ISTITUTO
PER
I
BENI
ARTISTICI
CULTURALI
E
NATURALI
DELLA
REGIONE
Tessuti antichi in Emilia-Romagna
EMILIA-ROMAGNA
In copertina
Paliotto. Putte di Santa Marta, XVII secolo. Bologna,
Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini
©2005 Testi e immagini
Istituto per i beni artistici, culturali e naturali
della Regione Emilia-Romagna
Via Galliera 21 – 40121 Bologna
www.ibc.regione.emilia-romagna.it
©2005 by CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
40126 Bologna – Via Marsala 31
tel. 051 220736 – fax 051 237758
www.clueb.com
ISBN 88-491-2520-8
ISSN 1724-1324
ISTITUTO
PER
I
BENI
ARTISTICI
CULTURALI
E
NATURALI
DELLA
Il filo
della storia
Tessuti antichi in Emilia-Romagna
a cura di
Marta Cuoghi Costantini
Iolanda Silvestri
REGIONE
EMILIA-ROMAGNA
IL FILO DELLA STORIA
Tessuti antichi in Emilia-Romagna
a cura di
Marta Cuoghi Costantini
Iolanda Silvestri
Redazione
Marta Cuoghi Costantini
Isabella Fabbri
Iolanda Silvestri
Testi
Carlotta Bendi
Carla Bernardini
Marta Cuoghi Costantini
Donata Devoti
Patrizia Von Eles
Riccardo Fangarezzi
Elisabetta Farioli
Francesca Ghiggini
Nicoletta Giordani
Lorenzo Lorenzini
Luciana Martini
Vincenza Maugeri
Giulia Meucci
Beatrice Orsini
Paolo Peri
Francesca Piccinini
Ilaria Pulini
Lise Raeder Knudsen
Iolanda Silvestri
Annemarie Stauffer
Stefano Zironi
Schede del Repertorio Museale
Lidia Bortolotti
Giorgio Cervetti
Barbara Corradi
Francesca Ghiggini
Maura Grandi
Elisabetta Landi
Lorenzo Lorenzini
Vincenza Maugeri
Alessandra Mordacci
Beatrice Orsini
Antonella Salvi
Le schede non siglate sono state redatte
dalle curatrici
Referenze Fotografiche
La campagna fotografica a corredo dei saggi di
Marta Cuoghi Costantini e Iolanda Silvestri è stata
realizzata da Costantino Ferlauto, con integrazioni
di Riccardo Vlahov e materiali dell’Archivio
Fotografico dell’Istituto per i Beni Culturali.
Le restanti immagini che corredano i testi sono
state gentilmente fornite dagli Archivi Fotografici
dei Musei e delle Soprintendenze Statali
dell’Emilia-Romagna, che qui si ringraziano nelle
persone di:
Umberto Fornasari (Collegio Alberoni, Piacenza),
Chiara Burgio (Soprintendenza per il Patrimonio
Storico, Artistico e Demoetnoantropologico per le
provincie di Parma e Piacenza), Francesca
Sandrini (Museo Glauco Lombardi, Parma), Rina
Aleotti (Musei Civici, Reggio Emilia) e il fotografo
Vincenzo Negro su concessione della stessa
istituzione, Elena Ghidini (Museo Civico Gonzaga,
Novellara), Manuela Bertolini, Fernando Miele
(Ufficio Diocesano per i Beni Culturali
Ecclesiastici della Curia Vescovile di Reggio
Emilia-Guastalla) e i fotografi Pietro Parmeggiani
e Marco Ravenna su concessione della stessa
istituzione, Maria Canova (Museo Civico D’Arte,
Modena) e il fotografo Ghigo Roli su concessione
della stessa istituzione, Elena Righi (Museo Civico
Archeologico Etnologico , Modena), Giovanna
Paolozzi Strozzi (Soprintendenza per il
Patrimonio Storico, Artistico e
Demoetnoantropologico di Modena e Reggio
Emilia) e il fotografo Luciano Romano su
concessione della stessa istituzione, Don Riccardo
Fangarezzi e Chiara Ciaravello (Ufficio Diocesano
per i Beni Culturali Ecclesiastici della Curia
Vescovile di Modena e Nonantola) e il fotografo
Pietro Parmeggiani su concessione della stessa
istituzione, Luisa Chiavelli (Musei Civici d’Arte
Antica, Bologna), Corinna Giudici e Sergio
Pasquesi (Soprintendenza per il Patrimonio
Storico, Artistico e Demoetnoantropologico per le
provincie di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e
Rimini), Maura Grandi (Museo del Patrimonio
Industriale, Bologna), Giovanni Sassu (Museo
della Cattedrale, Ferrara), Angela Fontemaggi,
Orietta Piolanti (Museo della Città, Rimini),
Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Emilia-Romagna
Coordinamento editoriale
Isabella Fabbri
Grafica e impaginazione
Oriano Sportelli
Ringraziamenti
È con sincera e doverosa riconoscenza che le curatrici
ringraziano tutte le Soprintendenze Statali e le Istituzioni
Museali coinvolte della nostra regione, compresi gli Uffici
per i Beni Culturali Ecclesiastici delle Curie Vescovili e i
Parroci delle rispettive chiese, l’Archivio di Stato di
Bologna, le Comunità Ebraiche dell’Emilia-Romagna,
insieme a tutti coloro che, con la loro preziosa e solerte
collaborazione, hanno consentito la realizzazione del
volume.
In particolare il ringraziamento va a
Jadranka Bentini, Maria Bernabò Brea, Maria Grazia
Bernardini, Andrea Buzzoni, Giovanna Damiani, Franco
Faranda, Lucia Fornari Schianchi, Pier Luigi Foschi,
Anna Maria Iannucci, Luigi Malnati, Massimo Medica,
Cristiana Morigi Govi, Filippo Trevisani, Monsignor
Aldo Amati, Don Rino Annovi, Don Giuseppe Bertozzi,
Don Gianfranco Gazzotti, Don Tiziano Ghirelli
E inoltre a
Aurora Ancarani, Carmela Baldino, Laura Baroni,
Vincenzo Bazzocchi, Argia Bertoni, Carmela Binchi,
Maurizio Biordi, Luisa Bitelli, Anna Maria Braghieri, Piero
Cammarota, Sergio Ciroldi, Katja Del Baldo, Anna Dore,
Gabriele Fabbrici, Anna Colombi Ferretti, Maurizio
Festanti, Angela Fontemaggi, Umberto Fornasari,
Raffaella Gattiani, Antonella Gigli, Corinna Giudici,
Lorella Grossi, Fiamma Lenzi, Angela Lusvarghi, Roberto
Macellari, Attilio Marchesini, Rita Marchi, Graziella
Martinelli Braglia, Ivana Micheletti, Laura Minarini, Vito
Paticchia, Silvia Pellegrini, Orietta Piolanti, Manuela
Rossi, Francesca Sandrini, Otello Sangiorgi, Simonetta
Santucci, Anna Stanzani, Paolo Turrini, Cristiana Zanasi.
Si è grati inoltre a Maria Giuseppina Muzzarelli,
consigliere del nostro Istituto, che ha sostenuto con
preziosi suggerimenti questo lavoro.
Un ricordo sentito e speciale va a Luciana Martini per
l’incolmabile vuoto che ha lasciato la sua figura umana
e professionale.
Indice
7 Presentazioni
Alberto Ronchi
Ezio Raimondi
Laura Carlini
67 Il piviale di San Moderanno
Alla scoperta del patrimonio tessile
in Emilia-Romagna
21 Alle origini del tessuto
Beatrice Orsini
29 I rinvenimenti di tessuti e strumenti
per tessere e filare nelle necropoli
villanoviane di Verucchio
Patrizia Von Eles
Carlotta Bendi
Annemarie Stauffer
Lise Raeder Knudsen
39 Decori, colori e filati di Roma antica
Beatrice Orsini
48 Nota su alcune fibre minerali di scavo
ritrovate nel modenese
Nicoletta Giordani
51 Sulla via della seta. Testimonianze
del Medioevo tra Oriente e Occidente
Marta Cuoghi Costantini
63 Un tesoro ritrovato a Nonantola
Riccardo Fangarezzi
Paolo Peri
pittore di storia nella Galleria
Parmeggiani di Reggio Emilia
Elisabetta Farioli
72 PERCORSO ICONOGRAFICO
11 Conoscere conservare e valorizzare
il patrimonio tessile regionale
Marta Cuoghi Costantini
Iolanda Silvestri
207 Velluti e costumi dall’atelier di un
Donata Devoti
Giulia Meucci
211 Una raccolta bolognese
97 Seta, oro e argento:
per la storia della tappezzeria
Stefano Zironi
Francesca Ghiggini
lussuose vesti e magnifici apparati dal
Rinascimento all’Impero
Iolanda Silvestri
215 Vesti e arredi per la liturgia nei Musei
117 Impalpabili orpelli della moda:
d’Arte Sacra
Lorenzo Lorenzini
i veli di seta bolognesi
Marta Cuoghi Costantini
121 Nuove sete per la borghesia:
la manifattura Trivelli e Spalletti
di Reggio Emilia
Iolanda Silvestri
219 I tessili della cultura ebraica
Vincenza Maugeri
227 Corredi tessili del Nuovo Mondo nei
Musei dell’Emilia-Romagna
Ilaria Pulini
124 PERCORSO ICONOGRAFICO
233 La grande stagione dell’arazzo
Marta Cuoghi Costantini
Il collezionismo tessile
nelle raccolte pubbliche
247
187 Antichi tessuti nel Museo Nazionale
di Ravenna: dalle acquisizioni classensi
al collezionismo ottocentesco
Luciana Martini
193 Una raccolta per l’artigianato e
l’industria: la collezione Gandini
del Museo Civico d’Arte di Modena
Francesca Piccinini
199 Per le raccolte tessili dei musei civici
di arte antica di Bologna, e oltre
Carla Bernardini
Repertorio delle raccolte tessili
in Emilia-Romagna
307 Bibliografia
el più vasto insieme dei beni culturali presenti nella nostra regione, i tessuti antichi costituiscono un
corpus tanto affascinante quanto poco conosciuto al di
fuori della cerchia degli specialisti e degli addetti ai lavori.
Una buona occasione per colmare possibili lacune ci
viene dal volume che presentiamo e che propone, anche
attraverso un ricco repertorio iconografico, una ricognizione puntuale del patrimonio tessile conservato
nelle istituzioni museali pubbliche e private presenti
sul territorio regionale, dai manufatti in lana rinvenuti
nelle tombe villanoviane agli arredi e paramenti liturgici di epoca medievale, dagli abiti e dalle tappezzerie
delle corti rinascimentali fino a produzioni protoindustriali un tempo famose come quella delle sete e dei veli che tanta parte ha avuto nella storia non solo economica di Bologna.
Alla schedatura delle raccolte e dei singoli oggetti si accompagnano nel volume saggi di inquadramento e di
approfondimento storico e tecnico che coprono un arco temporale che va dall’antichità all’Ottocento, quando l’introduzione del telaio meccanico ha radicalmente
trasformato i modi di produzione e realizzazione dei
tessuti.
La tessitura, a lungo considerata un’arte minore, rappresenta a pieno titolo un capitolo importante non so-
N
lo delle espressioni artistiche, ma anche della storia del
lavoro e della storia sociale nel suo complesso. Ciascun
tessuto ci restituisce palpabilmente, nella ricchezza e
sapienza della sua materialità, molte e importanti
informazioni sui saperi tecnici, ma anche sui gusti, gli
usi quotidiani, le mode, la cultura di un determinato periodo storico.
Fin dalla sua costituzione l’Istituto per i Beni Culturali
ha dedicato a questi beni preziosi e intrinsecamente fragili un’attenzione particolare che si è concretizzata, in
un confronto costante con altre figure istituzionali e
tecnici ed esperti del settore, sui piani complementari
della conoscenza e della conservazione. La ricerca e lo
studio applicati a ciascun manufatto hanno permesso
infatti di mettere in campo metodologie e tecniche di
conservazione sempre più aggiornate, puntando sulla
conservazione preventiva e limitando gli interventi di
restauro più invasivi e traumatici soltanto ai casi di reale necessità.
Quanto alla valorizzazione, terzo momento teoricopratico delle politiche regionali applicate ai beni culturali, questo volume ne è, io credo, un ottimo esempio. Valorizzare il proprio patrimonio culturale significa infatti stimolare la curiosità e l’interesse su di esso e
fornire a tutti chiavi di accesso e opportunità di effettiva fruizione.
ALBERTO RONCHI
Assessore alla Cultura
della Regione Emilia-Romagna
MARTA CUOGHI COSTANTINI - IOLANDA SILVESTRI
n libro come il presente intorno a quella che il vecchio
Semper considerava l’“arte primigenia” delle forme e
del colore ha più di una ragione per risultare interessante,
non solo perché dà conto della provvida attività di uno dei
settori primari dell’Istituto per i Beni Culturali, quello addetto al restauro, ma più ancora per la qualità sorprendente e preziosa dell’oggetto indagato. Che è per l’appunto il
patrimonio tessile che si conserva nella nostra regione Emilia-Romagna, dai frammenti della cultura villanoviana ai
decori romani, dagli arredi e tessuti religiosi medievali alle
vesti e agli apparati sontuosi del Rinascimento, sino ai primi esempi di produzione industriale, quale quella, un tempo giustamente famosa, delle sete bolognesi.
Vero è che un patrimonio tanto dovizioso ed esteso quanto
intimamente fragile richiede un lavoro continuo di affinamento e adeguamento delle procedure di restauro e dei saperi tecnico-scientifici che le supportano, affinché siano
possibili interventi di conservazione non più impropri o
traumatici, ma duttili e rispettosi di un materiale delicatissimo, esposto più di altri alle insidie corrosive del tempo.
Non per nulla la tessitura può rappresentare anche un simbolo, quasi un archetipo della temporalità del vivere umano. E per questo restaurare significa insieme conoscenza, ricerca, collaborazione quotidiana fra figure professionali e
istituzionali differenti, in un sistema complesso e sedimentato di cognizioni e relazioni, a cui rimandano anche,
con consapevole misura, i saggi del nostro rendiconto critico e del suo lungo, paziente, ingegnoso laboratorio.
Ma è un dialogo, ora, che non si rivolge soltanto allo specialista. A parte una doverosa terminologia tecnico-setto-
U
riale (è il linguaggio dei “pratici” caro a uno scrittore come Gadda), il ragguaglio a più voci invita anche il lettore
comune a un viaggio curioso e affascinante, sia che si resti all’evidenza immediata di una superficie fulgida e palpabile, sia che si cerchi di rintracciarne il “filo della storia”, se è vero, come osserva una delle valenti curatrici,
che la storia dell’arte tessile “è soprattutto storia di scambi e traffici commerciali, circolazione di materie prime e
prodotti finiti, diffusione di modelli decorativi e di tecniche esecutive, migrazione di artigiani e del loro sapere”.
Solo in apparenza minore, soprattutto dopo la lezione di
Riegl e del suo Kunstwollen, l’arte tessile ha in effetti molte storie da raccontare e intrecciare: da quella più strettamente tecnica che ha i suoi emblemi pragmatici nelle fusaiole e nei pesi da telaio, corredo delle tombe di antiche
gentildonne, alla storia del lavoro, in primis femminile,
alla storia sociale ed economica.
Un mantello di lana, un piviale, un abito di gala, un arazzo,
un velo di seta sono per noi altrettanti microcosmi in cui si
rispecchia per l’occhio della mente un mondo più vasto di
eventi e significati: gusto, costume, rito, prestigio, stile di
vita. Ma intanto il lettore può affidarsi, guardando, al museo virtuale del nostro libro di immagini, tra velluti e damaschi, sete e lampassi, ricami e intrecci, ori e argenti, abilità manuale e tramandi culturali, fedeltà alla tradizione e
innovazioni creative. Sono, come avrebbe detto Hofmannsthal, le sfumature infinite dell’esperienza umana; e anche
da esse esce un’immagine plurima del tempo, un passato
che si fa racconto e forse interrogazione comparativa sul
presente. L’importante è poi di non perderne il filo.
EZIO RAIMONDI
Presidente dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali
e Naturali della Regione Emilia-Romagna
Presentazione
a conoscenza, la conservazione, il restauro e la valorizzazione del patrimonio presente nei musei e nei contenitori storici di pertinenza degli enti locali sono il fondamento del lavoro dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali dal momento della sua costituzione. Gli interventi realizzati nel corso di trent’anni hanno riguardato una cospicua mole di beni attribuibili alle più diverse
tipologie, come ad esempio dipinti, reperti archeologici,
sculture e materiali tessili. In quest’ultimo settore, in particolare, è stato avviato, negli anni ’70, un progetto mirato
allo studio ed alla valorizzazione delle collezioni e dei fondi tessili regionali più significativi, esteso in seguito a
molte altre raccolte, anche di minor entità.
In parallelo, si è ritenuto necessario studiare a fondo l’aspetto della conservazione di questi delicati artefatti e, di conseguenza, organizzare momenti di confronto relativi alle tecniche da adottare per il restauro dei materiali ed alla formazione degli operatori del settore. I risultati raggiunti sono testimoniati nel cospicuo numero di pubblicazioni curate
dall’Istituto sul tema, ed altresì nei numerosi incontri di studio, convegni e seminari d’approfondimento.
La storia del lungo e paziente lavoro di ricerca e di tutela
dell’Istituto è narrata nel testo introduttivo redatto dalle
curatrici del volume, cui seguono i saggi sulla storia del
patrimonio tessile in Emilia-Romagna ripartiti in due sezioni: una che delinea l’itinerario storico-critico tra i materiali più rilevanti conservati nel nostro territorio e l’altra che documenta la trama del collezionismo tessile nelle raccolte pubbliche della regione, entrambe corredate
da un ricco apparato iconografico.
L
La lettura si dipana attraverso i secoli e le diverse culture
nella prima sezione, nella quale i diversi contributi degli
autori spaziano dal mantello d’epoca protostorica conservato nel Museo Archeologico di Verucchio, appartenente alla cultura villanoviana, ai ricami bizantini, dalle
reliquie di Nonantola al piviale di Berceto, dagli abiti sontuosi e dagli apparati rinascimentali fino alle eleganze
neoclassiche, per giungere infine alla produzione ottocentesca per il mercato borghese.
I saggi della seconda sezione ci restituiscono invece una vivida immagine dello sviluppo delle raccolte di tessuti e della loro musealizzazione, non trascurando né gli aspetti di
ricca e varia accumulazione, come nel caso Gandini di Modena, né di dar conto di esperienze che intrecciano le vicende di vesti e arredi liturgici conservati nei numerosi musei
d’arte sacra, con materiali appartenenti alla cultura ebraica,
oppure con i corredi tessili provenienti dal Nuovo Mondo.
Il volume è infine completato dal nutrito repertorio delle istituzioni che conservano materiali tessili, che consente uno stimolante viaggio virtuale in circa 160 musei
della regione, ordinato in base a una divisione geografica
che segue la via Emilia da Piacenza a Rimini.
La pubblicazione è stata concepita con il fine di diffondere la
conoscenza dell’arte tessile in Emilia-Romagna e di promuovere la sua valorizzazione, perseguite attraverso la collaborazione di studiosi ed esperti responsabili delle istituzioni museali, che con la pluralità delle loro voci hanno contribuito alla completezza ed alla varietà del volume ed ai quali va il ringraziamento dell’Istituto per il loro qualificante apporto.
LAURA CARLINI
Responsabile del Servizio Musei e Beni Culturali
dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali
della Regione Emilia-Romagna
Conoscere conservare e valorizzare
il patrimonio tessile regionale
MARTA CUOGHI COSTANTINI
IOLANDA SILVESTRI
Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali
della Regione Emilia-Romagna dalla sua nascita
ad oggi ha attuato un’azione di tutela e di valorizzazione del patrimonio tessile antico conservato nel
proprio territorio di competenza, incentrata principalmente sulle questioni di metodo e nel pieno rispetto delle suo mandato istitutivo, in quanto strumento consultivo e propositivo della Regione in materia di beni culturali. Rispetto ad altre realtà nazionali, l’operato regionale si è sviluppato di preferenza
più sul dibattito culturale avanzato che su quello operativo, nei confronti del quale, ha comunque svolto
un’azione di sostegno rivolta agli enti locali e alle istituzioni pubbliche con interventi diretti sui tessili antichi ivi conservati in forma di vere proprie raccolte o
di singoli manufatti. In questa direzione, come peraltro nei confronti di qualsiasi altra categoria di beni,
non ha mai disgiunto i diversi modi di affrontare la
materia, come la conoscenza, la tutela e la promozione di questo singolare artigianato artistico, tanto antico quanto ancora così poco conosciuto, promuovendo azioni parallele e correlate all’interno di una logica di sistema.
Ha proceduto quindi sui binari complementari e imprescindibili della conoscenza e della conservazione che
hanno portato come naturale conseguenza a interventi
mirati di valorizzazione delle collezioni e dei fondi tessili più significativi.
Innanzitutto ha privilegiato come principio guida, quello di studiare analiticamente ogni singolo reperto per
poi preventivare ed eseguire su di esso, se necessario, il recupero più adeguato, riconfermando la validità culturale
della formula storica ormai collaudata “conoscere per
L’
conservare” coniata a suo tempo dal rinnovato impulso
impresso alla politica dei beni culturali in Italia negli anni ’70 del secolo scorso.
Modelli e percorsi conoscitivi
Fra tutte la raccolte tessili regionali la collezione Gandini
del Museo Civico di Modena, per sua configurazione storica e consistenza di materiali, si è configurata fin da subito come il cantiere ideale per dare avvio e corpo a questo progetto che, iniziato negli anni ’80 in stretta collaborazione con l’amministrazione locale, ha portato allo
studio e al recupero congiunto e graduale di sezioni distinte della raccolta, segnando il passo oggi verso la sua
definitiva conclusione.
Sul fronte conoscitivo ha prodotto ben tre cataloghi sistematici di cui due dedicati a più di mille esemplari fra
tessuti e ricami del XVII, XVIII e XIX secolo (1984, 1993) e
il terzo (2003) al nucleo integrale di pizzi e passamanerie
(novecento pezzi in tutto tra merletti, galloni, frange e
fiocchi). Per il 2006 e il 2007 è prevista l’uscita delle ultime due pubblicazioni relative alla sezione di tessuti medioevali e rinascimentali e a quella di tessuti etnografici
di provenienza extraeuropea.
La specificità del lavoro condotto sul fondo modenese è
consistita nell’aver catalogato ogni singolo manufatto ricorrendo a un unico modello di scheda esemplata sui parametri codificati a livello internazionale dal centro di
studi sui tessili antichi più accreditato su scala mondiale,
il Centre d’Etudes des Textiles Anciens di Lione. In particolare è stata elaborata una scheda museale ad hoc incentrata soprattutto sui dati tecnici, ovvero su quelli che più
di tutti identificano ogni esemplare (per tipo di tessitura,
filato, colore e disegno) ritenuti, rispetto agli elementi
MARTA CUOGHI COSTANTINI - IOLANDA SILVESTRI
storico-critici, essenziali per una lettura coerente e completa della natura del manufatto.
La lettura tecnica di ogni reperto formulata comunque in
modo sintetico è stata corredata da una campagna fotografica mirata a documentare in modo esaustivo ed appropriato lo stato dei materiali. Il lavoro ha previsto la ripresa a colori e in bianco e nero dell’intero (recto/verso)
di ciascun frammento, realizzata in due momenti, prima
e dopo il restauro e integrata, quando necessario, da particolari ingranditi del disegno o della tecnica di lavorazione. Il primo lotto di tessili pubblicato nel catalogo del
1984, corrispondente alla sezione sette-ottocentesca, è
stato fotografato a luce naturale proponendo la sperimentazione, allora pioneristica, della ripresa a luce naturale, abbandonata in seguito per motivi di praticità operativa e definitivamente sostituita da quella a luce artificiale, più accattivante ma sicuramente meno attendibile
quanto a fedeltà cromatica e a restituzione del dato tecnico.
L’esperienza pilota condotta, sulla raccolta modenese e
perfezionata negli anni dall’Istituto, ha delineato una
metodologia di studio e catalogazione del settore applicata da schedatori e studiosi istruiti ad hoc anche al resto
delle collezioni tessili presenti sul nostro territorio, conservate nei diversi musei pubblici e privati, ivi comprese
le raccolte diocesane e di arte sacra senza escludere anche
gli arredi sacri della cultura ebraica.
Ricordiamo per importanza dei fondi studiati, la schedatura delle raccolte tessili conservate nei musei civici reggiani (Museo d’Arte Industriale e Galleria Parmeggiani) e
quella condotta sui materiali delle sinagoghe, oltre ai cataloghi di paramenti e arredi liturgici della Collegiata di
Castell’Arquato a Piacenza, dei Santuari della Steccata a
Parma e della Ghiara a Reggio Emilia, promossi dalle Soprintendenze competenti.
L’indagine sul patrimonio tessile regionale ha affrontato
anche lo studio di fondi particolari rappresentati dalle
raccolte di costumi teatrali come quella donata dall’attore Gandusio alla Casa di Riposo Lyda Borelli per Artisti
Drammatici di Bologna e dai fondi di ventagli storici conservati nelle raccolte dei Museo Civico di Carpi e presso
famiglie ferraresi presentati in mostra nelle rispettive località nel 1999 e nel 1994, fino a indagare il mondo della
strumentazione tecnica come quello delle macchine tessili (orditoi e telai da seta) conservate nel Museo del Patrimonio Industriale di Bologna (su tutti questi fondi si
rimanda ai saggi della seconda sezione e alla consultazione del repertorio museale finale con la bibliografia di
riferimento).
12
Durante il lungo percorso ricognitivo intrapreso dall’Istituto per i Beni Culturali in questo ambito dalla sua
istituzione ad oggi non sono mancati, inoltre, momenti di approfondimento critico e di confronto sull’argomento con le più importanti realtà museali nazionali e
internazionali che conservano raccolte tessili antiche
di rilievo. In proposito ricordiamo tre importanti appuntamenti modenesi promossi dai Musei Civici in collaborazione con questo Istituto, il convegno del 1990
sulle Collezioni Civiche di Tessuti e i due seminari di formazione, rivolti, il primo nel 1989, a informare il personale direttivo, il secondo nel 1991, a istruire ex novo personale tecnico nel ruolo di schedatori in forza presso
musei e soprintendenze statali. La necessità di promuovere iniziative di questo genere da parte degli operatori
museali nasceva dalla necessità di ovviare ad una ignoranza del settore colmata per anni con approcci critici
mediati di riflesso dalla storia dell’arte, affrontando ora
la materia con metodi e criteri suoi propri. Tra questi la
conoscenza del dato tecnico storicizzato rappresenta
senza dubbio l’aspetto più caratterizzante e distintivo
dello studio dei tessuti antichi e quello da cui non si può
prescindere per formularne l’attribuzione, indicando il
periodo d’esecuzione, il luogo di provenienza e la qualità del manufatto.
Lo studio tecnico del tessuto antico, infatti, anche se è disciplina recente (è nata nel dopoguerra del secolo scorso
in alcuni musei d’Europa) non è certo materia facile da
apprendere perché facendo riferimento prima al mondo
dell’artigianato poi a quello dell’industria ha visto sedimentare nei secoli tecniche, strumenti e sistemi di lavorazione molto antichi e in continua evoluzione che hanno condizionato da sempre la creazione di questo prodotto dell’artigianato artistico.
In buona sostanza e semplificando al massimo, si può dire che il tessuto nella sua essenza materiale è un intreccio ortogonale di fili verticali (orditi) e orizzontali (trame), tessuto da una macchina fissa (il telaio azionato
dall’uomo), le cui modalità diverse di intersecazione dei
fili danno luogo a tanti decori quante sono le varianti
tecniche. Fermo restando poi che il disegno di una stoffa può essere ottenuto comunque anche dopo la tessitura con altre tecniche che intervengono direttamente sull’intreccio di base, come la stampa che lo colora o come
l’impressione a caldo e l’ondatura che lo schiaccia nei
punti voluti corrispondenti al motivo che si vuole ottenere, non v’è dubbio alcuno che proprio sul sistema di
intreccio più o meno semplice dei fili di ordito con quelli di trama che danno origine a tessuti uniti (senza deco-
Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale
ro) ed operati (con decoro), si concentra l’interesse primario dello studioso in questo campo.
Criteri e modi del conservare
In parallelo anche sul fronte complementare della conservazione, dal 1976 ad oggi, l’Istituto per i Beni Culturali ha promosso progetti specifici sulle diverse tematiche
del settore. L’ambito operativo indagato è iniziato con il
restauro e la discussione critica sui metodi e sulle tecniche del recupero, per spostarsi ai problemi della formazione degli operatori fino a giungere, più di recente, a individuare i contenuti conservativi degli standards museali, con particolare attenzione ai problemi della manutenzione e della prevenzione, all’avanguardia nel dibattito
internazionale, in quanto segnano il passo di un’azione
di tutela lungimirante volta a limitare il più possibile l’azione traumatica connaturata al restauro.
Su quest’ultima tipologia di interventi l’attenzione si è
focalizzata sul recupero di raccolte museali e su manufatti tecnicamente complessi come gli arazzi e gli abiti.
Sui primi si è intervenuti sempre sul “fondo campione”
modenese della collezione Gandini, avviando dal 1978
una campagna sistematica di restauro di ben duemila
frammenti fra stoffe, pizzi e passamanerie di varie forme,
dimensioni e tipo di degrado, relativi alle sezioni studiate. Negli anni il recupero ha messo a punto un sistema
sempre più ottimizzato di criteri, tecniche e soluzioni
che hanno privilegiato oltre al restauro dei singoli materiali anche la conservazione dell’antico allestimento museografico tardo ottocentesco con la riesposizione parziale e a rotazione dei materiali. All’interno dei contenitori originali, opportunamente ripristinati nei supporti
interni e nella struttura portante in ferro e vetro, ora assicurata da sigillature tali da garantire comunque l’aerazione controllata e filtrata dell’aria, ogni frammento, dopo essere stato sottoposto ad un regolare intervento di
manutenzione o di restauro, è stato riposizionato in modo corretto nelle vetrine, ovvero disteso e fissato con fettucce di sostegno ai supporti lignei di fondo delle stesse
rivestite ex novo con tessuto idoneo. Ben diverso era infatti lo stato in cui si presentava il manufatto all’entrata in
museo, piegato, arricciato, incollato su carta e cosparso
di chiodi, puntine e spilli arrugginiti. Solo per quei frammenti che per ragioni conservative sono stati rivestiti al
retro da protezioni integrali in tessuto idoneo, si sono
create su di esse delle apposite aperture dette “finestrelle”, per consentire la visione e lo studio del tessuto altrimenti impedita.
Il progetto conservativo ha contemplato, oltre al recupe-
ro dell’impianto museografico originale e dei manufatti,
anche il ripristino ambientale della sala che li ospita entrambi sin dalle sue origini. Grazie a un monitoraggio costante seguito negli anni dalla direzione museale con la
consulenza dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il
coordinamento dell’Istituto per i Beni Culturali, la stanza
è stata adeguata ai parametri ambientali richiesti per i tessili antichi, quanto a luce, umidità relativa e qualità dell’aria, quindi schermata integralmente dalla luce naturale e rinnovata nell’illuminazione artificiale con fari alogeni, sperimentando di recente l’inserimento di fibre ottiche solo nella vetrina centrale dei pizzi.
Quanto poi a interventi conservativi esemplari condotti
su manufatti “eccellenti” presenti nel territorio regionale, ricordiamo i restauri conclusi sull’arazzo fiammingo
d’inizio Cinquecento del Collegio Alberoni di Piacenza
(“Il Corteo regale di Nozze”, della serie cosiddetta di Priamo) e su uno straordinario quanto fragile abito di gala indossato dalla figlia di Maria Luigia Duchessa di Parma, Albertina, ed esposto al Museo Glauco Lombardi di Parma.
Se per il primo lo sforzo è stato concentrato sul ripristino
della lettura estetica d’insieme, curando ogni dettaglio,
dal reinserimento degli orditi mancanti con il fissaggio
delle trame originali su supporti locali adeguati, alla ritessitura delle cimose mancanti, per il secondo, ci si è misurati senza timore, dopo il restauro delicato del ricamo
d’argento sull’impalpabile garza di seta di fondo, con il
difficile problema sartoriale legato al recupero della foggia storica, aspetto quest’ultimo poco praticato in quanto scarsamente conosciuto. Ci si è concentrati sulla parte
meglio documentata dell’abito, che non era quella Impero, bensì quella più tarda della Restaurazione, inserendo
nella ricostruzione della veste un corpetto ritrovato nel
guardaroba della duchessa.
Gli esiti sicuramente positivi raggiunti da questi due cases histories dimostrano, tuttavia, quanta ricerca tecnologica e interdisciplinare occorra ancora fare in questo
campo. Come si è accennato poc’anzi, l’interesse per il recupero dei tessili antichi si è manifestato purtroppo in
epoca tarda, prima in Europa nel dopo guerra del Novecento, ad opera di alcune tra le sue istituzioni museali più
sensibili (tedesche, svizzere, inglesi, belghe, polacche e
olandesi), poi anche in Italia tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Pur avendo compiuto sensibili progressi,
questa disciplina denuncia, tuttavia, ritardi piuttosto pesanti nella ricerca avanzata, oltreché carenze ancora più
penalizzanti nell’inquadramento sistematico d’insieme
della materia, oggi certamente meno sviluppata rispetto
ad altri settori più avanzati del restauro.
13
MARTA CUOGHI COSTANTINI - IOLANDA SILVESTRI
Nonostante tutto però non sono mancate le occasioni
promosse dall’Istituto per i Beni Culturali per dibattere
l’argomento con iniziative di respiro nazionale e internazionale, sviluppando istanze già intraprese dal benemerito e pionieristico C.I.S.S.T. (Centro Italiano per lo
Studio della Storia del Tessuto) negli anni ’80 del secolo
scorso. In ordine di tempo e al riguardo, ricordiamo due
eventi importanti: il già citato convegno modenese del
1990 dedicato alle Collezioni Civiche dei Tessuti che diede ampio spazio ai problemi conservativi ed espositivi di
questi materiali e la mostra “Capolavori Restaurati dell’Arte Tessile” allestita nel 1991 nella suggestiva cornice
rinascimentale di Casa Romei a Ferrara, che segnò l’occasione per fare il punto della situazione su questo fronte.
Attraverso una selezione di manufatti eterogenei, tanto
rari quanto preziosi, compresi tra il IV e il XIX secolo
(frammenti, pizzi, parati liturgici, abiti civili e arredi), la
rassegna ferrarese diede conto, infatti, dei risultati più recenti e avanzati raggiunti in Italia dalla politica museale
più aggiornata in materia.
A questi eventi ne seguirono altri non meno significativi
come le due giornate di convegno dedicate ai temi conservativi specifici degli arazzi (Piacenza, 2001) e delle tappezzerie delle dimore storiche (Ferrara, Salone del Restauro, 2000).
Argomenti questi in genere che, già poco dibattuti sia in
ambito nazionale che internazionale, sono sempre stati
però fortemente sentiti, invece, dagli operatori museali
che da tempo hanno avvertito la necessità di affrontarli,
soprattutto per quanto riguarda il recupero delle tappezzerie antiche, tematica questa che implica soluzioni
conservative complesse, quando si entra nella logica del
mantenimento delle stoffe restaurate in situ o del loro rifacimento.
Va rilevato tuttavia con piacere che da qualche tempo a
questa parte il dibattito scientifico sul restauro dei beni
storico-artistici ha portato fortunatamente alla maturazione critica del problema anche in quest’ambito di intervento, convincendo gli addetti ai lavori ad optare
sempre meno per interventi radicali e strutturalmente
alteranti come il tradizionale restauro (relegato a scelte
estreme e obbligate) e preferendo invece soluzioni meno traumatiche e invasive, come una buona conservazione dei manufatti, attuata di solito con la manutenzione e il monitoraggio degli stessi, e talvolta anticipata
anche da un’azione preventiva sull’ambiente che li conserva.
Gli interventi condotti sugli arazzi del Duomo di Ferrara
oggi esposti in modo permanente nell’attigua chiesa di
14
San Romano divenuta il nuovo Museo d’Arte Sacra della
Cattedrale, su quelli del Duomo di Modena, per ora visibili solo parzialmente nel Museo omonimo, come pure
sugli arredi tessili della Casa Museo Carducci a Bologna,
solo per citare tre casi esemplari, vanno proprio in questa
direzione, nel senso che propongono scelte metodologiche volte al rispetto dell’integrità storica dell’opera e al
mantenimento di ogni suo valore documentale ed estetico, senza ricorrere a operazioni intrusive e demolitive, di
cui non sempre è garantita la reversibilità. Se poi si aggiunge che sono operazioni tecnicamente più blande e
meno costose del restauro, si comprende meglio la validità dell’assunto iniziale.
A dare sostegno a questi nuovi orientamenti del settore,
interviene anche la più recente deontologia conservativa
espressa dalle istituzioni statali competenti in merito alla definizione degli standards museali di cui ogni Regione
dal 2002 è stata chiamata a dotarsi, alla luce dei nuovi
orientamenti imposti dalla legge Merloni nel 1999.
L’enunciazione dei requisiti necessari alla corretta gestione ordinaria e straordinaria di ogni museo, dal raggiungimento graduale degli obiettivi minimi fino alle
performances più alte, assunti con la deliberazione della
Giunta Regionale n.309 del 3 marzo 2003, prevede alla voce Musei (punto 7, con specifico riferimento al sottopunto 7.7 dedicato alla “Gestione e cura delle collezioni e del
patrimonio museale”) una serie di regole generali sulla
conservazione che danno una valenza prioritaria alla prevenzione e ad alcune misure di base da assumere riguardo ai materiali organici e non. In questa categoria sono
stati inseriti di proposito i tessili, per i quali, nello specifico, sono state dichiarate come misure obbligatorie: l’esclusione totale dai danni della luce naturale diretta o indiretta (utilizzando coperture apposite alle finestre: scuri interni, tende, vernici antispettro solare sui vetri), l’uso sostitutivo di fonti d’illuminazione fredde sempre poste al di fuori dalle vetrine (ad eccezione delle fibre ottiche) e il mantenimento dei parametri tradizionali di Lux
(L) artificiali, Umidità Relativa (UR), Temperatura (T) e
Qualità dell’Aria (QA), sia nell’ambiente museo (spazi
espositivi e depositi) che all’interno delle vetrine.
Riguardo poi a queste ultime si è sconsigliato vivamente
il ricorso abituale a contenitori senza aria e climatizzati
da limitarsi solo a casi eccezionali come possono essere i
manufatti tombali e di scavo. Va da sé comunque che l’osservanza delle misure minime indicate negli standards,
insieme ai suggerimenti tecnici e operativi forniti nel
dettaglio dai restauratori qualificati nel settore in merito
a qualsiasi tipo di manipolazione museale (dall’esposi-
Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale
zione alla movimentazione allo stivaggio fino al restauro
vero e proprio), assicurano lo stato di buona salute del
manufatto e la sua migliore conservazione nel tempo.
Il riferimento costante all’esperto di provata esperienza
in un confronto comunque sempre interdisciplinare con
lo storico del settore e la direzione musei, diventa poi l’altro punto di forza della tutela pubblica quando si affronta un qualsiasi problema d’ordine conservativo.
Anche in questa direzione, l’Istituto per i Beni Culturali
si è fatto parte attiva, promuovendo due corsi di formazione rivolti a restauratori di tessuti antichi a Modena
nel 1992 e di arazzi a Piacenza nel 1999/2000. Nella strutturazione dei corsi, formulati a numero chiuso nell’ambito dei canali istituzionali previsti dal Fondo Sociale
Europeo e realizzati in collaborazione con le amministrazioni locali e le organizzazioni di categoria, l’attenzione si è concentrata su due obiettivi primari: l’immissione nel mercato del lavoro di neo-restauratori e la qualità scientifica del programma formativo, monitorata da
referenti tecnici ministeriali dell’OPD (Opificio delle
Pietre Dure) e dell’ICR (Istituto Centrale del Restauro) e
sviluppata con lezioni teorico-pratiche e periodi di stages presso laboratori privati validati dalle suddette istituzioni.
Trasmettere il sapere e il conservare
Pur nel quadro generale di precarietà asistematica in cui
ancor oggi si muovono le istituzioni pubbliche e private,
sia in ambito nazionale che internazionale sul fronte della conservazione come su quello dello studio dei tessili
antichi, si può essere certi, tuttavia, che la Regione Emilia-Romagna ha dato un contributo significativo in ciascuno degli ambiti indicati, potenziando la conoscenza e
la tutela di uno dei prodotti più antichi e tecnicamente
complessi del suo artigianato artistico storico e senza
dubbio quello fra tutti meno conosciuto e apprezzato,
nonostante la cospicua messe di manufatti a noi pervenuta e il ruolo fondamentale espletato da sempre da questi prodotti sia nell’uso che nel significato simbolico e
culturale conferito loro dall’uomo.
Ecco perché ci è sembrato doveroso rendere conto in questa pubblicazione dei risultati conseguiti dall’Istituto per
i Beni Culturali in quasi un trentennio di lavoro sui tessili antichi. La ricognizione e lo studio di questi materiali
conservati nel territorio regionale trovano ora più completa visibilità in una sintesi dell’esistente che ha portato
a delineare una sorta di carta geografica della loro distribuzione territoriale all’interno di istituzioni museali sia
pubbliche che private.
Restano esclusi da questi beni solo quelli del patrimonio
liturgico dismesso e custodito in sagrestie di chiese e oratori, i cui canali di accesso per la conoscenza sono affidati,
da sempre e in primis, alle campagne di rilevamento e all’opera di valorizzazione promosse dalle Soprintendenze
statali e dalla Cei, essendo manufatti giuridicamente sottoposti alla tutela diretta di queste istituzioni. Ciò però
non ha dissuaso dal valutarli nella loro valenza storica
complessiva, essendo questa la parte di patrimonio tessile antico più consistente e importante a noi pervenuta.
In questo contesto generale l’attenzione regionale, forte
del suo mandato di ente preposto al governo degli enti locali, si è concentrata in particolare sulle raccolte tessili
pubbliche di tradizione civica in quanto nate come
espressione di un collezionismo privato colto e illuminato, che, per volontà stessa dei loro proprietari, convinti
assertori del bene culturale come bene della collettività e
imprescindibile strumento di crescità della società, confluirono in epoca post-unitaria nelle Raccolte d’Arte dei
nascenti Musei Civici a imitazione dei grandi musei europei di Arti Industriali e Applicate.
Le raccolte, concentrate nei più importanti Musei Civici
della nostra regione e in un solo Museo Nazionale (quello di Ravenna), a cui furono donate da personaggi di spicco della cultura locale, come Gandini per Modena, Campanini e Parmeggiani per Reggio Emilia, Malaguzzi Valeri per Bologna e Ricci per Ravenna, sono documentate da
un corpus consistente costituito per lo più da frammenti
ma anche da indumenti, accessori e arredi civili e liturgici, di cui preme qui menzionare i manufatti di maggior
pregio e valore storico, come lo straordinario abito maschile di gentiluomo tardo cinquecentesco, un’autentica
rarità, conservato insieme alle vesti femminili e maschili
settecentesche nel Museo Parmeggiani di Reggio Emilia,
la serie di campionari della fabbrica di seta reggiana Trivelli-Spalletti del Museo Civico locale e il nucleo di tessuti bizantini e copti del Museo Nazionale di Ravenna.
Tra i paramenti sacri ivi attestati non vanno dimenticate
anche due eccellenze bolognesi come il piviale medievale ricamato di San Domenico del Museo Civico e la pianeta seicentesca con scene della Creazione ricamata a Bologna su modello raffaellesco, oggi esposta al Davia Bargellini.
Ben più cospicua invece è la messe di vesti e arredi sacri
conservata nei musei ecclesiastici, fra cui spiccano per
unicità e pregio il velo bizantino della Collegiata di Castell’Arquato, le due pianete in pizzo d’oro del cardinale
Rinaldo d’Este del Museo Arcivescovile di Reggio Emilia,
oltre ai sontuosi ricami in oro e argento di insigni papi e
15
MARTA CUOGHI COSTANTINI - IOLANDA SILVESTRI
cardinali bolognesi conservati nel Tesoro della Basilica di
San San Pietro e nel Museo di San Petronio. In testa a tutti
si pone comunque il rinvenimento più sensazionale compiuto in questi ultimi anni nell’Abbazia di Nonantola: si
tratta di due sete antichissime, una bizantina risalente al
VIII-IX secolo con aquile imperiali e una più tarda palermitana o fatimita dell’XI-XII secolo ricamata con animali
affrontati (cervi, leoni e lepri), che rivestivano le reliquie
di Santi o di Abati benedettini a cui appartenevano.
Tra gli arredi sacri non vanno esclusi, come si è già accennato, anche quelli di provenienza ebraica distribuiti nelle diverse sinagoghe del territorio, come i rivestimenti (i
meillin e i mappah) dei rotoli da preghiera (le torah) e le
tende di accesso ai sacri testi (i parokot), di cui una sintesi
significativa è documentata nel Museo multimediale della cultura ebraica di Bologna (il MEB).
All’interno del repertorio tessile regionale un posto di rilievo e a sé stante è ricoperto dagli arazzi attestati, oltreché da pochi esemplari e da qualche frammento isolato
nelle collezioni civiche, da importanti raccolte tessute in
varie repliche dette “serie” da arazzieri fiamminghi attivi
in Italia tra il XVI e il XVIII secolo: tra queste citiamo gli
arazzi estensi del Duomo di Ferrara oggi riallestiti nel
Museo attiguo della Chiesa di San Romano, quelli bolognesi della Basilica Metropolitana, quelli modenesi purtroppo apprezzabili solo in due esemplari visibili nel Museo della Cattedrale della città e infine quelli piacentini
del Collegio Alberoni, il cui arazziere, solo per due di essi,
i più antichi a noi pervenuti d’inizio Cinquecento e sicuramente due capolavori, fu lo stesso che eseguì gli arazzi
Vaticani disegnati da Raffaello.
C’è da dire infine che non sono state trascurate tutte quelle altre numerose e insospettabili testimonianze ritrovate
in realtà museali “minori” e più periferiche della nostra
regione afferenti a produzioni legate ad ambiti diversi.
Ben rappresentata è la categoria dei cosiddetti “militaria”
con i patriottici cimeli risorgimentali come la bandiera
reggiana del Tricolore esposta nel museo a lei dedicato, di
recente inaugurazione, gli abiti appartenuti a Garibaldi e
ad Anita della Classense di Ravenna, quelli indossati da
Silvio Pellico del Museo del Risorgimento modenese, le
uniformi storiche dei cadetti dell’Accademia di Modena,
insieme alle divise indossate dai partigiani della Repubblica di Montefiorino e dai militari italiani e stranieri nelle ricostruzioni multimediali dei due conflitti mondiali
allestite nel Museo della Guerra di Bologna e nel Museo
Memoriale della Libertà di Castel del Rio.
Meno nutrita, ma comunque interessante, è anche la documentazione teatrale con gli abiti di scena dell’attore
16
Gandusio e le due vesti esposte a Gualtieri, realizzate dalla rinomata sartoria Tirelli per il Ludwig di Visconti e l’Enrico IV di Pier Luigi Pizzi.
Testimoniata invece da un variegato repertorio di manufatti integrati da relativa strumentazione tecnica è la produzione tessile della civiltà contadina con corredi di vestiario e biancheria intima e domestica molto povera lavorati con i filati di canapa e lana, di cui i musei di Villa
Sorra nel modenese, di San Marino in Bentivoglio nel bolognese e quelli romagnoli di Santarcangelo e di Russi ci
restituiscono un’idea esauriente dei modi del vivere e
dell’abitare di questa cultura.
La ricognizione sull’intero patrimonio tessile regionale
ha trovato infine una sua configurazione appropriata all’interno di un percorso storico che ne ricomprendesse la
funzione e il significato.
Per l’età antica si è partiti dalle attestazioni preistoriche
del primi insediamenti terramaricoli di Castione dei
Marchesi nel parmense fino ad arrivare ai reperti villanoviani di Verucchio e a quelli rivenuti in due necropoli della Mutina tardo romana e nei resti della nave romana di
Comacchio, mentre per l’età moderna lo scenario si fa via
via più documentato e ricco per essere identificato in prevalenza dall’eccellenza dei suoi manufatti, ovvero da
quelli lavorati con il più nobile dei filati, la seta.
Si inizia con il messaggio iconico e sacrale delle sete medioevali documentate nell’ambito parmense (piviale di
Berceto), nel reggiano (mitria di Marola), nel modenese
(reliquie dell’abbazia di Nonantola), a Bologna (telo di
San Procolo e mitria di Santo Stefano), per transitare poi
nel mondo elegante e artistocratico del Rinascimento
evocato dai velluti della Galleria Parmeggiani e dal rivestimento dello scrittoio da viaggio estense della Galleria
Nazionale di Modena, passando poi attraverso l’iperbole
barocca declamata dagli sfavillanti ricami dorati delle
chiese bolognesi di San Pietro e di San Petronio, per finire con la riproposizione nuova della classicità romana discretamente ostentata dalle tappezzerie Impero di Palazzo Milzetti a Faenza.
All’interno di questo itinerario che lega virtualmente tra
loro generi tessili di epoche diverse, non sono mancati
affondi interessanti nella tessitura locale come quelli effettuati sulla storia della lavorazione dei veli bolognesi,
ornamenti eterei della moda aristocratica dal Rinascimento all’Ottocento, e sulla produzione, già di tipo seriale, di sete operate a piccoli decori geometrici e floreali rococò, destinata all’alta borghesia e intrapresa nel corso
del Settecento dalla mercatura reggiana Trivelli-Spalletti.
La scelta infine ambiziosa di affrontare un ampio arco
Conoscere conservare e valorizzare il patrimonio tessile regionale
temporale dalla Preistoria all’Impero ha trovato una sua
spiegazione plausibile non solo nell’avvertita necessità
di ricomporre un quadro sintetico e il più possibile esaustivo dell’esistente, ma anche nel fatto che la storia tessile antica, dalle sue origini agli inzi dell’Ottocento, è stata
profondamente segnata da cambiamenti tecnologici determinati dall’interazione ancora manuale e diretta del-
l’uomo sulla macchina, mentre con l’introduzione del telaio meccanico nel 1810 e la comparsa dei primi filati artificiali nel corso avanzato di quel secolo, si aprono scenari nuovi che modificheranno radicalmente la costruzione del manufatto nell’iter completo della sua filiera
produttiva, dalla creazione alla realizzazione, ponendo le
basi dell’industria tessile contemporanea.
17
Alla scoperta del patrimonio tessile in Emilia-Romagna
Alle origini del tessuto
BEATRICE ORSINI
Vestirsi, una necessità e un’arte nata con l’uomo
in dalle origini gli uomini hanno sentito l’esigenza di
coprire il loro corpo per difendersi dalle rigide temperature invernali.
Nel Paleolitico, epoca delle grandi glaciazioni, l’uomo
cacciava gli animali per sfamarsi con la loro carne e, grazie a strumenti in pietra scheggiata come grattatoi e raschiatoi, tagliava, scarnificava e raschiava le pelli per realizzare abiti o costruire ripari. In base agli studi effettuati, sembra che l’abbigliamento utilizzato da gruppi di
cacciatori-raccoglitori mesolitici che abitavano l’appennino bolognese, fosse costituito da una veste in pelle e un
mantello a intreccio di erbe palustri, chiuso a rotolo sulle spalle, utile in caso di pioggia1 (Fig. 1). I rinvenimenti
archeologici indicano che la tecnica a intreccio, considerata l’antecedente della produzione di tessuti a telaio, era
già conosciuta nel Paleolitico2. Si eseguiva con il solo ausilio delle mani, sfruttando la flora locale come erbe palustri, graminacee, giunchi, fibre di tiglio, rametti di salice e altri. I fili semplici erano ottenuti mediante torsione
di fibre elementari, mentre il filo ritorto consisteva nell’unione di più fili semplici sottoposti a ulteriore torsione, tecnica con cui si realizzavano corde impiegate nella
costruzione di capanne e palizzate, immanicature di
strumenti, cinture o bisacce3.
Il tipo di intreccio più antico è sicuramente la rete connessa con le attività di pesca o impiegata per suppellettili di uso quotidiano come cesti per il trasporto di derrate
e stuoie. Durante il Neolitico le fibre adatte alla filatura e
alla tessitura venivano ricavate da molte specie vegetali. I
rinvenimenti archeologici mostrano che le più utilizzate
sono state quelle ottenute da libro di pianta (tiglio, quercia, olmo)4, così chiamate perché estratte da una pellico-
S
la posta fra il legno e la corteccia di alberi o arbusti e le fibre da stelo quali lino, canapa e ortica, ottenute invece
dalla parte periferica dei tessuti di conduzione della linfa. Dal libro di pianta si ricavavano fili di spessore diverso: i più grossi dalla corteccia, mentre quelli più sottili
dal legno. Fra il Neolitico e l’età del Bronzo è inoltre documentato l’impiego di molte piante erbacee come le
graminacee, i giunchi, la stipa, la ginestra e l’ortica, molto utile anche per la produzione di fili da cucitura. La canapa, dal cui fusto si ricavavano fibre per realizzare corde, tele e stuoie, sembra essersi diffusa in Italia solo a partire dall’età del Ferro. Un ulteriore approfondimento relativo all’utilizzo delle fibre vegetali è stato possibile grazie alla scoperta della mummia sul ghiacciaio del Similaun, rinvenuta con i resti degli indumenti che indossava
al momento del suo decesso (fine del IV millennio a.C.)5.
Egli aveva una tunica lunga fino al ginocchio e gambali di
pelle (capra, orso bruno o cervo) uniti a un perizoma, che
costituivano una sorta di pantaloni simili ai lessins degli
Indiani del Nord-America. Gli abiti presentavano riparazioni e cuciture eseguite con tendini di animali (soprattutto bue) e con fibre vegetali. Attorno alla vita era legata
una cintura in cuoio di vitello che conteneva strumenti
per cacciare. Si deduce quindi che i capi base dell’abbigliamento di un uomo dell’età del Rame erano costituiti
da un mantello, una tunica e una cintura. L’uomo di Similaun portava inoltre con sé numerose corde lavorate
prevalentemente a rete di fibre vegetali e alcuni contenitori in corteccia di betulla. Le scarpe avevano una suola in
cuoio di bue e un’imbottitura in paglia, mentre il capo
era coperto da un berretto di forma ovale realizzato con
pelli di camoscio, utile per affrontare le rigide temperature di montagna. Sulle spalle aveva un mantello a in-
BEATRICE ORSINI
treccio di fibre vegetali, tecnica con cui erano realizzati
anche il fodero di un pugnaletto in selce e una rete connessa con l’attività venatoria.
La conservazione di tessuti e intrecci è possibile solo in
presenza di particolari condizioni climatiche o in seguito al processo di mineralizzazione della fibra a contatto
con strumenti in metallo. Si tratta però solo di piccole
impronte6 dalle quali è difficile risalire alla foggia dell’abito o all’eventuale decorazione. I tessuti realizzati con fibre vegetali possono essere rinvenuti solo in terreni basici di ambiente umido come torbiere e laghi o in seguito
alla distruzione di un villaggio a causa di un incendio. Il
processo di carbonizzazione favorisce infatti la conservazione delle fibre vegetali mentre induce la fusione di
quelle animali7. Queste particolari condizioni hanno
permesso la conservazione di manufatti tessili in lino in
alcuni siti del Neolitico finale (IV-III millennio a.C.) dell’Italia settentrionale connessi a strumenti in legno per la
filatura e la tessitura (fusaiole e pesi da telaio)8. Le ricerche testimoniano infatti una notevole diffusione della
coltivazione di questa pianta, nonostante la sua lavorazione preveda un ciclo abbastanza complesso che comprende: estrazione del seme, macerazione, gramolatura,
scotolatura e pettinatura. La fibra che si ottiene è però
molto robusta e in grado di essere sottoposta a filatura e
tessitura. Lo strumento più diffuso in epoca neolitica è sicuramente la fusaiola9, piccolo peso in terracotta forato
che, applicato all’estremità inferiore di un fusto in legno
o metallo sul quale veniva avvolta la fibra (fuso), serviva
a renderne regolare il movimento rotatorio impresso
dalla mano della filatrice (Fig. 2). La sua forma più antica
era a disco piatto, mentre quella biconica o piramidale a
volte decorata con incisioni sembra essere più tarda. Il
consistente aumento di questi strumenti in siti di epoca
neolitica testimonia forse un cambiamento nel modo di
vestire dovuto al progressivo abbandono dell’uso della
pelle a favore dei tessuti di origine vegetale e animale.
Questa evoluzione potrebbe essere confermata dalle statue-stele altoatesine10 databili al Neolitico finale. Si tratta di sculture antropomorfe in pietra sulle quali sono riprodotte più versioni di uno stesso capo di abbigliamento in modo molto particolareggiato. Questo aspetto sembra connesso a una funzione socio-culturale attribuita all’abito, che mostrava l’appartenenza dell’individuo a un
determinato gruppo etnico. Le statue-stele maschili presentano un mantello realizzato con un materiale più consistente rispetto a quello dell’uomo del Similaun, identificabile con la lana. Due sembrano le tipologie decorative rappresentate: motivi a scacchiera e bande verticali,
22
entrambi con aggiunta di frange, accennate da scanalature oblique incise sui fianchi delle statue. L’abito femminile è costituito da un indumento ad ampio panneggio molto sottile, forse in lino, che ne vela i seni, identificabile con una tunica o piuttosto con uno scialle appoggiato intorno al collo o sul capo a scopo ornamentale (Lagundo A e Arco III). L’abbigliamento era inoltre arricchito da monili quali collari e collane, pendagli a spirale e
conchiglie, testimoniati nello stesso periodo anche nel
nostro territorio11. A partire dal III millennio a.C. la lavorazione del lino sembra subire una battuta d’arresto in
relazione all’incremento della lavorazione della lana, come rivela il cambiamento della forma dei pesi da telaio.
L’aumento delle ossa di capre e pecore in molti siti testimonia inoltre che la lana in questo periodo era ottenuta
dal vello di ovini. Questa fibra offriva una maggiore protezione dalle intemperie rispetto a quelle vegetali ed era
facile da filare. Il vello della pecora infatti è composto da
due tipi di pelo: la giarra che impermeabilizza l’animale
e la borra più sottile che ha lo scopo di isolarlo dal freddo.
Nel nostro territorio la presenza di fibre animali è documentata solo a partire dalla successiva età del Bronzo, sia
per fattori climatici che per la particolare composizione
dei terreni (paludosi e acidi)12. Queste furono probabilmente le condizioni che permisero la conservazione del
frammento in lana databile fra il bronzo medio e recente,
rinvenuto durante gli scavi ottocenteschi nel villaggio
terramaricolo di Castione dei Marchesi in territorio parmense (Fig. 3). L’analisi delle fibre ha rivelato una grande
quantità di peli (giarra) e una lanugine (borra) molto sottile, caratteristica della lana di questo periodo che non
permetteva la realizzazione di tessuti morbidi. I fili di trama e di ordito presentano una debole torsione a Z e i peli più sottili, originariamente bianchi o grigi per assenza
di pigmentazione, mostrano ora una colorazione bruna
dovuta al prolungato contatto con il terreno13. Data l’esiguità e l’unicità del frammento, non è stato possibile ricostruire la foggia degli abiti diffusi durante l’età del
Bronzo nel territorio emiliano-romagnolo. Si é ipotizzato che non dovessero discostarsi molto da quelli coevi
rinvenuti nel nord Europa, con l’aggiunta di ornamenti e
accessori di foggia locale. Il mantello, elemento tipico
dell’abbigliamento maschile durante l’età del Rame viene ora chiuso sul petto da alamari o bottoni in osso e corno levigati, decorati con cerchi o triangoli tratteggiati14.
Allo stesso modo la tunica lunga, simile al peplo greco,
continua a far parte dell’abbigliamento femminile, come
mostra la rappresentazione schematica incisa su di un
cippo funerario (metà VIII a.C.) rinvenuto a Marzabot-
Alle origini del tessuto
to15. Una variante era costituita da gonna lunga, blusa e
scialle fermato da due spilloni grandi, mentre quelli di
dimensioni più piccole chiudevano la cintura in vita, entrata ormai a far parte anche del vestiario femminile. Ad
essa si potevano appendere monili o numerosi pettinini
in osso e corno con decorazione a incisione, rinvenuti nei
siti terramaricoli emiliani 16. Una ricostruzione dell’abito tipico delle donne durante l’età del Bronzo è esposta
accanto al telaio collocato all’interno di una delle capanne (abitazione B) del Parco archeologico di Montale17.
Gli abiti etruschi
Per l’epoca etrusca l’abbigliamento si può ricostruire grazie alle pitture che decorano le pareti delle tombe e ai monumenti figurati. La produzione plastica del periodo arcaico ci restituisce molti esempi di nudità sia maschile
che femminile, anche se non è certo che si trattasse di una
consuetudine nella vita quotidiana. Il costume “eroico”
del defunto banchettante scolpito sui coperchi dei sarcofagi e delle urne di epoca ellenistica indica che, fra il VI e
il V secolo a.C., gli uomini avevano il torso nudo, con calzari ai piedi e berretti a punta sul capo. Nella maggior
parte dei casi solo servi e atleti vengono rappresentati
completamente nudi. Verso la fine del VI secolo a.C. il perizoma che copriva solo i fianchi viene ampliato divenendo un vero e proprio giubbotto, sostituito più tardi
dalla tunica derivata dal chitone greco, anche in una versione corta fino al ginocchio, indossata da uomini e donne. Il mantello di forma rettangolare, utilizzato nelle epoche precedenti, viene ora confezionato con stoffe pesanti
e colorate18 anche nella forma semicircolare che lasciava
una spalla scoperta. Divenuto col tempo un capo unisex,
acquisterà un’importanza sempre maggiore nell’abbigliamento etrusco, fino a diventare la veste per eccellenza, il cosiddetto tèbennos, da cui in epoca romana discenderà la toga. Come mostrano le raffigurazioni del tintinnabulo di Bologna (VIII-VII a.C.)19 e della Situla della Certosa (VII-VI)20, le donne continuano a indossare, come nel
periodo arcaico, tuniche lunghe fino ai piedi, arricchite
da pieghe o ricami, coperte da cappe o mantelli più o meno lunghi a volte con cappuccio. Questi erano fermati
sulla spalla da fibule, tipo particolare di spille diffuse dalla fine dell’età del Bronzo sia in sepolture maschili che
femminili. Oggetti simili dovevano essere, secondo la descrizione omerica, il “fermaglio d’oro con doppia scanalatura” decorato con un cane che tratteneva fra le zampe
anteriori un cerbiatto screziato, a chiusura del “mantello
purpureo di lana” indossato da Ulisse o le “dodici spille
d’oro chiuse con ganci ricurvi” che ornavano il “peplo
bellissimo” donato a Penelope da Antinoo21. Varie sono le
tipologie delle fibule realizzate in epoca villanoviana22; i
corredi della prima fase testimoniano che la forma ad arco serpeggiante era riservata al sesso maschile, mentre
quella elicoidale o a cordicella al sesso femminile, contraddistinto inoltre dalla presenza di oggetti distintivi
(conocchie, rocchetti e fusaiole) del ruolo svolto dalla
donna all’interno della casa (Fig. 4). Con la specializzazione della produzione metallurgica, gli oggetti si arricchirono in quantità e qualità. Nei corredi femminili di epoca orientalizzante compaiono conocchie con fusto in
bronzo ricoperto da elementi in vetro, osso e ambra23
(Fig. 5) e fusaiole in pasta vitrea24. La loro fragilità aggiunta alla scarsa funzionalità denotano un uso assolutamente rituale e simbolico, come allusione all’antica arte
della filatura e al controllo dei lavori domestici esercitati
dalla padrona di casa di rango elevato. Le fibule possono
avere l’arco rivestito con perle di vetro colorato (giallo,
blu, ecc.) o con castoni di ambra e osso o semplicemente
ingrossato e decorato a incisione25. Altri elementi indicano lo status sociale dell’individuo come le placche di cinturone a losanga con decorazione a sbalzo rinvenute in
alcune tombe femminili di Verucchio e Bologna. Un unico esemplare in corno di cervo con decorazione a incisione proviene dal sepolcreto di San Vitale di Bologna26. Fra
i modelli bronzei rinvenuti nel sepolcreto Benacci (Bologna), meritano invece particolare menzione due esemplari27: uno di forma rettangolare con catenelle pendule
e l’altro con ricca decorazione a volute e motivi che rimandano a culti solari (dischi e teste di cigno). L’abbigliamento era completato infine da zoccoli28 e stivaletti,
ma le calzature etrusche più famose furono sicuramente
quelle che i Romani chiameranno calcei repandi. Si trattava di babbucce curve e colorate, forse di panno, con le
punte rivolte in alto e la parte posteriore molto rialzata,
indossate ad esempio dalla donna scolpita sul sarcofago
degli Sposi29. Il capo era coperto da un berretto a cupola
di stoffa ricamata di origine orientale, chiamato tutulus30,
comune sia agli uomini che alle donne. Altre forme di copricapi erano il berretto a punta rigida o a cappuccio indossato da personaggi importanti (tomba degli Auguri);
il berretto di lana o di pelle con base larga e punta cilindrica portato dagli aruspici e infine il cappello a larghe
falde alla greca (pètasos) che sembra particolarmente diffuso nell’Etruria settentrionale (figure di terracotta della
decorazione architettonica di Poggio Civitate di Murlo;
flautista della tomba della Scimmia di Chiusi) e nell’Italia del nord (arte delle situle). L’abbigliamento era inoltre impreziosito da gioielli (diademi, orecchini in oro,
23
BEATRICE ORSINI
collane, braccialetti, anelli) o ganci di cintura decorati a
incisione o con inclusioni in ambra32 e pettorali.
Filare e tessere nell’antichità: una prerogativa
femminile
Nell’antichità filatura e tessitura erano considerate occupazioni tipicamente femminili e, in quanto tali affidate
alla padrona di casa, mentre all’uomo spettava il compito di combattere. Le evidenze archeologiche indicano
spesso una differenziazione fra filatrici e filatrici-tessitrici che riflette probabilmente un diverso status sociale.
L’arte della tessitura era infatti compito della mater familias, cioé della padrona di casa, come confermano le raffigurazioni del trono di Verucchio33 (VIII-VII secolo a.C.) e
del tintinnabulo di Bologna (ultimo quarto del VII secolo a.C.) sulle quali la domina tesse stando seduta su di un
piccolo trono mentre soprintende le ancelle. Sia fonti
scritte (poemi omerici), che raffigurazioni su vari tipi di
oggetti, mostrano donne aristocratiche e dee impegnate
in queste attività. La regina Elena confeziona nel palazzo
di Priamo una tela con scene di combattimento fra Greci
e Troiani, funesta anticipazione degli eventi successivi34,
mentre Andromaca, moglie di Ettore, “tesseva una tela
grande doppia del colore della porpora e vi ricamava sopra fiori variopinti”35. Numerosi sono inoltre i doni di
tessuti: come il peplo offerto dalla regina Elena a Telemaco per la sua sposa o il mantello (laena) in porpora fenicia
con fili d’oro donato da Didone a Enea36. Famosa è inoltre
la tela che Penelope tesseva “finché il giorno splendea” e
disfaceva di notte37 aspettando il ritorno del marito.
Omero sembra collegare inoltre la tessitura al canto riferendosi alla maga Circe che “cantava con bella voce all’interno mentre lavorava al telaio una tela grande e divina”38 e alla ninfa Calipso che “con bella voce cantando
muovendosi davanti al telaio tesseva con l’aurea spola”39.
L’abito aveva inoltre una valenza sacrale, come dimostra
il peplo realizzato in occasione delle Arreforie per la dea
Atena lei stessa tessitrice. L’attività tessile si lega anche alla mitologia: ben noto è il mito della fanciulla Aracne40,
abile in quest’arte che, non volendo riconoscere di aver
ricevuto dalla dea le sue doti straordinarie, osò sfidarla in
una gara e fu vinta. La fanciulla, trasformata in ragno, fu
condannata a trarre da sé stessa il filo con il quale “ritesse l’antica tela”. Nella Roma dei primi re la donna continua a essere indicata come domina lanifica, caratteristica
con cui Plinio41 descrive Tanaquilla, moglie etrusca di Tarquinio Prisco.
24
Fusi, pesi e telai
La realizzazione dei tessuti avveniva attraverso la filatura, durante la quale si producevano i fili e la tessitura a
telaio, con cui si intrecciavano i fili in modo da ottenere
la stoffa. La materia prima era fornita in buona parte dal
pelame degli animali da allevamento, soprattutto ovini,
che l’uomo provvedeva a tosare. Le operazioni preliminari consistevano nel lavaggio della fibra che eliminava
le impurità e nella successiva cardatura eseguita con un
pettine che serviva a porre tutte le fibre nella stessa direzione, eliminando contemporaneamente le materie eterogenee, per formare una specie di nastro con spessore
uniforme42. A questo punto il filato poteva essere tinto
con le piante disponibili nel territorio circostante. Le
analisi archeobotaniche condotte nel sito della terramara di Montale hanno confermato la presenza nel territorio di corniolo, sambuco e vite selvatica da cui si potevano ricavare colori che andavano dal giallo al bruno fino
al violetto43. Il filato, avvolto su di un fusto in legno o metallo (conocchia)44, era pronto per la filatura con fuso e
fusaiola. Tale operazione viene sapientemente descritta
da Catullo45 in un passo relativo alle Parche: “La sinistra
teneva la conocchia coperta di morbida lana, la destra,
leggermente tirando i fili, li formava con le dita supine,
mentre col pollice supino torceva le fibre e faceva ruotare il fuso librato in aria dalla fusaiola. Al tempo stesso i
loro denti, staccando le asperità, senza posa rendevano
uniforme il filo e alle labbra disseccate aderivano le fibre
della lana che dianzi fuoriuscivano dalla superficie compatta del filo; ai loro piedi i flosci bioccoli di candida lana empivano corbe di vimini”. La filatrice teneva dunque
la conocchia nella mano sinistra e cominciava a tirare
una piccola quantità di materia da filare con indice e
pollice. La arrotolava poi con le dita, fissandola all’estremità superiore del fuso mediante un nodo e, tenendo lo
strumento tra il pollice e l’indice della mano destra, vi
imprimeva un rapido movimento rotatorio, operazione
che ripeteva ogni qual volta esso tendeva a fermarsi.
Quando il fuso era pieno, la filatrice avvolgeva il filato attorno a un rocchetto, strumento d’impasto con corpo cilindrico leggermente concavo, estremità espanse a profilo convesso e capocchia a volte decorata, per facilitare il riconoscimento delle lunghezze e degli spessori dei
fili.
L’operazione successiva era la tessitura realizzata a telaio.
Le ricerche hanno dimostrato che il modello più antico è
quello verticale a pesi, la cui struttura in legno non si è
conservata, ma é ricostruibile grazie al rinvenimento di
strumenti (pesi) ad esso collegati, allo studio delle tecni-
Alle origini del tessuto
che di esecuzione dei frammenti tessili rinvenuti e alle
iconografie. I pesi avevano generalmente forma di piramide tronca, più frequentemente cilindrica o a disco ingrossato, con la superficie inferiore piana e la superiore
leggermente convessa. La loro disposizione a volte su due
file parallele ne ha indicato l’ubicazione esatta all’interno della casa, permettendo inoltre di risalire alla sua larghezza. Il telaio solitamente era appoggiato a una parete
nei pressi del focolare, luogo in cui si svolgevano le principali attività domestiche. In base agli studi sembra che
la sua larghezza da montante a montante variasse dal metro e mezzo ai due metri, come ha evidenziato ad esempio
la distanza fra i pesi rinvenuti nella terramara di S. Rosa a
Fodico di Poviglio (Reggio Emilia). Il villaggio piccolo ne
ha restituiti sette disposti su due file (Bronzo Medio), che
hanno rivelato la presenza di un telaio di m 1,70 ca., mentre l’allineamento dei dodici pesi (Bronzo Recente) del
villaggio grande ha suggerito la presenza di un secondo
telaio largo m 1,60 ca46. Due ricostruzioni larghe rispettivamente m. 1,20 e cm 1,6047sono esposte a titolo esemplificativo all’interno delle abitazioni del Parco archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale
(Modena). Il telaio dell’abitazione A, datata alla fase iniziale dell’insediamento (bronzo medio), è stato armato
con un tessuto di lana a tela di fondo di colore bruno e trama supplementare in rosso-arancio. Il secondo, esposto
nell’abitazione B, databile a una fase più recente (fine del
bronzo medio), ha invece un ordito di lino naturale con
trama supplementare in rosso e azzurro (Fig. 6).
Fra le prime immagini di telai verticali ricordiamo le
schematiche incisioni di epoca preistorica48 e le rappresentazioni più particolareggiate di epoca villanoviana
(tintinnabulo di Bologna e trono di Verucchio) e classica
(vasi a figure nere e rosse)49. Si tratta di rappresentazioni
fedeli di tutti gli elementi che compongono il telaio: le
due barre laterali, la barra trasversale di aggancio dell’ordito, la barra dei licci, il bastone separatore e i pesi. La sua
struttura era quindi costituita da un’intelaiatura in legno
sulla quale si fissavano i fili verticali (ordito) tenuti in
tensione da pesi. Il lavoro della tessitrice consisteva nel
tenere separati alternativamente i fili pari da quelli dispari con una stecca (il liccio). Nel varco che ogni volta si
apriva fra le due serie (pari e dispari), venivano passati
bastoncini e spolette con il filo orizzontale (trama) che in
questo modo intrecciava perpendicolarmente l’ordito,
formando la parte trasversale del tessuto. Tra un passaggio e l’altro la tessitrice usava probabilmente un pettine
in osso o corno per spingere le fibre le une vicine alle altre e dare consistenza alla stoffa50.
La rappresentazione del ciclo di lavorazione della lana é
rappresentata sul tintinnabulo di Bologna, che esalta l’attività principale della padrona di casa. L’oggetto, in lamina di bronzo sbalzata (altezza cm 11,5) è stato rinvenuto
in una ricca sepoltura femminile nella necropoli dell’Arsenale Militare di Bologna (Fig. 7). Il registro inferiore del
lato A raffigura due donne elegantemente vestite, sedute
su piccoli troni, nell’atto di avvolgere il filato sulle conocchie da affidare alla filatrice rappresentata nel riquadro superiore. Nella parte inferiore del lato B altre donne
preparano l’ordito su di un orditoio formato da sei pioli
verticali, allo scopo di ottenere fili di uguale lunghezza.
Nel registro superiore è rappresentata invece la tessitura
vera e propria: una donna seduta su di un piccolo trono
lavora a un alto telaio verticale assistita da un’ancella. La
decorazione é arricchita da motivi ornamentali come
palmette e rosette secondo un gusto tipicamente orientalizzante. I tessuti così ottenuti venivano cuciti per creare abiti con aghi in legno o più spesso in osso, ricavati da
mammiferi domestici come il bue, il maiale, la capra o la
pecora, che avevano il pregio di essere molto resistenti ai
processi di usura51. Gli abiti indossati dalle donne rappresentate sul tintinnabulo di Bologna (VIII-VII a.C.) e
sulla Situla della Certosa (VII-V a.C.), testimoniano inoltre la diffusione di stoffe con disegno a rete realizzato
probabilmente a ricamo, con cui si confezionarono almeno fino al V secolo a.C. sia tuniche che mantelli. Le evidenze archeologiche di epoca villanoviana dimostrano
inoltre che i tessuti erano arricchiti con perle in pasta vitrea e ambra rinvenute in molti corredi femminili particolarmente ricchi52. Probabilmente servivano allo stesso
scopo le otto placchette in argento dorato provenienti
dalla necropoli Aureli di Bologna. Esse raffigurano teste
umane dal volto triangolare con acconciature di tipo egiziano, assimilabili ad alcuni pendagli vetuloniesi (fine
VII- inizi VI) come dimostrerebbero le terminazioni a
gancio di due esemplari. Le altre invece dovevano essere
cucite sull’abito come indicano le perforazioni presenti
lungo i bordi53.
Da questa ricostruzione si comprende come fin dall’età
del Bronzo le tecniche di filatura con fuso e rocca (conocchia) e tessitura a telaio abbiano raggiunto un livello
molto avanzato, gettando le basi per quello che in epoche
recenti diventerà il vero e proprio artigianato tessile. Nel
corso del tempo il telaio fu modernizzato divenendo
meccanico; nonostante questo le antiche tecniche per la
fabbricazione dei tessuti continuarono a essere praticate
nelle campagne all’interno dell’ambiente domestico, almeno fino al secolo scorso.
25
BEATRICE ORSINI
NOTE
1
Ricostruzione di un cacciatore-raccoglitore di epoca mesolitica, San
Lazzaro di Savena (BO), Museo della preistoria “Luigi Donini”.
2 Frammento di corda mineralizzata rinvenuto nelle grotte di Lascaux
(Paleolitico francese).
3 M. Bazzanella, A. Mayr, L. Moser, A. Rast-Eicher, Textiles, Intrecci e tessuti
dalla preistoria europea, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Archeologici, 2003 Trento, pp. 79-86.
4
Per estrarre le fibre dal libro della pianta si sceglieva un albero con
tronco dritto e privo di rami bassi. Un intaglio nella parte bassa facilitava l’asportazione della corteccia. Questa veniva poi immersa nell’acqua per separare la fibra (macerazione). In base agli studi risulta che la
più sfruttata fosse la pianta del tiglio, impiegata anche in epoca romana come ha dimostrato il cordolo di stagnatura dello scafo della nave romana di Comacchio (I a.C.).
5
La mummia fu scoperta casualmente nel 1991 e ora è conservata nel
Museo Archeologico dell’Alto Adige, Bolzano/Südtiroler, Archäologiemuseum, Bozen.
6 La collezione “Gaetano Chierici” dei Musei Civici di Reggio Emilia con-
serva un pugnale triangolare in rame (Bronzo Recente) con tracce di
mineralizzazione di un tessuto, probabilmente lino, proveniente dalla
tomba 78 della necropoli del Remedello Sotto (Brescia). Il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena conserva invece due coppie di fibule con arco a navicella (VII a.C.) provenienti da Chiusi, tre delle quali
presentano tracce di tessuto mineralizzato, (in corso di studio). Altri oggetti con tracce di tessuto mineralizzato sono stati rinvenuti in alcune
sepolture della necropoli di Monte Tamburino a Monte Bibele (V-IV
sec.a.C.).
7 Op. cit., 2003, pp. 47-53.
8
Il ritrovamento di questi strumenti tessili aumenta a partire dal Neolitico finale: (Lagozza (VA), Isolino di Varese (VA) e Settefonti (PN).
9 Numerose fusaiole fittili provengono dai siti terramaricoli di Montale
(MO) e Castione dei Marchesi (PR).
10 Le statue stele di Lagundo sono conservate al Museo Archeologico del-
l’Alto Adige, Bolzano/Südtiroler, Archäologiemuseum, Bozen.
11
La Grotta del Farneto nella valle dello Zena ha restituito denti di carnivori forati e conchiglie fossili di Cardium, Pectunculus e Dentalium, utilizzati come ornamenti, Bologna, Museo Civico Archeologico.
20 La situla della Certosa fu rinvenuta nella tomba 68 della necropoli del-
la Certosa e raffigura su più registri una processione di donne velate e
uomini con cappello a larga tesa che portano oggetti di vario tipo. Bologna, Museo Civico Archeologico.
21 Hom., Od. XIX; XVIII, 292-294.
22 Le fibule di epoca villanoviana sono di varie tipologie: ad arco ritorto,
ad arco serpeggiante, con staffa a disco, con arco rivestito, con arco ingrossato o ribassato, a sanguisuga, a navicella, con arco configurato
23 La conocchia in bronzo con fusto ricoperto da elementi in ambra pro-
viene da molti corredi di Bologna e Verucchio (RN).
24
Ricordiamo ad esempio cinque fusaiole in vetro blu o bruno con decorazione in giallo (VII secolo a.C.), tombe 15, 38,90 necropoli De Luca
e necropoli dell’Arsenale militare, Bologna, Museo Civico Archeologico.
25 Le fibule a castoni in osso e ambra sono state rinvenute in varie sepolture di Bologna e Verucchio (RN).
26
Un unico esemplare di placca di cintura in osso decorato proviene
dalla tomba 491 del sepolcreto di via San Vitale (BO), Bologna, Museo
Civico Archeologico.
27
Tre sepolture (tomba 543, 907, 801) del sepolcreto Benacci (BO) hanno restituito tre placche di cintura a losanga in bronzo, Bologna, Museo
Civico Archeologico.
28 Le tombe arcaiche di Bisenzio hanno restituito sandali in forma di
zoccolo ligneo snodato con rinforzi di bronzo.
29
Il Sarcofago cosiddetto “degli Sposi” risalente al VI a.C. è stato rinvenuto a Cerveteri, Museo Etrusco di Valle Giulia. Rappresenta due coniugi sdraiati sul letto coniugale: la dama porta ai piedi le scarpe a punta
dette “calcei repandi” e in testa il “tutulus”, caratteristici capi di abbigliamento di origine orientale. Ha lunghe trecce che le scendono anche
sul petto ed è vestita di tunica e manto.
30 Il tutulus è un berretto o sacchetto a cupola di stoffa ricamata.
31 Il petasos viene indossato da figure di terracotta della decorazione ar-
12 Op. cit., 2003, pp. 47-53.
chitettonica di Poggio Civitate di Murlo, dal flautista della tomba della
Scimmia di Chiusi e dalle figure maschili della situla della Certosa.
13 Op. cit., 2003, p. 200.
32
14 Il sito di Montale ha restituito alcuni alamari in corno con decorazio-
Quattro ganci di cintura sono stati rinvenuti nella necropoli Arnoaldi di Bologna, Bologna, Museo Civico Archeologico.
ne a cerchietti o lisci e un bottone in osso con decorazione a denti di lupo; alcuni alamari sono stati rinvenuti anche nella terramara di S. Rosa
a Fodico di Poviglio (RE).
33 Un particolare della decorazione del trono ligneo di Verucchio (tomba 89) raffigura scene di filatura e tessitura, Verucchio (RN), Museo Civico Archeologico.
15
34 Hom., Il., III, 125-128.
Il segnacolo appartiene alla tomba E di Pian di Venola, Marzabotto
(BO), Museo Nazionale Etrusco “Pompeo Aria”.
16
Numerosi pettinini in corno di cervo con decorazioni geometriche
sono stati ritrovati in molti siti terramaricoli emiliani: Castione Marchesi (38), Montale (11) e Poviglio (8).
17
Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale, Modena,
Comune di Modena Museo Civico Archeologico Etnologico, 2004, pp.
88-93
18 Mantelli ricamati compaiono sulla Situla della Certosa, Bologna, Mu-
26
dell’Arsenale Militare, Bologna. Il nome deriva dalla convinzione che si
trattasse di piccoli gong poiché rinvenuti accanto a piccoli mazzuoli. In
realtà si tratta di pendagli cerimoniali che per la preziosità del materiale e la forma, dovevano essere un segno di particolare prestigio per le
donne che li indossavano. Bologna, Museo Civico Archeologico.
35 Hom., Il, XXII.
36 Verg., Aen., IV, 261-264.
37 Hom., Od., II.
38 Hom., Od. X, 220-224.
39 Hom., Od. V, 61-62.
40 Ov., met. VI 1-145.
41 Plin. nat.VIII, 94.
seo Civico Archeologico.
42 Op. cit., 2003, pp. 79-95.
19
43 Op. cit., 2004, pp. 62-65.
Il tintinnabulo proviene dalla tomba 5 detta “degli Ori”, necropoli
Alle origini del tessuto
44 La conocchia è uno strumento in legno o metallo con la cima larga. Il
49 Skyphos attico a figure rosse di Chiusi, conservato al Metropolitan Mu-
modello con fusto in lamina di bronzo e capocchia conica a ombrellino
contraddistingue a partire dall’VIII sec. a.C. le sepolture femminili di ceto elevato.
seum, raffigurante Penelope al telaio (metà V sec. a.C.); skyphos beotico
a figure nere con Circe e Odisseo (fine V sec. a.C.); il lekythos a figure nere del “pittore di Amasis” con scene di produzione dei tessuti (seconda
metà VI sec. a.C.).
45 Catull., LXIV, 311-319 “Laeva colum molli lana retinebat amictum dex-
tera tum leviter deducens fila supinis formabat digitis: tum prono pollice torquens Libratum tereti versabat turbine fusum: Atque ita decerpens aequabat semper opus dens Lanaeque aridulis haerebant morsa
labellis, quae prius in leni fuerant extantia filo: ante pedes autem candentis mollia lanae vellera virgati custodiebant calathisci”.
46 M. Bernabò Brea, L. Bronzoni, M. Cremaschi, S. Costa, Gli scavi nella ter-
50 Oggetti in legno a forma di spada costituiti da una tavola sottile terminante a punta smussata (cm 40-50) e manico corto collegati alle attività tessili rinvenuti a Castione dei Marchesi (PR).
51 La terramara di S. Rosa di Poviglio (RE) ha restituito un ago d’osso sot-
tile e ben levigato di cm 8,6; il sito di Montale ha restituito un esempio
ricavato da una scheggia in osso.
ramara Santa Rosa a Fodico di Poviglio: guida all’esposizione, Castelnovo di
Sotto, 1999.
52
47 Op. cit., 2004, pp. 88-93.
53 Si tratta di uno dei rari esempi di oreficeria testimoniati nelle tombe
48
orientalizzanti bolognesi proveniente da un corredo femminile di particolare ricchezza.
Si tratta di incisioni sulle rocce di Naquane (media età del Bronzo),
Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri Naquane (BS).
Perline in pasta vitrea e ambra provengono da molti corredi di Verucchio (RN).
FONTI
Homerus, Odyssea, Ilias
Q. Horatius Flaccus, Satirae
P. Ovidius Naso, Ars Amatoria
C. Plinius Secundus, Naturalis Historia
P. Vergilius Maro, Aeneidos libri XII
27
I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle
necropoli villanoviane di Verucchio
PATRIZIA VON ELES (a cura di)
Premessa
e necropoli villanoviane di Verucchio, note fin dalla fine del secolo diciannovesimo ed esplorate in modo relativamente esteso da G.V. Gentili tra il 1969 e il 19721, oltre a rappresentare uno dei maggiori centri villanoviani
dell’Italia Settentrionale, sono ben note per l’eccezionale
conservazione degli oggetti in sostanze organiche: legno,
vimini, resti di offerte alimentari, tessuti.
L’importanza di questi rinvenimenti non risiede solo nella conoscenza sia morfologica che tecnologica di classi di
materiali fin qui noti per lo più solo da rappresentazioni
figurate, in gran parte di periodi successivi, ma anche nella possibilità di indagare aspetti culturali e rituali, che di
norma, specie in assenza di modalità di scavo estremamente complesse, sfuggono all’indagine o nella migliore
delle ipotesi possono solo essere indirettamente ipotizzati. È il caso, ad esempio, della “vestizione del cinerario”
che rappresenta simbolicamente il corpo del defunto distrutto dal fuoco sulla pira, e che pertanto viene vestito e
adornato di gioielli o armi.
In particolare lo studio analitico di una delle più ricche sepolture della Necropoli Lippi, la tomba 89/1972, detta anche “Tomba del Trono”, primo risultato di un progetto di
documentazione sistematica delle necropoli verucchiesi2, ha permesso di affrontare in modo approfondito alcuni di questi aspetti, e a quella pubblicazione si rimanda
anche per l’analisi dettagliata dei tessuti finora studiati.
In questa sede ci si limita a riproporre i dati essenziali
emersi dallo studio degli abiti e dei resti tessili rinvenuti
nella tomba cui sopra si accennava e a proporre alcune
considerazioni e spunti di lavoro suggeriti dalla ricerca
sistematica in corso sulle necropoli di Verucchio: spunti
che riguardano sia le tecniche e gli strumenti di lavora-
L
zione che i ruoli sociali legati ai diversi tipi di attività. La
diversa distribuzione degli strumenti rispetto alla loro
funzione, alla quantità, e ancora alla loro realizzazione in
materiali di prestigio, talvolta non concretamente utilizzabili, lascia intravedere la possibilità di operare distinzioni significative, specie se le indicazioni archeologiche
vengono messe in relazione ai risultati delle analisi antropologiche riguardanti l’età.
Un altro aspetto emerso nello studio dei tessuti e legato
agli aspetti tecnici è quello degli “strumenti” utilizzati
nei processi di lavorazione: telai, fusaiole e rocchetti, fusi
e conocchie e altro. Poco è stato fatto finora per comprendere esattamente la funzionalità di questi strumenti al punto che non vi è certezza sulle modalità d’uso e
quindi non si dà spiegazione per differenze che pure evidentemente non sono solo formali.
Di seguito proponiamo alcune considerazioni riguardanti l’uso dei diversi strumenti da filatura e tessitura anche in relazione a rango e ruoli.
Patrizia von Eles
Gli strumenti per tessere e filare: telaio verticale,
telaio a tavolette, telaio a tensione, rocchetti e
fusaiole. Alcune considerazioni
Il telaio più noto per il mondo antico, fin dalla preistoria,
è il tipo verticale, coi pesi collegati al filo di ordito, documentato da fonti archeologiche e iconografiche in tutto
il bacino del Mediterraneo3. Nella cultura villanoviana, il
suo utilizzo in ambito domestico è testimoniato dal ritrovamento, in contesti abitativi (Acquarossa, Murlo, Roselle, Lago dell’Accesa), dei caratteristici pesi fittili tron-
PATRIZIA VON ELES
copiramidali. È probabile che, pur nella sostanziale omogeneità della struttura generale, esistessero diversi generi di telai verticali, per la produzione di tessuti molto differenti sia per il tipo di fibre utilizzate (di origine animale o vegetale), che per le tecniche di realizzazione. Tuttavia, come ha fatto notare Marjatta Nielsen4, nella pubblicazione di questi materiali si trascura spesso di riportare
il peso dei singoli esemplari, che risulterebbe fondamentale per stabilire con maggiore precisione l’esistenza di
differenti tipi di tessuti e delle relative tecniche produttive. È noto infatti che, accanto alla realizzazione di abiti
(che già di per sé potevano essere di qualità molto varia),
esistevano produzioni legate agli usi più disparati: ad
esempio tessuti per vele, per tende o per libri lintei, alcuni
dei quali avranno probabilmente richiesto telai più robusti e pesi più massicci di quelli utilizzati per i tessuti
raffinati destinati all’abbigliamento aristocratico.5
A questi dati, che già presuppongono un’ampia articolazione della produzione tessile ordinaria, si aggiungono
ulteriori informazioni, provenienti prevalentemente
dalla documentazione iconografica.
Nonostante dovesse essere il tipo più diffuso anche nel
mondo villanoviano per la produzione tessile domestica
(o forse proprio per questo motivo), il tradizionale telaio
verticale non è presente nelle scene di tessitura a noi note, contrariamente a quello che accade in Grecia, dove le
sue rappresentazioni, conosciute fin dalla metà del secondo millennio, sono ampiamente attestate nella pittura vascolare dal VII al IV secolo a.C.. Sia sul tintinnabulo di
Bologna che sul trono della tomba Lippi 89/1972 di Verucchio, infatti, ci troviamo in presenza di telai verticali
di tipo particolare (molto alti, utilizzati da una sola persona seduta su un piano rialzato o da due persone che lavorano contemporaneamente su tessuti diversi), che
hanno fatto ipotizzare una loro destinazione cultuale e
un utilizzo fuori dall’ordinario6 (Fig. 9).
Sempre a Verucchio, la tomba Moroni-Semprini 24 ha restituito un piccolo telaio di legno in cui, al momento del
ritrovamento, erano ancora presenti resti di fibre di lana
dell’ordito7. La tomba, eccezionale per la ricchezza e la peculiarità del corredo, doveva appartenere a una tessitrice
di rango, che utilizzava uno strumento particolare, probabilmente preposto alla produzione di tessuti piuttosto
elaborati, forse secondo speciali tecniche (per le quali si
veda infra).
La documentazione nota, già a questo primo livello di
analisi, permette dunque di identificare una complessa
articolazione all’interno di quella che viene normalmente definita “filatura e tessitura”.
30
Queste due attività, infatti, in quanto principali occupazioni delle donne, attraversavano tutti i livelli sociali, articolandosi su piani differenti sia per le tecniche esecutive che per l’importanza sociale e il significato simbolico
che tali operazioni potevano acquisire in determinati
contesti. Per cercare di comprenderli, occorre analizzare,
sulla base dei dati in nostri possesso, ruolo e rango delle
filatrici/tessitrici da una parte, tecniche e modalità della
filatura/tessitura dall’altra.
All’interno della “produzione ordinaria” di tessuti, in ambito domestico, dovevano esistere diversi livelli di competenze e specializzazioni, probabilmente articolati secondo una precisa gerarchia familiare (es. la mater familias sovrintendeva all’attività delle altre donne della casa,
forse le giovani, che, secondo alcune ipotesi8, erano le più
adatte alla tessitura, molto impegnativa anche dal punto
di vista fisico. Non si esclude naturalmente, in questo
contesto, anche la presenza di manodopera servile9).
In ambito aristocratico, la stessa mater familias, oltre a sovrintendere alla produzione domestica, fondava la propria immagine sociale e familiare anche sulla superiorità
tecnica rispetto alle altre donne, dedicandosi ad una produzione tessile di altissimo livello, che, nei corredi funerari, viene indicata con l’esibizione di uno strumentario
prezioso, quali fusaiole, fusi o conocchie di metallo e di
ambra. Per questi ultimi utensili, in particolare, si pone il
problema di una corretta identificazione dal punto di vista funzionale. Nella identificazione delle conocchie infatti non si tiene in considerazione il fatto che, per essere
utilizzate come tali, esse devono poter sostenere la fibra
da filare e nello stesso tempo devono lasciare spazio per
la mano che le impugna. Ciò significa che le cosiddette
“conocchie a ombrellino” in bronzo10, caratterizzate da
uno stelo estremamente corto, sono probabilmente fusi,
mentre vanno interpretati come conocchie altri oggetti
spesso non identificati o finora ritenuti spilloni11. Similmente sono da collegare alla presenza di fusi anche i cosiddetti “spilloni a rotella” presenti in tombe femminili12. Altri strumenti, più rari, sono stati ricondotti da Lise
Ræder Knudsen alla tessitura a tavolette e da lei stessa
sperimentalmente testati (si veda infra).
Oltre a essere deposti nei corredi tombali come indicatori di rango, questi strumenti, o alcuni di essi, potevano
forse essere utilizzati realmente per operazioni di estrema raffinatezza tecnica e qualitativa come ad esempio la
“seconda filatura”13.
All’interno di questa produzione di altissimo livello, appannaggio delle aristocrazie, si può attuare un’ulteriore
distinzione tra le tecniche e le modalità di esecuzione, in
I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle
necropoli villanoviane di Verucchio
base al significato che si voleva conferire a quanto realizzato. Come precedentemente accennato, esistevano forme di tessitura “rituale”, riservate esclusivamente ad alcune figure femminili, di indubbia ascendenza aristocratica, la cui attività si connotava di implicazioni religiose
e sacrali. Se dal punto di vista puramente tecnico, la produzione di “tessuti sacri” non doveva discostarsi molto
da quella dei raffinati tessuti realizzati dalle donne aristocratiche, ciò che la contraddistingueva erano le particolari modalità di esecuzione, dettate non tanto da esigenze pratiche, quanto da motivazioni rituali. Alcune di
queste modalità, come ad esempio la scelta delle fibre da
utilizzare, che doveva avere certamente un’importanza
fondamentale, sono per noi impossibili da verificare14.
Per altri dettagli più propriamente operativi, invece, le
fonti iconografiche e le analisi sui tessuti superstiti possono fornire alcune informazioni: ad esempio la necessità che il tessuto, anche di grandi dimensioni, fosse realizzato da una sola persona, a costo di soluzioni decisamente “scomode” e artificiose, come gli altissimi telai cui
si è fatto cenno.
Può sembrare strano, a questo punto, che nei corredi tombali femminili di Verucchio, mentre sono ampiamente
presenti gli strumenti tradizionalmente legati alla filatura (fusaiole, conocchie e fusi), manchino quasi completamente i pesi da telaio, unica testimonianza materiale dell’uso di questo strumento da parte della defunta (se si
esclude un telaietto della necropoli Moroni). A Verucchio,
si conosce un solo esemplare di peso troncopiramidale da
un contesto tombale15. A questo proposito è stato avanzata da più parti16 l’ipotesi che la stessa funzione potesse essere svolta, in alternativa, dai rocchetti, che, al contrario,
sono ampiamente diffusi nei corredi. In tal caso, rispetto
ai pesi troncopiramidali, essi avrebbero offerto il vantaggio di potere svolgere il filo in modo progressivo, man mano che veniva utilizzato nella tessitura17. Sembrerebbero
particolarmente adatti a questo scopo alcuni esemplari,
presenti a Verucchio, che hanno un foro pervio trasversale al fusto. A questo proposito va ricordato che simili oggetti sono presenti anche in ambito piceno, ma con un foro che, partendo dal centro di una capocchia, scende obliquamente e fuoriesce lateralmente sul fusto18. Anche in
questo caso bisogna ipotizzare che i telai con i rocchetti e
i telai con i pesi troncopiramidali non dovessero essere
preposti alla produzione degli stessi tessuti (i pesi, mediamente, sono più grandi e pesanti dei rocchetti), così come è lecito pensare che i rocchetti verucchiesi, con foro
trasversale, avessero forse un uso differente rispetto a
quelli di Novilara, con foro longitudinale obliquo.
Non si può poi neppure escludere che le fusaiole potessero avere un ruolo anche nella tessitura19, forse come
piccoli pesi per telai. A questo proposito, va notato che alcuni esemplari hanno fori estremamente ristretti, che
sembrerebbero più adatti all’inserimento di un filo, piuttosto che a quello di un fuso.
Per la tessitura a tavolette si rimanda all’intervento di Lise Ræder Knudsen, infra.
Il telaio a tensione ha una struttura molto semplice e poco ingombrante, di origine antica, ma tuttora utilizzato in
Asia, Africa, America e Nuova Zelanda20. La tensione dell’ordito è assicurata, anziché dal fissaggio di pesi, dal corpo stesso della tessitrice, mediante una fascia che le avvolge la vita, mentre l’altro capo del telaio viene assicurato a
un elemento fisso come un albero, un palo o semplicemente ai piedi. Talvolta questo tipo di telaio può presentare delle “bacchette portamaglie” per la realizzazione di
tessuti con struttura complessa. Per la semplicità del suo
impianto, esso non lascia in genere tracce archeologiche,
né, a quanto pare, risulta attestato nell’iconografia dell’Europa Occidentale. Il suo utilizzo è stato tuttavia di recente dimostrato per la fabbricazione della fascia decorata di Molina di Ledro21, datata al Bronzo antico. È dunque
ipotizzabile che il suo uso fosse diffuso anche in ambito
villanoviano. A questo proposito, si può anche pensare
che il citato telaietto della tomba Moroni-Semprini, piuttosto che una versione miniaturizzata del tipo verticale,
sia ciò che rimane di un vero e proprio telaio a tensione.
Carlotta Bendi
I tessuti della tomba Lippi 89/1972
I tessuti rivestono in molte culture il significato di status
symbol sia nell’ambito quotidiano che in quello funerario: in questa prospettiva i numerosi reperti tessili provenienti da diverse tombe di Verucchio ci forniscono una
prima chiave di interpretazione sul significato e l’uso dei
tessuti in Italia nella fase orientalizzante. Poter analizzare concretamente tessuti originali e parati cerimoniali ci
permette di vedere come sia effettivamente avvenuta la
realizzazione dei tessuti, quali materiali, colori e tecniche siano stati usati ed in quale contesto si trovino determinate qualità di tessuti. Tra i materiali organici, i tessuti, avendo un’estrema caducità, non hanno quasi alcuna
chance di sopravvivenza nell’ambito sepolcrale.
Fra i resti tessili della t. 89/1972 un primo gruppo include i tessuti bruciati con il defunto sul rogo, rinvenuti nell’urna, assieme a ceneri, resti di carbone e ossa. Si tratta di
31
PATRIZIA VON ELES
circa 160 frammenti classificabili in 12 tipi diversi tutti
in lana e quasi tutti tinti in rosso o blu. I tessuti dovevano
essere stati piegati ordinatamente prima di venire posti
sul rogo ma non è stato possibile trovare indicazioni più
concrete sulla loro funzione originale; l’uso del colore, la
finezza e la qualità del filato indicano che si tratta di tessuti preziosi pertinenti sia ad abiti che a teli e coperte.
Molto particolare la presenza di tessuti con pelo: si tratta
di una tecnica conosciuta soprattutto in Medio Oriente
ed in Egitto dove era usata per tessuti relativamente spessi pertinenti ad abiti, coperte e cuscini. A Verucchio sono
stati ritrovati parti di abiti con tessuto con il pelo, molto
fini, sia in tombe maschili, sia in tombe femminili.
Un secondo gruppo di tessuti nella tomba è composto da
tre indumenti, due dei quali pressoché interamente conservati, e da un quarto frammento di forma rettangolare.
Gli indumenti che vennero posti nella tomba dopo la cremazione segnalano, come gli altri oggetti ritrovati nel cassone ligneo, il rango e il ruolo del defunto: vengono quindi denominati “abiti cerimoniali”. Purtroppo oggi non è
più possibile determinarne esattamente la posizione nel
contesto tombale. Come risulta dai diari di scavo, un abito
era posto sopra l’urna e allo stesso tempo copriva parzialmente l’interno del cassone di legno. Gli altri due abiti non
vennero identificati, probabilmente perché erano posti
sotto il primo. Tra le pieghe dei tessuti menzionati vennero ritrovate delle fibule22. Sopra l’urna poggiavano dunque
uno o più abiti cerimoniali. I partecipanti al rito visualizzavano quindi il defunto nel suo costume23. Il frammento
del quarto tessuto poteva servire per ricoprire un oggetto.
L’analisi dettagliata degli abiti cerimoniali, soprattutto
dei due mantelli, mette in evidenza come, nella loro realizzazione, nulla venisse lasciato al caso, dalle misure per
la realizzazione ed inserimento del bordo, fino ai più minuti dettagli. Se da un lato si osserva quindi l’alto livello
qualitativo della produzione tessile, dall’altro è accertato
il suo assoggettarsi a precise regole canoniche. Considerando la finezza e la qualità del filato che venne impiegato per gli abiti cerimoniali della t. 89, si può pensare che
già nella preparazione dei materiali ci sia stata una cura
particolare. Lo stesso concetto si deve applicare alla tessitura. Se ne può concludere che certi abiti non erano soltanto un oggetto di valore per il portatore bensì uno status symbol anche per chi sapeva e poteva realizzarli.
I mantelli
Combinando le informazioni derivate dall’analisi dei
due abiti simili risulta che entrambi presentano la forma
di un mantello con l’orlo a mezzo tondo delimitato da un
32
bordo e l’altro margine rettilineo, le misure originali dovevano essere di circa cm 260 per un un’altezza di poco
inferiore ai 90 cm. (Fig. 10). I mantelli sono tessuti in finissima lana di pecora in saia regolare 2 lega 2. La trama24
è più ritorta rispetto all’ordito, al contrario di quanto avviene di solito. Il filato, molto sottile, con una filatura regolare, venne tinto con del tannino. L’armatura in saia
presenta come ulteriore motivo un sottile effetto a quadretti ottenuto dall’intreccio di strisce in entrambe le direzioni di tessitura. L’effetto a strisce (Fig. 11) non è ottenuto con una variazione del colore bensì con l’alternarsi
della torsione del filato in direzione ‘s’ e in direzione ‘z’.
È difficile identificare trama ed ordito; si osserva tuttavia
che i fili paralleli al lato diritto attraversano ben tesi il tessuto mentre su di essi si accavallano i fili perpendicolari;
poiché i fili d’ordito vengono tenuti in posizione da pesi
mentre gli altri, per la flessibilità della trama, sono più
mobili è possibile dedurne che l’ordito scorre parallelo al
lato diritto e la trama parallela all’altezza: questo comporta l’uso di un telaio molto alto, di almeno 260 cm25.
Il bordo decorativo si distingue dal tessuto di fondo sia
per il motivo sia per le caratteristiche tecniche che conferiscono ai mantelli una particolare importanza. Il bordo mostra un disegno a triangoli equilateri su tre linee
orizzontali. Venne realizzato con la tecnica a tavolette
(36 tavolette a 4 fori) lungo il perimetro del mantello
quando il tessuto di fondo era già stato terminato. Il
margine, si suppone di circa 6 cm, venne quindi tagliato
e sfrangiato; i fili tagliati del tessuto di fondo, ritorti a
due a due e utilizzati come trame, vennero tirati tra i fili
d’ordito del bordo. Sul lato esterno vennero reinseriti e
di nuovo lavorati col fondo, questo fa sì che non si notino le parti terminali che rimangono nel bordo26. Per i fili d’ordito del bordo, tessuto con le tavolette, i fili marrone scuro vennero ulteriormente tinti con una tintura
blu27, così che il bordo si distacca dal fondo anche cromaticamente. Le analisi tecniche mostrano che questo
tipo di bordo si può realizzare solo su un telaio verticale
molto alto28.
Le analisi del colore rivelano che il primo mantello era
stato tinto con tannino così che il mantello in origine
aveva un colore da chiaro a marrone scuro mentre per i fili d’ordito del bordo, i fili marrone scuro vennero ulteriormente tinti con una tintura blu, così che il bordo si distaccava dal fondo anche cromaticamente. Il secondo
mantello era rosso con il bordo in porpora, più precisamente per l’ordito venne utilizzato un filato rosso acceso
e per la trama uno rosso arancione. I bordi sono tessuti
con 36 tavolette a 4 fori e sono alti 2,2 cm.
I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle
necropoli villanoviane di Verucchio
La forma e il decoro del primo e del secondo mantello della t. 89 indicano chiaramente come il mantello semicircolare, contrariamente a quanto si riteneva fino ad oggi,
esistesse già intorno alla fine dell’VIII secolo a.C., con misure probabilmente codificate e con tutte le caratteristiche della successiva toga praetexta anche nella perfezione
della tessitura. La ricercatezza e la qualità dei due mantelli della t. 89 inducono a ritenere che le tecniche di realizzazione fossero il risultato di una lunga tradizione radicata nel periodo pre-etrusco. La statua dell’Arringatore29 mostra le differenze tra i mantelli di Verucchio e la toga del periodo repubblicano, essenzialmente per quanto
riguarda la forma: minore altezza ed estremità più allungate; queste ultime in entrambi i mantelli non presentano un andamento diagonale ma seguono una linea quasi
perpendicolare alla lunghezza del mantello stesso.
In entrambi i mantelli della t. 89 il bordo si distacca dal
fondo per la tecnica, il motivo ed il colore, ciò che conferisce un particolare valore non solo dal punto di vista tecnico ma anche sotto il profilo simbolico. Il bordo diventa
un elemento caratterizzante, una sorta di insegna, così
come posteriormente per la tunica i lati clavi e gli augusti
clavi o, piú tardi, il tablion e i paragaude dorati negli abiti
aristocratici ed imperiali tardo antichi30.
La scarsità di rappresentazioni figurate dell’VIII-VII secolo a.C. rende difficile avanzare ipotesi sul modo di indossare i mantelli. Diverse erano le possibilità: poggiarlo su
una o su entrambe le spalle oppure avvolgerlo attorno alle reni31. Entrambi i mantelli della t. 89 presentano nel lato a destra della linea mediana posteriore numerose impunture dovute a spilli. Questi fori sono presenti solo su
un lato e quindi non sono dovuti ad una chiusura del
mantello ma piuttosto all’applicazione di elementi ornamentali; nel secondo mantello, i forellini a coppie contrapposte fanno pensare ad una fibula a doppio ago, del
tipo ritrovato nella tomba stessa. Nel primo mantello a
causa della perdita del bordo superiore non si rilevano
indizi di una chiusura, ma la parte superiore a sinistra
della linea mediana presenta numerose impunture; la
stessa cosa si verifica anche nel secondo mantello, di cui
purtroppo manca la parte destra contrapposta. È comunque probabile che i mantelli venissero, talvolta, chiusi sul
davanti32.
Oltre all’utilizzo di materiali pregiati e all’uso di una particolare tecnica di produzione per il bordo, i mantelli presentavano probabilmente ancora altre decorazioni sotto
forma di applicazioni. Si notano infatti numerosi piccoli
fori nel tessuto di fondo la cui posizione non può essere
casuale. L’analisi al tecnoscopio indica chiaramente che
non può trattarsi di danneggiamenti dovuti ad insetti33;
uno dei mantelli presenta coppie di fori regolarmente disposti lungo il bordo arrotondato. Il fatto che si trovino
sempre a coppie lascia pensare a tracce di una cucitura
continua che nelle posizioni citate non avrebbe molto
senso; è più probabile che si tratti di punti singoli utilizzati per fissare un decoro supplementare, anche se si potrebbero identificare delle linee ondulate; l’ampiezza di
queste impunture fa ritenere che sia stato adoperato un
filo di notevole spessore o addirittura un filo metallico34,
il che rimanda all’uso di applicazioni in materiale prezioso di un certo peso35. È molto probabile che lungo il lato arrotondato, soprattutto nelle parti visibili sul davanti, fossero applicati bottoni o pendagli. Nella t. 89 sono
stati rinvenuti dei bottoni in ambra di forma conica, di
misure diverse, con foro a “V” sulla faccia inferiore.
(Fig. 12); bottoni di questo tipo36 applicati ad un tessuto
dovevano dare immagine di preziosità analoga a quella
delle borchie in bronzo sul trono. I bottoni sono stati ritrovati sparsi nella tomba, probabilmente perché il peso
stesso ha spezzato il filato o perché questo, essendo in fibra vegetale, non si è conservato. L’ipotesi di una decorazione aggiuntiva in materiali preziosi applicati al tessuto
viene confermata non solo dai reperti di altri corredi
tombali a Verucchio, dove si sono ritrovate numerose
perle, bottoni e pendagli, ma anche da reperti in altri contesti, dove è documentata l’applicazione di elementi decorativi in bronzo, ambra, avorio e, talvolta, in lamine
d’oro e d’argento37.
L’abito
Si tratta di un indumento che si distingue nettamente dagli altri due mantelli già citati per forma e decorazione.
La mancanza della parte centrale rende impossibile, allo
stato attuale, una chiara identificazione della funzione
dell’abito. Probabilmente le due parti conservate formavano un mantello corto o una specie di camicia38 in cui le
maniche non sono cucite a posteriori ma realizzate durante la tessitura; la questione tuttavia dovrà essere ripresa dopo lo studio degli abiti conservati in altre sepolture e non ancora studiati.
Il tessuto di fondo è in lana rosso scuro, in saia regolare 2
lega 2, tessuto con il cambiamento della direzione della
torsione del filo in trama e ordito; la densità dei fili d’ordito è più alta rispetto a quella di trama. In entrambi i sistemi, comunque, la densità dei fili risulta minore rispetto a quella del primo e secondo mantello. Come nel secondo mantello, nell’ordito si possono riscontrare numerose variazioni allo schema di fondo con 6 fili ritorti a
33
PATRIZIA VON ELES
‘s’ e 6 fili ritorti a ‘z’; per quanto riguarda la trama, invece,
l’alternarsi dello schema è eseguito rigorosamente, e si
può riscontrare solamente un errore. La sequenza irregolare delle strisce nell’ordito permette di riordinare i singoli frammenti con una certa sicurezza.
Si determina così la linea di contorno di un indumento di
forma ovale, con almeno 100 x 130 cm di superficie. L’orlo dell’abito è evidenziato da un bordo tessuto a tavolette che si distingue da quello degli altri mantelli. Il bordo
fu realizzato infatti con 13 tavolette a 4 fori. Come di consueto, il bordo fu aggiunto al termine della tessitura dell’abito utilizzando i fili del tessuto di fondo, arrotolati a
coppie, come trama del bordo stesso. Il bordo non è decorato ma si notano delle strisce nel senso della lunghezza, create dal cambiamento regolare dell’orientamento
delle tavolette. Si distingue dal rosso del tessuto di fondo
per il suo colore purpureo.
