenti al iudex
quaestionis quelle relative al quaesitor); contra, Santalucia, Diritto e processo penale cit.
140 s. 15 Lo stesso vale per la norma che fa onere all’accusatore di portare in ius e di
deferire il nome dell’imputato, davanti al iudex (l. 19): is eum … ad iudicem, in eum
annum quei ex h(ace) l(ege) [factus] erit, in ious educito nomenque eius deferto. Cosí
per tutti Crawford, RS. I cit. 100; 107; cfr. ibid., 111, in rapporto alla mutila l. 79: iudex deinceps faciat pr[… Da notare inoltre la l. 43 (integrata in base alle l. 42; 45): [sei
ioudex quei eam re]m quaeret ex h(ace) l(ege) causam non nouerit, pr(aetor) quei ex
h(ace) l(ege) q[uaeret …; in questo caso, data la compresenza del praetor, è difficile intendere che ioudex si riferisca al pretore stesso; forse si tratta di un giudice della giuria.
Data l’incertezza generale sul contenuto della legge in cui è menzionato, non si può
dire nulla di certo neanche sulle funzioni del ioudex ex h(ace) l(ege) plebiue scito [factus previsto dalla Lex Latina Tab. Bantinae, l. 15-16; cfr. l. 7; si veda comunque l’ampia discussione di Crawford, RS. I cit. 197 s., che propende per l’ipotesi che si tratti
del titolare di una quaestio, forse (ma molto prudentemente) de maiestate.
34
DARIO MANTOVANI
[10]
A livello legislativo, la prima comparsa sicura del iudex quaestionis
nel suo significato tecnico (riferito cioè a un funzionario apposito, diverso
dal pretore) si registra nella Lex de sicariis et ueneficis di Silla — esaminata
piú sopra — secondo il resoconto di Ulp. 7 de off. procos., Coll. 1.3.1:
Capite primo legis Corneliae de sicariis cauetur, ut is praetor iudexue
quaestionis, cui sorte obuenerit quaestio de sicariis … uti quaerat cum iudicibus … de capite eius, qui cum telo ambulauerit hominis necandi furtiue faciendi causa16 .
È noto, tuttavia, che la titolatura aveva fatto già la sua apparizione
intorno al 100 a.C. — nella forma iudex quaestionis ueneficis — documentata in un’epigrafe che registra il cursus honorum del console del 92:
CIL. VI 1283 = CIL. VI 31586 = InscrIt. XIII, 3 70 = ILS. 45 = AE.
2000, 135: [C(aius) Claudius Ap(pi) f(ilius) C(ai) n(epos) Pulcher] |
q(uaestor) IIIuir a(ere) a(rgento) a(uro) f(lando) f(eriundo) aed(ilis)
cur(ulis) iudex q(uaestionis) ueneficis pr(aetor) | repetundis curator uis
sternundis co(n)s(ul) cum M(arco) Perperna)17
e poi, con diciture variabili, in vari testi epigrafici dello stesso genere:
CIL. VI 41023 = CIL. VI 1311 = CIL. I 199 = ILS. 47 = InscrIt. XIII,
3 75: … C(aius) Octauius C(ai) f(ilius) C(ai) n(epos) C(ai) pr[on(epos)] |
pater Augusti | tr(ibunus) mil(itum) bis q(uaestor) aed(ilis) pl(ebis) cum |
C(aio) Toranio iudex quaestionum | pr(aetor) proco(n)s(ul) imperator appellatus | ex provincia Macedonia18;
CIL. V 862: C(aius) Appuleius | M. f(ilius) Tappo | pr(aetor) aed(ilis)
tr(ibunus) pl(ebis) q(uaestor)| iudex quaesitionis | rerum capital(ium)19;
CIL. IX 2845 = CIL. IX 2846 = ILS. 915: P(ublius) Paquius Scaeuae et
Flaviae filius Consi et Didiae nepos Barbi et Dirutiae pronepos | Scaeua
quaestor decemuir stlitibus iudicandis ex s(enatus) c(onsulto) post quaesturam quattuoruir | capitalis ex s(enatus) c(onsulto) post quaesturam et
decemuiratum stlitium iudicandarum tribunus plebis | aedilis curulis iudex
quaestionis praetor aerarii proconsule prouinciam Cyprum optinuit eqs. 20.
16
Con riferimento ad altre clausole della medesima legge Cornelia, cfr. Cic.
Cluent. 148 (v. supra § 3) e Marcian. 14 inst., D. 48.8.1.1: quiue magistratus iudexue
quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit ut publica lege reus fieret. 17 La
carica di iudex quaestionis ueneficis è situata nel 98 da T.R.S. Broughton, MRR. II
(New York 1952) 4; cfr. III (Atalanta 1984) 56. 18 Il padre di Augusto fu pretore nel
61, perciò probabilmente aedilis nel 64 e iudex quaestionis nel 63: Broughton, MRR. II
cit. 162; 167. 19 Periodo tardorepubblicano o inizio di quello augusteo: Broughton,
MRR. II cit. 484. 20 Mommsen, Römisches Staatsrecht II3 cit. 586 nt. 1, riteneva che
in CIL. IX 3306 = ILS. 932: Q(uinto) Vario Q(uinti) f(ilio) | Gemino | leg(ato) diui
Aug(usti) II | proco(n)s(uli) pr(aetori) tr(ibuno) pl(ebis) | q(uaestori) quaesit(ori) iudic(i) |
[11]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
35
La stessa titolatura è inoltre registrata nelle fonti letterarie, ad esempio in
Cic. II In Verr. 1.158: eiusmodi subsortitionem homo amentissimus
suorum quoque iudicum fore putavit per sodalem suum Q. Curtium iudicem quaestionis (dove ci riferisce al sorteggio suppletivo effettuato per la
giuria del processo de repetundis contro Verre);
Cic. Cluent. 89: condemnatus est C. Iunius qui ei quaestioni (scil.: de
ueneficis, a. 74) praefuerat; adde etiam illud si placet: tum est condemnatus cum esset iudex quaestionis.
Cic. Brut. 264: is (scil.: C. Visellius Varro) cum post curulem aedilitatem iudex quaestionis esset, est mortuus.
Quale riflessione semantica trarre dall’accostamento dei due termini
che risultano altrove, invece, distinti (al praetor la quaestio, ai iudices il iudicium)? Il nodo potrebbe essere sciolto con la considerazione che iudex è
un titolo, distinto perciò da quaestio (non molto diversamente da come un
praetor può essere chiamato praetor repetundis, come nel primo cursus honorum sopra riportato oppure praetor aerarii, nell’ultimo)21. A questa considerazione si deve tuttavia aggiungere quanto già si è appreso circa la tendenza del legislatore graccano, nella Lex repetundarum, a designare con
iudicium il procedimento nel suo complesso. Da questo punto di vista, la
giuntura non era percepita come un ossimoro (e, d’altra parte, è ovvio che
la scelta di iudex, quand’anche fosse un titolo, implicava che fosse ritenuto
appropriato alla funzione che gli era attribuita). I due termini, benché distinti, venivano sentiti come esprimenti due attività, per quanto diverse, in
fondo omogenee o almeno coordinate in quello che il legislatore definisce,
nell’insieme, un iudicium.
5. La denominazione romana del processo criminale per giuria: a1) «iudicium publicum» nei testi normativi. — Chiusa la digressione terminolopraef(ecto) frum(enti) dand(i) | Xuir(o) stl(itibus) iudic(andis) | curatori aedium
sacr(arum) | monumentor(um)que public(orum) | tuendorum eqs. e in CIL. VI 1480 =
ILS. 907 (cfr. CIL. VI 1481): Ofania C(ai) f(ilia) | Quarta ux[o]r | C(aius) Papirius |
C(ai) f(ilius) Vel(ina) Masso | tr(ibunus) mil(itum) aed(ilis) pl(ebis) | q(uaesitor) iud(ex)
cur(ator) fru(menti), la formula pur anomala quaesitor iudex (non quaesitionis iudex)
sia sostanzialmente anch’essa da riferire a un iudex quaestionis.
21
Va tuttavia osservato che una simile spiegazione formale non è sufficiente per
Lex rep. Tab. Bemb. l. 62: iudex quei eam rem quaesierit, se è vero che essa si riferisce al
pretore, perché non si tratterebbe di un titolo in senso stretto. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht (Leipzig 1899) 208, spiegava il titolo ipotizzando che il iudex quaestionis avesse diritto di voto nel processo per omicidio (cui limitava l’istituto) e che l’impiego di iudex nella Lex repetundarum epigrafica appartenesse a una fase terminologica
ancora influenzata da quest’uso. Sulla questione del diritto di voto del quaesitor, v. C.
Venturini, Studi sul «crimen repetundarum» nell’età repubblicana (Milano 1979) 181 ss.
e ora S. Liva, Sulla funzione del quaesitor: testi e ipotesi, in La repressione criminale nella
Roma repubblicana fra norma e persuasione a c. di B. Santalucia (Pavia 2009) 115 ss.
36
DARIO MANTOVANI
[12]
gica (e semantica) sul iudex quaestionis, si può procedere nell’esplorazione
del lessico antico, chiedendosi come i Romani chiamassero il processo cui
oggi di solito ci riferiamo con il termine quaestio.
L’appellativo prevalente è iudicium publicum, una locuzione che nella
storiografia giuridica moderna — per quanto ben nota — è invece piuttosto negletta. S’è già sottolineato che il legislatore graccano designava come
iudicium il procedimento disciplinato dalla lex stessa, oltre che la funzione
dei iudices22. Non stupisce, dunque, ritrovare questa stessa scelta lessicale
anche fuori della legge graccana. Ovviamente, per distinguere il iudicium
criminale da altre forme di giudizio lo si qualificava con un aggettivo, appunto iudicium publicum (ciò che invece non era necessario all’interno
della Lex repetundarum, dove la designazione come iudicium era autoreferenziale oppure in tutti quei contesti dove accanto a iudicium fosse indicato il titolo di reato per il quale si procedeva)23.
Le occorrenze di iudicium publicum sono molto numerose; sarà perciò sufficiente presentarne un campione, anche in questo caso attingendo
in primis da testi normativi o da essi strettamente dipendenti, cioè da testi
rappresentativi del linguaggio tecnico, non solo dal punto di vista descrittivo, ma anche prescrittivo.
Un genere di norme in cui il termine iudicium publicum appare usato
tecnicamente è costituito dai cataloghi di persone colpite da ignominia o,
comunque, escluse da ruoli onorifici (cataloghi che sono largamente sovrapponibili).
La testimonianza di questo genere da cui muovere — essendo un documento epigrafico, di prima mano — è Tab. Heracl. ll. 117-119. Si tratta di
una norma contenuta nella terza sezione del testo epigrafico, dedicata al
governo municipale (ll. 83-141); la norma esclude dal decurionato, cioè dal
senato delle comunità locali, una serie d’individui, fra cui appunto chi sia
stato condannato in un iudicium publicum a Roma o in una comunità locale:
l. 117-119: … queiue iudicio publico Romae | 118. condemnatus est
erit, quocirca eum in Italia esse non liceat neque in integrum resti<tu>tus
est erit queive in eo | 119. municipio colonia praefectura foro conciliabulo
quoius erit iudicio publico condemnatus est erit24.
22
V. supra § 2. 23 A quest’ultimo proposito, è istruttivo un escerto attribuito
all’oratore — e poeta — repubblicano C. Licinio Calvo (citato da Quint. 9.3.56 = fr. 25,
p. 497 Malcovati4 come esempio di una klimax ascendente): Non ergo magis pecuniarum repetundarum quam maiestatis, neque maiestatis magis quam Plautiae legis, neque
Plautiae legis magis quam ambitus, neque ambitus magis quam omnium legum iudicia
24
perierunt.
L’esclusione sancita come conseguenza (accessoria) della pena ha una
portata di corto raggio. Infatti, si è esclusi solo se si è stati condannati nel municipium,
colonia, praefectura, forum o conciliabulum al quale si appartiene (anche la condanna
subíta a Roma è impediente qualora abbia comportato il bando dall’Italia, se dunque
abbia una sorta di efficacia territoriale piú ampia). È una singolare guarentigia, che non
sembra ricorrere altrove, non ad esempio, a proposito dei processi privati infamanti
(salvo che in questo caso la competenza era tendenzialmente del pretore di Roma, invece che del foro locale). V. anche infra nt. 29.
[13]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
37
Un secondo esempio è costituito da una norma della Lex Iulia de ui.
In forza di questa legge, la condanna in un iudicium publicum determinava
l’incapacità a testimoniare in un processo basato sulla legge stessa (anche
in questo caso, come nel precedente, era fatto salvo il caso in cui fosse intervenuta la restitutio in integrum del condannato):
Call. 4 cogn., D. 22.5.3.5: Lege Iulia de ui cauetur, ne hac lege in
reum testimonium dicere liceret, qui … iudicio publico damnatus erit qui
eorum in integrum restitutus non erit25.
Colpito dalla cd. infamia pretoria — in particolare, escluso dalla facoltà di postulare in nome d’altri, salvo che pro certis personis26 — era poi
chi fosse stato riconosciuto colpevole di avere agito per calunnia o per collusione in un iudicium publicum 27:
Ulp. 6 ad ed.28, D. 3.2.1: Praetoris uerba dicunt: ‘Infamia notatur …
qui in iudicio publico calumniae praeuaricationisue causa quid fecisse iudicatus erit’.
Ovviamente, tutte queste norme lasciano aperto il problema di definire che cosa si intendesse per iudicium publicum, istituto del quale non
menzionano altro che il nome. Di sicuro, intorno al 45 a.C. (secondo la
datazione piú probabile della Tabula Heracleensis)29 essendo il populi iudicium ormai non piú praticato, iudicium publicum include sicuramente
(solo o anche) i processi criminali svolti ex lege dal pretore con la giuria30;
25
Cfr. Irn. 71. 26 L’elenco delle certae personae si legge in Ulp. 6 ad ed., D.
3.1.1.11, 3 pr. 27 Non compare, a livello della nostra documentazione giurisprudenziale sull’editto pretorio, il caso del condannato in quanto tale in un iudicium publicum
(caso che non è dunque incluso da O. Lenel, EP.3 [Leipzig 1927] 77 ss., fra i contenuti
del § 16 Qui nisi pro certis personis ne postulent, nemmeno fra quei contenuti aggiuntivi del catalogo «molto sforbiciato dai compilatori» che Lenel ricava proprio dalla lista
degli esclusi dal decurionato di Tab. Heracl., in cui peraltro il caso della condanna in
un iudicium publicum, come s’è visto, compare). Un testo come Macr. 2 iud. publ., D.
48.1.7: infamem non ex omni crimine sententia facit, sed ex eo, quod iudicii publici causam habuit, lascia sospettare la presenza di questo caso anche nella lista degli infami
pretorî, quand’anche l’affermazione di Macro si debba primariamente riferire (cosí,
per tutti, M. Kaser, RPR. I2 [München 1971] 274 nt. 46) all’esclusione dall’accusa nei
iudicia publica; v. anche Cic. Rab. perd. 16: misera est ignominia iudiciorum publicorum.
