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LA GESTIONE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO
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L’OSSERVATORIO GIURISPRUDENZIALE
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EDITORE E PROPRIETARIO Gruppo Euroconference Spa Via E. Fermi, 11/a – 37135 Verona DIRETTORE RESPONSABILE Francesco Natalini RESPONSABILE REDAZIONALE Sara Cunego COMITATO SCIENTIFICO DI REDAZIONE Evangelista Basile Marco Frisoni Luca Vannoni ABBONAMENTO ANNUALE Euro 140 Iva esclusa PERIODICITÀ E DISTRIBUZIONE Mensile ISSN 2039‐6716 STAMPA Autorizzazione del Tribunale di Verona n.878 del 21 novembre 2003 SERVIZIO CLIENTI Per informazioni su abbonamenti, argomenti trattati, numeri arretrati, cambi di indirizzo: 045/8201828 ‐ fax 045/502430. E_mail: [email protected]
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maggio 2013 il
Giurista del Lavoro
Il m e n s i le d i g i u r i s p r u d e nz a e d o t t r i n a g i u s l a v o r i s t i c a p e r l a g e s t i o n e d e l c o n t e n z i o s o
2013
maggio
Il punto di vista 5 L’art.18 dello Statuto dei lavoratori e la sua applicabilità ai licenziamenti ante Riforma Fornero di Gabriele Fava e Daniele Colombo Approfondimenti 7 I fondamenti giuridici del rapporto di lavoro all'estero e le tutele in caso di licenziamento di Francesco Natalini 20 Il patto di prova e le conseguenze del recesso illegittimo di Edoardo Frigerio 25 Responsabilità datoriale ai sensi dell’art.2087 c.c. e azione di regresso dell’Inail: osservazioni alla luce di alcune recenti pronunce della Cassazione di Davide Venturi 30 Part time: strumenti ed effetti dell’aumento della prestazione di lavoro di Franco Balbi e Maria Lughezzani 35 Il patto di stabilità e la procedura di assunzione nelle P.A. di Gesuele Bellini 40 La Riforma Fornero in materia di licenziamento individuale e i riflessi in materia di applicazione dell’art.2112 c.c. di Marco Frisoni Clausole e accordi nel contratto di lavoro 47 Nuove conferme dalla Cassazione sulla qualificazione del trasfertismo di Luca Vannoni La gestione delle controversie di lavoro 50 Lavoro intermittente: profili ispettivi alla luce delle recenti indicazioni ministeriali di Fabrizio Nativi L’osservatorio giurisprudenziale 55 L’Osservatorio giurisprudenziale di maggio a cura di Evangelista Basile 3
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Il punto di vista il
Giurista del Lavoro
L’art.18 dello Statuto dei lavoratori e la sua applicabilità ai licenziamenti ante Riforma Fornero di Gabriele Fava – Chairman Studio Legale Fava & Associati e di Daniele Colombo – Socio Studio Legale Fava & Associati Una nota società telefonica impugnava avanti la Corte Suprema la decisione della Corte d’Appello, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente, il quale aveva abusato del telefono cellulare aziendale. Fra i motivi di gravame introdotti dalla ricorrente con ricorso ex art.378 c.p.c. veniva invocata l’applicazione della nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti rinveniente nel testo novellato dell’art.18, L. n.92/12. La Corte, nella sentenza n.10550 del 7 maggio 2013, con motivazione che non può esulare da approfondita disamina, respingeva le domande tutte e, segnatamente, stabiliva l’incompatibilità dell’immediata applicazione ai processi in corso dell’attuale regime sanzionatorio introdotto con la Riforma Fornero. Secondo il ragionamento della Corte, l’inammissibilità della domanda troverebbe principale fondamento nell’introduzione, ad opera della Legge di Riforma, di una “nuova, complessa ed articolata disciplina dei licenziamenti che ancora le sanzioni irrogabili per effetto della accertata illegittimità del recesso a valutazioni di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità, ma anche con una eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo”, ciò oltre a contrastare con “il principio della ragionevole durata del processo”. La posizione critica delle argomentazioni a sostegno dell’inapplicabilità delle conseguenze sanzionatorie dell’art.18 ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore della Legge di Riforma vengono peraltro espresse di seguito nella pronuncia de qua, osservando che l’art.18 ha comportato un “evidente stravolgimento del sistema di allegazioni e prove nel processo, che non è limitato ad una modifica della sanzione irrogabile … ma si collega ad una molteplicità di ipotesi diverse di condotte giuridicamente rilevanti cui si connettono tutele tra loro profondamente differenti”. Non sembra che la nuova formulazione dell’art.18 abbia inciso sul sistema delle prove e delle allegazioni, presentando alcune aporie nell’indagine interpretativa della Corte. Sul punto, è infatti opportuno rammentare semplicemente a chi legge che la stessa L. n.183/10 (Collegato Lavoro) prevedeva già un’indagine dei presupposti del licenziamento che tenesse in considerazione i codici disciplinari ovvero le previsioni contenute nei Ccnl applicabili: impianto che non è stato peraltro modificato dall’attuale Legge di Riforma. La diversa modulazione delle tutele previste dall’art.18, in base alla tipologia di ingiustificatezza, così come peraltro rammentato dalla sentenza in commento, non è quindi intervenuta a modificare il riparto dell’onere probatorio nel processo del lavoro, che continua ad essere retto dall’art.5 della L. n.604/66, che va tutt’oggi applicato a tutti i processi in tema di licenziamento. Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che “il lavoratore che agisce in giudizio per conseguire i rimedi contro il licenziamento illegittimo ha l'onere di provare l'esistenza del licenziamento, spettando al datore di lavoro provare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo” (Cass. 14 gennaio 2013, n.700). La pronuncia in commento si distingue, inoltre, per aver mantenuto una posizione ondivaga in merito alla questione attinente l’applicazione dello ius superveniens in materia di rapporti di lavoro, delineando il percorso logico‐giuridico in termini di inammissibilità della domanda di accertamento nei giudizi di legittimità, in quanto “sistema unico che non incide sul solo apparato sanzionatorio ma impone un approccio diverso alla qualificazione giuridica dei fatti incompatibile con una sua immediata applicazione ai processi in corso”. In altri termini, a giudizio della Corte, l’art.18 nuovo testo non si applica, in quanto del tutto diverso da quello precedente sia sotto il profilo dei presupposti di legittimità sia sotto il profilo sanzionatorio. Conformemente al ragionamento che sembrerebbe essere sotteso a questa sentenza, si potrebbe sostenere l’applicazione della novella relativa alla modifica dell’art.18 a tutti i licenziamenti per cui non sia ancora decorso il termine di impugnazione o che siano ancora sub iudice, tenuto conto che, contrariamente a quanto affermato, i presupposti di legittimità, di allegazione e di prova non sono mutati rispetto al passato, rimanendo, di fatto, del tutto intatti. 5
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Giurista del Lavoro
In altri termini, siccome la recente Riforma non è intervenuta sui presupposti di legittimità del licenziamento, che continuano ad essere retti dall’invariata disciplina sostanziale di cui alla L. n.604/66, ma solo sulle misure sanzionatorie, le quali hanno subito solo una diversa modulazione, si sarebbe potuta affermare l’applicabilità dell’art.18 anche ai licenziamenti intimati anteriormente all’entrata in vigore della Riforma che siano ritenuti illegittimi, in considerazione del fatto che “la normativa sopraggiunta” è “pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso” (Cassazione civile, sez. lav., 26 luglio 2011, n.16266). 6
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I fondamenti giuridici del rapporto di lavoro all'estero e le tutele in caso di licenziamento a cura di Francesco Natalini – Direttore Responsabile dei periodici di Centro Studi Lavoro e Previdenza e Consulente del Lavoro in Vercelli Si deve in primo luogo premettere che i fondamenti giuridici del rapporto di lavoro all’estero trovano la loro fonte primaria nella Costituzione che, all'art.35, co.4, tutela il lavoro italiano all'estero e riconosce la libertà di emigrazione. Alla Carta costituzionale si aggiungono anche le norme transazionali, riconducibili al diritto internazionale privato (c.d. d.i.p.) che, da parte loro, stabiliscono l'obbligo per ciascuno Stato:  di formulare e attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire per i lavoratori migranti e per i familiari degli stessi la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive;  di adottare tutte le disposizioni necessarie e opportune per sopprimere le forme di migrazione clandestina e di occupazione illegale di lavoratori migranti, anche contro gli organizzatori di movimenti migratori illeciti o clandestini. Va però anticipato che, in questa materia, l’interprete, dovendosi confrontare con un coacervo di discipline interne e internazionali (comunitarie e non), si trova spesso di fronte a difficoltà ben superiori rispetto a quelle emergenti dall’esegesi del solo diritto interno, essendo costretto non solo a valutare attentamente i complicati (e non ben definiti) rapporti gerarchici tra le varie fonti, ma anche a tenere conto che le insidie possono provenire semplicemente da una mera traduzione di termini e di concetti, il cui senso voluto dalla norma transazionale (o da essa derivata) non sempre collima con il senso attribuito a quel termine dalla lingua italiana. I fondamenti giuridici del diritto internazionale poggiano a loro volta su alcuni principi generali a cui la normativa (interna o transazionale) deve conformarsi. Il presente intervento è, per l’appunto, impostato in modo da fornire una mera disamina generale, sotto un profilo teleologico, di tali principi, declinandone i tratti essenziali, affinché da questi si possa arrivare a comprendere quale siano gli obiettivi e le finalità che intendono perseguire, rimandando il lettore, per un maggior approfondimento, alla normativa, alla giurisprudenza e alla copiosa prassi amministrativa. Gli unici ambiti in cui la libertà di circolazione può avere limitazioni giustificate esclusivamente da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica, da cui consegue che, se non si verte in tali ipotesi, sussiste il diritto di:  rispondere a offerte di lavoro;  spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri per la ricerca di un’occupazione; Il principio della libera circolazione delle persone all’interno della UE Ricordiamo che l’ordinamento giuridico nazionale non prevede (né potrebbe prevedere) particolari vincoli o adempimenti amministrativi per assumere o trasferire lavoratori italiani in Paesi appartenenti alla Comunità economica europea, salvo il rispetto delle norme di pubblica sicurezza. Infatti, gli artt.45, 47 e 49 del Trattato sul funzionamento dell'unione europea del 25 marzo 1957 (ratificato con L. n.1203/57), come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (ratificato con L. n.130/08), sanciscano il principio della libera circolazione dei lavoratori cittadini di uno Stato membro all'interno della Comunità, da cui discende quale necessario corollario che non può sussistere (o permanere) nell’ordinamento alcuna norma che preveda una qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto concerne l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.  prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività lavorativa, conformemente alle medesime disposizioni legislative, regolamen‐
tari e amministrative che disciplinano l'occupazio‐
ne dei lavoratori nazionali;  restare, a condizioni che costituiranno l'oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commis‐
sione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. In attuazione dei predetti principi i Regolamenti comunitari prevedono, tra l'altro, che: 7
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 per ogni cittadino di uno Stato comunitario, a Giurista del Lavoro
Nel concreto ciò sta a significare che, in attuazione di tali principi, dal punto di vista procedurale e documentale, l’ingresso e il soggiorno del lavoratore comunitario non è subordinato al possesso preven‐
tivo di un contratto di lavoro nello Stato membro e, ai fini dell'assunzione, è sufficiente la presentazione di un documento di identità in corso di validità, da cui risulti la nazionalità del soggetto. Un contratto di lavoro subordinato o autonomo risulta invece necessario quando egli intenda soggiornare per un periodo superiore a tre mesi, a cui si deve aggiungere la disponibilità di risorse economiche adeguate, nonché di un'assicurazione sanitaria al fine di non gravare economicamente sullo Stato membro ospitante. A tale riguardo, allo scopo di garantire comunque il diritto di soggiorno oltre i tre mesi per lo svolgimento dell'attività lavorativa o per la ricerca del lavoro, è previsto, per tutta la Comunità, il rilascio della carta di soggiorno di cittadino comunitario, con una validità minima di 5 anni, mentre se un cittadino UE risiede legalmente in altro Stato membro per un periodo ininterrotto di cinque anni acquisisce addirittura il diritto di soggiorno permanente in tale Stato, che potrà perdere solo qualora si assentasse dal predetto Stato per un periodo continuativo superiore a due anni. Il principio della lex loci laboris Una valutazione prioritaria, da farsi quando una prestazione lavorativa non viere resa nell’ambito del territorio nazionale, riguarda proprio il luogo in cui questa viene o verrà svolta (c.d. loci laboris). È infatti fondamentale sapere dove il lavoro verrà prestato, in quanto la disciplina applicabile al rapporto di lavoro dipende di norma dal Paese di destinazione del lavoratore (cioè il “Paese di lavoro”), a prescindere quindi dalla sede in cui è ubicato il datore di lavoro o dalla residenza dello stesso lavoratore2. Tale principio, che tende a privilegiare la sovranità territoriale di ogni Stato, emerge in tutta la sua criticità allorquando si verte in materia previdenziale. prescindere dal luogo di residenza, sussista il diritto di accedere a un'attività di lavoro subordinato e di esercitarla sul territorio di un altro Stato comunitario, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e ammini‐
strative che disciplinano l'occupazione dei lavoratori nazionali di detto Stato;  ogni cittadino di uno Stato comunitario, sul territorio di un altro Stato comunitario, debba godere della stessa precedenza riservata ai cittadini di detto Stato, per l'accesso agli impieghi disponibili;  ogni cittadino di uno Stato comunitario o ogni datore di lavoro che esercita un'attività sul territorio di uno Stato comunitario possono scambiare le loro domande e offerte d'impiego, concludere contratti di lavoro e darvi esecuzione, conformemente alle vigenti disposizioni legisla‐
tive, regolamentari e amministrative, senza che possano risultarne discriminazioni;  per tali motivi, non sono applicabili le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative e le prassi amministrative di uno Stato comunitario che limitano o subordinano a condizioni non previste per i nazionali la domanda e l'offerta d'impiego, l'accesso all'impiego e il suo esercizio da parte degli stranieri ovvero che, sebbene applicabili senza distinzione di nazionalità, hanno per scopo o effetto esclusivo o principale di escludere i cittadini degli altri Stati comunitari dall'impiego offerto1. In ossequio a quanto sopra enunciato i regolamenti comunitari stabiliscono l'inapplicabilità delle disposi‐
zioni o delle prassi che in uno Stato comunitario:  prevedono il ricorso a procedure speciali di reclutamento di manodopera per gli stranieri;  limitano o subordinano a condizioni diverse da quelle applicabili ai datori di lavoro che esercitano la loro attività sul territorio di detto Stato l'offerta di impiego per mezzo della stampa o con qualunque altro mezzo;  subordinano l'accesso all'impiego a condizioni d'iscrizione ai centri per l’impiego o ostacolano il reclutamento nominativo di lavoratori, quando si tratta di persone che non risiedono sul territorio di detto Stato. 2
In ipotesi di prestazioni temporanee e di breve durata, come nel caso della trasferta, si applica la legislazione italiana, anche se le criticità anche in questo caso non mancano, in quanto non è sempre facile identificare la zona di confine tra trasferta, trasferimento o assegnazione di breve durata (distacco). Inoltre se non c’è accordo tra i Paesi non viene meno la potestà territoriale dello stato di lavoro, anche se la prestazione si è protratta per pochi giorni. Infine, le disposizioni sul lavoro all'estero, non si applicano ai lavoratori marittimi ed agli appartenenti al personale di volo, ai quali continua ad applicarsi la legislazione italiana. 1
Unica eccezione riguarda la possibilità di pretendere la conoscenza della lingua italiana in relazione all’attività da svolgere. Questa eventualità può fungere da selezione e da sbarramento, ancorché indiretto, all’avviamento di lavoratori non nazionali. 8
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Giurista del Lavoro
Infatti se è vero, com’è vero, che il lavoratore deve essere assoggettato alla legislazione del Paese di lavoro e, quindi, anche a quella previdenziale, se dovesse svolgere, in ragione della tipologia di attività esercitata, reiterati periodi di lavoro all’estero (immaginiamo un installatore di impianti particolari o un responsabile commerciale), verosimilmente si troverebbe a fine carriera ad avere un puzzle di contribuzioni versate qua e là in vari Stati, con il rischio magari di non raggiungere (in nessuno di essi) i requisiti minimi pensionistici o, quel che è peggio, di perdere la contribuzione accreditata perché inutiliz‐
zabile. Ma dato che tale problema sussiste per tutti i lavoratori cittadini di uno Stato (o comunque ivi soggiornanti per motivi di lavoro), quando prestino l’attività al di fuori dei confini, è stata quasi una scelta obbligata, per le autorità nazionali, cercare di trovare una soluzione pattizia attraverso convenzioni bilaterali, visto che il medesimo problema sussiste, evidentemente, a parti invertite, per i lavoratori di ogni Stato. Per quanto concerne i Paesi comunitari la convenzione è per così dire “compresa nel prezzo”, nel senso che aderire alla Comunità europea significava (e significa) aderire anche alla Conven‐
zione Europea di sicurezza sociale. Ciò appare più evidente per i Paesi che sono arrivati per ultimi a farne parte: in particolare i paesi dell’ex blocco sovietico e da ultimi, la Romania e la Bulgaria. ?
Trattasi semplicemente di una deroga (bilaterale) al principio della lex loci laboris. Vale a dire che, rispetto alla regola generale, in base alla quale si dovrebbe applicare la legislazione (e quindi anche quella previdenziale) dello Stato in cui si svolge l’attività lavorativa, in questi casi si applica (o per meglio dire si può applicare) la legislazione previdenziale dello Stato di invio. Le convenzioni, inoltre, assicurano, in subordine, la possibilità di beneficiare della totalizzazione dei periodi contributivi e di poter “esportare” le prestazioni negli altri Stati membri (ad es. disoccupazione/ASpI). A questa disciplina “convenzionale” hanno aderito nel corso degli anni anche altri Paesi europei, formalmente non comunitari, ma appartenenti allo Spazio SEE (Norvegia, Islanda e Liechtenstein) oltre alla Svizzera3, ma anche numerosi Paesi extracomunitari tout‐court. Pertanto, quando ci si approccia alla disciplina previdenziale da seguire, una prima distinzione deve essere fatta tra: 1. Paesi dell'Unione europea e dello Spazio economico europeo (SEE) e Svizzera4; 2. Paesi extracomunitari convenzionati; 3. Paesi extracomunitari non convenzionati; come riassunto nella seguente tabella: Stati Comunitari - Austria - Belgio - Bulgaria - Cipro - Danimarca - Estonia - Finlandia - Francia - Germania - Grecia - Irlanda - Italia - Lettonia - Lituania - Lussemburgo - Malta - Olanda - Polonia - Portogallo - Regno Unito - Repubblica Ceca - Romania - Slovacchia - Slovenia - Spagna - Svezia - Ungheria Ma qual è il meccanismo su cui si basano le convenzioni di sicurezza sociale? Spazio SEE - Liechtenstein
- Norvegia - Islanda Convenzionati Europa - Svizzera - Croazia - San Marino - Vaticano - Bosnia Erzegovina - Ex Jugoslavia - Macedonia - Monaco Altri Paesi - Argentina - Australia - Canada e Quebec - Israele - Jersey - Isola di Man - Isole del Canale - Messico - Capo Verde - Corea - Tunisia - Turchia - Stati Uniti - Uruguay - Venezuela 3
A far data dal 1° giugno 2002, in base all'Accordo stipulato tra la Confederazione elvetica e gli Stati dell'Unione europea (Circ. Inps n.118/02 e n.78/23), mentre per quanto attiene alla Convenzione europea di sicurezza sociale, entrata in vigore il 12 aprile 1990, essa rimane di fatto tuttora applicabile solo nei rapporti con la Turchia. 4
Una disciplina specifica è prevista per i lavoratori c.d. frontalieri, cioè quei cittadini italiani che, pur avendo la residenza e il domicilio in Italia, attraversano ogni giorno il confine nei due sensi in virtù di un contratto di lavoro in base al quale svolgono la propria attività nello Stato estero. 9
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effettivo (nel rispetto del minimale ex art.1, L. n.389/89), bensì su retribuzioni fisse, forfettarie, divise per classi, stabilite in origine proprio dal D.L. n.317/87 e poi aggiornate di anno in anno tramite decreto ministeriale (per il 2013 il decreto è del 7 dicembre 2012)5. Su tali retribuzioni fisse viene altresì riconosciuta una rilevante riduzione di 10 punti percentuali dell’aliquota IVS e altre riduzioni riferite a taluni contributi c.d. minori. Insomma, in questi casi la legge nazionale fa un sensibile “sconto” ai datori di lavoro, in quanto non può escludersi che i medesimi possano essere chiamati a pagare due volte gli oneri contributivi: sicuramente in Italia (ai sensi del D.L. n.317/87), ma anche, verosimilmente, nel Paese di lavoro. Peraltro, il numero delle convenzioni bilaterali è destinato a crescere, in quanto risulta che vi siano nuovi accordi già firmati, in attesa solo di essere ratificati (Cile, Filippine ecc). Per quanto concerne i Paesi extracomunitari esistono invece convenzioni “totali” e convenzioni “parziali” (vedi infra). Il principio della tutela previdenziale del lavoratore italiano: la sentenza della Corte Cost. n.369/85 Se, come si è detto, la deroga al principio della lex loci laboris è possibile nei casi sub 1. e 2., richiamati al precedente paragrafo, non v’è dubbio che il menzionato principio esplica in pieno i suoi effetti nei casi sub 3., cioè quando la prestazione viene resa in un Paese extracomunitario non convenzionato con l’Italia. Ma, se, in ossequio a tale principio, ne deriva l’adozione della disciplina previdenziale del Paese di lavoro, non può escludersi che questa non venga di fatto applicata. Ciò può avvenire per svariate ragioni: in primo luogo perché può trattarsi di un Paese in cui non esiste uno specifico obbligo di contribuzione, oppure perché lo stesso si trova alle prese con emergenze di tipo bellico o gravi sommosse. In tali casi il rischio che avrebbe potuto correre il lavoratore (italiano) chiamato a prestare attività lavorativa in detti Stati era, evidentemente, di trovarsi senza contribuzione (sia pensionistica che assicurativa), in quanto, da una parte, nel luogo di lavoro (pur sussistendone il diritto) nessuno richiedeva il pagamento della contribuzione e, dall’altra, non era consentito poterla versare a un Ente di previdenza italiano. Per sopperire a tale possibile situazione di “vuoto contributivo”, è intervenuta la Corte Costituzionale che, con sentenza n.369 del 30 dicembre 1985, ha sancito l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art.35 Cost., sia dell’art.1 del R.D. n.1827/35 che degli artt.1 e 4 del DPR n.1124/65 (TU Inail), nella parte in cui non prevedevano una copertura del lavoratore italiano inviato all’estero, sollecitando il legislatore a colmare il corrispondente “vuoto normativo” attraverso l’emanazione di una specifica norma, la quale ha visto la luce nel 1987, attraverso il D.L. 31 luglio 1987 (convertito poi in L. n.398/87). Nella richiamata disposizione si prevede che, in tali casi (cioè quando il lavoratore opera in un Paese con cui l’Italia non ha sottoscritto una Convenzione bilaterale di sicurezza sociale), i contributi vadano comunque versati (anche) in Italia (ad es. all’Inps), calcolandoli però non sull’imponibile retributivo Le convenzioni parziali A dire il vero, la distinzione tra Paesi convenzionati e non convenzionati non esaurisce l’ambito delle ipotesi previste, in quanto esistono anche Paesi nei confronti dei quali l’Italia ha stipulato degli accordi di sicurezza “parziali”. In tali casi bisogna verificare quali assicurazioni sono coperte dalla convenzione (es. IVS, malattia, maternità, infortuni ecc) e quali restano escluse. Per le prime (cioè quelle rientranti nella convenzione) la contribuzione va assolta sulle retribuzioni effettive (come se fossero state prodotte in Italia), per le seconde sugli imponibili forfettari stabiliti con decreto. Segue: il principio della tutela in materia di prestazioni assistenziali ‐ Malattia e infortuni professionali Le prestazioni sanitarie spettano ai lavoratori assicurati e ai familiari a carico, ancorché residenti o dimoranti in Italia, secondo le norme della L. n.833/78. In caso di malattia, sul piano procedurale e documentale, è previsto che il lavoratore debba trasmettere, entro cinque giorni dal relativo rilascio, al datore di lavoro, il certificato medico attestante l'inizio e la durata presunta della malattia, nonché inviare il certificato di diagnosi alla locale rappresen‐
tanza diplomatica o consolare che, dopo verifica da parte di un medico di fiducia, ne curerà l'inoltro all'Inps6. 5
A scanso di equivoci, e per evitare fraintendimenti dal punto di vista lessicale, va detto che il regime degli imponibili previdenziali fissi, cioè “convenzionali”, va applicato paradossalmente proprio dove non c’è “convenzione” bilaterale tra i Paesi. 6
Per i particolari oneri di certificazione per i lavoratori italiani all'estero che si trovano temporaneamente in malattia e con 10
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Il sistema di liquidazione e pagamento dell'indennità in favore del lavoratore ammalato nei Paesi extracomunitari non convenzionati è analogo a quello previsto per i lavoratori che si ammalano in Italia. Vale a dire: anticipazione del trattamento da parte del datore di lavoro, con successivo conguaglio in sede di versamento contributivo, ovvero pagamen‐
to diretto a cura dell'Istituto nei casi previsti dalla legge. Per quanto concerne la maternità, l’art.3, co.1, lett.c), del D.L. n.317/87 dispone che l'indennità è dovuta secondo la legislazione nazionale per i periodi previsti dagli artt.4 e 5 della L. n.1204/71 (oggi: artt.16 e 17 del D.Lgs. n.151/01), dietro presenta‐
zione al datore di lavoro e all'Inps dei certificati attestanti rispettivamente la data presunta e quella effettiva del parto, verificati da un medico di fiducia della locale rappresentanza diplomatica o consolare, mentre le prestazioni economiche sono erogate sulla base della retribuzione imponibile convenzionale, determinata con decreto ministeriale. Per evitare la duplicazione della tutela, l’art.3, co.3, del più volte richiamato D.L. n.317/87, prevede che, nel caso in cui per la malattia o l'infortunio o la malattia professionale7 venga corrisposta al lavora‐
tore una prestazione da parte dell'Ente straniero presso il quale è obbligatoriamente iscritto in forza della legge locale, l'Istituto previdenziale italiano erogatore di analoga prestazione economica riduce quest'ultima in misura corrispondente. È altresì previsto (art.3, co.4, 5 e 6 del D.L. n.317/87) che i datori di lavoro anticipino:  le prestazioni economiche di malattia e maternità che sono poi conguagliate in conformità della legislazione nazionale dal datore di lavoro con i contributi dovuti;  le prestazioni economiche di indennità tempo‐
ranea e assoluta dell'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, che sono rimborsate trimestralmente dall'Inail;  le prestazioni di assistenza sanitaria indiretta ‐ cioè erogata da strutture sanitarie locali ‐ dei cui oneri può essere chiesto il rimborso secondo le modalità che seguono. Giurista del Lavoro
Da ultimo, va ricordato che l’art.7, DPR n.618/80, dispone che il diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute per erogare ai propri dipendenti all'estero l'assistenza sanitaria "indiretta" è previsto nei limiti dei livelli garantiti dal SSN (sempre che tali spese siano da ritenersi congrue in relazione a prezzi, tariffe e onorari del luogo, tenuto conto delle possibilità di assistenza sanitaria e degli usi locali) e che le domande di rimborso debbano essere trasmesse alle rappresentanze diplomatiche o conso‐
lari entro 3 mesi dall'effettuazione della relativa spesa, a pena di decadenza dal diritto al rimborso (salvo il caso che l'assicurato non dimostri di non aver potuto rispettare il termine per motivi di forza maggiore). Il principio della “libertà di scelta” rispetto alla normativa applicabile al rapporto di lavoro Va premesso che, in ossequio al contenuto dell’art.57 della L. n.218/95 (legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), i rapporti di lavoro che si svolgono all'estero (sia in Paesi comunitari che extracomunitari) sono discipli‐
nati, in assenza di specifica convenzione applicabile, in base a quanto disposto per le obbligazioni contrattuali dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, resa esecutiva con la L. n.975/84. L'art.6, co.2, della legge da ultimo richiamata attribuisce alle parti (datore di lavoro e lavoratore) la facoltà di scegliere la legge applicabile al rapporto, disponendo che, in mancanza di scelta, il contratto di lavoro venga regolato:  dalla legge del Paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, anche se è inviato temporaneamente in un altro Paese;  dalla legge del Paese dove si trova la sede del datore di lavoro che ha proceduto ad assumere il lavoratore, qualora quest'ultimo non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso Paese, a meno che non risulti dall'insieme delle circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamen‐
to più stretto con un altro Paese (in quest'ultima ipotesi si applica la legge di quest'altro Paese). Sulla materia è stato recentemente emanato anche un Regolamento CE: il n.593/08 definito “Roma I”, con valenza per i contratti conclusi a decorrere dal 17 dicembre 2009, a mezzo del quale si modifica anche la tecnica legislativa: non più un Trattato, seguito da una legge nazionale di recepimento (com’è avvenuto con la L. n.975/84), ma direttamente un regolamento comunitario (direttamente applicabile), con attribu‐
particolare riferimento alla malattia incorsa durante le ferie all'estero si veda quanto esposto in tema di malattia (circ. Inps n.156/88). 7
Va ricordato che, ai sensi dell'art.3, co.1, lett.a) e b), D.L. n.317/87, la tabella delle malattie professionali vigente in Italia può essere aggiornata con apposito decreto del Ministro del Lavoro in relazione alle tecnopatie proprie delle aree geografiche dove i lavoratori svolgono la propria attività. 11
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zione di competenza, in caso di controversia, alla Corte di Giustizia. Va, però, rimarcato che la scelta effettuata dalle parti in merito alla legge regolatrice del rapporto, in base agli art.6, co.1, e art.3, co.1 della L. n.975/84, non vale comunque, in alcun caso, a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle c.d. norme imperative della legge che regolerebbe il contratto in mancanza di scelta. Oltre alle norme imperative la libertà di scelta può Giurista del Lavoro
