Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Direttore: Francesco Gui (dir. resp.). Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy. Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Enrico Mariutti, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo. Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma. Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma tel. 0649913407 – e - mail: [email protected] Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice ISSN 1973-9443 Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Indice della rivista luglio - settembre 2015, n. 36 MONOGRAFIE “A State that might control the whole world”. La Gran Bretagna tra impero e federazione sovranazionale di Benedetta Giuliani p. 3 La Santa Sede e la questione armena nei documenti vaticani (1915 -1921) di Antonella Ricci p. 40 Nuovamente, grazie a Assange, sui “padri dell’Europa” Integrazioni agli atti del convegno di Padova, nel centenario della nascita di Luigi Gui di F. G. p. 105 2 Eurostudium3w luglio-settembre 2015 “A State that might control the whole world”. La Gran Bretagna tra impero e federazione sovranazionale di Benedetta Giuliani Nell'epoca caratterizzata dalla crisi della sovranità propria dello Stato-nazione, l'impero è tornato a rappresentare una categoria storiografica estremamente versatile e utile per interpretare ed eventuale affrontare i mutamenti politici contemporanei. Nel concetto di impero è contenuta infatti una vocazione, per così dire, alla sovranazionalità e alla pacificazione che appare oggi indispensabile per fronteggiare i limiti e l’intima pericolosità del modello degli stati nazione indipendenti e sovrani. Lo studio dell’impero e delle sue forme è dunque di nuovo oggetto di rinnovato e diffuso interesse da parte in primo luogo della storiografia. La rinata popolarità dell'impero sembra non essere scalfita neppure dal suo essere un concetto fluido e labile, caratterizzato insomma da una pluralità di significati che rende pretestuoso, se non superfluo, il voler cercare a tutti i costi una definizione onnicomprensiva che codifichi univocamente la formaimpero.1 Nel ravvivato clima di interesse, a ricevere la maggiore attenzione è stato in ogni caso l’impero più esteso e universalizzante dell’età fra moderna e contemporanea, ovvero il British Empire. La storiografia britannica offre difatti un esempio illuminante del più generale fenomeno di riscoperta del concetto di impero. Nel 1973 J. G. A. Pocock introdusse l'idea di una New British History affermando l'impossibilità di concepire la storia britannica e la storia imperiale come due dimensioni interconnesse ma separate e, di conseguenza, la necessità di uno sguardo storico che considerasse la storia britannica come una storia imperiale nel suo R. Romanelli, Impero, imperi. Una conversazione, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2009, p. 8. 1 3 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 complesso, in grado di mettere in evidenza le relazioni sistemiche esistenti all'interno del cosiddetto Arcipelago Atlantico (termine usato da Pocock come variante più attendibile dell'espressione British Isles), nonché le ripercussioni che tali relazioni avevano esercitato sui possedimenti britannici negli oceani2. Da allora si sono susseguiti numerosi studi volti ad analizzare le diverse modalità con cui l'impero britannico è stato concettualizzato e giustificato. Gli “studi imperiali” britannici (imperial studies), nel tentativo di definire la natura dell'impero, sono chiamati a confrontarsi con il carattere peculiare di irripetibilità storica che spesso è stato attribuito all'impero britannico, considerato da molti un unicum rispetto a tutte le altre forme di organizzazione dell'autorità denominate “imperi” esistite in altre regioni del mondo. Come ha sintetizzato con efficacia Teodoro Tagliaferri, l'impero britannico è una creatura politica eccezionale, poiché irriproducibile ed essenzialmente ibrida, la cui natura peculiare si deve “ancora più che al suo carattere talassocratico, al mosaico iridescente di popoli, culture, società su cui, attraversando gli oceani, si esercita l'autorità del centro dell'impero”3 ma soprattutto a quella che Tagliaferri definisce “l'ambizione cosmo plastica” dell'impero britannico, ovvero la volontà di farsi artefice di un ordine globale pacificato4. Nella visione di molti politici e intellettuali britannici che contribuirono a crearlo e a perpetuarlo, l'impero venne talvolta caricato di una natura addirittura teleologica. Seguendo una tradizione storica derivata dal pensiero latino secondo cui l'imperium non indicava solo una delle possibili forme istituzionali tra tante possibili, bensì rappresentava lo spazio territoriale e simbolico al cui interno si realizzava la specifica identità culturale incarnata nella civitas, diversi politici e intellettuali attribuirono all'impero britannico una missione civilizzatrice. Al pari della civitas degli antichi, concepita come un bene morale la cui diffusione seguiva l'incessante allargamento delle frontiere imperiali, il British Empire (nella sua forma di Stato globale munito di una sovranità non territoriale) fu descritto – annota il Padgen - come modello culturale e istituzionale esportabile al resto dell'umanità5. Il tema dell'unicità dell'impero britannico si lega così a un altro motivo, il quale raffigura la Gran Bretagna come promotrice di una nuova fase storica, in D. Armitage, Greater Britain: A Useful Category of Historical Analysis?, in «The American Historical Review», vol. 104, n. 2, 1999, p. 431. 3 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order. Forme del progetto imperiale britannico, in R. Romanelli (a cura di), Impero, imperi. Una conversazione, L'Ancora del Mediterraneo, NapoliRoma, 2009, p. 195. 4 Ivi, p. 187. 5 A. Pagden, I signori del mondo. Ideologie dell'impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, 1500-1800, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 47 e ss. 2 4 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 cui i conflitti tra Stati risulteranno estinti una volta che sia stata portata a compimento l'unificazione dell'intero genere umano all'interno di un unico Stato globale. Nell'assumere l'impero quale strumento privilegiato di un progetto di pacificazione mondiale, possiamo rintracciare i segni sia di una forte consapevolezza della propria forza politica, sia di un senso di predestinazione religiosa che già aveva contribuito a ispirare certe forme di patriottismo proprie dell'età moderna secondo cui la Gran Bretagna era la nazione prediletta da Dio6. Sempre a giudizio di Tagliaferri: Il discorso sull'impero si rivela così, nel suo significato profondo, discorso sull'identità nazionale britannica, di cui esso intende fornire un'interpretazione che ne fa coincidere l'elemento specificamente imperiale con la vocazione a cooperare con Dio (ovvero con la Provvidenza secolarizzata delle filosofie della storia) all'avvento della pace universale, legittimando in chiave cosmopolitica (anziché nazionalistica) le politiche di empire building e infondendo nella partecipazione personale a esse il senso di un'esperienza religiosa capace di integrare (o surrogare) quella cristiana. 7 In realtà, al di là di singole specifiche interpretazioni, l'ideologia imperiale britannica appare nel complesso caratterizzata da un certo bi-frontismo. Da una parte, l'impero fu per molti suoi sostenitori, sia “moderni” che ottocenteschi, un’istituzione che avrebbe operato non solo in nome dell'arricchimento materiale dei britannici, ma soprattutto per un processo di civilizzazione universale, a conclusione del quale l'umanità sarebbe stata pacificata in una “comunità morale unica al mondo”.8 Dall’altra, tale ideologia si identificò con una concezione bellicosa e militaristica del fine dell'impero, ben esemplificata dalla retorica di Benjamin Disraeli, la quale raggiunse la massima popolarità sul finire del XIX secolo, quando ormai era stata assimilata una variante esclusiva e aggressiva dell'idea di nazione. La Gran Bretagna, affermò Disraeli, era chiamata a scegliere tra “principi nazionali o principi cosmopoliti” 9. Intento di questo contributo è di ripercorrere soprattutto l’evoluzione della prima delle due visioni, ovvero di osservare il modo in cui tra XVIII e XX secolo la forma imperiale britannica fu indicata, anche da alcuni intellettuali non inglesi, come il prototipo cui ispirarsi per una ridefinizione delle relazioni internazionali mondiali improntata ad una maggiore integrazione tra gli Stati. Si ripercorreranno perciò, alla luce dei recenti apporti della storiografia R. McWilliam, Popular Politics in Nineteenth-Century England, Routledge, Londra-New York, 1998, p. 87. 7 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order, cit., p. 191. 8 G. Aldobrandini, The Wishful Thinking. Storia del Pacifismo inglese nell'Ottocento, Luiss University Press, Roma, 2009, p. 262. 9 B. Disraeli, discorso tenuto al Crystal Palace nel 1872, in T.E. Kebbel (a cura di), Selected Speeches of the Earl of Beaconsfield, vol. II, Longmans, Londra, 1882, pp. 529-534. 6 5 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 anglosassone, gli orientamenti culturali più rappresentativi che identificarono, prima nell'impero coloniale e poi nel British Commonwealth of Nations, due eccezionali modelli di organismi transcontinentali la cui essenza e i cui principi avrebbero potuto essere traslati al mondo intero. L'esposizione seguirà pertanto il seguente schema cronologico: la prima parte sarà dedicata sia alle concezioni universalistiche britanniche, sia ai progetti per la creazione di un'istituzione sovranazionale che alcuni autori del XVIII secolo immaginarono traendo spunto dalla peculiare organizzazione dell'impero britannico e dallo spirito mercantile ad esso sotteso. La seconda parte si concentrerà sul concetto ottocentesco di Greater Britain e sulla correlazione tra quest'ultimo e la corrente federalista inglese, prestando particolare attenzione al progetto federale di John Seeley, non trascurando le ulteriori evoluzioni novecentesche. Nelle conclusioni si accennerà infine alla questione dell'eredità imperiale negli anni della cooperazione europea post-bellica, nonché alla dialettica che si costruì tra Commonwealth e integrazione europea. Il libero commercio, l'Impero e la Federazione (XVIII-XIX secolo) Nella prima età moderna, come suggerisce Pagden, le conquiste coloniali delle principali potenze europee erano state celebrate come una missione escatologica volta a ingentilire l'arretrato mondo dei popoli extraeuropei. Al tempo stesso, è fin troppo noto che, almeno in certe circostanze, i modi, gli strumenti e i protagonisti stessi delle conquiste imperiali avrebbero alimentato la leyenda negra dei massacri e della cancellazione delle civiltà precedenti. Anche per queste ragioni, a partire dal XVIII secolo, l'esaltazione dello spirito di conquista e dell'impero come strumento di una politica di civilizzazione militante inizia a tramontare culturalmente, sepolta sotto l'idea della superiorità del commercio sulla conquista militare. L'impero cessa di essere esaltato in quanto gigantesco apparato di potere e inizia ad essere valutato secondo la dinamica del mercato: non più fonte di onore guerriero e gloria ecclesiastica, bensì di ricchezza commerciale10. Con lo sviluppo dei traffici transoceanici e la crescente accumulazione dei capitali (due processi economici che produssero conseguenze sociali, tra cui il disfacimento della società degli ordini fondata sulla sequenza gerarchica di oratores, bellatores, laboratores) emersero i limiti di un imperialismo inteso come “inclinazione arazionale e irrazionale, puramente istintiva, alla guerra e alla 10 A. Pagden, I signori del mondo, cit., p. 211. 6 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 conquista”11. La filosofia illuministica, così critica verso il concetto di tradizione e ispirata alla nuova realtà politico-economica, denunciò l'anacronismo di un impero basato sull'espansione e la conquista e identificò nel commercio la forza moderna che avrebbe spazzato via il vecchio imperialismo. L'ottimismo dell'epoca convinse molti pensatori che gli anni d'oro della guerra fossero giunti alla fine, superati ormai dal capitalismo e dall'agente attraverso cui esso si propagava: il commercio. Un economista olandese ebbe a dire che il commercio era diventato la mania del XVIII secolo e, di fatto, numerosi filosofi sembrarono concepire la società mercantile come una fase positiva dell'evoluzione storica, all'interno della quale i rapporti tra le comunità umane sarebbero stati regolati non dalla prevaricazione bensì dalla cooperazione e dal riconoscimento dei reciproci interessi12. Secondo quanto affermava Montesquieu: Il commercio guarisce dai pregiudizi ed è quasi una massima generale che ovunque vi sono costumi miti, c'è commercio; e che ovunque v'è commercio vi sono costumi miti […] L'effetto naturale del commercio è di portare alla pace. Due nazioni che commerciano insieme si rendono reciprocamente dipendenti: se una ha interesse di acquistare, l'altra ha interesse di vendere […] Lo spirito del commercio produce fra gli uomini un certo sentimento preciso della giustizia, opposto da un lato al brigantaggio, e dall'altro a quelle virtù morali che fanno sì che non sempre si discuta rigorosamente dei propri interessi, e che si possa trascurarli per quelli degli altri. 13 Nelle parole del pensatore francese emerge una concezione teleologica del commercio quale forza pro-attiva capace di riplasmare i rapporti tra nazioni, avvicinandole tra di loro fino all'istituzione di una società globale ordinata, in cui l'utile che viene perseguito è esclusivamente il benessere di tutti i suoi membri, the greatest happiness of the greatest number di benthaniana definizione. In un periodo storico connotato dalla transizione da un sistema di valori (la conquista militare-territoriale) ad un altro (lo scambio commerciale) fu naturale guardarsi intorno nel tentativo di individuare un esempio paradigmatico del nuovo spirito mercantile. Tale esempio fu trovato nell'Inghilterra, la quale, pur con evidenti diversità a seconda dei luoghi, affiancava all’insediamento territoriale tradizionale l’incoraggiamento all’iniziativa privata da parte dei coloni e all’insediamento commerciale (si pensi alla Compagnia delle Indie), sia pure sotto la tutela in ultima istanza della corona. Londra seppe approfittare dell'espansione del commercio internazionale e del conseguente sviluppo del J. Schumpeter, citato in A. Pagden, Impulso selvaggio, calcolo civile. La conquista, il commercio e la critica illuministica dell'impero, in R. Ben-Ghiat (a cura di), Gli imperi. Dall'antichità all'età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 191. 12 Ivi, p. 197. 13 C.L. de Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, Rizzoli Editore, Milano, 1967, p. 408 (libro XX). 11 7 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 capitalismo finanziario, riuscendo a ottenere velocemente il ruolo di prima potenza economica in Europa, primato simbolicamente coronato dal trattato di Parigi del 1763, che sancì il possesso inglese dell'Indostan, rotta commerciale di primaria importanza per il futuro economico dell'Inghilterra14. L'impero britannico divenne, agli occhi del resto d'Europa, esempio di un'organizzazione istituzionale che perseguiva virtuosi obiettivi commerciali, la cui espansione veniva descritta (spesso addolcendo o sorvolando sui tratti più bellicosi dell'imperialismo britannico) piuttosto come il risultato di un'iniziativa imprenditoriale a forte carattere privato che non dell'estensione del dominium di un popolo su altri. Peraltro, il proiettare sull'impero britannico una serie di valori positivi e il fare di esse un caso particolare nella lunga storia degli imperi, quasi che fosse impossibile trovare un precedente cui paragonarlo15, può essere spiegato alla luce, certamente, di un dato di fatto, ma anche di un preciso costrutto ideologico, su cui si tornerà fra breve. Ebbene, il dato di fatto riguardava il tipo di relazione che la madrepatria aveva istituito con le colonie, da sempre considerate alla stregua di comunità politiche semi-indipendenti unite dal vincolo di fedeltà alla Corona. Una concezione così fluida dei rapporti tra centro e periferia dell'impero non deve sorprendere se consideriamo, in primo luogo, che la madrepatria non aveva mai esercitato un controllo pressante sull’assetto di governo delle colonie, permettendo così la nascita spontanea di forme istituzionali eterogenee che sembravano più funzionali ai soggetti coinvolti in primo piano nella colonizzazione oltreoceano16. Ciò aveva incoraggiato lo sviluppo di coscienza e identità politiche piuttosto forti per lo meno da parte delle colonie inglesi d'oltreoceano (il che non trovava un corrispettivo nei possedimenti coloniali francesi né tanto meno spagnoli). In secondo luogo, tra coloro che si trasferirono dall'altra sponda dell'Atlantico, molti vi approdarono con il desiderio di istituire comunità che riproducessero il sistema di common law e rispettassero l'insieme delle libertà civili che i coloni avevano assimilato in patria 17, facendo sì che un forte senso di identificazione con l'Inghilterra e la sua tradizione giuridico-filosofica perdurasse fino alla guerra di indipendenza americana. Una tale concomitanza di autonomia e dipendenza fu funzionale nel H. Sée, Origini ed evoluzione del capitalismo moderno, Corticelli, Milano, 1933. Bisogna sottolineare che cantori dell'eccezionalità dell'impero britannico non furono solo gli inglesi ma anche intellettuali di altre nazionalità. Diversi francesi esaltarono la “repubblica mercantile” inglese, tra cui Quesnay, Montesquieu e il marchese di Mirabeau, cfr. A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 216. 16 J.H. Elliot, Empire of the Atlantic World. Britain and Spain in America, 1492-1830, Yale University Press, New Haven-Londra, 2006, p. 134. 17 J. Greene, Exclusionary Empire. English Liberty Overseas, 1600-1900, Cambridge University Press, New York, 2010, p. 5. 14 15 8 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 costruire, soprattutto prima dell’epoca di creazione ottocentesca delle colonie africane e indiane, l'immagine di un impero sui generis. Alcuni sostenevano che sarebbe stato corretto definire il vincolo istituzionale che univa l'Inghilterra ai suoi possedimenti come confederale, anziché imperiale, e vi fu chi descrisse esplicitamente l'impero britannico come una “confederazione di stati indipendenti l'uno dall'altro ma uniti sotto la stessa corona”18. Venendo ora a quello che abbiamo definito un costrutto ideologico, alla luce del quale si volle motivare ulteriormente l'eccezionalità dell'impero britannico, tale costrutto fu elaborato a partire dalla distinzione, già abbozzata dalla storiografia greca, tra impero terrestre e impero marittimo. Come ha notato David Armitage19, la convinzione che l'impero derivasse il suo carattere di potenza globale grazie all'egemonia che la marina inglese esercitava sugli oceani ha costituito un elemento primario nella formazione dell'identità culturale britannica (“a history so exceptional was inassimilable to other European norms”20), rafforzando il mito di un impero atipico, il quale, proprio in virtù del suo dominium transoceanico e della sua vocazione mercantile, si riteneva fosse il più adatto a sfuggire al processo di degenerazione dispotica che aveva colpito altri illustri “colleghi” (l'impero romano e la monarchia cattolica di Spagna su tutti). L'opposizione tra imperi marittimi e imperi terrestri non era in ogni caso un'oziosa distinzione retorica. Seguendo un suggestivo confronto proposto dallo stesso Armitage21, la contrapposizione tra egemonia terrestre e marittima ben si incarnava nelle figure mostruose di Beemoth e Leviathan, le bestie gigantesche che, secondo il Libro di Giobbe, dominano rispettivamente sulla terra e sul mare. Questo dualismo tra terra e mare di derivazione biblica si rifletteva nella tesi, diffusa fin dalla tarda età moderna, secondo cui imperi terrestri e marittimi fossero due entità strutturalmente differenti, la cui articolazione istituzionale dava origine non solo a un ethos specifico (dispotico e centripeto in un caso, democratico e plastico nell'altro) ma anche a un'evoluzione storica diversa per entrambi. Proprio come dimostravano i diversi esiti cui erano andati incontro l'impero romano e quello ateniese. Il primo aveva dato origine a un governo che si sorreggeva su una sovranità territoriale rigida che aggregava a Roma il resto dei domini e che, alla fine, era naufragata prima nella tirannia e poi nell'anarchia; il secondo, A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 217. D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, Cambridge University Press, Cambridge, 2000. 20 Ivi, p. 101. 21 D. Armitage, L'elefante e la balena: imperi terrestri e imperi marittimi, in R. Ben-Ghiat (a cura di), Gli imperi. Dall'antichità all'età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 57. 18 19 9 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 istituendo una sorta di vincolo proto-federale tra i membri della Lega Achea, aveva permesso alle proprie colonie di sviluppare una politica autonoma, godendo dei vantaggi economico-politici provenienti da una simile formula22. Il successore ideale della talassocrazia ateniese fu rintracciato nell'impero britannico. A margine, è interessante notare come l'esperienza storica dell'impero ateniese venisse attualizzata più volte nella filosofia politica anglosassone, al punto tale da essere considerata dagli autori del The Federalist una importante lezione impartita a coloro che avessero desiderato creare un governo federale23. Tenendo ben presente l'immagine dell'impero come una confederazione, in grado di esercitare una sovranità globale amalgamando gli interessi di regioni disparate del mondo, possiamo ora passare ad analizzare gli eterocliti progetti per l'instaurazione di una federazione internazionale elaborati tra XVIII e XIX secolo. Si è già detto di come, nel corso del Settecento, la cultura politica del commercio avesse soppiantato l'ideologia belligerante della conquista territoriale. In conseguenza di questo importante mutamento di paradigma, alcuni intellettuali iniziarono a riflettere sullo stato delle relazioni internazionali e a meditarne una nuova configurazione, in cui fosse l'interesse collettivo dell'umanità, anziché il calcolo politico dei singoli Stati, a disciplinarne il funzionamento. È dunque in questo periodo che fa la sua comparsa la teoria federale delle relazioni internazionali la quale vedrà già allora nel continente europeo un soggetto politico collettivo, nonché luogo privilegiato dal quale procedere per il superamento della sovranità nazionale-territoriale. Un processo storico, quest'ultimo, che una corposa trattatistica otto-novecentesca immaginerà essere destinato ad allargarsi fino a comprendere il mondo intero. Se alcuni appelli in favore di una federazione europea – per non dire dalle proposte ancor precedenti di William Penn - prendono le mosse dalle convinzioni repubblicane degli autori, come l'Account of a Conversation Concerning the Right Regulations of A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 212. Nel saggio n. 18 si legge infatti: “Among the confederacies of antiquity, the most considerable was that of the Grecian republics, associated under the Amphictyonic council. From the best accounts transmitted of this celebrated institution, it bore a very instructive analogy to the present Confederation of the American States. The members retained the character of independent and sovereign states, and had equal votes in the federal council. This council had a general authority to propose and resolve whatever it judged necessary for the common welfare of Greece; to declare and carry on war; to decide, in all controversies between the members […]. Cfr. The Federalist Papers, a cura di G. W. Carey, J. McClellan, Indianapolis, Liberty Fund, 2001, pp. 84-89. 22 23 10 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 the Government for the Common Good of Mankind24 (1703) dello scozzese Andrew Fletcher, pur severo critico dell'imperialismo economico messo in atto dall'Inghilterra, altre dissertazioni trovarono nella forma imperiale britannica un imprescindibile punto di riferimento. Certamente il marchese di Mirabeau, nel suo l'Ami des hommes del 1759, definì la politica imperiale adottata dagli inglesi nei confronti delle colonie nordamericane come una delle più brillanti mai attuate da una nazione europea, giacché essi avevano costruito le loro colonie sul rispetto dei principi repubblicani e del governo rappresentativo parlamentare. Pertanto è possibile che Mirabeau avesse in mente proprio l'impero mercantile inglese nel momento in cui immaginava un governo sovranazionale (da lui definito “confraternita universale del commercio”) composto da nazioni pacificate tra di loro e unite dalla nuova coscienza umanitaria promossa dal commercio 25. Nel periodo in cui l'Europa era ancora un continente di potenze imperiali e non di Stati nazionali, molti osservatori si convinsero che, per sopravvivere, i mastodontici imperi coloniali avrebbero dovuto affrontare una necessaria metamorfosi federale, dotandosi di una assemblea sovrastatale i cui membri, pur mantenendo potere discrezionale in alcuni ambiti, nonché una formale indipendenza, avrebbero deferito a un consiglio federale la gestione di settori strategici (tra cui politica estera e fiscale). Dunque già nel XVIII secolo iniziava la riflessione sulle inefficienze insite in un sistema di Stati muniti di una sovranità assoluta e indiscussa. Come scrisse James Wilson, facendo sì riferimento al caso della Confederazione americana ma con un monito che sembra adeguarsi anche al contesto europeo: Separate states […] contiguous in situation, unconnected and disunited in government, would, at one time, be the prey of foreign force, foreign influence, and foreign intrigue; at another, the victims of mutual rage, rancour and revenge [corsivo aggiunto]. 26 L'approdo a un sistema internazionale di tipo federale avrebbe coinvolto le potenze europee ad un duplice livello. Il primo livello riguardava i rapporti L'elaborazione della proposta federale di Fletcher va collocata nel contesto del dibattito politico che, nei primi anni del Settecento, vede scontrarsi i sostenitori dell'unione delle corone di Scozia e Inghilterra con i fautori dell'autonomia scozzese, tra cui Fletcher stesso. Nell'Account of a Conversation, Fletcher muove dall'analisi del sistema europeo di grandi potenze, all'interno del quale l'esistenza delle entità politiche più piccole era costantemente messa a repentaglio, per suggerire la creazione di una confederazione di città-stato di uguali dimensioni sulla falsariga della Lega Achea. Cfr. I. Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Harvard University Press, Cambridge, 2005, pp. 64-65. 25 A. Pagden, Signori del mondo, cit., pp. 294-296. 26 J. Wilson, Lectures on Law, VIII. Of Man as a Member of Confederacy, in Commentaries on the Constitution of the United States of America, J. Debrett, Piccadilly, 1792, p. 33. 24 11 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 reciproci che gli Stati europei intrattenevano tra di loro. L'Europa avrebbe presto consumato se stessa se avesse proseguito nel mantenere divisioni che correvano lungo frontiere nazionali che erano considerate sì sacre ma anche, qualora si fosse presentata l'occasione, estendibili a danno degli Stati minori. L'instaurazione di un vincolo federale tra gli Stati europei avrebbe creato un sistema in cui, come argomentò Kant, che pur metteva in guardia, con il suo cosmopolitismo, contro i pericoli del colonialismo inglese: ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare di ottenere la propria sicurezza e tutela dei propri diritti non dalla propria forza […] ma solo da questa grande federazione di popoli […] da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune. 27 Il filosofo presbiteriano Richard Price (l'uomo che con la sua difesa degli eventi rivoluzionari francese e americano avrebbe irritato a tal punto Edmund Burke da indurlo a comporre le “reazionarie” Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia) giunse precocemente a una conclusione simile a quella kantiana quando suggerì che, per sradicare la guerra dal continente europeo, sarebbe stata necessaria la creazione di una struttura federale sovranazionale. Price osservava che la tensione conflittuale caratterizzante le relazioni tra potenze europee aveva una causa morale e una istituzionale. La causa morale derivava da una distorta idea di patriottismo, la quale si traduceva non in un genuino principio di cittadinanza che lega l'uomo alla propria terra, bensì in uno sfrenato senso di competizione nazionale (spirit of rivalship): It is proper that I should desire […] to distinguish between the love of our country and that spirit of rivalship and ambition which has been common among nations. What has the love of their country hitherto been among mankind? What has it been but a love of domination; a desire of conquest, and a thirst for grandeur and glory, by extending territory, and enslaving surrounding countries? 28 Del resto, nella riflessione morale dedicata alla “natura, i limiti e i principi” della libertà civile, le Observations on the Nature of Civil Liberty (1776), Price aveva già esposto la propria soluzione federale ai mali dell'Europa, caratterizzata da un forte accento democratico derivato dalla convinzione secondo cui tutti i governi sono “creature del popolo […] che hanno in mente nient'altro che la loro felicità”29. Price notava come la libertà civile potesse essere goduta pienamente solo in società di piccole dimensioni, alla stregua di cittàstato in cui ognuno interviene in prima persona nella vita politica. Quando uno I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in G. Solari (a cura di) Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1956, p. 131. 28 R. Price, A Discourse on the Love of Our Country, T. Caddel, Londra, 1789, p. 7. 29 R. Price, Observations on the Nature of Civil Liberty, the Principles of Government, and the Justice and Policy of the War with America, T. Caddel, Londra, 1776, p. 11. 27 12 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Stato si arricchisce di territori ampliando i propri confini, ne consegue una ridefinizione del principio di rappresentanza politica, che da diretta diventa indiretta (in virtù della quale i cittadini scelgono i propri “sostituti o rappresentanti”). Eppure, anche all'interno di entità statali di grandi dimensioni, potevano essere individuati meccanismi legislativi di perfezionamento della libertà civile che, secondo Price, erano ben applicabili alla situazione europea. Price rivela una lungimiranza di pensiero (smentendo in parte una certa critica novecentesca30 che volle vedere nelle utopie pacifiste dell'Illuminismo nient'altro che una forma di dominio dell'uomo sull'uomo velata di umanismo) nell'affermare che la divisione dell'Europa non poteva essere risolta decretando unilateralmente la supremazia di uno Stato su tutti gli altri, poiché l'imposizione dell'autorità arbitraria dell'uno sui molti non avrebbe realizzato la libertà civile ma la schiavitù (“a remedy worse than disease”) 31. Per estirpare il male della guerra, Price suggeriva di istituire un organismo rappresentativo europeo, costituito da un Senato in cui sarebbero stati accolti tutti i delegati degli Stati europei. L'instaurazione di questo sistema parlamentare avrebbe permesso di allocare equamente la sovranità su un duplice livello, quello statale e quello federale: Let every state, with respect to all its internal concerns, be continued independent of all the rest; and let a general confederacy be formed by the appointment of a Senate consisting of Representatives from all the different states. Let this Senate possess the power of managing all the common concerns of the united states, and of judging and deciding between them, as a common Arbiter or Umpire, in all disputes; having, at the same time, under its direction, the common force of the states to support its decision – in these circumstances, each separate states would be secure against the interference of foreign powers in its private concerns, and, therefore would possess Liberty […] all litigations settled as they rose; universal peace preserved; and nation prevented from anymore lifting up a sword against nation. 32 Il caso di Price (ma se ne potrebbero citare diversi, dal ricordato William Penn al contemporaneo Thomas Paine) contribuisce a dimostrare come, mentre le cancellerie europee proseguivano nel concepire le relazioni con i propri vicini in termini di espansione territoriale e confronto armato, nella filosofia politica anglosassone fosse già in atto la tendenza a immaginare una progressiva europeizzazione dei rapporti inter-statali. Il secondo livello a cui avrebbe dovuto estendersi tale pactum unionis federale riguardava naturalmente i legami di dipendenza tra madrepatria e colonie d'oltreoceano. La frattura rappresentata dalla guerra dei Sette Anni tra Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino, 1974. Ibidem. 32 Ivi, p. 12. 30 31 13 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Gran Bretagna e Francia (1756-63) aveva contribuito a svelare le inefficienze strutturali degli imperi europei, ivi compreso quello britannico, il quale si trovava costretto a fronteggiare difficoltà di ordine militare e finanziario non indifferenti pur di mantenere saldi i propri domini. Uno dei problemi più pressanti che la corona doveva risolvere, e che la contesa contro la Francia mise in mostra, concerneva i costi e le dinamiche atte a sostenere la difesa dell'impero, il cui finanziamento gravava quasi interamente sulle spalle della madrepatria. L'urgenza di rivedere la pianificazione della difesa imperiale era tale che, ben due anni prima dell'inizio del conflitto contro i francesi, il re si preoccupò di incaricare il Board of Trade di elaborare una politica di difesa incentrata sulla stretta cooperazione con e tra le colonie, in modo da assegnare a queste ultime maggiori responsabilità nella tutela della sicurezza imperiale 33. Cercare di incrementare il ruolo delle colonie nella gestione della forza militare era un terreno sul quale l'Inghilterra avrebbe dovuto procedere cautamente. Si trattava infatti di intervenire su comunità politiche già autosufficienti e con una forte coscienza della propria identità. Esortarle ad avvicinarsi l'una all'altra, nell'adozione di una comune politica difensiva, poteva rivelarsi fatale per Londra. Non a caso, il destino delle colonie nordamericane sarebbe stato deciso poco dopo la conclusione della guerra dei Sette Anni, ma vi fu anche taluno, come l'economista francese Turgot, il quale seppe intuire con un certo anticipo che l'evoluzione storica del Nord America iniziava a differenziarsi sensibilmente da quello del vecchio continente e che a Occidente si apprestava a sorgere un soggetto politico del tutto nuovo34. C’era da temere insomma che le propaggini atlantiche, comprese le francesi e le spagnole, finissero prima o poi per scindersi dal centro dell'impero. Pertanto l'adozione di una struttura federal-imperiale si profilava come la soluzione attraverso cui le potenze europee avrebbero potuto mantenere i propri domini. Turgot propose di rinnovare il vincolo giuridico tra madrepatria e colonie istituendo una sorta di confederazione, o partenariato commerciale, “tenuto insieme da un accordo politico a maglie larghe, non definito”35. Nel caso britannico i progetti per l'introduzione di una struttura federale in luogo del tradizionale sistema di dipendenza coloniale sopravviveranno oltre J.H. Elliot, Empire of the Atlantic World, cit., p. 297. Turgot ipotizzò che l'America avrebbe potuto essere destinata a un brillante avvenire a patto che non si riducesse ad essere “una copia dell'Europa: una massa di potenze divise, che si contendono territori e ricchezze e che incessantemente rafforzano la schiavitù dei popoli con il loro stesso sangue”, cfr. A. R. J. Turgot, lettera a Richard Price, 22 marzo 1778. 35 A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 313. 33 34 14 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 la fine del Settecento e costituiranno la base sopra la quale si consoliderà, negli anni '80 dell'Ottocento, la corrente del federalismo imperiale, che si farà interprete del piano di trasformazione del British Empire in un vero e proprio stato transnazionale. In verità, gli eterogenei appelli in favore di un patto federale, da costituirsi tra le potenze europee e tra queste ultime e i propri domini, rimasero sostanzialmente lettera morta e furono liquidati come astrazioni utopiche di pacifisti isolati. Ciò non impedì alla cultura politica britannica di continuare a produrre, all'inizio del XIX secolo, gruppi e associazioni convinti che bisognasse trasformare la forma mentis dei governi per giungere all'instaurazione di un assetto giuridico internazionale che assicurasse la pace. La prima metà del XIX secolo rappresentò una fase di transizione caratterizzata da fenomeni politici ed economici contrastanti, di difficile interpretazione per la società vittoriana. Tra gli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento i venti della rivoluzione che soffiavano sull'Europa continentale si spinsero fino alle coste delle isole britanniche, instillando nella popolazione e nelle élite di governo il terrore che lo spirito rivoluzionario potesse diffondersi anche presso di loro. Il timore di eventuali eccessi rivoluzionari (per altro infondato, visto che la Gran Bretagna fu l'unico Paese a uscire immune dal Quarantotto), nel contribuire a rendere incerto il clima politico, era tuttavia accompagnato da processi di segno opposto in ambito economico: mentre nel resto d'Europa si infiammavano le lotte per il principio di nazionalità, la Gran Bretagna attraversava un periodo di rapida industrializzazione. Un senso di generale ottimismo sopravvisse fino agli anni Ottanta, per poi venire soppiantato dal timore che il governo dei liberali fosse sul punto di liquidare l'impero e dall'assillo che nuovi protagonisti (Germania, Stati Uniti e Russia) potessero soppiantare la Gran Bretagna sul palcoscenico mondiale. Una costante del pensiero politico d'età vittoriana riguarda infatti la riflessione sul posto della Gran Bretagna nel mondo.36 Interrogandosi su quale fosse il ruolo del proprio Paese in un periodo storico in cui rapporti di forza e sistemi di produzione stavano rapidamente mutando, diversi esponenti del liberalismo inglese furono portati a immaginare un sistema internazionale alternativo, disciplinato da un inedito spirito di cooperazione tra Stati. Seguendo una concezione affine a quella degli economisti e filosofi del XVIII secolo che avevano visto nel commercio la forza plastica che avrebbe avvicinato tra di loro i popoli, l'internazionalismo liberale d'epoca vittoriana riponeva una fiducia analoga nel potere dei traffici globali. I principi di utilità e reciprocità D. Bell, Victorian Visions of Global Order: an Introduction, in D. Bell (a cura di), Victorian Visions of Global Order, Cambridge University Press, New York, 2007, p. 18. 36 15 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 sottesi alla logica commerciale avrebbero eliminato i conflitti e conferito una nuova moralità alle relazioni internazionali37. Gli anni d'oro dell'internazionalismo del libero commercio corrispondono approssimativamente al trentennio che va dal 1840 al 1860 e coincisero con il periodo di attività della ‘Lega per il libero commercio’. Il gruppo, nato in quella fucina di industria e imprenditoria che era la città di Manchester 38, diede voce alle aspirazioni del ceto medio imprenditoriale e trovò il proprio battesimo politico nella campagna contro il sistema tariffario sull'importazione dei grani dal continente (le cosiddette Corn Laws introdotte nel 1815). I capi del movimento, il quacchero John Bright e l'imprenditore Richard Cobden, erano convinti (soprattutto il secondo) che in un sistema di divisione del lavoro e di abolizione delle tariffe doganali il libero commercio avrebbe potuto dispiegare pienamente la sua capacità di aggregazione sociale anche a livello internazionale. La teoria del libero commercio, attraverso cui si esprimevano le esigenze di sviluppo dell'economia britannica, era considerata un meccanismo di scambio capace di conciliare gli interessi tanto dei privati cittadini quanto delle nazioni nel loro insieme, di fonderli in un superiore concetto di bene comune, mettendo a nudo la dannosità di una visione dei rapporti inter-statali fondata sulla conquista e l'appropriazione, anziché sulla cooperazione. Facendo eco alla affermazione di Benjamin Constant secondo cui la guerra appartiene a una fase precedente e, verrebbe da dire, primitiva dell'umanità, mentre il commercio occupa un gradino più elevato nell'evoluzione della socialità umana, Cobden elaborò una delle più coerenti teorie circa la corrispondenza tra la pace economica e il suo equivalente politico: I see in the Free Trade principle that which shall act on the moral world as the principle of gravitation in the universe – drawing men together, thrusting aside the antagonism of race and creed and language, and uniting us in the bonds of universal peace. 39 Già nel 1846 il governo presieduto da Robert Peel si decise per l'abrogazione delle Corn Laws, portando così a compimento un processo storico che fece della Gran Bretagna la prima grande potenza liberoscambista d'Europa. Uno storico inglese ha notato come l'abrogazione dei dazi sulle importazioni di derrate agricole suggestionò la società vittoriana, proiettandola in una dimensione di grande ottimismo verso gli esiti del libero commercio 40. Ivi, p. 9 e ss. G. Aldobrandini, The Wishful Thinking, cit., p. 92. 39 R. Cobden, Speeches on Questions of Public Policy, Fisher Unwin, Londra, 1870, vol. I, p. 187. 40 A. Howe, Free Trade and global order: the rise and fall of a Victorian vision, in D. Bell (a cura di), Victorian visions of Global Order, cit., p. 26. 37 38 16 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 L'apertura dei mercati, per un certo periodo, parve simboleggiare il cedimento delle frontiere tra Stati, confermando tra numerosi intellettuali dell'epoca l'idea che la società di mercato altro non era che ambasciatrice di una società internazionale unita e pacificata, laddove l'instaurazione di un mercato mondiale sarebbe stata il modo più efficace possibile per superare il modello del country-state e approdare a un'unione sovranazionale. L'abrogazione delle Corn Laws furono seguite, come è noto, da una serie di trattati commerciali stipulati dalla Gran Bretagna con partner europei, il primo e più importante dei quali fu l'intesa tariffaria anglo-francese del 1860. L'accordo, conosciuto come trattato Cobden-Chevalier, stabiliva l'abolizione da parte inglese di tutte le tariffe sull'importazione di merci francesi (escluso il vino) 41. La Francia, per parte sua, avrebbe abbandonato il divieto di importare prodotti tessili britannici e accettò di ridurre di circa il 15% le tariffe sulle merci britanniche. Successivamente, la rete di accordi di libero scambio tessuta dalla Gran Bretagna estese le sue maglie dallo Zollverein germanico fino all'Italia, senza dimenticare l’unione monetaria latina del 1865. L'entusiasmo verso una realtà internazionale fondata sulla ricchezza economica sembrò travalicare i confini britannici ed estendersi al resto d'Europa. La moltiplicazione degli accordi di libero scambio dopo il 1860 creò una situazione che non aveva precedenti nel vecchio continente: Approximately 60 treaties were negotiated, embracing most of Western Europe, and creating the nearest Europe got to a single market before the 1950s, possibly the 1990s […] negotiations were undertaken in the hope of extending the “ever-widening circle of commercial civilisation” and in a significant term, drawing the Empire into the “Commonwealth of Europe”. 