Epatite B
Epatite C
HIV
Dott. Ernesto Cimmino
Dott. Aniello Di Meglio
Via dei Fiorentini 21
80133 Napoli Tel 081 19562816
Epatite B
Dott. Aniello Di Meglio
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L’epatite B è una malattia epatica, causata dal virus
dell’epatite B ( HBV ). Tale patologia può decorrere in
forma acuta o divenire cronica (10%). L’epatite B può
essere trasmessa attraverso il sangue o attraverso i
liquidi corporei.
I sintomi precoci possono essere nausea e vomito,
perdita dell’appetito, senso di fatica e dolori
muscolari e articolari.
I segni sono rappresentati da urina scura ( dovuta
all’aumento della bilirubina ) e da feci chiare.
La risposta immunitaria dell’organismo ha un effetto
citopatico sul fegato.
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Il danno epatico è evidenziato dall’innalzamento dei livelli plasmatici
degli enzimi epatici.
E’ rilevabile la presenza dell’antigene di superficie del virus
dell’epatite B ( HBs-Ag ). Tale antigene è il primo marcatore che può
essere riscontrato dopo l’infezione. Di norma scompare nell’arco di 12 mesi.
L’antigene del core dell’epatite B ( HBc-Ag ) è generalmente rivelabile
entro 1-2 settimane dalla comparsa dell’antigene di superficie.
L’anticorpo di superficie dell’epatite B (Anti-HBs) è riscontrabile sia
tra le persone che sono state immunizzate che tra coloro che hanno
contratto l’infezione.
L’epatite B acuta non richiede nessun trattamento se non un attento
monitoraggio della funzione epatica, mediante misurazione dei livelli
plasmatici delle transaminasi e del tempo di protrombina
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L’obiettivo del trattamento dell’epatite B cronica consiste
nel ridurre l’infiammazione, i sintomi, e l’infettività.
La vaccinazione rappresenta la migliore difesa nei
confronti dell’infezione da virus HBV.
Attualmente i vaccini sono completamente di sintesi e non
contengono alcun prodotto umano.
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I fattori che aumentano il rischio di trasmissione verticale
(madre/feto-neonato) sono la comparsa di epatite acuta
nel corso del terzo trimestre di gravidanza, il parto
durante il periodo di incubazione materna del virus e la
presenza dell'antigene HBe nelle madri portatrici
croniche.
Il rischio di trasmissione perinatale aumenta dal
10-20% al 70-90% in caso di positività materna per
l'antigene e, in quest'ultimo caso, il bambino svilupperà
un'epatite cronica o lo stato di portatore cronico entro il
primo anno di vita in una elevata percentuale di casi (7090%).
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La trasmissione del virus è più frequente al momento del
parto o nell'immediato postpartum.
Il rischio di trasmissione è molto basso in caso di
infezione materna al I o II trimestre di gravidanza, ma
aumenta al 50-70% se l'epatite insorge nel III trimestre di
gravidanza o subito dopo il parto.
Il rischio di trasmissione attraverso l'allattamento al seno è
molto controverso: l'HBsAg è presente nel latte in circa il
70% dei casi, ma la trasmissione per via orale richiede una
carica virale molto più elevata, per cui l'allattamento al
seno è consentito se la madre è HBeAg negativa.
L'infezione neonatale può essere anche legata a
trasmissione orizzontale in caso di familiari portatori di
HBsAg.
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I neonati che contraggono l'infezione più spesso
divengono portatori cronici asintomatici.
In alcuni casi tuttavia anche in assenza di
sintomatologia clinica si possono avere forme silenti di
epatite cronica con elevazione dei valori degli enzimi
epatici e segni di epatite cronica alla biopsia epatica.
Rari sono i casi di epatite fulminante neonatale; poco
più frequenti sono le forme di epatite acuta.
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Il trattamento dei neonati di madre HBsAg positiva
consiste nella immunizzazione passiva con
immunoglobuline ed in quella attiva con vaccino
specifico. Il trattamento prevede la somministrazione di
immunoglobuline specifiche alla dose di 0,5 ml e della
prima dose di vaccino entro 12 ore dalla nascita.
