Nello studio della storia del teatro greco interagiscono tra loro quattro generi di fonti:
1.
Fonti archeologiche
•
Nell’arco di tempo compreso fra il V e il I secolo a.C. i Greci costruirono
moltissimi teatri sia nelle città della Grecia Continentale, sia nelle numerose
colonie greche sparse sulle coste dell’Egeo e del Mediterraneo, dalla Turchia alla
Sicilia e alle coste settentrionali dell’Africa. Molti di essi sono sopravvissuti, in
stato di conservazione più o meno buono, fino a noi, e costituiscono un
immenso patrimonio archeologico dal quale possiamo ricavare informazioni
importanti sulla vita teatrale degli antichi. Tuttavia, cone tutti gli edifici del
mondo antico, i teatri nel corso di una vita plurisecolare andarono incontro a
modificazioni e ristrutturazioni, che sono di rado ci consentono di ricostruirne
l’aspetto originario, contemporaneo cioè alle opere dei drammaturghi che
conosciamo. Inoltre, per quanto riguarda specificamente il teatro greco, tutta la
produzione che leggiamo fu messa in scena nel teatro di Atene del V e IV
secolo, ed è dunque su questo monumento che dobbiamo concentrare gli sforzi
di ricostruzione.
•
Il caso di Roma è ancor più singolare, perché la totalità dei teatri costruiti dai
Romani in Italia e nei territori dell’Impero non fu destinata al teatro in senso
stretto ma ad altre forme di spettacolo (mimo, pantomima, gare atletiche,
giochi di gladiatori ecc.). Tutta la grande produzione drammaturgica romana fu
invece portata in scena in un’epoca in cui esistevano solo teatri provvisori di
legno dei quali non ci è rimasto nulla.
2. Fonti letterarie
Nell’antichità numerosi autori si occuparono di teatro, sia da un punto di vista
letterario sia da un punto di vista di storia dello spettacolo. Di questa vasta produzione
critica a noi non è arrivato che pochissimo, e tuttavia molte delle informazioni che quelle
opere contenevano sono sopravvissute grazie ad alcuni testi che ci hanno conservato dati
sulla natura degli edifici teatrali, sui mezzi scenici di cui gli autori disponevano, sulla
terminologia tecnica legata al teatro, sui costumi e le maschere e via dicendo.
Ricordiamo in particolare:
a) La Poetica di Aristotele, della quale è sopravvissuto solo il libro relativo alla
tragedia. Si tratta di un documento di interpretazione complessa, ma estremamente
importante perché scritto da un filosofo vissuto a meno di cento anni di distanza dall’epoca
delle rappresentazioni di cui parla, e che leggeva una quantità di opere molto superiore
alla nostra.
b) il De Architectura dell’architetto romano Vitruvio (I secolo d.C.), che nel
quinto libro descrive la forma dei teatri greci e romani
b) l’Onomasticon dell’erudito greco Giulio Polluce, che nel II secolo d. C.
compila un lessico di termini tecnici, dedicando ampio spazio alla terminologia teatrale e
conservando un importante elenco di tipi di maschere e costumi del teatro tragico e
comico.
Il limite più rilevante delle notizie ricavabili da Vitruvio e Polluce è la loro grande distanza
cronologica dagli autori dell’epoca classica greca (V-IV secolo a. C.). Questo fa sì che essi
spesso attribuiscano all’epoca classica fenomeni e soluzioni tecniche che appartengono
invece ad epoche più tarde, e che tendano in generale a sovrapporre l’immagine del teatro
che essi conoscevano a quella del tempo degli autori classici.
3. Fonti iconografiche
Nel grande naufragio che ci ha privato della massima parte della pittura
antica, sono sopravvissuti alcuni documenti molto importanti per noi, che
raffigurano scene di vita teatrale o che rappresentano soggetti che erano
stati resi molto popolari dal teatro. Il contributo più importante ci viene
dalla pittura vascolare, e cioè le decorazioni dei vasi di ceramica di cui
Atene e altre città della Grecia Continentale furono grandi produttrici ed
esportatrici, soprattutto verso le colonie dell’Italia Meridionale. La natura
resistente del materiale ha consentinto che moltissimi vasi o frammenti di
vasi siano giunti sino a noi. Molti di essi risalgono al V e IV secolo a. C. e ci
offrono così le sole immagini direttamente rapportabili alla realtà teatrale
dell’Atene classica. L’interpretazione di molte testimonianze di questo tipo
è per altro assai controversa, perché non possiamo determinare in che
misura le scene siano state elaborate fantasticamente daglia rtisti, e
dunque ci è difficile valutare il grado di fedeltà alla realtà teatrale.
Importanti contributi ci vengono anche da alcuni mosaici raffiguranti scene
di teatro, soprattutto di commedia, e da una vasta produzione fittile di
maschere e figurine di attori e personaggi di teatro, delle quali si parlerà a
suo tempo.
4. I testi drammatici
La più grande parte delle conoscenze del teatro antico ci viene dunque dai testi
teatrali che sono arrivati fino a noi attraverso un lungo e complesso processo di
tradizione manoscritta, che li ha talora danneggiati o alterati. Si tratta di un
immenso patrimonio di scrittura teatrale, che si è tramandato senza essere
corredato di didascalie sceniche e indicazioni di regia. Tuttavia, la natura
particoalre del dialogo scenico antico fa sì che dai testi sia per noi possibile in
buona misura ricavare anche le principali coordinate della messa in scena
originale: movimenti degli attori, entrate, uscite, situazioni convenzionali, uso
delle macchine teatrali, organizzazione dello spazio entro cui è ambientata la
vicenda. I dati ricavabili dai testi vanno continuamente posti a confronto con
quelli ricavacili dalle altre categorie di fonti sopra ricordate, con interazioni
spesso problematiche e molto discusse, ma comunque essenziali.
Della immensa produzione teatrale degli antichi a noi è arrivata una piccolissima
porzione, e precisamente alcune opere di sette autori, certamente i più grandi e
celebri del loro tempo.
GLI AUTORI DEL TEATRO CLASSICO
Eschilo (525-456 a. C.)
Persiani, Sette a Tebe, Supplici, Prometeo, Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi)
Sofocle (497-406 a. C.)
Aiace, Antigone, Trachinie, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo a Colono
Euripide (485-405 a.C.)
Alcesti, Medea, Eraclidi, Ippolito, Andromaca, Ecuba, Supplici, Eracle, Elettra, Troiane, Ifigenia
Taurica, Elena, Ione, Fenicie, Oreste, Baccanti, Ifigenia in Aulide, Il Ciclope (dramma satiresco).
Aristofane (445 ca.- 385 ca. a. C.)
Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Lisistrata, Le donne alle Tesmoforie, Rane, Le
donne in assemblea, Pluto
Menandro (341-291 a. C.)
Dyskolos, Arbitrato, La donna di Samo, La ragazza tosata, Il Sicionio, lo Scudo, l’Odiato ecc.
Plauto (255 ca. - 184 ca. a. C. )
Amfitrione, Asinaria, Aulularia, Captivi, Curculio, Casina, Cistellaria, Epidicus, Le Bacchidi,
Mostellaria, I Menecmi, Miles gloriosus, Mercator, Pseudolo, Poenulus, Il Persiano, Rudens, Stichus,
Trinummus, Truculentus, Vidularia
Terenzio (185 ca. - 159 a. C.)
La donna di Andro, Il punitore di se stesso, L’eunuco, Formione, I fratelli, La suocera.
Le feste drammatiche di Atene
1. Le Dionisie Cittadine (o Grandi Dionisie)
Si tenevano nel mese di Elafebolione, corrispondente per gli Ateniesi a Marzo-Aprile, in
corrispondenza dunque della primavera e della ripresa della navigazione e dei commerci. Prevedevano una
fastosa processione che ricordava l’arrivo di Dioniso in Atene, durante la quale si portava la statua del dio dal
borgo di Eleuthere al teatro. Durante la processione venivano anche realizzati cortei falloforici, che portavano
cioè simulacri del membro maschile come avveniva nei più antichi rituali dionisiaci.
Momento centrale erano le competizioni poetiche e drammatiche, che comprendevano tre
categorie: ditirambi, tragedie e commedie. Il primo concorso tragico risale al 534 a. C., e vi avrebbe
partecipato il poeta Tespi. Il primo concorso comico risale invece al 486 a. C.
Al concorso tragico venivano ammessi tre poeti, che presentavano ciascuno quattro opere, tre
tragedie e un dramma satiresco. Al concorso comico erano ammessi cinque poeti, ma durante il V secolo, in
momenti difficili per la città di Atene, il numero scese in certi periodi a tre. Per epoche più tarde si ha notizia
di concorsi con sei poeti.
La ricostruzione del calendario della festa è molto controversa: per il V secolo a. C. si hanno
informazioni sicure solo sul giorno della processione (10 di elafebolione) e su tre giorni (11, 12, 13 di
Elafebolione) in ciascuno dei quali nei quali veniva rapresentata una tetralogia tragica a partire dall’alba e
una commedia nel pomeriggio. Sembra necessario tuttavia postulare una quarta giornata di
rappresentazione per i periodi in cui i poeti comici erano cinque.
La giuria era composta da dieci persone, una per ognuna delle tribù in cui era divisa la
popolazione ateniese. La procedura di voto è sconosciuta: sappiamo che dei dieci voti solo cinque erano
ritenuti validi, ma non come fossero scelti.
Le spese per l’allestimento e l’istruzione dei cori, che nel V secolo a. C. erano composti da
semplici cittadini non professionisti, erano a carico di cittadini abbienti designati dallo stato, detti corèghi. La
coregia era dispendiosa ma assai prestigiosa, soprattutto in caso di vittoria del proprio coro.
Gli attori che recitavano nelle tragedie e nelle commedie erano invece pagati direttamente dallo
stato. Col tempo, fu istituito un concorso anche per gli attori (dal 449 a. C. per gli attori tragici)
Le Lenee
Si tenevano nel mese di Gamelione (Gennaio) in un luogo detto Leneo, non identificato con precisione.
Dopo la costruzione del teatro, tuttavia, le rappresentazioni si tenevano lì. Erano feste locali, senza
accesso di stranieri. Della loro articolazione sappiamo molto poco.
I concorsi drammatici vi cominciarono non prima della metà del V secolo a. C, (prima l’agone comico dal
442 a. C., poi quello tragico, forse dal 432 a. C.). A quanto sembra le commedie vi avevano un ruolo
più rilevante che le tragedie. I poeti ammessi in gara erano cinque per volta, ognuno con una
commedia e sappiamo che i comici partecipavano volentieri a questo concorso. Sembra però di capire
che la vittoria alle Lenee non avesse lo stesso prestigio di quella delle Dionisie. Quattro commedie di
Aristofane tra quelle che possediamo (Acarnesi, Cavalieri, Vespe e Rane) furono presentate alle
Lenee. Per l’agone tragico c'erano in gara solo due poeti, con due tragedie senza dramma satiresco.
Non sappiamo se i tragici più celebri (Eschilo, Sofocle, Euripide) vi abbiano partecipato, ma è
probabile di sì. Sappiamo con certezza che alle Lenee 416 a. C. vinse Agatone, un tragico assai
famoso. Anche le Lenee ebbero concorsi per gli attori tragici e comici.
Le Dionisie Rurali
Si svolgevano nel mese di Posideone (dicembre-gennaio) nei demi (distretti) rurali di Atene. Uno degli
eventi principali della festa era l’organizzazione di una processione in cui si portava un grande fallo su una
pertica, intonando canti a facendo offerte a Phales, simbolo della fertilità e compagno di Dioniso. Questa
processione ha rilievo per il teatro perché una delle commedie di Aristofane, gli Acarnesi, ne mettono in
scena una. Poiché queste feste si svolgevano in ogni demo, non possiamo sapere se dappertutto venissero
organizzati agoni drammatici. Certamente si organizzavano al Pireo, dove esisteva anche un teatro. Negli
agoni tragici e comici, a differenza che nelle Lenee e nelle Grandi Dionisie, era permesso presentare
repliche di opere già presentate. Non sappiamo nulla circa le modalità delle competizioni.
I ludi scenici a Roma
•
1) Ludi Romani o Magni, in onore di Giove Ottimo Massimo. Sono i ludi più antichi, istituiti secondo la
tradizione nel V secolo a.C., al tempo del re Tarquinio Prisco, con giochi di carattere atletico e circense
(cavalli, pugilato). Divennero annuali a partire dal 366 a. C., e a partire dal 214 a. C. comprendevano
quattro giorni, dal 16 al 19 di settembre, dedicati alle rappresentazioni.
•
2) Ludi Saeculares, istituiti nel 509 a. C., furono ripresi nel 348 a.C., e dovevano svolgersi ogni cento
anni. In realtà si tennero nel 249 e 146 a. C.
•
3) Ludi Florales, istituiti nel 238 a. C. in onore della dea Flora, perché garantisse una stagione feconda.
Annuali a partire dal 174, si celebravano dal 28 aprile al 3 maggio.