Come per gli altri due abiti le caratteristiche impunture
(forellini) lasciano supporre l’applicazione di decori aggiuntivi. Al contrario degli altri abiti, si sono conservate
su questo indumento tracce di cuciture e di filati. La loro
irregolarità, in confronto con la perfezione tecnica nella
realizzazione del tessuto, porta anche ad escludere che si
tratti di cuciture decorative; è probabile che questi punti
siano da considerare in relazione ai resti di un tessuto in
lana blu, sempre in saia, di cui sono rimasti solo piccoli
resti sulla superficie del tessuto.
Anche il terzo abito, pur con molte differenze rispetto ai
due mantelli, è un oggetto di grande valore, la cui importanza è legata alla finezza dei materiali, al colore e all’inserimento successivo del bordo in color porpora. Il bordo
non presenta alcun disegno ma un motivo a righe; nonostante la sua semplicità venne utilizzata una tecnica talmente dispendiosa da conferire all’abito stesso un particolare significato. Non si può supporre l’uso per questo
abito di elementi decorativi e applicazioni perché i fori
doppi sono pochi e non chiari.
Nell’insieme quindi, tutti i tessuti, sia gli abiti cerimoniali,che quelli provenienti dal rogo, presentano delle
particolari caratteristiche. A prescindere dalla straordinaria finezza delle applicazioni e dal decoro Soumak, che
ancor oggi tecnicamente sarebbero difficilmente riproducibili, è sbalorditivo quale dispendio fosse necessario
per raggiungere determinati effetti decorativi. Vennero,
infatti, utilizzati appositamente applicazioni e Soumak
per ottenere dei rilievi, ed è incredibile che il decoro non
sia ricamato ma tessuto. Come per il bordo tessuto con le
tavolette è stata necessaria spesso una grande applicazione tecnica nel dettaglio più minuto, che visivamente non
34
appare neppure, così come il decoro ottenuto con la variazione della torsione del filo nei tessuti con il pelo. Nonostante fosse possibile semplificare tecnicamente certi
passaggi, non fu evitato il lavoro più lungo, che conferiva
all’oggetto un alto valore emotivo: infatti dettagli anche
non necessariamente visibili sono stati realizzati con
estrema cura. Gli abiti cerimoniali indicavano quindi il
rango e lo stato tanto di coloro che li indossavano, quanto di coloro che li avevano realizzati.
Annemarie Stauffer
La tecnica della tessitura a tavolette
La tessitura a tavolette è una antica tecnica utilizzata per
realizzare fasce e bordi. L’attrezzatura necessaria è molto
semplice: piccole tavolette, per lo più di legno, di circa 5
X 5 cm., con un foro presso ogni angolo, costituiscono il
passo per l’ordito. Attraverso ciascuno di questi quattro
fori viene fatto passare un filo di ordito. Le tavolette, con
i fili così inseriti, si girano immediatamente con i piani
paralleli ai fili dell’ordito quando questi vengono tirati
fortemente. Le tavolette vengono riunite in un gruppo,
come un mazzo di carte da gioco appoggiate sul bordo di
fronte al tessitore, l’estremità distante dell’ordito viene
fissata. Spesso l’estremità dell’ordito dalla parte del tessitore viene fissata alla cintura del tessitore medesimo.
Una diversa procedura vede l’ordito sospeso verticalmente. A questo punto il lavoro di tessitura può cominciare. Il pacchetto di tavolette subisce un quarto di giro in
avanti e un filo di trama attraversa il passo che si crea tra
i fili di ordito dei due fori superiori delle tavolette e i due
fori inferiori. Il filo di trama viene battuto (accostato agli
altri) e le tavolette possono subire un nuovo quarto di giro in avanti.
La tessitura a tavolette a Verucchio
Su telai verticali come quelli probabilmente usati per tessere i mantelli di Verucchio viene frequentemente predisposto un bordo di avvio, per costruire l’ordito. Il famoso
tintinnabulo dall’Arsenale Militare di Bologna, datato al
VII secolo a.C.39, potrebbe mostrare precisamente la preparazione dell’ordito per un telaio verticale, tuttavia nessuno dei bordi dai tre abiti della t. 89 è stato identificato
come un bordo di inizio. Ai margini dei mantelli (laddove sono conservati), si riconoscono bordi tessuti a tavoletta.
In età preistorica i bordi iniziali sono talvolta tessuti a tavolette. I fili della trama del bordo a tavoletta diventano i
I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle
necropoli villanoviane di Verucchio
b
a
a. Rappresentazione grafica della tecnica di tessitura del bordo del
mantello della tomba Lippi 89/1972.
b. Rappresentazione grafica della tecnica di tessitura a tavolette.
fili dell’ordito del telaio: preparare l’ordito è relativamente semplice poiché i fili della trama del bordo a tavoletta vengono lasciati sufficientemente lunghi per essere
utilizzati come ordito sul telaio. Il bordo a tavoletta è
molto consistente, può essere fissato al telaio e aiuta altresì nel conteggio dei fili di ordito, consentendo di utilizzare senza errori un numero elevato di fili. Nel tessuto
completato è facile riconoscere che si tratta di un bordo
di avvio poiché i fili della trama del bordo a tavoletta passano due volte nel passo e non vengono tagliati. Il bordo
non è cucito al margine del mantello: l’unione è ottenuta
a tessitura. A prima vista questi bordi paiono realizzati
contemporaneamente al tessuto, poiché si osserva il filo
della trama che entra nel passo del bordo e ritorna indietro, dopo un quarto di giro delle tavolette. Si tratta tuttavia di un procedimento concretamente impossibile
quando il margine è curvo. L’unica possibilità è utilizzare
le frange di un tessuto completo, come trama per il bordo a tavoletta, come è stato fatto nei mantelli. Per utilizzare questo sistema è necessario tagliare o tessere il tessuto nella forma desiderata lasciando un po’ di spazio per
le frange. Poiché la trama è completamente nascosta dall’ordito del bordo a tavoletta questi dettagli tecnici non
sarebbero visibili se il mantello fosse perfettamente conservato; il deterioramento permette di individuare dettagli che non sarebbero stati visibili nell’abito nuovo.
I bordi dei mantelli della tomba Lippi 89/1972 sono stati
realizzati usando 36 tavolette a quattro fori. Un filato a due
capi, notevolmente più sottile di quello usato per il tessuto di fondo, e ritorto in direzioni alterne, è stato usato per
l’ordito del bordo a tavoletta; le frange del mantello sono
quindi state usate come trama per il bordo (v. grafico a, b).
35
PATRIZIA VON ELES
Il conteggio dei fili di trama nel bordo è pari a circa 14 fili
per centimetro. Le rotazione delle tavolette e la direzione
dei fili sono tali da dar luogo ad un motivo triangolare. Le
analisi dei pigmenti indicano che il mantello aveva originariamente un colore giallo-bruno mentre il bordo era in
una tonalità di blu: i punti dove le tavolette cambiavano direzione davano quindi luogo a una sottile linea di colore
giallo sul margine dei triangoli blu. Non vi è traccia di cambiamento di direzione per le 19 tavolette che non servono
a formare il motivo a triangoli. Questo modo di realizzare
il bordo ha diverse funzioni: il margine del mantello diventa molto robusto, le frange del tessuto vengono fissate
e il mantello viene decorato con un bordo con motivi e colori differenti; si tratta di una realizzazione di notevole difficoltà, certamente opera di una persona molto esperta e
attenta ai minimi dettagli.
Il bordo del frammento di abito con margini arrotondati
lungo i quali si conservano molti frammenti del bordo a
tavolette, è ottenuto con una lavorazione più semplice
ma che tuttavia rivela una notevole abilità. Sono infatti
state usate 13 tavolette in cui l’ordito è inserito a coppie
alternate. Per l’ordito sono stati usati alternativamente fili con torsione a ‘S’ e a ‘Z’. Il filato dell’ordito è ad un solo
capo; si tratta di elemento da sottolineare in quanto il filato ad un solo capo tende a srotolarsi se usato nella tessitura a tavolette. Per evitare tale inconveniente occorre
girare le tavolette nella stessa direzione durante tutto il
lavoro e scegliere filato ritorto a ‘S’ o a ‘Z’ in corrispondenza della direzione del giro dei singoli fili nel bordo a
tavoletta.
Alcuni accorgimenti tecnici rivelano che nella realizzazione dei bordi di Verucchio è stata posta particolare attenzione alla qualità della lavorazione: la scelta è stata
quella di eseguire un lavoro più lungo e complesso per ottenere un abito della migliore qualità possibile piuttosto
che, accorciando i tempi di lavorazione, lasciare visibile
una imperfezione su un bordo perfettamente realizzato.
Poiché tali particolari possono essere notati solo da persone esperte e a conoscenza di tutti i dettagli delle tecniche di tessitura, si può presumere che il mantello dovesse essere usato in un ambito in cui erano note tutte le particolarità di tali processi. È del pari evidente che, nella
produzione di questi abiti, il fattore tempo doveva essere
assolutamente irrilevante.
La tessitura a tavolette, documentazione,
strumenti e sperimentazione
Per lo studio dei bordi di Verucchio è stata effettuata anche una esperienza pratica. L’analisi dei resti tessili del-
36
l’antichità, allo scopo di comprendere le tecniche di realizzazione, è infatti una disciplina complessa. Sul piano
teorico molti metodi sono possibili ma quando si tenta
di metterli in pratica si scoprono difficoltà insospettate.
A volte invece la lavorazione stessa risolve problemi posti
dall’analisi teorica e dal lavoro pratico emerge una
profonda conoscenza del processo lavorativo. Nella sperimentazione sono state usate 13 tavolette e dei rocchetti per avvolgere i fili provenienti dalle tavolette (quindi
13 rocchetti). Con questo numero limitato di rocchetti il
lavoro procede facilmente senza che i fili si aggroviglino,
ma l’uso di un numero maggiore (nei bordi del mantello
ne sono stati usati 36) presenta certamente maggiori difficoltà. La manifattura del bordo è semplice e veloce;
usando solo le mani è possibile “battere” la trama in modo sufficientemente stretto e l’uso di una piccola “spada
da tessitore” o “battitoio” non pare necessario.
Sullo schienale del trono dalla t. 89, nel registro superiore sono rappresentate due scene di tessitura ad un telaio
verticale (Fig. 9). Si notano i fili verticali dell’ordito, il tessuto mostra un motivo a linee oblique e che somiglia a
quello del bordo dei mantelli n. 1 e n. 2, in fondo al bordo
di riconosce un breve tratto di ordito che attraversa un
elemento orizzontale e infine degli ingrossamenti triangolari. L’elemento orizzontale attraversato dall’ordito
rappresenta probabilmente un attrezzo usato per separare i fili dell’ordito e mantenerli a distanza regolare uno
dall’altro. Questo “distanziatore” potrebbe essere stato
realizzato in osso con fori passanti vicini l’uno all’altro.
L’osso, l’avorio o un legno duro sono tutti materiali possibili poiché l’attrezzo doveva essere liscio per garantire
lo scorrimento del filato.
Se le scene di tessitura mostrano l’esecuzione del bordo a
tavolette è notevole che l’ordito sia mostrato in verticale.
Se i fili dell’ordito di ogni tavoletta fossero stati avvolti intorno ad un rocchetto troveremmo qui la soluzione al
problema della realizzazione di un bordo così lungo senza cambiamenti di direzione nel giro delle tavolette: poiché l’ordito al di sotto delle tavolette gira mentre si lavora, i rocchetti srotolano automaticamente l’ordito.
In molte tombe di Verucchio, come del resto in quasi tutti i contesti dell’età del ferro italiana, è stato rinvenuto un
numero notevole di rocchetti. È possibile che questi rocchetti, il cui peso varia tra 5 e 55 grammi (con una prevalenza intorno ai 20-30 e ai 35-45 grammi), e che sono
quindi troppo piccoli e leggeri per servire come pesi per
un telaio verticale, servissero come pesi per la tessitura a
tavolette, per tenere in tensione i fili dell’ordito. I quattro
fili di una tavoletta avrebbero richiesto un rocchetto di
I rinvenimenti di tessuti e strumenti per tessere e filare nelle
necropoli villanoviane di Verucchio
peso variabile a seconda dello spessore del filato. Usare
un rocchetto per ogni tavoletta avrebbe dato inoltre la
possibilità di farli ruotare indipendentemente e di srotolare l’ordito, qualora la tessitura avvenisse in verticale (o
in orizzontale ma con i rocchetti sospesi oltre il bordo di
un piano).
L’ipotesi che i rocchetti fossero utilizzati come pesi nella
tessitura a tavolette rappresenta una nuova interpretazione sulla quale sono in programma ulteriori approfondimenti.
Nelle tt. 55 e 102 /1972 Lippi sono stati rinvenuti tre oggetti di uso ignoto, uno completo, l’altro pressoché completo ma in tre frammenti e il terzo lacunoso. Lo strumento ha un margine piatto lungo il quale sono stati
aperti dei fori passanti. L’esemplare completo ha 11 fori,
il pezzo in tre frammenti ne ha almeno 15. Ad ogni estremo dello strumento c’è una piccola appendice come se lo
strumento avesse dovuto essere fissato a qualcosa. Come
già osservato nella rappresentazione sul trono un elemento trasversale è visibile appena sopra i pesi/rocchetti. Una spiegazione possibile per questi strumenti potrebbe essere appunto che si tratti di “distanziatori” necessari a mantenere la equidistanza tra i fili dell’ordito
per impedirne l’aggrovigliamento. Se l’interpretazione è
corretta, i fili di una tavoletta passerebbero tutti attraverso uno dei fori, per essere, successivamente, avvolti sul
rocchetto. Le “impugnature” potrebbero aver avuto una
funzione pratica nel tenere fermo l’attrezzo. Dalla stessa
t. 102 provengono piccoli elementi fusiformi in osso, con
incisioni traversali al centro: le loro dimensioni si adattano ai fori nel “distanziatore” e il numero totale corrisponde. Servivano forse a fermare i fili dell’ordito, per poter “battere” la trama sufficientemente stretta verso l’alto, ma anche in questo, caso tale ipotesi di utilizzo dovrà
essere ulteriormente verificata.
Le stesse tt. 55 e 102/1972 Lippi hanno restituito frammenti di un altro tipo di attrezzo in osso, a forma di piccolo coltello, ma con margine arrotondato. Entrambi gli
strumenti sono decorati a cerchielli (Fig. 13); la forma originale non è nota poiché i pezzi sono incompleti, ma ciò
che resta sembra molto simile a piccole “spade da tessitore”, strumento indispensabile per “battere” la trama
durante la tessitura orizzontale di un bordo a tavolette.
La possibilità che si tratti di uno strumento di questo ge-
nere è accentuata dalla sezione dell’oggetto, più spessa su
un lato e assottigliata sull’altro: una forma molto funzionale per “battere” la trama in modo molto sostenuto.
Ancora nella t. 102/Lippi, che ha restituito gli oggetti precedentemente descritti e interpretati come distanziatore
e battitoio, era presente un altro strumento incompleto
di uso ignoto. Pare probabile che fosse usato per il lavoro
tessile in quanto la superficie è molto liscia e i fori sono
lisci e consumati. Suggerimenti su possibili modalità di
utilizzo saranno benvenuti.
In vari contesti dell’età del ferro dell’Italia centrale strumenti a forma di “barchetta”, costituiti da due lamine rettangolari con ganci ad entrambe le estremità. Gli strumenti sono stati messi in relazione ad attività di tessitura poiché intorno ad uno di essi furono trovate tracce di
filato ed è stato suggerito, fornendo un disegno illustrativo, che rappresentassero “fermi” per tessere orizzontalmente fasce. Se lo strumento fosse stato usato come suggerito il tessuto sarebbe scivolato attraverso le due piastre metalliche poiché la trazione durante la tessitura è
piuttosto forte. Uno strumento usato ancora di recente in
Algeria e Marocco ci indica tuttavia un uso funzionale per
attrezzi di forma analoga. Anche in questo caso vengono
usate piastre di metallo e ganci ma in un modo diverso.
Attualmente strumenti per tessere simili a questi utilizzati per vari tipi di strisce sono normalmente prodotti in
legno e metallo.
In Danimarca vi è una lunga tradizione di archeologia
sperimentale ed era quindi automatico pensare alla realizzazione di una copia sperimentale di questi oggetti per
provare a utilizzarli come fermi per tessitura di strisce e
tentare una risposta alle possibilità d’uso. Da una lamina
di bronzo dello spessore di 2 mm. sono quindi state ritagliate due placchette con ganci, della forma di quelle documentate in Etruria, e sono state unite alle quattro estremità. Si è potuto constatare che questi strumenti sono effettivamente pratici e facili da usare come attrezzi ferma
tessuto; le placchette di metallo sono robuste e tengono
ferma l’estremità del tessuto quando vengono girate. I
ganci sono fondamentali per tenere i fermi nella posizione giusta e impedire la controrotazione. Uno spago girato intorno all’attrezzo tiene unite le due placche, tiene
stretta la fascia e la collega alla cintura del tessitore.
Lise Raeder Knudsen
37
PATRIZIA VON ELES
NOTE
G.V. Gentili, Verucchio Villanoviana. Il sepolcreto in località Le Pegge e la necropoli al piede della Rocca Malatestiana, in Monumenti Antichi dei Lincei, Serie Monografica, Vol. VI (LIX della Serie Generale), Roma 2003.
18
2 P. von Eles, (a cura di), Guerriero e Sacerdote. Autorità e comunità a Verucchio
20 Per una descrizione dettagliata della sua struttura, anche sulla base di
nell’età del ferro. La Tomba del Trono, in Quaderni di Archeologia dell’Emilia-Romagna 6, Firenze 2002.
riproduzioni sperimentali, si veda M. Bazzanella, R. Belli, A. Mayr, Analisi sperimentali condotte sulla fascia decorata della palafitta di Molina di Ledro,
cit., pp. 273-279.
1
3 Per una rassegna delle rappresentazioni, dall’età del bronzo al IV seco-
lo a.C., si veda, da ultimo, M. Bazzanella, R. Belli, A. Mayr, Analisi sperimentali condotte sulla fascia decorata della palafitta di Molina di Ledro, in P.
Bellintani, L. Moser (a cura di), “Archeologie sperimentali”, Trento 2003, p.
280 nota 13.
4
Etruscan Women: a cross-cultural perspective, in L. Larsoson Lovèn, A.
Strömberg (a cura di), “Aspects of women in Antiquity”, Jonsered 1998, p. 73
nota 15.
5 Per le varie tipologie di tessuto, con alcune considerazioni anche sulla
divisione dei ruoli nella loro produzione, A. Rallo, Classi sociali e manodopera femminile, in A. Rallo (a cura di), “Le donne in Etruria”, p. 152; per i
libri lintei, in specifico, F. Roncalli, Osservazioni sui libri lintei etruschi, in
“Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Rendiconti”, vol. 5152, 1982, pp. 3-21.
6 A. Boiardi, P. von Eles, in P. von Eles, (a cura di), Guerriero e Sacerdote. Au-
19 A. Bietti Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, cit., pp. 309-310.
21 Per la bibliografia, si veda nota precedente.
22
Diari di scavo S. Sani e G.V. Gentili, cfr. pp.9-10; anche Gentili 1987a,
pp. 207, 217, 247.
23
Guerriero e Sacerdote, p. 16; anche Gentili 1985 pp. 55, 77; Peroni 1994,
p. 303; Boiardi 1994, pp. 137-152, con bibliografia recente; inoltre Bonfante 1987, p. 11 e fig. 3; Principi Etruschi 2000, p. 231, n. 258.
24 Per l’identificazione di trama ed ordito cfr. p 109..
25
È insolita e particolare una torsione lievemente maggiore della trama. Questo si riscontra comunque anche nel tessuto con la cimosa della t. 26/1969 Moroni.
26 Guerriero e Sacerdote, p. 131 e Fig. 94.
27 Cfr. la tabella in Guerriero e Sacerdote, p. 129.
28 Guerriero e Sacerdote, p. 135.
29
7 P. von Eles, Verucchio, Museo Civico Archeologico, Verucchio 1996, p. 74.
Dohrn 1968; Goette 1990, pp. 21, 106, cat. 2 tav. 1.1, 13.4 con bibliografia. A proposito dell’abbigliamento dell’Arringatore cfr. Granger Taylor 1982, con la valutazione critica della letteratura precedente.
8
30 Cfr. Steigerwald 1999.
torità e comunità a Verucchio nell’età del ferro. La Tomba del Trono, in Quaderni
di Archeologia dell’Emilia-Romagna 6, Firenze 2002, p. 265.
A. Bietti-Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, Roma 1992, pp.
309-314.
9 Cfr. A. Rallo, (a cura di) Le donne in Etruria, Roma 1989, p. 150.
10
G. Bartoloni, Marriage Sale and Gift. A proposito di alcuni corredi femminili
dalle necropoli populoniesi della Prima Età del Ferro, in A. Rallo, a cura di, Le
donne in Etruria, Roma 1989, pp. 35-54.
31
Esempi più recenti in Richardson 1983, tav. 165, figg. 546-548; tav.
167, fig. 552-554; Bonfante Warren 1973, tav. 40. 3; Bonfante 1986, p.
254.
32 Non è comunque ancora chiaro come venissero drappeggiate le lunghe parti laterali.
11 G. V. Gentili, La necropoli sotto la Rocca Malatestiana (Fondo Lippi). La tomba 47, in M. Forte, P. von Eles (a cura di), “Il dono delle Eliadi. Ambre e oreficerie dei principi etruschi di Verucchio”, Rimini 1994, p. 80 n. 89, tav. XVII, 89.
33
12 P. von Eles, Verucchio, Museo Civico Archeologico, cit., p. 74, fig. 75.
34 Guerriero e Sacerdote, p. 95.
13
35 Non all’applicazione di altri tessuti.
14
36 Nell’insieme almeno 145 bottoncini conici di ambra di dimensioni
diverse, con due forellini alla base e tre piccoli cilindri perforati; cfr. p.
95; anche Gentili 1994d, pp. 163, 165, nn. 553, 558-560, tav. LXII.
In particolare per l’uso dei fusi in bronzo, si veda M. Nielsen, Etruscan
Women: a cross-cultural perspective. cit., p. 74 nota 23.
È difficile non pensare che dovesse trattarsi di fibre provenienti da
animali (o piante) particolari, destinati fin dall’origine a questo scopo
e sottoposti a trattamenti non privi di valenze simboliche e rituali.
15
Tomba Comunale 2, si veda A. Boiardi, La tomba 2, in M. Forte, P. von
Eles (a cura di), “Il dono delle Eliadi. Ambre e oreficerie dei principi etruschi di
Verucchio”, Rimini 1994, p. 142 n. 398, tav. LI, 398; un secondo esemplare,
da Campo del Tesoro, è fuori contesto.
38
G. Baldelli, in “Piceni popolo d’Europa”, Roma 1999, pp. 218-219 n. 22123.
Questi “fori” non sono dovuti ad un disgregamento della fibra come
venne invece appurato nel caso del tessuto di Hochdorf; Banck Burgess
1999, tav. 1.
37
Per Verucchio cfr. Saltini 1994, pp. 131-132, nn. 370-371 (5000 perline); Boiardi 1994, pp. 151-152, nn. 470-474 (ca. 1500 perline di materiali vari). Per Casale Marittimo cfr. Esposito 1999, p. 51 (pendagli, anelli,
anche ganci); per altri posti cfr. Bonfante 1975, p. 11, nota 1; Bonfante
1989, pp. 159-160.
16
A. M. Bietti Sestieri, La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, cit., pp. 314315; per una rassegna si veda G. Bagnasco Gianni, L’acquisizione della scrittura in Etruria: materiali a confronto per la ricostruzione del quadro storico e culturale, in G. Bagnasco Gianni, F. Cordano (a cura di), “Scritture mediterranee tra IX e VII secolo a.C.”, Milano 1999, p. 86 nota 4.
38 Potrebbero anche essere due perizoma, che vennero tessuti parallelamente sullo stesso telaio (=> errori in trama). Per contro l’altezza
del tessuto di cm. 50 è superiore a quella usuale del perizoma, vedi
per esempio entrambe le sculture di Casale Marittimo, Esposito
1999, p. 35.
17 Per l’uso dei rocchetti come pesi nella tessitura a tavolette si veda L. R.
Knudsen, infra.
39
C. Morigi Govi, Il Tintinnabulo della “Tomba degli ori” dell’Arsenale Militare
di Bologna., in ArchCl XXIII1, 1971, pp. 212-235.
Decori, colori e filati di Roma antica
BEATRICE ORSINI
er una conoscenza completa dell’abbigliamento di
epoca romana non si può prescindere da un’attenta
indagine iconografica sulle vesti indossate dai personaggi rappresentati sui monumenti scultorei, pittorici e musivi. A questi dati vanno aggiunte le notizie ricavate dalle
fonti letterarie dalle quali si desume l’abbigliamento in
voga nelle varie epoche.
La produzione tessile nel mondo antico era svolta in ambito domestico e affidata alla padrona di casa poiché considerata un’occupazione tipicamente femminile. La donna virtuosa per eccellenza non doveva essere istruita ma
dedita alla famiglia e ai lavori domestici. I documenti epigrafici ci danno un’immagine stereotipata della donna
romana, tra le cui virtù spicca il lanificium, tradizionale
funzione della matrona, che consisteva nell’occuparsi
della filatura e della tessitura della lana per realizzare vestiti all’intera famiglia. Racconta Svetonio che Augusto
“indossò quasi sempre abiti fatti in casa, confezionati dalla sorella, dalla moglie, dalla figlia o dalle nipoti, e portò
delle toghe non troppo strette né troppo ampie, e il clavio non largo ma nemmeno stretto...”1. La frase domum servavit, lanam fecit si trova in molte iscrizioni funebri femminili anche d’età tardo repubblicana e imperiale, quando ormai la donna romana “badava a ben altro che a filare o a rassettare la casa”2. A questa funzione si legano altri
epiteti come lanifica riferito all’attività femminile svolta
all’interno della casa e domiseda, cioé seduta in casa a filare, come la Lucrezia descritta da Livio3, donna virtuosa
per eccellenza (deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem). A partire dall’età imperiale il numero dei figli diminuisce, le matrone si occupano sempre di
meno della loro educazione e soprattutto rifuggono dalle operazioni di filatura e tessitura4. Col tempo la produ-
P
Fig. 1 – Suddivisione del vello di pecora secondo la qualità della lana
che decresce con il progredire della numerazione: dalla zona 1 si
ricava la fibra più pregiata, mentre dalla 14 la più scadente (da
Bazzanella, Mayr 1996).
zione fu affidata alle botteghe di artigiani specializzati
come hanno dimostrato i rinvenimenti effettuati a Pompei. In un unico edificio lavoravano più persone, ognuna
con competenze ben precise. Questi artigiani spesso ebbero parte attiva nella vita economica riunendosi in associazioni come quella dei lanariorum carminatorum (produttori e cardatori di lana), la cui presenza è attestata a
Brescello5 (RE).
La principale fibra utilizzata in epoca romana fu sicuramente la lana, mentre la seta, più pregiata, era importata
dall’Oriente e veniva lavorata secondo Plinio6 sull’isola
greca di Cos. La coltivazione del lino invece si sviluppò
nel nord Italia, in Gallia, negli attuali Paesi Bassi e in Spa-
BEATRICE ORSINI
gna7. La lana era ricavata dal manto di ovini accuratamente selezionati dai Romani per ottenere una fibra di
ottima qualità. Il loro vello è composto da due tipi di pelo: la giarra che ha la funzione di impermeabilizzare l’animale e la borra, pelo più sottile che ha lo scopo di isolarlo dal freddo (Fig. 1). Plinio individua diversi tipi di lana fra le quali una morbida (molle), una ruvida a pelo lungo (hirsutum) e una terza di qualità più scadente (colonicum)8. Le operazioni successive erano la tosatura, la tintura, la filatura, la tessitura, la cardatura e la follatura. La
tosatura dell’animale veniva praticata dal tonsor (Fig. 20)
la cui professione sembra fosse abbastanza considerata
se, grazie ad essa, Lucius Rubrius Stabilio Primus poté accedere alla corporazione degli Apollinares di Mutina, importante collegio addetto al culto imperiale in ambito municipale, come riporta l’iscrizione incisa sulla stele funeraria che egli dedicò ai suoi genitori, a sé stesso e alla liberta Methena9. Si procedeva poi alla sgrassatura in vasche di acqua calda con un mordente che in epoca arcaica doveva essere di origine organica (olio di ricino o di
oliva, caseina, albumina, acido lattico o tannino) e successivamente veniva messa ad asciugare. A questo punto
si tingeva il tessuto utilizzando sia sostanze di tipo vegetale che animale. Per ottenere il colore nero ad esempio si
aggiungeva all’atramentum (liquido nero) l’estratto di noci di galla; per l’azzurro si utilizzava l’indaco, ottenuto tritando i rami di una pianta leguminosa proveniente dall’India e dall’Africa, fino a ridurli in polvere, per poi mescolarli con acqua e calce; il giallo si estraeva dall’erba
guada, dallo scotano o dal croco, mentre il verde si otteneva tingendo il tessuto prima con il giallo e poi con l’indaco. I rossi si ricavavano dalla robbia, erba della famiglia
delle rubiacee diffusa sulle coste del Mediterraneo o dall’oricello ricavato da licheni marini trattati con urina fermentata e calce. Il colore più pregiato fu sicuramente la
porpora estratta dalla secrezione di due molluschi, il murex e la purpura, che a contatto con la luce esterna, cambiava tonalità virando dal giallo-biancastro al rosso-violaceo. Si faceva poi bollire e vi si immergeva il tessuto da
tingere. Data la quantità esigua del liquido emesso da
questi animaletti, ne serviva una grande quantità per un
solo abito. I maggiori centri di produzione nell’antichità
furono Tiro e Sidone in Fenicia che esportarono questa
tecnica di estrazione in tutto il mondo10. I toni più chiari
erano invece ottenuti diluendo la tinta con acqua e urina,
nonostante “la lana tinta due volte con il murice emanava cattivo odore”11. Con questi procedimenti si ottenevano varie sfumature di colore, come ricorda Ovidio che, riferendosi ai tessuti dice: “...questa ha il colore di un cielo
40
senza nubi… quella imita le onde… quest’altra simula il
croco… questa le ametiste color di viola… quella le pallide rose… come la terra a primavera fa sbocciare mille fiori… così altrettanti e più colori prende la lana”12. In base
alle parole di Plauto13 sembra che ogni tintore fosse specializzato in un colore ben preciso con il quale veniva
identificato: i flammari tingevano in arancione, i violarii in
viola, i crocei in giallo, gli spadicarii in bruno e i purpurarii
in porpora. Gli strumenti tipici di questa attività quali
matasse di lana da tingere, ampolle (balsamari) per contenere e conservare il colore e bilance a due bracci con
contrappeso cursore per dosare la tintura, furono fatti
scolpire dal purpurarius Caius Pupius Amicus14 sulla sua stele funeraria, a ricordo della professione svolta in vita. Nel
caso di C. Purpurarius Nicephor15, che dedicò una stele funeraria a tutta la sua la famiglia nella necropoli di Modena, il riferimento al suo lavoro sembra essere testimoniato dal gentilizio. L’operazione successiva alla tintura era
la cardatura che eliminava i nodi, per la quale anticamente ci si serviva del cardo spinoso da cui prese il nome,
sostituito più tardi da pettini16. A questo punto la lana
poteva essere filata e tessuta o ancora utilizzata nelle officinae coactiliariae per produrre feltro, un tipo di stoffa non
tessuta, semi-impermeabile e molto resistente, ottenuta
compattando peli di animali di specie diversa. Veniva impiegata per confezionare vestiti, guanti, copricapi, pantofole, mantelli, coperte per cavalli o corazze semi rigide
per i militari. Diversamente si procedeva alla filatura durante la quale si preparavano le matasse e alla tessitura
con il telaio verticale a pesi. Questo rimase in uso almeno
fino al I - II secolo d.C., quando fu sostituito da quello verticale a due assi trasversali e dal telaio orizzontale a pedali (Fig. 2). Si potevano realizzare diverse tipologie di tessuti (Fig. 3), da quelli semplici a quelli con strisce, in cui il
numero dei fili di ordito era uguale a quello dei fili di trama; da quelli ricamati con vari motivi grazie all’uso di fili di colore diverso, ad altri con motivi emergenti o disegno su ambedue i lati a colori invertiti; da tessuti con andamento diagonale, in cui il filo di trama si faceva passare sopra e sotto uno o più fili, a quelli rete, ad avvolgimento che si otteneva avvolgendo il filo di trama sui fili
di ordito e a intreccio, nel quale i fili di ordito venivano
intrecciati con due fili di trama avvolti attorno a uno o
più fili di ordito come per stuoie, contenitori di uso quotidiano, tappi e cordami di varia grandezza. Era possibile
realizzare due diversi tipi di intrecciatura: a “stuoia” e a
“treccia” testimoniati entrambi dagli oggetti e dall’attrezzatura di bordo rinvenuti nella nave romana di Comacchio (FE)17. La prima, comportava una lavorazione
Decori, colori e filati di Roma antica
Fig. 2 – Tipi di telai utilizzati nella Roma antica: telaio orizzontale a terra (A), telaio verticale a due rulli (B), telaio verticale con ordito tenuto
teso da pesi (C) (da Forbes 1964).
molto simile alla tessitura, infatti a volte era effettuata a
telaio con una serie di corde o di giunchi tesi (ordito) e
un’altra serie (trama) intrecciata di traverso. La tecnica a
treccia prevedeva invece la preparazione a parte di trecce
cucite fra loro in modo da ottenere la forma voluta. Venivano inoltre prodotti semplici tessuti a tela poco morbidi e poco elastici, ma resistenti all’usura e alla trazione,
adatti ad usi non strettamente connessi con l’abbigliamento (fabbricazione di sacchi, fasce, vele, lenzuola,
ecc.). Le analisi condotte sul corpo interno del cordolo di
stagnatura dell’imbarcazione di Comacchio ha rivelato
che era stato fabbricato con fibre da libro di tiglio (strato
fibroso compreso fra la corteccia e il tronco) e rivestito di
stoffa. Si trattava di una tela realizzata con fili di lana molto grandi che sigillava la giunzione fra due tavole fungendo da guarnizione. Per procedere alla realizzazione
degli abiti subito dopo la tessitura, la pezza di lana doveva essere sottoposta a follatura che includeva una serie di
operazioni svolte nella fullonicae (Fig. 18), utili a rendere il
tessuto più morbido (follatura, garzatura e cimatura,
candeggio e pressatura). Il famoso pilastro dei fullones a
intonaco dipinto rinvenuto nella fullonica di Veranio
Ipseo18 a Pompei, illustra in maniera puntuale le diverse
fasi delle attività svolte al suo interno (Fig. 19). La stoffa
era immersa in ampi bacini contenenti acqua e soda e pestata con i piedi dai fullones, come mostra una delle scene.
Nel registro superiore un giovane carda la pezza sospesa
a un asse, servendosi di una larga spazzola in metallo con
punte acuminate, mentre da destra un altro giovane
avanza, portando una sorta di gabbia in vimini (viminea
cavea), decorata da una civetta protettrice dei fulloni, sulla quale si stendeva il tessuto da sottoporre ai vapori dello zolfo. Sul lato adiacente, in alto è raffigurata la pressa
con il piano in legno sul quale venivano “stirate” le stoffe
con la pressione esercitata da due grosse viti. Dopo la follatura il prodotto poteva essere venduto direttamente
nell’officina, dove peraltro venivano anche lavati e smacchiati i panni usati. Il risultato doveva essere pregevole se
Strabone19 e Columella20 esaltano ad esempio la morbidezza della lana prodotta nei luoghi intorno a Mutina e al
fiume Scotenna (Panaro) e Marziale21 ricorda i fullones
modenesi. La zona fra Parma e Mutina era infatti famosa
anche per la fiera-mercato degli ovini che si svolgeva annualmente nella vicina località denominata Campi Macri, uno dei più importanti mercati di bestiame dell’antichità. La manifattura delle vesti era affidata ai vestitores o
vestifici, mentre i negotiatores vestiarii come L. Lucretius Primus (I secolo d.C.) e L. Lucretius Romanus (I secolo d.C.)22, ricordati da alcune iscrizioni rinvenute a Modena, erano
mercanti di stoffe. È testimoniata anche l’esistenza di negoziatores lanarii (commercianti di lane) come il liberto
Quintus Alfidius Hyla che ricoprì23 la carica di seviro a Forum
41
BEATRICE ORSINI
Fig. 3 – Grafici di alcuni intrecci di tessuto documentati in età
romana (da Forbes 1964).
Sempronii (Fossombrone, PS). I tessuti confezionati a Modena sono ancora menzionati come beni di lusso nell’Edictum de pretiis24 emanato da Diocleziano nel 301 d.C..
L’abbigliamento maschile
Per una conoscenza completa dell’abbigliamento di epoca romana non si può prescindere da un’attenta indagine
iconografica sulle vesti indossate dai personaggi rappresentati sui monumenti scultorei, pittorici e musivi. A
questi dati vanno aggiunte le notizie ricavate dalle fonti
letterarie dalle quali si desume l’abbigliamento in voga
nelle varie epoche.
L’indumento tipico era costituito da una sopravveste
drappeggiata intorno alla persona (amictus) e dalla veste
vera e propria (indumentum) che avvolgeva il corpo. In
epoca arcaica, sotto la sopravveste, si indossava il subligar
o subligaculum. L’abito romano caratteristico del civis fu sicuramente la toga come ricorda anche Virgilio: “Ecco i
Romani signori del mondo, gente togata” 25. Il termine toga deriva da tegere, cioè coprire che ha la stessa radice di
“tetto”. Originariamente era un drappo di lana tessuta alto come la persona e largo il doppio che, portato trasversalmente sulle spalle, copriva il perizoma. Il giro con cui
si indossava la toga (remeatio) seguì le variazioni dovute
ai cambiamenti della moda. Si faceva passare un lembo
sotto l’ascella destra in modo da lasciare libero il braccio,
42
mentre l’altro si gettava sulla spalla sinistra come nella
statua dell’Arringatore (fine II secolo a.C.); in alternativa
si poteva far passare sulle due spalle lasciando pendere i
lembi sul davanti. In epoca repubblicana aumentò la
grandezza della stoffa e si modificò il modo di indossarla
(toga restrincta). Si sistemava un lembo della toga sulla
spalla destra in modo da avvolgere anche il braccio fino
alla mano che rimaneva libera; veniva poi rovesciato sulla spalla sinistra dove continuava il giro per essere raccolto sul davanti e trattenuto dal braccio sinistro. Durante le cerimonie un tratto della toga saliva a velare la testa
(velato capite) come si nota nelle statue del ciclo giulioclaudio che decoravano la basilica di Velleia (I secolo
d.C.) (Fig. 14). In estate il tessuto era più leggero (toga rasa), mentre in inverno di lana pesante (toga pexa o pinguis),
di cui fece largo uso l’imperatore Augusto notoriamente
freddoloso26. Gradualmente i colori con cui veniva tessuta la toga iniziarono a distinguere la classe e la professione: la toga candida, in lana bianchissima, era indossata da
coloro che aspiravano alle cariche pubbliche chiamati
per questo “candidati”27, mentre quella dei magistrati curiali, dei sacerdoti e dei fanciulli nobili era bordata da
una fascia di porpora ottenuta con un filo di lana colorata tessuto insieme alla stoffa (toga praetexta). La trabea era
un’ampia toga bianca che arrivava alle ginocchia, decorata con strisce di porpora o interamente di color porpora, a indicare la personalità semidivina di chi la indossava. Le spalle potevano essere coperte dal pallium, mantello di origine greca, più corto della toga che consentiva
maggiore libertà nei movimenti e per questo ebbe grande diffusione presso i Romani. Durante la prima età imperiale all’uso del pallio si affiancò quello della paenula,
mantello in lana pesante o cuoio senza maniche la cui
lunghezza variava dai fianchi alle caviglie. Era a forma di
campana con un foro centrale, attraverso il quale si infilava la testa come un poncho; se era aperta sul davanti veniva fermata con un fermaglio o dei cordoncini. Per la sua
forma e la consistenza della lana isolava molto bene dall’umidità e dal freddo e veniva portata sopra la tunica. Vi
erano poi i mantelli infibulati importati dalla Tessaglia e
dalla Macedonia di forma rettangolare più o meno ampi,
ai quali si aggiungevano due triangoli laterali in modo da
formare un mantello trapezoidale con la base maggiore
curvilinea. Il lato corto era appoggiato sulle spalle, mentre i lembi laterali cadevano simmetricamente sul davanti come due ali e venivano trattenuti sul petto da una
fibula, che, nelle raffigurazioni si trova frequentemente
fissata all’altezza della spalla destra. Il sagum comunemente indossato dai legionari, dalle truppe di cavalleria
Decori, colori e filati di Roma antica
e dagli ufficiali di rango inferiore era il mantello militare
per eccellenza. Espressioni latine come saga sumere o ire
ad saga significavano proprio “andare in guerra”, mentre
saga ponere voleva dire deporre le armi. Il modello era di
origine gallica e si discostava dalla clamide per tipo di tessuto e forma. La stoffa di forma rettangolare, era realizzata con una lana spessa lavorata con peli di capra, più corta della clamide, veniva appuntata sulla spalla da una fibula che la fissava a circa due terzi della sua lunghezza, lasciando scoperti il fianco e il braccio destro, mentre tutto il lato sinistro rimaneva coperto. La lacerna era invece
un ampio mantello di taglio rettangolare, confezionato
in lana pesante e di colore scuro, fermato da una fibula
sul petto o su una spalla e corredato di cappuccio. Era
considerata una sopravveste di grande praticità poiché
lasciava libere le braccia e, avvolgendo il corpo, lo riparava dal freddo e dalla pioggia. Giovenale ribadendone l’origine informa che “...talvolta lacerne di lana spessa noi riceviamo, quali coperture della toga, di qualità dura e
grossolana, malamente battute dal pettine del tessitore
gallico...”29. A Roma si diffuse alla fine dell’età repubblicana quando, in seguito alle vicende politiche, anche nella moda civile invalse l’uso di vesti militari. In età imperiale la lacerna era indossata dagli uomini di tutte le classi sociali: i civili la mettevano sopra la toga mentre i militari sull’armatura. La laena, altro tipo di mantello infibulato simile alla clamide per forma e colore, tuttavia si differenziava per la presenza di un’ampia frangia sull’orlo
inferiore. Si tratta di un manto ampio e rotondeggiante,
lungo fino a metà polpaccio e fermato sulla spalla destra
da una fibula. La tunica fu sicuramente la veste per eccellenza indossata in tutte le occasioni della vita pubblica e
privata da uomini e donne di ogni estrazione sociale. Il
modello classico, bianco o del colore naturale della lana,
era una rielaborazione del chitone greco formato da un
unico rettangolo di stoffa e adattato intorno al corpo nel
senso della lunghezza, in modo tale da rimanere aperto
sul fianco; veniva chiuso sulle spalle con fibule o nastri e
stretto alla vita da una fascia o cordone di stoffa annodato (cinctum). Si portavano più tuniche contemporaneamente: la tunica interior o intima a contatto con la pelle,
detta anche subucula e una tunica pesante o, come ricorda
Orazio30, modelli più confortevoli e raffinati, in lino o seta di vari colori. La tunica recto o rigilla era semplice e derivava il suo nome dal fatto che aveva la caratteristica di essere tessuta dal basso verso l’alto. Secondo quanto riporta Plinio riferendosi a Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, simbolo della virtù domestica “Essa per prima ha tessuto una tunica recta...”31. La toga virile veniva indossata
dai fanciulli al momento di diventare adulti e dalle fanciulle, per la cerimonia nuziale. Secondo l’organizzazione gerarchica della società romana, la confezione stessa
della tunica rivelava immediatamente la classe sociale di
chi la portava. Su di essa si potevano infatti cucire strisce,
dette clavii, che scendevano in linea retta dalle spalle fino
all’orlo inferiore e variavano per larghezza e colore. Questo era un segno di privilegio riservato esclusivamente a
senatori e cavalieri. In età augustea la tunica indossata da
senatori (laticlavio) e tribuni militari delle prime quattro
legioni aveva il clavio più ampio di quella dei cavalieri
(augusticlavia). Nello stesso periodo l’uso del laticlavio fu
esteso a tutti i membri delle famiglie senatorie: il giovane prendeva il iuvenis laticlavius insieme alla toga virile,
entrando così nella maggiore età. Altri ornamenti erano
costituiti da segmenta ricamati con fili di lana colorata, di
forme e dimensioni diverse, che assolvevano anche allo
scopo pratico di dare maggiore consistenza ai bordi. Le
tuniche più eleganti, in lino o seta, erano impreziosite da
applicazioni di galloni intessuti con fili d’oro e d’argento.
Giovenale descrive: “Un abito di stoffa lavorata a rombi e
a quadrati di colore ceruleo, oppure di stoffa ben rasata di
colore verde pallido”. La tunica palmata, ornata di ricchi ricami a forma di foglia di palma, veniva indossata dai consoli insieme alla toga picta per celebrare il loro trionfo o
per comparire in pubblico durante una cerimonia ufficiale. Le maniche giungevano di solito fino al gomito nel
modello maschile, mentre erano più lunghe in quello
femminile (manicata o manuleata). Nel VI secolo d.C. i mosaici di Ravenna ci mostrano come l’abbigliamento “civile” del sovrano fosse distinto da quello militare e consolare indossato in altre circostanze. Giustiniano porta brache di porpora (tibialia) e una tunica bianca con liste d’oro lunga fino al ginocchio (divitision), fermata da una cintura (cingulum). Indossa inoltre una clamide di porpora,
simbolo della regalità, sulla quale è applicato un riquadro di stoffa, cucito solitamente sulla clamide dei sovrani e dei dignitari (tablion), decorato con disegni di uccelli
verdi entro cerchi rossi, che prosegue nella parte posteriore in modo da formare un disegno continuo quando
questa veniva chiusa. È fermata da una fibbia (fibula) d’oro con una pietra rossa al centro; sul capo porta una corona (stemma) composta da un cerchio rigido di perle e
pietre preziose da cui scendono quattro pendagli e uno
scettro (scipio eburneus), simboli della regalità. Ai piedi
calza sandali color porpora (kampàgia) ornati con pietre
preziose. I due personaggi a destra di Giustiniano vestono un abito ufficiale con tunica, brache, clamide bianca,
tablion porpora e kampagia neri. Sulla spalla destra porta-
43
BEATRICE ORSINI
no inoltre una sorta di spallina con un disegno che potrebbe corrispondere a un grado33.
Abbigliamento militare
Diverso era l’abbigliamento militare ricostruibile sulla
base di raffigurazioni scultoree e dei pochi reperti tessili
che ci sono pervenuti. I legionari indossavano una tunica
lunga sopra al ginocchio originariamente di forma rettangolare, spesso priva di maniche e stretta in vita da una
cintura. Per questi motivi il tessuto che eccedeva poteva
essere trattenuto con un nodo sulla schiena o sotto il collo, in modo da lasciare più libertà nei movimenti durante i lavori campali dei soldati. Nel tardo impero anche la
tunica, come l’armamento, seguì le mode straniere, infatti le rappresentazioni scultoree e musive mostrano tuniche a maniche lunghe non conformi al gusto tradizionale. Le tinte più probabili sembrano quelle del tessuto
grezzo, quindi bianco sporco o beige o del rosso ruggine.
Dopo il periodo di influenza greco-etrusca, le tuniche dei
soldati repubblicani sono sempre raffigurate del tutto disadorne fino al primo impero, quando comparvero strisce e rosoni colorati (III sec. d.C.). I soldati romani adoperavano mantelli di foggia diversa di cui il più semplice
era il sagum, indumento militare per eccellenza di forma
rettangolare, fermato con una spilla sopra la spalla destra. La paenula di forma semicircolare e abbottonata sul
petto era indossata soprattutto da legionari e pretoriani,
ma anche da ausiliari. Il paludamentum di forma rettangolare era riservato agli ufficiali, ed essendo fissato sulla
spalla sinistra, si portava elegantemente drappeggiato
attorno al braccio sinistro. Componente essenziale dell’abbigliamento del militare era il cinturone (cingulum),
cui veniva appesa la daga e, fino al I sec. d.C. anche il gladio, portato in seguito a tracolla. Solitamente in cuoio era
a volte impreziosito da borchie metalliche in bronzo o in
argento sbalzato, smaltate o decorate a niello. Il cingulum,
associato alla spada, costituiva un segno distintivo dello
status di militare, in quanto veniva indossato dal soldato
come uniforme di servizio. Nella necropoli di Classe (Ravenna) è stata rinvenuta recentemente una stele (metà I
d.C.) che ritrae un soldato della flotta (classis) di Ravenna
in abbigliamento militare. Egli indossa una corazza anatomica con spallacci decorati a squame e gonnellino con
elementi di protezione per il ventre, fermato da una cintura da cui pende il gladio, inguainato in un fodero con
decorazione. Per proteggere le gambe si utilizzarono inizialmente fasce di tessuto fino all’introduzione dei pantaloni da parte dei Celti, che ebbero una rapida diffusione soprattutto nel periodo tardo-imperiale. Le calzature
44
tipiche dei militari erano le caligae, come mostra anche la
stele ravennate. Si trattava di scarponcini chiodati abbastanza comodi poiché indossati sopra a calzini di lana e
dotati di molte aperture. Rimasero in uso almeno fino alla fine del II sec. d.C., quando vennero soppiantati da altri
tipi di calzature.
L’abbigliamento femminile
Nella prima fase dell’età repubblicana, l’abbigliamento
della matrona romana fu sobrio e rigoroso, in osservanza
allo status sociale della donna e al sistema di valori che
doveva rispettare, non erano infatti concessi lussi né frivolezze. Questa situazione, tuttavia, mutò progressivamente a partire dal III secolo a.C., quando, con l’inizio dell’espansione romana nel Mediterraneo, a Roma si diffusero nuovi costumi e nuovi stili di vita di origine orientale, facendo rapidamente presa soprattutto sugli esponenti delle classi sociali più elevate.
Anche le donne furono attratte da queste innovazioni e
iniziarono poco a poco a modificare le proprie abitudini.
Un’interessante testimonianza sull’evoluzione dei costumi delle matrone è fornita dall’episodio della Lex Oppia
(215 a.C.), una legge che imponeva alle donne vari divieti, tra cui quello di indossare abiti di colori diversi e di
possedere più di mezz’oncia d’oro, per ripristinare i valori matronali di sobrietà e parsimonia e limitare inoltre la
crisi economica dovuta alla seconda guerra punica (218202 a.C.). Rimase in vigore per circa vent’anni, finché le
donne con una celebre protesta ne ottennero l’abrogazione. Le più grandi innovazioni si ebbero, soprattutto a
partire dall’età imperiale, quando dilagò il lusso e la ricerca del bello e del raffinato divenne quasi esasperata.
Gli autori romani disapprovavano la vanità e lo sfarzo
delle donne poiché li identificavano come segno della decadenza dei costumi. La costante cura del corpo e dell’abbigliamento era la prova evidente che la donna romana
aveva abbandonato gli antichi valori matronali della pudicitia e della modestia a favore della seduzione e della ricerca del piacere amoroso. Nel periodo più antico gli indumenti femminili e quelli maschili erano molto simili,
infatti un’unica toga poteva essere usata indifferentemente da entrambi i coniugi. In seguito la moda femminile si differenziò seguendo il continuo evolversi del gusto e dei costumi sempre più raffinati. Secondo Orazio34:
“Ci sono quelli che non vorrebbero aver contatto se non
con donne coperte sino al tallone con l’orlatura (instita)
che allunga la veste”. Nella prima età repubblicana le matrone, per uscire in pubblico, indossavano il pallio femminile (palla) derivato dal peplo greco, di forma rettan-
Decori, colori e filati di Roma antica
golare drappeggiato liberamente e lasciato cadere in pieghe morbide, oppure portato come un moderno scialle
in modo da avvolgere più strettamente la persona. Durante le cerimonie sopra la tunica si indossava una palla
lunga fino ai piedi con un lembo che saliva fino a coprire
la testa. La stola era una lunga veste di origine greca che si
infilava sulla tunica intima, di stoffa piuttosto spessa e
stretta in vita dalla cintura. Era senza maniche, con spalline decorate da strisce ricamate e il lembo inferiore ornato da una balza (insila) ricamata o a frange, cucita o tessuta sull’orlo. Le matrone romane dell’età repubblicana
evitavano in ogni modo di mettersi in mostra, per questo
la stola, realizzata con un tessuto pesante, era indossata
anche in casa su tuniche leggere e trasparenti, divenendo
il simbolo della virtù e del pudore femminile. Properzio35, nell’elegia per la morte di Cornelia, le fa dire “meritai il nobile vanto della stola”. Dal III secolo d.C. la stola fu
sostituita da una tunica più ampia e con maniche, stretta
in vita da una cintura decorata, a volte munita di cappuccio. A contatto diretto con il corpo veniva indossata la tunica interior o subucula, simile alla sottoveste, stretta con
cordoncini sotto il seno. Per coprire le parti più intime le
donne usavano il subligar, una fascia annodata intorno ai
fianchi e un’altra detta mamillare che aveva la funzione di
sostenere ed evidenziare il seno come raffigura il mosaico nella “sala delle dieci ragazze” della Villa del Casale di
Piazza Armerina. La tunica della cerimonia nuziale era
una tunica recta simbolo di verginità, di colore bianco,
lunga fino ai piedi e stretta alla vita da una cintura (zona)
chiusa da un doppio nodo (flerculeus), che doveva essere
slacciato solamente dallo sposo, come ricorda l’espressione zonam solvere (“sciogliere la cintura” che indica l’inizio della vita coniugale). Alla vigilia delle nozze, la sposa consacrava i giocattoli della sua infanzia a una divinità,
deponeva la toga praetexta per indossare quella nuziale,
copriva il capo con una cuffia arancione e si coricava. Il
volto era coperto da un velo rosso fuoco (flammeum) e
portava sul capo una corona di mirto. I capelli della sposa erano divisi in sei trecce (sex crines) con una specie di
spillone a punta di lancia (hasta caelibaris). Le tuniche venivano indossate a seconda dell’occasione e della stagione e per questo erano realizzate con tessuti diversi (lana,
cotone, lino e seta) tinti in una vastissima gamma di colori. Le stoffe erano arricchite inoltre da ricami e applicazioni di vario genere: i segmenta, fili d’oro o d’argento cuciti o tessuti sugli orli orizzontali; il patagium, una striscia
verticale, più o meno larga, applicata su entrambi i lati
della tunica; i clavii che scendevano dalle spalle e gli orbicula, tondi applicati sulla parte inferiore della tunica e
sulla parte alta delle maniche. Questi ornati erano generalmente in tessuto prezioso, di colore diverso da quello
della tunica e a disegno geometrico (quadrati, losanghe
intrecciate, cerchi concentrici, disegni di ispirazione floreale o vegetale). Più tardi, in base al gusto orientale, furono adottate anche decorazioni con figure di animali
reali o fantastici dai colori vivissimi e figure umane. Tra i
motivi più ricorrenti vi era quello del meandro, dal nome
del fiume ricco di anse sinuose, di cui parla Virgilio: “...al
vincitore una clamide tessuta d’oro, listata con un doppio meandro di porpora melibea”36. Molto spesso i fili
d’oro funzionavano da ordito, invenzione attribuita al re
di Pergamo, Attalo III (138-133 a.C.), famoso per il suo ricchissimo regno e per i suoi tesori. L’imperatore Caligola
che si mostrava in pubblico con abiti femminili “...sfoggiava abiti di seta e vesti cicladiche”, cioè lunghe gonne
decorate in oro e porpora37. Col tempo la trama delle stoffe divenne sempre più sottile, quasi trasparente, tale da
far intravedere le forme del corpo; i colori si diversificarono nelle più varie sfumature e iniziarono importazioni
di tessuti ricamati e delle pregiatissime sete dall’Oriente.
Orazio38, in una satira, descrive l’abbigliamento delle matrone contrapponendolo a quello delle donne di liberi
costumi che indossavano vesti molto trasparenti: “...di
una matrona, all’infuori del viso, non potresti vedere nulla, giacché, a meno che non sia Cazia, con una veste lunga
ricopre tutto il resto. Se cercherai le parti vietate, ben munite di difesa, e proprio questo ti farà impazzire, molte cose allora ti si opporranno... stole che scendono sino ai talloni e mantelli che avvolgono, impedimenti infiniti, che
ti negano l’apparir della cosa al naturale. L’altra, invece,
non frappone ostacoli, attraverso una veste sottile di Coo,
quasi ti è possibile vederla come nuda, se hai timore che
abbia brutte gambe, piede volgare; con un colpo d’occhio
potresti misurarle i fianchi”. Le meretrici vestivano con
abiti trasparenti solo all’interno dei postriboli, per alimentare fantasie e desideri; quando uscivano, erano invece obbligate a indossare una toga di tipo maschile, essendo loro tassativamente proibito l’uso della stola e a coprire i capelli, in modo tale da non lasciar sfuggire neanche una ciocca. Ovidio39 invita le donne che vogliono seguire l’arte di amare a “liberarsi delle tenui bende, insegne del pudore ed ogni stola lunga sino a metà piede”. Più
ricco è l’abbigliamento con cui viene rappresentata l’imperatrice Teodora sui mosaici della basilica di San Vitale
a Ravenna (VI secolo d.C.). Indossa una tunica talare bianca a maniche lunghe e un mantello color porpora, il cui
orlo inferiore è ornato dalla scena dei tre magi che offrono doni. Le spalle sono coperte da un ricco maniakis (col-
45
BEATRICE ORSINI
lare) di origine persiana in oro, pietre preziose e perle.
Dalla corona scendono lunghe file di perle che ricadono
sulle spalle e sul petto. Le dame di corte accanto a lei indossano la “dalmatica”, simile alla tunica, ma senza cintura, generalmente a fondo bianco con fasce o dischi di
porpora intessuti, applicati o ricamati e il pallium40.
I bambini
Le vesti dei bambini non si differenziavano molto da
quelle degli adulti poiché essi vestivano semplici tuniche con o senza cintura e maniche lunghe, corte o al gomito; se ne erano prive si fermavano su entrambe le spalle con fibbie. Nell’età dell’adolescenza, fino ai diciassette anni, i fanciulli e le fanciulle indossavano, sopra la tunica, la toga praetexta, ornata da una balza color porpora
lungo il bordo inferiore. I fanciulli, diventati adulti, portavano la toga vera e propria, mentre le fanciulle, che generalmente si maritavano prima di aver compiuto i diciassette anni, avevano prima la tunica nuziale, poi gli
abiti matronali.
Gli accessori
In età imperiale si moltiplicò il numero di accessori che
completavano l’abbigliamento femminile. Le donne per
variare il loro aspetto, puntavano soprattutto su elaborate acconciature e gioielli piuttosto che sugli abiti. Gli ornamenti più diffusi erano fibbie (fibulae), aghi per i capelli (acus crinales), bende ornate d’oro e di pietre preziose (vittae, mitrae), abilmente inserite nelle complicate acconciature, grossi anelli alle caviglie del piede, orecchini
(inaures), braccialetti (armillae), collane (monilia) e i crotalia, orecchini costituiti da più pendenti che terminavano
con una perla molto grande. Derivavano il loro nome dal
sonaglio situato all’estremità della coda di alcuni serpenti velenosi del Sud America, formato da anelli cornei che
producono un suono caratteristico. Una parure completa comprendeva orecchini, collane, pendagli, bracciali,
anelli d’oro, gemme e cammei. I figli maschi dei nobili
portavano al collo le bullae, il cui uso assieme a quello del-
46
la praetexta, era di origine etrusca, da cui il nome aurum
etruscum indicato da Giovenale41. Ai figli dei liberti era
concesso indossare un ornamento simile, ma fatto di
cuoio.
Le calzature romane per eccellenza erano i sandali (soleae,
sandali), tenuti fermi da striscioline di cuoio (habenae,
amenta, obstragula) che si facevano passare fra un dito e
l’altro. Il calceus, del quale si conoscono due modelli, era
tipica del cittadino romano e indossata con la toga; II calceus patricius, originariamente rosso, era legato con quattro strisce di cuoio (corrìgiae) e chiuso da una lingua di
pelle (ligula) ornata da una fìbbia lunata in avorio (lunula). Altre calzature erano il pero, una pelle non conciata avvolta intorno al piede, la caliga, sandalo militare e la sculponea, zoccolo con suola di legno utilizzato da schiavi e
contadini. Le calzature femminili erano in pelle più morbida e colori più vivaci, in particolare rosso e oro, ornate
con monili preziosi, come ad esempio perle. Diffusi erano i sandali con la suola rialzata, solitamente di color porpora, che lasciavano il piede scoperto (coturni).
Notevole importanza rivestivano le acconciature che durante l’età repubblicana erano molto semplici sia per le
donne che per gli uomini. Questi ultimi portavano i capelli lunghi e folte barbe; solo col passare del tempo iniziarono a tagliare i capelli corti, mentre verso il I secolo
d.C. li acconciarono mantenendo la barba. La pettinatura
tradizionale della matrona era la crocchia sulla nuca formata da treccine e un ciuffo sulla fronte, adottata in versione più elegante da Ottavia sorella dell’imperatore Augusto. Più tardi si diffuse la moda di incorniciare il volto
con riccioli posti su più file e due boccoli che pendevano
dietro le orecchie mentre il resto della capigliatura era
raccolto sulla nuca. Questo tipo di pettinatura culminerà
in età flavia, quando si farà ricorso a veri e propri toupet,
che rimarranno in uso durante tutto l’impero di Traiano.
La complessità di tali acconciature richiedeva ore di lavoro per le schiave addette alla capigliatura delle padrone (ornatrices).
Decori, colori e filati di Roma antica
NOTE
1 Suet., Aug., LXXIII.
20 Colum.,7.
2 Plut., III,1.
21 Mart., III,59 (Sutor cerdo dedit tibi, culta Bononia, munus, fullo dedit
3 Liv., I, 57-58.
Mutinae: nunc ubi copo dabit?).
4 Tac., dial., 28; Colum., 12, 9.
22 CIL, XI, 868; 869.
5 CIL, XI, I, 1031.
23 CIL, XI, 862.
6 Plin., nat., XI, 26-27.
24
7 Plin, nat., XIX, 3, 17.
8 Plin., nat., VIII, 72, 189; 73, 190-191.
9 Al padre Lucio Rubrio Stabilione (e) alla madre Giulia Grata fece ancor
vivo Lucio Rubrio Stabilione Primo, figlio di Lucio, tonsore, Apollinare
in Modena, per sé e per la liberta Methena. Alla sorella Giulia Prisca (fece). Al fratello Caio Giulio Terzo, figlio di Spurio (fece). L(ucio) Ru[brio]
Stabil(ioni) [pat]ri / Iuliae Gratae matri/ L(ucius) [Ru]brius L(uci) [f(ilius)]/ Stabilio/ Primus tonsor/ Mutin(ae) Apol(linaris)/ sibi et Methen(ae)/ libert(ae)/ et
suis v(ivus) f(ecit)/ p(edes) q(uoquoversus) XII; Sul fianco destro, per chi
guarda: Iuliae Prisc/ae soror(i) Sul fianco sinistro, per chi guarda: C(aio) Iulio Sp(urii) f(ilio)/ Tertio fratri).
L’editto aveva il compito di limitare la costante crescita dei prezzi. Si
trattava di una sorta di calmiere, ossia di un lungo elenco di merci o di
prestazioni, al quale seguiva l’unità di misura e il relativo prezzo massimo di vendita. L’editto è noto grazie ad una lunga serie di frammenti
trovati nei diversi luoghi in cui era esposto al pubblico.
25 Verg., Aen., I, 282.
26 Suet., Aug., LXXXII, “d’inverno si riparava dal freddo con una grossa to-
ga e quattro tuniche portava la camicia e la maglia di lana e delle fasce
intorno alle cosce e ai polpacci”.
27 Pol., “Quando un illustre personaggio muore, la famiglia porta le sue
11 Mart., IV, 4.
maschere al funerale e le fa indossare ad attori che vestono una toga con
il bordo color porpora se il loro personaggio era un console o un pretore, una toga interamente color porpora se era un censore, e una toga ricamata d’oro se aveva celebrato un trionfo”.
12 Ov., Ars, III, 173-187.
28 Cic., Att., I, 1, 2.
13 Plaut., Aul., 505-510.
29 Iuv., IX, 28-31.
14
Lapide funeraria del purpurarius Caius Pupius Amicus. Parma, Museo
Archeologico Nazionale.
30 Hor., Sat., I, 1, 95.
15 (V(ivus) f(ecit)/ C(aius) Purpura/rius Nicephor/ sibi et uxoribus /filis filiabus/ liber-
32 Iuv., II, 97.
10 Plin., nat., IX, 127.
tis liber/tab(us) servis ser/vab(us)/ in fr(onte) p(edes) XV in a(gro) p(edes) XXX Ancor vivo fece Caio Porporario Niceforo, per sé e per le mogli, per i figli e le figlie, per i liberti e le liberte, per i servi e le serve. Modena, Lapidario Estense.
16 Plin, nat., VIII, 73-191.
17 Il relitto fu rinvenuto a Valle ponti presso Comacchio ed è databile al
I secolo a.C.
18
Pilastro in muratura con intonaco dipinto, Pompei, Fullonica di Veranio Ipseo (Seconda metà I sec. d.C.), Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
19 Strab., V, 1, 12, 218.
31 Plin., nat., VIII, 74, 194.
33 Ravenna, basilica di San Vitale.
34 Hor., Sat., I, 2, 28-29.
35 Prop., IV, 11, 60-61.
36 Verg., Aen., V, 250-251.
37 Suet., Cal., LII.
38 Hor, Sat., I, 2, 94-103.
39 Ov, Ars, I, 46-48.
40 Ravenna, basilica di San Vitale (VI secolo d.C.).
41 Iuv., V, 164.
FONTI
Q. Horatius Flaccus, Satirae
D. Iunius Iuvenalis, Saturarum Libri V
P. Ovidius Naso, Ars Amatoria
M. Valerius Martialis, Epigrammaton libri XIV
M. Tullius Cicero, Epistularum ad Atticum libri I-XVI
C. Plinius Secundus, Naturalis Historia
C. Suetonius Tranquillus, De vita Caesarum Libri VIII
Sextus Propertius, Elegiarum libri IV
C. Suetonius Tranquillus, De vita Caesarum Libri VIII
P. Cornelius Tacitus, Dialogus de oratoribus
47
BEATRICE ORSINI
Nota su alcune fibre minerali di scavo
ritrovate nel modenese
Nicoletta Giordani
Lo studio dei tessuti prodotti nell’Antichità romana ha
seguito in Italia un percorso di ricerca eminentemente
umanistico, consolidato da studi storici che hanno utilizzato fonti documentarie – storiche, letterarie, iconografiche, epigrafiche – per classificare lo sviluppo dell’abbigliamento nei diversi contesti sociali. Lo stesso modello di ricerca è stato applicato alle fonti archeologiche per
definire le fasi del ciclo produttivo e le tecniche di lavorazione, dalla materia prima al manufatto fino alla sua
commercializzazione.
Un diverso approccio metodologico al tema, che estende
il campo di indagine all’analisi delle fibre tessili e alle
modalità della loro lavorazione, rientra in un settore specialistico a connotazione fortemente interdisciplinare.
Questo indirizzo dell’“archeologia del tessuto”, si è sviluppato in particolare nei paesi, come l’Egitto o il Nord
Europa, dove le condizioni climatiche di umidità, aridità,
congelamento o impregnazione d’acqua, hanno maggiormente favorito la conservazione di reperti tessili1. In
Italia un analogo orientamento della ricerca è maturato
a partire dalla metà degli anni ’80 ad opera del Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como, diretto da
Lanfredo Castelletti. L’intervento del Laboratorio ha interessato contesti di età romana, tra cui i frammenti di tessuto recuperati nello scafo della nave datata rinvenuta a
Valle Ponti in comune di Comacchio e datata alla fine del
I secolo a.C.2, ma in particolare su fibre conservate su oggetti metallici che costituivano gli elementi di corredo di
sepolture longobarde rinvenute in Italia settentrionale.
Questi ultimi si riferiscono soprattutto a residui di fibre
minerali in metallo prezioso che venivano tessute nell’abito e costituivano il broccato.
Tuttavia nel territorio italiano il reperimento in scavo di
questa categoria di documento archeologico, estremamente labile e deperibile, è tuttora infrequente, condizionato dalle condizioni climatiche, dalla natura del terreno e da metodi di indagine che consentono l’individuazione di fibre residue.
Per quanto riguarda le attestazioni documentate nell’octava regio augustea, i resti di tessuto noti sono limitati a
pochi esemplari. Alcuni elementi furono recuperati nel
48
contesto della nave romana scoperta nel 1980 a Valle Ponti, in comune di Comacchio (Ferrara).
Le analisi condotte dal laboratorio di paletnobotanica
del Museo Civico di Como su alcuni campioni che si trovavano a bordo dello scafo hanno consentito l’identificazione delle fibre in base alle loro caratteristiche morfologiche e l’individuazione delle tecniche delle stoffe (tipo
di intreccio, legatura) e dei filati (torsione, diametri approssimativi). Si trattava di tessuti di cui non è stato possibile stabilire l’esatta funzione e che furono utilizzati
per sigillare le fessure dello scafo. Dai parametri tessili individuati risulta che la trama e l’ordito presentano entrambi la stessa torsione a Z, ma una diversa intensità.
Una maggiore torsione dell’ordito aumenta la resistenza
e la rigidità al tessuto.
Un frammento della dimensione di pochi centimetri è
stato recuperato nel 1997 a Modena, in piazza XX Settembre in un contesto funerario tardoromano ubicato
lungo il limite occidentale della città antica, presso il
luogo deputato in età medievale a centro religioso e politico3.
Risulta più comune, per le più agevoli modalità di conservazione delle fibre minerali, il rinvenimento di porzioni di tessuto o di fili in metallo prezioso, che venivano
intrecciati come ricamo ai tessuti.
A Ercolano sono state recuperati rari esemplari di trame
auree, tra cui un frammento di nastro proveniente dall’antica marina, in un contesto del I secolo d.C.
Il reperto era costituito da sottilissimi fili che presumibilmente rifinivano ed orlavano i bordi del tessuto di una
veste o di accessori (Fig. 15).
Forse la medesima funzione si può attribuire agli elementi di fili d’oro rinvenuti, intorno agli anni ’40 del Novecento, a Modena in Piazza Matteotti, all’interno di un
sarcofago romano riutilizzato tra il IV ed il V secolo d.C.
Al riuso della sepoltura si riferiscono alcuni individui
adulti che erano adagiati su cuscini di foglie ed avvolti in
stoffe (Fig. 16). Le analisi stabilirono che si trattava di tessuti di seta4.
Un più recente rinvenimento riguarda alcune laminette in oro che costituivano parte di un ricamo su tessuto
(Fig. 17), rinvenute nei resti di una necropoli longobarda databile tra seconda metà VI – metà VII secolo d.C.,
importante documento storico che ci documenta la
presenza longobarda in Emilia nella prima fase dell’invasione5.
Decori, colori e filati di Roma antica
NOTE
1
V. H. Di Giuseppe, Archeologia del tessuto, in R. Francovich, D. Manacorda, Dizionario di archeologia. Temi, concetti e metodi, Roma-Bari 2004, pp.
339-340.
2 V.L. Castelletti, A. Maspero, S. Motella, M. Rottoli, Analisi tecnologiche del
tessuti, in “Fortuna maris”. La nave romana di Comacchio, cat. mostra, a cura
di F. Berti, Bologna 1990, pp. 157-162.
3
Lo scavo inedito è stato diretto da Enzo Lippolis e condotto da Silvia
Pellegrini.
4
V. Modena dalle origini all’anno Mille. Studi di archeologia e storia, cat. Mostra, Modena 1988, II, pp. 377-381.
5 Lo scavo inedito è stato diretto da Nicoletta Giordani e condotto da Sil-
via Marchi.
49
Sulla via della seta.
Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
MARTA CUOGHI COSTANTINI
Tessuti di seta nel Medioevo
n generale possiamo affermare che la vita nell’età medievale fu caratterizzata da modelli improntati alla
semplicità, che la quotidianità non comportava molte
esigenze e nell’ambito dei nuclei familiari c’era scarsa disponibilità di beni, tutti di prima necessità. Ovviamente
occorre operare le opportune distinzioni all’interno della piramide sociale tenendo conto che ai gradi più alti era
d’obbligo assumere comportamenti distintivi ed in contrasto con la diffusa condizione di povertà in cui viveva la
maggioranza della popolazione ci fu da parte di pochi,
pochissimi, un’ostentazione di generi suntuari davvero
straordinaria. Merci rare e costose che comportavano
complessi e articolati procedimenti di lavorazione, spesso gelosamente custoditi come segreti, i tessuti di seta
esercitarono un potere d’attrazione eccezionale su re, imperatori, dignitari, cortigiani e su quanti dovevano emulare il comportamento del signore. Nelle dinamiche del
lusso e della sua rappresentazione la seta nel medioevo
svolse un ruolo primario paragonabile a quello dell’oro,
dell’argento e delle pietre preziose1.
Le conoscenze necessarie per la produzione e la lavorazione del prodigioso filato le cui origini antichissime, anteriori al Mille a.C., si situano nella lontana Cina, impiegarono molti secoli per raggiungere i paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo. Non è chiaro se furono
dei monaci nestoriani di ritorno da un viaggio in India
oppure un persiano che proveniva dalla Cina a portare a
Bisanzio all’epoca dell’imperatore Giustiniano (527-565)
i bachi da seta2. Certo è che l’arte della tessitura venne
praticata con esiti di altissimo livello nel mondo bizantino dove raggiunse dimensioni sino ad allora sconosciute,
strutturata in una complessa e articolata organizzazione
I
produttiva comprendente varie corporazioni di mestiere. Impiegati nell’abbigliamento, nell’addobbo e nell’arredo dei palazzi, funzionali ai complessi cerimoniali che
disciplinavano la vita della corte e le apparizioni in pubblico dei sovrani, i tessuti di seta non furono una semplice ostentazione di ricchezza ma divennero espressioni di
precise gerarchie sociali, veicolo di contenuti politici e
religiosi, espressione dell’ideologia su cui si fondava il
potere dell’imperatore3.
Anche nell’Islam la seta e i tessuti di seta rappresentarono fin dall’epoca dei primi califfi un importantissimo
prodotto di scambio, utilizzato per la confezione di vesti
lussuose, come dono ad ambasciatori o regnanti stranieri, premio a cortigiani particolarmente meritevoli o ricompensa di imprese militari. La rapidissima espansione
di questa civiltà fra VII e VIII secolo su di un territorio vastissimo che raggiungeva la Spagna in Europa e i confini
della Cina in Asia, mise in contatto terre e popoli di antica tradizione tessile rappresentando un fattore unificante nel processo di diffusione dell’arte della seta, delle sue
tecniche e del suo peculiare repertorio iconografico4.
Nell’Occidente europeo la diffusione dei tessuti di seta,
inizialmente conosciuti grazie agli omaggi inviati da sovrani bizantini ed arabi, si accompagnò al processo di
crescita economica che ne interessò i paesi all’indomani
delle grandi migrazioni barbariche, fra IX e XII secolo. Posta al centro del Mediterraneo, e quindi in posizione strategica fra est e ovest, prima ancora di sviluppare localmente il complesso insieme di conoscenze necessario alla lavorazione della seta, l’Italia contribuì alla diffusione
dei ricercati prodotti orientali attraverso le intense e proficue attività commerciali svolte da Venezia, Genova,
Amalfi, Gaeta, Napoli, Bari che pur con scalature crono-
MARTA CUOGHI COSTANTINI
logiche e rotte geografiche differenti importavano quantità ingenti di drappi immettendoli sugli importanti
mercati di Ferrara e Pavia da dove poi le merci raggiungevano la Francia e la Germania5. Né i commerci si interruppero quando fra XII e XIII secolo si sviluppò l’industria locale a Lucca e Venezia. Ancora nel tardo Trecento si
importavano “panni tartarici” documentati in numerosi
dipinti ma anche in alcuni importanti corredi tombali
come ad esempio quello di Can Grande I della Scala o
quelli dei reali di Spagna a Burgos6.
L’impiego di manufatti serici importanti e costosi infatti non riguardava solo la vita dei personaggi d’alto rango
ma anche la loro morte: era consuetudine nelle pratiche
funebri vestire pontefici, vescovi, re e dignitari con suntuosi abiti di rappresentanza, foderarne il sarcofago e coprirne il corpo con preziosi drappi di seta che nei casi più
fortunati la ricognizione delle tombe ci ha restituito offrendosi come occasione importante per la conoscenza e
lo studio dei tessili.
I ricchi prodotti dell’arte della seta trovarono largo e diversificato impiego anche nello spazio sacro della chiesa
dove l’ostentazione del lusso era giustificata dalla necessità di glorificare e magnificare il Signore. Le caratteristiche intrinseche di queste stoffe, la loro brillante e intensa cromia, la possibilità di decorarne la superficie con ricami di perle, pietre preziose, filati d’oro e d’argento, le
rendeva particolarmente adatte ad ornare gli edifici di
culto sotto forma di dossali d’altare, teli da parato, tendaggi con esiti di luminosità e suggestione paragonabili
a quelli di smalti e vetrate7. Per esprimere in modo efficace la distinzione tra il laico e il sacerdote, anche le vesti liturgiche fecero ampio ricorso alla nobile seta. Dalmatiche, casule, mitre, spesso donate da re, pontefici o altri
importanti personaggi arricchivano i tesori di chiese e
cattedrali come attestano i numerosi inventari conservati, oggi fonti di informazioni importantissime per noi.
Ma è soprattutto grazie al fenomeno della venerazione
delle reliquie che ci sono pervenuti la maggior parte dei
tessuti medievali a noi noti. Per il suo intrinseco valore la
seta fu di regola utilizzata per avvolgere, proteggere e magnificare le reliquie. La sacralità dell’oggetto custodito si
trasmetteva all’involucro trasformando la seta in reliquia secondaria, a sua volta venerata e attentamente conservata. Il fenomeno, peculiare dell’età medievale, ebbe
dimensioni geografiche vastissime e disegnò una fitta
trama di percorsi lungo i quali si muovevano gli uomini
ma anche le merci e i manufatti d’arte legati al culto. Fra
gli esempi più noti in Italia si ricordano i frammenti tessili provenienti dalla cappella vaticana dei Sancta Sanc-
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torum ma sono numerosi i reperti provenienti dai reliquiari di tutta Europa8.
Il tema dei tessuti medievali spazia dunque in un ambito
storico e geografico molto vasto che va grosso modo dal V
secolo al XV e che spazia dall’Est asiatico all’Europa registrando l’avvicendarsi di civiltà e culture molto diverse: dal
declino del mondo romano all’affermazione del dominio
bizantino, dall’espansione dell’Islam nei paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo alla ripresa dei centri urbani italiani dopo le grandi migrazioni barbariche sino allo
sviluppo degli stati nazionali europei. Di contro va rilevata
la frammentarietà delle testimonianze pervenute e conseguentemente le difficoltà incontrate dagli studiosi nell’interpretare tecniche e motivi decorativi, nel ricostruire cronologie e formulare ipotesi attributive anche se negli ultimi decenni si sono intensificate le indagini storiche. Nello
studio di questo lungo periodo, al di là di affermazioni di carattere generale, permangono ancora molti quesiti irrisolti
sia in relazione alle peculiarità di lavorazione sviluppate
nei diversi centri manifatturieri, sia sui tempi e sui canali di
trasmissione delle tecniche e dei modelli iconografici, sia
sulla precisa cronologia dei materiali pervenuti.
Scopo di queste pagine non è tracciare un profilo storico
della tessitura in epoca medioevale quanto più semplicemente presentare i reperti che si conservano nel territorio dell’Emilia-Romagna. Si tratta ora di grandi teli, ora di
piccoli frammenti, alcuni dei quali legati al territorio e alla sua storia, al culto dei santi e delle reliquie, altri privi di
riferimenti documentari circa la loro provenienza: in
ogni caso essi costituiscono presenze sporadiche ed eccezionali, pezzi unici che non trovano facili raffronti. Ma
poiché le testimonianze materiali pervenute sino a noi
sono estremamente esigue rispetto alla molteplicità e alla ricchezza del panorama merceologico che doveva circolare anche sul nostro territorio in epoca medievale, ciascuno di essi, per quanto incompleto e frammentario,
rappresenta una tessera preziosa ed insostituibile per la
ricostruzione di un quadro generale di riferimento.
Il corredo funebre di San Giuliano
A conferma di una storia che ha consacrato la città come
importante capitale, unico centro urbano sfuggito al generale declino della penisola italiana a seguito della disgregazione dell’Impero Romano, è a Ravenna, e precisamente al Museo Nazionale, che si conserva uno dei nuclei
più cospicui di tessuti medievali di tutta l’Emilia Romagna. Nell’ambito di questa collezione, hanno particolare
rilievo i materiali provenienti dalla tomba di San Giuliano, dall’omonima chiesa di Rimini. Allorché, nel 1910 si
Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
procedette alla ricognizione dell’urna marmorea che per
secoli aveva custodito le spoglie del santo, insieme a monete e diversi altri oggetti, furono rinvenute tele di lino di
varia grandezza, lacerti di grossolana tela di lana, due
grandi drappi di seta ed altri frammenti anch’essi in seta:
un complesso di grande interesse storico e documentario, frutto di un processo di sedimentazione protrattosi
per secoli all’interno del quale si possono distinguere
grosso modo due gruppi di materiali riconducibili rispettivamente alla tarda antichità, fra IV e VI secolo, e al
periodo compreso fra X e XIII secolo9.
Fra i documenti più antichi e affascinanti figurano due
raffinate stoffe di seta eseguite con la tecnica del taqueté
operato, un intreccio complesso basato sull’armatura tela o taffetas ottenuto mediante l’utilizzo di due orditi e di
un numero variabile di trame documentato soprattutto
in reperti di lana tardo antichi e altomedievali. Benché
composto da lacerti di piccole dimensioni, nel disegno
del primo tessuto si riconosce una scena di caccia
(Fig. 21): tracciati in avorio su fondo verde, piccoli putti
nudi accompagnati da un cane ed incorniciati da volute
vegetali, si alternano a cavalli, leoni, cervidi. Il motivo,
che nonostante le piccole dimensioni, è descritto con
estrema precisione e accentuato gusto naturalistico richiama quello di altri noti reperti, in particolare i frammenti della cattedrale di Sion, quello del Royal Museum
of Scotlad di Edimburgo, quello della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, già considerati da vari studiosi che hanno avanzato ipotesi discordanti circa la loro provenienza
riconducendoli ora a Bisanzio, ora alla Siria, ora all’Egitto
e circoscrivendone la datazione fra IV e VI secolo10.
Ad uno dei frammenti del tessuto dei putti è cucita la seconda stoffa, anch’essa composta da diversi frammenti,
decorata da un minuto motivo a piccoli ottagoni di colore bruno (in origine porpora) su fondo avorio e da un naturalistico tralcio di foglie di quercia che si snoda lungo
il bordo del frammento maggiore (Fig. 22). Il disegno geometrico trova un preciso riscontro nei mosaici della basilica ravennate di San Vitale, testimonianza eccezionale
sull’abbigliamento e il costume della corte bizantina la
cui caratteristica principale fu la ricchissima ornamentazione11. Accanto alle sete porpora, riservate all’impertore
e agli alti dignitari, alle stoffe decorate da uccelli ed altri
animali disposti in ordinate teorie o racchiusi entro orbicoli, vi è raffigurato un tessuto a minuti disegni geometrici assai simili al nostro, perfettamente riconoscibile sia nella clamide indossata da San Vitale, sia nel corto
mantello che copre la tunica porpora di Antonina, moglie di Belisario, la prima delle dame a sinistra dell’impe-
ratrice Teodora (Fig. 23). Benché i tessuti riprodotti dai
mosaicisti abbiano disegni di dimensioni maggiori e di
maggior evidenza rispetto a quelli dei reperti tombali, il
modello di riferimento fu certamente il medesimo e dunque la datazione di questi ultimi può approssimarsi al VI
secolo, epoca appunto cui risalgono i mosaici ravennati12. Tuttavia di recente le stoffe sono state studiate da Annemarie Stauffer che ne ha esaminato con attenzione i filati e la tecnica di tessitura ricomponendo inoltre il probabile andamento del motivo della caccia. Secondo la sua
ipotesi di ricostruzione i frammenti costituiscono i resti
di una tunica tardo antica, databile al V secolo13 e dunque
facente parte del corredo funebre più antico di San Giuliano. Per quanto le notizie siano scarse e confuse il santo
venerato a Rimini con questo nome è infatti identificabile con un giovane istriano morto agli inizi del IV secolo.
La leggenda vuole che la cassa lignea in cui originariamente fu sepolto fosse poi sospinta da un maremoto sin
sulla spiaggia di Rimini dove fu rinvenuta nel X secolo e
verosimilmente aperta dal vescovo Giovanni di cui si
hanno notizie appunto verso il 967-96814.
Proprio in questa occasione potrebbe essere stato introdotto il reperto più noto di tutto corredo funebre: il
“drappo di tessuto in seta di color celeste antico con fondo marrone simboleggiato in sei leoni” che sosteneva il
capo del santo, ripiegato più volte a formare una sorta di
cuscino, documento di interesse eccezionale sia per il discreto stato conservativo che per le notevoli dimensioni
(Figg. 24-25)15.
Organizzato secondo uno schema ricorrente nella tessitura medievale, il disegno di questo tessuto si articola in
grandi ruote tangenti che racchiudono al loro interno
leoni itineranti rivolti alternativamente a destra e a sinistra. Colti di profilo, tranne il capo rivolto verso l’osservatore, gli animali incedono con passo maestoso esibendo possenti muscoli e criniere finemente tratteggiate
mentre sotto il loro ventre si colloca una piccola pianta
trifogliata, ricordo dell’albero della vita. Il sistema delle
ruote presenta un’ornamentazione complessa. Ordinate
in file parallele e strette le une alle altre da dischi contenenti rosette stilizzate, sono decorate da file di grosse
perle all’interno e da una doppia cornice di perle più piccole lungo i bordi. Negli interspazi si dispongono stelle a
otto punte. Un motivo perlinato definisce anche il margine superiore del tessuto che coincide verosimilmente
con la fine della pezza.
Lavorata in un solo telo con la tecnica dello sciamito operato, la stoffa impiega filati di grande pregio e una ricercata cromia: seta color bruno – porpora in origine – per gli
53
MARTA CUOGHI COSTANTINI
Fig. 1 – Ricostruzione grafica
del disegno del telo con grifi
entro orbicoli proveniente
dalla tomba di San Giuliano
(vedi Fig. 26).
orditi, seta porpora, giallo ocra e verde acqua per le trame
che definiscono l’elaborato disegno. Ovvie ragioni di simmetria inducono a pensare che le tre ruote che si allineano orizzontalmente su di essa fossero completate da un
quarto elemento e che agli attuali centoquaranta centimetri di larghezza se ne aggiungessero almeno altri cinquanta. Secondo questa ipotesi la ‘pezza’ in origine raggiungeva e forse superava i due metri di larghezza, dimensioni comuni ad altri i importanti manufatti di epoca medievale anteriori al Mille16. Il telo a leoni è stato oggetto di ripetute segnalazioni da parte della critica, grosso modo concorde nell’assegnarne la lavorazione ad un
opificio bizantino17. A quest’ambito culturale sono riferibili sia la preziosa tecnica di esecuzione dello sciamito, sia
la ricercata ed efficace iconografia dei leoni la cui originalità deriva dalla rara qualità del disegno, qui associata ad
insoliti accostamenti cromatici18. Quanto al motivo delle
ruote, permane molto evidente, nell’insistente presenza
di perle grandi e piccole, il riferimento ai modelli della
tradizione sassanide, da cui i tessitori bizantini mutuarono il loro repertorio. La grandiosità e la potenza della formula decorativa del telo di San Giuliano, oggi apprezzabile solo parzialmente per il sensibile degrado cromatico,
non trova facili riscontri nella documentazione tessile
pervenuta. Le possenti immagini dei leoni andanti hanno
l’incedere maestoso e i tratti fortemente umanizzati riscontrabili anche nelle figure solitarie dello sciamito a
fondo porpora di S. Eriberto, dono imperiale recante i nomi di Basilio II e Costantino e pertanto databile fra 976 e
1025; di rilevante interesse è poi il raffronto con l’eccezionale telo proveniente dal sepolcro di Carlo Magno, dove
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pare sia stato posato da Ottone III verso il 1000 in occasione di una sua visita ad Aquisgrana19. Benché la decorazione in questo caso sia molto più elaborata e le figure racchiuse nelle grandi ruote siano elefanti, vi si riscontra un
analogo fondo porpora e una doppia fila di perline lungo
il bordo inferiore, inizio della pezza, del tutto simile a
quelle che nel telo di San Giuliano segnano la fine della
pezza. Tenendo conto anche delle scarse ma importanti
indicazioni che emergono dall’agiografia di San Giuliano,
della data di arrivo della cassa lignea che ne conteneva i resti e della successiva traslazione delle reliquie, si può ragionevolmente presumere che la tessitura del telo coi leoni sia avvenuta in un opificio bizantino fra X e XI secolo.
Il verbale riguardante la ricognizione del 1910 precisa
che i resti del santo erano coperti da un “manto di seta di
color rosa pallido con bordura gialla bleu”20 identificabile con un grande telo di oltre due metri di lunghezza, pervenuto in condizioni decisamente buone, ancora provvisto di entrambe le cimosse e dell’inizio della pezza
(Fig. 26). Eseguito anch’esso con la tecnica dello sciamito
operato, il tessuto impiega sottilissimi fili di seta marrone per gli orditi e seta più consistente per le trame che si
alternano su fondo e disegno: una gialla variante nel colore avorio e azzurro, l’altra rosa pallido.
Il disegno ripropone in scala ridotta elementi peculiari
della tessitura bizantina: teorie parallele e tangenti di orbicoli che racchiudono figure di uccelli-grifone disposti
singolarmente all’interno delle ruote ed affrontati a coppie. Decorati da minuti tralci sinuosi e profilati ai margini da una sottile perlinatura, gli orbicoli sono stretti gli
uni agli altri da piccoli medaglioni circolari contenenti
Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
un motivo geometrico mentre analoghi dischi con stelle
a otto punte campiscono gli interspazi. Complessivamente questo grande telo rappresenta una semplificazione della formula osservata nel reperto coi leoni: l’intreccio, piuttosto discontinuo e irregolare, non ha la
compattezza e la finezza d’esecuzione del primo, il motivo delle ruote, ripetuto in scala ridotta numerose volte
sulla larghezza della pezza, ha perso ogni carattere di monumentalità, mentre le figure collocate al loro interno,
fortemente stilizzate, semplificate ed ormai prive di ogni
valenza simbolica, appaiono come semplici sigle decorative. Accentua queste caratteristiche il gioco cromatico a
righe orizzontali che si sovrappone senza interromperlo
al motivo figurato e che al prevalente colore giallo alterna l’avorio, il rosa pallido e il blu. Assegnato in passato all’ambito bizantino con indicazioni cronologiche a mio
giudizio troppo anticipate, in realtà il telo si apparenta
più strettamente con la produzione peninsulare italiana
del Duecento ed in particolare con manufatti riconducibili a Venezia come il grande telo rinvenuto all’interno
dell’urna di San Secondo ubicata proprio nel capoluogo
veneto, nella chiesa dei Gesuati o i due teli conservati nel
nostro territorio, a Bologna e Forlì, di cui tratteremo in
modo diffuso nelle pagine seguenti21. Questa ipotesi è
per altro confortata da alcuni dati storici riguardanti l’urna di San Giuliano, che venne verosimilmente riaperta
fra il 1229 e il 1234, cronologia perfettamente compatibile con le caratteristiche tecniche e formali del grande
telo giallo che potrebbe essere stato posizionato come copertura dei sacri resti proprio in quell’occasione22.
Un prezioso tessuto siciliano
L’altissima tradizione artistico-artigianale peculiare della tessitura sassanide e bizantina, giunse in Europa per
tramite islamico. Dopo aver conquistato nel corso del VII
secolo i territori della Siria, della Palestina, dell’Egitto,
dell’Iran, gli arabi perseguirono una politica espansionistica che garantì loro il controllo di tutto il bacino Mediterraneo, compresa la Spagna e la Sicilia. Ispirata dalla volontà di unificare terre e popoli, la conquista islamica mise in contatto civiltà di antica tradizione tessile favorendo in questo modo più di ogni altro fattore lo sviluppo
della tessitura. La Sicilia, insieme alla Spagna, ha rappresentato un anello importantissimo nel processo di diffusione in Europa del gusto per le ricche stoffe istoriate23.
Benché numerose fonti letterarie parlino della produzione di suntuosi drappi di seta in Sicilia già nel corso del X
secolo, fu solo dopo la conquista normanna dell’isola, avvenuta nel 1091, che l’antico tiraz musulmano di Palermo
conobbe un pieno sviluppo. Il termine, di origine persiana, si riferisce ad una istituzione tipica del mondo arabo,
ovvero al laboratorio che lavorava per il sovrano e la sua
corte e deteneva il monopolio dei tessuti di lusso. Letteralmente significava ricamo, ma per espansione di significato indicava anche i bordi decorati da iscrizioni ricamate e successivamente l’opificio dove venivano eseguiti. Insieme agli arsenali e alle fabbriche di carta queste
erano le uniche manifatture reali controllate dal sovrano. Ciò è comprensibile non solo per gli elevati capitali
che la produzione di stoffe di seta comportava, ma anche
perché le scritte eseguite sulle vesti dei sultani erano una
sorta di propaganda politica per la dinastia al potere. Se
prima dell’islamismo i re sassanidi inserivano nelle stoffe i loro ritratti o i simboli figurati della loro potenza sotto forma di animali simbolici, i principi musulmani sostituirono queste figure con i loro nomi accompagnandoli con frasi augurali di buon auspicio24.
Dall’opificio reale di Palermo, che in epoca normanna si
arricchì di maestranze greche fatte prigioniere, uscirono i
più insigni capolavori dell’arte tessile medievale: i parati
che per secoli servirono all’incoronazione degli imperatori del Sacro Romano Impero, ora conservati nella Camera del Tesoro a Vienna. Primeggia fra questi il grande mantello decorato da un preziosissimo ricamo in oro, perle,
smalti e sete colorate raffigurante due leoni che abbattono un cammello affrontati a lato dell’albero della vita, attestazione pressoché unica nella storia dell’arte tessile e
doppiamente importante per l’iscrizione in caratteri cufici che ne profila il bordo documentandone l’esecuzione a
Palermo nel 1133 dell’era cristiana, sotto Ruggero II re
normanno di Sicilia25. A questo stesso ambito di origine si
può ricondurre un piccolo quanto prezioso frammento
conservato nel Museo Civico di Modena, ma proveniente
dalla locale chiesa di San Pietro, già importante abbazia
benedettina, dove fu rinvenuto nel 1902 dal parroco don
Ernesto Antonioli, frammisto alle reliquie dei Santi Abdon, Gaudenzio, Rodolfo e Cesario, allorché procedette al
trasferimento dei sacri resti nell’altar maggiore (Fig. 27)26.
Il tessuto, eseguito con tecnica ad arazzo, impiega materiali raffinati: seta rossa e finissimo oro membranaceo rispettivamente per l’ordito e la trama di fondo, sete colorate – bianca, nera, celeste – per le trame che delineano il
disegno e ne profilano i contorni. La decorazione, purtroppo incompleta stante le piccole dimensioni del frammento, si articola in una sorta di reticolo a maglie romboidali all’interno delle quali si dispongono coppie affrontate di piccole lepri e testine di rapaci sormontate da
medaglioni a forma di pigna contenenti ora motivi geo-
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MARTA CUOGHI COSTANTINI
metrici ora busti umani. Il disegno è descritto in tinte
chiare e luminose con profilature nere che si stagliano
con precisione sul brillante fondo rosso-oro.
La lunga vicenda critica relativa al prezioso reperto ha
inizio nel 1902 quando il conte Luigi Alberto Gandini lo
acquistò per il Museo di Modena designando la felice acquisizione come opera bizantina del X secolo27. Ma gli
studiosi che se ne sono occupati successivamente, hanno
da subito avvicinato il tessuto di Modena, oltre che ad altri analoghi reperti conservati in Europa, ai più antichi
frammenti della fodera del manto di Ruggero II sottolineando le affinità fra i manufatti: la tecnica esecutiva ad
arazzo, l’andamento complessivo del disegno secondo
una griglia a losanghe il cui contorno è sottolineato da
una sorta di nastri, l’impiego di nette righe orizzontali in
seta rossa a delimitarne lo sviluppo in alto e in basso, la
presenza di piccoli animali e di figure umane disposti
con apparente ordine libero sul brillante fondo rossooro. In occasione della recente mostra viennese dedicata
al complesso delle vesti imperiali è stato riesaminato anche il gruppo di questi tessuti, ed in particolare il frammento di Modena ricondotto ad un laboratorio siciliano,
verosimilmente palermitano, e datato tra la fine dell’XI e
gli inizi del XII secolo28. Certamente questi tessuti non
hanno la grandiosità e la perfezione della decorazione
esterna del manto di Ruggero II ma come osserva Donata
Devoti ne condividono a pieno la cultura figurativa che
“risulta essere una sintesi di soluzioni bizantine e copte,
operata da maestranze arabe non a caso in Sicilia, al centro del Mediterraneo”29.
Non sappiamo con precisione quando e attraverso quali
vie il prezioso tessuto sia giunto nella chiesa modenese,
verosimilmente non molto tempo dopo la fondazione
nel X secolo dell’abbazia benedettina di San Pietro che
nel corso dei secoli successivi attraversò periodi di particolare prosperità30.
Venezia e il problema delle “mezze sete”
Insieme alla tecnica dello sciamito, il motivo degli animali racchiusi entro ruote, singoli, in posizione frontale
o di profilo, a coppie affrontate o poste di dorso, rappresentarono una formula di eccezionale durata. Dopo aver
dato visibilità all’immagine pubblica dei re sassanidi e a
quella degli imperatori bizantini, aquile, leoni, grifi ed altri animali simbolici, semplificati nelle forme e ridotti
nelle dimensioni, caratterizzarono anche gli esordi della
tessitura peninsulare italiana. Due rari e preziosi manufatti conservati nella nostra regione offrono una testimonianza eccezionale a questo riguardo: si tratta del telo
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che proteggeva le reliquie di San Procolo, estratto dall’arca marmorea che le conteneva in occasione della ricognizione effettuata nel 1943 ed ancora oggi conservato nell’omonima chiesa bolognese (Figg. 28-29) e del telo proveniente dal corredo funebre del beato Giacomo Salomoni, attualmente conservato nel Duomo di Forlì ma proveniente dalla locale chiesa di San Domenico (Figg. 30-32)31.
I due tessuti, già messi a confronto in occasione della recente mostra bolognese dedicata alla cultura del Duecento32, presentano un impaginato a ruote tangenti ordinate in file parallele raffrontabile a quello riscontrato sul
telo giallo del corredo di San Giuliano. Delimitate da un
doppio contorno e separate negli interspazi da motivi stilizzati a rosetta, i cerchi racchiudono coppie affrontate di
animali, rispettivamente grifi e draghi rampanti, cui si
sovrappone una decorazione a righe orizzontali che pur
arricchendo l’esito complessivo della decorazione disturba la leggibilità dei singoli elementi. Comune ai teli
di Bologna e Forlì è anche la tecnica esecutiva dello sciamito operato e l’utilizzo congiunto di raffinati fili di seta
per trame e ordito di legatura e grossolani fili di lino per
ordito di fondo, peculiarità che li accomuna entrambi ad
un nutrito gruppo di tessuti sparsi per i musei e le chiese
di tutta Europa, definiti per l’appunto “mezze sete”.
La storiografia riguardante questa tipologia, pur concordando nel circoscriverne grosso modo la datazione al
Duecento, ha ipotizzato dapprima un centro di produzione a Regensburg in Germania, quindi in Spagna a Burgos, infine a Venezia basando tali ipotesi sulla presenza in
loco di simili manufatti33. Per la verità sotto l’etichetta di
“mezze sete” si raggruppa un nutrito gruppo di tessuti
stilisticamente assai diversi, sparsi per i musei e le chiese
di tutta Europa. Mentre in alcuni domina l’impianto geometrico della composizione a orbicoli, in altri acquistano evidenza le figure araldiche di grifi, aquile e leoni che
vi si dispongono, in altri ancora le elaborate decorazioni
a foglie e racemi delle cornici circolari e degli interspazi;
altre varianti riguardano i colori, di regola due a toni contrastanti, le dimensioni delle ruote che vanno dai dieci ai
trenta centimetri circa, il grado di raffinatezza dell’esecuzione34. L’eterogeneità della documentazione pervenuta induce piuttosto a pensare che la presenza di un ordito di lino non debba considerarsi come elemento indicativo del luogo di provenienza e che nel corso del XIII secolo la tessitura di “mezze sete” abbia avuto non solo una
progressiva evoluzione stilistica ma sia stata praticata
nei centri tessili più attivi del Mediterraneo, in area bizantina, in Spagna, in Italia.
Il telo conservato a Forlì avvalora ulteriormente l’ipotesi
Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
che essa fosse conosciuta e praticata con successo anche
a Venezia. Esso infatti fu rinvenuto nell’urna marmorea
che fino al 1879 custodì le spoglie del beato Giacomo Salomoni, un celebre padre domenicano morto a Forlì nel
1314 ma veneziano di nascita; per di più esso reca in corrispondenza dell’angolo sinistro un raro sigillo di piombo contrassegnato su una faccia da una sigla di tre lettere, C I E, con testa di animale e sull’altra dalla chiara immagine del leone alato di San Marco (Fig. 31). Sono rari i
sigilli di questo genere pervenuti sino a noi – alcuni esemplari raffrontabili a quelli di Forlì sono stati rinvenuti in
Spagna, altri relativi alla locale industria laniera sono
conservati a Padova – e scarse sono anche le notizie sull’uso di contrassegnare le pezze o le balle di merci con
marchi di dogana o di qualità35. Indicandone in modo
pressoché inequivocabile la provenienza, il marchio con
il leone di San Marco conferisce un valore del tutto particolare al telo forlivese quale concreta attestazione della
produzione tessile veneziana del Duecento. Trovano in
esso riscontro non solo le numerose citazioni di tessuti
veneziani rintracciabili in inventari due-trecenteschi ma
anche i “laboreri de ace” ovvero di lino o canapa, ricordati nel Capitulare Samitariorum, ovvero negli statuti dei tessitori di seta veneziani del 1265, una riforma di norme
precedenti, la cui larghezza (due braccia) corrisponde
grosso modo a quella del telo forlivese36. Particolarmente calzante è poi il confronto con il telo giallo conservato
a Ravenna, facente parte del corredo funebre di San Giuliano, che pur essendo eseguito in pura seta condivide
con essi la tipologia dell’intreccio, la qualità un po’ affrettata della tessitura, le dimensioni e i soggetti del disegno, e soprattutto il particolarissimo motivo delle righe
trasversali, elemento assai caratterizzante del prodotto.
Non è da escludere che anche questo drappo, appartenga
alla produzione veneziana del XIII secolo comprensiva
già allora di una svariata gamma di tipologie fra cui “purpure, mecanelli, catasamiti, sarantasimi” ecc.37.
Databili tra la fine del Duecento e i primissimi anni del
secolo successivo, i teli di Bologna e Forlì appaiono come
gli esiti tardi di un lungo processo di sviluppo che poco
hanno conservato dei primitivi modelli di riferimento
costituiti dai monumentali sciamiti di pura seta con ruote e animali elaborati in area bizantina. La semplificazione tecnica e stilistica che si riscontra su questi tessuti, pur
abbassandone la qualità artistico-artigianale, non costituisce necessariamente un valore negativo quanto piuttosto il frutto di una strategia commerciale finalizzata a
catturare fasce di consumo più ampie, la risposta alla crescente richiesta di tessuti di seta che si registra nella so-
cietà di quel periodo, fermo restando che la clientela interessata ai prodotti di lusso fu sempre ristrettissima38.
La tessitura nell’Italia comunale: Lucca
Fra l’XI e il XIII secolo un processo di espansione demografica e commerciale senza precedenti aveva dato impulso alla crescita delle città italiane che divennero importanti centri di produzione e di scambio, fulcro della
vita economica e sociale. Nella realtà profondamente rinnovata delle grandi capitali commerciali, Genova, Pisa,
Lucca, Firenze, Milano, Venezia, le attività tessili rappresentarono uno dei settori più qualificati dell’artigianato
artistico.
Il centro più importante della tessitura medievale italiana fu Lucca dove già alla fine del Duecento la lavorazione
della seta aveva raggiunto elevati gradi di specializzazione e si configurava come un’organizzazione complessa,
articolata in numerose attività collaterali che facevano
capo a corporazioni di mestiere e che andavano dall’importazione della materia prima, alla filatura, dalla tintoria al trattamento dei filati d’oro, dalla progettazione dei
motivi decorativi alla vendita dei prodotti attraverso una
vasta rete commerciale che aveva basi a Parigi, a Bruges, a
Londra39.
La fama di Lucca è legata alla comparsa di una tipologia
nuova, il “diaspro”, ripetutamente citata negli inventari
coevi, sovente in modo puntuale, tale da consentire di individuarne degli esempi fra la documentazione tessile
pervenuta: nel piviale rosa antico e oro del Museo di Palazzo Venezia a Roma, o nella casula avorio e oro del Museo dell’Opera del Duomo a Siena che con le loro ampie
dimensioni ne documentano chiaramente lo schema decorativo esibendo serrate teorie di coppie di pappagalli
affrontati davanti a palmette che si alternano ad analoghe teorie di gazzelle. Il disegno è descritto tono su tono,
ovvero con lo stesso colore del fondo, ad eccezione degli
zoccoli e delle teste degli animali e di alcuni elementi vegetali trattati in oro. Questi esiti furono possibili grazie
alla sperimentazione di una nuova tecnica tessile, il lampasso, che consentiva di realizzare disegni dello stesso colore del fondo accostando armature, ovvero intrecci diversi. In Emilia Romagna la tipologia ricorre nel rivestimento esterno di in un’importante mitra conservata nel
Museo Diocesano di Reggio Emilia ma proveniente dall’antica abbazia di Marola (Figg. 33-34). Completamente
ignorata dagli studi specialistici dedicati ai tessuti antichi, la mitra ha goduto di scarsa considerazione anche
presso gli storici che si sono occupati dell’antica abbazia
benedettina alcuni dei quali la ricordano in modo rapido
57
MARTA CUOGHI COSTANTINI
ed approssimativo. L’esame dei fogli manoscritti racchiusi fra il tessuto di seta posto all’esterno e la fodera di
lino che lo riveste internamente, resa possibile dall’intervento di restauro cui recentemente il copricapo è stato
sottoposto, ha evidenziato una scrittura mercantesca collocabile in area veneta tra XV e XVI secolo. A quest’epoca
infatti può verosimilmente risalire la confezione del copricapo nella forma che oggi conosciamo mentre i materiali utilizzati sono di epoca precedente, in particolare il
prezioso tessuto esterno, un lampasso broccato in seta
avorio e oro filato dove si riconoscono elementi decorativi tipici della produzione del XIII secolo tradizionalmente addebitata a Lucca40.
Nel corso del Trecento anche l’Italia fu interessata dalla
crisi generale che investì l’economia europea nel suo insieme con gravi conseguenze per tutti i settori. Alla contrazione dei traffici e del mercato tessile le industrie locali risposero con prodotti di sempre maggior valore,
rinforzarono cioè la tendenza aristocratica della produzione indirizzandola precipuamente ad un’utenza che
non rinunciò mai al privilegio del lusso. Da attività comprimaria all’arte della lana, a partire dalla metà del XIV secolo, l’industria della seta assunse il ruolo di industria pilota dell’economia italiana. In questo contesto ebbe luogo un profondo rinnovamento della produzione che riguardò sia il piano tecnico che quello stilistico. La tradizionale tecnica dello sciamito fu abbandonata a favore
del più moderno lampasso e l’impaginazione a orbicoli
lasciò il posto a moduli più liberi e variati mentre un nuovo bestiario si sostituiva e integrava al precedente: fecero
la loro comparsa i pappagalli, i cani, le gazzelle mentre la
gamma cromatica si arricchì di nuove tonalità ed accostamenti inediti. Con frequenza intervennero scritte prive di significato in caratteri arabi, cufici o naski, trattate
come elemento puramente decorativo. Anche dove persistono gli orbicoli, la decorazione è resa vivace da piccoli animali in movimento come nel bel frammento conservato nel Museo di Modena (Fig. 35), un lampasso lanciato e broccato a fondo azzurro che trova corrispondenza in un grande telo conservato nell’Historisches Museum di Berna, singolare assemblaggio di sottili strisce
riunite nel 1882 per volontà del canonico Bock ma precedentemente montate lungo i bordi di un parato liturgico41. Dominato da preziosi medaglioni circolari ordinati
in sequenze parallele e sfalsate ispirati all’arcaico motivo
delle ruote, il disegno è interpretato con una sensibilità
profondamente rinnovata: minute scritte in caratteri
arabi sono inserite con funzione puramente ornamentale circondate da nastri sapientemente annodati e da mi-
58
nuscoli fiori colorati, mentre coppie di piccoli animali in
movimento – cani, cervi, pantere, uccelli del paradiso –
animano la composizione rincorrendosi all’esterno dei
preziosi cerchi.
Nel processo di reimpostazione del disegno tessile in
chiave naturalistica esemplificato dalla produzione trecentesca è rintracciabile l’influenza della cultura estremorientale, precisamente cinese. Un grande fatto storico
si era verificato nel corso del XIII secolo con il sorgere dell’impero mongolo ad opera di Gengis Kahn e la ripresa
dei contatti con l’Estremo Oriente. In taluni casi il riferimento alla simbologia panteista cinese diventa particolarmente esplicito come in un frammento a fondo avorio
con disegno oro, anch’esso conservato a Modena, nel Museo d’arte (Fig. 36) nel quale compare chiaramente il simbolo “TSCHI”. Si tratta di un reperto di epoca ormai tarda
nel quale il bestiario medievale sopravvive a fianco di
motivi nuovi – fiori di cardo e foglie a palmetta – anticipazioni del radicale rinnovamento che nel corso del
Quattrocento interesserà la decorazione tessile.
Ricami di seta, perle e fili d’oro
Arte duttile e versatile per eccellenza, che si presta a realizzare ogni sorta di disegno o decorazione sul tessuto, o
altro materiale purché morbido e maneggevole, utilizzando a questo scopo non solo fibre tessili ma anche perle, smalti, pietre preziose, l’arte del ricamo conobbe una
fioritura straordinaria nel corso del Medioevo tale da poter affermare che limitatamente al settore tessile, le opere più rappresentative della cultura e del gusto di quel periodo furono senz’altro realizzate col lavoro ad ago. Essa
fu praticata sia in opifici organizzati, di corte o monastici, sia sotto forma di industria borghese o semplicemente casalinga. In ogni caso non si trattò di un lavoro riservato alla donna, anzi la professione del ricamatore fu tenuta in grande considerazione e si svolgeva nell’ambito
di vere e proprie corporazioni di mestiere tanto nei centri di produzione dell’Oriente islamico e bizantino quanto in quelli dell’Occidente europeo. Pur sperimentati in
una ricca casistica, materiali e tecniche di lavorazione, sia
per quanto attiene i tessuti di supporto – in lana, lino o seta – sia per quanto riguarda la tipologia dei punti, non subirono trasformazioni rilevanti. La qualità dei risultati
dipendeva piuttosto dal libero abbinamento che il lavoro ad ago consentiva e dalla capacità dell’artigiano di
adattare materiali e punti di ricamo alle forme che voleva realizzare42.
La molteplicità degli usi cui si prestarono fece si che l’impiego di ricami abbia riguardato tutti i campi della vita
Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
medievale. La loro presenza riguardò lo spazio sacro della chiesa ma anche le abitazioni e l’abbigliamento dei nobili, di coloro che occupavano i ranghi più elevati della
società feudale, e dei ricchi borghesi che ne imitavano usi
e costumi. Le testimonianze che ci sono pervenute, tuttavia, provengono prevalentemente dall’ambito liturgico
come attesta anche il patrimonio conservato in EmiliaRomagna, costituito da pochi ma importantissimi manufatti,veri e propri capolavori, provenienti da aree culturali assai differenti, che nel loro insieme documentano
l’ampia diffusione e il grado di perfezione raggiunto da
quest’arte nel Medioevo.