42 In estrema sintesi, il binomio sacro di pace e libero commercio ispirò, tra XVIII e XIX secolo, composite prospettive di un ordine politico sovranazionale il quale, di volta in volta, poteva incarnarsi nella forma di una federazione mondiale (quale esito di una trasformazione strutturale degli Stati europei e dei loro possedimenti imperiali) o in quella di un Commonwealth europeo fondato su accordi di libero scambio. Tuttavia, sebbene questi progetti precorressero i tempi nell’immaginare un assetto politico ed economico comune a tutta l'Europa, è pur vero che essi non riuscirono ad elevarsi al rango di concrete iniziative politiche, restando nell'alveo delle coraggiose utopie. Sul finire Il trattato Cobden-Chevalier introdusse anche la norma della most favored nation, in base alla quale se una delle parti contraenti avesse stipulato un accordo con una terza potenza l'altra avrebbe beneficiato della tariffa più bassa accordata con il terzo contraente. Cfr. L. Hertslet, A Complete Collection of Treaties and Conventions, and Reciprocal Regulations at Present Subsisting Between Great Britain and Foreign Powers, H. M. Stationery Office, Londra, vol. 11, p. 165. 42 Ivi, p. 34. 41 17 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 dell'Ottocento, poi, la sensibilità politica mutò considerevolmente, influenzata com’era dall'avvento di un nuovo tipo di nazionalismo, il quale esaltava l'assoluta importanza della sovranità nazionale e rigettava qualsiasi progetto animato da internazionalismo o cosmopolitismo che potesse metterla in discussione. Anche la Gran Bretagna, come accennato, non fu immune dalla effervescenza nazionalistica di fine Ottocento, benché non cessassero le prese di posizione a favore di un nuovo ordine globale. Di fatto l'accento finì per spostarsi non tanto sulle potenzialità del libero commercio quanto su quelle della politica imperiale. L'idea della Greater Britain si apprestava in altre parole a soppiantare il Commonwealth internazionale del libero commercio. Con la Greater Britain, per poi tornare alla federazione sovranazionale Sebbene nel corso del XIX secolo la popolarità dell'istituzione imperiale avesse conosciuto una flessione, poiché non erano in pochi a ritenere le colonie come un'appendice utile solo a prosciugare risorse materiali ed economiche, tuttavia l'impero incarnava pur sempre un mito potente, tant’è che per buona parte dell'opinione pubblica lungo le sue frontiere correva la demarcazione tra civiltà e barbarie. L'imperialismo inglese ottocentesco, recuperando un motivo che abbiamo visto essere diffuso già nell'età moderna (quello dell'impero come lo spazio in cui si realizza una civitas che si vorrebbe universale), tese a giustificare sempre più spesso le proprie conquiste in nome dell'opera di civilizzazione globale che la Gran Bretagna era chiamata ad assolvere. Benché tale esaltazione dell'impero rientrasse in una strategia di legittimazione ideologica della continua espansione britannica43, essa traeva origine anche dalla convinzione che l'impero fosse una creatura eccezionale, fondato com'era sul rispetto delle libertà civili. Di sicuro, agli occhi dei più ferventi fautori dell'internazionalismo, solo uno Stato mondiale portatore di una sovranità per così dire disincarnata (in quanto esercitata su territori assai distanti tra loro), sarebbe riuscito a superare, come doveroso, la contraddittoria esistenza di Stati-nazione la cui sovranità era rigorosamente territoriale e centralizzata, e dunque anacronistica in un sistema economico internazionale che puntava a una maggiore integrazione tra le sue componenti. Con tutto ciò, nella Gran Bretagna della seconda metà dell'Ottocento, anche in ambienti progressisti, al discorso sullo Stato mondiale si sovrapponeva quello sul destino dell'impero coloniale, nella ricerca di una strategia che permettesse alla Gran Bretagna di restare in ogni caso una potenza 43 Tra 1882 e il 1899 la Gran Bretagna appose le proprie insegne in Africa e nel Sud-Est Asiatico. 18 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 di primo piano. La fiducia riposta nell'impero, sostenuta da una certa fede nel progresso tipica dell'età vittoriana, indussero molti a considerare il British Empire e la sua vocazione mondiale come basi ottimali dell’erigenda federazione globale: Visions of a global state were not simply projections of the future, of an as yet unrealised dream. It was argued frequently that the contours of this entity could be discerned in the existing structure of the empire [corsivo aggiunto]. 44 Gli Stati Uniti, del resto, avevano già tracciato la strada. L'unione americana, la quale aveva federato un gran numero di Stati autonomi sotto l'egida di un unico centro, bilanciando al contempo i poteri del governo federale con quelli degli Stati, dimostrava come la struttura monolitica dello Statonazione moderno potesse essere oltrepassata per realizzare un nuovo soggetto politico con capacità di espansione potenzialmente illimitata. In Gran Bretagna, di riflesso, e non senza una sottesa rivalità, il principio federale si incarnò in primo luogo nell'idea di una federazione transcontinentale comprendente il Regno Unito e i suoi possedimenti bianchi, o settler colonies, ovvero Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. L'unione organica tra madrepatria e colonie avrebbe realizzato l'ideale di una “Più Grande Bretagna” (Greater Britain), una forma di organizzazione politica nuova, sorta da un grandioso progetto di autoriforma delle strutture imperiali, in cui Regno Unito e colonie avrebbero composto una “singola comunità politica” 45. Per non parlare delle aspirazioni ad un’ancor più gloriosa espansione della civiltà anglosassone condensatesi sempre intorno al concetto di Greater Britain (termine in realtà polisemico, le cui accezioni potevano variare di autore in autore46) nella cui conformazione si vagheggiava l'idea di uno Stato globale che “avrebbe potuto controllare il mondo intero”47. Tuttavia il dilagare del dibattito sulla federazione dell'impero rappresentò soprattutto la reazione ad un assetto geopolitico in transizione in cui, secondo alcuni, la Gran Bretagna era destinata a perdere il ruolo di potenza egemone. Non sembrerà casuale dunque se Greater Britain e federalismo imperiale (due concetti spesso, ma non sempre coincidenti48) divennero protagonisti abituali del dibattito politico proprio nel momento in cui molte colonie avevano D. Bell, The Victorian Idea of a Global State, in D. Bell (a cura di), Victorian Visions of Global Order, cit., p. 160. 45 Ivi, p. 14. 46 D. Bell, The Idea of Greater Britain. Empire and the Future of World Order, 1860-1900, Princeton University Press, Princeton, 2007, p. 7. 47 C. Oman, England in the Nineteenth Century, Longmans, Green and Co., New York, 1899, p. 258. 48 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 12. 44 19 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 ottenuto forme più o meno articolate di autogoverno49. Nell'idea di Greater Britain sembrano condensarsi due tòpoi della teoria politica ottocentesca, ovvero la preoccupazione per i prossimi equilibri dell'ordine internazionale in una fase storica di profondo cambiamento e la credenza in un destino manifesto della civiltà anglosassone, il quale, almeno secondo alcuni apologeti dell'imperialismo, nel colonizzare le zone più remote della terra, avrebbe realizzato un'opera di diffusione globale del progresso tecnico e culturale. Greater Britain divenne allora un modello ideale in cui anglocentrismo e internazionalismo si intersecavano all'interno di una visione provvidenziale dell'espansione britannica, concepita come un fenomeno da cui il mondo intero avrebbe potuto trarre vantaggio: And all of humanity would benefit, for it was argued that a just and peaceful world order depended on the British to regulate and police its affairs. 50 Fu attraverso il dibattito sulla Greater Britain che il pensiero politico britannico iniziò a diventare sempre più familiare con la teoria federalista, sia pure intesa in senso lato. Difatti, molti di coloro che si rifacevano al linguaggio e al simbolismo legati alla Greater Britain divennero sostenitori del federalismo imperiale, ovvero di una teoria politica che si batteva per la creazione di un legame federale tra le componenti dell'impero in nome della preservazione dello stesso: The quest for a global British polity was one of the most ambitious responses to the rupture in Victorian national self-confidence […] the proximate cause of the rise of the federalist movement was the largely unfounded suspicion that the Liberal government was intent on dismembering the empire in 1869-70. This triggered a strident campaign to “save” the empire, a drive that gathered steam during the 1870s and reached its peak in the late 1880s and early 1890s. 51 È importante ribadire come la stagione di popolarità della teoria federale sopraggiunse in Gran Bretagna in concomitanza con vaste alterazioni geopolitiche. Sommovimenti a ovest e ad est inducevano i britannici a temere per il mantenimento della supremazia in Europa. Innanzitutto, l'avanzata della Germania unificata di Bismarck (che piegò prima la Danimarca nel 1865, poi l'Austria nel 1866 e infine la Francia nel 1870) rese chiaro nell'Europa centrosettentrionale i rapporti di forza propendevano in favore del neonato Stato Un processo in atto dagli anni Quaranta dell'Ottocento e che, intorno al 1870, aveva coinvolto domini importanti come Canada, Nuova Zelanda e Queensland. Cfr. H.M. Carey, God's Empire. Religion and Colonialism in the British World, 1801-1908, Cambridge University Press, New York, 2011, p. 7. 50 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 9. 51 Ivi, p. 13. 49 20 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 tedesco, pericoloso concorrente non solo da un punto di vista militare, ma anche economico, se si considera l'industrializzazione repentina realizzata dalla Germania post-unificazione. In secondo luogo si profilava, più vaga e distante ma nondimeno opprimente, la minaccia di Stati Uniti e Russia, due stati che, per estensione territoriale e capacità produttiva, potevano sconvolgere la scala della competizione internazionale. Davanti a una tale situazione, molti politici e intellettuali britannici avvertirono l'esigenza di rafforzare l'impero, fonte di prestigio e di risorse essenziali per mantenere combattiva la Gran Bretagna nella lotta per l'egemonia politica. Fu dunque in tale contesto che iniziò a radicarsi un crescente interesse per il federalismo imperiale e il suo piano di fare della Greater Britain (cioè, si ricorderà, dell'impero coloniale propriamente inteso) uno Stato federale che, per estensione e vocazione, avrebbe potuto dirsi veramente ecumenico. A cosa ci si riferisse esattamente quando si parlava di federazione imperiale tuttavia non era chiaro, trattandosi di un'idea piuttosto labile il cui significato e carattere variavano di autore in autore. Ciò che accomunava i fautori della federazione imperiale era la convinzione che occorresse rinsaldare i legami preesistenti tra colonie e madrepatria, conferendo loro un esplicito carattere di vincolo costituzionale. Una simile idea veniva però declinata in una congerie di progetti differenti. A dimostrazione delle numerose sfumature che la nozione di federalismo imperiale poteva assumere, non era infrequente che alcuni autori usassero il termine federazione mentre in realtà descrivevano forme di governo molto più simili a una confederazione che non a un'unione centripeta sul modello americano52. La veste più radicale e innovativa assunta dal federalismo imperiale va probabilmente ricercata nella corrente favorevole all'istituzione di un vero e proprio federalismo “sovra-parlamentare”53 tramite l'istituzione di un nuovo parlamento, federale, che avrebbe operato in qualità di organo legislativo con potere decisionale su materie comuni, alla stregua del Congresso americano. Le competenze residue, riguardanti gli affari interni delle diverse parti dell'impero, sarebbero state affidate ai parlamenti locali, al cui rango sarebbe stato declassato la stessa assemblea di Westminster. Il federalismo imperiale, pur con tutte le sue istanze contraddittorie, si guadagnò grande popolarità nel dibattito politico di fine Ottocento e ciò per due ragioni. La prima, è che esso sembrò fornire contemporaneamente una soluzione alla percepita minaccia di disfacimento dell'impero e una alternativa 52 53 J. Kendle, Federal Britain. A History, Routledge, Londra, 1997, p. 37. D. Bell, Idea of Greater Britain, cit., p. 14. 21 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 alla politica della sovranità nazionale che sosteneva i fragili equilibri europei. Sotto quest'ultimo aspetto l'idea di una federazione imperiale, come già accennato, si collegava all’utopia cosmopolitica in base alla quale l'instaurazione di un'unione organica tra le parti dell'impero britannico veniva considerata come il primo passo verso un'integrazione planetaria che avrebbe riappacificato l'umanità, federandola in una comunità politica di nazioni pari rango. La seconda ragione è che il federalismo imperiale maturò sull'onda del successo del modello americano, non meno che in un momento di profondo ripensamento delle teorie sulle relazioni internazionali. Dapprima vincitrice della guerra di indipendenza contro l'Inghilterra, uscita poi indenne da un conflitto civile che l'aveva lacerata nel profondo, l'America aveva segnato l'avvento di un tipo inedito (e vincente) di sovranità. L'internazionalismo liberale inglese esaltò il federalismo e la forma di governo in esso incarnata come se essi costituissero una sorta di climax dello sviluppo sociale e politico umano.54 Per quanto non esente da accenti critici, James Bryce, lo storico autore dell'imponente The American Commonwealth (1888), nonché ambasciatore inglese negli States dal 1907 al ’13, vide in quel federalismo quasi un fenomeno metageografico, destinato cioè a valicare l'Atlantico e a permeare di sé l'intero consesso umano: The institutions of the United States […] represent an experiment in the rule of the multitude, tried on a scale unprecedentedly vast, and the results of which everyone is concerned to watch. And yet they are something more than an experiment, for they are believed to disclose and display the type of institutions towards which, as if by a law of fate, the rest of civilized mankind are forced to move, some with swifter, others with slower, but all with unresting feet. 55 L'aspetto che ci interessa qui sottolineare riguarda il rapporto che si instaurò tra la riflessione sulla federazione imperiale e la teoria delle relazioni internazionali. Un tale rapporto, in verità, non sempre è rintracciabile, poiché diversi autori che parteciparono al dibattito sul federalismo in età vittoriana dimostrarono di muoversi in una dimensione strettamente ancorata all'orizzonte imperiale. Vale a dire che la creazione di una confederazione o federazione imperiale era questione finalizzata ad assicurare la sopravvivenza dell'impero in quanto tale e, pertanto, non si interrogava sull'eventualità che la trasformazione dell'impero in uno Stato federale potesse servire da esempio per la creazione di un nuovo sistema internazionale, anch'esso di stampo federale. Altrove, invece, il pensiero imperiale e federalista britannico si colora di 54 55 Ivi, p. 98. J. Bryce, The American Commonwealth, Cosimo Classics, New York, 2007, vol. I, p. 1. 22 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 “utopismo e millenarismo a sfondo cosmopolitico”56 e dunque il discorso sulla federazione imperiale si emancipa dal binomio madrepatria-settler colonies per abbracciare l'Europa e il resto del mondo. L'autore che seppe coniugare al meglio l'indagine sulla Greater Britain e la riflessione sulle relazioni internazionali, intersecandone gli sviluppi, fu probabilmente l’assai noto John Robert Seeley. Allo storico di Cambridge andrebbero riconosciuti due meriti fondamentali. Il primo, strettamente accademico, riguarda l'aver dato origine (con l'opera The Expansion of England del 1883) all'ambito storiografico oggi denominato Imperial History, incentrato sull'analisi della realtà coloniale britannica tramite l'indagine scientifica degli scambi dinamici intercorsi tra società britannica e culture extraeuropee57. Il secondo riguarda l'aver ampliato i confini della teoria federalista britannica, facendo in modo che essa cessasse di avere un dialogo privilegiato con il solo impero e si estendesse fino a coinvolgere un nuovo interlocutore: l'Europa. La riflessione federalista di Seeley maturò nel tempo, sebbene sia possibile rinvenirne una traccia già nel discorso sul passaggio dell'Inghilterra da Statonazione a Stato mondiale riscontrabile in The Expansion of England. L'opera, dedicata, come indica il titolo, allo studio della genesi e dello sviluppo dell'Inghilterra58, affronta anche, sia pure in misura minore, la futura trasformazione delle dinamiche di lotta per l'egemonia mondiale, insieme agli adattamenti che, secondo Seeley, si riterranno necessari nei rapporti tra Inghilterra e colonie. The Expansion of England argomenta difatti in maniera piuttosto netta che la madrepatria e le sue colonie si trovano a un bivio. O l'indipendenza delle seconde dalla prima, con la conseguenza di mutilare la capacità geografica e commerciale britannica proprio nel momento in cui si profila la competizione con grandi potenze, oppure il rafforzamento del vincolo imperiale mediante l'instaurazione di un'unione federale con le settler colonies. Al riguardo, il processo federativo della Greater Britain prometteva di risultare facilitato dal fatto che l'Inghilterra e le settler colonies costituivano una comunità omogenea da un punto di vista etnico, religioso e morale, essendo le colonie canadesi, australiane e neozelandesi abitate prevalentemente da anglosassoni. Per Seeley, dunque, il superamento del precedente, multiforme Cfr. T. Tagliaferri, L'idea di “impero” nella storiografia britannica del secondo Ottocento. Appunti sul pensiero storico di John R. Seeley (1834-1895), p. 138, www.docenti.unina.it. 57 Ivi, p. 13. 58 Da notare come, ancora nel XIX secolo, il sistema imperiale costruito dall'Inghilterra sia celebrato nella sua particolarità. L'impero è nuovamente definito eccentrico rispetto “agli imperi del Vecchio Mondo” non essendo fondato “nel suo complesso, sulla conquista”, cfr. J.R. Seeley, The Expansion of England, Macmillan and Co., Londra, 1883, p. 51. 56 23 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 legame che vincolava l'impero coloniale si basava sulla convinzione che fosse possibile istituire un'unione politica sovra-parlamentare creando così una sorta di “Stati Uniti di Gran Bretagna”59. Se la federazione imperiale fosse stata portata a compimento l'Inghilterra sarebbe riuscita laddove finora solo gli Usa erano riusciti con successo, ovvero “nel tenere insieme in un'unione federale Paesi molto distanti gli uni dagli altri”60. D'altra parte la creazione di una federazione transoceanica non esauriva il proprio scopo nel garantire la sopravvivenza dell'impero britannico. Agli occhi di Seeley, una federazione pan-anglicana altro non costituiva se non il primo passo verso la creazione di un Commonwealth globale, un consesso politico che avrebbe riunito l'umanità tutta e che per lo storico di Cambridge rappresentava la meta decisiva della storia universale: […] Per Seeley il termine ultimo della tendenza progressiva ravvisabile nella storia dell'Inghilterra moderna – la sua “espansione” – non è la mera “grandezza nazionale” […] Fine della storia del mondo sembra essere per Seeley un qualche assetto del mondo nella cui realizzazione l'Inghilterra, possibilmente in partner con gli Usa, è chiamata di certo a giocare un ruolo di protagonista, e di cui nell'Espansione è dato a malapena scorgere i contorni, ma che con tutta probabilità consiste in qualche forma di “utopia planetaria” cosmopolitica, destinata in ogni caso a trascendere l'orizzonte puramente nazionale. 61 Il progetto federalista di Seeley non si esauriva tuttavia nei limiti delle frontiere imperiali, bensì guardava al vicino più prossimo della Gran Bretagna: l'Europa continentale. Come è noto, Seeley delineò il progetto di una strategia federale per l'Europa durante una conferenza indetta dalla ‘Peace Society’ nel 1871. L'intervento di Seeley combinava argomenti tradizionali (il riferimento agli Stati Uniti come esempio cui guardare) con altri più innovativi, i quali suggerivano riflessioni poi recuperate dalla corrente federalista negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Particolarmente moderna risultava l'idea che la costruzione di un sistema federale sovranazionale potesse giungere quale esito non tanto di una rivoluzione politica, quanto come conseguenza di un diverso tipo di patriottismo, non più nazionalistico ma europeo. I cittadini dovevano cioè iniziare a pensare se stessi come parte di una comunità più grande dello Stato stesso: […] We shall never abolish war in Europe unless we […] take up a completely new citizenship. We must cease to be mere Englishmen, Frenchmen, Germans and must begin to take as much pride in calling ourselves Europeans […] The individual and not merely the State, must enter into a distinct relation to the Federation […] The federation wanted is a real union of peoples D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 108. Ivi, pp. 18-19. 61 Ivi, p. 138. 59 60 24 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 […]. 62 Nell’anno stesso in cui veniva proclamato il nuovo impero tedesco, l'instaurazione di una federazione sovranazionale diventava dunque alternativa alla distruzione dell'Europa sotto il peso delle guerre tra Stati sovrani. E forse anche un potenziale antidoto ai disegni egemonici prussiani. Seeley era consapevole degli sforzi che l'istituzione di un'unione europea avrebbe richiesto, nonché degli ostacoli che le si paravano davanti, in un continente in cui lo Stato-nazione costituiva un'entità politica ormai pienamente consolidata e apparentemente imprescindibile. Tanto più che l’Europa, al contrario della Greater Britain, non era avvantaggiata da una compattezza né etnica, né linguistica, né politica. Tuttavia restava sempre possibile ispirarsi al più efficace modello di patto federale tra Stati sovrani, ovvero l'Unione americana. Gli Stati Uniti ricorrono infatti nel discorso dello storico inglese quale esempio virtuoso degli esiti del federalismo. A differenza di altri teorici federalisti dell'epoca, per i quali il confine tra federale e confederale era spesso labile, Seeley dimostrò di conoscere bene dove cadeva il punto di distinzione tra le due entità. Egli affermò infatti: la particolare lezione che ci deriva dall'esperienza degli americani è che i provvedimenti emanati dalla federazione non devono essere affidati, per la loro esecuzione, a funzionari dei singoli Stati e che la federazione deve disporre di un esecutivo indipendente e separato. 63 Ancora una volta, la vicenda americana risultava il principale modello comparativo. Il processo di nascita dell'Unione aveva dimostrato che un congresso frutto di un'intesa tra Stati sovrani, quale era stato la Confederazione americana, era destinato al fallimento, laddove l’assetto federale aveva avuto successo nel conciliare unità e autonomia, controbilanciando la sovranità locale con l'autorità di un governo comune e al di sopra dei singoli componenti. Anche nel corso dei primi decenni del XX secolo l'idea di trasformare l'impero coloniale in uno Stato globale non cessò di essere un tema ricorrente nella letteratura politica britannica, ma subì un'importante evoluzione. L'enfasi posta sull'omogeneità etnico-culturale della Greater Britain tese a diminuire progressivamente e all'ipotesi di una sorta di Stato-nazione a dimensione globale subentrò quella di un Commonwealth multinazionale, in cui i riferimenti alla Britishness dell'impero cedevano il passo ad entusiasmi cosmopoliti. Come annota Duncan Bell, docente a Cambridge: J. Seeley, citato in M. Burgess, Federalism and Federation in Western Europe, Croom Helm, Londra, 1986, pp. 139-140. 63 Citato in L.V. Majocchi (a cura di), John Robert Seeley, in «The Federalist», Anno XXXI, n. 2, p. 176. 62 25 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 In 1905 W.F. Moneypenny, a leading journalist with The Times, conceived of the empire as a “world-state”, a polity defined by cultural homogeneity and unity of interests. This was, he claimed, the embodiment of a “new political conception” that “transcends nationality” while simultaneously allowing the flourishing of separate nationalities within it. By escaping the clutches of both a petty-minded “national exclusiveness” […] it pointed the way to a new form of political order, a truly “cosmopolitan ideal”. Leo Amery wrote of the colonial empire as a […] great world-State, composed of equal and independent yet indissolubly united States. 64 Individuare nella pluralità delle sue componenti la principale virtù della Greater Britain fu un adattamento che si rese necessario in seguito al conseguimento di una maggior indipendenza politica e all'acquisizione di una crescente specificità identitaria da parte dei dominion. Anche Lord Lothian, il noto autore di Pacifism is not enough nor Patriotism either, edito nel 1935, oltre che ambasciatore britannico in Usa allo scoppio della seconda guerra mondiale, osservò che le relazioni tra madrepatria e i dominion bianchi erano destinate a mutare o sotto l'effetto di una politica di riforma convenuta da tutte le parti in causa, o sotto la spinta della ricerca di ulteriore autonomia da parte dei dominion: The existing system might work for the present but time would come when the Dominions would no longer agree to allow control of Imperial policy to remain in the sole hands of the government of London. 65 Gli anni che vanno dal 1926 al 1931, lasso di tempo in cui si definì il British Commonwealth of Nations, segnarono l'inizio di una nuova fase della storia imperiale britannica, l'atteso cambiamento nella struttura delle relazioni imperiali che molti auspicavano fin dagli anni Ottanta del secolo precedente. L'atto di nascita del Commonwealth può essere fatto coincidere con la Conferenza imperiale del 1926, la quale riunì i primi ministri e del Regno Unito e dei dominion e costituì il palcoscenico dal quale il Lord primo ministro, Arthur Balfour, rilasciò la famosa dichiarazione che porta il suo nome. In essa quale si affermava il superamento del tradizionale ordine gerarchico madrepatriacolonie e l'affermazione di un sistema egualitario di associazione tra Stati sovrani. Il legame tra Gran Bretagna e dominion viene così definito nelle parole di Balfour: They are autonomous Communities within the British Empire, equal in status, in no way subordinate to one another in any aspect of their domestic or external affairs, though united by a common allegiance to the Crown, and freely associated members of the British Commonwealth of Nations […] The rapid evolution of the Overseas Dominions during the last 64 65 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 118. Citato in J. R. M. Butler, Lord Lothian 1882-1940, cit., p. 47. 26 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 fifty years has involved many complicated adjustments of old political machinery to changing conditions. The tendency towards equality of status was both right and inevitable. 66 Lo Statuto di Westminster siglato nel 1931 sancì de iure l'indipendenza di Australia, Canada, Newfoundland, Nuova Zelanda, Sudafrica e dello Stato Libero d'Irlanda, coronando così l'avvenuta evoluzione dell'impero britannico. Durante gli anni Trenta e Quaranta del Novecento spettò dunque al Commonwealth il farsi archetipo di un modello di Stato multinazionale, capace di unire gruppi umani trascendendo le diversità culturali di ognuno 67. I tentativi più esaurienti di concettualizzare le potenzialità ecumeniche del Commonwealth furono prodotti da Lionel Curtis. Quest’ultimo rappresenta, insieme a Lothian, una personalità fondamentale per la promozione del pensiero federalista in terra britannica, impegno al quale dedicò tutta la sua carriera di funzionario e uomo pubblico. La formazione politica e intellettuale di Curtis era avvenuta a fianco di Lord Milner, guida dell'Alto Commissariato per il Sudafrica dal 1897 al 1905, che egli servì in qualità di segretario. Durante gli anni di servizio in Sudafrica Curtis incontrò Philip Kerr, il futuro marchese di Lothian, ed altri funzionari dell'amministrazione coloniale sostenitori di una “più stretta unione” (closer union) tra l'impero e i suoi possedimenti. Fu, insomma, l'esperienza coloniale sudafricana a formare le convinzioni federaliste di quei giovani. Anni dopo, nel 1939, Curtis ricordò l'incontro decisivo con il The Federalist americano, alla cui conoscenza egli pervenne grazie alla biografia di Alexander Hamilton, scritta dall'amico F.S. Oliver. Una lezione preziosa per i contemporanei quella di The Federalist: “It showed us how systems based on compact between sovereign States lead to disaster”68. Nel 1909 Curtis e Kerr animarono il gruppo denominato Round Table Movement, il cui obiettivo era quello di sensibilizzare la classe dirigente e l'opinione pubblica britannica sulle riforme costituzionali ritenute necessarie per l'impero coloniale e che, secondo Curtis e compagni, avrebbero dovuto culminare con l'instaurazione di un parlamento imperiale 69. Il futuro premio Nobel per la pace del ’47 rientra dunque a pieno titolo in quel gruppo di intellettuali, politici e uomini delle istituzioni che, nel pieno dell'età edoardiana, elevarono la teoria federale al rango di uno argomenti centrali del dibattito Cfr. “Inter-Imperial Relations Committee. Note by the Lord President of the Council”, in www.nationalarchives.gov.uk. 67 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order, cit., p. 206. 68 L. Curtis, World Order, in «Royal Institute of International Affairs 1931-1939», vol. 18, n. 3, 1939, p. 304. 69 J. Kendle, Federal Britain, cit., pp. 80-81. 66 27 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 politico, conquistandole una forte popolarità anche per gli anni a venire. Michael Burgess ritiene infatti che nel 1918 l'idea federale era talmente dibattuta da poter essere considerata una sorta di Zeitgeist70. Lionel Curtis fece tesoro degli insegnamenti hamiltoniani anche durante il periodo che lo vide a Parigi, nel 1919, in qualità di consigliere della delegazione britannica per le questioni concernenti la costituenda Società delle Nazioni. La presenza di Curtis era stata espressamente richiesta da Lord Robert Cecil, all'epoca sottosegretario di Stato agli Affari Esteri, ma egli non fu l'unica personalità proveniente dagli ambienti federalisti. Anche Philip Kerr era presente, in qualità di segretario personale del Primo Ministro Lloyd George, ed ebbe modo di svolgere un ruolo attivo nel dibattito sulle caratteristiche finali della Società delle Nazioni. L'organismo partorito dalla conferenza intergovernativa non mancò tuttavia di suscitare le delusioni di Curtis, il quale notò in seguito che: The Covenant was a close counterpart of the Articles of Confederation which The Federalist has shown to be unworkable. I feared that, like the Confederation, it would lead to unimagined and unforeseen troubles. 71 Nel 1938 (anno in cui fu oltretutto impegnato in una serie di viaggi in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti che gli diedero modo di saggiare l'opinione pubblica, notando come questa attribuisse i fallimenti della politica ai singoli individui anziché al sistema che essi rappresentavano72) Curtis pubblicò il suo magnum opus intitolato Civitas Dei: The Commonwealth of God, in cui l'instaurazione di un governo sovranazionale viene indicato come il giusto compimento della storia umana73. La sua riflessione sul passaggio dallo Stato-nazione ad un Commonwealth sovranazionale traeva ispirazione, da una parte, dalla accentuata sensibilità religiosa dell'autore, venata di un forte accento millenaristico, per cui l'avvento di una federazione sovranazionale (“Divine Commonwealth”) era concepita come lo strumento politico che avrebbe concretizzato il nuovo patto tra Dio e l'uomo. Dall'altra, derivava dalla convinzione secondo cui “la società umana funziona al suo meglio quando è capace e libera di adattare le proprie strutture alle condizioni in divenire”74. Pertanto, in una realtà caratterizzata da un M. Burgess, The British Tradition of Federalism, cit., p. 105. L. Curtis, World Order, cit. p. 306. 72 “Is it not time, I ask, that we stop distributing blame to statesman, and examine the system, or want of system, they are asked to operate? Is it not time that we […] try to diagnose before we begin writing prescriptions?”, ivi, p. 307. 73 T. Tagliaferri, L'idea di “impero” nella storiografia britannica del secondo Ottocento, cit., p. 138. 74 L. Curtis, The Commonwealth of Nations, MacMillan and Co., Londra, 1916, p. 11. 70 71 28 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 sempre più costante processo di integrazione, la frammentazione delle comunità in Stati-nazione separati non costituiva altro che un grande ostacolo per l'avvento della Civitas Dei. Per Curtis, come per altri sostenitori del federalismo dopo di lui, diventava prioritario iniziare a concepire le relazioni internazionali come il rapporto dinamico tra le parti di un tutto organico. Di sicuro, pensando allo scoppio del secondo conflitto mondiale, la sua convinzione del rischio di “tornare indietro” possedeva un’estrema preveggenza: Nello sviluppo della civiltà abbiamo ora raggiunto uno stadio oltre il quale non si può progredire, ma siamo condannati a tornare indietro, finché non scopriamo i mezzi per passare dallo Stato nazionale a quello internazionale, lo Stato nel più vero e più pieno senso della parola. 75 L'umanità avrebbe potuto muoversi in questa direzione solo compiendo una rinuncia fondamentale: ovvero abdicando alla religione del nazionalismo. Ciò avrebbe implicato, in secondo luogo, ammettere che lo Stato-nazione non era che una forma dell'organizzazione umana, lungi dall'esaurire o dal ridurre a sé tutte le altre. Con Curtis il federalismo si arricchisce di una componente finalistica importante, poiché esso viene descritto come la forma politica che condurrà la società al compimento supremo del proprio fine, ovvero all'instaurazione del “divino” Commonwealth: I believe […] that sooner or later men will rise to the new idea that two or more nations, without losing their characteristics or freedom, can unite in one international State, can erect one federal government responsible to all their citizens […] for maintaining peace between themselves, and also between themselves and the world […] I believe that the nations so united in one international State would presently find they had attained a higher degree of freedom. In a few generations other States would be eager to enter the federation, and the process of accretion, once started, would advance more rapidly than man are now able to conceive. 76 Il federalismo di Curtis, benché concepito come un progetto di realizzazione allo stesso tempo storica e spirituale dell’intero genere umano, aveva delle radici geograficamente precise, rintracciabili nella tradizione federalista americana e britannica. Era naturale che il suo punto di riferimento, sia politico sia culturale, fosse la civiltà anglosassone e il Commonwealth, che ne costituiva la più moderna espressione. Nell'esposizione l'accento cadeva pertanto su quello che era il compito del popolo inglese, compreso il ramo americano della stirpe. Gran Bretagna e Stati Uniti risultavano come i due poli di una medesima civiltà, vincolati tra di loro L. Curtis citato in L. Levi, G. Montani, F. Rossolillo (a cura di), Tre Introduzioni al federalismo, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2005, p. 147. 76 L. Curtis, World Order, cit., p. 308. 75 29 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 da ciò che Lord Lothian definì “great common heritage”.77 Era infatti opinione diffusa negli ambienti diplomatici britannici che una tale affinità culturale non poteva che avere, quale necessario corollario politico, una salda alleanza tra i due grandi Stati mondiali. In Civitas Dei, non a caso, è proprio il recupero del senso di una comune identità e di una medesimo compito storico, da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti, a costituire il preludio della federazione mondiale78. In conclusione possiamo individuare un filo rosso che percorre la teoria federale britannica dal finire del XIX secolo ai primi trent'anni del XX e ci permette di riscontrare delle somiglianze in analisi tra di loro distanti nel tempo, come lo sono quelle di Seeley e Curtis. Sullo sfondo risalta innanzitutto la specificità del rapporto istituzionale fra la Gran Bretagna e il suo impero, sia nella forma coloniale che in quella inedita del Commonwealth, tanto da far sì l'impero britannico venisse considerato, anche in epoche assai distanti fra loro, un ammirevole pioniere nella sperimentazione di legami politici tra madrepatria e domini. A questa capacità di collaudare strategie inedite al proprio interno si collega poi un secondo elemento ricorrente di riflessione e di proposta: ovvero il concepire l'impero britannico come paradigma per la trasmutazione della sovranità, da nazionale ad ecumenica, in una prospettiva di ricongiungimento pacifico dell'umanità. La Greater Britain e il Commonwealth incarnano così, entrambi, un modello di sovranità organica, coesa, ma allo stesso tempo plastica, in quanto estesa su territori eterogenei per posizione, storia e tradizioni. Quest'ultima, sia nel federalismo imperiale di Seeley sia in quello mondiale di Curtis veniva eletta ad alternativa provvidenziale alla sovranità assoluta degli Stati-nazione. Si è giunti così all’apice di quella che ci è parso essere la dimensione più interessante delle teorie imperiali britanniche, ovvero il pensare l'impero non solo come strumento di potere che impone il controllo di un popolo su gli altri, ma anche come primo passo verso un innovativo modello di associazione multinazionale, libero dalle logiche aggressive e concorrenziali degli Statinazione. Tuttavia, come vedremo nel paragrafo conclusivo, tali concezioni apertamente federaliste, per quanto recepite nel continente europeo dalle P. Kerr, The Political Situation in the United States, in «Journal of the British Institute of International Affairs», vol. 2, n. 4, 1923, p. 148. 78Il federalismo di Curtis potrebbe essere definito, usando una categoria moderna, come atlantista. Caratteristica della corrente federalista britannica del XX secolo sarà proprio il suo essere divisa tra una corrente atlantista e una corrente europeista, favorevole alla creazione di un'unione federale tra la Gran Bretagna e gli Stati europei continentali. Per le differenze tra questi due approcci si veda A. Bosco, Federal Union e l'unione franco-britannica: il dibattito federalista nel Regno Unito dal patto di Monaco al crollo della Francia 1938-1940, Il Mulino, Bologna, 2009. 77 30 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 personalità più lungimiranti, proprio perché convinte dalla critica allo Statonazione superiorem non recognoscens, inizieranno progressivamente ad affievolirsi al di là della Manica. Paradossalmente ciò avverrà proprio nel momento in cui le condizioni geopolitiche del mondo post-1945 (e dell'Europa in particolare) si sposteranno con decisione verso strategie di integrazione sovranazionale. In effetti, risulta alquanto difficile dimenticare che nell’Inghilterra degli anni Trenta e Quaranta era stato molto attivo un movimento di opinione animato da intellettuali di rilievo, quali Barbara Wotton, William Beveridge, Lionel Robbins, il giovane Harold Wilson. Vale a dire ‘Federal Union’, su cui si rimanda al precedente contributo uscito in questa rivista nel numero di ottobredicembre 2014. Dall’interno del detto movimento, e in particolare dal suo Constitutional Committee, sortirono circostanziati progetti di unione federale europea (paesi del Commonwealth compresi) corredati di precise soluzioni istituzionali. Fra di essi, il più approfondito, formulato dal giurista e accademico Ivor Jennings, venne reso pubblico precisamente nell’anno 1940, come ideale soluzione alternativa al conflitto europeo-mondiale appena esploso. Per non dire che sempre in quell’anno Winston Churchill propose al governo francese attaccato dai nazisti il celebre progetto di unione parlamentare-federale fra i due Paesi. Forse che, una volta conclusa la guerra con indubbio successo, ma con ancor maggiore supremazia statunitense, la lungimiranza inglese restava troppo dipendente dalla Greater Britain e dalla nostalgia dell’impero? Certo, resta curioso che i progetti inglesi di federazione europea, compresi quelli proposti alla vigilia del secondo conflitto mondiale, includessero sempre nel novero degli stati membri anche le ex colonie di Sua Maestà. Quasi da pensare che solo in questo modo l’egemonia inglese sull’Europa potesse perpetuarsi con relativa facilità. E anche, al tempo stesso, che, grazie alla Greater Britain, il Vecchio Mondo avrebbe potuto mantenere una dimensione mondiale che altrimenti persa definitivamente. Di sicuro, con la conclusione del secondo conflitto mondiale, e con l’eccezione di qualche nuova sortita churchilliana, il federalismo inglese avrebbe conosciuto un netto ridimensionamento, fino a diventare (con commendevoli, singole eccezioni) quasi silente, malgrado fosse stato esportato con successo, si è detto, fra intellettuali e politici di tutto il continente. Il peso dell'eredità imperiale: la Gran Bretagna tra Commonwealth e Comunità Europee nel secondo dopoguerra Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la Gran Bretagna, pur 31 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 essendo uscita dalla guerra vittoriosa, sembra ripiegare su se stessa seguendo una politica estera conservativa. Il Commonwealth non viene più considerato come modello da esportare nel resto del mondo, al fine promuovere un processo di integrazione pacifica tra nazioni. Al contrario, il modo in cui il discorso politico britannico del secondo dopoguerra tende a presentare i vincoli morali, ideologici e commerciali che tengono insieme il British Commonwealth of Nations tradisce la tendenza a concepire l'appartenenza della Gran Bretagna al Commonwealth in termini esclusivi. Diventa il fattore che preclude a Londra la possibilità di stabilire rapporti con le istituzioni comunitarie che si vanno assemblando nell'Europa continentale. Che al momento della creazione delle Comunità europee la condizione politica e morale della Gran Bretagna fosse ben diversa da quella dei restanti Paesi europei è fatto ben noto. Nell'Europa continentale l'idea della sovranità nazionale era uscita del tutto disonorata dopo le degenerazioni totalitarie del fascismo e del nazismo, laddove nelle isole britanniche essa godeva di ottima salute. Se da un punto di vista materiale il secondo conflitto mondiale aveva prostrato la Gran Bretagna, non aveva certo piegato la sua autostima; piuttosto quest’ultima ne era uscita rafforzata in alcune delle sue più importanti convinzioni. La Gran Bretagna era a pieno titolo vincitrice della guerra, tant’è che nel dibattito pubblico seguitava a rappresentarsi come potenza mondiale e guardava al proprio Stato-nazione come a un'istituzione uscita illesa e nobilitata dalla guerra79. A riprova, benché Winston Churchill in persona si facesse promotore dell’unificazione europea mediante il sostegno al Movimento europeo e la convocazione del celebre congresso dell’Aja del maggio ’48, tuttavia il suo ritorno al potere agli inizi degli anni Cinquanta avrebbe confermato l’evidente solipsismo britannico. Ovvero la tendenza a promuovere, al pari degli Usa, l’integrazione del continente, ma senza cessioni di sovranità fino a porsi ad un livello paritario con i paesi membri delle Comunità, poi Unione. A distinguere ulteriormente, nell'immediato dopoguerra, la Gran Bretagna dal resto d'Europa concorreva il fatto che era l'unico Paese a vantare un governo socialista, mentre nell'Europa continentale gli incarichi governativi venivano monopolizzati da conservatori e cristiano-democratici. Con le elezioni generali del 1945 il partito laburista ottenne infatti il 48% dei voti e, in virtù del sistema elettorale maggioritario, si vide assegnare due terzi dei seggi parlamentari80. Il governo laburista di Clement Attlee passò così alla storia per aver attuato un esteso progetto riformista, ispirato al modello keynesiano di programmazione J. Pinder, Federal Union. The Pioneers, Palgrave Macmillan, Londra, 1990. G. McCulloch, Labour, the Left, and the British General Election of 1945, in «Journal of British Studies», vol. 24, n. 4, 1985, pp. 465-489. 