28
L’inscriptio attribuisce erroneamente il testo a Giuliano, l. 1: O. Lenel, Pal. II (Lipsiae 1889) 441 nt. 3. 29 Per tutti, v. Crawford, RS. I cit. 360 ss. 30 Ben piú arduo è determinare quali fossero i iudicia publica svolti in municipium, colonia, praefectura, forum o
conciliabulum. La Lex Coloniae Genetiuae, c. 102, regola un giudizio che, stando almeno alla terminologia (e per contro considerando l’assenza dei tratti essenziali di un
processo formulare), appare essere una quaestio/iudicium publicum, di competenza del
duoviro: IIiuir qui h(ac) l(ege) quaeret iud(icium) exercebit (l. 23). È a questo tipo di
processo che fa verosimilmente rinvio il catalogo della Tab. Heracl. (pur considerato,
ovviamente, il differente ambito geografico cui fanno riferimento le due leggi, l’una
italica e l’altra iberica). Tuttavia, non risulta dal testo conservato della Lex Coloniae
Genetiuae quale tipo d’illecito fosse perseguito in questa forma di iudicium publicum
38
DARIO MANTOVANI
[14]
lo stesso vale, a maggior ragione, per i testi piú tardi, specialmente quelli
posteriori alla Lex Iulia iudiciorum publicorum31.
Per verificare se la locuzione abbia sempre avuto quest’accezione,
occorre andare a ritroso.
La Lex Latina Tabulae Bantinae — che probabilmente regola un processo criminale nelle ultime decadi del II secolo a.C. — elenca una serie di
incapacità che colpiscono un soggetto non meglio identificato; fra l’altro,
la legge vieta ai magistrati di fare votare costui in senato o in un poplicum
iudicium (l. 2): in sena[tu seiu]e in poplico ioudicio ne sen[tentiam rogato].
È una locuzione evidentemente identica a quella usata nel catalogo degli
esclusi dal decurionato contenuto nella Tab. Heracl. (l’unica differenza è
nell’ordine aggettivo-sostantivo). Il problema resta quello del significato.
Che cosa intendeva il legislatore della Lex Latina Tabulae Bantinae con poplicum ioudicium? Di sicuro nella locuzione rientrava una quaestio, un
processo per giuria (uno dei quali era probabilmente disciplinato dalla
stessa Lex Latina Tabulae Bantinae). Se vi fosse ricompreso anche il populi
iudicium è, invece, dubbio, perché piú avanti, nella stessa legge, si dispone
in modo distinto che l’infame non possa votare in comizio e concilio (l. 5:
magistratus qu[e]iquomque comitia conciliumue habebit eum sufragium ferre nei sinito). Benché il contesto frammentario non consenta riscontri definitivi, la distinta previsione dei divieti fa insomma propendere per l’idea
che in precedenza con poplicum iudicium si intendesse specificamente solo
il processo per giuria.
locale e con quali pene. Proprio il nesso che si può stabilire fra il processo regolato
dalla legge di Urso e il catalogo degli esclusi dal decurionato stilato dalla Tab. Heracl.
— dove il iudicium publicum locale è affiancato a un iudicium publicum svolto a Roma
e con la pena dell’esilio — può fare pensare che si tratti di un processo con caratteristiche non troppo dissimili dal iudicium publicum che si svolgeva a Roma, benché appaia
evidente dal tenore della norma che la sentenza del tribunale locale non potesse infliggere l’allontanamento dall’Italia (sull’efficacia territoriale della sentenza, v. anche supra
nt. 23). Proprio quest’ultima circostanza, secondo B. Santalucia, Osservazioni sulla giustizia penale nei municipia, in Gli Statuti Municipali a c. di L. Capogrossi Colognesi, E.
Gabba (Pavia 2006) 560 s., impedirebbe di riconoscere nei iudicia publica locali giudizi
di corti locali fornite di giurisdizione capitale, poiché nulla avrebbe impedito al condannato di fissare la sua dimora in un municipio anche prossimo a quello in cui era
stato giudicato. L’inconveniente, sul piano fattuale, è innegabile. Va tuttavia evidenziato che l’efficacia territorialmente limitata delle sentenze è coerente, sul piano giuridico,
con la formale autonomia delle singole città. Forse uno spunto di soluzione può trovarsi nell’editto dei tribuni ricordato da Cic. II In Verr. 2.100, in forza del quale non
liceret Romae quemquam esse qui rei capitalis condemnatus esset. Bandi di questo genere, se adottati da ciascuna città, avrebbero impedito ai condannati anche di altri municipi di prendervi la residenza, producendo una sorta di riconoscimento dell’efficacia
delle sentenze capitali emesse in altri ordinamenti.
31
Sulla datazione della Lex Iulia de ui v. da ult. G. Cossa, Studi sulla repressione
del crimen vis tra tarda Repubblica e Principato. La legislazione giulia de vi publica et
privata (Siena 2007). Per l’editto del pretore — che Ulpiano riferisce nella versione
adrianea — si deve pensare a una redazione originaria almeno di I secolo a.C. V. anche
la norma della Lex Iulia de adulteriis riferita da Macer 1 publ., D. 48.5.25 pr.
[15]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
39
In quest’ordine di idee, si noti che la Lex Cornelia de sicariis et ueneficis conteneva una clausola sulle associazioni a delinquere finalizzate alla
condanna in un iudicium publicum (Cic. Cluent. 148): Qui eorum coiit coierit conuenit conuenerit quo quis iudicio publico condemnaretur 32. In questo caso è da tutti accettato che con iudicium publicum si intenda un processo per giuria33 ; è rilevante, inoltre, per quanto riguarda la data in cui
questa terminologia si affermò, che la norma sillana ricalcasse probabilmente una norma risalente a Gaio Gracco34.
Rimontando ancora nel tempo, la testimonianza piú antica di questo
genere di locuzioni s’incontra proprio nella Lex repetundarum graccana,
nella norma che permette di rifiutare un patronus scelto dal pretore se il
soggetto prescelto quaestionem ioudiciooue puplico condemnatu[s siet (l.
11; per la costituzione del testo, vedi sotto).
È interessante notare, innanzitutto, che — pur riferendosi al caso
speciale del patronus assegnato dal pretore — si tratta ancora di una norma che rientra perfettamente nel filone di quelle che, servendosi della locuzione iudicium publicum, definiscono un soggetto indegno di una carica
o funzione (nelle norme già esaminate, la condanna escludeva rispettivamente dal decurionato, dalla testimonianza e dal postulare pro aliis nisi pro
certis personis davanti al pretore, qui escludeva dal ruolo di patronus). Rispetto alle altre norme congeneri, tuttavia, in questa norma della Lex repetundarum graccana — che è anche la piú antica fra quelle riportate —
compare in aggiunta a iudicium publicum il termine quaestio. Questa cooccorrenza fa sorgere evidentemente il problema di stabilire quale fosse il
significato di ciascun termine.
A complicare la questione concorre un problema di trasmissione
testuale. La lezione quaestionem tràdita dalla Tabula Bembina dev’essere
corretta, perché non ci si attende un accusativo, bensí l’ablativo quaestione; errata è anche la duplicazione «oo» in ioudiciooue. Le emendazioni teoricamente possibili sono almeno tre (in ordine crescente di
probabilità):
.
a) quaestione{m} ioudicio{o}ue puplico condemnatu[s siet.
b) quaestione{m} ioudicio<q>ue puplico condemnatu[s siet.
c) quaestione{m}<ue> ioudicio<q>ue puplico condemnatu[s siet.
32
Sulla Lex Cornelia de sicariis, v. anche Marcian. 14 inst., D. 48.8.1 pr.-1. Per
un senatusconsultum che usa terminologia analoga, v. Cic. Cluent. 135. 33 V. Mommsen, Römisches Strafrecht cit. 187 nt. 1. 34 Fra le testimonianze che si riferiscono, almeno retrospettivamente, al II secolo a.C. — quantunque non vi sia la garanzia che ne
rispettino la terminologia — vale la pena di ricordare Cic. Brut. 127: hic (scil.: C. Galba), qui in conlegio sacerdotum esset, primus post Romam conditam iudicio publico est
condemnatus. C. Galba, figlio di Servio Sulpicio Galba, fu processato nel 109 per la
congiura con Giugurta, e difesosi da sé, fu condannato. Cicerone chiosa che fu il primo membro di un collegio sacerdotale (non si sa quale) a essere condannato iudicio
publico: trattandosi del processo ex lege Mamilia, sappiamo per certo che si trattava di
un processo per giuria (v. M.C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC
to 50 BC [Toronto-Buffalo-London 1990] 26 nr. 52).
40
DARIO MANTOVANI
[16]
Le emendazioni b) e c) pongono piú risolutamente l’accento sul nesso endiadico quaestio iudicioque publicum; l’emendazione a) lascia piú
aperta la strada a una distinzione quaestio uel iudicium publicum.
In realtà, quale che fosse la congiunzione effettivamente usata dal legislatore, pare difficile che avesse valore disgiuntivo, cioè che si possa intendere quaestio come denominazione del processo per giuria e iudicium
publicum come denominazione del processo comiziale. Ad escludere una
simile interpretazione mi pare sia decisivo il fatto che la giuntura quaestione condemnare non ricorre, a mia conoscenza, in alcun testo.
La stessa Lex repetundarum Tabulae Bembinae, altrove, per riferirsi a
colui che sia stato condannato in base al processo regolato dalla legge medesima usa l’espressione eo iudicio hace lege condemnatus (l. 76):
sei quis eorum quei ceiuis Romanus non erit ex hace lege alteri nomen [… ad praetor]em quoius ex hace lege quaestio erit, detolerit et is eo
iudicio hace lege condemnatus erit …
È poco plausibile che nella clausola della l. 11 la legge, per esprimere
un concetto analogo, usasse invece quaestio35 . Proprio la compresenza di
quaestio e iudicium36 nella clausola della l. 76 poco sopra riportata fa anzi
pensare che anche alla l. 11 le due espressioni si debbano intendere in
modo congiuntivo e non disgiuntivo, come denominazione complessiva
del processo per giuria — designato con riferimento alle sue due componenti, la quaestio del pretore e il iudicium dei iudices — e non come denominazione distinta rispettivamente del processo per giuria e del processo
comiziale37.
Verso la conferma di quest’interpretazione mi pare puntino anche alcuni testi successivi, nei quali il processo criminale per giuria è designato
con la duplice denominazione. Sono testi che adottano un registro elevato;
il parlante sembra ricalcare intenzionalmente i termini legislativi, per conferire maggiore solennità alla propria orazione. Ciò è particolarmente evidente in un brano dell’esordio della pro Archia, dove s’insiste proprio sulla contrapposizione fra la solennità del processo — evocata appunto dall’uso della terminologia ufficiale — e il tono piú libero che sarà poi tenuto
nell’arringa, consono piuttosto alla personalità artistica dell’imputato —
sommo poeta e uomo di cultura — che al forensis sermo (Arch. 3):
35
Per inquadrare meglio il confronto fra la l. 11 e la l. 76 della Lex rep. Tab.
Bant. conviene specificare — benché sia ovvio — che, essendo l’esclusione sancita dalla l. 11 determinata dalla condanna anche in processi criminali diversi da quello regolato dalla legge stessa, in questa clausola non era sufficiente il riferimento solo a iudicium, come accade nella l. 76 e come s’è visto essere la regola nella Lex repetundarum
graccana là dove essa si riferiva autoreferenzialmente al procedimento da essa disciplinato (v. supra nt. 5). 36 Cfr. un’analoga compresenza in Liu. Per. 107: quaestione decreta de morte P. Clodi Milo iudicio damnatus in exilium actus est. 37 Lo stesso vale per
Firm. Mat. Math. 8.15.3: … uindices scelerum, quibus publica iudicia quaestionesque
credantur (v. infra).
[17]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
41
Sed ne cui vestrum mirum esse videatur me in quaestione legitima et
in iudicio publico, cum res agatur apud praetorem populi Romani, lectissimum virum, et apud severissimos iudices, tanto conventu hominum ac
frequentia hoc uti genere dicendi, quod non modo a consuetudine iudiciorum, verum etiam a forensi sermone abhorreat, quaeso a vobis, ut in
hac causa mihi detis hanc veniam accommodatam huic reo, vobis quem ad
modum spero non molestam, ut me pro summo poeta atque eruditissimo
homine dicentem hoc concursu hominum litteratissimorum, hac vestra
humanitate, hoc denique praetore exercente iudicium patiamini de studiis
humanitatis ac litterarum paulo loqui liberius.
Rivolgendosi a pretore e giudici nei termini piú officiosi, proprio a
scusare la successiva modifica di stile, Cicerone usa per descrivere il processo una dizione squisitamente legislativa, che accosta quaestio legitima e
iudicium publicum38.
Un altro esempio si ha in
Cic. Cluent. 2: pars … quae propria est iudicii vestri et legitimae veneficii quaestionis, per mihi brevis et non magnae in dicendo contentionis
fore videtur39.
38
Qui si ripropone la possibile oscillazione fra il valore di iudicium come riferimento alla funzione dei iudices (contrapposta alla quaestio del pretore) e come termine
complessivo dell’intero procedimento (su cui v. supra nt. 5 e nt. 13). Mentre nella prima parte dell’apostrofe il richiamo simmetrico a praetor e iudices e a quaestio e iudicium sembra indicare che quest’ultimo si riferisce eminentemente ai giudici, nel seguito il pretore è designato dall’inciso hoc praetore exercente iudicium e l’espressione viene ripresa piú avanti nella stessa orazione (Cic. Arch. 32): quae …et de hominis ingenio
et communiter de ipsius studio locutus sum, ea, iudices, a uobis spero esse in bonam partem accepta, ab eo, qui iudicium exercet, certe scio. La designazione del compito del
pretore come exercere iudicium fa riferimento alla sua funzione di direzione del dibattimento (dunque, si riferisce al processo nel suo complesso, ma indubbiamente con un
accento particolare posto sui compiti direttivi del pretore nei confronti dei iudices) ed
è abbastanza frequente e sentita come tecnica. Si trova già nella Lex rep. Tab. Bemb., l.
71: quei ex hace lege iudicium exercebit (cfr. anche l. 46, dove è integrato con alta probabilità); v. poi Varr. l.L. 5.81: qui quaestionum iudicia exercent quaes<i>tores dicti;
Liu. 39.18.2: eadem solitudo, quia Romae non respondebant nec inueniebantur quorum
nomina delata erant, coegit consules circa fora proficisci ibique quaerere et iudicia exercere (dove sono accostate, e perciò implicitamente distinte quanto ai contenuti, le funzioni di quaerere e iudicia exercere); Asc. p. 17.17 K. S.: M. Catonem autem, qui id iudicium, ut diximus, exercebat, metuebat; ibid. p. 25.23; ibid. p. 54.17: iudicium id exercuit
Q. Gallius praetor; cfr. Cic. II In Verr. 1.155 (riferito a un processo per multa verosimilmente recuperatorio). Occorrenze con omissione del riferimento al pretore Cic. Cael.
51; Ad Q. fr. 2.16.3; Brut. 304: exercebatur una lege iudicium Varia, ceteris propter bellum intermissis; Asc. p. 65.13 K.S.: Bello Italico … nanctus iustitii occasionem senatus
decreuit, ne iudicia, dum tumultus Italicus esset, exercerentur. 39 Altre fonti in cui compaiono espressioni che alludono sia a quaestio sia a iudicium: Cic. Sull. 39: sed ego in
iudiciis et in quaestionibus non hoc quaerendum arbitror, num purgetur aliqui, sed num
arguatur; ibid. 89: ecce tibi consul, praetor, tribunus plebis noua noui generis edicta proponunt, ne reus adsit, ne citetur, ne quaeratur, ne mentionem omnino cuiquam iudicum
42
DARIO MANTOVANI
[18]
La terminologia sopravvive ancora nel IV secolo, nella Mathesis di
Firmico Materno, non a caso un avvocato dotato di cultura giuridica, che
sfoggia anche quando compila i suoi oroscopi, come quello per i nati sotto
il segno del Capricorno con l’ascendente nella Lyra, che saranno uomini di
giustizia (aequi rectique cupidi) e ai quali saranno affidati i processi criminali, definiti appunto con il binomio publica iudicia quaestionesque, che ricalca quello impiegato dalla Lex repetundarum Tabulae Bembinae (l. 11):
Math. 8.15.3: Quicumque hoc sidere oriente nati fuerint, erunt aequi
rectique cupidi, ad omne apti aequitatis officium, vindices scelerum, quibus publica iudicia quaestionesque credantur.