Il documento più antico, e forse anche il più noto, è il cosiddetto “Velo di Classe” (Fig. 37), un ricamo di epoca altomedievale, nato sembra come ornamento di una tovaglia d’altare, riutilizzato poi per la decorazione di una casula o pianeta conservata nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe da cui successivamente passò al Monastero di
Classe entrando infine a far parte del patrimonio del Museo Nazionale di Ravenna dove tutt’oggi si conserva. Esso
è costituito da tre sottili fasce recanti le raffigurazioni di
busti di santi racchiusi entro clipei di forma leggermente ovale cui si aggiungono l’immagine della “Manus Dei”
a significare l’intervento divino e quella dell’arcangelo
Michele. Come di regola accade nei cicli figurativi dei ricami medievali il cui tema, desunto dalle sacre scritture
o ispirato alla vita dei santi, era accompagnato da iscrizioni che ne sottolineavano il carattere didascalico, sotto
gli orbicoli scorrono i nomi dei personaggi raffigurati all’interno. Messo in rapporto con la storia ecclesiastica veronese già nel XVIII secolo e successivamente identificato con la copertura ricamata che copriva l’altare sovrastante il sepolcro dei santi Fermo e Rustico di Verona descritta in un’antica cronaca cittadina ed eseguita su commissione del vescovo Annone (750-780), il Velo di Classe
si presenta come un lavoro di grande finezza. Eseguito su
una doppia tela di lino avorio, il ricamo impiega fili d’oro
messi in opera a punto posato per ricoprire interamente
il fondo e sete policrome per definire le figure: il colore
rosso e verde si alternano nel contorno degli orbicoli e insieme a tonalità di rosa, azzurro e nocciola sono impiegate per definire gli altri particolari del disegno dove ricorrono prevalentemente il punto spaccato e il punto filza. Ispirato alla miniatura e all’argenteria coeve questo
raro e raffinato lavoro conserva con evidenza l’influenza
della cultura romana. È assai probabile che il ricamo sia
stato eseguito fra VIII e IX secolo da maestranze operanti
nell’Italia settentrionale, forse a Verona stessa che come
osserva Luciana Martini nel periodo della rinascenza ca-
rolingia, divenne uno fra i centri più attivi della rifioritura artistica43.
Grazie anche alla relativa stabilità politica la tradizione
bizantina si protrasse per un lungo periodo di tempo. In
questo ambito la liturgia cristiana si articolò in maniera
leggermente differente rispetto a quanto accadde nel
mondo romano: gli abiti degli officianti acquisirono caratteristiche nuove e si elaborarono accessori sui quali ricchi ricami ripetevano simboli cristologici o storie della vita del Salvatore. Un’importante testimonianza al riguardo è costituita da un paliotto d’altare conservato nel Museo della Collegiata di Castell’Arquato ornato da due preziosi ricami raffiguranti la comunione degli apostoli sotto le specie del pane e del vino (Figg. 38-39). Cristo, affiancato da un angelo con ventaglio liturgico è rappresentato
dietro la sacra mensa nella veste iconografica tipicamente bizantina del celebrante, sotto un ciborio cuspidato sostenuto da quattro colonne. Gli apostoli, sei per ogni riquadro, avanzano in fila verso di lui per ricevere il pane e
il calice del vino. L’altare è coperto da una preziosa tovaglia drappeggiata e fra gli edifici che si ergono sullo sfondo conferendo unitarietà alle scene si leggono due iscrizioni greche, di sette e nove righe, relative all’istituzione
dell’eucarestia, riconducibili a Matteo, XXVI, 26-28. Il ricamo è eseguito su uno sciamito unito di colore rosso a punto diviso o spaccato in seta avorio, verde e nera (volti, mani, piedi, capelli, contorni delle vesti e dei motivi architettonici), a punto steso in oro e argento trafilato a fili doppi
(architetture e drappeggi) e a punto lanciato in seta verde
e azzurra (cornici). Secondo la leggenda, suffragata da fonti storiche piacentine, il prezioso reperto appartenne al
Patriarca di Aquileia Ottobono Rosario dé Feliciani, che alla fine del 1314, per sfuggire alle minacce di Galeazzo Visconti, si era rifugiato a Castell’Arquato dove poco dopo
morì lasciando tutto il corredo della sua cappella alla
chiesa Collegiata di Santa Maria in cui venne eretta la sua
tomba. Apparentabili per qualità artistica ed interesse
storico-documentario ad altri noti manufatti conservati
in Italia, quali il “pallio” di San Lorenzo a Genova o la dalmatica vaticana cosiddetta di Carlomagno, i ricami propongono uno schema assai diffuso nell’arte bizantina documentato in codici miniati già nel VI secolo, ripetuto
successivamente in mosaici ed affreschi, sino a divenire
nel XIV secolo il tema favorito della decorazione monumentale. Non mancano tuttavia tratti originali sia nel concitato affrettarsi degli apostoli verso l’altare, sia nell’attenta differenziazione delle figure, sia nella varietà degli sfondi architettonici che conferiscono un carattere realistico
alla composizione e consentono di approssimarne la data-
59
MARTA CUOGHI COSTANTINI
zione ad una data non troppo lontana da quella della donazione. L’eleganza dello stile e l’accuratezza dell’esecuzione suggeriscono come ambito di provenienza la capitale
od un’area soggetta alla sua influenza44.
A partire dal XIII secolo negli inventari dei tesori ecclesiastici compare con sempre maggiore frequenza l’espressione opus anglicanum riferita a paramenti riccamente decorati di cui indica sia la provenienza geografica, ovvero
inglese, sia la peculiarità della lavorazione caratterizzata
da un raffinatissimo ricamo in seta e filo d’oro. Praticato
non soltanto nei monasteri ma anche in laboratori secolari questo genere di lavoro ebbe la sua massima fioritura
fra la metà del Duecento e la metà del Trecento e fu apprezzato e assai richiesto in tutta Europa come attestano
le numerose citazioni inventariali e la documentazione
pervenuta. Oggetto di munifici doni da parte di pontefici
e sovrani è documentato in Italia dai preziosi parati di
Ascoli Piceno, Anagni, Pienza, Roma, e di Bologna, infine,
dove si conserva un manufatto di livello eccezionale, il
grande piviale proveniente dalla cittadina chiesa di San
Domenico (Fig. 40). Di taglio perfettamente semicircolare,
con diametro di oltre tre metri, la superficie del mantello
è interamente ricoperta da una densa decorazione articolata su due fasce ripartite in nicchie cuspidate contenenti
scene della vita di Cristo e della Vergine tranne una dedicata al martirio dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas
Becket. Il ricamo è eseguito su tela di lino: oro e argento filato, adoperati per la copertura del fondo e pochi particolari del disegno, sono lavorati a punto affondato, le sete,
impiegate in una vasta gamma di tonalità per tratteggiare personaggi e architetture sono messe in opera a punto
diviso o spaccato; nelle larghe zone in cui il ricamo è
scomparso è ancora chiaramente visibile il disegno preparatorio. Non disponiamo a tutt’oggi di prove documentarie per ancorare l’esecuzione del raffinato paramento ad
una data precisa stante il fatto che il primo documento ad
esso riferibile è un inventario dei beni della chiesa del
1390 nel quale è citato “unum pluviale magnum cum figuris contextum de auro et fuit domini benedicti papae”
che tuttavia non chiarisce se si tratti di papa Benedetto XI
(1303-1304) o Benedetto XII (1334-1342). Secondo alcuni
studiosi, l’eccezionale parato si trovava a Bologna già nei
primissimi anni del Trecento, in tempo cioè per orientare
con il suo vasto repertorio di modelli gli sviluppi della pittura gotica locale; per altri l’esecuzione del piviale è da posticipare al secolo successivo, tra 1315 e 133545. Comunque sia, in esso si riconosce l’opera congiunta della forte
personalità dell’artista che fornì i cartoni e degli abilissimi artigiani che seppero tradurre il modello con l’ago e il
60
filo senza tradirne l’alto contenuto drammatico e il pungente realismo.
Nel Medioevo l’arte del ricamo ebbe declinazioni molto
diverse strettamente dipendenti dall’ambito culturale
di maestranze e committenti. Nella Chiesa di Santo Stefano a Bologna si conserva una rara quanto preziosa attestazione del ricamo di perle,un genere che ha origini
antiche, diffuso soprattutto nei paesi del nord Europa
dove si trovano le perle di fiume, ma esemplificato anche nei suntuosi parati da cerimonia di Ruggero II, ed
amato presso la corte angioina di Napoli dai cui laboratori uscirono veri e propri capolavori. Si tratta della mitra che fino a due secoli fa sormontava la testa di una statua-reliquiario – oggi perduta – di un santo di nome Isidoro i cui resti, rinvenuti nel 1141 preso la chiesa bolognese, furono da subito confusi con quelli del più noto
Isidoro di Castiglia (Fig. 41)46. La mitra è ricamata con
perle di fiume, smalti, pietre preziose incastonate in
placchette d’oro e presenta una ricca ornamentazione di
gusto gotico costituita da protomi leonine dalle quali si
dipartono racemi fogliati collocate sui due lati e da draghi e uccelli che si alternano sul circolo e sul titulo, entro
cornici mistilinee. Realizzato a rilievo con finiture in sete policrome, il luminoso ricamo contrasta con il tessuto di fondo, di un brillante colore blu. Il copricapo bolognese è stato messo in relazione con la mitra conservata
nella cattedrale di Amalfi, un vero e proprio capolavoro
dell’oreficeria angioina realizzato in un laboratorio di
Napoli al tempo di Carlo II, tra la fine del XIII e i primi decenni del XIV secolo, per Lodovico, il figlio secondogenito che rinunciò alla corona per indossare il saio francescano divenendo vescovo di Tolosa nel 129647. Il recente
restauro, consentendo di analizzarne le varie componenti, ha messo in evidenza dati interessanti, prima sconosciuti. In particolare ha consentito la lettura delle pergamene utilizzate per dare sostegno al tessuto dove si
legge il testamento di tale “Petrus filius quondam Domini Jhoannis” redatto dal notaio Bombolognus Lamberti
Barracani, conosciuto a Bologna nel 1317, ed una scritta
che si riferisce ad un monastero femminile situato in Romagna redatta nel corso del secondo anno del pontificato di Benedetto XI, ovvero nel 130448. Questi nuovi dati,
pur confermando la datazione della preziosa mitra ai
primi decenni del Trecento, ne rimettono in discussione
l’area di provenienza: a meno che non si debba disgiungere l’esecuzione del ricamo dalla confezione del copricapo e ragionevolmente pensare che questa solamente
sia avvenuta a Bologna o in area romagnola come le scritte delle pergamene suggeriscono.
Sulla via della seta. Testimonianze del Medioevo tra Oriente e Occidente
NOTE
1
Sul tema del lusso nel Medioevo cfr. R. Rinaldi, Medioevo sfarzoso, in
I magnifici apparati, Milano 1998, pp. 40-139. Al tema del lusso si collega
quello non meno rilevante delle leggi suntuarie, ovvero delle norme
che disciplinavano l’uso di articoli di lusso nell’abbigliamento. Su questa vasta materia si richiamano gli studi di M.G. Muzzarelli, il saggio Gli
inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo,
Torino 1996 nonché la raccolta delle norme riguardanti il territorio della nostra regione. La legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia-Romagna, a
cura di M.G. Muzzarelli, Ministro per i Beni e le Attività Culturali - Direzione generale per gli Archivi, pubblicazione degli Archivi di Stato. Fonti XLI, Roma 2002.
2 Su questo argomento cfr. P. Daffinà, La seta nel mondo antico, in La seta e la
sua via, catalogo della mostra a cura di M.T. Lucidi, Roma 1994, pp. 17-24.
3 Cfr. F. dè Maffei, La seta a Bisanzio, in La seta e la sua via, cit. pp. 89.
4 Sul tema delle arti tessili nei paesi islamici rimane ancora un punto di
riferimento lo studio di M.Lombard, Les Textiles dans le Monde Musulman
du VII au XII siècle, Parigi 1978; si veda anche B.M. Alfieri, Seta islamica, in
La seta e la sua via, cit., pp. 113-116.
5 Cfr. D. Jacoby, Silk crosses the Mediterranean, in Le vie del Mediterraneo. Idee,
uomini, oggetti (secoli XI-XVI), a cura di G. Airaldi, Genova1997, pp. 55-79.
6
Il corredo funebre di Cangrande, già oggetto di accurati studi, è stato
riesaminato in occasione della recente mostra al cui catalogo si rimanda anche per la bibliografia precedente Cangrande della Scala. La morte e il
corredo di un principe nel medioevo europeo, a cura di P. Marini, E. Napione,
G.M. Varanini, Venezia 2004; sui tessuti recanti marchi di provenienza
orientale conservati in Spagna cfr. C. Herrero Carettero, Marques d’importation au XIV siècle sur les tissus orientaux de Las Huelgas, in “Bulletin du
CIETA”, n. 81, 2004, pp. 41-47.
7 Cfr. M. Mihàlyi, Medioevo e seta, in La seta e la sua via, cit. pp. 124.
8
M. Martiniani-Reber, Le Role des etoffes dans le culte des reliques au Mouyen
Age, in “Bulletin du CIETA”, n. 70, 1992, pp. 53-58.
9 I materiali tessili sono già sinteticamente elencati nel Processo verbale sco-
perchiatura dell’urna marmorea nella chiesa di S. Giuliano e nel successivo Atto di
cessione delle stoffe preziose bizantine rinvenute il giorno 8 giugno 1910 nella chiesa di S. Giuliano a Rimini, Ravenna aprile 1912, Archivio S.B.A.A. di Ravenna.
10
Sul primo cfr. la scheda di B. Schmedding, Mittelalterliche Textilien in Kirchen und Klöstern der Schweiz, Berna 1978, cat. n. 220; sul frammento di
Edimburgo si veda L. von Wilckens, Die textilen Künste von der Spätantiche bis
um 1500, Monaco 1991, p. 18 e fig. 13; per il tessuto di Sant’Ambrogio oltre a A. De Capitani d’Arzago, Antichi tessuti della basilica ambrosana, Milano
1947 cfr. la schede di M. Martiniani Reber in Milano, una capitale da Ambrogio ai Carolingi, a cura di C. Bertelli, Milano 1987 Tunica S7 A e B, p. 178.
11
G. Gerola, La ricognizione della tomba di S. Giuliano in Rimini, in “Bollettino d’arte”, 1911 e dello stesso autore si veda anche Stoffe trovate nella tomba di S. Giuliano, in “Arte decorativa e industriale”, XX, 1911.
12
La datazione proposta dal Gerola è stata ripresa più di recente da
M.G.Maioli, San Giuliano: i tessuti dell’arca del santo, in Rimini medievale, a
cura di A. Turchini, Rimini 1992, p. 198.
13 A. Stauffer, Two late antique silks from San Giuliano in Rimini, in “Bullettin
du CIETA”, n. 77. 2000, pp. 22-33. Per la verità il tessuto a disegno geometrico trova riscontri calzanti anche in reperti provenienti dagli scavi
di Achmim in Egitto databili all’epoca della conquista musulmana Cfr.:
M. Martiniani-Reber, Soieries sassanides, coptes et byzantines V-XI siècle, Parigi 1986, cat. n. 34.
14 I dati agiografici di San Giuliano sono discussi in Gerola. La premessa
di Turchini in Rimini medievale, cit. riconduce al IX-X secolo la nascita del
culto di S. Giuliano ma non chiarisce la presenza nell’arca di monete del
IV secolo.
15 Processo verbale…, cit.
16 In verità le dimensioni del diametro delle ruote grandi, coincidente
con quelle del modulo decorativo, variano da 43 a 50 centimetri. Questa irregolarità, riscontrabile anche in altri elementi del disegno, come
ad esempio i dischi posti nei punti di tangenza, forse deriva dalle travagliate vicissitudini subite dalla stoffa o forse costituisce una peculiarità
della tessitura. Purtroppo non ci sono pervenute testimonianze dirette
sui metodi di fabbricazione di queste opere tessili la cui grandiosità e finezza presuppongono non solo l’impiego di maestranze abilissime ma
anche l’allestimento di telai molto complessi e una sperimentata organizzazione produttiva.
17 Oltre che nei già citati contributi di G.Gerola e di M.G. Maioli il telo figura nell’elenco delle stoffe del Museo di Ravenna prodotto da Sangiorgi
nel 1923 e pubblicato da L. Martini nel saggio introduttivo al volume di
C.Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma 1993, nel catalogo della mostra L’antico tessuto d’arte italiano nella Mostra del Tessile Nazionale curato da L. Serra, Roma 1937, cat.n.46, nello studio di W.F. Volbach, Il tessuto nell’arte antica, Milano 1966, p.140, fig. 64; recentemente è stata avanzata l’ipotesi di una probabile manifattura armena, per la verità
compatibile con i dati storici a disposizione; al riguardo cfr. L.Martini, Cinquanta capolavori nel Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998, cat. n. 14.
18 Complesse valenze simboliche ed elevata capacità espressiva valsero
un’ampia diffusione cronologica e geografica al tema del leone che ora
troviamo inserito in scene di caccia o di lotta, ora impaginato in sistemi
ad orbicoli, ora isolato senza partizione alcuna. Un breve profilo storico sui significati e sulla fortuna iconografica in ambito tessile è stato
tracciato da M.G. Chiappori, Il leone, in La seta e la sua via, cit. pp. 143-145.
19 L. von Wilckens, Die textilen Künste, cit., fig. 47, p. 52; Ornamenta Ecclesiae,
catalogo della mostra Colonia 1985, vol. 2, pp. 326-329, scheda cat. n.
E94.
20 Processo verbale…, cit.
21 Si veda l’elenco delle stoffe ravennati redatto da Sagiorgi nel 1923 (si
veda la nota 17) lo studio di M.G. Maioli, San Giuliano, cit. scheda n. 4, pp.
198-199; sul telo dei Gesuati cfr. D. Davanzo Poli, I tessuti come fonte: reperti inediti dei secoli XIII-XVII conservati elle chiese veneziane, in La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, a cura di L. Molà, R.C. Mueller, C. Zanier, Venezia 2000, p. 76-79
22 G. Gerola, La ricognizione, cit., p. 119.
23 Cfr. B.M. Alfieri, Seta islamica, in La seta e la sua via, cit. pp. 113-116 e nel-
lo stesso catalogo D. Jones, Unità e diversità nell’arte islamica, pp. 117-119.
24
Sui tiraz musulmani cfr. M. Lombard, cit. pp.219-225; sull’organizzazione del lavoro tessile nel mondo arabo, oltre agli articoli citati alla nota precedente, si veda anche il catalogo della Collezione Bouvier, edito
in occasione della mostra Tissus d’Egypte. Temoins du monde arabe. VIII-XV
siècle, Roma 1993, in particolare l’articolo di G. Cornu, Les tissus dans le
monde arabo-islamique oriental jusqu’à l’époque mameluke, pp. 22-29; il catalogo, sezione VII e VIII, presenta numerosi tiraz.
25 Il complesso di queste vesti, è stato oggetto di una recente importante iniziativa espositiva corredata di un imponente catalogo cui si rimanda: Nobiles Officinae. Die königlichen Hofwerkstätten zu Palermo zur Zeit
der Normannen und Staufer im 12. und 13. Jahrhundert, Vienna 2004.
61
MARTA CUOGHI COSTANTINI
26 G. Guandalini, scheda in Romanico Mediopadano. Strada, città ecclesia, ca-
37 Cfr. G. Monticolo, I Capitolari, cit. pp.
talogo della mostra, Parma 1983, cat. n. 112. pp. 225-229.
38 Un riesame dei temi del commercio e della produzione tessile a Venezia nel Medioevo è stato svolto da D. Jacoby, Dalla materia prima ai drappi tra Bisanzio, il Levante e Venezia: la prima fase dell’industria serica veneziana,
in La seta in Italia dal Medioevo al Seicento, a cura di L. Molà, R.C. Mueller, C.
Zanier, Venezia 2000, pp. 265-304.
27 L.A. Gandini, Di un antico tessuto del monastero di San Pietro in Modena, in
“Rassegna d’arte”, 1902, II, n. 6, pp. 85-86 e Ancora sul tessuto di Modena, in
“Rassegna d’arte”, 1903, III, n. 6, pp. 94-95.
28
La vicenda critica relativa al frammento di Modena è riassunta nella
scheda di catalogo n. 65 della recente mostra viennese richiamata alla
nota 25. Per un inquadramento delle problematiche relative all’attribuzione del gruppo dei tessuti ad arazzo a fondo rosso, si veda anche la
sch. n. 16 in Fils renoués. Trésors textiles du moyen âge en Languedoc - Roussillan, catalogo della mostra, s.l., s.d. (ma Carcassonne 1993).
29 Cfr. D. Devoti, Scheda in Le raccolte d’arte del Museo Civico di Modena, a cu-
ra di E. Pagella, Modena 1992, pp. 185-186.
30 G. Guandalini, scheda in Romanico Mediopadano, cit. p. 225.
31
tica arte lucchese, catalogo a cura di D. Devoti, Lucca 1989 al quale rimando anche per la bibliografia precedente.
40
Il prezioso copricapo proveniente dall’abbazia di Marola figura nel
catalogo della mostra In excelsis. Arte e devozione nell’Appennino Reggiano
(XII-XVIII sec.), a cura di F. Bonilauri e V. Maugeri con una scheda di presentazione molto sintetica a mio nome a cui rimando per dati tecnici
più completi e la bibliografia precedente.
41 Cfr. la scheda redatta da chi scrive in Le raccolte d’arte del Museo Civico di
Modena, cit., pp. 187-188.
Sull’arca di San Procolo e le sue vicende rimando a S. Baldassarri, A.
Raule, F. Rodriguez, S.Procolo e la sua tomba, Bologna 1943 e M.Fanti, L’arca
di S. Procolo e le sue vicende, Bologna 1961; sul tessuto cfr. M. Cuoghi Costantini, Uno sciamito del XIII secolo, in “Arte tessile”, I, 1990, pp. 4-8. Per il
telo del Beato Salomoni cfr. M. Cuoghi Costantini, Scheda in Il San Domenico di Forlì. La chiesa, il luogo, la città, catalogo della mostra a cura di M. Foschi e G. Viroli, Bologna 1991 e M. Cuoghi Costantini, Le linceul du Bienheureux Giacomo Salomoni, in “Bulletin du CIETA”, 70, 1992, pp. 111-115.
42 Sul ricamo nel Medioevo oltre allo storico testo d E. Ricci, Ricami italiani antichi e moderni, Firenze 1925 e a quello di M. Schuette, S. MullerChristensen, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma 1963 si veda S. DurianRess, Ricami, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. II, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003,
pp. 581-594.
32
M. Cuoghi Costantini, Scheda in Duecento. Forme e colori del Medioevo a
Bologna, catalogo della mostra a cura di M. Medica, Venezia 2000, cat. n.
126, pp. 382-385.
43
33 O. von Falke, Kunstgeschichte der Seidenweberei, Berlino 1913, II, p. 40-45;
me in Il Museo della Collegiata di Castell’Arquato, a cura di P. Ceschi Lavagetto, Piacenza 1994, pp. 103-105 cui rimando anche per maggiori dettagli tecnici e la bibliografia precedente.
M. Gomez Moreno, El Panteon de Las Huelgas de Burgos, Madrid 1946,
pp.60-63; F. Lewis May, Silk Textiles of Spain, New York, 1957, pp. 60, 113117; D. King, Some Unrecognised Venetian Wowen Fabrics, in “Victoria and
Alert Mseum Yearbook”, I, 1969, pp. 53-63.
34 Per alcuni esempi di sciamiti mezze sete in Europa cfr. C. Herrero Car-
Cfr. L. Martini, Cinquanta Capolavori, cit., scheda n. 13, p. 38-39, anche
per la bibliografia precedente.
44 Sulle due preziose raffigurazioni ricamate si veda la scheda a mio no-
45 La prima tesi è sostenuta da F. Bignozzi Montefusco, Il piviale di San Domenico, Bologna 1970 che costituisce lo studio più esteso e documentato sul parato bolognese; un riesame della bibliografia dedicata all’opera è svolta da A. Rizzi, in Duecento, cit. cat. 127.
rettero, Museo de Telas Medievales. Monasterio de Santa Maria le Real de Huelgas, Madrid 1988, pp. 26-27, B. Tietzel, Italienische Seidengewebe des 13., 14.
und 15. Jahrhunderts, Colonia 1984, cat, n. 10, D. Devoti, L’arte del tessuto in
Europa, Milano 1974, cat. n. 22.
di Sant’Isidoro, “Ospiti 12” dei Musei Civici d’Arte Antica del Comune di
Bologna, Ferrara 1999.
35 Tresor Textiles cit., cat. n. 54 e D. Cardon, La Drapperie au Moyen Age, 1999,
47 S. Giorgi, La mitra, cit., pp. 23-26.
pp. 594-600.
48 I dati emersi dal restauro sono discussi da F. Faranda, Scheda in L’Europe des Anjou. Aventure des princes angevines du XIII au XV siècle, catalogo
della mostra, Parigi 2001, cat. n. 70.
36 D. King, Some Unrecognised, cit., pp. 60-61 e G. Monticolo, I Capitolari del-
le Arti veneziane, Roma 1905, p. 32.
62
39 All’industria lucchese è stata dedicata la mostra La seta. Tesori di un’an-
46 Il prezioso reperto è stato recentemente studiato da S. Giorgi, La mitra
Un tesoro ritrovato a Nonantola
RICCARDO FANGAREZZI
PAOLO PERI
a rigorosa campagna con cui l’Arcidiocesi di Modena –
Nonantola sta attuando l’inventario promosso dalla
Conferenza Episcopale Italiana ha permesso di ritrovare
presso l’Abbazia di Nonantola, nel 2002, due rari tessuti,
ulteriori preziosissimi elementi per accrescere la nostra
comprensione della vita religiosa e liturgica e del fenomeno monastico nell’alto medioevo. Il ritrovamento del
2002, appena pubblicato1, è stato completato dal rinvenimento nell’Archivio Abbaziale di una ulteriore notevolissima porzione di uno dei due tessuti principali.
Insieme alla straordinaria qualità e rarità di questi reperti, ciò che più colpisce è forse lo strettissimo legame con
la storia liturgica e culturale dell’Abbazia che li custodisce. Lo stretto legame con il culto dei santi della più che
millenaria Abbazia è rimarcato anzitutto dai numerosi e
significativi riferimenti a tessuti contenuti nei testi agiografici prodotti nell’antico monastero tra X e XI secolo,
con particolare riferimento alle reliquie dei SS. Adriano
papa e Sinesio e Teopompo martiri2.
Notevoli anche i puntuali legami tra la storia dell’abbazia
e l’Oriente imperiale e cristiano, presenti fin dai primi decenni del monastero, a testimonianza ulteriore del rilievo pienamente europeo assunto almeno dall’età carolingia a quella ottoniana (VIII-XI sec.). Gli abati Pietro ed Ansfrith, immediati successori del fondatore Sant’Anselmo
(fondazione: 752; morte del santo: 803), svolsero delicate
ambascerie a Costantinopoli, il primo per conto di Carlo
Magno insieme al vescovo Amalario di Treviri nell’813814, il secondo con il vescovo Alitgario di Cambrai
nell’828 in rappresentanza di Ludovico il Pio e Lotario3.
Attorno al 910 furono qui traslate le reliquie dei martiri
di Nicomedia (ora prossima a Costantinopoli) Teopompo vescovo e Sinesio, prelevate dalla chiesa di S. Maria e S.
L
Fosca in Treviso, dipendenza nonantolana distrutta dagli
Ungari. Tra 982 e 986 fu abate di Nonantola l’italo-greco
Giovanni Filàgato, membro del seguito dell’imperatrice
Theofanò e contemporaneamente anche abate di Bobbio
e vescovo di Piacenza e infine antipapa4. Ancora nel 1339
Nonantola possedeva in Costantinopoli il priorato di S.
Maria della Corona (o Incoronata = Assunzione o Dormizione della SS. ma Madre di Dio)5, non si sa se acquisito
durante l’usurpazione latina dell’Impero d’Oriente o già
molto prima.
I tessuti sono oggi essi stessi reliquie, per il loro utilizzo
nella conservazione dei santi resti dei martiri e confessori. Tale utilizzo, come sopra accennato, è puntualmente
ricordato nell’antica agiografia del monastero e ci obbliga ad elencarne i passaggi principali. La Vita Anselmi menziona il 756 quale anno in cui il santo abate portò da Roma alcune reliquie di san Silvestro I papa, procurandogli
l’intitolazione della basilica abbaziale ed il culto ivi e nei
vastissimi territori dell’Abbazia, disseminati in tutta l’Italia centrosettentrionale. Anselmo terminò la sua vita
nell’803, venerato dai suoi monaci per il cinquantennale
onorevolissimo abbaziato. Attestazioni certe del carattere pubblico del suo culto si hanno almeno dai primissimi
anni dell’XI secolo. Adriano III papa morì nell’885 presso
Spilamberto, in territorio nonantolano, mentre si dirigeva in Germania dall’imperatore Carlo il Grosso. La salma
venne sepolta nell’Abbazia di Nonantola e subito venerata. Intorno al 910 raggiunsero l’Abbazia le importanti reliquie dei SS. Sinesio e Teopompo (martirizzati nel 303 al
tempo di Diocleziano a Nicomedia, allora capitale dell’Impero d’Oriente, ora presso Costantinopoli), provenienti da Treviso, dove erano state custodite dalla santa
vergine Anserada (in seguito detta Anseride), che le seguì
RICCARDO FANGAREZZI - PAOLO PERI
a Nonantola. Provenivano dalla chiesa di S. Maria Maggiore e S. Fosca in Treviso, priorato nonantolano distrutto dalle scorrerie ungariche. Forse a questo titolo, o alla
presenza tra esse di reliquie minori di questa martire, si
deve il culto nonantolano a S. Fosca. Silvestro, Anselmo,
Adriano, Teopompo e Sinesio, Anseride e Fosca compongono la corona delle “sette perle nonantolane”.
Anche alcuni traumatici eventi sono da considerare quali possibili cause di ricognizione e di associazione dei tessuti alle reliquie: l’incursione ungarica dell’anno 899, il
rovinoso incendio dell’Abbazia del 1013, il terremoto del
1117. Di San Silvestro si ipotizza una traslazione circa il
secolo X6. Anche l’inizio del culto pubblico di S. Anselmo
a fine X – inizio XI secolo può essere stato occasione per
un’apertura del sepolcro. Possibilità assai più tarde sono
la creazione del braccio reliquiario di S. Silvestro datato 1372
e le ricognizioni del 1475 e del 1580.
Prima di descrivere i due tessuti maggiori, infine, è indispensabile ricordare l’ultima ricognizione delle reliquie,
nel verbale della quale essi sono sommariamente indicati7. Il 9 luglio 1914 fu aperta l’urna di marmo che conteneva i resti di S. Silvestro. Le ossa erano avvolte in una stoffa genericamente indicata come ‘rossa’. Gli esperti valu-
tarono che esse fossero pertinenti più a uomini adulti,
maschi, di statura media. Pochi mesi dopo fu effettuata la
ricognizione dei SS. Anselmo, Adriano ed altri. Il 29 ottobre fu aperta la custodia lignea che conteneva le sante ossa disposte entro due distinti involti: in uno di tessuto
giallo ne furono trovate molte, appartenenti a un’unica
persona, con l’aggiunta di un solo cubito sinistro estraneo – probabilmente riferibili le prime a S. Adriano, il secondo a S. Anselmo –, mentre un involto rosso conteneva
reliquie provenienti da almeno sei scheletri, riferibili a
sant’Anseride, ai martiri Sinesio e Teopompo, ed altri. Dopo i recenti ritrovamenti dei tessuti abbiamo potuto constatare che i due drappi rossi ora menzionati fanno parte
di un unico antico reperto.
I dati storici, letterari e artistici, lasciando più difficile
congetturare sul reperto ‘giallo’, permettono invece ipotesi suggestive circa il reperto ‘rosso’, nel quale potrebbero far riconoscere un dono imperiale agli abati Pietro o
Ansfrith, oppure la casula di papa Adriano, o il dono della
Santa regina imperatrice Adelaide ai SS. Sinesio e Teopompo8 o ancora un elemento di corredo al dono della reliquia insigne della Santa Croce (fine X - inizio XI secolo).
Riccardo Fangarezzi
NOTE
1 P. PERI, I tessuti antichi ritrovati nell’Abbazia di Nonantola: i due reperti princi-
4 G. TIRABOSCHI, Storia dell’Augusta Badia di Nonantola, Modena 1784, t. 1, pp.
pali, in Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, cur. C. Ciaravello – R. Fangarezzi, (“Quaderni di Arte Sacra” 4), Modena – Nonantola 2004, pp. 25-29.
94-97; P. BONACINI, Relazioni e conflitti del monastero di Nonantola con i vescovi di Modena, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana
(secc. VIII-X). Atti del convegno di studi. Nonantola 9-13 settembre 2003,
cur. G. Spinelli – R. Fangarezzi, Cesena 2006, in corso di stampa, note 1924 e testo).
2
P. BORTOLOTTI, Antica Vita di S. Anselmo abbate di Nonantola, Modena 1892,
pp. 156-157, 164, 166, 167-168, 172, 175, riportati anche in P. PERI, Antiche
reliquie tessili dell’Abbazia di Nonantola, in S. Anselmo di Nonantola e i santi fondatori tra Oriente e Occidente. Atti della giornata di studio. Nonantola 12
aprile 2003, cur. P. Golinelli – R. Fangarezzi – A. M. Orselli, Roma 2006,
in corso di stampa, nota 27).
3 M. S. ZOBOLI, Il monastero di San Silvestro di Nonantola all’epoca dell’abbazia-
to di Pietro (804-824/825), (“Tesi” 4), Nonantola 1997, pp. 143-202.
64
5 G. TIRABOSCHI, Storia dell’Augusta Badia di Nonantola, cit., pp. 444.
6 Riferimenti in P. PERI, Antiche reliquie tessili ..., cit., note 9, 11 e 22, 26.
7
Verbale della Ricognizione del Corpo di S. Silvestro fatta il 9 luglio 1914 e Ricognizione delle Reliquie dei SS. Anselmo, Adriano ed altri santi nell’Abbazia di Nonantola, in “Bollettino del Clero”, III (1914), pp. 246-249, 343-348.
8 Cfr. BORTOLOTTI, Antica Vita di S. Anselmo, cit. pp. 156-157 e 167-168.
Un tesoro ritrovato a Nonantola
I tessuti di Nonantola
Schede
Sciamito con le aquile (tre frammenti, forse tratti
da una casula) (Fig. 42)
Manifattura bizantina, VIII-IX secolo
Sciamito istoriato a sette trame, la quinta interrotta (il numero delle trame, la policromia e le dimensioni dei frammenti verrà definitivamente precisata dopo il restauro).
Sciamito di costruzione classica, i fili dell’ordito di fondo,
in seta rossa, si intercalano entro le diverse trame di seta
nei colori giallo, due tonalità di verde cedro, verde smeraldo, blu (forse porpora), bianco (interrotta), rosso, al fine di fare risaltare sul diritto le trame del colore desiderato, mentre le altre vengono respinte sul rovescio. Le trame sono fermate in diagonale 2 lega 1, direzione S sul diritto, dai fili dell’ordito di legatura in seta rossa.
Il primo frammento di tessuto si presenta di forma rettangolare, anche se allo stato attuale sembra che in basso
sia leggermente più grande e stondato, mentre nel lato
superiore risulta un accenno di scollatura. Il secondo reperto è composto da due teli fra loro cuciti e si presenta
con il lato destro stondato. Le dimensioni e la resa sartoriale dei due reperti fanno supporre che essi in origine facessero parte di una casula “a campana”.
Per conoscere meglio il reperto abbiamo ritenuto utile riportare alcune misure, che siamo stati in grado di rilevare in modo diretto, riferite ai decori: il diametro interno
del grande orbicolo misura centimetri 68 ca; lo spessore
della cornice risulta di centimetri 7 ca; il diametro dell’orbicolo più piccolo, che serve da raccordo, misura in
verticale centimetri 14,5 ca ed in orizzontale centimetri
12,6 ca; l’altezza dell’aquila è di centimetri 60 ca. Il rapporto del disegno è incompleto, infatti è possibile definire solo l’altezza che risulta di centimetri 82 ca.
Il modulo disegnativo è impostato seguendo uno schema
ad orbicoli contigui fra loro collegati, nei quattro punti
di tangenza, da un altro orbicolo o rosone più piccolo definito da due cerchi gialli entro i quali spicca il colore rosso di fondo sul quale risaltano 16 perle bianche, a seguire
vediamo collocata, sempre su fondo rosso, una mezza luna gialla.
La rota grande è composta da una cornice seminata da elementi esagonali scalati in giallo e blu disposti in fasce
orizzontali fra loro alternate; ogni serie è completata da
piccoli quadrati verdi, fra loro distanziati. Questa cornice, è definita all’esterno e all’interno, da cerchi composti
da perle gialle. Al centro, su fondo rosso, risalta una grande aquila simbolica con la testa volta a destra (ovvero verso Oriente e quindi espressione della potenza dell’Impero e sui domini bizantini), ali spiegate e decorate: la parte alta è definita da una voluta circolare che inscrive un
motivo floreale (quasi un fiore di loto), stilisticamente da
avvicinare a mosaici ritrovati a Gerusalemme, sorretto da
uno stelo con due foglie speculari e dentellate; due fasce
orizzontali, date da una cornice in giallo, ornate da 11
perle bianche, interrompono la parte alta da quella bassa
che presenta nove righe verticali gialle e degradanti verso l’interno, per ogni ala, appena distanziate da un rigo
rosso. Il collo del rapace ed il corpo sono decorati dai medesimi elementi esagonali scalati presenti nella cornice.
L’aquila si erge su robuste zampe i cui artigli posano su di
un basamento rettangolare ornato, come lasciano intuire tracce di una trama di seta bianca, da perle. La coda a
ventaglio è interpretata con nove fasce ornate da piccoli
cuori, ora in rosso, ora in giallo con al centro un cuore
blu; analoga decorazione si riscontra nello sciamito con
aquile di Auxerre detto sudario di San Germano attribuito
al X-XI secolo. Il collare è ornato da perle bianche con al
centro un medaglione circolare.
Le caratteristiche formali del rarissimo sciamito di Nonantola trova confronti con opere tessili coeve e nella
produzione di manufatti artistici quali sculture, mosaici
e pitture presenti sia nell’Italia meridionale che in quella
centro-settentrionale, tutti databili entro il X secolo.
L’esemplare di Nonantola è da porre a confronto anche
con l’arte prodotta prima e durante la dinastia dei Macedoni (867-1057), periodo durante il quale furono realizzati capolavori pittorici, smalti, rilievi argentei e d’avorio
che documentano la ricchezza della corte bizantina, la
cui arte fu ammirata ed ambita ovunque, come gli imperiali drappi serici ed auroserici.
Nei tessuti serici realizzati a Costantinopoli a partire al VIIVIII secolo i simbolici animali iniziano ad essere proposti
in modo superbo e stilizzato. Questi drappi, fra i quali
quelli che riportano l’aquila sono i più diffusi, impressionano notevolmente per l’ampiezza del decoro e per lo stile maestoso e sono da attribuire al periodo più antico; infatti i reperti tessuti in epoca più tarda presentano orbicoli di medie dimensioni ed in seguito sempre più ridotti.
Tenute presenti le complesse influenze culturali, gli avvenimenti storici, le testimonianze figurative, i confronti stilistici (per ulteriori informazioni si rimanda a PERI
2006), in prima istanza le dimensioni degli orbicoli che si
avvicinano ai reperti più antichi, fra i quali è doveroso ricordare la seta con gli elefanti ritrovata nel reliquiario di
65
RICCARDO FANGAREZZI - PAOLO PERI
Carlo Magno ad Aquisgrana, dove fu deposta nel 1000 da
Ottone III ma da ritenersi tessuta solo dopo la morte di
Carlo Magno (814), nella quale il diametro dei cerchi è di
centimetri 70-80 e gli elefanti si stagliano sul fondo rosso, unitamente ai dettagli decorativi quali gli elementi
della cornice, quelli diversificati del piumaggio, gli insoliti elementi vegetalfloreali e l’impostazione ieratica delle aquile, possiamo avanzare una datazione da ricercare
fra la fine del secolo VIII e l’inizio del X secolo. Tuttavia
un’ipotesi attributiva da non sottovalutare, tenuto conto
dei contatti diretti intercorsi fra i primi abati di Nonantola e l’Impero d’Oriente potrebbe essere ricercata entro
la prima metà del IX secolo, essendo gli anni 804 e 837 gli
estremi cronologici dei due abbaziati menzionati.
Sciamito ricamato con leoni, cervi e lepri (Fig. 43)
Manifattura dell’Italia meridionale (Palermo?) o dell’Egitto fatimita; XI-XII secolo
Sciamito di costruzione classica; i fili dell’ordito di fondo,
in seta giallo paglia, si intercalano entro le trame di seta
giallo paglia e verde mandorla chiaro, al fine di fare risaltare ora l’una ora l’altra (effetto che determina maggiore
luminosità al tessuto). Quando una delle due trame non
lavora sul diritto è respinta sul rovescio e viceversa. Le trame sono fermate in diagonale 2 lega 1, direzione S, dall’ordito di legatura sempre in seta giallo paglia.
Ricami in oro filato montato su lino (?) tinto in giallo
(opus cyprense ?); seta blu, azzurra, bianca e giallo paglia,
cotone (?) bianco. Tecnica di ricamo: per il filato dorato
punto posato, con fermatura in seta (?) grezza; per quelli
in seta punto erba e spina.
Di forma rettangolare, il drappo serico è ornato da ricami
che seguono una composizione particolare ed insolita. Al
centro, disposti in alternanza verticale, sono ricamati ora
un cervide (unicorno?) proposto di profilo che piega la testa indietro, con un corno ramificato, ora un leone senza
criniera e con la coda rialzata che sembra meno indagato
nella resa grafica rispetto al cervide; entrambi i soggetti sono eseguiti in oro filato. Ai lati di questi, quasi in speculare, sono ricamati dei quadrati entro i quali si colloca un
rombo, quasi a formare un motivo stellato, con foglie negli
angoli. Sul lato sinistro corre una banda verticale, fra due
più piccole, di medie dimensioni che propone un decoro
ricamato composto da piccole foglie o petali o semi ovali e
sembra definire una corolla a quattro petali (forse in origine le bande erano meglio definite e ulteriormente decorate). In alto, sempre sul lato sinistro compare una breve de-
66
corazione fitomorfa, quasi a creare un orbicolo, che purtroppo non è più possibile ricostruire. Sul lato destro, e fra
loro isolati, abbiamo tre leprotti, che corrono verso sinistra, caratterizzati dalle lunghe orecchie e dagli occhi azzurri, colore utilizzato anche per definire i dettagli anatomici. Sull’estremo lato destro, poco visibile, corre in verticale una stretta banda creata da un motivo a treccia che
adesso si presenta in seta bianca e cotone (?). In alto, quasi
a comporre due brevi e stretti clavi che incorniciano i soggetti animali, corre una serie di piccoli triangoli, fra loro
collegati da un sottile nastro, ricamati con seta blu. Lo stato di conservazione, purtroppo, rende difficile comprendere in modo dettagliato la decorazione.
Il leone, simbolo di dignità, forza, coraggio e poi della Resurrezione di Cristo, è alquanto attestato nelle sete antiche, da quelle sassanidi a quelle imperiali bizantine, dalla Sicilia alla Spagna fino ai famosi lampassi lucchesi e veneziani del XIII e XIV secolo. Forse con il simbolo di speranza e rinascita, peraltro attestata nei primi sarcofagi
cristiani, può essere letto il leone di Nonantola.
Il cervide (unicorno?), simbolo cristologico per eccellenza e di carità, si associa ai leprotti riferibili all’uomo che
mette la sua speranza di salvezza in Gesù, ma anche indici di fecondità, timidezza, vigilanza e saggezza.
I motivi presenti sul prezioso ed unico ricamo indicano
una sapiente scelta di soggetti che esaltano la speranza di
rinascita promessa da Cristo e quindi di vittoria sulla
morte. E forse proprio con il simbolo di rinascita ed abbondanza possono essere letti anche i piccoli semi o frutti disseminati nella composizione del ricamo.
La resa stilistica dei simbolici ricami suggerisce influenze culturali riscontrabili anche negli analoghi soggetti
presenti nei manufatti realizzati nelle più importanti
manifatture orientali già a partire dal V-VI secolo. Riguardo ai leprotti, essi sono già presenti nei primi tessuti copti, anche se l’impostazione formale presente nel reperto in esame appare più stilizzata, tuttavia non lontana
dalle interpretazioni elaborate in ambito bizantino.
Gli stilizzati leoni ricordano quelli delle sete bizantine proposte fino dal secolo VIII, poi rielaborate nelle nascenti manifatture occidentali, prima fra tutte quella di Palermo.
Tenuto conto di tante eterogenee influenze stilistiche e
vicende storiche, possiamo avanzare un’attribuzione da
ricercare fra il secolo XI-XII e forse ascrivibile a una manifattura dell’Italia meridionale (Palermo?) o dell’Egitto fatimita.
Paolo Peri
Il piviale di San Moderanno
DONATA DEVOTI
GIULIA MEUCCI
l grande e sontuoso piviale detto di San Moderanno si
trova oggi esposto in una teca apposita nel tesoro del
Duomo di Berceto dopo essere stato sottoposto ad accurato restauro promosso dalla Soprintendenza di Parma e
realizzato dal laboratorio Massacesi-Medica nel 1991.
Molto scarse e tarde sono le notizie documentarie che,
sul piviale, si ricavano dall’Archivio Parrocchiale e da
quello della Curia Vescovile di Parma. Viene citato per la
prima volta fra le reliquie nell’inventario del 1832 ma solo in quello del 1922 è descritto come “oggetto d’arte”, datato alla seconda metà del IX secolo, precisando che è
conservato dentro una cassettina nella canonica insieme
alla sua stola verde e a un piccolo reliquiario in avorio ed
ebano dell’VIII secolo, oggi entrambi scomparsi.
Altrettanto scarse sono le certezze che abbiamo su Moderanno, il Santo del quale il piviale per tradizione è considerato reliquia. Con sicurezza si sa che fu Vescovo di Rennes e che, chiesto permesso al re dei Franchi Chilperico II
(717-722), compì un pellegrinaggio a Roma; lungo il
viaggio di ritorno si ritirò a vita monastica nell’Abbazia di
Berceto dove morì e fu sepolto. Andata perduta la più antica leggenda elaborata a Berceto, i dati salienti sul Santo
Vescovo possono essere ricavati da fonti indirette quali La
vita Santi Remigii di Icmaro di Reims (IX secolo), la Historia
Remensis Ecclesiae di Flodoardo (X secolo) derivata dalla
precedente e i testi della celebrazione liturgica tardomedievale della festa di San Moderanno a Rennes.
La prima tappa del viaggio di Moderanno fu Reims dove
chiese ed ebbe in dono dall’abate del prestigioso monastero benedettino reliquie di San Remigio che portò poi
a Berceto e che furono causa della nuova dedicazione al
Santo francese della chiesa dell’Abbazia bercetana. Quest’ultima era stata fondata, secondo Paolo Diacono, da
I
Liutprando (712-744) insieme a quella celebre di Pavia.
Un’Abbazia importante quindi, posta sulla Via Francigena, luogo di accoglienza e di assistenza per i viandanti sul
passo appenninico che collegava stabilmente il Nord e il
Sud non solo della penisola ma dell’intera Europa. Secondo la leggenda l’Abbazia fu donata dal re longobardo,
per altro devoto di San Remigio, a Moderanno, godeva
quindi come monastero regio di una serie di privilegi soprattutto l’autonomia sia dall’autorità religiosa che civile. Alla fine del IX secolo perse progressivamente d’importanza e fu assegnata (879) da Carlomanno al Vescovo
di Parma. Dopo alterne vicende nulla resta oggi dell’Abbazia e ben poco è recuperabile dell’antica chiesa più volte rifatta e malamente restaurata.
Le spoglie del Santo, veneratissimo, morto probabilmente fra il 730 e il 750, riposavano in un luogo della chiesa
non precisato dalle fonti. Furono traslate solennemente
in un altro luogo della stessa chiesa alla presenza del Vescovo di Parma secondo quanto afferma il Breviario di
Rennes (XII secolo) esemplato sulla Leggenda Bercetana.
Questa prima traslazione dovette avvenire dopo l’879, alla fine del IX secolo, quando l’Abbazia era ormai passata
sotto la Curia parmense e forse in occasione della presumibile canonizzazione del Vescovo a Santo. Nell’XI secolo in tutta la diocesi parmense a Moderanno venivano tributate fastose celebrazioni in due date diverse il 22 ottobre e il 16 maggio, l’una a ricordare il transito, l’altra la
traslazione2. Nel 1499 le ossa del Santo per volontà di Berardo Maria de’ Rossi conte e signore di Berceto furono
chiuse in una cassettina di piombo e riposte nell’altare a
lui dedicato secondo quanto recita l’iscrizione incisa sulla cassetta stessa, conservata oggi sotto l’altar maggiore
della chiesa.
DONATA DEVOTI - GIULIA MEUCCI
Il piviale è costituito da uno sciamito monocromo verde
screziato in giallo e da un bordo che lo profila interamente in sciamito operato a fondo rosso intenso ancora
vivace con disegno in blu scuro e giallo senape (Figg. 4445). Entrambi gli sciamiti presentano orditi di fondo che
lavorano a due fili rispettivamente in seta verde screziata
e in seta bianca e legatura delle trame in diagonale 3/1
con orditi supplementari in identiche sete.
Se piuttosto rari sono gli esemplari superstiti di sciamiti
monocromi, particolare importanza riveste il complesso
e frammentato disegno del bordo che è possibile però ricostruire nella sua interezza. È infatti articolato dalla successione in verticale di due teorie di coppie di animali fantastici affrontati davanti all’albero della vita. Il motivo floreale inoltre delimita nettamente in alto, in basso e lateralmente il modulo, sensibilmente rettangolare, che sot-
Ricostruzione del disegno del bordo
del piviale di San Moderanno (vedi
Figg. 44-45).
68
Il piviale di San Moderanno
tende tutta l’opera. Da vasi ovoidali baccellati fuoriescono
sottili steli che terminano con una palmetta arabeggiante
di fronte ai quali si affrontano due animali di natura composita con teste di cane, collo decorato a zig-zag fra due
collari di perle, zampe anteriori da felino, corpo accosciato con piccole ali chiuse a forma di cuore, dorso perlinato
e coda appuntita che possono essere letti come una variante del senmurv sassanide. Sopra le loro teste dallo stelo si dipartono, rigidamente in orizzontale, speculari, due
semipalmette segmentate sulle quali poggiano altri due
animali compositi addorsati, rampanti, con corpo e zampe da felino così come la testa da leone o pantera, a fauci
spalancate, molto umanizzata, ali filiformi e coda arrovesciata sul dorso che termina con una testa di serpente a
fauci aperte e barbetta. Questi, che si possono interpretare come chimere, sono poi affrontate davanti a un secondo stelo sottile che si divarica, sopra le loro teste, in due
tralci simmetrici che recano stilizzate semipalmette arabe, foglie cuoriformi, trifogli che chiudono la composizione in alto. Lo stelo ha origine da quattro piccoli orbicoli tangenti che si collocano fra i dorsi dei senmurv e il
ventre delle chimere al centro quindi del modulo decorativo. All’interno dei cerchi sottili sono due coppie di piccoli uccelli disposti specularmente. Nella coppia inferiore, che risulta affrontata, si possono riconoscere dei fagiani rappresentati ancora secondo stilemi sassanidi: i rigidi
nastri svolazzanti intorno al collo, la lunga coda abbassata, il lungo tralcio a semipalmetta nel becco. Nella coppia
superiore, addorsata, sembra si possano individuare dei
galli per la importante coda a piume arricciate e per i bargigli, sempre secondo una iconografia sassanide, anche se
con un problematico becco ricurvo da pappagallo.
Il disegno di questo tessuto risulta essere indubbiamente
molto elaborato, sia per quanto riguarda il sistema di impaginazione sia per la presenza di numerosi motivi decorativi del tutto inconsueti e anche di non facile interpretazione. La griglia geometrica che struttura in rettangoli il
modulo decorativo e che, al suo interno, ordina secondo
esagoni i corpi delle coppie di animali, ritorna in alcuni celebri tessuti quali la casula di Saint-Etienne di Chinon,
quella di Saint-Sernin di Tolosa, o il tessuto detto delle Arpie di Vich attribuiti a manifattura spagnola del XII secolo3.
Il raro motivo della chimera è presente in ambito tessile solo in un frammento4 conservato alla fondazione Abbegg di
Berna, proveniente dalla chiesa di San Pietro a Salisburgo e
attribuito alla Spagna dell’XI secolo: non sono però molte
le rispondenze iconografiche con quelle del piviale. Riscontri più puntuali, per esempio nel modo di sottolineare
le giunture degli arti degli animali, sono possibili con il tes-
Ricostruzione grafica del disegno del bordo del piviale di San
Moderanno (vedi Figg. 44-45).
suto delle Arpie di Vich o anche con la stoffa a senmurv, elefanti e grifoni5 del museo del Bargello a Firenze (e altri musei), dove le somiglianze sono poi ben evidenti nella decorazione del collo del senmurv a zig-zag e a due colori. Questa stessa decorazione presentano anche i tessuti con il leone alato del Rijksmuseum di Amsterdam e quello con i
grifoni di Le Monastier-Saint-Chaffre6. Inoltre tutti questi
pezzi, ritenuti di ambito spagnolo, hanno in comune con il
bordo di Berceto la scelta dei colori: il disegno molto scuro
in blu-nero o verde-nero spicca su un fondo rosso intenso
molto vivace ed è messo ancora più in evidenza da un profilo sottile in giallo o in turchese o in bianco che percorre
tutta la decorazione. A ribadire come il bordo di Berceto in
molti particolari del suo disegno presenti consistenti tangenze con la cultura spagnola preromanica, si possono citare per esempio, anche in altro ambito figurativo, le sculture ornamentali della chiesa di Quintavilla de la Viñas: orbicoli sottili che includono galli dalla lunga coda, mezze
palmette, trifogli, ecc., all’esterno dell’abside, in un fregio,
all’interno dell’arcone trionfale, ecc.7.
69
DONATA DEVOTI - GIULIA MEUCCI
Il periodo temporale nel quale collocare il grande mantello di Berceto non può non essere ancorato alla vita di
Moderanno, alla sua prima traslazione e canonizzazione
e ai momenti di maggior splendore dell’Abbazia da lui resa tanto celebre: VIII-IX secolo. Anche a Berceto come in
altre abbazie al loro tempo ricche e potenti perché volute e protette da sovrani e perché fondate da Santi Vescovi
molto venerati e famosi sono conservati straordinari apparati tessili legati proprio alle figure dei loro Santi protettori. Hanno forma o di vesti liturgiche come la casula
detta di San Marco Papa di Abbadia San Salvatore (VIII-IX
secolo) che, al rovescio, aveva lungo tutto il profilo esterno un bordo figurato oggi purtroppo staccato o di parati
funebri come il cuscino ed il telo della sepoltura di San
Remigio nella cattedrale di Reims (IX secolo), come si è
visto molto legata alla Abbazia bercetana e a Moderanno.
Sono realizzati con sontuose stoffe di seta operata prodotte in lontane e celebrate manifatture bizantine o medio orientali o spagnole appunto, cioè quanto di più prezioso si sapeva tessere perché doveva essere messo a contatto con i santi corpi. Divennero loro stesse reliquie e
proprio per questo conservate tanto religiosamente e gelosamente da arrivare fino a noi. Il piviale di San Moderanno non ha avuto però una gran fortuna critica pur essendo “tessuto rarissimo e prezioso” “reliquia insigne e
documento di inestimabile valore dell’VIII secolo” come
ebbe a dire Grisenti nel 1964 nella sua visita al duomo di
Berceto8). Le considerazioni di Grisenti ricalcano in buona sostanza quanto ben trent’anni avanti (1934) Antonino Santangelo per primo disse nella scheda dedicata al
piviale nell’Inventario degli oggetti d’arte della provincia di
Parma9. La sua descrizione si sofferma in modo necessariamente sommario e impreciso sul disegno del bordo
che viene attribuito a Bisanzio intorno all XI-XII secolo
mentre il tessuto verde è assegnato al XIV-XV secolo; accenna anche alla tradizione che vuole il parato appartenuto a San Moderanno. Seguono poi una serie di interventi che insistono nell’attribuire a Lucca e al XII secolo
la stoffa del bordo secondo una ipotesi avanzata per la
prima volta nel 1975 da Quintavalle e poi ancora nel
197710 usando il piviale come testimonianza sul territorio dei rapporti che la via Romea istituiva fra l’Emilia e
Lucca, percorso dei pellegrini di Roma e del Volto Santo,
disseminata di ospizi e abbazie. Del tessuto non viene decifrato il disegno (si parla di uccelli, leoni, grifi o gazzelle), non si parla di tecnica di esecuzione, di colori, ecc. ma
viene paragonato a un frammento di Berlino, una mezza
seta a bande gialle ed azzurre con aquile e pantera ed an-
70
che ai tessuti dei paramenti di Bernardo degli Uberti conservati nella chiesa di Santa Trinità a Firenze, sempre
mezze sete con aquile in orbicoli.
Sono confronti assolutamente non pertinenti da un punto di vista decorativo, tecnico e cronologico che dimostrano la non conoscenza di quanto da anni era stato pubblicato sui tessuti medievali ed anche sulla manifattura
lucchese in particolare. Nel 1983 Calzona e nel 1991 Branchi11, collaboratori di Quintavalle rispettivamente nelle opere su Romanico medio padano… e su Wiligelmo e Matilde …, ripropongono la stessa tesi equivocando sempre
sul disegno, (Calzona individua coppie di colombe e pavoni negli orbicoli), proponendo similitudini, per altro
poi scartate, con tessuti bizantini, spagnoli e così detti siciliani (Branchi), datano entrambi lo sciamito verde al XV
secolo senza spiegazioni. La scheda redatta sempre nel
1991 da Marta Cuoghi Costantini per il catalogo della mostra sui tessuti restaurati rappresenta un’inversione di
tendenza per lo studio e la conoscenza del piviale bercetano12. La studiosa si preoccupa di definire l’opera innanzitutto sotto il profilo tecnico secondo un sistema di catalogazione da anni internazionalmente in uso, decodifica
il disegno cercando di individuare il modulo compositivo
senza però arrivare alla ricostruzione anche di parti essenziali. Fatto questo che la porta a paragoni ma anche a
distinguo con celebri tessuti bizantini dell’XI secolo e
quindi a una attribuzione a Bisanzio ma in anni precedenti il Mille. Nuova è anche l’attenzione che dedica seppure in modo stringato alla tradizione che vuole il piviale
legato al culto di San Moderanno lamentando la scarsità
delle fonti documentarie e avanza l’ipotesi che il piviale
fosse “un dono tributato al Santo dopo la sua morte”. Ancora nel 1991 il piviale è oggetto di interesse nell’introduzione di Fiaccadori al volume di Bertozzi sul Duomo di
Berceto e con una lettura della tecnica di esecuzione della
stoffa di Fanti13. Innanzitutto viene individuato come
sciamito monocromo anche la stoffa verde che forma il
corpo del piviale e vengono avanzati nuovi confronti con
tessuti quali quello spagnolo conservato al Bargello e sottolineati alcuni “motivi di lontana ascendenza sassanide”.
Interessante è il suggerimento che la via Romea non solo
convogliava i pellegrini che andavano a Roma o in Terra
Santa ma anche quelli che venivano da San Giacomo di
Compostella, concentrandosi a Luni. È invece abbastanza
stravagante la datazione a dopo il 1225 dovuta ad una interpretazione errata di un documento sul colore liturgico
verde14.
Il piviale di San Moderanno
NOTE
1
Si forniscono le misure e i dati tecnici essenziali. Il piviale misura
128x257 cm.; il tessuto del bordo 10/11 cm. in media x 230 cm. il frammento più lungo dove è rilevabile la cimossa destra. L’altezza del tessuto doveva essere intorno ai 250 cm. Il piviale: sciamito a due trame monocromo; il bordo: sciamito operato a tre trame.
2 G. Schianchi, La chiesa di Berceto e i suoi arcipreti, Parma 1927, pp. 53-59.
3
Per il primo tessuto cfr. D. Devoti, L’arte del tessuto in Europa, Milano
1974, cat. n. 4. Sui secondi si veda Al Andalus. The Art of Islamic Spain, catalogo della mostra, New York 1992, p. 319 e p. 230.
4 D. Devoti, L’arte del tessuto, cit. cat. n. 1.
9
A. Santangelo, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, vol. III, Provincia di
Parma, Roma 1934.
10
A.C. Quintavalle, La strada romea, Parma 1975. A.C. Quintavalle, Le vie
dei pellegrini nell’Emilia medievale, Milano 1977.
11 A. Calzona in A.C. Quintavalle, Romanico mediopadano. Strada, città, ecclesia, Parma 1983, p. 165; M.P. Branchi, scheda in Wiligelmo e Matilde. L’officina romanica, catalogo della mostra a cura di A.C. Quintavalle, Milano
1991, p. 474.
12 M. Cuoghi Costantini, scheda in Capolavori restaurati dell’arte tessile, ca-
5 F. Volbach, Il tessuto nell’arte antica, Milano 1966, fig. 61 (XI secolo).
talogo della mostra a cura di M. Cuoghi Costantini e J. Silvestri, Bologna
1991, pp. 83-84.
6
13
7
14 Il piviale è stato oggetto della tesi di laurea di Giulia Meucci discussa presso l’Università di Pisa nell’AA 2000-2001, relatore prof. Donata
Devoti.
Per il tessuto a leoni si veda O. von Falke, Kunstgeschichte der Seidenweberei, Tubinga 1928, fig.178, per quello coi grifoni cfr. Byzance, catalogo
della mostra, Parigi 1992, fig. 284.
L’art préroman hispanique, I, a cura di J. Fontane, Parigi 1973, figg.76, 80,
85.
C. Fiaccadori, introduzione a G. Bertozzi, Duomo di Berceto. Un lontano
passato letto negli scavi, Parma 1991.
8 F. Grisenti, Una finestra aperta sul passato. Berceto, Fidenza 1964.
71
1.
Ricostruzione di un cacciatoreraccoglitore del Mesolitico. San
Lazzaro di Savena (Bologna),
Museo della Preistoria “Luigi
Donini”.
2.
Fuso e conocchia in
bronzo (VI secolo a.C.)
rinvenuti nella tomba 3 a
incinerazione di Sant’Ilario
d’Enza (Reggio Emilia).
Reggio Emilia, Musei
Civici, Collezione Chierici.
72
4.
Strumenti per filare provenienti da corredi
funerari femminili della necropoli villanoviana
di Caselle (Bologna). San Lazzaro di Savena
(Bologna), Museo della Preistoria “Luigi Donini”.
73
5.
Conocchia in bronzo
e ambra (VII secolo
a.C.) proveniente
dalla necropoli De
Luca (Bologna, tomba
15). Bologna, Museo
Civico Archeologico.
6.
Ricostruzione
sperimentale di
un telaio verticale
a pesi, armato con
un tessuto in lino
accanto a un
elegante abito
femminile.
Modena, Parco
Archeologico e
Museo all’aperto
della Terramara di
Montale.
3.
Frammento tessile in lana
(XVI-XIII secolo a.C.)
proveniente dalla terramara di
Castione Marchesi (Parma).
Parma, Museo Archeologico
Nazionale.
74
7. Tintinnabulo in bronzo che
raffigura il ciclo di lavorazione della
lana proveniente dalla Necropoli
dell’Arsenale Militare (tomba 5).
Bologna, Museo Civico Archeologico.
8. Disegno ricostruttivo del tintinnabulo. Bologna, Museo Civico Archeologico.
75
9.
Restituzione
grafica del telaio
rappresentato sul
trono della tomba
Lippi 89/1972.
10.
Mantello in lana della
tomba Lippi 89/1972.
Verucchio (Forlì), Museo
Civico Archeologico.
11.
Frammento del mantello della
tomba Lippi: è evidente il bordo
e l’effetto a strisce della tessitura.
Verucchio (Forlì), Museo Civico
Archeologico.
12.
Bottoncini d’ambra dalla
tomba Lippi 89/1972.
Verucchio (Forlì), Museo
Civico Archeologico.
76
13.
Strumenti per la tessitura
in osso dalla tomba Lippi 102/1972.
Verucchio (Forlì),
Museo Civico Archeologico.
14.
Ciclo statuario della famiglia Giulio-Claudia dalla
basilica di Velleia, I secolo d.C.. Parma, Museo
Archeologico Nazionale.
16.
Pettini in legno, spillone in legno con capocchia d’oro, spillone in corno e
frammenti di filo d’oro rinvenuti nello scavo di una necropoli romana del
IV-V secolo d.C. effettuato a Modena nel 1947 (da Modena dalle origini all’anno
Mille, 1988). Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.
17.
Elementi di tessuto in fili d’oro
rinvenuti in una necropoli
longobarda di Spilamberto
(Modena), fine VI - metà VII
secolo d.C. Bologna,
Soprintendenza per i Beni
Archeologici
dell’Emilia–Romagna.
77
15.
Nastro in filo d’oro recuperato
in un contesto ercolanense,
I secolo d.C. (da Homo faber
1999). Pompei,
Soprintendenza per i beni
Archeologici.
18.
Plastico di una delle più
grandi botteghe di Pompei, la
fullonica di Stephanus,
rinvenuta in via
dell’Abbondanza a Pompei
(da Homo faber, 1999). Roma,
Museo della Civiltà Romana.
78
19.
Dipinto su intonaco di
un pilastro in muratura
raffigurante le varie fasi
della follatura (seconda
metà I secolo d.C.)
rinvenuto nella fullonica
di Veranio Ipseo a
Pompei (da Homo faber,
1999). Napoli, Museo
Archeologico Nazionale.
20.
Stele a timpano di Lucius
Rubrius Stabilius Primus, fine
del I secolo a.C. - prima metà
del I secolo d.C.. Modena,
Palazzo dei Musei,
Lapidario Romano.
79
21.
Frammento
proveniente dal
corredo funebre di San
Giuliano, IV-VI secolo.
Taqueté operato in seta
verde e avorio
raffigurante una scena
di caccia. Ravenna,
Museo Nazionale.
80
22.
Frammenti provenienti dal corredo
funebre di San Giuliano, IV-VI secolo.
Taqueté operato in seta avorio e porpora,
disegno a piccoli ottagoni e tralci di vite.
Ravenna, Museo Nazionale.
81
23.
L’imperatrice Teodora
e il suo seguito nei
mosaici di San Vitale,
VI secolo.
Ravenna, San Vitale.
82
24.
Telo proveniente dal corredo
funebre di San Giuliano, Bizanzio,
X-XI secolo. Sciamito operato in
seta porpora, acquamarina e ocra
con leoni itineranti entro ruote.
Ravenna, Museo Archeologico.
25.
Telo proveniente
dal corredo funebre
di San Giuliano, particolare.
83
26.
Telo proveniente
dal corredo funebre
di San Giuliano,
Bisanzio o Venezia,
XIII secolo. Sciamito
operato in seta
gialla, rosa, avorio e
blu con orbicoli
contenenti grifi.
Ravenna, Museo
Nazionale.
27.
Frammento, Palermo (?),
prima metà del XII secolo.
Tessuto ad arazzo in seta
rossa, nera, bianca,
azzurra e oro filato con
busti umani, lepri e
testine di rapaci.
Modena, Museo Civico
d’Arte.
84
28.
Telo di San Procolo,
Venezia, fine del
XIII- inizi del XIV
secolo.
Sciamito operato
in seta rossa, gialla,
rosa, perla e lino
naturale ad orbicoli
contenenti coppie
di grifi.
Bologna, chiesa
di San Procolo.
85
29.
Telo di San Procolo, particolare.
86
31.
Sigillo in piombo con
il leone di San Marco
del telo del Beato
Giacomo Salomoni.
Forlì, Chiesa Cattedrale.
30.
Telo del Beato Giacomo
Salomoni, Venezia,
fine del XIII-inizi
del XIV secolo.
Sciamito operato in
seta gialla, rosa, blu,
porpora, lino naturale
e lamina d’argento ad
orbicoli contenenti
coppie di draghi.
Forlì, Chiesa cattedrale.
87
88
32.
Telo del Beato Giacomo
Salomoni, particolare.
33.
Mitra dell’abate
di Marola, Italia,
seconda metà
del XIII secolo.
Lampasso broccato
in seta avorio.
Reggio Emilia,
Museo Diocesano.
34.
Mitra dell’abate
di Marola,
particolare.
35.
Frammento, Lucca (?), prima
metà del XIV secolo.
Lampasso lanciato e broccato
in seta azzurra, bianca, celeste
e oro filato con piccoli
animali e scritte arabe.
Modena, Museo Civico d’Arte.
36.
Frammento, Lucca (?),
prima metà del XIV secolo.
Lampasso lanciato in seta avorio
e oro filato con aquile, leoni, fiori
di cardo e foglie a palmetta.
Modena, Museo Civico d’Arte.
90
37.
Velo di Classe
(particolare), Italia
Settentrionale, VIII
secolo. Ricamo in oro
filato e sete policrome
su tela di lino con
busti di santi e
vescovi veronesi.
Ravenna, Museo
Nazionale.
38.
Velo liturgico, Bisanzio, fine del XIIIinizio del XIV secolo. Ricamo in oro e
argento trafilati e sete policrome su
sciamito unito di seta rossa e lino
raffigurante la comunione degli
apostoli sotto la specie del pane.
Castell’Arquato (Piacenza), Museo
della Collegiata.
39.
Velo liturgico, Bisanzio, fine
del XIII-inizio del XIV secolo.
Ricamo in oro e argento
trafilati e sete policrome su
sciamito unito di seta rossa
e lino raffigurante la
comunione degli apostoli
sotto la specie del vino.
Castell’Arquato (Piacenza),
Museo della Collegiata.
91
40.
Piviale di San Domenico,
Opus anglicanum, fine
del XIII - inizio del XIV secolo.
Ricamo in sete policrome
e oro filato su tela di lino
con episodi della vita
di Cristo e della Vergine.
Bologna, Museo Civico Medievale.
41.
Mitra di Sant’Isidoro, Napoli
o Bologna, XIV secolo.
Ricamo in perle, smalti e sete
policrome su sciamito unito
di seta azzurra.
Bologna, Museo di Santo Stefano.
92
42.
Frammento, Bisanzio,
VIII-IX secolo.
Sciamito operato in seta
rossa, gialla, verde,
blu e bianca raffigurante
aquile entro ruote.
Nonantola (Modena), Museo
Diocesano d’Arte Sacra.
93
43.
Frammento, Italia
meridionale (Palermo?)
o Egitto Fatimida, XI-XII
secolo. Sciamito ricamato
in seta giallo paglia,
verde chiaro, blu, azzurra,
bianca, oro filato e
cotone bianco con leoni,
cervi e lepri.
Nonantola (Modena),
Museo Diocesano
d’Arte Sacra.
94
44.
Piviale detto di San Moderanno,
tessuto del bordo, Spagna? VIII-IX
secolo. Sciamito operato a tre trame in
seta rossa, bianca, blu scuro e senape.
Berceto (Parma), Museo del Tesoro
del Duomo.
45.
Piviale detto di San Moderanno,
tessuto del bordo, Spagna? VIII-IX
secolo. Sciamito operato a tre trame in
seta rossa, bianca, blu scuro e senape.
Berceto (Parma), Museo del Tesoro
del Duomo.
95
Seta, oro e argento:
lussuose vesti e magnifici apparati dal
Rinascimento all’Impero
IOLANDA SILVESTRI
Premessa
esame del patrimonio tessile serico conservato nella nostra regione non può che essere condotto oggi
solo attraverso ciò che è rimasto delle testimonianze
suntuarie di principi e signori, papi e cardinali che governarono questi territori, ma anche attraverso ciò che
lungimiranti collezionisti e uomini di spicco della cultura locale hanno inteso trasmetterci tra Otto e Novecento costituendo delle vere e proprie raccolte di questi materiali recuperati in tutta Europa sottoforma di
abiti, arredi e accessori, di rado integri, più di frequente, invece, documentati da frammenti. L’esame si configura quindi come un itinerario storico sulle conoscenze fino ad oggi acquisite dei manufatti più rappresentativi e significativi di questo patrimonio a noi pervenuto solo parzialmente, ma un tempo ben più consistente.
Diversamente distribuito tra collezioni museali, chiese,
conventi e palazzi signorili, oggi lo si ritrova per lo più attestato da frammenti di varia epoca e provenienza nelle
raccolte pubbliche, di rado invece documentato da fortunati recuperi tombali o da ritrovamenti di vesti e di paramenti sacri indossati da signori e alti prelati, musealizzati nel tempo e conservati nei luoghi di culto, insieme a
tappezzerie e arredi presenti ancora in situ in illustri dimore storiche.
Ciò che si è inteso proporre qui di seguito è una raccolta
antologica di autentiche eccellenze, per la maggior parte
già note e studiate, che documentano per quasi cinque
secoli sia l’avvicendarsi dei decori e delle tecniche tessili,
che gli orientamenti e le scelte del gusto di alcune tra le
nobili casate di questa regione, inclusi quegli esponenti
che raggiunsero i vertici della carriera ecclesiastica fino
L’
al soglio papale: dai Malatesta, dagli Este, dai Pico, dai
Gonzaga fino ai Lambertini, agli Aldrovandi, ai Farnese e
ai Borbone.
Solo una minima parte di questa documentazione ci è
pervenuta, a fronte di un patrimonio ben più ricco e variegato di manufatti che nel tempo è andato disperso e
irrimediabilmente perduto. Gli abiti e le tappezzerie di
principi e nobili, come pure le vesti e gli apparati liturgici di vescovi, cardinali e papi, venivano usati, poi dismessi, quindi sostituiti con dei nuovi: solo le stoffe più
ricche e preziose venivano conservate come tali o talvolta, invece, venivano riutilizzate per confezionare altri
manufatti come quelli liturgici. E di queste, quelle meglio conservate e più numerose sono senza dubbio quelle di provenienza ecclesiastica, che, integre o modificate
nel tempo per gli inevitabili adattamenti dovuti al cambiamento del gusto e al degrado, nonché per l’uso e la naturale alterazione dei filati, testimoniano una diversa attenzione del clero verso il tessile antico rispetto all’atteggiamento più consumistico tenuto dall’aristocrazia:
se il primo ha sempre concepito l’abito e il suo l’apparato come espressione simbolica del sacro a suggello della
devozione popolare (passibili quindi entrambi di cure e
attenzioni particolari) la seconda ha adottato un atteggiamento più disinvolto e meno conservativo, interpretando questi manufatti come strumenti d’uso in senso
lato e in quanto tali sostituibili e di breve durata. Ecco
perchè molte delle testimonianze oggi conservate, si
presentano sotto forma di parati e addobbi sacri provenienti da chiese e conventi dove si trovano ancora numerosi, mentre solo in misura minore sono entrati a far
parte del patrimonio museale pubblico di raccolte statali, civiche e diocesane.
IOLANDA SILVESTRI
Le sete dell’aristocrazia: velluti, damaschi,
broccatelli, le icone tessili del Rinascimento
La melagrana: il motivo dominante nei velluti e
nei damaschi del Quattrocento
Troviamo esempi della migliore produzione tessile serica
italiana del XV secolo, scarsamente documentata nella
nostra regione, in alcuni velluti della Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia e nelle vesti funerarie di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468) conservate a Rimini
nel Museo della Città e nel Tempio Malatestiano. I primi,
due posteriori di pianeta e un frammento (Figg. 1, 2), sono reperti di un collezionismo privato tardo ottocentesco; le seconde, parti riassemblate insieme del mantello,
della sopravveste e del farsetto dell’abito funebre del signore riminese (Figg. 3, 4, 5), sono testimonianze datate
rare e preziose di un fortunato rinvenimento avvenuto il
28 dicembre 1920 al Tempio Malatestiano, durante la ricognizione nella tomba del signore riminese morto nel
14681.
Tutti i materiali evidenziano un sistema figurale strutturato su un unico soggetto decorativo, la melagrana che,
variata nel motivo del cardo o della pigna, é racchiusa all’interno di una grande infiorescenza tondeggiante simile al fiore di loto dai contorni polilobati a punta o costellati da minute corolle, fiordalisi, gigli, pere e piccole melagrane. Questo motivo, mutuato dalla decorazione arabo-persiana con il significato di fertilità, già presente però
nelle stoffe tardo trecentesche, viene impaginato ora in
due schemi compositivi di base chiamati ancor oggi con
le diciture storiche dell’epoca “a griccia” e “a cammino”2.
Il primo vede la melagrana disporsi al termine di un tronco ondulante che inizialmente sottile diventa nel corso
del secolo più monumentale arricchendosi di dettagli vegetali e di tronchi aggiuntivi fioriti che si intrecciano a
quello principale rendendo più complessa la decorazione
(Figg. 1, 2). Il secondo dispone, invece, lo stesso motivo in
orizzontale secondo una sequenza ripetuta di teorie parallele continue e sfalsate che danno origine ad un effetto
a scacchiera (Figg. 3, 4). A questo impaginato si aggiunge
via via nel secolo un reticolo di maglie ovali a doppia punta che inglobano la melagrana e aumentano il sistema di
cornici (Fig. 4), dando origine ad uno schema figurale largamente e diversamente sfruttato nei secoli successivi.
Come nel disegno, un’analoga essenzialità formale nuova
rispetto al passato e di grande forza iconica viene mantenuta anche nella tecnica e nel colore. Gli intrecci scelti per
tradurre ed esaltare questo nuovo sistema figurale, che
98
perdurò invariato nel resto del secolo, sono solo due, al
contempo semplici e raffinati, il velluto e il damasco, proposti ora come autentiche novità tecniche dalla neonata
tessitura occidentale nonostante fossero state introdotti
in Europa dall’Oriente in epoca antica, e impiegate ora per
la prima volta e su più larga scala in Italia dalle manifatture fiorentine, veneziane, genovesi e milanesi, solo a partire dal XV secolo3. Quanto ai colori poche sono le tinte
prescelte come il rosso e il verde (ma anche il giallo, l’azzurro, il bianco e il nero) a tonalità intense e giocate sul
contrasto delle bicromie a cui vengono abbinati filati d’oro e d’argento in larga profusione che esaltano la tonalità
luminosa della seta impreziosendola oltremodo: su tutte
dominano comunque il rosso nella variante preziosa del
cremisi, colore della regalità, insieme al bianco e al nero
simboli della nobiltà.
I velluti della Parmeggiani, ancora di più del farsetto riminese4, testimoniano poi i livelli estremi raggiunti dalla tessitura serica italiana in pieno Quattrocento con la
melagrana interpretata in modi diversi dalla stessa tecnica di base, il velluto tagliato, nella versione “a inferriata” (Fig. 1)5 e con altezze diverse del pelo del velluto di seta rosso (detto rilevato o alto basso) disseminato da trame di decoro in oro e argento a diversa funzione (lanciate, broccate e bouclès) più o meno concentrate sulla sua
superficie morbida e compatta (Fig. 2). Nel motivo “a inferriata” il decoro a melagrana è evidenziato dalle sottili
profilature dell’intreccio di fondo raso o taffetas in seta
rossa chiara che incorniciano la superficie morbida e
compatta definita dal pelo del velluto, i cui ciuffi di seta
rossa tagliata assumono una colorazione rossa più scura
e intesa (Fig. 1). Nel secondo caso, il velluto tagliato mostra due livelli distinti di altezza che, rilevati uno sull’altro, descrivono le parti interne del tronco e della melagrana, oltre a zone limitate del fondo, mentre il resto preponderante del disegno come del fondo è ricoperto su
tutta la larghezza della stoffa da trame lanciate in oro filato (Fig. 2). L’uso poi consistente del metallo prezioso è
mirabilmente espresso anche da un’altra tecnica, nuova
ed esclusiva della tessitura rinascimentale, rappresentata da piccoli arricciamenti dei filati d’oro broccati circoscritti a zone definite del disegno (effetti bouclès), storicamente chiamate “alluciolature” o “vergolinature”6, che
vengono disseminati all’interno della melagrana, come
in questo caso, oppure sono raggruppati per descrivere
alcuni dettagli vegetali (Figg. 2, 5).
Va sottolineato al riguardo poi che se i velluti “a inferriata” proponevano decori essenziali in genere monocromi
più semplici nella sequenza “a cammino” della melagra-
Seta, oro e argento
na, a contrassegno di un’eleganza sobria e austera, solo
talvolta impreziosita da filati d’oro e d’argento, i velluti
più esclusivi e tecnicamente più elaborati erano di solito
quelli “a griccia” dove la melagrana, arricchita da tronchi
fioriti esterni (Fig. 2) o da una fitta decorazione vegetale,
poteva esibire sino a tre altezze di velluto tagliato e grande era la profusione di trame d’oro e d’argento che ricoprivano gran parte del fondo e settori precisi del disegno.
Sempre alto, comunque, rimane il livello della tessitura
quattrocentesca espresso dagli altri due capi di abbigliamento, la sopravveste e il mantello, che componevano il
corredo vestimentario ritrovato nella tomba riminese di
Sigismondo Pandolfo Malatesta.
I due capi, oggi purtroppo non più leggibili come tali e ricomposti dopo il restauro in una pezza unica di tessuto
alta cm 224 e larga cm 55 (Fig. 3), che non consente più di
riconoscere l’originaria forma sartoriale7, sono realizzati
in damasco lanciato e broccato e ripropongono il motivo
della melagrana con la tipologia “a cammino” racchiuso
da maglie ovali a doppia punta delineate da rami di piccole melagrane secondo l’evoluzione matura di questo
motivo figurale in pieno Quattrocento (Fig. 4). Come nei
velluti, anche qui, ampio è l’uso di filati d’oro che ricoprono per intero il fondo e il disegno come in una sorta
di continuità, interrotta solo dagli effetti contrastati di
lucido-opaco del damasco che si evidenziano in corrispondenza delle profilature di stacco tra le melagrane e
le cornici.
Se i velluti e i damaschi rinascimentali si qualificano
dunque come le tecniche che meglio interpretano il gusto tessile dell’epoca, fornendo due chiavi di lettura distinte e complementari, la prima di solidità e forza con i
disegni dei velluti scolpiti come bassorilievi, la seconda
di morbida leggerezza con la luminosità cangiante dei
damaschi, il disegno a “melagrana” propone una sistema figurale mai più eguagliato nella storia della produzione tessile. La sintesi formale e il rigore geometrico di
questa tipologia decorativa monotematica e ben definita nel suo sviluppo strutturale, giocata su pochi elementi vegetali descritti in modo essenziale e poco naturalistico anche nella botanica, si definisce come l’icona
di un nuovo status symbol. Così definita, la stoffa di seta
rinascimentale diventa segno di distinzione sociale
quanto mai ambito e privilegiato della classe dominante: indossare e arredare le dimore con questo genere di
stoffe era un’attestazione di lusso esclusivo a cui i ceti
più altolocati della società, clero e aristocrazia, non potevano rinunciare (Fig. 6)8.
Il Cinquecento: diversificazione dei disegni,
evoluzione della tecnica e perfezione degli
intrecci
Se il Quattrocento segna la messa a punto di questo nuovo stile tutto italiano, il Cinquecento ne potenzia i caratteri e li rinnova. Si aggiorna il repertorio con disegni nuovi e sempre più elaborati. La “melagrana” continua ad essere riproposta ingigantita e arricchita nel sistema delle
cornici vegetali a maglie ovali fino alla prima metà del
Cinquecento, per essere ridimensionata e semplificata
nel resto del secolo. Non domina più da sola e incontrastata la decorazione tessile, ma viene abbinata o sostituita da altri motivi come le infiorescenze a giglio e a palmetta con foglie d’acanto, i vasi classici fioriti e i mazzi vegetali che si dispongono all’interno della struttura reticolare codificandosi come il modello figurale distintivo
del periodo. A ciascun motivo si conferisce poi una precisione di segno e una diversificazione formale rinnovata e
più articolata nei soggetti che comunque suggeriscono,
senza esserlo ancora, un’idea di maggiore verosimiglianza naturale.
Per rispondere a tali requisiti i disegni dovevano essere
realizzati con una perfezione esecutiva tale da richiedere tecniche di tessitura più adatte, fino ad allora poco sfruttate e riprese da lavorazioni più antiche e di
provenienza orientale, introdotte nel periodo a questo
scopo, come il velluto cesellato, il lampasso e il broccatello. I decori tessili cinquecenteschi, a differenza di
quelli precedenti giocati su pochi elementi delineati
da tecniche di tessitura complesse ma essenziali (come
le diverse altezze del velluto tagliato, oppure come il
contrasto più meno marcato degli intrecci raso del damasco), sono caratterizzati nel nuovo secolo da una definizione e un’articolazione tecnica e formale così elaborate da simulare i preziosi lavori a bulino dell’oreficeria coeva9.
Ritroviamo i caratteri distintivi di quest’epoca in tre
manufatti esemplari del periodo, nel rivestimento in
velluto cesellato cremisi di un cofano-scrittorio da viaggio estense (Fig. 7)10, nel lampasso che compone il tessuto di un paliotto ricamato appartenuto al cardinale
Morone durante il suo episcopato modenese (15641571) (Fig. 8),11 esposti rispettivamente alla Galleria
Estense e al Museo del Duomo di Modena e in una pianeta in broccatello di una chiesa modenese, ora in mostra temporanea al Museo dell’Abbazia di Nonantola
(Fig. 9)12.
Il primo tessuto della seconda metà del secolo (Fig. 7),
99
IOLANDA SILVESTRI
presenta la combinazione evoluta del doppio ordine di
maglie ovali di diversa grandezza descritte da bocci di
cardo e foglie e d’acanto al cui interno si dispongono
mazzi diversi con piccole melagrane. La traduzione tecnica di questo motivo di grande perfezione nella geometria delle forme e nel contrasto calibrato di pieni e vuoti
è affidata agli effetti combinati del velluto tagliato con il
velluto riccio: i ciuffi di seta lisci, dritti e più alti del primo eseguono i riempitivi fitti e scuri del disegno, mentre
le anelle del secondo ne profilano i contorni, evidenziando i dettagli interni con lieve ma sensibile ribasso sugli
effetti tagliati. Il tutto poi si rileva in modo netto e preciso su un intreccio di fondo liscio e uniforme in taffetas di
seta gialla parzialmente ricoperto in origine da una lamina d’oro andata oggi quasi interamente perduta.
Il tessuto del paliotto (Fig. 8) propone, invece, nello stesso periodo, la riedizione complessa e tarda della melagrana che si trasforma in un elaborato rabesco vegetale di
foglie d’acanto e infiorescenze non bene identificabili
nella botanica, per la cui realizzazione ci si è affidati al recupero di una lavorazione largamente usata nel Medioevo, il lampasso. Questa tecnica viene ora recuperata in alternativa più duttile sia al velluto che al damasco data la
sua maggiore possibilità espressiva di combinare effetti
diversi come quelli bouclés in metallo, utilizzati nella descrizione dei particolari botanici, e gli intrecci prodotti
dalla legatura diagonale di un ordito supplementare di
seta gialla con la trama lanciata d’oro trafilato, che, passata su tutta larghezza della stoffa ricopre quasi per intero il fondo eseguendo il disegno: l’intreccio di base in raso di seta rossa affiora solo in corrispondenza delle sottili profilature di contorno dei motivi decorativi. L’impiego inoltre in gran profusione di un tipo particolare di filato metallico, l’oro trafilato, sta a contrassegnare la preziosità della stoffa, essendo questa una variante ancora
più costosa ed esclusiva dell’oro filato, in quanto costituita da un sottile filato d’oro continuo a sezione circolare e non da una lamina d’argento ricoperta di foglia d’oro
avvolta a spirale su un anima di seta, come è appunto il secondo13. Si percepisce quindi come entrambi i tessuti siano l’espressione diversa e complementare dell’alto livello tecnico e del lusso serico del XVI secolo, più semplice
ma elegante e funzionale il primo, decisamente più sfarzoso e ostentato il secondo.
La stoffa della pianeta di Nonantola (Fig. 9) connota invece un momento importante e decisamente nuovo della
tessitura cinquecentesca che vede la progressiva diversificazione della produzione (mai però seguita alla lettera)
tra i generi d’abbigliamento connotati da disegni di me-
100
die e piccole dimensioni e quelli destinati all’arredo contrassegnati da decori simmetrici a grande sviluppo. La tecnica usata di preferenza per questa nuova specializzazione d’uso, fino ad allora pressoché inedita, é il broccatello
che, di lì in avanti, verrà largamente sfruttata nelle stoffe
da rivestimento e da apparato. Lo rendeva tale la sua tessitura robusta, dovuta all’inserimento di una grossa trama
di lino che consentiva di eseguire fondi in diagonale tesi e
uniformi sui cui si stagliano, per contrasto di intrecci e di
colore, disegni a grande rapporto, eseguiti in raso con la
cromia preferita del rosso, del verde e del giallo combinata nel contrapposto a due tra fondo e disegno. I decori sono caratterizzati da maglie ovali definite da rami o foglie
d’acanto e sfoggiano un repertorio aggiornato di motivi
mutuati dall’architettura e dall’ornamentazione antica
come il vaso fiorito isolato, oppure composto assieme ad
altri motivi classici (grottesche, candelabre, bracieri, cornucopie, geni, fauni, amorini, mascheroni, delfini). Talvolta questo elemento compare integrato da soggetti propri del bestiario tardo medioevale come i leoni rampanti
e i rapaci in volo, presenti nel tessuto nonantolano, a continuità del legame con il passato14.
Di contro tra il 1580 circa fino al 1630 i disegni per le vesti
si riducono sensibilmente riproponendo il sistema delle
maglie lisce o sagomate come si vede nel singolare abito
maschile da gentiluomo, forse un indumento di scena del
teatro elisabettiano conservato a Reggio Emilia, raro e singolare reperto suntuario dell’epoca di recente datato dalla critica tra la fine del Cinquecento e il primo decennio
del Seicento (Figg. 10 a e b, 11)15.
I pochi esempi qui proposti, così diversi fra loro, se testimoniano solo in parte la varietà decorativa introdotta
nella produzione del XVI secolo, attestano tuttavia come
sempre alta e ricercata dovesse essere la domanda tessile
da parte delle corti italiane che mai come allora facevano
a gara nel far sfoggio di abiti e apparati sempre più eleganti e alla moda. Gli inventari e le cronache dell’epoca
documentano largamente la tendenza al lusso e alla distinzione sociale, così pervicacemente perseguita e praticata dalle corti padane di Mantova, Mirandola e Ferrara,
di cui Isabella, Laura d’Este e Lucrezia Borgia furono senza dubbio le espressioni più colte e raffinate16. Per soddisfare le esigenze di questo mercato d’elite le stoffe richieste, oltre a durare non più di qualche mese come nel secolo precedente17, dovevano contraddistinguere chi le
possedeva non solo per la qualità selettiva e differenziata
dei disegni e per il costo elevato dei filati e delle tessiture,
ma avevano anche il compito di identificare il rango sociale di appartenenza (con l’esibizione delle insegne o
Seta, oro e argento
delle imprese della casata tessute o ricamate), la cultura
umanistica espressa, come pure il ruolo pubblico e religioso ricoperto da chi le indossava (emblemi dogali, senatoriali, cardinalizi e pontifici)18. Una sintesi convincente di questa semantica tardo rinascimentale la si ritrova concentrata nel decoro elaborato della veste di Laura d’Este Pico dipinta da Sante Peranda agli inizi del Seicento, con il picchio (insegna dei Pico), l’aquila imperiale e l’unicorno (armi e imprese degli Este), il pavone e il
cane (simboli di nobiltà e fedeltà) (Fig. 12)19.
Non solo alle stoffe operate ricche e preziose, ma anche ai
tessuti semplici privi di contrassegno araldico o ecclesiastico si affidava il compito di sottolineare l’eleganza sobria di un capo importante. È il caso del capino, altrimenti detto camauro o mozzetta, confezionato con un
velluto tagliato di seta cremisi appartenuto a papa Paolo
III, Alessandro Farnese, (Fig. 13) e da questi lasciato in dono alla Collegiata di Castell’Arquato, quando, in occasione dell’incontro a Busseto con l’imperatore Carlo V di
passaggio in Italia per la Germania, in visita privata a suo
figlia, sposa del signore del sito piacentino, dopo aver celebrato la Santa Messa lanciò la mantellina alla folla in risposta all’esternazione d’affetto ricevuta per favori concessi alla cittadina20.
Natura e artificio nelle sete barocche e rococò
Il Seicento sviluppa e codifica ciò che fu già intrapreso sullo scorcio del Cinquecento quanto a distinzione tra stoffe
d’abbigliamento e d’arredo, rinnovandole entrambe all’insegna di un’estetica dominata dal potenziamento dei
valori decorativi in chiave naturalistica dell’elemento vegetale, ben riconoscibile ora nella botanica e ricomposto
su direttrici più libere e sinuose. La decorazione tessile si
adegua alla moda del secolo che attinge linfa nuova dalla
vasta produzione scientifica e ornamentale di dipinti fioristi, erbari, cataloghi a stampa e disegni botanici largamente diffusa in tutta Europa21. Per tradurre a telaio questa riedizione movimentata e colorata del naturalismo,
bisognava far ricorso a tecniche di tessitura più semplificate e meno dispendiose del passato, tali da consentire di
raggiungere risultati apprezzabili ma a costi contenuti,
affidando piuttosto gli esiti della moda seicentesca non
tanto e non solo alla stoffa, quanto piuttosto alle finiture
tessili (pizzi, nastri e passamanerie in genere), alle fogge
sartoriali, all’abbinamento cromatico dell’insieme, e, su
tutto al gioiello d’alta oreficeria22. A fronte comunque
della continuità dei tradizionali e costosi velluti, ora preferiti nelle varianti del velluto cesellato a più colori23, dei
lampassi e dei damaschi (i secondi alternati nella tecnica
del lampassetto), prendono piede stoffe più leggere e di
facile lavorazione, maggiormente sfruttabili nell’abbigliamento, come i taffetas, i gros deTours e i rasi operati dove si gioca sul numero e sulla funzione diversa delle trame
di decoro (liserèes, lanciate e broccate) in sete a ricca policromia spesso abbinate all’oro e all’argento. Il repertorio
floreale continua ad essere ancora quello rinascimentale
che, caratterizzato da rose, garofani e fiordalisi, si arricchisce di nuove tipologie scelte per l’alto valore decorativo: la peonia, la giunchiglia, ma soprattutto il tulipano
con la fritillaria e l’iris che, importati dalla Cina e dall’Oriente, diventano i veri protagonisti del decoro tessile barocco. Siglati nella formula tipica del ramo fiorito ricurvo
questi motivi sono sviluppati su due impianti compositivi di base. Il primo asimmetrico e contrapposto nell’orientamento ripete il motivo in teorie parallele sfalsate
più o meno distanziate, come si vede in un frammento
della collezione Gandini (Fig. 14)24, a cui si accosta per
stretta affinità stilistica la stoffa dell’abito di dama dipinta dal Gennari nel 1676 (Fig. 15)25: in entrambi gli esempi
si apprezza come il tema del ramo ricurvo fiorito rispondesse in modo più confacente alla morbidezza nuova assunta dalle fogge sartoriali barocche contrassegnate da
ricchi panneggi, che rompono la rigida geometria degli
abiti rinascimentali. Una variante alta di questa tipologia
floreale particolarmente adatta alle stoffe d’abbigliamento, giocata questa volta però su dimensioni più ampie e
rielaborata con esito più elegante e raffinato, è riscontrabile in una bella pianeta modenese della chiesa di San
Carlo (Fig. 16)26, che testimonia inoltre la messa a punto
di un nuovo modo di reinterpretare la tecnica tradizionale del damasco nel Seicento. Il disegno principale, delineato da trame broccate in oro filato, si snoda sinuoso su
un fondo rosa salmone intenso impreziosito da una lamina dorata e animato da un decoro vegetale secondario
indistinto e articolato che lo esalta per contrasto degli effetti chiaroscurali prodotti dagli intrecci contrapposti in
raso-ordito e raso-trama del damasco.
Il secondo impaginato tipicamente barocco, invece, predilige grandi decori vegetali policromi disposti su rigidi
assi centrali di simmetria, che, delineati da motivi floreali isolati (tulipani, iris…) o da ricche composizioni vegetali a raggiera nascenti da vasi e calici, dominano la scena
isolati o incorniciati entro ovali da tralci di fiori e foglie
spesso trattenuti da corone, sviluppando al massimo il
loro andamento naturale e il loro valore ornamentale, come si riscontra nel velluto tagliato della raccolta Gandini
che riveste una coppia di poltrone d’epoca posteriore
(Fig. 17)27.
101
IOLANDA SILVESTRI
Solo il Settecento sarà capace di esprimere un naturalismo maturo e raffinato, sempre più attento alla veridicità
del dettaglio botanico che dell’insieme della decorazione, espressa da una sintassi formale varia e colorata dominata da un’idea della natura frivola e arcadica. Prima
comunque di questa seconda grande esplosione naturalistica, la produzione tessile francese e italiana tra il 1680
e il 1730 crea sete per abiti molto particolari dai grandi
decori elaborati e irreali denominati dalla critica a pizzo e
bizzarre, in cui frequente è la contaminazione dei generi
come mostra la bella pianeta modenese esposta al Museo
Diocesano di Nonantola (Fig. 18) e dove sulla tipologia
dominante del pizzo, non mancano tuttavia citazioni
della seconda. I decori a pizzo sono caratterizzati, infatti,
da grandi trionfi vegetali contrassegnati da una botanica
esotica (ananassi. avocadi, felci, ecc.) incorniciata da elaborate trine bianche mutuate dalla moda del periodo che
ne faceva largo consumo28. I disegni bizarre sono identificati, invece, da motivi di pura fantasia ispirati ad elementi architettonici o ad oggetti vari che si sviluppano su impaginati asimmetrici e obliqui dove forte é l’astrazione
formale e cromatica, come mostra l’accartocciamento
della trina a canocchiale e la forma ad ombrello che sostiene l’ananas29. Entrambi sono comunque espressioni
tarde e grandiose di un fasto barocco eccentrico ma ancora terribilmente seducente, che, per l’alto contenuto di
astrazione e invenzione fantastica fino ad allora inedito,
solo nella decorazione tessile raggiungono il massimo
della libertà espressiva rispetto, per esempio, al resto delle arti decorative coeve.
Dopo questo fantasioso interludio serico esploso a cavallo dei due secoli, di lì in avanti la sperimentazione tessile
settecentesca non trova limiti nella messa a punto di
nuove tecniche per nuovi disegni che consentono di tradurre al meglio ogni forma di naturalismo. Si va da quello corposo e pittorico delle composizioni vegetali ideate
dal disegnatore e tessitore francese Jean Revel (allievo del
pittore Le Brun) tra il 1735 e il 1740 poi riproposti fino oltre la metà del secolo, come possiamo ammirare nel paliotto del cardinale Alberoni (Figg. 19, 20)30, fino ai delicati intrecci “a meandro” di rami fioriti con nastri e pizzi
che si snodano sinuosi e paralleli in una veste femminile
della Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia (Fig. 21)31 e in
un prezioso abito nuziale in seta perla e argento donato
al santuario reggiano della Ghiara da Maria Beatrice Ricciarda d’Este e trasformato in parato (Fig. 22)32. Per arrivare, infine, alle soluzioni tarde del “meandro” che si irrigidisce in spartiture verticali in un terzo indumento femminile, un’elegante andrienne del Museo Civico modene-
102
se (Fig. 23)33 e alla reinvenzione di un raffinato gioco di
geometrie spezzate ispirato a un motivo tardo cinquecentesco, il “bastone rotto”, che qualifica il decoro minuto di un altro abito, questa volta maschile, esposto nella
Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia (Fig. 24)34. Ritroviamo lo scenario fedele di questo variegato campionario
tessile settecentesco negli abiti indossati dai componenti della famiglia ducale di Parma nel noto ritratto di corte dipinto dal Baldrighi della Galleria Nazionale di Parma
(Fig. 25). Don Filippo e consorte esibiscono stoffe di seta
unite e operate in raso bianco e in velluto marrone, mentre la granduchessa madre veste un rigoroso taffetas nero
ravvivato da uno sfavillante scialle in pizzo d’oro e d’argento e le infanti femmine indossano due “meandri” uno
giallo, nero e argento per la più giovane, in tinta unita
perla per la maggiore, mentre il delfino sfoggia un “bastone rotto” azzurro35.
Gran parte di queste stoffe operate documentano le più
significative novità tecniche introdotte nel secolo dei lumi: il point rentré, marchio di fabbrica delle sete Revel
(Fig. 20)36, ideato per rendere più efficace il passaggio
chiaroscurale delle trame broccate colorate, il ricorso
frequente e cospicuo di trame liserées e broccate su fondi
taffetas, che permette di restituire la ricca cromia naturalistica dei decori a meandro (Fig. 21) e l’utilizzo di
un’altra tecnica anche questa molto poco sfruttata prima del XVIII secolo, come il pèkin, che consente di combinare tra loro più intrecci diversi, aumentando la ricercatezza dei disegni (Fig. 23). La varietà impressionate di
soluzioni proposte dalla tessitura settecentesca, stimolata dai cambiamenti ormai settimanali dei disegni e
dalla necessità di accorciare i tempi di lavorazione e di ridurre i costi del prodotto per un clientela allargata ora a
fasce nuove della borghesia emergente, dell’imprenditoria economica e dell’alto funzionariato pubblico e privato, è comunque ben più ampia dei generi tessili fin qui
segnalati37. Lo attesta, al riguardo, la produzione serica
di una manifattura locale attiva a Reggio Emilia dal 1743
al 1787 e specializzata su un target di più largo consumo,
che ci restituisce l’idea anche se parziale di quale fosse la
diversificazione tessile nel secolo dei lumi38: a questa
mercatura serica è dedicato nel libro un contributo a
parte.
Il passaggio poi dall’età preindustriale al mondo nuovo,
quello della meccanizzazione tessile ottocentesca, è significativamente testimoniato da un raro manufatto
conservato nella collezione Gandini, per la non facile reperibilità di esemplari simili. Si tratta di un telo napoleonico contrassegnato dal piombo della dogana francese di
Seta, oro e argento
Modena (Fig. 26). Non è una pezza di stoffa o un frammento di essa, bensì un “lavorato finito” già predisposto
per il taglio della confezione di un gilet 39. La progettazione è stata realizzata a priori su un rettangolo di stoffa in
seta avorio a bande orizzontali tessuto prima a telaio, poi
ricamato in seguito a minuto decoro vegetale in sete policrome distribuito a seconda dei tagli sartoriali che compongono le parti dell’indumento, i due quarti anteriori,
le alette ricamate delle tasche e quelle lisce del colletto a
solino, bottoni inclusi.
L’abito delle dimore storiche: i tessuti d’arredo
Non molti sono gli arredi tessili ancora presenti in situ
nei palazzi pubblici e nobiliari della nostra regione come
pure quelli conservati tra gli apparati dismessi in luoghi
e istituzioni di culto di cui si è trovata fortunatamente la
documentazione con riscontro di materiali e fonti, datata a partire dal Seicento in avanti.
A Soragna nel parmense la residenza dei principi Meli Lupi conserva ancora visibili “in opera” le tappezzerie tessute a Venezia tra il 1695 e il 1701 che rivestono le pareti della camera Nuziale (Fig. 27) e della camera del Trono (Fig.
28) oltre ad alcune poltrone40. Entrambi i tessuti, un lampasso di seta verde e giallo a ovali con il motivo rinascimentale del fiore di cardo e un lampassetto in oro, argento e sete policrome con rametti fioriti ricurvi, ricoprivano
rispettivamente le pareti della prima e della seconda camera. Ma il lampassetto era anche la tappezzeria originale del baldacchino dell’alcova (in seguito sostituito da un
velluto di seta cremisi ricamato d’oro), come attesta l’ammirazione espressa dalla principessa Sofia di Neuburg
sposa di Francesco Farnese, in visita a Soragna nel 1695,
che rimase colpita dalla “galanteria” e dalla ricchezza della camera nuziale interamente rivestita da una stoffa “in
brocato bianco d’oro e d’argento tessuto di fiori al naturale”41. Essere alla moda per i Meli Lupi, principi di nomina
imperiale, era una dimostrazione di superiorità gerarchica espressa sia nei confronti della nobiltà locale che di
quella di statura nazionale propria dei Farnese42. Non senza rivendicare con orgoglio la perduta supremazia tessile
nazionale, le tappezzerie parmensi interpretano comunque il rinnovamento degli interni attuato dalla Francia in
pieno Seicento e improntato alla grandiosità ornamentale dei decori vegetali, mantenendo l’equilibrio e l’autonomia propri della tradizione classica italiana.
Con le debite varianti dovute alla maggiore o minore raffinatezza espressiva ritroviamo la seconda di queste tipologie, quella più apprezzata e diffusa a maglie vegetali
ovali con fiore centrale, riproposta anche in altre tappez-
zerie seriche settecentesche documentate nella nostra regione, che fanno eco ormai al gusto più magniloquente
messo a punto dalla Francia e già pienamente affermatosi in Italia. Improntati allo stile d’oltralpe, a Bologna tra
Sei e Settecento furono tessuti quattro addobbi nelle consuete stoffe da rivestimento (damasco, broccatello e lampassetto) contrassegnate dal classico decoro vegetale a
cornici ovali o mistilinee campite dagli emblemi delle rispettive appartenenze religiose: un damasco di seta cremisi con i simboli agostiniani (cuore fiammeggiante trafitto da angeli reggi mitria e pastorale), eseguito tra il
1680 e il 1688 da Lodovico Scarani e figli, “pubblici e primari tessitori di sete” per la chiesa di San Giacomo Maggiore; un broccatello rosso e avorio e un lampassetto viola e avorio raffiguranti i simboli dell’Ordine di San Filippo (cuori infiammati con stelle gigli), entrambi realizzati nel 1704 e destinati a rivestire pilastri e colonne della
chiesa di Santa Maria di Galliera (Fig. 29); un broccatello
rosso con decori in giallo e azzurro tessuto da Giovanni
Chiecotti nel 1670 per l’oratorio del Baraccano con tre diversi disegni contrassegnati dallo stemma della relativa
Confraternita43. Di questi generi d’arredo sei e settecenteschi, sicuramente le prime due erano le tecniche più
adatte a tradurre il valore altamente ornamentale dei loro disegni a grandi fiorami simmetrici, garantendone la
qualità a costi contenuti, anche se va rilevato che i damaschi venivano preferiti di solito ai broccatelli perché oltre
ad essere tessuti in tutta seta, restituivano con il morbido
contrasto luministico dei disegni monocromi un’eleganza più raffinata e aristocratica. Frequenti sono i rimandi
di questa preferenza documentati non solo dai reperti
stessi ma anche dalla cultura figurativa coeva emiliana.
In damasco giallo è la tappezzeria che riveste l’alcova di
Palazzo Tozzoni a Imola realizzata nel 1738 da un intagliatore locale, in occasione delle nozze del conte Giuseppe con Carlotta Beroaldi nipote del cardinale Lambertini (Fig. 30)44. Dello stesso colore, ma di una tonalità
giunchiglia luminosa e brillante è il damasco che riveste
le pareti e alcune poltrone della “sala gialla” del Consiglio
del palazzo comunale di Modena (Fig. 31). Commissionato al tessitore bolognese Vincenzo Cavallazzi nel 1766
che lo eseguì attenendosi a precise indicazioni di riprodurre lo stemma della comunità (croce azzurra in campo
giallo sormontato da una trivella) e di inserire un filo di
bavella (seta di seconda scelta) per ridurre i costi di produzione, data l’estensione della commessa. Allo stesso
fornitore si rivolse anche la Fabbriceria della Cattedrale
modenese tra il 1754 e il 1778 per l’esecuzione del nuovo
addobbo in damasco di seta rossa, che, allestito nel pre-
103
IOLANDA SILVESTRI
sbiterio in occasione dell’inaugurazione della pala del
Villani avvenuta nel Natale del 1764, fu definito all’epoca
“magnifico e sontuoso”45. Rigorosamente rossi, come da
consueta tradizione liturgica, sono anche i damaschi usati per il rivestimento interno di chiese, come quelli della
chiesa di San Carlo di Modena tessuti a Modena da Aron
Sacerdoti intorno al 174646 e quelli eseguiti da Camillo
Vezzani nel 1781 per ricoprire otto colonne del Santuario
della Madonna di San Luca, offerti dai bolognesi in ringraziamento per averli liberati dal terremoto del 1779, la
cui produzione proseguì nel 1792 con la copertura di altre venti colonne per finire nel 1800 con quella dei pilastri47. Valga per tutti questi arredi settecenteschi in damasco un convincente rimando figurativo nella pittura
coeva emiliana riscontrabile nel paravento giallo e nel
tessuto a parete azzurro raffigurato alle spalle della famiglia Borbone nel dipinto già menzionato del Baldrighi
che ritrae la corte di Parma al completo (Fig. 25). Affine
nel gusto, ma riproposta nell’altra tecnica nobile e più costosa, il velluto, è anche un’altra tappezzeria degna di nota, tessuta dal bolognese Vezzani nel 1781: si tratta dell’addobbo in velluto cesellato rosso su fondo giallo eseguito per le pilastrate, le colonne, le cantorie e l’ancona
della cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a
Bologna (Fig. 32)48.
Sempre all’insegna della moda francese con riferimento,
questa volta, allo stile radicale e innovativo introdotto da
Napoleone nei primi due decenni dell’Ottocento, si attestano anche le tappezzerie di una delle più belle ed eleganti residenze neoclassiche della nostra regione, palazzo Milzetti a Faenza. L’edificio, ultimato dal conte Francesco che non lo abitò mai ma lo esibì come gioiello dell’ornamentazione neoclassica e Impero, conserva tre tappezzerie originali Impero, due a parete molto degradate,
nonostante il restauro di un ventennio fa, e una che ricopre oggi solo due del dodici sedie e dei tre divani del salone delle Feste49. Se l’ultima è un semplice tessuto unito
in raso di seta perla con passamaneria dell’epoca, decisamente più rappresentativi sono i due rasi liserées di seta
bicolore che ricoprono le pareti delle sale di Numa Pompilio e di Ulisse: entrambi hanno decori a scacchiera, il
primo azzurro con rosette perla (Fig. 33), oggi irreversibilmente virato in una colorazione monocroma giallastra, il secondo verde con stelle perla a otto punte, anch’esso degenerato in una tonalità indistinta di marrone
scuro (Fig. 34). Ritroviamo la continuità di questo gusto
in altre due tappezzerie, più tarde, epoca Restaurazione,
che rivestivano la mobilia di altre tre sale. Sono due stoffe damascate bicolore, ritessute di recente uguali al mo-
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dello tessile originale documentato solo da pochi lacerti
scoloriti e consunti: la prima, con un disegno a ottagoni
verde chiaro su fondo verde scuro, la seconda, con un motivo a medaglioni vegetali perla su fondo azzurro (Fig. 35)
utilizzata per rivestire divani e tronetti di preziosa fattura in legno laccato perla a intagli dorati eseguiti nel 1837
dall’ebanista Gaetano Bertolani. Contrassegnate da decori essenziali risolti con una distribuzione razionale e geometrica dei motivi giocati nell’abbinamento contrastato
di due tinte scelte nelle tonalità brillanti e metalliche del
perla, del verde e dell’azzurro, le tappezzerie faentine attestano come fosse stato ben recepito in ambito emiliano
il gusto nuovo instaurato da Napoleone, riproposto senza sostanziali cambiamenti e in perfetta armonia con l’unità decorativa degli interni fino alla Restaurazione50.
