MICHELANGELO
ARCHITETTO A ROMA
MICHELANGELO
ARCHITETTO A ROMA
a cura di
Mauro Mussolin
con la collaborazione di
Clara Altavista
SilvanaEditoriale
In copertina
Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di Porta Pia
Firenze, Casa Buonarroti
MICHELANGELO
ARCHITETTO A ROMA
Roma, Musei Capitolini
6 ottobre 2009 - 7 febbraio 2010
Sotto l’Alto Patronato
del Presidente
della Repubblica Italiana
Comune di Roma
Assessorato alle Politiche
Culturali e della Comunicazione
Commissione Cultura
Sovraintendenza ai Beni Culturali
Promossa da
Gianni Alemanno
Sindaco
Umberto Croppi
Assessore alle Politiche Culturali
e della Comunicazione
Federico Mollicone
Presidente Commissione Cultura
Umberto Broccoli
Sovraintendente ai Beni Culturali
Claudio Parisi Presicce
Dirigente dei Musei Archeologici
e d’Arte Antica
Maria Elisa Tittoni
Dirigente dei Musei d’Arte
Medievale e Moderna
Silvana Editoriale
Servizio Mostre e Attività
Espositive e Culturali
Federica Pirani, Responsabile
Progetto e realizzazione
Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa
Direzione editoriale
Dario Cimorelli
Art Director
Giacomo Merli
Redazione
Micol Fontana, Maria Chiara Tulli
Impaginazione
Claudia Brambilla
Coordinamento organizzativo
Michela Bramati
Segreteria di redazione
Valentina Miolo
Ufficio iconografico
Deborah D’Ippolito
Fondazione Casa Buonarroti
Servizio Comunicazione
e Relazioni Esterne
Renata Piccininni, Responsabile
Alberto Federici
Teresa Franco
Servizio Coordinamento Attività
nei Musei Capitolini
Emilia Talamo, Responsabile
Regione Lazio
Piero Marrazzo
Presidente
Ufficio stampa
Lidia Masolini, [email protected]
Provincia di Roma
Nicola Zingaretti
Presidente
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta
o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi
mezzo elettronico, meccanico o altro
senza l’autorizzazione scritta dei proprietari
dei diritti e dell’editore.
L’editore è a disposizione degli eventuali detentori
di diritti che non sia stato possibile rintracciare
Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
Claudio Strinati
Tullia Carratù
© 2009 Silvana Editoriale Spa
Cinisello Balsamo, Milano
Fondazione Casa Buonarroti
Consiglio di Amministrazione
Eugenio Giani
Presidente del Consiglio
Comunale di Firenze
Presidente
Franca Arduini
già Direttrice della Biblioteca
Medicea Laurenziana di Firenze
Consigliere
Alessandro Cecchi
Direttore della Galleria Palatina
e del Giardino di Boboli di Firenze
Consigliere
Sindaci revisori
Stefano Pozzoli, Presidente
Roberto Campanile
Franco Cristiano
Amministrazione
Marco Bellini
Daniela Frosali
Pina Ragionieri
Direttrice
Elisabetta Archi
Funzionario
Elena Lombardi
Storica dell’Arte
Marcella Marongiu
Storica dell’Arte
Romeo Zigrossi
Direttore tecnico
Mostra a cura di
Mauro Mussolin
Pina Ragionieri
Progetto scientifico
Fondazione Casa Buonarroti
Catalogo a cura di
Mauro Mussolin
con la collaborazione di
Clara Altavista
Testi
Clara Altavista
Anna Bedon
Francesco Benelli
Alessandro Brodini
Cammy Brothers
Oronzo Brunetti
Claudia Echinger-Maurach
Emanuela Ferretti
Golo Maurer
Mauro Mussolin
Claudio Parisi Presicce
Pina Ragionieri
Guido Rebecchini
Georg Satzinger
Maddalena Scimemi
Christof Thoenes
Vitale Zanchettin
Traduzioni
Colette Bouverat
ed Elisabetta Pastore
(per il saggio di Georg Satzinger)
Floriana Pagano
(per i saggi di Cammy Brothers)
Organizzazione della mostra
Comune di Roma
Servizio Mostre e Attività
Culturali e Espositive
Maria Pia Favale
Mara Minasi
Gloria Raimondi
Ufficio Mostre dei Musei
Capitolini
Micaela Perrone
Daniela Tabò
Ufficio Attività Didattiche
Maria Dell’Era
Revisione conservativa
delle opere
Ombretta Bracci con
Elda Occhinero
(Zètema Progetto Cultura)
Allestimenti
G-Bang S.r.l.
Progetto di illuminazione
Sergio Aristei
Cornici in legno
Belle Epoque
Cornici in acciaio
Medori Elvisio
Trasporti
Minguzzi S.r.l.
Montenovi S.r.l.
Foto e realizzazione Spot Tv
Massimo Menghini
Progetto grafico
Cinzia Carcaterra
Traduzioni
Judith Green
Associazione Culturale
Metamorfosi
Pietro Folena
Presidente
Vittorio Faustini
Direttore generale
Elisa Massetti
Coordinamento organizzativo
Segreteria organizzativa
Domenico Laneve,
Pietro Faustini
Account executive
Valeria Zucconi
Progetto di allestimento
Giuliano Macchia
con Brunella Bronchi,
Giorgio Gentili, Ilda Pendenza
Supporto organizzativo
Zètema Progetto Cultura
Francesco Marcolini
Presidente
Albino Ruberti
Amministratore delegato
Roberta Biglino
Direttore generale
Coordinamento
Renata Sansone
con Andrea Enrico Rossi
Consulenza legale
Andrea Catizone
Promozione e comunicazione
Patrizia Bracci con Fabiana Magrì,
Ufficio stampa
Antonella Caione con Natalia
Lancia, Promozione
Elisabetta Giuliani, PR Eventi
Consulenza organizzativa
Fabrizio Conti
Servizi didattici
Marco Falciano con Lucia Imundi
Direttore tecnico
Ottorino Neri
Ufficio stampa
Maria Grazia Filippi
Albo dei prestatori
Anzio, Biblioteca Clementina
di Clemente e Alvaro Marigliani
Con la collaborazione di
Città del Vaticano, Fabbrica
di San Pietro
Servizi di vigilanza
Trevis
Firenze, Biblioteca Nazionale
Centrale
Con il sostegno di
Firenze, Casa Buonarroti
Firenze, Soprintendenza Speciale
per il Polo Museale Fiorentino,
Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi
Roma, Accademia Nazionale
di San Luca
Roma, Archivio Storico Capitolino
Con il contributo tecnico di
Sponsor ufficiali
Roma, Biblioteca dell’Accademia
Nazionale dei Lincei e Corsiniana
Roma, Biblioteca di Archeologia
e Storia dell’Arte
Roma, Biblioteca Hertziana Istituto Max Planck per la Storia
dell’Arte
Roma, Biblioteca Nazionale
Centrale “Vittorio Emanuele II”
Roma, Musei Capitolini
Roma, Museo di Roma
Vicenza, Centro Internazionale
di Studi di Architettura
Andrea Palladio
Si ringraziano inoltre tutti
i prestatori che hanno voluto
mantenere l’anonimato
Crediti fotografici
Archivio fotografico
Musei Capitolini
(foto di Zeno Colantoni
e Antonio Idini)
Massimo Menghini
Antonio Quattrone
Organizzazione
Assicurazioni
Supporto organizzativo
Ringraziamenti
L’Associazione Culturale
Metamorfosi esprime la più viva
gratitudine alla Fondazione Casa
Buonarroti, alla Biblioteca
Clementina di Clemente e Alvaro
Marigliani e ai prestatori privati
e ringrazia in particolare Fabrizio
Ambrosi de Magistris, Aloisio
Antinori, Luciano Arcadipane,
Elisabetta Archi, Maurizio Bacci,
Daniela Barbieri, Gianluca Belli,
Amedeo Belluzzi, Guido Beltramini,
Mario Bevilacqua, Laura Biancini,
Anna Maria Bisio, Annalia Bonella,
Ombretta Bracci, Michela Bramati,
Claudia Brambilla, Marianna
Brancia di Apricena, Franco Brescia,
Howard Burns, Elena Capperoni,
Costanza Caraffa, Daniela Carosio,
Silvia Catitti, Anna Cedroni, Dario
Cimorelli, Gianluigi Ciotta,
Angela Cipriani, Card. Angelo
Comastri, Lucia Corrieri,
Maria Pia Corso, Andrea D’Antonio,
Deborah D’Ippolito, Francesco
Paolo Di Teodoro, Bruce Edelstein,
Caroline Elam, Marzia Faietti,
Luisa Falchi, Cristina Falcucci,
Sara Faustini, Carla Ferrantini,
Micol Fontana, Margherita
Fratarcangeli, Christoph Luitpold
Frommel, Giacomo Gallarati,
Gianluca Gaudioso, Paola Gaudioso,
Eugenio Giani, Carla Gobetti,
Carla Godetti, Francesco Guidi
Bruscoli, Marco Guardo,
Cristiano Habetswallner,
Cristiana Lucani, Maria Luisa
Jacini, Mons. Vittorio Lanzani,
Anna Maria La Pica, Elena
Lombardi, Antonella Magagnini,
Giorgio Marini, Andrea Margaritelli,
Marcella Marongiu, Cinzia Matrì,
Giacomo Merli, Pietro Metelli,
Armando Mileto, Mara Minasi,
Michele Misuraca, Marco Misuri,
Alessandro Nova, Riccardo Pacciani,
Enrichetta Palmeri, Giuseppe
Papillo, Marco Pasquali,
Susanna Pelle, Roberta Perfetti,
Micaela Perrone, Leonardo Pili,
Carla Pinzauti, Federica Pirani,
Vittorio Pizzigoni, Gloria
Raimondi, Christina Riebesell,
Domenico Rocciolo, Daniela
Ronzitti, Andrea Enrico Rossi,
Renata Sansone, Luca Sbardella,
Chiara Siro Brigiano, Lucia Soleri,
Marco Spallanzani, Marco Spesso,
Anna Storace, Daniela Tabò,
Maria Tasselmeier, Andreas
Thielemann, Assunta Tonetti,
Daniela Tovo, Simonetta Tozzi,
Patrizia Trucco, Chiara Tulli,
Biancamaria Verde,
Orietta Verdi, Raffaele Viola,
Gerhard Wiedmann,
Alessio Zagaglia, Pietro Zander,
Luisa Zotti.
Michelangelo Buonarroti, il gigante solitario che visse in un secolo di giganti, è lo straordinario
protagonista di questa eccezionale mostra, che si candida a essere l’evento clou della prossima
stagione autunnale 2009 dei Musei Capitolini per la profondità e ampiezza dell’indagine
sui contributi del Maestro alla produzione architettonica e scultorea dell’Urbe.
Dalla cappella Sistina alle dimore private, dalle fortificazioni cittadine, agli interventi
per la basilica di San Pietro, alla ristrutturazione di piazza del Campidoglio, fino a porta Pia,
un viaggio lungo e documentato che traccia un profilo inedito di Michelangelo, dalla sua attività
giovanile volta alla perfetta assimilazione dei classici nella bottega del Ghirlandaio,
alla passione per progetti in piccola scala, alle innovazioni della maturità, che sfociano
nella trasformazione delle introspettive architetture delle terme di Diocleziano nello spazio
mistico di Santa Maria degli Angeli.
Questo importante momento espositivo, coronato da ricchi reperti iconografici raccolti
in questo prezioso catalogo e provenienti da illustri istituzioni come la Fondazione
Casa Buonarroti a Firenze, è una esperienza che rimanda, inoltre, alla magia dell’arte
scultorea michelangiolesca, dove la luce scavata nel mistero della pietra illumina
di bellezza le forme scolpite in un disegno perfetto.
Una mostra intensa, che si presta a riscuotere un successo internazionale, perché riassume
il genio cinquecentesco, permeato da un nuovo umanesimo, in una perfetta sintesi
degli opposti in cui l’artista rinsalda il patto tra l’umano e il divino.
Le sue opere sono poetiche e dolorose insieme perché Michelangelo ha saputo vedere
la bellezza e il dramma della vita nell’arte, perché di Roma conosce la verità che esprime
questa contraddizione e perché, in questo, Michelangelo Buonarroti appartiene
al nostro tempo come apparteneva al suo.
Gianni Alemanno
Sindaco di Roma
Sentirsi infinitamente piccoli al cospetto del Genio assoluto non è sempre un’esperienza sublime.
Il nome di Michelangelo porta infatti con sé la certezza che ogni parola pronunciata o scritta
a suo commento suoni, qual è, superflua, non aggiungendo nulla dinanzi alla Bellezza che egli
ebbe a creare. Nemmeno il tempo o la morte potrebbero farlo.
Essere ospite di una mostra dedicata a Michelangelo architetto a Roma è certamente un onore,
in ispecie considerando che i suoi tanti anni spesi qui a operare coincisero con due periodi
ben differenti e ben circoscritti della sua estetica: nel primo (dal 1505 al 1516) egli fu immerso
nell’impresa di realizzare la sua perfetta concezione classica dell’arte; nel secondo
(dal 1534 al 1564), l’opera e il pensiero di Michelangelo annunciarono un’epoca nuova,
in conflitto con l’armonia e la serenità classicistiche. L’esser stato il sommo interprete
di due momenti così contrastanti della storia dell’arte, ovverosia classico e anti-classico
in egual misura e con il medesimo splendore, fu il segno di una perennità insuperabile.
I suoi scritti più significativi, in ogni caso, appartengono al secondo Michelangelo,
e qui traluce una stupefacente coerenza teoretica, da un lato egli riconoscendo la limitatezza
umana nel rendere pienamente la bellezza delle cose, dall’altro rivendicando con forza,
tanto la scelta dell’Artista dinanzi alla Natura, quanto il principio individuale
sul quale risiede il criterio del valore dell’arte.
Da questa mostra risalta in grande misura un’idea di “progetto” che prende origine dalla visione;
quel che per l’estetica michelangiolesca era cioè un dono innato, un talento che risiede
nel cuore di chi sa creare e rappresentare, in un “mondo cieco ove il buon gusto è raro…”.
Non varrebbe, a tal proposito, infierire sul nostro presente. Assai meglio rifugiarci
in una silenziosa, ammirata contemplazione.
Umberto Croppi
Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma
È difficile immaginare il Rinascimento senza la genialità di un artista come Michelangelo
Buonarroti, i cui fondamenti artistici non furono quelli artigianali di una bottega, bensì quelli
intellettuali dell’Umanesimo classicista della cerchia dei Medici e del Vaticano, suoi mecenati.
Molto si è detto e scritto sulla sua complessa personalità, e diverse sono state le rassegne sia
italiane che straniere, che negli anni hanno cercato di indagare sulla sua poliedrica attività
artistica e sul suo pensiero filosofico, e anche Roma che può essere considerata a ragione
la sua città d’adozione, dedica al grande Maestro un doveroso tributo. Michelangelo architetto
a Roma, presentata presso i Musei Capitolini, nasce da un progetto scientifico di Casa
Buonarroti, fortemente sostenuto dalla VI Commissione Consiliare Permanente alla Cultura,
in sinergia con l’Assessorato alle Politiche Culturali e la Sovraintendenza del Comune di Roma,
in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Delle diverse discipline
artistiche Michelangelo predilesse la scultura, ma sarà interessante scoprire per il visitatore come
anche nell’architettura egli impresse il proprio carattere, rinnovandola con crescente originalità,
imprimendole lo stesso vigore plastico delle sue sculture. Roma è testimone di questo grande
appuntamento con l’arte, che sarà riproposto successivamente in un’altra grande capitale
europea, Vienna, in rappresentanza del genio italiano nel mondo. Un coinvolgimento particolare
è riservato alla didattica scolastica, grazie all’Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche,
con attività collaterali rivolte alle scuole, che consentiranno di far conoscere a un pubblico più
ampio l’effetto comunicativo della rassegna. La mostra, che si configura come l’evento mediatico
della prossima stagione, traccia un profilo esauriente del Maestro, in relazione alle numerose
committenze romane, dagli anni della giovinezza alle straordinarie invenzioni della vecchiaia.
Di particolare rilievo in sede espositiva saranno i disegni della chiesa di San Giovanni
dei Fiorentini, edificata da Giacomo Della Porta, di cui si conoscono cinque splendidi disegni
di Michelangelo, che immaginano una chiesa a pianta centrale. Torna dunque a Roma, per tutti
coloro che apprezzano l’importanza della memoria storica e che hanno a cuore la bellezza,
uno dei maggiori ambasciatori dell’arte italiana nel mondo.
Federico Mollicone
Presidente Commissione Cultura e Sport Comune di Roma
Michelangelo a Roma, appunti, spunti, quasi un ricordo
“E quelli che non ammirano le cose sue non hanno punto di giudicio, e massimamente d’intorno
alla parte del disegno, nella quale senza dubbio è profondissimo; perciochè egli è stato il primo
che in questo secolo ha dimostro a’ pittori i bei dintorni, gli scorti, il rilevo, le movenze e tutto
quello che si ricerca in fare un nudo a perfezione.”
Così Ludovico Dolce, poligrafo italiano (Venezia, 1508-1568) parlando di Michelangelo
Buonarroti. Quanti spunti a margine di questa mostra, quanti ricordi. Le opere sono raccolte
e descritte nel catalogo: gli autori sono illustri, conoscitori profondi dell’arte di Michelangelo.
Michelangelo a Roma: un rapporto iniziato il 25 giugno 1496, con lui ventunenne alla corte
di Alessandro VI Borgia, ricorda Claudio Strinati. Da quel momento nasce il legame fra
Michelangelo e Roma. Un legame secolare. È inutile che io qui ricordi le opere in mostra.
Michelangelo e Roma evoca anche altro. Per esempio la Pietà.
Nel marmo di Carrara, marmo antichissimo, marmo con cui si è costruito il mondo. Marmo
di quelle montagne esportate in briciole costosissime in ogni luogo. In un blocco di quel marmo,
Michelangelo vede “la Pietà”. Ricordate quella domenica del 21 maggio del 1972? Laslo Toth
entra in San Pietro. È un ungherese, non proprio a posto con il cervello. Si definisce e si atteggia
a novello Gesù Cristo, tunica rossa e papillon. Un martello nelle mani, nella testa il desiderio
di distruggere la statua della Madonna, tirata fuori dal marmo di Carrara da Michelangelo
Buonarroti. Laslo Toth prende a martellate la Pietà.
Una commissione con Giovanni Fallani, Deoclecio Redig de Campos (nomi infiniti),
riporterà tutto come stava. All’ombra delle cave di Carrara.
Spesso mi sono fermato di fronte alla Pietà, riflettendo. Pietà: una parola in grado di evocare
immagini precise. Si dice “pietà” e (generalmente) si pensa a quella statua. La madre distrutta
dal dolore, mentre sorregge il corpo del figlio morto. Una statua in grado di parlare. Così come
avrebbe voluto Michelangelo, secondo la leggenda. Guardandola, si sente il grido dell’anima
di una madre, costretta a seppellire suo figlio.
E quante ne abbiamo viste.
Ricordo un’altra immagine forte, dirompente. Il viso di quella donna algerina cui avevano
ammazzato i figli. Aveva il capo velato, leggermente inclinato da una parte.
Sembrava una madonna: una madonna musulmana. Dagli occhi, non una lacrima: il dolore
le aveva tolto anche la possibilità di piangere. Sguardo assente, bocca contratta in una smorfia
disumana: espressione senza parole a sottolineare la mancanza di pietà di chi le aveva
massacrato l’anima.
Ne ricordo un’altra, di là dal mare Adriatico. Un’altra mamma accasciata sul corpo di una
bambina: un cecchino aveva sparato nel mucchio, al mercato, in nome di una differenza etnica.
E aveva colpito una figlia, lasciando biologicamente viva una mamma. Di fatto, aveva
ammazzato madre e figlia: una madre difficilmente sopravvive al dolore di un figlio strappato
via. Una madre in quelle condizioni vegeta fino alla fine della sua esistenza. Spesso chiedendo
la pietà di aver accorciata la pena di vivere.
E chissà quante madri prima di Michelangelo, chissà quante madri dopo Michelangelo.
E in quanti, ancora oggi si commuovono di fronte a quel gruppo scolpito nel marmo.
In quanti avvertono la sofferenza strappata via a un pezzo di montagna di Carrara.
L’arte riesce a riprodurre la pietà. Ma ci chiediamo quale? Quale pietà?
È la pietà di chi soffre ed è costretto a seppellire un corpo. È la pietà effetto di un’altra causa.
La causa di chi non ha avuto pietà. La causa di chi ha ucciso senza pensare alle madri.
La causa di chi ha fatto una strage seguendo l’istinto della bestia di sesso maschile: pronta
a combattere, pronta a sterminare. Gli animali maschi non hanno pietà: gli animali maschi
attaccano, assaltano, uccidono. Le femmine animali soffrono: si lamentano per il cucciolo
morto, per il compagno che non rientra nella tana.
La pietà rappresentata è una contraddizione. È il risultato della pietà non avuta, della pietà
dimenticata. E gli uomini sono campioni nel creare modelli per altre opere d’arte nelle quali
le donne piangono per la pietà calpestata dagli uomini. L’uomo adora rappresentarsi come lupo.
Poi (in preda a sensi di colpa inconsci), adora dipingere e scolpire immagini della pietà…
Quel folle, Laslo Toth, tanti, tanti anni fa prese a martellate la statua della Pietà di Michelangelo.
Il mondo dell’arte rabbrividì e un restauro riuscì a rimettere a posto quanto Laslo Toth aveva
scheggiato con la sua violenza. Non si è mai capito perché quel gesto di follia. Inammissibile.
Ma non è la stesso tipo di follia, ben più grave, quella mossa dall’uomo, quando
(quotidianamente) prende a martellate la pietà, bombardando città, sparando sulla gente,
trasformando donne vive in esseri impietriti dal dolore di vedere massacrati figli e compagni?
Chi sarà in grado di restaurare questa pietà?
Umberto Broccoli
Sovraintendente ai Beni Culturali del Comune di Roma
Il punto di forza di questa mostra è l’ottica particolare da cui ci si è posti per un riesame
complessivo della figura di Michelangelo Buonarroti e su tale aspetto occorre richiamare
l’attenzione del visitatore. Sembra incredibile che Michelangelo possa essere conosciuto in modo
diverso e innovativo rispetto a quanto è avvenuto fino a oggi. E, effettivamente, la diagnosi
critica inerente a un artista del genere è per larga parte compiuta né è lecito pensare,
al di là di modifiche interpretative di questa o quella opera, a un ribaltamento dell’immagine
del sommo artista così come è stata elaborata da una storiografia ormai secolare.
Eppure la mostra è basata su metodi e criteri che debbono essere valutati proprio nella direzione
della novità, tanto più importante se riferita a un artista di cui entro certi limiti si può
veramente pensare che sia stato detto tutto.
Ma in questo caso specifico non si tratta di una operazione clamorosa che intenda sfatare
eventuali luoghi comuni; ribaltare una immagine consolidata; proporre una sorta di rivoluzione
critica per quel che riguarda l’approccio a Michelangelo. Si tratta quasi dell’esatto contrario
cioè della dimostrazione, nel concreto della ricerca, di un criterio diverso di indagine inerente
allo sviluppo dell’insieme del lavoro michelangiolesco, alla ricerca di quelle innumerevoli
interconnessioni tra una attività e l’altra del maestro, da sempre dichiarate e ampiamente
argomentate ma sovente divise in maniera schematica, per lo più secondo le tecniche artistiche
utilizzate dal Buonarroti. Nessun dubbio sul fatto che in Michelangelo convivessero tante
competenze distinte ma tutte espresse al massimo livello e con una coscienza profonda della
organicità dell’artista creatore, secondo un principio umanistico condiviso da vari artefici
insigni di quel tempo. Michelangelo anzi è il simbolo dell’artista creatore che è tale ancor prima
di avere affrontato il problema specifico della tecnica che dovrà utilizzare. Scultore di vocazione
assoluta, pittore eccelso, architetto addirittura proiettato sulla sfera del sublime, Michelangelo è
l’artista universale per antonomasia, in modo radicalmente diverso, se non addirittura opposto,
rispetto a un Leonardo da Vinci. Tutto questo è ben chiaro e fornisce la spiegazione intuitiva
dei motivi per cui la figura di Michelangelo Buonarroti è e resterà sempre incomparabile e unica
nella storia dell’arte. E tuttavia in questo ambito di pensiero e di approccio critico è possibile
approfondire l’indagine e renderla sempre più nitida e comprensibile. Proprio qui è la novità
consistente ed estremamente interessante che promana dalla mostra, nutrita di apporti critici
di primissimo ordine e da accostamenti indispensabili per una conoscenza sempre più precisa
di questo genio grandissimo.
In Michelangelo è certamente difficile distinguere il progetto dall’esecuzione. Michelangelo, in
tutte le tecniche artistiche che ha praticato come maestro supremo, attua un processo creativo
complesso e sovente intralciato la cui comprensione è ardua. Basandosi sull’idea del “non finito”
si è spesso pensato che ci fosse nel maestro una specie di insuperabile limite interiore che gli
impedisse di estrarre in maniera ottimale la forma dall’inerte, così come egli sarebbe stato
immancabilmente in grado di fare secondo un percorso platonico di definizione piena della
forma, individuata nella fase progettuale e poi portata a compimento. C’è in questa idea
del “non finito” un principio che sembra portare vicino ai metodi di lavoro leonardeschi,
quando l’impossibilità di dotarsi dello strumento infallibile per l’infallibile realizzazione
dell’“idea” condusse Leonardo a continue interruzioni o a esecuzioni insoddisfacenti sotto
il profilo conservativo e finanche espressivo. Ma è evidente che la dimensione leonardesca
e quella michelangiolesca erano totalmente antitetiche, quindi la spiegazione dei comportamenti
michelangioleschi non può essere la stessa di quelli leonardeschi, fermo restando come l’utilizzo
indiscriminato della chiave interpretativa del “non finito” abbia recato più danni che vantaggi
alla storiografia michelangiolesca. Ecco, allora, che la mostra attuale tiene nel massimo conto
questa difficoltà di comprensione dell’opera del Buonarroti globalmente intesa e va a indagare
nei più sottili recessi del processo creativo del maestro, cercando di rintracciare nelle varie
tecniche artistiche il “laboratorio” dell’autore, sulla base di una ipotesi forse non espressamente
dichiarata ma di fatto rintracciabile nella impostazione generale della manifestazione,
che un sorta di “laboratorio” interiore ed esteriore guidasse per tutta la vita il metodo
progettuale del maestro e ne condizionasse le modalità di attuazione certa,
sia che egli fosse incaricato di mettere in opera una montagna di sculture, sia che avesse
l’incombenza di ripensare per intero il principio stesso dello spazio dipinto, sia che si immergesse
nello sbalorditivo esperimento di imprimere segni indelebili e possenti sulla città rinascimentale
considerata come modello speculativo e insieme come luogo vivente in cui esercitare attività
ben concrete e impegnative. Dalla mostra si ricava un’idea centrale che può essere così espressa:
malgrado le apparenze, se è certamente legittimo parlare di un Michelangelo pittore,
di un Michelangelo scultore, di un Michelangelo architetto, è pur vero come nel caso
di Michelangelo sia necessario, e non meramente metaforico, usare la definizione
di “artista universale”. Michelangelo non è universale perché è bravo in tutto,
è universale perché un principio universale di comunicazione guida la sua formidabile
attitudine al fare e la capillare analisi che viene qui svolta aiuta in modo nuovo e intelligente
ad avvicinarsi sempre di più a tale semplicissima e determinante conclusione.
Claudio Strinati
Il grande evento culturale dell’anno nella capitale rappresenta una tappa di straordinario rilievo
nel lungo lavoro che la Fondazione Casa Buonarroti, con la forza e l’impegno di Pina Ragionieri,
sta compiendo per far conoscere l’opera complessa e stupefacente di uno dei più grandi italiani
di tutti i tempi. Che sulla piazza del Campidoglio, progettata, con le sue statue e i suoi palazzi,
da Michelangelo, si renda onore a Michelangelo architetto rappresenta il saldo di un debito
di quasi cinque secoli. Lo scultore e il pittore, che nel disegno e nelle sue trasformazioni poggiavano
le loro basi e sperimentavano nuove realizzazioni, anche nella grande sfida dell’architettura
– dell’incontro cioè tra il pensiero e la società, tra il sogno e la storia – toccano vette di perfezione
assoluta. Il rigore filologico dell’esposizione romana permetterà al grande pubblico di riconoscere
nei segni della città eterna la mano di Michelangelo, e di comprendere meglio la relazione culturale
così stretta che lega, ben prima dell’era della Frecciarossa, Firenze e Roma.
Metamorfosi (e cioè cambiamento e trasformazione continui, nella vita come nell’arte)
è un’associazione che intende condurre un’iniziativa, se necessario controcorrente, per contrastare
l’inaridimento delle idee e gli eccessi della spettacolarizzazione, dell’effimero e del pensiero unico
televisivo – veri e propri agenti di un’insopportabile idea superficiale e passeggera della cultura.
Con l’organizzazione di questa mostra, sostenuta con tanto impegno dal Comune di Roma,
da tante istituzioni e anche da collezionisti privati, ci vogliamo rivolgere in particolare
agli studenti e ai giovani, perché diventino, dopo un lungo periodo di tendenze omologanti,
protagonisti di una metamorfosi culturale e morale della società contemporanea.
Pietro Folena
Presidente di Metamorfosi
Il sostegno di British American Tobacco Italia alla realizzazione della mostra Michelangelo
architetto a Roma si inserisce in un percorso che abbiamo intrapreso, già da qualche anno,
per la valorizzazione della storia del nostro Paese, che è soprattutto storia d’arte e di cultura,
e per un più stretto legame tra cultura e impresa.
Questa straordinaria possibilità è stata da noi accolta come un’occasione irripetibile
per contribuire a diffondere la conoscenza di un patrimonio d’arte e di cultura che appartiene
a tutto il mondo. Le potenzialità offerte dal nostro Paese, del resto, grazie al patrimonio
artistico-culturale di cui i cittadini italiani, persone fisiche e giuridiche, vanno fiere, costituisce
un vero e proprio serbatoio, da cui attingere per sperimentare il piacere dei suoi capolavori.
Le sempre più numerose sponsorizzazioni di eventi artistici e culturali da parte delle aziende
confermano, poi, una accresciuta consapevolezza da parte del mondo delle imprese
della propria responsabilità, non solo nei confronti degli stakeholder classici, ma anche
di soggetti quali le istituzioni culturali e della società in genere.
L’impresa, oggi, riveste un ruolo sempre più concreto e costante come supporto alle iniziative
culturali ed è nell’attuale contesto socio-economico che BAT Italia intende continuare a essere
presente in qualità di azienda appassionata della cultura e sua attiva sostenitrice.
Peraltro, l’impegno di BAT Italia per la cultura è solo una delle espressioni con cui vogliamo
concretizzare la nostra adesione al principio della Responsabilità Sociale d’Impresa.
Alla domanda sul motivo per cui un’azienda produttrice di tabacco debba confrontarsi
con il tema della Responsabilità Sociale d’Impresa, rispondiamo in maniera decisa, che la
responsabilità sociale è, per tutte le imprese, un indicatore fondamentale del loro stato di “salute”.
Ecco perché la presenza di BAT Italia fra i sostenitori della mostra Michelangelo architetto
a Roma, si inserisce nel programma di sostegno alla cultura e all’arte italiana come nostro
impegno nei confronti del territorio ma chiarisce anche il modello culturale che governa
BAT e quindi le aziende del Gruppo, tra cui BAT Italia, che operano nel mondo.
Giovanni Carucci
Vice President
Head of Corporate and Regulatory Affairs
L’impegno di noi Monini a sostegno della mostra Michelangelo architetto a Roma è mosso
dalla responsabilità, oltre che dal piacere, di dare il nostro contributo a tutela del patrimonio
artistico e architettonico italiano, elemento che contraddistingue il nostro Paese nel resto
del mondo.
Una responsabilità che noi Monini sentiamo in quanto, nel nostro piccolo, siamo parte
delle eccellenze del nostro Paese come custodi del saper fare dell’olio extra vergine d’oliva.
D’altronde la passione per l’olio extra vergine d’oliva non è poi diversa da quella dell’artista.
Infatti, così come l’artista s’impegna tutta la vita a perfezionarsi nella sua arte, così noi Monini
da novant’anni dedichiamo la stessa cura che un tempo nostro nonno metteva nella scelta
dei blend per produrre il migliore olio extra vergine d’oliva possibile.
Siamo convinti, inoltre, che l’enorme patrimonio culturale di cui disponiamo necessiti ancora
di essere divulgato e che chi operi nella produzione e promozione dell’eccellenza italiana debba
rendere merito e sentirsi parte della eccellenza delle eccellenze italiane: la nostra cultura.
L’attenzione per la qualità del nostro olio extra vergine e la tutela dei capolavori
della nostra terra diventa così per noi un tutt’uno, perché a trarre beneficio di ciò è l’Italia intera
e i suoi cittadini.
L’olio d’oliva, che noi Monini rappresentiamo nella sua accezione massima, l’extra vergine,
prodotto tipico della natura e del clima del nostro Paese, da sempre presente nella nostra
alimentazione, ci tramanda, con la sua storia, le tradizioni della nostra terra e fa di Monini
uno dei principali player impegnati nella conservazione dei nostri beni culturali.
Di fatto questa iniziativa si inquadra in una più ampia opera a sostegno della cultura e dell’arte
in tutte le sue forme, che già da molti anni abbiamo messo in atto sponsorizzando ad esempio
gli spettacoli teatrali del Festival dei due Mondi di Spoleto, Umbria Jazz e prossimamente
anche il Festival Internazionale del Film di Roma.
Il sostegno per questa mostra è ancora più contestualizzato se pensiamo che noi Monini
e il nostro marchio veniamo dell’Umbria, il cuore verde dell’Italia, regione che fa idealmente
da ponte tra due mondi michelangioleschi. Questa meravigliosa terra ha, infatti, a nord
la provincia natia di Michelangelo, ricca dei suoi primi capolavori, e a sud Roma, in cui l’artista
espresse la sua migliore vena creativa e che ha in sé le opere architettoniche al centro della mostra.
Maria Flora e Zefferino Monini
SOMMARIO
25
38
Michelangelo architetto a Roma
118
Michelangelo e le fortificazioni del Borgo
Oronzo Brunetti
Michelangelo e Architettura
Christof Thoenes
124
Tomba di Cecchino Bracci
Pina Ragionieri
128
Piazza del Campidoglio
Anna Bedon
La collezione di disegni di Michelangelo
della Casa Buonarroti
Pina Ragionieri
46
Architetture minori di Michelangelo a Roma
Anna Bedon
138
Le colonne alveolate di palazzo dei Conservatori
Francesco Benelli
58
Le dimore di Michelangelo a Roma.
Dalle prime abitazioni alla casa di Macel de’ Corvi
Clara Altavista
142
Michelangelo e la decorazione scultorea
della piazza Capitolina
Claudio Parisi Presicce
158
Palazzo Farnese
Emanuela Ferretti
170
San Pietro in Vaticano
Alessandro Brodini
180
Il tamburo della cupola di San Pietro in Vaticano
Vitale Zanchettin
200
Progetti per edifici residenziali eseguiti a Roma
intorno al 1550-1560
Claudia Echinger-Maurach
206
San Giovanni dei Fiorentini
Mauro Mussolin
214
Cappella Sforza in Santa Maria Maggiore
Georg Satzinger
226
Porta Pia
Golo Maurer
240
Santa Maria degli Angeli
Alessandro Brodini
242
bibliografia
Gli anni dal 1505 al 1516
73
Michelangelo: ritratti e autoritratti
Pina Ragionieri
80
Cappella Sistina
Cammy Brothers
84
Finestra a edicola della cappella dei santi
Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo
Mauro Mussolin
90
Disegni dal Codice Coner: studi dall’antico
e da architetture romane
Cammy Brothers
Gli anni dal 1534 al 1564
95
Michelangelo e la cultura architettonica a Roma
alla metà del XVI secolo
Maddalena Scimemi
100
La “sepoltura” di Giulio II:
dai primi progetti alla realizzazione
Claudia Echinger-Maurach
114
Michelangelo e le mura di Roma
Guido Rebecchini
MICHELANGELO E ARCHITETTURA
Christof Thoenes
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
Che i grandi artisti del Rinascimento fossero geni universali –
pittori, scultori e architetti – è un luogo comune e, come tutti i
luoghi comuni, vero e falso allo stesso tempo. La verità di ciò è
dimostrabile senza fatica per mezzo di singoli esempi; la falsità sta nella generalizzazione.
Se, fiero, Raffaello scriveva allo zio di essere stato designato da
Leone X come architetto di San Pietro “in loco di Bramante” e
che per questo sarebbe diventato “perfettissimo” anche in
quest’arte1, al contrario, Michelangelo (secondo Giorgio Vasari), pur opponendosi, si lasciava convincere dallo stesso papa
ad assumere l’incarico per la facciata di San Lorenzo2. Reazioni di resistenza e di opposizione avrebbero accompagnato tutta la sua successiva attività architettonica. “Non sono architector” scriveva egli ancora negli anni quaranta su un foglio con
dettagli architettonici3. Per Michelangelo appare decisivo il
momento del condizionamento esterno. Che Paolo III lo avesse indotto ad assumere la guida del cantiere di San Pietro “contra mia voglia, e con grandissima forza”, lo dichiarerà egli stesso molto più tardi in una lettera a Vasari4.
Esser costretto a fare ciò che non vuole rappresenta un topos
della sua biografia: affrescare la volta della Sistina anziché intagliare le figure della tomba di Giulio II, tomba che anch’essa,
ben presto, divenne un peso e una causa per nuove lamentele,
come ogni ulteriore incarico. Ancora a 82 anni egli deplorava
di dover perseverare nella “fatica e fastidio” della costruzione
di San Pietro, anziché lasciar tramontare la propria vita nella
pace della sua patria5. Ma chi lo tratteneva, allora? Vi erano a
Roma tanti dei suoi colleghi (e concorrenti) che ben volentieri
avrebbero voluto vederlo partire per Firenze, mentre i papi
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
continuavano a proteggerlo. Da tempo questa coercizione era
stata interiorizzata, vale a dire, Michelangelo in verità era diventato committente di sé stesso. Ed era proprio questo a cui
egli, come credo, aveva mirato fin dall’inizio. Sarebbe erroneo
pertanto – ed è questa la tesi che desidero sostenere – considerare l’architettura, che nel corso della sua vita giocò un ruolo
sempre maggiore, alla stregua di un’attività secondaria ovvero
una sorta di deviazione dalla propria professione6. Al contrario
essa fu un complemento sempre più importante, finché divenne l’ultima meta del suo operato, connessa con la scultura
e al contempo opposta a essa. Infatti, se il mestiere di scultore
l’aveva quasi nel sangue (trasmesso, come egli stesso credeva,
o fingeva di credere, dal latte della sua balia proveniente da una
famiglia di scalpellini)7, egli era entrato assai tardi nel campo
dell’architettura, riflettendo su di essa – da quel momento –
sempre con maggior consapevolezza. Questo è il percorso che
cercherò di seguire.
Il racconto vasariano della vicenda dell’incarico di San Lorenzo, suggerito senza dubbio da Michelangelo stesso, non ha trovato credito nella ricerca recente8. Se si torna alle fonti (che risiedono prima di tutto nella corrispondenza dello stesso Michelangelo), si compone l’immagine di un uomo che, del tutto
consapevolmente, mirava a raccogliere la completezza dell’incarico nelle proprie mani e a espellere concorrenti, come anche
possibili collaboratori, fossero essi architetti o scultori. Il suo
obiettivo era il controllo dell’insieme e la strada per giungervi
conduceva all’architettura – ciò dovette averlo chiaro, al più
tardi, durante le trattative con Leone X e i suoi incaricati. Solo
in qualità di architetto, che decideva anche a chi affidare i lavo25
1. Michelangelo Buonarroti,
Profeta Isaia, circa 1511.
Città del Vaticano,
cappella Sistina
2. Raffaello Sanzio,
La Scuola di Atene, particolare,
1510. Città del Vaticano,
Palazzo Apostolico,
Stanza della Segnatura
ri di scultura (fin tanto che non li eseguiva egli stesso), poteva
realizzare ciò che aveva in mente. L’autonomia artistica presuppone quella economica: così pretese di venire a patti con il
papa quale imprenditore indipendente che lavorava “a tutte
sue spese”9, e sottolineò ciò nel dire di aver già investito un capitale proprio nell’acquisto di materiali di pietra10. E non da ultimo, se vedo bene, fu a causa di questa ambizione che l’intera
impresa alla fine naufragò. Così della facciata di San Lorenzo
non ci rimane nient’altro che il modello ligneo.
In una lettera del marzo 1520, Michelangelo trasse un bilancio
amaro: tre anni spesi a lavorare, con perdite finanziarie e la
vergogna di non aver portato a termine una commissione annunciata in grande (com’era già avvenuto per la tomba di Giulio II)11. Quello che egli non vedeva, ovvero di cui preferiva
non parlare, era il passo compiuto nel campo dell’architettura
durante quegli anni. Ciò non era implicito. Infatti l’incarico
per la facciata si riferiva in prima linea alla decorazione. Il testo
del contratto, come anche le lettere dell’incaricato papale,
menziona principalmente il programma scultoreo: una montagna di corpi marmorei e bronzei, ancora più imponente della tomba di Giulio II. Ma è strano: nella serie di schizzi che inizia già prima della stipulazione del contratto – circa 35 disegni
di ogni misura e tipo – la scultura gioca un ruolo decisamente
subordinato12. Ciò che lo coinvolgeva era l’architettura: non
più come sfondo, come nella tomba o nella volta della Sistina,
bensì come medium sui generis.
Era una scoperta che dovette colpirlo profondamente: gli elementi architettonici – colonne, pilastri, trabeazioni – non servivano solamente ad accompagnare le figure umane, essi potevano quasi sostituirle, appellandosi, come quelli, al nostro
senso corporeo, capace di trasmettere impulsi di movimento.
Certamente il campo di espressione delle forme architettoni26
3. Michelangelo Buonarroti,
Dettagli dell’ordine dorico
del teatro di Marcello
(dal Codice Coner, f. 86),
circa 1516. Londra,
The British Museum,
inv. 1859-6-25-560/1 recto
che era di per sé più limitato, la loro semiotica rigida e regolata da convenzioni. Ma proprio in ciò risiedeva anche la loro
forza attrattiva. Una tendenza verso la tipizzazione, persino
verso la monotonia si percepisce anche nel mondo figurativo
di Michelangelo. Egli non fece alcun ritratto, e già gli Ignudi
della Sistina sono rappresentanti del loro genere piuttosto che
individui; anzi, c’era già nella Sistina qualche intima affinità
tra figure e membri architettonici, radicalmente diversa dal
modo in cui Raffaello aveva trattato questo rapporto nelle
Stanze vaticane (figg. 1, 2).
Michelangelo non esitò – e ciò mi pare indicativo della consapevolezza di un nuovo inizio – a intraprendere lo studio della
lingua dell’architettura classica quasi in modo scolastico. Ciò è
dimostrato da una serie di disegni a matita rossa degli anni
1516-1517 (fig. 3). Si tratta di copie dal Codice Coner, con il
cui aiuto Michelangelo recuperò lo studio dei monumenti romani, nonché di certe architetture bramantesche, obbligatorio
per gli architetti della sua generazione13. Lo stile dei disegni è
secco, oggettivo, rivolto alla fedeltà; se essi tuttavia non appaiono noiose copie, ciò è dovuto al fatto che l’autore sapeva
esattamente ciò che voleva. Non si curava di misure e proporzioni – non troviamo né numeri né segni di compasso su questi fogli – e nemmeno della grammatica degli “ordini”, bensì
dell’interazione tra pesi e sostegni e del potenziale energetico
che essi contenevano. E proprio questo aspetto entrò a far parte integrante del lavoro compositivo per la facciata di San Lorenzo. Il risultato fu un’architettura nella quale le membrature verticali e orizzontali non appaiono più alla stregua di un
apparato decorativo applicato al corpo dell’edificio, come in
Giuliano da Sangallo (fig. 4), ma come sua essenza vera e propria. La parete stessa si articola in strutture che sembrano generare pilastri e colonne, mettendo in moto le trabeazioni (fig.
5)14. L’obiettivo non è l’effetto più ricco possibile nel rilievo,
bensì il collegamento delle membrature in un tutto “organico”. Trent’anni più tardi, nel concepire l’abside meridionale di
San Pietro, Michelangelo avrebbe sfruttato appieno quest’invenzione dei suoi esordi.
Non si dice niente di nuovo qualificando Michelangelo come
architetto-scultore. Ma il cliché diviene tanto più vero quanto
più viene preso alla lettera. Il punto saliente non sta nelle effettive o presunte qualità “plastiche” delle sue architetture, bensì nel suo rapporto con la pietra. Egli non sapeva concepire un
edificio se non come una scultura in grande formato: un intreccio di blocchi accatastati e ammorsati l’uno sull’altro. Gli
elementi dell’architettura sono contenuti nel marmo, come
statue; così lo scultore non divenne architetto, ma fu l’architettura a trasformarsi in lavoro scultoreo. James Ackerman ha
mostrato come sia possibile ricomporre la facciata di San Lo-
4. Giuliano da Sangallo,
Progetto per la facciata
di San Lorenzo a Firenze, 1516.
Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 281 A
5. Michelangelo Buonarroti,
Disegni di blocchi di marmo, circa 1518.
Firenze, Casa Buonarroti, 74 A
6. Michelangelo Buonarroti, Schizzi di blocchi
di marmo per la facciata di San Lorenzo,
circa 1518. Firenze, Archivio Buonarroti,
144-145, ff. 260 verso-261 recto
renzo alla stregua di un puzzle, partendo dagli schizzi dei blocchi disegnati da Michelangelo (fig. 6)15.
Si spiega così il comportamento a prima vista enigmatico di
Michelangelo nella fase iniziale della commissione. Stipulato
il contratto che gli dava otto anni di tempo, egli non si recò in
cantiere, bensì tornò nelle sue cave di marmo, dove rimase ancora un anno e mezzo per attendere al lavoro di sbozzatura dei
blocchi. Fu la pietra a ispirarlo. Già così era stato per il suo primo incarico architettonico, il piccolo fronte della cappella di
Castel Sant’Angelo: un puro lavoro di marmo, che forse per
questo fu delegato a un intagliatore16. Anche la facciata fiorentina, impresa colossale, fu pensata completamente in marmo.
Nella Sagrestia Nuova Michelangelo si rapportò all’architettura in pietra serena di Filippo Brunelleschi; il ricetto della Laurenziana si trasformò nell’apoteosi della “pietra del fossato”, la
più nobile sorta del macigno fiorentino. A Roma Michelangelo, secondo il detto di Giorgio Vasari, venne a “nobilitare il travertino”17, utilizzandolo non come rivestimento di strutture
murarie, ma come materiale da costruzione; recentemente Vitale Zanchettin ci ha fornito una nuova chiave di lettura di
questo procedimento18. In San Pietro la tecnica di Michelangelo diede l’impulso a una riorganizzazione radicale del funzionamento del cantiere19.
Il modo di pensare dello scultore si rispecchia nella prassi del
disegno. Sono le tecniche proprie del lavoro con materiali lapidei a imporsi nel nuovo mestiere. Quella strada che conduce dal primo schizzo al disegno elaborato, documentata nell’opera grafica di tanti architetti, qui viene incrociata da un’alMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
27
tra strada che viaggia dalla cava al cantiere. Nel blocco della
pietra si nasconde – secondo quel celebre sonetto20 – il “concetto” dell’opera che l’artista deve liberare: non sulla carta,
ma solamente nell’edificio, attraverso il lavoro nel materiale,
le idee diventano realtà. Non è un caso se tra i disegni architettonici di Michelangelo non troviamo “fogli di dimostrazione”. Un precoce tentativo di realizzarne uno per la facciata di San Lorenzo rimase incompleto; alcuni disegni successivi, sui quali torneremo in seguito, mostrano progettazioni in
continuo divenire. A compensare questa mancanza abbiamo
gli schizzi dei blocchi lapidei, nonché i grandi disegni di lavoro realizzati al vero per porte e finestre, tracciati sulle murature della Sagrestia Nuova (fig. 7)21, insieme ai profili per i “modani” ritagliati sulla carta per i tagliapietra (fig. 8)22. Disegnare al vero sulle murature non fu certamente un’invenzione di
Michelangelo, né possiamo essere certi che queste linee siano
state tutte tracciate dalle sue mani. Ma ciò che dimostrano – e
28
7. Michelangelo Buonarroti,
Studio di finestra, graffito
su parete, circa 1525.
Firenze, Sagrestia Nuova,
scarsella
9. Antonio da Sangallo il Giovane,
Studi di alzati e pianta parziale
di San Pietro, circa 1518.
Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 70 A
8. Michelangelo Buonarroti,
Studio per modano,
1533. Firenze,
Casa Buonarroti, 60
10. Michelangelo Buonarroti,
Studi per la scala del ricetto
della Biblioteca Laurenziana, 1525.
Firenze, Casa Buonarroti, 92 A
ciò che veramente importa – è la continuità del lavoro ideativo: non esiste alcun punto dove la tensione creativa si rilassi
nella elaborazione delle forme, anche dopo che queste apparivano ormai stabilite.
Tra questi due estremi si collocano i fogli operativi; essi costituiscono la parte maggiore del materiale sopravvissuto. Qual è
la loro peculiarità? Diamo uno sguardo a un foglio analogo di
un grande “professionista” del tempo (fig. 9)23: Antonio da
Sangallo, di nove anni più giovane, fiorentino egli stesso, ma
coinvolto nella costruzione di San Pietro dai tempi di Donato
Bramante, e primo architetto dalla morte di Raffaello. Aveva
memorizzato il progetto a cui lavorava in tutta la sua complessità, tanto da poter estrarre – con mano mirabilmente leggera –
vedute parziali, per chiarire a sé stesso come si sarebbero viste
le singole parti. Nel disegno, in alto a destra, si vede una sezione dell’innesto tra la tribuna sud e il deambulatorio, in cui
l’orientamento della visione, da nord verso sud, è scelto in
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
29
11. Antonio da Sangallo
il Giovane, Modello ligneo
del progetto per San Pietro,
1539-1546. Città del Vaticano,
Archivio della Fabbrica
di San Pietro (per gentile
concessione della Fabbrica
di San Pietro in Vaticano)
modo da rappresentare al meglio l’articolata struttura, come
oggi potremmo fare al computer. È qui al lavoro un’intelligenza più combinatoria che genuinamente creativa: le singole forme sono disponibili nel codice degli “ordini”, si tratta di applicarle senza errori in tre dimensioni. A ciò si dedicò lo studio di
Sangallo.
Confrontiamo un foglio di Michelangelo (fig. 10), di qualche
anno più tardi, per il ricetto della Laurenziana24. Il tema principale è la scala. Essa viene schizzata in pianta, sezione e prospettiva, non distinte l’una dall’altra, ma in modo frammentario, come il processo creativo richiedeva. Questa non è architettura virtuale che il disegnatore ha in mente e raffigura, ma
un oggetto materiale – pietra o legno – che egli mette davanti a
sé come se dovesse lavorarlo con lo scalpello. Laddove Sangallo cerca distanza, per chiarire la visione d’insieme, Michelangelo vuole contatto. Così il disegno diviene un equivalente del
rapporto con la materia, quasi a compensare la rinuncia al lavoro materiale richiesta all’architetto. Tuttavia l’energia emanata dal foglio appare più spirituale che corporale, cioè, si
esprime meno nel vigore della penna che segue la mano, che
nell’intensità del processo creativo che ci coinvolge – “la mano
che ubbidisce all’intelletto”25.
Che cosa ne risulta? Sangallo (fig. 11) sviluppa strutture, in sé
coerenti senza salti e universalmente applicabili26, Michelangelo (fig. 12) crea oggetti, interessanti in sé; Sangallo applica
regole, Michelangelo inventa forme. Qui si capisce ciò che Vasari, nel passo sempre ripreso dalla Vita di Michelangelo, esalta come la grande conquista degli anni fiorentini: il disegno architettonico come regno della libertà e dell’emancipazione da
“ragione e regola”27. Non obbligato alla ripresa dalla natura
(come sono scultori e pittori), ma neppure alla ripetizione di
un canone quasi-naturale, l’architetto può produrre pure opere d’arte in modo “assai diverso da quello che […] facevano gli
uomini secondo il comune uso”28.
Se vedo bene, l’euforia di Vasari riflette, consapevolmente o
no, uno dei pochi momenti anche soggettivamente felici nella
carriera architettonica di Michelangelo29. Al 1526 – un anno
prima della cacciata dei Medici da Firenze –, mentre Michelangelo lavorava con grande concentrazione al disegno della Laurenziana, risale uno scambio di lettere con Giulio de’ Medici,
papa Clemente VII30. Michelangelo spedì da Firenze una serie
di disegni di portali e Clemente li ammirò per quel che erano:
pure opere d’arte (fig.13)31. Di fatto si tratta di fogli di emozionante bellezza, punti culminanti anche nell’arte del disegno
michelangiolesco. A chi li osserva conoscendo il contesto potrebbero ricordare la produzione di un musicista che improvvisa sul suo strumento, incitato dall’applauso di un ascoltatore comprensivo. Il rapporto tra Michelangelo e Giulio soprav30
12. Firenze, San Lorenzo,
Biblioteca Medicea
Laurenziana, ricetto
visse anche alla successiva crisi dell’occupazione e conquista di
Firenze da parte delle truppe papali. Michelangelo, il quale
non si era potuto sottrarre al servizio come architetto militare
della Repubblica, non fu punito, bensì doveva essere “carezzato”, come un animale domestico bello e prezioso, al di là del
bene e del male, per non interrompere il completamento delle
tombe medicee32 In fondo entrambi, papa e artista, erano dei
non-politici.
Questo cambiò con il trasferimento di Michelangelo a Roma,
dove con Paolo III era salita al soglio pontificio una figura eminentemente politica. Ciò diede l’impronta alle committenze
architettoniche nelle quali Michelangelo fu coinvolto. Nuovo
era in primo luogo il bisogno di creare architetture rivolte verso l’esterno. Infatti – dopo il tentativo naufragato per la faccia-
13. Michelangelo Buonarroti,
Disegno del prospetto del portale
dal ricetto alla sala di lettura
della Biblioteca Laurenziana,
ante 18 aprile 1526. Firenze,
Casa Buonarroti, 98 A
ta di San Lorenzo – ciò che si lasciava alle spalle erano puri
mondi interiori. Si poteva, e si può ancora oggi, attraversare la
città di Firenze senza accorgersi dell’opera di Michelangelo architetto. A Roma egli imparò a muoversi nello spazio aperto,
più ancora, egli divenne l’araldo architettonico del potere rivendicato su questo spazio dal nuovo pontefice. Era il caso
esemplare di una costellazione produttiva: il potenziale drammatico della sua architettura, cresciuto a Firenze e motivato in
modo puramente soggettivo, si scontrò a Roma con un mondo
di conflitti politico-religiosi concreti. Come architetto del
Campidoglio Michelangelo finì per cadere nel campo di tensioni fra papa e Comune; ereditò palazzo Farnese nel momento di ascesa da residenza familiare a dimora principesca; mentre San Pietro si ergeva sul tappeto del dibattito sul ruolo della
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
14. Roma, Palazzo Senatorio,
scalone monumentale
Chiesa papale dopo la Riforma. In tutti questi casi fu Michelangelo a mettere gli accenti decisivi; in fondo fu lui stesso a
conquistare il potere sulla città33.
Ma non subito. I grandi lavori del primo periodo romano erano di pittura: il gigantesco affresco del Giudizio universale, la
cappella Paolina a cui lavorò fino al 1550. A proposito della
scultura, la vicenda attorno alla tomba di papa Giulio II non si
era ancora conclusa; a ciò si aggiungevano incarichi occasionali come il busto del Bruto. Anche la collocazione del Marco Aurelio in Campidoglio, per la quale il papa coinvolse Michelangelo (riluttante, come al solito), era ancora una volta un lavoro
da scultore. Se e da quando egli abbia pensato o meno a un’articolazione architettonica della piazza, e come questa si sarebbe vista, non è dato sapere. È sicuro solo che egli attorno alla
metà degli anni quaranta disegnò lo scalone davanti al Palazzo
Senatorio (fig. 14)34. Fu il passo liberatore dal guscio mediceo
alla dimensione aperta.
Il futuro di Michelangelo architetto si decise nel 1546: con la
morte di Antonio da Sangallo il cantiere di San Pietro rimase
orfano, e Michelangelo venne chiamato alla guida dell’impresa. È noto e spesso ripetuto che egli fu costretto a impegolarsi
nella lotta con la burocrazia della Fabbrica e il clan sangallesco
trincerato in essa35. Non appare ancora discusso a sufficienza,
invece, il mutamento simultaneo della sua architettura. Infatti è sorprendente come Michelangelo – dopo la pausa degli anni trenta-quaranta – cercasse di arrangiarsi con quel repertorio
di forme classiciste che dai tempi di Bramante e Sangallo aveva determinato il gusto architettonico romano, e dal quale egli
stesso a Firenze si era allontanato in modo sempre più deciso.
31
15. Roma, palazzo
dei Conservatori, facciata,
dettaglio di una campata
16. Città del Vaticano,
San Pietro, tribuna
meridionale, esterno
17. Città del Vaticano,
San Pietro, tribuna
meridionale, interno
18. Città del Vaticano,
San Pietro, tribuna
meridionale, esterno,
dettaglio dell’ordine gigante
Vorrei intendere questo nel senso di un processo di “socializzazione” che attraversa l’architettura di Michelangelo durante
gli anni quaranta: dall’ermetico, e chiuso in sé, stile personale
dell’epoca fiorentina alla discussione aperta tra libertà e ordine, innovazione e tradizione, che vediamo svolgersi nella facciata del palazzo dei Conservatori36 o nella tribuna di San Pietro (figg. 15-16). Ciò corrisponde allo scarto tra l’autosufficienza virtuosa dell’architetto mediceo e l’attività nella sfera
politico-sociale. Di fatto, mentre a Firenze l’opera architettonica era diventata un affare più o meno privato fra artista e
committente, a Roma bisognava presentarsi in pubblico e, allo
stesso tempo, connettersi con un contesto storicamente prestabilito, sia semantico sia strutturale.
Le paraste e le colonne all’interno della tribuna di San Pietro
non riprendono soltanto formalmente quelle dell’edificio bramantesco-sangallesco, ma ne riutilizzano materialmente alcune parti (fig. 17)37. Nella ristrutturazione michelangiolesca esse fungono da sistema di riferimento per l’introduzione di
dettagli innovativi, come le enormi finestre con le edicole a
timpano spezzato spinte verso la trabeazione. Non si tratta più
della sospensione di “ragione e regola” celebrata da Vasari,
bensì della loro assimilazione nel mondo espressivo dell’artista. Rivolto a un corrispondente a noi sconosciuto, Michelangelo spiegò in modo alquanto sibillino come si dovessero mutare gli adornamenti avendo mutato la pianta, e come ciò fosse connesso con la relazione tra le membra del corpo umano38.
Vale a dire: esistono leggi superiori a quelle della scuola sangallesca. La nuova varietà viene tenuta insieme dall’intensità
incessante nel lavoro di dettaglio. Nel trattamento degli ordini
all’esterno Michelangelo mise in mostra gradi di variazione: il
corinzio delle grandi paraste rimane rigorosamente canonico,
il dorico viene appena accennato nelle “guttae” delle nicchie
32
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
19. Città del Vaticano,
San Pietro, tribuna
meridionale, esterno,
dettaglio della trabeazione
inferiori che solo lontanamente ricordano le forme classiche.
Tra loro si collocano come genere intermedio le colonne ioniche con i loro capitelli “alla michelangiolesca”, riconoscibili
dai festoni appesi alle volute (figg. 18-19).
Al cambiamento di stile corrisponde un mutamento delle motivazioni interiori: tale mutamento tocca – senza per questo
coincidere – quello di papa Farnese, convertito da Saulo a Paolo. Anche questo si manifesta così chiaramente nel caso di San
Pietro. Ciò che aleggiava davanti a Michelangelo si evince dalla sua polemica contro il modello di Sangallo, in principio approvato dal papa39. Michelangelo lo trovava buio, confuso,
gonfiato e ripartito in compartimenti inutili; le implicazioni di
una critica “dissimulata” alla condizione della Chiesa romana
sono difficili da ignorare. Il suo ideale personale è raccolto, in
una sua lettera, dalla celebre formula “chiaro e schietto, luminoso e isolato attorno”40. Quindi una costruzione semplice,
ben percepibile, chiaramente circoscritta, piena di luce e libera da aggiunte.
Che la questione per lui andasse oltre la pura estetica è percepibile da lettere più tarde (a Vasari, al nipote Leonardo, al duca
di Firenze), le quali parlano degli obblighi verso San Pietro che
lo costringevano a rimanere a Roma, lasciando sullo sfondo
tutti gli altri incarichi41. Traspaiono sensi di colpa e timori di
fallimento: minacciato dalla morte, doveva mettere a sicuro la
propria opera, rispondendo in prima persona; sciuparla sarebbe stata una sventura, una vergogna e “un gran peccato”42. Entra qui in gioco la personalità religiosa di Michelangelo, e non
sembra troppo audace intendere quella formula (“chiaro,
schietto, luminoso”) come visione di un nuovo tempio cristiano, nel quale il fedele avrebbe potuto incontrare Dio conscio
della propria responsabilità, libero da legami tradizionali e non
più bisognoso di mediazione da parte di gerarchie ecclesiasti33
20. Monogrammista RD,
Orthographia Exterior et Interior
Designati Templi Sancti Ioannis
Baptistae Nationis Florentinorum
in Urbe Michaele Angelo Bonaroto
Architecto, in Valérie Régnard,
Praecipua Urbis Romanae Templa,
Francesco Collignon editore,
Roma 1650, tav. 26
che. Se questa era l’idea, lui solo sarebbe stato chiamato a realizzarla, salvando la chiesa di Pietro dalle mani dei “ladri” e degli incapaci, quali Sangallo e la sua gente43. Non vide nessun
successore, e non fece niente per trovarlo. Anni dopo, gli si
presentò un’ultima opportunità di realizzare, per i fiorentini a
Roma, una chiesa secondo le proprie idee; in essa egli stesso
avrebbe dovuto essere sepolto. Che pure questa fosse un’utopia lo dovette capire presto.
Ci avviciniamo con questo all’ultimo e, a me pare, più difficile
capitolo del suo percorso: l’opera tarda. Già il fenomeno come
tale lascia perplessi. L’ottantaquattrenne, spesso non sano,
piegato sotto l’immenso peso della guida di San Pietro, che
egli riusciva a malapena a gestire per mezzo di mediatori, si caricò di quattro altre grandi imprese e concepì, nel corso dei
cinque anni che aveva ancora da vivere, le sue più singolari architetture: San Giovanni dei Fiorentini, la cappella Sforza a
Santa Maria Maggiore, Santa Maria degli Angeli nelle terme di
Diocleziano e porta Pia; come quinta si iniziò, un anno prima
della sua morte, la trasformazione del Campidoglio secondo i
suoi disegni. Non poteva più negare che, nel frattempo, l’architettura fosse diventata la sua “professione”. Ma chi avrebbe
avuto da ridire se egli a questo punto avesse rifiutato nuovi incarichi? Non lo fece; al contrario, egli attaccò con decisione
tutti questi lavori e cercò di portarli più avanti possibile, e nel
tempo più breve. Quali erano i suoi motivi?
Nel 1559, quando iniziò questo ultimo periodo di attività, fu
eletto al soglio pontificio Pio IV, papa Medici, milanese. Tre di
questi lavori furono avviati su sua diretta commissione, negli
34
21. Roma, Santa Maria Maggiore,
cappella Sforza, interno
altri egli fu forse coinvolto in modo indiretto44. Non sembra
esagerato sostenere che dobbiamo a quest’uomo sobrio ed
energico l’esistenza dell’opera architettonica tarda di Michelangelo, benché sembri che in privato il suo gusto tendesse
piuttosto al “Rinascimento tardo” superficialmente antichizzante di Pirro Ligorio. D’altro canto si trattava di un nuovo
“papa politico”, il suo obiettivo dichiarato era la promozione
della Controriforma, e in questo egli pensava di poter contare
sul vecchio Buonarroti. Ma l’artista reagì diversamente da come aveva fatto venti anni addietro. La prima cosa che salta all’occhio dal suo lavoro tardo è la rinnovata concentrazione sull’architettura interna (fatta eccezione per porta Pia). Essa contrassegna il ritiro del vecchio maestro dalla sfera pubblica, revocando l’intesa (vera o presunta) con le personalità di potere.
Non ne condivideva più i fini. L’isolamento crescente del Maestro si mostra al più tardi con il naufragio del progetto per San
Giovanni, suo ultimo tentativo di uscire vincitore dal rapporto con i grandi del suo tempo (in questo caso, il duca Medici
che egli stesso aveva messo in gioco). Rimase fedele alle imprese pubbliche di lunga durata iniziate per il papa Farnese, in
Campidoglio e nella basilica vaticana. Ma quel che intraprese
da allora in poi furono opere individuali. Esse lo mostrano
nuovamente su una strada propria.
La difficoltà maggiore nell’interpretazione di questi lavori risiede nella loro eterogeneità. Essi non sono riconducibili a uno
“stile tardo”, più ancora, non hanno in comune nessuno stile
che possa definirli. Potremmo piuttosto parlare di una serie di
tentativi finalizzati a sondare i limiti di fattibilità nell’ambito
dei singoli generi. Le incisioni di Valérie Regnard tratte dal
modello di Tiberio Calcagni per San Giovanni dei Fiorentini
(fig. 20; cat. 80) dimostrano in modo impressionante la rinuncia a qualsiasi effetto esterno. L’architettura è piena di finezze,
ma concentrata tutta all’interno, uno spazio puramente centrale, rotondo e pacifico in sé. Si può assumerlo, lo ripeto, come documento di una religiosità rivolta verso l’interno, ritirata dal mondo, che dominò il pensiero del vecchio Michelangelo e lasciò la sua impronta anche nei suoi pochi tardi lavori di
figura. D’altra parte esistono disegni che rivelano ben altre
ambizioni45. Tutti i motivi di piante centralizzate dati dalla storia – rotonde, ottagoni, cerchi nel quadrato, deambulatori,
cappelle angolari, croci greche e di sant’Andrea – dovevano
compenetrarsi e dissolversi in un’unità più alta. Ai mercanti
fiorentini Michelangelo prometteva che il suo edificio avrebbe
eclissato tutto ciò che “Romani e Greci mai nei tempi loro feciono”46. Doveva sorgere, quindi, qualcosa di assolutamente
nuovo, un’architettura che fin allora non era esistita.
Un anno dopo Michelangelo disegnò la cappella Sforza (fig.
21): il contrario di una cappella laterale, secondo l’uso roma-
no, senza precedenti nell’architettura dell’epoca e, in questo,
comparabile ai disegni per San Giovanni47. Tuttavia, in questo
caso – a giudicare dai pochi schizzi conservati – il processo di
ideazione seguì un percorso inverso: dal semplice al complicato, da uno spazio chiuso a una struttura aperta, stranamente frazionata, convenzionale nei dettagli, ma audace fino all’incomprensibile nella concezione spaziale; in ultima istanza
un pezzo di “architettura assoluta” come a suo tempo era stato il ricetto della Laurenziana, ma liberato dalla rigidità monolitica del lavoro fiorentino. Sembra quasi di sentir rispondere il tardo Beethoven a un encomio per un suo lavoro giovanile: “A quel tempo non sapevo comporre. Adesso, penso,
di saperlo fare”48. Nello stesso anno però, nell’adattamento di
Santa Maria degli Angeli, invece di trasformare la sala delle
terme imperiali in una chiesa cristiana, come in un trionfo
sull’antico (ciò che più tardi avrebbe fatto Vanvitelli), Michelangelo la lasciò praticamente immutata, rinunciando sovranamente non solo all’architettura dell’esterno, ma all’architettura in toto. Doveva restare solo la nuda dimensione dell’edificio romano (fig. 22)49.
Non si trattava di giochi mentali bensì di progetti concreti, che
Michelangelo avrebbe voluto veder sorgere; il suo appello tanto urgente ai fiorentini evidenzia quanto gli stesse a cuore la
realizzazione di quella chiesa50. Bisogna ricordare, a questo
punto, che l’opera architettonica di Michelangelo, in tutta la
ricchezza nella quale si era sviluppata fino ad allora, consisteva
in edifici ristretti da vincoli, frammentati e non giunti a compimento; la stessa Laurenziana, culmine del periodo fiorentino, era rimasta incompleta. Non gli era stato concesso (come
ad altri architetti del tempo) di realizzare l’edificio perfetto,
iniziato dalle fondamenta e portato a termine. In retrospettiva, il suo operato architettonico poteva apparirgli facilmente
come una catena di fallimenti, ovvero di impegni non ancora
assolti di fronte ai committenti, al mondo e alle sue attese e, in
fine, nel caso di San Pietro, di fronte a Dio. Quando una volta
della nuova basilica vaticana venne eseguita in modo erroneo,
senza seguire le sue istruzioni, egli avrebbe voluto “morire di
vergogna”51. Fallire è disonore: Vasari tocca questo punto, forse inavvertitamente, nel contesto della distruzione dei disegni
avvenuta poco prima della morte. “Lui voleva – scrive – non
apparire se non perfetto”52. Suona come vanità d’artista, ma il
vero motivo è morale: sentirsi inadeguati di fronte al proprio
compito.
Dal rogo vennero risparmiati alcuni fogli di lavoro in grande
formato degli ultimi anni, tre per San Giovanni e tre per porta
Pia53. Forse essi erano pensati come una sorta di lascito. Non
sono “perfetti” nel senso di disegni finiti, ma in quanto registrano – con le tecniche più raffinate – il processo di ideazione,
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
accumulando e, allo stesso tempo, trascendendo tutti i motivi
apparsi nel corso del lavoro, fenomeno questo che osserviamo
anche nell’ultima opera scultorea, la Pietà Rondanini54. Con
ciò i disegni si collocano quasi al posto della costruzione, anzi
la superano nella propria sostanza architettonica, salvando la
pienezza delle idee dalla necessariamente riduttiva realizzazione materiale, non come progetti fissati nel disegno o nel
modello, bensì come work in progress (fig. 23; cat. 94).
Nel caso di porta Pia, come già in quello di San Giovanni, questi disegni sarebbero stati dati al committente così com’erano,
lasciando a lui la scelta fra le alternative55: comportamento contrastante con quello consueto di Michelangelo, sempre avveduto a mantenere il controllo sulle proprie idee. Forse si può intendere ciò come indizio che per il vecchio maestro l’intesa sulle finalità del progetto era diventata meno importante del proprio operare. Creatività in sé, il produrre stesso diveniva ultimo
fine del lavoro artistico56. E qui risiede, se non sbaglio, la più
profonda ragione della svolta definitiva verso l’architettura,
compiuta da Michelangelo negli ultimi anni. Infatti, alla fine,
tutta l’arte figurativa rimaneva imitazione, rimandando a una
realtà nota. Scolpire o dipingere significava in ogni caso “dire”
qualcosa, comunicare con i contemporanei riferendosi a contenuti. E proprio questo sembra essere diventato un problema
per il vecchio maestro, il cui Giudizio universale, oltre i consueti encomi, aveva attirato anche critiche massicce e non infondate57. Già la celebre quartina con cui Michelangelo aveva respinto il complimento obbligato per le sculture “parlanti” (e quindi
quasi viventi) della Sagrestia Nuova accenna a un rifiuto di comunicazione: “Caro m’è ’l sonno – egli fece rispondere alla figura della Notte – e più l’esser di sasso, mentre che ’l danno e la
vergogna dura”58. Non poter parlare, non dover parlare: a que35
22. Van der Hulst, Veduta
dell’interno di Santa Maria
degli Angeli, Chambéry,
Musée de Beaux-Arts
sto ideale, infatti, si avvicina più delle altre arti l’architettura.
Così non meraviglia che l’ultima creazione architettonica di
Michelangelo abbia resistito fino a oggi a qualsiasi tentativo di
strapparle un qualsivoglia “messaggio” (fig. 24)59. Ancora una
volta, il compito è politico, e Michelangelo non si sottrae a esso, ma lo tratta a un livello d’astrazione che impedisce qualsiasi comprensione diretta, relativa a contenuti. Vorrei affrontare
solo due aspetti che, a quanto vedo, non sono stati ancora discussi nella letteratura.
Il primo riguarda la scala urbana60. Porta Pia è una porta della
città, ma ciò che Michelangelo ha costruito o quanto meno disegnato è soltanto il fronte interno del suo impianto, vale a dire il prospetto terminale del viale sul crinale del Quirinale voluto, e realizzato con stupefacente rapidità, da Pio IV. Ora, il
punto di vista all’estremità opposta di “via Pia” era costituita
da un capolavoro della scultura antica, il gruppo dei Dioscuri,
secondo una vecchia tradizione frutto di un concorso tra Fidia
e Prassitele61. Possiamo credere che Michelangelo non abbia visto in ciò un “Paragone”? In tal caso, l’opera conterrebbe due
antitesi: moderno versus antico, e architettura versus scultura.
Vista così, la porta di Michelangelo rappresenterebbe una specie di “architettura essenziale”, depurata da qualsiasi reminiscenza organico-mimetica: piatti strati di pietra, spigoli affilati, colonne completamente escluse, capitelli ridotti a segni; solo il mascherone in chiave d’arco si sporge in modo plastico,
accentuando la tettonica astratta dell’insieme. L’elemento figurativo richiesto, uno stemma papale presentato da Angeli
(Angelo Medici), fu lasciato da Michelangelo a Jacopo Del Duca, e pertanto escluso dal suo ambito d’invenzione.
Questo sottolinea – ed è il secondo punto – il carattere non36
23. Michelangelo Buonarroti,
Studio per il prospetto
di porta Pia, circa 1561.
Firenze, Casa Buonarroti,
106 A
24. Roma, porta Pia
parlante della sua architettura. Anziché “leggerla”, si dovrebbe
insistere su quello che essa non dice. Ciò che il compito richiedeva, e che il papa senza dubbio si attendeva, era l’arco trionfale, il più triviale e il più “parlante” di tutti i modelli di porta.
Qualsiasi architetto glielo avrebbe fornito, Michelangelo no.
Anzi, egli eliminò nel corso della sua elaborazione l’arco in assoluto. Lo sostituì con un’apertura a piattabanda con cornice
rustica, sopra la quale appare, come una eco, quasi una parodia, l’arco ribassato. Così viene trattato anche il repertorio rimanente: segmentato, spezzato, rimescolato come materiale
onirico; i dettagli sono alienati, il tutto assurdo, incomprensibile, eppure – come Jakob Burckhardt formulò già nel suo Cicerone – eseguito “con tutta arbitrarietà seguendo una legge
interiore che il maestro crea per sé stesso”62. Quindi, non più
conciliazione con la tradizione, ma neanche ricorso alle “licenze” degli anni medicei, bensì autonomia assoluta.
Possiamo forse fare ancora un passo avanti cercando l’intenzione dietro l’arbitrio. Michelangelo e Architettura: è una storia lunga. Architettura non fu il medium dei suoi esordi artistici, si può dire che non fu la sua “lingua madre”. L’aveva imparata e aveva calibrato il suo rapporto con essa di fase in fase.
Così porta Pia, alla fine di questo percorso, assume i tratti di
un dramma satirico: come se il maestro, ironizzando sul tema
dato, avesse voluto manifestare la sua distanza interiore da
questa ultima comparsa in scena, desiderata dal papa. Il trattamento del lessico classico che sembra beffarsi di tutte le “buone regole” segnala uno scetticismo assoluto nei confronti dei
contenuti ascrittigli dalla convenzione. Non si allude a nulla di
consueto, nessun proclama o suggerimento; semmai, torna alla mente il sarcasmo di certe frasi, a volte sbalorditive e non
sempre sottili, che si incontra leggendo le lettere del Maestro.
In effetti, è proprio in questa ultima, più astratta ed enigmatica opera che appare in modo singolare la personalità del vecchio Buonarroti; anzi, è questa forse l’architettura più “perso-
nale” che un maestro classico si sia mai permesso di realizzare.
Se potesse esistere qualcosa come un autoritratto architettonico – ovvero l’autorappresentazione di un artista in un medium
non-figurativo – dovremmo cercarla qui.
Questo saggio costituisce la versione
italiana del testo in lingua tedesca letto alla conferenza d’apertura del convegno internazionale, Michelangelo e
il linguaggio del disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova e Golo
Maurer, svoltosi a Firenze presso la
sede del Kunsthistorisches Institut,
dal 29 al 31 gennaio 2009. L’autore
esprime un particolare ringraziamento a Vitale Zanchettin per la preziosa collaborazione alla stesura della
versione italiana; il curatore di questo volume è profondamente grato
agli organizzatori del convegno,
Alessandro Nova e Golo Maurer, per
avere generosamente concesso la
pubblicazione in questa sede della
versione italiana; la versione originale in lingua tedesca sarà pubblicata
negli atti del convegno in corso di
stampa.
rio tra Michelangelo e Giovan Francesco Fattucci dell’anno 15251526, in Carteggio, vol. III.
30
Ibidem; cfr. anche Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, p. 226.
31
Corpus 549-551, 555.
32
Gaye 1839-1840, pp. 22 sgg.; cfr.
anche Carteggio, vol. III, pp. 303306, n. DCCCXIII (29 apr. 1531).
33
Sulla storia della progettazione e
della costruzione degli edifici nominati in seguito, da ultimo, cfr. Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp.
356-376 e 476-489.
34
Bedon 2008, pp. 81-88.
35
De Maio 1978; Bardeschi Ciulich
1977; Saalman 1978; Bardeschi
Ciulich 1983; Bredekamp 2008.
36
Sul problema della datazione del
progetto di Michelangelo si veda
la mia recensione al volume di
Anna Bedon sul Campidoglio (Bedon 2008), in corso di pubblicazione sulla rivista “Annali di Architettura”.
37
Cfr. Thoenes 2001, pp. 303-320.
38
Carteggio, vol. V, pp. 123 sgg.; sull’argomento, da ultimo, Thoenes
2008a, in part. pp. 69 sgg.
39
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. IV, pp. 162 sgg., vol. V, pp. 467
sgg., vol. VII, pp. 218 sgg.; Carteggio,
vol. IV, pp. 251-252, n. MLXXI (fine
1546 o primi del 1547), lettera a
“Messer Bartolomeo”.
40
Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n.
MLXXI (fine 1546 o primi del
1547).
41
Carteggio, vol. V, passim.
42
Carteggio, vol. V, pp. 35-36, n.
MCCIX (22 giu. 1555).
Shearman 2003, vol. I, pp. 180184.
2
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 188.
3
Corpus 358 verso.
4
Carteggio, vol. V, p. 30, n. MCCV
(11 mag. 1555) e pp. 105-106, n.
MCCLVII (22? mag. 1557).
5
Ivi, pp. 102-103, n. MCCLV (ante
22 mag. 1557).
6
Nella letteratura di orientamento
biografico su Michelangelo l’opera
architettonica viene citata – nel migliore dei casi – solo marginalmente,
cfr., ad esempio, Forcellino 2005.
7
Condivi, ed. Nencioni 1998, pp. 8
sgg.; Vasari, ed. Milanesi 18781
1885‚ vol. VII, p. 137.
Da ultimo, Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007, pp. 216 sgg.
9
Contratti, pp. 129-132, n. L (19
gen. 1518).
10
Carteggio, vol. I, pp. 277-279, n.
CCXXI (2 mag. 1517).
11
Carteggio, vol. II, pp. 218-221, n.
CDLVIII (fine di feb. - 10 mar.
1520).
12
Millon, Smyth 1988a.
13
Corpus 511-520; Agosti, Farinella
1987a.
14
Si veda, in merito, l’analisi dei disegni nei fogli di Casa Buonarroti,
67 A, 74 A e 77 A (Corpus 460,
463, 505), in Maurer 2004, pp. 177
sgg.
15
Ackerman 1966, vol. I‚ pp. 18 sgg.
16
Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007,
pp. 217 e 470.
17
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. I, p. 123.
18
Zanchettin 2008a.
19
Zanchettin 2008b.
20
“Non ha l’ottimo artista alcun
concetto” (Sonetto 151); Residori
1998, pp. 262 sgg.
21
Dal Poggetto 1978; Elam 1981;
Collareta 1992.
22
Cooper 1994.
23
Frommel, Adams 2000, pp. 9193.
24
Corpus 525.
25
Residori 1998, pp. 262 sgg.
26
Benedetti 1994; Thoenes 1994;
Evers 1995, pp. 351-381.
27
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 193.
28
Ibidem.
29
Si confronti, in merito, l’epistola8
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
Carteggio, vol. V, pp. 18-20, n.
MCXCVI (20 ago. 1554) e pp. 105106, n. MCCLVII (22? mag. 1557).
44
Per la cappella Sforza cfr. Satzinger
2003-2004, pp. 327-414, in particolare p. 342. Per San Giovanni dei
Fiorentini cfr. Günther 2001; Thoenes 2008b.
45
Corpus 609, 610, 612.
46
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 263.
47
Satzinger 2003-2004.
48
Citato da Kaiser 1979, p. 503.
49
Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007,
pp. 374 sgg. e pp. 487 sgg.
50
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 263.
51
Carteggio, vol. V, pp. 113-114, n.
MCCLXI (1 lug. 1557); cfr. Brodini
2006.
52
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 270.
53
Corpus 609, 610, 612, 615, 618,
619.
54
Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007‚ p.
437.
55
Su porta Pia, cfr. Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol. VII, p. 260; su
San Giovanni: Carteggio, vol. V, p.
182, n. MCCCIV (1 nov. 1559).
56
In merito, cfr. Bredekamp 1995,
pp. 116-123.
57
Zöllner, Thoenes, Pöpper 2007‚
pp. 263-266.
58
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 197.
59
Maurer 2008, in particolare pp.
125-127 e 155-160.
60
Ivi, pp. 127-130.
61
Thielemann 1992.
62
Burckhardt 1978, pp. 313 sgg.
43
37
1. Michelangelo Buonarroti,
Nudo di schiena, 1504-1505.
Firenze, Casa Buonarroti, 73 F
LA COLLEZIONE DI DISEGNI
DI MICHELANGELO DELLA CASA BUONARROTI
Pina Ragionieri
go scusa al duca per il “misfatto dello zio”, e per di più di offrirgli, come dono riparatore, ciò che dell’artista restava ancora nello studio di via Mozza a Firenze. In una lettera del 4 marzo
1564, scritta un giorno prima della lamentela ducale a Serristori, Vasari così perorava:
Né mi parria fuor di proposito, Messer Lionardo mio, […]
che la Signoria Vostra scrivessi una lettera a S.E.I, dolendovi
della perdita che à fatto la città e S.E.I. in questa morte, e che,
non avendo lassato [Michelagnolo] né disegni, né cartoni, né
modegli, come ò visto che scrivete, vi dogliate, perché avevi
disegniato fargniene parte. Ma poi che se n’è ito et non avendo lassato se non voi, che in fede et in servitù sarete il medesimo che vostro zio e che, poi che di qua non è se non le cose
di via Mozza, che quelle saranno, se gli piaceranno, sue, pregandolo che e’ non manchi aver la medesima protezione a
voi vivo, che aveva a Michelagniolo inanzi che fussi passato a
l’altra vita.
È sempre utile citare il celebre episodio riferito da Giorgio Vasari, nella seconda edizione della Vita del 1568, secondo il quale
Michelangelo “innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo,
per non apparire se non perfetto”. Sappiamo per certo che questo gran falò, acceso in due volte, fu il più cospicuo ma, presumibilmente, non fu l’unico: e così riusciamo a capire perché il corpus dei disegni del Buonarroti risulta spesso lacunoso agli studiosi; e a volte, proprio per l’impossibilità di tracciarne la vicenda come una linea continua che accompagni gli accadimenti artistici di una lunga vita, problematico anche dal punto di vista
attributivo. Nonostante le drastiche distruzioni, di Michelangelo rimanevano, alla sua morte: alcuni cartoni nella sua dimora
romana a Macel de’ Corvi, ma anche disegni già in vendita sul
mercato, specialmente romano, molti fogli lasciati a Firenze nella casa della famiglia e nello studio di via Mozza; senza contare i
non pochi disegni donati agli amici. A proposito di questi doni,
vale la pena sottolineare che l’artista credeva nella “imperfezione” (cioè nella progettualità e provvisorietà) del tratto grafico, e
usava e riusava le carte per usi diversi: ne è esempio il Nudo di
schiena di Casa Buonarroti (fig. 1), mirabile figura tracciata su di
un foglio che, ripiegato in quattro, molto tempo dopo sarebbe
stato riutilizzato per annotare minute spese. Ma insieme, attraverso gli anni, l’artista si serviva del mezzo grafico per fare doni
ad amici a lui particolarmente cari: sono i fogli oggi chiamati, secondo una fortunata definizione, presentation drawings: invenzioni altamente elaborate, classicamente rifinite e dai soggetti
complessi, quasi sempre profani e spesso di non facile interpre38
tazione, di cui beneficiarono tra gli altri Gherardo Perini, Tommaso Cavalieri, Vittoria Colonna. Sono disegni sopravvissuti alla furia distruttrice dell’artista non solo perché custoditi gelosamente dai proprietari, ma anche per il loro essere, appunto, portati compiutamente a termine, e dunque “perfetti”. A Cosimo I
de’ Medici era da tempo venuta l’idea di raccogliere disegni di
artisti celebri quando Michelangelo era ancora in vita, ma ormai
residente da lunghi anni a Roma, lontano dagli accadimenti della corte fiorentina; perciò il duca, al fine di esaudire le sue brame
collezionistiche, per quanto riguardava il Buonarroti non si rivolse direttamente a lui, ma al già citato Tommaso Cavalieri, il
giovane patrizio romano amico di Michelangelo fin dal 1532, e
destinatario del gruppo più consistente, e straordinario per qualità, di presentation drawings. Già nel 1562, due anni prima della morte del suo grande amico, Cavalieri si era trovato costretto
a regalare a Cosimo I la meravigliosa Cleopatra (fig. 3), il disegno
che aveva ricevuto in dono da Michelangelo circa trent’anni prima; non si trattenne però dall’affermare, nella lettera che accompagnava la forzata cessione, che privarsi di quell’opera gli
aveva procurato non meno sofferenza della perdita di un figlio.
Per avere di più, con ogni evidenza Cosimo I aspettava la morte
del grande vegliardo, e una facile a prevedersi eredità. Non meraviglia dunque che Cosimo, in una lettera inviata al suo ambasciatore Averardo Serristori meno di un mese dopo la morte di
Michelangelo, definisse quel suo bruciar disegni “atto non degno di lui”; e che grande delusione si avvertisse nella corte fiorentina per una decisione che aveva tolto al duca un patrimonio
che già riteneva suo. Fu così che Vasari consigliò caldamente a
Leonardo Buonarroti, nipote ed erede, di chiedere in primo luo-
Leonardo ubbidì prontamente, ma si spinse anche oltre, donando a Cosimo il mirabile marmo con la Madonna della scala (fig.
2), eseguito da Michelangelo appena adolescente e da sempre di
proprietà della famiglia; e recuperando a caro prezzo sul mercato romano le poche, ma pregevolissime, carte autografe ancora
disponibili. Tra queste, lo splendido foglio con l’Annunciazione,
ancor oggi al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Per questa
via dunque, come sappiamo ancora da Vasari, molti “disegni, e
schizzi e cartoni di mano di Michelagnolo” entrarono a far parte
delle collezioni medicee; e pochi mesi dopo, alla morte di Gherardo Perini, “tre carte con alcune teste di matita nera divine”
divennero di proprietà di Francesco de’ Medici, “principe di
Fiorenza, che le tiene per gioie, come le sono”. Anche le “teste
divine”, ormai identificate con sicurezza dalla critica, fanno tuttora parte del catalogo sterminato del succitato Gabinetto.
Quando, nel secondo decennio del Seicento, Michelangelo Buonarroti il Giovane, figlio di Leonardo, decise di allestire una serie di sale monumentali nella casa di famiglia di via Ghibellina,
trasformando gran parte della propria abitazione in un museo
dedicato alla memoria del grande avo e alla esaltazione dei fasti
di famiglia, la Madonna della scala e una parte dei disegni donati ai Medici gli furono restituiti, come segno di alto apprezzamento, dal granduca Cosimo II. Tra i fogli michelangioleschi
tornati a casa c’era però un nuovo, preziosissimo acquisto: quel
famoso disegno raffigurante Cleopatra, che con tanto dolore Cavalieri aveva dovuto cedere alle collezioni medicee. Michelangelo il Giovane gradì senza dubbio l’arrivo in Casa Buonarroti di
un’opera straordinaria; e non meraviglia che un così memore
pronipote stesse ordinatamente sistemando negli armadi della
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
sala detta “Studio” la maggior parte dei disegni, raccolti in volumi. Volle però esporre nel suo “Scrittoio” (fig. 4), il ristretto e
raffinato ambiente nel quale si ritirava per attendere ai suoi studi, la restituita Cleopatra (fig. 3). Ma in quegli anni anche altri fogli michelangioleschi che sembrarono di particolare bellezza al
padrone di casa furono incorniciati e appesi alle pareti delle nuove sale: per esempio, nella “Camera degli angioli”, il cartonetto
con la Madonna col Bambino (fig. 5), senza dubbio uno dei più
emozionanti capolavori della Collezione; e, nella “Camera della
Notte e del Dì”, il primo progetto grafico per la facciata di San
Lorenzo (fig. 6), segno quest’ultimo, che qui volentieri si cita, di
un riguardo speciale (e raro a quei tempi) per un disegno architettonico. Da questa notizia si può dedurre che Michelangelo il
Giovane non dubitava dell’autografia del nostro 45 A, ormai
39
2. Michelangelo Buonarroti,
Madonna della scala, circa 1490.
Firenze, Casa Buonarroti
3. Michelangelo Buonarroti,
Cleopatra, 1535. Firenze,
Casa Buonarroti, 2 F
4. Firenze, Casa Buonarroti,
Camera della Notte e del Dì,
“Scrittoio”
tornato dopo anni di incertezze alla sua legittima paternità.
Da questo momento in poi, i disegni di Michelangelo rimasti
nelle collezioni medicee e quelli devotamente conservati da Michelangelo il Giovane costituirono due nuclei indipendenti
l’uno dall’altro. La raccolta di proprietà della famiglia Buonarroti, che ben presto si arricchì di alcuni pezzi appartenuti a Bernardo Buontalenti, era a questo punto la più cospicua del mondo; e
tale rimane tuttora, con i suoi più di duecento fogli, nonostante
i gravissimi assalti subiti: fu infatti impoverita alla fine del Settecento da una prima vendita che il rivoluzionario Filippo Buonarroti fece a Jean-Baptiste Wicar, pittore e collezionista tristemente noto anche per i disinvolti acquisti fatti in nome della
Francia e del suo imperatore; e nell’ottobre del 1859 da una seconda, che il cavalier Michelangiolo Buonarroti fece al British
Museum. Rimandiamo, per precise notizie su questi passaggi di
proprietà, al saggio di Dora Thornton e Jeremy Warren datato
1998, dove, con l’intento di passare in rassegna le acquisizioni
di fogli michelangioleschi da parte del British Museum si finisce
col fornire una narrazione davvero interessante, particolareggiata e partecipe com’è, degli ultimi cinquant’anni in cui Casa Buonarroti rimase di proprietà della famiglia. Dalle vendite suddette la Collezione della Casa usciva dunque privata di non pochi
importanti fogli, che ora fanno parte delle collezioni del British
Museum, dell’Ashmolean Museum, perfino del Louvre. Le opere grafiche passate ad altre collezioni erano però soprattutto disegni di figura; è rimasto invece pressoché intatto l’imponente
gruppo di disegni di architettura, in numero di oltre centoventi
di sicura paternità michelangiolesca, che attraversando l’intera
vita del Maestro, spaziano dalla lunga esperienza presso la fabbrica di San Lorenzo a Firenze fino agli stupendi progetti romani della vecchiaia. Si danno queste indicazioni anche per far
comprendere come si riesca, attingendo soltanto a questa fonte,
a dare una visione piuttosto completa della progettualità di Michelangelo architetto a Roma.
Come gli atteggiamenti collezionistici di Cosimo I insegnano,
già nel Cinquecento l’opera grafica, specialmente se riferita ad
artisti di grande e solida fama, era apprezzata e ricercata, ma
senza dubbio non si comprendeva ancora la portata straordinaria di questo mezzo d’espressione come momento progettuale finalizzato a dipinti, sculture, monumenti. Lo stesso Michelangelo, come abbiamo visto, voleva distrutto ciò che non
gli appariva ben rifinito e terminato. (Affascina, lo diciamo di
passata e non più che tra parentesi nel presente contesto, la
differenza fra questo genere di incompiutezza e il “non finito”
michelangiolesco). Ne consegue che dobbiamo riportarci a
tempi molto più vicini a noi per vedere compresi e valutati nel
loro intrinseco valore i disegni di architettura. E a tutt’oggi,
l’iniziativa vicentina del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza, alla quale la Casa Buonarroti si è con impegno e partecipazione associata tra 2006 e
2007 con la mostra Michelangelo e il disegno di architettura, si
rivela utile anche in questo senso: si parlò allora di disegni
d’architettura di Michelangelo e se ne mostrarono esempi insigni proclamandone l’intrinseco valore, celebrando la forza e
40
michelangelo architetto a roma
la bellezza del progetto in sé. L’affascinante esposizione curata
per la Casa Buonarroti da Pietro Ruschi nel 2007 su Michelangelo architetto a San Lorenzo indagava invece, dividendola in
quattro temi, la lunga esperienza nel complesso laurenziano
che dal 1516 tenne l’artista costantemente impegnato fino al
1534, anno della sua partenza senza ritorno per Roma. Attraverso la puntuale analisi di tali vicende emersero problemi ancora aperti, come l’individuazione di una fabbrica preesistente
alla Sagrestia Nuova, la realizzazione della celebre scala del ricetto della Biblioteca Medicea Laurenziana, l’interpretazione
dei disegni di Michelangelo per una irrealizzata “libreria secreta”, il rapporto della Tribuna delle Reliquie con la controfacciata quattrocentesca della basilica
. Per la nostra istituzione, dunque, con la mostra che si apre ai
Musei Capitolini si porta avanti un discorso consapevolmente
iniziato da tempo. Non a caso abbiamo deciso, con Mauro Mussolin, di non esplorare soltanto il glorioso trentennio romano
della vecchiaia, ma al contrario di cominciare da soggiorni pre41
5. Michelangelo Buonarroti,
Madonna col Bambino, circa 1525.
Firenze, Casa Buonarroti, 71 F
6. Michelangelo Buonarroti,
Primo progetto per la facciata
di San Lorenzo, 1516.
Firenze, Casa Buonarroti, 45 A
Sembrano quasi un incredibile ex-tempore i ventotto disegni di bastioni di Casa Buonarroti, carichi d’avvampante furore e dirompente energia. Sono soltanto planimetrie, ma
non vanno considerati come studi preparatori in vista di una
futura costruzione. [Michelangelo] sapeva che non sarebbero stati mai costruiti: non c’era il tempo né la volontà […]. Sarebbe tuttavia un errore considerare quei disegni come una
sorta di avventura intellettuale in uno stato di eccitazione
patriottica, ma sostanzialmente isolata nel percorso della sua
opera architettonica.
cedenti per indagare l’impatto del giovane artista con una realtà
complessa come quella romana, che acuì senza dubbio il rapporto con l’antico in lui così presente per tutto il corso della vita.
Torniamo alla storia della Collezione. Un discorso a parte
meriterebbero i disegni di fortificazione, espressione di un
periodo unico nella biografia di Michelangelo, nominato durante la seconda repubblica fiorentina “generale governatore
et procuratore delle fortificazioni”. Investito di una carica così importante, incoraggiato dalla stima dei concittadini e ben
fermo nella fede repubblicana, Michelangelo elaborò allora
una serie di proposte di difesa per le porte delle mura, interventi che oggi si possono precisare solo attraverso lo studio
degli straordinari studi di fortificazione della Collezione della Casa Buonarroti (fig. 7). Suggestiva in proposito l’ipotesi di
Giulio Carlo Argan, e del tutto realistico il giudizio storicopolitico che ne consegue:
42
Nel 1858 moriva Cosimo Buonarroti, ultimo erede diretto
della famiglia, che per questo possedeva anche la parte più
consistente delle carte michelangiolesche, da lui lasciate per
testamento al godimento pubblico, insieme al palazzo di via
Ghibellina e agli oggetti in esso contenuti. Da allora, anche in
anni difficili per l’istituzione, i disegni restarono permanentemente esposti all’interno del museo in cornici e bacheche, e
solo nel 1960 furono finalmente sottratti, come racconta Paola Barocchi che promosse questa azione davvero meritoria, alle “forche caudine” di una “irrazionale custodia”, che aveva
procurato non pochi danni ai fogli. Era allora direttore della
Casa Buonarroti Giovanni Poggi, benemerito degli studi michelangioleschi, e alla direzione del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi era preposta Giulia Sinibaldi. I due studiosi decisero, nella primavera del 1960, di provvedere d’urgenza al
ritiro, allo scopo di restaurarli, di tutti i fogli; e intanto di affidare a Paola Barocchi la stesura del catalogo integrale della Collezione della Casa Buonarroti, che doveva comprendere anche
gli schizzi michelangioleschi dell’Archivio Buonarroti. Per iniziativa della Sinibaldi, al catalogo si aggiunse anche l’esame
dell’opera grafica michelangiolesca agli Uffizi, “in modo da
riunire, per comodità di consultazione, tutto il materiale delle
raccolte fiorentine”. Ancora oggi i tre ben noti volumi rilegati
in rosso, dai quali abbiamo estratto le citazioni di questo capoverso, usciti a stampa tra il 1962 e il 1964 come esito di una
monumentale ricerca, costituiscono il riferimento obbligato e
insostituibile per chi voglia comprendere e approfondire la
storia dei disegni di Michelangelo presenti nelle collezioni fiorentine. Ricoverati dunque al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e ivi restaurati, i disegni della Collezione tornarono
alla Casa Buonarroti soltanto nel 1975. Nel 1960 facsimili dei
disegni di Michelangelo erano stati posti, nel museo, nelle cornici e nelle bacheche a sostituire gli originali, per ovviare in
qualche modo a una traumatica mancanza. Dopo la grande
mostra che celebrava il quinto centenario della nascita di Michelangelo e insieme il ritorno dei disegni in Casa Buonarroti,
di nuovo le pareti del museo si riempirono di facsimili. Ormai
invecchiate e soprattutto non più rispondenti alle attuali esigenze museologiche, queste copie sono state sostituite, dalla
metà degli anni ottanta del secolo scorso, dalla esposizione
temporanea a rotazione, in una sala del museo appositamente
attrezzata, di piccoli nuclei della Collezione, in accordo con
l’attuale e corretta normativa di conservazione che ne vieta
l’esposizione permanente.
Il patrimonio grafico della Casa Buonarroti comprende anche le
numerose carte di famiglia (dal 1399 al 1815) e i molti autograMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
fi di Michelangelo (lettere, rime, ricordi, ma anche disegni, come
accade nel raro foglio con autoritratto dell’artista e sonetto esposto nella nostra mostra), attualmente riuniti nei centosessantanove volumi dell’Archivio Buonarroti. Anche questo archivio
ha subito un lungo esilio: il suo quasi centenario soggiorno
presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ha portato a
importanti operazioni di riordino e di conservazione, in anni
nei quali le forze della Casa erano piuttosto allo stremo. Di questo si dovrà avere per sempre riconoscenza. Ma è bello poter di43
7. Michelangelo Buonarroti,
Studio di fortificazione per la
porta al Prato d’Ognissanti, 1527.
Firenze, Casa Buonarroti, 13 A
re che qualche anno fa, quando i tempi sono sembrati maturi per
un ritorno a casa, in un ambiente idoneo e già in attesa, questo
ritorno è effettivamente avvenuto. Così come nel 1975 il direttore Charles de Tolnay vide rientrare dal Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi, dopo un provvidenziale restauro, i disegni
di Michelangelo e della sua scuola che costituiscono la Collezione della Casa Buonarroti, oggi possiamo rallegrarci del ritorno di
un Archivio con il quale le ricerche in corso da noi richiedono un
rapporto quotidiano, e al quale di necessità bisogna tornare per
chiarire e comprendere episodi familiari di arte e di storia.
Orientamenti bibliografici
I disegni che fanno attualmente parte della Collezione della Casa Buonarroti sono stati spesso citati negli studi michelangiole44
schi fin dai tempi di Vasari. Gli esiti delle secolari ricerche fino
all’inizio degli anni sessanta del XX secolo sono registrati nel catalogo in tre tomi di Paola Barocchi (Barocchi 1962-1964), più
volte citato nel testo che precede. Questi fondamentali volumi
contengono schede relative ai fogli della Collezione, provviste di
esauriente bibliografia e riproduzioni fotografiche del recto e del
verso, spesso accompagnate da particolari. Il Corpus dei disegni
di Michelangelo redatto da Charles de Tolnay tra 1975 e 1980
(qui Corpus) aggiorna lo stato degli studi sino alla fine degli anni settanta del XX secolo, limitatamente però ai fogli autografi
di Michelangelo, o ritenuti tali dall’autore. Nel 1985 è stato pubblicato un volume con le riproduzioni di tutti i disegni della Collezione, accompagnati da sintetiche schede di Alessandro Cecchi e Antonio Natali; il volume si apre con una illuminante in-
troduzione di Luciano Berti (Berti 1985). Gli studi di Michelangelo dal Codice Coner, tutti conservati in Casa Buonarroti (tranne il foglio diviso in due metà del British Museum), sono stati
oggetto della Strenna Utet 1987, curata da Giovanni Agosti e
Vincenzo Farinella (Agosti, Farinella 1987a). Molti disegni della Collezione sono discussi da Michael Hirst nel suo Michelangelo and His Drawings (Hirst 1988). Sulla provenienza dalla Casa
Buonarroti di nutriti gruppi di disegni giunti a metà Ottocento
nelle collezioni inglesi si può utilmente leggere il saggio di Dora
Thornton e Jeremy Warren The British Museum’s Michelangelo
Acquisitions and the Casa Buonarroti, in “Journal of the History
of Collections” (Thornton, Warren 1998). I disegni della Collezione hanno costituito una delle colonne portanti delle due
grandi, e ormai classiche, mostre curate da Henry A. Millon e
Craig Hugh Smyth e da Michael Hirst nel 1988-1989 che si tennero alla Casa Buonarroti, alla National Gallery of Art di Washington e al Louvre. I rispettivi cataloghi (Michelangelo Architect e Michelangelo Draftsman) arricchiscono la bibliografia per
i pezzi presenti in mostra (Millon, Smyth 1988a; Hirst 1988b).
Nell’ultimo decennio del Novecento, i fogli della Collezione
hanno fatto parte di importanti eventi espositivi, in Italia e all’estero; in particolare, una nutrita scelta antologica di essi animava la mostra The Genius of the Sculptor in Michelangelo’s
Work, tenutasi a cura di Pietro C. Marani, nel 1992, presso il
Montreal Museum of Fine Arts (Marani 1992); e un consistente
nucleo di disegni di architettura era presente tra 1994 e 1996
nelle varie edizioni (Venezia, Washington, Parigi, Berlino) della
mostra Rinascimento. La rappresentazione dell’architettura da
Brunelleschi a Michelangelo, a cura di Henry A. Millon e Vittorio
Magnago Lampugnani (Millon, Magnago Lampugnani 1994).
Un gruppo sempre omogeneo di disegni della Casa Buonarroti,
ogni volta variato per motivi di conservazione, è il cuore di
quella particolare forma promozionale per la conoscenza della
Casa costituita dalla mostra Invito in Casa Buonarroti, a cura di
Pina Ragionieri, che a partire dal 1994 ha visitato Londra,
Edimburgo, Albi, Tokyo, Kyoto, San Paolo del Brasile, Valencia,
Atlanta (Georgia), Toledo (Ohio), Roma, L’Aquila, Syracuse
(New York), New York, e dal 15 ottobre di quest’anno a Seattle
(Washington). A questa manifestazione si è affiancata, a partire
dall’anno 2000, la mostra Michelangelo. Grafia e biografia, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri, rassegna composta, come la precedente, esclusivamente da opere di proprietà della Casa Buonarroti, nella quale a una copiosa campionatura di carte autografe di Michelangelo si affiancano disegni collegati con momenti salienti della vita del Maestro. Le tappe toccate finora da questa manifestazione, pensata per un pubblico di
lingua italiana, sono state Milano, Brescia, Roma, Bienna (Ch),
Catania, San Benedetto del Tronto.
michelangelo architetto a roma
Le esposizioni che si svolgono a scadenza annuale nelle quattro
sale al piano terreno della Casa Buonarroti sono, ormai da oltre
un ventennio, frequente occasione per ricerche e approfondimenti su settori della nostra Collezione grafica: si vedano in
particolare i cataloghi delle mostre Disegni di fortificazioni da
Leonardo a Michelangelo, a cura di Pietro C. Marani (Marani
1984), Michelangelo e i maestri del Quattrocento, a cura di Carlo Sisi (Sisi 1985), Michelangelo e l’arte classica, a cura di Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella (Agosti, Farinella 1987b), Le
due Cleopatre e le “teste divine” di Michelangelo, a cura di Paola
Barocchi (Barocchi 1989), Costanza ed evoluzione nella scrittura di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich (Bardeschi Ciulich 1989), Rodin e Michelangelo, a cura di Maria Mimita Lamberti e Christopher Riopelle (Lamberti, Riopelle 19961997), L’Adolescente dell’Ermitage e la Sagrestia Nuova di Michelangelo, a cura di Sergej Androsov e Umberto Baldini (Androsov, Baldini 2000), Vita di Michelangelo, a cura di Lucilla
Bardeschi Ciulich e Pina Ragionieri (Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001), Daniele da Volterra amico di Michelangelo, a cura
di Vittoria Romani (Romani 2003), Vittoria Colonna e Michelangelo, a cura di Pina Ragionieri (Ragionieri 2005); i cataloghi
delle due esposizioni dedicate a Michelangelo architetto, Michelangelo e il disegno di architettura, a cura di Caroline Elam
(Elam 2006) e Michelangelo architetto a San Lorenzo, a cura di
Pietro Ruschi (Ruschi 2007).
45
1. Roma, ponte Rotto, già ponte di Santa Maria
ARCHITETTURE MINORI
DI MICHELANGELO A ROMA
2. Anonimo (da Maarten van Heemskerck),
Veduta circolare di Roma da Monte Caprino, 1536,
particolare con il ponte Santa Maria. Berlino,
Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, 79D2, cc. 91v-92r
Anna Bedon
Nel 1546, all’età di settantuno anni, Michelangelo era ancora un
uomo vigoroso e in buona salute. Si trovava a Roma dal 1534,
aveva raggiunto la tranquillità economica nel 1535 quando Paolo III (1534-1549) gli aveva assegnato la rendita di un ponte sul
Po a Piacenza e da alcuni anni non si era più occupato direttamente di architettura. Dal 1531 era servito-assistito dal buon
Francesco di Bernardino d’Amadore, detto Urbino, e aveva un
discreto numero di amici che frequentava1. Ma nel 1545 Michelangelo, alla conclusione dell’ultima opera per Paolo III – gli affreschi della cappella Paolina in Vaticano – era diventato piuttosto inquieto per il proprio futuro: sentiva che non avrebbe avuto
ancora a lungo le forze per affrescare e scolpire e temeva che il papa gli revocasse la rendita per non essergli più utile2. Passò così
un anno di incertezze sul da farsi, pensando di andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostela e di investire quanto aveva accumulato in una rendita sicura per la vecchiaia3. Con la morte di
Antonio da Sangallo il Giovane, l’8 agosto 1546, e la successiva
nomina a responsabile di quasi tutte le fabbriche portate avanti
da Sangallo, i problemi di Michelangelo si risolsero: in qualità di
architetto, sarebbe stata sua competenza soltanto “l’ideazione”
delle opere, mentre l’esecuzione sarebbe ricaduta su altri, rendendo ininfluente la forza fisica, lo stato di salute e l’età. Per Michelangelo la sola fabbrica di San Pietro in Vaticano fu una vera
ragione di vita e sembrò poter morire solo quando quella fu a un
punto tale da non poter più far venir meno il suo progetto.
Nel 1547 non ebbe solo l’incarico per San Pietro, ma anche quello di palazzo Farnese, del Campidoglio e, dall’agosto 1548, anche quello della ristrutturazione di ponte Santa Maria4. In tutte
queste opere organizzò i cantieri in modo uniforme, scelse so-
46
prastanti, secondi architetti e maestranze, pretendendo di nominare personalmente i propri collaboratori. La necessità di sostituire tutti coloro che già lavoravano a opere iniziate da Antonio
da Sangallo era dovuta anche al carattere particolarmente “sperimentale”, dal punto di vista costruttivo, di molte opere dell’ultima fase della sua vita. In San Pietro, Michelangelo aveva deciso di
costruire in marmo la calotta della cappella del Re di Francia e la
scelta come secondo architetto di Juan Bautista de Toledo si deve
senza dubbio alla sua conoscenza della stereometria applicata al
taglio della pietra. A Roma, tra l’altro, Michelangelo si trovava di
fronte a usi e metodi costruttivi ignorati a Firenze: nell’Urbe infatti si fabbricava con conglomerati cementizi che permettevano
il reimpiego dei molti frammenti che provenivano dalle rovine
della città o con murature di materiali diversi tenuti insieme da
abbondante malta. Il conglomerato cementizio dovette sembrare a Michelangelo una tecnica straordinariamente congeniale,
perché poteva essere gettato in casseforme con un metodo non
diverso da quello utilizzato per il getto delle statue in bronzo. La
potenza e la compattezza del San Pietro di Michelangelo si devono alla sua capacità di sfruttare a pieno la potenzialità della massa, come fosse creta. Un simile metodo richiedeva maestranze
preparate e continuamente poste sotto controllo, vere “mani”
del Maestro. La scelta degli scalpellini doveva essere attenta, i
manovali perfettamente coordinati dal soprastante e dal mastro
muratore dai quali dovevano prendere ordini e tutto avrebbe dovuto essere quotidianamente riferito a Michelangelo. L’organizzazione dei cantieri michelangioleschi diverrà, quindi, una scelta
strategica. Spesso soprastanti e mastri vissero a casa del Maestro
perché, non potendo recarsi spesso in cantiere e prevedendo di
vivere non troppo a lungo, escogitò questa particolare organizzazione del lavoro che gli permetteva di seguire il progressivo sviluppo delle opere a distanza.
Del cantiere di San Pietro incaricò Sebastiano Malenotti da San
Gimignano, del cantiere di palazzo Farnese Mario Maccarone,
soprastante anche alla fabbrica del Campidoglio. I fornitori dei
materiali erano spesso i medesimi per tutte le opere. Molti dei lavoranti nelle ditte di scalpello in San Pietro avevano precedentemente collaborato con lui in altri cantieri fiorentini.
Dal momento che l’età non gli permetteva di assumere responsabilità troppo pesanti, prese la direzione solo dei “monumenti”
più prestigiosi. Il 6 agosto 1548, il Primo Conservatore del Comune di Roma comunicò al Consiglio l’intenzione del papa di restaurare il ponte Santa Maria servendosi dell’opera di Michelangelo, ma chiedendo al Comune di esigere la relativa tassazione5.
Non si tratta dunque di un’opera che viene affidata all’architetto
del Popolo Romano, ma a quello della fabbrica di San Pietro, Primo Architetto, Scultore e Pittore del Palazzo Vaticano.
Posto a valle dell’isola Tiberina, ponte Santa Maria costituiva una
sfida tecnica che dovette essere molto piaciuta al “nuovo” Michelangelo sperimentatore. Il ponte, del quale oggi resta in piedi
una sola campata (fig. 1), collegava le due zone poste in corrispondenza del tempio della Fortuna Virile al Foro Boario da un
lato e dell’attuale piazza Castellani in Trastevere dall’altro. Ponte
di fondazione romana, all’epoca di Michelangelo esso aveva ancora tutte le campate in piedi, ma “era indebolito e rovinava”
perché i piloni facevano resistenza al flusso delle acque del Tevere accelerate dalle rapide che si trovano presso l’isola Tiberina e
dalla curva data dall’ansa del fiume. I piloni del ponte romano
erano infatti mal posizionati perché perpendicolari rispetto alla
carreggiata del ponte, diversamente da quelli dell’attuale ponte
Palatino costruiti con una giacitura che asseconda il flusso della
corrente. Nei casi di piena i piloni del ponte Santa Maria erano
fortemente sollecitati su uno solo dei loro lati. Il restauro si rendeva necessario perché tale strada di collegamento tra le due rive
era quella maggiormente utilizzata per il trasporto dei pesanti
materiali necessari alla fabbrica di San Pietro, provenienti dal Colosseo e dalle terme di Caracalla: “fu ordinato da Michelagnolo
per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile”6. I documenti non indicano quali archi fossero pericolanti, ma solo
che si temeva “la ruina delli doi archi” e pertanto veniva disposto il rinforzo di un solo pilone7.
L’opera era di iniziativa pontificia, non comunale, pertanto la
contabilità venne tenuta da Leonardo Boccaccio “commissario
generale” della Camera Apostolica. Il 17 luglio 1548 si cominciò
a raccogliere il denaro per il restauro attraverso una tassazione
straordinaria; il 20 luglio si iniziarono a comprare i materiali e Michelangelo avviò il cantiere, facendo “spese grosse in legnami e
michelangelo architetto a roma
trevertini a benefizio di quella opera”9. Buonarroti scelse come
“comisario” alla fabbrica Jacopo Ermolao al quale fu dato potere
di spedire i mandati di pagamento al Banco degli Altoviti, inviati
nei primi tempi personalmente controfirmati dal Maestro; per Ermolao affittò inoltre una casa presso il ponte perché potesse risiedere costantemente sul cantiere – si tratta forse dell’edificio visibile nelle vedute precedenti il 1561, collocato esattamente al centro del ponte, trasformato in cappella nel 1551 (fig. 2)9. Michelangelo nominò Francesco Prata soprastante dei lavori e Andrea
Schiavone, o Seimone, “capo Maestro della fabbrica in detto ponte”, ma anche “deputato per M. Michel Angelo sopra il Ponte Santa Maria”10. I lavori veri e propri iniziarono nel settembre 1548 e
nei primi pagamenti compare anche Giorgio Vasari con la qualifica di “revisore delli conti”11. Il cantiere fu condotto alacremente,
notte e giorno, specie d’estate, fino alla fine d’ottobre 1549, quando fu smontato e la casa di Ermolao venne lasciata libera12. La prima tranche di lavori al ponte era ultimata e si prevedeva di avviare in breve una seconda fase. Tuttavia, nell’estate del 1551, con
grande amarezza di Michelangelo, la Camera Apostolica incaricava l’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio per “rifare il fondamento del puntone del pilastro del ponte Santa Maria, quale fu
rifondato l’anno passato e mancò a rifondarsi”, e cioè un nuovo
pilone che si doveva rifare nei modi del pilone costruito l’anno
precedente da Michelangelo; inoltre Nanni era “tenuto murare
ditto puntone a l’alteza de li altri, fatti da papa Nicola e Martino, di
travertini di fuora e dentro di buona materia di matoni e pesami,
come ancora sono fatti gli altri già fatti a detto ponte”13.
Non si trattava della prosecuzione del lavoro, ma di un pilone distante da quello già fatto: bisognava, infatti, restaurare integralmente anche i due archi che si trovavano vicino a quelli già sistemati nel XV secolo da Martino V (1417-1431) e Niccolò V
(1447-1455).
47
3. Giovan Antonio Dosio,
Ponte S. Maria con la parte
ristaurata, circa 1575.
Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 2582 A
4. Antonio Tempesta,
Pianta prospettica di Roma,
1593, particolare con il ponte
Santa Maria
5. Jan Asselijn, Veduta di ponte
Santa Maria o ponte Rotto,
1635-1645. Amsterdam,
Rijksmuseum
Probabilmente quello assegnato a Nanni era il pilone presso la
testa di ponte del Foro Boario, perché i deputati lasciarono facoltà di “racconciare, se parerà sia di bisogno in alcuna parte,
l’arco a volta prima che comincia di terra”, cioè l’arco verso il
Foro Boario dove il ponte aveva, oltre alla testa, un ulteriore
arco di sostruzione, attaccato alla riva dalla parte dell’Aventino, ben visibile in un disegno di Giovanni Antonio Dosio (fig.
3). Il lavoro fu retribuito a cottimo, diversamente da come disposto nel cantiere di Michelangelo, e fu interesse di Nanni
poter spendere meno possibile per avere maggior margine di
guadagno. Così, nel giro di tre anni furono risistemati quattro
archi su sei, ma solo due piloni: Nanni rifece il primo pilone
verso Foro Boario e Michelangelo il primo verso Trastevere.
Rimasero da restaurare i due archi centrali e i tre piloni centrali. Il secondo pilone (dal lato di Trastevere) crollò durante l’alluvione del 1557, tirandosi dietro sia il secondo arco – uno dei
due restaurati da Michelangelo –, sia il terzo arco, insieme alla casetta che si trovava al centro del ponte, mai più ricostruita (fig. 4)14. La sostituzione di Michelangelo con Nanni fu
senza dubbio un’ingiustizia e le accuse di imperizia da parte
di Nanni a Michelangelo totalmente infondate: “questo si è,
come sa Vostra Eccellenza, quanti danari si spesono a Ponte
Santo da Michelagnolo e dal Boccaccio; tale che questo anno
saranno tutti isbigottiti. E’ lasciorno l’opera per disperata, e io
la presi, e con altri modi in 15 giorni la spedii, che se ne stupì
tutta Roma; di sorta che li errori fatti mi feciono bene”15. Nonostante tali calunnie, il pilone fondato da Michelangelo rimase infatti in piedi fino al 1885 (fig. 5), quando per costruire il moderno ponte Palatino furono distrutti sia l’arco sia il
pilone di Buonarroti.
Con una certa superficialità, il nuovo pontefice Giulio III del
Monte (1550-1555) mostrò inizialmente di dare credito alle
voci calunniose di quelli che Vasari chiamò genericamente
“cherici di Camera”, personaggi sicuramente mal disposti verso il Maestro dopo che questi era riuscito a estrometterli completamente dalla fabbrica di San Pietro. Ma il papa ricambiò in
qualche modo Buonarroti chiedendogli progetti e pareri in più
occasioni e trasformandolo in un vero e proprio consigliere artistico. A lui si rivolse per supervisionare e scegliere gli artisti
destinati a realizzare la tomba di famiglia in San Pietro in Montorio e la villa Giulia, in relazione alla quale Vasari scrisse: “io
fui nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del
papa, che poi si diedero a rivedere e correggere a Michelangelo”16. Ma Giulio III commissionò a Michelangelo anche i progetti per una nuova scala nel Belvedere vaticano e per un nuovo palazzo di famiglia.
Nel 1550 Giulio III, infatti, chiese un appartamento nel cortile superiore del Belvedere vaticano, da costruirsi dietro il muro termi-
48
6. Ricostruzione del fronte della scala
del Belvedere vaticano di Michelangelo
7. Ricostruzione dell’aspetto originario
della scala del Belvedere vaticano di Michelangelo
nale. Si trattava di alcune stanze separate tra loro dal nicchione
centrale, che dovette per questo essere rimpicciolito al fine di
creare un corridoio semianulare che collegasse le due parti (figg.
6-7). Ciò comportò la distruzione della bella scala circolare bramantesca e la sua sostituzione con il nuovo scalone michelangiolesco17. Il 20 settembre 1551 si pagò il trasporto di “diverse pietre
di peperino, per far la scalla di Belvedere”18. A citare Michelangelo
michelangelo architetto a roma
8. Giovan Antonio Dosio, Veduta del cortile
del Belvedere vaticano, 1558-1561.
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi, A 2559
come autore di questa scala fu Vasari: “perché né alla Vigna Iulia
[Giulio III] fece cosa alcuna senza il suo consiglio, né in Belvedere,
dove si rifece la scala che v’è ora in cambio della mezza tonda che veniva innanzi, saliva otto scaglioni et altri otto in giro entrava in
dentro, fatta già da Bramante, che era posta nella maggior nicchia
in mezzo Belvedere. Michelagnolo vi disegnò e fe’ fare quella quadra, coi balaustri di preperigno, che vi è ora, molto bella”19.
La scala a due rampe con al centro un podio fu addossata al muro
per non invadere il cortile superiore del Belvedere e per coprire
l’angolo d’attacco tra l’ordine del cortile e quello interno al nicchione. La modesta altezza del piano da raggiungere – solo quattro metri – spiega la brevità della salita e i due scaloni a rampa
unica, principale differenza, insieme alla mancanza di una nicchia centrale, rispetto allo scalone del Palazzo Senatorio in Campidoglio realizzato tre anni prima20. La forma e le dimensioni dei
gradini sono identiche a quelle dello scalone senatorio: gli scalini
delle rampe del Belvedere sono a forma di U e le ali laterali della
U reggono i balaustrini, due per ogni gradino21. Il lavoro fu completato nell’inverno del 1552, quando l’intera ala era già stata coperta dai tetti, come mostra un disegno di Giovanni Antonio
Dosio (fig. 8)22.
La balaustra originaria del Belvedere è perduta, ma ne resta memoria in un disegno di Giovanni Colonna da Tivoli che studia
il ritmo dei balaustrini (figg. 9-10)23. La maggior differenza con
la scala del Palazzo Senatorio era principalmente cromatica: se
la scala del Belvedere aveva balaustri in peperino grigio scuro,
con un fronte costituito da mattoni a vista color rosso in contrasto con un cortile realizzato in travertino e mattoni, lo scalone del Palazzo Senatorio, era realizzato in travertino grigio
chiaro in contrasto con la facciata originaria del palazzo caratterizzata dal colore assai scuro della sua muratura in tufo. Nel
Belvedere, tale attento studio coloristico deve essere stato con-
49
9. Giovanni Colonna da Tivoli,
Prospetto parziale dello scalone del Belvedere,
1554. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,
cod. Vat. Lat. 7721, c. 93v
cepito per dare deliberatamente risalto a una scala di modeste
dimensioni. Due schizzi di Michelangelo disegnati nei due lati
del foglio di Casa Buonarroti 19 F recto-verso (cat. 23a-b; Corpus 368 recto-verso) riproducono una scala a due rampe simile
sia a quella del Belvedere sia allo scalone del Campidoglio. La
maggior parte della critica ha posto tali schizzi in relazione col
Campidoglio perché in entrambi i lati del foglio sono più volte
tracciate alcune figure ritenute studi preparatori per il Giudizio
universale e studi per una tomba, assai spesso riconosciuta come quella di Cecchino Bracci che fu realizzata nella chiesa di
Santa Maria in Aracoeli su disegno di Michelangelo (1544). È
stato altrove dimostrato come, dal momento che le figure appartengono a uno studio del Maestro per il San Giovanni Battista nel deserto di Daniele da Volterra oggi alla Pinacoteca Capitolina24, i disegni del foglio possano essere convincentemente
datati intorno al 1550: ciò rende certa la relazione degli schizzi di scalone monumentale con quelli per il Belvedere, mentre
mette in discussione il rapporto tra gli schizzi per monumento
funebre ivi contenuti con il progetto per la tomba di Cecchino
Bracci, precedenti di circa un lustro25.
Nel 1551, Giulio III aveva deciso di costruire a Roma un palazzo per la propria famiglia presso la chiesa di San Rocco. Per tale progetto, che intendeva incorporare le vestigia del mausoleo
di Augusto, aveva chiesto un modello a Michelangelo. In quegli anni, la vita domestica di Buonarroti stava lentamente cambiando poiché con il venir meno della sua autonomia fisica le
persone che vivevano con lui andavano aumentando. Con lui
aveva iniziato ad abitare Sebastiano Malenotti, soprastante della fabbrica di San Pietro, il quale coadiuvò Michelangelo nella
elaborazione del modello destinato a questo palazzo. Non ci
sono rimasti disegni, ma Condivi (1551) e Vasari (1568) scris-
50
10. Giovanni Colonna da Tivoli, Continuazione
del prospetto dello scalone del Belvedere, 1554.
Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,
cod. Vat. Lat. 7721, c. 94r
sero rispettivamente: “Fece nondimeno Michelagnolo a requisizione di Sua santità un disegno d’una facciata d’un palazzo, il
quale avea in animo di fabricare in Roma; cosa, per chi lo vedde, inusitata e nuova, non ubbligata a maniera o legge alcuna,
antica over moderna”26 e “fecegli fare un modello d’una facciata per un palazzo che Sua Santità desiderava fare allato a San
Rocco, volendosi servire del mausoleo di Augusto per il resto
della muraglia; che non si può vedere, per disegno di facciata,
né il più vario, né il più ornato, né il più nuovo di maniera e di
ordine, avenga, come s’è visto in tutte le cose sue, che e’ non s’è
mai voluto obligare a legge o antica o moderna di cose d’architettura, come quegli che ha auto l’ingegno atto a trovare sempre
cose nuove e varie e non punto men belle. Questo modello è
oggi appresso il duca Cosimo de’ Medici, che gli fu donato da
papa Pio Quarto quando gli andò a Roma, che lo tiene fra le sue
cose più care”27. Tra l’ottobre 1551 e il febbraio 1552 vi furono
vari pagamenti “per il modello di Nostro Signore” ritirati da
Malenotti delegato da Michelangelo: “Denari dati a buon conto
questo mese di ottobre presente 1551 a Bastiano soprastante
della fabrica di San Pietro a buon conto del modello che M.°
Michelagnolo pittor ha cominciato per fare una facciata di un
palazzo di ordine di Sua Beneditione: scudi 10”28. Il modello in
legno di tiglio venne realizzato in scala 1:24 o 1:30; era di grandi dimensioni e prevedeva 16 colonne e 16 semicolonne o pilastri, sette finestre quadre, cinque “rivolte” di finestre, un numero imprecisato di maschere e 385 balaustri29. Per Bruno
Contardi il progetto prevedeva una facciata a due piani e sette
campate, elevata di fronte al mausoleo, quest’ultimo coronato
da una balaustra tutt’intorno. Sicuramente il fronte principale
non sarebbe stato rivolto verso via di Ripetta, zona di nuova
urbanizzazione e cattive frequentazioni, ma sulla futura piazza
11. Egidius Sadeler, Veduta del Mausoleo
di Augusto, Marcus Sadeler editore, Praga 1606
degli Otto Cantoni, verso via del Corso: il lato rappresentato da
tutte le incisioni (fig. 11). La sfida posta dal progetto di questo
palazzo non era tecnica, ma puramente concettuale. Porre davanti al mausoleo di Augusto il prospetto di un palazzo in una
zona di forte rilancio edilizio, che permetteva al tempo stesso
ampi spazi di sviluppo, significava misurarsi con la scala e la
memoria di un monumento antico del quale sarebbe rimasta la
grandiosità e la suggestione, ma non il significato, adesso completamente rivisitato. Non è dato sapere quale potesse essere
questo nuovo significato, probabilmente legato al toponimo
medievale del mausoleo, ovvero monte dell’Austa, possibile richiamo al nome della famiglia del papa: impresa araldica in forma di palazzo urbano con l’antico sepolcro ricoperto nuovamente di terra e cipressi30. Nel 1552 la costruzione del palazzo
fu abbandonata in favore di altri due edifici del papa, di città e
di villa: il modesto palazzo Cardelli in Campo Marzio e la magnifica villa Giulia sulla via Flaminia. Come ricordato da Vasari, a seguito di questo cambiamento di rotta del progetto del palazzo col mausoleo d’Augusto rimase solo il modello di legno,
oggi perduto, che fu donato da Pio IV al duca Cosimo I nel
1560 quale prezioso cimelio di Michelangelo31.