79 80 32 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 economica che trovò nel Piano Beveridge il proprio manifesto. Dal vasto piano di nazionalizzazioni, che guadagnò allo Stato il controllo dei principali settori industriali-finanziari del Paese, passando per la creazione del National Health Service, le riforme plasmarono in maniera innovativa la vita politica e sociale britannica. E tuttavia il fervore riformista dei laburisti, così audace in certi ambiti, fu più conservatore in altri. Ciò che il primo ministro, Clement Attlee, e il Segretario agli Affari Esteri, Ernest Bevin, decisero di lasciare invariato di fatto fu la politica estera britannica. Come ebbe a dire il segretario di Stato americano James Byrnes, “la posizione della Gran Bretagna non cambiò minimamente con la sostituzione di Churchill e di Eden con Attlee e Bevin. Questa continuità nella politica estera britannica non mancò di impressionarmi”81. Il gruppo dirigente laburista, con Bevin in testa, era convinto della necessità di attrarre gli Stati Uniti nell'orbita europea al fine di assicurarsi un solido alleato (nonché un generoso finanziatore per risollevare lo stato dell'economia britannica prostrata dalla guerra) senza il cui appoggio la Gran Bretagna non avrebbe potuto svolgere una politica estera di rilievo sul continente europeo. Al quale proposito non va tuttavia dimenticata la progressiva decostruzione del potere coloniale inglese ad opera del governo di Washington, come la crisi di Suez avrebbe dimostrato con fin troppa evidenza. Si presentò così una curiosa intesa tra laburisti e conservatori, entrambi concordi nel ritenere, salvo smentite, che solo un “duumvirato” angloamericano avrebbe costituito una valida leadership per l'Europa occidentale, l'unica in grado di impedire che il vuoto di potere creatosi con la fine del secondo conflitto mondiale diventasse l'occasione per un'ulteriore espansione dell'Unione Sovietica. Sotto questo aspetto la politica estera di Bevin altro non era, in linea di massima, che un riflesso della teoria di Churchill sulle tre sfere di influenza in cui la Gran Bretagna era coinvolta e delle quali costituiva il nocciolo: il Commonwealth prima di tutto, poi il cosiddetto English-speakingWorld e, solo in ultima istanza, l'Europa82. Comprensibilmente, la “continuità” che tanto aveva stupito James Byrnes non mancò di suscitare forti polemiche nell'ala sinistra del partito laburista. Tra queste, particolarmente significativa fu quella espressa dal gruppo ‘Keep Left’ formatosi nel maggio del 1947, il quale rappresentò una delle correnti “più significative in seno al partito laburista e, per un certo periodo, perorò la causa J. Byrnes citato in Storia d'Europa dal 1945 a oggi, G. Mammarella, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 55. 82 Cfr. W. Churchill, Conservative Mass Meeting. A Speech at Llandudno, 9 ottobre 1948, in Europe Unite: speeches 1947-1948, Cassell, Londra, 1950, pp. 416-418. 81 33 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 dell'unità europea”83. Il progetto, animato da Richard Crossman, (futuro Segretario di Stato per i Servizi sociali sotto Harold Wilson) e dal deputato laburista Michael Foot, vide partecipare ventuno membri del Parlamento, i quali sottoscrissero una lettera indirizzata ad Attlee, invocando l'adozione di una politica estera radicalmente diversa e meno conservativa, che rendesse la Gran Bretagna parimenti autonoma tanto dagli Stati Uniti quanto dall'Unione Sovietica e la mettesse alla guida di uno schieramento europeo unificato: To democratic socialists the emerging superpowers were both suspect: one for its competitive economic practices and the foreign policy to which they allegedly gave rise, the other for its repressive political activities both at home and abroad. Bevin's policy, rather than aligning Britain with the U.S., should chart a middle way between America and Russia. 84 Di fronte a un quadro internazionale che si andava ormai stabilizzando lungo la linea del confronto tra il blocco occidentale e quello orientale, i laburisti di ‘Keep Left’ suggerivano di abbandonare la tradizionale prospettiva atlantista in favore di una politica estera di indirizzo europeista. Secondo tale progetto, l'Europa, guidata dalla Gran Bretagna socialdemocratica, avrebbe potuto porsi come alternativa politica a USA e URSS. Si trattava, insomma, dell'idea di un'Europa “terza forza”, che non mancò di affascinare anche altri partiti della sinistra europea. I sostenitori dell'iniziativa ‘Keep Left’ ritenevano che l'Europa non avrebbe dovuto adeguarsi acriticamente al bipolarismo ostile che si era creato tra USA e URSS a meno di non voler rischiare una nuova guerra mondiale: We cannot expect that the tension between Russia and America will be reduced in the immediate future, and we shall probably have to plan on the assumption that no agreement between them is likely for some time either on the control of atomic energy or on large-scale disarmament. It will be an uneasy and dangerous sort of world […] No European nation will be any safer for taking shelter in either an anti-American or anti-Russian bloc. The security of each and of all of us depends on preventing the division of Europe into exclusive spheres of influence. 85 La minoranza europeista del partito laburista riteneva che l'integrazione europea avrebbe dovuto procedere proprio dal settore che, negli anni di formazione della Comunità europea, contribuì a suscitare le maggiori criticità: quello della politica di difesa. Francia e Gran Bretagna venivano indicate come W. Lipgens, Documents on the History of European Integration: the Struggle for European Union by Political Parties and Pressure Groups in Western European Countries, 1945-1950, Walter de Gruyter & Co., Berlino, 1988, p. 673. 84 J. Schneer, Hopes Deferred or Shattered: the British Labour Left and the Third Force Movement, 19451949, in «The Journal of Modern History», vol. 56, n. 2, 1984, pp. 197-226. 85 W. Lipgens, Documents on the History of European Integration, cit., p. 675. 83 34 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 le due nazioni alle quali sarebbe spettato il compito di avviare consultazioni intergovernative al fine di delineare un comune sistema di sicurezza europeo, al quale si sarebbero poi uniti gli altri Stati. Agli occhi degli autori del progetto, il quale fu in seguito sistematizzato e pubblicato nel pamphlet intitolato Keep Left,86 si sarebbe dovuto cercare di “espandere l'alleanza anglo-francese in un patto di sicurezza europeo e di annunciare tanto la nostra disponibilità quanto quella delle altre nazioni europee a rinunciare alla produzione e all'utilizzo della bomba atomica”. Il pamphlet concludeva affermando che “solo un'Europa unita, forte abbastanza da scoraggiare [un eventuale] aggressore, ma capace di rinunciare volontariamente all'arma offensiva più letale della guerra moderna, costituirebbe la miglior garanzia per la pace mondiale”87. Il modello di integrazione europea ipotizzato da ‘Keep Left’ non aveva molto in comune con le correnti più in voga del pensiero europeista, quali il funzionalismo e il federalismo, derivando semmai dall'originario spirito internazionalista del movimento operaio. Un sostenitore dell'iniziativa, il deputato laburista William Warbey, descrisse la cosiddetta terza forza europea come una creatura eminentemente socialdemocratica, nata dai rapporti amichevoli e progressivamente sempre più stretti tra i partiti socialisti d'Europa88. Ciononostante le aspettative di un'Europa unita e autonoma in politica estera, guidata da una coalizione sovranazionale della sinistra riformista, con l'Inghilterra nel ruolo di leader, furono disattese malgrado le elezioni generali del '45 avessero sancito l'acme del partito laburista. Se nel resto d'Europa i partiti socialisti si distinsero in linea di massima per la ricerca di politiche comuni fra i governi europei, nella convinzione che bisognasse collocare la rinascita economica e sociale europea al di fuori delle frontiere nazionali89, la maggioranza del ‘Labour Party’ non sposò affatto tale posizione. Il laburista Hugh Gaitskell era convinto che sostenere l'unificazione europea fosse l'atto simbolico con cui la Gran Bretagna avrebbe abdicato spontaneamente al ruolo di potenza mondiale90 per diventare una potenza regionale, di eguale rango Il testo completo apparve per la prima volta sul quotidiano New Statesman nel maggio del 1947. 87 Ivi, p. 676. 88 J. Schneer, Hopes Deferred or Shattered, cit., p. 201. 89 La costruzione comunitaria fu sostenuta anche dalla SFIO di Guy Mollet e dal PSI nella fase successiva al passaggio dal patto di unità d'azione al patto di unità di consultazione con il PCI. 90 Lo storico J.G.A. Pocock sintetizzò il processo di “europeizzazione” della Gran Bretagna definendolo il risultato di una duplice sconfitta derivata, in primo luogo, dalla perdita della dimensione oceanica-imperiale del potere e, in secondo luogo, dall'impossibilità di assolvere un ruolo da grande potenza sia nel vecchio continente che nei territori extraeuropei, cfr. J. G.A. 86 35 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 rispetto agli altri Stati che dalla guerra erano usciti sconfitti: Are we forced to go into Europe? The answer to that is, no. Would we necessarily, inevitably, be economically stronger if we go in, and weaker if we stay out? My answer to that is also no […] If I were a little younger today, and if I were looking around for a cause, I do not think I should be quite so certain that I would find it within the movement for greater unity in Europe. I would rather work for the Freedom from Hunger Campaign, I would rather work for War on Want, I would rather do something to solve world problems [corsivo aggiunto].91 Con il passare degli anni, specie dopo il ritorno dei conservatori al potere nel ‘51, anziché svolgere un ruolo di pioniere nell'unificazione politica del continente la Gran Bretagna, come accennato, assunse, rispetto al processo di integrazione europea, un ruolo di antagonista. La diffidenza con cui sul finire degli anni Quaranta la Gran Bretagna considerava le iniziative politiche che avrebbero portato alla nascita delle Comunità europee dipendeva da numerosi fattori. Il fatto che tali progetti fossero studiati in Paesi guidati dai conservatori (al cui interno le strategie di ricostruzione seguivano un modello economico tendenzialmente liberista, rispetto ai grandiosi progetti di statalizzazione sostenuti dai laburisti inglesi) e la convinzione di poter continuare a fare affidamento su quel legame transatlantico che univa Londra a Washington sono due fattori importanti che aiutano a comprendere la distanza che il governo britannico desiderò porre tra sé e i nascenti organismi europei. Tuttavia la causa principale andrebbe probabilmente ricercata nell'eredità imperiale della Gran Bretagna, la quale sopravviveva nei legami di dipendenza tra la Gran Bretagna e i Paesi del Commonwealth, in rapporti, cioè, che affondavano nella storia, coinvolgevano tanto l'immagine di potenza mondiale che i britannici avevano della propria patria, quanto aspetti più pragmatici legati alle relazioni commerciali privilegiate esistenti tra Londra e i paesi associati. Per buona parte dell'establishment e dell'opinione pubblica il vincolo che univa i membri del Commonwealth era considerato inalienabile. Anthony Eden, ex Segretario di Stato agli Affari esteri e futuro Primo Ministro nella rovinosa vicenda di Suez, non ne fece certo un mistero quando nel 1949, nel corso di una intervista rilasciata a Le Monde, affermò che per il popolo britannico la partecipazione a iniziative di cooperazione sovranazionale in Europa non poteva mettere in discussione, o indebolire in alcun modo il legame Pocock, History and Sovereignity: The Historigraphical Response to Europeanization in Two British Cultures, in «Journal of British Studies», vol. 31, n. 4, 1992, p. 362 e ss. 91 H. Gaitskell, in Britain and the Common Market. Texts of speeches made at the 1962 Labour Party Conference by the Rt. Hon. Hugh Gaitskell M.P. And the Rt. Hon. George Brown M.P., Londra, Labour Party, pp. 3-23. 36 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 tra la Gran Bretagna e il resto del Commonwealth92. Il 3 giugno 1950, il Segretario di Stato per le Relazioni con il Commonwealth, al tempo Patrick Gordon Walker, presentò un rapporto sulle ripercussioni che un eventuale ingresso della Gran Bretagna nella CECA, prefigurata nella dichiarazione Schuman del 9 maggio precedente, avrebbe avuto sulle relazioni interne al Commonwealth. Le conclusioni del rapporto erano del tutto in armonia con quanto dichiarato da Eden appena un anno prima. Stando a quanto si legge nel memorandum, la condotta inglese mantenuta all'interno delle trattative per una “closer union” tra i Paesi europei, si ispirava a due principi fondamentali: a) the need to play our full part – and, indeed, to take the lead – in revivifying Europe, while at the same time b) not engaging ourselves in anything which was likely to do damage to our relationship with other Commonwealth countries. 93 La Gran Bretagna veniva così a trovarsi incastrata tra due esigenze. Da una parte, quella di svolgere un ruolo di primo piano all'interno del concerto continentale; dall'altra quella di mantenere con scrupolosa cura l'unità commerciale, storica e ideologica che il Commonwealth incarnava. La questione aveva più a che fare con problemi di ordine economico e politico che non con i sentimentalismi di una potenza decadente incapace di accettare il declino del proprio impero. Come il memorandum non mancava di notare, i membri del Commonwealth sarebbero stati certamente contrariati dal fatto che l'intera industria siderurgica britannica fosse posta sotto il controllo legislativo di un'istituzione autonoma dai governi centrali quale avrebbe dovuto essere la CECA. Tale eventualità, agli occhi dei governi dei paesi del Commonwealth, metteva a repentaglio lo scambio di materie prime e beni manifatturieri sulla base di tariffe agevolate che intercorreva tra di essi fin dai tempi degli accordi di Ottawa (1932). Per i dominion, insomma, l'attrazione della Gran Bretagna nell'orbita dell'Europa unificata comportava il tramonto del sistema della preferenza imperiale e di quell’artificiale competitività economica che quest'ultimo conferiva loro. Inoltre, se davvero l'esperimento di integrazione settoriale rappresentato dalla CECA si fosse sviluppato secondo i desideri e le aspettative degli schieramenti più convintamente europeisti, era probabile che A. Eden, Great Britain, Europe and the Commonwealth, «Le Monde», 24 dicembre 1949. Memorandum by the Secretary of State for Commonwealth Relations. Integration of Western European Coal and Steel Industries: Commonwealth Implications, July 3d 1950, The National Archives of the United Kingdom, Prime Minister's Office: Correspondence and Papers, 19451951, PREM 8. Parts I-II: Schuman Plan, 1950-51, PREM 8/1428. 92 93 37 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 da una cooperazione di tipo economico si sarebbe presto transitati verso un'integrazione politico-istituzionale, federale e sovranazionale. Nel momento in cui gli Stati europei si fossero trovati nella condizione di condividere non soltanto risorse materiali ma anche responsabilità politiche, i rapporti tra Gran Bretagna e Commonwealth sarebbero stati pesantemente alterati se non del tutto estinti. Un simile esito non poteva essere accolto dalla strategia estera laburista, per la quale (al pari di quanto asserivano i conservatori, peraltro interessati al libero scambio con i paesi europei) la Gran Bretagna doveva restare una potenza autonoma. Perché ciò accadesse la Gran Bretagna poteva contare solo sul peso e sul prestigio del proprio impero quale valido contrappeso da opporre ai giganti americano e sovietico. Il memorandum raccomandava perciò, in primo luogo, di tenere costantemente aggiornati gli altri governi del Commonwealth sui futuri sviluppi concernenti il Piano Schuman e, in secondo luogo, di orientare il dibattito con i Paesi dell'Europa continentale affinché la costituenda autorità per il carbone e l'acciaio non avesse carattere sovranazionale, né tanto meno poteri legislativi. I calcoli politici britannici sarebbero stati così perfettamente assecondati, poiché la Gran Bretagna non sarebbe rimasta ai margini dell'Europa, ma avrebbe preso parte alla costituzione della Comunità europea, riuscendo tuttavia a manovrare in modo tale che nessuna forma di integrazione con i Paesi dell'Europa continentale mettesse a repentaglio l'armonia interna e gli interessi vitali del Commonwealth. A scheme, broadly along these lines, would be seen as playing its part in the general effort to restore European economy without raising the fear of Britain's being ultimately swallowed up in the Continent and cutting her ties with the Commonwealth. 94 L'accento che il discorso storico-politico britannico pose sull'importanza dei vincoli morali, ideologici e commerciali che tenevano insieme il British Commonwealth of Nations, illustra adesso una tendenza a concepire l'appartenenza della Gran Bretagna al Commonwealth in termini esclusivi: essendo parte di quella composita organizzazione multinazionale, la Gran Bretagna si precludeva la possibilità di associarsi a una comunità simile il cui centro, tuttavia, era costituito dall'Europa occidentale. Per concludere, possiamo notare come la cultura politica britannica fu capace di elaborare un'originale teoria delle relazioni internazionali in cui discorso imperiale e teoria federale intrattengono un fitto dialogo. In un periodo storico in cui l'assoluta autodeterminazione nazionale era annoverata tra i più 94 Ibidem. 38 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 alti valori politici, alcuni autori seppero stabilire un originale nesso tra la realtà del dominio imperiale britannico e le esigenze di trasformazione di un mondo sempre più globalizzato e tuttavia ancora fondato sull'instabile sistema della balance of power. Ciò che fu considerato esemplare nell'organizzazione dei rapporti tra Gran Bretagna e settler colonies era il fatto che esse, pur essendo “comunità autonome eguali per status” avevano spontaneamente deciso di rinunciare a una parte della propria sovranità nazionale, di sottostare a un medesimo vincolo di fedeltà (in questo caso rappresentato dalla Corona) e di affrontare di comune accordo la discussione delle materie vitali per la sopravvivenza dell'impero. Come sostenne, sul finire degli anni Quaranta, Lord Altrincham: It is therefore the British Empire alone which has held nation-states together in effective unity up to the present time. Despite their sovereign independence of each other, its member have preserved a sense of responsibility to each other and to the system out of which they grew; and they were thus inspired by a common impulse to act together instantaneously in defense of it. 95 Ancora nel present time, insomma, la forma imperiale britannica veniva vissuta e indicata da autorevoli sudditi di Sua Maestà come il soggetto politico che era riuscito laddove altri avevano fallito: ovvero nel conciliare autonomia e sovranazionalità, nel combinare unità e diversità. Un modello fortunato che il Regno Unito non era tuttavia più disposto a esportare e promuovere nell’Europa entrata nel processo di costruzione di un proprio assetto a vocazione federale e sovranazionale. Lord Altrincham, The British Commonwealth and Western Union, in «Foreign Affairs», vol. 27, n. 1, 1948, p. 604. 95 39 B. Giuliani, A State Eurostudium3w luglio-settembre 2015 La Santa Sede e la questione armena nei documenti vaticani (1915 -1921) 1 di Antonella Ricci «Fare memoria di quanto è accaduto è doveroso non solo per il popolo armeno e per la chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili errori, che offendono Dio e la dignità umana.»2 Una premessa storiografica La tragedia armena si compie in un’epoca di grandi rivolgimenti storici; un intero popolo viene privato dei beni personali, sradicato ed eliminato dalla terra in cui per più di duemila anni ha vissuto in un contesto multiculturale. Il patrimonio identitario della nazione vede così interrotto il suo percorso storico e in Anatolia i segni monumentali della presenza armena sono abbandonati al degrado, quasi scomparsi. Tale frattura non è ancora recuperata dalla verità storica. Per diversi decenni, dopo il trattato di Losanna, il rafforzamento della Repubblica turca e l’esaurirsi della cosiddetta “vendetta armena”, cala il silenzio su tutto quel tragico evento che ha segnato gli anni della prima guerra mondiale. La rimozione è collettiva ed ha diverse giustificazioni: per il governo kemalista il genocidio armeno è un peso e un’eredità difficilmente gestibile e Il presente articolo nasce da una tesi di laurea specialistica in storia moderna discussa il 19 gennaio 2011 a La Sapienza, con le prof.sse Anna Foa e Lucia Scaraffia, su cui si è continuato a lavorare. 2 Papa Francesco, Messaggio agli armeni, Vaticano, 12 aprile 2015. 1 40 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 pertanto non viene riconosciuto, con la scusante che durante il ‘trasferimento’ delle popolazione - deciso per motivi di sicurezza nazionale, data la presenza in guerra di armeni nei due paesi, turco e russo- molti morirono proprio a causa dei disagi del conflitto. Per l’Occidente il silenzio è la migliore opportunità per allontanare il ricordo della sua complicità in tanti momenti dello svolgimento della complessa vicenda; anche per gli armeni sovietizzati il silenzio è l’opportunità migliore per vivere in un regime totalitario che non lascia spazio a rivendicazioni identitarie di tipo nazionalistico. Ridotta infatti a entità riconoscibile solo come Repubblica sovietica all’interno dell’URSS, l’identità armena fatica a ritrovarsi e a confrontarsi con l’immane tragedia che ancora si riverbera sui sopravvissuti e sulle comunità sparse nel mondo. È questo il periodo, potremmo così dire, del silenzio. Dal 1923 i diversi governi turchi hanno continuato ad asserire, con vario vigore e intensità, che non c’è stato genocidio. […] I governi turchi sembrano essersi accorti che un riconoscimento potrebbe comportare un cambiamento di confini e contaminerebbe l’onore della Repubblica e indebolirebbe la sua posizione internazionale. I paesi stranieri hanno accettato o si sono opposti a questa interpretazione a seconda dei loro interessi politici, economici o di sicurezza. 3 Queste parole dello storico Torben Jørgensen rendono efficacemente la linea storiografica interpretativa turca, di esplicito negazionismo, nata da un precisa operazione della giovane repubblica, ripensare e sistemare l’interpretazione storica del passato nazionale secondo canoni di segno politico, tanto più opportuni considerando l’inserimento del nuovo stato nel campo occidentale e dell’Alleanza atlantica, e per le necessità della guerra fredda. Le origini di tale operazione si fanno risalire ai primordi della Turchia postottomana. Così, Fatma Müge Goçek, storica turco-americana, nel suo Turkish Historiography and the Unbearable Weight of 19154, colloca “le fondamenta per la storiografia ufficiale della Repubblica turca” nel discorso pronunciato nel 1927, in occasione del secondo congresso del partito popolare repubblicano, da Mustafa Kemal, generale dell’esercito e organizzatore della rinascita nazionalista turca e guida del governo di Ankara dal 1919, chiamato dal Parlamento con il nuovo cognome Atatürk, “padre dei turchi”. Le sue parole: In quell’intervento Mustafa Kemal raccontò la propria storiografia della guerra d’indipendenza per tre giorni filati e la sua storiografia divenne alla fine quella della nazione turca. […] Nella storiografia turca ufficiale, l’egemonia del nazionalismo turco risultò in una drammatica T. Jørgensen, Turkey, the US and the Armenian Genocide, in S. L. B. Jensen (a cura di), Genocide: Cases, Comparison and Contemporary Debates, Steven L.B. Jensen, The Danish Center for Holocaust and Genocide Studies 2003, pp. 193-194. 4 Paper presentato al Workshop for Armenian-Turkish Scolarship, tenutosi a Salisburgo dal 15 al 17 aprile 2005. 3 41 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 limitazione del repertorio storico su cui gli studiosi s’impegnarono nella ricerca del passato della Turchia. L’uso ufficiale della storia descrisse in modo molto selettivo le condizioni sociali dell’impero ottomano, il ruolo al suo interno dei diversi gruppi sociali, l’ampiezza delle scelte che questi gruppi avevano e lo spettro degli eventi storici che incontrarono. Su questo stato di cose non sarebbe possibile per la storiografia turca ufficiale fare alcun significativo progresso empirico e metodologico senza ricostruire la sua cornice, impegnandosi in un’analisi critica. 5 La Repubblica turca del resto viene fondata per iniziativa di precedenti membri dell’Ittihad6, di militari e burocrati implicati nei crimini del 1915. Kemal e i suoi uomini non possono, né vogliono riconoscere alcuna ingiustizia contro gli armeni, in parte per motivi di ordine pratico, come le reazioni dei funzionari statali e i procedimenti legali, ma soprattutto per il timore – probabilmente infondato, ma nondimeno fortemente presente – che un riconoscimento del genocidio avrebbe portato a un cambiamento dei confini nell’Anatolia orientale. L’epurazione degli armeni viene perciò probabilmente vista come una spiacevole, brutale, deplorevole, ma inevitabile soluzione all’altrimenti insolubile problema di una minoranza ribelle e sleale, una soluzione senza la quale la Repubblica turca non sarebbe nata. Questo modo di vedere si è tramandato fino ad oggi. Perciò dal 1923 il pensiero ufficiale afferma che gli armeni non hanno mai avuto uno Stato indipendente e quindi non hanno alcun diritto nel rivendicare alcuni territori in Anatolia; che sono stati ripetutamente sleali sia nel corso dell’Ottocento, sia nei primi decenni del Novecento e che l’apice di questa slealtà è stato il loro appoggio armato alle truppe russe nel 1915; e che per tali motivi i governi turchi sono stati costretti a deportare gli armeni. Questa è la versione ufficiale che i politici, e con loro gli storici turchi, decidono di sostenere. Kemal insomma vuole riscrivere il passato, e a tale scopo fonda all’inizio degli anni ’30 la Società turca di storia, incaricata di divulgare la “tesi turca della storia”, in base alla quale sono sempre stati i turchi gli abitanti indigeni dell’Anatolia. Già il generale dell’esercito turco del Caucaso Kâzım Karabekir, a commento di una nota del commissario bolscevico Cicerin del 3 giugno 1921, afferma cinicamente che “in Turchia non ci sono mai stati né un’Armenia né un territorio abitato dagli armeni” e la delegazione turca a Mosca il 13 agosto Fatma Müge Goçek, Turkish Historiograph and the Unbearable Weight of 1915, paper presentato al Workshop for Armenian-Turkish Scholarship, Salzburg, 15-17 aprile 2005; citato in M. Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 215-216. 6 Ittihad ve Terakki è il nome turco del Comitato di Unione e Progresso. 5 42 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 risponde sempre a Cicerin che “non c’è mai stata una provincia armena in Turchia”7. In argomento, fra i principali scritti della storiografia nazionalista turca si pronuncia l’opera in quattro volumi Tarih (Storia): edita nel 1931, riflette l’ideologia dello Stato e la sua necessità di riscrivere la storia, e diventa il punto di partenza dell’insegnamento della storia nazionale alle nuove generazioni, influenzando i futuri studiosi. Ispirata all’orgoglio per le imprese del popolo turco, Tarih ne intende creare una nuova, propriamente turca, più ancora che ottomana; e ricorre alla cosiddetta teoria del Sole (Günesh Teorisi), ipotesi linguistica pseudoscientifica elaborata proprio in Turchia nel 1930 e sostenuta da Mustafa Kemal8. In definitiva, come hanno riconosciuto e affermato diversi storici, tra cui R. Hovannisian e T. Jørgensen, gli studiosi turchi devono accettare la linea ufficiale e la censura statale controlla ed elimina le pubblicazioni indesiderate. Dal canto loro però, molti intellettuali turchi si concepiscono come educatori, responsabili del processo della formazione identitaria, impegnati in esso più che nella ricerca della verità. I risultati di questo atteggiamento producono interpretazioni sicuramente indifendibili, avallate dai politici turchi che temono al contempo le rivendicazioni armene in Anatolia e la direttiva politica delle potenze occidentali e della Russia. La prima reazione viene dagli Stati Uniti già nel 1919, quando Henry Morgenthau pubblica nelle sue memorie, quale ambasciatore americano a Istanbul (1913-1919)9, le prime notizie documentate sullo sterminio degli armeni; il forte interesse suscitato nell’opinione pubblica americana non ha tuttavia sviluppi né conseguenze. Nel 1934 è la casa cinematografica Metro Goldwyn Mayer a recuperare la questione armena con il progetto una versione cinematografica de I quaranta giorni del Mussa Dagh, epopea della resistenza armena Citato in C. Mutafian, Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Guerini e associati, Milano 1995, pp. 55-56. 8 Secondo tale teoria, tutti i popoli discendono dai turchi dell’Asia centrale, che, come raggi di sole, si sono irradiati nel mondo, creando uno Stato e fondando civiltà in Africa, Asia e Europa. Nel linguaggio si rintraccia uno sviluppo analogo, secondo il quale tutte le lingue derivano da una primordiale lingua turca. L’uomo turco preistorico, colpito dai benefici effetti del Sole sulla vita, lo eleva alla divinità da cui proviene tutto e a cui dà nome “ag”, la sillaba da cui derivano tutte le altre. Non fa menzione degli armeni che arrivano in Asia Minore intorno al 1200 a. C. La teoria del Sole e l’assenza degli armeni sono rintracciabili anche nei dodici volumi di Türk Tarikhi (Storia turca), altra opera ufficiale scritta da Rıza Nur tra il 1924 e il 1926. 9 H. Morgenthau, Ambassador Morgenthau’s Story, Doubleday, Page & Co., Garden City (N.Y.) 1919. 7 43 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 di Franz Werfel10, scrittore e drammaturgo praghese di cultura ebraica, come Morgenthau. Il governo di Kemal reagisce prontamente, protestando presso il Dipartimento di Stato e minacciando di boicottare le merci americane e di proibire la diffusione di film americani in Turchia; il Dipartimento di Stato fa pressione sui direttori della casa cinematografica, che rinunciano al progetto dopo aver cercato vanamente per un anno di negoziare una soluzione. Si può quindi concludere che dopo una mobilitazione della società americana in favore degli armeni durante la prima guerra mondiale, successivamente al 1918 altri fattori politici e soprattutto economici diventano più importanti per l’amministrazione americana. Se il periodo tra le due guerre è sicuramente il meno adatto al riaffiorare di un nazionalismo di tipo rivendicativo11, e la tragedia della seconda guerra mondiale cancella poi il ricordo di drammi precedenti per polarizzare l’attenzione sulla Shoah, gli esordi del secondo dopoguerra e della guerra fredda relegano ancor più nel passato l’esistenza di una questione armena. In via generale, dopo il riconoscimento e la definizione del genocidio nell’opera di R. Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, Axis Rule In Occupied Europe del 1944, in cui lo si intende come la distruzione di un gruppo nazionale o di un gruppo etnico, il genocidio viene condannato, per la prima volta, dall’Assemblea generale dell’ONU l’11 dicembre del 1946, nella risoluzione 96, come “una negazione del diritto alla vita di gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte” e nel “rifiuto al diritto all’esistenza di un intero gruppo umano che sconvolge la coscienza dell’umanità”12. Solo nel 1950 ad Ankara viene pubblicato Tahrihte Ermeniler ve Ermeni, saggio dello storico turco Esad Uras sulla questione armena, ripubblicato in una versione più ampia nel 1976 e nel 1988 in versione inglese, ancora più ampliata (The Armenians in History and the Armenian Question). Si tratta del primo tentativo, dalla nascita della Repubblica turca, di parlare direttamente degli Werfel si imbatte per caso nella sventura armena quando, nel 1929, durante un viaggio a Damasco, è colpito dai bambini armeni orfani, denutriti, pallidi, con enormi occhi scuri che nella maggiore tessitoria di tappeti della città “si muovevano per tutto il pavimento, raccoglievano spolette e fili, e talvolta scopavano anche il pavimento”. Da allora raccoglie documentazione e appunti: l’ambasciatore francese conte Clauzel gli invia tutti i documenti che si trovavano al ministero della guerra di Parigi, relativi agli orrori perpetrati dai turchi contro gli armeni; più tardi, dal 1932 al 1933, scrive il romanzo. 11 Lo prova anche la proibizione di una traduzione in armeno de I quaranta giorni del Mussa Dagh. 12 Assemblea generale delle Nazioni Unite, Risoluzione 96, 11 dicembre 1946. 10 44 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 armeni e della questione armena, anche con adeguate risposte, di natura difensiva, a questioni poco gradite poste in Occidente ai diplomatici turchi. Così, a proposito del 1915, Uras mette in risalto la grande importanza della collaborazione dei partiti armeni, specialmente il Dashnak13, con i russi; argomenta il diritto dello Stato turco di difendersi dagli attacchi di un gruppo di traditori, le violenze e le cospirazioni armene ai danni dei musulmani; il tentativo, da parte delle potenze straniere, di destare l’ostilità degli armeni; sottolinea che gli armeni non hanno mai avuto un proprio Stato e critica il lavoro di molti storici armeni che utilizzano miti e tradizioni orali, che considera premesse a partire dalle quali è impossibile la ricostruzione della storia armena. La pubblicazione ottiene dunque grande influenza, anche per il suo collocarsi negli anni dell’anticomunismo e del crescente interesse degli Stati Uniti per rapporti di amicizia con la Turchia. In sintesi sono due le argomentazioni principali del libro rispetto al massacro armeno: in primo luogo l’attribuzione agli armeni, e non l’inverso, dell’uccisione di migliaia di turchi e la conseguente azione di difesa dello Stato con le deportazioni (“relocations”); la negazione di massacri tra la popolazione armena perché le “relocations” sarebbero state attuate in uno spazio limitato con uno svolgimento ordinario, “disturbato” dagli stessi armeni14. A conclusione: The Turks had given the Armenians no real cause for rebellion. It might, therefore, not be unjustificable to put the blame for what happened in the end on the Armenians themselves”. 15 Pur nella loro contraddittorietà, gli argomenti di Uras sussistono fino al 1977, anno in cui viene pubblicato il lavoro di Stanford J. Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, e il revisionismo turco tocca il suo nuovo apice. Fino ad allora, il testo di Uras rimane il punto di vista ufficiale sulla questione armena, centrato sulla tesi di una “reazione” obbligata e riluttante alla “dichiarazione di guerra” lanciata dagli stessi armeni. Le morti armene non sono insomma riconducibili agli attacchi dei turchi (tra le fila dei quali si registra il più alto numero di vittime), ma per lo più a malattia, fame, scontri tra gruppi nemici armati, cattive condizioni di trasporto16. Il partito Dashnaksutiun o Federazione Rivoluzionaria Armena (FRA), è un partito nazionalista, fondato a Tiflis nel 1890 da Christapor Mikaelian, Stepan Zorian e Simon Zavarian, con l’obiettivo di unificare le lotte degli armeni contro le usurpazioni dei turchi e di creare un’Armenia libera e indipendente. 14 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp. 204-206. 15 E. Uras, The Armenians in History and the Armenian Question, p. 884, citato in T. Jørgensen, op. cit., p. 207. 16 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., p. 207. 13 45 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nei medesimi anni, le stesse società armene della diaspora in Occidente, impegnate nella ricerca di un nuovo modus vivendi, preferiscono guardare al futuro e non al passato: i massacri del 1915 sono pressoché un tabù. Il cambiamento avviene nel 1965, a cinquant’anni dal genocidio, quando le comunità della diaspora cominciano il percorso della memoria17. Negli anni Sessanta, in occasione della preparazione e della commemorazione del cinquantesimo anniversario del Metz Yeghérn, il “Grande Male”, la memoria del genocidio armeno si propone all’attenzione internazionale. Bisogna, a tale proposito, ricordare un fatto particolare, collocato nel 1965 in Armenia, allo scadere della “profezia” lanciata nel 1915 da Talât Pascià, uno dei triumviri dei Giovani Turchi, in base al quale “tra cinquant’anni non ci sarà più un armeno sulla faccia della terra”: nel 1965, a Yerevan, nell’Armenia sovietica, un gruppo assai numeroso di armeni sale in processione a Dzidzernagapert, la Collina delle Rondini, dove dal 1967 sorge il “Memoriale del genocidio”. Manifestano al grido “sono passati cinquant’anni e noi siamo ancora qui”. Questo è l’inizio della rottura della congiura del silenzio. Nel ventennio successivo, la diaspora ‘culturale’ cerca di coinvolgere la coscienza collettiva attraverso una commemorazione articolata che raccoglie memorie e documenti, interviste a sopravvissuti e documentari fotografici, costruisce narrazioni e dibattiti storiografici, riti pubblici e ricordi collettivi. Il contesto è quello dello studio dell’Olocausto che vede nel genocidio armeno, proposto come “primo genocidio della storia”, il suo archetipo e la sua preparazione. La frase di Hitler “chi oggi si ricorda degli armeni?”, pronunciata nell’agosto del 1939 a Obersalzberg ai comandanti militari tedeschi prima dell’invasione della Polonia, e che si riferisce alla violenza senza remore da poter utilizzare contro i polacchi, viene spesso interpretata in riferimento alla “soluzione finale” ebraica e alla possibilità, evocata dal Führer, di rimanere impuniti per uccisioni di massa come quella dei turchi nei confronti degli armeni. In questa lettura, il genocidio armeno sarebbe stato il primo modello di quelli successivi18. Dagli anni Sessanta, il mondo comincia ad interessarsi del destino degli armeni; gli studiosi occidentali riprendono gli studi e i turchi reagiscono ridefinendo la loro propaganda, che si intensifica a mano a mano che cresce l’interesse per il genocidio armeno appunto all’interno degli studi sul genocidio. D’altro canto le organizzazioni armene provano a intensificare le pressioni, specie negli USA, perché il massacro del 1915 venga chiamato col proprio nome, “genocidio”. 17 18 Ibidem, pp. 207-208. Cfr. M. Flores, op. cit., pp. 213-214, 271. 46 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Ciononostante nella storiografia occidentale, influenzata dalla guerra fredda, persistono tendenze apologetiche della Repubblica turca. La costruzione storiografica nazionalistica turca si interseca così con la storiografia accademica moderna che fiorisce nel contesto ideologico della guerra fredda. Ricordiamo a questo proposito il lavoro risalente al 1951 di Lewis V. Thomas, capostipite di questa linea interpretativa, e di Richard N. Frye, The United States and Turkey and Iran, in cui si afferma: Nel 1918, con la definitiva eliminazione dell’intera popolazione armena dall’Anatolia e dalla regione degli Stretti, eccetto per una piccola e insignificante comunità nella città di Istanbul, i processi di turchizzazione e islamizzazione finora largamente pacifici erano stati portati avanti con grande impeto con l’uso della forza. […] Se la turchizzazione e l’islamizzazione non fosse stata accelerata lì con l’uso della forza, oggi certamente non esisterebbe una Repubblica turca, una Repubblica che deve la propria forza e stabilità in non piccola misura alla omogeneità della sua popolazione, uno Stato che è adesso un valido alleato degli Stati Uniti. 19 Quali eredi della stessa linea interpretativa ricordiamo Stanford J. Shaw, Justin McCarthy, Health Lowry. Se nel 1951 il professore americano Lewis V. Thomas spiega il genocidio come una conseguenza dei nazionalismi occidentali, nel 1977 viene pubblicata l’opera di Shaw sulla storia ottomana e turca, in cui gli armeni risultano aver sempre giocato la parte della minoranza ribelle e terroristica in stretto contatto con le ostili potenze straniere. Di fatto una mano tesa alla storiografia turca della risposta obbligata alla “provocazione armena”, con conseguente avvio della deportazione. In stretta relazione col governo turco, in una posizione di prestigio nell’Università californiana di Los Angeles, Shaw, educato nella tradizione di pensiero occidentale, guida il rifiuto turco del genocidio su nuove vie più elaborate20. Il suo allievo McCarthy perfeziona tale interpretazione (The Ottoman Turks. An Introductory History to 1923, pubblicato nel 1997) e pone nello “scambio di popoli” tra armeni e musulmani la causa “dell’odio da entrambe le parti”, la cui colpa ricade sulla logica espansionistica dell’impero zarista: La ribellione armena divenne presto una guerra di sterminio. Se eri catturato dall’altra parte venivi ucciso, nessuno risparmiava donne e bambini. In tal modo ognuno era costretto a prendere partito, l’alternativa sarebbe stata di morire senza avere la possibilità di difendersi. La mortalità maggiore si ebbe tra i rifugiati di entrambe le parti. […] Sia gli armeni sia i musulmani vennero esiliati o deportati dalle loro case nel corso della guerra, con una enorme perdita di vite umane. 21 L.V. Thomas e R. Frye, The United States and Turkey and Iran, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1951, pp. 60-61. 20 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp. 209-210. 21 J. McCarthy, The Ottoman Turks. An Introductory History to 1923, Longman, London 1997. 19 47 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Il dibattito storiografico dagli anni ’80 vede diverse prese di posizione e diverse modalità di sostegno al rifiuto turco di ammettere la colpa: nei paesi occidentali vengono fondati degli istituti di ricerca storica e sociale sulla Turchia fermi nel negare il genocidio armeno (riconosciuto come tale in Uruguay fin dal 1965). Al tempo stesso, professori turchi attaccano le principali interpretazioni occidentali favorevoli agli armeni, criticando, ad esempio, l’attendibilità delle fonti da esse utilizzate. Nel 1982 la Repubblica turca stanzia tre milioni di dollari per fondare a Washington DC un “Istituto di Studi Turco” che sostiene ricerche, studi, pubblicazioni in materia, e che gode anche i contributi delle industrie americane e turche22. Il suo scopo è quello di “continue to play a key role in furthering knowledge and understanding of a key NATO ally of the US, the Republic of Turkey, among citizens”23. Lowry, discepolo di Shaw, diventa direttore dell’Istituto e più tardi, nel 1994, occupa la “Atatürk Chair in Turkish Studies” nell’università di Princeton. Sempre negli anni Ottanta iniziano gli studi sull’Olocausto e sul genocidio, nuovo ambito e nuova disciplina di ricerca, segnando il proprio esordio con l’opera di Leo Kuper, Genocide: Its Political Use in the 20th Century, del 1981. Cominciano dibattiti e discussioni teoriche, vengono pubblicate serie di monografie e antologie dedicate a singoli casi, sorgono centri di ricerca sul genocidio e si tengono molte conferenze, in cui si confrontano storici, sociologi, psicologi specializzati, i cui risultati contribuiscono allo sviluppo della nuova disciplina24. In parallelo gli Stati Uniti ampliano la loro apertura ai turchi, come appare evidente nel bollettino del Dipartimento di Stato, in cui si legge “Because the historical record of the 1915 events in Asia Minor is ambiguous, the Department of State does not endorse allegations that the Turkish Government committed genocide against the Armenian people”25. Come di rimando, avanza intanto il lento processo del riconoscimento di un “genocidio armeno”, che dagli anni Novanta vede moltiplicarsi nelle democrazie occidentali le dichiarazioni e le scuse ufficiali per gli errori d’interpretazione storica: in tutto il mondo i governi cominciano appunto riconoscere la responsabilità morale degli atti delle passate generazioni, della condotta nel tempo di guerra, della schiavitù o del maltrattamento delle Cfr. T. Jørgensen, op. cit., p. 211. ITS publication, citato in T. Jørgensen, op. cit., p. 211. 