LA “NON
AUTOMATICITÀ” DEI PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI IN TEMA DI
TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI E DELL’AMBIENTE”.
ERNESTO CIANCIOLA*
1) - L’utilizzo dei sistemi informatici, nell’ambito applicativo
del diritto, da diversi anni, ha, di fatto, comportato oltre che una
“rivoluzione” nella operatività pratica dei giuristi, anche la
formazione di diversi modelli e strutture della e nella logica stessa
e del modo pratico di operare degli stessi.
Va premesso che l’informatica giuridica, come scienza a se
stante, figlia della filosofia del diritto, della epistemologia e,
ovviamente, della logica (di “tutte le logiche”), ai suoi primordi
aveva una “funzione semplice” tanto che la sua denominazione
iniziale fu quella di “giurimetria”1. Forse il neologismo nacque,
*
Professore aggregato di Informatica Giuridica e Diritti dell’Uomo, presso la II Facoltà di
Giurisprudenza di Bari a Taranto ed Informatica e Comunicazione Digitale, dell’Università degli Studi
di Bari.Relazione tenuta in occasione dello IONICAE DISPUTATIONES – SECONDO
DELL’UOMO E DELL’AMBIENTE
1
INCONTRO IONICO
-
POLACCO
La paternità risale a LEE LOEVINGER (che insieme a NORBERT WIENER, padre fondatore della cibernetica,
avviò gli studi sui rapporti tra l’uso dei calcolatori e il diritto) che gettò le basi in un suo celebre
articolo, An Introduction to Legal Logic, in Indiana Law Journal, vol. 27, 1952, pp. 471 – 522. Il suo
primo scritto su tale argomento venne pubblicato nel 1949 ( Jurimetrics. The Next Step Forward, in
Minnesota Law Review, XXXII, 1949, p. 455 e sgg. Cui fecero seguito altri scritti sempre sullo stesso
tema). Per una “storia” della Informatica Giuridica: VITTORIO FROSINI , Informatica, diritto e società,
Giuffrè, Milano, 1992 e, sempre dello stesso Autore, voce Informatica Giuridica, in Enciclopedia del
Diritto, vol. XLIV, Giuffrè, Milano, pp. 60 – 82 e ETTORE GIANNANTONIO , Introduzione all’informatica
giuridica, Giuffrè, Milano, 1984.
2
come sostiene Losano2 “per assonanza con « econometrics »,
econometria, o forse con la già ricordata «sociometrics» di Moreno.
La
Giurimetria
(a
scientific
investigation
of
legal
problem)
rappresentava una forma elementare di approccio dei primi
calcolatori con il diritto; in particolare tentava una sistemazione di
catalogazione della jurisprudence, nel sistema giuridico della
Common Law3, atteneva all’archiviazione e al reperimento
elettronico delle informazioni giuridiche, alla previsione delle
decisioni sulla base delle analisi comportamentali (judicial
predicting: quindi procedeva anche individuando una statistica di
base4 e, infine, un judicial decision-making5) e la formazione del
diritto e della scienza giuridica mediante la logica simbolica. Si
addivenne, così, anche alle ipotesi di legimatica, una scienza che
avrebbe consentivo di redigere norme giuridiche con il semplice
2
MARIO G. LOSANO , Sistema e struttura del diritto, Vol. III, Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè,
Milano, 2002, pag. 45.
3
Sul punto, per tutti, GIANCARLO TADDEI ELMI , Corso di Informatica giuridica, Edizioni Giuridiche
Simone, Napoli, 2000, il primo capitolo, pp. 10 e sgg. e anche V. Frosini, Informatica, diritto e
società, op. cit., pp. 13 – 14 nel paragrafo dal divertente titolo: Il calcolatore come oroscopo giuridico
automatico? Il problema è che, all’inizio, i ricercatori dell’informatica giuridica statunitense cercavano
per un verso di meglio archiviare il materiale giurisprudenziale e, per altro, la possibilità di prevedere
l’applicazione (non l’applicabilità) del precedente a un caso nuovo. La prevedibilità, quindi, anche
usando la statistica. Cosa che è andata benissimo per i programmi meteo… ma non per il diritto!
4
Un po’ sulla scia del realismo giuridico behavioristico americano degli anno ’50 e ’60. sul punto,
AA.VV. , Norma system, logistica e legimatica, Miscellanea del Cirfid, CLUEB, Bologna, 1998.
5
Che è alla base del breve discorso che intendo proporre.
3
ausilio di un elaboratore che, però, aveva ormai assunto valenza di
intelligenza artificiale6.
Come è noto a tutti, la seconda scienza ha subìto una battuta
di arresto e la giurimetria (soprattutto perché non funzionò,
subito, incontrandosi con i sistemi di Civil Law e, di poi, si è
evoluta nella sistemazione delle banche dati7 che hanno il loro
valore ed assumono, ai fini della indagine che sto compiendo, solo
– anche se non è poca cosa – funzione di memoria, di ricordi cui il
giurista possa attingere in qualunque momento e per qualsivoglia
ragione8) è progredita, si potrebbe dire, nella informatica giuridica,
nel solco di una rinata funzione della intelligenza umana che,
naturalmente, potremmo dire, sovrintende a quella artificiale,
biblicamente posta anch’essa al servizio dell’uomo.
Il rapporto uomo-macchina è stato trattato diffusamente e in
modo diverso a seconda dell’aspetto che si voleva considerare.
E l’argomento che tratterò non può, perché non deve,
prescindere dalla centralità dell’uomo, dell’essere, della persona. Il
6
Sul punto, PATRIZIA TABOSSI, Intelligenza naturale e intelligenza artificiale, Il Mulino, Bologna,1998,
in particolare, ancora,
pp. 39 e sgg., GIOVANNI SARTOR , Intelligenza artificiale e diritto.
Un’introduzione, Giuffrè, Milano, 1996 e, anche per quel che concerne i limiti o le potenzialità di una
applicazione al discorso giuridico, DANIELA TISCORNIA , Intelligenza artificiale e diritto, in AA.VV. ,
Lineamenti di Informatica Giuridica. Teoria, metodi e applicazioni, a cura di ROBERTA NANNUCCI, ESI,
Napoli, 2002, pp. 119 – 156.
7
Sulla documentazione giuridica automatica, si veda GIANFRANCO CARIDI, Metodologia e tecniche
dell’informatica giuridica, Giuffrè, Milano 1989, soprattutto , pp. 27-52. Il testo è ricco di
esemplificazioni e diagrammi sull’argomento.
8
Di recente, sul punto, SERGIO NIGER , La gestione informatica dei documenti, in Ciberspazio e Diritto,
n. 2/2002, Enrico Mucchi Editore, Modena, 2002, pp. 239 – 248.-
4
giurista (l’interprete) resta sempre un vir bonus, dicendi peritus,
secondo la nota definizione di Cicerone. Vir, quindi, prima di ogni
altra sua personale prerogativa.
Nell’affrontare qualunque discorso giuridico che voglia
comportare una soluzione a un problema, è noto che l’interprete
debba rifarsi al sillogismo giuridico composto da:
 una premessa minore (il fatto) o assunzione;
 una premessa maggiore (la norma da applicare) o
sussunzione;
 una conclusione (una sentenza o, se si vuole, un parere
o, se si vuole ancora, una tesi sostenuta da una parte).
Infatti, il discorso centrale è una totale pariteticità delle parti
in conflitto (basti por mente che tutte le parti di un processo
devono, comunque, rifarsi a una teoria dell’argomentazione (e
della persuasione) e che chiunque è un interprete. Anzi. Non esiste
confine tra interpretazione e applicazione. Anche un mero
ragionamento di scuola porta a una soluzione che costruisca,
appunto, l’attuazione del ragionamento giuridico).
2) - Ma, nel caso che ci deve occupare, si esaminerà solo la
possibilità del pronunciamento di una sentenza con l’ausilio
dell’automatismo logico di un sistema informatico laddove la
5
premessa maggiore sia una norma che tuteli un cosiddetto diritto
umano o l’ambiente.
Vanno, però, qui, delineati i termini della questione al fine di
sgomberare il campo dagli equivoci. Più precisamente:
a) cosa si intenda per “fatto”;
b) cosa si intenda per “norma”;
c) cosa si intenda per sentenza e, più nello specifico, se
esistano sentenze per fattispecie semplici e altre per
fattispecie complesse o, più in generale, ai fini della
presente ricerca, un provvedimento;
d) cosa si intenda per diritti fondamentali o diritti dell’uomo;
e) cosa si intenda per ambiente e, quindi, per tutela dello
stesso;
f) se, infine, il sillogismo giuridico, così come sempre è
stato inteso, sia applicabile tout court, seconda una
forma di automatismo alle ridette fattispecie; se, cioè,
possa un elaboratore sostituirsi a un giudice.
Per onestà di prospettazione, l’argomento è stato trattato da
diversi autori in diversi campi del sapere giuridico e da diverso
tempo. La insufficienza del sillogismo giuridico tesa a giustificare
sempre e comunque il ragionamento giuridico è stata, per
l’appunto, sempre posta in discussione. A maggior ragione oggi,
quando la introduzione dell’uso degli elaboratori elettronici,
6
fornisce al giurista mezzi, modalità differenti e riduce di molto la
tempistica della ricerca non già delle sole fonti, ma anche del
fondamentale ausilio della giurisprudenza.
Mi sembra, però, che nel particolare settore della tutela dei
diritti dell’uomo e dell’ambiente non vi siano state specifiche
riflessioni.
Vediamo, ora, singolarmente e sinteticamente, i termini della
questione.
Infatti, a ben vedere, in ogni singolo punto del thema
probandum appaiono sempre più labili i confini per far rientrare
l’automatismo giurisprudenziale9 come sistema di soluzione delle
controversie.
Il fatto
Il fatto (giuridico) è la conseguenza di una azione, per dirla
con Capograssi. E dentro di essa c’è tutta la ricchezza, la pienezza
della vita, la presenza di una intelligenza, la luminosità di una
coscienza nei suoi poliedrici e multiformi aspetti. Penso sia a quei
9
Si vedrà, però, che una sua applicazione già esiste ed è resa possibile ma in virtù di supporti tecnici.
Ma tanto tecnici, da essere oggetto di continue impugnazioni…!
7
fatti positivi, che a quelli negativi, dove, sempre per dirla con
Capograssi, sia presente il male.
Una esauriente definizione del fatto la dà Engisch10. Per
l’Autore i fatti sono tutti quegli avvenimenti, quelle situazioni, quei
rapporti, oggetti, qualità, che appartengono al passato, che sono
inquadrabili in un tempo e in uno spazio, (o solamente nel tempo),
che attengono al mondo delle percezioni (esterne o interne), e che
sono ordinati secondo le leggi di natura.
Ne deriva che, se il dato è quanto fin sopra detto,
l’accertamento dei fatti, che formano l’elemento costitutivo della
premessa minore del sillogismo, appare come il risultato di
complessi e complicati procedimenti conoscitivi e cognitivi11. Se il
fatto appare naturalisticamente proteso, può non essere un dato
meramente naturalistico.
Sicché l’interprete assume, dallo stato delle cose, quegli
elementi che gli sembrano essere i più significativi e, sulla base
dell’ordine che ad essi conferisce, definisce il fatto in sé, quello che
pone come premessa minore12. Quella che dovrebbe trovare
corrispondenza successiva in un dato normativo in modo che si
possa cogliere la sussumibilità del fatto/dato storico nel fatto/dato
giuridico.
10
11
KARL ENGISCH , Introduzione al pensiero giuridico, trad. it., Milano, 1970.
Sul punto, AGATA C. AMATO MANGIAMELI , Diritto e Cyberspace. Appunti di Informatica giuridica e
filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000, soprattutto pp. 169 e sgg. .-
8
Una operazione, quindi, valutativa e non semplicemente
logica.
La libertà dell’interprete, insomma, sta anche nel come
“vede”, “sente” un evento, un accadimento, una situazione, un
fatto, appunto.
“Ma anche gli elementi della fattispecie legale, al pari di
quelli
dello
stato
delle
cose,
non
sono
predeterminati
descrittivamente nelle parole della legge, bensì richiedono
anch’essi di essere individuati ed ordinati, di modo che pure il
fatto giuridico è il frutto di una serie di operazioni intellettive.
Appare evidente, perciò, come sia il fatto storico, sia il fatto
giuridico,
per
essere
posti
in
relazione,
debbano
essere
necessariamente concettualizzati - si sussumono, dunque, concetti
di fatti in concetti giuridici -, e come una variazione in relazione
agli elementi presi in considerazione e al modo in cui sono
ordinati, possa determinare la configurazione più svariata, tanto
dei fatti storici, quanto dei fatti giuridici”13.
12
“… La convinzione della assoluta ininfluenza del fatto rispetto all’interpretazione del diritto. Il fatto
è solo la premessa minore del sillogismo, identificata dal giudice attraverso la collaborazione
processuale delle parti e precede, logicamente e cronologicamente, l’identificazione della disposizione
legislativa - la premessa maggiore del sillogismo – senza interferire nella scoperta del significato di
questa. Ebbene, qualunque giurista avvertito non può che prendere le distanze da una ricostruzione così
formalistica del processo ermeneutico, interamente fondata su premesse tutte controvertibili”, ANDREA
PUGIOTTO, Come NON si interpreta il diritto. Dal sillogismo giuridico al circolo ermeneutico, in
dirittopubblicomc.org/materiali, pag. 3.13
K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, op. cit. pag. 78.
9
Ora, nei procedimenti giudiziari si accerta il fatto anche con
l’ausilio dei mezzi di prova (oggetti, documenti, testi, periti). Per lo
più, si accede al fatto, grazie alla presenza di indizi che, colti
tramite i sensi e l’intelletto, sono significativi dal punto di vista
giuridico solo in quanto consentono un giudizio su quei fatti “che
intendiamo sussumere sotto le fattispecie legali e che definiamo
fatti giuridicamente rilevanti”14.
Qui la questione più fondamentale: un fatto appare
giuridicamente privo della sua valenza significativa sino a che non
venga sussunto15 almeno sotto una fattispecie normativa. E non si
14
15
K. ENGISCH, op. ult. cit. pag. 71
Una definizione di sussunzione, in senso stretto, la si trova in PAWLOWSKI: “rapportare ad un principio
una fattispecie concreta. Ciò non consiste semplicemente in operazioni “logiche”, ma anche in
operazioni di “attribuzione” o di “qualificazione”. Il collegamento tra “fatti” e concetti giuridici…
riveste una grande importanza nell’ambito della cosiddetta “questione di fatto” (e) trova la sua sede di
elezione all’interno del processo ed ivi, eminentemente (ma non soltanto), durante la fase probatoria”
(Introduzione alla metodologia giuridica, trad. it., Milano, 1993, pag. 69, in AGATA C. AMATO
MANGIAMELI, Diritto e Cyberspazio…, op. cit., p. 175. Sul punto, si veda anche LELIO LANTELLA EMANUELE STOLFI – MARIO DEGANELLO , Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico,
Giappichelli, Torino, 2004, soprattutto pp. 45 e sgg. Sussumere ha assunto, da sempre, secondo gli
Autori, un senso metaforico rispetto al termine in sé considerato (prendere sotto). Infatti l’immagine
del sumere è inteso come apprensione intellettuale e l’immagine del “sotto” si specifica in rapporto a
un concetto; vale a dire che qualcosa va a finire “sotto un concetto” (sotto una nozione, una idea, o così
similmente), p. 45. In verità, l’operazione di sussunzione consente all’interprete di comprendere, in un
concetto, un fatto. Cioè, ancora e meglio, di definire (giuridicamente) un fatto storico. Si pensi a una
caduta, a uno scritto. Ovviamente, una volta qualificato il fatto, ne discende, rapida, la conclusione. Lo
scritto può diventare un contratto, la caduta un evento risarcibile. Ma, si badi, tutto viene lasciato
sempre alla libertà dell’interprete che non deve essere intesa nel senso di una arbitrarietà o ampia
discrezionalità della qualificazione – sussunzione; ma nel senso di poter liberamente dare al fatto una
qualificazione giuridica che altri può dare seguendo una differente valutazione del fatto. A prescindere,
ovviamente, dalle condizioni che abbiano causato un evento. Per rimanere nell’esempio: si pensi a una
caduta durante una partita di pallone, al far inciampare una persona per meglio compiere una rapina,
allo scivolamento per sconnessione del manto stradale, eccetera. E, soprattutto non tanto al modus
come questa sia avvenuta, ma alla proiezione teleologica della stessa, se ve ne fosse una. Ma per uno
spettatore di passaggio, per continuare l’esempio, avrà visto solo un uomo caduto. La ricostruzione del
fatto porterà a pervenire all’inquadramento preciso di una (possibile) fattispecie giuridica (l’uomo
dell’esempio, infatti, può essere caduto perché gli si è rotta una vecchia scarpa… Ecco, perché,
l’operazione di sussunzione assume una valenza assolutamente preminente nel e del sillogismo
giuridico e, pur dovendo essere stretta nelle maglie di una norma, occorre saper ritrovare…quella
giusta. Le controversie nascono proprio sulla esatta individuazione della norma applicabile…
10
dimentichi che la qualificazione giuridica del fatto è data proprio
da una norma ritrovata nel sistema (più che ordinamento)
giuridico.
Senza, però, cadere nella precomprensione del fatto!
Infatti, retaggio dell’apriorismo kantiano, si potrebbe
concludere che l’interprete, ancor prima di ritrovare una norma
nella quale sussumere il fatto, abbia già in mente la categoria di
riferimento, lo spazio normativo cui collocare il caso e sembri (?)
che anticipi “più o meno consapevolmente, soluzioni provvisorie,
utilizzandole quali ipotesi di lavoro da verificare e confermare”16
(ex post?).
Last but not least, quid juris se il fatto viene qualificato in
modo diverso in un successivo grado di giudizio?
16
A. PUGIOTTO, Come NON si interpreta il diritto…, op. cit., pag. 9. “È bene precisare che la
“precomprensione giuridica”, che precede la decisione di una situazione concreta, non si riferisce alla
situazione personale del singolo, che invoca la tutela giuridica, ma viene in considerazione come
“tipica situazione del caso singolo”, che richiede una applicazione normativa soddisfacente, al di là
della decisione del caso particolare. Da questo punto di vista, la decisione della norma che regge il
caso concreto, deve essere “obbiettivamente giusta” ed accordarsi con l’ordinamento nel suo insieme.
Significativa è, a tal proposito, la precisazione di Esser: attorno a chi applica il diritto si crea un
“orizzonte di attesa”, l’orizzonte di comprensione giuridica di interi gruppi sociali, e con questi il
giudice, interpretando, si confronta.. si badi: il confronto non è a posteriori, non va ad aggiungersi
all’atto di individuazione della regola giuridica, ma, anzi, “ne determina la direzione e il corso, in
relazione al consenso sociale che ci si deve attendere per una decisione ‘ragionevole’” (J. ESSER,
Precomprensione e scelta di metodo, pp. 118 e ssg.). E di tutta evidenza, poi, che il problema della
precomprensione, proprio in quanto è rivolto alla decisione del caso singolo, non si svolge per uno
scopo meramente cognitivo, e cioè solo per conoscere il diritto, ma per risolvere i conflitti reali
attraverso il diritto medesimo. A questi fini, allora, è da chiedersi che cosa si rappresenti (in anticipo)
l’interprete, quando sussiste una situazione di collisione tra due pretese, oppure nel caso di una pretesa
che contrasti con l’adempimento di un obbligo, od, ancora, in quello in cui la limitazione di un diritto
possa derivare da un interesse pubblico….. La situazione di collisione, che deriva dalla pluralità delle
pretese e, per ciò stesso, dall’invocazione di norme diverse, risulta alla fine regolata
dall’individuazione di un “a priori” (in senso kantiano), cui attraverso la ragione, l’interpretazione
giunge e che consentono l’applicazione di una norma con decisioni che rendono giusto, comprensibile
e sostenibile il risultato della decisione medesima e che, pertanto, la fondano”, A. AMATO C.
MANGIAMELI, Diritto e Cyberspace…, op. cit., pp. 182 – 183.
11
A me sembra che molte volte, quando si parla di decisione,
provvedimento e si pone a base del metodo di ragionamento
dell’interprete quel famoso sillogismo giuridico, non si tiene in
conto che le variabili appaiono molteplici. Solo in caso di mera
interpretazione dottrinaria o in sede di emissione di un cosiddetto
parere, può non sorgere contrasto sulla qualificazione giuridica
del fatto e, quindi, sulla esatta sussunzione dello stesso in un
quadro normativo di riferimento certo.
Ma, allorché vi è una lite con diverse (pluralità di parti)
pretese (ma non in un caso semplice come possa essere una
divisione giudiziale; si pensi a questioni condominiali, a
interpretazioni di clausole contrattuali o sulla natura del contratto
stesso), o vi siano diversi gradi di giurisdizione, è ovvio che non vi
sia univocità di interpretazione del fatto e, quindi, della regola da
applicare.
Qui per davvero crolla il mito di un diritto giusto ed equo, di
una interpretazione attraverso un solo sillogismo giuridico, del
giuspositivismo e del formalismo giuridico come unico diritto
valido e applicabile.
Infatti, a voler anticipare le conclusioni, se il sillogismo non
fosse che un semplice strumento della interpretazione del fatto
12
umano17 e, per ciò stesso, fallibile e rivedibile, non vi sarebbero
mai contrasti, conflitti e liti giudiziarie e tutti vivrebbero felici e
contenti, come nelle favole classiche dei Fratelli Grimm!
Lo studio del metodo, come procedimento intellettuale che
porta a “scoprire il diritto”, si impone al legislatore, che crea la
norme, ma anche al giudice ed all'avvocato che devono
interpretarla, per applicarla ai casi della vita. Le funzioni sono
naturalmente differenti. Il legislatore infatti, a differenza del
giudice, deve discutere e conoscere dei valori che orientano la
scelta politica, e dei valori che ispirano il sistema normativo
preesistente.
Lo studio della metodologia giuridica è oggetto di una
riscoperta solo recente, su impulso essenzialmente della dottrina
tedesca e nordamericana.
Nel
nostro
ordinamento
il
riferimento
normativo
è
rappresentato dall'art. 12 delle Preleggi18, che indica l'iter
interpretativo che il giurista deve seguire nell'operazione di
17
“È muovendo da questa precomprensione che, poi, l’interprete si rivolge ai differenti criteri
interpretativi. Ergo, contrariamente a quanto predicato dalla tradizionale teoria formalistica del
sillogismo giuridico, il processo ermeneutico non è determinato dal criterio interpretativo (letterale,
sistematico, storico, della lettura conforme a Costituzione) ma dall’anticipazione di senso e valore del
caso. La scelta del metodo è la conseguenza della direzione della ricerca incardinata dalla
comprensione del caso.”, A PUGIOTTO, op. cit., p. 9.18
Come meglio si vedrà nel prosieguo. Per una riflessione sulla differenza tra i sistemi giuridici
contemporanei e la valenza di una sentenza come precedente, mi permetto di rinviare al mio Il
Precedente: note per una definizione, in Il Foro di Trani n. 4, Trani, 1998 (gennaio-marzo 1998);
13
individuazione della norma per il caso concreto. La disposizione è
espressione di una impostazione chiaramente positivista.
Secondo
questo
modello,
articolato
come
sillogismo
giuridico, l'applicazione della legge è operazione meccanica
attraverso la quale, per via di automatismo, la soluzione delle
controversie
è
dedotta
dalla
legge.
Questa
metodica
è
rappresentata dal Puchta nella costruzione del diritto come una
piramide di concetti che formano un sistema organico, dal quale è
sempre possibile dedurre la soluzione per il caso concreto. In altri
termini, si applica al diritto il metodo scientifico, assumendo che la
decisione del giudice sia immune da prospettive assiologiche. La
scientificità dell'attività del giudice si basa sul postulato che sia
possibile una interpretazione avalutativa, per evitare che valori o
sentimenti (extranormativi) influenzino la sua decisione.
Ma questa impostazione è velleitaria: è una finzione. Il diritto
è una forma di conoscenza della realtà: l'ideale di una
giurisprudenza avalutativa risponde certo alla nobile ambizione di
evitare l'arbitrio del giudice e garantire la tenuta dei principi
fondamentali dello Stato di diritto. Ma nella realtà non esiste
interpretazione avalutativa: né è possibile ipotizzare che, in relazione
alla medesima fattispecie, sia possibile individuare una sola
soluzione, certa, perciò vera e al tempo stesso giusta. L'illusione
era evidente allo stesso Windscheid, padre della codificazione
14
tedesca, che individua la soluzione nel risultato di un computo
concettuale. Ed anche nella letteratura italiana non mancano
esempi illuminanti circa l'impossibilità di applicare il metodo
scientifico deduttivo al diritto. Si legge in Manzoni “Nessuno è reo
o innocente a saper maneggiar le leggi”.
Nella realtà non esiste una sola norma per ogni fattispecie: al
contrario uno stesso precetto è generatore di più norme, secondo
criterio di congruità. E ciò anche quando la lettera del testo è
chiara. Riportando le parole di Zagrebelski “La lettera non è una
certezza. Anzi nulla più della lettera fomenta la discordia”.
Se
quindi
l'interpretazione
non
è
operazione
logico
aritmetica, è importante soprattutto per l’avvocato lo studio del
metodo e della retorica.
Anche
nella
retorica
esiste
infatti
un
metodo:
l'argomentazione ha l'obiettivo di persuadere colui che ascolta. È
necessario innanzitutto conoscere l'interlocutore ed impostare il
discorso nel modo più efficace per convincere quel tipo di uditore.
In questo senso si distinguono gli argomenti a seconda del tipo di
interlocutore: ad es. Argumentum ad hominem, apud iudicem etc.
Ed ancora esiste una precettistica che governa: la narrazione
dei fatti (pertinenza, brevità etc.), la citazione dei precedenti
(somiglianza dei fatti, autorevolezza del giudice decidente,
correttezza, precisione etc.).
15
Proprio allo scopo di persuadere la tradizione ha decantato
dei criteri di argomentazione, che altro non sono che criteri di
interpretazione, cui il legislatore si è ispirato nel formulare l'art. 12
delle Preleggi.
Lo studio delle tecniche interpretative, che guidano nel
procedimento mentale di attribuzione del significato ad un testo, è
di interesse in primo luogo per quanti operano nel diritto. Non è
materia che può essere delegata al filosofo del diritto, proprio per
lo stretto legame con l'oggetto dell'interpretazione.