Durante lo stesso papato, il Maestro fu invitato dal cardinal camerlengo a fornire un progetto per la chiesa della Compagnia
di Gesù in Roma. Il nuovo ordine religioso era stato riconosciuto da Paolo III nel 1540, il quale aveva concesso la chiesa di
Santa Maria della Strada presso piazza Altieri, futura piazza del
Gesù. Fin dal 1548 i padri gesuiti avevano fatto eseguire alcuni
disegni per una nuova chiesa e, nel 1549, i Maestri di Strada
avevano approvato il “filo” – ovvero il perimetro in relazione
alle strade cittadine – per il progetto del modesto architetto Jacopo Meleghino, allora sovrintendente alle fabbriche papali32.
Morto Meleghino alla fine del 1549, dovendo scegliere un nuovo architetto i gesuiti incaricarono Nanni di Baccio Bigio, che
propose il disegno di una chiesa “a tre navi e colonne” per la
quale fu concesso un nuovo filo33.
A ritardare la costruzione vi furono, però, due contingenze: bisognò ancora una volta cambiare il filo della chiesa a causa della
nuova via che i Maestri di Strada stavano tracciando dal Campidoglio a piazza Altieri e fu necessario far fronte alle lamentele dei
proprietari dei terreni sui quali sarebbe stata realizzata la nuova
chiesa. Nel 1554, il cardinal camerlengo Bartolomeo de la Cueva, nuovo finanziatore dell’opera, chiese a Michelangelo un progetto per la chiesa del Gesù, dando modo a Buonarroti di vendicarsi di Nanni che l’aveva sostituito su ponte Santa Maria.
In tre occasioni (10, 14 e 21 giugno 1554), padre Alfonso Polanco, procuratore dell’ordine, riferì più volte del nuovo incarico dato a Michelangelo: “Quanto alla nostra chiesa è stato a vedere il luogo Mastro Michel’Angelo scultore et a cura de fare il
michelangelo architetto a roma
modello, di modo che presto, con l’aiuto di Dio, se comincerà a
fabricare” e ancora “de la fabrica de la yglesia ha tomado cargo
Michael Angelo por devotion, que es el que tiene el assumpto
principal de la obra de San Pedro, y es tenido por el hombre mas
señalado que ha havìdo muchos tiempos ha; y hale puesto en ello el cardinal de la Cueva, que tiene à esta obra specìal inclìnation”34. Anche Ignazio di Loyola, il 21 luglio 1554, informò il
teologo e legato imperiale Didaco Hurtado che Michelangelo
aveva assunto l’incarico “por devotion sola, sin enteresse alguno”. Il progetto sarebbe stato realizzato su un terreno più piccolo di quello poi effettivamente utilizzato, discosto dalla strada
papale, attuale via del Plebiscito.
Gerolamo Altieri, infatti, proprietario di alcune case tra la vecchia chiesa e la strada papale, aveva avuto il permesso di costruirvi sopra un palazzetto col fronte verso la piazza e il fianco
sulla strada, separato dalla nuova chiesa del Gesù da una piccola via35. Entrambi, palazzetto e chiesa, avrebbero avuto la facciata su piazza Altieri, ma è chiaro che il prospetto della chiesa sarebbe risultato di ampiezza assai minore dell’attuale, come d’altronde la prevista casa professa, residenza dei religiosi. La posa
della pietra angolare avvenne il 6 ottobre 1554 e l’architetto, di
cui non si disse il nome, “descesse al fondamento per asetar la
pietra”; ma i problemi sorti con i vicini, che si rifiutarono di
vendere i terreni, insieme all’insoddisfacente affaccio verso la
piazza e all’insufficiente spazio riservato alla casa professa, portarono Ignazio di Loyola a interrompere i lavori e accantonare il
progetto36. Tuttavia qualcosa doveva essere stato costruito almeno fin dall’epoca di Nanni di Baccio Bigio, poiché in una memoria senza data, ma di poco successiva al 1554, i padri gesuiti
si lamentarono che Gerolamo Altieri era riuscito a far cambiare
il filo della chiesa a favore del suo nuovo palazzetto, nonostante
fosse già stato fatto un pilastro della chiesa “nel qual, dicono, furono spesi molti dinari, et adesso per haver mutato il dissegno
[…] ne fanno perdere quelle spese”37. Con il terreno disponibile
all’epoca – che avrebbe dovuto accogliere anche un chiostro
convenientemente grande per ospitare la casa professa – sarebbe stato possibile realizzare una chiesa lunga 26 canne o poco
più (circa 58 m) e larga al massimo 18 canne (circa 40 m). Il problema è determinare quale fosse il progetto di Michelangelo.
Anni Popp ha per prima indicato nel foglio 1819 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (Corpus 604 recto) il progetto
di Michelangelo caratterizzato da una planimetria di chiesa a navata unica con cappelle laterali di lunghezza pari a 25 canne (fig.
12). Antonia Nava Cellini, seguita da Charles de Tolnay, attribuisce invece tale progetto a Bartolomeo de’ Rocchi38. James Ackerman ha diversamente pensato che quel disegno rappresentasse il progetto di Nanni di Baccio Bigio del 1550-1554 ritoccato da Michelangelo a sanguigna per ridurre le lunghezze del
51
12. Nanni di Baccio Bigio
o Bartolomeo de’ Rocchi,
Pianta della chiesa del Gesù di Roma,
1550-1554. Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 1819 A
transetto e dell’abside. L’ipotesi è stata accolta da Bruno Contardi, mentre Klaus Schwager, pur condividendo l’attribuzione dei
segni a sanguigna a Michelangelo, ha accettato l’attribuzione a
de’ Rocchi per la pianta disegnata a stecca e squadra39. In realtà,
le modifiche al disegno sono state messe in relazione col Maestro solo perché a sanguigna e, come ha scritto Richard Schofield, è difficile credere che sulla base di quei pochi segni a sanguigna si possa basare qualsiasi attribuzione40.
Il papato successivo, quello di Paolo IV Carafa (1555-1559),
vide una guerra contro la Spagna (1556-1557), una rovinosa
inondazione (1557) ed epidemie varie, tutti avvenimenti che
resero impossibile nuove imprese architettoniche. Il 27 agosto
1558 Michelangelo accettò dal Comune l’incarico di progettare la sistemazione dell’area intorno alla colonna Traiana, “perché la colonna Traiana e una delle più belle et integre antichità,
che siano in questa città, sicome le Signorie Vostre sanno, pare
conveniente cosa, che selli adorni, et accomodi il loco dove ella
sta, di sorte che corrisponda alla bellezza di essa, et per questo
si è auto sopra di ciò un desegno de Michel’Angelo, quale Vostre Signorie potranno vedere, et acciò questa opera tanto lodevole se mandasse a effetto si contentano i convicini contribuire
alla metà della spesa, et desiderariano che nell’altra metà contribuisse il Popolo essendo cosa publica”41. Nel 1536, per la visita dell’imperatore Carlo V a Roma, le due colonne coclidi di
Traiano e di Marco Aurelio erano state valorizzate distruggendo “doi chiese: una chiamata santo Nicola alla colonna Traiana,
52
et l’altra s. Andrea alla colonna de Antonino, acciò si veda dette colonne”42. Poi nel 1545-1546 Paolo III aveva deciso di mettere bene in luce la base della colonna Traiana facendo scavare
una buca (fig. 13), divenuta presto un luogo di scarico di rifiuti, così che il papa ordinò ai Maestri di Strada un po’ di piazza
intorno, non sappiamo con quali risultati43. Nel 1558, quando
Michelangelo ne fu incaricato, alcuni lavori si fecero ma dovettero essere poca cosa, perché la nomina di Marcello Alberini a
deputato all’opera avvenne solo il 24 gennaio 1560: “electus ac
deputatus fuit superastans fabricae ac restaurationi Columnae
Traianae ac illius plateae D. Marcellus Alberini cum potestate
ei concessa omnia et singula in eam rem necessaria ac opportuna faciendi”. Questi era uno dei membri più autorevoli del consiglio comunale e l’incarico gli fu rinnovato nel 1569 senza che
ai lavori venisse mai data esecuzione44. Il mancato completamento della sistemazione urbana è da addebitare alla mancanza di fondi, congiuntura risolta solo nel 1573. Nell’anno successivo l’incarico fu assegnato a Jacopo del Duca, già “protetto”
di Michelangelo, il quale si limitò a realizzare un semplice recinto intorno alla fossa della colonna (fig. 14)45.
Nel 1558 Michelangelo lavorava anche a ciò che per lui costituiva l’opera più importante, il progetto per la cupola di San Pietro.
Nel novembre di quell’anno gli intagliatori iniziarono a costruirne il modello, terminato nel novembre del 156146. Nel frattempo, un’altra opera riapparve dal passato: il 16 dicembre 1558
Michelangelo comunica al nipote Leonardo a Firenze che Bartolomeo Ammannati “mi scrive e domanda consiglio da parte del
Duca d’una certa scala che s’ha a·ffare nella libreria di San Lorenzo. Io n’ho facto così grossamente un poco di bozza pichola di
terra, come mi par che la si possa fare, e ho pensato d’aconciarla
in una scatola e darla qua a chi lui mi scriverrà che gniene mandi”47. Nella successiva lettera di accompagnamento al modello
che Michelangelo scrisse all’Ammannati, aggiunse d’essere “vecchio, cieco e sordo e mal d’accordo con le mani e con la persona”,
ma – si può aggiungere – certamente indomito, perché il modello di scalone che stava per essere spedito avrebbe permesso di
terminare i lavori allo scalone del vestibolo della Biblioteca Laurenziana di Firenze48.
Negli anni del papato di Paolo IV, Michelangelo non ricevette
alcun incarico dalla Camera Apostolica. Tuttavia, a sorpresa,
nel 1558 il papa gli chiese di studiare un grande progetto a scala urbana: un’enorme tripla scalinata di circa 300 metri, coperta nelle due rampe laterali, che da Monte Cavallo – il colle Quirinale – avrebbe collegato la chiesa di San Silvestro con il fronte di palazzo Venezia, similmente a quella antica posta di fronte al diruto Frontespizio di Nerone: “Sua Santità ha fantasia
che, partendosi da S.to Salvestro, die far tre scale, drieto l’una a
l’altra, e che la prima e l’ultima fussi coperta, e quella del mez-
13. Stefano Dupérac,
Disegno della Colonna Traiana,
in Stefano Dupérac, I Vestigi
dell’Antichità di Roma,
Roma 1575, tav. 33
zo scoperta, e che di poi si facessi una dirittura che andassi fino
a S.to Marco”49. La morte di Paolo IV, avvenuta il 18 agosto
1559, lasciò questo ambizioso progetto allo stato di “fantasia”.
Il successivo 25 dicembre, l’elezione di Pio IV dei Medici di
Milano rincuorava finalmente Michelangelo sulla certezza che
i lavori in San Pietro sarebbero stati nuovamente finanziati. Nel
1561, questo pontefice riprese l’idea relativa alla creazione di
un collegamento diretto tra piazza Venezia e il Quirinale, pensando a una strada perfettamente diritta che dal portale di palazzo Venezia, attraversando la città, giungesse fuori le mura
alla chiesa di Sant’Agnese sulla via Nomentana. Tale impresa si
dimostrò tuttavia impossibile perché le pendici del Quirinale
erano troppo scoscese per realizzarvi un asse urbano rettilineo
e l’indennizzo per risarcire i proprietari delle case e dei palazzi
che si sarebbero dovuti demolire per cambiare la pendenza della strada era troppo oneroso50. Il progetto fu pertanto ridimensionato facendo concludere la nuova strada, chiamata via Pia,
in piazza del Quirinale e provvedendo alla realizzazione di una
nuova porta urbana in corrispondenza delle mura, il cui disegno fu affidato a Michelangelo; allo stesso piano di intervento
urbano risale la volontà di trasformare in chiesa, col nome di
Santa Maria degli Angeli, le sale del frigidarium delle terme di
Diocleziano collocate lì vicino. I lavori alla nuova via Pia furono avviati nel gennaio 1561, quelli preliminari per porta Pia
iniziarono in marzo e la posa della prima pietra avvenne il 18
giugno seguente51. Vasari racconta che Pio IV nell’incaricare
Michelangelo del lavoro ebbe da questi molti disegni da poter
usare anche per altre porte. Per molto tempo si è creduto che la
contemporanea porta del Popolo (1561) e la poco successiva
porta San Giovanni (1574) fossero state costruite prendendo
spunto da quei progetti. In realtà, la prima fu costruita da Nanni di Baccio Bigio – forse con il coinvolgimento del giovane
scultore Giacomo della Porta, di cui si possiedono quattro disegni di progetto relativi a questo monumento – e la seconda,
quasi sicuramente, dallo stesso Giacomo della Porta52. Una
nuova campagna di restauro delle mura e delle porte cittadine
fu avviata infatti durante il papato di Gregorio XIII (15721585), durante la quale fu forse persino completato il fronte di
porta Pia rivolto verso la campagna con un progetto di Giacomo della Porta, in quel tempo architetto del Popolo Romano e
della Congregazione Cardinalizia delle Acque e Strade53. Nel
1561, Pio IV aveva inoltre invitato i possessori delle vigne sul
Quirinale e sul Viminale a costruire delle mura di cinta con
portali ornati prospicienti la nuova via Pia. In breve, lungo la
strada furono eseguiti alcuni eleganti portali per le vigne Grimani, Caetani e Pio. Qualcuno fra i contemporanei ebbe modo
di credere che dietro queste realizzazioni vi fosse una regia michelangiolesca, cosicché i disegni di questi monumentali inMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
14. Giuseppe Vasi, Veduta
di piazza della Colonna Traiana,
1753, in Giuseppe Vasi,
Delle magnificenze di Roma
antica e moderna, Roma
1747-1761, vol. II, tav. 38
gressi furono pubblicati nel 1610 con la dicitura di “portali michelangioleschi”54. La pubblicazione costituiva una Aggiunta
alla Regola dei cinque ordini di Jacopo Barozzi da Vignola, inserita a partire dall’edizione stampata a Roma nel 1607 da Andrea Vaccari. I disegni dei portali erano stati realizzati dall’intagliatore Giovan Battista Montano55. Nell’appendice sono riprodotti sei portali in alzato, pianta e fianco: porta Pia (figg. 15-16;
cat. 96) e porta del Popolo (figg. 16-17), di cui si è detto prima,
un portale non più esistente per il palazzo dei Conservatori in
Campidoglio, sicuramente disegnato da Giacomo della Porta, e
i tre portali costruiti nel 1561 su strada Pia (figg. 18-20). Gli
autori dei tre portali, in realtà, ci sono ignoti, e non vi è traccia
di lessico michelangiolesco, mentre appare certa l’ispirazione
derivata senza dubbio dall’Extraordinario libro di architettura
di Sebastiano Serlio datato 1551. Entrambi i lavori ai cantieri di
porta Pia e di Santa Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano dipendevano dai Maestri di Strada e procuravano a Miche-
53
15. Giovanni Battista Montano, Prospetto
di porta Pia, in Nuova et ultima aggiunta
delle porte d’architettura di Michel Angelo
Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore
et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi
da Vignola, Regola delli cinque ordini
d’architettura di M. Iacomo Barozzio
da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635],
in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXI
16. Giovanni Battista Montano, Sezione
di porta Pia e di porta del Popolo, in Nuova
et ultima aggiunta delle porte d’architettura
di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino,
Pittore, Scultore et Architetto [appendice a
Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque
ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio
da Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635],
in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXX
17. Giovanni Battista Montano, Prospetto
di porta del Popolo, in Nuova et ultima
aggiunta delle porte d’architettura di Michel
Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore
et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi da
Vignola, Regola delli cinque ordini
d’architettura di M. Iacomo Barozzio da
Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in
Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXVIIII
18. Giovanni Battista Montano,
Portale di villa Caetani, in Nuova et ultima
aggiunta delle porte d’architettura di Michel
Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore
et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi
da Vignola, Regola delli cinque ordini
d’architettura di M. Iacomo Barozzio da
Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in
Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXIIII
langelo un’unica remunerazione mensile pari a 50 scudi56. A
partire da questi anni, in particolare dalla metà di maggio del
1561, un certo Pier Luigi Gaeta riuscì a farsi nominare da Michelangelo soprastante del cantiere di porta Pia, incarico che gli
venne tolto dai Maestri di Strada il 24 dicembre 1561, certamente non per volontà del Maestro57. A Gaeta, come anche ad
Antonio del Francese, sono legati alcuni sgradevoli avvenimenti occorsi negli ultimi mesi di vita del Maestro, che meritano di essere riassunti rapidamente. Il 3 gennaio 1556 era morto Francesco Urbino: Michelangelo ne rimase a tal punto sconvolto da iniziare ad appoggiarsi sempre più al servitore Antonio del Francese, con il quale il Maestro sembra aver sviluppato un legame progressivamente più saldo. Ad Antonio infatti,
nel corso di pochi anni, furono donate sia la Pietà di Santa Maria del Fiore sia la Pietà Rondanini58. Nel 1561 a questi si aggiunse come servitore il citato Pier Luigi Gaeta. Entrambi cer-
carono di isolare Michelangelo dagli amici, con il chiaro intento di ottenerne denaro e vantaggi personali: Gaeta aspirava a
diventare soprastante del cantiere di porta Pia e aiuto soprastante in quello di San Pietro; Antonio, analfabeta, non poteva
sperare in una posizione altrettanto prestigiosa59.
Nel novembre 1561 e nel febbraio 1562, Michelangelo propose il nome di Gaeta come soprastante alla fabbrica di San Pietro,
dal momento che “stando in casa mia, [Gaeta] mi potrà raguagliare la sera quello si farà il giorno”, ma ricevette un rifiuto in
entrambe le occasioni60. Già licenziato dal cantiere di porta Pia
per ragioni che rimangono oscure, i deputati della fabbrica di
San Pietro, che ben conoscevano la mancanza di esperienza di
Gaeta, si erano rafforzati nell’idea che Michelangelo fosse incapace di affrontare tale incarico. Vasari ebbe a scrivere su Pier
Luigi Gaeta: “troppo giovane ma suffizientissimo”61. Nell’aprile 1563, Michelangelo fece una donazione di 2000 scudi ad
Antonio del Francese, atto che fu tenuto segreto e che venne
registrato presso un notaio capitolino per evitare contestazioni62. Tiberio Calcagni venne a sapere di questa donazione solo
alcuni mesi più tardi e avvertì prontamente Leonardo Buonarroti di questo e dell’altro che nel frattempo era occorso: Gaeta
era finito in galera, dopo essere stato denunciato da un cambiavalute per aver trafugato alcune monete trovate nella vigna di
Orazio Muti; l’ottantottenne Michelangelo era stato a sua volta indagato come sospetto complice; nonostante tali incidenti,
Michelangelo aveva assurdamente riproposto il nome di Gaeta
quale sostituto del soprastante della fabbrica di San Pietro, frattanto ucciso da un marito geloso. Calcagni non poteva che concludere laconicamente il resoconto di tale declino chiosando
“Ora, come si sia, Dio li perdoni”63. Alla fine di agosto del 1563
Michelangelo sostenne la sua ultima battaglia per imporre Pier
Luigi Gaeta come soprastante di San Pietro, con esiti stavolta
ancora più umilianti: i deputati alla fabbrica di San Pietro gli comunicarono ufficialmente che avevano scelto come secondo
architetto Nanni di Baccio Bigio, dal momento “che l’età impedisce il buon volere di Vostra Signoria in non potere essere presente spesso, come soleva, alla fabbrica de Santo Pietro”64. A
breve giro di posta, Michelangelo inoltrò le sue dimissioni, che
il papa pregò di ritirare, cosicché il seguente 17 settembre il
Maestro poteva fare nuovamente ritorno al cantiere65.
A 88 anni Michelangelo seguiva ancora i cantieri di San Pietro, di
porta Pia e di Santa Maria degli Angeli; grazie all’assistenza di
Guidetto Guidetti curava la costruzione della nuova facciata del
palazzo dei Conservatori in Campidoglio, attraverso Tiberio Calcagni stava dietro al cantiere della cappella Sforza in Santa Maria
Maggiore, per mezzo di Daniele da Volterra seguiva l’elaborazione del monumento equestre di Enrico II di Francia. Si muoveva
con difficoltà e aveva continuamente bisogno di collaboratori
54
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
55
19. Giovanni Battista Montano, Portale di
villa Grimani su strada Pia, in Nuova et
ultima aggiunta delle porte d’architettura di
Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore,
Scultore et Architetto [appendice a Jacopo
Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini
d’architettura di M. Iacomo Barozzio da
Vignola, Pietro Marchetti, in Siena 1635], in
Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXIII
20. Giovanni Battista Montano, Portale di villa
Pio da Carpi su strada Pia, in Nuova et ultima
aggiunta delle porte d’architettura di Michel
Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore
et Architetto [appendice a Jacopo Barozzi
da Vignola, Regola delli cinque ordini
d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola,
Pietro Marchetti, in Siena 1635],
in Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXV
7
che gli riferissero quotidianamente quanto avveniva nelle diverse fabbriche, ma diffidava sistematicamente di ciascuno: quale
soluzione poteva essere migliore di quella di averli tutti in casa e
legarli a sé, magari attraverso regali e denaro? Ogni variazione a
questa che finì per essere una sua specifica consuetudine avrebbe sconvolto quel sorprendente equilibrio che gli permise, con
fatica e testardaggine, di lavorare fino all’ultimo giorno della sua
vita: per lui tutto il resto più nulla contava.
1
Carteggio indiretto, vol. II, p. 23, nota
3; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV,
pp. 1618-1638, nota 661; 18701882, nota 704.
2
Carteggio indiretto, vol. II, p. 26, n.
254 (13 feb. 1546); Carteggio, vol. IV,
p. 231, n. MLV (ante 25 feb. 1546).
3
Carteggio, vol. IV, pp. 220, n. MXLVI
(ante 22 dic. 1545); 227, n. MLIII (6
feb. 1546).
4
Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 27 e
di questa patria”, Roma, Archivio Storico Capitolino (in seguito ASC), cred.
I, to. 18, Decreti dei Consigli, 15441550, c. 73v, 6 agosto 1548; Lanciani
1988-2002, vol. II, pp. 27-28.
6
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 87 [ed. 1568]. Lo scopo del ponte è dichiarato nel contratto
del 24 agosto 1561 stipulato col bolognese Raffaele Bombello per la riparazione del ponte, “Conciosia cosa che la
56
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp.
1589-1594, nota 653.
5
“M. Michael Angelo Buonarrota huomo singolarissimo la cui virtu ne stata
commendata da S. Santita et ne la proposto, il quale, como si crede, per compiacere à Sua Beatitudine et per far’ cosa grata à questo Popolo non manchara
de pigliare questa fatiga con l’altre che
fa nelle nostre fabriche publiche come
buono cittadino romano et affettionato
Santità di Nostro Signore Pio Papa
Quarto habbia gran desiderio, como
ottimo Principe, che si rifaccia et restauri il Ponte di S. Maria, dalla preterita inondatione del Tevere ruinato, si
per passaggio delle tevertine che per
uso della Fabrica di San Pietro si adoprano como anche per utilità commune di questa città”, ASC, cred. VII, to.
78, Istrumenti Diversi, 1558-1570,
cc. 34r sgg.
ASC, cred. I, to. 18, Decreti dei Consigli, 1544-1550, c. 73v , 6 agosto
1548; Lanciani 1988-2002, vol. II, pp.
27-28.
8
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 87 [ed. 1568]; Conforti 2002, pp. 80-81, 86, nota 11.
9
Conforti 2002, p. 81. Della cappella
al centro del ponte si parla in un Avviso di Roma scritto immediatamente
dopo l’inondazione del 15 settembre
1557: “Hà portato via metà del ponte
Santa Maria insieme con quella bella
cappelletta di Giulio III che vi era nel
mezzo con tanta arte e spesa fabricata”, in D’Onofrio 1980, p. 147; un’altra casa era stata affittata presso il ponte per conservare i libri dei conti, effettuare i pagamenti alle maestranze e ai
fornitori, Conforti 2002, pp. 80-81.
10
Varasi, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p.
1590; Conforti 2002, pp. 81, 87, note
28 e 24.
11
Conforti 2002, p. 81.
12
Ivi, pp. 80-81, 87, nota 28.
13
Podestà 1875, pp. 136 sgg.; Vasari,
ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 15901592.
14
Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 30. La
parte crollata fu ricostruita in legno nel
1561 per permettere il trasporto dei
materiali per San Pietro con l’assicurazione che durasse almeno dieci anni
(“fare un Ponte di ligname che venga al
pari di quello di pietra che hoggi di si
ritruova in essere di tal fortezza che vi
possano andare di sopra le carrozze di
bufali cariche di tevertini ordinariamente che si tirano per la Fabrica di San
Pietro per prezzo et nome di prezzo di
scudi dua millia di moneta […] con li
suoi parapetti como monstra il modello fatto per esso m. Raffaelle [Bombello] et monstrato alli sodetti Signori”,
ASC, cred. VII, to. 78, Istrumenti Diversi, 1558-1570, cc. 34r sgg.); in realtà, la struttura in legno fu distrutta al
momento del montaggio per il cedimento dei canapi (Ferrucci 1588, c.
75r). Nel 1573 si bandì un concorso
per la ricostruzione dei due archi e del
pilone in previsione dell’anno santo
1575 (Lanciani 1988-2002, vol. II, p.
31). Luca Peto, uno dei deputati alla ricostruzione, consigliò di costruire un
unico arco al posto di due, abbandonando il pilone crollato, ma il Comune,
dopo un’ampia discussione, decise di
ricostruire i piloni precedenti secondo
il progetto di Matteo Bartolini
(D’Onofrio 1970, p. 225). Gli unici piloni e l’arco non rinforzati – il terzo e il
quarto pilone da Trastevere e il quarto
arco – crollarono durante l’inondazione del Natale 1598 insieme al pilone
rinforzato da Nanni di Baccio Bigio e
non furono mai più ricostruiti.
15
Lettera di Nanni a Ottavio Farnese
del 17 marzo 1553, Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1592.
16
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol.
VII, p. 694.
17
Ackerman 1954, p. 76.
18
Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Camerale I, Fabbriche, b.
1517, c. 56v, 20 settembre 1551, in
Ackerman 1954, p. 165, nota 77.
19
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 83 [ed. 1568].
20
Ackerman 1954, pp. 75-78, 138; B.
Contardi, scheda 23, in Argan, Contardi 1990, p. 338; Frommel 1997, pp.
251-252, 255.
21
Frommel 1997, pp. 254, 257-258.
22
Ackerman 1954, pp. 77, 216-217,
nota 30 e fig. 25.
23
Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana (in seguito BAV), Cod. Vat. Lat.
7721, cc. 93v-94, in Micheli 1982.
24
Wilde 1953, p. 109; Hirst 1963, pp.
170-171; Hirst 1993, p. 54; Romani
2003a, p. 45; V. Romani, scheda 37, in
Romani 2003, pp. 134-135.
25
M. Marongiu, scheda 36, in Romani
2003, pp. 130-133; tali schizzi di scale sono stati riferiti al Belvedere in
Frommel 1997a, p. 255.
26
Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 57.
27
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 86 [ed. 1568].
28
Città del Vaticano, Archivio della
Fabbrica di San Pietro (in seguito AFP),
IV, 33, pacco 3, in Millon 1979, pp.
770-777.
29
Podestà 1875, p. 136; B. Contardi,
scheda 23, in Argan, Contardi 1990,
pp. 338-339.
30
Riccomini 1996.
31
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p.
1586, nota 651.
32
Schwager 1990, pp. 70, 75, nota 8.
33
Ivi, pp. 70, 72.
34
Bösel 1985, p. 175.
35
Schwager 1990, p. 73.
36
Pirri 1941, pp. 181, 202; Schwager
1990, p. 71.
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
37
Pirri 1941, pp. 216-217, doc. 8.
Popp 1927, pp. 413 sgg.; Nava Cellini 1936; Tolnay 1951.
39
Ackerman 1968, p. 282; Schwager
1990, pp. 71-72; B. Contardi, scheda
26, in Argan, Contardi 1990, p. 341.
40
Schofield 2002, p. 299.
41
ASC, cred. I, to. 20, Decreti dei Consigli, 1551-1560, c. 166r-v, consiglio
pubblico.
42
Catalogo delle chiese demolite in Roma per la visita di Carlo V, BAV, Cod.
Vat. 8468, c. 208, in Pastor 1942, pp.
793-794, doc. 22.
43
Lanciani 1988-2002, vol. II, pp. 122
sgg.
44
ASC, cred. I, to. 20, Decreti dei Consigli, 1551-1560, c. 224v, Consiglio
Segreto; ASC, cred. I, to. 24, c. 114r, 6
dicembre 1569.
45
Benedetti 1973, pp. 186-187.
46
Frey 1909, p. 172; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp. 1702-1703, nota 676; 1729, nota 678.
47
Carteggio, vol. V, p. 146, n.
MCCLXXX (16 dic. 1558).
48
Ivi, p. 152, n. MCCLXXXIV (13 gen.
1559).
49
Lettera dell’ambasciatore fiorentino a
Roma Gianfigliazzi del 28 settembre
1558, in Vasari, ed. Barocchi 1962,
vol. IV, pp. 1841-1842, nota 698; De
Maio 1973, pp. 105-113; Brothers
2002b, p. 56.
50
Ackerman 1968, p. 283.
51
Schwager 1973, pp. 40, 78-79, nn.
37-38, 40.
52
Ackerman 1968, p. 286; Schwager
1975b, pp. 128-129.
53
Una ricerca sistematica sull’argomento non è stata fatta, ma si riporta
uno dei molti documenti all’Archivio
Capitolino relativi a questi lavori:
“Adi 18 xmbre 1576 / A mo Meo Bassi scarpellino scudi cinque dei moneta quali sonno per quasi dieci giornate che ha messo a mettere insieme
l’Arco de tevertino de porta Pia et a
ferrare li cancheri della porta del Popolo et fare piu busi alle porte de Roma”, sotto la supervisione di Giacomo della Porta architetto del Popolo:
ASC, cred. VI, to. 23, Registro de
Mandati a favore degli Offiziali et Artisti del Popolo Romano, c. 7. Anche
Gregorio Caronica, allora mastro muratore, dal 3 ottobre 1576 al 6 giugno
1577 fu impegnato nella riparazione
38
delle mura di Roma sotto la supervisione di Giacomo della Porta (ivi, cc.
1r-v, 2v, 3, 4, 9, 21). Architetto della
Congregazione “super viis, pontibus,
fontibus” era stato fino alla morte nel
1568 Nanni di Baccio Bigio, sostituito poi da Giacomo della Porta (ASR,
Congregazione cardinalizia “super
viis, pontibus, fontibus”, b. 1, Liber
Congregationum ab Anno 1567
usque ad Annum 1587, passim).
54
“NVOVA ET VLTIMA / AGGIVNTA DELLE /
PORTE D’ARCHITETTVra / DI / MICHEL
ANGELO BVONAROTI FIOREN / TINO PITTORE SCVLTORE ET ARCHI / TETTO ECCELL.mo / In Roma apresso Andrea
Vaccario all’Insegna della / Palma l’A.°
1610 / GIOVANNI BATTISTA MONTANO
MILANESE INVENTOR”.
55
Bedon 1999.
56
Siebenhüner 1955, p. 190, nota 52.
57
Schwager 1973, pp. 42, 80, note 59,
60, 61.
58
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, pp. 92-93 [ed. 1568];
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp.
1670-1677, nota 666; 1677-1678,
nota 667.
59
Carteggio indiretto, vol. II, pp. 107,
n. 310 (19 set. 1561); 108-109, n.
311 (1561?); 118-120, n. 319 (2
mag. 1562); Carteggio, vol. V, pp.
309-310, n. MCCCXC (21 ago.
1563), nota 1, che riporta una lettera
dello scalpellino Pietro di Domenico a
Leonardo Buonarroti, datata 27 febbraio 1563.
60
Carteggio, vol. V, p. 272, n.
MCCCLXVII (dopo il 4 nov. 1561);
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, pp.
2061-2065.
61
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19661987, vol. VI, p. 105 [ed. 1568].
62
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV,
pp. 2061-2065.
63
Carteggio indiretto, vol. II, pp. 157158, n. 346 (8 ago. 1563); 159, n. 347
(14 ago. 1563); 161-162, n. 349 (2
set. 1563).
64
Carteggio, vol. V, p. 323, n.
MCCCXC bis (ante 6 set. 1563).
65
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi 19671987, vol. VI, p. 106 [ed. 1568]; Frey
1916, p. 48; Carteggio, vol. V, p. 324,
n. MCCCXC ter (6 set. 1563); Carteggio indiretto,vol. II, pp. 163, n. 350 (16
set. 1563); 165-166, n. 352 (23 ott.
1563); 168, n. 355 (18 dic. 1563).
57
1. Antonio Tempesta,
Pianta prospettica di Roma, 1593.
Il rettangolo individua il retro della casa
di Michelangelo a Macel de’ Corvi
verso vicolo dei Frangipane
LE DIMORE DI MICHELANGELO A ROMA.
DALLE PRIME ABITAZIONI
ALLA CASA DI MACEL DE’ CORVI
Clara Altavista
Vostro Michelangniolo Buonarroti
al Macello de’ poveri1
Secondo l’architetto Bernardo Buontalenti, un epitaffio sarebbe stato scritto da Michelangelo Buonarroti “a mezza scala”
della sua casa romana di Macel de’ Corvi:
Io dico a voi, c’al mondo avete dato
l’anima e ’l corpo e lo spirito ’nsïeme:
in questa cassa oscura è ’l vostro lato2.
Al di sotto dell’iscrizione l’artista avrebbe disegnato in chiaroscuro uno scheletro sulla cui debole spalla gravava la “cassa
oscura”, parafrasi del destino umano e allegoria di questa residenza romana, conosciuta dalle poche descrizioni che se ne
traggono come luogo modesto e tetro. Questa dimora, poco
più che una piccola casa su due piani con pertinenze e orto, fu
il rifugio nel quale Michelangelo trascorse con continuità gli
ultimi trent’anni della propria esistenza: una residenza per la
quale lottò strenuamente e grazie alla quale poté vivere quasi
isolatamente in una città in cui forse non si sentì mai veramente integrato3.
Nessuno, prima del pittore e trattatista portoghese Francisco
de Hollanda, aveva fatto espresso riferimento alla collocazione topografica della casa romana di Michelangelo, identificata
genericamente “ai piedi di Monte Cavallo”4. Nelle loro edizioni della Vita di Michelangelo, sia Giorgio Vasari sia Ascanio
Condivi accennarono ad alcune residenze romane che, in tem58
pi e con modi differenziati, fecero da scenario alla sua esistenza, ma mai si espressero apertamente a riguardo della dimora
in cui l’artista visse stabilmente per più tempo5. Di questa casa si interessò per primo Benvenuto Gasparoni il quale, tra il
1865 e il 1866, pubblicò una serie di documenti inediti a essa
relativi e definì, con una certa attendibilità filologica, la sua articolazione planivolumetrica e la sua collocazione urbana: lungo via dei Fornai, presso la chiesa di Santa Maria di Loreto, poco oltre il Foro di Traiano (fig. 1)6. Secondo Gasparoni, questa
residenza fu venduta nel 1605 allo scalpellino viggiutese Stefano Longhi per la considerevole somma di 3800 scudi d’oro,
benché lo studioso non portasse a supporto di questa affermazione alcuna testimonianza documentale. Egli, inoltre, non
riuscì a mantenere la promessa fatta di un successivo approfondimento della materia con la pubblicazione di documenti
inediti – rimasti a lungo tali e dei quali in questa sede, per la
prima volta, si offrono alcuni stralci – e pertanto restarono
aperti numerosi interrogativi sulle vicende, edilizie e proprietarie, di cui la casa di Michelangelo si rese protagonista nel corso dei secoli. Dopo Gasparoni, Luigi Mazio (1872) si interessò
alle dimore di Michelangelo spingendosi ad analizzare sommariamente le residenze nelle quali l’artista fu ospite prima
del suo spostamento definitivo presso la chiesa di Santa Maria
di Loreto intorno al 15347. Se, a riguardo di quest’ultima dimora, Mazio riprese con fedeltà quasi testuale i saggi di Gasparoni, sulla scorta di Vasari, credette di individuare nella residenza suburbana del cardinale Raffaele Riario in via della Lungara la prima casa romana in cui Michelangelo avrebbe vissuto: una collocazione che però si sarebbe rivelata inesatta. Fatta
salva una nutrita letteratura inerente la trascrizione più o meno integrale di documenti romani su Michelangelo, nei quali è
citata la dimora di Macel de’ Corvi8, o alcune monografie dell’artista che accennarono alla sua residenza romana9, solo agli
inizi del XX secolo l’argomento fu ripreso in maniera analitica. Il tedesco Ernst Steinmann, in due saggi successivi del
1907 e del 1912 – di cui il secondo riproponeva nella massima parte il primo – si interessò con una certa ostinazione alle
residenze romane dell’artista10. Valendosi dei precedenti saggi
di Gasparoni per la parte documentaria e basandosi essenzialmente sulla lettura del carteggio michelangiolesco tratto da
Gaetano Milanesi (1875) e da Karl Frey (1907), gli studi di
Steinmann non introdussero argomentazioni inedite rispetto
allo stato dell’arte. Unico elemento di menzione può considerarsi una brevissima nota ricavata da un precedente scritto di
Rodolfo Lanciani (1906) del quale Steinmann fece propria la
tesi secondo cui l’acquisto della casa presso Macel de’ Corvi da
parte di Stefano Longhi si poneva cronologicamente dopo una
precedente vendita del 1584, avvenuta tra agli eredi di Michelangelo e l’architetto Martino Longhi il Vecchio, lontano parente di Stefano. Il riferimento a Lanciani però si rivelò imprudente poiché – come avrebbero dimostrato dapprima Fabrizio
Apollonj Ghetti (1968) e successivamente Paola Barocchi, Kathleen Loach Bramanti e Renzo Ristori (1988-1995) – esso
era derivato da una lettura poco attenta della documentazione
consultata11. L’attenzione per le case romane di Michelangelo
si affievolì sino al 1930, allorquando il senatore Corrado Ricci
ne scrisse un brevissimo articolo pubblicato sulle pagine del
quotidiano “Il Messaggero”. L’autore però cadeva in un clamoroso errore, fondando la descrizione dell’abitazione di Macel
de’ Corvi sull’osservazione diretta delle litografie che, da Angelo Uggeri (1800-1828)12 fino a Paul Letarouilly (18401857)13, avevano cominciato a circolare per l’Europa, sull’onda di quel filone pittoresco basato più sulle tradizioni orali che
non sulla ricostruzione documentaria14: le incisioni, infatti, illustrano il prospetto esterno e l’atrio di una casa che Michelangelo Buonarroti avrebbe abitato (o posseduto?) alle falde
del Campidoglio, non molto distante dal palazzo dei Conservatori. Nello stesso equivoco cadde Luigi Callari, il quale, nella sua pubblicazione sui palazzi di Roma (1932), ripropose la
descrizione di Ricci15. Alla metà degli anni sessanta del Novecento, Anna Maria Corbo pubblicò, insieme a un documento
inedito, il regesto di una selezione di atti inerenti la casa di Macel de’ Corvi16, ma solo nel 1968, il già citato Apollonj Ghetti
poté ricostruire piuttosto fedelmente la storia della casa, adducendo alcune prove circostanziate sulla sua corretta collocazione17. Recentemente Rab Hatfield (2002) nello studio sulle
finanze di Michelangelo ha ripercorso assai brevemente le viMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
cende legate alle residenze romane dell’artista, aggiungendo
alcune novità che tuttavia non riguardano più direttamente la
casa di Macel de’ Corvi18.
Modificata sostanzialmente durante i molti anni nei quali fu di
proprietà della famiglia Longhi, passata poi all’avvocato Scipione Cavi, entrata a far parte del patrimonio immobiliare del
principe Alessandro Torlonia dalla seconda metà del XIX secolo, demolita per lasciare posto al nuovo palazzo delle Assicurazioni Generali in piazza Venezia (1902-1906), la dimora
di Michelangelo Buonarroti è oggi ricordata solo da una targa,
il cui brevissimo testo non può che darne una flebile e scolorita testimonianza19.
Le dimore dal 1496 al 1501
Michelangelo arrivò a Roma per la prima volta a ventuno anni,
il 26 giugno del 1496, portando con sé solo una lettera di presentazione scritta da Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici20. Il
suo scopo era quello di presentarsi al cardinale Raffaele Riario,
meglio noto come cardinale di San Giorgio al Velabro, “parte
per isdegno d’essere stato fraudato, parte per vedere Roma,
cotanto […] lodatagli come larghissimo campo di poter ciaschedun mostrare la sua virtù”21. Le vicende relative a questo
primo soggiorno romano di Michelangelo sono conosciute e
legate essenzialmente alla realizzazione di alcune celebri opere scultoree, prima delle quali il Cupido dormiente, scolpito a
Firenze, ma sapientemente contraffatto – secondo i biografi –
per essere immesso sul mercato antiquario romano e come
pezzo antico acquistato dal cardinale Raffaele Riario per 200
ducati, a fronte dei 30 pagati a Michelangelo dal mediatore
della vendita, forse Baldassarre del Milanese22. L’artista, visto il
grande successo riscosso dalla propria opera e sentendosi a sua
59
2. Giuseppe Vasi, Veduta del palazzo
della Cancelleria Apostolica, 1754,
in Giuseppe Vasi, Delle magnificenze
di Roma antica e moderna, Roma
1747-1761, vol. IV, tav. 94. Alla destra
del palazzo della Cancelleria si vede
il distrutto palazzetto di Jacopo Galli
volta raggirato, aveva deciso di uscire allo scoperto. Come era
prevedibile, l’alto prelato richiese indietro i denari spesi, ma,
al contempo, espresse il vivo desiderio di conoscere personalmente l’esecutore di quell’opera, tanto da riceverlo presso la
propria residenza romana.
Il primo soggiorno di Michelangelo a Roma durò fino alla metà del
mese di maggio dell’anno 1501. Sulla dimora che ospitò l’artista
durante quei primi mesi del suo soggiorno e sulla durata di questa
permanenza non esistono più equivoci. Come anticipato, Luigi
Mazio credette di riconoscere questa dimora nella residenza che
la famiglia Riario possedeva in Trastevere23. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato come la prestigiosa dimora, sorta in una
vasta area situata tra via della Lungara e il Gianicolo, dove poi sarebbe sorto palazzo Corsini, fosse stata edificata per volontà del
cardinale di San Giorgio solo nel 1511 e che quindi difficilmente
avrebbe potuto ospitare Michelangelo24. Già in alcuni saggi successivi, l’ipotesi avanzata da Mazio veniva superata dalla certezza che si trattasse invece del palazzo che il cardinale Raffaele Riario iniziò a far costruire nell’autunno del 1489 presso la chiesa di
San Lorenzo in Damaso25. L’edificio, conosciuto come palazzo
della Cancelleria, nel 1496 era ancora in fase di costruzione, sebbene una parte di esso fosse già abitata dal suo committente26. Michelangelo fu ospite del cardinale di San Giorgio per circa un anno
tra 1496 e 1497: ad affermarlo con estrema precisione fu lo stesso Michelangelo attraverso Ascanio Condivi e Giorgio Vasari27.
Nipote di Sisto IV della Rovere (1471-1484), cardinale camerlengo di Santa Romana Chiesa, preposto alle finanze, agli edifici e alle fortezze papali, Raffaele Riario lasciò l’Urbe nell’autunno del
1499, per forti dissensi politici con Alessandro VI Borgia (14921503)28, tornandovi solo alla morte di quest’ultimo nell’estate del
1503. È difficile dunque immaginare che, nonostante attendesse
a diverse commissioni scultoree, il giovane artista continuasse a
risiedere presso il cardinale Riario in sua assenza e ininterrotta60
3. Giovanni Antonio Dosio,
Veduta del Borgo Nuovo, seconda metà
del XVI secolo. Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 2580 A.
La casa di Michelangelo doveva situarsi
nel tessuto edilizio alle spalle del passetto
di Borgo, alla sinistra dell’immagine
mente fino al 1501. Appare più realistico credere che, una volta
lasciata la residenza cardinalizia, Michelangelo fosse ospitato per
qualche tempo dal banchiere romano Jacopo Galli. A lui, ricco ed
erudito, assiduo frequentatore della casa del cardinale di San
Giorgio, Michelangelo diede il Bacco che aveva iniziato a scolpire
a grandezza naturale appena un mese dopo il suo arrivo a Roma29.
La residenza del banchiere, collocata “dirimpetto al palazzo di san
Giorgio”30 presso Campo de’ Fiori, potrebbe dunque essere stata
la seconda dimora, seppure temporanea, dell’artista. Secondo una
nota del Carteggio la frase di una lettera scritta nell’agosto del
1497 da Michelangelo al padre Ludovico, “io non ò comodità di
tenello meco, perché io sto in casa d’altri”31, relativa al fatto di non
aver potuto ospitare il fratello Buonarroto giunto a Roma, potrebbe essere riferibile alla dimora di Jacopo Galli. Scomparso in seguito allo sventramento dell’attuale corso Vittorio Emanuele II (a
partire dal 1873)32, palazzetto Galli era una residenza caratteristica del tardo Quattrocento romano, i cui tratti essenziali si possono cogliere in tutta la loro semplicità osservando l’incisione settecentesca di Giuseppe Vasi dedicata al palazzo della Cancelleria
(fig. 2)33. Fu nel giardino di palazzo Galli che il pittore olandese
Maarten van Heemskerck raffigurò, insieme a un ricco campionario di antichità, proprio il Bacco michelangiolesco34.
Il 23 marzo 1497 Michelangelo aprì un proprio conto presso il
banco romano dei Balducci-Galli35. Su quello stesso conto, nel
novembre successivo, gli fu accreditata la somma di 133 e
mezzo fiorini di Reno, valuta nordica erogata come anticipo
per la committenza del gruppo scultoreo della Madonna della
Febbre, meglio nota come Pietà36. L’incarico gli era stato affidato da Jean Bilhères de Lagraulas, cardinale di Saint-Denis, e la
scultura, destinata al suo sepolcro, avrebbe dovuto essere collocata nella cappella di Santa Petronilla – piccola rotonda contigua alla basilica di San Pietro – divenuta luogo di venerazione ab antiquo da parte della Corona francese e per questo nota
come “cappella dei re di Francia”. In quest’ultima fase del primo soggiorno romano sembra che Michelangelo si fosse trasferito in una abitazione per la quale veniva corrisposto un affitto mensile di un ducato e mezzo, come documentato da Rab
Hatfield secondo cui il basso costo lascerebbe intuire uno spazio relativamente modesto, seppur sufficiente per tenervi uno
studio37. Non si conosce la collocazione topografica di questa
casa, ma non è del tutto inverosimile immaginare che tale dimora fosse situata nei pressi della stessa basilica di San Pietro,
non lontano dal luogo dove avrebbe vissuto nel suo secondo
soggiorno romano.
Le dimore tra il 1505 e il 1516
La chiesa di Santa Caterina alle Cavallerotte in Vaticano, e il suo
annesso convento di monache, era un edificio di antica fonda-
zione che ebbe grande importanza soprattutto nel medioevo
proprio per la sua vicinanza alla basilica38. Collocata in prossimità di piazza San Pietro, lungo la linea di Borgo nuovo, non
molto distante dal cosiddetto passetto che collegava la basilica
vaticana a Castel Sant’Angelo, la piccola costruzione si inseriva
in un contesto edilizio frammentario, costituito in prevalenza
da modeste abitazioni di artigiani39. In quest’area urbana, come
riporta esclusivamente Vasari, “Michelagnolo aveva fatto la
stanza da lavorar le figure et il resto della sepoltura”40. L’opera a
cui si fa riferimento è il monumento funebre per Giulio II della
Rovere (1503-1513) commissionato all’artista nel marzo del
1505, anno del ritorno di Michelangelo a Roma41.
La dimora, proprietà del Capitolo di San Pietro42, data a Buonarroti in comodato d’uso “per servire nostro Signore, papa
Iulio, [la quale] l’ebbe da esso papa […] in possessione”43, si
collocava nel fitto tessuto edilizio cresciuto alle spalle della linea di Borgo nuovo, in prossimità del corridore, e costituito in
prevalenza da piccole unità abitative organizzate su due livelli,
così come appare in una puntuale veduta di Giovanni Antonio
Dosio custodita agli Uffizi (fig. 3)44 e come mostra assai bene,
con dettagli quasi fotografici, la successiva pianta prospettica
di Antonio Tempesta nell’edizione del 163045. A voler seguire
testualmente le indicazioni date da Vasari circa la collocazione
di questa nuova residenza romana di Michelangelo, si comprende come essa sorgesse immediatamente a ridosso del passetto di Borgo, poiché “il Papa aveva fatto fare un ponte levatoio dal corridore alla stanza [dell’artista]”46 per osservarlo
personalmente al lavoro. Il termine “stanza” usato da Vasari,
piuttosto che indicare una unità abitativa di tipo minimo,
sembrerebbe riferirsi alla casa-studio dove venivano scolpiti i
blocchi destinati alle sculture della “sepoltura”. Lo stesso Michelangelo riferì genericamente di una serie di “stanze dreto a
Santa Catherina”47, ma, nel puntualizzare come fosse stato necessario fornire l’abitazione “di lecti e masseritie”48 per sé e i
suoi collaboratori, non esitò a usare il termine “chasa”: si tratta degli stessi arredi che Michelangelo ordinò di vendere quando fece ritorno a Firenze a seguito di un ennesimo screzio sorto con il pontefice, avvenuto nell’aprile del 1506 e mediato
dall’amico Giuliano da Sangallo49.
Michelangelo rientrò a Roma nel 1508 per potere continuare
il monumento di Giulio II e avviare gli affreschi nella cappella
Sistina (1508-1512). Un atto del Capitolo di San Pietro, documenta che Buonarroti fu affrancato nel dicembre 1510 da ogni
onere sulla casa presso Santa Caterina, ormai abitata da nuovi
inquilini. Michelangelo stesso racconta come “el primo anno
di papa Leone, [1513] venne maestro Lucha [Signorelli] da
Chortona […] a chasa mia dal Macello de’ Chorvi, nella casa
che io tengo anchora oggi [1518]”50. Ciò ha da sempre fatto riMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
tenere che l’artista si fosse trasferito in Macel de’ Corvi solo a
partire dal 1513, ma, in mancanza di altra documentazione,
dovendo escludere dal 1510 il domicilio presso Santa Caterina, non è improprio anticipare l’ingresso di Michelangelo in
Macel de’ Corvi a una data compresa tra 1508 e 151351.
Le vicende legate alla ideazione e alla realizzazione del monumento funebre di Giulio II della Rovere seguono in maniera
perentoria e inequivocabile gli avvenimenti connessi al possesso della casa, o, per meglio dire, di quel piccolo gruppo di
unità immobiliari e spazi verdi collocato a Macel de’ Corvi in
vicinanza della chiesa di Santa Maria di Loreto, e con quella
vicenda si confondono sino a divenire un tutt’uno. L’atteggiamento di Michelangelo nei confronti delle proprie abitazioni
fu talvolta contraddittorio e si può verificare chiaramente negli stralci di due lettere. Scritte nel gennaio del 1515 e indirizzate entrambe al padre, rivelano, da un lato una preoccupazione sentita: “de’ facti della chasa credo achonciarla in buona
forma, che la sarà mia e arò buona sicurtà”52; dall’altro, quasi
un suo ridimensionamento: “non è cosa che importi, perché
io so che e’ non me ne va altro che la pigione del tempo che io
ci starò”53.
Nel contratto del luglio 1516, relativo a un nuovo disegno del
monumento funebre, stipulato tra Michelangelo Buonarroti e
gli esecutori testamentari di Giulio II – il cardinale Leonardo
Grosso della Rovere vescovo di Agen e il protonotario apostolico Lorenzo Pucci –, fu stabilita una clausola secondo la quale
venne concessa all’artista, gratis et amore e per il termine di
nove anni (a decorrere però dal 1513), “una chasa con palchi,
sale, chamere, terreni, orto, pozzi e suoi altri habituri, posta in
Roma inella regione di Treio […] ad presso a Santa Maria del
61
4. Salvestro Peruzzi, Pianta di Roma
con la contrada di Macel de’ Corvi
(presso il cavalcavia di San Marco),
metà del XVI secolo, particolare.
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi, 274 A
Loreto”, della quale furono descritti puntualmente i confini54.
Nessuno dei due contratti precedenti, certamente non quello
del maggio 1513, fa mai esplicito riferimento a questo piccolo
complesso edilizio55. Appartenenti forse al patrimonio personale del vescovo aginense56, queste case erano presumibilmente quelle abitate da Michelangelo a partire dal 1510, le stesse
nelle quali, nell’autunno del 1516, l’artista fece murare due
statue destinate alla tomba di Giulio II – lo Schiavo morente e
lo Schiavo ribelle (oggi entrambe al Louvre) –, secondo quanto
documenta Leonardo Sellaio, collaboratore di Michelangelo,
in una lettera indirizzata a Buonarroti: “non bisogna mi richordiate la chasa; e stane di buona vogl[i]a, ché, chome per altre mia v’ò detto, le due fighure stanno bene, che sono murate
e in chasa non viene nessuno, e qualchuno che me n’à dimandato, e de’ più stretti, ò detto voi le soterasti e murasti”57.
La contrada cittadina generalmente definita “Macel de’ Corvi”, come testimoniano alcuni puntuali recenti studi di Marianna Brancia di Apricena, apparteneva al quartiere di San
Marco, situato all’incrocio di quattro rioni (Monti, Campitelli,
Trevi e Pigna) e limitava a nord la zona dei Fori58. Sobborgo popoloso, sorto nel medioevo e sviluppatosi nel corso del tempo59, il quartiere di San Marco, segnando idealmente il confine
tra la città dell’età di mezzo e quella rinascimentale, rappresentava, forse meglio di ogni altro, la complessità abitativa e
residenziale della Roma del tempo, rivelandone le numerose
contraddizioni (fig. 4). A partire da quegli anni, infatti, si avviò
un lento ma costante processo di riqualificazione urbana attraverso la costruzione di nuove importanti residenze o la trasformazione delle poche dimore cardinalizie e nobiliari già
esistenti. Accanto a esse continuarono tuttavia a coesistere
piccoli fabbricati di chiaro impianto medioevale, alcuni dei
quali al limite della fatiscenza, spesso dotati di piccolissimi
spazi aperti60. Tra queste costruzioni emergeva su tutte il tempio dedicato a Santa Maria di Loreto. Costruito per volontà
della confraternita dei Fornai di Roma a partire dall’anno
1507 (a breve distanza dalla data dell’istituzione della stessa
congregazione)61, la chiesa, con annessi ospedale e cimitero, fu
ampliata non prima degli anni 1518-1520 su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane62. Dal Carteggio di Michelangelo
appare evidente come accanto al toponimo generale di “Macel
de’ Corvi”, posto in calce a numerose lettere, Buonarroti avesse scelto proprio la chiesa di Santa Maria di Loreto quale riferimento architettonico più adatto a indicare l’esatta collocazione delle proprie case, mentre rara fu invece l’indicazione come
toponimo della poco distante chiesa dei Santi Apostoli. Esemplificativa in tal senso è la chiosa di una missiva inviata al nipote Leonardo nell’ottobre del 1550, in occasione di una sua
imminente visita, nella quale Michelangelo precisò “credo sa62
pra’ [Leonardo] in Roma trovar la casa, cioè a•rriscontro a Santa Maria del Loreto, presso Macel de’ Corvi”63. Tuttavia, nel celebre foglio con quattro epitaffi dedicati a Cecchino Bracci e
scritti per Luigi del Riccio, segretario di Michelangelo, l’artista
preferì chiudere la missiva non scrivendo il proprio domicilio,
bensì disegnando un piccolo corvo (AB XIII, 33; cat. 24)64.
L’appellativo di “Macel de’ Corvi” fu mantenuto nel linguaggio corrente sino alla metà del Cinquecento, come si può desumere dalle piante di Leonardo Bufalini (1551) e di Stefano
Dupérac (1577), nelle quali la denominazione di macella corvorum o macello corvorum riguarda, non una sola strada, bensì due diverse arterie viarie, entrambe confluenti in uno slargo
antistante la chiesa di Santa Maria di Loreto65. Una di queste
strade, intersecante con via dei Fornai, delimitava a sud l’isolato urbano al quale appartenevano le residenze di Michelangelo Buonarroti.
la mia allegrezz’è la malinconia,
e ’l mio riposo son questi disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
chi mi vedess’a la festa dei Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.66
Stando ai confini rilevati nel contratto del 1516, infatti, le case di Michelangelo si trovavano alle spalle dell’allora piazza
San Marco ed erano prossime a palazzo Venezia, residenza dei
cardinali titolari dell’omonima chiesa e palazzo pontificio, fino a quando non venne donato alla Repubblica veneziana da
Pio IV Medici (1559-1565)67. Nell’intorno si trovava la casa
dei signori Frangipane la quale, divenuta proprietà del conte
Giovanni Antonio Bigazzini, sarebbe stata in parte trasformata nel suo prospetto verso piazza San Marco dall’architetto
Carlo Fontana (1678-1683)68 e, una volta acquistata dal conte
Giacomo Bolognetti, avrebbe ottenuto, grazie all’intervento
dell’architetto Nicola Giansimoni (1757), un nuovo fronte anche su piazza Santi Apostoli69. Entrata in possesso del principe
Alessandro Torlonia nel 1806, l’originaria casa dei Frangipane
fu nuovamente trasformata per essere poi demolita nel
190270. Contiguo alle case di Buonarroti era altresì il palazzo
della famiglia Zambeccari, che era stato ampliato intorno agli
anni trenta del Cinquecento e significativamente trasformato
dall’architetto fra’ Domenico Paganelli, intorno al 1585, per
volontà del nuovo proprietario, il cardinale Michele Bonelli71.
Nipote di Pio V Ghislieri (1566-1572) e meglio noto come
“Cardinale Alessandrino” (dalla località di provenienza), Bonelli fu finanziatore e promotore di un’opera di generale bonifica dell’intera area intorno al Foro di Traiano, luogo che pren-
derà il nome di “quartiere alessandrino” e che avrà nella strada
Alessandrina il suo asse viario principale72. Non molto distante da palazzo Zambeccari, verso piazza Santi Apostoli, infine,
sorgevano sin dal Quattrocento la residenza di Pietro Riario,
cardinale di San Sisto – che, a sua volta, aveva annesso e ampliato una più antica casa del cardinale Giovanni Bessarione73 –
e la dimora di Giuliano della Rovere (futuro Giulio II e cugino
di Pietro Riario), la cui famiglia possedeva nell’immediato intorno, oltre alle case assegnate a Buonarroti, altre numerose
proprietà immobiliari e fondiarie74.
Le case di Macel de’ Corvi dal 1534 al 1564
“E delle sei figure di che fa mentione il contracto n’è facte
quactro, come voi sapete, che l’avete viste nella casa mia
a•rRoma [sic], la quale mi donano, come pel contracto si vede.”75 Questo scrisse Michelangelo all’amico Giovanni Francesco Fattucci – cappellano di Santa Maria del Fiore a Firenze –
nel giugno del 1532. Il successivo contratto per l’esecuzione
del monumento funebre per Giulio II, stipulato nell’aprile di
quello stesso anno, aveva confermato a Michelangelo di poter
abitare a titolo gratuito la casa di Macel de’ Corvi, ovvero una
piccola abitazione su due piani, orto e pertinenze, corrispondenti a due altre piccolissime abitazioni76. Questo possesso divenne irrevocabile circa dieci anni dopo, a seguito del motu
proprio di Paolo III Farnese (1534-1549) che impediva agli
eredi di Giuliano della Rovere qualsiasi futura rivendicazione
sulla proprietà77.
L’estate del 1533, che precedette il trasferimento definitivo a
Roma, vide Michelangelo costantemente preoccupato per lo
stato di manutenzione delle proprie residenze. Lo testimonia il
fitto carteggio con Bartolomeo Angelini, uno dei suoi più stretti collaboratori: “la chasa vostra è di chomtinovo ongni notte
guardata e di giorno spesso da me vicitata”78, “le chose vostre
stanno bene e ne’ medesimi termini che le lassasti”79. Apparentemente le preoccupazioni di Buonarroti per lo stato di conservazione delle proprie residenze possono sembrare infondate,
ma che il piccolo complesso edilizio versasse in cattive condizioni lo rivelano alcune lettere del pittore Sebastiano del Piombo, inviate qualche tempo prima di quelle più rassicuranti di
Angelini: “et potresti dar hordene a la chasa vostra, che in vero
va male el più de le cosse, come tecti et altre cosse”80, “più volte ho voluto scrivervi de la casa vostra. In vero le cosse vostre
vanno molto male: è in mano de un sbirazo che brava et dice ha
fatto et dritto, de modo che se li haverà a rifar de molti duchati:
et ve ruinano la chasa. […] Seria pur meglio […] meter que’
aconzi ne la botega grande, benché ’l tecto tutto piove”81. Lo
“sbirazo” al quale Sebastiano del Piombo fa riferimento era
uno dei numerosi affittuari ai quali Michelangelo diede sisteMICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
maticamente in locazione parte di quelle case. Non sono noti
questi contratti, ma sia dalla lettera in questione sia dagli atti
prodotti in seguito alla morte dell’artista, emerge chiaramente
la volontà di rendere economicamente redditizie quelle parti
del complesso edilizio non in uso diretto82.
L’articolazione planimetrica e spaziale dell’intero aggregato si
può in parte ricostruire attraverso le descrizioni che ne furono
date nel 1564 dall’inventario post mortem83 e nel 1605 dal
contratto di vendita84. La natura diversa di queste fonti consente di ottenere alcune informazioni essenziali, poiché, come
è risaputo, non esistono che immagini di fantasia delle abitazioni romane di Michelangelo. Se l’inventario rende nota la sola distribuzione interna della residenza principale in uso a
Buonarroti, il contratto di vendita stabilisce invece l’articolazione generale del complesso, che disponeva di una discreta
estensione di superficie, includendo, oltre la “casa grande”
turrita, due casette annesse ma tra loro indipendenti, separate
da due viculi communes, ovvero stretti passaggi che risolvevano eventuali problemi di comunicazione interna o di servitù.
Queste due piccole case, più prossime all’ospedale di Santa
Maria di Loreto, e quindi al crocicchio di Macel de’ Corvi, si articolavano su tre bassi livelli fuori terra, con piccole finestrelle
quadrate, ed erano dotate sul retro di orti o giardini, visibili
dall’esterno attraverso un basso muro di recinzione, così come
si può osservare con nitore primaverile nella citata incisione di
Antonio Tempesta85 e nel rilievo di alcune simili costruzioni
poste nel medesimo isolato, eseguito dall’architetto Nicola
Giansimoni nel 175586 (fig. 5). Riconducibile più genericamente alla tipologia della casa a schiera con giardino e pertinenze – la cui definizione di allora potrebbe essere stata “casa
con fienile” –, il corpo principale del complesso, la cosiddetta
“casa grande”, era dotata di poca estensione in facciata, possedeva due affacci contrapposti, uno sul fronte principale di via
dei Fornai e uno sul retro, l’antico vicolo dei Frangipane, poi
Bolognetti, infine Torlonia, ed era contraddistinta da una piccola torre quadra articolata su due diversi livelli, alla quale si
accedeva attraverso una scala a chiocciola collocata in uno dei
piccoli anditi interni ricavati nella planimetria dell’edificio.
Per quel che concerne l’organizzazione planimetrica della cosiddetta “casa grande”, si può fare riferimento a una analoga
residenza, prossima a quella di Michelangelo, appartenente all’ospedale di Santo Spirito in Sassia, in seguito venduta all’architetto Onorio Longhi87. Si tratta di un rilievo quotato del
1587 che mostra bene lo schema tipologico di una “casa con
fienile” dell’epoca (fig. 6)88. Sulla base di questo rilievo, integrando con i documenti prima citati che descrivono la composizione delle case di Macel de’ Corvi, è possibile tentare una
ipotetica ricostruzione della residenza di Michelangelo Buo63
5. Nicola Giansimoni, Prospetto di case
verso palazzo Bolognetti in costruzione,
1755. Archivio di Stato di Roma,
Notai del Tribunale delle Acque
e delle Strade, busta 155, ff. 598-603
narroti. L’ingresso era posto lungo la via dei Fornai con andito,
in parte occupato da una scala posta perpendicolarmente al
fronte stradale e confinante con il muro di delimitazione del
lotto. Oltrepassato l’andito si può verosimilmente immaginare un ampio cortile con spazio aperto loggiato. Al piano superiore, vi si sarebbe trovata la sala e la stanza da letto con le altre
stanze a esse collegate. La torre quadrata avrebbe svolto una
funzione a sé, disposta com’era mediante una serie verticale di
piccoli ambienti sovrapposti: e che fosse indipendente dalla
casa principale lo testimonia il fatto che Leonardo Buonarroti,
durante i suoi soggiorni romani, chiese espressamente di potervi abitare per garantirsi una completa indipendenza89. Similmente a tutte le abitazioni artigiane della zona, il piano terreno era articolato in modo tale da predisporre ampi spazi protetti – le cosiddette logge – alternati a spazi aperti, entrambi
64
6. Anonimo, Casa di Onorio Longhi
ai Santi Apostoli, 1587. Roma,
Accademia Nazionale di San Luca,
Fondo Ottaviano Mascarino, inv. 2371
destinati allo stivaggio dei materiali e a laboratorio, con annessa fucina per forgiare attrezzi90. È documentato che l’abitazione di Michelangelo fosse dotata di logge e spazi aperti e che
questi avessero una estensione significativa tanto da consentire allo stesso Buonarroti di depositare, nel giardino, i blocchi
di marmo da utilizzare per le proprie statue e di alloggiare, all’interno della propria residenza, alcune sculture.
Nonostante le attenzioni mostrate verso le case di Macel de’ Corvi queste continuavano a permanere in condizioni obsolete91. Lo
stato precario dell’immobile obbligò Michelangelo, colpito in
due diverse occasioni da brevi malattie (luglio 1544, gennaio
1546)92, a trasferirsi presso la casa del ricco fuoriuscito repubblicano fiorentino Roberto Strozzi, collocata sulla via dei Banchi a
Canale di Ponte e meglio nota come palazzo Gaddi-Niccolini93.
Sia l’esatta cronologia del cantiere di questa residenza – nel quale
intervenne sul finire degli anni dieci del Cinquecento Jacopo
Sansovino e in seguito fors’anche Giulio Romano – sia la corretta successione proprietaria, restano a tutt’oggi oggetto di discussione esistendo in merito pareri discordanti94. Certo è che la residenza di Roberto Strozzi, rispetto all’epoca in cui accolse Michelangelo Buonarroti malato e poi convalescente, subì alcune sostanziali modifiche tra Otto e Novecento95. “Circa l’esser stato
ammalato in casa gli Strozzi, io non tengo essere stato in casa loro, ma in camera di messer Luigi del Riccio, il quale era molto mio
amico […] e poi che morì, in decta casa non ò più praticato, come
ne può far testimoniantia e tucta Roma”96, questo scrisse Michelangelo nell’autunno del 1547 a riguardo della vicenda. L’apparente mancanza di riconoscenza verso Roberto Strozzi non coincide però con quanto riportato da Vasari il quale ribadì come, una
volta ultimati, i due Prigioni (oggi al Louvre) “furono da lui donati […] al Signor Roberto Strozzi, [proprio] per trovarsi […] malato in casa sua”97.
Si è detto come l’attaccamento di Michelangelo al piccolo complesso edilizio di Macel de’ Corvi si esprimesse attraverso una
condotta contraddittoria. Nonostante si fosse a lungo impegnato per ottenerne il pieno possesso, più di una volta espresse la ferma intenzione di alienare l’intera proprietà, anche
quando questa sembrava non ancora appartenergli ufficialmente. La prima volta avvenne nel luglio del 1531, allorquando in una lettera inviata a Buonarroti, Sebastiano del Piombo
riferiva come avesse saputo da messer Hieronimo Ostacoli che
“Michelagniolo voria vender la casa” e che, una volta finito il
monumento per Giulio II “la si venderà”, aggiungendo inoltre
“Et me disse, più, che la casa non era la vostra [bensì], che l’era
del cardinal Aginensis”, concludendo “Pregovi ancora avisateme come sta la cossa de la chasa, si è vostra o di li eredi del Cardinale?”98. La seconda fu nel dicembre 1558, quando Michelangelo, rivolgendosi al nipote Leonardo, scrisse “io ti [dissi] già di
comprare costà [a Firenze] una casa che fussi onorevole e in
buon luogo, e ancora son della medesima voglia, perché comprai
qua circa novecento scudi di Monte del qual me n’uscirei volentieri, e con la casa che io ò qua, e comprar costà”99.
Michelangelo Buonarroti non vendette mai le proprie case romane di Macel de’ Corvi e lì si spense alle prime luci dell’alba
di venerdì 18 febbraio 1564. Il primo maggio di quello stesso
anno Leonardo Buonarroti, erede universale dello zio, locò a
Daniele Ricciarelli da Volterra, pittore e scultore, fedele amico
di Michelangelo, una “casa posta nel Rione di Trevi presso S.
Maria di Loreto [… con la clausola che] non possa appiggionare […] le due casette appartenenti e congiunte a detta casa”100.
Nonostante abitasse ancora la casa di Monte Cavallo101 – nella
quale era impegnato a terminare la statua equestre di Enrico II
di Francia102 –, Daniele provvide al restauro della dimora che
era stata di Michelangelo, la cui nota dei lavori fu pubblicata
per la prima volta da Gasparoni nel 1866103. Il serrato elenco di
interventi – utile in taluni casi a conoscere il dimensionamento di certi ambienti, ma non a stabilirne l’esatta collocazione –,
trattando prevalentemente di opere di messa in sicurezza delle strutture portanti dell’edificio, del tetto e del ripristino del
vano della scala principale, rivela uno stato dell’immobile ai limiti dell’obsolescenza104.
Nel brevissimo periodo di tempo durante il quale Daniele da
Volterra possedette la “casa grande” di Buonarroti, egli si dovette occupare anche della questione inerente il tentativo di rivendicazione del piccolo complesso immobiliare da parte di alcuni
eredi della famiglia Della Rovere. “Questi del Papa hanno fatto
gran forza d’aver la casa. Io la ho difesa in modo che non credo ci
penseranno più; e acciò che si vegga la casa più abitata, ho messo Iacopo [l’architetto Giacomo del Duca] con le sue donne in le
stanze che abitavano le donne d’Antonio [Antonio del Francese,
l’ultimo servitore di Michelangelo]. E io non mancho di dormir
del continuo nella torre con un de’ miei”105 Altre lettere analoghe furono scambiate tra Daniele o Giacomo del Duca e Leonardo Buonarroti, tra i quali evidentemente correvano ottimi rapporti106. Questi però si interruppero bruscamente con la morte
di Daniele (4 aprile 1566) che lasciava ai propri eredi – tra i quali figurava il pittore Michele Alberti, suo esecutore testamentario107 – il gravoso compito di avere restituite le spese sostenute
per i lavori eseguiti alle case di Michelangelo. Con sentenza del
Consolato della Nazione fiorentina in Roma, nel novembre del
1567 fu stabilito che Leonardo, attraverso il suo procuratore romano Carlo Gherardi, rifondesse gli eredi di Daniele da Volterra
della somma dovuta108. In quegli stessi anni il nipote di Michelangelo aveva dovuto occuparsi direttamente anche della questione di alcune “pietre” lasciate nella casa dello zio da un precedente inquilino, l’uomo d’affari senese Diomede Leoni. Un
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
nuovo anonimo affittuario, infatti, lamentava la presenza di
questi materiali in una delle stanze del complesso immobiliare –
forse di una delle case annesse –, stanza che lo stesso Leoni aveva provveduto a serrare trattenendo la chiave109. Non è documentato se l’anonimo inquilino fosse quello stesso scalpellino
Stefano Longhi da Viggiù al quale poi fu venduta l’intera proprietà, certo è che, stando a una lettera inviata da Carlo Gherardi a Leonardo Buonarroti nell’ottobre del 1572, qualcuno era
già determinato ad acquistare l’intera proprietà con ogni sua
pertinenza110.
Epilogo
Il 17 febbraio 1605, a circa quarant’anni dalla scomparsa di
Michelangelo Buonarroti, presso il notaio capitolino Gazza,
Orazio Zappato111, procuratore romano degli eredi subentrati
dell’artista, Buonarroto e Michelangelo figli di Leonardo, vendeva una “domu divisam in plures habitationes […] posita Ro65
7. Ricostruzione delle proprietà immobiliari
delle famiglie Longhi presso Macel de’ Corvi
alla fine del XVII secolo, sulla base del Catasto
urbano di Roma del 1824. ASR, Catasto urbano,
Rione II Trevi, f. I. Con la lettera A sono indicate
le proprietà di Michelangelo Buonarroti e con le
lettere B e C rispettivamente quelle che dovrebbero
essere state le abitazioni di Martino Longhi il Vecchio
e di Onorio Longhi (elaborazione dell’autore)
me in regione Trevij” a Stefano Longhi del fu Francesco, per la
somma di 3800 scudi d’oro112. Questo inedito documento, al
quale aveva accennato Benvenuto Gasparoni nel 1866 senza
fornirne alcuna indicazione archivistica, stabilisce definitivamente il passaggio di proprietà della residenza romana di Michelangelo Buonarroti alla famiglia di Stefano Longhi. Nessuno
studioso interessato alle case di Macel de’ Corvi era infatti andato oltre quel vago riferimento indicato da Gasparoni. Solo un
secolo più tardi Sylvia Pressouyre, in una nota del suo lungo
saggio dedicato allo scultore francese Nicolas Cordier, forniva
una collocazione archivistica riconducibile a quello che si credette essere l’atto di vendita113. In realtà, tale segnalazione, in
seguito ripresa da Margherita Fratarcangeli che si è a lungo dedicata a questa famiglia di artisti114, si riferisce soltanto a una
“dichiarazione di possesso” avvenuta nell’aprile del 1605 nella quale Stefano Longhi testimonia di avere la proprietà delle
case già di Michelangelo115. Due analoghe dichiarazioni furono
rese in altrettante fideiussioni dallo stesso Stefano nel marzo e
nel maggio del 1611, in occasione del processo contro il pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, nel quale era stato implicato un parente di Stefano, l’architetto Onorio Longhi116. Onorio era figlio di Martino Longhi il Vecchio, la cui abitazione, nelle immediate adiacenze delle case di Michelangelo, aveva generato l’equivoco
che fosse stato Martino ad acquistare nel 1584 le proprietà di
Buonarroti, delle quali era solo confinante, e solo in seguito,
nel 1605 appunto, Stefano avesse acquistato da Martino le di66
8. Giovanni Battista Falda, Veduta di Piazza
de Santi Apostoli, 1665, in Giovanni Battista Falda,
Il nuovo teatro delle fabbriche et edifici fatte fare
in Roma e fuori, Roma 1665-1669, vol. II, tav. 4
9. Lievin Cruyl, Colonna Traiana, 1664
(disegno preparatorio in controparte)
more117. Analizzando ciò che emerge della collocazione topografica delle proprietà immobiliari di questo architetto lombardo, del figlio Onorio e del nipote Martino il Giovane, si
chiarisce – seppur con un certo margine di approssimazione –
come fossero distribuite le unità edilizie appartenenti a questa
famiglia e soprattutto come fossero articolate quelle di Stefano
Longhi, a esse adiacenti e in esse confuse (fig. 7)118. Fino a ora
nessuno aveva rilevato la residenza di Stefano e della sua famiglia nelle case di Michelangelo almeno a partire dal 1595: lo
Stato d’Anime della parrocchia dei Santissimi Apostoli lo dimostra119. Abitando probabilmente all’inizio presso una delle
due casette annesse alla “casa grande” di Michelangelo, Stefano Longhi riuscì entro breve tempo ad avere in locazione l’intera proprietà120. Trattenendo per sé la “casa grande”, Longhi
provvide in seguito ad affittarne le pertinenze, nei cui spazi
aperti si riservava però di stivare le ingenti scorte di marmo,
sia personali, sia di suoi colleghi conterranei121. Referente per i
vigguitesi romani dopo la scomparsa degli architetti Martino il
Vecchio e Flaminio Ponzio, lo scalpellino-scultore-imprenditore Stefano Longhi raggiunse ben presto uno status sociale ed
economico di un certo prestigio, condizione che gli fu garantita non solo da una accorta politica matrimoniale (sua e dei suoi
figli)122, ma anche da importanti commesse che lo videro passare dalla semplice decorazione scultorea della cappella del
Santissimo Sacramento in Santa Maria Maggiore all’ideazione
del pulpito per la chiesa del Gesù123.
Acquistata nelle immediate adiacenze un’altra casa più grande
da destinare alla sua nuova residenza, Stefano Longhi decise di
offrire in dote alla figlia Caterina la casa di Michelangelo con le
sue pertinenze124. La donna, sposata al notaio romano Sante
Floridi, vi risiedette almeno dal 1613 al giorno della sua morte125. Gli eredi Floridi possedettero queste case sino al 1824,
anno nel quale, oramai modificate e corrotte nel loro stato architettonico originario, erano già proprietà dei figli dell’avvocato Scipione Cavi126 – noto alla cronaca romana di quegli anni
per aver difeso i fratelli Giorgi, famosi tombaroli, rei di avere
trafugato numerosi oggetti preziosi dallo scavo di Vejo127 – per
poi entrare a far parte del patrimonio immobiliare del principe
Alessandro Torlonia (1871), che le annetteva al proprio palazzo fra le sue “pertinenze”128. Il piccolo complesso immobiliare
di Michelangelo Buonarroti a Macel de’ Corvi coincideva principalmente con il civico numero 212 di via dei Fornai – la “casa grande” –, ma si estendeva anche tra i civici precedenti (nn.
208-211) e sucessivi (nn. 213-219) sulla via dei Fornari e lungo l’antico vicolo Frangipane (civici nn. 154 e 160)129.
Nonostante sia di ieri la notizia secondo cui le case di Michelangelo a Macel de’ Corvi sarebbero riconoscibili in un ritrovato affresco cinquecentesco raffigurante il prospetto principale
di palazzo Valentini su piazza Santi Apostoli, è legittimo ritenere che, data la loro collocazione lungo la via dei Fornari,
queste non possano essere osservate dal punto di vista dal
quale è ritratto l’edificio130. Tutte le vedute di Roma prodotte
dal XVII secolo in avanti raffiguranti le due piazze che delimitavano su estremi opposti la via dei Fornari – piazza dei Santi
Apostoli e piazza della colonna di Traiano – non riescono infatti a restituire neppure di scorcio le abitazioni che furono
dell’artista131, quasi che queste, rispettose delle parole che Michelangelo aveva consegnato ai loro muri, si fossero docilmente volute depositare in quella “cassa oscura” in cui persone e
cose trovano ineluttabilmente la propria fine (figg. 8-9).
Alcune note a margine
La prima segnalazione ufficiale della casa di Michelangelo
Buonarroti a Macel de’ Corvi fu data dalla Guida di Roma pubblicata nel 1687 da Giovan Battista Mola. Qui risulta che “passato [l’] ospedale [di Santa Maria di Loreto], per andare alla
piazza de’ Santi Apostoli, si vede la casa che servì da habitatione à Michelangelo Buonavanti [sic]”132. Nonostante l’evidente
errore tipografico, la residenza di Buonarroti è localizzata in
maniera corretta, analogamente a quanto fa la Breve guida di
Roma curata dalla locale Camera di Commercio nel 1875133. Se
si escludono due pubblicazioni risalenti l’una alla fine degli anni sessanta del XIX secolo e l’altra al 1925134, sembra che nessun’altra guida edita tra XVIII e XIX secolo renda esplicitamente conto della residenza di Michelangelo. In alcune edizioni di Roma e dintorni del Touring Club Italiano, in corrispondenza della descrizione della passeggiata del Gianicolo, riappare la notizia della “elegante facciata della casa detta di Michelangelo, già prospetto situato in fondo al cortile della demolita
casa dell’artista a Macel de’ Corvi, ricomposto in via delle Tre
Pile, nuovamente demolito nel 1930 e qui ricostruito nel
1941”135 (fig. 14). La confusione che questo testo presenta è
frutto di alcuni equivoci generatisi a partire forse dagli inizi
del XIX secolo, con la pubblicazione di due vedute di Angelo
Uggeri (1800-1822) che raffigurano il prospetto principale e
il vestibolo della casa di Michelangelo “costruita e abitata da
lui medesimo”136, ma ancor più dagli studi svolti dall’architetto Adolfo Penier tra gli anni trenta e quaranta del XX secolo
(fig. 13). La prima riproduzione di Uggeri individuava la collocazione della dimora alle falde del colle Capitolino presso il palazzo dei Conservatori ed ebbe diffusione scarsa, se non del
tutto inesistente: essa ritraeva un edificio in rovina dal prospetto organizzato in un piano terreno bugnato e due piani sovrastanti scanditi da lesene binate di ordine dorico alternate a
porte e finestre. Maggiore fortuna godette invece la seconda, la
quale divenne subito la matrice di alcune fortunate litografie –
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
che declinavano dall’originale per alcuni piccoli dettagli – tra le
quali vale la pena ricordare quelle di Luigi Rossini (1818)137,
Giuseppe Galli (1825)138 e quella già citata di Paul Letarouilly
(1840-1857) (figg. 10-11). Quest’ultima puntualizzava trattarsi “d’une maison habiteé jandis par Michel’Ange Buonarroti située au pied du Capitol, via d’Ara Coeli”139, precisando non
solo il toponimo ma anche che la “tradition” aveva associato
questo edificio all’artista. L’architetto Adolfo Pernier, sul finire degli anni venti del XX secolo, credette di riconoscere la residenza riprodotta da queste immagini ottocentesche in una
casa posta in via delle Tre Pile (civici 59-63), ipotesi pubblicata nel 1942 in forma di saggio140. In occasione della demolizione dell’edificio (1929-1930) dovuta all’allargamento della
strada, una volta riconosciuto il pregio architettonico del prospetto di questa residenza chiaramente documentata nell’incisione seicentesca di Giovanni Battista Falda (cat. 38), ne furono smontati i pezzi che vennero in seguito ricomposti e ricollocati a opera dello stesso Penier su un muro cieco lungo la
passeggiata gianicolense, presso la porta di San Pancrazio
(1941)141. L’edificio in questione era un palazzetto cinquecentesco costituito da una facciata a due piani, di cui il primo, al di
sopra di un lungo sedile si articolava con un ordine architettonico di lesene con capitelli dorici e trabeazione ionica inqua67
10-11. Paul M. Letarouilly, Vue d’une maison habitée jadis
par Michel’Ange Buonarroti située au pied du Capitole,
via d’Ara Celi, 1840, in Paul M. Letarouilly, Edifices de Rome
Moderne, ou Recueil des palais, maisons, églises, couvents,
et autres monuments publics et particulieres les plus remarquables
de la ville de Rome, Paris 1840-1857, vol. I, tav. 326
14. Roma, la cosiddetta “casa di Michelangelo”
oggi al Gianicolo
12. Anonimo, Casa in via delle Tre Pile nn. 59-63, 1871.
Roma, Archivio Storico Capitolino, Volume degli Atti pubblici,
P-Z, anno 1874, ff. ss. nn.
13. Angelo Uggeri, Casa di Michelangelo costruita e abitata
da lui medesimo, in Angelo Uggeri, Journées pittoresque
des anciens édifices de Rome et des environs, Roma 1800-1828,
vol. II, tav. 14 e vol. III, tav. 16
“casa con fienile” al cui modello anche la “casa grande” di Buonarroti deve essere ricondotta146. Non si conoscono le ragioni
per le quali Angelo Uggeri, forse avendo a mente il bel palazzetto dell’architetto Giulio Romano posto a breve distanza,
identificasse in un più signorile palazzetto posto alle falde del
colle Capitolino la residenza di Michelangelo147. Certo è che
drante alternatamente nicchie e finestre con timpani semicircolari e rettangolari, mentre il secondo, concluso da un’alta balaustra, vedeva avvicendarsi, in corrispondenza delle aperture
sottostanti, specchiature cieche e finestre incorniciate142. Attraverso l’analisi iconografica delle riproduzioni ottocentesche, ma in aperta contraddizione con la veduta di Falda, Penier sostenne che questo prospetto corrispondesse al fondale
del cortile interno (visibile nelle raffigurazioni a partire da Uggeri) della presunta “casa di Michelangelo” di via delle Tre Pile, ricollocato in facciata della stessa abitazione dall’architetto
Domenico Jannetti, tra gli anni settanta e gli anni ottanta del
XIX secolo, a proprie spese143. È evidente che l’operazione di
restauro avrebbe implicato alcune significative alterazioni
compositive e proporzionali poiché, come si evince osservando sia la planimetria della cosiddetta “casa di Michelangelo”
descritta da Letarouilly sia il rilievo planimetrico dell’edificio
di via delle Tre Pile datato 1871, non può esistere corrispondenza tra le misure del prospetto esterno e quelle del fronte del
cortile interno (fig. 12). Quel rilievo planimetrico fu pubblicato da Penier a sostegno della sua teoria e venne da lui ritrovato
in allegato a un atto di vendita stipulato nel 1872 tra Benedetto Pellegrini, allora proprietario dell’edificio di via delle Tre Pile, e la Municipalità di Roma144. Nonostante Penier si ostinasse
nell’indicare l’edificio come “casa di Michelangelo”, lasciando
intendere che questa definizione venisse impiegata anche negli atti ottocenteschi, è da rilevare come, in un documento di
ipoteca risalente al 1842, riguardante gli eredi di Filippo Invernizzi allora proprietari, questa abitazione non fosse mai indicata come tale145.
È pur vero però che la planimetria del palazzetto di via delle
Tre Pile corrisponde a quella di analoghi edifici sorti a Roma
nel secondo Cinquecento e che, tratte le dovute differenze,
potrebbe in qualche misura essere avvicinata anche alla planimetria della casa di Onorio Longhi della quale si è detto qualche pagina avanti e che non contraddice una tipologia di residenza diffusa nell’isolato urbano di Macel de’ Corvi: quella
68
Questo lavoro è stato realizzato solo
per l’insistenza e la tenacia di Mauro
Mussolin, che qui ringrazio profondamente, e ha preso forma anche attraverso i preziosi suggerimenti di
Anna Bedon e l’amichevole aiuto di
Alessandro Brodini.
1
Carteggio, vol. IV, pp. 131-132, n.
CMXC (fine giu. primi lug. 1542).
2
Rime, p. 62 (Terzina 110).
3
Il Carteggio di Michelangelo rivela
una costante attenzione dell’artista al
solo patrimonio immobiliare di Firenze e grande ostinazione per il suo
incremento, in particolare intorno gli
anni quaranta e cinquanta del Cinquecento.
4
Bessone Aureli 1953, p. 55.
5
Vasari, ed. Barocchi 1962; Condivi
1553, ed. Nencioni 1998, passim.
6
Gasparoni 1865a; Gasparoni
1865b; Gasparoni 1866a; Gasparoni
1866b; Gasparoni 1866c.
7
Mazio 1872, pp. 290-294.
8
Si vedano i riferimenti en passant
nella documentazione in Gaye 1840;
Bertolotti 1875; Gori 1875; Gotti
1876.
9
La questione è trattata in Symonds
1893 e analogamente in Papini 1962,
pp. 40-42, che riprende quanto già
espresso in Papini 1949, pp. 501503.
10
Steinmann 1902; Steinmann 1912.
11
Carteggio indiretto, nello specifico il
vol. II.
12
Uggeri 1800-1828, vol. II, tav. 14;
vol. III, tav. 16.
13
Letarouilly 1840-1857, vol. I, tav.
326; Morozzo della Rocca 1981, p.
115.
14
Gere, Pouncey 1983, vol. I, p. 68 e
P. Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri 2003, pp. 146-149, nello specifico
p. 146.
15
Callari 1932, pp. 494-500.
16
Corbo 1965, pp. 110-112, 146149.
17
Apollonj Ghetti 1968.
18
Hatfield 2002, pp. 98-103, sulla cifra
pagata da Michelangelo per l’affitto semestrale per l’anno 1500 di una casastudio collocata a Roma ma non identificata topograficamente, cfr. infra.
19
Sul prospetto del palazzo delle Assicurazioni Generali verso piazza Venezia sono apposte due targhe. La prima ricorda la presenza della dimora di
Buonarroti: QUI ERA LA CASA / CONSACRATA DALLA DIMORA E DALLA MORTE /
DEL DIVINO MICHELANGELO / S.P.Q.R. /
1871. La seconda si riferisce più specificamente all’intervento architettonico: QUESTA EPIGRAFE / APPOSTA DAL
COMUNE DI ROMA / NELLA CASA DEMOLITA / PER LA TRASFORMAZIONE EDILIZIA /
È STATA COLLOCATA NELLO STESSO LUOGO / PER CURA DELLE / ASSICURAZIONI
GENERALI DI VENEZIA.
20
Carteggio, vol. I, pp. 1-2, n. I (2 lug.
1496).
21
Condivi 1553, ed. Nencioni 1998,
p. 18.
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
dovendo sceglierne una nella zona nella quale l’artista visse realmente, individuò un edificio la cui immagine architettonica
di misurata compostezza, e stante l’evidente derivazione michelangiolesca dei dettagli architettonici, ben più aderisse alla
figura di artista universale quale fu quella di Michelangelo
Buonarroti.
22
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
15 [ed. 1568]; Agosti, Farinella
1987b, pp. 43-47.
23
Mazio 1872, p. 290.
24
Borsellino 1988, p. 24, nota 13; per
le vicende cinquecentesche del palazzo, cfr. Frommel 1973, vol. I, pp. 99100; vol. II, pp. 281-291; vol. III,
tavv. 118-120.
25
Carteggio, vol. I, p. 355, nota 4,
commento alla citata lettera n. I. Gli
stessi autori, tuttavia, nell’interpretare la lettera n. III (19 ago. 1497), sempre indirizzata al padre, lasciano aperta la possibilità che si trattasse del palazzo Riario alla Lungara, ivi p. 359,
nota 3.
26
Nel 1492 le botteghe al piano terreno
poste lungo la via del Pellegrino furono
affittate, sebbene quell’ala dell’edificio
non fosse ancora ultimata, cfr. Rodocanachi 1912, documenti in Appendice;
Tomei 1972, pp. 220-221.
27
Condivi 1553, ed. Nencioni 1998,
p. 19; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol.
I, p. 16.
28
Valtieri 1982, p. 21, nota 4; Bruschi
2002a, p. 34.
29
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
16 [ed. 1568].
30
Ibidem.
31
Carteggio, vol. I, p. 359, nota 3.
32
Insolera 1985, pp. 374-375.
33
Vasi 1747-1761, tav. 94.
34
M. van Heemskerck, Giardino di casa Galli (1532-1535), incisione, Berlino, Staatliche Museen.
35
Hatfield 2002, p. 3.
Ivi, p. 5.
37
Ivi, p. 8.
38
Armellini 1891, p. 782; Adinolfi
1859, pp. 112-122.
39
Petrucci 1998, pp. 35-46; circa un
possibile coinvolgimento di Giuliano
da Sangallo nel progetto di trasformazione della chiesa, cfr. Frommel 1962.
40
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
28 [ed. 1568], ripreso da De Angeli
d’Ossat 1964, p. 195.
41
Relativamente a quest’opera michelangiolesca si rinvia al saggio di Claudia Echinger-Maurach presente in
questo catalogo.
42
Contratti, p. 40, n. XVII (4 dic.
1510).
43
Ibidem.
44
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2580 A.
45
A. Tempesta, Recens prout hodie iacet almae Urbis Romae […], incisione
su rame, ed. De Rossi, in Le piante di
Roma 2007, pp. 202-204, n. 108.
46
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
28 [ed. 1568]; la chiesa si trovava tra
le attuali via di Porta Angelica, via
Mascherino e via Borgo Pio; cfr.
Frommel 1962.
47
Carteggio, vol. IV, pp. 150-155, n.
MI (ante 24 ott. 1542): p. 152.
48
Ivi, vol. III, pp. 7-9, n. DXCIV (fine
dic. 1523): pp. 7-8; analoga testimonianza si trova in vol. IV, pp. 150155, n. MI (ante 24 ott. 1542): p. 154.
49
Carteggio, vol. I, Appendice, pp.
36
69
364-366, n. VIII (2 mag. 1506);
Ernst Steinmann fa risalire questo
episodio all’aprile 1503, cfr. Steinmann 1912, p. 215.
50
Carteggio, vol. II, pp. 7-8, n.
CCLXXXV (prima metà di mag.
1518).
51
Contratti, p. 40, n. XVII (4 dic.
1510).
52
Carteggio, vol. I, p. 156, n. CXVIII
(gen.? 1515). Espressioni analoghe si
trovano a p. 153, n. CXVI (28 ott.
1514); pp. 154-155, n. CXVII (5 gen.
1515).
53
Ivi, vol. I, pp. 154-155, n. CXVII (5
gen. 1515).
54
Contratti , pp. 56-60, n. XXIV (ante 8 lug. 1516): p. 57; pp. 65-78, n.
XXVII (ante 8 lug. 1516): p. 68.
55
Ivi, pp. 45-48, n. XX (6 mag.
1513); pp. 49-51, n. XXI (6 mag.
1513).
56
“el reverendissimo cardinale Aginensis s’obriga e promecte dar la casa
al decto Michelagniolo, dove è chominciato decto lavoro”, ivi, pp. 6162, n. XXV (ante 8 lug. 1516): p. 61.
57
Carteggio, vol. I, p. 203, n. CLXI (11
ott. 1516).
58
Brancia di Apricena 2002, ma anche
Brancia di Apricena 2007.
59
Brancia di Apricena 2007, p. 104.
60
Simoncini 2004, passim.
61
Fanucci 1601, pp. 227-228.
62
Jobst 1986, p. 277. L’ospedale di
Santa Maria di Loreto dei Fornai è evidenziato ancora nella pianta di Roma
di Giovanni Battista Nolli del 1748,
cfr. Le piante di Roma 1962, vol. III,
pianta CLXIXa, 3, tav. 399, Indice de
numeri della pianta.
63
Carteggio, vol. IV, p. 354, n. MCLIV
(4 ott. 1550).
64
Si veda in questo stesso catalogo il
saggio di Pina Ragionieri, Tomba di
Cecchino Bracci.
65
Brancia di Apricena 2007, p. 104.
66
Rime, p. 127 (Capitolo 267).
67
Fratarcangeli 2006, p. 156; Bonaccorso 1998 per un quadro generale.
68
Hager 2003, p. 244.
69
Pancotto 1995, pp. 165-169.
70
Ibidem, cfr. la bibliografia presente
in nota; Birkedal Hartmann 1967, pp.
21-22.
71
Il palazzo è oggi conosciuto come
palazzo Valentini e dagli anni settanta
del XIX secolo è sede della Provincia
70
di Roma, cfr. Farina 1996, passim.
72
Toscano 2006.
73
Tomei 1942, pp. 211-214.
74
Benzi 1990, pp. 145-162.
75
Carteggio, vol. III, p. 412, n.
DCCCLXXV (giu. 1532).
76
Contratti, pp. 199-203, n. LXXXV
(29 apr. 1532): p. 200; pp. 204-207,
n. LXXXVI (29 apr. 1532): p. 205.
77
Ivi, pp. 250-255, n. CVI (20 ago.
1542 e 10 gen. 1543): p. 252. Michelangelo Buonarroti, assorbito totalmente nella decorazione ad affresco
della cappella Paolina, commissionatagli da papa Paolo III, non poteva infatti attendere anche al completamento del monumento sepolcrale di Giulio II.
78
Carteggio, vol. IV, p. 13, n. CMVII
(12 lug. 1533).
79
Ivi, p. 20, n. CMIX (19 lug. 1533),
del medesimo tenore sono le lettere a
p. 25, n. CMXV (26 lug. 1533); pp.
32-33, n. CMXXI (2 ago. 1533); pp.
40-41, n. CMXXVI (16 ago. 1533);
pp. 42-43, n. CMXXVII (23 ago.
1533); pp. 53-54, n. CMXXXV (4
ott. 1533).
80
Carteggio, vol. III, pp. 299-300, n.
DCCCXI (24 feb. 1531).
81
Ivi, pp. 308-310, n. DCCCXV (16
giu. 1531).
82
Dal contratto di affitto della “casa
grande” stipulato tra Daniele Ricciarelli e Leonardo Buonarroti (1 mag.
1564) sono segnati i nomi degli affittuari di Michelangelo, cfr. Gasparoni
1865a, p. 266.
83
Pubblicato per la prima volta in Bertolotti 1875a, pp. 13-22.
84
Pubblicato senza indicazione archivistica in Gasparoni 1866a, pp. 160162, conservato in Archivio di Stato
di Roma (in seguito ASR), Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio
14, vol. 23, atto del 17 feb. 1605, ff.
311r-v, 312r-v.
85
A. Tempesta, Recens prout hodie iacet almae Urbis Romae […], incisione
su rame, ed. De Rossi, in Le piante di
Roma 2007, pp. 202-204, n. 108.
86
ASR, Notai del Tribunale delle Acque e delle Strade, b. 155, anno 1755,
ff. 598-603.
87
ASR, Preziosi, Censuario delle case
di Santo Spirito, n. 1458, c. 104
(106/134).
88
Roma, Accademia Nazionale di San
Luca, Fondo O. Mascarino, Casa di
Onorio Longhi ai Santi Apostoli, n.
2371, ampiamente descritto in Wesserman 1966, pp. 86-87 e Marconi,
Cipriani, Valeriani 1974, p. 17. Il rilievo potrebbe costituire la rappresentazione grafica della descrizione
scritta del cabreo dell’ospedale di
Santo Spirito in Sassia.
89
Si veda il contratto di affitto stipulato tra Daniele Ricciarelli e Leonardo
Buonarroti (1 mag. 1564), pubblicato
in Gasparoni 1865a, pp. 265-267.
90
Per avere un’idea chiara della dimensione di questi spazi aperti cfr.
Carteggio, vol. IV, p. 20, n. CMXI (19
lug. 1533); pp. 32-33, n. CMXXI (2
ago. 1533); pp. 40-41, n. CMXXVI
(16 ago. 1533); pp. 42-43, n.
CMXXVII (23 ago. 1533); pp. 53-54,
n. CMXXXV (4 ott. 1533).
91
Nonostante l’edificio avesse indirettamente beneficiato dei lavori di
ampliamento di “quandam viam publicam exeuntem inter ecclesiam beate Marie Loreto et palatium […] de
Zambeccaris” al quale i Maestri delle
strade diedero inizio nel 1554, cfr.
Corbo 1962, pp. 146-147.
92
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. II, p.
314, nota 252.
93
Sebbene gli studi abbiano chiarito
come Roberto Strozzi fosse entrato
nel pieno possesso del palazzo avito
solo nel 1560, l’ospitalità offerta a
Michelangelo intorno alla metà degli
anni quaranta anticiperebbe di almeno un ventennio la presenza di Strozzi nella residenza a Canale di Ponte o,
al più, dimostra come questi potesse
disporne a proprio uso, cfr. Morresi
2000, p. 58.
94
Pagliara 1972; Frommel 1973, vol.
I, pp.120-122; vol. II, pp. 198-206;
Rezzi 1982; Morresi 2000, pp. 5065.
95
Rezzi 1982; Morresi 2000, pp. 5065.
96
Carteggio, vol. IV, pp. 279-280, n.
MXCII (22 ott. 1547).
97
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
29 [ed. 1568]. Una spiegazione a questo comportamento incoerente si trova nel vol. II, p. 315 ed è imputata all’emanazione da parte di Cosimo de’
Medici nel 1548 della legge contro
cospiratori e ribelli (è noto l’orientamento politico di Strozzi). Ascanio
Condivi riferisce del donativo delle
statue benché non ne spieghi la motivazione, cfr. Condivi 1553, ed. Nencioni 1998, p. 63.
98
Carteggio, vol. III, pp. 316-319, n.
DCCCXX (22 lug. 1531).
99
Ivi, vol. V, p. 145, n. MCCLXXIX (2
dic. 1558). A riguardo del fitto carteggio tra Michelangelo e il nipote Leonardo per l’acquisto di nuove proprietà immobiliari a Firenze si veda supra.
100
Gasparoni 1865a, pp. 265-268.
Notizie di questo contratto si trovano
anche in Firenze, Archivio Buonarroti (in seguito AB), Leonardo Buonarroti, Debitori e Creditori dello stesso
[1545-99], ms. XXXVIII, p. LXVII.
101
ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Tomassini, Testamenti, atto del 4
aprile 1566, f. 284.
102
Carteggio indiretto, vol. II , p. 238,
nota 7.
103
Gasparoni 1866a, pp. 162-164.
104
Ibidem. Sulla natura degli interventi eseguiti da Daniele Ricciarelli cfr.
anche Carteggio indiretto, vol. II, pp.
222-223, n. 381 (11 feb. 1565); pp.
237-238, n. 387 (2 nov. 1565).
105
Ivi, pp. 198-200, n. 370 (11 giu.
1564). Antonio del Francese era uno
di quegli affittuari che abitavano le
pertinenze della casa ma che aveva lasciato da poco la conduzione dell’immobile, cfr. ivi, p. 200, nota 12 e Frey
1923-1940, vol. II, p. 38.
106
Carteggio indiretto, vol. II, p. 203,
n. 372 (24 giu. 1564); pp. 222-223,
n. 381 (11 feb. 1565); pp. 237-238,
n. 387 (2 nov. 1565); pp. 246-247, n.
392 (18 apr. 1566).
107
Le ultime volontà di Daniele da
Volterra volevano Michele Alberti subentrare nella conduzione della casa
di Michelangelo per il restante tempo
della durata del contratto di affitto,
che era stato concordato in nove anni,
cfr. ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Tomassini, Testamenti, atto del 4
aprile 1566, f. 284 e Bedon 2008 p.
165.
108
Alla definizione dell’esatta cifra si
giunse a seguito del conguaglio fatto
tra un anticipo versato da Leonardo e
il pagamento da parte degli eredi di
Daniele di alcune “masserizie” appartenenti allo stesso Leonardo andate
perdute, cfr. Carteggio indiretto, vol.
II, pp. 290-291, nota 2.
109
Ivi, p. 253, n. 397 (22 gen. 1567);
p. 254, n. 398 (19 feb. 1567); pp.
257-258, n. 400 (25 giu. 1567); pp.
260-261, n. 402 (28 dic. 1567); pp.
267-268, n. 407 (26 ago. 1569).
110
Ivi, pp. 277-278, n. 414 (24 ott.
1572). A questo riguardo si potrebbe
avanzare l’ipotesi che potesse anche
trattarsi di una principessa appartenente al ramo siciliano della famiglia
Colonna. Luigi Mazio, in una nota in
calce al suo testo, infatti, accenna ad
alcuni documenti conservati presso
l’archivio Colonna di Roma nei quali
sarebbe stata presente una lettera della donna in cui era espresso il desiderio di acquistare la casa “ove poco prima aveva cessato di vivere il gran Michelangelo nella via de’ Fornari”, cfr.
Mazio 1872, nota s.n., p. 294.
111
Monsignor Orazio Zappato era stato segnalato agli eredi di Leonardo
Buonarroti dal loro procuratore a Roma Aurelio Leodoro, cfr. Carteggio indiretto, vol. II, pp. 315-316, n. 439 (6
lug. 1601). La procura era stata fatta a
Firenze dal notaio Giacomo de Barnis
il 7 gennaio 1604, cfr. ASR, Trenta
Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto del 17 feb. 1605,
f. 311v.
112
ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto
del 17 febbraio 1605, ff. 311r-v,
312r-v.
113
Pressouyre 1984, p. 95, nota 18. La
studiosa francese sbaglia nell’indicare
l’anno (1606) e il numero del foglio
(171).
114
Margherita Fratarcangeli corregge
gli errori di Pressouyre, ma non puntualizza che si tratta di una “dichiarazione di possesso”, cfr. Fratarcangeli
2003, pp. 103-104; su fatti della famiglia di Stefano Longhi che riguardano il presente studio, cfr. Fratarcangeli 2000, pp. 241-243, 255-258;
Fratarcangeli 2006, pp. 153-172; a
riguardo si segnala l’imminente uscita di un saggio più approfondito della
stessa autrice.
115
ASR, Trenta Notai Capitolini, Notaio Gazza, Ufficio 14, vol. 23, atto
del 17 febbraio 1605, f. 600r.
116
Bertolotti 1881, vol. II, p. 20 nel
quale è trascritta la fideiussione del 28
maggio 1611 e Corradini 1993, p.
109 nel quale è riportata la fideiussio-
ne del 14 marzo 1611; cfr. inoltre Antinori 2002.
117
Il primo a parlare di Martino il Vecchio è stato Rodolfo Lanciani, cfr.
Lanciani 1906, p. 190, seguito da
Ernst Steinmann, cfr. Steinmann
1912, p. 222. Nel testamento dell’architetto non è fatta alcuna menzione
di questa casa cfr. ASR, Trenta Notai
Capitolini, Notaio Serravezzi, Ufficio
11, Testamenti, vol. I, ff. 568 sgg.
118
Per le diverse ricostruzioni proprietarie è stata fondamentale la lettura di Pugliese-Rigano 1972; Patetta 1982; Fratarcangeli 2003, pp. 103104.
119
Archivio Storico del Vicariato di
Roma (in seguito ASVR), Santi Apostoli, Stati delle Anime, vol. 45 (15951609), f. 34, nel quale è segnato
“Mag.r Stefanus Longhis scarp.s ied
Michaelis Angeli”, che vi risultava
abitare insieme alla moglie Angela e ai
numerosi figli. È questo il primo volume che registra le anime della parrocchia, potrebbe essere quindi che
Longhi abitasse la casa di Michelangelo ben prima dell’anno 1595. Fonti
documentali contemporanee prodotte dalla famiglia Buonarroti tuttavia
non sembrano individuare la presenza dello scalpellino viggiutese, cfr.
AB, Leonardo Buonarroti, Debitori e
Creditori dello stesso [1545-99], ms.
XXXVIII.
120
Non si conosce l’esatta cronologia di
questi passaggi, ma essi sono ricavabili
in linea di massima dalla lettura attenta dei registri degli Stati delle Anime
della parrocchia dei Santi Apostoli relativamente agli anni 1595-1609.
121
ASVR, Santi Apostoli, Stati delle
Anime, vol. 45 (1595-1609), f. 34;
vol. 46 (1619-1620), ff. 157 r-v; vol.
50 (1631-1637), ff. 100r, 135v136r, 167v-168r.
122
ASR, Notai Cancellieri del Tribunale dell’AC, Notaio Floridi, Testamenti,
vol. 52, ff. 396 sgg. (6 giu. 1629); ivi,
vol. 53, ff. 161 sgg. (28 mar. 1635),
testamenti di Stefano Longhi qm.
Francesco; cfr. anche Fratarcangeli
2003, p. 104.
123
Bertolotti 1881, vol. II, p. 107; Di
Benedetti 2005.
124
ASR, Notai Cancellieri del Tribunale dell’AC, Notaio Floridi, Testamenti,
vol. 53, ff. 161 sgg.
MICHELANGELO ARCHITETTO A ROMA
125
ASVR, Santi Apostoli, Stati delle
Anime, vol. 46 (1619-1620), f. 157r;
cfr. anche Apollonj Ghetti 1968, p.
16; Fratarcangeli 2003, p. 103.
126
La “casa grande” di Michelangelo
sarebbe stata venduta dalla famiglia
Floridi all’avvocato Cavi tra il 1804
(anno al quale risaliva il Catastro della
nomenclatura e numerazione delle
porte, dal quale risultava che l’immobile apparteneva ancora ai Floridi) e il
1824, anno della registrazione dei dati catastali, dalla quale emerge che lo
stabile apparteneva ai figli dell’avvocato Scipione Cavi, cfr. Corbo 1962,
p. 111 e ASR, Presidenza generale del
Censo, Catasto urbano, Rione II Trevi, Prima serie, isola 58, f. 105.
127
Sulle vicende processuali cfr. la Risposta Antiquario-Legale alla scrittura del sig. Avvocato Scipione Cavi […],
Roma 1822.
128
ASR, Presidenza generale del Censo, Catasto urbano, Rione II Trevi,
Aggiornamenti, isola 58, appartenente interamente al principe Alessandro
Torlonia a esclusione di alcune unità
immobiliari ancora di proprietà della
Congregazione dei Fornai di Santa
Maria di Loreto. Intorno alla metà degli anni quaranta del XIX secolo,
quello che restava delle case di Michelangelo era stato venduto da Francesco Caracciolo, procuratore della famiglia Floridi, al pricipe Alessandro
Torlonia, cfr. Apollonj Ghetti p. 15.
129
Una prima sommaria indicazione
si trova in Apollonj Ghetti 1968, p.
22.
130
L’affresco è venuto alla luce a seguito della campagna di restauri che ha
come oggetto palazzo Bolognetti-Valentini, cfr. Bucci 2009.
131
Si vedano a esempio G.B. Falda, Veduta di Piazza de Santi Apostoli, acquaforte (1665), in Falda 16651669, vol. II, tav. s.n. e L. Cruyl, Colonna Traiana, disegno (1664), in
Connors, Rice 1991, p. 191, tav. XIV.
132
Guida di Roma Sacra 1687, p. 157.
133
Breve Guida di Roma 1875, p. 154.
134
Pellegrini 1869, p. 86; Bertarelli
1925, pp. 285-286.
135
Roma 1977, p. 485. L’identificazione di questa casa come quella di
Michelangelo Buonarroti a Macel de’
Corvi si trova in Hatfield 2002, p.
103, nota 31, dove si puntualizza che
la segnalazione è di William Wallace.
L’edizione aggiornata al 1999 della
stessa guida così si esprime: “è stata
ricostruita nel 1941 la cosiddetta casa
di Michelangelo, che riprende, con alcune varianti, la partitura architettonica del prospetto sul cortile di una
casa del ’500, ritenuta di Michelangelo già a Macel de’ Corvi”, p. 588.
136
Arrigoni, Bertarelli 1939, p. 70,
tav. 652.
137
Rossini 1818, tav. 9.
138
Firenze, proprietà privata, cfr. P.
Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri
2003, pp. 146-149, nello specifico p.
146.
139
Letarouilly 1840-1857, vol. testo,
p. 670.
140
Pernier 1942.
141
Ivi, p. 86.
142
Sulla presunta corrispondenza stilistica del sedile con quello analogo
presente lungo il prospetto dell’edicola monumentale per la cappella dei
Santi Cosma e Damiano in Castel
Sant’Angelo si veda il saggio di Mauro
Mussolin in questo catalogo.
143
Archivio Storico Capitolino di Roma (in seguito ASC), Atti della Giunta
Comunale del 30 settembre 1873, n.
30, ff. s.n.
144
Pernier 1942, p. 96, fig. 13, ma soprattutto ASC, Volume degli Atti pubblici, P-Z, anno 1874, Pianta rilevata
dalla Commissione degli Architetti ed
Ingegneri deputata allo studio ed ornato della città di Roma, ff. sgg. s.n.
145
ASC, Rubrica contratti, Volume degli Atti pubblici, 1871-1875, n. 2, documento del 1 feb. 1842, nel quale la
casa in oggetto è ipotecata per 2000
scudi.
146
Chi scrive si riserva di approfondire in altra sede l’analisi della planimetria così come lo studio di una possibile attribuzione della veduta del vestibolo alla casa che Michelangelo
possedeva a Macel de’ Corvi.
147
Cfr. Brancia di Apricena 2007, pp.
103-147.
71
MICHELANGELO: RITRATTI E AUTORITRATTI
Pina Ragionieri
GLI ANNI DAL 1505 AL 1516
Abbiamo voluto adornare l’itinerario di questa mostra, dedicata alla lunga vicenda romana di Michelangelo architetto, di
tre ritratti dell’artista, significativi segnali che vanno oltre il riferimento strettamente biografico: di qui l’obbligo di parlare
dell’argomento. Tanto più che, incredibilmente, se si affronta
il tema dei ritratti di Michelangelo, ci si trova davanti una questione più da proporre che da riepilogare.
Serve una premessa: l’interesse per l’argomento è naturale per
chi, lavorando all’interno della Casa Buonarroti, giocoforza all’ombra di Michelangelo, dei ritratti dal vero del Maestro ne
può vedere in originale ben quattro: e sono i dipinti di Giuliano Bugiardini (fig. 1) e di Jacopino del Conte (fig. 2), la medaglia di Leone Leoni (fig. 3) e il busto di Daniele da Volterra. Ma
nella bibliografia michelangiolesca sono tutt’altro che numerose le voci che interessano il nostro discorso; e si può supporre che alla base della situazione stia l’avversione dell’artista a
ritrarsi e a essere ritratto. Dice Giorgio Vasari: “Di Michelagnolo non ci è altri ritratti che duoi di pittura, uno di mano del
Bugiardino e l’altro di Iacopo del Conte, et uno di bronzo tutto rilievo fatto da Daniello Ricciarelli, e questo [cioè la celebre
medaglia] del Cavalier Lione, da e’ quali se n’è fatte tante copie,
che n’ho viste, in molti luoghi di Italia e fuori, assai numero”.
Al succinto elenco vasariano si possono fare poche aggiunte,
tra le quali spicca l’acquerello di Francisco de Hollanda, immagine singolarmente domestica di un Michelangelo più che sessantenne, che evoca alla nostra memoria le conversazioni di
San Silvestro in Capite presiedute da Vittoria Colonna, e in
parte trascritte dall’allora ventunenne portoghese. Si può dire
che le altre immagini di Michelangelo sono derivazioni dai
gli anni dal 1505 al 1516
prototipi qui indicati, con forte maggioranza del ritratto di Jacopino. Nel ricetto del piano nobile della Casa Buonarroti sono esposti numerosi ritratti di Michelangelo, giunti come deposito dalle Gallerie fiorentine nella prima metà del Novecento, derivanti tutti proprio da questo prototipo. È il caso del dipinto in mostra (cat. 1), attribuito a Marcello Venusti (circa
1515-1579), che fa parte però da secoli delle collezioni della
famiglia Buonarroti: infatti è nominato in un inventario del
1799, che ne precisa anche la collocazione nelle sale secentesche al primo piano del palazzo. Merita menzione la ricca cornice barocca, opera di artigianato fiorentino del XVII secolo.
Incisioni e immagini cinquecentesche, numerose data la fama
di Michelangelo, furono elencate fino a circa cento da Ernst
Steinmann, lo studioso che all’inizio del secondo decennio del
Novecento scandagliò coraggiosamente, con serietà scientifica
e in gran parte di prima mano, l’argomento, concludendo con
la descrizione delle immagini di primo Seicento della “Galleria” della Casa Buonarroti. Benemerito, in che misura non staremo qui a ripetere, degli studi michelangioleschi, lo storico
dell’arte tedesco fu coinvolto nel 1911 nelle celebrazioni del
cinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Correva un anno cruciale per la nazione, rimasto nella storia soprattutto per
l’impresa libica, che il quarto ministero Giolitti portò avanti
nonostante la diffusa ostilità all’estero e i non ascoltati pareri
di chi all’interno, come per esempio Gaetano Salvemini, giudicava l’attacco alla Libia niente altro che un dannoso “trabocchetto”. Intanto che la musa di Gabriele d’Annunzio s’impennava pericolosamente con le sue Canzoni delle gesta d’oltremare, un altro filone di nazionalismo – casereccio e sicura73
1. Giuliano Bugiardini, Ritratto di Michelangelo,
1522. Firenze, Casa Buonarroti
mente più innocuo – lavorava a celebrare il cinquantenario. Ci
furono iniziative in tutta Italia; nella capitale si svolse la grande Esposizione internazionale di Villa Giulia, e alla sua ombra
fiorirono molte altre iniziative, tra le quali, a Castel Sant’Angelo, le cosiddette “Mostre retrospettive”. Qui Steinmann collaborò alla prima e, a quanto sappiamo, unica (salvo quella svoltasi nel 2008 in Casa Buonarroti) mostra di ritratti michelangioleschi, con una competenza di lunga data che sarebbe confluita nella sua monumentale opera sullo stesso tema pubblicata nel 1913 (Steinmann 1913). È singolare che le due voci
principali della bibliografia sull’argomento risalgano allo stesso anno: nel gennaio del 1913, Paul Garnault licenziava il suo
Les Portraits de Michelange, opera assai informata di un conoscitore appassionato delle città d’arte italiane, nella quale si cita dello Steinmann soltanto la produzione anteriore al 1911,
approdando tuttavia a conclusioni simili: “Si l’on tient compte
des images tardives, purement imaginaires, ou de celles qui
s’inspirent de simples réminiscences, le nombre des portraits
74
2. Jacopino del Conte, Ritratto di Michelangelo,
circa 1535. Firenze, Casa Buonarroti, “Galleria”
connus, vrais ou supposés, de Michelange s’élève presque à
cent. Dans cet immense bric-à-brac, on compte seulement
cinq portraits véritables, c’est à dire posés”.
Ma l’immagine di Michelangelo ci è tramandata anche da un
altro genere di ritratto: come per altri grandi, e non solo della
storia dell’arte, la sua fisionomia fu infatti riprodotta da artisti
a lui contemporanei conferendone le caratteristiche a personaggi effigiati in scene d’insieme; e qui soccorrono molti
esempi, tra i quali ricordiamo: Raffaello nella Stanza della Segnatura nei Palazzi Vaticani, dove in un corrucciato Eraclito
sempre più concorde è la critica nel riconoscere Michelangelo
(fig. 4); Giorgio Vasari nel Salone dei Cento giorni del palazzo
della Cancelleria a Roma e nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze; Alessandro Allori nella cappella Montauti della Santissima Annunziata a Firenze; Daniele da Volterra che diede le fattezze del suo grande amico a un apostolo
nell’affresco con l’Assunzione della Vergine, nella cappella della Rovere nella chiesa di Trinità dei Monti a Roma. Di quest’ul-
3. Leone Leoni, Medaglia di Michelangelo,
1561. Firenze, Casa Buonarroti
timo ritratto esiste il famoso, intenso cartone preparatorio,
conservato nelle collezioni del Teylers Museum di Haarlem
(fig. 5). Daniele giunge a Roma dalla natia Volterra non ancora
trentenne, negli anni in cui Michelangelo lavora al Giudizio
universale; e ben presto rivolge la propria attenzione al Buonarroti, mostrando, come afferma Vittoria Romani, di essere il
solo artista in grado di confrontarsi autonomamente con il linguaggio difficile e sempre più severo e introverso del Maestro,
con un sentimento di ammirazione e di amicizia che lo avrebbe posto tra i pochissimi presenti alla morte di lui, e che lo
avrebbe spinto ad accettare di eseguirne la maschera funebre,
poi tramutata nella celebre testa bronzea, un esemplare della
quale, di proprietà dei Musei Capitolini, si potrà ammirare in
mostra (cat. 2). In questo “ritratto di metallo”, di straordinaria
suggestione, agiscono le stesse motivazioni biografiche, gli
stessi sentimenti di amicizia che fanno anche del citato cartone di Haarlem un vero ritratto dell’anima (fig. 5), evidentemente ripreso dal vivo, in cui Daniele ritrae il grande amico
frontalmente ma con il capo un po’ reclinato, con lo sguardo
che sembra perso in tristi pensieri, e con le labbra serrate da un
senso di solitudine e di arcana mestizia.
Contemporanee al Maestro, e conseguenza della sua fama, sono anche immagini che si collocano tra l’aneddoto e la fantasia.
Una rara e suggestiva acquaforte, di proprietà del British Museum, ritrae l’artista in meditazione: un’iscrizione al suo interno rivela l’intenzione dell’autore di ritornare all’immagine di
Michelangelo ventitreenne del primo soggiorno romano e della Pietà di San Pietro. Nel 1527, Sigismondo Fanti ritrae “Michael Fiorentino”, che scolpisce, seminudo e con gran foga,
una statua femminile nella quale, ai tempi di Steinmann, si
volle riconoscere l’Aurora della Sagrestia Nuova. E dopo la
scomparsa di Michelangelo, alla soglia degli anni ottanta del
secolo, Federico Zuccari, in un piacevole quadretto, ritrae Michelangelo che osserva suo fratello Taddeo mentre dipinge la
facciata del romano palazzo Mattei (fig. 6). E qui ci fermiamo:
giacché, nel rispetto dei limiti cronologici della mostra, di necessità anche il nostro discorso non va oltre i contemporanei
del Maestro, non escludendo però una rapida indagine sul tema autoritratto.
È noto che Michelangelo raffigurò sé stesso assai raramente.
Una di queste eccezioni è il celebre foglio dell’Archivio Buonarroti, presente in mostra (cat. 3; Corpus 174), in cui l’artista
si rappresenta nell’atto del suo arduo dipingere la volta Sistina.
Nel 1508 Michelangelo, poco più che trentenne, dà inizio infatti a una insolita fatica – per lui che ama definirsi scultore –
come è quella di affrescare le sterminate volte della cappella
papale: immane impresa, destinata a esprimere un concetto
spaziale ed estetico nuovo, sovrumano, sovvertitore – che segli anni dal 1505 al 1516
gna, infatti, nella storia dell’arte, quel punto fermo che spazzò
via tanto passato. Fatica insolita, ma anche pesante, che si protrasse per quattro anni, trascorsi in gran parte in piedi e talvolta disteso su di uno scomodo ponteggio. Ed ecco Michelangelo, in un momento d’umor nero, descrivere a un amico pistoiese, di nome Giovanni, con un sonetto caudato, la strana posizione che è costretto a tenere. Sul verso del foglio si legge infatti, di mano di Michelangelo, l’indirizzo “A Giovanni, a quel
/ proprio da Pistoia”. In verticale, a commento dei versi, si colloca il celebre autoritratto: un pezzo noto e da sempre ammirato. Ma nonostante in questo caso si possa parlare di precoce
popolarità, in generale la fama dei disegni di Michelangelo
conservati nei preziosi volumi dell’Archivio Buonarroti è stata fino a non molti anni fa piuttosto modesta, se si considera il
loro pregio spesso di grande rilievo. A lungo ha prevalso sul livello artistico il valore documentario, che procurava a studiosi e biografi testimonianze indispensabili a decifrare una vita e
una carriera complesse e difficili.
Un disegno del Louvre, molto deperito, che sembra raffigurare un Michelangelo non giovane con “turbante” fu scoperto
da Steinmann, che lo ritenne un autoritratto; tale ipotesi fu
raccolta nel 1938 da Bernard Berenson e accettata sia da
Charles de Tolnay nel 1975 sia da Michael Hirst nel 1988; più
recentemente Paul Joannides ha attribuito il disegno a Baccio
Bandinelli (2003). Senza dubbio Michelangelo ritrasse sé
75
4. Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, post 1511,
particolare con il ritratto di Michelangelo.
Città del Vaticano, Palazzo Apostolico, Stanza della Segnatura
6. Federico Zuccari, Michelangelo osserva il giovane
Taddeo Zuccari che decora la facciata di palazzo Mattei,
ottavo decennio del XVI secolo. Roma, Galleria Nazionale
di Arte Antica di Palazzo Barberini
5. Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo,
1550-1552. Haarlem, Teylers Museum, inv. A 21
stesso nella testa inserita nella pelle scorticata di san Bartolomeo del Giudizio universale della Sistina; ma avrebbe impresso in modo ben più emozionante i suoi tratti sul volto sereno,
al di là di ogni dolore, del Nicodemo della Pietà del Museo
dell’Opera del Duomo a Firenze (fig. 7). Tuttavia, resta un dato di fatto la ritrosia dell’artista a effigiare tanto sé stesso
quanto gli altri, a meno che non si trattasse di soggetti di avvenenza estrema. “Ritrasse Michelagnolo Messer Tommaso
[Cavalieri] in un cartone, grande di naturale, che né prima né
poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza.” Così dice Vasari; e
non bastano a contraddirlo gli esempi di autoritratto or ora citati, né la distrutta statua bronzea di Giulio II, né il ritratto
perduto del bellissimo Tommaso, né le effigi di Pietro Aretino e di Biagio da Cesena che si riconoscono in quello spietato
affresco di eterna salvazione e condanna che è il Giudizio universale. E infatti i due antichi biografi preferirono ritrarre il
Buonarroti tramandandone le fattezze per iscritto: Ascanio
Condivi, nel 1553, mischiando caratteristiche fisiche con
tendenze, abitudini e pensieri, Vasari, nell’edizione giuntina
del 1568, copiando senza remora alcuna la descrizione del
collega, fin nei particolari di certe pagliuzze fra l’oro e l’azzurro negli occhi del Maestro.