essere inibita, o quantomeno compressa, quando impatta contro le c.d. N.a.n. (Norme di applicazione necessaria), oggi contemplate oltre che dall’art.7, co.2 della L. n.975/84 e dall’art.17 della L. n.218/95, anche dall’art.9 del richiamato regolamento CE n.593/08. Quindi, allo stato, convivono tre definizioni giuridiche di N.a.n., così suddivise in base al seguente schema e con le relative definizioni: NORME DI APPLICAZIONE NECESSARIA (N.A.N.) Reg. CE n.593/08 (ROMA I) L. n.218/95 L. n.975/84 Art.7 ‐ Disposizioni imperative e legge Art.17 ‐ Norme di applicazione Art.9 ‐ Norme di applicazione necessaria necessaria del contratto 1. Nell'applicazione, in forza della 1. È fatta salva la prevalenza sulle 1. Le norme di applicazione necessaria presente convenzione, della legge di un disposizioni che seguono delle norme sono disposizioni il cui rispetto è paese determinato potrà essere data italiane che, in considerazione del loro ritenuto cruciale da un paese per la efficacia alle norme imperative di un oggetto e del loro scopo, debbono salvaguardia dei suoi interessi pubblici, altro paese con il quale la situazione essere applicate nonostante il richiamo quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da presenti uno stretto legame, se e nella alla legge straniera. esigerne l’applicazione a tutte le misura in cui, secondo il diritto di situazioni che rientrino nel loro campo quest'ultimo Paese, le norme stesse d’applicazione, qualunque sia la legge siano applicabili quale che sia la legge regolatrice del contratto. Ai fini di applicabile al contratto secondo il decidere se debba essere data efficacia presente regolamento. a queste norme imperative, si terrà conto della loro natura e del loro oggetto nonchè delle conseguenze che deriverebbero dalla loro applicazione o non applicazione. 2. La presente convenzione non può impedire l'applicazione delle norme in vigore nel Paese del giudice, le quali disciplinano imperativamente il caso concreto indipendentemente dalla legge che regola il contratto. Altro motivo di compressione del principio della libertà di scelta è rappresentato dal contrasto con le c.d. norme relative all’ordine pubblico (italiano), anche in questo caso disciplinate sia dall’art.16 della L. n.975/84 Art.16 ‐ Ordine pubblico L'applicazione di una norma della legge designata dalla presente convenzione può essere esclusa solo se tale applicazione sia manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico del foro. L. n.975/84 che dall’art.16 della L. n.218/95, oltre che dall’art.21 del regolamento CE “Roma I”, con queste rispettive definizioni: NORME DI ORDINE PUBBLICO L. n.218/95 Art.16 ‐ Ordine pubblico 1. La legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico. 2. In tal caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana. Reg. CE n.593/08 (ROMA I) Art.21 ‐ Ordine pubblico del foro L’applicazione di una norma della legge di un paese designata dal presente regolamento può essere esclusa solo qualora tale applicazione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro. 12
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Va chiarito che, ai sensi delle richiamate discipline, il concetto di “ordine pubblico” non va inteso nella sua mera accezione letterale (e in tal senso si richiama quanto già anticipato in premessa sulle criticità e ambiguità che possono emergere anche solo dalla mera traduzione di termini giuridici di derivazione transnazionale nella lingua italiana), quanto piuttosto quale ambito in cui operano norme che contemplano e tutelano diritti “primari”, “fondamentali”, previsti dall’ordinamento nazionale. Ad esempio, se le parti contrattuali, in caso di lavoro all’estero, optassero per la legislazione del Paese di lavoro, nel quale non fossero garantite norme sulla tutela della maternità, la tutela sarebbe comunque assicurata dalla normativa nazionale, che invece la prevede. Sulla base dell’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale si considerano rientranti nel concetto di norme di ordine pubblico, quelle riguardanti:  (per l’appunto), la maternità;  il godimento delle ferie;  la discriminazione tra uomini e donne8;  la libertà e dignità del lavoratore;  la professionalità;  la tutela in caso di trasferimento d’azienda mentre, al contrario, non sono state classificate come tali le norme (interne) che garantiscono:  la collocazione del riposo settimanale;  le festività;  le modalità di distribuzione e corresponsione della retribuzione;  il divieto di interposizione manodopera;  il Tfr;  la 13ª mensilità9. Sulla vicenda è sorta una diatriba in ordine alla possibilità o meno di ricondurre nella categoria delle norme di ordine pubblico anche le norme in tema di reintegrazione del posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo e, più in generale, la tutela di cui all’art.18 della L. n.300/70. A tal riguardo si rinvia a quanto verrà illustrato nel paragrafo dedicato al recesso dal rapporto di lavoro. In conclusione del capitolo si può riassumere la problematica delle deroghe al principio della liberta di scelta della legislazione da applicare al contratto di lavoro, ribadendo che esistono 3 livelli di protezione: 1. il primo, garantito dalle norme imperative; 2. il secondo, dalle N.a.n.: norme di applicazione necessaria (da autorevole dottrina definite “super‐
imperative”10); Giurista del Lavoro
3. il terzo, assicurato dalle norme di ordine pubblico, cioè da quelle norme assolutamente inderogabili. Tutela del lavoratore italiano da assumere o inviare all’estero: il controllo preventivo “pubblico” Allo scopo di valutare le condizioni di lavoro e di sicurezza, intesa quest’ultima anche come incolumità personale (cioè extra lavorativa), prima di assumere o trasferire lavoratori italiani in Paesi extracomu‐
nitari, al fine di eseguire opere, commesse o attività lavorative, è necessario seguire una specifica procedura, che prevede il rilascio di un'apposita autorizzazione da parte del Ministero del Lavoro, a cui si aggiunge, in taluni casi, anche un nulla‐osta da parte del Ministero degli Affari Esteri11. Va tenuto conto che l’obbligo autorizzativo sussiste a prescindere dal fatto che con il Paese di destinazione siano o meno in vigore i già menzionati accordi bilaterali di sicurezza sociale, visto che in questo caso le finalità perseguite sono diverse. Inoltre, i lavoratori disponibili a prestare attività all’estero devono iscriversi in un’apposita lista, gestita dalle Direzioni Regionali del Lavoro. In ordine all’istanza da presentare per ottenere l’autorizzazione di cui sopra, recentemente, il Ministero del Lavoro, con nota n.11377/12, ha introdotto la dematerializzazione delle procedure, che si estende anche al rilascio del nulla osta al lavoro, parimenti necessario per l’assunzione nei Paesi extracomunitari. In attuazione di tale progetto, a far data dal 15 settembre 2012, è stato attivato il sistema telematico denominato "Lie" (Lista degli italiani che intendono lavorare all'estero), accessibile dal portale internet Cliclavoro (www.cliclavoro.gov.it) del Ministero del Lavoro12. 10
È l’espressione usata da M. Magnani. Atteso che la disciplina contenuta nel D.L. n.317/87 prevede procedure amministrative con specifico riferimento all'"assun‐
zione" o al "trasferimento" di lavoratori italiani per l'esecuzione di opere, commesse o attività lavorative all'estero, è da ritenersi che l'invio di lavoratori italiani in trasferta all'estero non sia subordinato all'espletamento di particolari adempimenti di questo tipo, salvo comunque il rispetto delle norme di pubblica sicurezza. 12
Fino al 31 gennaio 2013, la modalità di presentazione delle domande era duplice, permanendo ancora la possibilità di presentarle anche su carta, secondo la consueta procedura consueta, in base alla quale la domanda al rilascio dell'autorizzazione per l'assunzione o il trasferimento di lavoratori italiani in Paesi extracomunitari deve essere spedita, ai sensi dell’art.1, co.2, D.M. 16 agosto 1988, nonché art.2, DPR n.346/94 ‐ al Ministero del Lavoro, Direzione generale per l'impiego, nonché ‐ in copia ‐ al Ministero degli affari esteri. Attualmente l’unica modalità consentita è quella telematica (on line). 11
8
Le prime tre fattispecie sono riconosciute a livello internazionale. Cass. n.14662/00; Cass. n.23332/04; Cass. n.26976/05. 9
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l’attuale natura dei contratti collettivi (quali fonti di diritto comune) e il possibile contrasto con l’art.39 Cost.;  il contratto di lavoro per l'estero stabilisca il tipo di sistemazione logistica, impegni il datore di lavoro ad apprestare idonee misure in materia di sicurezza sul lavoro nonché preveda la possibilità per il lavoratore, nel caso che le autorità del Paese d'impiego pongano restrizioni ai trasferimenti di valuta, di ottenere ‐ fermo restando il rispetto delle norme valutarie italiane e del Paese d'impiego ‐ il trasferimento in Italia della quota di valuta trasferibile delle retribuzioni corrisposte all'estero;  sia stata stipulata una polizza assicurativa a favore del lavoratore inviato all'estero a svolgere attività lavorativa per ogni viaggio di andata e di ritorno al e dal luogo di lavoro e di rientro dal luogo stesso in caso di morte o di invalidità permanente;  il Ministero degli Affari Esteri rilasci il proprio parere preventivo favorevole e non comunichi al Ministero del Lavoro che le condizioni generali del Paese di destinazione non offrono idonee garanzie alla sicurezza del lavoratore (art.2, co.3, D.L. n.317/87). Per velocizzare l’iter autorizzativo e per semplificare le procedure va ricordato che, in base a quanto stabilisce l'art.4, co.1, del DPR n.346/94, l'accerta‐
mento delle condizioni politiche, sociali e sanitarie dei Paesi di destinazione viene operato, preventiva‐
mente, ogni anno dal Ministero degli Affari Esteri, che formula un elenco dei Paesi per i quali non occorre il proprio parere preventivo (c.d. Paesi white list). L'autorizzazione viene rilasciata dal Ministero del Lavoro nel termine di 75 giorni dalla presentazione della richiesta, ovvero di 90 giorni se presentata all'estero, trascorsi i quali, applicandosi la formula del silenzio‐assenso, l'autorizzazione si intende concessa13. Laddove, invece, fosse necessario il parere del Ministero degli Affari Esteri, da rilasciarsi entro 45 giorni dalla data di ricevimento della copia dell'istanza, i termini per l'autorizzazione decorrono dalla data del ricevimento del suddetto parere da In ogni caso la domanda deve contenere l'indicazione (art.1, co.6, D.M. 16 agosto 1988):  della persona fisica o giuridica per la quale ricorre l'obbligo dell'autorizzazione;  del numero dei lavoratori interessati e dei corrispondenti livelli e trattamenti economico‐
normativi, distinguendo tra personale a tempo determinato e indeterminato e tra personale da assumere o da trasferire;  della località dove questi ultimi sono inviati e dell'eventuale programmazione di nuove assun‐
zioni e/o trasferimenti;  dell'impegno ad adempiere agli obblighi derivanti al richiedente dalla normativa vigente;  l’autocertificazione d'iscrizione alla Camera di commercio o al registro delle società di data non anteriore a 6 mesi;  la copia del contratto di appalto o, se l'attività da svolgere all'estero non costituisca l'oggetto di un appalto, la specificazione dell'attività contrattuale o del titolo giuridico inerente l'attività medesima (per le organizzazioni sindacali non governative una corrispondente dichiarazione rilasciata dal Ministero degli Affari Esteri – art.1, co.5, D.M. 16 agosto 1988). Peraltro, per i datori di lavoro non aventi sede nel territorio nazionale è necessario anche avere (ai sensi dell’art.1, co.4, D.M. 16 agosto 1988), la documentazione relativa al conferimento per atto pubblico del mandato ad una persona fisica o giuridica residente in Italia e della corrispondente accettazione del mandatario, con responsabilità solidale per l'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal D.L. n.317/87, mentre se la domanda è presentata direttamente essa va corredata di documentazione equipollente tradotta in lingua italiana e autenticata dalle autorità consolari italiane (vedi infra). Per quanto concerne il rilascio dell’autorizzazione, a norma dell'art.2, co.4, del D.L. n.317/87, esso è subordinato alla condizione che:  il trattamento economico e normativo offerto al lavoratore sia complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore e sia distintamente prevista l'entità delle prestazioni in denaro o in natura connesse allo svolgimento all'estero del rapporto di lavoro. Va ricordato che su questa previsione sono sorte in dottrina alcune perplessità sulla possibile valenza erga omnes di tale previsione, stante 13
Qualora si renda necessaria una modifica o un'integrazione della documentazione presentata dal richiedente, il Ministero del Lavoro ne dà comunicazione allo stesso entro 60 giorni, indicando le modifiche o le integrazioni. In tal caso, i termini per il rilascio dell'autorizzazione decorrono una sola volta dalla data di ricevimento, da parte del Dicastero, dell'istanza regolarizzata o completata (art.5, co.2, DPR n.346/94). 14
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lieve) di reato contravvenzionale punito con la sola ammenda è possibile, a parere di chi scrive, accedere all’istituto della prescrizione obbligatoria ex art.15 del D.Lgs. n.124/04 ed estinguere il reato pagando una sanzione amministrativa ridotta a ¼ del massimo (€ 258,00), cifra tutto sommato contenuta, che in alcuni casi potrebbe far addirittura propendere il datore di lavoro, che si trova “stretto con i tempi” e che non vuole attendere la data del rilascio (o quella da cui decorre il silenzio‐assenso), a correre il rischio (mettendo quindi in preventivo la possibile sanzionabilità), inviando comunque il lavoratore all’estero senza autorizzazione. Come già accennato, in caso di assunzione direttamente all’estero, il datore di lavoro deve, dopo aver ottenuto l'autorizzazione di cui sopra, ottenere il relativo nulla osta sempre dalla predetta Direzione regionale. Il datore di lavoro che riceve il nulla osta deve comunicare l'assunzione del lavoratore entro le 24 ore precedenti l'inizio del rapporto di lavoro, inviando il modello Unilav secondo le consuete modalità previste nel D.M. 30 ottobre 2007 e annotare sul LUL i dati relativi ai lavoratori occupati presso sedi operative situate all'estero. Rientrano nel concetto di “tutela preventiva” nei confronti del lavoratore, in attuazione del richiamato principio, anche le informazioni che per legge devono essere fornite all'atto dell'assunzione. Infatti, in occasione dell'avviamento del lavoratore a svolgere la sua prestazione lavorativa all'estero per un periodo superiore a 30 giorni, prima della partenza e comunque entro 30 giorni dall'assunzio‐
ne, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore, ai sensi del D.Lgs. n.152/97, le seguenti informazioni: parte del Ministero del Lavoro, mentre qualora nei 10 giorni successivi alla fine del periodo di 45 giorni il prescritto parere non sia pervenuto, lo stesso si considera come acquisito in senso favorevole all'espatrio e i termini per il Ministero del Lavoro decorrono dall'ultimo dei predetti 45 giorni (art.4, DPR n.346/94). L'art.2, co.5, D.L. n.317/87 stabilisce infine che qualora i datori di lavoro abbiano depositato contrat‐
ti‐tipo concordati con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale o che abbiano espressamente aderito a tali contratti, la richiesta di autorizzazione all'assunzione o al trasferi‐
mento all'estero si intende accolta:  se il Ministero del Lavoro non provvede nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda corredata della relativa documentazione;  se il Ministero del Lavoro non provvede entro 90 giorni dalla data di ricezione della domanda e della relativa documentazione, qualora il Ministero stesso ovvero il Ministero degli Affari Esteri abbiano comunicato, entro 30 giorni dalla data della ricezione suddetta, di dover procedere a ulteriori accertamenti. Adottando tale procedura si riducono quindi di molto i termini per il rilascio dell’autorizzazione e, quindi, anche per l’attiva‐
zione del c.d. silenzio‐assenso in caso di inerzia del Ministero del Lavoro. Ciò si spiega, evidente‐
mente, con il fatto che le condizioni contrattuali non devono essere completamente verificate in quanto, conformandosi al contratto‐tipo, sono già ‐ preventivamente ‐ considerate idonee. Inoltre, per i predetti datori di lavoro è prevista, in eccezionali casi di comprovata necessità e urgenza, la facoltà di assumere o trasferire all'estero i lavoratori senza attendere l'esito della domanda di autorizza‐
zione, previa comunicazione dell'assunzione o del trasferimento ai Ministeri del Lavoro e degli Affari Esteri, da effettuarsi entro i tre giorni precedenti le assunzioni o trasferimenti. Ancorché la procedura sia ormai telematica (online), se si intende far ricorso ai contratti tipo è necessario comunque far riferimento a una procedura specifica, come viene evidenziato nelle FAQ contenute nel portale Cliclavoro. Sul fronte sanzionatorio l’art.2‐bis del D.L. n.317/87 prevede che i datori di lavoro i quali, senza l'autorizzazione del Ministero del Lavoro, impieghino fuori del territorio nazionale lavoratori italiani, sono puniti con un’ammenda da € 258,00 a € 1.032,00 e, nei casi più gravi, con l'arresto da tre mesi a un anno. Peraltro, trattandosi (nel primo caso, cioè quello più  durata del lavoro da effettuare all'estero;  valuta in cui verrà corrisposta la retribuzione;  eventuali vantaggi in danaro o in natura collegati allo svolgimento della prestazione lavorativa all'estero;  eventuali condizioni del rimpatrio del lavoratore14. Il principio della tutela allargata del lavoratore italiano all’estero Come si noterà, analizzando il contenuto dell’art.2 del D.L. n.317/87, se ne ricava un obbligo di ricorrere all’autorizzazione preventiva anche in presenza di “datori di lavoro stranieri”. 14
L'informazione relativa alle indicazioni di cui alle lett.b) e c) può essere effettuata mediante rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al lavoratore (art.2, D.Lgs. n.152/97). 15
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Vale a dire che, per un italiano che, ad esempio, vada a lavorare a Shanghai in un ristorante, alle dipen‐
denze di un datore di lavoro “straniero”, cioè non avente sede nel territorio nazionale, quest’ultimo dovrebbe chiedere l’autorizzazione al Ministero del Lavoro italiano, al punto che per tali ipotesi la legge prevede il conferimento per atto pubblico del mandato a una persona fisica o giuridica residente in Italia e la corrispondente accettazione del manda‐
tario con responsabilità solidale per l'adempimento di tutti gli obblighi ex D.L. n.317/87, mentre se l’istanza è presentata direttamente essa va corredata di documentazione equipollente tradotta in lingua italiana e autenticata dalle autorità consolari italiane. Giurista del Lavoro
Il concetto di residente fiscale é declinato dall’art.2, co.2 del Tuir, dal quale si ricava che la circostanza che i lavoratori svolgano attività lavorativa all’estero, in via continuativa, non basta ad acquisire la residenza fiscale all’estero, nel senso che rimangono ancora qualificati residenti fiscali in Italia ai sensi della norma richiamata, se detti lavoratori conservano comunque in Italia il domicilio o la residenza ai sensi dell’art.43 c.c.. Peraltro, anche qualora il lavoratore si fosse stabilito all’estero (in virtù del contratto) e avesse provveduto alla cancellazione dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente del proprio Comune iscrivendosi all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti all’Estero)16, tale circostanza (pur necessaria) non è considerata sufficiente dall’Ammi‐
nistrazione Finanziaria per perdere lo status di residenti (fiscali) in Italia, laddove il soggetto mantenga, comunque, in Italia o il “luogo della propria dimora abituale” (residenza) o il centro dei propri affari e interessi (cioè il centro degli interessi professionali, economici o degli affetti familiari)17. Ne deriva quindi che, nel caso di lavoratore (cittadino) italiano che svolga la sua attività all’estero, si possono presentare due opzioni: 1. lavoratore italiano che, avendo spostato il domicilio o la residenza all’estero, è assoggettato unicamente al regime fiscale di quel Paese; 2. lavoratore italiano che, non avendo la residenza fiscale all’estero, resta comunque soggetto Irpef. Nel caso sub 2), se tra i due Paesi non vi sono convenzioni fiscali, ivi comprese quelle contro le doppie imposizioni (nel qual caso la loro disciplina prevale sul Tuir, ponendosi come norma gerarchica‐
mente superiore), è abbastanza probabile che il lavoratore possa subire una doppia tassazione: a. nel Paese di residenza fiscale, in virtù del principio di attrazione in quel Paese di tutti i redditi prodotti dal residente fiscale (in qualunque luogo siano stati prodotti); b. nel Paese di lavoro, in virtù del principio in base al quale esiste un’evidente sovranità fiscale di uno Stato sui redditi prodotti sul suo territorio (che in La domanda che, però, sorge spontanea è la seguente: ma quali obblighi, previsti da una legge italiana, possono gravare su un datore straniero e che assume sul suo territorio? E quali sanzioni, possono essere applicate in caso di inadempimento? ?
Ovviamente, verosimilmente, nessuno potrà perseguire il datore di lavoro straniero nel caso in cui ometta di richiedere l’autorizzazione, per difetto di territorialità da parte degli Organi preposti alla vigilanza e, di riflesso, anche da parte dell’Autorità Giudiziaria nazionale. Forse l’unico vantaggio potrebbe derivare per il lavoratore (italiano) dal poter richiedere l’intervento di prestazioni assistenziali in Italia a prescindere dall’assicurazione del datore di lavoro estero (es. dall’Inail in caso di infortunio). Il principio fiscale della tassazione universale e quello tendente a evitare la doppia imposizione Premesso che fino al 31 dicembre 2000 i redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero, ancorché da residenti fiscali in Italia, erano tassati unicamente nello Stato estero di lavoro e non soggiacevano all’Irpef, dal 2001 si è tornati al regime “ordinario”, il quale, facendo leva sul principio della tassazione universale, c.d. worldwide income taxation, dispone (ex art.3 del Tuir) la tassabilità nel nostro Paese:  di tutti i redditi, ovunque prodotti, se il soggetto è residente fiscale in Italia;  solo di quelli prodotti in Italia se il soggetto non è residente fiscale in Italia15. 16
L'Anagrafe degli italiani residenti all'estero ‐ AIRE ‐ è stata istituita con la circolare Istat n.22/69 e è regolamentata dalla L. n.470/88. L’anagrafe è costituita da schedari che raccolgono le schede individuali e le schede di famiglia rimosse dall'Anagrafe della popolazione residente in ragione del trasferimento all'estero delle persone cui si riferiscono, nonché di quelle istituite in seguito a trascrizione di atti di stato civile pervenuti dall'estero. L'AIRE è gestita dai Comuni in cui erano residenti gli interessati o i loro ascendenti e presso il Ministero dell'Interno. 17
Cfr. circolare n.304/E del 2 dicembre 1997; circolare n.9/E del 26 gennaio 2001; R.M. n.351/E del 7 agosto 2011. 15
Ai sensi dell’art.23, co.1, lett.c) del Tuir si considerano prodotto nel territorio dello Stato i redditi derivanti da lavoro dipendente ivi prestato. 16
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qualche modo riconduce al già richiamato principio della lex loci laboris). Per attenuare tale impatto, ancorché sia previsto che le imposte definitivamente pagate all’estero possano essere recuperate attraverso il meccanismo del credito d’imposta (anche se fino a concorrenza dell’imposta pagata in Italia sull’importo del reddito prodotto all’estero18), il Legislatore, attraverso l’introduzione del co.8‐bis, all’art.51 del Tuir, ha permesso (per il soggetto ancora residente fiscale in Italia che svolge la sua attività in modo continuativo all’estero, cioè per più di 183 giorni in un anno solare e in via esclusiva) di poter calcolare l’Irpef su un imponibile forfettario (di norma diviso per settori e per classi), anziché sulla retribuzione effettiva, con tutti i vantaggi che ne possono derivare da tale criterio impositivo, in quanto determinate somme o valori, erogati al lavoratore in aumento rispetto alla retribuzione nazionale (es. indennità estero, benefit) ed eccedenti l’importo previsto per la classe, restano completamente detassati. Va ricordato che tali importi sono gli stessi che ogni anno, a mezzo di un decreto ministeriale (che prende le mosse dal D.L. n.317/87), vengono emanati per determinare l’importo della retribuzione imponibile previdenziale su cui calcolare i contributi, laddove la prestazione del lavoratore venga resa in Paesi con i quali non esiste un accordo bilaterale di sicurezza sociale. In buona sostanza il Legislatore dell’art.51, co.8‐bis ha “preso a prestito” gli stessi importi previsti (imponibili contributivi) nei confronti di quei lavoratori inviati in Paesi non convenzionati sul piano previdenziale/assistenziale/assicurativo con l’Italia. Ovviamente, ancorché si sia adottato lo stesso parametro imponibile, sia a livello previdenziale che fiscale, non significa necessariamente che debbano essere applicati congiuntamente, potendosi determi‐
nare situazioni nelle quali a livello previdenziale si debba adottare la retribuzione effettiva e a livello fiscale quella forfettaria o viceversa, ma anche che si applichi sempre quella effettiva (ad es. in caso di lavoratore che svolge la sua attività in un Paese convenzionato a livello previdenziale, soggiornandovi per un periodo inferiore a 183 giorni in un anno solare) o sempre quella forfettaria (ad esempio nel caso di lavoro svolto in un Paese extra‐UE non convenzionato, per un periodo superiore a 183 giorni Giurista del Lavoro
in un anno solare). Va però tenuto presente che il recupero del credito di imposta per imposte pagate all’estero deve rispettare la proporzione esistente tra l’imponibile forfettario e quello effettivo, nel senso che lo scomputo può avvenire solo in ragione della quota percentuale di imposta corrispondente al rapporto tra i due imponibili. Ad esempio: se l’imponibile forfettario ex art.51, co.8‐bis è pari all’80% di quello effettivo, anche il credito per le imposte pagate all’estero può essere scomputato dal lavoratore nella stessa misura (e non al 100%). La tutela in caso di recesso Riprendendo quanto già anticipato quando si è trattato del principio della libertà di scelta della legislazione applicabile al contratto, si è detto che la medesima scelta non può impedire comunque l’applicazione delle norme relative all’ordine pub‐
blico del Paese i cui organi giudiziari dovrebbero applicare detta legge (in questo caso dell’Italia), come si evince dall’art.16 della L. n.975/84, dall’art.16 della L. n.218/95 e dall’art.21 del Regolamento CE n.593/08. In tal senso è doveroso segnalare che, in materia di recesso, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la tutela ex art.18 della L. n.300/70, che prevede come beneficio primario nei confronti del lavoratore la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (o perlomeno questa era l’impostazione di base prima delle modifiche apportate dalla Riforma Lavoro alla norma statutaria), vada ascritta nel novero di quei diritti primari, fondamentali, per l’appunto rientranti nel concetto di ordine pubblico. Trattasi della sentenza n.15822/0219, per la verità molto criticata in dottrina e smentita, per una vicenda analoga, da un'altra giurisprudenza di merito (vedi infra), nella quale si arriva a sostenere che: “Nel caso in cui un rapporto di lavoro sia sorto, sia stato eseguito e si sia risolto all'estero, e se le parti, al momento della stipulazione, non hanno esercitato la facoltà di scelta di cui all'art. 3 della Convenzione di Roma 19 giugno 1980, esso è regolato dalla legge del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, a meno che questa legge, previa verifica che il giudice è tenuto ad eseguire d'ufficio, non risulti manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico italiano; in quest'ultimo caso il giudice applicherà i criteri di cui all'art. 4 della Convenzione di Roma 19 giugno 1980”. 18
Va detto che, essendo l’Italia un Paese con una tassazione comunque elevata, tale problema di incapienza non dovrebbe verificarsi, atteso che la nostra tassazione è quasi sempre superiore a quella di altri Paesi e quindi è possibile recuperare, di norma, l’intero credito di imposta. 19
Si veda anche la recente Cassazione n.1302 del 21 gennaio 2013. 17
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Nella vicenda in esame la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, in quanto non aveva tenuto conto del suesposto principio, e in particolare della contrarietà all'ordine pubblico italiano di una normativa, quale quella in vigore negli Stati Uniti d'America, che non prevede una tutela contro il licenziamento ingiustificato, o comunque non prevede un’eguale garanzia. La Corte ha ritenuto peraltro che la disciplina della tutela contro il licenziamento illegittimo sia comunque di natura contrattuale, atteso che dal contratto discendono non solo i singoli specifici vincoli direttamente voluti dalle parti, bensì anche quelli previsti dalla legge (artt.1339 e 1374 c.c.): attraverso norme dispositive (non espressamente escluse dalle parti ‐ art.1487, co.1 c.c.) o norme inderogabili (art.1487, co.2 c.c.). In questo ambito, come si diceva, si collocherebbero quindi le norme che disciplinano lo scioglimento del contratto di lavoro a tempo indeterminato con il licenziamento: in particolare, il divieto di licenzia‐
mento senza giusta causa o giustificato motivo (art.1, L. n.604/66), e l'obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro (art.18, L. n.300/70). Questo divieto e questo obbligo sono vincoli che, pur previsti dalla legge e con norme inderogabili, traggono la loro causa immediata (ex art.1374 c.c.) dal contratto: hanno pertanto natura contrattuale (e di essi il Ccnl è ‐ talora ‐ solo una non necessaria risonanza). Quando, dunque, si deduce la violazione ‐ da parte del datore di lavoro ‐ dei limiti inerenti alla sua facoltà di recesso del rapporto di lavoro, si deduce un inadempimento contrattuale. Pertanto, nell'ambito dei rapporti fra il diritto interno e il diritto straniero, questo inadempimento, riguar‐
dando un'obbligazione contrattuale, deve essere valutato (secondo la Cassazione) alla stregua del diritto applicabile in virtù della Convenzione di Roma 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (art.57, L. n.218/95). Il caso concreto affrontato nella sentenza n.15822/02 riguardava l'accertamento dell'illegittimità del licen‐
ziamento intimato a un lavoratore per la lamentata assenza di giusta causa e giustificato motivo e la reintegrazione nel posto di lavoro presso la sede di New York, ove egli era stato assunto, aveva lungamente lavorato ed era stato licenziato. Ma, una volta assodato che trattavasi di violazione di un obbligo contrattuale, si trattava di stabilire se la violazione di norme in tema di licenziamento (con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro) Giurista del Lavoro
potesse integrare il concetto di violazione di norme di ordine pubblico. Come ogni clausola generale, anche questa, da una parte esige la specificazione dell'interprete, mentre dall’altra (riconoscendo all’interprete maggiore spazio e autonomia) consente di adeguare il principio non solo ai multiformi irripetibili aspetti assunti dalla realtà di un determinato momento storico, bensì anche ai “mutamenti della coscienza nel tempo”20, atteso che “l'esigenza che i principi del nostro ordinamento debbano essere intesi non in senso astratto ed universale bensì in relazione alla coscienza della convivenza in un determinato momento storico, è stata rilevata anche dalla giurisprudenza”21. In tal modo l'ordine pubblico non è costituito da singole norme imperative (nelle quali non si identifica, espressamente differenziandosene ‐ artt.643, 1343 e 1354 c.c.), né dai principi generali dell'ordinamento (che, deducibili attraverso progres‐
