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Emblema della Giovine Europa (Berna 1834)
Sigillo del Patto Federale della Giovine Europa.
Ora e sempre.
Anno 68º - Nuova serie
Maggio - Agosto 2013
Quadrimestrale nº 2
Periodico dell’Associazione
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Sommario
Sommario
Editoriali e commenti
Documento Direzione Nazionale
Il dovere della lealtà fra governanti e governati
Crisi di sistema
Cosa è in gioco
A.M.I.
Pietro Caruso
Renzo Brunetti
Sauro Mattarelli
Saggi e interventi
014 - Mazzini e Gobetti
027 - L’aspersorio e i poteri forti. La Chiesa a Taranto nel ’900
Pietro Polito
Roberto Nistri
Primo Risorgimento
042 - Arcangelo Ghisleri: maestro di G. Andrea Belloni
074 - “Com’è bella l’alba d’Italia”
Silvio Berardi
Federico Melotto
003
007
009
011
-
Secondo Risorgimento
087 - Due personalità, un incontro alla vigilia della Grande Guerra Marco Severini
Silvio Pozzani
093 - Echi Mazziniani nell’ultimo fascismo (1943-45)
Terzo Risorgimento
101 - XX settembre 1870: Roma è Italia
Studi repubblicani
107 - Carlo Bini: un giovane mazziniano livornese
111 - Una trafila “particolare”: Primo, Secondo e
Terzo Risorgimento. “Quello che ancora vive”
Luigi Orsini
Michele Finelli
Sara Samorì
Società e Cultura
Alessandro Buda Hardy
116 - Il risorgimento dell’anima
Mauro Molinari
123 - Giovan Battista Brignardello, sacerdote e scrittore
127 - Il ruolo dell’Unione Europea in una prospettiva di sviluppo Roberto Cacciani
Libri, Cultura e Società
134 - Fra gli scaffali
144 - Recensioni
159
161
163
164
2
-
L’Opzione
Riletture “Di alcuni Stati moderni”
Ricordo di Emilio Costa
Errata corrige
il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
G. Spataro / G. Bezzi
L. Frontini
Pietro Caruso
Carlo Cattaneo
Maria Pia Roggero
A.M.I.
Editoriali e commenti
ASSOCIAZIONE MAZZINIANA ITALIANA
Documento approvato dalla Direzione Nazionale
L
a crisi politica ed istituzionale che oggi vive l’Italia si caratterizza per la
generale delegittimazione sia delle istituzioni rappresentative che dei partiti politici. Da un lato, essi soffrono di una crisi di rappresentatività, in quanto non sono
percepiti come portatori degli interessi collettivi. Dall’altro, essi sono considerati responsabili della profonda crisi economica e sociale che sta impoverendo tutto il Paese.
La drammaticità della crisi è accentuata dai recenti sviluppi politici di natura del
tutto eccezionale verificatisi negli ultimi mesi:
1. un risultato elettorale sbilanciato tra i due rami del Parlamento, che non ha
consentito l’individuazione di una maggioranza di Governo;
2. la rielezione per la prima volta nella storia repubblicana del Capo dello Stato;
3. la formazione di un governo cosiddetto delle “larghe intese”, che riunisce i
partiti che si sono aspramente combattuti nell’ultimo ventennio.
Il clima politico e sociale del Paese si caratterizza per una crescente sfiducia non
solo nella capacità della classe dirigente in quanto tale di superare la crisi, ma
anche nelle risorse del Paese stesso, che è sempre più ripiegato e di fatto sopravvive soltanto attingendo alle reti di sostegno f0amiliare.
In particolare, è venuto meno e si è anzi ribaltato in senso negativo il solo punto
di forza degli ultimi due decenni, vale a dire il “collante” europeo. La moneta
unica, da fattore di stabilità e sicurezza, appare oggi una parte del problema e
non della soluzione.
L’attuale Governo, sulla scia del precedente, sta forse operando responsabilmente
per sfruttare tutti i margini offerti dagli attuali equilibri politici ed economici in
seno all’Unione europea, ma è ben lungi dall’avere impostato quel progetto di
riforma globale di cui il Paese ha bisogno per poter cominciare a nutrire la speranza
di un rilancio.
Gli ultimi giorni, d’altra parte, stanno registrando una recrudescenza della
contrapposizione tra le due principali forze dell’attuale maggioranza sul tema della
giustizia, in relazione agli sviluppi delle note vicende processuali.
il pensiero mazziniano
3
Editoriali e commenti
In tale contesto, la maggioranza di Governo ha concordato la ripresa del processo delle riforme costituzionali, varando un disegno di legge che ne stabilisce le
tappe procedurali.
La prima domanda da porsi è se sia nell’interesse del Paese avviare tale processo
e se l’attuale Parlamento sia nelle condizioni di affrontare questo tema in modo
ponderato e rispondente alla volontà popolare.
I mazziniani ribadiscono, a tale proposito, la piena validità della Costituzione
repubblicana in vigore. Tale posizione di principio non esclude naturalmente la
valutazione di alcune necessarie modifiche della parte relativa all’ordinamento della
Repubblica, che non ne alterino però l’impianto e siano comunque coerenti con
i principi fondamentali nonché con i valori della prima parte della Costituzione.
Quanto all’ipotesi presidenzialista, nel ricordare peraltro che essa è stata nel passato
proposta anche da alcune correnti del movimento democratico repubblicano, non
si tratta di assumere una preclusione di natura ideologica, ma di valutarla alla luce
della situazione attuale.
Il punto da chiarire preliminarmente è se i problemi del Paese sarebbero risolti
dalle riforme costituzionali ovvero se le attuali disfunzioni del sistema costituzionale siano la causa della crisi italiana.
A nostro avviso, ci sono senz’altro alcuni aspetti migliorabili nella Carta costituzionale, ma le ragioni della crisi sono da ricercarsi altrove, vale a dire nell’inadeguatezza dei partiti politici, nel conservatorismo della struttura sociale, incrostato
dall’evasione fiscale e dalla corruzione diffusa, e nell’arretratezza dei diritti civili.
Ne consegue che non è questo il momento di avviare una riforma complessiva
dell’ordinamento costituzionale, anche perché l’attuale Parlamento è il frutto di una
legge elettorale iniqua ed è quindi privo della necessaria legittimazione popolare.
Appare altamente discutibile anche il metodo prescelto di ricorrere ad un Comitato di esperti sul fronte governativo e ad un’ennesima Commissione bicamerale
sul fronte parlamentare. Ove mai fosse il caso di procedere ad una riforma
complessiva della Costituzione, occorrerebbe piuttosto la convocazione di
un’Assemblea costituente e la più ampia consultazione della cittadinanza. L’eventualità pur prospettata di un referendum, a conclusione del processo di revisione
costituzionale, sembra essere una mera “foglia di fico” che porrebbe l’elettorato
di fronte ad un “prendere o lasciare”.
Quello di cui oggi ha bisogno l’Italia è ben altro. Quello delle riforme costituzionali rischia quindi di essere un alibi. Non può essere questa la legislatura
costituente. D’altra parte, ci sono delle questioni urgenti che non possono essere
tralasciate prima dell’inevitabile nuovo appuntamento elettorale.
Invece di entrare in un percorso di riforme troppo ambizioso che rischia di
concludersi nuovamente nel nulla, l’attuale Parlamento dovrebbe concentrarsi sulle
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il pensiero mazziniano
A.M.I.
priorità che sono già da tempo all’attenzione e che non hanno bisogno di ulteriore istruttoria e potrebbero concretizzarsi in proposte immediate:
1. riforma della legge elettorale anche provvisoriamente con il mero ritorno alla
legge precedente;
2. sostituzione del finanziamento pubblico dei partiti con il contributo volontario in sede fiscale;
3. riforma del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari
da agganciare eventualmente al tasso di partecipazione al voto;
4. soppressione delle province;
5. riforma dei regolamenti parlamentari.
La sopravvivenza o meno della legislatura non può essere affidata a fumosi e
salvifici progetti di riforma costituzionale a troppo lunga scadenza. Essa deve
ricevere più immediate e periodiche prove di sussistenza. “Poche, maledette e
subito”: questo dovrebbe essere lo slogan in materia di riforme istituzionali.
Invece che inseguire ancora una volta il mito palingenetico di una riforma, sarebbe ora invece di dare piena attuazione alla nostra Costituzione in tutti i campi
in cui essa è oggi apertamente violata o tutt’al più ignorata, come:
1. lo statuto pubblico dei partiti e dei sindacati;
2. la progressività fiscale;
3. il diritto allo studio e l’accesso al lavoro;
4. la laicità dello Stato e la scuola pubblica;
5. l’imparzialità della pubblica amministrazione e la garanzia della giustizia.
Né può sfuggire il patetico tentativo di non affrontare il nodo dell’improcrastinabile
riforma della legge elettorale, rinviandolo alla definizione del nuovo quadro costituzionale.
Indipendentemente dai moniti sia del Presidente della Repubblica che della Corte
costituzionale, pesa come un macigno sulla classe politica la responsabilità di non
avere riformato la legge elettorale nella scorsa legislatura e di continuare sostanzialmente a boicottarla. Dopo gli iniziali sussulti, forse anche per l’apparente
ridimensionamento dei consensi accreditati al Movimento 5 Stelle, non è oggi da
escludere che anche le prossime elezioni politiche, quale che ne sia la data, abbiano luogo con l’attuale legislazione, ma anche con le ineludibili conseguenze sul
piano dell’ulteriore disaffezione da parte del corpo elettorale.
È del tutto evidente l’estrema difficoltà di raggiungere un’ampia maggioranza
parlamentare su un tema così controverso. Ma al punto in cui siamo, il Governo
ed il Parlamento non possono esimersi dal farsi carico di questa responsabilità,
a cui avrebbero già dovuto da tempo assolvere.
il pensiero mazziniano
5
Editoriali e commenti
In conclusione, i mazziniani, riaffermando l’attualità e la validità della forma di
governo parlamentare per la Repubblica italiana, chiedono:
1. l’immediata riforma della legge elettorale in coerenza con i principi costituzionali ed il varo delle altre riforme istituzionali rapidamente realizzabili attraverso
il canale ordinario dell’articolo 138;
2. il blocco del progettato processo di riforma complessiva della Costituzione, da
sostituire semmai con l’elezione di un’assemblea costituente su base proporzionale nei tempi e nei modi più opportuni;
3. la prosecuzione dell’impegno presso l’Unione europea per i progressi dell’integrazione in campo economico, monetario, fiscale e bancario, nonché l’accelerazione della realizzazione della federazione degli Stati Uniti d’Europa;
4. la riorganizzazione del sistema politico e quindi dell’offerta elettorale attraverso una rifondazione dal basso dei partiti fondata su culture politiche di riferimento, in armonia con le tradizioni politiche europee, così come sulla trasparenza dei
meccanismi di finanziamento e di selezione delle candidature.
Roma, 13 luglio 2013
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il pensiero mazziniano
Pietro Caruso
Il dovere della lealtà fra governanti e governati
A
lla base di ogni umano sodalizio c’è un principio di comunità. Dalla società
più piccola, anche se formata dall’unione di due sole persone, fossero anche
tenute insieme da un legame senza scopi familiari, fino alle società più complesse
legate dall’appartenenza a un partito, una nazione, uno Stato sovranazionale c’è
il bisogno di lealtà. Un sentimento apparentemente sfuggente e di sicuro difficile.
Sì perché lealtà è insieme il rispetto di una patto, di una fede e dall’altro una
norma di comportamento etico-universale. Sia chiaro la lealtà non è la cieca
obbedienza. Non si instaura in un sistema di rapporti verticali dove il vertice ha
potere assoluto e nessuna forma di controllo. Tanto meno è la fedeltà al capo.
Il dovere di lealtà e, in fondo, un obbligo di chiarezza perché nessuna attività
umana si può fondare senza la fiducia e senza la verità delle relazioni. Non si
tratta, almeno per quanto riguarda la mia convinzione, nel compiere l’errore di
rivelare sempre tutto a tutti, ma di sapere individuare nell’arte della decisione e
nell’obbligo delle scelte il quadro reale delle situazioni e le circostanze realistiche
nelle quali si svolgono. Per mito delle conquiste sociali, senza sacrifici, si è creata
un’aspettativa fra le persone, le masse di individui, che la felicità sia un obiettivo
concreto e a portata di mano anche quando non è così. In una quota importante
del debito di cui gli Stati democratici si sono appesantiti c’è anche questa dimensione di irrealtà. Metà del debito italiano, per esempio, è stato sicuramente creato
da comportamenti irresponsabili, ruberie, soverchierie delle classi dirigenti a partire dal ceto politico, ma l’altra parte è formata dalle spinte sociali che hanno
considerato inevitabili i debiti pubblici per soddisfare bisogni di uguaglianza,
vantaggi a categorie economiche, ritardi intollerabili nella conquista dei diritti. È
vero che se la storia delle riforme economiche e sociali italiane avessero conosciuto meno dissipazioni dovute a guerre, storture, miserie la creazione dello Stato
sociale sarebbe potuto avvenire fra la prima e la seconda guerra mondiale nelle
modalità conquistate dalle grandi socialdemocrazie nordiche europee...ma così non
è stato e da noi le cose hanno proceduto a strappi, con tensioni, violenze, un
percorso non graduale, né lineare. Nel racconto di come il potere si gestisce e
di quali costi ci si debba fare carico gli autori che hanno usato parole di verità
sono pochi. Alle orecchie a buon mercato non piace sapere le scomode verità.
La posizione gregaria delle masse e la pavidità di molti individui impedisce alle
comunità di porsi la domanda più semplice e terribile: quanto costiamo e che
prezzo ha la nostra civiltà con i suoi istituti.
La gestione degli anni che vanno dal 1973 al 2013 dal punto di vista della crisi
fiscale dello Stato è stata emblematica per la scarsa lealtà che i governi hanno
il pensiero mazziniano
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Editoriali e commenti
avuto verso i cittadini contribuenti e d’altra parte soltanto minoranze di cittadini
a loro volta sono stati leali verso gli sforzi per il risanamento. Il grande partito
degli evasori fiscali ha sempre avuto moltissimi seguaci. Purtroppo, storicamente,
Giuseppe Mazzini non ebbe la possibilità di amministrare come statista la nascente nazione italiana ma i suoi successori mazziniani nelle esperienze amministrative seppero in tanti casi esprimere una cultura della responsabilità elevata a
foriera di buone prassi. Mancò a gran parte del Risorgimento quella dimensione
scientifica nell’arte di governare che nei contenuti del Politecnico ispirato da Carlo
Cattaneo fu un obiettivo costante della democrazia repubblicana di orientamento
federalista. Mancò nel secondo Risorgimento, durante la stagione della Resistenza
e nei pochi anni di governo del Cln il prevalere di quella cultura che una rivista
come Stato moderno tentò di imprimere alla nuova Italia post-fascista maturando
un pezzo degli ideali del Partito d’Azione e non riuscì a prevalere nel secondo
dopoguerra quell’attenzione alla spesa pubblica che il riformismo animato da Ugo
La Malfa e Bruno Visentini seppero comunque rappresentare.
Quando nel 2008 esplose negli Stati Uniti la crisi finanziaria, con lo scandalo
sopito ma non del tutto risolto dei cosiddetti titoli derivati, non ci fu in Italia una
revisione severa delle politiche finanziarie. E la principale responsabilità è sulle
spalle dei governi Berlusconi, con il ministro Giulio Tremonti che fu un entusiasta sostenitore delle politiche liberiste almeno fino al 2011 quando poi decise di
abbandonarle. Né va dimenticato che anche all’interno di settori importanti della
sinistra e dei sindacati si propone la soluzione di questa crisi strutturale con risposte
vecchie anche se nobilmente legate alla figura di John Maynard Keynes. Senza le
sferzate arrivate dalla Commissione, dalla Banca centrale europea e dal calcolo
dello spread difficilmente il ceto politico italiano avrebbe assunto posizioni che
poteva già avere assunto almeno dal 2001. Tredici anni sono passati nel nuovo
secolo senza che sia diventata senso comune l’etica della responsabilità: fare le
cose quando puoi onorare in tempi ragionevoli i tuoi debiti. Questo è il dovere
di lealtà che dovrebbe caratterizzare il rapporto fra governanti e governati. Non
è quasi mai stato così ed è per questo che possiamo parlare sul piano economico
e finanziario (ma anche politico e sociale) di un secondo 8 settembre come se
si stesse concludendo un terzo conflitto mondiale sia pure non gestito dalla forza
delle armi militari). È nostro il compito di essere fastidiosi. È nostra la consapevolezza di moderni mazziniani che riempiono le tasche di sassolini e impegni
per ricordare, sempre, le verità che devono essere dette al popolo, specie se in
esso vi siamo immersi senza la terribile distanza da esso che dovettero gestire i
nostri antenati cospiratori animatori della rivoluzione democratica, repubblicana,
intrisa di socialità.
Pietro Caruso
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il pensiero mazziniano
Renzo Brunetti
Crisi di sistema
P
remettere che chi scrive non è un economista è necessario per non incorrere
nella reprimende di studiosi di tale materia, che hanno dottamente discusso
di cause, sviluppi e previste conclusioni, ottimistiche o catastrofiche.
Ciò significa qualificare queste note come quelle di un osservatore di eventi di
carattere generale, solo marginalmente considerati in quelle discussioni.
Certo è che in concomitanza temporale con le massima diffusione delle comunicazioni informatiche (anche agli operatori più modesti), negli ultimi cinque o
sei anni, abbiamo registrato una crisi diffusa delle economie nei diversi continenti, quasi che la maggiore apertura del mercato diversamente da quanto saremmo
portati a ritenere - provocasse i fenomeni di inflazione e recessione, che hanno
sconvolto i mercati finanziari dei vari continenti.
All’ “incolto” osservatore, viene allora da pensare che, a prescindere dalla ’salute’
delle economie, da paese a paese (e da mercato a mercato), nessuno dei governanti delle economie mondiali ha saputo gestire la c.d. “globalizzazione”, che
avrebbe dovuto comportare una diffusa maggiore ricchezza, mentre forse ha
generato alcune enormi “fortune” di pochi grandi magnati, molti sconvolgimenti
dei mercati, corrispondenti decrementi patrimoniali, molti fallimenti, una disoccupazione dilagante, un incremento di attività illecite.
Se queste sono constatazioni comuni al nord ed al sud del pianeta, va ricercata
una causa comune, che pare proprio data dall’evolversi delle comunicazioni e delle
potestà operative.
Ciò non significa che per tale ragione occorra “frenare” il processo evolutivo
della scienza, bensì che sono superati i “sistemi” economici che governano le
economie del mondo.
Certo, anche nella condizione in atto, restano le economie c.d. ‘forti’ e quelle
‘deboli’, senza però che le une possano proseguire indifferenti, se vero è che
anch’esse avvertono squilibri rilevanti, con necessità di continue manovre finanziarie in svalutazione o rivalutazione, restrizioni ed ampliamento dei crediti, e forzati
prelievi di ricchezze.
D’altra parte, la constatazione dei fenomeni in atto non significa curare le patologie
economiche riscontrate, ma pone certamente l’interrogativo se la terapia non vada
ricercata almeno anche - nella organizzazione non tanto delle economie sofferenti,
quanto delle politiche che governano le diverse regioni di influenza.
Nella specie, per venire a noi: sono davvero sicuri i paesi europei che fruiscono
della c.d. “economie forti”, che la crisi in atto non si estenda anche a loro, in
difetto di un sistema politico comune alla intera regione, di dimensioni rapportabili
il pensiero mazziniano
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Editoriali e commenti
a quelle delle altre grandi regioni mondiali? Sono cioè sicuri che la ‘cancrena’ non
si diffonda e li sommerga come fuscelli, per le loro non adeguate dimensioni?
In diversi termini: sono certi i governanti degli stati europei che “convenga”
mantenere mercati separati e contrapposti, anzicché creare oggi gli Stati Uniti
d’Europa, così da disporre di politiche economiche, finanziarie, monetarie, difensive e soprattutto sociali, comparabili con quelle delle altre grandi “regioni”
mondiali?
Saremo forse dei federalisti incurabili (incapaci di ‘immaginare’ il benessere che
trarremmo persino dal ritorno alle monete nazionali), ma l’esperienza ci mostra
un unico mercato globalizzato; la storia ci insegna che i ‘colossi’ hanno quasi
sempre - migliori sorti nelle contese e vediamo vertiginosamente diminuire le nostre
produzioni, per effetto di una concorrenza ormai priva di regole.
Pensiamo di poter ancora cercare di innalzare tanti piccoli e traballanti “campanili” oppure prendiamo atto che il XXI secolo esige uomini nuovi, che non solo
parlino ed operino a livello mondiale, ma esprimano Istituzioni, cioè organismi
internazionali capaci di “ruoli” (il che significa ‘funzioni’ e ‘decisioni’ cogenti)
sovranazionali.
Crediamo possibile eleggere nell’anno prossimo un parlamento europeo nel quale
la maggioranza dei componenti NON vuole l’Europa unita, ma tende a sfruttare
la comunità per trarre da essa maggiori finanziamenti per ciascuno dei paesi di
provenienza ? Crediamo tollerabile per i cittadini continuare ad essere gabbati
con organismi inutili e costosi, in luogo di Istituti che governino lavoro, economia, finzna, esteri a livello continentale?
Torniamo alla “politica” che interpreta le tendenze dell’Umanità, in luogo delle
tattiche che uccidono i lavoratori e l’imprenditoria, avviliscono gli operatori,
soffocano l’economia, e privano gli uomini della aspirazioni al progresso.
Saremo degli inguaribili mazziniani, ma se l’“ideale” si è tradotto così repentemente
nel “vero”, crediamo sia l’ora in cui la società europea debba rivendicare il proprio rango così da assurgere ancora a luce di civiltà.
Renzo Brunetti
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il pensiero mazziniano
Sauro Mattarelli
Cosa è in gioco*
È
necessario che il nostro Paese, perenne preda di un’emergenza istituzionalizzata, si liberi al più presto della pericolosa concezione del potere basata
sul servilismo cortigiano con chiare sfumature populistiche e assolutiste. Non si
tratta, ovviamente, di una novità, ma ora si sta pericolosamente diffondendo la
credenza che l’articolo 1 della Costituzione vada letto a brandelli. Per cui si ripete
come mantra "costituzionale" che "la sovranità appartiene al popolo". Punto. In
realtà, abbandonando una simile visione "pornografica", nell’art. 1 si legge che
"La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Senza questa parte non ha senso neppure la prima parte dell’art. 1, laddove
viene spiegato che "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro."
Il concetto di Repubblica democratica implica che la sovranità sia attribuita al
popolo nella sua interezza (e non, dunque, a una fazione) e che venga esercitata
entro ben determinati limiti e forme, a partire dal riconoscimento e dalla chiara
distinzione tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Stabilire quindi che un
cittadino, un parlamentare, un ministro, un premier, un capo dello stato possano
ergersi al di sopra delle norme facendosi scudo di vere o presunte espressioni
della volontà popolare implica l’abbandono di un concetto base su cui si regge
la repubblica democratica, a favore di una visione "pragmatica", in realtà
assolutistica o tirannica, del potere. Similmente ci si allontana dalle concezioni
democraticorepubblicane invocando presunte "volontà popolari" per far rientrare
giudizi espressi da magistrati in sede definitiva. Per quanto bislacche possano essere
ritenute certe sentenze, l’assunto che ne deriva implica l’impunità per chiunque
sia in grado di accaparrarsi voti o consensi (anche con mezzi illegali); nonché la
possibilità di violare leggi, che varrebbero per i "comuni cittadini", ma non per
"l’eletto" o per i suoi seguaci più vicini. Anche la reiterazione o l’uso strumentale
del ricorso alla grazia (che va mantenuta per casi eccezionali e comunque circoscritti) e di altri istituti clemenziali non solo svuoterebbe il concetto di repubblica
democratica, ma darebbe forma pratica a un regime "feudale", composto di corti,
vassalli e, naturalmente, tanti servi. Non servitori dello stato, ma servi del padrone (o del boss) di turno.
Democrazia declassata a sondaggio (manipolabile), ad azioni di marketing, anziché a modalità partecipativa attraverso libere elezioni, deleghe, distribuzione del
potere, rappresentanze capaci di dare voce anche alle minoranze. In un paese
dove imperino mafie, dinastie, dispotismi variamente mascherati, forme di accumulazione di poteri, inclusi i poteri di informazione, è possibile che una buona
parte della popolazione venga "convinta" che in questo modo sia ottimizzata la
il pensiero mazziniano
11
Editoriali e commenti
"governabilità" e perfino si favorisca l’economia. È vero l’esatto. contrario. Concedere il potere legislativo e giudiziario all’umore di un singolo, oltre all’evidente
abbandono di ogni concetto di democrazia repubblicana implica una variabilità in
sede di interpretazione delle norme e di certezza del diritto insopportabile
innanzitutto proprio per le strutture economiche.
Nessun imprenditore serio può agire in assenza di un "sistema paese" connotato su una concezione chiara, snella e stabile della legge. Si pensi che tutti oggi
constatano, a ragione, come la selva di leggine, spesso contraddittorie, la lentezza
della macchina giudiziaria e burocratica costituiscano un ostacolo pesantissimo
allo sviluppo economico, proprio perché si genera, innanzitutto, incertezza o, in
altri casi, un legame troppo forte col potere arbitrario del burocrate di turno.
Pensare di ratificare questo "stato" rimettendo il destino nelle mani di qualche
"uomo della provvidenza" (nullius potentia super leges), vuol dire precipitare nel buio
dell’arbitrio e assimilare il concetto di popolo a quello di gregge. L’accusa di comunismo, rivolta a coloro che difendono I’interpretazione integrale della parte
viva della Costituzione è priva di fondamento. AI contrario, sono proprio i
demolitori della Carta costituzionale a dover ricorrere, coscientemente o no, ad
assiomi totalitari. Non a caso certo pseudo liberalismo ci fa precipitare verso ciò
che più si paventava del comunismo e del fascismo: lavoro precario, talvolta in
condizioni disumane e scarsamente remunerative, impossibilità di ottenere giustizia, impossibilità di partecipare, razzismo, silenzio, povertà diffusa.
Isolati a livello planetario, dunque fragilissimi. Su questo aspetto occorre fare intransigente chiarezza. Dopo, solo dopo, giunge la distinzione tra destra e sinistra,
moderati e conservatori, liberali e socialdemocratici. Senza questa (non negoziabile)
chiarezza di fondo non sono possibili le riforme, a cominciare da quelle costituzionali. Si apre il baratro delle angherie elevate a sistema, della violenza, dei
poteri occulti, clientelari, mafiosi, malavitosi. Perfino la politica estera (inclusa quella
sull’immigrazione e sull’integrazione) non sarà credibile perché le scelte resteranno basate su concezioni "variabili" quanto inconciliabili.
Deve essere dunque chiarito se in questo Paese, in Europa, si potrà in futuro
parlare di leggi, giustizia, azione di governo oppure si debba ricorrere a concetti
come quelli di pentimento, perdono, vendetta, clientelismo, elemosina. Alcune di
queste ultime nozioni, sia chiaro, esprimono anche sentimenti nobili; ma sono
ascrivibili alla sfera privata, all’etica interiore di ciascuno di noi. Non possono e
non devono essere declinate a livello di azione pubblica. Con un ragionamento
semplice si comprende bene che, in quest’ultimo caso, verrebbero lese le libertà
fondamentali (religiose, politiche, economiche).
Se prevalesse questa forma basata sull’individualismo e sulla tirannia di maggioranze conquistate a colpi di azioni mercatistiche, sarebbe utopistico aspettarsi,
12
il pensiero mazziniano
Sauro Mattarelli
ad esempio, che gli "esodati" (comunque una minoranza) possano ottenere giustizia. In generale sarebbe però altrettanto arduo pretendere o presumere che gli
immigrati e gli stessi cittadini rispettino leggi. Con quale diritto verrà loro chiesto
questo rispetto? Quello della forza? Della maggioranza? Della razza? Del clan che
controlla quel territorio? Le regole valgono per tutti o non valgono per nessuno.
La storia e l’esperienza di paesi o continenti limitrofi indicano chiaramente
dove conduce una via e dove l’altra. L’Europa deve scegliere la strada da intraprendere e, dentro l’Europa, l’Italia e gli italiani hanno un dovere fondamentale
da esercitare attraverso questa scelta.
Sauro Mattarelli
* Tratto da “Il senso della Repubblica” - Anno VII n. 08 Agosto 2013.
Supplemento mensile del settimanale in pdf Heos.it (p.g.c.)
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Saggi e interventi
Mazzini e Gobetti
L
a prova della centralità di Giuseppe Mazzini nell’opera di Piero Gobetti si
evince dal fatto che quando fa i conti con se stesso, s’interroga sulla storia
del Paese e il suo futuro, discute sulle sorti della lotta politica in Italia, riflette
sull’identità e il percorso del gruppo prima raccolto intorno a “Energie Nove”,
poi a “La Rivoluzione Liberale”, Gobetti assume Mazzini come un punto di riferimento importante, a lui si rivolge in modo simpatetico, anche critico, finanche
ostile, ma mai scolasticamente o retoricamente come a uno dei padri della patria.
Mazzini rimane presente nella formazione, nel pensiero e nell’azione del giovane liberale.
Di qui l’esigenza di affrontare il rapporto tra i due svolgendolo da entrambi i
punti di vista, quello di Gobetti e quello di Mazzini. Porsi il problema dal punto
di vista di Mazzini significa soffermarsi sul Mazzini conosciuto da Gobetti attraverso il di lui confronto diretto con i testi mazziniani e attraverso le principali
mediazioni culturali di allora: Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Rodolfo
Mondolfo, Gaetano Salvemini, Francesco Ruffini. Se poi ci si pone dal punto di
vista di Gobetti, occorre seguire analiticamente la traettoria non sempre lineare,
a volte anche contraddittoria, almeno apparentemente, della sua riflessione storica
e politica su Mazzini.
1. Gobetti lettore di Mazzini
Piero Gobetti compie la sua prima lettura mazziniana poco più che quindicenne.
Si tratta del libro di Harriet Hamilton King, La religione di Mazzini in rapporto
alla Chiesa cattolica, che reca sul frontespizio la data di acquisto: “31 ottobre
1917”. Gobetti scopre Mazzini attraverso la poetessa inglese, autrice di Aspromonte
and Other Poems (1869) e The Disciples (1872). Con la necessaria sobrietà si
può stabilire un parallelo tra Gobetti quindicenne che si avvicina a Mazzini attraverso le pagine di questa poetessa e la poetessa stessa che diciassettenne, leggendo la Storia delle Repubbliche Italiane del Sismondi, riconosce in Mazzini (sono
parole sue) lo “spirito sovrano del secolo, la nota dominatrice e responsiva della
mia stessa anima”. Commenta Galimberti, la curatrice del volume: “fu una vera
rivelazione che cambiò l’aspetto del mondo agli occhi della fanciulla diciassettenne,
ed immediatamente ella risolse di ricercare il Mazzini non appena fosse di maggiore età, e di consacrarsi alla causa italiana: né mai si dipartì da tale proposito”.
L’incontro di Gobetti con Mazzini non può essere definito una rivelazione, ma
certo segna l’inizio di un confronto duraturo, si potrebbe dire, tra due modi di
intendere la “nostra fede”. Quest’ultima è un’espressione tipicamente mazziniana
ripresa dal giovanissimo Gobetti, come vedremo, in uno dei suoi articoli più
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
importanti. La fede di Mazzini è integralmente religiosa e mantiene una stretta
relazione con il cristianesimo, mentre la fede di Gobetti è integralmente laica e
mondana. Ma quando Gobetti utilizza l’espressione “la nostra fede” senza dubbio si richiama anche all’idea mazziniana di una “religione attiva”, all’idea di una
fede che “parte dall’azione quale dovere e missione nella vita”.
Nella biblioteca personale di Gobetti sono presenti alcuni volumi dell’“Edizione
nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini”. In particolare egli possiede il volume
primo degli Scritti politici editi e inediti; il volume primo dell’Epistolario; il volume quinto degli Scritti letterari editi ed inediti. Su queste opere molto probabilmente il giovanissimo Gobetti si fa una prima idea di Mazzini.
Gli Scritti politici editi e inediti presentano alcune sottolineature nel II capitolo
intitolato A Carlo Alberto di Savoja. Un italiano. Su questo testo Gobetti si è
soffermato con attenzione a giudicare oltre che dalle numerose sottolineature dai
tanti segni a margine dai quali si può desumere quali passaggi nel discorso di
Mazzini suscitano il suo interesse. Ne è un primo esempio, perfettamente consonante con l’animo di Gobetti questo bel brano: “La verità non è linguaggio di
cortigiani: non suona che sul labbro di chi né spera, né teme dalla potenza”. Così
come quest’altro: “Or siamo a’ tempi ne’quali la parola s’è fatta potenza, il pensiero
e l’azione son uno e le baionette non valgono se non tinte di sangue”. L’attenzione
di Gobetti è richiamata in particolare dal passaggio sulle “anime di ferro”:
Ma, e l’anime di ferro che non riconoscono despota abbastanza potente per
atterrirle, né abbastanza ricche per corromperle, l’anime che non respirano se non
un’idea, che non si vendono se non alla morte, non sono esse pochissime?, è
vero: pur sono, e consacrate dalla sciagura ad una santa missione, e tremende
d’influenze, perché la vera energia è magnetismo sulle moltitudini.
Verosimilmente Gobetti riprende in mano, forse più frettolosamente, le opere di
Mazzini negli anni successivi. Il 30 novembre 1922, come risulta dalla data apposta sul frontespizio, acquista I problemi dell’epoca. Scritti politici e sociali. La
lettura gobettiana di questo libro ci permette qualche congettura. Il giovane appare
interessato al modo in cui Mazzini pone il rapporto tra questione sociale e
questione politica (vedremo in seguito come Gobetti porrà la questione in termini più marxisti che mazziniani). Il libro che stiamo esaminando inizia con una
silloge di pensieri mazziniani. Tra questi il suo interesse si appunta su un passo
estremamente significativo: “L’avvenire non è lotta è associazione”. Il punto di
vista di Gobetti è diametralmente opposto tanto che si può dire che secondo lui
l’avvenire non è associazione è lotta. Un altro brano significativo che attira la sua
attenzione è il seguente:
Noi combattiamo oggi non contro tale o talaltra aristocrazia, contro tale o talatro
potere effimero; ma contro l’aristocrazia stessa; cioè contro l’ineguaglianza, quale
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
che sia e dovunque sorga e contro le ingiustizie e l’anarchia che ne sono la prova
e la conseguenza inevitabile.
Non poteva mancare nella biblioteca di Gobetti il libro, che però non presenta
segni significativi, Le più belle pagine di Giuseppe Mazzini, scelte da Carlo Sforza, uscito nella Collezione diretta da Ugo Ojetti, “Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi”. Nella collana erano già state riprese le più
belle pagine di altri due autori a lui cari, Giuseppe Baretti a cura di Ferdinando
Martini e Carlo Cattaneo a cura di Gaetano Salvemini. Salvemini, il suo vero
maestro accanto a Luigi Einaudi, è forse la principale fonte di ispirazione
mazziniana di Gobetti che si abbevera al Mazzini del grande meridionalista pubblicato nel 1920 presso le edizioni de “La Voce”. Ma il primo libro sul grande
repubblicano, destinato a diventare un classico, L’insegnamento di Mazzini, esce
presso l’editore Treves nel 1917 e si deve ad un altro maestro di Gobetti, Francesco Ruffini.
Il “mazzinianismo” (così lo chiama Salvemini) è una “nuova rivelazione” che
implica una “nuova dogmatica”, una “nuova morale”: la morale del dovere, una
“nuova politica”. La “religione dell’umanità” presenta analogie col socialismo
nell’“affermazione della crescente benefica potenza sociale e politica delle classi
operaie”, tanto i socialisti quanto i mazziniani considerano il movimento operaio
“il principale nuovo elemento” (sono parole di Mazzini) della storia. Mazzini inoltre
è vicino ai socialisti nel considerare “difettoso” il modo come viene contemplata
la proprietà “nell’attuale ordinamento sociale”, ma egli è lontano dai comunisti
perché si oppone al governo “proprietario, possessore, distributore di quanto esiste,
terre, capitali, strumenti di lavoro, prodotti” (anche queste ultime sono parole di
Mazzini). La grande differenza tra mazzinianismo e socialismo è che l’una è una
teoria dell’associazione, l’altra una teoria della lotta:
[Secondo il mazzinianismo] la storia è il progresso indefinito dell’associazione;
l’era successiva non assorbe dissolvendoli elementi sociali dell’era anteriore ma
aggiunge ad essi elementi nuovi, dando luogo a un equilibrio più perfetto, ad una
sintesi più larga; la lotta è fenomeno caratteristico delle civiltà arretrate e va
attenuandosi via via che il genere umano progredisce secondo il disegno divino
sulla via del perfezionamento morale; nella prossima era sociale non vi saranno
più lotte né internazionali né sociali; tutti gli elementi della vita troveranno il loro
equilibrio definitivo; noi abbiamo il dovere di affrettar questo futuro, promovendo in tutte le maniere l’applicazione del principio associativo. La lotta di classe
è quindi una ingiustizia, una immoralità, una bestemmia, il più grave dei delitti
sociali”.
Il Mazzini di Francesco Ruffini è stato studiato e meditato da Gobetti. I segni
che egli ha posto sul libro durante la lettura, non numerosi ma significativi,
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
riguardano alcuni aspetti del pensiero mazziniano che lo interessano in modo
particolare. Anzitutto il principio di nazionalità che Mazzini, scrive Ruffini, ha
difeso sia “contro tutti i cosmopolitismi, denegatori delle nazioni e delle patrie”
sia “contro tutti i nazionalismi imperialistici, sopraffattori delle altre nazioni”.
L’attenzione di Gobetti sembra rivolta in special modo alla distinzione tra nazionalismo e nazionalità su cui insiste Ruffini, confrontando Mazzini con Pasquale
Stanislao Mancini. Gobetti si sofferma sul passaggio in cui Ruffini distingue il
principio di nazionalità che poggia su “un movente che tanto per intenderci
chiamerò egoistico” dal principio di nazionalità, “cardine dei rapporti internazionali, anzi della vita stessa del genere umano”.
Tra le mediazioni culturali che intercorrono tra Mazzini e Gobetti, si deve fare
cenno a Croce e Gentile. Quanto a Gentile, di grande interesse mi sembra il
contrasto che Gobetti vede tra il “liberalismo dall’alto” di Giovanni Gentile e il
liberalismo risorgimentale di Mazzini e Cavour: “Del resto scrive in tutta l’equivoca concezione del Gentile che vanamente si appella a Mazzini e a Cavour, si
scorge l’assenza più desolante di ogni generosa passione per la libertà”.
Quanto a Croce, mi limito a riferire uno dei suoi giudizi su Mazzini, noto a Gobetti,
appassionato lettore a più riprese del filosofo. In Problemi di estetica Croce si
domanda se Mazzini sia uno spirito romantico o antiromantico. Risponde: “Fu,
nel complesso, antiromantico in filosofia e in politica, benché filosoficamente
romantico in certe sue tendenze estetiche, le quali non si accordano bene con la
restante sua filosofia. Moralmente, non credo si possa denominare romantico;
poiché, salvo, forse in certi smarrimenti e angosce giovanili, la sua concezione
della vita fu sicura e armonica, e la sua volontà risoluta e ferma”.
Segnalo inoltre la riflessione di Rodolfo Mondolfo, nota a Gobetti, anche se i
libri del filosofo socialista sul tema che si trovano nella biblioteca di Piero non
presentano sottolineature o commenti. In Sulle orme di Marx, in particolare nel
volume primo “Studi sui tempi nostri”, Mondolfo dedica un ampio capitolo al
rapporto tra Mazzini e Marx, che vengono confrontati a partire da quattro punti:
1. il rapporto tra volontarismo e pedagogia dell’azione; 2. quello tra missione e
bisogno; 3. quello tra nazione, patria e umanità; 4. quello tra questione sociale e
questione nazionale. Inoltre, in un agile profilo delle idee politiche italiane dell’Ottocento Mondolfo ci dà in estrema sintesi una chiara ed esaustiva definizione
della concezione rivoluzionaria mazziniana:
Solo una rivoluzione fatta dal popolo può essere una rivoluzione pel popolo: perché
è nostro solo ciò che noi facciamo, e quel che è fatto dagli altri ci è estraneo.
Ecco qundi la rivoluzione e l’azione concepita come processo dell’autoeducazione:
il quale, dovendo creare ex novo una coscienza, esige una vuova fede, una nuova
rivelazione, una nuova religione.
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
2. Mazzini e Gobetti in “Energie Nove”
Il Gobetti diciottenne può essere considerato un mazziniano di ascendenza
salveminiana. Egli ammira “Salvemini che del Mazzini è discepolo”. Tale è il suo
entusiasmo che in una nota apparsa nel n. 5, 1-15 gennaio 1919 di “Energie Nove”,
commentando le lentezze con cui la Camera italiana provvede alla realizzazione
di un monumento a Mazzini deciso nel 1905, lentezze riprovate da “Il Messaggero della Domenica”, Gobetti giunge ad affermare che il modo migliore per
festeggiare “il grande veggente sarebbe quello di preparare una edizione popolare
delle sue opere e di diffondere a centinaia di migliaia di copie i Doveri dell’uomo,
così come i socialisti fanno per il manifesto del partito comunista. A proposito
del libro di Mazzini scrive: “Certo io non saprei trovare un altro libro così grande
di italianità e di umanità e insieme più semplicemente e candidamente popolare”.
L’attenzione della rivista è testimoniata dalla pubblicazione di due saggi su Mazzini.
In una lettera successiva al 1918 Gobetti invita Santino Caramella a inviargli il
suo saggio in cantiere su Mazzini: “Mi tenta scrive il tuo lavoro su Mazzini. E
ne sono lieto perché vedo che anche tu hai capito senza che lo dichiarassi che
“Energie Nove” è vicina, molto vicina al Grande”. Nel suo contributo, L’etica di
Mazzini nei “Doveri dell’uomo”, Caramella afferma che “la concezione mazziniana
“può essere ancora oggi la base (non il modello)” a patto che se ne riduca la
dimensione metafisica e trascendente. Il secondo saggio è quello di Ada Marchesini,
La filosofia teoretica di Mazzini: in una lettera del 22 maggio 1919 a Caramella,
Gobetti lo giudica un lavoro serio ,ma ritiene che “l’articolo non fa una critica
esauriente di Mazzini che sarà anche un idealista, ma è anche così spesso mistico
ecc. Qui una critica seria doveva stroncar via tutta la parte gnoseologica
mazziniana”.
Nel primo saggio impegnativo in senso programmatico di Gobetti La nostra fede
si trovano già introdotti due importanti temi che sono al centro della riflessione
gobettiana su Mazzini: il confronto con Marx e la distinzione tra Mazzini e il
mazzinianesimo:
Scelgano ad ogni modo i socialisti: o l’abito scientifico che ha tentato di dare il
Marx alle vecchie teorie e allora rispondano all’economia classica e alla storia con
cui Marx si trova a far a pugni; o la fraseologia di uguaglianza e fraternità (che
turba come vedremo tutta un’altra visione delle cose: la democrazia); o un’esegesi
precisa in cui si dica quanto accettano di Marx, quanto di umanitarismo e di
illuminismo. Ma l’ibrido risultato che ne verrà non dimentichino di sottoporlo al
giudizio della storia e magari di Carlo Marx stesso, maestro che con tutto il suo
concretismo si ribellerebbe per primo al moralismo e mazzinianesimo di molti
suoi seguaci. Il dilemma finisce per porsi esplicitamente: o con Marx o contro
Marx.
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
Da rilevare è anche l’accostamento, che certo può sembrare paradossale, che
Gobetti fa tra Mazzini e Lenin. Nell’articolo Frammenti di estetismo politico (30
novembre 1919) Gobetti discute il programma politico del “Gruppo nazionale
liberale romano”, firmato, tra gli altri, da Luigi Einaudi, Giovanni Gentile,
Gioacchino Volpe, un programma caratterizzato dalla richiesta di uno “Stato forte”
oltre che dall’ostilità al bolscevismo. Gobetti che sta gradatamente ma progressivamente attenuando il suo iniziale antimarxismo e a poco a poco viene elaborando un’originale interpretazione liberale della Rivoluzione russa, reagisce
all’astrattismo (la parola è sua) dei nazionali liberali con queste parole:
La politica uccide sempre i pregiudizi intellettuali. L’azione distrugge l’utopia.
Dante, bianco, priore, lottatore politico è il primo demolitore del De Monarchia.
Mazzini crea l’Italia, distruggendo l’idea repubblicana. Lenin governa la Russia e
le da una coscienza politica, negando il proprio socialismo.
Nel discorso ai collaboratori di «Energie Nove», pubblicato dopo la chiusura della
rivista in “L’Educazione Nazionale”, il 30 novembre 1920, Gobetti traccia il suo
primo bilancio delle origini e dei possibili sviluppi della rivoluzione italiana. Costata
“il fallimento ideale d’Italia”, lamentando “che ancora non c’è tra noi una coscienza unitaria”, ripone le sue speranze nell’“ardore di vita che in molti si scorge” e nel movimento operaio che gli pare offra “proprio ora grandi possibilità
e mète luminose”: “ma, bisogna pur dirlo, se il movimento resta così frammentario
ed esteriore, le possibilità tutte possono andare perdute”.
Mazzinianamente, direi, dichiara che “perché l’azione si concreti deve essere reale
e spirituale, deve avere il suo centro in un’idea che superi tutto il passato, ma lo
abbia pure tutto in sé”. Il tema dell’azione, di agire, di passare all’azione, di non
potersene stare con le mani in mano, di suscitare energie, promuovere iniziative
è un tratto mazziniano di Gobetti: “La nostra teoria deve essere ardore di pratica,
deve portare le idee nella vita sociale, farle realtà più umane: al di sopra delle
parole e degli schemi deve cogliere l’essenza dello sviluppo”.
Il compito di “noi giovani” prosegue è lavorare perché sorga “questa idea nuova
dell’Italia”: “Oggi è morta l’idea di patria. Ce ne dobbiamo rallegrare. Abbiamo
negato il mito sentimentale di un’Italia, madre di tutti, venerabile per le sue glorie, dolorante per le sue ferite. Fuori della puerilità della cara terra natia, sostituiamo alla patria lo Stato. Questa è una conquista notevole della rude affermazione
realistica del materialismo storico”.
Che cosa intende qui Gobetti per Stato? Lo Stato è un “organismo”: va oltre
“l’indeterminatezza della nazione”, supera “la piccolezza egoistica della patria”,
crea le condizioni per “una vita nuova”, nello Stato l’individuo si afferma non più
come affetto ma come razionalità, annullando il proprio egoismo, affermandosi
“uomo sociale, organo di un organismo”. Scrive Gobetti:
il pensiero mazziniano
19
Saggi e interventi
“L’anima di questo organismo possiamo dire ormai, mazzinianamente, che sia il
popolo. Ma il nostro popolo non è più quello di Mazzini: può essere una minoranza (una dittatura), non è uguaglianza astratta. È espressione di un valore, di
un’attività. […] Il fatto gigantesco è che i1 popolo (quello che era i1 fantasma
di Mazzini) chiede il potere. Il popolo diventa lo Stato. Nessun pregiudizio del
nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero
fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è
un’affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È i1 primo movimento laico
d’Italia. È la libertà che si instaura. […] Bisogna fare cosciente questa realtà. È
venuta l’ora di affermare e dimostrare il valore nazionale del movimento operaio.
Questa è la nostra idea nuova. Forse di questa affermazione potrà vivere lo Stato
italiano”.
3. Mazzini e Gobetti in “Rivoluzione Liberale”
Il discorso ai collaboratori di «Energie Nove» può essere letto quasi come un’anticipazione del discorso ai collaboratori di “Rivoluzione Liberale”. Così è da
intendere infatti il Manifesto, con cui Gobetti apre le pubblicazioni della sua rivista
politica maggiore, dove si trova riproposto il grande tema un vero e proprio tema
ricorrente del confronto tra Marx e Mazzini. Per Gobetti, Mazzini è il “creatore
dei primi impulsi all’autonoma liberazione” che però “rimane solo e frainteso”:
“Come Lassalle, su basi di pensiero realistiche, conduce a Marx, Berti, o per esso
Cavour conduce a Mazzini. Mazzini e Marx (ove si prescinda dalle espressioni
singole che trovano i loro miti) pongono le premesse rivoluzionarie della nuova
società e attraverso i due concetti così diversi di missione nazionale e di lotta di
classe affermano un principio idealistico o, se meglio piace, volontaristico, che fa
risiedere la funzione dello Stato nelle libere attività popolari affermantisi attraverso un processo di individuale differenziazione. In questo senso Mazzini e Marx
sono i più grandi liberali del mondo moderno”.
Ma come è possibile accostare Marx e Mazzini in nome del liberalismo? Tra il
padre del socialismo e il padre del repubblicanesimo corrono grandi differenze
e Gobetti lo sa ed egli stesso, come vedremo, non mancherà di porle in evidenza
giungendo a contrapporli, invitando a scegliere o l’uno o l’altro. Eppure ai suoi
occhi Marx e Mazzini sono e rimangono i più grandi liberali del mondo moderno. Ma che cosa significa? In che senso gobettianamente un socialista (alla Marx)
e un repubblicano (alla Mazzini) sono liberali? Perché la risposta risulti completa
e chiara vi prego e di seguire il racconto del Gobetti mazziniano.
Dopo avere formulato l’apparente paradosso di un liberalismo mazziniano e
marxista, Gobetti manifesta la “nostra ferma convinzione che l’ardore e l’iniziativa che condussero gli operai all’episodio dell’occupazione delle fabbriche non
siano spenti per sempre e non si possano in ogni modo acquetare con le lusinghe
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
della legislazione sociale”. Questa si rivelerà una valutazione ottimistica che verrà
smentita dalla realtà. Analogamente l’idea che “la base della nuova vita italiana
deve trovarsi nella costituzione di due partiti intransigenti, di opposizione ai
programmi riformisti, rivoluzionari nella loro coerenza: il partito operaio e il partito
dei contadini”, i cui “nuclei iniziali” sono il partito comunista, il partito sardo
d’azione non troverà riscontro nella realtà. La fallacia del giudizio storico non
oscura la linearità e la chiarezza analitica del disegno della rivoluzione liberale:
Il nostro è un liberalismo potenziale che non ci deve suggerire un’opera di conciliazione (ché allora negheremmo le premesse autonomiste), ma deve farci aderire alla doppia iniziativa. Un compito tecnico preciso ci attende: la preparazione
degli spiriti liberi capaci di aderire, fuor dei pregiudizi, nel momento risolutivo,
all’iniziativa popolare: dobbiamo illuminare gli elementi necessari della vita futura
(industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione.
Politicamente una parola d’ordine ci affratelli nell’azione e nella lotta: il mito della
rivoluzione contro la borghesia si determini, nella sua dialettica storica, come
rivoluzione antiburocratica.
Tra i grandi del Risorgimento la preferenza di Gobetti va a Cattaneo nel quale
afferma non si può “non avvertire uno sforzo nuovo di liberazione”. Rispetto
a Mazzini, “il suo spirito è meno viziato e meno vaporoso, la sua figura è per
gli italiani non letteraloidi più ricca d’insegnamenti, la sua politica può essere ancor
oggi un programma”. Tuttavia Gobetti è sempre attento a distinguere tra Mazzini e
il “mazzinianismo”, che, dopo il ’70, “di Mazzini conservava soltanto la retorica”.
Quando all’indomani della Marcia su Roma invita i suoi a “difendere la rivoluzione”, parlando “rudemente” ai maestri Augusto Monti e Giuseppe Prezzolini
che avevano proposto l’uno la "Congregazione degli apoti" l’altro una "Scuola
libera", dichiara, senza possibilità di equivoci, quali sono i nuovi simboli della
nuova lotta:
Costituendoci ogni istante l’oggetto nuovo della nuova fede abbiamo imparato
l’ineluttabilità e insieme l’inutilità della fede. Disprezziamo i facili ottimismi e i
facili scetticismi: ci sappiamo distaccare da noi stessi e interessarci all’autobiografia come a un problema. L’azione diventa dunque una necessità di armonia: noi
abbiamo una sola sicurezza: la responsabilità, e un solo fanatismo: la coerenza.
Preferiamo Cattaneo a Gioberti Marx a Mazzini.
Accanto ai saggi programmatici, di cui si è già detto: La nostra fede (1919), La
rivoluzione italiana (1920), Manifesto (1922), si colloca La nostra cultura politica
(1923). Qui egli sostiene che “i miti stessi del Risorgimento erano stati poveri e
generici”, perché non hanno avuto “un sufficiente periodo di maturazione”, rimanendo “allo stato di ideologie”, non si sono cimentati con la realtà, che sola
costringe gli uomini “a sentire il dissidio tra pensiero e azione, a risolverlo
il pensiero mazziniano
21
Saggi e interventi
chiaramente ossia a formarsi una coscienza realistica”. Inoltre lamenta che “dopo
il Risorgimento l’Italia non ha saputo creare più i grandi miti intorno a cui si
organizza nel corso della storia il pensiero di una nazione sintetizzando le manifestazioni più diverse”. Per Gobetti la nostra cultura politica non ha elaborato
un linguaggio, men che meno uno stile politico”, anzi ha alimentato e propagato,
“miti diseducatori”. Gobetti ne indica due: il mito di un Mazzini che si rinchiude
nella purezza dei suoi ideali, quello di un Cavour che cinicamente disprezza per
la realtà.
Con interesse Gobetti guarda all’“esperimento Salvemini”. Nel maestro “decisamente” esclude “una vera e propria mentalità marxistica”. Il problema politico
“gli si presenta addirittura come problema morale e di educazione, ossia gli sfuggono i termini propriamente marxistici: e del resto aggiunge raramente il suo
marxismo è qualche cosa di più che un’antipatia verso le superstrutture ideologiche, un amore per i fatti, che in lui scende direttamente dal Cattaneo”. Il “chiaro
razionalismo di Salvemini” è percorso da tre aspirazioni: 1. “il pensiero di creare
una nuova élite”; 2. “la preoccupazione mazziniana di rinnovare lo spirito popolare”; 3. “l’esigenza di studiare a fondo i problemi della vita italiana”. Salvemini,
eredita “il problema del rinnovamento morale del popolo italiano direttamente
dal mazzinianismo e dall’illuminismo settecentesco”.
Sul confronto tra Marx e Mazzini Gobetti torna nel celebre articolo L’ora di Marx
(1924). Per Gobetti “bisogna aver il coraggio di affermare che questa è l’ora di
Marx”. Che cosa lo “seduce” (il verbo è suo) di Marx”? Egli guarda allo storico,
in particolare agli studi sulle lotte di classe in Francia, e all’apostolo del movimento operaio, ritiene che “l’economista è morto, con il plus-valore, con il sogno
della abolizione delle classi, con la profezia del collettivismo”, mentre “in filosofia il suo [di Marx] hegelianismo è un progresso rispetto ad Hegel”. Anzitutto
Marx con il concetto di materialismo storico e con la teoria della lotta di classe
è un grande scienziato sociale.
[Con lui] il movimento operaio ha avuto uno scopo e una organicità da quando
egli levò il suo grido di battaglia. Non è vero che Marx parli alle masse il linguaggio materialistico, Mazzini il linguaggio ideale: l’ideale di Mazzini è nebuloso
e romantico: quello di Marx realistico e operoso. […] Il fascismo anti-capitalistico
e anti operaio perché infantile, pensa di ipotecare il futuro, di condannare l’Italia
alla minorità politica e all’ossequio verso i tutori: è probabile che la parentesi
fascista non sia breve: ma certo sarà in nome di Marx che le avanguardie operaie
e le èlites intransigenti lo seppelliranno insieme con le sue lusinghe.
Il tema torna nell’articolo Democrazia (1924), in particolare nel paragrafo intitolato Il marxismo contro l’“educazione popolare”. Ai democratici italiani contesta
la concezione della società “come armonia, non come contrasto” con la conse-
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
guente negazione della lotta di classe, da essi considerata “un pericolo per la
democrazia”:
Il comando di Marx scrive Gobetti di rimanere ciascuno al proprio posto, le sue
invettive contro i deboli che vogliono una vita sociale pacifica, idilliaca, riuscivano
troppo aspre e inattuali per il nostro popolo abituato a smussare gli angoli, a
superare le intransigenze, a conciliare l’inconciliabile. Opporre a Marx Mazzini
era negli istinti della razza e hanno finito per adattarvisi tra i socialisti unitari
anche i più vecchi custodi del vangelo operaio.
4. Liberalismo mazziniano
Completiamo l’analisi dei riferimenti politici nell’opera di Piero Gobetti con l’esame del suo capolavoro politico La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica
in Italia (1924).
Nell’introduzione al volume Gobetti riprende l’articolo Difendere la rivoluzione
(1922), riproponendo in forma più incisiva la contrapposizione tra Cattanaeo e
Gioberti e tra Marx e Mazzini. Giova rileggere la nuova versione a distanza di
due anni della presa di posizione gobettiana: “L’azione ci prende per una necessità di armonia garantita dalla responsabilità, col fanatismo della coerenza. Se ci
richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Mazzini”.
Naturalmente di Mazzini si discorre nel “Libro I” del volume, dedicato all’eredità
del Risorgimento. Qui dedica un paragrafo alla critica repubblicana, esaminando
in particolare il pensiero di Mazzini e Ferrari, che “riuscirono a trovare eco soltanto
nell’ambiente artificioso delle eresie e degli esuli tra i quali la loro funzione di
avanguardia ritenne sempre un significato romantico e nebuloso”. Nel confronto
tra i due sembra preferire Ferrari, perché “il suo spirito scrive ci appare ora
meno indeterminato e meno vaporoso, la sua figura è più ricca di insegnamenti,
la sua eresia politica può presentarsi ancora come un programma, i suoi scritti
non sono diventati illeggibili come i Doveri dell’uomo .
Non è un addio a Mazzini. Infatti poco più avanti nel paragrafo “Socialismo di
Stato” Gobetti illustra, ripensandola, l’idea paradossale di un liberalismo che
accomuna Mazzini e Marx ( su cui torno tra poco).
Come si è già detto Gobetti distingue, e in generale è bene farlo, tra Mazzini e
il mazzinianesimo. Il tema è al centro del capitolo sui repubblicani. I torti di
Mazzini non sono i torti del mazzinianismo. In quest’ultimo, “mentre si trovano
le idee più contraddittorie e confuse, il nucleo centrale resta una dottrina democratica conservatrice rispetto alla quale le sovrapposizioni rivoluzionarie sono una
mera derivazione democratica quasi una malattia del secolo che non è più il nostro”.
Quali sono i meriti e i limiti di Mazzini? Gobetti ne loda il realismo in politica
estera, ritiene che l’eredità mazziniana sia “più compromettente in tema di
questione sociale”, avanza il timore che la cooperazione e la mutualità, “sorte
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
dall’iniziativa in difesa delle classi proletarie”, possano diventare “una corruzione
piccolo borghese delle autonomie e un peso morto per la battaglia”. La distanza
tra Mazzini e Gobetti sta, secondo Gobetti, nella considerazione del problema
del movimento operaio, che è “problema di libertà e non di uguaglianza sociale”:
L’uguaglianza sociale è l’ideale di tutte le preparazioni e di tutti i sogni ribelli, è
l’aspirazione più tragicamente commossa dell’uomo di tutti i tempi, ma esaurisce
la sua forza nel creare l’impulso rivoluzionario: solo la differenziazione può alimentare una morale sociale e un senso dei limiti e una responsabilità di sacrificio.
È giunto ora il momento di provare a rispondere alla domanda: “In che senso
Mazzini è un liberale? E in che senso Mazzini e Marx, secondo Gobetti, possono
essere accomunati in nome del liberalismo?”. Nel libro La Rivoluzione Liberale,
di cui ci stiamo ora occupando, Gobetti riprende il noto brano che abbiamo già
richiamato a proposito del Manifesto. Le differenze sono significative ma la
sostanza del discorso è la stessa. I due sono antitetici per “stile” e per “psicologia”: “Mazzini, romantico, vaporoso, impreciso; Marx chiaro, inesorabile, realista”; sono affini invece perché “pongono in due ambienti diversi le premesse
rivoluzionarie della nuova società”; l’uno (Marx) “parla al popolo un linguaggio
che può essere inteso perché si fonda sulle esigenze prime che caratterizzano la
vita sociale”, l’altro (Mazzini) “resta in un apostolato generico e retorico, sospeso
nel vuoto dell’ideologia, perché non potendo rivolgersi all’uomo dell’industria e
dell’officina parla a un popolo di spostati, di disoccupati, di ufficiali pubblici”. A
distanza di due anni, Gobetti, rinunciando a una certa enfasi, sobriamente scrive
che Marx e Mazzini attraverso i concetti di missione nazionale e di lotta di classe,
affermano un principio volontaristico che riconduce la funzione dello Stato alle
libere attività popolari risultanti da un processo di individuale differenziazione. In
questo senso Marx e Mazzini sono liberali.
Meritano di essere riferite le considerazioni svolte da Marisa D’Ulizia nel saggio
già richiamato, Gobetti e Mazzini, sull’accostamento gobettiano tra Mazzini e Marx
in nome del liberalismo. Opportunamente l’autrice richiama l’attenzione sul primato della coscienza individuale che Gobetti apprezza in Mazzini e sulla radice
liberale e libertaria del marxismo come teoria della lotta di classe che Gobetti
accoglie nella sua concezione del liberalismo rivoluzionario. Allo stesso modo è
corretto l’accento posto sul volontarismo. Il mazzinianesimo e il marxismo in
quanto ideologie volontaristiche possono essere considerate liberali perché privilegiano il movimento rispetto alle istituzioni.