L'immunizzazione attiva e passiva hanno buona efficacia
nel prevenire la trasmissione perinatale della malattia
(90-95%), mentre la sola immunizzazione attiva previene
l'infezione nel 70-90% dei casi.
La prevenzione dell'infezione da HVB in Italia rientra nei
programmi di vaccinazione obbligatoria.
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Epatite C
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L’epatite C è un’infezione virale a prevalente interessamento epatico,
accompagnata da manifestazioni extraepatiche, ad andamento
cronico, causata da un virus ad RNA della famiglia dei flavivirus.
Le regioni genomiche di questo virus posseggono un’alta variabilità
che consente al virus di sfuggire alla pressione immunologica
dell’ospite.
In condizioni normali, il virus non sembra svolgere un’azione
citopatica diretta nei confronti degli epatociti.
Molti dati suggeriscono che le manifestazioni cliniche e l’evoluzione
del danno epatico HCV-correlato sono determinati dalla risposta
immunologica dell’ospite.
L’epatite C è presente in tutto il mondo con prevalenza maggiore nei
paesi sviluppati.
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E’ un’infezione virale ematogena, contratta per contatto
diretto, evidente o misconosciuto, con sangue
proveniente da un portatore del virus.
La via di trasmissione oggi più comunemente osservata è
quella percutanea, nella quale rientra l’uso promiscuo di
oggetti personali traumatizzati, fra soggetti sani e soggetti
infetti, l’uso accidentale di aghi infetti, la pratica del
tatuaggio e del piercing.
L’ HCV-RNA è presente anche nel liquido seminale, nella
saliva, nelle urine e nel colostro ma in concentrazioni
nettamente inferiori.
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In letteratura numerosi studi dimostrano che la
trasmissione verticale è nel complesso rara, ed è
soprattutto legata alla viremia materna.
L’esecuzione della diagnosi prenatale invasiva
aumenta lievemente il rischio infettivo.
La trasmissione verticale, tra madre e figlio,
dell’HCV è oggetto di molti studi e controversie.
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Di notevole importanza è la trasmissione verticale tra
madre e feto, correlata alla presenza, nel sangue
materno, di HCV-RNA. In Italia il rischio di trasmissione
materno-fetale si aggira tra il 6-10%. Risulta importante la
concentrazione di HCV-RNA nel siero della gestante; se
questa è superiore a 10.000.000 copie/ml il rischio di
infezione è elevato.
In letteratura, sono riportati alcuni studi sull’ incidenze
della trasmissione legata alle varie modalità del parto;
esistono dati che indicano un medesimo numero di
neonati infetti da tc e da ps ed altri nei quali si osserva
una percentuale più alta di trasmissione nei neonati
partoriti per via vaginale, rispetto a quelli nati mediante
taglio cesareo.
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Gli studi fin’ora pubblicati hanno riportato dati
contrastanti. Ciò è dovuto, sia alle eterogeneità delle
popolazioni studiate ( diversa distribuzione di alcuni
fattori di rischio quali coinfezione da HIV,
tossicodipendenza, etc.), sia, e soprattutto, a
questioni metodologiche. A proposito di queste
ultime, è bene sottolineare l’esiguità numerica dei
pazienti considerati nella maggior parte degli studi, la
breve durata del follow-up, la diversità dei tests
sierologici utilizzati e la mancanza di un consenso sui
criteri di infezione nel lattante figlio di madre HCV
positiva.
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Questi dati sono in accordo con quanto affermato da
Dore et Al. che hanno considerato, come dato
fondamentale per la trasmissione verticale, la presenza
di HCV-RNA nel siero materno. D.M. Gibb e colleghi
invece affermano che la scelta del taglio cesareo
ridurrebbe la trasmissione del virus da madre a figlio.