La grande stagione del ricamo
In sostituzione e a integrazione delle stoffe eseguite a telaio interviene un’altro genere fondante della tradizione
tessile, il ricamo. La tecnica di realizzare decori ricorrendo a mezzi semplici come l’ago e il filo, non vincolati da
un rigido meccanicismo strumentale come il telaio, ma
solo supportati da consumata perizia e inventiva manuale, ha da sempre svolto nei secoli un ruolo parallelo di coprotagonista insieme al tessuto vero e proprio, sviluppando due filoni distinti: quello specifico religioso, tipico della tradizione liturgica, con la rappresentazione di
storie sacre e quello laico più diffuso e largamente sfruttato anche nella produzione tessile profana, contraddistinta da soggetti non figurati dove l’elemento vegetale,
coniugato nelle più disparate espressioni formali, domina la scena. Nei ricami, più che nei tessuti, il decoro floreale si propone il più delle volte con un’autonomia e una
libertà espressiva sue proprie, dove predomina il potenziamento esasperato della botanica espressa da soggetti
particolarmente ornamentali (uccelli, animali, inserti architettonici) e risolta con una varietà incredibile di punti che imponeva l’impiego consistente sia di cromie seriche che di filati e laminati d’oro e d’argento. Si darà conto qui di seguito di questa produzione attraverso le evidenze più significative conservate nelle collezioni pubbliche e nei musei d’arte sacra della nostra regione.
Una sfida alla pittura: il ricamo figurato a
immagini e a historiae sacre
A differenza di altri contesti nazionali, non molte ma
tutte di grande pregio sono le testimonianze antiche di
ricami figurati a destinazione liturgica conservate nel
nostro territorio. Le possiamo classificare in tre tipolo-
Seta, oro e argento
gie distinte diversamente distribuite nei parati: a figure
singole (santi e profeti) e a gruppi (Sacra Famiglia, Dio
creatore, Madonna con bambino, Assunzione della Vergine), di preferenza racchiusi entro comparti architettonici (Figg. 37, 38, 39), oppure a storie tratte dai testi sacri, di solito sviluppate a tutto campo e racchiuse da
tralci fioriti o da cornici mistilinee, tonde o ovali a simulare i dipinti (Figg. 40, 41, 42, 43). Tutte attingono a un
modello di riferimento comune, la pittura sacra coeva,
rielaborata da ricamatori specializzati su disegni forniti da artisti di grido. Fa eccezione per la provenienza
non autoctona solo un raro piviale quattro-cinquecentesco conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio
Emilia, che propone un soggetto mariano, l’Assunzione
della Vergine al centro di una raggiera di cherubini e
motivi gigliati, che la critica ha inteso riconoscere come
esempio “rilevante” della produzione ricamatoria inglese ancora attardata su un gusto tardo medioevale
(Fig. 36)51.
Tra i ricami di sicura manifattura italiana ricordiamo, invece, la Madonna raffigurata seduta nel cappuccio del piviale del Museo Nazionale di Ravenna (Fig. 37)52, insieme
a un altro esemplare dello stesso soggetto questa volta
rappresentato in piedi nello scudo di un piviale della Collegiata di Castell’Arquato a cui fa da corredo una sequenza di santi entro nicchie nello stolone dello stesso parato
piacentino (Fig. 38)53. Entrambi i manufatti ripropongono la comune matrice pittorica di disegni di analogo soggetto che circolavano nelle botteghe rinascimentali di
Botticelli, Pollaiolo, Bartolomeo di Giovanni, Benozzo
Gozzoli e che venivano tradotti a ricamo da maestranze
toscane e lombarde54. Una riedizione tardo barocca dello stesso soggetto, eseguita però in ambito locale, ci proviene dal cappuccio del piviale ricamato nel 1719 dalle
zitelle della Pietà di Parma dedicato alla Beata Vergine
della Steccata e usato nel giorno della sua celebrazione
(Fig. 39)55.
D’ambito toscano sono pure le immagini di Dio Padre,
della Sacra Famiglia e degli Apostoli che, racchiusi da cornici tonde, ovali e mistilinee su fondi ornati da grottesche, compongono gli inserti ricamati tardo cinquecenteschi del paliotto conservato nella cattedrale di Modena
già citato in precedenza (Fig. 8)56. Quanto invece ai parati
che raffigurano storie sacre ricordiamo, per tutte, la grandiosa pianeta istoriata del Museo Davia Bargellini (Figg.
40, 41, 42) ricamata dalle putte del Conservatorio bolognese di Santa Marta nel XVII secolo che si confronta con
la grande pittura delle Logge Vaticane, riproponendo scene bibliche tratte dal Nuovo Testamento e mediate dal
nutrito repertorio di stampe divulgato tra Cinque e Seicento sul modello raffaellesco: il connubio perfettamente riuscito tra le scene figurate impaginate con grande libertà compositiva e il lussurreggiante intreccio vegetale
di “fiori al naturale” che le contiene e le divide, bene documentano l’alto livello espressivo raggiunto dal ricamo
barocco anche in ambito locale57.
Curioso quanto raro risulta anche un reperto di manifattura emiliana conservato nel Museo della Basilica
della Ghiara di Reggio Emilia: è una tendina che serviva
per proteggere un’icona sacra donata nel 1617 da una
nobildonna locale al Santuario omonimo (Fig. 43). L’arredo in seta oro e argento propone una historia insolita
nella tradizione a ricamo, più diffusa in ambito figurativo, tratta da un versetto dell’antico Testamento, l’albero di Jesse, che sta a connotare, anche per l’interpretazione inedita del profeta sveglio e non dormiente con
braccio alzato indicante la Madonna iscritta in una
mandorla, una cultura erudita e raffinata da parte del
committente58.
Se per tutti gli esemplari fin qui esaminati i modelli figurali erano quelli mutuati dalla pittura, la tecnica usata
per realizzarli proveniva da un’antica tradizione artigianale che aveva sviluppato e consolidato nel tempo un repertorio collaudato di punti di ricamo diversificati a seconda delle zone: il punto steso e affondato a filati d’oro
e d’argento per i fondi e le architetture, il punto piatto in
sete policrome per i decori e le figure59. Quest’ultimo,
nella variante del punto raso o pittura, era usato di preferenza nella resa degli incarnati: grazie alla restituzione
minimalista del dettaglio anatomico, il ricamo così eseguito si avvicinava alla verosimiglianza pittorica60. E più
ricchi ed elaborati erano i particolari descrittivi di questi
ricami, più lenta erano la loro esecuzione, per la quale diventava d’obbligo procedere per fasi distinte di lavoro
che richiedevano prima l’esecuzione della struttura portante del disegno distinta da quella delle parti più complesse, poi il riassemblaggio di entrambe nella fase finale
del lavoro.
Protagonista insuperata comunque, anche se solo limitata all’epoca rinascimentale e destinata alla confezione di
manufatti eccezionali di grande pregio contrassegnati
dal mirabile connubio della seta colorata con i filati d’oro e d’argento, rimane un’altra tecnica ricamatoria esclusiva del periodo, che imponeva una perizia tecnica altamente qualificata, l’oro velato (l’or nué, oro smaltato e
translucido) storicamente detto “oro serrato”, secondo
una citazione vasariana, la cui paternità era ascrivibile solo all’ambito fiorentino. La troviamo applicata nei ricami
105
IOLANDA SILVESTRI
figurati dello scudo ravennate (Fig. 37), del piviale piacentino (Fig. 38) e del paliotto modenese (Fig. 8): questo tipo di lavorazione consisteva nel ricoprire l’oro o l’argento filato con fili di seta colorati addensando o diradando
gli avvolgimenti serici così da lasciar trasparire il metallo sottostante e creare un gioco pittorico e traslucido di
luminescenze dorate e argentate sulla ricca cromia della
raffigurazione61.
Una moda aristocratica: i quadri di stanza e le
tappezzerie con vedute
In parallelo alla produzione liturgica di ricami figurati,
è documentata a Bologna ad opera di quel laboratorio
prolifico di ricamo che fu appunto il conservatorio di
Santa Marta dove lavoravano abilmente all’ago le putte,
figlie della nobiltà locale segnate da un destino comune
discriminato da un censo secolare, una serie di quadri e
quadretti ricamati a punto piatto e punto pittura in seta
policroma, raffiguranti brani ispirati alla mitologia classica, per i quali, i modelli di riferimento erano quelli utilizzati nella pittura locale da artisti come Lorenzo Pasinelli, Pier Francesco Cittadini e Ludovico Carracci. Conservate per lo più al Museo Davia Bargellini, come riferisce Bentini, sono “operette da stanza” altamente decorative prodotte per il godimento privato dell’aristocrazia
bolognese che “dall’imitazione della grande pittura trovava avvalli di qualità e di pregio” (Fig. 44)62. Troviamo altri rimandi alla pittura coeva anche in tutta una produzione di arredi ricamati eseguiti con la stessa tecnica, incluso il piccolo punto, oggi in gran parte perduti, che ornavano le dimore gentilizie della nostra regione. Di questa produzione si menziona qui un unicum a noi pervenuto del ricco patrimonio di tappezzerie dei palazzi senatori, sono i ricami figurati eseguiti dalle putte di Santa Marta che rivestono una coppia di seggioloni conservati nello stesso museo bolognese: i temi ivi riprodotti,
la Primavera, una veduta marina e una natura morta incorniciate da serti e ghirlande di fiori, fanno eco alla vasta produzione di quadri da stanza di analogo soggetto
dipinti da Pier Francesco Cittadini, pittore della corte
estense (Fig. 45)63.
Il trionfo del naturalismo nel ricamo sacro e
profano
Non v’è chiesa o dimora aristocratica nella nostra regione che non conservi o abbia conservato a suo tempo testimonianze di parati e arredi ricamati nella tecnica del
punto piatto e punto pittura dove largo è il dispendio di
filati in sete policrome, oro e argento. Molto più che ai
106
tessuti operati di maggior complessità esecutiva per i limiti imposti dalla meccanica del telaio, è al ricamo e alla
sua infinita capacità espressiva che il Seicento e il Settecento affidano una parte preponderante della produzione tessile, specie di quella liturgica. L’età barocca segna in
particolare la messa a punto di modelli decorativi di riferimento comuni all’ambito civile e ecclesiastico che
avranno largo seguito nei due secoli successivi, specie nel
Settecento che li reinterpreta nel gusto dell’epoca inserendo i tipici motivi rocaille. La sintesi di questo gusto che
da Parma a Bologna, come nel resto della penisola, trova
un linguaggio formale comune è espressa dal tema figurale del rabesco fiorito risolto nello sviluppo simmetrico
o asimmetrico delle volute. Due paliotti d’altare bolognesi seicenteschi conservati al Davia Bargellini (Fig. 46)
e nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano64, insieme
al piviale parmense della Steccata del 1719 (Fig. 47)65, tutti realizzati da ricamatori locali, attestano in modo esemplare e documentato, come la messa a punta di questo
modello avesse riscosso grande successo tra Sei e Settecento: la formula preferita è espressa dalle ramificazioni
a voluta che si snodano in perfetta simmetria, animate o
meno da uccelli di ogni tipo, attorno ai temi del vaso o
della cornucopia rigurgitanti di fiori e frutta o dell’immagine sacra, divenuti ora il punto di raccordo centrale
da cui nasce e confluisce l’intera decorazione vegetale. La
finta tenda copriporta a ramages fioriti con volatili dipinta dal Boulanger tra il 1641 e il 1642 con effetto di trompe
l’oeil in una sala del Palazzo Ducale di Sassuolo (Fig. 48)66,
del tutto affine al paliotto bolognese, documenta in modo significativo quanto fossero apprezzati questi decori
tessili anche nell’uso profano67.
I due splendidi baldacchini bolognesi ricamati in oro e
sete policrome da Barbara Zucchi nel 1763 per la Chiesa
di San Domenico (Fig. 49) e da Anna Barocci nel 1782 per
la chiesa della Santissima Trinità, documentano poi come tale sperimentazione nell’epoca dei lumi raggiunga
livelli insuperati e trovi, nella soluzione asimmetrica dell’intreccio di fiori con cornici architettoniche e motivi rocaille, descritti da punti e filati rinnovati e sempre più rifiniti, ben pochi termini di confronto quanto a verosimiglianza naturale e perfezione esecutiva, se non nei coevi
stucchi e intagli lignei, come dimostrano le cimase in legno dorato dei rispettivi baldacchini68.
Una variante del ricamo a fili di seta policromi:
l’applicazione di tessuti a riporto
Una risposta decisamente più economica e di rapida esecuzione ai costosi e pesanti ricami in sete policrome, era
Seta, oro e argento
quella di riportare ritagli sagomati di stoffe leggere di seta colorata a tinta unita e applicarli a cucito sul tessuto di
fondo profilandoli in oro o argento filato e rifinendoli di
frequente con stesure pittoriche per conferire spessore
plastico e chiaroscurale alla decorazione. Questa tecnica
di origine antica fu recuperata e potenziata al massimo
grado durante il Rinascimento per essere riproposta tra
Sei e Settecento con una destinazione d’uso specifica nell’arredo sacro e profano grazie ai suoi requisiti di funzionalità (erano ricami robusti), di minor costo (l’esecuzione era più veloce e l’impiego dei materiali più contenuto)
e di estetica (alta era la resa visiva)69. Ritroviamo questo
tipo di lavorazione in due parati liturgici reggiani e in un
arredo modenese. Il più antico dei tre è una pianeta conservata nel Duomo di Reggio Emilia (Fig. 50) che la tradizione vuole essere stata indossata e donata da San Carlo
Borromeo alla Cattedrale, quando, di passaggio nella
città emiliana, celebrò il 15 aprile 1581 una santa Messa
in onore delle reliquie dei Santi martiri Grisanto e Daria.
Il decoro, circoscritto solo alle zone degli stoloni, è confezionato con un ricamo a riporto realizzato da ritagli in
taffetas laminato di seta gialla profilati da un cordoncino
d’oro filato che disegnano su un fondo di raso nero un intreccio fitomorfo monocromo a doppia maglia ovale70.
La geometria del motivo, un fregio classico rinnovato dal
gusto cinquecentesco in una forma sobria ed elegante e
interpretato dalla tecnica semplice ed incisiva del ricamo
a riporto, ben si confà alla statura morale e al programma
di rinnovamento liturgico di colui che la indossò nell’assunzione piena dei dettami indicati dalla Controriforma.
In netta contrapposizione per l’evidenza sontuosa del decoro vegetale, si pone, invece, il parato liturgico solenne
della Collegiata di Novellara usato nella festività di San
Cassiano (Fig. 51) e fatto fare tra il 1752 e il 1766 dal ricamatore di corte Gonzaga, Lazzaro Pietramaggiori, a somiglianza di arredi cinquecenteschi trafugati durante il
sacco di Roma nel 1527 da una chiesa della capitale, poi
riscattati da Alfonso I Gonzaga nel 1600, quindi definitivamente trasferiti nella rocca di Novellara nel 1752, stando almeno a quanto riferito da un’autorevole fonte ottocentesca locale che ci informa anche che il sontuoso apparato era indicato nel testamento della duchessa Riccarda Gonzaga del 176671. Confezionato ex novo con ritagli di seta perla e gialli, dipinti e applicati su raso di seta
rossa, solo una minima parte dei ricami originali sono
stati ripristinati e riportati con decoro antico su velluto
di seta cremisi in uno dei tre piviali e in un telo da parata
in precario stato conservativo su cui campeggia tra girali
fioriti lo stemma Gonzaga. L’altro manufatto di grande
pregio che testimonia l’uso combinato della tecnica a riporto cinque-seicentesca di ricami a punto piatto e punto pittura in seta policrome con ricami a punto steso descritti da filati d’oro e d’argento, è la portiera campita dalle insegne del cardinale Pietro Campori, oggi esposta al
Museo Civico di Modena (Fig. 52)72. È uno dei pochi arredi di questo genere a noi pervenuti della prima metà del
Seicento che testimonia la moda nata e diffusa in questo
secolo di decorare gli interni delle dimore gentilizie ricoprendo i punti strategici di passaggio interni della casa
con stoffe ricamate dove apparisse forte e inequivocabile
il richiamo autoreferenziale della proprietà e della sua
appartenenza sociale (Fig. 53)73.
“Vanitas vanitatum”: pizzi e ricami d’oro e
d’argento, i veri protagonisti del fasto dall’età
barocca all’Impero
Ricami tutti d’oro e d’argento
Tramontata la pur breve stagione di austerità delle stoffe
e dei ricami imposta dalla Controriforma e avvallata dai
dettami rigoristi introdotti dalla moda spagnola nell’abbigliamento e nell’arredo profano tra fine Cinque e Seicento, in piena età barocca e rococò si tornò a dar libero
sfogo all’esibizione sfrenata del lusso e della ricchezza,
che tornerà ad una più contenuta espressione suntuaria
solo in epoca neoclassica e napoleonica74. Traduzioni
esemplari di questa tendenza, che relega in secondo piano le stoffe tessute a telaio fino a superare la fantasmagorica produzione ricamatoria a fiorami in sete policrome,
sono i ricami interamente eseguiti in oro e argento, esibizioni di un fasto immediato e assoluto. Li ritroviamo
documentati in corredi liturgici solenni appartenuti a
esponenti illustri del clero e dell’aristocrazia locale.
Per i ricami d’oro e d’argento barocchi e rococò ricordiamo i manufatti più rappresentativi e strepitosi: il parato
in terzo del cardinale Rinaldo d’Este (1618-1672) ascrivibile agli anni del vescovado reggiano (1641-1672), donato alla Cattedrale del luogo insieme ad altri arredi (Figg.
54, 55)75, un ternario commissionato ad un ricamatore
romano nel 1706 dall’Ordine dei Cavalieri di San Giorgio
per il santuario della Steccata di Parma (Fig. 56), di cui
portavoce autorevole era il duca Francesco Farnese76, i parati solenni del cardinale Alberoni (1664-1752), ancor oggi allocati nel collegio da lui voluto a Piacenza ed eseguiti un anno prima della sua morte nel 1751 (Figg. 19, 20)77,
e infine, il ricco corredo di vesti e arredi appartenuti a
due insigni prelati bolognesi, il cardinale arcivescovo di
Bologna Prospero Lambertini, alias papa Benedetto XIV
107
IOLANDA SILVESTRI
(1740-1758), con il paliotto del 1742 (Fig. 57) e il pontificale solenne del 1741 (Fig. 58) e il cardinale Aldrovandi
con il parato di San Petronio del 1743 (Fig. 59), conservati nei rispettivi musei della cattedrale78 e della chiesa
omonima79. Allo scopo di evidenziare i passaggi chiaroscurali del disegno monocromo, tutti i ricami citati sono
lavorati con una varietà impressionante di punti e filati
eseguiti su supporti imbottiti di cotone e canapa o su ritagli di stoffa e cartoncini per sottolinearne i diversi livelli di rilievo. La brodérie d’oro o d’argento a rilievo così
supportata è applicata poi sia su fondi ricoperti per intero dallo stesso tipo di ricamo, come si evidenzia nello
strepitoso paliotto di papa Benedetto XIV (Fig. 57), che su
fondi dove è visibile il tessuto unito di base in seta monocromo, spesso ravvivato dalle lumeggiature di una trama in lamina d’oro o d’argento, come si apprezza nel resto dei parati dei cardinali Lambertini (Fig. 58), Aldrovandi (Fig. 59) e Alberoni (Fig. 19).
Se la tecnica di ricamare l’oro e l’argento raggiunge la
sua iperbole barocca negli effetti a rilievo prodotti dalla cornice del paliotto della Steccata (Fig. 56), che si stacca dal fondo con forte aggetto plastico all’esterno, grazie ad una struttura metallica di supporto80, si esprime
tuttavia con pari efficacia ricorrendo a lavorazioni più
semplici nel parato reggiano di Rinaldo d’Este (Figg. 54,
55), dove il decoro elaborato e minuto come un’oreficeria di gusto ancora tardo rinascimentale è descritto dalle sole profilature in cordoncino d’oro81. Pur con le diversità di tecnica e stile dovute all’epoca in cui furono
realizzati e al gusto di chi li commissionò, tutti questi ricami fanno riferimento ad una comune matrice stilistica che trovò nelle botteghe di ricamatori dell’Urbe, faro
propagatore della cultura artistica barocca, il laboratorio guida. Roma infatti fu il luogo eletto di tale sperimentazione aurea con modelli di ricamo contrassegnati da decori imponenti e sontuosi, che nei manufatti
emiliani e bolognesi vengono tradotti in una forma più
misurata e a sua volta diversificata da luogo a luogo: il
legame tra i Farnese e i cardinali bolognesi con il Papato è siglato, per esempio, dall’utilizzo diretto di maestranze provenienti dalla capitale, mentre per il cardinale Rinaldo d’Este come per il cardinale Alberoni la liason romana è mediata, invece, da ricamatori locali aggiornati e affinati al gusto della città eterna82.
Un’espressione diversa del lusso prodotta dal ricamo
con metalli preziosi ci proviene, inoltre, dal corredo
suntuario della duchessa Maria Luigia di Parma esposto
al Museo a lei dedicato, che, nello splendore discreto e
raffinato dei ricami d’argento che li identificano, ci re-
108
stituisce l’idea tangibile di come veniva espressa la regalità in epoca napoleonica. Sono due abiti di gala, il primo con gonna e manto a strascico, forse riconoscibile
con una veste affine confezionata a Parigi nel 1838, descritta tra i Manteaux de Cour dell’imperatrice (Figg. 60,
61)83, il secondo riadattato per la figlia Albertina e databile tra il 1825 e il 1830 (Fig. 63), anche questo di quasi
certa manifattura francese84. A questi va aggiunto un
manto della Madonna della chiesa dell’Annunziata di
Parma, donato dalla duchessa (Fig. 64)85.Tutte e tre le vesti presentano la stessa tipologia di ricamo Impero in lamina d’argento liscia e punzonata, lavorata a punto
rammendo su fondi di seta diversi connotati da un decoro contenuto nelle dimensioni e impaginato con una
distribuzione geometrica e preordinata dei motivi a seconda del taglio dell’abito. Nella veste ducale, per esempio, il decoro a minuta punteggiatura è profilato nei
bordi da alte cornici ornamentali. Anche se gli abiti ducali propongono, tuttavia nella linee morbide e attondate, fogge sartoriali più tarde, proprie già del gusto romantico della Restaurazione, rispetto al rigoroso taglio
Impero della veste indossata dall’imperatrice nel noto
ritratto ufficiale di Lefèvre esposto nel museo parmense
(Fig. 62) proprio di fronte al manto ducale, si apprezza
comunque quale fosse il ruolo di protagonista affidato
al ricamo d’argento e con esso la consacrazione del nuovo gusto francese introdotto da Napoleone in campo
tessile: la predilezione per le stoffe di seta unite, leggere
e trasparenti, ornate da ricami semplici e razionali coniugati nelle tonalità fredde e metalliche dei laminati
d’oro e d’argento a cui si abbina una cromia intensa e
schiarita della seta di fondo86.
Pizzi d’oro: preziose filigrane lavorate a fuselli
Come la stoffa a telaio e il ricamo, anche il merletto metallico, pizzo o trina che dir si voglia, lavorato a fuselli, ha
espresso un ruolo importante nella decorazione tessile,
anche se secondario rispetto agli altri due generi, in quanto utilizzato a supporto e rifinitura dell’abbigliamento e
dell’arredo. Solo in alcuni periodi, come nel XVII e nel
XVIII secolo, e in forza del successo riscosso da sempre come prezioso orpello di vesti e parati liturgici, fu intrapresa una produzione d’eccellenza mai più ripetuta in seguito, caratterizzata da pizzi di grandi dimensioni d’oro e
d’argento che sostituivano integralmente i più tradizionali tessuti e ricami nella confezione di indumenti e apparati esclusivi destinati all’aristocrazia e all’alto clero87. I
merletti d’oro e d’argento di grandi dimensioni con i loro
elaborati intrecci a traforo che simulavano i lavori in fili-
Seta, oro e argento
grana dell’oreficeria coeva, dimostrarono come mai fino
ad allora le potenzialità insospettate ed estreme di un’arte “povera” come quella del pizzo a fusello si fossero spinte oltre, non solo sfidando la corrispettiva produzione di
trine di lino bianco all’ago e al tombolo, ma riuscendo ad
affrancarsi anche dalla sudditanza secolare imposta dalla
grande tradizione tessile di stoffe e ricami serici. Sorprendentemente, e a differenza di altre, la nostra regione conserva ancora alcuni di questi esemplari, un tempo prodotti in numero ridotto per il loro costo elevato fino ad oggi miracolosamente sopravvissuti nonostante l’inevitabile perdita subita in passato da questo genere di manufatti
che venivano distrutti per recuperare il metallo prezioso.
Sono cinque pizzi di epoca e provenienza diversa, tutti di
grande pregio per il tipo particolare di lavorazione che li
accomuna a filo continuo e a pezzi separati.
Il metallo filato e laminato, manovrato da piccoli pesi
detti fuselli, veniva intrecciato senza interruzione fino a
comporre il motivo principale del disegno, che, nella fase finale della lavorazione e solo per i pizzi grandi e complessi, veniva integrato da parti lavorate separatamente:
il riassemblaggio di striscie diverse assicurate lateralmente a quella centrale era l’unica soluzione tecnica in
grado di realizzare trine di ampie dimensioni ovviando
così ai limiti imposti dalla lavorazione a fuselli e dalla rigidità del filo metallico che non consentiva di superare in
media i15 cm di larghezza.
Di questi pizzi, i primi due seicenteschi compongono
una coppia di pianete seicentesche del cardinale Rinaldo
d’Este, vescovo di Reggio Emilia (1642-1672). Databili tra
il 1642 e il 1672 e di sicura provenienza veneziana, presentano decori distinti, uno a fitto rabesco di volute asimmetriche (Fig. 65) e l’altro a elaborata candelabra rinascimentale (Fig. 66), che declinano due espressioni diverse
del linguaggio barocco dell’epoca88: più sperimentale e
alla moda il primo, decisamente classico e allineato con
la tradizione rinascimentale, il secondo.
Dei restanti pizzi settecenteschi, due sono stati usati per
la confezione di paramenti sacri e uno per la realizzazione di una veste femminile. Il primo è una trina d’argento
che orna un prezioso tessuto di seta operata perla e argento servito in origine per confezionare l’abito nuziale
di Maria Teresa Beatrice Ricciarda d’Este, andata in sposa
a Milano nel 1771 a Ferdinando d’Asburgo Lorena, figlio
cadetto di Maria Teresa d’Austria. La pregiata veste tessuta in Francia, a nozze avvenute e come era uso fare da parte di esponenti dell’aristocratia, fu donata al Santuario
reggiano della Vergine della Ghiara che la reimpiegò per
un parato liturgico solenne (Fig. 22)89.
Il secondo è una trina d’oro di eccezionale grandezza e
perfezione, applicata su velluto di seta azzurra che la tradizione, non ancora supportata da fonti documentarie
certe, ritiene essere con molta probabilità di provenienza estense in quanto essere stata o espressamente “commissionata” da una principessa estense devota alla chiesa
modenese di San Carlo, oppure “donata” come pezzo
esclusivo del guardaroba ducale da un suo insigne esponente (Fig. 67)90. Il terzo è un merletto d’argento alto 25
centimetri applicato in un abito femminile (andrienne)
conservato nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia,
che ripropone nel decoro, ingrandito e arricchito, quello
geometrico a piccole maglie romboidali presente nel
fondo a rete della trina d’oro modenese91. Se questi ultimi esemplari testimoniano l’alto livello di specializzazione raggiunto dai merlettai francesi nella seconda
metà del Settecento proprio in questo tipo di produzione, di lì in avanti l’apogeo raggiunto dal mercato esclusivo di trine d’oro e d’argento, segnerà il passo, verso una
progressiva e rapida decadenza dell’intero settore che
coinvolgerà anche la produzione di merletti ad ago e fuselli in lino e seta, sotto la pressione incalzante di una moda rivolta a un domanda tessile più economica e di largo
consumo92.
109
IOLANDA SILVESTRI
NOTE
1 I tessili recuperati durante la ricognizione tombale del 1920 non rese-
ro possibile ricomporre la foggia originale dei tre capi d’abbigliamento
a cui a appartenevano, un farsetto in velluto broccato, una sopravveste
e un manto in damasco lanciato broccato, inclusi un corredo molto
frammentario composto da una camicia, una cintura di seta e da alcuni
bottoni sparsi in seta e oro. Inizialmente e solo parzialmente esposti
nella Cella delle Reliquie del Tempio Malatestiano di Rimini, furono
sottoposti a restauro agli inizii degli anni ’70 dalla Fondazione svizzera
Abegg Stiftung di Berna dove è attivo uno dei centri europei più famosi
e prestigiosi specializzati nel recupero dei manufatti tessili antichi.
Questi importanti reperti noti fin dal XVIII secolo e citati da D. Devoti
(L’Arte del Tessuto in Europa, Milano 1974, p. 22) sono stati studiati e pubblicati in due importanti occasioni, a conclusione del restauro da M.
Flury-Lemberg, in Textile Conservation and research, Abegg-Stiftung Berna
1988, pp. 452/455, cat. nn. 22-24 e nel catalogo della mostra di Rimini
(13 marzo-15 giugno 2001), Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, Rimini 2001, nei saggi curati da: E. Tosi Brandi, Un esempio di magnificenza signorile. Il guardaroba di Sigismondo Pandolfo Malatesta, pp. 68,69
e L. Nucci, Il restauro dei frammenti tessili delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel Tempio Malatestiano di Rimini, pp. 70/72, cat. nn. 96, 97.
Per la bibliografia storica precedente si rimanda a questi ultimi studi.
2
Le denominazioni di queste due varianti decorative della melagrana
compaiono in un trattato anonimo sulla tessitura serica fiorentina della seconda metà del XV secolo pubblicato nel 1868 da G. Gargiolli. Si veda in proposito D. Devoti, cit., pp. 21, 22.
3 Per un inquadramento storico generale di questi due generi tessili
identificativi della tessitura serica del XV secolo con riferimento alla
produzione italiana, si veda D. Devoti, cit., pp. 21/24; E. Bazzani, cit.,
1981, pp. 82/85,108/118 e I. Silvestri, Storia e fortuna dei damaschi, in Tessuti antichi nelle chiese di Arona, catalogo della mostra a cura di D. Devoti e
G. Romano, Torino 1981, pp. 49/51,78,79.
4 Il farsetto è un capo maschile tipico rinascimentale corto, attillato e
stretto in vita da una cintura, che, assicurato da una fitta abbottonatura sul davanti, veniva imbottito per protezione dai colpi d’arma. Era indossato sopra alla biancheria intima (la camicia) e sotto alla sopravveste (“giornea”) e al mantello. Dalle maniche tagliate al gomito e alla
spalla per la movimentazione delle braccia sbucava a sbuffi la camicia
sottostante. Alla parte inferiore del farsetto erano assicurate tramite
lacci calze aderenti di panno o di maglia di seta che venivano solate o
meno nel piede a seconda che fossero usate in sostituzione della scarpe
o con esse. Per i dati tecnici, storico-critici e bibliografici sul farsetto malatestiano si rimanda alla scheda n. 97 redatta da Nucci nel catalogo della mostra sui Malatesta (cit., 2001). Si menziona inoltre per i debiti confronti anche lo studio dell’autrice su un altro farsetto malatestiano d’epoca anteriore (molto simile nel tipo di velluto operato utilizzato e meglio conservato nella foggia sartoriale), ritrovato durante la ricognizione effettuata nel sarcofago di Pandolfo III Malatesta (1370-1427) sepolto nella chiesa di San Francesco di Fano (v. cat. cit. n. 73), dove sembra
diversa la confezione, qui realizzata con maniche strette che terminano
a sbuffo all’altezza della spalla.
5 Sono velluti tagliati, a una o due altezze di pelo, così denominati dalla
critica per il loro particolare disegno “a melagrana”, che, tecnicamente
descritto in velluto tagliato con i contorni evidenziati dalle sottili profilature opache dell’intreccio di fondo, delinea un motivo a rabesco simile appunto ad un’inferriata. Storicamente chiamati “zetanini vellu-
110
tati” o “zetani avvellutati”, vengono indicati dalla critica più recente otto-novecentesca con il nome di velluti “a inferriata” v. E. Bazzani, cit., pp.
117, 118.
6
Su questa tecnica particolare di arricciatura dell’oro, che sembra mutuata dall’arte tessile copta ma che viene riproposta in modo innovativo e con l’impiego esclusivo di filati d’oro e d’argento nei velluti operati solo in epoca rinascimentale prima in Italia poi in Spagna con soluzioni diverse nel modo di distribuire questi effetti solo sulla superficie
del velluto, non si sa molto a tutt’oggi. Si veda in proposito: E. Bazzani,
cit., pp. 103/107; Origine e sviluppo dei Velluti a Venezia: il velluto allucciolato
d’oro, Venezia 1986.
7
Lo studio del telo, ricomposto con i frammenti dei due capi ritrovati
nella tomba di Sigismondo (la sopravveste e il manto), rimane a tutt’oggi ancora aperto a nuove ipotesi e interpretazioni, riguardo al tipo di
fogge cui fanno riferimento. Non si è certi infatti se questi fossero in origine così combinati, un manto con sopravveste (detta giornea), corta e
senza maniche, aperta ai lati e arricciata sul davanti, come quella indossata da Sigismondo nell’affresco tombale e nella tavola del Louvre
dipinti da Piero della Francesca, oppure invece come sembra, una veste
corta aperta sul davanti con occhielli su entrambi i lati per il passaggio
della stringa, completata da un mantello della stessa lunghezza, confezionato con la stessa stoffa, un damasco di seta lanciato e broccato, simile a quelli elencati nel suo guardaroba. Sembra tuttavia che, per la
presenza di tracce di fodera in taffetas, i capi dovessero essere da mezza
stagione (v. la scheda redatta da L. Nucci n. 96 nel catalogo della mostra
(cit., 2001).
8
Sul valore simbolico del tessuto di seta nel Quattrocento e sul prestigio assoluto che esso deteneva anche rispetto all’abito, si veda, A. Fiorentini Capitani - S. Ricci, Considerazioni sull’abbigliamento del Quattrocento in Toscana, in Il costume al tempo di Pico e Lorenzo il Magnifico, a cura di A.
Fiorentini, V. Erlindo, S. Ricci, Milano 1994, pp. 51,56/58.
9 Sull’evoluzione del disegno tessile nel Cinquecento si veda D. Devoti,
cit., pp. 24/26;
10
Si veda la scheda tecnica del velluto cesellato che riveste il cofano
scrittorio portatile esposto alla Galleria Estense di Modena, prezioso
quanto raro manufatto dell’oreficeria rinascimentale opera di Leone
Leoni (1509-1590), pubblicata da I. Silvestri e E. Bazzani, in Restauri fra
Modena e Reggio, catalogo della mostra di Modena del 29 ottobre - 24 dicembre 1978, a cura di G. Bonsanti, Modena 1978, cat. n. 43, tavv. 52/55,
pp. 106/110. Un tessuto uguale compone un paliotto conservato nel
Duomo di Reggio Emilia (Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di
Modena e Reggio Emilia, scheda del catalogo generale, NTCN n. 100).
Come é stato segnalato dalle studiose, se la produzione di questo genere di velluti della seconda metà del XVI secolo é ascrivibile ai maggiori
centri di produzione del centro e Nord Italia (Firenze, Genova Milano e
Venezia), tuttavia non si esclude una sua verosimile provenienza anche
da centri minori presenti in ambito emiliano con riferimento specifico
all’ambito ferrarese dove era attiva sin dal Medio Evo la tessitura serica
di stoffe operate (velluti compresi) legata al ducato estense. Si esclude
comunque l’assegnazione specifca a Modena e Reggio in quanto il trasferimento del ducato in questi territori a fine Cinquecento é posteriore alla datazione del velluto.
11 Il tessuto del paliotto e quello di un altro più piccolo, entrambi espo-
sti al museo del Duomo di Modena, componevano in origine un parato liturgico completo appartenuto, come sembra fino ad oggi, al car-
Seta, oro e argento
dinale Morone che resse l’episcopato modenese dal 1564 al 1571. Se risulta documentata la provenienza del ricamo in oro velato come produzione esclusiva d’ambito fiorentino, meno localizzabile con precisione risulta il luogo di produzione del tessuto operato che comunque
per la sua complessità tecnica doveva far rimando ad un centro importante del centro e Nord Italia, Toscana compresa, come ben evidenzia chi lo ha studiato: L. Lorenzini, “Paramenti et altri suppellettili”. Note su
arredi sacri e dotazioni liturgiche della cattedrale di Modena, in Domus Clari
Geminiani. Il Duomo di Modena, a cura di E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori, Modena 1998, pp. 194/231 e pp. 207, 208. Si veda inoltre la scheda
tecnico-storica pubblicata dal medesimo autore, in Il Duomo di Modena
- The Cathedral of Modena, collana diretta da S. Settis, Modena 1999, cat.
883, pp. 286, 287.
12
Per questa pianeta conservata nella chiesa parrocchiale di S. Giorgio
Martire di Vesale, una frazione di Sestola sita nell’Appennino modenese,
si veda la scheda storico tecnica di I. Silvestri, in Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenese, catalogo della mostra a cura di C. Chiaravello e R. Fangarezzi, Bologna 2004, cat. n. 2, pp. 38, 39 e foto di copertina. Il successo riscosso da questo genere tessile, con vocazione specifica
nell’arredo e nei paramenti liturgici della produzione tardo cinquecentesca, fu tale da essere riprodotto a simbolo della decorazione tessile di
quel periodo dalla moda revivalistica in voga tra i “collectioneurs pratiques”
italiani tra Otto e Novecento, che diffusero questo gusto non solo nella
produzione tessile ma anche nella decorazione parietale dipinta che riproduceva questi motivi in sostituzione dei più costosi rivestimenti tessili. Si veda in proposito la tappezzeria della Camera del Letto Verde e del
Salone di palazzo Bagatti Valsecchi a Milano, espressamente voluta dai
proprietari e fatta tessere da manifatture lombarde “... su disegni dall’antico...”, pubblicata da R. Pavoni nel suo studio, Le tappezzerie del Palazzo Bagatti Valsecchi di Milano: problemi museologici, in Le tappezzerie nelle dimore storiche. Studi e metodi di conservazione, atti del convegno C.I. S. S. T., Firenze 13-15 marzo 1987, Torino 1988, pp. 48/55, fgg. 43/46.
13 Per questa tecnica di ricamo tipicamente rinascimentale si veda M.
Schuette - S. Muller Christensen, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma
1963, p. 12.
14 Per questa tipologia cinquecentesca a maglie ovali con vasi, elementi
architettonici classici ed inserimenti di animali tardo trecenteschi, si rimanda a D. Devoti, cit., pp. 25,26.
15 Tre sono a tutt’oggi le attribuzioni espresse dalla critica su questo interessante indumento conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio
Emilia. La prima è sostenuta dalla nota storica della moda Janet Arnold
che ne afferma l’originalità come abito di scena del teatro inglese del periodo elisabettiano, scalabile tra il 1615-20 ca., per il taglio e le cuciture
sartoriali, nonché per il modo di eseguire i punti di ricamo ben visibili
lungo i contorni dei ritagli in pelle di capretto che compongono il disegno a maglie sagomate racchiudenti garofani fioriti (Patterns of Fashion. The cut and construction of clothes for men and women c1560-1620, Londra - New York 1985, cat. 23 pp. 90/92, fgg. 201/10 a p.30, disegni nn
23,23A/d a pp. 90/92). La seconda è quella di M. Cuoghi Costantini pubblicata nel catalogo dei tessili della Galleria Parmeggiani del 1994, che
propone invece un’attribuzione ottocentesca a imitazione di modelli
cinquecenteschi (Tessuti e costumi..., cit., cat. 143 p. 94). La terza è quella
recentissima avanzata da G. Butazzi nello studio prodotto nel catalogo
a cura di A. Zanni e A. Di Lorenzo, pubblicato in occasione della mostra
attualmente in corso al Museo Poldi Pezzoli di Milano (2 ottobre 200515 gennaio 2006) su: Giovan Battista Moroni. Il Cavaliere in nero. L’immagine
del gentiluomo nel Cinquecento. La studiosa concorda con l’attribuzione
della Arnlod suggerendo però una datazione anticipata compresa tra
gli ultimi anni novanta del Cinquecento e non oltre il primo decennio
del Seicento. A sostegno di questo spostamento cronologico intervengono alcuni elementi sartoriali dell’abito e dati stilistici del tessuto. Per
i primi, la forma gonfia e tonda dei calzoni tagliati direttamente nel tessuto e non più a striscie staccate e applicate ad una fodera interna come
era in uso fino agli anni Settanta del Cinquecento, oltre a novità già seicentesche come la linea più accorciata del giuppone, le alette sulle spalle e l’assenza della braghetta interna nei calzoni. Per i secondi, la riduzione delle dimensioni del disegno floreale segna il cambiamento del
gusto tessile in atto tra i due secoli, così pure la marcata stilizzazione dei
motivi e la predilezione per schemi simmetrici a maglie romboidali sottolinenao il perdurare nella moda di caratteri ancora tipicamente cinquecenteschi. (cat. 7 e fig. a p. 111).
16 Sul fasto e sul lusso (non solo tessile) esibito da queste esponenti delle corti padane del Rinascimento v.: R. Iotti, Ricchezze ed eleganze di corte
negli inventari di celebri principesse italiane, pp. 45/52, e, C. Zafanella, Isabella D’Este e la moda del suo Tempo, in Isabella d’Este. La primadonna del Rinascimento, a cura di D. Bini, Modena - Mantova 2001, pp. 209/224.
17 Le stoffe di seta “alla moda” tra XV e XVI secolo non duravano molti
mesi almeno nel colore, se veniva ritinta nella cromia di tendenza per
procrastinarne l’uso, come riferisce R. Bonito Fanelli nel suo studio: I
tessuti del contado fiorentino nel secolo XV, in Il costume al tempo..., cit., p. 49.
18
“Le novità della moda e il lusso erano diventati per le famiglie aristocratiche gli strumenti per affermare il proprio status sociale, distinto dagli altri e dominante; per le classi emergenti costituivano l’espediente
per dimostrare il raggiungimento di un livello sociale superiore”, come
bene sintetizza Bonito Fanelli, cit., p. 51. Sul tema del lusso, in specifico
su quello esibito dalle corti italiane che erano esenti dall’osservanza delle leggi suntuarie, si rimanda agli studi fondamentali condotti da Maria
Giuseppina Muzzarelli, in particolare alle sue opere fondamentali, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Torino 1996, dove peraltro si cita l’atteggiamento ostile di Sigismondo Pandolfo Malatesta verso le proibizioni suntuarie (p. 59) e il catalogo della
mostra di Rimini, Belle vesti, dure leggi «In hoc libro ... continentur et descripte sunt omnes et singule vestes», a cura dell’autrice, Bologna s.d.
(2004), dove si sottolina come il bisogno di distinzione sociale fosse un’esigenza imprescindibile da parte dei ceti alti (p. 15). Per quanto riguarda
poi l’uso di contrassegnare le stoffe degli abiti, delle divise cvili e militari, nonché degli apparati, con emblemi (stemmi o iniziali) e imprese gentilizie, allo scopo di sottolineare visibilmente la provenienza del proprio
status sociale, ricorrendo a inserimenti tessuti o ricamati, si veda Zaffanella, cit., 2001, pp. 214, 215. La studiosa rileva come la moda di questo selettivo contrassegno tessile risalga alla fine del ’400, mediata dalla foggia
cavalleresca francese al seguito di Carlo VIII e di Luigi XII e consacrata dal
suo insigne inventore, il Petrarca, che nel Canzoniere coniò tre motti dedicati a rispettive “imprese”. La moda delle stoffe cosidette literatae, infatti, dettò legge nel Rinascimento tanto da ritrovarla sia nei reperti tessili come ancora di più nelle vesti di imperatori, re, principi, principesse
ed esponenti dell’alto clero ritratti nei dipinti del periodo.
19 È un ritratto ufficiale a figura intera conservato a Palazzo Ducale di
Mantova, che se documenta, da un lato, il gusto vestimentale femminile di una corte padana tra Cinque e Seicento con l’adesione ai canoni
della moda spagnola (foggia rigida e squadrata dell’abito con gonna a
tronco di cono detta “a faldiglia”, corpetto aderente e a punta, finte maniche aperte ad ala, colletto con alta gorgiera di pizzo), sottolinea, dall’altro, i due aspetti fondamentali della cultura vestimentale e tessile
111
IOLANDA SILVESTRI
italiana del Rinascimento: la sontuosità serica, attestata da una seta madreperla intessuta d’argento e il suo significato semantico di stoffa literata espresso da un disegno interamente dedicato all’esaltazione della
casata e dei suoi valori d’appartenza (v. G. Martinelli Braglia, I Pico e i
Gonzaga. Arte e Cultura, Carpi 2000, pp. 90, 91).
20 V. la scheda storico- tecnica di Silvestri, in Il Museo della Collegiata di Ca-
stell’Arquato, catalogo a cura di P. Ceschi Lavagetto, Piacenza 1994, p. 111.
21 Sull’evoluzione della tessitura nel XVII secolo nei suoi caratteri gene-
rali si rimanda a Devoti, cit., pp. 26, 27 e ai saggi di E. Bazzani, Continuità
e innovazione nel tessuti d’abbigliamento del Seicento, pp. 57/81 e I. Silvestri,
Il tessile nella decorazione degli interni”, pp. 25/56, in, La Collezione
Gandini.Tessuti dal XVII al XIX secolo, catalogo a cura di D. Devoti e M.C. Costantini, Modena, 1993.
22 Sul contenimento dei costi nella produzione tessile seicentesca italiana si vedano gli approfondimenti storico critici di D. Digiglio, Crisi e
riconversione delle manifatture seriche italiane nel Seicento, in La Collezione
Gandini ..., cit., pp. 13/24 e per lo spostamento dell’interesse visivo dal
tessuto agli accessori “della” e “alla” moda, v. R. Orsi Landini, Apparire non
essere: l’imperativo del risparmio, in Velluti e Moda tra XV e XVII secolo, Milano
1999, pp. 91 e sgg.
23 L’impiego nel velluto a più orditi di pelo di colori diversi (leggibili sul-
la stoffa contando in verticale le diverse cromie del pelo tagliato o riccio), venne largamente sfruttato nel XVII e XXVIII secolo per rispondere a mutate esigenze introdotte dalla moda che imponeva una ricerca
cromatica più ricca tale da rispondere alla varietà di colorazioni presenti in natura. I velluti cesellati tipici del periodo erano appunto quelli “a giardino” contrassegnati da decori vegetali molto naturalistici, v. E.
Bazzani, cit., pp. 96, 97, 112/118.
24
V. la scheda di cat. n. 164 redatta da E. Bazzani, in La Collezione Gandini…, cit., pp. 151, 152, tav. a p. 105, relativa al frammento seicentesco in
raso liseré di seta cremisi (fondo) e gialla (decoro) a racemi a voluta fioriti di tulipani.
25 È un ritratto a mezzo busto che raffigura Laura Garzoni con cagnolino, dipinto da Cesare Gennari nel 1676 come da iscrizione riportata sulla tela: l’abito della dama è confezionato con una stoffa di seta alla moda color grigio-azzurro a larghi racemi a voluta di tulipani, molto simile a quella del frammento Gandini in raso a fondo rosso con fiori gialli
(cat.164),v. la scheda redatta da D. Benati, in Figure come al naturale. Il ritratto a Bologna dai Carracci al Crespi, Milano 2001, cat. n. 28, pp. 90, 91.
26 Su questa pianeta che fa parte del corredo liturgico della Chiesa di San
Carlo di Modena, sede eletta dai duchi e dalla nobiltà locale per le celebrazioni solenni di entrambi, si veda I. Silvestri, L’Arredo. I Tessuti, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo a Modena, a cura di D. Benati, L. Peruzzi, V. Vandelli, Modena 1991, pp. 220 e 224, fig. 219.
27
È un velluto tagliato di seta cremisi del XVII secolo che riveste una
coppia di poltrone d’epoca posteriore, appartenenti alla Collezione
Gandini del Museo Civico di Modena, v. scheda di I. Silvestri in La Collezione Gandini…, cit., cat. 178.
28
Per questa pianeta conservata nella chiesa di San Giacomo Maggiore
a Nonantola, ora esposta nel Museo Diocesano locale si veda la scheda
redatta da L. Lorenzini, in Trame di luce..., cit., cat. 13, p. 60. Sulle sete “a
pizzo” si rimanda al contributo di P. Thornton, cit., pp. 109/115.
29
Sui decori bizarre si rimanda agli studi fondamentali di: V. Slomann,
Bizarre Designs in Silks, Copenaghen 1953; P. Thornton, cit., pp. 95/101.
30 Il tessuto francese di gusto Revel usato per confezionare il paliotto e ri-
finito da un raffinato ricamo d’oro eseguito nel 1751 dal piacentino Pie-
112
tro Scilti, è databile ad un periodo anteriore alla brodérie, ovvero tra il
1733 e il 1740 ca. quando questo genere di stoffe erano alla moda. Si tratta di una seta che viene recuperata e reimpiegata nella costruzione di
questo controaltare non solo per il suo pregio, ma anche per il valore
simbolico che testimonia, stando ad una tradizione non ancora documentata: sembra infatti sia stata data in dono da Elisabetta Farnese (moglie di Filippo V re di Spagna) al cardinale nel tentativo di riconciliarsi
con l’alto prelato piacentino dopo il suo allontanamento dalla Spagna
nel 1719 per gli esiti negativi conseguiti alla politica estera attuata dall’Alberoni come primo ministro del re. Si veda in proposito, la scheda OA
della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Parma e Piacenza
(08/00157105, n. 36) e il saggio di P. Venturelli, Di alcuni tessili sei- settecenteschi della collezione Alberoni di Piacenza, in Bollettino Storico Piacentino,
00 LXXXI, f. 2, luglio-dicembre 1986, pp. 226/289, scheda e fig. 9.
31 Si tratta di un sopravveste femminile (andrienne), esposta alla Galleria
Parmeggiani di Reggio Emilia, confezionata con un tessuto di seta, un
diagonale operato a trame broccate policrome su fondo rosa salmone,
di manifattura francese, databile tra il 1760 e il l 770 ca., con il tipico decoro tessile di quegli anni a rami fioriti accompagnati o meno da nastri
di pizzo, o da altri elementi mutuati dagli accessori della moda dell’epoca come codette di pelo, che si snodano in teorie parallele verticali
con andamenti sinuosi denominati dalla critica “a meandri”, v. M. Cuoghi Costantini, cit., cat. 110, p. 81, tav. a p. 72.
32 È un ricco corredo liturgico confezionato con un lampasso in seta avorio impreziosito da trame broccate d’argento di tre tipi (filato, riccio e
filato avvolto su lamina), di manifattura francese, che in origine servì
per confezionare l’abito nuziale della principessa estense Maria Beatrice Ricciarda andata in sposa a Ferdinando Asburgo Lorena, figlio cadetto di Maria Teresa d’Austria a Milano 1771. Per volontà di Maria Teresa
Cybo d’Este, madre di Beatrice Ricciarda, la stoffa fu riutilizzata per realizzare un’apparato liturgico in terzo con piviale del Santuario della
Ghiara di Reggio Emilia, come riferisce M. Cuoghi Costantini, in Il Santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia, a cura di A. Bacchi e M.
Mussini, Torino 1996, cat. 50, fig. 261.
33
Si tratta di un’altra andrienne conservata al Museo Civico di Modena,
databile tra 1770 e il 1780, d’epoca posteriore a quella reggiana esposta
alla Galleria Parmeggiani, in quanto presenta l’evoluzione tarda e già
marcatamente geometrica del disegno a meandri trasformato ora in
spartiture verticali di nastri rigidi decorati da fiori minuti.
34 L’abito maschile integro nelle sue parti sartoriali (marsina, sottoveste
e calzoni) e di manifattura francese databile tra il 1770 e il 1780, come
appunto l’Andrienne modenese di cui è il pendant virtuale al maschile, è
conservato alla Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia, v. M. Cuoghi Costantini, cit., cat. 116, tav. p. 73.
35 Ritroviamo i tessuti settecenteschi fin qui descritti documentati negli
abiti indossati dai componenti della famiglia ducale di Parma nel noto ritratto di corte in un interno dipinto da G. Baldrighi ed esposto alla Galleria Nazionale di Parma (Inv. n. 1149). Il campionario è quanto mai vario: si
va dalle stoffe semplici a tinta unita in raso bianco, velluto marrone e taffetas nero, presenti negli abiti dei duchi, fino alle sete operate “a meandri”
delle sopravvesti femminili in giallo nero e argento e in monocromo perla delle figlie, e in quella “a bastone rotto” dell’abito del fratellino. Nel repertorio vanno inclusi anche i tessuti d’arredo combinati in diverse cromie a contrasto: il damasco giallo a fogliami del paravento e quello celeste
della tappezzeria a parete, il velluto verde scuro che ricopre il tavolino e i
due taffetas azzurri utilizzati rispettivamente come portiera raccolta e come drappo ornamentale appoggiato al paravento giallo.
Seta, oro e argento
36 Su questa tecnica di passaggio sfumato delle trame broccate ideata dal
disegnatore – tessitore lionese Jean Revel e applicata tra il 1730-33 e il
1740-45 per aumentare l’effetto tridimensionale e pittorico dei decori tessili, si veda, P. Thornton, Baroque and Rococò Silks, Londra, pp. 116-124.
37
Sul pékin come su molte altre tecniche tessili inventate nel corso del
XVIII per rispondere ai cambiamenti continui della moda, si rimanda al
saggio di M. Cuoghi Costantini, I tessuti del ’700: la seduzione della tecnologia, in La Collezione Gandini..., cit., pp. 45/66.
38 Riguardo a questa mercatura serica locale oltre al saggio di questo vo-
lume si rimanda allo studio di E. Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Le stoffe di seta: produzione e commercio, in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Vita di borgo e artigianato, Milano 1980, pp. 242-269.
39
V. la scheda di catalogo redatta da I. Silvestri, in La Collezione Gandini...,
cit., cat. 408 p. 351.
40 V. A. Lusvarghi - I. Micheletti - A. Mordacci Cobianchi, Le Tappezzerie del-
la Rocca Meli Lupi di Soragna, in Le tappezzerie nelle dimore storiche..., cit.,
1988, pp. 136/145, figg. 119/125.
41 Mordacci Cobianchi, ibidem, p. 140.
42 Ibidem, nota 16, p. 138.
43 Le indicazioni su questi arredi di chiese bolognesi opera di tessitori
locali sono fornite da J. Bentini nel suo contributo, Tessuti e Ricami e nelle rispettive schede di catalogo pubblicate in L’arredo sacro e profano…,
cit., 1979, p. 138 e cat. nn. 269-270, 272, 273-274.
44
Su questo addobbo serico conservato in originale nelle sue componenti (testiera, coperta del letto, cortine del baldacchino e tappezzeria
a parete e della mobilia annessa con passamaneria originale), si veda E.
Maugeri - A. Musiari, Le tappezzerie di palazzo Tozzoni a Imola, in Le tappezzerie nelle dimore storiche..., cit., pp. 7/16, in specifico pp. 12,13; G. Manni,
L’arredo d’epoca, in Le grandi dimore storiche in Emilia - Romagna. Palazzi privati urbani, Milano 1986, cat. 5 p. 104, tav a p. 105; Restauri a Palazzo. Il recupero della residenza imolese dei conti Tozzoni, a cura di L. Bitelli e M. Cuoghi Costantini, inserto della rivista IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali, con riferimento specifico ai testi di O. Orsi,
Una visita a Palzzo Tozzoni, p. 66 e L. Bitelli, L’appartamento barocchetto: metodologia e criteri guida del restauro, pp. 76, 77. L’addobbo, insieme al resto
di arredi tessili del palazzo imolese, è stato restaurato dalla Ditta RT Restauro Tessile di Albinea (Re) con i fondi stanziati dall’Istituto Beni Artistici Culturali e Naturali della regione Emilia-Romagna (L.R. 18/2000,
piano museale 2000).
45
La tappezzeria in damasco giallo del palazzo comunale di Modena
rinnovò il rivestimento seicentesco in cuoio stampato delle pareti e di
alcune sedute; fu poi sostituita agli inizi del Novecento e solo nelle
parti più degradate da un altro damasco simile ma inferiore per qualità e colore. Nel 1985 l’amministrazione procedette alla rimozione
integrale del secondo damasco con uno identico a quello originale
settecentesco, eseguito da un tessitura artigianale ligure di Zoagli su
telaio manuale antico, v. AA. VV., Il Palazzo Comunale di Modena. Le sedi,
la città, il contado, a cura di G. Guandalini, Modena 1985, pp. 253, 254,
264. Per il damasco cremisi del Duomo di Modena non ancora identificato, ma documentato dalle fonti, si veda L. Lorenzini, Paramenti et altri suppellettili ..., cit., p. 211.
46 I rivestimenti parietali in damasco di queste sale si trovano nella Roc-
conte Augusto Lorenzotti, si veda I. Silvestri, L’arredo. I tessuti, in Il Collegio e la Chiesa ..., cit., p. 220, fig. 218.
48 Sul damasco tessuto da Camillo Vizzani per San Luca si veda la scheda
di catalogo redatta da A. Pellicciari nel 1979 (Soprintendenza per Beni
Storico Artistici di Bologna, Santuario della Beata Vergine di San Luca,
scheda OA del catalogo generale n. 08/00018338). Riguardo al parato in
velluto cesellato che servì per l’addobbo della cappella del Rosario della chiesa di San Domenico, eseguito dallo stesso tessitore bolognese,
che conduceva anche il filatoio dei fratelli Rizzardi, si veda L. Lorenzini,
L’artigianato artistico a Bologna per il culto dell’Eucarestia: alcune considerazioni, in Mistero e Immagine. L’Eucarestia nell’arte dal XVI al XVIII secolo, catalogo
della mostra a cura di S. Baviera e J. Bentini, Bologna, chiesa abbaziale di
San Salvatore 20 settembre - 23 novembre 1997, Milano 1997, p. 280, cat.
43, tav. 242.
49
Oltre alle indicazioni riportate da Anna Colombi Ferretti in, Qualche
notizia sugli arredi del Palazzo, in Palazzo Milzetti. Guida alla visita, Faenza
2000, pp. 38/43, si ricorda che le tappezzerie di palazzo Milzetti sono state oggetto di una relazione orale tenuta da I. Silvestri nella giornata di
Convegno di Studi Internazionali dedicata alle soluzioni e ai problemi
conservativi messi in atto su questi materiali : L’abito delle dimore storiche.
Il recupero delle tappezzerie antiche: restaurare, rifare... cosa fare?, promosso
dall’IBACN della regione Emilia-Romagna, con il patrocinio dell’ICOMItalia, in occasione del Salone del Restauro di Ferrara nella giornata del
1 aprile 2001.
50 Sulle sete Impero si veda, D. Devoti, cit., pp. 32, 33 e lo studio specifico di J. Coural, C. Gastinel - Coural, M. Muntz de Raissac, Paris, Mobilier National Soiries Empire, Paris 1980
51 Si tratta di una testimonianza tra le più importanti e significative del
ricamo inglese della fine del Medioevo, v. M. Cuoghi Costantini, Tessuti e
costumi della Galleria Parmeggiani, Reggio Emilia 1994, cat. 17 p. 27.
52 V. la scheda di L. Martini nel suo studio: Cinquanta capolavori del Museo
Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998, cat. 30.
53
V. la scheda di E. Bazzani, in Il Museo della Collegiata..., cit., pp. 106/110;
il parato fu restaurato nel 1991-‘92 dal laboratorio Massacesi-Medica di
Bologna.
54 Per dati tecnici, storici e confronti specifici si rimanda alle schede critiche curate dalle rispettive autrici citate alle note 52 e 53 di questo studio.
55
V. la scheda di I. Silvestri nel catalogo su tessuti e argenti della Santuario della Steccata, in “Per uso del santificare et adornare”..., cit., 1991, cat.
86. Il parato, esposto alla mostra sull’arte a Parma dai Farnese ai Borbone e restaurato nel 1980 dal laboratorio bolognese Massacesi-Medica, ripropone le tre tecniche ricamatorie tipiche di questi generi, il punto
steso per i filati d’oro e d’argento, il punto piatto e il punto raso o pittura per le sete policrome, qui aggiornate e arricchite di varianti tecniche
per tradurre al meglio l’esuberanza cromatica e naturalistica dei decori ricamati barocchi e rococò.
56 V. la nota 11 e fig. 9 di questo saggio.
57 V. la scheda di J. Bentini, in Il Museo Civico D’Arte Industriale e Galleria Da-
via Bargellini, catalogo a cura di R. Grandi, Bologna 1987, cat. 119. Si rimanda inoltre alle indicazioni fornite da Marina Carmignani nel suo
studio recente, Tessuti, Ricami, Merletti in Italia: dal Rinascimento al Liberty,
Milano 2005, pp. 166/168.
ca di Dozza (Bologna) e sono stati restaurati nel 1994-’95 dalla ditta RT
Restauro Tessile di Albinea (Re) con fondi comunali su criteri conservativi concertati con l’Istituto regionale per i Beni Artistici.
58 V. la scheda di M. Cuoghi Costantini, in Il Santuario della Madonna della
Ghiara ..., cit., cat. 44, p. 298.
47 Su questo addobbo eseguito a Modena per volontà testamentaria del
59 Sulla storia e sulle tecniche di questi punti di ricamo si vedano le voci
113
IOLANDA SILVESTRI
di riferimento “punto steso” (point couché), “punto affondato” e “punto
piatto” (point plat) dei testi guida: T. De Dillmont, Encyclopédie des ouvrages
de dames, Parigi, s.d. (1886); L. De Farcy, La broderie du XIe siècle jusqu’à nos
jours, Angers 1890; M. Schuette, S. Müller-Christensen, cit., pp. 10, 11.
60 Ibidem.
61 Ibidem, con riferimento alla voce tecnica “oro velato” (or nué); si veda,
inoltre, la nota 11 di questo studio.
62
La citazione è riportata nella scheda redatta da J. Bentini, in Il Museo
Civico D’Arte ..., cit., cat. 124, p. 188.
63 Ibidem, cat. 121; v. inoltre: I. Silvestri, Il tessile nella decorazione degli inter-
ni, in La Collezione Gandini..., cit., pp. 35, 36, figg. 27a/e a pp. 42, 43; P. Curti,
Trionfo di tessuti,in I magnifici apparati..., cit., pp. 342, 343, fig. 2; M. Carmignani, cit., 2005, pp. 166/168.
64
Per il paliotto del Davia Bargellini, v. la scheda di J. Bentini, in Il Museo
Civico d’Arte..., cit., cat. 120 e I. Silvestri, cit., pp. 50,52, fg. 31; per il paliotto
ricamato in sete policrome oro e argento a racemi fioriti con uccelli eseguito dal Maestro ricamatore Daniele e conservato nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano di Bologna, si veda: J. Bentini, Tessuti e Ricami, cit.,
p. 138 e L. Lorenzini, L’artigianato artistico a Bologna…, cit., p. 280, cat. 48.
65 V. la scheda di I. Silvestri, in “Per uso del santificare et adornare”..., cit., cat.
86.
66 V. I. Silvestri, cit., p. 52, fg. 28 a p. 45.
67 Sulla cifra stilistica del ricamo barocco v. I. Silvestri, cit., pp. 51/53.
68
V. B. Trebbi, L’artigianato nelle chiese bolognesi, Bologna 1958, tav. 58;
scheda di J. Bentini, in L’arredo sacro e profano a Bologna e nelle legazioni pontificie. La raccolta Zambeccari, catalogo della mostra L’Arte del Settecento emiliano, a cura di J. Bentini e R. D’Amico, Bologna 1979, cat. 344 fgg.
217/220, sempre in questo catalogo si rimanda allo studio storico critico di J. Bentini incentrato sulla produzione tessile e ricamatoria a Bologna e nello stato pontifico nel XVIII secolo, dove accanto a questa compaiono altri nomi di ricamatori e ricamatrici attivi a Bologna per commesse relative alle chiese locali, pp. 133/141. Un recente aggiornamento storico critico sul parato di San Domenico è stato curato da G. Viroli,
in Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, catalogo
della mostra a cura di J. Bentini e A. Stanzani, Milano 2001, pp. 274/276.
69 Su questa tecnica ricamatoria detta “a riporto” o “di applicazione”, v.
C. Giorgetti, F. Mabellini, Dipinti ad ago. L’arte del ricamo dalle origini al Punto Pistoia, Lucca 1995, pp. 86,96,97; I. Silvestri, La portiera in velluto di palazzo Campori (prima metà XVII secolo), comunicazione orale tenuta il
27/02/2001 e nota storico-tecnica pubblicata nel depliant di presentazione del restauro al Museo Civico di Modena.
70
V. la scheda di catalogo generale redatta da I. Silvestri per la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Modena e Reggio Emilia, Chiesa Cattedrale di Reggio Emilia, NTCN n. 08/00.225837, n. 28; M. Cuoghi
Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in I Beni degli artigianati storici, a cura di J. Bentini e G. Adani, Milano, pp. 250/272, fig. 20.
71 Sul parato di San Cassiano ricamato su velluto di seta cremisi (un solo piviale) e su raso di seta cremisi (il resto del parato), si rimanda alle
schede di catalogo redatte da I. Silvestri nella brochure, Il Tesoro dell’insigne
chiesa Collegiata di S. Stefano di Novellara (Reggio Emilia), pubblicata a cura
della stamperia comunale in occasione della mostra tenutasi nella collegiata di Novellara dal 20 dicembre al 7 febbraio 1987, cat. 50/53.
72 Per questa portiera, esposta nella sala dedicata alla collezione d’arte
Campori del Museo Civico di Modena, si rimanda alla scheda storicocritica redatta da I. Silvestri in occasione della presentazione pubblica
del restauro cit. alla nota 69.
114
73 Eseguita con la stessa tecnica di ricamo esiste anche uno grande stendardo da parete con le armi congiunte dei conti Malvezzi-Campeggi
esposto nella sala grande della rocca di Dozza (Bologna). Per questo arredo, restaurato nel 1994 dal laboratorio reggiano RT Restauro Tessile
di Albinea (Re), d’epoca più tarda e di qualità inferiore alla portiera modenese (è in misto seta-lana), si veda in questa pubblicazione il riferimento riportato nella scheda sulla Rocca di Dozza inserita nel Repertorio Museale. La riproduzione di una portiera gentilizia affine a quella
modenese in un dipinto ottocentesco della Galleria Parmeggiani di
Reggio Emilia che riproduce una ricostruzione d’un interno d’epoca,
bene evidenzia l’uso e la simbologia espressa da questi arredi nelle dimore aristocratiche.
74
Sulla perdita di ruolo da protagonista del tessuto rispetto al ricamo
in oro e ai gioielli dell’oreficeria, riferimenti estetici di maggiore richiamo all’epoca, si veda C. Zaffanella, cit., pp. 213/215.
75 Su questo parato proveniente dal duomo di Reggio Emilia, oggi conservato nell’erigendo museo diocesano dell’Arcivescovato locale insieme ad altri preziosi esemplari appartenuti al cardinale vescovo Rinaldo
d’Este, si rimanda allo studio di C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana. Pizzi e ricami d’oro e d’argento nei parati liturgici estensi dei secoli XVII e
XVIII, in La Collezione Gandini. Merletti, ricami e galloni dal XV al XIX secolo, catalogo a cura di T. Schoenholzer e I. Silvestri, Modena 2002, pp. 82/84,
tavv. XXII/XXV. Si veda, inoltre, la guida, Il palazzo Vescovile di Reggio Emilia. Illustrazione di un percorso espositivo di arredi e ambienti, a cura dell’Ufficio Beni Artistici della Curia di Reggio Emilia, San Martino in Rio (Re)
1994.
76 L’esecuzione romana di questo ricamo specie della cornice ad alto ri-
levo del paliotto, pressocché senza analoghi riscontri in altri parati del
periodo ad oggi conosciuti, è il segno del legame potente e secolare
stretto dai Farnese con Roma e il soglio pontificio, ricordiamo in proposito che Alessandro III Farnese, nel XVI secolo, fu papa con il nome di
Paolo III, v. la scheda redatta da I. Silvestri per il catalogo di argenti e tessuti della Steccata di Parma, cit., cat. 79 pp. 142/145.
77 Il cardinale Alberoni fa riferimento invece ad un ricamatore locale, il
piacentino Pietro Scilti, per la realizzazione non solo del fregio che incornicia il tessuto centrale del paliotto citato in questo studio e di cui è
certa la data di esecuzione il 1751 (v. 46 p. e 19), ma anche, e quasi sicuramente, per altri quattro paliotti e due ternari solenni eseguiti tra gli
anni ’40-’50 del Settecento anche oltre la morte del cardinale avvenuta
nel 1752, v. P. Venturelli, Di alcuni tessili sei - settecenteschi della collezione Alberoni di Piacenza, in Bollettino storico Piacentino, 00 LXXXI, f. 2, luglio-dicembre 1986, pp. 226/289. Vedi inoltre l’esposizione di parati alberoniani curata da I. Silvestri nel collegio omonimo, in occasione del ducentocinquantesimo anno dalla fondazione del Collegio e della morte
del Cardinale, in, Celebrazioni Alberoniane 1752-2002. Il cardinale Alberoni e
il suo Collegio. Atti del convegno internazionale di studio, Piacenza 2003, pp.
162/169.
78 Bologna, come legazione pontificia, tra Sei e Settecento fa il verso a Roma, capitale dell’arte barocca e rococò, nonché faro creativo nella produzione ricamatoria, arricchendo le proprie chiese con parati ricamati
di grande pregio. Fra tutte San Pietro è il tempio sacro eletto dove è custodita la parte più cospicua e rappresentativa, fino ad oggi conservata,
di questo patrimonio tessile che fa riferimento ai fastosi corredi paramentali di cardinali divenuti papi come Prospero Lambertini (papa Benedetto XIV), i Ludovisi (papi Gregorio XIII e XV) e i Boncompagni, (papa Innocenzo XII Carafelli). Della cospicua dotazione tessile appartenuta al famoso cardinale Lambertini (papa dal 1740 al 1758 anno della sua
Seta, oro e argento
morte) e conservato nella cattedrale di San Pietro, questi sono i ricami
suoi più identificativi, in quanto, interamente ricamati oro su oro, esprimono per contrasto la concezione alta dell’arte al servizio del culto e della glorificazione di Dio, rispetto alla stile sobrio e umile di questo pio servo della chiesa. Stando poi a quanto riferisce chi li ha studiati – Mons. B.
Trebbi (1958), J. Bentini (1979), E. Landi (1984) F. Varignana (1997) – ne
esistono altri con simile decoro in San Petronio e in San Pietro a Roma,
in diverse chiese romane (S. Maria della Vallicella, S. Marcello al Corso, S.
Maria Maddalena) e di Lisbona dove furono inviati dall’Urbe, a riprova
del fatto che l’esecuzione di detti manufatti doveva con ogni probabilità
essere di matrice romana, sia per le munifiche spedizioni fatte fare dal
papa a Bologna, sede periferica dello stato pontificio, che, per essere stata Roma nel Sei e Settecento la “capitale del ricamo” specie di quello a destinazione liturgica per cui erano attivi i laboratori del Bovi, Saturni, Salandri e Mariani, v. B. Trebbi, cit., pp. 17,18, tavv. 131,154,155; J. Bentini,
Tessuti e ricami, in L’Arredo sacro e profano..., cit., p. 139, cat. 265, 266, figg.
179,180; E. Landi, Il corredo liturgico settecentesco della Cattedrale di San Pietro
a Bologna, in I tessili antichi e il loro uso: testimonianze sui centri di produzione
in Italia, lessici, ricerca documentaria e metodologica, III° Convegno C.I.S.S.T.,
Torino 1984, pp. 78/84; F. Varignana, Il Tesoro della Cattedrale di San Pietro,
Bologna 1997, pp. XXII/XIV, cat. 41, 44, , figg. 61, 52.
84 V. L. Fornari Schianchi, cit., 2003, cat. n. 10 p. 157, insieme allo studio fatto in occasione del complesso restauro del 1998/99, che ha permesso di ricostruire con approssimazione verosimile quello che doveva essere l’abito in origine eseguito intorno al 1830 per Maria Luigia stessa e, di lì a poco, con ogni probabilità ristretto e riadattato per la giovane figlia Albertina Montenuovo, forse in occasione del suo matrimonio con Luigi Sanvitale nel 1833. La veste confezionata nella duplice ipotesi con una stoffa
più “antica” di stile Impero utilizzata in seguito, oppure con una seta ricamata intorno al 1830 nello stesso gusto della decorazione tessile in voga nel periodo napoleonico (1800/1815) e in continuità ad esso, è giunta
a noi pesantemente smembrata e alterata rispetto al taglio originale del
1830: si presentava invece in una foggia d’inizio ’900 con gonna tagliata a
centro vita e bustino morbido con collo tondo e maniche corte tagliate a
cilindro. Il recente restauro ha permesso di recuperare la foggia alla moda di un abito femminile degli anni ’30 dell’Ottocento confezionato con
una stoffa ricamata d’epoca Impero, seguendo i tagli e le cuciture sartoriali di quel periodo, compreso il riadattamento del ’33, mentre per il
tronco è stato riutilizzato un bustino ritrovato nel corredo di Maria Luigia e confezionato con la stesso tessuto (AA.VV., L’abito ritrovato..., cit.).
79 L’altro corredo paramentale ricamato famoso, è quello conservato nel-
85 Sul manto della statua della Madonna in taffetas di seta cangiante ver-
la chiesa di San Petronio, appartenuto al cardinale Pompeo Aldrovandi
(1734-1752); questo riporta, a differenza degli altri, le immagini del prelato bolognese con mitria e piviale che regge nella mano destra la chiesa
omonima e si dispone al centro di una cornice fiorita siglata dalle virtù
cardinali. Il parato databile intorno al 1750 e confezionato in gros de Tours
rosso laminato d’oro, ricamato a punto raso in sete policrome, oro e argento, fu donato insieme ad altri manufatti tessili dal cardinale alla cappella di San Petronio disegnata da Alfonso Torreggiani, nel 1743 (J. Bentini, L’arredo sacro e profano..., cit., cat. 340, fig. 213); si vedano, inoltre, B.
Trebbi, cit., tav. 172; F. Montefusco Bignozzi, Gli Arredi, in, AA.VV., La Basilica di San Petronio in Bologna, Vol. II°, Milano 10984, pp. 308/312, fig. 383.
de acqua a ricami in lamina d’argento dorato liscia e punzonata, ricavato dal reimpiego di un manto con strascico appartenuto a Maria Luigia
e da lei donato alla chiesa, si veda L. Fornari Schianchi, Temi da Museo, in,
L’abito ritrovato..., cit., pp. 12,13, figg. 6/9.
80 V. nota 80.
81 V. nota 79.
82 V. E. Landi, cit.,1986, p.79.
83
V. AA.VV., L’abito ritrovato. Recupero e restauro di un abito ottocentesco, Quaderni del Museo n. 1, a cura di F. Sandrini, Parma 1999, pp. 30, 31. fig. 25.
Si veda inoltre la scheda di catalogo di L. Fornari Schianchi, in Maria Luigia
e Napoleone. Testimonianze. Museo Glauco Lombardi, a cura di L. Fornari
Schianchi, P. Sivieri, F. Sandrini, Milano 2003, cat. n. 1, p. 45. L’abito ducale, proveniente dall’eredità Sanvitale, fu acquistato nel 1934 dal collezionista locale Lombardi e modificato nel dopoguerra per ragioni espositive, prima nella sua abitazione privata, poi nella reggia di Colorno: oggi, fa
bella mostra di sé restaurato e riallestito ex novo in una nuova vetrina nel
Salone delle Feste del Museo Glauco Lombardi a Parma insieme al dipinto di Lefèvre che ritrae la duchessa nel ruolo di imperatrice dei francesi
con un veste che ripropone un ricamo analogo. L’indumento utilizzato da
Maria Luigia in ricorrrenze ufficiali si compone di un abito (gonna e corpetto) in tulle meccanico avorio ricamato in lamina d’argento liscia e punzonata con motivi di matrice classica (cornucopie, tralci di vite e grappoli d’uva, simboli di abbondanza e prosperità con evidente allusione al felice governo della sovrana) e di un manto in gros de Tours ondato di seta azzurra che ripropone lo stesso decoro. Di recente si è concluso il restauro
eseguito dal laboratorio reggiano RT. Restauro Tessile presentato l’8 otto-
bre dell’anno in corso nel Salone delle Feste del Museo Glauco Lombardi
cura della Fondazione Monte di Parma e del Comune di Parma.
86
Sulla moda neoclassica improntata al nuovo stile Impero introdotto
da Napoleone sullo scorcio del Settecento (1789/90) e in voga fino ai primi due decenni del XIX secolo si veda : AA.VV., The age of Napoleon. Costume from Revolution to Empire 1789-1815. Metropolitano Museum of Art, NewYork, 1989; Il tessuto nell’età del Canova, a cura di M. Cuoghi Costantini, Milano 1992; I. Silvestri, Eleganza neoclassica e rigore Impero nel ricamo, in L’abito ritrovato..., cit., pp. 67/71.
87 Sul pizzo metallico si rimanda allo studio recente e compiuto di M.
Luisa Rizzini, “L’incostanza, della moda ch’ogn’ora si cangia”. Merletti metallici e ricami tra Cinque e Settecento, in La Collezione Gandini. Merletti, ricami e
galloni dal XV al XIX secolo, catalogo dei Musei Civici di Modena a cura di
T. Schoenholzer Nichols e I. Silvestri, Modena, 2002, pp. 55/74.
88
Per entrambi i parati reggiani si veda: Il Palazzo Vescovile di Reggio Emilia..., cit., C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana. Pizzi e ricami d’oro e
d’argento nei parati liturgici estensi dei secoli XVII e XVIII, in La Collezione Gandini. Merletti..., cit., pp. 75/81, fg. 33, tavv. XV/XVIII. Per la pianeta in pizzo d’oro su raso di seta perla con stemma del cardinale, si veda inoltre, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante..., cit., p. 263,
fig. 22; la scheda di catalogo di I. Silvestri, in Images du Salut. Chef-d’Oeuvres
des Collections Vaticanes et Italiennes, catalogo della mostra al Royal Ontario Museum, 8 giugno-11 agosto 2002, Roma 2002, cat. 118, tav. a p. 258.
89 V. M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante...,
cit., fig. 24 p. 263; v. inoltre la scheda di M. Cuoghi Costantini in Il Santuario della Madonna..., cit., cat. 50 p. 301, fig. 261.
90
V. I. Silvestri, I Tessuti, in Il Collegio ..., cit., p. 224, figg. 225/227; C. Cremonini, I. Silvestri, Splendori in filigrana..., cit., pp. 84, 85, tavv. XXVI, XXVII.
91 V. M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Tessuti e manufatti tessili, in Atlante..., cit.,
fig. 14, pp. 258, 259; M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi..., cit., cat. 111.
92 V. Silvestri, Splendori in filigrana..., cit., p. 85.
115
Impalpabili orpelli della moda:
i veli di seta bolognesi
MARTA CUOGHI COSTANTINI
al Medioevo sino alla fine del Settecento la lavorazione della seta ha rappresentato un settore importante nell’economia di numerose città italiane, i cui prodotti furono apprezzati, grazie alla loro particolarità,
non solo sui mercati locali ma in tutta Europa. L’attività
delle manifatture seriche di regola comprendeva una vasta gamma merceologica composta sia da tessuti uniti
che da operati, sia da stoffe d’arredo che d’abbigliamento. I centri più importanti tuttavia si affermarono sul
mercato, e ne mantennero anche per lunghi periodi il
monopolio, grazie a prodotti per così dire d’eccellenza.
Lucca ad esempio divenne celebre per la lavorazione dei
cosiddetti “diaspri”, Venezia e Firenze si specializzarono
in quella del velluto, in particolare dei ricchi velluti operati, mentre Genova eccelleva nei damaschi d’arredo.
Questa sorta di specializzazione della produzione ebbe
motivazioni diverse non sempre perfettamente individuabili. Spesso vi contribuirono gli scambi legati al commercio di materie prime e prodotti finiti, alla diffusione
di modelli decorativi e di tecniche esecutive, ma soprattutto le migrazioni di artigiani e del loro sapere. Nel processo di sviluppo che interessò le manifatture seriche italiane nel Rinascimento, insieme a fattori di tipo strutturale, fu certamente determinante l’apporto delle maestranze lucchesi che nel corso del Trecento emigrarono
numerose in varie città. Già a partire dagli inizi del secolo Lucca, che sino ad allora era il più avanzato centro di lavorazione della seta in Italia, fu investita da una profonda
crisi politica ed economica che costrinse numerosissime
famiglie dedite all’attività di tessitura ad abbandonare la
città. Fu un vero e proprio esodo di artigiani che ovviamente privilegiarono quali mete i centri dove già esisteva una realtà produttiva ben strutturata ed affermata, in
D
grado di garantire continuità al loro lavoro, trasferendo
nelle nuove sedi tutto il loro bagaglio di esperienza1.
Collocata geograficamente al centro dell’area padana,
Bologna non fu estranea a questo fenomeno. La lavorazione della seta pare vi fosse praticata sin dal Duecento.
Per sviluppare localmente questa attività il Comune nel
1230-31 aveva chiamato nel suo territorio dei maestri
“zendatorum” lucchesi, orientando sin dagli esordi la
produzione verso i tessuti lisci, uniti2. Agli inizi del Trecento, la massiccia emigrazione lucchese diede ulteriore
impulso a questo orientamento poiché le famiglie di artigiani specializzati nelle drapperie si stabilirono preferibilmente a Firenze e a Venezia, mentre a Bologna si insediarono soprattutto artigiani esperti “a far l’arte dè zendadi et lavori di seta sottilissima, vaghi et molto utili a
più servitii, così per vestimenti, come per addobbi di case e di chiese”3.
Per la verità, nei secoli successivi, anche a Bologna si affermò la lavorazione di drappi operati. Nel Cinquecento
il settore della seta, strutturato nei due grossi comparti
dell’Opera tinta e dell’Opera bianca, era assai bene avviato e dava lavoro ad oltre un quarto della popolazione cittadina. La produzione dell’Opera tinta, come si desume
dagli Statuti dell’Arte ed altri documenti, comprendeva
non solo “rasi, ormesini, taffetadi”, ovvero tessuti uniti,
ma anche una vasta gamma di “velluti fatti a opera, damaschi, brocati d’oro e d’argento, telette e tabbini d’oro o
d’argento”4. Tuttavia, il prodotto che dette maggior notorietà a Bologna e le consentì di operare su un vasto mercato, esteso a diversi paesi europei, mantenendo un plurisecolare primato qualitativo, fu un tessuto tecnicamente assai semplice che faceva capo all’Opera bianca e le cui
caratteristiche coincidono perfettamente con “i lavori di
MARTA CUOGHI COSTANTINI
seta sottilissimi” in cui eccellevano i profughi lucchesi: il
velo di seta.
“Strafino”, “stradoppio”, “a ragnola”
Della complessa attività del setificio, la cui presenza ha
condizionato per secoli la crescita urbana e lo sviluppo
della città, sono sopravvissute pochissime testimonianze
materiali. Gli studi storici ne hanno ripercorso le vicende
principali illustrandone la complessa organizzazione
produttiva, i rapporti fra i mercanti e gli artigiani, fra
questi e il governo cittadino, le strategie economiche e
commerciali. Da tutte queste indagini i manufatti, ovvero i tessuti, sono prevalentemente rimasti esclusi. Non è
facile identificare e riconoscere i prodotti della tessitura
sulla base delle indicazioni che emergono dalle testimonianze scritte degli statuti, degli inventari e di altri documenti d’archivio anche nel caso di tipologie fortemente
connotate dalla presenza di disegni e di intrecci complessi, a maggior ragione il compito è difficile quando si
tratta di stoffe unite come per l’appunto il velo di seta.
Una preziosa documentazione commerciale conservata
all’archivio di Stato di Bologna ci ha consegnato una campionatura settecentesca dalla quale emergono con evidenza le caratteristiche tipologiche di questo prodotto.
Si tratta di una serie di piccoli frammenti che i clienti di
un affermato mercante locale, Domenico Bettini, allegavano ai loro ordini per meglio illustrare le loro richieste
scritte5.
L’osservazione diretta di questi campioni ci consente di
affermare che il velo era un tessuto finissimo, leggerissimo, trasparente o semitrasparente e che l’intreccio, assai
semplice, era quello della tela o taffetas. La varietà che ciò
nonostante si riscontra nel campionario dipende dalla
consistenza dei filati impiegati in ordito e in trama, dall’altezza della pezza, dalle dimensioni delle cimosse, ma
soprattutto dai trattamenti che il prodotto subiva dopo
la tessitura. La lavorazione di questo tessuto, infatti, comprendeva due principali categorie, già chiaramente descritte e definite negli statuti del 1372: il velo liscio e il velo crespo6. Il primo poteva essere “strafino” o “stradoppio” (Fig. 68), con fili ravvicinati e intreccio molto compatto, oppure “a ragnola”, ovvero con intreccio molto rado, ideale per filtri da farmacia e setacci, o ancora “doppio
alla regina”, con fili ravvicinati a due a due. Altre varianti
erano create inserendo motivi a righe, ottenuti alternando in ordito o in trama fili di consistenza diversa o variando la tipologia delle cimosse che sovente si presentavano larghe e compatte. Ma la vera specialità di Bologna,
il prodotto più richiesto ed apprezzato, al quale si rico-
118
nosceva in modo unanime una qualità superiore rispetto
alle imitazioni messe in commercio da altri centri di produzione, era il velo crespo, detto per l’appunto “velo bolognese” (Fig. 69). Pur mantenendo la finezza, la trasparenza e la leggerezza caratteristiche dei velami in genere,
esso era caratterizzato da una superficie increspata e rugosa ottenuta mediante peculiari procedimenti di lavorazione che purtroppo le testimonianze storiche locali
non chiariscono perfettamente. Appare perciò interessante a questo riguardo la sintetica descrizione fornita da
Girolamo Gargiolli nei dialoghi raccolti in appendice all’Antico trattato sull’arte della seta in Firenze: “Il velo crespo
ha questo nome perché è increspato a pelle di pollo. Va
d’un filo per dente con armatura a taffettà o a panno. Si fa
d’un filo torto per un verso nell’ordito, e d’altro filo torto
in contrario pel ripieno. In grazia della opposta torta, allentati che sieno i due fili rientrano, e vien fuori il crespo”7. Secondo documenti bolognesi del XVIII secolo, alla tessitura facevano seguito alcuni trattamenti speciali
aventi lo scopo di fissare l’increspatura: le pezze venivano dapprima sottoposte ad un procedimento di bollitura in un composto a base di galla quindi ad un trattamento di gommatura; successivamente i veli venivano
manipolati, avvolti su rulli, ed asciugati a caldo. Erano
queste le fasi più difficili e costose di tutto il processo di
lavorazione, quelle che richiedevano un’esperienza ed
un’attenzione del tutto particolari8.
Pur facenti capo al comparto produttivo cosiddetto dell’Opera bianca, elemento di ulteriore differenziazione
dei veli era poi il colore: unitamente a quelli neri (Fig. 70),
i più comuni e maggiormente documentati sono bianchi
e giallo chiaro, ma possediamo testimonianze di veli colorati in rosso, azzurro e in diverse tonalità di rosa o violetto (Fig. 71-72).
A differenza dei tessuti operati, che potevano presentare
disegni anche molto complessi ed erano appannaggio di
mano d’opera maschile organizzata in botteghe, la tessitura dei veli occupava mano d’opera femminile e si svolgeva a domicilio. Questo genere di organizzazione è una
implicita conferma che il telaio da velo, di cui purtroppo
non sono pervenute testimonianze dirette, era uno strumento molto semplice, simile a quelli che ogni famiglia
possedeva per soddisfare il fabbisogno domestico. Ciò
nonostante il suo allestimento e funzionamento richiedevano la partecipazione di varie figure professionali:
l’“orditrice” componeva e ordinava l’ordito, la “lizzatrice”
ne introduceva i fili prima nelle maglie dei licci e successivamente fra i denti del pettine, alla cui predisposizione
aveva provveduto il “pettinaro”, l’“apparecchiatore” crea-
Impalpabili orpelli della moda
va tutti i collegamenti necessari per far funzionare la
macchina. Alle migliaia di donne addette alla tessitura,
poi, era richiesta particolare destrezza e abilità nel manovrare la navetta contenente il filo di trama, nel farla
scorrere fra i fragilissimi fili dell’ordito, e soprattutto
moltissima pazienza nel riordinarli ogni volta, e pare succedesse spesso, che si rompevano9.
Il processo produttivo era gestito totalmente dal mercante che oltre alla materia prima forniva alle tessitrici
anche un elemento strutturale del telaio: il pettine. Era
questo un modo per esercitare il controllo sulla qualità
del prodotto che oltre ad impiegare rigorosamente seta
greggia locale, ovvero tratta da bozzoli allevati in città o
nel contado bolognese, doveva rispettare tutte le caratteristiche di larghezza e densità di fili stabilite nelle norme
statutarie. La varietà riscontrata nella larghezza delle
pezze infatti costituiva un importante elemento di differenziazione dei manufatti poiché ne determinava un diverso ambito di utilizzo. Gli statuti del 1372 elencano già
cinque diverse misure per i veli lisci e quattro per quelli
crespi fissando per ciascuna di esse il numero di fili che
dovevano essere distribuiti per ogni dente del pettine,
ovvero predeterminando la densità del tessuto, la sua
maggiore o minore trasparenza10. Nel 1755 la produzione si era notevolmente arricchita di varianti: le misure
erano diventate diciannove, e comprendevano prodotti
che potevano oscillare in larghezza da un minimo di dodici centimetri sino ad un massimo di un metro11. Ma siamo oltre la metà del Settecento e la tessitura, ancorché
completamente manuale, aveva raggiunto elevati gradi
di virtuosismo tecnico prima che la rivoluzione industriale, ormai prossima, ne trasformasse completamente
l’organizzazione.
Il velo e la moda
Le varianti riscontrate nella tipologia del velo ne presupponevano usi molto diversi. Questo tessuto semplicissimo trovava infatti applicazione nelle attività farmaceutiche in qualità di filtro, in quelle manifatturiere come setaccio, in quelle domestiche per la costruzione di zanzariere, ma soprattutto nella sartoria e nell’acconciatura
dei capelli. Contrariamente alle varie tipologie dei tessuti operati che si rinnovavano periodicamente, con cadenze anche molto ravvicinate, mutando disegno, colore e la
combinazione stessa degli intrecci, il velo di seta bolognese conservò inalterate nel tempo la tecnica, la trasparenza, l’assoluta semplicità. Ciò nonostante rappresentò
un elemento significativo della moda partecipando alle
trasformazioni di quel complesso insieme di segni e di
simboli costituito in passato come oggi dall’abbigliamento. Il suo impiego riguardò prevalentemente la rifinitura degli abiti, la decorazione dei copricapi e l’ornamento delle acconciature femminili, ruolo che non fu ne
né secondario né marginale poiché ai fini della moda, la
foggia degli accessori ebbe rilievo quanto quella degli
abiti stessi.
Le fonti pittoriche, in particolare la ritrattistica, offrono
testimonianze significative sul velo bolognese e sulle sue
imitazioni attestandone la continuità d’uso nei secoli,
per il lungo periodo che va dal Medioevo all’Ottocento, e
la diffusione in un’area geografica molto ampia che si
estende dall’Italia ai Paesi Bassi, dalla Germania all’Inghilterra, dalla Francia alla Spagna12.
Anche sulla base di queste testimonianze, sappiamo che
furono davvero innumerevoli le soluzioni con cui i veli di
seta, lisci o crespi, a rete o listati d’oro, ricamati con perle
o fili d’argento, vennero adattati nel corso del tempo all’immagine della figura femminile, per coprire il capo o
il volto, per trattenere o ingentilire le acconciature, per
confezionare cuffiette, copricapi o veri e propri cappucci
portati sulla testa ad incorniciare il volto, per rifinire maniche, polsini, colletti e scollature, per coprire le spalle
sotto forma di scialli, sciarpe, fisciù.
Dalla fine del XIII alla seconda metà del XIV secolo la documentazione è costituita prevalentemente dalla pittura
religiosa e gli impalpabili veli che coprono il capo e il viso della Madonna e vestono il bambino, oltre che una testimonianza di costume, sono innanzitutto un evidente
simbolo di divinità e purezza (Fig. 73). Ma ben presto la
presenza del velo divenne una costante dell’abbigliamento femminile. Attratti dagli effetti del diafano velo
che cela le forme e che nello stesso tempo le lascia intravedere, numerosi artisti lo rappresentarono nelle loro
opere avvalendosi di tecniche pittoriche sempre più sofisticate. Complemento indispensabile degli inconsueti
copricapi peculiari della moda borgognona così magistralmente raffigurati da Hans Memling – sia dalle “corna
alla franzese” sia dall’henin scendeva sempre un lungo velo - esso valorizzò le vesti misurate ed eleganti del costume rinascimentale italiano comparendo con fogge diverse, ispirate ora alle mode di corte ora a costumi tipici regionali, nelle opere dei maggiori artisti del XV e XVI secolo, da Piero della Francesca al Ghirlandaio, dal Mantegna
al Bronzino, dal Pollaiolo a Raffaello. Di solito veniva indossato come cuffia oppure tratteneva i capelli sulla nuca scendendo lievemente sulla scollatura ma non mancano soluzioni alternative13.
Cesare Vecellio nella sua celebre raccolta di Habiti antichi
119
MARTA CUOGHI COSTANTINI
e moderni di tutto il mondo, stampata a Venezia nel 1589, offre una vasta ed interessante esemplificazione dell’uso
del velo di seta ai suoi tempi. Signore eleganti e nobildonne, giovani e vecchie, vedove, spose, cortigiane, si
adornavano di veli di seta bianchi, neri o gialletti, disponendoli ora in morbide ed eleganti pieghe, ora lasciandoli pendere dietro la schiena. A quell’epoca il velo non
era una prerogativa dell’abbigliamento femminile ma
trovava impiego anche in quello maschile. Cavalieri,
mercanti, studenti indossavano copricapi confezionati
con varie tipologie tessili, “velluto, ormesino o buratto”,
interamente ricoperti o semplicemente ornati “con velo
intorno”14.
Nella ritrattistica del XVII secolo il velo assunse forme
particolarmente elaborate e suggestive. Ne offre un’anticipazione suggestiva un famoso ritratto di Guido Reni
che ci mostra il volto non più giovane della madre incorniciato da un diafano cappuccio di velo bianco che completa l’ampio colletto rialzato dell’abito scuro, ricoperto
anch’esso da un secondo colletto di velo bianco (Fig. 74).
L’inserimento di un filo metallico lungo il bordo conferiva a questo tipo di copricapo un aspetto particolarmente
elegante consentendo di delineare fogge rigide.
L’uso del velo si arricchì e si diversificò ulteriormente nel
corso del Settecento riguardando ora la confezione di scialli e sciarpe, ora la guarnizione di polsini e scollature, ora
l’ornamento di elaborate acconciature e parrucche, con soluzioni in ogni caso rispondenti alla costante ricerca di novità, all’amore per il capriccio, per la varietà e il cambiamento tipici della cultura e del gusto rococò. (Fig. 75).
Nel definire i diversi ambiti in cui il velo veniva commercializzato occorre ricordare infine quelle categorie che
possiamo definire come consumatori abituali di questo
tessuto: le monache, il cui abbigliamento contemplava
l’uso di ampi veli neri portati sul capo a significare il voto di castità e la rinuncia alla mondanità e le vedove che
ne indossavano di analoghi come segno di lutto e di dolore. E proprio il lutto faceva parte degli eventi eccezionali che potevano influire sulla domanda e sul mercato
del velo. La morte di personaggi illustri e le celebrazioni
che vi si accompagnavano, ancora nel Settecento, costituivano occasioni di straordinarie e abbondati ordinazioni di veli, in particolare di quelli crespi, rappresentando opportunità che i mercanti avveduti non dovevano lasciarsi sfuggire giacché, come osservava Domenico Bettini nel 1789 “non ogni anno muoiono gli Imperatori”15.
NOTE
1 L’emigrazione lucchese, oggetto dello studio di T. Bini, I lucchesi a Venezia, 2 voll., Lucca 1854 e 1856, interessò diverse altre città; su questo
aspetto si veda anche D. Devoti, Tesori di un’antica arte lucchese, catalogo
della mostra, Lucca 1989, pp. 20-21 e 26-27.
2
P. Montanari, Il più antico statuto dell’Arte della seta bolognese (1372),
Estratto da “L’Archiginnasio”, Bologna 1961, p. 4.
3 Il brano, tratto da Della Historia di Bologna del Ghirardacci (1596) è cita-
to in G.Livi, I mercanti di seta lucchesi in Bologna nei secoli XIII e XIV, “Archivio Storico Italiano”, Serie IV, Tom. VII, Firenze 1881, p. 12.
4
Tra i numerosi lavori che C. Poni ha dedicato al tema del setificio bolognese segnalo in particolare il profilo storico Sviluppo, declino e morte
dell’antico distretto industriale urbano (secoli XVI-XIX), in Storia illustrata di Bologna, a cura di W. Tega, vol. III, Milano 1989, pp. 321-380 con relativa bibliografia.
5
Il fondo archivistico è stato esaminato da F. Giusberti, Impresa e avventura. L’industria del velo di seta a Bologna nel XVIII secolo, Milano 1989.
6
Si vedano gli articoli XXXIII, XXXIV, XXXV e XXXVI dello Statuto del
1372 in P. Montanari, cit. pp. 49-52.
7 G. Gargiolli, L’arte della seta in Firenze. Trattato del XV secolo, Firenze 1868,
p. 209.
120
8 F. Giusberti, Impresa e avventura, cit. p. 118.
9 Nell’ambito del riallestimento del Museo del Patrimonio Industriale
di Bologna, inaugurato nel 2000, è stata presentata la ricostruzione di
un telaio da velo, montato e funzionante. Cfr. Prodotto a Bologna, a cura
di A. Campigotto, R. Curti, M. Grandi e A. Guenzi, Bologna 2000, pp. 39.
10
Si vedano gli articoli XXXIII De modo latitudinis petinum velaminis increspandi e XXXV De Latitudine petinum velaminis plani dello Statuto del 1372
in P. Montanari, Il più antico Statuto, cit. pp. 49-51
11 F. Giusberti, Impresa e avventura, cit., p. 114 e tab. 2.
12 Su questo aspetto rimando alle ricerche iconografiche svolte da Simonetta Nicolini e Stefania Sabatini parzialmente riassunte in Prodotto
a Bologna, cit. pp. 25-29.
13 Una casistica interessante dell’uso del velo nel corso dei secoli è evidenziata da R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1964-1969.
14 C. Vecellio, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo, Parigi 1859-60 (ed.
originale Venezia 1589), in articolare pp. 97, 130, 131, 135, 136, 227.
15 Cito da F. Giusberti, Impresa e avventura, cit., p. 119.
Nuove sete per la borghesia:
la manifattura Trivelli e Spalletti di Reggio Emilia
IOLANDA SILVESTRI
no spaccato significativo della produzione e del
commercio tessile nell’Italia del XVIII secolo ci proviene da una rara documentazione conservata nei Musei
Civici di Reggio Emilia relativa all’attività intrapresa in
loco da mercanti di origine svizzera, i Trivelli-Spalletti,
tra il 1718 e il 1787. Due sono gli indirizzi sviluppati da
questa mercatura documentata da otto registri di fabbrica (Fig. 76), da due campionari tessili e da un nutrito corpus di carte private1: la produzione e la vendita di stoffe di
seta, da un lato, il commercio di generi non serici in lana,
lino e cotone, acquistati sul mercato italiano ed europeo,
dall’altro. I manufatti serici lavorati e venduti come pure
il sistema organizzativo e commerciale in cui si configura tale mercatura, si inserisce a pieno titolo nella logica di
un’economia di mercato già di tipo preindustriale, che
varca i confini locali per raggiungere punti di vendita e
sbocchi commerciali non solo nazionali, ma di dimensione europea, occupando oltre cortina aree libere dai
monopoli francesi e inglesi, e in Italia, località non raggiunte dai grossi centri di tradizione tessile come Milano,
Firenze, Genova, fatta eccezione per Venezia2.
Inoltre, il target tessile che la contraddistingue è quello di
una produzione già di tipo seriale destinata di preferenza
all’abbigliamento dei ceti della media e alta borghesia,
specie di quella imprenditoriale in ascesa e degli esponenti più in vista dell’alto funzionariato pubblico e privato (Fig. 78). Le stoffe richieste da questo nuova clientela sono di buona qualità, ma più economiche rispetto a quelle
tradizionali di alto livello: se in queste prevale la combinazione della seta con l’oro e l’argento e l’impiego di lavorazioni più costose come le trame broccate e lanciate, nelle sete reggiane viene bandito il metallo prezioso e si fa ricorso a tecniche di tessitura più rapide e meno dispendio-
U
se che rendono la stoffa più leggera e pratica nell’uso. I decori preferiti sono di tipo geometrico e floreale a piccole
dimensioni e per tradurli a telaio ci si affida, in sostituzione delle costose trame broccate, che impongono costi aggiuntivi di filati e tempi più lunghi di lavorazione, a trame
di fondo con la funzione duplice di descrivere anche il motivo decorativo quando vengono slegate, come sono quelle liserèes. Per descrivere il disegno si preferisce intervenire
comunque di frequente più sugli orditi che sulle trame, introducendo una variegata colorazione spesso sfumata dei
fili dell’ordito di fondo, oppure aggiungendo a questi, orditi supplementari policromi che variano in genere da
uno a tre e che diversamente combinati con quelli di fondo e con le trame descrivono i singoli motivi grazie al contrasto cromatico prodotto dalla slegatura di entrambi. È
una campionatura quella reggiana documentata da una
grande varietà di prodotti tessili che vanno dai tessuti uniti a intrecci taffetas con variante in Gros de Tours (Fig. 76: a e
b) fino quelli operati. I primi dovendo sopperire alla carenza di effetti decorativi, potenziavano al massimo grado
la sperimentazione cromatica dei filati, creando così una
varietà sorprendente di tonalità diverse dello stesso colore di base che permise loro di ottenere risultanze cromatiche inedite ed effetti decorativi singolari. Per esempio, diversificavano la colorazione unita, abbinando tonalità differenti di colore dei fili di trama con quelli di ordito, per
ottenere effetti cangianti, oppure lavorando su righe e a
quadrettature sconfinavano in esiti sorprendentemente
moderni di design, come furono quelli “optical” degli anni
’60 del secolo scorso attestati, per esempio, dal campione
di “taffetas a quadri” (Fig. 76: c).
I secondi, i tessuti operati, comprendono una ricca campionatura che va dai “piccoli operati” contrassegnati da
IOLANDA SILVESTRI
motivi geometrici minuti prodotti dalla semplice slegatura alternata dei fili pari e dispari d’ordito (Fig. 76: d), a
soluzioni bizzarre come sono quelli presenti in una specie di velluti a pelo molto lungo e rado, denominati “felpe”, “pelus”, “peluccia” dove lunghi fili dell’ordito supplementare di pelo, colorati e tagliati, delineano motivi
maculati a imitazione del pelo animale (Fig. 76: e, f), fino
ad arrivare ai generi operati veri e propri, che connotano
la produzione reggiana nella sua espressione tecnica più
alta e complessa. Identificano questa seconda categoria
generi nuovi come il droghetto a tinta unita (Fig. 76: g), il
droghetto liseré a più colori (Fig. 77), il taffetas a pelo strisciante (Fig. 79) con la messicana che è una sua variante
tecnica, tessuti ai quali la fantasia dei mercanti reggiani
ha dato nomi ricercati ed esotici come “carillè”, “peruvienne”, “carillè a giardino” e “gorgorano”. Se nei droghetti il disegno a fiorellini, a piccoli frutti o bacche racchiusi entro maglie di tralci o di pizzi è descritto da un
ordito supplementare monocromo abbinato o meno da
trame liserèes (Figg. 76, 77), nei taffetas a pelo strisciante e
nelle messicane la resa di questi stessi motivi disposti diversamente “a meandro” o in rigide spartiture verticali
di nastri a pizzo (Fig. 79), é affidata solo esclusivamente a
uno o più orditi supplementari di colori diversi in gradazione sfumata. Molto spesso il motivo floreale di base
del rametto con i mazzetti fioriti è lo stesso utilizzato
con innumerevoli e minime variazioni tecniche e cromatiche, che consentivano di tessere sullo stesso telaio
più generi modificando solo la disposizione degli orditi.
Si percepisce dunque come l’intera produzione fosse
progettata sfruttando al massimo grado e a costi di produzione contenuti le potenzialità tecniche e formali di
generi tessili a piccoli decori geometrici e floreali, che in
altri contesti italiani ed europei, come per esempio in
quello francese, venivano prodotti con tecniche più tradizionali e dispendiose.
Ampio inoltre è risultato il riscontro delle sete Trivelli, o
di genere affine prodotti anche da altre imprese minori
attive negli stessi anni in ambito reggiano, sia nei parati
liturgici delle chiese dell’intera regione, specie di quelle
locali (Fig. 79) e modenesi, che nelle raccolte tessili pubbliche come la Gandini del Museo Civico di Modena3.
Se si vuole configurare in una sintesi storico critica l’attività svolta dalla fabbrica serica reggiana tout court, di
cui i Trivelli rappresentano sicuramente l’eccellenza, si
può asserire che per il tipo di prodotto, per l’organizzazione del lavoro, frazionato e a domicilio e per la gestione amministrativa e commerciale, l’impresa reggiana
attesta il carattere fortemente specializzato e diversificato raggiunto dalla mercatura tessile italiana ed europea nel XVIII secolo4. Questa attività così strutturata segnerà la trasformazione ormai definitiva di un’economia chiusa, gerarchica e protezionistica di retaggio ancora medioevale, in un’economia libera di mercato propria degli stati moderni che in continua trasformazione
tecnologica e strutturale, si affermerà in modo sistematico e strutturale solo con la meccanizzazione industriale del XIX secolo.
NOTE
1 Per la documentazione di fabbrica della ditta Trivelli - Spalletti conservata nei Musei Civici reggiani si rimanda alla scheda del repertorio
museale redatta in questo volume e alle bibliografia specifica di riferimento.
2 L’area di espansione commerciale privilegiata per la vendita delle stof-
fe di seta in territorio extra nazionale, era il Centro Europa (Germania,
Svizzera, Austria, Ungheria, Boemia e Polonia), e in misura minore, la
Francia, l’Inghilterra, la Svizzera, la Grecia e l’Impero Ottomano. Proficua era la vendita sul territorio nazionale (Venezia, Stati della Chiesa,
Mantova) con diffusione capillare nei centri minori regionali. Per l’approvvigionamento delle stoffe non seriche ci si rivolgeva, invece, in Europa, a centri manifatturieri tedeschi, francesi e inglesi, in Italia, alle
stesse città indicate per la vendita delle seta con l’aggiunta di Napoli e
l’esclusione di Genova, v. E. Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri,
cit., 1980, p. 260.
3 La schedatura condotta negli anni 1980-1990 a cura della Soprintendenza statale competente, ha permesso di identificare un nucleo consi-
122
stente di parati liturgici confezionati con le sete Trivelli-Spalletti, fortemente circoscritto in ambito locale nei luoghi di culto di Modena e Reggio Emilia, ibidem, pp. 265, figg. 23, 26/28. Un primo importante riscontro dei generi reggiani nella Collezione Gandini del Museo Civico di
Modena, fu fatto da G. Guandalini, in Campioni di tessuti reggiani nel Museo Civico di Modena, Reggio Emilia 15-16 ottobre 1996, in “Deputazione
di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi”, Biblioteca – Nuova
Serie N. 10, Modena 1968, pp. 39/42.
4 Mercature seriche e non, simili a quella reggiana sono documentate
in Italia a Varallo Sesia, Como, Padova, Tolmezzo, Firenze e Siena, vedi
i contributi di autori vari contenuti negli Atti del III° Convegno C. I. S.
S. T. di Torino 1984, Tessili antichi e il loro uso: testimonianze sui centri di produzione in Italia, lessici, ricerche documentarie e metodologiche, Torino 1986.
Per le produzioni seriche affini e coeve a quella reggiana attive in Europa e documentate a Berlino e a Krefeld (Colonia), vedi B. Markowsky, cit., 1976, pp. 80/85, figg. 10/12 e AA.VV., 100 Jahre Textilmuseum Krefeld, 1980.
2.
Frammento, Venezia (?),
seconda metà del XV secolo.
Velluto tagliato rilevato
(a due altezze) a un corpo,
lanciato bouclé in seta misto
lino beige, gialla, cremisi
e oro filato, disegno a
melagrana con sviluppo
“a griccia”.
Reggio Emilia, Galleria Anna
e Luigi Parmeggiani.
1.
Posteriore di Pianeta,
Venezia, metà del XV secolo.
Laterali in velluto rilevato
(a due altezze) tagliato a un
corpo su fondo raso di seta
cremisi e rosa, disegno a
melagrana che dà origine a
un decoro “a inferriata”;
Inghilterra (?) inizi del
XV secolo.
Stolone con stemma
araldico ricamato in sete
policrome e oro filato.
Reggio Emilia, Galleria
Anna e Luigi Parmeggiani.
124
3.
Telo di stoffa ricostruita
con i frammenti delle
vesti funebri di
Sigismondo Pandolfo
Malatesta, Italia, 1468.
Damasco lanciato,
broccato di seta gialla
virata al marrone e oro
filato, disegno a
melagrana incorniciata
da maglie ovali con
sviluppo “a cammino”.
Rimini, Museo della Città.
4.
Telo di stoffa
ricostruita con
i frammenti
delle vesti
funebri di
Sigismondo
Pandolfo
Malatesta, 1468.
Particolare.
Rimini, Museo
della Città.
5.
Frammento del
farsetto funebre
di Sigismondo
Pandolfo
Malatesta, Italia,
1468.
Velluto tagliato
a un corpo,
lanciato, bouclé
di seta rossa
virata al
marrone scuro
e oro filato: si
rilevano
le anelle degli
effetti bouclé
d’oro.
Rimini, Tempio
Malatestiano,
Stanza delle
Reliquie.
125
8.
Paliotto del cardinale Morone,
vescovo di Modena. Italia,
terzo quarto del XVI secolo.
Lampasso liseré, lanciato, bouclé
a fondo raso in seta avorio,
gialla, rossa, oro trafilato e in
lamina, disegno “a
candelabra” vegetale con
inserti ricamati in oro velato e
sete policrome raffiguranti
Dio Padre, Sacra Famiglia e
Apostoli.
Modena, Museo del Duomo.
126
6.
Andrea Mantegna
“La Corte di Ludovico
Gonzaga”, affresco.
Mantova, Palazzo Ducale,
Camera degli Sposi.
127
7.
Rivestimento di un cofano–scrittoio
portatile estense. Italia, seconda metà
del XVI secolo.
Velluto cesellato a un corpo fondo
laminato in seta cremisi e lamina
d’oro, disegno a piccole melagrane
racchiuse a mazzo entro maglie ovali.
Modena, Galleria e Museo Estense.
128
9.
Pianeta. Lucca, seconda metà del XVI secolo.
Broccatello lanciato in seta misto lino giallo, rosso, perla,
verde e celeste, disegno a grandi racemi ovali che
incorniciano un vaso classico con uccelli e leoni rampanti.
Il parato proviene dalla chiesa parrocchiale di San Giorgio
Martire di Vesale (Modena).
Nonantola (Modena), Museo Diocesano d’Arte Sacra.
129
10a.
Abito maschile in due pezzi
con accessori. Inghilterra
(?), fine del XVI, primo
decennio del XVII secolo.
Cappello e scarpe sono
d’epoca posteriore.
L’abito si compone di
giuppone e calzoni decorati
a intarsi di pelle di capretto
avorio con garofani
stilizzati racchiusi entro
maglie mistolinee, applicati
su raso di seta cremisi.
Prima del restauro. Reggio
Emilia, Galleria Anna e
Luigi Parmeggiani.
11.
Abito maschile in due
pezzi. Inghilterra (?), fine
del XVI secolo, primo
decennio del XVII secolo.
Particolare del giuppone,
prima del restauro.
Reggio Emilia, Galleria
Anna e Luigi Parmeggiani.
130
10b.
Abito maschile in due pezzi.
Inghilterra (?), fine del XVI secolo,
primo decennio del XVII secolo.
L’abito si compone di giuppone e
calzoni decorati a intarsi in pelle di
capretto avorio con garofani stilizzati
racchiusi entro maglie mistilinee,
applicati su tessuto di fondo in raso
di seta cremisi. Dopo il restauro.
Reggio Emilia, Galleria Anna
e Luigi Parmeggiani.
132
12.
Sante Peranda,
Ritratto di Laura
d’Este Pico, 1621
ca, olio su tela.