24 C’è chi sostiene che la reazione turca agli studi sul genocidio, con la crescente attenzione per l’anno decisivo 1915, ha portato ad enfatizzare una simpatia per il popolo ebraico e la condanna della linea politica tedesca durante la seconda guerra mondiale; cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp. 211-215. 25 R. Hovannisian, The Etiology and Sequelae of the Armenian Genocide, 1994, in G. Andreopulos, Genocide: Conceptual and Historical Dimensions, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1994, p. 131, citato in T. Jørgensen, op. cit., p. 215. 22 23 48 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 popolazioni indigene. In assenza di un movimento interno alla Turchia, la questione armena viene accolta e fatta conoscere dai parlamenti di diversi Stati. Notevole avvenimento, il 21 giugno 1995, lo studioso britannico naturalizzato Usa Bernard Lewis, considerato lo storico più celebre fra coloro che sostengono l’interpretazione turca, o per lo meno propendono per la tesi riduttiva del “massacro”, è simbolicamente condannato dal Tribunal de Grande Instance di Parigi proprio per la sua negazione del genocidio26. Per contro, anche se la guerra fredda è finita, gli Stati Uniti continuano ad aver bisogno di alleati in Medio Oriente; la posizione rispetto al genocidio è perciò altalenante, non senza interferenze di interessi politici ed economici. Ancora nel 2000 e fino ad oggi, ai lavori e ai dibattiti sulla questione armena della Commissione Relazioni Internazionali della Camera dei Rappresentanti USA partecipano intellettuali e commentatori politici turchi che possono approssimativamente essere classificati in quattro gruppi: i pochi che riconoscono il genocidio, i genocide recognisers, che domandano alla nazione turca di difendere i sopravvissuti e i loro discendenti; un gruppo più ampio che giudica gli eventi del 1915 come una tragica guerra civile, in cui turchi e armeni si massacrarono reciprocamente: ovvero il gruppo dei mutual killings, che riflette il punto di vista dell’élite nazionalistica più illuminata; il gruppo più numeroso, dei we are the real victims, il quale non riconosce le sofferenze degli armeni, ma sottolinea come siano stati i turchi e i musulmani a soffrire sia sotto gli attacchi armeni, sia con l’invasione russa, durante e dopo la prima guerra mondiale; un ultimo gruppo infine difende le deportazioni e i massacri come misure necessarie di cui non si prova alcun rimorso, facendo propria la visione del Partito d’Azione Nazionale, dei radicali islamici e dei gruppi nazionalistici connessi al quotidiano «Akit»27. Può essere utile soffermarsi sui genocide recognisers, che rifiutano come inaccettabili e ingiustificabili (in qualsiasi circostanza) le deportazioni e i provvedimenti simili, e tra questi sugli storici turchi Taner Akçam e Halil Berktay, sostenitori della tesi che deportazioni e uccisioni possono essere chiamati “genocidio” dal momento che il governo ottomano avrebbe pianificato centralmente il progetto di sterminio28. Cfr. fra gli altri www.voltairenet.org/article14133.html; www.lemonde.fr/europe/article/2005/04/22/l-historien-bernard-lewis-condamne-pour-avoir-niela-realite-du-genocide-armenien_641923_3214.html. 27 «Yeni Akit»(nuovo accordo) è un quotidiano turco conservatore e islamista, fondato nel 2010. 28 Cfr. M. Necef, The Turkish Media Debate on the Armenian Massacre, in S.L.B. Jensen (a cura di), Genocide: Cases, Comparison and Contemporary Debates, op. cit., p. 232. 26 49 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Taner Akçam presenta interessanti considerazioni circa i motivi “della perdita della memoria che caratterizza la società turca”29, una perdita che si manifesta come “l’inesistenza di una coscienza storica”30 rispetto ai massacri armeni, oscuro ma comunque chiuso capitolo nella storia della nazione. Akçam considera come, in generale, tutti gli Stati tendano a costruire una storia nazionale che presenti lo Stato esistente come il risultato di un inevitabile e ininterrotto processo a giustificazione del suo potere. In questo orizzonte, per la Turchia, la generazione repubblicana degli anni ’20 e ’30 provò a creare la sua ragion d’essere prendendo le distanze dallo Stato ottomano, spesso presentato in termini negativi. La “guerra di liberazione” (contro le potenze alleate, i greci e gli armeni dopo la prima guerra mondiale) viene così vissuta come una rinascita, “l’ingresso nell’esistenza dal nulla”. La presa di distanza dagli ottomani tuttavia non si traduce per gli uomini della Repubblica in una libertà di lettura dei fatti del 1915, a dimostrazione di come la Repubblica possa essere considerata la continuazione del vecchio regime, anche in riferimento a quanto non si desidera ricordare. Inoltre, secondo il mito fondativo della Repubblica, approvato e sottoscritto sia dalla destra che dalla sinistra in Turchia, lo Stato nazionale turco si è proposto come il risultato della lotta antimperialista contro le potenze europee che hanno provato invano a occupare, dividere e colonizzare la Turchia; l’antimperialismo è così elemento vitale dell’identità nazionale turca. In quest’ottica, il massacro degli armeni finisce però per contraddire tale mito fondativo, in quanto indica che il processo storico cominciato nel 1914, quando l’Impero ottomano entra nella prima guerra mondiale, e concluso nel 1923 con l’affermazione della Repubblica, ha in larga parte il carattere di una guerra civile contro armeni e greci che vivono in gran numero dentro i confini dell’Impero ottomano. Il terzo fattore è quello che Akçam chiama “lo spirito della milizia nazionale del popolo”, di quei movimenti cioè che, dopo la fine della prima guerra mondiale, cominciano la guerriglia contro le truppe alleate, la Grecia e la Repubblica d’Armenia, fondata dopo la guerra. Tutte le nazioni, infatti, glorificano i loro “combattenti per la libertà” e cercano perciò di rimuovere dalla memoria gli eventuali fatti ingloriosi. Di fatto però molti membri di questa milizia appartengono al comitato “Unione e Progresso”, profondamente implicato nei massacri degli armeni; altri, invece, sarebbero semplici bande di criminali che si appropriano dei beni degli armeni uccisi. Questa milizia del 29 30 T. Akçam, «Yeni Binyil», 24 ottobre, citato in M. Necef, op. cit., p. 241. Ibidem. 50 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 popolo viene o incorporata nell’esercito regolare sotto Atatürk o eliminata nel caso rifiuti l’incorporazione. Dopo la proclamazione della Repubblica, nel 1923, alcuni dei capi della milizia del popolo, radicati in “Unione e Progresso”, scalano e occupano le prime posizioni del nuovo regime: Sükrü Kaya, per esempio, diventa ministro degli Interni, Tevfik Rüsdü ministro degli Esteri e Mustafa Abdulhalik presidente del Parlamento. Nel 1925 ne vengono invece uccisi alcuni, accusati della pianificazione dell’attentato ad Atatürk a Izmir31. Un’ulteriore spiegazione della “perdita della memoria” e della difficoltà per i turchi di fare i conti col proprio passato si ravvisa nella costruzione delle identità nazionali sulla base di una continuità storica, della nazione come comunità etica capace di delineare una particolare cornice etica per i suoi membri; nessuno certamente ha interesse a presentarsi come membro di una nazione che ha commesso un genocidio32. Si può perciò sentir affermare spesso, come Gündüz Aktan dichiara in un’intervista al canale NTV della televisione turca il 15 ottobre 2000, qualcosa come: “noi non possiamo permettere che i nostri avi siano disonorati e offesi quali perpetratori di genocidio e non vogliamo trasmettere ai nostri figli e ai nostri nipoti questa accusa infamante”33. Dopo aver eliminato fisicamente gli armeni, i turchi ne dovevano perciò sradicare il ricordo con il cosiddetto “genocidio bianco”, per cui, per esempio, le guide turche delle grandiose rovine della città di Ani, capitale e gioiello dell’Armenia medievale, parlano soltanto di una città bizantina poi diventata turca, azzerando così il passato armeno. A questo “genocidio bianco” non risulterebbero a volte estranei neppure gli organismi internazionali. Alcuni esempi: l’esposizione di Costantinopoli del 1983, dedicata alle “civiltà anatoliche”, non nomina neppure gli armeni; nel volume pubblicato in quell’occasione, la carta dedicata all’età medievale mostra un vuoto nell’area in cui sorgevano i regni di Cilicia, di Van o di Ani34. Nei libri di testo e nei curricula dei diversi corsi di studio turchi, la costruzione dello Stato repubblicano si salda alla narrazione storica sviluppatasi nel paese a partire dagli anni ’30 e rinvigoritasi soprattutto nel periodo della guerra fredda. Lo rileva ancora Taner Akçam nel suo Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’impero ottomano alla repubblica, in cui afferma che: grandi epoche e avvenimenti storici paiono non esistere, come se fossero stati cancellati dalla storia e dalla memoria. Possiamo ragionevolmente parlare di un tentativo collettivo di Ibidem, pp. 241-242. Cfr. D. Miller, On nationality, Oxford, 1995, pp. 19-21, citato in M. Necef, op. cit., p. 243. 33 Intervista a Gündüz Aktan, canale NTV della televisione turca, 15 ottobre 2000, citata in M. Necef, op. cit., p. 243. 34 Cfr. C. Mutafian, op. cit., p. 56. 31 32 51 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 dimenticare tali questioni. Chiunque voglia discuterne si troverà ad affrontare due reazioni: da un lato, mancanza di interesse e indifferenza; dall’altro una risposta aggressiva e ostile. 35 È così evidente come sia la censura sia i meccanismi di rimozione rimodellino la gerarchia d’importanza e il criterio di rilevanza della narrazione storica, creando, a volte, dei veri e propri tabù. La costruzione della storia nazionale della Repubblica turca è un’opera selettiva di narrazione storica fortemente riduttiva e totalmente acritica, che diventa fondamento stesso dell’identità collettiva delle nuove generazioni, cui è così sottratto il passato e perciò la possibilità stessa di affrontare la storia in modo aperto e critico. In questa interpretazione storiografica si situa la visione della Repubblica kemalista come ‘nuovo inizio’, una visione che è però unicamente il frutto di uno scontro ideologico tra le forze del bene – quelle della nazione – e le forze del male – i pericoli che minacciano la nazione – totalmente al di fuori di una realistica consapevolezza del contesto storico36. Nel vivo della tragedia Dal maggio del 1915 cominciano ad arrivare anche in Vaticano notizie preoccupanti dei massacri perpetrati dai turchi ai danni degli armeni, inizio di quel genocidio che in pochi anni conterà un numero enorme di vite. Attraverso il delegato a Costantinopoli, monsignor Angelo Maria Dolci, che, a differenza degli altri due delegati apostolici in Siria-Libano e in Mesopotamia-Kurdistan, gode dei collegamenti diplomatici anche con Germania e Austria, vengono compiuti passi importanti per limitare almeno i massacri e le deportazioni. Monsignor Angelo Maria Dolci comincia infatti a muoversi presso Enver Paşa, il Ministro della Guerra turco, aiutato dai diplomatici tedeschi e austroungarici, con risultati complessivamente molto scarsi. Riesce comunque a bloccare l’ordine di deportazione degli armeni di Aleppo, impartito dal governatore della Siria. Pur non godendo di alcuno statuto diplomatico, ha tuttavia il pieno sostegno del cardinale Segretario di Stato, Pietro Gasparri, che gli ribadisce le linee guida dell’azione vaticana di fronte alle guerre, del non far cioè distinzioni tra cattolici, protestanti o altri37. Consapevole della tragedia, il 10 settembre 1915, lo stesso Papa Benedetto XV interviene direttamente e pubblicamente con T. Akçam, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica, Guerini e associati, Milano 2005, p. 217. 36 Cfr. M. Flores, op. cit., pp. 216-217. 37 Cfr. Benedetto XV, Ubi primum, 8 settembre 1914; Benedetto XV, Nostis profecto, 6 dicembre 1915. 35 52 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 una lettera al sultano Mehmed V. È questo un gesto senza precedenti, che ha ampia risonanza anche sulla stampa europea. Rivolgendosi al capo religioso dell’Islam, il capo religioso della Chiesa cattolica sottolinea la gravità dei massacri, che hanno coinvolto i civili armeni e anche molti ecclesiastici; dichiarandosi inoltre convinto che tali eccessi siano avvenuti contro la volontà del Sultano, lo esorta pertanto ad intervenire per la loro cessazione e in difesa del popolo armeno, suddito fedele. Pur non escludendo che tra gli armeni possano esserci dei ribelli, che vanno processati e condannati legalmente, chiede al Sultano di evitare di coinvolgere nella repressione i civili inermi e innocenti38.Anche nei confronti dei colpevoli invoca poi la clemenza imperiale. Come nota Mario Carolla, studioso e attento conoscitore degli archivi vaticani, la lettera del Papa sortisce un duplice effetto: se le persecuzioni turche, soprattutto verso i cattolici, vengono talora sospese, contemporaneamente viene irritato il governo ottomano39. Mehmed V è infatti anche un capo politico, in quel momento ostaggio del governo dei Giovani turchi. Dopo un colloquio con mons. Dolci, in cui il sultano dichiara di essersi trovato di fronte a una “cospirazione armena”, il 10 novembre risponde al Papa sostenendo l’impossibilità, per le autorità, di distinguere, nella cospirazione armena, tra gli innocenti e i sediziosi, giustificando in tal modo la pratica delle deportazioni di massa. A questo punto la Santa Sede tenta la via diplomatica e impartisce istruzioni al Segretario di Stato Gasparri per fare pressione presso i governi tedesco e austro-ungarico. Gasparri stesso, a sua volta, incoraggia i nunzi a fare presente ai governi tedesco e austro-ungarico che le leggi dell’umanità e della civiltà imponevano un loro intervento per “far cessare prontamente atti di barbarie i quali disonorano non solo chi li commette, ma anche chi, potendolo, non li impedisce”40. La linea ottiene anche un certo successo, come dimostrato dai ringraziamenti successivi di Zaven I Éghiaïan, patriarca della Chiesa armena gregoriana di Costantinopoli (diocesi patriarcale appartenente alla Chiesa apostolica armena) quando, nel 1919, torna in città dalla deportazione a Mossul, così come riportato nella lettera di Dolci a Gasparri 41. Come si vedrà avanti, il Vaticano stesso si adopera in azioni di sostegno umanitario. A. Riccardi, Benedetto XV e la crisi della convivenza multireligiosa nell’Impero ottomano, in Benedetto XV e la pace 1918, a cura di G. Rumi, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 104-105. 39 Cfr. M. Carolla, La Santa Sede e la questione armena (1918-1922), Mimesis, Milano 2006, p. 12. 40 Ivi, p. 28. 41 Eminentissimo Principe, di recente è giunto qui in città, ritornato dall’esilio, S. E. Mgr. Zaven, patriarca armeno gregoriano. Una delle sue prime visite fu fatta a questa Delegazione. Egli era 38 53 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Tacciano le armi Con la Nota alle potenze belligeranti42 del 1 agosto 1917 Benedetto XV compie un importantissimo passo a sostegno degli armeni. Del resto, già nell’Ubi primum dell’8 settembre 1914, esortazione rivolta a “tutti i cattolici del mondo”, scritta pochi giorni dopo la sua elezione al soglio pontificio il 31 agosto e all’inizio del primo conflitto mondiale, egli aveva invocato la pace: Allorché da questa vetta Apostolica abbiamo rivolto lo sguardo a tutto il gregge del Signore affidato alle Nostre cure, immediatamente l’immane spettacolo di questa guerra Ci ha riempito l’animo di orrore e di amarezza, constatando che tanta parte dell’Europa, devastata dal ferro e dal fuoco, rosseggia del sangue dei cristiani […]. Benedetto XV comunicava perciò di aver “fermamente deciso, per quanto è in Nostro potere, di nulla omettere per affrettare la fine di questa calamità […]”, concludendo quindi con la viva esortazione a “coloro che reggono le sorti dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell’interesse della società umana”43. Analogamente, nel discorso del 6 dicembre 1915 al Sacro Collegio Cardinalizio Nostis profecto, il papa invocava ancora la pace per poi rivolgere la sua attenzione direttamente all’Armenia: Per fermo, nonostante che immense rovine si sian già accumulate nel corso di questi sedici mesi, nonostante che cresca nei cuori il desiderio della pace, e alla pace anelino nel pianto numerose famiglie, nonostante che Noi abbiamo adoperato ogni mezzo che valesse in qualche modo ad affrettare la pace e a comporre le discordie, pur nondimeno questa guerra fatale imperversa ancora per mare e per terra, mentre, d’altra parte, sovrasta alla misera Armenia l’estrema rovina. 44 Il pontefice non cede di fronte alla continua tragedia sui campi di morte e il 1 agosto 1917 nella già citata Nota ai Capi dei popoli belligeranti ricorda innanzitutto le tre cose che: accompagnato dal suo vicario. Il Patriarca, dopo i primi convenevoli, entrò subito a parlare dell’opera del S. Padre in favore e per protezione della Nazione Armena, per la quale opera espresse i suoi sentimenti della più viva riconoscenza e mi pregò di trasmetterli al S. Padre. Cogliendo l’occasione, misi il patriarca al corrente di quanto fu fatto e che avrebbe potuto non giungere a conoscenza di lui, e credetti bene, giunto il momento opportuno, dargli lettura della prima Nota dalla Santità Sua rivolta a S. M. il Sultano. Alla mia volta andai a restituirgli la visita. Fui ricevuto con somma deferenza ed onore, ed ebbi la consolazione di riudire da S. Beatitudine espressa la sua grande ammirazione per l’opera del S. Padre in questa guerra e la sua gratitudine in particolare per la parte che i suoi connazionali ne hanno goduto. Chinato al bacio ecc.», Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 1, n. [?], 6 marzo 1919 Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 42 Benedetto XV, Nota alle potenze belligeranti, 1 agosto 1917. 43 Benedetto XV, Ubi primum, 8 settembre 1914. 44 Benedetto XV, Nostis profecto, 6 dicembre 1915. 54 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Fin dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull’Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci dettano la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una ‘pace giusta e duratura’.[…]. Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall’esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli […]. Riconosce però che «purtroppo l’appello Nostro non fu ascoltato […]» e passa alle proposte pratiche di un accordo sui capisaldi per una pace giusta e duratura. Innanzitutto: Per non contenerCi sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli. E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione. Il tacere delle armi come primo punto, quindi una pace concordata: Stabilito così l’impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficii immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità. E da qui una chiara linea strategica: Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche. […] 55 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Il pontefice invoca un equo assetto dell’Armenia, come quello degli Stati balcanici e della Polonia: Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l’esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l’attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni. 45 Benedetto XV considera le aspirazioni armene legittime come quelle degli altri paesi europei, prospetta una necessaria soluzione delle varie questioni, per quanto possibile, nel rispetto della volontà dei popoli interessati, anticipando così lo spirito dei quattordici punti di Wilson dell’8 gennaio 1918. In particolare – va ricordato – usa espressioni generiche circa le nazionalità sottoposte all’Impero ottomano, ma chiede inequivocabilmente l’indipendenza della Polonia. Sempre nella Nota dell’agosto 1917 sono chiaramente delineati, riferiti nella circostanza alla prima guerra mondiale, i criteri con cui la Santa Sede intende porsi di fronte a un conflitto: imparzialità, prudenza e libertà di giudizio. Sono anche chiaramente espresse le basi dell’auspicabile futuro assetto dei popoli46. Difatti il pontefice si rivolge ai capi del mondo: Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d’altra parte, che è salvo, nell’uno e nell’altro campo, l’onore delle armi; ascoltate dunque la Nostra preghiera, accogliete l’invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori. 47 “Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l’Italia e l’Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano”. 46 “Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l’avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti”. 47 Benedetto XV, Nota alle potenze belligeranti, cit. 45 56 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 La ripresa delle stragi e l’operato della Chiesa Già nei primi mesi del 1918, dopo le grandi ondate di massacri del 1915 e del 1916, le stragi di armeni e di altri cristiani riprendono con l’avanzata dei turchi, i quali, dopo l’armistizio di Brest Litovsk, stanno rioccupando i territori ceduti alla Russia e quelli perduti durante la guerra. A dare notizia di questi terribili fatti alla S. Sede sono il vescovo armeno cattolico Der Abramian, Amministratore Apostolico armeno-cattolico nell’Impero russo ed anche l’eminente laico della Chiesa apostolica armena, rappresentante a Parigi dei catholicoi48, Boghos Nubar Pascià. Quest’ultimo era un armeno egiziano che aveva organizzato per i francesi la Legione d’Oriente e che aveva fondato nel 1912 la Delegazione nazionale armena a Parigi, con il compito di coordinare le attività filo armene, sensibilizzando l’Europa al riguardo49. La lettera del 5 marzo 1918 di Der Abramian al Papa riporta il dispaccio apparso il 2 marzo dello stesso anno sul giornale italiano «La Tribuna»:50 Beatissimo Padre, con sommo dolore, con l’animo straziato ho letto ieri sul giornale un dispaccio col seguente titolo “Massacro di russi a Trebisonda”. Parigi 1 marzo. L’agenzia dei Balcani ha da Pietrogrado che al momento della rioccupazione di Trebisonda migliaia di sbandati russi sono stati fucilati e annegati. Sono stati gettati a mare molti sacchi pieni di ragazzi armeni; uomini e donne sono stati crocefissi e tutte le giovani donne e le fanciulle sono state abbandonate alla soldatesca («La Tribuna» del 2 marzo 1918). Racconta quindi le tribolazioni dei cristiani a lui affidati e chiude la lettera con l’invocazione della protezione del Papa. A questa funestissima notizia mi pare di sentire, col cuore lacerato, l’eco delle grida di disperazione e desolazione di una gran parte del mio povero gregge che si trova nel Caucaso. Specialmente quelli che si trovano a Batum, Artvin, Kars ecc. circa 20.000 armeni cattolici con 25-30 preti stanno in pericolo imminente: se il Governo Turco è entrato ovvero sta per entrare, allora avranno la stessa terribile sorte di quei di Trebisonda. Io non ho altra speranza, dopo DIO, che la protezione morale di Vostra Santità, che trovi un mezzo, senza indugio, di sollevare Il termine greco catholicos, entrato nell’uso probabilmente nel VI sec., si riferisce alla carica di capo dei vescovi o patriarca. 49 Cfr: B. Nubar, The Armenian question before the Peace Conference, New York Press Bureau, The Armenian National Union of America 1919; Letter to the Times of London, 30 gennaio 1919; The Pre-War Population of Cilicia, Pettitt, Cox & Bowers, London 1920; B. Nubar and Nubarashem, publication of the general Directorship of Armenian General Benevolent Union, Paris 1929; B. Nubar’s papers and the Armenian question, 1915-1918, Mayreni publishing, Monterey 1996. 50 «La Tribuna», quotidiano fondato a Roma nel 1883 dai politici Alfredo Baccarini e Giuseppe Zanardelli quale organo politico della loro corrente, la “pentarchia”; vive fino al novembre del 1946. Segue con attenzione il fronte di guerra russo-turco già dal 1914. 48 57 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 i suoi lontani disgraziati figli che tutti con me gridano a VOSTRA SANTITÀ ‘DOMINE, SALVA NOS, PERIMUS’. 51 Lo stesso vescovo armeno cattolico Der Abramian, insieme al Procuratore Patriarcale Pietro Kojunian, arcivescovo della Chiesa apostolica armena di Calcedonia degli Armeni, e a p. Giovanni Torossian, Provinciale Generale dei Mechitaristi armeno-cattolici di Venezia, continuano ad informare il Papa degli eventi. Infatti, la cessione da parte della Russia delle province a presenza armena di Ardahan, Kars e Batum nelle mani del governo turco: dà le mani libere alla barbarie mussulmana per la continuazione delle stragi e deportazioni del 1915 delle popolazioni Armene già in parte ripopolate in quelle regioni, per portare a compimento l’iniquo suo progetto dell’intiera distruzione della nostra Nazione. Con sommo dolore e trepidazione si apprendono già le notizie di quel che fanno i Turchi nel loro ingresso a Trebisonda. 52 Ricordando poi con gratitudine e riconoscenza che gli interventi del Papa avevano in parte mitigato la sorte degli infelici armeni, i tre religiosi continuano a cercare protezione per il popolo armeno nell’interessamento e nell’aiuto di Sua Santità. Der Abramian ringrazia per il «magnanimo atto» del Pontefice verso la sua «travagliata e decimata Nazione» in riferimento alla Nota ai Capi dei popoli belligeranti53. Anche Boghos Nubar, della Delegazione nazionale armena che affianca (contrapponendosi) a Parigi la Delegazione della Repubblica Armena, nel telegramma inviato in Vaticano dalla Conferenza di pace l’8 marzo del 1918, si appella rispettosamente alla protezione del Santo Padre, incoraggiato dai suoi sentimenti di compassione dimostrati nei confronti degli armeni. Ne chiede l’intervento: afin que la réoccupation turque des provinces abandonnées par russes ne renouvelle crimes et atrocités qui ont ensanglanté Arménie et ne lui porte dernier coup fatale stop Communiqués officiels ottomans avouent excès sanguinaires déjà commis et il est urgent qua Sa Sainteté La lettera si chiude con una invocazione: Io non ho altra speranza, dopo DIO, che la protezione morale di Vostra Santità, che trovi un mezzo, senza indugio, di sollevare i suoi lontani disgraziati figli che tutti con me gridano a VOSTRA SANTITÀ ‘DOMINE, SALVA NOS, PERIMUS’”, Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 59711, 5 marzo 1918, Roma – Der Abramian al Papa – Administrator Apostolicus Armeno–Catholicorum in Imperio Russiaco. 52 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 59712, 6 o 7 marzo 1918, Roma – Der Abramian e altri al Papa. 53 Di fronte a “un sì orribile sterminio”, Der Abramian non vede «altro rifugio e rimedio che nella validissima protezione ed efficace interessamento di V. Santità: e ciò umilmente imploriamo per tutta la Nazione Armena ed in special modo per i Cattolici, i quali benché pochi in proporzione dei non uniti, perdettero però cinque Vescovi diocesani, molti del Clero sia regolare sia secolare, e molte migliaia di Fedeli sono morti sia per morte violenta sia per i disagi e tormenti sopportati nelle deportazioni. 51 58 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 étende sa main protectrice sur malheureuses populations sans défense et empêche leur extermination. 54 Nella risposta del giorno seguente, il cardinal Gasparri assicura Nubar che la Santa Sede, ancor prima di aver ricevuto il telegramma, aveva fatto “des pressantes démarches dans le but désiré”55. Per parte sua Nubar, nella lettera dell’11 marzo inviata a Gasparri, in cui ringrazia il Papa a nome “de la Délégation Nationale et de tous les Arméniens” per il suo intervento “en faveur de nos compatriotes des provinces que les armées turques réoccupent”, avverte anche che i turchi accusano ingiustamente gli armeni di commettere atrocità verso i musulmani, quale alibi delle rinnovate violenze antiarmene. A tal proposito rettifica il suo stesso errore di interpretazione dei dispacci secondo cui: … les crimes déjà commis étaient reconnus par les communiqués ottomans mêmes, quant au contraire, ce sont les Turcs qui accusent les Arméniens de s’être livrés à des excès sur les Musulmans. […] cette fausse accusation des Turcs n’est, au contraire, qu’un sinistre présage car, fidèles à leur tactique, c’est pour donner d’avance un semblant de justification à leurs crimes et pour avoir un prétexte aux atrocités qu’ils préparent et qui sont déjà commencées, qu’ils attribuent des actes criminels aux Arméniens, les traitant de bandes rebelles, quand ces derniers ne font que tenter de défendre leurs foyers et d’échapper à l’extermination. 56 Due giorni dopo, il 13 marzo, in un telegramma, esprime a Gasparri i ringraziamenti della Delegazione Nazionale Armena57. La Santa Sede non resta inoperosa: il Segretario di Stato vaticano Gasparri, che solleciterà ripetutamente l’intervento di ambasciatori, ministri e capi di stato di diversi paesi, indirizza al Nunzio Apostolico a Monaco (Eugenio Pacelli) un cifrato perché intervenga presso il Cancelliere dell’Impero tedesco (Georg von Hertling) a favore dei “poveri Armeni [perché] sieno rispettati dai Turchi rioccupanti i territori attribuiti loro nel trattato di pace con la Russia”. Occorre qui ricordare che la Germania aveva premuto per la mobilitazione dell’esercito turco quando ancora la Turchia si dichiarava neutrale, che l’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il barone von Wangenheim aveva accresciuto la sua influenza sul gabinetto turco per assumere gradatamente il controllo delle risorse militari turche e il comando dell’esercito e della marina, Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. Nubar al Vaticano. 55 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. Gasparri a Nubar. 56 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, Gasparri. 57 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, telegramma di Nubar a Gasparri. 54 57889, 8 marzo 1918, Parigi – telegramma di 57889, 8 marzo 1918, Parigi – telegramma di n. 60608, 11 marzo 1918, Parigi – Nubar a 2, n. 59729, 13 marzo 1918, Costantinopoli – 59 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 fino ad assicurare alla Germania l’alleanza della Turchia. Quindi, durante le operazioni di guerra, i tedeschi continuano a premere sulle autorità turche affinché applichino ai nemici i metodi tedeschi quali il tenere in ostaggio alcuni rappresentanti di spicco della popolazione, la cattura dei civili, l’uso di donne e bambini come scudo di difesa dalle armate e dalla flotta dell’Intesa. Nella sua risposta, trasmessa dall’incaricato d’affari interni della Nunziatura Apostolica, Lorenzo Schioppa, il Cancelliere tedesco riferisce di un contatto tra il Governo imperiale e il Governo ottomano, in cui quest’ultimo assicura sulle buone disposizioni turche verso gli armeni innocenti “per facilitare in avvenire una pacifica comunanza di vita fra la popolazione cristiana e maomettana dell’Anatolia orientale”. Contemporaneamente avverte però che la pacificazione sarà possibile solo “se gli Armeni si sottomettono al Governo turco, se rinunziano alle loro aspirazioni politiche, ora completamente senza speranza di successo, se ritornano lealmente ai loro doveri civili” notando al contempo che “sventuratamente i Comitati rivoluzionari armeni in Svizzera sono all’opera, per stimolare all’estrema lotta gli Armeni contro la Turchia”58. Il 15 maggio 1918, il Sultano risponde ad una lettera di Benedetto XV del 12 marzo precedente, su cui si è soffermato Andrea Riccardi59: Mehmed V non si discosta dalla posizione turca ufficiale e rinnova innanzitutto l’assicurazione della protezione alla popolazione armena, dal momento che principio immutabile della propria condotta sovrana sono i sentimenti di giustizia e sollecitudine nei confronti di tutti i soggetti senza distinzioni di razza o di religione, i sentimenti di tolleranza e di rispetto per i credenti di tutte le confessioni religiose. Nous sommes heureux de pouvoir renouveler à Votre Sainteté les assurances précédemment données dans Notre lettre du 10 du mois de Novembre 1915, relativement à la protection pleine et entière de la population arménienne. Le sentiment de haute sollicitude et de justice traditionnel de Nos Ancêtres à l’égard de tous leurs sujets sans distinction de race ni de religion, ainsi que celui de tolérance et de respect pour les croyances des différentes communautés dont le Tout-Puissant a daigné Nous confier la garde, constituent les principes immuable de Notre conduite souveraine. Donc Votre Sainteté peut être assurée, que ceux qui ne devient pas du droit chemin et ne manquent pas à leur devoirs envers leur pays continueront à jouir, à l’instar de tous Nos fidèles sujets, de toute Notre paternelle protection. Mehmed V afferma poi che solo gli armeni, opponendo resistenza alle truppe turche incaricate di rioccupare le province invase e poi evacuate dai Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 63502, 20 marzo 1918, Monaco – Schioppa a Gasparri. 59 Lettera autografa del Pontefice conservata nell’Archivio degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Austria 57, citata da A. Riccardi, Benedetto XV e la crisi della convivenza multireligiosa nell’Impero ottomano, in Benedetto XV e la pace-1918, a cura di G. Rumi, Brescia, Morcelliana, 1990, p. 115. 58 60 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 russi dopo Brest Litowsk, avevano compiuto massacri nei confronti dei musulmani in quei territori, lasciando rovina e disperazione: Bien que les armées russes aient évacué Nos provinces envahies, les bandes arméniennes se sont efforcées d’opposer de la résistance à Nos troupes chargées de la réoccupation des dites provinces et elles se sont livrées avec acharnement à leur ouvre de mort contre la population musulmane sans défense et n’ont laissé sur leur passage que ruine et désolation.[…]. 60 Auspica inoltre un pronto ristabilirsi di buoni rapporti tra le due popolazioni: avec l’aide du Très-Haute Nous espérons que l’ordre et la calme seront bientôt rétablis dans ces territoires, et Notre plus vif désir de voir Nos sujets arméniens y vivre en paix et en plaine prospérité, côte à côte avec leurs concitoyens musulmans ne tardera pas à se réaliser entièrement.[…] 61 Qualche settimana dopo, arriva in Vaticano a Gasparri la lettera di mons. Dolci datata 19 marzo che riferisce del cifrato n. 14 del Segretario di Stato del 12 marzo, come egli stesso riporta: V.S. Ill.ma faccia, Nome Santo Padre, le più vive istanze presso codesto Ministero Esteri e presso… [indecifrabile], affinché i poveri armeni siano rispettati dai turchi rioccupanti territorio attribuito loro nel trattato pace con Russia… [altri numeri indecifrabili]. Informa quindi di aver avviato i suoi contatti con l’ambasciatore tedesco nell’impero ottomano, allora a Vienna, conte Albrecht von Bernstorff (sarebbe stato fucilato nel ’44 come partecipante alla congiura di von Stauffenberg), che gli assicura il suo aiuto: Prima d’intervenire presso questo Governo, credetti opportuno intervistare il giorno stesso del recapito del Cifrato, questo Signore Ambasciatore Conte Bernstorff; e, dopo avergli partecipato l’incarico che l’Eminenza Vostra degnavasi affidarmi, gli dimandavo il suo efficace concorso. L’ambasciatore mi dichiarò di essere ben lieto che il Santo Padre mi avesse assegnato si nobile e caritatevole missione, la quale giungeva opportunamente per facilitargli l’azione già iniziata per la causa degli armeni. Interrogato da me sulle atrocità che i turchi attribuiscono agli armeni e che gli armeni di Costantinopoli, alla loro volta, rigettano sui turchi, mi rispose dicendo: che nella guerra, di atrocità se ne commettono anche fra i popoli meglio inciviliti. Immagini quindi, Monsignore, quello che può accadere laggiù ove si combatte per odio di “Le district d’Erivan qui se trouve pourtant en dehors des limites fixées par le Traité de BrestLitowsk n’a pas échappé à son tour aux horreurs commises par ces bandes qui se sont livrées, tout récemment encore, à un massacre qui a duré plus d’une semaine et dont le nombre des victimes s’élève à plus de cinq mille âmes, et plus de quarante mille personnes ont cherché refuge dans les montagnes et se trouvent exposées à des privations indescriptibles”. 61 Archivio Segreto, Guerra, 1914-18, 244, 112, n. 67801, 15 maggio 1918 (arrivata in Vaticano in giugno), Costantinopoli – il Sultano al Papa (traduzione in francese oltre all’originale in lingua turca), firmata Mohammed Réchad V. 60 61 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 razza. Mi disse infine che Enver Pacha [generale e ministro della Guerra e della Difesa] 62 lo aveva assicurato di aver inviato ordini ai comandanti delle truppe, vietanti qualsiasi atto di rappresaglia contro gli armeni. Mons. Dolci continua la relazione aggiungendo di aver successivamente informato l’ambasciatore tedesco dei decreti di deportazione degli armeni di cui è venuto a conoscenza in modo riservato: Il quindici, alcune persone armene degne di fiducia, si presentavano a questa Delegazione per prevenirmi nel più stretto segreto che questo Governo aveva decretato la deportazione degli armeni, non esclusi neppure quelli di Costantinopoli, e mi supplicavano a nome dei loro connazionali, d’interporre a nome del Santo Padre, i miei uffici presso il Governo, onde far sospendere tali misure che si sarebbero risolte in un vero disastro per tutta la nazione. Corsi tosto, nuovamente, dall’Ambasciatore di Germania per metterlo confidenzialmente al corrente di questa comunicazione fattami. Egli, pure lasciando intravedere la possibilità di questa misura, riteneva però la decisione prematura, stante che il Cabinetto non si sarebbe assunto una responsabilità si grave senza attendere l’arrivo del Gran Vizir [Talât Pascià]. Mi disse che avrebbe subito telegrafato a von Kuhlmann [ministro degli Esteri tedesco], il quale trovandosi a Bucarest insieme col Gran Vizir [per la conferenza di pace con la Romania, mai ratificata] avrebbe potuto interporre i suoi valevoli uffici presso quest’ultimo. Stando sempre al testo, Dolci prende contatti anche con il ministro degli Esteri interinale turco Alil Bey, al quale chiede di sospendere rappresaglie e nuove deportazioni contro gli armeni. Il ministro rassicura «che nei territori rioccupati non s’incontravano più armeni i quali colle loro famiglie avevano abbandonato quei luoghi portandosi aldilà della frontiera russa», ma ripete anche quanto già esposto nell’intervista del 25 febbraio, cioè che le bande armene avevano commesso nefandezze contro la razza turca, devastando abitazioni e non risparmiando fanciulle, vecchi e donne incinte. Infatti: Facendo poi subito cadere il discorso sulle atrocità commesse contro la razza turca, mi ripeté ciò che egli mi aveva già detto nell’intervista del 25 febbraio, che mi pregiai portare a conoscenza dell’Eminenza Vostra con Rapporto N° 740; cioè che le bande armene avevano commesso i più orribili delitti contro la razza turca; che esse avevano saccheggiato, devastato e bruciato le abitazioni in tutte le terre dalle quali furono costrette, nei combattimenti, a ritirarsi; e che nel loro odio belluino non avevano risparmiato neppure le fanciulle, i vecchi, le donne incinte. Mi dichiarò inoltre che queste atrocità erano state commesse in Erzinghian ed Erzurum; e che la devastazione da tali bande perpetrata si estendeva da Van a Trebizonda; conclude dicendo che di tutte queste nefandità avrebbe redatto un esposto per comunicarlo alle Potenze. Dolci comunque riesce sia a scongiurare la deportazione degli armeni di Ankara, sia ad ottenere, al fine di evitare rappresaglie, che la stampa turca non Enver Paşa (1881-1922), esponente dei Giovani Turchi, ministro della Guerra nel 1914, assieme a Talât, ministro dell’Interno e a Cemal, ministro della Marina nel governo del Comitato di Unione e Progresso. 62 62 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 dia troppa pubblicità alle presunte violenze armene nei territori rioccupati dai turchi. Il ministro sopprime infatti la pubblicazione degli articoli e nega nuove misure di rappresaglia e di deportazione; rassicura anche circa la disponibilità del governo a concedere a tutti gli armeni, sudditi ottomani, completa amnistia. Il Ministro, relativamente a nuove misure di rappresaglia contro gli armeni dell’Impero, negò categoricamente ch’esse fossero nella mente del Governo e mi diede l’incarico di rassicurare il S. Padre che tutte le voci di deportazione erano destituite di fondamento e che il Governo era anzi disposto a concedere a tutti gli armeni, sudditi ottomani, completa amnistia. Quanto alla pubblicazione degli articoli mi disse che essa fu subito repressa, come sarebbe subito represso qualunque atto ostile della popolazione turca contro quella armena. Infatti, all’infuori di quelli menzionati, non sono più comparsi nei giornali, per quanto mi consta, articoli contro gli armeni; la stampa anzi prende ora la loro difesa lodando il contegno pacifico degli Armeni dell’Impero. Di ciò ho ricevuto assicurazioni anche dall’Ambasciatore di Germania. 63 Ricorda infine di aver riassunto e trasmesso «tale intervista col predetto Signor Ministro degli Esteri» con il cifrato 2464. Notizie dei massacri, della miseria e della confusione continuano intanto ad arrivare da Tiflis, da parte dei vicari dell’Amministratore Apostolico degli armeni cattolici nell’Impero russo, Der Abramian. Dionigi Kalatosoff, religioso mechitarista e Antonio Kapojan parlano infatti in modo dettagliato delle violenze perpetrate dai turchi nei villaggi occupati di Artvin, Ardanuch, Kars, Batum, Alessandropoli, Axalzik, Akalkalak, Zori: preti e uomini trucidati, donne violate e ridotte in schiavitù, fuggiaschi vagabondi e affamati in cerca di rifugio nelle città centrali. Quelli poi, che si sono salvati dalla strage con la fuga, muojono di fame o per strada o qui a Tiflis; il padre separato dal figlio, lo sposo dalla sposa; le famiglie disperse parte rimasta nei paesi occupati e parti vagabonde ed affamate nelle città centrali […]. Insomma non ci regge il Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244, 112 n. 66827, 19 marzo 1918, Costantinopoli (arrivato il 22 giugno 1918) – Dolci a Gasparri. 64 “Conforme istruzioni cifrato n. 14 essendo oggi 18 intervenuto nome Augusto Santo Padre questo Ministro Esteri interinale m’incarica portare a conoscenza Sua Santità che tutti gli armeni dei territori che rioccupano le truppe turche hanno colle loro famiglie traversato frontiera russa. Solamente, le truppe turche incontrano negli accennati territori delle bande armene armate che lottano per la ritenzione di quei luoghi e dove esse hanno commesso le più atroci crudeltà contro la razza turca. Avendo la stampa turca pubblicato tali atrocità sono pure intervenuto Nome Augusto S. Padre presso questo Ministro per scongiurare agli armeni nell’Impero Ottomano questo pericolo; specialmente quello della deportazione di cui essi temevano e per cui avevano ricorso a questa Delegazione. Ministro Esteri m’incarica di rassicurare anche su questo punto Santo Padre che tale pubblicazione è stata dal Governo repressa, che nessun atto ostile sarà commesso contro gli armeni dell’Impero e che la minaccia di deportazione è destituita di ogni fondamento. Mi aggiunse ancora che Governo è disposto concedere amnistia armeni Impero. Segue rapporto. Ossequi”. 