Direi che in Mazzini e in Marx Gobetti scorge o crede di scorgere le radici del
concetto centrale del proprio liberalismo: l’idea di “iniziativa”. Se interpretati alla
maniera gobettiana, il marxismo è una dottrina dell’iniziativa diretta, il
mazzinianesimo una religione dell’iniziativa. Nell’idea gobettiana di iniziativa c’è
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il pensiero mazziniano
Pietro Polito
una dimensione religiosa che gli viene da Giuseppe Mazzini. Tra capitale e lavoro
egli sceglie le minoranze religiose dell’una e dell’altra parte e nelle minoranze egli
vede il mezzo e il fine dell’iniziativa. In un circolo vitale perpetuo le minoranze
scaturiscono dall’iniziativa e alimentano l’iniziativa politica, culturale, sociale, civile, religiosa.
5. Mazzini negli scritti storici di Gobetti
Il confronto di Gobetti con Mazzini è ispirato da una chiara intenzione politica.
Questo spiega la minore frequenza di riferimenti che s’incontrano negli scritti storici.
In Risorgimento senza eroi Mazzini viene accostato a Gioberti e a Manzoni con
un giudizio sferzante: “Tutte le idee prevalenti nella penisola son cattoliche o
cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini)”. Se ci si pone sul piano storico sembra
che, secondo Gobetti, il mazzinianesimo non appartenga a quelle “minoranze
politiche, sicure del loro compito storico”, che “sentono più forte di tutti il dovere
della fedeltà allo Stato e credono alle nuove esigenze economiche” . Anzi, per il
giovane liberale mancarono nel Risorgimento “forze e partiti ordinati”, ai quali
“si supplì con volontari e avventurieri”. Il giudizio critico estremamente severo
investe tanto “l’entusiasmo di Garibaldi” quanto “il nebuloso messianismo di
Mazzini”. Se il Risorgimento ha avuto “una direzione” lo “si deve a Cavour. Egli
è lo spirito provvidenziale, l’originalità del Risorgimento”.
Ne La filosofia politica di Vittorio Alfieri si incontra un fascinoso confronto tra
la “religiosità alfieriana” e la religiosità di Mazzini. Si può dire che la religiosità
di Mazzini, la religiosità di Alfieri e quella di Gobetti sono tre forme, quasi tre
approssimazioni successive della “religione della libertà”:
La religione della libertà esclude interessi e calcoli, esige fanatismo negli iniziatori,
e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell’ardore completo per cui non
c’è soluzione di continuità tra pensiero e azione.
Pensiero e azione. E così eccoci a Mazzini. La religiosità alfieriana prefigura quella
di Mazzini: “Ne risulta una unità da apostolato che anticipa i caratteri dell’opera
mazziniana”; al tempo stesso paradossalmente per Gobetti “un po’ di
mazzinianesimo c’è anche nelle premesse teoriche di questa religiosità”. La simpatia di Gobetti va più ad Alfieri il “precursore” che a Mazzini il “teorico”, in
cui “si avverte qualcosa di sorpassato”: “Mazzini soggiace alle incoerenze del
poderoso mito d’azione che instaura”. Pur tuttavia precisa Gobetti “la rivoluzione di Mazzini” intesa come la religione dell’iniziativa è “il mito centrale di
azione che ha ispirato tutti i più profondi tentativi politici in Italia dopo il Settecento”.
Non si può non intravvedere un’ascendenza mazziniana nella passione libertaria
che anima Gobetti. Torniamo in conclusione un momento sulle letture mazziniane
del giovane liberale. Gobetti, in una lettera di Mazzini a Ippolito Benelli dell’8
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
ottobre 1831, sottolinea questo brano: “le masse non ne potevano più: reagirono
tremendamente: reagirono specialmente per l’eguaglianza, bisogno de’ popoli: poi
s’educarono a poco a poco alla libertà” e nel discorso di “un italiano A Carlo
Alberto di Savoja, su cui ci siamo già fermati s’incontra una delle più belle pagine
sulla libertà non sfuggita a Gobetti:
SIRE! Guardate al 1798: - e la libertà [di qui inizia la sottolineatura di Gobetti]
era allora in Italia opinione d’individui: ora è passione di moltitudini: la libertà
sorgeva nuova a tutti, incognita a molti sospetta a quanti, nati, educati sotto
condizioni contrarie, aborrivano da un mutamento, a cui non potevano né sapevano partecipare: ora è sospiro di mezzo secolo, idea familiare, cresciuta, radicata
negli animi.
Questo brano viene ripreso esplicitamente da Gobetti nel saggio Giovanni Maria
Bertini e la filosofia del Risorgimento, che è l’introduzione ai Saggi platonici del
filosofo piemontese (1928). Gobetti critica l’esito neoguelfo del Risorgimento
italiano: “Al popolo cattolico bisognava presentare come cattolica anche l’unità.
Solo a questo patto egli [il popolo] l’avrebbe, se non voluta, tollerata”. Poi precisa: “Per affermare l’unità si dovette insistere meno sull’altro termine: libertà”.
A questa tendenza si oppose Mazzini che ne colse l’interno dissidio: “Tale è
l’equivoco del nostro Risorgimento: e fu anche l’angoscia vera di Mazzini”. Riprendendo il brano degli Scritti politici editi e inediti dianzi citato, Gobetti rende
a Mazzini il più alto elogio che un liberale del primo novecento poteva fare a un
altro liberale dell’800, gobettianamente insieme a Marx il più grande liberale del
mondo moderno:
Forse l’uomo che affermò l’idea di libertà, di libertà nazionale con maggiore vigore
tra noi fu il Mazzini che già nel 1831 credeva che la libertà fosse in Italia passione di moltitudini.
Se, in conclusione dovessimo rispondere alla domanda: “Che cosa accomuna
Mazzini a Gobetti e Gobetti a Mazzini?”, direi: “la comune ispirazione religiosa”,
una religiosità trasportata sul piano della “lotta politica reale con forze, interessi,
tendenze precise”. Non riesco a trovare altre figure nella storia nazionale che,
come Gobetti e Mazzini, in modo così coerente si siano ispirati e abbiano messo
in pratica ciò che in una delle sue note di politica interna Gobetti chiama “il più
elementare discernimento [che ] dovrebbe suggerire ai combattenti l’intransigenza
non formale ma intima”.
Pietro Polito
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
L’aspersorio e i poteri forti
La Chiesa a Taranto nel Novecento
S
u “la Repubblica” del 29 settembre 1985, il grande giornalista Sandro Viola
scrisse un articolo epocale, Un salto nell’Italsider: così Taranto si è uccisa,
enunciando due profezie compiutamente realizzate. La prima profezia doveva avverarsi sotto gli occhi dell’Europa: una catastrofe cronica le cui origini affondavano nell’intero Novecento tarantino, ponendo in atto una Strage di Stato di lunga
durata, rea confessa e a norma di legge. Il senso della tragedia è dato proprio
dalla parola greca “catastrofe”: un profondo rivolgimento che tuttavia determina
un ritorno allo stato originario. L’eterno ritorno, l’eterna corsa del criceto, terribile! La seconda profezia era beneaugurante: Viola guardava con favore alla crescita di una robusta storiografia municipale, lontana dalle banalizzazioni
aneddotiche, in grado di restituire ai Tarantini la consapevolezza critica di una
storia grande e tormentata, disseminata di buchi neri e oggetti smarriti. In effetti,
negli ultimi trent’anni si è accumulato un patrimonio di studi novecenteschi che
si configura come un punto d’onore per l’editoria tarantina, testimonianza del
“non solo acciaio”.
Il testo di Vittorio De Marco, Taranto. La Chiesa e la Città nel Novecento (Scorpione ed. 2012) rimane un’opera di valenza nazionale, strutturata con grande
scrupolo filologico e rispetto delle fonti. Naturalmente, quando si ragiona sullo
spirito di un secolo, un ’900 nel quale, almeno noi tarantini, siamo ancora immersi fino al collo, sarebbe da ingenui dichiarare che “ l’inchiesta è chiusa”.
La stabile presenza della Chiesa cattolica, durante 1300 anni in cui la popolazione
tarantina si rinchiudeva nell’ Isola, una rocca i cui i portali si aprivano al mattino
e si rinserravano al tramonto, durante molteplici occupazioni straniere che si sono
avvicendate nella città senza lasciare durature tracce del loro passaggio, ha garantito all’Istituzione ecclesiastica una egemonia non scalfibile dalla modestia delle
istituzioni laiche e civili. Per valutare l’incidenza nel territorio jonico di una istituzione come quella ecclesiastica, salta agli occhi come la città di Ebalo abbia più
volte incrociato la grande Storia: base per il decollo del colonialismo, protagonismo
nella prima e seconda guerra mondiale, città capofila nel Mezzogiorno con la
politica dei poli di sviluppo, capitale europea della siderurgia di Stato, infine
dependance della più grande impresa privata dell’acciaio, nell’epoca della
globalizzazione e del turbocapitalismo. Una grande storia, ma una storia subìta,
reiterazione delle molteplici occupazioni del passato, con una sequenza di rivoluzioni passive che, per legge di adattamento, hanno predisposto una comunità,
da sempre in appalto, ad attrezzarsi ad una sorta di “servitù volontaria” , volta
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
a privilegiare la sicurezza rispetto all’indipendenza, coltivando un cinico disincanto e curando soprattutto il comparire, il fare bella figura. Malgrado gli imponenti
scenari storici, sembra che Taranto rimanga sempre un “mondo piccolo”, attaccata allo scoglio antico.
Già nel passato remoto un “profeta armato” , il vescovo Brancaccio eroe del
capolavoro di Piero Massafra, Sotto peso di Scommunica, non era riuscito a
governare ma neanche a capire l’anima sfuggente del tarantino. Manzignore si era
dovuto misurare con storielle di ordinaria scostumatezza di un gregge disordinato
e lascivetto: i frati con i loro “putti”, i seminaristi allettati da “femmine” tristi”,
un popolo bambino ma anche coriaceo, che quando cerca un Principe, trova
sempre non un Brancaccio ma un Cito, come ben sanno tutti gli umanisti di
corte.
Non abbiamo mai fatto la storia, siamo sempre stati “fatti” dalla storia, e la trista
realtà che ci circonda è un tenebroso capolinea. Un secolo di rivolgimenti immani
e dolorosi per ritrovarsi davanti ad una strada sbarrata. Certamente la forza del
destino, o il determinismo delle forze produttive e delle forme di produzione, ha
stretto un territorio eterodiretto in una trappola d’acciaio che ha sempre più limitato i margini d’azione degli agenti sociali.
In tale contesto, un giudizio complessivo sull’effetto promozionale esercitato dalla
istituzione ecclesiastica e dai cattolici organizzati non può non evidenziare un
indiscutibile deficit per la crescita di quella che oggi chiamiamo “cittadinanza
attiva”. La figura del “cittadino sovrano” risulta del tutto estranea alla koinè
tarantina, al massimo traducibile nel “fare quello che ci pare”. I poteri forti che
hanno governato la città hanno sempre fatto ricorso a un paradigma, quello della
“gerarchia - ubbidienza”, magari contemperato da una contrattazione sotto banco. Ad esempio, anche del bravo operaio dell’Arsenale si diceva che era un eccellente esecutore, tuttavia privo di creatività. Una pianta che difficilmente poteva
germogliare a Taranto, la creatività. Con l’eccezione di mons. Jorio, ci sembra che
la Chiesa non abbia neanche tentato di coniugare legame sociale e spirito d’iniziativa , vigilanza critica e apertura dialogica , attivismo cooperativo e volontà
d’innovazione. Il deficit di democrazia e di cura del bene comune, rimane un
contrassegno della tarantinità durante tutto il corso del Novecento. Si delinea un
modus vivendi trasversalmente condiviso all’insegna di una quieta mediocrità.
Il secolo si apre e si chiude con due personaggi di rilievo: mons. Jorio e mons.
Motolese. Il primo è stato qualificato dal vescovo di Gallipoli come “cammorrista”,
il secondo è stato giudicato dall’iniziatore dell’Italsider come un “malefico boss
degli immobiliaristi”. Certo è che fino a ieri la monocultura cattolica ha sempre
intrattenuto rapporti privilegiati con le due monoculture industriali, quella
navalmeccanica e quella siderurgica, che hanno intorpidito Taranto.
L’Arcivescovado, l’Ammiragliato, la Direzione del Siderurgico costituiscono il ferreo
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
“triangolo delle Bermude” che determina la storia della Taranto moderna. Dato
lo scarso protagonismo del Municipio, interessato soprattutto ad operazioni edilizie, tutto ciò che non rientrava in quel triangolo del potere risultava superfluo,
e questo nella città di Archita e di Leonida.
La cultura a lungo si è ridotta a “cataldismo”, una subideologia populistica nutrita
di “settimane sante” e modesta letteratura vernacolare, del tutto incapace di avere
un qualche rilievo al di fuori delle mura cittadine. È noto che ogni tarantino di
successo ha conquistato i suoi allori abbandonando la città. Negli ultimi decenni
l’unico politico di terra jonica che si sia fatto riconoscere su scala nazionale senza
lasciare il suo territorio, è stato purtroppo il protervo Cito. Nella stessa Puglia
hanno avuto modo di emergere personalità ben diverse, a partire dal governatore
Vendola e dal sindaco Emiliano.
Alla fine del secolo abbiamo conosciuto due spiriti forti, difensori del bene comune,
due don Chisciotte, come il giornalista Antonio Rizzo e il magistrato Franco
Sebastio. In genere, il tarantino-tipo ha continuato a curare l’orgoglio autarchico
e l’arte di apparire, privilegiando il familismo amorale sul bene comune, assolvendosi da solo e mandando i propri figli a scuola da don Abbondio.
1) Pietro Alfonso Jorio 1885-1908
Il 27 marzo 1885 giungeva a Taranto il nuovo arcivescovo: monsignor Pietro
Alfonso Jorio, un uomo di polso, dotato di notevoli capacità organizzative e di
fiuto politico non indifferente, intenzionato a rinvigorire una direzione cattolica
volta a raddrizzare una comunità alquanto cinica e consumista. Chiesa e Massoneria erano le due forze in campo, senza conflitti all’ultimo sangue. Rispetto alle
due fazioni politiche (Pietro D’Ayala Valva contra Nicola Lo Re) la figura di Jorio
si stagliava con nettezza per audacia progettuale e, vorremmo dire, “immaginazione sociologica”, comprendendo egli con lungimiranza la necessità di gestire la
prossima mutazione cittadina verso una società industriale non più governabile
da un comando “personale” sui “piccoli numeri” . Occorreva porsi all’altezza dei
tempi, promuovendo strutture organizzative ramificate e capillari nell’intervento
sociale. L’iniziativa doveva comunque approdare ad un fallimento, almeno parziale. Al suo arrivo a Taranto Jorio aveva trovato un numero abbastanza esiguo di
ecclesiastici e dopo vent’anni anni quel numero risultava dimezzato . Le organizzazioni da lui patrocinate gli si sarebbero rivoltate contro e sempre più pesante
sarebbe stato l’isolamento nell’ambiente ecclesiastico salentino, anche per la sua
eccessiva spregiudicatezza manovriera.
Eppure Jorio aveva fondato circoli cattolici, organizzazioni operaie, strutture
assistenziali, banche e strumenti di intervento politico, galvanizzando il mondo
cattolico e guidandolo verso l’appuntamento con la grande industria
navalmeccanica, con una consapevolezza maggiore di quella espressa dalla borghesia laica cittadina. Durante la diffusione del colera si prodigava fornendo
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
assistenza spirituale ma anche materiale, visitando personalmente tutte le case dei
colpiti dal morbo, con il riconoscimento di “benemerito della pubblica salute”.
Anno cruciale era il 1887. Si registrava il primo sciopero fra i lavoratori del nascente
Arsenale e si verificava una pesante crisi nella ostricultura e molluschicoltura
danneggiate dallo “intorbidamento delle acque, prodotto dal movimento delle navi
militari”. Ma tutto passava in secondo piano di fronte all’inaugurazione del mirabile ponte girevole. Jorio doveva essere il primo ad attraversare il ponte, vincendo la sfida con i massoni. Monsignore potenziava il Seminario, anche strappando
vari spazi pubblici, come nella famosa vicenda del cavalcavia di S. Giuseppe. Nel
1896 veniva costituito a Taranto il Comitato cattolico, sostenuto da figure non
secondarie del ceto benestante tarantino e anche da un numero non piccolo di
operai.
Nascevano la “Cassa di Sconto e Pegni” nel 1898 e la Banca di Credito Agricolo
e Commerciale nel 1899 (progenitrice della futura Banca Popolare): strutture che
potevano limitare la diffusa piaga dell’usura. Durante la grave crisi di fine secolo,
quando imperversava la repressione antioperaia che colpiva anche sacerdoti e
cattolici, Jorio organizzava confraternite e società di mutuo soccorso, intervenendo con casse rurali anche nel circondario. Si trattava di rilanciare in grande stile
il messaggio cristiano, anche venendo incontro alle esigenze materiali delle classi
lavoratrici con tutta una serie di provvidenze, erogate attraverso una serie di canali
e strumenti d’intervento, sempre saldamente in mano al potere ecclesiastico.
Jorio si era integrato nell’Opera dei congressi, abbastanza infastidito dalla
differenziazione fra gli “intransigenti” (ancora in guerra contro lo Stato unitario
e chiusi ad ogni progetto di riforma sociale) e i “democratici cristiani” (ostili allo
stato “padronale” e propugnatori dell’autorganizzazione dei lavoratori). Seguendo
il suo robusto pragmatismo, a partire dal 1897, Jorio sviluppava una politique
d’abord che doveva suscitare ostilità nella stampa cittadina e preoccupazioni per
il sottoprefetto che considerava troppo invasivo il “partito clericale”. Il congresso
cattolico del 1900 si presentava come uno spiegamento di forze attorno alla riconosciuta leadership di Jorio, che doveva essere riconfermata nel congresso del
1901.
Ma l’accorta regìa incominciava a scricchiolare. Si diffondeva malanimo e ostilità
nei suoi confronti. Valga come esempio una lettera molto significativa, inviata il
3 maggio 1901, in cui il vescovo di Gallipoli qualificava Jorio come “cammorrista”
aggiungendo che lui e il suo alleato Pasquale Berardi erano “due menti spostate,
che stanno così ai confini della follia da passarli spesso per sola distrazione”.
Nel congresso del 1901 cresceva il marasma, tra i gruppi clericali intransigenti e
i giovani democratici cristiani. Romolo Murri doveva allontanarsi per non essere
picchiato dai mazzieri calabresi. Jorio incominciava a oscillare politicamente,
appoggiando prima il gruppo di Damasco e poi la vecchia consorteria di D’Ayala.
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
A conti fatti, fra Jorio e i tarantini il feeling non era scattato. Il poeta dialettale
Emilio Consiglio lo accusava addirittura di “sacrilegio” per la distruzione di “na
statua antiche/ ca sule cu ’a vidive eve nu pregge”: prese a circolare la leggenda
nera di una sottrazione d’argento nella fusione della vetusta statua del Protettore.
Attaccato da parte del suo stesso clero, nel 1908 Jorio veniva allontanato dalla
sede di Taranto. Si può considerare un personaggio eccentrico in una città (almeno in parte) ancora plurale, mercantile, vogliosa di modernità, non priva di
iniziative. Una Taranto non compiutamente soggiogata alla via “prussiana” dello
sviluppo e alla ferrea logica della città-caserma, incubatrice della città-azienda.
2) Carlo Giuseppe Cecchini 1909-1916
Mentre ancora doveva insediarsi a Taranto il nuovo Pastore, mons. Carlo Giuseppe Cecchini, si registrava in città una ultima fiammata di virulento anticlericalismo,
una manifestazione di protesta, guidata da massoni e socialisti, per la condanna
a morte in Spagna del pedagogista anarchico Francisco Ferrer. Ma le carte a Taranto
si sarebbero ben presto rimescolate, con l’emergenza di scenari nuovi ed importanti. Si avviava la campagna di Libia e cattolici e liberali si riunivano in una
vigorosa union sacree nazionalistica che coniugava Patria e Fede facendo saltare
di botto gli antichi steccati, fondendo glorie militari e glorie religiose. “ Voce del
Popolo” del 14 ottobre 1911 ospitava un articolo di Monsignor Michele Caracciolo:
“Figli di una nazione che ha per sua religione ufficiale la religione cattolica, voi
non dovete dimenticare che col vessillo della vostra Patria, voi andate a portare
in quelle barbare terre un altro vessillo, ancora più nobile e grande, quello della
Fede Cattolica, che certo dopo la vostra Vittoria avrà più ampio sviluppo in quei
lidi… spianando la via all’ opera eminentemente civilizzatrice dei missionari cattolici. Maria dunque è con voi e quando Maria è con voi non potrà non arridervi
sicura vittoria, giacchè Essa è regina che sempre trionfante incede”. Suonava la
campana del Vangelo armato.
Era anche entrato in funzione il patto Gentiloni, che a Taranto permetteva il
costituirsi di un nuovo blocco d’ordine attorno all’uomo forte Federico Di Palma,
il ministeriale pronto a garantire commesse militari e posti di lavoro. “I cattolici
votarono senza scrupoli per Carbonelli, Damasco, Magnaghi, Lucifero, tutti notoriamente massoni” (“Voce del Popolo”, 18 ottobre 1913). Per la città di Taranto, che aveva vivacchiato dopo il fallimento del colonialismo crispino, si apriva
una epoca nuova: la prima guerra del secolo nuovo, la prova generale della guerra
mondiale, l’unico porto di grande ampiezza e l’unico cantiere completamente
attrezzato in prossimità della zona operativa. Al grande Arsenale stavano per
aggiungersi i Cantieri Tosi. La guerra era un buon affare. Sovvenzioni statali e
lavoro per tutti. A Taranto in guerra si stava bene. La fine della guerra provocava
sempre indigenza. L’Ammiragliato e l’Arcivescovado vivevano ormai in perfetta
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
armonia, con il Municipio ormai ridotto a gestore della pace sociale attraverso
una rete microclientelare.
In anni di Belle epoque Cecchini si distinse per alcune campagne che misero di
buon umore i tarantini: una dura crociata contro il Tango, il ballo sudamericano
che stava spopolando anche in Italia e che avrebbe reso Rodolfo Valentino il
pugliese più famoso del mondo. Lettera Pastorale del Cecchini: “Anche nella nostra
Taranto, mi si dice, si vorrebbe introdurre un ballo immodestissimo ricopiato dai
costumi di barbara gente… pornografico, ributtante, denominato il ’Tango’. Le
persone oneste devono sentir ribrezzo al solo pensare a questo ballo così immorale” (“Voce del Popolo”, 7 febbraio 1914). Dopo pochi giorni, una altra Pastorale, questa volta contro la moda: “Le mode attuali compromettono l’ordine della
società. Essendo le mode una passione universale, spingono i nulla tenenti e gli
operai al comunismo. Non è proibito ad un operaio di vestire come un barone
né all’operaia come una marchesa. Ma manca il danaro… dunque si attuino le
teorie del comunismo. Si distrugga, non si parli più di gerarchie e cessi ogni
differenza” (“Voce del Popolo”, 28 febbraio 1914). Forse la storia sarebbe andata
diversamente se Lenin avesse imparato a ballare il tango.
3) Orazio Mazzella 1917-1935
Con l’interventismo nel primo conflitto mondiale, dietro il Di Palma si era schierata la maggioranza demoliberale, che deteneva insieme ai clericali il potere a livello
locale. Il 13 ottobre 1917, nel pieno del conflitto, giungeva a Taranto mons. Orazio
Mazzella, che doveva fare la sua parte nella “resistenza patriottica”, sempre più
saldando la collaborazione fra autorità militari e religiose. Nella crisi postbellica,
durante i violenti moti per il caroviveri, Mazzella fece pubblicare un manifesto
di condanna delle proteste socialiste, senza fare cenno alcuno alla sofferenza della
popolazione, derivante dalla riduzione del lavoro per la cessazione delle ostilità.
Il modo di produzione tarantino si riproduceva su base allargata durante il secondo conflitto e, sotto tale aspetto, il Fascismo non determinò una reale cesura nel
rapporto economia-società. Con qualche incertezza si organizzava il Partito Popolare, ma nei primi anni ’20 la maggioranza si era già assestata nelle file fasciste.
Intervistato da Mario Guadagnolo, Guglielmo Motolese ricordava la debolezza
delle strutture del partito cattolico nel secondo dopoguerra, e la forza dei comunisti accumulata nella lunga opposizione antifascista, indirettamente criticando il
parastorico Giannino Acquaviva che nel volume Il ventennio fascista a Taranto
(Archita ed., 1998) era riuscito a citare una sola volta gli antifascisti “di cui s’era
perduta la faccia” (?!).
Saranno stati ben organizzati i comunisti, ma anche votati al martirio. In effetti,
a partire dall’assassinio squadrista del ferroviere Giuseppe Migliarese nel 1922 fino
all’8 settembre, Taranto era una delle città con il più alto numero di oppositori
al regime, carcerati, confinati, morti nelle prigioni: Alessandro Volta, i fratelli
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
Mellone, Todol Voccoli… Si ricorda invece il ruolo di un tristo cappellano militare, don Tommaso Canè, sempre al fianco degli squadristi, un devoto della
“Madonna del manganello” rappresentata in una statua del leccese Giuseppe
Malecore (cfr. Nicola Caputo, Taranto com’era, Cressati 2001). Divenuto cappellano del carcere nel 1937, si dedicherà ad estorcere confessioni agli antifascisti
arrestati (cfr. Atti del Processo Candelli, in AA.VV., Antifascismo di terra jonica,
Schena ed., 1989).
Comprensibilmente i cattolici tarantini avevano difficoltà ad agire, ma rimane il
fatto che solo un cattolico eccentrico come il medico e poeta Michele Pierri abbia
avuto il coraggio di esporsi in prima persona. Nel corso del ventennio nigro, in
tutto il paese non mancarono certo cattolici antifascisti e militanti nella Resistenza. Negli elenchi sempre più corposi compilati dagli studiosi, non fanno tuttavia
capolino i cattolici tarantini. Eppure nel sud non mancarono i cattolici che si
ribellarono alla dittatura: a Ruvo di Puglia aveva dato l’esempio il sacerdote
Domenico Paparella, organizzatore del Partito Popolare, antifascista e carcerato.
A Taranto il Prefetto, in data 18 ottobre 1929, comunicava al Ministero che
“nessuna attività nel campo politico degna di rilievo” si era verificata “da parte
della Gioventù cattolica e degli altri enti, associazioni ed istituti cattolici” della
provincia Jonica.
Nei primi anni Trenta l’Arcivescovo Orazio Mazzella, come ha scritto Giovanni
Acquaviva, “si trovò a fronteggiare la massiccia predicazione di un pastore valdese,
che teneva le sue lezioni in una chiesa evangelica in via Pupino”. Uno scontro
invero terribile! Monsignore si rivolse al “braccio secolare” e i Carabinieri ammonirono il pulsanese Michele Mandrillo, per aver propagandato la sua fede leggendo pubblicamente la Epistola ai Romani. In casa sua talvolta si osservava il culto
con un pastore venuto da Taranto, che veniva prontamente arrestato e allontanato dalla zona. Come si dice, forti con i deboli…
Negli anni ’70, ai tempi del Referendum sul divorzio, l’Arcivescovo Motolese farà
di tutto per impedire la pubblica discussione con l’irregolare abate Franzoni, non
potendo tuttavia fare ricorso ai Carabinieri.
Mazzella non si faceva mancare lodi sperticate a un “Uomo cui la Provvidenza
ha affidato la missione di salvare l’Italia” (“Voce del Popolo”, 5 aprile 1930) ma
screzi con il Fascio si determinavano nel 1931, con le devastazioni del circolo S.
Francesco d’Assisi. Si trovò un accordo sostituendo l’anziano “popolare” Jervolino
con il giovane medico Gedda, che stipulava un “concordato” con Starace. Da
quel momento Luigi Gedda doveva diventare un punto di forza della Diocesi
tarantina, fino al fasti dei comitati civici nel secondo dopoguerra. Altri screzi ci
sarebbero stati nel 1939 con la “guerra dei distintivi”.
Diciamo che i cattolici tarantini erano un po’ pusilli, come i bravi borghesi e
intellettuali, che non si preoccupavano minimamente di avere un qualche contatto
il pensiero mazziniano
33
Saggi e interventi
con il fior fiore di antifascisti che a Bari convenivano in casa Laterza, sotto l’egida
di Benedetto Croce. Ai notabili tarantini andavano bene le serate al Circolo Ufficiali
e le granite al lungomare, fra sorrisi impostati, mediocrità paga di se stessa, ignoranza fatta di colpevole comodità, ipocrisia di non mettersi mai in gioco e aspettare gli esiti della partita, per correre subito in soccorso del vincitore. Pusillanimi
o “pagnottisti”, come diceva Motolese. Forse fascisti?
Certo è che a nessuno veniva in mente di adottare la mite strategia di Bartleby
lo scrivano di Melville, con il suo: “preferirei di no”. Autentico umile eroe era
Cesare Teofilato di Francavilla Fontana, maestro elementare a Sava, che dopo
l’avvento del fascismo e la riforma Gentile, che rendeva obbligatorio l’insegnamento religioso nelle scuole elementari e al personale docente imponeva l’obbligo
della iscrizione al Partito, dava le sue dimissioni, affrontando un ventennio di
indigenza e angherie, fino alla detenzione nel carcere di Bari, con De Ruggiero,
Calogero e Fiore . Sindaco di Francavilla nel dopoguerra, ritornava all’insegnamento e partecipava alla costituzione della Società di Storia Patria per la Puglia
(cfr. Gerardo Trisolino, Il sovversivo, in “Quotidiano”, 24 febbraio 1990).
Ferdinando Bernardi (1935-1961)
Il piemontese Bernardi giunse a Taranto dal mare il 5 maggio 1935 e tenne un
discorso fortemente nazional patriottico in linea con il regime. Si stava aprendo
un nuovo terribile scenario internazionale, fra guerra di Spagna e guerra d’Etiopia. La Lettera Pastorale del gennaio 1936 era già emblematica nel titolo: Tutti
in armi per la patria. Contro le forze alleate della massoneria, del protestantesimo
e del comunismo internazionale. Bernardi era un normale clerico fascista, angosciato dalla paura dei socialcomunisti (e delle caricature). Motolese ha ricordato
a Guadagnolo una confidenza di Bernardi: “Non sai come erano le condizioni
della Chiesa prima del Fascismo. Prima eravamo ingiuriati, messi alla berlina, hai
mai sentito parlare del ’Becco giallo’, il giornale che ci attaccava sempre…” (cfr.
Mario Guadagnolo, Guglielmo Motolese, Scorpione, 2004). Sicuramente Bernardi,
talvolta fotografato col saluto romano, senza se e senza ma schierato con i
franchisti, non conosceva e non avrebbe certo condiviso le posizioni di Luigi
Sturzo sulla guerra di Spagna: “La chiesa di Spagna avrebbe potuto fare opera
di pace, si è schierata in maggioranza con una parte, quasi dichiarando una crociata o Guerra Santa. Dalla stessa parte stanno latifondisti, industriali, classe
ricca, che hanno le maggiori responsabilità dell’abbandono della classe operaia in
mano ai sovversivi (18 febbraio 1937). Già il 12 ottobre del ’36 scriveva che
bisognava “disimpegnare la Chiesa dalla maledetta guerra civile” e polemizzava
con il Vaticano e l’ “Osservatore Romano”, e si doleva per l’atteggiamento benevolo nei confronti di Franco e quindi ostile al popolo operaio spagnolo e agli
stessi baschi. “ Quei cattolici che hanno istigato la rivolta (siano anche preti, gesuiti
e vescovi) hanno agito contro gli insegnamenti della morale cattolica” (cfr. Alfonso
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
Botti, Luigi Sturzo e gli amici spagnoli. Carteggi (1924-1951), Rubettino, 2013.
Il vescovo di Taranto intanto era entrato in rotta di collisione con i popolani
della città vecchia che, in segno di protesta per la disapprovazione vescovile della
“asta” per la Settimana Santa (uno dei tanti culti del “comparire” ostentando
versamenti economici faticosamente accumulati) avevano sistemato tutte le barche sull’asfalto di via Garibaldi, con i soliti sospetti di infiltrazioni comuniste (cfr.
Giovanni Acquaviva, Le barche sull’asfalto, Adda, 1975.
Il buon Bernardi non ebbe mai a subire alcun danno dai socialcomunisti, purtroppo un grande dolore in famiglia gli venne causato dalle fascistissime leggi
razziali. Ma per tutti doveva esserci pena e vergogna. L’antisemitismo feroce in
una città senza ebrei segnò l’ora più cupa della cultura tarantina: gufini rampanti,
giornalisti, insegnanti, presidi, pseudoletterati e arrampicatori sociali, si fecero belli
a buon prezzo, inventandosi specialisti in purezza razziale: capofila il buon
Giannino Acquaviva, futuro direttore del “Corriere del Giorno”, giornale che negli
anni della democrazia per due volte doveva essere segnalato dall’osservatorio
sull’antisemitismo. Nel suo già citato libro sul Ventennio, risolveva la tragedia delle
leggi razziali con la solita disinvoltura: “uno degli aspetti del problema razziale è
quello relativo agli ebrei: a Taranto, si viene a sapere ce n’è una quindicina, ma
si tratta di persone perfettamente integrate che non danno perciò alcuna preoccupazione”.
Un motivo in più per disprezzarli. Capofila delle penne razziste, il garbato
Acquaviva inveiva contro “gli ebrei capitalisti che, per la febbre dell’oro, fanno
della loro vita un continuo, vergognoso mercato ed una obbrobriosa corruzione
elettorale”. Testo di riferimento dell’articolo L’internazionale ebraica erano i
famigerati Protocolli dei Savi di Sion (“Voce del Popolo”, 26 novembre 1938).
L’autore godeva per la demolizione del vicoletto Giuda (I giudei a Taranto, in
“Voce del Popolo”, 10 settembre 1938) data la necessità di bonificare anche il
passato della città da personaggi che “adunchi avevano il naso e le mani”. Ci
furono ecclesiastici tarantini, anche rinomati per sapienza storica, come Petraroli,
Coco, Ruggieri che, data l’assenza sul territorio di membri del “popolo deicida”,
in nome di una zelante disebraizzazione si scatenavano ignobilmente contro la
storia pregressa degli ebrei pugliesi. Un antiebraismo retroattivo per disinquinare
la storia della città. “Il Duce, facendo eco al sentimento unanime dei popoli civili,
ha voluto epurare l’Italia nostra dalle influenze malefiche di questa gente, su cui
pesa ancora, dopo millenni, la riprovazione del Cristo, causata dalla loro protervia
e dalla loro ostinazione a non volerlo riconoscere come il Messia” : Primaldo
Coco, Gli ebrei: popolo errante (“Voce del Popolo”, 8 ottobre 1938). Un opuscolo antisemita del liceo Archita, sul Concetto di razza, veniva stampato nel 1940
presso la tipografia arcivescovile di Taranto: all’interno si poteva leggere: “La razza
va difesa. Noi non vogliamo bastardi”. Su questa ignobile crociata, cfr. Francesco
il pensiero mazziniano
35
Saggi e interventi
Terzulli, L’impossibile emulsione. Una città al tempo delle leggi razziali, Palomar,
2009.
Il primo firmatario del Manifesto della Razza, Nicola Pende era ospite a Taranto
il 22 aprile 1939 per una conferenza sulla bonifica razziale, ripresa nel maggio
’40: “È lo spirito ebraico che può nuocere allo spirito della nostra razza; anche
pochi semiti possono inquinare la vita di tutta la nazione”. Nel dopoguerra lo
“scienziato” ebbe indulgenza plenaria perché alti prelati del Vaticano, nell’aprile
del ’50, certificarono la miracolosa “trasudazione del Cristo”, cioè una macchia
su una parete di casa Pende, “ritoccata” come ammise lo stesso dottore (cfr.
Vittorio Pesce Delfino, A proposito di Pende, razzista sì scienziato no, in “la
Repubblica-Bari”, 8 febbraio 2006 Francesco Cassata, Nicola Pende scienziato
razzista, in “la Repubblica”, 14 settembre 2006).
Di lunga durata doveva essere il sodalizio fra la Diocesi e il genetista che nel ’48
avrebbe organizzato i Comitati Civici: quel Luigi Gedda che si era fatto conoscere a Taranto negli anni Trenta quando promuoveva la legislazione fascista contro
il meticciato e le mescolanze dannose per lo “stipite umano”. Nel dopoguerra si
legava agli ambienti della medicina ex nazista e di una antropologia razziale nord
americana: alla rivista The Mankind Quarterly - la principale voce del razzismo
internazionale in opposizione alla politica egualitaristica avviata dall’Unesco - Gedda
partecipava con Otmar von Verschuer, il maestro di Mengele e uno degli scienziati più organicamente legati al nazionalsocialismo. Organizzavano assieme il primo
“Simposio internazionale di genetica medica” nel 1953. Un anno dopo Gedda
veniva a Taranto, accolto con tutti gli onori. Onori che gli venivano negati negli
ambienti scientifici: nel 1953 sulla rivista Science veniva invitato ad apprendere
almeno il “corretto uso delle terminologie” e nel 1962 il suo studio sul Meticciato
di guerra veniva esplicitamente considerato “razzista” e privo di alcun contenuto
di genetica. Presumibilmente la cattedra di genetica medica gli sarebbe stata attribuita nel 1960 per particolari meriti “civici” (cfr. Una difesa di Gedda che trascura
i fatti, in “la Repubblica”, 10 marzo 2006; Francesco Cassata, Molti, sani e forti.
L’eugenetica in Italia, Einaudi, 2006). Dopo aver incautamente dichiarato a Trieste nel ’59: “L’Europa è anche un fatto biologico e ogni stato dovrebbe difendere i suoi peculiari gruppi sanguigni”. Gedda, che tra le presidenze collezionava
anche quella della commissione medica delle Olimpiadi, distribuiva agli atleti di
tutte le nazioni schede per raccogliere informazioni bizzarre (persino sulla fedeltà
coniugale ricevendo improperi e dileggi (Cfr. Marta Boneschi, La grande illusione, Mondadori, 1996). Nel 1971 il vecchio razzista Gedda avrebbe fornito il suo
sostegno a Motolese, per conseguire una grandiosa sconfitta nella battaglia
referendaria sul divorzio.
Fino alla fine del conflitto, Bernardi si destreggiò in una sorta di funambolismo
“cultual-diplomatico”, fra omelie per Italo Balbo e soccorso agli sfollati: 109 morti
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
fra i vari bombardamenti. Nel 1942 una lettera Pastorale intitolata Quaresima di
guerra venne sequestrata dalle autorità locali. Alla fine del conflitto, meritorio fu
il suo intervento presso il campo di S. Andrea , tra reduci e prigionieri. Nel
dopoguerra Taranto si dava una amministrazione socialcomunista, ma la Democrazia cristiana realizzava il sorpasso nel 1956, con soddisfazione di mons. Bernardi.
Mentre negli anni ’50 imperversavano i licenziamenti politici, la solidarietà fra
Arcivescovado e Ammiragliato era più salda che mai, con la presenza in fabbrica
del cappellano del lavoro. A sostegno della Cisl si esercitava un forte impegno
clericale. Il padre gesuita Giuseppe Boccadamo aveva in Arsenale il monopolio
dell’attività di patronato. Visitava le famiglie di operai per dissuaderli dal militare
nei partiti di sinistra o nella Cgil, opera quella che lui chiamava la “bonifica umana”,
per sganciare gli arsenalotti dalla “perdizione” del sindacato “rosso”. Per i sindacalisti “buoni” 5.000 lire e viaggio premio dal Papa. Il bel tomo finiva arrestato
dai carabinieri di Roma, accusato di truffa per circa 200 milioni e condannato a
18 mesi di reclusione: “Dietro il Boccadamo c’era un sottobosco politico - sembra che i prestiti ottenuti superassero di gran lunga l’entità dei contributi elargiti
da privati ed Enti pubblici- al quale non erano estranei strozzini e persino qualche banca” (A. Cortese in “Il Pensiero Nazionale”, 1-15 settembre 1962).
Guglielmo Motolese (1962-1987).
A lungo Vicario di mons Bernardi, Motolese diventava arcivescovo di Taranto nel
1962. Nel 1960 aveva benedetto la prima pietra del IV centro siderurgico. Il palazzo
arcivescovile diventava l’interlocutore privilegiato per gli amministratori dell’Italsider,
come era stato nel passato il “dirimpettaio istituzionale dell’Ammiragliato” (De
Marco). Eppure quando un dirigente di primo piano dell’Italsider, lasciando
Taranto, fece visita di cortesia all’Arcivescovo, venne congedato in una atmosfera
glaciale. Fra i due si era consumata la madre di tutte le battaglie: la compravendita dei suoli per l’insediamento dell’acciaieria. A Taranto era stato inviato Alessandro Fantoli, un importante dirigente Finsider che aveva operato presso la Shell
a Genova e presso la Ceca in Lussemburgo. Glisenti gli aveva affidato il settore
“affari pubblici” nella costituenda Italsider: acquisizione dei terreni, piani regolatori,
gestione portuale, alloggi per i dipendenti. La funzione più importante? Era l’ufficiale pagatore.
In un suo libro-intervista pubblicato nel 1992, Fantoli ricordava come esperienza
più interessante “l’acquisizione dei terreni per lo stabilimento di Taranto e la
connessa battaglia con Monsignor Motolese che guidava un ampio manipolo di
grandi speculatori immobiliari” (Alessandro Fantoli, Ricordi di un imprenditore
pubblico, Intervista di Stefano Boffo e Vittorio Rieser. Presentazione di Luciano
Gallino, Rosenberg & Sellier, p. 48). Fantoli era rimasto impressionato da quei “
notabili locali guidati da un capacissimo vescovo, monsignor Motolese, appartenente ad una autorevole famiglia di Martina Franca; un fratello era deputato Dc”
il pensiero mazziniano
37
Saggi e interventi
(Ivi, p. 47). Il fratello Alfonso aveva avuto l’onore di essere l’unico deputato del
Tarantino alla Costituente. Durante la discussione sul divorzio era stato turbato
da un’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, nella seduta del 29 gennaio
1948, per correità nel reato di adulterio (cfr. Ipocrisia di un deputato democristiano, in “La Fiaccola”, 20 luglio 1947).
Quanto a Guglielmo, “abituato al comando e al dominio, era un vero boss degli
affari immobiliari, grande speculatore di terreni, purtroppo con conseguenze nefaste
per lo sviluppo della città” (A. Fantoli, p. 47). Il primo scontro fu durissimo: la
company guglielmina era molto interessata all’ubicazione dello stabilimento ad est,
sulla direttrice Taranto-San Giorgio: “stavano già acquistando a prezzi agricoli,
migliaia di ettari in quella direzione, sicuri di rivenderli poi a caro prezzo (Ivi,
p. 49). La proiezione ad est venne subito scartata, per evitare che la città fosse
investita dai fumi degli altoforni.
La soluzione più conveniente doveva essere quella di localizzare a sud-ovest, con
scarso riguardo per le sorti future del quartiere Tamburi. A quel punto si trattava
di acquistare un migliaio di ettari in quella zona.
In tale contesto interveniva un altro osso duro: il presidente della Camera di
Commercio Giulio Parlapiano, un palermitano che il prefetto Mori aveva confinato come mafioso a Taranto, dove il personaggio aveva comprato qualche centinaio di ettari, coltivandoli con grande successo e inventando il “vigneto a
tendone”. Parlapiano, che aveva avuto modo di conoscere Fantoli nel periodo in
cui questi lavorava al Ministero per il Mezzogiorno, utilizzò informazioni preziose. La valutazione dei prezzi dei terreni era stata maggiorata. Parlapiano piazzò
al 30% in meno il suo centinaio di ettari che rientravano nel perimetro necessario
per lo stabilimento: operazione conveniente per i due contraenti, ma non per gli
altri proprietari costretti a vendere al prezzo ormai fissato e, ricorda Fantoli, “il
gruppo di Motolese era furibondo” (Ivi, p. 51).
Ma la battaglia non era finita: era necessario acquistare dei terreni a nord-est del
Mar Piccolo, la zona più vicina allo stabilimento, per abitazioni dei dipendenti (in
seguito quartiere Paolo VI). Ma ancora una volta l’astuto Parlapiano tese un
trappolone, suggerendo a Fantoli un acquisto “civetta” nei pressi della masseria
Carmine, allo svincolo Taccone: “Per cercare di non fare esplodere i prezzi dei
terreni nella zona che avevamo individuato, acquisii qualche ettaro a Nord, fra
Taranto e Statte. Il gruppo di Motolese si lanciò su quella pista, acquistando qualche
centinaio di ettari e Monsignore decise, fra l’altro, di costruirvi il Seminario” (Ivi,
p. 51). L’intento era quello di rivendere le aree a prezzo maggiorato all’Italsider
e collocare la parte eccedente della lottizzazione nel libero mercato, a prezzi
rivalutati grazie all’intervento dell’Iri.
Sfortunatamente, mentre don Guglielmo pensava alla lottizzazione selvaggia in
contrada Carmine e al suo Seminario (scherzosamente chiamato la “fabbrica di
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
preti affumicati”) il presidente della Camera di Commercio dava una dritta a
Fantoli: a nord-est del Mar Piccolo, si vendeva la Masseria Vaccarella a prezzo
stracciato. “Nella zona che avevamo prescelto era stata messa in vendita una
“masseria” di un centinaio di ettari, a prezzo decisamente ragionevole; la comprammo nel giro di pochi giorni e divenne il primo nucleo di Taranto Nord” (Ivi,
p. 51). La gran cordata dei 40 lottizzatori subiva così un secondo smacco.
I notabili locali erano inviperiti: “ Il presidente della locale Associazione degli
industriali, naturalmente un edile, mi disse che sarebbe stato molto gradito e
opportuno un incontro tra il loro comitato direttivo e il dottor Osti, noto come
il ’creatore’ dell’Italsider, e col futuro direttore dello stabilimento. Nel corso
dell’incontro, fu quasi intimato ad Osti di non applicare a Taranto i salari degli
altri stabilimenti, cosa che avrebbe fatto ’saltare’, per trascinamento, tutto l’equilibrio delle imprese tarantine” (Ivi, p. 52). Si evidenziava subito, per dirla con
Bunuel, lo “sfascio indiscreto” della borghesia jonica. Alla risposta che l’Italsider
aveva un unico sistema remunerativo e che, quindi, non sarebbe stato possibile
non applicarlo anche a quello di Taranto, “ci fu una specie di insurrezione ed i
rapporti divennero sempre peggiori, con conseguenze nefaste per la città e i
cittadini” (Ivi, p. 52). Tale era il miserabilismo della imprenditoria tarantina!
Intanto, per poter realizzare almeno una parte della speculazione ipotizzata, “il
gruppo edili-Motolese riuscì ad impedire, per una dozzina d’anni, la costruzione
del ponte di Punta Penna… Senza questo ponte tutto il traffico est-ovest era
obbligato a passare sul ponte girevole… nel centro della città, che fu costretta
ad espandersi verso est nelle zone acquisite dagli speculatori, creando ingorghi
paurosi… furono fatti un centinaio di ricorsi: un vero e proprio scandaloso abuso
di autorità nei confronti della cittadinanza!” (Ivi, p. 52). Basta seguire la pista dei
soldi, il follow the money.
L’ultimo grande scontro fra il manager e il boss martinese avvenne sulla selezione del personale. A Taranto monsignor Motolese “riuscì ad imporre la Fim-Cisl
come canale preferenziale di assunzione per gli operai e i diplomati di stabilimento” (Ivi, p. 63). Per tutti gli anni ’60, la direzione Italsider di Taranto ha “sempre
sfacciatamente privilegiato la Fim-Cisl locale a detrimento della Fiom” (Ivi, p.
85). Si registrava l’increscioso caso dell’esperto ingegnere Sette che, eletto nel 1965
come membro Fiom nella Commissione Interna (CI) dell’Italsider, fu minacciato
di licenziamento. Divenne un caso nazionale, tanto da coinvolgere il Consiglio dei
Ministri. Michele Sette rientrò a Genova in forza all’Ansaldo e divenne un dirigente nazionale della Fiom. Lasciando gli “affari generali”, Fantoli, si congedò
freddamente dal monsignore che dai notabili locali veniva chiamato “Richelieu”.
Nel suo memoriale, così concludeva: “le assunzioni del personale di Taranto
rimasero ‘appaltate’ alla Fim-Cisl: il nefasto Motolese ed i suoi “preti affumicati”
si erano presi una pesante rivincita” (Ivi, p. 63).
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Anni dopo lo scrittore Salvatore Rea avrebbe fatto circolare una battuta irriguardosa
su Motolese prefetto, sindaco, presidente della Camera di Commercio, presidente
dell’Associazione Industriali… (cfr. “L’Espresso”, 6 agosto 1972).
* * *
Motolese aveva le idee chiare sulla Città Vecchia: iniziale accordo con il progetto
“Manhattan” di Monfredi nel 1968 (distruzione dei caseggiati e costruzioni di
case-torri sviluppate in altezza) e ostilità verso il piano di risanamento dell’Architetto Blandino: “Motolese espresse pubblicamente l’opinione che sull’Isola si
sarebbero dovuti salvare i palazzi (e naturalmente le chiese) che avevano un valore
storico e validità abitativa, il resto bisognava abbattere senza rimpianto” (Giovanni Acquaviva, Un centro storico estraniato, “Corriere del Giorno”, 29 aprile 2007).
Il 6 dicembre 1970 veniva inaugurata la concattedrale progettata da Giò Ponti,
progressivamente deturpata, rispetto al progetto originario, dalla voracità della
speculazione edilizia, certamente non arginata da Motolese (cfr. Roberto Nistri,
Il sogno della grande vela: l’architetto e l’assessore, in architettitaranto 09, 2012).
Nel fatidico Maggio 1968, in un’assemblea presso il Salone della Provincia, presieduta dall’arcivescovo Motolese, il guardiaspalle Giovanni Acquaviva presentava
una Lettera Pastorale sul “ problema dei giovani”: una ghiotta occasione per attuare
una contestazione pacifica e irridente, secondo lo spirito del tempo, da parte dello
scrivente con un gruppo di studenti. Ricordiamo alcuni compagni scomparsi, come
Paola Rivera, Francesco D’Elia e Lorenzo Scalzo, entrato in sala con un cartello
al collo: sono un cattolico”. Motolese non profferì verbo, mentre il direttore del
“Corriere del Giorno” non rinunciò ad offrire ai giovani un’occasione di buon
umore, cercando di indagare sul libretto universitario dello scrivente.
Alla fine dell’anno, con l’arrivo di Paolo VI al Siderurgico, si registrava una mite
contestazione da parte di studenti “cattolici del dissenso” di Bari e membri della
comunità fiorentina di don Mazzi. Si avviava a Taranto la grande radicalizzazione
giovanile che molto doveva vivacizzare le file cattoliche (cfr. Roberto Nistri, L’anno
degli studenti, in AA. VV., Taranto dagli ulivi agli altoforni, II tomo, Mandese,
2007). Su Guglielmo Motolese, il referendum sul divorzio e la contestazione nel
mondo cattolico; cfr. AA. VV., L’età dell’acciaio. Taranto negli anni Settanta,
Mandese, 2011.
I successori di Motolese, diciamo che non si sono mostrati all’altezza. Salvatore
De Giorgi (1987-1990) non si può dire che abbia lasciato una traccia indelebile.
A modo suo è risultato invece abbastanza intrigante un personaggio come l’apocrifo
Papa Benigno Luigi (1990-2011). Durante il suo governo episcopale, la vicenda
dell’Ilva cominciava ad assumere tratti abbastanza tenebrosi: nel 1991 il Ministero
dell’ambiente dichiarava l’area di Taranto “area ad elevato rischio ambientale”.
Giovanni Paolo II, nella sua visita a Taranto dell’ottobre 1989, aveva invocato
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il pensiero mazziniano
Roberto Nistri
“una svolta capace di difendere la dignità del lavoro umano ed il senso sociale
di ogni posto di lavoro”. Nel 1998 scoppiava all’Ilva il caso della famigerata
Palazzina Laf, lo spregevole laboratorio del mobbing che, grazie all’intervento della
Magistratura divenne un caso nazionale: una strategia finalizzata all’emarginazione
del lavoratore sino al suo definitivo allontanamento dall’azienda. Un terrorismo
volto a dimostrare che la proprietà era nelle condizioni di liberarsi di chiunque.
Preziosa una testimonianza di Claudio Virtù : “ Il giorno della messa del precetto
pasquale, alcuni vigilanti in divisa ci prelevarono dalla Palazzina e ci scortarono
fino al capannone, dove si sarebbe svolta la cerimonia religiosa. Vi erano molti
dipendenti, anche molti vigilanti e non tutti in divisa. Quelli in divisa ci accompagnarono in un angolo del capannone e, formando un cordone protettivo, in
pratica c’impedirono di avere contatti con gli altri lavoratori. Al termine della
cerimonia fummo scortati nuovamente fino alla Palazzina Laf come se fossimo
un gruppo di detenuti” (Palazzina Laf: la violenza del padrone, Archita, 2001).
Non risulta che il buon Pastore si sia particolarmente preoccupato, in quel caso,
di pronunciare una parola in difesa della sempre sbandierata Dignità della Persona e del Lavoro, nonché della salute dei cittadini. Per Papa i Riva erano sempre
buoni cristiani, che gli permettevono di incassare, in ogni festività religiosa, dai
cinque ai diecimila euro.
“Sì che li ho presi, i soldi dell’Ilva. Una volta fu lo stesso Emilio Riva, il patron,
che alla fine del precetto pasquale, in fabbrica, si avvicinò porgendomi la busta:
Eccellenza, per il suo disturbo… C’erano dentro diecimila Euro in contanti. Ma
era una offerta, non una tangente! I Riva sono molto religiosi” (cfr. Fabrizio Caccia,
L’ex vescovo e i soldi, in “Corriere della Sera”, 2 dicembre 2012). Il 9 maggio
2011 doveva anche essere premiato, con il Cataldus d’argento per il volontariato,
il devoto Archinà: l’uomo nero della fabbrica criminale. Sembrerebbe che il Benigno
si sia mostrato più esperto in brokeraggio e titoli in Borsa che non nella promozione del volontariato. Certamente le donazioni (crediamo doverosamente registrate nei conti della Diocesi) sono state devolute al risanamento di strutture
religiose, ma è bene ricordare che quelle migliorie, grazie ai “fumi benedetti”, le
stanno ancora scontando i poveri cristi sempre in fila negli ambulatori.
A restituire dignità alla Istituzione ha provveduto il vescovo Filippo Santoro, che
prontamente ha dichiarato “ mai più soldi dai Riva” e ha mostrato sensibilità nel
condividere le pene di una civitas in grande sofferenza.
Dies irae…Dies ilva
Considerazioni in margine alla discussione tenutasi il 15 febbraio a Taranto, nella Sala
Municipale, con il patrocinio del Lions Club, sul tema: I cattolici e… gli altri.
Roberto Nistri
il pensiero mazziniano
41
Saggi e interventi
Primo Risorgimento
Arcangelo Ghisleri
Maestro di Giulio Andrea Belloni
A
rcangelo Ghisleri1 e Giulio Andrea Belloni2 occupano all’interno della storia del Partito repubblicano una posizione privilegiata: il primo, nel 1895,
fu tra i fondatori del Partito stesso, mentre il secondo, segretario della Federazione giovanile tra il 1924 e il 1925, ne divenne poi, nel 1946, segretario nazionale. Sebbene figli di generazioni diverse, interpretarono entrambi il
repubblicanesimo come una scelta di vita e non soltanto di azione politica. Le
aspirazioni di un Risorgimento che lentamente usciva di scena, protagonista ormai dimenticato, continuavano a vivere nei loro scritti come nel loro vissuto, quasi
ultimi vati di un’epopea ormai conclusa. Nel tramonto di un’ epoca, che conobbe
e seppe far propri nobili valori, all’alba di un nuova età pervasa da basse quanto
menzognere illusioni, Ghisleri e Belloni seppero dimostrare come la fede disinteressata verso gli ideali in cui credettero senza riserve intellettuali, poteva ancora
dare una speranza a un popolo, quale quello italiano, tormentato dalla guerra e
dalla dittatura.
Presso la Domus Mazziniana di Pisa è conservato un ampio carteggio, sino a
oggi quasi del tutto inedito, intercorso i due repubblicani dal 1923 al 1938, anno
della morte di Ghisleri3 . Si tratta di circa 350 scritti, tra lettere, biglietti e cartoline postali, che dimostrano la stima e l’affetto tra l’intellettuale cremonese e il
giurista romano. I temi che via via vengono affrontati dai due amici non sono
banali, né frivoli, né insignificanti, al contrario offrono al lettore una ricchezza
inconsueta di argomenti: la perdita dell’eticità nella vita politica, i grandi ideali
repubblicani, la memoria dei maestri del Risorgimento, il dramma dell’Italia fascista. Non mancano, naturalmente, delle piccole facezie e amenità quotidiane,
che servono a dare calore al dialogo e a emozionare il lettore. Attraverso questa
corrispondenza è così possibile ricostruire un quadro quanto mai preciso della
politica italiana, e non solo, di quegli anni, riviverne gli avvenimenti più significativi, rievocarne i nomi dei protagonisti; ma oltre a ciò il carteggio Ghisleri –
Belloni offre la possibilità di riportare alla memoria fatti ed eventi di cui la storia
ufficiale non può e non deve interessarsi: piccoli accadimenti di un vissuto quotidiano, capaci di rendere il segno di un’epoca. Così, accanto a nomi altisonanti
come Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Benedetto
Croce, Giovanni Giolitti, Giovanni Gentile, ne appaiono altri di individui poco
noti, o del tutto sconosciuti, quali Bruno Franchi, autore di vari saggi su Enrico
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
Ferri 4 , Paolo Gaffurri, fondatore dell’Istituto d’Arti Grafiche, Felice Albani,
autore di un saggio interessante ma poco conosciuto su Guglielmo Oberdan5 ,
Roberto Mirabelli, fervente irredentista e repubblicano, Giuseppe Beolchi, uno
dei più devoti discepoli del Romagnosi. In tal modo, la vita dell’uomo comune
si intrecciava e si confondeva con quella dell’uomo potente, celebre, illustre,
permettendo così al lettore di epoche successive di addentrarsi con più facilità in
una realtà appresa sovente solo dai libri di storia.
Gli anni del carteggio tra i due amici repubblicani segnano la fine di un’epoca,
il tramonto delle illusioni e delle speranze in essa riposte, e l’inizio di un nuovo
tempo, così lontano dalle loro aspettative, così privo di quei valori in cui sempre
credettero e che indusse Ghisleri, ormai anziano, al silenzio, mentre spinse Belloni
all’audacia e alla temerarietà propria dell’età giovanile.
Belloni era, infatti, più giovane di Ghisleri di circa quaranta anni: questa differenza di età lo portava ad assumere nei confronti dell’intellettuale lombardo un
atteggiamento di grande rispetto e riguardo: ogni lettera, ogni cartolina a lui
indirizzata iniziava sempre con la parola “Maestro”. Il termine veniva e viene
tutt’ora usato sovente in modo improprio e sconveniente, senza comprenderne il
profondo significato; Belloni, al contrario, ne aveva capito il senso più vero e
autentico: il suo non era uno sterile quanto inutile formalismo, ma la traduzione
reale del suo affetto e della sua stima verso Ghisleri. Scriveva Vittorio Parmentola,
ricordando la figura di Giulio Andrea Belloni, subito dopo la sua improvvisa
scomparsa: «[…] le sue formazioni scientifiche si inquadrano in quella sociologia
che da Romagnosi attraverso Cattaneo, Ferrari e Rosa trova le sue recenti espressioni in Colajanni e nell’ultimo grande epilogo, Arcangelo Ghisleri […] Gli orientamenti politici e sociali di Giulio Andrea Belloni sono lo svolgimento del pensiero
e dell’azione rivoluzionaria del Risorgimento Italiano e dell’Ottocento europeo»6 .
Sempre nella medesima occasione così si esprimeva Alfredo De Donno: «La
predilezione degli studi di G. A. Belloni era volta al pensiero della scuola che da
Gian Domenico Romagnosi giunge ad Arcangelo Ghisleri, attraverso Carlo
Cattaneo […] L’ultimo industre artigiano che ha lavorato nella officina di questo
luminoso pensiero è stato Arcangelo Ghisleri. Sul suo insegnamento G. A. Belloni,
avido di sapere, ansioso di scoperte, prima ancora dei trent’ anni, ha frugato nella
sempre semisepolta miniera delle pagine sparse di Cattaneo […] Del resto, il grande
Ghisleri aveva fatto lo stesso, con una ampiezza di lavoro straordinariamente
feconda, raccogliendo la fiaccola caduta dalle mani inerti di Alberto Mario; e si
spiega anche come Belloni sia corso al capezzale di Ghisleri moribondo, con l’ansia
febbrile di non far rinchiudere nella stessa tomba “le carte sudate”, dal cui inchiostro
ancora fresco si sprigionava la forza incoercibile di un pensiero sempre vivo»7 .