•
4) Ludi Plebeii, istituiti nel 220 a. C. e celebrati nel Circo Flaminio dal 4 al 17 di novembre, divennero
scenici nel 200 a. C. (vi fu rappresentato lo Stichus di Plauto)
•
5) Ludi Apollinares, istituiti in onore di Apollo nel 213/212 a. C., quando Annibale minacciava Roma. Si
tenevano in luglio. Originariamente si celebravano nel Circo Massimo. Divennero scenici nel 199 a. C.;
all’inizio duravano un solo giorno, poi divennero di tre giorni dal 190 a. C., e di otto al tempo di Augusto
(sei dei quali dedicati ai ludi scenici).
•
6) Ludi Cereris (Cerialia), in onore di Cerere, furono istituiti nel 202 a. C., si tenevano dal 12 al 18 aprile.
Non è certo che vi essi comprendessero ludi scenici già nel II a. C., ma certamente ve ne erano un età
augustea (7 giorni).
•
7) Ludi Megalensens, istituiti nel 204 a. C., celebrati sul Palatino in onore della Magna Mater, furono resi
scenici nel 194 a. C. 4. Più tardi, in età imperiale erano sei giorni di giochi, dal 4 al 10 aprile. È importante
ricordare che una delle commedie di Plauto (Pseudolo) e quattro delle sei commedie di Terenzio (La donna
di Andro, La Suocera I, Il punitore di se stesso, L’eunuco) furono messe in scena in questi giochi.
La struttura formale della tragedia greca
Le tragedie che ci sono arrivate sono costruite secondo una alternanza di parti recitate dagli attori e canti
del coro. Queste parti sono descritte da Aristotele nella Poetica. Lo schema essenziale è il seguente:
Prologo, lett. “discorso che viene prima (dell’ingresso del coro”). Il prologo è una parte recitata da uno o
più attori prima che entri in scena il gruppo corale. Può essere composto da una o due scene, che in Eschilo
e Sofocle, e nel primo Euripide, sono parte integrante dell’azione. Nelle tragedie più tarde di euripide, il
prologo tende invece ad esporre gli antefatti del dramma. Il prologo può anche mancare: ne sono prive due
tragedie di Eschilo, i Persiani e Supplici di Eschilo.
Parodo (“canto di ingresso”). È il canto corale che accompagna l’ingresso del coro, che va posizionarsi
nell’orchestra. Di regola contiene indicazioni sulla composizione del coro e sulla ragione della sua presenza.
Episodi (il termine epeisodion significava in origine “ingresso”, con riferimento all’arrivo di nuovi personaggi
dopo il canto del Coro). Gli episodi, recitati dagli attori, sono individuati da un canto corale che li precede e
d uno che li segue. Nel caso del primo episodio, il canto precedente è la parodo, e il seguente il primo
stasimo, per gli altri, si tratta di due stasimi. La recitazione degli episodi poteva prevedere lunghi discorsi
(rheseis), o serrati confronti dialogici molto formalizzati come le sticomitie, in cui ciascun personaggio
pronunciava un verso a turno). Nel dialogo racitato poteva intervenire anche il capocoro, detto Corifeo, che
in questi casi recitava. Gli episodi potevano prevedere parti cantate dagli attori (monodie)
Stasimi (“canti del Coro in posizione”) Gli stasimi erano parti cantate e danzate dal Coro, che di regola
restava solo in scena (con qualche eccezione). Essi dividevano un episodio dal successivo. Sono almeno
tre, ma in Sofocle ed Euripide se ne hanno talora quattro o anche cinque.
Esodo (“uscita) Aristotele definisce esodo tutta la parte recitata o cantata dagli attori che seguiva l’ultimo
stasimo. Il dramma si concludeva con l’uscita finale di tutti i personaggi.
La struttura formale della commedia greca:
A. La commedia antica
Sotto il nome di Commedia Antica si comprendono tutte le opere comiche scritte fino alla fine del V secolo. Dei
circa 40 poeti attivi in questo periodo, solo di uno sono rimaste le opere: Aristofane. La descrizione della
forma comica antica non può che essere dunque quella delle sue commedie, ma non possiamo escludere
che altri poeti adottassero strutture leggermente diverse. Si deve anche tener conto che la commedia è un
genere molto più libero della tragedia, che presenta variazioni formali anche assai consistenti.
Prologo. È un sezione lunga (fino a 300 e più versi), che comprende scene introduttive con più attori recitanti,
fino all’ingresso del Coro. Di regola esso comprende una piccola azione completa in se stessa, che sta per
essere portata a conclusione quando viene interrotta dall’irruzione del Coro. Esempio: nel prologo degli
Acarnesi, Diceopoli va all’assemblea e poi mette in atto il suo tentativo di fare la pace personale con Sparta:
il Coro irrompe adirato per punire il traditore.
Parodo: è la scena dell'ingresso del Coro. Ventiquattro coreuti entrano, in modo in genre abbastanza vivace.
Spesso il Coro entra in situazioni di scontro, o di inseguimento, tali comunque da generare una certa
confusione. Talvolta c’è un canto a sé stante, altre volte i coreuti entrano direttamente partecipando al
dialogo.
Agone. Questa parte prende prende nome dalla presenza di uno scontro verbale fra due personaggi. L’agone,
nella sua forma completa (non sempre presente) è così strutturato:
1.Ode, cioè “canto” del coro che commenta lo scontro imminente;
2. katakeleusmos, cioè “esortazione” (sono due versi del corifeo che si rivolge al primo antagonista
invitandolo a parlare;
3. Epirrema” cioè intervento del primo antagonista, che è destinato alla sconfitta.
4. “Pnigos (”soffocamento”), appendice dell'epirrema con ritmo accelerato;
Il tutto si ripete per il seocndo antagonista, con la sequenza
antodé;
antikatakeleusmos;
antepirrema;
antipnigos.
In tre commedie (Cav. 457-60; Vesp. 725-27; Ucc. 627-38) c'è infine una sphragis, dove il Coro si
congratula con il vincitore. L’agone talora è raddoppiato (Cavalieri, Nuvole, Vespe; Uccelli); talora invece
manca (Acarnesi, Pace, Tesmoforiazuse)
Parabasi. È questa certamente la forma più caratteristica della commedia arcaica. Ad un certo punto della
commedia, gli attori lasciano la scena, i coreuti si tolgono i mantelli e si rivolono agli spettatori,
abbandonando la propria identità drammatica e avviando una conversazione diretta fra autore e
pubblico, su argomenti vari di politica attualità e polemica teatrale. In Aristofane la parabasi è collocata
di solito al centro del dramma. Essa presenta sette parti:
1) kommation, pochi versi con cui il Coro si congeda dagli attori che lasciano la scena
2) anapesti: si tratta di una parte che prende nome dal verso utilizzato, nella quale il poeta parla di
argomenti totalmente estranei alla commedia. Il Corifeo fa riferimento a fatti della vita politica
ateniese, a polemiche e rivalità fra autori comici, ecc.