63 63 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 cuore, per descrivere queste scene strazianti65 […]Per Tiflis pure vi sono stati parecchi giorni di panico, durante i quali sono fuggiti verso Vladicaucaso una cinquantina di mila ed anche adesso continuano ad emigrare […] 66 Intanto i circa 300.000 profughi costretti dalla continua avanzata dell’esercito turco di Mustafa Kemal – dal 1935 denominato dal Parlamento Kemal Atatürk, “padre dei turchi”– ad abbandonare l’Anatolia, malati, affamati, privi di casa e di lavoro, arrivano nell’Armenia russa in condizioni disastrose e vengono ulteriormente decimati da assideramento e tifo nell’inverno 1918-1919 (si calcolano circa 200.000 morti). Nella grande difficoltà delle comunicazioni postali risulta praticamente impossibile l’invio di aiuti ai cristiani del Caucaso e della Persia attraverso la Russia. Già nel giugno del 1918, Jacques Manna, vescovo caldeo, informa Gasparri che il Comitato armeno in Inghilterra, sollecitato da padre Ross, segretario di Propaganda Fide, è ben disposto a soccorrere i cristiani del Caucaso e della Persia, ma che non c’è modo di inviare alcun aiuto in quei paesi, dal momento che le relazioni con gli agenti del comitato erano interrotte a causa degli ultimi avvenimenti in Russia. Chiede perciò al cardinale se ha un modo sicuro di far pervenire in quei paesi gli aiuti che il Comitato mette volentieri a disposizione di tutti i cristiani armeni e siro-caldei67. Nella minuta autografa di risposta, Gasparri si premura di informare Manna che la Segreteria di Stato trasmetterà volentieri a mons. Dolci “la somme d’argente que le dit Comité voudra bien leur destiner”68 e che pregherà lo stesso mons. Dolci di interessarsi delle sorti dei cristiani in quella regione, nonché di comunicargli le novità a loro riguardo. Per parte sua, il giorno seguente Dolci trascrive a Gasparri l’intervista di Ahmed Djevdet Bey69 sulla formazione di “Kars e Batum totalmente evacuati dagli armeni cattolici: il parroco del primo scappato in Russia; quello del secondo per ora si trova a Tiflis, come pure il prete di Erzurum, Eighianian; quello di Trebizonda P. Timoteo, e di Karakaci, Der Agop Mighirdichian”. 66Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, n. 81691, 21 giugno 1918, Tiflis (ricevuta a settembre) – Kalatosoff e Kapojan a Der Abramian. 67 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244 K12 c, 306, n. 66909, 22 giugno 1918, Roma – Manna a Gasparri. 68 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 66909, 22 giugno 1918, Roma – minuta autografa di Gasparri a Manna. 69 Ahmed Djevdet Bey, politico unionista turco, governatore di Van dal 1914 al 1918, proprietario ed editore di «Ikdam», uno dei più antichi quotidiani di Costantinopoli. 65 64 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 nuovi Stati nel Caucaso – Azerbajgian, Georgia e Armenia70 - apparsa sul giornale officioso «Hilal» del 26 giugno, n. 110871. Gasparri ricorre perciò a circuiti assai complicati per comunicare con Dolci e inviare denaro: invia un telegramma cifrato a mons. Maglione, rappresentante della Santa Sede a Berna, perché a sua volta telegrafi a Dolci72; telegrafa anche a mons. Pacelli, allora Nunzio Apostolico a Monaco, perché si informi presso il governo tedesco circa la possibilità di inviare aiuti73. Nella sua risposta, mons. Pacelli comunica a Gasparri che “il governo Imperiale pur dichiarandosi disposto a trasmettere soccorsi alle popolazioni siro caldee ed armene, dice di dubitare che, specialmente per la Persia, il mezzo sia di pratica attuazione”74. Ancora nel 1919 continuano le difficili condizioni di vita, come anche attesta la lettera del 2 marzo del Padre Denys Kalatosoff, vice Amministratore Apostolico, che comunica di aver ricevuto un aiuto finanziario da parte del Pontefice75 in un momento di grande difficoltà per l’insufficienza dei mezzi di comunicazione: Pour dire la vérité, cette administration ecclésiastique d’un si vaste pays comme la Russie et tout le Caucase, se trouve dans de grands embarras par suite du manque de communications, ne pouvant pas arriver à temps nécessaire, par télégraphe ou par poste, mȇme par le moyen de voyageurs. Ainsi le prestige et l’Autorité de cette administration va se diminuer de jour en jour, et ça et là la morale de quelque prȇtre commença à laisser beaucoup à désirer. […] Kalatosoff ribadisce le miserevoli condizioni della popolazione e soprattutto del clero, che, derubato di tutto, non ha più nemmeno il necessario per vivere76; mette in rilievo che i prezzi dei beni di prima necessità aumentano di giorno in giorno in modo così considerevole che non si sa più cosa fare. Nel 1917 Azerbajgian, Georgia e Armenia hanno formato la Repubblica federativa di Transcaucasia; nel 1918 prima Georgia e Azerbajgian e poi, il 28 maggio, l’Armenia proclamano l’indipendenza: nasce così la prima Repubblica d’Armenia, la Repubblica dell’Ararat. 71 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 576, n. 69471, 26 giugno 1918, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 72 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 66909, 26 giugno 1918, Roma – minuta autografa del telegramma cifrato di Gasparri a mons. Maglione, rappresentante Santa Sede a Berna. 73 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 68898, 9 luglio 1918, Roma – telegramma di Gasparri a Pacelli. 74 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 68898, agosto 1918, Monaco – copia del telegramma cifrato di Pacelli a Gasparri. 75 “Avant hier j’ai reçu la lettre officielle de V.E. datée le 30 Mars 1919 N. 561, et le chèque yinclus de la Banque Fédérale S.A. Zurigo n. 309338/1744 - 29 Mars 1919 – de la Valeur de frs Suisses 12031,70/00”. 76 Mais plutôt le clergé est tombé dans une misère indescriptible, car la population devenue pauvre dans le pays dérobés par les soldats et les kurdes ne peuvent plus maintenir leurs prêtres, qui par plus sont restés privés de tout (avec leur familles, femmes, enfants) n’ayant plus 70 65 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Les prix sur les matières de première nécessité: pain, viande, vin pour la messe, cierges, bougies, allumettes, papier, médicaments, les aliments en général, les chaussures et les vêtements spécialement, augmentent chaque jour tellement qu’on ne sait plus ce qu’on doit faire, on perd la tête.[…] 77 Uno stato armeno? Contemporaneamente la prima Repubblica armena, da poco costituitasi, avvia i primi contatti diplomatici con la Santa Sede e il 17 luglio 1918 una rappresentanza armena viene ricevuta da mons. Dolci. Dopo gli iniziali ringraziamenti “per l’opera del Santo Padre a pro della loro Nazione”, il discorso si sposta su temi politici. Il Presidente Avetis Aharonian afferma in via confidenziale che la Repubblica, “benché riconosciuta dal Governo Ottomano, non trova nessuna simpatia e nessun appoggio presso i rappresentanti delle Potenze cristiane”; accenna poi ai massacri degli armeni in Turchia e insinua “che la Germania protegge invece la repubblica georgiana, ed è contraria al movimento dei Tartari che tendono a fare una politica, non tanto panislamica quanto panturca, il che altera le relazioni tra la Germania e l’Impero Ottomano”. Diventa perciò a suo avviso inspiegabile “come la Germania e l’Austria, queste due grandi potenze cristiane abbiano potuto, non dirò permettere, ma tollerare la strage degli Armeni; mentre una loro parola avrebbe potuto salvarli”78. La mancanza della conclusione del documento impedisce di approfondire la questione della connivenza di Germania e Austria con i massacri, questione dibattuta da diversi storici79. de nourriture indispensable, des vêtements, des chaussures etc.», Archivio della Segreteria di Stato, Russia, 505, n. 1120, 2 marzo 1919, Tiflis – Kalatosoff a Dolci – trasmesso il 16 maggio 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 77 Ibidem. 78 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. […] 61, 18 luglio 1918, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 79 Ricordiamo innanzitutto Vahakn Dadrian, che dedica un capitolo del suo Storia del genocidio armeno alla “questione della complicità tedesca”, rifacendosi ai risultati della polemica storiografica tra Ulrich Trumpener, Germany and Ottoman Empire, 1914-1918, e Artem Ohandjianian, sostenuto da Christoph Dinkel. Dadrian dedica poi un intero libro all’analisi del coinvolgimento tedesco nel genocidio armeno, German Responsibility in the Armenian Genocide. A Review of the Historical Evidence of German Complicity, Watertown (Mass.), Blue Crane Books, 1996. Hilmar Kaiser mette invece in luce la molteplicità e varietà di vedute nel mondo tedesco e afferma, nel suo Germany and Armenian Genocide. A Review Essay (in «Journal of the Society for Armenian Studies», 1995, n. 8., p. 132), che “una storia conclusiva del ruolo Tedesco nel genocidio armeno deve ancora essere scritta”. Wolfgang Gust, nel suo The Armenian Genocide: Evidence from the German Foreign Office Archives 1915-1916, Ed. Berghahn Books, Oxford, New York 2013, lavora sui documenti dei rapporti militari conservati e studia le decisioni politiche e 66 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 La Santa Sede non teme comunque di prendere posizione nei confronti della Repubblica armena, come dimostrano i dispacci di Dolci a Gasparri che riferiscono della cordialità anche dei successivi incontri con i delegati della nuova Repubblica armena e della disponibilità a discutere le questioni religiose dell’unità spirituale con Roma da parte degli “scismatici convinti”80 quale opportunità anche di consolidamento politico dell’Armenia. Viene decisamente apprezzato anche il desiderio del Papa che il Patriarca armeno cattolico o un suo rappresentante risiedano a Erevan nella nuova Repubblica, come esplicitato nel cifrato di Gasparri a Dolci del 23 ottobre del 191881. Questo pronunciamento verrà interpretato dalla Delegazione della Repubblica armena, dalla Commissione armena, di cui fa parte il Ministro degli Esteri della nascente Repubblica, dal Patriarca armeno-cattolico di Cilicia, Paolo Pietro XIII Terzian, e da tutta la stampa della nazione come il riconoscimento diplomatico della Repubblica da parte del Papa e ciò dimostra la necessità vitale degli stessi armeni di un sostegno internazionale al loro riconoscimento come popolo e come Stato. Qualche giornale come il «Giamanak»82 legge infatti in chiave politica una misura che nasce con carattere pastorale, come riportato nell’articolo del 30 ottobre 1918 pubblicato appunto dal «Giamanak», che Dolci trasmette a Gasparri83. Intanto a Parigi, sede della Conferenza di pace alla fine della guerra, lavora la Delegazione dell’Armenia integrale, ovvero la doppia delegazione, formata dalla Delegazione nazionale armena del gruppo di Boghos Nubar, in militari tedesche nell’Oriente durante la prima guerra mondiale. La Germania mira a negoziare l’alleanza con il governo dei Giovani Turchi, che intendono servirsi della guerra per annientare i nemici interni senza il disturbo degli interventi diplomatici stranieri. L’operato degli ambasciatori tedeschi a Costantinopoli segue perciò unicamente una politica di potenza priva di scrupoli morali e la Germania si accorda con il governo turco, che vuole risolvere la “questione armena” attraverso la conquista del suo territorio per la realizzazione dell’ideale del panturchismo. Evince perciò la connivenza della Germania con la politica turca di sterminio sociale delle minoranze, che avviene così sotto gli occhi dei tedeschi e in parte col loro aiuto. Decisamente contrario alla colpevolezza politica o giuridica dei tedeschi, anche se ritenuti comunque moralmente responsabili, si mostra Aaron Aaronsohn, capo della rete spionistica sionista NILI. 80 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 81286, 9 luglio 1918, Costantinopoli - Dolci a Gasparri. 81 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. […], 9 luglio 1918, Costantinopoli - Dolci a Gasparri. 82 «Giamanak» è ancora oggi il più antico quotidiano in lingua armena; fondato ad Istanbul nel 1908 da Misak Koçunyan, vede la sua prima pubblicazione il 28 ottobre. Molti nomi famosi della letteratura armena hanno contribuito al giornale. Di proprietà della famiglia Koçunyan fin dall’inizio, ha attualmente la sua sede al 22, Beyoğlu, Istanbul. 83 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. [?], 4 novembre 1918, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 67 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 nome del Patriarcato della Chiesa gregoriana, e dal gruppo di Avetis Aharonian, un nazionalista del partito del Dashnak, a impronta rivoluzionaria, che parla a nome della neonata Repubblica armena. In tale contesto, Mihran Damadian, inviato dal 1917 come rappresentante in Italia84 della Delegazione Nazionale di Nubar Pascià, ricevuto in udienza da Gasparri il 20 dicembre 1918, fa il punto sulla “situazione diplomatica della questione armena” e, come ricorda nella lettera del 3 gennaio del 1919, sottomette a Roma qualche documento sugli “accords ‘secrets’ relatifs à l’Arménie et à l’Asie Mineure, intervenus en 1915-16 entre le Gouvernement tsariste de Russie et les gouvernements anglais et français, dont a été question en cette audience” [si trattava di articoli della rivista «Armenia» recanti corrispondenze dal giornale italiano «La Nazione»]. Ces accords, qui étaient effectivement devenus caduques, après l’entrée en guerre des EtatsUnis d’Amérique et la révolution russe – deux événements qui ont prêté à la guerre, en ce qui concerne le côté des Alliés, le caractère d’une croisade pour le triomphe de la liberté du monde et du droit des nationalités de disposer librement de leur sort, - ces accords, dis-je, paraissent maintenant avoir été remis en vigueur et développés entre la France et l’Angleterre, - témoin la déclaration anglo-français du 8 novembre dernier, dont inclus également copie [non rintracciata]. Si chiede inoltre Damadian se il cardinale ne saurait ne pas se rendre compte combien ces accords, s’ils étaient appliqués comme bases du réglement du sort de la nation arménienne seraient préjudiciables aux intérȇts de l’Arménie, qui réclame, à juste titre, l’unification de tout son territoire historique, du Caucase à la Méditerranée, baigné du sang de ses martyrs et de ses héros, pour en constituer un Etat arménien libre et indépendant sous la garantie internationale des Puissances Alliés et des Etats-Unis d’Amérique ou la Société des Nations, dès qu’elle serait réalisée. Di questo testo è rilevante anche il passo con cui si riferisce «de la visite imminente au Saint-Siège du président Wilson [non risulta sia avvenuta]» e a nome della Delegazione si chiede che la Santa Sede intervenga presso il Presidente Wilson, “campione della giustizia e dei diritti dei popoli, grandi e piccoli” affinché sia fatta totale giustizia alla nazione armena con il “riconoscimento dei suoi diritti imprescrittibili e con la realizzazione delle sue rivendicazioni nazionali”85. Nel 1915 l’Italia è entrata nel primo conflitto mondiale, dichiarando guerra all’AustriaUngheria e alla Turchia; con il telegramma del 9 luglio, l’ambasciatore Camillo Eugenio Garroni richiama in patria il console generale d’Italia a Trebisonda, Giacomo Gorrini, testimone oculare della deportazione e dei massacri degli armeni. 85 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 81691, 3 gennaio 1919, Roma – Damadian a Gasparri. 84 68 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Accompagnato da mons. Koyounian, vicario del patriarcato degli armeni cattolici e da padre Ohannès Torossian, procuratore generale della Congregazione mechitarista di Venezia, Damadian ricorda che tutti i cristiani armeni hanno sofferto lo stesso martirio, che tutti hanno dimostrato in modo irremovibile la loro fede cristiana e il loro attaccamento alla civiltà occidentale, che sono stati tutti oggetto della stessa sollecitudine da parte del Santo Padre, che ora sono indissolubilmente solidali in tutto ciò che concerne i supremi interessi della nazione armena, una e indivisibile86. Le fonti fanno ritenere che, per conoscenza, venisse inviata copia di un memorandum indirizzato all’ambasciatore americano presso lo Stato italiano, in cui la Delegazione Nazionale chiede la liberazione dal giogo straniero di tutti i territori storici dell’Armenia, il riconoscimento da parte alleata della Repubblica armena dell’Ararat e la riunificazione nello stesso Stato, degli armeni che vivono nelle due zone storiche dell’Armenia, ora parte in territorio russo e parte in territorio turco, più la Cilicia e uno sbocco sul Mediterraneo, ampie zone dell’Anatolia sud-orientale abitate da musulmani turchi e curdi, la città di Kars e qualche territorio conteso tra azeri e georgiani. Il nuovo Stato armeno doveva quindi essere posto sotto la tutela alleata o della Società delle Nazioni, cui si chiede di partecipare, mentre nei primi vent’anni una potenza occidentale doveva avere un mandato fiduciario sull’Armenia. In alcune disposizioni minori si parla anche delle riparazioni turche quale risarcimento per i massacri e della punizione dei responsabili. Gli Usa vengono scelti quali mandatari per l’Armenia alla Conferenza di pace di Parigi; i motivi di tale scelta sono rintracciabili nelle qualità diplomatiche di Wilson, nella sollecitudine dei diplomatici americani per la questione armena, nelle organizzazioni umanitarie di aiuto alle vittime della deportazione, quali il Near East Relief (NER), già American Committee for Armenian and Syrian Relief (ACASR), operante dal 1919 al 1930. A causa delle schermaglie tra gli alleati europei, Wilson è indeciso se accettare il mandato sull’Armenia, nonostante le pressioni dell’American Committee for the Indipendence of Armenia (ACIA)87. Nel novembre 1919 il Senato americano respinge il trattato di Versailles e blocca così l’ipotesi dell’Armenia indipendente. Negli anni fino al trattato di Losanna gli interessi e i progetti delle potenze occidentali continuano ad influenzare il futuro dell’Armenia e gli armeni. Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. [?], 20 dicembre 1918, Roma – Damadian a Gasparri. 87 Cfr. F. Sidari, La questione armena nella politica delle grandi potenze (dal Congresso di Berlino al trattato di Losanna 1878-1923), Cedam, Padova, 1962, pp. 132-33, 139-146. 86 69 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Poniamo ora particolare attenzione a quell’importante passo del memorandum88 circa le considerazioni generali sull’opportunità della costituzione di uno Stato armeno. Viene messo innanzitutto in risalto che il motivo principale dei mali dell’Armenia risiede nell’assoluta incapacità dei turchi di governare, e in particolare di governare le nazioni cristiane, come si è reso evidente nei disastri e nelle violenze subiti dalle popolazioni loro sottomesse. L’indipendenza dell’Armenia viene inoltre perorata e giustificata con la considerazione della posizione geopolitica del paese che si trova su un altopiano, punto d’incontro in Oriente delle sfere di influenza e delle dominazioni della Gran Bretagna da un lato e della Germania e della Turchia dall’altro89. Si nota infine come, con la caduta dello zarismo e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, si sia aperta la possibilità di una soluzione della questione armena basata sui principi, proclamati dal Presidente Wilson, di giustizia, d’onore, dei diritti delle piccole nazioni90. A tale proposito ricordiamo la lettera che il patriarca armeno mons. Terzian rivolge a Clémenceau, a Wilson, al Re del Belgio e a Lloyd George, di cui peraltro ci dà notizia in dettaglio mons. Dolci91. In tale lettera, Terzian si rivolge in particolare: Memorandum della Delegazione Nazionale Armena per l’ambasciatore americano a Roma, Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 84492, 10 novembre 1918. 89 Fin dall’inizio della guerra, le potenze dell’Intesa pensano alla riorganizzazione dei territori dell’Impero ottomano, attraverso gli accordi di Istanbul (marzo-aprile 1915), Londra (26 aprile 1915), Syket Picot (maggio 1916), S. Jean de Maurienne (19 aprile 1917), Balfour (novembre 1917). In questo gioco diplomatico si inseriscono le speranze dei sopravvissuti e degli armeni, ma l’armistizio di Brest-Litovsk del dicembre 1917 permette alle truppe ottomane di riprendere possesso dei territori perduti nel corso della guerra e di quelli ceduti alla Russia nel 1878. L'Armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918 pone fine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l'Impero ottomano e gli Alleati. Alla resa ottomana, le loro restanti guarnigioni al di fuori dell'Anatolia vengono richiamate; agli alleati viene concesso il diritto di occupare i forti sullo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, e il diritto di occupare "in caso di evenienza" ogni territorio turco in caso di una minaccia alla sicurezza. L'esercito ottomano è smobilitato, e porti, ferrovie ed altri punti strategici sono resi disponibili per l'uso da parte degli Alleati. Nel Caucaso, la Turchia deve ritirarsi sulle frontiere pre-belliche. All'armistizio segue l'occupazione di Costantinopoli e la successiva spartizione dell'Impero ottomano. Il 10 agosto 1920 segue il Trattato di Sèvres a definire l'armistizio, ma questo trattato non viene mai applicato a causa dello scoppio della guerra d'indipendenza turca. 90 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 84492, 10 novembre 1918 – Memorandum della Delegazione Nazionale Armena per l’ambasciatore americano a Roma. 91 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 105, 3, 5, n.1525, 28 gennaio 1919, Roma – Dolci al card. Marini. 88 70 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 au représentant de la Noble France dont les armées héroïques ont sauvé la cause des peuples opprimés, afin que celle-se daigne s’intéresser dans la mesure la plus juste au sort de la Nat. Arm. et d’en obtenir la complète libération en assurant son indépendance dans les limites historiquement définies et réclamées par un droit imprescriptible, droit qui ne peut être jamais étouffé par la puissance et la prépondérance de la tyrannie. L’Arménie majeure, l’Arménie mineure et la Cilicie forment le trépied sur lequel doit être replacé la nation Arménienne injustement dépouillée, tyrannisée et menacée d’extermination durant le longs siècles. 92 La missiva sofferma quindi l’attenzione su tre punti importanti per assicurare l’unità, l’ordine e lo sviluppo della nazione: dal punto di vista religioso, l’applicazione del principio della libertà di coscienza, che permetterà a ogni parte religiosa in cui si divide la nazione armena di svilupparsi liberamente per concorrere al bene generale; una nuova organizzazione ecclesiale delle province; la disponibilità di risorse quale compensazione degli enormi danni subiti nel periodo delle deportazioni e dei massacri. Anche la questione del Karabagh93 viene segnalata in Vaticano da mons. Dolci, che il 27 giugno 1919 invia al card. Niccolò Marini, Prefetto della Sacra Congregazione per la Chiesa orientale, copia di un articolo dello stesso giorno del giornale la «Renaissance»94 circa le stragi di armeni perpetrate dal generale azero Sultanov. Il quotidiano riporta la notizia per cui: Suivant les derniers journaux reçus du Caucase, les Tartares de la région de Kharabagh ont essayé d’organiser des massacres à Chouchi et ses environs. Le 4 Juin sur 50 ouvriers arméniens qui s’étaient rendus à leur travail dans le quartier musulman de la ville de Chouchi, sept seulement sont rentrés, le reste a été massacré. Ce massacre a été, suivant certains indices, organisé par Soultanoff. 95 L’articolo procede poi a descrivere i dettagli dei massacri perpetrati nella città di Chouchi e nei villaggi di Khaibali, Dahloul, Tchamouchlou e Gargadjian. Anche Tigran Nazarian, delegato degli armeni del Karabach e del Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 105, 3, 5, n.1525, 15 gennaio 1919, Costantinopoli – copia della lettera di Terzian a Clémenceau, a Wilson, al Re del Belgio e a Lloyd George. 93 L’Armenia rivendica alla Conferenza di pace la regione dell’Alto Karabagh, abitata al 95% da armeni, ma controllata dal generale azero Sultanov, nominato dagli inglesi governatore della regione nel 1919. 94 «Renaissance» è un quotidiano fondato in Francia dal patriarcato armeno di Costantinopoli, con lo scopo di difendere gli interessi armeni. Il team editoriale formato da Tigran Chayan, Garabed Nurian e Dr. Topjian, inizia le pubblicazioni in lingua francese il 9 dicembre 1908 e le interrompe il 10 febbraio 1920. 95 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 105, 3, 5, n. 2375, 27 giugno 1919, Costantinopoli – Dolci al card. Marini. 92 71 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Zangezur alla Conferenza di pace a San Remo96, invia un appello al Papa, in italiano, perché intervenga presso la Conferenza di pace contro l’unificazione di Karabach e Azerbaigian, repubblica di nazionalità turca e alleata dei turchi: Io in qualità di delegato degli armeni di Karabach e di Zangezur protesto contro questo atto ingiusto e supplico in nome di tutti gli armeni l’augusta intercessione di vostra Santità presso la conferenza della pace che si radunerà in questo corrente mese a S. Remo per decidere definitivamente i confini dell’Armenia, che la Provincia Karabach sia legata all’Armenia come è stata considerata sempre come una parte dell’Armenia. Deh Padre Santo, Voi che con sovrano gesto e clemenza avete asciugato tante lacrime ai fedeli e desolati abbiate pietà ai miei compatrioti desolati, non vogliamo che le nostre Chiese e i Conventi Cristiani e le tombe dei nostri martiri siano contaminate dai barbari turchi nemici giurati del cristianesimo, non vogliamo che centinaia di migliaia di cristiani armeni rimangano sotto il duro giogo islamico. 97 Le difficoltà con l’Intesa, specialmente con la politica filoazera dell’Inghilterra, fanno comunque sì che gli armeni sopravvalutino i passi della Santa Sede, interpretandoli nel senso di un pieno riconoscimento diplomatico. A tale proposito, già nel 1919, Dolci trascrive a Marini quanto pubblicato su «la Renaissance» in merito all’opera del Santo Padre per l’indipendenza armena.98 Circa un mese dopo, Dolci trasmette a Gasparri la traduzione testuale del giornale armeno «Erivan» n. 12, del 17 marzo 1919, in cui si parla del Santo Padre e della sua opera a vantaggio degli armeni. Il giornale pubblica i ritratti delle due grandi figure amiche e protettrici della nazione armena, mons. Dolci e il Santo Papa, raccontandone “quella larga parte ed influenza che essi ebbero nell’occasione della deportazione degli armeni e dell’indipendenza dell’Armenia”99 e ripercorrendone le opere di aiuto. Le discussioni della conferenza di pace vengono spostate da Parigi a Londra nel febbraio del 1920 e proseguono a San Remo dall’aprile del 1920. 97 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 1, n. 5293, 13 aprile 1920, Roma – Tigran Nazarian al Papa. Dopo molte trattative, negli anni 1920-1923 viene creato l’Oblast autonomo del Nagorno Karabach, facente parte della Repubblica Socialista Sovietica Azera. A tutt’oggi il Karabach è armeno al settanta per cento della sua popolazione, e sottoposto giuridicamente alla Repubblica dell’Azerbajgian 98 « En faveur de l’indépendance arménienne. Nous apprenons de source autorisée que Sa Sainteté le Pape vient d’adresser au Président Wilson une lettre autographe pour lui demander d’intervenir avec toute son autorité auprès le Congrès, afin d’assurer définitivement le règlement de la question arménienne par l’indépendance de l’Arménie unie et intégrale. Un membre du Sacré collège a été chargé par S.S. de porter cette lettre à Mr. Wilson ». Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 4, 3, n. 1667, 24 febbraio 1919, Costantinopoli – Dolci a Marini. 99 Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 90014, 18 marzo 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 96 72 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 L’azione della Chiesa alla fine della guerra La Conferenza di pace di Parigi esprime l’esigenza di punire i responsabili della guerra e le atrocità commesse nel periodo bellico. Nel frattempo, già nel marzo 1919, il governo liberale di Damad Ferid Paşa cerca l’equilibrio tra le pretese straniere di sistemazione delle regioni arabe sottoponendole a propri mandati, come nel caso dell’Inghilterra in Irak. Intanto è nata, come abbiamo visto, nel Caucaso la piccola Repubblica armena dell’Ararat e il governo turco apre un’inchiesta parlamentare e prepara procedimenti penali e giudiziari nei confronti dei capi dell’Ittihad100. Nel loro intento sanzionatorio, gli alleati perseguono i due obiettivi della divisione dell’Anatolia e del processo ai colpevoli di crimini di guerra e di massacri. Tale atteggiamento, che non riconosce i diritti sovrani degli ottomani, determina il carattere e la politica del movimento d’indipendenza turco, che, all’epoca, non obietta sulla “punizione” da parte delle potenze vittoriose, ma che queste vogliano farlo suddividendo l’Anatolia. Sia il governo di Istanbul che il movimento nazionalista di Ankara – fondato da ex membri del CUP, che, col suo organo centrale, il Comitato Rappresentativo, dal dicembre del 1919 aveva ivi stabilito la sua sede– si considerano infatti eredi dello Stato ottomano e desiderano entrambi una continuazione della sovranità ottomana sulle aree non occupate in base all’armistizio di Mudros del 1918. Tale armistizio, firmato dai turchi e dalle potenze dell’Intesa il 30 ottobre del 1918 a bordo della corazzata britannica Agamennon, disegnava la riorganizzazione dei territori dell’Impero ottomano in aree sottoposte all’influenza e al controllo di Francia, Russia, Gran Bretagna, Italia. Per contro, il patto nazionale (Misak-ı Milli) è l’espressione scritta dell’accordo di sovranità tra Istanbul e Ankara, che concordano sulla necessità di punire i colpevoli dei crimini di guerra e dei massacri secondo la legge nazionale; respingono però con decisione ogni forma di punizione che implichi la suddivisione dei territori sovrani dello Stato ottomano, come emerge dai cinque protocolli allegati alla decisione finale dei colloqui tra i due governi svoltisi ad Amasya dal 20 al 22 ottobre del 1919101. Mentre a Parigi gli alleati discutono dell’intervento militare nel Caucaso a sostegno dell’Armenia e delle altre Repubbliche, in Turchia riesplode il conflitto Cfr. M. Flores, op. cit., p. 130. Lo storico Akçam mette in rilievo che il desiderio di punire i turchi per le brutalità commesse è il principale motivo apparente per invocare la suddivisione dell’Anatolia tra i vari gruppi nazionali secondo i piani delle potenze dell’Intesa per soddisfare i loro interessi imperialistici. 101 Cfr. T. Akçam, op. cit., pp. 118-193, 209. 100 73 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 tra l’Intesa da un lato e la popolazione e l’esercito dall’altro. Quando, infatti, nell’aprile del 1919 le truppe italiane sbarcano ad Adalia (Antalja in turco) e nel maggio quelle greche a Smirne, il movimento nazionalista turco vede in questo sbarco nemico la minaccia di spartizione dell’Anatolia e iniziano così una serie di atrocità che culminano con la distruzione della parte turca di Adalia, in cui si riconosce la responsabilità dei greci102. Contemporaneamente il generale Mustafa Kemal riorganizza l’esercito e tenta la pacificazione dell’Anatolia; rianima anche le forze di resistenza allo straniero e allo stesso governo in carica. Nel corso del 1919 organizza congressi a Erzurum e a Sivas, incontra persone da tutta la Turchia e si pronuncia contro uno Stato armeno indipendente dando vita alla Lega per la difesa dei diritti in Anatolia e Rumelia; inoltre sposta ad Ankara il suo quartier generale. Riprende così in mano il vessillo del nazionalismo turco che implica la liquidazione dei resti della presenza armena e lancia la parola d’ordine: “nemmeno un pollice d’Anatolia sarà ceduto ai greci e agli armeni”103. Riprende pertanto il tutta la sua asprezza il confronto fa i due popoli, motivando nuovamente la Santa Sede ad intervenire. A riprova, diversi giornali armeni, come il «Vercin Lur» (L’ultima novella), nel n. 1523 del 18 marzo del 1919104, o il «Nor Ghiank», nel n. 153 del 27 marzo dello stesso anno 105 danno notizia dei rinnovati massacri contro gli armeni. In essi si dà peraltro conferma dell’opera di mons. Dolci e del Santo Padre per scongiurarli. Importanti e decisivi sono anche gli aiuti economici da parte della Santa Sede in un momento di grande desolazione per il clero armeno e per tutta la popolazione106. Tutti questi avvenimenti destano intensa preoccupazione tra i cristiani di Turchia, come si evince dalla lettera di mons. Dolci a Gasparri, in cui si palesa anche la preferenza della Santa Sede per l’indipendenza delle piccole Repubbliche del Caucaso in funzione antisovietica: Durante la conversazione con l’Ammiraglio inglese [l’Alto commissario Robert], si parlò pure dell’indipendenza dell’Ucraina, della Georgia e dell’Armenia. Le mie impressioni furono che si desidera nuovamente una grande Russia e non sembrano [Francia, Italia e Inghilterra] ben disposti per l’indipendenza di quegli stati specialmente della Georgia e dell’Ucraina. La ragione Cfr. D. Bloxham, The Great Game of Genocide. Imperialism, Nationalism, and the Destruction of the Ottoman Armenians, Oxford University Press, Oxford, 2005, pp. 149-150. 103 Citato in M. Carolla, La Santa Sede e la questione armena (1918-1922), Mimesis, Milano 2006, p. 27. 104 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 90034, 18 marzo 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 105 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 89948, 28 marzo 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 106 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Russia, 505, n. 1120, 16 maggio 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 102 74 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 politica che si adduce è che questi piccoli stati potrebbero essere facilmente soggiogati dall’influenza tedesca. Io ho energicamente difeso la loro indipendenza, dimostrando che la risurrezione della grande Russia sarebbe il più grave errore che l’Europa commetterebbe. Fui indotto a prendere questa difesa perché ritengo che sarebbe un gravissimo danno per i nostri alti interessi religiosi la ricostituzione del colosso moscovita […] 107 Antonio Delpuch, Visitatore apostolico La Santa Sede ha intanto inviato, nel settembre del 1919, un Visitatore Apostolico a Erevan per una missione di carattere esplorativo sullo stato del Caucaso e sulla possibilità di stabilire contatti con le tre repubbliche transcaucasiche108, al fine di riorganizzare la vita religiosa della consistente minoranza cattolica. Il religioso prescelto è Antonio Delpuch, dei Padri Bianchi francesi (Missionari d’Africa), vice-presidente della Sacra Congregazione della Chiesa Orientale, creata da Benedetto XV a maggio del 1917 attraverso la sottrazione della sezione delle Chiese Orientali dalla giurisdizione di Propaganda Fide. La documentazione vaticana che lo riguarda risulta istruttiva. Scrivendo da Erevan, nella lettera indirizzata ad Alexander Khatissian, presidente dal 1919 al 1920 della prima Repubblica armena, oltre che capo del governo e ministro degli Esteri, responsabile perciò della politica estera del paese, Delpuch parla dell’interesse e della simpatia del Papa per il popolo armeno e anche del desiderio del Papa per una patria libera e indipendente, in cui il popolo armeno possa vivere in pace, sviluppando le sue ammirevoli capacità lavorative e organizzative. Chiede quindi la reciprocità della benevolenza nel fatto che lo Stato assicuri la libertà religiosa, sia per il culto e sia per la vigilanza pastorale sui cattolici armeni, consistente minoranza nazionale, oltre che per la possibilità di costruire strutture come ospedali, orfanotrofi e strutture per l’insegnamento della lingua e della storia nazionale109. Nella sua risposta, Khatissian rassicura Delpuch che in Armenia è ammessa la libertà di coscienza e che tutte le confessioni religiose sono liberamente esercitate; offre quindi tutte le facilitazioni richieste dalle autorità religiose cattoliche per l’esercizio del loro ministero apostolico 110. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 10228, 2 ottobre 1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. 108 Le tre Repubbliche transcaucasiche sono quelle di Azerbajgian, Georgia e Armenia, che hanno formato nel 1917 la Repubblica federativa di Transcaucasia e hanno dato vita, nel febbraio del 1918, a Tiflis, al Seim, un corpo legislativo regionale. 109 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 21 ottobre 1919, Erivan – Delpuch al Presidente e Ministro degli Esteri armeno Khatissian. 110 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 3 novembre 1919, Erivan – Alkhatissian e Ter Akopian a Delpuch. 107 75 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nel suo rapporto a mons. Isaia Papadopoulos, vescovo di Costantinopoli dal 1912, chiamato nel 1918 da Benedetto XV come primo assessore della Sacra Congregazione della Chiesa Orientale, Delpuch nota che tutte le persone più responsabili di qualunque classe sociale – dal Segretario di Stato agli Affari Esteri al Presidente della Repubblica, al Delegato del Comandante del luogo, all’Alto Commissario Alleato, al Generale delle truppe armene, Nazarbékof, al Patriarca, agli arcivescovi di Erevan e di Tiflis – ebbene tutti guardano a Roma come a un sostegno e a un modello insostituibile, riconoscendo “la superiorité incontestée du Catholicisme, l’intensité de sa vie religieuse, sa culture élévée, son empire sur les âmes, sa vertu éminemment moralisatrice”111. Nel salutare il presidente armeno Khatissian, prima di rientrare in Italia nel gennaio del 1920, padre Delpuch gli assicura l’amicizia e l’affetto del Papa verso l’Armenia e il suo popolo; un popolo che, fedele alla sua tradizione cristiana, aveva eroicamente sopportato indicibili sofferenze per questa sua appartenenza. Il Papa perciò avrebbe appoggiato con tutti i mezzi le nobili e legittime aspirazioni all’indipendenza di un popolo che “mérite de prendre sa place au milieu des peuples libres”112. Nella sua lunga ed esauriente relazione alla Congregazione della Chiesa Orientale, Delpuch rileva che il governo armeno del partito del Dashnak è un governo laico che non opprime però la libertà religiosa della Chiesa apostolica armena e che anche lo Stato ha scopi eminentemente politici e patriottici, e che perciò gode dell’appoggio della Chiesa apostolica. Con preoccupazione nota anche però che i dirigenti politici armeni sono in conflitto tra loro e che l’unico fattore di unità è l’avversione per i secolari persecutori musulmani, i vicini turchi e azeri. Non solo, perché anche tra armeni e georgiani, due popoli cristiani, la divisione è profonda. Pertanto, proprio per porre fine alle sue sofferenze, l’Armenia ritiene necessario e in parte risolutivo il riconoscimento internazionale della repubblica; lo stesso sperano anche Georgia e Azerbajgian, pur avendone forse meno bisogno per la sopravvivenza del popolo; inoltre, prosegue Delpuch, la Conferenza di Parigi non ha ancora, alla fine del ’19, riconosciuto de jure le tre repubbliche, mentre ha ambiguamente riconosciuto de facto solo Georgia e Azerbajgian; e perciò, nella loro grande amarezza, gli armeni sperano a maggior ragione nel riconoscimento pontificio. Alla fine del suo rapporto, il religioso mostra come l’invio, da parte della Santa Sede, di un Visitatore Apostolico, ovvero un rappresentante ufficioso residente a Tiflis, possa costituire, in via Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, 83, n. 3643, 21 novembre 1919, Tiflis – Rapporto di Delpuch a Papadopoulos. 112 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n.3228, 27 novembre 1919, Tiflis – Delpuch a Khatissian. 111 76 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 temporanea, il mezzo migliore per accogliere le richieste delle repubbliche transcaucasiche, evitando al contempo gelosie e risentimenti. Il mezzo migliore anche per dare alla regione un assetto ecclesiastico conforme alle esigenze della Chiesa113. La relazione, corredata da osservazioni sullo stato religioso della regione, viene accolta molto positivamente da Roma: il Prefetto di Propaganda Fide, cardinale Van Rossum, in una relazione di commento per i vertici vaticani, condivide e accetta tutte le proposte di Delpuch114. Di fatto, come vedremo, la Santa Sede, seguendo i suggerimenti di Delpuch, invierà nel Caucaso un nuovo Visitatore Apostolico. Nella lettera che Delpuch scrive a Dolci in data 12 novembre 1920, viene messa in rilievo la necessità da parte vaticana di interventi concreti in favore degli armeni, sia dal punto di vista religiosomissionario che politico, visto il prestigio di cui gode la Santa Sede e il contemporaneo proselitismo che varie sette protestanti americane stanno facendo in Armenia115. Gasparri quindi si affretta a ringraziare il Presidente armeno, a ribadire la speranza che l’Armenia tuteli i diritti della Chiesa cattolica locale e le permetta di svolgere la sua benefica attività, a confermare l’augurio del Papa per ogni progresso morale e materiale della nazione116. Il risultato della missione di Delpuch dimostra la disponibilità dei governi locali a lasciare libertà d’azione alla Chiesa cattolica. Intanto, nel gennaio del 1920, la Santa Sede può favorire la causa armena anche nella Conferenza di Parigi, dove si recano sia il Patriarca apostolico degli armeni di Turchia, Zaven I Der Yeghiaian, sia il vescovo dell’eparchia di Trebisonda degli Armeni, mons. Giovanni Naslian, rappresentante degli armeni cattolici alla Conferenza di Parigi e instancabile attivista della causa armena. Infatti, il card. Gasparri, sollecitato a dare l’autorizzazione alla presenza a Parigi anche del Luogotenente del patriarcato armeno-cattolico, Agostino Sayeghian, per un’azione più coordinata e più efficace117, permette a mons. Naslian di Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n. 3516 [pp. 6-13], [forse gennaio ‘20] – Relazione di Delpuch alla Sacra Congregazione Chiesa Orientale. 114 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n. 3825 , [data?] – Relazione del card. Van Rossum sul rapporto Delpuch. 115 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n. 3172, 13 gennaio 1920, Costantinopoli – Dolci a Marini. 116 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 15 gennaio 1920, Roma – minuta autografa di Gasparri al Presidente armeno Khatissian. 117 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 1066, 20 gennaio 1920, Costantinopoli – telegramma cifrato di Cesarano a Gasparri. 113 77 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 parteciparvi, al posto di Sayeghian, per non lasciare scoperta l’amministrazione ecclesiastica del patriarcato118. Nel suo appello alla Francia cattolica, il 12 marzo, mons. Naslian ricorda che: tous les arméniens catholiques et non-catholiques sans distinction ayant souffert ensemble de terribles persécutions et subi d’atroces massacres, autorisés par le gouvernement ottoman, organisés par le Jeunes Turcs et exécutés par les musulmans, avec un raffinement de cruauté rebutant. Il monsignore esalta inoltre l’amicizia e l’alleanza tra Armenia e Francia, riportando le parole di una lettera del Presidente Raymond Poincaré al patriarca degli armeno-cattolici in cui affermava che “l’Arménie n’a jamais douté de la France comme la France n’a jamais douté de l’Arménie; […] Après avoir supporté ensemble les mêmes souffrances pour le triomphe du Droit et de la justice, les deux Pays peuvent aujourd’hui communier dans la même allegresse et la même fierté”. Riassume infine, sulla falsariga delle richieste della delegazione armena alla Conferenza di pace di Parigi, i desideri della nuova Repubblica: I. Délivrance définitive de la Nation Arménienne du joug musulman, en lui reconnaissant une indépendance et en la constituant en état libre. I. Récupération des territoires historiques de l’Arménie dans les limites aussi larges que possible. a) avec un débouché sur mer, indispensable pour sa vie économique. b) Frontières limitrophes à la zone d’occupation française, ce qui nous garantirait la sécurité et nous préserverait de toute attaque éventuelle. III. Retour à leur religion chrétienne des Arméniens convertis de force à l’Islamisme.