La sentenza in questa prospettiva è atto di volontà, proprio
perché è soluzione che implica la scelta di una tra le possibili
interpretazioni. È quindi atto volitivo, anche se non ha
ontologicamente l'attitudine a porsi come verità.
È dunque importante nel momento argomentativo la qualità
della dialettica processuale: bisognerebbe anzi evitare l'uso di topoi
che tendono ad appiattire il dialogo, per ricollocare il fatto al
centro del sistema processuale. È nel caso che l'interprete trova i
propri argomenti. Il diritto è, innanzitutto. conoscenza del fatto.
La norma
16
In teoria generale, la norma viene sempre presentata come o
una regola di condotta (generale, astratta e tipica) o un giudizio
ipotetico, di stampo kelseniano (se A, dunque B); insomma, un
giudizio costituente il significato della proposizione normativa.
Questa, al contrario, è l’espressione linguistica della norma. In logica,
ovviamente, si fa riferimento a tale ultimo concetto19. Si tratta,
insomma, di un enunciato normativo.
Ai fini del presente lavoro, comunque, l’importante è che
essa appartenga a un ordinamento giuridico e disponga
(linguaggio deontico) e sia connotata da positività, effettività e
vigenza.
Il problema, però, è che da qualche tempo è mutato lo stesso
concetto di ordinamento giuridico20.
Oggi, infatti, per una serie di ragioni storico-politiche,
l’ordinamento, cui deve riferirsi l’interprete, non solo si è ampliato
a dismisura, per il numero impressionante di leggi alle quali le
norme appartengono (non più e solo quelle contenute nei codici,
ma ci solo le leggi speciali, quelle degli Enti territoriali), ma vi
sono anche le disposizioni della Carta Costituzionale italiana (che
19
Sul punto, ex multis, RODOLFO BOZZI, Filosofia del diritto. Parte Generale, Adriatica Editrice, Bari,
1989, pp. 331 e sgg; SERGIO COTTA, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica,
Giuffrè, Milano, 1991, pp. 189 e sgg. .
20
Per tutti, FRANCO MODUGNO, voce Ordinamento giuridico (dottrine), in Enciclopedia del Diritto, vol.
XXX, Giuffrè, Milano, 1980, pp. 678 – 736 e bibliografia ivi richiamata; VITTORIO FROSINI , voce
Ordinamento giuridico (filosofia), ibid., pp. 639 – 654 e bibliografia ivi richiamata e MASSIMO BRUTTI,
voce Ordinamento Giudico (storia), ibid., pp. 654 – 678.
17
sono applicabili ex se), quelle contenute nei regolamenti
comunitari, le Convenzioni e gli accordi internazionali21 e, in
particolare, ad esempio, la Carta di Nizza (del dicembre del 2000),
esistono principi generali (come quelli di libertà, uguaglianza,
diritto alla vita, alla parità tra i sessi, tutela della infanzia, eccetera)
cui uniformarsi obbligatoriamente e che possono andare al di là,
come regolamentazione, alle normative interne dei singoli stati.
Sicché, ad oggi, non appare neanche più possibile
ripercorrere, a ritroso, la ricerca della norma fondamentale di un
singolo ordinamento, ritagliarsela per il proprio ordinamento
giuridico22. Infatti, a tutto concedere alla teoria kelseniana, una
ipotesi di norma fondamentale potrebbe essere “ci si deve
comportare secondo tutte le norme effettivamente vigenti all’interno di
un ordinamento”; il mero riferimento alla Costituzione di un Paese23
(che contiene, prevalentemente principi - e qui una gran
contraddittorietà del Kelsen tra la petizione di principio che esista
un ordinamento “puro” e uno subordinato a “principia” -)
sembrerebbe superato nei fatti, oltre che in teoria…
21
Che entrano a far parte degli ordinamenti interni comunitari senza bisogno più di una legge specifica
che li riconosca e che enunciano, prevalentemente, principi generali e affermazioni di tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo inteso come persona.
22
Per tutti, sul punto, ANTONIO INCAMPO , Sul dovere giuridico, Cacucci, Bari, 2003, soprattutto pp. 114 –
124.
23
“Ci si deve comportare secondo la Costituzione effettivamente statuita ed efficace”, HANS KELSEN , La
dottrina pura del diritto, 1966, p. 242.
18
E nasce, qui, un primo momento di riflessione. Se così è, se,
cioè, l’interprete ha come parametro di riferimento della
sussunzione giuridica non già solo norme “pure e semplici”, nel
senso su indicato, ma principi regolativi, per loro natura generali,
ma che sono cogenti non dovrebbe, in ogni caso, compiere una
riferibilità ai principi e constatare se la norma che applicherà sia
conforme ad essi oppure no24? Onde evitare le cosiddette antinomie
trascendentali.
La importanza “strategica” dell’articolo 12 delle Preleggi al
Codice Civile25 assume, quindi, una valenza particolare anche se,
trattandosi pur sempre di una norma, vi è il paradosso di dover
interpretare una norma che contiene le regole (i criteri, meglio) per
l’interpretazione delle norme stesse!
Del resto è impensabile che all’interno di un ordinamento
giuridico vi possano essere norme che prevedano tutto quanto
possa accadere nel mondo naturalistico! La completezza è
impossibile ad attuarsi. Si può dire che la completezza
24
Si tralascia volutamente l’aspetto della creatività del diritto giurisprudenziale (come non ricordare la
monumentale e fondamentale opera di LUIGI LOMBARDI VALLAURI , Saggio sul diritto giurisprudenziale,
Giuffrè, Milano, 1975?) perché aprirebbe un discorso differente sulla politicizzazione della
interpretazione che ingigantirebbe, per un verso, le problematiche trattate fino ad ora, ma, per altro, le
ridurrebbe al soggettivismo puro che, nella specie, non mi sembra la soluzione più idonea. “…
l’interpretazione giuridica altro non è che un’operazione logico-deduttiva attraverso la quale il giudice
non crea diritto, limitandosi ad applicare una disposizione normativa preformata. Lo scopo di tale
ricostruzione, anzi, è proprio quello di inibire il più possibile la discrezionalità interpretativa del
giudice - nel timore che proprio questa conduca ad alterare il comando legislativo nel suo significato
proprio – comprimendo, di conseguenza, l’attività applicativa nel letto di Procuste di un compito
meramente meccanico”, ANDREA PUGIOTTO , Come NON si interpreta il diritto.., op. cit., pag. 2.
25
Sul punto, A. PUGIOTTO, op. ult. cit., soprattutto pp. 5 – 8; A. INCAMPO, Sul dovere giuridico, op. cit.,
pp. 36 e sgg. .-
19
dell’ordinamento la si ottiene proprio attraverso il procedimento
dell’interpretazione per analogia (juris vel legis)26. Il problema delle
lacune e delle antinomie, quindi, resta sempre attuale e presente,
in qualunque ordinamento. E l’interprete, di volta in volta, deve o
colmare o integrare o correggere le norme se vuole davvero dar
corpo a una effettiva, concreta applicazione del diritto27
“Scrive a tal proposito Merkl (Il duplice volto del diritto, pp.
286-287): la legge “…non vuole dire tutto, perché vuole essere
soltanto una forma nel processo di formazione del diritto, una
forma ancora relativamente assai generale, vale a dire non
individualizzata”28.
E l’interprete dovrebbe (mentalmente e preliminarmente)
rapportarsi alla intenzione del legislatore e comprendere quale
fattispecie normativa abbia voluto disciplinare29...
26
Che resta un metodo più ampio del ragionamento a contrario, riduttivo rispetto al primo. Sul punto,
A. Incampo, Sul dovere giuridico, op. cit., pp. 33 e ss.- e solo per quel che attiene il diritto privato.
Infatti nel diritto penale è espressamente vietata la analogia.
27
L’integrazione presuppone le lacune, quali “deficienze del diritto positivo… che diventano sensibili,
in quanto carenza di contenuto della regolamentazione giuridica, là dove questa sarebbe richiesta da
determinate situazioni di fatto e che, in quanto tali, vogliono e possono venire eliminate mediante una
decisione giudiziale integrativa”. La correzione presuppone il diritto inesatto: innanzitutto le antinomie
propriamente dette, le antinomie di valutazione, quelle teleologiche e di principi, e poi, ancora, le
antinomie trascendentali: “vale a dire contrasti del diritto positivo con principi fondamentali che pur
possono costituire direttive e criteri per la conformazione e valutazione del diritto positivo, ma sono in
sé trascendenti il diritto positivo, quali i principi fondamentali della giustizia, del benessere generale,
della ragion di Stato, della certezza del diritto, del “diritto naturale”, del “diritto giusto”, della “eticità”
e della coscienza”, K. ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, op. cit., pp. 222-223 e 275.28
29
In A. C. AMATO MANGIAMELI, Diritto e Cyberspace…, op. cit., p. 190.
“La polisemia intrinseca di un enunciato linguistico non dipende solo dalle possibili imperfezioni
della lingua o del suo uso. A renderlo aperto è anche, se non soprattutto, l’esistenza di una dialettica
permanente tra l’emittente del testo ed il destinatario della sua comunicazione. Ciò vale per un testo
letterario, poetico, teatrale non meno che per un testo normativo. Tale dialettica permanente è imposta,
20
Facile dedurre che, rapportandosi a un enunciato normativo
che contenga un principio (si pensi all’art. 1 della Carta di Nizza
che così recita “Dignità umana. La dignità umana è inviolabile. Essa
deve essere rispettata e tutelata.”) la premessa maggiore diventa
un contenitore amplissimo! E segna, comunque, il superamento
proprio di quella antinomia trascendentale di cui si discorreva
sopra. Infatti appare come la prima operazione che l’interprete
debba compiere durante il suo ragionamento che lo porti a trovare
una soluzione al problema.
Diritti umani
innanzitutto, dalla stessa formulazione generale ed astratta del testo legislativo, che ne permette la
vigenza costante nel tempo attraverso una interpretazione evolutiva: questa, dando allo stesso
enunciato letture differenti – sia pure in continuità con il dato testuale di partenza – la rende applicabile
ad una realtà sociale cangiante. Se così non accadesse, il legislatore sarebbe perennemente sollecitato a
modificare l’originario testo normativo, in un incessante quanto impossibile sforzo di rimodellare
l’ordinamento su una realtà in continuo divenire. Ciò spiega perché la disposizione legislativa, nell’atto
stesso in cui viene posta, cominci un percorso di emancipazione dalla propria ratio originaria e viva
secondo un significato che può anche non coincidere con quello originario. Dalla voluntas legislatoris
si passa così ad una differente voluntas legis determinabile non più in relazione al tempo ed
all’occasione che hanno dato vita al testo legislativo quanto, piuttosto, alla sua polisemica
formulazione ed alla sua concreta portata attuale.”, A PUGIOTTO, op.ult. cit., p. 4 .- Qui siamo nella
cosiddetta interpretazione storica (intesa o come ricerca della intenzione soggettiva del legislatore o
intenzione oggettiva della legge).
E il tutto passa attraverso il mito/filtro della certezza del diritto che ha i suoi confini che vanno dalla
cristallizzazione del diritto alla eterogenesi dei fini della norma.
Sul tema del rapporto tra diritto e giustizia e tra diritto e certezza, tra tutti, GIUSEPPE CAPOGRASSI, Il
problema fondamentale, Opere di Giuseppe Capograssi, vol. V, Milano, Giuffré, pp. 29-34; LOPEZ DE
OŇATE , La certezza del diritto, Milano, Giuffré, 1942; FRANCESCO CARNELUTTI, La certezza del diritto,
Rivista di Diritto Processuale Civile 1943, XX:81-91; PIETRO CALAMANDREI, La certezza del diritto e le
responsabilità della dottrina, Rivista di Diritto Commerciale, 1942, I, p. 341 e ss.
21
Fin dalle Istituzioni giustinianee, al centro della riflessione
giuridica si è sempre posta la persona30.
L’espressione diritti umani si ritrova per la prima volta in
Europa, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unire il 10 dicembre 1948.
Essa si ricollega ad una profonda considerazione31 maturata
durante un periodo storico in cui si elaboravano teorie su “vite
degne” e “vite meno degne”, scaturita in un documento di
fondamentale importanza a livello internazionale, quale appunto
la Dichiarazione appena menzionata.
Per la verità, sinteticamente, è un modo come un altro per
indicare quelli che sono i diritti fondamentali collegati alla persona,
spesso appellati anche come personalissimi, inalienabili, eccetera32,
30
SEBASTIANO TAFARO, Diritto e persona: centralità dell’uomo, in Tradizione Romana, n. 5, 2006, in
www. dirittoestoria.it e alla dottrina ivi richiamata.
31
cfr. GIUSEPPE CAPOGRASSI, La Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e il suo significato, in
Opere di Giuseppe capograssi, vol. V, Giuffrè, Milano, 1959, pp. 37-50
32
Per la verità, proprio la Carta di Nizza, sempre nel suo preambolo, affermando che: “La presente
Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell'Unione e del
principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi
internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull'Unione europea e dai trattati comunitari, dalla
convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dalle
carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d'Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei
diritti dell'uomo. Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri
come pure della comunità umana e delle generazioni future. Pertanto, l'Unione riconosce i diritti, le
libertà ed i principi enunciati qui di seguito…” sembrerebbe differenziare i due concetti che, invece,
unanimemente, vengono ritenuti sinonimi. Può essere che col primo termine si sia voluto comprendere
e riconoscere qualcosa di più specifico e connaturato con l’essere umano e con il secondo si sia voluto
accentuare l’esistenza di libertà che nessun ordinamento possa conculcare. Donde il riferimento a una
Autorità che li tuteli entrambi, garantendo una terzietà tra gli Stati membri. Dopo il Preambolo segue la
individuazione dei diritti sopra detti e di quelli derivati (come quello di cittadinanza).
22
negli Stati moderni, di diritto e costituzionali, vengono individuati e
tutelati in virtù dello scopo dello Stato stesso: non già e non più
semplicemente sorto con la finalità di “garantire i diritti individuali
e collettivi” ma “promuovere” gli stessi. Attraverso una loro
“scoperta e riconoscimento33” (perché esistono già all’interno della
persona - che diventa non solo una semplice maschera che ricopra
un volto, ma un paludamento che avvolge l’intero essere e lo cela
al mondo circostante - fin dalla apparizione dell’uomo su questa
Terra), man mano che la storia avanzava, col progresso, e
l’umanità ritrovava ambiti di tutela differenti34.
Si pensi, ad esempio, al diritto alla vita, alla salute, quelli
connessi all’infanzia, alla libertà (ricomprendendovi, ovviamente,
le sue molteplici sotto categorie come la libertà di pensiero, di
stampa, di parola, di stabilimento, eccetera), alla uguaglianza,
oppure termini come “unioni di fatto”, “famiglia”, che, se pur
tutelati da una certa epoca in poi, si sono ritrovati ad essere
ridefiniti continuamente, a rimodellarsi a misura che la società
33
Proprio nel senso di PAUL RICOEUR, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano,
2005.34
NORBERTO BOBBIO , nel suo noto libro L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, contesta l’espressione e
la sussistenza dei diritti umani (del resto, come giuspositivista e punta di diamante del formalismo
giuridico italiano, contestava anche la esistenza di un diritto naturale) in quanto agli stessi non si
poteva dare un fondamento assoluto in quanto risultavano mal definibili e storicamente mutevoli. Sotto
l’aspetto squisitamente formale, non errava. E, stranamente, ai fini del presente lavoro, tale tesi è di
assoluto conforto in quanto, non essendo definibili, non potrebbero mai essere individuati in un
procedimento logico matematico in un sistema decisionista e informatico.
23
progrediva35 e si apriva a nuove esigenze o interferivano “morali”
diverse.
Non solo.
Ma col passare del tempo gli stessi diritti hanno assunto
diversità di accezione ricomprendendo, al loro interno, fattispecie
fino a poco tempo prima assolutamente imprevedibili.
Il continuo e rapido modo col quale gli scambi e relazioni di
ogni tipo (culturali, morali, religiose e giuridiche) sono avvenuti,
l’incrociarsi di tradizioni diverse, a cominciare soprattutto dalla
fine dell’ottocento in poi, ha comportato un diverso modo di
intendere diritti fondamentali come quello alla vita e alla libertà
(per limitare il campo) davvero sorprendenti.
Per quel che riguarda il secondo (per il mondo occidentale),
basti pensare alla diversità di accezione del termine (nel senso che
al suo interno erano e sono rappresentati ambiti di tutela differenti
di tutela) tra la fine della prima guerra mondiale e gli anni
sessanta36 e, poi, fino ai nostri giorni.
35
Una società scientifica e tecnologica diversa, da villaggio globale o da homo artificialis o digitalis
come sostengo io. E come non ricordare in proposito ZYGMUNT BAUMAN con il suo splendido libro La
solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 1999. Inoltre faccio riferimento a due miei scritti:
La sicurezza nell’Europa multi culturale. In particolare, sulla dignità della persona e la riservatezza:
Verso un minimo etico riconosciuto, in Journal of modern science, 1/2002, Józefów, Polonia, pp. 195 e
ss.; Famiglia e soggetti deboli: linee per una ipotesi di diritto comune, in Rodzina I Społeczneństwo,
Białystok, Polonia, 2006, pp. 61 e ss. .
36
Sul punto, GERHARD OESTREICH , Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Editori Laterza,
Roma.Bari, 2001, soprattutto pp. 117 – 152.
24
Per quel che attiene al primo, si pensi alla tutela della vita
connessa con quella della dignità della persona37, in virtù dei quali
si regola la vita umana dal suo esordio in questo mondo (gli
embrioni) fino al suo exitus (l’eutanasia).
E si sono trovati “nuovi diritti” come il biodiritto38 (di
derivazione dalla bioetica), il diritto delle neotecnologie39, il dato
personale, solo per restare in ambiti noti a tutti. Nel senso che
sono diritti che non erano stati determinati.
37
Espressamente previsti e disciplinati (quindi con norme cogenti) dalla Carta di Nizza e dalla
Costituzione Europea che, come è noto, non è ancora stata adottata.
38
Per quanto riguarda il rapporto tra bioetica (intesa come “Lo studio sistematico della condotta
umana nell’area della scienza della vita e della cura della salute, esaminata alla luce dei valori e
dei principi morali”, W.T. REICH, Introduction to Encyclopedia of Biotehics, Macmillan, Free Press,
New York, 1978) diritto e diritti umani, si possono ricordare alcuni tra i numerosi contributi presenti
nella letteratura esistente, tra cui: FRANCESCO D’AGOSTINO, Bioetica e diritto, Medicina e Morale 1993,
4: 675-690; ID., Dalla bioetica alla biogiuridica, in S.BIOLO (a cura di), Nascita e morte dell’uomo,
Marietti: Genova, 1993: 137-147; ID., Tendenze culturali della bioetica e diritti dell’uomo, in A.
Bompiani (a cura di), Bioetica in medicina, Roma: CIC, 1996: 48-54, ID., Bioetica nella prospettiva
della filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2000; ID., La bioetica come problema giuridico. Breve
analisi di carattere sistematico, in E. SGREGGIA, V. MELE, G. MIRANDO, (a cura di), Le radici della
bioetica, vol. I, Milano: Vita e pensiero, 1998:203-211; G. DALLA TORRE , Le frontiere della vita. Etica,
bioetica, diritto, Roma: Edizioni Studium, 1997, E. SGREGGIA, Bioetica e diritti dell’uomo, in Scritti in
Onore di GuidoGerin, Padova: CEDAM, 1996: 427-433; P. ZATTI, Verso un diritto per la bioetica, in
A. MAZZONI, (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, Il Mulino, 1988: 63-76; ID.
Bioetica e diritto, Rivista Italiana di Medicina Legale, 1995 XVII: 3-20; S. FRENI, Biogiuridica e
pluralismo etico-religioso, Milano, Giuffré, 2000; E. SGREGGIA, M. CASINI , Diritti umani e bioetica,
Medicina e Morale, 1999, 1: 17-47; G. MÉMETEAU, Bioéthique et droit: mythes ou enrichissement?, in
L.ISRAEL, G. MÉMETEAU (sous la direction de), Le mythe bioéthique, Paris, Edition Bassano, 1999: 97125; F.D. BUSNELLI , Bioetica e diritto privato, Frammenti di un dizionario, Torino, Giappichelli, 2001;
V.POCAR, Sul ruolo del diritto in bioetica, Sociologia e diritto, 1999, 1: 157-165; M.D.VILA-CORO ,
Introducción a la Biojurídica, Madrid: Universidad Complutense, 1995; G.P. SMITH II, Human Rights
and Biomedicine, The Hague: Kluwer, 2000; F.J.LEON CORREA, Los derechos humanos come base de la
legislacion en bioetica, Persona y bioetica, 2000, 2001, 11, 12: 123-125; A. COSTANZO, Nuclei del
biodiritto, Bioetica e cultura, 2002, 21: 51-66; M.T. MEULDERS-KLEIN, R. DEECH, P.VLAARDINGERBROEK
(eds.) Biomedicine, The Family and Human Rights, The Hague; Kluwer, 2002; J-P. MASSUÉ, G. GERIN,
Diritti umani e bioetica, Roma: Sapere 2000, Edizioni Multimediali, 2000; F. COMPAGNONI, F.
D’AGOSTINO, (a cura di), Bioetica, diritti umani e multietnicità, Milano, San Paolo, 2002; R. ADORNO,
Biomedicine and international human rights law: in search of a global consensus
(www.who.int/bullettin/tableofcontents/2002/vol.80no).
39
L’Informatica giuridica e il diritto dell’Informatica con la regolamentazione di tutto quel che avviene
on line: la contrattualistica, i reati informatici, la tutela della privacy, del dato personale, i rapporti
bancari, l’accesso ai servizi pubblici, tanto per citare qualche ambito di applicazione.
25
E
l’informatica
giuridica
ha
contribuito,
non
solo
all’individuazione degli stessi, ma ha fatto sorgere diverse scuole
di pensiero su argomenti che, per converso, sembravano dati per
stabiliti.
Sulla scorta del pensiero di un sapere condiviso, di una
creatività individuale come risorsa da mettere a disposizione di tutti,
nasce l’etica degli hackers40, la tutela del software viene affievolita: si
parla di copyleft che si affianca al copyright e si diffonde la cultura
software libero41.
Questo perché nel momento della individuazione di una
fattispecie da disciplinare, necessita che il giurista conosca
l’evoluzione del pensiero, della società che si verifica intorno a lui,
quotidianamente.
Infatti, la novità dell’epoca contemporanea non sta soltanto
nella circostanza che apparentemente nascano nuovi diritti42, quanto
che i vecchi modelli di riferimento degli stessi sono cambiati.
E in fondo il legislatore attuale (quello a livello europeo o dei
trattati) si adegua a tanto, limitandosi a enunciare principi,
40
Resta fondamentale lo scritto di PEKKA HIMANEN , L’etica hacker e lo spirito dell’età
dell’informazione, Feltrinelli, Milano, 2001.
41
Per tutti, GIOVANNI ZICCARDI , Libertà del codice e della cultura, Giuffrè, Milano, 2006 che ripercorre
storicamente il tentativo di svincolarsi dal potere di controllo di chi detenga i marchi in virtù di un
diverso spirito che deve animare la ricerca fondata sulla libertà informatica. In particolare, pp. 35 – 44
e 97 e ss. .42
Si è trattato, invece, di una ri-scoperta degli stessi di un ri-conoscimento di ambiti di tutela, come
sopra detto.
26
piuttosto che singole e specifiche regole. Vuoi perché le demanda
agli Stati membri, vuoi perché, forse, nel nostro futuro si sta
delineando quello che è stato definito il diritto silhouette, un diritto
snello, fatto di poche regole ma di molti principi.43
Orbene, la Carta di Nizza, trattato fondamentale su e dei
principi regolatori e ispiratori delle moderne logiche legislative
improntate sulla riscoperta dell’uomo nel suo complesso di
individualità, socialità e unione mente – corpo, proprio nel suo
Preambolo, statuisce una serie di principi affermando che:
“Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si
fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di
libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l'Unione si basa sui principi
di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al
43
Sul punto, MARIA ROSARIA FERRARESE , Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella
società transnazionale, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 199 – 204. “In primo luogo il diritto si
proceduralizza: il diritto, per così dire, perde carne e diventa una silhouette, uno schema, un profilo un
disegno a grandi linee. Ciò significa che esso non solo è diverso ma, come osserva Ladeur, richiede di
essere compreso in maniera diversa: esso richiede «una comprensione procedurale» la quale «non sia
basata sulla intelligenza, sulla capacità di ricevere consenso, sulla veridicità e su altre virtù primarie
del diritto, bensì su virtù secondarie, specificatamente procedurali, come il mantenimento di una
pluralità di alternative di azione, la conciliazione dei dissensi… la possibilità che diversi giochi
linguistici si contaminino vicendevolmente, la garanzia del cambiamento mediante la costruzione di
«interruttori» per discorsi che si rafforzano, e così via (Così K.H. LADEUR , Procedurale Razionalität, in
“Zeitschrift für Rechtssoziologie”, n. 7, 1986, p. 273, cit. in TEUBNER, Il diritto come sistema
autopoietico,cit., p. 99)»…Il diritto perde il tal senso le sue valenze pubblicistiche di «comando
giuridico» e si struttura prevalentemente secondo schemi di tipo privatistico, diventa dunque
essenzialmente empowering, facilitating, default.”, pp. 200 – 201.- E tutto quanto qui esposto rafforza
la tesi secondo la quale rimettersi ai principi enunciati renderà assolutamente impossibile l’uso
delle decisioni automatiche attraverso l’uso di un elaboratore, proprio perché definirne i
contenuti in chiave algoritmica è, allo stato dell’arte, inattuabile e poi anche perché, come
sottolinea Ladeur, l’intreccio di linguaggi manderebbe in tilt il sistema per la polisemia che si
verrebbe a creare. Per un esempio di come un computer traduca automaticamente espressioni comuni
in frasi senza senso, cfr. A. PUGIOTTO, Come NON si interpreta il diritto….,op. cit., pp. 3-4: “..Studies
in the logic of Charles Sanders Pierce risulti in traduzione Studi nella logica delle sabbiatrici Pierce
del Charles (sander, effettivamente, significa sabbiatrice e il traduttore automatico non tine conto
delle maiuscole”.