Mantova,
Palazzo Ducale.
133
13.
Capino di Paolo III Farnese.
Italia, 1543.
Velluto tagliato unito di seta
cremisi.
Castell’Arquato (Piacenza),
Museo della Collegiata.
14.
Frammento. Italia, 1650–1660 ca.
Raso liseré in seta cremisi e gialla,
disegno con racemi a voluta
asimmetrici fioriti di tulipani.
Modena, Museo Civico d’Arte,
Collezione Gandini.
134
15.
Cesare Gennari,
Ritratto di Laura Garzoni,
firmato e datato 1676,
olio su tela
Budrio (Bologna),
Pinacoteca Civica.
17.
Rivestimento di poltrona.
Italia (Venezia?),
terzo quarto del XVII
secolo.
Velluto tagliato a un corpo
in seta cremisi e gialla,
disegno a grandi maglie
ovali di racemi fioriti di
tulipani e giunchiglie
trattenuti da corone.
Modena, Museo Civico
d’Arte, Collezione Gandini.
135
16.
Pianeta. Italia, terzo quarto
del XVII secolo.
Damasco broccato a fondo
laminato d’oro di seta rosa
salmone intenso con oro
filato e in lamina, disegno a
grandi racemi a voluta
asimmetrici fioriti di tulipani.
Modena, Chiesa di San Carlo.
18.
Pianeta. Francia, primo quarto
del XVIII secolo.
Lampasso liseré a fondo raso in
seta perla, rosa ciclamino, verde,
con nastri “a pizzo”, ananassi e
motivi di gusto “bizarre”
proveniente dalla chiesa di San
Giacomo Maggiore (Modena),
chiesa parrocchiale omonima.
Nonantola (Modena), Museo
Diocesano d’Arte Sacra.
136
19.
Paliotto del cardinale
Alberoni. Lione,
1733–1740 ca.
Lampasso broccato a
fondo raso in sete
policrome e argento
filato, disegno di gusto
Revel con stolone
ricamato dal
piacentino Pietro
Scilti nel 1751 in sete
policrome, oro filato e
in lamina, argento
filato, recante lo
stemma del cardinale
Giulio Alberoni
(1664–1752).
Piacenza, Collegio
Alberoni.
20.
Paliotto del
cardinale Alberoni.
Lione, 1733–1740
ca. Particolare
del tessuto Revel
e del ricamo.
Piacenza,
Collegio Alberoni.
137
21.
Sopravveste femminile
(Andrienne). Francia,
1760–1770.
Diagonale di seta rosa
salmone broccato in sete
policrome, disegno “a
meandri” con tralci
ondulanti e mazzetti fioriti.
Reggio Emilia, Galleria Anna
e Luigi Parmeggiani.
138
22.
Pianeta della
Principessa Beatrice
Ricciarda d’Este.
Francia, 1771 ca.
Lampasso lanciato a
fondo taffetas, broccato
e ricamato in seta
avorio, argento filato e
in lamina, argento
filato con lamina
d’argento e argento
riccio, disegno “a
meandri” con rami
ondulanti intrecciati a
tralci di bacche che si
sviluppano su un fondo
a spartiture
geometriche verticali.
Un prezioso pizzo a
fuselli in argento filato,
riccio e in lamina
ricopre lo stolone
centrale.
Reggio Emilia,
Santuario della
Madonna della Ghiara.
139
23.
Sopravveste femminile (Andrienne).
Francia o Italia, 1770–1780 ca.
Pékin in seta policroma, disegno
a minute spartiture verticali
di nastri fioriti.
Modena, Museo Civico d’Arte.
140
24.
Abito maschile in tre pezzi
(marsina, sottoveste e calzoni).
Francia, 1770–1780.
Velluto cesellato di seta azzurra,
disegno detto “a bastone rotto”
con barrette oblique alternate a
corolle fiorite.
Reggio Emilia, Galleria Anna
e Luigi Parmeggiani.
25.
G. Baldrighi, “La Famiglia
Ducale di Don Filippo
Borbone”, olio su tela
Parma, Galleria Nazionale.
141
26.
Telo predisposto per la confezione di
un gilet maschile. Francia, 1800–1815.
Baiadera ricamata in sete policrome,
disegno a bande orizzontali profilate
da cornici fiorite.
Modena, Museo Civico d’Arte,
Collezione Gandini.
142
27.
Tappezzeria da parete. Venezia, 1695–1701.
Lampasso lanciato a fondo raso in seta
avorio, gialla e lamina d’oro, disegno a
palmetta vegetale entro maglie ovali.
Particolare del tessuto.
Soragna (Parma), Rocca dei Principi
Meli Lupi, Camera Nuziale.
143
28.
Tappezzeria da parete. Venezia,
1695.
Lampassetto liseré broccato in sete
policrome e oro filato, disegno a
rametti fioriti ricurvi asimmetrici.
Particolare della sala.
Soragna (Parma), Rocca dei Principi
Meli Lupi, Camera del Trono.
29.
Addobbo di colonne e pilastrate.
Italia (Bologna?), 1704.
Lampassetto in seta viola e
avorio, disegno con gigli e cuori
infiammati simboli dell’Ordine
di San Filippo. Particolare.
Bologna, Chiesa
di Santa Maria di Galliera.
144
30.
Tappezzeria dell’alcova.
Bologna (?), 1738.
Damasco di seta gialla,
disegno a maglie ovali con
infiorescenza a palmetta.
Imola (Bologna), Palazzo
Tozzoni, Camera dell’Alcova.
145
31.
Tappezzeria. Vincenzo Cavallazzi (Bologna), 1766.
Damasco di seta gialla, disegno a maglie ovali
con infiorescenze e stemma della città.
Modena, Palazzo Comunale, Sala del Vecchio Consiglio.
146
32.
Addobbo di colonne,
pilastrate, cantorie e
ancona. Camillo Vezzani
(Bologna), 1781.
Velluto cesellato a fondo
raso in seta rossa e gialla,
disegno a grandi ovali
vegetali con dedica
alla città. Particolare.
Bologna, Chiesa
di San Domenico,
cappella del Rosario.
147
33.
Tappezzeria da parete. Italia o Francia, primo
decennio del XIX secolo.
Raso liseré in seta perla e gialla (in origine
azzurra), disegno Impero con rosette entro
maglie a rombo. Particolare.
Faenza, Palazzo Milzetti, Sala di Numa Pompilio.
148
34.
Tappezzeria da parete. Italia o Francia,
primo decennio del XIX secolo.
Raso liseré in seta perla e verde oliva,
disegno Impero con stelle a otto punte
disposte a scacchiera. Particolare.
Faenza, Palazzo Milzetti, Sala di Ulisse.
149
35.
Rivestimento di poltrona a
tronetto dell’ebanista Gaetano
Bertolani, 1837. Tessitura
Rubelli, XX secolo, rifacimento
su modello originale.
Raso liseré in seta perla e
azzurra, disegno con rosette
e medaglioni disposti
a scacchiera.
Faenza, Palazzo Milzetti.
150
36.
Piviale. Inghilterra,
XIV–XV secolo.
Ricamo in sete policrome
e oro filato su velluto
tagliato unito di seta
cremisi, raffigurante
l’Assunzione della Vergine
tra gigli e cherubini
raggiati. Particolare.
Reggio Emilia, Galleria
Anna e Luigi Parmeggiani.
37.
Cappuccio di piviale.
Toscana, fine del XV,
primi del XVI secolo.
Ricamo in sete
policrome, oro e
argento filato,
raffigurante la
“Madonna in trono
con bambino e angeli”.
Ravenna,
Museo Nazionale.
151
38.
Cappuccio e stolone di Piviale. Lombardia
(?), primo quarto del XVI secolo.
Ricamo in sete policrome, oro e argento
filato, raffigurante “Madonna con
Bambino tra angeli musici”
nel cappuccio, “Dio Padre benedicente
con Santi” nello stolone.
Particolare, prima del restauro.
Castell’Arquato (Piacenza),
Museo della Collegiata.
152
39.
Cappuccio di Piviale.
Zitelle della Pietà (Parma), 1719.
Ricamo in sete policrome, oro e
argento filato, oro riccio, lamina
d’argento e cordoncino d’argento,
su raso di seta perla, raffigurante
la Madonna con Bambino seduta
tra nuvole con putti reggi corona.
Parma, Santuario di Santa Maria
della Steccata.
153
41.
Anteriore di Pianeta.
Putte di Santa Marta
(Bologna), XVI–XVII secolo.
Ricamo in sete policrome
raffigurante scene bibliche
tratte dal Nuovo Testamento.
Particolare della “Creazione
degli animali”.
Bologna, Museo Civico d’Arte Industriale
e Galleria Davia Bargellini.
154
42.
Anteriore di Pianeta.
Putte di Santa Marta
(Bologna), XVI–XVII secolo.
Ricamo in sete policrome
raffigurante scene bibliche
tratte dal Nuovo Testamento.
Particolare della “Creazione
dei Progenitori”.
Bologna, Museo Civico d’Arte
Industriale e Galleria Davia Bargellini.
155
43.
Tendina copricona dono
della contessa Brami. Reggio
Emilia (?), ante 1617.
Ricamo in sete policrome,
oro e argento filato su garza
di lino verde, raffigurante
una scena tratta dall’Antico
Testamento, “L’albero
di Jesse”.
Reggio Emilia, Museo del
Santuario della Madonna
della Ghiara.
40.
Posteriore di Pianeta. Putte di Santa
Marta (Bologna), XVI–XVII secolo.
Ricamo in sete policrome,
raffigurante scene bibliche tratte
dal Nuovo Testamento ,“Eva che
alleva i figli” e “Adamo che semina
la terra”, incorniciate da serti fioriti
con frutta, uccelli, cherubini e
simboli della Passione.
Bologna, Museo Civico d’Arte
Industriale e Galleria Davia
Bargellini.
156
44.
Quadro da stanza. Putte di Santa Marta
(Bologna), XVII secolo.
Ricamo in sete policrome con scena
raffigurante “Il Miracolo di San
Benedetto” riprodotta dall’affresco di
L. Carracci nel chiostro di San Michele.
Bologna, Museo Civico d’Arte
Industriale e Galleria Davia Bargellini.
157
45.
Poltrona. Putte di Santa
Marta (Bologna), XVII secolo.
Ricamo in sete policrome su
raso di seta perla con scene
raffiguranti “La Primavera”
(schienale) e una “Veduta di
Marina” (laterali della
seduta).
Bologna, Museo Civico D’Arte
Industriale e Galleria
Davia Bargellini.
46.
Paliotto. Putte di Santa
Marta (Bologna),
XVII secolo.
Ricamo in sete policrome
su fondo in taffetas di seta
avorio, disegno con vaso
fiorito incorniciato da
racemi fioriti con uccelli
in volo. Particolare.
Bologna, Museo Civico
D’Arte Industriale e
Galleria Davia Bargellini.
158
47.
Piviale. Zitelle della
Pietà (Parma), 1719.
Ricamo in sete policrome,
oro filato e riccio su raso
di seta perla, disegno del mantello
a cornucopie fiorite da cui dipartono
racemi a voluta e Madonna
con Bambino nel cappuccio.
Parma, Santuario di Santa Maria
della Steccata.
160
48.
Copriporta dipinto.
G. Boulanger, 1641–1642
ca, affresco. Particolare.
Sassuolo, Palazzo Ducale,
Camera delle Virtù Estensi.
49.
Baldacchino processionale.
Barbara Zucchi (Bologna),
1763 ca.
Ricamo in sete policrome,
oro in lamina, oro e argento filato
e riccio su fondo in gros de Tours di
seta perla, decoro a fiori tra motivi
dorati rocaille. Particolare di una
bandinella.
Bologna, Chiesa di San Domenico.
50.
Pianeta di San Carlo Borromeo.
Italia, 1581.
La pianeta è confezionata con
un tessuto unito, un diagonale
lanciato in seta rossa e oro
filato, su cui sono stati
applicati stoloni in raso
di seta nera con decoro
vegetale “a inferriata” eseguito
con ricami a riporto in taffetas
di seta gialla.
Reggio Emilia, Cattedrale
di Santa Maria Assunta.
162
51.
Mitra del parato di San
Cassiano ricamata da Lazzaro
Pietramaggiori nel 1752 su
modello cinquecentesco.
Ricami a riporto in taffetas
di seta avorio e gialla
laminati d’oro e d’argento e
profilati da cordoncini d’oro
eseguiti su raso di seta rossa,
disegno a racemi fioriti.
Novellara (Reggio Emilia),
Collegiata
di Santo Stefano.
163
52.
Portiera del cardinale Pietro Campori. Italia
centrale, prima metà del XVII secolo.
Ricamo a riporto in tessuto e sete policrome,
oro e argento filato e riccio applicato su velluto
tagliato unito di seta cremisi, con insegna
araldica entro cornice di racemi fioriti a voluta.
Modena, Museo Civico D’Arte, Galleria Campori.
164
53.
Ignacio Leon y Escosura, “Lettura del cardinale”,
seconda metà del XIX secolo, olio su tela.
Sullo sfondo è visibile una portiera ricamata con
le armi gentilizie e gli emblemi cardinalizi.
Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.
165
54.
Parato del Cardinale
Rinaldo d’Este,
Vescovo di Reggio
Emilia (pianeta
con accessori).
Italia, 1641–1672.
Ricamo in oro filato
su taffetas di seta
cremisi con decoro
a minuto rabesco.
Reggio Emilia,
Arcivescovado,
Raccolta Diocesana
d’Arte Sacra.
55.
Parato del cardinale Rinaldo d’Este.
Italia, 1641–1672 (piviale).
Ricamo in oro e argento filato su
diagonale liseré di seta rosa salmone,
decoro a minuti rametti fioriti con gli
emblemi di Casa d’Este: gigli e aquile
bianche bicefali. Particolare del cappuccio.
Reggio Emilia, Arcivescovado, Raccolta
Diocesana d’Arte Sacra.
166
56.
Paliotto del parato commissionato dal Duca
Francesco Farnese per il Santuario della
Steccata di Parma, Federico Nave (Roma), 1706.
Ricamo a basso ed alto rilievo in oro filato e
cordoncino d’oro eseguito su taffetas di seta
cremisi laminato d’oro con decoro di
candelabre vegetali e racemi a voluta.
Parma, Santuario di Santa Maria della Steccata.
168
57.
Paliotto del Cardinale Prospero Lambertini,
Papa Benedetto XIV. Ricamatore romano, 1740 ca.
Ricamo a basso e alto rilievo in oro filato, laminato
e riccio su tela di canapa interamente ricoperta
dal filato metallico, disegno a foglie d’acanto con
stemma Lambertini sorretto da putti e sovrastato
dal Triregno con chiavi apostoliche.
Bologna, Museo del Tesoro della Cattedrale di San Pietro.
169
58.
Pianeta di Papa Lambertini,
parte di un pontificale solenne.
Ricamatore romano, 1741.
Ricamo a rilievo oro su oro
filato, decoro a elaborate
volute vegetali con mensole
fiorite e composizioni di frutta.
Bologna, Museo del Tesoro
della Cattedrale di San Pietro.
59.
Pianeta del Cardinale Aldrovandi.
Ricamatore romano, 1743 ca.
Ricamo in oro e argento filato e
sete policrome su fondo in gros de
Tours laminato d’oro, decoro
vegetale con San Petronio che
regge la città di Bologna,
incorniciato da una cartella su
cui siedono le quattro Virtù
Cardinali; al di sotto lo stemma
di Pompeo Aldrovandi.
Bologna, Museo di San Petronio.
170
60.
Abito di gala di Maria Luigia
d’Austria, Duchessa di Parma. Parigi,
1838 ca. Prima del restauro.
Ricamo in lamina d’argento su tulle
di seta avorio nell’abito e su gros de
Tours ondato di seta azzurra nel
mantello, disegno a cornucopie e
tralci di vite con grappoli d’uva.
Parma, Museo Glauco Lombardi.
62.
Robert J. Lefèvre,
“Maria Luigia,
imperatrice dei
francesi” 1812,
olio su tela.
Parma, Museo
Glauco Lombardi.
171
61.
Manto di gala di Maria
Luigia d’Austria,
Duchessa di Parma
Parigi, 1838 ca. Prima
del restauro.
Ricamo in lamina
d’argento su gros de Tours
ondato di seta azzurra,
disegno a cornucopie e
tralci di vite con
grappoli d’uva.
Parma, Museo Glauco
Lombardi.
172
63.
Abito di Maria Luigia
D’Austria riadattato per la
figlia Albertina Sanvitale.
Parigi, 1825–1830.
Dopo il restauro.
Ricamo in lamina d’argento
su garza di seta avorio,
disegno a tralci fioriti.
Parma, Museo
Glauco Lombardi.
173
64.
Manto della Statua della Vergine
donato da Maria Luigia d’Austria.
Parigi o Italia, 1830 ca.
Ricamo in lamina d’argento
su taffetas di seta grigio–azzurra,
disegno a cornice floreale.
Parma, Chiesa della SS. Annunciata.
174
65.
Pianeta del Cardinale Rinaldo
d’Este, Vescovo di Reggio
Emilia. Venezia, 1641–1672.
Pizzo d’oro a fuselli applicato su
taffetas lanciato in seta gialla e
oro filato, decoro di racemi
fioriti a voluta.
Reggio Emilia, Arcivescovado,
Raccolta Diocesana d’Arte Sacra.
66.
Pianeta del Cardinale
Rinaldo d’Este, Vescovo
di Reggio Emilia.
Venezia, 1641–1672.
Pizzo d’oro a fuselli
applicato su raso
di seta perla, decoro
a candelabra vegetale
con insegna araldica.
Reggio Emilia,
Arcivescovado, Raccolta
Diocesana d’Arte Sacra.
175
67.
Pianeta e velo da calice (nella
pagina seguente). Francia o
Italia, secondo e terzo quarto
del XVIII secolo.
Pizzo d’oro a fuselli applicato
su velluto tagliato unito di
seta azzurra, decoro “a
embricature” di mazzi fioriti.
Modena, Chiesa di San Carlo.
176
177
68.
Frammento di velo allegato ad
una richiesta di Sperandio
Brunelli di Verona in data 22
settembre 1744 di “B.a 25 vello
giallo in 22 s.fino stradoppio…
come la mostra”.
Taffetas in seta naturale ad
intreccio molto compatto e fili
avvicinati a coppie.
Bologna, Archivio di Stato,
Negozio per la fabbrica dei veli,
famiglia Bettini, lettere ricevute.
70.
Frammento di velo allegato ad una
richiesta di Giovan Battista de Angeli
di Palestrino in data del 21 aprile 1781
di “velo nero… di buona qualità”.
Taffetas in seta nera ad intreccio
uniforme e regolare; sono presenti
entrambe le cimosse.
Bologna, Archivio di Stato, Negozio
per la fabbrica dei veli, famiglia
Bettini, lettere ricevute.
178
69.
Frammento di velo
allegato ad una richiesta
di Filippo Trevisani di
Verona in data 19
dicembre 1782 di “pezza
1 vello candido fino
tritolo simile alla qui
inclusa mostra in 20 o
22”. Taffetas in seta
naturale; trattamento di
increspatura posteriore
alla tessitura.
Bologna, Archivio di
Stato, Negozio per la
fabbrica dei veli, famiglia
Bettini, lettere ricevute.
71.
Frammento di velo allegato ad una
richiesta di Benedetto Pozzi di Roma
datata 19 aprile 1777 di “velo violetto”.
Taffetas in seta rosa acceso ad intreccio
rado ed uniforme.
Bologna, Archivio di Stato, Negozio per
la fabbrica dei veli, famiglia Bettini,
lettere ricevute.
72.
Particolare dell’immagine precedente.
179
73.
Statuti dell’arte della seta di
Bologna del 1372, con
miniatura di Nicolò di
Giacomo di Nascimbene
raffigurante l’Incoronazione
della Vergine.
Bologna, Archivio di Stato.
74.
Guido Reni, Ritratto
della madre, 1615.
Bologna, Pinacoteca
Nazionale.
180
75.
Francesco Toselli, Ritratto
di A. Monari Zoboli, 1790
Bologna, Pinacoteca Nazionale.
181
a
b
c
d
e
g
f
78.
P.M. Ferrari, “Liborio Bertoluzzi
primo conservatore
dell’Accademia di Belle Arti”,
olio su tela, 1780-1787.
La marsina è confezionata con
un tessuto affine alle sete
Trivelli-Spalletti.
Parma, Galleria Nazionale.
79.
Pianeta confezionata con una seta
della fabbrica Trivelli-Spalletti,
1770 ca. Taffetas a pelo strisciante
in seta policroma detto “carillé a
giardino”.
Reggio Emilia, Cattedrale di Santa
Maria Assunta.
76.
Registro commerciale della fabbrica
Trivelli-Spalletti, 1743–1758 con campioni
di sete identificativi di questa produzione:
a - Taffetas di vari colori detti “ermesini”;
b - Taffetas di seta verde detto “bastonetto”;
c - Taffetas a quadri di seta verde e gialla;
d - Taffetas operato a due dritti detto “a
occhio di pavone”;
e.-f. Felpe in seta maculata dette “peluchès”;
g - Droghetto di seta azzurra detto “carillé”.
77.
Campione di “peruvienne”
della manifattura
Trivelli–Spalletti
conservato nel registro
degli anni 1768–1774.
Droghetto liseré in seta
policroma.
Reggio Emilia, Musei
Civici.
183
Il collezionismo tessile nelle raccolte pubbliche
Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna:
dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco
LUCIANA MARTINI
a collezione dei tessili del Museo Nazionale di Ravenna, oltre a rappresentare un insieme di reperti di
grande importanza storica e artistica, permette di documentare con eccezionale chiarezza, proprio per le caratteristiche della sua complessa e lunga composizione nel
tempo, anche il percorso storico della formazione museale. Le diverse accezioni del fenomeno del collezionismo, i mutamenti culturali della storia delle istituzioni
deputate alla conservazione, il progredire degli studi e
dell’interesse per le arti minori: tutto questo è testimoniato dalle vicende dei reperti al Museo Nazionale. Ripercorrere la loro storia, pertanto, rappresenta un’operazione conoscitiva di grande interesse1.
L
Le origini: il collezionismo classense
La nascita ufficiale del Museo Nazionale di Ravenna, come è noto, risale al 1885, quando le collezioni cosiddette
classensi, cioè le ricche raccolte d’arte e antiquaria dei padri camaldolesi di Classe, già passate alla municipalità
con le soppressioni napoleoniche, vennero organizzate
in un’istituzione statale. Le notizie sull’origine di questa
antica e ricchissima collezione, comprendente icone ed
avori, ceramiche e bronzetti, monete e reperti archeologici, sono sempre state piuttosto scarse; di certo i suoi inizi risalgono al Rinascimento e assai probabilmente si collegano alle raccolte di curiosità naturali e manufatti che
fin dal Medioevo si trovavano abitualmente nelle chiese
e nei conventi. Ma il suo momento di massimo accrescimento fu il Settecento, di seguito all’attività e alla sapiente guida di abati illuminati che impressero alle raccolte un consapevole indirizzo culturale, in collegamento con la ricca documentazione libraria del monastero e
con gli studi di antiquaria del tempo.
Fig. 1 – Mitra (particolare), Francia, ultimo terzo del XIV secolo.
Ricamo in oro e argento filato e sete policrome su tela di lino
avorio. Ravenna, Museo Nazionale.
LUCIANA MARTINI
Alla data di apertura del museo, la raccolta dei tessuti
comprendeva pochi ma preziosissimi materiali. Come è
lecito aspettarsi, il collezionismo dei camaldolesi era
orientato, almeno in questo tipo di materiali,verso due
direttive principali: la conservazione di importanti testimonianze religiose e dei materiali di culto da un lato, dall’altro il desiderio di documentare comunque la curiosità della produzione umana, non escluso quella esotica
e di rara provenienza, così caratteristico degli interessi
culturali del Settecento.
Nella prima categoria annoveriamo un raro tessuto altomedievale ancora oggi simbolo della collezione: il famoso ‘velo di Classe’, formato da tre liste ricamate in oro
e seta con i busti dei santi vescovi veronesi, la figura di
San Michele Arcangelo e la mano divina benedicente.
Proveniva da una tovaglia d’altare fatta eseguire a Verona per la Chiesa dei SS. Fermo e Rustico, e finita, per sconosciute vicende, ad ornare una pianeta a S. Apollinare
in Classe. Altri importanti reperti sono una mitra medievale ricamata con una tecnica affine all’opus anglicanum (Fig. 1), impreziosita da coralli, vari frammenti di
tessuto d’uso liturgico fra cui un cappuccio di piviale
della seconda metà del Quattrocento, riquadri e liste figurate in broccatello per paramenti sacri risalenti all’arte fiorentina del XV e XVI secolo2. Della seconda categoria fanno parte varie curiosità, tra le quali scarpette
cinesi e veneziane, ricami in perline e un eccezionale reperto, quasi un simbolo della grande eterogeneità e ricchezza del collezionismo settecentesco: una ‘bandiera
moslemica’, cioè un grande stendardo musulmano di
oltre quattro metri d’altezza.
La donazione Guimet e l’attività di Corrado Ricci
A non molti anni dopo la fondazione risale l’inserimento tra le raccolte del Museo del primo gruppo delle stoffe copte, cioè i frammenti provenienti dalla necropoli di Antinoe3. Purtroppo non è rimasta alcuna
traccia scritta di questa donazione negli archivi del Museo stesso; una grave dispersione ci ha privato di quello che senza dubbio fu un ricco carteggio, che forse ci
avrebbe illuminato sulle circostanze che portarono nel
1902 l’illustre collezionista Emile Guimet, già direttore
del Museo Guimet a Parigi, a destinare la raccolta all’istituzione ravennate. Ne rimane solo qualche notizia
su un giornale locale4.
La perdita di ogni documentazione ha certamente contribuito ad indebolire la memoria di questa donazione,
avvenuta in un momento storico che segnò un’incredibile dispersione del patrimonio tessile proveniente dal-
188
Fig. 2 – Tessuti copti nei pannelli approntati negli anni ’20 del XX
secolo. Ravenna, Museo Nazionale.
la necropoli; il quale, come è noto, finì suddiviso in molte raccolte, francesi e di tutta Europa. La scelta del Museo Nazionale di Ravenna come luogo di conservazione
per alcuni di questi reperti fu certamente dovuta all’importanza e alla fama della quale godeva l’istituzione
appena fondata, specie in campo archeologico. Ma possiamo anche ragionevolmente presupporre, se pure in
assenza di documentazione, che a questa vicenda non
sia stato del tutto estraneo Corrado Ricci, che fu il primo Soprintendente ai monumenti di Ravenna e che,
malgrado impegni sempre più prestigiosi in sedi lontane, fu sempre pronto a cogliere l’occasione di accrescere e valorizzare il patrimonio artistico della sua città natale. In ogni caso al Museo pervennero quarantotto
frammenti provenienti da corredi funerari, quasi tutti
parte dell’abbigliamento del defunto, fra cui quattro tuniche quasi completamente integre (Figg. 2-3). I reperti
sono compresi nell’arco di tempo che va dal IV al VI secolo, sufficiente per cogliere i caratteri essenziali dello
stile dell’arte copta.
Straordinari ritrovamenti in un sarcofago
Pochi anni dopo ancora una circostanza fortunata permise di arricchire in maniera significativa il settore altomedievale della collezione tessile. Nel 1910 venne effettuata una ricognizione dell’arca marmorea conte-
Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna:
dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco
Valorizzazione e riordino:
l’intervento di Giorgio Sangiorgi
Fig. 3 – Tessuti copti nei pannelli approntati negli anni ’20 del XX
secolo. Ravenna, Museo Nazionale.
nente le reliquie del Santo nella Chiesa di San Giuliano
a Rimini. In questa occasione vennero scoperti resti di
tessuto di grande pregio storico e artistico, a quanto pare introdotti nel sarcofago durante un’esumazione effettuata tra il IX e l’XI secolo: si trattava di minuti frammenti, fra cui importanti reperti serici figurati, ma soprattutto di due ampi drappi, uno ripiegato sotto il capo del Santo a formare una specie di cuscino, e l’altro disteso sul suo corpo. Anche qui fu determinante l’interessamento di Corrado Ricci, che s’adoperò in modo che
le stoffe fossero acquisite dal Museo Nazionale di Ravenna. E’ impossibile riassumere in breve l’importanza
di questi ritrovamenti: già in ogni caso, per effetto della
loro fragilità intrinseca, le testimonianze anteriori al
Medioevo sono scarse e di grande importanza, e rarissimi sono i reperti di età bizantina. Il grande telo in seta
purpurea con raffigurazioni di leoni andanti entro orticoli è per qualità e per interesse scientifico un resto eccezionale, che si confronta con pochi altri analoghi reperti museali e che ancora oggi simboleggia l’importanza delle collezioni ravennati5.
Gli anni tra il 1920 e il 1930 registrarono un notevole
fermento di studi e di iniziative relative al Museo Nazionale. La fine della guerra diede un nuovo e ottimistico impulso ai lavori di ricostruzione, ed una ventata di
positivismo favorì numerose iniziative di catalogazione
e riordino, sulle quali fondiamo ancor oggi le nostre ricerche. Nel 1921 venne inaugurata, con una parte delle
collezioni, l’attuale sede nell’ex monastero benedettino
di San Vitale; in quella circostanza furono inseriti nel
percorso museale solo i tre pezzi più prestigiosi della
raccolta tessile,ma subito dopo si intrapresero nuovi
progetti di riordino ed esposizione per quei materiali
che non avevano ancora trovato uno spazio adeguato.
Frattanto, nel 1920, si registrava un incremento della
collezione, dovuta alla donazione di sette broccati fiorentini effettuata dal Museo Civico di Torino. A tale circostanza, che andava ad arricchire la piccola sezione rinascimentale della raccolta, non fu forse estraneo l’interessamento dell’esperto e collezionista Giorgio Sangiorgi, che in questi anni andava rivolgendo la propria
attenzione al patrimonio tessile ravennate. Fu incaricato infatti (molto probabilmente da Corrado Ricci stesso, al quale è indirizzata la sua corrispondenza) di un
progetto espositivo di più ampio respiro, che comprendesse tutti i materiali della collezione. Egli propose la
suddivisione dei manufatti in tre gruppi, uno comprendente i tessuti copti, uno i reperti medievali, cioè i ritrovamenti dalla sepoltura di San Giuliano, e l’ultimo le
stoffe rinascimentali; inoltre enucleò una apposita sezione per i ricami (nella quale era incluso anche il velo
di Classe) e gli oggetti affini all’arte tessile.
Il progetto proposto dal Sangiorgi, datato 1923, non venne mai attuato completamente nella pratica, ma a partire dalla stessa data le guide storiche della città e del Museo registrano una situazione espositiva molto più ricca
ed articolata, nella quale trovano posto anche le stoffe
copte, collocate su pannelli di legno incorniciati. La collezione tessile del Museo ebbe poi un’occasione di particolare notorietà quando partecipò con sette pezzi di
epoca altomedievale e rinascimentale alla storica mostra curata nel 1937-38 da Luigi Sera su L’antico tessuto
d’arte italiano.
La sistemazione espositiva delle stoffe, sempre collocate
ai piani superiori delle stanzette prospicienti il secondo
chiostro del complesso benedettino di San Vitale, è rimasta sostanzialmente invariata fino agli inizi degli an-
189
LUCIANA MARTINI
Fig. 4 – L’allestimento dei tessuti nelle sale del museo prima dello smontaggio avvenuto agli inizi degli anni ’70 del XX secolo. Ravenna, Museo
Nazionale.
ni ’70 (Fig. 4). A questa data il materiale venne collocato
nei depositi, sia per far posto ai nuovi incrementi di stoffe copte (due pezzi donati nel 1968 dal Rotary International Club di Ravenna, sette acquisiti tramite il Ministero nello stesso anno, altri sette nel 1972), sia soprattutto perché il montaggio storico appariva così totalmente inadeguato alla conservazione dei reperti da risultare addirittura dannoso. Come era accaduto infatti
anche per altre importanti raccolte tessili italiane, agli
inizi del Novecento, era subentrato un lungo periodo di
trascuratezza, durante il quale non vennero effettuate le
necessarie manutenzioni, né migliorate le prime condizioni di esposizione.
Ultimi ritrovamenti e nuovi restauri
Divenne pertanto necessario intraprendere un nuovo ciclo di restauri e di studi, cosa alla quale si è dato inizio
nel 1983, con gli interventi conservativi sulle stoffe copte (Figg. 5-6). Ma le operazioni di riordino hanno fornito
l’occasione per focalizzare l’attenzione su alcuni deperitissimi resti depositati nel Museo da tempo, che mai era-
190
no stati sistematicamente restaurati e studiati. L’evento
che li aveva portati alla luce era stato simile a quello accaduto nel 1910: un recupero fortuito da sepoltura. Infatti nel 1949, volendosi procedere alla nuova pavimentazione delle navate della Chiesa di Sant’Apollinare in
Classe, fu necessario spostare tutti i sarcofagi che vi erano collocati. Si iniziò scoperchiando il secondo della navata nord: al suo interno si trovò uno scheletro ancora
adagiato sull’originale letto di cipresso, rivestito dei suoi
abiti sacri in brandelli. Essi vennero identificati in una
casula di seta porpora con gallone giallo, in ampli avanzi di dalmatica episcopale in lino bianco coi clavi rossi, e
ancora frammenti di ricamo in oro, un velo di seta purpurea operata frangiato ai lati minori e attraversato da
sei galloni diversi, in quattro dei quali erano intessute
delle iscrizioni. Si rinvennero inoltre fettucce d stoffa serica riccamente lavorata, ricamata con brani di Salmi e
motivi ornamentali. Dopo questa scoperta si ritenne opportuno aprire anche gli altri sarcofagi, e in due di essi
vennero reperiti ulteriori frammenti di antiche stoffe.
Nel sarcofago detto ‘dei dodici apostoli’ si trovarono
Antichi tessuti nel Museo Nazionale di Ravenna:
dalle acquisizioni classensi al collezionismo ottocentesco
Fig. 5 – Pettorale di tunica (particolare), Egitto, arte copta, VI-VII
secolo. Tela in filo di lino écru e tessuto ad arazzo in lino écru e lane
policrome con scena di danza. Ravenna, Museo Nazionale.
Fig. 6 – Frammento di clavo angolare (particolare), Egitto, arte copta,
IV secolo. Tessuto in lino écru e porpora ad armatura unita con
disegno stampato raffigurante una scena di caccia. Ravenna, Museo
Nazionale.
avanzi di pianeta simile alla precedente e larghissimi resti di dalmatica in lino bianco con clavi rossi; nel sarcofago ad edicole posto nella navata meridionale, ampi
brandelli di dalmatiche l’una entro l’altra in seta operata; in una di esse, quella interna, si poté osservare come
le maniche fossero libere, non cucite inferiormente e il
retro presentasse una sorta di felpatura formata da lunghi lacci di seta.
Il ritrovamento apparve subito eccezionale: si trattava di
frammenti di tessuti liturgici tra i più antichi che si conoscessero. Pertanto si intraprese uno studio, sia dal punto di vista tecnico (ne venne effettuata una perizia da parte di Sangiorgi) sia dal punto di vista dei caratteri delle
iscrizioni; le prime notizie, come sono state sopra riferite, furono pubblicate in un articolo di Mario Mazzotti
nella rivista locale “Felix Ravenna” nel 1950. I lacerti che
sul momento apparvero di maggior interesse, quelli con
le scritte, vennero collocati negli anni seguenti al ritrovamento, al Museo Arcivescovile di Ravenna, e il resto depositato all’Archivio Arcivescovile. I resti della casula in
seta purpurea e i frammenti degli altri due sarcofagi, provenienti da tre o più vesti ecclesiastiche, e innumerevoli
piccoli lacerti vennero invece consegnati al Museo Nazionale nel 1979.
A partire dal 1996, mediante i fondi del Ministero per i
Beni e le Attività culturali, è stata intrapresa una serie
di laboriosi lavori di restauro dei frammenti depositati
al Museo Nazionale; per una sistemazione definitiva di
tutto l’eccezionale ritrovamento si prevedono ancora
parecchi anni. Fino ad ora è stato possibile fornire ai
frammenti adeguate condizioni di conservazione, classificarli, e ricostruire la forma di una delle vesti originarie. Si è cominciato così ad attingere alle importanti
informazioni delle quali questi reperti sono depositari.
I dati reperiti durante questo lavoro di restauro si sono
rivelati di importanza scientifica europea; per questo i
materiali più importanti sono stati inviati alla mostra
799. Arte e cultura dell’età carolingia (dal 23 luglio al 1° novembre 1999) a Paderborn, in Westfalia. Attualmente
sono già visibili in esposizione presso il Museo Nazionale una grande casula purpurea ‘a campana’ dell’VIIIIX secolo, ornata di un gallone proveniente da un tessuto figurato, e un frammento di tessuto di seta dell’VIII secolo. Questi resti, quasi commoventi per la loro
fragilità e il loro aspetto compromesso, rappresentano
invece una fonte importantissima di informazioni sul
passato: l’arte della tessitura aveva infatti raggiunto già
in antico vertici di incredibile perfezione, esprimendo
la cultura del tempo attraverso una raffinatissima tecnologia6.
191
LUCIANA MARTINI
NOTE
1 Informazioni sulla storia delle raccolte tessili del Museo Nazionale di
Ravenna possono essere reperite in L. Martini, I tessili del Museo Nazionale di Ravenna. Note sulla formazione della raccolta e sul suo restauro, in C. Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma 1993 e in L. Martini, Cinquanta capolavori nel Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1998.
2
Informazioni su alcuni di questi materiali si trovano in Capolavori restaurati dell’arte tessile, catalogo della mostra, a cura di M. Cuoghi Costantini e I. Silvestri, Ferrara 1991, in L. Martini, Una mitra ricamata al
Museo Nazionale di Ravenna, in “Qds” 1, Ravenna 1995, pp. 47 e ss. e in L.
Martini, Cinquanta capolavori, cit. (con indicazione della bibliografia
precedente).
3 C. Rizzardi, I tessuti copti, cit.
192
4 Riportata in L. Martini, I tessili del Museo Nazionale, cit.
5 L. Martini, Piece of cloth from the Tomb of St.Giuliano in Rimini, scheda in Byzantium, an oecumenical Empire, Atene 2002, pp.158-11, con indicazione di
tutta la bibliografia precedente.
6
Riportiamo tutta la bibliografia su questi ritrovamenti: M. Mazzotti,
Antiche stoffe liturgiche ravennati, in “Felix Ravenna”, 1950, fasc. 2 (LIII), p.
40 e ss.; A. Muthesius, Bizantine silk weaving. AD 400 to 1200, Vienna 1997,
cap.12, p.104 e ss.; C. Kusch, Liturgical vestements from three archbishops burials at Sant’Apollinare in Classe, Ravenna, in atti del convegno Interdisciplinary Approach about Studies and Conservation of Medieval Textiles, Palermo,
22-24 ottobre 1998; 799. Kunst und Kultur der Karolingerzeit, catalogo della
mostra, Paderborn 1999, schede n. XI.25 e XI.26, a cura di R. Schorta.
Una raccolta per l’artigianato e l’industria:
la collezione Gandini del Museo Civico d’Arte di Modena
FRANCESCA PICCININI
ella sua dimensione monumentale, la Sala Gandini
costituisce uno snodo fondamentale nel percorso
espositivo dei Musei Civici; la sua collocazione, giusto a
metà strada fra le raccolte d’arte applicata, quelle etnologiche e quelle archeologiche, sembrerebbe esprimere in
pieno lo spirito del museo ottocentesco, sostanzialmente
rispettato durante i lavori di restauro degli anni Ottanta.
Il primo nucleo dei musei modenesi risale al 1871 quando Carlo Boni, in due locali del Palazzo Comunale, raccolse i reperti provenienti dalle “terramare”, i villaggi dell’età del bronzo i cui scavi erano da poco iniziati. Il pensiero di Boni, in un’ottica pienamente positivista e comparativa, favorì un veloce sviluppo di questo primo nucleo, al quale si aggregarono raccolte naturalistiche, industriali, artistiche ed etnologiche. Quando nel 1886 il
museo si trasferì nell’Albergo delle Arti, il settecentesco
palazzo destinato dal comune agli istituti culturali cittadini, le raccolte vennero diversamente organizzate, non
solo a causa della nuova dislocazione spaziale, ma in virtù
della differente fisionomia che stavano acquisendo.
Scomparvero i nuclei di storia naturale e industriale; si
arricchirono però le raccolte archeologiche con le donazioni di Arsenio Crespellani, successore di Boni dal 1894,
e se ne costituirono altre grazie alla sensibilità di nobili
famiglie modenesi. Accanto alle armi donate dai Coccapani e agli strumenti musicali dai Valdrighi, ci fu quella
fondamentale della raccolta tessile da parte del conte
Luigi Alberto Gandini. Il museo stava dunque prendendo
forma grazie all’aggregazione di raccolte il cui tessuto
connettivo non teneva in gran conto l’eccellenza dei singoli pezzi, valorizzando invece i rapporti tra gli oggetti e
la loro capacità documentaria, attestata su archi cronologici di ampio raggio. L’idea di fondo era quella positivi-
N
sta che vedeva la raccolta in stretto rapporto con la cultura artistico-industriale, in un confronto continuo atto
a verificare il dato documentario sulle testimonianze materiali. Va da sé che la costituzione di tali raccolte era finalizzata a dare campionature il più esaustive possibile
di un glorioso passato, con l’ambizioso programma di far
rivivere i comparti produttivi che avevano reso grande l’Italia. Quando nel 1886 fu inaugurata la grandiosa sala destinata alla collezione Gandini (Fig. 1), il donatore intervenne attivamente nella sua progettazione pensando alle vetrine e al loro contenuto come un insieme inscindibile, legato inoltre alle decorazioni delle volte dipinte
Fig. 1 – La Sala Gandini in una fotografia della fine del XIX secolo.
Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.
FRANCESCA PICCININI
Fig. 2 – Alcuni frammenti con le iscrizioni originali di Gandini
smontati e fotografati in occasione di una mostra tenutasi a Venezia
nel 1951. Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.
dallo scenografo Andrea Becchi. Per Gandini fu una sorta
di anteprima poiché, alla sua nomina di direttore, seguì
un nuovo assetto del museo. Il percorso espositivo inaugurato nel 1900, scandito dal serrato susseguirsi delle sale che sviluppavano un discorso tematico, rafforzava questa visione assieme ad un profondo legame col territorio.
Non è un caso che raccolte di oggetti complementari ai
tessuti, come carte decorate e cuoi, entrassero nel percorso proprio negli anni della sua direzione.
La collezione prende avvio forse già a partire dagli anni
Sessanta dell’Ottocento quando Gandini, Guardia Nobile
d’Onore, è al seguito di Francesco V d’Este. Nel 1859 segue
il duca in esilio a Vienna dove Rudolf von Eitelberg sta assiduamente lavorando all’Imperiale Museo d’Arte e Industria. Sebbene il soggiorno viennese abbia breve durata e
Gandini non voglia – o non sappia - scollarsi dalla ristret-
194
ta realtà modenese, si inserisce a pieno titolo nel solco del
movimento artistico industriale europeo, da cui prendono avvio quei grandi laboratori di forme che sono all’origine del Victoria and Albert di Londra e del Kunst und Industrie di Vienna. Rientrato a Modena Gandini figura tra
i protagonisti della vita culturale e scientifica cittadina e
sfoggia un gusto erudito dove l’impegno nella ricerca storica si accompagna a un vivo senso di partecipazione ai
problemi dell’educazione e del progresso, nell’ambito di
quella che all’epoca veniva definita la “pubblica utilità”.
La raccolta è composta in gran parte di frammenti di ridotte dimensioni (Fig. 2) ma, in quell’ottica fortemente
positivista, l’attenzione posta all’accurata ricostruzione
della serie si dilata fino a divenirne il principale filo conduttore. Non a caso la collezione ottiene un posto d’onore
alla rassegna sull’arte tessile organizzata dal Museo Artistico e Industriale di Roma nel 1887.
D’altra parte il rapporto tra la collezione di esemplari storici ed il mondo produttivo contemporaneo appare vincolante per lo stesso Gandini, elemento questo che
proietta la raccolta nel vivo dei suoi tempi, facendone un
repertorio propositivo di modelli per la produzione contemporanea, sia artigianale che industriale.
La sua competenza di studioso di storia del costume si coniuga con l’impegno in campo culturale, sociale e politico. Dalla metà degli anni Sessanta fino al 1886, in parallelo al progressivo costituirsi della collezione tessile, oltre
a numerose altre cariche pubbliche riveste quella di presidente della Società d’Incoraggiamento per gli Artisti
della Provincia di Modena, istituita nel 1844 con il patrocinio ducale per promuovere le scarse committenze artistiche e l’attività dell’artigianato locale.
In relazione a tali cariche è da vedersi il ruolo svolto da
Gandini nel promuovere la produzione di ricami e di pizzi, una forma di artigianato a carattere domestico che negli ultimi decenni del secolo XIX giunge a coinvolgere da
un lato note esponenti della nobiltà e della borghesia come le sorelle Pelati, affermate restauratrici e mercanti di
tessili, dall’altro, istituzioni dedite alla pubblica assistenza e all’educazione delle fanciulle bisognose, quali l’Istituto San Paolo e quello delle Figlie del Gesù. I prodotti,
ispirati ad antichi modelli reperiti talvolta nella stessa
collezione Gandini, incontrano l’apprezzamento del
pubblico nell’ambito delle esposizioni alle quali partecipano, a Modena, Firenze, Napoli, Vienna e Parigi.
Contemporaneamente Gandini si dedica agli studi di storia del costume, frequentando gli archivi e tenendo una
fitta trama di relazioni con i maggiori studiosi europei di
storia del costume, come si evince dai recenti studi con-
Una raccolta per l’artigianato e l’industria:
la collezione Gandini del Museo Civico d’Arte di Modena
Fig. 3 – Le vetrine della Sala Gandini prima dei restauri del 1986, Particolare. Modena, Museo Civico d’Arte, Archivio fotografico.
dotti sull’archivio di lavoro conservato presso il Museo
Civico d’Arte.
La raccolta tessile legata al suo nome è attualmente interessata da un complesso lavoro di restauro avviato negli
anni Ottanta. In occasione della riapertura al pubblico dei
Musei Civici avvenuta nella primavera del 1990, tuttavia,
fu possibile presentare la sala solo parzialmente allestita
secondo i criteri previsti dal piano generale della ristrutturazione dei locali, che privilegiò decisamente il rispetto
della fisionomia storicamente definita e ancora chiaramente percepibile di una realtà museale configuratasi tra
la fine dell’Ottocento ed i primissimi anni del Novecento,
raro e prezioso esempio di museo ottocentesco.
Gli oltre 2500 esemplari di frammenti tessili databili tra
il Medioevo e l’Età moderna erano stati infatti esposti seguendo le indicazioni fornite dallo stesso collezionista
mentre la sala era rimasta pressoché inalterata fino al
1986 (Fig. 3), se si eccettua la chiusura dei grandi lucernai
aperti sul soffitto e l’inserimento di una serie di tubi al
neon avvenuta negli anni Sessanta, per porre rimedio al
degrado dei frammenti esposti alla luce naturale diretta.
Al momento dello smontaggio, effettuato dopo aver realizzato un accurato rilievo grafico dell’allestimento ottocentesco, le condizioni dei frammenti risultarono piuttosto precarie: oltre ai già accennati problemi di scolorimento e di viraggio dei colori, essi erano in effetti interessati da un notevole accumulo di polvere e di sporco.
Iniziò quindi il lungo e complesso lavoro di restauro, condotto in collaborazione con l’IBACN, lavoro che è proceduto in parallelo con lo studio dei vari settori della raccolta, intrapreso a ritroso nel tempo, iniziando dai tessili
più recenti, studio che ha portato finora alla pubblicazione di tre cataloghi, il primo dedicato al Sette e all’Ottocento (1985), il secondo al Seicento (1993) e il terzo al-
195
FRANCESCA PICCININI
Fig. 4 – La Sala Gandini dopo la riapertura del Museo nel 1990. Modena, Museo Civico d’Arte.
la sezione dei galloni, merletti e ricami (2002). Le difficoltà e le battute d’arresto incontrate sul cammino (connesse per lo più a problemi economici) hanno fatto sì che
il lavoro non sia oggi ancora concluso: restano da completare il restauro e lo studio dei tessili di epoca medievale e rinascimentale e quelli classificati da Gandini come orientali, complessivamente circa 850 frammenti.
Nel 1990, al momento della riapertura, i circa 500 frammenti già restaurati consentirono di realizzare un allestimento parziale della collezione, limitato ai tessili databili tra il tardo Cinquecento ed il XIX secolo (Fig. 4). Il
fondo delle vetrine fu rivestito di pannelli in legno estraibili ricoperti con un tessuto di colore avorio, che assorbe
in parte il riflesso delle grandi vetrate illuminate dall’alto e consente di sospendere i frammenti con punti a cu-
196
cito ancorati alle fettucce applicate durante il restauro
sul bordo superiore di ogni campione tessile. Per quanto
riguarda il problema dell’illuminazione, furono istallati
nei lucernai tubi fluorescenti a bassa emissione di ultravioletti e a luminosità graduata, evitando così la luce naturale, sempre difficile da controllare, senza però tradire
l’effetto di un’illuminazione diffusa proveniente dall’alto. Con questo sistema l’illuminazione complessiva della
sala venne mantenuta intorno ai 50 lux. Quanto alle soluzioni espositive, si scelse di esporre soltanto una parte
dei campioni tessili compresi nell’allestimento ottocentesco, in modo da creare due serie parallele da alternare
periodicamente, una delle quali conservata “a riposo”, in
orizzontale entro cassettiere, al riparo dalla polvere e dalla luce. Negli anni immediatamente successivi la riaper-
Una raccolta per l’artigianato e l’industria:
la collezione Gandini del Museo Civico d’Arte di Modena
Fig. 5 – Frammento, Padova (Collegio B. Elena, Padova), seconda metà del XIX secolo, Veduta della Villa del Cataio, Taffetas ricamato, seta
policroma. Modena, Museo Civico d’Arte.
tura, fu infatti predisposta una serie di cassettiere da collocare nella parte bassa e più capiente delle vetrine: qui
furono riposti i frammenti tessili che gradatamente venivano restaurati, in attesa di procedere alla rotazione
dei materiali esposti. Tale operazione, prevista inizialmente a cadenza periodica piuttosto ravvicinata (3-5 anni) è stata finora rimandata, innanzitutto perché i frammenti una volta restaurati sembrano reagire positivamente all’esposizione, ma anche perché si è voluta privilegiare la conclusione delle operazioni di restauro e di
studio della raccolta, in modo da completare l’allestimento della sala con i tessili del Medioevo e del Rinascimento (Figg. 5-6).
Una tappa importante è segnata dalla riesposizione, avvenuta nel 2000, della sezione dei merletti, ricami e galloni, le cui operazioni di restauro e di studio hanno avuto inizio nel 1995. Gli oltre 800 frammenti sono stati collocati nella grande vetrina posta al centro della sala, con
soluzioni differenti soltanto per alcuni aspetti da quelle
che caratterizzano l’esposizione dei tessuti veri e propri.
Poiché la vetrina è collocata proprio al centro della sala,
sotto i lucernai, risultava particolarmente poco illuminata e interessata invece in massimo grado da problemi
di rifrazione della luce; una parte dei frammenti, i merletti in filato bianco o écru, apparivano inoltre assolutamente illeggibili se posti su fondo chiaro. Si è così dovuto provvedere a rivestire la superficie espositiva con un
tessuto di colore verde-azzurro, che valorizza la lavorazione a traforo dei pizzi e al contempo si accorda con la
decorazione di gusto rococò della sala. Per quanto riguarda invece il potenziamento dell’illuminazione, indispensabile alla valorizzazione dei materiali esposti, la soluzione adottata è stata quella delle fibre ottiche. Questo
sistema consente, per le caratteristiche stesse dei materiali utilizzati, di illuminare oggetti e materiali foto e termo sensibili, come la carta e i tessili, senza danneggiarli:
la luce prodotta dalle fibre è infatti qualitativamente pura, in quanto praticamente priva di radiazioni ultraviolette (filtrate dalla stessa fibra di vetro) e di infrarossi
(bloccati da un filtro applicato agli illuminatori). Occorreva però progettare un inserimento non invasivo di questa soluzione tecnologica all’interno della vetrina ottocentesca. I corpi illuminanti sono stati disposti nella cavità interna della stessa e collegati a fasci di fibre ottiche,
le cui terminazioni luminose sono state fissate ad una serie di barrette metalliche nascoste dietro le cornici superiori della vetrina. Si è inoltre creato un sistema di ventilazione forzata che sospinge l’aria dall’interno della vetrina verso l’esterno, evitandone il riscaldamento e la
conseguente alterazione dei livelli di temperatura e di
Fig. 6 – Frammento, Italia, fine del XVI secolo/inizio del XVII secolo,
Velluto cesellato a un corpo, seta verde e rossa. Modena, Museo Civico
d’Arte.
197
FRANCESCA PICCININI
umidità. Per quanto riguarda infine il problema del rispetto del livello di illuminazione, che per i materiali tessili è fissato in 50 lux, cioè l’aspetto quantitativo della luce, tale livello viene ora nettamente superato, in nome
della necessità di valorizzare i materiali. Recenti esperienze volte a conciliare le contrapposte esigenze del mostrare e del conservare focalizzano infatti l’attenzione sul
rapporto inverso esistente tra livelli e tempi di illuminazione, provando che una luce intensa valorizza gli oggetti esposti senza danneggiarli se i tempi di esposizione sono opportunamente ridotti. Per i pizzi e i ricami Gandini questi ultimi sono ridotti agli orari di apertura al pubblico, che variano dalle tre alle sette ore giornaliere; si è
tuttavia messo a punto un sistema a fotocellula che consente l’accensione delle fibre ottiche soltanto in presenza di visitatori, con un effetto scenografico il cui impatto
sul pubblico non è da sottovalutare.
A fianco della collezione Gandini va segnalata la presenza di altri nuclei di tessili, frutto di acquisti e donazioni
successivi. Tali acquisizioni, avvenute senza interruzione
dall’epoca di Gandini fino ai nostri giorni, hanno indubbiamente focalizzato l’attenzione dell’istituzione modenese su questo settore museologico. Si è costituita una
piccola ma pregevole raccolta di abiti settecenteschi tra i
quali spicca un’interessante andrienne acquistata nel
1992, alcune vesti maschili e un nucleo di gilet databili
tra Sette e Ottocento. A questi si aggiungono una trentina di capi di vestiario ottocenteschi, in gran parte ma-
198
schili e provenienti dalla donazione Tardini avvenuta nel
1997. Numerosi sono i capi di vestiario e accessori quali
busti, borse, scarpe, cappelli, fazzoletti e ventagli nonché
paramenti sacri, frammenti di tappezzerie, costumi teatrali e popolari, capi di biancheria e tendaggi che sono
pervenuti ad arricchire le raccolte. Si tratta di oggetti di
provenienza assai diversificata, talvolta non accertabile,
e di qualità discontinua, ma che testimoniano un’evidente vocazione del museo verso lo studio del tessile; anche le ultime donazioni in ordine di tempo confermano
tale proposito allargando l’orizzonte delle raccolte con
un corredo di biancheria personale databile tra la fine
dell’Ottocento e i primi del Novecento.
Aggregato al Museo Civico d’Arte, sebbene conservi una
sua autonoma fisionomia, è poi il Museo del Risorgimento, tra le cui raccolte si trova un interessante nucleo
di tessili. Divise, berretti e bandiere databili dalla fine
del Settecento fino al Ventennio fascista sono ora in fase
di studio, dopo un’accurata manutenzione attuata in vista del riallestimento e della riapertura del museo, previsti compatibilmente con le risorse disponibili per il
2007.
Tra i progetti a breve termine figura anche la pubblicazione del quarto catalogo della Collezione Gandini dedicato ai tessuti medievali e rinascimentali. Si auspica infine un rapido completamento del progetto espositivo della sala nell’ambito del quale è prevista anche la rotazione
dei pezzi ora nelle vetrine.
Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica
di Bologna, e oltre
CARLA BERNARDINI
el sistema costituito dal Museo Medievale, dal Davia
Bargellini e dalle Collezioni Comunali d’Arte, la presenza dei materiali tessili può essere inquadrata nel più
generale tema del rapporto fra museo e arti applicate, recentemente ripresentato nell’ambito delle attività espositive e di divulgazione dei Musei Civici d’Arte Antica in
particolare a proposito degli anni fra Otto e Novecento.1
Se in epoca postunitaria, su uno sfondo culturale di matrice positivista, il Museo Civico di palazzo Galvani intrecciava il tema delle arti con quello del collezionismo e
delle illustri radici medievali e rinascimentali cittadine,2
solo nel 1921 – con l’apertura al pubblico del Museo d’arte industriale e galleria Davia Bargellini nel palazzo omonimo di Strada Maggiore – si poté assistere ad una realizzazione museografica legata al tema del rapporto tra arte
e mestiere, arte e didattica, arte e industria, epilogo di
una vicenda ottocentesca oramai giunta al tramonto3. È
stato oggetto di ampia rivisitazione critica lo spirito con
cui il fondatore, Francesco Malaguzzi Valeri, rivolgeva la
propria attenzione alle più antiche manifestazioni artistiche legate alla vita quotidiana, all’arredo, all’ornato,
trasferendo nel museo l’idea di una sorta di “macchina
del tempo” al servizio della ricostruzione ed evocazione
storica da un lato, e della pratica artistica e artigianale
dall’altro.4 L’istanza storicista si coniugava con quella volta a fare del museo un luogo d’accesso ad un repertorio di
forme e modelli ad uso prevalente delle professionalità
artigianali, tanto in via di formazione nel mondo dell’istruzione scolastica o dell’apprendistato, quanto già affermate nella realtà produttiva. Gli spazi ristretti e la percezione di quella cultura come “retrospettiva”, più che
come fulcro di espansioni tematiche rivolte al futuro,5
impedirono forme di accrescimento di quel museo, for-
N
Fig. 1 – Una sala del Museo Davia Bargellini.
tunatamente consegnato al tempo presente come intatta, e perciò rara, testimonianza della museografia italiana degli anni Venti del Novecento (Fig. 1).6 Non si può negare che la successiva vicenda delle Collezioni Comunali
rappresenti ancora oggi una sorta di occasione sottodimensionata, sotto il profilo dell’attenzione verso le arti
applicate, rispetto ad alcune positive premesse iniziali,
soprattutto considerando la visione del patrimonio storico-artistico e collezionistico come “insieme”, “tessuto”,
“contesto”, maturata da Malaguzzi Valeri a proposito del
sistema museografico bolognese.7 Fondate nel 1936 e ria-
CARLA BERNARDINI
Fig. 2 – Pannello con tessuti cinque-seicenteschi nell’allestimento
storico della sezione medievale e postmedievale del Museo Civico.
perte al pubblico dopo la parentesi bellica soltanto nel
19518, in epoca di poco successiva sarebbero divenute
l’oggetto di progressive diaspore di materiali e riduzione
degli spazi espositivi (solo in parte compensate con il recente riallestimento). Benché la nuova galleria avesse palesemente espresso alla sua nascita un diffuso interesse
per l’arredo e le arti applicate, fu l’ambientazione di raccolte pittoriche e scultoree a fornire le principali lineeguida dell’allestimento.9
Le sorti e le vicende delle raccolte tessili dei Musei Civici
di Arte Antica si differenziano in rapporto alla distinta
storia dei tre musei nella seconda metà del Novecento.
Fig. 3 – Frammento di tovaglia di lino bianco raffigurante l’Assedio
di Buda (particolare). Bologna, Museo Civico Medievale.
200
Per quanto concerne il Museo Civico di Palazzo Galvani,
l’organizzazione dei tessuti ivi già conservati ha seguito
la più generale operazione di scorporo, dall’originaria
realizzazione tardo-ottocentesca dei materiali di epoca
medievale e post-medievale, in vista della creazione del
Museo Civico Medievale nella nuova sede di palazzo Ghisilardi-Fava (1985)10. Fa storia a sè il celebre piviale gotico di San Domenico, acquisito nel 1882 dal Comune ed
esposto al Museo Civico di Palazzo Galvani11, inserito nel
percorso museale “maggiore” del Medievale accanto ad
altre celebri opere legate alle presenze della Chiesa e degli ordini religiosi a Bologna fra Due e Trecento12. Altri oggetti realizzati con fibre tessili, appartenenti all’illustre
storia collezionistica che è all’origine della formazione
del patrimonio del museo, sono suddivisi tra depositi e
sale espositive, in quest’ultimo caso inseriti nell’organizzazione tematica del nuovo percorso museale (1984 e
1988): le calzature veneziane e turchesche provenienti
dalla barocca Wunderkammer del marchese Ferdinando
Cospi (parte di una piccola serie di elementi di abbigliamento), la serie di faretre della collezione settecentesca
di Luigi Ferdinando Marsili, parte dell’armamento orientale esposto nella sezione “armi e armature”.13 Mancano
invece all’appello i campioni di tessuti medievali e rinascimentali (di ampio formato) già raccolti in pannelli disposti a parete nella sala medievale del Museo Civico
(Fig. 2) per motivi di conservazione, ma non soltanto. Nella pausata scansione tematica della nuova realizzazione
museale, sono venuti infatti a mancare per quei manufatti il valore di contestualizzazione ambientale di “riferimento” storico e stilistico che ancora potevano rivestire in un allestimento “ambientato” e attento alla dialettica fra le arti, nel clima culturale tardo ottocentesco di rivalutazione delle arti applicate e di attenzione alle sue
più illustri espressioni museografiche.14 Spiccano fra
questi un grande frammento di tela di lino di Fiandra raffigurante l’Assedio di Buda (1686) (Fig. 3), accanto ad altri di
epoca precedente.15 Ma il fondo più consistente è quello
composto di una larga serie di campionari conservati attualmente nei depositi del Museo Civico Medievale: velluti, rasi vellutati, damaschi, lampassi, broccati, pizzi,
merletti, galloni, bordi ricamati, passamanerie, frange e
nappe, di varie tipologie ed epoche, in prevalenza databili fra il Cinque e il Settecento. La mancanza di un effettivo
interesse per questa collezione nel corso del tempo si è
tradotta in una situazione conservativa assai soddisfacente, grazie a cui è preservata in larga parte la naturale
brillantezza dei colori (Figg. 4-5-6-7). L’acquisizione di
questi campionari si scala fra il 1881 (l’anno che precede
Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica di Bologna, e oltre
Fig. 4-5-6-7 – Pagine di campionari con frammenti tessili di varie tipologie tecniche e decorative del XVI, XVII e XVIII secolo.
Bologna, Museo Civico medievale.
quello dell’inaugurazione del Museo Civico) e i primi decenni del nuovo secolo, benché i cartellini apposti rinviino ad una più antica sistematizzazione; il fondo si inquadra nel più generale fenomeno di passaggio dal collezionismo aristocratico di tessuti al patrimonio museografico, già messo a fuoco per quanto riguarda l’ambiente modenese a proposito della donazione Gandini al locale Museo Civico.16
Manca ancora una ricerca sistematica sulle provenienze, ma è possibile ricomporre il quadro di riferimento
di precedenti proprietari attraverso alcuni cognomi apposti accanto a frammenti nella collezione stessa e con
la parallela ricerca documentaria: i cartellini apposti in
alcuni casi dichiarano soltanto cognomi (Silvestrini,
Lambertini, Muzzi, il conte e la contessa Cavazza), o indicazioni di altro genere, come quella di riferimento all’Opera Pia Caprara;17 un dono di parati liturgici provenienti dalla Compagnia della Buona Morte risalente al
1882 reca un riferimento al canonico Domenico Santa-
gata, della stessa Compagnia18. Per via archivistica
emerge in particolare a più riprese il nome del Conte
Luigi Alberto Gandini, per il dono di una grande tovaglia ricamata e di “molti saggi di stoffe antiche”, nello
stesso anno 1882 in cui avvenne la storica donazione al
Museo Civico di Modena 19: gli indizi per attribuirgli un
ruolo assai largo anche in ambito bolognese sono innumerevoli, insiti nelle caratteristiche stesse della raccolta.20 Questo nucleo, attualmente conservato presso il
Museo Civico Medievale, si pone quindi come momento inedito nell’importante capitolo della storia del collezionismo tessile nel tardo Ottocento, ancora in attesa
di studio.21 Nel capoluogo emiliano l’argomento si inserisce in una congiuntura storica assai significativa
sotto il profilo storico-artistico perché strettamente
connessa – a cavallo dei due secoli e nei primi decenni
del nuovo – con fondamentali esiti creativi e produttivi
nel campo del merletto e del ricamo, quando un nesso
particolarmente stretto legava il collezionismo e lo stu-
201
CARLA BERNARDINI
dio di manufatti antichi alla nascita del disegno “industriale”. Il ritorno alle radici storiche attraverso la raccolta e sistematizzazione di campioni, operato in parallelo al ricorso a modellari antichi a stampa, caratterizzò
come noto la ricca produzione Aemilia Ars Merletti e Ricami, l’esperienza cresciuta nel solco del movimento inglese Arts and Crafts e protrattasi, dagli ultimi anni dell’Ottocento fino oltre il terzo decennio del secolo scorso.22 Da essa, nel patrimonio civico sarebbe confluito il
ricco campionario di merletti e ricami acquisito dal Comune nel 1935 – all’atto della totale liquidazione della
ditta – per cui si stentò a trovare una collocazione adeguata allo spessore e alla portata storica di quell’esperienza. Destinato in un primo tempo al Museo della
scuola professionale Regina Margherita, poi al Museo
d’Arte Industriale Davia Bargellini – all’interno quindi
di una prevalente intenzione didattica – esso sarebbe finalmente approdato alla nuova Galleria in palazzo
d’Accursio23, realizzata nel solco della cultura e del gusto facenti capo all’opera e al pensiero di Alfonso Rubbiani e di Francesco Malaguzzi Valeri. Nel museo allora
si fondevano in un’armonica continuità i temi della
Fig. 8 – Culla inviata all’esposizione di Milano del 1906, Aemilia Ars,
inizi del XX secolo. Foto d’epoca, Bologna, Collezione Ferné.
202
Fig. 9 – Arazzo raffigurante Salomone e la Regina di Saba. Manifattura
fiamminga, fine del sec. XVI. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.
quadreria, dell’arredo, delle arti applicate e dell’ornato.24 Le opere tessili, forse anche per la scarsa consistenza numerica al di fuori degli oltre trecento campioni di
merletti e ricami Aemilia Ars, erano destinate a restare
una presenza episodica, priva di un’organizzazione sistematica e con una funzione prevalentemente di arredo: così fu per il campionario Aemilia Ars (entro vetrine
collocate accanto a dipinti della fine dell’Ottocento nella nona sala), al pari, nel braccio arredato “Rusconi”, di
un importante arazzo cinquecentesco raffigurante Salomone e la Regina di Saba (Fig. 9) 25 e di alcuni tappeti,
uno dei quali per lungo tempo esposto a parete, in un
amalgama gremito di oggetti, sullo sfondo di tappezzerie e tendaggi di imitazione barocca e settecentesca.26 Il
fondo Aemilia Ars comprendeva, oltre ai campioni di
merletti e ricami (Fig. 10), un cospicuo fondo di disegni
e lucidi su carta per decorazioni per interni e per elementi di arredo, per mobili, ferri battuti, lampade, cuoi
impressi, merletti e ricami (Fig. 11), ceramiche, vetri. Il
fondo grafico, attualmente conservato presso il Museo
Civico Medievale, è stato “attribuito” in tempi recenti al
Museo Davia Bargellini per congruità tematica, ma in
ogni futura occasione di catalogazione e ricerca la considerazione dell’unità patrimoniale dei due musei è destinata a prevalere sulla distinzione per sedi espositive.
La mostra dedicata nel 2001 presso le Collezioni Comu-
Fig. 10 – Polsino, Aemilia Ars, primo quarto del XX secolo. Refe di lino écru, merletto ad ago, punto reticello e punto in aria. Bologna, Collezioni
Comunali d’Arte.
nali d’Arte ha inteso fornire un contesto al fondo, riproponendo in termini complessivi quell’intenso momento di creatività e produzione, in cui sulle arti si concentrava l’attenzione storica ed evocativa propria del
pensiero di Alfonso Rubbiani, nell’ambito di una spinta verso la ridefinizione delle identità culturale e artistica cittadine27. L’occasione espositiva ha fatto emergere con forza il tema della connessione collezionistica
e territoriale fra patrimoni che, pur avendo subìto un
diverso destino patrimoniale e conservativo, hanno in
comune origine e interesse scientifico.28 Si tratta di importantissimi archivi di testimonianze materiali in grado di far emergere una storia altrimenti destinata al silenzio: storia delle forme e delle tecniche artigianali,
storia economica e produttiva, storia del costume e delle forme decorative, storia dell’organizzazione del lavoro – e della stessa condizione – femminile.29 È allora che,
nell’intento di inserire lo studio dei materiali tessili –
Fig. 11 – Bordo con pavoni, Aemilia Ars, inizi del XX secolo. Ricamo e merletto ad ago. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.
203
CARLA BERNARDINI
attraverso la basilare dimensione tecnica che solo la catalogazione scientifica può garantire – nella storia più
generale, apparirà quanto mai opportuno ricondurre
ad unità tematica la loro presenza nelle raccolte museali attraverso la ricerca, la catalogazione, la riproduzione,30 in primo luogo per prevenire future occasioni
di svalutazione critica e quanto potrebbe conseguirne
in termini di incuria e degrado se non addirittura di
alienazione e dispersione. Ma soprattutto rendendo
concreta nel momento attuale quella possibilità di ricomporre, ancora, in unità ciò che le vicende storiche
hanno frammentato e separato, quando non disperso;
impresa destinata a divenire sempre più ardua col passare degli anni. La traccia già indicata sommariamente
a proposito della mappa dei musei cittadini – in cui un
ruolo primario spetta alle collezioni del Museo Storico
Didattico della Tappezzeria31 – dovrebbe essere riconsiderata anche in relazione ai patrimoni tessili ex IPAB,
da anni ampiamente studiati nella loro consistenza e
spessore anche di significati, ma ancora in attesa di essere inseriti in un sistematico quadro complessivo, costituito dai legami che si possono istituire fra i nuclei
patrimoniali presenti nella città, dalla loro ricomposizione in “serie”, e dalle infinite possibilità di una generale espansione della ricerca sull’argomento. Quello
dell’indagine storica per la ricostruzione di ampi quadri di riferimento “per” le collezioni, partendo rigorosamente da esse, è un tema che va inserito anche in una
visione più ampia relativa al dialogo e all’arricchimento reciproco fra ricerca museale e ricerca universitaria,
fondate ambedue sull’intreccio di valori storici, territoriali e di contesto sulla base di un’ineccepibile conoscenza tecnica garantita dalla catalogazione
scientifica32. Si dovrà inoltre sottolineare come anche
la possibilità di incremento delle raccolte dipenda in
gran parte dalla capacità propositiva maturata dal museo su ambiti tematici specifici. Non è casuale, infatti,
che a seguito della mostra e delle iniziative collaterali
dedicate ad Aemilia Ars il patrimonio tessile delle Collezioni Comunali d’Arte abbia conosciuto un vistoso incremento: doni privati33 e l’acquisizione di larghe sezioni del patrimonio dell’ex Istituto Elisabetta Sirani,
già “Scuola Regina Margherita” indicano nuovi percorsi di lavoro per il museo nel campo specifico della storia del lavoro femminile e della trasmissione dei saperi
e delle abilità manuali.34 Un ulteriore percorso di conservazione va individuato nel campo del costume storico, rispetto al fondo di livree per valletti comunali risalenti ai primi decenni del Novecento, la cui cura è tut-
204
tora affidata all’ufficio che tradizionalmente ne gestiva
l’uso, il guardaroba comunale.35. Altri materiali già legati ad una destinazione d’uso poi tramontata, non divenuti tempestivamente oggetto di una sensibilità conservativa all’interno dell’ente di appartenenza, in tempi passati hanno imboccato strade diverse, come la serie dei Gonfaloni delle corporazioni delle Arti già conservati in palazzo del Podestà, attualmente esposti
presso il Museo Storico Didattico della Tappezzeria.36
Come in ogni corretta operazione museografica, anche
nel campo dei tessuti individuare qualche prospettiva
futura comporta innanzitutto risalire alle radici del
museo. Sotto questo profilo oggi può divenire assai significativo il positivo rapporto già instaurato da Francesco Malaguzzi Valeri fra patrimonio storicoartistico
pubblico e patrimonio delle Opere Pie. Messa a fuoco
infatti la possibilità di una reciproca valorizzazione fra
arti “maggiori” da un lato e arti “minori” (la cui presenza presso gli enti di assistenza e beneficenza è imponente) dall’altro, aveva costruito la possibilità della
convenzione, tuttora in essere, fra il Comune e l’Opera
Pia Davia Bargellini per la costituzione del museo, sancendone la fusione dei patrimoni a scopo espositivo
(1919), rendendo inoltre possibili altre fondamentali
accessioni in forma di deposito, come quello dell’Opera
Pia dei Poveri Vergognosi (comprendente anche materiali dell’Opera Pia Caprara e del conservatorio di Santa
Marta).37 Un messaggio che oggi può caricarsi di nuove
potenzialità nel campo della ricerca e della comunicazione, soprattutto se considerato in un’ottica di rete fra
nuclei patrimoniali (non da ultimo anche come deterrente per possibili processi di alienazione); dove forme
di tutela e progresso di conoscenze storiche convergano nella fondamentale salvaguardia del rapporto coi
contesti d’origine. In questo modo il museo, rendendo
accessibili serie complesse di materiali entro e oltre i
propri confini, sia direttamente che attraverso restituzioni virtuali e banche dati, non solo può adempiere
agli scopi primari di tutela, fruizione e valorizzazione,
ma riaffermare per sé quel naturale ruolo di archivio
materiale, di strumento per la ricerca e fonte di conoscenza che in epoche passate si è espressa assai più che
nel presente. Superfluo a questo punto sottolineare la
multidisciplinarietà dei campi di applicazione scientifica nel settore specifico dei tessuti, che una visione gerarchizzata delle arti per troppo tempo ha mantenuto
in un ruolo in qualche modo “subalterno”, con un influsso non sempre positivo sulle politiche museali oltre
che sugli indirizzi della ricerca storica.
Per le raccolte tessili dei musei civici di arte antica di Bologna, e oltre
NOTE
1
Aemilia ars: Arts & Crafts a Bologna 1898-1903 (cat. mostra a cura di C. Bernardini, D. Davanzo Poli, O. Ghetti Baldi), Milano 2001; C. Bernardini, M.
Forlai (a cura di), Industriartistica bolognese. Aemilia Ars: luoghi, materiali,
fonti, Cinisello Balsamo 2003. Questo intervento riprende parzialmente
un precedente testo, cui si rinvia per riferimenti più puntuali (C. Bernardini Martoni, I tessuti nelle raccolte comunali di arte medievale e moderna
in Bologna, in Le collezioni civiche di tessuti. Conservazione esposizione catalogazione, Atti del seminario di studi (Modena, Collegio San Carlo, 3-4 ottobre 1986), Bologna 1990, pp. 39-51.
2
Di cui l’attuale Museo Medievale costituisce una “gemmazione” novecentesca nella nuova sede di palazzo Ghisilardi-Fava; cfr. R. Grandi, Il Civico Medievale, formazione e vicende, in Introduzione al Museo Civico medievale. Palazzo Ghisilardi-Fava, Bologna 1985, pp. 7-18.
3 A. Buzzoni, Musei dell’Ottocento, in I Musei, Touring Club Italiano, Milano 1980 (“Capire l’Italia”, vol. IV), pp. 155-163, part. p. 163; fondamentale
per la comprensione non solo delle ragioni culturali, ma delle più complesse vicende costitutive del Museo Davia Bargellini, è tuttora il saggio
di R. Grandi, L’Opera Pia Davia Bargellini di Bologna, in Arte e Pietà. I patrimoni culturali delle Opere Pie (cat. mostra), Bologna 1980, pp. 352-355. Per
i fondamentali sviluppi della ricerca sull’argomento, si rinvia alle successive note 4-7.
4
M. Ferretti, Un’idea di storia, la realtà del museo, il suo demiurgo, in R. Grandi (a cura di), Museo civico d’arte industriale e galleria Davia Bargellini, Bologna 1987, pp. 9-25, part. pp. 12, 16-17, 20.
5 Sulla decaduta vitalità e fisionomia dei musei d’arte industriale realizzati tardivamente entro il terzo decennio del Novecento, via via
emarginati dalle motivazioni di una cultura proiettata verso il futuro,
cfr. A. Buzzoni, op. cit., p, 163; le molteplici ragioni del repentino tramonto del modello “passatista” malaguzziano sono ancora suscettibili
di studio (cfr. S. Scarrocchia, Aemilia Ars tra Arte e industria. La formazione
della Kunstindustrie a Bologna e in Emilia Romagna, in C. Bernardini e M. Forlai, op. cit., pp. 14-15.
6
E. Riccòmini, Vicende del Museo d’Arte Industriale Davia Bargellini, in F. Lanza (a cura di), Museografia italiana degli anni Venti: il museo d’ambientazione,
Feltre 2003, pp. 11-18; per i materiali tessili attualmente esposti al Davia Bargellini, prevalentemente parati liturgici e ricami, molti riproduzioni di dipinti famosi, cfr. D. Ferriani, L’Opera Pia dei Poveri Vergognosi e l’Istituto di Santa Marta di Bologna, in Arte e Pietà…, cit., pp. 196-198; A. Cicatelli, schede nn. 174, 176, 177, 179, 183, 184, ivi, pp. 213-219; J. Bentini,
schede nn. 119-125, in Grandi (a cura di) Museo civico d’arte industriale…
cit., pp. 182-190; Un’immagine della sistemazione dei parati liturgici in
Bernardini Martoni, op. cit., p. 52 fig. 2; si rinvia inoltre, in questo volume, al saggio di Jolanda Silvestri; per il deposito dall’Opera Pia Caprara
al Museo Civico risalente al 1920, da cui la destinazione di materiali per
l’esposizione nel costituendo Museo Davia Bargellini, cfr: Tumidei, op.
cit: pp. 70, 74; per le vesti del Cardinal Caprara appartenenti al patrimonio dell’Opera Pia dei Poveri Vergognosi, cfr. S. Battistini, Ufficialità e
diplomazia nel repertorio iconografico del cardinal Caprara, in id. e P. Goretti
(a cura di), L’Uomo che incoronò Napoleone. Il Cardinal Caprara e le sue vesti liturgiche (cat. mostra), Ferrara, 2005, p. 5; P.Goretti, Schede delle opere in mostra, ivi, p. 30; nel museo meritano una menzione a parte i costumi in
miniatura del Teatro di marionette (di proprietà della Pinacoteca Nazionale), realizzati in tessuti raffinatissimi con altissima maestria e con
particolare attenzione alla moda del periodo (R. Melloni, ivi, schede nn.
105-117, pp. 174-180).
7
Cfr. Ferretti, op. cit., p. 20; S. Tumidei, Il patrimonio delle Opere Pie, il conte
Malaguzzi Valeri e il Museo Davia Bargellini, in Gli splendori della vergogna
(cat. mostra), Bologna 1995, pp. 63-77, part. pp. 63, 65-68, 70.
8 C. Bernardini, L’appartamento del legato. La fondazione della galleria. I materiali, la formazione delle raccolte, in Collezioni Comunali d’Arte: l’appartamento del legato in palazzo d’Accursio, Bologna 1989, pp. 7-11; id. Le Collezioni Comunali d’Arte, in W. Tega (a cura di) Storia Illustrata di Bologna, vol. III,
Bologna 1989, pp. 181-200, part. pp. 189-193; id. Origini di un’identità museale, in Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, Ferrara 2002, pp. 8-11. Quanto la possibilità di affermazione o espansione delle Collezioni Comunali d’Arte, e in alcuni casi la stessa conservazione del suo patrimonio,
sia stata condizionata da approcci estranei alle più basilari considerazioni museografiche e conservative sarebbe argomento da affrontare in
specifico. Per ora si rinvia agli accenni in C. Bernardini, Arte e storia, Museo e città: un occhio al presente, uno sguardo al futuro, in Collezioni Comunali
d’Arte…, cit., pp. 50-54 (part. p. 51).
9 Sul radicamento del progetto museografico nella cultura post-rubbianesca e post-malaguzziana, cfr. C. Bernardini, Nel museo, per il museo,
in Aemilia Ars, arts & Crafts a Bologna… cit., pp. 17-18; id., Le Collezioni Comunali d’Arte, cit., pp. 188-189 e 192-193.
10 Per cui cfr. R. Grandi, Il messaggio del museo. Osservazioni sul nuovo museo Me-
dievale di Bologna, in Informazioni IBC, anno I, n.s., n. 4, luglio-agosto 1985.
11
Sull’acquisizione del piviale cfr. Archivio storico dei Musei Civici di
Arte Antica (d’ora in poi Archivio MCAA), carteggio L. Sighinolfi, fasc.
72, scheda n. 18 (1881).
12
Oltre al saggio di M.Cuoghi Costantini nel presente volume (pp.), ci
si limita a citare i due contributi più recenti pubblicati nell’ambito dell’attività scientifica dei Musei Civici di Arte Antica, ambedue con rimandi alla vasta bibliografia precedente: C. Bussolati, Il piviale di San Domenico: una prospettiva di lettura, in “Arte a Bologna. Bollettino dei Musei
Civici di Arte Antica”, n. 3, 1993, pp. 93-104, e la scheda di A. Rizzi in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna (cat. mostra, a cura di M. Medica con la collaborazione di S. Tumidei), Venezia, 2000, pp. 385-389.
13
Alcune calzature sono inserite nella sezione riguardante la storia della formazione delle raccolte (sala 1); cfr. A. Mazza, R. Grandi, Nel segno del
“civico”, in “IBC informazioni”, IV, n. s.; n. 6, novembre-dicembre 1988, pp.
27-31 (riprod a p. 30); le faretre sono in tessuto o velluto con applicazioni in metallo e ricami in filo d’argento.
14
Per le suggestioni provenienti dal londinese South Kensington Museum, cfr. R. Grandi, Il Civico Medievale…, cit., p. 13.
15
Cfr. A. Contadini, Due pannelli di cuoio dorato nel Museo Civico Medievale
di Bologna, in “Annali di Cà Foscari. Rivista della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Venezia”, Serie Orientale, XXVII, 3,
1988, pp. 127-142, part. tav. 3.
16 G. Guandalini, La raccolta Gandini. Dalla collezione aristocratica al bene museografico, in La Collezione Gandini del Museo Civico di Modena. I tessuti del
XVIII e del XIX secolo, Bologna, 1985, pp. 7-27; a Bologna l’inaugurazione
del Museo Civico nel 1882 aveva sollecitato nella città una propensione
quasi corale al dono, testimoniata anche da una serie consistente di verbali di ricevuta conservati presso Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica (Carteggio Luigi Frati, cartt. I-III)
17
Documentazione presso l’Archivio Storico Comunale: Indici di protocollo del Comune di Bologna, 1881 (stoffe antiche dell’Opera Pia Caprara:
nn. 4302, 4550, 6679, 6688, 8436, 9036, 9973, 9867, 10019).
205
CARLA BERNARDINI
18 Croci ricamate, inv. 2139-2141: Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica, carteggio L. Frati, cartone II, fasc. 17 (1882) n. 2.
19 Lettera di L. Frati al Sindaco di Bologna (2/9/1882) e al Conte Luigi Al-
berto Gandini, in Archivio storico comunale di Bologna, cart. XIV, 2.3,
1882, prot. 8816 (“Dono del Conte Luigi Alberto Gandini di una tovaglia
di stile orientale lunga 1,85, alta 0,58, bianca, con bordi azzurri, con ornati di uccelli e quadrupedi”); la data 1882 compare sul frammento inv.
2142 con la dicitura “dono del Conte A. Gandini di Modena”. Ovviamente, soltanto una sistematica catalogazione di tutti i campioni potrà
consentire di ricomporre una visione d’insieme significativa, a riscontro con quanto dichiarato dalle serie documentarie, su cui per questa
occasione è stato svolto un sondaggio poco più che sommario. Oggi la
tovaglia di cui si fa menzione nei documenti non è più rintracciabile, al
pari di altre due acquisite rispettivamente nello stesso anno 1882 e nel
1887 “ceduta dalla sig.ra Toldi”); cfr. Archivio MCAA, carteggio Luigi Frati, C. II, fasc. 17 (1882) e fasc. 22 (1887).
20 Come sottolinea Marta Cuoghi Costantini, dopo un pur veloce confron-
to fra i singoli campioni bolognesi con quelli della raccolta modenese.
21 Il fondo è stato oggetto di un capillare censimento fotografico a cura
della scrivente e di Giorgia Gherardi (anni 1986-87). Un ulteriore “acquisto municipale” consistè, molti anni dopo, in un pezzo di stoffa da
casa Mezzofanti, cioè “una striscia di seta con lo stemma cardinalizio di
Mezzofanti” più “un disegno a spolvero” dello stemma medesimo (archivio MCAA, carteggio L. Sighinolfi, cartone III, fasc. 37 (1909). Un acquisto di stoffe e merletti antichi risale al 1901 (Bologna, Archivio storico Comunale, Registri di protocollo, 1901, n. 9441).
22
Cfr. R. Campioni, Presentazione, in Merletti e ricami dell’Aemilia Ars (ristampa dell’edizione del 1929), Imola 1981; id., “Il libro di disegni cinquecenteschi… reso vivo e fattivo”; in Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti Baldi (a
cura di), op. cit., pp. 117-124; in specifico sul collezionismo e la catalogazione di antichi manufatti da parte di Elisa Ricci, cfr.B. R. Bellomo, Elisa di
Corrado; in “Ravenna studi e ricerche” IX/1, 2002, pp. 13-56; sul nesso antico-moderno, D. Davanzo Poli, Merletti e ricami a punto antico, in Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti Baldi (a cura di), op. cit., pp. 93-115, part. pp.
100-103; C. Bernardini, Aemilia Ars: aggiornamenti e spunti di ricerca, in id. e
M. Forlai (a cura di), Industriartistica Bolognese… cit, pp. 6-8, part. p. 7.
In corso di studio nell’ambito di una ricognizione sugli arazzi fiamminghi nelle raccolte pubbliche italiane promossa dall’Istituto Olandese di storia dell’Arte di Firenze (a cura di Linda Lloyd Jones).
26 cfr. Bernardini, Le Collezioni Comunali, cit., pp.192-193.
27 E. Raimondi, All’origine dell’Aemilia Ars: ideologia e poetica, in Aemilia Ars…
cit., pp. 21-30.
28 Cfr. B. Argelli, Le carte Aemilia Ars, 1898-1937, in Aemilia Ars…, cit., pp. 239248; M. Forlai, Materiali e fonti, in Industriartistica bolognese… cit. pp. 53-57.
29
Esemplari sotto questo profilo: L. Ciammitti, La fabbrica delle spose,
in Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Vita di Borgo e artigianato, Milano, 1980, pp. 44-55; id., Fanciulle monache madri. Povertà femminile e previdenza a Bologna nei secoli XVII-XVIII, in Arte e Pietà: I Patrimoni culturali
delle Opere Pie, Bologna, 1980, pp. 461-520; D. Davanzo Poli, op. cit.; V.
Capecchi e A. Pesce, L’Aemiia Ars “merletti e ricami”: storia di un’impresa
tutta femminile, in Aemilia Ars… cit., pp. 127-149; cfr. inoltre la successiva nota 35.
30 Superfluo in questa sede sottolineare che lo studio di forme di accesso alternative all’allestimento per questi materiali è imposto dalla loro
stessa natura, per motivi di conservazione.
31 Cfr. in questo stesso volume l’intervento di S. Zironi e F. Ghiggini.
32 Per un’efficace visione complessiva relativa a queste problematiche si
rinvia a S. Settis, La formazione, la ricerca, la tutela: il sistema italiano, in Lo
spazio il tempo le opere. Il catalogo del patrimonio culturale, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C. Giudici, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano),
2001, pp. 28-30.
33
Due tovaglie ricamate, di cui una Aemilia Ars con motivi araldici risalente alla fine del XIX secolo (dono dell’Associazione Amici dell’Aemilia Ars
con il contributo della Banca Popolare dell’ Emilia), una di epoca successiva e una parure da battesimo (doni di privati).
34
cfr. B. Dalla Casa, Mutualismo operaio e istruzione professionale femminile:
L’Istituto regina Margherita Società Anonima Cooperativa (1895-1903), estratto da “Bollettino del Museo del Risorgimento” (Bologna), XXIX-XXX,
1984-1985; id (a cura di), Donne scuola lavoro: dalla Scuola professionale Regina Margherita agli istituti Elisabetta Sirani di Bologna: 1895-1995, Imola,
1996; cfr. inoltre la nota 30.
lezioni Comunali, cit., pp. 192-193; M. Forlai, Aemilia Ars, in Collezioni Comunali d’Arte, cit., pp. 46-49.
35 Il fondo è stato catalogato nel 2002/2003 da Elisabetta Berselli per
conto dei Musei Civici di Arte Antica in collaborazione con il settore acquisti del Comune di Bologna.
24
36
23 Archivio storico dei Musei Civici di Arte Antica; cfr.Bernardini, Le Col-
Cfr. nota 9; l’attuale sala n. 3, aperta al pubblico nel 1995, è dedicata a
queste tematiche, sintetizzando in un allestimento concentrato e ridotto
materiali e aspetti che in origine avevano un’espansione assai maggiore.
In essa il campionario e le nuove accessioni Aemilia Ars (esposti a rotazione) figurano accanto ai disegni di restauro architettonico, rendendo
percepibile l’unità culturale del momento storico che rappresentano.
206
25
B. Bianchini, I tappeti ornamentali del palazzo del Podestà, in “Bologna”,
XXII, n. 5, maggio 1935, pp. 71.76; cfr. Bernardini Martoni, op. cit:, pp.
48-49 e 54 fig. 6.
37 Cfr. in particolare Grandi, L’Opera Pia… cit.; e Tumidei, op. cit., pp. 7074; Battistini e Goretti, op. cit.; per i patrimoni con quella provenienza
tuttora ora esposti presso il Museo Davia Bargellini, cfr. supra, nota 6.
Velluti e costumi dall’atelier di un pittore di storia
nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia
ELISABETTA FARIOLI
na interessante fotografia, databile tra il 1880 e il
1890, mostra il pittore Ignacio Leòn y Escosura nella
sua casa-studio parigina, circondato da oggetti (il camino in pietra, il letto a baldacchino, ma anche gli arazzi e i
tappeti) che si ritrovano raffigurati nei suoi dipinti. Il pittore sta ritraendo un modello vestito a tutto punto da nobile del Seicento intento a suonare il violino.
Sono ormai note le vicende che hanno portato alla formazione della “Galleria Anna e Luigi Parmeggiani” di Reggio
Emilia, pervenuta a Reggio Emilia nel 1924 tramite Luigi Parmeggiani, ma formata in realtà a Parigi negli ultimi decenni
dell’Ottocento dal pittore spagnolo Ignacio Leòn y Escosura
(Oviedo 1834 – Toledo 1901) attraverso anche rapporti con la
famiglia della moglie Augustine-Blanche Filieuse Marcy.1
Così pure, grazie agli studi di Marta Cuoghi Costantini e
al suo volume sulla raccolta tessile della Galleria Parmeggiani2, è stata bene individuata la tipologia e la finalità
della raccolta, riconducibile a Ignacio Leòn y Escosura, alla sua attività di collezionista e di affermato pittore di
soggetti storici e di scene di genere dall’antico.
Artista inserito a buon diritto nel panorama della pittura
francese e spagnola dell’Ottocento, dopo una prima formazione in Spagna alla scuola di Federico de Madrazo
Escosura nel 1859 si trasferisce a Parigi dove, oltre alla colonia di artisti spagnoli, ha modo di frequentare artisti alla moda come Ernest Meissonier, Léon Gérome e Lèon Cogniet. Negli anni seguenti si sposta continuamente tra
Parigi e Madrid fino al suo definitivo stabilirsi a Parigi nel
1870, scelta che testimonia un ben collaudato successo
commerciale dovuto anche al sempre più stretto rapporto col celebre mercante d’arte Adolphe Goupil che lo indirizza a una produzione di temi storici su soggetti inglesi che gli procurano grande successo a Londra.
U
Piena e convinta è in Escosura l’adesione al Romanticismo storico: nei suoi quadri migliori la scelta del soggetto si fissa su episodi storici in particolare del XVII e XVIII
secolo dove il suo interesse, più che per i personaggi raffigurati, si sposta decisamente sulla descrizione degli arredi e degli abiti, gli stessi che colleziona con passione e
con cui arreda in versioni continuamente aggiornate la
sua casa parigina di rue Tailtbout n. 13.
La sua collezione arriva a Reggio Emilia tramite Luigi Parmeggiani, dapprima suo aiutante nelle gallerie di vendite di Londra e Parigi, poi, alla sua morte, socio della vedova nel commercializzare i suoi oggetti presso musei e collezionisti di rango, infine legittimo sposo della nipote e
quindi erede del suo patrimonio.
Comprende una buona raccolta di dipinti antichi, tra cui
un gruppo particolarmente importante di dipinti spagnoli, una ventina di mobili (“imbarazzante miscellanea di
pezzi autentici, diligenti rifacimenti “in stile” e disinvolte,
quanto ingegnose ricomposizioni di materiale antico”3) e
la significativa raccolta di tessuti, costumi e accessori.
Ancora non è ipotizzabile con piena convinzione l’appartenenza alla collezione di Escosura del gruppo di materiali in metallo, armi e oreficerie, fabbricati nella bottega
parigina Marcy, gestita tra il 1830 e il 1880 dalla famiglia
della moglie, libere citazioni di particolari di oggetti antichi che Parmeggiani riuscirà a spacciare per autentici e
a collocarli nelle migliori collezioni museali e private
d’Europa.4
La raccolta tessile consta di oltre duecento pezzi, esposti
a rotazione in due sale della Galleria, la prima dedicata ai
costumi e accessori, allestita in due grandi vetrine a vista,
la seconda organizzata in un apposito locale arricchito
da strumenti per la lavorazione del tessuto (Fig. 1).
ELISABETTA FARIOLI
Fig. 1 – Sala dei tessuti con strumenti per la lavorazione tessile.
Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.
Fig. 2 – Ignacio Leon y Escosura (1834-1901), Architetti, olio su tela.
Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.
208
Come chiarito da Cuoghi Costantini, la formazione della
raccolta, databile all’ultimo trentennio dell’Ottocento, si
colloca negli ambiti di interesse collezionistico dell’alta
borghesia parigina, espressione di una realtà cosmopolita
che favorisce l’incontro tra mercanti, galleristi e antiquari.
Scrive infatti Dupont Auberville, attento testimone della
Parigi di fine Ottocento nel suo trattato L’Ornament des Tissus, dove pubblica alcuni importanti materiali di proprietà del pittore: “Escosura a le culte des belles choses; il sait
réunir, gruper, antasser et reproduire les merveilles artistiques
qui abondent dan son atelier et qu’avec le plus grand désintéressement il tient à la disposition de ses nombreux amis”.
La volontà collezionistica dell’Escosura era per lo più
mossa dalla sua necessità di procurarsi riferimenti precisi per i suoi quadri di ambientazione storica: nei suoi dipinti presenti alla Galleria Parmeggiani è infatti possibile riconoscere tessuti della sua collezione sotto forma di
tende, stendardi, abiti ed accessori (Figg. 2 e 3).
Scrive la studiosa: “Differenziandosi da altri collezionisti,
Fig. 3 – Ignacio Leon y Escosura (1834-1901), Dichiarazione d’amore,
olio su tela. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.
Velluti e costumi dall’atelier di un pittore di storia
nella Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia
l’artista spagnolo evidentemente non si proponeva di documentare le vicende plurisecolari dell’arte della tessitura, non perseguiva finalità didattiche e divulgative rivolte a decoratori o operatori dell’industria, non era attratto
dal freddo ed anonimo repertorio museale. La selezione
dei pezzi veniva presumibilmente determinata (…) soprattutto da interessi legati alla sua attività di pittore.”
Così pure alla sua personale interpretazione della pittura di storia sono da ricondursi gli interventi che l’artista
ha effettuato su tessuti e costumi, spesso pesantemente
manomessi e addirittura falsificati in particolare per
quanto riguarda i ricami e la forma dei reperti.
La maggior parte degli abiti infatti non conserva la foggia
originaria, ma risulta modificata da consistenti interventi sartoriali riconducibili allo stesso collezionista.
Assemblaggi risultano evidenti anche in alcuni tessuti:
per esempio un dorso di pianeta presenta una discrepanza di quasi un secolo tra lo stolone centrale e i velluti laterali, mentre in altri casi particolari desunti dal repertorio rinascimentale si uniscono disinvoltamente a riferimenti barocchi o addirittura neoclassici.
La raccolta è costituita per lo più da oggetti d’uso (paramenti e arredi liturgici, tappezzerie e stendardi, abiti ma-
Fig. 5 – Costume di scena maschile del teatro elisabettiano,
Inghilterra, 1615-1620 ca. (su manichino del XIX secolo). Intarsi di
pelle avorio applicati su raso di seta cremisi. Reggio Emilia, Galleria
Anna e Luigi Parmeggiani.
Fig. 4 – Gilet (quarti anteriori), Francia, ultimo decennio del XVIII
secolo. Taffetas di seta avorio ricamato in sete policrome. Reggio
Emilia, Galleria Anna e Luigi Parmeggiani.
schili e femminili) provenienti in larga parte dalla Spagna, ma anche dal mercato antiquariale parigino (in particolare il gruppo dei costumi francesi del XVIII secolo) e
attraverso scambi con altri collezionisti (Fig. 4).
Riconducibile agli interessi culturali dell’Escosura e alla
sua predilezione per la cultura del Rinascimento è la forte presenza all’interno della raccolta di velluti, tipo di
tessuto che aveva conosciuto in quell’epoca particolare
fortuna. Si tratta di un nutrito gruppo di frammenti databili tra la fine del XVI secolo e i primi quarant’anni del
Seicento.
Altro filone di interesse della raccolta riguarda il ricamo, con esempi concentrati nel periodo tardo Cinquecento – Seicento, per lo più di provenienza italiana o
spagnola.
209
ELISABETTA FARIOLI
Frequente, sia in grande scala su bandiere e stendardi, sia
in piccolo formato su arredi e capi di abbigliamento, la
presenza di ricami con emblemi araldici, stemmi e onoreficenze (ricorre spesso l’ambitissimo Toson d’Oro).
Nutrita la presenza degli abiti, dove più che altrove si evidenziano manipolazioni improprie ed interventi arbitrari.
Tra questi è stato di recente riconosciuto- da alcuni costumisti dell’International Globe Centre di Londra- un
raro esemplare di abito seicentesco, realizzato in seta con
applicazioni in pelle, composto da un giubbone di linea
aderente e braghe rimborsate a mezza coscia. Già pubblicato da Janet Arnold, che nel suo volume Patterns of Fashion ne forniva con accuratezza gli schemi di taglio
(Fig. 5)6, l’abito sarebbe il secondo esemplare al mondo di
abito originale con questo modello. L’altro esempio oggi
noto è a Stoccolma ed è il vestito dell’incoronazione di
Gustavo Adolfo.
Rara inoltre la sezione degli oggetti di corredo che, pur senza pretese di esaustività nella documentazione di tutte le
epoche storiche, comprende materiali di indubbia rarità.
In particolare il nucleo delle scarpe, oltre numerosi modelli settecenteschi, comprende rari esemplari del Cinquecento – Seicento, come la coppia di pianelle femminili in pelle
bianca e marrone e gli alti zoccoli di legno intarsiati in ma-
Fig. 6 – Borsa, Francia, ultimo quarto del XVII secolo. Ricamo in oro
filato, seta rosa, verde, gialla. Reggio Emilia, Galleria Anna e Luigi
Parmeggiani.
dreperla. Borse e cappelli sono per lo più databili al XVIII e
XIX secolo, mentre il nucleo dei guanti presenta esemplari
maschili del XVII secolo, modelli femminili del XVIII secolo
e rari articoli di provenienza liturgica (Fig. 6).
NOTE
1
L’attuale conoscenza sulle vicende storiche della Galleria Parmeggiani si basa su alcune notazioni di Lionello Boccia, che si è occupato del
nucleo di armi della Galleria (G. L. Boccia, Armi antiche delle raccolte civiche reggiane, Reggio Emilia 1984), e soprattutto sugli studi inediti di due
storici inglesi, John Hayward e Claude Blair, a cui dobbiamo importanti ricerche documentarie sui personaggi della collezione e le intricate
vicende che li hanno uniti. Giancarlo Ambrosetti, direttore della Galleria dal 1968 al 1998, ha curato l’affidamento delle ricerche e coordinato
la loro evoluzione. Si veda inoltre: E. Farioli, Reggio Emilia: Galleria Anna e
Luigi Parmeggiani, in Case museo e allestimenti d’epoca, Atti del convegno di
studi, 2003 (ma 1996); E. Farioli, La Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia Guida alla collezione, Reggio Emilia 2002.
210
2
M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi della Galleria Parmeggiani, Bologna 1994.
3
C. Santini, Gli arredi lignei, in E. Farioli, cit., 2002, p. 133.
4
Fondamentale per la ricostruzione dei rapporti tra la collezione Parmeggiani e la bottega Marcy, oltre al citato studio di Lionello Giorgio
Boccia, le ricerche di sir John Hayward, Claude Blair, Marian Campbell
che confluiranno in un volume di studio sulla collezione delle oreficerie. Inoltre, per la ricostruzione della vita di Parmeggiani si veda: A. Marchesini, Luigi Parmeggiani, in E. Farioli, cit., 2002, pp. 33 - 53.
5
M. Cuoghi Costantini, 1994, cit., p. 9.
6
Cfr. J. Arnold, Patterns of Fashion, Londra, 1985.
Una raccolta bolognese per la storia della tappezzeria
STEFANO ZIRONI
FRANCESCA GHIGGINI
La collezione museale
a storia della tappezzeria è anche la storia di mode e
di stili di vita dei popoli”: con queste parole, scritte
in occasione della pubblicazione del volume realizzato
nel 1990 in occasione delle celebrazioni per il ventennale
dell’apertura del Museo Storico Didattico della Tappezzeria di Bologna, il fondatore del Museo, Cavalier Vittorio Zironi, spiegava il programma e le finalità che aveva sempre
seguito nella paziente e laboriosa ricerca di reperti di tessuti da arredo, telai ed attrezzi che potessero documentare la storia della tappezzeria1. La raccolta, iniziata nel 1945
all’indomani del termine del secondo conflitto mondiale,
fu aperta al pubblico nel 1966 nella prima sede del Museo,
Palazzo Salina Brazzetti di via Barberia, nel centro storico
di Bologna; risale al 1990 l’attuale allestimento nella prestigiosa sede di Villa Spada, un edificio di gusto neoclassico progettato all’inizio del XIX secolo dall’architetto Marinetti per il principe Clemente Spada.
Gli spazi e il criterio espositivo riflettono le intenzioni del
fondatore e realizzano la primaria volontà di riavvicinamento di tutta la società all’interesse del passato, come
strumento per un suo inserimento nel presente, nel tessuto vivo del territorio e punto di arrivo per un rapporto
cosciente e completo con l’opera d’arte. La custodia, la tutela e la didattica sono infatti le linee direttrici che contraddistinguono la collezione fin dall’inizio della raccolta
e lungo le quali si muove l’esposizione dei reperti, caratteristiche ed eredità di due delle componenti fondamentali della cultura museale della fine del XIX secolo: il collezionismo estetizzante e colto unito alle teorie di William Morris e John Ruskin, secondo cui i prodotti dell’arte del passato dovevano essere messi a disposizione del
pubblico per istruire e ricreare ma soprattutto essere mo-
“L
Fig. 1 – Telaio per galloni, Italia, XIV secolo. Bologna, Museo Storico
Didattico della Tappezzeria.
mento di studio, riflessione e ispirazione dell’artista – artigiano. Appaiono così esposti tutti gli strumenti che permettono di capire la storia della tappezzeria e della decorazione di interni, dalla nascita del tessuto, con il grande
telaio bolognese per damaschi, risalente al XVIII secolo,
matrici lignee per la stampa su tela e su cuoio, tele di cotone stampato e dipinto destinati alla decorazione parie-
STEFANO ZIRONI - FRANCESCA GHIGGINI
Fig. 2 – Sedile di poltrona, Italia, fine
del XVI secolo. Bologna, Museo Storico
Didattico della Tappezzeria.
tale di manifattura francese e genovese, storicamente denominati “mezzari”, tele d’ arredo ricamate nel tipico
punto fiamma, sedili e spalliere realizzati mediante l’antica tecnica del ricamo per applicazione, con due esemplari di manifattura italiana attribuiti alla fine del XVI secolo (Fig. 1)2, e, anche tessuti in origine creati per l’abbigliamento civile, che nel corso del XIX secolo ma anche
del Novecento, furono reimpiegati per la decorazione di
interni, fino ai complementi della decorazione, con borchie, embrasse, nappe e galloni, realizzati a fuselli oppure
eseguiti al telaio, di cui è esposto un raro esemplare risalente al XIV secolo (Fig. 2).
Fin dall’inizio della raccolta, alla base di ogni acquisizione, oltre ad un innegabile criterio estetico, è sempre stata considerata fondamentale la valenza del reperto come
documento di lavoro, modello di ispirazione e conoscenza: tuttora le numerose donazioni vengono ancora accolte per intero, anche se ciò significa prendere in carico tipologie già esistenti, o che sembrerebbero estranee all’originale nucleo storico, ma alle quali è necessario assicurare un’ adeguata conservazione. Tali criteri hanno permesso che tra le collezioni del Museo sia conservata anche una raccolta di circa 300 ricami e merletti eseguiti ad
ago e a fuselli attribuibili ad un periodo compreso tra il
terzo quarto del Seicento all’Ottocento, parte dei quali
donata al Museo dalla Fondazione Uguccione Ranieri di
212
Sorbello3, oltre che l’archivio e i disegni (donazione del
professore Giorgio Beneder) di Giudo Fiorini, pittore e
grafico formatosi nell’ambiente di Alfonso Rubbiani e
della Gilda bolognese, che idealmente completano l’archivio storico documentario di Aemilia Ars fatto pervenire al Museo dalla signora Flavia Cavazza.
Ogni reperto è sottoposto ad un iter che comprende le successive fasi di studio, conservazione, restauro, condotto presso il laboratorio interno, che riceve anche prestigiosi incarichi esterni da parte di Enti pubblici e da committenti privati.
La creazione di uno spazio adeguato dove le collezioni fossero adeguatamente custodite e facilmente consultabili,
complementare all’esigenza primaria, didattica e divulgativa, è stata sentita come imprescindibile: sono stati così
creati nei vasti ambienti di Villa Spada contenitori per immagazzinaggio e spazi per la conservazione oltre che una
tessilteca, dove ogni tipologia della collezione potesse trovare il sistema di conservazione adatto alla sua natura specifica. Il nucleo più antico della collezione è rappresentato
dall’insieme di 64 frammenti di tessuti copti, risalenti ad
un periodo compreso tra il IV e il XII secolo e provenienti da
corredi funebri e, in particolare, da tuniche decorate. I
frammenti, riconoscibili in clavi, orbiculi, tabulae oppure
bande di maniche e ornamenti di scollature che decoravano le tuniche usate per la vestizione e la inumazione dei de-
Fig. 3 – Frammento
di tessuto figurato
raffigurante
l’Annunciazione
della Vergine,
Firenze, seconda
metà del XV secolo.
Bologna, Museo Storico
Didattico
della Tappezzeria.
funti, furono acquistati e donati al Museo dal cavalier Vittorio Zironi tra il 1962 e il 1993 mentre 16 frammenti furono donati dall’architetto Erminia Rubini nel 19934. Il sistema espositivo è anche in questo caso tale da favorire la consultazione e lo studio: l’intera collezione è infatti esposta in
permanenza al terzo piano della Villa, liberamente fruibile
dal pubblico e, allo stesso tempo, l’integrità del materiale è
assicurata da particolari condizioni di conservazione – una
lastra di vetro che è tenuta alla distanza prescritta dal tessuto in modo da permettere un’ossigenazione adeguata. Lo
stesso criterio è stato seguito per permettere l’esposizione
permanente di due rari tessuti figurati con scene sacre, raffiguranti l’Annunciazione (XV secolo)5 (Fig. 3) e il monogramma raggiato di San Bernardino (XVI secolo)6, entrambi attribuiti ad una manifattura tessile fiorentina. I tessuti
figurati, a sviluppo orizzontale o verticale dove erano ripetute scene in prevalenza tratte dal Nuovo Testamento, furono creati per sostituire nei paramenti sacri i più elaborati, sontuosi e costosi lavori di ricamo per i quali occorreva
un lungo periodo di realizzazione e l’impiego di capitali
non irrisori; la critica sembra ormai concorde nell’indicare
come iniziatrici di questi particolari tessuti le manifatture
tessili lucchesi della seconda metà del XIV secolo, la cui produzione passò a Siena e, in seguito, a Firenze7. La presenza
di questi particolari tessuti nelle collezioni pubbliche ed in
quelle private è frutto di acquisti effettuati presso antiqua-
ri, già dall’Ottocento specializzati in determinati settori,
che spesso scomponevano e riducevano in frammenti i paramenti sacri e, più in generale, tessuti con un piccolo modulo di disegno, per soddisfare la crescente clientela di appassionati collezionisti che, di frequente, effettuavano anche scambi tra loro oppure rimettevano nel mercato antiquario tipologie già comprese nelle loro raccolte: tali abitudini hanno reso possibile verificare ancor oggi la contemporanea presenza di identici esemplari in differenti
collezioni8.
Il Laboratorio di restauro
Il fondatore del Museo della Tappezzeria, Cavalier Vittorio Zironi, per storia, tradizione e cultura oltre alla ispirazione e al desiderio di allestire “una raccolta di stoffe
della tappezzeria” auspicava l’allestimento di un laboratorio di restauro dei tessili che, con modalità operative e
tecniche, avrebbe potuto operare e fornire collaborazioni e servizi ad enti pubblici e privati.
Il Museo animato e sostenuto da passioni profonde si riconosce in Europa e acquisisce un patrimonio di tessuti
sempre più in espansione con la necessità di promuovere e creare un unicum quanto a esposizione, tipologia delle raccolte e servizi annessi di biblioteca e di restauro con
laboratorio modernamente attrezzato, aperto anche all’esterno con interventi extra museali.
213
STEFANO ZIRONI - FRANCESCA GHIGGINI
Fig. 4 – Laboratorio di restauro durante il recupero di un arazzo
della Chiesa Metropolitana di S. Pietro. Bologna, Museo Storico
Didattico della Tappezzeria.
Con questo spirito ed equilibrio virtuoso nel 1989 è stato
attivato un progetto divenuto operativo che nel museo
odierno trova sia un aggiornato punto di riferimento per
la conoscenza e l’approfondimento scientifico nel settore, che un efficiente centro di servizi dotato di strutture,
arredi, apparecchiature tecnologiche in grado di svolgere le attività museali, ordinarie e straordinarie, attraverso un costante lavoro di manutenzione e restauro dei materiali, riordino, studio e incremento della collezione.
Dopo le varie fasi di inizio, allora sostenute e individuate
dal sostegno privato e dal consenso pubblico, il Laboratorio dal 1990 con il supporto decisivo dell’amministra-
zione locale e regionale, viene riconosciuto dalla Soprintendenza statale ai Beni Artistici e Storici di Bologna, Ferrara, Forlì, Rimini e Ravenna che in sua nota ha certificato come “Il Museo della Tappezzeria ed il suo Laboratorio
di restauro costituiscono un punto di riferimento altamente qualificato e specializzato da poter essere considerato a pieno titolo una “Ditta di fiducia” della stessa Soprintendenza nel campo dei tessuti, del loro restauro e
della relativa formazione professionale”.
Avviatosi così l’attività di laboratorio, ad oggi numerosi
sono stati gli interventi di restauro e conservazione di
arazzi da XVI al XVIII secolo di manifattura europea (italiana, francese, fiamminga), di tappeti europei ed orientali, di paramenti sacri, di trine, pizzi e merletti, di reperti di
interesse archeologico, di bandiere, stendardi e gonfaloni, di abiti e costumi, di passamanerie, frange e fiocchi,
nonché di tappezzerie varie (damaschi, lampassi, broccati, velluti, tele bandera, broccatelli, taffetas, liserè) (Fig. 4).