[…] 119 A sostegno delle sue richieste Naslian invia un memorandum al premier Georges Clemenceau: gli fa presente innanzitutto le comuni rivendicazioni della Delegazione nazionale armena, quindi gli espone il desiderio del patriarcato armeno-cattolico di una speciale protezione francese nei confronti della Chiesa cattolica armena, accompagnato dalla richiesta di aprire in Armenia scuole e Università, di offrire borse di studio in Francia per i giovani, di aiutare la ricostruzione delle diocesi devastate dai turchi, di assicurare agli Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 1066, 28 gennaio 1920, Roma – Gasparri a Cesarano. 119 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. [?], 12 marzo 1920, Parigi – Naslian all’opinione pubblica cattolica francese. Parla anche della liberazione delle donne e dei bambini armeni ancora prigionieri; delle facilitazioni per il rimpatrio degli scampati ai massacri e ora dispersi in Asia Minore, Mesopotamia, Siria, Arabia ecc.; del disarmo dei turchi e delle garanzie di vita per gli armeni; della restituzione dei beni o dell’indennizzo da parte dei turchi ai singoli e alle comunità religiose armene. 118 78 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 armeno-cattolici il recupero dei beni pubblici e privati e degli indennizzi dovuti dalla Turchia; promette in cambio di coordinare gli interessi del Patriarcato armeno cattolico con quelli francesi120. Clemenceau però non risponde al suo appello. Le richieste di aiuto da parte armena Il 5 aprile 1920, Naslian trasmette a Gasparri, in allegato, un importante documento, che doveva far parte del successivo trattato, e consegnato ai delegati armeni: è lo Schema di Trattato redatto dalla Conferenza di Londra per la Delegazione Armena, che riguarda l’insieme degli obblighi del governo armeno inerenti le minoranze etniche o religiose e le preferenze economiche e doganali da accordare ai membri della Società delle Nazioni. La Delegazione discute e approva il progetto quasi integralmente, in quanto “nell’insieme […] sono molto liberali e larghe le disposizioni prese”; aggiunge tuttavia una clausola all’art. 5 sul diritto di controllo da parte del governo armeno sugli istituti contemplativi121. Per parte sua, il cardinale Gasparri rassicura il Presidente della Repubblica armena, Avetis Aharonian, presente alla Conferenza di pace, circa il continuo interessamento papale per tutte le questioni che riguardano l’Armenia122. La situazione dell’Armenia però non migliora e permangono, a suo riguardo, i contrasti tra le potenze alleate, che spostano le discussioni da Parigi a Londra nel febbraio e quindi a San Remo, che conclude i lavori il 26 aprile del 1920 con una proposta di trattato di pace che affida la delimitazione dei confini tra Turchia e Armenia all’arbitrato del presidente Wilson (provvisoriamente le frontiere rimangono quelle esistenti), mentre il Consiglio degli Alleati, dopo l’arbitrato americano, avrebbe tracciato i confini tra l’Armenia e le altre due Repubbliche caucasiche, se non ci fosse stato un accordo tra i tre interessati123. Mons. Naslian si fa interprete della delusione degli armeni nel vedersi abbandonati a se stessi proprio mentre i kemalisti minacciano la Repubblica con l’appoggio dei russi e dell’Azerbajgian sovietico. Stando alle sue parole: Gli affari d’Armenia non sono consolanti: nel Caucaso si minaccia l’esterminio definitivo di tutti i superstiti armeni, i mezzi di difesa mancano ed i Tartari d’accordo con i Turchi sono decisi di Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. [?], 13 marzo 1920, Parigi – Naslian al Ministero degli Esteri francese. 121 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 5288, 5 aprile 1920, Roma – Naslian a Gasparri. 122 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 4764, [?] aprile 1920, Roma – Gasparri ad Aharonian. 123 Cfr. F. Sidari, op. cit., p. 195. 120 79 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 schiacciarli e forse già stanno in opera, così che prima della soluzione diplomatica della queszione [sic] si deplorerà forse la soluzione a la turca[…] 124 Anche il governo ottomano manifesta malumore verso l’oneroso trattato di pace, in un momento in cui sta perdendo ascendente sul popolo e Mustafa Kemal lo sta acquistando. Mons. Dolci raccoglie a Costantinopoli tale malumore e riferisce al card. Gasparri di essere stato convocato dal Gran Visir, Damad Ferid Paşa, per un parere sul trattato, da rendere pubblico nel caso fosse “favorevole alla sovranità ed indipendenza dello Stato Ottomano», insieme all’ulteriore richiesta di «intervento del Santo Padre presso le Potenze firmatarie del trattato per modificarne le condizioni”. Dolci risponde, seppure spiacente, che “l’ordine categorico” dei suoi superiori vietava ai rappresentanti all’estero della Santa Sede di “accordare interviste e di esternare pubblicamente un giudizio qualsiasi sovra ogni sorta di avvenimenti politici”125. Chiaro e deciso è d’altro canto l’atteggiamento vaticano nei confronti delle nuove richieste di aiuto da parte armena, per cui Nubar si rivolge al Papa l’8 giugno 1920126. Il quale Papa Benedetto incarica Gasparri di raccomandare prontamente la soddisfazione dei desideri armeni al conte John Francis de Salis, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di Sua Maestà britannica presso la Santa Sede. Quindi Gasparri redige con fermezza la nota dell’8 luglio 1920, diretta al governo inglese affinché, nella sua tradizione filoarmena, assicuri allo Stato armeno frontiere tali da non rischiare l’annientamento da parte dei vicini popoli islamici. È qui evidente il deciso e forte pronunciamento della Santa Sede a favore degli armeni; è parimenti evidente, specialmente nel richiamo alla fedeltà ai suoi impegni, il monito all’Inghilterra a non lasciarsi guidare da considerazioni esclusivamente utilitaristiche, entrando fin nel dettaglio della tutela delle Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n. 4363, 27 maggio 1920, Parigi – Naslian a mons. (Papadopulos ?). Naslian aspetta il rapporto del Capitano Poidebard da Erivan per esporre al Santo Padre i casi catastrofici a seguito dell’invasione bolscevica e cercare, col suo intervento, di prevenire il disastro. 125 Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, n. 7232, 1 giugno 1920, Costantinopoli – Dolci a Gasparri. Rispetto alla richiesta dell’intervento del Santo Padre, afferma con sicurezza che «il S. Padre, per il principio di neutralità da Lui scrupolosamente osservato, e per la grave offesa di essere stata esclusa la sua altissima autorità dalla Conferenza della Pace, si trovava nell’impossibilità di aderire alla sua preghiera». La Santa Sede, tramite la risposta del Segretario di Stato, approva la riservatezza di Dolci. Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, n. 7232, 18 giugno 1920, Costantinopoli – minuta autografa della risposta di Gasparri a Dolci. 126 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1 ,n. 8131, 8 giugno 1920, Parigi – Boghos Nubar al Papa. 124 80 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 frontiere per difendere le persone e l’indipendenza della Repubblica armena, che altrimenti si sarebbero trovate nell’impossibilità di ricevere qualunque tipo di aiuto. Gasparri scrive che il Santo Padre ha ricevuto una lettera dal: Président de la Délégation Nationale Arménienne auprès de la Conférence de Paix, […] dans laquelle il expose le dangers qui menaceraient de nouveau ce peuple, déjà si cruellement éprouvé au cours de sa douloureuse histoire, si le pays qui lui est assigné était restreint dans ces limites et enfermé comme dans un cercle par des pays à populations non chrétiennes, ennemies séculaires de la nation arménienne. […] 127 Lo stesso Gasparri informa quindi Nubar di aver comunicato il contenuto della sua lettera al ministro d’Inghilterra pregandolo “de vouloir bien attirer l’attention de son Gouvernement sur les dangers qui menaceraient la noble et généreuse nation arménienne du fait des limites politiques qu’on se propose de lui assigner”128. Da parte alleata non arrivano però al Papa risposte concrete e le sorti dell’Armenia peggiorano rapidamente sotto l’assalto dei kemalisti e dell’Armata Rossa, mentre il 1. giugno il Senato americano rifiuta il mandato sull’Armenia. Intanto l’attacco greco in Asia Minore contro Kemal non risparmia Erevan. Respinte alla Conferenza di Spa le proteste turche sul trattato di pace, la fermezza alleata costringe i turchi a firmare il trattato di Sèvres il 10 agosto 1920129, non ratificato dal Parlamento di Costantinopoli e rifiutato da Kemal, che ordina l’invasione dell’Anatolia nord-orientale, cioè dell’Armenia occidentale. Davanti all’assalto turco alla Repubblica armena, già il 23 ottobre il Patriarca cattolico armeno di Cilicia, Paolo Pietro XIII Terzian, temendo il peggio, sollecita un ulteriore intervento della Santa Sede, trasmettendo al Segretario di Stato un altro appello di Boghos Nubar al Papa (probabilmente una nota storica rivolta al governo francese e poi per conoscenza a Benedetto), dal momento che le grandi potenze non rispondevano ai reiterati appelli e non si muovevano a protezione dell’Armenia. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 8131, 8 luglio 1920, Roma – minuta autografa di Gasparri al Conte di Salis. 128 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 8132, 9 luglio 1920, Roma – minuta autografa di Gasparri a Nubar. 129 Tale trattato impone l’internazionalizzazione degli Stretti, la cessione della Tracia con Gallipoli, delle isole egee, esclusa Rodi, di Smirne col suo retroterra alla Grecia, il mandato sulla Siria e sulla Cilicia alla Francia, quello sull’Iraq, la Palestina e l’Arabia all’Inghilterra; il passaggio di Rodi e del Dodecanneso all’Italia, di Cipro e dell’Egitto all’Inghilterra. L’Armenia diventa indipendente; i suoi confini li avrebbe stabiliti il presidente Wilson in un secondo tempo. 127 81 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nella nota storica di Nubar si rammentano i principali fatti che hanno visto armeni e francesi combattere insieme contro i turchi prima e poi contro i kemalisti nella Cilicia occupata dai francesi; viene deplorato l’abbandono della Cilicia ai turchi e alle loro rinnovate persecuzioni; viene con forza richiesta l’autonomia amministrativa della regione sotto il controllo o la protezione francese per garantire la vita e la sicurezza a 270.000 cristiani del paese, evidenziando come, al contrario, il ritiro delle truppe francesi porterebbe alla rovina completa la popolazione cristiana della regione130. Mons. Terzian avverte anche delle deportazioni di massa che i turchi stanno effettuando, proprio come nel 1915. In questi tristi giorni siamo assai dolenti per i recenti avvenimenti dall’Asia Minore e di Cilicia, che i giornali celano. In questa stagione migliaia di armeni si mandano dalla loro città ai paesi lontani per mezzo dei kemalisti, da Kutahia, da Eskischir, da Bilegin, ecc.ecc. e dall’altra parte si cede in Cilicia ai turchi. Questa povera nazione armena si avvicina alla sua ultima rovina e sterminio […] 131 Sia il 6 che il 28 novembre Gasparri rassicura Terzian circa il costante interessamento del Papa per l’Armenia132. La Santa Sede continua infatti a tenersi informata sulla situazione armena, ricevando conferma, come si evince dai documenti, delle sanguinarie vicende che in essa ebbero luogo. Il 21 novembre 1920, mons. Naslian scrive a mons. Cerretti, all’epoca Sostituto della Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari (AA.EE.SS.), illustrando innanzitutto la situazione in Armenia, dove i cristiani sono minacciati e oppressi nella Cilicia abbandonata dalla Francia, nonché perseguitati nei paesi occupati dai kemalisti: per necessità rinchiusi in recinti pubblici delle chiese, presbiteri e scuole a migliaia, vi restano condannati a perire senza poter sortire, e sottoposti alle più barbare prove con ogni sorta di attentati all’onore ed alla fede delle famiglie cristiane. Tant’è che a suo avviso: S’impone quindi un efficace intervento dell’Augusto Pontefice di cui la voce autorevole commoverebbe opportunamente il mondo civile a favore di questa nazione e suo neonato Governo, così ingiustamente aggrediti da bande congiurate nell’odio anticristiano ed antieuropeo contro ogni elemento d’ordine e di cristiane convinzioni. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 13508, 10 ottobre 1920, Parigi – nota storica di Nubar. 131 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 19169, 20 ottobre 1920, Parigi – lettera autografa di Terzian a Gasparri. 132 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13138, 6 novembre 1920, Roma – minuta di Gasparri a Nubar; Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13163, 28 novembre 1920, Roma – Gasparri a Terzian. 130 82 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 In un allegato Naslian specifica le richieste di aiuto alla Santa Sede. In primo luogo analizza la grave situazione in Cilicia a maggioranza cristiana e armena, per cui chiede la tutela dei 270.000 profughi ritornativi dopo i massacri, osservando che l’Intesa, se avesse voluto, sarebbe riuscita a imporre alla Turchia il rispetto dei diritti armeni dovunque. Suggerisce inoltre pressioni diplomatiche sui paesi occidentali per «sollecitare gli aiuti necessari a scongiurare l’annientamento dell’Armenia» e sui kemalisti per invitarli alla moderazione. Punta in aggiunta sul Partito Popolare Italiano per un’azione di governo solidale con l’Armenia. Afferma infine che per la pace nel mondo è necessario rompere l’alleanza tra turchi kemalisti e Russia bolscevica133. Sia Naslian che Terzian si mostrano profondamente ostili sia ai bolscevichi che a Kemal, i quali in un anno hanno perpetrato numerose stragi di armeni e di altri cristiani cattolici. Mons. Moriondo e la missione nel Caucaso Nel frattempo, la Santa Sede, seguendo i suggerimenti di padre Delpuch, nomina mons. Natale Gabriele Moriondo, vescovo di Cuneo e domenicano, Visitatore Apostolico nel Caucaso, dove arriva prima del 12 novembre 1920, data di una sua prima relazione a Roma sulla situazione generale e sulla sua in particolare, peraltro non rintracciata nel corso della presente ricerca documentaria. Prima di proseguire varrà tuttavia la pena di ricordare quale sia stata la vicenda politica dell’Armenia dopo il trattato di Sèvres. Il 23 settembre del 1920, l’esercito turco, al comando del generale Kâzım Karabekir, luogotenente di Mustafa Kemal, inizia l’assalto alla Repubblica armena; il 7 novembre gli armeni capitolano; il 29 novembre un comitato rivoluzionario armeno proclama a Icevan la nascita della Repubblica Socialista Sovietica Armena; il 2 dicembre il trattato armeno-turco di Alexandropol (sottoscritto ancora dalla prima repubblica) riporta i confini turchi al 1878. Il 6 dicembre l’Armata Rossa entra a Erevan, il partito bolscevico instaura la dittatura. Così nata, la seconda Repubblica dell’Armenia, o “Repubblica socialista indipendente”, con la sua piccola porzione di territorio in Transcaucasia, conosce una graduale sovietizzazione: i gravi scontri della guerra civile vedono opporsi i comunisti del Comitato rivoluzionario, che impongono il durissimo “comunismo di guerra”, e i membri del Dashnak, i quali cercano di resistere prima di essere duramente perseguitati. Intanto gli armeni della Cilicia sono fuggiti verso la Siria, l’Egitto, la Grecia, i Balcani. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13508, 21 novembre 1920, Roma – Naslian a Cerretti. 133 83 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Con l’introduzione della NEP, anche l’Armenia potrà avvalersi, tra il 1921 e il 1928, di una certa liberalizzazione economica, che rafforza l’agricoltura e cerca di aprire agli scambi commerciali con i paesi confinanti. Inoltre, fra il 1922 e il 1926, l’Armenia costituisce con la Georgia e l’Azerbajgian l’Unione Federata delle Repubbliche della Transcaucasia, diventando poi, con la nuova Costituzione sovietica, una delle repubbliche federate dell’URSS. Riprendendo la narrazione in merito al ruolo della Santa Sede, nella lettera del 18 dicembre 1920, indirizzata probabilmente al card. Nicolò Marini, prefetto della Congregazione della Chiesa Orientale, il Visitatore Moriondo riferisce sulla situazione, gravemente compromessa dal punto di vista politico-militare per i gravi avvenimenti che hanno portato alla caduta del governo dei Dashnak di Erevan. Sottolinea infatti: la disfatta dell’Armenia, per opera dei kemalisti, e la caduta di essa in mano d’un governo bolscevico; la vittoria dell’armata bolscevica sulle truppe del Gen. Wrangler in Crimea, e il fallimento completo della rivolta, che i partiti avversi tentarono contro il regime bolscevico, nel Kuban e nel Daghestan […]. Dal punto di vista economico, aggiunge, un’inflazione galoppante porta ad una situazione in cui «la miseria pubblica è indescrivibile»; del resto anche “la situazione religiosa soffre naturalmente di tutti questi mali, i quali non solo non impediscono di migliorarla, ma la rendono ognor più critica […]”. Il Governo georgiano intanto comincia a metter la mano sui beni religiosi134. Niente da fare, Moriondo si mostra profondamente pessimista sul futuro della Chiesa nel Caucaso, al punto da ritenere inopportuno e quindi sconsigliabile l’invio di missionari, che non avrebbero la possibilità di lavorare in una situazione economica disastrosa, con una prospettiva incerta e scoraggiante. Conclude, sostenuto dal “parere delle personalità politiche e diplomatiche europee che qui si trovano [e dalle] stesse notizie che la stampa europea dà di queste regioni”135, con la denuncia dell’inutilità della sua permanenza sul posto. Ragione per cui prega la Congregazione della Chiesa Orientale di richiamarlo in patria il prima possibile, dal momento che qualunque tentativo gli appare precluso. Il Papa però lo esorta a rimanere nella regione quanto più a lungo possibile136. Nelle stesse contingenze, tenendo conto della caduta la Repubblica armena dei Dashnak, mons. Naslian invia alla Santa Sede delle osservazioni in Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, n. 4999, 18 dicembre 1920, Tiflis – Moriondo al card. (Marini?). 135 Ibidem. 136 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2,n.5313, 10 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo al Papa. 134 84 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 merito al trattato di Sèvres e alla possibilità di salvare ancora la nazione o almeno di difendere gli interessi cattolici, confidando sempre nell’aiuto occidentale. Dopo un attento esame della situazione, il prelato invoca la tutela della nazione armena, sia in termini di sopravvivenza fisica del popolo, sia in merito alla necessità che esso si mantenga come Stato indipendente, i cui territori comprendano quelli dell’Armenia turca e dell’Armenia russa e che abbia uno sbocco sul mare. La sua descrizione della situazione dell’Armenia occupata dai turchi e non solo si esprime con toni drammatici: 1 - L’Armenia si trova oggi in stato d’invasione, e ne subisce le tristi e disastrose conseguenze, analoghe a quelle del tempo di guerra; le popolazioni rifugiatevi, che insieme a quelle del paese formavano un considerevolissimo numero di armeni, sono in via d’esterminazione un’altra volta; la gioventù in specie è implacabilmente condannata a morte dai Turchi invasori con i medesimi artificii dei passati massacri: altri passati a fil di spada addirittura, altri messi fuori d’abitazione nudi e senza ristoro, gelano vivi sotto l’intemperie del freddo intenso di 24 gradi sotto il 0; altri, relegati nei centri turchi dell’Anatolia, è facile supporre come possano essere trattati. Le poche notizie pervenute confermano ciò […] Pertanto: 22 – Per i Cattolici bisogna che la S. Sede trovi modi di assistenza nel ricupero dei Beni Ecclesiastici, onde non vengano negati ed appropriati dai Turchi, o usurpati dai non-cattolici, più forti sempre in tali contingenze, o dai Laici sotto nome di Beni Nazionali […] 137 Naslian si mostra in definitiva pessimista circa il futuro del proprio paese, sia perché la Società delle Nazioni non prende decisioni efficaci, sia perché le grandi potenze sono più inclini alla tutela dei propri interessi, anche se contrastanti, che non a garantire il rispetto del trattato di Sèvres. Parimenti il card. Gasparri, cui Naslian si è rivolto, nel ribadire l’interesse speciale della Santa Sede per la nazione armena e malgrado tutti i suoi tentativi per poter introdurre “nel trattato di Sèvres alcune modifiche in favore delle comunità cattoliche di Oriente”, mostra ormai un profondo scetticismo riguardo al fatto che “attese per altro le difficoltà del momento […] le dimande della Santa Sede saranno senz’altro soddisfatte da parte dei vari Governi interessati”138. Quanto poi a mons. Moriondo, di fronte a una situazione che si va facendo sempre più pericolosa, dato che il trattato di Sèvres risulta superato dagli avvenimenti bellici e non vi sono più margini per un’azione propriamente Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 16169, 25 gennaio 1921, Roma – Naslian appunti a commento del Trattato di Sèvres. 138 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 16169, 18 febbraio 1921, Roma – minuta della risposta di Gasparri a Naslian. 137 85 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 politica, nel rivolgersi direttamente al Papa139 e poi al card. Marini, conferma la gravità della situazione, in un momento in cui: il Governo [della repubblica sovietizzata] però nulla promette di bene verso la religione. Anzi, prima ancora d’aver votato la legge di separazione, già la mette in pratica, impossessandosi dei beni religiosi. A nulla valgono le proteste e le minacce, poiché ad ogni costo si vuol attuare il programma comunista e antireligioso del governo. Né vi è a sperare che simile governo cada, avendo in suo favore quasi tutto il popolo, compenetrato fino al midollo dei principi del socialismo. La situazione economica è sempre gravissima, né si troverà facilmente una via d’uscita, se le potenze europee non daranno alla nazione aiuti finanziari. 140 Il 2 marzo successivo, a seguito della conquista e sovietizzazione della Repubblica georgiana, mons. Moriondo comunica a Marini la decisione di lasciare Tiflis assieme alle delegazioni straniere141, ribadendo il giorno seguente che “a nulla certo avrebbe più valso l’opera mia sotto la schiavitù e tirannia bolscevica; mentre per altro sarei rimasto, Dio sa fino a quando, isolato da tutti ed esposto ad ogni possibile evento”142. L’assessore della Congregazione della Chiesa Orientale, mons. Papadopulos143 prima chiede a mons. Federico Tedeschini, sostituto Segretario di Stato, di telegrafare a Moriondo “di aspettare lettere della S. Congregazione”144. Quindi, in una lettera del 5 marzo, scrive allo stesso Moriondo, peraltro già partito dal Caucaso, la disapprovazione della Santa Sede, che “avrebbe sommamente desiderato di saperLa rimasta nel Caucaso magari nel dominio dei kemalisti, sia per poter difendere a nome del S. Padre le persone e i beni dei cristiani, sia per evitare l’impressione spiacevole che potrebbe aversi dai cristiani del Caucaso nel ritenersi abbandonati dal loro autorevole Pastore”. Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5313, 10 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo al Papa. 140 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 2, n. 5293, 12 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo a Marini –. Vicariato Apostolico del Caucaso. 141 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 5, 3, 2, n. 5287, 2 marzo 1921, Costantinopoli – telegramma di Moriondo a Marini. 142 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5347, 3 marzo 1921, Tiflis – Moriondo a Marini –. Vicariato Apostolico del Caucaso. 143 Nel 1912 viene istituito a Istanbul un ordinariato per i greci nell’Impero ottomano, con il primo vescovo nella persona di Isaia Papadopulos (1852-1932), titolare di Grazianopolis. Nel 1918 viene chiamato a Roma da Papa Benedetto XV come primo assessore della Sacra Congregazione della Chiesa Orientale. 144 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5287,4 marzo 1921, Roma – mons. Assessore a Tedeschini. 139 86 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Dal momento però che Moriondo si trova già a Costantinopoli, dovrebbe continuare a interessarsi attivamente di tutti gli abitanti del Caucaso, senza nessuna distinzione etnica o religiosa, aspettando il momento propizio per tornare almeno a Batum145. Con la partenza di Moriondo si assiste al fallimento del primo tentativo della Santa Sede di instaurare dei rapporti stabili con i governi e i popoli della Transcaucasia. Le nuove iniziative diplomatiche e gli appelli della Chiesa Di fronte allo smembramento dell’Armenia fra russi e turchi, Mons. Terzian insiste rivolgendosi direttamente agli ambasciatori interessati, riuniti a Londra, e contemporaneamente sollecita e ottiene dalla Santa Sede pressioni sui rispettivi rappresentanti accreditati in Vaticano146. Gasparri rivolge perciò un esplicito e preoccupato invito indirizzato agli ambasciatori di Spagna e Brasile perché partecipino ad una iniziativa concreta sulla questione armena da parte dei loro governi147. Nonostante le risposte rassicuranti dell’ambasciatore del Brasile e di quello spagnolo, non risulta chiaro il tipo d’azione svolta, limitata comunque a provvedimenti umanitari 148. Particolarmente coinvolto, Benedetto XV tenta tutte le strade per alleviare la sorte dei cristiani in Oriente e il 9 marzo 1921, per il tramite del card. Gasparri, rivolge un appello a Mustafa Kemal, il generale ribelle ancora non investito di alcun potere legittimo, affinché rispetti la vita e i beni dei cristiani della Turchia. Si rivolge ai suoi “nobles sentiments d’humanité”, scongiurandolo di dare gli ordini opportuni: pour assurer le respect de la vie et des biens des Chrétiens du Caucase, de l’Asia Mineure et de l’Anatolie. Après tant de souffrances que l’humanité a endurée, il est à souhaiter que la voix de la clémence et de la pitié s’impose partout. 149 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5,2, n. 5287, 5 marzo 1921, Roma – Mons. Assessore a Moriondo. 146 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 28 febbraio 1921, Roma – Terzian a Cerretti. 147 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 1° marzo 1921, Roma – minuta autografa di Gasparri al marchese di Villasinda, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede; Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 1° marzo 1921, Roma – minuta autografa di Gasparri a Magalhaes de Azeredo, ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede. 148 Rispettivamente: Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 31 marzo 1921, Roma – Magalhaes de Azeredo ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede a Gasparri. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 16 aprile 1921, Roma – marchese di Villasinda, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede a Gasparri. 149 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 17569, 9 marzo 1921, Roma – minuta autografa del telegramma di Gasparri a Kemal. 145 87 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nel lungo telegramma di risposta inviato direttamente al «Santo» Papa, Kemal assicura, quale dovere impostogli sia dalla religione musulmana sia dai propri sentimenti umanitari, che: la securité et le bonheur de tous les habitants de notre pays sans distinction de religion est pour nous un devoir impérieux commandé par nos sentiments humanitaires ainsi que par la réligion musulmane Stop Par consequent, les Chretiens de toutes les régions ou s’extendent l’autorité et l’influence du Gouvernement de la Grande Assemblée National de Turquie jouissent de la tranquillité la plus complète. Kemal allega alla sua risposta gli estratti delle dichiarazioni proferite nel discorso inaugurale di apertura della Grande Assemblea Turca di Ankara del 24 aprile del 1920 e in quello del 1 marzo del 1921. In ambedue si dichiara di considerare principio fondamentale della propria politica la protezione dei cristiani, purché pacifici. In tal modo si rigetta le responsabilità delle violenze sui cristiani, come già aveva fatto il sultano. C’est un principe fondamental admis de tout temps chez nous de protéger les grecs et les arméniens de l’Anatolie et de leur assurer paix et bonheur tant qu’ils [s’abstiennent] absolument de faire opposition à la volonté nationale et aux ordres du gouvernement stop Même en face des criminelles agressions commises contre nos frères de race et de religion par des forces arméniennes tant régulières qu’irrégulières en Cilicie ainsi qu’en dehors de nos frontières orientales, nous avons considéré comme un devoir primordial d’humanité d’assurer la sécurité la plus complète aux chrétiens qui vivent tranquillement à l’intérieur de notre pays stop […] 150 Intanto, alla Conferenza di Londra, tra il febbraio e il marzo del 1921, l’Intesa pone le basi per la revisione del Trattato di Sèvres a favore della Turchia; ogni tentativo di accordo però fallisce per l’opposizione kemalista ad ogni concessione agli armeni proposta dagli alleati. Kemal, non avendo ancora preso in mano il potere e laicizzata la Turchia, mantiene l’alleanza con la Russia comunista per motivi tattici. Questo atteggiamento favorisce l’equivoco, da parte dei diplomatici vaticani, di attribuirgli fanatismo islamico e simpatie bolsceviche. In realtà, una volta al potere, avrebbe instaurato un regime nazionalista e laico e si sarebbe destreggiato tra le potenze occidentali e la Russia. Nel maggio, il Delegato Apostolico a Beirut, mons. Frediano Giannini, informa il Vaticano delle sue azioni in difesa e a favore degli armeni e degli altri cristiani, specialmente in Cilicia, da cui la Francia si è impegnata a ritirarsi, e delle idee panislamiche di Mustafa Kemal151. Giannini consegna anche Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 17569, 12 marzo 1921, Angora – telegramma di risposta di Kemal al Papa (in turco con) traduzione in francese. 151 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 21439, 7 maggio 1921, Beirut – Giannini a Gasparri. 150 88 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 all’ammiraglio francese de Bon, comandante della flotta del Mediterraneo orientale, un memorandum sul problema armeno, come lui stesso attesta nella relazione a Gasparri del 14 maggio, cui allega proprio il memorandum. In esso si chiede per l’Armenia un’autonomia politica e amministrativa sotto la protezione militare francese e col divieto per i turchi di stabilire proprie guarnigioni. Nella stessa lettera si richiama l’attenzione della Chiesa sul fatto che: Questa martirizzata nazione armena, che ebbe tante e così magnifiche promesse dagli alleati dell’Intesa durante la guerra, adesso trovasi più o meno abbandonata da tutti. Sarà onore eterno della Santa Sede l’aver seguitato ad interessarsene attivamente, quando i potenti della terra stavano per abbandonarla affatto. E chi sa che ciò non possa anche essere avviamento ad un ritorno di questi figli separati nel seno della Madre comune? In ogni caso non sarà mai né superfluo né perduto tutto ciò che si potrà fare per impedirne il temuto sterminio. 152 Sfortunatamente, dopo un suo viaggio in Cilicia, Giannini riferisce a Gasparri la risposta negativa dell’Alto Commissario francese, allegando alla sua relazione un appello all’arcivescovo cardinale di Parigi, Louis-Ernest Dubois153. Di fatto, la Francia si rifiuta di continuare ad agire per le minoranze religiose e, come emerge dalla relazione di Giannini a Gasparri del 18 giugno, il riconoscimento, da parte dell’Intesa, del governo di Mustafa Kemal, è di fatto il tacito via libera alla Turchia di imporre la propria politica nei confronti dei cristiani. Di riflesso, la politica benevola e conciliante della Francia e delle altre potenze, scambiata per debolezza, incoraggia la guerriglia delle diverse bande musulmane. Giannini invia inoltre un ulteriore memorandum sulla questione armena a Franklin Bouillon, ex ministro francese e Presidente della Commissione per gli Affari esteri, ancora influente tra gli uomini politici del paese. In tale memorandum, Giannini continua a chiedere per l’Armenia un’autonomia politica e amministrativa sotto la protezione militare francese e col divieto per i turchi di stabilire proprie guarnigioni154. Ma l’appello rimane senza effetti e il 20 ottobre 1921, per il tramite proprio di Bouillon in qualità di plenipotenziario, la Francia conclude un accordo con Kemal, cui “svende” il territorio, provocando così l’esodo della popolazione non turca. Non risultano più prese di posizione propriamente politiche da parte Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 21439, 14 maggio 1921, Beirut – Giannini a Gasparri. 153 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 22655, 18 giugno 1921, Beirut – Giannini a Gasparri. 154 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 24161, 17 luglio 1921, Beirut – Giannini a Gasparri. 152 89 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 della Santa Sede, che continua comunque la sua azione pastorale e umanitaria, dopo che le altre vie erano state precluse. Padre Kalatosoff, vice amministratore apostolico del Caucaso Il padre mechitarista armeno Dionisio Kalatosoff, sostituto dell’Amministratore Apostolico degli Armeni cattolici, mons. Der Abramian, riferisce alla Santa Sede della situazione in Transcaucasia quando, a fine aprile del 1921, torna provvisoriamente a Roma perché uno scontro tra kemalisti e russi a Batum gli aveva impedito di raggiungere Tiflis. Kalatosoff informa il card. Marini dei suoi contatti con i profughi russi, georgiani e con agenti comunisti georgiani a Costantinopoli155. Tra l’estate e l’autunno del 1921, il melchitarista armeno riesce a tornare nel Caucaso, non si sa se prima o dopo il ritorno in patria di mons. Moriondo, perché “la S.C. per la Chiesa Orientale non può lasciare a lungo oltre 50.000 cattolici di diverso rito senza un capo che abbia cura del clero e del popolo che invoca assistenza dalla S. Sede trovandosi esposto a dure prove”156. I bolscevichi intanto cercano di stabilire contatti con la Chiesa cattolica, anche in seguito alla morte di Benedetto XV, il 22 gennaio 1922, e all’elezione di Pio XI. Di rimando, Francesco Agagianian, rettore del Pontificio Collegio armeno di Roma (nel 1932) e futuro Patriarca armeno cattolico di Cilicia degli Armeni (dal 1937), nonché cardinale Gregorio Pietro XV Agagianian (dal 1946) e prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, chiede insistentemente la nomina di un rappresentante pontificio nel Caucaso, sia per i cristiani locali, sia per una possibile futura evangelizzazione della Russia. E invero Papa Ratti continua a inviare suoi rappresentanti nella regione, avvalendosi di padre Kalatosoff; il quale indirizza una relazione alla Santa Sede in cui avverte delle infiltrazioni bolsceviche anche nelle comunità cattoliche della regione e perfino in Vaticano, nonché della presenza disseminata tra la popolazione transcaucasica di numerose spie del partito comunista. Riguardo all’invio di un altro Visitatore nel Caucaso, p. Kalatosoff avverte che un atteggiamento pavido e diffidente come quello di mons. Moriondo può suscitare scandalo tra i fedeli e favorire mosse propagandistiche dei governi locali157. Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5638, 3 maggio 1921, Roma – Kalatosoff a Marini. 156 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5278, 10 novembre 1921 – Pro-memoria per Mons. Pizzardo (Sostituto Segr. di Stato). 157 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 7632, pp. 9-12 e 15-16, (?) Costantinopoli – relazione segreta autografa di p. Kalatosoff alla Santa Congregazione. 155 90 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Il nuovo Visitatore Apostolico, scelto dalla Santa Sede nella persona di Adrian Smets, vescovo dell’arcidiocesi di Bagdad, riuscirà a visitare il Caucaso solo nel 1923. Concludendo sul ruolo della Chiesa nella difesa degli armeni La Chiesa romana ha cercato di difendere la vita e la libertà del popolo armeno nei modi sopra accennati; il suo realistico criterio di azione risulta essere quel compromesso che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Ovvero, volendo avvalersi di considerazioni di Benedetto XVI ancora non asceso al pontificato: Io penso che oggi noi dobbiamo con decisione chiarirci che né la ragione né la fede promettono, a ciascuno di noi, che un giorno ci sarà un mondo perfetto. Esso non esiste. […] 158 Piuttosto, la “separazione di autorità statale e sacrale, il nuovo dualismo in essa contenuto, rappresenta l’inizio e il fondamento persistente dell’idea occidentale di libertà”159. Ne è la condizione previa, nella consapevolezza che “il desiderio di assoluto nella storia è il nemico del bene che è nella storia” e rende incapaci di “far amicizia con le cose umane”160. Per questo, anche nel corso delle vicende ricordate, nel contrastare antichi e nuovi assoluti, tutti in definitiva sacralizzatori dello stato, la politica ecclesiastica ha esercitato il fondamentale compito di conservare il bilanciamento di tale sistema dualistico come fondamento di libertà; per questo la Chiesa ha potuto avanzare delle richieste nell’ambito del diritto internazionale e pubblico; per questo ha potuto rivolgersi, come abbiamo visto, alle autorità politiche e difendere il popolo armeno161. Sempre per questo gli armeni si sono rivolti al Papa e alla Santa Sede, a quel capo spirituale e a quell’istituzione religiosa, in quanto impegnati in primo luogo a difendere la vita e la dignità di persone e popoli; in quanto preoccupati de “l’offensiva di pace” per “fermare l’inutile strage” nella “perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti”; in quanto, infine, impegnati ad alleviare le sofferenze dei popoli nello “sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse”162. J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Milano, 1987, p. 194. Ivi, p. 155. 160 Ivi, p. 192. 161 Ivi, pp. 142-158. 162 Benedetto XV, Dès le Début, 1 agosto 1917. 158 159 91 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nella consapevolezza, come si è detto, dei propri limiti e della irrealizzabilità del mondo perfetto, che neanche altri debbono credere di poter realizzare, sacrificando oltretutto i propri simili in modo così orrendo. 92 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Fonti d’archivio163 Archivio della Segreteria di Stato, posizione Asia 57, 1, nn: 5293, 8131, 8132, 13508, 19169, 13138, 13508, 13163, 16169, 17537, 21439, 22655, 24161 [… manca il numero di protocollo]. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, nn: 59711, 59712, 57889, 60608, 59729, 63502, 81691, 84492, 1066, 5288, 4764 […] Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, nn: 10228, 17569. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643. Archivio della Segreteria di Stato, Russia, 505, n° 1120 Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, nn: 7232, 69471 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244 K12 c, 306, nn: 66909, 68898 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244, 112, nn: 67801, 66827 Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, nn: 90014, 90034, 89948 Archivio della Sacra Congregazione per le chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 105, 3, 5, nn. 1525, 2375 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, nn. 3228, 3516, 3825, 3172, 4363, 4999 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 2, n°5293 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, nn. 5313, 5347, 5638, 5278, 7632 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 4, 3, n°1667, Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106, 5, 3, 2, n°5287 Per la collocazione archivistica, rivisitata, si può fare riferimento all’opera in 6 volumi a cura di Georges-Henry Ruyssen, La questione armena 1908-1925, Edizioni Orientalia Christiana & Valore Italiano - Lilamé, Roma 2013-2015. 163 93 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Bibliografia Fra le opere a carattere generale sulla storia armena, ricordiamo quelle di K.J. Basmadjian, Histoire Moderne des Arméniens, depuis la chute du royaume jusqu’au Traité de Sèvres (1375-1920), J. Gamber, Paris 1922 V. Basmadjian, Les Arméniens: réveil ou fin?, ed. Entente, Paris 1979 V. Brjusov, Annali del popolo armeno (traduzione, introduzione e note di A. Ferrari), Greco & Greco editori, Milano 1993 J. Bryce, Transcaucasia e Ararat, Mc Millan and Co., London 1878 G. Dedeyan, Storia degli armeni, ed. italiana a cura di B. L. Zekiyan e A. Arslan, Guerini e associati, Milano 2002 H. Dink, L’inquietudine della colomba. Essere armeni in Turchia, Guerini e associati, Milano 2008 A. Ferrari, Alla frontiera dell’Impero. Gli armeni in Russia (1801-2005), Mimesis, Milano 2000; L’Ararat e la gru. Studi sulla storia e la cultura degli armeni, Mimesis,Milano 2003 P. Kuciukian, Dispersi. 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Per puntualizzare la situazione attuale: schizzo di una sintesi storica, in L’Armenia e gli armeni, Polis lacerata e patria spirituale: la sfida di una sopravvivenza, Guerini e associati, Milano 2000; Armenia. Incontro con il popolo dell’Ararat, Consiglio Regionale del Veneto, con la collaborazione Italia-URSS, Venezia 1987 104 A. Ricci, La Santa Sede Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Nuovamente, grazie a Assange, sui “padri dell’Europa” Integrazioni agli atti del convegno di Padova, nel centenario della nascita di Luigi Gui F.G. In un numero precedente, il n. 29 per l’esattezza, questa rivista ha già fatto ricorso alla consultazione on line dei documenti dell’amministrazione americana divulgati attraverso le pagine dell’ormai celebre sito denominato WikiLeaks, frutto delle iniziative alquanto anticonformiste di Julian Assange. Nella circostanza, l’oggetto delle ricerche, con risultati di sicuro interesse, è stata la figura di Altiero Spinelli, “padre dell’Europa” parecchio noto e frequentato in questa sede. Nel presente contributo verranno invece ricercate fra le schermate del sito, che espone documenti provenienti dagli archivi Kissinger, Carter ed ulteriori fonti, le informazioni riguardanti altri “padri” continentali: in particolare quelli di cultura e militanza democratico cristiana cui è stato dedicato un convegno tenutosi all’università di Padova nel dicembre 2014. Gli atti di quell’incontro sono stati pubblicati su «EuroStudium3w» di gennaio-marzo 2015. L’occasione dell’evento era stata la ricorrenza del centenario della nascita di Luigi Gui, cittadino padovano, anch’egli esponente democristiano ed altrettanto europeista. Per la verità, trattandosi di “padri” quali Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, i materiali investigati risultano relativamente ridotti, dato che le carte Usa edite di soppiatto non risalgono all’indietro oltre gli anni Settanta. Tuttavia esse offrono spunti assai istruttivi per quanto riguarda il prestigio che i suddetti leader postbellici continuavano a godere non solo tra i rispettivi popoli, ma anche presso l’amministrazione americana. In breve, si trattava di personalità di eccezionale valore a cui fare continuo ricorso come modelli permanenti per la politica dei loro paesi, da cui mai era giusto discostarsi, sia perché tenacemente legati alla visione occidentale, senza 105 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 cedimenti in altre direzioni, e sia ancora per il loro illuminato europeismo, sostenuto con vigore ed anche con aiuti economici dagli Usa stessi. Per non parlare della dirittura etica dei patres, oltre che politica, ovviamente. Insuperabili figure di riferimento, insomma, della cui eredità ci si doveva ancora avvalere nei tormentati decenni dell’Europa della crisi economica e delle incertezze di prospettive. Iniziando dal cancelliere Entrando in argomento a partire dalla zona di Bonn, allora capitale della Repubblica federale tedesca, ciò che risalta, a proposito di Konrad Adenauer, dotato di una “grim and steely image” quanto Bismarck (così in una nota diplomatica), è l’impatto persistente della sua personalità e del suo lascito politico, tenacemente riconosciuto in tutti gli ambienti politici tedeschi, oltre che negli States. Per esempio, nel gennaio 1976, in occasione del centenario della nascita di “der Alte”, il grande vecchio, come riferiva l’ambasciatore Usa, Martin J. Hillenbrand, già nel “summary” della sua missiva: THE 100TH ANNIVERSARY OF KONRAD ADENAUER'S BIRTH HAS BEEN THE OCCASION FOR NUMEROUS TRIBUTES TO THE POSTWAR GERMAN STATESMAN. NOT ONLY HAVE CDU AND CSU POLITICIANS SOUGHT TO WRAP THEMSELVES IN THE MANTLE OF "DER ALTE'S" GREATNESS, BUT EVEN SPD AND FDP POLITICIANS ARE ATTEMPTING TO PORTRAY SOCIAL-LIBERAL GOVERNMENT PROGRAMS AS THE LOGICAL EXTENSION OF ADENAUER'S POLICIES. 