27
centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell'Unione e
creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.”
Lo scopo dei Paesi sottoscrittori della Carta è stato quello di
rendere una visibilità ai principi informatori delle legislazioni: “…
rafforzare
la
tutela
dei
diritti
fondamentali
alla
luce
dell'evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi
scientifici e tecnologici”.
Sei, dunque, i principi fondamentali enucleati:
1. la dignità umana;
2. la libertà;
3. l’uguaglianza;
4. la solidarietà;
5. la democrazia;
6. lo stato di diritto.
Premesso
che
non
appare
possibile
esaurientemente
rispondere a tutto, mi limiterò ad evidenziare alcuni criteri di
massima, lasciando, a chi legge, riempire i principi sopra indicati
nei modi più vari.
Ciò a discapito di una puntualizzazione, ma a vantaggio di
una libertà di pensiero che non si lascia rinchiudere in ampolle
alchemiche di qualsivoglia matrice politica.
28
Tra l’altro, non sono principi neanche cristallizzati nel
tempo44. Infatti, come sopra richiamato, nella costante evoluzione
della società e del progresso sociale, degli sviluppi scientifici e
tecnologici, questi valori tendono a mutare. E devono essere
adeguati costantemente.
E siccome la legislazione, qualunque legislazione, ha i suoi
temi tecnici per adeguarsi, spetta all’interprete il compito primario
di preoccuparsi di tanto.
Si pensi alla privacy, al matrimonio, alla cittadinanza.
Per ognuno di questi vi sarebbe bisogno di…un trattato.
Sinteticamente, si può affermare che questi valori, questi
principi, devono essere alla base delle normative dei singoli stati e,
nel caso in cui vi fossero norme interne in contrasto, spetterebbe
all’interprete sopperirvi, applicandoli tout court al caso a lui
sottoposto, andando oltre i valori o i fino etico – politici perseguiti
nello specifico, i concreti interessi o i bisogni “attraverso di essi di
fatto o anche solo di diritto tutelati o il rango costituzionale o
comunque privilegiato delle loro fonti, oppure il carattere
universale ora dei principi da essi espressi, ora dei soggetti cui
44
Si rifletta sul concetto di persona e democrazie… negli ultimi due millenni; i loro significati sono
diversissimi e diversificati per periodi storici, etnie, religioni, morali, fondamentalismi vari, eccetera.
29
sono attribuiti, ora di quelli che li rivendicano o ne condividono la
validità”45.
Se,
nel
disciplinare
un
fatto,
occorresse
intervenire
“immettendo” questi principi nella realtà sociale, il giurista
dovrebbe farlo vuoi disapplicando la normativa in vigore (perché,
si ripete, è in conflitto con tali principi), vuoi inserendo il suo
operato nel complesso sistema giuridico del suo Paese.
La dignità umana46, dunque, è al primo posto dei valori che le
norme dei singoli paesi hanno stabilito. Un concetto vasto che
qualunque
algoritmo
induttivo
difficilmente
riuscirebbe
a
sintetizzare in poche parole. Al suo interno è racchiuso il
fondamento della razionalità umana e, in ragione di ciò, l’individuo
va difeso, tutelato e protetto per la sola ragione che è, che esiste, al
di là e oltre la sua particolare condizione (non per altro si parla di
45
LUIGI FERRAJOLI , I fondamenti dei diritti fondamentali, in Diritti fondamentali. Un dibattito teorico,
Ed. Laterza, Bari – Roma, 2002, p. 279; sul concetto di libertà e la sua evoluzione storica, nei diversi
modi con i quali è stata intesa (Libertà negativa e libertà positiva. Diritti di libertà e diritti di
autonomia), pp. 288 e ss. .46
F.D. BUSNELLI e E. PALMIERINI, Bioetica e diritto privato, in Enciclopedia del Diritto,
Aggiornamento, V, Giuffrè, Milano, 2001 op. cit., p. 144, evidenziano, ad esempio, come il concetto
europeo di dignità sia profondamente diverso da quello, legato all’omologo lessicale di dignity, diffuso
nella cultura statunitense ed impiegato “in modo fungibile ai concetti di autonomia e di libertà”, così
da fondare lo stesso diritto alla privatezza delle decisioni in merito alle proprie vicende esistenziali” (p.
143). Dignity riconosciuta, per di più, ai soli soggetti capaci di autodeterminazione morale, e dunque di
raziocinio (sulla scia di una visione elaborata nel pensiero europeo e superata da oltre un secolo, che
escludeva il predicato “persona” agli incapaci, come gli esseri mostruosi, gli infanti, i folli e i minori:
cfr. P. ZATTI, Verso un diritto per la bioetica, citati dagli Autori suddetti). Sulle avventure della ragione
occidentale nel suo conflittuale rapporto (di interdetto ed esclusione) con queste soggettività non
compiutamente riconosciute resta fondamentale la riflessione critica di M. FOUCAULT, Folie et dérason.
Histoire de la folie à l’age classique, Paris, 1961, trad. it. Storia della follia, Milano 1963.
30
una dignità nella salute, nella malattia, nella vita di relazione, nella
morte), il suo essere contingente, transeunte, caduco e mortale.
Un principio vasto come l’oceano, dai confini che si
ampliano ogni giorno di più, col progredire della società e del
progresso, causa prima, a volte, di palesi antinomie negli
ordinamenti giuridici contemporanei.
E che diventa criterio anche di valutazione della civiltà giuridica
di un popolo a seconda che la tuteli in tutte le sue forme o no.
Principio generale di impossibile definizione concettuale, se
non nel senso sopra proposto e che appare impossibile
esemplificare in poche pagine anche perché, nel suo esplicitarsi,
appare ricco di contraddizioni. In virtù della dignità umana, ad
esempio, si invoca l’abolizione della pena di morte o la si ritiene
ammissibile!
Figuriamoci, allo stato, algoritmicamente!
E sempre in virtù di tale principio di minima razionalità,
ancora,
dovrebbero
essere
abolite
le
pene
corporali,
le
sperimentazioni anche su embrioni umani, ma viene ritenuta
praticabile l’eutanasia.
Vita, morte, dignità: tre concetti in rapida e costante
variazione di interpretazione e contenitori sempre più vasti.
Lo stesso dicasi per i principi di libertà ed uguaglianza
(economica, sociale, politica, culturale, eccetera).
31
Il diritto diventa in tali casi lo strumento di attuazione delle
disparità o delle differenze che via via la società va riconoscendo47.
Al fondo di ogni riflessione, però, vi è la perenne
valutazione dell’essere racchiuso nella persona, che ritrova,
attraverso il mondo delle regole, la possibilità di difendersi e
tutelarsi da un suo simile.
Già! Perché in fondo, se il principio è concretizzato (o meno)
in una singola norma, portatrice di un valore perenne, e la si
invoca, se ne chiede la applicazione, è proprio perché in quel
momento vi è una violazione (possibile) della stessa e la
invocazione di un minimo di Giustizia.
Il minimo etico è tutto qui!
Al di là, forse, di tesi o ideologie giuspositiviste o
normativiste, forse in aperto contrasto con chi voleva ridurre
l’ordinamento a meri e asettici comandi, il diritto appare permeato
di valori ritrovati e voluti proprio dallo stesso legislatore.
E siccome la morale, ex se, è particolare e soggettiva,
transeunte ed effimera, resta il diritto a codificare i principi
universali validi ed efficaci.
In quanto, si ripete, è la norma che ne pretende la loro
attuazione.
47
Nel senso sopra richiamato.
32
E mai come oggi, si assiste a una ridefinizione della funzione
del diritto che, all’interno della eticità, sembra avere una
supremazia sulla morale48.
Ambiente
Mentre nella nostra Costituzione non vi è cenno alcuno
all’ambiente (per ovvi motivi storici), nella Carta di Nizza, all’art.
37, espressamente si statuisce : “Tutela dell’ambiente. Un livello
elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità
devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti
conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Già la proposizione normativa “sviluppo sostenibile”
seguito al termine “principio”, costituisce di per sé, in ambito
semantico, un qualcosa di molto generico, di estremamente
confuso.
48
Concetto ambiguo che FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE nel suo Genealogia della morale, tratteggia in
modo impareggiabile! Facendo nascere la ricerca psicologica come matrice dei sentimenti che la
morale, da secoli, aveva ritenuto fossero comuni, negando una ipersoggettività che, stranamente,
rifonda l’uomo che può ritrovarli in una luce diversa, in un Ordinamento Superiore che vive in se
stesso.
33
E se affidassimo la traduzione di tanto a un elaboratore,
potrebbe venir fuori di tutto e il contrario di tutto, essendo tre
termini polisemici49 dalle combinazioni vastissime.
Per quel che concerne il termine “ambiente”, si può dire che,
molto semplicisticamente, è ciò che ci circonda, nel quale siamo
immersi, visibile e non (dalle montagne all’atmosfera, dalle coste
ai paesaggi in genere). Ambiente, insomma, è tutto quello che è al
di fuori di me, in ogni senso e nel quale sono presenti elementi
vitali appartenenti ai tre regni (animale, vegetale e minerale).
Due le concezioni a confronto: quella Riduzionista (che riduce,
appunto,tutto, ogni cosa, alle sue componenti elementari)50; quella
Olistica (che individua ogni cosa a livello della totalità)51. Sono due
modi di intendere l’essere (tomisticamente inteso) in modo diverso.
Per sgombrare subito il campo: aderisco alla concezione olistica che
comprende, al suo interno, la concezione dell’uomo integrato. Noi
apparteniamo tutti a UNA SOLA GEA, nella quale siamo immersi e
che esiste anche in noi stessi. Per dirla in parole ancora più schiette: è
la concezione del microcosmo/macrocosmo che è a monte di questa
49
E si potrebbero creare davvero degli equivoci interpretativi che lascio alla intelligenza e alla fantasia
del lettore.
50
Il LEVINO osserva come in ecologia il riduzionismo sia caratterizzato dal considerare ogni specie
come un elemento a sé stante, in un ambiente che consiste del mondo fisico e di altre specie.
51
A tale ultima teoria fa riferimento il concetto di ecosistema; l’altra parla di dinamiche ecologiche
proprie, singole che possono o no interagire tra loro. Rappresentante della prima teoria è A. G. TANSLEY
e R. LINDEMAN; per la seconda, ricordiamo SIMBERLOFF che critica la avversa teoria in quanto retaggio
del pensiero classico greco tendente a riconoscere ordine e somiglianza, di chiara marca platonica.
34
teoria.
Potrei
dire,
con
un
neologismo,
Completista
in
contrapposizione a Riduzionista. Perché è un completamento
progressivo che porta a una Unità ontologicamente intesa. E proprio
per questo è possibile applicarvi la teoria dei frattali. E tutto ciò ci
serve sia per definire esattamente cosa sia l’ambiente, sia per trovare
giuridiche vie di tutela52, sia, infine, per trovarne una giustificazione
etica alla sua salvaguardia.
Le due concezioni, su richiamate, appaiono configgenti sul
punto della responsabilità. La prima tenderebbe a ritrovare, in caso di
disastro ambientale, una mera responsabilità soggettiva, l’altra, per
converso, solo una responsabilità oggettiva per il solo fatto di
esistere, di co-esistere con l’ambiente nel quale siamo immersi. E tale
responsabilità avrebbe un valore etico; non solamente morale o
solamente giuridico.
E questo costituirebbe già un primo motivo per il quale non
sarebbe possibile un automatismo giuridico, una applicazione della
giustizia automatica “sic et simpliciter”!
Infatti, a mio parere, prima del concetto di ambiente occorre
spendere qualche parola su un qualcosa che costituisce un prius, non
52
Sul punto l’interessante riflessione di GIORGIA PAVANI , Concetto e ambito dei nuovi diritti, in
www.filodiritto.com/diritto/pubblico/costituzionale/nuovidiritti1.htm
35
solo logico, allo stesso e che è il termine Natura53, come Madre di
tutte le cose.
Si presenta, in forma semantica come una Mater-Ia: Una
“madre” che va verso l’infinito, a ricongiungersi con un Principio
primo dal quale Essa è scaturita, secondo il pensiero classico ed
esoterico. Ed è come la Giustizia (infra) che, in fondo è lo Jus - statia. E’ il movimento che , a mio parere, caratterizza e informa tutto! È
la vita stessa che ne è pervasa! La Natura pare abbia in sé la capacità
di auto difendersi da attacchi esterni. Un po’ come i nostri
53
“Dio, ossia la Natura, è punto di partenza e punto di arrivo, sia sul piano logico e della conoscenza,
sia su quello ontologico. La Natura, quindi, non può essere considerata una cosa statica: al suo
interno si esplica una attività. Ora, se consideriamo che tutte le cose sono in Dio (nella Natura),
l'azione della Natura non può svolgersi che su se stessa, provocando però uno sdoppiamento fra
soggetto (Natura naturans) e oggetto (Natura naturata). All'interno di questo processo dinamico della
Natura emerge con chiarezza il problema del rapporto fra libertà e necessit.”. B. SPINOZA, Etica, Parte
prima, Prop. XXIX
Proposizione XXIX
Nella Natura non vi è nulla di contingente, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della
divina Natura ad esistere e a operare.
Dimostrazione
Tutto ciò che è, è in Dio (per la Prop. 15): ma non si può dire che Dio sia una cosa contingente. Infatti
(per la Prop. 11), esiste necessariamente e non in modo contingente. Quindi i modi della natura divina
sono da essa stessa derivati in modo necessario e non contingente (per la Prop. 16), e ciò o in quanto
si consideri la natura divina in senso assoluto (per la Prop. 21), o in quanto la si consideri
determinata ad agire in un certo modo (per la Prop. 27). Inoltre Dio non solo è causa di questi modi
in quanto semplicemente esistono (per il Cor. della Prop. 24), ma anche in quanto si considerano
determinati a operare qualcosa (per la Prop. 26). Poiché se non sono determinati da Dio (per la
stessa Prop.) è impossibile, non già contingente, che si determinino da sé; viceversa (per la Prop. 27)
se sono determinati da Dio, è impossibile, non già contingente, che si rendano indeterminati da soli.
Perciò tutte le cose sono determinate dalla necessità della natura divina non solo ad esistere, ma
anche ad esistere e operare in un certo modo, e non vi è nulla di contingente. C.D.D.
Scolio
Prima di passare oltre voglio qui spiegare, o piuttosto far notare, che cosa dobbiamo intendere per
Natura naturans e per Natura naturata. Ritengo infatti che, da quanto precede, risulti che per Natura
naturans dobbiamo intendere ciò che è in sé e per sé è concepito, ossia quegli attributi della sostanza
che esprimono un'essenza eterna e infinita, cioè (per il Cor. I della Prop. 14 e il Cor. 2 della Prop. 17)
Dio, in quanto è considerato causa libera. Invece per Natura naturata intendo tutto ciò che deriva
dalla necessità della natura di Dio, o di ciascuno dei suoi attributi, in quanto considerati come cose
che sono in Dio e che non possono essere né esser concepite senza Dio”. (B. SPINOZA, Etica e Trattato
teologico-politico, UTET, Torino, 1988, pagg. 112-113)
36
anticorpi… Pensate al riscaldamento dell’atmosfera e alla vendetta
dello scioglimento dei ghiacciai, del mutamento del tempo, con
piogge torrenziali, o alla desertificazione o alla glaciazione. Ma è un
problema talmente lontano nel tempo e non siamo così transeunti! La
natura sembra quasi animata… da un desiderio di sopravvivenza. Un
comportamento eticamente corretto…che lascerebbe presupporre una
specie di volontà, quasi un ens. In realtà di tratta di fenomeni fisici tra
loro correlati quasi che la materia possegga una mente che diriga le
difese e gli attacchi da elementi esterni ma non estranei. L’uomo
appare come un virus, un bacillo e la TerraCorpo si difende
scatenando anticorpi ad hoc…!
Questo ci deve far riflettere per ritrovare il fondamento
dell’eticità ambientale54, che è alla base della soluzione etica di
qualunque questione, premessa maggiore effettiva, che non può
risiedere in un qualcosa di arazionale (pensate, per analogia agli
animali e alla loro protezione che la legislazione internazionale e
interna compie da diversi anni nella prospettiva di una impossibilità
degli stessi di difendersi55) dall’aggressione dell’uomo che diventa
una sorta di amministratore di sostegno per i soggetti (animali,
54
Il cosiddetto sviluppo sostenibile appare in un rapporto di equilibrio tra l’ambiente (tutti gli ambienti)
e l’uomo. L’uomo tutela l’ambiente e l’ambiente, simbolicamente, tutela l’uomo attraverso una
reciprocità effettiva, quasi scambio d’amorosi sensi.
55
E in caso di applicazione degli stessi un elaboratore come potrebbe “pensare” che un animale, una
cosa, sia oggetto di tutela di una norma? Escluderebbe, forse, a priori, un’applicabilità di una norma.
37
natura, ambiente, parchi, eccetera) deboli ma incapaci di auto
difendersi secondo i normali strumenti possibili e posti in essere in
una società. La teoria dei diritti-interessi (penso ad Attfield,a
Goodpaster ma anche a Regan56) pone il problema da un punto di
vista giuridico.
Ma da un punto di vista etico, la concezione olistica57, in antitesi
a quella atomista insita nelle etiche individualistiche, pone nel bonum
commune il fine in virtù di un tutto comprendente58 e finalizzato
all’Universale Unità. Tengo a precisare che determinate religioni
possono solo aggiungere un quid a quanto affermato, darne una
connotazione irrazionalsentimentale o fiabesca; ma in nucleo centrale
resta sacralmente pagano.
56
Se hanno diritti gli uomini, allora hanno diritti anche gli animali, cioè tutti gli esseri dotati di valori
intrinseci, cioè quegli esseri che, potendo avere una vita migliore o peggiore dal proprio punto di vista,
hanno interesse ad avere una vita qualitativamente migliore, più buona. Anche se non lo possono
manifestare con le parole ma, ad esempio, sempre secondo REGAN, con la sofferenza. Pensate alla
vivisezione o al degrado ambientale, all’inquinamento.
57
Sul punto, TEODORO BRESCIA, Mente, corpo, ambiente ed evoluzione: la visione olistica originaria, in
Una nuova etica per l’ambiente, (a cura di) COSIMO QUARTA, Ed. Dedalo, Bari, 2006, pp. 171 – 193.
Non si tratta solamente delle leggi del Tao applicate alla Natura e agli esseri, né del feng-shui (fong –
schuè), l’arte di arredare con perizia energetica casa, ambienti, camere, né della risonanza in noi del QI
o,ancora delle tecniche del Rei-Ki o l’ascolto della armonia delle stelle di pitagorica memoria!.
L’autore cita degli studi ed esperimenti interessantissimi condotti dal MASURU EMOTO, fisico e medico
giapponese (I Messaggi dell’Acqua, Padova, 2002, voll. 2) sulle relazione dell’acqua, sulla sua forma,
sui cristalli, eccetera. Dimostrando una unitarietà dell’ambiente, la memoria, la duttilità, la plasticità
insita nell’acqua e l’importanze di dover mantenere l’ambiente globale in uno stato di ottima
conservazione sopratutto perché noi siamo fatti al 75% di acqua!.
58
Mutuo una espressione di SERGIO COTTA (Il diritto nell’esistenza…, op. cit. pp. 152 e ss.) a proposito
della carità come forma integrativo coestistenziale includente tutti gli uomini, forma posta all’apice
delle altre forme coesistenziali.
38
La concezione olistica o completista lo giustifica senza ricorre a
platonismi di maniera, semplicemente invocando un elementare
principio di coerenza della struttura quasi che avesse una Mens che la
diriga. Ma sarebbe una personificazione, meglio: un antropomorfismo
che costituirebbe un falso modo di porre il problema anche in sede
filosofica o teologica, dove il personalismo ha prodotto danni… alla
ragione e ha inventato i sensi di colpa che, per converso, possono
spiegarsi solo con un intervento sulla comprensione psicologica delle
prime azioni…Nietzsche docet! Infatti non appare possibile applicare
i criteri antropomorfici di valutazione alla natura e allo stesso mondo
ecologico in quanto detti paramenti sembrano essere pertinenti a
un’etica intra-umana ma non appaiono adeguati all’ambiente, verso il
quale
sembrerebbe
che
i
principi
più
idonei
siano
quelli
dell’equilibrio, della stabilità, della varietà biologica e naturalistica.
Un principio di rispetto puro e semplice, inteso come equilibrioegalitarismo, quindi, sarebbe sbagliato.
Rispettando le cosiddette biodiversità59 è naturale che occorra
trovare una gerarchia di interessi-finalità da raggiungere. Ad
esempio si pensi al cibo, all’aria, all’ambiente per un uomo, una
pianta e un animale. Va privilegiato chi percorra dei fini
gerarchicamente superiori per la razionalità che lo contraddistingue
59
Il prefisso “bio”, oggi è usato e abusato. Si fa riferimento alla Conferenza Mondiale sull’Ambiente di
Rio de Janeiro del 1992 e alla sua Dichiarazione e che affrontò il tema dello sviluppo sostenibile, poi
ripreso dalla Carta di Nizza.
39
(l’uomo, quindi, che può “pensare” agli altri dopo averlo fatto per se
stesso); ma in armonia con quelli che sono gli altri esseri che lo
circondano e lo aiutano ad esistere. E questa è una chiave di lettura
dell’art. 37 della Carta di Nizza circa la definizione di ambiente
correlato a un principio dello sviluppo sostenibile. È l’armonia il fulcro
dello sviluppo sostenibile: armonia tra uomini e cose, tutti in una sola
natura naturata. Ma come tradurlo in termini algoritmici in un
elaboratore?
La pura difesa ad oltranza o ex se della natura, anche a scapito
dell’uomo, è puerile come l’idea che la natura, l’ambiente debba
essere asservito all’uomo per il solo fatto che sia uno zoòn politikòn60!
Né un soterismo di maniera, tipicamente ambientalista o
animalista, può ritenersi ammissibile in una qualsivoglia ottica se non
quella di un mors mea vita tua, tipica e giusta in una visione
martirologica, ma abbastanza inefficace in campi scientifici e
razionali.
Dobbiamo scivolare nella materialità di un equilibrio all’interno
della res extensa di cartesiana memoria che coabita con la res cogitans
esistente in modo immanente.
60
Punta estrema fu una sentenza americana del 1925 che statuì un principio (per fortuna, dopo,
revocato, ma in sintonia coi tempi) secondo la quale l’effusione degli odori e delle impurità dell’aria
prodotte da una raffineria era inevitabile in quanto doveva prevalere l’utilità economica a discapito di
chi vivesse intorno allo stabilimento.
40
Capire quale sia il fine migliore da perseguire per giustificare,
ovviamente, la tutela dell’ambiente. E, così attuare tutti i principi per
una esatta tutela dell’ambiente e dell’uomo.
È un superamento delle singole particolarità e non conta se siano
animate o non. L’olismo estende al macro ciò che è micro e viceversa. Il
suo fondamento è nel riconoscimento della propria appartenenza al
tutto ma restando delle individualità determinate. Più che al
panteismo, lo inquadrerei nel panenteismo.
Tutela dell’ambiente come interesse primario dell’uomo per
salvaguardare se stesso e i posteri. Una autotutela, in fondo,
giustificata per il solo fatto che l’ambiente serve all’uomo e l’uomo
serve all’ambiente. Un eco-sistema antropocentrico ma non egocentrico;
un sistema di vita che implichi ed integri ogni altro da sé (per dirla con
RICOEUR)61 ma che ammetta la fierezza del proprio essere esistente, la
voglia di vita e di affermarsi non sull’altro o contro l’altro, ma per sé
e per l’altro62.
61
Sul punto, MARIO MANFREDI, L’ambiente come oggetto di riconoscimento, in Una nuova etica per
l’ambiente, op. cit., a, pp. 51 – 69. “Conseguendo da una qualificazione assiologica, la responsabilità
connessa con il riconoscimento si costituisce come trascendente rispetto alla forma della responsabilità
naturale, fondata sull’inermità, sull’inettitudine e sulla vulnerabilità dei soggetti/oggetti considerati. Il
riconoscimento fonda la responsabilità sul principio per il quale l’uomo costituisce se stesso nelle cose
e costituisce le cose in se stesso. Verso l’identità e l’integrità di ciò che si è costituito si è responsabili,
così come il creatore si fa carico del destino delle sue creature. E nel mondo esterno l’uomo ritrova
sempre se stesso, in quanto esso è costituivo per lui, ed è da lui costituito mediante il suo «operare
formativo». Perciò la responsabilità verso la natura, l’ambiente, i beni culturali, è una responsabilità
dell’uomo verso se stesso”, p. 69.-
41
Al centro l’uomo, davvero Rex Mundi. Ma un re che faccia gli
interessi di tutti i sudditi e, quindi, anche il suo. Infatti è interesse
primario dell’uomo difendere e tutelare l’ambiente in quanto
eticamente congiunti.
L’etica dell’ambiente63 non può che essere subalterna solo a
un’etica umana improntata a difendere e perseguire i valori
universali della vita e della libertà. Due termini precisi come due
diritti umani ben precisi e non a caso individuati. Il principio della
vita e della libertà sono principi di lotta alla sopraffazione, allo
sterminio, alle ingiustizie, alle soppressioni. “Considerate la vostra
semenza/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e
canoscenza64”.
Non sarà possibile ricreare il Paradiso Terrestre della favola
biblica. Ma è certo che l’ambiente nel quale viviamo e vorremmo
62
“Perciò tu avrai capito la vita... non quando tu farai il tuo dovere in mezzo agli uomini, ma quando lo
farai nella solitudine. Non quando, pur raggiunta la notorietà, potrai avere una condotta esemplare agli
occhi degli uomini, ma quando l'avrai e nessuno lo saprà, neppure tu stesso. Non quando tu farai il
bene e ne vedrai gli effetti, ma quando lo farai e non ti interesserà avere gratitudine, né conoscere
l'esito del tuo operato. Non quando tu potrai aiutare efficacemente e disinteressatamente, ma quando
aiuterai pur sapendo che il tuo aiuto a nessuno serve, neppure a te stesso. Non quando tu ti sentirai
responsabile di tutto ciò che fanno i tuoi simili, ma quando conserverai intatto il senso della tua
responsabilità, pur sapendo d'essere l'unico uomo al mondo. Non quando tu avrai compreso che tutti gli
esseri hanno gli stessi tuoi diritti, ma quando tratterai l'essere più umile della terra come se fosse Colui
che ha nelle Sue mani le tue sorti. Non quando tu amerai i tuoi simili, ma quando tu stesso sarai i tuoi
simili e l'amore." TOMMASO DA KEMPIS, De imitazione Christi.63
Non va dimenticata la Carta della Terra (una risoluzione dell’UNESCO del 2003) che “punta ad
identificare obiettivi comuni e valori condivisi che trascendano i confini culturali, religiosi e nazionali,
nella consapevolezza dell’interdipendenza globale”; sul punto, anche con la elencazione dei 16
Principi etici fondamentali, PAOLO COLUCCIA, Dalla distopia ipertelica all’etica conviviale: verso nuovi
fattori di ricchezza, in Una nuova etica per l’ambiente, op. cit., pp. 240 e ss. .64
DANTE ALIGHIERI , La Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI.