siva generalizzazione delle singole norme e in ognuna di queste restando inscritti, non sono ipotizzabili come esterno limite delle stesse), né da singole norme costituzionali (lo specifico limite dell'ordine pubblico non avrebbe ragione e funzione alcuna). L’ordine pubblico è quindi costituito dai principi che formano la “struttura etica della convivenza”, che certamente comprendono le regole fondamentali poste dalla Costituzione (e dalle leggi a base degli istituti giuridici nei quali si articola l'ordinamento positivo nel suo adeguarsi all'evoluzione della società), ma non si esaurisce con essa, in quanto non tutti i principi caratterizzanti l'ordinamento giuridico italiano sono posti dalla Costituzione (concorrendovi anche le leggi), di talché il concetto di ordine pubblico non può essere ridotto nell'ambito, molto più ristretto, dei supremi principi costituzionali. Ovviamente, a questo punto era necessario ricon‐
durre il predetto concetto alla disciplina del recesso dal rapporto di lavoro. Per fare ciò la Corte richiama sia la Costituzione, che vede il lavoro come fondamento della Repubblica (art.1, co.1 Cost.) nonché fondamentale diritto‐dovere d'ogni cittadino (art.4 Cost.), sia la legislazione ordinaria: "la libertà e la dignità" del lavoratore (L. n.300/70), la professionalità (art.2103 c.c.), l'anzianità (ad es. l'art.5 della L. n.223/91), nonché la protrazione del 20
In tal modo, la stessa formula, inizialmente recependo i valori emersi dalla Rivoluzione francese ‐ dalla dottrina definiti come le grandi idee di "libertà e dignità" della persona ‐ ha poi espresso i valori del sec. XIX con l'art.10 preleggi del cod. civ. del 1865, quindi le idee del codice del 1942, e ora i principi dell'ordinamento repubblicano. 21
Cass. n.3399/55 e Cass. n.1428/52. 18
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rapporto in alcune ipotesi di sospensione del lavoro (come le leggi sulla Cassa per l'integrazione dei guadagni) e nel trasferimento d'azienda (art.2112 c.c.). Sulla materia specifica del licenziamento la Corte ricorda che il progressivo irrigidimento delle norme interne in materia, che ha portato a un’area di applicabilità meramente residuale della recedibilità ad nutum, ex art.2118 c.c., costituirebbe la prova secondo cui "la stabilità del posto di lavoro costituisce principio di ordine pubblico". L’interpretazione adottata dalla Corte è stata criticata da una parte della dottrina22, in quanto sembra effettivamente eccessivo ricomprendere la normativa di tutela contro il licenziamento nell’am‐
bito delle norme contro l’ordine pubblico, anche perché non va sottaciuto che una larga fetta di imprese non sono soggette all’art.18 (quindi non si tratta di norma di applicazione generalizzata) e nondimeno non si può certo immaginare che esse possano violare, in caso di licenziamento, una norma contraria all’ordine pubblico. Inoltre, non va sottaciuto che l’art.18 era anche stato anche ammesso a referendum abrogativo (Corte Cost. n.46/00), da che si deduce che la normativa in esame non può essere assurta a rango di “elemento essenziale del nostro ordinamento”. Si diceva che esiste anche un orientamento giurisprudenziale opposto, ancorché si tratti di giurisprudenza di merito, che ha ritenuto invece che “nella nozione di ordine pubblico internazionale non rientra la disciplina dei licenziamenti collettivi”23. Pertanto, la sensazione che se ne trae è che la Corte sia partita dal voler riconoscere una tutela sostanziale al lavoratore licenziato all’estero, costruendo a ritroso una cornice giuridica che potesse portare a legittimare il proprio pensiero, anche se va rimarcato che tale orientamento è stato poi ribadito in una successiva sentenza del 200724. In materia di recesso non vanno poi sottaciute altre pronunce che, ad esempio, hanno stabilito che la legittimazione passiva in capo alla società che ha intimato il licenziamento sussiste qualora, in base al quadro probatorio, si evinca che il contratto di lavoro era stato stipulato tra il lavoratore licenziato e la predetta società (estera) e non con la società presso cui il lavoratore effettivamente prestava la propria attività. Ciò significa che, qualora venga appurato che quest'ultima sia solo una semplice filiale, che agisce per conto e nell'interesse della prima società, senza dunque avere alcuna titolarità in merito ai rapporti contrattuali e, in particolare, con quelli di lavoro, il rapporto viene imputato all’impresa principale (datrice di lavoro “sostanziale”)25. Da ultimo si cita anche una risalente pronuncia della giurisprudenza di merito26, nella quale, partendo dal presupposto di dover applicare a un licenziamento la legge italiana (magari, semplicemente, per effetto di opzione), si affrontano due aspetti peculiari della materia:  il concetto di “comune” al cui ambito fa riferimento l’art.18 per valutare la consistenza numerica aziendale; 22
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 l’obbligo di esperire il c.d. repechage. Nel primo caso il giudice ritenne che si potesse fare capo alla corrispondente istituzione locale straniera e nel secondo stabilì che la ricerca di un’eventuale occupazione alternativa deve essere estesa all’intero complesso aziendale e non limitarsi al solo Paese estero di destinazione, quantomeno nel caso in cui il lavoratore abbia manifestato la propria disponibilità a lavorare anche in altri Paesi esteri. A. Stanchi e R. Restelli: Lavoro all’estero e risoluzione del rapporto, in “Diritto e Pratica del Lavoro” n.3/05. 23
Tribunale di Napoli, sentenza 29 aprile 2003. Cass. n.10549 del 9 maggio 2007. Cass. n.16579 del 15 luglio 2010. 26
Pretura di Milano del 26 aprile 1988. 25
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Il patto di prova e le conseguenze del recesso illegittimo a cura di Edoardo Frigerio – Avvocato in Como Il patto di prova nel rapporto di lavoro è regolato, da ormai un settantennio, dall’art.2096 c.c.. Tuttavia, nonostante la risalenza della norma e la giurisprudenza pluridecennale che si è espressa in merito, numerose questioni appaiono ancora irrisolte soprattutto in tema di conseguenze del recesso illegittimo, durante la prova, da parte del datore di lavoro. La questione si complica, e di molto, a seguito dell’entrata in vigore della Riforma del lavoro dettata dalla L. n.92/12 che avendo, come noto, modificato notevolmente l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, avrà un’incidenza anche nelle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del recesso in prova. mansioni e attività su cui verte la prova o se, al contrario, sia sufficiente il rinvio alla classificazione del contratto collettivo applicato. In base alla disciplina codicistica e legale, il recesso delle parti durante il periodo di prova è libero, senza obbligo di motivazione e nemmeno di forma scritta. Considerando che la vigente normativa impone la forma scritta del licenziamento e l’indicazione delle motivazioni dello stesso, il recesso delle parti durante o al termine del periodo di prova ne costituisce un’evidente eccezione, essendo uno dei limitati e residuali casi di libera recedibilità durante il rapporto di lavoro. Ciò in considerazione della ratio stessa del patto di prova, ovvero consentire alle parti contrattuali di valutare discrezionalmente l’opportu‐
nità e la convenienza dell’instaurando rapporto di lavoro a tempo indeterminato (potendo peraltro la prova essere apposta anche ai rapporti a termine). La possibilità di libera recedibilità durante la prova è stata però oggetto di frequenti interventi giurispru‐
denziali, quasi esclusivamente sul versante datoriale, da oltre un quarantennio. Al riguardo la più importante e risalente pronuncia si può individuare nella sentenza della Corte Costituzionale n.189 del 22 dicembre 1980, che, se da una parte dichiarava l’illegittimità costituzionale delle norme sul patto di prova nelle parti in cui non prevedevano anche per il lavoratore il diritto al trattamento di fine rapporto e alle ferie maturati durante il periodo di prova, dall’altra rigettavano la questione di legittimità costituzionale in relazione alla mancanza dell’obbligo per l’imprenditore di motivare il licenziamento del dipendente in periodo di prova. Al riguardo il giudice delle leggi affermava che l’assoluta ed eccessiva discrezionalità da parte del datore di lavoro nel recesso in prova (paventata dalle ordinanze di rimessione alla corte da parte di diversi tribunali) e che poteva trascendere in comportamenti vessatori e lesivi della dignità del lavoratore, in realtà non sussisteva: ciò in base alla formulazione dell’art.2096, che prevede l’obbligo delle parti a Le caratteristiche del patto di prova Come a tutti noto, il patto di prova è un elemento accessorio, e quindi non essenziale, del rapporto di lavoro e può quindi sussistere o meno a seconda della volontà delle parti. Tale patto è regolato dall’art.2096 c.c., che così stabilisce: “l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. Le regole del patto di prova sono poi completate dall’art.10 della L. n.604/66, che stabilisce come la disciplina limitativa dei licenziamenti non si applichi ai lavoratori (impiegati e operai, non applicandosi le norme limitative dei licenziamenti ai dirigenti) in prova, ma solo a quelli la cui assunzione sia divenuta definitiva e, in ogni caso, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. Per la validità del patto di prova occorre quindi che vi sia la forma scritta e che la sua stipulazione avvenga in un momento anteriore o contestuale alla stipula‐
zione del contratto di lavoro, dovendo comunque tale stipula sempre precedere l’inizio della presta‐
zione lavorativa. Si ritiene che nel patto di prova debbano essere indicate le mansioni in relazione alle quali tale prova è stata pattuita: al riguardo la giurisprudenza, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, è piuttosto oscillante sulla specificità di tale indicazione, se debba essere cioè analitica delle 20
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conversione in via definitiva dell’assunzione sin dal suo inizio. Da ciò era derivato, secondo tale pronuncia della Cassazione, che il licenziamento, comminato dall’azienda nell’ambito della recedibilità ad nutum e basato esclusivamente sul mancato superamento del periodo di prova, doveva considerarsi illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo. Altra sentenza della Suprema Corte, la n.23224/10, ha così sintetizzato i principi alla base della libera recedibilità durante il periodo di prova, derivanti dall’art.2096 c.c. e dall’art.10, L. n.604/66: “il rapporto di lavoro subordinato costituito con patto di prova è sottratto, per il periodo massimo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali, ed è caratterizzato dal potere di recesso del datore di lavoro, la cui discrezionalità si esplica senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso: rilevandosi, peraltro, che detta discrezionalità non è assoluta, e deve essere coerente con la causa del patto di prova, sicché il lavoratore, che non dimostri il positivo superamento dell’esperimento nonché la imputabilità del recesso del datore di lavoro a un motivo estraneo a tale causa, e quindi illecito, non può eccepire né dedurre la nullità del licenziamento in sede giurisdizionale […]. Un siffatto illecito motivo, quale ragione di nullità di quel recesso, può ritenersi provato in giudizio solo quando, oltre all’avvenuto positivo superamento dell’esperimento, siano dimostrati precisi e specifici fatti concreti i quali comprovino che il recesso non era in alcun modo ricollocabile all’esperimento stesso né al suo esito, ma era dovuto a ragioni del tutto estranee alla sua realizzazione ed alla causa del patto di prova e che integravano dunque così l’unico e determinante motivo (appunto illecito) della decisione del datore di recedere dal rapporto”. Questione non pacifica in giurisprudenza è, come già ricordato, il grado di specificità dell’indicazione delle mansioni che costituiscono oggetto del patto di prova. Recentemente la Cassazione, con la sentenza n.1957/11, ha valutato valido il patto di prova quando le mansioni affidate al lavoratore, tanto più quando trattasi di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo: consentire e a fare l’esperimento oggetto del patto di prova, che, quindi, pone un limite alla suddetta discrezionalità del datore di lavoro. Conseguentemente il recesso del datore di lavoro può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per l’inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato. In sostanza, secondo l’insegna‐
mento della Corte Costituzionale, si può affermare che la discrezionalità del datore di lavoro in occa‐
sione di eventuale recesso in prova si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, cosicché il lavoratore stesso, che ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento della prova nonché l’imputabilità del licenziamento a un motivo illecito, abbia la possibilità di dedurne la nullità avanti al giudice del lavoro. L’invalidità del patto di prova Come detto, scopo dell’esperimento in prova, in base al patto previsto dall’art.2096 c.c., è quello di fare acquisire alle parti adeguati elementi di valutazione sulla reciproca convenienza a un rapporto di lavoro definitivo, valutazione rimessa al giudizio e alla libera disponibilità delle stesse, le quali sono dunque libere di ritenere o escludere tale convenienza. Ciò ricordato, e ricollegandosi ai principi posti dalla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale sopra menzionata, la possibilità del lavoratore di contestare il licenziamento durante il periodo di prova può quindi sostanzialmente attenere a quattro situazioni: 1. invalidità del patto di prova per carenze formali; 2. mancata verifica delle capacità del lavoratore per inadeguatezza temporale del periodo di prova o diversità delle mansioni espletate rispetto a quelle previste dal patto stesso; 3. effettivo superamento della prova; 4. motivo illecito del recesso datoriale. Un non modesto contenzioso si è pertanto sviluppato al fine di verificare, per iniziativa di lavoratori licenziati da datori di lavoro in periodo di prova, l’invalidità del relativo patto e la conseguente illegittimità del recesso datoriale. Al riguardo, la recentissima sentenza n.5404/13 della Cassazione ha confermato una pronuncia della Corte di merito che aveva dichiarato la nullità del patto di prova per mancata specificazione delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere il lavoratore, con conseguente 1. in primo luogo non siano necessariamente indicate in dettaglio, ma anche determinabili in 21
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base alla formula adoperata dalle parti nel contratto: ciò, nella fattispecie esaminata dalla sentenza, nel caso di un direttore amministrativo, con la qualifica di quadro, specificata nella declaratoria del Ccnl Commercio; Giurista del Lavoro
Le conseguenze in caso di nullità del patto di prova e di illegittimità del recesso Tradizionalmente si suole distinguere le conseguenze a carico del datore di lavoro, derivanti dall’illegittimo recesso: 1. da una parte in caso di nullità del patto di prova; 2. dall’altro nell’evenienza di un vizio che riguardi l’esperimento della prova stessa. 2. in secondo luogo quando non sia stata dimostrata la concreta e specifica assegnazione a mansioni non riconducibili al patto di prova. Anche i giudici di merito27 si sono espressi al riguardo, stabilendo che la clausola che prevede il periodo di prova debba contenere, a pena di nullità, l’indicazione delle mansioni precise affidate al lavoratore, elemento formale ‐ desumibile anche dal corpo del contratto ‐ che può ritenersi soddisfatto anche eventualmente facendo riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, purché espressamente richiamata, al fine evidente di consentire al lavoratore di comprendere appieno su quali compiti e mansioni verrà valutata e misurata la professionalità richiesta. Analogamente, è stato stabilito28 come l’art.2096 c.c. non faccia riferimento alcuno alle mansioni, con la conseguenza che, per il principio della libertà delle forme, la lettera di assunzione non debba contenere anche un preciso mansionario, essendo sufficiente l’indicazione detta‐
gliata del profilo assegnato. Per quanto riguarda la dimostrazione dell’eventuale superamento della prova, dell’adibizione a mansioni non oggetto dell’esperimento o del motivo illecito del recesso, l’onere della prova è pacificamente a carico del lavoratore, non applicandosi al recesso in prova la regola dell’art.5 della L. n.604/66, ciò per la già richiamata esclusione operata dall’art.10 della medesima legge. Al riguardo la Cassazione29, annullando una sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila che aveva ritenuto illegittimo il recesso in prova di un’azienda, sul presupposto che il datore di lavoro non era riuscito a dimostrare che il lavoratore non avesse superato la prova, ha precisato che grava sul lavoratore che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso l’onere di provare sia il positivo superamento della prova sia l’imputabilità del recesso a un motivo, unico e determinante, estraneo alla funzione del patto e perciò illecito. Nel primo caso, relativo a vizi formali del patto di prova (ad esempio patto non scritto o successivo all’inizio della prestazione lavorativa o senza sufficiente indicazione delle mansioni oggetto della prova), il rapporto di lavoro è considerato definitivo ab initio e, quindi, il licenziamento deve sottostare alle normali regole previste dalle norme sui licenziamenti, con le conseguenze, in caso di illegittimità del recesso, previste dall’ordinamento, a seconda del numero dei dipendenti del datore di lavoro (in base ai criteri del nuovo art.18 dello Statuto dei Lavoratori, co.8): quindi, a seconda dei casi, la tutela obbligatoria30 o la tutela reale31. Nella seconda eventualità, ovvero nei casi di inadeguatezza della prova, del superamento della stessa da parte del lavoratore o del motivo illecito del recesso dell’imprenditore, non vi sono approdi giurisprudenziali univoci per quanto riguarda le conseguenze del relativo licenziamento. La giurisprudenza maggioritaria della Cassazione32 ha ritenuto, in tali casi, come nell’evenienza di recesso illegittimo da parte del datore di lavoro il dipendente abbia unicamente diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite sino alla fine del periodo di prova o, se possibile, alla prosecuzione della prova per il periodo restante. In particolare la Suprema Corte33 ha precisato che: “in ipotesi di recesso del datore di lavoro prima del compimento del periodo di prova del lavoratore, la declaratoria della sua illegittimità non comporta che il contratto di lavoro debba ormai essere considerato come stabilmente costituito, ma esclusivamente il diritto del lavoratore di terminare la prova e ottenere il pagamento delle retribuzioni per i giorni residui, tenuto presente che il datore di lavoro, nel lasso di tempo tra l’interruzione del periodo di prova e il giorno della prefissata sua scadenza, avrebbe potuto esercitare la facoltà di recesso, senza limiti e condizioni, ai sensi dell’art. 2096 comma 3 c.c.”. 30
Cass., sent. n.5404/13. Cass., sent. n.10440/12; Cass. sent. n.21758/10. 32
Cass., sent. n.2228/99; Cass. sent. n.7821/87. 33
Cass., sent. n.11934/95. 27
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Trib. Milano, sez. lav., sent. 7 aprile 2011, n.1821. 28
Trib. Milano, sez. lav., sent. 22 febbraio 2011, n.897. 29
Cass., sent. n.21784/09. 22
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A tale orientamento si contrappone una pronuncia della Cassazione34, a dire il vero isolata, in base alla quale anche al recesso in prova, ove esercitato per illiceità del motivo, si applicherebbero le tutele, obbligatorie o reali, analoghe ai licenziamenti disposti senza giusta causa o giustificato motivo. Anche i giudici di merito non appaiono sempre concordi nell’individuazione delle conseguenze derivanti dall’illegittimo recesso del datore in caso di viziato esperimento del periodo di prova. Il Tribunale di Monza35, in una fattispecie in cui la prova era stata svolta in un’unità operativa diversa da quella prevista nella lettera di assunzione, ha dichiarato illegittimo il recesso per mancato superamento della prova, condannando il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro oltre al risarcimento delle retribuzioni perse dal recesso all’effettiva reintegrazione. A conclusioni opposte è giunto il Tribunale di Milano36 che, in un caso che vedeva il recesso del datore di lavoro in prova intimato durante un periodo di malattia del dipendente, dichiarava l’illegittimità del recesso, condannando l’azienda al solo pagamento delle retribuzioni dalla data del recesso al termine del periodo di prova pattuito. Altra sentenza del Tribunale di Milano37 sembra incidentalmente, nelle motivazioni, lasciare aperte entrambe le possibilità, pur non avendo deciso in merito. Come sopra ricostruito, in caso di recesso in prova intimato sino almeno al 18 luglio 2012 da parte di datore di lavoro in regime di stabilità reale, si poteva prevedere, in caso di nullità del patto, la reintegra‐
zione nel posto di lavoro e il pagamento delle retribuzioni perse sino alla reintegra; viceversa, in caso di vizio attinente all’esecuzione della prova, il risarcimento per le utilità perse sino alla virtuale data di cessazione del periodo di prova. La situazione pare complicarsi ora, e notevolmente, in seguito all’entrata in vigore della L. n.92/12 nella fatidica data sopra indicata. Se le prime pronunce in tema di licenziamento di dipendenti a tempo indeterminato in base al nuovo, tortuoso, art.18 novellato dalla Riforma Fornero appaiono caratteriz‐
zate dalla totale imprevedibilità, con provvedimenti “a macchia di leopardo” dei vari Tribunali del tutto disomogenei, è arduo poter prevedere quali potranno essere le conseguenze in tema di illegittimo recesso in prova. Giurista del Lavoro
La questione non toccherà i recessi intimati dai datori di lavoro con meno di sedici dipendenti, per i quali le conseguenze rimarranno quelle delineate negli anni dalla giurisprudenza. Le difficoltà probabilmente si incontreranno nei recessi in prova posti in essere dai datori di lavoro in stabilità reale per i quali, incappando in un eventuale recesso illegittimo, il ventaglio delle possibili conseguenze appare quanto mai incerto. Come più sopra evidenziato, il recesso in prova non necessita né di motivazioni né di forma scritta. In caso di nullità del patto ‐ per mancanza di forma scritta o non contestualità rispetto all’inizio della prestazione lavorativa o, ancora, per non sufficiente specificazione delle mansioni ‐ ci si troverebbe quindi di fronte a un licenziamento non motivato o addirittura orale. Nel primo caso vi potrebbe essere l’applicazione del nuovo co.6 dell’art.18, L. n.300/70, come novellato dalla L. n.92/12, che detta le conse‐
guenze dei licenziamenti carenti dei requisiti formali, perché non motivati o irrogati senza preventiva contestazione (licenziamenti disciplinari) o senza il preventivo tentativo di conciliazione (licenziamenti economici): quindi la concessione di un’indennità risarcitoria tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. In caso di recesso orale in presenza di patto di prova nullo vi potrebbe essere, viceversa, l’appli‐
cazione della reintegrazione piena, come previsto dal co.1 del nuovo art.18 per i casi di licenziamento orale. Per quanto riguarda le impugnazioni di recesso in prova in caso di vizi attinenti all’esecuzione della prova stessa, si può ipotizzare che, in caso di illegittimità del recesso, le conseguenze in capo al datore di lavoro potranno continuare ad essere il diritto del lavoratore alla prosecuzione della prova, se possibile, o il risarcimento per le retribuzioni perse sino alla conclusione del periodo di prova. In tale fattispecie è tradizionalmente compreso anche il recesso per un motivo diverso, anche illecito, non attinente alla prova in corso. A seguito della Riforma Fornero, però, tale situazione potrebbe non avere più la limitata tutela del risarcimento pari alle utilità perse nel residuo periodo di prova, ma dare luogo, al contrario, alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno: cioè a mente del nuovo co.1 dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutela il lavoratore contro il licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art.1345 c.c.. 34
Cass., sent. n.11735/97. Trib. Monza, sez. lav., sent. 17 novembre 2009, n.619. 36
Trib. Milano, sez. lav., sent. 20 aprile 2009, n.1706. 37
Trib. Milano, sez. lav., sent. 8 aprile 2011, n.1800. 35
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giudiziale in una sola delle due situazioni, scegliendo se introdurre un rito ordinario oppure speciale, salvo arrivare all’assurdo di dover introdurre due ricorsi separati e con il conseguente inaccettabile rischio di eventuali pronunzie confliggenti e, comunque, con un dispendio di risorse, anche sotto il profilo della proliferazione dei contenziosi, francamente assurdo. Si comprende, anche dalle particolari situazioni sopra ipotizzate, come il Ministro del Lavoro del nuovo Governo italiano, sin dai primi giorni di insediamento, abbia ipotizzato modifiche della Riforma Fornero, che si auspica intervengano anche per migliorare (o magari abolire in toto) il nuovo farraginoso e problematico rito speciale e semplificare alcuni bizantini passaggi del nuovo art.18 dello Statuto dei Lavoratori che, anche in tema di conseguenze del recesso invalido in prova, porrà nel prossimo futuro agli operatori del diritto del lavoro rilevanti questioni interpretative. La L. n.92/12 pone altresì rilevanti questioni di ordine processuale: è ormai noto che, con il c.d. rito Fornero, di cui all’art.1, co.47 e ss. della suddetta legge, possano essere proposte solo impugnazioni di licenziamento ex art.18, L. n.300/70, e connesse questioni di qualificazione del rapporto. Da ciò discende che il lavoratore che intenda eccepire, nei confronti del datore di lavoro con più di quindici dipendenti, la nullità del patto di prova e richiedere l’applicazione dell’art.18, dovrà necessariamente adottare il nuovo rito speciale; viceversa, nel caso intenda dimostrare l’inadeguatezza della prova o il superamento della stessa, con le relative richieste risarcitorie, dovrà proporre un ordinario ricorso in base all’art.414 c.p.c.. Non sarà più possibile, come poteva avvenire in passato, richiedere (in via gradata) entrambe le tutele: ciò imporrà, nei casi in cui sia dubbia la regolarità formale del patto e al tempo stesso si eccepisca l’irregolarità dello svolgi‐
mento della prova, di poter chiedere la tutela 24
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Responsabilità datoriale ai sensi dell’art.2087 c.c. e azione di regresso dell’Inail: osservazioni alla luce di alcune recenti pronunce della Cassazione a cura di Davide Venturi – Ricercatore Adapt – CSMB Il modo in cui la giurisprudenza interpreta il contenuto dell’obbligazione di garanzia ex art.2087 c.c. a tutela dei lavoratori contribuisce a definire anche gli spazi e i limiti dell’azione di regresso dell’Inail e finanche dell’azione di surrogazione da parte dell’Istituto, la cui operatività è limitata al danno patrimoniale. Negli ultimi anni diversi orientamenti della giurisprudenza di merito, avvallati da quella di legittimità, hanno fornito materia per alcuni approfondimenti proposti in questo articolo: l’autovalutazione del rischio da parte dell’impresa come strumento di verifica dell’inadempimento del precetto dell’art.2087 c.c., la ripartizione dell’onere della prova nell’azione risarcitoria per violazione dell’art.2087 c.c. e nell’azione di regresso, la qualificazione del danno biologico e le conseguenze sul piano della possibilità dell’esercizio del regresso da parte dell’Inail. Violazione dell’obbligazione di garanzia ex art.2087 Premessa L’obbligazione di garanzia di cui all’art.2087 c.c., che c.c. e applicazione delle misure e cautele valutate grava sul datore di lavoro rispetto ai propri dal datore di lavoro dipendenti, trae origine e giustificazione in ragione La sentenza della Corte di Cassazione, sezione dell’inserimento di questi ultimi nell’ambito lavoro, del 22 gennaio 2013, n.1478, fornisce dell’organizzazione del datore di lavoro. Quanto alla l’occasione per formulare alcune osservazioni in merito alla portata dell’art.2087 c.c., la cui ampiezza natura dell’obbligazione, essa non si pone né come di contenuto obbligatorio per il datore di lavoro deve obbligazione di risultato né tanto meno come essere valutata in relazione alle conoscenze tecnico‐
obbligazione oggettiva, in quanto si tratta di scientifiche al momento dei fatti da cui derivino i un’obbligazione contrattuale di mezzi. rischi rispetto ai quali si invoca giudizialmente la L’obbligazione di garanzia contenuta nell’art.2087 tutela, ma richiede che l’impresa, nella propria c.c. tutela la salute e la sicurezza del lavoratore dipendente, in ragione dell’assoggettamento del organizzazione del lavoro, tenga conto delle conoscenze scientifiche di cui concretamente, anche lavoratore dipendente al potere organizzativo e in relazione alla propria capacità organizzativa direttivo del datore di lavoro, ai sensi dell’art.2094 aziendale, è venuta a conoscenza, indipendente‐
c.c.. Diversamente, i rapporti di lavoro autonomo ai mente dall’esistenza di norme giuridiche o tecniche sensi dell’art.2222 c.c. non comprendono un’analoga specifiche in materia. obbligazione di garanzia da parte del committente, Il caso di specie riguarda l’uso di sostanze pericolose, sebbene in caso di infortunio del lavoratore precisamente dell’amianto. La questione, già in autonomo possano certamente sorgere profili di responsabilità diretta del committente, che, tuttavia, precedenza specificamente affrontata dalla Suprema Corte in analoghe recenti pronunce38, riguarda la non rientrano nell’alveo della responsabilità di cui all’art.2087 c.c.. verifica della legittimità dell’operato di alcuni operai L’azione di regresso dell’Inail, di cui si tratta nel che, in adesione a una forma di lotta sindacale, nel prosieguo, si basa sulla specifica previsione di cui agli 1989 si erano astenuti per oltre un mese dal prestare artt.10 e 11 del DPR n.1124/65. Essa spetta la propria opera all’interno dell’officina adibita allo all’Istituto per le somme da esso erogate al smaltimento dell’amianto dalle carrozze ferroviarie lavoratore nel caso in cui venga accertata la presso cui erano occupati, pur timbrando regolar‐
mente il cartellino all’ingresso e pur dichiarandosi responsabilità penale del datore di lavoro che abbia causato o concausato l’evento. L’azione spetta anche disponibili a effettuare altre operazioni non rientranti nel caso in cui sia accertata la responsabilità penale in quelle ordinariamente svolte nell’ambito della di un soggetto specificamente incaricato dal datore lavorazione dell’amianto. di lavoro alla direzione del processo produttivo La Corte di Cassazione, nel caso in esame, ha deciso nell’ambito del quale avviene l’infortunio. per la legittimità dell’operato dei lavoratori, confer‐
mando, in relazione alla violazione dell’art.2087 c.c., 38
Si vedano: Cass. n.14948/09; Cass. n.15079/09; Cass. n.18921/12; Cass. n.18801/12. 25
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l’obbligo del datore di lavoro di pagare le retribuzioni per detti periodi di astensione dalle specifiche mansioni. Giurista del Lavoro
quantitativi di tollerabilità al trattamento di tale materiale). Quanto al primo aspetto, la Cassazione approva la scelta del giudice di merito di secondo grado di porre a base della propria decisione due perizie svolte in un processo penale, conclusosi con proscioglimento del datore di lavoro per amnistia. Il giudice del lavoro di secondo grado, infatti, ha utilizzato le perizie in esame in sede civile, potendo così verificare una serie di difetti sia negli impianti utilizzati sia nell’organizzazione del lavoro posta in essere dal datore di lavoro. In effetti la sentenza di merito, riconoscendo in sede di valutazione probatoria inadempienze e inadeguatezze organiz‐