Nell’introduzione alla sua opera sui ritratti di Michelangelo, lo
stesso Steinmann si chiede:
Perché Tiziano ha dipinto il ritratto dell’Aretino e non
quello di Michelangelo? Perché nel secolo d’oro della moderna arte non si è trovato nessun pennello o scalpello che
abbia creato un’immagine realmente grande del più grande dei maestri? Sebbene così discordi siano le opinioni sui
nomi degli artisti che hanno tentato di ritrarre Michelangelo, e malgrado si scontrino i pareri anche sulla qualità di
queste opere, il senso di tutto ciò è tuttavia che il grande
Buonarroti non è mai stato rappresentato in maniera corrispondente all’altezza dell’esercizio artistico di quel tempo, e della sua stessa grandezza. Ogni artista dipinge sé
stesso nel modo migliore, ha affermato una volta Michelangelo, ma egli non ha mai attuato su di sé la verità di
questa sentenza.
E, prosegue Steinmann:
Michelangelo spinse l’ardore dell’amicizia a esprimersi
più volentieri con la penna che con il pennello o lo scalpello. Del resto, egli abbozzò un disegno per il monumento
funebre del prematuramente scomparso Cecchino Bracci,
e sorvegliò l’esecuzione del monumento, ma compose
76
tuttavia non meno di cinquanta epigrammi apposta per
consolare l’amico Luigi del Riccio della perdita del suo
prediletto. Quando Gandolfo Porrino [poeta e amico di
Michelangelo] pregò di restituire gioia e pace ai suoi occhi,
e di conservare con pennello o scalpello i tratti dell’amata
che gli era stata precocemente strappata, Michelangelo
compose in effetti un epigramma per il monumento della
defunta, ma rifiutò la preghiera di un ritratto.
È con una convinzione molto vicina a queste affermazioni
dello studioso tedesco che si tenterà ora di delineare, del
Maestro, anche una sorta di ritratto (e a volte autoritratto)
interiore attraverso testimonianze dello scrittore e del poeta.
Diciamo subito che la statura smisurata di Michelangelo nel
panorama storico artistico ha messo in ombra, nei secoli, le
doti del poeta. Le sue rime, lui vivo, fecero naturalmente
parte del suo mito: furono amate ed esaltate, e non solo dagli
intimi, giacché la loro notorietà oltrepassò questa ristretta
cerchia, e alcune di esse, nonostante l’oggettiva asperità dei
versi, furono messe in musica. Le lodi per questo genio cui
non mancava “l’ornamento della dolce poesia” (Vasari) si
sprecavano: accesa e dotta fu l’ammirazione di Donato Giannotti e di Benedetto Varchi, che fece di un sonetto michelangiolesco ancor oggi celebre, Non ha l’ottimo artista alcun
concetto, l’argomento di una sua lezione all’Accademia Fiogli anni dal 1505 al 1516
rentina (1547); si giunse a iperboli smodate con Pietro Aretino che, prima di guastare i rapporti con l’artista, espresse il
desiderio di poter collocare gli scritti di Michelangelo nel vaso smeraldino in cui Alessandro Magno custodiva i poemi di
Omero. E intanto Francesco Berni contrapponeva le rime del
Buonarroti agli eccessivi languori dei petrarchisti suoi contemporanei:
Ho visto qualche sua composizione,
sono ignorante, e pur direi d’avelle
lette tutte nel mezzo di Platone.
Sì ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle.
Tacete unquanco, pallide viole
e liquidi cristalli e fere snelle:
e’ dice cose e voi dite parole.
D’altra parte il paragone tra la pittura e la poesia, così vivo in
tutto il Cinquecento, aveva consacrato anche da questo punto
di vista l’universalità di Michelangelo il quale, da parte sua, si
schermiva davanti a lodi così inusitate, come risulta dal carteggio e come annota fedelmente Condivi: “Ma a questo [poetare] ha atteso più per suo diletto che perché egli ne faccia professione, sempre se stesso abbassando et accusando in queste
cose la ignoranza sua”.
Per primi i neoclassici misero a confronto la poesia di Buonar77
7. Michelangelo Buonarroti, Pietà, 1550-1555,
particolare dell’autoritratto nelle sembianze di Nicodemo.
Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore
roti con la sua opera figurativa; ma una vera e propria riflessione critica su Michelangelo poeta cominciò, come oggi comunemente si riconosce, con Ugo Foscolo, che nel corso dei suoi
drammatici tardi anni londinesi per due volte, nel 1822 e nel
1826, tornò su questo tema, rapportandolo forse troppo recisamente ai suoi ideali classicistici, fermo nel non voler considerare le rime di Michelangelo come “produzioni d’un uomo
professante poesia” (sono d’altronde termini che ricordano
quelli dell’antico biografo!); e tuttavia apprezzando in quei
versi “un certo che d’originale e d’insolito che, separandoli da
ogni cosa volgare, li rende preziosi e mirabili”. Le rime furono
studiate e tradotte nelle principali lingue europee, anche da
poeti del livello di William Wordsworth e Rainer Maria Rilke,
e spesso celebrate lungo tutto l’Ottocento, quando di Michelangelo poeta ci si cominciò a occupare anche con giusto fervore filologico, da Cesare Guasti a Karl Frey, nonostante il silenzio di Francesco De Sanctis. Nel corso del Novecento il giudizio su Michelangelo poeta si fa più severo, a cominciare dalle
negazioni di Benedetto Croce. Ma l’accusa di dilettantismo e
di inesperienza letteraria doveva fatalmente cadere, come
sembrano ad esempio dimostrare le convincenti letture giovanili di Gianfranco Contini, o le declamate ma felici intuizioni
di Giovanni Papini sulla poesia di Michelangelo come esigenza del suo sviluppo spirituale.
Difficile e non del tutto chiarita resta tuttavia una definizione
78
stilistica di questa poesia. Si può ancora ripetere, con Luigi Baldacci, che “quando non si tratti di bizzarrie manieristiche o di
rime spirituali, la poesia di Michelangelo ha ispirazione amorosa e si riferisce per massima parte alle sue relazioni fondamentali: quella col giovane romano Tommaso Cavalieri, conosciuto dal poeta intorno al 1532, del quale i contemporanei testimoniarono la straordinaria bellezza e la leggiadria dei costumi e dell’ingegno, e l’altra con Vittoria Colonna, iniziatasi più
tardi e di cui l’eco perdura dopo la morte della donna (1547)”.
E si può ancora concordare con questo grande critico quando
acutamente contrappone il platonismo (che oggi può sembrare addirittura glaciale) di Vittoria a quell’eroico furore che in
Michelangelo è “il segno di un’immensa prova spirituale che si
placò solo in Dio”. Del resto, molti tra i più attenti e sensibili
lettori dei nostri tempi ci hanno convinti a ritrovare nelle rime
del Maestro un’esigenza di personale, intimo conforto, uno
sfogo dell’anima, pensosi e privatissimi appunti della memoria; espressioni, insomma, di elevato sentire che possono
commuovere, oltre che aiutare lo studioso e il biografo, ma che
rimangono non esplorate fino in fondo, in un marginale, anche se assai nobile, limbo autobiografico.
Due clausole finali a questa veloce introduzione alla lettura di
Michelangelo poeta. In primo luogo, non appare del tutto superfluo sottolineare che i suoi più ferventi ammiratori sono a tutt’oggi quelli che più a lungo e con più forte intento filologico
l’hanno studiato, dai già citati pionieri ottocenteschi a Enzo Noè
Girardi, la cui edizione critica delle rime di Michelangelo porta
ottimamente i suoi quasi cinquant’anni; infine, può forse aiutare
a comprendere l’alta meditazione e la spiritualità di questi versi la
nostra allusione a quel Michelangelo privato che agli amici donava, come intimi autoritratti, poesie stilate in bellissima grafia.
Orientamenti bibliografici
Prima del recente catalogo Il volto di Michelangelo (Ragionieri
2008), il testo di riferimento sui ritratti fatti a Michelangelo resta Steinmann 1913; per i ritratti di Giuliano Bugiardini e di
Jacopino del Conte cfr. le schede 1 e 3, in Ragionieri 2003, pp.
18-19, 22-23; per il busto bronzeo di Daniele da Volterra, si
veda A. Cecchi, scheda 55, in Romani 2003, pp. 170-172; il
passo sui ritratti di Michelangelo nell’edizione giuntina delle
Vite di Vasari si può leggere, con ricco commento di Paola Barocchi, in Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 108, vol. IV, pp.
1738-1743; sull’acquerello di Francisco de Hollanda compreso nel codice delle Antigualhas (c. 2 recto), cfr. Tormo 1940,
pp. 37-38; questa edizione presenta in facsimile l’intero contenuto del prezioso codice; il rapporto tra l’artista portoghese
e Michelangelo è stato indagato, in più occasioni, in Deswarte-Rosa 1988-1989; Deswarte-Rosa 1991; Deswarte-Rosa
1997; sul ritratto di Michelangelo nei panni del filosofo greco
Eraclito, inserito da Raffaello nella Scuola d’Atene, come si sa
ad affresco finito, si veda la scheda 64, in Forlani Tempesti
1984, p. 59; per i ritratti di Michelangelo nei cicli vasariani, a
Roma (nella scena con la Remunerazione della virtù nella Sala
dei Cento Giorni, 1546, del palazzo della Cancelleria) e a Firenze (nella scena con Leone X che elegge i cardinali nella Sala
di Leone X, 1555-1562, in Palazzo Vecchio), cfr. J. Kliemann,
scheda 19a-g, in Corti et al. 1981, pp. 120-123; Allegri, Cecchi 1980, pp. 119-120, sez. 27/21; altro ritratto di Michelangelo è presente nella grande tavola con il Giudizio universale,
eseguita per la cappella Montauto, ma ora trasferita nella cappella Galli, alla Santissima Annunziata di Firenze (cfr. Lecchini Giovannoni 1991, pp. 218-219, n. 11), dipinta dal giovane
Alessandro Allori quale testimonianza della sua devozione a
Michelangelo, come per primo osservato da Filippo Baldinucci: “Dietro alla persona di Gesù disputante sono due vecchi
[…]; il primo è il Buonarruoti, il secondo, che gli sta a sinistra,
è Agnolo Bronzino, zio e maestro del pittore”, cfr. Baldinucci,
ed. Ranalli 1845-1847, vol. III, p. 521; sul cartone di Daniele
da Volterra al Teylers Museum di Haarlem (inv. A 21), cfr. I. di
Majo, scheda 27, in Romani 2003, pp. 110-112; sull’illustrazione del Triompho di fortuna di Sigismondo Fanti, si veda la
scheda 2, in Ragionieri 2003, pp. 20-21; per il dipinto di Federico Zuccari, cfr. L. Mochi Onori, schede 16 e 49, in Ragionieri 2003, pp. 42, 122-123.
Relativamente agli autoritratti, per il disegno di Casa Buonarroti, cfr. Ragionieri 2008, pp. 110-111; per il disegno del Louvre (inv. 2715), di attribuzione discussa tra Michelangelo e
Baccio Bandinelli, cfr. Joannides 2003, pp. 398-400, n. R 27;
l’effigie di Michelangelo inserita nella pelle scorticata del san
Bartolomeo del Giudizio universale è stata al centro di ampio
dibattito, a partire da La Cava 1925; che Michelangelo si fosse
autoritratto nei panni di Nicodemo della Pietà del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è ipotesi per prima avanzata da
Vasari in una lettera del 18 marzo 1564 a Leonardo Buonarroti: “èvvi un vechio che egli ritrasse sé”, Carteggio indiretto, vol.
II, pp. 179-183, n. 362; su questo tema sono ancora significative le considerazioni di Stechow 1964, pp. 289-302; più di
recente Paoletti 2000, pp. 60-63.
Il passo vasariano sul perduto ritratto di Tommaso Cavalieri si
legge in Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 118, e si veda Agosti, Farinella 1987b, p. 97.
Le vicende della “Galleria” della Casa Buonarroti sono ricostruite in Vliegenthart 1976; le celebrazioni del 1911 per festeggiare l’unità d’Italia sono ricostruite nel catalogo Roma
1911 (Piantoni 1980), mentre manca ancora un adeguato esame delle correlate “mostre retrospettive”.
gli anni dal 1505 al 1516
La Lezzione di Benedetto Varchi sul sonetto di Michelangelo,
“fatta da lui pubblicamente nella Accademia Fiorentina la seconda domenica di Quaresima” del 1547, è stata edita da Torrentino, a Firenze, nel 1549: si può leggere, commentata, in
Barocchi 1971-1977, vol. II, pp. 1322-1341; una ottima antologia di testi cinquecenteschi sul paragone tra pittura e poesia – da Leonardo a Gaurico, da Equicola a Speroni, da Varchi a
Borghini – è contenuta in Barocchi 1971-1977, vol. I, pp.
221-462. I saggi di Ugo Foscolo su Michelangelo poeta, Michelangelo del 1822 e Poems of Michel Angelo Buonarroti del
1826, sono compresi in Foscolo 1940, pp. 333-344; i giudizi
di Benedetto Croce sono in Croce 1933, pp. 391-400; Gianfranco Contini tenne a Strasburgo nel 1935 una conferenza
sulla poesia di Michelangelo, pubblicata nel 1937 con il titolo
Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, che coincide con
il saggio Una lettura su Michelangelo, in Contini 1974, pp.
242-258; le considerazioni di Luigi Baldacci si possono leggere in Baldacci 1955, pp. 27-45.
L’edizione più affidabile delle Rime michelangiolesche è ancora
quella di Enzo Noè Girardi del 1960 (qui Rime), nonostante le
osservazioni in Contini 1960; da tempo Guglielmo Gorni sta
preparando una nuova edizione critica delle poesie di Michelangelo: si veda per ora l’ampia antologia Poeti del Cinquecento,
di Gorni, Danzi, Longhi 2001; sul testo di Girardi si fondano
edizioni più accessibili tuttora in commercio, tra cui si segnala
quella curata da Matteo Residori negli Oscar Mondadori del
1998; lo stesso Residori ha curato, insieme a Paolo Grossi, gli
atti di una giornata di studi tenutasi a Parigi nel 2005, che raccoglie una serie di contributi anche di carattere filologico, cfr.
Grossi, Residori 2005.
79
1. Michelangelo Buonarroti,
Studi per la volta della cappella Sistina, 1508.
Londra, The British Museum,
inv. 1859-6-25-567 recto
CAPPELLA SISTINA
Cammy Brothers
È il partimento di questa opera accomodato con sei peducci
per banda, et uno nel mezzo delle facce da piè e da capo […].
Nel partimento non ha usato ordine di prospettive
che scortino, né v’è veduta ferma, ma è ito accomodando
più il partimento alle figure che le figure al partimento.
Giorgio Vasari1
Quando Michelangelo nel 1508 accettò l’incarico da parte di
Giulio II della Rovere (1503-1513) per la volta della cappella
Sistina, non solo pose sé stesso nella condizione di diventare
un celebrato pittore, ma iniziò anche a maturare le competenze di cui si sarebbe avvalso per inserirsi nel campo dell’architettura2. Ciò comportò la necessità di affinare tanto le tecniche
del disegno, quanto le capacità compositive. Inoltre in questo
contesto iniziò a costruire quel lessico architettonico che
avrebbe continuato a impiegare nei lunghi anni a venire.
Prima del 1508, le principali esperienze di Michelangelo erano avvenute nel campo della scultura: la logica scultorea resta
certamente il principio fondante del progetto della volta della
cappella Sistina. Ciò è ben evidente sia nella rappresentazione
delle scene, attraverso lo sfalsamento dei piani secondo differenti profondità (gli Ignudi paiono sporgersi nello spazio dell’osservatore, mentre gli episodi narrati sembrano arretrare rispetto alla superficie dipinta), sia nell’enfasi data alle differenti materie rappresentate (bronzo, oro, marmo e persino corpi
umani). La volta dimostra inoltre la nuova attenzione di Michelangelo per il partito architettonico delle scene3. L’interesse
dell’artista verso elementi quali i rilievi illusionistici, i diversi
materiali e il gioco delle cornici, prepararono il terreno per po80
tere successivamente affrontare la sua prima grande commessa architettonica: il progetto della facciata della chiesa di San
Lorenzo a Firenze. Al pari di quest’ultima, anche la volta Sistina costrinse Michelangelo a pensare in grande scala, facendo
fronte simultaneamente a complessi problemi di varia natura4.
Alcuni indizi sul modo in cui l’artista sviluppò il suo personale approccio verso la composizione architettonica si trovano in
due superstiti fogli che mostrano i progetti iniziali elaborati da
Michelangelo per la volta Sistina. In essi si vede come l’artista
rifletté anzitutto sulla creazione di un opportuno sistema per
creare una corrispondente cornice a ciascuna figura5. Sul foglio
conservato presso il British Museum, inv. 1859-6-25-567
recto (fig. 1; Corpus 119 recto)6, ritenuto il più antico fra i progetti sopravvissuti per la decorazione della volta, è rappresentata una figura in trono racchiusa fra due archi in posizione
corrispondente a quella delle Sibille e dei Profeti. Il progetto
contiene ancora elementi decorativi che si pongono in continuità con alcune soluzioni tradizionali sperimentate nell’architettura quattrocentesca, come cerchi inclusi in quadrati,
bordi a cartiglio e losanghe, similmente a quanto realizzato da
Giuliano da Sangallo nella volta del salone di villa Medici a
Poggio a Caiano o nella volta del vestibolo della sagrestia di
Santo Spirito a Firenze. Ma anziché riproporre uno schema
consueto, Michelangelo configura il rapporto reciproco fra
queste componenti in modo nuovo, sovrapponendo le forme
e variando i rapporti proporzionali. Il disegno custodito al Detroit Institute of Arts, inv. 27.2 recto (fig. 2; Corpus 120 recto),
relativo a una fase di progetto successiva, mostra come l’artista
inizi a modellare ciascun riquadro del partito architettonico: i
pannelli rettangolari e quelli ovali sembrano esercitare pressione l’uno sull’altro e le figure alate si appoggiano alla cornice
ovale preannunciando la posizione degli Ignudi.
Il progetto definitivo della volta Sistina sembra prendere le distanze da questi schemi iniziali, derivando piuttosto la propria
articolazione dagli elementi architettonici della cappella stessa, quali il sistema di lunette, volte e vele7. In mostra si propone una inusuale immagine del partito architettonico della cappella Sistina tratto da una cromolitografia applicata a un tavolino della seconda metà dell’Ottocento (cat. 5). Nella parte
centrale della volta, le divisioni tra le varie scene sono create
attraverso una serie di illusionistici arconi trasversali, mentre
le ripartizioni sui fianchi della volta sono formate dall’incontro di questi arconi con i profili ogivali delle lunette. L’intero
“partimento” architettonico è qui pertanto concepito come
una struttura unitaria, mentre le scene che essa suddivide
sembrano appartenere a uno sfondo posto al di là di questa architettura fittizia.
Prescindendo dai problemi compositivi, per popolare la volta
della cappella Sistina Michelangelo dovette inventare un’amgli anni dal 1505 al 1516
pia serie di figure da porre sia a decorazione dei riquadri figurativi sia ad arricchire il partito architettonico. Fino ad allora la
principale commissione pittorica ricevuta dall’artista era stata
quella della Battaglia di Cascina per Palazzo Vecchio a Firenze,
dipinto che non fu portato a termine, ma per cui l’artista eseguì numerosi disegni. In quel contesto, lavorando accanto a
Leonardo, Michelangelo maturò un proprio metodo creativo
per l’invenzione delle figure e delle loro posture8. I disegni illustrano in che modo l’artista iniziasse a ritrarre la figura a partire da una posa studiata dal vero, per poi modificarla e manipolarla in successive varianti correlate, ma distinte, sparse sull’intero foglio. Tale approccio gli tornò utile quando prese a
sviluppare le idee per la volta della cappella Sistina. L’esigenza
di ideare figure in pose continuamente variate fu particolarmente stringente nella definizione delle figure degli Ignudi,
collocati a scandire le scene in corrispondenza degli arconi trasversali della volta. Proprio gli Ignudi sono il frutto di una serie di operazioni compositive coerenti a partire dalla stessa figura: rotazione, inversione, slittamento, rispecchiamento, allungamento, torsione e capovolgimento9.
81
2. Michelangelo Buonarroti, Studi per la volta
della cappella Sistina, 1508. Detroit,
Detroit Institute of Arts, inv. 27.2 recto
4. Michelangelo Buonarroti, Studi
per le basi dei monumenti dei duchi
nella Sagrestia Nuova, 1524.
Firenze, Casa Buonarroti, 10 A recto
3. Michelangelo Buonarroti, Due studi di cornice;
studi di figure per la cappella Sistina e per il monumento
per Giulio II, post 1508. Oxford,
The Ashmolean Museum, cat. Parker 297 recto
Nel foglio di Casa Buonarroti 75 F recto (cat. 4; Corpus 145
recto), sono presenti molti degli effetti adottati da Michelangelo per ottenere le pose delle figure. Le nove presenti sul foglio
sembrano studi per due specifici Ignudi, in particolare quelli
situati in alto a sinistra rispetto a Gioele e in alto a destra rispetto a Isaia. In questo foglio, la figura più grande, posta in alto a destra, sembra essere stata velocemente schizzata per prima dal vero. Nella parte inferiore del foglio, le numerose figure più piccole presentano tutta una serie di minime variazioni:
le due centrali a destra sono versioni capovolte l’una dell’altra,
mentre le altre si distinguono per lievi modifiche dell’angolazione del torso, della posizione delle gambe e della direzione
dello sguardo. A giudicare dalle dimensioni ridotte e dal carattere abbozzato di queste figure, oltre che semplicemente dalla
82
loro quantità, si direbbe che siano state tracciate senza ausilio
di un modello dal vero, ma a memoria. Nel foglio è contenuto
anche un frammento di cornice, a rivelare che Michelangelo rifletteva al contempo sia sui problemi architettonici sia su quelli
figurativi. Nell’alternanza di motivi a conchiglia e a ghianda,
questo dettaglio architettonico corrisponde alle finte modanature impiegate dall’artista per incorniciare le lunette della volta.
L’inclusione delle ghiande nella cornice, chiaramente riferibile al
cognome di Giulio II della Rovere, è tipica della decorazione architettonica fiorentina a cominciare dalle soluzioni adottate in
più casi da Giuliano da Sangallo.
Un ulteriore foglio autografo conservato all’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 3; Corpus 157 recto) si caratterizza per
una composizione straordinariamente simile al disegno appena analizzato. In esso si osserva una cornice che mostra una
soluzione più audace, con dettagli antropomorfi, assai più insolita e movimentata di quella effettivamente dipinta sulla
volta10. Questo schizzo architettonico ricorda sia i vivaci capitelli che Michelangelo disegna all’inizio della sua carriera11, sia
la base dal profilo umano raffigurata nei suoi studi per le basi
dei monumenti ducali della Sagrestia Nuova conservata nel foglio di Casa Buonarroti 10 A recto (fig. 4; Corpus 201 recto).
Sebbene la natura eterogenea di questo foglio, contenente studi sia per la volta Sistina che per il monumento per Giulio II,
renda difficile la sua esatta datazione, è assai probabile che tale particolare sia stato disegnato pressoché nello stesso torno
d’anni in cui veniva progettata la volta e pertanto indichi come
l’artista, a partire da queste esperienze, iniziasse a concepire i
dettagli architettonici con sempre maggiore audacia.
Al di là delle specifiche questioni compositive e progettuali, si
può affermare che nella volta Sistina Michelangelo ricorse a
una serie di inconsueti particolari architettonici che continuò
a rielaborare per anni. Tra questi figurano cariatidi dall’aspetto
di putti, teste d’ariete, medaglioni e balaustri. Questi singoli
elementi, come ad esempio i balaustri posti in serie, vennero
riprodotti da Michelangelo più e più volte in una vasta gamma
di contesti, come attestano i disegni destinati alla sepoltura di
Giulio II, alla Sagrestia Nuova e alla Biblioteca Laurenziana.
L’uso caratteristico e personale di tali componenti rappresenta
la prima testimonianza della personale variazione apportata
da Michelangelo al linguaggio classico dell’architettura: per
tutto il corso della vita l’artista avrebbe continuato a sviluppare questo lessico per riprodurlo in svariati progetti con continue variazioni, secondo un processo che avrà il suo culmine
nel linguaggio ormai affatto idiosincratico di porta Pia.
Presenti in mostra sono due documenti autografi di Michelangelo, un celebre sonetto caudato destinato a un amico pistoiese di nome Giovanni, con umoristico autoritratto nell’atto di
dipingere la volta della cappella Sistina (datato tra 1508 e
1512; cat. 3)12: documenti entrambi del sovrumano sforzo
compiuto dall’artista per condurre a termine questa impresa in
soli quattro anni.
La volta Sistina non è considerata che di rado in rapporto all’architettura di Michelangelo. Tuttavia, i problemi sollevati da
tale progetto permisero all’artista di elaborare una serie di idee
e di pratiche che gli sarebbero tornate assai utili nell’affrontare
i suoi primi progetti architettonici. In tal modo egli sviluppò
una grande esperienza che gli permise di articolare le sue composizioni secondo piani sfalsati in profondità e con grande attenzione al rapporto tra i riquadri e le figure. Michelangelo mise inoltre a punto un metodo per elaborare sempre nuove invenzioni, non solo attraverso un incessante lavorio compiuto
attraverso l’esercizio del disegno, ma anche mediante un insieme di specifiche operazioni volte a generare variazioni tematiche su soggetti specifici. Seppur maggiormente evidenti
nel caso dei disegni a soggetto figurativo, tali consuetudini si
sarebbero rivelate essenziali anche per la composizione della
sua architettura.
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
41 [ed. 1568].
2
Una estensiva analisi dell’argomento si trova in Brothers 2008; per una
discussione generale sul rapporto fra
figura e architettura nell’opera di Michelangelo, si veda Brothers 2006.
3
Caroline Elam ha esaminato l’idea
correlata di opera di “quadro” e opera di “figura”, cfr. Elam 2006a, pp.
45-50.
4
Riguardo alla volta della cappella
Sistina in rapporto all’architettura di
Michelangelo, si vedano Frommel
1
gli anni dal 1505 al 1516
1994b; Robertson 1986; Robertson
1994; più in generale sull’architettura della cappella Sistina, cfr. Pane
1964, pp. 95-120; F. Barbieri, L.
Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
826-829; B. Contardi, scheda 3, in
Argan, Contardi 1990, pp. 60-63.
5
Per i primi progetti della volta, si vedano Brandt 1992; Chapman 2005, pp.
102-112, con particolare riguardo per
il citato disegno del British Museum.
6
Wilde 1953a, n. 7r.
7
L’architettura della cappella è esaminata in Pagliara 2003.
Si presta attenzione al rapporto fra
Leonardo e Michelangelo e alla loro
competizione in Palazzo Vecchio,
in Wilde 1944 e Wilde 1953b.
9
Per analogie metodologiche con altri
artisti, si vedano Fusco 1982; Summers 1977; riguardo ai metodi compositivi dei fogli di Michelangelo, cfr.
Hirst 1988.
10
Il disegno è esaminato in dettaglio,
con vasta bibliografia, in Joannides
2007, pp. 120-126, cat. 18, il quale
ipotizza che la cornice sia correlata al
monumento per Giulio II, tuttavia,
8
non essendovi alcuna ragione a sostegno di tale ipotesi, non può essere
esclusa la sua relazione con la volta
Sistina.
11
I disegni dei capitelli sono conservati in due fogli rispettivamente al
British Museum inv. 1895-9-15496 verso (Corpus 36 verso; Wilde
1953a, n. 3v) e al Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi 233 F recto
(Corpus 37 recto).
12
Rime, pp. 4-5 (Sonetto 5); P. Ragionieri, scheda 52, in Ragionieri 2008,
pp. 110-111.
83
1. Michelangelo Buonarroti,
Progetto per altare monumentale, 1516-1518.
Oxford, Christ Church, JBS 64 recto
FINESTRA A EDICOLA DELLA CAPPELLA DEI SANTI
COSMA E DAMIANO IN CASTEL SANT’ANGELO
2. Michelangelo Buonarroti,
Studi per altari monumentali, 1516-1518.
Oxford, Christ Church, JBS 64 verso
Mauro Mussolin
Invariabilmente citato come il più antico incunabolo dell’opera architettonica di Michelangelo, la finestra a edicola della
cappella dei Santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo reca una attribuzione al Maestro mai posta in dubbio1. Mancano
tuttavia ricerche documentarie approfondite sulla realizzazione di questo prospetto, che appare formato da due parti distinte e, si direbbe, poco coerenti: la finestra crociata centrale di sapore quattrocentesco e il telaio d’inquadramento dell’edicola
di gusto assai più classicista2.
La sua struttura in marmo statuario, materiale piuttosto raro
nella coeva architettura romana, è costituita da un’ampia edicola centrale sormontata da timpano triangolare e da due campate laterali leggermente arretrate. L’ordine architettonico è
caratterizzato da capitelli dorici e basi attiche: la campata centrale è sostenuta da semicolonne alle quali si affiancano, verso
l’esterno, semi-lesene che diventano lesene ai due estremi laterali del prospetto. Particolarmente interessante è l’edicola
centrale, occupata da una finestra dalla raffinata partitura cruciforme. Si tratta di una finestra cosiddetta guelfa o crociata,
assai diffusa nell’architettura romana del Quattrocento, qui
composta con grande novità di disegno: il braccio orizzontale
della crociera è una cornice modanata che risalta sui montanti
inferiori in modo da formare pseudo-capitelli; questi elementi svolgono, a loro volta, la funzione di basi d’appoggio alle volute che occupano il posto dei montanti superiori della crociera. Delle quattro aperture della finestra, quelle inferiori sono
di forma quadrata e appaiono schermate da allungatissimi balaustrini doppi in bronzo, ribattuti su ciascun lato da semi-balaustrini di analogo profilo, scolpiti in marmo nei corrispon84
denti blocchi dei pilastri; quelle superiori sono di forma rettangolare e protette da semplice grate di ferro. Ciascuna delle
due campate laterali è animata da nicchie, i cui piccoli catini
absidali si impostano su una cornice che è il prolungamento
del braccio orizzontale della finestra.
Uno splendido foglio autografo, databile intorno al 15161518, conservato presso la biblioteca della Christ Church di
Oxford, JBS n. 64r-v (figg. 1-2, Corpus 280 recto-verso)3, contiene una serie di studi per altari monumentali i quali, seppur
con alcune differenze, mostrano partiture architettoniche simili alla facciata in Castel Sant’Angelo (fig. 3). La somiglianza
diviene particolarmente evidente con il progetto disegnato nel
recto del foglio4: esso rappresenta uno degli assai rari “disegni
di dimostrazione” di Michelangelo, ovvero un progetto in pulito da mostrare a un committente che resta ancora ignoto agli
studi5. In questo caso l’opera di “quadro”, ovvero la partitura
architettonica, fa da supporto all’opera di “figura”, ovvero a rilievi scultorei e statue, lasciando entrambe ben distinte6. Nella finestra di Castel Sant’Angelo appare ancora indubbia la memoria delle macchine d’altare tardoquattrocentesche di tradizione fiorentina7, come pure evidente è l’andamento ritmico
a-b-a derivato dal motivo dell’arco di trionfo8. Schemi entrambi, che Michelangelo abbandonerà presto per dare avvio a
più complesse meditazioni architettoniche che lo porteranno,
in breve, a superare la convenzionale distinzione fra “quadro”
e “figura” e a concertare un dialogo tra architettura e scultura
di pari potenza espressiva9.
Spesse volte gli studiosi hanno sottolineato il carattere epifanico di questo iniziale progetto in rapporto alla successiva pro-
duzione architettonica di Michelangelo. La semplice, ma ben
concatenata disposizione degli elementi evidenzia infatti alcuni dei più tipici leitmotive dell’architettura michelangiolesca:
fra i dettagli, sono presenti le volute, i balaustri, le cornici articolate da risalti, il timpano centrale ridotto, le nicchie sormontate da targhe, mentre fra le soluzioni plastico-compositive, si
ritrovano i piani verticali sfalsati, la variatio dei sostegni verticali, l’utilizzo del marmo statuario abbinato al bronzo10, la rivisitazione di elementi tradizionali, in questo caso la finestra
crociata11. Tracciando la fortuna degli elementi architettonici
dell’edicola presenti nella produzione successiva di Buonarroti, James Ackerman ha sottolineato la “notevole individualità”
della composizione che anticipa le soluzioni della facciata di
San Lorenzo a Firenze12, evidenziando al tempo stesso come
esista un rapporto strettissimo fra l’edicola e le finestre inginocchiate di palazzo Medici, opere entrambe in cui i “motivi
tradizionali sono adoperati in maniera antitradizionale”13;
Eraldo Gaudioso, che più di tutti ne ha osservato l’architettura, ha evidenziato l’affinità con i vigorosi risalti e la forza plastica del telaio architettonico dipinto sulla volta della cappella
Sistina14.
È interessante poi registrare la vitalità dello schema di questa
facciata che riappare in un’opera successiva e poco documentata di Michelangelo, ovvero la restituzione grafica che il Maestro fece del monumento per i Fasti Consolari rinvenuti nel
Foro Romano, il cui schematico disegno fu inserito e pubblicato da Bartolomeo Marliani nel suo volume intitolato Consulum, dictatorum censorumque romanorum series del 1549
(cat. 7)15. Ancora piuttosto simile è il prospetto della distrutta
facciata della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore a Roma,
convenzionalmente assegnata a Michelangelo, ma più probabile invenzione di Giacomo della Porta (cat. 87)16.
Considerando come la finestra a edicola di Castel Sant’Angelo
sia principalmente un’opera di “quadro”, i rari elementi di “figura” acquistano valore altamente simbolico. Sul breve timpano triangolare è scolpito un anello con diamante legato con nastri e piume, mentre una testa di leone su targa liscia appare sopra ciascuna delle due nicchie. Questi emblemi figurati costituiscono un inequivocabile segno posto a identificare il pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521). Questo papa, che
abitò spesso e di buon grado in Castel Sant’Angelo, fu certamente colui che commissionò l’opera dopo il 1514. A quest’anno risale infatti un motu proprio del papa che assegna un
reddito mensile di tre ducati d’oro per l’ufficiatura della cappella “noviter constructa”, per l’occasione nuovamente dedicata ai
Santi Cosma e Damiano17. La cappella, inizialmente eretta sotto Eugenio IV Condulmer (1431-1447), era stata unita agli appartamenti pontifici da Niccolò V Parentucelli (1447-1455)
gli anni dal 1505 al 1516
intorno al 1450. A Leone X si deve il ripristino del vano con
importanti modifiche strutturali, per le quali fu coinvolto Antonio da Sangallo il Giovane. I documenti riferiscono al 10 novembre 1514 alcuni pagamenti a questo architetto per opere di
regolarizzazione dei muri perimetrali e degli ingressi18. Alla
stessa tornata di lavori vanno datati anche la costruzione della
85
3. Roma, Castel Sant’Angelo,
finestra a edicola della cappella dei Santi
Cosma e Damiano allo stato attuale
4. Raffaello da Montelupo,
Base di cratere antico e alzato
quotato della edicola dei Santi
Cosma e Damiano in Castel
Sant’Angelo, 1530-1535.
Lille, Palais des Beaux-Arts,
Cabinet des Dessins, f. 24
(cat. Pluchart n. 733)
volta lunettata con arma medicea al centro e il pavimento in
maiolica19. Sui peducci della volta sono invece scolpite le armi
del senese Raffaello Petrucci, che fu castellano di Castel Sant’Angelo dal 12 marzo 1513 fino alla sua elezione al titolo cardinalizio l’1 luglio 151720. L’accurato rilievo della cappella e
dell’edicola, condotto da Stefano Rezzi, ha correttamente suggerito allo studioso l’ipotesi secondo cui la forma e il posizionamento della finestra, unica fonte di luce dell’ambiente, vadano considerati coevi ai lavori del 1514, o comunque correlati,
dal momento che il piedritto della volta lunettata della cappella cade esattamente sul montante centrale della finestra21. Tuttavia, la qualità non pregevole della lavorazione dei blocchi e la
loro poco accurata realizzazione potrebbero anche ammettere
una messa in opera avvenuta in assenza del suo ideatore, probabilmente successiva o eseguita da un tagliapietre22.
Le fonti iconografiche relative con sicurezza all’edicola di Castel Sant’Angelo sono costituite da quattro disegni cinquecenteschi, tutti derivati da un prototipo comune, i quali mostrano
tra loro significative differenze rispetto a quanto effettivamente costruito23. Di questi quattro disegni il più antico, forse
addirittura il prototipo, è un foglio, dapprima attribuito a Bastiano da Sangallo detto Aristotile e oggi concordemente assegnato a Raffaello da Montelupo24, che fa parte del cosiddetto
Libro di schizzi di Michelangelo, realizzato intorno al 15301545, ma forse persino successivo, come raccolta di disegni
d’ornato e di rilievi di fabbriche michelangiolesche, oggi custodito presso il Palais des Beaux-Arts di Lille (fig. 4)25. In questo foglio l’alzato dell’edicola si mostra ben dettagliato, mentre una nota ricorda “Queste in chastello diroma di mano di
Michelagnolo di traverti[no]”26. L’errore nell’indicare il travertino al posto del marmo lascia aperta la questione se si tratti di
un rilievo, di un disegno derivato da un modello, o di una proposta di modifica. Le tre versioni successive sono caratterizzate da analoghe quotature e da note con minime variazioni linguistiche. La copia più vicina al foglio di Lille è conservata in
altro foglio oggi in collezione privata (fig. 5) che riporta “Questa in Castello Santangolo inroma è di michellagniolo / Misurato col palmo”27. Altra derivazione dal foglio di Lille è il rapido schizzo parziale, corrispondente alla metà sinistra dell’edicola, contenuto nel cosiddetto Taccuino senese di Oreste Vannocci Biringucci composto intorno al 1582 e conservato presso la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena (fig. 6)28, con
nota attributiva assai semplificata: “in castello di Ro[ma]. Michelang[iol]o”. L’ultima fonte iconografica nota, sebbene indubbiamente più tarda, è quella a lungo ritenuta il progetto
originale di Michelangelo. Si tratta del foglio 4686 A del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, presente in
mostra (cat. 6). Oggi fondatamente attribuito a Giorgio Vasari
il Giovane, questo disegno dell’edicola è condotto a squadra e
compasso e restituito in scala secondo misurazioni non annotate sul foglio, ma proporzionalmente corrette rispetto a quelle riportate nella versione del disegno in collezione privata da
cui direttamente sembra derivare; la nota riporta poi: “Questa
è in Castello S. Agnolo di disegno di Michelagnolo”. Non troppo somiglianti tra loro, questi quattro disegni non rappresentano l’edicola come fu realizzata, ma si distanziano da essa per
una serie di differenze, tra cui la comune verticalizzazione delle proporzioni della finestra centrale, la sensibile riduzione
86
5. Anonimo del XVI secolo,
Monumento funebre e alzato
quotato della edicola dei Santi
Cosma e Damiano in Castel
Sant’Angelo, circa 1550.
Collezione privata
(negativo conservato presso
il Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi, n. 126259)
6. Oreste Vannocci Biringucci,
Facciata della chiesa di San Silvestro
a Monte Cavallo in Roma, alzato quotato
della edicola dei Santi Cosma e Damiano
in Castel Sant’Angelo, cosiddetti ‘nicchioni’
di Todi, decorazione a treccia e vaso ansato,
circa 1582. Siena, Biblioteca Comunale
degli Intronati, ms. S.IV.1, c. 12 verso
7. Rilievo della finestra a edicola
della cappella dei Santi Cosma
e Damiano in Castel Sant’Angelo
nel 1890 (da Borgatti 1890, tav. 33)
dell’altezza delle nicchie laterali e la dissimile composizione
dei quadranti della finestra crociata, le cui aperture superiori
sono sempre caratterizzate da una coppia di oculi con “invetriate” in luogo delle aperture rettangolari, e dalla presenza del
sedile modanato. Analizzando con sistematicità questo gruppo di fogli, Eraldo Gaudioso ha ipotizzato che tali disegni registrino alcune proposte di modifica alla facciata di Michelangelo per adeguare le ridotte dimensioni del prospetto alla nuova
scala monumentale del cortile dell’Angelo quando, tra 1544 e
1547, venne deciso il suo riallestimento per fare da corte
d’onore agli erigendi appartamenti di Paolo III Farnese (15341549)29. A tali lavori di ammodernamento, già attribuiti ad
Antonio il Giovane30 poi ad Aristotile da Sangallo31 e oggi unanimemente assegnati a Raffaello da Montelupo32, si deve anche l’inserimento della grande nicchia circolare sormontata
dal giglio farnesiano dentro la quale è inserito un busto eseguito da Guglielmo della Porta, speculare a una analoga nicchia
scavata nella parete frontale della stessa corte. A ben guardare
però, questo gruppo di disegni non può avere nulla a che fare
con tali ipotetiche proposte di modifica per rendere più alto il
prospetto michelangiolesco, allungandone l’ordine architettonico, mentre restano valide due ipotesi alternative: che i disegni registrino una delle proposte eseguite per inquadrare la finestra crociata con una edicola architettonica connesse ai lavori di ristrutturazione del cortile, oppure, più dubitativamente,
che tali disegni tramandino l’immagine di un modello disegnato o effettivamente costruito dallo stesso Michelangelo33,
come era stato indotto a credere l’ingegnere Mariano Borgatti,
comandante del Genio, oltre che docente di architettura mili-
tare e fantasioso storico dilettante. Nel 1910, costui era stato
infatti incaricato dell’allestimento del Museo dell’Arte Medievale e Rinascimentale all’interno di Castel Sant’Angelo. Nell’opera di adattamento in stile del monumento, egli decise di
ripristinare anche la piccola edicola secondo il citato disegno
degli Uffizi, quello attribuito a Vasari il Giovane, allora considerato come disegno autografo del Maestro. Senza ripensamenti, vennero dunque realizzati sia il sedile con base modanata34, sia le due lastre marmoree borchiate angolarmente,
aperte da oculi vetrati (figg. 8-9)35. Insofferente di fronte a tale
falso storico, nel 1988 Bruno Contardi provvedeva giustamente a ripristinare le aperture rettangolari, eliminando gli
oculi, ma mantenendo il sedile, impossibile da togliere senza
dover ricorrere a nuovi blocchi marmorei integrativi. L’edicola
come oggi si presenta appare dunque irrimediabilmente falsificata dalla volontà di Borgatti, solo in parte cancellata da Contardi il quale, sulla scorta di Gaudioso, riteneva che il prospetto originale fosse quello visibile fino alle manomissioni del
1910, documentato dalle fotografie d’epoca e dal rilievo pubblicato dallo stesso Borgatti (fig. 7).
In chiusura occorre ritornare dunque all’elemento più caratteristico di questa facciata, la finestra a edicola. Il suo aspetto monumentale non può essere dovuto al puro caso e la sua giustificazione deve andare oltre la semplice richiesta di rendere architettonicamente rilevante una semplice fonte di luce. La piccola cappella non ha accesso dal cortile, ma solo dagli appartamenti papali. Pertanto una tale facciata serve a dare inquadramento architettonico all’unica finestra attraverso cui un più vasto pubblico avrebbe potuto seguire le celebrazioni liturgiche all’interno
gli anni dal 1505 al 1516
87
8. Roma, Castel Sant’Angelo, finestra a edicola
della cappella dei Santi Cosma e Damiano,
prima dei restauri del 1910
9. Roma, Castel Sant’Angelo, finestra a edicola
della cappella dei Santi Cosma e Damiano,
dopo i restauri del 1910
del vano, seguendone lo svolgimento più comodamente dal cortile dell’Angelo. È noto inoltre che Leone X avesse raccolto una
importante collezione di reliquie “ex ipsa quoque Graecia, et Civitate Constantinopolitana ad almam Vrbem advectas”36, collezione poi recuperata da Clemente VII e da questi fatta montare
dentro i vasi in pietra dura che appartennero a Lorenzo il Magnifico, per essere poi donate alla chiesa di San Lorenzo a Firenze:
per la custodia di tale tesoro sarebbe stato incaricato Michelan-
gelo che nel 1532 aveva terminato la cosiddetta Tribuna delle
Reliquie posta nella controfacciata della chiesa37. Se questa ipotesi dovesse essere comprovata, la presenza in Castel Sant’Angelo delle reliquie costantinopolitane di Leone X potrebbe giustificare non solo la ragione della ri-dedicazione della cappella ai
Santi Cosma e Damiano nel 1514, ma anche la forma stessa della sua finestra a tabernacolo, posta a segnare un luogo di venerazione particolarmente caro al pontefice.
Sull’argomento, cfr. Borgatti 1890a,
p. 186, fig. 60; Borgatti 1931, pp.
279-282; Ackerman 1961, vol. I, p.
29, vol. II, pp. 1-2; F. Barbieri e L.
Puppi in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
830-831; Ackerman 1968, pp. 123124; D’Onofrio 1971, pp. 213 sgg.;
Gaudioso 1976; Ackerman 1986, p.
291; Ackerman 1988, pp. 141-142;
B. Contardi, scheda 4, in Argan, Contardi 1990, pp. 64-66; Echinger-
fronte a un pastiche; una più approfondita analisi documentaria sulla
costruzione della cappella e della
sua monumentale finestra potrebbe
meglio verificare la sua datazione e
rivelare sorprese sulla sua stessa autografia (almeno per quanto riguarda il telaio architettonico dell’ordine inquadrante); piuttosto irrisolto
resta infatti il problema delle fonti
iconografie relative a questa faccia-
1
88
Maurach 1991, vol. I, pp. 318-320;
Giustozzi 2003, pp. 98-101, 104107; Rezzi 2005. Il mio più sincero
ringraziamento va a Paola Gaudioso
per il dono della piccola, indispensabile monografia del padre Eraldo dedicata all’edicola michelangiolesca di
Castel Sant’Angelo.
2
Osservando attentamente questo
piccolo prospetto, non può essere
negata la sensazione di trovarsi di
ta: oltre agli esempi qui di seguito
analizzati, si vedano gli enigmatici
schizzi dell’edicola eseguiti da Antonio da Sangallo il Giovane, secondo un aspetto assai modificato rispetto alla realtà, contenuti nel foglio 1259 A verso del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, cfr. Tafuri 1984, p. 87, fig. a p. 80; B. Contardi, scheda 4, in Argan, Contardi
1990, p. 64, fig. 66. Allo stato at-
tuale delle analisi resta tuttavia più
prudente limitarsi a valutare l’evidenza di quanto rimasto e riassumere le più importanti ipotesi storiografiche sul monumento.
3
Shaw 1976, p. 52, n. 64.
4
Il progetto del recto certamente precede gli schizzi del verso, i quali, come ha suggerito Caroline Elam, sembrano davvero disegnati rapidamente
come successive riflessioni a margine
dopo aver sottoposto il disegno al
committente, cfr. C. Elam, schede 5r5v, in Elam 2006, pp. 168-172.
5
Sul possibile committente del progetto, ibidem.
6
Sul rapporto tra opera di “quadro” e
opera di “figura” in Michelangelo, si
vedano le importanti considerazioni
in Elam 2006a, pp. 45-50.
7
Si confrontino, ad esempio, tanto il
partito architettonico dell’altare Corbinelli disegnato da Andrea Sansovino (1485-1490) nell’omonima cappella in Santo Spirito a Firenze, quanto la distrutta macchina per l’altare
maggiore della chiesa della Santissima Annunziata nella stessa città, con
i celebri dipinti di Pietro Perugino e
Filippino Lippi, realizzata da Baccio
d’Agnolo (1500-1502), secondo la
ricostruzione di Silvia Catitti, in Nelson 2005, pp. 154-155.
8
Al gruppo dei precoci progetti michelangioleschi derivati dal motivo
dell’arco di trionfo che mostrano affinità con la finestra a edicola della cappella di Castel Sant’Angelo possono
essere avvicinati sia i disegni contenuti nel foglio del British Museum,
inv. 1859-6-25-559 recto (Corpus
272 recto; su cui, oltre che Rezzi
2005, pp. 90-91, resta fondamentale
l’analisi in Wilde 1953a, 22r-v) sia il
progetto di arco di trionfo presente
nel recto di un foglio di proprietà della Collezione Fondazione Cariverona
in deposito permanente nella Raccolta grafica del Centro internazionale di
studi di architettura Andrea Palladio
di Vicenza (Corpus 630 recto), recentemente analizzato in H. Burns,
scheda 24r-v, in Elam 2006, pp. 209220); per entrambi i fogli vale una
datazione compresa tra il 1515 e il
1519.
9
Sul “passaggio all’architettura” e sul
superamento del motivo dell’arco di
gli anni dal 1505 al 1516
trionfo da parte di Michelangelo, si
vedano le belle pagine di Brothers
2006, pp. 81 sgg.
10
La combinazione di materiali diversi nella stessa opera è tipica dei
primi progetti architettonici di Michelangelo, dalle iniziali versioni per
il monumento funebre di Giulio II,
al telaio architettonico dipinto sulla
volta della cappella Sistina, fino al
progetto per la facciata di San Lorenzo a Firenze.
11
Coeve finestre a crociera, nella variante con montante inferiore soppresso, compaiono nel cortile della
villa papale della Magliana presso Roma, realizzata sotto Sisto IV (14711484) su progetto di Giuliano da
Sangallo con importanti modifiche
operate da Bramante avvenute sotto
Giulio II (1503-1513) e, all’elezione
di Leone X nel 1513, con nuove trasformazioni di Giuliano da Sangallo,
al quale si deve l’esecuzione delle citate finestre, cfr. Dezzi Bardeschi
1971, p. 125. Altre finestre a crociera
di disegno semplificato sono presenti nel cortile di Leone X dello stesso
Castello Sant’Angelo, cfr. Gaudioso
1976, p. 15, fig. 6.
12
Ackerman 1988, p. 142.
13
Ivi, p. 165.
14
Gaudioso 1976, p. 21.
15
Bedon 1991, p. 76; Bedon 2008, p.
75.
16
Si veda il saggio di Georg Satzinger
sulla cappella Sforza in Santa Maria
Maggiore a Roma in questo stesso catalogo.
17
Sulla titolazione originaria di questa cappella non è stata fatta alcuna
chiarezza; gli inventari quattrocenteschi del castello descrivono una cappella presso la “magna curia”, ovvero
l’odierno cortile dell’Angelo, dotata
di un semplice altarolo portatile e che
certamente corrisponde al vano in
esame; cfr. Zippel 1912, alla voce ecclesia dell’indice dei nomi a fine volume; sulle antiche cappelle di Castel
Sant’Angelo, cfr. anche Borgatti
1931, p. 280; D’Onofrio 1971, pp.
108-110.
18
Argan, Contardi 1990, p. 64.
19
L’ambiente attuale, con le statue e
il più moderno altare, è frutto di numerosi restauri successivi, tra cui i
lavori di trasformazione dei soffitti
dell’ambiente effettuati tra 1734 e
1735, sotto il pontificato di Clemente XII (1730-1740), e i lavori di
ripristino più recenti compiuti da
Mariano Borgatti a partire dal 1910,
cfr. Borgatti 1931, pp. 279-282, in
part. 280 e figg. 104-105; sul pavimento in maiolica si vedano le interessanti considerazioni relative alla
committenza e all’esecuzione in
Mazzucato 1985 e Spallanzani
2005.
20
Pagliucchi 1906-1909, ed. consultata 1973, pp. 69-73.
21
Rezzi 2005, p. 89, figg. 4-8; Gaudioso 1976, p. 16, fig. 7 e p. 38, fig.
36.
22
Gaudioso 1975, p. 26; un giudizio
poco lusinghiero sull’esecuzione dell’opera è annotato in Schiavo 1953,
p. 154, fig. 38.
23
Sono numerosi i disegni che, nel
tempo, la critica ha avvicinato alla
progettazione di questa facciata. Pur
rilevandone la sostanziale incongruenza, se ne dà di seguito un rapido
excursus; Casa Buonarroti, 89 A recto (Corpus 524 recto, in Schiavo
1953, p. 154), meglio assegnabile come studio per la parete occidentale
del ricetto della Biblioteca Laurenziana, cfr. Hirst 1993, p. 135; Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi, 18724
F verso (Corpus 317 verso, Ferri, Jacobsen 1904, p. 32; Ferri, Jacobsen
1905, tav. XIX, fig. 236; Tolnay
1975, p. 63), assai dubitativamente
autografo, come sottolineato in Gaudioso 1976, p. 33; Casa Buonarroti,
58 A recto (Corpus 494 recto, Tolnay
1975, p. 85), per una finestra alla
“veneziana”, cfr. Gaudioso 1976, p.
16; Archivio Buonarroti II, III, f. 30
verso, attribuito da Tolnay (Corpus
493 verso), e più convincentemente
assegnato da Caroline Elam come
probabile pianta per il monumento
dei Magnifici nella Sagrestia Nuova,
cfr. C. Elam, scheda 12, in Elam
2006, pp. 185-187.
24
Il disegno è assegnato ad Aristotile
da Sangallo da Geymüller 1885, pp.
22-31 e Gaudioso 1976, pp. 34-37; a
Raffaello da Montelupo a partire da
Nesselrath 1983; ulteriori precisazioni sono in Nesselrath 1986, pp.
129 e 135; il foglio figura escluso e silentio dal catalogo di Aristotile da
Sangallo anche da Ghisetti Giavarina
1990, pp. 97-98.
25
Per il disegno cfr. Lemerle 1997, p.
298, cat. n. 740 e, per l’analisi del taccuino, ivi, pp. 283-289 oltre che
Nesselrath 1986, pp. 129 e 135.
26
Nelle riproduzioni fotografiche del
foglio, l’estremo margine inferiore
dove è scritto “di traverti[no]”, oltre
ad apparire ormai quasi illeggibile,
non arriva mai a essere riprodotto,
cfr. Lemerle 1997, p. 298.
27
Il foglio, della cui esistenza ha dato
annuncio per primo Charles de Tolnay (la notizia è riferita in Gaudioso
1976, p. 16 e Ackerman 1961, vol.
II, p. 1) è stato pubblicato per la prima
volta in Gaudioso 1976, p. 37, fig.
35.
28
Sul taccuino, si veda Mussolin
2009.
29
Eraldo Gaudioso non ha escluso “la
possibilità che all’ideazione originaria di Michelangelo, ricavata dall’opera realizzata, si sia aggiunta anche una
rielaborazione grafica del progetto”,
operata successivamente da altri artefici e testimoniata proprio da questi
quattri fogli, Gaudioso 1976, p. 37.
30
Ackerman 1961, vol. II, p. 2.
31
Gaudioso 1976, pp. 9 e 37.
32
Nesselrath 1983, pp. 46-47; Contardi 1991.
33
Resterebbe tuttavia stilisticamente
problematico giustificare la presenza
di quegli strani oculi invetriati inseriti nei riquadri rettangolari dei quadranti superiori.
34
Il sedile, oltre che dai disegni citati,
sembra derivare dall’analogo elemento presente nella facciata della
cosiddetta “Casa di Michelangelo”,
già in via delle Tre Pile in Campidoglio rimontata sulla passeggiata del
Gianicolo nel 1941; su questo popolare falso storico, si veda il saggio di
Clara Altavista presente in questo
volume.
35
La fig. 8 mostra la facciata prima del
1910; la fig. 9, la facciata dopo il ripristino integrativo di Mariano Bogatti.
36
Ciò è noto dalla bolla di Clemente
VII con la quale si istituisce il tesoro
della Tribuna delle Reliquie nella
chiesa di San Lorenzo a Firenze, cfr.
Moreni 1816-1817, tomo II, p. 478.
37
Mussolin 2007; Mussolin in c.d.s.
89
DISEGNI DAL Codice Coner: STUDI
DALL’ANTICO E DA ARCHITETTURE ROMANE
1. Bernardo della Volpaia,
Disegno di due basi ornamentali, circa 1514.
Londra, The Sir John Soane’s Museum,
Codice Coner, f. 131
Cammy Brothers
2. Bernardo della Volpaia,
Rilievi di basi, circa 1514. Londra,
The Sir John Soane’s Museum,
Codice Coner, f. 137
dei profili e delle modanature, più che dei loro rispettivi rapporti proporzionali o della loro derivazione archeologica. A
connotare diversamente le copie dal Codice Coner dai coevi
studi architettonici è l’uso della matita rossa, lì impiegata da
Michelangelo con sole due eccezioni eseguite a penna e inchiostro, tra cui il foglio del British Museum, inv. 1859-6-25-548
(Corpus 515)8 e quello presente in mostra di Casa Buonarroti 5
A recto (cat. 13; Corpus 514 recto), la cui dipendenza dal Codice Coner non sembra però essere così diretta9. Distinta dalla
matita nera perché più difficilmente cancellabile ed eccezionalmente utilizzata per disegnare architetture da Bramante e Baldassarre Peruzzi (che alla stregua di Michelangelo erano anche
pittori), la matita rossa non è mai stata uno strumento di disegno comunemente impiegato dagli architetti che le hanno sempre preferito la penna a inchiostro, la quale diversamente richiede grande attenzione e assai più tempo10. L’impiego della
matita rossa da parte di Michelangelo avvalora pertanto l’idea
che le copie in questione siano state eseguite in velocità, rivelando una mano assai sicura nei pochissimi pentimenti.
Tra XV e XVI secolo, nessun architetto che ai nostri occhi possa
definirsi tale fece a meno di stabilire un profondo legame con
l’antico e le sue architetture. In certa misura ciò fu vero anche
per Michelangelo, che, avendo vissuto a Roma a più riprese fin
da quando era appena ventenne, maturò una naturale familiarità con le antiche rovine romane1. Le sue architetture evitano di
citare i più ovvi riferimenti all’antichità, tipici di molti contemporanei, e non presentano quelle esplicite rielaborazioni delle tipologie antiche quali se ne osservano ad esempio nell’opera di
Donato Bramante2. D’altra parte, per un architetto di quell’epoca, e proveniente da un ambiente culturale così influenzato dal
passato classico, sarebbe stato impossibile non tener conto della
tradizione romana e non adattarsi a essa. Di Bramante non è tuttavia nota alcuna testimonianza diretta di rilievi dei monumenti, anche se Giorgio Vasari riferisce che questi eseguì tali disegni
per servirsene nelle sue prime commissioni3. Anche per Michelangelo, fino a poco tempo fa, non era attestata nessuna prova
del fatto che si fosse cimentato in tale attività. Alcune annotazioni su copie di monumenti romani, in parte tratte dall’opera
di Alberto Alberti, indicherebbero che Michelangelo abbia
schizzato e rilevato dettagli e frammenti di architetture antiche4. Ma dai disegni autografi giunti fino a noi sembra che l’artista, intorno al 1516, abbia aggirato l’arduo compito di esercitarsi con studi e rilievi dal vero, scegliendo piuttosto di servirsi
dei disegni eseguiti probabilmente intorno al 1514 dall’architetto fiorentino Bernardo della Volpaia, conosciuto probabilmente tramite il comune amico Giuliano da Sangallo5.
Quei disegni, inseriti nel volume oggi chiamato Codice Coner
(figg. 1-4), conservato presso il Sir John Soane’s Museum di
90
Londra, descrivono una vasta gamma di tipologie architettoniche rappresentate in proiezione ortogonale, con accurate planimetrie, sezioni e prospetti. Va detto tuttavia che i soggetti copiati da Michelangelo nei suoi fogli includono solo un esiguo numero di dettagli, ciascuno estrapolato dal suo contesto e raffigurato in maniera selettiva e senza alcun interesse per le misurazioni. Si tratta di sei fogli, cinque custoditi in Casa Buonarroti, 1
A recto-verso (cat. 8a-b; Corpus 518 recto-verso), 2 A recto-verso (cat. 9a-b; Corpus 517 recto-verso), 3 A recto-verso (cat. 10ab; Corpus 520 recto-verso), 4 A recto-verso (cat. 11a-b; Corpus
519 recto-verso), 8 A recto (cat. 12; Corpus 512 recto), e un altro foglio al British Museum, oggi diviso in due metà, inv. 18596-25-560/1 recto-verso (Corpus 516 recto), 1859-6-25560/2 recto-verso (Corpus 511 recto)6.
Pur non potendo considerare Michelangelo un interprete letterale del De Architectura di Vitruvio (I sec. d.C.), egli prestò
un’attenzione ai dettagli architettonici riscontrabile solo in
quei coevi architetti che al trattato vitruviano ricorsero quale
principale autorità di riferimento7. Probabilmente ciò rispondeva a esigenze pratiche: nel prepararsi alla sua prima commissione architettonica, quella relativa alla facciata della chiesa di
San Lorenzo a Firenze, Michelangelo ebbe bisogno di dimostrare in tutta concretezza la propria familiarità con il linguaggio architettonico “all’antica”, cosicché tralasciò ogni altro interesse, teorico o compendiario, che non rientrava nei suoi immediati programmi. D’altro canto, l’attenzione dell’artista per
il disegno dei dettagli architettonici si distingue assai bene da
quello manifestato dalla sua controparte vitruviana: dai disegni
di Michelangelo trapela una ricerca continua per la modellatura
Funzione
Gli architetti al tempo di Michelangelo ebbero diverse ragioni
per disegnare copie dall’antico. Già agli inizi del Cinquecento
questa pratica era stata assunta a principale metodo di formazione della disciplina. I taccuini da essi realizzati giunsero così
a fungere quasi da “diploma” da esibire ai committenti quale
prova delle loro specifiche conoscenze in materia. In mancanza
di altre forme di certificazione, avere raccolto una serie di disegni di antichità costituiva una sorta di attestato professionale.
Ma al tempo in cui Michelangelo ebbe modo di conoscere a fondo l’architettura antica, la fama da lui già raggiunta rendeva superflua ogni altra credenziale. Una ulteriore caratteristica, da
aggiungere alle molte peculiarità delle copie michelangiolesche
dal Codice Coner, è quella che esse non furono destinate ad altri
se non allo stesso autore, diversamente dagli analoghi disegni
dei contemporanei. Sotto tale aspetto, il contrasto con i disegni
del suo mentore Giuliano da Sangallo difficilmente potrebbe
essere maggiore11.
I disegni di Bernardo della Volpaia non emergono per spirito di
invenzione, ma presentano vari elementi architettonici con
chiarezza e precisione; aspetti, questi, che Michelangelo non
tentò in alcun modo di riprodurre nell’esecuzione delle sue copie. Il disordine che regna nei fogli di Michelangelo, con schizzi
sparsi secondo orientamenti vari e proporzioni disparate, è tale
che avrebbe probabilmente ostacolato persino una ricorrente
consultazione da parte del suo autore. Questi schizzi non danno
l’impressione di essere stati realizzati come “schede di archivio”, ma piuttosto si direbbero eseguiti in fretta, quasi fossero
gli anni dal 1505 al 1516
91
esercizi di memoria. Il sembrare rapide annotazioni grafiche
non esclude un loro riutilizzo nel tempo da parte di Michelangelo e, nonostante molti altri disegni dell’artista presentino tale
caratteristica, la loro stessa sopravvivenza fa supporre che Michelangelo li abbia potuti riutilizzare al di là dello scopo per cui
essi furono realizzati. La tendenza dell’artista a ripetere e a riutilizzare alcuni specifici elementi per tutto l’arco della vita costituisce un’ulteriore indicazione dell’uso coerente con cui utilizzò il proprio archivio di immagini. Le copie michelangiolesche si
differenziano dunque dagli analoghi esempi coevi non solo per
l’aspetto ma anche per la funzione. Affrancato dall’esigenza di
stupire i committenti grazie alla propria posizione, Michelangelo impiegò i suoi disegni come un taccuino personale e come un
diario della propria formazione da autodidatta.
Composizione e contenuto
Se i fogli del Codice Coner di Bernardo della Volpaia mostrano
un materiale attentamente organizzato per tipologie, con esempi elegantemente disposti su ogni singola pagina, nelle sue copie
Michelangelo non si è minimamente premurato di rispettare
l’ordine o la logica compositiva dell’originale. Il foglio di Casa
Buonarroti 1 A recto, contenente studi di basi, raccoglie esempi
tratti da diverse pagine del Codice Coner e li raggruppa in maniera ravvicinata secondo orientamenti disparati, con poco o nessun riguardo per l’ordine o per la leggibilità. Basti confrontare,
ad esempio, il citato 1 A recto (cat. 8a) con i corrispondenti dise92
gni del Codice Coner, sparsi in molti fogli, tra cui i ff. 131 e 137
(figg. 1-2)12.
Diverse basi sono persino capovolte, dando l’impressione che
l’artista lavorasse in estrema velocità, curandosi soltanto dello
spazio vuoto presente sulla carta. La combinazione sul medesimo foglio di elementi tratti da pagine diverse del codice indica
che, più che studiare il Codice Coner nel suo complesso, Michelangelo creò in modo consapevole una serie di raggruppamenti
personali di esempi utili o interessanti.
Le copie si incentrano in prevalenza su particolari architettonici, quali basi, capitelli, cornici, trabeazioni. Per esempio, sui
due fogli 8 A recto parte destra (cat. 12; da Codice Coner, ff. 53
e 54)13 e 2 A verso parte destra (cat. 9b; da Codice Coner, f. 49,
fig. 3)14 Michelangelo eseguì studi dell’arco di Costantino e del
mausoleo dei Plauzi al ponte Lucano sulla via Tiburtina. L’elemento comune di questi due monumenti, per esempio, è di lasciare ampio spazio alle campiture a rilievo, caratteristica che
può servire da modello su come incorporare questi ultimi in
uno schema architettonico complesso. Pertanto, gli alzati copiati dall’artista, al pari dei particolari architettonici, gli avrebbero fornito quei modelli da impiegare prontamente nel progetto per la facciata della chiesa di San Lorenzo. La parte sinistra del foglio 2 A recto (cat. 9a) è un particolare della trabeazione della basilica Aemilia copiato dal f. 77 del Codice Coner
con analogo soggetto (fig. 4)15.
Sebbene il Codice Coner includa principalmente architetture an-
3. Bernardo della Volpaia, Rilievo del prospetto
del mausoleo dei Plauzi, circa 1514. Londra,
The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 49
4. Bernardo della Volpaia, Rilievo assonometrico
della cornice della basilica Aemilia, circa 1514. Londra,
The Sir John Soane’s Museum, Codice Coner, f. 77
tiche, Bernardo della Volpaia vi descrisse graficamente anche
opere e dettagli a lui contemporanei. Michelangelo copiò insieme modelli antichi e a lui coevi, anche se non è del tutto chiaro
se conoscesse tali esempi e prestasse attenzione alla loro differenza. Comunque sia stato, il risultato è alquanto paradossale,
giacché mostra come Michelangelo, fiero assertore della propria
indipendenza, imparasse oltre che dagli antichi, anche da suoi
contemporanei rivali quali Bramante e Antonio da Sangallo il
Giovane. Alcuni disegni mostrano dettagli del cortile del Belvedere in Vaticano (1 A verso, cat. 8b) e cornici di Antonio da Sangallo il Giovane (1 A verso, cat. 8b; 4 A recto, cat. 11a)16.
Il modo in cui i disegni del Codice Coner sono presentati sulla
pagina produce un effetto unificante dovuto all’affiancamento
dei dettagli antichi a quelli moderni. Conseguenza di tale effetto – assimilato anche da Michelangelo – fu che le opere antiche
e quelle moderne presentassero il medesimo valore di modello.
Ma se Bernardino fornì almeno una minima quantità di dati
identificativi riguardo alle fonti dei particolari disegnati, Michelangelo li omise del tutto. Così anche se al momento dell’esecuzione delle copie egli venne a conoscenza dell’origine di
questi modelli, nei suoi disegni non compare traccia di ciò.
Seppur talvolta Michelangelo si preoccupò di rappresentare i
dettagli d’ornato in alcune delle cornici e delle basi copiate, ad
esempio in 2 A recto e 4 A recto-verso (cat. 9a, cat. 11a-b), nella
maggior parte dei casi preferì ridurre i disegni all’essenziale e sovente al solo profilo. Nel foglio 1 A verso (cat. 8b) l’artista schizzò sulla metà sinistra del foglio i contorni di una serie di cornici
e sulla metà destra diversi piedistalli e cornici. La riduzione dei
disegni a un unico profilo non garantiva soltanto all’artista uno
studio più rapido, ma agevolava anche i reciproci confronti.
Senza distrazioni dovute all’ornamentazione, era possibile individuare più facilmente la differenza tra profili affini.
L’attitudine di Michelangelo verso l’antico, così come la sua formazione, sembra ancora sfuggire alla critica. Su entrambi gli
aspetti Michelangelo stesso contribuì a creare maggior confusione non riconoscendo alcun maestro né tra gli autori del passato,
né tra quelli contemporanei. In tale contesto, le poche copie superstiti dal Codice Coner offrono preziose informazioni sul modo in cui Michelangelo imparò a praticare l’architettura e formò
la sua esperienza della tradizione antica.
L’argomento di questo breve saggio è
analizzato più dettagliatamente in
Brothers 2008, pp. 45-83; i principali studi sulle copie michelangiolesche
dal Codice Coner sono Lotz 1967;
Agosti, Farinella 1987a; B. Contardi,
scheda 6, in Argan, Contardi 1990,
pp. 154-160; i singoli disegni sono
inoltre esaminati in Wilde 1953a, nn.
18-19; Maurer 2004, pp. 160-164;
Burns 2006, pp. 31-36, in part. p. 33;
Brothers 2006, pp. 164-165.
2
Ackerman 1951; riguardo al rapporto di Michelangelo con l’antichità, cfr.
Hemsoll 2003; Krieg 2003.
3
L’aneddoto è riferito in relazione alla
commissione a Bramante del chiostro
di Santa Maria della Pace a Roma da
parte del cardinale Oliviero Carafa,
cfr. Vasari, ed. Bettarini, Barocchi
1966-1987, vol. IV, p. 76.
4
Vale la pena citare come esempio
suo taccuino, H. Burns, scheda 3.2.11,
in Frommel, Ray, Tafuri 1984, p. 422;
un altro possibile intermediario per
far conoscere il taccuino a Michelangelo potrebbe essere stato Baccio
d’Agnolo, cfr. Elam 2006a, pp. 63-65
con attribuzione a questo artista di una
parte dei disegni del Codice Coner.
6
Wilde 1953a, nn. 18-19.
7
A quanto risulta, Michelangelo faceva parte di un “gruppo di lettura” vitruviano, cfr. Agosti, Farinella 1987b,
p. 81; Elam 2005, pp. 46-49; nonostante ciò, nell’architettura di Michelangelo nulla dimostra la presenza di
elementi espressamente improntati al
vitruvianesimo.
8
Wilde 1953a, n. 20.
9
Come espresso in Wilde 1953a, n.
20, i disegni presenti in questi due fogli sembrano essere una collazione di
esempi tratti dal Codice Coner.
1
gli anni dal 1505 al 1516
almeno una delle annotazioni apposte a questi disegni: “quale Cornice
[del foro di Traiano] è bene lavorata
et intagliata come se vede, quali Michelangelo Bonarota ce fu visto che
la misurò”, cfr. Fairbairn 1998, vol.
I, p. 324, n. 495; queste annotazioni
riferite a Michelangelo sono contenute in diversi fogli conservati sia al
Gabinetto Nazionale delle Stampe
di Roma sia al Sir John Soane’s Museum di Londra: quelli di Londra sono forse copia di quelli di Roma, datati alla fine XVI secolo e attribuiti
ad Alberto Alberti; sull’argomento,
cfr. Fairbairn 1998; C. Brothers,
scheda 3, in Elam 2006, p. 165, in
part. nota 5.
5
L’attribuzione è stata proposta da
Buddensieg 1975; cfr. anche Ashby
1904 e Nesselrath 1992; su Bernardo
della Volpaia, cfr. Pagliara 1989; sul
Si veda Elam 2006a, pp. 53-54; riguardo all’uso della matita rossa in
Bramante, cfr. Huppert 2009, in part.
pp. 161-162. Peruzzi impiegò di frequente la matita rossa, talvolta per distinguere fra le effettive rovine dei
monumenti e le proprie ricostruzioni; sull’uso della matita rossa in generale, cfr. Cohn 1987; Petrioli Tofani
1991; Brothers 2008, pp. 213-214,
n. 14, con bibliografia precedente.
11
Il Codice Barberini di Giuliano da
Sangallo è pubblicato per prima da
Huelsen 1910; sui diversi approcci al
disegno delle rovine antiche, cfr. Nesselrath 1986; Brothers 2002a; Campell 2004.
12
Agosti, Farinella 1987a, pp. 86-87.
13
Ivi, pp. 102-103.
14
Ivi, pp. 106-107.
15
Ivi, pp. 108-109.
16
Ivi, pp. 90-91 e 124-125.
10
93
MICHELANGELO E LA CULTURA ARCHITETTONICA
A ROMA ALLA METÀ DEL XVI SECOLO
Maddalena Scimemi
GLI ANNI DAL 1534 AL 1564
Molti sono gli artisti della metà del Cinquecento che hanno ceduto alle lusinghe della carta stampata. Sembrerebbe una prerogativa di architetti pittori, quasi in reazione ai tentativi in
campo teorico lasciati incompiuti della generazione di “illetterati” che li aveva preceduti1. Una generazione con la quale, a
cominciare da Donato Bramante, Raffaello, Baldassarre Peruzzi e i Sangallo, si era aperta una delle stagioni più felici della storia dell’arte, in cui la rinascita delle “tante maniere antiche”2 era stata intesa come produzione testuale oltre che materiale, integrando il rilievo delle rovine romane con lo studio
dei classici e la loro discussione in ambito teorico3. Se infatti si
considera l’intervallo di tempo intercorso tra la prima edizione delle vitruviane Regole generali di architettura sopra le cinque maniere degli edifici (o Quarto Libro, Venezia 1537) e la
riedizione dei primi cinque tomi della serie ideata da Sebastiano Serlio, comprendente lo stravagante Extraordinario Libro
(Venezia 1566)4, risulta evidente che nell’arco di un trentennio il sapere in campo architettonico è irrorato da un’ondata di
sistematizzazione in lingua volgare e a stampa sino ad allora
mai conosciuta (cat. 18).
È soprattutto a cavallo della metà del secolo che la proliferazione di trattati e di commentari a opera di architetti, in più tomi
o in volumi singoli, configura un panorama culturale composito e ambizioso. Vi sono opere destinate a delineare il territorio della disciplina per architetti dilettanti e per addetti ai lavori, come il già citato Trattato di Serlio e La Regola delli cinque
ordini di Jacopo Barozzi da Vignola (Roma 1562), o le traduzioni dal latino del De Re Aedificatoria di Alberti a opera di
Cosimo Bartoli (Firenze 1550) e del De Architectura di Vitrugli anni dal 1534 al 1564
vio, con le illustrazioni di Andrea Palladio al commentario di
Daniele Barbaro (Venezia 1556). Altre che esprimono rigorose selezioni o ampi repertori desunti dalla ricerca e dallo studio delle antichità romane, come il Libro appartenente all’architettura di Antonio Labacco (Roma 1552), il Libro di M. Pirro Ligorio delle antichità di Roma (Venezia 1553), pionieristico nel suo intento enciclopedico, e Le Antichità della città di
Roma di Lucio Mauro (Venezia 1556), con il primo catalogo di
statue antiche romane compilato dall’Aldovrandi. Altre, infine, come le celebri Vite di Giorgio Vasari (Firenze 1550; cat.
17), che inaugurano il filone della letteratura artistica e, sebbene non esauriscano l’insieme di autori dell’epoca – celebri sono le assenze del bolognese Serlio e del napoletano Pirro Ligorio –, sanciscono una pregnante equivalenza tra pittura, scultura e architettura (cat. 14-15).
In campo strettamente architettonico, il fenomeno rispecchia
l’esigenza di riscattare la professione dell’architetto dallo status di faber a quello di gentilhomo e così assicurarsi una promozione in società, diffondendo il proprio sapere tra i colleghi, ma anche tra principi e cardinali, umanisti, numismatici e
mercanti5. I contenuti presentano con testi e soprattutto con
illustrazioni le “diverse maniere”, nelle parole di Serlio, o le
“misure, ordine e regole”, citando Vasari, del costruire corretto, adottando nella prosa la forma di dialogo e nel disegno ricorrendo all’uso rigoroso delle proiezioni ortogonali, salvo rare eccezioni6.
In questa vasta produzione a stampa, il frontespizio, la dedica
a un munifico benefattore o a un ipotetico patrono da ingraziarsi e la “lettera alli lettori”, ovvero un breve saggio pro95
1. Leonardo Bufalini, Pianta di Roma, 1551
(da Marigliani 2007, p. 132)
grammatico, giocano un ruolo determinante. Il ritratto dell’autore o, in alternativa, la rappresentazione di una sua architettura, garantisce un sintetico flash dell’identità del trattatista, mentre i riferimenti diretti a un personaggio di rilievo,
nelle iscrizioni dedicatorie, intendono stabilire pubblicamente un impegno reciproco tra autore e mecenate, che corrisponderà favori in misura proporzionale alla fatica del volume. Infine il testo introduttivo – emblematico quello inserito nei libri di Serlio e di Labacco – costituisce l’occasione per l’autore
di esprimere sinteticamente il proprio credo; di chiarire quante ortodossie ha rispettato e quali invenzioni si è concesso; e
persino di ingraziarsi un pubblico di nazionalità diverse, avendo l’accortezza di stampare il testo in due lingue, come fa Serlio al termine della propria carriera.
A differenza dei suoi contemporanei, Michelangelo non potrebbe risultare più lontano da tale fervore editoriale. Mentre
sono documentati rapporti con la tradizione architettonica fiorentina e romana, come attestato dai fogli di Casa Buonarroti e
del British Museum contenenti copie ed elaborazioni dal Codice Coner, ed è nota la sua conoscenza del trattato di Vitruvio7,
non c’è la minima traccia di un progetto di pubblicazione autonomo nel corso della sua lunga esistenza. Al disprezzo manifesto per coloro che “cavano” dai modelli antichi corrisponde la
sua indifferenza a quanti teorizzano e divulgano, quasi che l’intero sistema di valori estetici allora in costruzione ruoti attorno
all’artista come una giostra di insignificanti marionette (cat. 1).
Unico esempio da seguire, nei versi delle sue Rime, è un’ideale
bellezza che gli è innata ed è perciò assoluta, inconfutabile, sua
sola ispirazione nella pittura e nella scultura:
Per fido esemplo alla mia vocazione
Nel parto mi fu data la bellezza,
Che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.
S’altro si pensa, è falsa opinione.8
Ma così è anche nell’architettura, dove la “falsa opinione” deve essere fuggita: è un esplicito rifiuto del dialogo con altri del
mestiere, un silenzio costantemente opposto al dibattito che
intorno a lui si ramifica tanto nelle cerchie di dilettanti d’arte
quanto nelle consorterie di artisti. Michelangelo non ha assecondato alcuno dei “caprici” dei potenti adepti dell’Accademia
della Virtù, dove i più devoti funzionari di Paolo III Farnese si
riunivano per erudite discussioni di architettura9, e meno che
mai ha preso parte agli incontri della Compagnia del Pantheon, approvata da Paolo III il 5 ottobre 1542 e dominata dalla
figura di Antonio da Sangallo il Giovane. Qui si raccoglievano
gli architetti Jacopo Meleghino e lo stesso Labacco, e altri gravitanti attorno alla “setta sangallesca”, come i pittori Taddeo
96
Zuccari e Cecchino Salviati, o lo stampatore Antonio Salamanca10.
Ed è proprio da un membro di tale Compagnia, forse di loro il
più assiduo studioso di Vitruvio, che giunge un esplicito attacco a Michelangelo, un attacco esacerbato che, intendendo isolarlo sul piano culturale, sembra involontariamente compiacerne il consapevole distacco. Si tratta del celebre memoriale
del Gobbo, ossia di Giovan Battista da Sangallo, in merito al
cornicione di palazzo Farnese: una lettera diretta a Paolo III
dopo la morte del fratello Antonio il Giovane (29 settembre
1546), nella quale giudica “bastarde” le proporzioni degli elementi del modello ligneo della cornice di Michelangelo, fatta
“al modo barbaro” e non secondo le regole dell’architetto di
Augusto. A conferma della pertinenza delle critiche mosse all’artista fiorentino, Giovan Battista allega un brano della traduzione di Vitruvio alla quale sta lavorando11. Una simile veemenza si spiega con anni trascorsi dai fratelli Sangallo a studiare le pagine vitruviane, sia per pubblicare una traduzione del
trattato latino (mai portata a termine), sia per creare un apparato di illustrazioni a corredo, del quale è testimonianza l’incunabolo corsiniano De Architectura libri decem postillato da
Giovan Battista (cat. 16)12.
Senza voler qui discutere l’approccio di Michelangelo all’antico, né riferire in dettaglio sulla controversa percezione dell’artista fiorentino da parte dei suoi contemporanei13, si deve comunque rilevare nelle accuse del Gobbo l’affronto subito
dall’establishment degli architetti di corte, ormai omologati da
anni di studi e discussioni, per effetto delle forme inspiegabili
ideate da Michelangelo, forme irriducibili a una regola nota e
condivisa. Una distanza abissale allontana l’uno dagli altri,
percepita dai suoi oppositori sul piano culturale, mentre dall’artista è fieramente ribadita come conseguenza del proprio
ineludibile metodo operativo. Manifestazioni evidenti per i
suoi contemporanei di un elevato livello culturale – come cimentarsi in ambiziose imprese editoriali, esser capaci di fedeli citazioni dall’antico, dedicarsi a meticolosi rilevamenti delle
rovine – per Michelangelo non contano. Argomenti che sono
oggetto di dibattito, come la polemica che vedeva contrapposti gli antiquari, sostenitori della legittima imitazione della rovina nell’architettura moderna, e i vitruviani, che volevano selezionate dall’antico solo le opere coerenti con i precetti
espressi nel De architectura, non lo coinvolgono, per lo meno
non abbastanza da spingerlo ad abbandonare la quotidiana
concentrazione sul lavoro manuale per inserirsi in cenacoli, né
per rispondere per iscritto alle provocazioni14. Egli non ha alcun bisogno di produrre titoli per parlare, per progettare, per
costruire. E se consideriamo la pubblicazione come un medium dei tanti a disposizione dell’architetto cinquecentesco
per comunicare con il suo pubblico, non sorprende riscontrare
gli anni dal 1534 al 1564
97
che anche nell’utilizzo del disegno e del modello, strumenti
per eccellenza del fare architettura, egli abbia seguito strade diverse dai suoi colleghi15.
È inutile rilevare che seppure Michelangelo sembri sottrarsi al
dibattito culturale contemporaneo, egli sia ben consapevole
delle proprie “terribili” licenze e le sue opere risultino in qualche modo calibrate proprio per reagire a quegli stessi argomenti dibattuti dai suoi avversatori. Esiste, tuttavia, uno specifico campo del sapere di allora al quale egli non sembra essersi mai dedicato né interessato, non essendone rimasta traccia
né nei suoi disegni e scritti, né nelle pagine dei suoi biografi: lo
studio della topografia di Roma antica e moderna.
Proprio nella metà del Cinquecento, infatti, come esito della
strategia geopolitica di quindici anni di pontificato di Paolo III
(1534-1549), un nuovo impulso viene dato a pittori, architetti e ingegneri militari affinché si cimentino in rappresentazioni bidimensionali della città di Roma e dello Stato della Chiesa16. Ciò corrisponde a una programmatica campagna di riconquista dell’identità della cristianità, messa in atto dal pontefice
nei primi delicati anni della Controriforma ed essenzialmente
mirata a incidere sulla cultura visiva, più che architettonica,
contemporanea17.
In primo luogo, moltiplicando le concessioni di privilegio di
stampa, Paolo III promuove imprese editoriali di soggetto romano prediligendo immagini solenni e ieratiche, adatte a catturare un pubblico di massa, e intendendo così reagire alla divulgazione delle stampe di ispirazione protestante. Egli assume stampatori ufficiali per pubblicare testi letterari e religiosi
in greco e latino, ma patrocina anche opere grafiche dedicate
alla descrizione di Roma e del suo territorio, come la mappa
cartografica dello Stato della Chiesa disegnata da Eufrosino
della Volpaia (Roma 1547)18.
In secondo luogo, il “papa romano” predispone il riassetto
dell’immagine fisica dell’Urbe, allo scopo di riportarla ai fasti
dell’antichità ma anche di aggiornarne la facies sugli esempi di
altre capitali europee quali Parigi e Madrid e di potenziare i
luoghi di culto e i percorsi tradizionalmente frequentati dai
pellegrini19. Nel centro della cristianità si fa promotore dell’apertura e della rettificazione di tracciati viari e di piazze, incoraggiando l’opera dei Maestri di Strada di comprovata fiducia, e intraprende – senza tuttavia riuscire a portarla a termine
– la conclusione della cinta aureliana erigendo nuove possenti
mura attorno al Vaticano e monumentali porte urbiche, su
progetto di Antonio da Sangallo il Giovane. Al culmine di tale
strategia di autopromozione si collocano inoltre gli interventi
sulle sedi del potere più simbolicamente pregnanti, ovvero
l’allestimento dell’appartamento papale e l’apertura della loggia nord in Castel Sant’Angelo, ma soprattutto la costruzione
98
di un nuovo sontuoso percorso cerimoniale all’interno dei Palazzi Vaticani, costituito dalla Scala Regia, Sala Regia e dalla
cappella Paolina.
“Preoccupazione prima”, per Paolo III è “l’immediata leggibilità dei messaggi”20. Alle numerose e costose opere in cantiere,
pertanto, corrisponde la propaganda delle stesse patrocinata
dal pontefice in ambito editoriale, come testimoniano le incisioni del modello della basilica di San Pietro ideato da Antonio
da Sangallo il Giovane pubblicate da Antonio Salamanca21, e la
straordinaria edizione della pianta zenitale di Roma tracciata
da Leonardo Bufalini ed edita in venti fogli e quattro striscie
nel 1551 da Antonio Blado (fig. 1).
Nella pianta di Bufalini, otto secoli dopo la Forma Urbis Romae, sono tracciate insulae del tessuto urbano moderno, piazze e strade, e con la stessa convenzione sono restituiti i contorni di monumenti superstiti e di rovine, benché la riproduzione risulti sommaria anche quando si tratti di complessi in realtà ancora ben visibili. Con estrema precisione, invece, sono
tracciate le mura aureliane e l’orografia, al punto che tutti i segmenti murari del perimetro antico e dei nuovi apparati difensivi – realizzati e incompleti – risultano meticolosamente disegnati e quotati. Compaiono infatti il nuovo bastione nei pressi
di porta Ardeatina, accanto alle terme di Caracalla, e quello
della Colonnella, il baluardo prospiciente il monte Testaccio
presso il Priorato di Malta, sull’Aventino, che all’epoca della
pubblicazione non era stato concluso22.
Bufalini, il disegnatore, è un ingegnere militare udinese, giunto a Roma negli anni trenta e dal 1534 impegnato nella redazione e nella realizzazione delle nuove fortificazioni farnesiane progettate da Antonio il Giovane. Blado, di origini mantovane, stampatore camerale della Santa Sede23. La pianta del
1551 con il dettaglio delle nuove fortificazioni, a cinque anni
di distanza dalla morte dell’architetto che le aveva ideate e a tre
anni da quella dello stesso pontefice, sembra voler ribadire
l’attualità del progetto farnesiano, ma non solo. Senza essere
“corretta” scientificamente (la scala è incoerente, gli angoli distorti, i tracciati viari deformati, qualche toponimo sbagliato),
la rappresentazione zenitale di Bufalini restituisce la topografia di Roma antica e moderna impiegando nel metodo di rilevamento e nel sistema di rappresentazione quanto prescritto
nella lettera di Raffaello a Leone X24.
Forse meglio di qualsiasi altra immagine questa pianta della
metà del Cinquecento, intrecciando l’orografia con dati cartografici, archeologici e toponomastici di Roma, dimostra di essere in continuità sul piano culturale con gli interessi e le ricerche intraprese a Roma nei primi decenni del secolo e non sorprende riscontrare che tale continuità sia dovuta a uno stretto
collaboratore di Antonio da Sangallo il Giovane, del quale per
quindici anni aveva potuto consultare i disegni di rilievo, gli
studi sulle antichità e i fogli di progetto.
Michelangelo appare essenzialmente estraneo alle ricerche
sulla topografia antica e moderna, invece così diffuse tra gli architetti suoi contemporanei, e ciò nonostante nel corso della
sua lunga esistenza egli abbia respirato l’ambiente erudito e il
gusto antiquario della corte medicea e, in seguito, sia stato
coinvolto da Paolo III nel progetto delle nuove fortificazioni di
Roma, dovendo per questo confrontarsi con lo stato di fatto
dei confini della città e le condizioni del sito.
E una conferma della sua estraneità a tale milieu culturale ma, al
tempo stesso, la consapevolezza, da parte dei suoi contemporanei, che tale estraneità è dovuta al superamento del tempo presente delle sue opere, si può riscontrare nella dedica di un’opera
a stampa di allora. Nella traduzione in volgare della Roma
Triumphans di Biondo Flavio (1503), pubblicata a Venezia nel
1544, l’editore veneziano Michele Tramezzino inserisce una
dedica a un sorprendente patrono25: si tratta dello stesso Michelangelo, che Tramezzino ammette di non conoscere di persona e
che sa impegnato a eseguire gli affreschi della cappella Paolina.
L’architettura è solo uno dei temi trattati nel volume di Biondo
Flavio ed è concentrata nel Libro Nono, dove si ragiona “de le ville, e de gli edifici de la antica citta di Roma”26, ma Tramezzino
non si preoccupa che gli argomenti siano di interesse per Michelangelo, perché la scelta dell’artista come patrono è dovuta al lustro che il suo nome recherà all’edizione. “Difficile cosa è, poter
ben giudicare, se le opere vostre più si assomigliano a quelle eccellenti antiche, ò più quelle alle vostre, Anzi posto da canto la
debita riverenza ch’all’antichita si porta, chiaramente si vede,
che ancor che sia necessario, che chi segue altrui, li sia doppo.”
Non sappiamo se e quanto Michelangelo abbia potuto gradire
una simile lusinga da parte del “libraro” veneto, né se abbia
qualche volta indugiato sulle pagine del volume di gusto antiquario a lui consacrato. Di certo la scelta di preferire un artista
al pontefice innamorato di antichità o a un potente membro
della Curia Romana è l’ennesima stravolgente conseguenza
della grandezza dell’opera di Michelangelo e una riprova del
suo essere oltre la cultura del proprio tempo.
Sull’impiego del termine “illetterato” adottato da Cesare Cesariano per
il suo maestro Bramante si veda
Bruschi 1990, p. 262.
2
Bruschi 2002b, p. 10.
3
Sull’esistenza di un trattato in cinque libri di Bramante si vedano Förster 1956, pp. 135 sgg; Forsmann
1988, p. 16; sui progetti editoriali di
Raffaello, Burns 1984 e Shearman
2003, pp. 538-542; sul lascito di un
trattato da parte di Peruzzi, Burns
1988 e Günther 1990.
4
Sul progetto editoriale complessivo di Serlio, lasciato incompiuto alla
sua morte, si veda Fiore 2001; sull’edizione veneziana qui riprodotta
si veda Morresi 2004.
5
Si vedano in proposito gli scritti di
Christof Thoenes sugli architetti
trattatisti dei secoli XV-XVI, dove
oltre alle implicazioni sul piano sociale si sottolinea l’importanza della
produzione testuale come verifica
della prassi progettuale, e in particolare Thoenes 2003; Thoenes 2004.
6
Come le prospettive pubblicate nel
Libro d’Antonio Labacco appartenente a l’architettura nel qual si figurano alcune notabili antiquità di Roma, Roma 1552.
14
Sul dibattito tra l’umanista francese Guillaume Philandrier e quanto
sostenuto da Serlio si veda Pagliara
1986, p. 57.
15
Sull’importanza dei modelli nell’opera michelangiolesca si veda
Mussolin 2006; sul disegno cfr.
Elam 2006a, pp. 55-63.
16
Si vedano Almagià 1952, pp. 4243 e Almagià 1916.
17
Sull’importanza delle strategie
culturali di Paolo III si vedano Bruschi 2002b, p. 9 e Tafuri 1992, pp.
242-244.
18
Sulla concessione dei privilegi di
stampa a Roma nel Cinquecento si
vedano Nuovo, Coppens 2005, pp.
204-205 e soprattutto Witcombe
2004 e Witcombe 2008, pp. 87105. Sulla mappa di Eufrosino si veda Ashby 1914.
19
Una rassegna degli interventi sul
tessuto urbano durante il pontificato Farnese si trova in Simoncini
2008, pp. 97-148.
20
Tafuri 1992, p. 244.
21
Si veda supra.
22
Per il progetto di fortificazioni di
Roma di Antonio il Giovane si vedano Fiore 1989; Fiore 1996; Bianchi
2001. Per una sintesi generale delle
1
gli anni dal 1534 al 1564
Cfr. Elam 2006a, pp. 63-65; Agosti, Farinella 1987a, pp. 25-27 e 3637.
8
Rime, p. 88 (Madrigale 164).
9
Si veda Günther 2002, pp. 126128, con bibliografia.
10
L’ingresso nella Compagnia di Salamanca, avvenuto nel maggio 1546
pochi mesi prima della morte di Antonio il Giovane, è stato messo in relazione con la pubblicazione delle
tre celebri stampe rappresentanti la
Basilica di San Pietro in Vaticano in
prospetto e sezione longitudinali e
in facciata secondo il modello di
Sangallo eseguito da Labacco tra il
1546 e il 1548. Si veda in proposito
Witcombe 2008, p. 104.
11
Pagliara 1982; cfr. inoltre Pagliara
1986, pp. 47-48.
12
L’edizione risale al 1486, mentre
le postille e i disegni di Giovan Battista da Sangallo sono databili non
prima della fine degli anni trenta. Si
vedano P.N. Pagliara, scheda 3.3.8,
in Frommel, Ray, Tafuri 1984, p.
428; Vitruvio, ed. Rowland 2003;
P.N. Pagliara, scheda p. 281, in Beltramini, Burns 2008.
13
Si vedano rispettivamente: Burns
2006, pp. 29-36; Günther 2006.
7
fasi costruttive della cinta muraria
di Roma e delle porte urbiche si rimanda a De Carlo, Quattrini 1995.
23
Antonio Blado (1490-1567) è tra i
tipografi più attivi della Roma del Cinquecento. Autore di un carattere corsivo che ottiene un notevole successo, la
vastità e la varietà della sua produzione
restituiscono mutamenti e pulsioni
della vita culturale di Roma dopo il
Sacco: nel 1532 stampa l’editio princeps del Principe di Machiavelli, nel
1534 Antiquae Romae Topographia di
Giovanni Bartolomeo Marliano, nel
1548 gli Exercitia spiritualia di sant’Ignazio di Loyola e nel 1553 la Vita di
Michelagnolo Buonarroti raccolta per
Ascanio Condivi. Si vedano Vaccaro
1961 e Witcombe 2008, pp. 65-69.
24
Si riporta qui quanto sostenuto da
Huppert 2008, in particolare p. 94.
25
Roma Trionfante di Biondo da Forlì, tradotta pur hora per Lucio Fauno
di latino in buona lingua volgare,
Michele Tramezzino, Venezia 1544.
La segnalazione del volume e della
dedica a Michelangelo è uno dei tanti regali che ho ricevuto da Howard
Burns, al quale rivolgo un ringraziamento di cuore.
26
Ivi, pp. 315-355.
99
LA “SEPOLTURA” DI GIULIO II
DAI PRIMI PROGETTI ALLA REALIZZAZIONE
1. Michelangelo Buonarroti e aiuti,
Monumento funebre di Giulio II,
1533-1544. Roma, San Pietro in Vincoli
Claudia Echinger-Maurach
Io mi truovo aver perduta tutta la mia giovineza
legato a questa sepoltura.
Michelangelo Buonarroti1
Il monumento funebre per Giulio II della Rovere, commissionato nel marzo del 15052, rappresenta la più antica opera romana di Michelangelo nella quale architettura e scultura sono
profondamente legate (fig. 1). Quanto sia facile comprendere
l’importanza di questo monumento, tuttora poco apprezzato,
lo dimostrano le sue più antiche raffigurazioni e in particolare
la magistrale incisione edita da Antonio Salamanca nel 1554
(cat. 22)3. Essa mostra bene come a coronamento del sepolcro
vi fosse una grande finestra a lunetta dal profilo ribassato
inondata di luce e assai ingrandita rispetto alla realtà, la quale
si apriva verso un vano posto direttamente alle spalle del monumento. La stampa costituisce la più antica fonte grafica a
evidenziare la presenza di tale ambiente, palesemente descritto da Giorgio Vasari nella seconda edizione della Vita di Michelangelo. Il biografo ricorda infatti quattro piccole finestre
rettangolari poste nel registro superiore, riaperte con il recente restauro4: “nel vano della nicchia [Michelangelo] vi fece fare
per ciascuna una finestra, per comodità di que’ frati che ufiziano quella chiesa, avendovi fatto il coro dietro, che servono, dicendo il divino ufizio, a mandare le voci in chiesa et a vedere
celebrare”5. In tale luogo posto tra la chiesa e il convento aveva
dunque sede il coro dei canonici regolari lateranensi, ivi residenti6. Il monumento per Giulio II diveniva così un vero e proprio diaframma attraverso cui i canti e le preghiere dei religiosi venivano amplificati lungo le navate della basilica.
100
Di fronte al sepolcro Della Rovere, sulla parete opposta del
transetto, in una nicchia ancor oggi visibile al di sotto dell’organo, si trovava l’altare in cui erano custodite le venerate reliquie delle Catene di san Pietro, commissionato dal grande teologo Nicola Cusano, cardinale titolare della chiesa, il quale aveva fatto apporre la propria lapide sepolcrale ai piedi di quell’altare7. Ciò fornisce bene l’immagine dell’audace invenzione di
Michelangelo, capace di mettere in relazione il monumento
per Giulio II con il coro dei canonici e di stabilire un rapporto
spaziale con l’altare delle reliquie e la tomba di Cusano, rispettivamente posti l’uno di fronte l’altro nelle due testate del
transetto.
È pur vero tuttavia che l’artista impiegò quarant’anni prima di
giungere a questa soluzione. Le ricerche condotte da chi scrive
hanno portato a concludere come i diversi progetti michelangioleschi possano essere raggruppati in due fasi cronologiche distinte, la prima riferibile alla “opera grande”, la seconda relativa
alla “opera risecata”. Alla “opera grande” appartengono i progetti monumentali isolati o parietali destinati alla basilica di San
Pietro in Vaticano, rispettivamente articolati in quattro o tre facciate, ai quali l’artista ha lavorato dal 1505 ai primi anni venti.
Alla “opera risecata” sono invece riconducibili le idee progettuali successive al 1525, riguardanti un monumento a facciata
singola che nel 1532 si decise di eseguire nella chiesa di San Pietro in Vincoli. Va tuttavia ricordato che alcune parti architettoniche, già terminate nel 1513-1514 e quindi eseguite per la
“opera grande”, verranno riutilizzate nella versione finale della
“opera risecata”, il cui registro inferiore fu messo in esecuzione
a partire dal 1533, quello superiore tra 1542 e 15448.
gli anni dal 1534 al 1564
101
2. Michelangelo Buonarroti, Progetto per il monumento
funebre di Giulio II (parte sinistra: due paraste
su doppio zoccolo; parte destra: nicchia ad arco a tutto
sesto con Madonna seduta e sarcofago fiancheggiato
da due paraste su doppio zoccolo), circa 1505. Parigi,
Musée du Louvre, Département des Arts graphiques,
inv. 8026 verso (parte sinistra), 722 verso (parte destra)
Solo l’analisi dell’intero processo creativo di questo monumento consente di comprendere appieno come l’ideazione di
Michelangelo abbia sempre rappresentato l’evoluzione e il
progressivo ripensamento scaturito da una medesima invenzione iniziale. È difficile fornire un quadro sinottico dei progetti di Michelangelo riguardanti la “opera grande”. Tanto la
Vita di Ascanio Condivi del 1553, quanto le due edizioni della biografia vasariana del 1550 e 1568, concordano nel celebrare diffusamente la dirompente forza creativa legata all’idea
di un monumento isolato a quattro facce. Di questa iniziale
proposta tuttavia non resta alcun disegno autografo, pertanto
la sua immagine non può che rimanere affidata alle ipotesi ricostruttive. Infatti l’insieme dei disegni tuttora noti relativi alla “opera grande”, come i perduti modelli ricordati nei più antichi contratti stipulati con la committenza, illustrano piuttosto un monumento di dimensioni colossali con tre facciate libere e la quarta addossata a parete, circostanza, a mio avviso,
su cui è stata data scarsa attenzione. Il verso di un disegno autografo oggi conservato al Louvre (fig. 2)9, databile circa al
1505 – il più antico tra quelli appartenenti al gruppo di progetti con soluzione a tre facce – prevede una struttura ad arco di
trionfo con piloni tetrastili su doppio piedistallo; sotto al fornice centrale è posto un sarcofago privo di figure, nella nicchia
è assisa la Vergine con il Bambino.
102
Una ben più complessa struttura architettonica con nucleo di
statue in analoga disposizione è visibile in un successivo disegno autografo del Metropolitan Museum of Art di New York
(fig. 3; Corpus 489 recto)10, anche questo databile al 1505. In
questa nuova versione dello stesso impianto non solo le dimensioni, ma anche l’espressività e il numero dei personaggi
appaiono estremamente potenziati11. Il centro figurativo si
sposta adesso sull’imago pietatis del giacente, capace di muovere a compassione le restanti figure del secondo registro, specularmente disposte rispetto all’asse centrale: la coppia assisa
più in basso, posta in corrispondenza del basamento, echeggia
i versetti del Dies irae rappresentando il Profeta e la Sibilla; la
coppia stante, posta davanti ai pilastri dell’edicola, rappresenta due giovani con lunghe vesti, l’uno reggente un’acquasantiera e un aspersorio, l’altro un turibolo; le due coppie rimanenti, poste a sorreggere la salma del pontefice, rappresentano
rispettivamente angeli e putti. In alto, al centro dell’edicola, si
colloca la mandorla con la Vergine e il Salvatore tra le braccia,
entrambi benevolmente rivolti verso il defunto. La drammatica messa in scena a più figure del registro superiore, ispirata
tanto alla cerimonia di benedizione della salma del pontefice,
quanto al testo della relativa messa da requiem, sovrasta un registro inferiore caratterizzato da un ordine architettonico con
semicolonne, che si articola in tre campate: le campate laterali
occupate da nicchie con statue a tutto tondo rappresentanti
Virtù morali; la campata centrale, in forte recesso, occupata da
un grande bassorilievo allegorico di Giulio II della Rovere. La
coppia frontale di figure è riconoscibile quale doppia allegoria
della Carità, la virtù teologale che più delle altre rende l’uomo
degno della grazia divina.
Nella prima idea di monumento a quattro facce, Giulio II e Michelangelo avevano inizialmente posto mano a un sepolcro nel
quale la magnificenza figurativa dei mausolei antichi potesse
fondersi in mirabile sintesi alla struttura compositiva propria
degli archi di trionfo romani12. Se si confronta questo primo
progetto descritto da Condivi13 con le statue dei Prigioni, sia le
due del Louvre, sia le quattro dell’Accademia fiorentina – come
noto, eseguite fra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento durante fasi progettuali successive, ma risalenti a
un’idea assai vicina alla concezione originaria – emerge con
chiarezza come committente e artista aspirassero non solo a
creare una tipologia di monumento capace di suscitare ammirato stupore, ma anche ambissero a definire una disposizione
iconografica con ben pochi raffronti, sinonimo di una libertà
espressiva epocale sotto ogni aspetto14. Un evidente recupero
di questa iniziale complessità si riscontra nel successivo stadio
progettuale testimoniato da due fogli autografi, il primo al
Kupferstichkabinett di Berlino (Corpus 55 recto)15, assai più
3. Michelangelo Buonarroti, Progetto
per il monumento funebre di Giulio II, 1505.
New York, The Metropolitan Museum
of Art, Rogers Fund, 1962, n. 62.93.I
4. Giacomo Rocchetti [Rocca], Progetto
per il monumento funebre per Giulio II
(da Michelangelo), ante 1559.
Berlino, Staatliche Museen
zu Berlin – Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, KdZ 15306
5. Michelangelo Buonarroti, Alzato del piano
inferiore del monumento funebre di Giulio II
con annotazioni e schizzo di blocco di marmo,
1518. Londra, The British Museum,
inv. 1859-5-14-824 recto,
inv. 1947-1-17-1 recto
gli anni dal 1534 al 1564
103
6. Ricostruzione del progetto del 1516
per il monumento funebre di Giulio II
secondo l’ipotesi di Johannes Wilde
(da Wilde 1954, p. 7, fig. I)
7. Ricostruzione del progetto del 1516
per il monumento funebre di Giulio II
secondo l’ipotesi di Martin Weinberger
(da Weinberger 1967, vol. II, fig. VIII)
8. Bastiano da Sangallo, detto Aristotile,
Alzato del monumento funebre di Giulio II in costruzione,
circa 1534-1542. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi, 1741 A recto
9. Firenze, San Lorenzo,
Biblioteca Medicea Laurenziana, ricetto
leggibile nella copia di Giacomo Rocchetti anch’essa a Berlino
(fig. 4)16, e l’altro, in stato frammentario, agli Uffizi (Corpus 56
recto)17. Questi due disegni, tutti relativi a un medesimo progetto di monumento a tre facce, corrispondono bene alla descrizione contenuta nel contratto del 6 maggio 151318. Questa, come anche i disegni, prevede un alzato a due registri, di
cui il superiore rimane piuttosto simile alla disposizione del
foglio di New York, mentre l’inferiore risulta più innovativo.
Nel registro superiore resta somigliante la disposizione al centro con la monumentale nicchia circolare nella quale si trova la
mandorla con la Vergine e il Bambino, elevata sopra un sarcofago attorniato da figure; mutati appaiono invece i fianchi della nicchia, tanto nella disposizione dei pilastri quanto nella
coppia di figure elevate al di sopra delle troneggianti statue assise, tra cui il Mosè, disposte in alternanza con putti sodali a pilastrini. Nel registro inferiore, rispetto al foglio di New York, si
vede una più innovativa articolazione dei prospetti in tre campate con nicchie laterali ciascuna occupata da una Vittoria in
posa trionfante sopra altra figura reclinata ai piedi. Lasciando
da parte la soluzione più convenzionale con ordine architettonico inquadrante, Michelangelo introduce adesso il tema delle
nicchie incorniciate da coppie di Prigioni incatenati a termini
di aspetto antropomorfo; un alto bassorilievo rettangolare in
bronzo riempie la campata centrale, celebrando gesta e virtù
del papa, arricchendo così l’invenzione con materiali differenti per esecuzione e colore. Sebbene nel contratto del 6 maggio
1513 il progetto venga minuziosamente descritto, le dimensioni del piano inferiore pari a 14 per 20 palmi (altezza per larghezza pari circa a 308 × 440 cm)19 muovono alcune perplessità: o Michelangelo ha calcolato erroneamente lo spazio necessario oppure era veramente intenzionato a costruire un
monumento di dimensioni più ridotte. Infatti tale proporzionamento consentirebbe la collocazione di sculture di grandezza inferiore a quella naturale, alte circa 7 palmi (circa 154 cm)
mentre nel contratto sono menzionate figure alte circa due
metri. Questa incongruenza viene risolta nella convenzione
che Michelangelo stipula il 9 luglio 1513 con Antonio da Pontassieve, eccellente scalpellino del cantiere di San Pietro, riguardante l’esecuzione di una delle facce del registro inferiore,
“la faccia che viene dinanzi”, calcolata adesso in 17 per 30 palmi (altezza per larghezza pari circa a 374 × 660 cm)20. Queste
misure rendono possibile la sistemazione di sculture più grandi del naturale come i due Prigioni del Louvre, eseguiti tra il
1513 e il 1515 per questo stesso progetto. Con la lavorazione
dei blocchi e la loro finitura lo scultore si avvia verso la fase
conclusiva della realizzazione, ponendosi definitivamente la
questione sulla forma finale della “opera grande”. Nel passaggio dalle elaborazioni grafiche e dai modelli alla realizzazione
nel marmo si compie dunque il passo decisivo: una volta abbandonato lo strumento del disegno l’artista può tradurre finalmente le invenzioni formali tracciate sui fogli nel linguaggio plastico dei blocchi di marmo. Concepire un’opera di quadro architettonico adeguata per un tale numero e una tale varietà di sculture non deve essere stata impresa facile per Mi-
chelangelo. Il progetto databile al luglio 1513, e confermato
nel contratto del 1516, tuttavia assegna all’architettura quella
progressiva rilevanza che la porterà a eguagliare i risultati raggiunti nell’opera scultorea21. Va ricordato che parte degli elementi architettonici del progetto del luglio 1513 furono eseguiti esattamente tra il 9 luglio 1513 e il 27 agosto 1514 e sono quegli stessi successivamente riutilizzati nel registro inferiore del monumento realizzato in San Pietro in Vincoli. Antonio da Pontassieve, insieme ad altri aiutanti, aveva lavorato all’opera di quadro e aveva parzialmente scolpito i relativi ornati. Questa fase della progettazione è attestata in un disegno del
British Museum (fig. 5; Corpus 57 recto)22 che mostra una
schematica traccia del primo registro del monumento, formulato come un appunto grafico, vero e proprio ricordo datato
1518, relativo alle parti dell’opera già terminate “di quadro e
d’intagli”. A confronto con i disegni prima osservati di Berlino e Firenze, nell’articolazione architettonica corrispondente
a questo disegno, l’artista scelse una scansione ritmica del tut-
104
gli anni dal 1534 al 1564
105
to innovativa con elementi portanti più robusti proporzionati
ai Prigioni e nicchie più strette con relativi gruppi trionfali
maggiormente slanciati e protesi verso l’alto; ma anche si
orientò verso una più serrata concentrazione di figure contenute in uno spazio maggiormente ridotto. Va detto inoltre che
le due nicchie laterali del fronte principale, inquadrate dai rispettivi termini, sono assai meno incassate della nicchia rettangolare posta al centro, rientrante di quasi 70 cm. Lo stile
degli intagli dei contropilastri interni della nicchia con il Mosè
in San Pietro in Vincoli suggerisce anch’esso la stessa datazione al biennio 1513-151423; ciò evidenzia inoltre come tale alloggiamento definitivo fosse già stato progettato allora e non
costituisce pertanto, come altrove ventilato, un adattamento
eseguito in situ – e a posteriori – per ospitare la celebre statua.
Alla luce di questa dettagliata analisi sono inevitabilmente portata a supporre che già il progetto del luglio 1513 mostrasse un registro superiore scandito dal medesimo ritmo e dalla medesima
coerenza di quello inferiore: tesi da me altrove sostenuta e tuttavia in contrasto con ogni altra ricostruzione tentata a questa
data. La mia ipotesi si differenzia da quella degli altri studiosi
soltanto nell’anticipare al luglio 151324 la modifica progettuale
comunemente assegnata al 151625. Ciò permette di escludere
una serie copiosissima di ricostruzioni proposta in sede critica
intorno alle ipotizzate modifiche inerenti questa fase progettuale. Il contratto del 1516 descrive nei più minimi dettagli un registro superiore come quello da me delineato26. Di questo progetto resta l’alzato parziale del fianco con misure in braccia,
schizzato nel foglio 69 A di Casa Buonarroti (cat. 20; Corpus 58
recto)27, probabilmente disegnato nella primavera del 1518. Un
attento esame di questo foglio conferma come l’alzato sia da assegnare al registro superiore28, punto correttamente ricostruito
da Johannes Wilde, al quale si deve questo fondamentale riconoscimento: la sua ricostruzione, a esclusione della nicchia centrale
con la Vergine troppo elevata e sormontata da cornice centinata,
rappresenta l’unica soluzione accettabile del progetto del 1516
(fig. 6)29. Nella versione ridotta del monumento corrispondente a
questa data, uno dei fondamentali nodi critici è rappresentato
dalla minore dimensione della nicchia centrale del piano superiore, chiamata “tribunetta” da Michelangelo nel contratto del
151630. La nuova dimensione assegnata adesso alla nicchia superiore, sovrapposta a sua volta allo stretto vano del piano inferiore, costringe a una posizione assai più precaria il vero e proprio
fulcro del monumento – il bel gruppo di figure con la Vergine, il
papa e gli angeli, che tanto entusiasmo aveva suscitato nei primi
progetti. Un tale ridimensionamento rende pertanto superati, in
quanto irrealizzabili, i movimentati gruppi plastici dei precedenti disegni di New York e Berlino, che prescindevano da un rapporto diretto con la struttura architettonica. È adesso il perento106
rio andamento ritmico del nuovo piano superiore a dettare legge alla composizione scultorea. Il foglio 43 A di Casa Buonarroti (cat. 19; Corpus 501 verso)31, databile al 1516-1517, mostra il
profilo laterale del gruppo scultoreo nella nuova disposizione,
per il quale, anche in questo caso, propongo di anticipare l’invenzione al 1513-1516. Per potere alloggiare il gruppo centrale di figure, l’artista è costretto a ridurre considerevolmente l’altezza del
sarcofago facendolo poggiare direttamente su un piano obliquo e
ponendovi il corpo senza vita del pontefice sorretto soltanto da
una coppia di angeli. Tale soluzione lascia tuttavia aperte alcune
questioni: la statua del papa sarebbe stata sufficientemente visibile nella relativa penombra della “tribunetta”? Tenuto poi conto del rientro della campata centrale del registro inferiore – dato
finora poco considerato –, dove avrebbero poggiato i piedi del
pontefice? Come collegare la Vergine a tale gruppo? Come immaginare il rapporto reciproco delle figure del registro superiore? Si osservino a tale proposito le interessanti ricostruzioni in
proiezione ortogonale e verticale di Martin Weinberger (fig. 7)32,
le quali mostrano un registro superiore troppo basso33, nonostante vi sia la convincente proposta di sfruttare le cornici delimitanti le campate laterali come profili di imposta dell’arco della nicchia con la Vergine e di terminare la struttura architettonica
con una trabeazione rettilinea.
Lasciamo Michelangelo alla data del 1516, quando è ormai
realizzata una serie di blocchi di quadro e di figura (alcuni destinati a entrare nella versione finale del monumento in San
Pietro in Vincoli, altri, come i Prigioni, avviati a un diverso destino) e guardiamo alle ragioni che motivarono l’artista a far ritorno a Firenze proprio in quell’anno34, secondo un desiderio
già espresso dal 1514 che ci fa capire come egli escludesse la
possibilità di dovere rimanere a Roma fino al completamento
del monumento. Nel contratto del 1516 si autorizzava lo scultore a lavorare i marmi ovunque egli lo avesse ritenuto più
conveniente35. Assai di rado infatti l’esecuzione di opere scultoree avveniva negli stessi luoghi in cui esse avrebbero dovuto
essere collocate. Finché non fosse stato deciso il luogo esatto
dove erigere il monumento Della Rovere, restava a Michelangelo la possibilità di cambiarne la forma procedendo senza
fretta. Avendo continuo bisogno di nuovi blocchi di marmo,
piuttosto che soggiornare nell’Urbe, lo scultore ritenne più
conveniente far da spola tra le cave apuane e lo studio fiorentino. Egli dunque rimase a Roma fino all’estate del 1516, non
perché impegnato nella committenza roveresca, ma perché
solo allora gli fu chiaro che non avrebbe dovuto pagare alcuna
pigione per la casa in Macel de’ Corvi, persino in sua assenza,
dal momento che sarebbe comunque diventata di sua proprietà al termine dell’incarico36.
Giunto a Firenze, Michelangelo aveva provveduto con metico-
loso scrupolo a effettuare gli ordini delle partite di marmo da
Carrara e Pietrasanta e organizzarne il non facile trasporto alla volta del capoluogo toscano, dove aveva acquistato un fondo in via Mozza al fine di organizzarvi il nuovo studio37. La
realizzazione della nuova serie di sculture destinate alle figure del monumento fu avviata esattamente il 17 maggio 1519
con l’abbozzo dei nuovi blocchi38. In questi anni lo legavano
sempre più a Firenze le commissioni per San Lorenzo provenienti da casa Medici, i cui papi, Leone X e Clemente VII, avevano garantito a Michelangelo una progressiva e straordinaria
protezione.
A impedire definitivamente l’effettiva realizzazione del grande progetto in gestazione dal luglio 1513 e avviato nel 1516,
era stata la morte nel 1520 del cardinale Leonardo Grosso della Rovere, nipote del papa e vescovo di Agen, il quale si era impegnato a destinare alla realizzazione del monumento una
spesa persino superiore a quella lasciata da Giulio II. Scomparso il principale finanziatore del monumento roveresco gli eredi si rifiutarono tuttavia di ottemperare a quell’impegno, provocando un effettivo cambio di programma39. Non deve quindi meravigliare che alla metà degli anni venti si fosse raggiunto un accordo per realizzare un progetto definitivo per la “opera risecata”, che diventerà realtà solo a partire dal 153240. Il 29
aprile di questo anno, dopo laboriose trattative e sotto la supervisione di Clemente VII, si arrivò infatti alla formulazione
di un nuovo contratto, le cui principali clausole erano: l’annullamento definitivo della “opera grande”, prevista ancora come
possibilità nel contratto del 1516; l’impegno a erigere un monumento conforme alla somma già ricevuta di 8000 ducati,
con sei sculture autografe e le restanti affidate ad aiuti; l’obbligo a terminare l’opera entro tre anni, ossia nell’agosto 153541.
Come già accaduto in passato, Michelangelo si dedicò a questo
nuovo progetto solo dopo la sottoscrizione dell’atto. Una volta esclusa la possibilità di collocare il monumento nella basilica di San Pietro, già nell’aprile 1532 Michelangelo optò per
collocarlo nella basilica eudossiana, ovvero in San Pietro in
Vincoli, luogo che offriva condizioni di spazio e illuminazione assai più vantaggiose dell’altra chiesa roveresca per eccellenza, Santa Maria del Popolo, sicuramente più frequentata e
più amata dalla famiglia42. In San Pietro in Vincoli l’artista scelse la parete adeguatamente alta e libera posta alla testata meridionale del transetto. Questa scelta, che impediva di concepire soluzioni troppo grandiose o complesse, deve avere alleggerito lo scultore nonostante la rinuncia all’inserimento di alcune statue già realizzate. Un’attenta lettura del motu proprio del
154243, nonché del Carteggio relativo agli anni 1532-1542
(riguardante, da un lato, le lettere tra Michelangelo e Sebastiano del Piombo e, dall’altro, quelle tra Francesco Maria della
gli anni dal 1534 al 1564
Rovere duca di Urbino e i suoi corrispondenti a Roma, Giovanni Maria della Porta e Geronimo Staccoli), porterebbe alla
seguente conclusione: non solo il progetto del monumento
nella sua forma attuale in San Pietro in Vincoli risale al biennio 1532-1533, ma tra maggio e agosto 1533 Michelangelo
fece anche predisporre e sfondare il muro che avrebbe accolto
la sua opera; contemporaneamente – forse nello stesso 1533
o al più tardi nell’anno successivo – provvide a completare e
far collocare i blocchi dell’opera di quadro del registro inferiore del monumento eseguiti fino ad allora; vale a dire che tale
inserimento nel muro della chiesa deve essere avvenuto un
decennio prima di quanto finora ipotizzato e che, per quella
stessa data, il programma iconografico delle statue destinate
alle nicchie escludeva definitivamente la collocazione di Prigioni e Vittorie44.
L’avvio dei lavori al Giudizio universale45, tra 1534 e 1535, implicò tuttavia un notevole rallentamento alla realizzazione del
monumento nella nuova sede. L’aspetto incompiuto dell’opera a questa fase resta ben documentata sia in un foglio di Aristotile da Sangallo oggi agli Uffizi, databile tra 1534 e 1542
(fig. 8)46, sia in un affascinante disegno di autore anonimo posto nel verso di un foglio, venuto alla luce di recente e oggi in
collezione privata (cat. 21)47. Entrambe le immagini documentano come il monumento sia stato costruito non solo per
singoli elementi, ma anche per fasi successive. Alla fase illustrata dai disegni appartiene anche la messa in opera dei piedistalli del registro superiore, progettati ex novo secondo uno
stile prossimo alle soluzioni decorative ideate per la Biblioteca
Laurenziana a Firenze (fig. 9). In questa stessa fase, come altrove ho avuto modo di dimostrare, per dare al monumento una
conclusione provvisoria l’artista fece collocare come pezzo a sé
il sarcofago con la figura giacente del pontefice, che nel frattempo era stata condotta perfettamente a termine48.
Tra 1534 e 1541, seppur quasi totalmente assorbito dal Giudizio universale, Michelangelo cominciò comunque ad abbozzare il gruppo con la Vergine e il Bambino, terminato nel breve
lasso di tempo compreso tra 1542 e 1544, nonché il Profeta e
la Sibilla del registro superiore insieme alle due figure bibliche
di Lia e Rachele del registro inferiore, allegorie della vita attiva
e della vita contemplativa. Alcune fonti rinvenute di recente
dimostrano che Michelangelo e i suoi collaboratori, tra i quali
emerge soprattutto Raffaello da Montelupo, si attennero scrupolosamente alle scadenze concordate, forse persino anticipandole49. Tutte le statue – tranne il Mosè – furono sistemate in
loco non già a partire dall’inizio del 1545, come finora ritenuto, bensì nel marzo dell’anno precedente. Il Mosè vi era stato
collocato addirittura almeno dall’ottobre del 1544, elemento
questo finora mai rilevato50.
107
10. Pianta del complesso di San Pietro in Vincoli
(da Fontana 1838, vol. II, tav. IV, fig. 1)
11. Rilievo planimetrico del monumento
funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli
alla quota del primo registro
(disegno arch. Giuseppe Papillo)
12. Rilievo planimetrico del monumento
funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli
alla quota del secondo registro
(disegno arch. Giuseppe Papillo)
13. Sezione trasversale del monumento
funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli
(disegno arch. Giuseppe Papillo)
Vale quindi la pena soffermarsi a indagare le istanze che condussero alla realizzazione del monumento in San Pietro in
Vincoli nel suo aspetto attuale. È fuor di dubbio che esso fosse
previsto a doppio registro, seppur senza quei “risvolti”, ovvero facce laterali, fin lì previsti51. In questa fase Michelangelo
non concepisce più un monumento quale opera esclusivamente scultorea, avulsa dal suo contesto architettonico, ma
piuttosto imprime un ulteriore potenziamento all’effetto monumentale, integrando il sepolcro nell’architettura della chiesa, similmente a quanto egli stesso aveva realizzato un decennio prima nei monumenti ai duchi medicei nella Sagrestia
Nuova di San Lorenzo. Il muro della testata del transetto di
San Pietro in Vincoli oggetto dei lavori, almeno sotto la finestra a lunetta, era quello stesso realizzato in epoca paleocristiana, come d’altronde tutta la grande tribuna della chiesa52. Su
questa parete, tramite uno sfondamento, furono create le
aperture per una porta (si tratta di quella a sinistra, dal momento che quella sulla destra è assai più recente), per le quattro finestre rettangolari e per la finestra a lunetta ribassata, oltre la quale bisognò rialzare nuovamente il muro. A Michelangelo si presentarono dunque non solo questioni compositive
relative all’alzato, ma anche problemi di natura statica. Tali bucature compromettono a tutt’oggi la resistenza della parete ed
è straordinario che essa presenti solo piccole crepe. La genialità dell’intervento di Michelangelo è ben evidente osservando
sia le antiche planimetrie sia i rilievi recentemente eseguiti. Le
108
prime restituzioni grafiche mostravano infatti una disposizione regolare degli ambienti che non ha mai rispecchiato la realtà. Le nitide planimetrie dell’architetto Giacomo Fontana pubblicate nel 1838 (fig. 10)53 e le belle tavole di Paul Letarouilly54
di poco successive mostrano entrambe la presenza di un vestibolo, o antisagrestia, posto alle spalle del monumento, che serviva per collegare il transetto, la sagrestia e il chiostro, quest’ultimo tramite una scala oggi non più esistente. L’analisi del
rilievo attuale (figg. 11-13) lascia emergere piuttosto come la
sagrestia fu ricavata all’interno di un vano posto al livello più
basso di una preesistente torre, sensibilmente ruotata, insieme al vestibolo, rispetto ai muri della chiesa55. La moderna sezione eseguita lungo il transetto taglia longitudinalmente il
muro del monumento, dietro il quale si trovano due ambienti
sovrapposti, quello inferiore, più stretto, costituisce il resto
dell’originario vestibolo, quello superiore, più ampio, rappresenta il vano dove si svolsero le funzioni di coro della comunità religiosa56.
I tre fattori che hanno condizionato la dimensione complessiva del monumento per Giulio II nel modo effettivamente realizzato sono stati determinati sia da elementi interni all’opera
sia da vincoli esterni legati alle preesistenze della chiesa: l’elemento interno fu dato dallo sviluppo orizzontale del “quadro”
dei blocchi architettonici già eseguiti a Roma dai collaboratori
di Michelangelo tra 1513 e 1514; i vincoli esterni furono determinati dall’altezza dei pilastri del transetto e dallo scarto
esistente tra le due volte poste a cavallo del muro su cui è addossato il monumento (più alta la crociera sul transetto, più
bassa la volta sul coro), dal cui diverso profilo deriva la curva
della finestra a lunetta, necessariamente ribassata per non interferire con la volta lunettata del coro, i cui peducci si collocano a una quota appena superiore al cervello dell’arco della stessa finestra a lunetta.
Superando la versione del 1513-1516 (caratterizzata da un registro inferiore più basso e aggettante con molte figure e da un
registro superiore più alto e profondo), la versione avviata nel
1532 definisce risolutivamente due registri di altezza quasi
uguale. Misurazioni da me effettuate mostrano come il registro inferiore già scolpito fosse più basso di un palmo rispetto
a quello superiore57. Ma per dare a questo registro inferiore un
migliore rapporto proporzionale fu aggiunto quel doppio
plinto di marmo che si distacca dai restanti blocchi per un più
accentuato colore grigio. Osservando nuovamente la sezione
trasversale si chiariscono anche per la prima volta le ragioni
del rialzo del registro inferiore, dovuto alla necessità di posizionare la nicchia ospitante la statua della Vergine a un’altezza
tale da consentire l’adeguata rientranza nel muro, cosa possibile solo nello spessore compreso tra la volta del vestibolo e il
solaio del coro, a fronte del consolidamento del tratto inferiore del muro e della modifica delle retrostanti volte. La soprelevazione del registro inferiore con doppio plinto, condotta nel
1533 o al più tardi entro il 1534, provocò notevoli conseguenze anche sul programma figurativo. Esempio ne sono le nicchie a pianta “ovata” dove stanno le figure di Lia e Rachele, elevate così in alto e di profondità così ridotta da rendere vana la
possibilità di potervi alloggiare la grande statua del Genio della Vittoria di Palazzo Vecchio di Firenze, profonda oltre 90 cm.