42
vivere deve essere il migliore dei modi possibili di vivere al meglio. E
il diritto (il giurista) deve impegnarsi a tutelarlo nel senso sopra
indicato.
Insomma
l’etica
dell’ambiente
è
un’etica
riconducibile
all’uomo, ma non perché questi ne sia il padrone, ma in quanto ne è il
semplice custode etico della natura sulla quale, per la sua razionalità
intrinseca, è destinato a (biblicamente) comandare, ne ha kantianamente
un dovere di difenderla e tutelarla65 in un’ottica di sapiente
armonizzazione del tutto nel tutto, di naturale superiorità, di
responsabilità presente e futura.
Ecco perché l’etica dell’ambiente si fonda sempre sull’uomo che
riconosce (perché già lo conosceva), in ciò che lo circonda, un bene
primario per la sua esistenza (e non già per la sua mera
sopravvivenza, per il principio della sacralità della vita fondata sul
valore intrinseco che ognuno di noi ha per il solo fatto di vivereesistere) e vi ritrova, in nuce, tutti i principi e i diritti fondamentali (o
umani) che ha, proprio, per natura. E l’alterum non laedere, come
estensione del nosce te ipsum, applicato a ciò che lo circonda in ogni
senso: cose, territorio, mari, aria, ambiente, piante, animali e persone.
65
“Verrà un giorno in cui il resto della creazione animale acquisterà quei diritti che non
avrebbero potuti essere tolti se non da mano tiranna”, scriveva BENTHAM nel 1798 nel suo
Introduction to the Principles of Morals and Legislation.
43
Come nota giustamente la Tallacchini66, “Il rapporto tra il
mondo degli oggetti naturali e il mondo degli oggetti giuridici è
mediato, attraverso il linguaggio,da rappresentazioni della realtà che
consistono nella elaborazione di forme mentali. Tale questione attiene
in senso lato all’ontologia del diritto, più precisamente al rapporto tra
rappresentazioni cognitive di stati di cose e configurazione giuridica
dei medesimi. Benché l’ontologia degli oggetti naturali sia diversa
dalla ontologia degli oggetti giuridici, il linguaggio giuridico muove
da assunzioni precise relative alla struttura generale delle entità su
cui interviene. Il diritto parte dalle cose, per elaborare «regole
giuridiche il cui fondamento sarà tanto più solido quanto meno esse
conterranno di artificiale e arbitrario» (F. GÉNY, Science et tecnique en
droit privé positivif, I, Recueil Sirey, Paris, 1925, p. 97); e alle cose
ritorna, veicolando la concezione di esse precedentemente introiettata
e contribuendo così a incidere sulla realtà”.L’ambiente
è
qualcosa
che
il
diritto
tutela,
protegge
finalizzando, però, tale sua funzione, sia verso il territorio stesso che
verso l’uomo. In buona sostanza: sono norme che tutelano la natura
al solo fine di consentire una esistenza migliore all’uomo stesso.
Si pensi al concetto di impatto ambientale o di disastro ambientale.
66
MARIACHIARA TALLACCHINI , Diritto per la natura. Ecologia e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino,
1996, pp. 284 – 285. ma tutto il testo è importante e illuminante ai fini della conoscenza del rapporto
uomo-natura, diritto-natura.
44
Difficilmente, a prescindere dal tecnicismo delle norme, un
elaboratore consentirebbe una adeguata sussunzione in tale concetto
di vicende che sono ai limiti della tollerabilità (che è pur vero viene
matematicamente definita, ma è lasciata discrezionalità all’interprete
farvi ricadere un caso oppure no).
Mi sto riferendo, ovviamente, a tutti quei casi di tutela
dell’ambiente in senso stretto e non alle questioni derivate, come ad
esempio il risarcimento di danni esistenziali che potrebbero essere
vantati da un soggetto che abbia subito un trauma a cagione di una
violazione di norme ambientalistiche. Si pensi allo stare a contatto
con immissioni dannose o pericolose, il trauma di aver convissuto
con l’amianto e notare una ditta che procede al suo smantellamento
non adoperando le dovute misure di sicurezza.
A volte la estrema specificità dei casi può far trovare
l’interprete di fronte a situazioni imprevedibili cui neanche il
supporto di precedenti (pur raccolti in una banca dati) può essergli di
aiuto.
Ha un dato dinanzi a sé e deve ritrovare la norma adeguata.
Ecco perché ho più volte accennato a una previsione, diciamo
così, di massima, insita nei principi, in direttive, piuttosto che in
singole norme.
45
In Italia si applica il Testo Unico sull’Ambiente del 14 Aprile
2006 (decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante “Norme in
materia ambientale”, in G.U. n. 88 del 14/04/2006) nonché ad altre
leggi speciali in tema di trattamento di rifiuti. È notizia recentissima
(24 aprile 2007) che si stiano per introdurre, nel nostro Codice Penale,
norme specifiche attraverso il TITOLO VI
BIS:
Dei delitti contro
l’ambiente67.
Non è questa la sede opportuna, ma sembrava doveroso
considerare anche l’aspetto penalistico che, come ricordato, ha una
applicazione del sillogismo giuridico abbastanza diversa e, inoltre,
non consente il ricorso alla analogia né ai principi per i noti broccardi:
Nullum crimen sine poena; nulla poena sine lege. E poi la possibilità di
introdurre scriminanti, ovvero diversi gradi di colpevolezza lascia
fuor di luogo un riferimento alla scienza penalistica. Si pensi a un
reato effettivamente compiuto, ma per il quale occorresse il dolo
specifico (come, ad esempio, per i crimini informatici), ma sia stato
commesso con colpa o anche con dolo, ma genericamente proteso.
Ebbene, nonostante la completezza del fatto, l’elemento psicologico
del reato farebbe venir meno la colpevolezza del soggetto in
questione. E questo un elaboratore non può “comprenderlo”.
67
Sul punto, ADELMO MANNA e VITO PLANTAMURA, Una svolta epocale per il diritto penale italiano?, in
Diritto Penale e Processo, n.(/2007, pp. 1075 e ss. .-Ancora: VITO PLANTAMURA, Diritto penale e tutela
dell’ambiente, Cacucci, Bari, 2007 e la bibliografia ivi riportata.
46
La decisione
È con un provvedimento che termina un procedimento o un
giudizio68. Sono le conclusioni del procedimento logico che ha
portato l’interprete a decidere, ad individuare la norma da
applicare al caso concreto.
Come ogni atto giuridico, anche il provvedimento finale non
è inquadrabile in una sola tipologia. E, ovviamente, la scienza
giuridica informatica si è sempre occupata dell’aspetto decisionistico
che, a volte limitava a suggerire la migliore raccolta di dati
giudiziari (le banche di dati, raccolta di giurisprudenza, dottrina,
leggi69, a volte si proiettava verso possibilità di sostituzione del
giudice con la macchina70.
E qui è il tema centrale del presente lavoro.
Orbene, si possono individuare due tipi di sentenze o
provvedimenti aventi carattere accertativo e sanzionatorio:
 quelle che seguono a procedimenti (processi) semplici;
 quelle che seguono a procedimenti (processi) complessi.
68
Le due parole apparentemente sono sinonimi ma hanno una valenza tutta propria in relazione alla
indagine che si sta compiendo. Un giudizio ha, come provvedimento finale, generalmente, un atto (di
diversa natura) che è una sentenza; ed è, per sua natura, eminentemente un procedimento complesso.
Altri modi di definire, sia della Autorità giudiziaria che Amministrativa, invece, terminano l’iter
istruttorio sul fatto o sul caso, con un altro tipo di provvedimento e, questi sono,prevalentemente,
procedimenti semplici.
47
La
differenza,
quanto
all’utilizzo
di
una
giustizia
automatizzata, è e potrebbe essere differente.
Procedimenti giudiziari semplici, nel nostro ordinamento, ve
ne sono; come nel caso di un giudizio di divisione o di
attribuzione degli alimenti o di omologazione di una separazione
consensuale. In questo caso, il sillogismo giuridico si sussume in
poche e semplici norme e, imputando i dati in modo corretto, si
può avere un provvedimento avente valore, validità ed efficacia
piena. Si pensi, ancora, alla sanzione comminata a seguito di un
accertamento della Polizia Stradale che utilizza un Autovelox: qui
la sanzione arriva a casa del violatore della norma al Codice della
Strada e non gli resta che pagare (a meno che, ritenendo vi sia un
difetto nell’apparecchiatura che rileva il dato, la premessa minore,
insomma, non impugni il provvedimento. Ne segue un giudizio di
69
Sul finire degli anni ‘80, quando si cominciarono ad introdurre i primi sistemi informatici nel mondo
dei giuristi, tutti ricorderanno che la raccolta delle leggi aveva una migliore facilità di lettura e gestione
nel supporto cartaceo. Infatti non si era ancora riusciti “ad aggiornare” le leggi stesse, che venivano
vendute sui primi CD. Sicché, in un Paese come l’Italia, dove in quel periodo tra decreti legge e
leggine varie, vi erano già in vigore oltre due milioni di norme e molte leggi erano soggette a continue
modifiche (per tutte: quelle in tema di locazione, proroga degli sfratti e reati edilizi – non per altro
intervenne la Corte Costituzionale con la nota sentenza del 24 marzo 1988, n. 364, redatta dal
giudice Renato Dell’Andro, che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 5 del Codice Penale
(“Ignoranza della legge penale”) «parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della
legge penale, l’ignoranza inevitabile», intendendosi, con tale espressione, che il cittadino deve essere
messo nelle condizioni di conoscere correttamente una disposizione di legge, imputandone, altrimenti,
la sua ignoranza, alla farraginosità o eccessiva sequenza di norme sul tema, in un tempo assai ristretto,
tale da non poter conoscere compiutamente la normativa in parola. E l’imputato del procedimento
penale che dette origine al caso di un magistrato!) le “integrazioni legislative” (a volte consisti in un
segno di interpunzione, una congiunzione o una sola parola!) erano “a seguire” del testo originale, a
volte di qualche decennio prima! Riusciva più semplice, quindi, prendere i vari testi scritti e
collazionarli in proprio. Poi, molti anni dopo, sono sorti programmi di auto aggiornamento e tutto si è
risolto, con buona pace della pazienza dei giuristi stessi! Ma si pensi a cosa sarebbe accaduto a quel
tempo con l’utilizzo di un elaboratore per la redazione di una sentenza senza che si potesse,la
medesima macchina, aggiornare!
48
accertamento sull’effettivo funzionamento dello strumento che
costituisce la prova del dato. Ma se termina con un esito negativo,
l’automatizzazione del provvedimento accertativo e sanzionatorio
appare perfetto). Alla base, si sa, vi è un sistema esperto dove vi è
una sequenza intelligente, ragionata, spiegata di documenti.
70
“Nell’intelligenza artificiale applicata al diritto, il concetto di diritto, come insieme di decisioni
individuali, ha rappresentato la principale alternativa al modello normativistico dei sistemi di regole. Il
fondamento teorico-giuridico del modello decisionistico, adottato nella maggior parte dei sistemi pur
basati sui casi - sistemi sviluppati quasi esclusivamente in ambito statunitense – può essere
individuato, come affermano gli autori di tali sistemi, nel realismo giuridico americano, inteso in senso
ampio, cioè nel pensiero di autori come HOLMES, POUND, CARDOZO, LLEWELLYN , FRANK, ecc. (TARELLO ,
1962, CASTIGLIONE, 1981). Questa corrente del pensiero teorico-giuridico, come è noto, tendeva a
svalutare i concetti astratti e ad enfatizzare il momento della decisione giudiziale, assegnando alla
scienza giuridica il compito principale di prevedere le sentenze dei giudici sulla base di decisioni
precedenti. La base di conoscenza dei sistemi decisionistici,…, contiene un insieme di casi, cioè di
situazioni problematiche risolte mediante decisioni giuridiche concrete (principalmente sentenze
giudiziali). La soluzione del nuovo caso viene trovata ricercando i casi simili, mediante metodi di
ragionamento analogico, e estendendo al nuovo caso la soluzione già adottata nei precedenti rilevati. In
tali sistemi, pertanto, la conoscenza giuridica è composta di asserzioni concrete: spetta al ragionamento
giuridico (tradotto in modello computazionale) trarre, da tali asserzioni, le analogie che consentano di
risolvere i casi nuovi, I modelli decisionistici, nelle forme in cui sono stati finora impiegati
nell’intelligenza artificiale, tendono quindi a favorire l’aderenza alla pratica del diritto e l’adattamento
dinamico all’evoluzione di questa, ma al prezzo di una limitata considerazione degli argomenti che
giustificano le stesse decisioni giuridiche richiamate. Difatti, il ragionamento basato sui casi non
richiede un modello approfondito dell’ambito in cui opera. Esso può, cioè, proporre soluzioni
giuridiche sulla base di analogie con casi precedenti, pur senza adottare costruzioni giuridiche
sofisticate (senza dover ricondurre tali soluzioni a regole, principi, o strutture concettuali) (il
grassetto è mio). HYPO, ad esempio, fonda una nuova soluzione giuridica sulle precedenti decisioni di
casi simili, individuati mediante un insieme di fattori isolati (le dimensioni) cui attribuisce la capacità
di influire sulle decisioni giuridiche. La mancanza di una costruzione giuridica complessa…..limita la
loro capacità di giustificare le conclusioni giuridiche proposte, così come la loro abilità di cogliere gli
aspetti rilevanti delle situazioni in esame e lo specifico rilievo giuridico di ciascuno di tali aspetti…
Questa scarsa « profondità »delle teorie (dottrine) giuridiche rappresentate sulla base di conoscenza dei
sistemi per il case-based reasoning corrisponde, d’altro lato, ala tesi - sostenuta da alcuni autori di
indirizzo realistico – secondo la quale la motivazione di una decisione giuridica con riferimento a
norme e nozioni astratte non esprimerebbe la « causa efficiente » della decisione, ma sarebbe una
razionalizzazione successiva, poco influente sul contenuto della decisione stessa (LLEWELLYN , 1931,
1968, 33 s.). Recentemente, tuttavia, si sono elaborate rappresentazioni più complesse dei precedenti
giudiziari, nelle quali la distinzione tra casi concreti e regole generali si attenua (le regole adottate per
risolvere un caso vengono, in un certo senso, incorporate in quel caso). Così BRANTING (1991, 1993 a)
inserisce nella rappresentazione del caso anche il ragionamento che ha condotto il giudice alla
soluzione del caso stesso, e si avvicina, così, al già ricordato modello « normativistico » dei precedenti
proposti da BENCH-CAPON e SERGOT (1985). BERMAN e HAFNER suggeriscono, invece, di considerare il
contesto giudiziale nel quale si fa ricorso ai precedenti (BERMAN e HAFNER, 1991), e i profili teleologici
(BERMAN e HAFNER, 1993).”, G. SARTOR, Intelligenza artificiale e diritto…, op. cit., pp 64 – 66.
49
In casi del genere, a mio parere, è possibile utilizzare un
elaboratore in alternativa alla attività amministrativa e giudiziaria.
L’Autore dovrebbe solo certificare la regolarità della operazione
con una sottoscrizione (ora anche con firma digitale).
Non così, ancora, in una ipotesi di ricorso per decreto
ingiuntivo, laddove occorre che il Giudici valuti se il credito
vantato abbia o meno i caratteri della certezza, liquidità ed
esigibilità.
In
definitiva:
anche
nei
casi
di
procedimenti
(apparentemente) semplici non appare possibile introdurre un
automatismo giuridico (allo stato dell’arte…) ogni qual volta il
giudice debba compiere una valutazione (che comporti una sussunzione)
discrezionale fondata su una ermeneutica valutativa, appunto, che non
possa essere dedotta, nemmeno con un sofisticato algoritmo, da
un elaboratore. Infatti l’interprete, nel compiere la sua opera, si
ispira a diverse combinazioni ed usa, per individuare la norma da
applicare
al
fatto
sottopostogli,
ora
una
automaticità
di
reperimento della fonte normativa71, ma qualche altra volta un suo
71
“ Il procedimento attraverso cui si crea la base di conoscenza (del giurista, sc.) si chiama
rappresentazione della conoscenza e si articola attraverso più fasi: - livello epistemologico: si
individuano i tipi di conoscenza (fonti del diritto) che coprono l’ambito di conoscenza che si vuole
rappresentare, quali, ad esempio, gli articoli del codice, le leggi collegate, la giurisprudenza, i manuali,
la dottrina; - livello logico: si definisce un modo di rappresentazione adatto ad ogni tipo di fonte
(formalismi di rappresentazione); livello d’implementazione: la conoscenza si traduce in un linguaggio
computabile. Relativamente alla prima fase, occorre notare che, a causa della complessità e della
trasversalità del sistema normativo, non è possibile avere la certezza di avere individuato tutte le norme
necessarie a coprire il dominio prescelto. Basti pensare alle norme intruse, come le norme di natura
fiscale, ambientale e in tema di responsabilità e sicurezza, che si trovano sparse in ambiti normativi fra
i più diversi”, DANIELA TISCORNIA , Intelligenza artificiale e diritto, op. cit. , p. 125.-
50
senso della giustizia, una opportunità, una discrezionalità, una
ragionevolezza che si sottraggono al mero automatismo72.
Notava Ugo Spirito73 “L’uomo costruisce la macchina per
affidare ad essa una serie di compiti che egli da solo non potrebbe
assolvere o potrebbe assolvere soltanto con grande fatica e con
troppo lungo tempo. La macchina diventa sempre più complessa e
perfezionata, sì da compiere funzioni sempre più complicate e
delicate. Tali funzioni acquistano a poco a poco i caratteri di vere e
72
“Non è (ancora) pensabile un elaboratore elettronico che, allo stesso modo del giurista, consulti la
sua materia ordinativa secondo le varie coordinate e diverse combinazioni, in base ora alla giustizia ed
ora all’opportunità), AGATA C. AMATO MANGIAMELI , Diritto e Cyberspace.., op. cit. pag. 185. Sembra
contra R. BURRUSO, Civiltà del computer, Milano 1978, ora in Computer e Diritto, I, Analisi giuridica
del computer,Milano, 1988, p. 406) quando afferma. “…un computer unitario di macchine diverse per
funzione, dotato di straordinaria capacità di memorizzare qualsiasi tipo di dato (sia esso numero,
parola, immagine, suono, colore o qualsiasi altro segno convenzionale) e, quindi, di incorporare il
pensiero, passato o presente, con esso espresso, d’instancabile capacità di osservare a velocità
vertiginosa calcoli, confronti, ricerche e altre elaborazioni di vario tipo secondo l’algoritmo posto a
base del programma, in grado di comunicare - trasmettendo e ricevendo – con tanti utenti diversi,
ognuno singolarmente trattato, anche se sparsi nelle più lontane parti del mondo, complesso unitario
cui l’uomo, proiettando nel futuro la sua volontà e le sue scelte, può dare tutt0insieme, attraverso un
programma, una grandissima quantità di ordini (o istruzioni che dir si vogliano) – (anche molte
migliaia) – mediati nel tempo, integrabili tra loro e condizionati, cioè subordinati ad eventi futuri e
incerti che è lasciato al computer stesso accertare, ordini che possono diventare, così, veri e propri
criteri di giudizio e di comportamento, fino al punto da renderlo autosufficiente nell’espletamento di
attività di vario genere, semplicemente informative o anche decisionali, interagenti con realtà
dinamiche o comunque complesse che, per dimensioni e quantità di variabili, fuoriescono dalla
possibilità di un controllo diretto umano e, quindi, fino al punto di farlo diventare una vera e propria
intelligenza c.d. “artificiale” operativamente superiore talvolta alle stesse facoltà dell’uomo che l’ha
creata”. In verità dissento per una serie di ragioni tra le quali la circostanza che una cosa è la rapidità
di trovare un dato, altra quella di individuare una soluzione. E sul punto, storicamente, Come non
ricordare gli automi nel diritto privato dei quali parlava oltre un secolo fa il Cicu (CICU, Gli automi nel
diritto privato, in Scritti minori, II, Milano, 1965, p. 315)? Le prime macchine nelle quali, gettando
una monetina (iactus pecuniae) si aveva l’oggetto contenuto nell’automa, ritrovandovi una realità nel
contratto.
73
UGO SPIRITO, Cibernetica e Biologia, in L’uomo e la macchina, Atti del XXI Congresso Nazionale di
Filosofia, Pisa 22 – 25 Aprile 1967, Edizioni di Filosofia, Torino, 1967, p. 66.
In sintonia, pur se da un differente punto storico di osservazione, A. BARR, E, FEIGENBAUM , Handbook of
Artificial Intelligence, Kaufman, 1981. Secondo gli Autori, un sistema esperto è un programma
elettronico che utilizza le procedura di cono scienza e d’inferenza per risolvere problemi tanto difficili
da richiedere, per la loro soluzione, una notevole esperienza umana. Sui “sistemi esperti”, infra.-
51
proprie funzioni intellettuali come quelle che caratterizzano le
macchine calcolatrici o traduttrici. Nasce a questo punto il
concetto di macchina pensante e nasce il problema dei limiti entro i
quali si può attendere da essa una capacità sostitutiva e integrativa
di quella dell’uomo. Nasce anche, soprattutto, il problema
dell’autonomia che può raggiungere una macchina pensante, il
robot, la macchina-uomo. Potremo mai costruire una macchina
capace di volere, di riprodursi e – per dirla con Calogero – di
soffrire? Potremo mai costruire – per dirla con Ceccato – un nuovo
Adamo?”.
Ovviamente mentre alcune riflessioni sono profondissime,
alcune considerazioni patiscono dei limiti di conoscenza e di
efficienza che avevano a quel tempo (1966) i calcolatori (prima di
evolversi in elaboratori e poi intelligenze artificiali).
3) – Dopo queste premesse, occorre occuparsi della valenza
del sillogismo giuridico in tema di diritti fondamentali ed
ambiente.
52
La intrinseca polisemia degli enunciati legislativi74 e la
distinzione tra disposizione e norma è un primo momento di
scuotimento del “pilastro della teoria sillogistica secondo il quale
ogni testo normativo ammette un solo vero significato, rispetto al
quale ogni risultato interpretativo sarebbe falso, errato”75.
Il Pugiotto76 giustamente sostiene che il linguaggio giuridico
sia “tecnico ed iniziatico”. Infatti, ciò che comunemente va sotto la
denominazione
di
“politicizzazione77
della
interpretazione”,
74
Sul web semantico, si veda DANIELA TISCORNIA , Intelligenza artificiale e diritto, op. cit., in particolare
pp. 142 – 144. e, soprattutto, Paola Mariani, Informatica e lingua del diritto, in in AA.VV. ,
Lineamenti di Informatica Giuridica. Teoria, metodi e applicazioni, a cura di ROBERTA NANNUCCI, ESI,
Napoli, 2002, pp. 453 – 478 che, tra l’altro, riporta il famoso studio di Padre ROBERTO BUSA sull’Index
Thomisticus (dal 1949!!!, ora in ROBERTO BUSA, L’informatica linguistica e il testo `sconosciuto´, in M.
RICCIARDI (a cura di), Lingua letteratura Computer, Torino, 1996) che su punto tenne una conferenza a
Bari nel 1968, che ebbi la fortuna e il privilegio, giovanissimo, di seguire, confermando che le
difficoltà incontrate, ad esempio, sulla lemmatizzazione, permangono.
75
A. PUGIOTTO, Come Non si interpreta il diritto…, op. cit., pp. 3 e sgg. .- E, poco oltre : “La polisemia
dell’enunciato legislativo è, oggi, un dato acquisito nella scienza giuridica. Esso trova esplicazione
nella distinzione, concettuale e terminologica, tra disposizione e norma. Malgrado infatti nell’uso
corrente si parli, indifferentemente, di norma, testo, disposizione, enunciato normativo, formulazione
legislativa etc., il giurista avvertito si serve di una specifica terminologia, secondo la quale:
a) disposizione è ogni enunciato appartenente ad una fonte del diritto. Essa, dunque, sta ad indicare la
formulazione scritta del comando legislativo;
b) norma è il significato ricavato per via ermeneutica dall’enunciato legislativo. Essa, dunque, sta ad
indicare la disposizione interpretata.
In questo senso, la disposizione è l’oggetto dell’attività interpretativa, mentre la norma ne rappresenta
il risultato. Detto altrimenti, l’interpretazione giuridica è un’attività che vale a trasformare le
disposizioni in norme. La distinzione terminologica, oltre che favorire una migliore chiarezza
concettuale, si impone proprio perché tra disposizione e norma – di regola – non si dà una
corrispondenza biunivoca. Per esemplificare: si possono dare disposizioni complesse (esprimenti cioè
una molteplicità di norme congiunte: ad esempio, l’art. 25, comma 2, Costituzione), disposizioni
ambigue (esprimenti cioè più norme tra loro alternative e confliggenti: ad esempio, l’art. 59, comma 2,
Costituzione), norme senza disposizione (in quanto ricavabili dal combinato disposto di più
disposizioni, ovvero per analogia ovvero perché aventi natura consuetudinaria)”, p. 4.76
A. PUGIOTTO, op. ult. cit., p. 4
77
Il termine ha una matrice semantica ben precisa: polis deriva da polùs e ha una valenza universale.
La molteplicità delle interpretazioni a cagione e a ragione della molteplicità dei soggetti che vi
operano. La politeìa appare come una sorta di miglior modo di sussumere il concetto; solamente che
oggi appare essere scivolata, la sua reale matrice interpretativa, in un linguaggio assolutamente
“volgare” che ha tradito l’origine e specula solo su di un soggettivismo inutile.