6. La denominazione romana del processo criminale per giuria: a2) «iudicium publicum» nei testi letterari. — La rassegna dei testi normativi e i
riscontri tratti dalle fonti letterarie rendono altamente probabile che con
la denominazione quaestione<ue> ioudicio<q>ue puplico la Lex rep. Tab.
Bemb. l. 11 si riferisca unitariamente ai processi per giuria.
L’insieme dei testi normativi esaminati (Lex repetundarum graccana,
Lex Latina Tabulae Bantinae, Lex Cornelia de sicariis et ueneficis, Tabula
Heracleensis, editto del pretore) mostra che iudicium publicum si riferisce
senz’altro al processo criminale per giuria; va detto, tuttavia, che, a rigore
di dimostrazione, non è escluso che la locuzione potesse riferirsi anche al
processo comiziale, cioè al populi iudicium. In questo senso complessivo,
iudicium publicum si contrapporrebbe a iudicium priuatum40.
L’ipotesi, benché poco probabile, si sottrae, a mio parere, a una confutazione definitiva. C’è da dire, infatti, che l’uso esteso di iudicium publicum, inclusivo del populi iudicium, trova un riscontro nelle rubriche di
due scritti antologici, i Dicta et facta di Valerio Massimo e i Coniectanea di
Ateio Capitone, poste in testa a capitoli nei quali si parla (anche) di populi
iudicia41 . Viene, tuttavia, da chiedersi se, a fronte di testi normativi che
aut iudiciorum facere liceat; Liu. 39.18.2: eadem solitudo, quia Romae non respondebant
nec inueniebantur quorum nomina delata erant, coegit consules circa fora proficisci ibique quaerere et iudicia exercere.
40
La contrapposizione generale è già invalsa al tempo di Cicerone; v. ad es.
Dom. 108: qui aliqua se contagione praedae, societatis, emptionis contaminauerunt, nullius neque priuati neque publici iudici poenam effugere potuerunt. 41 Vanno nel senso
di attestare un uso generale di iudicium publicum (inclusivo del processo per giuria e
del processo comiziale) la rubrica De iudiciis publicis di Val. Max. 8.1 nonché la rubrica omonima dei Coniectanea di Ateio Capitone (Gell. 4.14.1; 10.6.4). Non è possibile
tuttavia seguire A.W. Lintott, Provocatio. From the struggle of the orders to the principate, in ANRW. I/2 (Berlin-New York 1972) 246 ss. (cfr. Id., Provocatio e Iudicium
Populi dopo Kunkel, in Il diritto criminale romano fra norma e persuasione cit. 15 ss.),
il quale sostiene, solo sulla base della rubrica dei Coniectanea di Capitone, che «fino
al secondo secolo a.C. i processi comiziali erano i soli processi chiamati iudicia publica»; tutt’al piú, sulla base di queste testimonianze confrontate con le altre da cui risulta che iudicium publicum si riferiva ai processi per giuria (che l’a. non sembra prendere in considerazione), si potrebbe sostenere che la locuzione includeva anche i processi comiziali.
[19]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
43
sembrano orientati a utilizzare iudicium publicum per designare il processo per giuria, rubriche di questo genere — che dichiaratamente mirano a
raggruppare contenuti eterogenei, secondo lo stile collettaneo delle due
opere — possano essere assunte come documenti di un linguaggio tecnico
(o anche solo comune, vista la loro sporadicità).
La situazione apparentemente ancipite (cioè il fatto che, in astratto,
non si possa escludere che la locuzione includesse anche il processo comiziale) non toglie — il punto è cruciale — che nell’uso linguistico tardorepubblicano (e anche imperiale) il processo criminale per giuria — quello oggi in genere designato come quaestio — fosse correntemente designato come iudicium publicum.
A fronte dell’estensione (almeno potenzialmente) polisemica di iudicium publicum, infatti, bisogna pur tener conto che, nel linguaggio corrente, esisteva un termine specifico per designare inequivocabilmente il processo criminale, ossia populi iudicium, al quale si ricorreva in modo sistematico42. Del resto, è persino ovvio notare che publicum equivale a populi e che
dunque — sotto un certo profilo — le due espressioni erano sinonime. È
tuttavia altrettanto chiaro che, sotto un altro profilo, esse si prestavano a
una precisa distinzione. Populi iudicium allude, con il genitivo soggettivo,
alla titolarità del iudicium in capo al populus che l’emana. Iudicium publicum allude, invece, alle caratteristiche del processo, cioè al fatto di tutelare
un interesse pubblico o di essere basato su una lex publica o, ancora, di
essere aperto all’iniziativa del quiuis de populo: e almeno in queste due ultime accezioni, iudicium publicum si identifica con il processo per giuria43.
Queste considerazioni giuridiche trovano preciso riscontro nell’uso
linguistico. È un fatto che locuzione iudicium publicum nella quasi totalità
delle occorrenze nelle nostre fonti nelle quali si possa individuare a quale
specifico processo si riferisca, riguarda un processo per giuria (e che, nei
restanti casi, è verosimile che a esso pure si riferisca, essendo il termine
42
Cosí già Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht III (Leipzig 1887) 351 nt. 2;
nonostante Lintott, Provocatio. From the struggle of the orders to the principate cit. 246
ss., l’espressione populi iudicium a indicare il processo comiziale era sentita come tecnica, anche se non è attestata in testi normativi (v. tuttavia la formula ricorrente in CIL.
IX 4632, fr. Tudertinum: populi iudicio petere e CIL. V 5803 = I 603, fr. Mediolanense:
populi ioudicio [). Si vedano, fra i tanti esempi, Cic. Dom. 45: … cum tam moderata sint
iudicia populi a maioribus constituta …; Cic. Scaur. fr. 2: subit etiam populi iudicium inquirente Cn. Domitio tribuno plebis; Cic. Leg. 3.10: creatio magistratuum, iudicia populi, iussa uetita quom suffragio cosciscentur, optumatibus nota, plebi libera sunto; ibid.,
3.35: secuta biennio post Cassia est de populi iudiciis; Liu. 29.37.8: M. Liuium, quia populi iudicio esset damnatus, equum uendere iussit; Liu. 33.42.10: aediles plebis … multos pecuarios ad populi iudicium adduxerunt; tres ex his condemnati sunt. Quest’accezione tecnica di populi iudicium convive con un’altra, che indica semplicemente il consenso e la decisione del popolo in una qualsiasi materia (es. Cic. Leg. Agr. 2. 7: … uniuersi
populi Romani iudicio consulem … factum): cfr. ThLL. VII.2 609, s.v. «iudicium» (I B
1a). 43 Sulla complessa questione dei criteri che i giuristi pongono alla base della categoria iudicium publicum, v. F. Botta, Interesse e legittimazione all’accusa nei publica
iudicia (Cagliari 1993) 37 ss., e S. Pietrini, Sull’iniziativa del processo criminale romano:
4.-5. secolo (Milano 1996) 13 ss.
44
DARIO MANTOVANI
[20]
corrente d’età ciceroniana, quando il processo per giuria era ormai la forma pressoché unica di iudicium publicum)44.
Cosí, per fare solo un paio di esempi, quando Cicerone — per elogiare Considio che si era espresso con un prudente Non Liquet nel famigerato iudicium Iunianum del 74 a carico di Oppianico — dipinge la figura
del giurato ideale, equanime, esperto di processi e consapevole della dignitas che deve caratterizzare in particolare i processi criminali, usa l’espressione iudicia publica:
Cluent. 107: Quis Q. Considio constantior, quis iudiciorum atque
eius dignitatis quae in iudiciis publicis uersari debet peritior, quis uirtute
consilio auctoritate praestantior?
e la stessa espressione torna a indicare i processi per giuria nella prosecuzione dell’elogio dei giudici dei tempi d’oro che si legge poco oltre nel
medesimo contesto:
ibid.: Qualis uir M. Iuuentius Pedo fuit ex uetere illa iudicum disciplina, qualis L. Caulius Mergus, M. Basilus, C. Caudinus! Qui omnes in
iudiciis publicis iam tum florente re publica floruerunt.
Sempre Cicerone, nel famoso initium delle Verrine spesso citato dai
grammatici, cioè nell’esordio della Diuinatio, quando vuole spiegare perché, dopo tanti processi in cui ha svolto il ruolo di difensore, per la prima
volta, contro Verre, voglia assumere la parte dell’accusatore, per definire i
processi criminali usa il termine causae iudiciaque publica:
Cic. Diu. 1: Si quis uestrum, iudices, aut eorum qui adsunt, forte miratur me, qui tot annos in causis iudiciisque publicis ita sim uersatus ut
defenderim multos, laeserim neminem, subito nunc mutata uoluntate ad
accusandum descendere, is si mei consilii causam rationemque cognouerit, una et id quod facio probabit, et in hac causa profecto neminem praeponendum mihi esse actorem putabit.
Iudicium publicum — ammesso e non concesso che per un certo tempo sia stato applicabile anche al populi iudicium — si afferma a tal punto
come nome specifico del processo per giuria che, nel 18 a.C., la Lex Iulia
iudiciorum publicorum utilizza questo titolo, benché appunto si riferisca
— per quel che ne sappiamo — solo a questo tipo di processo.
Nel 19 d.C., anche la legge per gli onori a Druso Cesare non ha esitazioni a fare coincidere iudicium publicum e processo per giuria:
44
Fra le eccezioni (oltre a quelle indicate supra nt. 41), segnalo Liu. 2.41.12, che,
nel riferirsi alla duplice tradizione relativa alla condanna di Spurio Cassio, commenta:
ceterum, siue illud domesticum siue publicum fuit iudicium, damnatur Ser. Cornelio Q.
Fabio consulibus, dove publicum iudicium si riferisce al populi iudicium che lo storico
aveva menzionato in precedenza. Oggetto di varia interpretazione Cic. Nat. Deor. 3.74:
iudicium publicum rei priuatae lege Laetoria.
[21]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
45
Lex Valeria Aurelia (Tab. Heb.) l. 8: … senatores et equites omnium
decuriarum quae iudicior(um) publicor(um) caussa constitutae sunt erun[t.
È perciò assodato che quando Macro intitola De publicis iudiciis il
manuale in due libri scritto sotto Alessandro Severo, e afferma che sono
publica i iudicia quae ex legibus iudiciorum publicorum ueniunt (D. 48.1.1),
usa una locuzione da tempo stabilizzata; altrettanto vale per la diuisio proposta da Paolo (15 ad ed., D. 48.1.2): publicorum iudiciorum quaedam capitalia sunt, quaedam non capitalia45.
7. La denominazione romana del processo criminale per giuria: b) locuzioni che associano «quaestio» e «iudicium». — Se iudicium publicum era il
nome corrente che i Romani davano ai processi criminali per giuria, non
era tuttavia l’unico.
Già si è visto, ad esempio, che in taluni casi si usavano formule che
riecheggiavano la distinzione legislativa fra quaestio e iudicium/iudicatio
(oppure — variante lessicale che ai nostri fini non richiede un ulteriore
approfondimento — la locuzione endiadica quaestio publicumque iudicium di Lex rep. Tab. Bemb. l. 11)46. La possibilità di attingere a questi due
termini consentiva ad esempio costruzioni come questa di Cic. II In Verr.
3.83: si eripuerit, non intellegis haec quae iam dudum loquor, ad aliam quaestionem atque ad peculatus iudicium pertinere? oppure come questa di Cic.
Sull. 39: sed ego in iudiciis et in quaestionibus non hoc quaerendum arbitror, num purgetur aliqui, sed num arguatur.
Analogamente, a proposito del progetto di Marco Livio Druso, di
sottoporre al iudicium de pecuniis repetundis anche i iudices cavalieri,
l’oratore s’esprime cosí in Cluent. 153:
O uiros fortes, equites Romanos, qui … M. Druso tribuno plebis restiterunt, cum ille nihil aliud ageret … nisi ut ii qui rem iudicassent huiusce modi quaestionibus in iudicium uocarentur47.
45
V. inoltre, ad es., Papin. 1 adult., D. 22.5.13: quaesitum scio, an in publicis iudiciis calumniae damnati testimonium iudicio publico perhibere possunt; Ulp. 1 l. Iul.
Pap., D. 23.2.43.10: senatus censuit non conueniens esse ulli senatori uxorem ducere aut
retinere damnatam publico iudicio, quo iudicio cuilibet ex populo experiri licet, nisi si cui
lege aliqua accusandi publico iudicio non est potestas; ibid., fr. 43.11; Paul. 2 l. Iul. Pap.,
D. 23.2.47; Paul. 13 ad ed., D. 4.8.32.6: Iulianus indistincte scribit: si per errorem de
famoso delicto ad arbitrum itum est, uel de ea re, de qua publicum iudicium sit constitutum, ueluti de adulteriis sicariis et similibus, uetare debet praetor sententiam dicere nec
dare dictae exsecutionem; Paul. 17 ad ed., D. 42.1.38 pr.: inter pares numero iudices si
dissonae sententiae proferantur, in liberalibus quidem causis … pro libertate statutum
optinet, in aliis autem causis pro reo. Quod et in iudiciis publicis optinere oportet; Macer
1 iud. publ., D. 47.15.3.3: si ideo quis accusetur, quod dicatur crimen iudicii publici destituisse, iudicium publicum non est, quia neque lege aliqua de hac re cautum est, neque per
senatus consultum, quo poena quinque auri librarum in desistentem statuitur, publica ac46
cusatio inducta est; ibid., D. 47.13.2.
V. supra § 5. 47 Cfr. Cic. Balb. 48: cum …
acerruma de civitate quaestio Licinia et Mucia lege venisset, numquis eorum qui de foederatis civitatibus esset civitate donatus in iudicium est vocatus?
46
DARIO MANTOVANI
[22]
A proposito di questi passi, vale la pena di ribadire che in nessun
modo si potrebbe attribuire a in quaestionibus (Sull. 39) e a huiusce modi
quaestionibus (Cluent. 153) il significato di «corti permanenti», il che rende palese che sarebbe una forzatura attribuire questo valore a alia quaestio
in II in Verr. 3.83: si tratta di testi in cui quaestio si riferisce come sempre
al processo, non all’organo48 .
Un’altra variante di questo genere d’espressioni, che combinano
quaestio e iudicium, è quaestionis iudicium in Varr. L.l. 5.81:
Quaestores a qu<a>erendo, qui conquirerent publicas pecunias et
maleficia, quae triumuiri capitales nunc conquirunt; ab his postea qui
quaestionum iudicia exercent quaes<i>tores dicti49 .
8. La denominazione romana del processo criminale per giuria: c) «quaestio publica/legitima». — Se queste denominazioni sfruttano il binomio
quaestio e iudicium, occorre ora verificare se fosse in uso riferisi al processo
per giuria adoperando solo quaestio, come si suole fare oggi. Il termine era
sí usato, ma, quando si voleva che fosse inequivocabile, lo si qualificava con
un aggettivo. Vediamo quale fosse l’aggettivazione preferita.