3) Pnigos (“soffocamento”), parte finale degli anapesti
4) ode (canto in metri lirici);
5) epirrema (parte in versi recitativi di argomento vario)
6) antode;
7) antepirrema.
La parabasi è attestata nella sua forma completa in Acarnesi (626-718), Cavalieri (498-610), Vespe
(1009-1121), Uccelli (676-800). Nelle Nuvole manca lo pnigos (510-626); Nella Pace mancano
epirrema e antepirrema. Nelle ultime commedie la forma appare in via di atrofizzazione. Nella Lisistrata
e nelle Donne alle Tesmoforie compaiono solo alcune parti. Inoltre a partire dagli Uccelli il Coro tende
a non abbandonare più l’identità drammatica, e non parla più dia argomenti extradrammatici. Nelle
Ecclesiazuse e nel Pluto la parabasi manca del tutto, in corrispondenza di una progressiva involuzione
della componente corale.
Alla parabasi seguono di regola una serie di scene comiche molto libere, senza una struttura precisa e senza
che l’azione drammatica proceda significativamente, con l’arrivo in sequuenza di numerosi personaggi
che si confrontano con il protagonista trionfante e ne vengono di dolito sbeffeggiati.
Esodo: è la parte finale della commedia, caratterizzata in genere da festeggiamenti, banchetti e altra forme
di baldoria cui i personaggi si avviano nell’uscire, in una atmosfera festosa. Alcune commedie si
concludono con una processione festante che lascia l’orchestra.
La forma della commedia greca
B. La Commedia Nuova
A partire dalla fine del V secolo, in corrispondenza di importanti cambiamenti nella società ateniese, la
commedia va incontro a profondi cambiamenti sia sul piano della forma sia su quello dei contenuti. Per
noi è molto difficile seguire questa evoluzione, perché quasi tutto è andato perduto della produzione
teatrale comica ateniese fra il 388 (anno dell’ultima commedia di Aristofane e il 320 a. C. (inizio della
carriera di Menandro). Questa fase viene definita già da epoca antica “Commedia di Mezzo”. Di essa
conosciamo molti nomi (tra questi i più importanti sono Alessi, Anassandrida, Antifane, Eubulo), ma
leggiamo solo frammenti delle opere. Per noi la commedia ridiventa leggibile con la Commedia
cosiddetta Nuova (seconda metà del IV secolo a. C.), e in particolare con Menandro, che ci mostra
alcuni mutamenti essenziali ormai avvenuti. Tra questi i principali sono:
a)
La commedia ha perso completamente la struttura libera della commedia aristofanea, e si sviluppa
secondo uno schema più rigido, che vede un prologo d’apertura, di solito recitato da un dio o da un
personaggio onnisciente che informa gli spettatori non solo dell’antefatto ma anche della storia che
vedranno rappresentata, seguito da una regolare sequenza di cinque atti, che resterà stabile nella
tradizione teatrale romana e passerà all’epoca moderna. Non siamo in grado di dire quando esattamente
la divisione in atti si introduce nella commedia, ma Menandro la pratica regolarmente
b)
La componente corale è regredita definitivamente, al punto che il coro non ha più altro ruolo che quello
di eseguire gli intermezzi che dividono un atto dall’altro. Queste parti sono però ormai avvertite come
estranee al dramma, al punto che nei manoscritti non ne vengono neppure più trascritte le parole. Di
fatto, dunque, Menandro ci presenta una commedia tutta recitata dagli attori, in cui la componente
musicale della commedia antica è quasi del tutto scomparsa. Sappiamo che nella cosiddetta Commedia
di Mezzo, nella prima metà del IV secolo a. C., il Coro c’era ancora, anche se certo.
c)
I personaggi della commedia subiscono un processo di standardizzazione, e si definiscono in una serie
tipi ripetitivi: il vecchio avaro o severo, il giovane innamorato e pronto a spendere i denari paterni, lo
schiavo astuto che aiuta il padroncino ai danni del padrone vecchio, la giovane povera ma onesta,
magari creduta schiava e che alla fine si rivela libera e cittadina ateniese, la donna di facili costumi con
la quale si dilapidano i soldi, la vecchia ubriacona. A questa tipologia corrisponde una standardizzazione
delle trame, centrate di regola su storie di amore contrastato e sulle astuzie con cui i giovani riescono a
gabbare i padri ottenendo denaro per i loro amori. Un ruolo considervole è svolto dagli equivoci causati
da storie di bambini abbandonati o rapiti che alla fine vengono riconosciuti dai genitori o dai parenti.
Il dramma satiresco
Dei tre generi del teatro antico il dramma satiresco è la forma che
conosciamo meno bene, in quanto praticamente tutta la produzione
di questo genere è andata perduta. Ne abbiamo solo un esempio
integro, il Ciclope di Euripide.
Il dramma satiresco veniva rappresentato come ultima parte della
tetralogia, dopo tre tragedie. Aveva carattere di tragedia giocosa, e
ripeteva dunque le forme del genere maggiore con alcune varianti di
natura scherzosa. Esso aveva dunque una struttura con prologo,
parodo, episodi e stasimi, e somigliava anche nella lingua e nello
stile alla tragedia, naturalmente con maggiore libertà nel lessico,
nella metrica e nelle situazioni.
Il tratto più caratteristico del dramma satiresco era certamente la
presenza costante di un coro di Satiri (figure semiferine con coda e
orecchie di cavallo, fornite di abnormi attributi genitali: si veda
l¿immagine a lato) guidati dal vecchio Satiro Sileno. I Satiri hanno
come caratteristiche la sfrenatezzza sessuale e soprattutto la
passione per il vino e l’ebbrezza dionisiaca. Sono inoltre codardi e
poco affidabili.
Gli argomenti erano tratti da miti allegri e scherzosi, oppure
mettevano in parodia episodi celebri come l’accecamento di Polifemo
da parte di Ulisse nel citato Ciclope di Euripide. Una parte rilevante
era sempre assegnata al vino e all’ebbrezza dionisiaca.
L’ambientazione era all’aperto, in ambienti naturali campestri o
marini, senza abitazioni umane.