Attività che proseguono in complesse lavorazioni che impongono cura e professionalità consolidate, quali lo
smontaggio, il restauro e la rimessa in opera di arredi tessili di straordinaria fattura provenienti da importanti palazzi pubblici e privati.
Il Museo, nel suo complesso articolato di funzioni e servizi,
ha avviato contatti e rapporti oltre i confini nazionali promuovendo attività museali e laboratoriali volte ad operare
la conservazione delle tappezzerie affinché non venga disperso un patrimonio tessile non di rado attestato da autentici tesori, che testimonia sempre comunque il gusto e il
modo del vivere dell’abitare di un tempo ormai trascorso.
NOTE
1 V. Zironi, 1990, p. 11.
2 Ricamo per applicazione, cm 53 x 57 e cm 25 x
3
5 Lampasso lanciato broccato, cm 30 x 34, n. inv. 531.
50, nn. inv. 2485, 2486.
Gli archetipi utilizzati, i disegni e i lavori realizzati dalla Scuola Romeyne Ranieri di Sorbello sono stati divisi dalla Fondazione Uguccione
Ranieri di Sorbello tra il Museo Storico Didattico della Tappezzeria di
Bologna e il Cooper Hewitt Museum di New York; per quel che riguarda
il materiale donato al Museo bolognese, cfr. I. Silvestri, 1997, pp. 9-25.
4 F. Ghiggini, 2000,
214
pp. 19-21.
6
Lampasso ad effetto broccatello con tre trame lanciate, cm 35 x 51, n.
inv. 565.
7 P. Peri, 1990, pp. 3-15.
8 Per quel che riguarda il frammento con l’Annunciazione (n. inv. 531), cfr.
P. Peri, 1990, pp. 50-51, n. 10 e D. Degl’Innocenti, 2000, p. 39, n. 7; per il
frammento con il monogramma bernardiniano di Cristo (n. inv. 565),
cfr. P. Peri, 1990, pp. 90-92, n. 26 e D. Degl’Innocenti, 2000, p. 62, n. 30.
Vesti e arredi per la liturgia nei Musei d’Arte Sacra
LORENZO LORENZINI
vocare il ruolo della chiesa rispetto al patrimonio culturale italiano sarà utile – e sufficiente – se non altro
perchè la pratica consapevole della reiterazione può
rafforzare concetti mai abbastanza consolidati. Una responsabilità millenaria, quella ecclesiastica, carica di luci
e di ombre, in cui l’istituzione dei musei diocesani e di arte sacra sembra avere avuto negli ultimi anni risvolti particolarmente interessanti. La nascita di molti musei coincide con il Giubileo del 2000, nondimeno va rilevato che
alcuni di essi hanno origini ben più lontane nel tempo differenziandosi, però, da quelli più recenti per i criteri d’impostazione. Basti pensare fra più lontani nel tempo al Museo di San Petronio a Bologna o a quello di Ravenna e fra i
più recenti il Museo Abbaziale di Nonantola1.
Analizzando il fenomeno della musealizzazione del patrimonio ecclesiastico non si può prescindere dal fatto inconfutabile che la sua costituzione è regolata dalla vita
stessa della chiesa; ne consegue che le istanze della fede e
della liturgia hanno determinato una condizione di mobilità non ancora cessata. Tuttavia, se da un lato si rivendica
il diritto a non riconoscere le chiese quali musei, dall’altro
è altrettanto forte l’identità artistica in esse contenuta e riconosciuta dall’intera collettività, anche nelle sue componenti non cattoliche e non praticanti. L’esigenza di salvaguardare gli edifici sacri preservandone le stratificazioni
delle opere d’arte, rispettandone i delicatissimi equilibri
intessuti nel secolare dialogo tra fede e artigianato, è paradossalmente un obiettivo perseguito maggiormente al di
fuori della chiesa stessa. Troppo spesso, infatti, in nome di
una maggiore funzionalità o dell’adeguamento liturgico,
sono state apportate modifiche che non tengono in nessun conto i rapporti formali e decorativi degli edifici; e
troppo spesso l’indispensabile azione di tutela esercitata
E
dallo stato è stata vissuta come una vera e propria ingerenza. È innegabile, però, che a scapito di tutto ciò, di furti, incuria e alienazioni, di carenza di fondi, di finanziamenti assenti, la chiesa continua a custodire – e a gestire – una larghissima fetta dei beni culturali italiani.
L’esercizio liturgico e la fede hanno determinato il rapporto fra chiesa e arte, e dunque la vita stessa di opere e suppellettili trovava compimento in questo; la funzionalità,
cioè, non era slegata dal fatto artistico e nessun oggetto, anche il più delicato e prezioso, richiudeva il senso della propria esistenza su istanze esclusivamente estetiche; va de sé
che la conservazione si imponeva come pratica quotidiana
e non come problema. Soltanto a seguito della riforma liturgica del Concilio Vaticano II (1962) la questione si è disvelata con le proporzioni che ben conosciamo. L’accantonamento di suppellettili, lo smantellamento di altari, cori,
pulpiti e balaustre si è rivelato rischioso per gli oggetti non
soltanto in quel preciso momento storico ma soprattutto
in seguito. Nel tempo è cresciuta in maniera esponenziale
l’incomprensione verso questo patrimonio ormai privato
dei significati simbolici e della sacralità che incarnava, non
più sottoposto a ordinarie operazioni di manutenzione e
sovente bollato come un inutile ingombro di locali da destinare ad altri usi. Tuttavia, accanto a distruzioni e dispersioni, si pone il lavoro instancabile e silenzioso di chi, forse non sempre con lungimiranza ma senza dubbio con pazienza, ha conservato, ha riposto o più semplicemente ha
chiuso dentro a un armadio quanto sembrava ormai inservibile; persone che hanno saputo resistere a quell’esigenza di “nuovo” che investì l’Italia degli anni ’60 e che
portò, soprattutto in provincia, i simboli del benessere fin
dentro alle chiese e alle sagrestie dove, ancora oggi, troneggiano plastica, formica e piastrelle di ceramica.
LORENZO LORENZINI
Un lavoro ora valorizzato, finalmente in seno alla chiesa,
dalla CEI che ha posto la sua attenzione sui Beni Culturali
indicandone nuovamente il valore di strumento operativo e segno di “costante incontro tra la Chiesa e la società”.
Queste le parole di Mons. Giancarlo Santi, direttore dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici della
CEI, il quale continua nel documento (Relazione nel Convegno Nazionale Economi Diocesani, Igea Marina, 16-18
febbraio 2004) affermando, tra le altre cose, che “da una
destinazione quasi esclusivamente liturgica si sta passando a un uso differenziato, in vista della catechesi, della
evangelizzazione, del dialogo interreligioso e interculturale”. Sottolinea poi la necessità della conoscenza analitica attraverso gli inventari: “È evidente che non si può amministrare ciò che non si conosce”. Questo documento,
tra gli ultimi risultati di un cammino ormai decennale,
puntualizza alcuni concetti fondamentali che pongono il
museo ecclesiastico quale possibile soluzione di molti
problemi adducendo ragioni pienamente condivisibili.
Criteri in parte espressi nella prefazione de “I Musei diocesani in Italia”2 nella quale si elencano in ordine la sicurezza, la conservazione e infine la visibilità. Se le prime
due, pur rispondendo ai profondi mutamenti sociali, territoriali e climatici, non costituiscono materia di vera innovazione, nella terza ragione risiedono istanze di fondamentale importanza. I nuovi musei, infatti, mirano a illustrare secondo percorsi ragionati la storia della diocesi o
dell’istituzione che li ha generati, affidandosi sempre meno al semplice accostamento di materiali le cui attitudini
narrative, pur innegabili, erano però del tutto contingenti. Visibilità, dunque, come capacità di rendere esplicito
nel progetto espositivo non solo il valore artistico del patrimonio ma tutta quella complessa rete di riferimenti
simbolici, teologici e storici che hanno accompagnato le
comunità ecclesiastiche nel loro divenire (Fig. 1).
Quale sia il ruolo dei tessili all’interno dei musei d’arte sacra è questione piuttosto complessa poiché riflette in
parte una situazione generale altrettanto problematica.
Di base è la considerazione che la chiesa conserva un “serbatoio” di manufatti tessili imparagonabile a qualsiasi altra struttura. Quel che era “l’abito” della chiesa e dei suoi
officianti, è divenuto in seguito una fonte ineludibile e
inesauribile di conoscenza per gli studi del settore, senza
il quale è stato e sarà impossibile ricostruire in modo fondato e capillare la storia di questo artigianato artistico.
I paramenti sacri ebbero un ruolo fondamentale nella liturgia ma, rispettandone i tempi, ebbero un utilizzo assai
dilazionato; assorbirono però notevoli risorse in ogni
momento della propria permanenza all’interno delle do-
216
tazioni liturgiche. Basti pensare che i mobili delle sagrestie erano studiati nelle dimensioni e nelle spartizioni interne per contenere paramenti secondo criteri ancora validi: ripiani e stampelle con forme tali da evitarne il piegamento, cortine e fodere per difenderli da luce e polvere. La loro dismissione li ha spesso estraniati anche da
queste situazioni compromettendo così un equilibrio
conservativo mantenuto spesso per secoli. Va rilevato che
la conduzione delle sagrestie si è mostrata sempre impietosa rispetto a suppellettili in cattivo stato: compulsando i documenti archivistici emerge chiaramente che
il rinnovamento, in particolare dei paramenti, era pratica comune anche se l’eliminazione dei pezzi più deteriorati talvolta non era definitiva e seguiva decorsi non di rado pluricentenari. Brani di tessuti o ricami particolarmente preziosi sopravvivono tuttora poiché riutilizzati
in altri paramenti, mentre gli esemplari più antichi devono la loro sopravvivenza a fattori contingenti. Teli medievali sono stati consegnati alla contemporaneità perché utilizzati per avvolgere reliquie mentre casule o mitre al fatto di essere appartenute a figure particolarmente importanti. Per alcuni di questi pezzi esiste peraltro
una vera propria musealizzazione all’interno degli stessi
edifici di appartenenza poiché, considerati reliquie, sono
sigillati entro teche che ne consentono l’ostensione.
La confluenza di tali materiali all’interno di un museo è
quasi naturale se l’istituzione è emanazione diretta dell’ente ecclesiastico (musei parrocchiali, del duomo ecc.)
mentre lo spostamento in un museo centralizzato, come
potrebbe essere un istituto diocesano, entra spesso in conflitto con le pratiche devozionali che circondano l’oggetto.
Resta centrale il legame con il territorio poiché l’analisi
del grande giacimento costituito dal patrimonio tessile
potrebbe rivelare aspetti interessanti sui comparti produttivi. Un esempio eclatante è la città di Bologna, nota
per secoli in tutta Europa per le produzioni seriche; eppure, le ampie conoscenze storiche sono quasi del tutto
slegate ai manufatti poiché, nel concreto, non si conoscono con precisione le stoffe prodotte sui telai bolognesi, fatti salvi alcuni casi sporadici relativi a damaschi d’arredo (cfr. saggio di I. Silvestri in questo volume dove si citano le commissioni di parati da muro di San Luca a Bologna, del Duomo di Modena e del Comune di Modena).
Per contrasto, emergono i casi di importazione, soprattutto per il Settecento e per le sete francesi che si imposero con prepotenza su tutti i mercati nazionali ed esteri.
Meno problematica è la situazione dei ricami dove è più
semplice abbinare ai manufatti i nomi emersi dai documenti, sebbene manchi uno studio approfondito che
Fig. 1 – Cappello con guanti
del Cardinale Giulio
Alberoni (1664-1752).
Italia, prima metà
del XVIII secolo,
Taffetas di seta
cremisi ricamato
in oro. Piacenza,
Museo del Collegio
Alberoni.
tenga conto di una appropriata comparazione dei pezzi e
delle scuole. A questo proposito è doveroso ricordare
quella fonte di approvvigionamento tessile che furono i
conventi e gli educandati femminili; luoghi in cui l’insegnamento del ricamo e delle tecniche di esecuzione di
pizzi e merletti finì per assumere caratteri stilistici precisi e, in alcuni casi, pienamente riconoscibili. È il caso del
Conservatorio di Santa Marta a Bologna, affiancato da
non meno importanti istituti cittadini come l’Opera Pia
dei Vergognosi e il Baraccano3.
Tra i musei bolognesi è necessario ricordare quello di San
Domenico dove si conserva un nucleo di paramenti di
straordinaria importanza per l’individuazione dei ricamatori, un solido appiglio per la ricostruzione dell’ambito cittadino. Allo stesso modo la certa provenienza romana dei
paramenti della cattedrale di San Pietro, ora nel Museo, o
di alcuni pezzi nel Museo di San Petronio, restituiscono un
panorama di specializzazioni artigianali utili a qualsiasi
considerazione legata più specificamente al territorio.
Nel panorama regionale coesistono numerose realtà
museali, alcune delle quali vantano una fondazione ormai secolare4. La tipologia dei materiali e i criteri espositivi sono strettamente correlati all’ente cui sono legati,
ne ripercorrono le tappe fondamentali attraverso i pezzi
217
LORENZO LORENZINI
più significativi e di maggiore evidenza artistica. Tra
questi costituisce un caso esemplare il museo della Steccata a Parma dove è la sagrestia stessa con i monumentali armadi, aperti su richiesta, a mostrare paramenti e
suppellettili allineati e conservati non secondo modalità museografiche ma secondo quelle proprie del luogo
(Fig. 2). A questo museo spetta anche l’onere di consegnare al visitatore – verrebbe da dire allo spettatore – un
piccolo frammento di storia della chiesa e della liturgia
così come si consumava “dietro le quinte” dell’esibizione ufficiale del sacro. Su un fronte quasi opposto c’è il
Museo Abbaziale di Nonantola che propone, al contrario, un ripensamento critico e aggiornato delle nuove
tendenze del fare museo oggi: accanto a una selezione
dei pezzi più pregiati dell’antica abbazia, ruotano di anno in anno esposizioni tematiche costruite analizzando
l’intero patrimonio della diocesi. È questa forse una delle soluzioni che sembra dare un’efficace risposta alle esigenze della musealizzazione del patrimonio ecclesiastico. Di concerto con il lavoro di schedatura della CEI, queste esposizioni (quest’anno è stata la volta dei paramenti5) sono supportate da specifici studi di settore ma non
sono mai esenti da un progetto altrettanto mirato alla
valorizzazione della catechesi e della storia della liturgia. In altre parole, come in passato, gli oggetti si propongono nei loro profondi significati simbolici e, in un
contesto di valorizzazione estetica, condensano secoli di
storia e fede.
Fig. 2 – Veste della Madonna
del Rosario. Francia o Italia,
intorno alla metà del XVIII
secolo, Velluto riccio di seta
rosa salmone ricamato in
argento filato e in lamina
con paillettes, canuttiglia e
borchiette argentate.
Parma, Santuario di Santa
Maria della Steccata.
NOTE
1
La bibliografia specifica dei musei è riportata nelle schede relative alle singole istituzioni. Sarà utile ricordare il sito della CEI dedicato a questo argomento, www.amei.info, dove è possibile visionare una vasta bibliografia nonché il censimento dei musei ecclesiastici italiani.
2
Giancarlo Santi, Prefazione in I musei diocesani in Italia, supplemento n.1 a “Famiglia Cristiana”, n. 10, marzo 2004, pp. 7-11.
3 Arte e Pietà. I patrimoni culturali delle Opere Pie, cat. mostra, Bologna, 1980.
4
Tra i musei d’arte sacra configurati sulla selezione dei materiali eccellenti vale la pena ricordarne alcuni: il Museo della Collegiata di Ca-
218
stel’Arquato, il Museo del Tesoro di Berceto, il Museo del Duomo di Modena e quello della Ghiara di Reggio Emilia. Il caso bolognese si presenta piuttosto ricco con svariati casi: al recente museo della cattedrale di
San Pietro si affiancano musei ormai storici o di vecchia istituzione come quelli di San Petronio, San Domenico, Santo Stefano e San Francesco. Il numero dei musei diocesani esistenti (Parma, Reggio, Imola, S.
Mercuriale, Forlì, Sarsina) sarà presto accresciuto da quelli in via di realizzazione (Piacenza, Carpi, Ferrara).
5
Trame di Luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, Quaderni d’Arte Sacra n.4, San Giovanni in Persiceto (BO), 2004.
I tessili della cultura ebraica
VINCENZA MAUGERI
a Regione Emilia-Romagna è sicuramente uno dei
territori italiani che conserva moltissime testimonianze e tracce dell’antica presenza di comunità ebraiche. La consistenza di questo patrimonio storico e artistico nei suoi vari aspetti e componenti è emersa a seguito di alcune campagne di censimento e catalogazione sistematiche condotte a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, che hanno preso in esame fondi archivistici, codici miniati, manoscritti e libri a
stampa, emergenze urbanistiche e architettoniche – sinagoghe, giudecche, ghetti, cimiteri – e oggetti sia di
ritualità pubblica che di ritualità domestica.
In particolare, il patrimonio di oggetti rituali e di arredi sinagogali risulta ancora cospicuo, sebbene l’ultimo conflitto mondiale abbia profondamente inciso
nel segno delle depredazioni, delle distruzioni e della
dispersione di materiale1.
Partendo proprio da queste recenti indagini, che hanno portato ad una maggiore attenzione e conoscenza
di questo patrimonio storico-artistico, vorremmo brevemente tracciare un percorso all’interno del territorio regionale, focalizzando nello specifico il patrimonio tessile ebraico e traendo anche qualche considerazione sull’“arte ebraica”, tema sul quale si registra ultimamente un rinnovato interesse di studi2.
Degli edifici dove si riunivano in epoca medievale i
gruppi ebraici che si insediavano in nuovi luoghi e
città del territorio regionale per “fare sinagoga” non è
rimasta alcuna traccia. Le illustrazioni dei codici miniati sono le fonti iconografiche più attendibili per ricreare un’immagine di questi ambienti, che erano sostanzialmente strutture architettoniche semplici, senza divisioni assiali, con soffitti a cassettoni, talvolta
L
con qualche decoro o arricchite con drappi di stoffa
lungo le pareti; gli arredi di culto, oltre ai banchi e agli
armadi per i rotoli della Torah, erano costituiti essenzialmente da tessuti raffinati, tramati d’oro e d’argento, come copertura dei libri sacri, come cortine (parokot) per il decoro dell’armadio sacro (àron ha-qodesh),
come rivestimenti per i rotoli (sefarim)3. Le fonti iconografiche sono poi avvalorate da una serie di documenti che confermano come tra il XV e XVI secolo gli
arredi di culto, sia per la ritualità sinagogale che domestica, fossero sostanzialmente costituiti da tessuti
di seta lavorata, rifiniti con alti galloni, trine e nappe.
Ancora un’osservazione: gli inventari e le liste dei beni di
questo periodo ci testimoniano della molteplicità e della
varietà dei contatti mantenuti dai prestatori ebrei che
operavano tra Bologna, Faenza, Carpi e altri luoghi della
regione e di una certa loro consuetudine con tessuti e
stoffe di grande qualità e particolare pregio, il cui mancato riscatto ne determinava il passaggio tra i loro beni
personali e di seguito, molto probabilmente, la destinazione devozionale di alcuni di essi con il riuso e l’adattamento per la realizzazione di tende (parokot) e di paramenti per il rivestimento della Torah 4.
Quanto alla confezione e alle fogge, solo più tardi Leone da Modena fornirà brevi ma preziosi accenni sull’uso dei tessuti in sinagoga, oltre che per gli oggetti
più diffusi, per cui “… si tiene per conservarlo (il rotolo
della Torah) fasciato con fascia di lino, o di seta, di quali procurno le donne di farne di lavorate, e ricamate più belle, che
sanno, e offrirle, e con mantello di seta, che lo cuopre per bellezza…”5.
Secondo la tradizione, dunque, i tessuti di destinazione sinagogale sono essenzialmente i paramenti per la
VINCENZA MAUGERI
220
Fig. 1 – Manto per la Torah (Meil), fine del XVIII secolo. Modena,
Comunità Ebraica.
Fig. 2 – Manto per la Torah (Meil), metà del XVIII secolo. Modena,
Comunità Ebraica.
vestizione del sefer Torah: la mappah (fascia o tovaglietta), che stringe la pergamena impedendone lo srotolamento, e il meil (manto), che copre interamente il rotolo (Figg. 1–2). La sacralità del sefer Torah viene poi esaltata anche dal corredo in argento che completa e integra i paramenti tessili: la atarà (corona) che sormonta
la pergamena; i rimmonim, i due ornamenti a pinnacolo che celano le estremità delle due aste (etz haim) intorno alle quali è avvolto il rotolo; la tas (piastra o scudo), sostenuta da catenelle6.
Oltre alle mappoth e ai meillim, un altro elemento originale tra i tessili sinagogali rimane il paroket (Fig. 3), la corti-
I tessili della cultura ebraica
na destinata a celare gli sportelli dell’armadio sacro che
contiene i rotoli della Torah (àron), similmente alla tenda
che nel Tempio di Gerusalemme copriva la porta del Santo dei Santi.
Le persecuzioni e l’emarginazione secolare subite anche
dalle comunità ebraiche dell’Emilia-Romagna e gli eventi dell’ultimo conflitto mondiale sono stati la causa maggiore del depauperamento del patrimonio artistico, non
solo per i manufatti in argento e gli arredi lignei delle sinagoghe, ma in particolare per il settore dei tessuti: questi materiali, facilmente deperibili, sono stati frequentemente sostituiti da pezzi moderni o comunque tardo ottocenteschi provenienti da campionari ormai industriali di larga diffusione, sia per l’arredo che per l’abbigliamento. Inoltre nel passato, come ha ipotizzato Liscia
Bemporad, nei momenti in cui gli ebrei si sentivano minacciati o pressati da richieste di danaro, sacrificavano le
loro ricchezze e dunque probabilmente anche le stoffe: i
pregiati tessuti quattro-cinquecenteschi, tramati con fili
d’oro e d’argento venivano bruciati per recuperare il prezioso metallo. Questo spiegherebbe la completa assenza
di paramenti sinagogali, almeno nel nostro territorio, anteriori al XVII secolo7.
Il patrimonio tessile ebraico della regione Emilia-Romagna, dunque, se pur non particolarmente nutrito, si compone di pezzi interessanti per antichità e per particolari
caratteristiche. Sono conservati presso le quattro Comunità Ebraiche attive della regione – Parma, Modena, Bologna, Ferrara – e nel Museo Ebraico “Fausto Levi” di Soragna, nel Museo Ebraico di Ferrara e nel Museo Ebraico di
Bologna. Tuttavia la lacunosità dei dati d’archivio non ha
permesso di comprendere le modalità e i tempi di costituzione del patrimonio tessile delle Comunità del territorio regionale.
Il confronto fra i paramenti destinati alle chiese e i tessuti sinagogali evidenzia l’impiego di materiali comuni: la
manifattura, italiana per la maggior parte dei casi, o francese, è la stessa dei prodotti tradizionali della regione. Come si è detto, è diverso l’uso che condiziona la foggia e il
taglio dei paramenti ebraici.
I centri di produzione e di importazione sono dunque gli
stessi e si nota un predominante gusto per tessuti operati come rasi, lampassi, broccati, molto in voga dal secondo quarto del Settecento, sostituiti alla fine del secolo dai
pekin e dai damaschi più semplici, in linea col gusto europeo del tessile.
Si riscontra anche una interessante presenza di alcuni
esempi di tessuti bizzarre, con disegni esotici ed estrosi,
che proprio per la caratteristica di disegni privi di un
Fig. 3 – Tenda (Paroket), 1905. Particolare dell’iscrizione in ebraico:
“Corona della Torah. Onora il Signore con i tuoi beni. Dono della
Signora Rachel Melitzer nell’anno 665, secondo il computo minore
[1905]”. Modena, Comunità ebraica.
chiaro riferimento naturalistico, si adattavano molto bene alla tradizione ebraica iconoclasta.
In generale, per la confezione dei paramenti sinagogali
va apprezzata la scelta per tessuti raffinati sia per la fattura che per il disegno dei fondi, oltre che per l’arricchimento delle passamanerie e delle frange.
Tra i pezzi più interessanti e antichi vanno senz’altro segnalati un meil, conservato presso il Museo Ebraico “Fausto
Levi” di Soragna, datato 1697: in raso ricamato, presenta
un raffinato disegno con racemi a voluta su cui si innestano tulipani, rose, garofani, ireos, viole in sete policrome, rifinito sul fondo da una iscrizione in ebraico in oro filato,
dalla quale oltre alla data di esecuzione si ricava il nome
della ricamatrice e donatrice; un altro meil, della Comunità
Ebraica di Parma, in raso liseré lanciato, è databile alla seconda metà del XVII secolo, con un decoro di tulipani in
fiore e con gallone a fuselli in oro e argento filato8.
In generale i meillìm emiliano-romagnoli presentano
struttura a tutto tondo, secondo la foggia della tradizione ebraica italiana, accentuata da una imbottitura di materiale rigido nella parte superiore, dove sono lasciate le
due aperture per permettere il passaggio dei due puntali
degli etz haim9.
221
VINCENZA MAUGERI
Fig. 4 – Corone per i rotoli della Torah (Atarot). La prima corona da sinistra è confezionata con un tessuto. Soragna, Museo Ebraico “Fausto Levi”.
Fig. 5 – Tenda (Paroket) particolare del ricamo, fine del XIX secolo. Modena, Comunità Ebraica.
222
Fig. 6 – Scialle per la preghiera (Talled). Collezione privata.
Il Museo Ebraico di Soragna conserva anche una singolare atarà (corona), che invece di essere tradizionalmente
realizzata in argento, è confezionata con un tessuto in raso liseré broccato, di manifattura francese, databile tra
1710-1720: la stoffa presenta un disegno incompleto con
architetture orientali di gusto cinese e balaustre con vasi,
incorniciati da tralci fioriti di fresie10 (Fig. 4).
Tra i parokot, l’esempio più interessante rimane quello
tardo-ottocentesco della Comunità Ebraica di Modena,
confezionato con un tessuto di raso ricamato a punto
piatto in sete policrome con rami fioriti di peonie, tulipani, garofani e giunchiglie composti a “candelabro” e
fuoriuscenti da un vaso di gusto rinascimentale-barocco. Si tratta di una riproposizione di motivi cinque-seicenteschi propri tanto ai tessuti per tappezzerie e ai paliotti d’altare delle chiese quanto a manufatti in tecniche diverse, come l’intaglio e la scagliola (Fig. 5). In ambito ebraico locale una simile impostazione decorativa
la si ritrova sia negli intagli delle portelle dell’àron ascrivibile alla metà del XVI secolo della Scola Tedesca di Ferrara, sia nelle candelabre a stucchi neorinascimentali
bianco e oro della sinagoga di Carpi11. A corredo del paroket di Modena è la tovaglia per il podio (teva), dove il
sefer viene svolto e letto, confezionata con identico tessuto e ricamo.
Fa invece parte della ritualità domestica il talled, il mantello usato dagli uomini durante la preghiera: consiste
tradizionalmente in un grande rettangolo di seta
(Fig. 6), o di seta e lana, bianca o avorio, che ha nella fascia inferiore un disegno a bande alterne orizzontali
con righe azzurre; i quattro angoli, in corrispondenza
delle frange rituali (sisiyyot), sono decorati con rosoni di
pizzo o con fregi ricamati. Sia al Museo Ebraico di Soragna che al Museo Ebraico di Bologna si conservano alcuni esemplari di tallid di manifattura ottocentesca,
pregevoli per i ricami negli angoli ornati da fregi ovali
bianchi e tralci fioriti speculari che incorniciano una
palmetta o da fiori stellati.
I paramenti tessili venivano confezionati ed adornati da
donne ebree e comunque in laboratori specializzati di
settore; il ricamo, quindi, può essere considerato una
forma di creatività ebraica del tutto autonoma. Gli esecutori si basavano su modelli e su soluzioni tecniche
adottate nella stessa epoca su tessuti creati per altri usi
e destinazioni; ma è appurato che in questi casi non vi
era mai l’intervento di artisti cristiani per la confezione
e il decoro dei paramenti sinagogali. Le lunghe scritte
dedicatorie, usate per arricchire gli arredi, sfruttando
anche le potenzialità estetiche della grafia ebraica, tramandano quasi sempre il nome della ricamatrice che si
223
VINCENZA MAUGERI
firmava con grande orgoglio per la sua abilità, paragonabile solo a quella dei miniatori nel colophon dei codici
miniati.
I ricchi ricami trovano poi stretti contatti con un altro
genere artistico tipicamente ebraico: la decorazione
delle ketuboth, cioè i contratti matrimoniali. Va ricordato che una scuola di decoratori delle grandi pergamene
nuziali fiorì a Lugo tra il XVII e XVIII secolo12. Le decorazioni utilizzate dagli autori di queste particolari pergamene sembrano attingere a comuni repertori, e le volute, i decori floreali e gli ornati in alcuni casi riecheggiano nei ricami dei tessuti sinagogali. Come accade nei ricami, la fedeltà ai temi iconografici della tradizione
ebraica, così come l’uso frequente dei caratteri ebraici a
scopo ornamentale fanno pensare ad artisti ebrei.
Lo spoglio di alcuni documenti di archivio ha permesso
di individuare anche all’interno dei nuclei ebraici, notoriamente dediti a umili e marginali mestieri e alla attività feneratizia, persone e luoghi coinvolti nell’imprenditoria tessile.
In Emilia-Romagna gli ebrei non solo commerciavano
in prodotti serici, ma possedevano manifatture di un
certo rilievo: a Reggio Emilia, nel 1547, Abram de Barochus ottenne di poter produrre stoffe di seta, d’oro e
d’argento; a Ferrara già nel 1613 risultano “Capitoli dell’Arte della Seta”, rinnovati nel 1616, che riguardavano
224
gli ebrei, ai quali veniva concessa titolarità di bottega e
di commercio della seta, in base, tuttavia, a clausole di
lavorazione e produzione non concorrenziali con gli altri detentori; sulla fine del XVIII secolo, ancora a Reggio
Emilia, due tessitori, Israel di Leon Forti e Simon Vita Ottolenghi, vengono interpellati in un’inchiesta avviata
dal Consiglio dell’Arte della Seta per porre rimedio alla
crisi della produzione13; a Modena, le famiglie Norsa e
Usiglio erano mercanti di sete e possedevano filatoi e
manifatture di seta fin dal 176114. Come ha osservato la
Bentini, “il contributo dato di seguito al rilancio della filatura
e delle confezioni su scala urbana, non solo dimostrano l’inserimento degli ebrei all’interno di questo settore produttivo, ma
anche confermano l’adeguamento della manifattura al gusto
corrente, secondo una precisa legge imposta dalla necessità del
mercato”15.
Benchè il patrimonio tessile ebraico conservato nella
nostra regione non sia particolarmente consistente, esso è tuttavia rappresentativo di come anche in questo
settore l’arte cerimoniale ebraica, che nei manufatti in
argento e nelle opere di ebanisteria si è espressa con
suoi caratteri originali, sia pure in un rapporto di dipendenza nell’impronta stilistica e nella produzione
con le tendenze contemporanee, abbia raggiunto risultati ricercati e mediati dallo spirito ebraico.
I tessili della cultura ebraica
NOTE
1
I risultati delle campagne di catalogazione condotte dall’Istituto Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna sono
stati pubblicati in S. M. Bondoni, G. Busi (a cura di), Cultura ebraica in
Emilia-Romagna, Rimini 1987 e in G. Busi, Edizioni ebraiche del XVI secolo
nelle biblioteche dell’Emilia-Romagna, Bologna 1997. Per maggiori riferimenti sulla storia della presenza ebraica nel territorio regionale e sul
patrimonio culturale ebraico si rimanda a: Arte e cultura ebraiche in Emilia-Romagna, catalogo della mostra a cura di A. Sacerdoti, F. Bonilauri,
V.Maugeri, A. M. Tedeschi, Milano 1988; V. Maugeri, Oggetti rituali e arredi sinagogali della Comunità Ebraica di Reggio, in Ebrei a Reggio nell’età contemporanea tra cultura e impegno civile, “Ricerche Storiche”, XXVII, n. 73,
Reggio Emilia 1994, pp. 139-151; V. Maugeri, Arredi sinagogali e arte cerimoniale ebraica in Emila-Romagna, in “Il Carrobbio”, XXIII, 1997, Bologna
1997, pp. 51-64; V. Maugeri, Il patrimonio ebraico in Emilia-Romagna, in Il
Ghetto riscoperto, Bologna, recupero e rinascita di un luogo, Bologna 1996,
pp.54-57; V. Maugeri, I beni storico-artistici: l’esperienza dell’Emilia-Romagna, in F.Bonilauri, V. Maugeri (a cura di), La tutela dei beni culturali ebraici in Italia, Bologna 1996, pp. 38-42; F. Bonilauri, V. Maugeri (a cura di),
Museo Ebraico di Bologna. Guida ai percorsi storici, Roma 2002; Le Sinagoghe
in Emilia Romagna, catalogo della mostra, a cura di F. Bonilauri, V. Maugeri, Roma 2003; V.Maugeri, Artisti e architetti per le sinagoghe dell’EmiliaRomagna, in “Il Carrobbio”, XXX, 2004, Bologna 2004, pp.97-106.
2
Tra i lavori più recenti si veda soprattutto: D. Liscia Bemporad, L’arte
cerimoniale ebraica nell’epoca del ghetto, in V. Mann (a cura di), I Tal Yà. Duemila anni di arte e vita ebraica in Italia, Milano 1990, pp.101-117; L. Mortara Ottolenghi, “Figure e immagini” dal secolo XIII al secolo XIX, in “Storia d’Italia. Annali II. Gli ebrei in Italia”, Torino 1997, pp.967-1008.
3 Sull’argomento si veda: T. Metzger, M. Metzger, La vie juife au Moyen Age,
Fribourg 1982; E. M. Cohen, Miniatura ebraica in Italia, in I Tal Ya… cit.,
pp.87-89; L. Mortara Ottolenghi, “Figure e immagini”… cit.; V. Maugeri,
Arredi sinagogali… cit.
4
Per i riferimenti ai documenti si rimanda a V. Maugeri, Arredi sinagogali…cit. Inoltre M.G.Muzzarelli, I banchieri ebrei e la città, in M.G.Muzzarelli (a cura di) Banchi ebraici a Bologna nel XV secolo, Bologna 1994, pp.89157; M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale, Bologna 1999, p. 65.
5 Leone da Modena, Historia de’ riti ebraici, 1620, rist. anastatica, Bologna
1979, p. 17.
6 Secondo la tradizione occidentale si riveste il rotolo della pergamena
facendone in un certo senso la personificazione del Sommo Sacerdote;
nel rito italiano, la presenza dei pinnacoli (rimmonim) e della corona
(atarà) sono una combinazione della tradizione sefardita e askhenazita. Inoltre la copertura con il manto (meil) potrebbe essere la versione
in tessuto delle solide custodie orientali cilindriche, i tik, realizzate in
legno o in metallo.
7
D. Liscia Bemporad, L’arte cerimoniale ebraica… cit. p.103: fuori dal territorio emiliano-romagnolo, si sono reperiti alcuni paramenti databili alla seconda metà del XVI secolo.
8 S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., pp.271-272 e 269.
9 In
particolare per i meillìm si è infatti osservata la presenza di una forma tipica legata alla tradizione italiana, diversa ad esempio da quella
ashkenazita e in specie da quella dei paesi dell’est Europa: una struttura “a tutto tondo”, che può assumere una notevole ampiezza data da
profonde pieghe o arricchita da una mantellina più corta, come ad
esempio a Roma, o assumere una forma tronco-conica, come a Venezia,
o presentare una specie di piccola e rigida calotta, come in Piemonte o
a Genova: cfr. D.Liscia Bemporad, Aspetti dell’arte ebraica in Italia, in La cultura ebraica nell’editoria italiana (1995-1990), “Quaderni di libri e riviste
in Italia”, 27, Roma 1992, in part. pp. 197-198; D. Di Castro (a cura di),
Arte ebraica a Roma e nel Lazio, Roma 1994, in part. pp. 111-112; C. Mossetti, La schedatura dei manufatti tessili in alcune considerazioni di carattere
metodologico, in Ebrei a Torino, catalogo della mostra, Torino 1984, pp.
163-164.
10
S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., p. 287.
11
S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit., p. 265, p.67,
p.74.
12
S.Sabar, L’età d’oro della decorazione della ketubà a Lugo, in Ebrei a Lugo. I
contratti matrimoniali, Imola 1995, pp. 11-26.
13
In S.M.Bondoni, G.Busi (a cura di), Cultura ebraica… cit, pp. 585-586.
14
F. Francesconi, Modena ebraica: argentieri e argenti sinagogali nei secoli
XVIII e XIX, tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, A.A. 1996-97,
p.59. A.Toaff ha inoltre sottolineato il fatto che a finanziare la tipografia ebraica bolognese nella prima metà del XVI secolo era un folto gruppo di imprenditori ebrei emiliani e romagnoli, che nei frontespizi e nei
colophon delle opere da loro edite si autodefinivano “soci nell’arte della seta”, e che dunque erano legati al commercio e alla produzione della seta: cfr. in M. Perani (a cura di), La cultura ebraica a Bologna tra medioevo e rinascimento, Firenze 2002, p. 25.
15
J.Bentini, Artigiani e botteghe in Emilia per la committenza ebraica, in Arte
e cultura ebraiche… cit.
225
Corredi tessili del Nuovo Mondo nei Musei dell’Emilia-Romagna
ILARIA PULINI
in dal primo impatto con il Nuovo Mondo gli Europei rimasero stupiti dalla sontuosità degli abiti delle popolazioni dell’area andina e dall’importanza che
al tessuto veniva attribuita nei più diversi contesti della sfera sociale, politica e rituale. Secondo la testimonianza del cronista-soldato Francisco de Xerez, a Cajamarca, dove venne catturato l’imperatore inca Atahualpa, “c’erano case piene di abiti legati in fardelli e ammucchiati fino ai tetti” e anche dopo che “i cristiani ebbero preso quanto volevano… pareva che non fosse venuto a mancare nulla”1.
Durante l’epoca coloniale l’attenzione dei conquistatori spagnoli rimase però concentrata essenzialmente al
recupero di tesori in metallo prezioso ed è soltanto attorno alla seconda metà del XIX secolo, in parallelo con
la nascita di un interesse archeologico per l’antico
Perù, che cominciarono ad affluire in Europa i primi reperti tessili provenienti dalle necropoli della costa peruviana, dove un clima secco e un ambiente semidesertico avevano garantito per secoli la conservazione di
centinaia di migliaia di tessuti di eccezionale pregio e
straordinaria fattura. Risalgono a questo periodo anche i nuclei più antichi di tessili precolombiani presenti nei musei dell’Emilia-Romagna, conservati nel
Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena e nei
Civici Musei di Reggio Emilia. In quegli anni era andato maturando in Europa, nell’ambito dei nascenti studi
di archeologia preistorica, un metodo di indagine basato sul confronto fra reperti archeologici ed etnografici che aveva portato alla formazione, accanto alle collezioni preistoriche, di numerose “raccolte di etnografia comparata”. In quest’ottica, che in Italia trova la sua
più compiuta espressione nel Museo Preistorico Etno-
F
grafico di Roma fondato da Luigi Pigorini, anche il Museo Civico di Modena aveva dato avvio ad una sezione
comparativa di oggetti etnografici e di archeologia extraeuropea, nella quale nel 1885 confluiscono i reperti
raccolti nella necropoli precolombiana di Ancòn dai
modenesi Paolo Parenti e Antonio Boccolari durante
un viaggio di circumnavigazione del globo a bordo della corvetta Vettor Pisani. L’interesse suscitato da questa
collezione, comprendente accanto a ceramiche e reperti anatomici oltre duecento esemplari tessili, favorì
l’acquisizione nel giro di poco più di un decennio di
una seconda raccolta precolombiana, altrettanto ricca
di materiale tessile, ceduta al museo di Modena dal Museo Preistorico Etnografico di Roma grazie all’interessamento dell’astronomo modenese Pietro Tacchini, figura chiave di mediatore, negli anni della sua docenza
a Roma, nelle varie trattative di acquisto o scambio di
materiali fra il direttore del Museo di Modena, Carlo
Boni, e Luigi Pigorini. È noto infatti come Pigorini fosse solito “ritagliare” dalle collezioni etnografiche del
suo museo dei nuclei di oggetti da utilizzare come merce di scambio per ottenere nuovi materiali, soprattutto
archeologici. La raccolta precolombiana che Tacchini
acquisisce per il museo modenese faceva parte di una
ben più vasta collezione che il fiorentino Ernesto Mazzei, residente a Valparaiso in Cile, aveva messo insieme
viaggiando in quegli anni nell’America andina. Evidentemente la collezione Mazzei costituiva per Pigorini
una risorsa a cui attingere per le sue transazioni museali, tant’è che dalla medesima raccolta deriva anche il
terzo nucleo ottocentesco di tessuti precolombiani
presente in regione, inizialmente ceduto da Pigorini al
Museo di Parma e successivamente trasferito, assieme
ILARIA PULINI
228
Fig. 1 – Borsa per coca. Costa settentrionale cilena. Periodo Intermedio
Recente, Cultura di Arica. Alpaca. Reggio Emilia, Musei Civici.
Fig. 2 – Frammento di tessuto con
raffigurazione di felino. Perù,
regione costiera meridionale.
Cultura Paracas, III sec. a.C., “stile
lineare”. Ricamo con filati di
alpaca su tela di fondo di cotone.
Imola. Musei Civici.
ad altri reperti etnografici, nei Civici Musei di Reggio
Emilia (Fig. 1).
La conoscenza dell’arte tessile precolombiana riceve un
notevole impulso negli anni venti del XX secolo a seguito
di una delle più sensazionali scoperte dell’archeologia
andina. Scavi condotti fra il 1925 e il 1927 avevano infatti portato alla luce nella penisola di Paracas e nelle vicine
vallate della costa meridionale del Perù centinaia di sepolture databili ad un arco di tempo compreso fra gli inizi del VI e i primi decenni del II secolo a.C. I defunti delle
tombe più ricche, evidentemente espressione di un’élite
dominante, erano avvolti da molteplici strati di tela di cotone alternati a splendidi abiti policromi che formavano
grandi involti alti anche fino a due metri. La notizia dell’eccezionale ritrovamento ebbe una vasta risonanza anche in Italia fra quanti in quegli anni si dedicavano allo
studio delle antiche culture precolombiane. Fra questi
era anche l’imolese Giuseppe Cita Mazzini, il quale, rientrato da poco in Italia dopo un lungo soggiorno nell’America andina dove aveva esercitato la professione medica coltivando in parallelo l’interesse per le antichità archeologiche, riesce ad ottenere dal Direttore del Museo
di Lima un prezioso frammento tessile di Paracas, che donerà poi nel 1937, assieme ad altri reperti tessili e ceramici della propria collezione, al museo della sua città
(Fig. 2). Nonostante le dimensioni ridotte, si possono cogliere nell’esemplare imolese molti degli aspetti che ca-
ratterizzano la tessitura Paracas: dalla tecnica utilizzata,
il ricamo con fili di lana su un fondo di tela di cotone, alla decorazione nel cosiddetto “stile lineare”, nel quale figure composite di animali, in questo caso un felino, sono
inserite l’una dentro l’altra come in un gioco di scatole cinesi2. La ricca policromia della decorazione è ottenuta
con filati finissimi di alpaca, fibra che le popolazioni della costa importavano dalle regioni fredde dell’altopiano
e che, a differenza del cotone, si prestava facilmente e con
risultati eccellenti ad essere tinta nei più svariati colori.
Se l’interesse suscitato dalla scoperta delle tombe Paracas
favorisce l’avvio di studi sistematici sui tessili precolombiani, a partire dal fondamentale lavoro di Raoul d’Harcourt del 1934, tuttavia la consapevolezza crescente dell’esistenza di un patrimonio tessile di inestimabile valore ancora celato dalle sabbie delle necropoli costiere del
Perù finirà per alimentare il commercio clandestino di
esemplari di pregio, particolarmente consistente soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Risalgono a questo periodo altri due nuclei tessili precolombiani conservati
nei musei dell’Emilia Romagna: la raccolta del fotografo
bolognese Mario Fantìn, comprendente una trentina di
tessuti acquistati dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena nel 1983, e la collezione destinata da Delfino Dinz Rialto al Museo delle Arti Primitive di Rimini,
fondato per volontà dello stesso Dinz Rialto nell’ottica di
documentare in chiave estetica gli influssi delle cosid-
Corredi tessili del Nuovo Mondo nei Musei dell’Emilia-Romagna
dette “arti primitive” sulle avanguardie artistiche del XX
secolo3. In questo filone di collezionismo più recente si
inserisce anche la raccolta Laffi-Petracchi comprendente
una sessantina di frammenti tessili donati al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza nel 1999.
Ad eccezione del tessuto Paracas del museo di Imola e di
un numero esiguo di esemplari della raccolta Fantìn databili alla prima metà del I millennio d.C., la maggior parte dei reperti tessili conservati nei musei emiliano-romagnoli si riferisce ad una fase piuttosto tarda delle culture
precolombiane del Perù, compresa fra il IX secolo e la conquista spagnola (1532). Particolarmente rilevante è la presenza di tessuti e strumenti tessili attribuibili al cosiddetto Periodo Intermedio Recente (X-XV secolo) provenienti
dalla regione costiera centrale e in minor misura da quella settentrionale. Per la costa centrale, caratterizzata in
questo periodo da un’omogeneità stilistica nelle produzioni artigianali, note come Chancay dal nome della valle
dove risultano maggiormente documentate, non si possiedono evidenze archeologiche che inducano a ipotizzare una vasta unità territoriale e politica. Per le regioni settentrionali della costa l’esistenza di organismi a carattere
statale, noti come i regni Lambayeque e Chimù, trova invece ampia conferma tanto nelle fonti storiche dell’epoca
della Conquista che nelle ricerche archeologiche.
Presso le popolazioni del Periodo Intermedio Recente la
produzione di tessuti pregiati non era limitata esclusivamente a soddisfare la domanda delle élites locali, ma era
destinata in parte anche agli scambi e ai commerci con i
maggiori centri della costa, dall’Ecuador meridionale fino all’estremo sud del Perù. Testimonianza diretta dell’esistenza di scambi di tessuti ad ampio raggio è fornita dal
ritrovamento di tessuti Lambayeque e Chimù nel grande
centro cerimoniale di Pachacamac, plurisecolare luogo di
culto della costa centrale, e in altre località costiere limitrofe fra cui la Necropoli di Ancòn (Fig. 3). Paradossalmente sono proprio i siti archeologici della costa centrale a offrire le testimonianze numericamente più consistenti di tessuti prodotti sulla costa settentrionale durante l’Intermedio Recente, dal momento che le inondazioni
che hanno colpito a più riprese il nord della costa non
hanno favorito la conservazione dei reperti organici e in
particolare dei tessuti. Certamente la circolazione e lo
scambio dei prodotti tessili favoriva anche l’assimilazione reciproca di fogge e motivi decorativi fra le diverse
aree della costa, e per questo motivo, non potendo disporre a tutt’oggi di classificazioni tipologiche basate su
scavi scientifici per la costa centrale, non è sempre facile
sulla base di puri criteri stilistici distinguere gli esempla-
Fig. 3 – Bordo con personaggio maschile con scettro e testa trofeo
(particolare). Rinvenuto nella necropoli di Ancon sulla costa
centrale peruviana, ma di probabile fattura settentrionale
(particolare). Periodo Intermedio Recente. Alpaca. Modena, Museo
Civico Archeologico Etnologico.
ri di importazione da eventuali prodotti di imitazione.
Studi condotti in anni recenti sui tessuti Chimù hanno
tuttavia posto l’attenzione su alcune caratteristiche strutturali peculiari di questi tessuti che non risultano attestate nelle coeve produzioni della costa centrale e che pertanto costituiscono un indizio importante per l’attribuzione culturale dei reperti: dalla torsione dei filati (con
una preferenza per elementi filati a S e ritorti a Z, mentre
sulla costa centrale prevale la filatura in senso opposto),
alla struttura delle tele (con fili di ordito doppi a un solo
capo), alle finiture degli arazzi (con fenditure chiuse da
cuciture e con vistose slegature di trama sul rovescio).
Nel complesso le tradizioni tessili costiere dell’Intermedio Recente sono caratterizzate da una notevole omogeneità di motivi iconografici che traggono origine da una
religiosità comune legata all’ambiente e alle risorse della
costa. Il tema in assoluto più frequente è costituito da raffigurazioni derivate dall’ecosistema marino, di vitale importanza per la sussistenza degli abitanti di queste regioni, con la rappresentazione di pesci e uccelli acquatici (aironi, anatre, fenicotteri, pellicani), questi ultimi venerati
anche in relazione alla fertilità della terra, in quanto depositavano sulle isole prospicienti la costa il guano uti-
229
ILARIA PULINI
Fig. 4 – Bordo di
perizoma con
raffigurazioni di uccelli
(particolare). Costa
centrale peruviana,
Necropoli di Ancon.
Periodo Intermedio
Recente, cultura
Chancay. Trama di
alpaca su ordito di
cotone. Modena, Museo
Civico Archeologico
Etnologico.
lizzato come concime per le colture agricole (Fig. 4). Il legame fra elemento marino e terrestre è ribadito anche
dal culto della luna che attraverso le maree e il cambio
delle stagioni regolava la crescita dei raccolti: rappresentata con le sembianze di un animale mitico, forse una volpe, con un grande copricapo a forma di mezzaluna a simboleggiare il crescente lunare, costituisce uno dei temi
maggiormente rappresentati sui tessuti Chimù (Fig. 5).
Nei tessuti Chimù e Chancay i motivi decorativi, realizzati con fili di lana policroma, possono occupare l’intera superficie tessuta ma più spesso risultano limitati ad aree
specifiche, quali bande o bordure, alternate a vaste porzioni di tela di cotone. Le porzioni decorate erano realizzate con una grande varietà di tecniche, dal broccato, all’arazzo, alle strutture a orditi o trame complementari, ai
tessuti doppi. Se indubbiamente tecniche come il broccato e l’arazzo consentivano più di altre di creare scene
anche molto complesse lasciando un’ampia libertà nella
scelta degli abbinamenti cromatici, in linea di massima
non sembra esistere un rapporto diretto tra la scelta di
una particolare tecnica e il soggetto rappresentato, tant’è
che di uno stesso tipo iconografico si conoscono versioni
realizzate con strutture tessili differenti.
Il totale superamento dei vincoli imposti dalla tecnica viene raggiunto nell’arte tessile dell’Intermedio Recente con
la pittura su tela che affonda le proprie radici in una plurisecolare tradizione costiera le cui più antiche espressioni conosciute risalgono alla metà del II millennio a.C.. Nei
tessuti dipinti, noti soprattutto da una vasta produzione
di esemplari Chancay, la decorazione è ottenuta applicando pigmenti nei colori prevalenti dell’ocra, marrone, nero
e azzurro su una base di tela di cotone bianco. Il disegno
230
poteva essere realizzato a mano libera, con esiti di eccezionale qualità estetica rappresentati da raffigurazioni
complesse con scene mitologiche, oppure a stampo (o
con un utilizzo misto delle due tecniche) negli esemplari
con moduli pittorici ripetitivi. Effetti di decorazione in
negativo venivano ottenuti, oltre che a mano libera, anche con tecniche di tintura “con riserva di colore”, conosciute come ikat o tie-dye, documentate, assieme ad altri
esemplari dipinti, da alcuni tessuti delle raccolte di Faenza. Sembra che le tele dipinte fossero prodotte essenzialmente come elementi di arredo per decorare pareti di abitazioni o di templi e non per realizzare capi di abbigliamento. Questo spiegherebbe le dimensioni del tutto eccezionali di molti esemplari, composti da più tele cucite
assieme lunghe fino a trenta metri, che venivano prima
assemblate e poi decorate. È molto probabile che chi dipingeva il pannello non fosse la stessa persona che aveva
tessuto e assemblato la tela, ma piuttosto una figura di artista specializzato addetto a questa specifica funzione.
La varietà di capi e accessori di abbigliamento conservati
nelle collezioni dei musei emiliano-romagnoli fornisce una
documentazione esauriente sul modo di vestire delle popolazioni Chancay e Chimù. A Modena e a Rimini sono inoltre
presenti esemplari delle cosiddette “bambole Chancay” realizzate con materiale vegetale, filati e tessuti. Queste figurine, che venivano deposte come offerte funerarie all’interno
delle tombe, forse come rappresentazione dell’immagine
del defunto, indossano veri e propri abiti in miniatura e forniscono quindi preziose informazioni sulle fogge dell’abbigliamento in voga sulla costa centrale durante l’Intermedio
Recente (Fig. 6). Prima di entrare nel dettaglio è però necessario sottolineare una caratteristica fondamentale della
Fig. 5 – Tela di cotone dipinta con rappresentazione di “animale
lunare” (particolare). Stile Chimù, rinvenuta nella Necropoli di
Ancon sulla costa centrale peruviana. Periodo Intermedio Recente.
Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.
produzione tessile andina, e cioè l’usanza di ottenere a telaio
stoffe rettangolari finite da cimose sui quattro lati4. Le dimensioni di un tessuto vengono determinate all’atto dell’orditura. Non esiste il concetto di tagliare un tessuto, dimensionarlo o sagomarlo per ottenere una determinata forma e conseguentemente tutte le tipologie di abiti o accessori di abbigliamento sono il prodotto dell’assemblaggio di
due o più tessuti rettangolari con quattro cimose.
Gli uomini indossavano una tunica piuttosto corta composta dall’unione di due teli piegati a metà e cuciti lungo
le cimose laterali lasciando un’apertura al centro per la
testa e ai due lati per le braccia. Le maniche, spesso presenti negli esemplari di questo periodo, si ottenevano cucendo ai lati della tunica, in corrispondenza delle aperture per le braccia, due pannelli di tessuto piegati a metà.
Un bell’esemplare di tunica con maniche è presente a Rimini: curiosamente in questo pezzo fra il corpo centrale
della tunica e le maniche, realizzati ad arazzo con ordito
e trama di lana, sono presenti due pannelli di tela di cotone5. È probabile che questo assemblaggio assolutamente inusuale sia dovuto a motivi di ordine pratico, e
cioè alla necessità di allargare le dimensioni previste inizialmente per l’indumento, forse in relazione ad un suo
utilizzo come rivestimento di un involucro funerario.
Fig. 6 – “Bambola” maschile con due borse per coca a
tracolla. Costa centrale peruviana, Necropoli di Ancon.
Periodo Intermedio Recente, cultura Chancay. Indossa
una tunica con aperture verticali per la testa e le braccia,
un perizoma e un turbante. Costa Centrale Peruviana,
Periodo Intermedio Recente, cultura Chancay. Modena.
Museo Civico Archeologico Etnologico.
Alla tunica si accompagnava nell’abbigliamento maschile il perizoma6, costituito da un pannello rettangolare cucito lungo il bordo trasversale superiore ad una fascia che
serviva per fissare l’indumento in vita. I perizomi della
costa erano in questo periodo piuttosto abbondanti visto
che la tunica normalmente non scendeva più in basso
delle anche. La decorazione era di solito concentrata su
due porzioni specifiche del pannello corrispondenti alle
parti di tessuto visibili a indumento indossato: una rimaneva sul retro del corpo mentre l’altra passando sotto
l’inguine, veniva fermata in vita dalla cintura per poi ricadere sul davanti. Dal modo in cui il perizoma veniva indossato si capisce come mai negli esemplari con decorazioni eseguite con tecniche a un solo dritto, come i broccati, la porzione destinata a ricadere sul davanti venisse
tessuta sul rovescio. Un esempio di questa particolare soluzione strutturale è fornito da un perizoma, probabilmente di origine settentrionale, della collezione della
Necropoli di Ancòn del Museo di Modena7.
Le donne indossavano una lunga veste composta da uno o
più teli dove l’ordito, differentemente dalle tuniche maschili, risulta disposto in senso orizzontale con le aperture per le braccia e per la testa ricavate lungo la cucitura che
chiude l’abito nella parte superiore.
231
ILARIA PULINI
Sulle spalle gli uomini indossavano un mantello e le donne uno scialle, entrambi composti da due o tre teli. Anche
in questi capi si ripropone, con un evidente significato
simbolico, la stessa contrapposizione fra elemento verticale e orizzontale notata in relazione alla tunica maschile e all’abito femminile: il mantello dell’uomo pendeva
infatti sulla schiena con l’ordito disposto in verticale,
mentre la donna si avvolgeva nello scialle tenendo l’ordito in senso orizzontale.
Completavano l’abbigliamento maschile un turbante,
che negli esemplari più ricchi poteva terminare con lunghe nappe che pendevano ai lati della fronte, e una borsa,
indossata a tracolla, che serviva per contenere le foglie di
coca utilizzate, oltre che per le proprietà stimolanti, anche come offerte nelle cerimonie e nei rituali funebri
(Fig. 1). I copricapi femminili sono conosciuti attraverso
gli splendidi veli Chancay, manufatti di cotone finissimo,
noti anche come “garze”, dal nome della tecnica tessile
con cui venivano realizzati. La maestria dei tessitori Chancay raggiunge in questi capi l’apice del virtuosismo tecnico, producendo un effetto di decoro tinta su tinta attraverso una sapiente manipolazione dei fili sul telaio (Fig. 7).
Meno numerose rispetto alle produzioni dell’Intermedio
Recente sono le testimonianze della successiva epoca inca
nelle collezioni dei musei emiliano-romagnoli. Dalle fonti
storiche sappiamo che la tessitura in questo periodo era
fortemente controllata dall’autorità statale che imponeva
un tributo specifico consistente nell’obbligo per le comunità di tessere ogni anno una data quantità di lana proveniente dalle greggi di proprietà statale. Esistevano anche
dei laboratori specializzati per rispondere alla domanda di
approvvigionamenti di tessuti per l’esercito e centri esclusivi dedicati alla produzione dei tessuti più fini per le élites.
A Cuzco, la capitale del grande impero incaico, e anche nei
centri periferici di maggior prestigio come il santuario di
Fig. 7 – Garza con motivo a serpenti concatenati (particolare). Costa
Centrale, Periodo Intermedio Recente. Cultura Chancay. Cotone.
Imola, Museo Internazionale delle Ceramiche.
Pachacamac, erano stati creati dei luoghi esclusivi, gli akklahuasi, dove vergini scelte tessevano i vestiti per il sovrano,
per i membri della famiglia reale e per le cerimonie dedicate al culto solare. Ad eccezione di una borsa per coca del museo di Imola, di finissima alpaca policroma, la maggior parte degli esemplari di questo periodo nei musei emiliano-romagnoli sono manufatti ordinari, prevalentemente realizzati con filati di colore naturale, evidentemente prodotti di
comunità locali della costa, segnata in questo periodo da
un generale impoverimento delle produzioni tessili.
L’arte tessile delle popolazioni della costa non sopravviverà ai Conquistadores, responsabili dell’annientamento
di intere popolazioni e del totale sradicamento dei loro
valori sociali e culturali. Lo splendore di quell’arte continuerà tuttavia a vivere nelle zone montuose dell’altopiano, dove, ancora oggi, nelle produzioni tessili delle comunità indigene vengono riproposti i simboli e le tecniche di una produzione millenaria.
NOTE
1 F. de Xerez, Verdadera relación de la conquista del Perú, in “Biblioteca
le libertà offerta dal ricamo: l’esame dei pezzi ha infatti rivelato che l’artista realizzava in primo luogo il fondo del disegno lasciando vuote le linee che definivano le figure e solo una volta ultimato il fondo procedeva a riempire gli spazi rimasti liberi.
questo telaio, utilizzato ancora oggi nell’area andina, si conoscono
due varianti: “a cintura”, dove la tensione viene regolata da una fascia passata attorno alla vita del tessitore, oppure fisso, nel quale le
estremità delle due barre vengono fissate a dei sostegni. Ulteriori
barre di legno servivano per armare i licci e separare l’ordito mentre
una sorta di spada veniva utilizzata per premere la trama ad ogni
passaggio.
3
5
de Autores Españoles”, t. XXVI, Sevilla, 1947 [1534], p. 334.
2 Nello “stile lineare” il tessitore non sfruttava interamente la potenzia-
A questa raccolta si è aggiunta in anni recenti, nel museo riminese, la
collezione Canepa attualmente in corso di studio, comprendente numerosi reperti tessili.
4
Il telaio nel mondo precolombiano era costituito da una strumentazione assolutamente essenziale, semplice e facilmente trasportabile, basata su due barre di legno fra le quali veniva teso l’ordito. Di
232
Scheda reperto tessile di I. Pulini (schedatura a cura dell’Istituto Beni
Culturali della Regione Emilia-Romagna).
6
Non esistono in epoca precolombiana i pantaloni, introdotti in America meridionale con la conquista spagnola.
7 S. Desrosiers, I. Pulini, Tessuti precolombiani, Modena 1992, scheda n.
113, p. 158 e fig. 41.
La grande stagione dell’arazzo
MARTA CUOGHI COSTANTINI
Un prodotto di successo
el corso del Trecento prese piede una nuova, particolare forma espressiva che si collocava a mezzo fra pittura, tessitura, ricamo: si trattava dei suntuosi panni istoriati che venivano tessuti in numerosi centri delle Fiandre e del nord della Francia, a Bruxelles, a Parigi, ad Arras,
da cui derivò il loro nome italiano. L’interesse per il nuovo, affascinante prodotto conobbe una diffusione rapidissima che riguardò l’Europa intera e trasformò una forma d’artigianato inizialmente circoscritta ad aree molto
ristrette in una fiorente attività manifatturiera che caratterizzò l’economia di intere città.
Ben presto anche in Italia non vi fu principe o signore che
non possedesse una o più raccolte dei celebri panni istoriati, esibiti ed ammirati per l’intrinseca ricchezza dei
materiali, per la perfezione dell’esecuzione, la varietà e la
bellezza dei colori e delle raffigurazioni. Animati dal desiderio di adornare le proprie dimore con opere che tematicamente si correlassero ai cicli pittorici o che avessero il carattere encomiastico che conveniva alle grandi
famiglie, molti di essi non si limitarono ad attingere al repertorio disponibile sui mercati, ma commissionarono
manufatti specifici, quando addirittura non tentarono di
avviare arazzerie in loco avvalendosi della collaborazione di maestranze straniere. Manufatti di carattere eccezionale alla cui realizzazione concorrevano artisti famosi
oltre che artigiani altamente specializzati, ma al contempo opere seriali, riproducibili in quante copie se ne volessero, gli arazzi furono importanti veicoli di mode che
svolsero una vera e propria funzione di mediazione tra
culture figurative diverse, in particolare fra quella fiamminga ed italiana. L’interesse per i costosi manufatti si
protrasse lungamente, per diversi secoli, fino a quando
N
nell’Ottocento avanzato le tappezzerie tessute non furono soppiantate dalla carta da parati, un surrogato molto
meno accattivante e prestigioso ma certamente più economico e quindi più adatto alle esigenze abitative della
emergente società borghese. Le ragioni di un successo così lungamente diffuso e così ampiamente condiviso furono ovviamente molteplici. Essi rappresentavano innanzitutto un’efficace protezione contro il freddo prestandosi
per di più alla decorazione di ogni tipo di ambiente: al rivestimento di mobili e lettighe, carrozze e imbarcazioni,
saloni, studi, camere da letto, sulle cui pareti dispiegavano una straordinaria varietà di colori e raffigurazioni:
storie sacre ed episodi di vita cortese, scene di caccia e temi mitologici, imprese e motti araldici. Rispetto alle più
consuete pitture ad affresco offrivano poi il vantaggio di
poter essere spostati agevolmente, adattati con facilità
per il ricevimento di ospiti illustri, per l’allestimento di
feste, spettacoli e banchetti potendo seguire per di più il
proprietario nei suoi frequenti trasferimenti di dimora,
in viaggio e persino in guerra. Oggetto privilegiato di un
collezionismo colto e raffinato, gli arazzi divennero per i
loro costi altissimi emblemi di status e di prestigio sociale alimentando un fenomeno di vero e proprio collezionismo che comportò l’investimento di enormi somme di
danaro.
Con i suoi numerosi e fiorenti centri urbani e le sue corti,
l’area dell’attuale Emilia-Romagna si segnala per la circolazione di un imponente patrimonio di tappezzerie. Gli
studi dedicati agli episodi collezionistici più rilevanti del
nostro territorio – da quelli pionieristici di Giuseppe
Campori sugli arazzi estensi, ai successivi approfondimenti di Nello Forti Grazzini, sino alle recenti ricerche in
territorio parmense – hanno chiarito aspetti cruciali del-
MARTA CUOGHI COSTANTINI
le intricate vicende legate alla circolazione di questi beni
con attenzione anche a quella cospicua parte di opere andata perduta ma attestata da altre fonti documentarie.
Ne è emerso un quadro di estremo interesse che pone in
evidenza le figure dei committenti, fra i quali ovviamente primeggiano gli Este e i Farnese, la complessa geografia del contesto produttivo e della rete commerciale, il
ruolo degli artisti incaricati di elaborare i cartoni, il cui
tema era sovente indicato da dotti letterati, il lavoro interpretativo degli arazzieri che non sempre si svolgeva in
sintonia con quello dei progettisti. In relazione a tutti
questi aspetti assumono ovviamente grande importanza
i nuclei documentari che ancora oggi si conservano nel
territorio della nostra regione. Sopravvissuti alle dispersioni e alle gravissime perdite subite nel corso del tempo
da questo patrimonio di oggetti, per loro intrinseca natura estremamente fragili e deperibilissimi, essi documentano episodi emergenti della storia dell’arazzeria
italiana ed europea dando concreta evidenza al complesso mondo di relazioni, rapporti, scambi che rese possibile la realizzazione di veri e propri capolavori tessuti1.
Erudite raffigurazioni alla corte estense
Parlando di arazzi in Emilia-Romagna l’episodio più significativo si colloca a Ferrara, dove nella seconda metà
del XV secolo venne avviato un laboratorio per la tessitura di tappezzerie, l’unico in regione che sviluppò poi le
caratteristiche di una vera e propria arazzeria. Alla base
di questa impresa vi fu la passione degli Este per la cultura nordica in generale ed in particolare per le suntuose
raffigurazioni tessute negli atelier francesi e fiamminghi.
Veri e propri cultori di quest’arte, i signori di Ferrara perseguirono una politica sistematica di commissioni ed acquisti finalizzata all’arredo del castello e dei palazzi cittadini e successivamente anche delle sedi suburbane delle ‘delizie’2.
Già a partire dagli anni Quaranta del XV secolo è documentata la presenza in città di arazzieri nordici addetti
alla manutenzione dei ricchi corredi ducali, agli acquisti
e, qualche decennio più tardi, all’esecuzione di nuove
opere. Sono fra questi Rinaldo Boteram di Bruxelles, l’intraprendente ed abile commerciante che provvide alle
grandiose forniture di Borso d’Este, e Rubino o Rubinetto di Francia, cui si deve l’esecuzione di uno dei più antichi e suggestivi arazzi ferraresi, il Compianto sul Cristo morto del Museo Thyssen-Bornemisza di Lugano, tessuto su
cartoni di Cosmè Tura fra il 1474 e il 14753. Tuttavia, sarà
solo nel terzo decennio del Cinquecento, ovvero durante
il ducato di Ercole II, che il laboratorio locale, dove già
234
Fig. 1 – Maurelio incorona il fratello, dalla serie delle Storie di San Giorgio
e San Maurelio. Ferrara, Giovanni Karcher su cartoni del Garofalo e
Luca di Fiandra, 1551-1553. Ferrara, Museo della Cattedrale.
operavano i brussellesi Giovanni e Nicola Karcher, acquisterà le dimensioni e la struttura di una vera e propria
arazzeria con la venuta a Ferrara di Giovanni Rost, noto
per i capolavori che di lì a poco avrebbe siglato nei laboratori medicei di Firenze. A questi artigiani, affiancati da
numerosi garzoni ed operai, si deve l’esecuzione delle serie di arazzi più preziose ed ammirate del repertorio
estense: le Metamorfosi, le Deità d’Ercole, le Città, le Aquile
Bianche, le Pergoline ai cui cartoni avevano lavorato artisti
di comprovata abilità come Dosso e Battista Dossi, Girolamo da Carpi, il Bastianino4.
Purtroppo di questa fervida attività che fra varie traversie
si protrasse per buona parte del Cinquecento si è conservato molto poco. Sulla base delle rare testimonianze pervenute emergono ciononostante i caratteri distintivi dell’arazzeria ferrarese: l’eccellenza dei materiali e della tessitura, l’originalità dei soggetti, ispirati sovente alla storia antica e alla mitologia, ovvero a filoni che ben si prestavano alla celebrazione e all’elogio dinastico, l’interpretazione fedele dei modelli pittorici. In questo Ferrara
anticipa una peculiarità che sarà comune a tutta la produzione italiana, connotata sin dall’origine da un legame
di stretta dipendenza dalla pittura e dalle sue regole di
rappresentazione.
La bottega ferrarese non ebbe gli sviluppi dell’arazzeria
medicea di Firenze, né tanto meno quelli delle manifat-
La grande stagione dell’arazzo
ture fiamminghe, la cui attività, organizzata come una
vera e propria industria, era rivolta a un mercato internazionale; superò tuttavia le dimensioni del laboratorio
di corte realizzando alcuni importanti cicli per committenti esterni. Pare vi facessero ricorso personaggi di spicco, come ad esempio il cardinale Ercole Gonzaga; ad essa
certamente si rivolse il capitolo della Cattedrale di Ferrara allorché nell’ottobre del 1550 commissionò a Giovanni Karcher, divenuto l’unico responsabile del laboratorio,
otto panni con le Storie di San Giorgio e San Maurelio (Fig. 1)
che servivano per essere appesi fra le colonne della navata centrale, in occasione delle festività solenni. Contrassegnati nel bordo inferiore dalla marca dell’arazziere e
dalla data di esecuzione, circoscrivibile fra 1551 e 1553,
questi panni rivestono una importanza particolare poiché sono le uniche opere ferraresi che ancora si conservano in loco5.
L’interesse degli Este per le tappezzerie ad arazzo non cessò quando Ferrara e il suo territorio vennero ceduti alla
Chiesa e la capitale trasferita a Modena. Se possibile accrebbe, alimentato dalla necessità di arredare e rendere
confortevole le nuove dimore ducali, il palazzo cittadino
sorto sul presistente castello nonché la grande residenza
estiva di Sassuolo voluta da Francesco I. Gli inventari della guardaroba ducale redatti nel corso del Sei e del Settecento danno conto delle notevolissime presenze, ma anche dei nuovi acquisti, dei periodici interventi di manutenzione, dei frequenti doni6. Sono da ricordare fra questi i sei arazzi delle Nuove Indie che Maria Beatrice d’Este e
il consorte Ferdinando d’Austria ebbero in dono da Luigi
XVI in occasione del viaggio a Parigi nel 1786. Fra le poche
opere sopravvissute alla pressoché totale dispersione del
patrimonio estense, attualmente questi arazzi sono conservati a Roma al Quirinale. Si tratta di sei magnifici
esemplari tessuti a Parigi fra il 1773 e il 1785 nella manifattura reale dei Gobelins. Gli originalissimi motivi che li
decorano ebbero origine da disegni eseguiti a scopo documentario durante una spedizione in Brasile effettuata
nella prima metà del XVII secolo. L’edizione settecentesca
di questo tema si basa sulle copie liberamente elaborate
da Alexandre François Desportes, arricchite da elementi
di fantasia che enfatizzano l’effetto decorativo delle raffigurazioni prive oramai del valore documentario dei modelli anche se descritte con straordinario verismo7.
Capolavori tessuti nel ducato
di Parma e Piacenza
Gli studi condotti in occasione della bella ed importante
mostra presentata a Colorno nel 1998 hanno delineato
con chiarezza ed evidenza documentaria le principali vicende riguardanti il collezionismo di arazzi nel ducato
parmense la cui storia prese avvio nel XVI secolo con l’arrivo a Parma dei Farnese e proseguì poi nel Settecento
con l’insediamento dei Borbone8. Contrariamente alle
principali dinastie italiane - Este, Gonzaga, Medici -, i Farnese non tentarono di avviare in loco laboratori di tessitura ma inviarono le loro commissioni ed effettuarono i
loro acquisti direttamente a Bruxelles, presso i migliori
artigiani allora operanti, favoriti in questo dai rapporti
privilegiati che molti esponenti della famiglia intrattennero con i Paesi Bassi.
Dall’esame dei documenti - inventari, elenchi, pagamenti – risulta che furono svariati i membri della famiglia che
possedettero tappezzerie, da Alessandro Farnese, futuro
papa Paolo III, al figlio Pier Luigi Farnese, da Ottavio a Ranuccio. Tuttavia, la figura che maggiormente contribuì
alla formazione della eccezionale raccolta farnesiana,
non solo per l’entità ma anche e soprattutto per la qualità
dei suoi acquisti, fu Margherita d’Austria, figlia naturale
dell’imperatore Carlo V nonché nipote di un arazziere
fiammingo, che nel 1538 andò sposa ad Ottavio Farnese.
Gli acquisti più significativi vennero effettuati dal 1559
al 1567, negli anni che lei trascorse nelle Fiandre in qualità di governatrice. Risale a questo periodo anche l’acquisizione dei due arazzi raffiguranti Perseo alla corte di
Atlante e la Festa delle Driadi, oggi conservati al Quirinale,
fra i pochi panni sopravvissuti agli smembramenti e alle
dispersioni che interessarono l’imponente patrimonio
farnesiano e che da soli basterebbero ad attestarne l’eccezionale qualità9.
Eseguite dai migliori artigiani europei, spesso sui cartoni
di pittori specializzati in questo genere, le preziose tappezzerie istoriate godettero di grande considerazione
presso i duchi di Parma e Piacenza. Oltre ad arredare gli
appartamenti ducali e quelli degli ospiti, in occasioni
particolari essi venivano esposti pubblicamente a testimoniare la ricchezza e la magnificenza dei proprietari.
Rimane memoria di questi momenti solenni in alcune
acqueforti eseguite da Francesco Domenico Maria Francia per illustrare le nozze di Elisabetta Farnese e Filippo V
di Spagna celebrate nel duomo di Parma nel 1717. Sulla
caratteristica facciata della chiesa, intercalati ai doppi ordini di trifore e quadrifore, all’interno degli arconi di accesso alle cappelle gentilizie, nel presbiterio sovrapposti
ai rivestimenti parietali in damasco cremisi, fanno bella
mostra numerosi arazzi facenti parte di serie famose – le
Storie di Noè, le Storie di Giulio Cesare, la Galleria -, già appartenute a Margherita di Parma10.
235
MARTA CUOGHI COSTANTINI
Fig. 2 – Corteo regale di nozze, dalla serie della Storia di Troia (detta di Priamo). Bruxelles, manifattura di Pieter van Aelst o Pieter de Pannemaker
su cartoni di Jean van Roome, 1520-1530. Piacenza, Collegio Alberoni.
Gli acquisti ducali furono numerosi e sempre di elevato
livello anche in epoca borbonica allorché l’arrivo a Parma nel 1749 di Filippo di Borbone e di Luisa Elisabetta rese necessaria la risistemazione dei palazzi cittadini e delle sedi di Sala e di Colorno. La maggior parte di essi venne
effettuata in Francia, divenuta paese leader anche in questo settore dell’artigianato artistico, e riguardarono alcune fra le opere più rappresentative del XVIII secolo. Tale è
la serie delle Portiere degli Dei, tessuta a Parigi nella manifattura reale dei Gobelins da Etienne Claude Le Blond e
Pierre-François Cozette su cartoni di Claude III Audran,
acquistata da Filippo di Borbone nel 1749: uno dei prodotti più richiesti della manifattura reale parigina, replicato innumerevoli volte nel corso del secolo. Opere di carattere eccezionale sono anche la serie delle Storie di Psiche
e degli Amori degli Dei pervenute a Parma rispettivamente
nel 1750 e nel 1751. Tessute nella manifattura reale di
Beauvais sotto la direzione del celebre Jean Baptiste Oudry, esse rappresentano forse la massima espressione del
gusto rococo nell’ambito dell’arazzeria traducendo con
grande finezza espressiva e luministica i modelli sensuali e festosi di François Boucher.
A seguito dell’annessione dei territori di Parma e Piacenza al Regno d’Italia, i palazzi ducali furono spogliati dei
loro beni a favore delle residenze sabaude. Seguendo la
236
sorte toccata ad altre tipologie di arredi, la preziosa collezione, ricca di diverse centinaia di esemplari, fu smembrata e trasferita nelle nuove capitali, Torino, Firenze e infine Roma. Gli spostamenti, le donazioni, le alienazioni
contribuirono purtroppo alla dispersione del patrimonio che solo parzialmente raggiunse Roma dove ancora
oggi i pezzi sopravvissuti costituiscono motivo di vanto
delle collezioni del Palazzo del Quirinale11.
La collezione di un cardinale
Il matrimonio fra Elisabetta Farnese e Filippo V di Spagna, per il quale nel 1717 furono esibiti pubblicamente
gli arazzi di famiglia, fu possibile grazie alla sapiente attività diplomatica svolta da un prelato piacentino, il cardinale Giulio Alberoni, che proprio in virtù di questo successo ottenne la nomina di primo ministro del re di Spagna. Abile in politica e negli affari, l’Alberoni coltivò
un’autentica passione per l’arte che lo spinse ad acquistare dipinti, stampe, oreficerie, suppellettili di vario genere. Facevano parte della sua prestigiosa collezione anche numerose tappezzerie istoriate, ricercati elementi
d’arredo del suo palazzo romano e successivamente delle
sedi di Ravenna e di Bologna dove soggiornò come legato
pontificio. Lasciati in eredità, unitamente a numerosi altri beni, al Collegio per l’istruzione di giovani ecclesiasti-
La grande stagione dell’arazzo
Fig. 3 – Banchetto nuziale, dalla serie della Storia di Troia. Bruxelles, manifattura di Pieter van Aelst o Pieter de Pannemaker da cartoni di Jean van
Roome, 1520-1530. Piacenza, Collegio Alberoni.
ci sorto per sua volontà alle porte di Piacenza, essi costituiscono la raccolta più cospicua e significativa presente
oggi in Emilia-Romagna12.
Colto e raffinato conoscitore della cultura e dell’arte del
suo tempo, in tema di arazzi il cardinale prediligeva la
produzione antica. Dei diciotto pezzi conservati presso il
collegio piacentino, nessuno è contemporaneo. Anzi, fra
essi si segnalano per rarità due tappezzerie fiamminghe
dei primi decenni del Cinquecento raffiguranti le Nozze di
Priamo ed Ecuba. In entrambe le opere gli eventi rappresentati – il Corteo (Fig. 2), ed il Banchetto nuziale (Fig. 3) – sono scanditi in varie scene unificate da eleganti motivi architettonici, lo spazio è gremito da figure sontuosamente abbigliate secondo il gusto rinascimentale, la linea dell’orizzonte è delineata in prossimità del margine superiore. Figure, architetture, paesaggi sono definiti con attenzione lenticolare, peculiarità che unitamente al prato
fiorito in primo piano, al paesaggio turrito dello sfondo,
Fig. 4 – Corteo regale, particolare.
237
Fig. 5 – Alessandro in una foresta uccide un leone, dalla serie di Alessandro
Magno. Bruxelles, arazziere ignoto, su cartoni di Jacob Jordaens
(Anversa 1593-1678). Piacenza, Collegio Alberoni.
to come piazza commerciale poiché vi si tenevano esposizioni permanenti di arazzi e vi si commerciavano i
modelli, questa città fu anche un rilevante centro manifatturiero dove operavano numerosi laboratori in concorrenza con quelli di Bruxelles. Particolarmente celebre fu la manifattura dei fratelli Wauters alla cui attività
è riconducibile anche la serie alberoniana con le tragiche vicende di Enea e Didone i cui cartoni furono elaborati dal viterbese Giovan Francesco Romanelli, a dimostrare una continuità di rapporti di scambio non solo
dalle Fiandre all’Italia, ma anche viceversa dall’Italia alle Fiandre14.
Il collezionismo nelle corti minori: Correggio e
Novellara
alle belle bordure con rose, pampini e grappoli d’uva, furono peculiari della cultura fiamminga. La finezza della
tessitura e dei materiali impiegati (Fig. 4) – la lana, la seta,
i filati metallici - denotano una manifattura di alto livello, certamente brussellese, forse quella di Pieter van Aelst, l’arazziere che eseguì la celeberrima serie degli Atti degli Apostoli per il papa Leone X su cartoni di Raffaello,
opera che segnò profondamente il corso dell’arazzeria
fiamminga. Non è da escludere tuttavia che le tappezzerie siano state eseguite da Pieter Pannemaker, al cui nome potrebbe alludere la lettera ‘P’ tessuta su armi e vesti
nell’arazzo del Corteo13.
Non si hanno notizie certe sul modo in cui il cardinale
Alberoni entrò in possesso dei due preziosi arazzi, forse
un dono dei sovrani di Spagna come segno di riconoscimento per i suoi servizi. La loro presenza è comunque
indicativa dei gusti dell’alto prelato picentino, decisamente orientati verso l’antico. Anche i restanti pezzi
della sua raccolta infatti non sono del suo tempo. Gli otto panni raffiguranti le Storie di Alessandro Magno (Fig. 5)
risalgono alla seconda metà del XVII secolo. L’arazziere
che li realizzò, operante certamente a Bruxelles ma non
ancora individuato, si avvalse dei cartoni ideati fra il
1630 e il 1635 da Jacob Jordaens, ispirati alla narrazione
del De rebus gestis Alexandri Magni di Curzio Rufo. Gli otto panni con le Storie di Enea e Didone (Fig. 6) furono invece tessuti intorno al 1670 ad Anversa. Nota soprattut-
238
Seguendo le orme delle grandi famiglie, anche i signori
dei piccoli centri padani coltivarono forme di mecenatismo artistico ospitando presso le loro corti poeti e letterati e commissionando arredi, opere pittoriche, cicli di
arazzi per dare alle loro dimore quel carattere di sfarzo
che conveniva all’importante ruolo politico e sociale ricoperto dai proprietari. Qualcuno tentò anche di avviare laboratori in loco come a Correggio dove nel XV seco-
Fig. 6 – Enea e Didone sorpresi da una tempesta si rifugiano in una grotta,
dalla serie di Enea e Didone. Anversa, manifattura di Michel Wauters,
su cartoni di Giovan Francesco Romanelli, 1670 ca. Piacenza,
Collegio Alberoni.
La grande stagione dell’arazzo
lo lavorava l’arazziere fiammingo Rainaldo Duro. Da una
serie di rogiti conservati nell’archivio notarile apprendiamo che questo artigiano, nell’arco di anni che va dal
1470 al 1498, si avvaleva della collaborazione di un ricamatore, tale Conto della Zinella da Trento, e di due disegnatori, Enrico da Lodi e Bartolomeo da Milano, e che i
principali committenti erano ovviamente i da Correggio, signori della città, in particolare Nicolò e la moglie
Cassandra15. Questa attività, protrattasi pare non oltre
gli inizi del Cinquecento, non ha tuttavia alcuna relazione con il bel nucleo di tappezzerie che a tutt’oggi si conserva nella cittadina reggiana. Esso è composto da nove
esemplari appartenenti a tre diverse serie, raffiguranti
vedute di parchi e giardini, scene di caccia (Fig. 7) e feste
campestri, cui si aggiungono frammenti di bordure che
nel loro insieme costituiscono quanto resta dei ventiquattro panni che nel 1606, secondo quanto emerge da
un inventario degli arredi compilato in quella data, ornavano le pareti del Palazzo dei Principi. È assai probabile, anche se non supportato da alcuna attestazione documentaria, che gli arazzi fossero stati acquistati proprio a questo scopo dal conte Camillo da Correggio che
governò il piccolo stato padano fino al 1605 e al quale
non mancarono certamente gli esempi presso le vicine
corti degli Este e dei Gonzaga16. Malgrado siano stati tutti privati delle bordure in occasione di un riadattamento effettuato nel tardo Settecento, e conseguentemente
siano andate perdute le eventuali marche della città di
produzione e i monogrammi degli arazzieri, il raffronto
con esemplari affini ha consentito di approssimare la datazione dei panni all’ultimo quindicennio del XVI secolo e di riconoscervi l’opera dell’arazziere brussellese Cornelius Mattens. Fulcro della vita culturale ed economica
delle Fiandre, a Bruxelles avevano bottega gli artigiani
Fig. 7 – Caccia all’orso, dalla serie delle Cacce. Bruxelles, manifattura di
Cornelius Mattens (attivo fra 1580 e 1649), fine del XVI inizi del
XVII secolo. Correggio, Museo Civico “Il Correggio”.
Fig. 8 – Giardino con Cefalo e Procri, dalla serie dei Giardini. Bruxelles,
manifattura di Cornelius Mattens (attivo tra 1580 e 1640), fine del
XVI inizi del XVII secolo. Correggio, Museo Civico “Il Correggio”.
più qualificati d’Europa; tuttavia vi si producevano anche opere di carattere commerciale che grazie ai costi
contenuti e al carattere generico del repertorio figurativo godevano di un’ampia diffusione come le verdure, i
millefiori, le cacce, sovente personalizzate da insegne e
motti araldici. Gli arazzi di Correggio bene si inseriscono in questo filone anche se il riconoscimento nell’iconografia della serie dei Giardini (Fig. 8) di episodi mitologici ispirati alle Metamorfosi di Ovidio ci permette di qualificarli non solo come meri rivestimenti parietali ma
anche per la loro funzione rappresentativa, ovvero come
immagini allusive alla vita del signore e all’armonia del
suo governo.
Gli arazzi furono tenuti in grande considerazione anche
dai signori della vicina città di Novellara, retta da un ramo secondario dei Gonzaga. L’Inventario dei beni mobili nella Rocca redatto nel 1727, alla morte del conte Camillo III,
ne menziona oltre un centinaio, un numero veramente
239
MARTA CUOGHI COSTANTINI
240
Fig. 9 – Giasone e Medea. Firenze, manifattura di Giovanni Rost, su
cartoni di Giovanni Stradano, 1554. Novellara, Museo Gonzaga.
Fig. 10 – Giasone e Medea, particolare.
elevato per una piccola corte come la sua. Purtroppo le
tappezzerie seguirono la sorte degli altri beni mobili,
venduti all’incanto nel 1797, all’epoca dell’occupazione
napoleonica. Un tempestivo quanto fortunato acquisto
effettuato dal Comune di Novellara nel 2003, in occasione dell’asta della collezione Necchi Campiglio, ha consentito di recuperare e ricollocare nella sua sede originaria un’importante testimonianza del collezionismo locale: un prezioso arazzo recante l’arme dei Gonzaga unitamente alla scritta “Alphonsus Gonzaga Novellariae Comes 1554” che non lascia dubbi sull’appartenenza e la
committenza dell’opera (Figg. 9–10)17. Tessuto in lana e seta su ordito di lino, l’antica tappezzeria presenta una scena di sbarco incorniciata da un’ampia e ricca bordura. Esso faceva certamente parte di una sequenza composta di
più episodi e forse costituisce quanto resta della serie con
la ‘favola di Giasone’ ricordata nell’ Inventario del 1727,
fra le poche contrassegnate dalla presenza dello stemma
comitale. Stando così le cose, il gruppo di uomini in abiti
classici che osserva l’arrivo di un vascello si riferisce ad un
momento dell’avventuroso viaggio degli Argonauti, verosimilmente dopo la conquista del vello d’oro. La scelta
di questo tema iconografico non fu certamente casuale.
Legando il proprio nome a quello leggendario di Giasone, Alfonso I volle celebrare un evento di rilievo, forse la
costruzione del Casino di Sotto o forse, più verosimilmente, il suo insediamento alla guida del feudo dopo la
reggenza della madre, Costanza da Correggio.
Artefice, con la collaborazione di Lelio Orsi, del riassetto e dell’abbellimento di Novellara, Alfonso I fu un appassionato collezionista di opere d’arte. A giudicare dalla qualità del recente ritrovamento ebbe gusti raffinati
anche in materia di arredi tessili. L’arazzo che porta il
suo nome replica le originali bordure ideate dal Bronzino per la celebre serie con le Storie di Giuseppe, tessuta
tra il 1545 e il 1553 a Firenze da Giovanni Rost per la sala dei Duecento in Palazzo Vecchio. Analoghi sono i festoni vegetali con frutta posti a raccordo della cornice
architettonica, analoghi i motivi delle teste di ariete e
dei mascheroni che contrassegnano la base e la sommità delle colonne. La provenienza fiorentina dell’arazzo, ed in particolare l’intervento di Giovanni Rost unitamente alla data 1554, trova conferma in due lettere
datate precisamente 5 maggio e 17 agosto di quell’anno
riguardanti pagamenti effettuati all’arazziere fiammingo per conto di Alfonso Gonzaga18. La semplificazione
dei motivi iconografici che caratterizza l’esemplare di
Novellara suggerisce l’intervento di un diverso cartonista, forse identificabile in Giovanni Stradano, un pittore di origine fiamminga che lavorò lungamente a Firen-
La grande stagione dell’arazzo
ze operando nelle proprie creazioni una sintesi fra la
maniera italiana e la tradizione nordica19.
Una collezione civica:
il ciclo di Semiramide a Rimini
Sono poche in ambito regionale le istituzioni civiche che
possiedono collezioni d’arazzi. Fra queste vi è il Museo della città di Rimini che sin dalla sua apertura nel 1990 riservò un’ampia sala all’esposizione di una serie di arazzi
seicenteschi raffiguranti le Storie di Semiramide20. Realizzate con una ricca e brillante cromia, le maestose raffigurazioni illustrano i momenti salienti dell’avventurosa vita di
Semiramide, la leggendaria regina degli Assiri fondatrice
della città di Babilonia, famosa per la bellezza ma soprattutto per l’intelligenza ed il coraggio. Animate da personaggi abbigliati all’antica, le maestose scene riguardano
sia episodi legati al ruolo pubblico della regina, le sue origini, la richiesta del re assiro Nino di averla in sposa, la sua
salita al trono dopo la morte del marito, la fondazione della grandiosa città di Babilonia, la costruzione di strade per
facilitare il cammino dell’esercito (Fig. 11), sia momenti
della sua vita privata o aspetti del suo carattere come la
toeletta o la caccia. In ogni caso le scene sono racchiuse da
elaborate bordure composte da foglie d’acanto, mazzi fioriti, pietre dure incastonate in cornici riccamente intagliate che recano al centro del lato superiore una sorta di
Fig. 12 – La toeletta di Semiramide, dalla serie delle Storie di Semiramide.
Anversa, manifattura di Michel Wauters, su cartoni di Giovan
Francesco Romanelli, 1660 ca. Rimini, Museo della Città.
Fig. 11 – Expugnatio castri, dalla serie delle Storie di Semiramide.
Anversa, manifattura di Michel Wauters, su cartoni di Abraham van
Diepenbeeck, 1660 ca. Rimini, Museo della Città.
titolo della raffigurazione entro ricercati cartigli. La ricchezza barocca di queste bordure richiama un modello
che trovò largo impiego nel corso del Seicento presso una
delle più famose ed affermate manifatture di Anversa,
quella dei fratelli Wauters. L’individuazione del monogramma dell’arazziere tessuto sulla cimossa dell’arazzo
che apre la serie, la Presentatio Semiramide, una M ed una W
sovrapposte, indubbio contrassegno di Michel Wauters,
non lascia dubbi sul nome del tessitore. Sulla base di un inventario del 1679 sappiamo anche che questi si avvalse dei
cartoni elaborati da un pittore fiammingo specializzato
nella progettazione di vetrate ed arazzi, Abraham van Diepenbeeck21. Fanno eccezione i due arazzi raffiguranti La
toeletta di Semiramide e Semiramide a caccia che si differenziano dagli altri non solo per le misure ed il formato ma
anche per la diversa interpretazione delle figure. In particolare la magniloquenza dei personaggi e la ricchezza del
trattamento luministico che caratterizzano la scena con la
toeletta (Fig. 12) inducono ad ipotizzare l’intervento di un
diverso cartonista, dell’italiano Giovan Francesco Romanelli22. L’artista viterbese non era nuovo a questo tipo di
mestiere avendo elaborato i progetti per importanti paramenti realizzati a Roma, nell’arazzeria Barberini; suoi sono anche i bozzetti per la serie di arazzi con le Storie di Enea
e Didone appartenuta al Cardinale Alberoni ed ora a Pia-
241
Fig. 13 – Costruzione dell’arca, dalla serie con Storie della Genesi. Bruxelles, manifattura del Maestro della Marca Geometrica, 1560-1570 ca.
Modena, Museo del Tesoro del Duomo.
cenza nell’omonimo Collegio, anch’essa tessuta ad Anversa nella bottega dei Wauters.
La presenza nella serie riminese di un esemplare che potrebbe avere progettista e tessitore in comune con la serie piacentina induce ad una suggestiva ipotesi circa la loro provenienza. Sappiamo che i preziosi panni di Semiramide si trovavano nel Palazzo Comunale sin dal XVIII secolo, dapprima conservati in locali di deposito e successivamente, dal 1878, esposti al pubblico. Sembra da escludere tuttavia che il committente o l’acquirente possa essere stato il municipio stesso tenuto conto dei costi estremamente elevati che simili manufatti comportavano.
Non è da escludere invece che possa essere stato proprio
il cardinale Giulio Alberoni a far pervenire gli arazzi a Rimini, quando la città cadeva sotto la sua giurisdizione in
qualità di legato pontificio di Ravenna (1735) e di Bologna (1740). Stando così le cose troverebbe ulteriore conferma la fama di grande conoscitore goduta dall’alto pre-
242
lato piacentino, non solo collezionista ma anche intermediario e mecenate, e dunque personaggio chiave nella
storia della formazione del patrimonio di arazzi nella nostra regione.
Sacre raffigurazioni
per le celebrazioni liturgiche
Facili da trasportare ed utilizzabili in svariate occasioni,
gli arazzi si prestavano ad arredare non solo le grandi dimore dell’aristocrazia, dell’alto clero, dei ricchi borghesi ma anche i vasti spazi di chiese e cattedrali dove completavano l’opera didascalica e divulgativa che già vi
svolgevano i cicli ad affresco, le sculture, le grandi pale
d’altare. Sin dal Quattrocento numerose istituzioni religiose della nostra regione si dotarono di tappezzerie
raffiguranti storie dell’Antico Testamento, episodi del
Vangelo, avvenimenti riguardanti la vita dei santi sostenendo con le loro commissioni la crescita e lo sviluppo
Fig. 14 – Sogno di Giacobbe, dalla serie con
le Storie di Giacobbe. Fiandre (Oudenaarde?),
terzo quarto del XVI secolo. Modena,
Museo del Tesoro del Duomo.
dell’arte dell’arazzeria. Legati all’ambito e alla committenza ecclesiatica, si conservano alcuni importanti nuclei, innanzitutto quello del duomo di Ferrara di cui si è
già precedentemente accennato. Attualmente esposte
nella suggestiva Chiesa di San Romano, sede del Museo
della Cattedrale, le Storie di San Giorgio e San Maurelio
esemplificano l’attività della locale arazzeria allorchè a
dirigerla era rimasto Giovanni Karcher, l’arazziere di fiducia dell’allora duca Ercole II. L’atto stipulato nell’ottobre del 1550 tra il Capitolo dei Canonici e l’arazziere
fornisce preziose informazioni sull’importante commessa che coinvolgeva due pittori di figure, Camillo Filippi, autore dei cartoni per le Storie di San Giorgio e Benvenuto Tisi detto il Garofalo cui si deve l’ideazione delle
Storie di San Maurelio. Fa eccezione l’episodio raffigurante Il popolo e il clero ferrarese che accolgono San Maurelio che
presenta forti analogie con i modi compositivi del Filippi. Le ricche ed eleganti bordure di gusto manierista
che incorniciano le maestose raffigurazioni furono invece concepite da Luca di Fiandra, un pittore specializzato in paesaggi e grottesche23.
Non tutte le chiese disponevano
di mezzi economici per commissionare opere a soggetto. Dai registri della Fabbriceria del Duomo
di Modena apprendiamo che fra
Quattro e Cinquecento i canonici
effettuavano i loro acquisti a Venezia, dove si concentravano i
maggiori importatori di arazzi
nordici, oppure presso mercanti
locali, per la maggior parte ebrei.
Sovente poi, in occasione di ricorrenze solenni, il Capitolo chiedeva tappezzerie in prestito alle famiglie più facoltose della città.
Per le celebrazioni pasquali del
1593 il Duomo fu addobbato con
arazzi provenienti dalla casa del
conte Sertorio Sertori che vennero poi acquisiti in via definitiva
nel corso dello stesso anno. Dei
ventidue panni descritti nel rogito di donazione sottoscritto il 4
maggio 1593, ne sono pervenuti diciannove appartenenti a tre diverse serie raffiguranti rispettivamente Storie della Genesi, Storie di David e Golia e Storie di Giacobbe24.
Poco si conosce sia sull’origine di questa bella ed importante raccolta sia sulla biografia del donatore. Ritratto
dagli storici locali come colto e raffinato collezionista di
libri e medaglie antiche, il conte Sertorio apparteneva ad
una famiglia di origine parmense, una delle più illustri e
potenti a Modena nel XVI secolo. Tuttavia dai documenti
non emergono dati significativi che ci autorizzino a pensare che fosse anche un collezionista di arazzi. Molto probabilmente il lascito al Duomo, al pari delle numerose altre donazioni elargite a pii istituti cittadini, fu indotto
dal fervore religioso che animò gli ultimi anni della sua
vita, funestata in gioventù dall’assassinio della moglie,
crimine che gli aveva causato la confisca dei beni e l’allontanamento dalla città.
La serie più preziosa e meglio conservata della raccolta
modenese è quella riguardante i fatti narrati nel libro
della Genesi (Fig. 13). Si tratta di otto panni tessuti sicuramente a Bruxelles come attestano la finezza dei fi-
243
MARTA CUOGHI COSTANTINI
lati in lana e seta, la perizia della tessitura, la ricchezza
del trattamento cromatico e la sigla stessa dell’arazziere individuata su due esemplari. Il monogramma, una
sorta di X completata da svolazzi, non ancora identificato ma ben conosciuto poiché riscontrato su altre
opere, tutte di altissima qualità, si riferisce ad un artigiano rimasto anonimo, definito per questo convenzionalmente come Maestro della marca geometrica, attivo a Bruxelles nel terzo quarto del XVI secolo, epoca
cui può circoscriversi anche la datazione della serie
modenese25.
Di qualità inferiore, e per questo maggiormente deteriorati dal tempo oltre che dall’uso improprio che ne fu fatto, sono i cinque arazzi raffiguranti le Storie di Giacobbe
(Fig. 14) e i sei pezzi ispirati alle Storie di David anch’essi
realizzati nel terzo quarto del Cinquecento in una manifattura fiamminga, di provincia però, verosimilmente
operante nella città di Oudenarde26.
Sempre in ambito ecclesiastico, un tempo ben più ricco
244
di arredi, rimangono da ricordare i sontuosi arazzi che
papa Benedetto XIV Lambertini donò alla chiesa metropolitana della sua città, Bologna. Il nucleo si compone
di otto pezzi, tutti sottoscritti dall’arazziere romano
Pietro Ferloni che dal 1717 diresse per oltre un cinquantennio la fabbrica pontificia di San Michele. Si tratta di un grande tappeto tessuto ad arazzo donato nel
1742 e destinato a coprire la scalinata dell’altare maggiore recante lo stemma Lambertini circondato da un
elaborato disegno di fiori e rabeschi e di altri quattro
panni raffiguranti le Allegorie delle virtù teologali donati
fra il 1748 e il 1756. Particolare interesse riveste infine il
paramento di tre arazzi raffiguranti Cristo che affida a Pietro la tutela del gregge, la Moltiplicazione dei pani e la Consegna delle chiavi (Fig. 15) tessuti tra il 1741 e il 1746. Manufatti di carattere eccezionale, con le loro dimensioni
monumentali, l’idealizzazione formale delle figure, la
cromia imperniata su toni brillanti e luminosi, essi rappresentano l’esito della collaborazione fra un grande
La grande stagione dell’arazzo
Fig. 15 – La consegna
delle chiavi a San
Pietro. Roma,
manifattura di San
Michele, arazziere
Pietro Ferloni, su
cartoni di Pompeo
Batoni, 1741-1746
ca. Bologna,
Cattedrale di San
Pietro.
pittore come Pompeo Batoni, ideatore dei modelli, e un
esperto artigiano come Pietro Ferloni, che in veste di direttore aveva ridato impulso proprio in quegli anni all’attività dell’arazzeria romana27.
Dopo aver dato lustro per secoli alle lussuose dimore di
principi e regnanti simboleggiandone la ricchezza, le
origini, l’operato, oggi gli arazzi assumono essenzialmente il valore di rare e preziose testimonianze artistiche e storiche. Purtroppo ogni dismissione d’uso si accompagna ad un’inevitabile dispersione dei beni dismessi. Nel caso delle tappezzerie tessute le perdite sono state enormi e come già ricordato in precedenza solo una piccola parte dei beni che un tempo animavano
feste e banchetti, celebrazioni civili e liturgiche è materialmente sopravvissuta ed entrata a far parte del patrimonio museale pubblico. Adempiendo le funzioni che
gli sono peculiari l’Istituto per i Beni Culturali ha destinato cospicue risorse alla valorizzazione di questo patrimonio. Sono da ricordare, in anni recenti, gli inter-
venti di restauro condotti sui due arazzi cinquecenteschi della Galleria Alberoni, esemplari per la qualità dei
risultati, che hanno restituito piena leggibilità ad opere
profondamente segnate dal tempo, oltre che per la formula adottata, quella del cantiere scuola operante sotto
la supervisione della locale Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze,
nonchè dell’Istituto per i Beni Culturali. Interventi di
manutenzione e restauro conservativo erano stati condotti anche in passato sul nucleo di Correggio e su quello dei musei civici riminesi rendendo possibile il riallestimento e quindi la pubblica fruizione di entrambi i
nuclei. È più che mai importante che anche in un prossimo futuro rimanga elevata l’attenzione su questo preziosissimo patrimonio e che da parte di studiosi, enti,
istituzioni, ciascuno per quanto di sua competenza, siano messe in pratica tutte le misure necessarie per farlo
meglio conoscere evitando ulteriori irreparabili perdite o dispersioni.
245
MARTA CUOGHI COSTANTINI
NOTE
1
Finalizzate ad illustrare il patrimonio di arazzi che si conserva nella
nostra regione, queste pagine costituiscono un aggiornamento del breve profilo da me già abbozzato nell’Atlante dei Beni Culturali dell’ Emilia-Romagna. I Beni Artistici, a cura di G. Adani e J. Bentini, Milano 1993, pp. 103118.
2 Sul collezionismo estense e sull’arazzeria ferrarese rimangono fondamentali le ricerche di G. Campori, L’arazzeria Estense, Modena 1876; rist.Modena 1980 e di N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, Milano 1982; si veda inoltre M. Viale Ferrero, Arazzi italiani, Milano 1961, pp. 22-24.
Anche per le serie seicentesche si rimanda a F.Arisi, Gli arazzi, cit. pp.
22-27 e 27-30.
15 A. Ghidini, Il Palazzo, le sue raccolte e gli istituti culturali, in G. Adani, F. Ma-
nenti Valli, A. Ghidini, Il Palazzo dei Principi in Correggio, Milano 1976, p.
99.
16 N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Palazzo dei Principi, in AA.VV., Il Museo Civico di Correggio, Milano 1995, pp. 105-123.
17
5 N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 72-76 e 115-160.
Presentato da G.Delmarcel nel catalogo della vendita L’eredità Necchi
Campiglio, Milano 28 ottobre 2003, pp. 140-141, l’arazzo è stato successivamente studiato da L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’ tessuto a Firenze per il Conte Alfonso I Gonzaga di Novellara, in “Filoforme”, anno IV, n.
9, primavera 2004, pp. 13-19.
6
18
3 N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 97-103.
4 N. Forti Gazzini, Arazzi a Ferarra, cit pp. 105-111.
Su questi temi si vedano Artigianato e oggetti d’artigianato a Modena dal
1650 al 1800, a cura di F. Valenti, Modena 1986, pp. 57-60; F. Valenti, P.
Curti, L’Inventario 1771 dell’arredo del Palazzo Ducale di Modena, Modena
1986; M. Cuoghi Costantini, Gli apparati ducali dell’Inventario del 1663, in
Arredi, suppellettili e “pitture famose” degli Estensi. Inventari 1663, a cura di J
Bentini e P. Curti, Modena 1993.
7 Il patrimonio artistico del Quirinale. Gli arazzi, a cura di N. Forti Grazini, Mi-
lano 1994, pp.456-479.
8 Gli Arazzi dei Farnese e dei Borbone, catalogo della mostra a cura di G. Ber-
L’esistenza delle due lettere, ritrovate di recente nell’archivio di Novellara, mi è stata gentilmente segnalata da Elena Ghidini che ringrazio
inoltre per la cortese disponibilità con cui mi ha segnalato studi e fornito materiale fotografico. Un esame delle fonti archivistiche riguardanti l’arazzo è condotto da S. Ciroldi, La “fabella” di Giasone secondo l’interpretazione di Giovanni Rost (1554) nell’arazzo di Alfonso I Gonzaga, in “Bollettino Storico Reggiano”, Reggio Emilia, Anno XXXVIII, luglio 2005, Fasc. n. 127.
19 L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’, cit. p.17-19.
tini e N. Forti Grazzini, Milano 1998.
20 I panni conservati a Rimini, nove in tutto, in realtà riguardano due se-
9 Su questi due preziosissimi arazzi si veda Il patrimonio artistico del Quirinale. Gli arazzi, a cura di N.Forti Grazzini, Milano 1994, vol. I, pp.183-193;
sul tema del collezionismo farnesiano in generale si rimanda a G. Bertini, Gli arazzi dei Farnese da Paolo III a Dorotea Sofia di Neoburgo, in Gli arazzi
dei Farnese, cit., pp. 41-53.
rie: sette di essi fanno parte del ciclo di Semiramide mentre due raffigurano episodi della vita di Salomone.
10 Gli arazzi dei Farnese, cit., pp. 122-127.
22 M. Cesarini, La serie degli arazzi di Semiramide, cit. p. 24.
11 Le vicende relative al collezionismo d’arazzi in epoca borbonica sono
23 Sulla serie ferrarese cfr. N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, cit. pp. 72-75
e 115-160 e la guida al Museo della Cattedrale di Ferrara, a cura di G. Sassu,
Ferrara 2004, pp. 22-24.
state delineate da G. Bertini e N. Forti Grazzini, Gli arazzi dei Borbone, in
Gli Arazzi dei Farnese e dei Borbone, cit., pp. 61-67; si vedano inoltre le schede di catalogo pp. 154-158 e 181-193; sul tema della ricostruzione del patrimonio ducale parmense, già affrontato da Chiara Briganti, Le raccolte
d’arte del Quirinale, in Il Palazzo del Quirinale, Roma 1974 si vedano i volumi dedicati agli arazzi curati da N.Forti Grazzini già citati alla nota 9.
12 Sulla figura dell’Alberoni si rimanda a Il Cardinale Alberoni e il suo Colle-
gio, Atti del convegno internazionale di studio, Piacenza 2003.
13
Per questi due preziosissimi arazzi si veda F.Arisi, Gli arazzi, in La Galleria Alberoni di Piacenza, Piacenza 1991, pp. 18-19.
246
14
21
I panni riminesi sono stati di recente studiati da M. Cesarini, La serie
degli arazzi di Semiramide nel Museo della Città di Rimini, in “Penelope”,
vol.II, 2004, pp. 13-35.
24
L’importante raccolta è stata recentemente studiata da N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, in Mirabilia Italiae. Il Duomo di Modena,
Modena 1999, pp. 135-472.
25 Cfr. N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, cit. pp. 458-464.
26 N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Duomo di Modena, cit., pp. 464-470.
27 Sugli arazzi di San Pietro si vedano O. Ferrari, Arazzi italiani del Seicento
e Settecento, Milano 1968, p. 22 e Il tesoro di San Pietro in Bologna e papa Lambertini, catalogo della mostra a cura di F. Varignana, Bologna 1997, p. 194.
Repertorio delle raccolte tessili in Emilia-Romagna
GUIDA ALLA LETTURA
Obiettivo privilegiato del repertorio è l’individuazione delle raccolte tessili antiche inclusi i singoli reperti isolati esposti o conservati nelle diverse istituzioni museali presenti sul territorio regionale. Sono escluse le sedi storiche non identificate come museo, ad eccezione di alcuni edifici che per la ricchezza dei loro
apparati e per le modalità che regolano il rapporto con il pubblico si configurano con una titolarità museale. Strutturato per aree geografiche provinciali da Piacenza a Rimini, il repertorio propone una suddivisione interna ordinata per ambiti comunali a loro volta distinti a seconda delle rispettive pertinenze giuridiche e delle diverse tipologie tematiche documentate dai fondi tessili ivi conservati. La pertinenza museale è evidenziata da apposite sigle date nell’ordine seguente: comunale (c), provinciale (p), statale (s), universitario (u), ecclesiastico (e), fondazione (f), privato (p). Ogni scheda descrive le raccolte e i manufatti di
maggior rilievo riportando le attività di studio, conservazione e valorizzazione fondamentali svolte dalle
diverse istituzioni, compresi i riferimenti bibliografici a testi pertinenti all’ambito tessile. Nel repertorio
sono state escluse le informazioni di servizio, oggetto di una banca dati dell’Istituto per i Beni Culturali consultabile on line (www.ibc.regione.emilia-romagna.it). Ogni scheda riporta le sigle dei compilatori, ad eccezione di quelle redatte dalle curatrici.
AUTORI DELLE SCHEDE
L.B.
G.C.
B.C.
F.G.
M.G.
E.L.
L.L.
V.M.
A.M.
B.O.
A.S.
Lidia Bortolotti
Giorgio Cervetti
Barbara Corradi
Francesca Ghiggini
Maura Grandi
Elisabetta Landi
Lorenzo Lorenzini
Vincenza Maugeri
Alessandra Mordacci
Beatrice Orsini
Antonella Salvi
PIACENZA
Musei di Palazzo Farnese (c)
musei sono situati a palazzo Farnese, imponente edificio sito all’interno della cittadella viscontea, la cui edificazione del 1558 fu modificata nel 1589 da Jacopo Barozzi detto Il Vignola su commissione di Margherita d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V e del marito Ottavio
Farnese, secondo duca di Parma e Piacenza. L’edificio incompiuto fino al 1731 con la morte dell’ultimo Farnese,
dopo un lungo periodo di decadenza, fu oggetto di un
complesso e articolato piano di recupero funzionale solo
nel Novecento. Tra i reperti tessili conservati, si menzionano i due superbi arazzi fiamminghi della serie incompleta “Storie di Troia” detta di Priamo di inizio Cinquecento di proprietà del Collegio Alberoni, attualmente in
esposizione temporanea nel Museo Civico piacentino per
consentirne la visione a restauro concluso. Altri manufatti tessili conservati a Palazzo Farnese afferiscono a tre sezioni museali, la medioevale-moderna, i Musei delle Carrozze e del Risorgimento. Alla prima, nello specifico alla
raccolta di armi antiche, appartengono i resti di una rara
giubba militare, detta brigantina, databile tra il XV e il XVI
secolo, in velluto tagliato di seta rossa interamente ricoperta da una corazza a lamelle applicate a cucito a protezione del tronco. Nella seconda sezione, costituita da una
raccolta variegata di carrozze donata dal conte Barattieri
nel 1948 ed eredi e integrata nel tempo da altri esemplari,
si menzionano le eleganti tappezzerie di rivestimento a
motivi geometrici e vegetali stilizzati, tra cui quella di seta operata e lino color ghiaccio della berlina di gran gala
realizzata nel 1879 dal carrozziere Cesare Sala per il re d’Italia con lo stemma dei Savoia dipinto sulle portiere e fuso nelle maniglie di bronzo.