Ovviamente, tutti sappiamo che la locuzione con la quale i Romani
non chiamavano i nostri processi era quaestiones perpetuae, che è un hapax ciceroniano (Brut. 106):
Hic (scil.: C. Carbo) optimus illis temporibus est patronus habitus
eoque forum tenente plura fieri iudicia coeperunt. Nam et quaestiones
perpetuae hoc adulescente constitutae sunt, quae antea nullae fuerunt (L.
enim Piso tribunus plebis legem primus de pecuniis repetundis Censorino
et Manilio consulibus tulit) et iudicia populi, quibus aderat Carbo, iam
magis patronum desiderabant tabella data (quam legem L. Cassius Lepido
et Mancino consulibus tulit).
Questa giuntura singolare ha forse alla sua base l’espressione perpetua quaestio, che è nozione tecnica del gergo filosofico e retorico, dove indica una questione di carattere generale, sganciata da circostanze concrete
di persone o fatti e che, come tale, può continuamente ripresentarsi. Si
veda, in questo senso, Cicerone nell’Orator, che suggerisce di riformulare
la questione controversa — il krinomenon — in termini generali, che si
possono ripresentare, appunto come una perpetua quaestio, cosí che il discorso possa vertere sulla questione nella sua generalità:
48
Lo stesso vale per Cic. Sest. 85: in forum corporibus ciuium Romanorum constratum caede nocturna; non modo nulla noua quaestio, sed etiam uetera iudicia sublata.
49
Su iudicium exercere, v. supra nt. 38. In rapporto inverso rispetto a quaestionum iudicia i due termini appaiono in Pap. 1 resp., D. 50.2.63: qui iudicii publici quaestionem
citra ueniam abolitionis deseruerunt, decurionum honore decorari non possunt, cum ex
Turpilliano senatus consulto notentur (ma qui il significato è forse un po’ diverso, quaestio sembra designare l’inquisitio o accusatio, insomma il ruolo dell’accusatore) e in
Diocl. Maxim. C. 9.46.5: in publicorum dumtaxat iudiciorum quaestionibus.
[23]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
47
Cic. Orat. 126: quicquid est enim illud in quo quasi certamen est
controuersiae, quod Graece krinomenon dicitur, id ita dici placet ut traducatur ad perpetuam quaestionem atque uti de uniuerso genere dicatur.
L’espressione compare anche in
Gell. 5.15.1: uetus atque perpetua quaestio inter nobilissimos philosophorum agitata est, corpusne sit uox an incorporeum50.
Cicerone, quando definí quaestiones perpetuae i processi de pecuniis
repetundis, alludeva perciò forse al fatto che essi si ripetevano continuamente nel tempo (essendo il malgoverno delle province un fenomeno endemico) e davano luogo a lunghi dibattimenti, tant’è che proprio ad essi
(e all’introduzione del voto segreto nei giudizi davanti al popolo) Cicerone
legava il fiorire della oratoria forense a Roma51.
Quale che sia stato lo spunto di questa creazione ciceroniana, resta
che si tratta di un’espressione non tecnica e singolare, che deve la sua fortuna al fatto d’essere servita alla storiografia moderna per dare un nome a
una presunta fase del processo criminale, quella dei giudizi affidati su base
annua, come contrapposta (concettualmente e in parte anche cronologicamente) alla fase dei processi affidati in via eccezionale52. D’altra parte,
proprio l’aggettivo perpetua ha costituito uno degli spunti principali per
l’ipostatizzazione del termine quaestio, che da processo è diventato «tribunale», anzi «tribunale permanente». Il che, a ben guardare, dipende da un
circolo vizioso: perché solo intendendo — nel passo del Brutus — quaestiones come «tribunali» si può poi pensare che perpetuae significhi «permanenti», mentre è chiaro dal testo che quaestiones vuol dire iudicia (plura
fieri iudicia coeperunt). È sufficiente questa riflessione per dare la misura
della distanza semantica che s’è introdotta fra il lessico latino e le traduzioni moderne.
Se quaestio perpetua dev’essere lasciata al suo destino di singolarità,
sono altri gli aggettivi con i quali quaestio forma giunture usate con una
certa frequenza per significare il processo per giuria.
La piú diffusa fra queste giunture è publica quaestio53.
Compare già in Rhet. Her. 1.22, in tema di translatio, cioè lo status
causae (classificato dal retore fra le constitutiones legitimae) che consiste
nell’eccezione declinatoria (ad esempio, per difetto di legittimazione attiva); in questo contesto, il retore l’impiega in significativa e pressoché tecnica contrapposizione con actio priuata:
50
Si veda anche Gell. 20.6.2, citato in esergo a queste pagine. 51 V. in questo
senso D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla quaestio unilaterale alla quaestio bilaterale (Padova 1989) 205 nt. 7. 52 Ma già Mommsen, Römisches
Strafrecht cit. 196 nt. 1, che pure contribuí decisamente a farla affermare, definiva la
denominazione come «inadatta». 53 Per Mommsen, Römisches Strafrecht cit. 216 nt.
2, sarebbe quasi una tautologia, perché la nozione dell’intervento del magistrato, a suo
avviso, è già in ogni tempo contenuta nella parola quaestio, e non c’è quaestio senza
magistrato. Sulla costruzione mommseniana, v. anche infra § 11.
48
DARIO MANTOVANI
[24]
Haec partitio legitimae constitutionis his de causis raro uenit in iudicium, quod in priuata actione praetoriae exceptiones sunt et causa cadit
qui egit, nisi habuit actionem, et in publicis quaestionibus cauetur legibus,
ut ante, si reo commodum sit, iudicium de accusatore fiat, utrum illi
<li>ceat accusare necne.
Lo stesso sintagma ritorna in Cic. Caec. 29, ancora a proposito del
iudicium Iunianum, ma in questo caso — a differenza di quanto s’è visto
accadere in Cluent. 107 — l’intento di Cicerone è di denigrare un giudice,
Fidiculanio Falcula, che era subentrato nella giuria a processo iniziato e
aveva emesso voto di condanna, nonostante non avesse assistito alle
udienze e senza avvalersi della possibilità di ripetere il dibattimento attraverso l’ampliatio:
In eum (scil.: Fidiculanium Falculam) quid dicam nisi id quod negare non possit, uenisse in consilium publicae quaestionis, cum eius consili
iudex non esset, et in eo consilio, cum causam non audisset et potestas esset ampliandi, dixisse sibi liquere; cum de incognita re iudicare uoluisset,
maluisse condemnare quam absoluere?
Ancora una volta, la lettura del testo ciceroniano nel suo insieme fa
intendere che publica quaestio è il «processo» criminale, e non già una
«corte»: la funzione di esprimere l’organo giudicante è semmai svolta nel
testo da consilium.
La stessa valenza di controversia, giudizio, è evidente in Cael. 30,
dove publica quaestio è contrapposta, su una scala di importanza, a iurgium: omnia sunt alia non crimina, sed maledicta, iurgi petulantis magis
quam publicae quaestionis.
Omettendo altre testimonianze54, vale la pena di sottolineare che
quaestio publica è la scelta lessicale compiuta anche da Pomponio,
l. s. ench., D. 1.2.2.32: Cornelius Sulla quaestiones publicas constituit, ueluti de falso, de parricidio, de sicariis, et praetores quattuor adiecit.
54
L’espressione sembra particolarmente cara a Valerio Massimo. V. 3.7.7: … in
quaestionem publicam deductus; 4.2.7: publica quaestione prostrato …; 6.3.8: … quae …
uiros suos ueneno necauerant, propinquorum decreto strangulatae sunt: non enim putauerunt seuerissimi uiri in tam euidenti scelere longum publicae quaestionis tempus exspectandum; 8.5.2: M. etiam Aemilius Scaurus … C. Norbanum maiestatis crimine publicae quaestioni subiectum ex professo opprimere conatus est. La locuzione è conosciuta
anche dai giuristi: v. ad es. Iav. 13 ex Cass., D. 43.5.5 (de tabulis proferendis interdictum
competere non oportet, si hereditatis controuersia ex his pendet aut si ad publicam quaestionem pertinet: itaque in aede sacra interim deponendae sunt aut apud uirum idoneum). Publica quaestio è usata scambievolmente con publicum iudicium da Paul. 55 ad
ed., D. 47.10.6: quod senatus consultum necessarium est, cum nomen adiectum non est
eius, in quem factum est: tunc ei, quia difficilis probatio est, uoluit senatus publica quaestione rem uindicari. Ceterum si nomen adiectum sit, et iure communi iniuriarum agi poterit: nec enim prohibendus est priuato agere iudicio, quod publico iudicio praeiudicatur,
quia ad priuatam causam pertinet. Plane si actum sit publico iudicio, denegandum est
priuatum: similiter ex diuerso.
[25]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
49
Può aiutare a comprendere le ragioni della sua scelta il fatto che il
passaggio s’iscrive nel resoconto che Pomponio fa del progressivo aumento nel numero dei pretori, da uno che era inizialmente fino alla situazione
in cui decem et octo praetores in ciuitate ius dicunt. La circostanza può essere rilevante, perché s’è già visto che, tecnicamente, la Lex repetundarum
graccana stabiliva una connessione fra praetor e quaestio, dunque quando
si parla di pretori, come fa qui Pomponio, sembra comprensibile la preferenza per quaestiones publicae rispetto a iudicium publicum. Per un altro
verso, è di nuovo chiaro che Pomponio non dice che Silla istituí delle
«corti permanenti», bensí che costituí nuovi processi (i cui organi erano
appunto i pretori).
Altro aggettivo che accompagna quaestio è legitima — derivato evidentemente dalla circostanza che a fondamento delle quaestiones stavano
leges — ma il sintagma è molto piú raro rispetto a publica quaestio e, almeno in Cicerone, sembra usato in contesti in cui si ricorda anche il iudicium55. Si tratta di due testimonianze già passate in rassegna, ossia l’attacco abbastanza solenne di Cic. Arch. 3 (… in quaestione legitima et in iudicio publico, cum res agatur apud praetorem populi Romani, lectissimum uirum, et apud seuerissimos iudices …) e il brano anch’esso proemiale di
Cluent. 2 (altera pars et ea quae propria est iudicii uestri et legitimae ueneficii quaestionis, per mihi breuis et non magnae in dicendo contentionis fore
uidetur …).
9. La denominazione romana del processo criminale per giuria: d)
«quaestio». — Publica quaestio e (con frequenza assai inferiore) quaestio
legitima sono modi di designare con chiarezza il processo per giuria, alternativi a iudicium publicum (o alle locuzioni in cui quaestio e iudicium sono
variamente associate).
Diversamente stanno le cose con la parola quaestio usata senza aggettivazione, che poteva fare sorgere problemi di ambiguità per polisemia.
Quaestio, in latino, era termine di alta frequenza, che significava «ricerca»56 . Era anche termine tecnico della retorica, dove designava la controversia che nasce dalla contrapposizione delle cause, secondo la definizione di Cic. Inu. 1.18:
Quaestio est ea, quae ex conflictione causarum gignitur controuersia,
hoc modo: «Non iure fecisti»; «Iure feci».
Nel lessico filosofico, quaestio era l’equivalente di zétema, próblema,
la ricerca di una conoscenza il cui reperimento ne costituisce la meta, secondo la definizione che si deve ancora una volta a Cicerone,
55
Si trova anche il nesso legitimum iudicium, inteso come processo criminale
sottoposto alla legge (Cic. Part. Or. 43): quae motu animi et perturbatione facta sine ratione sunt, ea defensiones contra crimen in legitimis iudiciis non habent, in liberis disceptationibus habere possunt. 56 V. OLD. (Oxford 1982, repr. 1996) 1534, s.v. «quaestio»,
nr. 1) «The act of searching». Sulla semantica di quaerere/quaestio, v. piú ampiamente
infra § 11.
50
DARIO MANTOVANI
[26]
Acad. Prior. 26: Quaestio … est adpetitio cognitionis quaestionisque
finis inuentio.
È a questa linea57 che appartiene il ben noto uso dei giuristi, di definire quaestio un punto in discussione, come fa ad esempio Giuliano, in Paul.
9 ad ed., D. 3.5.12 (dove si usa anche nello stesso senso quaesitum est):
Debitor meus, qui mihi quinquaginta debebat, decessit: huius hereditatis curationem suscepi et impendi decem; deinde redacta ex uenditione rei hereditariae centum in arca reposui; haec sine culpa mea perierunt.
Quaesitum est, an ab herede, qui quandoque extitisset, uel creditam pecuniam [quinquaginta]58 petere possim uel decem quae impendi. Iulianus
scribit in eo uerti quaestionem, ut animaduertamus, an iustam causam habuerim seponendorum centum …
Le possibili interferenze di significato erano ancora piú concrete fuori dal lessico intellettuale, poiché com’è noto quaestio poteva significare
l’interrogatorio giudiziale e, di preferenza, l’interrogatorio sotto tortura59 .
Fra le tante testimonianze che attestano la polarizzazione di quaestio
nell’accezione di interrogatorio sotto tortura (in particolare, di schiavi) è
sufficiente — seppur violando i termini cronologici della nostra indagine
— ricorrere alla definizione offerta da Ulpiano a commento dell’editto del
pretore che puniva chi de eo (scil.: de seruo alieno) iniussu domini quaestionem habuisse dicetur:
Ulp. [5]7 ad ed., D. 47.10.15.41: «Quaestionem» intellegere debemus tormenta et corporis dolorem ad eruendam ueritatem. Nuda ergo interrogatio uel leuis territio non pertinet ad hoc edictum. Quaestionis uerbo etiam ea, quam malam mansionem dicunt, continebitur. Cum igitur
per uim et tormenta habita quaestio est, tunc quaestio intellegitur.
Quest’accezione era, del resto, antica, come mostrano questi versi in
cui Plauto parla di schiavi offerti all’interrogatorio sotto tortura:
Amph. 1017-18: TR. Quid ait? TH. Seruos pollicitust dare / suos mihi
omnis quaestioni60.
La molteplicità delle accezioni (che ruotavano tutte intorno al valore
di ricerca, domanda, inchiesta) e in particolare la vicinanza con un termine che, da antico, significava la tortura giudiziaria, non rendevano perciò
il nudo termine quaestio il piú felice per indicare senza equivoci il proces57
V. OLD. cit. 1534, s.v. «quaestio», nr. 5) «A (scientific or sim.) investigation,
speculation, research». 58 Forse da espungere in quanto glossa esplicativa. 59 V. OLD.
cit. 1534, s.v. «quaestio», nr. 2) «Examination (of witnesses etc., often, as in the case of
slaves, accompanied by torture), interrogation». 60 V. anche Plaut. Most. 1091-1096.
[27]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
51
so per giuria61. Si spiega cosí il ricorso a una locuzione del tutto diversa,
come iudicium publicum oppure l’impiego in funzione disambiguante di
aggettivi qualificativi (specialmente publica quaestio).
Queste cautele non implicano, tuttavia, che non si facesse mai ricorso a quaestio62: il termine si poteva usare anche isolatamente — e lo si usava anzi spesso — quando non ci fosse rischio di equivoco (vale a dire in
contesti in cui era evidente da altri termini che si aveva a che fare con un
processo criminale) e specialmente in contesti nei quali l’attenzione verteva su colui che era titolare della quaestio, pretore o altro funzionario che
fosse. Si veda, ad esempio, la nota panoramica sulla malvagità umana — e
il relativo castigo — tracciata da Cicerone,
Nat. Deor. 3.74: Sessum it praetor. Quid ut iudicetur? Qui tabularium incenderit ... Cognosce alias quaestiones, auri Tolossani coniurationis
Iugurthinae; repete superiora: Tubuli de pecunia capta ob rem iudicandam; posteriora: de incestu rogatione Peducaea; tum haec cotidiana: sicae
uenena peculatus, testamentorum etiam lege noua quaestiones.