53
conferma tale asserzione. La possibilità concessa all’interprete di
poter spaziare entro confini ben precisi ma che abbiano, come solo
punto di riferimento, non già e solo la legge o l’ordinamento
giuridico in genere78, quanto la sua coscienza di giurista. E ciò non
deve apparire come un modo strano di far rientrare il diritto
naturale da una porta dalla quale il formalismo giuridico l’aveva
espulso. No. Ma in considerazione di quanto si è detto, e di quanto
si enucleerà in seguito, sembra essere il solo modo per
riappropriarsi
di
una
attività
umana
propria,
qual
è
la
interpretazione, che, proprio perché tale, trascende i limiti della
finitezza (umana) e si colloca in un ambito specifico che è la
universalizzazione e non già la generalizzazione di una teoria
generale e transeunte perché soggetta alla mutevolezza dei suoi
fondamenti79.
In verità più che di sillogismo giuridico80, si parla, a volte, di
circolo ermeneutico nel senso che, per meglio realizzare la
sussunzione, si procede “per approssimazioni successive, per
78
Sulla interpretazione in genere e, in particolare su quella di cui all’art. 12 delle Preleggi e a quella
sistematica e storica, cfr. A. PUGIOTTO, op. cit., pp. 5 – 8.
79
Su l’automazione di ragionamento e procedimenti giuridici, lo schema (possibile…) di automazione
e la normalizzazione (“Che consiste in un processo sistematico per passare da un testo giuridico in
lingiaggio naturale ad una rappresentazione formale dello stesso”), si veda GIANFRANCO CARIDI,
Metodologia e tecniche dell’informatica giuridica, op. cit., soprattutto pp. 88 e ss. L’Autore ritiene
possibile un automatismo nel futuro. Infatti il testo è datato ed è il frutto di ricerche passate che hanno
dato i fondamenti alla attuale informatica giuridica (intesa come estensione del discorso logicoargomentativo all’elaboratore), ma esauriente per gli argomenti trattati.
54
progressive conclusioni, per continui aggiustamenti su entrambi i
poli della attività interpretativa”81.
Ma non è la sola e unica possibilità, visto che il tema
dell’ermeneutica juris resta e resterà sempre aperto.
Si pensi alla normalizzazione di Allen82 che fu pensata come
metodo per migliorare la comprensione dei testi di legge, “ma
segnò anche l’inizio della applicazione delle tecniche formali e
computazionale al diritto, poiché la deduzione logica si presta
molto bene a riprodurre il modo di ragionare dei giuristi. Se si
volesse descrivere in termini logici le operazioni che il giurista
Sul punto (ed in particolare sul metodo di normalizzazione (infra) già proposto da Allen (L.E. ALLEN,
Una guida per i redattori giuridici di testi normalizzati, in Informatica e Diritto, 1978, 2), laddove ai
connettivi sintattici si sostituiscono i connettivi logici (al fine di tentare di superare l’imprecisione,
l’incertezza, l’incompletezza, l’indeterminatezza e l’ambiguità semantica e linguistica del discorso
normativo giuridico, introducendo il “se… allora” (richiamato dal CARIDI) ma anche e, o, non, a meno
che, altrimenti) “… che consentono una interpretazione non ambigua: gli enunciati compresi fra se…
allora sono le condizioni; l’enunciato che segue allora è la conseguenza; le condizioni unite da e
(congiunzione) devono verificarsi tutte perché si produca la conseguenza; le condizioni unite da o
(disgiunzione) sono in alternativa; la condizione introdotta da a meno che equivale a e non, la
conclusione introdotta da altrimenti equivale ad allora non.”, DANIELA TISCORNIA , Intelligenza
artificiale e diritto, op. cit., p. 127.80
Contro tale modello, a livello descrittivo, si è sostenuto che “il processo di applicazione giudiziale
del diritto non può essere descritto mediante il sillogismo giuridico, perché la decisione non è presa
attraverso un ragionamento ma è frutto di una valutazione; un ragionamento che giustifichi una
decisione può solo essere una realizzazione ex post”. La tesi descrittivo-prescrittiva, poi, afferma che
“l’applicazione del diritto non consiste in un ragionamento sillogistico, ed i giudici, anche se ex lege
devono applicare il diritto, sono de facto organi che creano norme”. Infine, l’ideologia della cosiddetta
applicazione giudiziale del diritto, sostiene che l’applicazione “non dovrebbe seguire il sillogismo
giuridico, poiché la decisione giudiziale deve essere basata su valutazioni tendenti, nella soluzione di
un caso concreto, ad adeguare in modo ottimale il diritto alle necessità della vita” (J. WRÒBLEWSKI, Il
sillogismo giuridico e la razionalità della decisione giudiziale, in P. COMANDUCCI – R. GUASTINI (a cura
di), L’analisi del ragionamento giuridico, Torino, 1987, pp. 277 e ss. .- Qui, a base del rifiuto (o,
meglio, della non mera accettazione) del sillogismo giuridico come unico metodo di applicazione della
norma al fatto, è posta una ideologia, molto in voga negli anni ’80 e ’90, quella della ideologizzazione
del diritto e dei giuristi. Ovvio che ha sortito anch’essa l’effetto di minare la applicabilità unica del
sillogismo giuridico per la soluzione di un caso.
81
A. PUGIOTTO, op. ult. cit., p. 10.
82
Vedi nota 73.-
55
compie per applicare il diritto, si direbbe che esso usa il metodo
sillogistico, cioè individua la norma da applicare, qualifica la
fattispecie concreta del caso in base a quella astratta della norma,
applica la norma deducendo la conseguenza…. Spesso la
descrizione dei fatti e la fattispecie normativa non coincidono,
poiché la formulazione della norma è astratta e generale, per cui
occorre un’operazione intermedia, detta sussunzione, che consente
di riportare la descrizione dei fatti reali a qualificazioni
giuridiche…; è evidente che sarebbe illusorio, e pericoloso,
pensare di automatizzare quest’ultimo aspetto, che comporta
operazioni interpretative e valutative proprie della mente
umana83”.
Ancora.
Nelle
applicazioni
giuridiche
i
sistemi
basati
sulla
conoscenza, notoriamente, possono essere classificati in:
83
DANIELA TISCORNIA, op. ult. cit., pp. 127 – 128. L’A. prosegue la sua analisi sui formalismi procedurali
e afferma: “ La rappresentazione della conoscenza a regole viene usata per sviluppare sistemi di
consulenza, i cosiddetti `sistemi esperti´, che rispondono a domande su situazioni specifiche. I sistemi
esperti giuridici vengono costruiti su settori normativi limitati e con ridotti spazi interpretativi, ove è
possibile descrivere la conoscenza utilizzando regole concatenate a formare i cosiddetti alberi
decisionali….Sui sistemi a regole (Rule-based Decision Support System) si possono fare alcune
considerazioni. In primo luogo, la rappresentazione a regole presuppone un modello di tipo kelseniano,
cioè una visione del sistema giuridico sistematizzato e gerarchizzato: tale modello, adattabile alla
struttura delle norme di fonte legislativa (o comunque scritta) risulta del tutto inadeguato a descrivere
le fonti del diritto di tipo giurisprudenziale, proprie dei sistemi di Common Law…Un altro limite della
rappresentazione a regole riguarda il tipo di conoscenza: negli esempi abbiamo rappresentato
conoscenza giuridica (tratta dalle norme…), ma non conoscenza di senso comune...Un terzo limite
all’efficacia dei sistemi esperti è di tipo logico: ove il sistema non riesca a concludere i passaggi
inferenziali verificando la sussistenza delle condizioni, risponderà che la conclusione è negativa… In
realtà il diritto utilizza una simile accezione di verità relativa, da cui dedurre conclusioni invalidabili:
la verità dei fatti si basa sull’accertamento ed il convincimento del giudice e le decisioni possono
essere invalidate fino ad un certo numero di gradi.”, DANIELA TISCORNIA, op. ult. cit., pp. 128 – 130.
56
•
sistemi di aiuto sulla decisione ( sistemi esperti giuridici);
•
sistemi basati sui casi;
•
sistemi di reperimento concettuale o intelligente (per una
migliore ricerca di documenti in banche dati giuridiche);
•
sistemi di aiuto (per la redazione di documenti giuridici o
paragiuridici).
Come detto, i sistemi esperti incontrano una difficoltà non
secondaria: per un loro corretto e regolare impiego, necessiterebbe
individuare quale e quanta conoscenza sia necessaria al sistema per
ritrovare una soluzione.
Da sottolineare, ancora, la differenza tra il ragionamento
basato su esempi e quello su casi. Per “settare meglio” il caso e
ritrovare la norma da applicare (sempre che, come ribadito, non si
tratti di un principio o di una regola si senso comune. Per non
scendere, nel discorso gerarchizzato delle fonti, a una applicazione
di una consuetudine - locale – e senza far ricorso all’analogia).
Il primo adopera l’algoritmo induttivo (Decision Tree
Learning Algoritm) ed è in grado di estrarre, da una serie di esempi,
i principi su cui poter decidere (in futuro).
Quello sui casi, invece, rintracciano un caso precedente e
resta al “ricercatore” trovare quello più adatto e consono al caso di
specie, attraverso il metodo “ or, not, and” limitando il “rumore”
57
possibile nel ritrovare l’esatto termine o i confini della sua
indagine.
Ma in tutti i casi, il discorso si semplifica nel caso di ricerca
di casi o di redazione di documenti; non appare molto efficace
nella soluzione di un quesito giuridico non semplice.
Gli esempi riportati da molti autori, infatti, per l’utilizzo
della
cosiddetta
giustizia
automatica
(interrogazione
a
un
elaboratore o IA, per la soluzione, a volte si risolve in domande di
mero inquadramento di fattispecie note in norme: cosa sia un
contratto, un matrimonio, una procedura espropriativa, ovvero un
calcolo di alimenti o altro e in risposte confacenti alla
interrogazione. Ma se si scende nel dettaglio, anche utilizzando i
connettivi logici, la risposta è imprevedibile o negativa).
Ritengo che la soluzione la si possa trovare, nel caso che ci
occupa, nella interpretazione teleologica, finalizzata, però, agli
effettivi interessi che la norma voglia (in concreto) tutelare.
E, ribaltando il problema fin qui svolto, la prevalenza la si
deve dare alla interpretazione del caso, rapportandolo, comunque,
a una norma che, se debba essere applicata, ma sia in pieno
contrasto con la vicenda de qua, occorra far pronunciare la Corte
58
Costituzionale84 sulla legittimità (conformità) della norma ai
principi dei diritti umani protetti
E, proprio per questo, un automatismo giuridico, anche
attraverso il filtro della informatica, sembra debba escludersi
(questa volta, si) a priori.
Il sillogismo è un modo di approcciarsi alla soluzione85.
84
In tal senso, per una esemplificazione e una riconduzione alla importanza del fatto da regolare, si
veda A. PUGIOTTO, op. ult. cit., pp. 10 e sgg. L’Autore così conclude a p. 11: “L’esistenza di questo
canone di legittimità delle norme – di cui si serve la Corte Costituzionale per annullare leggi arbitrarie
– esprime una vera e propria rivoluzione copernicana oramai compiutasi nel moderno Stato di diritto
costituzionale: nel conflitto tra il diritto e il caso, l’ordinamento privilegia le esigenze di quest’ultimo.
La massima antica del positivismo acritico “dura lex sed lex”, oggi, non vale più.”.85
Riporto in questa nota un qualcosa che, apparentemente non rientrerebbe nella dimensione dello
scritto. In verità la argomentazione e la teoria del sillogismo appartengono anche alla letteratura e sono
alla base di una forma minima di razionalità; e, poi, è come un affacciarsi su un mondo diverso, meno
arido,nel quale respirare in un ambiente sano e pulito… ENRICO FENZI, Dante et Pétrarque : le bonheur
du savoir et l'éthique de l'ignorance, in www.freud-lacan.com/articles/article.php%3Furl_article
%3Defenzi140798. “Il sillogismo, semplice, ha funzionato per secoli e secoli : se è vero che la felicità
di qualsiasi creatura è riposta nella realizzazione la più perfetta possibile della sua propria "natura", e
se è vero che ciò che essenzialmente caratterizza la natura dell'uomo consiste nel suo essere dotato di
ragione, ne deriva che la felicità propria dell'uomo sta, appunto, nel suo realizzarsi quale creatura
ragionevole, e cioè nel massimo sviluppo delle sue qualità e capacità intellettuali. Il punto, sviluppato
in particolare da Aristotele dans l'Ethique à Nicomaque (libro X, cap. 7), nell'antichità non è mai stato
messo veramente in discussione, ed è rimasto saldamente alla base del tratto spiccatamente
eudemonistico dell'etica classica : l'uomo virtuoso e felice sarà sempre e solo il sapiente, cioè colui che
saprà sottomettere gli impulsi divergenti degli istinti e della volontà ai dettami della ragione e
all'acquisizione del sapere. Onde, per contro, il male e l'infelicità deriverebbero sempre, in ultima
analisi, da un uso insufficiente o difettoso della ragione, e dunque da ciò che gli stoici definiscono
negativamente come l'opinione. Questa convinzione circa la natura intrinsecamente virtuosa di una
ragione che procura la felicità mediante il sapere conosce un momento di grande fortuna nel secolo
XIII, sia per influsso dei commenti aristotelici di Averroè che delle personali posizioni di Alberto
Magno. All'ombra di queste due auctoritates, ed estremizzando le parole dello stesso Aristotele, il
perfetto ideale umano (l'ultima perfectio hominis) viene allora ravvisato nel filosofo, proprio per la sua
dedizione a quell'attività puramente intellettuale che costituirebbe il fine naturale dell'uomo e che
addirittura solo permetterebbe di definirlo come tale, rappresentando la realizzazione esistenziale della
sua "vera" natura. Per contro, scendendo lungo la scala del sapere, si giunge sino a coloro che sono
tanto ignoranti da essere chiamati "uomini" solo per convenzione linguistica, equivoce, non essendo
essi, in verità, diversi dagli animali e restando dunque esclusi dal mondo delle scelte morali. In tutto
questo, si delinea una concezione che pone la perfetta felicità, per quanto eccezionalmente ciò possa
accadere, alla portata dell'uomo, e che ne fa lo scopo autonomo e autosufficiente della vita,
culminando in una mistica dell'intelletto naturalmente raggiungibile, naturaliter adepta, che finisce per
opporre un autentico contro-modello alla teoria cristiana delle virtù. La reazione della Chiesa contro
posizioni siffatte, che escludevano dall'àmbito della possibile pienezza dell'umana felicità sia la fede,
dalla parte dell'uomo, che la grazia, dalla parte di Dio, fu decisa, e trovò un importante momento di
condensazione nel 1277, quando un collegio di teologi guidati dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier,
condannò come eretiche duecentodiciannove proposizioni estratte per lo più da commenti aristotelici.
59
Ma sicuramente ne deve essere escluso, allorché la premessa
maggiore sia un principio o,per poterla individuare, occorra
procedere attraverso un criterio valutativo (questo sempre
nell’ottica
che
il
criterio,
come
la
interpretazione,
sono
Tra queste proposizioni molte riguardano il punto in questione, e basterà richiamarne qui alcune, di per
sé molto eloquenti : "Non esiste condizione di vita tanto eccellente quanto quella di chi si dedica alla
filosofia" ; "I filosofi sono gli unici sapienti di questo mondo" ; "Tutto il bene possibile per l'uomo
consiste nelle virtù intellettuali" ; "Se la ragione è retta, anche la volontà lo è"; "In questa vita mortale
possiamo conoscere l'essenza divina"; "L'uomo sufficientemente dotato di intelligenza e di affettività
per quanto lo può essere attraverso l'esercizio delle virtù intellettuali e morali di cui parla ARISTOTELE
nell'Etica ha tutto quello che basta alla beatitudine eterna" (ed. Hissette, rispettivamente nn. 1,
2,170,166, 9,171)”… “Anche nella nuova veste, tuttavia, Dante sembra consapevole di non aver
veramente sciolto ogni dubbio, e aggiunge altre considerazioni, e insomma fa sì che il suo stesso
scrupolo non tanto chiuda perfettamente la questione, ma al contrario ne metta sempre più in luce le
falle. Subito dopo il passo citato sopra, infatti, egli torna in maniera esplicita a quanto già aveva detto
nel l.III (ciò che non è possibile conoscere, ebbene "un tel savoir n'est pas désiré de nous
naturellement"), e citando prima ARISTOTELE, Ethique X 7 (in questo caso probabilmente attraverso la
Summa contra Gentiles di S. TOMMASO, I 5, ove la questione è ampiamente trattata, nel l. III e qui in
particolare nel cap. 48) e poi s. Paolo, Rom. 12, ': "non plus sarere quam oportet sapere, sed sapere ad
sobrietatem", dà al discorso un accento tutto particolare, perché ora sembra piuttosto che l'uomo, per
rispettare la sua salute mentale e la sua propria natura, debba porsi dei ragionevoli limiti, relativi tanto
alla sua capacità di conoscere quanto alla capacità delle cose ad essere conosciute, e debba insomma
evitare di desiderare ciò che non può avere. Ma la contraddizione, così, risulta evidente, perché non
avrebbe senso l'esortazione a tenersi entro i confini del possibile se non si ammettesse un'innata
tendenza nell'uomo a volerli superare, quasi che ciò che è inconoscibile, ebbene, proprio quello noi
naturalmente vogliamo sapere. Ma una siffatta esortazione, del resto, già era nel l. III, 8, 2, affidata, nel
caso, alle parole di Eccli. I 3 e III 22 : "Sapientiam Dei praecedentem omnia quis investigavit ?", e :
"Altiora te ne quaesieris, et fortiora te ne scrutatus fueris : sed quae praecepit tibi Deus, illa cogita
semper, et in pluribus operibus eius ne fueris curiosus", cosi come torna, per esempio, in un testo tardo
quale la Questio de aqua et terra 77 : "Cesse donc, ô genre humain, cesse de chercher ce qui est audessus de toi, et cherche jusque-là où tu as puissance, pour te hisser aux choses immortelles et divines
selon tes moyens ; et laisse les choses plus hautes que toi". A proposito di queste parole, occorre
tuttavia aggiungere qualche considerazione, che spero non sia troppo sottile. Esse rimandano ancora
una volta ad Aristotele, nel decimo dell'Ethique, già citato dans le Banquet, come abbiamo detto : qui e
là, tuttavia, è forte l'impressione che Dante le abbia travisate per accomodarle alla propria intenzione.
In Aristotele, infatti, esse vogliono significare che l'uomo deve cercare di innalzare la mente verso le
cose divine jusque-là où il a puissance, cioè senza porre alcun limite a questo sforzo di ascesi
intellettuale, contro l'opinione di Simonide, il quale avrebbe sostenuto che l'uomo, in quanto tale,
avrebbe dovuto limitarsi alle dimensioni umane e terrene del proprio sapere. In Dante, invece, esse
paiono assumere il senso opposto, attribuendo egli al jusque-là où l'on a puissance non già il valore
di : 'senza limite alcuno', ma : 'solo nella misura in cui le capacità umane lo consentano', che è cosa ben
diversa. E' vero infatti che qui e là si assume che ci siano dei limiti alle possibilità umane di conoscere,
ma là si dichiara, in qualche modo, che tali limiti fanno parte precisamente delle cose destinate a
restare sconosciute, e che dunque è dovere dell'uomo non tenerne alcun conto perché non sta a lui
stabilire ove fermarsi quando cerchi di avvicinarsi alle verità ultime, perché ogni eventuale atto di
auto-limitazione suonerebbe come intimamente contraddittorio e mortificante delle sue capacità
60
assolutamente soggettivi e questo giustifica il contrasto possibile
tra conclusiones).
Non si dimentichi, infatti, la pluralità di modi di sussumere
il caso in una differente premessa maggiore che si verifica durante
una lite giudiziaria sia in un grado che in quelli successivi.
intellettuali ; qui invece, in Dante, si raccomanda una sorta di interiorizzazione preventiva del senso
del limite, che prende il colore di una volontaria rinuncia, e questo, alquanto paradossalmente, sempre
e solo per poter continuare a sostenere che "pour désir qu'on ait de la science, la science ne doit pas
être dite imparfaite ... car lorsqu'on désire la science, les désirs s'achèvent successivement et l'on
arrive à la perfection". Il che sta a dire, in altri termini, che il suo ricorso alle citazioni bibliche e le sue
ripetute esortazioni a un senso tutto cristiano del trascendente serve in realtà a ribadire il concetto
dell'autonoma perfezione e compiutezza del sapere umano e della sua capacità, in tale ambito, di
assicurare la felicità (si che, per questo lato, sembra giusto richiamare, come ha fatto la Corti,
l'influenza dell'aristotelismo duecentesco). Si osservi anche come Dante abbia rimandato a Eccl. III 22,
ma non certo per riprendere e sviluppare, come farà invece Petrarca sulle orme di Agostino (lo
vedremo meglio), il grande tema della condanna della curiositas, ch'era ormai diventato uno dei
principali argomenti della polemica anti-scientifica del tempo (specificamente, della polemica contro
l'effettiva utilità delle scienze della natura, nel quadro del cammino dell'uomo verso la salvezza) : la
scienza - ogni scienza, verrebbe voglia di dire - ha in lui un difensore assoluto, ed è questa la sostanza
forte del suo pensiero che, di là dalle formulazioni cui via via approda, lo porta ogni volta oltre le sue
pur evidenti contraddizioni. Le quali, nel caso, continuano però ad esserci, esponendo quanto scrive
nell'ultimo ampio passo du Banquet qui richiamato a un tipo di contestazioni assai vicino a quelle che
Agostino muove, in un memorabile passaggio del De Trinitate, all'etica classica. Scrive dunque
Agostino che il saggio antico, lo stoico, non è altro che "un malheureux avec courage", perché parte
dal presupposto di non poter in alcun modo vivere come vuole, e perché il suo sapere non consiste in
null' altro che nell'accettazione di questo stato di cose. Ora, si sforzino le righe che seguono
trasferendole mentalmente al nostro problema, e si vedrà quanto il discorso di Agostino colpisca al
cuore proprio l'atteggiamento assunto da Dante in quel passo du Banquet : En quel sens il [le
philosophe stoïcien] vit comme il veut ? C'est parce que il veut être fort en supportant ce qu'il ne
voulait pas qui lui arrive ? Mais donc il veut ce qu'il peut parce que il ne peut pas ce qu'il veut. C'est
là tout le bonheur (on sait pas si ridicule où plutôt digne de compassion) des mortels orgueilleux, qui
se vantent de vivre comme ils veulent seulement parce que de bon gré ils tolèrent avec patience tous
les malheurs qu'ils ne veulent pas qui leur arrivent. On dit que c'est bien ça que Terence sagement
conseillait : "Puisque c'est impossible que se réalise ce que tu veux, tu dois désirer ce que tu peux".
Belles paroles ! personne le nie. Mais il s'agit d'un conseil donné à un malheureux afin qu'il ne le soit
davantage. (DeTrinitate XIII 7,10). Questa infelice felicità, insomma, si presenta del tutto simile a
quella che può procurare un desiderio di sapere quale quello che Dante là raccomanda : un desiderio
che "vuole ciò che può, perché non può ciò che vuole. Questa citazione dal De Trinitate (con altre
intenzioni, vi ha insistito BODEI, nel bel volume Ordo amoris, Bologna, Il Mulino, 1991, in part. pp. 71
ss.) mi sembra opportuna non solo se opposta a quelle particolari formulazioni du Banquet, ma
soprattutto se la si prenda come una sorta di introduzione ai versi del canto IV de l'Enfer e, in
particolare, del canto III du Purgatoire, dedicati alle anime dei grandi sapienti dell'antichità, confinate
nel Limbo. Qui, infatti, il discorso che Dante ha svolto nei modi visti fa un salto, e tutto il problema del
nesso plurimo tra sapere - Prima di tutto, Dante eloquentemente ribadisce che ci sono alcune cose ch'è
follia sperare di comprendere con le forze della nostra ragione (nel caso, il mistero della Trinità) :
questo, del resto, è proprio il motivo per il quale la Rivelazione (la nascita di Cristo) s'è resa
necessaria. Invita quindi l'uomo a fermarsi al quia, senza presumere di poter accedere al quid di tali
61
Il giurista, l’interprete, infatti, sono assolutamente liberi di
decidere secondo coscienza e giustizia (ma sempre secondo
diritto) e la molteplicità delle interpretazioni su un dato caso è alla
base del convincimento che la giustizia automatica non possa
esistere (quanto meno nei paesi con ordinamenti romanocose, cioè a credere alla loro esistenza, della quale la Rivelazione appunto ci fa certi (il quia
introduceva le proposizioni oggettive, nel latino medievale), pur senza comprendere quale sia la loro
misteriosa essenza, il loro quid. Ed ecco il punto delicato, che richiede una attenta parafrasi : a riprova
di quanto detto, già si sono visti molti (Aristotele, Platone...) che hanno inutilmente (sans nul fruit)
desiderato tout voir, quando invece, se fossero rimasti contenti al quia, avrebbero placato quel loro
desiderio di sapere che ora, nel Limbo, eternamente li tormenta ... (non fa differenza che l'ipotesi dalla
quale si fa dipendere l'appagamento del desiderio stia nell' essere quelli rimasti contenti al quia, o
piuttosto - c'è indubbiamente, implicito, anche questo significato - nell'aver potuto godere della
Rivelazione, dal momento che questa assicura appunto del quia, non del comunque incomprensibile
quid). Non intendo sollevare tutte le questioni che questi versi potrebbero suscitare, ma piuttosto
sottolineare quanto ha a che fare più direttamente con il nostro discorso. Intanto, c'è da chiedersi se sia
del tutto congruente l'esempio dei grandi filosofi antichi reclusi nel Limbo : essi, lo sappiamo de
l'Enfer, devono la loro sorte al fatto di non essere stati battezzati e di non aver creduto, come gli ebrei,
a un solo Dio e a Cristo venturo (si veda per ciò anche il canto XXXII du Paradis). Non si tratta,
dunque, di uomini che non sono 'stati contenti' al quia, per il semplice fatto che a questa dimensione quella della fede, in sostanza - essi sono rimasti assolutamente estranei. Certo, se avessero creduto, il
loro desiderio sarebbe stato soddisfatto, e addirittura non sarebbero nel Limbo ... Ma il discorso di
Dante è diverso : esso non riguarda affatto le eventuali condizioni che avrebbero permesso ai filosofi
antichi di salvarsi ma invece lo scacco che subisce l'intelletto umano là dove pur arriva ai suoi massimi
traguardi come in Aristotele e Platone, quando presuma di oltrepassare quel quia, cioè quei contenuti
di verità che solo la fede può garantire. Ma, di nuovo, quei filosofi la fede non l'hanno avuta : come
avrebbero potuto volerne forzare i misteri ? Per qualche aspetto, insomma, l'esempio non sembra del
tutto corretto (a rigore ci si potrebbe aspettare, che so ? degli gnostici ...). Eppure, come sempre in
Dante, la superficiale incongruenza è strumento di un pensiero ellittico, fortemente concentrato,
affidato a una sintassi mentale e poetica di grande effetto. In questo senso, e prima di tutto, Aristotele,
Platone e "autres maints" stanno concretamente a rappresentare l'intelletto umano che realizza se
stesso in un totalizzante e tendenzialmente infinito desiderio di sapere (chi, meglio di loro?) : un
intelletto dunque che non si è e non si sarebbe fermato dinanzi ad alcun quia. Solo in un momento
successivo - per dir cosi -, oltre l'assoluta esemplarità del loro essere, emerge la loro condizione di
condannati al Limbo. La quale condizione, giustificata da opposti versanti tanto dalla loro mancanza di
fede quanto dai loro altissimi meriti intellettuali, diventa un perfetto, eternalizzato emblema del destino
che grava sull'uomo che naturalmente desidera disapere: quello di desiderare invano, di desiderare
"sans nul fruit", di desiderare senza speranza (Enf. IV 42). Il desiderio infinito si fa pena, frustrazione
infinita. Di più, nel Limbo (ecco perché ora il Limbo diventa cosi necessario!), con straordinaria
precisione, questo stesso desiderio di sapere si fissa per sempre come perdita, come deuil, proprio
perché la pena consiste propriamente nell'eterna perdita di un bene fortissimamente desiderato e mai
posseduto, e però presente appunto in quanto perduto da sempre e per sempre. Ma quello che il lutto è
là, proiettato nell'eternità dell'oltremondo, n'est pas autre chose du se contenter d'ici bas, visto che, in
dimensioni e modi diversi, ciò che determina l'umano destino del desiderio qui e là non è ciò che si sa
di sapere, ma ciò che si sa di ignorare. III. Nella poetica rappresentazione del Limbo, Dante afferma
dunque che tutto il sapere dell'uomo, assunto cioè quale somma delle sue positive e storiche
realizzazioni, si traduce in una condizione di deuil (non si insisterà mai abbastanza sulla pregnanza
62
germanici, ricchi di un sapere - sed sapere ad sobrietatem 86- giuridico
che affonda le sue radici non già e non solo nel diritto romano ma
in quei tre, insostituibili pilastri che sono i praecepta juris.