1 Anche gli avversari dei democristiani tedeschi, insomma, specie perché in vista delle prossime elezioni politiche, si sperticavano in lodi del grande cancelliere, onde potersi conquistare le simpatie popolari, che evidentemente restavano a lui legate. Con l’aggiunta, c’è da presumere da parte nostra, di un qualche intento tranquillizzante nei confronti di Washington. Del resto, sempre a detta del diplomatico statunitense, a quel tempo mancavano persone di eguale “stature” sulla scena politica tedesca. Lo stesso candidato cancelliere Helmut Kohl, il quale tentava di sostituirsi alla leadership socialdemocratica, non pareva molto comparabile rispetto al padre della patria d’altri tempi. Salvo conquistarsi parecchi meriti, sia consentita l’annotazione, una volta giunto al governo – cosa avvenuta soltanto a partire dal 1982, dopo la sfiducia a Helmut Schmidt – e in particolar modo in occasione della riunificazione. Sia come sia, mentre il bavarese Strauss esaltava il “primo cancelliere della repubblica federale “ nel corso di “glowing speeches” che rivendicavano ONE HUNDREDTH ANNIVERSARY OF ADENAUER'S BIRTH, 1976 January 7, 13:05 (Wednesday), 1976BONN00218_b. 1 106 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 all’unione Csu-Cdu il ruolo di “bearers of the Christian-democratic tradition”, il candidato Kohl aveva comunque saputo descrivere in modo esemplare i meriti storici di Adenauer: SPEAKING BEFORE AN AUDIENCE IN BONN'S BEETHOVEN HALLE ON THE EVE OF THE ANNIVERSARY, KOHL LAUDED ADENAUER'S ACCOMPLISHMENTS IN LEADING THE FRG INTO AN ALLIANCE WITH THE FREE WORLD, CREATING INTERNATIONAL TRUST AND RESPECT FOR WEST GERMANY, ESTABLISHING FRIENDLY RELATIONS WITH FRANCE AND ISRAEL, AND STABILIZING THE DEMOCRATIC ORDER IN THE FRG. 2 Dal canto suo, il Kanzler socialdemocratico in carica, ovvero Schmidt, confortato dal consenso dei liberali suoi alleati, accreditava la “Ostpolitik” (compreso il recente accordo con la Polonia) e la “Mitbestimmung” (la cogestione fra lavoratori e imprese, non amata dagli Usa) quale “naturale sviluppo” delle politiche di Adenauer e del suo obiettivo di riconciliazione con gli antichi nemici. A dar credito poi al settimanale «Spiegel», solo Bismarck aveva portato alla storia della Germania contemporanea un contributo analogo a quello di Adenauer, mentre l’insieme degli atteggiamenti degli ambienti politici tedeschi, aggiungeva sempre l’ambasciatore americano, rivelava una forte “nostalgia” per l’epoca del grande leader della repubblica federale, rispetto alla modestia del presente. THIS REFLECTS A RECOGNITION THAT ADENAUER HAS EARNED A SECURE PLACE IN GERMAN HISTORY AS A STATESMAN AND AS THE FATHER OF POST-WORLD WAR II GERMAN DEMOCRACY. HOWEVER, IT MAY ALSO REFLECT THE FACT THAT THERE ARE FEW POLITICIANS OF HIS STATURE ON THE SCENE. 3 Difatti, come accennato, forse con un eccesso di sottovalutazione dell’uomo Kohl: CDU/CSU CHANCELLOR CANDIDATE KOHL, WHO LACKS THE POLITICAL APPEAL AND POPULARITY OF THE FIRST CDU CHANCELLOR, WANTS TO PORTRAY HIMSELF AS THE HEIR TO THE ADENAUER TRADITION PREPARED TO TAKE OVER THE REIGNS [sic] OF GOVERNMENT. Qualunque cosa se ne pensasse, merito suo o dell’eredità adenaueriana che fosse, l’imponente Helmut, come accennato, avrebbe comunque finito per assidersi là dove una volta si posava il suo patriarcale predecessore Konrad4. E Ibidem. Ibidem. 4 Per un giudizio sul candidato Kohl cfr. anche HELMUT KOHL: THE MAN WHO COULD BE CHANCELLOR, 1977 June 20, 00:00 (Monday), 1977BONN10272_c. Malgrado i molti pregi, tra 2 3 107 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 di sicuro del lascito di quest’ultimo il nuovo occupante apicale del Bundesviertel di Bonn non si sarebbe mai dimenticato. A riprova, sempre nel gennaio ’76, tanto per citare un particolare, nel corso di una conversazione con Hillenbrand, Kohl aveva ricordato come Adenauer, quando tentò delle aperture verso l’Est, si premurò sempre di coinvolgere anche i partiti di opposizione, mentre Willy Brand e Schmidt se ne erano ben guardati5. Inoltre, in un’intervista dell’aprile 1977, alla vigilia di una visita negli Usa – riferiva Walter J. Stoessel jr., il nuovo ambasciatore a Bonn - Kohl così si era espresso a proposito di un accordo stipulato con il Brasile. Ovvero, mai più violare un trattato: UNDER HITLER'S THIRD REICH, GERMANS MADE FOR THEMSELVES A REPUTATION AS BREAKERS OF TREATIES. OBSERVANCE OF TREATIES IS ONE OF THE MOST IMPORTANT HALLMARKS OF DEMOCRATIC GERMANY. KONRAD ADENAUER HAMMERED THAT INTO THE HEADS OF THE YOUNGER GENERATION. 6 Ad Adenauer il martellatore esemplare andava dunque ricondotta la nuova, tenace fedeltà tedesca ai patti sottoscritti. Quanto a Kohl, questi aveva poi aggiunto, e la cosa non sorprende: “We are an export-intensive country”. Ma non si sa quanto l’asserzione venisse anch’essa ricondotta al lascito del grand’uomo di Colonia. Al quale grand’uomo il presidente americano Jimmy Carter, intervenendo nel luglio successivo nella Rathaus germanica, riconosceva il merito di aver collocato la sede del parlamento della Repubblica federale nella città di Bonn, non lontana dalla natia Colonia. Sede “temporanea”, d’accordo, ammise Carter (qualcuno sperava fosse anche sede definitiva), tuttavia il suo “remark” in proposito risultava parecchio sentito, oltre che consapevole del forte attaccamento del cattolico praticante Adenauer (come del resto Kohl) alla storia, alle tradizioni e anche alle più gentili atmosfere, tra l’ecologico e il politico, della Germania renana: cui l’affabilità, sfortunatamente per lui, “KOHL DOES NOT HAVE THAT INSTINCT FOR THE JUGULAR WHICH OFTEN MARKS SUCCESSFUL POLITICAL FIGURES”. Era anche un tantino “generalist” nella sua cultura e nella sua preparazione sui singoli dossier. 5 CONVERSATION WITH CDU/CSU CHANCELLOR-CANDIDATE KOHL,1976 January 27, 11:30 (Tuesday), 1976BONN01389_b: “UNLIKE ADENAUER, THE SOCIAL DEMOCRATS HAD NOT ATTEMPTED TO INCLUDE THE OPPOSITION IN THE MAKING OF FOREIGN POLICY, FOR EXAMPLE, HE SAID, ADENAUER HAD TAKEN REPRESENTATIVES OF ALL THE "FRAKTIONEN" TO MOSCOW WITH HIM AND THUS HAD FORCED THE SOCIAL DEMOCRATS, WHO WERE THEN IN OPPOSITION, TO TAKE JOINT RESPONSIBILITY WITH THE CDU GOVERNMENT FOR ADENAUER'S "OPENING TO THE EAST" POLICY”. 6 HELMUT KOHL'S INTERVIEW ON PENDING U.S. VISIT…, Date:1977 April 6, 00:00 (Wednesday), 1977BONN06092_c. 108 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 KONRAD ADENAUER ALWAYS SAID HE CHOSE BONN AS CAPITAL, TEMPORARY CAPITAL, OF THE FEDERAL REPUBLIC BECAUSE IN ADDITION TO HIS LOVE FOR ROSES, HE KNEW DEMOCRACY COULD REACH ITS FULLEST FLOWER IN THIS SERENE AND GENTLE TOWN ALONG THE BANKS OF THE RHINE. (APPLAUSE). 7 Procedendo oltre, un giudizio assai assertivo sull’influenza di lungo periodo dell’opera di Adenauer sul suo paese, in specie sulla politica tanto europea che occidentale della Germania, è contenuto nella ampia nota, classificata “secret”, che tale Robinson, aveva trasmesso agli uffici “intelligence” del Dipartimento di Stato, già nel settembre ’76, a proposito della Cdu/Csu e della sua possibile vittoria elettorale. Un documento sicuramente di parte statunitense e tuttavia molto interessante, nonché assai particolareggiato in tema di relazioni della Germania con la Nato, con il blocco sovietico, la Francia, le Comunità europee e con molti altri paesi ancora. Bonn era tenuta tra l’altro, si apprende, e si sottolinea, a impiegare proprie risorse per sostenere l’assetto politico italiano e mantenerlo saldamente filo-occidentale. Questo il tenore di una “sentence” del testo, emessa in via riassuntiva: 20. SINCE THE ESTABLISHMENT OF THE WEST GERMAN STATE IN 1949, THE OVERWHELMING MAJORITY OF ITS PEOPLE HAVE SUPPORTED POLICIES BASED ON A WESTERN ORIENTATION. CHRISTIAN DEMOCRATIC ADMINISTRATIONS LED BY KONRAD ADENAUER AND HIS SUCCESSORS FORMULATED THOSE POLICIES THAT TODAY'S CDU/CSU REGARDS AS FUNDAMENTAL. THE SPD-FDP COALITIONS UNDER BRANDT AND SCHMIDT HAVE NOT DEVIATED SIGNIFICANTLY FROM THE PROWESTERN ORIENTATION OF PREDECESSOR CDU/CSU GOVERNMENTS. 8 Ancora una volta, dunque, il ruolo determinante riconosciuto a Konrad Adenauer dagli stessi diplomatici americani nel fondare su solide base la repubblica federale e l’assetto politico europeo postbellico. Un assetto tanto il più possibile unitario, quanto saldamente orientato a e da Occidente. A dare conferma di tale convinzione concorre, se ancora ce ne fosse bisogno, l’ultima missiva del carteggio diplomatico dell’ambasciatore Hillenbrand, il quale, soltanto un mese più tardi, lasciando un’attività che lo aveva portato a occuparsi della Germania, e di Europa, per ben trent’anni anni – “as I prepare to leave Bonn after more than thirty years of professional association [di cui 4 da ambasciatore, nda] with Germany and Europe” – intendeva mettere a parte il Dipartimento di Stato di alcune sue, ma non poche, “general observations”. Al punto 6, figuravano le seguenti asserzioni, che per un verso ci confermano della chiara identificazione, anche da parte americana, dei “padri TEXT OF REMARKS OF THE PRESIDENT AT RATHAUS…, Date: 1978 July 14, 00:00 (Friday), Canonical ID: 1978BONN12960_d. Jimmy Carter entrò in carica il 20 gennaio 1977. 8 IMPLICATIONS OF A CDU/CSU VICTORY IN FRG'S OCTOBER ELECTIONS,1976 September 28, 20:03 (Tuesday), 1976STATE240975_b. 7 109 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 dell’Europa”, con De Gasperi in testa, e dall’altro tradiscono una condizione di diffuso pessimismo sullo stato del processo di unificazione europea, che già allora risultava deludente, oltre che largamente incompleto. La qual cosa potrà forse rasserenarci un poco sui pessimismi dei nostri tempi, visto che dai giorni del messaggio di Hillenbrand, sedicente europeista “convinto”, di passi in avanti la costruzione comune ne ha fatti comunque parecchi. Ebbene: 6. AS A CONVINCED SUPPORTED [sic] OF EUROPEAN INTEGRATION FOR MORE THAN 25 YEARS, I CAN ONLY BE SADDENED AT THE PRESENT STATE OF THE EUROPEAN MOVEMENT. THE GENERALLY NEGATIVE OR LUKEWARM REACTION TO THE RECENT TINDEMANS REPORT, MILD AS IT WAS IN ITS RECOMMENDATIONS, BROUGHT HOME ONCE AGAIN HOW LITTLE REMAINS OF THE SPIRIT AND IDEALISM OF THE SURGE TOWARDS EUROPEAN UNITY IN THE 1950'S LED BY SUCH CREATIVE PERSONALITIES AS ALCIDE DE GASPERI, ROBERT SCHUMAN, KONRAD ADENAUER, JEAN MONNET, AND MANY OTHERS. IT WAS THE ASSUMPTION THEN, SHARED BY CHANCELLOR ADENAUER, THAT GERMAN DYNAMISM COULD BEST' BE CONTAINED WITHIN AN EVER DEVELOPING EUROPEAN COMMUNITY TO WHICH NATIONAL GOVERNMENTS WERE PREPARED TO MAKE MEANINGFUL DEROGATIONS OF SOVEREIGNTY. 9 Una sintesi decisamente nitida del processo a vocazione sovranazionale, con cessioni di sovranità alle comuni istituzioni, vagheggiato ed avviato dai “padri” nel dopoguerra. Peccato però che il rapporto troppo “mild” presentato il 29 dicembre 1975 dal belga Leo Tindemans ai suoi colleghi capi di stato e di governo non fornisse sufficiente continuità ed impulso. Eppure già in esso si perorava la causa dell’erigenda Unione europea, comprensiva di unione economica e monetaria, politica estera comune, non meno che di cittadinanza europea. Ma a quei giorni, in effetti, il Vecchio Mondo non versava in stato di grande euforia, sia per gli effetti della crisi economica anni Settanta, sia perché il profilo della presenza tedesca già si stagliava parecchio corposo sulla scena continentale. Con effetti di generale smarrimento. Tant’è che Hillenbrand, con quel suo annuncio del sogno “irrevocabilmente” svanito, risultava fin troppo pessimista: THIS DREAM NOW SEEMS IRREVOCABLY SHATTERED, AND THE FEELINGS OF UNEASE ABOUT GERMAN POWER WHICH ONE FINDS IN FRANCE, THE BENELUX, AND THE UNITED KINGDOM AT LEAST PARTLY REFLECT THIS LOSS OF A CONCEPTUAL FRAMEWORK FOR THE EUROPE THAT WAS TO EMERGE. ONE RESULT IN THE FEDERAL REPUBLIC HAS BEEN A VACUUM OF CREATIVE POLITICAL PURPOSE AMONG MANY YOUNG PEOPLE. INSTEAD, THEY FALL EASY PREY TO A CERTAIN WEARINESS OF SPIRIT WHICH SEEMS TO CHARACTERIZE MOST GERMAN LEADERS TODAY, INCLUDING THE CHANCELLOR, A SENSE OF DRIFT AND OF RELATIVE OBSERVATIONS ON GERMANY AND EUROPE, 1976 October 16, 13:38 (Saturday), 1976BONN17542_b. 9 110 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 HELPLESSNESS IN THE FACE OF EVER MORE COMPLICATED POLITICAL, ECONOMIC AND SOCIAL PROBLEMS AFFECTING THE FUTURE OF EUROPE. Eppure eppure, qualcosa restava del vecchio sogno, qualcosa di istituzionale, di decisamente funzionalistico, merito di Jean Monnet e degli anni Cinquanta, su cui poggiare una pur minimale concertazione europea, malgrado le crescenti disparità fra le economie dei diversi stati membri e il quadro internazionale a dir poco “turbolento”. Ah, il grande merito della “European Community”, per quanto minacciata, ma ancora potenzialmente in grado di risalire la china: WHAT IS LEFT INSTITUTIONALLY IN EUROPE IS THE EUROPEAN COMMUNITY AMALGAMATING THE TREATY OF ROME AND THE TREATIES ESTABLISHING A EUROPEAN COAL AND STEEL COMMUNITY AND A EUROPEAN ATOMIC COMMUNITY, ALL PRODUCTS OF THE 1950'S. THAT ONLY PARTLY REALIZED EUROPEAN ECONOMIC COMMUNITY IS NOW THREATENED BY STRONG CENTRIFUGAL FORCES ARISING OUT OF GROWING DISPARITIES BETWEEN THE NATIONAL ECONOMIES OF MEMBER STATES. THE BEST THAT ONE CAN HOPE FOR IN THE SHORT RUN IS THAT THE COMMUNITY, AS A MATTER OF URGENCY, AT LEAST DEVELOP ITS CAPACITY FOR JOINT POLITICAL ACTION THROUGH FREQUENT CONSULTATION TO COPE WITH AN INCREASINGLY TURBULENT INTERNATIONAL ENVIRONMENT. Nel complesso, certo, la tensione per la riunificazione nazionale, per quanto controllata, continuava a distogliere la società tedesca dalla piena partecipazione alla politica occidentale-statunitense. Con tutto ciò, a ben vedere, malgrado i personali accenti di pessimismo e il diffuso disorientamento, lo stesso Hillenbrand, nel chiudere la sua ultima missiva da diplomatico nella terra di Goethe, riteneva che il “West” mantenesse parecchio dinamismo. L’importante era trovare una leadership adeguata, in grado di affrontare “i preoccupanti problemi del nostro tempo”. Quasi da evocare, e lasciando stare che le “free societies” alla fine avrebbero avuto la meglio, i dibattiti e le problematiche dei “nostri” (intendi a. D. 2015) ondivaghi giorni. Insomma, per il diplomatico Usa, si poteva ancora far sì che: …THE TROUBLESOME PROBLEMS OF OUR ERA, INCLUDING THAT OF ADJUSTING TO LOWER RATES OF ECONOMIC GROWTH, CAN BE MASTERED OR AT LEAST CONTAINED WITHOUT DESTROYING THE BASIC INSTITUTIONAL STRUCTURES NECESSARY TO THE EFFECTIVE FUNCTIONING OF FREE SOCIETIES. Dopodiché, concludendo sul “padre” Adenauer e la Germania, fra le curiosità si potrebbe aggiungere ancora qualcosa in tema di rapporti con la Cina. Per esempio, scriveva Stoessel, il Kanzler per antonomasia rifiutò di 111 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 riconoscere Taiwan10. Curioso risulta poi l’accenno a un certo desiderio del grande vecchio di accentuare i poteri del presidente tedesco rispetto al cancelliere, tanto da immaginare di diventare lui stesso presidente, salvo poi convincersi della scarsa praticabilità del progetto11. Ma al di là dei dettagli, Adenauer restava indiscutibilmente come faro splendente sulle pianure germaniche, tanto illuminato e illuminante da aver saputo consolidare il regime democratico e della “freedom” all’interno del processo di unità continentale, in stretto legame con gli Usa e, attenzione, senza temuti approcci o cedimenti all’avversario orientale. Da tenere in considerazione infine (anche se i messaggi che citano Adenauer sono molti di più e meriterebbero un’ulteriore visitazione) i documenti assai più recenti, riprodotti da WikiLeaks nella categoria The Global Intelligence Files, fra cui: “German Report Says Adenauer Sought To Exchange West Berlin With Parts of GDR” e “Good Read: How Helmut Kohl Created a British Europe”. In quest’ultimo, dal titolo vagamente ironico, si può comunque rilevare un’efficace definizione della vocazione europea della Germania affidata ai maggiori leader Cdu: “the exceptional European commitment of the Adenauer-to-Kohl Federal Republic”. Peccato soltanto per il rischio di non volute evoluzioni alquanto British, ovvero di segno nazional-contraddittorio, affiorate più di recente. Nostalgie, con contraddizioni, anche al di qua del Reno Più o meno nello stesso torno di tempo delle malinconie di Hillenbrand, anche altrove, precisamente in Lussemburgo, il senso di rimpianto per i tempi antichi, beneficiati dalla presenza dei “padri”, prendeva il sopravvento. Da segnalare il commento, luglio ’77, dell’ambasciatore Usa, James G. Lowenstein, allo sfogo di Gaston Thorn, allora primo ministro, nonché futuro presidente della Commissione Cee dal gennaio 1981, confidatosi con l’Herald Tribune. Ancora una volta, sottolineava riassumendo il diplomatico, i nomi fatidici affioravano alla memoria. Quanto suggestiva era stata la loro epoca rispetto alle miserie del presente… GENSCHER VISIT TO CHINA, 1977 October 5, 00:00 (Wednesday), 1977BONN16534_c. Stando a quanto riferito da Bonn, il ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher, interessato a sviluppare le relazioni con la Cina: OBSERVED THAT THERE WERE NO BILATERAL PROBLEMS BETWEEN BONN AND PEKING AND THIS WAS IN NO SMALL MEASURE DUE TO THE FARSIGHTEDNESS OF FORMER CHANCELLOR KONRAD ADENAUER WHO HAD STEADFASTLY REFUSED TO RECOGNIZE TAIWAN. 11 WALTER SCHEEL AND THE POWERS OF THE FRG PRESIDENCY, 1976 December 3, 13:05 (Friday), 1976BONN20397_b. 10 112 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 FOR MR. THORN, THE DETERIORATION IS NOT JUST POLITICAL AND ECONOMIC, BUT MORAL AS WELL. THERE HAS BEEN AN ABDICATION OF LEADERSHIP AND VISION, HE THINKS, WHICH HAS PLUNGED THE CONTINENT BACK INTO RIVALRY AND NATIONALISM. "WE HAVE A GENERATION OF LEADERS TODAY," HE SAID, "FOR WHICH EUROPE NO LONGER HAS THE PRIORITY IT HAD FOR (ROBERT) SCHUMAN, (ALCIDE) DE GASPERI AND (KONRAD) ADENAUER." INSTEAD OF WORKING TOWARD EUROPEAN UNITY, HE SAID, "WE SEE EACH COUNTRY - FRANCE, WEST GERMANY AND BRITIAN - JEALOUSLY TRYING TO DOMINATE THINGS, AND WHEN THEY CAN'T, SPENDING THEIR ENERGY TRYING TO MAKE SURE THE OTHERS DON'T EITHER. THAT IS WHY EUROPE IS BLOCKED. 12 Veramente triste come quadro d’insieme. Oltretutto tenendo conto, nell’ottica di Thorn, che l’amministrazione Carter, avviata nel gennaio ’77, sembrava un po’ troppo indulgente rispetto all’ipotesi di un accesso al potere dei partiti eurocomunisti in Italia e Francia. Per contro, specie in Francia, un protagonista di fede gaullista come l’ex e futuro primo ministro, oltre che presidente, Jacques Chirac, allora sindaco di Parigi, faceva resistenza alla prospettiva, ormai imminente, di un parlamento europeo eletto a suffragio universale diretto. Per non dire della disponibilità a concedergli qualche potere. Davvero un brutto affare, secondo Thorn. E una vera fortuna, si può aggiungere di sfuggita, che a raddrizzare il corso degli eventi intervenisse di lì a poco sulla scena strasburghese un altro “padre”, oltretutto eletto fra gli indipendenti del Partito (euro)comunista italiano: Altiero Spinelli, l’autore del progetto di Unione europea che porta il suo nome, e che rimise in moto la macchina inceppata. Un’intervista senza dubbio avvincente quella di Thorn, meritevole, in altra sede, di una puntuale rivisitazione. Di sicuro, spostandosi a questo punto sulla Senna, appare istruttivo constatare quanto in quegli anni una personalità come Chirac risultasse ostinatamente renitente all’evoluzione istituzionale europea. Eppure, lo stesso leader gaullista, da presidente, si sarebbe dimostrato abbastanza aperto in materia: si pensi alla vicenda del trattato costituzionale, che fu difeso dal suo governo, per quanto poi affossato dalla maggioranza del popolo francese. Forse il personaggio, pur di conquistare, in fase di ascesa, il cuore del suo elettorato, aveva alquanto esagerato nel difendere l’Europa delle nazioni, pagandone più tardi le conseguenze. Peccato, perché a forza di sconfessare il lascito dei “padri”, e sarà pur giusto dare al generale ciò che è del generale, però il rischio è di finire per accreditare un po’ troppo i personaggi alla Marine, per non dire di papà, sempre Le Pen. THORN INTERVIEW IN INTERNATIONAL HERALD TRIBUNE, 1977 July 19, 00:00 (Tuesday), 1977LUXEMB00567_c. 12 113 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 A confermare l’originaria durezza souveraniste di Chirac, al punto da sfruttare persino il “père” Schuman a favore della sua causa, concorre ancora una volta una missiva del successore di Hillenbrand, l’ambasciatore Stroessel, datata 2 novembre 1978. Il contesto è la visita a Bonn del “Gaullist leader”, in qualità di ospite della Cdu e del suo presidente Kohl, effettuata nell’ottobre appena trascorso. In effetti il risultato era stato davvero pessimo. Un disastro su tutta la linea, un “no meeting of minds” per ogni dove, dalle questioni Cee alla politica estera, all’Unione dei partiti democratici, con buona pace delle dichiarazioni di principio, condivise solo in astratto: CDU SOURCES HAVE TOLD US THAT THE VISIT BROUGHT NO MEETING OF MINDS ON THE MAJOR ISSUES OF CDU/GAULLIST DISAGREEMENT, EUROPEAN POLICY AND THE ATLANTIC ALLIANCE. INDEED, WE WERE TOLD THAT AT THE CONCLUSION OF CHIRAC'S PRIVATE DISCUSSION WITH KOHL AND A FEW OTHER CDU DEPUTIES, THE PRINCIPALS COMMENTED THAT THEY WERE IN AGREEMENT ON ALL ABSTRACT WESTERN VALUES, BUT THAT THERE WAS NO COMMON GROUND ON A SINGLE POINT OF PRACTICAL EUROPEAN OR FOREIGN POLICY. THERE WAS ALSO NO RESULT FROM DISCUSSION ON HOW TO COOPERATE ON EUROPEAN COMMUNITY AND PARLIAMENT ISSUES THROUGH THE EUROPEAN DEMOCRATIC UNION (EDU) OF CENTER AND RIGHTIST PARTIES. 13 Malgrado le aspirazioni ad un Europa “strong”, Chirac si dichiarava contrario alla sovranazionalità: per lui doveva esistere un’Europa delle nazioni e basta, nemmeno quella federazione di stati nazione di cui si sarebbe a suo tempo fatto paladino, e a questo punto se ne capisce appieno il senso, il grande presidente della Commissione tra gennaio ’85 e gennaio ‘95, Jacques Delors. Per parte sua, lo Jacques gaullista, alzando ulteriormente il tiro, aveva chiamato in causa precisamente il “padre” Schuman. Persino lui, sosteneva, era contrario a largheggiare troppo in tema di unità europea, tant’è vero che lo si ricordava “as opposing European citizenship”, ovvero avversario, a suo avviso, della cittadinanza europea. Può darsi, forse, tutto da vedere che la citazione fosse legittima. Ma di sicuro, pensando allo spirito della Dichiarazione che porta il nome del ministro degli Esteri francese, quella del 9 maggio 1950, detto anche “San Schuman”, in cui si invocava la “federazione” europea per la pace, il seguito dei pronunciamenti di Chirac non suona schumaniano per niente. Certo, ammetteva il futuro presidente francese, era giusto che l’Europa parlasse con una voce sola, ma il modo per ottenerlo erano soltanto frequenti incontri – quanto attuali! – fra “key”, sottolineiamo “key”, “heads of government”. Da cui CHIRAC DISCUSSIONS WITH CDU DO NOT BRIDGE DISAGREEMENTS, 1978 November 2, 00:00 (Thursday), 1978BONN20273_d. 13 114 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 una alquanto sconfortata considerazione conclusiva di Stoessel, centrata sulla questione Parlamento europeo, ormai prossimo all’elezione diretta: CRITICISM OF THE EUROPEAN PARLIAMENT. CHIRAC LAMPOONED THE PARLIAMENT, SAYING THAT A STRONG ONE WOULD NOT WORK BECAUSE IT WOULD CHALLENGE THE AUTHORITY OF NATIONAL GOVERNMENTS, WHILE A WEAK ONE WAS UNNECESSARY AND WOULD MERELY WASTE MONEY. --A DIG AT BRANDT, SCHMIDT, TINDEMANS, AND ANDREOTTI FOR SUGGESTING LEGISLATIVE ASSEMBLY RIGHTS FOR THE EUROPEAN PARLIAMENT, AND A MORE SPECIFIC DIG AT TINDEMANS AND HIS REPORT ON EUROPEAN COOPERATION. 14 Lo scritto nel complesso non fa del bene alla figura di Chirac, tanto più che, come accennato, il prosecutore dell’impostazione propria del gran generale avrebbe finito per ammorbidire parecchio le proprie idee una volta giunto al potere15. Al tempo stesso, e per fortuna che le cose sono poi andate così, la positiva evoluzione del processo di democratizzazione delle istituzioni europee, grazie proprio all’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento strasburghese e al riconoscimento della cittadinanza europea, ci conforta non poco. Ci rassicura del fatto che anche in passato si sono verificate delle crisi parecchio gravi, ci sono stati momenti di involuzione e di smarrimento, ma alla fin fine il processo avviato dai “padri” è andato avanti, confermando una volta di più che avevano ragione loro. Interessante, comunque, poco da fare, che l’ambasciatore Usa patrocinasse il ruolo sovranazionale del Parlamento europeo direttamente eletto. Sicché anche in questo caso varrebbe la pena di indugiare di più tra i messaggi Usa dedicati all’eredità di Schuman, di Monnet e in generale al parecchio contraddittorio europeismo francese, a seconda di chi lo interpreti. Directly back to De Gasperi Trasferendoci ora in Italia per vagliare i messaggi che giungevano al Dipartimento di Stato da quelle, cioè dalle nostre bande, assai istruttiva risulta una missiva ricevuta per “electronic telegram” in un’occasione apparentemente secondaria, ovvero alla vigilia, luglio 1973, di una visita in Usa del ministro dell’Agricoltura, Mario Ferrari Aggradi, su invito del collega, Earl Butz. Tra le ragioni dell’apprezzamento riservato all’importante personaggio italiano – così lo definiva il mittente, ovvero ben noto ambasciatore Usa a Roma John A. Volpe – c’era il dato di fatto che l’ospite “traces the lineage of his political thinking Ibidem. Sul supporto del convertito Chirac all’approvazione del trattato costituzionale del 2004, nei giorni precedenti lo sfortunato referendum francese del 29 maggio 2005, molto interessante il documento: 2005 May 26, 16:50 (Thursday), 05PARIS3668_a. 14 15 115 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 directly back to De Gasperi”. Da cui la sicurezza, sia pure un po’ interessata, di poter aprire un dialogo amichevole anche nella “key area” delle relazioni Stati Uniti - Comunità Europea in tema di agricoltura, “where we need all the friends we can get”16. Niente paura, comunque, perché il governo italiano da poco costituito sotto la guida di Mariano Rumor, appena il trentacinquesimo… dall’età postbellica, risultava certamente affidabile e fedele agli impegni delle origini. Ovvero, Alleanza Atlantica, Europa unita e amicizia con gli Usa: ITALY'S 35TH POST WAR GOVERNMENT IS NOT EXPECTED TO DEVIATE FROM THE ESTABLISHED POLICY OF SUPPORT FOR THE ATLANTIC ALLIANCE, FOR THE CONSTRUCTION OF EUROPE AND FOR CLOSE AND FRIENDLY BILATERAL RELATIONS WITH THE U.S. 17 Ancor più significante sarebbe suonato, nel luglio 1974, il “toast” riservato al presidente della Repubblica italiana, Giovanni Leone, da parte di Henry Kissinger in occasione di un “lunch” al Quirinale. Così si espresse, parole sue, il segretario di Stato di Richard Nixon, il presidente che di lì a un mese, causa il Watergate, si sarebbe clamorosamente dimesso: WE WILL NEVER FORGET THAT WHATEVER WE MAY ACHIEVE IN FOREIGN POLICY HAS BEEN BASED ON THE UNITY OF THE WEST, TO WHICH AN ITALIAN STATESMAN, DE GASPERI, AND ITALIAN LEADERS IN THE WHOLE POST-WAR PERIOD, MADE SUCH A MAJOR CONTRIBUTION. WE ARE NOW IN A MORE COMPLICATED PERIOD OF FOREIGN POLICY THAN IN THE EARLY POST-WAR ERA. THE PEOPLE OF NONE OF OUR COUNTRIES WILL BE PREPARED TO SUSTAIN CRISES UNLESS THE LEADERS OF THE COUNTREIS [sic] CAN SHOW THAT THEY MADE EVERY EFFORT TO PRESERVE THE PEACE. 18 Sia come sia, Kissinger connetteva strettamente la solidarietà occidentale con “every effort” per preservare la pace. Un obiettivo che gli faceva sicuramente onore. Ed anche in questo De Gasperi, vero uomo di stato, sussisteva come un punto fermo, sicuro, incontrovertibilmente affidabile. Potrà essere peraltro di notevole interesse constatare come nella stessa occasione, sia pure non nel toast, il ministro degli Esteri, Aldo Moro, “age 58”, FERRARI-AGGRADI VISIT, 1973 July 31, 13:30 (Tuesday), 1973ROME07598_b. NEW GOVERNMENT AND ITALIAN/U.S. RELATIONS, 1973 July 12, 16:45 (Thursday), 1973ROME06753_b, sempre Volpe da Roma. Il 23 luglio 73 si confermava che il nuovo governo manteneva: TRADITIONALLY STRONG US/ITALIAN TIES. LOYALTY TO THE ATLANTIC ALLIANCE, SUPPORT FOR A UNITED EUROPE AND STRONG BILATERAL TIES WITH U.S. 18 KISSINGER'S TOAST AT PRESIDENT LEONE'S LUNCHEON, 1974 July 6, 13:20 (Saturday), 1974MUNICH01030_b. Il testo dell’intervento veniva inviato da Kissinger stesso da Monaco. 16 17 116 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 già presidente di tre governi, nonché insediato sei volte alla Farnesina, venisse definito una “major figure” nella “left wing”, la sinistra, democristiana. Non solo, perché Moro, asseriva Volpe, “has been a long time firm supporter of Nato and close US ties”19. Così, a scanso di equivoci. Il governo Usa si dimostrava insomma assai attento a tutelare i capisaldi occidental-europeistici-comunisticorepellenti, con finalità pacificatrici, del patto postbellico originario. A cui si può aggiungere – sia consentita la breve divagazione – che ci teneva anche molto a tutelare i propri interessi, economici compresi. A confermarlo concorre un messaggio “secret” di qualche mese successivo. Un documento davvero completo e perspicuo, meritevole di auspicabili approfondimenti. vergato sempre dall’ambasciatore. Tra le righe, inter alia, si legge: THE APPOINTMENT OF LEFT-WING CHRISTIAN DEMOCART [sic] DONAT-CATTIN AS INDUSTRY MINISTER MAY CREATE PROBLEMS FOR US OIL COMPANIES OPERATING IN ITALY. 20 Carlo (non Marco…) Donat Cattin era davvero così pericoloso per le 7 sorelle? A quanto pare sì. Evidentemente lo si era sottovalutato... Figurarsi perciò il pericolo che per gli Usa potevano rappresentare i seguaci di Marx con affinità sovietiche. Il clima complessivo della situazione italiana, come si deduce sempre dalle carte di WikiLeaks, si stava comunque progressivamente aggravando. Con il passare dei mesi la paura dell’ingresso dei comunisti al governo, riusciti trionfanti alle amministrative del ’75, incombe sul quadro politico e dei rapporti con gli Usa. Di lì a poco si terranno le elezioni del giugno ’76, destinate a fornire al Pci il massimo dei voti (oltre 34%) raggiunti nel dopoguerra. Il presidente Ford, successore di Nixon, ha già preso una posizione alquanto ferma sull’ipotesi del compromesso storico, ma il segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, non può permettersi di mostrarsi troppo condiscendente nei suoi confronti. Si profila insomma un clima di potenziale contrasto, una condizione di crescenti sospetti, di insofferenze reciproche tra esponenti politici italiani, Dc compresi, e amministrazione Usa. Quest’ultima risulta infatti estremamente attenta e sospettosa in merito all’ipotesi, che ritiene sostanzialmente inaccettabile, di uno sconfinamento comunista, sia pure “euro”, oltre le linee divisorie consolidate fin dall’epoca dei “padri”. SECRETARY KISSINGER'S VISIT TO ROME, QUIRINALE LUNCH, 1974 July 4, 15:00 (Thursday), 1974ROME09250_b. 20 NEW ITALIAN GOVERNMENT, 25 NOVEMBRE 74 16:50 (Monday, 1974ROME16416_b. 19 117 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Viceversa, volente o nolente, il recentemente eletto Zaccagnini, è tenuto ad esprimere una posizione critica verso le interferenze nella vita del proprio paese, “which is determined only by the choices made by the Italian people in free elections”, riporta fra virgolette l’ambasciatore Usa a Roma. E non che le pressioni esterne possano mutare in qualcosa la strategia della Dc, aggiunge l’onesto segretario, interrogato sul punto. Infatti, ancora virgolette: “Dc strategy is set by the National congress based on its own historical traditions derived from the teachings of Sturzo and De Gasperi”, sia pure “adjusting the operational lines in accord with the exigencies of today’s society in the exclusive interest of Italy and in the constant defense of liberty”21. Così la “Zaccagnini perception”, da intersecare, a consultazione popolare avvenuta, con un’altra, la “Vatican perception”, decisamente più irrigidita rispetto all’evoluzione del quadro politico italiano, tenendo conto oltretutto della scomunica, per quel che valeva, emessa a suo tempo contro i sovietizzanti. A farne parola con il sostituto segretario di Stato, mons. Giovanni Benelli, è il “Deputy Chief of Mission” a Roma, Robert M. Beaudry, che subito annota il disappunto dell’ecclesiastico per la recente elezione di un comunista, alias Pietro Ingrao, alla presidenza della Camera dei Deputati italiana. Per Benelli, tanto preoccupato da non volersi allontanare da Roma se non per viaggi lampo, la Democrazia Cristiana, a meno di soccombere, è chiamata a rinnovarsi. Rinnovarsi innanzitutto nella tradizione, sicuro, di De Gasperi, espressamente citato, ma chiamando al tempo stesso al potere una generazione più giovane, nonché ricostruendo le strutture di base. I politici attualmente al potere appaiono infatti troppo inclini a rimandare al domani i problemi seri, indulgendo in cose più futili e “quick fix”. Oltretevere si nutrono tra l’altro parecchie apprensioni per la poltrona del sindaco di Roma, che il Vaticano vorrebbe affidata a Giulio Andreotti. Un “nodo” non trascurabile, detto per incidens, ricordando di sfuggita che all’epoca – e adesso si capisce meglio perché - qualcuno voleva riservare il posto in Campidoglio all’indipendente di sinistra, ma al contempo “padre dell’Europa”, Altiero Spinelli. Il quale, da ex commissario europeo a suo tempo sostenuto da Nenni, preferì invece accedere al Parlamento europeo, non ancora elettivo, tramite quello nazionale. La situazione restava tuttavia “unclear”, si legge più avanti, a causa dei negoziati in corso per la formazione del nuovo governo. Su cui una “note” di RESPONSES OF ITALIAN POLITICAL PARTIES TO PRESIDENT FORD'S RESPONSE RE [sic] POSSIBLE ENTRY OF PCI INTO GOVERNMENT, 1976 February 24, 17:20 (Tuesday), 1976ROME02963_b. 21 118 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 non poco rilievo: “Andreotti is candidate for premiership”22. Come avvenne difatti di lì a poco, con la berlingueriana astensione del Partito comunista e con tutte le concitate, drammatiche vicende successive. Volendo tuttavia restare sempre in tema “padri dell’Europa”, e De Gasperi in particolare, è un’altra circostanza che suscita interesse. Un fatto marginale, ma al tempo decisamente mediatico, da cui si induce come il governo americano, incombendo il “compromesso storico”, cercasse di influire sull’opinione pubblica mediante il vettore televisivo ancora senza rivali (oltre che finalmente a colori, seppure con ritardo rispetto ad altri paesi europei): la Rai. Ad esempio, nel giugno ’77, su iniziativa dell’ambasciatore Richard Gardner, mittente dell’informazione al Dipartimento di Stato, venne diffuso in “prime time”, di sabato sera, sul canale “Christian-Democratic oriented”, un programma di 50 minuti dedicato al trentesimo anniversario del Piano Marshall. Per incoraggiare la Rai a trasmetterlo, cosa che fu eseguita “enthusiastically” e con risultati di grande qualità, Gardner aveva contattato Arrigo Levi, editorialista della «Stampa» (e futuro consigliere dei presidenti Ciampi e Napolitano) che effettuò le interviste. Gli interlocutori furono Gardner stesso, insieme ad autorevoli esponenti politici, fra cui il premier Andreotti, che proprio nel ’47 era diventato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sotto lo sguardo del padre Alcide. Tutto “interspersed” con filmati d’epoca, fra cui, unico citato espressamente, quello su “De Gasperi electoral campaigns”. Al di là di molti dettagli di non poco conto su cui sarebbe utile soffermarsi, il messaggio della trasmissione era che il Piano Marshall, come asserì l’ambasciatore, non risultava diretto contro qualcuno, nemmeno contro l’Urss, la quale all’epoca non volle parteciparvi, bensì “against hunger, poverty, desesperation and chaos”. Cosa che Washington intendeva proseguire anche nel presente, sia combattendo inflazione e disoccupazione, sia fornendo “economic underpinnings for freedom [sottolineature nostre] in industrialized world”. Non solo, perché tanto gli Usa che i paesi beneficiari del Piano Marshall dovevano ora applicare lo stesso metodo per aiutare il Terzo Mondo. Inoltre, ribadiva il diplomatico, e la cosa in questa sede suona assai significante,: US MARSHALL PLAN AID LINKED TO EUROPEAN UNITY AND U.S. CONTINUES TO SUPPORT EUROPEAN UNITY TODAY. 23 VATICAN PERCEPTION OF ITALIAN POLITICAL SCENE, 1976 July 12, 13:15 (Monday, 1976ROME11152_b. 23 AMBASSADOR GARDNER'S APPEARANCE ON TV SPECIAL ON MARSHALL, 1977 June 7, 00:00 (Tuesday), 1977ROME09385_c. 22 119 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Occidente, alleanza atlantica, unità europea, De Gasperi, promozione dello sviluppo economico e uscita agevolata dalle crisi. Tenendo conto che il padre dell’Europa, proprio nel 1947, dopo il celebre viaggio a Washington, aveva estromesso i social-comunisti dal governo anche al fine, è stato da molti osservato, di poter ricevere lo sperato sostegno al rilancio di un’Italia immiserita, i rimandi risultavano di rinnovata attualità. Attuali quanto l’impegno per l’unità europea, sostenuto dagli Usa, e la cooperazione politicoeconomica transatlantica. L’ambasciatore Usa ci teneva davvero molto che gli italiani se lo ricordassero. Oltretutto quelli erano anni di nuove difficoltà finanziarie e produttive, un po’ come all’epoca, almeno per analogia, del Piano Marshall. Tant’è che Gardner assicurava di dedicare attenzione anche al settore cinematografico, sostenendo quello più vicino ai canoni di cui sopra. Tra l’altro, non era vero che il cinema italiano fosse tutto di sinistra: per esempio, due anni prima, Rossellini aveva prodotto una biografia elogiativa, “laudatory film bio”, di De Gasperi…24 Dev’essere stato per tutte queste ragioni che un primo ministro come Andreotti, benché formato alla scuola del grande trentino, benché sempre pronto a farne le lodi - come accaduto in occasione del cinquantenario dell’arresto del “padre” Alcide da parte dei fascisti nel 1927 - Andreotti, appunto, all’ambasciatore Usa dava molte, molte preoccupazioni. Soprattutto un concetto centrale di quel suo discorso commemorativo a Gardner non era piaciuto. E cioè che, a voler dare ascolto al pur stimato Giulio, nel grande politico trentino c’era stata una grande capacità di rappresentare un “symbol of unity” per il popolo italiano. Niente da fare, date le circostanze la parola “unità” del popolo italiano suscitava sospetti, ovvero sconcertanti induzioni, confermate anche da “many individuals of differing political persuasion” consultati in proposito. E cioè che Andreotti volesse lasciar capire che i democristiani non erano “implacably opposed to an eventual compromesso storico”. Difatti, ripensando sempre a quel concetto di unità del popolo: REFLECTING ON THIS LATTER THEME, ANDREOTTI, MORE BY IMPLICATION THAN DIRECT STATEMENT LEFT THE IMPRESSION THAT THE GATE WAS OPEN TO DIRECT GOVERNMENTAL COOPERATION WITH THE PCI. TO PUT THIS ANOTHER WAY, HE NEVER MADE ANY FLAT STATEMENTS THAT THE CHRISTIAN DEMOCRATS WERE AGAINST THE "COMPROMESSO STORICO". 25 PROPOSED YOUNG AMERICAN FILMMAKERS SEMINAR IN FOLIGNO AND OTHER UMBRIAN TOWNS, 1977 August 1, 00:00 (Monday), 1977ROME12441_c. 25 PRIME MINISTER ANDREOTTI AND "COMPROMESSO STORICO", 1977 December 6, 00:00 (Tuesday), 1977FLOREN00765_c. 24 120 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Benché sia difficile dare un giudizio compiuto in merito, non può lasciare indifferenti il fatto che l’allievo Andreotti, sia pure implicitamente, rivendicasse i diritti del popolo italiano alla libera scelta facendosi forte precisamente dell’eredità del “padre”, per quanto di sicura fede occidentale ed europea. Eppure il cospicuo personaggio con origini a Segni, in Ciociaria, doveva sapere che il grande fratello d’Oltreatlantico era “implacabilmente” contrario ad eventuali aperture ai comunisti. Eppure non gli sfuggiva che, sempre per il grande fratello, De Gasperi era quello che aveva scelto il campo e l’appoggio americano, anche a costo di metter fine – sia pure senza giungere a cancellare la solidarietà costituzionale - alla collaborazione governativa da cui era nata la Repubblica. Eppure… Davvero avvincente. Tra l’altro, detto di passata, non è che poi De Gasperi avesse fatto fuoco e fiamme per la soluzione repubblicana. In conclusione, il governo Usa, offrendo una prospettiva piuttosto realistica del ruolo di De Gasperi come “padre” della nuova Europa, cui riallacciarsi “directly back”, lo poneva in stretta connessione con la ferma adesione all’Occidente e l’irrevocabile cesura rispetto al comunismo, sovietico o quand’anche berlingueriano che fosse. Il tutto non senza evidenti analogie con le resistenze parallelamente opposte alla Ostpolitik tedesca, sempre da parte dell’amministrazione Usa, nel nome dell’altro “padre”, Konrad Adenauer. Le fatiche d’Hercules Terribilmente complesso risulterebbe in ogni caso, restando al di qua delle Alpi, tentare di azzardare un giudizio esaustivo sulla “perspective” chiamiamola zaccagniniana, nel suo rapporto con l’eredità or ora ricordata. La prospettiva del segretario, come accennato, rivendicava al popolo italiano il diritto di attuare il “compromesso storico” tra le forze che avevano dato vita alla Repubblica, e condiviso la Costituzione, rispetto alle interferenze “Vatican”, o ancor più agli orientamenti dell’amministrazione americana. La quale restava “implacably opposed” all’ingresso dei comunisti al governo e alla conseguente presunta violazione dell’eredità politica degasperiana. Sia consentita tuttavia una qualche personalistica esternazione in argomento, non dimentica di ricavare ulteriori dettagli in merito al lascito dei “padri” grazie sempre ai documenti di WikiLeaks. Magari aggiungendovi qualche motivo di soggettivo compiacimento. Ora, per quanto corretta ed anche generosa debba essere definita la prima delle due opzioni or ora ricordate – volesse il cielo riuscire a rendere “normale”, oltre che socialmente progressista, il sistema politico italiano, portando i compagni alla piena occidentalizzazione! - per certo il destino relativamente imminente del comunismo di matrice sovietica non ne accredita, oggi per ieri, le 121 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 propaggini italiane come portatrici di potenziali, risanatrici innovazioni. Nemmeno nella versione “euro”, che tra l’altro avrebbe di lì a poco fatto opposizione al sistema monetario europeo. Per non dire dell’ammissione, una volta caduto il muro, del fallimento dei propri fattori identitari, reso evidente dalla rinuncia al nome stesso del partito, da parte, appunto, dei sedicenti “euro”. In aggiunta, pur nell’oggettiva necessità di procedere in Italia ad un sistema di maggioranze alternative, dopo decenni di schieramenti più o meno moderati divenuti oggettivamente poco sopportabili, tuttavia l’ingresso del Pci nell’area di governo finiva per proporsi, con non poco paradosso, come soluzione effettivamente di “compromesso”. Di compromesso non solo e non tanto fra le forze cosiddette costituzionali, quanto in grado di contenere, proprio grazie al Pci, la spinta estremistica, a carattere anche terroristico, proveniente dal fronte sociale (con possibili incoraggiamenti esterni) che si chiamava alla tradizione rivoluzionaria, appunto comunista. Qualcosa di confuso e a dir poco contraddittorio, derivante dalla mancata Bad Godesberg italiana, seppur, d’accordo, non così facilmente praticabile. Una Godesberg alla Spd, che potesse condurre gli eredi di Gramsci (e Togliatti) verso una reale socialdemocratizzazione. Gli eventi avrebbero invece imposto più tardi, non senza effetti paradossali, il passaggio diretto alla democratizzazione, lasciando cadere il “social” e forse anche qualcos’altro. In aggiunta, pensando proprio al drammatico ’77, la spinta al cambiamento avveniva in un clima non solo di violenze di tutti i tipi, ma anche di sovente acrimoniosa avversione verso i partiti (e personalità) tradizionali da parte di esponenti del partito che pur mirava al “compromesso”. Dicesi ovviamente il Pci, portato al suo apice storico dalle elezioni dell’anno precedente. Con in più l’offensiva di settori della magistratura, diciamo così, parecchio schierati. Sempre in quell’anno, soltanto per accennare a qualcosa, accanto alla sconcertante, appunto, estromissione di Luciano Lama, segretario comunista della Cgil, da una Sapienza ribollente di furori pseudo rivoluzionari (ma anche a Bologna si facevano barricate), si verificarono efferati attentati brigatisti: oltre agli assassinati Carlo Casalegno, Fulvio Croce, Walter Rossi, anche Indro Montanelli fu colpito alle gambe, più o meno come Publio Fiori, laddove, d’altro canto, Giorgiana Masi veniva uccisa dalla polizia a Roma, durante una manifestazione promossa dai radicali. A Bologna un proiettile delle forze dell’ordine raggiungeva invece Francesco Lorusso, di Lotta Continua. Ma non si possono nemmeno dimenticare, perché sarebbe davvero ingiusto, i non pochi poliziotti vittime di attentati. In aggiunta, a Napoli avvenne il rapimento del figlio di Francesco De Martino, il leader socialista avvicendato di recente da Bettino Craxi. Per non dire degli episodi di violenza fascista. 