Nel contesto, poiché si parla di praetor, iudicare, lex e si enumerano
vari reati, è ben chiaro che cosa siano le quaestiones cui ci si riferisce, senza possibilità di scambio con altre accezioni del termine. Anche qui, peraltro, superando abitudini invalse, dovremo intendere che quaestiones non
sono «organi di giustizia», bensí i procedimenti giudiziari svolti dal praetor (e, per associazione, dagli altri quaesitores incaricati). Va poi aggiunto,
contro un’altra frequente trasposizione, che cotidiana (tum haec cotidiana:
sicae, uenena, peculatus, testamentorum etiam lege noua quaestiones) non si
riferisce a quaestiones, bensí ai reati che accadono «tutti i giorni» (il contesto è appunto quello di una rassegna della malvagità dell’uomo): basti
considerare che haec cotidiana («questi fatti quotidiani») è al neutro 63, e sicae uenena e peculatus — che ne sono l’esplicazione — sono al nominativo
(non al genitivo, come sarebbe se si dovessero legare a un sottointeso sostantivo quaestio). Dunque, non esiste in latino, nemmeno come hapax,
quaestiones cotidianae.
61
Ambiguo, anche per l’interprete moderno, è ad esempio un passo come Sall.
Iug. 31.7: occiso Ti. Graccho … in plebem Romanam quaestiones habitae sunt; post C.
Gracchi et C. Fului caedem item uostri ordinis multi mortales in carcere necati sunt:
utriusque cladis non lex, uerum lubido eorum finem fecit; qui quaestiones oscilla fra il
senso di tortura e quello di processo criminale. 62 V. esattamente Santalucia, Diritto e
processo penale cit. 103 nt. 1: «… il termine quaestio … passò ad indicare … anche il
procedimento dinanzi alla giuria …». 63 La forma al neutro non era sfuggita a
Mommsen, Römisches Strafrecht cit. 196 nt. 1, che, tuttavia, finiva per usare l’aggettivo
(il cui valore, ovviamente, egli spostava con un’operazione tutt’altro che illegittima sul
piano contestuale, dai reati ai processi) per una suddivisione delle quaestiones (cui è
riferito esplicitamente nel Sachliches Register, ibid. 1063), con una scelta criticata —
dal punto di vista sostanziale — da Venturini, Processo penale e società politica cit. 208.
In effetti, Cicerone vuole esprimere la frequenza con cui accadono taluni reati (e, dunque, i relativi processi), non la forma organizzativa della repressione criminale.
52
DARIO MANTOVANI
[28]
Ancora per esemplificare l’uso assoluto di quaestio, si può citare Cic.
Phil. 5.14, un altro passo dove il riferimento al titolare (cosí come nel precedente il riferimento al praetor) porta con sé l’uso di quaestio:
Quaero igitur, si Lysiades citatus iudex non responderit excuseturque Areopagites esse nec debere eodem tempore Romae et Athenis res iudicare, accipietne excusationem is qui quaestioni praeerit Graeculi iudicis,
modo palliati, modo togati?
Un altro esempio dell’uso assoluto di quaestio a indicare il processo
criminale (in un contesto in cui il riferimento era per cosí dire autoreferenziale e perciò non ambiguo) è
Cic. Mil. 79: Eius (scil.: Clodii) … mortis sedetis ultores, cuius uitam
si putetis per uos restitui posse, nolitis, et de eius nece lata quaestio est qui
si lege eadem reuiuiscere posset, lata lex numquam esset64.
Analogamente, Cic. Cluent. 1 accosta la quaestio alla lex che l’ha costituita in una determinata materia (qua de re), in questo caso i ueneficii
crimina:
Animaduerti iudices omnem accusatoris orationem in duas diuisam
esse partis, quarum altera mihi niti et magno opere confidere uidebatur
inuidia iam inueterata iudicii Iuniani, altera tantum modo consuetudinis
causa timide et diffidenter attingere rationem ueneficii criminum, qua de
re lege est haec quaestio constituta65.
Nella scia di quest’ultimo passo, vale la pena di tornare alla pro Milone (§ 7), da cui risulta che quaestio viene usata volentieri in contesti in cui
si vuole indicare la materia del contendere, la competenza, l’oggetto del
processo (la res quae uenit in iudicium):
Sed antequam ad eam orationem uenio quae est propria uestrae
quaestionis, uidentur ea mihi esse refutanda quae et in senatu ab inimicis
64
V. ancora esempi significativi: Cic. II In Verr. 1.108: … multa uidemus ita sancta
esse legibus, ut ante facta in iudicium non uocentur; Cornelia testamentaria nummaria
ceterae conplures, in quibus non ius aliquod nouum populo constituitur, sed sancitur ut
quod semper malum facinus fuerit, eius quaestio ad populum pertineat ex certo tempore;
Vat. 34; Rab. Post. 16: M. Druso nouam in equestrem ordinem quaestionem ferenti ‘Si quis
ob rem iudicandam pecuniam accepisset’ aperte equites Romani restiterunt; appartiene a
questo novero anche il famoso passo di Tac. Ann. 3.27.3: non modo in commune, sed in
singulos homines latae quaestiones, et corruptissima re publica plurimae leges. 65 Cfr. Cic.
Cluent. 151: L. Sulla homo a populi causa remotissimus tamen, cum eius rei quaestionem
hac ipsa lege constitueret qua uos hoc tempore iudicatis (scil.: la Lex de sicariis et ueneficis), populum Romanum quem ab hoc genere liberum acceperat adligare nouo quaestionis
genere ausus non est; Rab. Post. 14: … uideret (scil.: populus) ne qua noua quaestione
alligaretur; Mil. 19: numquae rogatio lata, numquae noua quaestio decreta est?
[29]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
53
saepe iactata sunt … ut omni errore sublato, rem plane quae ueniat in iudicium uidere possitis.
Se ne ricava, in definitiva, che l’uso di quaestio invalso nella storiografia giuridica moderna per designare un tipo di processo criminale
(quello nel quale il verdetto era formato da una giuria), è tutt’altro che
estraneo agli usi latini. Tuttavia, i Latini dovevano fare i conti con la polisemia del termine, e spesso gli preferivano altre locuzioni. Nella lingua
moderna quest’inconveniente ovviamente non sorge, perché quaestio è assunto come termine straniero e resta come tale isolato nel lessico odierno
e viene utilizzato in un significato speciale e inequivoco. È, a ben vedere,
in quest’operazione di quasi artificiale disambiguazione che si può semmai
cogliere una differenza rispetto al lessico latino, che invece faceva i conti,
da una parte, con la polisemia di quaestio e, dall’altra, con l’esistenza di
alternative (in primo luogo iudicium publicum). Una seconda e piú grave
differenza si coglie poi sul piano semantico, poiché, come s’è piú volte segnalato, oggi si tende a impiegare quaestio con un valore comunque estraneo a quello latino, non cioè per significare un processo (affidato a una
giuria), bensí per indicare la corte giudicante (alla quale il processo era affidato).
Il riferimento al reimpiego moderno dei termini latini merita un’ultima avvertenza. Mai i Romani avrebbero chiamato i nostri processi «giudizi» o «processi per quaestiones», come complemento di mezzo (ricalcato
sulla locuzione moderna giudizio per giuria). Le uniche tre occorrenze di
questa giuntura, a mia conoscenza, significano «mediante tortura»:
Apul. Met. 3.8: Res ad hoc deducta est, ut per quaestionem sceleris
sui participes indicet;
Amm. 5.28.52: per quaestiones familiarium sub disceptatione ignobili crudeliter agitatus …;
Amm. 30.2.11: Praefectus praetorio Maximinus … Caesarium …
quae Remigius egerit uel quantum acceperit ut Romani iuuaret actus infandos, per quaestionem cruentam interrogabat.
Che per quaestionem non possa essere apposto come complemento
di mezzo al termine «processo» è del resto ovvio, perché quaestio significa
già di per sé «inchiesta» ed estensivamente «giudizio», «processo» e dunque non sarebbe logico indicarla come «mezzo» con cui si realizza il processo stesso. Questa formazione moderna si basa, con tutta evidenza, sull’errato assunto che quaestio significhi l’organo giudicante, sí che — dicendo processo per quaestionem — si pensa di dire «processo svolto mediante giuria». L’assenza nella lingua latina è una conferma di quest’equivoco semantico.
Del resto — per soffermarci un’ultima volta su un tema piú volte
toccato in questa rassegna, che ne è anche uno degli aspetti piú significati-
54
DARIO MANTOVANI
[30]
vi — non sembra che la lingua latina sia giunta a impiegare sia pur abusivamente e per metonimia quaestio nel senso di corte di giustizia66. I pochi
testi che variamente vengono citati a questo fine non giustificano affatto
quest’interpretazione67 . Non Cic. Cluent. 147-148, un brano il cui intento
è di mostrare che i comportamenti di tutti coloro che partecipano a un
processo criminale, nei rispettivi ruoli (il iudex quaestionis Quinto Voconio Nasone, i giudici, l’accusatore Tito Attio, il difensore Cicerone, gli
scribi, i littori e gli altri apparitores) sono sottoposti alla legge68:
Cluent. 147: Quid est, Q. Naso, cur tu in isto loco sedeas? Quae uis
est, qua abs te hi iudices tali dignitate praediti coerceantur? Vos autem,
iudices, quam ob rem ex tanta multitudine ciuium tam pauci de hominum
fortunis sententiam fertis? Quo iure Attius quae uoluit dixit? Cur mihi
tam diu potestas dicendi datur? Quid sibi autem illi scribae, quid lictores,
quid ceteri quos apparere huic quaestioni uideo, uolunt? Opinor haec
omnia lege fieri totumque hoc iudicium, ut ante dixi, quasi mente quadam
regi legis et administrari. Quid ergo? Haec quaestio sola ita gubernatur?
Quid M. Plaetori et C. Flamini inter sicarios, quid C. Orchiui peculatus,
quid mea de pecuniis repetundis, quid C. Aquili, apud quem nunc de ambitu causa dicitur, quid reliquae quaestiones? Circumspicite omnes rei publicae partes: 148. omnia legum imperio et praescripto fieri uidebitis.
È vero che, per l’intento del passo, vi si usa quaestio in un’accezione
che tende a conferirle una sorta di consistenza materiale (Quid ceteri quos
apparere huic quaestioni uideo? ... Quid ergo? Haec quaestio sola ita gubernatur?). Ma è sufficiente considerare che, nello stesso contesto, si usa sinonimicamente iudicium, per comprendere che di questo e non di altro si
parla (Opinor haec omnia lege fieri totumque hoc iudicium, ut ante dixi,
quasi mente quadam regi legis et administrari). Anzi, quando si parla delle
reliquae quaestiones attribuendole con il complemento di specificazione o
l’aggettivo possessivo ai rispettivi titolari (Quid M. Plaetori et C. Flamini
inter sicarios, quid C. Orchiui peculatus, quid mea de pecuniis repetundis,
quid C. Aquili, apud quem nunc de ambitu causa dicitur, quid reliquae quaestiones?) non si fa che ribadire che la quaestio è una funzione, un’attività
(quaerere) attribuita a un soggetto (e per la cui esplicazione sono attribuiti
dei subalterni apparitores).
66
Non condivido, perciò, l’ultima affermazione della nota già citata adesivamente (supra nt. 9 e 62) di Santalucia, Diritto e processo penale cit. 103 nt. 1: «… il termine
quaestio … passò ad indicare … infine lo stesso tribunale presieduto dal magistrato».
67
Ciò vale in particolare per tutti i testi citati da OLD. cit. 1534 s.v. «quaestio», sub 4)
come attestazioni del significato «An ad hoc or (after 149) standing commission (quaestio perpetua) appointed to try certain cases of serious public crimes». Lo stesso dizionario prevede un’accezione sub 3) «a judicial investigation, inquiry», sotto la quale piú
appropriatamente dovrebbero essere riportati anche i testi citati sub 4). 68 A sua volta, si tratta di un tipico argomento che serve a Cicerone per perorare l’esigenza di attenersi a un’interpretazione letterale della lex, secondo la strategia teorizzata ad esempio
in Cic. Inu. 2.131.
[31]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
55
Non si arriva a ipostatizzare quaestio né a personificarla nemmeno in
Val. Max. 8.1 abs. 6: Item L. Piso a C. Claudio Pulchro accusatus,
quod graues et intolerabiles iniurias sociis intulisset, haud dubiae ruinae
metum fortuito auxilio uitauit. Namque per id ipsum tempus quo tristes
de eo sententiae ferebantur, repentina uis nimbi incidit, cumque prostratus humi pedes iudicum oscularetur, os suum caeno repleuit. Quod conspectum totam quaestionem a seueritate ad clementiam et mansuetudinem transtulit, quia satis iam graues eum poenas sociis dedisse arbitrati
sunt, huc deductum necessitatis ut abicere se tam suppliciter aut attollere
tam deformiter cogeretur69.
Valerio Massimo narra l’esito imprevedibilmente favorevole del processo subito da Lucio Pisone, verosimilmente per pecuniae repetundae70.
Al momento della votazione, quando già si profilava la condanna, scoppiò
un temporale e poiché l’imputato si gettava ai piedi dei giudici per supplicarli, il viso gli s’imbrattò di fango. L’umiliante spettacolo, dice Valerio
Massimo, totam quaestionem a seueritate ad clementiam et mansuetudinem
transtulit, come a dire che l’indecoroso spettacolo spostò l’andamento del
processo dalla severità alla clemenza. Quaestio non sta qui per «giuria»,
bensí solo per giudizio, visto che nella frase immediatamente successiva il
verbo arbitrati sunt mostra che l’autore ha presente come soggetto i iudices (e non la quaestio), dei quali descrive gli stati d’animo71.
Considerazioni analoghe valgono per il secondo brano citato nel
Lexicon del Forcellini come esempio del significato concreto di quaestio
(nel senso di «giudici»),
Cic. II In Verr. 2.74: Si dimisisset (scil.: Verres) eo tempore quaestionem, post, illis adhibitis in consilium quos ablegarat, absolutum iri Sopatrum uidebat.
La prima osservazione da fare in proposito è che, nella stessa interpretazione di Forcellini, tutt’al piú il senso assunto in questo brano da
quaestio è, metonimicamente, «giudici». Il passo ulteriore che viene compiuto — dal nome di azione quaestio al nome d’agente iudex all’astratto
«corte di giustizia» — non è un passo che possa mettersi in conto al latino. A parte questo, se si allarga il contesto, si vede che Cicerone mantiene
intatto il significato di quaestio. La sospensione della seduta di cui si parla
nel brano sopra riportato, infatti, è già menzionata due volte nelle righe
69
Il testo è segnalato dal Forcellini, Lexicon III (rist. Bononiae 1965) 994 s.v.
«quaestio», sotto il significato traslato «de ipsis iudicibus, qui quaestionem habent»; è
ripreso da Calonghi, Dizionario Latino-italiano3 (rist. Torino 1975) 2272, s.v. «quaestio», sub 2) come attestazione del significato «meton., b) il tribunale, la Corte, i giudici». 70 È incerta anche la data (prima metà del I secolo a.C.): Alexander, Trials cit.
178 nr. 378. 71 Lo stesso mi pare si debba dire, nella scia di 8.1 abs. 6, per Val. Max.
8.1 abs. 2: Misericordia ergo illam quaestionem, non aequitas rexit, quoniam quae innocentiae tribui nequierat absolutio, respectui puerorum data est.