Nel 1923, l’anno in cui inizia la corrispondenza tra i due amici repubblicani, il
il pensiero mazziniano
43
Saggi e interventi
giornalista lombardo era ormai verso il tramonto della sua esistenza, ma non aveva
perso il vigore e la gagliarda energia degli anni giovanili. Sempre attento alle
questioni inerenti il proprio paese, con l’avvento del fascismo aveva però preferito tacere: il suo silenzio era, tuttavia, più eloquente di tante parole. Come pure
la solitudine, che aveva scelto nell’ultimo frammento della sua vita, dimostrava
l’avversione, sino al disprezzo, per una politica priva di quei valori etici, così radicati
nella sua coscienza di uomo e di intellettuale. E proprio in questa solitudine, nella
quale si compiaceva ricordare i grandi maestri del passato, i grandi eroi di quel
Risorgimento per lui ancora vivo e presente, Ghisleri era allietato dalla corrispondenza che intratteneva con i suoi vecchi amici e con i giovani repubblicani, affascinati dal suo pensiero e dal suo stile di vita: tra questi, forse il preferito, era
proprio Giulio Andrea Belloni. Il carteggio con l’intellettuale lombardo iniziò, come
detto, nel 1923, quando il giovane repubblicano prestava servizio militare presso
il III Reggimento Granatieri di Viterbo. Fu quello un periodo della vita di Belloni
non molto sereno, poiché aveva dovuto abbandonare i propri studi e dedicarsi ad
attività estranee ai suoi veri interessi. Con una certa tristezza, così si rivolgeva
infatti a Ghisleri: «Caro Maestro, i disagi della nuova vita mi impedirono sinora
di riscriverle, come avrei dovuto e voluto […] Che dirle di mia vita? Caserma e
convento. Infatti la mia compagnia […] alloggia in un vecchio, simpaticissimo
convento, detto Paradiso. Ho dovuto dare, per quanto possibile, vacanza al cervello; ma confido che la grande attività muscolare che mi è imposta, e il regime
regolatissimo di vita, gioveranno alla mia salute e saranno utili alla ripresa dei
miei studi […]»8 .
E infatti, non appena terminato il suo obbligo militare, Belloni riprese con slancio e passione il ruolo di studente presso la facoltà di Giurisprudenza di Roma.
In quegli anni si sentiva attratto dal pensiero positivista in relazione al diritto
penale e considerava importante, in tal senso, l’opera di riforma di Enrico Ferri,
che già nel 1911 aveva fondato la Scuola di Applicazione giuridico-criminale, ove si
cercava di dar vita a nuove teorie in campo penale, come la distinzione tra psicologia criminale e psicologia giudiziaria9 .
In una lettera del febbraio 1927, il giovane Belloni, con la lealtà propria del suo
carattere, così confidava a Ghisleri: «[…] Ferri è in disgrazia. Non ostante i suoi
salamelecchi ed incensamenti all’astro splendido d’ardentissima luce, il suo famoso Progetto di riforma dei codici è trombato, e la nostra Scuola d’Applicazione
- grande, degna, unica istituzione - vacilla. Io ammiro sempre Ferri; e non tengo
conto del triste spettacolo ch’egli ha dato, considerando che, in fondo, ha menomato la sua personale reputazione soloper salvare la realizzazione del sogno
scientifico e della fatica di tutta la vita sua, nella riforma legislativa e nella Scuola,
da cui escono annualmente non più di 80 alunni, fra cui molti stranieri, ma al-
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
meno per l’Italia una trentina di giovani con idee chiare e buone teste, cui
s’insegnò, se non altro, la grand’arte di imparare. In questa Scuola io vedo l’unica
seria istituzione scientifica, degna d’Italia; ed essa è del resto l’ultimo punto di
resistenza contro il Sillabo della Minerva: ma opportunizzando dove si andrà a
finire?»10 .
Il richiamo all’avventura positivista spingeva Belloni a interpretare la realtà e il
mondo in contrasto con la cultura dominante della sua epoca, quasi del tutto
proiettata verso l’idealismo crociano e gentiliano. Ghisleri, rispettoso del pensiero
positivista, anche per la grande ammirazione dei confronti di Carlo Cattaneo, che
sempre considerò uno dei suoi grandi maestri, approvava le tesi del suo giovane
amico, nonostante non condividesse in pieno il giudizio su Ferri.
Aveva conosciuto il criminologo già ai tempi della sua giovinezza, tempi nei quali
insieme agli amici Filippo Turati11 e Leonida Bissolati era stato attratto verso gli
ideali socialisti. In uno scritto del 1884, così, infatti, sosteneva: «[…] Viene operandosi attiva un’evoluzione del mio spirito verso il più pugnace socialismo»12 .
Ma, già in precedenza, aveva cominciato a dubitare circa l’impegno morale di
Ferri, e tale convinzione crebbe in seguito quando, nel 1878, dirigeva con Alberto
Mario «La Rivista Repubblicana». Non ne condivideva soprattutto il bisogno di
collaborare soltanto sotto pseudonimo, quasi temesse di manifestare all’esterno il
proprio pensiero. Tuttavia, era memore che Ferri lo aiutò a lasciare, nel 1886, il
liceo della città di Matera, da lui definita «Africa italiana, vera Italia irredenta,
peggio, vero anacronismo storico»13 , dove insegnava storia e geografia. Inoltre,
conservava ancora la lettera che il criminologo gli scrisse in occasione della querelle,
avuta nel 1887, con l’onorevole Giovanni Bovio sul problema della superiorità e
inferiorità delle razze umane, lettera nella quale Ferri sosteneva pienamente la tesi
ghisleriana sull’uguaglianza del genere umano. «Lessi con vivo interesse le tue
osservazioni a Bovio e mi pare che hai non una ma mille ragioni e sono d’accordo pienamente con te […]»14 . Quando ormai fu chiara in Ghisleri la fede
repubblicana, per cui scriveva «posso dire che da’ miei primi passi nel giornalismo fui repubblicano, con tendenza spiccata alla forma federale, che meglio
guarentisce le libertà e l’autonomia»15 , non si sbarazzò mai del proprio passato,
degli ideali che avevano contribuito a costruirlo, come pure delle persone che di
quel passato furono protagoniste.
Nella corrispondenza con Belloni, quindi, mantenne sempre nei confronti di Ferri
un atteggiamento benevolo, e nel ricordare l’ampia campagna antimazziniana
sostenuta dal criminologo nel 1901, continuava a considerarlo «un allegro burlone»,
che criticava Mazzini «senz’avere letto le opere»16 . Inoltre, quando nel 1929, a
pochi giorni dalla morte, Enrico Ferri divenne senatore del Regno d’Italia, così
Ghisleri scriveva ancora al giovane amico: «L’on. Ferri entra in Senato: finalmente
il pensiero mazziniano
45
Saggi e interventi
hanno riconosciuto, come diceva quel poeta comico, che ora non ricordo di nome,
ch’egli era degno: “dignum est entrare” non per quel che disse ma per quel che
tacque»17 . E venuto a conoscenza della morte del criminologo, con grande tristezza apriva il suo cuore a Belloni: «Ne sono costernato. Malgrado tutti i dissensi, sento la religione delle prime amicizie e ormai degli anni della giovinezza
non ne sopravvive che uno! Conobbi E. F. giovane disinvolto e pieno di speranze, quando passò da Milano nel ’78 recandosi a un anno di perfezionamento a
Parigi. Lo impegnai a mandarmi corrispondenze letterarie o di qualunque soggetto per la Rivista Repubblicana. E me ne inviò […] Oratore nato, impaziente di
successi e perciò poco paziente di meditazioni interiori. Tuttavia nonostante le
sue polemiche [… ] era sempre con me l’amico d’una volta, non serbava rancori
politici. Deponete per me un fiore sulla sua bara […]»18 .
Belloni era grato a Ghisleri per questo suo modo tollerante e bonario di rievocare gli eventi passati, e sempre più percepiva la grande dimensione morale del
Maestro. «[…] Io vorrei non a parole mostrare l’animo commosso con cui penso
a lei, ma non potendolo preferisco tacermi»19 .
Frattanto, dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, il giovane avvocato
trovò un impiego presso la Commissione per la riforma dei Codici, di cui era
direttore il professor Francesco Galgano. Felice per questo nuovo lavoro, che, tra
l’altro, gli concedeva molto tempo per studiare, così scriveva a Ghisleri: «[…] ho
trovato un non disprezzabile posto presso l’istituto da cui le scrivo; pel quale
posso lavorare mediante la mia cultura giuridica e la mia nozione del francese e
tedesco. È una specie di università libera, annidata presso la Commissione per la
riforma dei Codici, con orizzonte mondiale e collaboratori in ogni paese. Il posto
è decoroso, , senza schiavitù d’orario, con opera non estranea ai miei studi, e non
inutile al miglioramento della mia cultura: pel quale mi resta inoltre tempo»20 .
Belloni si dedicò così, con grande slancio, allo studio di quegli intellettuali che,
a suo giudizio, contribuirono a rendere grande la cultura italiana del secolo XIX,
e tra questi, Romagnosi, Cattaneo, Pisacane21 . Soprattutto per Gian Domenico
Romagnosi il giovane repubblicano ebbe una passione particolare, nella quale
trascinò anche il Maestro, sino a convincerlo a pubblicare Le più belle pagine di G.
D. Romagnosi22 , opera nella quale egli stesso diede un contributo fecondo. Finalità
del lavoro, come scrisse lo stesso Ghisleri, fu di «[…] fare opera di efficace
propaganda», al fine di smentire «che il Romagnosi è pesante e illeggibile» e
«insinuare la curiosità e il desiderio della ricerca negli uomini di studio, per farli
correre alle fonti»23 . Ma in realtà l’interesse di Ghisleri e di Belloni per l’opera
di Romagnosi si inseriva in una prospettiva di più ampio respiro, che aveva come
fine la rivalutazione del repubblicanesimo di contro a una monarchia considerata
come «[…] ostacolo alla libera possibilità di una libera educazione politica»24 . A
46
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
tale lavoro, come detto, Belloni partecipò con grande interesse e dedizione, tanto
che lo stesso Ghisleri riconobbe apertamente questa produttiva collaborazione in
una lettera del 1928 indirizzata allo stesso Belloni, ove sosteneva: «Ho scritto oggi
al Sig. Ojetti25 , chiedendogli […] per quando potrebbe occorrergli il manoscritto
completo da dare in tipografia e accettando di dare il mio nome a una scelta,
fatta sul materiale già da voi intelligentemente raccolto»26 . La particolare ammirazione di Belloni per Romagnosi era in stretta sintonia con i suoi interessi per
il Risorgimento italiano di cui vedeva, nel filosofo di Salsomaggiore, uno dei più
illustri padri, poiché assertore di italianità e libertà, ma anche teorico della difesa
sociale come fondamento e fine della pena. A tal proposito sovente si rattristava
nel constatare quanto poco apprezzamento la cultura italiana e straniera destinasse a un così valente intellettuale. «Ma quel che è strano, e un poco triste», scriveva
infatti, «si è che il Nostro per quel suo esigere attenzione e industriosità, per quel
che di necessariamente duro ed oscuro che v’è nelle sue pagine – non ha trovato
fortuna neanche tra i meno, sinora. Neppure tra le ristrette sfere in cui si esercita
l’industria delle dottrine sottilissime. E si che se solo i suoi libri si presentassero
al nostro mondo accademico con marca teutonica, essi, vi troverebbero studi,
analisi commenti quanti ne ha trovati, e ne trova, la “filosofia a vapore” da lui
combattuta […] Romagnosi non sarà inteso finché le manifestazioni della sua
dottrina non verranno esaminate spoglie dal camuffamento (ben s’addice questo
termine di guerra), che l’avversità dei tempi gl’impose come espressione propria
e, peggio, come glossa dai discepoli strettagli intorno per salvarlo dal morso della
reazione antinazionale. Egli […] non può essere studiato antistoricamente. […]
Su tutta la linea, dunque, Romagnosi vuol essere ripensato alla luce della scienza
della storia. La quale deve preludere alle sue pagine, e potentemente soccorrere
a mostrarne in luce non falsa la modernissima dottrina»27 . Vi era inoltre un episodio
della vita di Romagnosi che Belloni sentiva particolarmente vicino alla propria
esperienza di uomo più che di intellettuale: il processo a cui venne sottoposto nel
1821 dall’inquisizione austriaca. «[…] trascinato da Milano a Venezia, vecchio ed
infermo il grande piacentino sopporta con fermezza – e con destrezza – l’inquisizione dei dominatori asburgici delle province italiane»28 . Come Romagnosi, anche
Belloni, sebbene in epoche diverse e per motivazioni differenti, patì le sofferenze
degli interrogatori e gli stenti della prigionia: tuttavia non si asservì mai al regime
fascista. Significativa, al riguardo, la lettera scritta alla madre il 16 agosto 1932 dal
carcere: «Carissima Mamma, forse, perché io possa aver la consolazione di vedere
i tuoi caratteri, bisogna che tu non mi scriva più di quattro o cinque parole: tanto
non occorrono parole perché io sappia la sola cosa che non mi mancherà mai:
il tuo affetto. Ma voglio vedere che stai bene e che sei serena. Per me non hai
da preoccuparti. E sai quanto ti ama il tuo Giulio […]»29 . Ecco quindi la fermez-
il pensiero mazziniano
47
Saggi e interventi
za composta di una dignitosa sofferenza che univa, sia pur simbolicamente, superando i limiti dello spazio e del tempo, Belloni con Romagnosi. «Cos’era
Romagnosi?», scriveva ancora Belloni, «un’ombra che pensava e quel che segue:
lo sanno tutti. L’idea del pensatore si associa spontanea – e sola – al grande
nome; col sacro rispetto che inspira…l’ignoto. […] Le Storie, scritte in genere da
chi proviene dallo studio delle “lettere” sogliono trascurare i fatti delle “scienze”.
Ora, specie nelle “morali”, tali fatti sono meno risonanti, ma non davvero meno
importanti al processo storico che le cose letterarie, le quali hanno, si, più diffusione e splendore, non il valor sociale profondo di essi: basti riflettere che la
vita civile non è se non un sistema di rapporti economico-giuridici regolato
ordinariamente dai legisti, e considerare che il rinnovarsi del nostro diritto pubblico e il maturarsi dell’ideologia del Risorgimento procederono in gran parte dalla
nuova filosofia del diritto penale, in cui l’opera di Romagnosi fu studiata da ogni
giurista»30 . Scrivere su Romagnosi significava, dunque, per Belloni scrivere in favore
della causa italiana: il giovane repubblicano tendeva così ad attualizzare il pensiero dell’intellettuale federalista, pensiero per lui non attaccabile dalla erosione del tempo. «Si lavora per Romagnosi e per la nostra Italia, non per le nostre persone»31 .
Romagnosi rappresentò, quindi, per Belloni un momento di riflessione profonda:
in lui l’ uomo e l’ intellettuale, il filosofo e il giurista, trovavano una perfetta
sintonia di fini e di intenti. Grazie all’aiuto di Ghisleri, per il quale il pensiero di
Romagnosi rappresentava il preludio necessario e indispensabile per avvicinarsi
alle dottrine di Cattaneo, Belloni riuscì a realizzare il suo sogno, quello di vedere
pubblicate le più belle pagine del pensatore a lui così caro. Nel corso del tempo
continuò tuttavia a dedicare a Romagnosi vari saggi, nei quali cercò sempre di
evidenziare i diversi ambiti culturali entro i quali spaziava il suo pensiero32 .
Dunque Romagnosi rappresentò un momento d’incontro significativo nella corrispondenza Ghisleri – Belloni, anche perché in molte lettere, l’intellettuale lombardo consigliava il suo giovane amico, in merito ai dettagli, ai particolari tecnici
e, non da ultimo, agli argomenti da sviluppare e prendere in considerazione nella
stesura dell’opera romagnosiana. In una epistola del 1929, così scriveva: «Caro
amico, continuando l’esame del materiale preparato, mi sorprende una lacuna
sfuggita ad entrambi: non vi sono le più belle pagine che riguardano le pene, i
delitti, la loro prevenzione ecc. Come mai? Eravamo così compresi entrambi della
notorietà della fama di R. in quella materia che ci siamo invece preoccupati di spigolare
nelle opere meno note. Ora sarebbe inconcepibile un’antologia romagnosiana, che
non avesse un saggio del suo pensiero sul Diritto Penale. […] Sto leggendo tutte le
parti dell’antologia. Ve ne scriverò. Intanto cordiali saluti. A. G.»33 .
Come accadde per Gaetano Salvemini, che dopo aver letto il volume curato da
Ghisleri, IlLibro dei profeti dell’idea repubblicana in Italia compilato da un italiano viven-
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
te34 , si vergognò della sua «ignoranza»35 in materia risorgimentale proprio in una
lettera indirizzata allo stesso Ghisleri, così anche Belloni, grazie all’aiuto del Maestro,
gradualmente usciva dagli schemi culturali di stampo prevalentemente giuridico,
schemi tipici della sua formazione culturale, e si incamminava verso orizzonti,
che sia pur non lontani dai suoi interessi iniziali, risentivano certamente dell’insegnamento ghisleriano. Così, dopo Romagnosi, Carlo Cattaneo divenne il pensatore
prediletto dei suoi successivi studi, concordando con Ghisleri sulla fondamentale
importanza del pensiero cattaneano per la vita politica e culturale italiana ancora
in quegli anni oscuri dominati dal fascismo. Da sempre, infatti, Ghisleri aveva
riconosciuto in Cattaneo l’universalità della cultura, che non voleva significare «un
archivio ambulante di cognizioni accatastate, catalogate, come in una bacheca»; al
contrario il suo ingegno era come «[…] un crogiuolo, nel quale le cognizioni e
i dati altrui si fondevano in nuovi amalgama e in combinazioni inaspettate»36 .
Cattaneo, quindi, aveva trovato nel repubblicano Ghisleri un terreno fertile su cui
far germogliare il proprio pensiero, in nome di quella idea federale, l’unica, a suo
giudizio, capace di liberare i popoli dalla schiavitù. «Ogni popolo», aveva scritto
infatti, «può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi
sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo
li intende. E v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche
la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra. Di là il diritto
federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al
diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità»37 . Nell’autunno del 1821,
recandosi con l’amico Stefano Franscini a Zurigo, Cattaneo aveva evidenziato le
differenze esistenti con il proprio paese, specialmente in campo educativo38 ;
Ghisleri, sebbene in anni diversi, vivendo nella realtà elvetica, così asseriva: «Eppure, nell’autonomia de’ suoi 22 Cantoni, nella singolare applicazione d’una
medesima auto – reggenza a tre razze differenti, la Svizzera offre agli studiosi il
più ricco gabinetto sperimentale di politica e sociologia contemporanea»39 . Questa spiccata vicinanza al pensiero cattaneano, che tuttavia non gli fece mai rinnegare la sua grande ammirazione per Mazzini, da lui considerato «[…] il Kempis
dei rivoluzionari […] il conforto, il vangelo, l’eccitamento alla fede, il consolatore
nelle delusioni, il “pascolo dell’anima” per chiunque crede in un grande ideale di
miglioramento umano» 40 , trascinò gradualmente anche Belloni verso tesi
autonomiste e federaliste41 . Nel carteggio, quindi, il pensiero dell’eroe delle Cinque Giornate di Milano venne ampiamente analizzato e contestualizzato nell’età
contemporanea. In una lettera del 27 marzo 1927, cosi Ghisleri si confidava con
l’amico: «[…] Ora vi devo una parola sincera, che mi trattenni dallo scrivervi altre
volte. Io son lieto di sentire nel vostro spirito continuata quella intima fede nella
libera ricerca della verità, in tutti i campi, da cui procede il positivismo italiano,
il pensiero mazziniano
49
Saggi e interventi
senza quella improvvida e soggettiva (e spesso orgogliosa) impazienza di chiudere
il cerchio (come dite bene) del sistema aperto, e senza la spenceriana tendenza
a disimpegnare l’intelletto da certe meditazioni colla dogmatica cinta dell’
inconoscibile. Per la mente italiana ciò che si riteneva inconoscibile può forse
ritenersi inesplorabile, se applicato a certe posizioni metafisiche di problemi, che
un più giusto apprezzamento delle nostre facoltà e del nostro posto nell’Universo
dovrebbe ritenere mal posti o oziosamente proposti. La ragione dell’Uomo non
deve giocherellare con se stessa, come i metafisici dello spiritualismo assoluto in
tutti i tempi fecero e fanno. Cattaneo era in questo senso che accusava i metafisici
del suo tempo (difendeva Romagnosi contro Rosmini)42 di rovesciare la certezza
evidente e popolare per incamminarsi allo scetticismo»43 . E nel dicembre dello
stesso anno, pensando di inserire delle immagini di Cattaneo in alcune sue prossime pubblicazioni scriveva: «Penserò al ritratto di Cattaneo nel marzo venturo,
se sarò in grado, in occasione delle 5 giornate milanesi, che anche i reggitori
odierni commemoreranno»44 . Il fine ultimo di Ghisleri era dunque quello di rivalutare la cultura risorgimentale, soprattutto quella legata agli ideali mazziniani
e cattaneani, intento che trovava piena risposta nel giovane Belloni quando asseriva:
«[…] io fo con piacere quanto posso per contribuire al riscatto del nostro pensiero»45 . La consapevolezza quindi di operare per il bene del proprio paese era
un altro elemento di unione tra i due pensatori, che col trascorrere del tempo
raggiunsero una profonda intimità e una sempre maggiore vicinanza di ideali.
Proprio dalla consapevolezza di tale sintonia di intenti nacque, nel giovane repubblicano, il desiderio di realizzare un volume in onore del suo più anziano amico,
ove racchiudere le pagine più belle e significative da lui scritte durante la sua
lunga esistenza, come pure le testimonianze di coloro che nel corso del tempo
ebbero modo di conoscerlo e apprezzarlo. L’imbarazzo del cremonese per tale
iniziativa non tardò a manifestarsi; cercò così di dissuadere l’ amico da un’impresa da lui giudicata inutile e inadatta al suo carattere solitario e non incline a elogi.
«[…] per l’idea di onoranze, affettuosa e gentile non vi nascondo la mia gratitudine; ma già tre anni fa, per festeggiare il mio 70°, Pirolini voleva raccogliere
scritti d’ amici per un volume che avrebbe stampato lui e contemporaneamente
Terenzio Grandi da Torino pensava a qualche altra cosa; quando ne seppi, dissuasi con un argomento, che sarebbe parso di malaugurio non accogliere: - non
sono ancora morto per farmi il necrologio ed io non ho ancora scritto le cose
che più mi piacerebbe di scrivere - e se la salute mi regge, non mi metterò ora
a riposo. Grazie dell’intenzione, ma rimettiamo le vostre osservanze al mio 80°.
E non se ne parlò più»46 . Scrivere su Ghisleri, come su Romagnosi, o su Cattaneo,
significava per Belloni scrivere su esponenti «di una cultura antiufficiale, prima
che antifascista, una cultura che ripugnava al fascismo ma che non doveva scom-
50
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
parire di fronte al montare di questo, e che poteva essere tenuta viva, nel margine
di tolleranza accordato dal regime alle iniziative editoriali che apparissero “scientifiche” e perciò lontane da utilizzazioni contingenti di oppositori, sottolineandone i meriti e le radici nazionali»47 . Belloni aveva, pertanto, la necessità di valorizzare
le «figure più rappresentative delle libertà risorgimentali e repubblicane», in tal
modo egli sfuggiva «spiritualmente al sopruso del presente»48 . E sebbene Ghisleri
non amasse di essere oggetto di studio da parte di amici e discepoli, Belloni, nel
1931, scrisse un piccolo volume in suo onore dal titolo L’opera di Arcangelo Ghisleri
nella cultura italica «pro geographia»49 e collaborò al volume Testimonianze di affetto e
di stima per Arcangelo Ghisleri, oltre ad altri saggi ed articoli, pubblicati dopo la
morte del Maestro50 .
Ghisleri si curava poco di tutto ciò, poiché aveva bisogno di tranquillità e di silenzio.
La sua esistenza, non certo serena, era trascorsa tra notevoli difficoltà finanziarie:
il suo amore per lo studio e la ricerca spesso mal si conciliavano con l’assidua
speranza di uno stabile posto di lavoro. Anche la vita affettiva fu fonte di sofferenza, poiché cosparsa di tragici lutti. Il giornalismo rappresentò, quindi, un
mezzo per partecipare in modo attivo e costante alla vita del paese, come pure
l’insegnamento, considerato primaria e fondamentale fonte di incivilimento51 . Il
suo alto senso etico, che lo portava a essere ospite indesiderato per i più,
contraddistinse sempre la sua vita di uomo e di studioso. In tutte le sue riviste,
egli seppe trasmettere questa non comune sensibilità, e la stessa realtà politica fu
da lui vissuta come una sfida contro la corruzione, la violenza, la menzogna. In
tale prospettiva allora, Ghisleri rappresentava veramente l’ultimo difensore di quei
valori politici, etici e sociali, che, nonostante la meschinità e la contingenza dell’umana natura, seppero dare un significato concreto a quella età risorgimentale
di cui egli volle simboleggiare sempre la continuità.
In occasione del decimo anniversario della sua scomparsa, in un articolo de «L’Idea
Repubblicana», Belloni lo ricordava con lo stesso affetto e la stessa stima di quando
conversava con lui nei lunghi anni della loro corrispondenza. «La sua opera di
educazione politica è consistita essenzialmente in questo: nella affermazione potente
di quella mentalità moderna, che impone a ogni generazione di non pretendere
di vivere di rendita e di rimasticature, ma di avanzare rivivendo i principi nei
nuovi aspetti dei problemi antichi e nella determinazione precisa dei problemi
nuovi. […] Da questa concezione del Ghisleri è derivata la sua opera feconda di
unificazione integratrice e aggiornatrice delle due grandi scuole repubblicane del
Risorgimento del secolo scorso: quella di Mazzini e quella di Cattaneo»52 .
La frenetica esistenza che aveva contraddistinto tutta la vita di Ghisleri, verso la
fine degli anni Trenta cedeva il passo al bisogno di quiete, di pace, appunto di
silenzio. L’esuberante giovane, che nel 1895 aveva contribuito alla nascita del Partito
il pensiero mazziniano
51
Saggi e interventi
repubblicano italiano53 , e che con lealtà e audacia non si era mai risparmiato per
il bene, soprattutto morale, del paese, ora voleva tacere, star fuori dal chiasso e
dalle chiacchiere inutili, «per non destare le oche del Campidoglio» e per permettere la pubblicazione di testi «utili per la continuità della tradizione di pensiero
a noi cara»54 .
Dietro la palese esigenza di tranquillità, Ghisleri, in quegli anni intristiti dall’avvento del fascismo e da una politica che si allontanava dagli ideali risorgimentali,
celava la sua insofferenza, ma era consapevole della perdita di quella eticità che
aveva sempre contraddistinto il suo credo politico. Da sempre il Partito era stato
da lui considerato «una società di uomini “liberi”, ma rigorosi nell’interpretare il
programma (programma che compendiava in sé i temi della vibrante tensione
ideale mazziniana e gli argomenti del solido, coraggioso pragmatismo
cattaneano)»55 . Ma la situazione politica attuale lo portava a diffidare delle «“eccellenze”, degli “onorevoli” che operavano nel Palazzo»56 .
La scorrettezza, la slealtà, l’immoralità del presente lo conducevano così a esaltare
quelle persone «[…] alle quali la sincerità e l’integrità inflessibile del pensiero non
dispiace ed anzi arriva gradita. Pur troppo è tra i vecchi, che m’accade questa
constatazione. De’ giovani…forse si avranno segni di germogli tra una decina di
anni, se la sazietà dell’uniforme […] non l’affretterà per tedio»57 . Così gli piaceva
riportare alla memoria i suoi vecchi amici, consapevole dell’oblio del mondo: «A
proposito di vecchi […] le file degli amici si sono assottigliate anno per anno.
Anche quest’inverno ne son morti una mezza dozzina […] Abbandonare i vecchi
nel loro tramonto è più triste che la persecuzione»58 . La percezione della grave
crisi politica che stava attraversando l’Italia, era per il “vecchio” lombardo motivo
di tristezza di cui voleva far partecipe il suo giovane amico: «Perciò anche manchiamo», scriveva, «d’una storia politica contemporanea, che non sia un travisamento o una menzogna spudorata. Io non rimarrei in pace se prima non abbia
scritto una traccia di ricerche e studi a controllo e a contrappeso di tutta codesta
semisecolare coltura della reazione; ormai l’Italia vi è affogata. Si scrivono, ormai,
proposizioni così solennemente e dogmaticamente bugiarde e da tutti accettate,
quali nessuno dei più cortigiani settari della consorteria moderata sabauda conservatrice di quarant’anni fa avrebbe osato formulare. E si leggono formate da
storici e da economisti, che ebbero per anni fama di indipendenza intellettuale e
di serietà scientifica. Viltà? Cortigianeria in mala fede? Preferisco la spiegazione
più Italianistica: l’ ignoratio elenchi di Bacone. “Non sanno quel che si dicono”,
perché ignorano tutti i fatti e tutte le fonti contrarianti quelle loro dogmatiche
accettazioni»59 . Di fronte a questa disfatta culturale, Ghisleri si richiamava ancora
ai grandi maestri del Risorgimento, in particolare a Cattaneo, «realizzatore della
fioritura positivistica […] la quale non ha cessato di seguire il suo sviluppo e non
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
cesserà: se non la spense l’Austria e la Gesuiteria della Santa Alleanza, non la
spegnerà il XX secolo»60 .
La presente situazione dell’Italia non era, dunque, per lui molto cambiata dai tempi
del dominio austriaco e la monarchia sabauda non aveva posto la dovuta attenzione alle esigenze del paese reale. Ghisleri, infatti, da buon repubblicano, non
nascose mai il suo profondo dissenso nei confronti dell’istituzione monarchica e,
nello specifico, verso Casa Savoia, tanto che in molti suoi scritti ne evidenziò
difetti e tare. «Se vi fu un paese dove, sotto ai vecchi regimi assoluti rovesciati
dal movimento unitario, fosse meno rispettata l’autonomia comunale e più sistematicamente invisa e ostacolata ogni consuetudine di autonomia amministrativa,
questo paese fu il Regno di Sardegna […] Codesta legislazione improvvisata dei
pieni poteri veniva, indi, con disinvoltura che superò i metodi austriaci, introdotta
e imposta alla Lombardia, alle province Emiliane e Toscane e alle Marche e, dopo
la battaglia del Volturno, a tutto il Napoletano e alla Sicilia»61 . Riproponendo la
leggenda orientale che si incentrava sulla lotta tra i due principi, Ormuzd e
Arimane, riteneva che la visione repubblicana del potere si ravvisava pienamente
nel primo, mentre la monarchia sabauda era lo specchio del secondo. A tal proposito sosteneva ancora: «Identica e irriducibile l’antitesi fra i due principii; tra
Ormuzd che nella storia d’Italia simboleggerebbe la luce, la libertà, gli interessi
del popolo; e Arimane, che simboleggerebbe le tenebre, il privilegio, l’ancien régime,
cogli interessi di classe, che in esso trovano il loro strumento di conservazione
e il loro presidio […] Perché la nuova posizione dei Sabaudi, nel cospetto d’Italia,
[…] è la posizione del vecchio regime, militaresco, “dispotico” [...], - quale s’era
conservato più autentico e immutato in Piemonte, che non in tutto il resto
dell’Europa occidentale - di fronte allo spirito della rivoluzione italiana, derivato
direttamente dalla rivoluzione francese, ugualitario, laicale, nazionale, popolare»62 .
Del resto, nella prefazione della già citata opera di Giuseppe Rensi63 , Gli “Anciens
Régimes” e la democrazia diretta, concordava pienamente con l’autore del libro nel
ritenere che solo la repubblica democratica, sul tipo di quella elvetica, permetteva
di rendere costantemente attiva la partecipazione del popolo alla vita dello Stato,
e quindi rappresentava il modello politico ideale: era un altro modo per rincontrare
Cattaneo.
Sempre nel carteggio con Belloni veniva più volte affrontato da Ghisleri proprio
il tema della monarchica sabauda, da lui considerata, tra l’altro, insensibile allo
sviluppo culturale e, per questo, chiusa nei suoi angusti confini dottrinari. A tal
proposito scriveva: «[…] I più indipendenti scrittori - studiosi meglio disposti sono vittime inconsapevoli d’una letteratura, che da mezzo secolo, anche in regime di libera stampa, sopprimeva col silenzio e colla sistematica noncuranzatutte
le voci d’opposizione. […] La funzione delle opposizioni non è mai entrata nei
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
cervelli della nostra classe dirigente come un diritto di cittadinanza e un fattore
necessario di progresso civile»64 . Anche all’interno dello stesso Partito repubblicano, Ghisleri mantenne sempre questa linea di indipendenza e libertà. Ancora
nel 1922, quando i repubblicani nella fase che precedette l’avvento del fascismo
si trovavano in grande difficoltà nel «definire in modo peculiare il proprio ruolo
politico» 65 , con lo spirito benevolo che sempre lo aveva contraddistinto, così
scriveva ai congressisti riuniti a Trieste: «[…] chi non si sente più a suo agio sia
indotto a ritirarsi spontaneo. Sia libera la discussione, sia libero l’apprezzamento
su tutti; ma né Campanella, né Alberto Mario, né altri dissidenti, dal Quadrio, da
Brusco Omnis, da Saffi, ebbero mai a sentirsi accusati di tradimento alla fede
repubblicana e colpiti da formule di ostracismo collettivo per i loro liberi dissensi. Bisogna ritornare a quelle tradizioni»66 .
Ghisleri continuava a riproporre quelle idee, che come egli stesso sosteneva «sono
quelle da me sempre avute - non perché mi creda di consigliare i poteri,(questa
illusione ferriana mi ha sempre fatto ridere, perché li so legati alle loro fatalità),
ma perché credo alla naturale invisibilee spesso insperabile penetrazione delle
idee,che se trovano, anche in partiti avversi, qualche spunto permeabile, vi s’insinuano e poi germinano…a suo tempo!»67 . In qualche modo, il suo operato voleva
ripetere quello proposto da Cattaneo all’interno del Risorgimento italiano. Scriveva infatti a Belloni: «[…] per via d’infiltrazioni la roccia della reazione, mascherata di liberalismo romantico, venne da lui penetrata con piccoli ma numerosi
rivoli positivistici di quella tradizione italiana, che voi si operosamente rivendicate»68 .
Del resto, Ghisleri aveva una perfetta conoscenza della storia d’Italia. Nel 1929,
in garbata polemica con Benedetto Croce, che nel ’28 aveva dato alle stampe il
suo Storia d’Italia dal 1871 al 191569 , si prodigò per la pubblicazione di un inedito
dell’abate Luigi Anelli, I sedici anni del governo dei moderati (1860-1876)70 , arricchendolo con appendici di grande valore a sfavore del mito della Destra storica. Questo
perché nelle pagine crociane gli uomini della Destra venivano esaltati per le loro
grandi doti politiche e umane. Così, infatti, affermava Croce: «[…] ché di rado
un popolo ebbe a capo della cosa pubblica un’eletta di uomini come quelli della
vecchia Destra italiana, da considerare a buon diritto esemplari per la purezza del
loro amoredi patria che era amore della virtù, per la serietà e dignità del loro
abito di vita, per l’interezza del loro disinteresse, per il vigore dell’animo e della
mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sin da giovani e serbarono
costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti, lo Spaventa e
gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti un’aristocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà»71 . Di contro, continuava Croce,
gli uomini della Sinistra storica, dotati di una cultura di gran lunga inferiore «[…]
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
usi come uomini di cospirazioni e sommosse a non guardare pel sottile la scelta
degli alleati, e perciò pronti a tirarsi dietro anche i ritinti borbonici del Mezzogiorno e gli scontenti del nuovo ordine, a non darsi troppo pensiero di promettere quel che non si poteva mantenere, o a darsi l’aria di acconsentire per logorare
via via quanto di impossibile era nelle domande, a non schivare atti e contatti che
mettessero a rischio il decoro del contegno: che è (senza bisogno di più oltre
particolareggiare), quello appunto che è noto come metodo democratico»72 . Luigi
Anelli, al contrario, già all’interno della sua Storia d’Italia dal 1814 al 1863 aveva
ampiamente criticato l’operato degli uomini della Destra storica. Nei confronti di
Urbano Rattazzi si era, a esempio, così espresso: «L’amor della gloria in lui non
era che vanità; cupidissimo del potere egli, per mantenerlo, non aveva rifugito
dalle più turpi bassezze ed era trascorso sino a disonorare l’Italia, non avendo né
mente né cuore che si levasse all’altezza della sua vanità»73 . Nell’opera postuma,
pubblicata grazie all’interessamento dello stesso Ghisleri, la posizione dello storico restava fedele a quanto scritto negli anni precedenti. «L’Italia in mano de’
Moderati […] non ebbe ministri che uominifossero valenti […] Così le amministrazioni andavano a rotta, scompigliate com’erano per errori»74 .
E su tale argomento, Ghisleri, nel carteggio con Belloni, asseriva: «[…] ma anche
dell’abate Anelliè doveroso rinfrescare la memoria, e la Storia […] che i Luigi
dell’epoca nostra fecero dimenticare»75 . Sempre nella stessa lettera ricordava come,
il 30 maggio 1860, alla Camera di Torino, proprio un discorso di Luigi Anelli,
divenuto deputato nel Parlamento Subalpino, venne da Cavour troncato perché
contrario all’indirizzo politico sabaudo. «[…] il 30 maggio 1860 alla Camera di
Torino, il Cavour non gli [a Luigi Anelli] lasciò dire sulla seduta del 2976 […]»77 .
Ghisleri non condivideva, tra l’altro, la tesi crociana dell’astrattezza e del
dottrinarismo del Partito repubblicano. Nella corrispondenza con l’avvocato romano, sovente riprendeva questo tema, che egli sentiva così vicino ai suoi interessi, anche nel tentativo di riabilitare il proprio Partito, contestando valutazioni,
a suo giudizio, errate. In una lettera del dicembre 1928, così sosteneva infatti:
«Quando questi [Croce], ripete le accuse di astrattezzae di dottrinarismodel partito di Mazzini, rivela, pur senza volerlo, di non conosceree non aver confrontato
le pretese astrattezzedei nostri con la realtà effettivadella malinconica storia dei
primi decenni del regno, la quale diede ragione alle previsionidei nostri, cosi che
si rivelarono più storicamente nella verità di quel che non fossero i loro avversari,
utopisti della loro interessata mania di conciliare l’inconciliabile»78 . Nel 1948, commemorando il suo compianto amico, così scriveva Belloni su tali argomenti: «[…]
Sapeva [Ghisleri] polemizzare così singolarmente! […] L’ultima sua grande polemica fu, in regime di assolutismo monarchico (nel 1929), contro le tesi monarchiche
e di esaltazione degli uomini della Destra storica che mettono capo a Benedetto
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Croce: in un ferratissimo – inconfutato commentario a un libro dell’abate rivoluzionario Luigi Anelli. A quei giorni, il Partito Repubblicano era stato soppresso
in Italia: e contro la Scuola dei Moderati che il regio senatore Croce continuava,
Ghisleri risollevò, riaffermandola, la ragione del Partito Repubblicano, di cui nel
frattempo alcuni fedeli avevano ristabilito focolai clandestini e collegamenti. Perché una cosa soprattutto Ghisleri aveva a cuore: la continuità ininterrotta del
pensiero e dell’azione del Partito del Risorgimento»79 .
Restituire al Partito repubblicano la giusta collocazione all’interno del Risorgimento
italiano: questo era, per Ghisleri, il compito primario, tanto più che la realtà sociale
di quegli anni gli si mostrava in tutta la sua estrema fragilità, soprattutto per
l’incapacità di formulare correlazioni concrete tra storia e vita quotidiana. Tale
inadeguatezza portava verso una dimensione parziale e frammentaria del reale, il
quale, a sua volta, veniva a perdere sempre più il suo significato unitario e totale.
Anche in queste difficoltà, l’intellettuale lombardo chiedeva ancora aiuto ai suoi
maestri, in particolare a Cattaneo, che da sempre aveva compreso l’importanza
della reciprocità delle relazioni, il valore delle concordanze, la necessità dei nessi
e dei legami tra le varie discipline, come pure tra l’idea e il vissuto d’ogni giorno.
«Il merito e la caratteristica dell’ingegno cattaneano consiste, a mio giudizio, in
questo, che nel render conto delle opere dei grandi specialistio di diritto, o di
economia, o di erudizione storica o geografica, vi porta quel suo costante senso
delle correlazionicon altre scienze o aspetti della vita, che di solito non è avvertito dagli specialisti. […] Chissà quali forme di delinquenza prepara un’educazione che deprime certi sentimenti ed esalta e coltiva nei fanciulli e nei giovani a
preferenza certi altri»80 . Ritornava così, anche in lettere scritte in diversi periodi
della sua vita, a tratteggiare quel carattere universalistico del pensiero di Cattaneo,
che indubbiamente rappresentò per lui il momento più alto della speculazione
filosofica del patriota e intellettuale milanese.
L’educazione rivolta ai giovani, protagonisti della storia futura, era secondo Ghisleri,
nell’età presente, molto lontana da quegli ideali risorgimentali di cui Cattaneo fu
uno degli artefici, poiché gravemente compromessa dalla presenza di false illusioni, frutto di una cultura non partecipe delle reali esigenze del paese. Seguire la
strada tracciata dall’eroe delle Cinque Giornate, anche in campo pedagogico,
avrebbe rappresentato invece una rinnovata visione della cultura e del progresso,
poiché la sua visione federalista, non limitata alla sola dimensione politica, tendeva a recuperare i valori legati alle varie tradizioni storico-culturali dei singoli
popoli e a restituirli nella loro integrità e autenticità agli specifici destinatari, che
in essi si sarebbero riconosciuti, come uomini e come cittadini81 . Indubbiamente
Ghisleri, nell’affermare tali concetti, aveva presente il pensiero anche di un altro
maestro del Risorgimento italiano, meno conosciuto di Cattaneo, ma certamente
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
determinante nel delineare, in quel preciso momento storico, la necessità del
federalismo: Alberto Mario82 . Con lui l’intellettuale cremonese ebbe un lungo
sodalizio di vita e di studi, che culminò con la partecipazione di entrambi, come
detto, ne «La Rivista Repubblicana»83 , simbolo dell’ unione tra il pensiero repubblicano mazziniano con quello cattaneano.84 Nel 1877, così scriveva Mario sul
tema del federalismo: «La stupenda varietà dei tipi, dei sangui, dei pensieri, dei
caratteri, dei paesi, degli idiomi, del genio, dell’istoria onde l’Italia fu grande e
sarà ancor grande, non può tollerare un medesimo trattamento senza oltraggio
costante alla natura e alla realtà irriducibile. Che ogni regione faccia le sue leggi
civili e criminali, municipali e finanziarie, d’istruzione e d’igiene, e le eseguisca,
che si creino codeste autonomie veraci e non menzognere; che si proceda a così
fatta smodatura; che si inauguri il genuino governo di casa, e si coordini alla unità
politica della nazione e al suo governo centrale, e cesserà la paralisi, e assisteremo
all’azione poderosa e feconda d’un corpo articolato e sano e gagliardo, allo spettacolo di un’Italia felice»85 .
Ghisleri sosteneva che tali idee fossero già presenti nella storia di Roma da Servio
Tullio a Giulio Cesare, età storiche nelle quali si rispettavano le tradizioni delle
genti e le loro autonomie organizzative. Così affermava infatti rivolgendosi a
Belloni: «[…] esistono due Rome, - l’una, che da Servio Tullio a Cesare, venne
ammirata anche dagl’inglesi e dagli storici francesi pel suo lentoe quasi sempre
legale sviluppodei contrasti sociali, d’onde si formò la sua posata mentalità giuridica, e nello estendere della sua egemonia al resto d’Italia, diede mirabile
esempiodi rispetto alle consuetudini dei varii popoli d’allora, organizzandone le
autonomie nelle curie municipali […]»86 . Ma accanto a questa Roma, ve ne era
un’altra, che ricordava la realtà contemporanea, pervasa di violenza e di spirito
di potenza, ove le autonomie locali erano state tutte arbitrariamente distrutte. «L’altra Roma», continuava Ghisleri nella sua lettera, «[…] la Roma dei legionari, dei
pretoriani, del Senato ridotto…(a quel che è ora), dei proconsoli che s’arricchivano sulle provincie conquistate, delle folle disoccupate, distratte col panem et
circenses, dei latifundia che impoverirono l’Italia e degli imperatori non più romani ma barbari. […] Per quale delle 2 Rome, oggi imponesi il culto?»87 .
La critica situazione del paese era, del resto, condivisa anche dal suo giovane
amico che evidenziava, nelle lettere all’intellettuale lombardo, la difficoltà, per i
giovani di farsi strada, soprattutto nel mondo universitario. «[…] Non ci debbono
rimanere che i fascisti e gl’ ipocriti. Anche pei concorsi alle cattedre Universitarie
ci hanno tagliato ogni via: dico questo per noi giovani. […] Certo che l’avvenire
è oscurissimo per tutti. […] I confinati? Ce ne sono molti dei nostri […] Non
è vietato scrivere ai confinati, ma non c’è sugo a farlo. V’è un’apposita Commissione che, come Minosse, giudica secondo che avvinghia: non v’è contestazione,
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
né dibattimento: né scusa o difesa possibile. Ci prendono e ci spediscono, senza
dirci niente. E chi s’è visto, s’è visto. Poi, si può far ricorso al Ministero degli
Interni, che ne decide ad libitum. Se si fa grazia del confino, si dà invece l’ammonizione a casa propria. Dicono che è meglio restare all’isola, almeno si gode
l’aria buona, e un sussidio da £ 4 a £ 10. La condanna è per un determinato
numero di anni; in genere due o cinque. Ora qui si stanno ammonendo parecchie
persone, che furono del defunto P.R.I. i gloriosi e grandi nostri dirigenti son tutti
scappati […] Del resto, avvenga quel ch’è destinato: il nostro spirito è forte. Si
dice che un bel giorno la P.S. monterà un bel complotto e ci spaccerà tutti»88 .
I due amici vedevano così gradualmente morire i valori del loro repubblicanesimo, da loro inteso soprattutto come filosofia della libertà, quasi prevedendo quella
particolare visione della libertà stessa, che in epoche più recenti è stata definita
«libertà come non dominio»89 . Nel 1901 così aveva infatti già scritto Ghisleri:
«Repubblicanesimo significa per noi benessere come risultante, ma anzitutto
autonomia dell’individuo sé reggente, partecipe della sovranità popolare, significa
pertanto dignità e libertà dei cittadini, liberi anche di respingere le proposte dei
loro duci […]»90 .
Nel totale smarrimento dei valori, nella perdita dei grandi ideali civili e morali
propri dell’epoca risorgimentale, anche per Belloni, come per Ghisleri, bisognava
ritornare al passato e, il suo passato si incentrava nella figura e nell’opera soprattutto di Romagnosi, «[…] anima possente che noi evochiamo dagli eterni riposi
a sgomentare ancora i vivi non buoni, a nostro fianco»91 . Ma il suo presente, in
quei tragici momenti ove la ragione umana sembrava essersi incagliata in impervi
sentieri, non poteva non considerare Ghisleri una guida sicura ed esperta. Scriveva infatti al suo Maestro nel marzo del 1927: «Il mio pensiero ricorre sempre
a lei, Maestro, che vive imperturbato senza illusioni e con nel cuore la giovinezza
d’un ideale tanto superiore ad ogni contingenza. In lei vedo lo spregiudicato cultore
razionale del Positivismo […] lei lavora ancora perché la nuova generazione ritrovi, in tutta la vita, il genio della nazione, di Cattaneo e di Romagnosi»92 . Ed
era lieto di essere confortato in questo giudizio verso il Maestro dal plauso che
anche in altri ambienti era a lui rivolto. In una lettera del febbraio 1931, Belloni
asseriva, infatti, di possedere varia corrispondenza «prova d’un affetto per lei
ardente, dalla Sicilia alle Alpi, sotto la cenere, accumulata dagli anni, dal silenzio,
dalle aberranti deviazioni del momento politico, di cui il fascismo ha spazzato via
la schiuma»93 .
Rispondendo a una lettera di Ghisleri, che aveva paragonato e comparato il proprio
pensiero con quello di Napoleone Colajanni94 , così Belloni replicava: «Lei paragona la proprio opera a quella di lui [Colajanni]: ma io rilevo nella sua uno slancio, un’agilità, una forza personale che Colajanni non ebbe: e, soprattutto, uno
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
spirito ben diverso dal cupo, triste, spirito meridionale!»95 . Lo stesso spirito che
tanti anni prima, nel 1887, aveva spinto Giovanni Bovio, anch’egli meridionale,
a contraddire Ghisleri sulla questione delle razze. Forse ricordando quello spiacevole episodio, Belloni, dopo aver visitato una mostra di pittori giapponesi tenutasi a Roma nel maggio del 1930, così scriveva al Maestro: «Visitai ieri
l’esposizione dei pittori giapponesi, qui: una vera rivelazione. Che vita in quella
loro natura, ritratta con tanta ricchezza, quanta delicatezza di tinte! E, soprattutto
qual senso dello sconfinato; quali, direi, nostalgici orizzonti alla fantasia, in quei
quadri pure così dolcemente finiti! No, non è la natura sfarzosa, ridente, procace
dei nostri bei cieli pagani, ma un’altra misteriosa, non meno attraente e illuminata. Vera arte: una Musa spira dalla tela. E noi, miserabili della Biennale di Venezia,
parliamo di monopolio di civiltà! Oh, le sue ragioni, Maestro, contro i negrieri!»96 .
Il pensiero di Belloni concordava, pertanto, nonostante la diversità degli anni, con
quello del Maestro, e questa concordanza si realizzava soprattutto quando i due
amici riflettevano sulle sorti del loro Partito, del quale entrambi si sentivano parte
integrante. Ghisleri vedeva nel giovane avvocato, colui che, forse, più d’ogni altro,
poteva raccogliere la propria eredità politica e divenire il simbolo di una continuità ideale all’interno della realtà repubblicana. Belloni era infatti, a suo giudizio,
in grado di proseguire l’impervio cammino da lui iniziato e divulgare ancora quel
messaggio di etica politica divenuto ormai desueto. «Carissimo mio», scriveva a
tal proposito nel 1933, «Si, uno strano filo d’intime suggestioni vostre, viene
risvegliando in me tante memorie dimenticate, nel ricordarmi delle qualiritrovo
un me stesso lontano,de’ cui pensieri,germogliati tra l’incomprensione spesso, o
le tardive attenzioni dei miei amici di allora, trovo in voi la gradita continuitàsotto
forme di così felice evidenza e applicazione»97 . Nello scrivere queste frasi, Ghisleri
si compiaceva non solo con Belloni, ma soprattutto con se stesso, poiché nel
ripensare al passato, alle scelte fatte, ai dissidi affrontati, alla mai taciuta critica
verso un potere arrogante quanto menzognero, era lieto di ritenere che il suo
comportamento, ancora nell’epoca presente, trovava approvazione e plauso nelle
giovani generazioni. E tra le tante battaglie della sua lunga esistenza, Ghisleri si
soffermava a narrare al suo amico, quella relativa al Congresso Internazionale del
Libero Pensiero, tenutosi a Roma dal 20 al 22 settembre 1904. L’intellettuale
cremonese non aveva infatti mai taciuto la sua netta posizione anticlericale, come
pure il suo rifiuto per ogni religione rivelata; nell’Atto di mia ultima volontà, elaborato nel 1884 e affidato all’amico di allora, Leonida Bissolati, il giornalista lombardo sosteneva: «Dai sedici anni cominciai a dubitare delle cose di fede, e il
dubbio, colle meditazioni solitarie e gli studii fervorosi e sinceri, concluse all’ateismo scientifico, senza alcuna riserva, che lasciasse spiragli alle idee del così detto
soprasensibile»98 . In realtà, la critica ghisleriana era soprattutto rivolta verso una
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Chiesa arrogante e bramosa di potere, ma egli si dimostrò sempre rispettoso verso
la sincera convinzione dei veri cattolici. Come scriveva a tal proposito Gualtiero
Nicolini: «Le sue battaglie per l’uguaglianza di tutte le razze e la polemica con
Bovio, le battaglie a favore dei protestanti, l’aiuto concreto e assoluto ai preti
caduti in disgrazia, il suo rifiuto al prof. Bossi che quando era esule a Lugano
gli aveva chiesto di collaborare al suo libro Dio non esiste sono chiari esempi e
forse il suo comportamento contribuì al rinnovamento della Chiesa»99 .
Partecipò così, nel 1902, al Congresso di Ginevra della Federazione Internazionale del Libero Pensiero, e fu tra i principali animatori e organizzatori nella
preparazione del Congresso, che, come detto, si sarebbe tenuto nel settembre 1904,
nella città di Roma. In quella occasione, Ghisleri usò tutta la sua tenacia e pazienza per avere la meglio nei confronti di un potere chiuso e, in larga parte,
disattento alle iniziative culturali divergenti da quelle stabilite dalle autorità vigenti. «La rapida e intensa preparazione al Congresso Internazionale che volevasi,
dagli esperti, tenere a Roma il 20 settembre 1904», scriveva infatti, «fu il mio
capolavoro personale d’attività organizzativa (lasciatemi riconoscere a me stesso
questo risultato): il governo di Giolitti, all’ultim’ora incredulo dell’annunciato
intervento di tanti rappresentanti stranieri, tra cui persone politicamente notevoli,
negava le solite riduzioni ferroviarie non mai negateper congressi e pellegrinaggi
cattolici.Il comitato di Roma pareva esitare, anche Barzilai 100 e altri non
s’incomodavano; la massoneria (aristocratica e fatua de’ suoi pettegolezzi) pareva
gelosa di quell’organizzazione fatta alla luce del sole e a contatto dei poveri. Osai
telegrafare a Giolitti in persona, quasi in tono minaccioso, prospettandogli l’eco
internazionale d’una eccezione fatta proprio agli amici di un’Italia sovrana in Roma
e che venivano per congratularsi colla Roma civile, non con quella del Papa. E
di fatti immediatamente Giolitti ordinò le concessioni richieste alla sempre equivoca burocrazia. Il Congresso di Roma non ebbe nella stampa di quei giorni l’eco,
che avrebbe avuto se proprio allora non fosse scoppiato lo sciopero generale che
a Milano sospese anche la comparsa dei giornali e fece girare la testa ai giovani
redattori dell’Italia del Popolo, ammiranti quella prova di forza del proletariato!»101 .
In questa lettera, inoltre, Ghisleri affrontava anche il tema della Massoneria, in
modo tutt’altro che positivo, anzi, ne evidenziava l’estrema fragilità e fatuità. Nel
1878, in coincidenza con le commemorazioni per il centenario della morte di
Voltaire e soprattutto sotto la pressione di Pirro Aporti102 , era stato iniziato, ma
sin dall’inizio non condivideva i metodi dell’organizzazione. In una lettera a Turati
del 1886 aveva infatti scritto: «Codesti simbolismi, si diceva a me, giovano sui
mediocri, giovano alla disciplina, allo spirito di corpo, all’ordine delle discussioni.
È vero: niuna istituzione quanto la massonica può farsi penetrare nello spirito del
cattolicesimo, nell’efficacia dei riti, ecc. Ma, refrattario impenitente, dopo tutto
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il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
dico io: se il formalismo giova sui mediocri, se il segreto giova a far contribuire
in contanti molti che non amano mostrarsi, è pur vero che i mediocri con questo
sistema s’incretiniscono ancor più e che gli amici all’ombra si avvezzano sempre
più ipocriti, anzi illudonsi credendo santa e benemerita tale ipocrisia: ergo, pei
buoni e bravi non c’è bisogno di quell’istituzione, perché già lavorano del pari a
muso scoperto nel campo profano e vi lavorerebbero anche se non massoni, per
chi non è né buono né bravo cittadino, l’istituzione non giova né all’intelligenza
né al carattere»103 . Tale atteggiamento critico nei confronti della Massoneria e di
qualsiasi altra forma di settarismo venne mantenuto costante da Ghisleri, e in una
lettera a Belloni del 1933, egli con tenacia perseverava nella sua convinzione e
affermava che sempre e comunque bisognava «[…] resistere alle microcefale
concezioni settarie»104 .
Una caratteristica del pensiero ghisleriano fu la coerenza; esso infatti, si sviluppò,
nel corso del tempo, in forma costante nelle idee e nei propositi: il presente diveniva
così la continuazione del passato e la premessa del futuro. Ormai in età avanzata
sosteneva: «[…] rileggendo qualsiasi scritto, di qualsiasi tempo, anche dell’età
giovanile, mi compiaccio di riscontrare la costante identità dei miei pensieri e dei
miei sentimenti. Mi vien fatto di mormorare tra me e me: lo firmerei anche oggi»105 .
E sovente andava fiero del suo essere diverso, del non essersi mai asservito al
potere, di aver percorso la sua strada controcorrente. Nell corso della vita molte
volte si distinse dai più; in una lettera a Belloni del 1933, ricordando gli anni della
sua gioventù, si compiaceva di evidenziare come, in un’età ove cominciava a sorgere
l’illusione di un nazionalismo stolto quanto menzognero, egli si pose apertamente
in posizione antagonistica. «[…] quando sotto il Ministero Crispi, nella esaltazione dell’istanza classica e della romanità, io presentii le prime tendenze del nazionalismo rettorico e della missione di Roma all’inverso del concetto mazziniano.
E, si vide poi, che, non avevo mal subodorato il trucco dei classicofili. Nell’andar
contro-corrente è l’arnia di quelle mie vecchie pagine!»106 .
Questa ricchezza di sentimenti e di ideali, spingeva Belloni a riconoscere sempre
più, in Ghisleri, il suo Maestro del presente. Egli si identificava nelle sue idee, nel
suo stile di vita, nella sua fede repubblicana che era divenuta la sua stessa fede.
In una lettera priva di data, ma riconducibile ai primi mesi degli anni ’30, il giovane
avvocato sottolineava come proprio attraverso la vita del Maestro fosse possibile
ricostruire la molteplicità delle contraddizioni del paese, all’indomani dell’unità. A
tal proposito, scriveva: «A tutto questo mi interesso, perché credo utile preparare
un lavoro storico sul periodo della di lei attività civile e culturale, in cui sia
presentato uno scorcio dell’esperienza nazionale dal punto di vista della nostra
tradizione gloriosa e della nostra critica, illustrando appunto tale attività. Perciò
le rinnovo la preghiera di mettermi da parte e farmi avere quelle vecchie carte
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
che possono ricapitarle, e che lei getterebbe nel cestino, mentre a me darebbero
materia per un buon lavoro»107 . Del resto, era lo stesso Ghisleri a confidare più
volte all’amico di ricordare con estrema nitidezza il passato, mentre il presente si
cancellava sovente dai suoi pensieri. «[…] non ho memoria che mi serva per fatti
e scritti recenti, come prende per l’età avanzata, mentre mi rivivono in mente
molte impressioni della giovinezza» 108 . Ed era proprio nei ricordi e nelle
rimembranze del passato ghisleriano che Belloni amava perdersi, per comprendere poi il senso del presente. Sovente nella corrispondenza con Ghisleri si deliziava
di potere leggere «[…] i suoi caratteri, sempre ugualmente fermi, attraverso i quali
riappare la sua personalità sempre giovane e vigorosa di amatore di cultura»109 .
Belloni ammirava nel Maestro l’estremo rigore morale, scomodo per i più, che
non tardarono, nel tempo, ad abbandonarlo, come pure la visione concreta e logica
dei fatti, inusitata e insolita per i tanti suoi avversari, ma fondamento del pensiero
e della stessa vita dell’intellettuale lombardo. D’altra parte, Ghisleri, confidandosi
con lui, sovente aveva sottolineato come proprio tale «logica, poggiata sui fatti»,
lo riportava a pensare a un tempo lontano, agli anni della sua giovinezza, «quando combattevo i tentennamenti, le reticenze, le formule equivoche del
parlamentarismo, massime dei ministeri di Sinistra»110 . Numerose furono le pagine dedicate dall’intellettuale cremonese alla critica del parlamentarismo, nel quale
ravvisava non la sovranità del popolo, ma la sua schiavitù. «[…] due sono le
menzogne fondamentali del parlamentarismo attuale. La prima riguarda l’elezione
del deputato, per cui l’elettore non si pronuncia su di questa o quella questione
precisata, alla quale possa dare una risposta ponderata, ma deve abdicare per cinque
anni, nell’illimitato arbitrio di una persona, ogni sua facoltà di giudizio e di deliberazione su tutte le questioni che potranno affacciarsi nella vita di una nazione,
prevedibili ed impreviste. La seconda riguarda la stessa funzione del deputato, il
quale, travolto nell’ingranaggio di una Camera legislativa, statutariamente
reggimentata per essere al servizio del potere esecutivo […], si trova ridotto a
manovrare, suo malgrado, come un automa, cioè a votare, parlare e agire al seguito
di pochi maneggioni o capigruppo, i quali servendosi dell’ingranaggio appunto
dei così detti “ordini costituzionali”, agiscono come effettivi procuratori della
“classe politica dominante”»111 . Del resto, la critica dell’istituto parlamentare «corre
ininterrotta dalla proclamazione ed attuazione dello Statuto Albertino, alla sua
definitiva scomparsa dalla nostra storia costituzionale»112 . Il parlamentarismo e
l’antiparlamentarismo divennero così temi fondamentali per quel particolare
momento storico, alimentati dalle vicende, dagli eventi, dagli accadimenti che di
quella epoca furono i protagonisti. La vicinanza a Giuseppe Rensi113 nei primi
anni del Novecento, aveva inoltre accresciuto in Ghisleri la ferma convinzione
della veridicità delle sue tesi, che egli esprimeva ora all’amico, con una lealtà non
62
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
comune. In tal modo Belloni scopriva in lui, non solamente un grande intellettuale da apprezzare o un maestro da seguire, ma anche un padre, nel senso più
alto di tale termine. Nella corrispondenza tra i due amici, spesso l’intellettuale
cremonese parlava infatti delle sue due figlie più piccole, Aurora ed Elvezia,
cagionevoli di salute, le quali, dopo la morte della madre, vivevano con lui nella
antica casa in via Santa Lucia, a Bergamo. Ghisleri nutriva per loro un affetto
particolare che manifestava non solo con le parole ma, come sempre era solito
fare, con le azioni. Non possedendo grande ricchezza e ormai avanti negli anni,
pensava al loro futuro, alla loro vita dopo la sua morte e cercava di trovare un
modo, anche modesto, per il loro sostentamento. Così riprese, dopo il 1928, a
rioccuparsi di una ristampa del suo Atlante d’Africa114 , sperando di poterne ottenere una congrua ricompensa economica. Scriveva infatti, a tal proposito, a Belloni:
«[…] le mie figlie vivono con me come monache - non vanno a feste e meno
a corse automobilistiche; non hanno svaghi, ma nemmeno i rischi. E non avendo
dote, […] non si sono maritate né, prevedo, si mariteranno. È ben per questo che
io ho ripreso a occuparmi di cose geografiche e sogno di poter valutare per una
ristampa il mio Atlante d’Africa, per me no, ma per loro, che almeno le mie
fatiche fruttassero un poco a loro quando non ci sarò più»115 . E ancora nel
settembre del 1933, in occasione della riapertura delle scuole, sollecitava la ristampa di alcuni suoi atlanti storici sempre per lo stesso fine. Scriveva infatti al
giovane amico: «[…] Vo’ sollecitando le Grafiche ad approntare la ristampa di
alcuni dei miei vecchi atlanti storici per l’apertura delle scuole: si mantiene ultima
ed unica risorsa per le necessità famigliari»116 . Sovente era, dunque, assalito dalle
preoccupazioni legate alla vita quotidiana e, sia pur con la sua consueta eleganza
e garbo, ne parlava al fedele Belloni: «[…] la mia età ultima deve resistere […]
a dolori intimi, che è meglio rimangano ignoti, rispetto ai quali i contrasti, che
vengono dalle cose e dalla società, sono provvidenziali distrazioni»117 . Impressionato da tali parole e con il suo solito affetto filiale, così gli rispondeva il giovane
amico: «La sua lettera del 29-7 […] mi ha dato un senso d’ angoscia per l’accenno a preoccupazioni di lei, dolorose, intime ‘che è meglio rimangano ignote’. Che
dire? Come tentare col mio affetto di distrarla, se non di lenire il male? Ma forse
non varrei a nulla; e questo ignoto dev’esser rispettato dalla discrezione: certe
solitudini dell’anima son pure una medicina, alle volte l’unica efficace. E chi ama
deve intenderlo. Del resto, la nostra comunione è nella serenità del lavoro, degli
studi, sopra ogni prova»118 .