Ecco, allora, che ben potrebbero intervenire, a supporto altre
modalità di approccio.
della parola), quando ad esso non s'accompagni un atteggiamento di accettazione, un se contenter
dinanzi ai limiti che quello stesso sapere vede e tocca innanzi a sé. E poiché tale atteggiamento, di
natura essenzialmente etica per quanto sia proprio in esso che si estenua e consuma, per dir così ogni
conoscenza, coincide propriamente con la fede, diventa inevitabile che chi è privo della fede (i grandi
filosofi antichi, nel caso), ed è però divorato dal desiderio di conoscere, sia condannato a un desiderio
che non ha e non può avere fine. Il Limbo, in questo senso, proietta sub specie aeternitatis e perfeziona
come deuil l'inquietudine, il desiderio, il senso di perdita che accompagna la vita di chi non ha mai
apaisé il proprio desiderio di sapere. Ora, tutto ciò mette Dante in contraddizione con se stesso?
Cancella l'idea che il sapere procuri comunque la felicità ? Direi di sì, per alcuni aspetti ; di no per
altri. Suona infatti azzardata e di fatto smentita dallo sviluppo del discorso, già all'interno du Banquet
même l'affermazione secondo la quale ci sarebbe un sapere che "n'est pas désiré de nous
naturellement" : tale desiderio è invece tendenzialmente infinito e, per certi versi, il suo approdo nella
fede (credere a ciò che non si può capire) non fa altro che confermarlo ed esaltarlo. Ma proprio questo
sopraggiungere della fede là dove il pensiero umano urta in ostacoli troppo forti (ma pur pensati come
tali !) mostra come Dante non tanto si contraddica, ma semmai corregga e allarghi la sua visione
lasciando intendere che il sapere resta pur sempre, passo dopo passo, nei suoi diversi obiettivi di verità
e nella catena dei suoi successi, l'unico fondamento di ogni possibile felicità umana. Lo resta, infatti,
anche quando si scopre (questa è la novità, rispetto alle dichiarazioni du Banquet) che la sanzione
ultima di tale potere non è più in mano del sapere stesso positivamente acquisito, ma della fede : cioè a
dire quando si scopre e insieme si accetta che la felicità del sapere sia infine rimessa e custodita da ciò
che non si sa. Che, senza la fede, dinanzi all'eterno, le anime di Aristotele e Platone soffrano di un
desiderio che si fissa per sempre come deuil, in altre parole, non cancella il fatto che nel corso della
vita il sapere è stata la loro possibile anche se non perfetta felicità : e questa felicità è stata in ogni caso
tanta e di tale qualità che par quasi bilanciare, là, in un Limbo essenzialmente concepito come un
quintessenziato prolungamento della vita terrena, proprio quel deuil ... Certo, essi sono dannati nel
primo cerchio dell'Inferno : soffrono "un deuil sans martyre" , e i loro sospiri "faisaient l'air éterne
trembler", e insomma la loro dimensione spirituale è quella della più immedicabile malinconia, ma pur
tuttavia possiedono un personale patrimonio di sapienza che conferisce loro un'incomparabile dignità,
un principio di riscatto. Infelici sì, ma "infelici con coraggio", come avrebbe detto Agostino, il cui
ritratto del saggio stoico è quanto di più profondamente, intimamente vicino sia dato trovare ai saggi
del Limbo, votati per sempre al coraggio della sopportazione ("leur semblance n'était triste ni gaie":
Enf. IV 84). E come non pensare che a farli cosi infinitamente privilegiati, rispetto agli altri dannati, sia
il fantasma tuttavia attivo, potente, di una vita trascorsa nell'inquieta e arrischiata felicità del sapere?
Non credo di star divagando, rispetto al tema dell'ignoranza. Mi sto invece preparando a parlarne,
perché è solo contro lo sfondo della posizione di Dante, qui sommariamente riassunta nei tratti più
interessanti allo scopo, che acquista risalto il completo capovolgimento operato da Petrarca. Al
proposito, giocando un po' d'anticipo per quello che riguarda quest'ultimo, vorrei subito proporre un
breve confronto di testi che mi pare per più rispetti illuminante. Da sempre si è fatto giustamente gran
caso al fatto che Petrarca, con un gesto di cui non si possono in alcun modo sottovalutare l'importanza
e le conseguenze, abbia scalzato Aristotele dal primo posto tra i filosofi, e vi abbia sostituito Platone. Il
punto, tuttavia, va visto meglio di quanto sin qui sia stato fatto. Petrarca, con qualche iniziale
timidezza, propone la supremazia di Platone attraverso tutta la sua opera (riprendendo fedelmente
63
Mentre lavorava con la Olbrechts-Tyteca, Perelman sviluppò
una filosofia che evitava gli eccessi del positivismo e del
relativismo nella sua formulazione radicale. Dopo che si era
imbattuto in un brano di Brunetto Latini, posto in appendice a Les
fleurs de Tarbes di Jean Paulhan, Perelman adottò un approccio
l'opinione già espressa da Agostino e da lui soprattutto argomentata nel l. VIII del De civitate Dei), e lo
fa, in particolare, in un lungo capitolo della sua opera tarda De sui ipsius ac multorum ignorantia, ove
la diffusa dimostrazione ha una solida base di partenza nel creazionismo platonico, contrapposto
all'eternalismo aristotelico (altro tema acutamente ripescato dalla tradizione). E' insomma evidente che,
per il tramite privilegiato di Agostino, Petrarca aderisce in pieno e con personale forza di
convincimento a quella lunga tradizione esegetica che aveva ripetutamente considerato come molti
elementi fondamentali del pensiero platonico raggiungessero il loro pieno significato di verità quando
fossero interpretati come espressioni di processi e di realtà sovrannaturali legati alla grazia, pur non
arrivando a contemplare l ipotesi che pure trovava in Agostino, che Platone avesse potuto conoscere le
dottrine della Rivelazione dell'Antico Testamento, o addirittura che a lui fosse stato rivelato il mistero
della Trinità, come ancora pensavano, per esempio, Giovanni di Salisbury e Abelardo. Il punto che qui
interessa è tuttavia un altro, e sta nell'argomento che insistemente ritorna : rispetto ad Aristotele e ad
ogni altro filosofo, Platone 'si è avvicinato di più alla verità...' . Ora, è fondamentale premettere che
questo argomento, cosi come Petrarca l'affronta e lo sviluppa con accenti affatto personali, non vale
solo in rapporto alle verità di fede, ma ha, per dir così, valore assoluto e finisce per definire la
dimensione essenziale di ogni sapere nel rapporto che ineludibilmente intrattiene con il suo stesso
rovesciò, cioè con quel non-sapere che non solo lo limita ma che appunto lo costituisce come sapere.
Torniamo un attimo a Dante: è pur in presenza della fede che egli fissa la dimensione del deuil che
caratterizza la vita terrena del filosofo, ma ciò nulla toglie all'autonoma verità esistenziale di tale
condizione. Allo stesso modo, è in presenza della fede che Petrarca definisce non già la condizione ma
piuttosto il movimento, l'inesausta tensione dialettica che lega il sapere al non-sapere che lo contiene,
ma ciò non toglie, di nuovo, che la cosa valga in ogni caso, quale modello immanente ad ogni
esperienza umana del conoscere, che il confronto diretto con la fede torna semmai a illuminare di luce
più forte. Che Platone si sia 'avvicinato' ma che non sia 'arrivato' là dove, del resto, neppure i nostri,
cioè i pensatori cristiani, sono arrivati, non fa che sottolineare, insomma, l'elemento dinamico che
anima il suo pensiero, la direzione del percorso compiuto e il significato di quello non compiuto, che
ora diventa, propriamente, il contenuto di verità di quello compiuto. La grandezza di Platone, come
quella di qualsiasi altro pensatore, non tanto si misura secondo una oggettiva quantità di sapere, ma
invece riposa proprio su quel non-sapere che intimamente è suo e al quale affida il proprio movimento
vitale. Il punto comincerà forse ad apparire più chiaro se si richiamano i versi du Triomphe de la
Renommée III 4-8, che illustrano bene quanto è stato detto sin qui : Je me tournai à ma gauche, et je
vis Platon / qui parmi cette foule arriva plus près au but / auquel on arrive seulement si c'est le ciel
qui le consent. /Après, je vis Aristote, doué d'haute intelligence, et Pythagore ...e con essi quelli di
Dante, che, s'è già visto, incontra i grandi filosofi antichi nel Limbo, Enf. IV 131-135 : je vis le maître
à tout homme sachant / assis parmi la gent philosophique. /Tous lui rendent honneur, tous le
remirent : ici vis-je Socrate avec Platon /plus près de lui par devant tous les autres. Ch'io sappia, non è
mai stato osservato che Petrarca non solo capovolge esplicitamente l'ordine dantesco, ma rovescia
pure, e senza dubbio alcuno con precisa intenzione polemica verso il predecessore, il criterio di
giudizio. In Dante, Aristotele è primo in senso compiutamente positivo (conosce più cose degli altri), e
rispetto a lui, assunto come termine ultimo di misura, "plus près" stanno Socrate e Platone. In Petrarca,
Platone è primo perché è andato "plus près" alla verità, che solo per grazia divina può essere
raggiunta ... Insomma, là vale l'oggettiva quantità del sapere, ch'è misura a se stesso ; qui all'opposto,
64
all'argomentazione di impostazione classica, greco-latina. Egli
scoprì che, in assenza di una specifica logica dei giudizi di valore,
era possibile affrontare la questione tramite le opere di Aristotele.
Negli Analitici secondi, Aristotele definisce i principi della
dimostrazione, detta anche analitica, che si basa sull'accettazione
vale quello che manca al possesso di quella compiutezza inattingibile rispetto alla quale ogni sapere
può qualificarsi come tale. In questo senso, è dunque ribadito che ogni vero sarere è una forma
particolare d'ignoranza, perché riconosce d'essere fondato su una verità che gli appartiene solo in
quanto lo trascende, e che un'ignoranza siffatta è la dimensione propria della vita morale, perché è il
luogo dello spirito che infinitamente desidera ciò che gli si rivela solo come mancanza. Siamo qui a un
passaggio molto importante, e ci si apre davanti un panorama diverso. Se le articolate e in parte
divergenti affermazioni di Dante dans le Banquet permettevano di attribuire all'ignoranza uno statuto
speculativo riconoscibile, quale discorso fondato sui limiti del sapere nel suo rapporto con la felicità,
ora Petrarca, assume tale statuto entro un discorso etico che riprende e però varia profondamente
quello che lo stesso Dante finiva per fare a proposito dei grandi filosofi racchiusi nel Limbo. Questo
discorso è soprattutto affidato alle pagine del già citato De ignorantia, sulle quali è ora il caso di
soffermarsi. Il De ignorantia è costituito da una lunga, argomentata risposta al giudizio che quattro
aristotelici avrebbero dato di Petrarca, allora sessantatreenne (la polemica risale al 1367), da essi
definito uomo ignorante ma buono (par. 32: "... me sine literis virum bonum"). Di più non sappiamo.
Possiamo tuttavia ragionevolmente supporre che i quattro rimproverassero a Petrarca la mancanza di
cultura scientifica, corrispondente a una generale sottovalutazione di Aristotele e delle aristoteliche
scienze della natura, e confinassero la sua opera nel ruolo di una mera testimonianza di tipo morale. La
risposta, infatti, fa perno su questi due punti che Petrarca riconosce e conferma appieno, sì che il De
ignorantia puo essere benissimo definito come il testo nel quale egli affronta con inusitata ampiezza e
in modo definitivo il discorso su Aristotele, e nel quale rivendica la dimensione integralmente etica
della sua concezione del sapere. Non è dunque vero (com'è spesso stato detto) che l'opera abbia come
obiettivo polemico l'averroismo, che è semmai coinvolto di striscio : obiettivo vero e dichiarato è
appunto Aristotele, individuato come il padre del moderno materialismo scientifico e del razionalismo
etico, in quanto da lui essenzialmente dipendono sia le dottrine che negano l'atto della creazione e
considerano eterno il cosmo e le leggi fisiche che lo governano, sia quelle che operano un'analoga
espulsione di ogni modello trascendente dall'orizzonte delle verità morali e finiscono per ridurre l'etica
a una casistica puramente descrittiva e classificatoria. Petrarca, abbiamo detto, conferma l'accusa che
gli viene rivolta, si riconosce in essa, esaspera la dicotomia che la costituisce. Ebbene si - risponde - so
bene di essere ignorante, e davvero non me ne importa nulla, mentre vorrei con tutto il cuore essere
buono ... Ciò naturalmente va assieme a un vero e proprio capovolgimento dei parametri di giudizio
che si ripercuote fittamente per tutto il tessuto dell'opera, ed è proprio questa ridefinizione dei criteri
ultimi di valore sui quali fondare un possibile discorso sul sapere che dà un sapore e un fascino
particolari al suo discorso. Egli esalta dunque la propria virtus illiterata, e si tratta di un'esaltazione che
ha un'evangelica forza d'accenti, nel suo paragonarsi a una vecchietta ignorante e devota, "anicula sine
literis", e soprattutto nel denunciare che, nei fatti, più di Aristotele conoscono la vera felicità "une
quelconque pieuse vieille femme ou un pêcheur ou un dévot berger ou un paysan" (Paradiso. 38 e 63).
Ove appunto si intenda che il nerbo della contrapposizione non sta tanto e solo nel confronto tra l'ateo
e il cristiano, ma in quello tra la frustrata e perciò infelice presunzione dello scienziato accecato dal
proprio orgoglio intellettuale, e la felice umiltà di chi non riconosce in sé altra certezza che non sia la
propria profonda e certo divina natura morale. Non che Petrarca si riconosca davvero nella vecchietta o
nel pescatore (né ciò toglie forza all'argomento). Piuttosto, egli sviluppa per tutta l'opera un
contrappunto ironico, ora sottile ora marcato, fondato sulla sottaciuta eppur solare verità che non egli,
65
delle premesse delle necessarie conclusioni del sillogismo. Nei
Topici ed in altre opere, Aristotele contrappone l'approccio
dimostrativo alla dialettica, o alla ragionamento retorico, basata su
premesse accettate in una data situazione e, pertanto, per natura
contingenti. Attraverso le distinzioni aristoteliche, Perelman fu in
Petrarca, è ignorante, ma i suoi detrattori. Ma questi due movimenti che animano il De ignorantia
(l'accettazione parte vera e parte ironica della propria ignoranza) se ne intreccia un terzo che in qualche
modo avvolge e giustifica gli altri due, sia sul piano morale che su quello intellettuale : è il movimento
che di continuo sposta il discorso verso il fatto che ogni vera sapienza porta in sé l'ineliminabile senso
del proprio limite perché è proprio a ridosso di quel limite che essa si costituisce come tale, e finisce
dunque per essere una particolarissima forma di non sapere. Questi tre movimenti appaiono
intimamente fusi nella struttura dell'opera, ma possono essere scomposti secondo logica in una serie di
rovesciamenti successivi : prima, l'accettazione della propria condizione di ignoranza ; poi, la smentita
pratica di tale condizione attraverso l'esibizione di una cultura superiore e del conseguente
diritto/dovere di condannare l'effettiva, concreta ignoranza dei propri detrattori ; infine, il
riconoscimento della generale, immedicabile limitatezza di ogni sapere umano, che raccoglie e sublima
proprio l'ammissione iniziale e la proietta sullo sfondo di un mondo perituro. Anche quest'ultimo punto
merita una sosta, perché ha un posto importante nell'architettura dell'argomentazione : per dir meglio,
ne costituisce una delle premesse. La lunga discussione che Petrarca svolge contro l'ipotesi dell'eternità
del mondo, propria del mondo antico e di nuovo corrente nel pensiero filosofico scientifico del tempo,
non ha, infatti, lo scopo di coniugare Platone e Cicerone con Agostino o Bonaventura per riaffermare il
primato del dogma. Ciò che soprattutto preme a Petrarca è invece la piena disponibilità del risultato
della discussione : cioè il fatto incontrovertibile che il mondo sarà travolto dalla stessa fine che
incombe su ogni realtà umana. Se il mondo è frutto d'un gesto della volontà divina e se è destinato a
sparire, ingoiato dalla fine di quel tempo che con esso è nato, ecco che, da una parte, si sbarra la strada
a ogni divinizzazione della natura (ma anche a ogni pretesa d'assolutezza e autonoma regolarità delle
sue leggi), e dall'altra si fa ricadere sulle scienze della natura il limite intrinseco all'oggetto studiato.
Quale preminenza o nobiltà o superiore garanzia di verità potrebbe infatti vantare una conoscenza che
per definizione limita il proprio campo d'applicazione a ciò che è comunque destinato a morire ? E' per
questa via che la polemica contro il sapere naturalistico scientifico del tempo, qualificato come vana e
frivola curiositas, nell'accezione fortemente negativa già di Agostino, conduce ad esaltare il primato
dell'etica quale unica vera filosofia, e l'ortodossa difesa del creazionismo non guarda affatto indietro alla creazione, appunto, sulla quale esclusivamente s'appuntavano i teologi -, ma avanti, alla fine del
mondo, e dunque, in concreto, alla condizione esistenziale dell'uomo, questa creatura intrisa di
temporalità che istante per istante vive la propria morte, il proprio irreversibile tragitto dal nulla al
nulla. La strategia polemica del De ignorantia s'appoggia precisamente a questo ch'è prima di tutto un
sentimento acuto di imperfezione, di insufficienza, che ben prima dell'individuo e dei suoi valori
investe addirittura il cosmo, se è vero che la sua precaria esistenza è sospesa nel nulla in cui tornerà a
sparire. Ecco perché Petrarca ha dedicato cure cosi speciali a questo problema. Egli vuole dire ai suoi
avversari che l'universo per primo 'ignora' se stesso, e che l'ignoranza è la dimensione costitutiva della
labile presenza umana sulla terra : meglio, è la forma stessa della labilità, la concreta, materiale e infine
vincente minaccia della morte e del nulla. Da questo punto di vista, è interessante che Petrarca
suggerisca una sorta di parallelismo, che vede da una parte il sapere umano e il tempo, e dall'altra
l'ignoranza e l'eternità. Come il tempo, per quanto esteso lo si immagini, è propriamente nulla
nell'impensabile rapporto con l'eternità, così il sapere effettivamente raggiungibile dal singolo è a sua
volta in ogni caso un nulla, nell'altrettanto impensabile rapporto che intrattiene con l'infinita
dimensione dell'ignoranza in cui siamo gettati vivendo nel tempo. Torniamo un attimo ad Aristotele.
66
grado di percepire le contraddizioni delle prime filosofie: sebbene
queste sostenessero di rivelare le verità assolute ed universali
tramite il metodo dimostrativo, di fatto esse si limitavano a
persuadere delle proprie affermazioni uno specifico pubblico.
Secondo Perelman, dunque, una filosofia efficace - cioè capace di
Proprio nell'opera di cui stiamo parlando Petrarca mette a fuoco un motivo che nei secoli successivi
saranno in molti a riprendere da lui : 'anche Aristotele fu un uomo, e in quanto tale non ha potuto
sapere tutto'. Non solo non ha potuto sapere tutto : quanto è riuscito a sapere non rappresenta che una
porzione infima di un tutto assolutamente indefinito, si che ogni superbia filosofica fondata su una
parzialità siffatta appare poco meno che una bestemmia, mentre per contro il senso di tale limite,
interiorizzato, alimenta una coscienza critica e autocritica che trasforma la conoscenza intellettuale in
consapevolezza etica. Non è perciò né irrilevante né secondario che Petrarca finisca per ricorrere a un
aneddoto (non so se inventato allo scopo: io sin qui non ne ho trovato la e) che ricongiunge l'immagine
del filosofo a quella dell'uomo : "On dit qu'Aristote sur le point de mourir ait dit en pleurant que
aucun ne devait se complaire ou être orgueilleux de son propre savoir, mais plutôt remercier Dieu si
par hasard il en ait reçu plus de ce que habituellement les autres en ont" (par. 200). C'è una massima
che Petrarca ha amato in modo speciale e ricordato spesso, quella che Cicerone ha ricavato da Platone :
"Comme le même Platon dit, toute la vie du philosophe est en effet préparation à la mort" (Tusc. I 74 :
posso qui ricordare il "si vis vitam, para mortem" di Freud ?). Così, Aristotele, il filosofo per
antonomasia, sfigurato dai traduttori e divinizzato dai suoi stolti seguaci moderni, e pero in buona parte
responsabile della loro deriva scientista, torna per Petrarca uomo e filosofo insieme, come non mai nel
momento rivelatore della morte : piange e ammonisce, caricando le sue parole dell'inesprimibile peso
non già del poco che ha saputo, ma del troppo che non ha potuto conoscere. Non conta più molto,
dunque, tutta quella scienza naturale che presumeva di conoscere le proprietà più strane degli animali e
che considerava eterno il creato e le sue leggi : anche lo scienziato, anche il filosofo che muore
precipita nella voragine di tutto quello che non sa. E il confronto diretto, esistenziale, con questa verità
della vita prima che dell'intelletto è tutto ciò che di lui dawero resta : ed è anche in questo modo,
dunque, che Petrarca, come sopra si accennava, chiude i suoi conti con Aristotele. Come si vede, lo
schema di fondo del discorso di Petrarca è semplice e potrebbe persino sembrare del tutto tradizionale,
orientato com'è a ripercorrere i capisaldi della morale stoica, rivisti cristianamente attraverso il
pensiero di Agostino e i più vulgati precetti del memento mori. Ma la sua originalità non sta in questa o
in quella affermazione, della quale è quasi sempre possibile ritrovare la e : sta piuttosto nella perfetta,
articolata coerenza dell'insieme, e nel modo con il quale egli passa da una dimensione volta a volta
intellettuale o moralistica a una dimensione esistenziale affatto nuova, immediatamente comprensiva di
scelte morali, di atteggiamenti pratici, di orientamenti culturali capaci di tagliare di netto con il passato
e di aprire nuovi orizzonti. Torniamo, dopo questa sorta di introduzione, ai punti già toccati parlando di
Dante. Ebbene, Petrarca è il primo che appassionatamente afferma (expertus loquor è il motto che
guida tutte le operazioni del suo pensiero e caratterizza le sue dimostrazioni) che il saperenon dà
affatto la felicità, dal momento che la felicità non è legata alla dimensione del conoscere ma a quella
dell'essere. Risentiamolo, ancora, a proposito di Aristotele : Quoi que Aristote au début et à la fin de
l'Ethique ait largement parlé du bonheur, j'ose affirmer ... qu'il connaissait si peu du véritable
bonheur qu'une quelconque pieuse vieille femme ou un pêcheur ou un dévot berger ou un paysan
pourrait être je ne dis pas plus subtil dans l'analyse de l'idée, mais plus habile de la mettre en pratique
(par. 63). Se ci teniamo strettamente alla lettera, potremmo anche limitarci ad osservare che è del tutto
prevedibile e addirittura doveroso che Petrarca ponga un preciso discrimine tra la possibile felicità di
un pagano e quella di un cristiano, il primo sia pure Aristotele e il secondo una vecchietta o un
contadino, se è vero che a tale felicità inerisce per definizione la sapienza che deriva dal possesso della
67
determinare
l'essere
e
di
fondare
delle
azioni
secondo
ragionevolezza - deve essere costruita secondo valutazioni di
probabilità e deve poter respingere ogni tentativo di imporre i
giudizi di valore e gli altri elementi contingenti dovuti alla sua
necessità di essere recepita da un particolare pubblico. La teoria di
verità 'vera'. Ma è anche chiaro che il discorso non è risolvibile secondo questo unico schema, e che in
realtà esso propone un'alternativa diversa e in certo senso più radicale, perché impone che si riconosca
che la scienza che Aristotele sommamente rappresenta non abbia niente a che fare con l'effettiva natura
morale dell'uomo, e ne sia tutt'al più, se rettamente intesa ('sobriamente', con il termine esatto che
Petrarca deriva da san Paolo) un aiuto, un completamento : un mezzo, insomma, e per nulla un fine.