56
DARIO MANTOVANI
[32]
precedenti, e in tutti i casi Cicerone aveva usato il termine tecnico consilium dimittere (§ 72: Non dubitabat Minucius, qui Sopatrum defendebat,
quin iste, quoniam consilium dimisisset, illo die rem illam quaesiturus non
esset, cum repente iubetur dicere; § 73: causam sese dimisso atque ablegato
consilio defensurum negavit). Particolarmente istruttivo è il primo di questi due luoghi, dove la conseguenza della dimissione del consilium dei giudici viene intesa come rinuncia a quaerere (illo die rem illam quaesiturus
non esset): esso fa emergere nitidamente l’uso tecnico di quaerere nel senso di svolgere il processo. Dopo l’impiego nei due paragrafi precedenti,
l’abbandono, al § 74, della formula tecnica consilium dimittere si spiega
con la necessità di evitare la ripetizione all’interno della stessa proposizione, che prosegue illis adhibitis in consilium quos ablegarat. È chiaro, perciò, che piú che di un uso metonimico di quaestionem, si può parlare qui
di una semplice uariatio, resa del tutto perspicua dal contesto72.
Se in positivo non sembra ci siano fonti che possano univocamente
testimoniare un uso di quaestio analogo a «giuria» (e tantomeno a «corte
di giustizia»), d’altra parte — come s’è visto or ora anche nelle Verrine —
a partire dalla Lex repetundarum Tabulae Bembinae, tecnicamente quaestio
corrisponde a quaerere, dunque esprime un’attività, non un organo: è questo — non bisogna dimenticarlo — il significato che i parlanti avevano
presente.
La quaestio, si può anzi ora aggiungere, è una prouincia che veniva
sorteggiata per il pretore73. La circostanza sembra sicura, se si considera la
terminologia delle fonti, che è quella usata tipicamente quando si discorre
del sorteggio di una prouincia, benché il termine non sia mai esplicitamente usato, almeno a mia conoscenza. Basti citare, come esempio di questa
terminologia,
Cic. I In Verr. 21: Ecce autem illis ipsis diebus cum praetores designati sortirentur et Marco Metello obtigisset ut is de pecuniis repetundis
quaereret, nuntiatur mihi tantam isti gratulationem esse factam ut is domum quoque pueros mitteret qui uxori suae nuntiarent74,
72
Quest’interpretazione è corroborata dal fatto che nella Lex rep. Tab. Bemb. l.
71, per indicare la sospensione del processo, si usa l’espressione iudicium dimitere, che
è vicinissima al ciceroniano quaestionem dimittere, e non implica alcuna ipostatizzazione. 73 Cosí per tutti T.C. Brennan, The praetorship in the Roman republic II (Oxford
2000) 769 nt. 61. 74 Cfr., con riferimento allo stesso evento, ibid. 27. V. inoltre, con
riguardo a quaestiones attribuite ad hoc, Liu. 40.43.2: a C. Maenio praetore, cui prouincia Sardinia cum euenisset additum erat ut quaereret de ueneficiis longius ab urbe decem
milibus passuum, 3. litterae allatae se iam tria milia hominum damnasse, et crescere sibi
quaestionem indiciis; aut eam sibi esse deserendam aut prouinciam dimittendam;
40.19.9: L. Duronio praetori, cui prouincia Apulia euenerat, adiecta de Bacchanalibus
quaestio est, cuius residua quaedam uelut semina ex prioribus malis iam priore anno apparuerant; 10. sed magis incohatae apud L. Pupium praetorem quaestiones erant quam ad
exitum ullum perductae; 40.44.6: P. Mucius Scaeuola urbanam sortitus prouinciam est et
ut idem quaereret de ueneficiis in urbe et propius urbem decem milia passuum; 41.9.10:
quaestio qui ita non redissent L. Mummio praetori decreta est.
[33]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
57
e la pro Murena, là dove l’oratore mette a confronto — misurandone la rispettiva capacità di suscitare popolarità fra gli elettori — gli incarichi ricevuti in sorte durante la pretura dall’accusatore Servio Sulpicio Rufo (che
ebbe in sorte la quaestio peculatus) e dall’imputato Lucio Licinio Murena
(che estrasse la iurisdictio urbana):
Cic. Mur. 41: In ipsa praetura nihilne existimas inter tuam et huius
sortem interfuisse? Huius (scil.: Murenae) sors ea fuit quam omnes tui necessarii tibi optabamus, iuris dicundi … Egregia et ad consulatum apta
prouincia. 42. Quid tua sors? Tristis, atrox, quaestio peculatus …75.
Stando cosí le cose, la conclusione non può che essere una. Quand’anche, acuendo l’interpretazione alla ricerca della catacresi, si riuscisse a
individuare qualche passo antico in cui quaestio sia usata metonimicamente a indicare non l’attività del pretore (o del iudex quaestionis), bensí la
corte giudicante (ciò che finora peraltro non mi pare sia riuscito), si tratterebbe pur sempre di un uso atecnico e, soprattutto, di casi del tutto sporadici a fronte dell’uso proprio. Questo stato delle fonti rende perciò ingiustificata l’abitudine moderna di impiegare quaestio prevalentemente in accezione metonimica: ma è noto che le abitudini sono tenaci, soprattutto
nel cercare autogiustificazioni.
Per chiudere su questo tema, la sostanziale omogeneità di quaestio e
iudicium è ben chiarita da Quint. Decl. 383.3:
Dicimus pecuniarias lites esse, litigatorem esse non reum, non qui de
capite sortiatur: illud iudicium uocari, quaestionem, quidlibet potius
quam litem76.
10. «Iudicium/quaestio de pecuniis repetundis». — Prima di abbandonare la disamina degli usi antichi, conviene svolgere un ultimo accertamento, anch’esso foriero di qualche rettifica. Passando in rassegna le fonti, emerge che i Romani d’età repubblicana preferivano chiamare iudicium
de pecuniis repetundis ciò che noi chiamiamo quaestio repetundarum. La
differenza rispetto all’uso moderno piú diffuso è, dunque, duplice.
In primo luogo, si distingue per l’uso del sostantivo, ossia de pecuniis
repetundis: in età repubblicana non si usava il sostantivato de repetundis77.
75
Sulla sors, si veda anche Ulp. 7 off. procos., Coll. 1.3.1: … is praetor iudexue
quaestionis, cui sorte obuenerit quaestio de sicariis eqs. 76 V. anche Cic. Sest. 85: non
modo nulla noua quaestio, sed etiam uetera iudicia sublata. 77 C’è un solo caso a me
noto, ossia Caelius apud Cic. Ad Fam. 8.8.3: sic nunc neque absolutus neque damnatus
Seruilius de repetundis saucius Pilio tradetur. Nella stessa lettera si dice anche (§ 2) Q.
Pilius … repetundis eum postulauit. Questa concentrazione sembra mostrare che si
tratta di una preferenza attribuibile a Celio (il costrutto è segnalato nel commento di
A. Cavarzere, Marco Celio Rufo, Lettere: Cic. fam. 1. 8. Testo, apparato critico, introduzione, versione e commento [Brescia 1983] 316, con rinvio a Tac. Ann. 3.38.1: et Ancharius Priscus Caesium Cordum … postulaverat repetundis). La forma sostantivata si
trova anche nel cursus di C. Claudius Pulcher, CIL. VI 1283, iudex q(uaestionis) uenefi-
58
DARIO MANTOVANI
[34]
Cicerone e Sallustio non usano mai nemmeno repetundarum: tuttavia
l’espressione ellittica sembra essere stata piú accettabile al genitivo, sí che
repetundarum compare in alcuni scrittori di I secolo d.C. come Velleio Patercolo e Valerio Massimo, per poi diventare assolutamente dominante fra
i giuristi di II secolo d.C.78 (ma mai nella giuntura quaestio repetundarum).
In secondo luogo, si preferisce usare iudicium rispetto a quaestio.
Questa preferenza può essere quantificata con precisione esaminando tutti i luoghi in cui Cicerone si riferisce al processo in materia di pecuniae repetundae.
In dieci casi Cicerone usa la locuzione iudicium de pecuniis repetundis (Diu. In Q. Caec. 10; I In Verr. 41; 42; 51; II In Verr. 2.27; 3.130; 4.82;
5.45; II Agr. 59; Ad Q. fr. 3.4.1)79.
La locuzione quaestio de pecuniis repetundis ricorre, invece, due sole
volte (II In Verr. 2.15; Cluent. 147)80. Oltretutto, almeno nella seconda di
queste due occorrenze81 si comprende facilmente perché Cicerone abbia
derogato all’uso comune di iudicium: egli si stava riferendo alla quaestio
come funzione del pretore (o iudex quaestionis) incaricato:
Cluent. 147: Quid ergo? Haec quaestio sola ita gubernatur? Quid M.
Plaetori et C. Flamini inter sicarios, quid C. Orchiui peculatus, quid mea
de pecuniis repetundis, quid C. Aquili apud quem nunc de ambitu causa
dicitur, quid reliquae quaestiones?82.
cis, pr(aetor) repetundis, in cui l’assenza anche della preposizione è forse sotto l’influenza di titolature (piú corrette) come curator uis sternundis, che nell’epigrafe segue
immediatamente.
78
V. per tutti Pap. 36 quaest., D. 48.13.16: publica iudicia peculatus et de residuis
et repetundarum similiter aduersus heredem exercentur, nec immerito, cum in his quaestio principalis ablatae pecuniae moueatur; prima di lui, (Cass.?)-Marcell. 3 dig., D.
1.9.2: Lex Iulia repetundarum; Venul. 3 publ. iud., D. 48.11.6.2: Lege Iulia repetundarum; Scaev. 3 reg., D. 50.5.3: ex Lege Iulia repetundarum. A fronte di diciotto occorrenze della forma repetundarum negli scritti dei giuristi, una sola volta ricorre la forma de
repetundis (Macer 1 iud. publ., D. 48.11.7 pr.), mai con il sostantivo pecuniae. 79 L’uso
di iudicium, ma con il genitivo (per omogeneità con gli altri titoli), si ha anche in un
escerto attribuito all’oratore repubblicano Calvo in Quint. 9.3.56 (riportato supra nt.
23). 80 Una variante rispetto alla tradizione ms. di Cic. Diu. In Q. Caecil. 10: Ego sic
intellego iudices: cum de pecuniis repetundis nomen cuiuspiam deferatur …, ricorre nella
citazione di Vittorino, Expl. In Cic. Rhet. 1.22 (p. 99 Ippolito): Ego sic intellego: cum
de pecuniis repetundis quaestio sit, si nomen cuiuspiam deferatur … Benché, come si è
visto, la locuzione de pecuniis repetundis quaestio sia rara in Cicerone e, d’altra parte, si
possa sospettare un ampliamento da parte del grammatico, non si può nemmeno
escludere che Vittorino attingesse a un ramo della tradizione che conservava la lezione
autentica. 81 Nella prima, può essere che la scelta di quaestio sia dovuta alla compresenza nella stessa frase del termine iudicium (Cic. II In Verr. 2.15): si ita esset, tamen
uos in hac quaestione de pecuniis repetundis quae sociorum causa constituta est lege iudicioque sociali, sociorum querimonias audire oporteret. 82 Lo stesso accade in due luoghi in cui, invece del sostantivo, si usa il verbo quaerere, Cic. I In Verr. 21 e 27, che non
a caso attengono all’assegnazione a sorte degli incarichi ai pretori (v. infra § 9). Mi pare
— per esulare dalle testimonianze repubblicane — che anche in un passo tormentato
dal punto di vista della costituzione del testo e perciò dell’interpretazione, come Ulp. 9
[35]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
59
11. Semantica di «quaerere/quaestio». — Esaminati gli usi lessicali, si
deve affrontare ora il secondo versante, quello semantico. Naturalmente,
la precedente rassegna ha già fornito indicazioni anche sul significato: in
particolare, è emerso che quaestio (quaerere), pur essendo una funzione
specifica del pretore, distinta da quella dei iudices (cui spetta il iudicium/
iudicatio), può in vari contesti essere usata (metonimicamente) in modo
pressoché sinonimico con iudicium (publicum). Poiché, tuttavia, si tratta
di termini dotati di una distinta semantica, occorre ora cercare di individuare quale sia il significato che caratterizza quaestio all’interno di un generico valore di «processo».
Al riguardo conviene muovere ovviamente dal verbo, di cui quaestio
è il sostantivo derivato83.
Il significato primo di quaero (cfr. gr. zetéo) è «cercare, andare in cerca di», per trovare una cosa o una persona. Fa perciò coppia con invenire,
come mostrano brillantemente questi versi di Plaut. Men. 238-9: si acum,
credo, quaereres, / acum inuenisses.
Da questo significato primario s’irradiano vari significati prossimi,
come «cercare di ottenere», esemplificato dagli splendidi versi enniani
(Ann. 16.411 V. 2 = 404 Sk.): reges per regnum statuasque sepulcraque quaerunt / aedificant nomen; oppure «acquistare», come in Ulp. 30 ad Sab., D.
17.2.53: quod ex furto uel ex alio maleficio quaesitum est, in societatem non
oportere conferri palam est.
Ancora, quaero — specialmente nella costruzione ab/ex aliquo —
può significare «chiedere (per sapere)», come in Varr. Sat. Men. fr. 407 A.:
quaerit ibidem ab Hannibale, cur biberit medicamentum. Lungo questa linea, può significare ancora «chiedersi, porsi il problema, discutere», come
in Gai. 3.193: quid sit autem licium, quaesitum est e poi «esaminare, indagare, accertare», come in Ps.-Quint. Decl. Mai. 18.7: tormentis quaerendum putasti, an verum diceret.
de off. proc., Coll. 14.3.3 (et tamen procuratori.† qui illam prouinciam regit, licet de capitalibus causis cognoscere nec soleat, tamen ut de lege Fabia possit cognoscere, imp. Antoninus constituit. Idem legis Iuliae de adulteris coercendis constitutione imperatoris Antonini quaestionem accepit), si debba intendere che il procurator riceve il compito di svolgere la quaestio sancita dalla Lex Iulia de adulteris [sic] coercendis. Anche in questo
caso (come si è visto a partire dalla Lex rep. Tab. Bemb.), l’uso di quaestio è insomma
coerente con il riferimento specifico al titolare (quale che fosse in concreto la forma
del procedimento e la composizione dell’organo giudicante).
83
Dal punto di vista morfologico, è attestata anche la forma quairo (verosimilmente a sua volta preceduta da *quaiso), in un epitaffio degli Scipioni CIL. VI 1289 =
ILLRP. 312. Da quaero, oltre a quaestio, derivano il nome d’agente quaestor (attestato
anche nella forma quaistor: es. CIL. I 3151; IX 439) e quaestus. Quaero ha un parallelo
desiderativo *quais-so > quaeso (cfr. capesso, lacesso), da cui derivano quaesitum, quaesitor, quaesitio (cfr. CIL. V 862: iudex quaesitionis rerum capitalium). Come per la maggior parte delle parole a dittongo ae, l’etimo è sconosciuto (cfr. A. Ernout, A. Meillet,
Dictionnaire Étymologique [Paris 1967] 550, s.v. «quaero», nonché Å. Fridh, Zum Bedeutungswandel von lat. Quaerere, in Eranos 74 (1976) 139 ss., specialmente sull’impiego nel senso di lugere-queri in autori tardi, forse sotto l’influenza della parallela evoluzione di zetéo).