zative da parte del datore di lavoro, opera una valutazione sulla condotta del datore di lavoro che, pur non essendo stata sanzionata in sede penale per l’avvenuto proscioglimento per amnistia, tuttavia è stata fatta oggetto di censura da parte del giudice civile attraverso un accertamento del tutto analogo nei contenuti rispetto a quello che avrebbe effettuato il giudice penale qualora la causa fosse stata decisa nel merito. Infatti, il giudice civile accerta la violazione delle specifiche norme penali prevenzionistiche in materia di salubrità dei luoghi di lavoro e, comunque, la violazione dell’obbligazione di garanzia di cui all’art.2087 c.c.. La questione qui definita dalla sentenza in esame in merito all’accertamento della fattispecie di reato in sede civile è certamente di interesse per quanto riguarda l’ipotesi in cui l’Inail intenda esercitare un’azione di regresso a seguito di un infortunio indennizzato dall’Istituto. Si osserva infatti che, ai fini dell’esercizio dell’azione di regresso, non è neces‐
saria la condanna da parte del giudice penale per il reato omissivo o commissivo di cui il datore di lavoro si renda responsabile, essendo sufficiente che l’accertamento della configurazione del reato avven‐
ga anche incidenter tantum in sede civile. La responsabilità dell'imprenditore ex art.2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico; inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell’art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute (cfr. Cass. 18 maggio 2006 n. 11664). Nel caso di specie, poi, il datore di lavoro si è reso inadempiente agli obblighi di cui all’art.2087 c.c. “non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento che egli stesso aveva disposto in materia di trattamento dell'amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell'evolvere delle conoscenze mediche e dell'adozione da parte della Comunità delle direttive dell'80 dell'82 e dell'83, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto”. Quanto al secondo aspetto, che attiene al merito, l’interpretazione che la Corte di Cassazione dà del contenuto dell’obbligazione di cui all’art.2087 c.c., rispetto all’oggetto dell’obbligazione di garanzia del datore di lavoro, è tale per cui si ritiene sussistente la violazione di tale obbligazione, sebbene al momento del fatto non esistessero né norme giuridiche né norme tecniche che vietassero/regolassero le lavorazioni dei materiali contenenti amianto. Tuttavia, osserva la Corte, la violazione consiste nel mancato approntamento di tutte le misure e cautele La sentenza presenta due punti di particolare interesse per l’argomento di cui qui si tratta: 1. l’uno di ordine processuale, riguardante la forma‐
zione della prova della violazione dell’art.2087 c.c.; 2. l’altro riguardante la concreta configurazione del concetto di conoscenze tecnico‐scientifiche in un determinato momento storico, che sta alla base della violazione dell’art.2087 c.c. (si rileva che al momento dei fatti, nel 1989 appunto, l’uso dell’amianto non era vietato e non esisteva ancora una definizione normativa o tecnica dei limiti 26
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ne/protezione che il datore di lavoro deve effettuare nel documento di valutazione dei rischi (d’ora innanzi DVR), di cui all’art.17 della medesima norma. La violazione di una procedura di sicurezza, o di misure di cautela predisposte dalla stessa azienda, come nel caso fin qui esaminato, alla luce dell’attuale ordi‐
namento costituisce oggi violazione della norma penalmente sanzionata di cui all’art.55 Tusic, oltre che violazione dell’obbligo di protezione di cui all’art.2087 c.c.. Certamente, attraverso il sistema di sicurezza interno formalizzato dal Tusic, appare configurabile un’ipotesi di azione di regresso ai sensi degli artt.10 e 11 del DPR n.1124/65 in caso di violazione delle misure previste dal datore di lavoro nel DVR. Ciò che, invece, la sentenza esaminata prevede nel caso sottoposto a decisione è che questo sistema di autovalutazione dei rischi, che non sussisteva come obbligo normativo al momento dei fatti oggetto della lite, che appunto risalgono al 1989, cioè prima dell’applicazione in Italia della Direttiva Quadro n.89/391/CE (che è del 1989, lo stesso anno dei fatti) da parte del D.Lgs. n.626/94, abbia comunque rilievo nella valutazione dell’adempimento o meno dell’obbli‐
go di garanzia ex art.2087 c.c.. In definitiva, dunque, l’osservazione che si può trarre in relazione al rapporto tra adempimento dell’obbli‐
gazione di garanzia dell’art.2087 c.c. e adempimento dell’obbligo della valutazione dei rischi (e soprattutto dell’adempimento delle relative misure di preven‐
zione e protezione previste dal DVR), è che nel caso in cui un infortunio avvenga in rapporto di causalità rispetto alla violazione delle misure di prevenzione e protezione stabilite nel DVR, tale circostanza rileva non solo ai fini dell’accertamento della violazione dell’art.2087 c.c., con relativo diritto di risarcimento da parte del lavoratore infortunato, ma anche ai fini dell’esperibilità dell’azione di regresso da parte dell’Inail, ai sensi degli artt.10 e 11 del DPR n.1124/65. Differenze nell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro: l’ipotesi dell’art.2087 c.c. e quella degli artt.10 e 11, DPR n.1124/65 La sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 31 luglio 2012, n.13701, è assai interessante al fine di definire quale sia l’oggetto della prova della responsabilità datoriale ai sensi dell’art.2087 c.c. e quale, invece, quello necessario ai fini dell’accertamento della responsabilità datoriale in sede di azione di regresso da parte dell’Inail. Infatti, il caso in esame riguarda l’infortunio occorso a un operaio che, lavorando a una mola senza atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore, tenendo conto della “concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sui fattori di rischio in un determinato momento storico”. In altre parole, la violazione dell’art.2087 c.c., in mancanza di norme giuridiche o tecniche specifiche, si realizza anche da parte di un’impresa che concretamente, in conside‐
razione della sua specifica elevata capacità tecnica, scientifica e organizzativa, avrebbe potuto/dovuto predisporre adeguate tutele e cautele per il proprio personale. La violazione, dunque, dipende dall’ele‐
mento soggettivo della colpa concreta rispetto alla capacità dell’impresa di conoscere realmente il rischio e di predisporre adeguate tutele per i propri dipendenti. Ciò appare coerente con la natura di obbligazione contrattuale dell’art.2087 c.c. e con la necessità che le parti agiscano nell’esecuzione del contratto secondo buona fede (art.1375 c.c.). Nel merito, infatti, la Corte ha anche rilevato che l’impresa in esame, essendo a conoscenza dei danni derivanti dall’esposizione all’amianto, aveva emana‐
to una circolare interna in materia che imponeva determinati obblighi organizzativi e di comporta‐
mento. Nel caso in esame, dunque, la Corte di Cassazione ha accertato la violazione dell’obbliga‐
zione di cui all’art.2087 c.c. non tanto per la mancata applicazione di nuove tecnologie nelle lavorazioni dell’amianto, ma piuttosto perché il datore di lavoro ha concretamente violato le norme comportamentali che si era autoimposto quali misure organizzative interne, una volta venuto a conoscenza della nocività del materiale oggetto della lavorazione nel processo produttivo aziendale. Forse è proprio questo l’elemento più interessante della sentenza in esame rispetto alla valutazione dell’ampiezza dell’obbligazione di garanzia ex art.2087 c.c., che consente di trarre qualche conclu‐
sione anche in merito al rapporto tra violazione dell’art.2087 c.c. ed eventuale azione di regresso da parte dell’Inail: il fatto, cioè, che la sentenza rileva che il contenuto delle valutazioni interne dei rischi da parte datoriale costituisce uno strumento essenziale nella determinazione della violazione dell’obbliga‐
zione di garanzia gravante il datore di lavoro. La questione oggi non pare creare particolari perplessità, alla luce del sistema di sicurezza interna che il datore deve porre in essere in ottemperanza del D.Lgs. n.81/08, il c.d. testo unico sicurezza (d’ora innanzi Tusic). Infatti, l’intero sistema di sicurezza si basa su un’autovalutazione dei rischi, con relativa predisposizione di misure di interdizione/prevenzio‐ 27
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protezioni, viene colpito da una scheggia agli occhi. In fase di accertamento della violazione dell’obbliga‐
zione di garanzia ex art.2087 c.c., il datore di lavoro non viene riconosciuto responsabile dai giudici di merito di primo e secondo grado, in quanto viene specificatamente provato in giudizio che gli occhiali antinfortunistici erano stati forniti regolarmente e che essi erano sempre posti sopra la macchina presso la quale è avvenuto l’infortunio, a portata di mano del lavoratore. Quindi, il giudice di merito ha ritenuto che quella di non utilizzare gli occhiali fosse “un’iniziativa autonoma” del lavoratore infortunato, non ascrivibile neppure pro quota alla responsabilità del datore di lavoro. Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell'infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta. Tuttavia, nel giudizio attinente l’azione di regresso, il ricorrente [Inail] che denuncia, sotto il profilo della omessa o sufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa valutazione delle risultanze istruttorie, ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto. Giurista del Lavoro
L’Istituto, quindi, incorre nell’errore di non valutare correttamente il proprio onere probatorio in sede di azione di regresso e, dunque, perde la causa. Infatti, sebbene da un lato la costante interpretazio‐
ne giurisprudenziale ritenga, in sede di accertamento della responsabilità del datore di lavoro nei confronti dell’infortunato per violazione dell’obbligazione di cui all’art.2087 c.c., che spetti al datore di lavoro provare la propria estraneità rispetto al nesso di causalità tra fatto ed evento infortunistico, dall’altro lato, al contrario, nel caso di azione di regresso da parte dell’Inail, è l’Istituto stesso che deve provare la responsabilità del datore di lavoro nella determina‐
zione dell’evento infortunistico. Nel primo caso, nella disputa tra lavoratore e datore di lavoro, l’onere probatorio spetta al datore di lavoro, mentre nel secondo caso, nella lite tra Inail e datore di lavoro, l’onere probatorio incombe sull’Istituto. Per quanto riguarda l’oggetto della prova, infine, in entrambi i casi il datore di lavoro è ritenuto responsabile sia nel caso in cui ometta di adottare le misure necessarie per evitare il rischio specifico (dotazione degli occhiali antinfortunistici come dispositivo di protezione individuale) sia quando egli non accerti l’idoneità del lavoratore ovvero non vigili che tali misure siano effettivamente adottate dal lavoratore (rispettivamente la c.d. culpa in eligendo e la c.d. culpa in vigilando). Pertanto, la responsabilità del datore di lavoro arriva fino ad escludere il solo comportamento del lavoratore caratterizzato da “abnormità, inopinabilità ed esorbitanza” rispetto alle misure organizzative disposte dal datore di lavoro. Il comportamento abnorme del lavoratore, infatti, è atto ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, mentre il semplice concorso colposo del lavoratore nella determinazione dell’evento può rilevare in giudizio solo come concausa dell’evento e, pertanto, non può escludere la responsabilità datoriale, ma può soltanto ridurne proporzionalmente la portata. Appendice: azione di regresso e azione di surrogazione Sembra qui opportuno, infine, sottolineare la distinzione tra l’azione di regresso ai sensi degli artt.10 e 11 del DPR n.1124/65 e l’azione surro‐
gatoria ai sensi dell’art.1916 c.c.. Entrambe le azioni spettano all’Inail in relazione ad eventi infortunistici e, tuttavia, le due azioni sono profondamente differenti sia sul piano soggettivo sia sul piano della causa petendi. 28
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 Soggetti coinvolti Infatti, sul piano dei soggetti coinvolti, mentre l’azione di regresso si basa sul rapporto tra ente assicuratore e datore di lavoro, nel caso dell’azione surrogatoria, al contrario, il datore di lavoro non è parte della lite, in quanto l’azione coinvolge l’Istituto e il terzo che ha causato l’evento infortunistico.  Causa petendi Sul piano della causa petendi, poi, l’azione di regresso si fonda sull’accertamento di una respon‐
sabilità penale del datore di lavoro da parte del giudice penale, ovvero anche accertata dal giudice civile incidenter tantum, laddove invece l’azione surrogatoria riguarda la lesione del principio del leminem ledere, ex art.2043 c.c., da parte del terzo. L’azione di surrogazione ai sensi dell’art.1916 c.c., che rappresenta un’applicazione speciale del prin‐
cipio di surrogazione legale di cui all’art.1203 c.c., riguarda dunque le ipotesi in cui la responsabilità dell’evento non incombe sul datore di lavoro, ma sui “terzi responsabili”. In questo senso, dunque, si coglie che le due azioni spettanti all’Istituto, quella di regresso e quella surrogatoria, sono tra loro alternative. Concretamente, poi, la surrogazione non avviene automaticamente a seguito del solo pagamento dell’indennità da parte dell’Istituto, ma necessita di una specifica comunicazione da parte dell’Istituto assicuratore al terzo responsabile. Da quel momento, il lavoratore non è più legittimato ad agire nei confronti del terzo responsabile, ma lo è l’Istituto assicuratore. Sul piano, poi, della natura dei danni risarciti Giurista del Lavoro
dall’Inail, che possono essere oggetto di azione surrogatoria ex art.1916 c.c., si deve osservare che, per interpretazione giurisprudenziale uniforme, non sono soggetti a surrogazione i danni non patrimoniali e, dunque, secondo l’attuale configurazione giuris‐
prudenziale dei danni, non sono soggetti ad azione surrogatoria né il danno biologico né il danno morale. La questione non è di poco conto, con particolare riferimento al danno biologico, che viene liquidato dall’Inail all’assicurato. Fermo restando che l'Inail non può aggredire le somme liquidate al danneggiato a titolo di risarcimento dei danni morali e dei danni biologici ‐ in virtù della nota giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 319 del 1989, n. 356 del 1991 e n. 485 del 1991) ‐ il giudice di merito può accogliere l'azione di regresso dell'Inail (si tratti dell'azione diretta e immediata di regresso, di cui al DPR n. 1124/1965, artt. 10 e 11, o dell'azione in surroga di cui all’art. 1916 c.c.) solo entro i limiti della somma liquidata in sede civile a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali, previo accertamento dell'esistenza e dell'entità di tali danni, in base alle norme del codice civile39. Si rileva, poi, che la giurisprudenza di legittimità tende ad accomunare l’impossibilità del risarcimento all’Inail delle somme erogate a titolo di danno non patrimoniale (danno biologico e danno morale) sia con riferimento all’esercizio dell’azione surrogatoria sia rispetto all’esercizio dell’azione di regresso ai sensi degli artt.10 e 11 del DPR n.1124/65, uniformando, almeno in questo ambito specifico, la disciplina delle due distinte azioni. 39
Cass. Civ., Sez. III, 10 gennaio 2008, n.255. 29
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Part time: strumenti ed effetti dell’aumento della prestazione di lavoro a cura di Franco Balbi e Maria Lughezzani – Avvocati in Verona Per opinione comune il part time rappresenta una tipologia lavorativa tesa a conciliare il riconoscimento di una maggiore disponibilità in capo al lavoratore del tempo da dedicare alla cura o, più in generale, alle proprie esigenze di vita, e le istanze di flessibilità invocate dalle imprese. La disciplina dell’istituto in questione, lungi dal poter vantare un percorso lineare, è oggi racchiusa nel D.Lgs. n.61/00 di recepimento delle direttive comunitarie adottate in materia, il cui testo è stato invero modificato profondamente a più riprese dal legislatore. Alla luce della ratio legis sottesa a tale contratto, sul versante della tutela delle esigenze personali del lavoratore, particolare rilevanza assume la regolamentazione degli elementi di flessibilizzazione dello stesso, sussumibili nell’apposizione al contratto di clausole elastiche e/o flessibili e nel ricorso ad ore di lavoro supplementare. Proprio l’abituale svolgimento di ore di lavoro supplementare in quantità uguale o superiore al tempo pieno, suscitando numerosi interrogativi sul piano “fenomenico”, sarà oggetto di analisi del presente contributo. Il rapporto di lavoro a tempo parziale base di calcolo dei contributi da versare per i Com’è noto, il rapporto di lavoro a tempo parziale lavoratori part time. rappresenta una tipologia negoziale “flessibile” da Tralasciando di soffermarci, per ovvie ragioni di ricondurre nell’alveo del lavoro subordinato, in bilico pertinenza col tema trattato, sui nodi interpretativi tra le istanze “di libera disponibilità del tempo di non sciolti dalla giurisprudenza intervenuta in materia lavoro e le istanze di flessibilità delle imprese”40. successivamente all’entrata in vigore della legge, ci si limita ad evidenziare come per una riscrittura La regolamentazione di siffatto contratto all’interno dell’istituto, modellata sulla falsariga delle indicazioni del nostro ordinamento ha una storia tutto sommato abbastanza recente, che per ragioni di chiarezza provenienti dalle aule di giustizia, nazionali e espositiva vale la pena ripercorrere brevemente. sovranazionali, si sarebbe dovuta attendere l’entrata Pur essendo sempre stata astrattamente ammessa la in vigore della L. n.61/00, di recepimento della possibilità di instaurare rapporti part time, il primo direttiva europea n.97/81/CE (relativa a un accordo tentativo di disciplinare l’istituto in questione risale quadro sul lavoro a tempo parziale concluso fra le parti sociali a livello europeo). Detto strumento, alla prima metà degli anni Ottanta allorquando, con nonostante le profonde modiche apportate alla l’art.5 del D.L. n.726/84, poi convertito nella L. n.823/84, vennero individuati i caratteri distintivi fisionomia dell’istituto, dapprima per il tramite della fattispecie de quo. dell’art.46 del D.Lgs. n.276/03 e a seguire dalle leggi Nell’arco di quattro commi veniva sancita, in buona n.247/07 e n.92/12 (c.d. Riforma Fornero), costituisce sostanza, la forma scritta per il contratto di lavoro a il perno regolativo su cui esso si fonda tutt’oggi. tempo parziale, con obbligo di indicare le mansioni e Giusta la premessa che il trattamento da accordare ai lavoratori a tempo parziale deve rispettare il la distribuzione dell’orario di lavoro ridotto con principio di non discriminazione, a mente del quale ai riferimento al giorno, alla settimana, al mese o all’anno; veniva demandata ai contratti collettivi, di medesimi non può essere riservato “un trattamento qualunque livello essi fossero, dunque anche meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno aziendali, la facoltà di stabilire la percentuale di comparabile”41, da un punto di vista formale la lavoratori da impiegare a tempo parziale rispetto al definizione di tale tipologia di lavoro flessibile prende numero dei lavoratori a tempo pieno, le mansioni a corpo in relazione o, se si vuole, in contrapposizione a quella riservata dal legislatore ordinario al lavoro a cui adibire i medesimi, le modalità di svolgimento tempo pieno all’interno del D.Lgs. n.66/0342. delle prestazioni a tempo parziale nonché le esigenze di carattere organizzativo che avrebbero consentito Conformemente a quanto previsto dall’art.1, co.2, di derogare al divieto generale di prestare ore di lett.b), del D.Lgs. n.61/00 il part time va pertanto lavoro supplementare, eccedenti cioè l’orario ridotto inteso come il contratto in cui “l’orario di lavoro, individuato in sede negoziale; infine, veniva indicata la retribuzione minima oraria da assumere quale 41
Art.4, D.Lgs. n.61/00. Il decreto in questione costituisce l’atto normativo con il quale l’Italia diede attuazione con notevole ritardo alle direttive 93/104/CE e 2004/34/CE, concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro. 42
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C. Alessi, La flessibilità del lavoro dopo la legge di attuazione del protocollo sul Welfare: prime osservazioni, in WP CSDLE “Massimo D’Antona” ‐ IT n.68/2008, pp.21‐22. 30
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fissato dal contratto individuale, cui sia tenuto un lavoratore (…) risulti comunque inferiore a quello indicato nella lettera a)”43. Trattasi, nello specifico, di un sinallagma contrattuale con orario inferiore a quello “normale di lavoro di cui all’art. comma 1, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n.66, o l’eventuale minor orario normale fissato dai contratti collettivo applicati” (art.1, co.2, D.Lgs. n.61/0044), la cui ratio, come accennato poc’anzi, riposa sulla duplice esigenza di assicurare al lavoratore interessato una maggiore disponibilità del tempo di vita e la percezione di un reddito adeguato alle proprie esigenze. Come spiegato dalla Consulta nella nota sentenza n.210 dell’11 maggio 1992, infatti, “il rapporto di lavoro a tempo parziale si distingue da quello a tempo pieno per il fatto che, in dipendenza della riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione), lascia al prestatore d’opera un largo spazio per altre eventuali attività la cui programmabilità da parte dello stesso prestatore d’opera deve essere salvaguardata, anche all’ovvio fine di consentirgli di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva che sia sufficiente (art.36, primo comma, della Costituzione) a realizzare un’esistenza libera e dignitosa”. D’altro canto, è proprio alla luce di tale obiettivo di politica del diritto che gli interpreti hanno palesato nel tempo la propria diffidenza rispetto ai tentativi di flessibilizzazione dell’istituto, attuati mediante il riconoscimento al datore di lavoro del diritto di apporre al contratto clausole c.d. flessibili o elastiche con le quali modificare in modo unilaterale, rispet‐
tivamente, la collocazione temporale o la durata concordata della prestazione di lavoro. E, nondi‐
meno, rispetto al ricorso “disinvolto” a prestazioni di lavoro supplementare. Su tali profili, e in particolare sulle conseguenze connesse alla sopravvenuta modificazione delle modalità di svolgimento del rapporto ad orario ridotto, si concentrerà il resto della presente indagine. L’apposizione di clausole flessibili ed elastiche al contratto part time L’affermazione del giudice delle leggi riportata in chiusura del paragrafo precedente ci consente di introdurre l’aggrovigliata questione dell’apponibilità o meno al contratto part time delle c.d. clausole flessibili e/o elastiche. Premesso che, alla stregua di quanto previsto dall’art.3, co.7, n.1, D.Lgs. n.61/00, le prime sono tese a consentire una “variazione della collocazione temporale della prestazione” lavorativa e sono applicabili a qualsiasi tipologia di contratto a tempo parziale, mentre le seconde consistono in una “variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa” e sono apponibili ai soli rapporti di lavoro a tempo parziale verticale e misto (art.3, co.7, n.2), va detto che il ricorso a siffatti elementi di flessibilizzazione è oscillato a lungo tra il meccanismo “tutorio” della doppia chiave, collettiva ed individuale, che affidava alla contrattazione un ruolo centrale nella regolamentazione degli stessi45 ed il recepimento, da ultimo prevalso, di istanze di maggiore liberalizzazione46. Per mano dell’art.22, co.4, della L. n.183/11, il legislatore ha stabilito, in effetti, la riviviscenza dei commi 7 e 8 della L. n.61/00 nella versione introdotta dall’art.46 del D.Lgs. n.276/03, in seguito modificata ex art.1, co.44, lett.a) e b), L. n.247/07. Di conseguenza, allo stato, l’utilizzo di clausole elastiche e flessibili è rimessa direttamente alla volontà delle 43
45
Conviene rammentare che l’art.8 del D.Lgs. n.61/00, rubricato ‘Sanzioni’ specifica il carattere ad probationem della forma scritta richiesta per la stipulazione del contratto e che l’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto di cui all’art.2, co.2, della legge non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale. 44
Secondo quanto specificato dal dato normativo, il rapporto di lavoro a tempo parziale sarà essere di tipo orizzontale (art.1, co.2, lett.c), L. n.61/00) allorquando la riduzione dell’orario rispetto al tempo pieno avvenga in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro; di tipo verticale (art.1, co.2, lett.d), della citata legge) allorquando l’attività lavorativa sia svolta a tempo pieno, “ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno”; di tipo misto (art.1, co.2, lett.e) della legge) allorquando esso si svolga secondo una combinazione delle due modalità descritte in precedenza. Cfr. la versione originaria del D.Lgs. n.61/00 nonché la versione della legge modificata dell’art.3 della legge modificata dalla L. n.247/07. 46
Privilegiate, tali ultime, in seno al D.Lgs. n.276/03 e dalla L. n.183/11 e assai criticate in sede dottrinale in quanto ritenute incompatibili con la ratio legis sottesa al contratto part time . Per una ricostruzione delle modifiche intervenute sino all’entrata in vigore della L. n.247/07 si veda P. Passalacqua, L’assetto del lavoro a tempo parziale a seguito degli ultimi interventi del legislatore, in Riv. it. dir. lav., 2010, 3, p.551 ss; C. Alessi, La flessibilità del lavoro dopo la legge di attuazione…, cit., p. 22. Sulle clausole elastiche nella versione di cui al D.Lgs. n.61/2000 si rinvia a C. Alessi, La flessibilità della prestazione: clausole elastiche, lavoro supplementare, lavoro straordinario, in M. Brollo (a cura di), Il lavoro a tempo parziale. D.Lgs. n. 61/2000, Milano, Ipsoa, 2001, p.70 ss. 31
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tema oggetto del presente contributo, che ambisce a concentrarsi sulle conseguenze connesse al ricorso continuativo a prestazioni di lavoro supplementare per un numero di ore uguale o superiore a quelle di un ordinario rapporto di lavoro a tempo pieno. La riflessione che ci si accinge a svolgere deve necessariamente prendere il via dalla premessa per cui il part time si dovrebbe prestare, almeno in potenza, a consentire al lavoratore di conciliare attività professionale e impegni familiari, da una parte, e di percepire un reddito più adatto alle proprie esigenze, dall’altra47. In quest’ottica il ricorso a prestazioni di lavoro supplementare, svolte cioè “oltre l’orario di lavoro concordato fra le parti ai sensi dell’art. 2, co.2, ed entro il limite del tempo pieno” (art.2, co.2, lett.e), D.Lgs. n.61/00), allorquando non disciplinata dagli attori collettivi sotto il profilo del quantum, delle causali che ne legittimano il ricorso e delle conseguenze connesse al superamento del limite quantitativo ammesso dai contratti collettivi, è subordinata al solo consenso del lavoratore, il cui rifiuto non potrà integrare in nessun caso gli estremi del giustificato motivo di licenziamento48. Sul punto, il nodo da sciogliere attiene agli effetti ingenerati dalla continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro, sulla scia di quanto accade nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, allorché non regolati in seno al contratto collettivo applicato dall’azienda o, se disciplinati, in ragione della mancata adesione delle parti alle associazioni stipulanti. Può, in altri termini, ammettersi una ? conversione giudiziale del contratto da part time a full time in virtù del mero ricorso abituale da parte del datore di lavoro a prestazioni lavorative eccedenti il limite pattuito nel contratto ad orario ridotto? parti del sinallagma contrattuale, fermo restando che:  da un lato, la disponibilità allo svolgimento del rapporto di lavoro con modalità flessibili dovrà essere formalizzata mediante patto scritto, anche contestuale al contratto di lavoro e, ove richiesto dal lavoratore, stipulato avvalendosi dell’assisten‐
za di un componente della RSA;  dall’altro, che il rifiuto del prestatore di manodo‐
pera di inserire clausole di tal genere nel contratto non integrerà gli estremi del giustificato motivo di licenziamento. All’interno di questo quadro regolativo, poi, il ruolo riservato, ex art.3, co.7, nn. da 1) a 3bis), del decreto, ai contratti collettivi conclusi dai soggetti indicati nell’art. 1, co.3, L. n.61/00, è quello di stabilire le condizioni e le modalità in base alle quali possono essere apposte al contratto clausole flessibili o elastiche, i limiti massimi di variabilità in aumento della prestazione lavorativa nonché le “condizioni e [le] modalità che consentono al lavoratore di richiedere l’eliminazione ovvero la modifica delle clausole flessibili e delle clausole elastiche”. Tale ultima specificazione, che è il frutto dell’ennesima modifica apportata al testo di legge per il tramite della L. n.92/12 (c.d. Riforma Fornero) ed è stata accompagnata dalla previsione nel co.9 della citata legge della facoltà per i lavoratori affetti da patologie oncologiche, per il nucleo di familiari indicati nell’art.12‐bis del decreto stesso e per i lavoratori studenti di cui all’art.10, L. n.300/70 di revocare il consenso prestato, sembra temperare la portata dell’abrogazione del c.d. diritto al ripensamento introdotto per mano del D.Lgs. n.276/03, che di fatto impediva al lavoratore di fare valere sopravvenute esigenze di cura o, più semplicemente, di vita. Si noti, infine, che l’attivazione in concreto delle clausole flessibili ed elastiche è subordinata a un termine di preavviso, derogabile in aumento dalle parti, di almeno due giorni lavorativi e che il ricorso effettivo alle medesime fa insorgere in capo al lavoratore il diritto di ottenere “specifiche compensazioni, nella misura ovvero nelle forme fissate dai contratti collettivi di cui all’art.1, co.3” (art.3, co.8). Profili di problematicità connessi allo svolgimento di ore di lavoro supplementare Una volta fornite, seppur sinteticamente, le coordinate tematiche utili a decifrare tratti e contenuti caratterizzanti del contratto di lavoro a tempo parziale possiamo finalmente tornare sul 47
Osserva sul punto Cass.17 giugno 2002, n. 8718 che “tali finalità possono riassumersi nell'esigenza che i contratti a tempo parziale, per i quali è consentito il riferimento a minimali contributivi inferiori rispetto a quelli ordinari e nel corso del tempo sono state previste agevolazioni di vario genere, siano effettivamente stipulati in relazione a corrispondenti esigenze di prestazioni temporalmente ridotte del prestatore di lavoro (per ragioni personali di studio, familiari, ecc.), o del datore di lavoro (che, per esempio, necessiti una intensificazione dell'attività in certi giorni o in certe fasce orarie, oppure non abbia necessità di una prestazione ad orario pieno rispetto a determinate professionalità), o di ambedue”. 48
Art.3, co.1‐4, D.Lgs. n.61/00. 32
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La questione non è affatto di agevole risoluzione, vuoi per la mancanza di appigli regolativi chiari nel testo della legge, vuoi in ragione delle considerazioni legate “al ruolo del consenso delle parti negoziali e, in ultima analisi, alla volontarietà nel rapporto di lavoro in oggetto”49. Avendo riguardo al primo punto, ci si limita ad evidenziare lo scarso spazio dedicato dalla disciplina in vigore alla trasformazione del rapporto da part time a full time, che a parere di chi scrive rende ancora attuali i ragionamenti svolti in sede interpretativa relativamente ad un periodo storico nel quale si applicava l’art.5, L. n.863/84, il quale, come ricordato in precedenza, affiancava al divieto generale di prestare ore di lavoro supplementare la facoltà per gli attori collettivi di individuare le esigenze di carattere organizzativo che avrebbero consentito di derogarvi. Essa viene in rilievo, innanzitutto, in relazione al divieto per il datore di lavoro di recedere dal rapporto nel caso in cui il proprio dipendente rifiuti di trasformare il rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno (art.5, co.1, D.Lgs. n.61/00). Secondariamente, in relazione alla previsione nel contratto individuale di un diritto di precedenza in favore dei lavoratori assunti a tempo parziale in caso di assunzioni a tempo pieno di professionalità con mansioni analoghe o equivalenti a quelle svolte dai medesimi. Nondimeno, con riferimento all’ipotesi di superamento delle ore di lavoro supplementare consentite dai contratti collettivi il decreto stabilisce genericamente la facoltà in capo ad essi di disci‐