Sempre in questa sezione museale allocata nei sotterranei
I
del palazzo, sono conservati anche alcune livree in panno
di lana e abiti maschili aristocratici in seta ricamata composti da marsine, calzoni con sottovesti e gilet databili tra
la fine del XVIII e il XIX secolo. Per il Museo del Risorgimento, inaugurato nel 1988 nell’ala sud del palazzo, vanno segnalate le uniformi con accessori che documentano
l’epoca risorgimentale piacentina, tra cui si menziona
una giubba della Guardia d’Onore del Ducato di Parma e
Piacenza (1847-1859) e alcuni fazzoletti patriottici.
P. Pinti, L’armeria di Palazzo Farnese a Piacenza, Piacenza 1988, cat.
nn. 43, 44
S. Pronti, Le carrozze. Storia e immagini riviste attraverso la collezione
civica piacentina, Piacenza 1985
Giubba militare detta brigantina, Italia XV-XVI secolo. Velluto di seta
cremisi rivestito da corazza con lamelle di metallo. Musei di Palazzo
Farnese, Museo delle Armi.
REPERTORIO
Basilica di Sant’Antonino, Museo del Capitolo
di Sant’Antonino (e)
Fondato nel 1965 e collocato ora in alcune stanze soprastanti la Sacrestia, il museo conserva diversi oggetti appartenuti alla storia della chiesa tra i quali si può annoverare
un’importante serie di reliquari e corali miniati. Particolarmente ricca e variegata la sezione tessile, in parte esposta ciclicamente all’interno del museo e in parte conservata in apposite cassettiere. La serie di paramenti comprende numerosi apparati in terzo, molti dei quali settecenteschi eseguiti in preziose sete francesi broccate e lanciate,
damaschi, ricchissime tovaglie d’altare ornate da preziosi
merletti, camici e cotte crettate in finissimi lini. Tra i parati la pianeta completamente decorata da racemi fioriti
(inizio XIX secolo) donata da Papa Pio VII alla basilica in occasione di un soggiorno a Piacenza. Sono conservati inoltre diversi paliotti in tessuto, alcuni dei quali in abbinamento ai parati. La grande ricchezza del materiale conservata è in parte giustificata dal succedersi nella basilica di
prevosti provenienti dalle più importanti e nobili famiglie
piacentine che attraverso il loro operato nel corso dei secoli, hanno contribuito alla formazione di questo nucleo
tessile che in molti casi presenta ancora gli stemmi dei casati nobiliari. È anche esposto un campionario molto vario
di merletti a fuselli, ago, uncinetto eseguiti dalla maestra
Maria Ardini (1885-1930) e donato al Museo.
B.C.
Sant’Antonino culla di Piacenza, Piacenza 1986.
Raccolta d’Arte del Collegio dell’Opera Pia
Alberoni (p)
Il Collegio istituito dal cardinale Giulio Alberoni (16641752) per la formazione dei chierici indigenti fu aperto
per volontà del fondatore nel 1751 nell’antico Ospedale di
San Lazzaro alle porte di Piacenza. Oggi è sede dell’ordine
dei padri vincenziani che gestiscono il prestigioso seminario e l’intero patrimonio storico artistico ivi conservato
costituito nella sua parte originaria più cospicua e importante da lasciti del cardinale: le collezioni d’arte (dipinti
italiani e fiamminghi e arredi liturgici) provenienti dalle
residenze romane e piacentine oltre ai gabinetti di fisica,
scienze naturali, metereologia, sismologia e astronomia,
oltre a una importante biblioteca con archivio storico. Tra
le raccolte d’arte primeggia quella di 18 arazzi fiamminghi in lana e seta divisi in tre serie, la prima raffigurante
250
“Le Storie di Troia”, detta anche di Priamo degli inizi del
XVI secolo e le altre due (di 8 arazzi ciascuna) del XVII secolo, raffiguranti la storia di Enea e Didone e le gesta di
Alessandro Magno, i cui cartoni furono dipinti rispettivamente da Gian Francesco Romanelli e Jacob Jordaens nel
1630-35 e tessuti dall’arazziere di Anversa Michiel Wauters e da un arazziere brussellese ignoto della seconda
metà del Seicento. Di tutte le tre serie di arazzi conservate
la più antica e rara è quella di Priamo, composta da due
arazzi di superba bellezza oggi restaurati e temporaneamente esposti al Museo Civico di Palazzo Farnese: è stata
tessuta agli inizi del XVI secolo, con ogni probabilità, dal
grande arazziere fiammingo Jean Van Aelst che eseguì la
serie di arazzi dell’Antico Testamento per il Vaticano, i cui
cartoni furono disegnati da Raffaello.
L’altro nucleo tessile antico di grande rilievo storico-artistico è rappresentato dai paramenti liturgici del cardinale conservati nella sagrestia del Collegio a pianoterra e in
parte esposti insieme agli arazzi e al resto di dipinti in un
edificio adiacente sito nel cortile interno del Collegio
progettato ad hoc dall’architetto Vittorio Gandolfi nel
1964. Tra piviali, pianete tonacelle, stole, manipoli, veli
da calci, veli omerali, paliotti molti dei quali contrassegnati dalle insegne cardinalizie dell’alto prelato piacentino, va menzionato per tutti il prezioso parato in terzo
ricamato d’oro e argento eseguito da Pietro Scilti nel
1751 e il suo corredo di accessori costituito da cappello,
guanti, scarpe e libro pontificale.
F. Arisi, L. Mezzadri, Arte e Storia nel Collegio Alberoni di Piacenza,
Piacenza 1990, pp. 126-163
Il cardinale Alberoni e il suo Collegio. Atti del convegno internazionale
di studi. Celebrazioni Alberoniane 1752/2002, Piacenza 2003
Gli Arazzi Tessuti e paramenti sacri, in Il Collegio Alberoni. Guida
delle raccolte d’arte, a cura di D. Gasparotto, Milano 2003, pp. 6571, 85-87
Museo di Palazzo Costa (p)
Il palazzo oggi sede del “Museo Ambientale del ’700” di
proprietà della Fondazione Horak, appartenne ad una
delle famiglie più in vista piacentine, i Costa, fiorenti
mercanti di tessuti e banchieri di origine genovese che lo
costruirono nel 1688 e lo mantennero per due secoli fino
a quando passò nel 1934 con una vendita all’asta ai Maggi, cui appartiene ancora. È un esempio ben conservato di
architettura e decorazione settecentesca emiliana dove
sono stati inseriti arredi ottocenteschi, tra cui spiccano
per risalto ornamentale le tappezzerie murali a righe in
seta blu e quelle in avorio del letto a baldacchino, origi-
REPERTORIO
nali, della Sala Impero. Altre sale del palazzo presentano
finiture tessili più tarde che comunque creano l’atmosfera tipica di una casa Museo del XVIII e XIX secolo.
PROVINCIA DI PIACENZA
Castell’Arquato - Museo Luigi Illica (c)
Dedicato a Luigi Illica (1857-1919), noto librettista, commediografo e giornalista, nativo di Castell’Arquato, questo museo è stato istituito negli anni Sessanta. Ospitato
dapprima nel Torrione del Duca, trova in tempi recenti
sede definitiva a poca distanza dalla stessa casa natale di
Illica.
Completamente riordinata e ridefinita nell’allestimento
del percorso espositivo, la raccolta consente di ricostruire la vita e l’opera di un personaggio dalla vita romanzesca e avventurosa, figura emblematica nel panorama culturale italiano di fine Ottocento inizio Novecento; significativo autore di testi per i più importanti melodrammi
italiani dell’epoca post-verdiana, tra cui l’Andrea Chènier
musicato da Umberto Giordano, Iris, Isabeau e Le maschere
per Pietro Mascagni, nonché La Bohème, Tosca e Madama
Butterfly (scritti in collaborazione con Giuseppe Giacosa)
e Manon Lescaut per Giacomo Puccini.
Tra i materiali esposti lettere autografe, materiali fotografici, bozzetti, locandine, si segnalano tre pregevoli kimono in seta operata policroma, dono di due famose interpreti del sec. XX: Fedora Barbieri e Rosetta Pampanini.
L.B.
Castell’Arquato - Museo della Collegiata (e)
Istituito nel 1932 dopo i lavori di ripristino della chiesa
romanica e completamente rinnovato nel 1994, il Museo
documenta la storia della Collegiata di Santa Maria Assunta attraverso un cospicuo patrimonio d’oggetti d’arte
ed arredi liturgici.
Particolarmente significativo è il settore dei tessili. Oltre
a paramenti sei-settecenteschi confezionati con tessuti
preziosi di probabile manifattura lionese, si segnalano alcuni manufatti rari, veri e propri pezzi unici, la cui presenza è legata alle vicende storiche di questo territorio.
L’opera più antica è costituita da due pannelli raffiguranti la comunione degli apostoli sotto le due specie, un ricamo eseguito in oro, argento e sete policrome su sciamito di seta rossa. Fissati su di un damasco settecentesco
di colore avorio per formare un paliotto d’altare, in origine facevano parte di un velo liturgico eseguito verosimilmente da maestranze bizantine tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo. Il prezioso ricamo fu lasciato in eredità
alla chiesa di Castell’Arquato dal Patriarca di Aquileia Ottobono Rosario dè Feliciani che qui si era rifugiato alla fine del 1314 per sfuggire alle minacce di Galeazzo Visconti e che qui morì agli inizi dell’anno successivo. Nel museo si conserva, inoltre, il capino con cappuccio in velluto di seta cremisi di papa Paolo III (Alessandro Farnese)
che secondo la tradizione lo indossò durante la celebrazione della messa, in occasione della visita effettuata a Castell’Arquato nel 1543. Si segnala, infine, un piviale in tessuto di seta avorio con cappuccio e stolone ricamati in
oro, argento e sete policrome. Il ricamo, riferibile al primo quarto del XVI secolo ed eseguito con la tecnica dell’oro velato, esemplifica una tipologia assai nota ma scarsamente documentata nella nostra regione.
Il Museo della Collegiata di Castell’Arquato, a cura di P. Ceschi
Lavagetto, Piacenza 1994.
Castel san Giovanni - Villa Braghieri (c)
Eretta alla fine del Seicento e terminata nel Settecento come casino di campagna del nobile piacentino conte
Chiapponi, tra Otto e Novecento passò ad altri esponenti
dell’alta borghesia di provincia. Gli ultimi furono i coniugi Braghieri che lasciarono la villa, sobria e imponente all’esterno ma elegante e raffinata nei decori interni,
con le pertinenze agricole annesse, all’Ente Comunale di
Assistenza e Beneficenza locale. Divenuta proprietà comunale nel 1996, da allora ad oggi è oggetto di un recupero finalizzato a sede di servizi e di manifestazioni culturali atti a promuovere la conoscenza della Val Tidone.
Vera e propria casa-museo, l’edificio conserva vestiti e arredi appartenuti alle famiglie che la abitarono e a personaggi famosi come Giuseppe Verdi che vi fu ospite nel
1859. Novità recente è l’acquisizione, con progetto espositivo in corso, di oggetti e manufatti anche tessili donati
dal cardinale Agostino Casaroli alla sua città natale.
251
REPERTORIO
Gazzola - Museo del castello di Rivalta (p)
Sorto in epoca medievale su di un precedente presidio romano, il castello di Rivalta costituisce uno degli esempi
più interessanti di architettura militare medievale dell’Emilia occidentale. Dopo numerosi passaggi di proprietà, dalla fine dell’Ottocento appartiene ai conti Zanardi Landi.
La nutrita presenza di memorie storiche, lo stato di buona conservazione delle strutture architettoniche e degli
apparati decorativi unitamente alla ricchezza degli arredi rende particolarmente suggestivo il percorso museale
che comprende numerose stanze: il salone d’onore e la
camera da pranzo, la sala da gioco e la cucina, la camera
del falcone – dove si conserva un letto a baldacchino – e la
scuderia, i sotterranei e le segrete. Nella sala delle armi è
esposta una interessante raccolta di armi antiche e moderne insieme ad importanti cimeli della battaglia di Lepanto (1571) fra cui tre grandi bandiere ricamate con gli
stemmi degli Scotti di Sarmato.
Nell’ambito del museo è stato infine allestito uno spazio
dedicato all’esposizione di divise e uniformi militari di
varie epoche ed armi, dalla marina alla cavalleria, dagli
ambasciatori alle dame inserite in un percorso storicodocumentario dove non mancano elementi scenografici
come la ricostruzione di figure a cavallo.
Ottone - Museo d’Arte Sacra (e)
Fondato nel 2000 e aperto al pubblico nel 2001, il Museo
conserva non solo un’antichissima campana bronzea del
XIV secolo, ma anche dipinti, arredi sacri, tra cui un’importante selezione di argenteria e paramenti tessili provenienti dalle chiese di Ottone e Ottone Soprano. Tra i
manufatti tessili un bellissimo parato del XVIII composto di una pianeta, tonacelle, stola e piviale in gros de Tours
liseré broccato completamente decorato da un ricamo in
252
sete policrome, recante lo stemma della famiglia Doria,
utilizzato nelle messe solenni e in occasione delle visite
di famiglie nobili; ma ancora altri parati, del XVIII e XIX
secolo in sete operate, broccate tra cui due piviali in velluto cesellato a più corpi sfumati e un piccolo paliotto di
manifattura locale, sempre del XIX secolo, ricamato e dipinto.
B.C.
Villanova sull’Arda - Villa Verdi Sant’Agata (p)
Acquistata dal grande musicista nel 1848, ed abitata dal
1851 con la seconda moglie, la celebre cantante lirica
Giuseppina Strepponi, villa Verdi costituisce un interessante esempio di residenza borghese del XIX secolo. Il
percorso museale interessa solo una parte dell’edificio,
abitato ancora oggi dagli eredi secondo la volontà del
maestro, e si prefigge di documentare oltre all’attività del
grande compositore, la sua complessa personalità.
L’edificio conserva interessanti arredi d’epoca sia nella
stanza da letto della Strepponi, arredata con un imponente letto a baldacchino in stile genovese, sia nello studio-camera da letto del grande musicista anch’essa caratterizzata da ricchi tendaggi e da un letto con baldacchino
a parete. In questa stanza, una delle più suggestive del
percorso museale, sono conservati anche effetti personali del maestro come la cappelliera con il suo cilindro o i
guanti utilizzati per dirigere la Messa di Requiem eseguita il 22 maggio 1874 a Milano in memoria di Alessandro
Manzoni. Nello spogliatoio della moglie poi, entro un armadio, si conservano ancora i suoi vestiti. Infine, si segnala la camera da letto dell’Hotel de Milan, l’albergo di
Milano dove Verdì morì nel 1901 e i cui arredi furono trasportati presso la villa.
PARMA
Il Castello dei Burattini - Museo Giordano
Ferrari (c)
osto all’interno dell’ex complesso conventuale di San
Paolo, questo Museo, di recente istituzione, conserva
ed in parte espone la straordinaria raccolta di Giordano
Ferrari, esponente dell’omonima famiglia di burattinai
parmensi, una delle più rilevanti compagnie italiane del
teatro di figura la cui attività fu avviata dal capostipite
Italo attorno al 1892.
Nell’ideazione del percorso espositivo, che si snoda in
cinque sale, si è tenuto conto della principale caratteristica tipologica della collezione che, pur essendo stata la
prima a riunire le diverse tipologie materiali di questa
particolare forma di spettacolo, ha privilegiato i suoi protagonisti, ossia i burattini e le marionette. L’esposizione è
stata pertanto organizzata secondo un duplice itinerario:
al centro delle sale sono state poste le marionette suddivise per compagnie e disposte in ordine cronologico;
mentre i burattini sono stati collocati lungo le pareti, ordinati secondo l’area geografica di provenienza. La ricchezza e la varietà degli oggetti esposti consente al visitatore di confrontare le diverse tradizioni del teatro d’animazione (quello italiano in particolare) osservando “da
vicino” i fantocci, sintesi dei valori culturali ed estetici,
nonché delle tecniche costruttive di chi li ha realizzati ed
animati. Ai Ferrari è stata dedicata l’ultima sala del Museo evidenziando le diverse tendenze estetiche dei burattini di famiglia, di cui è assai rilevante, oltre alle diverse
varietà di teste scolpite, la confezione degli abiti, a lungo
curata da Maura, sorella di Giordano.
I circa 500 pezzi esposti, principalmente burattini e marionette, ma anche teste, oggetti di scena, fotografie e manifesti rappresentano solo una significativa porzione del-
P
l’ampio patrimonio, sia quello prodotto dalla Famiglia
Ferrari in oltre cento anni di attività ma, soprattutto, da
elementi di diversa provenienza confluiti nella collezione grazie anche alle elargizioni di altri artisti; cui di recente si è aggiunta la raccolta donata dagli eredi del giornalista e scrittore bolognese Franco Cristofori, particolarmente attento a questo ambito culturale.
L.B.
Casa natale di Arturo Toscanini (c)
La modesta casa dove nel 1867 nacque Artuto Toscanini
oggi è sede di un percorso espositivo dedicato alla memoria del maestro. L’edificio fu acquistato dai figli del direttore e donato al Comune di Parma che ne ha curato il
recupero e la ristrutturazione. Prendendo spunto dall’organizzazione della casa, l’allestimento museale è articolato in stanze tematiche che ripercorrono la vita privata
e professionale del grande musicista. Nella “Stanza del divano” sono riuniti oggetti personali di Toscanini, fra cui
le giacche da direttore d’orchestra, alcuni cappelli e bastoni. Vi figurano inoltre costumi di scena provenienti
dalla donazione del baritono Giuseppe Valdengo e da
quella del tenore Aureliano Pertile.
Museo Archeologico Nazionale (s)
Il Ducale Museo d’antichità fu fondato nel 1760 da don Filippo di Borbone a Parma, allora capitale del Ducato, in
REPERTORIO
concomitanza con l’avvio dell’esplorazione del municipio romano di Velleia. Il Museo Archeologico Nazionale di
Parma occupò, a partire dalla prima metà dell’Ottocento,
l’ala sud-occidentale del Palazzo della Pilotta dove si trova
ancora oggi. Al primo piano, oltre ai materiali velleiati e
alle collezioni acquistate nell’Ottocento, sono esposti i
marmi della raccolta Gonzaga e Farnese. Il pianoterra, invece, ospita la sezione pre-protostorica con i materiali
provenienti dagli insediamenti parmensi dell’età del
bronzo (terramare) e il complesso funerario della seconda età del ferro da Fraore. In questa sezione si trova l’unico frammento di tessuto proveniente da un contesto terramaricolo; si tratta di un frammento in lana di cm 8x4
rinvenuto nella terramara di Castione dei Marchesi databile a un periodo compreso fra bronzo medio e recente.
B.O.
CSAC – Centro Studi e Archivio della
Comunicazione (u)
Il Centro Studi e Archivio della Comunicazione è una
emanazione dell’Università degli Studi di Parma. Esso nasce alla fine degli anni Settanta, ufficialmente nel 1986,
con lo scopo di raccogliere, conservare, catalogare materiali afferenti alla cultura contemporanea. Nato come
piccola raccolta, oggi lo CSAC vanta nei suoi archivi una
quantità ingente di dipinti, materiali fotografici, sculture e opere di design organizzati in cinque diverse sezioni:
Arte, Progetto, Fotografia, Media, Spettacolo.
La sezione Media comprende anche il Museo della Moda,
ricco di oltre 70.000 pezzi tra disegni e abiti di stilisti contemporanei. Vi sono documentati i nomi più importanti
quali Armani, Moschino, Ferré, le Sorelle Fontana, Krizia,
Soprani, ecc. Sono presenti due abiti di Valentino, oltre
duecento costumi teatrali di Piero Faraoni e abiti con accessori, scarpe e cappelli di Albini. Attualmente lo CSAC
ha sede nel Padiglione Nervi (costruito nel 1953 su progetto di Pier Luigi Nervi) in attesa che venga completata
la ristrutturazione dell’Abbazia Cistercense di Valserena,
un complesso situato nelle vicinanze di Parma individuato quale sede definitiva del centro.
254
Museo d’arte Cinese ed Etnografico (e)
Il Museo di Arte Cinese ed Etnografico di Parma viene allestito nel 1900 per volontà di Mons. Conforti, vescovo
della città, presso la sede dell’Istituto dei Padri Saveriani
per le Missioni Estere per far conoscere i materiali provenienti dalla Cina e da quei Paesi extraeuropei nei quali i
Padri Saveriani hanno svolto la loro opera di evangelizzazione: Messico, Amazzonia, Africa. Tra le numerose collezioni di cui si è arricchito il Museo nel corso del tempo bronzi, ceramiche, dipinti, avori, monete - compare anche una raccolta di tessuti composta da qualche centinaio di pezzi. Prevale fra tutti, per maggior pregio e per
più antica datazione (XVIII-XIX), il nucleo di antichi manufatti cinesi in seta ricamata che rappresenta una significativa documentazione non solo della storia del costume, ma anche degli sviluppi dell’arte tessile dell’antica
Cina. Riportati recentemente ad un ottimale stato conservativo attraverso un delicato intervento promosso
dall’IBC, i manufatti più importanti di questo nucleo
comprendono due sontuosi abiti imperiali riccamente
decorati con draghi ed altri motivi della tradizione cinese, un raro abito da sacerdote taoista, una cappa mandarinale in panno di lana rossa con ricchi ricami in sete policrome, un abito da teatro, un prezioso coprispalle per
abito da sposa ed alcune minuscole borsette portaprofumi di raffinata tecnica esecutiva. Accanto a questi particolari pezzi di indiscusso pregio, il Museo possiede una
ricca collezione di manufatti sempre cinesi ascrivibili al
genere del ricamo popolare diffusosi in Cina dopo il XVII
secolo, nei quali si riconosce la prevalente funzione di
uso pratico sebbene non venga mai trascurata la funzione ornamentale con differenti tecniche e livelli di preziosità. Si tratta di oggetti per uso personale o per farne dono nelle varie occasioni: centrini, copricuscini, borsette,
scarpette, portaventagli e piccoli arazzi.
Più piccolo ma ugualmente significativo il nucleo dei
manufatti tessili etnici, risalenti per lo più al XX secolo,
che testimoniano l’arte e le tecniche utilizzate da culture
lontane dell’Asia, dell’Africa e America Latina. La tipologia prevalente è quella dei tessuti, in prevalenza in cotone, per abbigliamento (borse, perizomi, gonne, etc.) ed
alcuni per arredo a carattere sacro e rituale. Si evidenziano tessuti in fibre vegetali e tapa, tessuti con ornamenti
plumari e batik.
A.S.
REPERTORIO
Abito imperiale proveniente dal Palazzo d’Estate di Pechino, Cina, 1736-1796. tessuti operati in lino avorio, sete policrome e lamelle cartacee.
Palazzo Vescovile (e)
Recentemente nel Palazzo Vescovile è stata allestita una
“Stanza dei tessuti” dotata di appositi armadi in cui sono
stati raccolti e riordinati i paramenti e manufatti tessili
provenienti dalla Cattedrale, da alcune chiese di Parma,
e da parrocchie della diocesi parmense. È stato infatti
durante la schedatura promossa dalla CEI che si è sentita l’esigenza di raccogliere parte del materiale riscoperto che necessitava di particolari riguardi o che rischiava
di essere abbandonato. Per quanto riguarda la Cattedrale, il materiale che si è preservato nel corso dei secoli, ora
in corso di studio e catalogazione, è solo una modesta
manifestazione della ricchezza testimoniata dalle fonti
e dagli inventari. Si possono comunque annoverare parati legati alla figura dei vescovi succedutosi all’episcopato, quali il Vescovo Carlo Nembrini (1652-1677) Camillo Marazzani (1711-1760) Adeodato Turchi (17881804), particolarmente ricchi e preziosi per tipologia
tessile e decori. Sono presenti inoltre alcuni damaschi
seicenteschi, diverse tipologie di sete operate settecentesche, parati ornati da importanti ricami floreali che rimandano a manifatture locali.
B.C.
Santuario di Santa Maria della Steccata (e)
Splendido esempio dell’architettura rinascimentale parmense, la chiesa della Steccata sorse su un terreno già anticamente venerato per una tradizione popolare. La costruzione del monumento, iniziata nel 1521, si protrasse
fino al 1539, anno in cui la chiesa venne consacrata. Nonostante le numerose aggiunte sei-settecentesche, nella
chiesa prevale l’aspetto rinascimentale sottolineato dal-
255
REPERTORIO
la ricca decorazione pittorica cui parteciparono, oltre al
Parmigianino, noti artisti dell’epoca.
La “Camera Sancta” ovvero “Nobile Sagrestia” fu eretta fra
il 1665 e il 1670. Si tratta di un’ampia aula rettangolare resa più maestosa dai ricchissimi armadi di legno che ricoprono con continuità tutte le pareti, opera dell’intagliatore milanese Giovan Battista Mascheroni e dei quadraturisti Carlo Rottini e Rinaldo Torri.
In questi eccezionali contenitori, la cui ricchezza decorativa nulla toglie alla funzionalità, si conserva l’ampio corredo di paramenti sacri di cui la chiesa si è dotata nel corso dei secoli: un patrimonio di oggetti – pianete, tonacelle, piviali, paliotti, camici ecc.- databili fra la fine del XVI
e il XIX secolo che documentano l’evolversi del gusto in
campo tessile, non solo in ambito liturgico ma anche nell’arredo e nell’abbigliamento laico da cui molto spesso si
ricavavano le sacre vesti.
In questo contesto rivestono particolare interesse alcuni
corredi ricamati di cui si conoscono datazioni e provenienze: un parato in terzo completo di paliotto per l’altare
caratterizzato da un suntuoso ricamo d’oro eseguito nel
1706 dal ricamatore romano Federico Nave; un piviale di
gusto marcatamente naturalistico ricamato in sete policrome nel 1719 dalle Zitelle della Pietà di Parma; un paliotto recante il simbolo dell’Ordine Costantiniano di San
Giorgio commissionato nel 1832 al ricamatore milanese
Giacomo Cesati per completare un parato già esistente.
M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, I Tessuti in “Per uso del
santificare ed adornare”. Gli arredi di Santa Maria della Steccata, a
cura di L. Fornari Schianchi, Parma 1991, pp. 113-227
ricorrenze ufficiali, confezionata in tulle e garza di seta
avorio e ricamata con filati d’argento a motivi di cornucopie e tralci d’uva, simboli di abbondanza e prosperità
che paiono alludere al felice governo della sovrana. Completata da un manto di seta marezzata azzurra che presenta un lungo strascico e replica sul bordo il motivo ricamato della gonna, l’insieme della veste è databile fra
1820 e 1840. Un complesso intervento di restauro, condotto fra 2004 e 2005, ha posto rimedio al forte degrado
conservativo in cui si trovava l’importante reperto nuovamente esposto con criteri di allestimento confacenti
alla delicatissima natura dei materiali. Il secondo abito è
realizzato in garza di seta color perla con ricami a motivi
floreali in filati metallici argento. Il restauro eseguito fra
1996 e ’97 ha consentito di recuperare la foggia assunta
dall’abito intorno al 1830, a seguito del suo adattamento
alla figura di un’adolescente, forse Albertina, la figlia di
Maria Luigia.
Appartennero alla duchessa anche i corredi e schemi da
ricamo che si conservano nel museo e che la sovrana ordinava a Parigi dal suo fornitore di fiducia nonché i numerosi lavori a punto croce su canovaccio eseguiti dalla
sovrana cui si deve anche la realizzazione di berretti, borse e bordure all’uncinetto e probabilmente di un impegnativo tappeto da tavolo ricamato con perline e decorato da fiori e uccelli.
L’abito ritrovato, Museo Glauco Lombardi. Quaderni del Museo
n. 1, a cura di F. Sandrini, Parma 1999
PROVINCIA DI PARMA
Museo Glauco Lombardi (f)
Il museo conserva opere d’arte, arredi, suppellettili e documenti raccolti dal collezionista colornese Glauco Lombardi con l’intento di documentare la storia della Parma
borbonica e ludoviciana (1748-1859). Fu istituito nel
1915 a Colorno, in alcune sale del Palazzo Ducale, e trasferito nel 1961 nel Palazzo di Riserva a Parma dove
tutt’oggi si può visitare. Il museo si configura come fondazione intitolata all’iniziatore della raccolta sotto l’egida del Comune e della Fondazione Monte di Parma.
Il museo vanta un discreto patrimonio tessile composto
da abiti ed accessori per l’abbigliamento, cimeli risorgimentali, oggetti d’arredo, corredi da ricamo.
Per la storia del costume e della moda rivestono particolare interesse due abiti appartenuti a Maria Luigia. Si tratta di una veste da cerimonia utilizzata dalla duchessa in
256
Bardi - Museo della Civiltà Valligiana (c)
Il Museo della Civiltà Valligiana, istituito nel 1976 dall’Associazione Studi e Ricerche dell’Alta Val Ceno, è allestito con il Museo del Bracconaggio e delle Trappole nel
castello di Bardi, arroccato su uno sprone di diaspro rosso a picco sul torrente Ceno. La fortezza, che rappresenta
un esempio pressoché intatto di edilizia difensiva, è documentata dall’869. Nel XIII secolo fu dei Landi di Piacenza, che rimasero signori di Bardi fino al 1682, quando
il complesso passò ai Farnese. In quel periodo la rocca fu
la sede amministrativa ed economica del territorio, illustrato per l’appunto dalle sezioni museali. Situato negli
alloggi delle guardie, il percorso espositivo del museo ricostruisce, grazie ad un criterio di rievocazione ambien-
REPERTORIO
tale, le arti e i mestieri praticati nella vallata. Due fusi, una
conocchia, due pettini da lino, una gramola, un arcolaio,
un cardatore ed un incannatoio testimoniano, tra gli attrezzi presentati, alcuni aspetti del lavoro e della tessitura rurale finalizzata alla produzione di tessuti di uso domestico e popolare.
E.L.
Provincia di Parma con il sostegno della Regione EmiliaRomagna.
Fanno parte di questo patrimonio di oggetti, che si stima
possa raggiungere le 60.000 unità, anche numerosi reperti
tessili. Si tratta di tappeti, di costumi, di abiti ed accessori
per l’abbigliamento, di strumenti per la tessitura che nel loro complesso offrono una testimonianza preziosa sul modo di vestire nel mondo contadino e sulla tessitura rurale.
A.M.
Berceto - Museo del Tesoro del Duomo (e)
L’Abbazia, fatta erigere dal re Liutprando (712-744), rappresentò un’importante postazione sulla via Francigena.
Nel 719, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, vi si fermò
Moderanno, vescovo di Rennes che ne divenne il primo
abate. Costruito fra XII e XIII secolo, il duomo fu riedificato
nel XV secolo per volere dei Rossi; altri nuovi cantieri seguirono nei secoli successivi. Nel 1729, dove sorgeva il
chiostro monastico e poi canonicale, fu realizzata la Cappella di Santa Apollonia, trasformata successivamente nel
Museo del Tesoro. L’esposizione, inaugurata nel 1991, comprende i reperti provenienti dalla chiesa più antica, oreficerie sacre e svariati paramenti fra i quali il piviale ritenuto di San Moderanno. Il grande manto, uno sciamito monocromo in seta di colore verde screziato in giallo, è profilato lungo il bordo da un raro e prezioso sciamito operato
anch’esso in seta a fondo rosso intenso con disegno in blu
scuro e giallo senape. Il tessuto del bordo è contrassegnato
da un complesso motivo decorativo composto da due diverse coppie di animali fantastici affrontati davanti all’albero della vita e da coppie di fagiani e galli racchiusi entro
orbicoli. Studi recenti assegnano il reperto ad una manifattura spagnola dell’VIII-IX secolo (Cfr. in questo stesso volume D. Devoti e G. Meucci).
Collecchio - Museo Ettore Guatelli (p)
Ubicato nella casa colonica di Ozzano Taro, dove Ettore
Guatelli nacque e visse tutta la vita, il museo documenta il lavoro contadino e artigianale attraverso oggetti
d’uso comune raccolti dal dopoguerra ad oggi. Attrezzi
agricoli e artigianali, suppellettili e capi di vestiario,
giochi, strumenti musicali, documenti fotografici, sono
accorpati secondo criteri di funzionalità ma soprattutto estetici creando effetti compositivi di grande suggestione. Nel 2001 la collezione è stata acquistata dalla
Compiano - Musei del Castello (c)
Risalgono al IX secolo le origini di questo castello appartenuto dalla metà del Duecento alla famiglia Landi, la
quale vi costituì un piccolo principato indipendente
mantenuto per oltre quattrocento anni, fino al 1682
quando il territorio fu ceduto ai Farnese. Perduta la sua
funzione difensiva e di controllo del territorio, sotto Maria Luigia fu adibito a prigione per i carbonari parmensi
coinvolti nei moti risorgimentali del 1821, quindi fu trasformato in collegio femminile. Nel dopoguerra fu acquistato dalla marchesa Lina Raimondi Gambarotta che
in parte lo adibì a residenza privata; nel 1987 anno della
sua morte il castello passò, per lascito testamentario della proprietaria, al Comune di Compiano che provvide a
rendere visitabili queste stanze. Il Museo Marchesa Gambarotta è costituito da una serie di ambienti arredati con
mobili antichi di differenti stili e varia provenienza, dipinti, arazzi, tendaggi, manufatti d’arte orientale e suppellettili in genere che, nell’insieme, rispecchiano il gusto decadente dell’ultima proprietaria, amica, tra l’altro,
di Gabriele D’Annunzio.
Dal 2002 ha inoltre trovato sede in tre sale di questo castello il Museo Internazionale Orizzonti Massonici, in cui
sono raccolti preziosi cimeli relativi sia alla massoneria
inglese del ’700-’800 che di provenienza italiana.
L.B.
Compiano - Museo degli Orsanti (p)
Il museo è dedicato ad una particolare categoria di emigranti proveniente dalla Valtaro e dalla Valceno, i cosiddetti Orsanti. Alla ricerca di migliori condizioni di vita
257
REPERTORIO
queste genti, originarie dell’Appennino parmense, si specializzarono nell’ammaestramento di animali quali scimmie, cani, uccelli, orsi e cammelli con cui percorsero la penisola e l’intera Europa dando spettacolo nelle pubbliche
piazze e nelle fiere, esibendosi sia con le bestiole ammaestrate ma anche suonando vari strumenti talvolta contemporaneamente, che vendendo le più disparate merci.
Nel museo ne è documentata l’attività attraverso numerose foto storiche e strumenti, sono inoltre esposti alcuni abiti per gli animali, costumi da saltimbanco e un particolare copricapo in metallo.
L.B.
Fidenza - Museo del Risorgimento Luigi
Musini (c)
Il museo, istituito nel 1965 in Palazzo Porcellini e riallestito nell’ex-convento settecentesco delle Orsoline sede
di varie istituzioni culturali civiche, annovera, tra i numerosi materiali conservati ed esposti (867 ca), la collezione importante del garibaldino Luigi Musini (18431903) donata al Comune dai discendenti del patriota piacentino, costituita da armi, cimeli, medaglie e fotografie,
compresi diversi manufatti tessili rappresentati da bandiere e uniformi militari.
Fidenza - Museo Diocesano del Duomo (e)
Realizzato nel 2000 grazie agli stanziamenti per il Giubileo e al finanziamento della Fondazione Monte di Parma,
il museo si articola in due sezioni ubicate rispettivamente all’interno del Palazzo Vescovile, ove si conservano i resti del Tesoro di San Donnino, e nel Matroneo della Cattedrale dove sono esposti.
Il Museo conserva un ricco corredo di parati liturgici provenienti prevalentemente dal Duomo ma anche dal Seminario e da una soppressa opera pia di Salsomaggiore. Il
progetto museografico, non ancora completato, ne prevede l’esposizione parziale, secondo un criterio di rotazione.
Perduti i pezzi più antichi, medievali e rinascimentali, attestati invece negli inventari di sagrestia, il patrimonio
tessile è oggi costituito da numerosi parati di diversi colori liturgici pertinenti ad un arco cronologico compreso
fra XVII e inizi del XX secolo. Essi documentano le princi-
258
pali tipologie tecniche e decorative elaborate nelle manifatture italiane ma anche straniere, soprattutto francesi,
in tale periodo.
Costituiscono un nucleo a parte, assegnabile ad artigiani
locali, le serie di parati completi riccamente ricamati in
seta, oro e argento, recanti gli stemmi episcopali dei vescovi in carica: Gaetano Gariberti (1675-84), Nicolò Caranza (1686-97), Giulio Della Rosa (1698-99), Severino
Antonio Missini (1732-53), Girolamo Bajardi (1753-75),
Alessandro Gariberti (1776-1813), Luigi Sancitale (181736), G. Guindani (1873-80) e Mario Vinello (1930-55).
D’eccezionale rilevanza è il corredo tradizionalmente
detto “di San Bernardo” completo di pianeta, stola, manipolo, velo da calice, borsa per corporale e paliotto d’altare decorato da un suntuoso ricamo in sete policrome, oro
e argento. La parte anteriore della pianeta raffigura San
Benedetto, semisdraiato, tra figure di vescovi; quella posteriore l’albero di Jesse e la Vergine con i patriarchi; al
centro del paliotto compare invece San Bernardo abate,
affiancato da due monache. Artefici del finissimo lavoro,
che si protrasse per oltre un quarantennio, dal 1687 al
1730, furono le monache del monastero cistercense di
San Bernardo.
A.M.
A. Mordacci, Tessuti, in Il Museo del Duomo. Museo Diocesano di
Fidenza, a cura di G. Gregari, Parma 2003, pp. 80-83.
Langhirano - Museo del Risorgimento
“Faustino Tanara” (c)
Il museo, attualmente non visitabile, è situato all’ultimo
piano del Palazzo Comunale, notevole edificio con torri
angolari e portici-loggiati. Raccoglie materiali provenienti da donazioni private, documenti dell’archivio comunale e documenti in copia dell’Archivio di Stato di Parma che ricostruiscono il periodo risorgimentale e la vita
langhiranese dell’Ottocento, caratterizzata dalla presenza di un forte movimento garibaldino repubblicano. Sono esposti importanti cimeli risorgimentali e documenti sulla vita e le imprese di Faustino Tanara. È previsto in
futuro il trasferimento del Museo nel nuovo Centro Culturale Polivalente di via Cesare Battisti.
Nel Museo si conservano diversi materiali tessili: esemplari delle divise per i funzionari parmensi istituite da
Carlo III di Borbone (1853); cimeli della Fratellanza Artigiana Langhiranese (labari, grande e piccolo) e della So-
REPERTORIO
259
cietà Femminile di Mutuo Soccorso (bandiera, fazzoletto,
coccarda, fiocco) databili al 1907 circa; camicie rosse e
berretti garibaldini; una bandiera della Legione Tanara;
infine, nastri di medaglie.
A.M.
Langhirano - Castello di Torrechiara (p)
Costruito da Pier Maria Rossi tra il 1448 e il 1460 sulle rovine di una precedente casaforte, il Castello di Torrechiara
è uno degli esempi più significativi e meglio conservati in
Italia di architettura castellana del XV secolo. La ricchezza
dei cicli affrescati da Cesare Baglione (XVI-XVII sec.) e la
straordinaria “Camera d’Oro” cosiddetta per le formelle in
terracotta un tempo rivestite d’oro puro ne attestano la
destinazione residenziale. Qui, gli affreschi attribuiti a Benedetto Bembo narrano la delicata storia d’amore tra Pier
Maria e l’amante Bianca Pellegrini celebrando al contempo la potenza della casata attraverso la raffigurazione di
tutti i castelli del feudo rossiano.
Nulla rimane in loco degli arredi del castello, dispersi dagli ultimi proprietari intorno al 1910. Tuttavia, in una sala vicina alla Camera d’Oro, è stato collocato il suo rifacimento, eseguito nell’ambito dell’Esposizione Nazionale
ed Etnografica di Roma del 1911.
L’unico, ma rilevante, manufatto tessile esistente presso
il Castello di Torrechiara è una coperta per talamo nuziale realizzata per tale occasione. Il Castello è di proprietà
statale, la coperta e tutti gli arredi della Camera d’Oro ricostruita appartengono alla Provincia di Parma.
A.M.
La camera d’Oro di Torrechiara 1464-1911. Restauro, riallestimento e
nuova presentazione della Camera d’Oro ricostruita per l’Esposizione
Nazionale ed Etnografica di Roma, a cura di Alessandra Mordacci,
Parma 2004
Soragna - Museo Ebraico “Fausto Levi” (p)
Coperta per talamo nuziale, Milano 1910-1911. Lampasso lanciato in
seta avorio e oro filato con stemma dei Rossi ricamato in sete
policrome, oro e argento, ispirato al decoro delle formelle in
terracotta dorate che rivestivano le pareti della Camera d’Oro.
Langhirano (Parma), Castello di Torrecchiara, Camera d’Oro.
mentano le vicende storiche delle comunità ebraiche del
territorio piacentino e parmense, dai primi insediamenti a metà del XVI secolo fino alle persecuzioni razziali e alla Shoà. Una nuova sezione, inaugurata nel 2001, ha un allestimento didattico che illustra, attraverso oggetti e materiali, la vita, gli usi e le tradizioni ebraiche. Al primo
piano, nel vestibolo dell’aula sinagogale, in alcune vetrine sono conservati oggetti legati al culto, come argenti e
rotoli della Legge (sefarim), coi loro rivestimenti.
Piccola, ma molto preziosa la raccolta dei tessuti legati al
rito, una decina di pezzi databili dalla fine del XVII alla
metà del XIX secolo, tra i quali vanno segnalati un meil
(manto per la Torah) in raso ricamato datato 1697, il più
antico che si conservi nel territorio emiliano romagnolo;
una singolare atarah (corona per la Torah) realizzata in raso liseré broccato di manifattura francese del primo ventennio del XVIII secolo; due tallitot (scialli per la preghiera) ottocenteschi, con bordi ricamati. La piccola raccolta
di tessuti è in discreto stato di conservazione.
V.M.
Il Museo Ebraico di Soragna è stato istituito nel 1982 e successivamente intitolato a Fausto Levi, il suo fondatore.
Il percorso museale, comprendente la Sinagoga del 1855,
edificio di elegante impostazione neoclassica, si sviluppa su due piani e si articola in diverse sezioni che docu-
259
REPERTORIO
Soragna - Rocca dei Meli Lupi (p)
La Rocca di Soragna costituisce un eccezionale esempio
di casa-museo per la ricchezza delle opere e lo sfarzo degli arredi che essa contiene. Fatta edificare nel 1385 dai
marchesi Bonifacio e Antonio Lupi, fu ammodernata ed
adeguata nel corso del tempo alle nuove esigenze abitative dai loro discendenti che tutt’oggi ne detengono la proprietà.
Le tappezzerie conservate all’interno della Rocca sono
numerose e diversificate e comprendono tessuti e ricami
databili fra XVII e XIX secolo utilizzati come rivestimento parietale o copertura per poltrone, divani, sgabelli.
Particolare rilievo per la storia del tessile riveste l’appartamento del piano nobile, fatto allestire da Giampaolo
Meli Lupi allorché nel 1681 entrò in possesso del feudo di
Soragna e si sposò con Ottavia Rossi di San Secondo. La Sala del Trono con relativo baldacchino è rivestita con un
ricco tessuto in seta e oro, un lampassetto liseré broccato
a fondo avorio mentre la camera nuziale reca alle pareti
una tappezzeria di seta verde con disegno giallo e oro. Entrambi i tessuti fecero parte rispettivamente di due blocchi di acquisti effettuati a Venezia nel 1695 e nel 1701 (cui
si riconducono anche diversi mobili presenti nello stesso
appartamento). L’attuale sistemazione delle tappezzerie,
cucite su lunghe fasce di velluto cremisi, è invece l’esito
di un reimpiego effettuato nel tardo Settecento.
Di grande interesse anche il corredo in velluto rosso con
ricami ad applicazione del maestoso letto a baldacchino
260
collocato al centro dell’alcova, anch’esso riconducibile allo stesso periodo.
Si segnala infine il grande pannello raffigurante animali
esotici collocato nella lunga sala del Bocchirale. Esso proviene dal castello di Lux in Borgogna dove venne verosimilmente realizzato fra la fine del XVII e gli inizi del XVIII
secolo con una singolare tecnica di ricamo ad applicazione di piccole perline.
A. Lusvarghi, I. Micheletti, A. Mordacci Cobianchi, Le tappezzerie
della Rocca Meli Lupi di Soragna, in Le tappezzerie nelle dimore
storiche, Atti del Convegno CISST (1987), Torino 1988
Traversatolo (Mamiano) - Fondazione Magnani
Rocca (f)
La sede museale della Fondazione Magnani Rocca è stata
aperta al pubblico nel 1990 nell’ottocentesca villa di Corte di Mamiamo. Essa ospita la prestigiosa raccolta d’arte
di Luigi Magnani, letterato e critico musicale oltre che
raffinato collezionista.
Fra gli arredi della villa figurano un arazzo fiammingo degli inizi del XVII secolo raffigurante Il regno di Flora e cinque grandi tappeti Aubusson da centro della prima metà
del XIX secolo. Si conservano inoltre alcune tovaglie ricamate eseguite dalle suore fra il 1930 e il 1950 su commissione della madre di Luigi Magnani.
REGGIO EMILIA
Musei Civici (c)
musei civici sono allestiti nell’antico convento dei Frati Minori Conventuali di S. Francesco. Il nucleo storico
delle raccolte è costituito dalla collezione di Lazzaro
Spallanzani (Scandiano 1729 - Pavia 1799), acquisita dalla municipalità reggiana alla morte dello scienziato e
collocata nel 1830 nell’ala nord del palazzo, già sede del
liceo cittadino. Con le successive acquisizioni, che hanno ampliato il primitivo nucleo spallanzaniano, i musei
costituiscono oggi un interessante modello di museo
unitario, suddiviso in diverse e specifiche sezioni: archeologia, etnografia, storia dell’arte, storia naturale e
storia della città.
I
Museo Gaetano Chierici e Collezione
paletnologica (c)
Il Museo e la collezione di Paletnologia furono ordinati e
allestiti tra il 1862 e il 1870 da don Gaetano Chierici nell’attuale sede. Conservata negli arredi originari e nell’allestimento immediatamente posteriore alla morte di
Chierici, la raccolta è stata di recente ricondotta all’assetto concepito dal fondatore. In particolare il museo Chierici si articola in tre sezioni: la prima, fulcro dell’intera
collezione, riunisce i materiali archeologici rinvenuti
nelle terramare del territorio provinciale e nell’insediamento etrusco di Campo Servirola presso San Polo d’Enza, mentre le altre due ospitano reperti extraprovinciali
provenienti da varie regioni d’Italia, dalle sepolture scavate dal Chierici nel 1884 nella zona di Remedello Sotto
(Brescia) e da paesi esteri (raccolte etnografiche). Il territorio reggiano in particolare ha restituito numerosi re-
perti legati alle attività di filatura e tessitura come fusaiole in argilla, bronzo e pietra, ma anche conocchie e fusi. La collezione Chierici conserva un interessante reperto in rame con tracce di tessuto mineralizzato. Si tratta di
un pugnale di forma triangolare in rame (Bronzo Recente), rinvenuto nella tomba 78 della necropoli bresciana
di Remedello.
Fra gli oggetti etnografici si segnalano, inoltre, alcuni interessanti reperti vestiari indiani della donazione Spagni
(1844) anche se non propriamente eseguiti con fibre tessili. Si tratta di due tuniche di pelle di cervo con gambali
ornati da aculei di istrice della tribù Sioux e una tunica dipinta con pittografie raffiguranti le imprese d’arme del
suo proprietario.
B.O.
I Musei Civici di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, catalogo a cura
di S. Chicchi, E. Farioli, R. Macellari, A. Marchesini, J. Tirabassi,
Reggio Emilia 1999, p. 62
Museo di Etnografia (c)
Il nuovo allestimento della sezione etnografica realizzato nel 1999 nella sala Venturi, permise di riunire le raccolte formatesi nel museo reggiano a partire dagli ultimi
decenni dell’Ottocento con quelle ottenute dai depositi
del Museo Nazionale di Antichità di Parma nel 1970. I
materiali esposti, suddivisi per raccolte, documentano i
viaggi esplorativi compiuti tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento da cittadini reggiani e parmensi in Amazzonia, in Indocina, in Africa. I
REPERTORIO
nuclei originari sono stati integrati in seguito da reperti
provenienti dalle Americhe, dall’Estremo Oriente e dalla Nuova Guinea. Di notevole interesse è la documentazione tessile ivi attestata come quella precolombiana,
proveniente dalla raccolta Mazzei, che illustra con i suoi
esemplari (borse in cotone, sacchetto per foglie di coca,
cestino da lavoro con fusi, spole, matasse e gomitoli, oltre a una mummia), come venisse interpretata quest’arte nell’antico Perù. Tra i corredi vestiari si segnalano
inoltre un abito in pelle di guanaco proveniente dalla
Terra del Fuoco e gli ornamenti plumari di una tribù
amazzonica.
I Musei Civici di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, catalogo a cura
di S. Chicchi, E. Farioli, R. Macellari, A. Marchesini, J. Tirabassi,
Reggio Emilia 1999, pp. 46-51
Museo di Arte Industriale (c)
Il Museo costituito nel 1877 da Gaetano Chierici con un
nucleo di arti minori intrinsecamente legate alla storia
locale, inaugurato nel 1902 da Naborre Campanili e riesposto nel 1974 nella Galleria Fontanesi e riordinato nel
1995, propone tra i suoi materiali diversi di provenienza italiana, europea ed extraeuropea (gruppi plastici,
ceramiche, metalli, strumenti di misura, armature, oreficerie, cristalli, cuoi), anche un cospicuo e significativo
nucleo di manufatti e strumenti tessili legati in gran
parte alla storia locale della produzione serica e laniera.
Vi sono documentati insieme a dodici frammenti di abiti e tappezzerie in seta policroma databili tra il XVII e il
XVIII di provenienza italiana e francese raccolti dallo
storico locale Naborre Campanili sullo scorcio dell’Ottocento, un consistente corpus di materiali vari che testimoniano la lavorazione serica risalente già ai primi
anni del XVI secolo per volere di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara e moglie di Alfonso I d’Este, che con
l’insediamento a Reggio del tessitore genovese Mastro
Antonio sviluppò con particolare intensità nel XVII e
XVIII secolo una produzione di stoffe unite operate (velluta, rasi e damaschi), a fronte di una produzione laniera più antica presente già nel XIII secolo. I materiali sono costituiti da due edizioni (una del 1673 e l’altra del
1739) degli statuti dell’Arte della Seta promulgati dal
1546 fino al 1739, diverse stampe con marchi di fabbrica di manifatture reggiane e da un pettine seicentesco
da lana. Documenti di straordinario interesse per rarità
e importanza storica sono inoltre cinque registri di fabbrica (1743-1783) di ordinazioni corredati da due cam-
262
pionari tessili, detti “Libri delle mostre”, relativi alla
mercatura serica Trivelli-Spalletti attiva a Reggio dal
primo quarto del Settecento fino alla Rivoluzione Francese e all’avvento dell’Impero napoleonico, epoca in cui
cessò definitivamente la produzione. Tre di questi libri
insieme ai due campionari di vendita conservano integro, ovvero preservato dal tempo e dalla incuria dell’uomo, uno straordinario repertorio di stoffe di seta
unite e operate a piccoli decori geometrici e floreali che
documentano un tipo particolare di produzione serica
settecentesca influenzata dalla moda francese, di livello
però più modesto e corrente rispetto a quella di lusso
per nobili e principi, destinata piuttosto a vestire gli
esponenti della media e alta borghesia dell’epoca. Questa produzione, già di tipo seriale, raggiungeva varie località italiane e dell’Europa centro orientale, solitamente piccoli centri e cittadine, attraverso una rete capillare di diffusione commerciale fatta da “distributori” intermediari e punti di vendita fissi come erano le fiere e
i mercati dell’epoca. I restanti registri documentano, invece, l’altra attività di questa mercatura reggiana rappresentata dal commercio di stoffe in lana e cotone acquistate in Italia e nel centro-Nord dell’Europa. La documentazione di fabbrica è integrata da altri tre libri di
fabbrica, non esposti, relativi ai filatori, ai produttori di
trame/orditi e ai tessitori che lavoravano a domicilio
per questa ditta. La sezione tessile conserva, inoltre, anche un carteggio interessante relativo alla storia di questa fabbrica e alle due famiglie, entrambe di origine
svizzera, che la condussero.
M. Cuoghi Costantini, E. Bazzani, I. Silvestri, Per una raccolta
storica del tessuto, in Guida alle Gallerie d’Arte, II. La Galleria
Fontanesi, catalogo del museo a cura di G. Ambrosetti, Reggio
Emilia 1977, pp. 93-117, schede nn. 1/29 tavv. I/XXX
E. Farioli, A. Marchesini, Museo di Arte Industriale, in I Musei Civici
di Reggio Emilia. Guida alle collezioni, Reggio Emilia 1999, cap. 11,
pp. 130-135
Civica Galleria Anna e Luigi Parmeggiani (c)
Allestita in un singolare palazzetto di stile eclettico eretto su disegno di Ascanio Ferrari, la galleria raccoglie la
collezione d’arte trasferita a Reggio Emilia nel 1924 da
Luigi Parmeggiani, acquisita in seguito dal Comune e resa pubblica nel 1932. La formazione della singolare raccolta risale all’ultimo trentennio del XIX secolo e si lega
all’ambiente cosmopolita di Parigi, dove il Parmeggiani
riparò, esule, dopo aver attentato alla vita dei deputati socialisti Ceretti e Prampolini, e dove venne in contatto con
REPERTORIO
il mondo dell’arte e dell’antiquariato, frequentando il
pittore spagnolo Leon y Escosura e sposando la figlia del
pittore Cesare Detti.
La Galleria, che riunisce tre diversi nuclei collezionistici
– le opere appartenute ad Escosura, i falsi, le armi e le oreficerie della bottega parigina Marcy, i dipinti dello spoletino Cesare Detti –, vanta una consistente sezione tessile composta di oltre duecento pezzi, buona parte dei
quali esposti. Nella sala cosiddetta dei velluti trovano
posto importanti paramenti quattro-seicenteschi e svariati frammenti, la maggior parte dei quali, per l’appunto in velluto. Abiti maschili e femminili del tardo Settecento e degli inizi dell’Ottocento con numerosi accessori – scarpe, guanti, borse, cinture, cappelli – sono invece
esposti nella sala dei costumi entro vetrine di acciaio e
vetro di pregevole fattura: i contenitori provengono infatti dalla galleria di vendite Escosura di Parigi così come
la quasi totalità dei materiali tessili come attestano numerosi cartellini. Il pittore spagnolo era un raffinato conoscitore di tessuti e costumi e se ne serviva per l’ambientazione dei suoi dipinti di tema storico. In questa sezione si conserva infine un raro abito da gentiluomo, forse un costume di scena del teatro elisabettiano di provenienza inglese databile tra 1615 e 1620, un vero e proprio pezzo unico confezionato in raso di seta rossa con
inserti applicati in pelle avorio che costituisce una testimonianza eccezionale sull’abbigliamento maschile di
quel periodo.
pubblica Cispadana, con la arma del turcasso con frecce
in campo bianco, adottata il 7 gennaio 1797 dal Congresso Cispadano formato dalle quattro città aderenti (Reggio, Modena, Bologna e Ferrara), la coccarda in seta tricolore della Guardia Civica Luigi Trampolini, le livree dei
“donzelli” comunali in panno di lana rosso e verde listati
da galloni a telaio e tre abiti da cerimonia appartenuti a
notabili reggiani ed insigni esponenti della Repubblica.
Due di questi, molto simili fra loro, in seta blu petrolio ricamati ai bordi in seta avorio con foglie di quercia e alloro, furono indossati dal conte Giovanni Paradisi (17601826) uomo di spicco della cultura e politica locale e dallo scienziato Giambattista Venturi, divenuti rispettivamente senatore e diplomatico del Regno. Il terzo, in seta
operata avorio a minuta punteggiatura, impreziosito da
un fastoso ricamo vegetale d’argento era appartenuto all’economista Antonio Veneri (1741-1820) che ricoprì alte
cariche della Repubblica Cispadana e del Regno.
Il Museo del Tricolore, a cura di M. Festanti, Musei Civici, Reggio
Emilia 2000
J. Arnold, Patterns of Fashion. The cut and construction of clothes for
men and women c1560-1620, Londra - New York 1985
M. Cuoghi Costantini, Tessuti e costumi della Galleria Parmigiani,
Bologna 1994
Giovanni Battista Moroni. Il cavaliere in nero. L’immagine del
gentiluomo nel Cinquecento, catalogo della mostra (Milano,
Museo Poldi Pezzoli, 2 ottobre 2005 - 15 gennaio 2006) a cura
di A. Zanni e A. Di Lorenzo, Milano 2005, cat. n. 7 (scheda di G.
Butazzi)
Museo del Tricolore (c)
Il Museo, allestito dal 1985 in tre sale al piano terreno della “Torre del Bordello” con materiali originariamente
esposti al Museo del Risorgimento nella sede dei Musei
Civici reggiani, conserva un nucleo consistente di manufatti tessili di seta e lana (bandiere, fazzoletti e coccarde
patriottiche, fusciacche, abiti e livree con accessori ecc.)
legati alla periodo napoleonico e risorgimentale (17961860). Tra quelli selezionati per l’esposizione di rilievo
particolare sono: la bandiera in seta tricolore della Re-
Fazzoletto Tricolore con stemma sabaudo. Reggio Emilia, Museo del
Tricolore.
Museo Storico dell’Arma di Cavalleria (c)
Il Museo documenta la storia e l’evoluzione dell’Arma di
Cavalleria tra Otto e Novecento con reperti vari, documenti, riviste, divise, vessilli. Tra i cimeli tessili significativi spiccano un serie di giubbe nere da ufficiale di fine
263
REPERTORIO
Ottocento e alcune divise, quelle della Guerra d’Africa e
dell’Armata di Russia e quella da Generale d’Armata del
reggiano Dardano Fenulli, martire delle Fosse Ardeatine
e medaglia d’oro al valore militare, oltre a un pezzo storico, il berretto del sottotenente Achille Balsamo di Loreto,
ultimo degli ufficiali caduti nella prima guerra mondiale
e medaglia d’argento al valore militare.
Museo degli Alpini (c)
Il museo, ospitato nella ex-caserma Taddei, ripercorre la
storia e lo spirito indomito del corpo degli Alpini nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e la campagna di Russia. Tra i cimeli esposti, oltre ad armi e utensili militari, una serie di divise da alpino con cappelli e accessori vari.
Centro di Documentazione di Storia della
Psichiatria (c)
Il Centro è sito nel complesso storico di edifici sorti su
un antico lebbrosario del XIII destinati nel 1536 all’accoglienza degli alienati e adibiti nel Settecento per volere del duca Francesco III d’Este a luogo di cura e di studio delle malattie psichiche. Istituito nel 1991 dall’Unita Sanitaria Locale n. 9 della Provincia di Reggio Emilia e dall’Istituto per i Beni Artistici Storici e Naturali
della Regione Emilia-Romagna, il Centro documenta la
storia della pisichiatria manicomiale a Reggio Emilia e
su scala nazionale, attraverso una ricco patrimonio bibliografico, archivistico e iconografico (fotografico soprattutto), prodotto nel tempo dall’Istituto Neuropsichiatrico San Lazzaro. Oltre alla Biblioteca il Centro
conserva esposte in due sale un’interessante sezione
storica dedicata alla strumentazione terapeutica, agli
oggetti d’uso e di lavoro dei degenti fino ai prodotti
eseguiti dagli stessi: dipinti, disegni, sculture, ceramiche e paramenti liturgici ricamati in Ars Canusina, pianete tessute a telaio con accessori e paliotti d’altare destinati all’uffizio interno della chiesetta annessa all’Ospedale. Sono conservate inoltre testimonianze del lavoro tessile eseguite dai ricoverati come i telai per tessere stoffe insieme alle divise indossate dai degenti in
tela di cotone unita e a righe.
264
Museo e Tesoro della Basilica della Beata
Vergine della Ghiara (e)
Il museo fu allestito nel 1982 per volontà della Fabbriceria della Basilica e dei Musei Civici di Reggio Emilia. Documenta la storia dell’insigne chiesa reggiana attraverso
oggetti liturgici, ma soprattutto attraverso i doni pervenuti alla chiesa in segno di devozione per l’immagine miracolosa della Madonna. Accanto ai gioielli, agli argenti,
agli ex voto ecc. è esposta una campionatura del ricchissimo corredo di paramenti conservato nella sagrestia
composto da tessuti di rara qualità che documentano le
principali tipologie tecniche e decorative sperimentate
nel corso del Sei-Settecento. Fra i manufatti storicamente
più significativi figura una tendina destinata a celare e
proteggere l’immagine della Madonna, donata dalla
Contessa Camilla Ruggeri Brami. L’originale ricamo, realizzato in sete policrome, oro e argento su garza di lino
verde, raffigura l’albero di Jesse ovvero la genealogia di
Maria e Gesù Cristo. Esso costituisce uno dei reperti tessili più antichi, verosimilmente anteriore al 1617, anno di
morte della donatrice.
Fra la documentazione esposta nel museo si segnala il
suntuoso parato ricavato dall’abito nuziale di Maria Beatrice Ricciarda d’Este, andata sposa nel 1771 a Milano a
Ferdinando d’Asburgo Lorena, figlio cadetto dell’imperatrice Maria Teresa. Pur riprendendo una tipologia decorativa ampiamente sperimentata nel terzo quarto del
Settecento, quella dei nastri sinuosi con mazzetti floreali nelle anse, il tessuto costituisce un pezzo unico e non
trova facili raffronti sia per la ricchezza dei materiali (seta ma soprattutto vari tipi di filati d’argento) sia per la
perizia dell’esecuzione che a una tecnica di tessitura già
complessa come quella del lampasso lanciato broccato
unisce l’apporto del ricamo. Contribuì al dono anche la
madre della sposa, Maria Teresa Cybo, che provvide al
trasporto dell’abito da Milano a Reggio Emilia partecipando inoltre alle spese per la confezione del parato in
terzo.
Il Santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia, a cura di A.
Bacchi e M. Mussini, Milano 1996
Raccolta Diocesana d’Arte Sacra (e)
In locali deputati del palazzo vescovile d’origine medioevale, modificato in epoca rinascimentale e ampliato nel
Seicento dall’architetto Bartolomeo Avanzini, sono esposti alcuni materiali d’arte sacra provenienti dal territorio
REPERTORIO
reggiano (dipinti, oreficerie, arredi, parati e accessori liturgici) che costituiscono il primo nucleo dell’erigendo
museo diocesano. Spiccano tra questi alcune eccellenze
tessili: una mitra medioevale dell’abbazia di Marola, una
pianeta di foggia sartoriale antica appartenuta al cardinale Borromeo insieme a un prezioso corredo di paramenti del cardinale vescovo di Reggio Rinaldo d’Este
(1618-1672). La mitra è un raro documento della tessitura medioevale del XIV secolo per il tessuto operato in seta e oro (uno sciamito) a decoro vegetale e per il ricamo a
fili d’oro con tralci di vite che lo completa. La pianeta indossata da San Carlo Borromeo durante una messa celebrata nel Duomo reggiano nel 1581 in una sua visita alla
città è confezionata con un tessuto semplice di seta rossa
unito impreziosito da oro filato e da un elegante ma sobrio ricamo a fregio vegetale stilizzato che ricopre gli stoloni a croce eseguito con ritagli di seta nera e avorio applicati e profilati d’oro su un tessuto di fondo di raso di seta nera. Il corredo paramentale del cardinale estense ben
più fastoso comprende due pianete decorate da grandi
ed elaborati pizzi d’oro (una a ramages arricciati e asimmetrici su fondo giallo, l’altra con motivi a candelabra rinascimentale su fondo perla) da ritenersi straordinari reperti di un lavorazione a fuselli in oro andata perduta, oltre ad un parato in terzo ricamato in cordoncino d’oro filato su seta cremisi con motivo a rabesco diverso da quello presente nel piviale a minuti rametti fioriti su seta rosa: i parati sono contrassegnati dalle armi estensi, aquila
bicefala e gigli bianchi.
Bagnolo in Piano - Fondazione Famiglia Sarzi (f)
La Fondazione Famiglia Sarzi custodisce il consistente
patrimonio, costituito da materiali eterogenei – quali burattini e pupazzi, in legno, stoffa, metalli, gommapiuma,
lattice ecc., attrezzeria e componenti di baracche, in legno e metallo, materiali cartacei, nonché libri, documenti, fotografie, manifesti e audio-video – prodotti in oltre
cinquant’anni d’attività da Otello Sarzi (1922-2001), celebre attore/burattinaio e dai suoi familiari e collaboratori.
Discendente da una delle più importanti famiglie dell’Italia centro settentrionale attive nell’ambito del teatro di
figura a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, Sarzi,
dotato di una particolare vena creativa e sperimentale,
realizzò spettacoli che prendevano le distanze dalla tradizione, sia nella forma che nella struttura, indirizzandosi talvolta ad un pubblico adulto. Alla fine degli anni Settanta Sarzi ed un gruppo di componenti del Teatro Sperimentale Burattini e Marionette (T.S.B.M.), fondato a Roma nel 1957, si trasferisce a Reggio Emilia avviando nel
contempo un rapporto di collaborazione con la direzione del Teatro Municipale “R. Valli”. La Fondazione Famiglia Sarzi, è stata istituita nel 1996 e dal ’99 ha sede presso le ex scuole elementari di Pieve Rossa, nel comune di
Bagnolo in Piano. Questi materiali, in cui il tessuto gioca
un ruolo decisivo e preponderante per la varietà di stoffe
coeve utilizzate, vengono attualmente presentati soltanto attraverso mostre tematiche temporanee in sedi espositive sempre diverse in attesa della sistemazione della
sede espositiva definitiva.
Il Palazzo vescovile di Reggio Emilia. Illustrazione di un percorso
espositivo di arredi e ambienti, guida storico-artistica a cura
dell’Ufficio Beni Artistici della Curia di Reggio Emilia, San
Martino in Rio (Re) 1994
PROVINCIA DI REGGIO EMILIA
Aiola - Museo del Parmigiano-Reggiano Civiltà
contadina e Artigiana della val d’Enza “La
Barchessa” (c)
Il museo allocato in un tipico edificio della corte rurale
padana conserva tra i tanti materiali e attrezzi della civiltà contadina, quelli legati alla lavorazione della canapa, dalla filatura alla tessitura di questo filato con cui si
confezionavano manufatti di vario tipo dalla biancheria
domestica agli abiti di tutti i giorni.
L.B.
Castelnuovo di Sotto - Museo-Centro di
documentazione della maschera (c)
Il museo in corso di istituzione presso la Biblioteca Civica
è costituito nella sua sezione storica dalle maschere della
collezione Guatteri acquisita nel 1996 dall’amministrazione comunale. L’attività di questa storica famiglia reggiana di decoratori, scenografi teatrali e costruttori di maschere da carnevale che operò sotto la protezione ducale
estense è documentata in ambito locale dal 1820 al 1938.
Tra i materiali che compongono la raccolta, stampi in metallo e maschere in gesso, un corpus consistente e importante (incrementato di recente da un nucleo di manufatti
provenienti dal mercato privato) è costituito da masche-
265
REPERTORIO
re in tessuto (raso di seta di vari colori e tela cerata dipinta) che ripropongono i caratteri tipici del teatro popolare:
il diavolo, il mandarino, l’indiano, la morte, uomini e donne comuni, interpretati nelle espressioni diverse del dolore, dell’allegria e dello spavento. La raccolta è stata restaurata nel 2001 dall’IBC con fondi regionali.
Correggio - Palazzo dei Principi, Museo Civico
“Il Correggio” (c)
Il museo ha sede al piano nobile del Palazzo dei Principi,
una raffinata costruzione rinascimentale dovuta all’opera di artisti ferraresi, forse su disegno di Biagio Rossetti.
Completamente riordinato a seguito dei restauri resi necessari dal terremoto del 1999, il Museo vanta una ricca
collezione di pittura fra cui spiccano il Redentore del
Mantegna e le opere legate alla figura del Correggio, reperti archeologici, monete, medaglie. Il museo conserva
un’importante raccolta di nove arazzi facenti parte di tre
diverse serie, i Giardini, le Cacce e una Festa Popolare cui
si aggiungono alcuni frammenti e quattro bordure. Benché l’asportazione delle bordure, compiuta fra Sette e Ottocento per adattare i panni agli ambienti del Palazzo
Municipale dove sono rimasti fino a una cinquantina di
anni fa, abbia comportato la perdita dei marchi di produzione, l’analisi stilistica e i raffronti con altri esemplari consente di indicarne con precisione la provenienza.
Caratterizzati da dolci paesaggi collinari animati da una
ricchissima fauna e da numerose piccole figure che nella
serie dei Giardini richiamano i miti ovidiani delle Metamorfosi, essi furono verosimilmente tessuti sullo scorcio
del XVI secolo a Bruxelles, nella bottega di Cornelius Mattens, un arazziere attivo in quella città almeno dal 1580.
Probabilmente gli arazzi facevano parte di un più consistente gruppo di panni portati a Correggio dal conte Camillo che li aveva verosimilmente acquistati in occasione
di uno dei suoi soggiorni nei Paesi Bassi spagnoli.
Vecchia” del padre Cornelio – cui gli Estensi avevano assegnato il feudo di Gualtieri – non resta che la porzione
anteriore prospiciente la piazza. L’attuale Palazzo Bentivoglio, benché mutilo, costituisce una ragguardevole testimonianza della piccola corte, colta ed elegante, seppure di assai breve durata, fondata dai discendenti degli ex
signori di Bologna.
A testimonianza dell’originale splendore della residenza
marchionale restano alcuni ambienti affrescati di grande
rilevanza artistica, di cui il più fastoso è il Salone dei Giganti, cui avrebbero lavorato tra gli altri Sisto Badalocchio
della scuola dei Carracci e Pier Francesco Battistelli della
Scuola del Guercino, non sono comunque da meno la Sala dell’Eneide, la Sala di Icaro, la Sala di Giove e la Cappella Gentilizia. Il notevole ciclo pittorico, in cui si alternano episodi della mitologia e della storia di Roma antica ad altri
tratti dai maggiori poemi epici, benché lacunoso esprime in modo significativo l’ambizioso progetto dei raffinati Bentivoglio, amanti delle lettere ed essi stessi poeti
dilettanti.
In questo palazzo hanno trovato sede il Museo Documentario e Centro Studi “Antonio Ligabue” e la Donazione “Umberto Tirelli”. Il primo, fondato nel 1988, raccoglie materiale bibliografico e iconografico del pittore
naif vissuto a Gualtieri; la seconda consta di una raccolta,
oltre cinquanta opere di famosi artisti del Novecento,
donata dal celebre sarto teatrale nato in questo paese nel
1928. Di quest’ultima collezione si segnalano inoltre
due straordinari abiti di scena, un costume di Pier Luigi
Pizzi per l’Enrico IV di Pirandello in velluto in seta artificiale blu e argento ed un abito di P. Tosi, indossato dall’attrice Romy Schneider nel ruolo di Elisabetta d’Austria, per il Ludwing di Luchino Visconti, in seta artificiale lilla intenso.
L.B.
N. Forti Grazzini, Gli arazzi del Palazzo Principi, in Il Museo Civico
di Correggio, a cura di A. Ghidini
Novellara - Museo Civico Gonzaga (c)
Gualtieri - Palazzo Bentivoglio, Museo
Documentario Centro Studi “Antonio Ligabue”
e Donazione Tirelli (c)
Del grandioso edificio, eretto tra il 1594 e il 1600, con la
consulenza di Giovanni Battista Aleotti, per volere del
marchese Ippolito Bentivoglio, che vi inglobò la “Casa
266
Temporaneamente chiuso a seguito del terremoto del
1997, il museo occupa una quindicina di sale e salette del
cinquecentesco appartamento comitale situato al piano
nobile della Rocca, realizzato e decorato sotto la direzione di Lelio Orsi. In alcune sale oltre ai camini in marmo
da Verona si conservano alcuni dei soffitti a cassettoni
originari. Il patrimonio del Museo, che oltre alle ceramiche della farmacia dei Gesuiti, della serie dei ritratti dei
REPERTORIO
Abito femminile indossato da Romy Schneider nel Ludwig di
Visconti. Sartoria Teatrale Umberto Tirelli su disegno di Pietro Tosi,
XX secolo. Raso di seta lilla. Gualtieri (Reggio Emilia), Palazzo
Bentivoglio, Museo Documentario Centro Studi “Antonio Ligabue” e
Donazione Tirelli.
Abito maschile in due pezzi (veste con mantello) dell’Enrico IV di
Pirandello, XX secolo. Sartoria Teatrale Umberto Tirelli su disegno di
Pier Luigi Pizzi. Tessuto operato in seta blù e argento. Gualtieri
(Reggio Emilia), Palazzo Bentivoglio, Museo Documentario Centro
Studi “Antonio Ligabue” e Donazione Tirelli.
Gonzaga, della quadreria, degli affreschi strappati del Casino di Sopra, delle monete della zecca. ecc., si è recentemente arricchito di un importante e preziosa testimonianza. Si tratta di un grande arazzo tessuto in lana e seta
raffigurante una scena di sbarco da un vascello entro una
ricca bordura vegetale. Il bordo superiore reca uno stemma raffigurante le armi dei Gonzaga attraversato da un
cartiglio recante l’iscrizione “Alphonsus Gonzaga Novellariae Comes 1554”. La scritta si riferisce con evidenza ad
Alfonso I Gonzaga nato nel 1529 e morto nel 1589, artefice insieme a Lelio Orsi del complesso piano di riassetto e
abbellimento di Novellara. Benché lo studio del prezioso
manufatto sia ancora in corso, anche in assenza di marchi
di tessitura, le analogie riscontrate con arazzi fiorentini
inducono a ritenerlo opera dell’arazziere Giovanni Rost,
attivo in città dal 1545.
S. Ciroldi, La “fabella” di Giasone secondo l’interpretazione di
Giovanni Rost (1554) nell’arazzo di Alfoso I Gonzaga, in “Bollettino
Storico Reggiani”, Reggio Emilia, anno XXXVIII, luglio 2005,
Fasc. n. 127
L. Meoni, Un arazzo della ‘favola di Giasone’ tessuto a Firenze per il
Conte Alfonso I Gonzaga di Novellara, in “Filiforme”, anno IV, n. 9,
primavera 2004, pp. 13-19.
Poviglio - Museo della Terramara di Santa
Rosa (c)
In località Santa Rosa presso Poviglio lo scavo delle due
terramare ha restituito interessanti materiali ora esposti
nel Centro Culturale Polivalente. Fra questi vi sono oggetti tipici della sfera femminile soprattutto fusaiole e
pesi da telaio, testimonianze di un’intensa attività tessi-
267
REPERTORIO
le. In particolare il villaggio piccolo ha restituito un ago
in osso sottile con la parte centrale a sezione ovale e foro
quadrangolare oltre a un gruppo di 15 pesi datati al Bronzo Medio, sette dei quali allineati su due file orientate secondo l’asse NO-SE (coerente con l’orientamento generale del villaggio). La loro disposizione ha suggerito la presenza di un telaio verticale a pesi largo ca. m 1,70. Nel villaggio grande invece è stato rinvenuto un gruppo di 12
268
pesi (bronzo inoltrato) disposti grosso modo lungo un
duplice allineamento orientato secondo l’asse NO-SE. Dimensioni e peso sono assai maggiori rispetto a quelli del
villaggio piccolo (diametro da 15,5 a 18,2 cm e peso da
900 a ca. 1500 g), ma sembrano suggerire la presenza di
un telaio di dimensioni leggermente minori rispetto all’altro (m. 1,60).
B.O.
MODENA
Musei Civici (c)
l Museo Archeologico Etnologico con il Museo d’Arte,
costituiscono le due sezioni più consistenti e storicamente importanti dei Musei Civici di Modena, con sede
nel Palazzo edificato da Francesco III d’Este tra il 1764 e il
1771, acquisito dal Comune e trasformato in istituzione
civica nel 1871, a seguito degli scavi, soprattutto preistorici, realizzati nella seconda metà dell’800. La sua originaria vocazione fu quella di luogo deputato a conservare
le “patrie memorie” e ad esaltare l’identità storica della
città. Nel 1962 furono istituite le due sezioni distinte del
Museo Archeologico Etnologico e del Museo Civico d’Arte Medioevale e Moderna.
I
Museo Civico Archeologico Etnologico (c)
La sezione archeologica composta da reperti provenienti
dagli scavi ottocenteschi integrati nel tempo da recuperi
recenti condotti sulla città e sul territorio circostante, segue un ordine cronologico ampio compreso tra il Paleolitico e il Medioevo. Per quanto concerne la documentazione tessile espone strumenti legati alle attività di filatura e tessitura provenienti soprattutto dalla terramare
di Montale, oltre a tre fibule etrusche in ferro che presentano sulla faccia esterna frammenti mineralizzati di tessuto per la diffusione di ossidi ferrosi nel terreno di giacitura. Si segnala inoltre che durante gli scavi condotti a
Modena nel 1947 per le fondazioni del cinema Odeon in
piazza Matteotti, fu rinvenuto un sarcofago in marmo
d’epoca tardo romana, unico conservato, dove erano deposti cinque individui avvolti in tessuti di cui uno con il
capo cinto da una benda intrecciata con fili d’oro. Di que-
sti reperti, purtroppo, a noi pervenuti in pochi e minimi
elementi quasi polverizzati, come pure di un altro frammento piccolissimo di tessuto inglobato su un laterizio,
venuto alla luce durante gli scavi della necropoli tardo romana di piazza XX Settembre effettuati nel 1996.
La sezione etnologica, costituitasi tra il 1875 e i primi decenni di questo secolo con materiali provenienti da diverse aree geografiche (America del Sud, Perù, Africa,
Nuova Guinea, Asia), è documentata da reperti tessili interessanti tutti ascrivibili alla seconda meà dell’Ottocento, come i tessuti di rafia dell’Africa centrale, un’amaca e
un perizoma intrecciati in fibra vegetale (il secondo ornato con perline di vetro) di provenienza amazzonica come pure il nucleo variopinto di ornamenti plumari e un
suggestivo abito marziale di guerriero giapponese. A
fronte di questi materiali esposti, ne sono conservati altri
nei depositi, tra cui si segnala una pareo di Tahiti e varie
stoffe di corteccia provenienti dall’Oceania, un kimono
giapponese, capi d’abbigliamento indiani corredati di accessori e un costume bulgaro.
Su tutti domina la raccolta di tessuti precolombiani per
consistenza e varietà di materiali. I 603 manufatti esposti e
studiati nel catalogo scientifico del 1992, appartenenti a
due raccolte storiche museali, la Boccolari-Parenti e la
Mazzei-Tacchini, acquisite dal museo rispettivamente nel
1875 e nel 1897 e arricchite da integrazioni successive, fanno riferimento ad un lungo periodo compreso tra il Periodo Intermedio Antico 200-600 a.C. e l’epoca Inca (dalla
metà del XV secolo alla Conquista spagnola) e provengono
da un’area geografica concentrata di prevalenza nella costa centrale peruviana e nella necropoli di Ancòn. Il cospicuo corpus di materiali conservato e costituito per la maggior parte da frammenti tessili, ma anche da abiti (perizo-
REPERTORIO
mi, scialli), da utensili, da filati in lana e cotone attestati nei
diversi stadi della loro lavorazione, da oggetti ritrovati in
corredi funerari costruiti con fibre e filati (bende, copricapi, buste, borse per coca, bambole, cestini da lavoro), evidenzia i tratti peculiari dell’antica cultura tessile andina.
B.O.
S. Desrosiers, I. Pulini, Tessuti Precolombiani, catalogo a cura dei
Musei Civici, Modena 1992
Museo Civico d’Arte Medioevale e Moderna (c)
Il Museo così denominato fu istituito nel 1962 su un patrimonio antico costituito da dipinti, sculture, manufatti
dell’artigianato artistico e scientifico (carte, cuoi, tessili,
armi, strumenti musicali, apparecchiature scientifiche,
terracotte architettoniche, ceramiche, vetri, oreficerie),
che bene esemplificano nella eterogeneità dei materiali
l’identità stessa della sua formazione ottocentesca. Creata
in parallelo al nucleo archeologico con donazioni di collezioni private integrate nel tempo da acquisizioni e recuperi, questa sezione del museo era rivolta fin dall’origini a documentare momenti della storia nazionale e della
cultura locale sul modello diffuso in Europa tra Otto e Novecento dai neonati musei di arte e di arte applicata all’industria. Fra tutte, la collezione che meglio documenta
questa vocazione museale è quella dei tessuti antichi donata dal conte Luigi Alberto Gandini nel 1882 non solo
per la natura e l’entità dei materiali quanto per la configurazione espositiva finalizzata ad un preciso obiettivo
culturale. Con i suoi 2.800 ca. campioni di stoffe, ricami,
pizzi e passamanerie (galloni, frange, nastri, fiocchi), la
raccolta ci restituisce un ricco e variegato campionario di
ornati, tecniche e filati attraverso cui è delineata la storia
della produzione tessile italiana ed europea dal Medioevo
all’Ottocento inclusa quella relativa ad alcune tessiture
extraeuropee (copte e orientali) documentate da capi
d’abbigliamento e tappeti di rara reperibilità.
Il tessile antico è esibito all’interno di vetrine d’epoca disposte a parete, al centro di una sala del museo progettata a tale fine, nell’intento di richiamare l’attenzione su un
prodotto dell’artigianato artistico fondante nella storia
del’uomo e per troppo tempo trascurato sia dal mondo
culturale che da quello economico: così musealizzati i
tessuti dovevano diventare fonte insostituibile di conoscenza e di ispirazione per nuove creazioni.
Dal 1975 ad oggi la raccolta è stata oggetto di un proget-
270
to sistematico e scientificamente avanzato di valorizzazione promosso dall’amministrazione locale e dall’Istituto per i Beni Culturali che ha portato allo studio e al restauro dei materiali, nonché al recupero dell’intero assetto espostivo (sale e vetrine). Il lavoro congiunto ha
prodotto a tutt’oggi con il restauro anche la pubblicazione integrale dei tessuti dal XVII al XIX secolo e del nucleo
di pizzi e passamanerie.
Il museo conserva non esposta nei depositi anche un’altra corposa raccolta tessile di 400 pezzi circa, non ancora
studiata, costituita da donazioni e acquisti successivi alla
collezione storica Gandini, provenienti essenzialmente
dall’ambito locale. Si tratta in gran parte di frammenti
databili dal XVI a XX secolo (200 circa), ma c’è anche un
bel nucleo di abiti maschili e femminili del XVIII e XIX secolo corredati da accessori (borse, cappelli, scarpe, ventagli…) nel novero di 150 pezzi ca., tra cui si segnalano diciotto gilets maschili ricamati e due busti femminili in
seta settecenteschi, oltre ad un trentina di parati e arredi
liturgici di varie epoche, tre divise di corte, alcune livree,
due campionari (uno di tessuti di provenienza francese
del 1901, l’altro dei primi del Novecento di pizzi meccanici neri e in oro e argento), oltre a un corredo intero maschile di abiti e di biancheria donata da una nota famiglia
dell’alta borghesia modenese. Tra i cimeli legati alla storia locale si segnalano, infine, l’uniforme di Accademico
del pittore Adeodato Malatesta con spadino e feluca della metà del XIX secolo e la toga da professore universitario dell’insigne teologo e studioso modenese Don Celestino Cavedoni.
La Collezione Gandini del Museo Civico di Modena. I tessuti del XVIII e
del XIX secolo, catalogo a cura di D. Devoti, G. Guandalini, E.
Bazzani, M. Cuoghi Costantini, I. Silvestri, Bologna 1985
La Collezione Gandini. Tessuti dal XVII al XIX secolo, catalogo a cura
di D.Devoti e M.Cuoghi Costantini, Modena 1993
La Collezione Gandini. Pizzi, ricami e passamanerie dal XV al XIX
secolo, catalogo a cura di T. Schoenholzer e I. Silvestri, Modena
2002
Museo Civico del Risorgimento (c)
Il Museo attualmente chiuso e in fase di studio e di riallestimento fa capo al Museo Civico d’Arte pur mantenendo
autonomia istituzionale e sede separata all’interno del
Palazzo dei Musei. Fondato nel 1893 e inizialmente aggregato al Museo Civico, fu trasferito nell’attuale sede nel
1926. Vi sono conservati circa 2000 oggetti tra armi, bandiere, uniformi, dipinti, stampe, medaglie e altri cimeli
relativi in prevalenza al periodo risorgimentale, con un
REPERTORIO
nucleo minore afferenti alla Guerra italo-turca (19111912) e al primo conflitto mondiale. La sezione risorgimentale più significativa è quella legata alla storia locale
e riguarda la dinastia austro-estense, l’esercito ducale, la
Guardia nazionale del ’48, la vita e le opere dei suoi patrioti più insigni: Ciro Menotti, Vincenzo Borrelli, giustiziati nel 1831, Giuseppe Malmusi, capo del governo provvisorio del ’48, Enrico Cialdini che comandò le truppe
piemontesi nello scontro di Castelfidardo nel ’60 e Nicola Fabrizi agitatore mazziniano e volontario garibaldino.
Tra i numerosi reperti quelli tessili hanno una rilevanza
numerica considerevole, più di duecento pezzi, così distinti: 93 capi di abbigliamento militare in cui sono compresi uniformi, giubbe, berretti e calzoni che illustrano
oltre un secolo di storia, dalla corte estense alla prima
guerra mondiale con esemplari appartenenti alla Guardia Civica, all’Esercito italiano fino alle camice rosse dei
garibaldini; 72 bandiere e stendardi, databili tra il 1830 e
il primo quarto del XX secolo, 17 fazzoletti patriottici e
una quartina circa di reperti frammentari relativi a bandiere, sciarpe, coccarde, ombrellini parasole con tricolore, oltre a due cimeli importanti, una camicia e un gilet,
appartenuti a Ciro Menotti.
L.L.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII,
Bologna 1997, pp. 105-108
Palazzo Comunale (c)
La sala del Vecchio Consiglio del palazzo Comunale di
Modena fu rivestita nel 1766 da un tappezzeria in damasco di seta gialla che riproduce racchiuso tra fogliami lo
stemma della città sormontato dalla trivella: la stoffa fu
tessuta dal bolognese Vincenzo Cavallazzi artefice anche
tra il 1754 e il 1778 di un altro addobbo in damasco rosso
della Cattedrale. Il damasco, utilizzato anche nelle poltrone della sala, sostituì il precedente rivestimento seicentesco in cuoio stampato. Da allora rimase nell’uso denominare questo ambiente come “La sala gialla dei tessuti damascati”. Parte della tappezzeria originale degradata fu sostituita agli inizi del ’900 da un damasco affine
ma di qualità inferiore, a sua volta rimosso integralmente nel 1985 quando si decise di realizzare una copia uguale alla tappezzeria originale del XVIII secolo.
AA.VV. Il Palazzo Comunale di Modena. Le sedi, la città, il contado, a
cura di G. Guandalini, pp. 253, 254, 264
Museo e Galleria Estense (s)
Il museo-galleria, sito dal 1894 nello storico Palazzo dei
Musei della città fatto edificare nel XVIII secolo dai duchi di Modena, è costituto da raccolte d’arte antiche di
proprietà degli Estensi incrementate nei secoli successivi (dipinti, sculture, maioliche, bronzetti, vetri e strumenti musicali). Conserva tra i manufatti più singolari
e preziosi un cofano-scrittoio da viaggio appartenuto
ad Ercole III d’Este. Il baule decorato da profilature e ornato all’interno da statuette in bronzo dorato, opera
dello scultore-orafo estense Leone Leoni (1509-1590)
che le eseguì intorno alla metà del XVI secolo (15501556 ca), è rivestito all’esterno da un tessuto dell’epoca.
Si tratta di un velluto cesellato in seta cremisi con fondo laminato d’oro e disegno a maglie ovali schiacciate
che racchiudono mazzi di fiori con piccole melagrane,
sicuramente tessuto in una manifattura italiana della
seconda metà del XVI secolo, tra cui non si esclude a
priori una provenienza circoscrivibile al territorio
estense: qui infatti è documentata, tra Ferrara, Modena
e Reggio Emilia, la lavorazione di stoffe di seta di qualità
medio-alta, tra cui appunto primeggiano i velluti operati di seta, tra tutti, i generi più costosi e prestigiosi,
simbolo tessile per eccellenza dell’aristocrazia e della
regalità.
Restauri fra Modena e Reggio, catalogo della mostra a cura di
Giorgio Bonsanti (Modena, Palazzo dei Musei 29 ottobre-24
dicembre 1978), Modena 1978, schede di M. Mezzatesta L. Follo (cofano), I. Silvestri - E. Bazzani (rivestimento in
velluto), pp. 100-111
Museo Storico dell’Accademia Militare (s)
Conservato in uno dei più grandi palazzi barocchi italiani, illustre esempio di edilizia civile sei-settecentesca, costruito dal 1634 nelle forme di reggia sul luogo di un antico fortilizio dall’architetto romano Bartolomeo Avanzini per il duca Francesco I d’Este, il Museo è dedicato alla
storia della Accademia dal 1863 ad oggi. Aperto nel 1905
e riallestito nel 1988 in otto sale del piano nobile, conserva tra armi, cimeli e documenti d’archivio, materiali
tessili di valore storico documentale. Ricordiamo, per
tutti, nella sala delle Guardie Nobili due bandiere, un tri-
271
REPERTORIO
colore assegnata il 15 marzo 1849 da re Carlo Alberto all’Accademia militare di Torino e la bandiera della preesistente Accademia di Fanteria e Cavalleria del 1891. Nella
Sala degli staffieri, camerieri e ritratti, insieme ai berretti
degli ex-allievi ufficiali dell’Accademia Militare caduti
nelle guerre del Risorgimento, nei due conflitti mondiali, sono esposte le due uniformi storiche dei cadetti (originali e ricostruite), la prima invernale composta da
giubba a doppio petto blu chiusa da 14 bottoni dorati
con spalline recanti l’anno di corso dell’allievo, pantaloni di panno azzurro profilati da una doppia banda rossa
con sottopiede bianco, chepì a cilindro nero con nappa e
pennacchio di crine, la seconda estiva con giubba bianca
e pantaloni azzurri.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII,
Bologna 1997, pp. 109-112
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a della Provincia
di Modena, Modena 1998, pp. 24, 25
brazioni importanti, sono ritenuti tra le poche serie più
antiche documentate in Italia.
Il Museo del Duomo di Modena, guida al museo, Genova 2002
Museo del Combattente (p)
Dedicato alla memoria dei due conflitti mondiali, il museo, aperto nel 1995 in alcune sale della Casa del Mutilato, sede dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, conserva insieme alla documentazione dei vari fronti,
un nutrito corredo di manufatti tessili, una cinquantina
circa, tra uniformi, indumenti, copricapi, fazzoletti, coperte e accessori militari (mollettiere/fasce, zaini e sacchi
per indumenti) dei vari eserciti (fanteria, aviazione, marina italiana, tedesca, inglese, rumena, russa e americana). Unico reperto ottocentesco documentato è la divisa
risorgimentale (camicia con berretto) dell’ufficiale garibaldino Enrico Marabini, medaglia d’argento per la battaglia della Bezzecca nel 1866.
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione della Provincia di
Modena, Modena 1998, pp. 32, 33
Museo del Duomo (e)
Sito nei corpi antichi annessi alla Cattedrale al piano di
sopra del Museo Lapidario, il museo inaugurato nell’anno giubilare 2000 conserva insieme a dipinti sacri e
preziosi arredi liturgici svariati paramenti tessili (pianete, tonacelle, piviali con accessori, camici e paliotti)
appartenuti ai vescovi della diocesi, tra cui si menzionano due manufatti importanti: il parato in terzo solenne di San Geminiano ricamato in seta policrome e
oro con scene tratte dalla vita del patrono locale, d’ambito emiliano del XVIII secolo e il paliotto del cardinale
Morone, ascrivibile all’epoca del suo episcopato (15641571), tessuto in lampasso operato con inserti ricamati
in oro velato e sete policrome, raffiguranti otto santi,
Dio Padre e la Madonna con il Bambin Gesù: il ricamo,
opera di grande pregio per la tecnica particolare con cui
è eseguito a fili di seta policromi avvolti a spirale su fili
d’oro, è di sicura manifattura fiorentina. Nel Museo sono esposti anche due arazzi raffiguranti “I progenitori e
il peccato originale” e “Il Diluvio Universale” che fanno
parte di una serie, “La Genesi”, tessuta insieme alle altre
due serie non esposte (“Storie di Giacobbe e “Storie di
David”) nelle Fiandre intorno alla metà del XVI secolo. I
diciotto arazzi conservati in lana e seta, donati alla cattedrale modenese dalla famiglia Sertorio ed esposti appesi alle arcate che dividono le navate durante le cele-
272
PROVINCIA DI MODENA
Bastiglia - Museo della Civiltà Contadina (c)
Il Museo della Civiltà contadina venne istituito ufficialmente nel 1977 sulla base di una raccolta di oggetti e manufatti della vita contadina accorpati nell’ambito di un’iniziativa scolastica. A questo primo nucleo si aggiunsero
nel tempo ulteriori donazioni di materiali, sistemati nell’ex scuola materna parrocchiale secondo una suddivisione per settori dedicati alla vita domestica e alla lavorazione agricola. Macchine agricole anche di grandi dimensioni, sistemate in un capannone, illustrano la vita
dei campi, documentata da un rilevante patrimonio di
fotografie d’epoca. Di particolare rilievo le attività connesse ai cicli della produzione del vino e del formaggio e
alla manifattura della canapa. In quest’ultima sezione sono esposti numerosi strumenti e manufatti. Si tratta, nella fattispecie, di 358 e 720 dipanatori per la canapa, di
1548 pettini da tessitura, 39 filatoi, 1064 serie di fusi, 211
rocchetti, 60 aspi per matassa, 473 telai, uno dei quali
funzionante; seguono 734 liccioli, 247 rastrelli e 474 or-
REPERTORIO
ditori che raccontano le diverse fasi della produzione delle principali tipologie tessili presentate nel percorso
espositivo: dagli oggetti d’uso (1282 lenzuola in canapa
con ricamo centrale, 1393 e 1396 portainfanti e 1332
asciugamani ricamati) fino agli abiti e agli accessori di
maggiore diffusione: camicie e camicini, sottovesti, cuffiette, brache ed un tabarro in lana. Questi materiali, organizzati nell’apposito settore e sottoposti sino ad ora ad
ordinaria manutenzione, sono attualmente in fase di inventariazione informatizzata.
E.L.
Carpi - Castello dei Pio, Museo Civico “Giulio
Ferrari” (c)
Istituito in epoca post-unitaria secondo la concezione
positivista del tempo, il Museo carpigiano espresse la storia locale attraverso l’eterogeneità delle sue raccolte (reperti archeologici, ceramiche, scagliole, mobili, stampe,
tessili, manufatti vari come i cappelli e gli intrecci di paglia, fino ai cimeli dell’epoca risorgimentale) tutte distribuite secondo una suddivisone tipologica nelle sale di
quel grande complesso monumentale storico che è il Castello dei Pio e che vide la sua stagione più alta in epoca
rinascimentale grazie alla politica lungimirante dei suoi
signori. Quanto ai tessili ivi conservati, ma non esposti,
insieme ad un piccola ma ben selezionata raccolta di paramenti liturgici di varie epoche e tipologie sia tecniche
che decorative, si deve menzionare una donazione privata di ventagli storici costituita da più di un centinaio di
pezzi compresi tra la fine del XVIII e il XIX secolo, di cui
diversi sono realizzati in stoffa ricamata, stampata e dipinta, ma anche in trina ad ago o a fuselli di lino bianco.
Parte della raccolta, studiata e restaurata con i fondi regionali erogati dall’Istituto per i Beni Culturali, è stata oggetto di una piccola mostra promossa dal Museo Civico
nel 1999. Tra i reperti tessili della sezione risorgimentale
si annoverano uniformi, camicie, copricapi, nastri, coccarde dei suoi più insigni patrioti locali come Ciro Menotti (1798-1831) e i generali Manfredo Fanti (18081865) e Antonio Gandolfi (1835-1902).
A. Garuti, D. Colli, Carpi. Guida storico artistica, Carpi, 1990
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in Bollettino del Museo del Risorgimento anno XLII,
Bologna 1997, pp. 71-74
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a della Provincia
di Modena, Modena 1998, pp. 64, 65
Sulle ali della seduzione. Ventagli restaurati del Museo Civico,
catalogo della mostra a cura di Manuela Rossi, Imola 1999
Fiumalbo - Museo di Arte Sacra (e)
Il Museo aperto nella chiesa di Santa Caterina dei Rossi
(di proprietà della Confraternita omonima) sita a fianco
della parrocchiale nella piazza di Fiumalbo, espone gli arredi fissi e mobili della chiesa originaria seicentesca annessa al convento delle Domenicane: altari sei-settecenteschi con dipinti su tela e tavola incorniciati da ancone
lignee dorate, coro ligneo monastico del 1754 recante
l’emblema di Santa Caterina, il cuore trafitto e oggetti
dell’oreficeria sacra conservata entro vetrine. Dietro all’altare maggiore e a ridosso delle cappelle laterali sono
esposti paramenti tessili (pianete) di pregevole fattura in
dotazione alla chiesa, in sete operate a motivi floreali databili al XVII, XVIII e XIX secolo.
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della
Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 76, 77
Gaggio di Piano - Raccolta del Lavoro
Contadino e Artigiano di Villa Sorra (c)
La Raccolta del lavoro contadino e artigiano di Villa Sorra venne costituita nel 1973 quando il pittore e antiquario Celestino Simonini decise di donare al Comune di Modena
i beni di cultura materiale raccolti nel corso di lunghi anni di ricerca. Da allora gli oggetti sono conservati a Villa
Sorra, residenza nobiliare settecentesca, oggi di proprietà pubblica, circondata da un vasto parco e da diversi edifici rurali. Accresciuta nel tempo da altre donazioni,
la raccolta è oggi una delle più cospicue a livello regionale con i suoi oltre 9.000 reperti, databili dalla fine del
XVIII alla metà del XX secolo. Attualmente, essendo consentito l’accesso alla sola area verde circostante la villa e
al giardino storico, è possibile chiedere di visitare i depositi per motivi di studio rivolgendosi al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena, a cui le collezioni sono
state affidate dal 1991. La raccolta è costituita principalmente da attrezzi agricoli e suppellettili relativi al lavoro
e alla vita domestica nel mondo contadino e da una ricca
serie di strumenti e manufatti inerenti l’artigianato tradizionale in ambito rurale e urbano.
Tra i pezzi riguardanti il settore tessile si segnalano un
273
REPERTORIO
nucleo significativo di tessuti (provenienti dal corredo
domestico delle classi rurali meno abbienti) ed una consistente serie di attrezzi relativi al ciclo produttivo delle
fibre tessili, coltivate in area locale fino agli anni 1950
circa. Nell’inventario figurano indumenti da uomo (14
capi di vestiario e 7 tabarri), indumenti da donna (31 capi), indumenti da bambino e portainfanti (34 capi, oltre
a 3 completi battesimali), oggetti d’uso e biancheria della casa (lenzuola, coperte, asciugamani, tende e parti di
tappezzeria per complessivi 79 pezzi), scampoli di tessuto di varia provenienza (per un totale di 69 pezzi). Fra
gli attrezzi da lavoro è rappresentato in particolare il ciclo produttivo della canapa (anche nelle fasi iniziali di
coltivazione, raccolta e mondatura della fibra) rivolto
alla produzione di indumenti popolari e tessuti di uso
domestico. Sono presenti strumenti per la preparazione
e la formazione del filo e delle matasse: 57 pettini, 33 arcolai di vario tipo, 20 filatoi, 13 rocche, 102 fusi, 40 rocchetti di filo. Fanno parte della raccolta 4 telai completi
e varie parti componenti dei dispositivi per l’orditura e
la tessitura, oltre ad alcuni attrezzi per la cardatura della lana.
G. C.
1996, ha portato alla realizzazione del Parco archeologico e Museo all’aperto del parco di Montale, inaugurato nel 2005. L’area ospita una ricostruzione a grandezza
reale di una parte del villaggio terramaricolo desunta in
base ai dati di scavo. Si tratta in particolare di due abitazioni sopraelevate sul livello del terreno e arredate con
oggetti riprodotti fedelmente sulla base di originali rinvenuti nell’area di Montale o in altre terramare. Nonostante gli scavi non abbiano restituito filati o frammenti di tessuto, tuttavia l’ingente numero di fusaiole in ceramica di impasto e pesi da telaio (ora conservati al Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena), ha fatto supporre che le attività di filatura e tessitura fossero
praticate all’interno del villaggio. All’interno delle due
abitazioni sono stati infatti ricostruiti a titolo esemplificativo due telai verticali a pesi, larghi rispettivamente
m 1,20 (casa A) e m 1,60 (casa B) da montante a montante. Il primo è stato armato con un ordito di lana per
un totale di 360 fili distribuiti su 12 pesi, mentre l’altro
con un ordito di lino formato da 650 fili distribuiti su 32
pesi accanto a un elegante abito bianco riservato alla
sposa del guerriero. I numerosi pettinini in corno e osso rinvenuti sia in questo sito che in altre terramare sono stati interpretati come strumenti utili a compattare
il filato durante l’operazione di tessitura.
B.O.
Iola di Montese - Raccolta di cose
Montesine (p)
A. Cardarelli, Parco archeologico e museo all’aperto della terramare
di Montale, Modena, Comune di Modena, Museo Civico
Archeologico, 2002
Allestita in un’antica canonica del 1683, la raccolta restituisce con grande cura del dettaglio, insieme a reperti della secondo conflitto mondiale, lo scandire
della vita semplice e quotidiana della gente che abita
quei luoghi, la cucina, la camera da letto, le stanze da
lavoro del falegname, del calzolaio e della tessitura. In
questa ultimo luogo della casa si trova un telaio di legno funzionante per stoffe di canapa con un corredo di
strumenti per lavorare la lana di pecora (forbici, fusi e
rocche).
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della
Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 86, 87
Montale - Parco Archeologico e Museo
all’Aperto della Terramare di Montale (c)
La presenza di una terramare sulla collinetta di Montale scavata nella seconda metà dell’800 e più tardi nel
274
Montefiorino - Museo della Repubblica
Partigiana (c)
Aperto in alcune sale della Rocca Medioevale, il museo
documenta la vicenda partigiana di Montefiorino soffermandosi sugli eventi fondamentali di quel periodo: l’occupazione tedesca, la liberazione e la nascita della Repubblica. I manufatti tessili sono rappresentati in queste
sezioni da divise, abiti e accessori indossati da militari e
partigiani che hanno combattuto sui vari fronti di pianura e di montagna.
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della
Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 84, 85
REPERTORIO
Montese - Museo Storico (c)
Ospitato nella Rocca, antico fortilizio difensivo del XIII
secolo da poco restaurato, il museo si articola in quattro
sezioni dedicate alla ricostruzione storica delle prime comunità umane nella valle del Panaro, dalla preistoria al
Medioevo (Insediamenti e Territorio), al ruolo prioritario dell’acqua nella vita della montagna (Cultura materiale, economia dell’acqua), ai problemi e agli obiettivi
del millennio in cui viviamo (Memoria del XX secolo.
Nuovo millennio), ai danni prodotti dai conflitti mondiali (Fascismo e guerra in Italia. La linea Gotica), alla ricostruzione del paese nel periodo post-bellico (Gli anni
della trasformazione). È solo nella penultima sezione che
sono esposte divise della seconda guerra, italiane, tedesche, americane e brasiliane, in quanto dal Brasile, fatto
unico in Italia, partì una spedizione di 25.000 uomini in
difesa del nostro Appennino, che il 14 aprile 1945 liberò
Montese dall’oppressione fascista.
tunicella con accessori) veicolavano il ruolo e la funzione
liturgica dell’officiante e del suo corredo vestimentale, all’interno di un sistema visivo di forme e colori in cui si coniuga e si trasmette la simbologia del sacro. In questa occasione sono esposti due reperti eccezionali per significato, antichità e rarità: si tratta di due reliquie tessili seriche di santi benedettini, che documentano la produzione oggi quasi interamente perduta di tessuti e ricami alto medioevali provenienti da manifattura bizantina (VIII
e IX secolo), il reperto più antico con aquila imperiale e
da manifattura palermitano o dell’Egitto fatimita (XI-XII
secolo), il reperto d’epoca posteriore con animali vari, lepri, cervi e leoni.
Trame di luce. Disegno e colore nei tessuti liturgici modenesi, catalogo
della mostra (Nonantola, Museo Diocesano, 6 novembre 2004
– 9 ottobre 2005), a cura di C. Ciaravello e R. Fangarezzi,
Quaderni Di Arte Sacra n. 4, San Giovanni in Persiceto (Bo),
2004
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della
Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 92, 93
Sestola - Museo della Civiltà Montanara (c)
Nonantola - Museo Benedettino Nonantolano
e Diocesano di Arte Sacra (e)
Inaugurato nel 2003 in occasione di due importanti ricorrenze, il XII centenario della morte di Sant’Anselmo
abate, fondatore dell’Abbazia Benedettina, e il XVII centenario del martirio dei Santi Sinesio e Teopompo, il Museo, allestito nei locali contigui dell’antico monastero benedettino consacrato nel 753 e passato ai monaci cistercensi dal 1514 al 1769 insieme all’attigua abbazia, esempio significativo di architettura romanica padana, si configura in due sezioni distinte: il Tesoro Abbaziale, che documenta la storia di Nonantola centro di intensa vita politica e religiosa in epoca medioevale e il Museo Diocesano d’Arte Sacra, nato per la tutela e l’esposizione dei beni
artistici diocesani a rischio conservativo.
La seconda sezione pensata in una logica di esposizioni
temporanee e tematiche sull’arte sacra, non strettamente legate alla storia dell’abbazia benedettina, propone oggi una mostra temporanea, dedicata alla comprensione
dei significati molteplici espressi principalmente dai paramenti liturgici, tessuti e ricamati di varie epoche e tipologia, provenienti dalle chiese della diocesi di Modena
e Nonantola e non sufficientemente tutelati quanto a sicurezza e conservazione. Disegno, tecnica, colore del tessuto e taglio sartoriale dell’indumento (piviale, pianeta,
Il Museo è allestito dal 1986 nell’ex scuderia del Palazzo
del Governatore, nel complesso del castello di Sestola.
Sono più di 1500 i pezzi che formano la raccolta, costituitasi nel tempo sulla base di un nucleo originario di
oggetti e manufatti che testimoniano la quotidianità antica dell’Appennino modenese. Oltre alle botteghe artigiane del fabbro, del calzolaio, del falegname, sono stati
ricostruiti alcuni ambienti della casa rurale: la cucina, la
camera da letto, la cantina, la stalla. Un’intera sezione è
dedicata alla tessitura e al cucito e alla lavorazione domestica della lana, documentata da una serie di strumenti. Tra i pezzi più interessanti figura un telaio della
fine del XIX secolo.
E.L.
Musei della Provincia di Modena, pubblicazione a cura della
Provincia di Modena, Modena 1998, pp. 108, 109
275
BOLOGNA
Museo Civico Archeologico (c)
corredi delle necropoli etrusche di Bologna che coprono un arco temporale dal IX al IV secolo a.C., hanno restituito una notevole quantità di fusaiole in terracotta,
rocchetti di ceramica, conocchie, fusi e pesi da telaio. Nel
periodo orientalizzante alcuni di questi oggetti sembrano subire un’evoluzione formale e decorativa poiché i
corredi si arricchiscono di esemplari più raffinati quali
ad esempio fusaiole realizzate in bronzo, in pietra o addirittura in vetro associati a conocchie in osso o ambra.
Generalmente fanno parte dei corredi più ricchi e sottolineano il rango della signora che li sfoggiava. La loro fragilità porta a pensare che questi strumenti avessero solamente un valore simbolico a ricordo del ruolo svolto anticamente dalla donna all’interno della casa. Un oggetto
interessante è il tintinnabulo con decorazione a sbalzo
che raffigura il ciclo di lavorazione della lana suddiviso in
quattro scene (ultimo quarto del VII secolo a.C.). Il Museo
Civico Archeologico inoltre ha realizzato nell’area del
parco pubblico dei Giardini Margherita, una ricostruzione in dimensioni reali della capanna tipica di epoca villanoviana arredata con varie suppellettili fra le quali un
telaio verticale a pesi.
B.O.
I
Museo Civico Medievale (c)
Dal 1985 il museo ha sede nel quattrocentesco palazzo
Ghisilardi Fava, una delle più rilevanti dimore dell’età dei
Bentivoglio. Sono state qui riunite la raccolta di Ferdi-
nando Cospi, quella del marchese Luigi Ferdinando Marsili, il fondo Pelagio Palagi e il nucleo espositivo più rilevante del museo costituito da testimonianze della vita
medievale bolognese. Si inserisce fra queste il grande piviale ricamato con scene della vita di Cristo e della Madonna proveniente dal cittadino convento di San Domenico, eccezionale esempio di opus anglicanum, ovvero di
quella raffinatissima produzione che si sviluppò in Inghilterra fra Duecento e Trecento. La ricchezza e la varietà
dell’apparato decorativo, ancora perfettamente leggibile
grazie alle condizioni di conservazione relativamente
buone, ne fanno un documento di eccezionale valore storico ed artistico, fonte di ispirazione per numerosi artisti
bolognesi del Trecento e del primo Quattrocento.
Sono attualmente conservati a deposito i numerosi tessuti che nell’allestimento storico del museo figuravano
invece nel percorso espositivo appesi alle pareti con la
protezione di teche di legno e vetro quale documentazione di questo particolare settore delle cosiddette arti
applicate o industriali. Completano il patrimonio tessile
del Museo Civico numerosi frammenti ordinati in una
sorta di campionario a fogli che, unitamente ai precedenti, esemplificano le principali tipologie tessili, tecniche e decorative, fra Medioevo e Settecento. La formazione della singolare raccolta, di cui manca ancora lo studio
analitico dei singoli esemplari, è certamente connessa alle vicende della locale Aemilia Ars. Quanto alla provenienza dei materiali, occorre notare che numerosi frammenti trovano riscontro nell’enciclopedica raccolta Gandini del Museo di Modena e che verosimilmente hanno
analoga provenienza.
F. Bignozzi Montefusco, Il piviale di San Domenico, Bologna 1970
REPERTORIO
Museo Civico d’Arte Industriale e Galleria
Davia Bargellini (c)
Istituito nel 1924 per volere dell’allora soprintendente
alle Gallerie Francesco Malaguzzi Valeri, il museo ha sede
nel secentesco palazzo Bargellini, caratterizzato dai monumentali atlanti in arenaria della facciata. È composto
di due distinti nuclei patrimoniali, la quadreria Bargellini e le raccolte d’arti applicate bolognesi dei secoli XVXVIII la cui fusione doveva dar vita, nelle intenzioni dell’ideatore, ad un vero e proprio appartamento arredato
del Settecento bolognese.
Il settore tessile è rappresentato da una ricca serie di manufatti ricamati provenienti dall’Opera Pia dei Poveri
Vergognosi di Bologna, amministratore del Conservatorio femminile di Santa Marta, il celebre collegio che accoglieva e garantiva un futuro a giovani di buona famiglia cadute in disgrazia per cattiva sorte. Fra le opere di
maggior interesse si ricordano le parti frammentarie di
pianeta con raffigurazioni ispirate al repertorio raffaellesco delle Logge Vaticane, una serie di quadretti devozionali esemplati su opere pittoriche famose, una poltrona
e una coppia di seggioloni rivestiti in raso di seta avorio
con ricami raffiguranti rispettivamente la primavera e
un paesaggio marino (poltrona) e semplici festoni di
frutta (seggioloni). Databili al XVII secolo, i ricami sono
accomunati dal cosiddetto punto pittura, tecnica che
consentiva di ottenere effetti cromatici complessi, ricchi
di numerosissime sfumature. Si segnala infine un raro
teatrino del XVIII secolo dotato di un ricco corredo di marionette abbigliate secondo il costume dell’epoca.
Il Museo Davia Bargellini, a cura di R. Grandi, Bologna 1987, pp.
174-190
Collezioni Comunali d’Arte (c)
Fondato nel 1936, a conclusione di un sistematico piano
di riorganizzazione delle raccolte civiche, il museo ha sede al secondo piano del Palazzo Comunale, all’interno
delle sale che un tempo erano adibite a residenza dei Cardinali Legati. Espone un ricco patrimonio proveniente
dalle antiche magistrature cittadine, dalla collezione Palagi e da donazioni successive, sintesi delle principali correnti artistiche bolognesi dal ’300 all’ ’800.