Coppa attica a figure rosse con
immagine di un Satiro appartenente a un
coro di dramma satirsco. Si ditinguono
bene la maschera barbuta indossata dal
coreuta, il gonnellino maculato che
rende l’idea del pelo animale, il fallo e la
coda equina
Il teatro romano: cantica e deverbia
Nel descrivere le forme che il dramma di derivazione greca assunse a Roma, bisogna sottolineare un
elemento di differenza importante rispetto ai modelli. Là dove la tragedia e la commedia greca
avevano sostanzialmente diviso i ruoli fra parti recitate, di competenza degli attori, e parti cantate di
competenza del Coro (con poche eccezioni rappresentate dalle monodie di attori e dai dialoghi lirici cui
partecipavano coro e attori), il teatro latino introduce la tendenza a trasformare quelli che negli
originali greci sono monologhi e dialoghi recitati da attori in parti cantate, i cosiddetti cantica, che si
alternano alle parti recitate, dette deverbia. Di conseguenza, la componente musicale finisce per
avere un ruolo più ampio che nei modelli greci, anche se il ruolo del coro è molto diminuito e - nella
commedia - del tutto assente. Inoltre, l’alternanza di canto e recitazione è più varia e meno regolare
di quanto accade nel dramma greco. Per la commedia, in particolare, oggi si tende a distinguere
ancora più in dettaglio fra i cantica lirici veri e propri, caratterizzati da grande estensione e da
polimetria, e i cosiddetti cantica mutatis modis, che sono qualcosa di affine al recitativo della nostra
opera lirica, e cioè versi lunghi di natura venivano recitati con accompagnamento musicale.
Quale sia l’origine dei cantica è problema dibattuto fra gli studiosi. Tre sono le tesi che hanno goduto il
passato o godono attualmente di maggior credito.
1)
I cantica riproducono forse forme presenti nel dramma ellenistico (III-I secolo a. C.), a noi pressoché
sconosciuto, che si reintroducono nei riadattamenti latini di opere greche più antiche.
2)
I cantica potrebbero derivare dall’influsso delle forme teatrali italiche più antiche
3)
I cantica costituiscono una sopravvivenza della polimetria e del ruolo della musica che caratterizzava
la commedia antica.
La tragedia a Roma: generi e struttura
Fabula cothurnata.
Con questo nome si definiscono le tragedie latine di argomento greco, quelle cioè che riprendono o
rimaneggiano opere dei tragici greci. Il nome deriva dal cothurnus, la calzatura indossata dagli attori
tragici nel periodo ellenistico. Il genere fu inaugurato da Livio Andronico. Non ci è rimasta nessuna
tragedia completa di questo genere appartenente al periodo del grande teatro latino (III-II secolo a. C.):
le prime cothurnatae che si possono leggere integre sono quelle tarde di Seneca (I sec. d. C.), scritte
molto probabilmente per la lettura e non più per la rappresentazione.
La forma della fabula cothurnata è strettamente connessa a quella della tragedia greca. Il dato più
rilevante, che differenzia la tragedia romana dalla commedia coeva è che nel dramma tragico è ancora
presente il coro. È probabile che la presenza nei modelli tragici greci di parti miste cantate assieme da
Coro e attori (che mancavano invece nella commedia nuova) abbia incoraggiato i primi autori latini a far
convivere cantica e parti corali.
Il Coro nella tragedia romana svolgeva probabilmente un ruolo ridotto, affine forse a quello della tragedia
greca postclassic deli IV e III secolo a. C. Si trattava soprattutto di interludii, e solo raramente di scene in
cui il Coro partecipava direttamente all’azione. È importante ricordare che, a differenza di quello della
tragedia greca, il Coro della tragedia romana non restava costantemente in scena, ma usciva dopo ogni
pezzo lasciando la scena agli attori.
Poiché nessuna tragedia latina è sopravvissuta, ci è molto difficile giudicarne la struttura complessiva. È
probabile però che la presenza degli interludi corali articolasse la rappresentazione in cinque atti. Per quel
che possiamo capire, dovevano essere presenti il prologo e la sequenza degli episodi.
Fabula praetexta
Con questo nome si designano le tragedie il cui argomento non deriva da un originale greco, ma è invece
appartenente alla leggenda o alla storia romana (ad esempio il Romulus di Nevio che narrava le vicende
delle origini di Roma). Il nome deriva dalla toga praetexta, la toga orlata di porpora che veniva indossata
dai senatori e dai personaggi più in vista. Non essendo sopravvissuto nessun esempio del genere, né
frammenti significativi, non è possibile dar una descrizione della struttura di una praetexta.
La commedia romana: generi e struttura
Fabula palliata
Nella commedia nuova greca gli attori vestivano una tunica, il chitone, e sopra di esso un mantello,
himation in greco, pallium in latino. Da questo indumento deriva il nome delle commedie latine di
argomento e ambientazione greca, dette fabulae palliatae, o più semplicemente palliate. Tutte le
commedie romane che sono sopravvissute integre (21 di Plauto, 6 di Terenzio) appartengono a questo
genere teatrale.
La struttura della palliata riproduce quella della commedia nuova greca, ma spesso nel rimaneggiamento
dell’originale le distinzioni originarie fra gli atti venivano obliterate. Di fatto l’unità fondamentale della
commedia latina è la signola scena. Le divisioni in atti che si sono tramandate nei manoscritti non sono
originali, e spesso non corrispondono ad effettive articoalzioni dell’opera drammatica.
Fabula togata
Nelle commedie ambientate a Roma o in territorio romano, invece, i personaggi sopra la tunica
indossavano il caratteristico indumento romano, la toga: queste fabulae dunque erano dette togatae. La
togata ebbe numerosi cultori a Roma, ma quasi nulla ne è sopravvissuto
Il problema delle origini della tragedia
Le origini della tragedia restano per noi immerse nell’oscurità. Una serie di testimonianze sparse non
pernette di arrivare ad una definizione univoca del processo che portò alla nascita della
rappresentazione tragica. Innumerevoli tentativi sono stati fatti per colmare il vuoto di conoscenza
che ci separa dalle prime forme di teatro tragico, ma nessuno di essi può fare a meno di una
sequenza di ipotesi non verificabili.
Nell’analisi di questo problema concorrono due approcci: il primo si basa su alcune notizie conservateci da
fonti antiche, e in particolare da una passo della Poetica di Aristotele e da poche altre testimonianze
che risultano difficili da conciliare l’una con l’altra. Il secondo prescinde dalle poche e dubbie notizie
tramandate e preferisce un approccio di tipo etnologico che riconnette la tragedia a forme primitive di
danza mascherata che puntavano a proteggere la comunità da dèi e spiriti maligni, o a altre forme di
religiosità agraria mediterranea o indoeuropea, o anche a lamentazioni funebri per la morte della
divinità.
Non potendo esporre neppure sommariamente i termini di un dibattito vastissimo, ci limitiamo a fissare
alcuni punti e a esporre alcuni problemi aperti
a)
b)
c)
d)
e)
f)
Il significato del temine tragedia
Il rapporto della tragedia con il culto di Dioniso
La validità delle notizie di Aristotele e il problema del rapporto fra la tragedia e il “satiresco”
Come entrano nella tragedia le storie mitiche di argomento non dionisiaco?