plinare le relative conseguenze50, trascurando di soffermarsi tanto sull’ipotesi in cui la contrattazione non si faccia carico di regolare la materia che su quella contigua, in cui lo svolgimento di ore di lavoro supplementari sia il frutto di un accordo concluso direttamente col lavoratore. Per altro verso, è proprio negli interstizi creati da questo spazio di de‐regolamentazione che gli interpreti chiamati a decidere della trasformazione del rapporto di lavoro subordinato da tempo parziale a tempo pieno, in forza dello svolgimento continua‐
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tivo di un orario di lavoro pressoché corrispondente a quello previsto per un rapporto full time invocata sub iudice, hanno delineato il ruolo giocato dalla manifestazione di volontà, anche implicita, palesata dalle parti attraverso le modalità concrete di esecuzione del contratto. Muovendo dall’affermazione condivisa del principio secondo cui la ratio legis sottesa alla disciplina del lavoro a tempo parziale coincide con una migliore tutela della gestione del tempo libero del part timer, talché non si potrebbe fare automaticamente discendere dalla violazione dell’art.5, L. n.863/84, eo tempore applicabile, il riconoscimento di un rapporto a tempo pieno senza contraddire lo spirito della normativa, la Suprema Corte ha dimostrato nel tempo di privilegiare la tesi che ricollega all’accerta‐
mento dello svolgimento del rapporto secondo modalità equiparabili a un rapporto a tempo pieno l’affermazione di una volontà differente prevalente su quella espressa al momento della conclusione dell’accordo e sufficiente a garantire, ove richiesto dal lavoratore in giudizio, la trasformazione del rapporto. La giurisprudenza maggioritaria ammette, dunque, che: “in base alla continua prestazione di un orario di lavoro pari a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro nato come a tempo parziale possa trasformarsi in un rapporto di lavoro a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non occorrendo alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno (cfr. Cass. n.5520/2004), cosicché risulta del tutto inutile ogni discussione in ordine alla possibilità di riscontrare o meno una volontà novativa delle parti, una volta che sia stata dimostrata a costante effettuazione di un orario di lavoro prossimo (o come nel caso che ci occupa, addirittura superiore) a quello stabilito per il lavoro a tempo pieno e del pari inconferente il richiamo alla disciplina codicistica in tema di conversione del contratto nullo”51. 49
Così, M. Delfino, Nella trasformazione da part time a full time rileva la volontà implicita delle parti, in Riv. it. dir. lav., 2009, 2, p.287 ss.. 50
Maggiormente apprezzabile appare la versione originaria del D.Lgs. n.61/00, laddove prevedeva che i contratti collettivi potessero “altresì stabilire criteri e modalità per assicurare al lavoratore a tempo parziale, su richiesta del medesimo, il diritto al consolidamento nel proprio orario di lavoro, in tutto o in parte, del lavoratore del lavoro supplementare svolto in via non meramente occasionale” (così, art.3, co.6, seconda parte, D.Lgs. n.61/00). 51
Cass. 28 aprile 2008, n.25891, in Lav. nella giur., 2009, p.301 ss., con nota di M. Delfino, Nella trasformazione da part time a full time rileva la volontà implicita delle parti, cit.. Conforme Cass. 13 marzo 2009, n.6226; Cass. 11 febbraio 2008, n.3228; Cass. 28 ottobre 2000, n.25891. In senso contrario, Cass. 17 ottobre 1992, n.11380, in Dir. prat. lav., 1992, p.3333, la quale afferma che “l’impiego eccedente l'orario convenuto di lavoratori assunti a tempo parziale non comporta infatti conversione del rapporto ma, se ed in quanto costituente violazione del divieto di prestazione di 33
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Nel solco del medesimo filone interpretativo vi è peraltro chi non ha mancato di sottolineare come il comportamento negoziale atto a dimostrare l’inter‐
venuta modificazione del rapporto di lavoro da part time a full time dipenda in ogni caso dall’accerta‐
mento “che la prestazione eccedente quella inizialmente concordata (…) non risponda ad alcuna specifica esigenza di organizzazione del servizio idonea a giustificare, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, l’assegnazione di ore ulteriori rispetto a quelle negozialmente pattuite”52. Rispetto alla prospettata trasformazione del rappor‐
to di lavoro rimane da precisare che la facoltatività della prestazione di lavoro “aggiuntiva”, sovente dedotta in sede difensiva dalle società convenute per contrastare la richiesta di conversione del contratto avanzate dai lavoratori in giudizio, è vinta “dall’effettuazione, in concreto, delle prestazioni richieste dalla datrice di lavoro, con la continuità risultante dalle busta paga, ha evidenziato Giurista del Lavoro
l’accettazione della nuova regolamentazione con ogni conseguente effetto obbligatorio, risultandone, di fatto, una modifica – per niente accessoria – dei contenuti del sinallagma negoziale”53. Da ultimo, merita di essere rammentato, infine, che secondo un orientamento giurisprudenziale più risalente, qualora il contratto di lavoro a tempo parziale occulti un contratto di lavoro a tempo pieno, ci si troverebbe al cospetto di un’ipotesi di simulazione relativa, con conseguente onere per il lavoratore di provare la sussistenza del negozio dissimulato54. Detto onere, secondo talaltra giurisprudenza, non sussisterebbe posto che “l’accertamento della simulazione relativa della formale pattuizione di diverse modalità non è condizionante, ma cede all’operatività del principio di corrispondenza del trattamento del lavoratore all’effettiva consistenza del proprio impegno”55. lavoro supplementare posto dall'art. 5 comma 4 del D.L. 30 ottobre 1984 n. 726 (convertito in legge 19 dicembre 1984 n. 863) la sanzione amministrativa di cui ai commi 13 e 14 dello stesso articolo”. 52
Cass. 30 maggio 2011, n.11905, che si inserisce nel corposo filone di pronunce rese nei confronti di Autostrade per l’Italia spa (si veda, ex plurimis, Cass. 13 ottobre 2010, n.21160; Cass. 4 luglio 2009, n.18499; Cass. 28 ottobre 2009, n.25891). 53
Cass. n.21160/10 cit.. Cass. 27 novembre 2001, n.15056. 55
Cass. 11 ottobre 1996, n.8904, con nota di A. Lassandari, Problemi di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ovvero parziale, in Riv. it. dir. lav., 1997, 3, p.496 ss.. 54
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Il patto di stabilità e la procedura di assunzione nelle P.A. a cura di Gesuele Bellini – Funzionario del Ministero dell’Interno e Docente di diritto del lavoro nelle PP.AA. e di diritto amministrativo del lavoro presso l’Università dell’Insubria Le assunzioni nelle Pubbliche Amministrazioni stanno vivendo in questi ultimi anni un periodo di forte carestia, giacché sono limitate direttamente o indirettamente da diverse misure di legge, rivolte per lo più al contenimento della spesa pubblica e alla razionalizzazione delle risorse. In questo contesto gioca un ruolo di primordine anche il rispetto del c.d. patto di stabilità, strumento prioritario cui il legislatore affida annualmente il compito di stabilire obiettivi e vincoli della gestione finanziaria delle Pubbliche Amministrazioni ai fini della determinazione della misura del concorso delle stesse al rispetto degli impegni derivanti dall’unione europea. Nel presente lavoro si vogliono mettere in evidenza i meccanismi attraverso i quali il patto di stabilità incide in merito alle assunzioni nonché il sistema sanzionatorio che introduce per gli enti inadempienti al patto, tra l’altro, anche il blocco delle assunzioni. Sintesi ricostruttiva del quadro normativo per le stesse finalità nell'anno precedente. Allo La tematica delle assunzioni di personale nelle stesso modo si dispone che non si possa superare il Pubbliche Amministrazioni è stata oggetto di 50% della spesa per personale relativa a contratti di formazione lavoro, ad altri rapporti formativi, alla numerose modifiche e integrazioni nel corso degli somministrazione di lavoro, nonché al lavoro ultimi anni con l’introduzione di diverse prescrizioni e accessorio sostenuta per le rispettive finalità limiti, sia per gli enti sottoposti al patto di stabilità che per quelli non sottoposti, tanto da diventare una nell’anno precedente. materia alquanto complessa e articolata per cui vale Riguardo al turn over, per gli enti sottoposti al patto la pena ripercorrere a brevi linee le varie tappe del di stabilità, la citata norma ha previsto il blocco del turn over al 20% per il 2011 rispetto alle spese percorso legislativo che si sono succedute. sostenute per le cessazioni avvenute nell’anno 2010, Un primo intervento limitativo delle assunzioni, che mentre per gli enti non soggetti al patto di stabilità pare utile ricordare, si è registrato con la L. n.296/06 (Finanziaria 2007), nella quale il co.557 dell’articolo dal 1° gennaio 2011, oltre al limite del 40% della unico ancora oggi prevede l’obbligo di riduzione delle spesa del personale, è fatto obbligo il rispetto dei spese di personale rispetto all’anno precedente. vincoli previsti dal co.562 dell’art.1 della Finanziaria Nel 2008, con l’art.76, co.7, del D.L. n.112/08, per gli 2007, e cioè non devono superare il corrispondente ammontare dell'anno 2004. Per questi ultimi enti, si enti assoggettati al patto di stabilità nei quali prevede, inoltre, la possibilità di procedere all'assun‐
l’incidenza delle spese si personale è pari o superiore al 50% delle spese correnti si introduce un divieto zione di personale nel limite delle cessazioni di assoluto di procedere ad assunzioni di personale “a rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessi‐
qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia vamente intervenute nel precedente anno, compreso contrattuale”. il personale eventualmente stabilizzato. Il quadro normativo subisce ulteriori modifiche nel Il D.L. n.112 viene convertito in L. n.133/08 senza 2011, innanzitutto con l’entrata in vigore del D.L. alcuna modifica, ma viene poi ripreso e completa‐
n.98/11, convertito con modificazione dalla L. mente riscritto dall’art.14, co.9, del D.L. n.78/10, nel n.111/11, il quale all’art.20, co.9, modifica la quale si abbassa il precedente limite del 50% delle spese di personale, disponendo agli enti di prescrizione dell’art.76, co.7, del D.L. n.112/08, mantenere dal 1° gennaio 2011 l’incidenza delle includendo nella percentuale del 40% delle spese di spese di personale al di sotto del 40%, prevedendo personale le spese sostenute anche dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo, sempre, in caso di violazione della predetta titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali disposizione, il divieto di assunzione di personale senza gara o che svolgono funzioni volte a soddisfare sempre in senso assoluto. esigenze di interesse generale aventi carattere non Quest’ultima norma, al co.28, dell’art.9, stabilisce che le Pubbliche Amministrazioni possono avvalersi industriale, né commerciale o, ancora, che svolgono di personale a tempo determinato, con convenzioni o attività nei confronti della Pubblica Amministrazione con contratti di collaborazione coordinata e a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica. continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta 35
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industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica”. Inoltre, l’ente che vuole procedere ad assunzioni, se soggetto al patto di stabilità interno, ai sensi dell’art.76, co.4, del D.L. n.112/08, deve verificare che esso sia stato rispettato nell’anno precedente e che, in applicazione dell’art.1, co.557 e 557‐ter, della L. n.296/06, sia stata ridotta la spesa del personale ‐ sempre riferita all’anno precedente ‐ e infine che, ai sensi dell’art.48, co.1, del D.Lgs. n.198/06 e art.6, co.6, del D.Lgs. n.165/01, sia stato approvato il piano triennale delle azioni positive in materia di pari opportunità. Acquisiti tali presupposti, viene considerato un limite massimo per il personale assumibile che, sempre per gli enti soggetti al patto di stabilità, per i contratti a tempo indeterminato non può superare il limite del 40% “della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente”. Limite che nella stessa norma in argomento (art.76, co.7, del D.L. n.112/08) registra un’eccezione per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35% delle spese, per i quali si applica la disposizione secondo cui “in deroga al limite del 40 per cento e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale“ sono consentite assunzioni nell’ambito delle funzioni di polizia locale pari alle cessazioni, consentendo per intero il rimpiazzo del turn over. In quest’ultima condizione, il computo della spesa per assunzioni nel limite del 50% dell’effettivo costo continua ad essere applicato solo per le assunzioni relative alle funzioni di istruzione pubblica e del settore sociale. Ai fini dell’assunzione, si precisa che il costo del personale da assumere per le funzioni di polizia locale di istruzione pubblica e del settore sociale è calcolato per il 50%, mentre per il computo delle corrispondenti cessazioni il costo del personale continua ad essere calcolato per intero. Per quanto riguarda le amministrazioni che non sono soggetti al patto di stabilità interno la disciplina delle assunzioni a tempo indeterminato è quella contenuta nell’art.1, co.562, della L. n.296/06, come ultima‐
mente modificata dal D.L. n.16/12, nella quale si prevede che tali enti possano assumere personale nel limite delle cessazioni dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nell’anno precedente, considerato che le "spese di Nello stesso anno, l’art.4, co.183, lett.a), della L. n.183/11, specifica che il limite delle spese del 20% corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente si riferisce al personale a tempo indeterminato. Nella stessa norma, al co.102, che modifica l’art.9, co.28, del D.L. n.78/10 si stabilisce che i vincoli ivi previsti costituiscono principi generali ai fini della finanza pubblica, ai quali devono adeguarsi gli enti. Sempre nel 2011, concorre, inoltre, l’art.28, co.11‐
quater, del D.L. n.201/11, convertito in L. n.214/11, il quale riporta la percentuale delle spese di personale da non superare per non incorrere nel divieto di assunzione al 50%. Infine, ad apportare ennesimi ritocchi alla materia interviene il D.L. n.16/12, convertito con modifica‐
zioni in L. n.44/12, che all’art.4‐ter, co.10, lett. da a) a f), effettua la modifica dell'art.76, co.7, prevedendo tra l’altro l’aumento dal 20% al 40% del limite delle spese per il turn over. Presupposti per le assunzioni di personale Oltre i requisiti previsti dalle leggi di stabilità, per procedere alle assunzioni di personale, le Pubbliche Amministrazioni devono rispettare inoltre i criteri generali di cui al D.Lgs. n.165/01 (Testo unico del pubblico impiego). In particolare, un indefettibile presupposto per la legittima costituzione di una qualsiasi tipologia contrattuale, a qualsiasi titolo, è che siano rispettate le condizioni previste dall’art.art.6, co.3 e 6, del D.Lgs. n.165/01, e, cioè, che sia stato rideterminato il fabbisogno triennale del personale e aggiornata la dotazione organica. Contestualmente è necessario che l’ente interessato, ai sensi dell’art.33, co.1 e 2 del decreto citato, abbia effettuato la ricognizione annuale delle eventuali eccedenze di personale. Premesse queste condizioni generali si passa al rispetto delle norme finalizzate allo sviluppo economico, la competitività e la stabilizzazione della finanza pubblica, tra cui l’art.75, co.7, del D.L. n.112/08, come modificato e integrato da ultimo dall’art.4‐ter del D.L. n.16/12, secondo cui è necessario altresì non aver superato il limite del 50% del rapporto tra spese di personale e spesa corrente, tenendo in considerazione che per il calcolo di tale limite occorre prendere in esame anche le spese sostenute "dalle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non 36
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una limitazione ancora più stringente, mentre il legislatore ha chiaramente utilizzato il termine “cessazioni”. Per quanto questa interpretazione renda meno rigoroso il limite imposto per il calcolo delle cessazioni, le assunzioni a tempo indeterminato restano comunque di difficile attuazione, atteso il rispetto delle rigide condizioni sopra indicate, pertanto è più agevole fare ricorso ad assunzioni a termine, che rimangono uno dei pochi strumenti per fare fronte alle esigenze funzionali di taluni servizi fondamentali. Le assunzioni a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, come accennato, sono ammissibili, in base alle disposizioni di cui al co.28, dell’art.9, del D.L. n.78/10, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno precedente. Ci si chiede allora se queste indicazioni, per le amministrazioni territoriali (anche alla luce di una meno recente pronuncia della Corte Costituzionale, la n.390/04, in cui è stata dichiarata illegittima una norma che non si limitava a fissare un principio di coordinamento della finanza pubblica, ma poneva un precetto specifico e puntuale sull’entità della copertura delle vacanze a livello territoriale) costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica, ai quali le amministrazioni devono adeguarsi, oppure esse sono già un obbligo o obiettivo cui puntare complessi‐
vamente in corso d’anno. Al riguardo, appare in linea con la finalità della norma considerare il limite del 50% quale obbligo ai quali gli enti territoriali devono adeguarsi in virtù dell’attua‐
zione della prescrizione statale con disposizioni di dettaglio. Negli enti non soggetti al patto di stabilità il tetto alle assunzioni a tempo indeterminato non è di spesa, ma numerico e, dunque, potranno effettuarne entro la soglia massima dei cessati nell’anno precedente. Tuttavia, una limitazione di fatto alle assunzioni in queste amministrazioni è intervenuta a seguito della modifica introdotta dalla L. n.44/12, di conversione del D.L. n.16/12 in materia di semplificazioni fiscali, nella quale si prevede che l’anno di riferimento per il calcolo della spesa del personale da non superare debba essere fissato nel 2008 (e non più nel 2004). Pertanto, gli enti locali non soggetti al patto di stabilità sono assoggettati al tetto alle assunzioni nella misura della copertura del turn over, cioè delle cessazioni che si sono verificate nell’anno personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, non devono superare il corrispondente ammontare dell’anno 2008". Al riguardo va segnalato l’indirizzo della Corte dei Conti a sezioni riunite, che con deliberazione n.52/10 ha stabilito che per gli enti non soggetti al patto di stabilità possono essere ricoperte anche in anni successivi a quello immediatamente seguente tutte le cessazioni intervenute dal 2006 in avanti. Base di calcolo delle cessazioni per le assunzioni Come si è potuto facilmente rilevare dalla presenza di un cospicuo intreccio di norme, la materia concernente le nuove assunzioni di personale o le sostituzioni per turn over, in particolare per gli enti sottoposti al patto di stabilità, è molto complessa e ciò comporta anche delle difficoltà sul piano ermeneutico, in quanto non sempre permette un’agevole e corretta interpretazione della stessa. Tra le difficoltà interpretative che si sono registrate nell’applicazione della normativa, una di queste ha riguardato la corretta individuazione delle cessazioni che devono esser conteggiate nella base di calcolo del 40%. In pratica, è sorta l’incertezza se il legislatore, indicando quale elemento di riferimento della disciplina le “cessazioni” che si sono verificate in un determinato periodo abbia inteso considerare solo le cessazioni verificatesi nell’anno precedente ovvero se va considerato il saldo del turn over, cioè la differenza fra cessazioni e assunzioni verificatesi nell’anno precedente. Dubbio che è stato sottoposto alla Corte dei Conti, Sez. Reg. Lombardia, che con deliberazione n.549 del 28 ottobre 2011 ha fatto rilevare che la norma limitatrice del potere di disporre nuove assunzioni, contenuta nel co.9, dell’art.14 del D.L. n.78/10, individua letteralmente come parametro di riferi‐
mento una percentuale di spesa “corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente”. Per cui, secondo i giudici contabili interpellati, “risulta chiaro dal tenore letterale della norma e dall’esigenza perseguita dal legislatore che il riferimento da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione della previsione contenuta nel co. 9 dell’art. 14 sono le sole cessazioni che si verificano nel periodo di riferimento e non la differenza fra cessazioni ed assunzioni”. Prendere in considerazione la differenza tra cessazioni e assunzioni comporterebbe ovviamente 37
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esercitare in forma associata tutte le funzioni fondamentali loro spettanti e i servizi ad esse inerenti. Sempre in base D.L. n.138/11, all’art.4, co.14, si prevede che sono assoggettate al patto anche le società in house affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali, con regole che saranno individuate con decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze, di concerto con i Ministri dell'Interno e per i Rapporti con le Regioni, sentita la Conferenza unificata. Il consolidamento delle spese di personale, ai fini del rispetto del limite del 50% dell’incidenza delle spese correnti, trova alcuni punti controversi con riferi‐
mento alla qualità della partecipazione societaria da considerare ai fini del computo della spesa di personale complessiva, dell’ente e delle sue partecipate. Al riguardo, va evidenziato come la Corte dei Conti, sezione autonomie, con la deliberazione n.14/AUT/2011/QMIG, ha precisato che la soluzione ermeneutica del concetto di partecipazione totali‐
taria e di controllo, prevista dall’art.76, co.7, del D.L. n.112/08, è da ricercarsi nell’art.2359 c.c., rubricato “Società controllate e società collegate”, co.1 e 2. In particolare, secondo questa interpretazione sono da considerarsi società a partecipazione pubblica al 100% da uno o più enti pubblici quando hanno un controllo totalitario dell’ente pubblico oppure dispongono della maggioranza dei voti esercitabili dell’assemblea ovvero di un numero di voti comun‐
que sufficienti a esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria. Secondo questo indirizzo sarebbero da escludere le società indirette, cioè che sono titolari di affidamenti da parte delle società in holding e questo, secondo taluni, costituirebbe una falla nel sistema a cui furbescamente si potrebbe ricorrere: in pratica l’ente (un comune) affida a una società controllata dallo stesso la gestione di un servizio pubblico, quest’ultima crea una propria società, posseduta al 100%, alla quale cede un ramo d’azienda, compresi i dipendenti e, dunque, in questo caso, la società interamente del Comune resta nel calcolo, ma la sua spesa di personale dopo la trasformazione in holding può rimanere esigua o addirittura assente. Sanzioni per violazioni del patto di stabilità interno L’art.76, co.4 del D.L. n.112/08, convertito dalla L. n.133/08, prevede espressamente il divieto, per gli enti che non hanno rispettato il patto di stabilità interno nell’esercizio precedente, di procedere ad precedente. Al riguardo, andrebbe evidenziato come la Corte dei Conti, nel parere n.11/12, relativamente all’applica‐
zione dei limiti alla spesa per i contratti del personale temporaneo o con rapporto di lavoro flessibile, riguardante in particolare la corretta interpretazione delle misure di contenimento introdotte dall’art.9, co.28 del D.L. n.78/10, convertito nella L. n.122/10, così come modificato dall’art.4, co.102, della L. n.183/11, aveva stabilito che tali assunzioni sono assoggettate alle stesse regole dettate per gli enti soggetti al patto di stabilità, indicazione però da considerarsi quale un refuso alla luce delle indicazioni dettate più volte in precedenza dalle stesse sezioni riunite di controllo della magistratura contabile e di quanto affermato dal recente parere n.6/12 della sezione autonomie della magistratura contabile. Ambito soggettivo di applicazione del patto di stabilità La platea dei soggetti vincolati al patto di stabilità interno, oltre alle province e ai comuni superiori a 5.000 abitanti, per effetto dell’entrata in vigore di nuove disposizioni normative, è destinata ad ampliarsi. In particolare è prevista l'estensione dei vincoli del patto, già a decorrere dall’anno in corso, oltre alle province e ai comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, anche ai comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti. La determinazione della popolazione di riferimento viene effettuata sulla base del criterio previsto dall'art.156 del D.Lgs. n.267/00 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), cioè considerando la popolazione residente alla fine del penultimo anno precedente a quello di riferimento, secondo i dati Istat. Inoltre, per effetto dell’art.25, D.L. n.1/12, convertito con L. n.27/12, che ha introdotto il co.5‐bis, all’art.114 del D.Lgs. n.267/00, i vincoli si estendono anche alle aziende speciali e alle istituzioni e, ancora, a decorrere dal 2014, in applicazione del co.1 dell'art.16 del D.L. n.138/11 saranno assoggettate alle regole del patto di stabilità interno le unioni di comuni formate dagli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, i quali dovranno esercitare in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un'unione di comuni, senza escludere, anzi se ne ammette facoltà che a tale unione aderiscano anche i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti al fine di 38
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assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione. Il divieto si estende inoltre alla stipula di contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della predetta disposizione. La norma in argomento dispone, pertanto, il divieto assoluto e onnicomprensivo di procedere a nuove assunzioni e deve intendersi di generalizzata e ampia portata. Invero, la Corte dei Conti, sezione regionale Lombardia, con la deliberazione n.45/2013/PAR del 13 febbraio 2013, nel rispondere a un quesito di un comune il quale chiedeva in quale misura la dispo‐
sizione dell’art.76 sopra citata trovi applicazione anche per taluni rapporti lavorativi, quali quelli relativi agli asili nido comunali e, più nello specifico, alle assunzioni temporanee dirette a fronteggiare assenze per malattie o per altre cause di forza maggiore, al fine di garantire il rispetto delle norme che prevedono il rispetto di specifici standard di servizio, ha confermato che l'ente inadempiente al patto di stabilità interno non potrà invocare alcuna deroga. Giurista del Lavoro
In particolare, la Corte dei Conti ha precisato che la disposizione proibitiva presenta una valenza alquanto rigorosa e categorica, che la pone in un’ottica parzialmente difforme da altre previsioni di legge (quali ad esempio, il D.L. n.16/12, convertito nella L. n.44/12, art.4‐ter, co.10, lett.b) e co.12) che hanno previsto specifiche deroghe, in quanto norme di tenore eccezionale e per tale natura non sono suscettibili di estensione analogica, neppure per determinati settori ritenuti particolarmente delicati nel complesso di competenze ascritte agli enti locali. Le suddette considerazioni, secondo i giudici contabili, sono peraltro rafforzate dal tenore testuale della disposizione proibitiva “a qualsiasi titolo” e “con qualsivoglia tipologia contrattuale”, e confermate da analoga giurisprudenza (Corte dei Conti, 609/2010/PAR; 671/2010/PAR; 611/2011/PAR), secondo cui la suddetta formulazione letterale rende la disposizione in argomento non suscettibile di subire eccezioni limitative alla sua applicazione. Secondo un orientamento giurisprudenziale (Corte dei conti, deliberazione n.53/Contr/2010), inoltre, il divieto di assunzione per gli enti che non rispettano il patto di stabilità si estende anche ai casi di mobilità in entrata. 39
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La Riforma Fornero in materia di licenziamento individuale e i riflessi in materia di applicazione dell’art.2112 c.c. a cura di Marco Frisoni ‐ Consulente del Lavoro in Como ‐ docente di Amministrazione e gestione del personale e Diritto Amministrativo del Lavoro presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi dell’Insubria La L. n.92/12, a riforma del mercato del lavoro, si è caratterizzata, fra l’altro, per il manifestato intento di riformare i meccanismi di regolamentazione della c.d. flessibilità in uscita e, in particolare, le fasi e le conseguenze del recesso intimato dal datore di lavoro nei riguardi del prestatore di lavoro subordinato da esso dipendente, ai sensi dell’art.2094 c.c.. Occorre rilevare come, in realtà, l’intento del legislatore non appare puntualmente perfezionato, soprattutto alla luce del nuovo testo dell’art.18 della L. n.300/70, c.d. Statuto dei Lavoratori, la cui lettura è fonte di molteplici dubbi interpretativi da parte della dottrina e, a livello di primo affaccio giurisprudenziale, risulta applicato in maniera difforme e disomogenea, mortificando così la ratio della norma, improntata, al contrario, alla ricerca di parametri legali certi, chiari, con precipuo riguardo alle conseguenze economiche che possono rappresentarsi in capo al soggetto datoriale. Si deve peraltro evidenziare come il primo comma dell’art.18 abbia espressamente richiamato, ai fini dell’individuazione dell’apparato sanzionatorio applicabile, anche le fattispecie nelle quali il licenziamento sia affetto da insanabile nullità per diposizioni di legge e, di riflesso, eventuali disdette del contratto di lavoro subordinato comunicate dal datore di lavoro per eludere le disposizioni imperative e inderogabili contenute nell’art.2112 c.c., in materia di tutela dei diritti del lavoratore nell’ambito del trasferimento d’azienda, inteso come nozione ad hoc per il diritto del lavoro. I gravissimi effetti che ne possono derivare, a prescindere dalla dimensione occupazionale del datore di lavoro, e, quindi, di efficacia sostanzialmente universale, saranno esaminate nel presente contributo. Legge Fornero e ricerca di trasparenza e certezza zioni sovente estremistiche e pesantemente ideolo‐
delle regole all’interno dei rapporti di lavoro gizzate, nella significanza negativa di siffatta conno‐
La Legge n.92/12, si è caratterizzata, peraltro, come tazione. ogni riforma presuntivamente radicale nell’ambito Entrando nel merito delle modifiche apportate con la dell’ordinamento giuslavoristico, per il tormentato L. n.92/12, non si può non prendere atto che iter di approvazione e per l’accoglienza controversa numerosi scopi manifestati dal Governo non hanno ricevuta. Tra le molte finalità declinate e, per la trovato una reale collocazione all’interno del proget‐