Altro elemento determinante della composizione del registro
inferiore sono inoltre i piedistalli con i loro termini, i cui busti
a braccia conserte si protendono tanto in avanti da non consentire più la possibilità di collocarvi i Prigioni. Questi piedistalli mantengono comunque una fortissima relazione plastica
con i termini corrispondenti e sottolineano la quota su cui è assiso in posa volitiva il Mosè. Le grandi volute collocatevi in seguito raccordano poi tale ritmo di elementi in modo così serrato da essere equiparabile a una vera e propria “marcia funebre” marmorea che anticipa la vista del sarcofago nel registro
superiore. Nell’innovativa iconografia di questa tomba, principale elemento di articolazione architettonica sono ancora i
termini, generati da quel medesimo universo di forme metamorfiche rappresentato per mezzo delle grottesche che pervadono il registro inferiore. Una volta che i Prigioni non compaiono più di fronte ai termini, questi ultimi possono pienamente svolgere quella funzione al pari di un ordine architettonico
gli anni dal 1534 al 1564
109
14. Michelangelo Buonarroti,
Studio per tomba parietale, 1526.
Firenze, Casa Buonarroti, 128 A recto
sui generis, secondo modalità del tutto insolite. Michelangelo
aveva già usato tali elementi dove la figura umana si congiunge alla forma tettonica al di fuori di ogni regola canonica. Cinti da serti di abete, come satiri nel corteo di Dioniso, questi termini, raffigurati ora con occhi selvaggiamente roteanti, ora in
pose di statico vigore, conferiscono alla tomba un aspetto che
induce a un sentimento panico. Rispetto al giovanile foglio di
New York emerge, una volta di più, come Michelangelo sia stato capace di infondere poetica espressività all’arte edificatoria.
È affascinante osservare come nella soluzione finale l’artista
sia riuscito a risolvere tutti i problemi fin qui esposti. L’opera eseguita, con un registro inferiore così ben scandito da una
graduale progressione di rientranze e sporgenze in pacata alternanza, mette pienamente in luce, al centro della composizione, il gruppo scultoreo. Esso si dispone intorno al breve
110
15. Edmé Bouchardon, Il Mosè di Michelangelo,
circa 1725. Parigi, Musée du Louvre,
Département des Arts graphiques, inv. 23920
sarcofago dai raffinati profili su cui è reclinata la figura del
pontefice, ben stagliato nel suo sporto ai piedi della nicchia,
con la Vergine retrostante elevata a debita altezza e le rimanenti figure a far da bella corona nel telaio architettonico del
monumento. Nella composizione del registro superiore sono
radicalmente trasformati i motivi che avevano caratterizzato
quello inferiore. I singoli blocchi di marmo danno adesso
l’impressione di un insieme coeso da una tesa limpidità di
cornici e risalti, apparentemente composto da una materia
che potrebbe persino sembrare diversa da quella marmorea,
senza per questo dar l’impressione di aver perduto la propria
potenza espressiva. Michelangelo si dimostra architetto maturo, pienamente capace sia di sintetizzare e semplificare radicate procedure senza indulgere in compromessi, sia di sfoltire e infrangere antiche convenzioni date ormai per canoniche. Quattro alti e possenti pilastri – terminanti, al posto dei
classici capitelli, con maschere ghignanti di demoni anch’essi
coronati da fronde di lauro – sono addossati ai loro rispettivi
contropilastri e presentano una sottilissima specchiatura rastremata verso il basso, elemento già presente nelle nicchie a
tabernacolo del ricetto della Biblioteca Laurenziana (fig. 9),
ma qui adottato con espressività magistralmente innovativa.
La poderosa solidità espressa da questi bizzarri pilastri rastremati sottolinea la profondità delle tre nicchie, che sarebbe
meglio descrivere come torreggianti recessi aperti verso l’alto
in cui si addensano le ombre, simili al vano inferiore che ospita il Mosè. In essi trovano spazio le figure del Dies irae con il
Profeta e la Sibilla, al di sopra delle quali Michelangelo rinuncia a collocare dei convenzionali rilievi58. Al posto di tali specchiature quadrate di gusto fin troppo antiquariale, nei vani laterali del secondo registro si trovano due delle quattro audaci
aperture più volte ricordate, le quali permettevano di osservare dal coro le funzioni celebrate nel transetto e nell’altare
maggiore. La forma rettangolare di queste finestre è definita,
in larghezza, dalla distanza fra i contropilastri delle campate
laterali, in altezza, dalla distanza che corre tra le due cornici
orizzontali inquadranti la conchiglia della nicchia superiore,
secondo una articolazione formalmente simile alle analoghe
cornici del registro inferiore. Tali finestre cuciono indissolubilmente l’architettura del monumento al muro del transetto
e preannunciano, al tempo stesso, lo sfondamento determinato dalla finestra a lunetta che si apre sul retrostante coro,
dando così modo di elevare in posizione acroteriale lo stemma Della Rovere stagliandolo in forte controluce. Va aggiunto al riguardo che nelle commemorazioni di suffragio a favore dell’anima del pontefice l’effetto dovuto dalla luce proveniente dai ceri ardenti posti sui quattro candelabri marmorei
al culmine dei pilastri avrebbe animato tale stemma di dorati
bagliori tremolanti. Una delle mie principali finalità è cercare
di documentare come, nel nuovo vocabolario formale e sintattico utilizzato da Michelangelo nel sepolcro di San Pietro
in Vincoli, rientri a pieno titolo anche il peculiare modo di
trattare la luce, incanalata attraverso la finestra a lunetta e le
quattro aperture che sfondano la parete e bucano il monumento, secondo una sperimentazione già avviata fin dai tempi della Sagrestia Nuova59. La singolare penombra, che nell’arco della giornata ridisegna i profili della partitura sepolcrale e
avvolge le statue di icastica espressività, va probabilmente annoverata tra gli esiti più significativi della tarda attività di Michelangelo. Guardando nuovamente al monumento, si può
osservare come la parete di fondo su cui si appoggiano i contropilastri appaia ridotta quasi a divenire una membrana fortemente stirata dagli elementi del telaio architettonico, similmente all’analogo effetto visibile nell’ultimo piano del cortile
di palazzo Farnese e nel secondo livello della facciata del palazzo dei Conservatori.
Su una particolarità infine occorre concentrare l’attenzione: il
modo tanto inconsueto, quanto abile, di collocare al centro del
monumento il gruppo con la figura del papa. Esso diviene sia
il fastigio orizzontale posto a chiudere superiormente la nicchia con il Mosè sia la base della piramide compositiva delle figure della nicchia centrale. Inoltre, interpretando il sarcofago
quale vero e proprio elemento architettonico, esso riesce pienamente a dare centralità alla composizione, raccordando i
quattro quadranti di cui è composto il monumento: con funzione di ponte collega la parte destra con la sinistra, con funzione di cerniera orizzontale sottolinea la specularità tra la
parte bassa e quella alta. Questa sorprendente complessità di
masse sporgenti e rientranti, mai così plasticamente risolta in
un monumento funebre, si pone in linea con le sperimentazioni dinamiche realizzate nel ricetto della Biblioteca Laurenziana e ricorda inoltre un altro straordinario foglio di Casa
Buonarroti datato 1526, il 128 A (fig. 14; Corpus 279 recto),
relativo a un progetto michelangiolesco mai realizzato per una
tomba papale da erigersi nel coro di San Lorenzo, nel quale in
modo ancor più orchestrato il sarcofago si inserisce fra blocchi
parietali di vario aggetto.
La comprensione generale di questo monumento resterà sempre poco chiara fintanto che il Mosè, con il suo zoccolo eccessivamente alto e ampio, continuerà a sporgere incongruamente dal vano che lo racchiude, come fosse un elemento avulso
dal suo contesto60; anche, e soprattutto, a causa di quella particolare illuminazione che lo presenta come pezzo a sé, alla stregua di un’opera museale. Se invece si procedesse a ricollocare
la detta statua ben all’interno dello spazio che gli fu appositamente concepito, come da me più volte espresso, si noterebbe
gli anni dal 1534 al 1564
allora come il fulcro del monumento resti il sarcofago con la figura reclinata del pontefice, che grazie all’ultimo restauro possiamo guardare con rinnovato spirito, assai più aderente a
quelle che furono le intenzioni originarie di Michelangelo, a
noi note attraverso disegni e incisioni del tempo o di poco successivi (fig. 15)61.
Riesce difficile interpretare senza pregiudizi il significato iconografico del monumento, che deve essere letto per ciò che realmente rappresenta, un sepolcro cristiano. Fino ad allora Michelangelo aveva abituato lo spettatore a prendere confidenza
con le molte possibili raffigurazioni anatomiche del corpo
umano, esito di un personale studio sul nudo classico: gli
Ignudi della volta della cappella Sistina, i Prigioni nel monumento per Giulio II, le quattro figure allegoriche del giorno
nella Sagrestia Nuova. Quest’opera tarda di Michelangelo per111
corre tuttavia una strada totalmente innovativa, quella di volere raffigurare allegorie femminili abbigliate, solo in apparenza aderenti alla più invalsa tradizione iconografica del genere,
ma che piuttosto costituiscono una esemplificazione della dicotomia rappresentata dalla vita attiva e dalla vita contemplativa, qui finalmente precisata con esaustività semantica difficilmente superabile. Non esistono precedenti in proposito,
come non ve ne sono per il Mosè, coevo ai Profeti della Sistina,
collocato quale typus papae sottoposto alla figura di Giulio II,
perfetta epitome della fusione tra vita attiva e vita contemplativa. La statua del pontefice, a torto tanto biasimata, è concepita non secondo un aspetto trionfante, ma piuttosto rappresentata secondo una immagine di stanca umanità: il corpo caricato da ricche, ma pesanti vesti; il capo gravato da una opprimente tiara; l’espressione del volto ancora bella e nobile, solcata da profonde rughe; le mani aperte in rassegnata calma. Se
l’artista raffigura nelle insegne papali la dignità e l’alto onere
del ruolo, la posa della figura svela un uomo che ha rinunziato
alle lusinghe mondane e riposa fiducioso nella speranza della
resurrezione eterna. Sono dunque le statue di Lia e Rachele, figura delle virtù del pontefice, a servire da tramite per suscitare l’afflitta partecipazione al dolore della Sibilla e del Profeta e
per sollecitare il misericordioso sguardo della Vergine che intercede presso il Salvatore tenuto fra le braccia.
In fondo, Michelangelo in questa definitiva disposizione di fi-
112
gure, riunita intorno al defunto come per un compianto funebre, ritorna a una delle idee originarie per il monumento, ben
visibile per esempio nel disegno di New York. Si chiude così
il cerchio dei suoi pensieri. Sbaglierebbe chi considerasse
questa soluzione “fuori moda”, riconducibile a schemi quattrocenteschi, dal momento che ciò non è valso per Michelangelo. Nella Sagrestia Nuova con i duchi in trono che, simili a
eroi, si elevano al di sopra delle Allegorie del giorno, l’artista
aveva definito una nuova tipologia di monumento talmente
convincente da essere adottata in quasi tutti i futuri sepolcri
papali. Tanto più allora colpisce il fatto di non aver preso in
considerazione quel modello per la sua opera scultorea più
ambiziosa. Nei vari stadi progettuali del sepolcro per Giulio II
la statua del pontefice, mai concepita in tono eroico, vi si mostra come una creatura fragile e bisognosa di salvazione. Questa immagine cruciale del papa attraversa l’intero percorso
creativo del monumento e Michelangelo sembra non avervi
mai voluto rinunciare: essa dovrebbe perciò costituire il punto di partenza per ogni analisi del sepolcro di San Pietro in
Vincoli, concepito dal vecchio artista maturo non come
“trionfo della Fama”, soggetto che ci si aspetterebbe invano di
trovare, quanto piuttosto come “trionfo della Virtù e della Fede”, nella speranza di una redenzione a cui ambiscono in silenziosa contemplazione il cuore e l’intelletto, dopo che gli
occhi si sono saziati dello splendore dell’opera d’arte.
Carteggio, vol. IV, p. 151, n. MI
(ante 24 ott. 1542).
2
I riferimenti ai più antichi pacti del
1505 tra l’artista e Giulio II riguardanti il monumento sono rammentati in ricordi datati 1508, cfr. Ricordi, p. 1, n. 1 (apr. 1508), pp. 1-2, n. 2
(10 mag. 1508); Echinger-Maurach
2009, pp. 13, 172, nota 108.
3
Sull’incisione, cfr. scheda 41, in
Corsi, Ragionieri 2004, p. 55;
Echinger-Maurach 2009, pp. 11,
105.
4
Per il restauro del monumento, cfr.
Forcellino 2002; Draghi, Viola
2003; Forcellino 2003; Papillo
2003.
5
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi
1966-1987, vol. VI, p. 68 [ed.
1568].
6
Sull’edificio della canonica in San
Pietro in Vincoli, cfr. Ippoliti 1999,
pp. 12-16; Echinger-Maurach 2009,
pp. 74-78.
7
Sull’altare delle Catene e sul sepolcro di Nicola Cusano, cfr. EchingerMaurach 2009, pp. 11, 64-67; Tritz
2008, pp. 263-328.
8
Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp.
145-387.
9
Michelangelo Buonarroti, Progetto
per il monumento funebre di Giulio
II. Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 8026
verso (parte sinistra), 722 verso (parte destra); i versi di questi due fogli
ricomposti non sono presenti in
Corpus perché rinvenuti da Dominique Cordellier nel 1991; per l’attribuzione e la bibliografia, cfr. Joannides 2003, pp. 102-107; EchingerMaurach 2009, p. 13, nota 18.
10
Michelangelo Buonarroti, Progetto
per il monumento funebre di Giulio
II. New York, The Metropolitan Museum of Art, Rogers Fund, 1962, n.
62.93.I.
11
Echinger-Maurach 2009, pp. 13-18.
12
Ivi, pp. 18-22.
13
Ivi, p. 18; cfr. da ultimo Condivi,
ed. Davis 2009, p. 24.
14
Echinger-Maurach 2009, pp. 3261.
15
Michelangelo Buonarroti, Progetto
per il monumento funebre per Giulio
II, 1513, punta di piombo, penna e
inchiostro, acquerello, 587 × 409
mm. Berlino, Staatliche Museen,
1
gli anni dal 1534 al 1564
Kupferstichkabinett, KdZ 15305
recto.
16
Giacomo Rocchetti o Rocca (da
Michelangelo Buonarroti), Progetto
per il monumento funebre di Giulio
II. Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, KdZ 15306; cfr.
Corpus, vol. I, p. 63.
17
Michelangelo Buonarroti, Progetto
per il monumento funebre di Giulio
II. Firenze, Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi, 608 E recto. Per
i disegni di Berlino e Firenze e sulle
vicende legate al contratto del maggio 1513, cfr. Echinger-Maurach
2009, pp. 22-25.
18
Contratti, pp. 43-44, n. XIX (ante
6 mag. 1513), pp. 45-48, n. XX (6
mag. 1513), pp. 49-51, n. XXI (6
mag. 1513).
19
Ivi, p. 49, n. XXI (6 mag. 1513).
20
Ivi, p. 52, n. XXII (9 lug. 1513).
21
Echinger-Maurach 2009, pp. 26-32.
22
Michelangelo Buonarroti, Alzato
del piano inferiore del monumento
funebre di Giulio II con annotazioni e
schizzo di un blocco di marmo. Londra, The British Museum, inv.
1859-5-14-824/1947-1-17-1 recto; il verso dello stesso foglio contiene disegni di blocchi per il monumento già scolpiti alla data del 1518,
cfr. Wilde 1953, cat. 23, p. 43;
Echinger-Maurach 2009, p. 26.
23
Echinger-Maurach 2009, pp. 29, 84.
24
La stesura di questo contratto si era
resa necessaria per potere fissare il
nuovo aspetto del monumento nel
modo in cui si stava realizzando; così, pur continuando ad avere sul
fronte due campate con tabernacoli,
il progetto prevedeva ora che i fianchi avessero una larghezza sufficiente per un solo tabernacolo, di conseguenza il numero complessivo di
statue poteva essere ridotto della
metà, nonostante l’artista continuasse a ricevere la medesima esorbitante
somma di 16.500 ducati. Va ricordato che, probabilmente dal giugno
1515, Michelangelo si trovò inoltre
impegnato nell’incarico per la facciata di San Lorenzo a Firenze; cfr.
Echinger-Maurach 2009, p. 31.
25
Per una disamina su questa specifica questione, cfr. Echinger-Maurach
1991, vol. I, pp. 294-360, 439-447;
Echinger-Maurach 2009, p. 26.
26
Contratti, pp. 73-74, n. XXVIII (4,
8, 10, 11 lug. 1516); Echinger-Maurach 2009, pp. 30-32.
27
Cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 30.
28
Echinger-Maurach 1991, vol. I,
pp. 320-326.
29
Wilde 1954, p. 7, fig. 1; per una
dettagliata analisi delle varie ricostruzioni del progetto del 1516, secondo le ipotesi dei numerosi studiosi che se ne sono occupati, cfr.
Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp.
439-447, vol. II, figg. 43-55.
30
Contratti, p. 64, n. XXVI (ante 8
lug. 1516), p. 67, n. XVII (ante 8
lug. 1516).
31
Sul disegno cfr. Echinger-Maurach
2009, pp. 31-32.
32
Weinberger 1967, vol. I, pp. 193197, vol. II, fig. VIII; Echinger-Maurach 1991, vol. I, pp. 445-447, vol.
II, fig. 54.
33
Si confrontino a tale proposito le
nicchie laterali molto più alte, correttamente ricostruite da Johannes
Wilde, qui a fig. 7.
34
Echinger-Maurach 2009, pp. 32-43.
35
Contratti, p. 68, n. XXVII (ante 8
lug. 1516).
36
Echinger-Maurach 2009, pp. 3243; sulla casa in Macel de’ Corvi, cfr.
il saggio di Clara Altavista in questo
catalogo.
37
Echinger-Maurach 2009, pp. 45-56.
38
Ivi, p. 47.
39
Ivi, p. 57.
40
Ivi, pp. 57-61.
41
Contratti, pp. 199-203, n.
LXXXV (29 apr. 1532), pp. 204207, n. LXXXVI (29 apr. 1532);
Echinger-Maurach 2009, p. 64.
42
Echinger-Maurach 2009, p. 64.
43
Contratti, pp. 250-255, n. CVI (20
ago. 1542 - 10 gen. 1543), pp. 256258, n. CVII (21 ago. 1542).
44
Echinger-Maurach 1991, vol. I,
pp. 373-382; si veda, per contro,
Hatfield 2002, p. 131.
45
Echinger-Maurach 2009, p. 88.
46
Bastiano da Sangallo, detto Aristotile, Alzato del monumento funebre di Giulio II in costruzione. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 1741 A recto; cfr. Echinger-Maurach 2009, pp. 64, 85, 141.
47
Cfr. Echinger-Maurach 2003, p.
338; Echinger-Maurach 2009, pp.
64, 141.
48
Echinger-Maurach 2003, pp. 336344.
49
Forcellino (Maria) 2002, pp. 4950; Echinger-Maurach 2009, pp.
100-101, 114-161, in part. p. 152.
50
Echinger-Maurach 2009, p. 101.
51
Nel contratto del 1516 era prevista un’altezza di 14 braccia, per
l’esattezza 6 braccia per il piano inferiore e almeno 8 (se non 9 braccia
e mezzo) per quello superiore, cfr.
Echinger-Maurach 2009, p. 64.
52
Ivi, pp. 74-78.
53
Fontana 1838, vol. II, tav. IV, fig. 1.
54
Letarouilly 1840-1857, tav. 140.
55
Bartolozzi, Zandri 1999, pp. 221225; per altre planimetrie della chiesa, Ippoliti 1999, tavv. XIV, XXV.
56
Il recente rilievo del monumento è
pubblicato in Papillo 2003, pp. 1927, in part. p. 19, fig. 1 e p. 21, fig. 3.
57
Echinger-Maurach 1991, vol. I,
pp. 386-387; tali misurazioni sono
state confermate dal rilievo fotogrammetrico del monumento, Papillo 2003, p. 23.
58
Ciò farebbe pensare che anche il
progetto del 1532-1533 escludesse
la presenza di un rilievo nella nicchia del Mosè, cfr. Forcellino 2002,
pp. 75, 98; Echinger-Maurach
2003, p. 342, nota 49.
59
Echinger-Maurach 1991, pp. 384385; Satzinger 2001, pp. 177-222;
Satzinger 2007, pp. 239-254.
60
Per le misure dello zoccolo originale, Echinger-Maurach 1991, vol.
I, p. 387; Echinger-Maurach 2009,
p. 208.
61
Edmé Bouchardon (1698-1762),
Il Mosè di Michelangelo, circa 1725.
Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 23920;
cfr. Echinger-Maurach 2009, p. 108.
113
MICHELANGELO E LE MURA DI ROMA
Guido Rebecchini
ni romani 200 milia scudi et che baroni contribuiscano per
un’altra parte, alla qual cosa elli non vogliono consentire, et
però hyeri detti baroni et cittadini furono dinanzi da Sua
Santità in grandissimo contrasto de non volere pagare se non
per la rata delle gente che s’haveranno a fare et i baroni addimandano di essere pagati loro, se debbono defendere et mettere la vita loro per altri, di modo che ve si vede confusione et Iddio voglia che un giorno tutti non habbino a fugire di qua. […]
Sua Santità ha fatto mandar bandi che si debbiano fare processioni et digiuni tre giorni, cioè ’l mercordì, ’l venerdì et ’l sabbato, et le devote processione et una bolla per la qual Sua Santità
concede plenaria indulgentia da colpa et da pena, confessi et
contriti, come Vostra Eccellentia per le copie d’esse che qua alligate mando, potrà vedere. Le processioni et digiuni son buoni, ma altro dippuoi vi vuole appresso con l’arme.5
Una delle prime iniziative a scala urbana intraprese da Paolo III
fu la ridefinizione dei confini della città, che venne perseguita
avviando, nell’estate del 1537, un radicale rifacimento della
cinta muraria aureliana, gravemente danneggiata e del tutto
inefficiente dal punto di vista difensivo1. L’impresa intendeva
in primo luogo dotare la città di una efficace protezione in caso di eventuali attacchi esterni, ma possedeva anche un forte
valore simbolico. Da una parte, infatti, le fortificazioni costituivano uno strumento di costruzione dell’autorità pontificia
e un monito contro ogni eventuale ribellione interna – una
prospettiva sempre temibile nel quadro dei difficili rapporti
tra potere papale e aristocrazia romana – e, dall’altra, contribuivano in maniera decisiva alla ridefinizione dell’identità urbana, gravemente destabilizzata dal Sacco del 1527, dall’alluvione del 1530 e dalle crisi alimentari e igieniche che ne derivarono2. I margini della città, infatti, come ha notato Kevin
Lynch, intesi come soglia o confine giuridico, sociale ed economico, costituiscono uno spazio ambiguo e liminare tra la civiltà urbana e l’universo rurale, tendenzialmente anarchico e
potenzialmente pericoloso. La loro demarcazione mediante
una rinnovata cinta muraria, quindi, mirava non solo a dare alla città una solida linea difensiva, ma anche a riaffermare e
consolidare l’identità cittadina3.
L’impresa, che si annunciava colossale, fu preparata da Paolo III
enfatizzando le voci di una crescente aggressività dell’esercito
turco, un incubo ricorrente nell’immaginario romano degli anni successivi al Sacco, e accentuando l’atmosfera di allarme mediante l’organizzazione di processioni e digiuni per fronteggiare
tali minacce, vere o presunte che fossero. Contemporaneamen114
te, il papa avviò una capillare raccolta di fondi imponendo tasse
speciali, dapprima sulle città dello Stato della Chiesa e sui membri della comunità ebraica in esse residenti e, successivamente,
presso gli ufficiali della curia, gli esponenti dell’aristocrazia romana e il popolo. Il 12 giugno 1537, due oratori bolognesi, inviati a Roma per cercare di limitare la portata di queste gravose
imposizioni, confessarono di essersi sforzati invano:
tanto maggiormente sopragiungendo ogni giorno n[u]ove del
Turco via più dispiacevoli, et piene di spavento, di maniera
che si fanno tutto il giorno congregationi de cardinali sopra
queste cose del Turco, né si attende per hora ad altro e Nostro
Signore ha detto voler fare un buon numero di fanti per mettere alli porti et alla guardia di Roma et per tal effetto ha fatto
intendere alli Romani che vuole concorrino a questa spesa.4
Di queste impopolari iniziative scrisse anche Fabrizio Pellegrini,
agente diplomatico del duca di Mantova, il quale riferì la volontà del papa di voler raccogliere nella sola Roma oltre 250.000
scudi, una cifra impressionante che si spiegava con l’intenzione
di assoldare truppe sia da inviare a combattere i Turchi sul fronte balcanico, sia da dislocare a difesa del Regno. Da questo punto di vista il quadro offerto da Pellegrini è del massimo interesse, poiché offre una prospettiva sulle reazioni del popolo romano alle iniziative papali:
Oltra delle due mesate che Nostro Signore toglie alli offitiali
della corte, che, fatto ’l conto, andaranno a XXV milia scudi
’l mese, Sua Santità ancora addimanda al popolo et a’ cittadi-
Nella corrispondenza di Pellegrini il tema delle processioni si ripresenta dopo dieci giorni quando, all’annuncio dell’intenzione
del papa di andare scalzi in corteo, egli confessò ironicamente
che avrebbe indossato delle scarpe sotto le calze, aggiungendo
con realismo che “altro ce vole appresso alle processione a volersi difendere dal Turco”6.
In questo quadro di forti tensioni maturò la decisione di avviare
il rifacimento delle mura, formalizzata l’11 agosto 1537 con
una lettera del cardinale camerlengo al Senato Romano che
esordiva minacciosamente rievocando “quanto ostinatamente
perseveri il tiranno de’ Turchi in far preparamenti immensi per
assaltar di hora in hora la Italia […] non senza principal disegno
d’invadere questo santo luoco et capo della cristianità, la città di
Roma”7. In tale situazione di allarme, la portata strategica e simbolica dell’iniziativa papale assunse un rilievo tale da rendere del
tutto ininfluente la disperazione degli abitanti per i danni arrecati alle loro proprietà. Il 23 luglio 1537 il medesimo Pellegrini
aveva annunciato che “dalla Porta di San Pavolo già si incomminciano a fortificare le mura della città, a far fosso di fuori et a
reparare le mura d’intorno”, rilevandone con preoccupazione le
conseguenze:
Bandi sono andati de ordine di Sua Santità che vigne, orti et
giardini fuori et intorno alle mura d’essa città si debbiano alargare discosto de ditte mura XVII canne de misura et VII canne di drento, che ne viene un danno inestimabile, di modo
che ognuno grida, si lamenta et duole et a molti converrà forse d’abandonare Roma et andare a vivere altrove, s’el potrà.8
A questo proposito, una serie di lettere scritte a Ercole Gonzaga
dal suo agente a Roma Nino Sernini offre importanti precisazioni. A differenza di Pellegrini, che riferiva perlopiù voci raccolte
gli anni dal 1534 al 1564
nelle piazze o per le vie, il punto di vista di Sernini conduce a
una posizione assai prossima alla “cabina di regia” delle imprese
edilizie di Paolo III, grazie a una rete di contatti evidentemente
più influente e informata. In una lettera del 29 luglio 1537, ad
esempio, Sernini mostrò di conoscere direttamente il progetto e
i protagonisti coinvolti. Forte di un solido appoggio farnesiano,
l’architetto e ingegnere Pierfrancesco da Viterbo appare nelle
lettere dell’agente gonzaghesco come colui al quale era stato inizialmente affidato il piano di rifacimento delle mura, un incarico che venne però interrotto dal sopraggiungere di una fatale
malattia in conseguenza della quale l’artefice si spense l’1 agosto
15379. In concomitanza con quest’evento il papa era stato indotto ad affidare la responsabilità dei lavori ad “Antonio da Sangallo, Michelangelo e il Melleghino”10. I tre mostrarono però rapidamente di non andare d’accordo, per cui poco dopo, secondo
un’altra lettera di Sernini, “del fortificare Roma Sua Santità n’ha
dato il carico a Michelangelo”11. Quest’informazione è confermata da un’ironica missiva del vescovo di Pavia, Giovan Girolamo de’ Rossi, nella quale si legge:
Roma si fortifica non nel modo che dissegnò Pier Francesco
da Viterbo, che morì anzi a Cesis dui dì, ma secondo el dissegno di Michele Angelo et fassi una fraccassata nelle vigne tra
le fortificatione et soldati che vendemiano in agreste, che li
vini grechi andarano alto. Fano una strada intorno dentro e
fora, x cane large […] et lassano fori Porta San Paulo et monte Testazzo et Turchi a vostra posta. Trastevere non pensano
deffenderlo altrimenti.12
Queste notizie ci riconducono a una primissima fase dei lavori,
durante la quale, dopo la morte di Pierfrancesco da Viterbo, Michelangelo si impose su Antonio da Sangallo e Jacopo Meleghino. Le lettere consentono anche di anticipare di qualche anno il
dissidio di Buonarroti con Sangallo sulla questione delle mura,
il cui avvio, secondo la testimonianza vasariana, è stato sempre
collocato nei primi anni quaranta del Cinquecento13. Negli ultimi mesi del 1537, in effetti, a conferma di una sua iniziale emarginazione dalla scena cittadina, Sangallo sembrò concentrare le
proprie attività fuori da Roma, assumendo l’incarico dei numerosi cantieri aperti nello Stato farnesiano e soprattutto dedicandosi all’edificazione della città di Castro, capitale del neo-istituito ducato, creato il 31 ottobre 153714.
Questo primo incarico a Michelangelo si esaurì tuttavia rapidamente, forse per l’inasprirsi dei rapporti con la potente setta sangallesca e forse perché inconciliabile con gli altri lavori di Buonarroti, allora impegnato nel completamento del Giudizio e, probabilmente, già coinvolto nella risistemazione del colle capitolino15.
Al termine del gennaio 1538, come conseguenza del mancato
115
coinvolgimento di Michelangelo, Antonio da Sangallo il Giovane, che poteva peraltro vantare una vasta esperienza nella progettazione di fortificazioni, ricevette l’incarico ufficiale di sovrintendente alla costruzione delle mura di Roma16. I lavori avviati in questa prima fase, ideati da Pierfrancesco da Viterbo, forse ridefiniti da Michelangelo, e poi fatti propri da Sangallo, riguardarono, come è noto, solo una piccola porzione meridionale delle fortificazioni romane e condussero all’erezione, tra
l’estate 1537 e il settembre 1539, del bastione detto della Colonnella sull’Aventino e di quello detto Antoniniano presso la
porta Ardeatina, secondo un progetto difensivo che, come testimoniano le citate lettere di Pellegrini e del vescovo di Pavia, lasciava fuori la chiesa di San Paolo allora collocata in una zona ancora scarsamente abitata17.
Una serie di missive inviate al cardinale Alessandro Farnese e allo stesso papa testimonia il difficoltoso procedere dei lavori nei
mesi successivi. Alla fine di aprile, Stefano Tarugi, corrispondente del pontefice, lo informava che ai bastioni “si lavora molto adagio; dicano non haver denari con dir [che] le gabelle non
fruttano per l’absentia della corte”18. Più ottimisti apparivano
invece il governatore di Roma Benedetto Conversini e il cardinale legato Gian Pietro Carafa, futuro Paolo IV, incaricati di controllare l’avanzamento delle fortificazioni durante l’assenza di
Paolo III, allora in viaggio per incontrare Carlo V e Francesco I a
Nizza e tentare di ricomporne i dissidi. Il porporato napoletano
Gian Pietro Carafa scrisse al cardinale Farnese di essere stato a
vedere il cantiere e di aver constato che “sono già cominciati a
mettere li cordoni, quali hanno molta gratia, et ornano sì che
fanno una bellissima vista”19. Pochi giorni dopo, il governatore
avvisò il cardinale Farnese di aver avviato la realizzazione delle
“arme per ponere al cantone della Colonnella, che serà molto
bella et superba, come ricercha il locho; et da piè si metterà quella del Popolo Romano et l’altra ho pensato debba essere la [arma]
del illustrissimo signor ducha [Pierluigi Farnese] come capitano
et gonfaloniere di Santa Chiesa, se già Sua Santità non disponesse altrimenti”20. A fronte di questi segnali positivi e all’anticipazione del forte impatto simbolico attribuito agli stemmi che
avrebbero sigillato il nesso fra la famiglia del pontefice e la città,
sul finire del mese le notizie si fecero meno promettenti e il governatore, alle strette di fronte alle dirette sollecitazioni del papa, riferì che tre ordini di problemi impedivano uno spedito
avanzamento dei lavori: le difficoltà finanziarie, quelle legate alla mano d’opera (infatti in quel periodo dell’anno i contadini
tornavano ai loro campi per il raccolto) e infine i problemi di natura tecnica. “Il terzo impedimento – scrisse – è che nel cavare i
fondamenti s’è truovato una profonda caverna la quale ha ritardato et forsi ritarderà un pezzo il lavorare, sinché se riempia e se
truovi altro modo che la fabrica non sprofondi, talché per tutti
116
questi impedimenti sarà difficile possere fabricare molto per
questa estate”21.
Il lievitare delle spese, quindi, e l’indefinito protrarsi dei tempi
necessari a realizzare quest’impresa, insieme alla pressione esercitata dal fallimento della spedizione imperiale dell’ottobre
1541 contro la flotta comandata da Barbarossa ad Algeri, indussero il papa ad abbandonare il progetto generale e a concentrare
l’azione difensiva solo intorno all’area del Borgo vaticano. Di
questa svolta impressa ai lavori ci informa ancora una lettera di
Sernini del novembre 1542, in cui si fa riferimento ai progetti
papali di fortificare il Borgo, cingendo la basilica di San Pietro
entro una cittadella dominata da Castel Sant’Angelo, secondo
una strategia non dissimile da quella già messa in atto a Firenze
con la Fortezza da Basso22. Qualche mese più tardi, il primo febbraio 1543, il medesimo agente registrò la presenza a Roma del
capitano Alessandro Vitelli, testimoniandone il forte disappunto, motivato da ragioni logistiche e militari, per l’intenzione del
papa di abbandonare le fortificazioni avviate intorno a porta San
Paolo a esclusivo favore della cittadella vaticana. Secondo Sernini, la medesima opinione di Vitelli fu espressa dall’ingegnere
militare del duca d’Urbino, cioè Francesco de’ Marchi, venendo
tuttavia categoricamente rifiutata da Paolo III, più che mai deciso a perseguire i propri obiettivi. Scrive Sernini:
Il signor Alessandro Vitelli è qui, ma non l’ho ancora veduto;
ho inteso che insieme col signor Giovan Battista Savello et il
capitano Alessandro da Terni vanno rivedendo il sito di Roma et del Borgo, il quale al signor Alessandro par f[u]or di
proposito di fortificare, ma giudica esser più necessario et sicuro seguitare la fortificatione di Roma. Però non è d’opinione che si rimure con tanta spesa come s’è fatto sin qui, et li
baluardi siono più raccolti, servendosi più che si po’ di la muraglia antica per mettersi in guardia et al sicuro senza tanta
spesa et lunghezza di tempo et ne dà molte ragioni, mostrando in somma quanto poco rilevaria perdere Roma et salvare
il Borgo, nel quale non si potriano mai ridurre le persone et
robbe che sono in Roma, et così è di parere l’ingegnere del signor duca d’Urbino, ch’è stato qui, a cui Sua Santità ordinò
che vedesse il tutto. Ma non piacque a Sua Beatitudine, la
quale ho inteso c’ha risposto al signor Alessandro che in questo non vole il suo consiglio, ma che considere [sic] bene il sito del Borgo, et vol che si fortifichi; dicono che sarà spesa di
CC milia scudi.23
Questo episodio è chiaramente da connettere con la rievocazione di tali discussioni contenuta nel Trattato d’architettura
militare di Francesco de’ Marchi24 (che può quindi ora trovare
una più precisa collocazione cronologica), così come in una re-
lazione di Guglielmo della Porta a Bartolomeo Ammannati25.
Frutto delle scelte scaturite da quelle concitate discussioni sono i bastioni realizzati da Antonio da Sangallo il Giovane e le
imponenti opere murarie ancora oggi visibili intorno al Borgo,
che solo l’autorità papale, sfruttando l’urgenza del Giubileo
del 2000, ha avuto la forza di alterare, non già per difendere la
città dai congetturali assalti delle galere del Barbarossa, ma da
quelli ben più concreti dei torpedoni dei fedeli.
1
Sulle le fortificazioni di Roma d’età farnesiana, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962,
vol. III , pp. 1433-1437 [ed. 1568]; Guglielmotti 1880; Ackerman 1968, pp.
250-251; Lanciani 1988-2002, vol.
III, pp. 103-113; Occhipinti 2007, pp.
147-184, in part. p. 165, nota 39.
2
Più in generale, per una riflessione sul
rapporto tra mura e città, cfr. De Seta,
Le Goff 1989; per un quadro della situazione a Roma negli anni trenta, cfr.
Rebecchini 2008.
3
Lynch 2006, pp. 78-82.
4
Archivio di Stato di Bologna, Senato,
Lettere di principi e prelati, Serie VI, vol.
6, c. 645v, Giorgio Biagioli e Giovan
Battista Bianchini al Senato, 13 giugno
1537; questi riferirono di aver udito
che “Il Turco […] pensava passare in
persona in Italia […] et che veniva con
grande animo contra Christiani, havendo intese le loro poche provisioni”.
5
Archivio di Stato di Mantova (in seguito ASMn), Archivio Gonzaga, busta 887, c. 60r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma, 20 giugno
1537. Ma si veda anche ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887, c. 73r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da
Roma: “Le brigate stanno malcontente
e impaurite con una meza desperatione, massimamente per le estorsione
delle angarie et pagamenti gli sonno
imposti ogni giorno, di sorte che molti
sonno forzati ’l partirse di Roma con le
loro famigliate per non havergli ’l modo di possere vivere, è necessario che
Iddio ce aiuti, se gli piacerà”.
6
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
887, c. 64r, Fabrizio Pellegrini a Federico Gonzaga da Roma, 30 giugno
1537. Per tenere alta la tensione, il papa insistette nel diffondere timore per
la sicurezza di Roma e sulla necessità di
difendere la città, cfr. ASMn, Archivio
Gonzaga, busta 887, c. 415, Girolamo
Gonzaga a Federico Gonzaga, 23 settembre 1537: “questa mattina si è fatto oratione al Signore Iddio acciò che la
lega fatta tra questi prìncipi contra el
199; Ragionieri 2007, pp. 136-144.
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
1906, c. 423, Giovan Girolamo de Rossi a Ercole Gonzaga, 13 agosto 1537.
13
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I , p. 82
[ed. 1568]; vol. III, p. 1433. L’omissione
di questa prima fase dei lavori nella ricostruzione del conflitto tra Michelangelo
e Sangallo proposta da Vasari nell’edizione giuntina delle Vite, risolta a tutto
vantaggio di Buonarroti con il racconto
delle celebri critiche pubbliche effettuate da quest’ultimo al progetto sangallesco, si spiega, a mio giudizio, con la volontà di nascondere un probabile insuccesso iniziale di Michelangelo, o comunque un abbandono che poteva apparire come un fallimento.
14
Giess 1994.
15
Michelangelo sarà nuovamente interpellato sulla fortificazione di Borgo
intorno al 1545, sull’argomento si veda il seguente saggio di Oronzo Brunetti; sugli interventi michelangioleschi in Campidiglio, cfr. Bedon 2008 e,
dello stesso autore, il saggio nel presente catalogo.
16
Adams, Pepper 1994; sull’incarico
ad Antonio da Sangallo il Giovane, cfr.
F.P. Fiore, scheda U 1019 A recto, in
Frommel, Adams 1994, p. 185.
17
F.P. Fiore, scheda U 1019 A recto, in
Frommel, Adams 1994, p. 184.
18
Archivio di Stato di Parma, Carteggio farnesiano, Estero, b. 421, cc. non
numerate, Stefano Tarugi a Paolo III
(25 aprile 1538).
19
Ivi, cc. non numerate, Gian Pietro
Carafa ad Alessandro Farnese (27
maggio 1538).
20
Ivi, cc. non numerate, governatore di
Roma ad Alessandro Farnese (5 giugno 1538).
21
Ivi, cc. non numerate, governatore di
Roma ad Alessandro Farnese (20 giugno 1538).
22
Hale 1968; ASMn, Archivio Gonzaga, busta 1912, c. 301r, Nino Sernini a
Ercole Gonzaga, 16 novembre 1542:
“Dipoi Sua Beatitudine [in concistoro]
gli anni dal 1534 al 1564
Turco sequa et sii giovevole a’ Christiani e Nostro Signore ha voluto che si
faccia messa solenne e mostri el Volto
Santo, e Sua Santità è stata presente all’uno e l’altro, et ha puoi data l’indulgenzia che Vostra Eccellentia potrà vedere nel bando”.
7
Lanciani 1990, p. 103.
8
ASMn, Archivio Gonzaga, busta 887,
c. 73r, Fabrizio Pellegrini a Federico
Gonzaga da Roma, 23 luglio 1537.
9
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
1906, c. 240v, Nino Sernini a Ercole
Gonzaga, 2 agosto 1537: “Messer
Pierfrancesco da Viterbo morì heri con
gran dispiacer della corte”.
10
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
1906, c. 234v, Nino Sernini a Ercole
Gonzaga, 29 luglio 1537: “Messer
Pierfrancesco da Viterbo ch’era quello
che aveva la cura di fortificare Roma è
amalato gravemente, et pur hoggi ho
inteso che non v’è più speranza della
sua salute, della sua morte rincresce generalmente per essere huomo pratico
et intelligente et molto al proposito in
questi bisogni. Intendo che alle muraglie vi vanno mò maestro Antonio da
Sangallo, Michelangelo e il Melleghino, li quali poi non pare che siano molto d’acordo et si credeva molto a messer Pierfrancesco detto, il quale il signor Pierluigi ha [sic] andato in casa sua
in questa sua infermità et gli s’ha havuta grandissima cura”.
11
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
1906, c. 240v, Nino Sernini a Ercole
Gonzaga, 2 agosto 1537: “Messer
Pierfrancesco da Viterbo morì heri con
gran dispiacer della corte, del fortificare Roma Sua Santità n’ha dato il carico
a Michelangelo et perché io non ho
tempo non scriverò quello che fin qui
s’è cominciato, ma per la prima occasione le ne scriverò. Testaccio e fino
alla porta di Sampavolo resta fori, come più apieno scriverò”. Sulle precedenti esperienze di Michelangelo come architetto militare, cfr. C. Elam,
scheda 18, in Elam 2006, pp. 196-
12
disse che si meravigliava che gli suoi antecessori non havessero pensato alla
fortificatione del borgo per mettere in
sicuro San Pietro, in la cui chiesa erano li
sanctissimi corpi di san Pietro et san Pavolo et di tant’altri santi, insieme con
tante altre divotissime reliquie, et il tutto stava senza alcuna guardia et sotto
posto ad ogni periculo, et però haveva
deliberato di fortificarlo et a questo effetto voleva acrescere la mola quattro iulii per rubbio di grano che si macenasse.
Io non ho ancora inteso il modo che s’ha
da tenere per questa fortificatione, et
quanto s’ha da crescere il borgo. M’è ben
stato detto che s’ha da unire una cittadella col castello, che n’ha bisogno per
essere luogo raccolto et stretto et mal atto in ricevere le provisioni necessarie
per tal fortezza di tant’importanza”.
23
ASMn, Archivio Gonzaga, busta
1913, c. n.n., Nino Sernini a Ercole
Gonzaga, 1 febbraio 1543.
24
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Francesco de’ Marchi, Trattato
d’architettura militare (metà XVI secolo), ms. Magl. II.I.278, cap. 34, cc. n.n.,
“la dupplicatione alli fianchi delli belouardi fu inventione di maestro Gio.
[sic] da San Gallo, huomo famosissimo
in tempo di papa Paolo Terzo quando
egli diede principio di fortificar Roma
[…] la qual figura mi ricordo di sentirla
disputare innanzi a papa Pavolo Terzo
et dal signor Alessandro Vitello, huomo molto famoso nell’arte della guerra, e maestro Giovanni [sic] da San Gallo, e il capitan Jacomo Castriotto, e il
capitan Francesco da Montemellino, e
maestro Leonardo da Uden, e maestro
Mangone, e il Medechino, e Galasso da
Carpi, con molti altri architetti e capitani dove io fui domandato et fummi
mostrato un dissegno”.
25
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. III , p.
1434; per la vicenda relativa a questi
anni e per la trascrizione della citata
lettera di Guglielmo della Porta, si rimanda al seguente saggio di Oronzo
Brunetti in questo catalogo.
117
1. Roma, Borgo vaticano, bastione del Belvedere
MICHELANGELO E LE FORTIFICAZIONI DI BORGO
Oronzo Brunetti
Un effettivo coinvolgimento di Michelangelo nelle opere di difesa
per Roma è datato al febbraio 1545 quando, regnando Paolo III
Farnese (1534-1549), un consulto si rese necessario per superare
la situazione di crisi sorta fra il capitano Giovan Francesco da
Montemellino e l’architetto Antonio da Sangallo il Giovane, incaricato della progettazione del sistema difensivo1. Prima della comparsa della figura professionale dell’ingegnere militare, con specifico ruolo di tecnico appositamente formato, per quasi tutto il XVI
secolo e senza distinzioni geografiche, architetti e militari erano
congiuntamente chiamati a collaborare nella progettazione delle
difese urbane e territoriali, con il risultato di causare frequenti attriti dovuti ai non ben delineati confini fra le rispettive competenze. Incarichi di architettura militare venivano affidati agli artisti sin
dai tempi di Arnolfo di Cambio e basta ricordare le carriere di Filippo Brunelleschi, Francesco di Giorgio, Leonardo da Vinci, Donato Bramante, Baldassarre Peruzzi2. Papa Paolo III dovette individuare in Michelangelo quell’esperto in grado di imporsi con la
propria autorevolezza dal momento che, come noto, si era a lungo
confrontato con temi di architettura militare. Già dal luglio 1516,
quando Michelangelo era a Carrara impegnato a cavar marmi, una
lettera di Argentina Malaspina Soderini, spedita da Roma al fratello Lorenzo, marchese di Fosdinovo, consigliava di rivolgersi all’artista quale esperto militare:
La causa di questa è che maestro Michelangelo scultore è
molto amato dal mag[nifi]co mio consorte, et è persona tanto da bene, costumato e gentile et tale che non crediamo che
sia hogi in Europa homo simile a lui, è venuto a Carrara per
lavorare certa quantità di marmi. Desideramo assai che la Si-
118
gnoria Vostra el facci visitare, et per parte nostra li offerite
tucto quel potite a beneficio suo; et havendo bisogno, lo recommandiate al marchese Albericho. Lo farrete con ogni efficacia; et vedete farlo venire qualche volta costì a starsi con
voi un dì o dui; ché è persona che intende di architettura et di
artigl[i]arie et di saper monire una terra, che harete gran piacere della sua conversatione.3
Quindi, nel settembre 1527, un breve di Clemente VII Medici
(1523-1534) nominava Michelangelo “revisor arcium et fortilitiorum in dicta civitate et territorio [di Bologna]”4. Seguì poi la
partecipazione, anche politica, alle difese di Firenze dopo la cacciata dei Medici del 17 maggio 1527; dapprima fu incaricato di revisionare i lavori già avviati dai Medici nel 1526 intorno all’area di
San Miniato; dal 10 gennaio 1529 gli fu poi assegnata la responsabilità delle opere difensive cittadine in qualità di commissario dei
“Nove della Milizia” e, il successivo 6 aprile, persino quella di “generale governatore et procuratore” dell’intero sistema di fortificazioni5. L’incalzare degli avvenimenti politici occorsi a Firenze aveva reso necessario mettere in sicurezza l’intera cerchia muraria, costringendo Michelangelo a realizzare le difese più urgenti in opera
provvisoria – ovvero rinforzi in terra battuta mista a paglia ricoperta di mattoni – che furono presto distrutte al rientro dei Medici; il ricordo di tali strutture è documentato in alcuni dipinti e soprattutto nei celeberrimi fogli conservati presso Casa Buonarroti6.
Poco dopo, nel giugno del 1529, Michelangelo fu inviato a ispezionare le fortificazioni di Pisa e Livorno e durante la stessa estate
venne inviato a Ferrara per studiare il più avanzato sistema difensivo urbano dell’epoca, da poco approntato dal duca Alfonso
d’Este7. Una volta trasferitosi a Roma, sembrò normale che le sue
conoscenze di architettura militare fossero tenute in gran conto. È
infatti Giorgio Vasari a ricordare che Michelangelo “fu adoperato,
al tempo di Paulo Quarto, nelle fortificationi di Roma in più luoghi”8. In occasione del Sacco del 1527, le fortificazioni di Roma
avevano messo in rilievo la loro inadeguatezza ma, per mancanza
di fondi, il pontefice Clemente VII aveva dovuto accantonare ogni
progetto di miglioria del sistema difensivo urbano, ancora affidato
alle mura d’età romana, riadattate in epoca medievale solo in alcuni particolari punti strategici. L’idea di cingere l’intero perimetro
della città ricorrendo a un moderno sistema bastionato era stata
poi accarezzata da Paolo III durante i suoi primi anni di pontificato quando, in seguito alla conquista ottomana di Tunisi nel 1534,
si era temuta un’invasione della città da parte di quelle armate9.
L’ambiziosa impresa di intervenire sul circuito delle mura Aureliane, esteso per diciotto chilometri, prese consistenza nel 1537. In
questo scenario si colloca il primo documentato scontro fra Michelangelo e Antonio da Sangallo il Giovane sull’ammodernamento della cinta difensiva, entrambi nominati da Paolo III, insieme a Jacopo Meleghino, come responsabili di questa impresa. Il
piano si arenò presto di fronte alla fiera opposizione di chi avrebbe
dovuto subire gli espropri dei terreni necessari per raccordare la
struttura urbana al nuovo assetto difensivo, con gli ingenti costi e
i problemi che ne sarebbero derivati. Venne pertanto messo da
parte il progetto di massima di Sangallo che fu impegnato altrove
nelle diverse committenze farnesiane e pontificie anche in qualità
di esperto in fortificazioni (si vedano per esempio le difese di Castro e Nepi nel 1537 e di Perugia nel 1540). Nel 1538, dopo il
mancato coinvolgimento di Michelangelo in questa vicenda, Sangallo poté ottenere a pieno titolo l’incarico di sovrintendente alla
costruzione delle mura di Roma, tuttavia con un progetto assai ridotto i cui interventi si concentravano solo sul colle dell’Aventino
e lungo la via Ardeatina, luoghi ritenuti meno resistenti di fronte
al ventilato attacco10.
La questione intorno alla difesa di Roma si presentò nuovamente negli anni quaranta del secolo quando Paolo III, sempre più
consapevole dell’impossibilità di intervenire sull’intero circuito
difensivo urbano, ritenne necessario concentrarsi almeno sulla
difesa del colle Vaticano, trasformandolo in una sorta di cittadella. Nell’area più ristretta, comprendente la porzione urbana di
Borgo, tra le pendici del colle Vaticano e Castel Sant’Angelo, insisteva il centro rappresentativo del potere religioso e temporale
della Chiesa, area già interessata dagli interventi difensivi di papa Niccolò V Parentucelli (1447-1455)11. Le tappe che precedono il febbraio 1545, coincidente con il nuovo coinvolgimento di
Michelangelo in queste vicende, possono essere facilmente delineate. Nel 1542 il papa si trovò nel bisogno di dover chiamare a
confronto una serie di proposte suggerite da alcuni comandanti
gli anni dal 1534 al 1564
militari di provata esperienza in campo fortificatorio. Coordinati dal capitano Alessandro Vitelli erano dunque presenti: Francesco de’ Marchi, Giovan Francesco da Montemellino, Giacomo
Castriotto, Jacopo Meleghino, Giovanni Mangone, Galasso Alghisi. Alla fine della discussione fu deciso di affidare l’incarico ad
Antonio da Sangallo il Giovane12. Il 18 aprile dell’anno successivo, i lavori presero avvio alle spalle della chiesa di Santo Spirito,
con la posa della prima pietra del baluardo omonimo13; nel 1545
fu avviata la costruzione del nuovo tratto di mura che permetteva di includere il cortile del Belvedere all’interno dell’antica cittadella vaticana (fig. 1). Intorno al tracciato da far seguire a questa linea difensiva si scontrarono gli inconciliabili pareri di Sangallo e di Montemellino: il primo era propenso a estenderlo alle
colline circostanti, il secondo riteneva sufficiente contenerlo nei
limiti della vallata. Paolo Marconi individua nel quarto foglio del
Codice Barberiniano 4391 della Biblioteca Apostolica Vaticana
(fig. 2) uno studio planimetrico che sintetizza le due posizioni e
attribuisce il disegno allo stesso Sangallo sulla base dei confronti con i fogli autografi conservati agli Uffizi14. È probabile che intorno a questo foglio, che riassumeva i pareri dell’architetto e del
militare, si discusse durante il nuovo incontro del 25 febbraio
1545 voluto da Paolo III, a cui partecipò finalmente Michelangelo. Giorgio Vasari e Guglielmo Della Porta (che al contrario di
Vasari era presente all’incontro) riportano due resoconti assai discordanti. Scrivendo a Bartolomeo Ammannati, Della Porta annunciò il progetto di pubblicare un’opera che gli offrisse anche
l’occasione per esporre i momenti di discussione sorti intorno
alla fortificazione di Borgo:
fra molti grandi huomini congregati insieme sul Monte di
Santo Spirito per ordine et commissione di Paolo terzo, da
una parte era l’Ec.mo Signor Pierluigi, Duca di Parma et di
119
2. Anonimo, Pareri per la cinta di Borgo
secondo Antonio da Sangallo il Giovane
e Giovan Francescoda Montemellino, circa 1546.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
ms. Barberiniano Latino 4391, c. 4
(l’immagine è orientata rispetto ai punti cardinali)
Piacenza, il Signor Gio. Antonio Garavina, col Signor Giuliano Cesarini, i Conti di Pitigliano et dell’Anguillara et il Signor Ascanio de la Corgna, dell’altra il Duca Ottavio, suo figlio, col conte Santafiore, col Signor Vicino Orsino, col Signor Torquato Conti, li Capitani Alessandro e Lucantonio da
Terni con molti altri homini Romani. Vi fù per terzo il Signor Alessandro Vitelli et seco era maestro Anton da San
Gallo con alcuni dissegni del detto Borgo. V’intervenne à la
fine Michel Agnolo et il Peloro ancora col Capitano Gio.
Francesco da Monte Melino, et dopo molte proposte et risposte, essendo nata fra gl’altri quasi un occasion di duello,
Michel Agnolo solo standovi queto, domandato dal Signor
Alessandro del suo parere, disse, che quando fusse stato
tempo, l’harebbe detto; onde referendosi poi al Papa tutto il
successo, domandando espressamente Sua Santità, quale
fosse stata l’oppenione di Michelagnolo, gli rispose il Vitello che ei s’era stato queto per modo, ch’era lui parso una statua; ma Sua Beatitudine havendo per più opportuno il tacere del Buonarota che ‘l troppo contender de gl’altri, mandò
subito il Cavalier Caro à fermare i rumori.15
Secondo Della Porta, nella riunione si erano confrontate quattro
posizioni differenti: due, tra loro contrarie, relative ai due gruppi
di uomini d’arme (significativamente la categoria più rappresentata), la terza di Vitelli e Sangallo (la cui collaborazione era nata nel
1534 intorno al progetto della Fortezza da Basso di Firenze) e infine la quarta di Michelangelo che aveva temporeggiato senza
esprimersi in merito. Diversamente Vasari ricorda che l’occasione
offrì lo spunto per l’ennesimo scontro fra Michelangelo e Sangallo, interrotto solo grazie all’intervento del papa; leggendo le parole dello storiografo emergerebbe che:
120
3. Anonimo, Fortificazione di Borgo al tempo
dei lavori di Jacopo Castriotto, post 1548.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
ms. Barberiniano Latino 4391, c. 2
(l’immagine è orientata rispetto ai punti cardinali)
Aveva Paulo dato principio a fortificare Borgo e condotto
molti signori con Antonio da San Gallo a questa dieta, dove
volse che intervenissi ancora Michelagnolo, come quelli che
sapeva che le fortificazioni fatte intorno al monte di San Miniato a Fiorenza erano state ordinate da lui; e dopo molte dispute fu domandato del suo parere. Egli, che era d’oppinione
contraria al San Gallo et a molti altri, lo disse liberamente: dove il San Gallo gli disse che era sua arte la scultura e pittura,
non le fortificazioni. Rispose Michelagnolo che di quelle ne
sapeva poco; ma che del fortificare, col pensiero che lungo
tempo ci aveva avuto sopra, con la sperienzia di quel che aveva fatto, gli pareva sapere più che non aveva saputo né egli né
tutti que’ di casa sua, mostrandogli in presenzia di tutti che ci
aveva fatto molti errori: e moltiplicando di qua e di là le parole, il Papa ebbe a por silenzio; e non andò molto che e’ portò
disegnata tutta la fortificazione di Borgo, che aperse gli occhi
a tutto quello che s’è ordinato e fatto poi; e fu cagione che il
portone di Santo Spirito, che era vicino al fine ordinato dal
San Gallo, rimase imperfetto.16
È probabile che Michelangelo conoscesse le critiche che altri esperti militari muovevano alle realizzazioni di Sangallo ma, di certo, il
tono stizzito riferito da Vasari derivava da rivalità professionale,
dato che il parere di Michelangelo si poneva a metà strada fra i due
contendenti gruppi di militari e suo scopo principale restava quello di togliere l’incarico a Sangallo17. Michelangelo stesso illustrò la
sua opinione scrivendo una lettera al cardinale Tiberio Crispi, prefetto di Castel Sant’Angelo:
Monsignor Castellano, circa il modello di che si disputò ieri, io
non dissi interamente l’animo mio, dal quale io sono richiesto
4. Michelangelo Buonarroti, Frammenti
di poesia, studio per una testa, schizzi
per alabarde, piante di fortificazioni,
1534-1538 e 1546. Firenze, Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi, 14412 F recto
da Vostra Signoria, perché mi pareva troppo offendere quelle
persone a chi io porto grandissima afectione; et questo è il capitano Giovan Francesco [Montemellino], con il quale in
qualche cosa non convengo seco; perché e’ bastioni cominciati mi pare che con la ragione et con la forza si possino difendere et seguitare, et, nol faccendo, dubito si facci molto peggio;
perché in tanti pareri et modegli vari mi pare che habbino
messo in gran confusione il Papa et in tal fastidio, che, non si
risolvendo a cosa nessuna, potrebbe non seguitare a questo
modo, né fare a quel altro, che sarebbe gran male [con] poco
onore di Sua Santità. Però, come è detto, a me pare di seguitare, non dico particularmente quel che è cominciato, ma solo
l’andamento del Monte, migliorando qualcosa, senza danno
del fatto, col consiglio del capitano Giovan Francesco detto,
per havere occasione di levare via il governo che vi è, se è come si dicie, et mettervi detto capitano Giovan Francesco, il
quale ho per valente et dabbene in tutte le cose. Et quando
questo si facci, io me gli offero per l’onore del Papa, poi che più
volte sono richiesto, non come compagnio, ma come ragazo
in tutte le cose.18
In buona sostanza, Michelangelo suggeriva di non interrompere i
lavori, offrendo la propria collaborazione solo a condizione che
Sangallo fosse allontanato. Questi tuttavia mantenne l’incarico figli anni dal 1534 al 1564
5. Michelangelo Buonarroti, Studio
di figura a cavallo, schizzi per fortificazioni,
1534-1538 e 1546. Firenze, Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi, 14412 F verso
no alla morte avvenuta il 29 settembre 1546, quando i lavori passarono sotto la direzione di Jacopo Meleghino, commissario generale della fabbrica del Palazzo Apostolico, coadiuvato da Michelangelo, solo apparentemente sottoposto a Meleghino. In attesa che
sull’intera vicenda fosse espresso un parere definitivo da Alessandro Vitelli, il papa ordinava infatti di adeguarsi alle volontà dello
scultore, seppure in contrasto con quanto già predisposto19. Secondo le ricordate parole di Vasari, Michelangelo avrebbe elaborato un disegno generale sulle fortificazioni di Borgo, anche se poi
effettivamente concentrò la sua attenzione sul solo tratto corrispondente al lato orientale dei corridoi del Belvedere affacciato
verso il Tevere, dove propose la costruzione di un ulteriore baluardo tra la torre di Niccolò V e il palazzo degli Spinelli; un bastione
che avrebbe dovuto avere “dui fianchi, o dente, o baluardetto, o
piattaforma, che avesse otto tiri, quattro per banda alto e basso”20.
Appena un anno dopo, nel marzo 1548, quando l’incarico per le
fortificazioni fu assunto dal noto capitano Jacopo Castriotto, il nome di Michelangelo scompare dalla vicenda; pertanto nei pochi
mesi che lo scultore ebbe a disposizione, il bastione del Belvedere
poté a malapena essere impostato (fig. 3)21. Tra marzo 1548 e novembre 1549, data quest’ultima coincidente sia con la morte di
Paolo III sia con la sospensione dei lavori al bastione, deve essere
avvenuta una ennesima dieta alla quale, è noto, parteciparono soprattutto uomini d’arme, essendone tra questi tuttavia escluso
121
6. Michelangelo Buonarroti,
Frammenti di poesie, studio di figura,
schizzi per fortificazioni, 1534-1549(?).
Biblioteca Apostolica Vaticana,
ms. Vaticano Latino 3211, c. 93 recto
7. Michelangelo Buonarroti,
Pianta di fortificazione a stella,
frammenti di poesie, 1534-1549(?).
Biblioteca Apostolica Vaticana,
ms. Vaticano Latino 3211, c. 84 verso
gli29. Cercando di individuare le fonti di ispirazione per questi ultimi disegni di architettura militare di Michelangelo, Pietro Marani
ha messo giustamente in luce la loro derivazione dai modelli quattrocenteschi; il sistema di difesa a pianta stellare rimanderebbe alle proposte di Antonio Filarete, di Leon Battista Alberti, di Francesco di Giorgio Martini e la rinuncia al sistema bastionato, secondo
Marani, “deve probabilmente essere interpretata come una scelta
deliberata e consapevole volta a sottolineare la sua [di Michelangelo] adesione simbolica e spirituale agli ideali dell’Umanesimo”30.
Montemellino; la presenza del nutrito gruppo di militari costituito da Ottavio Farnese, Sforza di Santafiora, Alessandro Vitelli,
Sforza Pallavicino, Giulio Orsini, Mario Savorgnano, Jacopo Castriotto conferma il momento di svolta decisivo nella storia dell’architettura militare: la necessità di ricorrere a figure specializzate che per esperienza diretta di comando conoscevano la guerra, i
suoi problemi e le sue necessità22.
L’interpretazione dei pochi documenti disponibili riguardo all’attribuzione del bastione del Belvedere ha portato gli storici a differenti conclusioni: nel 1880 Alberto Guglielmotti riconobbe per
primo la mano michelangiolesca nello sperone fortificato che domina piazza del Risorgimento (fig. 1)23; questa paternità è stata
poi ribadita da Armando Schiavo nel 195324 ; anche Franco Barbieri e Lionello Puppi, stilando il catalogo delle opere architettoniche di Michelangelo nella monografia curata da Paolo Portoghesi e Bruno Zevi nel 1964, individuano nel bastione del Belvedere i caratteri formali tipici dell’artista, tra cui il cordone con toro e cavetto prossimo a quello presente nella fascia sottostante il
cornicione di palazzo Farnese25; diversamente, nel 1902, Enrico
Rocchi aveva attribuito a Michelangelo solo il completamento del
bastione che avrebbe impostato Sangallo; più condivisibile l’ipotesi sostenuta da James Ackerman nel 1961 – fatta propria anche
da Bruno Contardi nella monografia stilata insieme a Giulio Carlo Argan nel 1990 – che ritiene la documentazione non sufficiente per attribuire a Michelangelo un intervento che resta “vigoroso
e monumentale” e per questo assai distante dallo stile di Sangallo26; Paolo Marconi ha poi giustificato l’attribuzione a Michelangelo del bastione del Belvedere avanzata da Guglielmotti e da
Rocchi imputando l’errore alle scarse fonti iconografiche a disposizione di questi ultimi27.
Di contro agli straordinari disegni michelangioleschi per le fortifi-
122
cazioni fiorentine, ai bastioni di Borgo possono essere associati solo tre fogli che, insieme a frammenti poetici o altri studi di figure,
presentano minime e rapide tracce di fortificazioni; il primo schizzo è contenuto nel foglio degli Uffizi 14412 F recto-verso (figg. 45; Corpus 379 recto-verso); gli altri due sono compresi nei fogli 93
recto (fig. 6; Corpus 353 recto) e 84 verso (fig. 7; Corpus 607 verso), entrambi facenti parte del Codice Vaticano Latino 3211 della
Biblioteca Apostolica Vaticana. Evidenziando la distanza concettuale tra i progetti per le fortificazione fiorentine e gli schizzi contenuti in questi tre fogli, Charles de Tolnay per primo ha sostenuto il loro rapporto con le difese del Belvedere. Questi disegni pongono tuttavia notevoli problemi interpretativi e possono essere
avvicinati alla bastione del Belvedere più per la datazione interna
di ciascun foglio, che per quanto vi è rappresentato, che resta assai
difficile da localizzare nel contesto planimetrico della cittadella vaticana. Sul recto del foglio Uffizi 14412 F è presente uno studio
per fortificazione (fig. 4; Corpus 379 recto); sul verso dello stesso
(fig. 5; Corpus 379 verso) è disegnata una cinta muraria di tracciato circolare organizzata per salienti triangolari – quasi una ruota
dentata – priva di quei bastioni che, nel pieno Cinquecento, erano
ritenuti il sistema difensivo più idoneo anche se oggetto di continue sperimentazioni. Lo schizzo sul foglio 93 recto del Codice Vaticano Latino 3211 (fig. 6; Corpus 353 recto) richiama lontanamente il circuito a salienti presente nel disegno degli Uffizi e pertanto Tolnay lo ha considerato ascrivibile alla progettazione per le
difese di Borgo28. A riguardo del foglio 84 verso dello stesso codice (fig. 7; Corpus 607 verso), lo studioso interpreta il minuscolo
schizzo a matita per fortificazione a stella come una riconsiderazione dei sistemi difensivi già proposti per Firenze, avanzando
l’ipotesi che Michelangelo stesse valutando per Roma analoghe
planimetrie di fortezze ideate da Giuliano da Sangallo nei suoi fo-
La ricordata crisi nei rapporti fra architetti e militari, che le vicende di Borgo sintetizzano e ben mettono in campo, permettono di
ribadire un aspetto fondamentale legato a questi anni. Così come
erano venute definendosi nel corso del Cinquecento, le necessità
della guerra richiedevano sempre figure di esperti militari con alta
preparazione e conseguentemente architetture difensive concepite da chi aveva pratica dei campi di battaglia. Artisti universali come Francesco di Giorgio, Leonardo, Michelangelo, ciascuno in
grado di dipingere, scolpire, architettare, ideare macchine da cantiere e da guerra, secondo una creatività fondata sulla riflessione
personale, non riuscivano più a rispondere alle esigenze e alla
complessità della guerra moderna. Con l’esperienza romana, Michelangelo si trovò coinvolto nella fase cruciale di un generale ripensamento dei modi di praticare l’architettura militare. Un momento di svolta che si concluse a vantaggio di una progettazione
condotta necessariamente da équipes presiedute da figure di esperti sempre più specializzate, formatesi in ambito militare, dove non
era più possibile lasciare spazio all’ideazione solitaria.
1
Va ricordato che Antonio da Sangallo
il Giovane, già architetto di fiducia del
papa ancor prima della sua elezione al
soglio pontificio, nel 1536, dopo la
morte di Baldassarre Peruzzi, divenne
responsabile delle fabbriche papali.
Per gli studi sulle fortificazioni di Roma si rimanda almeno a Quarenghi
1880; Guglielmotti 1880; Borgatti
1890; Lanciani 1902; Rocchi 1902;
Giovannoni 1959; Spagnesi 1995; Eichberg, Eleuteri 1999.
2
A partire dalla storiografia ottocentesca, nello studio delle carriere degli
architetti attivi tra XV e XVI secolo,
si è prodotta la scissione che ha portato a considerare l’architettura militare una attività secondaria; fra i primi inquadramenti sulla questione si
rinvia a Marconi 1966, pp. 109-111.
3
Carteggio indiretto, vol. I, p. 51, n.
33 (15 lug. 1516).
4
Il breve, datato 29 settembre 1527,
è riportato in Sauer 1910, p. 226.
5
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, pp. 366-367; la revisione
dei lavori nell’area di San Miniato risulta inoltre da una lettera datata 10
ottobre 1528 non contenuta nel
Carteggio, pubblicata in Frey 1899,
pp. 296-297; sulla politicità di Michelangelo, cfr. Spini 1999; Ragionieri 2007, pp. 136-144.
6
Sui progetti e i disegni michelangioleschi per le fortificazioni di Firenze, per brevità si rimanda solo a
Tolnay 1940; Portoghesi, Zevi
1954; M. Tafuri, in Westfall 1984,
pp. 13-39; Fiore 2005, pp. 21-31;
Mussolin 2005, pp. 217-227.
12
Marconi 1966, p. 113; per la trascrizione del passo tratto dall’inedito
Trattato d’architettura militare di
Francesco de’ Marchi della Biblioteca
Nazionale di Firenze, citato da Marconi senza collocazione, si rimanda
alle pagine di Guido Rebecchini in
questo catalogo.
13
Marconi 1966, p. 113.
14
Ivi, pp. 116-119.
15
Gronau 1918, p. 195.
16
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi
1966-1987, vol. VI, p. 77 [ed.
1568].
17
Vari trattatisti di architettura militare ricordano la Fortezza da Basso di
Firenze come esempio dovuto alla
cattiva progettazione di un architetto
e non di un militare; fra i primi a criticare Sangallo è Tommaso Scala, il
cui parere è riportato in Ruscelli
1568, p. 40; pareri altrettanto negativi sono stati espressi da Maggi-Castriotto 1564, p. 37; Discorsi militari
1583, p. 17; Belluzzi 1598, p. VI.
18
Carteggio, vol. IV, pp. 205-206, n.
MXXXVIII (26 feb. 1545).
19
Ciò è ben noto da una lettera di Prospero Mochi al duca Pier Luigi Farnese
del 2 marzo 1547, parzialmente trascritta in Ackerman 1988, p. 289: “et
perché messer Michelangelo ha havuto
il loco del Sangallo, una insieme con il
Meleghino (il quale messer Michelan-
gli anni dal 1534 al 1564
1964, pp. 377-424 e 872-877; Corpus 563-583; Manetti 1980; Marani
1984, pp. 65-85; Ackerman 1988,
pp. 51-58 e 198-205; Portoghesi
1988; B. Contardi, scheda 15, in Argan, Contardi 1990, pp. 202-208; P.
Ragionieri, scheda 46, in Bardeschi
Ciulich, Ragionieri 2001, pp. 76-77;
P. Ragionieri, scheda 21, in Ragionieri 2003, pp. 60-61.
7
Ragionieri 2007, p. 140.
8
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi
1966-1987, vol. VI, p. 91 [ed.
1568].
9
Tutta la vicenda relativa a questi anni è ben documentata nel saggio di
Guido Rebecchini presente in questo
catalogo.
10
Quarenghi 1880; Giovannoni
1959; Pepper 1976; Fiore 1989;
Adams, Pepper 1994, pp. 61-74; Eichberg, Eleuteri 1999; Fiore 2002a,
pp. 143-147.
11
Marconi 1966; il progetto di fortificazione dell’area vaticana non è assimilabile alla volontà di costruire
una cittadella militare dentro la città
di Roma, ma rappresenta piuttosto il
tentativo di voler realizzare una enclave racchiudente gli edifici più rappresentativi del potere ecclesiastico,
opposta al resto della città e simile a
quanto veniva progettato negli stessi
anni dagli Spagnoli a Napoli, cfr. Pessolano 1998; Brunetti 2006, pp. 2030; per il piano di Niccolò V nell’area
vaticana si rimanda a Magnuson
gelo hora sta a obbedientia) [sic], imperò sua Beatitudine ci ha comandato che,
in quanto al disegno, si obbedisca a
messer Michelangelo, e non ad altri; et
perché messer Michelangelo è di contraria opinione a quel che già fu deliberato di fare, si soprasiede a la venuta del signor Alexandro Vitelli, che
così sua Beatitudine ha ordinato.”
20
La citazione, tratta da Portoghesi,
Zevi 1964, p. 899, riporta un ulteriore passo della precedente lettera.
21
Il disegno, successivo al 1548, documenta lo stato dei lavori alle fortificazioni di Borgo al tempo dei lavori
di Jacopo Castriotto; esso è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barberiniano Latino
4391, c. 2.
22
Marconi 1966, p. 115.
23
Guglielmotti 1880, pp. 359-360.
24
Schiavo 1953, pp. 253-256.
25
Portoghesi, Zevi 1964, p. 899.
26
Ackerman 1988, pp. 288-289; B.
Contardi, scheda 21, in Argan, Contardi 1990, p. 336.
27
Guglielmotti 1880; Rocchi 1902;
inoltre, Marconi 1966, pp. 111-112
e 116.
28
Se è vero che tale disegno appartiene alla progettazione michelangiolesca delle mura di Borgo, la data proposta da Tolnay, “verso il 1535 o poco dopo”, è comunque troppo precoce, cfr. Corpus 353 recto.
29
Tolnay 1927, p. 157.
30
Marani 1985, vol. II, p. 601.
123
1. Roma, Santa Maria
in Aracoeli, tomba
di Cecchino Bracci
TOMBA DI CECCHINO BRACCI
Pina Ragionieri
Morì appena quindicenne, nel gennaio del 1544, Cecchino
Bracci, nipote amatissimo di Luigi del Riccio, il fuoruscito fiorentino allora provveditore in Roma del Banco Strozzi-Ulivieri e segretario di Michelangelo. La scomparsa del bellissimo
adolescente colpì molto il Maestro, legato al Riccio da rapporti di lavoro ma anche di amicizia, tanto che aderì alla sua richiesta di progettare il monumento sepolcrale di Cecchino.
Una lettera di Michelangelo all’amico, scritta tra il luglio e
l’agosto del 1544, contiene una vera e propria promessa, che
fu poi mantenuta. A proposito del progetto scrive infatti l’artista: “lo farò a ogni modo come posso meglio disegniare”.
Il visitatore della nostra mostra che, con breve tragitto, raggiungerà la chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma potrà ancor oggi vedere sulla parete sinistra dell’atrio laterale dell’edificio il busto del giovanissimo defunto al di sopra di un sarcofago a coperchio, entro una nicchia dal timpano curvo poggiante su mensole (fig. 1). Ai lati, due stemmi della famiglia
Bracci di Firenze e due tabelle con iscrizioni, nelle quali si legge, rispettivamente a sinistra e a destra:
124
D.O.M.
FRANCISCO BRACCIO FLOREN.
NOBILI ADOLESCENTI IMMATVRA MORTE PRAEREPTO
AN AGENTI XVI
DIE VIII IANVARII M.D.XLIIII
M.M.V.
ALOISIVS DEL RICCIO AFFINI
ET ALUMNO DVLCISS. P.
INVIDA FATA PUER MIHI
TE REPVERE SED IPSE
DO TVMVLVM ET LACHRYMAS QUAE DARE DEBVERAS
gli anni dal 1534 al 1564
125
Studi preparatori di questo progetto tombale sono stati riconosciuti nel foglio di Casa Buonarroti 19 F recto, presente in
mostra (cat. 23a; Corpus 368 recto). L’analisi di questo disegno permette di seguire lo sviluppo dell’originaria idea michelangiolesca, imperniata appunto sulla tipologia del sarcofago a
coperchio, concepito dapprima ininterrottamente curvilineo
e poi a volute convesse con l’inserimento centrale di un motivo rettangolare. Nella fase finale della tormentata elaborazione, rintracciabile sulla sinistra del disegno, Michelangelo pensa a un organismo che equilibri il contrasto tra l’andamento a
curva spezzata del coperchio del sarcofago e il coronamento a
timpano triangolare del fastigio, attraverso l’inserimento di un
attico con il busto di Cecchino. Anche sul verso del foglio sono
presenti studi per lo stesso sarcofago, insieme a progetti per
scale e schizzi di figure (cat. 23b; Corpus 368 verso).
Il monumento fu realizzato da Francesco d’Amadore detto
l’Urbino, il fedelissimo servitore, amico e collaboratore di Michelangelo. Giacché le calorose istanze e l’invio di scelte cibarie da parte del Riccio, testimoniati ampiamente da un fitto
scambio epistolare, non bastarono a far sì che il Maestro scolpisse per lo meno il ritratto in marmo del ragazzo, toccò eseguirlo all’Urbino. Per il resto dell’opera, questi cercò al suo
meglio di attenersi all’idea generale di Michelangelo, attuandola, inevitabilmente, in modo piuttosto freddo e manierato.
È stata notata la sproporzione delle varie parti del sepolcro: le
paraste angolari sono molto esili, specialmente se rapportate
alle massicce mensole sottoposte; il timpano a segmento è esageratamente aggettante rispetto all’altezza di tutto il monumento; ma l’urna, le nicchie e le attigue targhe riportano questa struttura di tomba parietale alle ricerche michelangiolesche per la Sagrestia Nuova, precedenti di circa un ventennio,
e sono non a caso le parti migliori dell’opera. La tomba è illustrata in mostra anche dallo studio di un artista della seconda
metà del XVI secolo (cat. 25)1. Si tratta di un interessante disegno (acquistato nel 1971 per la Casa Buonarroti dall’allora direttore Charles de Tolnay), di cui è documentata l’appartenenza più di due secoli or sono a un michelangiolista come John
Charles Robinson; l’opera passò poi nella collezione londinese di Robert Ludwig Mond. Si tratta senza dubbio di una copia
ben eseguita, ma non troppo fedele.
Un episodio curioso si riallaccia a questa morte immatura: il
fatto che Luigi del Riccio riuscisse a convincere Michelangelo,
ancora una volta con ripetute promesse e consegne di cibi
prelibati, a comporre in pochi mesi circa cinquanta epitaffi
(quarantotto quartine, un madrigale e un sonetto) in memoria di Cecchino. Sono rime spesso traversate da un brivido di
dolore per la crudele perdita subìta dall’amico, a volte, dato il
loro numero, buttate giù frettolosamente, o perfino sfiorate
126
dal sorriso. Per una distesa e convincente analisi, conviene
ascoltare Enzo Noè Girardi:
Il foglio contiene anche un appunto scritto di traverso, che così
recita:
Il gruppo [di epitaffi], che è al centro della fase più artisticamente impegnata del poetare di Michelangiolo, esalta e, direi
quasi, esaspera quella condizione fondamentale della sua
poesia che […] ho indicato col binomio di gioco e ispirazione. Che Michelangiolo sia stato indotto a scriverli anche per
disimpegnarsi col Riccio che gli inviava pesci, funghi, fichi e
altre leccornie, è indubbio. Ma è pure evidente ch’egli ha finito per trovarsi preso dal gioco dei concetti, sì da sviluppare
sul tema centrale della morte tutta una serie di variazioni
quanto mai significative in rapporto alla sua tematica poetico-filosofica. Direi ch’egli ha colto l’occasione per adunare
intorno al sepolcro del quindicenne nipote di Luigi del Riccio, in forma sintetica, tutti i motivi della sua poesia: il sentimento pessimistico del mondo, la meditazione su gioventù e
vecchiaia, il tema cielo-terra, il desiderio di eternità della bellezza, il corpo come carcere, il corpo come veste gloriosa al dì
del giudizio […], muor giovane chi è caro al cielo, […] ecc.2
Perché la poesia stanocte è stata in calma
vi mando quactro berlingozzi pe’ tre berriquocoli del cacastechi
e a voi mi rachomando.
Vostro Michelagniolo al Macel de’ [Corvi].
Il felice e veloce schizzo del corvo sostituisce il nome della strada
romana nella quale si trovava la casa (ora distrutta) dove Michelangelo abitò fino alla morte4, e sigla scherzosamente le parole ri-
volte all’amico. A proposito delle quali così scriveva Cesare Guasti:
Berlingozzo, par che lo dicessero per cosa abbozzata. Il Vasari, in lettera, chiama berlingozzi le sue pitture: ‘que pochi
berlingozzi ch’io fo’. Michelangelo paragona a’ berlingozzi i
suoi componimenti, per contrasto ai berricuocoli, che sono
pasta più fina; i quali o ebbe veramente dal Riccio, o sono
detti per altri componimenti più belli sul Bracci, scritti da
uno che ne faceva con più parsimonia di lui: forse il Giannotti, e forse lo stesso Riccio, chiamato cacastecchi (che vale uomo spilorcio, dappoco) appunto perché, a pett’a Michelangelo, ne produceva pochi e a stento.5
Il foglio in mostra, esempio famoso, proveniente dall’Archivio
Buonarroti, XIII, 33 (cat. 24; Corpus 367) riporta alcuni epitaffi, numerati dal 42 al 45, che qui si trascrivono:
42
Deposto à qui Cechin sì nobil salma
per morte, che ‘l sol ma’ simil non vide.
Roma ne piange, e ‘l ciel si gloria e ride
che scarca del mortal si gode l’alma.
43
Qui giace il Braccio e men non si desia
sepulcro al corpo, a l’alma il sacro ufitio.
Se più che vivo, morto à degnio ospitio
in terra e ‘n ciel, morte gli è dolce e pia.
44
Qui stese il Braccio e colse acerbo il fructo
morte anz’il fior c[h]’a quindic’anni cede.
Sol questo sasso il gode che ‘l possiede,
e ‘l resto po’ del mondo il piange tucto.
45
I’ fu’ Cechin mortale e or’ son divo:
poco ebbi ‘’l mondo e per sempre il ciel godo
di sì bel cambio e di morte mi lodo,
che molti morti e me partorì vivo.3
1
Sul foglio, cfr. Tolnay 1972, pp.
11-13; S. Corsi, scheda 83, in Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001, p.
116; sulla tomba di Cecchino, cfr.
gli anni dal 1534 al 1564
anche F. Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 896-897.
2
Girardi 1974, pp. 119-120.
3
Rime, pp. 106-107, nn. 220-223;
sull’argomento, cfr. P. Ragionieri,
scheda 82, in Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001, p. 115.
4
Sulla casa di Macel de’ Corvi e sulle
altre abitazioni romane di Michelangelo, si veda il saggio di Clara Altavista nel presente catalogo.
5
Guasti 1863, p. 17.
127
PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO
Anna Bedon
Piazza del Campidoglio fino al 1540 era uno spazio irregolare,
posto su due livelli – uno più alto presso la chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli e uno più basso di fronte al Palazzo Senatorio –
collegati da una breve scala posta sul fianco della chiesa. Non
era pavimentata, il terreno era sconnesso ed era raggiungibile
solo da viottoli – uno dal Foro e l’altro tracciato dai passanti
provenienti da Campo Marzio (figg. 1-2). Non sembrava un
luogo raggiungibile agevolmente, ma per tutto il medioevo la
piazza e le sue pendici erano state il cuore della città, sede del
mercato di Roma. Nel XVI secolo i visitatori che salivano il glorioso colle per visitarne le vestigia erano sorpresi di vedere un
tale squallore: Andrea Palladio scrisse “[in Roma] di tanti edificij, che vi erano, non si vede hoggidì in piedi se non il Campidoglio mezo guasto, ristaurato da Bonifacio ottavo, & dato da
lui per habitatione del Senatore. Et certo li ornamenti, che erano in […] quelli, superavano li miraculi dell’Egitij, ma si come
fu molto ornato, così hoggidì è ripieno di ruine”1.
Nel 1536 Paolo III Farnese (1534-1549) decise che il Campidoglio doveva acquisire l’aspetto nobile che per il suo passato
e per il suo ruolo gli era dovuto. L’interesse del pontefice fu
sottolineato dalla costruzione sull’Arx – la sommità del colle
capitolino dove si trovava la chiesa dell’Aracoeli – di una villa
in forma di rocca disegnata da Jacopo Meleghino, in asse con
via del Corso2.
Sotto questo papato le autonomie del Comune di Roma (il “Popolo Romano”) furono molto limitate e il papa dispose liberamente delle cariche comunali – di solito elettive – e delle relative finanze3. In previsione della visita dell’imperatore Carlo V,
nel 1536, Paolo III ordinò che il Popolo iniziasse a proprie spe128
se la sistemazione della piazza4. Nella mente del pontefice i lavori dovevano continuare anche dopo la visita dell’imperatore
e a tale scopo nominò deputato ai lavori sul Campidoglio (carica che in teoria doveva essere scelta dal Popolo Romano) e
Maestro di Strada (uno dei magistrati che decidevano e controllavano i lavori pubblici e privati della città) il suo segretario, Latino Giovenale Manetti5.
La città non si era ancora ripresa dal disastro del Sacco di Roma
del 1527, i lavori non ebbero un finanziamento regolare e non
iniziarono prima della fine del 1537. Paolo III, come atto simbolico, ordinò che la statua equestre di Marco Aurelio fosse trasportata dal Laterano al centro della piazza del Campidoglio6. Il
“locum Capitolii noviter explanatum” dove fu posto il monumento segnò l’inizio vero e proprio dei lavori7. Poiché l’imperatore Marco Aurelio era stato considerato come massimo “pacificatore” delle genti, l’inaugurazione della statua ebbe luogo il
giorno della partenza del papa per la missione di pace tra Carlo
V e Francesco I, il 23 marzo 1538, e Paolo III volle che la giornata fosse organizzata in modo tale che il convoglio assistesse
all’avvenimento8.
Solo nel 1539, o alla fine del 1538, Michelangelo fu interpellato ufficialmente per la sistemazione del Marco Aurelio “sancitum fuit quod supradicta pecuniarum summa eroget […] partim circa reformatione statuae Marci.Antonij in plateam Capitolii exixtentis secundum judicium .d. Michelangeli sculptoris
et partim circa muros fiendos in dictam plateam capitolij”9. Michelangelo fu incaricato di sistemare la statua su un semplice ed
elegante basamento da lui disegnato, di forma pseudo-ovale,
più stretto della scultura della quale seguiva il profilo, in modo
1. Maarten van Heemskerck, Veduta di piazza del Campidoglio,
circa 1536. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Römische Skizzenbücher,
79D2, II, c. 72r. Il disegno mostra, sullo sfondo, il Palazzo
Senatorio con le tre rampe, il palazzo dei Conservatori a dieci
arcate e, in primo piano, l’obelisco e la cordonata dalla chiesa
dell’Aracoeli alla piazza
da dare massimo risalto al monumento10. Purtroppo nessun disegno autografo del Maestro richiama in qualche modo lo studio per il basamento e l’attribuzione a Michelangelo è basata su
di una frase scritta da Flaminio Vacca nel 1594: “Il Cavallo di
Campidoglio […] ivi è stato [al Laterano] sino al tempo di Paolo
III, quale lo condusse in Campidoglio, e fecegli fare un piedestallo da Michel’Angelo, e fu guasto un pezzo di fregio ed architrave di Trajano, perché non si trovava marmo sì grande; e perché detto Cavallo fu trovato nella proprietà del Collegio Lateranense, per questo detto Collegio pretendeva esserne padrone,
ed ancora litiga col Popolo Romano, né passa anno, che non facciano atti per mantenere le loro giurisdizioni. Tutto questo ho
inteso dire”11. Il piedestallo ha un’anima in muratura di forma
cruciforme a cui furono aggiunti due conci in marmo semicircolari sui lati brevi, due lastre curve sui lati lunghi e, come base,
quattro liste di marmo12. I lati brevi avevano la divisa SPQR e gli
stemmi con i gigli di Paolo III collocati entro uno scudo d’invenzione michelangiolesca a “cranio di cavallo”, simile a quelli
nella Tribuna delle Reliquie in San Lorenzo a Firenze e nella
tomba di Giulio II a San Pietro in Vincoli; i nomi dei tre conservatori dei primi due trimestri del 1538 si trovavano sullo zoccolo del lato breve frontale, mentre i lati lunghi recavano le
scritte dedicatorie13. La forma dello scudo basta da sola ad attribuire con sicurezza l’ideazione a Michelangelo, ma i conci di
marmo, piccoli e scadenti, che formano lo zoccolo fanno pensare a un’esecuzione non seguita dal Maestro.
Latino Giovenale Manetti, occupato per una missione diplomatica, nel 1540 fu sostituito dal segretario del cardinal Alessandro Farnese, Curzio Frangipane, e i lavori di regolarizzazione della piazza non furono affidati a Michelangelo, ma agli architetti dei Maestri di Strada: si eliminò la scala che univa i due
livelli della piazza, fu interrotto il collegamento tra la chiesa
dell’Aracoeli e i due palazzi della piazza e si costruì un muro di
contenimento alto 10 metri14. Questo muro di contenimento
fu tracciato usando un filo teso dal pulpito esterno della chiesa fino alla salita del Carcere Tulliano, in modo da determinare
un angolo di ottanta gradi rispetto al Palazzo Senatorio, approssimativamente lo stesso angolo che quest’ultimo edificio
già aveva rispetto al palazzo dei Conservatori; la piazza assunse, così, una forma trapezoidale (fig. 3)15. Il legame col palazzo
dei Conservatori fu fisicamente segnalato da una nicchia scavata sul nuovo muro, in asse con l’entrata del palazzo. Tutto il
colle, inoltre, fu circondato da una strada, le pendici dell’Arx
furono fortificate e si iniziò a tracciare una via rettilinea che dal
Campidoglio conduceva alla piazza degli Altieri, l’attuale piazza del Gesù16.
Sulla nuova piazza restavano il Palazzo Senatorio – un fortilizio
merlato costruito nel XIII secolo sopra il Tabularium e il temgli anni dal 1534 al 1564
2. Maarten van Heemskerck, Veduta della chiesa di Santa Maria
in Aracoeli, circa 1536. Berlino, Staatliche Museen - Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Römische Skizzenbücher,
79D2, II, f. 16r. Il disegno mostra la cordonata fra i due livelli
di piazza del Campidoglio
pio di Veiove – e il palazzo dei Conservatori, edificato da Niccolò V Parentucelli (1447-1455) nel 1450 addossando ad alcune vecchie costruzioni una facciata porticata (fig. 4)17. Il primo
edificio aveva la funzione di palazzo di giustizia e conteneva
anche le carceri, mentre il secondo ospitava il consiglio comunale ed era sede delle magistrature cittadine. Nel 1536, Johannes Fichard, dotto giureconsulto tedesco in visita a Roma, diede un quadro desolante del Palazzo Senatorio, “Praetoris igitur
Palatium, nihil quod ego viderim, vel ex aliis audiverim, memorabile continet”18, irregolare, arcaico e poco rappresentativo,
mentre il palazzo dei Conservatori, anche se degno di nota per
le sale decorate da Jacopo Ripanda nel primo decennio del Cinquecento e per la collezione statuaria, aveva un aspetto insignificante. Nel generale ripensamento della piazza si previde la risistemazione di entrambi gli edifici.
I lavori di definizione della piazza e di costruzione di una nuo129
3. Anonimo, Veduta di piazza del Campidoglio, 1555-1556.
Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques,
Cabinet des Dessins, Fonds des dessins et miniatures,
Ecole d’Italie, Petit format, inv. 11028
5. Anonimo, Facciata del Palazzo Senatorio, seconda metà
del XVII secolo. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica
Vaticana, Notizie dei senatori di Roma, raccolte da Francesco
Gualdi e Giacomo Gigli, ms. Vat. Lat. 8257, frontespizio
6. Roma, Palazzo Senatorio, scalone
due rampe senza pianerottoli è più vicina a quella del cortile superiore del Belvedere vaticano; è però presente al centro del
prospetto una nicchia con una chiave d’arco ed è segnato ripetutamente il livello del podio finale, come se sul prospetto dell’edificio vi fosse un marcapiano23. Uno dei segni alla base della
scala prosegue verso destra, oltre la struttura, come se il palazzo fosse messo in prospettiva. Il verso dello stesso foglio (cat.
23b; Corpus 368 verso) è ancora più approssimativo, ma l’elemento centrale e la traccia di un muro curvo, (probabilmente
un misto di prospetto frontale e pianta) sembrano nuovamente rimandare all’esedra del Belvedere, come anche conferma la
datazione del foglio, posta al 155024.
Nel progetto di Michelangelo la vecchia facciata del Palazzo Senatorio doveva mantenere il proprio carattere di fortilizio medievale, con le sue murature di blocchi di tufo a vista, le finestre
di foggia quattrocentesca ripetute anche sul nuovo lato destro,
insieme ai merli di coronamento: un edificio assai simile al palazzo dei Tribunali che Donato Bramante aveva progettato e
iniziato a costruire in via Giulia (fig. 10)25. In Campidoglio, però, la grandiosa ed elegante scalinata di bianco travertino, che
creava un forte contrasto coloristico col tufo delle murature, segnalava che ci si trovava di fronte a un palazzo comunale, nel
Lazio tradizionalmente dotato di profferlo, cioè di scala esterna
conclusa da podio coperto (fig. 11). Quello del Palazzo Senatorio è un profferlo di finissimo disegno, accogliente i Fiumi, sminuiti più che esaltati dalla scala. Tutto il fronte del palazzo fu
cinto da un sedile per permettere le udienze all’aperto, con il
seggio riservato al senatore in posizione elevata, accolto nel
baldacchino sotto il Leone che azzanna il cavallo, simbolo della
Giustizia capitolina. Uno straordinario equilibrio si coglie in
questa sistemazione in cui le memorie dell’antica Roma sono
accolte dal solido fortilizio municipale, fondendosi in un co-
4. Francesco Credenza (?), Veduta di piazza del Campidoglio,
1546-1547. Roma, palazzo dei Conservatori, sala delle Aquile
va entrata al convento dell’Aracoeli sembrano essere stati conclusi nel 1543 e, tra il 1544 e il 1546, non si fece altro. Finalmente, alla fine del 1546, il compito di rinnovare il Palazzo Senatorio fu affidato a Michelangelo, che subito cercò una persona di fiducia per seguirne i lavori. Giorgio Vasari nella vita di
Aristotile da Sangallo scrisse: “[nel 1547, questi] se ne tornò,
lieto a Firenze, non ostante che Michelangelo, il quale gl’era
amico, avesse disegnato servirsene nella fabrica che i Romani
disegnavano di fare in Campidoglio”19. Così Michelangelo, per
la direzione dei lavori, si risolse a confermare il soprastante che
già vi era fin dal 1537, Mario Maccarone il quale, avendo l’importante requisito di essere suo vicino di casa a Macel de’ Corvi, gli riferiva quotidianamente quanto veniva fatto e ne raccoglieva gli ordini, tanto da riuscire a ispirare in Michelangelo un
tale affidamento che questi lo impose anche sul cantiere di palazzo Farnese20.
130
Michelangelo decise innanzi tutto di regolarizzare la facciata
asimmetrica del Palazzo Senatorio: la torre di destra, molto più
stretta della sinistra, fu allargata; venne chiuso il doppio loggiato d’entrata sul lato destro e fu aperto un nuovo ingresso al centro del prospetto (fig. 5). Il nuovo portale sarebbe stato posto al
primo piano, allo stesso livello della grande sala delle Udienze,
che occupava più di metà del fronte del palazzo. Tuttavia, la
parte sinistra della facciata era irregolare, formata da una linea
spezzata lievemente concava, mentre la parte centrale era arretrata. Per non costruire ex novo tutta la facciata, Michelangelo
addossò al prospetto un maestoso scalone a due rampe, coprendo così interamente la parte inferiore del palazzo, fino a
raggiungere, con un podio centrale, il livello della nuova entrata alla sala delle Udienze, a otto metri d’altezza (fig. 6). A metà
d’ogni rampa, lì dove si trovava l’angolo di ogni torre, fu inserito un ampio pianerottolo. Le prime rampe fiancheggianti le torri furono rese aggettanti rispetto alle seconde rampe che salivano a un ampio podio, a sua volta sporgente quanto le rampe
delle torri, in modo da rendere lo scalone plastico e chiaroscurato, con un fronte che potesse essere adatto ad accogliere, nelle parti rientranti, le due statue dei Fiumi poste su ampie basi ai
fianchi della nicchia centrale al di sotto dell’ampio podio. Molto probabilmente i due Fiumi facevano parte di una composizione che prevedeva al centro del prospetto la statua del Leone
che azzanna il cavallo, simbolo della Giustizia capitolina21. Due
leoni in basalto, simbolo della città di Roma, furono posti agli
angoli delle torri, quasi a sorvegliare le due salite dello scalone
michelangiolesco (fig. 7)22. Un accento particolare fu posto al
podio centrale dello scalone, che secondo le intenzioni di Michelangelo doveva essere coperto da un baldacchino marmoreo
(fig. 8). Gli scalini erano di lunghezza mano a mano crescente a
correggere l’andamento curvilineo del muro e la facciata fu così regolarizzata (fig. 9). Le balaustre rendevano ancora più convincente l’effetto: a quelle verso la piazza ne corrispondevano
altre addossate ai muri del vecchio palazzo, formate non da balaustrini interi, ma da mezzi balaustrini incastrati nelle murature di tufo, con i corrimano impercettibilmente inclinati a seguirne l’andamento. Michelangelo non progettò un basamento
bugnato per il palazzo: la scala avrebbe dovuto essere montata
dopo o, almeno, tenendo conto del futuro bugnato; ma un bugnato molto plastico, collocato in un secondo tempo, avrebbe
affogato buona parte degli elementi lapidei delle rampe e, infatti, quando nel 1702 la parte inferiore della facciata fu coperta
da uno spesso strato di intonaco per creare un finto bugnato,
parte del corrimano fu nascosto.
Solo due rapidi schizzi tracciati su un foglio di Casa Buonarroti
sembrano richiamare una scala simile a quella del Palazzo Senatorio. Nel 19 F recto (cat. 23a; Corpus 368 recto) la struttura a
gli anni dal 1534 al 1564
131
7. Hieronymus Cock, Veduta di piazza del Campidoglio,
circa 1549 (da Hieronymus Cock, Operum Antiquorum
Romanorum Reliquiae, Anversa 1562)
10. Pier Maria Serbaldi (attribuita),
Medaglia di fondazione del palazzo
dei Tribunali di Giulio II a Roma,
circa 1509
11. Tarquinia, profferlo del Palazzo Comunale
8. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio,
Bartolomeo Faleti editore, 1568. Particolare con il profferlo
del Palazzo Senatorio
9. Rilievo dello scalone del Palazzo Senatorio
mune senso di appartenenza a un passato non lontano e pieno
di dignità, sotto il segno “pacificatore” del papa romano.
Michelangelo lasciò al suo posto, in posizione asimmetrica, la
vecchia torre delle campane dai merli ghibellini, come anche
mantenne la torre dai merli guelfi di sinistra, ricordo delle battaglie combattute per la libertà comunale, e vi aggiunse soltanto il lussuoso arengario. L’antica torre delle campane e l’aspetto generale del Palazzo Senatorio dopo i lavori michelangioleschi evocavano motivi medioevali fantastici che perpetuavano il ricordo delle lotte e dei fasti comunali che avevano visto
il Leone – non la Lupa – campeggiare sulle monete del Popolo
Romano e indicare il luogo della Giustizia26. Lo stesso Leone
che ora custodiva le scale in forma di ringhiera balaustrata, col
ruolo di “parlatorio” come ai tempi di Cola di Rienzo. Michelangelo si concesse solo di rendere simmetrico il fronte del palazzo, costruendo una rampa preziosa il cui biancore e la cui
plasticità erano sottolineate dal confronto con la facciata di tufo e mattoni.
Con questi lavori, Buonarroti mostrava di non voler costruire
una piazza del Campidoglio in forma di foro all’antica e sia l’essenzialità sia l’economicità degli interventi escludono la possibilità che egli desiderasse costruire sulla piazza un terzo palazzo sul lato vuoto verso l’Aracoeli (cat. 29, 30, 31), simile a quello dei Conservatori, ancora ben lontano dall’aspetto accattivante di oggi (cat. 28).
Michelangelo abbandonò i lavori di Palazzo Senatorio nel novembre 1549, alla morte di Paolo III e quanto iniziato fu concluso dal soprastante Maccarone e dallo scalpellino Benedetto
Schela; il baldacchino previsto sul podio centrale non fu mai
concluso27.
Lo scarso interesse all’immagine del Campidoglio mostrato dai
papi successivi – Giulio III del Monte (1550-1555) e Paolo IV
Carafa (1555-1559) – fece mancare i finanziamenti, ma nel
1554, morì Curzio Frangipane e al suo posto, forse non casualmente, fu scelto come deputato ai lavori un amico di Michelangelo, Tommaso de’ Cavalieri, che assicurò il contributo di Michelangelo. Alla testarda volontà di Tommaso dobbiamo l’impegno di Michelangelo di dare una nuova veste alla piazza simbolo delle libertà cittadine e l’accento profondamente diverso
da quello impresso all’epoca di Paolo III.
Nel 1542-1543, dietro la chiesa francescana dell’Aracoeli, era
stata realizzata una scalinata che dal convento conduceva alla
piazza. In cima alla scalinata era stata costruita una graziosa
loggia a tre archi di pietra scura probabilmente su disegno di Jacopo Meleghino, autore della villa di Paolo III (fig. 12)28. Nel
1554, subito dopo la conclusione dei lavori a Palazzo Senatorio, sul lato opposto della piazza furono costruite una scalinata
e una loggia identiche e assolutamente prive di scopo, poiché
132
portavano a un terreno comunale non recintato sul retro del
palazzo dei Conservatori (fig. 13). In questo modo, però, la
simmetria ricercata nella facciata del Palazzo Senatorio si rifletteva anche nelle sue quinte laterali. Con i pochi finanziamenti
disponibili, negli anni cinquanta Michelangelo diede forma
conclusiva alla piazza, definendo l’ultimo lato, quello verso la
città. Furono costruite due balaustre a separare piazza e pendio,
balaustre che lasciavano al centro lo spazio per una cordonata e
ai lati un varco. Ne risultò un trapezio “quasi” regolare, sottolineato da due lunghe liste di travertino sui lati paralleli; tra le
due liste, sempre in travertino, fu disegnato un ovale, in asse
con l’entrata del Palazzo Senatorio e con la futura cordonata;
nel punto centrale dell’ovale fu posizionata la statua di Marco
Aurelio, la cui base fu allargata per dare maggiore stabilità al
gruppo scultoreo (cat. 27)29. La piazza fu pavimentata con un
semplice lastrico di mattoni a spinapesce e nessuna decorazione fu prevista all’interno dell’ovale (cat. 26, 34)30. Questi lavori si conclusero nel 1559.
Nell’ottobre 1561, papa Pio IV (1559-1572) fece visita al
Campidoglio e comunicò al consiglio comunale il suo desiderio che il palazzo dei Conservatori fosse restaurato; ma nell’immediato si trovò più urgente lavorare al Palazzo Senatorio
e alla cordonata che doveva divenire l’accesso di rappresentanza alla piazza31. Nei lavori al Palazzo Senatorio non fu coinvolto Michelangelo, anche se gli interventi avrebbero avuto un
grande impatto sull’aspetto della facciata, dal momento che si
prevedeva di allungare la sala delle Udienze e di sopraelevarla,
con un conseguente cambiamento della finestratura32. Buonarroti fu coinvolto, invece, negli altri lavori di sistemazione della piazza. Le due balaustre costruite nel 1554-1559 erano state fondate senza prevedere alcun muro di contenimento sotto
di esse. Quando, tra il 1562 e il 1564, si tracciò la cordonata,
sotto le balaustre furono costruiti dei muri che crearono un
terrapieno alto sei metri33. Un muro di soli sei metri sta a indicare che non era mai stata presa in considerazione l’ipotesi di
liberare dalla terra i fianchi della cordonata e che la piazza doveva avere come limite verso la città un declivio relativamente
dolce. La cordonata principale, solo sterrata, aveva una larghezza uniforme ed era più ripida e più breve di quella poi costruita, per non toccare la scala dell’Aracoeli (fig. 14; cat. 38,
39). La cordonata fu tracciata perfettamente perpendicolare
alle balaustre e non in asse con la nuova Via Capitolina non ancora perfezionata. Non era previsto, dunque, nessun collegamento prospettico con piazza Altieri; inoltre, sotto la cordonata non esisteva ancora una piazza o uno slargo da dove osservare la piazza sovrastante. Nell’idea di Michelangelo, la
piazza doveva essere uno spazio chiuso, aprospettico, un luogo che, una volta saliti sul colle, non doveva essere attraversagli anni dal 1534 al 1564
to in linea retta – il Marco Aurelio e le due rampe dello scalone
senatorio lo impedivano.
Ma dopo lo sterro della cordonata, non si proseguì con la posa
di cordoli, gradini e balaustri. È probabile che il deputato Tommaso de’ Cavalieri ne sospendesse la costruzione – verrà ripresa solo nel 1582 – non soddisfatto da questo approccio così poco “teatrale”. Che così fosse, lo si deduce dai fatti successivi.
Nel novembre 1562 Tommaso de’ Cavalieri trovò 2000 scudi
per costruire la nuova facciata del palazzo dei Conservatori e papa Pio IV, nel febbraio 1563, ne assegnò altri 3000 dalla Gabella del Vino Forense34. L’idea di dare nuova veste al palazzo risaliva all’inizio dei lavori alla piazza, ma Frangipane si era limitato
ad aggiungere nuove stanze sul retro dell’edificio – le attuali sale delle Oche, delle Aquile e degli Arazzi35. Vi erano, inoltre, dei
vincoli: si voleva in qualche modo preservare quanto esisteva e
dare nuova veste senza modificare molto gli interni.
A piano terreno, il palazzo ospitava le sedi di alcune corporazioni artigiane; a fronteggiare le cinque stanze delle corporazioni vi era un portico formato da dodici strette arcate su colonne
di spoglio e, al piano superiore, verso la piazza, vi erano due
logge angolari e al centro due sale per le riunioni consiliari. Il
palazzo era a forma di C, con un cortile centrale dotato di una
scala sul lato sinistro, un porticato sul destro e sul fondo un
muro di contenimento verso monte Tarpeo. Era, insomma, un
palazzo privo di attrattive, a parte la straordinaria collezione
statuaria ed epigrafica ancora senza degna collocazione, a parte
pochi pezzi di particolare significato simbolico – come le due
statue di Ercole, rispettivamente in bronzo e in marmo, poste
ai lati dell’entrata del cortile e i due leoni, simbolo della città, ai
piedi delle sue scale. Michelangelo, su invito di Tommaso de’
133
12. Anonimo fiammingo, Veduta della piazza del Campidoglio
dal palazzo dei Conservatori, 1561. Braunschweig, Herzog Anton
Ulrich-Museum, Kupferstichkabinett
14. Anonimo olandese (cosiddetto Anonimo
Fabriczy), Veduta dello sterro per la cordonata
principale del Campidoglio, 1573-1574.
Stoccarda, Staatsgalerie, Graphische Sammlung
15. Schema planimetrico della prima campata
del palazzo dei Conservatori
16. Roma, palazzo dei Conservatori, portico
13. Giovanni Antonio Dosio, Veduta di Palazzo Senatorio
dalla cordonata del convento dell’Aracoeli, 1559-1563.
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2560 A recto
Cavalieri, affrontò una sfida che era insieme tecnica e rappresentativa. Poiché si dovettero mantenere invariate la quota dei
solai e l’altezza del palazzo, le modifiche all’involucro furono
minime, ma essenziali: il palazzo era di forma lievemente trapezoidale e la facciata non era perfettamente perpendicolare ai
muri laterali. Michelangelo decise di renderli tali e allargò la facciata di due metri. I lavori iniziarono dall’angolo verso la città,
fondando due possenti pilastri, non sul luogo dei precedenti
sostegni, ma sul nuovo angolo di novanta gradi, a circa un metro di distanza (fig. 15). A seguire i lavori sul cantiere fu posto
Guidetto Guidetti, architetto della Nazione fiorentina in Roma,
“quale si è preso per eseguire li ordini di m. Michelangelo Buonarruoto in la fabrica di Campidoglio”36.
134
Tra il 1563 e il 1564 fu costruita solo la prima campata del portico, formata da quattro pilastri affiancati da colonne ioniche. I
capitelli di queste colonne erano di forma insolita, con facce
concave sui fronti e convesse ai lati, come se fossero stati modellati con l’argilla e premuti con le mani (cat. 32). I tre pilastri
esterni avevano addossata al centro una lesena su alto plinto,
che raggiungeva il tetto, mentre all’interno del portico essi si
tramutavano in blocchi astratti, le cui fasce continuavano nel
soffitto. Le colonne libere reggevano trabeazioni piane, sia sul
fronte che attraverso il portico, creando un baldacchino. I blocchi portanti erano costituiti dai pilastri più le quattro colonne
affiancate e, durante tutta la durata dei lavori, non si costruì
campata per campata, bensì blocco per blocco, cioè una campata più le due colonne appartenenti alla campata successiva.
Questo insieme di sostegni e travi reggevano un nuovo solaio,
alla stessa quota del precedente, realizzato non con travi di legno, bensì di marmo e tra una trave e l’altra fu gettato in cassaforma il conglomerato cementizio, per creare un unico cassettone gradonato decorato a stucco per ogni campata (fig. 16)37.
La nuova struttura fu costruita senza poggiare sul muro interno del vecchio portico, muro al quale ne fu accostato un altro,
autonomo, entro il quale furono incassate le colonne ioniche.
Al centro del prospetto interno fu posto un portale che dava accesso al locale che era stato il Consolato dei Mercanti di Roma.
Al primo piano, la loggia verso la piazza fu tamponata e vi furono aperte due finestre, una per ogni lato.
Gli elementi decorativi del portico citavano le opere fiorentine
di Michelangelo – le colonne inalveolate ricordavano quelle
della Biblioteca Laurenziana e la porta del Consolato era identica a quella che dal primo loggiato del chiostro di San Lorenzo
porta alla Tribuna delle Reliquie –, mentre la facciata e le finestre citavano l’ordine gigante e le finestre dell’esterno di San
Pietro. Nel palazzo dei Conservatori i potenti pilastri che agganciavano la vecchia facciata (trasformando il primitivo sistema murario in una griglia che rese possibile lo svuotamento di
un’intera campata per fare spazio alla finestra centrale) e il loro
aspetto in forma di un più sottile ordine gigante con fasce ribattute di travertino ai lati (fig. 17), mostrano un’abilità tecnica
impensabile nel Michelangelo fiorentino38. L’abilità di mimetizzare l’ampiezza dei pilastri attraverso fasce apparentemente
decorative – in realtà parti integranti del sistema portante – e di
trasformarle in cornici intorno a specchiature di mattoni a vista
è quasi inedito, ma l’elemento troverà grande fortuna nella seconda metà del Cinquecento romano, come tutti i dettagli decorativi “inventati” da Michelangelo, facendo di queste specchiature con mattone a vista uno dei motivi più usati dalle maestranze lombarde a Roma (fig. 18). La sobrietà decorativa, che
affida agli elementi tettonici la propria espressività, la stretta
aderenza al sistema costruttivo degli elementi usati, l’indifferenza verso la decorazione che fa concentrare l’attenzione sul
forte chiaroscuro formato da pieni e vuoti, sulle masse create
dagli elementi portanti e sull’interpretazione in forma plastica,
altamente emotiva, di porte, finestre, capitelli e cornici sono gli
elementi che fanno del palazzo dei Conservatori l’ultima opera
di Michelangelo39.
Alla morte di Michelangelo nel febbraio 1564 i pilastri del portico erano già costruiti, le sue apparecchiature murarie completate e le finestre, già ordinate agli scalpellini, non erano ancora
state montate. Era in opera solo la parte inferiore delle lesene
giganti e mancavano totalmente i capitelli e il coronamento finale (fig. 19). Guidetto Guidetti, l’architetto deputato da Michelangelo a seguire i lavori, non gli sopravvisse e morì nell’autunno dello stesso anno, così come il soprastante “storico” dei
lavori alla piazza capitolina, Mario Maccarone, che morì nel
giugno 156540. Tuttavia la presenza del deputato Tommaso de’
Cavalieri fece superare senza scosse quell’anno problematico,
poiché scelse come esecutore del “programma michelangiolesco” un giovane scultore-architetto suo protetto, Giacomo della Porta, che disegnò e completò quanto mancava della facciata:
i capitelli dell’ordine gigante e il cornicione con balaustra di coronamento41. Michelangelo aveva preparato la parte superiore
della facciata per accogliere un alto cornicione, ma non vi era alcun muro continuo che potesse sostenere una pesante balaustra di marmo, né erano stati predisposti acroteri per le statue.
Tommaso de’ Cavalieri, che fin dall’inizio della fabbrica aveva
accumulato statue di dimensioni simili, ordinò a Giacomo della Porta di aggiungere una balaustra e gli affidò il compito di interpretare in modo michelangiolesco il completamento del palazzo dei Conservatori con l’uso sistematico di elementi tratti
da opere del Maestro42.
gli anni dal 1534 al 1564
Noi non sappiamo come Michelangelo avrebbe continuato il
palazzo – la complessità della tessitura della facciata e la vitalità creativa del Maestro ci impediscono ogni ipotesi, ma il tema del palazzo sede dell’amministrazione comunale all’interno della piazza rappresentativa della nobiltà e dell’antichità di
quelle magistrature era inedito e certamente, se Michelangelo avesse potuto continuarlo, avrebbe offerto una soluzione
sorprendente.
Giacomo della Porta subentrava nella fabbrica nel momento
più delicato: non bastava più un bravo esecutore, era necessario
un interprete dell’opera michelangiolesca che completasse
quanto iniziato. La costruzione di una sola campata non dava
certezza che questa dovesse necessariamente ripetersi eguale
135
17. Schema planimetrico del sistema portante
della facciata di palazzo dei Conservatori
(ricostruzione dell’autore)
19. Giacomo della Porta (?), Alzato delle prime
due campate della facciata del palazzo dei Conservatori,
1565. Vienna, Albertina Graphische Sammlung,
It. Arch. Rom nr. 31r
20. Roma, piazza del Campidoglio
18. Roma, palazzo dei Conservatori, facciata
ri approvato da Nostro Signore”, frutto di un accordo personale stipulato con Pio IV. Tommaso auspicava una facciata in
travertino, come disse Vasari44. Inoltre, prima di dare avvio alla conclusione della cordonata principale, Cavalieri attese che
i lavori alla Via Capitolina e alla nuova piazza ai piedi della salita fossero conclusi. Subito dopo fu bandito un concorso di
idee per uno scalone e una serie di salite che “aprissero” la
nuova piazza capitolina alla città, rendendola visibile fino a
piazza Altieri45. Il progetto di Tommaso de’ Cavalieri, di chiaro significato ideologico nella sua aulicità, quale coerente e
leggibile restituzione dell’immagine classica del Campidoglio, è di fatto quello che sarà realizzato nel giro di un secolo.
Ben lontano dal rigore iconoclasta dell’ultimo Michelangelo,
Tommaso de’ Cavalieri fu il fautore del Campidoglio teatrale
e nostalgico dei fasti antichi che vediamo oggi (fig. 20; cat. 36,
37, 30, 33).
Palladio, ed. Faciotto 1600, pp. 21-22.
Sulla costruzione della villa a partire dal 1535, sono fondamentali
Brancia di Apricena 1997-1998;
Brancia di Apricena 2000.
3
Bedon 2008, pp. 51-52.
4
Lanciani 1988-2002, vol. II, p.
232.
5
Bedon 2008, pp. 51-52.
6
Ivi, pp. 55-58.
7
Diario di Biagio de Martinelli, 25
gennaio 1538, in Pastor 1959, p. 716.
8
Su Paolo III e la simbologia usata
nel corso del suo pontificato, si veda
Canova 1998.
9
Lanciani 1988-2002, vol. II, p. 77;
Bedon 2008, p. 338, doc. 22 marzo
1539.
10
Melucco Vaccaro 1989, p. 119; sui
problemi di ancoraggio della statua
al basamento, si veda Parisi Presicce
1997.
11
Vacca 1594, p. iv, n. 18; Lanciani
1883, p. 239; Michaelis 1891, p.
1
per sette volte, ma ogni pilastro formava un blocco unico con le
quattro colonne che lo affiancavano e la colonna a sinistra della
seconda lesena gigante, posta in opera con Michelangelo ancora vivente, garantiva che anche la seconda campata sarebbe stata identica alla prima. Quindi, almeno le prime due campate sarebbero state eguali. Anche ripetendo per sette volte la stessa
campata, rimanevano da risolvere le parti non affrontate da Michelangelo: oltre al coronamento del palazzo, la campata centrale col portale e il vestibolo d’entrata al cortile. Tommaso aveva ottenuto da Michelangelo un frammento di facciata, ma era
necessario che si dicesse che egli l’aveva costruita tutta; anzi,
era necessario poter dire che Michelangelo aveva costruito tutta la piazza del Campidoglio: era questo il compito, puntualmente portato a termine, di Giacomo della Porta, che dal 1573
avrà la stessa missione – portata a buon fine – anche in San Pietro. Il coronamento a balaustra con acroteri è sicuramente un
desiderio di Tommaso, e Giacomo della Porta lo rese michelangiolesco, proponendo la stessa balaustrata che delimitava la
piazza verso la città (cat. 40, 41).
136
La nuova facciata del palazzo dei Conservatori, in gran parte
in travertino, implicava una serie di conseguenze sull’intera
piazza – dal nuovo rapporto col Palazzo Senatorio alla necessaria definizione del lato del muro di terrapieno dell’Aracoeli.
Tommaso de’ Cavalieri ne elaborò una personale versione e
nella sua idea, di fronte al palazzo dei Conservatori, avrebbe
dovuto essere costruito un portico identico, privo di profondità e di scalone, non per uno scopo pratico, ma per creare
un’immagine complessivamente “compiuta” del Campidoglio43. In pratica, sentiva la necessità di una terza “quinta” che
definisse simmetricamente lo spazio architettonico. L’intendimento di Tommaso de’ Cavalieri era la restituzione di un
Campidoglio all’antica – non del Campidoglio antico – in forma di foro porticato, coronato da statue con al centro l’effigie
dell’imperatore. Una tale piazza non poteva mantenere la facciata medievaleggiante del Palazzo Senatorio nella forma
consegnata da Michelangelo nel 1550. E infatti il Maestro non
fu affatto coinvolto da Tommaso nei lavori fatti al Palazzo del
1562, basati su un “nuovo designo de m. Thomao de Cavalie-
2
gli anni dal 1534 al 1564
28; Ferroni, Sacco 1989, p. 196; le
iscrizioni sono riportate in Forcella
1869-1884, vol. I, p. 33, n. 44.
12
Künzle 1961; Ferroni, Sacco
1989.
13
Sulla particolare forma usata da
Michelangelo per gli stemmi, si veda
Wallace 1987.
14
Brancia di Apicena 2000, pp. 450452.
15
Güthlein 1985, p. 99; fondamentali per la storia dei lavori in questo
periodo, sono ancora Brancia di
Apricena 1997-1998; Brancia di
Apricena 2000.
16
Bedon 2008, pp. 52-53.
17
Ivi, pp. 9-49.
18
Fichard 1815, p. 27.
19
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi
1966-1987, vol. V, p. 403 [ed.
1568], Vita di Aristotile da Sangallo.
20
Frommel 1973, vol. II, p. 110, n.
52; Uginet 1980, pp. 20 sgg., p. 46,
nota 126.
Bedon 2008, p. 92.
Ivi, p. 105.
23
Frommel ipotizza che in fase di
progetto anche la scala del
Belvedere prevedesse una nicchia
centrale, si veda Frommel 1997, p.
255.
24
Hirst 1993, p. 54; Frommel 1997,
pp. 255-257.
25
Frommel 1974; Bruschi 1979.
26
De Angelis d’Ossat 1965, p. 37.
27
Bedon 2008, p. 99.
28
Coolidge 1945-1947; Hess 1961,
pp. 347-348.
29
Bedon 2008, pp. 125-129.
30
Ivi, pp. 121-125.
31
Ivi, p. 345, doc. 13 ottobre 1561.
32
Ivi, pp. 131-133.
33
Ivi, pp. 129-131.
34
Ivi, pp. 145-147.
35
Ivi, pp. 66-71.
36
Ivi, p. 350, doc. 26 luglio/10 dicembre 1563.
37
Ivi, pp. 153-156.
21
22
Frommel 1997b, p. 26.
Ivi, p. 25.
40
Bedon 2008, pp. 158, 161.
41
Ivi, pp. 161-162.
42
Ivi, p. 162; per la discussione sul
coronamento si vedano pp. 171203
43
Il “Terzo Palazzo” è citato per la
prima volta da Giorgio Vasari: “dirimpetto a questa [facciata del palazzo dei Conservatori] ne ha a seguitare un’altra simile di verso tramontana sotto Araceli”, si veda Vasari, ed.
Bettarini, Barocchi 1966-1987, vol.
VI, p. 80 [ed. 1568]. Esso è riprodotto nelle incisioni del Campidoglio a
partire dal 1567, ma venne menzionato per la prima volta in un consiglio comunale nel 1576, Bedon
2008, p. 241.
44
Vasari, ed. Bettarini, Barocchi, vol.
VI, pp. 79-80 [ed. 1568]; Bedon
2008, pp. 131-133.
45
Bedon 2008, pp. 253-260.
38
39
137
1. Roma, palazzo dei Conservatori, portico.
Dettaglio della colonna alveolata
della prima campata verso palazzo Caffarelli
LE COLONNE ALVEOLATE
DI PALAZZO DEI CONSERVATORI
Francesco Benelli
Le colonne ioniche alveolate, o inalveolate, messe in opera da
Michelangelo nel muro interno del portico del palazzo dei
Conservatori in Campidoglio, hanno una funzione realmente
portante1 (fig. 1). Esse appartengono a un sistema strutturale a
baldacchino composto da due coppie di colonne, di cui la prima coppia, posta lungo la facciata, è inquadrata dai pilastri dell’ordine gigante, mentre la seconda è costituita dalle corrispondenti colonne alveolate poste sul muro interno del portico; tale sistema sorregge gli architravi di scarico, col fine di escludere i vecchi muri preesistenti dal peso delle strutture superiori.
Tuttavia le colonne alveolate svolgono anche una duplice funzione visiva: la prima è quella di evidenziare l’indipendenza del
citato sistema strutturale a baldacchino sia dall’ordine gigante
della facciata sia dal muro nel quale sono inserite2 (fig. 2); la seconda è quella di inquadrare, a mo’ di vestibolo, ciascun ingresso alle Corporazioni delle Arti che nel palazzo avevano la loro
sede3. Tale duplice effetto visivo non sarebbe stato così evidente se si fossero utilizzate semplici semicolonne addossate al
muro le quali, oltre che poco diffuse nel vocabolario architettonico michelangiolesco4, avrebbero fatto apparire il sistema
strutturale eccessivamente dipendente dalla parete di fondo,
come accade nell’archetipo brunelleschiano di Santo Spirito e,
ancor più, in quello di San Lorenzo, dove l’impiego di paraste
appiattisce ulteriormente il senso dell’unità volumetrica-strutturale5. Inoltre, per inserire la colonna dentro la parete del portico, Michelangelo predispose uno scavo nella cortina muraria
al fine di alloggiare anche i blocchi di travertino che costituiscono l’alveo delle colonne. Questo sistema alveo-colonna rappresenta anche una soluzione chiaroscurale che permette di
138
esaltare la forma della colonna in condizioni di relativa penombra, secondo un atteggiamento affine alla sensibilità di uno
scultore. La colonna alveolata è quindi la migliore soluzione
possibile per soddisfare le esigenze poste dalla trasformazione
dell’edificio capitolino, confermando la celebre intuizione albertiana riguardo la duplice funzione strutturale e decorativa
propria di questo elemento6.
Il termine alveo, derivato dal latino alveus, significa incavo ottenuto tramite escavazione; ma già dall’antichità questo significato era stato allargato ben oltre la sua originaria enunciazione, finendo per essere impiegato frequentemente anche al di fuori
della terminologia tecnica7. La colonna alveolata non figura come argomento della trattatistica rinascimentale e la sua definizione appartiene alla storiografia moderna che, tuttavia, giudicando a posteriori, ha evitato di considerare molte delle sue implicazioni formali8. Prima della sua adozione nel palazzo dei
Conservatori è raro trovare l’insieme alveo-colonna in esempi
di architettura tanto antica, quanto medievale e rinascimentale.
Questo insieme inizia invece ad avere una certa diffusione a Roma solo successivamente all’intervento di Michelangelo in
Campidoglio, in esempi quali l’ordine interno della chiesa di
Sant’Anna dei Palafrenieri di Jacopo Barozzi da Vignola, il fronte della chiesa di Sant’Andrea della Valle di Carlo Rainaldi e soprattutto la trionfale facciata della basilica di San Pietro di Carlo
Maderno9. Per tutti i casi precedenti è necessaria un’analisi individuale, dal momento che l’apparente somiglianza di queste soluzioni più antiche con il modello capitolino può essere spiegata con considerazioni strutturali e formali assai diverse, come
per esempio il riuso di elementi architettonici di spoglio non
modificabili oppure il rispetto di vincoli derivati dalla natura
delle fondazioni. Tranne le poche eccezioni riconducibili a deliberate scelte formali, l’alveo può essere l’unico tra i possibili
espedienti decisi in corso d’opera per raccordare e adattare elementi architettonici contigui, appartenenti a fasi diverse di costruzione. Più che un motivo formale, l’alveo ha rappresentato
un escamotage di cantiere tipico del più tradizionale bagaglio
tecnico non solo di architetti, ma anche e soprattutto, di muratori, scalpellini e cavapietra10. Diventa pertanto di secondaria
importanza se Michelangelo conoscesse o meno esempi di colonna alveolata al tempo della progettazione del ricetto della Biblioteca Laurenziana, cominciata nel 1526. I disegni che riguardano quest’opera, anche se mostrano ripensamenti e correzioni
sulla composizione e sull’altezza delle pareti, prevedono univocamente due costanti: l’uso di coppie di colonne libere e la loro
collocazione entro nicchie rettangolari ricavate nello spessore
murario, particolare che rivela la volontà di eliminare qualsiasi
aggetto dal filo del muro per evitare di poggiare in falso sul solaio della sala capitolare sottostante11. Tale soluzione nasce soprattutto da una necessità strutturale che dà modo a Michelangelo di avviare un complesso ragionamento sul rapporto tra superficie muraria e sostegni verticali incassati, già avviato sin dai
progetti per i monumenti sepolcrali della Sagrestia Nuova. I
muri del ricetto sono realizzati in laterizi rivestiti da intonaco e
lo spazio per accogliere le colonne lapidee non è dunque scavato bensì lasciato libero, come un vuoto, al momento della posa
in opera dei mattoni, in modo da ottenere una ritmica alternanza di masse murarie e spazi liberi che non corrisponde all’uso
classico del termine alveus. Come è stato recentemente ipotizzato, le colonne del ricetto hanno una funzione puramente decorativa, come statue dentro nicchie e pertanto lasciano al tratto di muro pieno il vero compito strutturale12. La soluzione statica delle colonne incassate nel ricetto è pertanto ben diversa da
quella impiegata nel sepolcro romano di Annia Regilla alla Caffarella, tradizionalmente indicato come prototipo antico13. In
esso i due pilastri ottagonali alveolati in laterizio, presenti all’esterno di uno dei fianchi dell’edificio, mantengono la loro
funzione portante quali parti effettive del muro, lasciando all’alveo una funzione puramente chiaroscurale. Ammesso che
tale esempio sia stato tenuto presente da Michelangelo nel ricetto, egli ne fece comunque un uso strutturale e formale assai differente, dal momento che non si tratta di un alveo curvo, bensì
di una nicchia rettangolare, e che le colonne sono prive della loro funzione portante.