Non esiste dunque alcun rapporto tra campi cosi qualitativamente diversi e spesso addirittura
contrapposti si che il fatto di dissertare filosoficamente sulla morale e sulla felicità non ha a che fare
con la personale felicità del filosofo o di chi lo legge più di quanto la scienza dello zoologo abbia a che
fare con la felicità della balena o del grifo. Ricordiamo che Petrarca ha sempre concepito la
conoscenza come una scelta etica di vita, e che ha sempre presentato le sue personali conoscenze alla
luce del suo personale modo di essere e di comportarsi. Ora che si riconosce ignorante, si, ma almeno
nelle intenzioni buono, conferma ancora una volta che la misura ultima del sapere non appartiene alle
categorie dell'intelletto, ma alla verità della vita. La 'vera' conoscenza è un evento di natura etica, e
solo in quanto tale può comunicare con la felicità. In caso contrario, nella forma oggettivata della
conoscenza scientifica, il sapere non procura affatto la felicità, e neppure mantiene rapporti con
l'esercizio delle semplici e fondamentali virtù di cui gli umili personaggi evocati sono probabilmente
provvisti. Così, egli rompe il nesso di vera e propria consustanzialità tra virtù/felicità e conoscenza che
era stato tipico del mondo antico e che aveva avuto in Aristotele e nell'aristotelismo la sua definitiva
sanzione, attraverso una concezione intellettualistica della felicità che la faceva dipendere dalla
perfetta attuazione dei dettami della ragione, di per sé intrinsecamente virtuosi. Ma appunto, le cose
non stanno così : A quoi bon connaître la vertu, si une fois connue nous ne l'aimons pas ? A quoi bon
connaître le mal, si une fois connu il nous fait pas horreu r? A vrai dire, si la volonté est pervertie,
apprendre les difficultés de la vertu et les faciles séductions du vice peut même repousser au pire une
âme paresseuse et incertaine ... Il vaut mieux avoir une volonté charitablement vouée au bien plutôt
qu'une raison lucide et réceptive. Et si, comme veulent les philosophes, le but de la volonté est le bien,
et le but de la raison est la vérité, il est préférable vouloir le bien plutôt que connaître la verité, parce
que la recherche du bien est de soi même toujour méritoire, tandis que la recherche de la vérité est
plus souvent coupable et n'a pas de justification en soi même... (parr. 145 e 149). Il rifiuto di ogni
forma di razionalismo etico tocca qui, provocatoriamente, il uo limite. I teologi guidati da Tempier,
abbiamo visto, avevano condannato la proposizione : "Si la raison est droite, en est de même de la
volonté" (Hissette, n. 166), richiamando insieme Agostino e l'error Pelagii ("parce que de telle sorte à
la juste volonté ne serait nécessaire la grâce, mais seulement la science, et cela est l'erreur de
Pélage"). E' chiaro che i censori hanno inteso colpire il senso più ovvio della frase, ribadendo che la
volontà umana non è in grado con le sue sole forze di mettere in pratica quel bene che pure sarebbe in
grado di intravvedere in via meramente teorica, implicitamente richiamando il grande motivo classico
e paolino che Petrarca spesso ripete : "et je vois le meilleur, et je m'attache au pire" (RVF CCLXIV
136). Va pero osservato che tale senso non è l'unico possibile perché, sulla scorta di Aristotele,
Ethique 1139a 22-31, si può anche intendere che si tratti non già della ragione teorica, ma della ragione
pratica, cioè quella che agisce, per dir così, alla pari e strettamente implicata con la volontà, quando
tale ragione sia già praticamente all'opera per il conseguimento di un fine buono, presupponendo che
ci sia stata una scelta moralmente buona alla quale la volontà è pervenuta deliberando intorno ai mezzi
che rendono effettivamente perseguibile e dunque reale quel fine. Decisivo, insomma, è l'atto della
68
Perelman, che egli chiamò filosofia regressiva; cercava quindi di
incorporare le verità socialmente accettate e rimanendo al
contempo impermeabile ai cambiamenti che si sarebbero potuti
succedere alle suddette verità.
scelta morale che fonde in sé il momento della volontà e quello della ragione deliberante, secondo la
definizione aristotelica (nel passo citato) : "le choix est un désir raisonné" ("eleccio autem appetitus
consiliativus"). Onde si potrebbe anche dire che la ragion pratica è la verità in cui si trasforma la
volontà attraverso la scelta, o addirittura che la ragion pratica è la verità della volontà. Aristotele infatti
continua : "il faut donc que la raison soit vraie et le désir soit juste" ("oportet propter hec quidem
racionem veram esse et appetitum rectum"), e proprio Petrarca sembra fargli eco quando scrive : "le
but de la volonté est le bien, et le but de la raison est la verité". Ma - si badi bene - in Aristotele questa
affermazione sottolineava l'intreccio indissolubile dei due momenti unificati nell'atto concreto della
scelta morale, mentre in Petrarca ha valore disgiuntivo, e serve a rovesciarne il discorso in modo
radicale. Infatti. Da Aristotele in poi punto fermo resta sempre una ratio recta alla quale tocca di
fissare i criteri direttivi della moralità, e rispetto alla quale la volontà deve saper regolare i propri
appetiti. La volontà buona, insomma, non possiede in sé il fondamento della sua bontà, ma è tale solo
perché conforme ai dettami della retta ragione cui spetta di assicurare, come abbiamo visto, che la
volontà si trasformi in verità. Per Petrarca è esattamente il contrario. Egli ritorce contro Aristotele le
sue stesse parole : se la volontà può essere di per sé buona (se esiste, ed esiste, l'appetitum rectum),
conoscenza e ragione non hanno più nulla da dire d'essenziale, perché il bene può fare a meno della
loro verità. La quale, infatti, a che serve ("A che serve sapere ...?") se non si fa essa stessa, in atto,
volontà buona ? Il capovolgimento delle parti è completo. Ciò che trovava predicato della recta ratio
(il fondamento del criterio morale) Petrarca lo attribuisce alla volontà, e ciò che trovava predicato della
volontà (il suo problematico adeguamento a quel criterio) passa a caratterizzare una nozione di
ragione/conoscenza alla quale la misura del suo proprio valore di verità non appartiene più. E' del tutto
ovvio riportare questo conclamato primato della volontà all'influsso determinante di Agostino,
corroborato, per la sua parte, da Seneca, il quale per primo ha rotto lo schema dell'intellettualismo
ellenico introducendo il concetto di voluntas, che in lui diventa determinante nell'àmbito della
problematica morale. Meno ovvio è però osservare la coerenza del discorso di Petrarca, che arriva a
questo risultato attraverso la doppia svalutazione della conoscenza scientifica (è sempre parziale ed è
incapace di procurare la felicità), e l'esaltazione di un'ignoranza che assume tutte le caratteristiche di
un'esperienza morale fondamentale. Il fatto che tutti desideriamo conoscere, secondo l'assunto
aristotelico, e che tutti desideriamo essere felici, secondo quello agostiniano, comporta solo che la
nostra dimensione reale, il luogo segreto del nostro io non sia né quello della conoscenza né quello
della felicità, ma sempre e unicamente quello del desiderio. Un desiderio frustrato sin che cerca ciò che
vuole fuori di sé, nelle parziali verità di un imperfetto sapere, e per contro un desiderio non già
appagato ma almeno orientato verso la felicità se ha imparato a riconoscere dentro di sé la propria
misura e il proprio oggetto. L'unica felicità realmente possibile, insomma, è quella che deriva dalla
certezza del proprio desiderio di felicità, fondato sulla conoscenza di sé (nosce te ipsum), e anzi
coincidente con tale conoscenza, poiché esso altro non è che il desiderio di una perfezione che tanto
più si rivela e appartiene all'uomo quanto più egli ne sperimenta la mancanza, e accetta per ciò di
definirsi 'ignorante'. E' per questo che, a ben vedere, se c'è un'esperienza di valore che Petrarca
interpreta in chiave personale e che oppone continuamente ai suoi detrattori, questa sta nel movimento,
nella tensione che sempre l'ha animato, e insomma, per dire ancora con Agostino la parola giusta,
nell'amore : “Je crois avoir lu tous les livres d'Aristote sur l'éthique : en plus, de certaines j'ais
entendu l'explication critique, et j'arrivais même à faire croire d'en comprendre quelque chose, avant
69
Mentre la retorica e l'argomentazione costituiscono il
fondamento
del
pensiero
di
Perelman,
il
suo
approccio
"regressivo" caratterizza il suo trattato sull'argomentazione non
formale. Alla fine della Nuova retorica, Perelman e la OlbrechtsTyteca sostengono che il loro progetto, a differenza delle
qu'on découvre toute mon ignorance. Enfin, en regardant en moi même, il est possible que à cause de
ces livres je me sois trouvé un peu plus savant, mais pas pour autant meilleur, comme il aurait du
arriver ... Je vois, bien sûr, qu'Aristote définit très bien qu'est que c'est la vertu, et je vois qu'il la
subdivise et l'analyse avec finesse, et il fait la même chose avec tous les éléments qui partie du vice,
d'un côté, et de la vertu, de l'autre. Quand j'ais appris tout ça, je sais peut-être un peu plus que je ne
savais avant, mais mon âme est restée tout à fait la même qu'auparavant, et la volonté aussi est restée
égale et moi même je suis resté tel que j'étais. En effet, autre chose est savoir et autre chose aimer ;
autre chose est comprendre, et autre chose vouloir... (parr. 143-144)”. Ci sarebbero molte altre cose
da dire. Qui, vorrei limitarmi ad accennarne una, e a svilupparne un po' più diffusamente un'altra :
entrambe, muovono dalla dimensione entro la quale Petrarca ha definito le coordinate essenziali del
suo concetto di ignoranza, ed entrambe sottolineano la profondità del solco che ormai lo divide da
Dante. La prima. Con apparente paradosso, Petrarca, accusato dai suoi quattro detrattori di ignoranza, è
proprio colui che predispone la struttura concettuale che più potentemente ha contribuito
all'avanzamento del sapere. La sua visione etica che presuppone l'uguaglianza degli uomini di tutti i
tempi non già sul fondamento della quantità materiale di nozioni possedute, ma piuttosto
sull'insufficienza di ogni possibile sapere, permette infatti l'apertura pressoché illimitata al patrimonio
della sapienza antica, e la porta a noi come qualcosa che non ha mai smesso di appartenerci. Da questo
punto di vista, l'uguaglianza dell'animo umano attraverso i tempi è la grande base sulla quale Petrarca
costruisce l'intero edificio della sua opera, ed è la chiave per il recupero dell'antico che egli fabbrica e
consegna all'età dell'Umanesimo e del Rinascimento. E' solo cosi, infatti che egli può tornare a quel
patrimonio e che puo riproporne i valori proprio in nome di ciò che ad essi manca, e dunque per ciò
che essi hanno di profondamente, universalmente umano. Ogni autentico sapere, fisico o morale,
antico o moderno, grava sui propri confini e si sporge di là da essi e chiama e pretende la propria
impossibile integrazione, e in ciò appunto rivela sino in fondo la sua unità e la sua perenne attualità. A
tanto Petrarca è giunto non in nome di un'esigenza di tipo intellettualistico, sull'onda di un moto di
élargissement del campo delle conoscenze, ma piuttosto in nome di un'esperienza esistenziale che non
finisce mai di rispecchiarsi nelle domande, nei tormenti nelle speranze e negli affetti ai quali egli
trovava con sempre rinnovata emozione che gli scrittori latini avevano già dato voce e forma
universalmente comprensibile. Che l'animo umano riesca a parlare attraverso le epoche, le religioni, le
culture, lo stesso linguaggio di ogni altro animo, per esprimere la stessa sgomentante esperienza della
vita e della morte è insomma, agli occhi di Petrarca, la prova provata che anche l'ultimo ignorato
orizzonte dell'infinita verità nella quale ogni esperienza umana s'inscrive è per tutti il medesimo. Egli
ha capito, insomma (e l'ha capito non tanto per sé, quanto per il suo tempo), che solo l'effettiva
comunione dei valori custoditi nella sapienza antica avrebbe permesso sia un altrettanto effettivo
recupero di un assai più vasto complesso di conoscenze, sia una concezione matura della nostra
umanità. Il ponte che avrebbe allora ricongiunto i due mondi e che avrebbe poi sempre ricongiunto il
presente dell'uomo al suo passato poteva essere costruito solo con le pietre dell'etica, e cioè poteva
essere costruito solo in nome di una comune esperienza esistenziale, di una comune vocazione, di un
comune destino : quello che la parola ignoranza compendia nel modo migliore possibile. E' infatti
proprio il concetto di ignoranza difeso da Petrarca che permette (ripeto, con paradosso solo apparente)
di unificare e trattare il campo del sapere come un tutto organico, e di contrapporlo in quanto tale,
come totalità storica dell'umano, allo scientismo specialistico dei suoi avversari. La seconda cosa, di
70
affermazioni assolute comuni alla filosofia, ha come scopo che “i
singoli ed i gruppi aderiscano alle opinioni di ogni genere con
intensità che può variare da caso a caso” e che “tali credenze non
siano sempre autoevidenti, e che si occupino raramente di idee
chiare e distinte”. Per scoprire la logica che governa queste
portata altrettanto innovativa, è forse meno lontana dal campo d'interessi di questo convegno, e si
colloca tutta entro il discorso affrontato sin dall'inizio, circa il nesso sapere - felicità. Petrarca,
abbiamo visto, lo disarticola in maniera radicale. Grossolanamente, potremmo dire che escludendo il
sapere dal campo della felicità si trova immerso in una dimensione emotiva caratterizzata insieme
dall'ignoranza e dal desiderio . Così, proprio in forza di tale disarticolazione e in presenza del nuovo
nesso ignoranza - desiderio il concetto di ignoranza assume uno statuto complesso, dal momento che
ogni discorso serio su di essa non può che diventare, da una parte, un discorso sui limiti e il senso di
una conoscenza alienata, cacciata dalla sfera esistenziale, e dall'altra non può non legarla
indissolubilmente a una nozione affatto nuova e pervasiva di desiderio. La formula già aristotelica e
poi dantesca : "tous les hommes naturellement ont désir de savoir", dal momento che "la science est
perfection dernière de notre âme", perde di colpo la sua millenaria centralità : dopo un cammino tanto
glorioso, acquista di colpo il colore di una superficiale soluzione di comodo, e lascia ormai libero
campo all'altro grande assioma che Agostino non si stanca di ripetere per tutta la sua opera : "tutti gli
uomini desiderano essere felici". Ecco, Petrarca è l'intellettuale che alle soglie dell'età moderna
accoglie e ripropone tale assioma, e ne fa il centro tormentoso della riflessione sulla sua propria
condizione esistenziale, e infine lo riduce al suo ultimo, inesauribile nucleo : "tutti gli uomini
desiderano". Non è questa la sede di lunghe dimostrazioni. Io sono in ogni caso convinto che proprio
questa lunga linea di rottura, questa faglia che s'allarga tra il sapere e la felicità e libera dal profondo i
meccanismi del desiderio costituisca una delle radici segrete e pero determinanti del suo capolavoro, il
canzoniere, e che proprio in essa stia la ragione profonda del fascino che esercitò per tutto il
Rinascimento, e che ancora oggi ci tocca. Tra l'altro, credo si possa anche dire che, così facendo,
Petrarca raccolga la dirompente essenza della prima grande poesia d'Europa, quella dei trovatori, che al
tema del desiderio è ossessivamente votata, e ne sia il vero e grande erede, sviluppandone la lezione
alla luce della sua statura culturale e critica, sino a imporla quale contenuto proprio di ogni esperienza
lirica moderna. A questo le forze dei trovatori certo non bastavano, e l'arco discendente della loro
esperienza, che si ricongiunge a quella di Dante ed è a ridosso di quella di Petrarca (l'ultima poesia del
canzoniere di Guiraut Riquer, uno dei sicuri modelli di quest'ultimo, è del 1292) lo mostra
ampiamente. Petrarca ci dice che tutto ignoriamo (o, che è lo stesso, che a nulla serve quel che
sappiamo), a fronte della certezza del desiderio infinitamente inappagato che ci costituisce. Si che
quanto egli ha ha laicamente vissuto ed espresso con straordinaria lucidità è stato un lungo tormentoso
consapevole giro attorno a quanto già aveva detto il suo maestro, AGOSTINO : "Chacun est ce qu'il
désire" ("Talis est quisque, qualis eius dilectio est" : Comm. alla prima lettera di Giovanni II 14). In
questa luce, e per finire, vorrei allegare poche citazioni, quali chiavi preziose pér cogliere il momento
in cui la coscienza infelice del desiderio s'accampa al centro dell'atto poetico. La prima, dal Secretum
(altra opera di Petrarca fondamentale per tutti i temi che stiamo troppo velocemente considerando)
personalmente mi pare straordinaria,e ad essa mi capita spesso di tornare. Nel dialogo, il personaggio
autobiografico di Francesco cerca di giustificarsi con l'antagonista, il personaggio di Agostino,
affermando che, è vero, in passato ha desiderato, ma che quella fase giovanile e colpevole della sua
vita è ormai chiusa, e altri ormai sono i suoi desideri. Ma Agostino ribatte : "Avoir voulu et vouloir,
même s'ils diffèrent dans le temps, dans leur essence et dans l'âme de celui qui veut sont tout à fait la
même chose" ("Voluisse tamen et velle etsi in tempore differunt, in re ipsa inque animo volentis unum
sunt": l. I, ed Fenzi p. 110). Se si è desiderato una volta, si è desiderato per sempre, e smettere non si
71
credenze ed idee, Perelman e la Olbrechts-Tyteca si affidano ad
una filosofia regressiva basata sulla variabilità di particolari
situazioni e di particolari valori. Perelman applicò questo stesso
approccio ai successivi sviluppi della Nuova Retorica e nel
successivo e noto scritto su La Giustizia87.
Altra possibilità è la cosiddetta fuzzy logic o logica sfumata
o logica sfocata; è una logica polivalente e pertanto un'estensione
della logica booleana in cui si può attribuire a ciascuna
proposizione un grado di verità compreso tra 0 e 1. È fortemente
legata alla teoria degli insiemi sfocati e, già intuita da Cartesio,
Bertrand Russell, Albert Einstein, Werner Karl Heisenberg, Jan
Łukasiewicz e Max Black, venne concretizzata da Lotfi Zadeh.
Quando parliamo di grado di verità o valore di appartenenza, per
dirla con un'esemplificazione, intendiamo che una proprietà può
essere oltre che vera (= a valore 1) o falsa (= a valore 0) come nella
logica classica, anche di valori intermedi. In logica fuzzy88 si può ad
puo perché al fondo ricompare, sempre, il desiderio medesimo : "je désire de ne pas désirer. Mais je
suis emporté par mes mauvaises habitudes, et dans le fond de mon coeur je sens qu'il y a toujours
quelque chose d'inachevé" ("cupio nihil cupere, sed consuetudine rapior perversa sentioque inexpletum
quiddam in precordiis meis semper": l. II, ed. cit., p. 166). Così, il desiderio ha in sé la sua propra
condanna, per sempre : A sa perte accourant alors libre et sans lien,/il convient qu'ore elle aille au
bon vouloir d'une autre / cette âme qui erra un fois seulement. (RVF 96,12-14)”. (Le traduzioni
francesi di Dante sono quelle di A. PÉZARD, nelle Œuvres cornplètes della Pléiade, Gallimard, Paris
1965. Quelle dal canzoniere di Petrarca sono di P. BLANC : Pétrarque, Le Chansonnier, Garnier, Paris
1988.).
86
87
S. Paolo, Romani, 12.
CHAÏM PERELMAN, De la justice, trad. it. di Liliana Ribet, La Giu-stizia, Giappichelli, Torino 1991, con
prefazion di NORBERTO BOBBIO .
88
Nei primi anni sessanta, Lotfi A. Zadeh, professore all'Università della California di Berkeley, molto
noto per i suoi contributi alla teoria dei sistemi, cominciò ad avvertire che le tecniche tradizionali di
72
esempio dire che un bambino appena nato è giovane di valore 1,
un diciottenne è giovane 0,8, ed un sessantacinquenne è giovane
di valore 0,15. Solitamente il valore di appartenenza si indica con
μ; per il valore di appartenenza ad un insieme fuzzy F di un
predicato p, si indicherà con μF(p).
analisi dei sistemi erano eccessivamente ed inutilmente accurate per molti dei problemi tipici del
mondo reale. L'idea di grado d'appartenenza, il concetto divenuto poi la spina dorsale della teoria degli
insiemi sfumati, fu da lui introdotta nel 1964, e ciò portò in seguito, nel 1965, alla pubblicazione di un
primo articolo, ed alla nascita della logica sfumata. Il concetto di insieme sfumato (vedi Insiemi
sfocati), e di logica sfumata, attirò le aspre critiche della comunità accademica; nonostante ciò, studiosi
e scienziati di tutto il mondo - dei campi più diversi, dalla psicologia alla sociologia, dalla filosofia
all'economia, dalle scienze naturali all'ingegneria - divennero seguaci di Zadeh. In Giappone la ricerca
sulla logica sfumata cominciò con due piccoli gruppi universitari fondati sul finire degli anni '70: il
primo era guidato, a Tokio, da T. Terano e H. Shibata, mentre l'altro si stabilì a Kanasai sotto la guida
di K. Tanaka e K. Asai. Al pari dei ricercatori americani, questi studiosi si scontrarono, nei primi
tempi, con un'atmosfera fortemente avversa alla logica fuzzy. E tuttavia, la loro tenacia e il duro lavoro
si sarebbero dimostrati estremamente fruttuosi già dopo un decennio: i ricercatori giapponesi, i loro
studenti, e gli studenti di questi ultimi produssero molti importanti contributi sia alla teoria che alle
applicazioni della logica fuzzy. Nel 1974, Seto Assilian ed Ebrahim H. Mamdani svilupparono, in
Gran Bretagna, il primo sistema di controllo di un generatore di vapore, basato sulla logica fuzzy. Nel
1976, la Blue Circle Cement e il SIRA idearono la prima applicazione industriale della logica fuzzy,
per il controllo di una fornace per la produzione di cemento. Il sistema divenne operativo nel 1982. Nel
corso degli anni ottanta, diverse importanti applicazioni industriali della logica fuzzy furono lanciate
con pieno successo in Giappone. Dopo otto anni di costante ricerca, sviluppo e sforzi di messa a punto,
nel 1987 S. Yasunobu ed i suoi colleghi della Hitachi realizzarono un sistema automatizzato per il
controllo operativo dei treni metropolitani della città di Sendai. Un'altra delle prime applicazioni di
successo della logica fuzzy è un sistema per il trattamento delle acque di scarico sviluppato dalla Fuji
Electric. Queste ed altre applicazioni motivarono molti ingegneri giapponesi ad approfondire un ampio
spettro di applicazioni inedite: ciò ha poi condotto ad un vero boom della logica fuzzy. Una tale
esplosione era peraltro il risultato di una stretta collaborazione, e del trasferimento tecnologico, tra
Università ed Industria. Due progetti di ricerca nazionali su larga scala furono decisi da agenzie
governative giapponesi nel 1987, il più noto dei quali sarebbe stato il Laboratory for International
Fuzzy Engineering Research (LIFE). Alla fine di gennaio del 1990, la Matsushita Electric Industrial
Co. diede il nome di "Asai-go ("moglie adorata") Day Fuzzy" alla sua nuova lavatrice a controllo
automatico, e lanciò una campagna pubblicitaria in grande stile per il prodotto "fuzzy". Tale campagna
si è rivelata essere un successo commerciale non solo per il prodotto, ma anche per la tecnologia
stessa. Il termine d'origine estera "fuzzy" fu introdotto nella lingua giapponese con un nuovo e diverso
significato - intelligente. Molte altre aziende elettroniche seguirono le orme della Panasonic e
lanciarono sul mercato, tra l'altro, aspirapolvere, fornelletti per la cottura del riso, frigoriferi,
videocamere (per stabilizzare l'inquadratura sottoposta ai bruschi movimenti della mano), e macchine
fotografiche (con un autofocus più efficace). Ciò ebbe come risultato l'esplodere di una vera mania per
tutto quanto era etichettato come fuzzy: tutti i consumatori giapponesi impararono a conoscere la
parola "fuzzy", che vinse il premio per il neologismo dell'anno nel 1990. I successi giapponesi
stimolarono un vasto e serio interesse per questa tecnologia in Corea, in Europa e, in misura minore,
negli Stati Uniti, dove pure la logica fuzzy aveva visto la luce. La logica fuzzy ha trovato parimenti
applicazione in campo finanziario. Il primo sistema per le compravendite azionarie ad usare la logica
sfumata è stato lo Yamaichi Fuzzy Fund. Esso viene usato in 65 aziende e tratta la maggioranza dei
73
La funzione di appartenenza non ha nulla a che vedere con
la teoria della probabilità .
Infine, mi sembrerebbe doveroso un riferimento, sempre
come mezzo per superare il sillogismo, alla classificazione89,
sempre come mezzo di supporto all’interprete.
titoli quotati dell'indice Nikkei Dow, e consiste approssimativamente in 800 regole. Tali regole sono
determinate con cadenza mensile da un gruppo di esperti e, se necessario, modificate da analisti
finanziari di provata esperienza. Il sistema è stato testato per un periodo di due anni, e le sue
prestazioni in termini di rendimento hanno superato l'indice Nikkei Average di oltre il 20%. Durante il
periodo di prova, il sistema consigliò "sell", ossia "vendere", ben 18 giorni prima del Lunedì Nero (19
ottobre 1987): nel corso di quel solo giorno l'indice Dow Jones Industrial Average diminuì del 23%. Il
sistema è divenuto operativo nel 1988. Il primo chip VLSI (Very Large Scale Integration) dedicato alla
computazione d'inferenze fuzzy fu sviluppato da M. Togai e H. Watanabe nel 1986: chip di tal genere
sono in grado di migliorare le prestazioni dei sistemi fuzzy per tutte le applicazioni in tempo reale.