verità, declamate pubblicamente dal Governo allora to definitivo di Riforma, rimanendone integralmente guidato da Prof. Mario Monti, alcune di esse hanno esclusi ovvero, in altre situazioni, solo marginalmente trovato formale cittadinanza nel testo definitivo espressi oppure, ancora, abbozzati in maniera sin approdato in Gazzetta Ufficiale n.153 del 3 luglio troppo prudente. D’altro canto, tralasciando le dichiarazioni iniziali di 2012, altre sono invece rimaste inespresse, alcuni esponenti, ancorché autorevoli, dello scorso costituendo quindi delle mere manifestazioni di Governo tecnico, nella realtà dei fatti il Prof. Mario intenti da parte dei rappresentanti del Governo Monti, per ottenere una celere approvazione della stesso. Da una lettura dell’art.1 della Legge Fornero si Riforma del mercato del lavoro, anche per fare fronte evince, al co.1, lett.c), la volontà di adeguare alle alle sollecitazioni sempre maggiormente pressanti mutate esigenze di contesto socio‐economico la provenienti dall’Unione Europea, si è visto costretto a percorrere la logica compromissoria con le parti disciplina del licenziamento, con previsione altresì di politiche, le associazioni di categoria e le un procedimento giudiziario specifico per accelerare organizzazioni sindacali, di talché la versione finale la definizione delle relative controversie. della legge in parola, ivi compresa la riscrittura Si tratta, come è evidente, di una prospettazione particolarmente ambiziosa, atteso che, almeno in dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, risente di una linea teorica, investirebbe una materia decisamente siffatta scelta, peraltro obbligata per le motivazioni delicata come quella dei licenziamenti e intorno alla appena esposte. quale, da sempre, si arroccano e si infrangono posi‐
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quali il recesso datoriale appaia macroscopicamente, ictu oculi, viziato e/o infondato. Invero il legislatore riformista non ha ritenuto in alcun modo di apportare delle modifiche o delle diminuzioni della tutela reale a fronte di specifiche situazioni, enucleate, in particolare, nel primo comma, attraverso il quale, a contrariis, ne ha addirittura ampliato il campo di applicazione sia a livello di fattispecie contemplate sia in ordine alla platea di lavoratori e datori di lavoro coinvolti. Per la verità, il nuovo co.1 dell’art.18 potrebbe apparire, a seguito di una ricognizione a volo d’uccello, quanto meno disomogeneo, nel senso che, al proprio interno, contempla differenti casistiche, alcune fra le quali non necessariamente legate da un filo coerente‐
mente logico dal lato normativo. Si può quindi affermare che il legislatore, a fronte di peculiari casistiche ritenute intollerabili dall’ordina‐
mento, ovvero perché in violazione di norme impe‐
rative e inderogabili, oppure perché sfornite di qualsivoglia minimo requisito formale, abbia ritenuto opportuna e, ancor di più, doverosa l’applicazione della sanzione più rigorosa prevista dall’ordinamento giuslavoristico per reprimere licenziamenti contrad‐
distinti dalle caratteristiche appena evidenziate, peraltro in linea di continuità con la precedente versione dell’art.18, antecedente alle modifiche apportate dall’art.1, co.42, della L. n.92/12. In buona sostanza, si parla della reintegrazione tradizionale nel posto di lavoro, accompagnata tuttavia al risarcimento del danno in medio tempore pari a un’indennità commisurata all’ultima retribuzio‐
ne globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento, sino a quello dell’effettiva riammis‐
sione in servizio, dedotto l’aliunde perceptum, vale a dire quanto conseguito dal lavoratore, nel corso del periodo di estromissione, per lo svolgimento delle attività lavorative, con la precisazione che, in ogni caso, il predetto risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità sempre della retribu‐
zione globale di fatto e che il datore di lavoro è tenuto al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, con relative sanzioni civili, non valendo nel caso, vista la gravità assegnata dal legislatore a simili situazioni, l’esenzione dalle sanzioni stesse. Rimane sempre salva, fermo restando il diritto al suesposto risarcimento del danno, la facoltà per il prestatore di lavoro, in sostituzione alla reintegra‐
zione, di richiedere un’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto, non assoggettata a contribuzione previdenziale ma al solo In verità, da un’analisi attenta della terminologia adottata nel caso dal legislatore, emerge non solo ciò che rappresenta la riforma in argomentazione attual‐
mente, quanto, invece, avrebbe potuto essere se, con maggiore coraggio e decisione e, perché no, una buona dose di impopolarità, si fossero percorse, sino alla fine, le strade di reale e oggettiva modifica del mercato del lavoro, in conformità e osservanza alle dichiarazioni d’intenti formulate in sede di presenta‐
zione dell’iter legislativo medesimo. Cenni sulle modifiche all’art.18, con particolare riguardo al co.1 Ad esemplificazione delle riflessioni sino ad ora svolte, è sufficiente richiamare le modifiche, o meglio, la riscrittura dell’art.18 della L. n.300/70, sul quale è imperniata, anche dal punto di vista politico, ideologico e sindacale, la tutela reale contro il licenziamento, sull’antefatto concettuale del diritto alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro dal quale era stato estromesso in maniera illegittima. In effetti, la nuova versione di tale disposizione, vigente dal 18 luglio 2012, appare frutto di una serie inquietante di compromessi fra la ricerca della flessibilità in uscita e la definizione preventiva delle varie conseguenze discendenti dall’illegittimità e/o inefficacia e/o nullità a vario titolo del recesso datoriale, con la disperata necessità di accontentare gli interlocutori sindacali e politici manifestamente contrari ad ogni modifica delle originarie tutele dello Statuto dei Lavoratori e, quindi, indisponibili a barattare il totem della reintegra con una sola tutela risarcitoria, ancorché molto consistente. Infatti, il testo del nuovo art.18 si presenta complesso, articolato, con numerosi commi di difficile coordinamento uno con l’altro e con un’ulteriore differenziazione interna delle tutele assegnate ai lavoratori, che, quindi, si aggiunge alla tradizionale e storica distinzione fra tutela reale e tutela obbligatoria, rendendo certamente più varie‐
gato il panorama giuridico che ne deriva, mentre, al contrario, l’intento era di snellirne i contenuti e semplificarne l’apparato sanzionatorio. L’analisi del novello art.18 potrebbe certamente indurre a ritenere che la reintegrazione non costituisca ulteriormente, almeno dal 18 luglio 2012, lo strumento obbligato al quale il giudice, senza alternative, deve ricorrere per sanzionare l’illegit‐
timità del licenziamento intimato nei confronti del lavoratore, dovendo invece la stessa rappresentare l’eccezione alla regola dell’indennità risarcitoria meramente economica, per quelle fattispecie nelle 41
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prelievo fiscale, secondo tassazione separata ai sensi dell’art.17 del DPR n.917/86. Le peculiarità del nuovo co.1 riguardano le fattispecie ivi richiamate e il campo di applicazione, elementi che, come già accennato in precedenza, portano a un’oggettiva espansione della tutela reale, anche nei confronti di quei lavoratori e soggetti datoriali che, ordinariamente, sarebbero invece assoggettati alla tutela obbligatoria di cui all’art.8 della L. n.604/66. Partendo dal primo contesto, il nuovo art.18 richiama espressamente la fattispecie del licenzia‐
mento discriminatorio ai sensi dell’art.3 della L. n.108/90, vale a dire determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dell'appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali; si tratta di una fattispecie, normalmente camuffata con ragioni oggettive o soggettive sulle quali viene radicato in maniera fittizia il recesso datoriale, considerata odiosa e intollerabile dal legislatore poiché contraria ai principi costituzionali dell’ordina‐
mento e alle normative comunitarie e internazionali, al punto da essere meritevole della sanzione più rigorosa, rappresentata, per l’appunto, dall’integrale applicazione dell’art.18 medesimo, nella sua forma più aspra e severa. E, ancora, viene richiamato il recesso intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'art.35 del D.Lgs. n.198/06, codice delle pari opportunità tra uomo e donna, ovvero in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'art.54, co.1, 6, 7 e 9, del D.Lgs. n.151/01, in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità; anche in siffatte situazioni, vengono a rilievo diritti costituzionalmente garantiti e tutelati, come la maternità e la famiglia, che sono dunque meritevoli di idonee e incisive tutele normative. Peraltro, mentre per il licenziamento discriminatorio l’art.3 della L. n.108/90 ne sanciva la nullità indipen‐
dentemente dalla motivazione addotta e, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall'art.18 della L. n.300/70, anche per i dirigenti, nel caso, per esempio, delle tutele per la lavoratrice madre e, in generale, del D.Lgs. n.198/06, si assiste a un’esten‐
sione della tutela reale legale, atteso che, in prece‐
denza, tali licenziamenti, considerati comunque nulli, venivano assistiti invece dalla c.d. tutela reale di diritto comune con diritto della lavoratrice al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute dal momento dell’estromissione all’effettiva riam‐
missione al lavoro e non, quindi, alla peculiare tutela dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Giurista del Lavoro
Non solo: l’intervento del legislatore è di portata ben più ampia, poiché, sempre nel primo comma, vengono, come norma di chiusura a contenuto assai ampio e generale, comprese tutte quelle fattispecie in cui il recesso sia affetto da nullità ai sensi dell’art.1418 c.c. ovvero sia radicato da un motivo illecito determinate ex art.1345 c.c. stesso. Si è in presenza di una scelta ben precisa del legislatore, per effetto della quale vengono quindi ricondotte talune fattispecie di licenziamento nullo alla tutela reale derivante dall’applicazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, in luogo della precedente tutela individuata dalla giurisprudenza prevalente sempre nella tutela reale ma di diritto comune, quindi con diritto per il prestatore di lavoro al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute dall’espulsione all’effettiva riammissione in servizio. Salvo evidenziare che le casistiche nel tempo individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per il licenziamento discriminatorio, il cui onere della prova grava sul lavoratore, sono molteplici: il licenziamento intimato esclusivamente per motivo illecito determinante, il licenziamento ritorsivo intimato, per esempio, a fronte di un’azione giudiziaria del lavoratore ovvero a fronte della richiesta di congedi per la formazione spettanti per legge oppure, ancora, il licenziamento in frode alla legge, per eludere applicazione di una norma dotata di valenza imperativa e inderogabile, caratteristiche tipiche delle disposizioni del diritto del lavoro A corollario delle modifiche illustrate il legislatore ha altresì stabilito che il rigoroso regime sanzionatorio in parola si applica anche nei casi in cui il licenziamento sia intimato in forma orale, al di fuori dei casi consentiti poiché ancora rientranti nell’alveo della libera recedibilità, come nel caso del lavoro domestico ovvero degli sportivi professionisti, mentre è bene rammentare che l’art.2, co.4, della L. n.604/66 richiede anche per i dirigenti la forma scritta del licenziamento. In buona sostanza, la norma di legge intende punire con severità e inclemenza quei datori di lavoro che si approccino a un licenziamento senza nemmeno curarsi, quanto meno per principio di buon senso, almeno dei requisiti minimali ed elementari richiesti dalle disposizioni normative, anche a tutela del soggetto datoriale stesso. L’espansione del campo di applicazione del nuovo art.18, co.1, deriva non solamente dall’ampliamento dei casi particolari esplicitati direttamente ovvero per rinvio, ma anche dal presupposto che l’infles‐
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stesso può derivare da una qualsiasi operazione societaria straordinaria, quale la cessione, la fusione, sia per incorporazione sia con creazione di un nuovo soggetto societario, la scissione, l'usufrutto, l'affitto d'azienda, la successione ereditaria, e, in ogni caso, manifestarsi qualora, ferma restando l'organizzazio‐
ne del complesso dei beni destinati all'esercizio dell'impresa, è sostituita la persona del titolare datore di lavoro; viene altresì precisato che le disposizioni e le norme relative al trasferimento d'azienda si applicano anche nell'ipotesi di trasferi‐
mento di parte e/o di ramo dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. È evidente la ratio delle disposizioni di legge in parola di estendere, ai soli fini giuslavoristici, la nozione di trasferimento d’azienda, ampliandola nettamente rispetto al concetto regolamentato dalle norme di diritto privato, al fine di ampliare in maniera esponenziale il campo di applicazione e assegnazio‐
ne delle tutele previste nel caso di specie, evidenziando sin dall’origine che l’art.2112 c.c. manifesta i propri effetti in maniera generalizzata, non essendo prevista alcuna distinzione fra i lavoratori e i datori di lavoro legata al numero di dipendenti occupati, mentre tale parametro viene a rilievo per l’applicabilità della L. n.428/90, con precipuo riguardo alla procedura di consultazione e informazione sindacale lì prevista e regolamentata. Dunque è fondamentale ribadire l’applicazione uni‐
versale dell’art.2112 c.c., con gli effetti che, in sintesi, si rappresenteranno di seguito, senza distinzione fra datori di lavoro piccoli, medi e grandi, come peraltro è confermato da una lettura al contrario dell’art.47 della L. n.428/90, che si occupa, per l’appunto, di quei casi ben tipizzati nei quali l’art.2112 stesso, a fronte di aziende considerate in crisi o soggette a procedure concorsuali, potrebbe essere, a determi‐
nate condizioni, disapplicato ovvero adottato parzial‐
mente. In particolare, a mente del co.1 dell’art.2112 c.c., in caso di trasferimento d'azienda il contratto di lavoro continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; in concreto, l’obbiettivo primario del legislatore è rappresentato dal presupposto che, nell’ambito di una vicenda circolatoria aziendale, il lavoratore, che, nei fatti, subisce tale accadimento, non ne abbia nocumento o detrimento di alcuni aspetti del rapporto di lavoro, con preciso riferimento alla continuità del rapporto di lavoro con il soggetto cessionario e la conserva‐
sibile tutela che ne deriva si applica a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. D’altro canto, a fronte di recessi basati su presup‐
posti che, come detto, sono ritenuti non tollerabili dall’ordinamento, sarebbe irragionevole distinguere le relative forme di tutela e, nel complesso, si deve apprezzare lo sforzo della Legge di Riforma di accentrare nel co.1 dell’art.18 ipotesi e situazioni in precedenza frammentate fra tutela reale legale e di diritto comune, anche se da ciò ne deriverà un notevole appesantimento dei rischi per i datori di lavoro anche con non più di quindici dipendenti. I riflessi della Legge Fornero in materia di trasferimento d’azienda ex art.2112 c.c. Come è noto, il nostro legislatore ha previsto una specifica disciplina normativa a tutela dei diritti del prestatore di lavoro nel contesto delle vicende circolatorie dell’azienda, cercando di individuare una corretta sintesi dall’esigenza di consentire e favorire tale pratica, quando, ovviamente, risulti posta in essere con modalità genuine e legittime e, al tempo stesso, garantire la continuità occupazionale dei lavoratori interessati da siffatte operazioni societarie straordinarie. Alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuslavoristico nonché in conformità alle suggestioni di diritto comunitario, su tutte, la Direttiva n.1977/187 e la Direttiva n.1998/50, il legislatore interno, in considerazione altresì della posizione di contraente debole manifestata dal lavoratore, ha ideato un corollario normativo specifico, ad hoc per il diritto del lavoro, che, conseguentemente, si aggiunge alla tradizionale disciplina codicistica in materia di trasferimento d’azienda, e il cui nucleo risiede, fondamentalmente, nell’art.2112 c.c, ogget‐
to, fra l’altro, di ben cinque modifiche, e nell’art.47 della L. n.428/90, anch’esso recentemente novellato dalla L. n.134/12. In particolare, l'art.2112 c.c., per mezzo del co.5, definisce trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conservi nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedi‐
mento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto e l’affitto d'azienda. Differenziandosi quindi dall’ordinaria disciplina di diritto societario, appare evidente che non rileva la tipologia negoziale o il provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, poiché, in verità, lo 43
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civile, vale a dire in sede protetta, con effetti di inoppugnabilità delle rinunzie e transazioni ex art.2113 c.c. ivi pattuite. È evidente che, già alla luce delle brevi considerazioni formulate intorno ai contenuti dell’art.2112 c.c., ne emerge un panorama applicativo particolarmente rigido, di portata generale e di applicazione universale e che, sovente, incontra una forte ostilità nella misura in cui oggetto del trasferimento siano micro o piccole realtà aziendali. In effetti, in tali casistiche il promissario acquirente subordina l’acquisizione dell’azienda solo a fronte del fatto che la stessa venga consegnata in assenza di rapporti di lavoro, al punto che, incredibilmente, simili clausole vengono addirittura espresse per iscritto negli atti preliminari e/o definitivi di vendita; sia chiaro, a volte è comprensibile, dal punto di vista della logica imprenditoriale, la posizione a tal guisa espressa dal compratore, atteso che ben potrebbe gestire una piccola impresa in proprio, senza quindi avvalersi di lavoratori subordinati, ovvero con la partecipazione di famigliari coadiutori dell’impresa commerciale oppure artigiana, tuttavia il c.d. diritto imprenditoriale è cedevole laddove vi siano norme inderogabili e imperative poste a presidio delle tutele dei lavoratori. E, invero, in una situazione come quella sopra rappresentata, a mente del dato normativo, il cessionario proseguirebbe nei rapporti di lavoro con i dipendenti trasferiti e, se del caso, intimerebbe egli stesso i licenziamenti nel rispetto delle norme di legge. Un apparato normativo similmente impostato, estremamente rigoroso, potrebbe quindi indurre i soggetti datoriali coinvolti a ricercare soluzioni alternative tese ad eludere le tutele scolpite nell’art.2112 c.c., soprattutto sul lato della continuità del rapporto di lavoro del dipendente presso il cessionario. Giova tuttavia rammentare che approcci fraudolenti alla disciplina racchiusa nell’art.2112 c.c. possono comportare, in capo ai soggetti datoriali coinvolti, gravi conseguenze sul piano giudiziario e risarcitorio, sia per l’applicazione universale del dettato norma‐
tivo in esame sia per le modifiche intervenute per mezzo della Legge Fornero in materia di licenziamen‐
to. In prima battuta, appare fondamentale richia‐
mare l’attenzione sulla natura rivestita dall’art.2112 c.c., poiché dallo status della stessa discendono particolari effetti di cui si dovrà tenere conto ai fini dell’esatto inquadramento della questione in analisi. E, invero, è certamente noto come il sistema giuslavoristico interno sia fondato sul concetto della zione dei diritti derivanti dal pregresso rapporto di lavoro già entrati nel patrimonio del prestatore di lavoro medesimo. D’altro canto, proprio l’art.2112 c.c., ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, afferma recisamente e in maniera inequivocabile che il trasfe‐
rimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, mentre il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'art.2119 c.c., si presume quindi con diritto al trat‐
tamento ASpI o Mini‐ASpI in presenza dei requisiti contributivi e previdenziali di legge. E, ancora, il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. Resta inteso che il predetto effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello; in effetti, l’intento del legislatore è, incontrovertibilmente, di garantire l’applicazione di un contratto collettivo di lavoro, pur tuttavia, anche nel rispetto dei principi di libertà sindacale di cui all’art.39 della Carta costituzionale, ecco che, qualora il cessionario applichi già una propria contrattazione collettiva, si verifica l’effetto sostituzione con i trattamenti collettivi precedentemente applicati dal cedente, ma solo fra discipline contrattuali collettive del medesimo livello. A definizione del suesposto corollario normativo è prevista una speciale forma di responsabilità solidale, ai sensi dell’art.1292 c.c., di talché soggetto cedente e cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento, con specifico rinvio ai diritti rivendicabili in quanto già maturati presso il cedente al momento del trasferimento. Il lavoratore può, pertanto, chiedere l'adempimento per la totalità sia al cedente che al cessionario, fatta salva la facoltà di regresso, cioè la possibilità per il debitore che ha pagato l'intero debito di chiedere al condebitore il pagamento della propria parte. È tuttavia previsto un temperamento a tale discipli‐
na, poiché il lavoratore può acconsentire alla libera‐
zione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, ad esclusiva condizione che il con‐
senso sia espresso con le procedure di conciliazione di cui agli artt.410 e 411 del codice di procedura 44
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norma inderogabile, vale a dire su meccanismi che prevedono la vigenza di disposizioni che fissano dei limiti posti a tutela del lavoratore, che non sono superabili nemmeno con il consenso dell’interessato stesso; tutto ciò sul presupposto che il prestatore di lavoro è la parte debole del contratto di lavoro e, quindi, potrebbe essere soggetto a indebite pressioni datoriali e accettare condizioni di lavoro pregiudi‐
zievoli e non dignitose. Orbene, l’art.2112 c.c. è certamente qualificabile come inderogabile e quale norma imperativa, per le ragioni appena esposte, prescrivendo delle punti‐
gliose forme di tutela e protezione a beneficio del lavoratore all’interno delle vicende di un trasferi‐
mento d’azienda. Tali caratteristiche discendono certamente anche dalla tutela del lavoro quale costituzionalmente protetto, ciò nondimeno bisogna rievocare il fatto che, in realtà, l’art.2112 risponde anche a precisi obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea e al recepimen‐
to delle relative direttive, che costituiscono fonti e principi gerarchicamente sovraordinati nel nostro ordinamento giuridico. In merito alla tutela del posto di lavoro, l’articolo in questione afferma con tutta chiarezza che, nel trasferimento d’azienda, accezione ampliata ai fini giuslavoristici, il rapporto contrattuale prosegue, senza soluzione di continuità e, quindi, senza interruzione, presso il cessionario e che, più di ogni altra cosa, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. In buona sostanza, la norma, facendo propri gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza formatisi antecedentemente alle ultime modifiche, condiziona la facoltà di recesso del datore di lavoro cedente alla sussistenza oggettiva di ragioni e motivazioni diverse dal semplice fatto del trasferi‐
mento, secondo quindi le ordinarie regole in materia di licenziamento. Di talché, il recesso intimato dal soggetto datoriale cedente formalmente giustificato, a titolo esemplifi‐
cato, da fatti disciplinari ovvero da giustificato motivo oggettivo, ma che, in realtà, dissimula la volontà di eludere le disposizioni in analisi, configura una violazione a norma imperativa, ex art.1418 c.c., ma anche un negozio posto in frode alla legge, ai sensi dell’art.1344 c.c. stesso. Di conseguenza, tale disdetta contrattuale risulterà affetta da insanabile nullità e, pertanto, il prestatore di lavoro avrà il diritto a proseguire il proprio rap‐
porto di lavoro con riammissione presso il soggetto Giurista del Lavoro
cessionario, in perfetta aderenza al dettato norma‐
tivo dell’art.2112 c.c.. Per la verità, secondo la giurisprudenza, anche la cessazione del rapporto di lavoro presso il cedente e la riassunzione presso il cessionario configura un negozio in frode alla legge, poiché potrebbe pregiu‐
dicare la continuità del rapporto di lavoro, la conservazione dei diritti individuali del lavoratore e farebbe decadere la responsabilità in solido fra cedente e cessionario, tutto ciò a meno che si dimostri una vera e propria novazione oggettiva del rapporto di lavoro o che tali soluzioni avvengano all’interno di una procedura collettiva sindacale e/o in sede di conciliazione protetta. Occorre quindi interrogarsi su che cosa sia mutato, rispetto alle problematiche appena esposte, dopo la riscrittura dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori per opera della Legge di Riforma, con speciale riferi‐mento al co.1 e all’apparato sanzionatorio applicabile. Si può affermare che, prima dell’avvento delle suddette novelle legislative, a fronte dei casi di nullità già sinteticamente identificati, la giurispru‐
denza utilizzava il meccanismo di tutela reale di diritto comune, ordinando la riammissione al lavoro presso il cessionario, in perfetta aderenza all’art.2112 c.c., senza operare alcuna distinzione fra datori di lavoro in funzione del numero di dipendenti occupati. Di riflesso, il lavoratore maturava il diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute dall’illegittima estromissione sino all’effettiva reinte‐
grazione al lavoro da parte del cessionario, salvo, s’intende, il maggior danno subito da dimostrarsi con onere della prova a carico del lavoratore stesso. Dal 18 luglio ultimo scorso, in realtà, la questione va collocata all’interno del nuovo art.18 della L. n.300/70 e, in particolare, in forza delle disposizioni contenute nel co.1, in merito al quale si è già apprezzato lo sforzo del legislatore di ricondurre a un meccanismo sanzionatorio omogeneo una serie di fattispecie che, in precedenza, risultavano suddivise fra la tutela reale legale di cui all’art.18 previgente medesimo e la tutela reale di diritto civile. Ebbene, proprio in considerazione del nuovo co.1, si è di fronte a una situazione per la quale il recesso datoriale, in spregio all’art.2112 c.c., è contrario a norma imperativa e/o negozio in frode alla legge, quindi affetto e afflitto da nullità e, conseguen‐
temente, dal 18 luglio 2012, per siffatte casistiche, sempre prescindendo dal livello occupazionale del datore di lavoro, in luogo della tutela reale di diritto 45
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extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organiz‐
zazione sindacale diretto a impugnare il licenziamen‐
to stesso; l'impugnazione è in ogni caso inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso e, qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. In ultimo, un breve cenno alla questione delle rinunzie e transazioni nei rapporti di lavoro; ai sensi dell’art.2113 c.c. le rinunce e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi sono invalide a meno che siano intervenute in una conciliazione protetta ai sensi degli artt.185, 410, 411, 412‐ter e 412‐quater del codice di proce‐
dura civile. Orbene, occorre interrogarsi sulla valenza di rinunzie e transazioni poste in essere dal lavoratore nell’ambito dell’art.2112 c.c. che, come già più volte evidenziato, assume lo status di norma inderogabile di legge, fatta eccezione per la questione della responsabilità in solido fra cedente e cessionario per i crediti del lavoratore all’atto del trasferimento, per la quale è dettata dalla norma stessa la regolamen‐
tazione in fase conciliativa. Alla luce dei consolidati orientamenti giurispruden‐
ziali e delle linee interpretative dottrinali, si può affermare che una rinunzia preventiva del lavoratore ai diritti discendenti dall’art.2112 c.c. è radicalmente nulla, atteso, fra l’altro, che riguarderebbe diritti non ancora entranti nel patrimonio del lavoratore. Al contrario, in caso di oggettivo trasferimento d’azienda, si ritiene che le rinunzie e transazioni in quella fase poste in essere dal lavoratore siano assoggettabili all’art.2113 c.c. e, quindi, sottoposte allo speciale regime di invalidità ivi contemplato, a meno che, come preferibile e suggerito, le stesse avvengano nell’ambito di una procedura conciliativa in sede protetta, al fine di garantire l’inoppugnabilità delle intese raggiunte far i soggetti datoriali ed i lavoratori coinvolti dall’operazione societaria rien‐
trante nel campo di applicazione dell’art.2112 c.c.. comune troverà cittadinanza l’intransigente discipli‐
na della tutela reale legale dettata dal nuovo art.18, co.1, nella sua forma più severa e, quindi, senza i benefici della c.d. reintegrazione attenuata/depo‐
tenziata. D’altronde, si è in presenza di nullità, la maggiore sanzione dell’ordinamento di diritto privato, a fronte della violazione di norme inderogabili e imperative considerate fondamentali dal legislatore, poiché poste a tutela sia del lavoratore, in quanto contraente debole del rapporto di lavoro, sia di beni costituzionalmente protetti sia di principi derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi di appartenenza all’Unione Europea; di conseguenza, si ritiene, condivisibilmente, che comportamenti difformi e fraudolenti debbano essere repressi e sanzionati con modalità aspre e inflessibili. Va da sé che, per effetto delle modifiche discusse, i rischi, soprattutto per i datori di lavoro medio‐piccoli, appaiono decisamente amplificati, atteso che, a questo punto, il lavoratore estromesso in violazione delle norme in materia di trasferimento d’azienda, contrariamente al passato, ben potrebbe rinunciare alla reintegrazione nel posto di lavoro presso il cessionario, preferendo la congrua indennità sostitutiva e il risarcimento del danno in medio tempore, comunque non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre alla ricostruzione della posizione previdenziale e, da una simile determinazione, rimessa, come è chiaro, alla discrezionale volontà del prestatore di lavoro, potrebbero altresì conseguire dei riflessi sul piano dei rapporti contrattuali tra cedente e cessionario, soprattutto nel caso in cui il primo abbia fornito delle manleve al secondo rispetto a rischi risarcitori derivanti da rapporti di lavoro con dipendenti estromessi dal trasferimento d’azienda. Si deve inoltre ricordare che il Collegato Lavoro, al fine di evitare il protrarsi di situazioni di incertezza, è intervenuto anche in materia di trasferimento d’azienda e diritti del lavoratore coinvolto in tali operazioni societarie straordinarie. Infatti, qualora i singoli lavoratori ritengano che il trasferimento d'azienda sia avvenuto in violazione delle norme di legge, possono impugnare il trasferi‐
mento stesso e, ai sensi dell'art.32, co.4, lett.c), della L. n.183/10, l'art.6 della L. n.604/66 si applica anche alla cessione del contratto di lavoro nel contesto del trasferimento d'azienda di cui all’art.2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento. In altre parole, l’impugnazione, a pena di decadenza, dovrà avvenire entro sessanta giorni dal termine sopra citato, con qualsiasi atto scritto, anche 46
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Nuove conferme dalla Cassazione sulla qualificazione del trasfertismo a cura di Luca Vannoni – Consulente aziendale in Crema La Corte di Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza 23 gennaio 2013, n.1620, che la qualificazione del lavoratore come trasfertista discende dallo svolgimento delle proprie mansioni in luoghi variabili e diversi, ritenendo irrilevante che sia erogata un’indennità solo per le trasferte effettive, ma non in via continuativa. Si conferma, quindi, il recente orientamento (Cassazione 13 gennaio 2012, n.396) che utilizza come parametro fondamentale per la definizione del trasfertista la continua variabilità del luogo del lavoro, al di fuori di qualsiasi sede stabilita. Viene, quindi, nuovamente smentito il messaggio Inps 5 dicembre 2008, n.27271, dove la figura del trasfertista è connotata sia dall’assenza di una sede di lavoro prestabilita sia dall’erogazione di un’indennità di trasferta per tutti i giorni retribuiti, a prescindere dall’essersi recato o meno in trasferta.