Qual è il rapporto fra tragedia e Ditirambo?
La tragedia è una creazione ateniese o gli autori ateniesi perfezionano qualcosa che veniva loro da
altre città della Grecia Dorica (Corinto, Sicione)?
A questo proposito discuteremo soltanto della fondamentale testimonianza di Aristotele.
Le origini della tragedia e della commedia secondo Aristotele
(Poetica 1448b 20 - 1449b 9, traduzione di Diego Lanza)
Poiché dunque noi siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare, della musica e del ritmo (i versi, è chiaro, fanno parte
del ritmo), dapprincipio coloro che per natura erano più portati a questo genere di cose, con un processo graduale dalle
improvvisazioni dettero vita alla poesia. La poesia poi si distinse secondo la proprietà dei caratteri: i più severi imitarono le azioni
apprezzabili e di gente apprezzabile, quelli di gusti più facili quelle della gente dappoco, dapprincipio componendo motteggi come
gli altri inni ed encomi. Di nessuno di quelli che precedettero Omero possiamo menzionare alcun componimento poetico del genere,
ma è probabile che ce ne fossero molti; ci è invece possibile incominciando da Omero, come per esempio il suo Margite ecc. In essi,
secondo convenienza, intervenne anche il verso giambico, anche perciò si chiama oggi giambo, perché in questo verso ci si
scherniva reciprocamente. E i poeti antichi, gli uni divennero autori di poesie eroiche, gli altri di giambi. Come dunque Omero fu il
massimo poeta nel serio (fu unico non solo per la bravura, ma anche perché produsse imitazioni di tipo drammatico), così per
primo fece intravvedere anche la forma della commedia, drammatizzando non il motteggio, ma ciò che è ridicolo. Come l'Iliade e
l'Odissea sono il corrispondente della tragedia, così il Margite lo è della commedia. Apparse dunque la tragedia e la commedia, di
coloro che per la propria natura erano portati all'una o all' altra attività poetica, gli uni, anziché di giambi divennero compositori di
commedie, gli altri, anziché di canti epici, tragedi, perché queste forme erano più potenti e più stimate di quelle.
Indagare se la tragedia in rapporto ai suoi elementi sia già compiuta o no, e giudicare questo sia in sé sia in rapporto al pubblico, è
un altro discorso. Sorta dunque da un principio di improvvisazione - sia essa sia la commedia, una da coloro che guidavano il
ditirambo, l'altra da coloro che guidavano i cortei fallici che ancora oggi rimangono in uso in molte città -; a poco a poco crebbe
perché i poeti sviluppavano quanto in essa veniva manifestandosi, ed essendo passata per molti mutamenti la tragedia smise di
mutare quando ebbe conseguito la propria natura. Eschilo fu il primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre la
parte del coro e a conferire un ruolo rilevante alla parola; di Sofocle sono i tre attori e la pittura degli scenari. Per quanto poi
riguarda la grandezza: da racconti piccoli e un linguaggio scherzoso, poiché il suo processo di trasformazione muoveva dal
satiresco, assunse tardi toni solenni, e il verso di tetrametro si fece giambo. All'inizio si adoperava il tetrametro perché la poesia era
satiresca e piuttosto ballabile, ma, affermatesi il parlato, fu la stessa natura a trovare il verso appropriato; il giambico è in effetti il
verso più colloquiale e un segno di ciò è che nella nostra conversazione ci capita di dire spesso giambi, mentre è raro che si dicano
esametri, e solo quando ci si allontana dal tono discorsivo. Per quanto riguarda poi il numero degli episodi e il resto, come si dice
che ciascun elemento abbia trovato la propria sistemazione, fermiamoci a quel che si è detto. Considerare ogni particolare sarebbe
probabilmente lavoro eccessivo.
La commedia è, come si è detto, imitazione di persone che valgono meno, non però per un vizio qualsiasi, ma del brutto è parte il
ridicolo. Il ridicolo è infatti un errore e una bruttezza indolore e;che non reca danno, proprio come la maschera comica è qualcosa
di brutto e di stravolto senza sofferenza. Mentre dunque le trasformazioni della tragedia e le circostanze che le hanno permesse
non ci sono ignote, la commedia ci sfugge, perché non ha avuto dal principio un adeguato riconoscimento. L'arconte concesse
soltanto tardi il coro dei comici, essi erano dunque volontari. Quelli poi che sono chiamati suoi poeti sono ricordati quando essa
dispone già di forme definite; resta perciò ignoto chi|definì maschere, prologhi, numero degli attori ecc.
Quanto alla composizione dei racconti, essa venne in principio dalla Sicilia; tra quelli in Atene Cratete fu il primo che, lasciando
perdere la forma del giambo, cominciò a comporre racconti e storie di valore generale.
Aristotele fornisce qui alcune informazioni importanti:
1)
La tragedia deriva “da coloro che guidavano il ditirambo”. Il ditirambo è una forma di poesia
accompagnata da musica e danza ed eseguita da un coro, fin da epoca molto antica (almeno VII
secolo a. C. associata a Dioniso. Se la notizia è attendibile l’associazione della tragedia originaria con il
culto dionisiaco ne esce rafforzata. Incerto è il senso del verbo exarchonton usato da Aristotele. Una
interpretazione è quella proposta di “guidavano” il ditirambo, un’altra è quella di “intonavano” il
ditirambo. Controverso è anche se le persone di cui parla Aristotele sono i componenti del coro
ditirambico stesso oppure delle figure staccate dal coro che lo guidavano o gli davano l’invito al canto,
secondo un modulo antifonale. Con questa seconda interpretazione si potrebbe individuare in questi
exarchontes del ditirambo una figura proto-attoriale. Molti studiosi non concordano con questa
interpretazione, per altro.
2)
La tragedia nasce “da un principio di improvvisazione” e subisce una serie di cambiamenti che la
portano attraverso un processo di maturazione a trovare la “sua forma compiuta”.
3)
Aristotele dà anche una seconda indicazione circa l’origine della tragedia, che deriverebbe dal
saturikon, l’”elemento satirico”. In origine la tragedia aveva infatti argomenti scherzosi, e solo
lentamente sarebbe passata ad argomenti seri, modificando anche la natura del verso, che da
trocaico, adatto ad agomenti leggeri, si fece giambico. Questa notizia ci pone due serie difficoltà. La
prima riguarda la possibilità di conciliare la derivazione dal ditirambo con quella dal saturikon, la
seconda è quella di definire il rapporto che esiste fra questo saturikon primitivo e il dramma satiresco
che troviamo ancora vitale nel V secolo e che, secondo molte fonti sarebbe nato dopo la tragedia (gli
antichi ne attribuivano l’invenzione a Pratina, vissuto alla fine del VI secolo. C’è poi il problema della
identificazione esatta dei satiri, demoni della natura boschiva che in alcune rappresentazioni sono
cocnepiti come capri, ma in altre hanno evidenti tratti equini.