Nel novembre del 1935, Ghisleri, ricoverato insieme alle figlie presso la casa di
cura di Regoledo sul lago di Como per motivi di salute, rivolgeva la sua apprensione ancora una volta verso Aurora ed Elvezia. Con una grafia alquanto incerta,
che dimostrava la sua sofferenza non solo fisica, scriveva all’avvocato romano:
il pensiero mazziniano
63
Saggi e interventi
«Siamo ancora qui tutti e tre; io, non badando all’età co’ suoi annessi, sto meglio
delle figlie, che si curano pei malanni presi pel pessimo tempo, ma l’Aurora sta
meglio e la minore, più lentamente, spero altrettanto»119 .
Ma Ghisleri pensava anche a tutti i giovani del suo tempo, così fragili, così incapaci di formulare giudizi e di prendere delle posizioni coraggiose; e in questo
suo pensiero vi era la convinzione che quegli stessi giovani, ora poco attenti alla
realtà del presente, «[…] fra trent’anni […] sentiranno il bisognod’una revisione
degli storiografi dell’epoca attuale»120 , e proprio per non rendere vana la loro
ricerca, o peggio ancora menzognera, egli sperava di potere «radunare almeno
pezzettini di carte o libri tempestati da mie note…Ma a chi affidarli?»121 . Domanda complessa e nel contempo dolorosa per Ghisleri che ben sapeva come
«[…] il razzismo, il bolscevismo, la restaurata cuccagna del Potere Ignaziano»122
avrebbero con facilità potuto distruggere tutto ciò che di buono e di giusto si
poteva tramandare alle generazioni future. A causa infatti «[…] della pedanteria
di un regime che non lascia più alcuna libertà di metodo ai discenti»123 , la cultura
doveva necessariamente adeguarsi, per Ghisleri, a schemi prestabiliti, privi d’ogni
sia pur minima originalità. E in una realtà sempre più lontana dai suoi ideali, nella
constatazione che l’utilità economica si imponeva ormai continuamente sull’eticità,
con il conseguente degrado dei costumi, l’intellettuale lombardo evidenziava i grandi
ostacoli che incontrava nel far pubblicare i suoi scritti. «E penosa è la lotta per
far passare questi lavori in macchina nel baillame delle altre stampe “più redditizie” degli speculatori che oggi dirigono l’Istituto d’Arti Grafiche; […] Quanta
lealtà e semplice speditezza nel dispotismo dell’Austria dei tempi di Cattaneo!
Quanta viceversa, gesuitica e composta doppiezza nel domenicanismo della nuova Santa Alleanza!»124 . I giovani divenivano così sempre più preda di abili tessitori
di sogni. «Io non posso approvare i metodi e le illusioni della nuova gioventù,
vittima di chi ne sfrutta i sentimenti generosi e l’inesperienza; ma non ho verso
di lei alcuna antipatia che me ne tenga lontano: fossi nell’insegnamento non mi
potrei contenere diversamente di quando, trent’anni fa, vedevo i migliori dei miei
allievi di liceo fanatici pel d’Annunzio o sedotti dal socialismo: si sa, i giovani
vanno verso il nuovo o che credono progresso. Nel mio rispettoso riserbo per
ogni opinione contraria alle mie […] non mancavo di suggerire punti interrogativi, citare libri e autori, portare in scuola pagine belle di scrittori non citati dagli
altri insegnanti […] e a voi, giovane, il metodo mio sarà efficace»125 .
Col trascorrere degli anni la corrispondenza con Belloni diveniva, per Ghisleri,
quasi una fuga dal presente, dai suoi rumori, dalle sue ansie, dai suoi bizzarri
capricci per far ritorno a un passato, che anche se doloroso, evocava in lui la
memoria di grandi ideali, capaci di dare significato all’esistenza di molti uomini.
Con rammarico constatava come l’età a lui contemporanea fosse totalmente priva
64
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
di tali nobili aspirazioni, dominata dall’egoismo, dall’odio, dalla meschinità.
Rifugiarsi nel passato significava, pertanto, vivere, o meglio rivivere le tante avventure di cui fu in gran parte protagonista nella sua lunga esistenza e delle quali
voleva far partecipe Belloni. Il presente era degno solo di silenzio, un silenzio
sofferto, ma necessario; un silenzio vissuto non come mera passività, ma quale
tacita disapprovazione del quotidiano. Sopita ogni velleità di mutare con l’azione
politica o sociale l’andamento vacillante della realtà, il lavoro, il suo lavoro, era
la benefica medicina per tante sofferenze. «E la massima delle sventure», scriveva
infatti a Belloni, «è quando per malattie o per l’età, la possibilità del lavoro viene
a mancare. Io misuro a centellinitale possibilità, pur contento se qualche ora m’è
tuttavia concessa di dedicarla alle tante e troppe cose che reclamerebbero la mia
attenzione»126 .
Nel 1937, a un anno dalla morte, confidava al fedele amico avvocato: «Sento
anch’io […] la solitudine di chi sopravvive solo superstite a tanti che gli furono
colleghi amati… Ebbi tristezze di salute per congiunti; ora dalla mia vita di clausura
non mutato spero con la più mite stagione rioccuparmi di cose nostre»127 . Belloni
era in grado di comprendere lo stato d’animo del Maestro e nelle sue lettere
continuava ad affiorare quella stima, quell’affetto, quella intimità di sentimenti che
sempre lo avevano avvicinato a Ghisleri. «Caro Maestro, […] posso almeno assicurarla che il mio cuore corrisponde non indegnamente al suo. Lontananze
geografiche, silenzi, vicende non affievoliscono la devozione filiale che nutro per
lei; e mi è caro avere ogni tanto una prova che lei pensa a me com’io a lei!»128 .
E a testimonianza concreta di tanto affetto, già dal 1930, come detto, gli dedicò
il citato Arcangelo Ghisleri «pro geographia»129 che, sebbene in edizione limitata, voleva
ricordare non solo il geografo, ma soprattutto l’uomo che aveva inteso la geografia come filosofia di vita. «Quell’unità psichica del genere umano», aveva infatti scritto Ghisleri, «intuita da Vico nelle Storie dell’antichità, io la cercai
geograficamente e poeticamente nell’universo abitato»130 . In altre sue pagine, egli
aveva definito la Geografia «quasi clandestino amore»131 , poiché in essa, da sempre, non aveva mai ricercato nozioni astratte e vuote, ma vita vera, reale, arricchita di passione e di sentimento. Come a riguardo scriveva Emanuela Casti:
«Ghisleri prefigurava la Geografia come una disciplina strategica in grado non
solo di restituire una visione globale del mondo, ma altresì di intervenire nella
prassi di coloro che si apprestano a modificarlo; in ogni modo le riconosceva la
capacità di contribuire significativamente all’avanzamento sociale»132 . Tale giudizio si collega con quello espresso da Riccardo Maffei, nel suo ampio studio sul
pensiero di Ghisleri in campo geografico, soprattutto quando lo studioso afferma
che se è cero che «[…] il nostro non ebbe mail il conforto di una cattedra
universitaria, però i più illustri geografi del tempo, si pensi ad esempio a Giovan-
il pensiero mazziniano
65
Saggi e interventi
ni Marinelli, erano in corrispondenza con lui e ne seguivano con interesse l’opera
geografica e la frenetica attività editoriale».133 Giorgio Mangini, in un suo saggio
su Ghisleri, ribadisce gli stessi concetti.«Si tratta di uno scritto di notevole interesse», afferma infatti, «che meriterebbe di essere ripubblicato, perché fornisce
uno spaccato molto interessante della pratica geografica in Italia».134
Gli ultimi anni di vita di Ghisleri furono caratterizzati da gravi carenze economiche: morì in condizioni non certo floride, ma mantenne intatta quella dignità
che sempre lo contraddistinse. Di conforto ebbe soprattutto la corrispondenza
con pochi amici del passato, sopravvissuti a tante disavventure, e con i giovani
che, come Belloni, vedevano nell’intellettuale lombardo un riferimento sicuro, di
fronte alle incertezze del presente. Come ben scrive Benini: «Il giovane Belloni
confessa Ghisleri» 135 , poiché nel carteggio tra i due, come visto, l’anima del
cremonese veniva sovente messa a nudo, lasciandosi andare a intime confidenze.
Scriveva, al riguardo, Ghisleri nel novembre 1930: «Caro amico, Voi siete tanto
gentile, che non fate carico del silenzio; ed io vi risparmierò dirvi le varie brighe
che mi occuparono queste due settimane»136 . A volte, al contrario, raccontava
episodi della sua vita legati alla carriera di scrittore, giornalista e docente. In una
lettera del 1933, indugiava nel narrare il suo audace atteggiamento nel criticare
le scelte dell’ordinamento scolastico in merito ai libri di testo: «[…] e mi sorprendo di quell’audace denunzia, che di certo non doveva favorire la mia carriera di
semplice incaricato ‘fuori ruolo’ per cui la nomina doveva rinnovarsi ogni anno.
Infatti…nel limbo degli incaricati rimasi 7 anni!»137 .
L’ultima lettera tra i due amici è una cartolina postale inviata da Ghisleri il 3
agosto 1938138 a Belloni, in occasione delle vacanze estive morì pochi giorni dopo,
nella vecchia casa di via Santa Lucia a Bergamo. Rispettando le sue volontà venne
scritto sulla sua tomba «Amò gli studi la verità la giustizia»139 : le doti che Belloni
ammirò e apprezzò del suo Maestro.
All’alba del 19 agosto 1938, alba che non avrebbe visto il sorriso bonario e
penetrante di Arcangelo Ghisleri, Belloni volle scrivere un breve saggio, a lui
dedicato, dal titolo Chi era Arcangelo Ghisleri, un modo per continuare la corrispondenza, quasi non dovesse terminare mai, ma protrarsi nel tempo e nello
spazio 140 . Con semplici parole, il giovane avvocato repubblicano delineava un
quadro vero, reale, nient’affatto idealizzato del Maestro. Con quella sincerità ed
emozione, che sempre avevano contraddistinto le sue lettere a Ghisleri, affermava: «La sua influenza sui contemporanei risponde a una trama assidua estesissima,
apostolica. Fu molteplice; e tanto più feconda, quanto più discreta. La discrezione fu, con la modestia, la mitezza e la fermezza morale irremovibile […] Egli era,
come repubblicano, un intransigente. […] Egli, gran signore in fatto di idee, agitò
indefessamente idee: nei periodici, nei libri, nella corrispondenza, nei discorsi. Chi
66
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
farà l’analisi della cultura del tempo e la storia di lui e dell’opera sua, dovrà ben
vedere e far vedere che l’Italia ha avuto in lui, quasi romito, uno dei figli suoi
più degni di ammirazione e di gratitudine»141 . Nel 1957, alla morte di Belloni,
Oscar Spinelli, nel ricordarne l’ immagine di uomo e di studioso, inconsciamente
ne faceva l’erede di Ghisleri e scriveva di lui quello che nel 1938 l’allora giovane
repubblicano aveva scritto del suo Maestro. «Sentii parlare per la prima volta di
Giulio Andrea Belloni nel 1932, o giù di lì, in una visita ad Arcangelo Ghisleri,
a Bergamo: “Conoscete Belloni?” – mi aveva chiesto il Maestro. – “ No”, avevo
risposto. – “Dovreste conoscerlo: è un giovane di fede”. Tornato a Roma lo cercai:
ma era in carcere […] Bonomi mi disse poi dove avrei potuto trovarlo. Il giorno
dopo l’amicizia era fatta. Caro, indimenticabile Amico! […] Quando fu deputato,
visse del dovere compiuto: e per le battaglie intraprese nel campo dell’arte, della
scuola, dei beni GIL, della mutualità contadina, dell’azionariato operaio, fu pago
di aver bene interpretato la linea del Partito […]. Era un entusiasta e un puro:
idealista fino a non mai disperare, mazziniano quanto basta per avere sicura fede.
Era giovane e aveva diritto di vivere. Con lui scompare un animatore, una guida,
un campione di modestia e di volontà. Onore a te, caro, indimenticabile Amico!»142 .
Silvio Berardi
(Unisu Niccolò Cusano - Roma)
Note
1
Arcangelo Ghisleri nacque a Persico, in provincia di Cremona, il 5 settembre 1855. Conseguì il diploma
di ragioneria, ma continuò i suoi studi in campo storico e geografico. Legato soprattutto ai fermenti della
tradizione culturale laica, strinse un sodalizio di profonda amicizia con Leonida Bissolati e Filippo Turati;
nel 1875 si fece promotore dell’Associazione del Libero Pensiero, alla quale aderirono, tra l’altro, Roberto
Ardigò, Cesare Lombroso, Andrea Costa. Sempre nello stesso anno, diede vita alla rivista «Il Preludio»,
cui seguirono, successivamente, altri periodici. Trasferitosi da Cremona a Milano, fondò «La Rivista
Repubblicana». Nel 1882, a Napoli, divenne redattore capo del quotidiano «Pro Patria»: tornò poi nuovamente in Lombardia, a Bergamo. Riuscì, in seguito, a ottenere un incarico in Storia e Geografia nel
liceo di Matera, ove rimase per due anni, venendo poi trasferito a Savona. Nel 1888, venne chiamato
a ricoprire una cattedra di filosofia al liceo di Bergamo. Da sempre mazziniano e federalista, fu, nel 1895,
tra i fondatori del Partito repubblicano italiano, e collaborò, in varia veste, a ulteriori riviste, quali «Cuore
e Critica» e «La Ragione». Trasferitosi in Svizzera per motivi politici, continuò la sua febbrile attività di
giornalista e di geografo. Allo scoppio del primo conflitto mondiale scelse una posizione interventista,
anche se nel dopoguerra mantenne un atteggiamento distinto da quello dei nazionalisti e delle forze di
destra, soprattutto a proposito della questione adriatica. Contro il prevalere degli egoismi nazionali, Ghisleri
aderì alle tesi wilsoniane per la costruzione della Società delle Nazioni; nel 1921 fece ritorno a Bergamo
dedicandosi sempre più all’attività giornalistica e allo studio dei classici del pensiero repubblicano. Dal
1925 curò la «Biblioteca storica degli esuli italiani», destinata a trasmettere ai giovani l’eredità dei maestri
del Risorgimento. Intransigente oppositore del fascismo, trascorse nella solitudine gli ultimi anni della sua
vita. Si spense a Bergamo il 19 agosto 1938.
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
2
Giulio Andrea Belloni nacque a Roma il 1° febbraio 1902 e si laureò in Giurisprudenza, con una tesi
in diritto penale, relatore Enrico Ferri. Di formazione positivista, si avvicinò, grazie anche ad Arcangelo
Ghisleri, al pensiero di Romagnosi, Cattaneo e Mazzini. Militò così nella Federazione giovanile del Partito
repubblicano, della quale fu segretario nazionale negli anni 1924-1925, e diresse «L’Alba Repubblicana».
Dopo le leggi fasciste, che abolivano la libertà di stampa, venne imprigionato e processato. Poiché per
motivi politici gli fu preclusa la carriera universitaria e forense, si dedicò a studi di antropologia e
criminologia, divenendo condirettore del periodico «La giustizia penale». Si appassionò, inoltre, allo studio
e alla diffusione del pensiero dei maestri legati agli ideali repubblicani. Nel 1940 si trasferì a Milano dove
curò una raccolta sistematica di saggi su Gian Domenico Romagnosi. Partecipò alla lotta di liberazione
antifascista e, nel 1946, venne nominato segretario del Partito repubblicano, e divenne direttore de «La
Voce Repubblicana». Nello stesso anno fondò il giornale «L’Idea Repubblicana», in cui sosteneva la tesi
di un socialismo mazziniano, per altro già espressa da Alfredo Bottai. Nel 1948 fu eletto deputato,
rimanendo fedele alle sue tesi autonomiste e federaliste. Morì a Perugia il 10 gennaio 1957.
3
Il carteggio Ghisleri-Belloni, compreso tra il 1923 e il 1938, conservato presso la Domus Mazziniana
di Pisa, ancora del tutto inedito, a eccezione di alcune lettere pubblicate nel «Bollettino della Domus
Mazziniana di Pisa», n. 1, 1960, pp. 3-20; A. Benini, Vita e tempi di Arcangelo Ghisleri (1855-1938), Manduria,
Lacaita, 1975; S. Berardi, Repubblicanesimo e antifascismo nel carteggio Arcangelo Ghisleri – Giulio Andrea Belloni
(1923-1938) in «Nuova Rivista Storica», fasc. II, 2010, pp. 929-950. Un’edizione critica del carteggio è
in corso di realizzazione da parte dello scrivente.
4
Cfr. a esempio, B. Franchi, Enrico Ferri, il noto, il mai noto e l’ignorato, Torino, Bocca, 1908.
5
Cfr. F. Albani, Il sacrificio di Oberdan: narrazione storica (1891), Londra, Kessinger Publishing, 2010.
6
V. Parmentola, Il dovere degli eredi, in «L’Idea Repubblicana», Numero Speciale, Anno XII, Serie II, 1957,
p. 2.
7
A. De Donno, Il dovere degli eredi, cit., p. 3.
8
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 14 maggio 1923, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I
f 11/2.
9
La prima distinzione in Italia tra psicologia criminale e psicologia giudiziaria si deve, infatti, a Enrico
Ferri, che nel 1911, in occasione del quinto Congresso internazionale di antropologia criminale, presentò
una relazione dal titolo Psicologia criminale e Psicologia giudiziaria, pubblicata in E. Ferri, Studi di criminalità,
Torino, UTET, 1926. Cfr. pure G. A. Belloni, La ferriana scuola di applicazione, in G. Sabatini (a cura di),
Enrico Ferri. Maestro della scienza criminologica, Milano, Bocca, 1941, pp. 207-219. Cfr. inoltre, S. De Sanctis,
La psicologia giudiziaria, in «Scuola positiva», vol. II, anno XXIII, 1913, pp. 97-102.
10
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 22 febbraio 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A
I f 11/5.
11
Cfr. F. Turati, A. Ghisleri, I carteggi Turati-Ghisleri (1890-1910), a cura di M. Punzo, Manduria, Lacaita,
2000.
12
A. Ghisleri, Atto di mia ultima volontà, in P.C. Masini, La scapigliatura democratica. Carteggi di Arcangelo
Ghisleri:1875-1890, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 260.
13
A. Ghisleri, Lettera a N. Colajanni, 2 giugno 1886, in S. M. Ganci, Democrazia e socialismo in Italia:carteggi
di Napoleone Colajanni, 1878-1898, Milano, Feltrinelli,1959, p. 109.
14
E. Ferri, Lettera ad A. Ghisleri, 3 agosto 1887, in P.C .Masini, La scapigliatura democratica, cit., p. 211.
A tal proposito cfr. A. Ghisleri, Le razze umane e il diritto nella questione coloniale: polemica con l’on. Giovanni
Bovio, Savona, Tip. Miralta, 1888.
15
A.Ghisleri, Atto di mia ultima volontà ,in P.C. Masini, La scapigliatura democratica, cit., p. 260.
16
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 15 marzo 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/9.
17
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 6 marzo 1929, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D II c
1/34.
18
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 14 aprile 1929, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/39.
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Silvio Berardi
19
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 12 giugno 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I
f 11/55.
20
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 1° ottobre 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I
f 11/57.
21
Cfr. B. Di Porto, L’interesse di Belloni per Pisacane e i suoi inediti sull’argomento, in Le componenti mazziniana
e cattaneana in Salvemini e nei Rosselli. La figura e l’opera di Giulio Andrea Belloni. Atti del Convegno di studi nel
venticinquesimo anniversario della fondazione della Domus mazziniana 1952-1977, Pisa, 4-6 novembre 1977, Pisa,
Domus Mazziniana, 1979, pp. 183-254 (con pubblicazione delle carte di G.A. Belloni su Pisacane)
22
Cfr. A. Ghisleri, Le più belle pagine di G. D. Romagnosi, Milano, Treves, 1931.
23
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 25 gennaio 1929, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/29.
24
A. Ghisleri, L’animale uomo e il valore delle istituzioni, in «L’Educazione politica», 15 maggio 1902; cfr.
anche Id., Prefazione a G. Rensi, Governi d’jeri e di domani, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1942, p. 12.
25
Ghisleri si riferiva in questo passo della lettera, a Ugo Ojetti, (1871-1946), scrittore, giornalista, critico
d’arte, che curò molte iniziative editoriali per i tipi Treves.
26
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 17 dicembre 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/25.
27
G.A. Belloni, Romagnosi. Come intenderlo? Roma, E. Loescher & C. ,1934, p. 17 e pp. 26-27.
28
Ivi, p. 9.
29
G.A. Belloni, Lettera alla madre, 16 agosto 1932, in «L’Idea Repubblicana», numero speciale, cit. p. 4.
30
G.A. Belloni, Romagnosi, Profilo storico, Milano, Genova, Roma, Napoli, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1931,
p. 7. Cfr. G. D. Romagnosi, Genesi del diritto penale, Milano, F. Sancito, 1857.
31
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 17 marzo 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I
f 11/46.
32
Cfr. G.A. Belloni, La personalità morale di Gian Domenico Romagnosi, nelle osservazioni di un frenologo, in
«Bollettino Storico Piacentino», 1934 pp. 65-71; Id., Saggi su Romagnosi, Milano, Bocca, 1940; cfr. anche
Id., L’Azione di Romagnosi nel Risorgimento, in «Rassegna Nazionale», dicembre 1929.
33
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 29 settembre 1929, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/ 54.
34
Cfr. A. Ghisleri (a cura di), Il Libro dei profeti dell’idea repubblicana in Italia compilato da un italiano vivente,
Milano, Battistelli, 1898.
35
G. Salvemini, Lettera ad A. Ghisleri, 29 aprile 1899, in G. Salvemini, Lettere di Gaetano Salvemini a
Arcangelo Ghisleri 1898 – 1900, a cura di P.C. Masini, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 357.
36
A. Ghisleri, Democrazia in azione: scritti politici e sociali, introduzione di G. Conti, Roma, Casa editrice
italiana, 1954, p. 195.
37
C. Cattaneo, Stati Uniti d’Italia, a cura di N. Bobbio, Torino, Chiantore, 1945, pp. 160-161
38
Cfr. C. Cattaneo, Sulla riforma dell’insegnamento superiore nel Ticino, Caneggio, Stamperia della frontiera,
1984; sull’intero periodo svizzero di C. Cattaneo cfr. M. Fugazza, Carlo Cattaneo. Scienza e società. 1850-1868,
Milano, F. Angeli, 1989.
39
A. Ghisleri, Prefazione in G. Rensi, Gli “Anciens Régimes” e la democrazia diretta, Bellinzona, Colombi, 1902, p. X.
40
A. Ghisleri, Democrazia in azione cit., p. 194.
41
Cfr., C. Cattaneo, La Città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a cura di G. A. Belloni Firenze,
Vallecchi, 1931; Id., Cattaneo tra Romagnosi e Lombroso, Torino, Bocca, 1931; C. Cattaneo, Ricerche economiche
sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli israeliti, a cura di G. A. Belloni, Roma, Saturnia, 1932; Id., Carlo
Cattaneo e la sua idea federale, a cura di G. Armani, Pisa, Nistri – Lischi, 1974.
42
Cfr. C. Cattaneo, Scritti filosofici, letterari e vari, Firenze, Sansoni, 1957 p. 19.
43
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 27 marzo 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/8.
44
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 10 dicembre 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/11.
il pensiero mazziniano
69
Saggi e interventi
45
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri ,13 dicembre 1928,Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A
I f 11/ 10
46
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 17 dicembre 1928, cit.; Giovanbattista Pirolini (1864-1948), deputato per il P.R.I. dal 1913 al 1921, e fecondo giornalista, fondò «Il Popolo Sovrano»; Terenzio Grandi
(1884-1981), titolare di una prestigiosa tipografia, condivise le alterne vicende del Partito repubblicano
e fu grande amico di Ghisleri.
47
G. Armani, Introduzione in G. A. Belloni, Carlo Cattaneo e la sua idea federale, cit., p. 23.
48
G. M. Escobedo, Dalla Commemorazione di G. A. Belloni nel fascicolo di febbraio 1957 de «La giustizia
penale», in «L’Idea Repubblicana, » Anno XII, Serie II, Numero speciale, cit., p. 9
49
G. A. Belloni, L’opera di Arcangelo Ghisleri nella cultura italica «pro geographia», Torino, L’Impronta, 1931.
50
Testimonianze di affetto e di stima per Arcangelo Ghisleri, Milano-Torino, L’Impronta, 1938. Cfr. anche G.A.
Belloni, Arcangelo Ghisleri, cenni biografici e dati bibliografici ,Roma, Libreria Politica Moderna, 1943.
51
Cfr. T. Tomasi, Scuola e libertà in Arcangelo Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, 1970.
52
G. A. Belloni, Arcangelo Ghisleri nel decimo anniversario della sua dipartita, in «L’Idea Repubblicana», Anno
III, n. 36, 16 – 31 agosto 1948, p. 1.
53
Cfr. B. Di Porto, Il partito repubblicano italiano. Profilo per una storia, dalle origini alle odierne battaglie politiche,
Roma, Ufficio Stampa del PRI, 1963; cfr. ancora C. Morandi, I Partiti Politici nella storia d’Italia, , Firenze,
Le Monnier, 1986; M. Tesoro, Democrazia in azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, Milano,
Angeli, 1996; F. Leoni, Storia dei partiti politici italiani, Napoli, Guida, 2001.
54
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 17 dicembre 1928, cit
55
M. Tesoro, Democrazia in azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, cit., p. 124.
56
Ivi, p. 125.
57
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 6 marzo 1929, cit.
58
Ibidem.
59
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 18 marzo 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/14.
60
Ibidem. Sul tema Ghisleri e il positivismo cfr. G. Mangini, Arcangelo Ghisleri e il positivismo, in «Rivista
di storia della filosofia», n. 4, 1986.
61
A. Ghisleri, Lo Stato italiano e il problema del decentramento, Roma, Libreria Politica Moderna, 1943, pp.
11 e 16.
62
A. Ghisleri, Democrazia in azione, cit., p. 146.
63
Per una attenta indagine dell’opera di G. Rensi si rimanda a M. Untersteiner, Umanità di Giuseppe Rensi,
in «Incontri», a cura di R. Maroni e L. Untersteiner, Trento, Candia, 1975. Sul tema Ghisleri – Rensi,
cfr. N. Carranza, L’incontro Rensi – Ghisleri nel quadro della democrazia italiana, in «Bollettino della Domus
Mazziniana», n. 1, 1968, pp. 5-99
64
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 18 marzo 1928, cit.
65
M. Tesoro, Democrazia in azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, cit., p. 131.
66
A. Ghisleri, Per i congressisti di Trieste (Bergamo 25 aprile 1922), cit. in Democrazia come civiltà. Il carteggio
Ghisleri-Conti 1905-1929, a cura di A. Aiazzi, Firenze, Libreria Politica Moderna, 1977, p. 352.
67
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 10 marzo 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III c
1/13.
68
Ibidem.
69
Cfr. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928. Per un approfondimento cfr. anche.
G. Sasso, La storia d’Italia di Benedetto Croce: cinquant’anni dopo, Napoli, Bibliopolis, 1979.
70
Cfr. L. Anelli, I sedici anni del governo dei moderati (1860-1876), Como, Museo degli esuli italiani, 1929.
71
B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1947 p. 5.
72
Ivi, p. 9.
73
L. Anelli, Storia d’Italia del 1814 al 1863, vol. IV, Milano, Vallardi, 1864, p. 371
74
L. Anelli, I sedici anni del governo dei moderati (1860-1876), cit., p. 65.
75
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni,10 marzo 1928, cit.
70
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
76
Ghisleri si riferiva alla seduta nella quale, all’ordine del giorno, vi era la cessione di Nizza e della Savoia
alla Francia.
77
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 10 marzo 1928, cit.
78
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 3 dicembre 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/23. Per una trattazione particolareggiata sul rapporto Ghisleri-Croce si rimanda al bel saggio di P.C.
Masini, Arcangelo Ghisleri e Benedetto Croce, in «Rivista storica del Socialismo», fasc. 20, settembre-dicembre
1963, pp. 561-570.
79
G.A.Belloni, Ghisleri e i cervelloni della vecchia Italia, in «L’Idea Repubblicana», Roma, 16-31 agosto 1948,
cit., p. 2
80
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 13 febbraio 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/12.
81
A tal proposito interessanti sono gli articoli che Ghisleri dedicò al rapporto tra l’Università italiana
e quella del Canton Ticino. Cfr. A. Ghisleri, Per il Canton Ticino e l’Università italiana, in «La Voce», n. 33,
1912; Id., Per l’Università della Svizzera Italiana, in «La Voce», n. 49, 1912.
82
Alberto Mario (1825-1883), scrittore, giornalista e patriota italiano. Cfr. Id., La mente di Carlo Cattaneo,
Firenze, Tip. Dell’Associazione , 1870; Id., La camicia rossa, Torino, Augusto Federico Negro, 1870.
83
«La Rivista Repubblicana» venne fondata a Milano, ed ebbe periodicità settimanale dal 9 aprile 1878
al 10 gennaio 1879. Dal 20 gennaio 1879 divenne quindicinale, con una interruzione dall’8 giugno al 27
settembre 1879, perché oggetto di tre processi. Nel 1880 le sue pubblicazioni furono mensili e nel 1881
uscirono soltanto i primi tre fascicoli. Politicamente diretta da Alberto Mario, che risiedeva a Lendinara,
la rivista doveva la sua vita ad Arcangelo Ghisleri, che con essa voleva far risorgere i grandi ideali del
Risorgimento italiano. Sul tema Ghisleri - Mario e «La Rivista Repubblicana», cfr. L. Cecchini, Arcangelo
Ghisleri e Alberto Mario nella «Rivista Repubblicana», in «Archivio Trimestrale », n. 2, 1980.
84
Sul tema delle riviste ghisleriane cfr. A.Benini, Le Riviste di Arcangelo Ghisleri, in «Archivio Trimestrale»,
n. 3, 1978; n. 4, 1978; n. 3, 1979; D. Gambino, Dalla Gazzetta degli Studenti al Preludio: Le riviste giovanili
di Arcangelo Ghisleri, in «Bollettino della Domus Mazziniana,»anno LIII, 2008, n. 1-2, pp. 27-138; R.
Girolami, Democrazia, Irredentismo e Nazionalismo attraverso le riviste politiche ghisleriane, ivi, pp. 139-150.
85
A. Mario, L’Impotenza della Sinistra e la Repubblica Federale, in «Il Preludio», 31 marzo 1877.
86
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 10 marzo 1928, cit.
87
Ibidem.
88
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 18 marzo 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, D III
c 1 /9.
89
Ph. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 5.
90
A. Ghisleri, Per un richiamo all’argomento, in «L’Italia del Popolo», 28 – 29 luglio 1901.
91
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 7 aprile 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, D III
c 1/75.
92
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 1 marzo 1927, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I f
11/119.
93
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 14 febbraio 1931, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A
I f 11/67.
94
Cfr. A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 14 dicembre 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni,
D III c 1/197.
95
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 17 dicembre 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A
I f 11/87.
96
G. A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 10 maggio 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A
I f 11/52.
97
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 22 gennaio 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III c 1/175.
98
A. Ghisleri, Atto di mia ultima volontà, in P.C. Masini, La scapigliatura democratica, cit., p. 260.
99
G. Nicolini, Gli ultimi anni di vita di Arcangelo Ghisleri, in AA.VV., Atti del Convegno «Arcangelo Ghisleri.
Attualità del pensiero politico», Cremona, Pace, 1982, p. 96.
il pensiero mazziniano
71
Saggi e interventi
100
Sulla complessa figura di Salvatore Barzilai cfr. E. Falco, Salvatore Barzilai: un repubblicano moderno tra
massoneria e irredentismo, Roma, Bonacci, 1996.
101
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 22 gennaio 1933, cit.
102
Pirro Aporti (1834-1911), fu il primo Serenissimo Presidente del Rito Simbolico Italiano e Gran
Maestro Aggiunto Onorario dal 1896 al 1904.
103
A. Ghisleri, Lettera a F. Turati del 6 maggio 1886, in A. Schiavi, Filippo Turati attraverso le lettere di
corrispondenti 1880-1925, Bari, Laterza, 1947, p. 44.
104
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 22 gennai0 1933, cit.
105
A.Ghisleri, Ricordi, in «Le Comunicazioni di un collega», settembre 1927, cit. in a. Bennini, Vita e tempi
cit., p. 204.
106
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 12 gennaio 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/171.
107
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, s.d., Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I f 11/116.
108
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 28 settembre 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/194.
109
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 8 aprile 1936, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I f 11/98.
110
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 12 gennaio 1933, cit.
111
A. Ghisleri, Il fallimento del parlamentarismo in Italia, Roma, Libreria Politica Moderna, 1943, pp. 35-36.
Cfr. anche T. Perassi, Il parlamentarismo e la democrazia, con introduzione di A. Ghisleri, Roma, Libreria
politica moderna, 1945. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993,Bologna, Il Mulino, 1996.
112
G. Perticone, Scritti di storia e politica del post-risorgimento,Milano, Giuffrè, 1969, p. 185. Cfr. sull’argomento, Il Parlamento dell’Unità d’Italia (1859-1861): atti e documenti, Vol .II, a cura di E. Vitale, Roma, Grafica
editrice Romana, 1961.
113
Cfr. G. Rensi, Gli ‘Anciens Règimes’ e la democrazia diretta, cit., ove l’intellettuale veronese muove una
ampia critica al parlamentarismo.
114
Cfr. A. Ghisleri, Atlante d’Africa, Bergamo, Istituto Italiano d’Arte Grafiche, 1909.
115
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 16 settembre 1928, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/21.
116
A.Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 13 settembre 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/191.
117
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 29 luglio 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/82.
118
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, senza data, ma sicuramente tra la fine del mese di luglio 1930
e l’inizio del mese di agosto dello stesso anno, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Ghisleri, A I f 11/110.
119
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni,10 novembre 1935, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/210.
120
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 28 settembre 1933, cit.
121
Ibidem.
122
Ibidem.
123
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 23 maggio 1929, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/40
124
Ibidem
125
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 29 maggio 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/80.
126
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 10 novembre 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 1/196.
127
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 15 febbraio 1937, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/216.
128
G.A. Belloni, Lettera ad A. Ghisleri, 21 maggio 1935, Pisa, Domus Mazziniana,Fondo Ghisleri, A I
f 11/97.
72
il pensiero mazziniano
Silvio Berardi
Cfr. G.A. Belloni, Arcangelo Ghisleri «pro geographia», cit.
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, Pisa, Domus Mazziniana, 9 febbraio 1931, Fondo Belloni, D III
c 1/106.
131
A. Ghisleri, in Arcangelo Ghisleri e il suo “clandestino amore”, a cura di E. Casti, Roma, Società Grafica
Italiana, 2001, p. 7.
132
E. Casti, Arcangelo Ghisleri e la Geografia, in Arcangelo Ghisleri e il suo “clandestino amore”, cit., p. 7.
133
R. Maffei, La formazione di un geografo. Arcangelo Ghisleri e il rinnovamento degli studi geografici in Italia (18781898), Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 193.
134
G. Mangini ,«La Geografia per tutti»: dialogo con gli insegnanti, in Arcangelo Ghisleri e il suo “clandestino amore”,
cit., p. 233. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento cfr. I.Luzzana Caraci, La geografia tra ‘800 e ‘900
(dall’Unità a Olinto Marinelli), Genova, Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze Geografiche dell’Università di
Genova, 1982, pp. 35-51; A. Benini, Vita e tempi cit. pp 75 – 103.
135
A. Benini, Vita e tempi cit., p. 206.
136
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 24 novembre 1930, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c /194.
137
A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 12 gennaio 1933, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D III
c 1/171.
138
Cfr. A. Ghisleri, Lettera a G.A. Belloni, 3 agosto 1938, Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Belloni, D
III c 2/1.
139
Cfr. A. Benini, Vita e tempi cit., p. 211.
140
G.A.Belloni, Chi era Arcangelo Ghisleri, in «L’educatore della Svizzera italiana», n. 9, 1938, poi pubblicato
in appendice a A. Ghisleri, Il fallimento del parlamentarismo in Italia cit.
141
Ivi, pp. 66.
142
O. Spinelli, Il dovere degli eredi cit., p. 8.
129
130
il pensiero mazziniano
73
Saggi e interventi
1
«Com’è bella l’alba d’Italia» : fatti, speranze
e delusioni del Quarantotto legnaghese
Q
uando nel giugno 1846 venne eletto papa il cardinale Giovanni Maria Mastai
Ferretti, con il nome di Pio IX, il quale, com’è noto, poco tempo dopo
diede il via ad una serie di importanti riforme politiche, anche nel Veronese non
furono pochi coloro che accolsero tale evento con enorme soddisfazione, tanto
è vero che Raffaele Fasanari, senza dubbio il più importante storico del Risorgimento scaligero, ebbe modo di scrivere che l’animo dei veronesi «fu percorso
da un subitaneo sentimento di commozione che andava ben al di là del giubilo
puramente religioso per sconfinare nell’entusiasmo patriottico»2. In particolare, fu
l’adesione ideale di alcuni cattolici a costituire probabilmente il tratto più innovativo e fecondo che s’impose alla metà degli anni ’40, così come emerge dalle
memorie del sacerdote Leopoldo Stegnagnini, un ottimo strumento per intuire il
‘clima’ di quei giorni. L’abate veronese ricevette la notizia dell’elezione del nuovo
papa mentre si trovava a Venezia. Arrivò «il telegramma che annuncia la morte
di Papa Gregorio XVI – annotò Stegnagnini – e, subito dopo, l’elezione di Mastai
col nome di Pio IX. Era istinto, era presentimento, non so, ma quella nomina
destò le più belle e vive speranze»3.
Analizzando la specifica realtà del microcosmo legnaghese, oggetto di recente di
alcune ricerche più approfondite4, ci si accorge che lo stesso – se non maggiore
– entusiasmo contagiò soprattutto patrioti di lunga data come il medico condotto
Costantino Canella5, il quale, nel corso probabilmente del 1847, assieme ad alcuni
conoscenti, si recò personalmente a Bologna per ‘respirare’ l’aria di libertà che i
recenti provvedimenti di Pio IX avevano portato nelle Legazioni. Egli ebbe modo
di fissare le sue prime impressioni nel manoscritto che riporta le memorie storiche del 1848 fornendo «la più efficace dimostrazione che l’azione patriottica
diretta o riflessa di Pio IX si distese ognor più crescente dal luglio 1846 al marzo
1848»6.
Le pagine vergate da Canella trasudano in questa fase di trepidazione ed emozione per i provvedimenti pontifici che garantirono una libertà di espressione
sconosciuta a chi come lui arrivava dal Lombardo-Veneto. «Appena il lontano
suono delle libere voci sussurrava prossima l’ora dell’italiana indipendenza – esordì
il medico condotto – mi aprì il cuore ad una indicibile gioia»; il suono della libertà
che «echeggiava nelle romane terre» infiammò l’animo di Canella, «abitatore non
lontano dalle medesime ed in relazione con le stesse per il commercio attivissimo
che regna tra il basso veronese e Legnago massimamente». Egli inebriato di
74
il pensiero mazziniano
Federico Melotto
«celestial piacere, di sì soave voluttà» si dedicò subito al «proponimento di voler
in quanto sarà nel mio potere cooperare alla propagazione di tal sublime sentimento, quello cioè della libertà ed indipendenza nella nostra patria, coll’insinuare
i principi e le massime agli abitanti della campagne e delle piccole ville». Data la
vicinanza con il confine di stato il medico di Legnago si recò «più volte in Ferrara
in Bologna» a «respirare quell’aura di libertà» a lui ignota. «Ed oh! Come potrei
ridire la prima impressione che faceami l’udir […] il libero parlare. Costretto
com’ero a soffocare nell’animo qualunque cura, necessitato a modificare perfino
i tratti del volto, acciò non tradissero i pensamenti dell’intelletto o le commozioni
dell’anima». Mentre «tutto a un tratto scorgermi un sovrano padrone del mio dire
sembravami cosa sì strana, sì inverosimile e tale agitazione m’apportava ch’io non
sarei in grado di descrivere»; e ancora, «non perdetti il tempo feci in Bologna […]
collezione generosa di tricolorati veli, di scritti, di proclami, che eccitavano che
entusiasmavano al vero sentire della nostra nazionalità»7.
Com’è noto, la concomitanza di questi eventi di carattere principalmente politico,
cui si aggiunse il grave periodo di difficoltà economica che attanagliò la penisola
durante il 1847, portarono in tutto il Lombardo-Veneto, già dalla seconda metà
di febbraio, il lievitare di un forte risentimento antiaustriaco testimoniato da piccoli
ma significativi gesti di dissenso da Milano a Venezia passando per Verona8. A
Legnago, in particolare, nel gennaio del 1848, l’imperial regio comando di Verona
decise di inviare tre compagnie di un battaglione di confine per prevenire eventuali disordini e, soprattutto, per meglio presidiare la fortezza alla luce anche dei
numerosi passaggi di frontiera9. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo si moltiplicarono i controlli e i divieti: fu quindi decisa la chiusura delle osterie alle nove
di sera e imposto l’obbligo della denuncia dei forestieri accolti negli alberghi, oltre
alla requisizione forzata di tutte le armi. Gli eventi precipitarono nella seconda
metà di marzo. In base alle testimonianze riportate nella cronaca stilata dallo stesso
Canella, integrate con quelle fornite da Napoleone Sesto Nalin10, il giorno 22
arrivarono in fortezza, provenienti da Padova alcune persone sventolando delle
bandiere tricolori le quali portarono la notizia della liberazione di Venezia. Poco
più tardi le vie della città si riempirono di legnaghesi «di tutte le classi» e Giacomo Martini – uno dei componenti del comitato clandestino animato da Canella
– lesse il proclama veneziano che annunciava la fine del potere austriaco in laguna11: da quel momento le vicende della piazza atesina si legarono a doppio filo
con quelle di Venezia le quali a loro volta ebbero un collegamento strettissimo
con quelle viennesi12.
A Legnago, l’eccitazione determinata dalle notizie che arrivavano da Venezia, portò
molti ad invocare l’istituzione di una guardia civica e di un comitato per «l’allontanamento della polizia, de’ sgherri della truppa di linea tedesca». Contempora-
il pensiero mazziniano
75
Saggi e interventi
neamente «cento e cento giovani si presentarono» per arruolarsi volontari con
quel poco di armamento di cui potevano disporre. Il tutto «innanzi ad un generale comandante ad un intero stato maggiore militare ed un numeroso corpo di
guardia nel seno di una fortezza» minacciata da più di 40 cannoni13. Era fatta:
mentre giungeva un delegato veneziano promettendo aiuti concreti agli insorti,
qualora fossero riusciti a scacciare il presidio militare austriaco, la civica poté costituirsi.
La reazione del comando militare asburgico, secondo le note di Nalin, fu di
completa paralisi: nella «loggia del municipio trovavasi il corpo di guardia degli
austriaci, nessun motto»14. Di questo stato di cose «godeane la truppa, che era
italiana, avendo di già compartecipato in accordo al pensiero di unirsi a noi»15;
d’altra parte il «generale austriaco lasciò fare. Inutile il dire che da un punto all’altro
della piazza era piena di popolo, e gli evviva per la liberazione della patria
eccheggiavano da ogni parte. Una commissione di cittadini si è portata dal generale austriaco a dare la nuova per lui poco gradita ed egli soggiunse loro: ‘sono
nelle vostre mani’»16. Il racconto di Nalin va comunque integrato con le riflessioni di Canella il quale «per norma del vero» segnalò che «questo generale non
essendo austriaco ed essendosi contenuto presso di noi come ad uomo ed a soldato
[…] così nulla avendo direttamente con lui da rivendicare, se lo lasciò in quella
specie di non curanza indizio di civilizzazione anco del basso popolo, che non
confonde il tiranno coll’organo involontario delle sue azioni»17.
Gli eventi, così come li hanno descritti Nalin e Canella, fanno emergere un aspetto
assolutamente non trascurabile – e in grado di accomunare ad esempio i fatti di
Legnago con quelli accaduti a Venezia – nel quale è evidente come la nazionalità
italiana dei soldati di stanza nella piazzaforte legnaghese abbia svolto un ruolo
fondamentale nell’iniziale buona riuscita dell’insurrezione. A tal proposito, è quasi
pleonastico rilevare che la guarnigione militare, se solo lo avesse voluto, avrebbe
facilmente potuto ridurre al silenzio il piccolo comitato rivoluzionario e la folla
riversatasi nelle vie e nelle piazze, qualche centinaio di persone, disarmate e per
nulla avvezze alla pratica rivoluzionaria. È chiaro dunque che in quel frangente
giocarono a favore dei legnaghesi due elementi: da un lato l’incertezza del comando austriaco il quale in mancanza di ordini precisi lasciò fare e dall’altro il
fatto che i militari inquadrati nell’esercito austriaco – che, è bene segnalarlo, non
solo erano in gran parte di nazionalità italiana ma anche di provenienza contadina18 – decisero di solidarizzare con coloro che in quel momento stavano insorgendo. È molto probabile, peraltro, che proprio la provenienza contadina dei
militari, e non tanto dunque la nazionalità, abbia svolto un ruolo decisivo in quel
particolare frangente: si può sospettare, infatti, che molti intesero il vuoto di potere
e il momento di grave crisi politica, più come la possibilità per un’emancipazione
76
il pensiero mazziniano
Federico Melotto
dall’esercito – in concreto, il ritorno alle proprie case – che non di una nuova
prospettiva politica.
Anche a Legnago, dunque, così come in molte altre città e cittadine del Veneto,
si costituirono un comitato civico, composto da dieci elementi, e una guardia civica
nella quale i ruoli di graduati furono assunti da molti degli elementi che facevano
parte del comitato clandestino di Canella; vennero poi richieste «le chiavi della
fortezza e delle polveriere», ma furono consegnate solo le seconde, essendosi
rifiutato il generale di cedere le prime19. Le funzioni della guardia civica furono
definite più o meno negli stessi termini di tutte le altre cittadine venete: essa
«aveva il compito di mantenere l’ordine pubblico, sorvegliare giorno e notte le
polveriere, e portare la sua attenzione alle porte della fortezza, mentre nessuno
poteva né entrare né uscire senza un speciale permesso del municipio»20. Nel frattempo, la fortezza si bardò delle bandiere tricolori introdotte clandestinamente da
Canella in seguito al suo viaggio nelle Legazioni pontificie, le «campane tutte
suonarono a festa, a schiere il popolo circondava l’emblema sacro dell’italiana
redenzione»; di fronte al vessillo della guardia civica venne pronunciata la benedizione «dall’egregio parroco sacerdote Tobaldini» che diede così l’imprimatur
religioso alla piccola rivoluzione legnaghese. La bandiera fu poi piantata «innanzi
al corpo di guardia nel mezzo della piazza d’armi, al cospetto di tutta la forza
militare» che rimase come paralizzata; i militari «tedeschi quasi interdetti»21. Nonostante l’euforia popolare che traspare da questi gesti plateali, bisogna rilevare
che il controllo della piazza non fu mai completamente strappato ai militari
austriaci. In seno alla società legnaghese – esattamente come si verificò in buona
parte del Veneto e soprattutto a Verona – emersero alcuni elementi moderati i
quali, di fronte alla proposta di richiedere, anche minacciando il ricorso alla forza,
al comandante le chiavi della fortezza e delle polveriere, e quindi di estromettere
completamente la guarnigione militare, scelsero di non arrivare allo scontro aperto optando quindi per lasciare gli austriaci saldamente al loro posto di comando22.
Per tentare un’analisi rigorosa dei fatti del ’48 legnaghese, occorre innanzitutto
prestare attenzione al quadro generale e alle cronologie degli eventi che negli stessi
giorni maturarono nel Veneto. Il comitato veneziano, a partire dal 24 marzo, iniziò
ad allacciare dei contatti con tutti gli altri centri della terraferma che si erano
liberati dagli austriaci istituendo guardie civiche. Com’è noto, l’unica città di una
certa importanza che non riuscì a cacciare la guarnigione imperiale fu Verona
dove si era sì costituita, il giorno 19, una commissione civica la quale però finì
coll’agire in accordo con il comando austriaco, convinta che quest’ultimo avrebbe
comunque concesso maggiori libertà. In questo modo il vicerè Giuseppe Ranieri,
fuggito da Milano e insediatosi a Verona, ottenne del tempo, imbrigliando le spinte
più rivoluzionarie, grazie all’azione moderata della commissione. Dopo il 20 marzo
il pensiero mazziniano
77
Saggi e interventi
gli austriaci ridefinirono le loro strategie e rinforzarono le fortificazioni; la mattina del 28 la colonna del generale Costantino D’Aspre, in fuga da Padova, entrò
in città dando inizio ad un’imponente concentrazione di truppe nell’area del
Quadrilatero che sarebbe terminata il primo di aprile con l’arrivo del feldmaresciallo
Josef Radetzky: quest’ultimo, due giorni dopo, di fatto sciolse la guardia civica e
proclamò lo stato d’assedio ponendo definitivamente fine a qualsiasi velleità rivoluzionaria a Verona23.
Com’è facile intuire, Legnago si trovò ad essere una sorta di testa di ponte troppo isolata da Venezia o da Padova e, almeno dopo il 28, senza nessuna possibilità
di collegamento reale con Verona, ripiombata sotto il controllo imperiale. In ogni
caso le vicende proseguirono positivamente per vari giorni e il «popolo tutto»
sembrava incline a prestare la propria opera, tanto che si decise di pagarla con
il «soldo a carico del comune»; ciò fino a quando «moderati» individui «egoisti»
si opposero lamentando «lo spreco del denaro»24. A quel punto i capi dell’insurrezione legnaghese da un lato avvertirono le «incertezze della popolazione», nate
in seguito al diffondersi del timore che da Verona potessero arrivare altri soldati
tedeschi, e dall’altro si convinsero della necessità di attuare un colpo di mano per
impossessarsi definitivamente della fortezza. Furono quindi predisposti due piani:
il primo prevedeva di far «prigionieri tutto lo stato maggiore e tutta la truppa»,
di disarmare i soldati mentre Canella intimava la resa al generale, il quale, assieme
ai suoi ufficiali, doveva essere mandato a Venezia; con il secondo piano invece
fu prevista l’entrata in fortezza «da 100 a 200 armati, e ciò era facilissimo avendo
noi come capitani della civica l’ispezione delle guardie delle porte e per turno
quella del corpo della gran guardia dove le chiavi medesime riponevasi»; parte
degli armati avrebbe poi preso i cannoni, voltandoli contro la caserma degli
artiglieri, «tutti nemici a noi perché tutti tedeschi», mentre i rimanenti si sarebbero portati verso le case degli ufficiali per arrestarli. Canella decise di sottoporre
i due piani al comitato civico il quale, secondo il racconto dello stesso medico
condotto, radunatosi la sera del 26 aprile, si mostrò ancora una volta piuttosto
riluttante ad esporsi in maniera diretta. Il piccolo consiglio cittadino decise quindi
di mandare, presumibilmente già il giorno successivo, lo stesso Canella, assieme
a tre compagni, a Venezia allo scopo di chiedere aiuti concreti.
Il viaggio del medico condotto di Legnago fu drammatico. Egli pensò di fermarsi
prima a Padova dove venne ben accolto da quel comitato civico senza però ottenere
nulla; la stessa identica sorte gli riservò Venezia dove è probabile che nessuno
avesse realmente a cuore le sorti politiche della lontana piazza legnaghese25. Deluso, ritornò quindi a Padova per un altro estremo tentativo: «pregai perorai
supplicai poco mancava ch’io non piangessi perché mi si concedessero 300 di
quei giovani Crociati» dei settecento destinati a Vicenza. Ma non ci fu nulla da
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il pensiero mazziniano
Federico Melotto
fare26. Riprese a quel punto la strada per Legnago dove lo attendeva «un più triste
avvenire»: durante la sua assenza, «taluni membri di quel comitato credettero di poter
infrangere il giuramento dato, ed allontanarsi dal medesimo» spiegando che essi avevano
giurato solo perché intimoriti da Canella e i suoi più stretti collaboratori27.
A Verona, intanto, diffusasi la notizia delle gravi incertezze che stavano divorando dall’interno il comitato legnaghese, si decise, già il 29 marzo o, al più tardi,
nelle prime ore del 3028, di mandare un contingente di «800 croati con 200 soldati
di cavalleria», i quali «senza difficoltà alcuna» entrarono nella fortezza. La notizia
fu segnalata a Venezia da un corriere del governo provvisorio il primo di aprile,
specificando che i soldati imperiali, come detto, questa volta erano di nazionalità
croata29: «il loro contegno – sottolineò Nalin – era provocante: la popolazione
spaventata. La guardia civica alle porte ed alle polveriere è scomparsa: i capi
siccome maggiormente compromessi fuggirono: essi erano ricercati dalla polizia»30.
Al suo arrivo Canella trovò la fortezza già presidiata dai croati i quali non conoscendolo, lo respinsero e non lo fecero entrare in città. Rifugiatosi nelle campagne circostanti capì, anche perché consigliato da molti, che era il caso per lui
di fuggire definitivamente31.
L’esperienza rivoluzionaria del comitato di Costantino Canella, e dei legnaghesi
tutti, terminava così, mestamente, dopo nemmeno dieci giorni a causa dell’isolamento in cui era precipitata la fortezza atesina e della moderazione di gran parte
del comitato civico il quale, al pari di quello che accadde a Verona, preferì non
arrivare mai allo scontro aperto con gli austriaci32. D’altra parte, fu il tempo a
giocare in quel caso un ruolo decisivo poiché se solo i legnaghesi fossero riusciti
a resistere qualche giorno in più il corso della loro storia avrebbe potuto forse
cambiare. Infatti, mentre la guerra vera e propria – tra l’esercito piemontese e
quello austriaco – era nel frattempo scoppiata molto più ad ovest rispetto a
Legnago, ad est della città atesina, già il 2 aprile, iniziarono numerosi movimenti
di corpi volontari. In particolare fu da subito ben presidiata «dalle popolazioni di
Montagnana, Cologna, Lonigo ecc. che sono animatissime» la linea del fiume Fratta,
assunta come confine dal comandante in capo dei corpi franchi veneti Marcantonio
Sanfermo: «vennero rotti i ponti, tagliate le comunicazioni»33. Lo stesso generale,
ricordando in un suo contributo sul foglio patavino ‘Il Caffè Pedrocchi’ i fatti di
Sorio di cui fu protagonista, descrisse così la situazione militare in questa parte del
Veneto: «corpi franchi non ancora regolati» si trovavano in prossimità della linea
dell’Adige interrotta però «dalla fortezza di Legnago la quale ne taglia la continuità»34.
Il 3 aprile, intanto, venne confermata la presenza di numerosi volontari sulla linea
che correva da Montebello fino al Po35. Nel frattempo, a sud-est di Legnago, il
comitato civico di Rovigo, «allo scopo di difendere la provincia» rodigina «da
un’eventuale incursione delle truppe austriache della fortezza» atesina aveva preso
il pensiero mazziniano
79
Saggi e interventi
la decisione di organizzare «un battaglione con gli elementi più irrequieti della
città» mandati a presidiare Badia Polesine, piccolo borgo a circa venti chilometri
dalla piazza legnaghese36. La sortita a quanto pare non fu così improvvisata se già
il 2 di aprile il presidente del comitato provvisorio di Rovigo, Domenico Angeli,
aveva scritto a Manin, comunicando che i «punti per i quali si potrebbe temere
l’invasione austriaca sono le strade a destra e a sinistra dell’Adige, che dalla fortezza di Legnago immettono in quella di Ferrara»; ecco perché a presidiare era
stato inviato «un distaccamento di guardia civica mobile di circa 200 uomini. A
Badia e a Castagnaro (borgo sito a poco più di dieci chilometri da Legnago) si
ordina a un ingegnere di fare barricate»37. Il corpo di volontari, però, visse fin da
subito momenti travagliati, dovuti da un lato all’insubordinazione di alcuni e
dall’altro dalle frequenti diserzioni.
A pochi chilometri da Legnago, circa dieci, il castello di Bevilacqua, trovandosi
sull’importante direttrice Padova-Mantova, nonché proprio sul confine segnato dal
fiume Fratta, attirò da subito l’attenzione dei volontari veneti. A presidiare l’area
giunsero inizialmente alcuni montagnanesi, sostanzialmente privi di armi, ma nel
frattempo un altro corpo di volontari, i Cacciatori dell’alto Reno, formato in buona
parte da «studenti universitari di Romagna» – circa 280, guidati dal colonnello
Livio Zambeccari – di stanza a Ferrara, decisero di puntare verso il confine e di
passare il Po, il 4 di aprile presso Occhiobello, trasgredendo in parte agli ordini
del generale Giacomo Durando, comandante dell’esercito regolare papalino il quale,
secondo gli accordi presi con lo stato maggiore sabaudo, avrebbe dovuto dirigere
le operazioni in Veneto38. La lentezza di movimento dei regolari pontifici fu quindi
anticipata da Zambeccari che il giorno 5, arrivato a Badia Polesine, integrò nei
propri ranghi circa 200 volontari rodigini i quali, come si è visto, avevano il compito
di presidiare il confine per ordine del loro comitato civico; inoltre i romagnoli
furono raggiunti a Badia dal generale Sanfermo e dalla sua colonna diretta a Padova:
fu in quel frangente che dall’ex generale napoleonico ricevettero l’ordine di recarsi al castello di Bevilacqua per dare man forte ai volontari montagnanesi.
Gli uomini dello Zambeccari arrivarono a Montagnana il giorno 7 e «furono accolti
entusiasticamente», costretti però a «stare in allarme, avendo avuto notizia della
sortita di un centinaio di croati dalla fortezza di Legnago per fare una scorreria
su Badia o Castelbaldo, ma nulla accadde di sinistro, perché tutto il popolo a
suon di campane accorse e si pose in vedetta». Infine, il 9 aprile, giunsero finalmente a Bevilacqua39. La difesa del castello e del piccolo borgo incontrò subito
notevoli ostacoli di ordine soprattutto economico, superati, ma solo in parte, grazie
al denaro raccolto a Montagnana mediante la sottoscrizione di prestiti più o meno
volontari; ben presto però i disagi aumentarono poiché da Padova il comitato
civico, in notevole difficoltà economica, si rifiutava di mandare aiuti finanziari40.
80
il pensiero mazziniano
Federico Melotto
Il 10 aprile, 200 soldati croati, usciti dalla fortezza di Legnago, si spinsero fino
a Minerbe per recuperare «della polvere da un deposito che tenevano in una fabbrica» presso quel paese; stando a quanto venne riportato sull’informativa giunta
a Venezia, il giorno 11, i volontari romagnoli dovevano «recarsi nelle vicinanze
di Minerbe per incontrare i croati e provocarli ad uno scontro». Alla fine però
non accadde nulla41. Lo stesso 10 di aprile il comandante militare della fortezza
legnaghese emanò un ordine diretto alla deputazione comunale con le disposizioni per il mantenimento «della pubblica quiete». Venne innanzitutto fissata l’ora di
chiusura – le 21 – delle osterie, caffè, «bettole» e luoghi di vendita dei liquori; inoltre,
in caso di allarme, «annunciato con un colpo di cannone sia di giorno che di notte,
tutti gli abitanti si ritireranno nelle rispettive abitazioni e nessuno dovrà trovarsi nelle
piazze»; severamente proibito infine era l’assembramento di più persone42.