In Cassazione, quindi, il ricorrente contestava La nuova pronuncia della Cassazione: ordinanza l’interpretazione della Corte di Appello di Torino, n.1620/13 ritenendo che il diverso regime fiscale tra trasferta e Nel solco della recente sentenza n.396 del 13 gennaio trasfertismo fosse legato alle modalità di correspon‐
2012, la Corte di Cassazione interviene nuovamente sione del compenso e non alle modalità della sulla delicata questione dell’inquadramento del lavoratore come trasfertista o, meglio, sulla possibilità prestazione. A supporto delle proprie ragioni, il datore di trattare come indennità di trasferta le erogazioni di lavoro richiamava il messaggio Inps 5 dicembre corrisposte, in via non continuativa, a lavoratori la cui 2008, n.27271, dove si afferma che prestazione si caratterizza per una rilevante e con‐
“le condizioni di cui ai punti 1) e 2) (mancata sistente variabilità. individuazione del luogo di lavoro e variabilità della L’esito, come anticipato in premessa, è il medesimo: le prestazione, n.d.a.), sebbene costituiscano indennità riconosciute ai lavoratori solo per le trasferte effettive, se la prestazione di lavoro viene sostanzialmente gli elementi di distinzione tra resa in un luogo sempre variabile, non sono soggette l'attività in trasferta e quella di trasfertista, devono al trattamento fiscale della trasferta (art.51, co.5, essere valutate, ai fini dell'applicabilità del regime contributivo di cui al comma 6 dell'art.51 del TUIR, Tuir), ma a quello del trasfertista (art.51, co.6 Tuir), unitamente alle modalità di corresponsione dei con un’imponibilità del 50% delle indennità rico‐
compensi (punto 3)”. nosciute in luogo della parziale esenzione (€ 46,48; € 77,47 all’estero). Nel rigettare il ricorso, la Cassazione smentisce la Il contenzioso sull’inquadramento tra trasferta e ricostruzione delle regole di applicabilità del regime trasfertismo è sorto a seguito dei seguenti fatti. In occasione di un verbale di accertamento ispettivo del trasfertista proposta dal datore di lavoro, in quanto la continuità dell’erogazione è, nel testo del Inps è stato richiesto il pagamento dei contributi sul co.6 dell’art.51 del Tuir, soltanto un’eventualità: 50% delle somme erogate dal datore di lavoro sotto la voce indennità di trasferta a determinati lavoratori per “le indennità e le maggiorazioni di retribuzione i periodi 1° gennaio 2003 ‐ 31 dicembre 2007. A spettanti ai lavoratori tenuti per contratto seguito del rigetto del ricorso in primo grado, il datore all'espletamento delle attività lavorative in luoghi di lavoro impugnava la sentenza presso la Corte di sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con Appello di Torino, che, a sua volta confermava la legittimità del verbale Inps. carattere di continuità”. Più precisamente, i lavoratori dovevano essere inquadrati come trasferisti, in quanto erano tenuti per La portata precettiva di tale comma, ai fini della contratto a svolgere l’attività lavorativa in luoghi distinzione con il precedente co.5, è rappresentata sempre variabili e diversi, essendo ininfluente dall’erogazione di un corrispettivo dell’obbligo con‐
l’indicazione nella lettera di assunzione della sede trattuale di espletare normalmente le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi. legale come sede di lavoro. A nulla rileva il fatto che la A nulla rileva la formalizzazione, nella lettera di corresponsione dell’indennità di trasferta sia non continuativa. assunzione, di un luogo di lavoro, spesso la sede legale dell’impresa, se poi non corrisponde agli obblighi 47
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caso di evasione si applica una sanzione civile, in ragion d’anno, del 30%. La Cassazione ha escluso che si possa applicare, al caso in questione, l’evasione contributiva. Le ore di trasferta erano state indicate nelle scritture obbligatorie, ma non le relative indennità di trasferta, in quanto considerate esenti (in questo passaggio la Cassazione riferisce, erroneamente, l’esenzione contri‐
butiva alle ore di lavoro in trasferta): nessun elemento del rapporto di lavoro era stato occultato, tanto che proprio sulla base delle registrazioni si è proceduto con la contestazione del mancato versamento contri‐
butivo. Conclusioni La definizione del luogo di lavoro è strettamente connessa con le mansioni del lavoratore, o quanto meno la variabilità per determinate mansioni ‐ come installatori e operai edili ‐ preclude la possibilità di individuare un luogo di lavoro abituale. Se la variabilità del luogo di lavoro è strutturale rispetto alla prestazione, siamo in un’ipotesi di trasfertismo. L’esenzione prevista in caso di trasferta ha spinto in molti casi a forzare l’individuazione del luogo di lavoro, non corrispondente alle modalità di svolgimento della prestazione, prendendo spunto dall’interpretazione fornita dal Ministero delle Finanze con la circolare n.326/97. In essa infatti si afferma, in relazione ai trasfertisti, che: “si devono comprendere nell'ambito di questa disposizione tutti quei soggetti ai quali viene attribuita una indennità, chiamata o meno di trasferta, ovvero una maggiorazione di retribuzione, che in realtà non è precisamente legata alla trasferta poiché è attribuita, per contratto, per tutti i giorni retribuiti, senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta. È irrilevante, ai fini della tassazione, cercare le motivazioni di detta decisione contrattuale, se cioè dipenda da una volontà delle parti di semplificare le modalità di calcolo della retribuzione, trattandosi comunque di soggetti che per l'attività svolta sono di frequente in trasferta, ovvero se dipenda dal fatto che si tratta di soggetti il cui contratto o lettera di assunzione non prevede affatto una sede di lavoro predeterminata …”. Certamente, il chiarimento sembra implicitamente affermare che, essendo il regime da trasfertista una scelta, mediante un’erogazione di un’indennità conti‐
nuativa, che può riferirsi anche a casi non di contrattuali e alle mansioni del lavoratore. Il concetto di luogo di lavoro nulla ha che vedere con la “sede di assunzione”, cioè il luogo dove materialmente si è instaurato il rapporto di lavoro, ma che non ha alcuna rilevanza nella connotazione della prestazione di lavoro, o con la sede di riferimento per la gestione burocratica e amministrativa del rapporto di lavoro. Il luogo di lavoro, infatti, è una caratteristica intrinseca del rapporto che le parti intendono instaurare, così da rispondere alle esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro: definita la prestazione, il luogo non può derivare da un’autonoma scelta del datore di lavoro, funzionale all’applicabilità di un regime fiscale, e contributivo, più vantaggioso. Omissione contributiva e non evasione: Corte di Cassazione 26 febbraio 2013, n.4837 Particolarmente interessante ed esemplificativo il caso oggetto della recente sentenza del 26 febbraio 2013, n.4837. L’Inps richiedeva i contributi per i trasfertisti (imponibilità al 50%) su indennità di trasferta conside‐
rate esenti, ai sensi del co.5 dell’art.51 del Tuir. L'attività dell'impresa consisteva negli scavi e nella posa in opera di condotte per conto dell'Enel, da cui discendeva, a livello organizzativo, lo spostamento dei dipendenti in cantieri di lavoro sempre diversi, non essendovi uno stabilimento di produzione, ma solo un deposito di automezzi e attrezzature. La sede azien‐
dale, individuata nella lettera di assunzione come luogo di lavoro, assumeva un valore esclusivamente accessorio per le prestazioni di lavoro, come mero punto di riferimento per prendere materiale e attrezzature e compiere solo alcune saltuarie opera‐
zioni. Nei primi due gradi di merito era stata confer‐
mata la legittimità delle pretese Inps. Tenuto conto delle argomentazioni sopra richiamate, la Cassazione ha rigettato il ricorso del datore per quanto riguarda la qualificazione come trasfertisti dei lavoratori, in quanto l’attività è l’istallazione, presso le sedi dei vari committenti, mentre la sede aziendale funge solo da mero punto di riferimento per prendere materiale e attrezzature e compiere solo alcune saltuarie operazioni. La Cassazione, inoltre, si è pronunciata sul regime sanzionatorio applicabile ai contributi non versati: l’omissione contributiva (lett.a dell’art.116, co.8, L. n.388/00) ovvero l’evasione contributiva (lett.b dell’art.116, co.8, L. n.388/00), come chiedeva l’Inps. La differenza non è di poco conto: l’omissione contributiva è sanzionata con la sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento (Tur) maggiorato di 5,5 punti percentuali, mentre in 48
maggio 2013 Clausole e accordi nel contratto di lavoro il
Giurista del Lavoro
delle Finanze n.326/97: tra le caratteristiche indivi‐
duate come essenziali per la qualificazione del trasfertista, vengono evidenziati i seguenti tre aspetti: 1. la mancata indicazione nel contratto e/o lettera di assunzione della sede di lavoro; trasfertismo “ontologico”, ma per semplice modalità di calcolo della retribuzione, allora è comunque “rinunciabile” e sostituibile con un regime in cui l’indennità di trasferta, essendo erogata solo per le trasferte effettive (anche frequenti e intense), possa essere trattata fiscalmente come trasferta. Tuttavia, l’induzione operata non sembra essere corretta: la possibilità di trattare come trasfertisti i lavoratori con trasferte frequenti, ma con luogo di lavoro definito e reale, non vuol dire che i trasfertisti senza sede di lavoro possano comunque ricevere indennità da trasferta esenti perché un luogo di lavoro è stato individuato, anche se totalmente marginale e acces‐
sorio all’attività svolta dal lavoratore e, complessi‐
vamente, dallo stesso datore di lavoro. All’incertezza interpretativa ha concorso sicuramente la prassi amministrativa: basti citare la circolare 19 maggio 2000, n.101/E, dove il Ministero delle Finanze ha considerato legittima la possibilità di riconoscere un’indennità di trasferta, soggetta alla disciplina fiscale del co.5 dell’art.51 Tuir, agli autisti, fisiologicamente trasfertisti, nel caso in cui tale indennità non sia riconosciuta nei giorni di assenza, nei giorni di ferie, nei giorni di permesso, malattia, infortunio e comun‐
que quando non venga svolta la prestazione di lavoro. Solo in presenza di tale condizione, si afferma, è possibile trattare l’elemento economico come indenni‐
tà di trasfertismo, con l’applicazione del co.6, art.51 Tuir. L’Inps, a sua volta, con il messaggio n.27271 del 5 dicembre 2008, ha cercato di indirizzare in modo uni‐
voco gli orientamenti del proprio personale ispettivo, che, in molti casi, negava la possibilità di trattare come trasferta ex co.5, art.51 Tuir le indennità riconosciute a lavoratori che svolgevano prestazioni strutturalmente itineranti (e come dimostrano le sentenze commen‐
tate nel presente articolo, non riuscendo nel suo intento). L’Istituto previdenziale ha espresso la volontà di adeguarsi ai contenuti della circolare del Ministero 2. lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (ossia lo spostamento costituisce contenuto ordinario della prestazione di lavoro); 3. la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa vale a dire non strettamente legata alla trasferta poiché attribuita senza distinguere se il dipendente si è effettiva‐
mente recato in trasferta e dove si è svolta la trasferta. Nella rassegna delle interpretazioni succedutesi non è mancato il Ministero del Lavoro che, con la nota n.8287 del 20 giugno 2008, ha sottolineato le modalità di erogazione del compenso come condizione per l’applicabilità del co.6 dell’art.51 Tuir. Chiaro che tali interpretazioni stanno segnando il passo rispetto alle recenti pronunce della Cassazione, creando in molti casi una situazione processuale surreale, dove il datore di lavoro difende le proprie ragioni richiamando provvedimenti di prassi Inps di fatto disconosciuti dallo stesso Ente. Pur essendo auspicabile, anche a soli fini comunicativi, un documento di prassi che prenda atto sia del recente orientamento di Cassazione sia dei principi ispettivi “reali” degli enti amministrativi preposti alla sorveglianza del lavoro, è comunque opportuno sottolineare, con estrema enfasi, i rischi derivanti dall’individuazione di un luogo di lavoro esclusiva‐
mente contrattuale, ma non reale, ai fini della prestazione: al limite è definibile con un certo margine di libertà l’area di lavoro del trasfertista, ma non tale qualificazione. 49
maggio 2013 Gestione delle controversie di lavoro
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Lavoro intermittente: profili ispettivi alla luce delle recenti indicazioni ministeriali a cura di Fabrizio Nativi – Componente Centro Studi attività ispettiva del Ministero del Lavoro* Il lavoro intermittente resta una delle tipologie contrattuali più utili a soddisfare le esigenze di occupazione flessibile. La comunicazione preventiva della chiamata si è dimostrata un deterrente efficace rispetto alla tentazione di non denunciare le giornate lavorate, tenuto conto che la sanzione prevista per la mancata comunicazione è piuttosto pesante. Il 18 luglio 2013 verrà inoltre a chiudersi il periodo transitorio previsto dalla Legge di Riforma per i contratti di lavoro in essere all’entrata in vigore della L. n.92/12. È quindi il momento di sviluppare alcune riflessioni in ordine alle possibili conseguenze ispettive derivanti dall’occupazione di lavoratori intermittenti in assenza dei nuovi requisiti di legge, nonché dalla mancata comunicazione preventiva della prestazione. *
La valutazione dei nuovi requisiti soggettivi e oggettivi Come noto, l’art.1, co.21, della L. n.92/12, lett.a), punto 2), ha modificato l’art.34 del D.Lgs. n.276/03. I nuovi requisiti anagrafico‐soggettivi per l’instaurazio‐
ne di un rapporto di lavoro intermittente, sono i seguenti:  indipendentemente dai requisiti di età, in base all’art.40 del D.Lgs. n.276/03 e nelle more dell’inter‐
vento da parte della contrattazione collettiva, nelle ipotesi individuate con D.M. 23 ottobre 2004, che ha indicato le occupazioni di carattere discontinuo elencate nella tabella approvata con R.D. n.2657/23.  soggetti che abbiano compiuto 55 anni (art.34, co.2, D.Lgs. n.276/03). È ammessa anche l’assunzione di un soggetto pensionato (circolare n.20/12 del Ministero del Lavoro). Il vecchio requisito prevedeva il compimento di 45 anni di età;  soggetti con meno di ventiquattro anni. In tal caso le prestazioni dovranno essere svolte entro il compimento del venticinquesimo anno. Ai fini della stipula del contratto il lavoratore non deve aver compiuto 24 anni e avere al massimo 23 anni e 364 giorni. Ai fini dell’effettiva prestazione il lavoratore non deve aver compiuto 25 anni (art.34, co.2, D.Lgs. n.276/03). Il vecchio requisito prevedeva il mancato compimento dei 25 anni di età, ma solo per la stipula del contratto, senza limiti alla successiva esecuzione della prestazione, una volta compiuti i 25 anni; Si ricorda che la disciplina transitoria prevista dal co.22 dell’art.1 della L. n.92/12, prevede che i contratti incompatibili con le disposizioni di cui al co.21 (che ha modificato appunto i requisiti anagrafici e indiretta‐
mente soppresso il lavoro a chiamata per i brevi periodi predeterminati, salvo ripescaggio da parte del contratto collettivo), già sottoscritti alla data di entrata in vigore della legge, cessano di produrre effetti decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore della legge e cioè alle ore 24 del 18 luglio 2013. Dal 18 luglio 2012 non è comunque più possibile stipulare nuovi contratti secondo le vecchie regole, se incompatibili con le nuove. Con riferimento ai contratti per prestazioni da rendersi nei brevi periodi del fine settimana, del mese o dell’anno, la circolare n.18/12 sopra richiamata, aveva addirittura inizialmente chiarito che, anche se il contratto fosse stato stipulato precedentemente al 18 luglio 2012, non sarebbe risultato possibile imputare la chiamata del lavoro intermittente alle causali di cui all’art.37 e cioè ai periodi predeterminati. Tale posizione è stata oggetto di ripensamento. Con la circolare n.20/12 successiva, il Ministero ha chiarito che i contratti stipulati prima del 18 luglio 2012, in forza dei vecchi requisiti soggettivi e anche per periodi predeterminati, potranno continuare a operare fino al 18 luglio 2013, secondo le previgenti causali. La continuazione del rapporto oltre il 18 luglio 2013 È necessario chiedersi quali siano le potenziali conseguenze nel caso in cui un rapporto di lavoro intermittente, stipulato in data anteriore al 18 luglio  indipendentemente dai requisiti di età, il lavoro a chiamata è ammesso nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro, comparativamente più rap‐
presentative sul piano nazionale o territoriale (art.34, co.1 del D.Lgs. n.276/03);  indipendentemente dai requisiti di età, per i periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, ma solamente se tale ipotesi è stata prevista e disciplinata dai contratti collettivi di cui al punto precedente (circolari n.18/12 e n.20/12 del Ministero del Lavoro); *
Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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debitoria entro 12 mesi, seguendo la procedura prevista dall’art.116, co.8, lett.b) della L. n.388/00. Esemplificando, la prosecuzione di un contratto di lavoro intermittente cessato ex lege al 18 luglio 2013, con imputazione impropria di una chiamata per il giorno 25 luglio 2013, potrà essere oggetto di regolarizzazione con comunicazione di instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro entro il 31 agosto 2013, ovvero tramite emersione contributiva entro il 16 agosto 2014, sempre che l’atto di emersione non sia preceduto da un’azione ispettiva. In assenza dei requisiti soggettivi o oggettivi, il nuovo rapporto denunciato non potrà ovviamente essere un contratto di lavoro intermittente. Potrà trattarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero di una diversa tipologia contrattuale, sempre che ne sussistano i presupposti. Nel caso in cui manchi una formalizzazione del nuovo rapporto, idonea a rappresentare scriminante come sopra descritto, il personale ispettivo eventualmente intervenuto di norma procederà nel configurare l’esistenza di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che rappresenta la tipologia dominante e la forma comune di rapporto di lavoro (art.1, co.1, lett.a) della L. n.92/12 e art.1, co.01 del D.Lgs. n.368/01), salvo che manchino gli indici sintomatici della subordinazione. Gli effetti della cessazione ex lege La cessazione per legge degli effetti del contratto di lavoro non può che comportare la risoluzione del rapporto, divenuto impossibile nella sua esecuzione. Potremmo anzitutto chiederci se la cessazione del rapporto operi anche nei confronti delle lavoratrici in gravidanza e puerperio, con adozione o affidamento, rispetto alle quali operi il divieto di licenziamento di cui all’art.54 del D.Lgs. n.151/01. Anzitutto possiamo considerare che non si tratta di un licenziamento, ma di una cessazione determinata per legge. Il divieto di licenziamento della lavoratrice in periodo protetto costituisce uno scudo legale contro recessi che, in ragione della condizione oggettiva della lavoratrice, sono potenzialmente discriminatori. Il divieto rappre‐
senta anche uno strumento di protezione della mater‐
nità, in sintonia con quanto previsto dall’art.31, co.2 della Costituzione. Esso opera peraltro a prescindere dalla conoscenza datoriale della condizione della lavoratrice. Nel caso in esame mancano i presupposti per la qualificazione del cessazione come potenzialmente “discriminatoria”, essendo la stessa decisa dal legisla‐
tore, mentre potrebbero continuare a considerarsi 2012, continui ad avere di fatto esecuzione a partire dal 19 luglio 2013. È il caso di fare esempi. Quali conseguenze si generano: ? continuando a occupare come lavoratore intermit‐
tente un soggetto che abbia oramai compiuto 25 anni, dal 19 luglio 2013, in forza di un contratto stipulato prima del 18 luglio 2012? ? continuando a occupare come lavoratore intermit‐
tente un soggetto che non abbia ancora compiuto 55 anni, dal 19 luglio 2013, in forza di un contratto stipulato prima del 18 luglio 2012? ? continuando ad imputare a lavoro intermittente le chiamate per periodi predeterminati, dal 19 luglio 2013, in forza di un contratto stipulato prima del 18 luglio 2012, in assenza di nuova disciplina collettiva del lavoro a chiamata per tale fattispecie? La soluzione offerta dalla circolare ministeriale n.18/12 è drastica: i contratti stipulati in forza di requisiti soggettivi superati dalla L. n.92/12 cessano per legge di produrre effetti dal 19 luglio 2013 e le eventuali prestazioni rese da tale data devono considerarsi “in nero”. Seguendo il ragionamento ministeriale, a decorrere dal 19 luglio 2013, in effetti, tali rapporti non risultano più “coperti” dalla comuni‐
cazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro. Una continuazione di fatto equivarrebbe, sotto il profilo sanzionatorio, a un nuovo rapporto non preventivamente denunciato alla Pubblica Ammini‐
strazione. Ovviamente opererebbero le scriminanti previste dall’art.3, co.4 del D.L. n.12/02, convertito dalla L. n.73/02. La maxi sanzione non troverebbe applicazione qualora, da adempimenti di carattere contributivo assolti precedentemente all’ispezione, si evidenziasse la volontà di non occultare il rapporto di lavoro. Risulterebbe esente da maxi sanzione il datore di lavoro che, anteriormente al primo accesso in azienda o a un’eventuale convocazione per tentativo di conciliazione monocratica, regolarizzasse sotto il profilo contributivo il rapporto di lavoro venutosi di fatto a costituire. Fino alla scadenza del primo periodo contributivo, e cioè fino alla fine del primo mese successivo alla prosecuzione di fatto, potrebbe evitare la maxi sanzione trasmettendo la prevista comunica‐
zione di instaurazione del rapporto di lavoro e indicando, sia pur tardivamente, la data di inizio del nuovo rapporto (con l’unica conseguenza della san‐
zione per la tardiva comunicazione). Successivamente alla scadenza del primo obbligo contributivo, sempre a condizione che non sia stata avviata una verifica ispettiva, il datore sarà esente da maxi sanzione solo denunciando spontaneamente la propria situazione 51
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richieste con un’alta frequenza, possono cominciare a sorgere dubbi circa la genuinità del rapporto, soprattutto quando l’impegno del lavoratore finisca per risultare continuativo o quasi. Il profilo riveste particolare delicatezza perché non è stato oggetto di definizione normativa, che indubbiamente apparireb‐
be opportuna per conferire tranquillità agli operatori. Il Ministero del Lavoro, rendendosi conto della presenza di un vuoto normativo, volendo evitare interpretazioni amministrative disomogenee e arbitra‐
rie, con la circolare n.20/12 ha fissato un principio cui deve attenersi il personale ispettivo: possono conside‐
rarsi effettivamente “discontinui o intermittenti” i periodi “intervallati da una o più interruzioni, in modo tale che non vi sia una esatta coincidenza tra la “durata del contratto” e la “durata della prestazione””. Tale posizione è stata recentemente ribadita con la nota n.7258 del 22 aprile 2013, contenente il Vademecum sulla Riforma Fornero, per la quale appare come sufficiente che non sussista un’esatta coincidenza fra la durata della prestazione e la durata del contratto. Secondo l’indicazione fornita dalla circolare sembrerebbe precluso al personale ispettivo un sindacato riguardante la discontinuità delle presta‐
zioni, qualora sussista una qualunque interruzione nelle stesse, in costanza del contratto di lavoro. Resterebbe quindi sempre qualificabile come lavoro intermittente quel rapporto per il quale le prestazioni siano state rese per 4 giorni lavorativi alla settimana su cinque o, addirittura, per 5 mesi su sei di durata del contratto. Si tratta ovviamente di un’impostazione prudenziale, in assenza di precisi parametri normativi. Nulla ovviamente impedisce che il giudice investito di una controversia riguardante la valutazione della discontinuità, e quindi la genuinità del rapporto, consideri discontinua solo un prestazione in cui preval‐
gano i periodi non occupazione, piuttosto che il contrario, come di fatto ammesso dal Ministero del Lavoro. Le ipotesi tipologiche previste dal R.D. n.2657/23 Indubbiamente, la fattispecie più semplice di ricorso al lavoro intermittente, che non è incorsa in alcuna modifica normativa da parte della L. n.92/12, è quella che opera in regime di supplenza della disciplina contrattuale collettiva nazionale. Le ipotesi tipologiche previste dal R.D. n.2657/2356, lo ricordiamo, operano a rilevanti i profili di tutela della maternità in quanto tale. Manca tuttavia una disposizione derogatoria espressa dedicata allo stato oggettivo di “genitorialità” e sembra doversi concludere che la cessazione debba operare indistintamente per tutti i lavoratori e anche per le lavoratrici in periodo protetto. Non si vede ragione di escludere il lavoratore cessato dalla potenziale fruizione dell’indennità ASpI o mini‐
ASpI, nel caso in cui siano maturate le anzianità di assi‐
curazione e contribuzione. Come prescritto dall’art.2, co.1 della L. n.92/12, l’occupazione è andata perduta involontariamente e non si tratta certamente, né di un caso di dimissioni né di un’ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di cui al co.5 dello stesso art.2, sopra citato. La cessazione del rapporto di lavoro sarà oggetto di comunicazione al Centro per l’impiego, ai sensi dell’art.21 della L. n.264/49, entro cinque giorni dalla cessazione stessa, e cioè entro il 23 luglio 2013. La cessazione non è l’effetto di un recesso di parte e, quindi, a parere del sottoscritto, né il datore è tenuto a intimare il licenziamento né il lavoratore deve presentare le proprie dimissioni. Potrebbe considerarsi come opportuno, per la parte datoriale, comunicare al lavoratore, a titolo infor‐
mativo e con un congruo preavviso, che alla data del 18 luglio 2013, ai sensi dell’art.1, co.22 della L. n.92/12, il rapporto di lavoro, divenuto incompatibile con i nuovi requisiti previsti per il lavoro intermittente, deve considerarsi cessato per legge. Per evitare il mancato riconoscimento di trattamenti previdenziali dovuti potrebbe risultare opportuno l’aggiornamento del sistema di comunicazioni obbliga‐
torie con la particolare causale di cessazione in commento. La durata delle prestazioni Un tema ad alta sensibilità riguarda indubbiamente la definizione di discontinuità. Il contratto di lavoro intermittente è, ricordiamolo, del tutto peculiare, per come definito dall’art.33 del D.Lgs. n.276/03. Il legislatore ha definito un negozio mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro senza che né il datore di lavoro si impegni ad utilizzarlo né il lavoratore stesso si obblighi a essere utilizzato (salvo che non si assuma l’impegno alla risposta). Insomma, un negozio che assomiglia più a un programma contrattuale che a un contratto di lavoro vero e proprio. Quando le prestazioni vengano richieste con effettiva discontinuità, in presenza dei requisiti soggettivi o oggettivi, non si pongono particolari problemi. Quando le prestazioni vengano 56
In merito all’interpretazione del R.D. n.2657/23, con riferimento alle diverse ipotesi tipologiche, si vedano: interpello n.1566 del 13 luglio 2006 (attività socio assistenziali per anziani); interpello n.3252 del 7 settembre 2006 (lavori di pulizia industriale); interpello n.38/11 (operatori socio sanitari nell’ambito di appalto presso 52
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prescindere dai requisiti dimensionali o le altre limitazioni alle quali fa riferimento il regio decreto (autorizzazioni amministrative, numero di abitanti delle città etc), così come precisato dalla circolare del Ministero del Lavoro n.4 del 3 febbraio 2005, nonché dall’interpello del Ministero del Lavoro n.46/11. In ordine alla valutazione della discontinuità, rispetto alle ipotesi tipologiche previste dal R.D. n.2657/23, la circolare n.4/05 aveva proprio escluso che in sede ispettiva potesse operarsi una valutazione circa la natura intermittente della prestazione. Tale compito sarebbe infatti stato riservato dal legislatore alla contrattazione collettiva o, in assenza di questa, al Decreto del Ministero del Lavoro che, operando la ricognizione tipologica mediante il rinvio del D.M. 23 ottobre 2004 al R.D. n.2657/23, avrebbe individuato una serie di esigenze per loro natura discontinue. Gli spazi riservati alla contrattazione collettiva I casi di ricorso al lavoro intermittente, come noto, ai sensi dell’art.34 del D.Lgs. n.276/03, possono essere individuati dai contratti collettivi “stipulati da associazioni dei datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale”. É a tutti noto che i casi in cui la contrattazione nazionale si è occupata di disciplinare l’istituto sono praticamente introvabili. È di tutta evidenza che, qualora la contrattazione collettiva nazionale discipli‐
nasse il lavoro intermittente, prevedendo le relative casistiche, il D.M. 23 ottobre 2004, e con esso il relativo richiamo al R.D. n.2657/23, per il settore produttivo oggetto di regolamentazione contrattuale, perderebbe efficacia. Giurista del Lavoro
La disposizione, tuttavia, non richiama gli accordi aziendali, né un criterio di misurazione della rappresentatività sindacale a livello aziendale. Sono certamente esclusi, quindi, i contratti aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali rappresentative a livello aziendale. È però forse preferibile, in un’ottica prudenziale, individuare il grado più basso di efficacia contrattuale, legittimato a disciplinare il lavoro intermittente, in quello territoriale. Veniamo ora alla domanda cruciale: l’intervento della contrattazione territoriale comporta la perdita di efficacia del D.M. 23 ottobre 2004 e del relativo richiamo all’elencazione tipologica di cui al R.D. n.2657/23, ovvero può svolgere un ruolo integrativo del decreto ministeriale? ?
In proposito si deve considerare che l’intervento suppletivo ministeriale è adottato ai sensi dell’art.40 del D.Lgs. n.276/03. La disposizione prevede che qualora, “non sia intervenuta (…) la determinazione da parte del contratto collettivo nazionale dei casi di ricorso al lavoro intermittente (…) il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individua in via provvisoria e con proprio decreto (…) i casi in cui è ammissibile il ricorso al lavoro intermittente ai sensi della disposizione di cui all'articolo 34, comma 1, e dell'articolo 37, comma 2”. Potrebbe pertanto concludersi che l’intervento sostitutivo operi solo in assenza di contrattazione nazionale e che, quindi, la contrattazione territoriale possa liberamente svolgere un ruolo integrativo, senza determinare una perdita di efficacia del D.M. 23 ottobre 2004. A titolo esemplificativo la contrattazione collettiva territoriale, con riferimento alle peculiari esigenze di un particolare comparto produttivo di una certa area, potrebbe individuare ulteriori ipotesi tipologiche di lavoro discontinuo, non comprese dal R.D. n.2657/23, mantenendosi impregiudicata la possibilità di richiamarsi anche a quest’ultima fonte. Le sanzioni per omessa comunicazione preventiva Come noto, l’art.1, co.21, lett.b), ha aggiunto all’art.35 del D.Lgs. n.276/03, il co.3‐bis. Prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore deve comunicare la durata delle prestazioni stesse con modalità semplificate alla Direzione del Lavoro, mediante sms o posta elettronica. Come ricordato dalla lettera circolare del Ministero del Lavoro n.24230 del 20 dicembre 2012, Direzione Occorre tuttavia chiedersi cosa succede qualora la fonte regolatrice del lavoro intermittente sia il contratto collettivo di secondo livello, come ammesso dallo stesso art.34 del D.Lgs. n.276/03. ?