60
DARIO MANTOVANI
[36]
Non c’è dubbio che, specializzandosi rispetto alle accezioni della lingua comune, quaerere e quaestio, impiegati nel contesto della repressione
criminale, abbiano assunto un significato tecnico, ad indicare appunto la
funzione affidata al quaesitor o praetor o iudex quaestionis84 . Perciò, affrontare la questione del «significato» di questi termini, là dove siano impiegati in senso tecnico, pone un problema metodologico, che — per
quanto sia forse scontato — conviene brevemente accennare. Essendo divenuti termini tecnici, quaerere/quaestio (come nei luoghi della Lex rep.
Tab. Bemb. passati in rassegna all’inizio di quest’indagine, dove si dice
praetoris quaestio esto oppure praetor quei ex hace lege quaeret) possedevano il contenuto che l’ordinamento giuridico versava di volta in volta nell’istituto: insomma il loro significato coincide, nella Lex repetundarum Tabulae Bembinae, con i poteri e le attività che la legge attribuisce al pretore
e che la legge poi sintetizza nelle parole quaestio/quaerere85 .
Se ci attenessimo a questa di per sé impeccabile impostazione teorica, potremmo dichiarare conclusa la nostra indagine semantica (pur con
l’inconveniente che essa porterebbe a distinguere tanti significati quant’erano le leges iudiciorum publicorum). Conviene, tuttavia, adottare una
diversa impostazione e ricercare quel comune contenuto semantico dei
termini quaestio/quaerere, che faceva sí che i parlanti s’intendessero fra
loro quando li utilizzavano con riferimento al processo criminale, quand’anche non avessero completa conoscenza dei dettagli delle singole leges
iudiciorum publicorum. D’altra parte, anche quando si è in presenza di termini risemantizzati in senso tecnico, dotati nell’ambito della lingua giuridica di un significato ben definito, bisogna pur tenere conto che tali termini continuano ad essere usati anche in contesti atecnici, dunque in
un’accezione piú generica. Reciprocamente, il legislatore, nell’adottare
quaestio/quaerere per designare l’attività del praetor nel iudicium publicum, avrà avuto a sua volta presente un significato comune di tali termini
che li rendeva adatti al loro impiego in quel contesto. È di questo significato «medio» che si deve perciò andare in cerca.
Va detto che, pur non essendo stato oggetto di indagini particolarmente approfondite, il tema ha dato luogo a opinioni divergenti: ciò si
spiega con il fatto che, ricercando il nocciolo di significato di quaestio/
quaerere, si pensa di potere risalire ad una fase anteriore a quella ben documentata in età tardorepubblicana e, dunque, di potere ricostruire, per
via semantica, la storia della quaestio, con le pressioni che questo modo di
procedere esercita anche sui piú probi.
Quest’angolatura è particolarmente evidente in Th. Mommsen, come
ci si può attendere dal suo spirito potentemente costruttivo. Com’è noto,
84
In questo senso è registrata come accezione specifica in OLD. cit., rispettivamente s.v. «quaero», 1533 sub 10) «To hold a judicial inquiry into, investigate (by process of law)» e s.v. «quaestio», 1534 sub 3) «A judicial inquiry» (sull’accezione sub 4],
v. criticamente supra nt. 67). 85 Pongono in giusta luce la portata di poteri e funzioni
dell’incaricato di una quaestio, Venturini, Studi sul «crimen repetundarum» nell’età repubblicana cit. 172 ss. e Liva, Sulla funzione del quaestor: testi e ipotesi cit. 115 ss.
[37]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
61
Mommsen teorizzò che il giudizio criminale per giuria fosse nato dalla fusione di due precedenti e distinti schemi di processo, l’uno unilaterale,
condotto dal magistrato che raccoglieva le prove e emetteva il verdetto
(Mommsen parlava di «einfaches Inquisitionsverfahren»)86, l’altro bilaterale, dunque con la presenza di parti e affidato a un organo giudicante costituito da una giuria sotto la direzione del magistrato, che era privo di poteri istruttori. Il primo schema di processo (quello unilaterale), a suo avviso, era designato originariamente dal termine quaestio87, il secondo (bilaterale) aveva il nome di iudicium publicum88.
Non s’intende entrare qui in una discussione dei presupposti di questa teoria, bensí chiosarla sul piano del metodo, cosa che non pare sia finora avvenuta89. La teoria dà per scontato che la Lex rep. Tab. Bemb. usi
un lessico per cosí dire stratificato e non amalgamato, ossia postula che
l’estensore della legge abbia usato quaestio e iudicium publicum non perché fossero i termini appropriati per descrivere l’istituto che si veniva disciplinando, bensí quali sopravvivenze di un lessico non piú adeguato ai
nuovi contenuti. Mommsen bolla addirittura come una «parola vuota»90 il
nome quaesitor attribuito al magistrato e il verbo quaerere usato per descrivere la sua attività (come fa la Lex rep. Tab. Bemb.), poiché, nel nuovo
processo, il compito del magistrato non sarebbe stato altro che quello di
presidere la giuria, venuti meno i poteri istruttori e di accusa che possedeva nel processo unilaterale, la «vera» quaestio.
Si tratta, com’è chiaro, di un metodo di lettura che attribuisce improprietà lessicali all’estensore della legge e soprattutto considera i singoli
elementi del lessico come se non facessero parte di un sistema contestuale,
bensí fossero elementi indipendenti e per alcuni versi addirittura incompatibili: cosí facendo, non prendendo in parola il legislatore antico, proietta sul testo una precomprensione moderna91. La dubbiosità di questo
modo di procedere è resa evidente dal fatto che non si possiedono testimonianze anteriori alla Lex repetundarum graccana circa l’uso tecnico dei
termini quaestio/quaerere e della locuzione iudicium publicum e quindi
non c’è base per stabilire il loro presunto autentico significato. Inoltre, la
86
Mommsen, Römisches Staatsrecht II3 cit. 222 nt. 1; Römisches Strafrecht cit.
148. 87 Mommsen, Römisches Strafrecht cit. 147: «Die Bezeichnung des rein magistratischen Strafprozesse ist … die ‘Frage’, quaestio». 88 Mommsen, Römisches Strafrecht
cit. 186 s.: «Iudicium publicum ist … der in den Formen des Civilrechts im interesse
der Gemeinde geführte und desshalb in verschiedener Weise privilegirte Prozess».
89
V. comunque la bibl. citata in Il problema d’origine dell’accusa popolare cit. 121 nt.
11. 90 Mommsen, Römisches Staatsrecht II3 cit. 224. 91 Al riguardo, è emblematico
che Mommsen contrapponga sistematicamente quaestio a iudicium publicum, locuzione, che, nel testo della Lex rep. Tab. Bemb. ricorre una sola volta (e in senso endiadico
piuttosto che oppositivo rispetto a quaestio): in realtà, quaestio è contrapposta nella
legge a iudicium, iudicatio e litis aestimatio, cioè è impiegata in modo tecnico nella descrizione dei compiti dei soggetti processuali, che sta alla base dell’intero istituto, concepito come sistema. Va aggiunto che, nel rimarcare il contrasto fra la presunta quaestio unilaterale e il ruolo conferito al praetor nel nuovo processo per giuria, Mommsen
presta poca attenzione alle norme che, anche nella Lex repetundarum graccana, sembrano attribuire poteri istruttori al praetor (v. supra nt. 85).
62
DARIO MANTOVANI
[38]
persistenza della medesima terminologia nei documenti posteriori al II secolo a.C. (che accostano, come s’è visto, quaestio e iudicium publicum) è
un ostacolo a considerarla impropria.
Chiudendo questa breve digressione storiografica — che è parsa opportuna perché questa lettura che disintegra il sistema lessicale è stata per
lo piú tacitamente accettata nel metodo, quand’anche ne siano stati contestati i risultati — conviene concentrarsi sul significato attribuito a quaestio/quaerere. Il già menzionato Mommsen ha proposto due interpretazioni, lievemente diverse. Nello Staatsrecht, ha inteso quaerere nel suo significato primo, di «cercare»: «La procedura criminale primitiva non conosce
né parti né giurati; in essa, il magistrato cerca — quaerit — e statuisce da
solo …»92; nello Strafrecht, invece, ha inteso quaerere come «chiedere»,
cioè come (potere di) interrogare l’imputato: «Im strafrechtlichen Gebrauch ist quaerere … die Frage des Strafrichters an den Angeschuldigten»93 . Nell’una e nell’altra accezione, si tratta comunque — nella teoria di
Mommsen — di una parola appropriata al ruolo del magistrato nel primitivo processo unilaterale, l’«einfaches Inquisitionsverfahren», in cui spettava a lui indagare sui fatti (quaerere nel primo senso mommseniano) oppure interrogare l’imputato (quaerere nel secondo senso).
Un altro contributo all’interpretazione di quaerere viene da W.
Kunkel e, come ci si può attendere, va in direzione diversa. L’insigne studioso ammette che in età tardorepublicana si intendesse quaerere come indagare («untersuchen»). Tuttavia, emette sia pur tentativamente l’ipotesi
che, in senso proprio e originariamente («eigentlich und ursprünglich»),
quaerere significasse «befragen», «chiedere, porre domande a», ma non all’imputato — come intendeva Mommsen nello Strafrecht — bensí ai componenti del proprio consilium, ai quali il magistrato chiedeva se ritenessero l’imputato colpevole o meno94.
A sostegno della propria interpretazione, Kunkel allega un passo della Lex rep. Tab. Bemb. (che si conferma essere il documento privilegiato su
cui condurre un’indagine linguistica), tratto dal capitolo che dispone la
prosecuzione del processo nel caso l’imputato sia andato in esilio prima
della sentenza (l. 29):
Quoium nomen ex h(ace) l(ege) delatum e [sei is ante … in exiliu]m
abierit quam ea res [iu]dicata erit pr(aetor) ad quem eius nomen d[elatum
erit eam] rem ab eis item quaerito […
Benché il testo sia mutilo, Kunkel ritiene che il pronome ab eis non
potesse che riferirsi ai iudices e cosí, in effetti, viene integrata la lacuna da
tutti gli editori (ossia ab eis item quaerito [quei ioudices ex hace lege erunt).
È innegabile — in specie se si accoglie quest’integrazione — che il
passo attesti che il pretore rivolgeva una domanda ai giurati. Il punto de92
Mommsen, Römisches Staatsrecht II3 cit. 222. 93 Römisches Strafrecht cit. 147
nt. 3. 94 W. Kunkel, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik II. Die
Magistratur (München 1995) 143 ss.
[39]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
63
bole, mi pare, sta nel fatto che Kunkel ha elevato a significato «autentico e
originario» l’accezione che quaerere ha in un singolo passo, senza spiegare
per quale ragione esso debba prevalere sulle altre molteplici occorrenze di
quaerere, nella stessa legge o in altri documenti95 . È abbastanza evidente
che la scelta dipende da opzioni precedenti, cioè dalla nota teoria secondo
la quale il processo per giuria non è che l’evoluzione di un processo svolto
dal magistrato con l’assistenza di un consilium.
Il modo di procedere di Mommsen e di Kunkel, a prescindere dai risultati, mette tuttavia allo scoperto il punto cruciale, cioè che il significato
«proprio e originario» di quaerere non può essere stabilito se non si considera il verbo in rapporto alla sua costruzione. Questa considerazione, tanto banale quanto ineludibile, riapre tuttavia interamente il problema, e
non permette di chiuderlo, almeno non con l’individuazione di un significato ristretto da attribuire a quaerere (e quaestio). Infatti, non esiste una
costruzione unica o anche solo privilegiata di quaerere; al contrario, s’incontrano — e abbiamo già incontrato in questa rassegna — le costruzioni
piú varie96.
In taluni casi, oggetto (diretto o indiretto) di quaerere è il reato, ad
es. quaerere de ueneficiis (Liu. 40.43.2: A C. Maenio praetore, cui prouincia
Sardinia cum euenisset additum erat ut quaereret de ueneficiis longius ab
urbe decem milibus passuum) oppure res capitales (Liu. 45.16.4: A. Manlio
Torquato Sardinia obuenerat: nequiit ire in prouinciam, ad res capitales
quaerendas ex senatus consulto retentus). Lo stesso vale, per passare a un
linguaggio ufficiale, per un titolo come iudex quaesitionis rerum capitalium
(CIL. V 862 = ILLRP. 436) oppure come quaestores parricidi (v. Paul.-Fest.
p. 247.19 L.: Parrici<di> quaestores appellabantur, qui solebant creari causa
rerum capitalium quaerendarum)97. In queste costruzioni, quaerere ha il valore di «indagare».
In altri casi, oggetto dell’«inchiesta» è l’autore del reato, come in
Cic. Att. 1.17.8: equites … illud ualde grauiter tulerunt, promulgatum ex
senatus consulto fuisse ut de eis qui ob iudicandum accepissent quaereretur.
In questo passo, come si vede, benché complemento di quaerere siano persone (de eis qui) viene indicato indirettamente anche il titolo di reato (ob
iudicandum accipere). In modo quasi inverso, Cic. Inu. 2.60: non enim
oportet in recuperatorio iudicio eius maleficii, de quo inter sicarios quaeritur,
praeiudicium fieri, costruisce quaerere con riferimento diretto al generico
maleficium (de quo quaeritur), ma indiretto agli autori, che portano con sé
anche il titolo del reato (inter sicarios).
95
Una critica analoga Kunkel, Staatsordnung und Staatspraxis II cit. 144 nt. 169,
ritorce (giustamente) contro Mommsen, reo di avere appoggiato a un singolo passo
(per di piú atecnico, Liu. 6.15.4) l’interpretazione di quaerere come «interrogare l’imputato». Per un’esatta critica al Kunkel, v. già Venturini, Studi sul «crimen repetundarum» nell’età repubblicana cit. 184 nt. 130. 96 V. anche Römisches Strafrecht cit. 147
nt. 3, che sembra in parte modificare — in senso, a mio avviso, piú corretto — la posizione espressa in Römisches Staatsrecht II3 cit. 222. 97 Su questa figura, v., da ultimo,
J.D. Cloud, Motivation in ancient accounts of the early history of the quaestorship and
its consequences for modern historiography, in Chiron 33 (2003) 93 ss.
64
DARIO MANTOVANI
[40]
Da queste testimonianze sembra emergere una polarizzazione verso
il significato di «indagare» su reati e autori di reati. Fedeli a un indirizzo
fin qui seguito, conviene da ultimo verificare questo primo bilancio ricorrendo ai testi normativi, cioè prendendo a testimone linguistico le due leggi giudiziarie a noi meglio note, la Lex repetundarum Tab. Bemb. e la Lex
Cornelia de sicariis et ueneficis.
La prima, pur nella sua ampiezza, non fornisce spunti decisivi (ove si
escluda di seguire Kunkel nel dare peso preminente alla l. 29). Tutt’al piú,
si deve ricavare, in negativo, che il termine quaestio non include la funzione di iudicium (iudicatio e litis aestimatio), visto che si tratta di termini che
vengono contrapposti a designare funzioni distinte. Con quest’accertamento sembra coerente la presenza di un composto di quaerere, conquirere (qui ancora nella grafia conquaerere), che in due norme della Lex repetundarum (l. 31: iubetoque] conquaeri in terra Italia in oppedeis foreis
concilia[boleis; l. 34: quai ita conquaesiuerit) si riferiscono ad un’attività di
ricerca, di cose o di persone, con ogni probabilità a fini di prova (come
rende pressoché certo la loro inclusione nella parte dedicata proprio a
questo tema). Del resto, piú in generale, sembra che le prove mirino a
quaerere rem, cioè a accertare i fatti di reato: cfr. l. 32: quod eius rei quaerundai censeant referre. In questo senso, la Lex rep. Tab. Bemb. sembra accreditare l’idea che quaerere/quaestio indichi l’attività di inchiesta (escluso
il giudizio) su fatti (e autori) di reato.