Il 17 aprile gli austriaci posero Legnago «in istato di assedio», pubblicando «un
avviso che ordina alle famiglie l’approvvigionamento per un mese nel caso di
blocco. In tale occasione si ritiravano nell’interno della fortezza le pile ed i mulini;
si è anche ordinato il ritiro di tutte le armi di cui potessero essere stati in possesso i privati»43. È probabile che il contingente romagnolo circa 500 uomini ai
quali, pare, si aggiunsero 200 volontari montagnanesi44 – così vicino a Legnago
avesse creato qualche preoccupazione al comando militare della fortezza, visti anche
i precedenti ’turbolenti’ della popolazione locale. D’altra parte, gli uomini di
Zambeccari stavano dando prova di un certo dinamismo: il 13 erano stati mandati quattro militi in missione esplorativa fin sotto le mura della fortezza, il giorno seguente gli stessi quattro avevano puntato verso la polveriera di Minerbe dove
fecero prigioniero un artigliere tedesco e rubarono due cavalli; il giorno 16 infine
una formazione di romagnoli coadiuvata dai montagnanesi era tornata nella zona
di Minerbe45.
Nonostante comunque questi limitati movimenti il corpo di stanza a Bevilacqua
non si dimostrò in grado di poter puntare realmente allo scontro con la guarnigione imperiale di Legnago; d’altra parte, dopo la metà di aprile, il feldmaresciallo
Radetzky, «non potendo soffrire che una banda di infestatori fosse tanto ardita
da stabilirsi pressoché sotto il tiro del cannone della fortezza di Legnago» e
sollecitato dal comandante della piazza legnaghese, decise di reagire ordinando la
distruzione del contingente romagnolo. Fu incaricato di eseguire l’ordine il colonnello Heinzel, posto alla guida di una brigata composta da diversi reggimenti, tra
i quali anche il 45° Arciduca Sigismondo, che «reclutavasi, principalmente, nella
provincia di Verona»46. Già il 19 gli austriaci fecero una scorreria fino al primo
posto avanzato degli uomini di Zambeccari, al Ponte Pitocco. Karl Schönals nelle
sue Memorie della guerra d’Italia ha lasciato una descrizione cinicamente beffarda
delle vicende: il caso volle, scrisse il veterano asburgico, che «in quel momento
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
appunto arrivasse la ’Gazzetta di Venezia’. Essa conteneva una lettera della contessa Bevilacqua» ai capi della Repubblica con la quale metteva a disposizione «il
suo castello con tutto quanto eravi in esso di provigioni e di ricchezze, sacrificio
ch’ella deponeva sull’altare della patria. Fu quindi ingiunto al colonnello Heinzel
di accettare quel sacrificio»47.
Con una marcia forzata notturna gli austriaci, il 21 aprile, arrivarono «sotto le
mura del moderno nido di ladroni. Ma i primi razzi e le prime palle di cannone
spaventarono talmente quei corpi franchi, che senza guardarsi addietro corsero
fino alla riva del Po». Il castello «divenne preda della fiamme; le copiose provvigioni di riso, che si rinvennero tornarono utilissime al caso nostro. Il sacrificio
era stato consumato in grazia dello spirito millantatore che in quel tempo aveva
invaso tutte le gazzette italiane»48. Non è facile stabilire quanti soldati imperiali
giunsero a Bevilacqua per eseguire l’ordine di Radetzky: un’informativa del comitato di Monselice, datata 22 aprile, comunicò alle autorità veneziane che il colonnello Zambeccari aveva abbandonato la posizione prima dell’arrivo del contingente
austriaco, composto da circa 800 soldati49. In un altro documento invece – sicuramente di parte poiché ricostruisce, a scopo difensivo, le principali vicende di
cui furono protagonisti i Cacciatori dell’alto Reno – si parla di addirittura «2.500
croati»50. Infine, Edoardo Piva e Giovanni Natali, riprendendo entrambi le notizie
fornite dal colonnello Cecilio Fabris, nei loro contributi parlano di otto compagnie, uno squadrone di cavalleria (dunque circa 800-900 uomini), con al seguito
quattro bocche da fuoco51.
L’epilogo dell’avventura bellica del corpo volontario romagnolo comunque non
conobbe particolari scontri: ci fu solo «qualche scambio di fucilate presso Marega,
qualche granata fu gettata su Minerbe, ma le milizie dello Zambeccari si erano
allontanate» portandosi prima a Montagnana e poi ad Este52. Secondo le note del
legnaghese Nalin gli asburgici, dopo aver cannoneggiato il castello, si abbandonarono a razzie nell’intero paese; nel venerdì santo «del 1848 Legnago ebbe il
doloroso spettacolo del ritorno da Bevilacqua della soldatesca austriaca e precisamente dei croati, i quali avendo incendiato la maggior parte delle case del paese
di Bevilacqua, messa in iscompiglio e depredata la popolazione, devastato il castello, e violate per fino le sepolture della famiglia Bevilacqua, entrarono in fortezza baldi e ricchi di bottino portando seco vasi vari, cere, monete, oggetti di
casa di ogni specie, maiali uccisi, canestri di uova ecc ecc destando nella cittadinanza la più penosa impressione»53.
Gaetano Polver, nella sua fondamentale cronistoria del Quarantotto veronese, ebbe
modo di intrattenersi sulla condotta del colonnello Zambeccari affidandosi alle
parole scritte in una lettera della contessa Maria Teresa Serego Alighieri Gozzadini
nella quale si criticava apertamente il comportamento del militare «dolcemente
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il pensiero mazziniano
Federico Melotto
accampato nel magnifico castello di Bevilacqua, ove i suoi prodi facevano piacevolissima campagna e fuggivano poi alla vista di un picchetto tedesco uscito per
foraggiare»54. Sebbene l’animo patriottico della contessa Gozzadini fosse arrivato
a censurare la condotta rinunciataria del ‘radicale’ e repubblicano Zambeccari, aggravata dal suo contegno poco rispettoso del maniero trecentesco che si era
permesso «di devastare», e lo stesso Polver – il quale, in quanto militare, probabilmente non simpatizzava poi molto per le formazioni irregolari55 – si sia servito
di lei per esprimere anche un suo pensiero, non si dovrebbe correre il rischio di
sottovalutare l’iniziativa degli studenti romagnoli. Essa fu tanto sconsiderata quanto
ardita se si riflette sul fatto che si accamparono per vari giorni a soli dieci chilometri da quella che era pur sempre una delle quattro fortezze del Quadrilatero,
correndo nottetempo il rischio di essere investiti dalla guarnigione militare di uno
dei più imponenti eserciti europei56.
La parola fine alla polemica – figlia anche delle forti lacerazioni esistenti all’interno del fronte patriottico, e della diffidenza diffusa anche «nei circoli mazziniani
di Milano, dove si temeva, dolorosamente ammaestrati dai casi funesti accaduti
alle colonne Manara e Noaro in Castelnuovo e Lazise il 10 e il l’11 aprile» che
i corpi volontari non sostenuti da truppe regolari «fossero destinati a un completo sbaraglio»57 – venne messa, forse definitivamente, dal chirurgo del battaglione
di Zambeccari, il dottor Rinaldo Andreini, in una sua lettera spedita da Padova
il 22 aprile. Il medico, dopo aver sottolineato che la colonna della quale faceva
parte, tra le formazioni volontarie, fu la prima ad attraversare il Po, confermò che
la decisione di acquartierarsi a Bevilacqua fu presa in accordo con il comandante
Sanfermo, nonostante fosse noto che quella «pericolosa posizione, a sei miglia
dalla fortezza di Legnago», fosse a diretto contatto con l’esercito austriaco. In
realtà loro avrebbero dovuto essere solo un drappello esplorativo, in grado di
insediarsi nell’avamposto, «attendendo che le altre colonne civiche pontificie
occupassero Badia, Montagnana, Cologna e Lonigo, linea di difesa concertata»
dal Sanfermo, «per agire di conferma coi Crociati veneti di Montebello». In seguito però i crociati di Sanfermo furono sopraffatti dagli austriaci e costretti a
ritirarsi a Vicenza: nessun «altro corpo occupò i punti designati; il Sanfermo si
dimise e noi restammo soli, isolati, in faccia al nemico». Zambeccari decise dunque
di chiedere aiuto a Venezia ma dalla città lagunare arrivò soltanto l’ordine di
abbandonare le posizioni al quale il comandante rispose inizialmente con un rifiuto
categorico. Intorno al 19 aprile si diffuse però la notizia che gli austriaci intendevano attaccare in forze dopo l’arrivo di alcuni contingenti di supporto; fu
sufficiente perché il comando dei volontari si convincesse della «impossibilità della
resistenza» e della «necessità di una ritirata»58.
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Note
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Un verso de I sette soldati, canto dedicato a Garibaldi. Si veda A. ALEARDI, Canti, G. Barbera Editore,
Firenze 1864, pp. 323-370.
R. FASANARI, Pio IX nel Risorgimento Veronese (1846-1848), in ‘Atti e Memorie dell’Accademia di
Agricoltura Scienze e Lettere di Verona’, s. VI, vol. VI, a. 1956, pp. 144-145; dello stesso autore si
può vedere anche L’elezione di Pio IX e le sue ripercussioni in Verona, in ’Vita Veronese’, nn. 1-2, gennaiofebbraio 1956, pp. 6-13.
BIBLIOTECA CIVICA DI VERONA (d’ora in avanti BCVR), Ms. 3113 bis, L. STEGNANINI,
I miei tempi, p. 77 (si fa riferimento alla versione dattiloscritta). Su don Stegnanini, tra le altre cose,
si può vedere P. SIMONI, Leopoldo Stegagnini personaggio illustre dell’Ottocento in ‘Civiltà Veronese’, n. 1,
febbraio 1985, pp. 65- 76; F. VECCHIATO, «I figliuoli dei poveretti non hanno fortuna nelle scuole». L’autobiografia di un prete del Regno Lombardo-Veneto: don Leopoldo Stegnanini (1821-1897) in ‘Ricerche di storia
sociale e religiosa’, n. 66, a. 2004, pp. 177-234 e dello stesso autore Un’esperienza scolastica nella Verona
absburgica: don Leopoldo Stegnanini (1821-1897) in Variis linguis: studi offerti a Elio Mosele in occasione del suo
settantesimo compleanno, Fiorini, Verona 2004, pp. 551-567. Riflessioni interessanti anche in M. CARRARA,
Tre cronisti veronesi dal 1847 al 1866, in Aspetti di vita pubblica e amministrativa nel Veneto intorno al 1866,
Atti del convegno di studi risorgimentali nel centenario dell’unione del Veneto al Regno d’Italia,
Vicenza 8-10 giugno 1966, Vicenza 1969, pp. 179-192.
Cfr. F. MELOTTO, Risorgimento di provincia. Legnago durante la dominazione austriaca (1814-1866), Fondazione Fioroni, Legnago 2012. A tal proposito si vorrebbe sottolineare che il case study legnaghese
risulta non del tutto trascurabile trattandosi pur sempre innanzitutto della piazzaforte che diverrà,
nel corso del 1848, uno dei quattro vertici del Quadrilatero austriaco, e in secondo luogo di un
importante snodo viario sulla direttrice che collegava Mantova a Padova, nonché della piazza che
sbarrava, o meglio, tentava di sbarrare, l’ingresso nella immensa plaga paludosa delle Grandi Valli
Veronesi, zona impervia e di confine con i territori pontifici non a caso ricettacolo di sbandati,
banditi, renitenti alla leva e di ricercati in genere.
Egli era nato a Verona nel gennaio del 1810; dopo aver frequentato il liceo cittadino, proseguì gli
studi presso la facoltà di medicina dell’Università di Pavia, dalla quale però venne espulso per aver
stretto rapporti con i rivoluzionari protagonisti dei moti modenesi e bolognesi. Rientrato a Verona,
fu arruolato di forza in un reggimento di soldati semplici tenuti costantemente sotto osservazione,
i ‘perlustrati’ com’erano definiti dal comando austriaco. In seguito fu trasferito nel corpo sanitario
militare a Palmanova; una volta giunto nella cittadina friulana però contrasse una malattia piuttosto
grave e riuscì così ad ottenere un certificato con il quale lo si dichiarava «inetto a proseguire il
servizio». Ottenuto quindi un regolare congedo poté terminare gli studi laureandosi in medicina nel
corso del 1834: esercitò la professione a Bussolengo, a Cologna Veneta e infine a Legnago dal 1837,
in qualità di medico chirurgo primario dove svolse il proprio lavoro, pare, con grande perizia scientifica, se si considerano i suoi numerosi scritti conservati presso la Biblioteca civica di Verona. Su
questo importante personaggio non esistono particolari studi, nonostante, come si avrà modo di
scrivere, egli sia stato particolarmente attivo sia nel campo medico, così come in quello letterario e
patriottico. Si di lui innanzitutto A. TREVISANI, Sul feretro del Cav. Costantino Canella tenente colonnello
in riposo e medico chirurgo: discorso, Tip. G. Franchini, Verona 1882. Poi i cenni in G. POLVER, Radetzky
a Verona nel 1848, Remigio Cabianca Editore, Verona 1915, pp. 236-237; inoltre P. SIMONI, Costantino
Canella patriota veronese del Risorgimento, in ‘La voce scaligera’, a. 1995, novembre, p. 27.
R. FASANARI, Il Risorgimento a Verona 1797-1866, Banca Mutua Popolare, Verona 1958, p. 158.
BCVR, b. 984, C. CANELLA, Memorie storiche di molti fatti interessanti, non ben noti al pubblico, accaduti
nelle Provincie venete nella rivoluzione per l’indipendenza d’Italia, cc. 7-9 (d’ora in avanti CANELLA).
Sui fatti veronesi di questi mesi cruciali cfr. R. FASANARI, Il Risorgimento a Verona, cit., pp. 142-162.
ARCHIVIO FONDAZIONE FIORONI (d’ora in avanti AFF), Manifesti, opuscoli, fogli volanti, b. 18,
lettera che anticipa l’arrivo di tre compagnie, 13 gennaio 1848.
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E presenti nelle sue Memorie di Legnago (d’ora in avanti solo NALIN) vergate con l’intento, dichiarato,
di proseguire la ben più famosa Historia di Legnago, redatta, fino al 1689, da Francesco Pecinali. Nalin,
segretario comunale di Legnago, in questo lavoro, tuttora rimasto manoscritto, si limitò a segnalare
– anno per anno e in maniera concisa – le notizie ricavate dall’analisi della documentazione conservata nell’Archivio storico del Comune dal 1690 al 1900.
CANELLA, cc. 12-13.
Sui fatti veneziani, molto è stato scritto. Per semplicità si veda P. GINSBORG, Daniele Manin e la
rivoluzione veneziana del 1848-1849, Einaudi, Torino 2007, pp. 97-145; A. BERNARDELLO, P.
BRUNELLO, P. GINSBORG, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Comune di Venezia, Venezia
1979 e 1848-49 costituenti e costituzioni, Daniele Manin e la Repubblica di Venezia a cura di P.L. BALLINI,
Istituto veneto di lettere scienze e arti, Venezia 2002.
CANELLA, cc. 13-14
NALIN, pp. 158-159.
CANELLA, c. 14.
NALIN, pp. 158-159.
CANELLA, c. 14.
Sul sistema di arruolamento e sulla vita del soldato semplice si veda A SKED, Radetzky e le armate
imperiali. L’impero d’Austria e l’esercito asburgico nella rivoluzione del 1848, Il Mulino, Bologna 1983, pp.
77-88. Importante anche P. BRUNELLO, I contadini e la rivoluzione del 1848 nel Veneto in A.
BERNARDELLO, P. BRUNELLO, P. GINSBORG, Venezia 1848-49, cit., pp. 79-105.
CANELLA, c. 15.
NALIN, p. 159. L’elenco completo dei diritti e dei doveri della «Guardia dei cittadini italiani» lo si
veda in Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine ecc. del governo provvisorio della repubblica
veneta non che Scritti, Avvisi, Desiderj ecc di Cittadini privati che si riferiscono all’epoca presente, tomo I, parte
I, Andreola, Venezia 1848, pp. 17-19. Un inquadramento generale in E. FRANCIA, Le baionette
intelligenti. La Guardia Nazionale nell’Italia liberale (1848-1876), Il Mulino, Bologna 1999.
CANELLA, c. 15.
Canella nella sua memoria li apostrofò con parole molto violente definendoli «miserabili» e «Giuda
della nostra santa causa». CANELLA, c. 15.
La Commissione verrà invece sciolta di forza il 24 aprile cfr. G. POLVER, Radetzky a Verona nel 1848,
Remigio Cabianca Editore, Verona 1915, p. 274. Si veda anche R. FASANARI, Incertezze e delusioni
del Quarantotto veronese, in ’Vita Veronese’, marzo 1956, pp. 100-106.
CANELLA, c. 18
Il tema rimanda forse ad uno dei ’limiti’ della politica di Daniele Manin in merito ai suoi rapporti
con la terraferma. Egli forse peccò di immobilismo poiché «nei primi, cruciali mesi della rivoluzione
non si mosse» dalla città lagunare. Cfr. P. GINSBORG, Prolusione in I moti del 1848-1849, cit., p. 13.
CANELLA, c. 22.
Si palesò in quel momento la reale frattura che esisteva anche a Legnago tra le due anime del
movimento nazional patriottico. Canella, ancora una volta, non risparmiò coloro che a suo modo
di vedere erano dei traditori. «Infami! – attaccò il medico – Per timore spergiuri», e ancora «assassini
della Patria!!». Gli augurò che «un profondo obblio possa coprire i vostri reprobi nomi». Ibid, c. 23.
È interessante segnalare che il 1° di aprile, secondo quanto affermò il presidente del comitato di
Rovigo, una delegazione della guardia civica di quella città si sarebbe recata a Legnago per avere
notizie sulle condizioni della fortezza. Evidentemente non si era ancora diffusa la notizia dell’arrivo
dei croati. Cfr. Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 265.
Ibid., p. 290.
NALIN, p. 159.
CANELLA, c. 24.
Il medico Costantino Canella comunque non terminò la propria esperienza rivoluzionaria dopo il
fallimento dell’insurrezione legnaghese. Fuggito, si mise, infatti, a disposizione delle truppe piemon-
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tesi combattendo non solo durante il 1848 ma anche nel 1859. Poiché sarebbe troppo complesso
elencare dettagliatamente i numerosi fatti che lo videro protagonista si rimanda a G. POLVER,
Radetzky a Verona, cit., pp. 237-238.
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 304.
Citato in A. COSTANTINI, Il Risorgimento a Montagnana 1848-1849, Associazione Pro Loco, Montagnana
1996, p. 16
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 330.
E. PIVA, Un volontario garibaldino. Il generale Domenico Piva. Note storico-biografiche (1826-1907) in ’Rassegna
storica del Risorgimento’ (d’ora in poi RsR), a. IV, fasc. I, gennaio-febbraio 1917, p. 57. Recentemente
la tesi di Piva, ovvero che si trattasse di un battaglione di soldati «irrequieti» e indisciplinati, è stata
confutata in M. T. PASQUALINI CANATO, I volontari polesani del 1848-49 in I moti del 1848-1849
nel Polesine e nell’area padano-veneta. Unitarismo e federalismo nel dibattito risorgimentale, Atti del XXII Convegno di Studi Storici, Rovigo 14-15 novembre 1998, Minelliana, Rovigo 1999, p. 133.
Lettera citata in M. T. PASQUALINI CANATO, I volontari polesani, cit., pp. 133-134.
Durando si espresse in questo modo: «Hanno voluto passare; non mi sono opposto ed ho loro
mandato istruzioni ed ordini, onde sappian guardarsi militarmente». Citato in G. NATALI, Corpi
franchi del Quarantotto. I battaglioni dell’Alto Reno, del Basso Reno, dell’Idice, del Senio (prima parte), in ‘RsR’,
a. XXII, fasc. II, febbraio 1935, p. 194.
Ibid., p. 197.
A. COSTANTINI, Il Risorgimento a Montagnana, cit., pp. 18-20.
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 503.
AFF, Fondo Boscagin, b. 2, fasc. 20, disposizione del comandante militare per mantenere l’ordine, 12
aprile 1848. Si fa riferimento alla trascrizione del documento, a quanto pare ora smarrito.
NALIN, p. 159.
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 599. La cifra è confermata anche in G. NATALI, Corpi franchi
del Quarantotto, p. 197.
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 599.
Ibidem.
Alcune notizie sulla famiglia Bevilacqua in E. SODINI, Le carte di Felicita Bevilacqua. Famiglia, nazione
e patriottismo al femminile in un archivio privato (1822-1899), Cierre Edizioni, Verona 2010, pp. XV-LXXVII.
K. SCHÖNALS, Memorie della guerra d’Italia degli anni 1848-1849 di un veterano austriaco, Tipografia
Guglielmini, Milano 1852, p. 213.
Raccolta per ordine cronologico, cit., p. 672.
Ibid, p. 317.
E. PIVA, Un volontario garibaldino, cit., p. 59.
G. NATALI, Corpi franchi del Quarantotto, cit., p. 198.
NALIN, pp. 158 e segg.
Citato in G. POLVER, Radetzky a Verona, cit., p. 245.
Su questo si veda G. NATALI, Corpi franchi del Quarantotto, cit., pp. 198-199. Il riferimento ai circoli
mazziniani è abbastanza ovvio: il contingente di Zambeccari (e lui stesso) era animato da idee repubblicane.
Sulla questione senza dubbio E. CECCHINATO, M. ISNENGHI, La nazione volontaria, in Storia
d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. BANTI, P. GINSBORG, Einaudi, Torino 2007,
pp. 697-720.
Il tema animerà il dibattito politico nazional patriottico fino al 1859. Cfr. A.M. ISASTIA, La guerra
dei volontari. Ruolo politico e dimensione militare, in Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. I, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. ISNENGHI, E.
CECCHINATO, Utet, Torino 2008, pp. 172-173.
G. NATALI, Corpi franchi del Quarantotto, cit., pp. 199-200.
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Marco Severini
Secondo Risorgimento
Due personalità, un incontro alla vigilia della
Grande guerra
L
a storia è ricca di incontri significativi; ma a volte qualcuno di questi incontri, anticipato rispetto alla realtà storica o solo immaginato, può tornare utile
per riflettere sulle dinamiche del passato. Questo è uno degli intenti che ha mosso
Stefano Cerioni a scrivere una piéce che, diretta da Gianfranco Frelli, ha girato
con successo i teatri della penisola, venendo applaudita soprattutto da giovani
studenti che hanno così avuto l’occasione di riflettere, in maniera diversa e certamente meno scolastica, su due personaggi centrali dell’Italia contemporanea.
Al centro del lavoro teatrale di Cerioni c’è, infatti, l’incontro immaginato durante
“l’Estate di San Martino” del 1914, incontro come vedremo mai avvenuto, ma
profondamente calato su quell’atmosfera inquieta, guerrafondaia e radicaleggiante
che aleggiava sull’Italia e sull’Europa della fine del 1914.
La scena si svolge a Milano l’11 novembre 1914, quattro giorni prima che il quasi
ex socialista massimalista Benito Mussolini, già direttore de «L’Avanti!», passi a
dirigere «Il Popolo d’Italia»: Mussolini avrebbe dovuto abboccarsi con Filippo
Naldi, direttore del «Resto del Carlino», invece incontra Filippo Tommaso Marinetti,
l’inventore e il leader del futurismo.
Marinetti, come è noto, propugnava un cambiamento radicale della società, dei
costumi, della politica, dell’arte: proponeva un mondo veloce, aggressivo, violento, incendiario: parlava della “guerra sola igiene del mondo”, della distruzione dei
musei, delle biblioteche, della lotta inesorabile contro il moralismo, il femminismo, qualsiasi forma di utilitarismo. L’intellettuale sembrava guardare avanti, si
mostrava sicuro e spavaldo di sé, tutt’altro che esitante di fronte alla spada di
Damocle che pendeva in quel frangente sulla testa del popolo italiano: entrare o
meno nella prima guerra mondiale.
D’altra parte c’era Benito Mussolini, socialista massimalista pronto ad aderire al
fronte interventista, che invece appare sulle prime, nell’opera di Cerioni, incerto,
esitante, insicuro.
Fatto sta che entrambi i personaggi furono due provocatori, due ribelli, due
personalità accese, pronte a sfidare l’opinione pubblica e la politica e soprattutto
a derivare e mutuare abilmente da altri principi, rituali, mode e ambizioni che
avrebbero caratterizzato il periodo più nero della storia dell’Italia novecentesca.
Fin qui la finzione scenica e teatrale, con l’ombra lunga di una tesi suggestiva e
avvincente.
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Saggi e interventi
La storia, però, ha percorso altri sentieri.
Nel marzo di quello stesso anno si era chiusa di fatto l’età giolittiana: una delle
pochissime età di prosperità e di benessere per il nostro paese, profondamente
segnata dallo statista piemontese1 . Certo una prosperità squilibrata – perché aveva
riguardato il centro-nord della penisola e lasciato il sud avvolto nella insolubile
questione meridionale e poiché aveva privilegiato alcuni interlocutori sociali (la
borghesia, il proletariato organizzato a scapito di altri) – ma pur sempre un periodo
di crescita e di evoluzione in cui l’Italia aveva incominciato a perdere i connotati
di paese agricolo e ancora per larghi tratti semianalfabeta, avviandosi sulla strada
dell’industrializzazione e della modernizzazione.
Ma allargando lo sguardo fuori del nostro paese si avvertivano venti di guerra.
I primi anni del Novecento si inquadrano, infatti, nella fase storica dell’imperialismo
e del colonialismo e il decennio precedente la Grande guerra aveva visto acuirsi
in Europa i contrasti internazionali: le crisi marocchine (1905 e 1911), la guerra
italo-turca (1911-12), le guerre balcaniche (1912-13) non solo ridisegnarono gli
equilibri tra le grande potenze, ma fecero capire quanto forte fosse il processo
di radicalizzazione politica in atto nella maggior parte degli Stati europei.
Le vecchie politiche di matrice ottocentesca non erano più in grado di dare una
risposta efficace ai problemi reali delle comunità nazionali, al disagio di sempre
più larghi strati sociali, al desiderio di un cambiamento anche radicale e violento.
In questo contesto estremamente sfuggevole e aperto alle più diverse possibilità,
uno sparuto gruppetto di capi politici e militari del vecchio continente decisero
che una guerra internazionale potesse risolvere questi rilevanti e diffusi problemi2.
In luogo del dialogo, del confronto e della mediazione, pochi optarono per la
legge del più forte; per chi poteva più rapidamente di altri mobilitare un esercito
di grandi numeri e così risolvere contrasti internazionali preesistenti (la rivalità
franco-tedesca; quella anglo-tedesca, quella austro-russa, etc.). E lo fecero senza
neanche consultare il Parlamento: quello italiano venne a conoscenza del Patto di
Londra, con cui l’Italia entrò nel 1915 in guerra, solo nel 19173 .
Un punto però deve essere ben chiaro sul piano della ricostruzione storica.
Nell’Europa del 1914 esistevano tutte le premesse che rendevano possibile una
guerra: rapporti tesi tra le grandi potenze; divisione in blocchi contrapposti; corsa
agli armamenti; spinte belliciste all’interno dei singoli paesi.
Ma tali premesse non comportavano come sblocco obbligato una guerra mondiale. Fu prima l’attentato di Sarajevo a far esplodere tensioni che avrebbero potuto
restare latenti e furono poi le decisioni assunte da governanti e capi militari a
trasformare una crisi locale in un conflitto generale. In questo clima generale si
immagina l’incontro tra queste due personalità in parte simili e in parte diverse.
Le opere di Marinetti, dopo il 1910, si rivelarono soprattutto turgida oratoria e
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il pensiero mazziniano
Marco Severini
azione politico-letteraria: interventista e combattente nella prima guerra mondiale,
Marinetti sarebbe rimasto accanto a Mussolini fino alla Repubblica di Salò, esaltandone le imprese guerresche, e morendo nel 1944.
Mussolini, il figlio di un fabbro romagnolo che fino a due anni prima aveva
vissuto di stenti, di povertà e di emarginazione, si era schierato con il socialismo
massimalista, rivoluzionario, aveva cercato a lungo di uscire dalla dimensione
politica provinciale e marginale: nel 1912 si era segnalato negli scontri con la
forza pubblica nel Forlivese per essersi opposto alla guerra di Libia e qualche
mese dopo era diventato appunto il direttore de «L’Avanti!» 4 . Da questo giornale
Mussolini aveva aperto ai socialisti intransigenti, ai sindacalisti rivoluzionari e agli
anarchici; nel 1914 aveva sostenuto, standosene comodamente ad arringare a
Milano, la Settimana Rossa, il grande movimento di sciopero, di rivolta e di insurrezione verso lo Stato liberale nato nelle Marche, in Ancona, dove il suo conterraneo e compagno di pugni, ma allora repubblicano, Pietro Nenni ci aveva invece
messo la faccia, insieme al leader riconosciuto degli anarchici Errico Malatesta.
Fatto sta che dalle colonne de «L’Avanti!», Mussolini era divenuto una delle
maggiori personalità del socialismo italiano, senza nutrire per questo la stessa fede
dei suoi compagni: si fece fautore, con il progressivo abbandono della lotta di
classe, di una rivoluzione che sempre meno si presentava come espressione del
proletariato e sempre più appariva opera di una ristretta minoranza. Allo scoppio
della guerra Mussolini si mostrò risolutamente neutralista, ma nell’ottobre 1914
mutò clamorosamente il proprio atteggiamento, passando dalla neutralità assoluta
ad una condizionata per poi giungere, in novembre, alla necessità dell’intervento
a fianco dell’Intesa, tesi però confutata dalla sezione socialista di Milano il 24
novembre 1914, che espulse dal partito Mussolini che, per parte sua, aveva già
fondato, il 15 novembre, «Il Popolo d’Italia».
Renzo De Felice ha attentamente ricostruito questo passaggio della vita di Mussolini
che fondò il nuovo giornale con il “concorso economico determinante” di Filippo Naldi – direttore del «Resto del Carlino», proprio il personaggio che nel lavoro di Cerioni il predappiese crede di andare a incontrare e che aveva alle spalle
una serie di industriali di orientamento interventista – la Fiat degli Agnelli, i Perrone
dell’Ansaldo, la Edison, gruppi di armatori – interessati ad un incremento delle
forniture militari, e forse lo stesso ministero degli Esteri, retto allora da Antonino
di San Giuliano5 .
Al tempo Benedetto Croce ritenne che la conversione di Mussolini all’interventismo fosse determinata da motivi economici, dunque da una opera di corruzione; ma De Felice ha dimostrato che invece si trattò di una crisi politica, di una
scelta, da parte di Mussolini, in favore delle élites che sostenevano l’idea della guerra
rivoluzionaria, mentre fino a quel momento egli aveva parlato al proletariato, e a
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
quello socialista in particolare6 . Il limite di classe, sin lì non valicato, fu superato
da Mussolini in funzione di una guerra che avrebbe dovuto sconvolgere tutto,
dando vita a una nuova unità rivoluzionaria. Ma una volta superato questo limite,
era però inevitabile che, sotto la spinta degli eventi, esso fosse destinato a spostarsi sempre più verso destra, inclinando in favore di posizioni autoritarie.
C’è però un altro percorso storico che va segnalato e porta al primo dopoguerra,
all’Italia della vittoria mutilata, delle profonde agitazioni sociali del biennio rosso, della
debolezza delle strutture politiche del vecchio Stato liberale: il sistema politico
basato sulla grande maggioranza liberale, che aveva superato la prova dell’introduzione del suffragio quasi universale maschile, si logorò in una crisi drammatica
e irreversibile soprattutto per “la complessiva perdita d egemonia di quella classe
dirigente”, conseguentemente ai mutamenti sociali e culturali determinati dalla
prima guerra mondiale oltre che alle novità introdotte sulla scena politica 7 .
La manifestazione più clamorosa di quel clima diciannovista fu l’occupazione di
Fiume, città posta sotto il controllo internazionale, da parte di D’Annunzio alla
guida di volontari e militari ribelli; concepita come mezzo di pressione sul governo Nitti, l’avventura fiumana si prolungò per quindici mesi, trasformandosi non
solo in un’esperienza politica inedita, ma in un ricco serbatoio cui avrebbe potuto
in futuro attecchire proprio Benito Mussolini: a Fiume, maturò il piano, non attuato,
di una marcia che avrebbe dovuto concludersi a Roma con la cacciata del governo; a Fiume furono sperimentati per la prima volta formule e rituali collettivi,
come le adunate coreografiche e i dialoghi tra il capo e la folla; a Fiume fu ripresa,
ancora una volta, l’idea che la rivolta e la violenza potessero aver ragione delle
regole e dei principi di quella stagione democratica che l’Italia stava sperimentando per la prima volta.
In realtà si trattò un esperimento di brevissima durata poiché, sotto la spinta del
fascismo, il paese venne consegnato ad un regime liberticida, autoritario e infine
totalitario contro il quale pochi italiani avrebbero continuato a lottare, sognando
l’Italia migliore del Risorgimento, quella democratica e repubblicana che, a suffragio universale, avrebbe visto la luce il 2 giugno 1946.
L’opera di Cerioni è diventata anche un libro: il pregio della sua duplice operazione è stato efficacemente interpretato da Marco Soresina che, storico dell’Università di Milano, ha ricordato nella Prefazione come solitamente l’introduzione di
uno storico costituisce una sorta di “autenticità dei fatti narrati”, anche se questo
caso appare diverso.
La questione, però, non è così lineare; qui il fatto è falso, e il contributo di verità
viene piuttosto dall’immaginazione poetica, che ci cala efficacemente nella storicità
dei personaggi e delle loro ideologie, mescolando però le carte, le cronologie, le
ambientazioni8 .
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il pensiero mazziniano
Marco Severini
E tra finzioni sceniche e irruzioni nella realtà storica, il testo di Cerioni ha
evidenziato il complesso rapporto che intercorse tra Marinetti e Mussolini e,
dunque, tra futurismo e fascismo, con il secondo pronto ad assorbire “come una
spugna” suggestioni e tecniche di propaganda proprie del primo 9 .
Il 20 aprile 2013 ho partecipato alla prima rappresentazione dell’opera di Cerioni
nella sua città natale, la marchigiana Jesi. Una rappresentazione impeccabilmente
organizzata dal locale Centro Studi “Calamandrei”, e dal suo Presidente Gian
Franco Berti, che si è aperta con la lettura di una missiva del Presidente onorario
del Centro, Carlo Azeglio Ciampi.
L’ex Capo dello Stato, impossibilitato a intervenire di persona all’iniziativa, ha
sottolineato l’importanza di far rivivere e conoscere la storia alle giovani generazioni, compresi quei drammi, come l’8 settembre, che hanno messo a dura prova,
senza però consumarla, la nostra patria che, anzi, ha cercato in frangenti così
delicati la via del riscatto e della riconquista della dignità. In particolare, Ciampi
ha aggiunto:
Tutto ciò è iscritto nella nostra memoria collettiva; fa parte del nostro patrimonio. Perché l’azione inesorabile del tempo non eroda questa ricchezza è indispensabile che essa sia trasmessa da una generazione all’altra; ancora più indispensabile
è accrescere questa eredità, vivificandola, “attualizzandola” con l’impegno, con la
partecipazione consapevole e disinteressata alla vita pubblica10 .
Parole profonde, e di grande attualità, da parte di un protagonista indiscusso
dell’Italia democratica e repubblicana.
Marco Severini
Note
1
A.A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Mondadori, Milano 2003; si veda anche E. Gentile,
L’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna 1990 (1° edizione, 1977).
2
La tesi, ampiamente condivisa, secondo cui le origini della Grande guerra farebbero capo a uno stretto
intreccio di cause o meglio, per usare le parole dello storico, a un “sistema di circoli concentrici” che
partono “dalle decisioni immediate prese dai capi politici e militari durante la crisi del luglio 1914” è di
James Joll, Le origini della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1985 (p. 9 per le citazioni).
3
Tra le pubblicazioni più recenti, nella vasta bibliografia sull’argomento e in attesa di ricerche che certo
non mancheranno nel centenario dell’evento, si vedano S. Robson, La prima guerra mondiale, il Mulino,
Bologna 2002; L. Raito(a cura di), Il conflitto della modernità. La grande guerra in Italia, Aracne, Roma 2009;
I. F. Beckett, La prima guerra mondiale. Dodici punti di svolta, Einaudi, Torino 2013.
4
Sul rapporto tra i due politici romagnoli in questo frangente, sia consentito rinviare al mio recente
Da outsider a protagonisti: Mussolini e Nenni di fronte all’impresa libica, in M. Severini (a cura di), L’Italia e la
guerra di Libia, Associazione di Storia Contemporanea/Società pesarese di studi storici, Fermo 2012, pp.
103-113.
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
5
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965, p. 273 e ss. Sul ministro degli
Esteri si veda G.P. Ferraioli, Giolitti e San Giuliano: un sodalizio non casuale, in Giovanni Giolitti al governo, in
Parlamento, nel carteggio, III, Il Carteggio, tomo II (1906-1928), a cura di A. A. Mola e A. G. Ricci, Bastogi,
Foggia 2010, pp. 43-59.
6
De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 284-287.
G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 56-57; più in generale si veda
il saggio dello stesso autore, La crisi dello Stato liberale, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia
d’Italia, vol. IV, Guerre e fascismo: 1914-1943, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 101-167.
7
8
M. Soresina, Prefazionea S. Cerioni, L’estate di S. Martino del ’14. Marinetti e Mussolini sotto forma di dialogo,
UNI Service, Trento 2009, p. 3.
9
Ibidem, p. 7. Sul tema dei rapporti tra i due movimenti si veda E. Gentile, La nostra sfida alle stelle. Futuristi
in politica, Laterza, Roma-Bari 2009.
10
92
Archivio privato G.F. Berti Jesi, C.A. Ciampi a G.F. Berti, Roma, 15 aprile 2013.
il pensiero mazziniano
Silvio Pozzani
Echi mazziniani nell’ultimo fascismo
(1943 – ’45)
Note e appunti
L
a nascita della Repubblica Sociale Italiana (23 settembre 1943) coincise, come
è noto, con l’ultima fase del Regime Fascista in Italia(1).
Una fase particolare questa, contraddistinta dal tentativo messo in atto da Benito
Mussolini di riproporre, per frenare la china della sconfitta e cercare in qualche
modo di sopravvivere ad essa, agli italiani il Fascismo delle origini, quello repubblicano e “sociale” dei Fasci di Combattimento (23 marzo 1919) che così, tra l’altro,
recitava nel suo programma: ...NOI VOGLIAMO:
...Suffragio universale... voto ed eleggibilità per le donne... Il minimo di età per
gli elettori abbassato ai 18 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni... L’abolizione del Senato... La convocazione di una Assemblea Nazionale... il cui primo
compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato... per tutti i lavoratori la
giornata legale di otto ore di lavoro... La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori
al funzionamento tecnico dell’industria... L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie
o servizi pubblici... Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sull’invalidità e sulla vecchiaia, abbassando il limite di età proposta attualmente a 65
anni, a 55 anni... L’istituzione di una milizia Nazionale, con brevi periodi di istruzione e compito esclusivamente difensivo... Una politica estera nazionale intesa a
valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la nazione italiana nel mondo... Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia
la forma di vera ESPROPRIAZIONE PARZIALE di tutte le ricchezze...Il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense Vescovili.”(2).
Come si vede, un programma con intenti decisamente democratici, repubblicaneggiante, nettamente anticapitalista, tendenzialmente pacifista, accesamente
anticlericale; un riassunto delle rivendicazioni storicamente appartenenti alla Estrema Sinistra postrisorgimentale e successivamente fatte proprie dal Partito Repubblicano e dal Partito Socialista; posizioni espresse nella fase aurorale del fascismo
“movimento”, in larga parte poi smentite o disattese dal fascismo “regime”,
secondo una distinzione resaci familiare da Renzo De Felice(3).
La spaccatura fra neutralisti e interventisti dell’Italia del 1915, perdurante nel
dopoguerra, aveva definitivamente allontanato Mussolini dal socialismo ufficiale
e nel succitato programma fascista compariva “la valorizzazione della guerra rivoluzionaria” a marcare ancora una volta la lontananza(4).
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Il suffragio universale (sostituito durante il Regime, dal consenso delle “folle oceaniche”
nelle piazze), l’Assemblea Costituente (scimmiottata da un Parlamento fascistizzato
nominato e succube), il controllo operaio sulle aziende (vanificato dall’inquadramento delle organizzazioni del lavoro nelle statali Corporazioni), la Nazione armata (o
“milizia nazionale””) identificata con la guardia armata del Regime (Milizia
Volontaria per la Sicurezza Nazionale: MVSN), la valorizzazione dell’Italia nel mondo
mediante “pacifiche competizioni” (soppiantata dalla militarizzazione interna,
dal bellicismo, dalle avventure militari in Abissinia, in Spagna, in Albania), i beni
ecclesiastici da sequestrare (garantiti altresì dai Patti Lateranensi del 1919 con il Vaticano) rimasero lettera morta per quasi vent’anni: i “tempi d’oro” del Fascismo e
del suo Duce.
Il Fascismo riusciva ad affermarsi e a consolidarsi solo grazie all’alleanza con il
capitale agricolo e industriale, con la Chiesa, con la Monarchia, complice
dell’instaurazione della Dittatura e del Totalitarismo.
Lo Stato Monarchico-Fascista – anche simbolicamente rappresentato dallo stemma che accostava la Croce di Savoia ai Fasci Littorii – era la più solenne e aperta
smentita del “tendenzialismo repubblicano” delle origini che non aveva mancato,
prima e dopo il 1922, di suscitare illusioni fra i repubblicani e i mazziniani che,
in nome degli ideali dell’Interventismo democratico, allora si contrapponevano al
socialismo bolscevizzante(5).
La successiva edificazione del Regime, con la soppressione di ogni libertà, la
subordinazione di ogni volontà all’autorità del Capo, l’esaltazione mistica del ruolo
del Partito unico e del suo Duce, l’apoteosi della Nazione e della stirpe italica,
sulle tracce della Romanità, avevano tolto ogni residua illusione, a chi ancora
eventualmente la coltivasse, sull’avvenuta identificazione fra Patria italiana, erede
del Risorgimento e totalitarismo fascista(6).
Il Fascismo, in origine espressione di quel mondo di reduci della Grande Guerra,
evento che aveva mobilitato le masse per le necessità belliche, continuava a tenerle
mobilitate, inquadrando nelle sue organizzazioni non solo la piccola borghesia, delle
cui falangi era composto e si era servito agli inizi(7), ma l’intera società italiana.
“Nazionalfascismo”, il termine coniato già all’indomani della Marcia su Roma e
del Primo Governo Mussolini da un insigne storico e giornalista, Luigi Salvatorelli,
che aveva, fra i primi, tentato una definizione del fenomeno politico che era andato
osservando dal 1919(8), sarebbe il più adatto a designare la fusione avvenuta non
solo dal punto di vista organizzativo, ma anche ideologico, del Fascismo col
Nazionalismo, già nel 1923(9).
Con questa, il Fascismo faceva propria la dottrina nazionalista della lotta di classe
trasferita sul piano della lotta fra le nazioni: fra quelle “capitalistiche” e quelle
“proletarie”, che era stata elaborata dall’ideologo nazionalista Enrico Corradini(10).
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il pensiero mazziniano
Silvio Pozzani
Nazioni “proletarie”, l’Italia e la Germania; nazioni “capitaliste”, la Francia e
l’Inghilterra, secondo l’ottica ideologica del Nazionalismo italiano degli anni che
precedettero la Grande Guerra, che sosteneva anche la necessità dell’espansione
imperialista italiana nel Mediterraneo e nei Balcani(11).
L’impostazione risultava confermata dalla scelta mussoliniana dell’alleanza con la
Germania hitleriana nel Secondo Conflitto Mondiale; contro le “democrazie
plutocratiche e reazionarie” d’Europa l’Italia “fascista e proletaria” scendeva in
guerra con la celebre “dichiarazione” del 10 giugno 1940.
L’impostazione dell’ultima fase della politica estera fascista non prendeva però le
mosse esclusivamente dalla mutuata ideologia del disciolto Partito Nazionalista, ma
anche dalla rielaborazione della storia italiana del passato, in particolare del Risorgimento, intrapresa, nelle file del Fascismo stesso, fin da dopo la Marcia su
Roma.
Ciò risulta evidente in quanto aveva sostenuto Giovanni Gentile a proposito di
Mazzini, senza dubbio il più affascinante fra quelli da lui descritti come “precursori” della nuova Italia condotta al potere da Mussolini nel 1922(12).
Secondo Gentile, il “Mazzini dei democratici”, ispiratore e propugnatore delle
nazionalità e degli Stati Uniti d’Europa, era un’invenzione, una forzatura
interpretativa evidente: “Sicché, in conclusione, non ci sono popoli aventi virtuali
diritti, che altri debba riconoscere; ma il diritto è conquista e solo a questo patto
ha pregio ed è santo, come manifestazione d’un valore divino. Le nazioni non ci
sono, ma si fondano...Mazzini dunque era lontanissimo dalla utopistica e
giusnaturalistica dottrina democratica oggi corrente, che fa della nazionalità un
diritto preesistente alla creazione dello Stato, titolo da far valere diplomaticamente e pacificamente”(13).
Come Mazzini poteva divenire dunque “profeta” della politica nazionalista del
Fascismo, così Garibaldi, il “Duce dei Mille”, poteva senz’altro prefigurare il Duce
del nuovo Regime e le Camicie Nere, nel Cinquantenario della morte dell’Eroe
(1932), immettersi nel solco della Rivoluzione iniziata nel Risorgimento dalle
Camicie Rosse.
Lo Stato Monarchico-Fascista era dunque l’inveramento delle premesse poste dal
Risorgimento e la lotta fra le Nazioni la condizione più proficua per l’Italia e per
il ruolo futuro di questa in campo internazionale, cui la chiamavano fin le origini
sabaude della Nazione, secondo le quotatissime interpretazioni storiche di
Gioacchino Volpe(14).
Il mito del Risorgimento veniva così “inquadrato” nell’ideologia ufficiale del
Regime; e – addirittura – uno statista di grande rilievo dell’Italia liberale come
Francesco Crispi era irregimentato come precursore del Nazionalismo e del
Fascismo, non solo come “africanista”, ma anche come imperialista(15).
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Lo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale, la discesa in campo dell’Italia a fianco
dell’alleato germanico, il 10 giugno 1940, si concludevano – come è noto – con
le sconfitte dell’Asse e con il crollo del Regime Fascista, il 25 luglio 1943.
La caduta di Mussolini, il suo arresto e la sua detenzione, durante i cosiddetti
“Quarantacinque Giorni” di Badoglio a Capo del Governo italiano, erano interrotti, l’8 settembre 1943, dall’invasione tedesca dell’Italia e dalla liberazione (da
Hitler fortemente voluta) del Duce del Fascismo dalla prigionia di Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia, il 12 settembre 1943(16).
Il divorzio dalla Monarchia, originato dal “tradimento” del Re, il 25 luglio, spinsero Mussolini a riscoprire il repubblicanesimo delle origini, da lungo tempo ripudiato
dal Fascismo per ovvie esigenze di gestione del potere, ma mai del tutto obliato(17).
Forse un primo documento del nuovo orientamento del Duce del Fascismo, nel
momento in cui si apprestava a scendere di nuovo in campo con l’”alleato” tedesco,
è riscontrabile nel suo primo discorso radio da Monaco, il 18 settembre 1943,
ospite del Terzo Reich: “Quanto alle tradizioni, ce ne sono più di repubblicane
che di monarchiche. Più che dai monarchici la libertà e l’indipendenza dell’Italia
furono volute dalla corrente repubblicana e dal suo più puro e grande apostolo,
Giuseppe Mazzini. Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale
nel senso più alto della parola, sarà cioè fascista, risalendo così alle nostre origini”
e si darà come obiettivo quello di “Annientare le plutocrazie parassitarie e fare finalmente del lavoro il soggetto dell’economia e la base intangibile dello Stato.”(18).
Il richiamo al mazzinianesimo andò facendosi più forte e insistente nell’elaborazione mussoliniana e grande influenza sembrarono esercitare sul dittatore i consigli e le esortazioni di Nicola Bombacci, anche lui romagnolo e un tempo maestro
elementare e socialista, come Mussolini, già fra i fondatori del Partito Comunista
d’Italia, ora allucinato apostolo di un’Italia “proletaria”, eternamente in lotta contro l’imperialismo capitalistico anglosassone(19); a lui, forse, si deve l’origine del
mito e il termine “socializzazione”, che tanto affascinò il Fascismo di Salò e il
suo Duce(20), tanto che il documento in 18 punti del Congresso Fascista di Verona (apertosi il 14 novembre 1943) indicava, fra gli obiettivi essenziali della politica
estera della RSI, “l’abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le
plutocrazie mondiali”; la repubblica fascista si sarebbe dovuta fondare sul lavoro
manuale, tecnico e intellettuale, garantendo, però, nel contempo, la proprietà privata
“frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità”.(21)
La “socializzazione”, cioè il “socialismo” proposto dal nuovo Partito Fascista Repubblicano voleva porsi – come emerge da un commento del Duce – come “la più
alta realizzazione del fascismo: squisitamente umana e assolutamente italiana,
riallacciantesi cioè alle secolari tradizioni del nostro umanesimo nella sua essenza
spirituale e risolvendo in modo totale e definitivo le necessità e le aspirazioni
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il pensiero mazziniano
Silvio Pozzani
delle classi lavoratrici.”(22) Aggiungeva: “Il fascismo, liberato da tutto quell’orpello
che ha rallentato la sua marcia e dai troppi compromessi che le circostanze lo
hanno obbligato ad accettare, è ritornato alle sue origini rivoluzionarie in tutti i
settori, e particolarmente in quello sociale.”(23).
Le “origini rivoluzionarie” del Fascismo erano ora rinverdite e si intrecciavano
con la piena ripresa dell’immaginario del Risorgimento e di tutte le motivazioni
legate ai valori patriottici della Nazione, consacrati dall’iconografia e dall’educazione del sistema scolastico anche precedente all’instaurazione del Regime.
C’erano ora forti connotazioni repubblicane, evidenti fin nei simboli esteriori della
RSI: il fascio repubblicano, al posto dello stilizzato fascio littorio del Ventennio;
Mazzini sulle cartoline postali; i Fratelli Bandiera sui francobolli; Goffredo Mameli
sui manifesti, e così via(24).
A Mazzini facevano riferimento i giovanissimi che, educati, fin dall’infanzia, a
credere nell’infallibile onniscienza del Capo, erano ora da quello stesso incentivati
a mettere a repentaglio la propria esistenza “per l’onore d’Italia”, sotto le insegne
nere dell’ultimo Fascismo: “Vestimmo la camicia nera” - narrava uno di questi “Noi soli credevamo e volevamo fermamente che l’Italia non fosse dominata
dall’odiato nemico e si ripercuotessero nell’animo di ogni italiano le infiammate
parole del nostro grande Mazzini.”(25).
Il programma del Fascismo di Salò veniva riassunto nel “trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione”, contro il Bolscevismo russo e la plutocrazia angloamericana,
per l’affermazione del “socialismo”; di un “socialismo integrale anticapitalistico al
cento per cento col programma di portare all’estrema consunzione tutte le
sovrastrutture borghesi”; “Socialismo Fascista di quel Fascismo che è sempre stato
antimarxista e che non vuol certo cambiare bandiera oggi in cui ci si riavvicina
a quel Mazzini che avendo una visione spirituale e non solo materialistica della
vita”(26) diveniva una sorta di “stella polare” dei giovani fascisti; “Il Fascismo di
oggi, che si riallaccia alla sana tradizione socialista (…) oggi s’innesta direttamente nell’idea sociale repubblicana di Mazzini (…) Il fascismo era repubblicano perché
repubblicana è la tradizione del nostro più autentico pensiero sociale (…) torna
a riallacciarsi alla sana tradizione del socialismo che a un certo punto fu costretto
a combattere quando deviò verso il mito della dittatura universale del proletariato.”(27); “Non la bestiale dittatura del proletariato si affaccia alla ribalta insanguinata della storia d’Italia: è la civiltà del lavoro, vaticinata da Mazzini e resa possibile
da Mussolini che dà un significato e una certezza nuova alla nostra guerra.”(28);
i “socializzatori” rivendicavano con orgoglio il loro sentirsi repubblicani mazziniani:
“Quanto al nostro repubblicanesimo per la disonorante vigliaccheria di un monarca e per l’insegnamento mai sopito del grande apostolo [Mazzini] esso è vigoroso e ben sentito, più di quanto si possa supporre.”(29).
il pensiero mazziniano
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Saggi e interventi
Questo progetto mussoliniano di “socializzazione”, che prevedeva, per decreti
(gennaio – febbraio 1944), l’immissione delle rappresentanze operaie aziendali nella
gestione delle imprese, agricole e industriali, vedeva la luce già minato da ritardi
e limitazioni fatali per l’esito stesso dell’annunciata “rivoluzione”(30).
Limitazioni imposte dalle congiunture belliche, che esigevano di garantire all’”alleato” germanico l’efficace funzionamento dell’apparato produttivo, grazie a
un buon accordo con gli imprenditori, e di assicurare la sopravvivenza stessa delle
masse che si sarebbero volute compartecipi delle scelte economiche.
Queste ultime risultavano sempre più ostili o lontane dalla RSI, o indifferenti alle
sorti del nuovo Fascismo; ne erano testimonianze eloquenti gli scioperi e le
agitazioni in cui si mescolavano rivendicazioni economiche e antifascismo e l’espansione del movimento partigiano e resistenziale.
La guerra era da tempo perduta per la Germania nazista e per i suoi alleati e
l’esito del conflitto era solo questione di tempo.
La Repubblica fascista non poteva certo pensare di sussistere, qualora fosse
venuto a mancare il fondamentale supporto dei Tedeschi, che, del resto, l’avevano, a suo tempo, fortemente voluta, ma che diffidavano della svolta “socialista”
del Duce (31).
In queste condizioni, troppo in ritardo giungeva la “Repubblica Sociale”, sotto
l’occhiuto controllo tedesco e in piena guerra civile fra italiani; in questo senso
si era espresso, appositamente interpellato da Mussolini, Guido Bergamo, già
deputato al Parlamento prefascista, perseguitato dal Regime, esule, poi rientrato
in Italia, già portavoce in terra veneta e all’interno del PRI, della corrente dei
“repubblicani sociali” (32), rievocato da Renzo De Felice nell’ultimo volume della
sua monumentale biografia mussoliniana (33).
Dalla richiesta a Bergamo di avallare la RSI, presero l’avvio una serie di tentativi
– senza esito – esperiti soprattutto da fascisti, già aderenti un tempo al PRI, o
militanti nelle organizzazioni mazziniane, di attrarre i repubblicani, che si andavano ricostituendo in Partito, nelle file dei sostenitori del “nuovo corso”
mussoliniano (34).
Per attrarre il loro consenso e quello dei socialisti, si arrivò addirittura alla creazione di un Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista, capeggiato dal filosofo “crociano” Edmondo Cione e dotato di un quotidiano di evidente richiamo
mazziniano, L’Italia del Popolo, che fu però rifiutato dagli antifascisti e duramente
contestato dai fascisti ortodossi (35).
È significativo che l’ultimo Mussolini abbia ravvisato il punto di riferimento ideale
di questo suo tentativo di fare della socializzazione il cardine della sua Repubblica
in Giuseppe Mazzini: al di là dei valori patriottici risorgimentali, già ufficialmente
consacrati nel Ventennio, ancora quanto mai desti, soprattutto fra i giovanissimi,
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il pensiero mazziniano
Silvio Pozzani
il pensiero del Genovese era quello che più di ogni altro condensava in sé i valori
nazionali, che stavano all’origine della rivoluzione nazionale italiana e quelli del
riscatto sociale dei più umili, rimasto inesaudito nel secolo XIX per il prevalere
della soluzione moderata e dinastica e che si accompagnavano da sempre in Italia
all’idea repubblicana(36).
Li aveva conosciuti in Romagna, la terra dove era nato(37), i devoti di Mazzini,
quello che sarebbe divenuto il Capo del Fascismo; ma allora era solo un piccolo
agitatore politico, che la giovanile passione socialista spingeva ad accomunare,
Apostolo e seguaci, nella medesima polemica e nel medesimo disprezzo. Più tardi,
nell’epoca dei trionfi, non aveva esitato ad annoverare – come si è detto – il
Grande Italiano fra i precursori del Regime.
Ora, al termine della corsa, Mussolini, “ombra di se stesso”,(38) sentiva il bisogno
di quel Mazzini, che un tempo aveva dileggiato o sottostimato, come “Padre”
ideale della sua Repubblica e di alimentare il sogno allucinato di legare al futuro
la “socializzazione”, mediante il trapasso dei poteri ai compagni, perseguitati, di
ieri: i socialisti(39).
Tornare indietro, alle “origini”, è il tema ricorrente nelle ultime battute del discorso pubblico del Duce del Fascismo, a Milano, il 16 dicembre 1944: “È documentato nella storia che il fascismo fu sino al 1922 tendenzialmente repubblicano e
sono stati illustrati i motivi per cui l’insurrezione del 1922 risparmiò la monarchia. Dal punto di vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è
che la logica continuazione del programma del 1919.”(40).
Silvio Pozzani
Note
1 M. FRANZINELLI, RSI. La Repubblica del Duce 1943 – 1945. Una storia illustrata, Milano, Mondadori,
2007, p. 55.
2 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario (1883 – 1920), Torino, Einaudi, 1965, pp. 744 – 745.
3 R. DE FELICE, Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1975.
4 R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. cit.
5 Cfr. (GIOVANNI CONTI), Repubblicani e fascisti. Pagine documentali, Roma, Libreria Politica Moderna,
1924, pp. V – VIII.
6 Cfr. la mirabile sintesi di E. GENTILE, Il fascismo in tre capitoli, Bari, Laterza, 2009.
7 E. GENTILE, op. cit., passim.
8 L. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, Torino, Einaudi, 1977. È la ristampa dell’edizione Gobetti del
1923.
9 Op. cit., pp. 68 – 71.
10 E. CORRADINI, Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie: nazionalismo, in AA.VV., Il nazionalismo
italiano, Atti del Congresso di Firenze, Firenze, La Rinascita del Libro, 1911, pp. 22 – 35.
11 L. SALVATORELLI, Nazionalfascismo, cit., pp. 44 – 45.
12 G. GENTILE, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Vallecchi, 1923.
13 Op. cit., pp. 38 – 39.
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Saggi e interventi
14 W. MATURI, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino, Einaudi, 1962, pp.
508 – 509.
15 F. PALAMENGHI CRISPI, Francesco Crispi di fronte alla storia, Firenze, La Fenice, 1954, pp. XXVIII
– XXXII.
16 M. FRANZINELLI, op. cit., pp. 52 – 53.
17 Cfr. B. MUSSOLINI, Il dramma della diarchia (Dalla Marcia su Roma al discorso del 3 gennaio), tratto da
Storia di un anno (Il tempo del bastone e della carota), 1944, in Scritti politici di Benito Mussolini, a cura di E.
SANTARELLI, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 347 – 353.
18 F. W. DEAKIN, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, p. 557.
19 Op. cit., pp. 613 – 614.
20 L. GANAPINI, La Repubblica delle Camicie Nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori,
Milano, Garzanti, 1999, p. 376.
21 F. W. DEAKIN, op. cit., pp. 616 – 617.
22 Cfr. (BENITO MUSSOLINI), Rivoluzione sociale – Primi sintomi, 13 novembre 1943, in “La Corrispondenza Repubblicana”, 2 novembre 1943, p. 50. Si tratta dell’agenzia giornalistica redatta personalmente
da Mussolini a Salò. Cfr. S. BERTOLDI, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Milano, BUR,
1978, 2 pp. 62; 284.
23 Ibidem.
24 M. FRANZINELLI, Op. cit., pp. 198 – 199.
25 Cit. in L. GANAPINI, op. cit., p. 20.
26 L. GANAPINI, op. cit., p. 439 - 440.
27 Op. cit., p. 439.
28 Op. cit., p. 398.
29 Op. cit., p. 404.
30 F. W. DEAKIN, op. cit., pp. 653 – 665.
31 L. GANAPINI, op. cit., p. 367 - 452.
32 Cfr. L. VANZETTO (a cura di), L’anomalia laica. Biografia e autobiografia di Mario e Guido Bergamo, con
un saggio di M. ISNENGHI, Verona, Cierre, 1994.
33 R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. II. La guerra civile 1943 – 1945, Torino, Einaudi, 1997, pp. 385 –
387.
34 A. BENINI, Una pagina sconosciuta nella storia dei rapporti tra fascisti repubblichini e repubblicani storici 1943
– 1944, in “Archivio Trimestrale – Rassegna storica di studi sul Movimento Repubblicano”, Roma, a. III,
gen. - set. 1977, nn. 1 – 2 – 3, pp. 21 - 25.
35 L. GANAPINI, op. cit., p. 447 - 452.
36 In questo senso, cfr. l’antologia G. MAZZINI, I problemi dell’epoca, Scritti politici e sociali, a c. di G.
CONTI, Roma, Casa Editrice Italiana, 1949.
37 Sull’ambiente politico – sociale in cui Mussolini era nato, cfr. il recente lavoro di V. EMILIANI, Il
fabbro di Predappio. Vita di Alessandro Mussolini, Bologna, Il Mulino, 2010.
38 L. GANAPINI, op. cit., p. 457 - 459.
39 F. W. DEAKIN, op. cit., pp. 773 – 776.
40 Op. cit., p. 725.
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il pensiero mazziniano
Luigi Orsini
Terzo Risorgimento
A quando la Guardia di Finanza a Porta Pia?