Hanno considerato 1474 gestanti di cui 503 coinfette da
HIV. In effetti da alcuni studi si evince che il taglio
cesareo ha un’azione protettiva ai fini dell’infezione ma
solo nelle gestanti che sono anche HIV positive.
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Per quanto riguarda la terapia dell’epatite C al
momento l’interferone è il farmaco maggiormente
impiegato; in gravidanza in ogni caso è controindicata
qualsiasi tipo di terapia antivirale
.
Il management in gravidanza prevede il monitoraggio
delle transaminasi e la titolazione della viremia materna,
che sembra essere l’unico parametro coinvolto nella
trasmissione verticale del virus
.
Pertanto, nonostante il cospicuo numero di studi
pubblicati, il dibattito sulle diverse problematiche,
correlate alla trasmissione madre – figlio dell’HCV,
continua ad essere estremamente vivace.
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HIV
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Da studi retrospettivi nazionali e internazionali appare che l’HIV-1
sia trasmesso dalla madre al feto o al neonato nel 13-48% dei
casi, mentre l’HIV-2 (diffuso nel continente africano) sarebbe
trasmesso con frequenza minore.
Il virus HIV può essere trasmesso dalla madre al bambino nel
corso della gravidanza, durante il parto, o con l’allattamento al
seno. Anche se il virus è stato isolato da tessuti fetali già alla 12a
settimana di gestazione, almeno i due terzi delle infezioni in
bambini non allattati al seno potrebbero essere state acquisite
nell’ultima parte della gravidanza, durante il travaglio o il parto.
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Anche le ricerche virologiche e immunologiche depongono per
una acquisizione tardiva dell’infezione. Nuove interessanti
prospettive per la ricerca sono state aperte da recenti
segnalazioni, secondo le quali taluni individui, tra cui alcuni
neonati, pur essendo stati esposti al virus HIV non si sono
infettati o sono stati capaci di eliminarlo spontaneamente grazie
alle caratteristiche del proprio sistema immunitario. Nella
trasmissione verticale dell’infezione da HIV, oltre a fattori relativi
al rapporto virus/ospite, sono dunque determinanti condizioni
propriamente ostetriche. E’ attualmente oggetto di studio, il
ruolo della placenta con le sue funzioni di barriera e di trasporto
selettivo.
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La presenza di co-infezione (in particolare toxoplasma, CMV, HCV),
oltre a comportare un rischio relativo specifico per il feto e il
neonato, sembra aumentare la probabilità di passaggio verticale
dell’HIV.
Determinanti sembrano essere i fattori legati al parto, sia per
quanto riguarda la possibilità che si verifichino contatti tra il
sangue materno e quello fetale attraverso microtrasfusioni possibili
nel corso del travaglio, in particolare se prolungato, sia per le
possibilità di risalita del virus e/o esposizione prolungata, come nel
caso di rottura prematura delle membrane.
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L’allattamento al seno costituisce un fattore di rischio per la
trasmissione dell’HIV nel neonato indipendente dai fattori pre- e
perinatali. E’ stata dimostrata l’infezione in bambini allattati al seno
le cui madri avevano contratto l’HIV dopo il parto, ad es. per una
trasfusione, e l’allattamento materno aumenta del 14% il rischio di
infezione nei bambini esposti in utero. Tale pratica è pertanto
assolutamente da proscrivere nei paesi industrializzati, nei quali la
disponibilità e la sicurezza di impiego dei latti adattati superano
qualsiasi vantaggio residuo dell’allattamento materno; diversa è la
condizione dei paesi invia di sviluppo, dove non esistono alternative
sicure al latte materno e dove è alta la mortalità infantile per diarrea.
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Molti interventi di prevenzione si basano sulla convinzione che la
carica virale sia il determinante principale della trasmissione.
Il primo farmaco utilizzato a questo scopo è la zidovudina (AZT) in
considerazione della sua non teratogenicità, degli scarsi effetti
collaterali finora dimostrati nel lattante e nel bambino e delle
caratteristiche farmacocinetiche con passaggio transplacentare del
farmaco e raggiungimento di livelli terapeutici nei tessuti fetali.