Il settore dei tessuti è rappresentato da una importante campionatura della produzione di merletti e ricami
Aemilia Ars, l’industria di arti applicate che si sviluppò
a Bologna a cavallo fra Otto e Novecento con lo scopo
di promuovere il recupero di produzioni artigianali
tradizionali cadute in disuso e la cui attività fu fortemente influenzata dal gusto per i revivals di Alfonso
Rubbiani.
Acquisita dal Comune nel 1935, e in un primo tempo destinata al Museo Davia Bargellini, la raccolta di pizzi e
merletti è formata da oltre duecento pezzi che ripropongono tecniche e motivi decorativi storici, desunti dai numerosi repertori di modelli dati alle stampe nel XVI e
XVII secolo.
Si segnala infine un prezioso arazzo fiammingo del XVI
secolo raffigurante Salomone e la Regina di Saba.
Aemilia ars. Arts &Crafts a Bologna 1898-1903, catalogo della
mostra a cura di C.Bernardini, D. Davanzo Poli, O. Ghetti Baldi,
Bologna 2001
Casa Carducci (c)
Istituito nel 1921 dal Comune di Bologna per conservare
e valorizzare il patrimonio di memorie e cultura raccolto
dal poeta Giosuè Carducci nell’ultima abitazione bolognese, occupata dal 1890 sino alla morte nel 1907, oggi il
museo di Casa Carducci si configura come un organismo
composito e originale: dimora storica con giardino e monumento, archivio e biblioteca, raccolta di oggetti e memorie carducciane, centro di informazione e di ricerca
sull’opera dello scrittore. Oltre alla biblioteca e all’archivio, che rappresentano indubbiamente la parte più rilevante e significativa di tutto il complesso, il museo raccoglie un ricco ed eterogeneo patrimonio di oggetti, arredi, suppellettili. La casa ha infatti conservato l’arredo
storico, tipico delle abitazioni borghesi di fine Ottocento. Poltroncine, divani, letti, molti dei quali dotati delle
tappezzerie e dei rivestimenti tessili originali, arredano il
salottino, lo studio, la camera da pranzo e le camere da
letto conferendo agli ambienti un fascino del tutto particolare. Per rarità e interesse, si segnalano le due tende da
finestra in taffetas di seta avorio stampato e dipinto dell’ultimo quarto del XIX secolo collocate nello studio, oggetto di un accurato intervento di recupero attuato grazie a finanziamenti dell’Istituto per i Beni Culturali. Un
recente intervento di ricostruzione, condotto sulla base
di attente ricerche storiche, ha invece interessato la camera da pranzo e la camera da letto del poeta dove sono
state allestite le tende mancanti. Benché non esposti, si
conservano infine numerosi capi di vestiario appartenuti a Giosuè Carducci: una vestaglia in lana scozzese, camicie di cotone, il frac confezionato quando il letterato fu
ascritto al senato (1891), la redingote, cappelli e farfalli-
277
REPERTORIO
ni, preziosa testimonianza della moda maschile di fine
Ottocento.
Museo Civico del Risorgimento (c)
Il Museo, originariamente inaugurato nel 1893 in una
sala al pian terreno del Museo Civico di Bologna, dopo
diverse chiusure e riaperture, dal 1990 fu definitivamente trasferito e riallestito al piano terra di Casa Carducci
secondo un arco cronologico compreso tra l’arrivo delle
armate francesi a Bologna nel 1796 e la conclusione della prima guerra mondiale che si articola in cinque sezioni tematiche: l’età napoleonica, la restaurazione, l’epopea risorgimentale, l’Italia unita, Bologna in guerra.
Conserva un ricco patrimonio di manufatti tessili, per
un totale di 550 pezzi, ordinati secondo le varie tipologie
ed epoche, di cui solo una piccola parte è esposta. La parte più cospicua è quella del periodo risorgimentale ammontante con bandiere, stendardi, uniformi militari, copricapo e accessori vari che vanno dalle coccarde alle
croci, dai foulards e dai fazzoletti patriottici fino alle giberne e ai gradi militari (cordelline, spalline, mostrine,
ecc…).
Tra le uniformi, (di cui si conservano solo le giubbe, perché i pantaloni venivano riutilizzati per uso civile) comprese tra la rivoluzione francese e la prima guerra mondiale si menzionano le più importanti, quelle della
Guardia Nazionale della Repubblica Cisalpina (1797),
del generale napoleonico Josef Grabinski e dei patrioti
bolognesi, Zambeccari (1848), Boldrini (1849), Filopanti (1866), Serra (1870). Per gli stendardi ricordiamo i
due napoleonici e tra le bandiere quelle risorgimentali
del 1831 e del 1854, oltre a quelle delle guerre di Indipendenza (1848-1866). Un nucleo numericamente inferiore ma significativo di manufatti tessili è rappresentato, inoltre, da abiti civili maschili del XVIII e XIX secolo, da livree corredate da accessori di impiegati comunali e da un arazzo meccanico di fine ’800 e inizi ’900, da
tredici grandi drappi con gli emblemi delle antiche corporazioni bolognesi eseguiti intorno al 1930 per decorare gli esterni del palazzo Comunale (in deposito al
Museo della Tappezzeria della città), nonché da paramenti e arredi sacri otto – novecenteschi, tra cui spicca
per pregio il prezioso camice in pizzo a fuselli di epoca
napoleonica appartenuto al Cardinale bolognese Giambattista Caparra, che incoronò Napoleone a Milano nel
1805.
278
Il primo centenario del Museo del Risorgimento di Bologna, in
«Bollettino del Museo del Risorgimento», n. 34, Bologna 1989
Invito al Museo civico del Risorgimento – Casa Carducci, Bologna
1990
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», anno
XLII, Bologna 1997, pp. 57/63
Tunica con medaglie del garibaldino Ignazio Simoni. Italia 1860,
Pannetto di lana rossa. Bologna, Museo Civico del Risorgimento.
Museo del Patrimonio Industriale (c)
Il Museo del Patrimonio Industriale di Bologna, collocato in un’antica fornace da laterizi, studia, documenta, visualizza la storia produttiva della città e del suo territorio, dalla “Bologna dell’acqua e della seta” dei secoli XVXVIII all’attuale distretto meccanico e meccatronico. Di
particolare interesse la ricostruzione dell’organizzazione
dell’antico network urbano della produzione serica dove
il percorso narrativo è integrato da modelli di macchine
funzionanti (mulino da seta alla Bolognese in scala 1:2,
modello di conca di navigazione); allestimenti scenogra-
REPERTORIO
Telario per veli alla bolognese (ricostruzione). Bologna, Museo del
Patrimonio Industriale.
Orditoio da seta alla bolognese (ricostruzione). Bologna, Museo del
Patrimonio Industriale.
fici (stanza del mercante, piazza della produzione, ricostruzione di acconciature con velo di seta dei secoli XVXVIII); strutture interattive (teatro delle acque e dei mulini, plastico dei mulini rizzardi, plastico del mulino Pedini); dia-proiezioni (il velo di seta nella pittura europea
dei secoli XV-XVIII); documentari (il filo dell’acqua, il
mulino da seta alla bolognese, il viaggio della seta tra Bologna e Venezia).
M.G.
Museo Ebraico (c e altri enti)
Prodotto a Bologna, a cura di A. Campigotto, R. Curti, M. Grandi,
A. Guenzi, Bologna 2000, pp. 22-47.
Inaugurato il 9 maggio 1999, il Museo Ebraico di Bologna
è ospitato in un antico palazzo cinquecentesco nella zona dell’ex ghetto: è stato istituito allo scopo di conservare, studiare, far conoscere e valorizzare il ricco patrimonio culturale ebraico profondamente radicato a Bologna
e in molte località dell’Emilia-Romagna.
Il tema centrale dell’identità ebraica è sviluppato nelle tre
sezioni del percorso espositivo: la prima affronta la storia
del popolo ebraico dalle origini ad oggi, e comprende una
sala della memoria a ricordo della Shoah; la seconda sezione è dedicata alla storia dell’insediamento ebraico a Bologna; la terza documenta le vicende storiche degli ebrei
in Emilia-Romagna. Il percorso si avvale di un allestimento architettonico, grafico e multimediale innovativo.
Alcuni argenti e tessuti, provenienti dalla Comunità
Ebraica di Modena, illustrano aspetti della vita e della tradizione ebraica: vanno segnalati un meil (manto per la Torah) della metà del XVIII secolo, un altro della fine del XVIII
secolo e un talled (scialle per la preghiera) ottocentesco.
V.M.
279
REPERTORIO
Museo della Sanità e dell’Assistenza (Ausl. Bo)
Ospitato nell’antico complesso dell’Ospedale della Vita,
a fianco della chiesa di Santa Maria, il museo, fondato nel
1999, conserva oggetti della storia del Santuario, della
Confraternita religiosa e il Tesoretto del Santuario. Nella
grande sala adiacente all’Oratorio, tra i diversi arredi sacri esposti è conservato all’interno di una teca in vetro
un parato composto da pianeta, stola, manipolo, velo
omerale e borsa da calice in seta operata colore cremisi.
Il paramento, databile al terzo quarto del XVIII secolo, è
completamente decorato da un ricamo con motivi di racemi e foglie lanceolate eseguite con le diverse tipologie
di oro, filato, riccio, lamellare rappresentante, e nel gusto dell’impianto decorativo e nella tipologia di lavorazione una manifattura locale. Naturalmente questo è solo uno dei bellissimi manufatti tessili conservati nella
Sacrestia della Chiesa di Santa Maria dove, protetti all’interno di apposite cassettiere, si trovano pezzi di altissimo valore tra cui esempi di sete francesi del XVIII secolo. Nell’Oratorio dell’Arciconfraternita dei Battuti di
Santa Maria della Vita è invece possibile ammirare un
pregevole paliotto in seta operata databile all’ultimo
quarto del XVII secolo.
B.C.
Basilica di San Francesco (e)
La basilica di S. Francesco fu edificata fra il 1236 e il 1254
su iniziativa della comunità Francescana che si era stabilita a Bologna fin dal 1218 con Bernardo di Quintavalle,
uno dei primi discepoli di San Francesco. Sull’altare maggiore è situata la grande ancona marmorea realizzata tra
il 1388 e il 1393 dai veneziani Jacobello e Pier Paolo dalle
Masegne, decorata con scene della “Vita di S. Francesco”,
“l’Incoronazione della Vergine e Santi”, il “Padre Eterno e
Santi”. In una delle cappelle radiali, denominata appunto la Cappella di San Giuseppe da Copertino, è conservato, chiuso in una teca, il saio del “Santo Volante”, giunto
alla basilica dopo la sua morte come reliquia da venerare.
Giuseppe Maria Desa nacque a Copertino il 17 giugno
1603; ricordato per le estasi, i voli, le scrutazioni dei cuori, nonostante la sua rinomata semplicità e i problemi
che ebbe con l’Inquisizione, fu molto amato non solo dalla gente comune ma anche da principi e cardinali che si
rivolgevano a lui per le più diverse problematiche. Il 15
280
agosto 1663 celebrò la sua ultima messa e morì il 18 settembre dello stesso anno a Osimo. I confratelli dovettero
nascondere il suo corpo per proteggerlo dalla folla che
accorreva per vederlo e tagliare un pezzo della sua santa
tonaca. Fu beatificato da Benedetto XIV il 24 febbraio
1753 e canonizzato il 16 luglio 1767 da Clemente XIII.
Santo patrono degli studenti, dei piloti e di chi viaggia: la
sua ricorrenza è il 18 settembre.
B.C.
Museo della Basilica di San Domenico (e)
Inaugurato il 7 ottobre 1956, restaurato e riordinato nel
1987-88, il museo della Basilica Santuario di San Domenico si compone di due sale distinte; quella inferiore che
raccoglie opere di pittori e scultori dal ’300 al ’700 e quella superiore dove in grandi teche sono conservati reliquari, pissidi, ostensori e, all’interno di un armadio centrale,
una grande varietà di apparati tessili; pianete, piviali,
stendardi e diversi arredi e paramenti liturgici testimonianza della storia della Basilica. In particolare il Manto
della Madonna del Rosario e il baldacchino in velluto rosso scuro completamente decorato con ricami a filati metallici, donati dai bolognesi nel 1630 alla Beata Vergine del
Rosario, qui venerata come ex voto di ringraziamento per
la cessazione della peste che fu attribuita al suo intervento. Un secondo baldacchino processionale di colore avorio completamente decorato da ricami e sculture lignee
inaugurato in occasione della processione del Corpus Domini del 1763, e ancora lo stendardo o paliola e i paramenti liturgici che furono commissionati nel 1767 e che dovevano essere adoperati per la festa del Corpus Domini e per
quella di San Domenico a partire dall’anno successivo.
Nella relazione del Consiglio dei Padri Domenicani del 1
aprile 1767 si approva infatti la spesa di 600 scudi romani
per l’esecuzione di una pianeta, due dalmatiche, un piviale, un velo omerale; si fa riferimento anche ai vessilla e palliola e si specifica che i tessuti per la confezione delle vesti
liturgiche devono essere opere phrigio cioè ricamati come il
baldacchino. Nel Liber Consiliorium si accenna ad un accordo fatto con una ricamatrice, di cui però non è citato il
nome e che, secondo Marescalchi, potrebbe essere identificata in Barbara Zucchi. Tra gli oggetti un bellissimo ombrellino processionale in gros de Tours avorio completamente ornato da ricami floreali a punto raso con sete policrome, girali vegetali e motivi rocaille eseguiti a punto
REPERTORIO
steso in oro filato, riccio e lamellare databile tra il 1722 e
il 1762, considerato una copia eseguita nella stessa bottega dell’esemplare conservato presso la Cattedrale di San
Pietro. Sono inoltre custoditi diverse pianete e parati in
preziose sete settecentesche di provenienza lionese, una
grande varietà di lini per uso liturgico decorati con merletti ad ago, tombolo e dalla tipica lavorazione Aemilia
Ars.
B.C.
La tela vissuta, a cura di D. Decembrini Bocchieri, M. Rossella
Guagliumi D’Urso, San Giovanni Persiceto 1992
Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio culturale,
catalogo della mostra, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C. Giudici,
Cinisello Balsamo 2001.
Museo della Beata Vergine di San Luca:
raccolta storico-didattica (e)
Il museo è stato istituito con lo scopo di valorizzare e
far conoscere il patrimonio devozionale, storico-artistico e culturale legato all’immagine della Madonna di
San Luca che si conserva nell’omonimo santuario sul
Colle dalla Guardia. È ospitato nel Cassero di Porta Saragozza, parte della terza cerchia di mura cittadine del
XIII secolo oltre che varco d’accesso per le processioni
della Madonna. L’allestimento museale, sviluppato su
cinque livelli, riguarda l’immagine della Madonna e la
sua storia, il Santuario, il Portico di San Luca e i suoi restauri, le processioni dell’immagine della Madonna attraverso la città e infine gli oggetti per la devozione e il
culto. Fra questi si segnalano il manto di copertura dell’icona, le vesti dei Raccoglitori Gratuiti e dei Domenichini.
Museo di San Petronio (e)
Istituito dalla Fabbriceria di San Petronio nel 1894, il museo riunisce in due locali a piano terra con accesso alla Basilica le memorie della costruzione del sacro edificio e dei
suoi sei secoli di storia. Il nucleo iniziale, già ricordato dal
Vasari, si costituì nei secoli XVI-XIX. Ospitato nella prima
sala, riunisce i disegni dei vari architetti che affrontarono
il problema del completamento, mai realizzato, della facciata della basilica, fra i quali figurano Baldassarre Peruzzi, il Terribilia, il Palladio, il Vignola.
Nella seconda sala, accanto a importanti codici e antifonari miniati, a reliquari, calici e oreficerie di diverse epoche e fogge, oggetti di legno, osso e pietre dure è esposto
un nucleo di preziosi parati liturgici sei-settecenteschi.
La maggior parte di essi è pervenuta alla basilica di San
Petronio grazie a donazioni di alti prelati. Fra questi figura la pianeta completa di accessori in raso di seta rossa ricamata in oro filato con raffinati motivi a candelabra databile fra Cinque e Seicento, donata nel 1809 dall’arcivescovo Oppizzoni, proveniente dalla soppressa
Chiesa dello Spirito Santo. Di provenienza ignota ma anch’esso donato nel 1807 o 1809 dell’arcivescovo Oppizzoni o dal prevosto Pietro Magnoni è un ricco velo omerale del terzo quarto del XVIII secolo in taffetas di seta
avorio con un ricco ricamo floreale in sete policrome. I
paramenti più ricchi e prestigiosi sono tuttavia quelli legati alla figura del Cardinale Aldrovandi. Si tratta di ricami particolarmente sontuosi, interamente eseguiti in
fili d’oro o con l’aggiunta di sete policrome, riferibili a ricamatori romani e a date prossime al 1743, anno del loro arrivo a Bologna. Si segnala in particolare la pianeta
con accessori in gros de Tours laminato di seta rossa ricamata in sete policrome, fili d’oro e d’argento recante le figure allegoriche delle Virtù Cardinali e della Chiesa entro un complesso motivo a padiglione alla Berain con
tralci e motivi mistilinei ornati da cortine riccamente
drappeggiate.
F. Bignozzi Montefusco, Gli arredi, in La Basilico di San Petronio in
Bologna, vol. II, Milano 1984
A. Buitoni, Arredi e paramenti: provenienze e peripezie, in Il Museo di
San Petronio in Bologna, a cura di M. Fanti, Bologna 2003 pp. 2982 e pp. 137-155
Museo del Tesoro della Cattedrale di San
Pietro (e)
Allestito e aperto al pubblico in modo permanente in occasione del Giubileo del 2000, il Museo del Tesoro della
Cattedrale espone un’ampia scelta di arredi e apparati sacri di grandissimo pregio artistico eseguiti tra il XV e il XX
secolo donati alla cattedrale dai pastori succedutisi nei
secoli all’episcopato. Appartengono al nucleo più antico
gli apparati legati alla figura del Beato Nicolò Albergati
vescovo di Bologna dal 1417 al 1443 a cui vengono attribuite due rari esemplari di mitre episcopali. La prima datata intorno al 1420 è decorata con fili d’oro e perle formanti una croce commissa rovesciata e campi che includono borchie dorate e pietre vitree arricchita da smalti
raffiguranti l’Agnus Dei e lo Spirito Santo; la seconda da-
281
REPERTORIO
tata alla prima metà del XV secolo, e probabilmente di
manifattura toscana, presenta un raffinatissimo decoro
ricamato che, entro sagomature tetralobate, eseguite con
perline, raffigura diverse immagini di Vescovi, Santi e sul
retro un’Annunciazione. A papa Gregorio XV (Alessandro
Ludovisi, arcivescovo di Bologna dal 1612 al 1621) sono
riconducibili diversi apparati, inviati alla Cattedrale dallo stesso pontefice nel 1622, tra i quali il cosiddetto apparato “del Gesù” il cui sontuoso decoro si estende su tutta la superficie del parato e affianca un grande fregio centrale con medaglioni ricamati in policromia raffiguranti
Scene della Passione di Cristo. Altri manufatti raffinatissimi rimandano ai cardinali Girolamo e Giacomo Boncompagni: a Girolamo Boncompagni, che resse il governo dell’arcidiocesi dal 1651 al 1684 è riconducibile il ricercato piviale a fondo raso color avorio decorato da un
fitto ricamo fitomorfo in oro in cui spicca l’arma del cardinale caratterizzata da sei monti e una stella collocati sopra al drago. Al nipote Giacomo sono attribuiti due pianete in cui sul semplice tessuto in raso si svolge un serrato ricamo fitomorfo ad andamento verticale sinuoso, di
apparente sobrietà ma di disegno ed esecuzione assai ricercati. Il nucleo maggiore del Tesoro di San Pietro in Bologna è costituito dalle elargizioni lambertiane; Prospero
Lambertini, assurto al soglio Pontificio nel 1740 con il nome di Benedetto XIV, ha trasmesso alla città oggetti rari e
unici: sfarzosi apparati accomunati dal pregio dei tessuti
e dalla perizia finissima di lavorazione come il parato solenne per la messa pontificale detto “di San Pietro” a fondo cremisi decorato da un sontuosissimo ricamo in oro o
i monumentali arazzi tessuti a Roma fra 1741 e 1746 sotto la guida di Pietro Ferloni sui contoni di Pompeo Batoni. Sono inoltre esposti altri manufatti della metà del XIX
secolo, finissime tovaglie d’altare, amitti (di cui uno in
bisso), purificatoi di puro e bianco lino arricchiti sobriamente da merletti ad ago, fuselli, intagliati e ingentiliti
dalla tipica lavorazione dell’Aemilia Ars.
B.C.
F. Varignana, Guida al Tesoro della Cattedrale di San Pietro in
Bologna, Bologna 2000.
Museo di Santo Stefano (e)
Inaugurato nel 1999 il Museo documenta la storia del
complesso monumentale di Santo Stefano attraverso un
cospicuo patrimonio di oggetti d’arte e paramenti litur-
282
gici. Tra i reperti tessili da annoverare, la cosiddetta Mitria di sant’Isidoro occupa senz’altro una posizione di
primo piano. Collocata per un lungo periodo sulla testa
d’una statua reliquario (ora perduta) d’un santo di nome
Isidoro, i cui resti furono rinvenuti in Santo Stefano nel
1114, la mitria venne immediatamente associata al più
famoso santo omonimo, Isidoro da Siviglia incrementando così la popolarità e venerazione di questo oggetto.
Realizzata su seta di un singolare azzurro, presenta elaborati ricami descritti da candide perle di fiume, pietre
incastonate, ornamenti d’oro e smalti a pliques di gusto
pienamente gotico: proprio per questa particolare ricchezza si può ipotizzare che, pur non conoscendone le
circostanze, sia giunta a Bologna come dono di un pontefice, o di un alto prelato della curia pontificia, o della curia angioina. La complessa manifattura e il gusto decorativo rimandano infatti a un ambiente internazionale ancora fortemente impregnato dalla cultura tedesca come
la Napoli angioina attorno alla metà del XIV secolo dopo
la permanenza della corte sveva. Sono inoltre presenti
nel Museo altri parati sacri settecenteschi, temporaneamente non esposti, ma visibili su richiesta.
B.C.
S. Giorgi, La mitra di San’Isidoro, in “Ospiti 12”, Musei Civici
d’Arte Antica del Comune di Bologna, Ferrara 1999
Museo della Santa (e)
Il piccolo museo, annesso alla Chiesa del Corpus Domini,
accessibile tramite la “Cappella della Santa” dove è venerato il corpo seduto e incorrotto di Santa Caterina de’ Vigri (1413-1463), conserva alcuni oggetti a lei appartenuti
e testimonianze della storia del Santuario. Tra i manufatti tessili si può ammirare lo scapolare in canapa, tradizionalmente considerato parte dell’abito di Santa Caterina, e un abito donato “per grazia ricevuta” databile intorno alla metà del ’700 completamente decorato da un ricamo in filati metallici con motivi di racemi utilizzato,
per un certo periodo durante le festività solenni, come
manto per il corpo della Santa. All’interno della Cappella
è invece conservata un’immagine di Gesù Bambino, attribuita a Caterina, dipinta su carta applicata su tavola e rivestita di un coprifasce in seta verde decorato da un merletto a fuselli in oro; in un manoscritto settecentesco infatti vengono elogiate le specialità artigianali dei diversi
monasteri bolognesi e il Corpus Domini viene citato pro-
REPERTORIO
prio per la sua specializzazione nella vestizione degli
agnus Dei. Nel reliquario soprastante è conservato invece
un pannicello in finissima tela di lino decorata da ricami
in rosso e blu che, secondo la testimonianza della fedele
consorella Illuminata Bembo, prima biografa della Santa,
“…questo odorifero pannicello la Vergine l’adoperava
per il suo dolcissimo figliolo Gesù quando era in questo
mondo…”.
B.C.
A. Cavallina, Santuario del Corpus Domini detto “Della Santa”,
Bologna 1999; Lo spazio, il tempo, le opere. Il catalogo del patrimonio
culturale, catalogo della mostra, a cura di A. Stanzani, O. Orsi, C.
Giudici, Cinisello Balsamo 2001
Museo Missionario d’Arte Cinese e Museo di
Arte Sacra (e)
Il grande complesso conventuale francescano dell’Osservanza, sito nell’omonimo colle fuori porta San Mamolo,
risale al 1403, sebbene le numerose vicissitudini nel corso del tempo – soppressioni napoleoniche ed incursioni
belliche – abbiano comportato opere di totale o parziale
ricostruzione architettonica.
Il Convento ospita un Museo di Arte Cinese che presenta
testimonianze, di varia epoca e provenienza, legate all’attività missionaria dei frati francescani, ed anche una importante sezione museale di Arte Sacra, inaugurata nel
2003, che conserva preziose testimonianze sotto il profilo storico e artistico legate alla storia del Convento. Fra le
Collezioni di Arte Sacra si distinguono dipinti di scuola
bolognese del XVI-XVIII secolo, sculture lignee e terracotte policrome sempre di scuola bolognese oltre ad alcune
esigue ma importantissime testimonianze tessili di natura devozionale rappresentate dagli antichi reliquiari.
Si tratta dei calzari in stoffa e cuoio di San Giovanni da Capestrano che risalgono al 1453, di due cappucci francescani del XVIII e di un preziosissimo frammento di un
paio di centimetri quadrati proveniente dal cappuccio
del saio di San Francesco.
Di natura e varietà totalmente differente sono i manufatti tessili presenti nella collezione di Arte Cinese del Convento. In linea con l’interesse prevalente che muoveva i
frati nella raccolta dei materiali volto a documentare i costumi, le credenze e usanze dei popoli da cristianizzare
più che a collezionare opere di evidente pregio artistico,
tutti i materiali tessili cinesi presentano i canoni icono-
grafici e la modalità di un periodo fra XVIII e XX secolo e
sono realizzati in prevalenza nello Human, una regione
particolarmente famosa per l’abilità artigianale dei tessitori e delle ricamatrici. Tra questi è presente un corposo
nucleo di pannelli da appendere dai ricami con tinte
sgargianti con funzione decorativa che svolgono un ruolo puramente ornamentale: su seta rossa, arancione o
gialle anche di notevole dimensione (400x70), si presentano tutti frangiati inferiormente con dei ricami che raffigurano i motivi beneaugurali della tradizione popolare: richiami agli “otto spiriti taoisti”, i simboli del pavone
e della fenice e di altre figure di guardiani protettori e che
riportano sempre accanto le iscrizioni per ricordare la
circostanza in cui è stato donato l’importante oggetto.
Sempre per circostanze particolari venivano realizzati i
cuscini e le varie coppie di ricami in seta, verticali e spesso identici, con motivi decorativi – fiori, uccelli, rocce, farfalle svolazzanti – a carattere simbolico beneaugurale.
Tra i vari manufatti in seta preziosamente ricamati, uno
merita di essere distinto e ricordato per la funzione di insegna di ufficiale di rango nella Cina tardo-imperiale: si
tratta di una stoffa quadrata in cui è ricamata con fili in
oro e argento un’anatra mandarina ed elementi naturali
che veniva cucita sul davanti e retro degli abiti degli ufficiali al servizio della corte imperiale.
Non manca il nucleo degli abiti prevalentemente della
Cina del XX secolo e che comprende un abito maschile
formato da una lunga tunica in seta nera e giacchino con
ricami a motivi floreali; un abito femminile composto da
giacchetta in seta blu ed una gonna in seta rossa entrambe ornate con motivi floreali a ricamo. Singolare l’abito
femminile in cotone e seta verde e blu in ricami in seta a
tinte più tenui, probabilmente un “dapao” per donna anziana. Sono presenti anche le testimonianze dei calzari:
stivali maschili in seta nera, scarpe per donna con piedi
fasciati e scarpine per bambine in stoffe ricamate.
Particolare interesse desta infine il raro nucleo di copricapo a soggetto cristiano realizzati dagli artigiani cinesi,
in cui il messaggio religioso viene reso e tradotto con precisi canoni iconografici e con le tecniche della manifattura cinese dell’epoca. Sono tutti di forma quadrata realizzati in cartone e seta nera e con ricamati – con fili in oro
e argento e con corallo – i simboli (agnello, colomba e sacro cuoce) e i monogrammi cristiani. Accanto ad essi e
per maggiore evidenza, spiccano un paio di esemplari di
copricapo di manifattura e di religiosità cinese utilizzati
nelle cerimonie taoiste: l’uno a sommità esagonale in cartone e raso rosso decorato con tiara centrale e due draghi;
l’altro in seta nera con figura di pipistrello e ideogrammi.
283
REPERTORIO
Una particolarità: esposti fra i giocattoli cinesi sono presenti anche alcuni burattini della prima metà del XX con
la testa in ceramica e con gli abitini in stoffa dipinta.
A.S.
F. Salviati, Arte cinese ed extra-europea nel Museo Missionario del
Convento ‘Osservanza’, s.l. e s.d.
Museo Storico Didattico della Tappezzeria (p)
Il Museo Storico Didattico della Tappezzeria ha sede nell’elegante dimora storica di Villa Spada. Di proprietà
dell’amministrazione locale è un elegante edificio di
gusto neoclassico, progettato assieme al giardino all’italiana, dall’architetto Giovanni Battista Martinetti per
il principe Clemente Spada che acquistò il terreno e il
vasto parco dalla famiglia Zambeccari; la proprietà della Villa passò in mano a diversi proprietari, tra i quali un
principe turco e, in coincidenza del secondo decennio
del Novecento, venne acquistata dalla famiglia Pisa che
l’abitò fino al secondo conflitto mondiale, durante il
quale l’edificio venne pesantemente bombardato. La
proposta di trasferirvi il Museo venne presentata nel
1984 al sindaco Renzo Imbeni e all’assessore Giancarlo
De Angelis; i lavori di restauro, iniziati nel 1985, sono
stati eseguiti con un progetto rigorosamente conservativo dell’architetto Stefano Zironi che ha rispettato la tipologia dell’edificio.
Il Museo è costituito da una vasta collezione di tessuti per
arredamento e per abbigliamento, attrezzature e telai (il
grande telaio lombardo del 1700, trasformato nel 1801
nel sistema Jacquard e un rarissimo telaio per galloni del
1370), seicentesche matrici in legno di quercia per imprimere le pelli e svariati complementi d’arredo, distribuiti per tipologie lungo le dieci stanze che attualmente
compongono il percorso museale. La raccolta dei preziosi reperti iniziata dal fondatore del Museo, cavalier Vittorio Zironi nel 1946, all’indomani del termine del secondo
conflitto mondiale, illustra bene la grande sensibilità del
fondatore verso tutto ciò che in quegli anni sfuggiva alla
tutela degli enti preposti; dopo vent’anni di laboriose ricerche la collezione venne esposta al pubblico nella prima sede del Museo, a Palazzo Salina Brazzetti di via Barberia, nel centro storico di Bologna. L’attuale allestimento nella sede di Villa Spada risale al 1990: il nucleo originale della raccolta, incrementato dallo stesso cavalier Zironi fino alla fine degli anni Novanta, è stato arricchito
284
anche da importanti donazioni effettuate da enti pubblici e collezionisti privati, che hanno così voluto assicurare
a preziosi reperti una adeguata conservazione. Sono pertanto presenti gli stendardi delle antiche corporazioni
bolognesi che ornavano piazza Maggiore, dati in deposito dal Comune di Bologna, gli archetipi utilizzati con i disegni e i lavori realizzati dalla scuola Romeyne Ranieri di
Sorbello dono della fondazione Uguccione Ranieri di Sorbello, l’archivio completo dell’artista bolognese Guido
Fiorini (1879 – 1960), decoratore, pittore e grafico dell’Aemilia Ars, fatto pervenire al Museo dal nipote, completato dall’archivio storico documentario di Aemilia Ars,
una donazione della signora Flavia Cavazza, erede della
fondatrice. Il nucleo più antico della raccolta, il rarissimo
insieme di 64 frammenti di tessuti copti è invece frutto di
pazienti ricerche e aquisizioni effettuate dal fondatore
stesso del Museo, cavalier Vittorio Zironi, arricchito nel
1990 dalla donazione dell’architetto Erminia Rubini.
F.G.
Telaio per tessuti operati di seta con meccanica Jacquard. Bologna,
Museo Storico Didattico della Tappezzeria.
REPERTORIO
Biblioteca Casa di Riposo per Artisti
Drammatici “Lyda Borelli”
Fondo Gandusio (p)
Museo Memoriale della Libertà (p)
La “Casa di riposo per artisti drammatici” di Bologna, edificata su un terreno di pertinenza del parco di Villa delle
Rose donato all’uopo dal Comune, è stata istituita nel
1917 per volontà di alcuni fondatori privati e aperta nel
1930; alla fine degli anni Cinquanta viene intitolata all’attrice Lyda Borelli.
La Casa risulta attualmente decorata da numerosi dipinti, sculture, incisioni, ritratti fotografici e cimeli di attrici
e attori che hanno calcato le scene italiane a partire dalla
seconda parte del XIX secolo. Oltre ai busti ed ai bronzetti che, per esempio, raffigurano Ermete Novelli, Eleonora
Duse, Lyda Borelli e Maria Melato e i dipinti che ritraggono Adelaide Tessero e Renato Simoni, fin dagli anni Trenta, si è andato accumulando, attraverso numerose e ripetute donazioni, un consistente patrimonio documentario dalle molteplici tipologie: immagini fotografiche di
vita e di scena, copioni, diari e documenti amministrativi, significative testimonianze di vita teatrale italiana che
hanno dato vita alla biblioteca-archivio della Casa. Vi si
conservano inoltre reperti di carattere più “museale” tra
cui il costume indossato da Dina Galli nella celeberrima
Felicita Colombo; un abito in lamè con ombrellino e ventaglio in piuma di struzzo di Vivienne D’Aris, artista del varietà della prima metà del XX secolo; il costume di Marcello Moretti, grande protagonista di Arlecchino servitore di
due padroni, nell’edizione realizzata nel 1947 da Giorgio
Strehler con il Piccolo Teatro di Milano.
Nel 1951 la biblioteca viene arricchita dal “Fondo Antonio Gandusio” e a questo attore viene intitolata. Oltre al
patrimonio bibliografico e documentario il fondo consta
di una piccola collezione (poco più di una decina) di indumenti. Tra questi abiti di scena prodotti da sartorie teatrali, ricordiamo un costume da Arlecchino e un costume
in velluto marrone di foggia vagamente seicentesca utilizzato pare per la rappresentazione de L’antenato di Carlo Veneziani e alcuni gilet. La collezione consta inoltre di
alcuni abiti maschili originali del XVIII secolo e di una
giacca femminile della seconda metà dell’Ottocento, tutti di manifattura italiana. Dalle testimonianze raccolte
da Paola Bignami, curatrice del catalogo del Fondo Gandusio, pare che l’attore, per le repliche più importanti dei
testi che lo richiedevano, avesse il vezzo di indossare abiti originali, tuttavia non è stato possibile individuare a
quale rappresentazione fossero essi legati.
L.B.
Di concezione avanzata per quanto riguarda il coinvolgimento diretto e la visibilità realistica espressi dalle cinque sezioni multimediali in cui è articolato, il Museo,
inaugurato nel 2000, fa rivivere i tragici eventi finali della seconda Guerra mondiale: il rastrellamento della
T.O.D.T., il Rifugio, Il Bombardamento, La Battaglia di Porta Lame con lo scontro tra tedeschi e partigiani sul canale Cavaticcio, La Prima Brigata di montagna con la scalata del Riva Ridge che permise lo sfondamento della Linea
Gotica e la liberazione del Nord Italia.
La ricostruzione mette in scena personaggi civili e militari (italiani, tedeschi e americani) in abiti e divise dell’epoca dove su tutti domina il panno grigioverde come tessuto pratico ed economico tipico dei periodi dominati da
scontri bellici e regimi autarchici.
PROVINCIA DI BOLOGNA
Bentivoglio (San Marino) - Istituzione Villa
Smeraldi – Museo della Civiltà Contadina
(Provincia di Bologna e altri enti)
Situata nel cuore di un ampio parco all’inglese, Villa Smeraldi ospita il Museo della Civiltà Contadina, istituito nel
1973 dalla Provincia di Bologna in collaborazione con associazioni di contadini ed ex contadini e gruppi di studiosi. Dal 1999 il museo è gestito, insieme alla villa e al
parco, dall’Istituzione Villa Smeraldi, costituita dalla Provincia di Bologna e sostenuta dai Comuni di Bologna,
Bentivoglio e Castel Maggiore.
Il museo conserva migliaia di testimonianze sul lavoro
contadino e la vita nelle campagne bolognesi fra Otto e
Novecento, organizzate secondo alcune tematiche principali: i cicli di lavorazione del frumento, della vite e della canapa; l’organizzazione della casa contadina e della
famiglia mezzadrile.
Oltre ad attrezzi, grandi macchine, mobili, suppellettili,
stampe ed incisioni, il museo conserva un consistente
gruppo di manufatti tessili frutto per lo più di donazioni
provenienti da famiglie locali. Composta di oltre duecento pezzi, la raccolta comprende numerosi capi d’abbigliamento, soprattutto maschile fra cui camicie, pantaloni, gilet, diversi capi di biancheria sia femminile che maschile
come mutandoni, sottovesti, calze, nonché accessori per
l’abbigliamento – guanti, manopole, berretti –, biancheria
285
REPERTORIO
per la casa – asciugamani, coperte, fodere per materassi –,
ed oggetti che servivano per il lavoro della campagna come i sacchi e le coperte per i buoi.
Sono poi presenti numerosi strumenti per la lavorazione
della canapa e per la tessitura, fra cui un telaio allestito e
funzionante.
quantificabile in circa quattromila pezzi comprendenti
macchine e attrezzature utilizzate in passato nel lavoro
dei campi. Particolare interesse rivestono i materiali riguardanti le diverse fasi di produzione e di lavorazione
della canapa, dalla semina sino alla trasformazione in fibra tessile. L’esposizione si avvale di un apparato didattico di approfondimento nonché di un vasto corredo iconografico composto da numerose fotografie d’epoca che
documentano le diverse fasi di lavorazione.
G. Romagnoli, Storia di una fibra prestigiosa nella storia della civiltà
contadina bolognese: la canapa, Bologna 1976
Budrio - Museo dei burattini (c)
Questo museo è stato istituito nel 2000, grazie all’impulso dei maestri burattinai Vittorio Zanella e Rita Pasqualini del Teatrino dell’Es, i quali nell’arco di circa vent’anni
hanno raccolto un notevole patrimonio afferente il teatro d’animazione. La ricca collezione, concessa dai proprietari al Comune in comodato gratuito, ha trovato sede
nella “Casina del Quattrocento”, una delle antiche abitazioni del centro storico di Budrio. Burattini, marionette,
pupi, con relativo guardaroba, scenografie, oggetti di scena e teatrini, provenienti sia dal territorio italiano che da
altre realtà geografiche, documentano in modo significativo l’antica tradizione del teatro di figura, itinerante e di
piazza, domestico e professionale, popolare e colto, a partire dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Il museo consta di
una sede articolata, la Casina del ’400 è infatti collegata
attraverso un cortiletto interno – che nei periodi estivi
ospita spettacoli e attività culturali – alle sale di via Garibaldi in cui è esposta un’altra cospicua collezione (di proprietà del Comune) di materiali prodotti da burattinai
della tradizione bolognese del Novecento, raccolti da
Alessandro Cervellati e Alberto Menarini, celebri studiosi degli usi e costumi petroniani.
L.B.
Abito da Contadino. Italia, Sec. XX, Tessuto unito e operato di lana
grigia e nera. Bentivoglio (Bologna) Museo della Civiltà Contadina.
286
Bentivoglio (loc. Castagnolino) - Museo della
Civiltà contadina e della Canapa (p)
Castel del Rio - Museo della Guerra (c)
Il museo ospita la raccolta dell’imprenditore Giuseppe
Romagnoli, un appassionato conoscitore della civiltà
contadina della pianura bolognese. Il patrimonio, raccolto a partire dagli anni cinquanta del Novecento, è
Il Museo, insieme a quello dedicato al Castagno, ha sede
nel palazzo storico Alidosi, costruito intorno al 1510 su
progetto di Francesco Sangallo con caratteristiche proprie di un‘architettura militare a pianta quadrata e con
REPERTORIO
due grandi bastioni angolari a losanga, dalla mole imponente ingentilita all’interno da un cortile rinascimentale
detto delle Fontane molto raffinato. Il Museo della Guerra, istituito nel 1978 per volontà dei cittadini che insieme
ai contributi congiunti dell’amministrazione locale, dell’Istituto per i Beni Culturali e di sponsor privati, raccolsero reperti bellici nella vallata del Santerno, integrati
nel tempo da altri materiali afferenti ai due conflitti
mondiali e ammontanti ad un totale di 1.500 oggetti ca.,
di cui 800 manufatti tra cui uniformi italiane e straniere
(da alpini in panno grigioverde, da bersagliere in panno
rosso con fiocco azzurro, divise militari inglesi, ecc…),
bandiere (ci sono due bandiere di tela con stemma Sabaudo e fronde d’alloro) e accessori militari. Il Museo si
articola in cinque sezioni dedicate al primo conflitto e al
secondo conflitto mondiale, al fronte di guerra nella vallata del Santerno, alla resistenza partigiana e alla deportazione dei cittadini locali, dove in una sorta di diorama
al naturale sono messi in scena momenti significativi di
questi eventi storici con personaggi che indossano abiti
civili e divise militari in uso nel periodo.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 75-77
Crevalcore - Museo dei burattini di Leo Preti (c)
Dal 1987 l’Amministrazione comunale di Crevalcore ha
reso fruibile al pubblico, con il consenso degli eredi, i
materiali appartenuti al concittadino Leo Preti (19031969), notevole esponente del teatro di figura emiliano,
discendente di un’importante famiglia di burattinai della tradizione modenese di cui è stato capostipite Giulio
Preti.
La collezione consta di un centinaio di burattini: maschere della commedia dell’arte, gentildonne e fate,
streghe e maghi, diavoli e animali, tra i quali spicca la
Famiglia Pavironica, ideata da Giulio bisnonno di Leo,
formata da Sandrone, la di lui consorte Apollonia e dal
loro figlio Sgorghiguelo. A questi si aggiungono numerose scenografie, accessori e utensili di vario genere,
nonché macchine per gli effetti scenici ed infine, non
meno importanti, i costumi dei burattini, ricavati da
scampoli di stoffa reperiti presso i grandi teatri di tradizione, poiché anche le “teste di legno” possono, come
un vero attore, mutare d’abito al variare dell’opera da
rappresentare.
Tali materiali sono esposti al pubblico, che può accedervi
in occasione dei principali eventi fieristici locali e su prenotazione, nell’antica rocca di Porta Bologna.
L.B.
Dozza Imolese - Rocca Civica di Dozza (c)
La Rocca edificata nel XIII secolo come fortificazione militare, potenziata a fine Quattrocento dall’architetto Marchesi per volere di Ludovica Sforza signora di Imola e
Dozza, e trasformata nel 1594 in residenza aristocratica
dai Conti Malvezzi che la detennero con il titolo di Malvezzi-Campeggi fino al 1960 quando fu ceduta al Comune, conserva ancora al piano nobile posizionati in situ alcuni degli arredi tessili antichi databili tra la fine del XVII
e il XVIII secolo. Sono due tappezzerie in damasco di seta
rossa con decoro a infiorescenze a palmetta racchiuse entro maglie ovali: la prima, più raffinata, di una tonalità
tendente al rosa ricopre le pareti della Sala Rossa, la seconda, di qualità inferiore e di una tonalità più scura, riveste la Camera di Papa Pio VII Chiaromonti. Insieme a
pochi altri arredi (sedie e poltroncine) distribuiti nelle
sale di varia provenienza ed epoca, completa il patrimonio tessile conservato in Rocca un grande stendardo (m.
5 x 3,15) della fine del XVII secolo, esposto nel salone
maggiore, realizzato in tessuto unito di lana rossa con ricami applicati in seta gialla che disegnano una cornice
vegetale campita dallo stemma araldico congiunto delle
famiglie Malvezzi Campeggi. Le tappezzerie in damasco e
lo stendardo sono stati restaurati dalla ditta RT Restauro
Tessile di Albinea (RE) nel 1995 a spese dell’amministrazione locale e con la consulenza tecnica dell’Istituto per i
Beni Artistici Culturali e Naturali della regione Emilia Romagna.
Dozza Imolese - Museo Parrocchiale d’arte
sacra “Don G. Polo” (e)
In un salone posto al primo piano dell’edificio contiguo
alla Chiesa Parrocchiale di Dozza dedicata all’Assunta, ha
sede questo museo istituito nel 1978 per volontà di don
G. Polo. Gli oggetti che vi si conservano sono in gran parte patrimonio della stessa parrocchiale che, ricostruita
alla fine del Quattrocento e restaurata nel 1942-45, su
una preesistenza romanica (di cui si conserva una bella
287
REPERTORIO
lunetta lapidea), custodisce al suo interno un pregevole
dipinto su tavola di Marco Palmezzano oltre a buoni dipinti di scuola bolognese dei secoli XVI-XVII. Nel museo
sono raccolti arredi, paramenti sacri, disegni e incisioni,
stampe antiche, argenti liturgici, opere pittoriche su tela
e tavola, targhe votive in ceramica. Seppure non di cospicua entità il patrimonio serico presenta alcuni pezzi di
un certo interesse, in particolare un manto della Madonna del Calanco in broccato liserè ricamato recante sul dorso lo stemma della famiglia Malvezzi che lo donò nel
1755; un piviale con due dalmatiche e stole abbinate del
Settecento e uno stendardo processionale della Confraternita del SS. Sacramento, in seta operata e ricamata della fine del XVIII secolo. Si segnalano inoltre tre statuette
devozionali vestite, due Madonne e un Bambinello, di cui
una in particolare, raffigurante la Madonna in trono con
Bambino, realizzata in cartone romano e posta in una teca seicentesca in legno dipinto, presenta nell’insieme elementi costruttivi di un certo interesse.
Attualmente il museo è chiuso al pubblico.
L.B.
Imola - Collezioni d’Arte di Palazzo Tozzoni (c)
Il palazzo dei conti Tozzoni è divenuto museo civico nel
1981 allorché l’ultima discendente della famiglia, Sofia
Serristori, ne fece dono alla città.
Esso rappresenta un raro ed integro esempio di dimora
nobiliare e documenta attraverso arredi, suppellettili, oggetti d’arte e documenti d’archivio la vita della famiglia
che per secoli lo abitò. I tessuti rappresentano una voce significativa dell’arredo, in particolare negli spazi abitativi
posti al primo piano dove hanno particolare rilievo le tre
stanze dell’appartamento barocchetto allestito nel 1738
in occasione del matrimonio del conte Giuseppe Tozzoni
con Carlotta Beroaldi, parente del cardinale Lambertini,
futuro papa Benedetto XIV. Un impegnativo intervento di
restauro, reso possibile dal contributo dell’Istituto Beni
Culturali, ha interessato tutti i materiali che vi si conservano comprese tende e portiere e diversi arredi pervenuti
nell’assetto originario. Particolarmente integra e ben conservata è la stanza nuziale con l’alcova, dove gli intagli dorati dei mobili, ispirati ai coevi modelli bolognesi, armonizzano con il damasco giallo oro, anch’esso proveniente
dalla vicina Bologna, impiegato nella cortina oltre che per
rivestire letto, sedie e divani.
288
Nell’appartamento Impero, ristrutturato nel 1818 in occasione delle nozze tra il conte Giorgio Barbato Tozzoni e
Orsola Bandini, la presenza del tessile è più discreta come
imponevano i canoni estetici e la moda del tempo. Si segnalano per la loro particolarità ed eleganza i rivestimenti di alcuni divani e poltroncine che impiegano tessuti di colore nero operati a minuti motivi geometrici.
Nell’archivio del palazzo si conserva un manichino di Orsola Bandini, un “di lei facsimile, in stucco, grande al naturale rivestito ed ornato con gli stessi suoi panni e capelli” fatto realizzare dal marito dopo la prematura morte della moglie. Si segnalano infine alcune livree sette-ottocentesche oltre ad arredi liturgici provenienti dai vari
altari di famiglia.
Restauri a Palazzo. Il recupero della residenza imolese dei conti
Tozzoni, a cura di L.Bitelli e M. Cuoghi Costantini, inserto di
“IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, IX,
1, 2001
Imola - Museo Archeologico Naturalistico
“Giuseppe Scarabelli” (c)
Il museo nasce nel 1857 grazie alla donazione di alcune
rilevanti collezioni naturalistiche. La figura più significativa fra i donatori, cui si intitola il museo è Giuseppe Scarabelli, iniziatore degli studi di preistoria italiana. Situato al primo piano dell’ex convento di San Francesco, esso
ospita collezioni preistoriche, geologiche, paleontologiche e malacologiche.
Nei primi decenni del XX secolo sono state acquisite raccolte di manufatti precolombiani ed etnografici dell’America meridionale, frutto dell’attività collezionistica
del medico imolese G. Cita Mazzini. Fra queste figura un
nucleo di tessuti precolombiani, una ventina di reperti,
per lo più in condizioni frammentarie, provenienti dal
Perù che nel loro insieme coprono il lungo arco di tempo
che va dal IX al XVI secolo d.C.
Imola - Museo Diocesano d’Arte Sacra (e)
Il Museo, aperto al pubblico nel 1962, ha sede nel Palazzo
del Vescovado, un edificio di antica fondazione più volte
ampliato nel corso dei secoli fino alle radicali ristrutturazioni operate da Cosimo Morelli nel 1766 e successivamente, nel 1845, per volere del futuro Papa Pio IX, al tempo vescovo di Imola, che conferirono all’edificio quella
monumentalità che tuttora lo contraddistingue.
REPERTORIO
Le collezioni, frutto di un’attenta opera di salvaguardia
del ricco e pregevole patrimonio storico artistico di pertinenza della Diocesi di Imola sono state ordinate, negli
spazi del piano nobile un tempo destinati all’appartamento di Pio IX, mentre al pianterreno sono stati esposti
alcuni reperti lapidei provenienti dalla Cattedrale e due
carrozze una da gala l’altra da seguito donate dal cardinale Chiaramonti, divenuto papa col nome di Pio VII.
Tra le più significative opere, oltre a reliquiari, paramenti sacri, monete, croci stazionarie, targhe votive, pregevoli codici miniati del XIV-XV secolo, tra gli altri affreschi
staccati di scuola bolognese del Trecento, dipinti di Innocenzo da Imola, Bartolomeo Cesi, Andrea Sirani, Marcantonio Franceschini, Domenico Maria Canuti.
Assai cospicuo risulta il patrimonio serico ivi contenuto,
cui è riservata una specifica sala, si segnalano tra gli altri
un buon numero di pianete di raffinata fattura dei sec.
XVI-XVII-XVIII, alcuni piviali, due abiti della Madonna del
Rosario entrambi di manifattura locale uno fine Seicento, l’altro, donato dalla contessa Anna Zauli Troni, di fine
Settecento primi Ottocento, un manto della Madonna
della metà del Settecento di probabile fattura francese,
cinque coppie di tovaglie di tipo perugino del XVI secolo
ed infine le pantofole in tessuto bianco del cardinale Mastai Ferretti, ossia Papa Pio IX.
Di notevole entità è inoltre il patrimonio appartenente al
Capitolo della Cattedrale di San Cassiano prospiciente il
Vescovado, che oltre ad arredi e dipinti conserva una collezione di tessili liturgici appartenenti ai vescovi di Imola dal XVII al XX secolo, fra i quali si ricordano in particolare un trittico di pianete appartenute al cardinale L. G.
Gozzadini di fine Seicento e, alcune mitrie settecentesche di cui la più pregevole è quella appartenuta a Pio VII.
L.B.
per volere di Girolamo Riario e Caterina Sforza, signori di
Imola. Le collezioni comprendono dipinti, arredi, testi
sacri. Il patrimonio tessile annovera diverse pianete tra
cui si ricorda quella di Papa Pio IX in samice d’oro bianco
tardo Ottocento con una raffigurazione dell’Agnus Dei ricamato in filo d’argento sullo stolone. Vi si conservano
inoltre quattro bandinelle da baldacchino con bei motivi zoomorfi e floreali di fine Seicento e un settecentesco
baldacchino della Madonna del Piratello in samice con ricami. Attualmente il museo può essere visitato solo su richiesta.
L.B.
Imola - Museo dei Burattini, Marionette e
Teatrini (e)
La collezione, donata da Pier Fernando Mondini alla parrocchia di San Giacomo Maggiore al Carmine di Imola,
consta soprattutto di una cospicua raccolta di baracche e
teatrini per marionette e burattini ed è esposta in una sala al primo piano del convento del Carmine. I pezzi sono
per la maggior parte italiani, non mancano tuttavia
esemplari di provenienza austriaca, cecoslovacca e francese, tutti databili tra la fine del XIX secolo e la prima
metà del XX. Completano la raccolta marionette e burattini della tradizione italiana – adeguatamente abbigliati
– tra cui, per esempio, il milanese Meneghino, il modenese Sandrone e il veneziano Pantalone. La raccolta è visitabile su appuntamento.
L.B.
Medicina - Museo Civico (c)
Imola - Museo d’Arte Sacra del Santuario del
Piratello (e)
Il Museo, istituito nel 2000, occupa l’ala ovest della galleria che anticamente costituiva il camminamento di distribuzione tra le celle nel cinquecentesco convento francescano annesso alla Basilica del Piratello, situata in prossimità del cimitero monumentale della città di Imola.
Nel museo sono raccolte oggetti e testimonianze storico
artistiche riguardanti la vita e il culto di questo venerato
Santuario mariano fondato alla fine del Quattrocento
Risale al 1965 la fondazione di questo museo, allestito solo in tempi recenti nel cinquecentesco Palazzo della Comunità di Medicina; esso documenta la storia del territorio e della comunità medicinese attraverso sette sezioni
espositive che vanno dall’archeologia alla cultura materiale. Si ricordano in particolare la ricostruzione del laboratorio del maestro liutaio Ansaldo Poggi quale significativo esempio della lunga tradizione del locale artigianato artistico e la ricca collezione di opere di Aldo Borgonzoni, donate dal maestro alla municipalità, testimo-
289
REPERTORIO
nianza del periodo medicinese del pittore (qui nato nel
1913) e degli sviluppi successivi della sua opera.
Appartengono inoltre a queste collezioni una muta di
burattini realizzati nella prima metà del Novecento da
una delle più rilevanti famiglie di burattinai bolognesi,
ceduti negli anni Sessanta da un altro burattinaio (probabilmente Agostino Serra) alla scuola elementare Vannini di Medicina, dalla quale sono pervenuti al Museo Civico.
Questi burattini, opera della compagnia Frabboni, costituita dai fratelli Filippo, Emilio ed Augusta, sotto il profilo costruttivo risultano ancora legati alla tradizione bolognese ottocentesca; seguono i principi di questa tradizione in particolare le modalità con cui sono costruiti gli
abiti (molto probabilmente quasi tutti realizzati da Augusta Frabboni). In questo caso il buratto, ossia il camiciotto che consente di inguantare il burattino, è costituito da un tessuto in canapa rivestito esternamente da un
tessuto di lana o cotone pesante, su cui è applicato un gilet con bottoni completato da un abito soprastante che
spesso caratterizza il personaggio; modalità questa che
non viene seguita per i personaggi femminili. Arricchiscono questa raccolta oltre cinquanta capi d’abbigliamento (vestiti, mantelli, sottovesti, corpetti, divise militari) altrettanti cappelli, una ventina di vari accessori ed
infine una serie di belle scenografie dipinte a tempera.
L.B.
Monterenzio - Museo Archeologico “Luigi
Fantini” (c)
Il Museo Archeologico “Luigi Fantini”, dedicato al celebre
preistorico, paleontologo e speleologo bolognese, nasce
con l’intento di illustrare la storia del territorio delle Valli
dell’Idice e dello Zena, sottolineando in particolare la sua
evidenza archeologica più importante costituita dagli insediamenti di altura di età etrusco-celtica di Monte Bibele
290
e Monterenzio Vecchio. L’allestimento comprende la ricostruzione a grandezza naturale di una capanna dell’abitato di Pianella di Monte Savino arredata con oggetti autentici o riproduzioni come il telaio verticale a pesi, che illustrano i vari aspetti della vita quotidiana nel villaggio
etrusco-celtico di IV-III secolo a.C. Gli scavi hanno inoltre
restituito abbondanti materiali fittili legati alle attività di
filatura e tessitura quali fusaiole, rocchetti e pesi da telaio.
Alcuni oggetti rinvenuti nelle sepolture di Monte Bibele
(una fibula rinvenuta nella tomba 043; due foderi di spada rispettivamente della tomba 054 e tomba 067; un coltello-rasoio in ferro della tomba 9), presentano un fenomeno di mineralizzazione del tessuto, “fossilizzato” in seguito alla diffusione di ossidi ferrosi nel terreno.
B.O.
Pieve di Cento - Museo Civico (c)
Il museo, dedicato alla storia della città e ai personaggi
che le hanno dato lustro, è ospitato all’interno della Rocca, un antico fortilizio comunale costruito dai bolognesi
fra 1382 e 1387 su progetto di Antonio di Vincenzo, notevolmente modificato nel corso del tempo, ed oggetto di
una recente campagna di restauro conclusa nel 1994.
Presso porta Asìa, la più popolare delle quattro porte urbiche pievesi, si trova una sezione distaccata del museo,
interamente dedicata alle antiche pratiche manuali della lavorazione della canapa, una coltura che dominò le
pianure del bolognese dall’inizio del Trecento fino agli
anni Quaranta del Novecento rivestendo un’importanza
decisiva per l’economia locale. Nel Centro di documentazione sono conservati fotografie, documenti, attrezzi di
lavoro riguardanti le varie fasi di lavorazione – dalla semina alla macerazione, dalla gramolatura alla pettinatura, dalla filatura alla tessitura sino al finale lavoro sartoriale – tutti donati dai cittadini, a ricordo di attività che
ebbero un posto rilevante nella storia della comunità.
FERRARA
Museo del Risorgimento e della Resistenza (c)
ito al piano terra nel palazzo dei Diamanti, insigne
esempio di architettura rinascimentale, il museo
inaugurato nel 1903 raccoglie i materiali che, esposti prima all’Esposizione Italiana di Torino del 1884 poi alla mostra bolognese, “Il tempo del Risorgimento” del 1888, ripercorrono le tappe salienti della storia italiana comprese tra il periodo napoleonico (1796), la prima guerra
mondiale e la resistenza (1945). Si compone di 6000 cimeli (armi, dipinti, medaglie, monete, corredi militari,
stampe fotografie) tra cui un nucleo consistente di materiali tessili (200 ca) identificati da bandiere, uniformi e finiture varie tra cui si segnalano, per la sezione risorgimentale, le uniformi e i labari dei Bersaglieri del Po, la divisa da garibaldino di Cesare Carpeggiani (1838-1928)
uomo politico di spicco locale e un abito da gentiluomo
di corte del 1877, per la sezione della resistenza, la bandiera della 35° brigata.
S
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 81/84
Capitolo della Cattedrale al responsabile dell’arazzeria
ferrarese Giovanni Karcher per essere appesi tra le colonne della navata centrale in occasione delle festività solenni. I cartoni relativi alle scene della vita dei due santi patroni furono forniti dal Garofalo e da Camillo Filippi, due
fra i più importanti artisti ferraresi della metà del Cinquecento, mentre le ricche bordure di gusto manierista
che le incorniciano furono ideate da Luca di Fiandra, pittore specializzato in paesaggi e grottesche. Nel bordo inferiore i panni recano il monogramma dell’arazziere e la
data di esecuzione, circoscritta tra il 1551 e il 1553.
Nella sala che un tempo era adibita a sacrestia sono custoditi due rari cappucci di piviale della fine del Cinquecento donati da Margherita d’Austria e dal Cardinale Giovanni Fontana, il paliotto dell’altare maggiore della cattedrale, donato al Capitolo dal cardinale Luigi Giordani
nel 1893, un eccezionale ricamo a fili d’oro della bottega
di Angelo Tafani, ed alcune pianete appartenute a figure
di spicco della storia ecclesiastica cittadina e precisamente a Giacomo Serra (legato pontificio tra il 1613 e il
1623) e Marcello Crescenzi (vescovo della città tra il 17441746 e nel 1761-1766).
Museo della Cattedrale di Ferrara, guida a cura di G. Sassu, Ferrara
2004; N. Forti Grazzini, Arazzi a Ferrara, Milano 1982
Museo della Cattedrale (e)
Fondato nel 1929 per documentare le vicende relative alla fabbrica del duomo, nel 2000 il museo è stato trasferito nell’attigua chiesa di San Romano, restaurata e recuperata ad uso espositivo. Nell’aula centrale della chiesa è
esposto uno dei nuclei di arazzi più importanti dell’Emilia Romagna: si tratta degli otto panni raffiguranti la Vita
dei Santi Giorgio e Maurelio commissionati nel 1550 dal
Museo Ebraico (p)
L’edificio, situato in una delle arterie principali di quello
che fu l’antico ghetto, e che dalla fine del XV secolo è sede
della Comunità Ebraica di Ferrara, ospita il Museo Ebraico, di recente istituzione e che consta attualmente di sei
sale. Il percorso del museo comprende anche la visita a
REPERTORIO
due sinagoghe, la Scola Tedesca e la Scola Fanese, oltre alla ex Scola Italiana, ora trasformata in sala conferenze. In
queste sale il visitatore, attraverso oggetti e documenti,
può conoscere gli aspetti più importanti della vita e della tradizione ebraica, entrando anche nei diversi momenti della vita religiosa e comunitaria: la preghiera, con
i suoi diversi riti, le feste, gli avvenimenti storici che scandiscono la vita di tutti gli ebrei in generale e di quelli ferraresi in particolare. Da segnalare, nella prima stanza, la
ricostruzione di una sinagoga con arredi lignei, argenterie rituali e un meil (manto della Torah) e una tovaglia per
coprire il podio del XVIII secolo. Nella sala dedicata alle
ricorrenze e alle festività, sono esposti una serie di meillim, tutti di provenienza ferrarese, una mappah (fascia per
la Torah) della seconda metà del XVIII secolo. Della collezione dei tessuti della Comunità Ebraica di Ferrara fanno
parte anche quelli presenti nelle due sinagoghe. Il fondo
tessile è stato oggetto di un recente intervento (20042005) di manutenzione e restauro realizzato su finanziamento dell’Istituto per i Beni Culturali.
V.M.
Centro di Documentazione del Mondo Agricolo
Ferrarese (p)
Aperta al pubblico nel 1981 per iniziativa dell’imprenditore agricolo e collezionista Guido Scaramagli, in collaborazione con il Comune di Ferrara, la raccolta si compone di oltre dodicimila oggetti, riuniti in una casa rurale
del 1950 e negli edifici annessi, costruiti negli anni ’80.
Benchè il museo non conservi vere e proprie collezioni
tessili, tuttavia all’interno di alcune sezioni tematiche si
annoverano strumenti e manufatti collegati alla tessitura. Nella sala della tessitura si trova infatti un telaio in
opera; lenzuola, asciugamani, buratti e “torselli” docu-
292
mentano poi i lavori tradizionali. Nella stanza da letto,
con lenzuola e coperta tradizionali, sono invece esposti
alcuni capi di biancheria intima in canapa e cotone, sia
maschile che femminile.Cappotti e tagli di stoffe per abiti illustrano la bottega del sarto, organizzata all’interno
di una sezione dedicata al borgo rurale, mentre per quanto attiene ai lavori agricoli, fili da tessitura rappresentano il ciclo del lavoro della canapa.
E.L.
PROVINCIA DI FERRARA
Comacchio - Museo del Carico della Nave
Romana (c)
In seguito al ritrovamento di una imbarcazione romana e
del suo carico, nell’autunno del 1980 sul fondo del canale
collettore di Valle Ponti presso Comacchio, all’inizio del
2001 è stato inaugurato il Museo. L’esposizione permette al
visitatore di conoscere e valutare, attraverso i reperti del carico, la vita a bordo di una nave romana di età augustea,
naufragata verso la fine del I sec. a.C.. Si sono conservate
parti di abbigliamento in cuoio come i grembiali, le sacche
da viaggio, parti di un giubbetto e alcune scarpe. Si tratta
delle famose caligae allacciate alte sulla caviglia, in alcuni
casi chiodate come quelle dei militari e indossate con un
calzino o una pantofola morbida in cuoio. Sono stati inoltre rinvenuti frammenti di tessuti di uso quotidiano realizzati in fibre vegetali come stuoie, cesti in vimini, contenitori in legno di quercia oltre a una fascia e alcuni frammenti in lana utilizzati probabilmente per riparare la nave.
B.O.
F. Berti, Fortuna maris: la nave romana di Comacchio, Bologna 1990
RAVENNA
Museo del Risorgimento (c)
l Museo, formatosi sullo scorcio dell’Ottocento, si sviluppa in alcuni locali della biblioteca Classense, sita in
un monastero camaldolese della città, che, eretto intorno
al 1512 per ospitare il monastero di Classe divenuto poco
sicuro, nel XVIII secolo vide incrementato l’antico nucleo
della biblioteca classense ad opera dell’abate Pietro Canneti, oggi divenuta biblioteca comunale. La sezione espositiva attuale del Museo è dedicata alle imprese di Garibaldi e alla partecipazione della città di Ravenna alle vicende risorgimentali. Vi si conservano circa 500 oggetti
tra stampe, manifesti, disegni, dipinti, manoscritti, armi.
Quanto a manufatti tessili sono documentati una serie di
uniformi e indumenti vari, in tutto una quarantina circa,
di cui esposti solo una decina. Tra i cimeli tessili più importanti per il valore simbolico che esprimono, oltre alla
bella divisa della Guardia Civica completa di accessori
(cintura con bandoliera e cappello a feluca con coccarda
tricolore), vi sono tre capi d’abbigliamento appartenuti
all’eroe dei due mondi e alla sua compagna: si tratta del
mantello di panno e del cappello di feltro grigi del mitico generale e degli stivali in pelle scura di Anita. Tutti gli
indumenti sono stati restaurati da Marco Ragni (19962000) su fondi stanziati dall’Istituto Beni Culturali della
Regione Emilia-Romagna.
I
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 124/127
Mantello di Giuseppe Garibaldi. Italia, 1860-1866, Panno di lana
nera e marrone. Ravenna, Biblioteca Classense, Museo del
Risorgimento.
Museo Nazionale (s)
Il Museo Nazionale di Ravenna fu istituito nel 1885,
quando le ricche collezioni d’arte e antiquaria dei padri
camaldolesi di Classe, già passate alla municipalità con le
soppressioni napoleoniche, vennero organizzate in un’istituzione statale. Con il trasferimento nell’ex Monastero
di San Vitale, avvenuto fra 1913 e 1914, il museo venne ulteriormente ampliato e oggi si presenta come un vasto
insieme di raccolte organizzate in tre grandi settori: il lapidario, i reperti da scavi, le collezioni d’arti cosiddette
minori.
REPERTORIO
In quest’ultimo ambito figura una rilevante collezione
tessile formata da oltre un centinaio di reperti assai diversi per tipologia, provenienza e datazione che nel loro
insieme costituiscono una documentazione particolarmente significativa coprendo un arco cronologico che va
dalla tarda antichità al XIX secolo. Per la loro rarità e importanza si segnalano il gruppo dei tessuti copti provenienti dalla necropoli di Antinoe, una cinquantina di reperti, fra cui quattro tuniche quasi completamente integre, donati nel 1902 dall’illustre collezionista Emile Guimet, già direttore del Museo Guimet di Parigi; il nucleo di
stoffe rinvenute nel 1910 nell’arca marmorea contenente
le spoglie di San Giuliano a Rimini fra i quali figurano svariati frammenti e due grandi teli, uno dei quali decorato
da leoni andanti entro grandi orbicoli; i resti di vesti ecclesiastiche dell’VIII e IX secolo (pianete, dalmatiche, casule) provenienti dai sarcofagi di Sant’Apollinare in Classe, fonte importantissima di informazioni sul passato
dell’arte della tessitura.
Fra i materiali più preziosi occorre infine ricordare il famoso “Velo di Classe”, un raro ricamo altomedievale eseguito a Verona per la chiesa dei Santi Fermo e Rustico e finito, per sconosciute vicende, ad ornare una pianeta di
San Apollinare in Classe, una mitra trecentesca tecnicamente affine all’opus anglicanum verosimilmente francese
e un cappuccio di piviale della seconda metà del Quattrocento, anch’esso riccamente ricamato.
C. Rizzardi, I tessuti copti del Museo Nazionale di Ravenna, Roma
1993; L.Martini, Cinquanta capolavori del Museo Nazionale di
Ravenna, Ravenna 1998, cat. nn. 4, 11, 13, 14, 22, 26, 30.
Museo Arcivescovile (e)
Il Museo Arcivescovile risale al 1734 e raccoglie un importante serie di iscrizioni pagane, una sezione paleocristiana con iscrizioni, capitelli, la Cattedra di Massimiano
in avorio della metà del V secolo, statue, argenti, stoffe antiche e paramenti sacri. Particolarmente significativi sono i reperti tessili conservati nella Sala delle pianete dove
sono esposte appunto due preziosissime pianete a campana. La prima, detta tradizionalmente la Pianeta del Vescovo Giovanni Angelopte, è realizzata in tessuto azzurro
scuro con ricami in oro rappresentanti aquile e falci di luna. San Giovanni Angelopte fu vescovo di Ravenna dal
477 al 479, ma il Braun ne fa risalire la realizzazione in
epoca non anteriore al XII secolo. La seconda pianeta è la
cosiddetta pianeta di Rinaldo da Concorezzo Arcivescovo
di Ravenna dal 1303 al 1321; questa, in seta purpurea,
294
presenta la colonna centrale in tessuto operato con elementi geometrici.
B.C.
W. Bendazzi R. Ricci, Ravenna. Guida alla conoscenza della città.
Mosaici arte storia archeologia monumenti musei, Ravenna 1987.
La Casa delle Marionette (p)
La Collezione, proprietà della Famiglia Monticelli, consta
di una cospicua raccolta di marionette, burattini, scenografie, copioni manoscritti e altro materiale per il teatro
di figura, risalente in buona parte al secolo XIX. Essa si caratterizza per la presenza di pezzi “vivi”, ossia creati e
mantenuti per essere i protagonisti degli spettacoli che
questa famiglia ha realizzato dalla prima metà dell’Ottocento, con il capostipite Ariodante, fino all’attualità e che
da cinque generazioni vengono tramandati ed arricchiti
di padre in figlio. Delle oltre cinquanta marionette, appartenenti alla Collezione, alcune provengono, oltre che
dalla famiglia, dalla compagnia “Fantocci Lirici Yambo”
di Enrico Novelli (fondata nel 1919), in cui operarono in
qualità di marionettisti Otello e Nella Monticelli e dalla
Famiglia Picchi. Tra i burattini, a tutt’oggi oltre un centinaio, si segnala una serie di maschere tradizionali emiliane (Fagiolino, Sandrone, Dottor Balanzone) appartenuti alla Compagnia Burattineide di Agostino Galliano
Serra. Attraverso i suoi ultimi discendenti Mauro ed Andrea, della Compagnia del Teatro del Drago, la famiglia
Monticelli persegue una propria linea artistica di ricerca
e sperimentazione realizzando spettacoli frutto di un costante lavoro sui materiali; al tempo stesso è attenta al recupero della tradizione riproponendo antichi canovacci
ottocenteschi realizzati e utilizzati dalla compagnia fin
dalla prima fondazione. Inoltre, in attesa di poter rendere fruibile permanentemente la collezione storica, essa
allestisce periodicamente mostre temporanee di questi
pregevoli materiali in idonee sedi espositive.
L.B.
REPERTORIO
PROVINCIA DI RAVENNA
Alfonsine - Museo della Battaglia del Senio (c)
Istituito nel 1981 dal comune di Alfonsine con la collaborazione allargata ad altri enti locali, regionali e statali
come la Provincia, nove comuni della Valle del Senio, l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna e l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, il museo è dedicato alla memoria degli eventi bellici accaduti in Romagna tra il 1944
e il 1945 ed in particolare ad Alfonsine punto strategico
decisivo nella lotta di liberazione in quanto fu liberata
dal gruppo di combattenti “Cremona”. Diviso in aree tematiche che attestano le condizioni di vita e la conformazione del territorio di quegli anni bellici, il museo
conserva insieme alle armi e agli strumenti militari una
buona documentazione di abiti civili, uniformi militari e
bandiere utilizzate in quel periodo.
Bagnara di Romagna - Museo Parrocchiale (e)
Il museo Parrocchiale, sito nei locali della canonica, è
aperto al pubblico dal 1965 e nel 1982 è stato intitolato a
Mons. Alberto Mongardi promotore e fondatore. Riordinato nel 1995, il piccolo ma curatissimo e molto amato
museo conserva una quantità incredibile di oggetti delle
più svariate tipologie. Dipinti dei secoli XVI, XVII e XVIII,
fra cui la pala d’altare di Innocenzo Francucci da Imola,
sono affiancati da rarissime cinquecentine, una varietà
sorprendente di gioielli donati come ex voto alla Madonna Immacolata, detta dal 1631 del “Pubblico Voto”, reliquari, argenterie, calici, pissidi, ostensori, mobili, tutti
oggetti provenienti dalla piccola chiesa Parocchiale intitolata ai Santi Giovanni Battista e Andrea Apostolo. Anche i numerosi parati tessili, conservati in teche, offrono
un’ampia visione di differenti tipologie tessili e lavorazioni. Di notevole pregio le pianete in damasco risalenti
al XVII secolo, i parati in seta rosa canetillé arricchiti da importanti broccature, la serie di tonacelle e piviali della
metà del XVIII create in tessuti francesi dal vivo naturalismo e variegata ricchezza cromatica. Merletti a fuselli, a
ago abbelliscono cotte grettate e lini finissimi, unitamente a grandi tovaglie d’altare dai preziosi bordi. Sono
presenti anche più recenti testimonianze della storia locale, quali il canopeo e la tovaglia ricamate dalle Ancelle
del Sacro Cuore di Gesù agonizzante di Lugo di Romagna
subito dopo la seconda guerra mondiale, o gli oggetti realizzati dalle suore di Castel Bolognese. Oltre ad alcuni oggetti appartenuti a Papa Pio IX, sono conservati infine
due baldacchini processionali di cui uno settecentesco in
damasco avorio, e un ombrellino processionale cosparso
di ricami in sete policrome.
B.C.
Castel Bolognese - Museo d’Arte Sacra (e)
Il museo, istituito nel 1999 al fine di raccogliere le testimonianze artistiche e storiche della religiosità castellana,
è stato allestito in alcuni locali, opportunamente adattati,
annessi alla locale Chiesa Parrocchiale di San Petronio. Vi
si custodiscono la Biblioteca appartenuta all’arciprete Tomaso Gamberini, l’Archivio Parrocchiale e un buon numero di apparati liturgici e opere d’arte provenienti sia da
chiese di Castel Bolognese tuttora officiate, quali la Parrocchiale e San Francesco che da altre non più esistenti, la
Chiesa del Suffragio e quella del Rosario Nuovo. Alcuni
pezzi sono inoltre pervenuti dalle chiese del contado, Serra e Casalecchio, nonché dalle donazioni di privati.
Vi si conservano numerose opere pittoriche,candelabri,
ostensori, reliquiari, calici e altri oggetti di apparato e per
la mensa, nonché tre statue di bambinelli vestiti, tutti risalenti ai secoli XVII-XIX.
Di particolare interesse la consistente raccolta dei tessuti liturgici tra cui si segnalano quattro abiti dell’Immacolata Concezione, di cui tre di manifattura italiana
del secolo XVII e uno di manifattura francese databile
1775-80 e due veli settecenteschi, appartenenti allo stesso simulacro; mentre i due manti processionali della
Beata Vergine della Consolazione, entrambi settecenteschi, uno di manifattura francese l’altro forse di provenienza napoletana, appartengono alla chiesa di San Petronio. Particolarmente rilevanti due pianete con stola,
manipolo e borsa, una di manifattura romana tardo seicentesca in taffettà scarlatto con delicati girali e volute
costituite da piccole foglie ricciolute e gigli ricamati in
filo d’argento, riccio, lamellare e filato; l’altra, realizzata nel Settecento adattando un tessuto più antico proveniente da altro uso, è in velluto tagliato color rubino
e presenta il tipico motivo cinquecentesco della melagrana inscritta nel fiore di cardo. Il Museo è visitabile su
richiesta o in occasione di particolari festività.
L.B.
295
REPERTORIO
Cervia - Museo dei Burattini e delle Figure (c)
Faenza - Museo del Teatro (c)
In questo museo trovano spazio numerosi materiali afferenti sia al teatro di figura di tipo tradizionale che quelli
prodotti in contesti contemporanei più innovativi e di ricerca, provenienti da tutta Europa, ma anche da Persia,
Turchia e altri territori dell’Asia. Nella sezione storica si
segnalano collezioni di notevole pregio storico e culturale: marionette del Sette e Ottocento, pupi siciliani e teste
di legno della metà del secolo XIX, burattini d’origine padana di fine Ottocento, antichi copioni e attrezzi di scena,
fondali dipinti. Tra i fondi più pregevoli si segnalano i nuclei Cervellati, Sansone e Ferrari; di grande interesse risulta inoltre un teatrino d’ombre Giavanesi, anch’esso di
fine Ottocento, completo di relative sagome in cuoio, intagliate e dipinte a mano.
Allestito all’interno nell’ex edificio scolastico di Villa Inferno, in prossimità delle antiche Saline Etrusche, il museo risulta accessibile solo con mezzi privati.
Il museo, attualmente chiuso al pubblico, venne istituito
nel 1931 a seguito della consistente donazione al Comune di Faenza da parte di Arnaldo Minardi, appassionato
collezionista di documenti ed oggetti teatrali. Fino al
1984 la raccolta fu ospitata e fruibile presso la Biblioteca
Comunale Manfrediana, che ne detiene la titolarità e dove tuttora è conservato il cospicuo nucleo cartaceo. La necessità, da parte della biblioteca, di ampliare i propri spazi, ha reso necessario il trasferimento delle altre tipologie
della raccolta, ospitate in alcune salette poste all’ultimo
piano di Palazzo Milzetti in attesa di un adeguato e definitivo allestimento.
Si tratta di un insieme di rilevante interesse storico e documentario, costituito da strumenti musicali databili tra
il XVI e il XX secolo, ritratti di compositori ed interpreti
teatrali, nonché da una cospicua collezione di abiti e accessori di scena. Questi ultimi, ad esclusione di pochi pezzi, si sono rivelati essere in realtà abiti civili adattati per il
teatro: marsine, pantaloni, gilet maschili e corpetti femminili in pregevoli tessuti, databili tra il XVIII e l’inizio
del XIX secolo hanno conservato inalterate le loro caratteristiche originali, mentre altri pezzi hanno subito modifiche di notevole entità. È il caso del cosiddetto ‘abito di
Theodora’, originariamente un vestito femminile di gala
del primo Novecento, cui si è voluto imprimere uno stile
vagamente tardo medievale attraverso una serie di rimaneggiamenti.
L.B.
L.B.
Faenza - Museo del Risorgimento e dell’Età
Contemporanea (c)
La raccolta museale nata nel 1904 ed esposta in origine
nei locali della Pinacoteca, nel 1921 fu trasferita a Palazzo
Manfredi in occasione di una mostra sull’Indipendenza
italiana. Dopo la seconda guerra mondiale fu riallestita
ex-novo agli inizi degli anni ’70 nell’attuale sede storica,
l’antico convento dei SS. Filippo e Giacomo o dei Servi,
oggi sede della biblioteca comunale. Dal 1976 per vicende alterne il museo è chiuso al pubblico e le raccolte sono
conservate nei depositi in attesa di nuova riapertura. Costituito da materiali, parte privati e parte pubblici, il museo vanta 800 oggetti tra memorie e cimeli, di cui il nucleo più significativo è sicuramente quello storico che va
dall’età napoleonica all’Unità d’Italia e che annovera tra i
manufatti tessili alcune bandiere e uniformi databili al
periodo compreso tra il 1796 e il 1870.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 78/80
296
Faenza - Museo Internazionale delle
Ceramiche (f)
Fondato nel 1908 da Gaetano Ballardini, il Museo Internazionale delle Ceramiche si prefiggeva, sin dall’origine,
di documentare la produzione ceramica italiana e straniera con attenzione ai diversi aspetti – artistici, tecnici,
geografici – che storicamente l’hanno connotata. Il nucleo originale, costituito da parte delle opere presentate
all’esposizione organizzata per celebrare il terzo centenario della nascita di Evangelista Torricelli, lo scienziato
faentino inventore del barometro, è andato via via ampliandosi nel corso del tempo attraverso gli acquisti e soprattutto le donazioni. Oggi il museo si configura come
un organismo complesso dotato di sale didattiche affiancato a vasti spazi espositivi.
REPERTORIO
Nel 1999 il patrimonio del Mic si è ulteriormente arricchito grazie alla donazione Laffi-Petrachi consistente in
tredici reperti lignei e in una sessantina di tessuti precolombiani. Composta da frammenti di vari tipi di indumenti e da altri manufatti, quali fasce e bordure, presumibilmente appartenute a membri d’élite, la collezione
tessile offre nel suo insieme un ampio quadro della complessa e diversificata produzione precolombiana del
Perù riferibile al periodo che va dal IV secolo a.C. sino all’epoca della conquista. Realizzati esclusivamente con fibre di cotone e di lana, sia nei loro colori naturali sia trat-
tate con procedimenti di tintura, i reperti esemplificano
svariate tipologie tecniche: dalle semplici tele alle garze,
dagli arazzi ai ricami, ai tessuti dipinti. Per arrestare il
processo di degrado che interessa i manufatti tessili,
danneggiati dalla presenza di polvere e sporco, da lacune e lacerazioni, è stato avviato con il sostegno dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali un intervento di restauro, ancora in corso, terminato il quale i tessuti saranno esposti nelle sale che già accolgono le ceramiche precolombiane.
297
FORLÌ - CESENA
Forlì - Museo Etnografico Romagnolo “B.
Pergoli” (c)
n occasione delle Esposizioni Romagnole Riunite, realizzate a Forlì nel 1921, Aldo Spallicci, Emilio Rossetti
e Benedetto Pergoli allestirono la Mostra Etnografica Romagnola che di fatto rappresentò il primo nucleo di questo museo che sarebbe stato inaugurato l’anno successivo in Palazzo Merenda; nell’ambito della cultura materiale si tratta pertanto di una delle più antiche raccolte
museali. Dapprima imperniato sugli ambiti della tradizione artigiana quali l’ebanisteria, la ceramica, le tele
stampate, a partire dal dopoguerra il Museo ha conosciuto un notevole sviluppo grazie all’acquisizione di
strumenti e oggetti legati agli usi e alle attività contadine, tanto da doversi sdoppiare in due grandi settori
espositivi.
Il primo all’interno della sede storica di Palazzo Merenda,
che sarà mantenuta anche in futuro, comprende notevoli collezioni di mobili, ceramiche e suppellettili che hanno trovato posto nelle ambientazioni della tipica casa colonica e cittadina, della tipica osteria romagnola e nelle
botteghe artigiane tradizionali: quella dello stampatore
di tessuti a ruggine, del vasaio, del fabbro, del liutaio, del
ciabattino, del cappellaio. Di notevole entità risulta il patrimonio attinente l’ambito tessile che comprende sia
manufatti che strumenti (macchine da cucire, per la tessitura e la filatura). Si segnalano paramenti d’uso liturgico, ex voto in tessuto, corredi battesimali, un buon numero di capi d’abbigliamento di vario genere sia da uomo che da donna, tele stampate a ruggine, oltre sessanta
corredi per la casa di tipo rustico e cinquanta per la casa
molto benestante e un arazzo con scena campestre.
La seconda sezione del museo, aperta nel 1964 in Palazzo
I
Gaddi, comprende sia le macchine e gli attrezzi agricoli
relativi ai cicli lavorativi della campagna romagnola che
la ricostruzione di altre botteghe artigiane: il barbiere, il
droghiere, il fabbricante di caramelle, il tabaccaio, il cordaio, il sellaio, il maniscalco, il corniciaio e il falegname
nonché una sezione dedicata alle attività marinare romagnole e alle Saline di Cervia, comprendente inoltre
strumenti e macchine tessili. Attualmente, a causa di una
serie di lavori di restauro che interessano Palazzo Gaddi,
questa sezione è stata immagazzinata in attesa di essere
riallestita in una sede più consona.
L.B.
Forlì - Museo del Risorgimento “Aurelio Saffi” (c)
Il Museo, con sede dal 1964 nello storica dimora settecentesca di palazzo Gaddi, si sviluppa in otto sale dedicate a personaggi di spicco (per lo più forlivesi) e ad eventi
storici significativi compresi tra il Risorgimento e il periodo napoleonico per giungere fino alla seconda guerra
mondiale e alla Resistenza. I materiali conservati, più di
mille, di cui il 90% esposti, comprendono dipinti, manoscritti, armi, medaglie, oggetti d’uso quotidiano e cimeli
vari acquisiti con donazioni private alla città da parte della comunità locale. Tra questi diversi sono i manufatti tessili come le uniformi e le bandiere. Nella sala dedicata all’eroe carbonaro Pietro Maroncelli condannato insieme a
Silvio Pellico al carcere duro dello Spielberg in Moravia
dal governo imperiale austriaco, tra gli oggetti a lui appartenuti legati ai moti del 1831, spicca, per esempio, lo
REPERTORIO
stendardo della Guardia Civica ricamato con lo stemma
della famiglia Mastai Ferretti. Nella sala del garibaldino
Achille Cantoni caduto a Mentana sono conservati, invece, uniformi e copricapi di vari garibaldini forlivesi. In
quella dedicata al patriota Aurelio Saffi, triumviro della
Repubblica Romana, deputato e docente universitario, si
possono apprezzare sia la sua toga da docente che un suo
abito da cerimonia. Nella sala dedicata al XI Reggimento
di Fanteria forlivese, attivo dal 1871 al 1938, che si contraddistinse per il suo valore e il coraggio dei suoi combattenti romagnoli, è esposta la bandiera dell’unità militare. Nella sala, infine, dedicata all’eroismo dei combattenti forlivesi nella prima guerra mondiale, va segnalata
la singolare bandiera bianco-rossa dei reduci di guerra
del 1921 ricamata con un filo bruno che riprende le tonalità di marrone bruciato tipiche della stampa a ruggine locale su tela di canapa.
to regionale, un importante nucleo di burattini e marionette, baracche e scenari, della collezione Edgardo Forlai,
databili tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Dai gagliardetti e foulards di seta appartenuti ad Angelo
Masini, ai costumi teatrali, agli elementi d’arredo di Maria Farneti, anche i manufatti tessili conservati in questo
museo ne rispecchiano la ricchezza e l’eterogeneità. Particolarmente interessante ed elaborato risulta il costume
da toreador del baritono Edoardo Faticanti, rammentato
negli annali forlivesi per una memorabile interpretazione di Jago nel 1913; non meno interessante un abito ricamato, di foggia orientale appartenuto ad Ermete Novelli.
Si segnala infine il costume completo dei Canterini Romagnoli, attivi tra il 1910 e il 1932.
L.B.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 91/95
Forlì - Museo Dante Foschi (p)
Forlì - Museo Romagnolo del Teatro (c)
Una notevole raccolta di cimeli, memorie e onorificenze
afferenti la vita e l’attività del celebre tenore forlivese
Angelo Masini (1844-1926), rappresenta il nucleo originario di questo museo istituito nel 1959. Allestito dalla
fine degli anni Sessanta nello storico Palazzo Gaddi, nel
tempo si è arricchito e attualmente risulta costituito da
sezioni tra loro diverse che, nell’insieme, offrono una panoramica piuttosto diversificata su personaggi, luoghi e
attività della vita teatrale e musicale del forlivese e più in
generale della Romagna. Oltre ad una sezione dedicata
agli strumenti musicali, appartenuti a musicisti e concertisti del territorio o prodotti dalla importante liuteria locale, abbiamo una sala dedicata alla soprano Maria
Farneti, interprete prediletta da Pietro Mascagni. Trovano altresì posto testimonianze relative al settecentesco
Teatro Comunale di Forlì, andato distrutto nel 1944; ai
Canterini Romagnoli, istituzione fondata da Cesare Martuzzi all’inizio del XX secolo; alla diva dell’operetta Ines
Fronticelli Baldelli, in arte Ines Lidelba. Infine una piccola sezione espone memorie, copioni, bauli da viaggio,
abiti e costumi appartenuti al celebre attore Ermete Novelli, il cui padre apparteneva ad una nobile famiglia
bertinorese.
Di recente il museo ha inoltre acquisito, con il contribu-
Allestito in un’ampia sala al primo piano del Palazzo del
Mutilato, edificato nel 1933 da Cesare Bazzani per ospitare la sede dell’A.N.M.I.G. (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra), il museo conserva oltre ad alcuni
reperti risorgimentali, armi, fregi, onorificenze, arredi e
cimeli che documentano i due conflitti mondiali e la
Guerra d’Etiopia. Del periodo risorgimentale, si conservano un berretto garibaldino e un kepì del II° Reggimento di Artiglieria Celere “Emanuele Filiberto” con fiocco e
custodia, della prima guerra mondiale, una divisa da capitano, una giacca da tenente, una mantella da soldato e
due bandiere nazionali, della seconda, fasce azzurre da
ufficiale, nastri vari, gradi, mostrine e un fazzoletto rosso
dell’“8a Brigata Garibaldi” con la riproduzione del volto
dell’eroe dei due mondi.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 89/90
Cesena - Museo della Cattedrale (e)
Ospitato dal 2002 nello storico spazio della cappella di
San Tobia il museo offre ai suoi visitatori non solo lo
straordinario tesoro, testimonianza storica della Cattedrale, ma anche oggetti e parati liturgici provenienti da
299
REPERTORIO
rettorie soppresse e non della diocesi di Cesena e Sarsina.
Un’importante selezione di argenti, reliquari, tra cui il reliquario eseguito da Gaspare Gottardi Gottardo I del
1483, sono affiancati a gioielli, messali e tavole di rinomata importanza come la Madonna della Pera di Paolo Veneziano del 1347. Significativa la sezione tessile che propone diversi parati liturgici, perfettamente conservati,
dal XVIII al XX secolo come la pianeta interamente ricamata in oro recante lo stemma della famiglia Braschi, risalente appunto al pontificato di Pio VI (1775-1799), o il
parato composto da pianeta, tonacelle e piviale di colore
violaceo ornato da un ricamo ad ampi tralci in fili d’oro
dono di Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni, già vescovo di Cesena dal 1816 al 1822. Sono presenti inoltre alcune mitrie di epoche e manifatture differenti tra le quali
spicca, per ricchezza e singolarità, quella completamente ricoperta di ricami in corallo.
B.C.
La cattedrale di Cesena, a cura di M. Mengozzi, Cesena 2002
PROVINCIA DI FORLÌ-CESENA
Bertinoro - Museo Interreligioso (e)
Dell’antica Rocca che sovrasta l’abitato di Bertinoro si
hanno notizie fin dal 1006. Edificata ad opera dei Conti di
Bertinoro grazie alla particolare posizione dominante
rappresentò in Romagna una delle più temute opere difensive medievali. Nel corso della sua millenaria storia
ospitò numerosi illustri personaggi tra cui l’imperatore
Federico Barbarossa che nel 1177 vi dimorò con la sua
corte e le sue milizie. Dal 1584 divenne residenza vescovile e successivamente fu oggetto di svariati ampliamenti e rifacimenti che ne hanno definito le attuali forme.
Dal 1985 la Rocca è stata per alcuni anni sede del Centro
per lo Studio e la conservazione dell’Arredo Liturgico e
del Costume Religioso, che ha raccolto e conservato un
notevole patrimonio, soprattutto tessile, rimasto fino ad
allora presso le Parrocchie della Diocesi.
A partire dal 1994 sia la Rocca Vescovile che il Rivellino (che
ne è parte integrante), che l’ex Seminario, poco distante, sono stati oggetto di un’imponente opera di recupero e adeguamento che ne ha consentito una nuova destinazione.
Ceduti dalla Diocesi di Forlì, che ne è la proprietaria, in comodato d’uso all’Università Studi di Bologna e di Romagna
ne sono divenuti la sede estiva, creando il Centro Residen-
300
ziale Universitario. Parte integrante del progetto di recupero dell’antica sede vescovile bertinorese è stato inoltre il
Museo Interreligioso inaugurato il 10 giugno 2005.
Del precedente Centro per lo Studio e la conservazione
dell’Arredo Liturgico e del Costume Religioso, nell’attuale sede museale si conservano alcuni splendidi materiali
tessili attinenti al culto cattolico che in questo caso risultano prevalenti, tra cui alcune pianete complete di stola
e manipolo; a questi si sono aggiunti alcuni tessili d’origine ebraica e indumenti (moderni) relativi al culto islamico e cristiano ortodosso.
L.B.
Modigliana - Museo Storico Risorgimentale
“Don Giovanni Verità” (c)
Il museo, istituito nel 1932, ha sede nella casa dove visse
Don Giovanni Verità (1807-1885), sacerdote patriota, noto per aver salvato la vita a Garibaldi in fuga nell’agosto
del 1849 dopo la caduta della Repubblica Romana, ospitandolo nella sua abitazione. È una casa-museo ottocentesca che raccoglie cimeli e documenti legati alla vita del
prelato modiglianese, oltre a armi, dipinti, stampe risorgimentali e ad una raccolta archeologica di monete romane: si segnalano per importanza i due ritratti di Garibaldi e dello stesso Verità dipinti da Silvestro Lega (18261895), anch’egli uomo del Risorgimento. Tra i cimeli di
quel periodo si conserva un manufatto tessile degno di
rilievo non fosse altro per la leggenda a cui è legato che
tuttavia richiede a tutt’oggi una conferma storica: è uno
scialle con frangia in tela di cotone a righe policrome
che la tradizione vuole essere appartenuto ad Anita Garibaldi.
Censimento dei musei del Risorgimento e delle raccolte di interesse
risorgimentale in Emilia-Romagna, a cura di O. Sangiorgi e P.
Tamassia, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, anno
XLII, Bologna 1997, pp. 113/115
Pianetto - Museo Civico Monsignor Domenico
Mambrini (c)
Il Museo istituito nel 1945 e trasferito nel 2001 nell’ex convento dei Padri Francescani di Pianetto, è costituito dalle
antichità raccolte da Monsignor Mambrini afferenti alla
storia di Galeata e del suo territorio. Conserva tra i suoi re-
REPERTORIO
perti archeologici e storico-artistici anche un corpus interessante di manufatti tessili composto da diverse acquisizioni provenienti dal nucleo originario raccolto dal prelato
galeatese (1879-1944), fondatore del museo agli inizi del
Novecento, quando il museo si connotava quale museo parrocchiale, oltre che da due chiese di Galeata (dall’abbazia di
Sant’Ellero e dalla pieve di San Pietro in Bosco) e dal patrimonio dell’Ente Comunale d’Assistenza (ex E.C.A.). La raccolta, che vanta una novantina circa di manufatti non ancora esposti al pubblico, comprende paramenti liturgici
per lo più di manifattura italiana e di varia epoca compresa
tra il XVI e il XIX secolo (piviali, tonacelle, pianete, camici
con relativi accessori), un nucleo di pizzi, scialli, e biancheria domestica compresi fra il XVIII e il XIX secolo, oltre a due
parti di divise risorgimentali. Si annovera anche uno strumento da lavoro tessile rurale, un arcolaio.
Sarsina - Museo Diocesano d’Arte Sacra (e)
Inaugurato nel 1988, il museo ha sede nel Palazzo Vescovile attiguo alla Cattedrale intitolata a San Vicinio, protovescovo sarsinate. Dall’antica chiesa di fondazione bizantina, ma rimaneggiata successivamente, provengono
frammenti lapidei e numerosi altri arredi esposti unitamente a dipinti, sculture e oggetti liturgici recuperati da
chiese dell’ex diocesi di Sarsina, soppresse o distrutte dalla guerra, come ad esempio la ragguardevole raccolta di
campane in bronzo alcune delle quali di epoca tre-quattrocentesca. La sezione tessile annovera numerosi parati
liturgici settecenteschi confezionati con tessuti italiani e
francesi che documentano le tipologie tecniche e decorative più importanti di quel periodo. Di particolare interesse sono inoltre le mitre ricamate in filo d’oro recanti gli
stemmi di Giovanni Bernardino Vendemini, Gian Battista
Mami e Nicola Casali, vescovi di Sarsina rispettivamente
dal 1733 al 1749, dal 1760 al 1787 e dal 1787 al 1815.
F. Faranda, Il Museo d’Arte Sacra della Città e Comprensorio di
Sarsina, Forlì 1988
Scialle di Anita Garibaldi. Italia, terzo quarto del XIX secolo, Raso di
seta a righe perla, gialle, rosse, azzurre. Modigliana (Forlì), Museo
Storico Risorgimentale Don Giovanni Verità.
Stivali di Anita Garibaldi. Italia, 1860-1866, Cuoio marrone. Ravenna,
Biblioteca Classense, Museo del Risorgimento.
301
RIMINI
Museo della Città (c)
ato alla fine degli anni ’60 con l’autonomia degli istituti culturali cittadini, dal 1990 il Museo della Città
ha sede nel settecentesco Collegio dei Gesuiti, opera dell’architetto bolognese Torreggiani. Il percorso espositivo,
che sarà completato solo a conclusione dei lavori di restauro dell’edificio e che illustrerà la storia della città dal
Paleolitico al XX secolo, comprende un’importante raccolta di arazzi. Il nucleo è composto da sette tappezzerie
dedicate ad episodi della vita di Semiramide, la mitica regina di Babilonia famosa per la bellezza ma soprattutto
per il coraggio e l’audacia, e da due panni raffiguranti fatti della vita di Salomone: tutti figurano esposti in una apposita sala grazie ad un articolato intervento conservativo reso possibile grazie al sostegno economico dell’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali. Caratterizzate da importanti bordure a foglie d’acanto, mazzi fioriti e
pietre dure incastonate in cornici barocche, le tappezzerie di Semiramide sono state eseguite in una delle più famose ed affermate manifatture operanti ad Anversa nel
XVII secolo, quella di Michel Wauters. I cartoni sono invece opera di Abraham van Diepenbeek, un pittore fiammingo specializzato nella progettazione di vetrate ed
arazzi. Nel Museo della Città si conserva anche un telo ricostruito con i frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468) in damasco lanciato broccato di seta gialla e oro filato con disegno a melagrana.
N
M. Cesarini, La serie degli arazzi di Semiramide nel Museo della Città
di Rimini, in “Penelope”, vol. II. 2004, pp. 13-35.
Museo degli Sguardi: Raccolte Etnografiche di
Rimini (c)
Già noto come “Museo Dinz Rialto”, è l’unico museo dell’Emilia-Romagna ad essere interamente dedicato alle
culture extraeuropee. Il Museo nel dicembre 2005 riapre
totalmente rinnovato nella prestigiosa sede di Villa Alvarado (appositamente ristrutturata e con un progetto allestitivo di forte impatto), con l’accattivante denominazione di “Museo degli Sguardi” e con un patrimonio considerevolmente arricchito ora che il Comune riminese è
divenuto titolare dell’importante collezione Canepa. La
positiva conclusione della lunga vicenda di acquisizione,
resa possibile grazie all’impegno dell’Istituto Beni Culturali, ha permesso infatti di incrementare la raccolta dell’esploratore e studioso Dinz Rialto con quella del collezionista Cav. Ugo Canepa: ne risulta un raro patrimonio
di strepitosi manufatti prodotti da varie culture dell’Africa, dell’Oceania e dell’America precolombiana, segni di
civiltà scomparse dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli nel XVI secolo.
Oltre ai numerosi reperti ceramici, lapidei e metallici il
Museo annovera un significativo nucleo di tessuti precolombiani: la collezione Dinz Rialto conta all’incirca 40 reperti, mentre quella Canepa ne comprende circa 120, tra
i quali 80 di notevoli dimensioni e i restanti di dimensioni molto variabili. I tessuti di entrambe le raccolte provengono dall’area peruviana e attraverso studi comparativi si è riusciti a identificare le tradizioni tessili e quindi
le culture che li hanno prodotti: Paracas-Nazca, Nazca,
Huari, Huari-Pachacamac, Chimù, Chancay, Ica e Inca. Si
tratta quindi di materiali databili in un periodo compreso fra il III-IV secolo a.C. e il XVI secolo d.C. Vi sono inoltre
alcuni reperti di difficile datazione, comunque apparte-
REPERTORIO
nenti alle tradizioni preispaniche, altri ascrivibili alle
culture della Costa del Perù del Periodo Intermedio Recente e del III Orizzonte (XI-XVI sec. d.C.).
Le materie prime utilizzate sono essenzialmente lana di
camelide e cotone arricchiti in alcuni casi con piume o lamine d’argento. Molto interessante è inoltre la grande varietà delle tecniche di lavorazione comprendenti tele a
spazi aperti e doppie, garze, arazzi, tessuti con trame e orditi complementari, ricami, ed altre varianti. Anche l’iconografia di questo importante nucleo di reperti risulta
particolarmente ricca: dai disegni geometrici stellari
(probabilmente il simbolo del cosmo) e a triangolo zig
zag (ricollegabile al dio trino Tuono-Fulmine-Saetta), a
quelli con motivi di animali variamente stilizzati, spesso
disposti in file o concatenati l’uno all’altro, alle figure di
esseri umani, sacerdoti o personaggi mitici riccamente
abbigliati.
La funzione di questi tessuti è da attribuire prevalentemente all’uso funerario e cerimoniale, mentre la tipologia più rappresentata è quella dei manti costituiti da pezze quadrangolari di diverse dimensioni, ma spiccano anche alcune tuniche maschili, gli “unku”, di cui una completamente rivestita di piume ed altre con colorate bordure, e non mancano infine piccoli manufatti identificati come borsine per coca.
Assolutamente inconsueta la presenza di un “quipu”, un
curioso sistema di registro contabile in uso presso gli Inca formato da una serie di cordicelle e nodi, considerato
reperto tessile poiché le cordicelle intrecciate e annodate sono di lana e cotone.
A.S.
Antica America. Guida alla Sezione Americana Precolombiana del
Museo delle Culture Extraeuropee “Dinz Rialto”, a cura di M. Biordi
(sezione monografica sui tessuti di L. Laurencich Minelli),
Firenze 1992
Inca. L’impero del sole e i regni preincaici, catalogo della mostra,
Rimini 2001-2002
Tempio Malatestiano, Tesoro della
Cattedrale (e)
Il tesoro è conservato in una sala detta Cella delle Reliquie di recente costruzione e adiacente alla parete destra
del Tempio, storico e augusto edificio progettato da Leon
Battista Alberti nel 1447 come pantheon di famiglia di Sigismondo Pandolfo Malatesta, che racchiude le spoglie
della terza moglie del signore riminese, Isotta degli Atti.
Tutto è un inno alla classicità romana, dall’architettura
che richiama, nelle fiancate il ponte di Tiberio e nella facciata l’Arco di Augusto, alle preziose finiture marmoree
del rivestimento sia esterno che interno, il secondo dovuto a Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio, fino al famoso affresco dipinto da Piero della Francesca nel sepolcro del committente che lo ritrae in preghiera davanti a
San Sigismondo. Inaugurato nel 1993 il Museo espone all’interno di vetrine una selezione pregevole di argenterie,
dipinti e sculture della Cattedrale, oltre ad alcuni preziosissimi frammenti delle vesti funebri di Sigismondo Malatesta recuperati durante la ricognizione effettuata il 28
dicembre 1920 nella tomba del riminese morto nel 1468.
I pochi resti tessili salvati all’atto dell’apertura della tomba, facevano riferimento a tre capi di abbigliamento, un
mantello, una sopravveste e un farsetto completati da
una camicia e una cintura. Il recupero avvenuto in due
tempi, negli anni ’70 del secolo scorso e nel 2000 in occasione della mostra che Rimini dedicò ai Malatesta, non
consentì di ricostruire la foggia originaria degli abiti, ma
solo di recuperare, dopo un attenta ricomposizione dei
frammenti, un telo di damasco di seta gialla quasi interamente ricoperto di oro filato contrassegnato dal tipico
decoro rinascimentale, la melagrana, racchiusa entro
maglie ovali vegetali. Il telo che misura 224 cm di lunghezza e 55 cm di larghezza, è conservato oggi nei depositi del Museo della Città. Tutte le vesti erano quindi di damasco giallo interamente ricoperto da filato d’oro ad eccezione del farsetto, una specie di giubba aderente e corta allacciata sul davanti da una serie di bottoni e una cintura tessute in velluto tagliato di seta cremisi anch’esso
ricoperto da trame in oro filato dalla singolare forma di
minute anelle. Di questi capi purtroppo sono rimasti solo pochi frammenti sparsi di piccole dimensioni insieme
a qualche bottone. Nonostante il precario stato conservativo in cui si trovano tutti i reperti recuperati, anche
dopo i restauri avvenuti, si percepisce bene dall’alta qualità tessile esibita quale dovesse essere lo status sociale del
riminese che indossava nel giorno della sua dipartita i
suoi abiti più rappresentativi e preziosi.
M. Flury-Lemberg, Textile Conservation and research, AbeggStiftung Berna 1988, pp. 452/455, cat. nn. 22-24
Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalogo della
mostra, Rimini 2001, saggi di E. Tosi Brandi, Un esempio di
magnificenza signorile. Il guardaroba di Sigismondo Pandolfo
Malatesta e L. Nucci, Il restauro dei frammenti tessili delle vesti
funebri di Sigismondo Pandolfo Malatesta nel Tempio Malatestiano di
Rimini.
303
REPERTORIO
PROVINCIA DI RIMINI
Cerbaiola - Museo dell’Aviazione (p)
Il Museo è in realtà un parco-museo all’aperto progettato
alla fine degli anni ’80 del secolo scorso dagli ex-ufficiali
d’aviazione dell’A.M.I. su un’estensione di 60.000 mq. È
uno dei parchi museali più importanti del settore per
quantità e qualità dei velivoli esposti italiani, russi, giapponesi e americani utilizzati nel secondo conflitto mondiale. Insieme agli areomobili da guerra è conservato anche un nucleo interessante di uniformi e onorificenze
militari del periodo.
Saludecio - Museo di Saludecio e del Beato
Amato (c)
Allestito di recente in alcuni ambienti annessi alla chiesa
parocchiale di San Biagio tardo settecentesca, il museo
conserva suppellettili di pregio (dipinti, intagli lignei, argenterie, paramenti e arredi liturgici, stampe, rami incisi, ecc…), provenienti anche da altri luoghi di culto del
territorio circostante. Parte di questi oggetti come molti
ex-voto, lampioni e mazze processuali sono legati al culto del Beato Amato Ronconi (1226-1292), patrono e protettore di Saludecio, il cui corpo è venerato nella chiesa di
san Biagio nella cella conosciuta come “Cappella dell’olmo” e di cui si conservano le ante lignee pirografate del
Quattrocento che chiudevano l’urna del beato benedettino, nonché terziario francescano. Il museo tra i manufatti tessili propone un bel messale in velluto tagliato di seta cremisi rifinito da applicazione in argento sbalzato
opera dell’orafo Agostino Corandelli eseguita nel 1781
che ritrae il Beato Amato nella veste di pellegrino (questi
intraprese il viaggo da Rimini a Santiago de Compostela
in Spagna ). La cripta della Chiesa espone invece entro vetrine, considerevoli paramenti tessili (piviali e pianete)
in seta operata a telaio e ricamata con filati e laminati d’oro e d’argento contrassegnati dai tipici decori floreali sette-ottocenteschi particolarmente amati nella tradizione
liturgica.
P. G. Pasini, Museo di Saludecio e del Beato Amato, guida catalogo a
cura della Provincia di Rimini, San Giovanni in Marignano
2003
304
Santarcangelo di Romagna - Museo degli Usi e
Costumi della Gente di Romagna (c)
Il Museo degli Usi e Costumi della Gente di Romagna di
Santarcangelo di Romagna, inaugurato nel 1981, è stato
inizialmente frutto di un appassionato lavoro di raccolta
condotto a partire dalla fine degli anni Sessanta da un
gruppo di volontari, organizzato successivamente in un
‘Comitato Etnografico’ diretto da Giuseppe Sebesta.
Compito di questo museo è quello di raccogliere, conservare e valorizzare i materiali riferiti alla storia, all’economia, ai dialetti, al folklore della Romagna, in particolare
del territorio compreso tra l’Appennino tosco-romagnolo e marchigiano e la costa adriatica.
Le diverse sezioni del museo documentano sia i principali cicli del lavoro contadino – della canapa (evidenziando l’importanza che la lavorazione al telaio del lino e della canapa aveva nell’economia contadina), del
grano e del vino – che le tipiche attività artigianali quali metallurgia, liuteria e in particolare la stampa a ruggine su tessuto. Quest’ultima sezione, in ideale collegamento con la Stamperia Artigianale Marchi di Santarcangelo, presenta un modellino in scala dell’antico
“mangano a ruota” in legno e pietre (l’unico ancora esistente) che ancora si conserva nella suddetta Stamperia, strumento utilizzato per stirare i tessuti di canapa
e cotone decorati a ruggine con gli stampi in legno intagliati a mano secondo una segreta ricetta seicentesca,
un catalogo campionario di tele stampate che consente di conoscere la tipica iconografia romagnola, una coperta da letto e una caratteristica coperta da buoi, oltre
a stampi in legno di pero, ossido di ferro per il colore e
un mazzetto.
Assai rilevante è la sezione dedicata al teatro d’animazione, memoria concreta di un’arte popolare antica, costituita da circa ottanta pezzi, quasi tutti fantocci appartenuti alle famiglie Salici e Stignani e provenienti
dalle collezioni di Tinin Mantegazza. La raccolta è stata
recentemente implementata dalla collezione di abiti e
accessori per marionette e fantocci, donata al museo da
Renzo Pirini. Proveniente dal burattinaio Tinin Mantegazza, è riconducibile anch’essa alla raccolta di materiali costituita da Renzo Salici. I “fantocci” rappresentano
l’anello di congiunzione tra i burattini e le marionette,
agiscono come i burattini in baracca ma, come le marionette sono dotati di arti inferiori, i loro movimenti
sono guidati da sotto, come i burattini, mediante stecche in ferro anziché dalla mano del burattinaio, inoltre
dispongono di un guardaroba e possono mutare d’abito e di ruolo.
REPERTORIO
Infine una significativa attenzione è volta ai riti, alle credenze e alle valenze simboliche connessi ai diversi oggetti e al loro uso.
L.B.
Verucchio - Museo Civico Archeologico (c)
Il Museo ha sede nell’ex monastero di Sant’Agostino e venne inaugurato nel 1985 con i reperti provenienti dagli scavi archeologici effettuati da Gino Vinicio Gentili nella necropoli di podere Moroni. Dal 15 luglio 1995 ospita un
nuovo allestimento organizzato secondo un percorso cronologico-tematico che si propone di mettere in evidenza
nella scelta dei materiali esposti e negli apparati didattico/illustrativi tre aspetti fondamentali: l’assetto topografico, le dinamiche della struttura socio-economica e culturale della civiltà villanoviana a Verucchio tra il IX e il VII
sec. a.C. Qui si conservano abiti rinvenuti integralmente,
unico caso per l’Italia protostorica, di cui è possibile conoscere la forma, la materia prima utilizzata per il filato e
per le tinture e le tecniche di tessitura. Un prezioso reperto è costituito dal famoso mantello rinvenuto nella tomba 89 della necropoli Lippi, realizzato in filato di lana a
due capi ritorti in senso alterno e lavorato con un andamento diagonale formante un motivo a pied-de-poule. Oltre a questo sono stati rinvenuti altri lembi di tessuti in lana (necropoli Moroni-Semprini, VII a.C.), mentre di alcuni rimangono solo resti calcinati a causa del rogo. La fibra
principalmente utilizzata è la lana, ma sono presenti anche contenitori realizzati in fibre vegetali.
B.O.
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Guerriero e Sacerdote. Autorità e comunità a Verucchio nell’età del
ferro. La tomba del trono, a cura di P. von Eles, Quaderni di
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305
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Finito di stampare
da Studio Rabbi - Bologna
nell’anno 2005
€ 45,00
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