XX Settembre 1870: Roma è Italia
1870: estinzione dello Stato Pontificio e del “potere temporale” dei papi –
1871: il re d’Italia occupa Roma; il papa lo “scomunica” – 1929: nasce lo
“Stato Città del Vaticano”; il tiranno fascista diventa l’ “Uomo della Provvidenza” – L’Unione Europea sollecita l’Italia a farsi pagare i tributi dalla
Chiesa e minaccia sanzioni pesanti; Mario Monti corre ai ripari: il suo
governo cade – Prossimamente: dai Bersaglieri alla Guardia di Finanza; il
XX settembre non è finito.
O
gni anno, gli uomini liberi, i laici, rievocano, brevemente e con semplicità,
le vicende del XX settembre del 1870: in quel giorno, l’esercito italiano,
al comando del generale Cadorna – per il re Vittorio Emanuele II, sovrano, dal
17 marzo1861, del Regno d’Italia, con capitale Firenze -, operò lo sfondamento
con cannonate di un tratto delle mura aureliane della città di Roma, convergente
su Porta Pia, monumentale costruzione papale, fatta eseguire da Pio IV, su disegno di Michelangelo; i disegni, non si sa come, riproducevano bacinelle da barbiere, con sapone e asciugamani; forse il grande Michelangelo voleva indicare la
funzione che i romani si aspettavano dal papa.
L’episodio, tipicamente militare, è stato sempre ricordato con l’indicazione dello
sfondamento o “Breccia di Porta Pia”.
La vicenda militare può dirsi la conclusione di un disegno più ampio che il re
d’Italia aveva progettato, seguendo le linee strategiche dettate dal capo del governo, Camillo Benso Conte di Cavour, per liberare il territorio dello Stato Pontificio
e i suoi abitanti dalla dominazione papale e consegnare territorio ed abitanti
all’Italia, che si stava consolidando, dopo la proclamazione della sua unità. L’esercito del nuovo Stato era sostenuto, generosamente - anche se a volte indirettamente -, dall’esercito dei garibaldini, i quali, effettivamente, sognavano, con il loro
Generale, il completamento territoriale dell’Italia, decisi a conquistare, con le armi,
le Regioni ritenute “in attesa” di annessione all’Italia (1 - 427). Il sentimento,
essenzialmente patriottico, dei garibaldini si espresse in battaglie cruente, che il
Generale Garibaldi volle affrontare seguendo una propria strategia, nella convinzione di poter accelerare il completamento territoriale della penisola, sotto il Regno
il pensiero mazziniano
101
Saggi e interventi
d’Italia: il suolo della Patria doveva essere, per la prima volta, difeso e ripreso,
l’eroismo e la fede nell’Italia dei garibaldini si espressero in due momenti difficili,
nel corso della realizzazione del “Progetto Italia”, sognato da Dante Alighieri e
da mille e mille italiani: 1862, Aspromonte, sanguinosa battaglia, sconfitta dei
garibaldini; 1867, Mentana, sanguinosa battaglia, sconfitta dei garibaldini. Tali
sconfitte, nella nostra memoria - che racchiude i concetti più esaltanti della cultura patriottica, che ebbe origine nell’insegnamento e nell’opera di Giuseppe
Mazzini - furono altrettante vittorie, fasi anticipate, anche se non strategicamente
ideate e coordinate, della battaglia del XX settembre. Nel mattino di quel giorno,
Roma e i romani salutarono un’alba liberatrice, che annunziava libertà e democrazia, con la fine del potere temporale di Pio IX; il popolo romano – che già
nel 1849 aveva tentato di costituirsi in Repubblica – si accorse che il nemico della
libertà e dell’unità della Patria era Pio IX, che ormai doveva abbandonare il
comando, dispotico ed arrogante, dello Stato Pontificio, per assumere veramente,
ove lo avesse veramente voluto, la sola guida delle anime, ovunque i cattolici,
religiosi e penitenti, si fossero trovati nel Mondo. Garibaldi e Mazzini, idealmente
vicini, anche nel momento dell’apertura della “Breccia”, sapevano che la priorità
politica e spirituale spettava al concetto di “Italia Unita”, restando come un sogno,
non realizzato ma vivo e ricorrente in ogni notte dal cielo stellato, il concetto di
Repubblica. I due grandi ed essenziali artefici del nostro Risorgimento affidarono
alla mente e al cuore i loro sogni.
Ormai da Roma gli italiani dovevano attendersi una nuova Era, quella della Patria
unita, comunque unita.
Evento esaltante, luminoso e pieno di gloria, quello che si verificò nel primo
mattino del XX settembre 1870 a Roma: Mazzini, l’Apostolo degli italiani e, in
quella occasione, certamente, in cuor suo, Profeta dell’Italia Unita e Repubblicana, non ebbe entusiasmi vivi e commossi per l’occupazione militare di Roma,
città che avrebbe dovuto assumere, secondo il suo sogno e per insurrezione
popolare, il nome di “Roma del popolo”: una terza Roma, dopo quella degli
Imperatori e quella dei papi. Il papa-re, ormai detronizzato, non uscì dalla città,
come fece nel 1848 per rifugiarsi a Gaeta; ormai, nell’Italia meridionale, non vi
erano più protettori dello Stato Pontificio. Giuseppe Garibaldi aveva consegnato
all’Italia le vittorie, i sacrifici, i territori; comandante di un grande esercito di
volontari, da dieci anni conosceva l’amarezza della rinuncia ad una Italia repubblicana e, combattendo ancora, per l’ideale dell’Italia unita, dopo l’incontro con
il re Vittorio Emanuele II, il 26 ottobre1860, a Teano, continuò ad organizzare
eserciti di volontari, sempre con la mente rivolta a Roma non ancora liberata. È
certo che il generale delle mille battaglie fu presente spiritualmente anche in quella
che si concluse con la “Breccia di Porta Pia”, battaglia che fu condotta dall’eser-
102
il pensiero mazziniano
Luigi Orsini
cito regolare del Regno d’Italia, contro un esiguo e impreparato esercito pontificio, che non oppose valide resistenze.
Entrarono a Roma, per primi, i bersaglieri e la città li accolse come liberatori,
giunti in un giorno di festa. Tuttavia, al di là del popolo festante, la classe dirigente, soprattutto quella parte di essa costituita di “moderati” (1 - 60) non fu,
sul momento, in grado di capire l’importanza politica di quell’evento militare, che
fu la risposta di chiusura irrevocabile alle trattative che il papa-re aveva sempre
respinte in sede diplomatica, nei confronti della monarchia Sabauda che riteneva
essere Italia il vasto territorio dello Stato Pontificio, con Roma capitale. Invero
i dirigenti politici romani, soprattutto i moderati – ripetesi -, coltivavano un’ampia
visione dello Stato Pontificio, siccome dotato di importanza e di incisività in sede
internazionale, proprio perché il papa, sovrano dello Stato Pontificio, era dotato
di ogni potere temporale che spetta a tutti gli altri sovrani (1 - 147). Il Papa,
dunque, non solo era titolare del potere temporale nel suo regno, ma aveva potere
spirituale nei confronti di tutti i fedeli, ovunque sparsi per il Mondo: questo potere,
essenzialmente spirituale, era ritenuto, il fondamento della personalità giuridica
internazionale della Chiesa Cattolica, precisandosi che la “Santa Sede” (3 - 45)
costituiva l’organo supremo di una organizzazione mondiale, che aveva il proprio
riferimento territoriale nello Stato Pontificio. Va osservato sul punto che lo Stato
predetto, estintosi per “debellatio” (4 - 428), non poteva essere più il riferimento
territoriale di cui la Chiesa cattolica aveva bisogno per essere ritenuta soggetto di
diritto internazionale. Gran parte della dottrina internazionalistica ha sostenuto
che, dopo il XX settembre 1870, la Chiesa cattolica non ebbe più la personalità
giuridica internazionale, restando essa definibile come una grande associazione,
con estesa organizzazione.
Successivamente il problema fu assorbito dal contenuto dei “Patti Lateranensi”
del 1929, in modo specifico dal Trattato Lateranense, con il quale l’Italia concedeva il territorio della “Città del Vaticano”, con ciò rimettendo la Chiesa cattolica
nella posizione di soggetto di diritto internazionale, giuridicamente capace di
stipulare il Concordato con il quale si ritenne chiusa la cosiddetta “Questione
Romana”, che ebbe origine proprio il XX settembre 1870, a seguito dell’estinzione dello Stato Pontificio. Ricordiamo che la “Questione Romana” indica una
controversia, a lungo dibattuta, sia in sede teologica sia in sede politica, tra studiosi laici e studiosi esperti della materia, rappresentanti della posizione della Chiesa.
Il problema controverso era quello di stabilire se il papa potesse legittimamente
essere titolare del potere temporale, nel territorio del proprio Stato o se, viceversa, al pontefice dovesse spettare solo il potere spirituale, volto alla cura delle anime
e alla loro salvezza (Salus animarum). La controversia ha tenuto occupati, anche
vivacemente, studiosi laici e cattolici; il problema, comunque, pur essendo ritenuto di
il pensiero mazziniano
103
Saggi e interventi
natura teologica, in effetti era sostanzialmente politico, per la sovrapposizione di
due poteri nelle soluzioni di medesime materie.
Più facile è apparsa la soluzione che il papa, per essere titolare anche di un certo
potere temporale, dovesse essere necessariamente anche sovrano in un certo
territorio, grande o piccolo; la politica ha risolto il problema in sede di stipulazione,
nel 1929, dei “Patti Lateranensi”.
Dal punto di vista intellettuale o, più propriamente teologico, gli studi sono rimasti nella nebbia delle incertezze.
Va ricordato ancora che, immediatamente dopo l’occupazione di Roma e del
territorio dello Stato Pontificio, fu celebrato il plebiscito del 2 ottobre 1870, con
il quale si consacrò l’annessione di Roma e dello Stato Pontificio al Regno d’Italia; i voti favorevoli all’annessione furono 133.681; voti contrari 1.507: risultato
vicino all’unanimità, che rese l’Italia felice e più scostante l’arroganza di Pio IX.
Lo Stato italiano, comunque, si rese conto della necessità di venire incontro
al papare debellato, nel senso di favorirne la sopravvivenza materiale, assicurandogli dignità e benessere; Pio IX rifiutò ogni trattativa sull’argomento e
restò chiuso nella sua indignazione. Lo Stato italiano dovette provvedere
unilateralmente ed emanò la legge 13 maggio1871, numero 214 (cosiddetta
“Legge delle Guarentigie”).
La Legge in parola fu assorbita, in seguito, dal Trattato Lateranense del 1929, che
ne ha riprodotti i principi essenziali, statuendo sui rapporti tra Stato e Chiesa,
tenendo presenti le dottrine politiche che, sul delicato tema, si contendevano il
terreno, tra queste ricomprendendosi la dottrina del capo del Governo, Camillo
Benso Conte di Cavour, conosciuta con la schematica formula “Libera Chiesa
in libero Stato”. La “Legge delle Guarentigie”, tenendo presente l’immensa cultura politico-giuridica che si era formata sull’argomento, regolò la materia in due
Titoli (2 - 114): I) “Prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede”; garanzia al Papa e ai religiosi cattolici, di autonomia e libertà per la loro missione religiosa
universale; godimento dei Palazzi Vaticano e Lateranense e della Villa di Castel
Gandolfo e di altri beni, oltre che di un assegno annuo;
II) “Relazioni dello Stato con la Chiesa” (rinuncia dello Stato ai tradizionali
controlli e/o ingerenze nei confronti delle attività della Chiesa, nel suo complesso). Con tale legge, lo Stato italiano credette di porre su un piano di equilibrio
i rapporti tra Italia vincitrice – anche politicamente, dopo il plebiscito – e situazione materiale dello Stato debellato.
Pio IX reagì con rinnovata convinzione di essere stato fatto prigioniero dagli italiani
e di essere costretto a vivere come tale, nel territorio di cui fu sovrano assoluto;
reagì dunque, scomunicando il re Vittorio Emanuele II e tutti coloro che, direttamente o indirettamente, avevano contribuito alla vittoria del Regno d’Italia.
104
il pensiero mazziniano
Luigi Orsini
All’uopo emise l’Enciclica “Respicientes”, con la quale condannava tutti coloro
che erano stati responsabili dell’ “usurpazione” del suo Regno.
I tempi sembravano maturi perché l’Italia avesse come capitale la città di Roma;
sostanzialmente Roma fu capitale dal XX settembre 1870. Invero, neanche un
anno dopo, il re Vittorio Emanuele II, con proprio provvedimento, trasferì ufficialmente la capitale d’Italia da Firenze a Roma. Era il 1° luglio 1871. Il giorno
dopo, Vittorio Emanuele II entrò in Roma, per prendere possesso del nuovo
Regno, tra l’entusiasmo dei romani e di tutti coloro che, ancorché ideologicamente
repubblicani, gioivano per l’attesa unità d’Italia, bene prioritario per tutti i patrioti
e per i mazziniani in particolar modo. Era, dunque, il 2 luglio1871: il Risorgimento così si concludeva; gli italiani, tutti gli italiani avevano una Patria. Il clima politico
del XX settembre restò e resta ancora sempre vivo.
I rapporti tra Stato e Chiesa continuarono tra incertezze diplomatiche e comprensione dello Stato Italiano per i sudditi cattolici, i quali avvertivano l’obbligo
morale di attuare pratiche religiose e riti ecclesiastici. Si giunse al 1929, anno in
cui il governo fascista intese risolvere la “Questione Romana”, concedendo al
papato la proprietà del territorio su cui si erge lo Stato Città del Vaticano.
Pio XI definì il capo del governo italiano “Uomo della Provvidenza”. Il Concordato del 1929 fu riassorbito, anche se sostanzialmente rinegoziato, con l’ “Accordo” del 1984; lo Stato italiano, con legge 25 marzo1985, n.121, regolò i rapporti
con lo “Stato Città del Vaticano” anche sotto il profilo fiscale, con riferimento
a quella immensità di beni immobili che la Chiesa detiene in seguito ai Patti del
1929. In virtù di tale legge (cosiddetta legge di attuazione dell’Accordo), la Chiesa
è esentata dal pagamento di tributi dovuti allo Stato in ragione della proprietà dei
beni immobili, destinati solo al culto e solo alle attività religiose in genere, come
le Chiese, i Conventi e così via. Sta di fatto che, non si sa come, la Chiesa ha
esteso, illegalmente, la concessa esenzione anche agli infiniti altri immobili di sua
proprietà destinati non al culto ma ad attività commerciali varie, soprattutto alberghiere.
La situazione, che si concreta in un comportamento di illegalità – più o meno
esteso e/o più o meno accertato – della Chiesa nei confronti del fisco italiano
(es: ICI, IMU), si traduce, in effetti, in un debito, che la Chiesa ha nei confronti
dello Stato, di grossa entità, calcolabile in centinaia di milioni di euro. La situazione anomala, che così si è creata all’interno dell’Ordinamento fiscale dello Stato,
non è sfuggita all’esame dell’Unione Europea: questa, dopo richieste di chiarimenti
e connessi avvertimenti, ha previsto, a carico dell’Italia, l’irrogazione di una sanzione elevatissima. Il senatore a vita, Mario Monti, già commissario dell’U.E., verso
la fine del 2012 ha affrontato il problema in sede comunitaria: ha ottenuto la sospensione dell’irrogata sanzione, in cambio di formale promessa che il Legislatore italiano
il pensiero mazziniano
105
Studi Repubblicani
avrebbe provveduto a porre rimedio alla denunciata, paradossale, situazione fiscale. Altra scomunica? Il Governo Monti è caduto subito dopo. L’attuale governo,
non ancora si accorge del problema e, forse, un giorno, vedremo la Guardia di
Finanza sulla “Breccia di Porta Pia”!
Luigi Orsini
Bibliografia
N.B. Le citazioni che figurano nel testo sono indicate con due numeri tra parentesi: il primo è riferito
all’Autore (elenco che segue), il secondo alla pagina dell’Opera citata.
1 – CAMMARANO F. - La Costituzione dello Stato e la classe dirigente. In: Storia d’Italia, vol. 3, a
cura di Sabbatucci, G. e Vidotto, V., Laterza, Roma - Bari, 1995 (oltre l’ampia bibliografia che arricchisce
il testo, pag. 107).
2 – D’AVACK P.A. - Trattato di Diritto Ecclesiastico Italiano, Giuffrè, Milano, 1978.
3 – ORSINI L. - La soggettività internazionale, Solfanelli, Chieti, 1980.
4 – QUADRI R. - Diritto internazionale pubblico, Priulla, Palermo, 1963.
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il pensiero mazziniano
Michele Finelli
Studi Repubblicani
Carlo Bini: un giovane mazziniano livornese
Q
uesto breve contributo è dedicato a un mazziniano meno noto e studiato,
il livornese Carlo Bini, la cui vicenda ben si inserisce nell’ampio contesto
del percorso politico di molti giovani della sua generazione. Per usare la
felice definizione dello storico Benedict Anderson, Bini ha fatto parte della “comunità immaginata”[1] attorno alla quale si è formata l’idea di patria letteraria che
ha unito adolescenti di stati e milieu sociali diversi. La Carboneria, ma soprattutto
la Giovine Italia a partire dal 1831, hanno rappresentato il passaggio obbligato per
la nascita di una coscienza nazionale: a questo proposito Roberto Balzani ha
definito l’organizzazione fondata da Mazzini a Marsiglia la prima “agenzia di nazionalizzazione”[2] della penisola, contenitore politico della nazione disegnata da
romantici come Ugo Foscolo e Giovanni Berchet.
Carlo Bini nacque a Livorno nel 1806, figlio di un commerciante originario della
Lunigiana e di Violante Milanesi. Frequentò il collegio di San Sebastiano, gestito
dai Barnabiti e tra il 1819 ed il 1822 risultò tra gli studenti premiati; quei tre anni
furono importanti anche per le amicizie che vi strinse, dal momento che conobbe
Francesco Domenico Guerrazzi, Enrico Mayer e Pietro Bastogi, futuro nerbo della
Giovine Italia in Toscana[3]. Terminati gli studi vinse un concorso per l’Accademia
di Pisa, cui dovette rinunciare per l’irremovibilità del padre, che aveva bisogno di
lui per seguire le attività commerciali: in seguito Bini definì questa scelta un
“sacrificio doloroso”[4]. Tuttavia non rinunciò alla cultura, riuscendo ad affiancare
al lavoro di commerciante l’attività di letterato e studioso, grazie alla frequentazione
di circoli culturali e librerie.
Nel 1828 Bini iniziò la collaborazione, non assidua ma di grande qualità, con
l’Indicatore Livornese, nato su ispirazione dell’esperienza mazziniana dell’Indicatore
Genovese che, grazie alla trasformazione di periodici di natura commerciale in fogli
letterari nei quali si discuteva di politica. mirava a creare una rete di comunicazione tra i giovani della penisola[5].
Uno dei temi più dibattuti all’interno dell’Indicatore Livornese fu quello dell’educazione, in seguito cardine della riflessione di Mazzini. Secondo Bini scopo principale dell’educazione era quello di offrire alla penisola una radice comune: “primo
bisogno dell’Italia nostra” è l’educazione: se la “pianta non germoglia e non cresce
felice” la colpa è solo degli educatori che si sono allontanati dalla strada indicata
dalla storia”[6]. Bini propose la distinzione tra discipline come la grammatica e la
retorica, che affaticavano “senza frutto la mente”, e la storia e la letteratura che,
“studiando i bisogni e l’indole del proprio secolo e conformando ad esso le
il pensiero mazziniano
107
Studi Repubblicani
istituzioni del paese”,[7] avrebbero formato i cittadini e garantito il raggiungimento
del progresso e dell’uguaglianza sociale, ritenuta la “pietra angolare” per “stringere i mortali in una famiglia di fratelli”[8].
Nel 1830 l’Indicatore Livornese fu chiuso dalla censura; nello stesso anno Bini
conobbe Mazzini, in città per aprire una vendita centrale della Carboneria. Tra i
due si sviluppò un’immediata sintonia,[9] e Bini procurò numerose affiliazioni alla
vendita, soprattutto tra “i giovani della plebe”, “non tanto forse con un diretto
intento patriottico, che nei suoi scritti compare assai raramente […] quanto perché in Toscana prevaleva un indirizzo tendente a dare al popolo un’educazione
civica”[10]. Quando nacque la Giovine Italia, Bini divenne il punto di riferimento
naturale per Mazzini nella città labronica, mentre Mayer e Guerrazzi, pur accogliendo positivamente l’iniziativa, “non adoperarono tutta la loro attività nel primo periodo della Giovine Italia”[11]. Per questo il suo nome cominciò a circolare
nei rapporti di polizia, e nella notte tra il 2 e 3 settembre del 1833 fu arrestato.
Le accuse erano inconsistenti, e la prigionia rappresentò piuttosto una sorta di
ammonimento “che doveva finire quando si fossero dissipati certi torbidi che si
dice sieno nell’aria”;[12] il periodo di detenzione si rivelò formativo poiché Bini
cominciò a maturarvi il distacco dalla Giovine Italia, dedicandosi allo sviluppo di
una riflessione autonoma, espressasi nelle Lettere al padre[13] l’atto unico Il forte della
Stella[14] - un dialogo tra due prigionieri, Carlo e Innocenzio Tienlistretti, dal quale
emergeva l’iniquità del sistema giudiziario – e la sua opera principale, Il manoscritto
d’un prigioniero[15] che contiene le riflessioni di Bini sulla società del tempo. Si tratta
di “ripensamenti personali sulle considerazioni più filosoficamente dibattute: che
cosa sia la verità e come la si raggiunga, la religione naturale e quella rivelata,
l’anima e il corpo, l’egoismo, il diritto al suicidio, il tema della noia. Ma tutte
queste riflessioni in genere sono collegate allo spunto sociale, che rimane essenziale”[16] con particolare attenzione rivolta al divario tra i “ricchi” ed i “poveri”,
frutto dell’influenza avuta dalla lettura di Saint Simon. Come sostiene Madrignani
nell’introduzione al Manoscritto “non è facile incontrare un trattato politico
imperniato sulla figura del povero che è presentato come il fenomeno più significativo e contraddittorio della società moderna […] peccato originale della struttura sociale”, basato sulla contrapposizione tra “coloro che hanno tutto e coloro
che non hanno nulla”[17].
Bini definisce i poveri “ricchi di pazienza”, chiedendo loro provocatoriamente se
“la gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni”; il pauperismo è
secondo lui il “potenziale rivoluzionario che rappresenta la minaccia fisiologica
per la società dei ricchi”[18].
Secondo Madrignani nel volume emerge un invito all’azione, alla non rassegnazione, ma sul piano politico per Bini era difficile delineare le modalità attraverso
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il pensiero mazziniano
Michele Finelli
cui avrebbe avuto luogo la rivoluzione dei poveri, al di là di un generica ipotesi
al fatto che le giovani generazioni se ne sarebbero dovuto far carico collettivamente. Nonostante ciò stava maturando in lui il rifiuto della forma di lotta
cospirativa di stampo mazziniano, amplificata nel 1834, dopo il fallimento dei
moti in Savoia, dalla critica rivolta al patriota genovese per la “presunzione” di
dirigere la lotta lontano dalla penisola.
Uscito dal carcere nel dicembre del 1833, Bini riprese le attività commerciali,
frequentando gli amici di sempre Piero Bastogi, Enrico Mayer, e successivamente
Pasquale Berghini,[19] ex mazziniano, rientrato a Lucca nel 1840. Nonostante i
rapporti con Mazzini si fossero affievoliti sul piano politico, tra i due restarono
immutate la forte amicizia e la stima reciproca. Quando il patriota genovese si
trovò in difficoltà economica nel 1838, secondo anno di esilio londinese, Bini lo
aiutò ad ottenere un prestito da Enrico Mayer e Pietro Bastogi;[20] successivamente lo aiutò nella distribuzione dell’Apostolato Popolare, periodico fondato a Londra
nel 1840[21]. Bini morì prematuramente a Carrara nel 1842 durante un viaggio di
lavoro, a causa delle cagionevoli condizioni di salute[22].
Il primo a ricordarlo fu proprio Mazzini che, nel 1843, firmò l’introduzione agli
Scritti[23] di Bini dedicandola Ai Giovani[24]. Il patriota genovese preparò un profilo
affettuoso che, secondo Madrignani, offre un’immagine rassegnata di Bini, “creando
la leggenda di un’anima infelice senza prospettive e incapacità d’azione”[25]. In
realtà Mazzini valorizzò le qualità di Bini, dotato di “un intelletto potente” e
lontano “dall’idea del letterato di professione”, capace di invitare il popolo a
tradurre in azione “il Pensiero d’un epoca”[26]. Sul fatto che Bini fosse un “Apostolo” piuttosto che un “Profeta” non ci sono dubbi,[27] considerato l’isolamento
politico ed intellettuale in cui si trovò ad operare. Mazzini gli riconobbe anche
grande autonomia intellettuale quando, ricordandolo come esempio di grande
amicizia, disse che “il suo pensiero gli sopravvive, più potente a spandersi invisibile dal mondo migliore, ov’egli soggiorna, tra’ suoi fratelli”[28]. È piuttosto
sull’esortazione di Mazzini ai giovani ad “amare la Patria come ei [Bini] l’amava”
che[29] è necessaria maggiore cautela poiché la visione di Bini era teorica ed indefinita, lontana dal disegno mazziniano di “Italia una, repubblicana e indipendente”. La considerazione che Mazzini aveva di lui emerse anche nel 1848, quando
il patriota genovese scrisse un ricordo di Goffredo Mameli, includendo Bini tra
i “martiri” italiani per lo slancio intellettuale spezzato da una morte prematura[30].
Il percorso del livornese dimostra, ancora una volta, che l’adesione alla Giovine
Italia ha rappresentato il passaggio determinante per la nascita di una coscienza
nazionale e della generazione del Risorgimento.
Michele Finelli
il pensiero mazziniano
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Studi Repubblicani
Bibliografia
1. A questo proposito cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifesto
Libri, Roma, 2009.
2. Roberto Balzani, Il problema Mazzini, in «Ricerche di storia politica», n. 2, 2005, pp. 159-182. Sul tema
cfr. anche Giuseppe Mazzini, Dell’amor patrio di Dante, in Scritti editi ed inediti. Edizione Nazionale, vol. I,
Galeati, Imola, 1906, pp. 1-23. D’ora in poi abbreviato in SEN, Scritti Edizione Nazionale.
3. A questo proposito cfr. Romano Paolo Coppini, Banchieri mazziniani nell’ottocento italiano, in «Bollettino
della Domus Mazziniana», n. 1, 1998, pp. 5-13.
4. Maria Fubini Lezzi, Bini, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma, p. 506. D’ora in poi abbreviato in DBI.
5. Nell’Indicatore Livornese la definizione di giornale “economico-commerciale” era affiancata da quella di
“morale e letterario”.
6. Ivi, p. 507.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. A questo proposito cfr. Roland Sarti, Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Bari, 2000,
pp. 50-1.
10. M. Fubini Lezzi, cit., p. 507.
11. L. Grassi, Il primo periodo della «Giovine Italia» nel Granducato di Toscana (1831-1834), in «Rivista storica
del Risorgimento, II, 1897, p. 907.
12. M. Fubini Lezzi, cit., p. 508.
13. Sono contenute in Carlo Bini, Scritti editi e postumi, Gabinetto Scientifico Letterario, Livorno, 1843.
14. d., Il forte della Stella, BUR, Milano, 1961.
15. Id., Manoscritto d’un prigioniero, a cura di Carlo Alberto Madrignani, Quodlibet, Macerata, 2008.
16. M. Fubini Leuzzi, cit., p. 509.
17. C. Bini, Manoscritto d’un prigioniero, cit., p. XI.
18. Ibidem.
19. Su Pasquale Berghini cfr. Bruno di Porto, Berghini, Pasquale, in DBI, vol. 7, 1967, pp. 89-91.
20. A questo proposito cfr. SEN, vol. XXVI, Galeati, Imola, 1917, p. 187.
21. Cfr. ivi, vol. XIX, Galeati, Imola, 1914, p. 454.22. Nel 1827, dopo una serata in osteria, Bini fu
coinvolto in una rissa, cui era estraneo, riportando «ferite tanto gravi da determinare per lui una progressiva decadenza fisica e poi la morte precoce»;
22. M. Fubini Lezzi, cit., p. 506.
23. C. Bini, Scritti editi e postumi, cit.
24. Giuseppe Mazzini, Ai Giovani, in Scritti letterari di un italiano vivente, Tipografia della Svizzera Italiana,
Lugano, 1847, pp. 211-222.
25. C. Bini, Manoscritto d’un prigioniero, cit., p. XIII.
26. G. Mazzini, Ai giovani, cit., p. 212.
27. A questo proposito cfr. ivi, p. 214.
28. Ivi, p. 221.
29. Ibidem.
30. A questo proposito cfr. M. Finelli, Goffredo Mameli tra storiografia e “uso politico”, in Il sogno della ragione
e il 1849 in Europa, in Italia e in Toscana, a cura di Pier Ferdinando Giorgetti, ETS, Pisa, 2011, p. 187.
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il pensiero mazziniano
Sara Samorì
Una trafila “particolare”: Primo, Secondo e
Terzo Risorgimento. “Quello che ancora vive”
Intervento di Sara Samorì in occasione dell’incontro promosso dalla Cooperativa “Goffredo Mameli”, dedicato al “150° Unità d’Italia. Ricordando la Trafila
garibaldina”. 29 novembre 2011, circolo Endas «Tonino Spazzoli» di Coccolia.
U
n ringraziamento particolare agli organizzatori della serata, l’associazione
mazziniana - sezione “Sauro Camprini” di Ravenna, gli amici Morini e
Simoncelli, e la Cooperatiiva “Goffredo Mameli”. Il mio è deputato essere un
intervento brevissimo; una sorta di fiaccola risorgimentale che illumini la memoria
storica della Trafila garibaldina, peraltro già brillantemente narrata nel volume scritto
da Maurizio Maggiani[1], e che ispira anche questa serata. Vale a dire, attraverso
testimonianze odierne mette in risalto quanto è rimasto dello spirito che sostenne
i patrioti romagnoli nel prodigarsi per salvare Garibaldi dall’esercito austriaco che
lo braccava, dopo essersi ritirato da Roma in seguito alla caduta della Repubblica
Romana del 1849. Una grande prova di coraggio e generosità, che svela subito
un primo carattere di eccezionalità: la natura mista della compagine dei salvatori,
popolare e borghese. Contadini, pescatori, intellettuali, uomini di chiesa). Insieme.
Insieme, per salvare - prima di tutto - l’ideale che l’eroe Garibaldi indubbiamente
incarnava. In fondo, lo stesso Maggiani è partito da un intento chiarissimo: “cercare
il Generale Garibaldi”, e svelare la rete magica di patrioti romagnoli a cui si affida.
Trovarlo in tempo, perché non tutto di lui andasse a finire nella voragine del
tempo moderno che tutto consuma, che potrebbe consumare tutto. Anche la nostra
comune storia perché, credo che “portare memoria” non significhi solo “portare”
passione per la propria storia, ma tradurla “concretamente”, nella quotidianità se
- osserva giustamente Maggiani - “continueranno tra gli umani a nascere eroi e
ogni umano a riconoscersi eroe come loro”.[2] Che poi, per gli studiosi, si traduce
istintivamente in un monito mazziniano: “chi non conosce il passato è senza
futuro”[3].
Cosa voglio dire? Voglio dire che il salvamento del Generale e, più in generale, la
Trafila romagnola è storicamente e umanamente inseparabile dalla più straordinaria
esperienza democratica nazionale rappresentata Repubblica romana del 1849.
Ricordiamo il tweet di Goffredo Mameli, che a Roma morirà tra le braccia di Cristina
Trivulzio di Belgioso, a Giuseppe Mazzini: “Roma, Repubblica, venite!”. Qual è
il valore, storico e culturale, della Trafila romagnola a partire dalla nostra “realtà tascabile”, la nostra terra; terra di anarchici, ribelli, mazziniani? Perché “costruire la
Trafila”, custodirla, fu generosa prova di salvare il proprio popolo, i suoi uomini,
il pensiero mazziniano
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Studi Repubblicani
ma anche l’idea stessa di Repubblica la cui parte più leggendaria si consumerà proprio
nel suo itinerario. Senza dimenticare, poi, che quella “scheda di memoria” è saldamente inserita nella storia della Repubblica italiana che, non a caso, erediterà
l’impianto dei principi fondamentali della carta costituzionale della Repubblica romana del 1849. Innanzitutto, in questo racconto, locale, ma anche nazionale (e
successivamente internazionale) c’è la sua memoria “fisica”; poi quella “umana”,
ma ne aggiungerei una terza: quella “generazionale”. Come fu, il Risorgimento.
E che connette più centri di “memoria” - a mio avviso - distinguendosi su più
livelli: locale, nazionale, europeo/internazionale. Bene, vediamo ora di dimostrare
quello che vi ho appena detto e di manifestarne le connessioni.
Partiamo dalla memoria “fisica” e locale incarnata dalla Trafila Romagnola che ad oggi, e da oltre 140 anni, per la verità – abita la cosiddetta “Capanna di
Betlemme” (località Mandriole, Ravenna) e magnificata, prima di tutto (com’è
ovvio) da Garibaldi, il “cavaliere dell’umanità” - come riportato in un’antica targa.
Colui, che nell’estrema difesa del Gianicolo, aveva respinto l’assalto di 10.000
francesi. Garibaldi incarna uno spirito preciso, che non muore mai, quello dell’eroismo imperituro attraverso tutte le epoche, perché se “il cavaliere muore” –
idealmente - l’intero mondo, quello interiore, di un popolo, si dissolve. Ma è anche
la memoria fisica dei suoi compagni; protagonisti anch’essi di quell’autentica tourné
eroica risorgimentale. Perché? Perché ognuno dei suoi personaggi evoca altre storie, Don Giovanni Verità, Anita, il Maggiore Leggero, il prete Ugo Bassi,
Ciceruacchio. Questi protagonisti danno vita ad un unico atto comunitario, interpreti
di uno degli episodi più avvincenti: il popolo di Romagna si organizza - provvisoriamente, ma fattivamente - in una sorta di “organizzazione parapolitica” e
aiuta il Generale e la sua donna a eludere l’accerchiamento degli austro papalini
e mettersi in salvo. Sono fuggiti da Roma alla caduta della Repubblica e vogliono
andare a combattere per quella di Venezia; non vi arriveranno mai, e Anita morirà
il terzo giorno. Come la maggior parte delle grandi storie epiche è storia intensa,
eroica, romantica (Anita che muore) ma è, più semplicemente, anche storia di uomini
e donne straordinari. Non è la storia di una vittoria militare, ma quella di “un
popolo che salva il suo ideale”, Roma e la Repubblica, e l’eroe che lo incarna.
Lo porteranno in salvo non a Venezia, ma al di là degli Appennini. E’ una memoria
fisica che perfeziona – passo dopo passo, insieme alla parabola del Generale alcuni caratteri specifici della nostra storia nazionale, e più ancora, della nostra
più tipica trama e identità locale romagnola. Vale a dire, la centralità dei valori
laici - giustizia e libertà, pace e progresso - e la matrice morale dell’azione politica
ispirata da una sorta di “religione laica” del dovere, ricca di simboli e rituali
pervasivi dell’intera esistenza del militante repubblicano e valorizzata da un progetto di autentica democrazia partecipativa e municipalismo democratico.
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il pensiero mazziniano
Sara Samorì
Di rimando, dunque, Garibaldi cuce il territorio della nostra “piccola patria”, la
rende “patriottica”, mescolando i suoi spazi e “pezzi” di memoria, in senso cooperativo. Questo è il primo elemento.
Poi c’è la memoria “umana” e nazionale che - a mio avviso - è rappresentata da
una memorialista non statica, ma dinamica, vitale, impressa nel nostro dna storico, come fu, del resto, l’intera esperienza risorgimentale. Un racconto più ampio,
un’azione dopo un’altra, come anelli di una catena, di una comune storia locale,
nazionale e internazionale. Nel nostro “caso”, la Repubblica romana, che si traduce nella Trafila garibaldina e passa il testimone. Nella Roma della cui esperienza
repubblicana un protagonista locale come Felice Orsini aveva scritto che tutti si
erano sentiti “di essere italiani senza distinzione di dialetto, di foggie, d’idee, di
provincia”. Una rivoluzione che seguirà nelle orme del Generale, nel suo salvamento ad opera di una prodigiosa comunità di uomini – un moto spontaneo
costruirà la Trafila - ma che trasuda fatalmente dal pensiero mazziniano di Giuseppe
Mazzini: l’idea e il progetto di una nazione che si costruiva da sé. Quindi, la
dinamica volontaristica, “dal basso” (diremmo oggi). Un progetto che era tante
cose, ma la prima era che la “sovranità è per diritto eterno nel popolo”. Una
memoria ravvivata dall’esperienza resistenziale, nel Secondo Risorgimento, e, poi,
dalla nostra Repubblica italiana: una storia che vive nel ricordo dei tanti eroismi,
individuali e collettivi che avevano riscattato l’orgoglio nazionale. In questo senso,
Garibaldi esprime un esempio di un’italianità rivitalizzata, riscattata anche dal
coraggio di quei patrioti, perché a Roma gli italiani si battono, fino all’ultimo.
Resta il fatto, più importante, che la memoria della Repubblica romana fu l’unico
grande evento ottocentesco - insieme alle Cinque giornate di Milano e all’esperienza della Repubblica di Venezia - a proiettare un’imago pervasiva nella cultura
storica nazionale. Pensiamo alle piazze repubblicane di Roma e Venezia, per fare
solo alcuni esempi, pensiamo a quella di Forlì, alla sua toponomastica, ridisegnata
integralmente da Aurelio Saffi negli ultimi anni dell’Ottocento in perfetto stile
democratico. Ecco allora che da questa prospettiva, le rocambolesche vicende della
Trafila sono un “pezzo” di un puzzle – più grande - quello del Risorgimento
come creazione di un progetto di aggregazione all’interno di quel contenitore che
si chiama stato “nazione” e che si ricompone - in un gioco di rimandi e similitudini
- nelle vicende della nostra Trafila.
“Il segreto del secolo sta nelle mani del secolo” - ammoniva Giuseppe Mazzini.
E arriviamo all’ultima cosa che volevo dirvi, il valore aggiunto di questa epica
locale-nazionale: il timbro generazionale. Perché l’appello di Garibaldi è squisitamente generazionale; i giovani accorreranno, “in cerca d’identità ma anche d’avventura, spinti dall’amore per la libertà quanto per il palcoscenico della gloria
nazionale”, vivendo così l’avventurosa partecipazione alle imprese di Garibaldi
il pensiero mazziniano
113
Studi Repubblicani
come una sorta di iniziazione esistenziale e patriottica attraverso cui diventare uomini
adulti. La “resistenza” fu presto vista come testimonianza patriottica e produsse
nelle generazioni di democratici una sorta di radicalismo politico in senso per lo
più repubblicano. Quello stesso radicalismo politico e intransigenza morale che
apparteneva ai giovani patrioti della Giovine Italia, una sorta di “partito generazionale”. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che “riconoscere capaci di
opera politica progressiva soltanto i “giovani” sotto i quarant’anni significava
ribellarsi con precisione quasi scolastica alla quarantena che il mondo restaurato
aveva imposto alle nuove generazioni”[4]. Poi, sicuramente, c’è l’aspetto del
volontarismo: la dimensione, a mio avviso, forse più fortemente connotativa dell’intera vicenda garibaldina, nella penisola ma anche al di fuori di essa, dal momento
che tra le camicie rosse nelle varie campagne confluiranno volontari da diverse
regioni d’Italia, ma anche da diversi paesi europei, a testimonianza dell’appeal
transnazionale esercitato da Garibaldi come condottiero e come “difensore di cause
politiche”. Garibaldi, tra gli altri, esporterà nel Nuovo Mondo l’esperienza risorgimentale; in particolare, quella rappresentata dalla Repubblica romana del 1849
come “pezzo” fondamentale del puzzle nazionale e che non sarebbe presumibilmente
sopravvissuta al tempo se i suoi protagonisti non ne avessero curato e diffuso anche all’estero - la memoria.
Rivoluzione versus Restaurazione, insomma. Ecco, la Trafila è testimonianza anche
di questo: di una grande esperienza di costruzione della coscienza collettiva e
culturale. E’ allora, infatti, quando si consuma cioè il rocambolesco passaggio
dell’eroe romantico per eccellenza con Anita morente e gli austriaci alle calcagna,
che la politica “patriottica” si fa davvero memoria culturale regionale, procedendo all’identificazione di luoghi, spazi, eventi emblematici dai quali trarre un significato valido per il “noi” collettivo. Questa memoria è ancora conservata alla fattoria
dove Anita morì; una memoria riscaldata da una sorta di “religione dei ricordi”,
che è fede nella vita, e non nel morte - come recita il migliore prontuario mazziniano.
Fu in quel preciso momento, non prima, che romagna e Italia si identificarono per
davvero: salvando il Generale, salveranno se stessi.
I lumini, in Romagna, si accendono da quel 9 febbraio 1849 ed illuminano quello
che autenticamente ancora resta: l’Idea. È l’Idea che rimane, che resta viva nelle
generazioni, che è rimasta viva nelle nostre generazioni di romagnoli, in quelle
che ci hanno preceduto, e di cui rimane traccia ancora oggi. Questo, però, i
romagnoli lo sanno bene. Lo custodiscono nelle loro cooperative, nei loro circoli,
mentre giocano a marafone o comiziano di politica; alle pareti, ancora, i ritratti
di Mazzini, Garibaldi, Saffi. Qui a Coccolia, in particolare, ricordiamo la figura
indelebile di un eroe della Resistenza, Tonino Spazzoli, che dà il nome anche a
questo circolo.
114
il pensiero mazziniano
Sara Samorì
Come vedete, quello “che ancora vive” è proprio una fiaccola. Qui, in Romagna.
Una fiaccola che avvampa nel ricordo di tanti amici. Come nel ricordo di Iselmo
Milandri, l’alfiere della sezione AMI di Forlì «Giordano Bruno», recentemente
scomparso. Un “pezzo” a noi particolarmente caro di questa nostra, comune,
storia: “È vero” - scrive Maggiani – “gli uomini possono essere stelle. Tra loro
c’era un mingherlino con un gran bel fiocco per cravatta, il fiocco nero che si
spartiscono gli anarchici con i repubblicani; aveva per fusciacca in vita la bandiera
della Repubblica Romana. Gli ho chiesto perché mai. Lui ha risposto che è per
il suo credo mazziniano, che credo da quando ha dieci anni, da quando ha smesso
di giocare per leggere il libro sui doveri dell’uomo”[5].
È così che siamo diventati italiani. È così che diventeremo europei.
Sara Samorì
Note bibliografiche
1] M. Maggiani, Quello che ancora vive : il salvamento del generale Garibaldi nelle terre di Romagna, Coop editrice
consumatori, Bologna, 2011;
2] Ibid., p. 8;
3] AAVV, Spunti su Mazzini e mazziniani, Tip. La Piccola, Forlì, 1974;
4] S. Luzzato, Giovani ribelli e rivoluzionari (1789- 1917), in G. Levi, J. C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani,
vol. II, L’età contemporanea, Roma - Bari, Laterza, 1994, p. 232- 310;
5] M. Maggiani, Quello che ancora vive, p. 107.
il pensiero mazziniano
115
Società e Cultura
Società e Cultura
Il risorgimento dell’anima
Quando un percorso interiore è sollecitato dal momento storico
N
ella lunga e sofferta storia dell’Italia rurale tra medioevo ed età moderna
si consolidarono aspetti e fondamenti di vita collettiva che, anche se poco
meditati, posero in essere i caratteri, oggi, dell’italiano medio. Quando in quelle
campagne si camminava scalzi per la miseria e per consuetudini di vita, quando
la penisola era spezzettata in tanti Staterelli e quello, tra questi, del Papa Re pareva
possedere un simulacro di santità morale rispetto agli altri, il fenomeno della morte
era in qualche modo mescolato alla vita. Non che fosse visto, questo fenomeno,
come qualcosa di intrinsecamente positivo, anzi, era comunemente interpretato
quale giudiziosa attesa di un timoroso passaggio alla superiore vita celeste. Sull’evento, quindi, aleggiava indubbiamente un aneddoto di tristezza, o malinconica
rassegnazione, così come voleva ed imponeva il credo cattolico. Le vecchine, ma
anche le donne più giovani, si recavano così alla chiesetta di turno, in Europa
quasi in ogni dove, con una velina nera in testa e vestiti dai colori cupi.
Il tutto aveva indubbiamente un ché di tristezza, di “grigiore”, ma almeno, se
qualcuno, vecchio oltre il limite, stava per lasciare il mondo terreno, tutto il borgo
lo sapeva e partecipava a quel dolore, commiserava i parenti dello sfortunato e,
in qualche modo, la morte era, come detto, mescolata alla vita dei rituali collettivi.
Del resto, dopo tanti secoli di indottrinamento comportamentale diversamente
non poteva essere. Non era, indubbiamente, una buona “mescolanza”, ma almeno tutti erano solidali e la morte, anche se parzialmente, aveva un senso agli occhi
del popolino.
Quanto raccontato accadeva nell’Italia prossima al regno dei Savoia sebbene una
trasformazione delle idee, una loro evoluzione critica, abbia cominciato proprio
ora (nel secolo del Risorgimento) a slegare in modo deciso il pensiero individuale
da quello dei ritmi usuali come, appunto, il triste funerale e l’interpretazione del
fine vita1 . Non che questo slegarsi sia stato sbagliato, anzi rinvigorì certamente
la consapevolezza dell’uomo moderno, del libero pensiero, ma il processo, se si
osserva quanto oggi succede ad inizio XXI secolo tra la massa indistinta, sembra
poi aver preso una strada sbagliata seguendo quel percorso ibrido di mescolanza
tra sregolatezza consumistica e pura formalità del senso spirituale2 .
Passano i tempi, rimane la memoria
Resta quindi il dato di fatto, storico, di un’epoca che sollecitò un percorso interiore, tra cui il senso della morte, anche se oggi, nel sentire comune, è questa
116
il pensiero mazziniano
Alessandro Buda Hardy
diventata qualcosa da evitare, una colpa, peggio che nelle campagne settecentesche dove, comunque, era pur sempre sentita come un dolore, un qualcosa da
riporre nell’angolo della tristezza contemplativa. Oggi i cambiamenti economici,
i tempi di relazione con l’amico che freneticamente “chatta” su face book, non
permettono più quell’osmosi tra vita e morte come nell’Italia rurale, ma neanche,
cosa ancor più angosciante, quella consapevolezza che va ben oltre il credo religioso.
Non è un mistero che oggi la comunità, smemorata e legata alla frenetica ricerca
del successo, non abbia né il tempo né gli strumenti, e tanto meno le procedure
collettive, per far in modo che un fenomeno comune (la morte), uno dei pochi
che inesorabilmente ricadrà su tutti, sia indagato, spiegato, collegato alle nostre
vite e (come avrebbe detto Giacomo Leopardi) all’infinito cosmico come si
dovrebbe secondo natura nonostante i tanti dettami religiosi (“La natura, lo spazio
non sono se non la coscienza del nostro limite”3 ). Passano i tempi, quindi, dal
medioevo all’era industriale, dall’imperialismo al Boom economico del Secondo
dopoguerra, ma il senso della morte, il suo collegamento alla vita è ancora al
punto di partenza, a quel punto in cui ci si rivolgeva al Cielo, così come facevano
con altre vesti e preghiere i Faraoni o altri dopo di loro fino ad oggi.
I dubbi esistenziali, le perplessità rimangono soprattutto per coloro che non vivono
nell’attesa di una felicità a venire, coloro che non si accontentano di una promessa misterica senza un riscontro logico. La Storia, la Letteratura e la quotidianità
sono piene di esempi dove l’operato divino centra poco o nulla con il ruolo della
morte e la sua riconciliazione con la vita. Piccoli ma frequenti episodi che anche
in tono dimesso accompagnano le cronache giornalistiche.
Fra i tanti emblematico è quello di Patrick Modiano, fra i più noti scrittori francesi contemporanei, in guerra con sé stesso nel rapporto conflittuale con il padre;
mai volle vederlo, mai andò a visitarne la tomba. Questa non conciliazione con
la vita ne deturpava il modo di essere, di scrivere e, non a caso, i libri di Modiano,
la loro scrittura, appaiono come un sangue avvelenato che scorre per smaltire
l’avvelenamento, invano. Altro caso emblematico avvenne molti anni fa, racconta
Ferdinando Camon4 , quando rimase molti mesi in ospedale a fianco di uno che
non poteva guarire. Era un giovane, figlio di NN che per tutta la vita cercò di
sapere chi fosse il padre: solo per vederlo un attimo. Prima di morire una figura,
nell’ombra, si stagliò sulla porta e fece un timido saluto. Il figlio, consapevole che
la vita è un circolo, rispose.
L’esistenza non è infinita e questo spinge riflessioni specie se si pensa ad alcuni
momenti tragici della vita, come nel caso precedente a quello di un malato terminale disteso su un lettino. Qui il tempo materiale del corpo e quello della mente
sono disconnessi, quasi sembra di essere davanti a due stati dell’essere, due
il pensiero mazziniano
117
Società e Cultura
momenti dove il paziente è ben consapevole dell’imminente distacco. Ma chi decide
quel momento fatidico? Perché fino ad ora nessun dogma ha mai spiegato, indagato quel momento come armonia se non con il bisogno di una divinità? Sarebbe
come dire che senza la trascendenza, senza la mediazione del sacerdote, non si
ha il permesso di armonizzare il corpo che se ne sta andando con la mente.
Questi eterni interrogativi non sembrano trovare risposta nella velocità creata dal
consumismo e, del resto, va prima ancora annotato che le religioni hanno affrontato questi grandi interrogativi dando risposte certamente utili per molti, ma parziali
ed ambigue per chi vuole trovare il senso equilibrato della vita, del trascorrere del
tempo (e quindi anche della propria morte) senza ricorrere alla trascendenza. È
necessario, cioè, che quell’individuo steso su un lettino debba credere nell’aldilà
per poter morire in completa armonia?
Il periodo centrale del Risorgimento
Ritornando indietro nel tempo, sempre seguendo le trasformazioni mentali e
spirituali sollecitate dall’età ottocentesca, non appare certo un caso che l’allora
ortodossia cattolica (da Gregorio XVI, enciclica Mirari Vos, a Pio IX e via dicendo)
abbia bollato il periodo del lungo Risorgimento italiano non solo come blasfemo
ma anche demoniaco. Perché, se si eccettua l’affronto territoriale di Roma conquistata nel 1870 e lo sconquasso nella corte romana, questo intransigente ed
accanito attacco a quel momento storico? Semplicemente perché sempre più
persone, gruppi di interesse ed opinione quando l’Europa era avvolta dal romanticismo e da un profondo senso spirituale diverso da quello d’Ancien Régime,
avvertirono una propria capacità interpretativa e, per l’appunto, spirituale. Indubbiamente alcuni erano animati da una maggior percezione 5 di loro stessi e del
mondo che li circondava6 . D’altra parte è anche storicamente noto che le allora
classi politiche, e quella italiana pure, erano mosse da una dichiarata laicità7 .
È senza dubbio vero, come riporta il romagnolo Alfredo Oriani a fine ‘800, che
l’Italia (e soprattutto la Romagna) si manifestava anticlericale senza una vera
educazione laica, ma è altrettanto vero che molti (i tempi non concessero ancora
una ampia generalizzazione) percepirono l’esistenza, oltre la religiosa divisione tra
morenti e viventi, di una alternativa ben più credibile legata alla memoria
contemplativa e riflessiva. Una alternativa razionale e logica pur nel rispetto di un
suo senso spirituale. Le persone del tempo, quelle più sensibili e non diversamente poi dall’oggi, individuarono nella memoria e nell’immaginazione, nello sguardo
all’evoluzione e nella ricostruzione della propria vita attraverso la narrazione, la
poesia e la grande letteratura una via per la ricerca del senso. Storicamente noto
118
il pensiero mazziniano
Alessandro Buda Hardy
è che le impressioni suscitate dalle letture poetiche contribuiscano a quell’armonia tra uomo e natura, già richiamata dalle meditazioni copernicane con richiami
a Pascal, dove appare assente la luce provvidenziale. Quell’armonia che, tra i
contemporanei appena scomparsi, anche la scienziata Margherita Hack sosteneva.
Oggi, proprio riferendosi a queste ultime righe, si dovrebbe dare molta più
importanza alla riflessione, momento interiore fortificante, ma anche alle parole
poetiche perché solo queste hanno la capacità di oltrepassare le singole vite umane,
la puerilità del credo e tendere all’eternità. Siamo davanti ad uno sconfinato spazio
mentale che, dopotutto, è anche quello culturale dei pensieri leopardiani verso
l’infinito cosmico ma anche di una letteratura anglosassone tra ‘800 e ‘900.
Nonostante siano passati decenni e lustri da queste opere, il mondo italico, quello
legato ad un recente passato ma anche alla contemporaneità del politico corrotto
o del giovane “mammone”, appare in gran parte immaturo su certe discussioni.
Tuttavia a fronte di un giudizio poco confortante non pochi sembrano avvertire8
la necessità di un compito civile, etico e laico nel suo significato più alto ed
equilibrato: quello di trovare modi e luoghi con cui riconciliarsi di fronte alla
morte al di là di un suo senso solo tragico e “confessionale”.
Da queste premesse nasce e si consolida l’intento, sostenuto da diversi opinionisti,
di istituire in tutti i comuni un luogo pubblico, civile e libero nel suo accesso,
dove poter salutare i morti (Sala del Commiato), poter assieme ad altri ricordare
la vita, le idee, i sogni ed i pensieri di coloro coi quali abbiamo vissuto. Si deve
ammettere che appare molto più “umano”, questo progetto, di una anonima messa
ad requiem in una dimenticata chiesetta. Si ripete allora, anche se indirettamente,
una domanda già vista: solo il credere nella trascendenza imporrebbe cercare un
luogo simile? Solo una religione potrebbe concedere alla mentalità comune uno
spazio del genere?
Sembra curioso ma ad una siffatta domanda, e ad altri simili interrogativi, solo
in momenti estremamente drammatici ci si risponde, come dire che, se immersi
nell’ordinarietà delle cose non dobbiamo pensarci,…non ne vale poi tanto la pena.
In realtà è l’esatto contrario. Riferendosi alla scrittrice Iona Heat9 , appare chiara
la necessità non solo di ottenere il testamento biologico quale conquista di civiltà
ma anche perché nei più comuni luoghi, dalle nostre case agli ospedali, vi sia
vicinanza di contatto, di sguardi e, appunto, di commiato tra chi sta per lasciare
la vita e chi ci resta. Dovrebbero essere le istituzioni pubbliche, quelle politiche
purtroppo ad oggi così tanto miserevoli, a promuovere una tale iniziativa, civile
e nondimeno legata alla Storia più classica dato che il “ricordo in memoria”, ovvero
l’orazione funebre, venne promulgata nell’Atene di fine V sec. Una iniziativa, quindi,
con cui mantenere la dignità della persona in quanto tale ed anche in ogni
momento, specie se in quello in cui é portata a compiere il distacco definitivo.
il pensiero mazziniano
119
Società e Cultura
Ritornando al titolo allusivo di questo saggio ci si potrebbe ora chiedere perché
il Risorgimento sia centrale al discorso fin qui svolto. Semplicemente perché, ed
in parte lo si è anticipato, è questo il periodo in cui la persona, sotto l’impulso
di un nuovo percorso, rinvigorisce, in Italia prima debolmente ma in Europa in
modo crescente, quell’evoluzione avviata a fine ‘700 da ideali democratici, letterari, psicologici e sociali. È pur vero che è questa l’età di imperialismi e
sopraffazioni ma anche del completamento delle scoperte geografiche, dell’evoluzionismo di Charles Darwin e del romanticismo dei tanti autori: l’anima, in un
certo qual modo, rinasce.
La dolcezza di visitare i morti
È indubbio che il momento della morte, la Sala del Commiato, richiami alla luce,
purtroppo con un certo velo di angosciosa malinconia, l’immagine della tomba
e del sepolcreto. Non c’è nulla di spettrale, malefico, in questo. Semmai si deve
all’interpretazione clericale, fin dall’alto Medioevo, la trasmissione di questa immagine negativa e lugubre, certo, unitamente poi a tutta la speculazione cinematografica contemporanea che ne ha attinto guadagni ed interessi.
Il sepolcreto, i morti, il loro essenziale ricordo come effettiva presenza non
dovrebbe essere deturpata, sminuita od ancor peggio abbandonata (dopotutto il
fragile tempo dell’uomo è creato da memoria ed immaginazione creandone profondità e spessore10 ). Questo ipotetico distacco, e non altri, potrebbe segnare una
frattura nella vita, perdere la sua continuità con il passato, quella che è la propria
origine. Vorrebbe dire non tanto e non solo rinnegare le proprie relazioni materiali o famigliari (questo sarebbe il meno) ma “lasciarsi andare” nel fiume
burrascoso ed informe della vita, senza una forma di coscienza o resistenza, senza
orientamento. Sarebbe come una negazione della stessa vita, così come lo sarebbe anche il suo esatto contrario, cioè il totale abbandonarsi incosciente ed ingenuo in una consolatoria forma deistica.
Una piccola precisazione, forse curiosità, potrebbe qui farsi ricordando alcune
note affermazioni storiche tra le quali quella chiaramente infelice di Benedetto
Croce. Secondo lui, con riferimento al Primo di novembre, fa male ai bambini
sapere che i nonni sono morti. Ugualmente infelice (ma giustificata dal senso
poetico a cui appartiene) sarebbe la frase di Ugo Foscolo nei Sepolcri: “A egregie
cose il forte animo accendono l’urne de forti”.
Perché, ci si chiederebbe, solo le urne dei forti? E le altre? Non può essere,
ovviamente, solo la forza, la grandezza celebrativa, garanzia dell’immortalità e del
ricordo perenne. In realtà quei pochi a cui Foscolo si riferisce non possono
escludere gli altri, gli umili e i tanti, quelli che veramente hanno vissuto la storia
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il pensiero mazziniano
Alessandro Buda Hardy
e le sue miserie. Anzi, congelando per un momento il particolare nesso poetico
che il Foscolo deve rispettare, si comprende come la memoria di coloro che hanno
finito di vivere ma protratta nei discendenti è la loro immortalità. I morti veri,
quelli morti due volte, non sono quelli che si piangono dai bigotti di un credo
ma, al contrario, quelli la cui memoria è cancellata.
Ricollegandosi a quanto osservato è da ricordarsi che il senso di rispetto verso
i defunti, i cimiteri ed una memoria non funerea ma continuatrice della vita è
senza dubbio molto più viva al Centro Nord Europa che, per esempio, in Italia
(retaggio negativo della cattolicità barocca) nonostante qui la presenza di personaggi storici (Foscolo e Leopardi) ed avvenimenti (Il Risorgimento eroico e
garibaldino) di eccezionale impronta. Basti pensare alla dignità, al grande senso
di rispetto interiore e di profondo raccoglimento che impongono all’anima una
visita ai grandi cimiteri di guerra del Commonwealth diffusi nei piccoli paesotti
romagnoli o italiani ed altri sparsi per mezza Europa e Nord Africa.
Sembra strano, in ultima analisi, ma in questo mondo, nella banalità che tutti i
giorni dobbiamo seguire, ci sono persone che, nei momenti più delicati, rifuggono dal contemplare, o salutare, i propri morti, non ne parlano né pubblicamente
né confidenzialmente ma, in realtà, non pensano ad altro. In realtà, se ben ci si
pensa, qualunque cosa si faccia (un viaggio, una lettura, un figlio…) ci si ricollega
ad un circolo che, anche attraverso la morte, porta alla continuità della memoria.
In un suo recente intervento Ferdinando Camon11 ricorda che chi va a trovare
il padre morto e porta con sé un figlio, sentirà nascere nella sua testa un pensiero: “ Io ero prima di essere, e sarò anche quando non sarò”. Ha una sua
dolcezza, questo pensiero.
___________________________
In queste pagine si è parlato, in modo progressivo seguendo la loro successione,
di morte e ruralità, impropria assuefazione confessionale, memoria ed idealismo
risorgimentale, sepolcreto e continuità di vita da Foscolo a Leopardi, da Darwin
al garibaldino, da Pascal a Margherita Hack. Tutti gli argomenti sono indissolubilmente collegati, incollati, l’uno all’altro. È una continuità ideale che si protrae
in modo sempre più deciso ed evidente dal periodo ottocentesco (il lungo Risorgimento italiano di idee ed intenti fino alla Resistenza ’43-‘45)12 per essere più
che mai viva ai tempi d’oggi. Dispiace chi ancora non abbia ben compreso questo
processo interiore e storico con una visione della vita chiaramente laica.
Alessandro Buda Hardy
il pensiero mazziniano
121
Società e Cultura
Note
1
In modo più minuto l’analisi storica individua chiaramente come, attraverso un processo non certo
immediato ma lungo e continuativo, l’istruzione sempre più diffusa e “l’alfabetizzazione delle società
europee tra XVI e XVIII secolo contribuì[rono] non poco, in effetti, alla laicizzazione e alla politicizzazione
dei pubblici di lettori”. Da Marica Tonelli, Opinione pubblica e modernità, in Storia 2012. Idee e strumenti per
insegnare, Milano-Torino, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Pearson Italia, 2012, p. 66.
2
Una ricerca che si ricollega all’argomento “esistenziale” la si individua nell’intervento di Mancuso [Vito
Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Milano, Garzanti, 2011] che delinea la necessità di un incontro
tra scienze della natura e scienze umanistiche per un qualche cosa che, diversamente dai soliti
confessionalismi, cerca di dare un senso alla stessa “fede” intesa come esistenza di noi “esseri sociali
pienamente immersi nel percorso della Storia in questo lembo di universo”. Da Sauro Mattarelli, Le basi
di una nuova religione, in Il pensiero mazziniano, Anno LXVII, n° 2, Maggio-Agosto 2012, p. 155.