I risultati del Pediatric AIDS Clinical Trial Group protocollo 076
(ACTG 076) hanno dimostrato per la prima volta come un intervento
specifico possa ridurre la trasmissione verticale del virus. Alla luce
dei risultati del trial, in USA, in Francia e in molti Paesi europei, la
terapia con zidovudina in gravidanza, al parto e nel neonato così
come proposto dal protocollo 076 è diventata pratica corrente.
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Nei paesi in via di sviluppo, dove peraltro per diffusione dell’infezione
e rischio di trasmissione perinatale si concentra la maggioranza dei
casi di AIDS pediatrico, ci sono gravi perplessità sulla reale possibilità
di adottare lo schema proposto per i suoi costi e per le caratteristiche
della popolazione locale. Il trial è poco applicabile in una realtà in cui
le gravide giungono all’osservazione clinica per lo più tardivamente,
se non addirittura al parto, come in taluni contesti africani. In questi
Paesi sono in corso studi volti a valutare l’efficacia della
somministrazione della zidovudina con schemi abbreviati, talvolta
solo al parto, con o senza terapia al neonato.
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L’infusione di immunoglobuline iperimmuni anti – HIV o di anticorpi
monoclonali neutralizzanti in gravidanza e al parto potrebbe ridurre il
virus libero circolante e impedire così il passaggio transplacentare
del virus. L’immunizzazione attiva potrebbe stimolare la risposta
immunitaria cellulomediata e umorale contro epitopi selezionati del
virus, con sostanziale riduzione della viremia. Se si dimostrasse
efficace e ben tollerata, l’immunizzazione attiva della madre e/o del
neonato avrebbe il vantaggio di perdurare nel tempo e sarebbe molto
meno costosa di quella passiva.
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Il periodo intrapartum è certamente cruciale per la
trasmissione verticale dell’HIV, di conseguenza alcuni
interventi sulle modalità del parto potrebbero essere
determinanti nella prevenzione dell’infezione
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Attualmente nel mondo i nuovi casi pediatrici di infezione da HIV
sono nella quasi totalità dovuti alla trasmissione verticale del virus.
Lo studio sulla zidovudina in gravidanza rappresenta un cardine
nello scenario delle strategie preventive, ma, poiché non è ancora
definitivamente chiarito quando, come e in quali circostanze il virus
venga trasmesso, molte sono le questioni irrisolte e ancora lunga la
strada da percorrere.
Se in futuro sarà possibile disporre di più di un presidio efficace, il
clinico potrà forse orientarsi in base a più elementi (anamnestici,
sierologici, virologici, immunologici) su come e quando intervenire
scegliendo la strategia ottimale, che non potrà che essere
personalizzata.
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Oggi in Italia bisogna operare uno sforzo perché il test sia offerto a
tutte le donne gravide, per garantire ad esse e al nascituro i benefici
che derivano dalle possibili strategie preventive e, per le madri, dalla
conoscenza della propria malattia in epoca presintomatica.
Il test va proposto in sede di counselling, nel corso cioè di un
colloquio che ne spieghi il significato e la necessità per la salute
della donna e del bambino, avendo già ben chiaro in mente ciò che
andrà detto e come, e a chi eventualmente indirizzare il paziente,
nella malaugurata ipotesi di un test positivo
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Attualmente in sede di counselling ostetrico non è possibile dare a
una donna sieropositiva che desideri avere un figlio una risposta
definitiva sul suo personale rischio di avere un bambino infetto. Tale
rischio non può essere né escluso né assicurato a nessuna. Si
possono nondimeno individuare delle categorie esposte a un rischio
minore (pazienti “long survival”, con antigenemia p24 ripetutamente
negativa, CD4 >500/ml, precedenti figli non infetti) rispetto a donne
ad alto rischio (AIDS, antigenemia p24 ripetutamente positiva, CD4
<200/ml, precedenti figli infetti).
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Presentazione di PowerPoint - Aniello Di Meglio