Nel palazzo dei Conservatori, come detto, il sistema alveo-colonna assume sia un significato formale (evidenziato dalla
struttura a baldacchino delle quattro colonne ioniche, a sua volta vestibolo d’ingresso monumentale alle sedi delle Arti), sia
gli anni dal 1534 al 1564
una valenza strutturale (messa in atto dalla colonna quale dispositivo per scaricare il peso dei muri superiori), volta ad alleggerire il carico del muro retrostante. In questo modo al sistema alveo-colonna viene anche restituita una immagine di
grande forza scultorea come fosse veramente quella di un insieme di elementi scavati nella pietra viva, nonostante gli alvei
siano formati da blocchi sovrapposti e le colonne costituite da
rocchi impilati, senza alcuna corrispondenza fra le altezze reciproche di queste due componenti. Gli alvei ricavati dai blocchi
assumono una forma a semicerchio, analoga, per esempio, agli
alvei delle paraste lapidee della facciata del duomo di Pisa: effettivamente simile a ciò che si vede nelle cave di marmo quando la colonna sta per essere estratta dalla vena. Fin dall’antichità, nel caso in cui la colonna era estratta in posizione verticale,
si procedeva inizialmente a sbozzare l’alveo intorno al fusto,
fintanto che quest’ultimo non fosse completamente libero dal-
139
2. Roma, palazzo dei Conservatori, facciata.
Dettaglio del livello inferiore della prima campata
3. Mariano di Jacopo detto il Taccola,
Liber Tertius de ingeneis ac edifitiis non usitatis,
fine della prima metà del XV secolo. Firenze, Biblioteca
Nazionale Centrale, ms. Palatino 766, cc. 14 verso-15 recto
la materia circostante. Il procedimento è tuttora visibile in siti
archeologici come le cave di Cusa in Sicilia, ma è ancor più chiaramente evidenziato nel disegno contenuto nel De ingeneis di
Mariano di Jacopo, detto il Taccola (circa 1382-1453), in cui è
visibile l’alveo semicircolare attorno alla colonna, ben simile a
quello capitolino14 (fig. 3). Nella seconda edizione della Vita di
Michelangelo, Giorgio Vasari testimonia che, durante l’approvvigionamento dei blocchi per la facciata di San Lorenzo a Firenze avvenuto tra 1516 e 1519, “consumò Michelangnolo molti
anni in cavar marmi” ricavandone “cinque colonne di giusta
grandezza” provenienti dalle cave apuane di Rozzeto, Seravezza e Stazzema15. Lo scultore doveva conoscere con esattezza la
tecnica di scavo della colonna dalla parete di cava e al contempo aveva ben presente la forma che essa avrebbe assunto durante le diverse fasi della sua estrazione. Il metodo di scolpire
un oggetto a partire dal suo fronte principale dopo averne tracciato il profilo – procedendo dall’alto verso il basso alla stessa
maniera di come si sarebbe ottenuta una figura a mezzorilievo
– coincide esattamente con la tecnica scultorea di Michelangelo descritta da Benvenuto Cellini16 e, dal punto di vista teorico,
con quello che Michelangelo stesso scrive nel celebre attacco
del Sonetto dedicato a Vittoria Colonna: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva /
col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce
all’intelletto”17. Anche Vasari aveva divulgato questa pratica
scultorea michelangiolesca, paragonando il graduale disvelarsi
della figura dal blocco di marmo a un modello tridimensionale
immerso nell’acqua che affiora gradualmente18. Tale formarsi
della figura fa si che la statua venga percepita dallo spettatore
come se volesse mostrarsi dapprima da un punto di vista frontale privilegiato e in seguito attraverso vedute laterali19. Questa
sequenza è esattamente quella con cui i sette baldacchini costituiti dalle quattro colonne ioniche nel portico del palazzo dei
Conservatori sono individualmente percepiti: l’osservatore infatti – provenendo dalla piazza, diretto verso uno qualunque
degli ingressi alle Arti – si trova costretto a una visione frontale della colonna che gradualmente si trasforma, approssimandosi verso l’ingresso in veduta laterale.
Michelangelo sembra quindi aver immaginato il momento dell’estrazione della colonna dalla materia che la racchiudeva secondo quel personale metodo esecutivo proveniente dalla sua
pratica di scultore, ma espresso attraverso elementi architettonici realizzati con le tecniche tipiche del cantiere edilizio. Il sistema alveo-colonna è pertanto impiegato da Michelangelo non
come citazione di un motivo antico quanto piuttosto come memoria dell’estrazione in cava della colonna nel momento in cui
da materia si trasforma in elemento architettonico. La colonna
alveolata capitolina inserita nel retrostante muro – che, da una
140
parte, allude all’elemento architettonico nel momento della sua
nascita in cava, e dall’altra, questo stesso elemento pienamente
finito – manifesta in termini architettonici la forma retorica del
contrapposto, ben noto a Michelangelo e volto a descrivere concetti discordanti o opposti20.
Per quale motivo Michelangelo arriva a impiegare la colonna alveolata, intesa quale elemento scavato nella roccia, solo alla fi-
ne della sua carriera? Certamente si può dire che questa scelta
sia il risultato di un lungo percorso creativo e sperimentale avviato nei monumenti della Sagrestia Nuova e poi ripreso nel ricetto della Biblioteca Laurenziana. È certo però che nel palazzo
dei Conservatori essa si trasforma da mero espediente di cantiere in un motivo figurativo di straordinaria fortuna e denso di
nuovi significati teorici e poetici.
1
Bedon 2008, pp. 153-156, con bibliografia completa e ampia analisi
critica della letteratura riguardante
la tecnica utilizzata da Michelangelo
per riadattare le murature preesistenti al nuovo edificio; sull’argomento si vedano anche, per le fasi di
costruzione, Pecchiai 1950, pp.
122-125; per le tecniche di costruzione, Pagliara 1997, pp. 59-66; Rinaldi 1997, pp. 141-148.
2
Moretti 1966, pp. 444-454.
3
Bellini 2001, p. 70.
4
Si vedano le semicolonne della finestra-edicola della cappella dei santi Cosma e Damiano in Castel Sant’Angelo e quelle nel portale interno
della sala di lettura della Biblioteca
Laurenziana; semicolonne sono
inoltre presenti in una pianta autografa dell’Archivio Buonarroti di Firenze (II-III, n. 30 verso; Corpus 493
verso), che rappresenta la sezione
orizzontale del secondo livello di
una delle proposte per il monumento dei Magnifici nella Sagrestia Nuova, cfr. C. Elam, scheda 12, in Elam
2006, pp. 185-187.
5
Bruschi 2006, pp. 114-115.
6
Alberti, ed. Orlandi 1966, vol. I,
pp. 70-71 (libro I, cap. X) e pp. 194197 (libro III, cap. VI); su questi argomenti, cfr. Burns 1998, p. 125.
7
Lo storico romano Velleio Paterculo impiega il termine alveus per descrivere la realizzazione di una canoa ottenuta da un tronco di legno:
“cavatus ex materiis alveus”, cfr.
Velleius Paterculus, ed. Shipley
1924, p. 270 (libro II, cap. 107); forse l’unico a usare il termine con pieno significato architettonico è Vitruvio che impiega alveus sia per definire il concetto di concavo applicato allo stilobate del tempio: “Si enim
ad libellam dirigetur, alveolatus
narroti 80 A (Corpus 560 recto) destinato alla libreria segreta della Biblioteca Laurenziana, anche se a ben
guardare gli alloggiamenti che accolgono le colonne poste a fianco delle
nicchie angolari della pianta triangolare sono in realtà ottenuti dalla
sporgenza delle paraste e non da scavo nel muro – che mantiene spessore
costante – similmente al disegno per
il portale del monastero di Santa
Apollonia in Firenze, dubitativamente assegnato a Michelangelo, dove la colonna libera è accostata alla
cornice della porta. Analoga relazione fra muro e colonna incassata dentro una nicchia rettangolare, come
nel ricetto laurenziano, è contenuta
nel verso del foglio dell’Ashmolean
Museum, inv. n. 1846.78 (Corpus
605 verso) contenente un progetto
iniziale per il portico del palazzo dei
Conservatori analizzato da C. Elam,
scheda 21v, in Elam 2006, pp. 204205.
12
Ackerman 2008, pp. 45-67, corregge quanto affermato nel precedente Ackerman 1961, pp. 108111, 153-156; sull’argomento, si
veda anche la posizione espressa in
Catitti 2007, pp. 97-98.
13
Per l’interpretazione dei modelli
antichi da parte di Michelangelo, da
ultimo Hemsoll 2003, pp. 52, 56.
14
Il disegno è databile agli anni
1431-1433; cfr. Mariano di Jacopo
detto il Taccola, Liber Tertius de ingeneis ac edifitiis non usitatis, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,
ms. Palatino 766, cc. 14 verso-15
recto; Taccola allega al disegno una
dettagliata descrizione tecnica sul
processo di escavazione in cava e sui
principali modi di trasporto della
colonna.
15
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
gli anni dal 1534 al 1564
oculo videbitur” sia per definire una
vasca di pietra, cfr. rispettivamente
Vitruvio, ed. 1997, vol. I, p. 254 (libro III, 4.5) e p. 582, in part. nota
321 (libro V, 10.1 e 10.4).
8
Per questi argomenti si rimanda a
un mio più ampio studio in corso di
pubblicazione dedicato alla storia e
al significato della colonna alveolata
dall’antico a Michelangelo.
9
A fronte del notevole successo riscontrato a Roma dalla colonna alveolata nel XVII secolo, ritengo di
poter individuare l’ultima applicazione di questo elemento in città nel
grande cortile settecentesco antistante la chiesa dei Santi Bonifacio e
Alessio all’Aventino, datata 17511752; cfr. Bevilacqua 1998, p. 110.
10
Ragioni costruttive e non linguistiche potrebbero spiegare il motivo
della diffusione della “colonna a nicchia”, presente in regioni geografiche lontanissime: realizzata in mattoni essa si ritrova anche in posizione angolare, come nel mausoleo di
Ismail il Samanid a Bukhara in Uzbekistan, databile all’inizio del X secolo o nei quattrocenteschi esempi
veneziani di Ca’ del Duca e dell’Arco
Foscari in Palazzo Ducale, ma si può
aggiungere anche la tomba medievale Jeongjeon a Seoul nella Corea
del Sud, dove colonne lignee sono
alveolate all’interno di murature in
laterizio.
11
Sulla Biblioteca Laurenziana, cfr.
Elam 2002, pp. 208-239, in part.
note 73-80.
12
Si vedano i disegni del British Museum di Londra, inv. n. 1946-7-1333 recto (Corpus 561 recto) e dell’Ashmolean Museum di Oxford,
inv. n. 1846.54 (Corpus 191 recto);
colonne pseudo-alveolate compaiono anche nel disegno di Casa Buo-
vol. VII, p. 191; sui documenti relativi ai ripetuti soggiorni di Michelangelo presso le cave apuane, cfr.
ivi, pp. 356-357; Wallace 1994;
Wallace 2002, pp. 97-107; Zanchettin 2008a, p. 12.
16
“Et il miglior modo che si sia mai
visto è quello che ha usato il gran
Michelagnolo, il qual modo si è di
poi che uno ha disegnato la veduta
principale, si debbe per quella banda
cominciare a scoprire con la virtù de’
ferri, come se uno volessi fare una figura di mezzo rilievo, e così a poco a
poco si viene scoprendo”, Cellini,
ed. Milanesi 1857, p. 198.
17
Rime, p. 82 (Sonetto 151).
18
“che il modo [di cavar de’ marmi le
figure] è questo: che se e’ si pigliassi
una figura di cera o d’altra materia
dura, e si mettessi a giacere in una
conca d’acqua, la quale acqua, essendo per sua natura nella sua sommità
piana e pari, alzando la detta figura a
poco a poco del pari, così vengono a
scoprirsi prima le parti più rilevate,
ed a nascondersi i fondi, cioè le parti
più basse della figura, tanto che nel
fine ella così viene scoperta tutta.
Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de’
marmi; prima scoprendo le parti più
rilevate, e di mano in mano le più
basse: il quale modo si vede osservato da Michelagnolo ne’ sopradetti
prigioni, i quali Sua Eccellenzia vuole che servino per esemplo de’ suoi
accademici”, Vasari, ed. Milanesi
1878-1885, vol. VII, p. 273.
19
Su questo argomento si veda, per
esempio, la classica descrizione in
Hibbard 1985, p. 94.
20
Per il concetto di “contrapposto”,
le sue origini nella retorica classica e
la riscoperta nel XV secolo, Summers 1977b, pp. 336-361.
141
MICHELANGELO E LA DECORAZIONE SCULTOREA
DELLA PIAZZA CAPITOLINA
1. Roma, palazzo dei Conservatori,
vestibolo d’ingresso, lastra marmorea
con iscrizione dedicatoria posta da Prospero
Boccapaduli e Tommaso Cavalieri nel 1568
Claudio Parisi Presicce
Aveva il Popolo Romano, col favore di quel papa [Paolo III],
desiderio di dare qualche bella, utile e comoda forma al
Campidoglio, ed accomodarlo di ordini, di salite, di scale a
sdruccioli, e con iscaglioni, e con ornamenti di statue antiche che vi erano per abbellire quel luogo, e fu ricerco per ciò
di consiglio Michelangelo, il quale fece loro un bellissimo
disegno e molto ricco, nel quale da quella parte dove sta il
senatore, che verso levante, ordin di travertini una facciata
ed una salita di scale che da due bande salgono per trovare
un piano […]. Dove per arricchirla dinanzi vi fece mettere i
due fiumi a giacere antichi di marmo sopra a alcuni basamenti, uno de’ quali il Tevere, l’altro il Nilo, di braccia nove
l’uno, cosa rara; e nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un
Giove. Seguitò dalla banda di mezzogiorno, dove il palazzo
de’ Conservatori, per riquadrarlo, una ricca e varia facciata
con una loggia da più piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche, ed attorno sono vari ornamenti e
di porte e finestre, che già n’è posto una parte; e dirimpetto
a questa ne ha a seguitare un’altra simile verso tramontana
sotto Araceli; e dinanzi una salita di bastioni di verso ponente qual sarà piana con un ricinto e parapetto di balaustri
dove sarà l’entrata principale, con un ordine e basamenti,
sopra i quali va tutta la nobiltà delle statue di che oggi è così ricco il Campidoglio.1
Con queste parole tratte dalla Vita di Michelangelo del 1568,
Giorgio Vasari indica le linee fondamentali del progetto di rinnovamento del complesso capitolino. Nell’ideazione della
nuova scenografia le statue collocate davanti alla scalinata del
142
Palazzo Senatorio e sopra il parapetto di coronamento dei due
palazzi laterali giocano un ruolo fondamentale. La collocazione
delle sculture alla sommità degli edifici richiama un motivo di
età classica2, documentato all’epoca da rilievi figurati di età romana; nel desiderio di restituire al Campidoglio l’antico decoro, Michelangelo rivolse il suo sguardo alle testimonianze del
passato. A ciò sembra alludere l’iscrizione posta nel vestibolo
del palazzo dei Conservatori da Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri nel 1568: “maiorum suorum praestantiam ut
animo sic re quantum licuit imitatus deformatum iniuria temporum Capitolium restituit”3 (fig. 1).
Uno dei tre pannelli marmorei provenienti da un arco trionfale
di Marco Aurelio, giunti in Campidoglio nel 1515 e collocati in
un primo tempo nel cortile del palazzo dei Conservatori, costituiva all’epoca la sola raffigurazione antica del colle capitolino
(fig. 2): l’imperatore compie un sacrificio davanti al tempio di
Giove Capitolino, affiancato da un portico coronato da statue4. Il
richiamo appare significativo in quanto la scena si svolge in
Campidoglio, il rapporto prospettico tra il tempio di Giove e il
portico laterale riflette l’accostamento tra il palazzo del Senatore e il palazzo dei Conservatori e, infine, il protagonista è lo stesso imperatore a cui era dedicata la statua equestre, collocata al
centro della platea capitolina. Nel rilievo il tempio di Giove occupa idealmente il posto del Palazzo Senatorio, la cui scalinata
sembra ripetere le linee di un triangolo frontonale; il progetto
iniziale michelangiolesco prevedeva al centro di essa la collocazione dell’immagine di Giove, con i due fiumi ai lati e con statue
sui piedistalli dei parapetti in funzione acroteriale.
Quanto ai due palazzi laterali, Vasari parla di una “loggia da più
piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche”:
quest’ultima affermazione, non del tutto chiarita, potrebbe alludere alla volontà di Michelangelo di collocare lungo la parete
di fondo dei portici una serie di nicchie, nelle quali ospitare
sculture antiche, esattamente come nel porticato del teatro del
Belvedere vaticano costruito da Donato Bramante. L’idea iniziale sarebbe stata poi abbandonata, con l’inserimento di una
serie di porte al posto delle nicchie, garantendo così alle corporazioni e ai consolati di mestieri che vi avevano sede un accesso dall’esterno del palazzo. Le statue nelle nicchie sotto i porticati costituivano la premessa ideale di quelle collocate sui parapetti della scalinata del Palazzo Senatorio, presenti nel disegno
preparatorio (fig. 3) e nelle incisioni di Stefano Dupérac (cat.
30). L’eliminazione delle prime determinò conseguentemente
quella delle seconde. In un foglio di Casa Buonarroti, il 97 A
verso (fig. 4; Corpus 616 verso) interpretato come uno studio
di finestra o collegato con l’edicola dello scalone del palazzo dei
Conservatori5, potrebbe essere conservata la raffigurazione di
una delle nicchie mai realizzate.
Secondo la testimonianza delle vedute prospettiche di Dupérac, Michelangelo aveva previsto di collocare alla sommità dei
palazzi capitolini immagini delle divinità dell’antica Roma, a
partire da Giove e Giunone e dai loro rispettivi figli Ercole e
Marte, collocati in coppia sui risvolti laterali dei due palazzi visibili dalla parte della città nuova6. Al piano inferiore dovevano
trovare posto gli uomini illustri, le cui virtù furono espresse
simbolicamente dai trofei raffigurati sui soffitti in stucco del
portico del palazzo dei Conservatori (fig. 5). Dei personaggi
scelti da Michelangelo, conosciamo soltanto le quattro figure
loricate poste sulla balaustra della platea capitolina nell’edizione del 1568 della veduta prospettica di Dupérac, nelle quali si
possono riconoscere le statue di Giulio Cesare, di ‘Ottaviano
Augusto’, di Costantino e di suo figlio Costantino II7. Opponendo forti resistenze alla volontà di Paolo III di trasferire sulla piazza i colossi di Montecavallo8, l’artista fiorentino intendeva conservare coerenza e unità al suo progetto, sia che avesse
riconosciuto nelle sculture le immagini dei Dioscuri9, sia che le
identificasse con Alessandro Magno, un condottiero che non
aveva avuto alcun ruolo nella storia di Roma.
Con la sistemazione delle statue antiche sulla piazza capitolina,
Michelangelo non intendeva solo restituire al colle l’antica maiestas, ma probabilmente aveva accarezzato il disegno di proporre una sorta di cosmologia della grandezza di Roma, che attraverso le immagini immobili degli dei e degli uomini valorosi ne
perpetuasse la memoria, ma il suo intendimento non è stato
pienamente realizzato. Tuttavia, il messaggio intrinseco del suo
progetto era stato in parte recepito da Tommaso Cavalieri e dagli altri suoi seguaci e ha costituito la linfa vitale che ha portato
gli anni dal 1534 al 1564
in sostanza alla realizzazione del disegno complessivo, seppure
con i ritardi e i cambiamenti intervenuti nel frattempo.
Gran parte degli studiosi che si sono occupati della piazza capitolina ritiene che il progetto di ristrutturazione della platea
e dei palazzi del Campidoglio non fosse stato concepito nel
dettaglio fin dall’inizio, ma venisse realizzato con aggiustamenti progressivi che l’artista fiorentino selezionava, tra le diverse ipotesi formulate, al momento stesso di passare alla fase
esecutiva dell’opera. Nonostante ciò l’arredo scultoreo della
piazza appare concepito secondo un disegno unitario, che
prende forma nella mente dell’artista fin dal suo primo intervento nel 1539 e risulta documentato nelle sue linee generali
definitive attraverso l’incisione stampata trent’anni dopo da
Dupérac, che esplicitamente fa riferimento all’exemplar del
maestro fiorentino.
Il basamento michelangiolesco di Marco Aurelio
Un documento della Biblioteca Apostolica Vaticana ci informa
che i lavori per il trasferimento del gruppo equestre di Marco
Aurelio dal Laterano in Campidoglio iniziarono per ordine di
papa Paolo III Farnese (1534-1549) il 9 gennaio 1538, tre
giorni dopo il Capitolo Lateranense registrò la rimozione della
statua10. Il monumento giunse sulla platea capitolina probabilmente il 18 gennaio e il 25 il pontefice salì sul colle per una visita. Il diario del suo cerimoniere, Biagio Martinelli da Cesena,
ci informa che “dopo pranzo il papa giunse in città per porta S.
143
2. Roma, palazzo dei Conservatori,
primo ripiano dello scalone, pannello marmoreo
proveniente da un arco trionfale di Marco
Aurelio con raffigurazione del colle capitolino,
161-180 d.C.
Sebastiano e attraversò diversi luoghi insieme ai cardinali visitando le sue nuove costruzioni presso le mura dell’urbe e l’area
del Campidoglio appena spianata con il cavallo bronzeo di Costantino trasferito dal Laterano sulla platea capitolina”11. Il documento fa esplicito riferimento ai lavori di livellamento della
piazza, primo passo del grande progetto di ristrutturazione
che sarà completato solo nel secolo successivo. Manca, invece,
qualsiasi indicazione sullo stato di conservazione della statua
equestre, ossia se fosse poggiata per terra, se fosse collocata su
un alloggiamento provvisorio o se fosse già sistemata su un basamento appositamente costruito.
In una lettera indirizzata al duca di Urbino Francesco Maria
della Rovere dal suo corrispondente romano Giovan Maria
della Porta12, nella quale si parla del trasferimento della statua
voluto da Paolo III, si fa menzione del tentativo di convincere
“chi ha cura di farvi la nova base” a conservare in essa memoria del papa Sisto IV della Rovere (1471-1484), che aveva realizzato l’ultima sistemazione al Laterano. Questa notizia da un
lato conferma che il basamento sistino, a noi noto da alcuni disegni, dall’affresco di Filippino Lippi nella cappella Carafa in
Santa Maria sopra Minerva e dalla descrizione riportata da
Francesco Albertini nel suo Opusculum pubblicato nel 1510,
non giunse in Campidoglio con il Marco Aurelio e dall’altro autorizza a ritenere che la persona incaricata di realizzare il primo
144
basamento, di cui nella lettera non viene menzionato il nome,
non fosse Michelangelo, con cui il corrispondente romano del
duca di Urbino aveva rapporti diretti. Nella stessa epistola si afferma che l’artista fiorentino “contrastò assai, per quanto lui
mi dice, che questo cavallo non se levasse, parendigli che ’l
stesse meglio dove l’era, et che se lui non havesse tanto disuaso il papa che S. S.ta voleva similmente levare gli due cavalli e
statue di monte Cavallo”13.
Il coinvolgimento diretto di Michelangelo compare per la prima volta più di un anno dopo la visita del papa in Campidoglio.
Nella seduta del 22 marzo 1539 il Consiglio Pubblico stabilì di
spendere la somma di 320 scudi, raccolta grazie alla riscossione di alcune pene pecuniarie, “partim in reformatione statue
M. Antonii in platea Capitolii existentis secundum iudicium d.
Michaelis Angeli sculptoris et partim circa muros fiendos in
dicta platea”14. Il muro da realizzare può essere identificato con
quello che delimitava la piazza verso l’Aracoeli. Costruito in
posizione simmetrica rispetto alla facciata del palazzo dei Conservatori, aveva una nicchia al centro che, in base al disegno
dell’Anonimo di Braunschweig (fig. 12 a p. 134) e all’incisione
edita da Bernardo Gamucci (cat. 28), accolse il gruppo del leone che assale il cavallo, indicata da Flaminio Vacca come una
delle sculture antiche più ammirate da Michelangelo. La parola
adoperata con riferimento all’intervento sul Marco Aurelio
(“reformatione”) risulta, invece, meno esplicita e ha dato luogo a interpretazioni diverse. L’ipotesi più accreditata interpreta il testo del documento con riferimento alla costruzione di
un nuovo basamento, realizzato inizialmente senza i “membretti”, ossia i pilastrini angolari aggiunti in seguito. Non è
escluso, tuttavia, che possa trattarsi di un vero e proprio restauro15, non documentato ma possibile, in considerazione dei
sicuri traumi subiti dalla statua prima e durante il trasferimento. A un intervento cinquecentesco potrebbero essere attribuiti, per esempio, il rifacimento del culmine della capigliatura
nella testa del cavaliere e due grossi risarcimenti in bronzo sul
petto e sul gluteo destro, che presentano un buon modellato,
sono saldati con la tecnica a cordone e sono privi di doratura,
ripristinata periodicamente almeno fino al tempo di Sisto IV16.
L’esistenza di un primo basamento quadrangolare17 è testimoniata da una veduta fedele della sistemazione della piazza capitolina, databile negli anni quaranta del XVI secolo, raffigurata
in un affresco della sala delle Aquile nel palazzo dei Conservatori (cfr. fig. 5 a p. 130), considerata attendibile per l’estrema
cura con cui l’autore ha riprodotto l’assetto della piazza18. Il
piedistallo della statua equestre è raffigurato ancora di forma
quadrangolare nella pianta di Leonardo Bufalini del 1551, che
documenta per la prima volta l’avvenuta costruzione del muraglione con la nicchia verso l’Aracoeli, mentre nella sua forma
3. Stefano Dupérac (attribuito),
Veduta di piazza del Campidoglio
(disegno preparatorio in controparte).
Oxford, Christ Church College
definitiva è riprodotto in una edizione successiva della pianta
Bufalini (fig. 6) e nella veduta anonima pubblicata nello Speculum di Lafrèry (cat. 26), datata entro il 156319. Il basamento attuale (fig. 7), il cui disegno è unanimemente attribuito a Michelangelo, è il frutto di un geniale ripensamento che contempera un affinamento estetico delle linee progettuali con la necessità pratica di ampliare il piano d’appoggio al quale ancorare
la statua equestre. Il progetto iniziale, privo dei quattro “membretti” angolari, era stato definito entro il mese di marzo del
1540, data della partenza da Roma di Francisco de Hollanda20,
autore di un disegno del Codice Escurialense in cui compare per
la prima volta la raffigurazione del piedistallo curvilineo21.
Sembra probabile, tuttavia, che la veduta non sia ripresa dal vero, ma riproduca il disegno del basamento preparato da Michelangelo, raffigurato anche su una medaglia coniata sotto il pontificato di Paolo III22. Se si eliminano i quattro “membretti” e
gli inserti centrali in travertino, i blocchi del piano d’appoggio
nei quali è lavorata la cornice superiore del basamento (fig. 8)
combaciano in modo sorprendente e presentano fori per grappe che si corrispondono perfettamente. Questa osservazione è
stata la base di partenza di Paul Künzle per ipotizzare l’esistenza di un basamento di dimensioni più piccole costituito, almeno nei blocchi superiori, dagli stessi elementi che compongono
il monumento attuale23. Il rilievo del piano superiore eseguito
gli anni dal 1534 al 1564
in occasione della rimozione della statua e lo studio che ne è
derivato, con particolare riferimento alle aree di appoggio degli
zoccoli del cavallo, ha dimostrato, tuttavia, che nell’ipotetico
piedistallo di dimensioni minori i perni delle gambe anteriore
sinistra e posteriore destra cadrebbero su zone integre dei blocchi corrispondenti24. Da questa constatazione si deduce che il
basamento di dimensioni ridotte progettato da Michelangelo
sia stato modificato prima che vi fosse ancorato il gruppo
bronzeo. Non è da escludere che l’aggiunta dei “membretti” sia
avvenuta in corso d’opera, ossia durante la lavorazione dei
blocchi che lo compongono, dato che il taglio di forma ellittica
degli elementi che costituiscono il corpo centrale e la rifinitura
delle cornici avevano ridotto in modo eccessivo la superficie su
cui la statua equestre doveva distribuire il proprio peso. In tal
senso può essere accolta la proposta di Anna Mura Sommella
che la somma pagata allo scalpellino Benedetto Schiena nel
1561, riportata nel libro dei conti di Prospero Boccapaduli, sia
il corrispettivo non solo dell’esecuzione dei quattro “membretti”, ma anche della rilavorazione del basamento parallelepipedo più antico e dell’aiuto dato a mastro Ludovico Caronica
per “smurare e rimurare ditto posamento”25. L’ammontare del
pagamento – 45 scudi – appare congruo se rapportato ai 320
scudi spesi per la costruzione del muro sul lato della piazza
verso l’Aracoeli e per la “reformatione” del monumento eque145
4. Assistente di Michelangelo Buonarroti,
Studio di nicchia (forse riferibile al portico
esterno del palazzo dei Conservatori).
Firenze, Casa Buonarroti, 97 A verso
5. Roma, palazzo dei Conservatori, portico esterno,
soffitto in stucco con raffigurazione di trofeo
forse in occasione della costruzione dei tre gradini che delimitano l’area centrale di forma ovale (“ovato”), sovrintende alla
realizzazione del nuovo piedistallo indicando sul posto le modifiche che resero più sicura la dislocazione della statua equestre. La “reformatione” affidata al maestro fiorentino nel 1539
potrebbe sottendere principalmente il problema statico, risolto verosimilmente con il recupero del sistema di ancoraggio
originario, costituito da lunghi perni inseriti nelle gambe e fissati nel basamento. Questo sistema permise di eliminare i sostegni posti sotto le gambe del cavaliere quando la statua si trovava al Laterano, ed evitò al monumento i traumi subiti in precedenza, in occasione dei frequenti crolli successivi alla perdita dell’appoggio sotto la gamba sollevata del cavallo30.
stre affidata a Michelangelo, e soprattutto se si confronta con i
53 scudi e 50 baiocchi pagati nel 1565, dopo un contenzioso,
al capomastro che aveva costruito il castello di legno, rimosso
e ricollocato la scultura bronzea e il piedistallo (palamidon)26.
Anche l’incisione di Nicolas Beatrizet edita da Lafrèry nel
1548 (cat. 27), la decorazione in stucco di Luzio Luzi nel palazzo dei Conservatori27 (fig. 9) e i bronzetti che riproducono la
statua capitolina con il basamento privo dei “membretti”28 non
raffigurano l’opera già realizzata, ma soltanto il disegno originale michelangiolesco, reso noto probabilmente proprio attraverso il rame pubblicato nello Speculum, alla vigilia della morte di Paolo III.
Alla luce di queste considerazioni appare probabile che l’intervento di Michelangelo sul monumento equestre sia avvenuto
verosimilmente in due momenti diversi, come per il progetto
di ristrutturazione della piazza29. Superando l’iniziale riluttanza al trasferimento del Marco Aurelio, l’artista dapprima fornisce il suo “iudicium” per la sistemazione della statua e traccia il
disegno per un nuovo basamento; in seguito, grazie alla ripresa dei lavori sotto la spinta di papa Pio IV Medici (1559-1565),
146
La balaustra alla sommità della scalinata
di accesso alla piazza
In un’incisione anonima raffigurata in controparte conservata
agli Uffizi di Firenze (cat. 29), delle due sculture previste su ciascun lato della balaustra in corrispondenza dei piedistalli, appare indicata solo la sagoma della figura collocata sull’angolo dove
il parapetto s’interrompe, incontrando la cordonata di accesso al
colle. Evidentemente solo per la coppia di statue centrali era stato già stabilito il soggetto. Che i quattro piedistalli lungo la balaustra, ben evidenziati anche nella pianta anonima pubblicata
da Bartolomeo Faleti nel 1567 (fig. 10), fossero stati concepiti
fin dall’inizio come basamenti di statue, è documentato dal disegno preparatorio di Stefano Dupérac già rovesciato per il rame
con la veduta prospettica della piazza capitolina, conservato nel
Christ Church College di Oxford31 (fig. 3). Esso riflette forse il
progetto originario di Michelangelo, prima che fosse concepito
il disegno interno dell’ovato con la statua equestre di Marco Aurelio al centro, e riproduce la sagoma di tutte e quattro le statue
collocate sul parapetto della cordonata. Per l’identificazione delle sculture non vi sono elementi sicuri, ma le statue dei piedistalli centrali appaiono delineate con maggior precisione. In base all’indicazione degli arti inferiori e alla presenza di un lembo
del panneggio su una spalla è verosimile che in questa posizione
fossero previste fin dall’inizio due statue imperiali loricate. L’incisione di Dupérac con la veduta prospettica della piazza capitolina edita da Faleti nel 1568 (fig. 11) consente di riconoscere
nelle figure centrali del parapetto le due statue raffiguranti Costantino Augusto e suo figlio Costantino Cesare, trasferite in
Campidoglio da Montecavallo. In particolare quella di destra,
seppure disegnata con qualche variazione, presenta le stesse caratteristiche della statua dell’imperatore sia per l’abbigliamento
sia per la posa sia per la presenza dello scettro, che è ricordato da
Ulisse Aldrovandi e compare nel disegno della statua eseguito
da Pierre Jacques tra il 1572 e il 157732.
Papa Paolo III, abbandonata l’iniziativa di trasferire sulla piazza
i due colossi del Quirinale, forse anche per l’opposizione di Michelangelo, decise di farvi trasportare le statue della famiglia imperiale di Costantino, che avevano un significato simbolico analogo a quello connesso con la statua equestre di Marco Aurelio.
Le sculture furono condotte in Campidoglio tra il 153633 e il
154434 e furono subito destinate a occupare il luogo più eminente dell’arredo scultoreo progettato per la nuova platea capitolina. Nella veduta prospettica di Dupérac, però, compaiono
ben delineate quattro statue: due sui fianchi della cordonata e
due quasi alle estremità dei parapetti. In queste ultime sono verosimilmente riconoscibili quelle di Giulio Cesare e del Navarca, all’epoca identificato con “Ottaviano Augusto”. Le due sculture furono offerte ai magistrati capitolini da monsignor Alessandro Rufini, vescovo di Melfi, quale risarcimento per una garanzia prestata a favore di alcuni appaltatori pubblici che non rispettarono i loro impegni35. La proposta fu accettata il 15 dicembre 1562 e le due statue risultano già presenti nel palazzo dei
Conservatori almeno dal 1565, dal momento che i documenti
d’archivio36 datano a questo anno e al seguente i restauri delle
statue, eseguiti da Nicolò Longhi, e la lavorazione dei piedistalli
per mano dello scalpellino Benedetto Schiena, posti nella sala
degli Imperatori (oggi dei Capitani) che da essi prese nome37.
La scelta delle due sculture da collocare sul parapetto vicino alle statue dei Costantini può essere attribuita allo stesso Michelangelo. Nella veduta prospettica riprodotta nell’incisione del
1568 di Dupérac sono illustrate fedelmente le idee dell’artista
fiorentino relative all’arredo scultoreo della piazza, anche a distanza di quattro anni dalla morte, come del resto indica l’iscrizione incisa nel cartiglio in alto a destra: “Capitolii quod
S.P.Q.R. impensa ad Michaelis / Angeli Bonaroti eximii architecti exemplar / in anteiquum decus restitui posse videtur tabula / accuratissime Stephani Dupérac Parisiensis Galli / opera delineata senatoris III virorum Urbis / conservatorum praetoria aream gradus moeni/ana complectens Romae Kal. Octobris anno salutis / MDLXVIII”. La dedica della lastra in rame a
Pio V Ghislieri (1566-1572) con le parole “S.D.N. Pii V pont.
max. liberalitati dicatum” è strettamente connessa con la donazione delle statue del Belvedere vaticano, effettuata dal pontefice due anni prima, proprio per consentire che i parapetti dei
palazzi capitolini fossero decorati secondo le indicazioni del
progetto michelangiolesco.
Nella nuova incisione della veduta prospettica di Dupérac pubblicata da Antonio Lafrèry nel 1569 (cat. 30) le due statue centrali scompaiono e sono sostituite dai Dioscuri, collocati in posizione affrontata su due piedistalli notevolmente più ampi dei
precedenti. La datazione ravvicinata delle due diverse redazioni della stampa farebbe supporre un intervento del papa, ma è
gli anni dal 1534 al 1564
difficile pensare che la sostituzione sia avvenuta come conseguenza della disapprovazione, da parte del pontefice, della precedente disposizione delle statue sulla balaustra. Con la seconda proposta, infatti, per volontà dei magistrati capitolini si eliminano definitivamente dal prospetto della piazza rivolto verso la città non le statue di Giulio Cesare e di “Ottaviano Augusto”, ma i simulacri di Costantino e di suo figlio, immagini
simboliche che legavano fin dalla più antica tradizione medievale l’impero romano con l’autorità papale, scelte da Paolo III
proprio in funzione dell’appropriazione del colle capitolino da
parte della Curia38. Nessuna menzione del papa, inoltre, compare nelle due iscrizioni dedicatorie apposte qualche anno dopo sui basamenti dei due gruppi scultorei. Pur escludendo che
l’incisione del 1569 riproponga il vecchio progetto di papa
Farnese di trasferire il gruppo di Montecavallo, lo stato frammentario dei colossi marmorei da poco rinvenuti indusse Dupérac a disegnare i gruppi scultorei secondo lo schema compositivo delle statue del Quirinale, ma con le caratteristiche iconografiche dei Dioscuri capitolini, soprattutto il lungo mantello allacciato su una spalla e la testa terminante a forma di pileo39. Del resto i due giganti di Montecavallo, interpretati inizialmente come raffigurazioni di Alessandro con il cavallo Bucefalo, furono identificati con Castore e Polluce soltanto nel
1638 su proposta di Perrier40, mentre i due colossi capitolini
furono riconosciuti come Dioscuri fin dall’inizio.
147
6. Anonimo, Pianta di Roma, con aggiornamento
della pianta di Bernardo Bufalini del 1551.
Particolare della piazza capitolina con piedistallo
della statua equestre di Marco Aurelio secondo
il disegno originario di Michelangelo.
Roma, Biblioteca Nazionale Centrale
7. Roma, piazza del Campidoglio,
basamento della statua equestre
di Marco Aurelio realizzato su disegno
di Michelangelo entro il 1563
8. Rilievo del piano superiore
del basamento marmoreo della
statua equestre di Marco Aurelio
Nell’incisione di Dupérac sul palazzo dei Conservatori compaiono nove statue. La scultura posta al di sopra della parasta angolare è una figura maschile seminuda con il braccio destro sollevato che tiene il fulmine (fig. 14b). Si tratta senz’altro di Giove e può essere identificato con la statua colossale di Zeus in
marmo pario (cat. 43), proveniente dal Belvedere vaticano, già
nell’atrio del Museo Capitolino e dal 1956 sullo scalone del palazzo Braschi48. In considerazione della sua altezza, a essa fa riferimento probabilmente Vasari, quando nel descrivere il disegno michelangiolesco della facciata del Palazzo Senatorio ricorda che “nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove”49.
La scultura, indicata da Michelangelo come emblema della memoria capitolina, raggiunse subito grande fama e fu raffigurata
in una delle cento tavole pubblicate da Giovanni Battista Cavalieri, che reca la scritta “Iouis signum marmoreum Romae in
Capitolio”50 (cat. 45) e nella scelta di tavole ripubblicate da Lorenzo Vaccari (cat. 44).
La statua giunse in Campidoglio soltanto dopo la morte del
maestro fiorentino, in seguito alla donazione delle sculture del
Belvedere vaticano. Sebbene a essa nella sistemazione definitiva delle opere sia stata assegnata una diversa destinazione, la
scelta di Michelangelo di collocare nella nicchia centrale della
facciata del Palazzo Senatorio una statua conservata in Vaticano è un’importante testimonianza del ruolo avuto dall’artista
nell’acquisizione del complesso scultoreo necessario per realizzare il progetto di allestimento della piazza capitolina. La
donazione di Pio V al Popolo Romano di gran parte delle sculture antiche raccolte nel Belvedere vaticano dai suoi predecessori, soprattutto da Giulio III Chiocchi del Monte (15501555) e da Pio IV avvenne due anni dopo la morte di Michelangelo, ma certamente scaturì dalle necessità connesse con il
progetto di decorazione scultorea della piazza capitolina. Della munificenza pontificia diede comunicazione al Consiglio
pubblico del 9 febbraio 1566 il conservatore Gianfrancesco
Ridolfi:
9. Luzio Luzi, decorazione
in stucco della volta con
raffigurazione della piazza
Capitolina, 1575-1577.
Roma, palazzo dei Conservatori,
secondo ripiano dello scalone
Il piano di ristrutturazione della piazza capitolina si interrompe
subito dopo la morte di Michelangelo fino alla fine del 1577,
quando furono avviati i lavori per l’abbassamento del livello della piazza, la costruzione della seconda rampa di accesso e la ristrutturazione della cordonata centrale. Per tutto questo periodo non abbiamo altre notizie delle due statue colossali, che fino
al completamento delle balaustre, avvenuto nel 1582, rimasero
all’aperto nel luogo dove erano state trasportate.
La sostituzione delle figure centrali della balaustra con le due
statue di Castore e Polluce da poco rinvenute scaturì, quindi, da
una decisione autonoma dei magistrati capitolini. Un ruolo determinante va assegnato probabilmente a Giacomo della Porta,
architetto del Popolo Romano almeno dal dicembre 1564, e a
Tommaso Cavalieri, depositario dei disegni di Michelangelo41.
Senza dubbio il significato storico dell’intervento dei due gemelli divini in favore dei romani presso il lago Regillo indusse i
magistrati capitolini a decidere di collocare le due statue colossali all’ingresso della piazza capitolina. I due figli di Giove, antico
sovrano del colle, erano il simbolo del favore divino all’ascesa e
al predominio della Roma repubblicana, fondata sulla virtus che
i cittadini testimoniavano coralmente nelle battaglie. La stessa
memoria storica, insieme ad altri tre episodi dell’antica storia di
Roma, sarà dipinta da Tommaso Laureti tra il 1587 e il 1594
sulle pareti della sala dei Capitani del palazzo dei Conservatori,
nell’ambito di un programma decorativo che celebrava le virtù
civiche romane42. Il significato attribuito all’immagine dei Dioscuri dai magistrati capitolini è confermato dalla presenza ai piedi dei basamenti nell’incisione di Dupérac di due globi, simboli
tradizionali della sovranità universale di Roma, espressa concretamente negli anni successivi con l’erezione del miliario sormontato dal globo appartenente al colosso bronzeo di Costantino, denominato palla Sansonis.
148
Il Giove nella nicchia del Palazzo Senatorio
e la donazione di Pio V
Nel disegno anonimo in controparte conservato agli Uffizi di
Firenze (cat. 29) con la raffigurazione del progetto di ristrutturazione della piazza capitolina43, sopra le balaustre del palazzo dei Conservatori e del Palazzo Senatorio sono indicate le
sagome delle sculture. L’arredo scultoreo dei palazzi compare
pure nel disegno preparatorio rovesciato per il rame, conservato nel Christ Church College di Oxford (fig. 3), che riproduce la veduta prospettica della piazza capitolina secondo
l’exemplar di Michelangelo44. Il disegno è identico alle incisioni di Dupérac del 1568-156945, ma senza la torre e senza
l’ovato con il monumento equestre di Marco Aurelio. La raffigurazione precisa delle sculture da collocare sulle balaustre dei
palazzi capitolini è indicata per la prima volta nell’incisione di
Dupérac del 1568, con alcune varianti nell’edizione del 1569,
ripetute senza mutamenti nelle due redazioni successive46, databili nel 1583 per la presenza delle statue sulla torre (fig. 12)
e nel 1590 circa per la presenza dei Trofei di Mario accanto ai
Dioscuri (fig. 13).
La disposizione delle sculture documenta l’esistenza di un
progetto complessivo di arredo scultoreo, che rappresenta il
più antico programma di recupero dell’antico concepito con finalità di carattere ideologico. La presenza delle statue restituiva al colle capitolino la sacralità dell’età antica e nel contempo
indicava nel Campidoglio, erede della tradizione classica, il locus publicum per eccellenza. Nei documenti contemporanei le
sculture vengono considerate proprietà del Popolo Romano,
che attraverso le attività dei magistrati esercitava la propria sovranità sulla res publica.
La trasformazione della piazza capitolina secondo una nuova
concezione politica della memoria fu attuata sulla base del progetto architettonico di Michelangelo, al quale va attribuita evidentemente anche la scelta dei soggetti da utilizzare per l’arredo scultoreo. La selezione delle statue da porre sulle balaustre
dei palazzi capitolini denota il superamento della cultura antiquaria di tipo erudito, come quella che aveva spinto Pirro Ligorio a restituire un nome alle immagini raccolte senza coerenza
nel Belvedere vaticano47.
gli anni dal 1534 al 1564
La Santità di Nostro Signore come principe benigno et
amoreuole da se stesso mosso da la bontà sua ha liberalmente donato al Popolo per magnificenza et grandezza del
nostro palazzo di Campidoglio tutte le statue che sono nel
teatro di Beluedere eccetto per le rinchiuse. Il che oltre che
dimostra il suo buon animo uerso questo Popolo dà ancora
speranza alla giornata di altri doni et gratie non solo simili
ma anche molto maggiori. Donde conoscendosi tanta amoreuolezza et liberalità di sua Beatitudine uerso del Popolo,
ci parrebbe conueniente che noi parimenti a lui ce li mostrassimo in qualche parte grati con alcun segno di laude et
honore di quella et memoria perpetua della liberalità sua. /
Decretum fuit. / Ad perpetuam huius rei memoriam et
pro incolumitate diuturnaque Sanctitatis suae uita, proque
foelici huius almae Urbis totiusque christianitatis statu
quotannis perpetuo in Ecclesia Beatae Mariae Super Mineruam in die natiuitatis coronationisque Sanctitatis Suae die
scilicet xvii ianuarii celebretur solemnis missa cui uniuersus magistratus interueniant simulque calicem argenteum
deauratum quatuorque faces cereas candidas eidem ecclesiae offerantur. / Cui etiam supplicetur ut statuta et decreta aliorum pontificum innouare dignetur super eo quod
aliae statuae et urbis antiquitates nullatenus ab urbae extrahi possint. / Iidemque magistratus et viri nobiles eligendi
ut statuae donatae huiusmodi in Capitolium conducantur
curare debeant. / et pro impensa ad hoc necessaria amplam
149
10. Anonimo, Pianta della piazza del
Campidoglio, 1567, incisione edita
da Bartolomeo Faleti
11. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, 1568,
incisione edita da Bartolomeo Faleti con dedica a papa Pio V
12. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1583,
incisione ristampata da Claudio Duchet con l’aggiunta delle statue
sulla torre campanaria
13. Stefano Dupérac, Veduta di piazza del Campidoglio, circa 1590,
incisione ristampata con l’aggiunta dei Trofei di Mario accanto
ai Dioscuri sulla cordonata capitolina
habeant auctoritatem inueniendi pecunias super bonis Populi Romani eo modo meliori quo ipsius Populi detrimento possibili.51
Come previsto dal Consiglio, furono eletti commissari Bernardino Caffarelli, Paolo del Bufalo, Rutilio Alberini, Prospero
Boccapaduli e Tommaso Cavalieri.
La gratitudine del Popolo Romano si manifestò, oltre che con
la partecipazione di tutti i magistrati a una messa solenne nel
giorno della nascita e dell’incoronazione del pontefice e con
l’offerta di un calice d’argento dorato e di quattro fiaccole di cera bianca, attraverso la dedica del rame inciso da Dupérac con la
prima veduta prospettica raffigurante la piazza capitolina secondo il progetto di Michelangelo. L’incisione reca nel cartiglio
posto in alto a destra la scritta “Capitolii quod S.P.Q.R. impensa ad Michaelis / Angeli Bonaroti eximii architecti exemplar /
in anteiquum decus restitui posse videtur tabula / accuratissime Stephani Dupérac Parisiensis Galli / opera delineata Senatoris III virorum Urbis / conservatorum praetoria aream gradus moeni / ana complectens Romae Kal. Octobris anno salu150
tis / MDLXVIII”; nella dedica posta in alto a sinistra contiene
un esplicito riferimento alla generosità del papa: “S.D.N. Pii V
/ pont. max. / liberalitati / dicatum”.
Prospero Boccapaduli, allora deputato alla fabbrica dei palazzi
del Senatore e dei Conservatori, compilò un inventario delle
figure donate dal pontefice al Popolo Romano, che è giunto fino a noi ed è stato pubblicato per la prima volta da Marco Bicci
nel 176252. Dall’inventario, redatto in due tempi, risulta che le
statue dislocate nel teatro, nel boschetto e nel casino del Belvedere vaticano erano centoquarantasei, registrate dal n. 1 al n.
127 l’11 febbraio 1566 e dal n. 128 al n. 144 il 27 febbraio del
medesimo anno (cat. 42). Richiesti e ottenuti dal Consiglio
trenta “facchini” per effettuare il trasporto53, il 28 febbraio
trenta pezzi furono trasferiti in Campidoglio, come risulta dalla segnalazione dello stesso inventario. Si tratta di molte delle
opere che adornavano la scala bramantesca e di tutte quelle collocate nella “stanza della Monizione”54. L’arrivo in Campidoglio di questo primo gruppo di sculture è ricordato da una breve iscrizione destinata a celebrare il dono pontificio: “MAGISTR .
POPVLIQ. RO. / PII V. PONT. MAX . / xxx STATVARVM MARM. DONO /
ORNATI / PVBLICVM . AETERNVMQ / GRATI . ANIMI / TESTIMO55
NIVM” . I conservatori dell’epoca, tra i quali vi era lo stesso Ridolfi che aveva annunciato al Consiglio la munificenza del papa, fecero collocare le statue in un unico ambiente del palazzo:
“SENATVS POPVLVSQ. ROMANVS / STATVAS MARMOREAS / PII V.
PONT. MAX . DONO / E VATICANO IN CAPITOLIVM / TRASLATAS
CVRANTIBVS / JOANNE FRANCISCO RODVLPHO / PROSPERO MVTO /
56
NICOLAO EVANGELISTA / CONSERVATORIB . / HIC POSVIT” . L’opposizione dei prelati della corte pontificia, che volevano impedire il donativo, riuscì a bloccare temporaneamente il trasferimento delle altre sculture. All’inizio di aprile dello stesso anno
il primo conservatore Leonardo Tasca ottenne udienza dal papa per rivolgergli una supplica e ne diede conto al Consiglio
con queste parole:
Di poi li soggiungessimo delle statue della palazzina donate da Su Santità al Popolo che il Sangalletto no vole lasciarne pigliare se non certe poche Et perche à Sua Santità è piaciuto donarle al Popolo li piacesse in essecutione della Sua
Santissima mente ordinare al Sangalletto che non ce le impedisca. Onde Sua Santità li ordinò espressamente che ne le
consegnasse tutte, eccetto certe puoche le quali Sua Santità
uoleua uedere se il leuarle non deformaua la fabrica.57
La risposta del pontefice in riferimento alla sua preoccupazione per il decoro del complesso architettonico, contraddittoria
rispetto alle motivazioni del donativo, sembra nascondere un
certo imbarazzo, dovuto forse alle pressanti richieste di cessio-
ne di alcune opere antiche giunte nel frattempo. Alcune sculture, infatti, furono sottratte a favore di personaggi coronati e
prelati, tra cui il cardinale di Augusta e il cardinale Ippolito
d’Este. Non conosciamo l’esito preciso della supplica del magistrato capitolino, ma certamente la munificenza del papa, benché diminuita nel suo valore, non si arrestò e altre statue giunsero successivamente in Campidoglio, alcune probabilmente
durante i pontificati successivi di Gregorio XIII Buoncompagni (1572- 1585) e di Sisto V Peretti (1585-1590).
Adolf Michaelis ha tentato per primo il riconoscimento delle trenta sculture giunte in un primo momento, individuandone quattordici58, ma lo stesso studioso segnalava altri trentasette pezzi del Museo Capitolino provenienti dal Belvedere vaticano, collocati in parte nel teatro, in parte nella vicina
scalea del Bramante, in parte nel casino di Pio IV. Henry
Stuart Jones, emendandone alcune, ne aggiungeva delle altre, segnalando per primo la presenza di statue provenienti
dal Vaticano sulle balaustre dei tre palazzi capitolini59. Cinque sculture, già nel palazzo dei Conservatori, si trovano attualmente al Pincio, altre due, segnalate nell’inventario del
1627, sono attualmente disperse60. Nuovi riconoscimenti
consentono di portare a ottanta il numero delle statue giunte sicuramente in Campidoglio. Delle rimanenti sculture inventariate da Boccapaduli, ventisei statue furono cedute a
Francesco de’ Medici, allora erede designato del granduca di
Toscana Cosimo I, e inviate a Firenze61. Una si trova al Louvre, una all’ingresso della Biblioteca Apostolica Vaticana e
otto, secondo le indicazioni di Stuart Jones, si trovano ancora in Vaticano. Benché, dunque, l’assenza di riferimenti nei
verbali del Consiglio indichi che non vi è stato un nuovo donativo, è probabile che un consistente gruppo di statue giunse in Campidoglio in un secondo tempo senza essere stato
specificatamente registrato.
La scelta dei soggetti da prelevare al Belvedere probabilmente era
stata già effettuata da Michelangelo e comunque tutte le variazioni apportate tenevano conto della necessità che le statue avessero un’altezza consona alla loro futura dislocazione sulle balaustre
dei palazzi. Per questa ragione alcune sculture provenienti dal
Vaticano furono alienate subito dopo in cambio di altre.
Le statue sulle balaustre dei palazzi capitolini
e la genealogia mitica del Campidoglio secondo Michelangelo
Le sculture poste sulle balaustre dei palazzi capitolini62 (figg.
15-16) formano un importante complesso statuario, che può
essere considerato il primo programma unitario di recupero
dell’antico concepito in epoca moderna. Sebbene non sia stato
realizzato interamente secondo le linee guida del progetto iniziale, l’importanza del gruppo di sculture capitolino risiede nel
gli anni dal 1534 al 1564
suo valore simbolico complessivo. La collocazione delle statue
alla sommità dei palazzi costituì una delle innovazioni più importanti dell’intero progetto di ristrutturazione della piazza e
la loro presenza, oltre che funzionale al recupero dell’antico
decoro del colle, suggeriva un nuovo orientamento degli assi
visivi dell’area capitolina. In particolare, le sculture sul Palazzo
Senatorio insieme alla grande scalea michelangiolesca determinavano un radicale e definitivo mutamento di prospettiva:
la facciata del Tabularium rivolta verso il Foro Romano, priva
del coronamento di statue, divenne il lato posteriore dell’edificio senatorio, mentre l’altra facciata, ricostruita e decorata
con statue alla sommità, fu concepita con i due avancorpi laterali come una quinta monumentale della platea capitolina, che
una volta spianata era stata trasformata in una terrazza soprae151
14a-b. Stefano Dupérac, Veduta di piazza
del Campidoglio, 1569, incisione edita da Antonio
Lafrèry. Particolari delle balaustre con statue
di divinità: a sinistra, palazzo Nuovo con Ercole
e Marte in primo piano; a destra, palazzo dei
Conservatori con Giove e Giunone in primo piano
levata, aperta verso l’area della città gravitante intorno alla
nuova basilica di San Pietro.
Fino alla metà del XVI secolo le antichità venivano raccolte in
Campidoglio in modo confuso, per lo più sotto il portico del
vecchio palazzo dei Conservatori e in parte nel cortile interno.
Le due vedute della piazza capitolina dell’Anonimo del Louvre
e dell’Anonimo di Braunschweig, databili poco dopo la metà
del secolo, documentano la quantità di frammenti raccolti ai
piedi del muraglione dell’Aracoeli e davanti al portico del palazzo sul lato opposto. Alla fine degli anni cinquanta del medesimo secolo le sculture antiche, per il loro numero e per lo stato di conservazione spesso frammentario63, non erano sufficienti per far fronte a quanto previsto da Michelangelo nel progetto di rinnovamento della piazza capitolina. È evidente,
quindi, che l’artista fiorentino avesse immaginato di collocare
delle statue sulla sommità dei palazzi capitolini sapendo di poter disporre delle sculture raccolte nel Belvedere vaticano.
È probabile che le trenta statue menzionate nell’iscrizione
commemorativa del dono di Pio V64 siano proprio quelle destinate alle balaustre dei palazzi capitolini, dieci per il palazzo
dei Conservatori (otto sulla fronte e una su ogni lato), dieci
per il Palazzo Senatorio (in un secondo tempo ridotte a otto)
e dieci per la scalinata (sei) e il baldacchino (quattro) di quest’ultimo ovvero per il palazzo Nuovo (otto sulla fronte e una
su ogni lato).
L’arredo figurativo nel suo complesso riproduce il pantheon
olimpico secondo le conoscenze dell’epoca e ha il suo fulcro
nella figura di Giove, padre di tutti gli dei. Il dio, figura simbolica dell’antico colle capitolino, viene menzionato in una delle
epigrafi che Prospero Boccapaduli e Tommaso Cavalieri fecero
collocare nel 1568 nei due tabernacoli del vestibolo d’ingresso
del palazzo dei Conservatori65, ma nelle vedute di Dupérac non
occupa la posizione che nelle parole di Vasari gli avrebbe assegnato Micherlangelo.
Non sappiamo se la dislocazione del Giove alla sommità del
palazzo dei Conservatori anziché nella nicchia del Palazzo Senatorio sia frutto di un ripensamento dell’artista o di una forzatura successiva alla sua morte, ma certamente la statua alla
sua sinistra, collocata al di sopra della parasta nel risvolto laterale della facciata, ha una nesso evidente con il padre degli dei.
Essa rappresenta una figura femminile stante sulla gamba sinistra, con la mano sinistra protesa in avanti a tenere un oggetto,
forse il velo. Si può proporre l’identificazione con la statua
femminile vestita con chitone e peplo collocata sullo scalone
del Museo Capitolino66, proveniente dal Belvedere vaticano,
denominata “Iuno Lanumuina”67. Sopra le due paraste corrispondenti del palazzo Nuovo vi sono collocate due figure riconoscibili come Ercole e Marte. Il primo riproduce l’eroe con la
152
clava della collezione Farnese che, scoperto nel 1546 nelle terme di Caracalla, aveva suscitato l’ammirazione di Michelangelo. Il secondo, stante sulla gamba destra, è raffigurato nudo e
reca sulla testa un elmo con cimiero e sulla mano sinistra protesa in avanti una Vittoria. La statua del dio della guerra è riconoscibile in due stampe dell’epoca, l’una in controparte di Giovanni Battista Cavalieri (cat. 46) e l’altra di Philippe Thomassin (cat. 47), che recano entrambe l’indicazione “Mars in Capitolio”68. La scelta delle due figure si spiega in rapporto al loro legame di parentela con le divinità collocate nella stessa posizione sul palazzo opposto (fig. 17). Si tratta, infatti, dei due rispettivi figli di Giove e di Giunone. Anche la loro posizione relativa nell’incisione più antica di Dupérac69, riflette specularmente quella delle due divinità olimpiche, con Ercole all’esterno.
Le quattro sculture rappresentano evidentemente le immagini
principali per la comprensione del programma decorativo delle balaustre e si trovano sul lato dei palazzi prospiciente la scalinata di accesso al colle. Le due statue angolari, contrariamente alla situazione attuale, sono rivolte verso la balaustra che
chiude la piazza capitolina. Evidentemente si era tenuto conto
che l’asse visivo principale fosse quello di chi affrontava l’ascesa verso la nuova terrazza.
Alla destra di Giove è raffigurata una figura femminile con corta veste, stante sulla gamba destra, che può essere identificata
con la dea Roma in abito amazzonico, dislocata attualmente
nella stessa posizione. Seguono altre cinque figure di divinità,
tra le quali possiamo riconoscere una statua maschile con pelle ferina e animale ai piedi, identificabile con la scultura denominata “Vortumnus” attualmente collocata sulla stessa balaustra e una statua maschile nuda con clamide allacciata sulla
spalla sinistra e con elmo alato sulla testa, che rappresenta Mercurio70. Sul palazzo di fronte, accanto alla statua sull’angolo, vi
sono due figure maschili con un lungo mantello e un copricapo a punta, identificabili con i Dioscuri, in mezzo ai quali si
trova una Vittoria alata con un ramo di palma sul braccio destro e una corona nella mano sinistra protesa71. Seguono quattro figure, tra le quali sono riconoscibili una statua femminile
con lunga veste e apoptygma, che tiene sollevata con la mano
destra un’estremità del panneggio72 e una Minerva con lancia e
scudo, presente in entrambe le edizioni dell’incisione, ma in
posizione diversa.
Nella veduta di Dupérac sulla balaustra del Palazzo Senatorio
sono indicate dieci sculture, ma le due posizionate sull’angolo
interno delle due ali sporgenti, nel punto di incontro con il corpo centrale della facciata, non risulta siano state mai collocate.
Alle due estremità vi sono due figure maschili semipanneggiate, con la cornucopia su un braccio e la patera o il simpulum nell’altra mano73. Si tratta verosimilmente del Genio del Senato e
15. Roma, piazza del Campidoglio, facciata
del palazzo Nuovo con statue sulla sommità
16. Roma, piazza del Campidoglio, facciata
del palazzo dei Conservatori con statue
sulla sommità
del Genio del Popolo Romano. La statua di sinistra riproduce le
fattezza della scultura attualmente collocata sull’angolo del palazzo dei Conservatori. Al centro vi sono due statue quasi
identiche panneggiate e con il capo coperto dal manto, identificabili con due figure sacerdotali per la presenza nella mano
destra del lituus. Le altre sei sculture, variate nelle due prime
edizioni della veduta del Dupérac, rappresentano verosimilmente delle figure divine di carattere simbolico. Tra esse possiamo ipotizzare Pudicitia, Letitia, Salute e probabilmente Venere come dea della Bellezza. Quest’ultima è riconoscibile nell’edizione del 1569 sopra il terzo piedistallo da destra. Si tratta evidentemente della statua attualmente collocata sulla balaustra del Museo Capitolino. Altre sculture sono raffigurate
sul parapetto della scalinata e alla sommità del baldacchino. Le
quattro figure femminili collocate in quest’ultima posizione
rappresentano probabilmente le Ninfe, le Grazie o le Stagioni.
Le altre sei statue sono identificabili probabilmente con sei
Muse74, secondo le denominazioni delle opere presenti al Belvedere vaticano75.
L’allestimento delle statue dopo la morte di Michelangelo
Il primo dicembre 1567, tre anni dopo la morte di Michelangelo, risulta terminata la lavorazione dei primi quattro piedistalli della balaustra alla sommità del palazzo dei Conservatori,
evidentemente uno sul lato e tre sulla fronte dell’edificio all’estremità dove si era cominciata la costruzione della nuova
facciata76. Un documento che riporta la “misura e stima di lavori compiuti dal capomastro muratore Ludovico da Carona”
informa che il 29 marzo 1568 erano già state messe in opera
quattro statue di marmo “sopra li piedistalli nella facciata di
fora”, evidentemente quelle in corrispondenza dei pilastri già
completati77. Una stampa attribuita a Dupérac e pubblicata da
Faleti con la data 1567, che reca in alto la scritta “Porticus et
palatii capitolini aspectus accurate commensuratus studiosorum / bonarum artium commoditati delineatus Romae anno
sal. MDLXVIII”78, raffigura l’alzato delle prime tre campate del
palazzo dei Conservatori con le sculture al loro posto (fig. 18).
Sui primi due piedistalli sono collocate le statue di Giove e della dea Roma in abito amazzonico, secondo quanto previsto da
Michelangelo. Il primo marzo 1569 risultano terminati altri
due piedistalli79, ma la cronica mancanza di disponibilità finanziarie determinò un rallentamento dei lavori sulla facciata. Nel
frattempo si intraprese la sistemazione del cortile interno del
palazzo e nel 1574 vengono collocate le statue sulla balaustra
della facciata “di dentro”, in corrispondenza della cappella vecchia e dell’anticappella, dal 1571 destinata ad accogliere l’Archivio Capitolino (Scripturarum Publicarum Custodia)80. Il 12
maggio 1583 i Conservatori del tempo Gamezio Quattrocgli anni dal 1534 al 1564
153
17. Roma, palazzo dei Conservatori, balaustra,
statua marmorea di Marte, età antonina
18. Stefano Dupérac (attribuito), Alzato delle prime
tre campate della facciata del palazzo dei
Conservatori con statue di divinità sulla balaustra,
1567, incisione edita da Bartolomeo Faleti
chio, Ascanio del Bufalo o Bubalo e Vincenzo Americo, il priore dei Caporioni Alessandro Giovenale e uno dei deputati alla
fabbrica Baldassarre Cenci, stipulano, per gli atti del notaio Piroti, un apposito contratto con gli scalpellini Achille de Bianchi
e Stefano Marchesi, che
promettono di fare e far fare il restante delli balaustri, base,
piedistalli et cimase sopra il cornicione del palazzo di detti
Ill.mi S.ri Conservatori verso il Palazzo del S.r Senatore,
bene et diligentemente, di bon travertino et ben lavorati a
paragone delli altri che sonno in opera, da cui per tutto li
20 del mese di giugno proximo a venire senza lcuna excettione, secondo il desegno dato a me notaro in un foglio desegnato, per prezzo cioè li balaustri per giulii diciotto l’uno,
le base che corrono sotto detti balaustri simile a quella che
è in opera, per prezzo di giulii trentacinque la carrettata, li
piedistalli dove posano le figure sì come li altri posti in
opera, et anco quello che va fra un piedistallo et l’altro per
prezzo de giulii trentacinque la carrettata, la cimasa sopra li
balaustri simile alle altre per prezzo de giulii doi e baiocchi
9 il palmo andante, la cimasa che corre sopra li piedistalli et
pilastri simile a quella che è in opera per prezzo de tre il palmo, et promettono in solido come di sopra di fare detta
opera di tevertino bono di Tivoli senza tasselli, stucchi o
defetto alcuno et ben lavorati come quelli che sonno posti
in opera ecc.81
Alla metà dell’anno successivo i piedistalli erano terminati. Nel
registro dei mandati, infatti, fra il maggio 1583 e il giugno
1584 sono indicate quattro partite contabili per un totale di
centosettantacinque scudi e ventidue baiocchi, tutte intestate
solamente a mastro Achille e il 23 giugno 1584 indicato un pagamento di diciannove scudi e ventitré baiocchi a favore di
Marchionne “per la parte dell’opera di scarpello che lui ha fatto al parapetto de balaustri et cornicione della facciata del palazzo, cioè basamento et un pilastrello”82. Il 2 giugno 1584 il
facchino Antonio Greco, a capo di un gruppo o società di colleghi detta la “compagnia del Greco”, viene pagato per aver “tolto dallo statuario di Campidoglio” e messo in opera sulla facciata tre statue mancanti al coronamento, che nel marzo 1584
lo scultore Silla Longhi aveva provveduto a restaurare, imperniare e sprangare. Nel 1586, infine, il muratore Santi tira fuori
dallo “statuario” altre due statue e, dopo un nuovo intervento
di Longhi, le colloca sulla balaustra dell’edificio, evidentemente sui due ultimi piedistalli della facciata83.
Le nove sculture poste a coronamento del palazzo dei Conservatori, otto sulla fronte e una sul risvolto laterale, appaiono per la prima volta raffigurate interamente nella pianta di
154
Antonio Tempesta del 159384. La stessa pianta documenta pure che in tale anno la sommità del Palazzo Senatorio85, era ancora priva della decorazione scultorea prevista da Michelangelo. Nel 1598, allorché venne collocata l’iscrizione murata sopra il nuovo portale dell’aula senatoria86, i lavori erano quasi
ultimati. Il completamento della balaustra di coronamento era
già avvenuto quando Nicolaus Van Aelst incise la nuova veduta del Campidoglio, edita nel 160087. L’incisione reca l’autorizzazione ufficiale del pontefice, espressa nelle parole “superiorum permissu” aggiunte in basso a sinistra accanto alla data, e
raffigura sopra la porta del palazzo del Senatore appena ultimato una tabella con l’iscrizione dedicatoria “Clementi VIII
pont. max.”, un testo che riproduce la prima riga dell’epigrafe
ancora conservata. È probabile quindi che l’incisione fosse stata preparata per i pellegrini che visitavano Roma in occasione
delle celebrazioni dell’Anno Santo di fine secolo.
Sulla balaustra dell’edificio furono erette otto statue. Rispetto
al progetto originario, documentato dalle varie edizioni dell’incisione di Dupérac88, sono state eliminate le due sculture
sui piedistalli posti in corrispondenza del punto di incontro tra
ciascuno dei due avancorpi e la porzione centrale della facciata.
Questa modifica dimostra che il modello di Van Aelst non fu,
come per Dupérac, l’exemplar michelangiolesco conservato da
Tommaso Cavalieri e Prospero Boccapaduli, ma un disegno
più aggiornato o l’edificio reale, come del resto indica l’iscrizione incisa in lettere capitali lungo il margine superiore della
veduta prospettica: CAPITOLII ROMANI VERA IMAGO VT NVNC EST.
È probabile che l’incisore, nel delineare le sagome delle statue,
non cercasse una corrispondenza dettagliata con le singole figure, ma una visione d’insieme il più fedele possibile alla realgli anni dal 1534 al 1564
tà. Rilevante, infatti, doveva essere l’identificazione simbolica
delle sculture. Le otto figure disegnate da Van Aelst appaiono
schizzate rapidamente, ma almeno una riproduce certamente
nella medesima posizione i tratti principali della statua ivi conservata (n. 5). Le sculture risultano restaurate in maniera frettolosa e talora incongrua, lasciando immaginare un lavoro avvenuto in tempi molto ristretti, evidentemente determinati
dall’imminenza di una data prefissata per il completamento
della facciata. Ciò spiega anche l’assenza delle specchiature
quadrate sulle facce anteriori dei piedistalli della balaustra, delineate da Van Aelst. Anche la mancanza di statue sui pilastrini del parapetto della scalea michelangiolesca, oltre che sul
“baldacchino” previsto in origine e mai costruito, testimone di
una riduzione della decorazione scultorea, dovuta certamente
alla necessità di ultimare la facciata nell’imminenza di un
evento celebrativo prestabilito.
Il completamento del palazzo Nuovo richiese, invece, tempi
più lunghi e di conseguenza anche le sculture potrebbero essere state collocate sulla balaustra in momenti diversi. Con Innocenzo X Pamphilj (1644-1655) i lavori di costruzione del palazzo Nuovo subirono una determinante accelerazione, ma il
papa non mise a disposizione le risorse finanziarie necessarie
al completamento dell’edificio. La magistratura capitolina,
pertanto, fu costretta a sopprimere i salari di diversi uffici, per
lo più sinecures, tra i quali vi erano i quattordici maestri di
scuola elementare, uno per ogni regione89. Il pontefice fece un
sopralluogo al palazzo in costruzione nel 1650 e nel 165490. In
occasione della seconda visita fu murata nella sala della Lupa
un’iscrizione celebrativa dedicata al pontefice91 e fu coniata
una medaglia con la facciata del palazzo completata. Nella veduta capitolina di Nicolaus Van Aelst (1600) ristampata da
Giovanni Giacomo Rossi in occasione del Giubileo del 1650
(cat. 34), la costruzione del palazzo Nuovo appare completamente finita, comprese le statue sulla balaustra, ma verosimilmente lo stato di avanzamento dei lavori non coincideva.
Un’iscrizione perduta92 ricorda che il completamento dell’edificio va attribuito ad Alessandro VII Ghigi (1655-1667), affermazione ripetuta nel testo della veduta del Campidoglio pubblicata da Giovanni Battista Falda nel 1665 (cat. 38). Un mandato di pagamento93, infine, attesta che i soffitti del palazzo furono completati nel 1660. Nello stesso anno deve essere cominciata la costruzione della balaustra di coronamento della
facciata, sulla quale saranno collocate le statue. Quest’ultima
fase dei lavori è documentata da un dipinto anonimo conservato al Museo di Roma (cat. 35), databile dopo la metà del
XVII secolo, ma non oltre il 1679, anno in cui la statua di Marforio, nel dipinto ancora sulla piazza, era ormai sistemata all’interno del palazzo Nuovo94.
155
Vasari, ed. Milanesi, 1878-1885,
vol. VII, p. 222 [ed. 1568].
2
Parisi Presicce 1994b, p. 135.
3
Forcella 1869, n. 64.
4
Angelicoussis 1984, p. 154, tav.
67.1, con bibliografia precedente; La
Rocca 1986, tav. XXXVII. Anche
uno dei pannelli dell’arco di Costantino raffigura un arco trionfale coronato da una quadriga di elefanti: Giuliano 1955, tav. 22.
5
De Angelis D’Ossat, Pietrangeli
1965, pp. 106 sgg., fig. 88; Argan,
Contardi 1990, p. 261, fig. 364.
6
Parisi Presicce 1994b, pp. 136 sgg.
7
Parisi Presicce 1994a, pp. 155-156.
8
Sulle finalità del trasferimento voluto da Alessandro Farnese, cfr. Harprath 1985, p. 68.
9
Nella letteratura antiquaria il primo
a riconoscere i Dioscuri nelle due
sculture colossali è stato Perrier
1638, tavv. 22-25.
10
Biblioteca Apostolica Vaticana di
Roma (in seguito BAV), cod. Vat. Lat.
8037, p. 1, fol. 72; citato da Künzle
1961, pp. 258 sgg. e riportato da
Contardi 1992, p. 9.
11
BAV, cod. Vat. Lat. 12308, Diariorum tom. decimus: “Diarium Blasii
de Cesena Mag. Caerem. ab anno
1518 ad annum 1540”, fol. 552; testo originale in latino, citato da Künzle 1961, p. 257 e riportato da Contardi 1992, p. 9.
12
Gronau 1906, Beiheft, p. 9, n. XXI
(senza data; databile secondo Künzle
1961, p. 260 in base a riferimenti interni tra il 28 novembre 1537 e il 18
gennaio 1538).
13
Sulla volontà di Paolo III di trasferire in Campidoglio i colossi del Quirinale, da ultimo Parisi Presicce 1994a,
pp. 155 sg.
14
ASC, Cred. I, vol. XVII, fol. 58v.
Edito per la prima volta da Lanciani
1902-1912, vol. II, p. 69 (ed. integr.
1988-2002, vol. II, p. 77) e subito
dopo da Rodocanachi 1904, p. 76,
nota 4 (con la data errata del 22 marzo 1538, corretta da Pecchiai 1950,
p. 46).
15
Basile 1984, p. 23.
16
A epoca rinascimentale attribuisce
queste riparazioni Melucco Vaccaro
1989a, p. 119.
17
Già proposta da D’Onofrio 1973,
pp. 184 sgg. in base all’incisione del
1
156
Cock e al disegno dell’Anonimo di
Braunschweig è stata ribadita da Mura Sommella 1989 e Mura Sommella
1997; cfr. pure Parisi Presicce 1997a.
18
Nonostante il cavallo sia rappresentato con la posizione delle gambe
anteriori invertita, sono delineate le
figure dei due Fiumi collocate davanti al palazzo dei Conservatori, la sagoma della statua di Minerva eretta
alla fine del 1541 sul fondo del cortile, gli attacchi della mensola che sosteneva la lupa quando si trovava sulla facciata del palazzo, la posizione
originaria dei due leoni sui lati della
vecchia scala del Palazzo Senatorio,
che da un conto conservato tra le carte di Prospero Boccapaduli, datato 12
ottobre 1547, risultano essere stati
spostati “suli poggi di tivirtino […]
nel angoli de li doi torri”: Archivio
Storico Capitolino di Roma (in seguito ASC), Carte Boccapaduli, Armadio II, Mazzo IV, n. 48, fol. 18-19,
misura n. 22, edito integralmente da
Thies 1982). Cfr. pure Pecchiai 1950,
pp. 46 sgg.
19
Per la pianta di Bufalini, Ehrle
1911; Siebenhüner 1954, pp. 55, 62,
fig. 31. Per la veduta anonima dello
Speculum, Arrigoni, Bertarelli 1939,
p. 60, n. 582 (datata prima dell’inizio
dei lavori di ristrutturazione al palazzo dei Conservatori).
20
Deswarte 1988-1989.
21
Edito in Tormo 1940, fol. 7v e messo per la prima volta in connessione
con la datazione del progetto di Michelangelo in due recensioni al libro
di Siebenhüner pubblicate da Ackerman 1956 e da Künzle 1956. Cfr.
pure Parisi Presicce 1990, p. 100,
fig. 88.
22
La medaglia, della quale non è stato
rintracciato alcun esemplare, è stata
pubblicata da Buonanni 1706, vol. I,
pp. 206-209, n. VIII e riprodotta in
disegno da D’Onofrio 1973, fig. 121.
Cfr. pure Parisi Presicce 1990, p. 100,
fig. 89.
23
Künzle 1961, pp. 255-270; la sua
ipotesi che anche uno dei blocchi
marmorei perimetrali sia stato sostituito in seguito a una rottura è contraddetta dalla perfetta corrispondenza delle grappe.
24
Ferroni, Sacco 1989, p. 202, figg.
158-159. La ricostruzione è confuta-
ta da Contardi 1992, p. 12, che propone una posizione diversa dei perni
delle gambe, ricavata dal rilievo fotogrammetrico, che tuttavia risulta nella zona degli zoccoli meno preciso del
rilievo diretto.
25
Mura Sommella 1989, pp. 190191.
26
Contardi 1992, p. 17, ritiene la
somma troppo bassa rispetto ai 300
scudi pagati a Nicolas Pipe per il basamento della statua di Sisto V, che tuttavia è stato costruito ex novo e circa
trenta anni dopo.
27
Parisi Presicce 1990, p. 102, fig. 99
(con bibliografia a p. 114).
28
Baltimora, Walters Art Gallery;
Monaco, Bayerisches Nationalmuseum; Vienna, Kunsthistorisches
Museum; Ferrara, Civico Museo
Schifanoia. Cfr. Parisi Presicce
1997b, pp. 36 sg., nn. 7-10.
29
Da ultimi Morrogh 1994; Contardi
1996, pp. 52 sgg.; Bedon 2008, pp.
57-59.
30
Nicolaus Muffel nel 1452 vide la
statua riversa per terra; tra il 1466 e il
1468 il monetiere Cristoforo di Geremia da Mantova eseguì un lungo e
complesso intervento di restauro su
incarico di papa Paolo II; nel 1473 Sisto IV, in vista dell’Anno Santo 1475,
commissiona agli aurifabris Nando
Corbolini e Leonardo Guidocci ulteriori rifacimenti e fa realizzare un
nuovo basamento. Cfr. Melucco Vaccaro 1989b, pp. 211-252, in part. pp.
213 sgg.; Parisi Presicce 1990, p.
109.
31
Buddensieg 1969, pp. 184 sgg.; Argan, Contardi 1990, p. 258, fig. 361;
Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991,
p. 86 (Parisi Presicce).
32
Reinach 1902.
33
Fichard (1536) 1815, p. 23 le vede
ancora a Montecavallo nel 1536.
34
Marliani 1544 le ricorda già in
Campidoglio.
35
Il luogo di rinvenimento delle due
statue non è noto, anche se appare
probabile che entrambe provenissero
da Roma e costituissero un monumento ufficiale e non privato, eretto
in un luogo pubblico. Questo dato,
però, non giustifica l’affermazione
derivante da Maffei che le statue siano state scoperte nel Foro di Cesare.
Le sculture sono ricordate tra le ope-
re di casa Rufini già da Aldrovandi
1556, p. 165.
36
I disegni di Giovanni Battista Cavalieri e di Giovanni Antonio Dosio,
quasi contemporanei alla data di acquisizione, riproducono le statue dopo i restauri: cfr. Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, pp. 87, 111, 115,
figg. 43-45 (Parisi Presicce). Sui restauri, cfr. Stuart Jones 1926, p. 370,
addenda a p. 2, nn. 1-2; Albertoni
1993.
37
La quietanza finale nei confronti del
vescovo reca la data del 23 luglio
1573, che coincide evidentemente
con l’acquisizione formale dei pezzi.
Cfr. Lanciani 1988-2002, vol. II, p.
85.
38
Nel 1653, più di cento anni dopo la
definizione del progetto originario di
Paolo III, le due statue di Costantino
il Grande e di suo figlio Costantino II
collocate sul terrazzo della scalinata
che conduce al convento dell’Aracoeli, sono state trasferite sulla balaustra
della piazza. Lo spostamento, tuttavia, è connesso con i lavori di costruzione del palazzo Nuovo, giunti ormai al termine, e non con il progetto
di sistemazione iniziale delle due statue.
39
Sui Dioscuri capitolini, cfr. Parisi
Presicce 1994a.
40
Cfr. Haskell, Penny 1984, pp. 161169; Bober, Rubinstein 1986, pp.
159-161, n. 125.
41
Giacomo della Porta risulta vincitore del concorso bandito nel 1578 per
la nuova sistemazione della piazza:
Pecchiai 1950, pp. 25-29, 50 sgg.
42
Tittoni 1985; Tittoni 1991.
43
Pubblicato per la prima volta da
Siebenhüner 1954, p. 86, fig. 52; Pietrangeli, De Angelis d’Ossat 1965, p.
82, fig. 55; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 86.
44
Pubblicato per la prima volta da
Buddensieg 1969, p. 184; Argan,
Contardi 1990, p. 258, fig. 361; Parisi Presicce 1994b, fig. 9.
45
Siebenhüner 1954, pp. 85 sgg.,
figg. 47-48; Pietrangeli, De Angelis
d’Ossat 1965, pp. 37 sgg., figg. 24,
27; D’Onofrio 1973, pp. 196 sgg.,
figg. 132, 134; Argan, Contardi
1990, p. 258, figg. 318, 362; Ensoli
Vittozzi, Parisi Presicce 1991, p. 87,
figg. 7-8.
46
Siebenhüner 1954, p. 87, fig. 53;
Pietrangeli, De Angelis d’Ossat
1965, p. 89, figg. 28-29; D’Onofrio
1973, pp. 196 sgg., figg. 133, 135;
Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991,
pp. 89, 110, figg. 9, 11.
47
Sul cortile del Belvedere, cfr. Ackerman 1954; Brummer 1970; Pietrangeli 1985, p. 7; Winner, Andreae,
Pietrangeli 1998.
48
Inv. 59; alta 2,12 m. Stuart Jones
1912, pp. 40 sg., n. 41, tav. 6; Lippold 1950, p. 212 (elenco delle repliche). Per tutte le sculture prese in
considerazione in questo studio, ci si
limiterà a fornire i riferimenti bibliografici essenziali, rinviando ad altra
sede l’inquadramento critico con la
rassegna bibliografica completa.
49
Vasari, ed. Milanesi, 1878-1885,
vol. VII, p. 222 [ed. 1568].
50
Cavalieri 1585, tav. 76. Si veda
l’esemplare della collezione Lanciani:
Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86,
fig. 44.
51
Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86.
52
Bicci 1762, pp. 114 sgg. Ripubblicato successivamente da Michaelis
1890, pp. 60 sgg. e da Parisi Presicce
1994b, pp. 162-167.
53
ASC, Cred. I, vol. 27, fol. 227.
54
Inv. Boccapaduli 46-47, 49, 55, 59,
61 (quattro pezzi)-62, 71-73, 77,
128-143.
55
Bicci 1762, p. 117 nota; Forcella
1869, n. 62; Rodocanachi 1904, p.
148, nota 1.
56
Forcella 1869, p. 37, n. 62; Rodocanachi 1904, p. 149, nota 1.
57
Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 86.
58
Michaelis 1891, p. 37.
59
Stuart Jones 1912, pp. 363-374.
60
Inv. Boccapaduli 140 - Due putti
con uccelli e nidi in mano: Facchini 2.
61
Michaelis 1890, pp. 43-44, 65-66;
Stuart Jones 1912, pp. 375 sgg., appendix IV, ha identificato le sculture
gli anni dal 1534 al 1564
con Inv. Boccapaduli 89-95, 97-98,
104, 107-110, 111 (due pezzi), 115116, 120-127, tutte provenienti dalla “palazzina” (Casino Pio), ma alcune proposte non sembrano accettabili. Alcuni pezzi sono stati identificati
con opere conservate nelle gallerie
fiorentine.
62
Parisi Presicce 1996, pp. 108-115.
Delle dodici sculture collocate sulla
balaustra del palazzo dei Conservatori almeno sei provengono con certezza dal Belvedere vaticano (nn. 3,
5, 8, 9, 11, 12) e delle tre sostituite
in epoca recente con copie moderne,
almeno due probabilmente avevano
la stessa origine (nn. 1-2); nove furono messe in opera tra il 1568 e il
1586, le altre dopo la metà del secolo XVII, quando fu ultimato il palazzo Nuovo e i pilastri dei risvolti laterali furono raddoppiati: Parisi Presicce 1994b, pp. 153-158. Parisi
Presicce 1997c, pp. 109-113. Delle
otto statue collocate sulla balaustra
del Palazzo Senatorio alla fine del
XVI secolo, sei provengono con certezza dal Belvedere vaticano (nn. 1,
2, 3, 5, 7, 8; la n. 4 è una copia moderna; la statua femminile panneggiata denominata “Ceres”, n. 5, è riconoscibile in un’incisione di Philippe Thomassin che reca l’iscrizione “in Capitolio”, ma non la sua denominazione, incisa sul basamento
in epoca moderna, cfr. cat. 48): Parisi Presicce 1994b, pp. 148-153. Parisi Presicce 1995; delle dodici sculture collocate sulla balaustra del palazzo Nuovo (Museo Capitolino)
quattro provengono dal Belvedere
vaticano (nn. 1, 10, 11, 12), almeno
tre sono moderne (nn. 2, 4, 7) e delle altre cinque non è stato possibile
finora rintracciare alcuna notizia:
Parisi Presicce 1994b, pp. 158-162.
Parisi Presicce 1997c, pp. 113-118.
La descrizione di Aldrovandi 1556,
pp. 269 sgg., risale al 1550.
64
Forcella 1869, n. 62; Parisi Presicce
1994b, p. 140.
65
Pietrangeli, De Angelis d’Ossat
1965, p. 96, figg. 72-73; D’Onofrio
1973, p. 198, figg. 137-138.
66
Inv. 231, alta 2,03 m. Stuart Jones
1912, pp. 84 sg., n. 6, tav. 17; EA, nn.
406-408; Helbig 1966, n. 1173.
67
L’iscrizione è moderna: CIL, VI, n.
3448.
68
Nella scultura manca lo scudo, e il
braccio destro, di restauro a partire
dal gomito, è atteggiato in modo diverso rispetto alla stampa. La datazione delle incisioni, l’una del 1594 e
l’altra probabilmente del 16101622, indica che il Marte non faceva
parte del gruppo di sculture sistemate inizialmente sulla balaustra del palazzo dei Conservatori. In un conto
del 29 settembre 1572 a favore del
muratore Ludovico da Carona (citato
da Pecchiai 1950, p. 139) viene registrata la posa di una colonna con la
sua base per una statua di Marte,
identificabile verosimilmente con la
nostra scultura. La collocazione attuale della statua potrebbe risalire a
dopo la metà del XVII secolo, dal momento che non compare nella stampa
di C. Burette il giovane del 1649, che
raffigura la facciata del palazzo dei
Conservatori (De Angelis d’Ossat,
Pietrangeli 1965, p. 98, fig. 73).
69
Nell’edizione del 1569 le statue sono invertite.
70
Tra l’edizione del 1568 e quella del
1569 compaiono alcune varianti.
71
Le posizioni nella veduta del 1568
sono variate.
72
La presenza nella mano sinistra sollevata di un fiore o di un uccello consente di ipotizzare che si tratti di Flora o di “Dirce con la colomba”. La figura è assente nell’edizione del 1568.
63
Nella veduta del 1568 la statua di
destra ha un oggetto diverso.
74
Le due figure collocate sui piedistalli interni del pianerottolo delle due
rampe nell’edizione del 1569 sono
maschili.
75
Erato, Polimnia, Euterpe, Talia,
Memnosine e Urania.
76
Pecchiai 1950, p. 128.
77
ASC, Carte Boccapaduli, arm. II,
maz. IV, n. 52; Pecchiai 1950, p. 138.
78
Siebenhüner 1954, p. 85, fig. 49;
Pietrangeli, De Angelis d’Ossat
1965, p. 96, fig. 72; D’Onofrio 1973,
p. 197, fig. 136.
79
Pecchiai 1950, p. 128.
80
Ivi, p. 142.
81
ASC, prot. N. Piroti, anno 1583, ff.
172v e 25 degli allegati.
82
Pecchiai 1950, pp. 143 sg. I muratori Ludovico e Santi provvidero a
mettere in opera i travertini lavorati.
83
ASC, Cred. VI, vol. 24 passim.
84
Schück 1917; Ehrle 1932; De Angelis d’Ossat, Pietrangeli 1965, p. 86,
fig. 61; Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce
1991, p. 88, fig. 17.
85
Parisi Presicce 1994b, p. 148.
86
Forcella 1869, n. 42; Pietrangeli
1976, p. 58.
87
Parisi Presicce 1994b, p. 148, nota
74 (bibl. prec.).
88
Ivi, p. 135, note 4 e 5 (bibl. prec.).
89
Essi ricevevano 30 scudi ciascuno
all’anno per insegnare gratuitamente
ai ragazzi delle famiglie povere: G.
Gigli, Diario, Cod. Vat. 8717, pp.
287 sgg., citato da Rodocanachi
1904, p. 126, note 4-7.
90
Gigli, Diario, cit., p. 130.
91
Forcella 1869, n. 152.
92
L’iscrizione è citata in Locatelli
1750, p. 22.
93
ASC, Cred. VI, vol. 4, f. 16. Pubblicato da Rodocanachi 1904, p. 128,
nota 4.
94
Forcella 1869, n. 174.
73
157
1. Roma, palazzo Farnese, facciata
PALAZZO FARNESE
2. Roma, palazzo Farnese, pianta del piano terra
Emanuela Ferretti
Il contributo michelangiolesco alla definizione dell’immagine
complessiva di palazzo Farnese è uno dei temi portanti della
storiografia che si è occupata della grandiosa fabbrica del cardinale Alessandro Farnese e dei suoi successori1. Le indagini documentarie, insieme alle ampie ricognizioni condotte negli ultimi sessant’anni negli archivi e nelle collezioni grafiche di
musei e biblioteche italiani ed europei, ci consegnano un quadro ben articolato delle fasi costruttive e dei contributi portati
dai quattro architetti che si sono succeduti nella direzione del
cantiere: si tratta di un corpus di testimonianze scritte e iconografiche ricco e diversificato che, per i disegni in particolar
modo, è accompagnato dal consueto corollario di problemi
aperti, relativamente ad autografie e datazioni. Dal 1514 al
1602, Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo, Jacopo
Barozzi da Vignola e Giacomo della Porta, per volontà del cardinale Alessandro Farnese, poi papa col nome di Paolo III
(1534-1549), del figlio Pier Luigi (1503-1547), e dei nipoti
Ottavio (1523-1586), Ranuccio (1530-1565) e Alessandro
di Pier Luigi (1520-1589), hanno realizzato un’opera per
molti versi paradigmatica, che va a costituire un nodo significativo nello svolgimento sia del tema dell’architettura palaziale romana2 sia, più in generale, della grande residenza nobiliare italiana ed europea (figg. 1-2).
Nonostante alcune lievi divergenze interpretative ancora in
essere, la successione delle fasi costruttive e gli apporti delle
singole personalità artistiche sono questioni sostanzialmente
condivise3. Il cantiere di Antonio il Giovane che si apre nel
1514 viene distinto in due fasi principali, ovvero prima e dopo l’ascesa al soglio pontificio di Alessandro Farnese (1534),
158
con un cambio radicale nelle dimensioni e nella qualità complessiva della fabbrica in relazione alle nuove ambizioni e alle
nuove disponibilità economiche della committenza. Dal 1541
all’autunno del 1546 si colloca l’ultimo periodo sangallesco
che si conclude con la morte di Antonio (29 settembre 1546)4:
la fabbrica ha raggiunto un assetto complessivamente definito
in pianta e alzato, crescendo sui quattro lati in modo disomogeneo. Da questo momento in poi si apre la fase michelangiolesca che si protrae fino al 1549: si tratta di un periodo assai significativo che precede le due ultime stagioni di lavori5, quella
sotto la guida di Vignola (dal 1550-1573) e quella sotto la direzione di Giacomo della Porta (dal 1573-1602)6. Il contributo di Vignola si pone nel rispetto di quanto precedentemente
costruito e si attua soprattutto all’interno e nella definizione
di “diverse soluzioni grafiche per l’ala posteriore”7, porzione
del palazzo quest’ultima realizzata da Giacomo della Porta, il
quale sintetizza e rielabora soluzioni e temi già messi a punto
dai suoi predecessori in varie parti della fabbrica8.
Dopo la morte di Paolo III e l’impegno sempre più gravoso nel
cantiere di San Pietro in Vaticano, nonché a seguito delle richieste del nuovo pontefice Giulio III del Monte (15501555), Michelangelo si allontana dal cantiere della grande fabbrica farnesiana, che appare segnata profondamente dalle sue
modifiche caratterizzate da una precipua incisività formale,
senza tuttavia arrivare ad apportare quelle demolizioni o quegli stravolgimenti nell’impianto della fabbrica ben note nella
vicenda di San Pietro9. A palazzo Farnese, dunque, la committenza e il mantenimento dell’organigramma direttivo del cantiere10 portano a una efficace sintesi e a un positivo confronto
fra i due protagonisti della Roma di Paolo III, Sangallo e Michelangelo, molto lontani nella formazione, negli esiti stilistici e nel modus operandi.
I nodi critici che hanno segnato il dibattito storiografico ruotano intorno a due temi principali: da una parte, sulla consistenza della fabbrica al momento dell’ingresso di Michelangelo (autunno 1546), sia in facciata sia nei corpi che si affacciano sul
cortile, anche in relazione con le preesistenze quattrocentesche11; dall’altra, sulla qualificazione del fronte posteriore verso il giardino. Michelangelo opera infatti in tre parti del complesso: rivisitando la facciata sangallesca con il disegno di un
nuovo cornicione e con la modifica del partito plastico-architettonico della finestra centrale del piano nobile; intervenendo
nel cortile interno con un nuovo indirizzo di completamento,
caratterizzato dalla modifica dei fronti per il piano nobile e per
l’ultimo piano, e contraddistinto dalla variazione della spazialità e della geometria delle volte delle gallerie; riprogettando il
prospetto verso il secondo cortile-giardino al fine di inserire i
precedenti interventi in una più ampia cornice a scala urbana
volta ad accentuare l’asse visivo longitudinale del complesso
piazza-palazzo-giardino fin oltre il Tevere e in connessione con
la necessità di sistemare adeguatamente il gruppo scultoreo del
Toro Farnese, scoperto nell’agosto del 154512.
La rivisitazione della facciata sangallesca
Il racconto vasariano (1568) – che anticipa l’ingresso di Michelangelo nella fabbrica farnesiana in qualità di vincitore di
un concorso indetto da Paolo III per il cornicione del palazzo
nell’estate del 1546 ad alcuni mesi prima della morte di Antonio il Giovane (29 settembre 1546) – non viene accettato
in modo unanime dalla critica che tende a spostarne l’arrivo
solo dopo la scomparsa di Antonio da Sangallo13. L’intervento in facciata si manifesta nella realizzazione del nuovo cornicione (figg. 3-5) e nella trasformazione della finestra centrale del piano nobile (figg. 6-7), riprogettata sia nella morfologia complessiva sia nell’articolazione e qualificazione materica degli elementi architettonici che ne definiscono l’apertura. Nell’autunno del 1546 lo stato di completamento del
fronte era tanto avanzato che, dopo aver rialzato l’ultimo registro finestrato di circa 6 palmi (pari a circa 140 cm), nel
marzo del 1547, Michelangelo metteva in opera alla sommità della facciata nel tratto nord-ovest un grande modello ligneo al vero del nuovo cornicione (di circa 350 cm), come ricorda Vasari, per verificare l’effetto definitivo dell’inserimento: “La facciata di avante è quasi in alto per finita sino alli ultimi finestrati – scrive Prospero Mochi a Pier Luigi Farnese – sol vi manca il cornicione, qual ha da far gronda e finimento, del qual ne è stato messo un pezzo per pruova verso
gli anni dal 1534 al 1564
159
3. Roma, palazzo Farnese, facciata,
dettaglio del cornicione di Michelangelo
6. Roma, palazzo Farnese, facciata,
finestre del secondo piano
4. Alessandro Specchi, Studio di Architettura Civile,
Roma 1702, tavola di rilievo del cornicione
di Michelangelo in palazzo Farnese
7. Roma, palazzo Farnese, facciata,
portale e finestra centrale con stemmi marmorei
5. Roma, palazzo Farnese, facciata,
dettaglio del cornicione di Michelangelo
il canton di San Gironimo per satisfare Sua Beatitudine”14.
Michelangelo ripropone una pratica già sperimentata nei
cantieri di San Lorenzo a Firenze alla metà degli anni venti
del Cinquecento: qui l’artista aveva utilizzato modelli al vero, apportando anche consistenti modifiche al progetto dopo
una attenta osservazione in situ dell’effetto finale. Si tratta,
come è stato notato, di una prassi riconducibile all’esperienza dell’architettura effimera e a consuetudini ben radicate
nelle botteghe degli scultori toscani15. Proprio la messa in
opera del modello suscita le prime proteste dei più stretti
collaboratori di Antonio il Giovane a pochi mesi dalla sua
scomparsa. Il cantiere farnesiano, al pari di quello della basilica di San Pietro, diviene occasione di scontro fra Michelangelo e i componenti dell’entourage di Sangallo, spregiativamente appellati da Giorgio Vasari coll’espressione di “setta
sangallesca”16: il fratello minore di Antonio il Giovane, Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo17, e il suo stretto collaboratore Nanni di Baccio si scagliano contro l’opera michelangiolesca sventolando ora il vessillo del classicismo vitruviano (Giovan Battista da Sangallo), ora l’eccessivo peso del
cornicione (Nanni di Baccio), ritenuto la causa delle lesioni
che si erano presentate nel fronte, legate tuttavia a dissesti
nell’opera di fondazione18. L’operazione di Michelangelo assicura un nuovo slancio alla facciata e una definizione più accentuata dell’intero prospetto (cat. 50), riproponendo un
procedimento sperimentato alcuni decenni prima nella fabbrica di palazzo Strozzi dall’architetto fiorentino Simone del
Pollaiolo detto il Cronaca, il cui linguaggio è stato riconosciuto anche fra “le citazioni nascoste” della Sagrestia Nuova19.
Alla guida del grande cantiere di Filippo Strozzi dal 1490 al
1504, Cronaca introduce significative modifiche alla fabbrica, fra cui il celebre cornicione e il rialzamento del fronte. In
160
entrambi i palazzi l’imposta del cornicione è separata dall’ultimo registro finestrato da una sorta di attico, nel palazzo fiorentino contraddistinto da un paramento lapideo liscio, nel
palazzo romano decorato invece da una raffinatissima teoria
di gigli Farnese. Forti assonanze sono riscontrabili fra le
membrature dei due cornicioni20 che si differenziano principalmente per la presenza di un elemento squadrato21 al di sotto dei modiglioni farnesiani il quale, oltre a conferire ulteriore verticalità alla composizione, rende possibile la visione
completa dal basso del modiglione stesso (fig. 5). È noto che il
cornicione ideato dal Cronaca per palazzo Strozzi si ispira,
pur modificandone le proporzioni, a un prototipo antico riconosciuto da Vasari22 in poi in quello presente nelle rovine
presso la cosiddetta Spoglia Christi nel Foro di Traiano23. Si
tratta di evidenze archeologiche rilevate nei decenni a cavaliere fra Quattrocento e Cinquecento da molti artisti24, tra i quali
Bernardo della Volpaia autore principale dei disegni del Codice
Coner, celebre taccuino d’architettura oggi al Sir John Soane’s
Museum di Londra25, di cui alcuni disegni furono copiati da
Michelangelo nei fogli divisi fra il British Museum e la Casa
Buonarroti26. Recentemente è stato inoltre evidenziato che fra
le iscrizioni presenti su un gruppo di disegni di antichità romane, conservati nello stesso Sir John Soane’s Museum, è presente anche un esplicito riferimento a misurazioni effettuate
dall’artista proprio sulla cornice presso la Spoglia Christi:
“Questa cornice era presso a Spoglia Christi misurata con diligenza da Michelangelo sminuvita per metà, quale Michelangelo Bonarota la lodò asai et ne pigliò misura”27.
Nella puntuale critica di Giovan Battista da Sangallo al cornicione michelangiolesco28 – affidata a una lettera inviata a Paolo III
nella quale si argomenta il totale allontanamento di quest’opera
dai principi vitruviani della dispositio, ordinatio, eurythmia,
gli anni dal 1534 al 1564
symmetria, decor e distributio – traspare uno spirito che aveva
già animato il cosiddetto Memoriale indirizzato da Antonio il
Giovane a Leone X poco dopo la morte di Raffaello, nel quale si
criticavano sia il coro di Bramante sia il progetto raffaellesco per
San Pietro: “redatti a distanza di oltre un quarto di secolo i due
memoriali dimostrano con quanta costanza i due fratelli tendessero, nell’attività pratica come nelle ambizioni teoretiche, ad assumere Vitruvio come norma di comportamento”29, oltre che
come strumento di razionalizzazione del processo edilizio e
mezzo per affermare la propria superiorità culturale e professionale. In questo episodio si può inoltre intravedere la differenza
che separa l’approccio all’antico di Michelangelo da quello dei
Sangallo, informato da una prassi normativa che delinea l’ambi161
8. Roma, palazzo Farnese,
cortile
9. Roma, palazzo Farnese,
cortile, dettaglio degli ordini
12. Michelangelo Buonarroti,
Studio per cornice di finestra, 1546-1550.
Oxford, Ashmolean Museum, WA1846.79
10. Roma, palazzo Farnese,
cortile, dettaglio della
trabeazione ionica
11. Roma, palazzo Farnese,
cortile, dettaglio della finestra
e dell’ordine corinzio
to in cui si dispiegherà la sistematizzazione dei trattati nei decenni successivi (cat. 16)30. Michelangelo, studioso all’inizio del
Cinquecento delle testimonianze artistiche della Romanità come “primo scultore di Roma”31 e più tardi nella Firenze degli anni venti persino attento lettore del testo di Vitruvio32, si interessa alla grammatica piuttosto che alla sintassi del linguaggio classicista, con una sensibilità prossima agli artisti del tardo Quattrocento33. In questo contesto rientra anche il foglio di Casa Buonarroti 90 A recto (cat. 49; Corpus 590 recto), avvicinato in modo assai dubitativo alla fabbrica farnesiana34 e che, più in generale, sembra condividere le riflessioni sul libero assemblaggio dei
singoli elementi dell’ordine architettonico, che caratterizza anche la composizione del cornicione del cortile.
Più sottile, ma altrettanto incisiva, è la modifica della composizione della finestra centrale del piano nobile: Michelangelo
sostituisce l’apertura centinata di Sangallo con un sistema di
colonne trabeate, in ciò seguendo il precetto albertiano di collocare archi su pilastri e trabeazioni su colonne, operazione
che gli permette di ottenere lo spazio necessario per collocare
il monumentale stemma marmoreo con insegne papali (fig. 7).
Alla configurazione prevista da Sangallo, l’artista aggiunge
inoltre due ulteriori colonne di verde antico, matericamente e
cromaticamente distinte dal resto del partito architettonico35,
che vanno così a introdurre un ulteriore elemento di stacco rispetto al marmo bardiglio di Carrara della trabeazione, che
prosegue idealmente senza soluzione di continuità quella in
travertino delle edicole delle finestre36.
Una incisione di Nicolas Béatrizet, edita nel 1549 da Antonio
Lafrèry (cat. 50)37, e definita “rarissima” da Luigi Passerini alla
fine dell’Ottocento38, celebrava le trasformazioni di forte valenza plastica di Michelangelo della facciata farnesiana, architettura che venne elevata a vero e proprio emblema della medaglistica pontificia di Paolo III.
Un problema aperto riguardante la facciata è la datazione del
completamento del prezioso rivestimento laterizio dell’ultimo registro, datato da Christoph Frommel all’estate del
154939: come già notato in passato40, ma chiaramente emerso
nei recenti restauri, l’apparecchio murario è caratterizzato da
un particolare tema decorativo basato sulla definizione di
triangoli giustapposti, realizzati utilizzando mattoni rossi e
gialli disposti alternativamente di testa e di taglio; il decoro
della parte sinistra della facciata mostra una composizione
molto più ricca e regolare rispetto alla metà destra così da riecheggiare – in modo geometrico e stilizzato – tessiture materiche tipiche dei materiali venati, caratterizzanti i rivestimenti
in marmo “a macchia aperta”41. Le analisi condotte nei restauri sui due registri superiori della facciata non mostrano alcuna
traccia di scialbatura o intonaco (permangono d’altronde mol162
gli anni dal 1534 al 1564
ti e irrisolti quesiti sul grado di finitura che avrebbe dovuto
avere il piano terra), ma questo non vuol dire che non fosse
prevista alcun tipo di finitura; infatti, lasciando aperta la questione dell’autografia michelangiolesca riguardo a tale cortina
laterizia a facciavista (che avrà una certa fortuna in altre opere
romane coeve42, oltre che in palazzo Grifoni a Firenze di Bartolomeo Ammannati43), nel caso vi fosse stata applicata una
scialbatura di intonaco semitrasparente, la matrice geometrica
del rivestimento laterizio avrebbe creato effetti esplicitamente
imitativi simili ai rivestimenti marmorei “a macchia aperta”,
come ha notato acutamente Joseph Connors, dall’effetto persino antichizzante, con la conseguenza di un’immagine complessiva della fabbrica certamente meno severa e forse ancora
più sontuosa44.
163
13. Roma, palazzo Farnese,
facciata verso il giardino
L’intervento nel cortile
Al momento della morte di Antonio il Giovane, i quattro i corpi dell’edificio rivolti verso il cortile non mostravano lo stesso
avanzamento nella costruzione: la storiografia concorda nel ritenere il piano terreno completo su tutti i lati, sia nelle stanze
sia nei bracci porticati, a eccezione della parte centrale dell’ala
rivolta verso il giardino e del contiguo angolo sud-occidentale,
ancora da edificare nell’estate del 1549. La porzione del fronte, come già ricordato, era l’unica a mostrare un avanzato grado di completezza, con i due piani fuori terra conclusi e il terzo in fase di completamento. È stato ipotizzato che la costruzione sia stata realizzata non a porzioni verticali ma procedendo in orizzontale45, così da avere il maggior numero di ambienti abitabili, almeno al pian terreno; la costruzione del blocco
della residenza vera e propria era così resa indipendente dall’edificazione del loggiato al piano terra e delle rispettive sovrastanti gallerie. Questo procedimento permise a Michelangelo di cambiare la sezione delle volte degli ambienti del ricetto al piano nobile (la galleria addossata al lato della facciata),
passando da una volta a profilo semicircolare a una volta ad arco ribassato, al fine di lasciare, nei due bracci laterali più bassi
di quasi tre metri, lo spazio per i mezzanini con le rispettive
aperture ricavate fra i piedistalli dei pilastri dell’ultimo registro (fig. 8)46. Nella strutturazione dell’ordine ionico delle facciate sul cortile, Michelangelo porta avanti il progetto sangallesco, mettendo probabilmente in opera quegli elementi architettonici già in gran parte realizzati, a eccezione del fregio a
maschere e festoni con gigli farnesiani in travertino, riconosciuto come michelangiolesco insieme ai capitelli in marmo
bianco statuario (fig. 9)47. Anche le cornici delle finestre delle
arcate dei due bracci laterali del cortile al piano nobile sono as164
14. Giorgio Vasari il Giovane,
Pianta del piano terra di palazzo Farnese,
1549. Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 4629 A
segnate a Michelangelo48: queste ultime cornici sono le uniche
cinquecentesche, perché quelle delle finestre poste sui lati del
cortile corrispondenti alla facciata e al giardino sono state realizzate contestualmente alla chiusura delle rispettive arcate alla metà dell’Ottocento49. Il fregio dell’ordine ionico appare informato da una tridimensionalità scultorea animata da una
grande esuberanza decorativa, dove la lavorazione del travertino simile a quella del marmo è esaltata da Vasari50: il motivo
antiquario delle maschere e dei festoni, così trattato, arricchisce e vivacizza l’ordine ionico sangallesco (fig. 10).
Nella fase michelangiolesca rientra pienamente la progettazione dell’ultimo piano delle facciate verso il cortile (cat. 51). Paraste corinzie, ribattute in controparaste e innalzate su alto basamento, esemplato sul modello del Colosseo51, sostengono
una originale trabeazione che nelle brevi sezioni aggettanti
sulla verticale delle paraste richiama i ritmi compositivi degli
archi di trionfo (fig. 11). Le paraste inoltre delineano una griglia coerente con la geometria degli ordini dei piani sottostanti in cui si inseriscono articolate finestre, che trovano una preziosa documentazione iconografica nel disegno dell’Ashmolean Museum di Oxford (fig. 12, Corpus 589 recto): tale disegno
è stato collegato dalla storiografia più recente al cantiere farnesiano, la quale ha accettato le connessioni con i palazzi capitolini sviluppate da Andrew Morrogh52 e le ha interpretate come
una rivisitazione di elaborati concepiti nei decenni precedenti,
condotta dall’ormai anziano maestro (tra 1561 e 1563), a costituire un indicativo esempio del processo ideativo di Michelangelo, che a distanza di tempo rivisita e trasforma elaborati
grafici concepiti in contesti cronologici anche molto distanti53.
La finestra michelangiolesca dell’ultimo ordine del cortile di
palazzo Farnese si distingue per l’originalità della composizione, condividendo con le soluzioni elaborate per portali e finestre della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze lo stesso
spirito di scardinamento e ricomposizione del linguaggio classicista, portato qui a un ulteriore grado di avanzamento, che
traspare dalla modalità con cui si manifesta il montaggio delle
parti54. Tre risalti caratterizzano la cornice del timpano curvilineo, il cui interno è arricchito dalla presenza di un bucranio
con i canonici festoni. Una singolare trabeazione, articolata in
due risalti55, separa il frontone dalla finestra vera e propria, le
cui incorniciature in travertino si compongono di una prima
mostra che circonda sui quattro lati l’apertura e da una seconda mostra che corre su tre lati: in quest’ultima l’elemento orizzontale superiore piega verso il basso creando lo spazio per la
collocazione delle due protomi leonine con anello nelle fauci,
motivo che sembra derivato da analoghi esempi presenti nei
sarcofagi e nelle vasche romane d’età imperiale56. Sotto le teste
leonine si trovano mensole a squame poggianti su allungati
triglifi, mentre borchie (o forse piccole patere desunte e decontestualizzate, come i sovrastanti triglifi, dal ricordo di una
trabeazione dorica) si osservano nella parte terminale della
cornice, con una posizione che ne rievoca e trasfigura la funzionalità quale elemento metallico di fissaggio alla parete.
Il prospetto verso il giardino
Nel 1560, forse per evitare che il progetto michelangiolesco
dell’ala posteriore fosse stravolto o dimenticato57, veniva pubblicata da Antonio Lafrèry una incisione che doveva tramandare lo “stupendo artificio” messo a punto da Michelangelo
per il fronte posteriore: l’elaborazione michelangiolesca aveva
avuto la definizione finale nel luglio 1549 con il pagamento
del modello “delle logge” al legnaiolo Giovanni Pietro, ma la
morte del papa nel dicembre dello stesso anno e probabilmente l’onerosità dell’opera ne avevano compromesso la realizzazione58, portata avanti solo nei decenni successivi da Jacopo
Vignola e Giacomo della Porta, al quale si deve in particolare la
facies definitiva della porzione verso il giardino, conclusa nel
1589 (fig. 13).
L’esistenza di una proposta autonoma di Michelangelo per
questa porzione della fabbrica ha suscitato un grande interesse nella critica, cui fa riscontro la oggettiva scarsità di elementi disponibili per ricostruire in modo univoco i contenuti e le
scelte del progetto michelangiolesco59. In generale, il tema della definizione del prospetto di una residenza urbana o peri-urbana, nella sua connessione con uno spazio aperto retrostante
– spesso un vero e proprio giardino – attraversa la cultura architettonica rinascimentale, andando a interessare principalmente fabbriche collocate nelle aree della città dove la maglia
dell’edificato si allarga e dove si dispiegano le valenze della panoramicità delle visuali da valorizzare, o dove la topografia
crea dislivelli che possono essere regolarizzati attraverso l’architettura; si manifestano così varie proposte, aperte a una feconda sperimentazione di soluzioni diverse, che si muovono
intorno al tema delle logge e dei bracci porticati, grazie a proficue contaminazioni sia con l’architettura di villa, sia con le riflessioni teoriche e le sperimentazioni sulla riproposizione
della “casa all’antica”.
Prima dell’arrivo di Michelangelo nel cantiere farnesiano, la
definizione del corpo di fabbrica prospettante verso lo spazio
che divide il palazzo da via Giulia, secondo il progetto di Antonio da Sangallo, è nota attraverso il disegno relativo al piano terra conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 298 A recto e datato agli anni 1540-154160. Il motivo principale è costituito dalla presenza di una loggia centrale incassata a sole tre arcate e preceduta da una sorta di spoglio e corto vestibolo perpendicolare, che ripropone una soluzione
gli anni dal 1534 al 1564
ampiamente sperimentata in quegli stessi anni in varie parti
della penisola dai protagonisti della nuova architettura rinascimentale61, ma che aveva trovato precoci utilizzazioni nelle
opere di Giuliano da Sangallo (come la villa di Poggio a Caiano)62. Nella fase sangallesca di palazzo Farnese risulta inoltre
impostato tutto il settore dell’angolo sud-orientale della fabbrica, a costituire un elemento importante per le fasi successive di cantiere63.
Che Michelangelo abbia elaborato una propria proposta progettuale in una porzione del palazzo così funzionalmente delicata rispetto alle connessioni fra le varie parti dell’edificio e
soprattutto così importante per l’organizzazione delle visuali
è noto da tre fonti, variamente utilizzate dalla storiografia: il
pagamento del luglio 1549 relativo al “modello delle logge del
palazzo verso il giardino”; l’incisione edita da Antonio Lafrè165
ry del 1560; il ricordo vasariano (1568), che amplia e arricchisce l’attestazione del 1548 di Averardo Serristori, ambasciatore fiorentino a Roma, soprattutto riguardo la esplicitazione
della funzione della loggia quale filtro e connessione fra le varie parti che articolano il complesso, materializzando il concetto di “permeabilità visiva” fino a una dimensione che supera la scala strettamente architettonica e si proietta nel contesto
urbano64. Oltre alle citate tre fonti, si ha poi un gruppo di elaborati planimetrici assai difficile da interpretare perché attestanti una configurazione ritenuta estranea sia alle elaborazioni sangallesche sia a quelle michelangiolesche e che vale la pena riconsiderare65. Si tratta di tre piante, rispettivamente conservate a Firenze, a Berlino e a Vienna, molto probabilmente
derivate da un unico originale, di cui la prima porta la data del
12 maggio 1549.
A proposito della conformazione della loggia, e più in generale dell’assetto complessivo del fronte posteriore, James Ackerman scrive:
Nel progetto corrispondente all’incisione [edita da Lafrèry]
il corpo centrale dell’ala posteriore del Sangallo viene ridotto alla profondità di una sola campata, il che permette la costruzione di un diaframma semitrasparente formato da tre
logge sovrapposte. […] la facciata verso il giardino può essere schematizzata come una U, in cui la base è formata dalle
logge e i lati dai due blocchi sporgenti che seguono – con larghezza leggermente minore – le fondazioni di Sangallo.66
Su questa linea si colloca anche l’ipotesi di Frommel, che propone un grafico ricostruttivo e ragiona sulla possibile conformazione dei due avancorpi verso il giardino, sviluppando un
confronto con l’assetto planimetrico della villa Farnesina di
Baldassarre Peruzzi, già suggerito da Ackerman e ripreso dalla
letteratura successiva67. L’incisione, di mano ignota, edita da
Lafrèry nel 1560 e inserita nello Speculum Romanae Magnificentiae non sembra tuttavia esente da ambiguità interpretative
(cat. 3). Viene documentata una conformazione al piano terra
senza logge, dove si vede un muro con aperture rettangolari
fiancheggianti un ampio fornice centrale, diversa rispetto al
piano nobile che mostra un interessantissimo assetto “a cannocchiale” (tre fornici aperti verso il cortile e cinque verso il
giardino); non sembra inoltre possibile ricavare da questa testimonianza iconografica l’effettiva profondità del corpo centrale rispetto alle due porzioni angolari, non potendosi valutare con esattezza la geometria della volta della loggia del piano
nobile (e quindi la sua ampiezza trasversale) che potrebbe presentare anche un profilo ribassato68.
Tornando poi alle affini planimetrie di Firenze (fig. 14), Vien166
na e Berlino (datate poco prima del modello michelangiolesco
delle logge del 1549)69, esse sono state giudicate lontane sia dal
progetto di Sangallo che da quello di Michelangelo70: la parte
centrale dell’ala posteriore è occupata da un profondo corridoio, che attraversa tutta la profondità del corpo di fabbrica e che
disimpegna gli ambienti degli angoli sud-ovest e sud-est, secondo una conformazione diversa sia da quella documentata
nella pianta sangallesca Uffizi 298 A recto sia dall’organizzazione spaziale adombrata nell’incisione. Nel disegno fiorentino si deve comunque sottolineare la particolarità di una didascalia con datazione così puntuale che potrebbe documentare,
piuttosto, una scelta diversa o alternativa (ma non totalmente
estranea ad analoghe soluzioni rinascimentali) da ciò che
avrebbe mostrato, soltanto due mesi dopo, il modello ligneo
appositamente commissionato da Michelangelo al legnaiolo
Giovanni Pietro: se in queste planimetrie viene rispettato lo
schema sangallesco nella configurazione generale (profondità
del corpo di fabbrica e distribuzione degli ambienti), non possiamo invece conoscere lo sviluppo del corpo centrale ai piani
superiori, trattandosi di elaborati che registrano solo l’assetto
del piano terreno71.
Nella difficoltà di determinare la qualità e l’articolazione delle
logge michelangiolesche aperte sul fronte posteriore di palazzo Farnese, è possibile comunque riconoscerne l’estremo valore concettuale sia a scala architettonica sia a scala urbana.
Giorgio Vasari scrive:
E perché s’era trovato in quell’anno alle Terme Antoniane
un marmo di braccia sette per ogni verso, nel quale era stato dagli antichi intagliato Ercole che sopra un monte teneva il toro per le corna, con un’altra figura in aiuto suo, et intorno a quel monte varie figure di pastori, ninfe et altri animali – opera certo di straordinaria bellezza per vedere sì
perfette figure in un sasso sodo e senza pezzi, che fu giudicato servire per una fontana –, Michelagnolo consigliò che
si dovessi condurre nel secondo cortile e quivi restaurarlo
per fargli nel medesimo modo gettare acque: che tutto
piacque. La quale opera è stata fino a oggi da que’ signori
Farnesi fatta restaurare con diligenzia per tale effetto. Et allora Michelagnolo ordinò che si dovessi a quella dirittura
fare un ponte che attraversassi il fiume del Tevere, acciò si
potessi andare da quel palazzo in Trastevere a un altro lor
giardino e palazzo, perché, per la dirittura della porta principale che volta in Campo di Fiore, si vedessi a una oc[c]hiata il cortile, la fonte, strada Iulia et il ponte e la bellezza dell’altro giardino, fino all’altra porta che riusciva nella strada
di Trastevere: cosa rara e degna di quel Pontefice e della virtù, giudizio e disegno di Michelagnolo.72
L’ambasciatore Averardo Serristori, assiduo frequentatore del
palazzo, aveva già riferito questa notizia: “Vive intanto Sua
Beatitudine nell’estrinseco molto allegramente et in non lasciare parte del suo Palazzo ch’ella non vogli vedere; v’ha dentro una grande delettatione. Hier mattina andò al suo giardino
in Trastevere e perché ebbe a allungar el cammino per ponte
Sisto, ha disegnato che si faccia un ponte di legname sopra il
Tevere che sarà a linea retta del Palazzo a detto giardino”73.
Analizzando tanto il testo vasariano quanto il racconto di Serristori vi si riconoscono due aspetti, complementari ma distinti: la creazione, a livello del pianterreno, di un asse visivo
sulla successione piazza-atrio-cortile-giardino con il fulcro visivo nel Toro Farnese e l’apertura di una visuale prospettica
che si prolunga fino alle vigne Farnese oltre il Tevere. In questo caso la percezione dell’asse visivo, sulla base della configurazione dell’area74, sarebbe potuta divenire pienamente apprezzabile almeno dal secondo piano, superando così una dimensione altrimenti soltanto ideale. Una sequenza di spazi articolata intorno a episodi scultorei monumentali era già stata
sperimentata a Firenze nel secondo Quattrocento in palazzo
Medici75, sistemazione aggiornata poi da Antonio da Sangallo
il Vecchio fra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento
con un progetto, non realizzato, di nuovo allestimento architettonico dei fianchi del giardino del palazzo che includeva la
collocazione della copia del Laocoonte di Baccio Bandinelli e
una monumentale e utopica statua di Clemente VII, da realizzarsi dallo stesso Michelangelo sulla piazza di San Lorenzo, oltre il giardino e verso la chiesa76. L’intuizione michelangiolesca
riguardo a un progetto architettonico a valenza urbana rappresenta un ulteriore passaggio nell’elaborazione di queste tematiche che conosceranno sviluppi e sperimentazioni ulteriori
nella seconda metà del secolo, in particolare nei cantieri vignoleschi77. In un interessante gioco di specchi, si può aggiungere
che il tema del rapporto di un fronte posteriore di palazzo in
relazione a un retrostante giardino, organizzato lungo un asse
sottolineato da elementi scultorei monumentali (fontane), si
gli anni dal 1534 al 1564
ritrova a Firenze sul finire del quinto decennio del Cinquecento, contrassegnando il dibattito sulla configurazione da assegnare al fronte posteriore di palazzo Pitti verso il giardino di
Boboli, prima della definitiva sistemazione ammannatiana78.
Le valenze del progetto di Michelangelo verso Trastevere appaiono ancora più significative se si considera che tale concatenazione assiale si trova specularmente ribaltata nella maglia
urbana dall’altro lato del palazzo con il sistema piazza Farnese
-via del Baullari-via Papale79: in questo caso si tratta di un intervento messo a punto negli anni precedenti, ma con una decisiva accelerazione proprio alla fine del pontificato farnesiano, quando venne data valorizzazione alla piazza anche e soprattutto attraverso un nuovo disegno della pavimentazione,
attestato nell’incisione di Béatrizet del 1549 (cat. 50). A tale
proposito, Wofgang Lotz ha infatti ipotizzato che tale disegno
sia ascrivibile a Michelangelo, come se l’architetto volesse materializzare il reticolo prospettico convergente verso il palazzo, proiettandolo idealmente oltre il fiume80.
Pur nella brevità della presenza michelangiolesca nel cantiere
farnesiano, i suoi interventi rimangono significativi, esplicitando ancora una volta il suo caratteristico approccio all’architettura, animato da un rapporto dialogico con la scultura e da
un particolare e variegato interesse per l’antico, il primo declinato nella profonda conoscenza delle valenze cromatiche e
materiche dei diversi materiali da costruzione, il secondo concepito come un inesauribile repertorio cui attingere per dare
nuova vita e nuovi significati a un linguaggio che, ai suoi occhi,
non è possibile né opportuno ricondurre e limitare a un arido
complesso di regole. Si riconosce infine anche in questo episodio la sensibilità di Michelangelo nel superare la dimensione
strettamente architettonica nella progettazione, dilatando la
razionalizzazione dei processi ideativi e costruttivi alla compagine urbana con la quale si intesse un fecondo dialogo che,
coinvolgendo sempre la scultura, raggiunge esiti non lontani
dal paradigmatico esempio della progettazione di piazza del
Campidoglio.
167
Ackerman 1961, vol. I, pp. 75-88,
vol. II, pp. 67-82; Bonelli 1964; F.
Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 901-909; L. Salerno,
scheda, in Salerno, Spezzaferro, Tafuri 1973, pp. 472-488; Frommel
1973, vol. II, pp. 140-144; Frommel
1981; Lotz 1981, pp. 230-236;
Spezzaferro 1981; Ackerman 1988,
pp. 79-91, 229-248; Di Mauro
1988; Eiche 1989; Argan, Contardi
1990, pp. 239-251; B. Contardi,
scheda 19, in Argan, Contardi 1990,
pp. 264-271; Frommel 1994c; Bruschi 1996, pp. 40-43, 105-106;
Conforti 2001, pp. 26-31; Bruschi
2002c, pp. 196-198; Frommel
2002; Tuttle 2002; Cherubini 2003;
Fagiolo 2007, pp. 81-83.