3
Da Mario Pazzaglia, Scrittori e critici della letteratura. Ottocento e Novecento, “Tempo e spazio delle operette morali”,
Bologna, Zanichelli, Terza edizione,1992, p.265.
4
Ferdinando Camon, La mia stirpe, Milano, Garzanti, 2011.
5
Al di fuori di una riflessione che intende esautorare la preponderanza religiosa nella vita di ciascuno
va osservato che, in qualsiasi ambiente di convivenza civile, rurale od urbano,“si ricorre alla memoria del
passato, irrinunciabile in ognuno di noi, sedimentata come struttura dell’esperienza personale e collettiva”.
Da Italia rurale, a cura di Corrado Barberis e Gian Giacomo dell’Angelo, Bari, Edizioni Laterza, 1988,
p. 21.
6
Roland Sarti, Giuseppe Mazzini, Collana “Protagonisti della Storia”, Milano, Edizione RCS quotidiani,
2006, p, 164.
7
Rosario Romeo, Cavour, Collana “Protagonisti della Storia”, Milano, Edizione RCS quotidiani, 2006, p. 279.
8
Giancarlo Rossi, Dignità nel momento della morte, in “Corriere Romagna”, p. 47, mercoledì 27 marzo 2013.
9
Iona Heat, Modi di morire, a cura di Maria Nadotti. Postfazione di John Berger, Milano, Bollati/Bordinghieri
editore, 2008.
10
Cfr., Pazzaglia, Scrittori e critici della letteratura, cit., p. 267.
11
F.Camon, ibid.
12
Il riferimento è quindi esemplificativo di un periodo risorgimentale che, rispettando non solo valori
patriottici ma anche etico-morali e culturali, viene idealmente diviso in quello tradizionale 1815-1918
(Primo Risorgimento), legato alla Resistenza 1943-45 (Secondo) e contemporaneo (Terzo) dominato
dall’assenza di valori politico-sociali.
122
il pensiero mazziniano
Mauro Molinari
Giovanni Battista Brignardello,
sacerdote e scrittore
M
i sono imbattuto per la prima volta in Giovanni Battista Brignardello quando, iniziando a scrivere il capitolo sui Garibaldi nella storia della mia famiglia, ho trovato citata in una nota de “La Sveglia” di Chiavari del 1916,(1) fra le
tante genealogie del generale quella, per l’appunto, del nostro Giovanni Battista(2).
Ad essere sinceri ricerche più recenti, ma soprattutto il notevole lavoro del prof.
Alzona,(3) hanno messo in evidenza l’errore in cui era incorso il nostro: errore invero
piuttosto frequente per chi tenta di ricostruire l’albero genealogico di una famiglia
con così tante ramificazioni ed omonimie come quella, per l’appunto, del generale!
Comunque la frequentazione della Biblioteca della Società Economica di Chiavari
mi ha permesso di scoprire che il Brignardello non si era occupato solo dei
Garibaldi, tutt’altro.
Ma andiamo per gradi.
La famiglia del Brignardello secondo il Della Cella(4) era originaria della Valle di
Garibaldo, ossia della Val Graveglia, e si era trasferita a Chiavari in età antichissima, anche lo Scorza negli atti preparatori della sua ricerca,(5) ha documentato la
presenza dei Brignardello a Chiavari già nel 1400!
Giovanni Battista Brignardello nacque a Chiavari il 31 marzo del 1825, da
Bartolomeo e Rosa Lertora: era l’ultimo figlio di una famiglia piuttosto numerosa. Il padre, che esercitava l’attività di mediatore, godeva di una certa agiatezza
era infatti già al quarto matrimonio!
Gli atti della Parrocchia di San Giovanni Battista di Chiavari(6) riportano che
Bartolomeo si era sposato la prima volta nel 1807 con Clara da cui era nato
Antonio, primo maschio a cui, come tradizione,venne imposto il nome del nonno. Rimasto prematuramente vedovo, (Clara era morta nel 1809 ad appena vent’anni), si risposò nel marzo 1811 con Teresa Simonetti da cui nacquero, già nel maggio
1811, Giovanni e l’anno successivo Filippo. Anche Teresa morì giovane nel 1816
a soli 26 anni. Dopo pochi mesi Bartolomeo si risposò con la terza moglie, Teresa
Raffo da cui ebbe Giovanni Battista Emanuele nel 1817, Maria Aloisia nel 1820,
Maria Caterina nel 1824. Teresa morì nell’agosto del 1824, a ventisette anni, quindi
fu la volta di Rosa Lertora con cui ebbe, il 31 marzo 1825, Giovanni Battista, nel
1828 Eugenio ed infine nel 1830 Anna!! Gli dovevano senz’altro piacere le ragazze perché anche Rosa era molto più giovane di lui: lo stato delle anime del 1827
della Parrocchia di San Giovanni Battista di Chiavari, riporta che Rosa aveva
ventidue anni nel 1827 e Bartolomeo 34.
il pensiero mazziniano
123
Società e Cultura
In effetti Bartolomeo doveva aver “barato” un poco sull’età perchè nell’atto di
morte, il 9 settembre 1848, risulta che avesse sessantasei anni, ma dato che dall’atto
di battesimo risulta che nacque il 24 gennaio 1785 da Antonio e Teresa Dell’Orso, in effetti alla morte aveva sessantatre anni e, rispetto all’epoca dello stato delle
anime del 1827, avrebbe avuto quarantadue anni, cioè quasi il doppio della quarta
moglie!
Giovanni Battista era appena un bambino quando l’11 settembre 1830 Antonio,
il fratellastro più grande si sposava con Teresa Costa, era e da lei ebbe Clara,
Cesare ed Augusto: Antonio aveva nel frattempo ereditato dal padre l’attività di
mediatore.
Di Rosa, rimasta vedova, non si sa più nulla!!
Giovanni Battista studiò nel Seminario di Chiavari e nel 1852, già sacerdote, fu
ammesso a frequentare i corsi di Legge all’Università di Genova; nel luglio 1854
sostenne l’esame privato di laurea(7). Dal 1859 al 1871 lo troviamo come Cappellano Militare dei Cacciatori del Magra. Si trattava di un corpo di volontari, prevalentemente di Spezia, Massa e Carrara, costituitosi nel 1859, che nel 1860 sarebbe
diventato la Brigata Modena. La 41° e 42° Brigata Modena, vennero incorporate
nel Regio Esercito e presero parte alla terza guerra di Indipendenza ed alla presa
di Roma.
Probabilmente in seguito ai contrasti fra Casa Savoia e la Santa Sede,(8) l’Ordine
dei Cappellani Militari venne soppresso. Proviamo a seguire brevemente i drammatici giorni che precedettero la Breccia di Porta Pia: il 18 luglio Pio IX promulgò il Concilio Ecumenico Vaticano I, Pastor Aeternus, che sanciva il primato
apostolico di Pietro e dei suoi successori nonché l’infallibilità del Pontefice.
Cinquantadue vescovi abbandonarono polemicamente il Concilio, 533 approvarono, solo due i contrari! Il 2 settembre i francesi vennero sconfitti dai prussiani
a Sedan, il 19 il Papa fece la sua ultima uscita pubblica e benedì le truppe pontificie.
Il 20 i Bersaglieri irruppero dalla Breccia di Porta Pia, nonostante “l’ordine di
opposizione simbolica” gli italiani lasciarono sul campo 49 caduti e 141 feriti,
solo 19 i caduti fra le truppe pontificie con 68 feriti.
Il 9 ottobre Lamarmora venne nominato luogotenente, per l’amministrazione civile
della città e fece il suo ingresso al Quirinale, nonostante l’opposizione del Pontefice. Acconsentì il 1° dicembre che venissero trasferiti mobili, arredi e archivi,
ignorando le perplessità del Governo a causa dei costi necessari i per arredare
completamente il Palazzo!
In quei giorni, in occasione dell’alluvione del Tevere, vista dai romani come un
segno divino, il Re Vittorio Emanuele fece la sua prima, rapida, visita a Roma!
Ovviamente la rottura dei rapporti fra Santa Sede e Savoia costò “il posto” al
Brignardello che nel 1871 iniziò la carriera di professore di lettere nell’Istituto
124
il pensiero mazziniano
Mauro Molinari
Forestale di Vallombrosa, successivamente all’Istituto Nautico di Viareggio e alla
fine del 1875 presso quello di Genova dove insegnò fino al 1882(9).
Svolse per tutta la vita una intensa produzione letteraria che colpisce soprattutto
per l’eterogeneità degli argomenti trattati!
Collaborò a numerosi giornali e periodici, il Mediatore, l’Opinione ed il giornale
Ligustico.
Numerose le sue pubblicazioni.(10)
Il prof. Grasso, Direttore della Biblioteca della Società Economica di Chiavari ha
pubblicato recentemente(11) il compendio completo delle opere del Brignardello.
Sembra curioso il suo interesse per argomenti così vari: senz’altro gli spostamenti
al seguito della Brigata Modena gli permisero di accedere a biblioteche e fondi
differenti in mezza Italia. Probabilmente quel suo desiderio di viaggiare che lo
aveva portato ad arruolarsi nei Cacciatori del Magra, frustato dai lunghi anni
trascorsi nel chiuso di un’aula scolastica, si è preso una rivincita nei suoi scritti!!
Spesso ritornò su argomenti come i merletti, le sedie di Chiavari ed i personaggi
legati alle sue terre!
Aveva il difetto, comune a tutti gli scrittori della sua epoca, di non citare le sue
fonti, ma doveva essere molto puntiglioso nelle sue ricerche.
Ritornando al volumetto sulla Genealogia del Generale Garibaldi, il Brignardello
probabilmente fu tratto in errore dai funzionari della Curia e dello Stato Civile
di Nizza che non trovarono traccia del matrimonio del padre del Generale a Nizza
e gli risposero che, nonostante le ricerche effettuate, non avevano trovato i
documenti richiesti. Il prof. Alzona(12) ne ha trovato la documentazione presso la
Chiesa di Santa Reparata a Nizza, non so se sia stato più fortunato del Brignardello
oppure se ha passato molto tempo negli Archivi della città francese, ma oggi,
tutte le ricerche negli Archivi Parrocchiali e di Stato Civile del Dipartimento si
possono fare tranquillamente via Internet, consultando gli Archivi del Dipartimento delle Alpi Marittime!
Da questo punto di vista i nostri cugini d’Oltralpe, sono davanti a noi di parecchi
lustri!
Se il professor Brignardello nel novembre 1883 avesse chiesto di consultare i
processetti di matrimonio degli avi del Generale a Nizza, forse sarebbe riuscito
a venire a capo una volta per tutte delle sue origini! I responsabili degli Archivi
Storici delle Diocesi sarebbero stati, probabilmente, meno propensi a negare, ad
un sacerdote, l’accesso a dati che oggi la legge definisce “sensibili” e che funzionari decisamente “ottusi” non ci permettono di consultare trincerandosi dietro la
legge della privacy!!
Il 4 novembre 1900, al momento della morte, il Caffaro volle ricordare questa
simpatica figura di sacerdote molto conosciuto a Genova dove godeva di stima
il pensiero mazziniano
125
Società e Cultura
ed affetto, sottolineando come fosse riuscito a conciliare il suo amor di Patria
con il dovere religioso e mettendo in evidenza le benemerenze acquisite come
educatore e come scrittore.
Mauro Molinari
Bibliografia
1. La Sveglia Origini della famiglia Garibaldi Chiavari, 1916, 22 puntate dal 24 febbraio al 7 settembre
2. G.B. Brignardello L’avo ed il padre del generale G.Garibaldi: notizie e rettifiche Firenze 1884
3. Alzona GL. Gli antenati liguri di Giuseppe Garibaldi Genesi Ed. Torino 2007
4. Della Cella Famiglie di Genova antiche e moderne Manoscritto Biblioteca Società Economica Chiavari
5. Scorza A.M.G. Le famiglie nobili genovesi A.Forni Ed. Genova 1924
6. Quinque Libri Parrocchia San Giovanni Battista di Chiavari
7. Archivio Stato Genova Fondo Università
8. Rizzo T.L. Il Clero palatino fra Dio e Cesare Profili storico giuridici Rivista Militare Roma 1995
9. De Gubernatis A. Dizionario biografico scrittori contemporanei Firenze 1879 pp. 223-223
10. Annuario della Società Ligure di Storia Patria Roma Tip. Amadori 1901 (segue elenco opere)
• Della vita e delle opere di Francesco Filippi-Pepe illustre poeta dell’Abruzzo Teramano”; Bologna 1864
• Bernardino Turio, botanico”; Napoli 1865
• Carlo Garibaldi, meccanico” Bologna 1865
• Carlo Goldoni” Bologna 1865
• Notizie biografiche e iscrizioni latine e italiane del prof. Jacopo Rocca” Bologna 1866
• Giovanni Battista Canepa, ebanista e poeta” Bologna 1867
• L’esposizione di Chiavari nel 1868” Firenze 1869
• Giuseppe Gaetano DeScalzi detto il Campanino e l’arte delle sedie in Chiavari” Firenze 1870
• Nicola Descalzi” Firenze 1870
• Cenno biografico del pittore Giovanni Battista Pietro Copola” Firenze 1872
• I merletti nel Circondario di Chiavari” Firenze 1873
• Michele Alberto Bancalari delle Scuole Pie, prof. Di Fisica alla Regia Università di Genova” Genova 1874
• La Repubblica orientale dell’Uruguay all’Esposizione di Vienna per Adolfo Vailant” Genova 1874
• Delle vicende dell’America Meridionale e specialmente di Montevideo nell’Uruguay” Genova 1879
• Un’aggiunta necessaria alla biografia del dottor Carlo Baghis” Genova 1880
• Giovanni Battista Sezanne e i suoi scritti” Firenze 1881
• Intorno ad una medaglia del doge Giano II di Campo Fregoso” Roma 1882
• La colonia agricola delle Tre Fontane a Roma” Chiavari 1882
• L’avo ed il padre del generale G.Garibaldi: notizie e rettifiche” Firenze 1884
• Alcune Parole intorno allo scritto La coltura dei Salici da vimini di Vittorio Perona” Chiavari 1885
• Francesco Chiarella, cenno biografico” Genova 1886
• La bandiera nazionale italiana” Genova 1888
• Giambattista Scala, capitano esploratore e introduttore d’industrie civili in Guinea” Firenze 1892
• Luca Agostino DeScalzi” Nozze Puccio-Puccio Firenze 1894
• Emanuele Lagomaggiore”. Firenze 1895
11. Grasso G.F. Compendio bibliografico degli scrittori chiavaresi Società Economica di Chiavari 2006
12. Alzona VDS. 2) pag. 146 nota
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il pensiero mazziniano
Roberto Cacciani
Il ruolo dell’Unione Europea
in una prospettiva di sviluppo
N
ella vastità e nell’assoluta modernità del pensiero mazziniano, l’ideale europeo occupa un ruolo di primo rilievo, al punto che Giuseppe Mazzini
può essere ritenuto a tutti gli effetti un precursore del “sogno” europeista. La
fondazione della Giovine Europa nel 1834 costituisce il tentativo di creare una
struttura di carattere sovranazionale facente leva sull’istanza democratica, sulla concezione della libertà dei popoli e sul principio dell’associazione tra le nazioni del
nostro continente.
Più di cento anni dopo dopo, in seguito alla crisi del sistema europeo degli stati,
che si è palesata con i due eventi bellici mondiali del XX secolo, si è progressivamente affermata una sensibilità legata all’integrazione. Si è trattato di un
fenomeno di radici plurisecolari, tuttavia nel secondo dopoguerra si sono poste
le premesse effettive per una sua concreta affermazione, tra cui la condizione
posta dagli Stati Uniti della collaborazione tra i Paesi alleati per l’erogazione degli
aiuti previsti dal Piano Marshall. Negli Anni Cinquanta con la creazione della
Comunità europea, vennero realizzati degli organismi sovranazionali ispirati da un
lato alla gestione collegiale di contesti settoriali e dall’altro all’instaurazione di
un’unione doganale, protesa alla libera circolazione delle persone e dei capitali,
dei prodotti e dei servizi. Nel 1985 la Commissione europea, guidata da Jacques
Delors, sottopose al Consiglio europeo un “libro bianco” per un’ulteriore definizione del mercato interno, con l’individuazione degli elementi antitetici all’unione economica. Nel 1987 con l’entrata i vigore dell’Atto unico europeo, pur
trattandosi di una formale modifica ai trattati esistenti, si raggiunsero importanti
risultati in termini di unificazione. Nel 1992 con il Trattato di Maastricht, gli Stati
membri diedero vita all’Unione Europea, una struttura istituzionale e normativa
che delineava il superamento della connotazione economica della Comunità. Veniva
stabilito il concetto di cittadinanza europea e affermato il nesso tra partecipazione dei cittadini e integrazione, sulla base di diritti civili e politici. Il cittadino europeo
può soggiornare e viaggiare liberamente in tutto il territorio dell’Unione, fruisce
dell’elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo, nonché per le elezioni
comunali del luogo in cui risiede. Dispone inoltre di una molteplicità di prerogative che estendono in maniera consistente la gamma dei diritti di cui si avvale
a livello nazionale. È possibile infatti assumere incarichi di lavoro in un altro paese
membro, tranne l’esercizio di funzioni pubbliche, nonché ivi studiare e trascorrere gli anni della pensione. È altresì permesso trasferire in un altro stato
il pensiero mazziniano
127
Società e Cultura
aderente all’Unione professioni autonome, tecniche e artigiane, stabilire imprese
società e le rispettive succursali, beneficiare dell’assistenza diplomatica degli altri
Paesi dell’organismo europeo nei contesti esteri in cui manchi quella del proprio
stato. Da ricordare la Carta dei diritti fondamentali, giuridicamente vincolante da
alcuni anni, che stabilisce prerogative basilari in riferimento alla dignità umana,
alla libertà, all’uguaglianza e alla solidarietà. La Carta si applica alle istituzioni
europee nel rispetto del principio della sussidiarietà, nonché agli Stati membri
nell’ambito della loro attuazione della normativa Ue. In una visuale sistemica,
l’Unione ha consentito agli aderenti di gestire fenomeni globali potendo contare
su una rappresentanza di peso, facente leva su valori comuni. Nell’ottobre del
2012, il comitato per il Nobel per la pace ha attribuito il relativo Premio all’Unione europea e ai suoi fondatori per il loro apporto da oltre 60 anni alla pace, ai
diritti umani e alla democrazia in Europa. Essa ha cioè svolto un ruolo attivo che
ha trasformato parte rilevante del continente in un contesto di pace.
Con il 1° gennaio 1993 e l’entrata in vigore del Mercato Unico per i consumatori
si sono verificati una serie di vantaggi, determinati da una possibilità di scelta
maggiore di prodotti, riduzione dei prezzi, più ampie tutele e rispecchiati da un
livello crescente di benessere. Il Mercato Unico ha permesso a 23 milioni di aziende
del Ue di avere accesso a 500 milioni di consumatori e ha generato investimenti
esteri. Le imprese di dimensioni più consistenti hanno potuto fruire di rilevanti
economie di scala, anche in virtù di reti meglio collegate e più convenienti nei
settori dell’energia elettrica, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Quelle medie
e piccole hanno avuto a disposizione nuovi mercati per l’esportazione, in seguito
alla riduzione dei costi e delle difficoltà pratiche. Le transazioni commerciali
transfrontaliere sono risultate più semplici, grazie all’eliminazione delle formalità
amministrative e alla diffusione dell’Euro. Gli scambi di merci all’interno dell’Ue
sono aumentati da 800 miliardi di euro nel 1992 a 2800 nel 2011 , passando dal
12% del Pil dell’Ue nel 1993 al 22% nel 2011. Il principio applicato della concorrenza ha permesso la prosecuzione di un contesto equo in un ambito unitario,
assicurando la promozione degli interessi degli attori che rispettino la legge e
l’ostacolo agli aiuti pubblici che alterino i principi della competizione. Poi il Mercato
Unico con le sue regole ha semplificato gli adempimenti dei cittadini e delle
imprese, sostituendo un quadro normativo uniforme alla pletora di leggi nazionali. Per quanto concerne la Politica Agricola Comune, si tratta dell’unica per cui
la componente preminente della spesa pubblica derivi non dai bilanci nazionali,
ma da quello Ue. I dati numerici evidenziano il fatto che la PAC abbia favorito
un incremento costante della produttività, del valore economico e del commercio
del comparto agricolo(1), permettendo alle famiglie di dimezzare il costo complessivo per i prodotti alimentari. Malgrado ciò, la PAC si presta alla critica di
128
il pensiero mazziniano
Roberto Cacciani
rimanere legata a superati paradigmi neoliberisti che favoriscono l’agroindustria e
i gruppi multinazionali, a scapito dei piccoli coltivatori, come comprovato dai
criteri di erogazione dei sussidi.(2) Avendo il Mercato Unico un carattere progressivo, si connota per una continua evoluzione e come tale si presta all’individuazione
di limiti e storture come l’eccesso di contenzioso, la proliferazione della legislazione, la mancata risoluzione delle implicazioni sociali di una crescente integrazione, la presenza di comparti in cui i risultati attesi non si sono verificati. Il suo
impatto a livello sistemico continentale nondimeno si è dispiegato sotto un
molteplice ordine di fattori . In senso macroeconomico, determinando un aumento degli investimenti delle imprese in termini di innovazione e ristrutturazione,
ha prodotto un meccanismo moltiplicativo sull’economia; ne sono derivate conseguenze favorevoli sui conti pubblici, sulla bilancia commerciale comunitaria e
sull’occupazione. Sotto un profilo microeconomico l’apertura dei mercati e il venir
meno delle barriere non tariffarie dopo il 1992, hanno generato una riduzione dei
costi per le aziende correlata a esempio alla forte diminuzione degli oneri nei
passaggi transfrontalieri. In rispondenza a una riduzione dei costi si è verificato
un calo dei prezzi, con relativo incremento della domanda, maggiore produzione
e riflessi sulle economie di apprendimento e di scala. Inoltre la pressione
competitiva e le facilitazioni nel commercio hanno indotto la modernizzazione,
favorendo un ulteriore ribasso della spesa di produzione. Per quanto attiene all’efficienza, con l’eliminazione delle barriere si è favorita subito una migliore
allocazione delle risorse nei mercati comunitari, in relazione a una maggiore
specializzazione delle nazioni/regioni.(3) Peraltro sussiste una dinamica di trasmissione della tecnologia e del sapere tra le zone geografiche europee, che progressivamente sta allungando l’ampiezza della sua portata. La diffusione delle
acquisizioni scientifiche per la letteratura economica costituisce la premessa fondamentale per una crescita progressiva; rende altresì possibili esternalità a livello
di conoscenza, cioè effetti su una molteplicità di soggetti a prescindere dalle
transazioni del mercato.(4) Con la strategia “Europa 2020”, l’Unione si pone come
obiettivo il perseguimento di uno sviluppo fondato sul sapere e sull’innovazione,
inclusivo e sostenibile: viene fissata la quota del 3% del Pil dell’Ue da investire
in R&S; individuato il livello del 75% per quanto riguarda l’occupazione delle
persone tra i 20 e i 64 anni; stabilito a meno del 10% il tasso di abbandono
scolastico e al 40% quello dei giovani che deve essere laureato; 20 milioni di
persone in meno devono essere a rischio di povertà; i traguardi 20/20/20 in materia
di clima/energia devono essere raggiunti. A differenza dei modelli tradizionali, in
una moderna economia della conoscenza le politiche dovrebbero far leva su alcuni
elementi di competitività: gli investimenti, l’innovazione, l’integrazione (locale e
internazionale), l’apprendimento e l’osmosi interattiva. Il processo di unificazione
il pensiero mazziniano
129
Società e Cultura
a livello europeo ha indubbiamente favorito l’affermazione di questi fattori, nella
misura in cui le dinamiche evolutive in ambito economico possono fortemente
connotarsi non solo sotto il profilo organizzativo, ma anche istituzionale. Solo
avanzate organizzazioni e istituzioni, e non i mercati convenzionalmente intesi
possono permettere la fruizione delle competenze e quei legami che consentono
la trasmissione del sapere.(5) Inoltre sin dal Trattato di Roma del 1957, gli stati
firmatari rimarcarono l’esigenza “di rafforzare l’unità delle loro economie e di
assicurare uno sviluppo armonioso riducendo le disparità fra le differenti regioni
e il ritardo di quelle meno favorite”. A partire dal 1958 vennero quindi istituiti
i Fondi strutturali europei, cioè il Fondo sociale europeo (Fse) e il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (Feaog), divenuto nel 2005 Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale
(Feasr); successivamente nel 1975 il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fesr),
il Fondo di coesione nel 1994 e il Fondo europeo per la pesca (Fep) nel 2006.
Si tratta di strumenti di intervento predisposti dall’Unione per supportare
finanziariamente programmi di sviluppo nell’ambito dei Paesi aderenti. Il Trattato
di Amsterdam del 1997 sancisce che: “Per promuovere uno sviluppo armonioso
dell’insieme della Comunità, questa dispiega e persegue la propria azione intesa
a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica e sociale. In particolare la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni
e il ritardo delle regioni meno favorite o insulari, comprese le zone rurali”.
Attualmente i Fondi strutturali perseguono sostanzialmente tre obiettivi: la convergenza, la cooperazione tra i vari territori, la competitività regionale e l’occupazione. Per quanto attiene al primo, si tratta di supportare l’evoluzione economica
e sociale delle aree arretrate favorendo l’investimento in capitale fisico e umano,
facendo leva sull’innovazione, sulla conoscenza, sull’efficienza amministrativa e
sulla tutela ambientale. La seconda finalità è volta a potenziare la cooperazione
interregionale, promuovendo soluzioni coordinate per problemi comuni, afferenti
ricerca, sviluppo, informazione e tematiche ambientali. L’ultimo scopo elencato
tende ad aumentare la competitività e l’occupazione sulla base di interventi ad
ampio spettro. Nel lungo periodo l’impiego dei Fondi strutturali ha sempre determinato miglioramenti e progressi per molti cittadini; negli ultimi anni caratterizzati da una crisi profonda e globale, ha consentito di attenuare il suo impatto,
immettendo importanti risorse su tessuti in difficoltà. Per il periodo 2007-2013
l’Unione ha assegnato alla politica di coesione il 35,7% del proprio bilancio, per
un totale di 347 miliardi di euro. Ad avviso degli studiosi si tratta di un finanziamento cruciale per promuovere ulteriori investimenti, pubblici e privati. Secondo le stime delle Commissione europea, per ogni euro speso nel contesto degli
interventi finalizzati alla aggregazione si generano ulteriori iniziative comprese tra
130
il pensiero mazziniano
Roberto Cacciani
uno e tre euro, derivanti da fonti locali o nazionali.(6) Il processo di integrazione
europea per la teoria economica è legato a molteplici vantaggi: una più intensa
specializzazione settoriale che conduce a una migliore allocazione dei fattori
produttivi, di riflesso ai vantaggi comparati di ciascun paese o regione; il conseguimento di economie di scala provenienti dalla maggior dimensione della produzione, con relativa diminuzione dei costi e dei prezzi; un incremento della
concorrenza dei mercati, da cui derivano acquisizioni in termini di efficienza; un
aumento del potere contrattuale nei confronti del resto del mondo e migliori ragioni
di scambio.(7)
Per quanto concerne la moneta unica, essa ha apportato molteplici vantaggi: in
relazione alla maggior stabilità monetaria; di natura esterna all’ambito dei rapporti
Ue; derivanti da una maggiore efficienza; in rapporto alla convergenza regionale.
Il rispetto dei criteri statuiti a Maastricht e nei successivi trattati sul coordinamento delle politiche economiche ha determinato un migliore equilibrio monetario,
da cui derivano bassa inflazione e contenuti tassi di interesse, condizioni basilari
per un sistema solido. I benefici esterni consistono negli effetti prodotti dal ruolo
dell’Euro come divisa di scambio nelle transazioni al di fuori dell’UEM e come
valuta per gli investimenti internazionali, detenuta cioè anche esternamente al
territorio di emissione per il suo valore e la sua stabilità. In conseguenza dell’elevato pregio dell’Euro in ambito mondiale, deriverebbe un accresciuto peso dell’Unione nelle sedi negoziali, in cui spesso le questioni finanziarie risultano correlate
a quelle politico-diplomatiche. Inoltre con l’impiego di una moneta unica, i mercati
risultano caratterizzati da una più intensa concorrenza e da una maggiore trasparenza, consentendo una più valida allocazione delle risorse. I soggetti più efficienti (a esempio le imprese meglio organizzate e più innovative) si affermano
quindi in misura conveniente per l’intero sistema. Questo grazie al venir meno
dei costi di transazione nella conversione delle valute, alla scomparsa della variabilità del cambio, al fatto che i prezzi sono esattamente confrontabili in tutti i
Paesi del UEM. I soggetti produttivi possono anche fruire di un minor costo dei
finanziamenti, di maggiori opportunità di investimento, di una più efficace pianificazione derivante da una superiore sicurezza macroeconomica. La moneta unica
può inoltre supportare la convergenza regionale nella misura in cui può facilitare
investimenti nelle zone a minor sviluppo, in virtù dei più bassi costi di produzione.(8) Ovviamente per i Paesi che ne avevano fatto non di rado ricorso, viene
meno lo strumento delle svalutazioni competitive e in senso lato di interventi di
politica monetaria volti a compensare problemi macroeconomici. L’Unione monetaria ha presentato sin dall’inizio il serio problema di non essere affiancata da
politiche finanziare ed economiche gestite parimenti a livello sovranazionale. Si è
pertanto sopperito con una serie di Trattati (Patto di stabilità e crescita, Fiscal
il pensiero mazziniano
131
Società e Cultura
Compact, Two Pack) volti a coordinare le scelte di bilancio prese in ambito
nazionale, avviare un unione budgetaria e in prospettiva un’autentica unione fiscale. Gli stati si sono cioè impegnati a inserire negli ordinamenti interni norme
che vincolino al pareggio o all’avanzo dei conti pubblici. Questo ha indubbiamente introdotto degli elementi di rigidità che hanno determinato dei problemi
nell’ambito degli interventi statali in risposta alla crisi mondiale. Le misure di
austerità possono avere concorso ai fattori di recessione e prodotto un calo del
gettito fiscale, soprattutto nei paesi del Sud Europa. D’altro canto però nel contesto della turbolenza internazionale, la Banca Centrale Europea ha posto in essere
una serie di interventi che hanno alleviato i problemi di liquidità del sistema
bancario e ridotto lo spread sui titoli di alcuni debiti pubblici. Insieme a questo
nel 2010 sono stati creati dei Fondi denominati salva-Stati, il Fondo europeo di
stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Efsf
e Efsm), volti all’assistenza finanziaria a “Stati membri che subiscano o rischino
di subire gravi perturbazioni economiche o finanziarie causate da circostanze
eccezionali che sfuggano al loro controllo”. Negli ultimi mesi del 2012, entrambi
gli strumenti sono stati sostituiti dal Meccanismo europeo di stabilità (Mes).
Per quanto attiene all’aiuto ai Paesi caratterizzati da minor benessere e alla salvaguardia dell’ecosistema, la Commissione europea dichiara che “Se da un lato gli
obiettivi di sviluppo del millennio (Mdg) e di sviluppo sostenibile (Sdg) si sono
rivelati un potente fattore di mobilitazione mondiale nella lotta contro la povertà,
eliminare la povertà rimane comunque un imperativo, come pure contrastare i
cambiamenti climatici, la scarsità delle risorse, il degrado ambientale e la disuguaglianza sociale. Eliminazione della povertà e sviluppo sostenibile sono infatti due
sfide mondiali interconnesse”. In effetti per quanto riguarda gli aiuti alla crescita,
l’Ue risulta il maggior donatore mondiale: ne eroga oltre la metà del totale.
Rappresenta altresì il più importante partner commerciale dei paesi in via di
sviluppo e la loro principale fonte di tecnologie, investimenti, innovazioni. Grazie
agli aiuti dell’Ue, tra il 2004 e il 2010 ben 32 milioni di persone hanno avuto
accesso all’acqua potabile, oltre 10 milioni di bambini hanno potuto frequentare
la scuola primaria e più di 5 milioni sono stati vaccinati contro il morbillo.
”L’Unione continuerà a battersi per lo sviluppo sostenibile mondiale e a perseguire la transizione verso un’economia verde inclusiva tramite una serie di politiche e interventi condotti sia al proprio interno che sul piano internazionale”.
Roberto Cacciani
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il pensiero mazziniano
Roberto Cacciani
Note
(1) Commissione Europea, Relazione generale sull’attività dell’Unione Europea 2012, 28/01/2013
(2) Carlo Petrini, Poveri agricoltori, la Repubblica, 28 giugno 2013, pag. 32
(3) A cura di G. Vitali, Il Mercato Unico, CERIS-Consiglio Nazionale delle Ricerche, 26-11-2010
(4) Leonardo Risorto, Crescita e convergenza in Europa, LUISS, 2009/2010
(5) Riccardo Cappellin, Le reti di conoscenza e innovazione e il knowledge management territoriale, in
G. Pace (a cura di), Innovazione, sviluppo e apprendimento nelle regioni dell’Europa mediterranea,
Franco Angeli, Milano, 2003
(6) Centro Nazionale di Informazione e Documentazione Europea, Guida ai Fondi strutturali 2007-2013
(7) Guglielmo Wolleb, Politiche di coesione
(8) A cura di G. Vitali, Costi e benefici della moneta unica, CERIS-Consiglio Nazionale delle Ricerche,
5-12-2010
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
Libri, Cultura e Società
Fra gli scaffali
a cura di Alessio Sfienti
MAZZINIANI ALLA SBARRA. LOTTE POLITICHE E
AMMINISTRATIVE A OSIMO E IL PROCESSO SCOTA (1876-1882)
di Rosalba Roncaglia
Affinità Elettive Edizioni, 2012, p. 164, 15,00 Euro
Un giallo politico post-risorgimentale. Un appassionante resoconto delle tensioni
a Osimo tra il 1876 e il 1882. In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, il
presente volume ricostruisce, in modo rigoroso e avvincente, ciò che accadde
subito dopo quella meta ideale, le lotte politiche che travagliarono la cittadina
marchigiana, specchio di un’Italia ancora da costruire. Tutto ebbe inizio con un
fatto di sangue, l’omicidio Scortichini, subito attribuito al mazziniano Scota e alla
Società Fratelli Bandiera, di cui era presidente; le tensioni politiche che accompagnarono i processi e le successive condanne, di fatto segnarono la fine del
mazzinianesimo osimano e delle nascenti simpatie internazionaliste, aprendo la
strada a formazioni politiche più rispondenti ai tempi nuovi. Quanto al ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato e dei suoi compagni, tema che per
anni appassionò l’opinione pubblica osimana e marchigiana, esso ci fa riflettere
su quanto sia difficile scoprire la verità, quando parlano le passioni di parte.
PRESENZE PROTESTANTI A NAPOLI DURANTE IL RISORGIMENTO
di Pasquale Danzi
Tullio Pironti, 2013, pp. 92, 12,00 Euro
A partire dall’analisi della temperie culturale, sociale e politica che si viveva a
Napoli durante il Risorgimento, Pasquale Danzi traccia un quadro preciso e
puntuale della storia del protestantesimo italiano nel Mezzogiorno, riprendendo
e rivedendo la storiografia in materia. Ne emerge il ruolo non secondario
dell’evangelismo nello svolgimento spirituale e nella vita civile del nostro Paese
e la forza dalla comunità evangelica di stanza a Napoli, che, a lungo mal tollerata
dai Borboni, potè esprimere il proprio culto solo grazie all’ala protettiva della
Legazione Reale di Prussia. Alla comunità evangelica cittadina solo agli inizi degli
anni Sessanta del XIX secolo, infatti, grazie a Giuseppe Garibaldi, sarà concesso
il terreno per l’edificazione della prima chiesa. Un saggio che apre squarci su un
mondo e una comunità ancora poco conosciuti. In appendice una predica di
Alessandro Gavazzi al popolo napoletano. Prefazione di Guido Verucci.
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il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
DON ISIDORO. VITA E OPERE DI UN PRETE GARIBALDINO
di Pietro Barberini, Francesco Farinelli
Edizioni del Girasole, 2013, pp. 144, 15,00 Euro
Dentro la mente ispirata di quel soldato di Cristo è quasi un’apparizione mistica.
Madre e santa prima che eroina, Anita Garibaldi rivive nella vita e nelle opere di
Don Isidoro Giuliani (Gambellara 1918 - Mandriole 2008) come una reincarnazione
della Vergine Maria e ogni cosa che riguarda la donna dell’eroe dei due mondi
diviene oggetto di culto, insieme cristiano e risorgimentale. Con la stessa passione, in oltre 50 anni, tra mille polemiche e battaglie, il prete garibaldino realizza
a Mandriole e dintorni un vero e proprio risorgimento della fede trasformando
la parrocchia in un dinamico centro di solidarietà e di sviluppo della società civile.
La sua poliedrica figura di insegnante, storico e scrittore, di ciclista e alpinista, di
costruttore e anticipatore, di protagonista riconosciuto del suo tempo, è riproposta
in questo “saggio narrativo” a lui dedicato a 5 anni dalla scomparsa. Traspare dai
testi l’affetto profondo degli Autori, a partire dalla struttura della biografia: la
sequenza logica prevale sulla sequenza cronologica affinché i fatti (che pure ci
sono tutti) non mettano in ombra sogni, ideali e valori del personaggio.
LA RIVOLUZIONE ITALIANA (1918-1925)
di Piero Gobetti
Edizioni dell’Asino, 2013, pp. 251, 15,00 Euro
Attraverso i saggi di questa antologia seguiamo l’evolversi delle posizioni che Piero
Gobetti ha assunto nella sua precoce attività editoriale e giornalistica: la situazione politica degli anni venti, lo scontro tra il movimento operaio e la marea
montante del fascismo, da lui identificato come autobiografia della nazione, la
necessità di promuovere la nascita di una nuova classe dirigente. Nei libri stampati dalle sue edizioni campeggiava il motto socratico “Che ho a che fare io con
gli schiavi?”
W SALVEMINI. LE ELEZIONI POLITICHE DEL 1913 NEI COLLEGI
DI MOLFETTA E BITONTO
di Ignazio M. De Sanctis
Aracne, 2013, pp. 504, 28,00 Euro
A un secolo dai fatti, questo volume offre una ricostruzione documenta e illustrata delle elezioni più paradigmatiche dell’età giolittiana, primo esperimento di
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
suffragio quasi universale maschile nello scontro al Sud, tra il “ministro della mala
vita” Giovanni Giolitti e il meridionalista Gaetano Salvemini, per lo sviluppo della
libertà e della democrazia in Italia. L’autore espone degli eventi di quel fatidico
1913 (ma anche degli anni immediatamente successivi) in un teatro storico nazionale e locale (Molfetta, Bisceglie, Bitonto, Terlizzi e Giovinazzo) ricco di
personaggi maggiori, minori e minimi in una fase drammatica della vita italiana,
alla vigilia della prima guerra mondiale.
ANCONA E IL MITO DELLA SETTIMANA ROSSA
di Massimo Papini
Affinità Elettive Edizioni, 2013, p. 136, 14,00 Euro
Questo non è propriamente un libro sulla Settimana rossa, e cioè sulle calde
giornate insurrezionali del giugno del 1914, che, partendo da Ancona, si diffusero
in mezza Italia con rivolte, violenze e minacce al sistema liberale e alla monarchia. Su questo è stato scritto tantissimo e tanto probabilmente si scriverà il
prossimo anno in occasione del centenario. Più semplicemente, questo è un libro
sul mito di quelle giornate, su come esso abbia pervaso cento anni di vita politica
in Italia e, soprattutto, nella città d’origine, ovvero Ancona.
DEMOCRAZIA LAICA. EPISTOLARIO, DOCUMENTI, ARTICOLI
di Mario Pannunzio, Leo Valiani
Aragno, 2013, 2 voll., 30,00 Euro
L’inedito epistolario di Mario Pannunzio e Leo Valiani, qui pubblicato insieme
agli articoli de “il Mondo” e ad altri documenti originali, illumina un periodo
(1949-1966) della nostra storia in cui gli intelletti e i gruppi d’ispirazione
liberaldemocratica, laica e socialista liberale ebbero un ruolo di primo piano nella
trasformazione dell’Italia in un Paese modernamente europeo dopo il disastro del
fascismo e della guerra. “Democrazia laica. Epistolario, documenti, articoli” illustra con eloquenza quanto significativa sia stata per la nuova Italia la tradizione
politica e culturale di Pannunzio e Valiani, ispirata al rigore morale, alla competenza personale ed al disinteresse pubblico. Senza uomini impegnati nella riforma
morale e politica quali furono gli intellettuali di cui si leggono qui 101 lettere
dense di passione civile, l’Italia del Duemila rischia di affondare in una crisi senza
uscita.
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il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
ERNESTO ROSSI E IL SUD ITALIA NEL PRIMO DOPOGUERRA
di Mirko Grasso
CLUEB, 2011, p. 114, 12,00 Euro
Ernesto Rossi (1897-1967) è stato uno dei più significativi e poliedrici intellettuali
italiani. Antifascista, studioso di economia, manager pubblico, storico e giornalista, Rossi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito politico e civile dell’Italia
dagli anni della lotta al fascismo al boom economico. Nella sua complessa attività
trova anche posto l’impegno per il Sud Italia. Come scrive Simone Misiani nella
prefazione al libro: “Il volume di Mirko Grasso colma una lacuna importante
della biografia intellettuale di Ernesto Rossi, ci restituisce un resoconto dettagliato dell’incontro con il Mezzogiorno avvenuto nel primo dopoguerra e apre un
interrogativo sulla matrice meridionalista della sua scelta antifascista e più in
generale del pensiero politico di Rossi. Il merito di questa opera non è soltanto
aver raccolto, sistemato e contestualizzato questa pagina della vita intellettuale,
piuttosto nell’esser riuscito a far emergere il legame tra l’impegno meridionalista
con la scelta antifascista e l’adesione al movimento di Giustizia e Libertà. Il dibattito degli ultimi decenni ha trascurato il tema della questione meridionale ritenuto, a torto, ambito di interesse regionale e comunque secondario rispetto ai grandi
eventi del Novecento. Queste pagine contraddicono questo assunto e il loro peso
deve indurre ad una più generale rilettura del pensiero politico di Ernesto Rossi”.
VITA DI LEONE GINZBURG
di Florence Mauro
Donzelli, 2013, p. VI-154, 18,50 Euro
«Le lascio immaginare il senso di malinconia e di rabbia che mi dà il continuare
a essere considerato straniero nel mio paese». Così scriveva Leone Ginzburg, il
1° agosto 1943, all’amico Benedetto Croce, dal confino abruzzese di Pizzoli in
cui il regime fascista lo aveva segregato, come «prigioniero civile di guerra», insieme con la moglie e i figli, fin da tre anni prima, al momento dell’entrata in
guerra dell’Italia. Ma già a partire dal maggio del 1935 Ginzburg era stato continuamente spiato, sorvegliato, perquisito, incarcerato. Antifascista, militante del
gruppo di Giustizia e libertà, direttore editoriale e principale animatore, insieme
con Cesare Pavese, della casa editrice fondata a Torino da Giulio Einaudi, Leone
ha sempre rivendicato, nella sua breve e intensissima vita, il carattere radicale delle
sue prese di posizione politiche e culturali. Infatti, la sua figura si presenta come
l’espressione più significativa di quel gruppo di intellettuali militanti che si insediò
a Torino tra il 1935 e il 1943, e che avrebbe segnato in modo profondo tutta la
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
successiva vicenda politica e culturale italiana, dalla Resistenza alla Liberazione,
alla nascita della Repubblica. Il volume racconta per la prima volta, in modo
completo, la storia della vita di quest’uomo, del suo radicalismo politico e morale,
forse troppo rapidamente dimenticato nei decenni successivi. Florence Mauro, una
scrittrice francese, di padre di origine piemontese, che porta nella propria formazione le tracce profonde di quella memoria, ha voluto raccontare la folgorante
parabola di Leone «come fosse una bandiera, un manifesto, un tentativo di fornire un contrappunto alla cattiva qualità della storia presente».
LA REDENZIONE DELL’ITALIA. SAGGIO SUL «PRINCIPE» DI
MACHIAVELLI
di Maurizio Viroli
Laterza, 2013, p. XXXI-118, 16,00 Euro - disponibile anche in ebook
Niccolò Machiavelli ha scritto il “Principe” per disegnare, invocare e formare un
redentore politico in grado, con l’aiuto di Dio, con la forza della profezia e quella
delle armi, di liberare l’Italia dal dominio straniero. La sua opera più famosa, di
cui ricorre quest’anno il cinquecentesimo anniversario della composizione, non
contraddice affatto le idee repubblicane di Machiavelli ma ne costituisce la necessaria integrazione. Non è neppure, come molti autorevoli studiosi hanno ritenuto,
il manifesto del realismo, né il testo che inaugura la moderna scienza della politica, né quello che proclama la dottrina dell’autonomia della politica dall’etica.
È, invece, una splendida orazione sulla redenzione dell’Italia, scritta da un uomo
che sapeva trovare la sua rinascita spirituale nel pensiero delle “grandi cose”.
Questo è il significato del Principe, e in questo sta la sua attualità. Quando nessuno
lo leggerà più, vorrà dire che è morta l’aspirazione alla grande politica che sa
redimere i popoli, e che ci siamo rassegnati alla penosa politica dei mediocri politici.
MACHIAVELLI. FILOSOFO DELLA LIBERTÀ
di Maurizio Viroli
Castelvecchi, 2013, p. 144, 16,50 Euro
Niccolò Machiavelli è uno dei padri del pensiero politico moderno e i suoi libri
- da “Il Principe” ai “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” alle “Istorie
fiorentine” - continuano ad essere letti, studiati e discussi. Persiste ancora tuttavia
il luogo comune di un Machiavelli cattivo maestro, teorizzatore dell’opportunismo politico, pronto a giustificare l’amoralità del potere e di chi lo esercita. Maurizio
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il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
Viroli, uno dei maggiori esperti del filosofo italiano, dimostra in questo libro agile
e denso quanto questa idea sia sbagliata. Il pensiero di Machiavelli è infatti ispirato a un sincero amore per la libertà repubblicana, vive di un confronto intenso
con i classici dell’antichità, appare complesso e articolato perché si confronta
costantemente con la realtà dei fatti, con l’azione politica. Viroli ci introduce così,
senza pregiudizi, alla lettura di Machiavelli, restituendoci l’immagine di un autore
mosso da profonde passioni e, soprattutto, ancora necessario per interpretare il
nostro presente.
DIARIO DI UN ARCIDIAVOLO
nell’Italia della democrazia liquida (1994-2013)
di Mario Isnenghi
Donzelli, 2013, p. XII-220, 20,50 Euro
Quando, nel 1994, Berlusconi «scende in campo», sono passati trent’anni da che
Mario Isnenghi – uno dei nostri storici più lucidi e caustici – ha cominciato a
firmare con assiduità le Noterelle e schermaglie di «Belfagor», vale a dire la rubrica
più acuminata della rivista più combattiva nel panorama della nostra recente
letteratura civile. Da quel momento, Isnenghi prende un impegno che non smetterà di onorare con puntiglio a novembre di ogni anno, fino al 2012: annotare
minuziosamente le vicende del mal paese, fare le pulci alla cronaca, con umorismo pungente e quant’è giusto amaro. Per diciannove anni la penna del collaboratore dell’Arcidiavolo scava, fa i nomi e, quando serve, leva la pelle; e gli anni,
intanto, diventano un vero e proprio ciclo. È una fortuna, ora, poter disporre di
questo diario in pubblico, che coincide con l’era berlusconiana. Non vi si parla
però sempre e solo di Berlusconi. Anzi, a un certo punto, constatando il rischio
di essere risucchiati dall’assillo, uno dei pezzi fa espressa obiezione: «Qui non si
parla di Berlusconi». E infatti, la serie ripercorre, a cominciare da Achille Occhetto,
tutti i successivi (e ben riusciti) suicidi della sinistra; come anche la «doppia cittadinanza» dell’Italiano, per effetto di quello strapotere del Vaticano, che sembra
quasi volentieri subìto, ancor prima che imposto; e non mancano Bossi, le camicie verdi, il dio Po e la cima del Monviso, e poi Monti e Grillo; e l’università,
la scuola, la stampa quotidiana, che è nello stesso tempo oggetto e fonte di queste
cronache del discorso pubblico. E, alla fine, Isnenghi spererebbe di potersi concedere la pensione, ma non è affatto detto che gli venga consentito…
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
FRATELLI COLTELLI
di Giorgio Bocca
Feltrinelli, 2013, p. 336, 9,00 Euro
“L’Italia, un Paese spesso logorante nei suoi sprechi, nelle sue occasioni mancate,
ma pietoso e vivibile”
In questo libro-antologia è raccolto in modo organico e sistematico il meglio della
produzione “storica” di Giorgio Bocca, articoli che a suo tempo hanno rivoluzionato lo stesso modo di fare inchiesta e quindi il giornalismo italiano, quando
“l’Anti-italiano” per eccellenza si mischiava ai pendolari che al mattino presto si
recavano al lavoro nel Triangolo industriale o descriveva gli abbacinanti fasti del
Miracolo italiano. Dalla caduta del fascismo alla Resistenza, dall’eredità della dittatura al boom economico degli anni sessanta, dal Sessantotto al fattore K., dagli
anni di piombo alla fine del fordismo, dalle mafie al leghismo e all’ascesa del
berlusconismo: tutti i grandi temi storici e civili che hanno contrassegnato la storia
nazionale dal secondo dopoguerra sono qui al centro di un libro straordinario,
specchio di antichi mali e al contempo di caduche virtù.
CON LA COSTITUZIONE SUL BANCO. ISTRUZIONI PER L’USO
DELLA COSTITUZIONE NELLE SCUOLE
di Chiara Bergonzini
FrancoAngeli, 2013, pp. 144, 18,00 Euro
Come affrontare la Costituzione nelle scuole? Quali articoli trattare? Come parlarne?
Sei anni di divulgazione tra i banchi delle scuole hanno dimostrato all’autrice che
la nostra Carta fondamentale (intesa come un sistema dinamico di principi e regole
vissute quotidianamente, di cui è essenziale cogliere prima di tutto il senso) è
perfettamente comprensibile anche ad alunni e studenti. Nato da questa esperienza, il manuale suggerisce agli insegnanti un originale metodo didattico, capace di
suscitare nei ragazzi curiosità, senso critico e consapevolezza del proprio ruolo
di cittadini.
Introdotti dalla spiegazione dell’origine storica del testo e da alcune avvertenze
metodologiche, gli articoli della Costituzione - corredati di un Dizionario costituzionale - sono, dapprima, illustrati attraverso le domande poste dalle classi durante
le lezioni e, poi, collegati tra loro in percorsi didattici basati su un interrogativo
comune: perché? Perché ci servono le regole? Perché le regole non sono tutte
uguali? Perché ad un certo punto della storia italiana si è deciso di scrivere una
Costituzione?
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il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
Perché è scritta così? Perché l’Italia è una Repubblica? Perché la Costituzione
contiene proprio quei diritti e quei doveri? Rispondere a questi (e molti altri)
quesiti aiuta studenti e insegnanti a scoprire facilmente la Costituzione italiana e
a capire che, in fondo, parla proprio di loro.
Il volume è strettamente correlato al sito Costituzione sul banco http://
www.costituzionesulbanco.it/, in cui si trovano numerosi contenuti multimediali
e il docufilm A scuola di libertà. Conoscere e insegnare la Costituzione, risultati di un
progetto d’eccellenza realizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
NEL SEGNO DELLA COSTITUZIONE
di Lorenza Carlassare
Feltrinelli, 2013, p. 256, 29,00 Euro
Di fronte alle drammatiche sfide del presente, la Costituzione ha ancora risposte
adeguate da dare? I suoi principi sono applicabili a situazioni nuove, un tempo
imprevedibili? Il dubbio non è irragionevole. Ma il fatto che sia un programma
per il futuro, pensato e costruito intorno a valori essenziali e senza tempo – la
persona umana e la sua dignità –, rende ancora possibile ricavare dalla Carta
fondamentale indicazioni forti persino riguardo a questioni inedite, quali quelle
derivanti dal flusso ininterrotto di persone in fuga da guerre, morte, miseria, in
cerca di pace e lavoro.
I punti di riferimento per orientarsi, se non per risolvere definitivamente problemi complessi e mutevoli, sono molteplici. In particolare, il principio di laicità,
prima regola per una convivenza possibile. Un principio legato in modo indissolubile al rispetto della persona, della sua sfera di libertà, della sua coscienza inviolabile e della sua autodeterminazione. Dignità della persona si coniuga poi con
eguaglianza, parola chiave, vessillo delle rivoluzioni settecentesche d’America e
d’Europa, che oggi non è solo parità di fronte alla legge, divieto di trattamenti
discriminatori, ma obiettivo da raggiungerecon la rimozione degli ostacoli che
generano diversità. La dignità della persona è inscindibile dalla centralità del lavoro sul quale la Repubblica si fonda e dall’istruzione, presupposto essenziale
della democrazia.
C’è una coerenza di fondo in questo programma. Non è tuttavia difficile manipolare i concetti secondo la convenienza politica: persino parole come libertà,
eguaglianza, legalità, costituzionalismo, imparzialità, onore, diritti e doveri, dignità
della persona e riservatezza possono essere usate in modo da neutralizzarne il
valore o capovolgerne il significato. Come avviene oggi, in particolare con il
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
concetto di democrazia, impropriamente inteso come dominio della maggioranza.
È allora necessario colmare un divario di conoscenza, che è divario di potere,
poiché l’ignoranza è da sempre appannaggio del popolo schiavo. La conoscenza
della Costituzione è il punto di partenza per un popolo che si voglia libero.
PATRIA E NAZIONE. PROBLEMI DI IDENTITÀ
E DI APPARTENENZA
di Fiorillo Vanda, Dioni Gianluca
FrancoAngeli, 2013, p. 224, 28,00 Euro
In questo volume si analizzano i problemi di identità e di appartenenza, variamente implicati dalla concettualizzazione della patria e della nazione nell’età
moderna e contemporanea.
L’orientamento metodologico è stato determinato soprattutto dal proposito di
valorizzare il pensiero di quegli autori classici della filosofia politica, ai quali, in
rapporto al tema della patria e della nazione, non è stata finora dedicata sufficiente attenzione da parte della critica italiana e straniera.
I saggi offrono, infatti, da un lato un ampio quadro tematico, che si articola tanto
in talune analitiche contestualizzazioni delle categorie di patria e di nazione in
singoli pensatori spagnoli (Suárez), tedeschi (Althusius, Pufendorf, Wolff) e italiani (Rosmini, Gramsci), quanto in alcune significative esemplificazioni di tale
tematica, le quali presentano a volte un carattere costituzionale e teorico-politico,
a volte uno psicologico-sociale. Dall’altro lato, un’approfondita panoramica della
storia del concetto di nazione - facendo specifico riferimento all’area germanica
- mette a fuoco gli snodi fondamentali di tale sviluppo concettuale dalle origini
medioevali fino ai giorni nostri.
Le principali linee interpretative di nozioni, quali quelle di patria, popolo, nazione, identità collettiva, appartenenza e altre ancora, sono state, infine, variamente
discusse e commentate in un’articolata Postfazione conclusiva.
LA MORALE TRA STORIA E LIBERTÀ
La riscoperta delle virtù in Alasdair MacIntyre
di Alessandro Ceravolo
Aracne, 2013, p. 156, 12,00 Euro
Il presente testo intende porre l’attenzione sull’originale prospettiva filosofica di
Alasdair MacIntyre a oltre trenta anni dalla sua pubblicazione fondamentale. Il
merito di Dopo la Virtù fu proprio quello di sconvolgere la riflessione morale
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il pensiero mazziniano
Alessio Sfienti
proponendo non solo una metodologia innovativa, radicata nella storia ma adeguata all’analisi della contemporaneità sociale, ma anche una delle prime riflessioni avverse ad un’idea di liberalismo quale unica prospettiva possibile. L’odierna
crisi morale dei sistemi democratici costringe a rivalutare le parole del filosofo
scozzese, approfondendo la sua lucida analisi e l’innovativo richiamo alla comunità come alternativa ad una vuota libertà senza limiti. Per meglio comprendere
la proposta macintyriana, Ceravolo sceglie di affrontare l’autore in questione sotto
cinque differenti punti di vista – fermenti comunitari, eredità biografica, analisi
del testo chiave, interpretazioni italiane, critiche di Frankena e Rorty – sintetico
tentativo di raggiungere un adeguato grado di completezza nello studio di un
pensiero che non si lascia inserire in definizioni precostituite.
FEDERALISMO E DEMOCRAZIA IN AMERICA
Da Alexander Hamilton a Herbert Croly
di Giuseppe Bottaro
Aracne, 2013, p. 184, 15,00 Euro
Da decenni si discute e si polemizza, in Italia e in Europa, sul federalismo e su
presunte teorie che poco hanno a che fare con il modello classico statunitense
del tardo diciottesimo secolo o con la sua evoluzione storica elaborata all’inizio
del Novecento per meglio rispondere alle esigenze sempre più complesse e articolate del sistema economico, sociale e politico americano. Per questa ragione,
le formule banali o addirittura inconsistenti teorizzate nel nostro paese di
federalismo fiscale, demaniale o territoriale eludono l’essenza del problema che
consiste nell’elaborazione di un efficace modello di federalismo politico nel quale
il dilemma istituzionale diviene centrale rispetto a qualunque formula economicosociale. Ritornare alle dottrine o ai modelli classici del federalismo statunitense
realizzati nella Costituzione federale e interpretati in maniera autentica da Alexander
Hamilton e James Madison nel Federalista, al contraltare antifederalista
jeffersoniano e tayloriano e, infine, guardare alla sintesi che all’inizio del Novecento provano a elaborare Herbert Croly o Woodrow Wilson può aiutarci a risolvere anche i nostri attuali problemi politici e istituzionali.
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
Recensioni
Quando i libri fanno la storia
L’Associazione di Storia Contemporanea, fondata a Macerata il 13 gennaio 2011
e presieduta dal prof. Marco Severini (docente di Storia dell’Italia Contemporanea
presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata), ha orientato le proprie ricerche nell’ambito della storia politica, sociale e culturale, privilegiando a volte la storia territoriale, altre quella nazionale. Ne sono scaturiti volumi
innovativi sia nell’argomento trattato che nel taglio metodologico. In questa sede
ci occupiamo di un libro collettaneo che raccoglie i testi, opportunamente revisionati, di una rassegna di conferenze che si sono svolte tra 2012 e 2013 e si
sono prefisse l’obiettivo di rileggere e far conoscere, se non addirittura scoprire,
alcuni classici della storiografia contemporanea.
Da ciò è nato il volume Letture storiografiche. I libri di storia che hanno fatto la storia
(a cura di Marco Severini, CF edizioni, Fermo 2012, pp. 230), composto da dieci
saggi di altrettanti studiose e studiosi che hanno re-interpretato testi diversi come
Dei doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, Novecento di Tony Judt, Apologia della storia
di Marc Bloch, La storia della politica estera italiana di Federico Chabod, Risorgimento
e capitalismo di Rosario Romeo, Alle origini del movimento femminile in Italia di Franca
Pieroni Bortolotti, Mussolini il rivoluzionario di Renzo De Felice, Il pontificato di Pio
IX di Giacomo Martina, Una Guerra Civile di Claudio Pavone e Il secolo breve di
Eric J. Hobsbawn.
Nell’Introduzione all’opera, il curatore si sofferma sia sugli intenti che hanno mosso
l’iniziativa sia sulla stessa arbitrarietà che una scelta del genere poteva comportare: chissà quanti altri “classici” si potevano rileggere e indagare, ma indubbiamente
questi avevano, nell’ambito della manifestazione, una propria significatività; ancora, il
curatore evidenzia come il primo e l’ultimo dei libri riletti costituiscono due libri “che,
per motivi opposti, possono essere considerati dei classici sui generis” (p. 7).
Il primo tra questi due libri è Dei doveri dell’uomo che, pubblicato nel 1860, viene
comunemente considerato il bestseller di Giuseppe Mazzini. Questi spiegò quali
erano i problemi e le questioni reali da affrontare insieme alla scelta democratica
e repubblicana che avrebbe dovuto caratterizzare l’avvenire d’Italia. Il modo in
cui Mazzini si rivolgeva alla gente comune ha reso famosa questa opera tanto è
vero che Sara Samorì ricorda come Dei doveri sia “una sorta di trattato o di un
manuale di Storia d’Italia, dedicato agli operai italiani, scritto con un registro
popolare e dettato sotto l’impulso di raccogliere in un testo organico il suo
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il pensiero mazziniano
Gwenola Spataro
pensiero” (p. 175). Anche intellettuali e statisti del calibro di Woodrow Wilson,
Lloyd George, Gandhi e Golda Meir si sono interessati a questo capolavoro che
ha venduto oltre un milione di copie ed è stato tradotto in diverse lingue
straniere. La chiarezza narrativa, la profonda eticità del pensiero politico, il valore
civico e pedagogico degli argomenti trattati e la lungimiranza delle scelte delineate per il futuro di un’Italia che all’atto della composizione neppure esisteva, sono
le ragioni della validità e dell’attualità del testo mazziniano.