In parte diverso è il tessuto della Lex Cornelia de sicariis et ueneficis,
che dispone (Ulp. 7 de off. procos., Coll. 1.3.1): ut … praetor … quaerat
cum iudicibus, qui ei ex lege sorte obuenerint, de capite eius, qui cum telo
ambulauerit hominis necandi furtiue faciendi causa …98. La singolarità di
questa costruzione sta nel fatto che quaerere non si riferisce qui né all’autore né al fatto di reato, ma solo indirettamente ad essi e direttamente al
caput (quaerat de capite eius qui …), a indicare ovviamente che si trattava
di una res capitalis 99.
Sembra si tratti di un costrutto tecnico, analogo, anche se non identico, a capite anquirere, come in Liu. 8.33.17 (capite anquisitum ob rem bello
male gestam de imperatore nullo ad eam diem esse)100 o capitis anquirere in
Liu. 26.3.7 (cum bis pecunia anquisisset, tertio capitis se anquirere dicere, 8.
tribuni plebis appellati collegae negarunt se in mora esse quominus, quod ei
98
Si veda supra § 3, per il rapporto fra questa porzione del testo e quella che la
precede. 99 Nella citazione-parafrasi che Cic. Cluent. 148 offre del capitolo de ueneno
della stessa Lex Cornelia de sicariis et ueneficis, la struttura è in parte diversa: Iubet lex
… quaerere de ueneno. In quem quaerere? Infinitum est. ‘Quicumque fecerit uendiderit
emerit habuerit dederit’. Quid eadem lex statim adiungit? Recita. ‘Deque eius capite quaerito’. L’enclitica -que lascia intendere che la clausola de capite fosse qui coordinata alla
descrizione del comportamento incriminato, e non già integrata in esso come nella norma sui sicari (sempre che la congiunzione non sia un’aggiunta dovuta a Cicerone: sembra considerarla tale Ferrary, Lex Cornelia de sicariis et veneficis cit. 426, che ricostruisce
il capitolo de ueneno secondo la medesima struttura di quello de sicariis). In questo resoconto ciceroniano è da notare inoltre, il costrutto quaerere in aliquem. 100 Cfr. il costrutto parallelo con pecunia (Liu. 26.3.5): Bis est accusatus pecuniaque anquisitum.
[41]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
65
more maiorum permissum esset, seu legibus seu moribus mallet, anquireret
quoad uel capitis uel pecuniae iudicasset priuato): da notare, in quest’ultimo
esempio liviano, la distinzione fra anquirere e iudicare. Del resto, anquirere
è composto di quaerere ed è dunque plausibile che non troppo distante
debba essere la loro semantica101, come del resto quella di un altro composto, inquirere, che in età repubblicana (lungi dall’eterogenesi di significato
moderna) tende ad avere il significato tecnico di attività istruttoria, di raccolta delle prove, condotta dall’accusatore privato102.
In conclusione, appare poco produttivo cercare di precisare oltre
una certa soglia il significato di quaerere/quaestio — magari per applicarlo a sostegno dell’una o dell’altra teoria — il cui valore si situa all’interno
di un campo semantico piuttosto vasto, occupato anche da verbi composti, il cui valore ultimo è quello di «indagare» (quaerere) e di «inchiesta»
(quaestio)103.
Dell’ampiezza semantica di quaerere — che sconsiglia di ridurre la
parola a un solo significato — erano del resto ben consapevoli i Romani,
come mostra questa variazione sul tema di cui si compiace Plauto, in un
testo che rispecchia sicuramente (anche per l’argomento) il linguaggio giudiziario e con cui conviene concludere anche la nostra inchiesta:
Amph. 1012 ss.: Apud emporium atque in macello, in palaestra atque
in foro / in medicinis, in tonstrinis, apud omnis aedis sacras / sum defes101
Anquirere non è solo termine della lingua giuridica; verbo prediletto da Cicerone (cosí ThLL. I 122, s.v. «anquiro»), si incontra anche in varie accezioni tipiche
di quaerere, come «speculare, chiedersi» (Cic. Nat. Deor. 1.30: … quid sit … deus anquiri) oppure «acquistare» (Cic. Off. 1.11: Principio generi animantium omni est a natura tributum ut … omnia … quae sint ad uiuendum necessaria anquirat et paret, ut
pastum, ut latibula, ut alia generis eiusdem). L’osservazione che quaerere e anquirere
corrispondono semanticamente e giuridicamente è già di Mommsen, Römisches Straf102
recht cit. 164.
V. ThLL. VII.1 1819, s.v. «inquisitio» (per il significato giuridico,
I A 1); ibid., 1815, s.v. «inquiro» (c. alterum, I A 1). Per il valore generale di «ricerca,
investigazione», basti citare Cic. Off. 1.13: In primis … hominis est propria ueri inquisitio atque inuestigatio; per l’accezione tecnica di attività istruttoria dell’accusatore
privato, v. Cic. II In Verr. 2.11: Ecquem existimatis umquam ulla in provincia reum absentem contra inquisitionem accusatoris tantis opibus, tanta cupiditate esse defensum?
Su questo significato — e sull’inopportunità, perciò, di utilizzare l’aggettivo «inquisitorio» a designare il processo unilaterale — v. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare cit. 55 nt. 1, con altre fonti relative all’età repubblicana. Per l’esame
delle leges del Teodosiano nelle quali compaiono i lemmi inquirere/inquisitio/inquisitor, v. ora F. Botta, Poteri inquirenti e processo (lezione tenuta a Napoli presso l’Ass.
Studi Tardoantichi il 6 maggio 2008). 103 Cosí A.W. Zumpt, Der Kriminalprozess der
römischen Republik (Leipzig 1871 rist. Aalen 1993) 200: «In älteren Zeiten hatte der
Beamte, wie sein allgemeiner Name quaesitor beweist, allerdings auch die Pflicht
gehabt, Verbrechen und Verbrecher aufzusuchen»; Venturini, Studi sul «crimen repetundarum nell’età repubblicana cit. 184 nt. 130: quaerere e quaestio designano «una
potestà di indagine»; Santalucia, Diritto e processo penale cit. 103 nt. 1: «… il termine
quaestio … designava l’attività del magistrato investito del compito di indagare (quaerere) col suo consilium su determinati illeciti …» (per altri aspetti dell’opinione dell’a., v. supra nt. 9; 62; 66).
66
DARIO MANTOVANI
[42]
sus quaeritando, nusquam inuenio Naucratem. / Nunc domum ibo atque
ex uxore hanc rem pergam exquirere, / quis fuerit quem propter corpus
suom stupri compleuerit. / Nam me quam illam quaestionem inquisitam
hodie amittere / mortuom satiust.
Il testo, tipicamente plautino, rende con il ritmo la concitazione di
Anfitrione, che vuole scoprire con chi la moglie l’abbia tradito. Per fare
capire che nulla si lascia di intentato, Plauto scompone l’inchiesta (quaestio) nelle sue fasi, ricorrendo a derivati di quaero che ne mettono in luce
l’uno o l’altro aspetto, a dimostrazione dell’ampiezza del termine: quaeritando Naucratem (quaerito, iterativo di quaerere, esprime la ricerca affannosa del sospettato in tutti i luoghi della città); ex uxore hanc rem exquirere significa l’accertamento del fatto mediante la domanda; quaestio designa complessivamente il tentativo di accertare chi abbia commesso lo stuprum; inquisitam — con il prefisso negativo, nel senso di «senza risposta»
— indica la rinuncia alla quaestio (ma gioca anche con il valore positivo di
inquirere con prefisso intensivo).
12. Conclusioni. — I risultati dell’inchiesta lessicale e semantica possono essere riepilogati nei seguenti punti:
a) legislativamente, quaestio era la funzione del praetor (o del iudex
quaestionis) mentre iudicium, iudicatio e litis aestimatio quella dei giudici;
b) il termine iudicium, nella Lex rep. Tab. Bemb., viene usato per indicare nel suo complesso il processo criminale regolato dalla legge stessa
(e quaestio iudicium<q>ue publicum per indicare il processo criminale per
giuria in generale);
c) nei testi normativi tardorepubblicani, il termine tecnico per indicare i processi criminali per giuria era iudicium publicum (locuzione che,
tuttavia, non si può escludere abbia potuto abbracciare anche il processo
criminale davanti al popolo, il populi iudicium; quand’anche ciò fosse
vero, il riferimento al processo per giuria è quantitativamente schiacciante,
anche nella lingua comune);
d) quaestio era usata frequentemente come termine alternativo per
designare il processo criminale per giuria, là dove non ci fosse rischio di
equivoco (specialmente, con l’accezione di quaestio nel senso di tortura
giudiziaria). A scanso di equivoci, quaestio era qualificata da aggettivi, specialmente quaestio publica (molto piú raramente quaestio legitima). In coerenza al principio sub a), quaestio si usava di preferenza quando ci si riferiva al pretore (o al iudex quaestionis), di cui era anzi, quanto meno funzionalmente, una prouincia, assegnata a sorte almeno a partire dalla Lex de
pecuniis repetundis graccana;
e) i Romani (in coerenza ai principi sub a-d) chiamavano iudicium de
pecuniis repetundis (oppure, molto piú raramente, quaestio de pecuniis repetundis) ciò che noi chiamiamo quaestio repetundarum, che è una locuzione mai attestata dalle fonti;
f) dal punto di vista semantico, quaerere significa «indagare» e quaestio l’«inchiesta» mirante a un giudizio. Conviene dunque servirsi di que-
[43]
«QUAERERE», «QUAESTIO». INCHIESTA LESSICALE E SEMANTICA
67
ste parole nelle traduzioni, specialmente quando il contesto faccia cadere
l’accento sull’attività del pretore (o iudex quaestionis);
g) essendo la quaestio, il quaerere, un’attività, non è invece giustificato tradurre la parola con «corte» o «tribunale (permanente)»: il latino non
presenta casi di quest’uso metonimico e si rischia, servendosene, di offuscare la configurazione dell’istituto romano. Perciò, quando ci si voglia riferire al processo nel suo complesso, conviene partire dal termine usato
dai Romani, cioè iudicium (publicum): includendo il riferimento qualificante all’organo giudicante, la locuzione si potrebbe tradurre «giudizio
criminale per giuria».
Pavia.
DARIO M ANTOVANI
SOMMARIO
xv
Sommario
del volume
VII
Luigi Labruna, «Index»
T EMI E PROSPETTIVE DI DIRITTO CRIMINALE ROMANO.
[P ER BERNARDO SANTALUCIA ]
111
Luigi Labruna, «‘Die Linien des Lebens sind verschiedenen ...’: il
‘primo’ Santalucia»
119
Oliviero Diliberto, «Il ‘diritto penale’ nelle XII Tavole: profili palingenetici»
125
Dario Mantovani, «Quaerere, quaestio. Inchiesta lessicale e semantica»
169
Carlo Venturini, «Variazioni in tema di provocatio ad populum»
185
Tullio Spagnuolo Vigorita, «Procuratoris cognitio de lege Fabia»
101
Patrizia Giunti, «Identità di genere e modelli repressivi»
113
Luigi Garofalo, «In tema di iustitium»
131
Eva Cantarella, «La ulciscendi libido e le nuove concezioni retributive della pena»
137
Andreas Wacke, «Le finalità della sanzione penale nelle fonti romane»
151
Luigi Capogrossi Colognesi, «Ritratto di uno studioso»
157
Vincenzo Giuffrè, «Il nuovo interesse per lo studio della repressione criminale e Bernardo Santalucia»
167
Bernardo Santalucia, «Schade, es war so schön ...»
T RADIZIONE ROMANISTICA E METODO STORICO- GIURIDICO
175
Gábor Hamza, «Das römische Recht und die Privatrechtsentwicklung in Ungarn»
VIII
SOMMARIO
207
Manuel Jesús Díaz Gómez, «Contrato de juego I. Derecho romano»
219
Valerio Massimo Minale, «Lo ‘zakonik’ di Stefan Dušan e i suoi
legami con la legislazione bizantina»
229
Ignacio Cremades, «La clasificación de las acciones inglesas sobre
las romanas o el destino de la romana clasificación de las acciones
en in rem e in personam en el derecho inglés»
247
Paola Santini, «Savigny alla ricerca dell’ordine giuridico»
251
Martin Avenarius, «Le prime dottrine di Savigny sul diritto delle
obbligazioni»
P ERSONE
271
Armando Torrent, «Praemium libertatis ex senatus consulto Silaniano»
S UCCESSIONI
293
Daniela Di Ottavio, «Sui precedenti retorici della querela inofficiosi testamenti nel I sec. a.C.»
LA GIURISPRUDENZA
319
Alfonso Castro Sáenz, «Perfiles de Lucilio Balbo»
337
Maria Dolores Floría Hidalgo, «Controversias jurisprudenciales
sobre préstamos y depósitos»
DIRITTI GRECI
355
Marco Migliorini, «Sui diritti greci»
DISCORSO SUL METODO
397
Okko Behrends, «Das Schiff des Theseus und die skeptische
Sprachtheorie. Die Rationalität der antiken römischen Rechtssysteme und das romantische Rechtsbild Dieter Nörrs»
SOMMARIO
IX
453
Luigi Capogrossi Colognesi, «Per una migliore conoscenza della
storia romana arcaica e delle sue istituzioni»
469
Federico Maria d’Ippolito, «L’inquietudine dello storico»
RICORDI
483
J. Michael Rainer, «Theo Mayer-Maly»
BIBLIOGRAFIE
493
Sergio Castagnetti, «Bibliografia degli scritti di diritto penale romano di Bernardo Santalucia»
501
Sergio Castagnetti, Paola Santini, «Gli ‘scritti italiani’ di Franz
Wieacker»
517
LIBRORUM INDEX, a cura di Fabiana Tuccillo
NOTIZIE
553
Sergio Capasso, «L’VIII Congresso Aristec»
559
Carlos Sánchez-Moreno Ellart, «Spaces of Justice in The Roman
World»
561
Valeria Di Nisio, «Il VI Cedant»
563
Alessandro Manni, «Diritti umani a San Sebastián-Donostia»
564
Marcella Chelotti, «Su Venafro antica»
570
Veruska Verratti, «L’eredità della storiografia marxista»
571
Paola Santini, Fabiana Tuccillo, «Le contrat dans tous ses états: la
SIHDA 2008 a Fribourg»
573
Natale Rampazzo, «La Società italiana di storia del diritto a Foggia e Trani»
X
SOMMARIO
574
Valerio Massimo Minale, «Introduzione al diritto bizantino: il Cedant 2009»
581
Paolo Mammola, Francesco Verrico, «Corruzione, diritto romano,
simulazione processuale: Second International Roman Law Moot
Court & Conference»
583
Luigi Labruna, «Saperi, esperienze, amicizia, diritto romano»
586
Cosimo Cascione, «Die ‘italienischen Schriften’ von Okko
Behrends»
589
Okko Behrends, «Dankesworte»
594
Valerio Massimo Minale, «Bizantini in Italia»
597
Francesca Lamberti, «Leda»
598
Paolo Vigo, «L’Aula magna di Cassino intitolata a Francesco Salerno»
599
Dieter Nörr, «Anhang»
S ESTA PAGINA
601
Antonio Guarino, «Exit»
609
Cosimo Cascione, «Oreficeria romanistica (e non solo)»
I NDICE
613
«Libri discussi»
Volume realizzato con l’intervento del «Dipartimento di Scienze giuridiche e politiche» dell’Università di Camerino e del «Consorzio interuniversitario Gérard Boulvert per lo studio della civiltà giuridica europea e per la storia dei suoi ordinamenti»
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