2
Frommel 1994c; Bruschi 1996, pp.
39-53, 102-106; Conforti 2001, pp.
29-30.
3
Ackerman 1961, vol. I, pp. 75-88;
Frommel 1981; B. Contardi, scheda
19, in Argan, Contardi 1990, pp.
264-271.
4
Frommel 1994c, p. 6.
5
Uginet 1980; Frommel 1981, pp.
160 sgg; Ackerman 1988, p. 238.
6
Lotz 1981; Tuttle 2002.
7
Tuttle 2002, p. 196.
8
Lotz 1981, pp. 236 sgg.; Conforti
2001, p. 32.
9
Ackerman 1988, p. 83.
10
Frommel 1981, p. 160.
11
Di Mauro 1988; B. Contardi, scheda
19, in Argan, Contardi 1990, p. 264.
12
Prisco 1991.
13
Così Ackerman 1988 e B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi
1990.
14
Lettera di Prospero Mochi a Pier
Luigi Farnese, 2 marzo 1547, documento noto alla storiografia tardo ottocentesca e ripubblicato in Frommel 1973, vol. II, p. 110, doc. 55.
15
Mussolin 2006, p. 93.
16
Per i contrasti fra Michelangelo, la
“setta sangallesca” e Nanni di Baccio,
si veda in particolare Wittkower
1968, ma soprattutto le considerazioni in Conforti 2002, pp. 78-80.
17
Per le notissime lettere di Giovan
Battista da Sangallo a Paolo III e di
Giovan Francesco Ughi a Michelangelo dove si riferisce delle accuse di
Nanni di Baccio, si vedano rispettivamente, Pagliara 1982, pp. 28-29,
1
168
33-34 (con bibliografia precedente),
e Gotti 1875, vol. I, p. 310; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi
1990, p. 265.
18
B. Contardi, scheda 19, in Argan,
Contardi 1990, p. 265.
19
Tafuri 1991.
20
Bonelli 1964, p. 614; Conforti
2001, p. 27.
21
Bonelli 1964, p. 614.
22
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. IV, p. 444.
23
Pacciani 1998, p. 360, con bibliografia precedente; per la collocazione
nella topografia dei Fori delle rovine
non più esistenti denominate Spoglia Christi, cfr. Passigli 1989, pp.
323-324 e Viscogliosi 2000, p. 91,
l’autore suggerisce che il muro sottostante alle membrature dovesse essere rivestito da marmi colorati.
24
Viscogliosi 2000, p. 148.
25
Per il taccuino, cfr. Ashby 1904;
Wilde 1953a, pp. 31-35; Buddensieg 1975 (che per primo ha identificato l’autore dei rilievi dall’antico in
Bernardo della Volpaia, collaboratore dei Sangallo); Agosti, Farinella
1987a, pp. 25-27; Nesselrath 1992,
speciatim pp. 154-157; Burns 2006,
pp. 31-36; l’argomento è stato trattato da Caroline Elam nella conferenza Esecuzione e recezione del Codice Coner. Bernardo della Volpaia,
Baccio d’Agnolo e Michelangelo, tenutasi presso il Kunsthistorisches
Institut di Firenze il 10 giugno
2008, nella quale è stato proposto di
riconoscere in quella di Baccio
d’Agnolo la terza mano del codice.
26
La trabeazione indicata come Spoglia Christi è spesso confusa con l’assai simile trabeazione “delle Colonnacce”; la prima è disegnata nel Codice Coner a c. 67v (Ashby 1904, n.
88), ma non appare fra i disegni ricopiati da Michelangelo; la seconda
presente nel Codice Coner a c. 68v,
(identificata in Ashby 1904, n. 89) è
stata ridisegnata da Michelangelo nel
solo dettaglio dell’architrave nel foglio del British Museum (inv. n.
1859-6-25-560/2r B; Corpus 511
recto); cfr. Agosti, Farinella 1987a,
pp. 98-99, fig. 1, disegno “B”.
27
Fairbairn 1998, vol. I, p. 354, n.
527; C. Brothers, scheda 3, in Elam
2006, p. 165, nota 5.
Pagliara 1982.
Pagliara 1986, pp. 47, 53-54.
30
Ivi, p. 55.
31
Lettera di Cesare Trivulzio a Pomponio Trivulzio del primo giugno
1506, ricordata in Agosti, Farinella
1987a, p. 23.
32
Ivi, pp. 36-37; Ferretti 2004, p.
457.
33
Bruschi 2000, pp. 37-38.
34
Il foglio è stato riconosciuto come
appartenente alle elaborazioni per il
cornicione del cortile, in Barocchi
1962-1964, vol. I, p. 194.
35
Gnoli 1988, p. 59.
36
Grande attenzione per i materiali
impiegati nella finestra monumentale nel suo complesso è mostrata da
Conforti 2001, p. 29.
37
Si veda anche la scheda 45, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 59; Fagiolo,
Madonna 1985, p. 165.
38
Passerini 1875, p. 285; un commento all’incisione si trova in Ackerman 1961, vol. II, p. 77.
39
Frommel 1981, p. 160.
40
Pagliara 1980, p. 40.
41
Cherubini 2003, p. 63.
42
Tuttle 2002.
43
Ruschi 1995, p. 309; su palazzo
Grifoni a Firenze, cfr. il saggio di
Claudia Echinger-Maurach in questo
stesso catalogo.
44
Connors 2004, p. 199, propone
come scelta di Michelangelo una più
sobria soluzione con opera laterizia a
vista; per la qualità della finitura del
registro del piano terra e dei registri
superiori, si veda Cherubini 2003,
pp. 61-62 (che ricorda la strutturazione del dispositivo murario come
composta da un nucleo solido di tufo e materiali di recupero legati con
calce e pozzolana, rivestiti di una
preziosa “pelle” in laterizio); sull’argomento si vedano anche le considerazioni in Lange 1990.
45
Ackerman 1988, p. 241; si veda
anche Eiche 1989.
46
Frommel 1981, pp. 163 sgg.; B.
Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270.
47
Frommel 1981; per l’analisi dei
materiali utilizzati, cfr. Cherubini
2003, p. 70.
48
Così Frommel 1981, ma di diversa
opinione è Ackerman 1961, che le
ritiene di Vignola.
28
29
49
B. Contardi, scheda 19, in Argan,
Contardi 1990, p. 270.
50
Cherubini 2003, p. 70.
51
B. Contardi, scheda 19, in Argan,
Contardi 1990, p. 270. La base della
parasta è separata dal piedistallo da
una sorta di alto dado.
52
Morrogh 1994; per la complessa
fortuna critica del disegno, si veda
Joannides 2007, pp. 262-269; lo
studioso associa il disegno a palazzo
Farnese, ricordando inoltre l’analoga
posizione in Elam 2001; si veda anche C. Elam, scheda 21r, in Elam
2006, pp. 202-203.
53
Hedberg 1972, pp. 63-69; Joannides 2007, p. 267.
54
Morolli 1993, pp. 141-142; in
particolare, per le similitudini fra i
disegni dell’Ashmolean Museum
(Parker 1953, n. 332; Corpus 605
recto; Parker 1953, n. 333r; Corpus
589, quest’ultimo sovente avvicinato alla finestra dell’ultimo registro di
palazzo Farnese), e i progetti per portali e finestre della Biblioteca Laurenziana, si vedano ora le significative
considerazioni in C. Elam, scheda
21r, in Elam 2006, pp. 202-203;
inoltre C. Brothers, scheda 141, in
Elam 2006, pp. 188-189.
55
La trabeazione del frontone curvilineo è caratterizzata da due blocchi
d’appoggio (con singolari terminazioni a guttae) notevolmente disassati rispetto agli stipiti della cornice sottostante; tale soluzione non trova riscontro né nell’incisione edita da Lafrèry – che come si dirà mostra tuttavia molte ambiguità interpretative –
né nel disegno di Oxford (Parker
1953, n. 333, Corpus 589), dal momento che incisione e disegno collocano i blocchi d’appoggio in asse con
gli stipiti sottostanti; tali documenti
grafici, per la loro natura, non possono essere considerati decisivi per determinare che le membrature delle
trabeazioni delle finestre siano lontane dalle intenzioni di Michelangelo;
si può notare che una tale trabeazione
accentua da un lato l’autonomia dell’apertura vera e propria con le sue incorniciature, dall’altro enfatizza la
morfologia e la dimensione del frontone nel serrato impaginato della parete; una analisi formale di questa finestra è in Frommel 1981, p. 166.
Ambrogi 1995, p. 25.
Frommel 1981, p. 161.
58
Ibidem.
59
Ackerman 1961, vol. I, pp. 86-88;
Frommel 1981, pp. 161-164; B. Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi
1990, p. 271; Conforti 2001, p. 29.
60
Frommel 1981, pp. 156-157; B.
Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 264.
61
Frommel 1994a.
62
Pellecchia 1989; Frommel 1994a.
63
Ackerman 1988, p. 246; Frommel
1981, p. 162.
64
Fagiolo 1984, p. 219.
65
Questi tre documenti grafici (rispettivamente: Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi A 4927 A recto;
Berlino, Staatliche Museen,Kunstbibliothek, Hzd 4151; Vienna, Albertina, Arch. n. 1073) sono analizzati
in Ackerman 1988, pp. 242-243;
Frommel 1981, pp. 168-169; B.
Contardi, scheda 19, in Argan, Contardi 1990, p. 270. La veduta del cortile dell’anonimo fiammingo di
Braunschweig (1554-1560), pubblicata in Frommel 1973, vol. III, p.
59, non sembra fornire elementi importanti per comprendere lo stato
della parte posteriore della fabbrica,
ribadendo piuttosto l’esistenza al
piano terra di un muro con un grande fornice che separa il braccio porticato del cortile dal giardino e che costituisce il fondale per le due statue
di Ercole.
66
Ackerman 1988, p. 242; in Ackerman 1961, vol. I, p. 87 si parla esplicitamente di una riproposizione del56
57
gli anni dal 1534 al 1564
lo schema della villa Farnesina di Peruzzi.
67
Frommel 1981, pp. 165-166; Lotz
1981, p. 231; B. Contardi, scheda
19, in Argan, Contardi 1990, p. 264;
Conforti 2001, p. 28.
68
Se resta ampiamente condivisibile
la proposta ricostruttiva di una configurazione a U, ipotizzando una sezione molto ribassata della volta delle logge del piano nobile, si può immaginare un corpo centrale loggiato
di profondità più consistente e quindi con ali laterali meno pronunciate.
69
Il disegno degli Uffizi è di Giorgio
Vasari il Giovane, che alla fine del
Cinquecento realizza una raccolta di
disegni che documentano molte fabbriche, principalmente fiorentine
(Olivato 1970; Stefanelli 1970). A
palazzo Farnese vengono dedicati altri due disegni, già noti ad Ackerman: una rappresentazione della facciata, con la finestra michelangiolesca, ma senza il cornicione (Uffizi
4939 A), rappresentato in modo approssimativo in un altro foglio (Uffizi 4629 A), Ackerman 1961, vol. II,
p. 73; nel volume Porte e Finestre di
Firenze e Roma disegnate dal Cavalier Giorgio Vasari degli Uffizi, si trova un disegno della finestra michelangiolesca dell’ultimo registro del
cortile: Uffizi 4702 Ar (Olivato
1970, p. 198); nel corpus degli elaborati del nipote dell’Aretino emerge
chiaramente la particolarità della datazione del disegno e della didascalia
(“Questa è la pianta del Palazzo di
Farnese di Roma di mano di messer
Antonio da Sangallo con l’aggiunta
di Michelangelo Buonarruoti e di
quello che vi mancha, fatto oggi questo dì 12 di maggio 1549”), Olivato
1970, p. 228, nota 100; non è da
escludere che tale disegno sia derivato da un originale, poi perduto, che
Vasari il Giovane ha potuto osservare, circostanza ipotizzata per un altro
disegno dello stesso autore (Uffizi A
4686) che rappresenta il fronte della
cappella di Leone X in Castel Sant’Angelo, per il quale si rimanda al
saggio di Mauro Mussolin in questo
catalogo. Una data così puntuale nella didascalia del foglio Uffizi 4927
Ar riguardante palazzo Farnese potrebbe spiegarsi considerando il disegno in connessione con un capitolato, oppure con una lettera o un pagamento, allegato al disegno e registrato da Vasari il Giovane.
70
Ackerman 1988, pp. 243-244.
71
Se si deve dar credito al Memoriale
di Guglielmo della Porta del 1574, a
tale data i progetti di Michelangelo
per quella parte della fabbrica non furono rintracciati, Lotz 1981, p. 233.
72
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 224; per il ritrovamento
del Toro Farnese e i restauri compiuti al tempo di Paolo III e, poi, del cardinale Alessandro, si veda Prisco
1991, p. 47.
73
Lettera di Averardo Serristori a Cosimo I da Roma, 21 di luglio 1548,
Archivio di Stato di Firenze, Mediceo
del Principato, 3267, c. 132, citata in
Navenne 1914 e ripresa in Frommel
1973, vol. II, p. 111.
Frommel 1981, p. 168.
Caglioti 2000, vol. I, pp. 101-152,
359-379, vol. II, tav. 18. L’importanza di palazzo Medici nel contesto
romano è stata sottolineata, per
esempio, nel caso dell’organizzazione della sequenza degli spazi edificati e degli spazi aperti nel bramantesco palazzo Castellesi in Borgo, Bruschi 1989, p. 29.
76
Satzinger 1996; Zampa 2007. Vasari usa parole molto simili per descrivere la concatenazione visiva che
caratterizza la sequenza degli spazi
in palazzo Medici quando critica la
collocazione dell’Orfeo-Apollo di
Bandinelli che andava a interrompere, a suo dire, proprio l’asse visivo dal
portale d’ingresso fino al giardino retrostante, Vasari, ed. Milanesi 18781885, vol. VI, p. 144.
77
Fagiolo 1984, p. 219.
78
Belli 2006; Ferretti 2006; per i lavori di Ammannati a palazzo Pitti,
si veda Belluzzi 2006 con bibliografia precedente. Ammannati nella
fabbrica di Pitti combina i due
aspetti: da un lato l’ampliamento
dell’asse visivo dal piano nobile
verso il giardino di Boboli, dall’altro
la permeabilità degli spazi al pian
terreno nella successione piazza,
androne, cortile, secondo una visione organizzata e diretta verso l’ingresso della grotta di Mosè al fondo
del cortile stesso.
79
Spezzaferro 1981; Fagiolo, Madonna 1985, pp. 160-161.
80
L’ipotesi di Lotz è ricordata in Ackerman 1961, vol. I, p. 88.
74
75
169
1. Domenico Cresti da Passignano,
Michelangelo presenta al papa il modello per il
completamento di San Pietro, circa 1618-1619.
Firenze, Casa Buonarroti, inv. 225
SAN PIETRO IN VATICANO
Alessandro Brodini
Michelangelo fu incaricato di occuparsi della nuova basilica di
San Pietro in Vaticano quando la sua ricostruzione era già iniziata da quarant’anni. Nella lunga storia di questa impresa colossale, che si concluse solo nel secolo successivo, la fase michelangiolesca può essere valutata come un piccolo frammento, di soli diciassette anni, che però si rivelò sotto molti
aspetti decisivo per la configurazione definitiva della chiesa
più importante della cristianità. Nonostante i quattro decenni già trascorsi e la schiera di importanti architetti che vi avevano preso parte, la fabbrica era ancora molto lontana dal
completamento e per Paolo III (1534-1549) la questione si
configurava ormai come un grosso problema: il papa che aveva promosso l’apertura del Concilio di Trento non voleva più
ignorare che uno dei motivi della protesta luterana era proprio il finanziamento del nuovo edificio. Per il pontefice San
Pietro doveva diventare il simbolo del riconquistato ruolo
della Chiesa dopo la scissione.
Con l’arrivo di Michelangelo si concluse finalmente la prima
fase del cantiere vaticano che, per quanto si possa considerare
un eccezionale laboratorio di idee, pareva esser caratterizzato
da una duplice anima. Da un lato vi era la vicenda costruttiva
dell’edificio vero e proprio che progrediva con velocità e ritmi
diversi a seconda dei momenti, dall’altro si dispiegava tutta la
lunga serie di progetti e controprogetti che spesso non tenevano conto di quanto già costruito o previsto precedentemente
e, in diversi casi, si inoltravano nell’affascinante territorio dell’utopia. Due strade parallele e spesso indipendenti che certamente non favorivano la conclusione della basilica.
Data l’importanza dell’edificio, e la sua eccezionalità da vari
170
punti di vista, la storia del San Pietro michelangiolesco può essere delineata con l’aiuto di diverse fonti quali documenti di
cantiere, lettere, contratti, disegni di Michelangelo e di altri artisti, vedute, incisioni e rappresentazioni ad affresco, nonché
testimonianze di contemporanei come Giorgio Vasari e Ascanio Condivi1. Tuttavia le informazioni che si possono ricavare
da questa messe di dati non raramente sono in contraddizione
tra loro e vi è dunque una serie di questioni che le fonti non
riescono a trarre dall’ombra. Ciò è dovuto in gran parte a Michelangelo stesso: è ben noto quanto egli fosse restio a mostrare ad altri gli esiti del suo pensiero in fieri, tanto che poco prima di morire decise anche di bruciare molti dei disegni che
aveva in casa2; ma il motivo principale va ricercato nel fatto
che, conformemente al suo modo di operare, Michelangelo
non redasse mai un progetto globale e definitivo per San Pietro. La perenne fluidità delle sue concezioni, l’abitudine a procedere per parti – risolvendo i diversi problemi mano a mano
che si presentavano – e la necessità di mantenere nella maggior
vaghezza possibile vari aspetti progettuali, riservandosi così la
possibilità di modificare le proprie idee sino all’ultimo momento, hanno fatto sì che oggi sia difficile avere un’idea precisa di quelle parti della basilica costruite dopo la sua morte. Se
a questo si aggiunge che i circa venti disegni autografi riguardano tutti la cupola (tranne uno schizzo in pianta e due schemi per una copertura absidale), è facile giungere alla conclusione che la miglior fonte del San Pietro michelangiolesco è
l’edificio stesso, nelle parti costruite entro il 1564.
A seguito della morte di Antonio da Sangallo il Giovane, Michelangelo venne contro la sua “voglia con grandissima forza
messo nella fabrica”3 negli ultimi mesi del 1546 (ma l’incarico
fu ufficialmente ratificato nel gennaio 1547)4. Aveva settantun anni compiuti. Il suo incontro come artista con la basilica
di San Pietro – ancora quella costantiniana – si può però far risalire a mezzo secolo prima, quando su incarico del cardinale
Jean de Bilhères Lagraulas egli scolpì la Pietà (1498-1499) per
la cappella del re di Francia, ovvero l’antica rotonda di Santa
Petronilla che sarebbe stata entro pochi anni distrutta per lasciare spazio al braccio meridionale del nuovo transetto. E con
sguardo da architetto, o comunque da scultore attento ai rapporti spaziali, Michelangelo osservò anche gli scarni resti della costruzione che papa Niccolò V (1447-1455) aveva fatto
iniziare a metà Quattrocento, partendo dalla zona del coro,
spinto dal desiderio di rinnovare l’antica basilica. Papa Giulio
II (1503-1513), infatti, dopo aver visto il progetto per il proprio monumento sepolcrale commissionato a Michelangelo,
mandò l’artista in San Pietro per valutare dove si potesse collocare. Secondo le parole del biografo Ascanio Condivi “parve
a Michelagnolo che tal luogo [il coro niccolino] fusse molto a
proposito e, tornato dal papa, gli spose il suo parere, aggiungendo che, se così paresse a Sua Santità, era necessario tirar sù
la fabrica e coprirla”5. Condivi attribuisce perciò a Michelangelo il merito di aver destato l’interesse del papa per il rinnovamento della basilica vaticana. Giulio II incaricò Donato Bramante di occuparsi del progetto e, nel 1506, venne posta la
prima pietra di quella che sarebbe diventata un’impresa secolare. Dopo la stasi del Sacco di Roma del 1527 e la riduzione
del cantiere a una sorta di enorme rovina6, solo con Paolo III si
ebbe la concreta volontà di riprendere e possibilmente portare
a termine i lavori.
Il predecessore di Michelangelo, Antonio il Giovane, aveva guidato il cantiere di San Pietro per quasi un trentennio e negli ultimi anni di vita si era dedicato alla realizzazione di un enorme
modello ligneo, tutt’oggi esistente, che fissasse in modo definitivo la strada da seguire per completare l’edificio. Al suo ingresso in cantiere, Michelangelo criticò subito ogni aspetto della
precedente conduzione sangallesca, proprio a partire da quel
modello: la realizzazione del progetto che esso visualizzava
avrebbe determinato problemi sia di carattere funzionale che
formale. Secondo Vasari, Michelangelo trovava la chiesa “cieca
di lumi, e […] di fuori troppi ordini di colonne l’un sopra l’altro, e che con tanti risalti, aguglie, e tritumi di membri, teneva
molto più dell’opera todesca, che del buon mondo antico, o
della vaga e bella maniera moderna”7. L’aspetto disordinato che
la sovrapposizione di ordini e la proliferazione di modanature
conferivano al progetto avrebbe avvicinato l’edificio all’architettura gotica e l’esplicito riferimento al mondo tedesco non
era forse privo di malizia da parte di Michelangelo, se si ricorda
gli anni dal 1534 al 1564
da dove giungevano le critiche e buona parte dei guai che Paolo
III stava affrontando. Ma anche la mancanza di illuminazione
denunciata da Michelangelo gli offriva la possibilità di tracciare
una sapida e poco raccomandabile prospettiva, poiché l’oscurità e l’articolazione dei molti ambienti secondari avrebbero fornito l’occasione di creare “tanti nascondigli fra di sopra e di socto, scuri, che fanno comodità grande a ’nfinite ribalderie, come
tener segretamente sbanditi, far monete false, impregniar monache e altre ribalderie”8.
La seconda mossa di questa strategia di attacco riguardava
l’amministrazione dei lavori e la gestione del cantiere. Nella
lunga fase sangallesca si era consolidata una prassi di governo
che appariva agli occhi di Michelangelo totalmente inaccettabile: le assegnazioni degli appalti, le determinazioni dei prezzi
e le forniture dei materiali da costruzione erano condotte in
171
2. Ricostruzione degli interventi di Michelangelo
in San Pietro in relazione a quelli dei predecessori
4. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est,
circa 1556. Berlino, Staatliche Museen Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60v
(addizione al taccuino Heemskerck)
3. Città del Vaticano, San Pietro, esterno
modo poco onesto. Il gruppo di collaboratori di Sangallo,
quello che Vasari sprezzantemente chiamava la “setta sangallesca”, aveva sperato di poter continuare nello stesso modo
suggerendo a uno scandalizzato Michelangelo la possibilità di
sfruttare l’occasione e gestirla come “un prato che non vi mancherebbe mai da pascere”9. L’architetto era invece ben intenzionato a fare in modo che questi “inganni et robbarie”10 avessero fine e, per tutta risposta, estromise le persone che erano
state legate a Sangallo, collocando nuovi collaboratori di sua
totale fiducia, come lo spagnolo Juan Bautista de Alfonsiis, che
assunse la carica di secondo architetto11.
Infine Michelangelo assestò un duro colpo anche ai più alti responsabili del cantiere, i deputati alla Fabbrica di San Pietro,
cioè l’istituzione che doveva guidare l’impresa dal punto di vista amministrativo e finanziario. Si trattava di personalità
molto in vista (il vicario del papa Filippo Archinto, il canonico
di San Pietro Giovanni Arberino e Antonio Massimo, esponente di una delle famiglie romane emergenti) che avevano il
compito di prendere decisioni e coordinare le complesse manovre necessarie alla prosecuzione dei lavori, nonché rendere
conto direttamente al pontefice del loro operato. Essi dovevano pure svolgere la funzione di mediatori con il papa, ma Michelangelo non volle assolutamente che questi si frapponessero tra lui e Paolo III. Già attivi nella fase sangallesca, tali deputati non avevano grande interesse ad appoggiare Michelangelo,
poiché l’approvazione della nuova gestione sarebbe stata letta
come un’implicita denuncia del loro precedente operato. Anche se non era per loro possibile andare contro la volontà papale, i deputati cercarono molte volte di estromettere Michelangelo e ridimensionare il suo enorme potere, per esempio facendo talvolta leva sulla sua considerevole età; e se non vi riuscirono mai, furono comunque in grado di rendergli la vita difficile, anche quando Paolo III lo aveva decretato sovrano assoluto con un motu proprio (1549) che non aveva precedenti
nella storia delle commissioni artistiche12. Tuttavia Michelangelo pose al papa una condizione: per il suo incarico in San Pietro non voleva che gli fosse erogato alcuno stipendio, perché
intendeva lavorare solo per la gloria di Dio. In realtà è stato dimostrato che nel periodo in cui egli era occupato nella basilica
continuò a percepire delle entrate mensili – tranne durante il
papato di Paolo IV (1555-1559)13. Ma non si trattava affatto di
un compenso erogato dalla Fabbrica – che quindi per lui non
spese effettivamente nulla –, bensì di emolumenti che gli venivano dalla concessione del passo del Po presso Piacenza e in
seguito dalla Cancelleria di Rimini14. Conformemente allo status che sentiva come proprio, e al fatto che non si considerava
un artista comune, Michelangelo non voleva un salario ma una
rendita. Eliminato così l’interesse economico, l’architetto si
172
era procurato un’altra arma da poter sfoderare contro le proteste dei deputati: le sue scelte in merito alla costruzione non
erano infatti dettate dalla ricerca del profitto personale, ma
unicamente guidate dall’amore per Dio.
I deputati iniziarono così a prendere atto che le scelte progettuali erano ormai a loro precluse e si videro declassati al rango
di semplici “pagatori”. Un episodio collocato da Vasari nel
1551 illustra con chiarezza questa nuova situazione e getta
anche luce sul modo di lavorare di Michelangelo, a cui si è precedentemente accennato. L’architetto venne infatti convocato
alla presenza del papa per dare conto di alcune accuse mossegli dai deputati i quali, non essendo a conoscenza del progetto,
lamentavano che la costruzione del catino absidale meridionale avrebbe determinato una scarsa illuminazione (di nuovo la
mancanza di luce come movente per le critiche). Dopo una rapidissima e sdegnata spiegazione di Michelangelo in merito alla realizzazione di altre finestre, i deputati gli risposero: “Voi
non ce l’avete mai detto”15. La riluttanza a comunicare il suo
pensiero per chiarire le proprie idee su parti dell’edificio non
ancora compiute lasciava, ancora una volta, aperta la strada a
modifiche e variazioni dell’ultimo minuto.
Dal punto di vista più operativo per concretizzare le proprie
idee, oltre al disegno, Michelangelo si serviva preferibilmente
di modelli in scala, realizzati sia in creta sia in legno16. E proprio sul terreno dei modelli era partito il suo attacco ad Antonio da Sangallo: mentre questi aveva impiegato sette anni e
una quantità enorme di denaro per realizzare il mastodontico
modello in legno, Michelangelo appena giunto in cantiere realizzò in due settimane un primo modello in argilla, costato solo venticinque scudi17. In un breve arco di tempo (entro il
1547), per rendere più intelligibile il progetto, Michelangelo
realizzò un modello in legno, ma ancora parziale e incompleto,
le cui fattezze furono probabilmente rappresentate nell’incisione pubblicata da Vincenzo Luchino (cat. 58) e, con alcune
modifiche successive, nel dipinto di Domenico Cresti da Passignano (fig. 1). Nel corso di diciassette anni Michelangelo
produsse altri modelli di particolari costruttivi o decorativi,
come quello per un tabernacolo, o per una cornice interna, o
per la volta absidale del transetto meridionale (cat. 59)18, fino
ad arrivare al grande modello ligneo per la cupola (15581561), preceduto da uno studio in argilla realizzato nel 1556.
I modelli però, per quanto dettagliati potessero essere, non garantivano affatto l’intangibilità del progetto michelangiolesco.
Era proprio la storia della fabbrica a insegnare che ogni architetto poteva distruggere molto di quanto era stato fatto dai predecessori19; e del resto Michelangelo stesso, nonostante l’enorme
e definitivo modello che aveva trovato, iniziò con lo smantellamento di quanto costruito da Sangallo. Michelangelo sapeva
gli anni dal 1534 al 1564
bene che non avrebbe visto la basilica finita; era quindi necessario prendere provvedimenti affinché le sue scelte venissero rispettate nel futuro e in diverse occasioni aveva affermato che
era sua intenzione condurre la fabbrica “in tal termine, che la
non potessi esser mutata con altro disegno fuor dell’ordine
mio”20. Ma come riuscì a ottenere questo risultato? È Vasari che
lo spiega con chiarezza: “Con ogni accuratezza [Michelangelo]
si messe a far lavorare per tutti que’ luoghi dove la fabrica si aveva a mutare d’ordine, a cagione ch’ella si fermassi stabilissima,
di maniera che ella non potessi esser mutata mai più da altri:
provedimento di savio e prudente ingegno, perché non basta il
far bene, se non si assicura ancora”21.
In modo apparentemente irrazionale, Michelangelo avviò la
realizzazione di settori scollegati della basilica, aprendo contemporaneamente diversi cantieri finalizzati alla definizione
di singole parti della costruzione: era l’edificio stesso a diventare modello in pietra a cui i successori si sarebbero dovuti attenere22. Partendo dall’abside del transetto meridionale, condotta a compimento fino all’attico compreso, Michelangelo
determinò automaticamente anche l’aspetto delle altre due absidi (quella settentrionale fu comunque realizzata mentre era
ancora in vita); costruendo il tamburo della cupola ne assicurò
l’immutabilità, mentre con il modello ligneo fissò l’aspetto
che avrebbe dovuto assumere la calotta; infine, avviando le
fondazioni delle due cappelle angolari verso nord, definì il perimetro globale della basilica. Certo, rimanevano in sospeso
molte altre questioni, ma nelle parti essenziali l’edificio era ormai impostato.
Come si svolsero, dunque, questi lavori? Grazie ai numerosi
documenti di cantiere è possibile seguirne in modo abbastanza
puntuale l’andamento23, ma per comprendere esattamente la
portata delle innovazioni di Michelangelo è opportuno consi173
5. Michelangelo Buonarroti, Disegno per la
calotta absidale meridionale di San Pietro,
lettera a Giorgio Vasari, 1 luglio 1557.
Arezzo, Casa Vasari, cod. 12, c. 22v
derare cosa era stato costruito entro la fine del 1546, quando
egli assunse l’incarico24. Non dovrebbe sfuggire infatti che, per
quanto rivoluzionario fosse, anche il suo intervento seguiva
quel flusso già consolidato nel cantiere: come era accaduto agli
architetti che lo avevano preceduto, anche Michelangelo doveva accettare alcuni vincoli, dati da quelle parti della costruzione
non più modificabili (fig. 2). Tra questi, i più significativi erano
certamente i piloni bramanteschi della cupola (e gli archi di raccordo tra essi) che, con la loro dimensione e collocazione non
solo determinavano il diametro della cupola principale, ma
vincolavano anche il rapporto tra questa e le cupole minori.
Anche la grande volta a botte del braccio meridionale del transetto era conclusa, così come quelle delle navi piccole tutte intorno alla crociera; verso ovest, infine, il coro di Bramante era
fornito di copertura. Invece la connessione all’antica basilica
costantiniana non era stata affrontata, mentre si conservavano
ancora in sito l’obelisco vaticano e la rotonda peleocristiana di
174
6. Anonimo, Sezione e prospetto frontale
di San Pietro, circa 1565. Napoli,
Biblioteca Nazionale, ms. XII, D 74, c. 22v
Sant’Andrea, come mostra una veduta di Giovanni Antonio
Dosio (cat. 52). Ma soprattutto il deambulatorio meridionale
era in costruzione. La prima operazione intrapresa da Michelangelo riguardava proprio quest’ultima parte: decise di demolirla. I deputati sbigottiti cercarono di evitare questa costosa distruzione, ma Michelangelo ebbe la meglio facendo intendere
che la demolizione era necessaria per ridurre “San Pietro a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza”25; la nuova basilica
sarebbe stata cioè dimensionalmente più piccola di quella di
Sangallo, ma molto più grandiosa. Se a prima vista il deambulatorio di Sangallo non sembra essere stato un vincolo così determinante, in realtà la sua configurazione fu decisiva per Michelangelo, perché il suo muro interno venne trasformato in
muro perimetrale della basilica, definendo così la forma e la dimensione dell’abside. I tre passaggi che in origine consentivano
il collegamento tra questa e il deambulatorio vennero chiusi da
Michelangelo e trasformati in cappellette.
Mentre era in atto lo smantellamento del deambulatorio meridionale, veniva portata avanti anche la costruzione delle pareti del transetto settentrionale, che poteva così essere voltato a
botte, uniformemente ai bracci orientale e meridionale. Intorno alla metà del 1549 infatti si eresse la centinatura per la volta, che si può immaginare simile a quella riprodotta nell’incisione di Jacobus Bos (1561) e inserita nello Speculum Romanae Magnificentiae (cat. 63). Nell’iscrizione l’incisore afferma
che Michelangelo avrebbe ripreso questa complessa opera di
carpenteria da Antonio da Sangallo e avrebbe poi continuato a
utilizzarla26.
L’eliminazione del deambulatorio determinò anche la possibilità di rinforzare i contropilastri della cupola, cioè quelle enormi strutture murarie che attualmente corrispondono agli
“smussi” diagonali che fiancheggiano le absidi e si percepiscono chiaramente all’esterno (fig. 3). Sangallo li aveva scavati
perché proprio in quei punti si sarebbero collocati gli accessi al
deambulatorio; Michelangelo invece ne approfittò per inserirvi i cilindri delle rampe a chiocciola attraverso cui era possibile portare in alto i materiali da costruzione (cat. 52; cat. 56).
Intanto cominciava a prendere forma anche la parete dell’abside meridionale (cat. 55) e le prime fasi di questa realizzazione
sono restituite da una veduta del Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi 4345 A (cat. 53) dove, tra l’enorme antenna per il
sollevamento dei materiali sulla sinistra e quella più piccola a
destra, si scorge la cornice a timpano triangolare retto da mensole di una nicchia del primo livello. La rappresentazione va
datata a dopo il 1552 (probabilmente 1553-1554) perché si
scorge lo zoccolo sopra il cornicione del tamburo (iniziato nel
1549), che era stato ultimato proprio nel febbraio 1552, come
assicurano le spese sostenute per “l’allegrezza”, ovvero il
pranzo offerto dalla Fabbrica agli operai che festeggiarono
l’evento27. A partire dal 1554 si iniziarono a predisporre le colonne binate che costituiscono gli speroni esterni del tamburo
della cupola maggiore e, nell’anno successivo, cominciarono
anche i pagamenti per i capitelli delle paraste interne.
Nel corso del 1556 i lavori subirono un rallentamento perché,
nel quadro dei tesissimi rapporti tra Paolo IV e la Spagna, si era
profilato il pericolo di un nuovo Sacco, tanto che lo stesso Michelangelo era fuggito a Spoleto. Un’altra veduta fotografa la
situazione proprio intorno al 1556 (fig. 4), quando la parete
dell’abside meridionale era ormai completata fino al livello dei
capitelli, mentre le nicchie del primo ordine e le finestre del secondo avevano già le cornici in opera. Tutto era pronto per la
realizzazione della calotta absidale, iniziata nel 1557. Ma a
questo punto si verificò un problema molto grave nella copertura, tanto che tutto ciò che era stato costruito fino a quel momento dovette esser demolito e nuovamente ricostruito. La vicenda fece dire a Michelangelo: “se si potessi morire di
verg[og]nia e dolore, io non sarei vivo”28. Cosa era successo?
Michelangelo voleva che il travertino venisse utilizzato in modo che dal basso la calotta si percepisse come se fosse stata
scolpita in un unico blocco: era quindi necessario che i singoli
conci di pietra venissero tagliati e accostati perfettamente. Ma
a questa difficoltà si aggiunse il fatto che la calotta era composta da tre gusci la cui curvatura non era costante, ma variava a
ogni corso. Nonostante Michelangelo avesse realizzato un
modello in scala 1:30 (cat. 54)29, le istruzioni non furono sufficientemente chiare per il capomastro, che utilizzò una sola
centina per ciascun guscio, così si verificò il problema che, mano a mano che la costruzione saliva, i gusci non combaciavano
più con i costoloni e la chiusura verso la chiave diventava impossibile. Michelangelo diede conto dell’avvenimento in due
lettere a Vasari, corredate anche di disegni, dove tentò di spiegare in cosa fosse consistito l’errore (fig. 5), a cui venne posto
rimedio nel 1558.
In questo stesso periodo proseguiva anche la costruzione dell’emiciclo nord e del tamburo, mentre tra il 1558 e il 1561 Michelangelo fece realizzare il grande modello ligneo della cupola, successivamente modificato, ma che si conserva tutt’oggi.
Infine, tra la fine del 1560 e la primavera dell’anno successivo
si iniziarono gli scavi per le fondazioni delle cappelle angolari
rivolte verso nord: si cominciò da quella poi detta di San Michele (nord-ovest) e, nell’aprile 1562, si lavorava al “fondamento novo che si fa verso palazzo”30 per la futura cappella
Gregoriana (nord-est). Il confronto tra lo stato dei lavori alla
morte di Michelangelo31 e la situazione attuale evidenzia che la
strategia dell’architetto era andata tutto sommato a buon fine
e le parti dell’edificio da lui “vincolate” non subirono, nei degli anni dal 1534 al 1564
cenni successivi, cambiamenti troppo significativi. L’unico
settore che fu sottoposto a uno stravolgimento totale era proprio quello che Michelangelo non aveva seriamente preso in
considerazione, cioè il braccio orientale con la facciata della
basilica.
Una tale mole di lavori, così impegnativi sia dal punto di vista
della quantità sia da quello della complessità, richiedeva una
perfetta organizzazione del cantiere. Come riuscì Michelangelo a gestire la situazione? S’è visto che, al suo arrivo, l’architetto operò una rivoluzione che coinvolgeva il personale impiegato e il suo rapporto con i deputati. La parola d’ordine che caratterizzò il suo operato, e che si ripete in molte delle sue lettere, è autorità; attraverso questa egli poteva esercitare l’assoluta indipendenza decisionale, a ogni livello. La totale autonomia gli consentiva, per esempio, di scegliere i collaboratori tra
le persone di sua assoluta fiducia; arrivava anche a esporsi
presso i deputati, ai quali chiedeva denaro affinché i suoi aiutanti venissero pagati regolarmente. La necessità di avere persone su cui fare affidamento era legata anche alla condizione di
Michelangelo, che andava sempre più invecchiando e non poteva essere fisicamente presente in cantiere. Egli stesso aveva
riconosciuto, per esempio, che l’errore nella copertura del catino absidale (1557) era avvenuto anche per la sua impossibilità di seguirne direttamente i lavori; per questo motivo si serviva di soprastanti che abitavano presso di lui, così che questi
potessero “raguagliare la sera quello si farà il giorno”32. Quello
di Michelangelo era quindi un governo a distanza ed egli richiedeva, alle persone su cui faceva affidamento, una totale
175
7. Città del Vaticano, San Pietro,
veduta interna del transetto meridionale
onestà e trasparenza, esortandole a verificare attentamente la
qualità dei materiali da costruzione e a non accettare “cosa
nessuna che non sia al proposito, se ben la venissi dal cielo”33.
Con questo sistema di connessioni, Michelangelo era riuscito
a organizzare una macchina che lo avrebbe condotto alla realizzazione del “suo” San Pietro.
Per comprendere le caratteristiche del progetto di Michelangelo è utile, ancora una volta, fare riferimento alle sue parole. In
una famosa lettera indirizzata a un certo Bartolomeo, Michelangelo affermava che chi si era allontanato dalle idee di Bramante, come Sangallo, si era “discostato dalla verità”34. La sua
intenzione era quella di tornare a una pianta “non piena di
confusione ma chiara e schietta, luminosa e isolata a torno”35,
di mettersi quindi nell’alveo tracciato dal primo architetto che
aveva rifondato San Pietro. È molto interessante notare il fatto
che, sebbene stesse per creare un organismo completamente
nuovo, Michelangelo si sentiva un esecutore delle idee bramantesche36. In realtà l’elemento che suscitava la più aspra critica di Michelangelo al progetto sangallesco doveva farsi risalire proprio a Bramante: i deambulatori, infatti, erano un’inven176
8. Michelangelo Buonarroti,
Schizzo per l’atrio di San Pietro in relazione
alla cappella Paolina, circa 1550.
Biblioteca Apostolica Vaticana,
ms. Vat. Lat. 3211, c. 92
zione di quest’ultimo, così come il sistema di vani secondari i
quali avrebbero dato origine al caratteristico policentrismo
dell’edificio e alla sua gerarchica organizzazione spaziale, eliminati da Michelangelo in nome della chiarezza compositiva37.
Egli dunque non conosceva nei dettagli il progetto di Bramante, ma solo ciò che di esso era stato realizzato, ovvero i piloni
della cupola e, soprattutto, il coro38. Questo sì era chiaro, luminoso e isolato tutt’intorno (fig. 4) e poteva essere preso come
modello ideale per l’opera di ‘riduzione’ che Michelangelo si
accingeva a realizzare.
Si può avere un’idea approssimativa delle intenzioni dell’architetto osservando le famose incisioni, raffiguranti la pianta, la
sezione longitudinale e il prospetto meridionale della basilica,
realizzate dal francese Stefano Dupérac qualche anno dopo la
morte di Michelangelo (cat. 60; cat. 61; cat. 62)39. La pianta mostra con chiarezza il ritorno a un organismo centralizzato a
quincunx, con cupola maggiore e quattro cappelle angolari; dal
perimetro quadrato emergono solo le absidi lungo tre lati,
mentre il quarto presenta un portico d’ingresso colonnato. Elemento di raccordo tra le absidi e le pareti rettilinee sono quei
tratti di muro posti in diagonale, gli smussi, che contengono le
chiocciole e funzionano come contropilastri per la cupola centrale. Con una pianta meno estesa rispetto a quella sangallesca,
si riusciva a evitare anche la distruzione di alcuni settori del Palazzo Apostolico, così paventata da Michelangelo40; ma questo
lasciava irrisolti diversi problemi di carattere pratico, poiché
eliminare i vani secondari, di cui il progetto di Sangallo era ricco, significava sottrarre spazi per funzioni specifiche della basilica (per esempio di sagrestia, coro e battistero). In particolare,
la soppressione di tutta la serie di cappelle secondarie, che costituivano una consistente fonte di guadagno, incontrò la disapprovazione del clero vaticano il quale, negli anni successivi
alla morte di Michelangelo, avanzava anche l’obiezione che il
progetto ridotto avrebbe lasciato scoperto un consistente tratto
dell’area consacrata occupata dalla precedente basilica costantiniana, come si evince dalla Incisione dell’antica basilica di San
Pietro realizzata da Tiberio Alfarano nel 1590 circa, dove la
pianta della precedente costruzione paleocristiana è sovrapposta a quella michelangiolesca (cat. 59).
Per l’interno è possibile osservare le già citate incisioni di Dupérac, un disegno anonimo della Biblioteca Nazionale di Napoli (fig. 6)41, ma soprattutto l’edificio stesso, nelle parti realizzate da Michelangelo a meno delle decorazioni settecentesche (fig. 7). Qui l’architetto si dovette confrontare con gli elementi dell’alzato che erano già stati irrevocabilmente fissati in
precedenza, come le dimensioni dell’ordine maggiore e le altezze delle volte. La parete interna dell’abside meridionale è
scandita in tre campate mediante paraste corinzie giganti; il
primo livello è costituito dalle nicchie che ospitano gli altari
(erano i passaggi verso il deambulatorio, chiusi da Michelangelo), mentre il secondo livello è reso molto luminoso da tre
finestre rettangolari che occupano quasi tutto il campo a disposizione. In tale parete Michelangelo mette in scena un gioco di piani sovrapposti e schiacciati uno sull’altro: la parasta si
appoggia a un pilastro leggermente più largo, dietro il quale,
ulteriormente arretrato, si trova il piano della parete con le finestre. La cornice di queste è caratterizzata da un timpano
spezzato che cozza contro l’architrave della trabeazione maggiore, come se la verticalità e l’orizzontalità contrastassero tra
loro. Il rapporto tra l’interno e l’esterno dell’edificio evidenzia
un altro aspetto in cui la concezione michelangiolesca si allontana da quella di Bramante e Antonio il Giovane, ovvero quello della corrispondenza dell’ordine architettonico tra interno
ed esterno. L’edificio concepito da Bramante, con le sue gerarchie di volumi e di altezze, rispecchiava anche all’esterno la
scelta di connotare lo spazio principale con ordine maggiore e
quelli secondari con ordine minore, ma nel momento in cui
Michelangelo decise di cingere tutto il perimetro dell’edificio
con un ordine gigante, non fu più possibile denunciare all’esterno la struttura dell’interno (per esempio l’ordine minore delle cappelle angolari non poteva esser riproposto anche all’esterno)42. Questo sfalsamento degli ordini “in verticale”
viene ribadito anche “in orizzontale” nella curva absidale, dove è reciso il legame tra interno ed esterno nel momento in cui
a ciascuna delle tre paraste singole che articolano la parete interna corrispondono coppie di paraste che definiscono la superficie esterna43. Ma proprio all’esterno (cat. 95; fig. 3) è forse meglio percepibile il tentativo di Michelangelo di “citare”
l’architettura bramantesca e interpretarne il senso. Tutto il perimetro è scandito da un sistema di paraste accoppiate che determinano campate alternativamente larghe e strette: le une
ospitano nicchie al primo livello e finestre al secondo, le altre
presentano più piccole nicchie sovrapposte che richiamano da
vicino sia la sovrapposizione di nicchie nelle campate strette
dell’esterno del coro bramantesco sia l’articolazione dei piloni
dei bracci della croce. Il taglio diagonale di questi ultimi viene
ripreso specularmente negli smussi esterni che collegano le
absidi con gli angoli dell’edificio. Infine, pure nell’attico ad arconi ritratto dall’incisione di Luchino (cat. 58) è possibile vedere un richiamo alla superficie liscia che costituiva l’attico del
coro bramantesco al tempo di Michelangelo44.
L’esterno di San Pietro è stato spesso paragonato a un organismo, un corpo plastico in cui la tensione dinamica che caratterizza le masse si manifesta come in una scultura45; tuttavia è
prevalentemente all’esterno che si concentrano i nodi determinati da quei dubbi e quegli interrogativi ancora aperti sul
gli anni dal 1534 al 1564
progetto di Michelangelo: come avrebbero dovuto essere realizzati la facciata, le cupole minori e l’attico?
L’unica testimonianza grafica del pensiero michelangiolesco in
relazione alla facciata è un disegno della Biblioteca Apostolica
Vaticana (fig. 8; Corpus 592 recto), databile al 1550 circa46. Non
si tratta di un progetto, bensì di una vista globale, quasi un appunto topografico, che relaziona la basilica con gli altri ambienti del Palazzo Apostolico. L’impianto centrale dell’edificio è
preceduto da un portico che ha la stessa ampiezza del braccio di
croce; il fatto che tale portico sia costituito da cinque colonne –
quella centrale sarebbe caduta esattamente in corrispondenza
con l’apertura del portale principale – è stato spiegato come un
errore dovuto all’estemporaneità dello schizzo. In ogni caso, il
disegno mostrerebbe che, almeno nelle fasi iniziali della progettazione, Michelangelo non pensava tanto a una vera e propria facciata, quanto piuttosto a un pronao colonnato tipo Pantheon; e questa è anche l’idea che sia le stampe di Dupérac sia il
disegno di Napoli vorrebbero suggerire. Ma è molto probabile
che Michelangelo, dopo questo primo pensiero, non sia ritornato sulla questione; era certamente più interessato a definire le
parti che andavano urgentemente realizzate, mentre la facciata
presupponeva di affrontare anche la demolizione della vecchia
basilica: un problema ancora molto lontano.
177
Lo stesso discorso vale per le cupole minori, delle quali si costruirono soltanto le due verso la piazza (edificate però successivamente, nel periodo in cui Giacomo della Porta era l’architetto della Fabbrica). Si tratta più esattamente di padiglioni
aperti, senza una precisa funzione strutturale, che segnalano
esternamente la presenza delle sottostanti cappelle angolari.
La scelta di utilizzare l’ordine gigante esteso su tutta la superficie esterna determina l’impossibilità, per le cupole reali delle
cappelle, di svettare dal livello del tetto, immerse come sono
nel corpo perimetrale della basilica47. Non è possibile stabilire
con certezza se Michelangelo intendesse proporre un classico
sistema a quincunx, seppure con cupole “finte”, oppure se immaginasse la grande cupola a dominare incontrastata sull’edificio; nemmeno le incisioni di Dupérac possono aiutare, perché è stato convincentemente dimostrato che la concezione di
quelle cupole minori si deve a Jacopo Barozzi da Vignola, successore di Michelangelo insieme a Pirro Ligorio48.
Nel caso dell’attico la questione è complicata dal fatto che esistono due gruppi di testimonianze grafiche contemporanee
tra loro contrastanti. Immagini come la stampa del 1564 di
Luchino (cat. 58) o la veduta di Giovanni Antonio Dosio (cat.
178
52) mostrano l’attico sull’abside meridionale caratterizzato da
tre profonde e strombate aperture ad arco, corrispondenti all’ampiezza delle campate maggiori; quindi una semplice superficie liscia che contrasta con le tensioni del sottostante corpo e della cupola. Ma già nel 1565 fu edita una stampa (Mostra
della giostra fatta nel teatro di Palazzo, del monogrammista
ICB) in cui l’attico sull’abside nord presenta l’aspetto attuale,
così alcuni studiosi sostengono che l’attico originario fosse
quello rappresentato da Luchino e l’odierno sarebbe una modifica di Pirro Ligorio, mentre altri ritengono – anche con l’appoggio di uno schizzo autografo – che l’attico come appare oggi sarebbe quello voluto da Michelangelo49. Un quesito che non
sembra risolvibile.
Le speranze che Paolo III aveva nell’anziano Michelangelo non
erano state mal riposte: nei diciassette anni della sua conduzione l’architetto era stato in grado di portare avanti la costruzione in modo che, sebbene con alcune incognite ancora aperte, la sua conclusione non era più un miraggio irraggiungibile.
Era riuscito a realizzare una chiesa per la nuova Chiesa, un edificio “con più maestà e grandezza, e facilità, e maggior disegno
di ordine, bellezza e comodità”50.
1
La bibliografia su San Pietro è sterminata ed è qui possibile ricordare
soltanto i contributi più aggiornati:
Frommel 1994; C.L. Frommel et al.,
schede 277-410, in Millon, Magnago
Lampugnani 1994, pp. 599-673;
Spagnesi 1997; Pinelli 2000; Satzinger, Schütze 2008; anche la fase michelangiolesca è stata oggetto di molti studi, di cui si indicano solo i principali: Frey 1909; Frey 1911; Frey
1913; Frey 1916; Ackerman 1961,
vol. I, pp. 89-102, vol. II, pp. 83-112;
Ackerman 1986, pp. 192-220, 317324; Ackerman 1988, pp. 92-104,
249-287; Vasari, ed. Barocchi 1962,
pp. 83 sgg. [ed. 1568]; F. Barbieri, L.
Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
910-931; Thoenes 1968 [1998];
Millon, Smyth 1969; Saalman 1975;
Keller 1976; Millon, Smyth 1976;
Bardeschi Ciulich 1977; Saalman
1978; Corpus, vol. IV, pp. 91-100;
De Maio 1981, pp. 293-298, 309333; Bardeschi Ciulich 1983; Millon, Smyth 1988b; B. Contardi,
scheda 20, in Argan, Contardi 1990,
pp. 322-335; Burns 1995; Condivi,
ed. Nencioni 1998, pp. 25, 59; Thoenes 2008. Per la bibliografia specifica
sulla cupola, si rimanda al saggio di
Vitale Zanchettin in questo stesso catalogo.
2
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
117 [ed. 1568]; secondo l’inventario
notarile redatto il giorno successivo
alla morte di Michelangelo, tra i disegni superstiti (ma oggi dispersi) ve ne
erano tre relativi a San Pietro: una
pianta, un dettaglio per una finestra e
la pianta del modello di Sangallo, ivi,
vol. IV, p. 1850.
3
Carteggio, vol. V, pp. 105-106, n.
MCCLVII (22? mag. 1557), lettera a
Giorgio Vasari. Recentemente Bellini
ha suggerito che la riluttanza di Michelangelo fosse solo una posa, cfr.
Bellini 2006, p. 81.
4
Frey 1909, p. 171.
5
Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 25.
6
Su San Pietro come rovina moderna, cfr. Thoenes [1986] 1998.
7
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
83 [ed. 1568].
8
Carteggio, vol. IV, p. 251, n.
MLXXI (fine 1546 o primi del
1547), lettera indirizzata a un certo
Bartolomeo, nel Carteggio identifi-
gli anni dal 1534 al 1564
cato come Bartolomeo Ferratino,
che però era già morto nel 1534.
9
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
83 [ed. 1568]; sull’arrivo di Michelangelo in cantiere, cfr. Bardeschi
Ciulich 1977, Saalman 1978, De
Maio 1981, pp. 309-321; sui rapporti con la “setta sangallesca”, cfr. Wittkower 1968.
10
Bardeschi Ciulich 1977, p. 258,
doc. VIII, secondo una lettera del 26
febbraio 1547 dei deputati Arborino
e Massimo ad Archinto, Michelangelo aveva detto: “et non voglio che si
gli habbino da fare nella fabrica tanti
inganni et robbarie, che intendo che il
medesimo che è venditore di tevertine [travertino], è quello che fa il patto; et non voglio che si muri con altra
calcia, petre e puzolana che quella che
mi piacie a me”.
11
Vicuña 1966; Giner Guerri 1975.
12
La completa libertà decisionale in
merito a ogni questione riguardante
la basilica fu confermata anche dai
successori di Paolo III, cfr. Bredekamp 2008.
13
Frey 1909, pp. 159, 161; Hatfield
2002, pp. 159-167.
14
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
84 [ed. 1568].
15
Ivi, p. 92 [ed. 1568].
16
Sui modelli di Michelangelo per
San Pietro, cfr. Ackerman 1988, pp.
267 sgg.; Saalman 1975; B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi
1990, pp. 324 sgg.; Mussolin 2006,
pp. 102-104.
17
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
83 [ed. 1568].
18
Si veda infra.
19
Sul principio della distruzione produttiva nel cantiere di San Pietro, cfr.
Bredekamp 2005, su Michelangelo in
part. pp. 80 sgg.
20
Lettera di Michelangelo al nipote
Leonardo, Carteggio, vol. V, p. 84, n.
MCCXLIV (13 feb. 1557).
21
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
85 [ed. 1568].
22
Burns 1995; Bredekamp 2005, p.
106-107.
23
I documenti sono custoditi presso
l’Archivio della Fabbrica di San Pietro
e sono stati parzialmente pubblicati
da Karl Frey; per l’andamento dei lavori, cfr. in particolare Ackerman
1988, pp. 256-264; B. Contardi,
scheda 20, in Argan, Contardi 1990,
pp. 322-333; per una sintesi di quanto è stato fatto nel periodo michelangiolesco, cfr. Thoenes 2000; Bellini
2001; Millon 2005.
24
Diverse immagini restituiscono
l’aspetto del cantiere prima dell’arrivo di Michelangelo, fra queste l’affresco con La fabbrica di San Pietro di
Giorgio Vasari nella Sala dei Cento
Giorni in palazzo della Cancelleria a
Roma (1546).
25
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
84 [ed. 1568]; sull’entità delle demolizioni cfr. Bardeschi Ciulich 1983.
26
Antonio da Sangallo aveva iniziato
la sua attività in San Pietro in qualità
di carpentiere; una struttura analoga
a quella dell’incisione di Bos è rappresentata nel foglio, di ambito bramantesco, del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 226 A; cfr. C.L. Frommel, scheda 297, in Millon, Magnago
Lampugnani 1994, p. 610.
27
Frey 1916, p. 71.
28
Lettera a Giorgio Vasari, Carteggio,
vol. V, pp. 113-114, n. MCCLXI (1
lug. 1557); su questa vicenda, cfr.
Millon, Smyth 1976; Brodini 2006.
29
Questo modello ligneo fu probabilmente realizzato per valutare l’effetto
delle modifiche michelangiolesche
all’interno del modello di Antonio da
Sangallo; cfr. A.H. Millon, C.H.
Smyth, scheda 378, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 654655. Sulla possibilità che il modello
ligneo del 1547 sia stato rappresentato nel disegno del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi 95 A (cat.
57) e sul rapporto tra quest’ultimo e
l’edificio costruito, cfr. V. Zanchettin,
scheda 93, in Beltramini, Burns
2008, p. 182; ringrazio Vitale Zanchettin per aver richiamato la mia attenzione su tale questione.
30
Archivio della Fabbrica di San Pietro, Armadio 1, C, 30, c. 263.
31
Per una sintesi, cfr. Ackerman
1988, p. 264.
32
Carteggio, vol. V, p. 272, n.
MCCCLXVII (post 4 nov. 1561); per
la gestione del cantiere negli ultimi
anni, cfr. Brodini in c.d.s. (a).
33
Carteggio, vol. IV, p. 360, n.
MCLIX (1550-1553?).
34
Ivi, p. 251, n. MLXXI (fine 1546 o
primi del 1547).
Ibidem.
Thoenes 2008, p. 64.
37
Bruschi 1997, p. 188.
38
Thoenes 2001.
39
Di queste tre incisioni di Dupérac,
solo la pianta è datata 1569; queste
immagini tuttavia non rappresentano il progetto di Michelangelo, in realtà mai esistito, ma un edificio con
molte aggiunte e completamenti necessari a colmare le lacune progettuali lasciate dall’artista; sulle incisioni,
cfr. Bedon 1995; Bellini 2002; Bedon 2008, pp. 198-199.
40
Per realizzare la basilica secondo il
modello di Antonio il Giovane, Michelangelo asseriva che “saria forza
mandare in terra la cappella di Paolo
[con gli affreschi dello stesso Michelangelo], le stanze del Piombo, la
Ruota e molte altre: né lla cappella di
Sisto [con i celebri affreschi], credo,
n’uscirebbe necta”, cfr. Carteggio,
vol. IV, p. 252, n. MLXXI (fine 1546
o primi del 1547).
41
Queste raffigurazioni mostrano alcune differenze sia tra loro sia con
l’edificio realizzato, al riguardo cfr.
Keller 1976; Bellini 2002.
42
Bruschi 1997, p. 189.
43
Su tale mancata corrispondenza,
cfr. anche Thoenes 2008, pp. 68-69.
44
Per i riferimenti michelangioleschi a
Bramante, cfr. Ackerman 1988, p. 97;
Bruschi 1997, p. 189; Bredekamp
2005, p. 97; Millon 2005, p. 94.
45
Argan, Contardi 1990, p. 280; per
il ruolo delle sculture all’esterno di
San Pietro, cfr. Satzinger 1997.
46
Sul problema della facciata, cfr. in
part. Thoenes 1968 [1998]; Thoenes
2008, pp. 80-81.
47
Sul problema delle cupole minori,
cfr. Brodini c.d.s. (b).
48
Coolidge 1942.
49
La questione è riassunta in B. Contardi, scheda 20, in Argan, Contardi
1990, pp. 327-329; la prima ipotesi
sull’attico è in Millon, Smyth 1969, la
seconda in Hirst 1974; lo schizzo che
quest’ultimo riferisce all’attico di San
Pietro è un dettaglio a matita del foglio 93-94 recto del Cabinet des Dessins del Palais des Beaux-Arts di Lille
(Corpus 595 recto), cfr. scheda 27 in
Millon, Smyth 1988a, pp. 142-147.
50
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
83 [ed. 1568].
35
36
179
1. Città del Vaticano, cupola della basilica
di San Pietro (per gentile concessione
della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
IL TAMBURO DELLA CUPOLA DI SAN PIETRO
Vitale Zanchettin
2. Città del Vaticano, tamburo della cupola
della basilica di San Pietro (per gentile concessione
della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
Da lungo tempo gli storici dell’architettura, e non solo, continuano a chiedersi con che forme e per mezzo di quali soluzioni
architettoniche Michelangelo avrebbe concluso la basilica vaticana, se la sua vita fosse stata ancor più lunga da permettergli di
farlo (fig. 1)1. A chi non si occupi attivamente della storia dell’edificio tale domanda potrà sembrare a prima vista un’oziosa
ricerca destinata a costruire ipotesi impossibili da verificare.
Eppure, dopo la morte di Michelangelo, per i contemporanei
tale interrogativo era generato dall’esigenza concreta di poter
continuare a costruire speditamente secondo i suoi progetti2.
Restavano allora certamente grandi interrogativi aperti, come
la definizione della curvatura da assegnare alla sezione della cupola e il disegno della nuova facciata, in evidente contrasto con
i resti della navata costantiniana. Tali domande alimentarono
una vasta produzione in serie di rappresentazioni dell’edificio
secondo un presunto progetto finale, senza tuttavia che nessun
documento autografo permettesse di sostenere l’esistenza di
tale piano generale riguardante l’intero edificio. Furono realizzate alcune tavole, talvolta di grande qualità, come i due preziosi disegni anonimi della Collezione Santarelli del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi che rappresentano l’edificio in pianta e sezione (cat. 65, 66)3. Si stamparono incisioni, che avviarono fortunate operazioni editoriali, tra cui la più importante fu
quella di Stefano Dupérac, che permise di fissare nell’immaginario dei contemporanei l’idea di un disegno complessivo dell’artista che, nell’arco di pochi anni, fu diffusa e accettata4. Persino Tiberio Alfarano, nel realizzare la pianta che avrebbe dovuto affiancare il manoscritto della sua informatissima storia di
San Pietro, disegnò la planimetria della vecchia basilica costan180
tiniana sopra l’incisione della pianta di San Pietro di Stefano
Dupérac (cat. 60) che così venne utilizzata per realizzare il rame preparatorio all’incisione pubblicata nel 1590 (cat. 59)5.
Tutte queste rappresentazioni non nacquero dalla necessità di
realizzare l’opera, ma come risposta a una sorta di inquietudine causata dall’incompletezza connessa al modo in cui Michelangelo pensava l’architettura. Per questa ragione, la ricerca di
un progetto “finale” non si esaurì con il compimento dell’edificio nel primo Seicento e tale bisogno continuò a presentarsi
in forme diverse, portando a nuove ipotesi e ricostruzioni.
Storici, architetti, cronisti e viaggiatori, concentrandosi di volta in volta su singoli problemi, iniziarono allora a chiedersi
quali parti dell’edificio costruito fossero veramente di Michelangelo e quali derivassero invece da interpretazioni postume
delle sue presunte volontà. Tali studi assumono, nella sconfinata letteratura su San Pietro, le dimensioni di un campo di ricerca autonomo, la cui fecondità non trova spiegazione nell’esigenza concreta di edificare, ma rispecchia piuttosto una
sorta di ansia – del tutto peculiare del modo di intendere progetto e costruzione nel mondo moderno – determinata dall’assenza di un disegno complessivo in grado di pianificare in
tutte le sue parti un edificio di tali dimensioni e importanza6.
Di fronte a tali domande ne esiste tuttavia una il cui peso appare del tutto evidente a chi si occupi anche superficialmente
della storia del nuovo San Pietro: come ha potuto un uomo,
varcate le soglie dei settant’anni di età, assumersi il carico di
guidare la costruzione della Fabbrica e riuscire a imporre un
progetto destinato a vincolare più di ogni altro la facies dell’edificio che noi oggi vediamo?
Tamburo e cupola, tenute insieme da una congiunzione che
separa il mondo delle certezze da quello delle ipotesi, sono
l’immagine più eloquente di questa condizione imprescindibile degli studi su Michelangelo architetto. Il tamburo, opera
integralmente autografa tra i capolavori assoluti nella storia
del costruire, è stato oggetto di pochi studi in genere basati
su documenti in gran parte pubblicati all’inizio del secolo
scorso; la cupola, realizzata quando tutti i protagonisti del
cantiere michelangiolesco erano scomparsi, è forse la parte
dell’edificio sulla quale si sono concentrate maggiormente le
indagini sull’autografia delle singole scelte. Questo saggio si
limita a quanto fu posto in opera durante la vita di Michelangelo e con particolare riguardo alla storia del tamburo, lasciando aperte le incertezze su quanto non vide la luce sotto
la sua diretta supervisione (fig. 2).
I diciassette anni in cui Michelangelo governò la costruzione di
San Pietro si distinguono dai decenni precedenti per una vigorosa ripresa della crescita dell’edificio verso l’alto. Nell’arco di
un quarto di secolo, Antonio da Sangallo aveva cercato di definire soprattutto l’impostazione planimetrica dell’insieme e
aveva voltato alcune parti fondamentali dell’edificio, ma nessun architetto aveva aggiunto pietra sopra i quattro grandi archi
della crociera innalzati da Bramante entro il 1511 (cat. 64)7.
Nei primi mesi del 1547, quando Michelangelo iniziò a dirigere i lavori, era stata da poco tempo realizzata la volta del braccio meridionale del transetto: un’opera grandiosa, giustamente vissuta come un memorabile successo dai funzionari che affiancavano Sangallo nella direzione del cantiere, i quali nell’estate dell’anno precedente potevano scrivere: “le cose in san
pietro passano benissimo. La volta sono molti giorni che fu
messa al sicuro et è già pronta”8. Pochi mesi dopo, le prime attività di Michelangelo in San Pietro furono accompagnate dalle ben note polemiche descritte da Giorgio Vasari per la sua
manifesta volontà di non adottare il progetto di Sangallo9. Dopo una serie di scontri con i funzionari della Fabbrica risulta
che Buonarroti aveva temporaneamente accettato di costruire
verso le stalle del Palazzo Apostolico (lato nord) senza cambiare “cosa alcuna alla scorsa di fuora”10. Ufficialmente i lavori potevano così proseguire secondo i piani stabiliti prima della
morte di Sangallo, mentre le decisioni sul futuro assetto esterno della basilica, per il quale ben poco si era fatto nei decenni
passati, furono per breve tempo rinviati11. Si proseguì quindi
speditamente con la costruzione finalizzata a chiudere la volta
grande del braccio nord, il cui completamento fu festeggiato
nel novembre del 154912. Con la conclusione di questa parte,
tutti e quattro gli arconi della crociera risultavano affiancati da
grandi volte che contribuivano alla stabilità dell’insieme, cosicché sarebbe stato possibile pensare di proseguire la costrugli anni dal 1534 al 1564
181
3. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro,
particolare del profilo di travertino del tamburo
(per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
zione verso l’anello del tamburo. Pochi giorni dopo citati i festeggiamenti per la volta nord morì Paolo III e l’artista perse il
sostegno del papa che con determinazione lo aveva voluto alla
guida della Fabbrica13. Il destino del suo progetto era appeso a
un filo e se fosse mancato un appoggio in quel momento delicato certamente l’attuale basilica avrebbe un aspetto alquanto
diverso e meno “michelangiolesco” di quello che oggi possiamo vedere. Passarono quattro mesi prima che Giulio III Del
Monte (1550-1555), da poco eletto, restituisse all’architetto
l’autorità che da più parti era duramente contestata e da quel
momento, cruciale per la costruzione, Michelangelo poté godere nuovamente della fiducia del papa14. Così dalla primavera
del 1550 i lavori ripartirono in tre cantieri distinti: nelle due
terminazioni nord e sud e sopra la crociera. Diversi indizi aiutano a comprendere la strategia adottata dall’architetto per imporre il proprio progetto, agendo su questi tre fronti. Dal punto di vista dell’ideazione, nelle due absidi alle testate del transetto, in tutto eguali, furono ripetute le stesse soluzioni: l’abside sud dovette funzionare da prototipo per le omologhe parti a nord. Tamburo e cupola divennero quindi un problema a sé
stante, forse il più importante, per l’affermazione del nuovo
disegno sull’intero edificio, e la progressione della costruzione
sopra la tomba dell’Apostolo nei pochi anni di pontificato di
Giulio III dimostra chiaramente l’interesse a portare avanti la
fabbrica in questa direzione.
Il 22 dicembre 1550, un anno dopo la conclusione della volta
grande del transetto nord, Michelangelo poteva nuovamente
festeggiare con i suoi operai il completamento del “cornicione
grande della Cupola”15 (fig. 3). Non è possibile stabilire con
certezza se il documento si riferisca alla trabeazione interna o
alla prima cornice esterna, tuttavia le due modanature anulari
si trovano a una quota molto simile e non è escluso che i festeggiamenti celebrassero il completamento di entrambe. Finalmente nel cantiere iniziavano a emergere nuovi corpi di
fabbrica sopra l’estradosso delle volte delle navate maggiori.
Dietro leggere impalcature e grandi antenne per il sollevamento delle pietre, il primo anello doveva essere allora visibile da
tutto il territorio circostante, come ci mostrano molte vedute
coeve di Roma.
Era il primo corpo di fabbrica a essere realizzato sopra i grandi
arconi costruiti da Bramante in rapida successione quarant’anni prima. Il completamento del primo anello conferiva ordine
e forma compiuta a quella parte del cantiere che da decenni
rendeva la basilica più simile a un edificio in rovina che a una
moderna costruzione16. Michelangelo volle festeggiare l’evento con il dono di trenta berretti a chi aveva lavorato sotto il sole di Roma nelle impalcature più alte della basilica. Non era un
dono esteso a tutti gli operai quotidianamente impegnati in
182
4. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro,
modello ligneo michelangiolesco della cupola
di San Pietro, veduta dell’esterno
(per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
5. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro,
modello ligneo michelangiolesco della cupola
di San Pietro, veduta dell’interno(per gentile
concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
San Pietro, ma un gesto di mirata solidarietà verso chi era stato responsabile di quello che l’architetto doveva considerare
come un passo determinante per l’affermazione del proprio
progetto e del suo dominio nel cantiere17.
Durante l’anno successivo egli dovette impegnarsi intensamente per la continuazione dell’anello su cui si sarebbe impostato il tamburo; nel febbraio del 1552, quattordici mesi dopo
la festa per il primo cornicione, fu festeggiato il completamento del “regolone di sopra della cupola grande”18. Ancora una
volta, molto probabilmente, furono coinvolte solo le persone
impegnate nel completamento di questo raffinato profilo di
travertino posto a oltre cinquanta metri da terra (fig. 3). Fino a
questo punto le parti costruite sopra i pennacchi potevano apparire come una semplice prosecuzione conforme all’impostazione bramantesca. Ma la volontà di rendere coincidenti le
quote dei profili dell’intradosso e dell’estradosso è il primo
frutto della visione autonoma di Michelangelo sul progetto del
tamburo. Tale caratteristica, oggi facilmente leggibile nel modello ligneo (figg. 4-5), implica il rifiuto della scelta di Sangallo di impostare l’ordine interno del tamburo a una quota inferiore rispetto a quella del colonnato esterno (fig. 6). Per Sangallo tale impostazione derivava dalla necessità di risolvere
problemi geometrici elementari adottando una soluzione che,
notata nella cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, fu applicata a un organismo le cui membrature all’antica nell’intradosso e nell’estradosso sarebbero state del tutto indipendenti19
(fig. 7). Michelangelo pensò di progredire mantenendo una
sostanziale coincidenza nelle quote alle quali si impostavano
gli ordini esterno e interno, rendendo certamente più semplice la costruzione e affidando a massicci anelli il compito di sostenere e distribuire il peso del tamburo e della cupola. La sovrapposizione e il concatenamento di ordini di misure differenti, che rappresenta una delle caratteristiche più evidenti
dell’architettura di Sangallo, era rigettata da Michelangelo in
gli anni dal 1534 al 1564
183
6. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro,
modello ligneo michelangiolesco della cupola
di San Pietro, particolare della sezione (per gentile
concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
certamente fu presentata a Giulio III, molto probabilmente attraverso qualche disegno o per mezzo di un modello parziale.
Sull’aspetto di tale modello potremo avanzare soltanto qualche ipotesi dopo aver vagliato i documenti. È comunque evidente come, dopo la conclusione degli anelli inferiori sopra i
pennacchi nel febbraio del 1552, la decisione definitiva sulla
forma del tamburo diventasse inderogabile e che per compiere qualsiasi passo sarebbe stato necessario sottoporre tale decisione al giudizio del papa. Non sappiamo in che modo fu
presentato il progetto, ma non è escluso che, al fine di ottenere il placet da parte del pontefice per una fase di lavori cruciale, ma onerosa, esso fosse definito anche nei dettagli22. Di fronte alle dimensioni e all’importanza del tamburo di San Pietro i
pochi disegni superstiti e le grandi incertezze che li accompagnano appaiono come un panorama desolante. Se riflettiamo
tuttavia sull’intera opera architettonica di Michelangelo in San
Pietro dobbiamo concludere che, per le terminazioni absidali
del transetto, non disponiamo di nemmeno un disegno autografo di ideazione23. Prima di analizzare il materiale grafico disponibile è necessario seguire la costruzione sulla base di un
gruppo di documenti fino a oggi poco studiati, che furono
prodotti per le forniture di travertino da costruzione.
favore di una elementare sovrapposizione di corpi di fabbrica
cilindrici: una scelta che possiamo leggere come un’applicazione concreta dell’enunciato riportato nella sua famosa lettera di critica al progetto sangallesco in favore di un’architettura
“chiara e schietta”20.
La progressione in verticale era una risposta a quanti avevano
dubitato delle sue abilità di costruttore, affermata con un segno architettonico che già in queste prime fasi aveva un chiaro
impatto a scala territoriale e soprattutto era chiaramente visibile dal Palazzo Apostolico. Oggi possiamo soltanto immaginare l’entusiasmo suscitato nei funzionari di curia e nel pontefice da questo rapido sviluppo dei lavori, conquistato anche
attraverso interventi poco evidenti e oggi difficili da ricostruire su base documentaria per il consolidamento delle fondazioni dei piloni21.
Fu in questo tempo che Michelangelo fissò definitivamente la
sua idea per l’articolazione del tamburo a speroni radiali che
184
Il tamburo, come tutte le parti esposte all’esterno della costruzione michelangiolesca, fu realizzato in travertino strutturale
a vista, un materiale che richiede una contabilità analitica
quantitativa delle forniture, che in alcuni casi risulta corredata
di dati qualitativi riguardanti dimensioni, forme e collocazione di elementi in pietra. Sulla base di tale contabilità è oggi
possibile distinguere alcune fasi della costruzione e gettare i
fondamenti per alcune nuove ipotesi. Il caso del tamburo da
questo punto di vista è particolarmente fortunato poiché fu
integralmente realizzato con travertino proveniente da Fiano
Romano. Non è noto il motivo per cui sin dal 1547 la Fabbrica iniziò utilizzare questa località di estrazione insieme a quella più tradizionale rappresentata da Tivoli, che rimase comunque per tutta la stagione michelangiolesca la fonte di approvvigionamento principale24. Sta di fatto che il reperimento di
blocchi presupponeva l’esistenza di un disegno attendibile
delle parti da realizzare. Un contratto per l’estrazione di pietra
del gennaio del 1554 fornisce il terminus ante quem per l’elaborazione di un progetto di massima del tamburo. Si tratta del
primo contratto esplicitamente destinato a stabilire i patti per
chi avrebbe dovuto fornire pietre abbozzate esclusivamente
per questa parte della costruzione25. I cavatori si impegnavano
a procurare, nell’arco di un anno, travertini per un valore di almeno 1000 scudi, 200 dei quali erano anticipati dalla Fabbrica. Le pietre destinate alle “colonne della tribuna grande”, es-
sendo sbozzate in cava, avevano un prezzo pari a 17 giuli definito in partenza, e maggiore rispetto ai 12 giuli e mezzo degli
altri blocchi. Sulla base di tale maggiorazione nelle forniture
della pietra da Fiano è possibile distinguere i singoli blocchi
destinati alle colonne e stimare la progressione dei lavori26. Il
citato contratto di fornitura di travertino per almeno 1000
scudi, in termini di volume è stimabile in circa 588 carrettate
di pietra, pari a circa 194 metri cubi27. Si trattava di un limite
di minima e i pagamenti realmente effettuati dimostrano che i
cavatori di Fiano riuscirono a fornire molto più di quanto previsto nei dodici mesi successivi. La natura di questi accordi bilaterali tra Fabbrica e cavatori permette di percepire quale fosse il futuro della costruzione agli occhi di Michelangelo e anche quali fossero i suoi timori. I contratti vincolavano infatti
entrambe le parti: i cavatori a fornire pietra “senza intermissione” e la fabbrica ad anticipare parte del denaro e a saldare
progressivamente le partite di pietra28. La fornitura richiesta
era consistente, ma non spropositata se confrontata con i contratti per 2500 carrettate annue stipulati negli stessi anni con i
cavatori di Tivoli29. L’esborso di denaro era comunque considerevole e il consistente anticipo di 200 scudi dato alle imprese di fatto vincolava tanto la Fabbrica quanto i fornitori. In ultima analisi, sulla semplice base di queste valutazioni quantitative, possiamo percepire la volontà di fornire un impulso in
grado di garantire continuità alla costruzione per mezzo dell’accumulo di materiale. Michelangelo aveva potuto sperimentare di persona i tempi di lavorazione della pietra e sapeva
anche che il futuro del suo progetto dipendeva da una congiuntura favorevole determinata dalla volontà di un papa disposto a finanziare con continuità la costruzione. Come aveva
fatto ai tempi di Giulio II, quando aveva occupato le strade da
San Pietro a Castel Sant’Angelo con i blocchi di marmo destinati al monumento funebre del pontefice30, così tra il 1554 e il
1555 raccolse a piè d’opera 1800 carrettate di pietra abbozzata31. La morte di Giulio III nel marzo del 1555, la sede vacante,
il breve pontificato di Marcello II Cervini (10 aprile - 1 maggio
1555) e infine l’elezione di Paolo IV Carafa (23 maggio) non
arrestarono la macchina ormai avviata. Nel settembre del
1555 furono stipulati nuovi patti per una fornitura di 2000
scudi di travertino da Fiano per il tamburo, il doppio rispetto
all’anno precedente, mentre da Tivoli si prevedeva ancora una
volta la fornitura di 2500 carrettate di travertino per il resto
della fabbrica32. Questi semplici dati permettono di comprendere che l’impegno economico previsto dalla Fabbrica dopo la
morte di Giulio III fu considerevole.
Il pontificato di Paolo IV è stato talvolta considerato come un
periodo di rallentamento dell’attività edilizia in San Pietro e
gli effetti di tale congiuntura sono stati per questo messi in regli anni dal 1534 al 1564
lazione con un presunto arresto dei lavori per il tamburo. Tale
ipotesi è suggerita da alcuni fatti. Il 28 aprile 1555, durante il
breve pontificato di Marcello II, furono stipulati alcuni contratti in serie per la realizzazione di 28 dei 32 capitelli delle paraste interne del tamburo33. Si trattava ovviamente di una preoccupazione prematura, dato che soltanto da un anno si era
iniziato a reperire la pietra per la costruzione di questo corpo
di fabbrica e i suoi speroni radiali dovevano essere appena percepibili sopra la modanatura anulare d’imposta esterna. Michelangelo voleva certamente procedere speditamente con la
costruzione e forse voleva collaudare preventivamente dal
basso l’effetto di queste parti, per le quali comunque doveva
disporre già di modelli provvisori. Di questi 28 capitelli appaltati solo una dozzina fu portata a termine con alcuni mesi di
anticipo rispetto ai vincoli contrattuali, quelli restanti furono
intagliati solo a partire dal settembre del 1561 e gli ultimi tre
furono saldati il giorno della morte di Michelangelo, il 18 febbraio 156434. Il tempo trascorso tra l’intaglio del primo gruppo di capitelli delle paraste interne e la ripresa degli appalti sette anni dopo è forse il principale motivo che ha fatto pensare a
un arresto dei lavori nel tamburo nella seconda metà degli anni cinquanta. L’interruzione dei lavori è stata inoltre sostenuta
da Wittkower sulla base del computo delle tirate di corda per
l’innalzamento dei blocchi e le forniture di perni metallici per
i rocchi delle colonne35. Si tratta di spese minute per le quali
non risultano stipulati appalti, ma che furono pagate sulla base di prezzi convenzionati. Per questo motivo non è possibile
sostenere che il materiale archivistico giunto fino a noi sia
completo, mentre per il travertino la contabilità analitica di appalti e pagamenti permette di sostenere che tutte le forniture
sono ancora oggi documentate in modo esaustivo.
Vi sono inoltre le parole di Michelangelo che in alcune lettere
del 1556 accennò a rallentamenti nella costruzione36. Le parole dell’artista non documentano l’andamento del cantiere nel
lungo periodo, ma sono da mettere in relazione con precise
contingenze temporali, talvolta legate alla guerra, altre volte a
considerazioni emotive o strumentali per giustificare la sua
permanenza a Roma37. Le forniture di pietra da Fiano per il
tamburo impongono di riconsiderare tale rallentamento. In
realtà l’esborso di denaro destinato a queste cave vide una graduale flessione dopo la morte di Giulio III e nel biennio 15581559 risulta pressoché azzerato, ma tale flessione appare del
tutto prevedibile e fisiologica viste le consistenti provviste di
travertino negli anni precedenti (figg. 24-25). Inoltre non è
documentata alcuna ripresa repentina delle forniture alla fine
degli anni cinquanta tale da poter sostenere una rapida accelerazione dei lavori per il corpo principale del tamburo. L’andamento delle forniture sembra quindi suggerire che una enor185
7. Antonio da Sangallo il Giovane,
Studio di sezione del tamburo della cupola di San Pietro
per la costruzione del modello ligneo, dettaglio.
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 88 A
9. Michelangelo Buonarroti, Studio per la sezione e per l’alzato
della cupola di San Pietro. Lille, Palais des Beaux-Arts,
Cabinet des Dessins, Collection Wicar 93-94
10. Confronto tra il disegno di Michelangelo (Dettaglio planimetrico
del tamburo della cupola di San Pietro, Firenze, Casa Buonarroti,
31 A) e quello di Giovanni Antonio Dosio (Rilievo del modello
ligneo della cupola di San Pietro. Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, 2032 A)
me quantità di pietra fosse presente a piè d’opera pronta per
essere lavorata e che quindi la volontà di dotare il cantiere di
un’inerzia propria per mezzo del reperimento di materiali sia
stata la scelta che garantì la continuità del lavoro.
Rimane così aperta una domanda fondamentale: visto che disponiamo di contratti soltanto per i capitelli interni chi lavorò
le enormi masse di pietra restante? Dalla contabilità del travertino per il tamburo emerge chiaramente il doppio binario del
cantiere michelangiolesco: le estremità del processo di lavorazione, vale a dire l’escavazione e l’intaglio dei capitelli, erano
appaltate, mentre la costruzione ordinaria dei corpi di fabbrica, ovvero l’intaglio delle finestre e delle cornici principali, era
affidata a personale della Fabbrica pagato a giornata, la cui opera è documentata in modo molto meno sistematico e risulta
difficile da ricostruire. Le ragioni di tale suddivisione del lavoro per il momento si possono soltanto ipotizzare. Svolgendosi lontano da Roma, l’escavazione era un processo in cui l’effettiva attività delle maestranze sarebbe stata difficile da controllare e per questo doveva apparire inopportuno affidarla a
lavoranti pagati a giornata. L’intaglio dei capitelli invece, pur
essendo fatto a piè d’opera sulla base di modelli da riprodurre
in serie, si collocava nel labile confine che divideva il lavoro
dello scultore da quello dello scalpellino. In San Pietro alcuni
capitelli, come quelli dell’ordine composito in marmo dell’ordine minore interno sull’asse mediano delle absidi del transetto, costituiscono veri capolavori nel loro genere e già nel cantiere sangallesco furono affidati a intagliatori di prim’ordine
come Francesco da Sangallo38. È quindi probabile che lo status
di intagliatore-appaltatore derivasse dal riconoscimento di
una particolare qualità del lavoro, i cui tempi di realizzazione
sarebbero stati difficilmente controllabili se questo fosse stato
affidato a maestranze assoldate a giornata. Tali maestranze dovevano essere di prima qualità e risultano responsabili dell’esecuzione di molte elaborate parti in pietra. A prescindere
dalle motivazioni che determinarono tale divisione del lavoro
possiamo comunque concludere che gli appalti documentano
soltanto una minima frazione dell’edificio. La costruzione dell’intero corpo del tamburo, avviata nel 1554 con le prime forniture di pietre da Fiano, doveva essere pressoché conclusa
nell’estate del 1561 quando si appaltarono i rimanenti capitelli interni non realizzati con il primo appalto del 1555 e quelli
esterni delle colonne e delle mezze paraste degli speroni radiali definiti in gergo “imposte di capitelli”39. In quest’arco di
tempo Michelangelo poté mutare le proprie idee a proposito di
molti punti, ma dovette rimanere sempre fedele all’idea, fissata entro il 1554, di definire il perimetro per mezzo di sedici
pilastri radiali sporgenti rispetto al cilindro principale del
tamburo il cui spessore complessivo era limitato dalla larghez186
za dell’anello inferiore d’imposta. Con l’arrivo delle prime
consistenti forniture di rocchi e pietre squadrate, sin dai primi
mesi del 1554, anche il diametro delle colonne doveva essere
fissato e il progetto poteva subire solo modifiche minime nella sua impostazione planimetrica generale. Rimaneva ancora
un certo margine di variazione nel disegno delle finestre e nelle altezze dell’intero corpo di fabbrica.
A partire da queste prime valutazioni legate alla costruzione è
possibile considerare brevemente la datazione dei due disegni
di Michelangelo più significativi che documentano le prime
fasi di progettazione del tamburo. Il primo tra questi, conservato al Palais des Beaux-Arts di Lille, rappresenta un famoso
alzato parziale del tamburo con una sintetica sezione della calotta superiore (fig. 9)40. Nel suo complesso il disegno testimonia un’idea abbastanza chiara della conformazione degli speroni radiali del tamburo, tracciati anche in un significativo
schizzo di pianta (cat. 69). Appare del tutto improbabile che
Michelangelo abbia eseguito questo disegno dopo l’avvio delle
forniture di pietra per il tamburo in quanto esso presupporrebbe un cambiamento radicale della forma delle basi degli
speroni radiali41. La pianta dei pilastri doveva essere infatti decisa prima dell’avvio delle forniture dei blocchi abbozzati nei
primi mesi del 1554 o al più tardi entro l’aprile del 1555
quando furono computate “certe base”, da identificare con le
basi attiche delle colonne e delle semi-paraste del tamburo42.
Come già sostenuto da Howard Saalman, il foglio va molto
probabilmente datato agli anni di pontificato di Giulio III,
quando l’artista mise a fuoco più concretamente il progetto
per il tamburo43. Una rappresentazione più vicina a quanto costruito è riportata dal disegno sul foglio 31 A di Casa Buonarroti nel quale troviamo un esplicito riferimento agli oculi presenti anche nel disegno di Lille, poi eliminati in favore delle finestre rettangolari (cat. 67)44. A differenza del disegno di Lille,
questo elaborato non fu realizzato per visualizzare un’idea generale, ma per comunicare ai falegnami le dimensioni reali di
uno sperone radiale del tamburo per un modello di legno45.
Ciò significa che la soluzione del tamburo con finestre rotonde non fu soltanto vagamente immaginata in qualche veduta
d’insieme, ma che l’architetto pensò anche di verificarne l’effetto in tre dimensioni. Il disegno è alla stessa scala del modello attualmente conservato presso la Fabbrica di San Pietro, ma
confrontando quel disegno con un altro foglio attribuito a
Giovanni Antonio Dosio che mostra un rilievo attendibile del
modello esistente, appare chiaramente come il 31 A preveda
murature del tamburo di spessore maggiore. Dalle misure
pubblicate da Wittkower possiamo inoltre dedurre che le misure del modello esistente riportate in scala coincidono con
quelle dell’edificio costruito diverse da quelle sul foglio 31 A
(fig. 10)46. Il 31 A dovette quindi precedere la costruzione dei
primi pilastri del tamburo, databile sulla base delle prime forniture di pietra al 1554-1555. Fu allora che gli spessori murari e i passaggi tra gli speroni radiali vennero fissati definitivamente. Al più tardi entro la fine del 1556, l’articolazione di base del tamburo dovette essere posta in opera, come dimostrano due vedute aggiunte al taccuino di Maarten van Heemskerck, che possiamo datare a prima del 1557, le quali dimostrano come alcuni pilastri avessero raggiunto la quota degli
archetti di collegamento nei setti dei pilastri (figg. 11-12)47.
gli anni dal 1534 al 1564
Il foglio 31 A di Casa Buonarroti documenta quindi uno stadio
della progettazione che precede la costruzione delle basi dei
pilastri radiali. Fu allora che, forse per ragioni pratiche legate al
movimento di materiali sull’anello inferiore del tamburo, si
decise di allargare i varchi nei pilastri. Esso precede quindi di
alcuni anni anche la costruzione del modello esistente, documentata dopo il 1557-1558, e potrebbe quindi essere una
traccia di un modello non più esistente, realizzato a ridosso
della prima fase di costruzione del tamburo. Rispetto a tale
modello, la modifica più evidente riguardò il passaggio dagli
187
11. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est, circa 1556.
Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60r
(addizione al taccuino di Maarten van Heemskerck)
13. Giovanni Antonio Dosio, Rilievo della sezione
del modello della cupola di San Pietro con dettaglio
di una colonna. Firenze, Gabinetto Disegni
e Stampe degli Uffizi, f. 2033 A
14. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro,
dettaglio della finestra esterna del tamburo (per gentile
concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
la costruzione poteva proseguire senza che fosse necessario affrontare direttamente il problema della forma delle aperture
del tamburo, oculi o finestre che fossero, ma a una data che rimane imprecisata egli mise mano al problema, decidendo di
determinare l’aspetto delle aperture che noi oggi vediamo.
Michelangelo tracciò il disegno della finestra ricostruita da Joannides a partire da un dato: la larghezza netta degli stipiti interni, pari a 16,5 cm, segnata con due linee verticali di costruzione equidistanti dall’asse mediano51. Poi stabilì l’altezza pari
a circa il doppio della larghezza e rappresentò sia i profili in
piano, con l’ombra formata dalle due cornici accostate, sia il
timpano curvo completo con la modanatura sommitale a guscia semplice. Se misuriamo il disegno con la scala grafica indicata sul foglio 31 A, che corrisponde a quella del modello
conservato presso la Fabbrica di San Pietro, la larghezza della
finestra risulta pari a palmi 11 e 1/4. La larghezza netta delle
finestre interne effettivamente realizzate nel tamburo è pari a
252 cm ovvero palmi 11,3 con una differenza del tutto compatibile con la tolleranza concessa da un disegno non quotato
come quello considerato52. La rappresentazione risulta quindi
realizzata alla stessa scala del modello esistente. Un consistente gruppo di pagamenti e la testimonianza diretta di Michelangelo indicano che tale modello fu realizzato a partire dalla se-
conda metà del 155753. Nell’estate di quell’anno infatti vi sono
notizie di un modello in argilla della cupola, certamente di piccole dimensioni e molto probabilmente relativo alla sola calotta54. Le colonne del modello esistente furono invece pagate nel
maggio del 1559 e così molte altre parti del modello che “di
presente si fa”55. Tra il 1554 e la fine del 1558 erano state fornite circa 4100 carrettate di travertino abbozzato, destinato
esclusivamente alla costruzione del tamburo. La pietra dovette giungere a Roma secondo piani di taglio ben organizzati,
sulla base di un progetto generale governato, almeno in parte,
dallo stesso Michelangelo e, prima del 1559, certamente decisa la forma generale delle finestre del tamburo. Tutto ciò induce a pensare che il disegno per la finestra debba precedere la costruzione del modello esistente, che anche Vasari indica essere stato costruito quando le finestre erano ormai poste in opera56. Il foglio 31 A di Casa Buonarroti potrebbe essere una traccia del citato modello realizzato prima di quello esistente, che
in una prima fase avrebbe avuto oculi rotondi come indicano
le iscrizioni su questo stesso foglio e come mostra il disegno di
Lille. Forse proprio nel rivedere le forme di questo precedente
modello Michelangelo disegnò, sempre in scala 1:15, la finestra nel foglio poi riutilizzato per la pianta di San Giovanni dei
Fiorentini. Questa coincidenza di scala poteva permettere
12. Anonimo, Veduta di San Pietro da sud-est, circa 1556.
Berlino, Staatliche Museen - Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, 79D2a, c. 60v
(addizione al taccuino di Maarten van Heemskerck)
oculi circolari alle finestre trabeate. Non possiamo datare con
certezza tale cambiamento, ma dobbiamo supporre che sia avvenuto prima che l’anello del tamburo raggiungesse la quota
delle cornici inferiori delle mostre interne poste a un livello
inferiore rispetto a quelle esterne. Le finestre del tamburo di
San Pietro, capolavoro assoluto per la raffinatezza degli intagli,
costituiscono una soluzione architettonica straordinaria anche
dal punto di vista funzionale. È sufficiente avvicinarsi per
comprendere fino a che punto l’artista ne abbia disegnato gli
eleganti profili di travertino, la cui articolazione va collegata
all’esigenza concreta di fornire la massima illuminazione all’interno della costruzione. Possiamo facilmente comprenderne la configurazione limitandoci ad alcune osservazioni generali sulla base di una sezione attribuita a Dosio tratta dal modello conservato, dove appare chiaramente la differenza tra la
quota di imposta delle finestre esterne e interne (fig. 13)48.
188
Una delle peculiarità più evidenti del tamburo di San Pietro
consiste nella coincidenza tra i livelli di tutte le parti principali degli ordini all’interno e all’esterno; lo scarto di quota tra le
mostre delle finestre del tamburo è frutto quindi di una scelta
meditata determinata dalla volontà di ostacolare il meno possibile l’accesso della luce assecondando la direzione prevalente dei raggi solari provenienti dall’alto. Fu forse questa la ragione per cui Michelangelo, nel definire i profili delle mostre
interne ed esterne, dovette preoccuparsi di limitare gli aggetti
di travertino senza compromettere la leggibilità dei profili da
grandi distanze. Si spiegano in questo modo le cornici dai profili incassati uno nell’altro in modo da segnare una profonda
ombra e le mostre esterne che, anziché sporgere, sono inserite
in profonde rientranze della muratura in travertino. Nonostante la distanza dagli occhi dell’osservatore tutti i profili presentano un accurato disegno di dettaglio che, come gran parte
del lavoro di Michelangelo in San Pietro, non è documentato
da elaborati grafici (figg. 14-15). Dobbiamo supporre che gran
parte dei disegni sia stata fatta in cantiere, forse direttamente
sul travertino, insieme ai tagliapietra, per decidere di volta in
volta le forme finali dei modani. Un solo disegno testimonia
un passo verso la definizione delle finestre interne del tamburo. Esso è giunto sino a noi grazie al fatto che Michelangelo riciclò un foglio di carta per tracciare la più evoluta tra le famose piante di progetto per San Giovanni dei Fiorentini proposte
al granduca di Toscana nel 1559. Si tratta del 124 A verso di
Casa Buonarroti (cat. 78; Corpus 612 verso), su cui è presente
la parte superiore di una finestra che Paul Joannides ha per primo collegato a un secondo foglio, il 103 A recto di Casa Buonarroti (cat. 83; Corpus 613 recto), sul quale è rappresentata la
parte inferiore della stessa finestra che lo studioso ha ricondotto a un progetto per le mostre interne delle finestre del
tamburo di San Pietro (fig. 16)49. Si tratta di un documento
unico per comprendere la progettazione e più in generale l’utilizzo degli strumenti grafici con cui l’artista ideò le proprie architetture attraverso il disegno50. Michelangelo dovette realizzare moltissimi elaborati analoghi per definire, di volta in volta, i dettagli delle sue architetture. A fronte di un lavoro durato diciassette anni, per San Pietro sono noti circa 20 fogli con
disegni autografi. Tra essi, solamente questo foglio originario,
oggi diviso in due parti, documenta il lavoro di invenzione di
singolo dettaglio. Resta fondamentale stabilire a quale fase
della progettazione appartiene questo elaborato. Il disegno di
Lille e il 31 A (fig. 9, cat. 67), per l’esplicito riferimento agli
oculi previsti tra le campate del tamburo, vanno datati anteriormente alle consistenti forniture di pietra avvenute tra il
1554 e il 1555, allorché il progetto doveva essere fissato, nelle sue forme generali, almeno in pianta. Durante i primi anni,
gli anni dal 1534 al 1564
189
15. Città del Vaticano, cupola della basilica
di San Pietro, dettaglio della finestra interna
del tamburo (per gentile concessione della Fabbrica
di San Pietro in Vaticano)
confronti diretti tra foglio e modello, nonché fornire una base
per la realizzazione di disegni in pulito come il 31 A. Trattandosi di un modello di lavoro, sarebbe stato sufficiente realizzarne una sola campata, come lo stesso Michelangelo aveva
fatto per il tamburo di Santa Maria del Fiore, definito da superfici piane e non curve come in San Pietro57. Da tale esperienza
fiorentina, egli potrebbe aver ereditato anche la soluzione di
rappresentare in piano nel foglio 31 A un settore del tamburo
di San Pietro58. L’esistenza di tale modello intermedio, necessariamente colmo di ripensamenti, aggiunte e modifiche,
spiegherebbe bene anche l’esigenza di realizzarne uno più decoroso, per presentare il nuovo progetto della cupola con le soluzioni più aggiornate per quanto rimaneva ancora incerto del
tamburo in costruzione. Il monumentale modello conservato
sino a oggi infatti, caso singolare nella carriera di Michelangelo, rappresenta solo nella parte superiore il progetto da realizzare, mentre per la zona del tamburo esso restituisce quanto
già costruito. La presenza di timpani curvi al posto di quelli alternati, principale differenza tra quest’ultimo modello e la costruzione reale, indica la quota della costruzione raggiunta intorno al 1558-1559, quando almeno parte delle finestre era
completata, seppur senza i timpani come mostrato dai disegni
sui fogli 95 A verso e 96 A verso del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi59.
Questa considerazione sembrerebbe confermare la datazione
dell’elaborato sui fogli 103 A e 124 A a prima della costruzione del modello esistente realizzato a partire dalla seconda metà del 1557. Tuttavia si potrebbe anche ritenere che esso sia
stato elaborato per la definizione dei timpani, poi realizzati
con minime variazioni. Secondo quest’ultima ipotesi il disegno della finestra sarebbe stato tracciato intorno al 1557-1558
per realizzare il modello oggi esistente; una volta utilizzato il
foglio, Michelangelo lo avrebbe riutilizzato per ideare la spettacolare pianta di San Giovanni dei Fiorentini (cat. 78). In questo modo si spiegherebbe l’assenza di pentimenti nella parte
inferiore del disegno della finestra. Indipendentemente dalla
datazione, al momento il disegno rappresenta l’unico documento conosciuto in grado di fornire indicazioni su come Michelangelo progettasse in corso d’opera gli elementi architettonici per il cantiere di San Pietro. Dovettero essere prevalentemente disegni come questo quelli che l’artista volle distruggere dandoli alle fiamme alla fine della propria vita per non
“apparire se non perfetto”, secondo la famosa affermazione di
Vasari60. Eppure oggi disegni simili aiuterebbero a comprendere la sua progettazione in “tempo reale”.
Il grande modello ligneo che possiamo vedere ancora oggi non
fu quindi uno strumento finalizzato soltanto a presentare un
progetto prima dell’esecuzione, ma divenne una straordinaria
190
16. Ricostruzione del disegno
di finestra sulla base dei fogli di Casa Buonarroti
103 A verso e 124 A verso
17. Michelangelo Buonarroti,
Studi per la cupola di San Pietro, post 1561.
Firenze, Casa Buonarroti, 35 A verso
opera bivalente che rappresentava il tamburo in fase avanzata
di costruzione insieme alla proposta per la forma della doppia
calotta. Per la concezione di quest’ultima Michelangelo dovette
spendere notevoli energie. Tra i pochi disegni superstiti, un
piccolo ritaglio di foglio con una profilo a penna di autore anonimo mostra una sintetica sezione ripresa dal modello (cat. 68,
fig. 17). Si tratta probabilmente di una sorta di promemoria
realizzato da un aiutante per fissare alcuni dati del modello che
metteno in evidenza le differenze di quota tra l’imposta esterna e quella interna delle due calotte e quella tra gli oculi posti
sotto la lanterna. L’intero disegno è quotato con misure reali,
soltanto il diametro della cupola sembra riferibile a una misura
dal modello (palmi 12 e 3/4 in scala 1:15 pari a circa 184 palmi reali). Il disegno fu tracciato su un ritaglio di carta in un momento prossimo alla concezione della cupola, come mostrano
alcune tracce poco leggibili sul verso, forse di mano dello stesso
Michelangelo, che rappresentano i gradini sulla sommità della
calotta interna in prossimità della lanterna. Il foglio non aggiunge molto a quanto rappresentato nel modello ligneo, ma
permette di comprendere con quale impegno l’architetto abbia
lavorato alla creazione della cupola anche per parti poco visibili come l’intercapedine tra le calotte, pur sapendo che non sarebbe toccato a lui governare la costruzione fino a quel punto.
Mentre il modello era in fase avanzata di esecuzione, buona
parte del colonnato esterno del tamburo dovette essere quasi
ultimato e furono stipulati gli appalti per l’intaglio della fascia
superiore comprendente i capitelli. Verso la fine dell’estate del
1561, furono affidati simultaneamente i lavori per la costruzione dei capitelli delle paraste interne, abbandonati dal 1555,
e delle cosiddette “imposte di capitelli” per l’esterno, costituite dai due capitelli delle colonne e dai quattro mezzi capitelli
sopra le semiparaste esterne (fig. 18)61. Tali lavori procedettero di pari passo e si conclusero nel 1564. La sommità degli
speroni esterni del tamburo presentava un complicato lavoro
di intaglio per un sistema di blocchi composto da molte parti.
Nella stipula dei contratti per la loro realizzazione fu inserito
un riferimento esplicito alle possibilità di variazione che l’architetto manteneva sul disegno definitivo di tali parti da farsi
“iuxta formam modelli desuper facti ut aliter ad voluntatem et
arbitrium seu potius designum seu modellum sibi per magistrum dominum michaelem Angelum Bonarotam datum vel
dandum”62. Con la formula “desuper facti” è determinato un
luogo, non un riferimento a una parte precedente dell’atto notarile di appalto. Esisteva quindi un modello che Michelangelo pretendeva di poter modificare senza che gli scalpellini richiedessero di variare il prezzo di 350 scudi fissato per ogni
imposta. Forse si trattava del modello esistente o più probabilmente di un modello parziale, meno appariscente ma definito
nei dettagli, verosimilmente in scala 1:1. Non sappiamo con
quale materiale sia stato realizzato tale modello, è possibile
gli anni dal 1534 al 1564
191
18. Città del Vaticano, cupola della basilica di San Pietro,
particolare di uno sperone radiale (per gentile concessione
della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
19. Grafico ricostruttivo della sezione planimetrica
rappresentata nel disegno di Michelangelo dell’Archivio
della Fabbrica di San Pietro, Arm. 7, B, 427, f. 497
(per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
20. Veduta assonometrica e proiezione ortogonale
di un pilastro radiale della cupola di San Pietro
(elaborazione di Simone Baldissini)
21. Ricostruzione grafica di un pilastro radiale
del tamburo della cupola e collocazione
della parte dell’architrave rappresentata
in AFSP, Arm. 7, B, 427, f. 492
(elaborazione di Simone Baldissini)
che almeno in parte fosse in travertino, probabilmente parti di
esso furono poi inserite nei capitelli realizzati, dato che alcune
“imposte” furono pagate 300 scudi63. Non si trattava di un
problema esclusivamente formale poiché su questo anello doveva poggiare la cupola e la ricerca di solidità si traduceva nella tendenza generale a realizzare le parti in blocchi di travertino di grandi dimensioni, più scomodi da trasportare e da innalzare, ma più stabili una volta posti in opera. Le tracce di
questo lavoro di pianificazione della composizione dei blocchi
sono riconoscibili in molti luoghi della basilica. Nel caso del
tamburo sono molte le parti in cui possiamo individuare una
composizione delle pietre ordinata secondo criteri di semplicità e simmetria (fig. 18). Dobbiamo supporre che tali sistemi
di intaglio fossero determinati dalla necessità di semplificare
anche le operazioni di abbozzo in cava, poiché, una volta decise le dimensioni dei monoliti per una campata, sarebbe stato
sufficiente richiedere la fornitura dei blocchi, ripetendo in
modo seriale sempre le medesime misure.
Nella primavera del 1563, quando le prime due imposte di capitelli risultano poste in opera, si mise mano alla realizzazione
della prima campata della trabeazione64. Le sue cornici dovevano sovrapporsi al sistema di sostegno dei pilastri radiali formato da due colonne libere per tre quarti di circonferenza e da
quattro mezze paraste. Non furono stipulati appalti ma fortunatamente si è conservato un gruppo di conti consuntivi destinati a stabilire le misure, e quindi i costi, di uno dei sedici intervalli, costituito dal fregio sopra un pilone e su un tratto curvilineo del tamburo65. L’intera costruzione fu realizzata da per-
sonale della Fabbrica e l’esperto Giovanni Battista Casnedo,
che da sedici anni seguiva i lavori di Michelangelo in San Pietro, redasse questo breve calcolo di materiali e tempi di realizzazione66. Fu in questa contingenza che si fissarono forme e
misure dei blocchi da sbozzare per la trabeazione del tamburo.
Sulla base di tali misure si dovevano predisporre le richieste di
pietra alle cave di Fiano. Per chi come Michelangelo aveva trascorso mesi nelle cave di pietra, la composizione dei blocchi
doveva costituire parte integrante del progetto. Soprattutto
dopo il fallimento nella costruzione del catino dell’abside sud
l’artista doveva essere particolarmente sensibile al problema67.
Certamente egli non si fermò alle forme esteriori, ma entrò nel
merito delle tecniche con cui si doveva realizzare la sua opera.
Pochissime tracce scritte parlano di tale lavoro di definizione
preventiva degli elementi architettonici in San Pietro, mentre
per altri cantieri disponiamo di moltissimi disegni di blocchi
di marmo68. Certamente si trattò di questioni affrontate di volta in volta per mezzo di incontri informali con i soprastanti e i
capomastri inviati alle cave. Una traccia di tale lavoro è giunta
sino a noi in un ritaglio di una pianta realizzata per definire la
composizione dei blocchi di cui si sarebbe dovuto comporre
l’architrave del tamburo. Si tratta di un disegno a matita rossa
che rappresenta in proiezione piana l’architrave di uno sperone radiale del tamburo. Il disegno è giunto sino a noi grazie a
un provvidenziale riutilizzo della carta avvenuto un anno dopo la morte di Michelangelo, quando un funzionario della Fabbrica utilizzò questo ritaglio per scrivere la minuta di una patente per consentire il transito di alcuni carri con alcune pietre
192
gli anni dal 1534 al 1564
193
22. Michelangelo Buonarroti,
Studio per la sezione e per l’alzato della cupola
di San Pietro, particolare della pianta.
Lille, Palais des Beaux-Arts, Cabinet
des Dessins, Collection Wicar 93-94
bloccati sulle campagne di Fiano. Nella sua condizione di
frammento, il disegno sembra finalizzato a definire le dimensioni dei blocchi di architrave da porre sopra le semiparaste
verso l’interno di un pilone e l’effettiva composizione dei
blocchi nell’opera costruita appare confermarlo (figg. 19-21).
Le convenzioni adottate nella rappresentazione, il medium e le
poche cifre tracciate sul foglio, facilmente riconducibili all’opera grafica di Michelangelo permettono di sostenere l’autografia del disegno che mostra sorprendenti analogie con il
piccolo schizzo posto sul famoso foglio di Lille (fig. 22)69.
Si tratta di uno dei numerosissimi disegni di lavoro realizzati
dall’architetto. Il suo carattere poco attraente è legato alle necessità pratiche per cui fu tracciato lo schizzo finalizzato alla
visualizzazione del singolo problema. Questioni simili furono
argomento quotidiano da quando, nel 1546-1547, Michelangelo aveva deciso di realizzare l’edificio in travertino a vista. Il
disegno apre quindi una porta nel mondo ancora poco esplorato della progettazione dell’architettura lapidea di San Pietro70. La trabeazione del tamburo rappresentava certamente un
importante traguardo agli occhi di Michelangelo, ma nessun
documento di appalto indica esplicitamente che tale parte della costruzione sia stata affrontata prima della sua morte e soltanto le poche note di Casnedo parlano dell’intaglio di alcuni
blocchi del fregio. Quasi un anno dopo la morte di Michelangelo vennero stipulati i contratti per la costruzione delle prime
campate della trabeazione, i quali indicavano esplicitamente
come i travertini fossero lavorati nel “medemo modo et con
quella politezza che sono quelli che hoggi sono in opera”71.
Pirro Ligorio e Iacopo Barozzi da Vignola erano allora gli archi194
23. Città del Vaticano, cupola della basilica
di San Pietro, dettaglio del tamburo
tetti della Fabbrica, assunti pochi mesi prima con l’impegno di
proseguire senza modifiche il progetto di Michelangelo72. Negli atti ufficiali d’appalto il latino notarile lasciava spazio al
volgare per negare ai continuatori di Michelangelo il diritto
che questi si era riservato per modificare il suo progetto fino
all’ultimo momento. Queste poche parole, insieme alle note di
Casnedo che documentano le lavorazioni del fregio di una delle “imposte” nel 1563, forniscono la certezza che l’artista nell’ultima sua primavera aveva seguito la costruzione di una
campata della trabeazione del tamburo, fissando definitivamente le sagome della parte più alta di questo suo capolavoro
scolpito sul travertino (fig. 23).
La trabeazione fu realizzata in pochi anni soltanto nella metà
rivolta a sud e rimase incompleta fino a quando Giacomo Della Porta, più di vent’anni dopo, la portò a compimento. Negli
anni che seguirono la morte di Michelangelo l’attività nel cantiere di San Pietro dovette essere considerata dai pontefici come una priorità anche dal punto di vista dell’immagine, tanto
che molte vedute di cerimonie papali rappresentarono la fabbrica talvolta correggendo ciò che poteva sembrare sconveniente. Nella veduta anonima della giostra in Belvedere del
1565 l’attività del cantiere del tamburo è ostentata falsando la
direzione in modo da mettere in vista la trabeazione verso
nord, mentre in realtà questa fu realizzata nella parte opposta73
(cat. 70). Analogamente altre vedute celebrative, come quella
della benedizione di Pio V stampata da Antonio Lafrèry nel
1571 e la raffigurazione panoramica dei giardini di Belvedere
del 1579, nascondono l’incompletezza della trabeazione prima del suo completamento (cat. 71, 72). Con un atteggiamento simile la veduta di Natale Bonifacio del 1587 anticipa la
conclusione dei lavori inaugurati da Sisto V e rappresenta il
tempio isolato con la cupola completata e la facciata secondo
un progetto dalle forme vagamente michelangiolesche (cat.
73). La proliferazione di vedute dopo il 1564 è un fenomeno
che potrebbe essere considerato autonomamente come effetto
dell’opera di Michelangelo in San Pietro. Da allora si diffuse
l’usanza di raffigurare l’edificio in situazioni realistiche, immaginandone la mole dell’edificio come se questa fosse completato: dopo i diciassette anni in cui l’architetto aveva guidato il cantiere la speranza di vedere San Pietro realizzato non
rappresentava più un sogno, ma un obiettivo realisticamente
perseguibile.
Parallelamente i limiti dell’opera considerata autografa di Michelangelo divennero sempre meno definiti. Oggi sappiamo
che tali limiti corrono lungo la linea che segue il profilo dentellato dell’ultimo modano della trabeazione del tamburo, sopra
il quale ogni creazione va considerata come frutto di paternità
condivisa.
La spinta della costruzione verso l’alto, iniziata nei primi
mesi del suo incarico, si concluse con il modello della trabeazione più alta al quale tutti i successori si sarebbero dovuti
adeguare. Solo la morte avrebbe potuto arrestare tale spinta
inaugurando la stagione della ricerca dei suoi pensieri autentici per le parti dell’edificio non ancora poste in opera. Elevata sopra il tamburo, la cupola, efficace realizzazione di auto-
gli anni dal 1534 al 1564
grafia parziale, raccoglie in sé tutte le incertezze che accompagneranno tale campo di indagine. Nella consapevolezza
che sino alla realizzazione ogni progetto era per Michelangelo modificabile “ad voluntatem et arbitrium seu potius designum seu modellum” essa rimane quale enigmatico oggetto
per una ricerca insolubile: macchina perfetta sopra la sua ultima cornice.
195
24. Grafico ricostruttivo dei flussi di blocchi di travertino
destinati alla costruzione del tamburo della cupola di San
Pietro con indicazione dei tempi di realizzazione dei capitelli
interni e dei gruppi di capitelli esterni degli speroni radiali
(elaborazione grafica di Simone Baldissini)
25. Appalti e lavorazioni per capitelli e imposti;
flusso di travertini. Anni 1554-1564
Questo studio è stato realizzato
grazie al sostegno della Bibliotheca
Hertziana di Roma. Sono grato ad
Anna Bedon per l’aiuto alla comprensione delle problematiche legate
all’autografia nell’opera architettonica di Michelangelo, a Christof Thoenes per la discussione approfondita
di molti temi connessi a questa ricerca, a Georg Satzinger per il costante
sostegno nell’affrontare i problemi
relativi alla costruzione in pietra, a
Claudia Echinger-Maurach per l’analisi dei disegni relativi all’ultima attività architettonica di Michelangelo
1
196
ad Alessandro Brodini per le osservazioni sul testo finale. Ho condiviso
ogni passo di questo studio con
Maddalena Scimemi, senza il suo
aiuto non avrei potuto affrontare
questo lavoro.
2
La volontà dei funzionari della Fabbrica di San Pietro di non modificare
il progetto di Michelangelo si manifestò immediatamente dopo la morte
dell’artista. Ne troviamo traccia in un
documento ufficiale, in cui si impone
a Pirro Ligorio l’obbligo di seguire
quanto realizzato dal suo predecessore allorquando fu designato primo ar-
chitetto della Fabbrica nel 1564; cfr.
infra.
3
I due accurati disegni anonimi conservati presso il Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi, Collezione Santarelli U 174, U 175 rappresentano
soltanto un esempio tra i disegni esistenti del presunto progetto michelangiolesco per San Pietro. Essi generalmente differiscono tra loro per le
soluzioni di facciata e per la curvatura
della calotta della cupola, che anche in
questi fogli mostra due soluzioni alternative. Si tratta probabilmente di
copie da disegni contemporanei o di
poco successivi alle incisioni di Stefano Dupérac. Non è possibile tracciare
in questa sede una storia esaustiva di
tali rappresentazioni del progetto michelangiolesco. Per le problematiche
sollevate a questo proposito è fondamentale il foglio conservato presso la
Biblioteca Nazionale di Napoli (MS.
XII. D. 74, f. 22 v) sul quale si veda
Keller 1976. Una estesa rassegna finalizzata allo studio dei progetti di
facciata si trova in Alker 1921. Cfr.
anche Thoenes 1968, pp. 38-40,
tavv. 16-18.
4
Nel 1564 fu stampata una prima ve-
duta che ritraeva un fianco della basilica nelle condizioni reali a nome dello stampatore Vincenzo Luchino.
Cinque anni più tardi furono pubblicate tre incisioni di Dupérac rappresentanti il presunto progetto complessivo michelangiolesco a pianta
centrale per San Pietro, comprensivo
di cupola e facciata con pronao colonnato. Sulle vedute di Dupérac, cfr.
Thoenes 2000.
5
Il testo di Alfarano fu pubblicato soltanto nel 1914, cfr. Alfarano 1914.
Sull’utilizzo della pianta di Dupérac
da parte di Alfarano per realizzare il
disegno oggi conservato presso l’Archivio Storico della Fabbrica di San
Pietro (in seguito AFSP), si veda Bentivoglio 1997.
6
Le questioni che hanno animato
maggiormente gli studi dell’ultimo
secolo su Michelangelo architetto in
San Pietro gravitano intorno alla concezione planimetrica e ai pensieri per
la facciata recentemente affrontati in
Thoenes 2008a e Satzinger 2008, all’autografia dell’attico e delle cupole
minori (si vedano rispettivamente:
Millon, Smyth 1969; Brodini in
c.d.s.[b]) e soprattutto la cupola. A
proposito di quest’ultima, gli interrogativi più importanti legati alla curvatura delle calotte e alla fedeltà della costruzione rispetto ai disegni noti e al
modello esistente sono stati affrontati attraverso un confronto sistematico
delle fonti da Rudolf Wittkower nel
1933, che ha sintetizzato anche le
questioni dominanti del dibattito
scientifico sul tema; cfr. Wittkower
1933; Wittkower 1964; Wittkower
1992. Attualmente è annunciata la
pubblicazione di uno studio complessivo su questo tema di Federico Bellini che estenderà quanto esposto già in
Bellini 2008. A quest’ultimo si rimanda anche per la bibliografia selezionata.
7
Frommel 1976, pp. 67 sgg. Sulla storia della costruzione della nuova San
Pietro, cfr. Frommel 1984; Frommel
1994d. Lo stato del cantiere alla morte di Sangallo è analizzato in Millon,
Smyth 1976, pp. 141 sgg.
8
AFSP, Armadio 53, B, 128, ff. 114.
9
Vasari fornisce una versione articolata degli scontri tra Michelangelo e i
suoi aiutanti contro la cosiddetta “set-
gli anni dal 1534 al 1564
ta sangallesca”. A tale versione dei fatti si aggiungono i documenti in AFSP
pubblicati quasi integralmente da Howard Saalman, oltre ad alcune lettere
di Michelangelo; cfr. Saalman 1978;
Carteggio, vol. IV, pp. 251-252, n.
MLXXI (fine 1446 o primi del 1547),
pp. 267-268, n. MLXXXIII (14 mag.
1547).
10
L’impegno di non mutare il progetto sangallesco fu preso durante un incontro tra Michelangelo e i deputati,
come indica una lettera a monsignor
Giovanni Arberino del 26 febbraio
1547; AFSP, Armadio 53, B, 133, f.
38; cfr. Saalman 1978, p. 491.
11
Prima dell’arrivo di Michelangelo,
l’intervento più vincolante per il futuro assetto esterno riguardò la concezione del deambulatorio dell’abside
sud impostato sotto la direzione di
Raffaello. Lavori in questa parte della
fabbrica sono documentati verso la
metà degli anni quaranta sotto la direzione di Antonio il Giovane. Tali lavori non dovettero comunque influire
in modo determinante sull’assetto
generale di questa parte dell’edificio,
ma sulla definizione interna del deambulatorio e il suo innesto sul contropilastro. Si veda in proposito l’accurato conto dei lavori di mano di
Giovanni scultore e Jacomo Balducci
del 4 agosto 1544 in AFSP, Armadio
25, A, 27, ff. 3-4.
12
La conclusione dei lavori per la volta fu festeggiata tra l’1 e il 2 novembre
1549, come indicano le “spese fatte
per l’allegrezza della volta grande verso la stalla de palazzo” ammontanti in
tutto a 4032 scudi. Dovevano essere
presenti circa 150 persone, per le quali furono utilizzati 150 bicchieri e 800
piatti. AFSP, Armadio 1, G, 57, f. 717;
Armadio 25, A, 42 f. 74v e 44, f. 97.
(da schedario Cipriani ad vocem Benfinita); cfr. Frey 1916, p. 68. La volta
completata rimase con le impalcature
ancora montate per circa tre anni e solo nel gennaio 1553 fu festeggiato il
disarmo con il dono di dodici cappelli agli operai; cfr. Frey 1916, p. 71, nota 618; Francia 1977, p. 89, nota 3.
Sui festeggiamenti per il completamento di parti della basilica, cfr. Francia 1993.
13
L’atteggiamento favorevole di Paolo
III nei confronti di Michelangelo, ol-
tre che nella libertà di azione concessa
per la costruzione, traspare dalle lettere dei deputati a monsignor Archinto in Trento, pubblicate in Saalman
1978, in part. pp. 491-492. Paolo III
morì il 10 novembre 1549. Un mese
prima aveva dato un breve per garantire la stabilità della posizione di Michelangelo. Tale atto ufficiale arrivò
quindi dopo due anni di attività di
Michelangelo in San Pietro. Sul breve
papale datato 11 ottobre 1549, cfr.
Steinmann, Pogatscher 1906, p. 400;
Bredekamp 2008.
14
Il 13 marzo 1550, Giulio III impose
che fossero restituite all’artista le
chiavi del cantiere che gli erano state
tolte dopo la morte di Paolo III. Cfr. il
memoriale per il cardinale Marcello
Cervini in AFSP, Armadio 53, E, 180,
f. 117r; Francia 1977, p. 85; Saalman
1978, p. 493.
15
In occasione della festa per la messa
in opera del cornicione grande della
cupola, Michelangelo fece regalare
trenta berretti del valore di 0.27 scudi
l’uno per un totale di 1745 scudi.
AFSP, Armadio, 25, A, 42, f. 190; 44
f. 112; ivi, B, 45, f. 74v (segnature da
schedario Cipriani ad vocem Benfinita). Doveva trattarsi di un riconoscimento usuale per le maestranze poiché altri cappelli risultano donati per
festeggiare il disarmo della volta verso
il Palazzo Apostolico nel gennaio
1553.
16
I grandi pennacchi sferici di San Pietro, costruiti solo in parte, rimasero
sospesi nel vuoto per decenni e rappresentarono una delle immagini più
suggestive nelle vedute della basilica
risalenti alla prima metà del Cinquecento. Furono ideati ai tempi di Bramante come dimostrano disegni attribuiti ad Antonio del Pellegrino e
realizzati secondo una geometria leggermente differente dai disegni oggi
noti, cfr. Metternich, Thoenes 1987,
pp. 164-169. I grandi oculi realizzati
solo in parte furono probabilmente
ciò che più conferì l’immagine di rovina all’edificio riconosciuta da Christof Thoenes, cfr. Thoenes 1986.
17
Il numero dei lavoranti a giornata in
San Pietro era variabile, ma sulla base
dei partecipanti ai festeggiamenti per
il completamento della volta del transetto nord possiamo supporre fossero
attive all’incirca 150 persone (cfr. supra). Queste dovevano essere suddivise in modo elastico in tre cantieri
che procedevano simultaneamente.
Dobbiamo considerare quindi che il
dono di berretti fosse destinato soltanto alle trenta persone impegnate
con continuità sopra la crociera.
18
La festa per “l’allegrezza del cornicione finito et serrato il regolone di
sopra” il 24 o 26 febbraio 1552 dovette essere più pacata di quella fatta
due anni prima per la chiusura della
volta grande, lo si deduce dall’onere di
14,96 scudi spesi dalla Fabbrica contro i 40,52 spesi in quell’occasione,
cfr. Frey 1916, p. 71. AFSP, Armadio
1, H, 61, f. 67; Armadio 25, A, 44, f.
135v; ivi, B, 50 f. 73 (da schedario Cipriani ad vocem Benfinita).
19
Nei rilievi parziali della volta fiorentina disegnati da Sangallo nei fogli degli Uffizi 1130 A e 1164 A, certamente realizzati per la progettazione
della cupola di San Pietro e per il modello ligneo, vi è il chiaro riferimento
alla differenza di quota tra le imposte
interna ed esterna. Nel foglio Uffizi
1164 A Sangallo annotò “La cornicie
di fora è più alta D 38 che quella di
dentro”. Sulla base di tale osservazione egli pensò di diversificare notevolmente le quote degli ordini anche in
San Pietro. Sul progetto sangallesco
della cupola vaticana, cfr. Benedetti
1986; Kraus, Thoenes 1996. Le critiche implicite alla volta fiorentina
nell’opera di Michelangelo sono affrontate in Bellini 2008, in part. pp.
180 sgg.
20
In una famosa lettera databile per
via ipotetica intorno al 1546-1547
Michelangelo aveva definito la pianta
di Bramante “chiara schietta luminosa e isolata a torno” in opposizione alle complicazioni dell’architettura sangallesca, cfr. Carteggio, vol. IV, pp.
251-252, n. MLXXI (fine 1546 o primi del 1547).
21
Ennio Francia riassume i lavori di
consolidamento delle fondazioni sulla base di documenti che non ho potuto verificare direttamente, che dimostrerebbero interventi in tutti i piloni, cfr. Francia 1977, pp. 89-90, dati ripresi poi in Schiavo 1990, vol. II,
p. 752.
22
Ennio Francia cita il premio dato da
197
Giulio III al falegname che aveva realizzato un modello ligneo, cfr. Francia
1977, p. 90. Si tratta tuttavia del modello che Millon ha ricondotto al progetto di Michelangelo per un palazzo
presso il mausoleo di Augusto, cfr.
Millon 1979.
23
Nessun disegno autografo documenta le fasi di ideazione delle absidi
sud e nord e i due disegni allegati alle
lettere a Vasari pubblicati in Corpus,
vol. IV, pp. 593-594 sono soltanto
schemi esplicativi estranei alla fase di
ideazione.
24
Le cave di Fiano di proprietà della
contessa Livia Orsini erano attive già
prima dell’arrivo di Michelangelo, come risulta da un documento del
1546; cfr. Frey 1916, p. 93. Una sintesi delle problematiche legate all’estrazione di travertino presso Fiano
sono trattate in Zanchettin 2008a,
pp. 14-19, cfr. in part. nota 11.
25
Contratto con Bassano da Lodi e
Sante da Civita del 16 gennaio 1554.
AFSP, Armadio 28, E, 758, ff. 88r-v.
26
Le registrazioni dei pagamenti furono realizzate con un metodo simile alla moderna partita doppia, segnando i
movimenti di denaro in pagine contrapposte nel registro di “denari a
buon conto”, AFSP, Armadio 25, B,
48. In questo grosso tomo, redatto
quasi integralmente da Giovanni Battista Casnedo, il fornitore è indicato
come debitore nel momento in cui riceveva denaro anticipato “deve dar” e
come creditore quando forniva materiale “deve haver”. Le partite di cassa
si azzerano esattamente in ogni doppia pagina o rimandano altrove qualora rimangano debiti o crediti in sospeso. La sistematicità e l’attendibilità di
questo sistema contabile permette di
ritenere che, con buona approssimazione, siano registrati tutti i materiali
utilizzati per il tamburo, anche se
qualche passaggio di materiale da altri
cantieri non è da escludere.