La testimonianza di Aristotele è stata da moltis tudiosi accettata come valida, basandosi sul fatto che il
filosofo di regola faceva precedere i suoi scritti da una accurata documentazione. Altri però ritengono
che Aristotele scrivesse senza avere a disposizione alcuna fonte attendibile sulle origini della tragedia,
e che le sue siano soltanto ipotesi, che possono essere del tutto messe da parte. Questi studiosi
contestano in particolare l’idea che la gravità e la dignità delle tragedie che possediamo possa essersi
prodotta come una evoluzione di una forma teatrale sostanzialmente scherzosa.
Alla discussione sulla validità delle notizie di Aristotele si collega quella sul significato della parola
Tragodia, “tragedia”. In essa compaiono evidentemente le due componenti tragos “capro” e ode “canto”. Le
interpretazioni proposte sono
“canto dei capri”, cioè di uomini travestiti da caproni, che potrebbero anche essere identificati come i Satiri
del primitivo saturikon aristotelico (ma con le cautele dovute all’incertezza sulla reale natura caprina dei
Satiri
“canto per il capro”: si tratta di una teoria nata in ambienti culturali antichi che non accettavano l’ipotesi
aristotelica di derivazione della tragedia dal saturikon e preferivano l’idea di una forma nata da originari canti
agresti, nei quali si poneva come premio un caprone. Secondo questa teoria, il dramma satiresco sarebbe
nato più tardi della tragedia.
“canto per il sacrificio di un capro”, da collocare sostanzialmente nello stesso contesto agreste e rituale della
interpretazione precedente.
Se si accetta la veridicità del racconto aristotelico, si può pensare che i satiri, esseri semiferini caratterizzati
da grande lascivia in campo sessuale fossero in qualche modo accostati ai capri, animali anch’essi connotati
nello stesso senso (si pensi ad esempio al dio Pan), e progressivamente assimilati.
Resta il problema di conciliare ditirambo e satyrikon come origine della tragedia. Alcune notizie ci dicono che
il poeta Arione, cui si attribuiva lo sviluppo delditirambo come forma d’arte, sarebbe stato il creatore della
tragedia e avrebbe introdotto nel ditirambo dei Satiri che pronunciavano versi. Se questa ricostruzione è
corretta, Arione avrebbe fatto il passo decisivo unendo all’antico canto dionisiaco il contributo dei satiri e
avviando il processo che doveva portare alla nascita della tragedia.
Per quanto riguarda infine la questione dell’introduzione in una tragedia originariamente dionisiaca deglia
rgomenti di carattere serio e dei miti non dionisiaci, è importante una notizia secondo la quale nella città di
Sicione esistevano dei canti che ricordavano le gesta di Adrasto, un eroe di Argo che nel VI secolo un tiranno,
Clistene, intese cancellare dal culto cittadino per ragioni di ostilità verso Argo. Clistene assegnò allora i cori a
Dioniso. Un passaggio di questo genere potrebbe testimoniare la fase in cui canti che narrano vicende di eroi
si associano a forme d’arte dionisiache, e darci un’idea della trasformazione che porta la tragedia dall’allegria
satiresca alla serietà
L’origine della commedia
Nonostante che Aristotele nel passo della Poetica già discusso dica che sull’evoluzione della commedia ci
sono molte meno notizie che su quella della tragedia, le origini di questa forma teatrale possono essere
individuate con maggior sicurezza.
Aristotele attesta esplicitamente che la commedia trae origine “da coloro che guidavano i cortei fallici
(fallofòrie) che ancora oggi rimangono in uso in molte città”, e dunque da situazioni rituali tipicamente
dionisiache. Il collegamento con tale origine è ancora così vitale al tempo di Aristofane che in una delle sue
commedie, gli Acarnesi, il protagonista Diceopoli mette in scena davanti alla sua casa di campagna una
processione falloforica assieme ai membri della sua famiglia.
Firenze, Museo Etrusco 3897: coppa attica a figure nere con gruppo di satiri
che porta in processione il palo fallico, cavalcato da un vecchio Sileno
I culti fallici erano diffusi anche in ambito
non dionisiaco: questo vaso di Berlino
mostra una donna che celebra un rito fallico
(le donne non partecipavano ai cortei
dionisiaci). Berlin, Antikensammlung VI
3206.
Coerente con questa origine appare anche
l’etimologia del termine komodia, che
significa “canto del komos”. Il komos è il
corteo dei fedeli di Dioniso in festa, ebbri di
vino, che rivolge agli astanti scherzi e
provocazioni anche pesanti, con linguaggio
volgare (skommata) e aperti riferimenti
sessuali. Si tratta di un nucleo che rimane
vitale soprattutto nella parabasi della
commedia
antica,
che
interrompendo
momentaneamente la finzione drammatica
ripropone la situazione del gruppo di
comasti che si rivolge agli altri partecipanti
alla festa. In questo contesto i comasti
speso si mascheravano: ce lo testimoniano
alcuni vasi più antichi della commedia (VI
secolo a. C.) che mostrano cortei di persone
mascherate da animali. È forse a situazioni
come queste che si richiamano i cori
animalsechi di numerosi commedie (Vespe,
Uccelli, Rane ecc.)
Due vasi attici del VI secolo con raffigurazioni di personaggi mascherati da uccelli (a sinistra) e galli
(a destra). Si notino nel secondo caso i mantelli e la presenza del flautista, che richiamano la
successiva pratica dei cori comici
Allo sviluppo della commedia tuttavia contribuisce anche una componente di origine non ateniese. Si tratta
della cosiddetta farsa dorica, cui fa più volte riferimento lo stesso Aristofane. In ambito dorico infatti
(Peloponneso e Sicilia) si sviluppano semplice forme teatrali di farsa, costituita da situazioni comiche basate
su personaggi e atteggiamenti ripetitivi: ad esempio la ghiottoneria di Eracle, lo schiavo inseguito e
picchiato dal padrone, il medico incapace e via dicendo. Questo tipo di composizioni fu coltivato tra gli altri
dal siciliano Epicarmo, contemporaneo di Eschilo, ed era diffuso nella città di Megara, poco distante da
Atene. A forme di comicità megarese fa più volte riferimento Aristofane, qualificandole come comicità “da
poco”. Ad Epicarmo è attribuita l’invenzione dell’agone. Alle situazioni della farsa dorica si ispirano
probabilente le scene che tipicamente seguono la parabasi, nelle quali più che allo sviluppo dell’azione si
punta ad effetti di comicità immediata
Le origini del teatro romano
Benché si sia soliti fissare la nascita del teatro letterario romano al 240 a. C., anno in cui Livio Andronico
mise in scena la prima opera drammatica che riportava in latino un originale greco, le origini del teatro a
Roma risalgono assai più indietro, e riportano ad una fase a noi nota solo molto frammentariamente in cui
la cultura romana subisce influenze di varia provenienza. Possiamo solo intravvedere alcuni momenti
importanti.