122 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 In quel medesimo anno, volendo aggiungere ancora qualcosa su un punto appena accennato, a parte l’incriminazione per reticenza su Piazza Fontana a carico di Mariano Rumor, le offensive della magistratura finirono per spedire in prigione persino il sottosegretario Dc Giuseppe Zamberletti, protagonista della protezione civile in Italia, poi doverosamente assolto. Intanto un noto magistrato, inutile fare nomi, dapprima risultato vincente nel ricorso alla Corte costituzionale per togliere il segreto di Stato sul presunto “golpe bianco” anticomunista di Edgardo Sogno, poi chiamato ad occuparsi di terrorismo presso il Ministero della Giustizia, si apprestava ad iscriversi al Pci. Sarebbe diventato presidente della Camera. Nel luglio ‘77, evento significativo, si procedette inoltre alla sottoscrizione di un accordo programmatico fra i partiti del cosiddetto arco costituzionale, Pci ovviamente compreso. Giusto in anticipo, insomma, rispetto alla fuga di Herbert Kappler, responsabile delle Fosse Ardeatine, dall’ospedale militare romano del Celio. Evasione clamorosa presto compensata, in Germania, dal rapimento e successiva uccisione del presidente degli industriali tedeschi con passato SS, Hanns Martin Schleyer, ad opera della Rote Armee Fraktion (i cui capi vennero ben presto trovati immoti nel carcere in cui erano reclusi). Nel frattempo il Pci, o partito fratello dell’arco costituzionale, lanciava veementi campagne di stampa alternate ad iniziative accusatorie contro partiti ed esponenti dell’arco costituzionale. In marzo i radicali esigevano l’incriminazione di Giovanni Leone, presidente della Repubblica, per l’affare Lockheed. L’affare Lockheed, precisamente. Lo scandalo della Corporation Usa, sui dettagli del quale, essendo parecchio noto in quanto riguardante episodi di corruzione intercontinentali connessi a forniture militari, risulterebbe troppo lungo soffermarsi. Curioso, però, e alquanto disorientante che il 3 marzo ‘77 un C-130 Hercules, cioè Lockheed, acquistato dall’aviazione italiana tramite il ministero della Difesa, si schiantasse al suolo, provocando decine di vittime. Ebbene, soltanto a distanza di una settimana, la maggioranza della Camera, per la prima volta nella storia repubblicana, votava per l’incriminazione presso la Corte Costituzionale degli ex ministri della Difesa, Luigi Gui (precisamente quello del convegno padovano sui “padri dell’Europa”, di cui ricorreva il centenario della nascita) e Mario Tanassi, per sospetto di corruzione. Come è noto Luigi Gui, il quale non era stato nemmeno indiziato di reato dal magistrato ordinario che aveva istruito la causa, venne successivamente assolto dalla Corte per non aver commesso il fatto. Ad interpretare il ruolo accusatorio alla Camera, ovvero a votargli contro, in occasione del giudizio, si sarebbero distinti esponenti comunisti, quelli cioè che esigevano il compromesso storico. Ma il supposto reo, definito “leftist” dall’ambasciatore 123 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Volpe in una missiva del ’73, non era forse un seguace di Moro anzi il “top Moro lieutenant” (definizione di fine giugno ‘75), il quale Moro lavorava allo storico accordo? Ma perché poi prendersela con uno di cui conoscevano bene ciò che sapeva anche – leggi più in basso – la diplomazia americana? Caso mai era quest’ultima che poteva riservargli qualche rancore per non aver egli votato a suo tempo, da dossettiano, per il Patto atlantico. Ma il Pci di Berlinguer… E d’accordo, sarà pur vero che non era facile resistere alle pressioni degli indignati dal basso, i quali avrebbero sospettato di chissà quali collusioni gli eredi di Lenin investiti delle responsabilità processuali ove si fossero disposti ad una serena valutazione delle singole responsabilità personali. E si potrà anche convenire che ad assumere il ruolo di censori, ovvero di presunti tutori della pubblica moralità, si potevano ottenere parecchi suffragi in sede elettorale, magari realizzando addirittura l’agognato “sorpasso”, che sarebbe prodotto ben altro e ben più che un “compromesso”. Tant’è vero che l’intervento di Moro alla Camera in difesa di Gui risultò in primo luogo una difesa di tutta la Dc, dei suoi valori e della sua storia, dall’attacco che vedeva protagonisti i rivali-candidati partner. Con tutto ciò… Senza proseguire oltre, quel che qui rileva è far nuovamente ricorso ai documenti di WikiLeaks, sempre in connessione con le personalità fatte oggetto del convegno di Padova. Nel caso, il riflettore si sposta, ma non senza rimandi all’eredità di De Gasperi, precisamente su Luigi Gui. Quest’ultimo, stato più volte ministro della Repubblica, viene ricordato tra l’altro per lo scritto clandestino pro unità europea, attribuibile ad “Uno qualunque”, fatto circolare già durante la Resistenza nella natale città padana ed ampiamente ricordato nel detto convegno. Peraltro nella stessa sede sono stati messi in evidenza ulteriori aspetti, fra cui le riforme attuate dal ministro Gui nel settore dell’istruzione, con apertura di idee decisamente europea. Ed altro ancora. Pertanto vale la pena individuare quanto venga a lui dedicato nelle carte messe in rete da Julian Assange. Nulla sull’Europa in quanto tale, per la verità, ma molto, e parecchio istruttivo, a proposito dei riflessi del cruciale caso Lockheed appena ricordato, agli esordi del quale Luigi Gui, con atto non poco inusuale, si era volontariamente dimesso da ministro degli Interni, finché non venisse fatta chiarezza sulle sue responsabilità. La rilettura può risultare illuminante sotto vari rispetti: in primis, per la consapevolezza dei diplomatici Usa che, con quello scandalo, sorto in America per ragioni interne, erano gli Usa stessi a mettere questa volta in crisi il saldo rapporto con gli alleati, quegli alleati a cui rimproveravano di voler abbandonare la tradizione dei “padri” mediante le aperture a sinistra. Tanto più che tra le carte dello scandalo messe in circolazione non si citavano nemmeno per nome i più importanti accusati, ma li 124 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 si “incastravano” allusivamente, impedendo loro di difendersi in modo adeguato. Con effetti a dir poco devastanti. Una volta tanto, insomma, e volendo lasciar stare il dramma del Vietnam, erano gli Usa a mostrare di non essere all’altezza dell’accordo originario, impostato sulla reciproca fiducia, sulla trasparenza e sulla libertà, il quale aveva nutrito e giustificato le scelte dei “padri”. E pertanto l’impatto sull’opinione pubblica, ovvero la legittimazione di certe rivendicazioni di superiorità morale degli avversari comunisti risultavano davvero imponenti, quanto estremamente preoccupanti. Per altro verso, dalle missive dei corrispondenti della potenza d’Oltreatlantico emerge la constatazione di una coerenza negli atteggiamenti di leader come Aldo Moro, tale da lasciare i mittenti di allora alquanto disorientati. Benché i Dc di “left” fossero impegnati a rendere possibile il compromesso storico, tuttavia si esprimeva in loro una sorta di attaccamento allo stile, alla rigidezza stessa degasperiana, tali da renderli assai fermi e determinati nel distinguersi e, se del caso, nel contrapporsi rispetto ai potenziali compagni di viaggio affidati alla guida di Enrico Berlinguer. A confermarlo concorre, fra gli altri, un telegramma di Volpe da Roma, scritto nel travagliato agosto ’75, dopo i successi dei comunisti alle elezioni amministrative che li avevano portati a partecipare alla gestione di città importanti. Volpe riferiva che ne erano derivate forti pressioni perché a questo punto il Pci entrasse anche nel governo nazionale. Eppure, fatto curioso, ad opporsi a tale ipotesi erano stati proprio i “left wing” della Dc, compreso Donat Cattin, il quale forse ne avvertiva la concorrenza sul proprio terreno più ancora dei moderati alla Giulio Andreotti. A schierarsi insieme a lui era intervenuto anche il ministro “left” degli Interni, Luigi Gui, che temeva malesseri amministrativi e crescenti disordini. Ebbene: DC LEFT WING LEADER DONAT CATTIN'S STRONG OBJECTION (REFTEL) TO THE TRANSFER TO THE NATIONAL GOVERNMENT OF THE "OPEN" (TO PCI) CENTER-LEFT COMPROMISE REACHED IN LOMBARDY AND ELSEWHERE, HAS TWICE BEEN FULLY SUPPORTED BY INTERIOR MINISTER GUI. IN HIS LATEST PRONOUNCEMENT, AN INTERVIEW IN ESPRESSO, GUI ADDS THAT THE LOCAL JUNTA ARE IN CHAOS, AND WARNS THAT THE NATIONAL GOVERNMENT HAS NO LONGER A POLITICAL BASE SUFFICIENTLY STRONG TO CONFRONT THE "SOCIAL PRESSURES" EXPECTED IN THE FALL. 26 Arrendersi allora alla forza maggiore? No, serviva invece maggiore chiarezza e determinazione da parte della Dc. Cosa alle quale Zaccagnini, a DC RESISTENCE TO "OPENING' NATIONAL GOVERMMENT TO PCI…, 1975 August 20, 16:40 (Wednesday), 1975ROME11969_b. 26 125 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 detta di Volpe, rispose solo parzialmente, pur non potendo fare a meno, ancora una volta, di richiamarsi doverosamente, immancabilmente, al “padre” De Gasperi, nel nome di una netta distinzione fra chi stava da una parte e chi dall’altra. Un’esigenza per la quale anche esponenti “dorotei” si erano associati a: …GUI AND DONAT CATTIN IN ENCOURAGING DC SECRETARY ZACCAGNINI TO BRING CLARITY INTO THE DC POSITION, A REQUEST ZACCAGNINI SATISFIED ONLY PARTIALLY IN HIS MEMORIAL EDITORIAL TO DEGASPERI, AUGUST 19. ZACCAGNINI EMPHASIZED DEGASPERI'S VIEW THAT A CLEAR LINE MUST BE MAINTAINED BETWEEN THE MAJORITY AND THE PARLIAMENTARY OPPOSITION. Infine, sempre a voler valorizzare la visitazione dei documenti di WikiLeaks, nella determinazione con cui Luigi Gui venne attaccato dai potenziali compagni di strada decisamente più “left” di lui si percepisce, e il dato emerge con chiarezza dai resoconti statunitensi, una dose di strumentalizzazione del caso davvero cospicua. “Honest man and efficient administrator” In effetti, all’interno dei messaggi dedicati dall’amministrazione Usa al clamoroso affaire, Luigi Gui ritorna parecchie volte, insieme alla segnalazione dei diversi incarichi occupati nel corso dei successivi governi. In seno ai quali egli risultava assai vicino, come accennato, alle posizioni del presidente della Dc, sostenitore dello storico compromesso e tragicamente scomparso nel maggio ’78. Dicesi sempre Aldo Moro, ovviamente, destinato ad essere rapito dalle cosiddette BR nello stesso giorno, 16 marzo, in cui il governo Andreotti entrava in carica con il voto favorevole del Pci, ormai parte della maggioranza. Aldo Moro, decisamente, accanto al quale non vanno mai dimenticati i cinque uomini della scorta, caduti a via Fani al momento del rapimento. Da annotare, tornando a Gui, che qualche singolo, isolato documento di WikiLeaks fa cenno, tanto per dire, alla contrarietà dell’ancora ministro dell’Interno Gui verso la rivendicazione, sostenuta dalla Cgil, di concedere il diritto di sciopero alle forze di polizia. Qualche altro concerne invece la sanità, di cui fu ministro fra ’73 e ’74. Con tutto ciò, il grosso della documentazione che lo riguarda verte direttamente o indirettamente sul suddetto affaire di portata internazionale. Uno scandalo suscitato con effetti devastanti dalla pur benintenzionata commissione presieduta dal senatore democratico Frank Church, incaricatasi di portare alla luce molti eccessi dell’amministrazione statunitense. Ora, non sarà questa la sede per affrontare il caso in tutti i suoi aspetti e nemmeno con l’intera documentazione offerta dai leaks. Forse si potrà trovare 126 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 un’occasione successiva per tornarci sopra. Di seguito verranno pertanto presi in esame soltanto i riferimenti alla persona e alla cultura politica di Luigi Gui (con connessioni ai “padri”) allegando peraltro la riproduzione del primo documento in cui egli viene citato. Un messaggio “confidential” che offre un’assai attenta ricognizione dell’impatto di quello che viene presentato dal mittente stesso, ovvero l’ambasciatore Beaudry, come un gravissimo autogol statunitense, in grado di scuotere l’intera società italiana, compromettendone i rapporti con gli Usa e avvantaggiando il Partito comunista. Ad addentrarsi a questo punto fra le righe del lungo rapporto, teletrasmesso a carattere maiuscolo come al solito, ci si allarga un po’ il cuore, sia consentito confessarlo, nel leggere certe affermazioni, che pur non lasciano dubbi sui tormenti, politici e personali della situazione complessiva. Le circostanze di tempo sono quelle degli esordi, o quasi, della vicenda, ovvero nel marzo ’76, un anno prima del pronunciamento della Camera: LUIGI GUI, ON THE OTHER HAND, WAS ONE OF THE CHRISTIAN DEMOCRATS WITH IMPECCABLE CREDENTIALS AS AN HONEST MAN AND AN EFFICIENT ADMINISTRATOR. THE DC CAN ILL AFFORD TO HAVE ONE OF THEIR MOST ESTEEMED REPRESENTATIVES FOUND GUILTY IN THIS SCANDAL. EVEN IF GUI AND TANASSI ARE NOT PROVEN GUILTY, IT WILL BE ALMOST IMPOSSIBLE TO THEM, IN THE CIRCUMSTANCES, TO PROVE THEIR INNOCENCE. 27 “Impeccable credentials”. Non un’affermazione da poco. Solo che uno degli aspetti più crudeli della vicenda consisteva proprio nel fatto che, specie a proposito di Gui, i documenti della commissione Church su cui si basavano le accuse in Italia potevano suscitare induzioni, ma non citavano in maniera incontrovertibile la persona. E per di più la documentazione restante, che avrebbe potuto consentire di risolvere positivamente il caso, restava in buona parte indisponibile. Eppure fin dall’inizio erano stati chiesti dagli interessati i dossier o altro che li riguardavano, visto che la stampa aveva fatto circolare indiscrezioni sui nomi dei sospettati, desumendoli dalle date in cui si parlava di ministri della Difesa in carica (Gui dal giugno ’68 al marzo ‘70) durante le operazioni di compravendita degli Hercules. Ma con tutto ciò l’amministrazione Usa non era stata in grado di fornire delle carte tali da scagionarli definitivamente. Anche perché, nel momento in cui aveva dovuto cominciare, su richiesta degli interessati, a rendere pubblica la documentazione, alcuni dei personaggi ITALIAN LOCKHEED SCANDAL: ITS MEANING AND IMPACT, 1976 March 1, 16:15 (Monday), 1976ROME03342_b. 27 127 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 realmente compromessi erano stati costretti ad uscire allo scoperto, con tutte le spiacevoli conseguenze che si possono immaginare. Ciò che qui comunque maggiormente ci riguarda è un passo precedente rispetto alla citazione elogiativa di cui sopra. In esso lo scrivente Beaudry sottolineava l’eccezionalità, seppur quanto imbarazzante per il governo Usa (e non solo), del gesto ”precedent setting” compiuto da Gui nel dimettersi dagli Interni. A costo di lasciare la prestigiosa poltrona, egli richiedeva innanzitutto chiarezza, carte alla mano, sui suoi comportamenti. Cosa per la verità non facile da ottenere: AS THE DOCUMENTS KEPT APPEARING IN THE PRESS AND AS OTHER INDUSTRIALIZED NATIONS--ESPECIALLY JAPAN AND HOLLAND--BEGAN TO MAKE VERY VIGOROUS INVESTIGATIONS, THE ITALIAN GOVERNMENT WAS FORCED TO BEGIN STEPS TO "BRING FACTS IN THIS CASE TO LIGHT". MINISTER GUI'S REFUSAL TO CONTINUE IN THE NEW GOVERNMENT UNTIL HE HAD PROVEN HIMSELF INNOCENT WAS A PRECEDENT SETTING ACTION WHICH WAS UNSETTLING FOR MANY OF HIS FELLOW CHRISTIAN DEMOCRATS (AND NO DOUBT POLITICIANS OF OTHER PARTIES AS WELL.) THIS LED TO OUR GOVERNMENT'S PROVIDING SET OF "LOCKHEED" DOCUMENTS TO BOTH MR. GUI AND TO THE GOVERNMENT OF ITALY. THEY COMPLAINED THAT THEY DID NOT RECEIVE ALL THE DOCUMENTS WHICH HAD PREVIOUSLY BEEN DISCUSSED IN THE PRESS. 28 Del resto, anche il 19 febbraio precedente Volpe aveva inviato considerazioni analoghe, a proposito di colui che definiva una delle figure più importanti della Dc: GUI, WHO HAS REPUTATION FOR HONESTY -- PROBABLY WELL - FOUNDED, IS APPARENTLY HAMPERED IN ABILITY TO DEFEND HIMSELF AGAINST CHARGES OF CORRUPTION. GUI HAS STRONGLY PROFESSED TOTAL INNOCENCE AND, EQUALLY STRONGLY, DEMANDED FULL OPPORTUNITY TO PROVE THAT. SINCE U.S. HAS BEEN RESPONSIBLE FOR HAVING RAISED CHARGES IN FIRST PLACE, WE BELIEVE IT HAS EQUAL RESPONSIBILITY TO MAKE ALL FACTS AVAILABLE TO GUI. THIS IS ALL THE MORE IMPORTANT SINCE GUI REPRESENTS ONE OF MORE IMPORTANT FIGURES WITHIN DC. Eppure, poco da fare, il contorto iter dell’accusa alla persona avrebbe continuato a basarsi sostanzialmente su un documento in cui si alludeva ad un “previous minister” e “certi membri del suo team” in riferimento ad una “special fee”, ovvero supposta tangente, nonché su una nota scritta a mano e parzialmente cancellata in cui figurava tra l’altro “defence minister Gui”29. Per Ibidem. Cfr. punto 2, in, DOCUMENTATION RELEASED BY CHURCH SUBCOMMITTEE REGARDING LOCKHEED MILITARY AIRCRAFT SALE TO ITALY 1976 February 5, 22:51 28 29 128 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 parte sua, Beaudry si dilungava nel mettere in risalto tutte le conseguenze negative dello scandalo, tanto per gli Usa che per i loro alleati. Un mese dopo, dal console generale Usa a Milano, Thomas W. Fina, arrivavano al Dipartimento di Stato ulteriori spiacevoli notizie, per quanto relativamente secondarie: malgrado tutto, la Dc del Veneto aveva fatto un altro passo verso sinistra, uno “step leftward” zaccagniniano, benché le banche, “some” camere di commercio e il giornale veneto più influente restassero in linea di massima nelle mani dei Dc meno di left. Tra cui il presidente regionale e il prossimo ministro delle Partecipazioni statali, classificato dall’informatore anglofono come “doreoteo”, poi scomparso, cadendo in mare, nel 1984. Un documento assai dettagliato, a riprova di quanto le vicende politiche locali venissero seguite con estrema attenzione30. Per ulteriore conferma, il console Fina si rifaceva vivo ad appena 20 giorni di distanza, con un “cable” di approfondimento mirato proprio sul caso Padova. Il suo preciso resoconto – nel contesto di un’indagine a tappeto sul possibile esito delle imminenti elezioni nazionali, del giugno ’76, quelle del tentato “sorpasso” – suonava come di seguito: situazione economica, descritta settore per settore, tutto sommato soddisfacente; quanto alla politica, ancora buon controllo su città e provincia da parte della Dc, composta per tre quarti dalla “Gui faction”, orientata “toward Aldo Moro”, benché senza ormai la maggioranza assoluta; persistente autorevolezza in città del vescovo, direttamente consultato dal console, e salda influenza della Chiesa, che il culto di Sant’Antonio contribuiva a rendere piuttosto benestante, grazie all’attivismo, tra l’altro, di Comunione e Liberazione nell’università e altrove. Era in corso anche un significativo rinnovamento dei quadri alti della Dc, mentre i socialisti collaboravano troppo con i comunisti, per parte loro gente parecchio seria, seppur sospettati di tornare a fare gli autoritari - confermava il “bishop, a bearded capuccian monk” - qualora avessero prevalso. Certo, a dar grave fastidio era sempre il caso Lockheed, ma non perché gli amici e i votanti della Dc credessero poi alle accuse di corruzione contro Gui. Tutt’altro, riassumeva Fina: LOCKHEED INEVITABLY A FACTOR IN PADUA. DC PROVINCIAL SECRETARY THOUGHT SCANDAL HAD DEFINITELY HURT PARTY, THOUGH HIS PREDECESSOR SAID LOCAL DC VOTERS DID NOT BELIEVE EVERYTHING THEY (Thursday), 1976STATE028662_b. Da considerare anche i messaggi in cui l’amministrazione Usa parlava dell’invio in segreto a Gui dei documenti del processo che lo riguardavano. Ad es. il telegramma del 26 febbraio del 76., 1976ROME03111_b. I documenti non portavano comunque piena chiarezza. 30 VENETO DC: ANOTHER STEP LEFTWARD, APR 10-11, 1976, 1976 April 13, 15:30 (Tuesday), 1976MILAN00899_b. 129 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 READ ABOUT HIS FRIEND GUI. LOCAL PEOPLE KNOW HE HAS NO VILLAS OR EXPENSIVE CARS. ACCORDINGLY, THEY DO NOT BELIEVE CHARGES AGAINST HIM. 31 Niente ville, niente macchinoni. A Padova, in breve, al Gui corrotto non ci si credeva proprio, almeno fra la gente che gli assicurava la maggioranza nella Dc e alla Dc. Il problema era semmai di sbarazzarsi di qualche altro caso eventualmente compromettente a livello nazionale, in modo da ridare fiducia alla popolazione. ON NATIONALS [sic] LEVEL, SITUATION JUDGED MORE SERIOUS. BOTH PRESENT AND PAST SECRETARIES URGED US TO COOPER ATE IN QUINYLY [sic] PROVING OR DISPROVING GUILT OF DC NATIONAL LEADERS. NOTHING COULD BE WORSE, THEY SAID, THAN FOR DC TO ENTER ELECTIONS WITH CLOUD HANING [sic] OVER EVERYONE. BETTER TO BITE BULLET AND THROW OUT ONE OR TWO THAN HAVE ALL PAY. 32 L’importante, per capire come sarebbero stati i comportamenti degli elettori, detto anche più avanti, era il modo con cui i partiti e la loro immagine sarebbero stati giudicati, sotto i diversi profili, a livello nazionale. A tale riguardo, il documento del settembre successivo, intitolato “Farewell to Padua” – l’amministrazione Usa stava per trasferire i propri specialisti da Padova al distretto consolare di Trieste - risulta non meno istruttivo. Si tratta di un testo particolareggiato e metodico nell’esposizione, frutto della consultazione sistematica di una vera folla di interlocutori. Autore, ancora una volta, Thomas W. Fina. Ebbene, venendo ai contenuti, non che la Dc sia andata male alle elezioni del 20 giugno (sempre ’76), tutt’altro (56 per cento dei voti per la Camera), ma il clima è cambiato: gli “old bosses” Mariano Rumor e Luigi Gui sono oggettivamente in declino, mentre avanzano figure più giovani, peraltro meno orientate su Moro. Il Pci poi, benché rimasto sulle posizioni, risulta sempre più attivo e determinato. Tanto che la Dc lo tratta con deferenza e “ginglerly”, con cautela. Segue la dettagliata esposizione della situazione economica e politica. Tra l’altro il rettore assicura che sono solo 200 gli studenti “extraparliamentarians” su un complesso di 60 mila allievi del suo ateneo. Dopodiché lo “electronic telegram”, prima di riprendere l’analisi politica, ritorna sulla questione dei leader e sull’effetto del caso Lockheed ancora incombente. CABLE FROM PADOVA, 1976 April 30, 15:10 (Friday), 1976MILAN01031_b. Ibidem. Da leggere, sempre in tema di previsione dei risultati elettorali, la ricognizione della situazione milanese del 25 maggio successivo, 1976MILAN01266_b. 31 32 130 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 E qui, sia pure incidentalmente, un nuovo spontaneo elogio alla persona di Luigi Gui, che la gente non crede affatto colpevole, e tuttavia, si trova di fatto danneggiato e sminuito, per quanto ingiustamente. THERE HAVE BEEN MAJOR LEADERSHIP SHIFTS, FOR EXAMPLE. MARIANO RUMOR IS SAID TO BE FINISHED, VICTI M OF LOCKHEED REVELATIONS. ANOTHER FORMER MINISTER, LUIGI GUI, JUST ELECTED SENATOR, HAS SUFFERED INJURY FROM SAME SOURCE. THROUGH [sic] PEOPLE SAY THEY DON'T BELIEVE HIM GUILTY OF BRIBE TAKING, EVERYONE AGREES HIS INFLUENCE IS DIMINISHED LOCALLY. 33 Per parte nostra si può aggiungere che l’altro esponente politico citato, Mariano Rumor, ex presidente del Consiglio, sarebbe stato successivamente esentato dalle accuse, mentre la Camera, come accennato, avrebbe infierito sull’esponente moroteo, non certo condannandolo, ma rinviandolo alla Corte, nella presumibile ipotesi di una sua assoluzione. Difatti le carte, o telegrammi elettronici di WikiLeaks con citazione di Luigi Gui, si spostano sulle vicende della Commissione parlamentare di inchiesta, presieduta dal Dc Mino Martinazzoli, messa all’opera sul caso Lockheed. Come riferisce il solito Beaudry, i tre ministri accusati, Gui, Rumor, Tanassi, vorrebbero essere interrogati con “fullest publicity” sulle risultanze a loro carico contenute nei documenti forniti dagli Usa. Ma questi ultimi non vogliono. Difatti: THIS DECISION HAS GIVEN THE LEFT-LEANING PRESS ANOTHER OPPORTUNITY TO CALL ATTENTION T [sic] THE ALLEGED AMERICAN "VETO" OVER THE WORK OF THE COMMISSION. EVEN COMMITTEE PRESIDENT MARTINAZZOLI (DC) IS QUOTED BY LA REPUBBLICA (LEFT-WING) AS WRITING TO GUI, "I'M SORRY TO SAY IT, BUT WE CAN'T (COMMENT: INTERROGATE PUBLICLY), THE UNITED STATES DOESN'T WANT IT." . 34 Una situazione imbarazzante per Washington e dintorni, che il vice-capo della Mission di Roma vorrebbe venisse superata, consentendo la citazione dei documenti provenienti d’Oltreatlantico nelle “public interrogations”. Intanto le procedure proseguono con la precisazione dei capi d’accusa sia contro i politici che contro le altre persone coinvolte. Per quanto interessa in questa sede, sempre Beaudry riassume: EX-MINISTERS GUI AND TANASSI, FORMER AIR FORCE CHIEF FANALI AND ANTONIO AND OVIDIO LEFEBVRE: "AGGRAVATED CORRUPTION" FOR HAVING ACCEPTED BRIBES AND "DOUBLY AGGRAVATED FRAUD" FOR FAREWELL TO PADUA, 1976 September 21, 14:15 (Tuesday), 1976MILAN02033_b. LOCKHEED COMMITTEE CITES NON-RESPONSE BY US IN REFUSING PUBLIC INTERROGATIONS, 1976 December 15, 16:15 (Wednesday), 1976ROME20366_b. 33 34 131 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 HAVING RAISED THE PRICE OF THE HERCULES AIRCRAFT SO AS TO MAKE THE ITALIAN GOVERNMENT PAY FOR THE BRIBES AND "CONSULTANT" FEES . 35 Imputazioni pesanti, aver accettato denaro sottobanco, aver aggravato i conti dello Stato per interesse proprio e di complici. Il segretario Zaccagnini e tutta la Dc, compresi i suoi membri nella Commissione, evidentemente messi in minoranza, fanno comunque fronte compatto in difesa dei propri colleghi accusati, suscitando qualche perplessità in Beaudry: THE DC HAS CONTINUED ITS UNQUALIFIED S UPPORT OF FORMER PM RUMOR (REFTEL B) AND FORMER MINISTER GUI. DC COMMITTEE MEMBERS VOTED AGAINST EVERY FORMAL CHARGE WHICH EVEN ALLUDED TO ILLEGAL BEHAVIOR ON THE PART OF EITHER RUMOR OR GUI. IN A NATIONALLY TELEVISED INTERVIEW, DC SECRETARY ZACCAGNINI WEI GHED IN WITH A STATEMENT THAT HE WAS "ABSOLUTELY CONVINCED" ON THE BASIS OF "LONG AND FRANK DISCUSSIONS" OF THE INNOCENCE OF BOTH RUMOR AND GUI. COMMENT: THE DC'S DEFENSE OF RUMOR AND GUI GOES BEYOND PRO FORMA REQUIREMENTS. DC MOTIVES, IN PARTICULAR THOSE OF ZACCAGNINI, ARE HARD TO DEFINE AT THIS POINT. END COMMENT. 36 Evidentemente Zaccagnini non era talmente spregiudicato da tradire i propri colleghi, che sapeva non imputabili di reato, pur di evitare un confronto con il Pci, agevolando così il solito compromesso. Non per nulla, all’interno della Commissione parlamentare d’inchiesta tutti i Dc si schierarono in difesa dei due compagni di partito, salvo il fatto che, 29 gennaio ’77, Rumor non venne indiziato grazie al voto favorevole dell’indipendente valdostano (e al valore doppio, stante il caso di parità, del voto del presidente Martinazzoli), mentre Gui, con vera sorpresa del già citato Beaudry, cui sfuggiva il comportamento del valdostano, non ebbe altrettanta fortuna37. Si apriva così quel mese e mezzo assolutamente sfiancante dell’attesa del voto in Parlamento, con la suspence della fase preparatoria, la presidenza della Camera affidata ad un “left” del Pci come Ingrao (recentemente scomparso), gli inasprimenti polemici causati dalla controversa legge sull’aborto, i rinnovati attacchi radicali al presidente Leone, l’impegno del presidente della Dc, Aldo Moro, a intervenire in difesa di Gui. Tutto seguito attentamente dai diplomatici Usa e tutto culminato, previa ricordata incredibile tragedia dell’Hercules, nel celebre discorso di Moro, il 10 marzo, davanti a Camera e Senato in seduta LOCKHEED COMMITTEE COMPLETES BILL OF CHARGES ON ITALIANS -AMERICANS ARE NEXT, 1976 December 7, 15:45 (Tuesday), 1976ROME19914_b. 36 Ibidem. 37 LOCKHEED -- COMMITTEE INCROMINATES [sic] TWO FORMER MINISTERS, 1977 January 31, 00:00 (Monday), 1977ROME01563_c. 35 132 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 comune. Con l’amaro seguito del voto sfavorevole riportato dal suo “close friend and factional colleague”, con cui veniva rinviato assieme a Tanassi alla Corte costituzionale. Coinvolgente leggere al riguardo il commento di Beaudry, rimasto colpito dai contenuti dell’intervento di Moro, il quale andò ben al di là della difesa del “colleague”. Con qualche danno, si potrebbe annotare, per la posizione di Gui, che il presidente della Dc presumibilmente riteneva ormai compromessa dalle logiche antagonistiche. Aldo Moro infatti: WENT FURTHER BY DEFINING THE ISSUE IN UNCHARACTERISTICALLY FORCEFUL TERMS AS THE INTEGRITY OF THE DC ITSELF. HE THEREFORE SERVED A WARNING THAT AN ANTI-DC VOTE WILL JEOPARDIZE FURTHER POLITICAL COOPERATION WITH THE LEFT PARTIES AND POSSIBLY LEAD TO EARLY ELECTIONS. Non solo, ma era la funzione storica di tutto il partito democraticocristiano a dover essere degasperianamente (sia concesso) rivendicata: MORO DEFENDED THE DC'S POLITICAL RECORD OVER THE LAST 30 YEARS, NOTWITHSTANDING CERTAIN ERRORS, AS HAVING PRESERVED ITALIAN DEMOCRACY AND POLITICAL LIBERTIES. L’autorevole, carismatico presidente non temeva, in definitiva, di compromettere il compromesso, pur di mantenere la fiducia della Dc in se stessa, rafforzarne al coesione interna, forse rivendicare a sé la leadership del partito e mettere in guardia le forze concorrenti. Pertanto, concludeva Beaudry, era andato “beyond the limits” dell’immediato contesto: THUS, IT MIGHT BE SAID THAT MORO'S SPEECH WENT BEYOND THE LIMITS DICTATED BY THE IMMEDIATE OBJECTIVE SITUATION. IF MORO EXCEEDED THOSE LIMITS, HE DID SO INTENTIONALLY, PROBABLY TO SERVE A POLITICAL WARNING TO ALL THAT AN ANTI-DC VOTE WILL EXACERBATE FUTURE POLITICAL COOPERATION BETWEEN THE DC AND THE LEFT PARTIES. 38 Di certo per Gui si apriva una prova davvero difficile da sopportare, anche perché non stavano solo a Padova e dintorni coloro che lo ritenevano ingiustamente perseguito e perseguitato. Il giorno successivo al voto, tale Wayman, funzionario Usa a Milano, incontrava infatti Indro Montanelli, non ancora fatto segno del ricordato attentato, e lo trovava parecchio inferocito, anche a voler tener conto del suo noto anticomunismo. Questo il suo sfogo, comprensivo di suggestioni non trascurabili, oltre che di fiducia nell’integrità di Gui, che nessuno, a suo avviso, pensava fosse colpevole, nemmeno i comunisti: MORO ENDS LOCKHEED DEBATE WITH POLITICAL WARNING TO, 1977 March 10, 00:00 (Thursday), 1977ROME03963_c. 38 133 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 1. MONTANELLI WAS FIT TO BE TIED WHEN CONGEN [counsel general] MET HIM MARCH 11. VOTE BY PARLIAMENT TO INDICT GUI WAS MAJOR COMMUNIST VICTORY IN HIS VIEW AND DUE TO DIVISIONS IN DC. MONTANELLI HAD LITTLE USE FOR DC BUT IT WAS ONLY REMAINING BARRIER TO COMMUNISTS IN ITALY. NO ONE, HE RAGED, THOUGHT GUI WAS GUILTY, ESPECIALLY NOT COMMUNISTS. INDICTMENT WAS PCI MANEUVER TO PLLORY# ENTIRE DC. AND IT HAD SUCCEEDED. NO MATTER WHAT OUTCOME OF TRIAL BEFORE COURT, DC HAD BEEN DEALT NEW BLOW. AS FOR TANASSI, HE MIGHT WELL BE GUILTY. / 2. MAIN QUESTION, HE THUNDERED, WAS WHO IN DC WAS TO BLAME FOR INDICTMENT? PICCOLI HAD PROPOSED DC ABSTENTION THAT WOULD HAVE MADE PARTY DEFECTIONS AND THEREFORE INDICTMENT IMPOSSIBLE. WHY WAS THAT APPROACHED SABOTAGED? 39 Il timore di Montanelli era che gli errori americani, commessi nel provocare e gestire il caso Lockheed, finissero precisamente per portarli ad accettare la prospettiva dell’ingresso dei comunisti al governo, sconvolgendo gli assetti consolidati dall’epoca che ormai possiamo chiamare degasperiana. In ogni caso, ad avviso del noto giornalista, il discorso di Moro era stato un attacco ad Andreotti e al suo governo sostenuto dall’astensione del Pci. Anche se il furibondo Montanelli non era stato poi in grado, annotava il corrispondente Usa, di rispondere a tutti i propri interrogativi. Di sicuro - si leggeva sempre nella stessa data in un telegramma da Roma, a firma Beaudry - il discorso di Moro aveva prodotto l’effetto di schierare massicciamente la Dc anche a difesa di Tanassi, mentre in sede di commissione inquirente i democristiani gli avevano votato contro. Di conseguenza i fronti si erano irrigiditi, con il risultato di porre contro la Dc tutti gli altri partiti, compresi liberali e repubblicani. Ma non solo, perché persino quelli del Movimento sociale italiano si erano affiancati ai comunisti e agli altri, con il risultato di produrre un’esile maggioranza assoluta, eppur sempre maggioranza, a voto segreto, a danno di Gui. FOR GUI, THE MARGIN WAS THIN, WITH 487 PARLIAMENTARIANS VOTING FOR INDICTMENT, ONLY TEN MORE THAN REQUIRED. TANASSI WAS INDICTED BY 513 VOTES. THE NUMBERS INDICATE THAT THE PRO-INDICTMENT COALITION HELD, WITH VERY FEW INDIVIDUAL "CONSCIENCE" DECISIONS. INTERESTINGLY, WITHOUT THE VOTES OF NEO-FASCIST ITALIAN SOCIAL MOVEMENT, WHO JOINED THE LEFTIST PARTIES, THE REPUBLICANS AND THE LIBERALS, THE INDICTMENT OF GUI WOULD NOT HAVE BEEN POSSIBLE. 40 DARK POLITICAL SCENE AND US THREAT, 1977 March 11, 00:00 (Friday), 1977MILAN00440_c., confidential da Wayman. 40 PARLIAMENT INDICTS TWO FORMER MINISTERS IN LOCKHEED SCANDAL, 1977 March 11, 00:00 (Friday), 1977ROME03989_c. Seguitava Beaudry: “THE RULING CHRISTIAN DEMOCRATIC PARTY (DC) NOT ONLY SUPPORTED ITS OWN DEFENDENT, GUI, BUT ALSO APPARENTLY HELD ABSOLUTELY FIRM IN FAVOR OF TANASSI. THIS IS A MEASURE OF THE DEGREE TO WHICH THE DC PARLIAMENTARIANS GOT PARTY 39 134 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 Un esito in definitiva ingiusto, come avrebbe confermato la Corte costituzionale, con la sua sentenza di assoluzione piena, per non aver commesso il fatto. Eppure il discorso di Moro, in difesa della tradizione originaria della Dc, malgrado il suo favore per il compromesso storico, aveva significato qualcosa. Moro insomma non si era distaccato da una posizione di fermezza, atta a rinsaldare la coesione interna del suo partito, che diremmo ancora una volta degasperiana. A confermarlo, in data 14 marzo 77, era persino l’opinione di un esponente Dc non sospettabile certo di simpatie di sinistra. Vale a dire Massimo De Carolis, come emerge dalla sintesi di uno scambio di idee avuto con il console e tale “executive officer”, presso il consolato Usa a Milano. Homo novus della scena democristiana, confidente dell’amministrazione statunitense e con un futuro come minimo tormentato, De Carolis non si diceva certo contento della situazione. A suo avviso serviva molto più attivismo su vari fronti, compresa la ricerca di aiuti per la Dc provenienti dall’esterno. Tra l’altro aveva preso contatti con la comunità italo-americana, anche a rischio di venir ingiustamente sospettato di avvalersi di elementi sospetti, se non di gente legata al banchiere Michele Sindona. Ma lasciamo stare, benché si tratti di particolari assai interessanti. Rileva invece constatare in questa sede come De Carolis, un pochino supponente quanto carico di attivismo, risultasse assai critico verso i suoi colleghi di partito per come era stata gestita la vicenda Lockheed. Non che dubitasse del fatto che Gui fosse “un uomo onesto”, e in ogni caso prove non ce n’erano; però sarebbe stato più accorto a presentarsi direttamente alla Corte, dove si giudicava in base ai dati di fatto, senza attendere il voto in Parlamento. GUI WAS HONEST MAN AND, IF HE HAD TAKEN MONEY, DID IT FOR PARTY. IN ANY CASE, PROOF NOT THERE. HE HIMSELF HAD URGED GUI TO GO BEFORE SUPREME COURT VOLUNTARILY, DEPRIVING LEFTIST PARTIES OF CHANCE FOR POLITICAL DECISION IN PARLIAMENT AND PUTTING HIMSELF BEFORE BODY MORE DISPOSED TO MAKE JUDGMENT ON EVIDENCE. BUT THIS WASN'T DNE [sic] AND, IN FACT, DC HAD HAD NO STRATEGY AT ALL. Quanto a Moro, si era comportato con onore, ma un po’ tipo vecchia guardia, serrando i ranghi in modo tradizionale. Ciononostante, la fermezza di Moro, con il suo “magistrale” discorso nei confronti del Pci, con la sua linea divergente nei confronti di Andreotti, aveva assunto un significato ben più ampio rispetto alla vicenda in sé: PRESIDENT ALDO MORO'S FIRM MESSAGE TO DIG IN THEIR HEELS (REFTEL), AND IS ESPECIALLY STRIKING SINCE ONLY TWO OF THE EIGHT DC INQUIRY COMMITTEE MEMBERS HAD VOTED IN TANASSI'S FAVOR AT THE COMMITTEE STAGE.” 135 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 MORO'S SPEECH AHD [sic] BEEN MASTERFUL, BEST THAT OLD GUARD HAD TO OFFER, BUT IT WAS STILL NO MORE THAN PARTY CLOSING RANKS IN TRADITIONAL WAY. IN SUM. LOCKHEED AFFAIR HAD OFFERED DC CHANCE TO DO THINGS DIFFERENTLY, BUT PARTY HAD NOT DONE SO. 3. MORO'S SPEECH OF COUSE [sic] HAD WIDER SIGNIFICANCE IN ITS HARD STANCE AGAINST PCI. THAT DIFFERED DISTINCTLY FROM LINE ANDREOTTI HAD BEEN PURSUING… 41 Insomma, alla fin fine, la “left” democristiana usciva ancora una volta meno “left” di quanto gli occhiuti osservatori americani sospettassero. Magari non proprio “subdued” alla causa, come De Carolis confermava personalmentee di essere: HE WAS JUST AS FIRMLY - DN ACTIVELY - COMMITTED TO NON-COMMUNIST, [p]ROU.S. AND EC, MARKET-ORIENTED FUTURE FOR ITALY AS EVER. Niente comunisti, insomma, bensì Alleanza atlantica, Comunità europea ed economia di mercato, anche per evitare che il Pci si avvalesse dell’industria pubblica - così temeva De Carolis insieme ai suoi confidenti Usa - per sgominare gli avversari, qualora fosse giunto al potere. Con tutto ciò, il “magnificent” intervento di Moro (forse non a caso “old style”) aveva dimostrato che quelle pietre miliari oltre un certo limite comunque non si spostavano. E senza far ricorso a troppe reticenze o abilità manovriere. Salvo poi essere proprio lui, il presidente, a dover alla fin fine pagare così crudelmente per tutti. Giungendo ormai in conclusione, si può annotare per completezza che non risultano messaggi significativi di commento alla sentenza della Corte con la quale Gui veniva assolto. Resta semmai da fare un cenno al telegramma “confidential” del già citato ambasciatore in Italia, Richard Gardner, marito della veneziana Danielle Luzzatto, trasmesso nel giugno successivo. Garner riferiva che l’ex ministro, deferito alla Consulta con un “vote that followed strict party line”, si era messo in contatto con l’ambasciatore medesimo. Lo aveva fatto per ricordare, esprimendosi in modo decisamente garbato, di aver ottenuto in gennaio da un “official” della Lockheed stessa, autore delle allusioni DE CAROLIS ON ITALY AND ITALO - AMERICAN COMMUNITY, 1977 March 14, 00:00 (Monday), 1977MILAN00450_c., Confidential, Wayman. In un precedente colloquio, del 22 settembre ’76, 1976MILAN02039_b, De Carolis si era richiamato direttamente a De Gasperi, lamentando i pericoli terzomondisti del presente: ACCORDING TO DE CAROLIS, THE WHOLE QUESTION HAD PRETTY MUCH FALLEN INTO A TORPOR AFTER THE DE GASPERI PERIOD AS FOREIGN POLICY SIMPLY EVAPORATED AS A MAJOR ITALIAN POLITICAL CONERN. NOW, HOWEVER, HE SEES AN EFFORT ON THE PART OF AN IMPORTANT FACTION IN THE CHRISTIAN DEMOCRATIC PARTY TO MOVE ITALY INTO A THIRD WORLD POSITION. 41 136 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 al “previous minister” su di basava l’accusa, un affidavit giurato. In esso il funzionario: DENIED THAT HE HAD DIRECTLY OR INDIRECTLY INTENDED TO IMPLICATE GUI AS A RECIPIENT OF BRIBES. Per ottenere questo l’imputato si era recato personalmente in America – accompagnato dal suo avvocato e da un suo figlio, come si riscontra in un messaggio firmato da Kissinger stesso42 – per testimoniare di fronte alla Sec (Securities and Exchange Commission). Intendeva ovviamente “establish his innocence”. Ma su un piano generale la sua preoccupazione era per certi aspetti ancora più grave rispetto al proprio caso personale, in cui era costretto a difendersi senza che la lista di coloro che avevano davvero ricevuto “bribes” venisse mai resa pubblica: GUI SAID HIS INTENTION IN VISITING THE AMBASSADOR WAS TO POINT OUT, ON HIS OWN BEHALF BUT ALSO ON BEHALF OF HIS P ARTY, THE TREMENDOUS POLITICAL DAMAGE THAT COULD RESULT FOR THE DEMOCRATIC PARTIES IN ITALY SHOULD ADDITIONAL LOCKHEED DOCUMENTS CONTAIN INNUENDOES RATHER THAN FACTS. AMBASSADOR ASSURED GUI THAT HE WOULD BRING THESE CONCERNS TO THE ATTENTION OF THE DEPARTMENT AND INTERESTED USG AGENCIES. 43 Ecco, in questo caso, con tutto il rispetto per le intenzioni di Church, la corruzione fra le due sponde dell’Atlantico, su iniziativa peraltro e con penose reticenze degli Usa stessi, rischiava di mettere in crisi la saldezza del patto che i “patres” avevano sottoscritto a tempo debito. Un accordo non certo fondato su “bribes” e reciproci ricatti. Un’intesa che doveva legare insieme non solo Washington e i paesi dell’Europa uscita affranta dalla guerra, ma anche quei medesimi paesi fra di loro. A quel punto ai “democratic parties” non restavano molti margini per evitare di aprire le porte, sotto la pressione popolare, all’antagonista comunista, o comunque al compromesso con le forze sostenute dall’Est. Così come sulle rive dell’Elba il disincanto per l’Occidente e per l’unità LOCKHEED CASE, 1976 October 14, 20:21 (Thursday), 1976STATE254854_b. LOCKHEED CHARGES AGAINST SENATOR GUI, 1977 June 22, 00:00 (Wednesday), 1977ROME10246_c. Sull’ambasciatore Gardner, nonché sul quadro dei rapporti transatlantici del periodo, vale la pena di consultare anche l’articolo di Giulio Andreotti, “Italia-Usa”, apparso nel 2004 sul mensile da lui diretto «30 giorni» (www.30giorni.it/articoli_id_4313_l1.htm) come recensione al libro Mission Italy, scritto dall’ambasciatore. Oltre ai molti particolari istruttivi, vi appare la prospettiva andreottiana del periodo del compromesso storico.”I comunisti si impegnavano a riconoscere formalmente che Patto atlantico e Comunità europea erano i punti fondamentali di riferimento della politica estera italiana”. 42 43 137 F.G., Nuovamente Eurostudium3w luglio-settembre 2015 europea in ristagno ravvivava il desiderio di ricongiunzione nazionale mediante trattativa con gli assolutisti d’Oriente. E dunque? Tormenti angosciosi di un’epoca ancora recente, che certo non viaggiava nella sicurezza di quello che sarebbe stato l’esito finale, a fine anni Ottanta. Fortuna che l’antagonista con la bandiera rossa celava sotto di sé difetti ancora peggiori, quanto ormai prossimi a portarlo al tracollo. La corruzione, tuttavia, è proprio il caso di notarlo, non avrebbe mancato di esercitare a lungo i suoi effetti non poco devastanti, al di qua ed anche al di là della cortina, per non dire della maligna contaminazione tra i due campi. 138 F.G., Nuovamente