27
La stima è fatta per difetto, ipotizzando che i 1000 scudi di pietra richiesti fossero tutti destinati ai rocchi
delle colonne a 17 giuli la carretta, in
realtà i fornitori si impegnarono a fornire anche pietre squadrate a 12 giuli e
mezzo. La cubatura si basa sull’approssimazione di 1 carrettata (pari a
198
30 palmi cubici) a circa 1/3 di metro
cubo. Nel costo del travertino la componente dominante era rappresentata
dal trasporto. Il costo del materiale in
cava a Tivoli era in genere di 3 giuli e
mezzo la carrettata, mentre per il trasporto da Tivoli a San Pietro erano
computati 8-10 giuli. Il travertino da
Fiano per i rocchi delle colonne a 17
giuli prevedeva la consegna al porto di
Castel Sant’Angelo. I costi complessivi per la fornitura a piè d’opera erano
quindi di difficile valutazione perché i
tragitti erano differenti, un bilancio
dei costi per il 1561 di mano di Giovan Battista Casnedo indica che nel
complesso il travertino di Fiano costava 16 giuli la carrettata contro i 17
1/3 di quello di Tivoli. AFSP, Armadio 7, B, 427, ff. 407-09 r-v: pubblicato in Zanchettin 2008a, pp. 46-47.
28
Il contratto prevedeva la fornitura
di travertino e scaglia “et che essi tevertini et scaglia habbino a essere recipienti al giudicio delli soprastanti della fabrica et continuare a sollecitare
senza intermissione […] in modo che
in capo delli detti due anni habbino
consignato almeno per scudi mille”,
cfr. AFSP, Armadio 28, E, 758, f. 88v.
29
Al solo fine di fornire un termine di
paragone si riporta l’entità di due contratti per l’estrazione di travertino da
Tivoli stipulati il 17 e il 19 novembre
1554 per l’estrazione da effettuarsi
nel 1555. Il primo con Pellegrino del
Gualdo da Nocera per 800 carrettate,
il secondo con Luca di Lorenzo e Benedetto Schella per 1700 carrettate,
cfr. AFSP, Armadio 28, E, 758, ff.
96r-v.
30
Vasari, basandosi su testimonianze
posteriori, afferma che i marmi per la
tomba di Giulio II giunti a Roma “empierono la metà della piazza di San
Pietro a Santa Caterina, e fra la chiesa
e ’l corridore che va a Castello”. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 28 [ed.
1568].
31
Il dato è desunto dalla somma approssimata per difetto del travertino
pagato, e quindi certamente fornito,
negli anni considerati. Gli acconti pagati dalla fabbrica e i travertini ricevuti presso il porto di Castel Sant’Angelo sono documentati in modo analitico in AFSP, Armadio 25, B, 48, per gli
anni in esame si vedano in part. ff.
41v, 42r, 61v, 62r, 62v, 63r, 66v,
67r, 69r, 70r.
32
Il 14 settembre 1555 fu stipulato
un contratto con Matteo di Chimenti
di Bartolomeo e Giommaria di Raphael di Battinello da Settignano per
la fornitura di 2000 scudi di travertino per “le colonne della tribuna grande”, cfr. AFSP, Armadio 28, E, 578, ff.
103v-104r. Gli appalti di travertino
proveniente da Tivoli furono stipulati
l’11 novembre 1555 con Pellegrino
da Gualdo di Nocera (800 carrettate),
Luca di Lorenzo da Fiesole (500 carrettate), Benedetto Schella (1200 carrettate), cfr. AFSP, ivi, ff. 105r-v.
33
I contratti stipulati tra il 29 aprile e
l’8 maggio 1555 sono raccolti in
AFSP, ivi, ff. 101r sgg.
34
L’effettiva lavorazione dei capitelli è
deducibile sulla base dei pagamenti
contenuti in AFSP, Armadio 25, B, 48
e ivi, B, 66. L’ultimo capitello fu saldato il 18 febbraio 1564 a Giulio e Alessandro Cioli. AFSP, ivi, B, 66, f. ff.
33v-34v.
35
Sulla base dell’assenza di pagamenti per tirate di corda e dell’acquisto di
perni metallici per i rocchi delle colonne Wittkower ha sostenuto che
nel 1556 vi sia stato un arresto dei lavori, ripresi soltanto cinque anni dopo, cfr. Wittkower 1964, pp. 95-96.
Ipotesi condivisa nella sostanza, ma
confrontata con altre fonti in Millon,
Smyth 1968, p. 495 e poi ripresa in
Millon, Smyth 1988a, p. 94.
36
In due lettere del 1556 Michelangelo accenna al fatto che nella fabbrica i
lavori erano rallentati, cfr. Carteggio,
vol. V, pp. 74-75, n. MCCXXXVI (31
ott. 1556), pp. 105-106, n. MCCLVII
(22? mag. 1577). Nel maggio del
1567 egli scriveva a Vasari: “Circa
l’esser serrata la fabrica, questo non è
vero, perché come si vede, ci lavora
pure ancora sessanta uomini fra scarpellini, muratori e manovali, e con
speranza di seguitare”, cfr. ivi, pp. 8485, n. MCCXLIV (13 feb. 1557).
37
Sulla base di fonti diverse da quelle
da me utilizzate, Federico Bellini ha
sostenuto la continuità degli esborsi
di denaro da parte della Fabbrica negli
anni in esame. Un dato che sembra favorire l’idea di una sostanziale conti-
nuità dei lavori, cfr. Bellini 2008, p.
177, nota 17.
38
Giuseppe Guerriggi, archivista di
San Pietro all’inizio del XIX secolo,
documenta l’intaglio di un capitello
composito a Francesco da Sangallo il
29 marzo 1544. Biblioteca Apostolica
Vaticana, Archivio del Capitolo di San
Pietro, Manoscritti vari, t. 35, rimanda
a AFSP, Armadio 3, d. 19, p. 21.
39
Sui capitelli interni si veda supra.
Per la fase di costruzione delle “imposte di capitelli” si veda infra.
40
Prescindendo dalle questioni legate
alla forma del profilo della cupola, oggetto di molte delle trattazioni dedicate al foglio, il disegno presenta differenze significative rispetto al modello conservato e all’edificio costruito per la presenza dei grandi oculi circolari, per l’ordine tuscanico anziché
corinzio e per la conformazione degli
speroni radiali privi di semiparaste
che affiancano le colonne. L’autografia
del disegno è stata oggetto di ampia
discussione sintetizzata in Maurer
2004, p. 126, nota 408. La sua datazione è stata altrettanto dibattuta.
Wittkower, contrariamente alle datazioni più tarde proposte in precedenza, ha fissato lo schizzo al 15461547, cfr. Thode 1908-1913, p. 161;
Wittkower 1933, pp. 357-58; Wittkower 1964, pp. 45-46. Alla luce dei
dati qui esposti a proposito della costruzione possiamo fissare come terminus ante quem il 1554 e proporre
come datazione più probabile il biennio 1552-54 proposto in Saalman,
1975, pp. 397 sgg. Per la bibliografia e
un’analisi generale del disegno, cfr.
Millon, Smyth 1988a pp. 142-147.
Per un’analisi del processo grafico e
dei disegni presenti nel foglio, cfr.
Hirst 1974; Hirst 1988b, pp. 13839; Hirst 1993. Per lo studio della
planimetria che questo disegno presuppone, cfr. Maurer 2004, pp. 126131.
41
Per una datazione alla fine degli anni cinquanta del XVI secolo, cfr. Joannides 1981 p. 621. Joannides ha sostenuti ciò sulla base dei diametri delle colonne ritenuti uguali a quelli realizzati. La differenza sostanziale tuttavia riguarda la presenza degli alti
plinti presenti nel foglio di Lille e l’ar-
ticolazione degli speroni radiali realizzati, che presentano mezze paraste
all’interno, che dovette essere decisa
prima di avviare le attività di abbozzo
di pietra a Fiano.
42
AFSP, Armadio 25, B, 48, f. 42r.
43
Saalman 1975, pp. 397 sgg.
44
L’autografia e la datazione del disegno di Casa Buonarroti 31 A è stata
discussa ampiamente in relazione alle
tecniche di raffigurazione e alle finalità del disegno considerato unanimemente come un elaborato operativo
per la costruzione del modello ligneo.
Per le considerazioni di base sul foglio
e per la bibliografia, cfr. Millon,
Smyth 1988a, pp. 148-149; Corpus,
vol. IV, pp. 97-98, 600.
45
Il disegno è in scala 1:15 come il
modello attualmente conservato
presso la Fabbrica di San Pietro. In esso è riportata una scala grafica indicante “el palmo”, mentre è omessa la
curvatura del tamburo, una semplificazione che si spiega con le difficoltà
che avrebbe imposto tracciare una
curva così ampia e con l’inutilità di
fornire tale dato ai falegnami. A tale
proposito, cfr. Bellini 2008, p. 179,
nota 28.
46
Il disegno di Casa Buonarroti 31 A
prevederebbe passaggi tra i contrafforti di palmi 4 1/3 contro i 5 1/12
rilevati da Dosio dal modello che risulta peraltro molto simile alla realtà
(1,13 contro 1,16 metri). Per il confronto tra le misure, cfr. Wittkower
1964, p. 111, in tabella riga 27.
47
I due fogli si possono datare entro la
fine del 1556 per la condizione del catino dell’abside sud, al quale si iniziò a
lavorare speditamente e a montare le
armature nei primi mesi del 1557; cfr.
Millon, Smyth 1969, p. 487, nota 2;
Brodini 2006, pp. 116-117.
48
Per un’analisi delle differenze anche
in rapporto a quanto costruito, cfr. Millon, Smyth 1988a, pp. 168-170, a cui
si rimanda anche per la bibliografia.
49
Joannides 1978, p. 176.
50
Su questo specifico foglio, e più in
generale sui disegni architettonici tardi di Michelangelo si veda EchingerMaurach in c.d.s.
51
La misura è tratta da Corpus 613.
52
La quota è tratta dalla pianta pubblicata in Bettini 1964, p. 593, fig. 639.
gli anni dal 1534 al 1564
Due lettere di Michelangelo del 13
febbraio e del 22 maggio 1557 testimoniano la volontà di costruire un
modello della cupola su sollecitazione
in particolare dal cardinale Rodolfo
Pio da Carpi, cfr. Carteggio, vol. V, pp.
84-85, n. MCCXLIV (13 feb. 1557),
pp. 102-103, n. MCCLV (avanti il 22
mag. 1557), ma anche p. 78, n.
MCCXXXIX (fine 1556 o primi del
1557?). Per i documenti sulla costruzione del modello, si veda Frey 1916,
pp. 81 sgg.
54
Frey 1916, p. 81.
55
Ivi, pp. 82 sgg.
56
Vasari scriveva che Michelangelo fu
indotto a realizzare il modello “avendo
già tirato innanzi gran parte del fregio
delle finestre di dentro, e delle colonne
doppie di fuora, che girano sopra il cornicione tondo”, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 103 [ed. 1568].
57
Nel caso di Santa Maria del Fiore i
fianchi del tamburo erano piani, ma
per una rappresentazione parziale
Michelangelo avrebbe potuto comunque adottare un modello semplificato
per poi fissare le curvature sui blocchi
a scala reale durante la costruzione,
cfr. Saalman 1975; Maurer 2003.
58
L’assenza di curvatura sul disegno
non è una prova definitiva in favore di
un modello piano. Per il modello a
una sola campata ciò appare alquanto
plausibile.
59
Federico Bellini ha notato l’assenza
dei timpani in tali disegni pubblicati
in Millon 1969, pp. 486, 499. Cfr.
Bellini 2008, p. 179, nota 29. Il disegno degli Uffizi 95 Av è probabilmente la traccia di un progetto che precede
la realizzazione del modello finale
poiché la quota della cornice sommitale delle finestre coincide con il collarino dell’ordine corinzio interno
mentre, nella realtà, tale collarino risulta collocato a un’altezza sensibilmente più alta.
60
Vasari, ed. Barocchi 1962‚ vol. VII,
p. 270. Alcune lettere redatte immediatamente dopo la morte di Michelangelo documentano almeno due distruzioni di fogli, cfr. Frey 19231940, vol. II, p. 82. In una lettera del
19 febbraio 1564, Averardo Serristori riferiva al granduca di Toscana che
“quanto a disegni dicono che gia ab53
bruciò cio che havea”, Frey 19231940, vol. II, p. 901. A proposito della sopravvivenza dei disegni di Michelangelo si vedano Hirst 1993;
Wright 1988. Sui disegni rimasti nella sua casa romana dopo la morte, cfr.
Corbo 1965, in part. p. 129.
61
Gli appalti per i capitelli interni erano già stati stipulati nell’aprile del
1555, ma solo 12 dei 28 capitelli erano stati portati a termine. Tali appalti
furono superati da nuove stipule a
partire dal settembre 1561. Sono documentati pagamenti per 31 capitelli
e 1/2, probabilmente questo mezzo
capitello fu quello utilizzato come
modello. Le imposte di capitelli furono appaltate a partire dalla fine di agosto dello stesso anno e furono completate nell’agosto del 1564. I dati sono dedotti dall’analisi dei documenti
in AFSP, Armadio 28, E, 578; Armadio 25, B, 48 e Armadio 25, B, 66.
Cfr. tabella in figg. 24-25.
62
AFSP, Armadio 28, E, 578, f. 141v
sgg.
63
Il prezzo di ogni imposta di capitello era fissato a 350 scudi. Alcune imposte furono pagate 300 scudi, probabilmente perché all’atto della stipula dei contratti esistevano parti già
realizzate. Si veda a esempio l’appalto
a Bernardino da Siena del 12 luglio
1562 in AFSP, Armadio 28, E, 578, f.
152r e i rispettivi pagamenti in AFSP,
Armadio 25, B, .48, ff. 164v-165r e
ivi, B, 66, f. 16.
64
Il lavoro d’intaglio delle imposte di
capitelli si concludeva con la posa in
opera, per la quale era previsto l’intervento degli scalpellini. Il saldo delle
somme pattuite nel contratto era subordinato a tali lavorazioni, per le
quali spesso una minima somma di
denaro veniva saldata alla fine per
l’assistenza fornita ai muratori durante la posa in opera delle pietre. Pertanto alla data di ogni saldo possiamo ritenere che le imposte non fossero soltanto intagliate, ma si trovassero assemblate nella posizione definitiva.
65
Si tratta di uno “scandaglio” ovvero
una stima del costo di un’opera realizzata da maestranze della Fabbrica, finalizzata a stabilire il prezzo da fissare
per appaltare in seguito i lavori per
opere analoghe. Il conto si trova in
AFSP, Armadio 2, B, 79, f. 124r. Sul
documento, cfr. Zanchettin 2008a, p.
26 e doc. 7.13.
66
Giovanni Battista Casnedo, di origini lombarde, fu assunto da Michelangelo pochi mesi dopo aver ricevuto
l’incarico di dirigere la costruzione.
Viveva presso la basilica e fu responsabile della gestione economica del
cantiere fino alla morte avvenuta nel
1580. Risulta a diretto contatto con
Michelangelo, per il quale talvolta
scrisse testi poi controfirmati dall’artista; per un suo profilo professionale,
cfr. Zanchettin 2008a, p. 15, n. 15.
67
Per una storia dell’errata realizzazione della volta in travertino del catino dell’abside sud, cfr. Brodini 2006.
68
Si veda il saggio di Claudia Echinger-Maurach dedicato al monumento
funebre per Giulio II presente in questo catalogo.
69
Sulle vicende vissute dal foglio, i caratteri del disegno, la sua funzione e le
ragioni dell’attribuzione, cfr. Zanchettin 2008a.
70
Su tale argomento si veda Zanchettin 2008b.
71
AFSP, Armadio 16, A, 158a, ff. 9v.
Sui caratteri e le funzioni di tale contratto, cfr. Zanchettin 2008a, in part.
p. 27 e doc. 5.1.
72
Ligorio prese servizio nell’agosto
del 1564 in seguito a un decreto della
Congregazione del 27 luglio, cfr.
AFSP, Armadio 25, B, 62, f. 221r. Un
breve memoriale del 19 luglio 1564
riassume i suoi obblighi, tra i quali vi
era prescritto tra l’altro “Che si seguiti
il modello di messer michelangelo in
tutto e per tutto”, cfr. AFSP, Armadio
2, F 10 f. 191r-v, minuta in AFSP, Armadio 7, B, 429, s.n., s.d. Sul documento si vedano Bardeschi Ciulich
1983; Millon Smyth 1988b, pp. 233236, 257, nota 119; Bellini 2006, p.
102. Vignola prese servizio come secondo architetto il primo ottobre
1564, cfr. AFSP, Armadio 25, B, 62, f.
12v; ivi, C, 67, f. 13v.
73
Lo stato della basilica intorno al
1572, ritratto nella veduta dell’anonimo Fabriczy, mostra che la trabeazione
del tamburo fu realizzata inizialmente
sul lato sud. La veduta è conservata a
Stoccarda presso la Staatsgalerie, Graphische Sammlung, n. 5811.
199
1. Michelangelo Buonarroti, Schizzo planimetrico
per un palazzo con cortile porticato, circa 1525-1532,
matita nera, matita rossa, 225 × 352 mm.
Firenze, Casa Buonarroti, 119 A recto
PROGETTI PER EDIFICI RESIDENZIALI
ESEGUITI A ROMA INTORNO AL 1550-1560
Claudia Echinger-Maurach
Gli studi di Michelangelo in rapporto ai coevi progetti di architettura residenziale costituiscono un argomento ancora poco
sondato e meritevole di ulteriori approfondimenti. I ben noti casi relativi al completamento di palazzo Farnese, all’esecuzione
del modello per la facciata del palazzo di Giulio III, alla progettazione di villa Giulia ricordata da Giorgio Vasari, sono solo alcuni tra i più eclatanti esempi del coinvolgimento di Michelangelo in progetti di architettura residenziale, consuetudine che
tuttavia annovera altre testimonianze, meno spettacolari ma altrettanto significative1. Minore attenzione hanno infatti ricevuto le committenze per progetti di palazzi urbani e suburbani, tra
i quali possono essere ricordati alcuni notevoli episodi, tra cui la
richiesta relativa a “uno poco di disegnio” richiesto nel 1525 per
la facciata del palazzo romano del datario Lorenzo Pucci, cardinale titolare dei Santi Quattro Coronati, da realizzare “in bozi
insino al primo finestrato, o come stessi più meglio”, a somiglianza di palazzo Caprini di Bramante2; il secondo inerente la
trasformazione, all’inizio del 1532, del medievale palazzo del
luogotenente mediceo Bartolomeo Valori, detto Baccio, (poi palazzo Galli-Tassi) in via Pandolfini a Firenze3, per il quale Howard Burns ha cautamente associato la planimetria del foglio
119 A di Casa Buonarroti (fig. 1; Corpus 588 recto)4. Si tratta di
una pianta per un palazzo con monumentale cortile rettangolare a portici, al quale si accennerà a breve5. I restanti studi planimetrici per case di piccola dimensione prive di cortile monumentale sono contenuti in altri quattro fogli di Casa Buonarroti.
Invero poco convincentemente, Charles de Tolnay ha ritenuto
fossero progetti di Michelangelo destinati all’abitazione da costruirsi sulle proprietà contigue di via Ghibellina, dove poi sa200
rebbe sorta Casa Buonarroti6. I primi due fogli mostrano planimetrie assai schematiche: essi sono il 33 A (Corpus 585 recto)7 e
quello proveniente dal volume XI, f. 722v dell’Archivio Buonarroti (Corpus 584 verso)8; i restanti due, insieme a vari schizzi a matita nera e penna, contengono alcuni schizzi planimetrici
ben dettagliati e con numerose annotazioni. Questi ultimi due
disegni certamente affini, rispettivamente tracciati nel 117 A
(cat. 74; Corpus 586 recto) e nel 118 A (cat. 75; Corpus 587 recto)9, secondo Paul Joannides fecero originariamente parte di un
unico foglio10 e sono generalmente assimilati ai progetti per il
cosiddetto palazzo per monsignore d’Altopascio, ovvero quell’Ugolino Grifoni a cui spettava dal 1541 il titolo di “spedalingo”, ovvero di maestro generale dello Spedale di San Iacopo
d’Altopascio presso Lucca11.
La pianta del 117 A (cat. 74) è sovrapposta alla traccia fortemente rielaborata di una cornice trabeata di finestra a orecchie, condotta con matita nera e biacca e ad altri schizzi di cornici. Disegnata la cornice, l’artista ha riutilizzato il foglio ruotandolo in
senso orario e tracciando la planimetria di una casa a matita nera, non sul campo libero a sinistra, ma verso destra, in modo da
utilizzare le linee della cornice come fossero assi di riferimento.
Poi, più centralmente, ha disegnato un’altra casa speculare alla
prima, come a immaginare una sorta di casa doppia, nella quale
ciascuna unità è dotata di propria scala, cortile e pozzo chiaramente riconoscibili e il cui asse centrale corre poco più a destra
della scritta “pozzo”. In seguito, con penna e inchiostro l’artista
ha nuovamente ristretto le dimensioni della casa già tracciata a
matita in un nuovo disegno a penna, marcando più chiaramente a destra il limite della nuova pianta. Questo nuovo schizzo
mostra due botteghe aperte verso la strada, come il citato modello di palazzo Caprini; alle botteghe corrispondono, su ciascun lato, verso l’interno, due “camere”, una rampa di scale, una
“cucina” e un’altra “camera”. La “porta” di ingresso, posta in
corrispondenza dell’asse centrale, dà accesso a un “androne” e
conduce poi al “pozzo”, passando attraverso più piccoli ambienti. Non c’è dubbio che questa fuga centrale di vani, ancora del
tutto disordinata, necessitasse di maggiore definizione planimetrica, così il piccolo schizzo all’estremo margine sinistro del
foglio, in cui la scala appare spostata in avanti, allude già al successivo cambiamento. Gli altri ambienti di questo secondo disegno, con le loro proporzioni modificate, inducono a pensare che
si tratti del piano nobile. Alcune linee proseguono i contorni
della scala verso destra, rivelando come Michelangelo pensi già
al modo di risolvere il passaggio dalle scale agli ambienti posti di
fronte. Nel disegno a penna si vede già un cenno riconducibile a
un arco poggiante su due colonne che sembrerebbe relativo al
secondo piano. Un terzo schizzo a penna molto piccolo è posto
sulla destra e mostra lo sviluppo delle scale, dove indicativamente sette gradini conducono a un pianerottolo, proseguendo
poi in lieve pendenza fino al piano nobile.
Anche il foglio 118 A recto (cat. 75) mostra una planimetria disegnata a penna12. L’interesse principale di Michelangelo è qui
concentrato sull’asse centrale della casa. Rispetto al foglio precedente, l’artista rinuncia alla seconda scala a destra, spostando la
scala sinistra poco più avanti. Nel disegno i due principali livelli, pian terreno e piano nobile, appaiono sovrapposti; le annotazioni manoscritte dimostrano come Michelangelo abbia concepito in modo unitario questi due piani nei quali gli ambienti superiori sono in stretto rapporto con quelli sottostanti: alle “botteghe disocto” corrispondono le “camere di sopra”. Lungo l’asse centrale si trovano così annotati tre ambienti l’uno consecutivo all’altro, posti nel seguente rapporto: al “rececto” segue il “salocto”13 e a quest’ultimo il giardino con pozzo. Ricetto e salotto
sono divisi da una parete dotata di ampia apertura, salotto e giardino sono separati da una fila di colonne. Da esperto anatomista, Michelangelo crea una dorsale a cui fanno riscontro ambienti affacciati simmetricamente su ambo i lati14. Non sono finora
stati considerati i doppi tratti di muro relativi agli ambienti verso la strada: ritengo che essi mostrino la “sala di sopra”, rapportata nella sua grandezza alle botteghe laterali “disocto”. Analogamente la pianta prevede anche un “andito” posto al di sotto
del “salocto”. Balza dunque all’occhio come l’artista disegni con
economia di segni, efficacia e capacità di controllo, i due piani
uno sull’altro, ponendoli nella loro estensione spaziale in reciproca correlazione.
Che cosa rende dunque così singolare questo progetto a prima
vista tanto semplice? Per quale motivo queste planimetrie sono
gli anni dal 1534 al 1564
caratterizzate da una consapevole rinuncia alla soluzione di un
cortile centrale porticato? Osserviamo la sequenza progettuale
che ha determinato la pianta proposta nel foglio 118 A recto.
Nel primo disegno di casa doppia tracciato a matita del 117 A, il
punto di partenza era stato la netta separazione dei due nuclei
abitativi, ciascuno dei quali, dotato di propria scala, mostrava
non solo una propria cucina, ma anche un proprio pozzo. Nella
redazione finale del 118 A recto invece si è scelto di collegare
simmetricamente le botteghe e le corrispondenti “camere di sopra” rispetto a un’asse centrale, secondo uno sviluppo di vani in
reciproca relazione di proporzionalità. In particolare balza agli occhi la forma del vano d’ingresso chiamato “androne” in 117 A e
“ricetto” in 118 A recto, che in quest’ultima pianta possiede la
stessa larghezza del seguente “salotto” al piano inferiore. Vale a
dire che Michelangelo scarta immediatamente la tradizionale sequenza di corridoio stretto e buio con successivo cortile ampio e
luminoso. Va aggiunto che ciascuna bottega ha una porta verso
l’androne e ciò costituisce un’ulteriore insolita soluzione. Anche
il cambiamento di denominazione da “androne” a “rececto” rivela che a quest’ultimo – al pari del ricetto della Biblioteca Laurenziana – si voleva assegnare una pianta quadrata, circostanza
che lascia immaginare una più complessa articolazione architettonica rispetto ai più tradizionali corridoi, per esempio mediante l’aggiunta di colonne, lesene o anche sedili15. Michelangelo
dunque trasformò l’elemento del corridoio in un vero e proprio
vestibolo architettonicamente qualificato. Che non si tratti di un
caso eccezionale nell’opera architettonica dell’artista è provato
dalla pianta tracciata a matita rossa e nera sul citato foglio 119 A
recto (fig. 1; Corpus 588 recto). Questa pianta, finora piuttosto
trascurata, è stata datata tra il secondo e gli inizi del terzo decennio del Cinquecento16. Rispecchiando il carattere di varietà tipico
delle architetture di Michelangelo, nel foglio 119 A recto intorno
201
2. Incisore del XVI secolo, Palazzo Caprini, 1549,
bulino, 390 × 490 mm. Firenze, Casa Buonarroti,
A.458a.R.G.F., n. 33
allo schiacciato cortile rettangolare porticato è disposta una sequenza di vani quadrati e rettangolari, mentre all’ingresso si trova un ricetto quadrato. L’intercolunnio del cortile mostra inoltre
una caratteristica sorprendente: gli interassi dei sostegni verticali dei lati minori del portico sono raccorciati rispetto a quelli dei
lati maggiori. Per questo motivo è possibile che le basi quadrilatere possano riferirsi più facilmente a pilastri piuttosto che a colonne. Possiamo pertanto immaginare che gli intervalli più ampi fossero sormontati da archi ribassati, come quelli che l’artista
progettò, con nuova e sorprendente invenzione, per le volte con
sesti “in forma di mezzo ovato” per il ricetto nel piano nobile di
palazzo Farnese17. Alla luce di queste considerazioni è possibile
dunque rispondere alla domanda sul perché nella sequenza di
202
3. Incisore del XVI secolo, Palazzo Alberini, s.d.,
bulino, 395 × 505 mm. Firenze, Casa Buonarroti,
A.458a.R.G.F., n. 73
progetti per le case di Ugolino Grifoni, l’artista abbia rinunciato
alla presenza del cortile: per la semplice mancanza di spazio nel
lotto a disposizione.
Un motivo assai interessante del foglio 118 A, sicuramente derivato da coevi esempi di palazzi romani, è la presenza del “salocto” quadrato dal quale si dipartono lateralmente le scale e
chiuso verso il giardino da file di colonne. Esso ricorda la loggia
della parete d’ingresso che precede i cortili con pareti laterali
chiuse, caratteristiche del cosiddetto tipo architettonico indicato da Christoph Frommel come Palazzetto-Höfe18.
Particolarmente controverso appare il tentativo di datazione
dei disegni planimetrici contenuti nei fogli 117 A e 118 A recto, poiché essi sono stati riferiti sia a un’epoca giovanile, intor-
no agli anni 1518-152019, sia a una più tarda, tra 1546 e
154720, se non addirittura intorno al 156021. Tuttavia è possibile tentare di precisare questa datazione anche attraverso il ductus della mano e lo stile dei segni grafici. Un lampante esempio
della scrittura intorno agli anni 1518-1520 sono le note appuntate sul foglio 32 A di Casa Buonarroti (Corpus 331 recto)
relative allo schizzo planimetrico di un terreno acquistato a Firenze da Michelangelo dal Capitolo di Santa Maria del Fiore il
14 luglio 1518. Tipici di questi anni fiorentini sono i tratti allungati delle aste superiori e inferiori, frequentemente assai
slanciati. Al contrario la scrittura nei due fogli in esame è assai
più contenuta e mostra lettere collegate tra loro con maggiore
fluidità. Le stesse caratteristiche di fluidità si riscontrano nelle
gli anni dal 1534 al 1564
glosse esplicative destinate a Giorgio Vasari apposte nel 1557
da Michelangelo in margine a due disegni del catino absidale
per il braccio meridionale del transetto della basilica di San Pietro, oggi conservate in Casa Vasari ad Arezzo (Corpus 593 recto e 594 recto)22. Ho recentemente cercato di dimostrare come
in età tarda Michelangelo tendesse a distinguere i muri perimetrali delle sue piante con un colore molto scuro. Il disegno nel
foglio di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus 610 recto), raffigurante una delle soluzioni planimetriche per la chiesa
di San Giovanni dei Fiorentini, non solo mostra la scrittura
fluida dell’età matura, ma anche il modo di tracciare i contorni
del progetto con tratti di penna più volti ripetuti, caratteristica
quest’ultima evidente tanto nelle due esedre laterali prossime
203
all’ingresso della chiesa23, quanto nelle pareti perimetrali delle
piante in oggetto. Le considerazioni sul ductus e sullo stile dei
disegni portano dunque a spostare la datazione di queste case
verso la fine degli anni cinquanta del Cinquecento.
Una volta che il progetto di abitazione residenziale, documentato dai fogli 117 A e 118 A recto e verso, è stato inquadrato
cronologicamente sulla base dello stile e del ductus, resta da verificare la motivazione della scritta “laltopascio” apposta nel
margine superiore sinistro del foglio. Senz’altro da respingere
la relazione con gli infondati progetti per le proprietà di via
Ghibellina, regge bene il nesso tra l’appellativo “laltopascio” e
il nome di Ugolino Grifoni, segretario personale di Cosimo I,
dal 1541 spedalingo dello Spedale di Altopascio24. Non a caso
tale appellativo ricorre sia in un disegno di Francesco da Sangallo per un casale presso Lucca25, sia su diversi fogli di Bartolomeo Ammannati, sui quali sono disegnate mostre di porte e di
finestre “per l’Altopascio”, ovvero per il palazzo Grifoni in via
dei Servi a Firenze26. Nel 1549 i tre fratelli Grifoni avevano acquistato dalla famiglia Ricci la proprietà dove sarebbe stato costruito il futuro palazzo, ma solo nel 1557, con l’acquisto di
un’ulteriore adiacente lotto dalla stessa famiglia, fu dato avvio ai
lavori27. Nelle planimetrie di Michelangelo la presenza di botteghe verso la strada spinge a ritenere che si tratti di un progetto
per questo palazzo fiorentino, dato che le precedenti proprietà
presentavano al pian terreno due analoghe destinazioni d’uso,
assoggettate nel febbraio 1558 al pagamento della tassa imposta a questo tipo di attività commerciali28. Nel caso in cui si sia
stato Ugolino Grifoni a rivolgersi direttamente allo scultore,
tali progetti potrebbero essere datati al 1557 o poco prima29.
Tuttavia, grazie alla fiducia accordata da Michelangelo a Bartolomeo Ammannati già dal 1550, non è da escludere la possibilità di una consulenza offerta dal maestro al discepolo, il quale
si trovò a dirigere la costruzione del palazzo dall’inizio dei lavori, come testimonia il coevo disegno Uffizi 3452 A dello stesso
Ammannati30.
Marco Calafati ha recentemente sostenuto che le planimetrie di
Michelangelo siano da assegnare ai progetti per un palazzetto
che Ugolino Grifoni avrebbe voluto costruire a Roma31. A sostegno di questa ipotesi bisognerebbe indagare sulla durata dei soggiorni romani di Grifoni. Secondo Stefano Calonaci “fino al
204
1560 il Grifoni risiedette tra Pisa e Lucca sui possedimenti dell’ospedale, per spostarsi nei mesi invernali a Firenze”32. Solo nel
marzo 1560, in qualità di supervisore della famiglia cardinalizia
seguì il neoeletto cardinale Giovanni de’ Medici a Roma; nell’Urbe si trattenne, anche se sporadicamente, fino alla morte del
suo protettore nel 156233. Grifoni disponeva senz’altro delle risorse finanziarie per far costruire un palazzo anche a Roma, ma
le piante di Michelangelo, con la loro duplice struttura, fanno
concludere che il palazzo era pensato per più nuclei abitativi, come ad esempio il citato palazzo Caprini (fig. 2)34, costruito dai
due fratelli Adriano e Aurelio Caprini, oppure Palazzo Alberini
(fig. 3), che Giulio Alberini aveva affittato a due banchieri fiorentini35. Trarre vantaggio economico attraverso l’affitto delle
botteghe al pianoterra era parimenti consuetudine diffusa36. A
immagine delle antiche tabernae, le botteghe dei palazzi romani
del Cinquecento si distinguono per le loro ridotte dimensioni e
si caratterizzano per la presenza di un mezzanino soprastante
spesso destinato ad abitazione. A differenza di queste, i due disegni ipoteticamente associabili a Ugolino Grifoni mostrano tre
grandi aperture in facciata: una porta d’ingresso e due ampie finestre adatte ad accogliere spaziose botteghe. Al di sopra di tali
aperture bisogna poi immaginare, su ciascun asse verticale, le
corrispondenti aperture del piano nobile, con larghezze di dimensione variata. Tutto ciò fa pensare che, nel suo complesso,
l’edificio non dovesse essere molto grande, sollevando al tempo
stesso il problema riguardo alla composizione della facciata, se
essa dovesse essere articolata con ampi intervalli tra le finestre a
dare il senso di una travata ritmica. Problema che si ripresenta
sulla facciata laterale sinistra dello schizzo del 118 A, dove allo
stesso modo erano previste solo tre aperture.
Si può ragionevolmente concludere che le planimetrie dei foglio
117 A e 118 A recto disegnate da Michelangelo non possono essere facilmente assegnate ad alcun progetto noto, anche se non
può essere escluso che siano state disegnate come prime idee
per il palazzo dei fratelli Grifoni a Firenze alla fine degli anni cinquanta. Da parte di Michelangelo resta assai interessante la ripresa e la modificazione di un tipo architettonico di palazzetto –
monumentale, ma in piccola scala – destinato a importanti personaggi di curia, al cui grande successo in quegli anni aveva per
primo contribuito Donato Bramante37.
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, pp. 228, 233; Millon 1979,
pp. 770-777; sul progetto di Michelangelo per palazzo Farnese si veda il
saggio di Emanuela Ferretti in questo
stesso catalogo.
2
Carteggio, vol. III, p. 130, n.
DCLXXXVI (28 gen. 1525); ivi, p.
133, n. DCLXXXIX (8 feb. 1525);
ivi, p. 138, n. DCXCIII (16 mar.
1525); ivi, pp. 205-206, n.
DCCXXXVIII (4 feb. 1526); Frommel 1973, vol. I, pp. 147-148, nota 7.
3
Carteggio, vol. III, pp. 386-387, n.
DCCCLVI (primi di apr. 1532); Ginori Lisci 1972, vol. II, pp. 559-560.
4
Burns 2006, pp. 27-29, ha attribuito a Michelangelo le eleganti finestre inginocchiate presenti nella
facciata di questo palazzo; per un
ampio inquadramento sul tema delle finestre inginocchiate, cfr. H.
Burns, scheda 9, in Elam 2006, pp.
178-181 e Belluzzi 2004.
5
Una rapida bibliografia al disegno è
in B. Contardi, scheda 10, in Argan,
Contardi 1990, p. 174.
6
Tolnay 1966.
7
Il rapido schizzo a penna occupa
l’intero frammento del foglio al cui
verso sono solo brevi annotazioni
autografe di conti.
8
Per questo rapido schizzo planimetrico a lapis rosso Michelangelo ha
usato il verso di una lettera indirizzata
a Domenico Terranova, cfr. Carteggio,
vol. I, p. 350, n. CCLXXVIII (27 apr.
1518).
9
L’edicola e le cornici disegnate nei
fogli 117 A e 118 A verso, databili
alla seconda metà degli anni cinquanta del Cinquecento, possono
essere messe in relazione con le finestre interne del tamburo della cupola di San Pietro, per tale confronto si veda Echinger-Maurach in
c.d.s. e il saggio di Vitale Zanchettin
in questo stesso catalogo; va aggiun1
gli anni dal 1534 al 1564
to che i fogli 117 A verso e 118 A
recto, una volta affiancati e opportunamente orientati, mostrano due
cerchi concentrici che sono stati posti in relazione con svariati studi:
con la cupola e la lanterna di San
Pietro (Corpus, vol. IV, pp. 87-88);
con la pianta per la lanterna della cupola di San Pietro (Carpiceci 1991,
p. 62); con la pianta della chiesa di
San Giovanni dei Fiorentini (Joannides 2007, p. 259); con la pianta per
la lanterna di San Giovanni dei Fiorentini (Fara 1997, pp. 34-59).
10
Joannides 1981, p. 686.
11
Su questa commissione, cfr. F.
Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi,
Zevi 1964, pp. 846-847; Ackerman
1986, p. 296; Ackerman 1988, pp.
166-167; B. Contardi, scheda 10, in
Argan, Contardi 1990, pp. 173174; Carpiceci 1991, pp. 54-55,
62-64; Fara 1997, pp. 34-59;
Echinger-Maurach 2006, p. 108; Joannides 2007, p. 259. Intorno a
questi due fogli si è recentemente
discusso con vivo interesse nelle
due relazioni di Claudia EchingerMaurach, Il riutilizzo dei disegni architettonici di Michelangelo: un fenomeno del suo stile tardo? e di Marco
Calafati, Michelangelo e il Palazzo
Grifoni a San Miniato al Tedesco, presentate al convegno internazionale
Michelangelo e il linguaggio del disegno d’architettura (Firenze, Kunsthistorisches Institut, 29-31 gennaio 2009), a cura di A. Nova e G.
Maurer, i cui atti sono in corso di
stampa.
12
Il foglio 118 A recto contiene un
disegno planimetrico a matita che
sembra preparatorio alla planimetria disegnata a penna e inchiostro;
altro simile schizzo benché assai più
approssimativo è nel verso dello
stesso foglio, cfr. scheda 26, in Millon, Smyth 1988b, pp. 139-141.
Sulla forma e funzione di questa tipologia di ambiente, cfr. Frommel
1973, vol. I, p. 71, alla voce “saletta”.
14
Riguardo ai concetti di simmetria e
assialità nell’opera di Michelangelo,
cfr. Echinger-Maurach 1991, vol. I,
pp. 2, 92.
15
Frommel 1973, vol. I, pp. 54-56.
Sulle austere decorazioni degli androni dei palazzi fiorentini, cfr. Lingohr 1997, pp. 76-77.
16
Sulla combinazione di matita rossa e nera nei disegni di Michelangelo
degli anni trenta, cfr. Echinger-Maurach 2006, pp. 99-102; per il rapporto di Michelangelo con Baccio
Valori e la scultura dell’Apollo, oggi
al Museo Nazionale del Bargello di
Firenze, eseguita per Valori negli anni 1530-1532, cfr. Echinger-Maurach 2000.
17
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 224.
18
Frommel 1973, vol. I, p. 57.
19
Ackerman 1988, pp. 166-167; B.
Contardi, scheda 10, in Argan, Contardi 1990, pp. 173-174.
20
Corpus 586 recto.
21
Joannides 1981, p. 686.
22
Su questo argomento, cfr. il saggio
di Alessandro Brodini in questo catalogo.
23
Echinger-Maurach 2006, p. 108.
24
Su questo personaggio, cfr. Calonaci 2002.
25
Firenze, Gabinetto Disegni e
Stampe degli Uffizi 1680 A recto;
Joannides 2007, p. 274, suppone
che i disegni 117 A e 118 A di Michelangelo si riferiscano a progetti
per Ugolino Grifoni a Lucca.
26
Fossi 1970, pp. 327-328, f. 39v;
ivi, pp. 325-326 con la leggenda di f.
38r.
27
Su questo palazzo, cfr. Thode,
1908-1913, vol. II, p. 140; vol. III, n.
167; Vodoz 1942, pp. 58-79, nello
specifico pp. 63-64; Fossi 1970, pp.
13
61-67; Ginori Lisci 1972, vol. I, pp.
451-456, nello specifico pp. 451454; Kiene 1995, pp. 74-88; Pozzana 1995, pp. 155-160; Giovannini,
Primi, Presciutti 1995, pp. 297-303;
Ruschi 1995, pp. 305-320.
28
Vodoz 1942, p. 62.
29
A partire dal 1551, Ugolino Grifoni fece anche costruire un palazzo a
San Miniato al Tedesco da Giuliano
di Baccio d’Agnolo; cfr. StegmannGeymüller 1885, vol. VII, p. 4: la
fig. 7 mostra che il palazzo di San
Miniato non possiede botteghe e si
apre sulla campagna lungo un fianco, ciò esclude che i citati progetti di
Michelangelo possano essergli associati, sull’argomento cfr. Stiaffini,
Macchi 2007, pp. 24, 27.
30
Vodoz 1942, p. 62; Fossi 1970, p.
212, n. LXXXII; Kiene 1995, p. 77.
31
Si tratta della citata relazione di
Marco Calafati presentata al convegno
Kunsthistorisches Institut di Firenze
lo scorso gennaio, si veda supra.
32
Calonaci 2002, p. 412.
33
Grifoni tornò pressoché stabilmente a Roma dal 1569, quando
Michelangelo era ormai morto, per
accompagnare il secondo figlio di
Cosimo, Ferdinando de’ Medici,
quando anche questi fu nominato
cardinale; in questo periodo Grifoni
dovette accontentarsi di una modesta stanza, piuttosto rumorosa, a palazzo Cardelli, detto “Palazzo di Firenze”, cfr. Calonaci 2002, pp. 412414.
34
Su palazzo Caprini, cfr. Frommel
1973, vol. I, pp. 93-96; sull’incisione, cfr. scheda 39, in Corsi, Ragionieri 2004, p. 53.
35
Frommel 1973, vol. I, pp. 108109, 154. Sull’incisione di palazzo
Alberini, cfr. scheda 40, in Corsi,
Ragionieri 2004, p. 54.
36
Frommel 1973, vol. I, pp. 90-91.
37
Ackerman 1988, pp. 166-167.
205
1. Roma, San Giovanni dei Fiorentini
visto da Trastevere in una foto d’epoca
SAN GIOVANNI DEI FIORENTINI
Mauro Mussolin
La nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima
occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai;
et a me ne dolse infinitamente. Non ho voluto mancare di fare
questa breve memoria, perché si vegga che questo uomo
[Michelangelo] cercò di giovare sempre alla nazione sua
et agli amici suoi et all’arte.
Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo1
Celeberrimi per annoverare tra le più straordinarie soluzioni a
pianta centrale del Cinquecento, i progetti per la chiesa di San
Giovanni dei Fiorentini rappresentarono uno dei più importanti banchi di prova su cui si misurarono, fianco a fianco o nel
tempo, i migliori architetti dell’epoca. Il primo tentativo di ricostruire una nuova chiesa-oratorio per la comunità dei fiorentini a Roma data al 1508, quando il vecchio edificio del
1484 fu atterrato in previsione del grande piano di sistemazione urbana di via Giulia e del palazzo dei Tribunali intrapreso da Donato Bramante su commissione di Giulio II (15031513) e per il quale lo stesso architetto fornì un disegno di
pianta a cui tuttavia non fu data esecuzione2. Il successivo
pontificato di Leone X de’ Medici (1513-1521), subito caratterizzato da una politica filotoscana, assicurò una solida stabilità giuridica e finanziaria alla comunità dei fiorentini in Roma. Il 12 agosto 1513 fu nominata la commissione che avrebbe dovuto ricercare l’area sulla quale costruire la chiesa e nel
1515 fu ufficialmente istituito il consolato della Nazione fiorentina. Il luogo era un plesso urbano di fondamentale importanza economica e strategica, il cosiddetto “piccolo tridente”,
un trivio di strade convergente su piazza di ponte Sant’Ange-
206
lo, popolato da banchieri, mercanti e funzionari dell’amministrazione pontificia, per lo più di origine toscana. Lì, al termine dell’asse orientale del trivio, sopra le sponde del Tevere sarebbe stata innalzata la piattaforma di fondazione della chiesa
di San Giovanni dei Fiorentini (fig. 1). Tre disegni a pianta
centrale di mano di Giuliano da Sangallo sono stati riconosciuti come progetti per la realizzanda chiesa e la loro datazione può verosimilmente farsi risalire a questi primi anni di
pontificato leonino, tra 1513 e 15163. Giorgio Vasari colloca
al 1517 la data del famoso “concorso” per il progetto della
chiesa voluta dal papa, la cui regia, assai probabilmente affidata a Raffaello, ebbe modo di valersi di protagonisti del calibro
di Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il
Giovane e Jacopo Sansovino4. La varietà di proposte planimetriche di cui si correda la storia edilizia della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini documenta in maniera esemplare quella
che, con felice formulazione, è stata definita la “tendenza linguistica medicea” presente nell’architettura del primo Rinascimento romano, caratterizzata proprio da una molteplicità
di “diverse maniere”, individuate da grafie autonome e personali, ma accomunate dalla volontà di definire uno stile di ambizione universale, veicolo di un linguaggio antiquario, elegante e curiale, specchio della politica artistica del pontificato
leonino5. Il 10 gennaio 1519 il papa autorizzava l’erezione
della chiesa e il successivo 29 gennaio, con la bolla Intenta iugiter, elevava la chiesa a parrocchia dei fiorentini a Roma, con
fonte battesimale, campanile e cimitero, garantendole privilegi e indulgenze. Il 31 ottobre dello stesso anno, il cardinale
Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII), in qualità di arcive-
scovo di Firenze, benediceva la posa della prima pietra. Nonostante le ingenti donazioni, gli sforzi per dare compimento alla chiesa costituiscono lo specchio dei progressi e delle difficoltà incontrate dalla comunità tosco-fiorentina nella Roma
dei papi. Resta tuttavia fondamentale comprendere come le
attese del pontefice fossero quelle di fare della chiesa di San
Giovanni il luogo in cui avrebbero dovuto “essere registrate le
scansioni sacramentali della vita di tutti i Fiorentini residenti
a Roma”, ai cui consoli e operai venne demandata ogni questione riguardante la fabbrica6. Il continuo riferimento di questi progetti a una planimetria centralizzante e la loro continua
citazione di elementi tratti dal battistero fiorentino non furono soltanto una indicazione di tipo formale di ideale fratellanza fra le due città, ma furono mossi e giustificati da una motivazione liturgica e identitaria: l’ecclesia florentinorum, edificio simbolo della comunità, elevato in posizione ben visibile a
sbalzo sull’ansa del fiume e in diretto confronto visivo con un
altro erigendo edificio, l’ecclesia universalis di San Pietro7.
Tra 1518 e 1521, ai citati artisti coinvolti nel concorso può essere attribuita la serie omogenea di progetti a pianta centrale, con
dimensioni simili pari a circa 220 palmi (poco meno di cinquanta metri), caratterizzati dalla fusione tra il tema spaziale del Pantheon e quello del battistero di San Giovanni a Firenze, secondo
un connubio probabilmente dettato dallo stesso pontefice il quale fu sempre animato dall’idea del sodalizio fra Roma e Firenze e
del gemellaggio tra Tevere e Arno8. L’assegnazione dell’incarico
fu vinta da Sansovino il quale formulò una proposta planimetrica ancora assai discussa dalla critica, ipoteticamente identificabile, sulla base del contraddittorio racconto vasariano, con una
pianta centrale avente “su’ quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna, e nel mezzo una maggiore tribuna”9. Nonostante i dubbi che permangono sull’aspetto di tale progetto, la
planimetria sembra derivare soprattutto dalle sperimentazioni
bramantesche derivate dal tema del quincunx, ovvero una pianta quadrata con cappelle angolari cupolate e cupola centrale. All’inizio del 1521 va registrato l’allontanamento dal cantiere di
Sansovino al cui posto subentrò Antonio da Sangallo il Giovane;
a quest’ultimo si deve la variazione del precedente schema a
pianta centrale per uno longitudinale di tipo basilicale10, sulla base del quale si diede inizio alle costosissime e assai problematiche
fondazioni sul letto del fiume che tanta ammirazione, ma anche
tanto biasimo, suscitarono nei contemporanei, come pungentemente riferito da Vasari nella Vita di Antonio il Giovane:
Avendo intanto la Nazione fiorentina col disegno di Iacopo
Sansovino cominciata in strada Giulia, dietro a Banchi, la
chiesa loro, si era nel porla messa troppo dentro nel fiume:
perché, essendo a ciò stretti dalla necessità, spesono dodici
gli anni dal 1534 al 1564
mila scudi in un fondamento in acqua, […]. perché non dovevano mai permettere che gli architetti fondassono una
chiesa sì grande in un fiume tanto terribile, per acquistare
venti braccia di lunghezza, e gittare in un fondamento tante migliaia di scudi, per avere a combattere con quel fiume
in eterno: potendo massimamente far venire sopra terra
quella chiesa col tirarsi innanzi e col darle un’altra forma; e,
che è più, potendo quasi con la medesima spesa darle fine: e
se confidarono nelle ricchezze de’ mercanti di quella Nazione, si è poi veduto col tempo quanto fusse cotal speranza
fallace: perché in tanti anni che tennero il papato Leone e
Clemente de’ Medici e Giulio terzo e Marcello, ancor che vivesse pochissimo; i quali furono del dominio fiorentino;
con la grandezza di tanti cardinali e con le ricchezze di tanti
mercatanti, si è rimaso e si sta ora nel medesimo termine
che dal nostro Sangallo fu lasciato.11
Scrivendo nel 1568, Vasari ricordava bene come, tra enormi
costi e immani difficoltà tecniche, ancora a quella data la piattaforma sangallesca e alcuni tratti del perimetro murario della
chiesa costituivano le uniche parti della costruzione a essere
state condotte12. In due ulteriori passi tratti dalla Vita di Michelangelo, lo stesso Vasari fornisce le importanti informazioni che riguardano il doppio coinvolgimento di Buonarroti nella vicenda. Il primo risale al 1550, sotto il papato del toscano
Giulio III Ciocchi del Monte (1550-1555):
Era messer Bindo Altoviti, allora consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione
gli disse che sarebbe bene far condurre questa opera nella
207
2. Michelangelo Buonarroti, Studio planimetrico
per San Giovanni dei Fiorentini, 1559.
Firenze, Casa Buonarroti, 121 A
3. Tiberio Calcagni (?), Planimetria del progetto finale
di Michelangelo per San Giovanni dei Fiorentini, circa 1560.
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 3185 A
4. Valérian Regnard, Ichnographia Templi Sancti Ioannis Baptistae
Nationis Florentinorum in Urbe Michaele Angelo Bonaroto Architecto
in Lucem Edita a Valeriano Regnartio, 1683, acquaforte,
in Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae Templa,
Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore,
Roma 1684, tav. 49
chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, e che ne aveva già
parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa, e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa. Piacque
questo a messer Bindo, ed essendo molto famigliare del papa, gliene ragionò caldamente; mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella, che Sua Santità faceva fare in Montorio [si tratta della cappella del Monte in
San Pietro in Montorio], l’avesse fatte nella chiesa di San
Giovanni de’ Fiorentini ed aggiugnendo, che ciò sarebbe
cagione che, con questa occasione e sprone, la nazione farebbe spesa tale che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua
Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.13
Michelangelo fu effettivamenete coinvolto dal papa, come testimonia una lettera autografa del Maestro indirizzata il primo
208
agosto 1550 allo stesso Vasari e da questi pubblicata nella Vita:
“iermactina, sendo il Papa andato a decto Montorio, mandò per
me. […] Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, e all’ultimo mi disse che era resoluto non volere mecter
decte sepolture in su quel monte ma nella chiesa de’ Fiorentini,
e richiesemi di parere e di disegnio, e io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo decta chiesa s’abbi a finire”14. La
trascrizione della lettera da parte di Vasari serviva a sottolineare, sia il fatto che le sepolture dei famigliari del papa avrebbero
indotto la nazione fiorentina a innescare la richiesta di patronati sulle cappelle della chiesa, sia soprattutto che la fama e la virtù morale di Michelangelo avrebbero agito come stimolo per il
completamento della chiesa e per la conduzione esemplare del
cantiere15. Nonostante gli interessamenti del Maestro a questa
vicenda, il progetto cadde in un nulla di fatto e questi, in una
successiva lettera a Vasari parimenti riportata dal biografo, ebbe
a scrivere una sagace nota contro l’intrigante e faccendone personaggio della corte pontificia, Pier Giovanni Aliotti vescovo di
Forlì, spregiativamente chiamato “monsignor Tantecose”, che
si era frapposto nella vicenda: “Io, per non combactere con chi
dà le mosse a’ venti, mi son tirato a dietro, perché, sendo uomo
leggieri, non vorrei essere trasportato in qualche machia. Basta,
che nella chiesa de’ Fiorentini non mi par s’abbi più a pensare”16.
Christoph Frommel, sulla base delle ipotesi di Klaus Schwager17, ha recentemente precisato come i tre progetti simili per
una chiesa a pianta ellittica, già attribuiti a Giovanni Antonio
Dosio, ad Antonio Labacco e persino a Tiberio Calcagni (fortemente derivati dal primo progetto di Antonio da Sangallo a
pianta circolare per la chiesa dei Fiorentini pubblicato da Labacco nel 1552)18, rappresentino invece le proposte progettuali di Jacopo Barozzi da Vignola per lo stesso edificio19. Databili intorno al 1550, cioè in contemporanea con il primo
coinvolgimento di Michelangelo nella vicenda, secondo lo
studioso tali disegni daterebbero all’estate del 1550, coincidente con l’arrivo di Vignola a Roma da Bologna, appena prima della commissione papale di villa Giulia.
Il secondo coinvolgimento di Michelangelo nel completamento della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini data al 1559. In
quest’anno la Nazione fiorentina riprese l’idea di assegnare
l’incarico all’ottantaquattrenne Maestro. L’iniziale riluttanza
dell’artista a condurre l’opera, documentata dalla lettera di
Michelangelo al nipote Leonardo del 15 luglio 155920, fu
sciolta solo con il coinvolgimento del duca Cosimo I de’ Medici quale finanziatore dell’impresa, approvata il succesivo 10
agosto. Il biografo Ascanio Condivi ricorda tra le righe che solo a prezzo di un continuo “ricusare”, ovvero negarsi e farsi
desiderare, fu possibile a Michelangelo costringere i committenti e persino i papi a riconoscergli, attraverso privilegi e mo-
tupropri, uno status di autonomia artistica, responsabilità gestionale e controllo finanziario che non ebbe precedenti21. Il
26 ottobre, il duca scriveva a Michelangelo che l’idea di un suo
progetto gli era “piaciuta infinitamente” e affidava al “suo miglior giudizio” ogni decisione sulla fabbrica22. A sua volta Michelangelo cominicava al duca di aver “facti di già più disegni
convenienti al sito che m’ànno dato per tale opera i sopra decti deputati. Loro come uomini di grande ingegnio e di g[i]udicio, n’ànno electo uno, el quale in verità m’è parso el più onorevole; el quale si farà ritrare e disegniare più nectamente ch’io
non ò potuto per la vechieza, e manderassi alla inlustrissima
Vostra Signoria: e quello si seguirà che a quella parrà”23. Le vicende del fitto carteggio tra Michelangelo, Cosimo e i deputati della Nazione fiorentina sono ben compendiate dal racconto
vasariano che vale la pena trascrivere:
Fu risoluto che dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a
qualche cosa di nuovo; e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica, che fu Francesco Bandini, Uberto Unbaldini e Tommaso de’ Bardi, e’ quali richiesono Michelagnolo di disegno, raccomandandosegli sì perché era
vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né
aver mai profittato niente, che, se la virtù sua non gli giovava a finarla, non avevono ricorso alcuno. Promesse loro con
tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa e’ facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava
alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio, poi per
l’amor della nazione, qual sempre amò. […] Michelagnolo
dunque, per le cose d’architettura, non possendo disegnare
più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo
di Tiberio [Calcagni] perché era molto gentile e discreto.
Perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl’impose che e’ levassi la pianta del sito della detta chiesa; la
quale levata e portata subito a Michelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per
Tiberio che gli serviti, e finalmente mostrò loro cinque
piante di tempii bellissimi; che viste da loro, si meravigliorono; e disse loro che scegliessino una a modo loro: e’ quali
non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che
si risolvessino pure a modo loro. Onde tutti d’uno stesso
volere ne presono una più ricca alla quale risolutosi, disse
loro Michelagnolo che, se conducevano a fine quel disegno,
che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono una cosa tale: parole, che né prima né poi usciron mai di bocca a
Michelagnolo perché era modestissimo.24
Il passo vasariano continua descrivendo con grande efficacia i
progressi del progetto, che dai disegni, approda all’elaboraziogli anni dal 1534 al 1564
209
5. Jacques Le Mercier, Incisione del modello michelangiolesco
per San Giovanni dei Fiorentini, 1607
ne di un primo modello in creta e poi alla realizzazione finale
del modello ligneo attraverso istruzioni precise date al fidato
Tiberio Calcagni, poiché “non possendo disegnare più per la
vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio
perché era molto gentile e discreto”25. L’apprezzamento del
progetto finale inviato da Michelangelo al duca tramite Tiberio
nel marzo del 1560 è documentato nella risposta del 30 aprile:
“il disegno vostro per la chiesa della Natione ci ha innamorato
sì, che ci dispiace di non vederlo in opera perfetta, et per ornamento et fama della città nostra, et anco per vostra eterna memoria, che ben la meritate”26. Una volta tornato a Roma, a Tiberio fu affidato il compito di sovrintendente della fabbrica di
San Giovanni fino al 1562, quando venne sostituito da maestro Guido, sicuramente quel Guidetto Guidetti operante nel
cantiere della facciata di palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Da questo anno, dopo aver speso i 5000 scudi in opere di
fondazioni, poco o nulla si sarebbe realizzato del progetto michelagiolesco, così la fabbrica venne nuovamente abbandonata
fino al 1583, quando il cantiere fu affidato a Giacomo della Porta che riprese i progetti a schema basilicale di Sangallo dando
avvio alle navate della chiesa, il cui transetto, coro e cupola sarebbero stati innalzati da Carlo Maderno a partire dal 1608,
mentre la facciata sarebbe stata terminata addirittura nel 1736
con un progetto di Alessandro Galilei27.
Con le “cinque piante di tempii bellissimi” citate da Vasari,
Michelangelo segnava il ritorno allo schema centrico che aveva caratterizzato i primi progetti per la chiesa. Sulla base della
prima identificazione di Dagobert Frey28, la critica ritiene concordemente che tre di queste originarie proposte corrispondano ai fogli di Casa Buonarroti 120 A recto (cat. 77; Corpus
610r), 121 A recto (fig. 2; Corpus 609r), 124 A recto (cat. 78;
Corpus 612r). A essi possono essere aggiunti i fogli della stessa collezione 123 A recto (cat. 76; Corpus 608r) e 36 A recto
(cat. 79; Corpus 611r). Michael Hirst ha suggerito saggiamente di resistere alla tentazione di volere allineare in stretta successione cronologica questi tre progetti, dal momento che essi
furono mostrati insieme ai deputati della Fabbrica della chiesa
e pertanto considerati varianti ugualmente plausibili: essi appartengono infatti a un preciso genere di disegni di architettura, quelli dimostrativi, eseguiti per facilitare la comprensione
delle convenzioni grafiche di rappresentazione ortogonale29.
Sviluppando la tesi di Hirst, si può addirittura suggerire che le
cinque varianti iniziali di Michelangelo possano essere state
sviluppate pressoché insieme, secondo ipotesi planimetriche
differenti (restano oggi quelle relative al cerchio, all’ottagono
e al quadrato), le quali potrebbero essere state via via perfezionate, senza un ordine preciso, con la speranza di potere indirizzare la committenza verso la soluzione ritenuta migliore,
210
l’ultima della serie corrispondente al foglio 124 A recto (cat.
78). In effetti il primo dei tre disegni, il 121 A recto (fig. 2), basato su una pianta circolare con deambulatorio interrotto dai
vestiboli di ingresso in corrispondenza degli assi ortogonali,
mostra un progetto molto acerbo che tuttavia trova la sua ragione d’essere proprio nell’enfasi posta sulla figura del cerchio: è la prima e più ovvia proposta fatta ai committenti, basata sul più semplice schema circolare derivato dal Pantheon,
sul quale si erano affaticati Raffaello, Peruzzi e Antonio da
Sangallo il Giovane intorno al 1518, a cui Michelangelo risponde con un modello spazialmente più complesso derivato
piuttosto da architetture paleocristiane romane, quali Santa
Costanza e Santo Stefano Rotondo: la struttura al centro della
pianta è stata correttamente individuata da Michael Hirst come un fonte battesimale sormontato da un baldacchino, perfettamente congruo con le funzioni liturgiche della chiesa. La
seconda variante proposta dal foglio 120 A recto (cat. 77), basato su uno schema a ottagono irregolare con deambulatorio
ed esedre semicircolari in corrispondenza degli assi diagonali,
sembra invece evocare il senso dell’identità nazionale dei
committenti, alludendo alle forme del Battistero fiorentino,
che avrebbero verosimilmente implicato una cupola ottagonale a spicchi di matrice fortemente quattrocentesca: le linee
diagonali che tanto hanno fatto pensare alle architetture di
Francesco Borromini sono un efficace, ma impreciso espediente empirico adottato dal vecchio maestro per costruire velocemente un ottagono il più possibile simmetrico (questa
considerazione fa cadere definitivamente ogni ipotesi precedentemente fatta riguardo a una volta a costoloni incrociati). Il
terzo foglio 124 A recto (cat. 78) infine, basato su un impianto circolare con deambulatorio racchiuso in un quadrato con
cappelle diagonali e vestiboli di ingresso, rappresenta delle tre
proposte certamente quella più matura. In questo caso si tratta di una elaborazione del michelangiolesco schema centrale
di San Pietro “ruotato su un asse diagonale, e con gli angoli
mozzati”30, che fu ovviamente preferito dai deputati della Fabbrica. Inoltre va aggiunto che il foglio 123 A recto (cat. 76)
rappresenta un disegno parziale di una pianta centrale a quincunx, certamente memore del progetto di Sansovino sul cui
vano centrale si interseca una struttura con colonne, forse un
fonte con baldacchino, successivamente coperto da biacca.
Mentre il 36 A recto (cat. 79) rappresenta uno studio in dettaglio di una sezione del deambulatorio corrispondente al tratto
fra le cappelle laterali derivato dal 124 A recto31.
Notando come Michelangelo fosse stato già coinvolto nel progetto della chiesa nel 1550, Amelio Fara ha sottolineato che a
ciò si deve la velocità con cui l’artista fornì i suoi cinque progetti. Una serie di altri fogli perduti dovette documentare la
rapida definizione del progetto finale che può essere così brevemente riassunta: una prima fase ideativa in cui vennero
tracciate le “cinque piante”, tra 10 agosto e primo novembre;
una seconda fase esecutiva per realizzare il progetto planimetrico presentato al duca il 2 dicembre e da questi approvato il
22 dello stesso mese; una terza fase di perfezionamento condotta fino al 5 marzo 1560, quando, tramite Tiberio, al duca
vennero presentate non soltanto la pianta, ma verosimilmente disegni di alzato e sezione, definitivamente approvati dal
committente il 30 aprile 1560. A quest’ultima fase corrispose
l’esecuzione del modello ligneo esecutivo della chiesa:
E così dato la pianta a Tiberio, che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di dentro, e che ne
facessi un modello di terra, insegnandogli il modo di condurlo che stessi in piedi. In dieci giornio condusse Tiberio
il modello di otto palmi; del quale, piaciuto assai a tutta la
nazione, ne feciono poi fare un modello in legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto
tempio nessuno che si sia mai visto, sì per bellezza, ricchezza, e gran varietà sua.32
La pianta nel foglio 3185 A del Gabinetto Disegni e Stampe
degli Uffizi (fig. 3) è stata a lungo ritenuta il disegno in pulito
gli anni dal 1534 al 1564
condotto da Tiberio per preparare il modello, mentre probabilmente costituisce una delle numerose derivazioni. I documenti attestano la presenza del modello in chiesa fino al 1720,
quando venne distrutto. Il suo aspetto è noto attraverso numerose rappresentazioni, tra cui l’incisione in prospettiva di
Jacques Le Mercier (fig. 5) pubblicata nel 1607, illustrante
molto realisticamente il plastico sezionato sopra un piano sostenuto da cavalletti, e le due incisioni in proiezione ortogonale della pianta e del prospetto-sezione eseguite da Valérian
Regnard (cat. 80; fig. 4) e presto divenute celebri33.
I fogli di Casa Buonarroti relativi a San Giovanni dei Fiorentini
rappresentano, insieme ai progetti per porta Pia, i più superbi
esempi di disegno di architettura della fase matura del Maestro.
Non è difficile ammettere che nessuno, fra gli architetti del Rinascimento, sia riuscito al pari di Michelangelo a condensare su un
unico foglio riflessioni grafiche d’intensità, fantasia e lungimiranza così profonde. Lo svolgersi di queste idee si rivela prima di
tutto come uno straordinario universo di relazioni: studio tipologico, considerazione dei rapporti volumetrici e di scala, elaborazione delle parti con il tutto, ricerca della coerenza internoesterno, controllo degli effetti di luce e ombra, dialogo fra i materiali, attenzione per i dettagli e gli arredi ecclesiastici. Questi disegni, testimonianza di una instancabile ricerca, danno anche
prova della fiducia che l’artista ebbe nei mezzi del disegno. Ales-
211
sandro Nova ha scritto in modo esemplare come una delle principali caratteristiche della pratica architettonica michelangiolesca
fu “quel mantenere il progetto in uno stato di perenne fluidità in
cui sia lo schema generale sia i particolari decorativi vengono
continuamente rimessi in discussione. In altre parole, l’architettura di Michelangelo, almeno nella sua fase progettuale, vive,
cresce e si trasforma come un essere organico. Nulla viene fissato a priori, ma l’idea si sviluppa seguendo il pensiero inquieto e
non sempre razionale dell’artista, il che non è segno di incertezza, bensì di ricerca approfondita”34. Nel progettare, Buonarroti
abbandonava assai di rado quelle soluzioni che durante il percorso compositivo lo avevano per qualche ragione soddisfatto. Da
ciò deriva quella faticosissima reductio ad unum delle varie soluzioni così evidente dall’osservazione dei disegni michelangioleschi, particolarmente evidente nei fogli per San Giovanni dei
Fiorentini: una idea dapprima prende vita in un foglio quasi all’improvviso e vi rimane lì in sordina, poi riappare con grande
forza in un altro disegno e in quello lentamente scompare sotto i
segni di nuove invenzioni, a loro volta riverberate dall’idea di
partenza; improvvisamente poi, quella fluidità prima descritta si
fissa nella forma di una nuova soluzione lasciando vedere in trasparenza, come un’agata o un opale, la ricchezza di cui si compone quella materia. In questi casi, l’intero processo di elaborazione sembra depositarsi e precipitare su uno stesso medesimo foglio: questi disegni eccezionali sembrano plasmati su carta quasi
fossero bozzetti di terra e mostrano, con fortissima tensione
estetica, come la soluzione finale abbia accettato la sovrapposizione di idee alternative e l’assimilazione di tracce derivate da
idee scartate. Eppure ciascuno mantiene una sua individualità,
persino i numerosi ritocchi a biacca eseguiti per nascondere alcune correzioni testimoniano l’interesse a mantenere ciascun disegno il più possibile presentabile e comprensibile. Condotti con
tratti rapidi e disinvolti, i fogli contengono una stratificazione di
tecniche disegnative e di soluzioni architettoniche che li rendono dei veri e propri palinsesti. Si guardi al procedimento di costruzione di ciascun disegno. Michelangelo preparò inizialmente il foglio costruendo con uno stilo un telaio di linee di riferimento a stecca e di grandi cerchi concentrici a punta di compasso. Ciò si vede bene illuminando i fogli a luce radente. Ma queste
costruzioni sono ben lungi dall’essere regolari. Su queste tracce
di base furono disegnate varie planimetrie della chiesa, prevalentemente a matita nera e pochi tratti di penna, strumento spesso
fatale per la riuscita di un disegno se condotto dalla mano tremolante di un ottantenne disegnatore. Gli spessori murari furono
invece campiti con ampie lavature di inchiostro. A punta sottile
di pennello sono eseguite anche numerose linee. Non tutte le acquerellature indicano spessori murari pieni, dal momento che
diluizioni differenti sono state usate per dettagli quali altari,
212
banconi di sagrestia, volte a botte. Queste diverse tonalità di inchiostro, che il tempo ha ulteriormente differenziato, danno al
disegno una profondità di spessore davvero sorprendente, che
risulta anche maggiore a causa delle ampie raschiature della carta
e delle numerose cancellature a biacca. La stratificazione di pentimenti e abrasioni costituisce un esempio evidente di questo effetto. In questo senso, l’appagamento visivo procurato dall’immagine disegnata sfida intellettualmente l’osservatore interessato a compredere l’articolazione tridimensionale di questa planimetria, che per noi non può che rimanere materia di congetture35. Sembra davvero che l’alto grado di imprecisione lasciato al
disegno non faccia che esaltare la potenza dell’invenzione. Similmente a quanto ipotizzato per i disegni per porta Pia, la sopravvivenza dei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si deve
probabilmente al fatto che essi rimasero nelle mani dei deputati della Fabbrica, invece di essere distrutti, come ampiamente
noto, dallo stesso Buonarroti pochi giorni prima della morte.
Oltre questi fogli, le testimonianze in nostro possesso documentano con sicurezza solo l’aspetto finale dell’architettura
progettata da Michelangelo attraverso le immagini tratte dal
modello, la cui derivazione può riconoscersi nel foglio 124 A
recto36. L’opera finale è quindi il prodotto di un processo continuo che manipola e trasforma gli elementi compositivi originari. Questo andamento carsico delle invenzioni costituisce la trama più articolata e significativa del processo ideativo michelangiolesco, possibile a prezzo di fatica, disciplina, esercizio. È questa una esperienza che si costruisce come un “lavoro dentro le
cose”, la cui attualità riporta a quanto oggi Peter Zumthor, con
parole semplici e bellissime, scrive sulla costruzione del progetto di architettura37. Con sensibilità e occhio da scultore, Michelangelo dominò la materia conflittuale del progetto d’architettura, fondata sul fragile equilibrio tra precisione funzionale, rigore della forma ed espressione poetica. Con termini più semplici si può spiegare questa lettura critica osservando come la
composizione architettonica di Michelangelo abbia costantemente affrontato il tentativo di risolvere il conflitto tra masse
piene e spazi vuoti e abbia dato risolutiva risposta al problema
dell’attacco dei vari elementi plastici tra loro, approfondendo
sempre più lucidamente le relazioni fondamentali stabilite tra
muro, pilastro, colonna e nicchia, anche in rapporto ai diversi sistemi di copertura previsti. Negli anni, con il progredire dell’esperienza, fu inevitabile che i suoi edifici mostrassero quel livello di complessità meravigliosamente risolta che ancora oggi
lascia stupiti. Il progetto finale di San Giovanni dei Fiorentini
testimoniato dal modello, sul quale la critica è stata sempre poco lusinghiera, mostra infatti una soluzione in cui tutti i riferimenti precedenti sembrano sublimarsi in una soluzione spaziale mai vista prima, come a mantenere la promessa di un’archi-
tettura “che né Romani né Greci mai ne’ tempi loro feciono”38:
un nuovo Pantheon affatto diverso dal prototipo, con ordine
esterno di paraste tuscaniche, a cui corrispondono all’interno
colonne libere anch’esse tuscaniche addossate a parete con ritmo alternato39; su quest’ultimo, all’altezza del tamburo, si trova
un altro ordine più breve di colonne ioniche, posto a inquadrare gli archi delle cappelle; la cupola infine, a semplice calotta
estradossata con sezione a tutto sesto, è esternamente liscia, ma
internamente si articola secondo i ritmi verticali dei sostegni nel
disegno della cassattonatura. Come ha magistralmente scritto
Christof Thoenes nel saggio di apertura a questo catalogo, una simile architettura non era mai esistita prima: semplificata all’esterno nell’asciutta concatenazione di volumi semplici, ma
dalla complessità tutta rivolta all’interno, risolta nella pacata ritmicità di uno spazio variato, ma unitario al tempo stesso, dal respiro grandioso e ispirato da immensa intensità spirituale, come
a ribadire che il Maestro assai “volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio”40.
1
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, pp. 231-232.
2
Della assai vasta letteratura sulla
chiesa di San Giovanni dei Fiorentini
si ricordano i principali studi: Ackerman 1961, vol. I, pp. 103-113, 117124; Gioseffi 1964; L. Puppi, F. Barbieri, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
948-953; M. Tafuri, scheda San Giovanni dei Fiorentini (architettura), in
Salerno, Spezzaferro, Tafuri 1973, pp.
201-230; Ackerman 1988, pp. 105114, 295-301; B. Contardi, in Argan,
Contardi 1990, pp. 342-347; H.
Günther, schede 69-74, in Millon,
Magnago Lampugnani 1994, pp. 472474; Günther 1994; aggiornamenti,
ipotesi e ulteriori aquisizioni documentarie e iconografiche sull’argomento sono in Polverini Fosi 1989;
Vicioso 1992; Kersting 1994; Polverini Fosi 1994; Fara 1997; Morresi
2000, pp. 28-44; Günther 2001; Niebaum 2007; Thoenes 2008b; per una
puntuale storia dei finanziamenti alla
chiesa da parte della comunità fiorentina, con nuovi contributi documentari e importanti precisazioni, si veda
Guidi Bruscoli 2006; ai citati saggi si
rinvia per la bibliografia precedente.
3
Bentivoglio 1975 e, da ultimo, Fara
1997, pp. 35-36.
4
La partecipazione di Andrea Sansovino (ipotizzata in H. Günther, schede
204-205, in Günther 1994, p. 559) è
discussa in Morresi 2000, pp. 34 sgg.
5
Le due formulazione sono prese rispettivamente in prestito da Bruschi
1983 e da Fiore 2002b, in part. pp.
142-146.
sta bibliografica in L. Puppi, F. Barbieri, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
951-953.
19
Frommel 2002b, pp. 244-247;
sull’argomento si vedano anche H.
Günther, scheda 68, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, p. 472; H.
Günther, scheda 208, in Günther
1994, pp. 560-561.
20
Carteggio, vol. V, pp. 175-176, n.
MCCXCIX (15 lug. 1559).
21
Condivi, ed. Nencioni 1998, p. 59.
22
Carteggio, vol. V, p. 181, n.
MCCCIII (26 ott. 1559).
23
Carteggio, vol. V, p. 183, n.
MCCCV (1 nov. 1559); si vedano anche i documenti pubblicati in Gaye
1839-1840, vol. III, pp. 17 sgg.
24
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, pp. 261-263.
25
Ivi, p. 263.
26
Carteggio, vol. V, p. 224, n.
MCCCXXXII (30 apr. 1560).
27
Morresi 2000, pp. 41 sgg.
28
Frey 1920, pp. 57-69.
29
Hirst 1993, pp. 117-120, in part.
119.
30
Brothers 2006, p. 201.
31
L’attribuzione del foglio di Casa
Buonarroti 103 A recto come monumento tombale per San Giovanni dei
Fiorentini, ipotizzata in Corpus, vol.
IV, p.108, è stata smentita nel saggio
di Georg Satzinger presente in questo catalogo. Il verso dello stesso 103
A, già unito al verso del 124 A come
evidenziato per prima da Joannides
1978, p. 176, mostra il disegno per
la finestra interna del tamburo della
cupola di San Pietro, analizzato nel
gli anni dal 1534 al 1564
6
Polverini Fosi 1994, pp. 400-401.
Tafuri 1973, p. 209.
8
Tafuri 1992, pp. 159-189, in part.
160-161.
9
Dalla Vita di Iacopo Sansovino, cfr.
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol.
VII, p. 498.
10
Sul progetto a pianta basilicale di
Antonio il Giovane, cfr. Bedon, Beltramini, Burns 1995, pp. 61-71.
11
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. V, pp. 454-455.
12
L’ipotesi di una avanzata costruzione sangallesca condotta fino al 1546,
affermata in H. Günther, scheda 206,
in Günther 1994, pp. 559-560, è stata opportunamente ridimensionata
in Morresi 2000, p. 41.
13
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 229.
14
Ivi, p. 230; Carteggio, vol. IV, p.
346, n. MCXLVIII (1 ago. 1550).
15
I tentativi (avviati da Popp 1927,
pp. 389, 409 sgg., ripresi in Battisti
1961) di riconoscere in alcuni disegni i progetti del 1550 di Michelangelo, generalmente rifiutati dalla critica a partire dalla serrata analisi in
Ackerman 1968, p. 255, sono stati
riconsiderati con nuovi argomenti in
Fara 1997, pp. 34 sgg.
16
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 231; Carteggio, vol. IV, p.
355, n. MCLV (13 ott. 1550); su
monsignor Aliotti, cfr. Vasari, ed.
Barocchi 1962, vol. IV, n. 648, pp.
1580-1581.
17
Schwager 1975a.
18
Sulle varie attribuzioni di questi
disegni, si vedano i commenti alla li7
saggio di Vitale Zanchettin in questo
catalogo.
32
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 263.
33
L’aspetto del modello è registrato,
con alcune variazioni, in un interessante serie di disegni, cfr. Ackerman
1988, pp. 299-301; H. Günther,
schede 73-75, in Millon, Magnago
Lampugnani 1994, pp. 474-475; H.
Günther, schede 209-211, in Günther 1994, pp. 561-562.
34
Nova 1984, p. 16.
35
Sulla congetturale forma delle coperture nei progetti per San Giovanni dei Fiorentini si è misurato Fara
1997, pp. 38 sgg.
36
Numerosi tentativi sono stati fatti
per riconoscere nei dettagli sparpagliati nei vari fogli del corpus michelagiolesco alcuni dettagli della chiesa
di San Giovanni dei Fiorentini, al riguardo si vedano le ipotesi di Fara
1997, pp. 43 sgg., sulla lanterna della chiesa.
37
Zumthor 2003, pp. 8-9.
38
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885,
vol. VII, p. 263.
39
L’ordine inferiore del progetto finale della chiesa è analizzato in Morolli 1998.
40
Ivi, p. 262.
In chiusura di queste pagine, desidero esprimere la mia più sincera gratitudine ad Anna Bedon, Howard
Burns e Caroline Elam per quanto ricevuto sotto forma di insegnamento,
sostegno e amicizia in ormai tre lunghi lustri.
213
CAPPELLA SFORZA IN SANTA MARIA MAGGIORE
1. Roma, Santa Maria Maggiore,
cappella Sforza, interno verso l’altare
Georg Satzinger
Durante la stesura dei Due Dialogi di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, pubblicati nel 1564, anno della morte di Michelangelo, la cappella Sforza risultava in costruzione (figg. 14)1. Ulteriori informazioni – le uniche note fino a pochi anni fa
– sono fornite dalle Vite di Giorgio Vasari e da due perdute
iscrizioni originariamente poste sulla facciata della cappella,
smantellata nel 1748 per la ristrutturazione interna dell’arcibasilica di Santa Maria Maggiore a opera di Ferdinando Fuga2.
La prima iscrizione riferiva che il cardinale Guido Ascanio
Sforza di Santa Fiora, arciprete della basilica, aveva fondato la
cappella e in punto di morte, nel 1564, aveva affidato ai suoi
eredi il compito di ultimarla3; la seconda riportava che il cardinale Alessandro Sforza, anche lui arciprete della basilica, aveva
completato la cappella nel 15734. Nella seconda edizione delle
biografie vasariane si evince che Michelangelo “fece allogare a
Tiberio [Calcagni] con suo ordine a Santa Maria Maggiore una
cappella cominciata per il Cardinale di Santa Fiore, restata imperfetta per la morte di quel cardinale e di Michelangelo e di
Tiberio, che fu di quel giovane grandissimo danno”5. I tre protagonisti infatti erano deceduti l’uno dopo l’altro in brevissimo tempo: l’artista nel febbraio 1564, il cardinale nell’ottobre
1564, l’allievo nel dicembre 1565, poco più di un anno dopo6.
Queste scarne informazioni e alcune incongruenze rilevate
nella forma dell’edificio condussero ben presto a dubitare se, e
fino a che punto, gli intenti di Michelangelo fossero stati pienamente realizzati: Francesco Borromini, che studiò con attenzione la cappella, riteneva che nell’esecuzione delle volte
Calcagni si fosse allontanato dalla “bizzarria” del maestro7. Se
le belle incisioni di Giovanni Giacomo de Rossi affermarono
214
che Michelangelo fu l’autore della cappella (cat. 88), nel Settecento si rafforzarono le voci che misero in dubbio quella paternità8. Nella sua edizione vasariana del 1759-1760, Giovanni
Gaetano Bottari asserì che l’edificio era stato completato secondo un progetto modificato da Giacomo della Porta9. Da allora, gli studiosi si sono più o meno associati a Bottari: James
Ackerman ha interpretato la data 1564 apposta sull’iscrizione
come quella relativa all’anno d’inizio della costruzione e pertanto ha valutato come minimo il contributo di Michelangelo10; Howard Hibbard si è spinto fino a non considerare affatto
la cappella nell’œuvre architettonica dell’artista11; Charles de
Tolnay ha ipotizzato alcune incisive modifiche concettuali al
progetto iniziale, secondo le quali, il presbiterio rettangolare,
di inconsueta profondità, sarebbe da attribuire a della Porta,
mentre Michelangelo avrebbe previsto una soluzione ideale in
sé simmetrica e cioè un edificio rigorosamente a pianta centrale12; altri studiosi hanno creduto che persino il linguaggio dell’ordine architettonico della cappella, così spiccatamente classicheggiante, non avesse niente a che fare con le concezioni architettoniche di Michelangelo13; infine è stata decisamente
messa in dubbio persino la struttura delle volte e delle relative
finestre14. Lo scetticismo degli studiosi è stato puntualmente
riepilogato da Giulio Carlo Argan nel seguente giudizio “l’esecuzione fu poco accurata forse approssimativa: così com’è, la
cappella è la copia di un originale perduto, che conserva i tratti, ma solo i tratti, d’una lampeggiante invenzione”15. Con
l’aiuto dei documenti recentemente scoperti e alla luce di una
più ampia riconsiderazione dell’architettura della cappella, si
vedrà come tale giudizio dovrà essere ampiamente riveduto.
Guido Ascanio Sforza16 (1518-1564) e il più giovane fratello
Alessandro17 (1534-1581) appartenevano a uno dei cinque rami della famiglia allora attivi, quello di Santa Fiora18. Di particolare importanza per la carriera dei due fratelli si rivelò il fatto che la loro madre Costanza era figlia di Alessandro Farnese,
futuro papa Paolo III. Non appena questi fu eletto al soglio
pontificio nel 1534, volle immediatamente concedere la porpora al giovanissimo Guido Ascanio; due anni più tardi il papa
affidò al nipote la legazione di Bologna e della Romagna e nell’anno successivo gli conferì la nomina di camerlengo. Nel
1543 poi, Guido Ascanio succedette al cugino, il cardinale
Alessandro Farnese, nella carica di arciprete della basilica di
Santa Maria Maggiore, dopo che questi aveva assunto quella di
arciprete in San Pietro in Vaticano19. Guido Ascanio si contraddistinse come uno dei cardinali più influenti del pontificato di
Paolo III, seppur in vistosa contrapposizione con il mecenatismo dei cardinali Alessandro Farnese e Federico Cesi20. Nel
gli anni dal 1534 al 1564
1556, sollecitato da Paolo IV Carafa (1555-1559), Guido
Ascanio assolse al suo mandato di arciprete promuovendo alcuni primi lavori di ristrutturazione nella basilica, quali il
completamento delle volte delle navate laterali già iniziate nel
Quattrocento21. Lo stesso può dirsi per il più giovane fratello
Alessandro, che ricevette la porpora nel 1565, dopo la morte
di Guido Ascanio, e che subentrò al celebre Carlo Borromeo
nel 1572 nella medesima carica di arciprete della basilica liberiana22. Resta da chiedersi come mai Guido Ascanio Sforza fu
in grado di assicurarsi un progetto di Michelangelo, sebbene il
vecchio artista, come noto, accettasse di impegnarsi in nuove
commissioni assai poco volentieri23.
Durante il pontificato di Paolo IV, cioè fino al 1559, sembra
che Guido Ascanio non avesse ancora avviato alcun progetto
edilizio relativo alla propria cappella; nel 1558, i canonici avevano infatti ceduto alla famiglia Patrizi il diritto di sepoltura
215
2. Roma, Santa Maria Maggiore,
cappella Sforza, interno verso la tomba
di Guido Ascanio Sforza
3. Roma, Santa Maria Maggiore,
cappella Sforza, volta della crociera
4. Roma, Santa Maria Maggiore,
cappella Sforza, colonne e capitelli
nella cappella di San Silvestro, posta presso il luogo dove poi
sarebbe sorta la cappella Sforza. Nel maggio del 1563, quando
la costruzione promossa dallo Sforza era già stata avviata, i Patrizi ottennero in sostituzione il patronato della cappella di
Sant’Agata collocata nelle vicinanze dell’altare maggiore della
basilica24. Sotto Pio IV Medici (1559-1565), eletto papa nel
Natale del 1559 con il forte appoggio dello Sforza25, fu subito
avviata un’intensa attività di rinnovamento della Chiesa nello
spirito della Riforma cattolica, che impegnò notevolmente i
cardinali nella manutenzione degli edifici ecclesiastici di cui
erano titolari26. Il papa nominò visitatori delle chiese che risultavano sedi di titoli cardinalizi i porporati Cesi, Farnese, Savelli, Morone, Navagero e Sforza27. Ciò dovette suscitare anche
l’interesse di Guido Ascanio. Idee riformatrici e provvedimenti edilizi si presentano dunque strettamente intrecciati
anche in Santa Maria Maggiore: alla fine del 1561 il papa volle
che fossero riorganizzati i servizi corali nell’arcibasilica28; così,
216
nel luglio 1562, lo Sforza pose mano alle ristrutturazioni per
adeguare il presbiterio alle nuove direttive, la cui responsabilità artistica fu affidata al giovane Giacomo della Porta29. Fu in
questo momento che Guido Ascanio diede avvio all’erezione
della propria cappella, come rivela un codicillo del testamento
datato 20 agosto 156230. Stabilendo di voler essere tumulato
nella cappella sepolcrale già progettata in Santa Maria Maggiore, il testatore precisava che, nel caso in cui fosse morto anzi
tempo, l’edificio avrebbe dovuto essere completato entro tre
anni conformemente al modello realizzato: “p[er]ficiat si no[n]
fuerit tempore obitus ipsius R[everendissi]mi d[omin]i
Card[ina]lis p[er]fecta capella co[n]cepta in basilica s[anc]te marie
maioris / de vrbe in loco ia[m] designato sub Invocatione S[anc]te
catharine et iuxta modellu[m] desup[er] factu[m] itaq[ue] in totu[m] sit finita et completa Infra trienniu[m] a die obitus ipsius
R[everendissi]mi d[omi]ni card[ina]lis codicillantis”31.
La coincidenza cronologica tra il rinnovamento architettonico
del coro della basilica liberiana, iniziato dal papa per motivi liturgici, e l’edificazione della cappella Sforza non fu dovuta al
caso. Da una serie di indizi si può dedurre infatti che essa dovesse servire non solo come luogo sepolcrale dello Sforza,
bensì assumere anche la funzione di cappella sacramentale
della basilica, privilegio senza dubbio assai particolare32. La citata ristrutturazione del coro della basilica aveva causato la dismissione del vecchio tabernacolo eucaristico collocato sulla
parete a fianco dell’altare maggiore33. Il trasferimento del repositorio sacramentale nella cappella Sforza tuttavia non venne
realizzato con la prematura scomparsa dell’arciprete34, in
quanto Carlo Borromeo, subentrato a Guido Ascanio, preferì
porre il Sacramento sull’altare maggiore, dove fu provvisoriamente collocato nel 1570 dopo lunghe e faticose discussioni
con il capitolo35. Ciò evidenzia che in sede capitolare si erano
affermate ben altre volontà, come attesta il successivo Ceremoniale Episcoporum dell’anno 1600, che continuò a sconsigliare la collocazione del Sacramento sull’altare maggiore36.
Non sorprende osservare che, dopo le dimissioni di Borromeo
il 28 dicembre 157237, passarono solo sei settimane perché i
canonici e il nuovo arciprete Alessandro Sforza decidessero finalmente di trasferire il tabernacolo eucaristico nella cappella
Sforza (14 febbraio 1573), azione messa in pratica la settimana successiva (21 febbraio 1573)38. Che ciò corrispondesse a
una soluzione permanente lo fa capire la disposizione dei gradini della cappella davanti al presbiterio39. Tutti i documenti
grafici, che vanno dai primi anni del XVII secolo fino ai primi
del XIX, mostrano dei gradini con andamento semicircolare
(cat. 88), caratteristica invero insolita per quest’epoca, ma che
tuttavia si riscontra contemporaneamente in altri due altari
destinati alla custodia del Sacramento: nell’altare maggiore
della cattedrale di Orvieto40 e nell’altare fatto eseguire da Gregorio XIII (1572-1585) in San Giovanni in Laterano per l’Anno Santo del 157541.
L’ipotesi che la cappella Sforza debba essere vista nel contesto
del riordinamento liturgico della basilica liberiana promosso
dal papa acquista ancora più valore se si osserva la posizione
della cappella Sforza in relazione a quella dell’adiacente cappella del cardinale Cesi, destinata a svolgere l’importante funzione di coro invernale del capitolo42. Le due cappelle vennero
edificate l’una accanto all’altra in una specie di cortile rettangolare, il quale – secondo la pianta stilata da Ottaviano Mascherino intorno al 1585 (cat. 84) – si apriva tra la chiesa, il palazzo pontificio al lato opposto43 e l’ala di collegamento che
ospitava la sagrestia della basilica, come si vede anche nella
stampa pubblicata da Paolo de Angeli nel 1621 che mostra il
fianco esterno della chiesa (cat. 86). Per realizzare entrambe le
cappelle furono smantellati alcuni resti architettonici precedenti44. Per far spazio alla cappella Sforza fu necessario demolire l’abitazione del sagrestano; fu poi mantenuta una minima
distanza dalla sagrestia sia per assicurare un passaggio verso il
palazzo papale sia soprattutto per potere illuminare l’erigenda
fabbrica da ogni lato45. Fino a che punto le donazioni delle due
cappelle fossero intrecciate, lo si evince non solo dalla loro collocazione ma anche dal loro patrocinio. Il citato codicillo testamentario del 1562 mostra che Guido Ascanio contasse per
la propria cappella sul patrocinio di santa Caterina d’Alessandria, poi ceduto al cardinale Cesi per la particolare predilezione di questi per quella santa46. Lo Sforza pertanto rilevò il titolo dell’Assunta che figurava tra i più prestigiosi culti tributati
nella basilica, ma che era temporaneamente senza altare, perché distrutto dalla costruzione del nuovo coro47. Queste circostanze avvalorano l’ipotesi che nel quadro degli ampi sforzi riformistici di Pio IV, questi avesse obbligato entrambi i cardinali ad associare i propri interessi familiari a quelli più generali della basilica. L’impegno del papa e l’importante funzione
eucaristica assegnata alla cappella, secondo la volontà originaria del committente, potrebbero aver consentito a Guido Ascanio il raro privilegio di ottenere il consenso di Michelangelo di
fornire il progetto architettonico: Pio IV era stato infatti colui
il quale, sin dal momento della sua ascesa al soglio pontificio,
aveva più di ogni altro occupato con commissioni di architettura l’ormai ottantacinquenne artista.
Dal suddetto codicillo testamentario di Guido Ascanio emerge
altresì chiaramente come esistesse già dall’estate del 1562, e
cioè almeno un anno e mezzo prima della morte di Michelangelo, un modello esecutivo in tutto vincolante, in base al quale
avrebbe dovuto essere condotta la costruzione della cappella.
Evidentemente anche in questa circostanza, come già era accagli anni dal 1534 al 1564
217
6. Anonimo, Alzato della facciata
della cappella Sforza, circa 1748.
New York, Cooper-Hewitt Museum,
inv. 1901-39-2140
duto nella progettazione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, Michelangelo aveva affidato a Tiberio Calcagni il compito di convertire i propri progetti in un modello esecutivo. Il
breve lasso di tempo entro il quale la cappella fu realizzata (dall’estate del 1562 alla morte del cardinale nel 1564, o poco oltre,
fino alla scomparsa di Calcagni nel novembre 1565) fa cadere le
precedenti congetture secondo le quali il modello architettonico sarebbe stato eseguito in modo sostanzialmente differente
dalle intenzioni di Michelangelo. Nel maggio 1563 la cappella
era dunque certamente in costruzione48 e, alla morte di Calcagni, essa era stata terminata quantomeno nelle murature: lo
conferma la presenza della pala d’altare. Già contrassegnata da
Giovanni Baglione come opera di Girolamo Siciolante da Sermoneta e correntemente datata “circa 1570-73”49, la pala nella
recente pulitura ha rivelato l’iscrizione con la data di esecuzione del 156550. Se quindi alla scomparsa di Calcagni, questa pala
d’altare era già finita, è lecito pensare che il completamento dell’architettura fosse stato pertanto realizzato sotto gli occhi del
giovane aiutante di Michelangelo51. Alla luce di queste circostanze, l’informazione fornita da Vasari, secondo cui Calcagni
non riuscì a completare l’edifico, sarebbe piuttosto da riferire
alla facciata della cappella, innalzata sulla navata laterale della
chiesa, e all’insieme dei suoi arredi interni. Resta pertanto ancora da esaminare se Calcagni avesse o meno rispettato il modello esecutivo della cappella senza effettivi fraintendimenti.
D’altro canto, la presunta partecipazione di Giacomo della Porta andrebbe allora cercata non tanto nella struttura architettonica della cappella stessa, quanto piuttosto nella facciata e negli
arredi. Un atto notarile elenca una serie di lavori edilizi esegui218
7. Rilievo planimetrico della cappella Sforza
in Santa Maria Maggiore a Roma
(elaborazione dell’autore)
ti su committenza del cardinale Alessandro Sforza, terminati
entro il novembre 1573 e tra cui figura anche la cappella52. Tali
incarichi, che concordano con quest’ultima data indicata anche
nella citata iscrizione, furono eseguiti sotto la direzione di Giovanni Fontana, architetto di Alessandro Sforza53. Relativamente alla cappella Sforza, questi lavori dovrebbero corrispondere
alla realizzazione della facciata verso la basilica54, la cui forma è
tramandata da alcuni documenti grafici, tra cui la stampa con lo
spaccato dell’interno della basilica nel volume di Paolo de Angeli e il disegno di un collaboratore di Ferdinando Fuga (cat. 87,
85), oltre al disegno di anonimo conservato a New York, presso il Cooper-Hewitt Museum, inv. 1901-39-2140 (fig. 6).
Questo progetto è tuttavia troppo ambizioso per essere attribuito a un tecnico edile quale fu Giovanni Fontana, né tanto
meno può essere seriamente considerata l’ipotesi di un progetto lasciato da Tiberio Calcagni, del tutto inesperto per concepire una tale invenzione, come tradiscono i suoi disegni agli Uffizi o la facciata da lui realizzata per la chiesa di San Michele Arcangelo ai Corridori di Borgo a Roma55. In base a motivi stilistici, è assai più probabile che Giacomo della Porta ne sia stato
l’autore. La particolare sensibilità per il delicato rilievo architettonico e la disposizione molto sofisticata di riquadri, festoni e
stemmi presenti nelle campate laterali sono segni caratteristici
della sua grafia artistica, non distante dall’impronta data alle
facciate delle due chiese romane del Gesù (dal 1571) e della
Madonna dei Monti (dal 1580)56. Dal 1562, come ricordato,
Giacomo della Porta era stato alle dipendenze di Guido Ascanio nei lavori in Santa Maria Maggiore, rimanendo in stretto
contatto anche con Alessandro Farnese, menzionato esecutore
testamentario di Guido Ascanio, attraverso i coevi interventi al
Gesù di patrocinio farnesiano57. Al più tardi, nel 1573, dovettero essere realizzati sia l’edicola dell’altare sia il monumento
sepolcrale dello Sforza58. Dal testamento di Alessandro Sforza
emerge che nel luglio 1580 il suo monumento sepolcrale non
esisteva ancora e la cappella era ancora priva di decorazioni59.
Questi morì nel 1581 e l’anno successivo i suoi eredi entrarono
in trattative con il pittore Cesare Nebbia, forse tramite lo stesso
della Porta60. Tali trattative condussero alla realizzazione degli
stucchi e degli affreschi sulla parete dell’altare61 e intorno all’edicola di marmo nel frattempo realizzata (cat. 88). Se quindi
l’arredo della cappella fu completato più di vent’anni dopo
l’inizio dei lavori, resta ancora da chiedersi in che modo Michelangelo avesse immaginato l’altare e i monumenti sepolcrali.
La cappella Sforza subì ben presto una serie di danni notevoli.
A partire dal 1605, con la costruzione della cappella Paolina,
tutte le fonti di luce del lato destro furono occluse (cat. 86).
Nel 1748, la demolizione della facciata62 lamentata da Bottari,
con la forte riduzione dell’ampiezza del portale, ridusse la vista della cappella dalle navate della basilica (cat. 87); l’interno
venne poi seriamente danneggiato nel 1762 a causa del trasferimento in questa sede del coro invernale originariamente posto nella cappella Cesi; trasferimento autorizzato dal conte
Sforza Cesarini su esplicita richiesta del capitolo63. Per dare più
luce al coro nuovamente collocato, furono sacrificati i quattro
affreschi di Cesare Nebbia disposti intorno all’altare al cui posto furono aperte quattro corrispondenti finestre, mentre le finestre trapezoidali disposte sulle lunette e sulle volte vennero
prolungate verso il basso fino alla cornice sottostante; dal presbiterio sparirono poi sia le finestre laterali, nel frattempo murate, sia i vigorosi timpani delle porte.
La struttura architettonica
La struttura architettonica della cappella è impostata su un innovativo impianto cruciforme. Il braccio longitudinale è occupato da uno spazio rettangolare suddiviso in tre campate: una
corta campata di ingresso voltata a botte; una campata centrale – la crociera – voltata a vela; un profondo presbiterio anch’esso voltato a botte, la cui insolita spaziosità può spiegarsi
con la destinazione a cappella sacramentale. La crociera si caratterizza per la sua struttura a baldacchino, vero motivo dominante dell’intero spazio. Vistosamente caratterizzato dalla
posizione diagonale delle sue colonne libere di ordine composito, il baldacchino oltrepassa in altezza il cubo costruito sulla
sua base e, assieme alla posizione diagonale dei sostegni, fa sì
l’insieme abbia uno spettacolare effetto culminante. I due vani
laterali – in contrasto con lo sviluppo longitudinale della cappella – sono delimitati da pareti ad arco di circonferenza, i cui
raggi in pianta sembrano partire dal centro della crociera (fig.
7). Nei risvolti tra i vani laterali e lo spazio centrale vi sono delle colonne che si combinano con le adiacenti colonne del baldacchino in modo da dare l’impressione di un nodo plastico
simmetrico costituito da una coppia di colonne separate da
tratti di muro opportunamente sagomati, il cui asse di simmetria intercetta il punto mediano della parete curva di ciascun
vano laterale. Queste colonne si aprono verso uno spazio che
sembra compresso dalle pareti curve che delimitano i due vani laterali, riservati ai monumenti sepolcrali. La lunghezza del
braccio trasversale corrisponde a quello longitudinale e di
nuovo è pari all’altezza massima della cappella misurata sulla
crociera, di modo che la composizione della struttura spaziale
resta perfettamente bilanciata su i tre assi. Tuttavia, la crociera
con il baldacchino non si trova al centro degli assi ortogonali,
ma piuttosto è spostata verso la parete d’ingresso; pertanto chi
vi entra (e soprattutto chi si trovò a sostare davanti alla grata
dell’enorme portale originario) avverte subito la presenza dogli anni dal 1534 al 1564
minante del baldacchino. Nel contempo la dilatazione trasversale è bloccata dalla spazialità dei vani laterali le cui pareti curve definiscono un effetto centralizzante dovuto al fatto di appartenere alla medesima circonferenza. Rispetto a tale complessità, è evidente il contrasto con lo spazio profondo del presbiterio di estrema semplicità e linearità. Il basamento continuo della partitura architettonica della cappella, alto più di un
uomo, accentua nettamente la stereometria dell’ambiente e lega tra loro spazi eterogenei, alla stessa stregua della trabeazione la quale, con il suo cornicione rigorosamente continuo e
fortemente aggettato, risalta solo in corrispondenza delle colonne. Infine anche le finestre poste al livello delle pareti sono
solidamente incastrate agli elementi orizzontali tramite le loro
cornici superiori, comprese tra la trabeazione e i collarini delle
colonne, questi ultimi condotti tutt’intorno come un listello
continuo64. L’illuminazione originaria della cappella doveva
essere di grande e straordinario effetto65. Dalle volte penetrava
una luce chiara verso ciascuno dei quattro i lati. Le finestre laterali del presbiterio rendevano il luogo dell’altare il punto
meglio illuminato della cappella, mentre le finestre nelle pareti curve lasciavano entrare una luce più attenuata per via delle
adiacenti costruzioni, la cappella Cesi a sinistra e la sagrestia a
destra; tale luce modellava le colonne e nel contempo sottolineava la relativa autonomia degli spazi laterali. Attraverso
queste fonti di luce disposte tutt’attorno in sottile graduazio219
8. Michelangelo Buonarroti,
Schizzo preparatorio per la cappella Sforza, 1562.
Londra, The British Museum, inv. 1946-7-13-33a
ne, si accentuava la complessa unità spaziale della cappella, ribadendone la doppia funzione di cappella sepolcrale e sacramentale.
Se l’analisi rivela già una concezione compositiva assai sofisticata, la struttura metrico-proporzionale consente di riconoscere l’unitarietà del progetto. La pianta si sviluppa su una
chiara struttura geometrica originata da un incrocio centrale,
mentre la posizione di ciascun elemento è sottilmente stabilita attraverso minimi aggiustamenti. Dall’analisi del rilievo
planimetrico tutto ciò è ben evidente: slittamenti rispetto al
reticolo proporzionale, posizionamento delle colonne con piccoli disassamenti, modifica dei tratti curvi tenendo fissi i punti estremi (accorgimento quest’ultimo ben evidente osservando i raggi di curvatura delle pareti laterali i cui centri cadono
fuori rispetto al principale asse longitudinale della cappella)66.
Tale metodo di progettazione è continuamente osservabile nei
disegni autografi di Michelangelo, da quelli per palazzo Farnese a quelli per il tamburo della cupola di San Pietro, da San
Giovanni dei Fiorentini a porta Pia67. L’analisi di questi disegni
rileva la coerenza del sistema di proporzionamento dell’architettura da parte di Michelangelo, sempre sottoposto ad aggiustamenti ed enfatizzato attraverso consapevoli divergenze dal
220
9. Disegnatore della cerchia di Stefano Dupérac,
Sezione longitudinale della cappella Sforza
dal modello ligneo, post 1562.
New York, The Metropolitan Museum of Art,
Gift of Janos Scholz and Anne Bigelow Scholz,
in memory of Flying Officer Walter Bigelow Rosen,
n. 49.92.23 recto
reticolo secondo il “giudizio dell’occhio”68. Ciò vale anche nel
disegno dell’alzato della cappella Sforza dove lunghezza, larghezza e altezza, apparentemente così eterogenee, coincidono
significativamente a meno di piccoli ritocchi e sottili aggiustamenti richiesti da esigenze visive69.
Del percorso progettuale che condusse Michelangelo alla soluzione finale restano alcuni disegni nei quali è sempre indicata
la struttura basilare di una cappella cruciforme con vani laterali e soluzione a baldacchino su colonne in posizione più o meno centrale: si tratta di un foglio del British Museum, inv.
1946-7-13-33a (fig. 8; Corpus 623) e di due fogli di Casa
Buonarroti, il 104 A (cat. 81; Corpus 624 recto) e il 109 A (cat.
82; Corpus 625 recto)70. Una delle varianti disegnate è quella
con spazio presbiteriale coronato da baldacchino la quale, similmente alla scarsella del battistero fiorentino, potrebbe essere stata motivata dal desiderio di contraddistinguere il luogo
destinato al Sacramento. Ben evidenziata in questi schizzi appare già la forte dilatazione laterale delle campate d’ingresso;
inoltre si vede anche una prima idea riguardante le colonne
collocate nei risvolti dei vani laterali (figg. 1, 7), soluzione presente anche nello schizzo del tutto regolare con quattro vani
absidati (fig. 8). Il nesso tra questi schizzi e lo spazio effettivamente costruito della cappella Sforza, talmente bilanciato e
ricco di tensione, appare così lontano da rimanere piuttosto
ipotetico. In ogni caso, gli schizzi non tengono conto dello
spazio limitato in cui la cappella sarebbe sorta, viceversa problema genialmente risolto nella soluzione finale.
Come già osservato, le volte della cappella Sforza hanno fatto
sorgere il dubbio riguardo alla loro autografia michelangiolesca. Francesco Borromini fu del parere che Tiberio Calcagni
avesse interpretato male le indicazioni del modello. In effetti
ci sono parecchi indizi che rendono fondati tali dubbi: la mancanza di precisione esecutiva nella realizzazione delle calotte
dei vani laterali absidati; i dettagli scultorei delle finestre nelle
volte lontani dalla finezza degli analoghi elementi presenti
nella basilica di San Pietro o in porta Pia, scolpiti ancora sotto
la sorveglianza di Michelangelo71. Le basi di appoggio della
volta a vela del baldacchino, dei veri e propri piedi al di sopra
della trabeazione delle colonne, sono realizzati in travertino –
fattore assai rilevante – e mostrano come questa fosse originariamente prevista in forma di calotta compatta e stereometrica, vale a dire senza quei profili stranamente rialzati a scarpa e
quei raccordi spigolosi, i quali, non essendo altro che un contrassegno ornamentale lavorato a intonaco, relativizzano la
sua stereometria. Anche le volte di connessione tra la vela centrale e gli ambienti laterali presentano una forma, dovuta al
fatto di poggiare sui risvolti, percorsa da superfici curve a
tromba e archi dai profili spigolosi. Tale soluzione rappresenta
il tentativo, solo apparentemente logico, di articolare queste
volte di connessione con la medesima tripartizione degli pseudo-pilastri posti tra le coppie di colonne, come se questo elemento architettonico presente in ciascun risvolto fosse un pilastro ripiegato due volte al quale fare corrispondere un fascio
di archi di conforme articolazione. Viceversa, l’intenzione di
Michelangelo sembrerebbe essere stata quella di definire le
volte con una semplice sfaccettatura solo fino a una certa altezza sopra la trabeazione continua, unificando poi la superficie
senza ricorrere ad archi dai profili spigolosi72. Tali superfici
curve caratterizzate da passaggi netti erano senz’altro in uso
nelle volte del tardo Cinquecento, si pensi solo al sistema di
volte continue della chiesa del Redentore di Andrea Palladio a
Venezia (dal 1577). La volta della cappella Sforza si sarebbe
presentata come un sistema articolato di grande semplicità e di
grande effetto scultoreo, al pari di una calotta pluriarticolata e
continua a sottolineare la compattezza architettonica della
cappella. Sia nella basilica di San Pietro che in San Giovanni
dei Fiorentini, Michelangelo propose tali sistemi voltati dalla
forma decisamente scultorea e dall’effetto pesante, come a
schiacciare la complessa architettura quasi fosse un coperchio
omogeneo e gravoso.
Va tratta la conclusione che Calcagni deviò consapevolmente
dal modello o per semplice incapacità, oppure perché – in fase
di realizzazione – non fu in grado di sorvegliare adeguatamente l’esecuzione del sistema di coperture. Per valutare quanti
equivoci potevano nascere persino in presenza di un modello
esecutivo, basta ricordare come, in una simile circostanza, Michelangelo avesse dovuto osservare impotente la cattiva esecuzione della volta dell’abside meridionale di San Pietro. Come detto, il modello della cappella Sforza figura già realizzato
nel 1562. Due fogli, con tre disegni, appartenenti al cosiddetto Scholz Scrapbook del Metropolitan Museum of Art di New
York (un taccuino di rilievi accuratamente quotati eseguito all’interno della cerchia di Stefano Dupérac poco dopo la metà
del Cinquecento) documentano lo stato di molti edifici realizzati da Michelangelo e specialmente di alcuni suoi modelli (fig.
8)73. I disegni relativi alla cappella si corredano di note eseguite dalla stessa mano delle copie in pulito del modello ligneo
della cupola di San Pietro74. Gli schizzi a mano libera hanno
proporzioni spesso imprecise, mentre le misure si rivelano
ampiamente esatte; tuttavia vi sono anche marcate differenze:
i profili della cornice della finestra rettangolare rappresentata e
la sua posizione nella parete divergono da quanto effettivamente costruito75, inoltre mancano le paraste della controfacciata. Appare pertanto ovvio poter concludere come il disegnatore non abbia riprodotto l’edificio realizzato, ma un modello ligneo di grande formato e in scala, presumibilmente il
gli anni dal 1534 al 1564
modello esecutivo citato nel codicillo del 1562. Le volte poi
non sono disegnate nella loro completezza, ma si evince chiaramente che il passaggio tra la volta a vela del baldacchino e le
volte a botte appare realizzato con passaggi netti.
La sobrietà della cappella Sforza dovuta all’uso di travertino e
intonaco, in modo del tutto conforme alla principale tendenza
dell’architettura ecclesiastica romana dell’epoca76, sottolinea
l’effetto spaziale come fosse una unità scultorea. La parte
esterna della costruzione non avrebbe dovuto essere visibile e
pertanto rimase del tutto disadorna (cat. 86)77. Nelle sue dimensioni, paragonabili a una vera e propria chiesa, ma soprattutto nell’estrema complessità volumetrica, la cappella supera
tutto ciò che era stato fino ad allora intrapreso nell’ambito della progettazione delle cappelle gentilizie e forse addirittura
nell’ambito più generale dell’architettura sacra. Non a caso,
poco più tardi, gli iniziali tentativi di Domenico Fontana e di
Ottaviano Mascherino di riallacciarsi alle idee elitarie della
cappella Sforza nella progettazione della cappella di Sisto V
(1585-1590) nella stessa basilica liberiana78, verranno poi abbandonati a favore di una soluzione architettonicamente più
semplice che, attraverso l’esempio della cappella Gregoriana
nella basilica di San Pietro risaliva già alla cappella Chigi di
Raffaello in Santa Maria del Popolo.
Il principale tema architettonico della cappella Sforza, ovvero
il baldacchino su quattro colonne, sotto l’aspetto iconografico
è spiegabile, forse persino troppo facilmente, con la tradizione
dei mausolei funerari. Basti pensare ad esempio al famoso sepolcro dei Cerceni sulla via Appia, reso noto attraverso le incisioni di Sebastiano Serlio e altri79. Il tema aveva poi trovato diffusione nell’Alto Medioevo attraverso l’esempio della cappella di San Zenone in Santa Prassede, dove le quattro colonne
angolari, a differenza del modello antico, hanno tratti di tra221
10. Sezione longitudinale della cappella Sforza
con ricostruzione del progetto di Michelangelo
per il monumento Sforza secondo il disegno
Casa Buonarroti 103 A recto
(elaborazione dell’autore)
beazione orientati diagonalmente80. Nel Quattrocento il vano
a baldacchino aveva destato l’interesse di Francesco di Giorgio
Martini, come testimoniato dalla chiesa mausoleo di San Bernardino presso Urbino. A Michelangelo doveva essere certamente nota la cappella Nerli in San Salvatore al Monte a Firenze81. Questa cappella associa alla tendenza centralizzante di un
baldacchino con volta a crociera con lo sviluppo spiccatamente longitudinale dovuto alla profonda campata d’ingresso e all’altrettanto profondo presbiterio, con arcate cieche sulle pareti laterali che accennano alla forma di una croce.
La valenza prospettica della cappella Sforza è resa palese dalla
posizione del baldacchino spostato verso l’ingresso e dunque,
non solo meglio visibile dalla navata della basilica, ma anche
capace di lasciar vedere i vani laterali, permettendo così di
raggiungere le valenze prospettiche e spaziali degli esempi
appena citati ed esemplificare la sua doppia destinazione,
cappella sepolcrale e sacramentale. Proprio questo carattere
assicurò alla cappella Sforza, per tutto il periodo barocco,
una notorietà che tramite le incisioni di Giovanni Giacomo
de Rossi (cat. 88) arriverà fino a Balthasar Neumann82. Ammiratori come Benedetto Mellini83 o Francesco Borromini la
caratterizzarono con i termini chiave di “capricciosa” o “bizzarra”84. Questa architettura di Michelangelo tende ad amalgamare in forma estremamente libera tipologie e figurazioni
architettoniche diverse: corpo longitudinale rettangolare
voltato a botte; baldacchino su quattro colonne voltato a vela; articolazione centralizzante cruciforme sormontata da
cupola e persino spazio centralizzante circolare come una ro222
tonda. Tenendo insieme tale varietà di modelli, lo spazio della cappella sfugge a ogni definizione architettonico-iconografica, il che non significa affatto aver tradito la sua destinazione di mausoleo e di repositorio del Sacramento, chiaramente evidenziata dalla sua architettura. La “bizzarra” fusione dei prototipi più noti, ma allo stesso tempo più apprezzati, secondo una spiccata configurazione unitaria caratterizza
anche il progetto per San Giovanni dei Fiorentini, dove un
simile processo progettuale è particolarmente evidente e
corrisponde alla chiara consapevolezza che la sua architettura fosse persino superiore a quella degli antichi85.
Intorno al 1628, Francesco Borromini, che aveva accuratamente studiato i capitelli della cappella Sforza, ritenne che
essi superassero in bellezza ogni esempio antico e moderno e
li scelse pertanto a modello86. Alcuni studiosi tuttavia hanno
dubitato che essi siano di disegno michelangiolesco87. Eppure non c’è ragione per tale sospetto, dal momento che in Michelangelo l’ordine maggiore è sempre concepito in modo canonico: nella facciata di San Lorenzo, nella Sagrestia Nuova,
in San Pietro, nel palazzo dei Conservatori e persino nelle colonne del tamburo della cupola di San Pietro e in San Giovanni dei Fiorentini, precedente diretto della cappella Sforza. Influenzata dal passo vasariano sul libero uso che Michelangelo
fece del fantasioso ordine “composto” presente nei monumenti sepolcrali dei duchi nella cappella Medici di San Lorenzo, la moderna interpretazione del pensiero architettonico di
Michelangelo si era concentrata forse troppo unilateralmente
sull’allontanamento dal canone antico, non riconoscendo all’artista la possibilità di un consapevole uso canonico dell’ordine architettonico88. Quell’ordine “composto”, per quanto
storicamente ricco di conseguenze, rimane in Michelangelo
principalmente legato alle partiture interne, quali finestre
(come quelle della cappella Sforza), portali, edicole e monumenti sepolcrali. Solo in casi eccezionali, come nella progettazione di biblioteche o porte di città, meno rigorosamente
sottoposte alle regole del decoro di quanto non fossero gli
edifici sacri o i palazzi comunali, Michelangelo considerò l’ordine “composto” non solo nelle partiture interne, bensì in
tutto l’edificio89. Nella progettazione degli edifici religiosi, come la cappella Sforza o San Giovanni dei Fiorentini, l’equivalente dell’ordine “composto” risiede soprattutto nella libertà
combinatoria delle composizioni spaziali e in secondo luogo
nella disposizione non convenzionale degli apparati di sostegno e del sistema di illuminazione, riuscendovi peraltro ampiamente senza fare ricorso a elementi decorativi. Ad eccezione degli apotropaici demonietti posti sui frontoni delle finestre, l’architettura di Michelangelo si esprime, come nella basilica di San Pietro, proprio attraverso la sobrietà decorativa.
Come insegna la storia della progettazione della Sagrestia Nuova a Firenze, la cappella Sforza – quale opera d’arte architettonico-scultorea – potrebbe considerarsi completata solo contestualmente agli elementi di arredo che incidono decisamente
sullo spazio, ovvero i monumenti sepolcrali e l’altare90. Le attuali edicole di marmi policromi, piatte, slanciate e dai pregiati
dettagli, con i loro sarcofaghi in miniatura e con i busti dipinti
dei defunti sormontati da angeli in stucco che al suono di trombe annunciano il Giudizio universale, sono sì creazioni assai notevoli, forse di Giacomo della Porta, ma restano inseriti nelle
pareti concave senza stabilire un dialogo con lo spazio della
cappella e pertanto sono fondamentalmente lontani dal pensiero di Michelangelo. Non sorprende che il foglio 103 A recto
conservato a Casa Buonarroti (cat. 83; Corpus 613 recto) presenti una soluzione per i monumenti sepolcrali del tutto diversa da quella realizzata. Il foglio era stato riferito ai sepolcri Sforza già da Dagobert Frey e poi, per un certo tempo anche da James Ackerman91. Nel 1978 Paul Joannides92 ha riconosciuto sul
verso di questo foglio la traccia inferiore di una cornice di finestra, la cui controparte superiore è disegnata sul verso del foglio
124 A di Casa Buonarroti (cat. 78; Corpus 612 recto-verso);
che mostra una delle piante per San Giovanni dei Fiorentini.
Questa circostanza ha indotto a credere che anche il progetto
del monumento sepolcrale lì disegnato fosse destinato a quella
chiesa93. Sorprende che, nel frattempo, gli studiosi abbiano dimenticato che i progetti del 1559-1560, ai quali appartengono
anche questi fogli, non prevedessero alcun sepolcro. La cronologia dei progetti tracciati sul foglio è di facile interpretazione e
permette di ricostruire chiaramente la vicenda: come primo
studio Michelangelo disegnò su un foglio grande (oggi corrispondente ai due versi), la traccia per le cornici delle finestra da
eseguire nel tamburo del modello ligneo della cupola di San
Pietro, compito portato a termine già nel 1558. L’anno successivo, nella faccia ancora libera dell’originario foglio, Michelangelo disegnò la pianta di San Giovanni dei Fiorentini: all’epoca
il foglio non era stato ancora diviso, come mostrano le macchie
di seppia sulla pagina in cui sarebbe stato successivamente disegnato il monumento sepolcrale. Superata la fase progettuale
relativa a San Giovanni, il foglio venne nuovamente utilizzato
dopo il 1560 e, a quel punto diviso: sulla rimanente parte libera fu eseguito lo schizzo relativo ai sepolcri Sforza94. La soluzione ci avvicina al concetto originario di Michelangelo, caratterizzato da un monumentale sarcofago, sicuramente appoggiato
sul pavimento e situato visibilmente al di sotto di una fascia
orizzontale, compatibile con l’alto basamento presente nella
cappella Sforza (fig. 9). Al di sopra del sarcofago, sulla parete è
posta un’edicola con volute laterali e timpano centinato inquadrata da articolate specchiature; nella nicchia è vagamente
gli anni dal 1534 al 1564
schizzata una figura, facilmente ipotizzabile come statua del
defunto. Questa variazione sul tema delle tombe medicee, lascia presumere un aggetto del sarcofago con risalto energico e
plastico tanto da invadere lo stretto vano della cappella laterale
e inserirsi così nello stesso sistema di riferimenti ortogonali come le adiacenti colonne nei risvolti dei vani laterali. Alla luce di
questo disegno, diventa più evidente il significato delle colonne: esse incorniciano il luogo di sepoltura e nel contempo conciliano a una raffigurazione maestosa, chiaramente e puntualmente espressa dal baldacchino centrale.
Resta da descrivere la forma dell’altare eucaristico. La collocazione di tabernacoli eucaristici al posto delle pale d’altare, architettonicamente autonomi e realizzati con materiali preziosi, divenne sempre più frequente a partire dagli anni quaranta
del XVI secolo. Sicuramente è da immaginare un tabernacolo
di forte carattere plastico e scultoreo come quello realizzato
dopo la morte del maestro dai discepoli Jacopo del Duca e Giacomo Rocchetti sull’altare maggiore di Santa Maria degli Angeli a Roma95.
Oggi non è più possibile chiarire, se quest’altare sia da immaginarsi libero come nei progetti per San Giovanni dei Fiorentini e per Santa Maria degli Angeli96 oppure addossato al muro di
fondo97. È certo comunque che con i monumenti sepolcrali e
l’edicola marmorea dell’altare progettati sicuramente da Giacomo della Porta, il gusto dei committenti si spostò verso un
arredo più aggiornato, policromo e con immagini didattiche
dai contenuti semplici e univoci, come poi sarebbe accaduto
all’inizio degli anni ottanta, con le pitture di Cesare Nebbia:
nulla di più estraneo al pensiero architettonico dell’anziano
Michelangelo.
223
Ringrazio vivamente Elisabetta Pastore, Colette Bouverat, Mauro Mussolin
e Clara Altavista per la versione italiana del mio testo.
1
Gilio 1564, p. 122: “la capella […]
che fabrica hora”; per il testo integrale,
Satzinger 2003-2004, p. 402, doc. B3.
2
Bellini 1995; la demolizione avvenne nel luglio del 1748, Satzinger
2003-2004, p. 405, doc. B19.
3
Satzinger 2003-2004, p. 400, doc. A1.
4
Ivi, p. 400, doc. A2.
5
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
113 [ed. 1568]; vol. IV, pp. 18131819.
6
Sulla figura di Tiberio Calcagni, cfr.
Pisani 1997.
7
Si veda al riguardo il commento di
Francesco Borromini contenuto nel
manoscritto di Fioravante Martinelli,
Roma ornata dall’Architettura, Pittura e Scoltura, circa 1660-1663: “La
volta dopo la morte del Buonarota [fu
fatta] da Tiberio Calcagno suo giovane, ma non fu intesa e si vede non
corrispondere alla bizzaria del resto”,
cfr. Satzinger 2003-2004, p. 404,
doc. B16.
8
Sulla fortuna critica della cappella,
cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 329333, 393.
9
Vasari, ed. Bottari 1759-1760, vol.
III, p. 301, note 1-2: “alcuni revocano
in dubbio, se questa cappella sia disegno del Bonarroti, benché dimostri la
maniera del suo fare”, e ancora, “È finita, ma diversamente affatto col disegno di Giacomo della Porta”.
10
Ackerman 1986, p. 328.
11
Hibbard 1975.
12
Corpus, vol. IV, p. 117; hanno valutato come minima la partecipazione di
Michelangelo nella cappella Sforza sia
Burckhardt 1855, p. 315, sia Thode
1908-1913, vol. II, pp. 185-187.
13
Fasolo 1923-1924, p. 444; Portoghesi 1964, p. 688.
14
Portoghesi 1964, p. 688, rivendicano come appartenenti a Giacomo della
Porta la volta e la finestra.
15
Argan, Contardi 1990, p. 300; si veda anche la scheda di B. Contardi in ivi,
pp. 348-349; inoltre Conforti 2001,
p. 56.
16
Ratti 1794-1795, vol. I, pp. 233252; Pastor 1955-1961, vol. VII
(1957), pp. 103 sgg.; per l’iscrizione
224
sulla tomba cfr. Satzinger 2003-2004,
p. 400, doc. A3.
17
Ratti 1794-1995, vol. I, pp. 290299; Pastor 1955-1961, vol. IX
(1958), pp. 769 sgg.; per l’iscrizione
sulla tomba cfr. Satzinger 2003-2004,
p. 400, doc. A4.
18
Gli Sforza di Santa Fiora portavano
nel loro stemma un leone rampante
con mela cotogna allusiva al luogo di
nascita del capostipite dell’intero casato, cioè Cotignola presso Ravenna, cfr.
Ratti 1794-1795, vol. I, pp. 3, 114,
tav. I, 363, tav. V.
19
Schwager 1983, p. 286, n. 222.
20
Satzinger 2003-2004, pp. 333-337.
21
Schwager 1983, p. 285, n. 220.
22
Eletto cardinale il 12 marzo
1565, nella quarta tornata di nomine del pontificato di Pio IV, divenne arciprete il 28 dicembre 1572,
Schwager 1983, p. 289; sul raro
mecenatismo di Alessandro Sforza,
cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 337340.
23
Nel 1553, Annibal Caro scriveva su
Michelangelo: “E, quanto a obligarlo a
qualch’opera di sua mano, egli è tanto
scottato dagli oblighi passati e tanto
ombroso di questo promettere, per esser poco pratico di convenir con gli uomini, e assai destituito de le forze del
corpo, che mal volentieri si lascierà ridurre a questo atto”, cfr. Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. IV, p. 1880.
24
Schwager 1983, p. 262, n. 113; cfr.
Minozzi 2000, pp. 34-37: “Et quoniam dicta cappella [Sancti Silvestri]
ut sit tradita et consignata, per Illustrissimum et Reverendissimum d.d.
Guidonem Ascanium Sfortia Sanctae
Romanae Ecclesie Camerarium et dicte ecclesie Archipresbiterum deruta
fuit ad hoc ut in ea construi faceret nove fecit quandam eius cappellam magnam”. Archivio di Stato di Roma (in
seguito ASR), Trenta Notai Capitolini,
Notaio Julianus Corbinus, vol. 635, f.
564r-v (22 mag. 1563), Satzinger
2003-2004, p. 402, doc. B2.
25
Pastor 1955-1961, vol. VII (1957),
p. 51.
26
Ivi, p. 606; Fumagalli 2001, p. 102.