La seconda opera in un certo qual modo atipica è Novecento di Tony Judt: la
biografia è ricostruita da Matteo Soldini, mentre Marco Severini ha indagato l’opera
che, fin dalla sua uscita editoriale, ha fatto registrare un grande successo. Lo
studioso anglo-americano – nato a Londra nel 1948 e morto a New York nel
2010 – ha realizzato insieme al suo collega Timothy Snyder una profonda
rivisitazione del Novecento, il secolo della politica e degli intellettuali (come recita
il sottotitolo italiano dell’opera, pubblicata da Laterza). Dopo aver insegnato a
Cambridge, Oxford, Berkeley e a New York, Judt si è dedicato alla scrittura di
un libro che, oltre a riflettere sulle eredità novecentesche, spiega che cosa significhi oggi il mestiere di storico. È indubbiamente un testo originale che mescola
biografia, trattazione etica, riflessione politico logica e metodologica in uno stile
brioso e coinvolgente. Grazie alla sua esperienza di ricercatore e docente, Judt ha
mostrato quali devono essere le caratteristiche di un libro di storia, quali siano
l’interesse verso questa disciplina ma anche i limiti e gli errori da evitare per scrivere
una ricerca di qualità. Quanto agli intellettuali, il loro compito consiste nel “colmare il vuoto che si allarga tra le due parti della democrazia, i governati e i
governanti” (pp. 212-213), svelando i pericoli insiti nella società e interpretando
al meglio la loro funzione civile.
La vera e propria trattazione di Letture storiografiche prende, però, le mosse con un
classico intramontabile, come Apologia della storia di Marc Bloch.
È questo uno dei testi più notevoli di teoria storiografica del Novecento ma al
contempo, come sottolinea Andrea Pongetti, un’opera stimata anche dai non
specialisti. Purtroppo è rimasto incompiuto per via della morte dell’autore (fucilato dalla Gestapo a Lione il 16 giugno 1944) ed è stato completato dal figlio di
Bloch, Etienne, nel 1993. Marc Bloch era uno storico di fama internazionale,
medievista apprezzato, nonché fondatore insieme a Lucien Febvre, nel 1929, della
rivista «Les Annales» che ha dischiuso nuovi orizzonti e scenari nel panorama
storiografico novecentesco. In particolare, in questa sua opera, Bloch riflette sulla
metodologia della ricerca storica, sulla sua natura scientifica nonché sulla sua
funzione civile e sociale. Insomma, Apologia della storia rimane “un classico” che
ha saputo mantenere intatto nel tempo “il suo fascino” e “il suo valore
storiografico” (p. 29), riassumibile in alcuni elementi di fondo: la difesa della storia
il pensiero mazziniano
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Libri, Cultura e Società
come elemento imprescindibile per la società, il suo essere una scienza umana e
dinamica, l’eticità e la piacevolezza della ricerca storica insieme alle incertezze e
ai fallimenti ad essa legati.
Proseguiamo il percorso con la Storia della politica estera italiana di Federico Chabod.
Attraverso complesse ricerche archivistiche compiute negli anni 1936-43 presso
l’Archivio storico del ministero degli Esteri e altri fondi pubblici e privati, Chabod
ricostruì in maniera memorabile uno degli aspetti più importanti della politica
italiana post-unitaria. Lidia Pupilli ha notato come la ricerca chabodiana si sia
rivelata ampia e, sotto diversi aspetti, innovativa: un’opera che ha svelato molti
di quei principi ispiratori dello storico valdostano che sono comunemente noti
come canone chabodiano: leggere tutto e di tutto rendere conto in una composizione caratterizzata dallo stile alto, dal notevole apparato critico, dall’esposizione distesa
e con l’attenzione rivolta principalmente alle correnti politiche e ideali. Nella Storia,
l’idea di nazione e quella di nazionalismo, la politica interna e quella estera, la
vicenda nazionale e quella europea sono attentamente indagate da Chabod in un
libro che ha segnato, tra l’altro “il superamento della tradizionale storia diplomatica” (p. 44), ha dispiegato nuovi scenari e interpretazioni per la storia della politica
estera italiana e avviato un profondo rinnovamento negli studi storici.
Nel 1961 venne pubblicata un’opera destinata a grande fortuna e, insieme, ad
animare una delle più dibattute pagine culturali dell’Italia novecentesca, Risorgimento e capitalismo di Rosario Romeo, qui rivisitato da Silvia Serini. Libro fondamentale, rappresenta un punto di svolta storiografico e insieme un modello di
ricerca avanzato. Grazie a una puntuale revisione dell’interpretazione marxista sul
Risorgimento e ad un’analisi minuziosa della storia economica italiana, Romeo
colse nel Risorgimento un momento-chiave nella storia dell’identità nazionale: in
sostanza, la mancata rivoluzione agraria, di cui aveva parlato Gramsci, apparve
per lo storico siciliano funzionale al processo di accumulazione capitalistico utilizzato nel tessuto industriale del Nord-Italia. Queste tesi suscitarono una delle
più articolate polemiche del secondo dopoguerra, trovando nella risposta dell’economista russo Alexander Gerschenkron una valenza politico-ideologica capace di
trascendere “l’aspetto unicamente storiografico” (p. 65). L’opera di Romeo si è
distinta per il notevole valore culturale, metodologico, scientifico e di testimonianza civile e costituisce a tutt’oggi una lettura indispensabile per orientarsi negli
studi risorgimentali.
Emanuela Sansoni ha analizzato Alle origini del movimento femminile in Italia di Franca Pieroni Bortolotti, un’opera, del 1965, che viene considerata tra le prime della
storia di genere in Italia. Il libro della Bortolotti è sia una completa biografia
politica di Anna Maria Mozzoni (1837-1920), dalle prime esperienze attiviste nei
circoli mazziniani lombardi fino alla lotta trentennale per superare gli angusti limiti
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il pensiero mazziniano
Gwenola Spataro
posti alle donne dal legislatore italiano, sia un’esperienza significativa per capire
dove e come si siano orientati nell’Italia del secondo dopoguerra gli studi sui
processi di emancipazione femminile. Profondamente calato nel clima innovatore
degli anni sessanta, caratterizzato da “crescenti domande poste sulla scena sociale
e politica dai movimenti femministi” (p. 93), il libro della Bortolotti venne disertato dalla storiografia accademica del tempo e riscoperto, proprio per il notevole
spazio dedicato a un frangente e a una figura eccezionale della lotta politica delle
donne, a partire dagli anni settanta. Da qui fino ai nostri giorni la storia di genere
è divenuta un comparto sempre più apprezzato (e autonomo) delle scienze storiche, ma il solco tracciato dalla Bortolotti con le sue innovative ricerche si avverte ancora.
Nel 1965, Renzo De Felice pubblicò Mussolini il rivoluzionario, primo volume di un
trentennale impegno storiografico che purtroppo è rimasto incompiuto per via
della morte dello storico, avvenuta il 25 maggio 1996 a Roma. Matteo Soldini
afferma che De Felice è stato riconosciuto come lo storico più autorevole della
storia del fascismo, uno dei maggiori contemporaneisti italiani ma allo stesso tempo
uno dei più discussi e contestati: le polemiche che hanno accompagnato per un
trentennio, dal 1965 al 1997 (l’ultimo tomo uscì postumo), l’uscita dei diversi
capitoli dell’opera defeliciana rappresentano oggi un capitolo a sé della storia della
storiografia. Mussolini il rivoluzionario è un’opera di riferimento nello studio del
fascismo sia perché si basa su ricerche vaste e complesse sia per le sue “tesi
dirompenti” che hanno imposto l’abbandono di certe “vulgate” e l’adozione di
“un atteggiamento critico” e di un “piglio scientifico” (p. 113). De Felice ha usato
due volte lo strumento del libro-intervista per esplicitate temi e metodi utilizzati
nei densi volumi della biografia mussoliniana: la prima volta nel 1975 con Intervista sul fascismo e nel 1995 con Rosso e Nero, l’ultimo lavoro di una carriera scientifica eccezionale.
Tra il 1974 e 1990, lo storico gesuita Giacomo Martina, allievo e traduttore dello
studioso belga Roger Aubert, ha ricostruito in tre magistrali volumi il trentennale
pontificato di Pio IX, uno dei papi più discussi della contemporaneità. Martina
ha proposto una visione del pontificato un po’ diversa dagli schemi interpretativi
abituali. Marco Severini sottolinea la “grandezza” (p. 137) della ricerca di Martina
che, con coraggio culturale e solidità di metodo e di narrazione, ha fatto giustizia
di un tema in cui si sono a lungo mescolati agiografia, contrapposizioni ideologiche, intenti apologetici ed eruditi. In un campo così confuso lo storico, nato a
Tripoli nel 1924 ma che ha sempre vissuto a Roma, ha offerto un efficace modello
storiografico: presentazione delle fonti e della bibliografia; narrazione ampia e
minuziosa, nella quale una sorprendente capacità di analisi della documentazione
si alterna con focali passaggi di sintesi degli argomenti trattati; assoluta libertà di
il pensiero mazziniano
147
Libri, Cultura e Società
interpretazione della materia, interpretazione resa visibile in pagine-chiave dell’opera.
Le linee-guida del pontificato piano, in cui la Chiesa si è confrontata/scontrata
con il Risorgimento e il mondo moderno, sono state, secondo Martina, la
riqualificazione del clero secolare e regolare, la riaffermazione dell’indipendenza
della Santa Sede, un certo ritardo della cultura ecclesiastica, la vittoria sui residui
del gallicanesimo e del giuseppinismo, ma anche l’inizio di un lungo conflitto tra
lo Stato e la Chiesa, e quindi tra laici e cattolici, che ha profondamente inciso
nella storia italiana. Insomma il “bilancio chiaroscurale” del pontificato di Pio IX
appare come la tesi di fondo del lungo lavoro di Martina: una tesi che è rimasta
intatta a distanza di oltre un ventennio dall’uscita dell’ultimo tomo di Pio IX.
Claudio Pavone ha racchiuso nella pubblicazione di Una guerra civile (1991) trent’anni
di ricerche e riflessioni su uno degli snodi più importanti della vicenda storica
italiana, quello resistenziale. Questo libro, innovativo, rigoroso e complesso ha
subito fatto riscontrare, nell’ambito accademico come tra il pubblico, “un immediato successo” (p. 142).
Luca Frontini ha ripercorso l’intensa vicenda biografica e professionale di Pavone
e ha ricordato la natura “civile” di questo denso lavoro di ricerca (per un totale
di 850 pagine) che, alla sua uscita editoriale, destò una vasta eco nel dibattito
storico-intellettuale, con i più qualificati storici e giornalisti italiani pronti a sottolineare il carattere innovativo e di rottura di Una guerra civile. Lo studioso romano ha proposto due modi di affrontare e concepire la Resistenza: da un lato,
la guerra civile avvenuta in Italia dal 1943 al 1945 che ha opposto partigiani e fascisti
della Repubblica di Salò, ma, dall’altro, ha espresso una visione della Resistenza
poco conosciuta e deprivata della profondità di eventi drammatici, epici e divisivi,
sulla base appunto di una visione molto legata alla moralità, oggetto principale
della ricerca di Pavone.
L’ultima opera trattata da Letture storiografiche è quella, ben nota, di Eric. J. Hobsbawn
Il secolo breve, uscita in Gran Bretagna nel 1994. L’interpretazione dell’autore ha
cambiato la visione sul Novecento: questo secolo è stato ricco di eventi storici
come lo scoppio del primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, la
predominanza del comunismo fino al 1991 che chiude il Novecento, la seconda
guerra mondiale, la decolonizzazione, ma anche crisi e crescite economiche, progressi scientifici, mutamenti strutturali nella società, nei rapporti tra i sessi, nella
visione dell’ambiente, nella ricerca scientifica, nella stessa relazione tra l’uomo e
l’universo. Lucio Febo ravvisa ne Il secolo breve una certa flessibilità interpretativa,
una duplice “architettura ternaria” (p. 170), cioè sia sul piano temporale (tre fasi:
la prima “della catastrofe”, comprendente il trentennio delle guerre mondiali;
“dell’oro”, dal 1947 al 1973 e, infine, “della frana”, fino al crollo nel 1991 dell’Urss,
una nuova età di “decomposizione” e “crisi”, secondo Hobsbawn) e spaziale
148
il pensiero mazziniano
Gwenola Spataro
(Primo, Secondo e Terzo Mondo) e una sostanziale visione chiaroscurale del
Novecento, secolo contrassegnato da elementi regressivi e costruttivi oltre che da
una certa “consapevolezza di sé”.
In conclusione, ognuno di questi studiosi ha cercato di rileggere i sopracitati classici,
prestando attenzione alla vicenda esistenziale dei loro autori, al metodo storiografico
da essi proposto e ai caratteri essenziali dei loro scritti. Nell’accettare, quindi, una
comune proposta storiografica, essi hanno declinato il proprio compito liberamente, ricercando una qualche forma di dialogo con il testo indagato. Non a
caso, nella Premessa a questo interessante libro d’insieme Vittoriano Solazzi ha
scritto: “Leggere la storia vuole anche dire dialogare con il passato” (p. 6).
E il tema del dialogo – con la storia e gli storici, con le scienze umane e non,
con le generazioni più diverse di lettori, cultori e appassionati di questa disciplina
(con un’attenzione particolare nei confronti dei giovani), con la società globalizzata
e multi-etnica, e i suoi differenti problemi – viene sviluppato nei capitoli attraverso voci e accenti molteplici, sempre però sottolineando la diversità e l’originalità di narrazione, interpretazione e impostazione metodologica usata dagli storici
nelle loro opere. Infatti, come ricorda il curatore, per fare un vero e proprio libro
di storia, la metodologia, l’interpretazione e la narrazione devono essere corrette,
chiare e plausibili.
Gwenola Spataro
il pensiero mazziniano
149
Libri, Cultura e Società
Domenico Felice, Introduzione a Montesquieu
Bologna, Clueb, 2013, pp. 235
Questa recente monografia prende in esame le principali concezioni avanzate dal
pensatore bordolese Montesquieu (1689-1755) non solo nei suoi tre notissimi
capolavori, le Lettres persanes (1721), le Considérations sur les causes de la grandeur des
Romains et de leur décadence (1734) e l’Esprit des lois (1748), ma anche negli altri suoi
innumerevoli – e spesso poco conosciuti – testi, ponendo in evidenza come i
suoi punti di vista e teorie abbiano fornito alcuni dei loro pilastri più solidi tanto
alle moderne scienze umane quanto agli Stati di diritto sorti negli ultimi due secoli,
il che – a ben vedere – distacca in larga misura il gentiluomo transalpino dalle
più comuni idee illuministiche, proiettandone il pensiero nel futuro.
Domenico Felice – uno dei maggiori specialisti a livello internazionale dell’opera
del Président, direttore sia della rivista «Montesquieu.it» sia dell’omonima biblioteca elettronica (< www.montesquieu.it >) e curatore dell’edizione italiana degli scritti
del filosofo settecentesco in corso di stampa da Bompiani (collana “Il pensiero
occidentale”) – mostra come il Bordolese venga ad elaborare nel tempo, grazie
agli studi e ai viaggi, una raffigurazione dicotomica secondo cui l’Asia risulta
condannata alla schiavitù e a un potere dispotico perenni, mentre l’Europa vede
il continuo avvicendamento tra epoche contrassegnate dalla barbarie ed epoche
contrassegnate dalla civiltà. È nel suo celebre trattato filosofico-politico presentato sotto forma di romanzo epistolare, le Lettres persanes, che per la prima volta
l’autore transalpino affronta – con sguardo lucido e realistico – suddetta dualità,
rivelando che alla base del proprio pensiero sta la preoccupazione per l’oppressione dell’uomo sull’uomo, una condizione – questa – che egli considera alquanto
diffusa sul pianeta (pp. 23-41).
Subito dopo aver pubblicato le Lettres persanes, improntate ad un «catastrofismo
nero» (così, Jean-Marie Goulemot) che lo soddisfa sempre meno, Montesquieu si
dedica ad un’intensa rilettura degli scritti dei suoi amati pensatori stoici, e in questo
modo la sua vocazione a smascherare il vizio e a dire la verità a se stessi e agli
altri si “complica”: interrogandosi approfonditamente sulla natura umana e sulle
cause dell’oppressione, e meditando sulle effettive possibilità che ha il singolo di
agire per il bene collettivo, il filosofo bordolese concentra la propria riflessione
sulle modalità mediante cui l’individuo può riuscire a proiettarsi al di là di sé,
ossia a porsi come fine il genere umano, così da ridurre concretamente la violenza dell’uomo sull’uomo.
Nel Traité des devoirs e nel Discours sur l’équité (entrambi composti nel 1725), la
morale pratica di Marco Aurelio diventa l’esercizio attraverso il quale esprimere
150
il pensiero mazziniano
Giulia Bezzi
la giustizia che si delinea, secondo l’autore transalpino, come «un rapporto degli
uomini fra loro» (p. 47). Felice sottolinea che la concezione della duplicità dell’uomo presente nelle opere montesquieuiane – vale a dire, la tendenza all’esercizio dell’egoismo ovvero della virtù –, assume una fisionomia preminentemente
utilitaristica all’interno delle Lettres persanes, mentre a partire dai due scritti appena
menzionati è possibile riscontrare una maggiore fiducia nell’inclinazione naturale
della virtù umana.
Felice non manca di concentrare l’attenzione anche sui due testi che in maniera
più diretta ed esplicita preludono all’Esprit des lois: si tratta delle Considérations sur
les Romains e dell’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères, opera
– quest’ultima – stesa nel 1734-38 circa e lasciata inconclusa e inedita (pp. 145152). All’interno di questi importanti scritti,vengono illustrate e messe alla prova
sul terreno ermeneutico,per la prima volta in maniera compiuta, le note categorie
montesquieuiane di «spirito generale» e di «grandezza e decadenza». L’esprit général
peculiare di ogni nazione corrisponde all’identità di ciascun popolo plasmatasi nel
tempo e in un certo territorio, e costituita dalla compresenza simultanea di cause
tanto fisiche quanto morali. Questo modellarsi nella storia di natura e cultura –
esemplificato, nell’Essai sur les causes (Parte prima), dalla bella immagine del ragno
nella sua tela – non porta né a una visione implicante il determinismo climatico
(il clima è infatti inteso dal filosofo francese come il più potente carattere causale
oggettivo), né ad un azzeramento completo delle cause fisiche da parte di quelle
morali nell’àmbito dell’esistenza umana, ma palesa ancora una volta la centralità
del rapporto dicotomico all’interno del pensiero di Montesquieu. Nell’Esprit des
lois, egli avrà poi cura di mostrare come siano le cause morali ad assumere sempre maggiore forza a mano a mano che ci si allontana dalla condizione originaria
dell’umanità (pp. 149-152).
Nelle Considérations sur les Romains, opera in cui viene condotta una incisiva e
penetrante esplorazione ravvicinata del caso concreto della parabola storica dei
Romani, Montesquieu tratteggia la categoria gnoseologico-esplicativa di grandeur et
décadence, della quale egli si servirà, nell’Esprit des lois, per dar vita ad un metodo
universale d’indagine idoneo alla costruzione di una compiuta e organica scienza
delle società. Si evidenzia così la volontà del Président di interrogarsi sui motivi
profondi del nascere e perire dei popoli e delle civiltà, il che gli permette di
abbozzare non tanto uno schema di progresso indefinito, quanto piuttosto una
teoria che reca in seno una visione tragica dell’uomo, dal momento che tutte le
sue realizzazioni, compresi i sistemi giuridico-politici, sono destinati un giorno a
tramontare. Sennonché, questa finitezza delle choses humaines non conduce alla
scomparsa dell’intero genere umano: il declino di certi popoli si accompagna
all’ascesa di altri, i quali a loro volta rovineranno a beneficio di altri ancora; per
il pensiero mazziniano
151
Libri, Cultura e Società
questo, si può legittimamente considerare siffatto sguardo del Bordolese sulla realtà
storica come «evolutivo-involutivo» (pp. 64-79).
Arrivato ad affrontare il cuore del pensiero montesquieuiano, Felice mostra come
l’opus magnum del 1748 sia il libro nel quale viene illustrata una nuova branca del
sapere, cioè la scienza universale dei sistemi politico-sociali (intorno a quest’aspetto
e ad altri di cui stiamo per dire, può essere utile vedere l’articolo che Piero
Venturelli ha pubblicato l’anno scorso nella presente rivista: Montesquieu, filosofo
della politica e del diritto. Alcune considerazioni, «Il Pensiero Mazziniano», a. LXVIII
[2013], fasc. 1, pp. 11-24). Ricordato che l’autore transalpino definisce le lois come
«rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose» (Esprit des lois, I, 1), Felice –
in sintonia con Hannah Arendt – evidenzia l’originalità dell’idea montesquieuiana
di legge come non violenza, sottolineando che l’attenzione è da porre in particolar
modo sul termine rapports, cioè sui legami esistenti tra gli uomini. Il rapporto di
giustizia delineato qui come anteriore alla legge positiva (una concezione, peraltro, già prefigurata nella LXXXIII delle Lettres persanes), inevitabilmente conduce
il Bordolese lontano dai fondamenti del pensiero antropologico ed etico-politico
di Hobbes. Nell’Esprit des lois (I, 2), infatti, lo stato di natura viene fatto coincidere con l’originaria condizione di eguaglianza di tutti gli esseri umani, la cui
naturale socievolezza li predisporrebbe a ricercare la pace; in ciò trova giustificazione teorica il tentativo montesquieuiano di concepire un ordinamento politico-costituzionale moderato (o libero) che possa perfezionare le leggi della natura
umana attraverso un coerente sistema di controllo e separazione dei poteri, fattore – questo – destinato ad assurgere, com’è noto, a cardine degli Stati di diritto
in epoca moderna e contemporanea. La guerra e la pace diventano così valori
relativi che “aprono” a un pluralismo sociale, culturale e politico, e che costituiscono – con tutta evidenza – l’antitesi del monismo assolutista che caratterizza
la visione di Hobbes (pp. 92-105). Felice sottolinea come questo sguardo
montesquieuiano palesi significativi tratti di novità, in quanto la relativizzazione
dei valori consente di concepire da un lato una “guerra giusta”, dall’altro una
pace sociale che non è annullamento di qualsivoglia contrasto, bensì un’armonia
che il Président vede raggiunta, attraverso il conflitto, tra forze ed interessi diversi
presenti in seno alle varie società (pp. 105-106).
Perseguendo obiettivi che non appaiono di tipo strettamente giuridico, Montesquieu
tenta di capire quali siano le reali forze politiche e sociali che di volta in volta
stanno dietro le istituzioni statuali. Di conseguenza, alla nota tripartizione delle
forme di governo possibili (repubblica, monarchia e dispotismo, là dove quest’ultimo è ricondotto di preferenza a contesti geografici e culturali extraeuropei, e
viene elevato – per la prima volta nella storia del pensiero filosofico-politico –
a genere autonomo di ordinamento) il gentiluomo bordolese affianca una
152
il pensiero mazziniano
Giulia Bezzi
bipartizione dei regimi la quale gli permette di porre l’accento sul quantum di libertà
politica – o, specularmente, sull’entità dell’abuso di potere – all’interno di ogni
singolo sistema costituzionale. Poiché, a suo avviso, la scala che va da una minore
a una maggiore libertà politica coincide di fatto con la sequenza che procede da
una più esigua a una meno limitata distribuzione dei poteri (si tratta del potere
religioso e di quello civile, e, nell’àmbito di quest’ultimo, dei poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario), il che delinea una visione gradualistica degli elementi presi
in esame, Montesquieu viene a trovarsi nuovamente in netto disaccordo con talune
importanti concezioni avanzate da Hobbes. Il filosofo di Malmesbury, nel Leviathan,
respinge infatti – com’è noto – ogni possibile ipotesi di separazione dei poteri
e quel modello costituzionale “misto” che egli vede come letale anomalia dello
Stato; a suo avviso, il sovrano deve piuttosto riunire in sé tanto il potere politico
quanto il potere ecclesiastico, diventando così una figura che Felice considera per
molti aspetti analoga a quella del prince orientale delineata nelle pagine dell’Esprit
des lois (pp. 115-116).
La descrizione del despota come individuo che esercita il potere in modo arbitrario entro i propri territori e tratta i governati alla stregua di meri servi, richiama l’immagine che del monarca corrotto – o tiranno – diversi “classici” del
pensiero politico occidentale hanno offerto nel corso dei secoli. Tuttavia, come
si poneva in evidenza, l’originale prospettiva di Montesquieu contempla l’autonomia di suddetto regime: egli, infatti, viene a considerare il dispotismo quale genere di governo a sé stante, mentre in precedenza gli autori hanno preferito
identificarlo come mera sottospecie della specie monarchia (pp. 107-108, 133-137).
Felice non manca poi di focalizzare l’attenzione su un ulteriore fondamentale
elemento innovativo contenuto nelle concezioni del Président: l’indipendenza del
potere giudiziario da quello legislativo e da quello esecutivo nei reggimenti moderati.
L’autonomia della giustizia, nella prospettiva montesquieuiana, costituisce il requisito minimo per poter parlare di liberté de la constitution di un ordinamento, il che
crea le condizioni perché i cittadini godano concretamente della libertà politica
e perché negli organismi statuali esistano un reciproco controllo dei poteri (ma,
s’intenda, di poteri che collaborano alla gestione della cosa pubblica) e la possibilità di correggere, attraverso le leggi, ogni eventuale abuso dovesse generarsi
nell’esercizio di tali poteri (pp. 112-116, 138-139).
Come mostra bene Felice, la lezione del Président non si arresta alla nota forma
di distribuzione dei poteri istituzionali, ma si riverbera anche nel monito – attuale
in ogni epoca – secondo cui «la schiavitù incomincia sempre con il sonno» (Esprit
des lois, XIV, 13). Una visione che abbracci ed interpreti comparativamente le società
umane può aiutarci a percepire in esse anche il male, cioè la tendenza insita nel
genere umano a gravitare verso il basso, vale a dire verso il dispotismo (pp. 152-155).
il pensiero mazziniano
153
Libri, Cultura e Società
È sia nella limitazione e nel controllo reciproco dei poteri sia nel continuo interrogarsi, nell’incessante discutere, specie nella dimensione pubblica, che il
Bordolese riconosce i migliori strumenti per far godere e seguitare a far godere
ai cittadini di quella capacità di agire politicamente, ossia per esercitare con profitto la liberté politique, che impedisce ai governi pluralistici e moderati di precipitare nel baratro rappresentato dai regimi monocratici e oppressivi; si tratta di un
insegnamento che non ha perso valore col trascorrere del tempo: anzi, è tornato
più volte di tragica attualità dopo la morte del Président, come testimonia – ad
esempio – l’avvento dei totalitarismi nel secolo scorso. Anche da questo si comprende come il pensiero di Montesquieu appaia tuttora fecondo e capace di
promuovere riflessioni di vasta e decisiva portata sulla natura del potere, sul
concetto di libertà politica, sul ruolo del diritto e dei costumi all’interno delle
diverse società umane e sui fondamenti della civiltà europea.
Giulia Bezzi
154
il pensiero mazziniano
Luca Frontini
V. Stoppa, Memorie di un giovane garibaldino (1866-67),
a cura di V. Bravi, Longo, Ravenna 2012, pp. 238.
Nel libro vengono pubblicate, per la prima volta in volume, le memorie del lughese
Valentino Stoppa (1848-1924) diciottenne volontario tra le file garibaldine nella
Terza guerra d’indipendenza e poi, l’anno successivo, durante la sfortunata campagna nell’Agro romano. Il manoscritto, concepito e redatto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento («i due quaderni [...] portano la data del 1902
[...] però [...] vi era stata una stesura precedente», p. 58) è rimasto inedito per
quasi un secolo, conservato dai discendenti tra le carte di famiglia.
Negli anni novanta del secolo scorso, il nipote del garibaldino fa leggere i due
quaderni manoscritti alla ricercatrice Viviana Bravi, che si era rivolta alla famiglia
Stoppa per reperire documenti e informazioni di prima mano su Ernesta Galletti
(1850-1939), moglie di Valentino, donna attiva nell’emancipazionismo femminile,
pedagogista e fondatrice a Lugo di un Istituto froebeliano. «La lettura di questi
quaderni mi coinvolse fin dal primo momento e mi appassionavo ogni giorno di
più alle vicende narrate, testimonianze di una gioventù ben spesa e ricca di ideali
e di sogni» (p. 51).
Il volume è dunque il frutto di un meticoloso e pluriennale lavoro di ricerca da
parte della curatrice: la trascrizione completa e annotata del testo è preceduta da
una serie di studi introduttivi, in cui Viviana Bravi contestualizza a vari livelli le
memorie del garibaldino, ricostruendo la biografia dell’autore e l’universo sociale
in cui visse, soffermandosi in particolare sulla Società dei reduci dalle patrie battaglie
di Lugo - promossa e fondata da Valentino - sulla costruzione del mito di Garibaldi
in Romagna, e sulla narrazione degli avvenimenti politico-militari del 1866-1867.
Le memorie si aprono nel maggio del 1866 con Valentino Stoppa, diciottenne
apprendista sarto a Bologna - orfano di entrambi i genitori -, entusiasticamente
coinvolto in una gioiosa manifestazione garibaldina, durante la quale decide di
partire volontario per l’imminente guerra contro l’Austria: «Il mio principale mi
disse [...] che dovevo imparare il mestiere e vergognassi, così bardassa di volere
andare fra i rivoluzionari e che se fossi tornato non avrei più trovato il mio posto
nella sartoria. Ma la mia decisione era presa, farmi Garibaldino a qualunque costo»
(p. 135).
Trascorso un periodo di addestramento in Puglia («Giunti a Molfetta [...] Ci dissero
che la popolazione era contraria alla nostra venuta, che le donne non ci volevano
ritenendoci indemoniati [...] per le strade non si vedeva anima viva [...]. Per
acquetare le donne la domenica ci fecero schierare in piazza con la fronte alla
porta della chiesa, poi si videro i nostri ufficiali, in gran parte dell’esercito rego-
il pensiero mazziniano
155
Libri, Cultura e Società
lare, salire i gradini [...] e comparire il prete, le trombe suonarono l’attenti e come
un solo uomo si fece il Fas armi senz’ordini e partimmo tutti [...] non eravamo
venuti per ascoltar messe», pp. 137-138), Stoppa viene inquadrato nella seconda
compagnia, primo battaglione, dell’ottavo reggimento garibaldino. Comandato
inizialmente da Eliodoro Spech, e poi - dopo il misterioso suicidio di questi - da
Vincenzo Carbonelli, il reggimento di Valentino viene impiegato lungo la valle
del Chiese e sulle Giudicarie - tra la provincia di Brescia e il Trentino - e non
prende parte agli scontri più importanti; nel corso della campagna l’ottavo reggimento viene unito al sesto, formando un’unica brigata agli ordini di Nicotera.
Entusiasta e commosso dall’incontro con Garibaldi («Era la prima volta che lo
vedevo, non capivo più niente, non ero più di questo mondo», p. 141), Valentino
tuttavia non omette le difficoltà e le sofferenze patite durante la sua militanza
nell’esercito garibaldino, nel corso delle marce a tappe forzate («nello stato in cui
mi trovavo, camminavo a zig zag; inciampavo e urtavo un compagno assonito
egli pure, e mi rimproverava bestemiando. A un tratto l’urlo di un altro mi avvisava che potevo cadere nel lago, ed io appoggiando dalla altra parte battevo la
testa contro la roccia [...] procedevo come un automa, non avevo la conoscenza
di nulla», pp. 142-143) e durante le notti trascorse di sentinella («rimasto solo, ebbi
un fremito di sgomento. Guardai dalla parte del nemico, che mi stava di fronte [...].
Era giusto che io avessi ucciso un tedesco, o lui avesse ucciso me? no dovevamo
essere fratelli. Se Dio c’era non doveva permettere che ci odiassimo», p. 148).
Finalmente, dopo tanta abnegazione e tanti sacrifici, il 21 luglio a Bezzecca i
garibaldini hanno la meglio sugli austriaci: «Non vi erano che poche tappe, poi
si era a Trento [...] ma mentre la Vittoria ci arrideva, si sparse la voce che [...]
era stato firmato l’armistizio con ordine di sgombrare il Tirolo. [...] Non so
descrivere l’agitazione che avvenne fra noi. Urlavamo imprecavamo maledicevamo la monarchia, il tradimento del Re, molti puntavano la bajonetta contro le
roccie per romperle [...]. Il Nicotera cominciò un discorso di doveri e alle parole
“nostro Re” fu un urlo generale di abasso la monarchia - all’indirizzo di Nicotera,
falso repubblicano, venduto» (pp. 153-155). Chiuse le operazioni belliche, le truppe garibaldine vengono smobilitate, e i volontari rimandati ai loro luoghi di
provenienza: «Chi aveva i mezzi potevano [sic] restare qualche giorno a divertirsi
a Milano, ma noi dovevamo cedere e lasciarci condurre sino a Bologna in vagoni
da maiali tutti sporchi. [...] dai nostri concittadini rimasti a casa - solo i ricchi e
i contadini, perché seicento di noi giovani lughesi eravamo partiti chi volontari
[...] chi nell’esercito di leva [...] - non uno che vi dicesse parola d’elogio [...] ma
ci guardavano in cagnesco come se fossimo ritornati dalla galera. [....] Feci un
bagno caldo, mi vestii civile e dopo pochi giorni partii per Bologna e nuovamente
al mio lavoro» (pp. 155-156).
156
il pensiero mazziniano
Luca Frontini
La seconda parte della narrazione di Valentino si apre nel settembre del 1867,
nelle convulse giornate in cui si prepara il tentativo garibaldino di risolvere la
questione romana per via rivoluzionaria. Rispetto all’anno precedente, la spedizione deve essere preparata dai soli uomini del partito d’azione, ostacolati dalle forze
dell’ordine italiane (come è noto, nel 1864 il Regno d’Italia, stipulando con l’Impero francese la Convenzione di settembre, si era impegnato a garantire
l’inviolabilità dello Stato pontificio). Il giovane apprendista sarto, a Milano per
questioni di lavoro, partecipa alle manifestazioni politiche a favore della liberazione di Roma, duramente represse dalle forze dell’ordine. Desideroso di partecipare
alla nuova spedizione garibaldina che si veniva preparando, riesce non senza
difficoltà a raggiungere in treno Firenze, sede del Comitato insurrezionale costituito dagli amici di Garibaldi. Insieme ad altri volontari parte per Terni, dove i
garibaldini hanno modo di armarsi. «Dopo faticose marcie giungemmo al confine
[pontificio], e vedemmo che i nostri granatieri sbarravano il passo [...]. Il comandante [dei granatieri] aveva ordine severissimo di non lasciar passare, però chi
avesse osato la forza avrebbe avuto il passo. Allora mettemmo la bajonetta in
canna e a passo di corsa col grido Viva l’Italia Viva Roma, passammo, e il nostro
passaggio si unì il grido dei granatieri: Viva Garibaldi» (p. 166). Nell’Agro romano Valentino si aggrega ad una compagnia di volontari lughesi, comandata dal
conte Giulio Bolis; insieme ai suoi concittadini raggiunge il quartier generale
garibaldino, partecipando alla presa di Monterotondo.
La vittoria rinfranca le camice rosse, sempre più vicine a Roma e ormai fiduciose
di entrare nella città eterna: «sibbene la inimicissima pioggia autunnale ci perseguitasse nessuno si lamentava [...] vedevamo la cupola di San Pietro, accarezzevamo
il momento di arrivarci» (p. 179). Ma Roma non si solleva contro i pontifici, e
Garibaldi, ritenendo insicura la posizione raggiunta dalle sue truppe, con l’esercito francese sbarcato a Civitavecchia, ordina un ripiegamento, prima su
Monterotondo, poi verso Tivoli. Tra i volontari nasce il malcontento e riemergono
vecchie ruggini politiche: «si udiva un continuo vociare: siamo traditi: al quale si
rispondeva a voce alta Garibaldi non ha mai tradito nessuno. I Mazziniani [...]
approfittarono di questo malessere [...] misero in subbuglio la nostra compagnia,
e cominciò a ventilare l’idea dell’abbandono per non dire della diserzione» (p.
183).
Le defezioni non tardano ad arrivare, riducendo di molto gli effettivi a disposizione di Garibaldi: «Da più di settemila erevamo ridotti solo quatromila poco più.
Da prima la partenza [per Tivoli] fu mesta, anzi addolorata, pensando che avevamo, invece di uno tre nemici da combattere, il governo i preti il partito
mazziniano. Il primo alt lo facemmo in vista di un paesello del quale chiedemmo
il nome al C.te Bolis. È Mentana ci disse andandovi da Monterotondo; è Mentana»
il pensiero mazziniano
157
Libri, Cultura e Società
(pp. 186-187). Qui il 3 novembre i garibaldini vengono assaliti di sorpresa dalle
truppe pontificie; Giulio Bolis muore, colpito al petto da una pallottola, ma i
volontari resistono e quasi riescono a mettere in fuga i pontifici: «Mentre gridavamo Vittoria Vittoria, padroni della vetta della collina, vediamo arrivare una massa
nera, che in distanza si riconoscevano dai calzoni rossi, i Francesi che venivano
a diffendere il papa re [....]. Avvicinatosi iniziarono una scarica di fuccileria terribile e da cannonate insistenti, ma quello che meravigliò fu il tiro dei Casepot,
da far impallidire le nostre migliori carabine» (p. 189). La sorte della battaglia è
segnata, i garibaldini non possono che soccombere di fronte alle superiori forze
nemiche. Catturato dai francesi, Valentino viene richiuso nelle carceri pontificie,
insieme a molti suoi commilitoni. Scarcerato dopo quanta giorni, fa ritorno a
Bologna, dove riprende a lavorare come sarto.
Il volume si conclude con un saggio di Viviana Bravi su Ernesta Galletti Stoppa.
Emancipazionista e promotrice del mutualismo tra donne (presiede la Società
femminile di Mutuo soccorso di Lugo fino alla morte) nonché pedagogista
froebeliana (fonda nella cittadina romagnola un giardino d’infanzia e una scuola
laica) Ernesta viene supportata economicamente e moralmente dal marito, diventato nel corso degli anni un sarto rinomato.
Con questa pubblicazione, il corpus della memorialistica garibaldina si arricchisce
di un testo interessante e vivace, non retorico e piacevole da leggere, opportunamente corredato da un ampio apparato critico.
Luca Frontini
158
il pensiero mazziniano
Pietro Caruso
L’Opzione
Carlo Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944. Quale io la vidi.
Roma. Arnoldo Mondadori. 1945, pp. 144
“Sono stati pochi gli esponenti politici del regime pre-fascista che hanno raccontato con dovizia di particolari le ragioni dei governi liberali e i segni della loro
disfatta. Non lo hanno fatto, nonostante una grande mole di studi solo successivi
a quell’epoca, per evitare di vedere confermato il drastico giudizio che politici e
studiosi di tradizione ma anche giovani ribelli anticonformisti avevano pronunciato sull’ “età di Giolitti” e i suoi penosi limiti: Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci,
Piero Gobetti. Carlo Sforza, diplomatico, raffinato esponente di un liberalismo
democratico colto ma anche appassionato, ebbe anche lui quel coraggio pur avendo
condiviso sia pure per breve tempo una delle ultime fasi dei governi che precedettero il fascismo. La lettura del suo “L’Italia dal 1914 al 1944 Quale io la vidi”
è una sorta di diario da consegnare alla fine dell’anno più cruento di guerra e con
il Paese per buona parte liberato alle giovani generazioni e alla storia delle relazioni politiche. Colpisce in Sforza la lucida consapevolezza del cambio di giudizio
sulla monarchia sabauda. Se nella prima guerra mondiale quel gruppo di liberali
democratici considerava aliena ogni discussione sulla forma istituzionale del Paese, con la vergogna dell’ascesa del fascismo per la pavidità di re Vittorio Emanuele III, l’alleanza con la Germania e infine la scandalosa gestione dell’armistizio
reso noto l’8 settembre del 1943 scompare ogni possibilità che una parte del mondo
liberale, quello più vicino alla scienza politica di marca europea, possa perdonare
ai monarchici italiani la condizione di debolezza dimostrata e le conseguenze
catastrofiche determinate dal loro comportamento.
La svolta repubblicana in un uomo come Sforza è soprattutto di carattere morale,
dopo che lo stesso Sforza aveva tentato di rendere possibile una grande risposta
politica in seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti nel giugno del 1924. Nel
racconto di Sforza la onesta descrizione della crisi di gestione della pace di Versailles
del 1919, del trattato di Rapallo del 1920 con la mala gestione della questione
adriatica dopo il dissolvimento degli imperi austro-ungarico, tedesco e turco assume
la forza di un detonatore pronto ad esplodere avendo contraddetto la sua visione
lungimirante per l’evoluzione dei rapporti con l’area balcanica e i processi di
stabilizzazione pacifica e democratica che la fine della Prima guerra mondiale
avrebbero dovuto comportare. Il conte Sforza, caso di un aristocratico poco incline
al baciamano nei confronti del re, comprende che l’onerosità fatta pagare ai perdenti
potrebbe avere un fattore deflagrate nella gestione dei rapporti internazionali. Ostile
al mondo tedesco, dichiaratamente filo-francese per ragioni patriottiche Sforza ha
il pensiero mazziniano
159
Libri, Cultura e Società
perfetta coscienza che il fallimento della Società delle nazioni è foriero di tempeste per i popoli europei. Egli coltiva in modo veggente la previsione di una
unificazione europea come fattore indispensabile. E’ persino disposto ad accontentarsi di un patto Italo-Francese come base iniziale di questo nuovo Risorgimento. Egli pensa in modo cosmopolita non solo nel segno del coro delle nazioni
europee secondo il sogno dell’armonia mazziniana ma anche come tentativo di
costruire un nuovo ordine europeo antagonista a quello del Terzo Reich
nazionalsocialista che fino al 1941 con l’entrata in guerra degli Stati Uniti aveva
davvero molte probabilità di riuscita. Nel 1927 Sforza lasciò l’Italia e iniziò un
lungo esilio, che lo portò in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove fu tra i promotori
della Mazzini Society. Suo insieme a Pacciardi il tentativo di creare una legione di
antifascisti disposti ad entrare in azione a fianco degli alleati nella parte decisiva
e conclusiva della seconda guerra mondiale. Uomo troppo schivo e brillante per
rimanere impantanato nella critica verticale sulla vecchia classe politica e fu anche
per questo che ebbe in simpatia il Partito d’azione e il Pri. Per quanto già anziano
nella sua vita Carlo Sforza aveva il senso della storia, del limite degli esseri umani,
ma anche di una sacra coerenza con gli alti ideali di libertà e democrazia nel
disegno europeo che fu di Mazzini e divenne una missione per noi contemporanei.
Pietro Caruso
160
il pensiero mazziniano
Carlo Cattaneo
Riletture
“Di alcuni Stati moderni”
Sotto il profilo di una straordinaria lucidità di antropologo militante Carlo Cattaneo scrisse
nel saggio “Di alcuni Stati moderni”, che fu editato nel 1842, pagine memorabili. In una
parte della riflessione sulla Cina giudizi ispirati da una preveggente modernità di analisi e di
pensiero. Eccone una piccola sintesi.
“...Ma la più manifesta prova d’un immenso progresso, operato in queste ultime
generazioni su tutta la superfice della China, è questa. Mentre le memorie dei
secoli più lontani attribuiscono alla China solo tredici milioni d’abitanti; e quelle
del principio dell’èra nostra sessanta milioni, questo numero nel principio del secolo
passato saliva a cento; verso la fine del secolo a trecento. E se prestiamo fede
alle ultime notizie officiali fatte raccogliere dal governo francese, sarebbe giunto
nel 1812 a 367 milioni; e nel 1860 al prodigioso numero di 530 milioni; che fa
incirca il doppio della popolazione di tutta Europa; quasi la metà del genere umano.
Onde gli scrittori officiali francesi, gli scrittori d’un governo a cui mancò appunto
sempre l’arte di moltiplicare le sussistenze, si fanno maravaglia che su tutta la
vasta superficie della China, comprese le più inospitate montagne, possano vivere
157 abitanti per chilometro quadrato, e nelle provincie basse 262 abitanti, mentre
la Francia su tutta la sua superficie ne ragguaglia all’incirca 60. Noi non crediamo
che il sommo della sapienza civile sia quello di gettare sulla superficie del globo
milioni di miserabili; non intendiamo disputare se un sì rapido incremento di
popolazione sia un assoluto bene o un assoluto male, come sarebbe parso a
Malthus. Ma diciamo che una nazione la quale in 150 anni trovò modo di fare
vivere, sovra una terra già popolata da cento milioni di uomini, quattrocento milioni
in più, senza avere usurpato il valore di un centesimo alle altre nazioni della terra,
non può esservi riuscita senza un immenso sviluppo di lavoro, di capitale e d’ingegno: e che, chi la giudica da lontano una gente inerte e decrepita, è un insensato.
Non sappiamo poi come la nazione chinese possa dirsi avversa ad ogni contatto
cogli stranieri. La China propria ha una superficie d’un milone di miglia quadre,
che fa dieci volte l’Italia; ma vi sono altre provincie abitati da Turchi, Mogoli,
Manciuri e Tibetani; tutto l’imperio chinese fa quasi il quadruplo della China; fa
quasi quaranta volte l’Italia. E inoltre essa tenne sempre intime relazioni colla
Corea, col Giappone, col Tonchino, colla Cocinchina, col Bothan, col Nepale;
spinse le sue armi fino al mar Caspio; fece parte dell’imperio dei Mogoli allorchè
questo abbracciava l’India e la Persia e la Mesopotamia e l’Asia Minore, e la Russia
il pensiero mazziniano
161
Libri, Cultura e Società
già da secoli cristiana. Instituzione certamente straniera è il culto di Budda che,
oriundo dall’India, trovò asilo nella China. E sebbene aborrito e deriso dai grandi
e dai dotti, fu lasciato diffondere liberamente nel popolo, sicchè divenne la più
numerosa di tutte le sètte religiose di quell’imperiodo e di tutto il mondo, nel
tempo medesimo che le sue chiese e le sue torri divennero il più notevole ornamento delle città chinesi.
Carlo Cattaneo
162
il pensiero mazziniano
Maria Pia Roggero
Ricordo di Emilio Costa
Ho conosciuto bene l’amico prof. Emilio Costa ed ho avuto costanti contatti con
lui nei tempi lontani della mia giovinezza, quando, agli inizi degli anni ’70, ho
cominciato a curare gli intensi rapporti con tutte le Sezioni dell’AMI in veste di
Segretaria Nazionale. Ho pertanto avuto modo di apprezzare e ammirare la ricchezza della sua cultura, l’ amore per la sua Genova, il suo mazzinianesimo
intransigente e vissuto, le sue doti di umanità.
Grazie ad Emilio Costa e al sodalizio degli amici di allora ( ricordo tra questi in
particolare l’avvocato Gianni Persico e sua sorella avvocatessa e guida del Movimento femminile repubblicano, Gianni Napolano e il gruppo della Libreria delle
Erbe, il cui “Catalogo di libri rari e d’occasione” annunciava non di rado pubblicazioni
di Emilio Costa), la Sezione di Genova, che già allora aveva una sua sede a fianco
della Casa Mazzini, era sempre in prima linea per le sue attività, perfettamente
cosciente di essere la primogenita ideale, se non quella storica, fra tutte le Sezioni
dell’AMI.
Conservo vive nella mia memoria le immagini delle riunioni sociali genovesi in
occasione di date storiche o di raduni istituzionali o congressuali, come quelle del
Congresso nazionale tenutosi a Genova nel 1974, di cui in questo momento di
lutto mi torna nitida alla mente la scena a cui noi congressisti assistemmo attoniti
ed esilarati nell’atrio di Palazzo Tursi: in quella circostanza Emilio Costa ed Angelo
Ghiglione, noti ai genovesi come inseparabili ed entrambi cultori appassionati di
letteratura classica, si cimentarono in una improvvisata “singolar tenzone” poetica alternandosi (l’uno in cima e l’altro ai piedi dello scalone d’onore) nella recita
a memoria di lunghi passi dell’ “Orlando Furioso”. “Oh gran bontà de’ cavallieri
antiqui!”
In quella stessa occasione congressuale, davanti ai delegati riuniti nella sede storica dell’antica Società Operaia di Mutuo Soccorso di Sampierdarena, Emilio Costa
pronunciò un memorabile discorso ispirato al suo mazzinianesimo militante,
sottolineando il ritmo e la foga delle parole con simultanei colpi sul pavimento
di quel bastone che già da allora non gli serviva solo a sostenere il passo (quasi
a visibile conferma del suo temperamento “ fiero e caparbio”, come lo definisce
Pietro Caruso).
Sono questi, e simili, momenti per me struggenti, carichi di memorie indelebili,
di volti cari, di tensioni intellettuali ed emotive, di rapporti umani preziosi: e in
questi momenti importanti c’è anche il caro Emilio Costa, al cui esempio di coerenza
e di fede la nostra AMI deve un rilevante tributo di profonda gratitudine.
Maria Pia Roggero
il pensiero mazziniano
163
Libri, Cultura e Società
Errata corrige al P.M. nº 1/2013
1) Le antinomie della democrazia delegata: rappresentatività e governabilità
di Roberto Mirri (pag. 7)
Ci scusiamo con l’autore per la svista in cui siamo incorsi.
Riproponiamo in modo corretto le tabelle pubblicate nel suo articolo.
Tab. 1 - Voti ottenuti (in percentuale) dai principali partiti alla Camera
Tab. 2 - Voti ottenuti (in percentuale) dai principali partiti al Senato
Tab. 3 - Voti ottenuti (in percentuale) dalle principali coalizioni alla Camera
Tab. 4 - Voti ottenuti (in percentuale) dalle principali coalizioni al Senato
Tab. 5 - Seggi ottenuti dalle diverse coalizioni alla Camera
Tab. 6 - Seggi ottenuti dalle diverse coalizioni al Senato
164
il pensiero mazziniano
Libri, Cultura e Società
2) Montesquieu, filosofo della politica e del diritto
di Piero Venturelli (pag. 11)
Pubblichiamo le Note in calce all’articolo, erroneamente omesse.
Ci scusiamo con l’autore.
Note
1
Nell’Esprit des lois (e precisamente nel cap. 14 del libro V), peraltro, si legge che è l’Asia a dover essere
considerata «la partie du monde où le despotisme est, pour ainsi dire, naturalisé» (d’ora in poi, quando
nelle nostre note e a testo si rimanderà a luoghi precisi di quest’opera, verrà utilizzata l’abbreviazione
EL, cui seguiranno un numero romano e uno arabo, indicanti – rispettivamente – il libro e il capitolo
che interessano). Tali punti di vista si collocano all’interno di una possente e fortunatissima ideologia
plurisecolare che affonda le radici in concezioni elaborate nella Grecia classica e che descrive l’Oriente
come condannato ‘per natura’ al dispotismo; su questo, cfr. D. FELICE (a cura di), Dispotismo. Genesi e
sviluppi di un concetto filosofico-politico, 2 tt., Napoli, Liguori, 2001-2002 (20042).
È possibile approfondire la questione in S. COTTA, Il pensiero politico di Montesquieu, Roma-Bari, Laterza,
1995, pp. 53 ss.; ID., Per una concezione dialettica del bene comune e della libertà, in AA.VV., Lo spirito della politica.
Letture di Montesquieu, a cura di D. Felice, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 131-161: 137 ss. (contributo
già pubblicato – ma con qualche differenza formale e bibliografica – come Montesquieu e la libertà politica,
in D. FELICE [a cura di], Leggere l’Esprit des lois. Storia, società e storia nel pensiero di Montesquieu, Napoli,
Liguori, 1998, pp. 103-135: pp. 109 ss. [il volume è interamente fruibile anche sul web all’indirizzo <
http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Stato_società.pdf >], e come Separazione dei poteri e libertà
politica, in D. FELICE [a cura di], Leggere lo Spirito delle leggi di Montesquieu, 2 voll., Milano-Udine, Mimesis,
2010, vol. I, pp. 209-236: pp. 214 ss.); D. FELICE, Introduzione a Montesquieu, Bologna, Clueb, 2013, pp.
92 ss.
2
3
Cfr. S. COTTA, Il pensiero politico di Montesquieu, cit., p. 54.
La cruciale espressione chef-d’œuvre de la législation, ovvero chef-d’œuvre de législation, viene utilizzata in EL,
V, 14; XI, 11; XXVIII, 39.
4
5
Queste concezioni del Bordolese, insieme con quelle inerenti allo Stato confederale (cfr. EL, IX, 13; X, 6), saranno dibattute nell’America settentrionale a partire dagli anni Settanta del Settecento e in
larga misura riprese nella Costituzione statunitense del 1787. Circa la ‘fortuna’ dell’Esprit des lois al di là
dell’Atlantico, rimangono a tutt’oggi imprescindibili gli studi di Paul Merrill SPURLIN, in particolare il suo
Montesquieu in America, 1760-1801, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1940 (ristampa: New
York, Octagon Books, 1969); ma, in merito al tema, si vedano anche J.N. SHKLAR, Montesquieu, Oxford
- New York, Oxford University Press, 1987, pp. 111-112 e 120-125, e B. CASALINI, L’esprit di Montesquieu
negli Stati Uniti durante la seconda metà del XVIII secolo, in D. FELICE (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti,
2 tt., Pisa, Ets, 2005, t. I, pp. 325-355.
6
EL, XI, 7. Si tenga presente che, a giudizio del pensatore transalpino (cfr. EL, XI, 5), ogni singolo
Stato possiede un duplice obiettivo: il primo, di carattere «generale», risulta comune a tutti i Paesi e
corrisponde alla loro rispettiva conservazione in vita; il secondo, invece, è di tipo «particolare» (o «diretto»), e ciascuno Stato ne ha uno suo proprio (per esempio, quello dell’antica Roma coincide con
l’ingrandimento; quello spartano, con la guerra).
7
Questi corps politiques eseguono una verifica di costituzionalità delle ordinanze e delle leggi regie volto
ad appurare se la nuova norma sia o no in linea con le altre già in vigore. Quando l’esame dà esito
il pensiero mazziniano
165
Libri, Cultura e Società
positivo, si provvede all’enregistrement (ossia, alla registrazione) dell’editto e, in questo modo, la norma
diventa applicabile nei riguardi dei terzi all’interno della circoscrizione ove si trova il Parlamento che l’ha
vagliata e approvata; se viceversa la verifica è negativa, il Parlamento, richiamandosi alle leggi fondamentali, ha il duplice potere di rifiutare in prima istanza l’editto e di rivolgere al sovrano delle remontrances
(cioè, delle osservazioni in merito). Circa la storia e le funzioni dei Parlamenti francesi, con particolare
riguardo al loro ruolo nella vita politico-istituzionale del XVIII secolo, si rimanda a P. ALATRI, Parlamenti
e lotta politica nella Francia del Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1977.
S. COTTA, Montesquieu e la scienza della società, Torino, Ramella, 1953, p. 389 (il libro è fruibile anche on
line all’indirizzo < http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Scienza_soc.pdf >)
8
9
EL, XI, 5.
Per questa ragione e per diverse altre, c’è chi ha proposto di definire il sistema politico-istituzionale
d’oltremanica come un «sottotipo monarchico tendente alla repubblica»: cfr. L. LANDI, L’Inghilterra e il
pensiero politico di Montesquieu, Padova, Cedam, 1981.
10
11
Nell’ordinamento britannico reale dell’epoca, quest’assemblea (detta, com’è noto, Camera dei Lord),
risulta composta dai nobili del regno (Lord temporali) e, in piccola parte, dai vescovi anglicani (Lord
spirituali). Questi ultimi hanno diritto ad un seggio fino a che conservano la dignità vescovile; spetta alla
Chiesa d’Inghilterra provvedere alla loro successione in seno al clero nazionale e alla Camera dei Lord.
12
Sul concetto etico-politico e giuridico di mistione, oltre alla ‘classica’ voce Governo misto di Norberto
BOBBIO, inserita in N. BOBBIO - N. MATTEUCCI - G. PASQUINO (diretto da), Dizionario di politica, Torino,
Tea, 1990, pp. 462-467 (questa voce era già presente – con paginazione diversa – nella 2a ed. dell’opera
[Torino, Utet, 1983], ma non nella 1a ed. [Torino, Utet, 1976]), cfr. in particolare A. PANEBIANCO, Il potere,
lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 171-237 (cap. V:
Bilancia), e P.P. PORTINARO, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 151170 (cap. IV: Governi misti), e relative bibliografie. In merito alle tappe più significative della storia delle
concezioni che hanno ad oggetto gli ordinamenti misti, si vedano da ultimi: A. RIKLIN, Machtteilung.
Geschichte der Mischverfassung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2006; D. TARANTO, La miktè
politéia tra antico e moderno. Dal “quartum genus” alla monarchia limitata, Milano, Franco Angeli, 2006 (con
antologia di testi); L. CEDRONI, Democrazia in nuce. Il governo misto da Platone a Bobbio, Milano, Franco Angeli,
2011; D. FELICE (a cura di), Governo misto. Ricostruzione di un’idea, Napoli, Liguori, 2011 (nei saggi raccolti
in questo volume collettaneo, però, non vengono presi in esame momenti e autori successivi al Basso
Medioevo).
13
Va da sé, comunque, che questi omologhi concettuali verranno presi in esame con dovizia di particolari
e in una più ampia prospettiva analitica soltanto nell’Esprit des lois. Ad ogni modo, è significativo notare
come, già nella sua opera del 1734, Montesquieu impieghi la locuzione esprit général: cfr. Considérations sur
les Romains, capp. XV, XXI e XXII (nel cap. VIII, inoltre, viene utilizzata – due volte – l’espressione esprit
du peuple). Egli ha peraltro usato anche in precedenza la formula esprit général, e precisamente nell’Essai
sur le goût, la cui stesura definitiva risale agli anni 1753-1755, in vista della sua pubblicazione nell’Encyclopédie
di Denis Diderot (1713-1784) e Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783), ma che risulta in buona parte
composto prima del 1728.
S. COTTA, Montesquieu e la scienza della società, cit., p. 328.
Ibid.
16
Ibid.
17
Chi, invece, inscrive totalmente il Bordolese nell’ambito della Weltanschauung illuministica è Robert
SHACKLETON, del quale si veda – in particolare – il ‘classico’ Montesquieu. A Critical Biography (Oxford,
Oxford University Press, 1961). Su questa sua lettura degli scritti del Président, cfr. M. PLATANIA, Robert
Shackleton e gli studi su Montesquieu: scenari interpretativi tra Settecento e Ottocento, in D. FELICE (a cura di),
Montesquieu e i suoi interpreti, cit., vol. II, pp. 862-897, specie p. 885.
14
15
166
il pensiero mazziniano
Libri, Cultura e Società
3) Sulla “inutilità” della filosofia
di Alessandro Roani (pag. 126)
Pubblichiamo le Note in calce all’articolo, erroneamente omesse.
Ci scusiamo con l’autore.
Note
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2000, p. 32.
Tradizionalmente il termine Presocratici, più che un significato cronologico, possiede un’accezione concettuale indicando quel gruppo variegato di pensatori, per lo più anteriori a Socrate, che differentemente
da quest’ultimo, il quale privilegerà il problema antropologico, si sono prevalentemente occupati del
problema della natura e della realtà in genere. Ma qui sorge una questione che necessita di una precisazione: poiché i primi ad aver spostato l’asse della speculazione filosofica dalla natura all’uomo sono
stati i Sofisti, coloro che per lunga consuetudine vengono chiamati Pre-socratici, risultano, di fatto, Presofisti.
3
M. Dummet, La verità e altri enigmi, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1986, p. 66.
4
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 5-6.
5
Cfr. R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1987, pp. 15-40 e pp. 679-710.
6
B. Pascal, Pensieri, Bompiani, Milano 2000, p. 69.
7
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. II, Edizioni Einaudi, Torino 1975, p. 1375.
8
J.-P. Jouary, A che serve la filosofia?, Salani, Milano 2001, pp. 10-11.
9
Il pensiero del filosofo prussiano Immanuel Kant (1724-1804) è anche detto “Criticismo” poiché
contrapponendosi all’indirizzo filosofico del dogmatismo – il quale consiste nell’accettare dottrine e
opinioni senza una preliminare interrogazione sulle loro effettive consistenze – pone nella “critica” lo
strumento privilegiato della speculazione filosofica. “Criticare”, nel linguaggio filosofico kantiano, significa infatti, conformemente all’etimo greco, “giudicare”, “distinguere”, “valutare”, “soppesare” ecc., ossia
interrogarsi costantemente circa il fondamento di determinate esperienze umane, chiarendone allo stesso
tempo le possibilità (le condizioni che ne permettono l’esistenza), la validità (gli eventuali titoli di legittimità che le caratterizzano) e i limiti (i relativi confini di validità). Il Criticismo si configura dunque come
una filosofia del limite, ossia come un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire, nei vari settori
dell’esperienza, le “colonne d’Ercole della dimensione umana”.
10
Il conflitto delle interpretazioni è un’opera del 1969 del filosofo francese Paul Ricoeur (1913-2005), uno
dei massimi esponenti dell’ermeneutica filosofia contemporanea.
11
Si indicano come i sette savi o i sette sapienti alcune personalità pubbliche dell’antica Grecia vissute
in un periodo compreso tra la fine del VII ed il VI sec. a.C., esaltate dai posteri come modelli di saggezza
pratica ed autori di massime poste a fondamento della comune sensibilità culturale greca.
12
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, op. cit., p. 6-7.
13
N. Abbagnano, G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. I, Paravia, Torino 1992, p. 235.
14
J.-P. Jouary, op. cit. p. 10.
15
Il grande poeta Dante Alighieri definisce così Aristotele nel Canto IV dell’Inferno.
16
Aristotele, Metafisica, I, 982b.
17
La storia del giovane avventuriero Christopher McCandless ha ispirato il libro dello scrittore statunitense Jon Krakauer, Nelle terre estreme, pubblicato nel 1996 e da cui è stato adattato il film, diretto da
Sean Penn, Into the wild – Nelle terre selvagge, uscito nelle sale cinematografiche nel 2007.
1
2
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Anno 68º - Nuova serie Maggio - Agosto 2013