La disposizione appena richiamata fa riferimento al livello di rappresentanza delle organizzazioni sindacali stipulanti l’accordo e non al livello di efficacia dell’accordo stesso. Astrattamente, quindi, potrebbe trattarsi di un accordo con efficacia territoriale, ma anche di un accordo con efficacia solamente azien‐
dale, sempre che le associazioni sindacali e datoriali siano territoriali e maggiormente rappresentative. strutture o aziende ospedaliere); interpello n.46/11 (commesso di negozio e addetto alle vendite); interpello n.28/12 (servizi di media audiovisivi); interpello n.13/13 (personale addetto agli stabilimenti balneari). 53
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Generale attività ispettiva, la modalità di comunica‐
zione via fax è stata soppressa dall’art.34, co.54, del D.L. n.179/12, convertito dalla L. n.221/12. In caso di violazione degli obblighi di comunicazione si applica la sanzione amministrativa da € 400,00 euro a € 2.400,00 per ciascun lavoratore per il quale sia stata omessa la comunicazione. La sanzione non è inoltre diffidabile. Si è ancora in attesa dell’attuazione del decreto di natura non regolamentare firmato dal Ministro del Lavoro di concerto con quello della P.A., in data 27 marzo 2013, che ha definito le modalità di trasmissione del modello Uni‐intermittente, inviabile mediante canale di posta elettronica certificata, ovvero tramite l’utilizzo del portale clic lavoro, oppure ancora (ma solo per le prestazioni da rendersi dal lavoratore non oltre le 12 ore dalla comunicazione) tramite sms. Al momento sono ancora disponibili le modalità di trasmissione messe a disposizione progressivamente in base alle circolari n.18/12 e n.20/12, nonché alle note n.11779 del 9 agosto 2012, n.12728 del 14 settembre 2012, n.16639 del 26 novembre 2012. Sappiamo che la comunicazione della chiamata deve essere inviata antecedentemente all’inizio della prestazione, senza che sia necessario indicare l’orario. Può cioè essere effettuata anche lo stesso giorno della prestazione, purché anteriormente all’inizio della stessa. La comunicazione può essere modificata attraverso una comunicazione successiva, da effettuarsi sempre prima dell’inizio della prevista prestazione. Qualora sia il lavoratore a non presentarsi la comunicazione deve essere rettificata entro le 48 ore successive al giorno in cui la prestazione era stata richiesta. In assenza di modifica o annullamento, la prestazione è da ritenersi effettuata con le relative conseguenze retributive e contributive. Con riferimento alla pianificazione di prestazioni in un ciclo non superiore a 30 giorni, la circolare del Ministero del Lavoro n.20/12 considera i 30 giorni come giorni di effettiva prestazione e non come arco temporale in cui si collocano le prestazioni. L’arco temporale può quindi essere anche molto ampio. Quando le giornate di prestazione pianificate siano oltre 30, sarà necessario eseguire una nuova comunicazione. Giurista del Lavoro
Con riferimento all’applicazione della sanzione, il Ministero ha ripetutamente invitato, sia con la citata nota n.24230/12, che con le precedenti circolari n.18/12 e n.20/12, alla massima prudenza e cautela nell’identificazione di eventuali fenomeni sanzionatori. La disposizione di legge attualmente non prevede, come invece avviene per la più grave fattispecie del lavoro nero, nessuna scriminante. Tuttavia, auspi‐
cando che il legislatore replichi per il lavoro intermittente le ipotesi di scriminante, che potrebbero essere rappresentate dall’adempimento di obblighi contributivi assolti anteriormente all’intervento ispet‐
tivo, il Ministero del Lavoro, con la richiamata nota n.24230/12, tenuto conto che la fase di prima applica‐
zione della norma ha scontato numerose difficoltà operative, ha raccomandato l’attenta valutazione dell’effettiva sussistenza dell’elemento soggettivo legato al mancato rispetto dell’obbligo di comunica‐
zione preventiva. L’elemento soggettivo, nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministra‐
tiva, è rappresentato dal dolo, e cioè dalla coscienza e volontà del fatto illecito, ovvero dalla colpa, quando il fatto non è voluto dall’agente, ma accade per negligenza, imprudenza, imperizia che comportino inosservanza di leggi, regolamenti, ordini. Non sarebbero quindi probabilmente sanzionabili quelle condotte per le quali il datore dimostri di non aver voluto occultare le giornate di chiamata, registrandole nel LUL e comunicandole con il flusso UniEmens e dimostri di non essere riuscito ad eseguire le comunicazioni preventive per oggettive difficoltà tecniche ovvero vi sia riuscito solo con ritardo. Quanto al calcolo del numero di violazioni e alla relativa quantificazione delle sanzioni, il Ministero del Lavoro con la recente nota n.7258/13, contenente il Vademecum sulla Riforma Fornero, ha precisato che la sanzione amministrativa non deve essere applicata per ciascuna giornata per la quale sia stata omessa la comunicazione, bensì per ciascun lavoratore e per ciascun ciclo di 30 giornate. Quando il numero di giornate non comunicate per lo stesso lavoratore superi il numero di 30, le violazioni commesse saranno due. Non è quindi corretta l’interpretazione in base alla quale è stata irrogata una sanzione per ciascun lavoratore e per ciascuna prestazione giornaliera non comunicata preventivamente. 54
maggio 2013 L’osservatorio giurisprudenziale il
Giurista del Lavoro
Rassegna della Corte di Cassazione a cura di Evangelista Basile – Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati AGENTI E RAPPRESENTANTI Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 23 aprile 2013, n.9777 Contratto di agenzia – clausola di tacita rinnovazione – disdetta – legittimità – sussiste Massima È legittima la clausola di tacita rinnovazione di anno in anno salvo disdetta del rapporto di agenzia, senza che, dalla reiterata rinnovazione del contratto a termine, possa trarsi la conseguenza di un unico contratto di agenzia a tempo indeterminato. Commento La Corte di Cassazione affronta il caso di un agente che lamentava la violazione dell’art.1750 c.c., avanzando domanda di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, per avere la società mandante stipulato con lui un primo contratto a tempo determinato della durata di sei mesi ‐ successivamente rinnovato per un anno ‐ però disdettato prima della sua scadenza naturale. La Cassazione ha escluso, invece, l’applicabilità al caso in esame dell’art.1750 c.c., in quanto relativo ai rapporti a tempo indeterminato, ritenendo, peraltro, pienamente legittima la clausola contrattuale di tacita rinnovazione del contratto di anno in anno salvo disdetta, senza che dalla reiterata rinnovazione di tale contratto a termine possa trarsi la conseguenza di un unico contratto di agenzia a tempo indeterminato. Difatti, l’istituto del preavviso è applicabile ai soli rapporti di agenzia a tempo indeterminato e non è suscettibile di applicazione anche a quelli a termine. Pertanto, nell’ipotesi di rinnovo automatico del contratto per mancato invio della disdetta e di successivo e ingiustificato recesso ante tempus da parte del preponente, l’agente non ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso. Nel caso di specie, poi, la Corte ha ritenuto di rigettare anche la domanda dell’agente relativa all’obbligo di corresponsione da parte del preponente dell’indennità di cessazione del rapporto, in quanto non ha considerato assolto il rigoroso onere probatorio che incombe sul medesimo ex art.1751 c.c. qualora richieda tale tipo di indennità. Questi, infatti, si era limitato ad indicare esemplificativamente alcuni asseriti nuovi clienti procurati al preponente, senza, però, formulare alcuna richiesta di prova per interpello o per testi per confermare la veridicità di tale affermazione. A tale mancato assolvimento non ha potuto supplire nemmeno la richiesta di CTU, in quanto detta consulenza avrebbe avuto mero carattere esplorativo e non avrebbe potuto surrogarsi alla parte che non ha adempiuto l’onere probatorio di cui era gravata. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 14 febbraio 2011, n.3595  Cass., Sez. Lavoro, sent. 17 giugno 1992, n.7426 Contrari CONTRIBUZIONE E PRESTAZIONI PREVIDENZIALI Cassazione Civile, Sez. Lavoro, sentenza 9 maggio 2013, n.10972 Previdenza e assistenza – contributi assicurativi – retribuzione imponibile Massima Le erogazioni di propri prodotti (nello specifico pacchetti vacanza) attuati dal datore di lavoro ai dipendenti, di carattere occasionale, facoltativo e di natura strettamente commerciale, non possono essere ricomprese nel concetto di retribuzione imponibile, ai sensi dell'art.12, L. n.153/69, in quanto l'esistenza del rapporto di lavoro non costituisce la 55
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causa delle erogazioni, bensì una mera occasione delle stesse, che trovano viceversa ragion d'essere in autonome causali di natura commerciale. Commento Il caso riguarda un noto tour operator a cui era stata notificata cartella esattoriale ad opera dell’Inps per omesso versamento di contributi in relazione ad agevolazioni di viaggio fruite dai propri dipendenti nell’arco di circa dieci anni. In particolare gli stessi avevano avuto la possibilità di fruire di pacchetti vacanza rimasti invenduti, rimborsando unicamente i costi di viaggio e soggiorno e non anche quelli fissi di struttura (ad es. personale, pubblicità), che comunque incidevano sui ricavi complessivi. Su detta percentuale di ricavi, l’Inps aveva calcolato i contributi e le relative sanzioni, assumendo violata, per parte datoriale, la L. n.153 del 30 aprile 1969, applicabile ‐ ratione temporis ‐ al caso di specie. È bene sottolineare che l’interpretazione della suddetta legge, nel testo antecedente all’entrata in vigore della L. n.335/95, era già stata oggetto di una recente pronuncia della Cassazione (n.12244 del 17 luglio 2012), relativa alla concessione da parte delle banche di mutui agevolati in favore dei propri dipendenti, fattispecie analoga al caso in esame. Oltre a ricordare la nozione di “retribuzione rilevante ai fini contributivi” ‐ da intendersi come “tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro”, ossia tutte le erogazioni di qualsiasi tipo provenienti dal datore, che trovano la loro giustificazione in costanza di rapporto ‐ la sentenza del luglio 2012 ha precisato che, comunque, la stipulazione da parte della banca, datrice di lavoro, di contratti di mutuo con i propri dipendenti a condizioni più vantaggiose di quelle riservate all’ordinaria clientela, affinché possano costituire elemento della retribuzione rilevante ai fini contributivi, è necessario “il concorso di condizioni contrattuali non giustificabili nel quadro dell’esercizio dell’attività imprenditoriale bancaria o di altri adeguati elementi di prova, esclusa di per sé la rilevanza della concessione del mutuo ad un tasso inferiore a quello degli interessi legali, in ipotesi praticabili anche nei confronti della migliore clientela […]”. Assumendo a base della propria decisione il principio giuridico già espresso nel 2012, la Cassazione accoglie il ricorso dell’azienda, in quanto era facilmente appurabile che l’erogazione in favore dei dipendenti era stata meramente occasionale, facoltativa e di natura strettamente commerciale. Detta iniziativa, infatti, veniva assunta solo per pacchetti vacanza rimasti invenduti, non essendo legata a un fatto di pertinenza strettamente aziendale, ma che solamente consentiva alla società di recuperare una parte dei costi aziendali già sostenuti per l’organizzazione dei viaggi suddetti. E, invero, per smaltire questi pacchetti‐vacanza l’unica possibilità praticabile era proprio quella di offrirli ai propri dipendenti a prezzi scontati. La Cassazione ha, dunque, ritenuto che le suddette erogazioni non trovassero la propria ragion d’essere nell’esistenza del rapporto di lavoro e che, pertanto, non costituissero elemento della retribuzione valutabile ai fini contributivi. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 17 luglio 2012, n.12244 Contrari Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 2 maggio 2013, n.10265 Contributi assicurativi – omesso versamento – cartella esattoriale – verbale ispettivo – denuncia per omissione – datore di lavoro agricolo – sussiste Massima L’omessa o infedele denuncia mensile all’Inps di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri di cui è obbligatoria la tenuta, concretizza l’ipotesi di evasione contributiva di cui all’art.116, co.8, lett.B), della L. n.388/00 e non la meno grave fattispecie di omissione contributiva, di cui alla lett.A) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l’omessa o infedele denuncia configuri occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi. Commento Con verbale di accesso ispettivo, l’Inps contesta a un imprenditore agricolo di aver omesso il pagamento di contributi in favore dei suoi dipendenti per il periodo dal 1993 a 1999. Questi, con ricorso in opposizione, deduce che l’Istituto 56
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aveva effettuato il calcolo delle retribuzioni imponibili senza tener conto della sua adesione al contratto di riallineamento, eccependo, in ogni caso, l’illegittimità del verbale nella parte in cui non indicava in maniera analitica il calcolo delle sanzioni dovute che, comunque, erano in tutto sproporzionate rispetto all’omissione contestata. Successivamente gli viene notificata cartella esattoriale per le medesime causali di cui al verbale, rispetto al quale propone ancora una volta opposizione, deducendone l’illegittimità ai sensi dell’art.24 del D.Lgs. n.46/99, stante la pendenza del precedente giudizio sull’accertamento ispettivo. Il giudice di prime cure annulla la cartella di pagamento sulla base dell’eccezione di rito formulata, ma dichiara infondata la domanda del ricorrente per non aver provato la validità del contratto di riallineamento retributivo invocato. Avverso detta sentenza, il datore propone appello. In questa sede, la Corte, in parziale riforma della sentenza di primo grado, intima all’imprenditore agricolo il pagamento delle somme aggiuntive per mancato o ritardato pagamento di contributi di cui all’art.1, co.217, lett.a) della L. n.662/96, ritenendo, all’evidenza, che il ricorrente avesse commesso una mera evasione contributiva e non una meno grave omissione. Contro la sentenza di appello, l’Inps avanza ricorso per Cassazione. In questa sede, la Suprema Corte coglie l’occasione per ricostruire gli orientamenti assunti sul tema delle obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali e assistenziali: secondo un primo orientamento, risalente al 2010, l’omessa denuncia all’Inps di lavoratori, ancorché registrati nei libri paga e matricola, configurerebbe l’ipotesi di evasione contributiva e non la meno grave fattispecie dell’omissione che, al contrario, riguarderebbe le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento di contributi; secondo un altro orientamento opposto al precedente, fattosi strada sulla scorta della nuova L. n.388/00, si configurerebbe la fattispecie dell’omissione con la mancata presentazione del modello DM10 (che contiene la dettagliata indicazione dei contributi previdenziali da versare), sempre che il credito vantato dall’Inps sia comunque evincibile dalla documentazione di provenienza del soggetto obbligato (ossia libri contabili e denunce riepilogative annuali), dovendo escludersi la volontà del datore di occultare all’Ente previdenziale il rapporto di lavoro e la conseguente retribuzione erogata. Nel caso di specie la Cassazione ritiene di aderire al primo orientamento, rigettando il ricorso dell’Ente previdenziale e asserendo che si configura l’ipotesi di evasione contributiva tutte le volte in cui vi sia un’omessa o infedele denuncia mensile all’Inps (attraverso i c.d. modelli DM10, oggi mediante la procedura UniEmens) di rapporti di lavoro o di retribuzioni erogate, ancorché registrati nei libri paga e matricola (oggi sostituiti dal Libro Unico del Lavoro), di cui è obbligatoria la tenuta. Difatti, l’omessa denuncia di lavoratori all’Inps fa presumere la volontà del datore di occultare i rapporti di lavoro in essere, al solo fine di non versare i contributi e detta presunzione non si ritiene superabile in ragione della mera registrazione dei lavoratori nei libri obbligatori, che comunque restano nell’esclusiva disponibilità del datore stesso e sono suscettibili di essere consultati solo in occasione delle ispezioni. Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che detto imprenditore non aveva omesso denunce obbligatorie o reso dichiarazioni non conformi al vero e, pertanto, si era verificata una semplice omissione e non un’evasione, come, al contrario, aveva preteso di adombrare l’Inps. Infine, la mera invalidità del contratto di riallineamento, al quale il datore di lavoro in questione aveva aderito, non fa scattare automaticamente l’evasione contributiva, bensì porta con sé la sola sanzione dell’omissione quando ‐ come nel caso de quo ‐ il soggetto obbligato non abbia omesso denunce obbligatorie o reso dichiarazioni infedeli, ma abbia omesso il versamento dei contributi dovuti. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 25 giugno 2012, n.10509  Cass., Sez. Lavoro, sent. 27 dicembre 2011, n.28966 Contrari  Cass., Sez. Lavoro, sent. 10 maggio 2010, n.11261 INFORTUNI SUL LAVORO Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 9 maggio 2013, n.10968 Infortunio – risarcimento del danno – art. 2087 c.c. – onere della prova – responsabilità contrattuale – nesso causale – lavoratore – sussiste – onere della prova – datore di lavoro – tutte le cautele per evitare il verificarsi del danno – sussiste 57
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Massima La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art.2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere dell’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Commento La Suprema Corte analizza il caso di un dipendente di una falegnameria che riporta lesioni alla mano destra essendo venuto in contatto con le lame interne del macchinario con il quale stava lavorando. Statuisce, dunque, in maniera conforme ai precedenti gradi di giudizio, ricordando principi di diritto ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità, che: sussiste una presunzione iuris et de iure di pericolosità quando un dipendente, per espletare le mansioni cui è adibito, utilizzi apparecchi o impianti elettrici, in quanto dotati di un’intrinseca capacità di produrre possibili infortuni. In particolare, l’onere incombente sul datore di provare “di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno” e, quindi, di aver posto in essere tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’infortunio, diventa particolarmente intenso nei confronti di lavoratori di giovane età – come nel caso di specie – e quindi privi di solida esperienza professionale. È bene, in tale occasione, ricordare un ulteriore brocardo in tema di infortuni sul lavoro già espresso dalla recente sentenza della Cassazione n.536 del 10 gennaio 2013 e riproposto anche in questa pronuncia, secondo cui: “il datore è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare invece l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo tipico e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento”. La Corte ha, dunque, non ritenuto raggiunta la prova dell’adozione da parte del datore delle cautele atte ad evitare l’infortunio, proprio per non aver reso edotto il lavoratore della pericolosità della macchina e della possibilità che, pur dopo lo spegnimento della stessa, le lame interne potessero continuare il loro movimento rotatorio per alcuni minuti. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 17 febbraio 2009, n.3788  Cass., Sez. Lavoro, sent. 14 aprile 2008, n.9817  Cass., Sez. Lavoro, sent. 7 marzo 2006, n.4840 Contrari LICENZIAMENTI INDIVIDUALI Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2013, n.10550 Licenziamento – lesione vincolo fiduciario – proporzionalità – valutazione soluzioni alternative – sussiste – applicazione nuovo art.18, L. n.300/70 – applicabilità ai giudizi in corso – non sussiste Massima Ai fini della verifica da parte del datore della lesione del c.d. vincolo fiduciario ad opera del dipendente, il giudice è tenuto a verificare la gravità della condotta tenuta, l’intensità dell’elemento soggettivo e l’importanza del danno. Inoltre, non si può porre a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, una motivazione del provvedimento adottato che sia comparata con le altre assunte in fattispecie analoghe. Commento La vicenda sottoposta al vaglio della Cassazione riguarda un dipendente di una nota società di telefonia che viene licenziato per un abusivo utilizzo del cellulare aziendale. Era stato, infatti, appurato che in un arco di tempo di all’incirca un anno aveva inviato oltre 13.000 sms privati, per un costo complessivo di tre milioni di vecchie lire. 58
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Conformemente al giudice di primo grado, la Corte d’Appello aveva accolto il ricorso, statuendo l’insussistenza nel caso di specie del “grave nocumento morale o materiale provocato in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro” previsto dal contratto collettivo applicato come motivo di licenziamento, atteso che il suo comportamento era stato posto in essere senza raggiri o frode e che inoltre si trattava di un danno irrisorio, peraltro facilmente rilevabile dal datore, operante, per l’appunto, nel settore telefonico. La società aveva avanzato ricorso per Cassazione ritenendo – tra le altre cose – erronea la decisione della Corte d’Appello di illegittimità del licenziamento. Quest’ultima, infatti, si sarebbe limitata a rapportare detto caso concreto ad altre fattispecie analoghe, in cui l’azienda aveva deciso di irrogare ad altri dipendenti una più lieve sanzione e, invece, nel caso di specie, avrebbe dovuto tener conto di altre circostanze quali: (i) lo specifico comportamento del dipendente; (ii) il lasso di tempo per il quale la condotta si era protratta; (iii) l’elemento soggettivo che lo sorreggeva (dolo di proposito). La Cassazione, pur ritenendo condivisibile l’affermazione della difesa dell’azienda, secondo cui non può essere considerato onere del datore quello di fornire, per ciascun licenziamento, una motivazione precisa comparata con altre decisioni assunte in fattispecie analoghe, ha ritenuto che qualora emergano nel corso del giudizio quegli elementi fattuali che giustificano un diverso trattamento per ciascun lavoratore, “può essere valorizzata dal giudice l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali al fine di valutare la proporzionalità della sanzione adottata”. Infine, la Suprema Corte ritiene di non condividere la deduzione dell’azienda in base alla quale il nuovo testo dell’art.18 della Legge Fornero, in mancanza di disposizioni transitorie, sarebbe immediatamente applicabile, in quanto trattasi di un procedimento “ancorato a valutazioni di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità, ma anche con un’eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili rimedi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto giuridico che ha determinato il provvedimento espulsivo”. In altre parole, a giudizio della Corte, la Legge Fornero è andata a modificare non solo l’impianto sanzionatorio, ma ha inoltre imposto anche una diversa qualificazione giuridica dei fatti oggetto di accertamento processuale, insuscettibili di essere applicati anche ai processi in corso, come, appunto, quello in esame. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 8 marzo 2010, n.5546 Contrari Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2013, n.10549 Licenziamento per giusta causa – proporzionalità – affidamento sulla futura correttezza dell’adempimento – buona fede e correttezza Massima In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Commento La vicenda riguarda un direttore di banca licenziato per giusta causa per aver aumentato il plafond delle carte di debito a lui intestate. La Cassazione valuta come legittimo il licenziamento intimatogli, sul presupposto che non si trattava di un episodio isolato, ma di un comportamento reiterato che aveva prodotto un danno concreto alla banca, così grave da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore e da porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. Viene considerata del tutto irrilevante, ai fini della decisione, la difesa avversaria circa (i) la mancata inclusione nel codice disciplinare aziendale della sanzione contestatagli, attesa la consapevole elusione da parte sua della procedura necessaria per l’aumento del plafond, anche e soprattutto in considerazione del ruolo da lui ricoperto, (ii) la dichiarazione confessoria resa agli ispettori, essendo il comportamento collaborativo verificatosi in una fase dell’accertamento ispettivo in cui non vi era più alcun dubbio circa la condotta riprovevole da lui tenuta. 59
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Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 13 febbraio 2012, n.2013  Cass., Sez. Lavoro, sent. 22 giugno 2009, n.14586 Contrari MALATTIA Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2013, n.10552 Licenziamento – assenza ingiustificata – mancata diligenza nella comunicazione del periodo di malattia – sussiste Massima È legittimo il licenziamento inflitto al dipendente per assenza ingiustificata superiore al limite indicato dal contratto collettivo di categoria nell’ipotesi in cui il certificato del medico curante, unico inviato al datore, riduca il periodo di astensione dal lavoro prescritto, costituendo grave negligenza del dipendente l’aver omesso di verificare la corrispondenza delle prognosi effettuate nelle due diverse certificazioni mediche, laddove la relativa comunicazione è onere costituito in capo al lavoratore. Commento Il caso in esame è quello di un lavoratore impiegato presso un’impresa di pulizie che viene licenziato per assenza ingiustificata. In particolare, allo stesso erano stati rilasciati due certificati di malattia: il primo dall’ospedale il 10 marzo, contenente una prognosi di 20 giorni (quindi fino al 30 marzo), mai inviato al datore di lavoro; il secondo, redatto dal medico curante il 12 marzo – a due giorni di distanza dal primo ‐ avente invece una durata inferiore (23 marzo). L’azienda, in ottemperanza alla disposizione contenuta nel contratto collettivo di settore che prevede l’ipotesi del recesso per il caso di assenze ingiustificate per più di 4 giorni consecutivi, aveva irrogato il licenziamento al lavoratore. Difatti, per l’azienda, l’assenza dal 23 al 30 marzo non era supportata da una giustificazione idonea, né tanto meno il lavoratore si era preoccupato di verificare la corrispondenza delle prognosi effettuate nelle due diverse certificazioni mediche acquisite (una nell’immediatezza del malore e l’altra a distanza di due giorni) e, in particolare, nella non coincidenza dei termini finali tra la prima (trattenuta dal lavoratore) e la seconda, invece, inviata al datore. In realtà, la difesa del lavoratore era tutta prevalentemente incentrata sull’effettività della malattia e sull’asserita omessa verifica ‐ tanto da parte del giudice di prime cure quanto di quello d’appello ‐ dell’intenzionalità della condotta contestata, dal momento che proprio le sue pessime condizioni di salute non gli avrebbero consentito di verificare la difformità tra le date apposte sui diversi certificati. La Cassazione, invece, valuta la decisione del giudice di merito pienamente corretta e in tutto aderente alle emergenze istruttorie: in realtà, ciò che sarebbe stato da considerarsi rilevante ai fini del giudizio non era tanto la dimostrazione dell’effettività dell’esistenza della malattia, quanto piuttosto l’impossibilità per il lavoratore di provvedere alle dovute comunicazioni. Essendo dunque stato accertato e provato che questi aveva inoltrato al datore solo la certificazione del medico curante contenente una prognosi di durata inferiore rispetto a quella rilasciata dall’ospedale (peraltro, antecedente in ordine di tempo alla prima), il dipendente aveva irrimediabilmente violato i normali obblighi di diligenza e correttezza che devono informare l’intero rapporto di lavoro. Tale irrimediabile lesione del vincolo fiduciario aveva, dunque, indotto il datore a irrogare il licenziamento, sanzione questa giudicata dalla Corte del tutto proporzionata rispetto alla condotta negligente tenuta dal dipendente. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 4 marzo 2004, n.4435 Contrari 60
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QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 24 aprile 2013, n.10007 Lavoro a domicilio – prestazioni analoghe a quelle svolte in azienda – modalità esecutive predeterminate – subordinazione – sussiste Massima Deve ritenersi di natura subordinata il rapporto di lavoro a domicilio che lega il prestatore d’opera al datore laddove al primo non risulta rimessa la piena scelta delle modalità esecutive della prestazione, risolvendosi quest’ultima invece in lavorazioni analoghe a quelle effettuate all’interno dell’azienda datoriale. Commento La Suprema Corte analizza il caso di un rapporto di lavoro a domicilio che è da considerarsi di natura subordinata in presenza di due circostanze fattuali: (i) le lavorazioni effettuate presso l’abitazione sono in tutto analoghe a quelle che vengono realizzate all’interno dell’azienda datoriale; (ii) le modalità esecutive della prestazione non sono liberamente scelte dal lavoratore, ma vengono predeterminate. Ebbene, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Cassazione erano ricorrenti entrambi i presupposti. In particolare, la stessa rileva la contraddizione in cui era incorsa la società che, in primo grado, aveva negato la sussistenza di qualunque tipo di rapporto lavorativo con la ricorrente, mentre dinanzi al giudice di appello, al contrario, aveva affermato di avere un rapporto di lavoro di natura autonoma con la lavoratrice. Nonostante la predetta incongruenza, dall’istruttoria era emersa la natura subordinata del rapporto ed era da considerarsi del tutto irrilevante la circostanza che la lavoratrice avesse prestato la propria attività lavorativa in favore di terzi, in quanto non era intercorso alcun patto di non concorrenza tra le parti. La Cassazione, in definitiva, rigetta il ricorso della società e la condanna, come da domanda, al pagamento delle differenze retributive conseguenti l’intercorso rapporto. RISARCIMENTO DANNI Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 21 maggio 2013, n.12418 Lesione dell’immagine aziendale – perdita di clientela – risarcimento danni a carico del lavoratore – in via equitativa Massima È ius receptum che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al giudice dagli artt.1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare. Commento La Cassazione affronta il caso di un commesso al quale era stato richiesto dal datore il ristoro integrale dei danni da quest’ultimo patiti in ragione della sua mancata corretta esecuzione della prestazione lavorativa. In particolare, era stato ampiamente appurato in sede istruttoria che il lavoratore avesse cagionato una numerosa serie di disservizi, con conseguente insoddisfazione dei clienti, giungendo finanche a schiaffeggiarne uno. A fronte di dette circostanze di fatto, sulle quali erano state dedotte prove testimoniali, la Corte d’appello aveva proceduto a una liquidazione equitativa del danno e condannato il commesso al pagamento di € 5.000,00 per perdita di clientela e danno all’immagine aziendale. Il lavoratore ha addotto a sostegno delle sue ragioni che le prove testimoniali ammesse ed espletate in grado d’appello non erano state sufficienti a provare il danno che la società aveva patito a causa del suo comportamento riprovevole. In realtà, come ha correttamente statuito la Suprema Corte, in sede di legittimità non è possibile una rivisitazione delle istanze istruttorie, ossia non si può “procedere ad un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché l’art. 360 n. 5 c.p.c. non conferisce alla Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico‐formale della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le 61
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fonti del proprio convincimento”. Inoltre, la Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avessero effettuato una corretta applicazione degli orientamenti giurisprudenziali anche in tema di liquidazione del danno: una volta appurata l’effettiva sussistenza di un danno a carico del datore, ne ha determinato l’ammontare in via equitativa, risultando particolarmente difficile – nel caso di specie ‐ la quantificazione precisa. Infine, la Corte ha censurato anche il motivo di ricorso in base al quale il giudice d’appello ha ritenuto di compensare tra le parti le spese, atteso che trattasi di un potere discrezionale conferitogli dalla legge e che può essere fatto valere in sede di legittimità solo se fondato su “ragioni palesemente illogiche”, ossia tali da inficiare la stessa volontà decisionale del giudice sul punto. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 19 dicembre 2011, n.27447  Cass., Sez. III, sent. 30 aprile 2010, n.10607 Contrari SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 7 maggio 2013, n.10560 Costituzione del rapporto – durata del rapporto a tempo determinato – contratto di fornitura di lavoro temporaneo – stipula – condizioni – causale generica – fattispecie Massima La legittimità del contratto di fornitura costituisce il presupposto per la stipulazione di un legittimo contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. Per scelta legislativa i vizi del contratto commerciale di fornitura tra agenzia interinale e impresa utilizzatrice si riverberano sul contratto di lavoro. L’illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e, quindi, l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo. Infatti, l’art. 10, primo comma, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all’art.1, co.2, 3, 4 e 5 le conseguenze previste dalla L. n.1369/60, consistenti nel fatto che i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni. Commento La Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, analizza il caso di un lavoratore che, in forza di un contratto di fornitura stipulato con un’agenzia di lavoro interinale, aveva sottoscritto successivi contratti di lavoro a termine con l’impresa utilizzatrice a partire dal 2001. Facendo riferimento alla normativa applicabile al caso di specie – la L. n.196/97 – la Suprema Corte giudica come assolutamente generica la causale apposta al contratto, disponendo la conversione del medesimo in rapporto a tempo indeterminato con la ditta utilizzatrice, con condanna alla riammissione in servizio del lavoratore e alla corresponsione delle retribuzioni medio tempore maturate a decorrere dalla data di messa in mora. La causale bollata come generica è la seguente: “casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice. Sostituzione”. Più nel dettaglio, la Corte si è sostanzialmente pronunciata sulle conseguenze derivanti dalla stipula di un contratto di fornitura di lavoro temporaneo illegittimo che, inevitabilmente, si riverberano sul contratto di lavoro. La stessa evidenzia i “difetti” della causale apposta al contratto di fornitura che, anziché utilizzare “una formula ancor più generica del testo legislativo, avrebbe dovuto individuare i contratti collettivi di riferimento e specificare a quali delle ipotesi previste da tali contratti si faceva riferimento”. Detta violazione dei co.1 e 2 dell’art.1 della L. n.196/97 comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, con instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il fruitore effettivo della prestazione, ossia con l’impresa utilizzatrice, anche in virtù “dell’intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal d.lgs. 368/2001 ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore e il lavoratore”. In tema di risarcimento danni, poi, la Corte ha ritenuto applicabile il tetto massimo di risarcimento introdotto dal c.d. Collegato Lavoro nei casi di conversione del contratto a tempo determinato. Come è noto, infatti, il co.5 dell’art.32 della L. n.183/10 prevede che "nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità 62
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omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”. Detta norma ha creato una serie di dubbi interpretativi, specie con riferimento alla formula “casi di conversione del contratto a tempo determinato”, in quanto non risultava chiaro se si applicasse solo ai contratti a termine o anche ai contratti di lavoro temporaneo a tempo determinato. Nel caso di specie la Cassazione ha optato per la soluzione estensiva, ritenendo che i casi previsti quali causa di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, sia che si riferiscano a nullità della clausola di apposizione del termine, a mancanza di forma scritta o alla continuazione della prestazione lavorativa oltre il decimo giorno successivo alla scadenza del termine, sono pacificamente applicabili anche alla conversione del contratto di somministrazione. Conseguentemente, anche ai suddetti casi di somministrazione deve essere applicato il regime sanzionatorio previsto dalla L. n.183/10. È, inoltre, appena il caso di ricordare che la Riforma Fornero ha fornito un’interpretazione autentica dell’art.32, co.5 della L. n.183/10, ritenendo che l’indennità ivi prevista copra l’intero pregiudizio subito dal lavoratore, pertanto in essa devono considerarsi ricomprese anche le retribuzioni e contribuzioni maturate tra la scadenza del termine del contratto e la sentenza del giudice che statuisce la riammissione in servizio del lavoratore. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 8 maggio 2012, n.6933  Cass., Sez. Lavoro, sent. 5 luglio 2011, n.14714  Cass., Sez. Lavoro, sent. 24 giugno 2011, n.13960  Cass., Sez. Lavoro, sent. 23 novembre 2010, n.23684 Contrari TRASFERIMENTO, TRASFERTA E DISTACCO Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 3 maggio 2013, n.10339 Trasferimento del personale collettivo – procedura sindacale – formazione graduatorie – rispetto – onere della prova – datore di lavoro – sussiste Massima In materia di trasferimento collettivo dei dipendenti postali, operato sulla base di una procedura concordata in sede sindacale con formazione di graduatorie redatte in forza di criteri predeterminati, è onere del datore di lavoro provare il rispetto delle regole stabilite per la formazione delle graduatorie, essendo questo condizione di legittimità del mutamento di sede lavorativa del dipendente. Commento Il caso in esame riguarda una lavoratrice che lamentava l’illegittimo trasferimento operato nei suoi confronti presso altra sede aziendale per violazione dell’ordine stabilito nell’ambito della graduatoria predisposta secondo criteri predeterminati e sulla base di procedure concordate in sede sindacale. L’azienda aveva avanzato ricorso per Cassazione sostenendo che, poiché erano sopravvenute comprovate ragioni tecnico‐organizzative, il trasferimento della lavoratrice presso altra sede si era reso necessario, per cui aveva provveduto alla disapplicazione della graduatoria predisposta in base agli accordi sindacali. La Cassazione dichiara infondate le deduzioni dell’azienda, statuendo che le graduatorie per i trasferimenti stilate in sede sindacale restano vincolanti per il datore, in quanto fanno nascere nel candidato collocato utilmente in graduatoria il diritto soggettivo al rispetto della posizione acquisita all’interno di essa. Quindi, anche laddove il datore abbia in giudizio offerto prova delle ragioni organizzative atte a giustificare il trasferimento del dipendente, non può comunque derogare alle predette graduatorie stilate in sede sindacale, neanche invocando il principio generale di cui all’art.2103 c.c., ma può soltanto provare di aver rispettato le regole stabilite per la formazione delle graduatorie dei lavoratori. Principali precedenti giurisprudenziali Conformi  Cass., Sez. Lavoro, sent. 23 novembre 2010, n.23675 Contrari 63
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