Diverse imprese (e.g., Togai Infralogic, APTRONIX, INFORM) sono state costituite allo scopo di
commercializzare strumenti hardware e software per lo sviluppo di sistemi a logica sfumata. Allo
stesso tempo, anche i produttori di software, nel campo della teoria convenzionale del controllo,
cominciarono ad introdurre pacchetti supplementari di progettazione dei sistemi fuzzy. Il Fuzzy Logic
Toolbox per MATLAB, ad esempio, è stato presentato quale componente integrativo nel 1994. Nel
1994 Zadeh scriveva: "Il termine logica fuzzy viene in realtà usato in due significati diversi. In senso
stretto è un sistema logico, estensione della logica a valori multipli, che dovrebbe servire come logica
del ragionamento approssimato. Ma in senso più ampio logica fuzzy è più o meno sinonimo di teoria
degli insiemi fuzzy cioè una teoria di classi con contorni indistinti. Ciò che è importante riconoscere è
che oggi il termine logica fuzzy è usato principalmente in questo significato più vasto". La teoria degli
insiemi fuzzy costituisce un'estensione della teoria classica degli insiemi poiché per essa non valgono i
principi aristotelici di non-contraddizione e del terzo escluso (o del Tertium non datur). Si ricorda che,
dati due insiemi A e !A (non-A), il principio di non-contraddizione stabilisce che ogni elemento
appartenente all'insieme A non può contemporaneamente appartenere anche a non-A; secondo il
principio del terzo escluso, d'altro canto, l'unione di un insieme A e del suo complemento non-A
costituisce l'universo del discorso. In altri termini, se un qualunque elemento non appartiene all'insieme
A, esso necessariamente deve appartenere al suo complemento non-A. Tali principi logici conferiscono
un carattere di rigida bivalenza all'intera costruzione aristotelica, carattere che ritroviamo,
sostanzialmente immutato ed indiscusso, sino alla prima metà del XX secolo, quando l'opera di alcuni
precursori di Zadeh (in primis Max Black e Jan Łukasiewicz) permette di dissolvere la lunga serie di
paradossi cui la bivalenza della logica classica aveva dato luogo e che essa non era in grado di chiarire.
Il più antico e forse celebre di tali paradossi è quello attribuito ad Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.),
noto anche come paradosso del mentitore, il quale, nella sua forma più semplice, recita:
"Il cretese Epimenide afferma che il cretese è bugiardo"
In tale forma, suggerita dalla logica proposizionale, ogni affermazione esprime una descrizione di tipo
dicotomico. Al contrario, nella logica predicativa ogni proposizione esprime un insieme di descrizioni
simili o di fatti atomici, come nella frase tutti i cretesi sono bugiardi. Si noti che, a rigor di logica
(bivalente), una formulazione del paradosso contenente tale frase è falsa, in quanto è vera la sua
negazione: la negazione di tutti non è nessuno, ma non tutti, quindi non tutti i cretesi sono bugiardi,
Eubulide è un bugiardo, ed essendo vera la sua negazione, l'affermazione di Eubulide risulterebbe
74
4) – Per concludere.
falsa.
Ad ogni modo, il paradosso del mentitore nella sua forma proposizionale appartiene alla classe dei
paradossi di autoriferimento. Ogni membro di questa classe presenta una struttura del tipo:
"La frase seguente è vera
La frase precedente è falsa"
o in maniera più sintetica:
"Questa frase è falsa"
Orbene, la logica aristotelica si dimostra incapace di stabilire se queste proposizioni siano vere o false.
Essa è strutturalmente incapace di dare una risposta proprio in quanto bivalente, cioè proprio perché
ammette due soli valori di verità: vero o falso, bianco o nero, tutto o niente; ma giacché il paradosso
contiene un riferimento a sé stesse, non può assumere un valore che sia ben definito (o vero o falso)
senza autocontraddirsi: ciò implica che ogni tentativo di risolvere la questione posta si traduce in
un'oscillazione senza fine tra due estremi opposti. Il vero implica il falso, e viceversa. Secondo Bart
Kosko, uno dei più brillanti allievi di Zadeh, infatti, se quanto afferma Epimenide è vero, allora il
cretese mente: pertanto, poiché Epimenide è cretese, quindi mente, dobbiamo concludere che egli dice
il vero. Viceversa, se l'affermazione di Epimenide è falsa, allora il cretese Epimenide non mente, e
pertanto si deduce che egli mente. In termini simbolici, indicato con V l'enunciato del paradosso di
Eubulide, e con v = 0/1 il suo valore di verità binario, si ha, analizzando separatamente i due casi
possibili:
e tenendo presente che, come mostrato in precedenza, il valore di verità di V coincide con quello della
sua negazione !V, vale a dire: v=!v, si perviene all'equazione logica che esprime tale contraddizione:
v=1−v
la cui soluzione è banalmente data da:
v=1/2
75
L’uomo di oggi, artificialis, digitalis90 o, come lo definiva
Natalino Irti91, videns92 , già nel 1998, distinguendolo dal loquens,
homo pur sempre ma in evoluzione del primo e che non è
sicuramente quello della prima metà del secolo scorso. Assai
Da ciò si deduce finalmente che l'enunciato del paradosso non è né vero né falso, ma è semplicemente
una mezza verità o, in maniera equivalente, una mezza falsità. Le due possibili conclusioni del
paradosso si presentano nella forma contraddittoria A e non-A, e questa sola contraddizione è
sufficiente ad inficiare la logica bivalente. Ciò al contrario non pone alcun problema alla logica fuzzy,
poiché, quando il cretese mente e non mente allo stesso tempo, lo fa solo al 50%. Quanto esposto
conferma la sua validità in tutti i paradossi di autoriferimento. È interessante notare come, ammettendo
esplicitamente l'esistenza di una contraddizione, la condizione che la traduce venga poi impiegata per
determinare l'unica soluzione contraddittoria tra le infinite possibili (sfumate, cioè a valori di verità
frazionari) per la questione posta: ciò conferma l'insussistenza dei principi di non contraddizione e del
terzo escluso. Infatti, nella logica fuzzy l'esistenza di circostanze paradossali, vale a dire di situazioni
in cui un certo enunciato è contemporaneamente vero e falso allo stesso grado , è evidenziata da
ciascuno dei punti d'intersezione tra una generica funzione d'appartenenza e il suo complemento,
avendo necessariamente tali punti ordinata pari a ½. Ciò in quanto il valore di verità della proposizione
in questione coincide con il valore di verità della sua negazione. Gli operatori logici AND, OR, e NOT
della logica booleana sono definiti di solito, nell'ambito della fuzzy logic, come operatori di minimo,
massimo e complemento; in questo caso, sono anche detti operatori di Zadeh, in quanto introdotti per
la prima volta nei lavori originali dello stesso Zadeh. Pertanto, per le variabili fuzzy x e y si ha, ad
esempio:
Si è detto che la teoria degli insiemi sfumati generalizza la teoria convenzionale degli insiemi;
pertanto, anche le sue basi assiomatiche sono inevitabilmente diverse. A causa del fatto che il principio
del terzo escluso non costituisce un assioma della teoria degli insiemi fuzzy, non tutte le espressioni e
le identità, logicamente equivalenti, dell'algebra booleana mantengono la loro validità anche
nell'ambito della logica fuzzy. Recentemente si sono sviluppati rigorosi studi della logica fuzzy "in
senso stretto", studi che si inseriscono nell'antico filone delle logiche a più valori inaugurato da Jan
Łukasiewicz (si veda ad esempio il libro di P. Hájek). Tuttavia la logica sfumata, oltre ad avere
ereditato le motivazioni filosofiche che hanno dato origine alle logiche a più valori, si inquadra nel
contesto più ampio delle metodologie che hanno consentito un marcato rinnovamento dell'intelligenza
artificiale classica, dando vita al cosiddetto soft computing che ha tra i suoi costituenti principali le reti
neurali artificiali e gli algoritmi genetici ed il controllo fuzzy. Per capire la differenza tra logica fuzzy e
teoria della probabilità, facciamo questo esempio: un lotto di 100 bottiglie d'acqua ne contiene 5 di
veleno. Diremo allora che la probabilità di prendere una bottiglia di acqua potabile è 0,95. Tuttavia una
volta presa una bottiglia, o è potabile, o non lo è: le probabilità collassano a 0 od 1. Se invece
prendiamo una bottiglia b contenente una miscela di acqua e veleno, al 95% di acqua, allora avremo
μPOTABILE(b) = 0,95. I valori fuzzy possono variare da 0 ad 1 (come le probabilità) ma, diversamente da
76
differente dall’homo tolemaicus di Sergio Cotta93! Non è una
banalità: è la verità.
E questo tipo di uomo che è nel giurista, nell’interprete: un
essere altamente tecnologicizzato, logico, meno intuitivo e più
deduttivo, affascinato dal presente, sperso in un futuro da
fantascienza, amante dei miti, poco incline alla saggezza.
queste, descrivono eventi che si verificano in una certa misura mentre non si applicano ad eventi
casuali bivalenti (che si verificano oppure no, senza valori intermedi). I rapporti tra logica sfumata e
teoria della probabilità sono estremamente controversi e hanno dato luogo a polemiche aspre e spesso
non costruttive tra i seguaci di ambedue gli orientamenti. Da una parte, infatti, i probabilisti, forti di
una tradizione secolare e di una posizione consolidata, hanno tentato di difendere il monopolio
storicamente detenuto in materia di casualità ed incertezza, asserendo che la logica sfumata è null'altro
che una probabilità sotto mentite spoglie, sostenuti in tale convinzione dalla circostanza, da ritenersi
puramente accidentale, che le misure di probabilità, al pari dei gradi d'appartenenza agli insiemi fuzzy,
sono espresse da valori numerici inclusi nell'intervallo reale [0, 1]. Gli studiosi di parte fuzzy, al
contrario, hanno mostrato che anche la teoria probabilistica, nelle sue varie formulazioni (basate,
secondo i casi, sugli assiomi di Kolmogorov, su osservazioni concernenti la frequenza relativa
d'accadimento di determinati eventi, oppure sulla concezione bayesiana soggettivista, secondo cui la
probabilità è la traduzione, in forma numerica, di uno stato di conoscenza contingente), è in definitiva
una teoria del caso ancora saldamente ancorata ad una Weltanschauung dicotomica e bivalente. A
questo proposito, Bart Kosko si è spinto fino a ridiscutere il concetto di probabilità così come emerso
finora nel corso dell'evoluzione storica, sottolineando la mancanza di solidità di tutti i tentativi intesi a
fondare la teoria della probabilità su basi diverse da quelle puramente assiomatiche, empiriche o
soggettive, e ritenendola un puro stato mentale, una raffigurazione artificiosa destinata a compensare
l'ignoranza delle cause reali di un evento: la probabilità sarebbe in realtà mero istinto di probabilità. Al
contrario, secondo la suggestiva e penetrante interpretazione dello stesso Kosko, la probabilità è
l'intero nella parte, ossia la misura di quanto la parte contiene l'intero. La parte può, in effetti,
contenere l'intero nella misura in cui la sua estensione può sovrapporsi a quella dell'insieme universale.
Questa concezione comporta un'affermazione apparentemente singolare, quella per cui la parte può
contenere l'intero, non soltanto nel caso banale in cui la parte coincide con l'intero; infatti, l'operatore
di contenimento non è più bivalente, ma è esso stesso fuzzy e può pertanto assumere un qualunque
valore reale compreso tra 0 (non contenimento) e 1 (contenimento completo o, al limite, coincidenza).
Su questa base, egli può finalmente concludere che la teoria degli insiemi sfumati contiene e
comprende quella della probabilità come suo caso particolare; la realtà sarebbe pertanto deterministica,
ma sfumata: la teoria del caos ne ha evidenziato la componente determinista, mentre la teoria fuzzy ha
mostrato l'importanza del principio dell'homo mensura già espresso da Protagora.
Su Epimenide e sulla logica deontica in genere, cfr. AMEDEO G. CONTE, Pragmatica d’un paradosso:
l’Epiménide deontico, in Ricerche praxeologiche, a cura di ANGELA FILIPPONIO , Adriatica Editrice,
Bari,2000, pp. 159 – 203.
77
Operando per concludere un giudizio, quindi, tutto quel suo
Io è dinamizzato con la attività che sta compiendo.
Il problema della interpretazione è “a risposta aperta”, come
esattamente afferma Pugiotto94, “in progress”, ad acquisizione
progressiva. Non si è mai definito e non è mai chiuso proprio a
89
“La classificazione è l’operazione (x è y1 o y2…) che enuncia, della classe x, due o più sottoclassi
(ed eventualmente loro ulteriori sottoclassi) in cui è divisibile senza residui. La classificazione, intesa
come sistema di classificazioni, è un insieme di classificazioni che concorrono ad effettuare una
rappresentazione ordinata di un campo d’esperienza…”, LELIO LANTELLA - EMANUELE STOLFI – MARIO
DEGANELLO , Operazioni elementari di discorso e sapere giuridico, op. cit., pp. 138 e ss.; poco oltre: “
Le classificazioni rilevano in ambito giuridico per i risultati di conoscenza e sistemazione teorica che
consentono di raggiungere. In altre parole, alle classificazioni si farà ricorso, ancor più che nel
concreto agire dell’operatore giuridico (il quale viceversa tante volte qualifica, e soprattutto sussume),
nell’allestire un impianto ordinante che consenta una conoscenza sistematica della materia giuridica”,
p. 157. E farà ricorso a diversi criteri di classificazione, al fine di meglio specificare, delimitare, il
percorso da seguire per dare una risposta quanto più vicina al sistema giuridico compulsato. E tutto
questo, accanto alle fonti di produzione e a quelle di cognizione, assumono la denominazione di fonti
di elaborazione, intese “ «come atti che nel loro insieme unitario costituiscono i precedenti di
creazione, modificazione o di estinzione delle norme giuridiche» (ad esempio, il procedimento previsto
dalla Costituzione per la formazione delle leggi). Evidente è anche come, nelle classificazioni che
realizzeremo, la prospettiva sarà prevalentemente orientata sull’esperienza giuridica italiana” (Ib., pag.
157) e comunitaria, mi sentirei di aggiungere.
90
Appellato così perché una le mani per comunicare, comandare, vivere (con una tastiera del
computer) e a parere mio caratterizzato dalla solitudine, dal silenzio, dall’assenza di sensi di colpa,
disperazione della non conoscenza del progresso scientifico e tecnologico e da una serie di paure,
angosce e incertezze sul futuro suo e del mondo intero.
91
NATALINO IRTI, Scambi senza accordo, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, Giuffrè,
Milano, 1998, pagg. 347 e sgg.
92
“Homo loquens è l’uomo che, conoscendo le cose e rendendole presenti nel dialogo, ricorre al sapere
collettivo della lingua; homo videns è l’uomo che percepisce, con l’immediatezza dell’occhio, la figura
stessa delle cose. La parola possiede un contenuto teoretico che l’occhio non può avere: la parola
offre, la cosa si offre; la parola evoca l’assente, la cosa è presente¸ la parola chiede di essere capita, la
cosa di essere ricevuta nella percezione visiva. Ecco perché dove la cosa o l’immagine della cosa
prendono il luogo della parola, si estingue il dialogo e regna il silenzio”, N. Irti, Scambi…, op. cit. pag.
353. E poco oltre: “La tecnologia dell’immagine rovescia il rapporto tra l’uomo e le cose. Non più
l’uomo che va verso o presso le cose; ma le cose che, fermate in immagini, vanno verso l’uomo. Le
cose (diremo con JACQUES DERIDA) vengono chez nous. Traducendosi in pura visibilità, esse si offrono
alla nostra scelta. Tra la cosa e noi non c’è un uomo, chela offra e proponga, ma la stessa figura visiva
della cosa: astratto termine del nostro rifiuto o della nostra preferenza. L’uomo non più proferisce
parole, ma preferisce immagini di cose”, N. IRTI, op. ult. cit., pagg. 356-357. Quasi un primato della
estetica, allora, su tutte le attività umane! Solo che qui colgo l’essenza, il Valore; lì, forse, ne colgo
l’utile per me.
78
cagione della ricchezza interiore che ogni interprete ha ex se, per il
solo e semplice fatto di essere un uomo.
Infatti il tecnicismo logico del sillogismo giuridico, pur
sempre alla base del ragionamento decisionale anche per i sistemi
di Common Law (la premessa maggiore potrebbe essere un
precedente95) non è fallace tout court; solo che non regge al
confronto del sopravanzare dei “nuovi diritti”, alla applicazione di
norme costituite da meri principi, al pieno riconoscimento dei
diritti dell’uomo nei fatti (mi si lasci questa espressione che rende,
però, l’idea che i diritti fondamentali vanno vissuti sulla pelle
dell’uomo e non semplicemente idealizzati o stampati in
meravigliosi programmi e progetti) , della dignità della persona,
della tutela di tutto ciò che circonda l’essere. In una sola parola:
della evoluzione della Natura all’interno della quale l’uomo è
magna pars, ma resta sempre una parte del Tutto.
In realtà il giudice, l’interprete, il giurista rimane, per sua
funzione teleologica, sempre meno la bouche de la loi, per dirla col
Montesquieu96, anche se le si aggiungesse la qualifica di naturale97.
93
SERGIO COTTA, L’uomo tolemaico, Rizzoli, Milano, 1975.
94
A. PUGIOTTO, Come non si interpreta il diritto, op. cit., p. 12
95
Ancora sul punto, PAOLO MORO, Topica e Informatica Giuridica. Sui fondamenti della ricerca
elettronica dell’argomentazione forense, in Prolegomeni d’informatica giuridica, a cura di UGO
PAGALLO , CEDAM, Padova,2003, pp. 269 e ss. .96
Sul punto, A. PUGIOTTO,op. ult. cit., pag. 2.-
79
E l’interprete deve, nel trovare la (giusta) soluzione al caso
concreto, cercare di attuare di continuo, proprio perché si pone
all’interno di un sistema di norme vive, ma anche di una società
che muta costantemente, che crea nuovi diritti e nuovi modelli
comportamentali98,
due
principi
che
non
possono
essere
pretermessi anche se, oggi, hanno un diverso modo di essere
intesi: la certezza del diritto e la giustizia. La prima deve essere
intesa come pre-ordinamento; cioè quella sicurezza che scaturisce
dalla presenza dell’ordinamento per cui si conosce, già prima di
compiere un atto, quali saranno le conseguenze cui si andrà
incontro. Non una mera aspettativa, quindi, ma la piena
consapevolezza del risultato raggiungibile.
E tutto ciò lo attua il giurista con ogni strumento logico,
meccanico, informatico.
In quanto il sillogismo giudico, come detto, è solo un mezzo
per una buona intepretazione/applicazione delle norme ai fatti e
atti umani. Ma l’automatismo, la sentenza informatica, il processo
97
Non a caso SERGIO COTTA parla di un diritto naturale positivo e vigente (nel suo citato Il diritto nella
esistenza) proprio ad indicare l’esigenza tutta umana di trovare la razionalità del diritto all’interno
dell’uomo stesso che co-esiste con gli altri in questa società. “Il diritto positivo quindi mutua dal diritto
naturale il valore della razionalità (giustizia) e fornisce al diritto naturale il valore proprio della
positività (la determinazione concreta, che forse è difficilmente individuabile, che certamente può
essere fatta valere). In tal modo diritto naturale e diritto positivo sono due aspetti, ben distinguibili con
l’astrazione mentale, di una normazione, di una stessa sentenza, di una stessa osservanza”, R. BOZZI,
Filosofia del Diritto, op. cit., p. 277.
98
Si pensi a come sia cambiata la nostra vita, nel volgere di pochi anni, da quando è stata riconosciuta,
ad esempio, il diritto alla privacy, la tutela del dato personale, l’esaltazione della dignità umana, sia per
quel che attiene al quotidiano (le aree video sorvegliate, il modulo di consenso informato, la maggior
tutela dei dati sensibili, eccetera) sia per quel che attiene alla loro tutela in ambito giudiziario.
80
decisionista automatizzato non regge al processo di induzione e di
sussunzione laddove debba farsi ricorso a un principio sancito in
una regola cui, a sua volta, dare un contenuto specifico. Almeno
fino alla data odierna…
Il modo classico di esprimere la proposizione normativa
Px (a v b)
dove x indica il soggetto, P il permesso (funtore del permesso), a e
b due azioni, v l’alternativa (= x ha il permesso di fare a o b); o se
voglio esprimere che “x ha l’obbligo di fare a” devo simboleggiare
con
Ox (a)
Se, invece, voglio dire che “l’editto dice che x deve fare a”
dovrò simboleggiare con
p (Ox (a) )
Orbene se proponiamo a una qualsiasi elaboratore di trovare
una norma del genere, lo farà in tempi ristretti, ricercando la
terminologia esatta.
Ma il problema nasce quando l’obbligo di fare/non fare, il
permesso, l’editto, sia un principio con una valenza assolutamente
generica e, al contempo, universale e sia, quindi, di tipo
valutativo.
81
Qui la macchina si sperderebbe, come un uomo negli occhi
di una donna amata! E non si ritroverebbe più.
Ma non perché vi sia un salto dal razionale all’irrazionale.
Perché per una valutazione non è stata ancora trovato l’algoritmo.
Come per un atto volontaristico.
L’intelligenza resta sempre artificiale e il modello cui si
ispira ha la intuizione, la visione dei fatti sotto diverse prospettive,
la capacità linguistica di scegliere il termine appropriato,
l’articolazione mentale per poter decidere assumendosene le
responsabilità.
In fin dei conti: il sillogismo resta come strumento del
ragionamento giuridico ma la logica dei sistemi informatici non
appare ancora pronta a sostituire totalmente la genialità di un
cervello umano.
Non dimenticando che ognuno di noi ha al suo interno un Io
che è principio di vita e di universalità e la cui luce traspare dagli
occhi della propria e altrui persona, latinamente intesa come
maschera, e che si proietta intorno per illuminare e cogliere non
soltanto la razionalità degli altri, ma tutto quanto è stato
biblicamente posto al suo servizio, come la natura, l’ambiente nelle
loro essenze.
82
Ed è il grande limite delle macchine (se pur pensanti)!99
L’attività ermeneutica è essenzialmente attività umana e il
termine trae origine da Ermes o Mercurio: divinità che per il volgo
era il protettore di ladri, ingannatori e commercianti, ma per i
sapienti, per coloro, cioè, che riuscivano a cogliere l’essenza delle
cose nella realtà che li circondava, i principi universali sparsi in
noi e al di fuori di noi, Ermes era Colui che rubava la verità agli déi
per portarla agli uomini, che di essa hanno sempre avuto una sete
insaziabile. Ma tutto doveva essere sigillato proprio perché la
verità non andasse dispersa. Ecco perché si è sempre parlato della
sacralità
della
(dea)
Giustizia
non
formalmente
e
formalisticamente intesa come rituaria, ma essenzialisticamente
come attuazione di una sola, Unica, Universale grande Legge. Al
di là, ancora, di ogni singolo ordinamento, morale, religione.
Mercurio aveva alle ali i piedi, per volare verso l’Olimpo e il
caduceo, simbolo di forza, luce, amore e fertilità.
99
“La cibernetica ha potuto procedere così decisamente proprio per la coperta delle tecniche di
funzionamento del pensiero, ma è chiaro che tali tecniche ci sono soltanto in piccola parte e che
lasciano ancora quasi ignote le tecniche del funzionamento della volontà e del sentimento. Se il
dualismo di anima e corpo è stato completamente superato, resta tuttavia da esplicitarne l’unità sotto
tanti aspetti finora negletti perché supposti tradizionalmente affatto eterogenei…Pretendere di costruire
una macchina che abbia i requisiti dell’uomo senza avere gli strumenti dell’uomo, significa porsi un
fine assurdo. Potremo costruire macchine che avranno capacità incomparabilmente diverse e maggiori
di quelle dell’uomo. Fino a quando biologia e cibernetica non si identificheranno, il secondo Adamo
non potrà venire alla luce”, UGO SPIRITO, Cibernetica e Biologia, op. cit., p. 68 e p. 70.-
83
Come della Giustizia, intesa come un jus che stat e ia100: cioè
una continua attuazione del diritto (positivo, vigente, valido,
efficace, effettivo), in piena adesione alla iconografia classica dei
due piatti della bilancia che non sono mai in posizione statica o
paritetica, ma dinamica. Al fine di far comprendere, agli uomini,
che Essa è in continua evoluzione e progressione proprio per
attuare quello jus in civitate positum, sempre pieno di (naturali)
lacune a causa della perenne evoluzione che la società umana alla
continua ricerca di nuovi aspetti della persona da tutelare e che
deve adeguarsi al caso concreto101 per disciplinarlo. E che dire del
vero
e proprio
Idola baconiano,
se non
sogno
(incubo)
giuspositivista, della completezza dell’ordinamento?
Se così fosse, un elaboratore potrebbe per davvero sostituire
un Giudice.
Ma così non è.
E che dire, ancora, delle antinomie?
In linea teoria un elaboratore potrebbe ritrovarle ed
eliminarle; ma il controllo dell’uomo è sempre essenziale proprio
per evitare che la polisemia “confonda” la macchina, ad esempio.
E l’interprete, quindi, si pone (sempre liberamente e mai
sotto una influenza ideologica, morale o religiosa, perché
100
Per una più compiuta esposizione di tale concetto, ERNESTO CIANCIOLA, Il senso della Giustizia,
Cacucci, Bari, 1998, pp. 27 – 32 e 105 -131.101
La massima “ex facto oritur jus”, quindi, vale oggi più che mai!
84
scivolerebbe amaramente in un fondamentalismo che è cecità e
obnubilazione mentale tout court) come colui che deve sussumere
il fatto nei principi normativi sempre più protesi verso un nomos
basileus che governa uomini e déi; quella Legge Unica e Universale
sopra richiamata, cui tutti tendiamo e alla quale tutti ci appelliamo
nei momenti nei quali, come diceva Archita, patiamo ingiustizia,
cioè soffriamo.
E il giurista è anch’egli, come Mercurio, un portatore del
caduceo, perché sana i mali sociali e ha le ali per volare alto,
avendo (parafrasando I. KANT nella sua Critica della Ragion Pratica)
sopra di sé un cielo stellato e al suo interno l’universo infinito
luminoso e nouminoso di una Legge Unica.
ERNESTO CIANCIOLA
Scarica

Secondo incontro ionico - polacco dell`Uomo e dell`Ambiente sul tema