Una importante testimonianza dello storico Tito Livio ci documenta il primo ingresso di elementi di
spettacolo “teatrale” in senso lato nei Ludi Magni dell’anno 364 a. C. videro il primo ingresso della
componente scenica, in occasione dei riti per fermare una terribile pestilenza che aveva colpito la città.
Livio VII 2: La pestilenza durò anche nell’anno seguente, sotto il consolato di G. Sulpicio Petico e G. Licinio Stolone (=
364 a. C.). Perciò non avvenne alcun fatto degno di menzione, se non che per implorare la pace degli dèi per la terza
volta dopo la fondazione della città si tenne un lettisternio. E poiché la violenza della malattia non diminuiva né per i
rimedi umani né per l’aiuto divino, essendo gli animi in balia di ogni superstizione, fra gli altri mezzi tentati per placare
l’ira divina si dice che siano stati istituiti anche gli spettacoli teatrali (ludi scenici), cosa nuova per quel popolo guerriero
(fino ad allora infatti vi erano stati soltanto gli spettacoli del circo). Questi però furono modesti allora, come
generalmente accade per tutti gli inizi, ed inoltre importati dall’estero. Senza alcun testo poetico, senza gesti che
mimassero il testo, danzatori fatti venire dall’Etruria danzavano al suono di un flauto con movimenti armoniosi, secondo
l’uso degli Etruschi. Cominciò poi ad imitarli la gioventù romana, lanciando reciproci frizzi in rozzi versi, con movimenti
intonati alle parole. La cosa entrò quindi nell’uso, e attraverso la pratica frequente progredì. Agli attori indigeni, poiché
con parola etrusca l’attore (ludioin latino) era chiamato ister, fu dato il nome di istrioni; questi non si limitavano come
prima a scambiarsi versi alterni simili ai Fescennini, improvvisati senz’arte e rozzi, ma rappresentavano delle satire ricche
di vari metri, con un canto fissato in precedenza e accompagnato dal flauto, e con movimenti appropriati al canto
La testimonianza di Livio ci fa conoscere alcuni dati importanti. Il primo è l’origine etrusca di queste
primissime forme di ludi scenici. Non possiamo dire che gli Etruschi avessero già forme di teatro, ma certo
la loro cultura raffinata influenzò fortemente quella dei Romani. Dall’Etruria viene anche la parola ister, che
da allora in poi identificherà glia ttori. Inoltre Livio ci attesta l’interazione dell’impulso etrusco con forme
popolaresche di versificazione in contesto scommatico, quali dovevano essere i versus Fescennini. Il nome
deriva secondo alcuni dalla città di Fescennium, sul confine fra Lazio ed Etruria, secondo altri va invece
ricondotto al termine fascinum “malocchio”, con riferimento al valore apotropaico dei versi. Importante è
anche il passaggio che riguarda il coinvolgimento dei giovani romani, che si impadroniscono di questa
pratica e la sviluppano.
Le origini del teatro romano
Quando, ontre un secolo più tardi, Andronico introdusse il teatro greco di carattere serio, i giovani romani
abbandonarono la pratica diretta di recitare i drammi, lasciando il posto ad attori di professione, di regola
non cittadini romani. I giovani romani tennero per sé solo una forma marginale di rappresentazione.
Leggiamo ancora Tito Livio:
Dopoché con questa forma di teatro (il teatro alla greca, n.d.r.) la rappresentazione si scostò dalla comicità e dallo scherzo
sfrenato, e lo spettacolo si trasformò in vera e propria arte, allora i giovani romani, lasciata la recita dei dramnmi agli attori di
professione, presero secondo l’uso antico a lasnciarsi scambievolmente comici lazzi in versi; di qui nacquero le farse finali, che
furono assimilate poi generalmente alle Atellane: i giovani romani mantennero per sé questo genere di spettacoli importato
dagli Oschi, e non permisero che venisse contaminato daglia ttori di professione; perciò è rimasta la norma che gli attori delle
Atellane non siano rimossi dalle tribù e prestino servizio militare, in quanto non sono attori professionisti.
Questo secondo passo da una parte ci documenta molto bene l’atteggiamento diffidente della società
romana nei confronti del teatro di derivazione greca, dall’altro chiama in causa una seconda componente
importante dell’esperienza teatrale romana delle origini: quella di una forma popolare di farsa chiamata
Atellana dal nome della città di Atella, che si trova poco a sud di Roma in direzione della Campania, in una
regione abitata dalla popolazione italica degli Oschi. Questa forma di teatro popolare era caratterizzata da
semplici situazioni farsesche di cui erano protagonisti alcuni personaggi tipici come Bucco, il “Mangione”,
Dossennus, il gobbo astuto, Maccus, il personaggio un po’ stupido. È probabile che il tipo di comicità che
caratterizza le Atellane abbia poi influito anche sul teatro di derivazione greca: ad esempio molti studiosi
ritengono che la comicità di Plauto risenta fortemente, nelle sue componenti più “basse” dellos tile
dell’Atellana.
Infine, la terza componente fondamentale nell’origine del teatro romano è rappresentata dall’incontro con
le grandi esperienze teatrali delle colonie greche dell’Italia Meridionale, man mano che Roma si andava
espandendo verso Sud. Sappiamo per certo che in quelle città c’era una fervida vita teatrale, e conosciamo
le rovine di molti teatri del IV e III secolo a. C. (Taranto addirittura ne aveva due, non ritrovati). Purtroppo,
non sappiamo con certezza che tipo di spettacoli e con quali modalità venissero portati in scena dalle
compagnie itineranti degli artisti di Dioniso. È molto probabile copmunque che fossero portate in scena
commedie e tragedie del grande repertorio ateniese del V e IV secolo a. C., come ci testimoniano
importanti raffigurazioni vascolari provenienti dalla Magna Grecia. I Romani incontrarono dunque il grande
teatro greco e subirono progressivamente l’influsso di greci di buona cultura provenienti dalle colonie.
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Presentazione n. 1. Fonti, generi, origini.