27
Il 28 giugno 1561, cfr. Jedin 1975,
parte I, pp. 79, 311, n. 6.
28
Schwager 1983, p. 286, n. 222.
29
Ivi, pp. 286-289; de Blaauw 1994,
vol. I, pp. 372-377.
ASR, Archivio Sforza Cesarini, parte
I, etichetta rettangolare 622, numero
55 (20 ago. 1562); Satzinger 20032004, pp. 400-402, doc. B1.
31
Come esecutore testamentario fu
nominato il cardinale Alessandro Farnese.
32
Satzinger 2003-2004, pp. 343-348.
33
Schwager 1983, pp. 286-289; de
Blaauw 1994, vol. I, pp. 371 sgg.; il
vecchio tabernacolo e l’altare sacramentale, precedente donazione del
cardinale Guillaume d’Estouteville,
erano collocati sulla parete interna del
pilastro meridionale dell’arco trionfale, di fronte al quale si trovava l’altare
dedicato all’Assunzione di Maria.
34
Guido Ascanio Sforza morì infatti il
7 ottobre 1564 presso Cremona.
35
Schwager 1983, pp. 289, 292, n.
255.
36
Mayer-Himmelheber 1984, pp.
111-114, 317, n. 481; cfr. Nussbaum
1979, pp. 433, 447.
37
Schwager 1983, p. 289.
38
Ibidem; sulle posteriori collocazioni
del tabernacolo sacramentale, cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 343-348.
39
Satzinger 2003-2004, pp. 407 sgg.,
docc. C11, C25, C29.
40
Cambareri 1990-1992.
41
Freiberg 1991.
42
La cappella Cesi fu terminata nel
1564; all’inizio del 1565, data della
morte del cardinale, mancavano ancora la pala d’altare e il monumento sepolcrale, cfr. Hunter 1996, pp. 174178; il coro invernale venne costruito,
al più tardi, a partire dal 1568; Schwager 1983, p. 268, n. 146. Il precedente
coro invernale si trovava nella cappella
di San Michele, fondata dal cardinale
d’Estouteville dopo il 1450, Schwager 1983, p. 261, n. 208; Satzinger
2003-2004, pp. 346 sgg.
43
Sul palazzo papale di Santa Maria
Maggiore, Schwager 1983, p. 264, n.
126; più recentemente Schelbert
2004.
44
Satzinger 2003-2004, p. 402, doc.
B4.
45
Ciò emerge confrontando de Angeli
1621, tavv. 56 e 94, con la pianta risalente agli anni 1580-1590 di Ottaviano Mascherino, che riproduce, oltre al
Palazzo Apostolico e alla sagrestia, anche il profilo curvo del fianco destro
della “cappella de’ Sigg. Sforza”, Ro30
ma, Accademia Nazionale di San Luca,
Fondo O. Mascarino, inv. 2427; Satzinger 2003-2004, pp. 351, fig. 23;
406, doc. C3.
46
Borromeo 1980.
47
Satzinger 2003-2004, p. 348, n. 87.
48
Ivi, p. 402, doc. B2.
49
Baglione 1639, p. 172; Hunter
1996, pp. 178-181.
50
Debbo tale informazione alla cortesia di Arnold Nesselrath.
51
La realizzazione tecnica della pala
d’altare (153 × 229 cm), in particolare
la preparazione del supporto, è mal
condotta e indica una certa fretta nell’esecuzione, specialmente se confrontata alla quasi contemporanea pala d’altare della cappella Cesi (153 ×
259 cm), accuratamente realizzata tra
il 1565 e il 1566 su lastra di ardesia,
cfr. Hunter 1996, pp. 174-181. Due
motivi possono spiegare tale approssimazione esecutiva: l’inattesa morte
del fondatore, avvenuta nell’ottobre
1564, che potrebbe aver affrettato la
necessità di utilizzare la cappella come luogo di sepoltura; la commissione del dipinto solo dopo la scomparsa
dello Sforza, quando al tempo di Borromeo, alla cappella fu sottratto il privilegio di ospitare il Sacramento e
quindi il relativo tabernacolo sull’altare. Alcuni profondi buchi visibili
nelle radiografie, tutt’attorno al supporto ligneo, fanno pensare che vi sia
stata una cornice provvisoria apposta
alla tavola, ma dal momento che questi buchi non servono oggi al fissaggio
del supporto, l’interpretazione più
plausibile resta considerarli come
tracce di una cornice provvisoria: la
tavola non è rifilata e tali buchi non
possono essere riferiti nemmeno all’edicola di marmo, cosa che confermerebbe di conseguenza la collocazione del quadro prima della costruzione dell’edicola; ringrazio Arnold
Nesselrath per le informazioni circa
gli esiti del restauro.
52
ASR, Collegio dei Notai Capitolini,
Notaio Curtius Saccocius de Sanctis,
vol. 1541, f. 352v (21 apr. 1574), su
amichevole segnalazione di Klaus
Schwager; Satzinger 2003-2004, pp.
402 sgg., doc. B7.
53
Satzinger 2003-2004, p. 352, n. 97.
54
Ivi, pp. 406-408, docc. C2c, C13,
C15, C17, C27.
Satzinger 2003-2004, p. 353, n.
100; Souza Lima 2005.
56
Schwager 1975b, pp. 109-141.
57
Satzinger 2003-2004, pp. 400-402,
doc. B1.
58
L’attribuzione a Giacomo della Porta
di questi elementi è in Portoghesi,
1964, p. 687.
59
ASR, Collegio dei Notai Capitolini,
Notaio Prospero Campanus, B 464,
fol. 589v-598v (11 lug. 1580), su
amichevole segnalazione di Klaus
Schwager; Satzinger 2003-2004, p.
403, doc. B9.
60
Satzinger 2003-2004, pp. 355-359
e p. 403, doc. B10.
61
La parete dell’altare è riprodotta in
un disegno inedito dello studio di Ferdinando Fuga, sul quale sono già proiettate le finestre realizzate nel 1762,
cfr. New York, Cooper-Hewitt Museum, inv. 1938-88-3894; Satzinger
2003-2004, p. 360, fig. 34; p. 407,
doc. C16.
62
La facciata fu smantellata nel giugno 1748 per essere acquistata –
stando a una informazione dell’epoca fornita da Pier Filippo Strozzi e recentemente pubblicata da Alessandra Anselmi – dal cardinale Alessandro Albani che la fece trasformare in
portale, destinandolo alla sua villa
presso porta Salaria (non mi è stato
possibile verificare questa informazione), cfr. Anselmi 1990; Satzinger
2003-2004, p. 405, doc. B20 e p.
407, doc. C13.
63
ASR, Archivio Sforza Cesarini, parte
I, etichetta rettangolare 608, pp. 5254 (23 feb. 1762); Satzinger 20032004, pp. 405 sgg., doc. B22; il fianco
occidentale della basilica venne rive55
gli anni dal 1534 al 1564
stito tra il 1721 e il 1743, Schwager
1983, p. 308.
64
Cfr. l’analisi di Wolfgang Lotz in
Heydenreich, Lotz 1974, pp. 258 sgg.
65
Portoghesi 1964, pp. 688 sgg.
66
Per una dettagliata analisi planimetrica e proporzionale in palmi romani,
cfr. Satzinger 2003-2004, pp. 369375.
67
Sui disegni relativi a questi argomenti si rimanda ai diversi saggi specifici in questo catalogo.
68
Sul “giudizio dell’occhio” si veda
Summers 1981, pp. 368-378.
69
Ringrazio vivamente Elisabeth Kieven per aver reso possibile la misurazione della cappella con tachimetro a laser realizzata da Hermann Schlimme;
monsignore Michal Jagosz con grande
gentilezza ha sostenuto questo lavoro
nella basilica.
70
Sui fogli del British Museum 19467-13-33a e di Casa Buonarroti 104 A
e 109 A, cfr. Frey 1920, pp. 65 sgg.;
Wilde 1953a, n. 84; Portoghesi 1964,
pp. 683-686; Ackerman 1986 pp.
328-329; B. Contardi, scheda 29, in
Argan, Contardi 1990, pp. 348-349;
M. Mussolin, scheda 22, in Elam
2006, pp. 205 sgg.
71
Schwager 1973, figg. 13, 20.
72
Satzinger 2003-2004, p. 380 fig. 61.
73
New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of Janos Scholz and
Anne Bigelow Scholz, in memory of
Flying Officer Walter Bigelow Rosen,
n. 49.92.19verso e n. 49.92.23 rectoverso; per l’analisi di questi fogli, cfr.
Satzinger 2003-2004, pp. 378 sgg.,
figg. 57-59 e p. 406, doc. C1; sullo
Scholz Scrapbook, cfr. Tolnay 1967;
d’Orgeix 2001; sui disegni per San
Pietro si rinvia al saggio di Alessandro
Brodini in questo catalogo.
74
New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of Janos Scholz and
Anne Bigelow Scholz, in memory of
Flying Officer Walter Bigelow Rosen,
n. 49.92.92recto-verso e n. 44.92.20
verso, cfr. Millon, Smyth 1988a, pp.
104-111; d’Orgeix 2001, p. 200.
75
Le finestre non appaiono ancora appese alla trabeazione come nell’edificio realizzato, ma libere e a breve distanza al di sotto di essa, come quelle
già progettate da Michelangelo per San
Giovanni dei Fiorentini.
76
Kummer 1987, pp. 3-5.
77
Questa situazione cambiò successivamente con l’apertura della strada
voluta da Sisto V.
78
Schwager 1961, pp. 339-342.
79
Windfeld-Hansen 1969, pp. 74-77;
Günther 1988, pp. 97, 366, 371; Della Torre, Schofield 1994, pp. 294302; Bettini, 2003, pp. 33-35.
80
Krautheimer 1980, fig. 101.
81
La cappella Nerli appare completata
nel 1496, cfr. Markschies 2001, pp. 33
sgg., 71 sgg., 152-157.
82
Satzinger 1992, pp. 425 sgg.
83
“La […] Capella della famiglia Sforza. Capricciosa architettura di Michelangelo”; Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 11905, f. 357 v; si veda
Satzinger 2003-2004, pp. 393; 404,
doc. B17; Benedetto Mellini (morto
nel 1667), fu bibliotecario di Cristina
di Svezia.
84
Sul giudizio espresso da Borromini,
si veda supra.
85
Secondo Vasari, Michelangelo avrebbe detto che se la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini fosse stata costruita,
avrebbe superato persino l’architettura
dei Greci e dei Romani; Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p. 113 [ed. 1568].
86
Satzinger 2003-2004, pp. 389-393,
fig. 75.
87
Si esprime a favore di una autografia
di Calcagni anche Portoghesi 1964,
pp. 687 sgg.; cfr. anche Ackerman
1986, p. 328.
88
Vasari, ed. Milanesi 1878-1885, vol.
I, pp. 135-137.
89
Sulle possibili licenze nel decoro
delle porte di città, Schwager 1973,
pp. 67 sgg.
90
Satzinger 2003-2004, pp. 394-400.
91
Frey 1920, pp. 65 sgg.; Ackerman
1961, vol. II, p. 123.
92
Joannides 1978 p. 176.
93
Corpus, vol. IV, p. 108.
94
Il disegno è eseguito in modo molto
sottile con matita e frequente ausilio
di righello; si notano inoltre numerosi
pentimenti, specialmente nella zona
destra del sarcofago, dove le linee sono
assai tremolanti.
95
Montagu 1996, pp. 199 sgg.; Satzinger 2003-2004, pp. 394-397.
96
Su Santa Maria degli Angeli si veda il
saggio di Alessandro Brodini in questo catalogo.
97
La nicchia nell’odierna edicola d’altare non era originariamente prevista
nel muro della parete della cappella.
Quando nel novembre 2001 venne
scoperta la nicchia e tolto l’intonaco, vi
erano visibili su tutti i lati tracce chiare
e profonde di rimozione, che consentivano d’interpretare la nicchia come
un intervento secondario nel muro.
Purtroppo la nicchia venne subito allargata per inserirvi un meccanismo di
sostegno per la pala d’altare restaurata.
225
1. Luigi Ricciardelli, Veduta di Porta Pia, acquaforte,
da Luigi Ricciardelli, Vedute delle Porte e Mura di Roma,
Roma 1832
PORTA PIA
Golo Maurer
2. Giovanni Maria Cassini, Porta Pia vista da fuori le mura,
incisione, da Giovanni Maria Cassini, Nuova raccolta
delle megliori vedute antiche e moderne di Roma, Roma 1779
3. Roma, porta Pia, veduta del prospetto
verso via Nomentana agli inizi del XX secolo
Una porta sulla campagna. Roma città aperta
Porta Pia è una delle prime porte urbane monumentali dell’era
moderna il cui fronte interno, cioè quello rivolto verso la città,
sia stato oggetto di un intervento di qualificazione architettonica1. Questa affermazione sottolinea già una delle principali
peculiarità di quest’opera: ciò che è riconducibile all’intervento di Michelangelo riguarda infatti unicamente il prospetto interno alle mura (cat. 96, 97; figg. 1-2). Fino ad allora questi
fronti erano generalmente contraddistinti da apparati difensivi privi di ornamentazione architettonica. Giunti alle mura,
coloro che varcavano le porte della città erano tutt’al più accolti all’ingresso, o congedati all’uscita, da immagini di santi che
impartivano benedizioni. Incomparabilmente più importante
comunque restava il modo in cui, dall’esterno, la città si presentava ai viaggiatori. Insieme alla silhouette di torri e cupole
ben visibile da lontano, rivestiva un ruolo fondamentale l’assetto esterno di ciascuna porta, che contribuiva, in qualche
modo, a definire la complessità del carattere urbano. L’apparato architettonico e scultoreo, al pari del corredo di stemmi e di
iscrizioni, presentava per così dire la città al forestiero in arrivo, mentre al cittadino sulla via di casa esprimeva identità e
appartenenza2. Tale forma di rappresentatività rivolta verso
l’esterno è talvolta contraddetta dalla tradizionale denominazione delle porte urbane, i cui nomi rispecchiano generalmente il punto di vista degli abitanti della città e fungono sovente
– dall’antichità fino al periodo moderno – da indicatore di direzione, ponendo la città in relazione con il territorio: attraverso porta Romana a Firenze si va a Roma, così come a Gerusalemme dalla porta di Damasco si giunge all’omonima città e lo
226
stesso vale per porta St. Denis a Parigi o per Hallesches Tor di
Berlino rivolte rispettivamente verso le vicine località. Nel caso di Roma poi è frequente che le porte venissero denominate
analogamente alle vicine chiese poste fuori le mura, quali per
esempio porta San Sebastiano e porta Sant’Agnese.
Per quanto concerne porta Pia, la novità risiede non solo nel
portare una denominazione che riconduce a fatti interni all’urbs, ovvero quel caratterizzarsi attraverso il nome del proprio committente, Pio IV Medici (1559-1565), ma consiste
anche, come detto, nel rivolgere il suo prospetto architettonico verso lo spazio interno della città. Ciò non può essere un caso: contro ogni tradizione e su probabile disposizione del pontefice, Michelangelo iniziò la progettazione di porta Pia partendo dalla fronte “interna” senza lasciare, a quanto pare, alcun disegno per quella “esterna”3. Dopo la morte di Michelangelo infatti i papi successivi attesero circa tre secoli prima di disporre la realizzazione di un apparato architettonico rivolto
verso la campagna (fig. 3). Per secoli dunque, ciò che venne intenzionalmente messo in scena fu, non tanto l’entrata in città,
quanto l’uscita dall’Urbe, attraverso una porta mutata in ingresso alla campagna romana. Resta da capire come debba essere inteso questo anticonvenzionale ribaltamento di significato
e come vadano considerate le circostanze che determinarono
la creazione del monumento. A differenza delle altre più importanti porte urbane di Roma, porta Pia fu costruita ex novo
nel XVI secolo, andando a sostituire la porta Nomentana, detta anche porta Sant’Agnese, posta leggermente a nord-ovest
sullo stesso tratto di mura. Questo nuovo varco si era reso necessario in funzione del moderno tracciato voluto da Pio IV, la
via Pia oggi via XX Settembre, che andava a sostituire l’antica
strada Alta Semita. L’obiettivo di rettificare e livellare il corso
irregolare della strada antica aveva causato lo spostamento della porta originaria la quale, risultando fuori tracciato, dovette
essere ricostruita poco oltre (fig. 4).
Il cantiere di porta Pia, come riportato in una relazione dell’inviato mantovano Francesco Tonina, funzionava già a pieno ritmo all’inizio del 15614. Un motu proprio del 13 agosto dello
stesso anno informa sia del raddrizzamento dell’antica Alta
Semita, da Monte Cavallo fino alle mura, sia del suo ampliamento, oltreché dell’apertura della nuova porta “a ornamento
e per comodità” della città5. Strada e porta vengono qui descritte come parti costitutive e complementari di un grandioso progetto di ampliamento urbano, anch’esso promosso da
Pio IV, il quale aveva favorito l’urbanizzazione complessiva
dell’area intorno alle terme di Diocleziano, fino ad allora occupata da giardini, vigne e ville.
La nuova strada costituiva non solo un importante miglioramento del sistema di comunicazioni interne, ma anche – e soprattutto – diveniva un imponente asse visivo nei cui due opposti punti focali si trovavano, da un lato, le due antiche statue
dei Dioscuri di Monte Cavallo, dall’altro, la porta michelangiolesca. Via Pia non venne tuttavia delimitata da edifici rappresentativi quanto piuttosto dai muri di recinzione di orti e giardini, nei quali si aprirono portali monumentali talvolta ispirati alla stessa porta Pia. Nell’entrare in città, nonostante il carattere suburbano, la strada papale rappresentava un percorso di
ingresso trionfale che, senza soluzione di continuità – né ottica, né funzionale – si spingeva fin nel cuore cittadino, arrestandosi sul colle del Quirinale ai piedi delle statue di Castore
e Polluce e della residenza papale che vi sarebbe stata realizzata. Nel percorso contrario, porta Pia, visibile assai da lontano,
marcava il punto di egresso dalla cinta muraria verso l’aperta
campagna, l’Agro romano: il territorio papale per eccellenza si
mostrava alla vista fin dal Quirinale, manifestando allo stesso
tempo la sua appartenenza alla capitale. Se fino allora il passaggio da città a campagna era stato caratterizzato più che altro
da chiusura e compartimentazione – come, d’altra parte, per
esigenze difensive era stata limitata al minimo indispensabile
l’apertura di varchi nelle cortine murarie – adesso la traiettoria
verso la campagna sembra essere addirittura ostentata o, se
non altro, suggerita come mostra un affresco di Cesare Nebbia
nel Palazzo Apostolico Lateranense (fig. 5). I controlli doganali e le limitazioni a persone e merci in entrata e in uscita da
porta Pia erano stati tutt’altro che aboliti, tuttavia l’infrastruttura daziaria e militare a essa collegata era inglobata e nascosta
all’interno di una corte rettangolare delimitata da alte mura,
inserita fra la porta michelangiolesca e la cinta muraria vera e
gli anni dal 1534 al 1564
227
4. Ricostruzione di Günter Urban dell’area
fra Monte Cavallo e Castra Praetoria con il confronto
fra porte urbane e tracciati viari antichi e moderni
(da Lugli, Gismondi 1949)
6. Giovanni Domenico Navone, Schizzo planimetrico
della corte rettangolare posta fra la porta michelangiolesca
e la cinta muraria, 1755
7. Sebastiano Serlio, Porta rustica, da Extraordinario libro
di architettura, Lione 1551, tav. 12
5. Cesare Nebbia, Via e porta Pia, 1588,
affresco. Roma, Palazzo Apostolico Lateranense,
Sala della Conciliazione
propria (fig. 6). Per un osservatore proveniente dalla città, la
vista di un portale sempre aperto sulla campagna non veniva
intralciata da caselli, garitte o guardiole. Il funzionamento di
questo sistema era anche favorito dal fatto che attraverso le
porte urbane della cerchia aureliana la libera visuale dello spazio esterno non era impedita, come in altre città, dalla presenza di strutture bastionate. Attraverso le porte di Roma si riusciva effettivamente a spingere lo sguardo al di fuori delle mura sull’aperta campagna, con una visibilità che la monumentale edicola michelangiolesca di porta Pia metteva bene in scena,
relativizzando persino la categorica separazione fino allora vigente fra città e campagna6. Porta Pia di Michelangelo è quindi
anche un’architettura illusionistica: essa suggerisce infatti una
condizione di liberalità di accessi per i tempi invero impossibile, prefigurando così quello che sarebbe divenuto l’obiettivo
concreto di una successiva epoca storica, la città aperta.
È proprio alla facilità di transito che Michelangelo si riferisce
esplicitamente nei progetti per questa porta. Diversamente da
quanto talvolta sostenuto7, infatti, né per la funzione, né per
l’iconografia architettonica porta Pia può essere equiparata al
portale di un giardino o di una villa. Le somiglianze con i progetti di porte pubblicati da Sebastiano Serlio nel suo Extraordinario libro di architettura del 1551 sono assai generiche (fig.
7). Invano cercheremo in porta Pia tracce di quegli elementi
costitutivi dell’architettura dei giardini quali l’opus rusticum.
Ma soprattutto, il carattere gaio dei capricci di Serlio è tradotto da Michelangelo in un tono severo, serio, quasi tetro, che
differenzia sostanzialmente – e coerentemente – porta Pia da
tutti gli altri portali dei giardini sulla omonima strada; poiché
essa infatti conduce non in un ridente giardino, in un locus
amoenus, bensì nelle piane desolate della campagna romana e
negli aspri monti d’Abruzzo, non nel regno di Pomona, ma in
quello di Vertumno. Da lì, peraltro, provenivano tutti i prodotti dell’allevamento e dell’agricoltura da cui dipendeva l’approvvigionamento della città. Così, porta Pia può essere interpretata anche come trionfale porta d’ingresso per tutti i prodotti agricoli che dalla campagna circostante, come dai più
lontani granai delle Marche, venivano portati a Roma lungo la
via Nomentana per essere immagazzinati nei depositi intorno
alle terme di Diocleziano: un simbolo del buon governo papale ben leggibile dall’interno della città.
Problemi di autografia
Porta Pia è, accanto alla cappella Sforza, l’ultima opera architettonica di Michelangelo. Certamente ascrivibile alla sua mano è la serie di progetti per il portale centrale, come confermato da alcune fonti, tra cui gli statuti della relativa fabbrica8
e il resoconto di Giorgio Vasari. Questi, nella Vita del 1568,
228
scrive: “Ricercato a questo tempo Michelangelo dal papa per
Porta Pia d’un disegno, ne fece tre, tutti stravaganti e bellissimi, che ’l Papa elesse per porre in opera quello di minore spesa, come si vede oggi murata con molta sua lode. E visto
l’umor del Papa perché dovessi restaurare le altre porte di Roma, gli fece molti altri disegni”9. Dopo la morte di Michelangelo, il 18 febbraio 1564, i lavori vengono portati avanti fino
alla scomparsa del committente, occorsa il 9 dicembre 1565.
Il coronamento della facciata viene lasciato incompiuto, venendo terminato solo intorno al 186010. La fase dei lavori seguita alla morte di Michelangelo supera quindi di un terzo
l’intera durata del cantiere ed è tutt’altro che certo che egli
avesse lasciato piani dettagliati per il completamento dell’opera. Soprattutto ciò che è posto ai fianchi del portale, dove si trovano le finestre, presenta una serie di problemi. Se alle cornici delle finestrelle cieche superiori (fig. 8) si possono
avvicinare alcuni studi preparatori presenti sul foglio di Casa
Buonarroti 106 A verso (fig. 9; Corpus 619 verso), al disegno
delle edicole inferiori non corrisponde alcuna documentazione autografa (fig. 10). Non è chiaro infatti se il piccolo schizzo sul foglio di Casa Buonarroti 85 A (cat. 89; Corpus 620)11
sia collegabile ai progetti per le finestre inferiori di porta Pia.
L’incisione di Bartolomeo Faleti del 1568 (fig. 11), che dichiara di rappresentare fedelmente il progetto di Michelangelo12, non mostra altro che lo stadio dell’opera al dicembre
1565, con una serie di aggiunte introdotte dallo stesso Faleti
sulla base di informazioni a noi non pervenute, similmente a
quanto è documentabile per i presunti progetti michelangioleschi mostrati nelle incisioni di Stefano Dupérac per la basilica di San Pietro e per la piazza del Campidoglio. Persino la
medaglia di fondazione, eseguita da Giovan Federico Bonzagni nel 1561 (fig. 12), non rivela altro che un progetto assai
vago. Né l’incisione di Faleti, né il minuscolo rilievo sulla medaglia possono pertanto essere considerati fonti attendibili
per il progetto di Michelangelo e d’altronde non è neppure
certo che nella mente dell’artista esistesse un vero e proprio
progetto complessivo: ancor meno possiamo presumere che
esso fosse stato fissato sulla carta. Da altri cantieri meglio documentati, come quelli di San Pietro e della Biblioteca Laurenziana a Firenze, sappiamo altresì che Michelangelo concretizzava le sue idee progettuali parallelamente – e non preventivamente – allo svolgersi dei lavori. Nelle finestre laterali di
porta Pia l’esistenza di evidenti giunture nel paramento murario (visibili anche in seguito ai recenti restauri) potrebbe invece indicare che il progetto venne modificato in corso d’opera, non sappiamo se dallo stesso Michelangelo o dopo la sua
morte (fig. 10). Sembra quasi che il muro già costruito sia stato volutamente spaccato in un secondo momento per inserirgli anni dal 1534 al 1564
229
8. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia,
dettaglio della finestra cieca laterale superiore
9. Michelangelo Buonarroti, Schizzi di cornici
per le finestre cieche di porta Pia (?), circa 1561.
Firenze, Casa Buonarroti, 106 A verso, particolare
11. Bartolomeo Faleti, Prospetto di Porta Pia, incisione, 1568
12. Giovan Federico Bonzagni, Medaglia di Porta Pia, 1561
10. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia,
dettaglio della finestra laterale inferiore
tano, andando a definire un possente organismo estremamente compatto (fig. 16).
Fortuna critica
Porta Pia fu per molto tempo l’opera architettonica meno popolare di Michelangelo e ancora oggi gli studiosi si avvicinano
a essa non senza qualche perplessità. Vasari, che probabilmente non la vide mai, la menziona solo brevemente, come anche
gli altri suoi contemporanei. Nel XVIII e XIX secolo divenne
persino oggetto di sprezzanti critiche, soprattutto riguardo all’arbitrarietà del suo linguaggio architettonico che, ritenuto
eccessivo anche in rapporto alle altre opere dello stesso Michelangelo, sembrava addirittura negare l’esistenza di regole condivise. Ne erano disturbati soprattutto sia i rappresentanti dell’accademismo francese, come Joseph de Lalande, sia quelli del
classicismo inglese, fra cui Charles H. Wilson. Fra i critici italiani è certamente da annoverare Francesco Milizia, che di porta Pia non risparmiò nulla:
vi le finestre. Non è quindi certo che l’ensemble di portale con
finestre laterali, nella forma in cui lo vediamo oggi, sia opera
della mente di Michelangelo13.
L’autografia del portale è al contrario documentata dettagliatamente dai disegni superstiti. In questi progetti Michelangelo
combina motivi del suo repertorio, in qualche caso già presenti da decenni, con nuove invenzioni formali. Fra queste ultime, la soluzione più notevole è forse la forma del varco del
portale. In luogo di un arco (a tutto sesto o ribassato) o di un
architrave, Michelangelo concepisce una terminazione a piattabanda formata da conci incuneati e piegata sui lati in una
maniera fino allora inedita. La caratteristica apertura che ne risulta è il vero e proprio “marchio di fabbrica” di porta Pia, imitato e infinitamente variato nella successiva produzione architettonica (figg. 13-14). L’arco a tutto sesto, con cui Michelangelo aveva dato inizio alle sue riflessioni su questo tema nel disegno di Casa Buonarroti 73 A bis (cat. 90; Corpus 615)14, è
approdato all’opera realizzata quale semplice traccia di finestra
termale cieca. Anche il timpano centinato ribassato, spezzato
e ridotto a due tronconi laterali, è il primo di questo genere
nella casistica architettonica. Altri motivi invece, come le terminazioni avvolte a spirale congiunte da ghirlanda, provengo230
no da precedenti soluzioni sperimentate nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo (fig. 15)15. Tutti gli elementi architettonici
che compongono porta Pia sono ingranditi fino a proporzioni
colossali. Questa caratteristica – congiunta al taglio netto,
quasi a spigoli vivi, dei blocchi lapidei e alla presenza di profonde zone d’ombra – facilita la lettura dell’architettura anche
da distanze notevoli. Quelle componenti che da vicino si presentano quasi come un insieme incoerente, quali la ghirlanda,
i diversi timpani, le cornici, i profili e soprattutto l’enorme
blocco con l’iscrizione16, funzionano assai bene se viste da lon-
Archivolto centinato. Pilastri proietti per sostener un frontespizio de’ più spropositati. Se il finale nel mezzo fosse
terminato, comparirebbe stremamente alto. Finestre con
mensole: non mensole, ma travi di travertini per reggere
altri frontespizi mastini. Altre finestre incorniciate a centina, e frontespiziate doppiamente a volute e a tenaglie. E che
cosa sono que’ piattoni ornati di que’ bandoni che finiscono non si sa se in gocce o in fiocchi? Si hanno per satira contro quel buon papa che ordinò questa porta. E il mascarone
nella chiave ha forse qualche relazione coll’architetto di essa porta? Bagatelle … In architettura questo toscano divino
è stato d’un perfetto contrasenso. Talentone sfrenato, fecondo d’idee grandi e di tutti i capricci. Roma deve tenerlo
per un reo di lesa architettura, e tanto più reo che questa arte, rinascente allora e debole, in cambio di ricever più vigore da un ingegno così elevato, non s’ebbe che strapazzi e
peggioramento. […] Senza numero furon i suoi seguaci:
niente di più comodo che scapricciarsi. E tuttavia il volgo,
se ha da pappagallare qualche cosa creduta bella, la dice invenzione di Michelangelo.17
Il primo che, a dispetto delle obiezioni generali, riconobbe
l’importanza di quest’opera fu Jacob Burckhardt nel Cicerone
del 1855:
È una costruzione malfamata, apparentemente il prodotto
di un puro capriccio; ma una legge intrinseca che il maestro
crea per se stesso, vive nelle proporzioni e nell’effetto specifico dei particolari, i quali per conto loro sono affatto argli anni dal 1534 al 1564
231
13. Roma, porta Pia, dettaglio del portale verso via Pia
14. Sir Basil Spence, portale d’ingresso
degli uffici dell’Ambasciata Britannica
a Roma inaugurata nel 1971
15. Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova,
dettaglio di una edicola cieca
16. Roma, porta Pia, prospetto verso via Pia
bitrari. Queste finestre, questo timpano a forte sporgenza
al di sopra della porta ecc., formano, insieme con le linee
principali, un complesso, di cui, come fin dal primo sguardo si comprende, soltanto un artista grandissimo benché
traviato è capace. Entro l’arbitrio domina una risolutezza
che sembra quasi necessità.18
Preparata in tal modo da Burckhardt e fatalmente attratta
dall’iconografia apparentemente arcana della porta, fu soprattutto la storiografia di lingua tedesca del XX secolo a
vedere in porta Pia un’opera chiave per comprendere l’architettura di Michelangelo, superiore persino alle altre sue
opere per “dimensioni e possanza del linguaggio formale”
(Henry Thode)19. Hans Mackowsky la definì addirittura
una “architettura profetica”, mentre per Klaus Schwager
porta Pia restava “enigmatica”20. Il giovane Karl Tolnai
(Charles de Tolnay) vi vedeva poi “una specie di simbolo
232
della ineluttabile disfatta della forza vitale: un ‘memento
mori’ che si drizza enorme, innanzi al passante”, ricordando immediatamente dopo il passo dantesco “Per me si va
nella città dolente”21. Infine, porta Pia, “con le sue forme
fredde come il ghiaccio, come tagliate nel metallo”, rappresentava per Hans Sedlmayr il “massimo avvicinamento
possibile al manierismo” attraverso il quale Michelangelo
avrebbe anticipato un’intera epoca della storia dell’architettura22. In contrasto con tali complesse letture, James Ackerman interpretava finalmente porta Pia come un apparato
squisitamente scenografico e come un brioso capriccio con
cui Michelangelo rispondeva all’opera rustica di Sebastiano
Serlio23. Per Christof Thoenes, che invece ne ha sottolineato
la distanza programmatica dall’architettura “naturalistica”
di Serlio, porta Pia resta un “corpo estraneo nel quadro urbano di Roma, non recepibile e infatti non recepita neppure
dai seguaci barocchi di Michelangelo”24.
I disegni
Forse nessun altro progetto di Michelangelo è così ben documentato come quello riguardante il telaio architettonico del
portale di porta Pia, che può essere seguito fase per fase grazie
a una serie di disegni autografi contenuti in alcuni fogli rappresentanti diversi stadi della composizione, in massima parte
conservati a Casa Buonarroti. Accanto ai tre schizzi di piccolo
formato contenuti nei fogli di Casa Buonarroti 84 A (cat. 91;
Corpus 614), 99 A (cat. 92; Corpus 617) e forse 97 A (cat. 93),
che riportano ancora soluzioni piuttosto schematiche, sono
soprattutto da menzionare i due celebri fogli di grande formato di Casa Buonarroti 102 A (cat. 95; Corpus 618) e 106 A recto (cat. 94; Corpus 619 recto), sui quali sono registrati con
massima precisione anche dettagli minori; a questi due ultimi
gruppi va incluso un altro disegno di Casa Buonarroti, il 73 A
bis (cat. 90; Corpus 615), nonostante più volte escluso dalla
critica come non pertinente alla serie. Per completezza, non va
tralasciato di ricordare altri fogli spesso avvicinati dalla critica
alla progettazione di porta Pia, quali lo schizzo difficilmente
leggibile, ma sicuramente da riferire a quest’opera, conservato
alla Royal Library di Windsor Castle in Inghilterra (fig. 17) e
più dubitativamente sia il foglio di Casa Buonarroti 85 A (cat.
89; Corpus 620) sia il piccolo disegno del Teylers Museum di
Haarlem, inv. A 29 bis (fig. 18; Corpus 621).
Benché nessuno dei disegni giunti a noi mostri porta Pia così
come è stata realizzata, essi riuniscono d’altra parte tutti gli
elementi presenti nella versione definitiva25. Ad esempio, il
portale con angoli tagliati obliquamente compare in sette degli
otto progetti (tranne che nel 73 A bis), compreso lo schizzo di
Windsor Castle (fig. 17). L’imponente lapide compare in 73 A
bis e 106 A recto, il motivo della finestra termale in 97 A e 102
A, il timpano triangolare spezzato in 106 A recto, la ghirlanda
in 102 A. Il motivo della piattabanda piegata è anche chiaramente visibile in uno schizzo del foglio di Casa Buonarroti 19
F verso, generalmente interpretato come progetto per il sarcofago della tomba di Cecchino Bracci (fig. 19; cat. 23b; Corpus
368 verso). Ma dai punti in cui dovrebbero trovarsi i piedi del
sarcofago partono alcune linee parallele, interrotte dal taglio
del bordo inferiore del foglio. Tali linee verticali, insieme al
motivo della piattabanda piegata obliquamente sugli angoli,
formano una composizione assai simile al portale realizzato. È
possibile che si tratti di uno schizzo originariamente dedicato
a porta Pia, successivamente rielaborato dallo stesso Michelangelo e mutato in sarcofago, convertendo in coperchio il
timpano spezzato. In tal modo Michelangelo avrebbe prima
trasformato in un portale un motivo da lui già sviluppato quasi quarant’anni prima per le tombe della Sagrestia Nuova (fig.
20), per poi ritornare dal portale al sarcofago.
gli anni dal 1534 al 1564
233
17. Michelangelo Buonarroti,
Studio per il prospetto di porta
Pia e altri schizzi architettonici,
circa 1561. Windsor Castle,
Royal Library, inv. 12769 verso
18. Michelangelo Buonarroti,
Studio per l’alzato di porta Pia (?),
1561(?). Haarlem,
Teylers Museum, n. A 29 bis
Una particolarità dei disegni di grande formato è costituita dal
fatto che Michelangelo vi ha sovrapposto differenti idee e versioni del progetto secondo una stratigrafia di difficile decifrazione. Nonostante i numerosi tentativi intrapresi, non è stato
fino a oggi possibile ricostruire convincentemente l’esatta sequenza dei singoli “strati” progettuali. Ciò anche perché, in
questo caso, non è propriamente possibile parlare di un tradizionale sviluppo progettuale, nel quale una successiva versione
si sostituisce alla precedente. Michelangelo sembra piuttosto
inserire singole idee in una griglia di linee orizzontali e verticali le quali definiscono gli elementi di base della costruzione architettonica. Nel corso del lavoro progettuale ogni idea viene a
sua volta arricchita da sempre nuovi motivi. In questo processo
le soluzioni più recenti non vanno a sostituire le vecchie, bensì
si aggiungono a esse come possibili alternative. Procedendo nel
disegno, Michelangelo copre con biacca le parti obsolete, mentre evidenzia con ombreggiature acquerellate gli elementi in
quel momento ritenuti validi. Questa tecnica serve probabilmente non tanto a evocare un carattere “pittoresco” dell’architettura, come sostenuto da James Ackerman, quanto piuttosto
a migliorare la leggibilità dei disegni che diventano sempre più
densi e articolati26. In più di un caso è documentabile come Michelangelo sembri recuperare idee precedentemente marcate
come obsolete. Il processo progettuale si manifesta come un
procedimento accumulativo, nel corso del quale Michelangelo
sembra rinunziare malvolentieri a invenzioni precedentemente sviluppate. Al contrario, attraverso lo spostamento, il riordinamento e la progressiva concentrazione delle componenti del
disegno, egli studia soluzioni che gli permettano di integrare e
combinare fra loro in un’unica composizione quanti più motivi possibile: una fatica disegnativa sempre portata avanti con
caparbietà. Il risultato, visibile nell’opera realizzata, incarna per
234
20. Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova,
dettaglio del sarcofago dal monumento
di Giuliano de’ Medici
19. Michelangelo Buonarroti,
Studio per il prospetto di porta Pia (?)
poi rielaborato in sarcofago,
circa 1561. Casa Buonarroti,
19 F verso, particolare
così dire il maggior accumulo possibile di motivi architettonici
e plastici e quindi ribadisce il principio compositivo di base del
progetto stesso. Le soluzioni condensate in uno solo dei progetti per il portale sarebbero bastate per disegnarne almeno tre
e, tuttavia, a confronto con i disegni, la porta realizzata si presenta come un compromesso quasi doloroso, dal momento che
quella sovrapposizione di soluzioni in strati permeabili, che
rende i disegni così suggestivi, non è realizzabile nel costruito.
Una interessante affinità tecnica che caratterizza il gruppo di disegni per porta Pia – comune peraltro alla maggior parte dei disegni della tarda età di Michelangelo – consiste nell’uso della riga, impiegata quasi senza eccezione per tracciare anche i più minuti dettagli. Questo modus operandi si comprende ricordando
che per il vecchio Michelangelo disegnare diveniva sempre più
faticoso a causa del progressivo abbassamento della vista e del
tremore alle mani, anch’esso in continuo peggioramento. Questa spiegazione è avvalorata dal fatto che evidentemente neanche l’ausilio della riga permetteva al maestro di tracciare linee
esattamente parallele o perpendicolari fra loro, si vedano in particolare i fogli 97 A, 84 A e 106 A recto27. L’evidente irregolarità
delle linee preparatorie, visibile in tutti questi disegni, suggerisce di dover respingere una tesi più volte proposta, secondo la
quale Michelangelo avrebbe fatto tracciare le griglie di base e le
strutture architettoniche da aiuti, per poi inserirvi le sue correzioni. Tutti i disegni qui discussi devono essere viceversa considerati in ogni loro parte autografi di Michelangelo.
Qui di seguito verranno presentati i più importanti temi e i
punti salienti del lavoro progettuale di Michelangelo nei disegni per porta Pia. Grazie a tali osservazioni sarà possibile, da
una parte, collocare i singoli disegni secondo una sequenza cronologica non consecutiva, dall’altra osservare come questi fogli
sembrino talvolta essere stati eseguiti parallelamente o in suc-
cessione alternata. Infatti, questi disegni hanno spesso rivestito gli uni per gli altri la funzione di modelli e di miniere di idee,
e questo non solo nell’ambito dei progetti per porta Pia, bensì
anche per altri impegni di natura architettonica ai quali Michelangelo attendeva in quel periodo, come quelli per la basilica di
San Pietro e per il palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
Spunti per questi due ultimi progetti si trovano in 97 A e 84 A.
Questi fogli, su cui i segni si sono depositati strato su strato, costituivano una singola unità di lavoro contemporaneamente in
uso sul tavolo da disegno di Michelangelo e pertanto è come
gruppo che devono essere intesi, piuttosto che come successione di progetti individuali. Tra l’altro, con questo sistema Michelangelo riusciva anche a mantenere in vita soluzioni sviluppate in fogli che sembrano invece appartenere a fasi concluse
della progettazione: a quanto pare anche per Michelangelo nulla era peggio di un foglio di carta bianca.
Se, dunque, da un lato si può affermare che non esiste alcun
disegno che documenti il progetto finale con la chiarezza e la
precisione necessarie per l’esecuzione, dall’altro bisogna ammettere che disegni esecutivi in scala devono essere stati prodotti, poiché altrimenti la trasposizione del progetto di Michelangelo nella pietra non sarebbe stata minimamente possibile.
Non sorprende certo che disegni di questo tipo siano andati
perduti, poiché essi con tutta probabilità furono utilizzati in
cantiere e quindi letteralmente consumati. Paradossalmente
sembrerebbe che i disegni rimasti si siano conservati proprio
perché rappresentavano fasi intermedie della progettazione e
come tali furono a un certo punto accantonati. Essi comunque
non si trovavano in casa del maestro, altrimenti avrebbero fatto parte di quel numero imprecisato di disegni che Michelangelo diede alle fiamme pochi giorni prima di morire. È invece
probabile che i disegni fossero conservati presso la fabbrica di
porta Pia oppure presso una delle persone di fiducia di Michelangelo nel cantiere, come Pietro Urbano o Tiberio Calcagni28.
Casa Buonarroti 73 A bis (cat. 90)
L’appartenenza di questo studio preliminare al complesso dei
progetti per porta Pia, più volte messa in discussione, resta
tuttavia l’interpretazione più probabile, anche a causa della
mancanza di alternative credibili. L’indicazione di Vasari secondo cui Michelangelo avrebbe prodotto progetti anche per
altre porte urbane è troppo vaga per essere applicata a questo
disegno. La connessione con porta Pia potrebbe essere avvalorata paradossalmente proprio dalle palesi divergenze rispetto
ai progetti più tardi: a differenza di questi infatti il varco d’ingresso è qui voltato con un arco a tutto sesto (tracciato a penna in alto) e uno ribassato (a matita più in basso); ma resta pur
vero che questa è la soluzione più ovvia per definire una porta
gli anni dal 1534 al 1564
urbana. Come ogni altro architetto, Michelangelo avrà inizialmente immaginato per questa commissione una sorta di arco
di trionfo con portale ad arco. D’altra parte, nel disegno si trovano già alcune delle soluzioni centrali della progettazione
successiva, come la combinazione di timpani spezzati di diverse forme, la sottolineatura del concio in chiave di volta, la
lapide monumentale. Anche la scala, fissata dalle linee ausiliarie principali, è pressoché identica a quella dei disegni 102 A e
106 A recto nonché 108 A (fig. 21).
Il più importante procedimento progettuale fissato in questo
disegno potrebbe essere descritto come segue: dopo avere
completato la prima redazione con un timpano triangolare,
Michelangelo inserisce sotto di esso un timpano centinato ribassato (probabilmente spezzato), con la conseguenza di dover traslare verso il basso il blocco della lapide e, con esso, abbassare l’arco sotto cui si apre la porta. Per evitare tuttavia di
modificarne l’altezza di imposta, Michelangelo trasforma l’arco, inizialmente a tutto sesto, in un arco ribassato, che occupa
in altezza uno spazio molto inferiore. È possibile che questa
forma di risparmio in termini di spazio sia stata all’origine della soluzione definitiva a piattabanda. Inoltre, per accogliere il
timpano centinato ribassato, Michelangelo estende attraverso
passaggi successivi l’ampiezza del timpano triangolare (come è
visibile sulla destra). Le conseguenze di queste modifiche, soprattutto per l’altezza dell’ordine architettonico retto dalle colonne laterali, sembrano essere state di così complessa soluzione da interrompere la continuazione di questo schizzo.
Casa Buonarroti 84 A (cat. 91)
Questo piccolo disegno, senza dubbio appartenente alla serie
di progetti per porta Pia, può essere tuttavia inserito solo a fa235
21. Michelangelo Buonarroti,
Studio per il prospetto di porta Pia, circa 1561.
Firenze, Casa Buonarroti, 108 A
22. Roma, palazzo dei Conservatori,
finestra del piano nobile
è chiaro come Michelangelo avesse pensato la connessione fra
il piccolo timpano triangolare e l’arco della porta che, come già
notato nel 73 A bis, appare assai ribassato se non addirittura
rettilineo. Va notato come il disegno per la porta si sovrapponga a una sezione di cupola gradonata a doppia calotta, probabilmente per San Pietro.
tica nella sequenza cronologica, rafforzando l’idea che alcuni
dei disegni che documentano i passaggi intermedi dell’iter
progettuale siano andati perduti. La più probabile derivazione
di questo progetto va ricercata nel foglio 73 A bis e nelle soluzioni lì accumulate. Testimonianza ne è il motivo della compenetrazione dei due timpani di forme diverse: quello superiore
di forma circolare, inquadrato lateralmente da un ordine di sostegni, è spostato verso l’alto per accogliere il blocco della lapide che si fa spazio spezzando la trabeazione. Quello inferiore,
più piccolo e di forma triangolare (forse sorretto da un proprio
ordine) è posto più in basso in una zona indefinita e si sovrappone all’ordine laterale che sorregge il timpano maggiore. Non
236
Casa Buonarroti 108 A (fig. 21)
Nel foglio 73 A bis Michelangelo sembra valutare l’opportunità di ottenere quanto più spazio possibile nella zona del timpano al fine di potervi inserire ulteriori invenzioni. La conseguenza più logica di tale volontà è rappresentata dalla sostituzione dell’arco a tutto sesto del portale con una piattabanda.
Questa premessa sembra costituire il punto di partenza per il
presente disegno, che Michelangelo – in analogia con i fogli 73
A bis, 102 A e 106 A recto – inizia a costruire tracciando, oltre
alla linea di base e all’asse di simmetria, anche la griglia delle
altre principali linee di delimitazione orizzontali e verticali. Il
varco del portale è qui inizialmente indicato come una piattabanda, i cui estremi vengono tuttavia piegati obliquamente
verso il basso in un secondo momento. Gli angoli precedentemente disegnati risultano cancellati o raschiati con una lama.
In tal modo prende forma la soluzione poi mantenuta da Michelangelo in tutti i progetti successivi. Il disegno è stato tagliato a sinistra e nella parte alta, cosicché il resto del progetto
resta oscuro. Nell’angolo in alto a destra è rimasto visibile solo
il frammento della terminazione a spirale di un timpano (centinato ribassato), analogo a quello presente nel foglio 106 A
recto. Di difficile interpretazione resta il disegno di due nicchie poste negli intradossi del portale, rappresentate in scorcio
prospettico, tecnica assai inusuale per Michelangelo29. Forse
anche questo dettaglio è da mettere in connessione con gli intradossi ben visibili nel progetto del foglio 106 A recto. In ogni
caso questi due fogli sembrano strettamente legati, anche per
quanto riguarda la struttura del reticolo di linee costruttive. Il
progetto resta interessante per il fatto di essere stato evidentemente interrotto a uno stadio precoce e pertanto le tracce preparatorie sottostanti possono essere studiate con maggior facilità. Fra esse si nota bene l’impiego di moduli tracciati con riga e compasso per impostare l’ordine. Anche a causa delle ampie porzioni tagliate è difficile stabilire il motivo dell’interruzione del disegno. L’autografia di questo foglio, stranamente
assai impopolare e pressoché ignorato dalla critica, resta però
fuori discussione.
Casa Buonarroti 99 A (cat. 92)
Il motivo centrale sviluppato nel foglio Casa Buonarroti 108 A
(fig. 21), consistente in una apertura sormontata da piattaban-
da piegata obliquamente ai lati, già osservato in 84 A, viene ulteriormente elaborato in questo piccolo studio. Qui Michelangelo ripete in scala minore lo schema del foglio 108 A; il tracciamento impreciso delle linee e la loro diversa lunghezza fanno pensare a un processo grafico faticoso, ma che deve comunque considerarsi autografo. Il disegno sembra voler studiare in
primo luogo una possibile connessione fra il nuovo motivo
della piattabanda, il timpano sovrastante e l’ordine architettonico inquadrante, dove la piattabanda funge contemporaneamente anche da architrave dell’ordine. Questa soluzione implicava tuttavia tali difficoltà, soprattutto derivate dagli angoli tagliati obliquamente, da lasciare, anche in questo caso, il disegno in sospeso.
Casa Buonarroti 97 A (cat. 93)
L’impostazione di questo disegno si avvicina molto al precedente progetto del foglio 99 A, con la differenza che qui è più
chiaramente risolta la connessione tra apertura del portale e
proporzione dell’ordine inquadrante. Inoltre il motivo degli
angoli tagliati obliquamente viene sottolineato con tale evidenza che della piattabanda rimane soltanto il possente concio
centrale. L’ordine inquadrante, come avverrà nell’opera realizzata, si eleva ora al di sopra del varco del portale per sostenere
una propria trabeazione che separa chiaramente il portale dalla zona del timpano. D’altra parte, questo coronamento, che si
limita a un timpano ad arco ribassato inserito in una sorta di attico, secondo una soluzione simile a quella presente nel minimo progetto di portale del Teylers Museum, ha fatto sorgere alcuni dubbi sull’appartenenza di questo progetto alla serie di disegni per porta Pia, dubbi che non è possibile rimuovere completamente. Che accanto ai progetti per porta Pia Michelangelo
potesse anche aver disegnato altri portali d’ingresso per ville o
giardini resta argomento di pura speculazione, mentre bisognerebbe piuttosto chiedersi se l’anziano e occupatissimo maestro avesse mai avuto tempo e agio di dedicarsi a questo genere
di commissioni private. Gli altri disegni di cornici per finestre
presenti sullo stesso foglio sembrano appartenere alla progettazione del palazzo dei Conservatori.
Casa Buonarroti 106 A recto (cat. 94)
Lo straordinario progetto contenuto nel celeberrimo foglio
Casa Buonarroti 106 A recto riunisce le soluzioni presenti nei
precedenti disegni in una sintesi che si avvicina in diversi punti all’opera realizzata. La piattabanda del portale, con angoli tagliati obliquamente, è formata da conci incuneati; l’apertura è
poi inquadrata da paraste di notevole aggetto che sostengono
una trabeazione fortemente risaltata, sulla quale poggiano le
estremità di un timpano completamente spezzato: una forma
gli anni dal 1534 al 1564
che sembra mutare nel momento stesso in cui Michelangelo
sembra disegnarla. Tra i frammenti laterali del timpano è inserito il possente blocco dell’iscrizione, coronato da una sorta di
conchiglia, elemento che scompare nei successivi progetti per
porta Pia, ma che viene invece recuperato in palazzo dei Conservatori come dettaglio ornamentale posto dentro i timpani
delle finestre del piano nobile (fig. 22). In questo progetto è
237
messa da parte l’idea più volte formulata della compenetrazione fra timpani di due diverse forme, benché essa sembri comunque potersi intravedere come traccia depositata negli strati più profondi del disegno. È proprio da questa ripetuta stratificazione di livelli che scaturisce il fascino del foglio, dalla cui
natura derivano anche notevoli difficoltà interpretative. Così,
per esempio, è difficile comprendere se la cornice rettangolare
inserita da Michelangelo all’interno del varco del portale sia da
intendersi quale alternativa alla forma dell’apertura stessa, o
piuttosto debba essere letta quale seconda apertura collocata su
un piano arretrato, per esempio il retrostante varco aperto nelle mura antiche. In ogni caso, Michelangelo sembra aver voluto
ricoprire con biacca queste parti, mentre il varco del portale è
messo nettamente in risalto da forti ombreggiature. Sul verso
di questo foglio si trovano alcuni schizzi già avvicinati alle
menzionate finestrelle cieche superiori dei fianchi del portale.
Casa Buonarroti 102 A (cat. 95)
Insieme al precedente 106 A recto il progetto contenuto nel
foglio di Casa Buonarroti 102 A è da annoverare tra i più famosi e bei disegni architettonici di Michelangelo. Causa ne è
l’effetto suggestivo prodotto dalla sovrapposizione di più varianti progettuali nello stesso disegno. Come in una immagine
radiografica, la permeabilità dei diversi strati sovrapposti trasforma una complessa sequenza di idee in una potente impressione d’insieme. Il processo creativo e con esso il pensiero
dell’artista sembrano così palesarsi in maniera assai più diretta che nell’opera realizzata, nella quale Michelangelo dovette
necessariamente decidersi per una sola soluzione, mentre qui
molteplici idee restano in gioco parallelamente le une alle altre. Tale è la funzione di questo tipo di disegni: piuttosto che
iniziare a disegnare su un nuovo foglio, ogni volta che una precedente soluzione veniva abbandonata, Michelangelo tracciava semplicemente la nuova idea sopra la vecchia, con la conseguenza di ricoprire continuamente ciò che si andava disegnando, ma che restava tuttavia visibile quale punto d’orientamento o traccia per ulteriori variazioni. Così, ad esempio, Michelangelo poté confrontare sullo stesso foglio l’effetto di aperture più o meno larghe, ovvero altezze più o meno elevate del
portale, sottolineando alla fine con tratti più marcati o con
ombreggiature la linea o la variante che meglio corrispondeva
all’ideale ricercato. D’altra parte tale sistema compositivo non
permette di identificare con chiarezza quale, tra le molte soluzioni sovrapposte, fosse quella considerata da Michelangelo la
238
più convincente al momento in cui il disegno era stato interrotto. Conformemente alla natura accumulativa di un tale processo ideativo, l’artista considerava il disegno stesso come un
accostamento di soluzioni diverse, a partire dalle quali sarebbe
scaturita la soluzione definitiva solo in una successiva fase di
elaborazione.
Analogamente a quanto osservato nel 106 A recto, anche qui
appare evidente come Michelangelo avesse inizialmente preso
in considerazione la compenetrazione di timpani di forme diverse, per poi tuttavia rinunziarvi. La ragione potrebbe trovarsi nel fatto che due timpani richiederebbero due differenti ordini architettonici di sostegno, problema a cui Michelangelo
non aveva ancora trovato alcuna soluzione convincente, né in
questo studio, né nei precedenti disegni per porta Pia. È possibile invece che avesse avuto in mente le sperimentazioni di
trent’anni prima sul portale interno della sala di lettura della
Biblioteca Laurenziana30. Ancora un lungo percorso separa il
presente progetto dalla versione realizzata, nella quale Michelangelo fa poggiare il timpano interno sull’ordine di paraste,
quello esterno su sottili strati parietali che riprendono l’articolazione dei piedritti del portale. Pressoché identica all’opera
realizzata è invece, nel disegno, l’alta fascia compresa a mo’ di
fregio fra il cornicione e l’architrave, fortemente risaltata in
corrispondenza delle colonne (forse semicolonne) e occupata
nella parte centrale dal tema della finestra termale. Quest’ultimo motivo, in sé difficile da spiegare, diventa comprensibile
se lo si interpreta quale “resto” formale dell’apertura originaria, inizialmente pensata a tutto sesto, visibile in 73 A bis e 84
A. In uno stadio assai avanzato del processo progettuale Michelangelo avrebbe così ripreso un’idea ormai scomparsa dai
disegni immediatamente precedenti, originata sì dalla “materia prima” dei più convenzionali motivi architettonici, ma poi
trasformata in una nuova forma dal carattere più plastico che
tettonico. In conclusione è necessario ritornare al piccolo disegno di Haarlem, che presenta una composizione simile al foglio in esame, ma che a causa dei gradini visibili in basso è stato per lo più interpretato come progetto per il portale di un
giardino. La questione ruota intorno all’interpretazione di
queste linee orizzontali, se debbano veramente essere interpretate come gradini o piuttosto indicare che i tre elementi
principali della struttura architettonica – l’ordine architettonico, la finestra termale e il varco del portale – vadano letti come
strati collocati uno di seguito all’altro su piani paralleli posti in
profondità, proprio come nella versione realizzata di porta Pia.
Nel presente saggio le indicazioni
bibliografiche sui disegni per porta
Pia sono limitate ai più importanti
contributi; per riferimenti bibliografici più completi così come per
una trattazione in extenso di tutti gli
aspetti che saranno in seguito menzionati, si veda Maurer 2006. Ringrazio Costanza Caraffa per l’assistenza nella redazione italiana del
presente testo.
2
Sulla funzione rappresentativa delle porte urbane del rinascimento italiano, cfr. Schweizer 2002; Israëls
2008.
3
Una lettera di Tiberio Calcagni a
Leonardo Buonarroti del 29 agosto
1561 suggerisce che Michelangelo
stesse lavorando anche al progetto
per la fronte esterna (“è apresso a disegni per la Porta Pia dalla parte di
fuori che non lo haveva fatto”,
Schwager 1973, p. 48). Tuttavia di
questo lavoro non si è conservata alcuna traccia. In ogni caso, il fatto che
l’anziano maestro avesse iniziato
progettando la fronte interna mostra chiaramente quale fosse la priorità sua e del committente.
4
Pastor 1957, p. 638, doc. 16: “andò
agli horti del già Reverendissimo
Bellai per vedere una strada nominata dal suo nome, Pia, la quale fa fare giettando a terra case et guastando vigne, et comincia a Monte Cavallo, et finirà alle mura della città,
tra porta Sellara et porta S. Agnese,
1
gli anni dal 1534 al 1564
fra le quali due porte si fabricarà all’iscontro di quella strada una nuova
porta, che si chiamerà porta Pia”.
5
Schwager 1973, nota 45: “Cum
nos inter alia pro Almae Urbis nostrae ornatu, et commoditate viam,
quae antiquitus Alta Semita dicebatur, a loco ubi nunc vulgariter dicitur Montecavallo usque ad moenis
Urbis dirigi, et ampliari, in illis fine
in moenis Urbis portam aperiri,
cum magno etiam nostro sumptu,
curaverimus”.
6
Argan, Contardi 1990, p. 301.
7
Per esempio, cfr. Ackerman 1961,
vol. I, p. 115; Argan, Contardi
1990, p. 301; Frommel 2007, p.
182.
8
Gotti 1875, vol. II, p. 161: “Di più,
che finita l’opera, se parrà a maestro
Michelangnilo [sic] donare a detti
maestri sino alla somma di quaranta
o cinquanta scudi, la Cammera se
obliga pagarglieli”; si vedano, inoltre, Podestà 1875, p. 137; Ackerman 1961, vol. II, pp. 125 sgg.; Pontani, Tramutola 1989, p. 70; Maurer
2006, p. 132.
9
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
111 [ed. 1568]; nel supplemento di
Girolamo Ticciati alla vita di Michelangelo del Condivi si legge una informazione che sembra a sua volta
ripresa da Vasari: “Co’ suoi disegni
fu fatta la Porta Pia”, Ticciati 1823,
p. 90; cfr. Maurer 2006, pp. 132 sgg.
10
Gotti 1875, vol. II, p. 162; Berto-
lotti 1875, p. 77; Pontani, Tramutola 1989, p. 70; cfr. riassuntivamente
Maurer 2006, pp. 132-136.
11
Si veda infra.
12
L’iscrizione nella stampa recita:
PORTAM PIAM A MICHAELIS ANGELI /
BONAROTI EXEMPLARI ACCVRATISSIME
/ DELINEATAM ROMÆ MDLXVIII.
13
Maurer 2006, pp. 136-140.
14
Si veda infra.
15
Cfr. C. Brothers, scheda 23, in
Elam 2006, pp. 207-209; Frommel
2007, p. 182.
16
Il testo dell’iscrizione è PIVS IIII
PONT. MAX . / PORTAM PIAM SVBLATA
NOMENTANA EXTRVXIT / VIAM PIAM /
AEQVATA ALTA SEMITA DVXIT.
17
Milizia 1787, p. 159.
18
Burckhardt 1952, pp. 361 sgg.
19
Thode 1902-1913, vol. VI, p. 661
(traduzione dell’autore).
20
Mackowsky 1925, pp. 335 sgg.;
Schwager 1973, pp. 35 sgg.
21
Tolnay 1930, p. 45; la citazione è
tratta da Tolnay 1951, p. 209.
22
Sedlmayr 1940, pp. 24 sgg. (traduzione dell’autore).
23
Ackerman 1961, vol. I, pp. 115122.
24
Thoenes 2007, p. 376 (traduzione
dell’autore).
25
I più importanti contributi sui disegni di Michelangelo per porta Pia
si trovano in: Gotti 1875, pp. 183185; Thode 1902-1913, vol. V, pp.
126, 208 sgg., vol. VI, nr. 68, 70,
130, 147, 152, 154, 157, 264; Frey
1909-1911, n. 207, 211c, 211d,
237, 326; Tolnay 1930, pp. 42-45;
Tolnay 1951, pp. 207 sgg., 300; Dussler 1959, nr. 119, 128, 129, 134,
296, 470, 473, 476, 477; Ackerman
1961, vol. II, pp. 128-130; Mc Dougall 1960, p. 100-104; Barocchi
1962-64, vol. I, pp. 205-211; F.
Barbieri, L. Puppi, in Portoghesi,
Zevi 1964, pp. 965-970; Schwager
1973, pp. 33-35; Tolnay 1976-80,
n. 615-622; Ackerman 1986, pp.
243-259, 329-331; Ackerman
1988, pp. 115-122, 306-314; B.
Contardi, scheda 30, in Argan, Contardi 1990, pp. 350-353; H.A. Millon, in Millon, Magnago Lampugnani 1994, pp. 475-477; C. Brothers,
scheda 23, in Elam 2006, pp. 207209; Maurer 2006, pp. 148-155; si
rimanda inoltre allo studio di Pietro
Ruschi in c.d.s.
26
Ackerman 1961, vol. I, pp. 118
sgg.
27
Sulla tecnica grafica di Michelangelo, cfr. Maurer 2004, pp. 38-47.
28
Sulle vicende storiche dei disegni
pervenutici di Michelangelo, cfr.
riassuntivamente Maurer 2004, pp.
34-37
29
Sul significato della prospettiva
nei disegni di architettura michelangioleschi, cfr. Maurer 2004, pp.
102-147.
30
Cfr. Elam 2006a, p. 60; C. Brothers, scheda 23, in Elam 2006, pp.
207-209; Frommel 2007, p. 182.
239
1. Stefano Dupérac, Pianta di Roma,
1577, particolare con il complesso
delle terme di Diocleziano
SANTA MARIA DEGLI ANGELI
Alessandro Brodini
Abbiamo cominciato con una visita, forse la ventesima,
alla chiesa di Santa Maria degli Angeli, e con un omaggio
a Michelangelo
Stendhal, Passeggiate romane1
Ciò che Stendhal ammirò in una delle sue numerose visite alla
basilica di Santa Maria degli Angeli, sotto la data del 18 aprile
1828, non era molto diverso da quanto si possa ancora oggi
osservare. Ma cosa doveva aspettarsi di trovare, lo scrittore
francese, dell’intervento michelangiolesco? Ben poco, come
egli stesso chiarisce alcune pagine dopo, quando afferma che
con il restauro della metà del XVIII secolo “Vanvitelli sconvolse tutto”2. Stendhal stava naturalmente traendo le informazioni da quelle descrizioni e guide che, sulla scia del giudizio
del critico d’arte monsignor Giovanni Gaetano Bottari, imputavano a Luigi Vanvitelli tutte le storpiature e le “mostruosità”3 che affliggevano l’edificio. Sebbene oggi sappiamo che le
deviazioni dalla concezione originaria non siano state esclusivamente il frutto dell’intervento dell’architetto napoletano, il
quale invece ereditò una situazione già fortemente compromessa dalle trasformazioni incorse nei decenni precedenti al
suo incarico, il progetto di Michelangelo mantiene per molti
aspetti dei contorni ancora sfocati.
A differenza delle altre grandi opere romane (San Pietro, il
Campidoglio e porta Pia) per le quali, entro i cinque anni successivi alla morte di Michelangelo, vennero realizzate incisioni che ne mostravano il presunto aspetto definitivo4, di Santa
Maria degli Angeli non rimane alcuna fonte grafica nata direttamente nell’ambito della cerchia michelangiolesca. Nemme240
no tra gli autografi di Michelangelo è possibile rintracciare
un disegno che, con certezza, si riferisca a questo progetto5;
inoltre il compito di ricostruire il suo apporto è ulteriormente ostacolato dall’esiguità dei documenti relativi alla vicenda
costruttiva6.
Sebbene per Michelangelo fosse usuale intervenire come progettista in edifici preesistenti, la particolarità dell’incarico che
egli ebbe da papa Pio IV (1559-1565) consiste nel fatto che
l’architetto si dovette confrontare con un organismo di dimensioni enormi: i resti delle terme di Diocleziano (fig. 1).
Costruite tra il 298 e il 305-306 d.C.7, esse rappresentavano il
più grande impianto termale di Roma antica, ma dopo la caduta dell’impero vennero abbandonate e in seguito utilizzate
prevalentemente come cava di marmi e materiali da costruzione, nonché come luogo di svago per la nobiltà romana che vi
praticava l’equitazione8. Per tutto il Quattrocento, la collocazione al di là dei margini del nucleo abitato faceva del complesso delle terme un luogo piuttosto malfamato; una reputazione
che durava ancora nel secolo successivo se nel 1560, poco prima della trasformazione in chiesa, vennero giustiziati “due
monetari che hanno fatto nelle terme di Diocleziano assai monete false”9. Nonostante il tempo trascorso e l’uso improprio
degli spazi, una parte delle strutture termali si presentava in
buono stato di conservazione ancora nel 1450, quando Giovanni Rucellai poteva descriverle come “grandissima muraglia
dove ancora si vede belle colonne di marmo et graniti et architravi et sono in piè molti volti”10. In un’epoca in cui l’attenzione per l’antico andava assumendo sempre maggiore importanza, la grandezza delle terme e la consistenza dei loro resti era
motivo di interesse anche per i molti architetti e artisti che le
disegnarono, tra la fine del XV e soprattutto nel XVI secolo
(cat. 98, 99, 100)11. Ma le terme di Diocleziano suscitavano
grande attenzione anche nella Chiesa della Controriforma. Secondo la tradizione infatti la loro costruzione avvenne a opera
di 40.000 cristiani12, costretti ai lavori forzati a causa della loro
fede: la consacrazione e la risignificazione di uno spazio pagano, per di più nato dagli stenti e dai soprusi patiti dai cristiani,
era un’occasione da non perdere per propagandare una nuova
immagine di Chiesa vincitrice.
Nel corso del Cinquecento l’idea di collocare un edificio religioso entro le terme di Diocleziano non appariva nuova; la
proposta era già stata avanzata dal sacerdote siciliano Antonio
del Duca (1491-1564), devoto al culto dei “Sette Angeli”, del
quale è nota la storia grazie a un manoscritto del suo amico e
collega Matteo Catalani13. A seguito di una prima visione mistica avuta nel 1541, del Duca si rivolse – senza successo – a
Paolo III (1534-1549) per chiedere che una parte delle terme
venisse consacrata al culto a cui egli era legato. Perseverando
nei suoi intenti e anche con l’appoggio del celebre Filippo Neri, nel 1550 egli ottenne da Giulio III (1550-1555) che il vano
centrale del grande complesso fosse trasformato in chiesa. Si
trattava però di una chiesa più in senso liturgico che non architettonico: i semplici altari e i nomi degli angeli scritti sulle colonne non bastarono infatti a fermare le scorribande degli abituali frequentatori delle terme, i quali estromisero il sacerdote. Nonostante un’altra visione, nei successivi dieci anni Antonio del Duca continuò a ricevere rifiuti dai due pontefici Marcello II (1555) e Paolo IV (1555-1559)14. Ma come mai proprio Pio IV decise di assecondare le idee del sacerdote visionario e devoto a un culto che tutto sommato non sembrava completamente ortodosso?15
Se la dedicazione di una chiesa alla “Gloriosa Regina del cielo”,
prima che agli angeli, poteva apparire come un utile rimedio
“in questi tempi calamitosi di tante heresie”16, in realtà la scelta del pontefice deve essere inquadrata in un più ampio e complesso disegno in cui le motivazioni devozionali si intrecciano
alle strategie di politica urbana e di promozione familiare.
Certamente i valori religiosi venivano posti dal papa in primo
piano: Pio IV intendeva che fossero chiari i motivi per cui egli
fondava la nuova basilica proprio in un luogo di origini pagane, come si evince dall’iscrizione che fece porre nel presbiterio: “Quod fuit Idolum, nunc Templum est Virginis - Auctor
est Pius ipse Pater, Daemones aufugite”17. Egli era inoltre affiancato dal nipote, il cardinale Carlo Borromeo, il quale deve
aver giocato un ruolo non secondario nella decisione papale di
consacrare le terme di Diocleziano. Sebbene il cardinale fosse
diffidente verso i culti insoliti come quello proposto dal sacergli anni dal 1534 al 1564
dote siciliano18, l’idea di trasformare le terme lo interessava
certamente. Accanto al tema della “riconquista” per scopi religiosi di un tipo di edificio antico giudicato dalla letteratura cristiana come un luogo di peccato, le terme di Diocleziano assumevano agli occhi dei riformati un significato rilevante, che
doveva essere apprezzato nella cerchia di Borromeo: già Conrad Braun, nel De Caeremoniis libri sex (1548) aveva erroneamente scritto che Costantino – il primo imperatore cristiano –
e i padri del Concilio di Nicea si sarebbero radunati in un sinodo proprio nel complesso di Diocleziano, sancendone così
l’importanza religiosa19. La funzione primaria di Borromeo
nell’impresa delle terme venne presto sottolineata anche dai
suoi agiografi, come per esempio Giovanni Pietro Giussano, il
quale spiegava che Carlo “procurò in oltre che il Sommo Pontefice suo zio, facesse ridurre le Therme Diocleziane in forma
di chiesa”20. L’erezione di un edificio sacro entro le terme doveva inoltre essere intesa come parte di un più generale programma di riassetto dei luoghi di culto che Pio IV aveva promosso, in particolare presso i cardinali, ai quali richiese che
ponessero cura al restauro delle loro chiese titolari21.
Ma i resti delle terme erano un’opportunità anche da un altro
punto di vista, quello legato al piano urbano promosso da Pio
IV22. Nell’ambito della sistemazione dell’assetto viario all’interno delle mura e della creazione di altri rettilinei verso il territorio circostante, l’area tra il Quirinale e la porta Nomentana
rivestiva un particolare interesse per questo pontefice. Si trattava di una zona ancora piuttosto disabitata, ma con alcune vigne e residenze prestigiose di nobili e cardinali, a vario titolo
241
2. Pianta del progetto di Michelangelo
per Santa Maria degli Angeli secondo
l’ipotesi di Herbert Siebenhüner
(da Siebenhüner 1955, p. 192, fig. 19)
legati al papa23, che avrebbero tratto vantaggi dalla valorizzazione dell’area grazie a una viabilità moderna, funzionale e
scenografica: la via Pia. Sostituendo il percorso irregolare dell’antica via Alta Semita che lambiva il recinto delle terme, il
papa fece realizzare un rettilineo (attuali via del Quirinale – via
XX Settembre) che presso le mura Aureliane attraversava porta Pia, l’altra importante iniziativa di Pio IV, per spingersi poi
fino a Sant’Agnese fuori le mura. La contemporaneità di queste fondazioni – via Pia, porta Pia e chiesa di Santa Maria degli
Angeli – e la scelta di affidarne l’esecuzione a Michelangelo24
non lasciano molti dubbi sulla concezione unitaria che sta alla
base di questa triplice iniziativa del papa, il quale ricordava la
via e la porta proprio in un atto relativo alla nuova chiesa25.
Vi è, infine, nelle intenzioni del pontefice una precisa strategia
familiare connessa alla fondazione di Santa Maria degli Angeli. Accanto a un probabile gesto di autocelebrazione che si può
ravvisare nell’onomastica – il nome di battesimo di Pio IV era
Giovan Angelo26 – assume maggior rilievo il fatto che il papa
intendesse trasformare la basilica in proprio mausoleo: secondo le volontà testamentarie il suo corpo fu trasportato nella
nuova chiesa (1583) e deposto sotto il pavimento del presbiterio27. Non venne realizzato un vero e proprio monumento,
ma nel 1582 era stata commissionata al lapicida settignanese
Alessandro Cioli una memoria funebre in forma di lapide parietale, che tutt’ora si può vedere nel presbiterio28. Tuttavia
sembra abbastanza difficile che la modestia di questa soluzione possa rispecchiare le intenzioni del papa e recentemente è
stata avanzata l’ipotesi che la grande rotonda di accesso alla
chiesa (l’antico tepidarium) potesse essere destinata a cappella
sepolcrale del pontefice29.
242
3. Roma, Santa Maria degli Angeli,
veduta dell’aula principale
I disegni del papa si chiariscono ulteriormente se si osserva la
seconda memoria funebre, collocata di fronte a quella di Pio
IV: si tratta del monumento di Giovanni Antonio Serbelloni,
nipote del pontefice e da questi nominato nel 1565 primo cardinale titolare di Santa Maria degli Angeli30. Costui era già in
qualche modo legato al sito delle terme, avendo ricevuto proprio dal papa nel 1565 i famosi Horti Bellajani, villa con giardino e importante collezione di sculture che il cardinale francese Du Bellay aveva creato presso l’esedra delle terme di Diocleziano. Quello a Serbelloni era stato un passaggio “in famiglia”: alla morte di Du Bellay (1560) gli Horti erano già stati affittati e poi comprati da Carlo Borromeo, il quale a sua volta li
aveva ceduti allo zio papa31. Il ritorno in scena di Borromeo
sottolinea che, oltre al già citato impulso religioso, questo cardinale aveva interessi diretti proprio nel sito delle terme, che
veniva così a configurarsi almeno per un breve periodo come
una sorta di “proprietà di famiglia”, con residenza cardinalizia, chiesa e mausoleo32.
Il programma di Pio IV e del nipote, però, doveva tenere conto di
un altro protagonista: il Popolo Romano. I rappresentanti del governo cittadino avevano, per lunga tradizione, il diritto-dovere
alla salvaguardia delle antichità, ponendosi così simbolicamente
come eredi del passato imperiale. Sebbene il papa avesse dichiarato che le terme “ad nos et Cameram Apostolicam pertinent”33,
non poteva ignorare che era necessario il consenso del Popolo
prima di intraprendere qualsiasi impresa e quindi si presentava
spinto da intenti devozionali, ma anche preoccupato per la conservazione delle strutture antiche. Egli era disposto a sostenere la
spesa per la costruzione della chiesa in un sito che sapeva “andare ogni giorno in rovina”, in modo che “non solo ne restarà conservato l’anticho, ma anche ristaurato et molto ampliato et abbellito”34. La cerimonia della posa della prima pietra, svolta in gran
pompa il 5 agosto 1561 alla presenza del papa con ben diciannove cardinali (tra cui Borromeo), di gran parte delle magistrature e
della nobiltà romana doveva dimostrare che il dissidio tra Pio IV
e il Popolo era stato ricomposto35.
La costruzione di una chiesa di tali dimensioni implicava anche la scelta di un ordine religioso che potesse sostenere le
spese di gestione. Rifiutando la proposta di Antonio del Duca
di assegnarla a una congregazione di preti poveri, il papa scelse i certosini di Santa Croce in Gerusalemme, i quali però, almeno all’inizio, non sembrarono gradire la designazione, anche perché si sarebbero dovuti sobbarcare le spese per la costruzione del monastero36, sebbene successivamente essi ottennero donazioni e privilegi37.
Incaricato direttamente dal papa e non, come sembra far intendere Vasari, coinvolto a seguito di un concorso38, Michelangelo doveva con questo progetto contemperare le esigenze di
diversi attori, tra i quali si può annoverare lo stesso antico edificio, la cui preservazione si imponeva come richiesta primaria. Infatti “servendosi di tutte l’ossature di quelle terme”39
Michelangelo concentrò la sua attenzione sulla parte meglio
conservata dell’impianto, la grande aula centrale che anticamente svolgeva la funzione di frigidarium. Per assicurarne
l’integrità strutturale e bloccare il processo di degrado, l’architetto si occupò immediatamente dello strato più esterno e “coprì le volte principali de tevoloni”40. Questo enorme spazio
presenta otto colonne libere in granito rosa che reggono un
tratto di trabeazione e tre volte a crociera, di cui la centrale più
ampia è quadrata mentre le due laterali sono rettangolari e di
dimensioni leggermente ridotte (fig. 2). Per eliminare tutta la
serie degli spazi-satellite che circondavano questa sala e che si
presentavano in uno stato di conservazione più precario (dunque più dispendioso ne sarebbe risultato il restauro), Michelangelo eresse alcune semplici pareti che isolarono l’area centrale, permettendo di individuare con chiarezza, nello spazio
ormai labirintico delle terme, la zona più circoscritta della
chiesa41. Nel ridefinire la relazione tra la sala centrale e quelle
minori, l’architetto incluse anche i quattro vani rettangolari
(A, B, C, D nella fig. 2), pensando di destinarli a cappelle minori. Ma la considerevole grandezza di ciascuno di essi avrebbe comportato una spesa altissima di sistemazione e decorazione che negli anni successivi nessuno si sentì di affrontare;
così nella prima metà del XVIII secolo vennero costruite delle
pareti (per ospitare le grandi tele trasferite dalla basilica di San
Pietro) che ridussero il vano centrale nello stato attuale (fig. 3).
L’eliminazione degli spazi laterali ha certamente modificato la
qualità dell’architettura di Michelangelo, articolata sulla fluidità dei rapporti spaziali ma anche sul contrasto tra le dimensioni della sala principale e quelle laterali e tra la forte luminosità della prima e la penombra delle seconde. È comunque possibile avere un’idea di come si presentasse l’interno della chiesa osservando un’incisione realizzata nel 1703, prima delle
consistenti modifiche (fig. 4). La rappresentazione mostra uno
dei quattro vani-cappelle minori (quello con l’arco a tutto sesto al centro) ancora completamente aperto, a meno di due fasce rientranti ai fianchi del muro – residui del sistema trabeato
che diaframmava in antico questo spazio (cat. 100) – e un basso muretto con una porta. Ma l’immagine è interessante anche
per altri aspetti, per esempio per le finestre decorate con ampie
cornici a voluta, le quali non risalgono all’intervento originario, come assicura il confronto con un’altra incisione pubblicata da Girolamo Franzini nel 1588 (cat. 102), dove è evidente
come Michelangelo avesse soltanto predisposto due montanti
a suddividere l’area di ciascuna finestra, che risultava così tripartita. L’applicazione di queste cornici ha parzialmente ridotgli anni dal 1534 al 1564
to la luminosità, che doveva comunque esser favorita dal colore bianco delle tre crociere: una delle prime operazioni volute
da Michelangelo fu infatti quella di “far dare il bianco dentro
alle volte”42.
Dall’incisione del 1703 è evidente anche un altro carattere ora
non più percepibile, cioè l’inclusione (o se si vuole l’esclusione) dei due vani E e F che dovevano funzionare come vestiboli della grande sala. Più bassi di questa, i due spazi erano ad essa connessi tramite una grande apertura ad arco ribassato. Sulla parete opposta, verso l’esterno, gli ingressi erano connotati
da due enormi portali con cornice e timpano; quello verso
sud-est (ora verso Termini) venne rappresentato in alcuni disegni e incisioni del tardo Cinquecento. Il sistema di aperture
era completato da un terzo ingresso, l’unico attualmente esistente su piazza Repubblica. Attraverso la parete concava dei
resti del calidarium, il fedele veniva introdotto nella rotonda,
l’antico tepidarium, fornita di un lanternino, come mostra la
pianta di Stefano Dupérac (fig. 1). La singolarità di tale soluzione fece considerare questa “entrata fuor della openione di
tutti gli architetti”43 e suggerisce l’idea che la proposta di Michelangelo mirasse a riaggregare i vari ambienti delle terme, i
quali presentavano caratteri molto diversi che l’incuria e il
tempo avevano contribuito ad accentuare. Ma l’organizzazione degli ingressi mette in campo un altro problema, ovvero
l’orientamento della chiesa. A differenza di quanto desiderato
da Antonio del Duca, che aveva suggerito un più tradizionale
impianto longitudinale con ingresso da nord-ovest (ora via
Cernaia), altare a sud-est (verso Termini) e sagrestia nel tepidarium, Michelangelo decise di collocare l’altare maggiore a
nord-est, dove tutt’ora si trova, in asse con la rotonda, così che
243
4. Veduta del coro e del vestibolo sud-est di Santa Maria
degli Angeli, da Francesco Bianchini, De Kalendario
et cyclo Caesaris ac de Pascali canone S. Hippolyti
martyris dissertationes duae, Romae 1703
5. S. Maria de gli Angeli, da Fioravante Martinelli,
Roma ricercata nel suo sito, con tutte le curiosità,
che in essa si ritruovano tanto Antiche, che Moderne […]
Di nuovo corretta e accresciuta, Roma 1693.
Si noti la veduta del coro
la grande aula diventasse una sorta di transetto. Sebbene i contemporanei leggessero questa scelta come il tentativo di realizzare un impianto a croce greca44, la cui percezione (data
l’eterogeneità degli spazi) risulta in realtà possibile solo in
pianta, è probabilmente improprio cercare similitudini con
edifici tradizionali e parlare di transetto e navata; sembra invece più sensato pensare a uno spazio centralizzato preceduto da
tre vestiboli, senza che l’importanza di un asse rispetto all’altro fosse particolarmente ricercata45.
Infine Michelangelo “fece da fondamenti la cappella maggiore
con la tribuna”46, collocandola nell’area dell’antica natatio. Il
244
nodo del coro-presbiterio costituisce tutt’oggi un problema
non completamente risolto, anche perché qui entrarono in
gioco più direttamente le esigenze cultuali dei certosini e il
collegamento con il retrostante monastero47, oltre ai rimaneggiamenti del Settecento e del tardo Ottocento. Alcune rappresentazioni possono però aiutare a chiarire parzialmente la
situazione, a partire da quella pubblicata da Bernardo Gamucci nel 1565 (cat. 101). In essa si nota sulla sinistra l’altare – ligneo, secondo Matteo Catalani – collocato sotto il grande arco che metteva in comunicazione l’aula principale con il presbiterio. Questo era schermato da due colonne (disegnate solo in pianta) di cui si ha memoria anche nell’incisione di Franzini (cat. 102) e che servivano a isolare almeno parzialmente la
zona riservata ai monaci da quella destinata ai fedeli. Ma questa schermatura probabilmente non fu sufficiente e l’altare rimase in quella posizione solo fino al 159648, quando venne
spostato verso il fondo del presbiterio, come si nota anche in
entrambe le versioni dell’incisione presente nelle edizioni della Roma ricercata di Fioravante Martinelli (cat. 103; fig. 5).
Queste mostrano che il presbiterio era costituito da un primo
tratto di parete liscia con piccole finestrelle e forse gli stalli del
coro a ribalta, e dall’abside vera e propria di forma apparentemente circolare. Si è per lungo tempo ritenuto che Michelangelo avesse realizzato un presbiterio più piccolo con terminazione circolare e che l’attuale fosse il frutto dei restauri di Vanvitelli (cat. 104), ma studi recenti dimostrerebbero che in realtà già con Michelangelo il presbiterio aveva un profilo poligonale e le stesse dimensioni di oggi49. Una volta rimosso il diaframma del presbiterio, il coro dei monaci dovette esser spostato e già entro il 1628 era stato collocato nell’attuale cappella
dell’Epifania per isolare completamente i certosini dai fedeli50.
Nonostante l’incarico a Michelangelo risalisse al 1561, sembra
che i lavori avessero inizio solo nell’aprile del 1563 e furono
conclusi nel giugno di tre anni dopo51, quando ormai Michelangelo era già morto. Essi riguardarono principalmente il cornicione e i capitelli in travertino per il coro, coperto con una
volta in getto, alcune cornici per finestre e per un portale grande, sempre in travertino, e la sostituzione di uno degli otto
grandi capitelli delle colonne in granito.
L’esiguità della spesa (circa 17.500 scudi) fa supporre che le
trasformazioni progettate da Michelangelo fossero veramente
limitate a pochi e puntuali interventi. Se si è ultimamente voluto vedere in questo atteggiamento un “minimalismo” che
l’architetto avrebbe concepito come efficace soluzione conservativa per le terme52, non si deve comunque dimenticare che
per Michelangelo lasciare i ruderi quasi come li aveva trovati
non va necessariamente inteso come un segnale di venerazione per il passato53.
Stendhal, ed. Colesanti 2004, p.
235.
2
Ivi, p. 370.
3
Bottari 1754, p. 45.
4
Bedon 2008, pp. 194-198.
5
In Corpus, vol. IV, p. 115 si suggerisce di riferire al progetto per Santa
Maria degli Angeli un disegno del British Museum (inv. 1947-7-13-33a;
Corpus 623); l’ipotesi non è condivisa in B. Contardi, scheda 29, in Argan,
Contardi 1990, p. 349.
6
In particolare, sull’intervento michelangiolesco, cfr. Pasquinelli 1925;
Tolnay 1930, pp. 18-22; Schiavo
1953, pp. 224-242; Siebenhüner
1955; Ackerman 1961, vol. I, pp.
123-128, vol. II, pp. 132-137; Zevi
1964, pp. 761-812; F. Barbieri, L.
Puppi, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
959-964; Ackerman 1986, pp. 331334; Ackerman 1988, pp. 314-320;
B. Contardi, scheda 31, in Argan,
Contardi 1990, pp. 354-357; Pacciani 1990; Cangemi 1995; Cangemi
2002.
7
Candilio 1999.
8
Matthiae 1982, pp. 10, 16.
9
Citato in Pastor 1944-1963, vol.
VII, p. 575. Il problema della destinazione d’uso non sembra immediatamente risolto con la fondazione della
chiesa, perché un Avviso del 6 agosto
1561 ricorda che il papa aveva proibito “che in detto luoco vi si vada a giocar, né con cocchi né cavalli”, ivi, p.
576.
10
Citato in Marcotti 1881, p. 576.
11
Non è qui possibile fornire un elenco esaustivo dei disegnatori, basti ricordare almeno Giuliano da Sangallo,
Baldassarre Peruzzi, Andrea Palladio,
Stefano Dupérac, Hieronymus Cock e
Hendrik van Cleef; per il disegno di
Giovanni Antonio Dosio presente in
mostra, con la sezione prospettica
dell’interno delle terme di Diocleziano, cfr. nota infra; per il rapporto degli architetti con l’antico, Fancelli
1985.
12
Meliu 1950, pp. 13-16.
13
Matteo Catalani, Historia della erettione della Chiesa di S. Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat.
8735; su del Duca, cfr. anche Bernardi Salvetti 1965.
14
La vicenda è più dettagliatamente
1
gli anni dal 1534 al 1564
raccontata in Schiavo 1953, pp. 225228.
15
Solo tre dei “Sette Angeli” nominati nel culto figurano come canonici
(cioè Michele, Gabriele e Raffaele),
mentre gli altri appaiono biblicamente apocrifi; cfr. De Maio 1981, p. 329.
16
Archivio di Stato di Roma (in seguito ASR), Segretari e Cancellieri della
Reverenda Camera Apostolica, vol.
74, Atto di consenso del Popolo Romano (14 ago. 1561), cfr. la trascrizione
in Schiavo 1953, pp. 282-283.
17
Meliu 1950, p. 101.
18
De Maio 1986, p. 56.
19
Ringrazio Richard Schofield per
avermi gentilmente segnalato l’informazione relativa all’opera di Conrad
Braun, posseduta anche dal cardinale
Borromeo.
20
Giussano 1613, p. 21.
21
Pastor 1944-1963, vol. VII, p. 574;
l’ambasciatore ferrarese Gerolamo
Casale ricorda che nella congregazione del 2 luglio 1561 il papa si era “difuso col commandar alli Cardinali che
debbino rifar li titoli delle lor chiese
che rovinano”, cfr. la trascrizione in
Pacciani 1990, p. 126.
22
Sulle scelte politiche a scala urbana
di Pio IV; cfr. Fagiolo, Madonna
1972; Fagiolo, Madon00000000na
1973; Gamrath 1976.
23
Tra i proprietari figuravano il cardinale Ippolito d’Este, il patriarca di
Aquileia Marino Grimani, il cardinale Rodolfo Pio da Carpi, il vescovo di
Vercelli Pierfrancesco Ferreri e il cardinale Jean du Bellay; cfr. Fagiolo,
Madonna 1973, pp. 201-202; Cangemi 2002, pp. 36-37.
24
Ackerman 1988, pp. 99-100 ipotizza un coinvolgimento di Michelangelo anche nell’impresa di via Pia.
25
Pio IV “viam per dorsum Quirinalis
ad portam Quirinalem tendentem,
angustam prius et tortuosam ampliari, dirigi et muniri portamque ipsam a
fundamentis in magnificentiorem
formam restitutam ad publicam omnium utilitatem curavit”; ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda
Camera Apostolica, vol. 74, Atto di
cessione delle terme ai certosini (5 ago.
1561), trascrizione in Schiavo 1953,
p. 278.
26
Meliu 1950, p. 32; Fagiolo, Madonna 1972, p. 387.
Schiavo 1953, p. 233; la lastra pavimentale è ancora esistente.
28
Ivi, p. 296, con trascrizione del documento di commissione.
29
Raspe 2007, pp. 248-249.
30
Pastor 1944-1963, vol. VII (1950),
p. 577.
31
Lanciani 1988-2002, vol. III, pp.
149-153.
32
Per il rapporto tra i Borromeo e Santa Maria degli Angeli, cfr. Bernardi
Salvetti 1970; anche il cardinale Francesco Alciati, maestro di Carlo Borromeo, venne sepolto nella basilica.
33
ASR, Segretari e Cancellieri della
Reverenda Camera Apostolica, vol.
74, Atto di concessione delle terme (5
ago. 1561), cfr. trascrizione in Schiavo 1953, p. 278.
34
Atto di consenso del Popolo Romano
(14 ago. 1561), cfr. ivi, pp. 282-283.
35
Siebenhüner 1955, p. 190, sulle cerimonie a Roma come strumento di
risoluzione simbolica di conflitti di
natura sociale e politica, cfr. Ingersoll
1985, p. 23.
36
Sul rapporto tra il papa e i certosini,
cfr. in part. Pacciani 1990; l’idea di installare una certosa presso l’antica
chiesa di San Ciriaco alle Terme risalirebbe addirittura all’epoca di san Bruno, fondatore dell’ordine (fine XI secolo); altre proposte, nuovamente fallite, si ebbero nel XIV secolo; cfr. Righetti Tosti-Croce 1993, p. 625; Meliu 1950, pp. 18-19.
37
Matteo Catalani racconta che il cardinal Simonetta promise 2000 scudi
al mese mentre il cardinale Alessandro Farnese donò alcuni terreni; Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat.
Lat. 8735, c. 85r; inoltre il papa mantenne i privilegi che i certosini avevano in Santa Croce; essi ricevettero anche i proventi delle tasse che l’ordine
impose alle altre certose; Hogg 1984,
p. 7.
38
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
111 [ed. 1568]: “E prevalse un suo disegno che fece, a molti altri fatti da eccellenti architetti”; è molto più verosimile, vista la fama goduta da Michelangelo, che egli fosse stato prescelto
direttamente dal papa, come racconta
Matteo Catalani, cfr. Schiavo 1953, p.
228.
39
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
111 [ed. 1568].
27
Il testo di Catalani è citato in Schiavo 1953, p. 231.
41
Per Catalani, Michelangelo progettò
di “restringerla [la chiesa] e levar le
cappelle basse, sfondate di tetto, e così veniva a stare la parte più alta intiera”, citato in Schiavo 1953, p. 228.
42
La fonte è sempre Catalani, in Schiavo 1953, p. 231.
43
Vasari, ed. Barocchi 1962, vol. I, p.
111 [ed. 1568].
44
Da Catalani in Schiavo 1953, p.
228: “Li parve disegnarla in croce”;
sull’impianto a croce greca si sofferma
anche Ackerman 1988, p. 126.
45
Siebenhüner 1955, p. 194; negli anni settanta del Cinquecento fu accentuata l’importanza dell’asse rotondapresbiterio mediante l’apertura di alcune cappelle laterali; la chiusura settecentesca dei due vestiboli laterali e
la loro trasformazione in cappelle ha
fatto pensare che Michelangelo allestisse originariamente un impianto
longitudinale e che Vanvitelli avesse
poi ruotato l’orientamento di 90 gradi; l’infondatezza di tale supposizione è stata dimostrata per primo da Pasquinelli 1925.
46
Catalani in Schiavo 1953, p. 231.
47
Il cosiddetto “chiostro di Michelangelo” fu iniziato solo nel 1565; non
può escludersi che l’architetto abbia
lasciato qualche consiglio riguardante
l’impostazione generale degli altri
ambienti del monastero, ma finora
non è emerso alcun elemento che permetta di sostenere di tale ipotesi; sul
chiostro, cfr. Magnani Cianetti 2000.
48
Catalani in Schiavo 1953, p. 231.
49
Cangemi 1995, pp. 67, 77-88; l’autrice ha potuto osservare il cantiere di
restauro della copertura del presbiterio.
50
Tale osservazione si può desumere
dalla visita apostolica dell’anno 1628;
Cangemi 2002, p. 52.
51
Lo si ricava dai documenti citati da
Lanciani 1988-2002, vol. III, p. 149 e
parzialmente trascritti in Cangemi
2002, pp. 119-123.
52
Karmon 2008.
53
Ackerman 1988, p. 127.
40
245
CATALOGO
1. Marcello Venusti (attribuito)
Ritratto di Michelangelo
post 1535, olio su tela, 36 × 27 cm
Firenze, Casa Buonarroti, 188
248
2. Daniele da Volterra
Testa di Michelangelo
(su busto di marmo bigio successivo)
1564-1566, bronzo (testa), altezza 31 cm
Roma, Musei Capitolini, inv. MC 1165/S
3. Michelangelo Buonarroti
Sonetto autografo con autoritratto nell’atto
di dipingere la volta della cappella Sistina
1508-1512, penna e inchiostro, 283 × 200 mm
Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 111
gli anni dal 1505 al 1516
249
4. Michelangelo Buonarroti
Studi di nudi e di un cornicione per la volta della cappella Sistina
post 1508, matita nera, penna e inchiostro, 271 × 414 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 75 F
5. Anonimo artista (da Michelangelo Buonarroti)
Riproduzione della volta della cappella Sistina
secondo quarto del secolo XIX
cromolitografia inserita sul piano di un tavolo coevo
di manifattura toscana, 119 × 60,6 × 96,5 cm
Firenze, Casa Buonarroti, inv. 544
250
gli anni dal 1505 al 1516
251
6. Giorgio Vasari il Giovane
Finestra a edicola della cappella dei Santi Cosma e Damiano
in Castel Sant’Angelo, fine XVI secolo
penna e inchiostro, inchiostro acquerellato, 390 × 270 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4686 A
252
7. Progetto di ricostruzione del monumento dei Fasti Consolari
(da Michelangelo Buonarroti)
xilografia, 147 × 197 mm (doppia pagina)
in Bartolomeo Marliani, Consulum, dictatorum censorumque
romanorum series una cum ipsorum triumphis quae marmoribus
scalpta in foro reperta est atque in Capitolium translata
[Valerio e Luigi Dorico], Romae 1549, pp. 8-9
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 5.11.550
gli anni dal 1505 al 1516
253
8a. Michelangelo Buonarroti
Rilievi di basi, capitelli e mensole (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 285 × 425 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 1 A recto
9a. Michelangelo Buonarroti
Studi assonometrici di trabeazioni (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 289 × 430 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 2 A recto
8b. Michelangelo Buonarroti
Studi di cornici, colonne, piedistalli e capitelli (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 285 × 425 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 1 A verso
9b. Michelangelo Buonarroti
Studi di cornici, basi, trabeazioni e schizzo del prospetto
del mausoleo dei Plauzi con relativi dettagli (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 289 × 430 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 2 A verso
254
gli anni dal 1505 al 1516
255
10a. Michelangelo Buonarroti
Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di un capitello (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 248 × 431 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 3 A recto
11a. Michelangelo Buonarroti
Studi assonometrici di cornici, trabeazioni e di una base (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 280 × 433 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 4 A recto
10b. Michelangelo Buonarroti
Studi assonometrici di cornici e trabeazioni (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 284 × 431 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 3 A verso
11b. Michelangelo Buonarroti
Studi assonometrici di capitello, base e trabeazioni (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 280 × 433 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 4 A verso
256
gli anni dal 1505 al 1516
257
12. Michelangelo Buonarroti
Studi del portale e della finestra del cosiddetto tempio della Sibilla a Tivoli, alzato dell’arco
di Costantino con dettagli dell’arco di Settimio Severo, basi dell’arco di Tito (copie dal Codice Coner)
circa 1516, matita rossa, 290 × 429 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 8 A
13. Michelangelo Buonarroti
Studi di capitelli e cornici
circa 1516, punta di metallo, penna e inchiostro, 285 × 433 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 5 A recto
258
14. Anonimo incisore
Antonio Lafrèry editore
Lupa Capitolina
1552, bulino, 255 × 338 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti,
Biblioteca A.458a.R.G.F., n. 9
15. Enea Vico disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Colonna di Marco Aurelio e obelisco dal mausoleo
di Augusto con veduta di Roma
1543-1546, bulino, 465 × 330 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti,
Biblioteca A.458a.R.G.F., n. 48
gli anni dal 1534 al 1564
259
16. Giovan Battista da Sangallo detto il Gobbo
Note e restituzioni grafiche a margine di pagina
circa 1535-1545, penna e inchiostro, 322 × 220 mm
in Vitruvio, De Architectura libri decem, editio princeps curata
da Sulpicio da Veruli, [s.n.t.], [circa 1486-1487], cc. 130-131
Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana
50 F.1
17. Giorgio Vasari
Vita di Michelangelo (pagina iniziale)
impressione a stampa, 217 × 137 mm
in Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori
et Scultori Italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri
Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, tomo II, p. 947
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2898.1.R.
260
gli anni dal 1534 al 1564
18. Sebastiano Serlio
Frontespizio
xilografia, 236 × 180 mm
in Sebastiano Serlio, Extraordinario libro di architettura di Sebastiano
Serlio, architetto del Re christianissimo. Nel quale si dimostrano trenta
porte di opera rustica mista con diuersi ordini: & uenti di opera dilicata
di diuerse specie, con la scrittura dauanti, che narra il tutto,
Giouambattista Marchio Sessa & fratelli, Venetia 1566
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, B.2783.R.
261
19. Michelangelo Buonarroti
Studio per la statua di Giulio II defunto sorretta da due angeli
circa 1516-1517, penna e inchiostro, 212 × 144 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 43 A verso
20. Michelangelo Buonarroti
Ricordo del 21 gennaio 1517; prospetto laterale del registro superiore
del monumento funebre di Giulio II, 1517 e 1518
penna e inchiostro, 223 × 317 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 69 A
262
gli anni dal 1534 al 1564
263
21. Anonimo disegnatore
Veduta di Roma con lo sfondo della chiesa di San Giovanni
in Laterano, schizzo del registro inferiore del monumento
funebre di Giulio II in costruzione, due dettagli architettonici
e uno schizzo di ornato
circa 1534-1542, carboncino, penna e inchiostro, 230 × 341 mm
Collezione privata
264
22. Anonimo incisore
Antonio Salamanca editore
Monumento funebre di Giulio II in San Pietro in Vincoli
1554, bulino, 480 × 390 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 66
gli anni dal 1534 al 1564
265
23a. Michelangelo Buonarroti
Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura
1544, matita nera, 192 × 199 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 19 F recto
23b. Michelangelo Buonarroti
Studi per la tomba di Cecchino Bracci, schizzi di scale, studi di figura
1544, matita nera, 192 × 199 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 19 F verso
266
gli anni dal 1534 al 1564
267
24. Michelangelo Buonarroti
Quattro epitaffi in onore di Cecchino Bracci inviati a Luigi del Riccio
1544, penna e inchiostro, 216 × 230 mm
Firenze, Archivio Buonarroti, XIII, 33
268
25. Anonimo disegnatore
Tomba di Cecchino Bracci
seconda metà del XVI secolo, matita nera,
penna e inchiostro, 292 × 200 mm
Firenze, Casa Buonarroti, inv. 533
26. Anonimo incisore
Antonio Lafrèry editore
Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii et adiacientium…)
circa 1560, bulino, 405 × 530 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 67
gli anni dal 1534 al 1564
269
27. Nicolas Béatrizet disegnatore
Cornelis Bos incisore
Statua equestre di Marco Aurelio sul basamento di Michelangelo
post 1548, bulino, 405 × 393 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 79
28. Anonimo incisore, Campidoglio
1562-1563, xilografia, 81 × 112 mm
foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro]
Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2231
29. Anonimo (da Stefano Dupérac)
Veduta di piazza del Campidoglio (rappresentata in controparte)
post 1568, matita, penna e inchiostro, 163 × 175 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2702 A
270
gli anni dal 1534 al 1564
271
30. Stefano Dupérac disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Veduta di piazza del Campidoglio (Capitolii sciographia…)
1569, acquaforte, bulino, 501 × 647 mm
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe
inv. MR 18308
31. Matthaeus Merian il Vecchio disegnatore e incisore
Capitolium, post 1613 - ante 1640
acquaforte, 332 × 360 mm
foglio sciolto tratto da Martin Zeiller [Martino Zilieri],
Itinerarium Italiae nov-antiquae, Merian, Frankfurt am Mayn 1640
Collezione privata
272
gli anni dal 1534 al 1564
273
32 a-b. Francesco Villamena
Sezione e fianco del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio
Pianta e alzato del capitello ionico di Michelangelo Buonarotti in Campidoglio
1619, bulino, 394 × 255 mm
in Alcune opere d’architettura di Iacomo Barotio da Vignola. Raccolte et poste in luce
da Francesco Villamena l’anno 1617 […], [s.n.], Roma [1619], tavv. n.n., pubblicato con Jacopo
Barozzi da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura di m. Iacomo Barozzio da Vignola.
Libro primo, et originale, [s.n.], Roma 1617
Vicenza, Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio,
Collezione Guglielmo Cappelletti, CAP D XVII 2
33. Anonimo incisore
Capitolii Novi Descriptio
1620, bulino, 202 × 297 mm
foglio sciolto tratto da Giacomo Lauro, Antiquae Urbis Splendor
Giacomo Lauro, Roma 1620
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9738
274
gli anni dal 1534 al 1564
275
34. Nicolaus van Aelst disegnatore e incisore
con aggiornamenti di Giovan Giacomo de’ Rossi editore
Capitolii Romani vera imago ut nunc est
1650, acquaforte, bulino, 378 × 552 mm
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2146
35. Anonimo artista
Veduta di piazza del Campidoglio
1650, olio su tela, 73 × 99 cm
Roma, Museo di Roma, inv. Dep. 75, PV 3011
276
gli anni dal 1534 al 1564
277
36. Gabriel Perelle disegnatore e incisore
Piazza del Campidoglio, circa 1650
acquaforte, 194 × 274 mm
Collezione privata
37. Giuseppe Tiburzio Vergelli disegnatore e incisore
Le Capitole, 1688
acquaforte, 235 × 389 mm
foglio sciolto tratto da Giuseppe Tiburzio Vergelli
Nuovo Splendore di Roma moderna, Roma 1688
Collezione privata
278
gli anni dal 1534 al 1564
279
38. Giovanni Battista Falda disegnatore e incisore
Altra veduta del Campidoglio
1665-1667, acquaforte, 260 × 393 mm
foglio sciolto tratto da Giovanni Battista Falda, Il nuovo teatro delle fabbriche
ed edifici in prospettiva di Roma moderna sotto il felice pontificato
di N. S. Papa Alessandro 7, Giovan Giacomo de Rossi, Roma s.d. [1665-1667]
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. GS 2353
39. Lievin Cruyl disegnatore e incisore
Pieter Sluyter editore
Prospectus Capitolii Romani et Templi Aræ Cæli Conventus Fratrum Minorum
1697, acquaforte, 384 × 493 mm
foglio sciolto tratto da Johannes Georgius Graevius,
Thesaurus Antiquitatum Romanarum, Utrecht-Leida 1697, vol. IV
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 9923
280
gli anni dal 1534 al 1564
281
40. Anonimo incisore
Facciata del Palazzo Senatorio (Le Palais du Capitole)
1706, acquaforte, 137 × 191 mm
foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d’Italie
ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes
et De toutes les raretez, qu’il contient
chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 259
Collezione privata
282
41. Anonimo incisore
Facciata del Palazzo dei Conservatori
(Le Maison des Magistrats nommés Conservateurs)
1706, acquaforte, 137 × 173 mm
foglio sciolto tratto da De Rogissart, Les Delices d’Italie
ou Description exacte de ce Pays, De ses principales Villes
et De toutes les raretez, qu’il contient
chez Pierre Van der Aa, Leide 1706, vol. II, p. 262
Collezione privata
42. Prospero Boccapaduli
Inventario delle figure donate da N.S. Pio V al Po[polo] Ro[mano]
fatto questo dì XI de feb[braio] 1566
11 e 27 febbraio 1566, fascicolo manoscritto,
280 × 105 mm (fascicolo chiuso), 280 × 205 (fascicolo aperto)
Roma, Archivio Storico Capitolino, Fondo Boccapaduli
Armadio II, Mazzo IV, fascicolo n. 35
gli anni dal 1534 al 1564
283
43. Anonimo scultore romano
Statua di Giove
II secolo d.C., marmo pario, altezza 212 cm
Roma, Musei Capitolini, in deposito dal 1956
a Palazzo Braschi (Museo di Roma), inv. MC 59
284
44. Lorenzo Vaccari editore
Iouis in Capitolii fastigio statis marmorea statua
incisione, 256 × 192 mm
in Lorenzo Vaccari, Antiquarum Statuarum Urbis
Romae quae in publicis privatisque locis visuntur icones,
Lorenzo Vaccari, Roma 1584, tav. n.n.
Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck
per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1840 raro
45. Giovanni Battista Cavalieri disegnatore e incisore
Iouis signum marmoreum Romae in Capitolio
incisione, 276 × 205 mm
in Giovanni Battista Cavalieri, Antiquarum Statuarum
Urbis Romae primus et secundus liber
[s.n.], Roma 1585, tav. 76
Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck
per la Storia dell’Arte, Ze 1145-1700 raro
gli anni dal 1534 al 1564
46. Giovanni Battista Cavalieri disegnatore e incisore
Mars in Capitolio [in controparte]
incisione, 221 × 135 mm
in Giovanni Battista Cavalieri Antiquarum Statuarum
Urbis Romae liber tertius et quartius, [s.n.], Roma 1594, tav. 32
Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.4.E.35.1 bis
285
47. Philippe Thomassin disegnatore e incisore
Mars in Capitolio
incisione, 415 × 265 mm
in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber
primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 32
Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia
dell’arte, inv. 15259
286
48. Philippe Thomassin disegnatore e incisore
[Pudicitia] in Capitolio
incisione, 415 × 265 mm
in Philippe Thomassin, Antiquarum statuarum Urbis Romae liber
primus, Iacomo Rossi, Roma s.d. [circa 1608-1615], tav. 49
Roma, Musei Capitolini, Biblioteca di Archeologia e Storia
dell’arte, inv. 15259
49. Michelangelo Buonarroti
Studio di cornice
data incerta, matita rossa, 93 × 106 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 90 A
gli anni dal 1534 al 1564
287
50. Nicolas Béatrizet disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Prospetto di palazzo Farnese
1549, bulino, 400 × 570 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 69
51. Anonimo disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Cortile di palazzo Farnese
1560, bulino, 400 × 515 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 70
288
gli anni dal 1534 al 1564
289
52. Giovanni Antonio Dosio
Vista del fianco meridionale di San Pietro
ante 1565, matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 272 × 221 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2536 A
53. Anonimo disegnatore
Veduta di San Pietro da sud-est
1553-1554, penna e inchiostro, 184 × 206 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 4345 A
290
gli anni dal 1534 al 1564
291
54. Assistenti di Michelangelo Buonarroti
Modello ligneo dell’abside di San Pietro
(già inserito nella calotta absidale del modello di Antonio da Sangallo
il Giovane) 1556-1557, legno di tiglio e altre essenze
larghezza 90,5 cm, altezza 50 cm, lunghezza 54 cm (misure esterne)
Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro
(per gentile concessione della Fabbrica di San Pietro in Vaticano)
55. Anonimo disegnatore
Pianta dell’emiciclo di San Pietro
1556-1564 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 77 × 250 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 93 A
292
gli anni dal 1534 al 1564
56. Anonimo disegnatore
Pianta dell’emiciclo di San Pietro
1556-1564 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 300 × 441mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 96 A
293
57. Anonimo disegnatore
Alzato dell’emiciclo di San Pietro
1547-1555 (?), tracce di matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 352 × 296 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 95 A
58. Anonimo incisore (da Tiberio Calcagni?)
Vincenzo Luchino editore
Prospetto dell’abside meridionale di San Pietro
secondo il progetto michelangiolesco
1564, bulino, 395 × 560 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 40
294
gli anni dal 1534 al 1564
295
59. Tiberio Alfarano disegnatore e editore
Natale Bonifacio incisore
Almae Vrbis Divi Petri Veteris Noviqve Templi Descriptio […]
1823 [ed. orig. 1590], acquaforte, 567 × 439 mm
tratta da Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro
in Vaticano: opera di Bramante Lazzari, Michel Angelo Bonaroti
ed altri celebri architetti espressa in XXXII tavole
Nella Stamperia De Romanis, Roma 1812 (III ed., ed. orig. Roma 1620)
Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro
60. Stefano Dupérac disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Pianta di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco
1569, acquaforte, 431 × 316 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 41
296
gli anni dal 1534 al 1564
297
61. Stefano Dupérac disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Prospetto laterale di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco
s.d., acquaforte, 405 × 534 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 30
62. Stefano Dupérac disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
Sezione di San Pietro secondo il progetto michelangiolesco
s.d., acquaforte, 405 × 510 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 83
298
gli anni dal 1534 al 1564
299
63. Jacob Bos incisore
Antonio Lafrèry editore
Centina di Antonio da Sangallo per gli archi delle volte di San Pietro
riutilizzata da Michelangelo
1561, bulino, 400 × 505 mm
in Speculum Romanae Magnificentiae
Firenze, Casa Buonarroti, Biblioteca, A.458a.R.G.F., n. 39
64. P. van Tienen disegnatore
Hieronymus Cock incisore ed editore
Aedis D. Petri Romane deformatio
circa 1547, acquaforte, 240 × 330 mm
Anzio, Biblioteca Clementina
300
gli anni dal 1534 al 1564
301
65. Anonimo disegnatore
Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo
circa 1565-1570, tracce di matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 211 × 221 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
Collezione Santarelli 174
66. Anonimo disegnatore
Planimetria di San Pietro con il progetto di facciata di Michelangelo
circa 1565-1570, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 180 × 255 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
Collezione Santarelli 175
302
gli anni dal 1534 al 1564
303
67. Michelangelo Buonarroti
Dettaglio planimetrico del tamburo della cupola di San Pietro
ante 1555, matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, 555 × 338 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 31 A
68. Assistente di Michelangelo Buonarroti
(dal modello della cupola di San Pietro)
Studio della sezione della cupola di San Pietro
post 1561, matita nera, penna e inchiostro, 159 × 162 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 35 A
304
gli anni dal 1534 al 1564
69. Michelangelo Buonarroti
Schizzo a matita rossa della cupola di San Pietro
primavera 1563, matita rossa, penna e inchiostro, 110 × 220 mm
Città del Vaticano, Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro
Armadio 7, B, 427, foglio 497 verso
305
70. Monogrammista I.C.B. incisore
Antonio Lafrèry editore
Monstra della Giostra fatta nel Teatro del Palazzo ridotto
in questa forma dalla Sta di N. S. Pio 4°
1565, acquaforte e bulino, 435 × 575 mm
Anzio, Biblioteca Clementina
71. Stefano Dupérac disegnatore e incisore
Antonio Lafrèry editore
La benedizione papale in piazza San Pietro
1571-1572, acquaforte, 385 × 540 mm
Anzio, Biblioteca Clementina
306
gli anni dal 1534 al 1564
307
73. Giovanni Guerra disegnatore e Natale Bonifacio incisore
Bartolomeo Grassi editore
Disegno nel quale si rappresentano le Cerimonie d’ordine di N.S. adi
26 di Settembre 1586 in venerdì nella consacratione della Croce
che s’haveva da porre sopra la Guglia già drizzata
1587, acquaforte e bulino, 500 × 365 mm
Anzio, Biblioteca Clementina
72. Ambrogio Brambilla disegnatore e incisore
Giovanni G. Orlandi editore
Vero dissegno deli stupendi edefitii giardini boschi
fontane et cose maravegliose di Belvedere in Roma
1602, bulino, 355 × 490 mm
Anzio, Biblioteca Clementina
308
gli anni dal 1534 al 1564
309
74. Michelangelo Buonarroti
Studio per cornice trabeata di finestra e studio planimetrico per un palazzo
circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, 271 × 402 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 117 A
310
75. Michelangelo Buonarroti
Studio planimetrico per un palazzo
circa 1557-1559, matita nera, penna e inchiostro, 253 × 354 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 118 A
gli anni dal 1534 al 1564
311
76. Michelangelo Buonarroti
Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini
1559, stilo, compasso, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, 173 × 278 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 123 A
312
77. Michelangelo Buonarroti
Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini
1559, stilo, compasso, matita rossa, matita nera, penna
e inchiostro, inchiostro acquerellato, biacca, 425 × 297 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 120 A
gli anni dal 1534 al 1564
313
78. Michelangelo Buonarroti
Studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini
1559, stilo, compasso, matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, biacca, 417 × 376 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 124 A
79. Michelangelo Buonarroti
Schizzi planimetrici e di alzato per San Giovanni dei Fiorentini
1559, matita nera, 146 × 172 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 36 A
314
gli anni dal 1534 al 1564
315
80. Monogrammista RD disegnatore
Valérian Regnard incisore
Prospetto e sezione del modello di San Giovanni dei Fiorentini
1683, acquaforte, 366 × 498 mm
tavola tratta da Valerianus Regnartius, Praecipua Urbis Romanae
Templa, Insignium Romae templorum, Io. Iacobo de Rubeis editore
Roma 1684, tav. 48
Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte
81. Michelangelo Buonarroti
Schizzi architettonici e studio planimetrico per la cappella Sforza
1562, matita nera, 185 × 273 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 104 A
316
gli anni dal 1534 al 1564
317
82. Michelangelo Buonarroti
Schizzi architettonici e studi per la cappella Sforza
1562, matita nera, 179 × 227 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 109 A
318
83. Michelangelo Buonarroti
Schizzi planimetrici e studio di tomba parietale per la cappella Sforza
circa 1562, matita nera, tracce di penna e inchiostro, 350 × 200 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 103 A
gli anni dal 1534 al 1564
319
84. Ottaviano Mascherino
Pianta del palazzo papale di Santa Maria Maggiore con l’antica
sagrestia e la cappella Sforza
circa 1585, penna e inchiostro, pastello,
inchiostro acquerellato, 440 × 580 mm
Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio storico
Fondo Ottaviano Mascarino, inv. 2427
320
85. Collaboratore di Ferdinando Fuga
Pianta di Santa Maria Maggiore con progetto per la risistemazione
degli ingressi delle cappelle Cesi e Sforza
metà del XVIII secolo, preparazione a matita, penna e inchiostro,
inchiostri acquerellati di diverso colore, 780 × 528 mm
Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia
Collezione Lanciani, Roma 46.XI.II.4, 31809
gli anni dal 1534 al 1564
321
86. Anonimo incisore
Esterno di Santa Maria Maggiore con le cappelle Sforza e Cesi
incisione, 404 × 542 mm
in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I
usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Bartolomeo Zannetti,
Roma 1621, tav. 69
Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.3.F.30
322
87. Anonimo incisore
Spaccato di Santa Maria Maggiore con la facciata della cappella Sforza
bulino, 385 × 252 mm
in Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I
usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio
Bartolomeo Zannetti, Roma 1621, tav. 99
Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 18.2.F.15
gli anni dal 1534 al 1564
323
89. Michelangelo Buonarroti
Schizzo di mostra di finestra
1561 (?), matita nera, 125 × 71 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 85 A
88. Anonimo incisore
Pianta e sezione trasversale della cappella Sforza in Santa Maria Maggiore in Roma
bulino, 494 × 375 mm
in Giovanni Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle
delle chiese di Roma con le loro facciate, fianchi, piante
e misure de’ più celebri architetti, Roma 1713, tav. 13
Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Rari Roma V.630
324
gli anni dal 1534 al 1564
325
90. Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di porta Pia
circa 1561, matita nera, inchiostro acquerellato, biacca, 399 × 269 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 73 A bis
326
91. Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di porta Pia
circa 1561, matita nera, traccia di penna e inchiostro, 111 × 80 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 84 A
gli anni dal 1534 al 1564
327
92. Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di porta Pia
circa 1561, matita nera, 166 × 124 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 99 A
328
93. Michelangelo Buonarroti
Studio per un portale e altri studi per modanature e cornici
matita nera, 283 × 255 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 97 A
gli anni dal 1534 al 1564
329
94. Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di porta Pia
circa 1561, matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, biacca, 442 × 282 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 106 A
330
95. Michelangelo Buonarroti
Studio per il prospetto di porta Pia
circa 1561, matita nera, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato, biacca, 470 × 280 mm
Firenze, Casa Buonarroti, 102 A
gli anni dal 1534 al 1564
331
96. Giovanni Battista Montano disegnatore
Prospetto e sezione di porta Pia a Roma
1635, bulino, 396 × 260 mm
in Nuova et ultima aggiunta delle porte d’architettura
di Michel Angelo Buonarroti Fiorentino, Pittore, Scultore et Architetto
Siena, Pietro Marchetti [1635], tav. XXXXI
pubblicato con Jacopo Barozzi da Vignola, Regola delli cinque
ordini d’architettura di M. Iacomo Barozzio da Vignola
Pietro Marchetti, Siena 1635
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. I-148
97. Luigi Rossini
Veduta di porta Pia
incisione, 525 × 748 mm
in Luigi Rossini, Le porte antiche e moderne del recinto di Roma:
con le mura, prospetti e piante geometriche; con un breve cenno
istorico antiquario, Scudellari, Roma 1829
Roma, Biblioteca Hertziana - Istituto Max Planck per la Storia
dell’Arte, Dr 335-4290 grgr raro
332
gli anni dal 1534 al 1564
333
98. Ambrogio Brambilla incisore (da Pirro Ligorio)
Claudio Duchet editore
Thermae Deocletianae et Maximianae inter Quirinalem et Viminalem
1582, bulino, 307 × 536 mm
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19100
99. Giovanni Antonio Dosio disegnatore
Giovanni Battista Cavalieri editore e incisore
Pars anterior Diocletiani Imp. Thermarum quae solis meridiae respicit
1563, bulino, 192 × 257 mm
in Giovanni Battista Cavalieri, Cosmo Medici Duci Florentinor et Senens. Vrbis
Romae aedificiorum illustriumquae supersunt reliquiae […], [Firenze?] 1569
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 18493
334
gli anni dal 1534 al 1564
335
100. Giovanni Antonio Dosio
Sezione prospettica dell’interno delle terme di Diocleziano
ante 1561, matita rossa, penna e inchiostro,
inchiostro acquerellato di diverso colore, 167 × 232 mm
Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 2545 A
101. Giovanni Antonio Dosio disegnatore
Parte di dentro delle terme di Diocletiano
1565, xilografia, 83 × 127 mm
foglio sciolto tratto da Bernardo Gamucci, [Libri Quattro]
Dell’Antichità Della Città Di Roma, Giovanni Varisco, Venetia 1565
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 19285
336
gli anni dal 1534 al 1564
337
102. Girolamo Franzini
La Chiesa di S. Maria de gl’Angioli. Tem[plum]
S. Mariae Angelorum
1588, xilografia, 77 × 62 mm
foglio sciolto tratto da Girolamo Franzini, Le Cose Maravigliose
Dell’Alma Città Di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese,
Et Antichità rapresentate in disegno da Girolamo Francino,
Girolamo Franzini, Roma 1588
Collezione privata
338
103. Anonimo incisore
S. Maria de gli Angeli
1703, xilografia, 144 × 85 mm
foglio sciolto tratto da Fioravante Martinelli, Roma di nuovo
esattamente ricercata nel suo sito, con tutto ciò di curioso che in
esso si ritrova sì antico che moderno […], Luigi Neri, Roma 1703
Collezione privata
104. Giovanni Battista Piranesi
Veduta interna della chiesa della Madonna degli Angioli detta
della Certosa [foglio sciolto tratto dalla serie Vedute di Roma,
rovine antiche e fontane romane]
1776, acquaforte, 564 × 826 mm
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 40677
gli anni dal 1534 al 1564
339
BIBLIOGRAFIA
Abbreviazioni
Corpus
Charles de Tolnay, Corpus dei disegni di Michelangelo, 4 voll., Novara
1975-1980.
Carteggio
Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi, Renzo Ristori,
5 voll., Firenze 1965-1983.
Carteggio indiretto
Il carteggio indiretto di Michelangelo,
a cura di Paola Barocchi, Kathleen
Loach Bramanti, Renzo Ristori, 2
voll., Firenze 1988-1995.
Contratti
I contratti di Michelangelo, a cura di
Lucilla Bardeschi Ciulich, Firenze
2005.
Ricordi
I ricordi di Michelangelo, a cura di
Lucilla Bardeschi Ciulich, Paola Barocchi, Firenze 1970.
Rime
Michelangiolo Buonarroti, Rime, a
cura di Enzo Noè Girardi, Bari 1960.
Ackerman 1951
James S. Ackerman, The Belvedere as
a Classical Villa, in “Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes”,
XIV, 1951, pp. 60-91.
Ackerman 1954
James S. Ackerman, The Cortile del
Belvedere, Città del Vaticano 1954.
Ackerman 1956
James S. Ackerman, recensione di
Herbert Siebenhüner, Das Kapitol in
Rom, in “Art Bulletin”, XXXVIII,
1956, pp. 53-57.
Ackerman 1961
James S. Ackerman, The Architecture
of Michelangelo, 2 voll., London
1961.
Ackerman 1966
James S. Ackerman, The Architecture
of Michelangelo, 2 voll., London
1966.
Ackerman 1968
James S. Ackerman, L’architettura di
Michelangelo, Torino 1968.
Ackerman 1986
James S. Ackerman, The Architecture
of Michelangelo, with a catalogue of
Michelangelo’s works by James S. Ackerman and John Newman, ChicagoHarmondsworth 1986.
Ackerman 1988
James S. Ackerman, L’architettura di
Michelangelo, Torino 1988.
Ackerman 2008
James S. Ackerman, Il libro e il mecenate: la Biblioteca Medicea Laurenziana di Michelangelo, in “FMR”,
nuova serie, 26, 2008, pp. 45-67.
Adinolfi 1859
Pasquale Adinolfi, La Portica di San
Pietro ossia Borgo nell’età di mezzo:
nuovo saggio topografico dato sopra
pubblici e privati documenti, Roma
1859.
Agosti, Farinella 1987a
Giovanni Agosti, Vincenzo Farinella
(a cura di), Michelangelo, Studi di antichità dal Codice Coner, Torino
1987.
Agosti, Farinella 1987b
Michelangelo e l’arte classica, a cura di
Giovanni Agosti, Vincenzo Farinella,
catalogo della mostra (Firenze, 15
aprile - 15 ottobre), Firenze 1987.
Alberti, ed. Bartoli 1550
L’architettura di Leonbatista Alberti
tradotta in lingua fiorentina da Cosimo Bartoli gentil’huomo & accademi-
342
co fiorentino. Con la aggiunta de disegni, Firenze 1550.
Alberti, ed. Orlandi 1966
Leon Battista Alberti, L’architettura
(De Re Aedificatoria), testo latino e
traduzione a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, 2 voll., Milano 1966.
Albertoni 1993
Margherita Albertoni, Le statue di
Giulio Cesare e del Navarca, in “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, XCV,
1993, pp. 175-183.
Aldovrandi 1556
Ulisse Aldrovandi, Delle Statue Antiche, che per tutta Roma, in diversi
luoghi, e case si veggono, in Mauro
1556.
Alfarano 1914
Tiberio Alfarano, De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura, a cura di Michele Cerrati, Roma
1914.
Alker 1921
Hermann Reinhard Alker, Die Portalfassade von St. Peter in Rom
nach dem Michelangeloentwurf, im
zusammenhang mit der Gesamtarchitektur des Domes, Diss. Technischen Hochschule Karlzruhe,
1921.
Allegri, Cecchi 1980
Ettore Allegri, Alessandro Cecchi,
Palazzo Vecchio e i Medici, Firenze
1980.
Almagià 1916
Roberto Almagià, La cartografia del
Lazio nel Cinquecento, in “Rivista
geografica italiana”, XXIII, 1, 1916,
pp. 25-44.
Almagià 1952
Roberto Almagià (a cura di), Pitture
murali della Galleria della Carte geografiche, Città del Vaticano 1952.
Ambrogi 1995
Annarena Ambrogi, Vasche di età romana in marmi bianchi e colorati,
Roma 1995.
reliefs of Marcus Aurelius, in “Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instuts. Römische Abteilung”,
XCI, 1984, pp. 141-205.
Anselmi 1990
Alessandra Anselmi, La decorazione
scultorea della facciata di S. Maria
Maggiore a Roma. Un inedito manoscritto con memoria del programma
iconografico settecentesco, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 40, 1990, pp.
61-80.
Antinori 2002
Aloisio Antinori, Caravaggio nel conflitto tra Onorio Longhi e Stefano
Longhi, Caravaggio nel IV centenario
della cappella Contarelli, a cura di Caterina Volpi, atti del convegno internazionale di studi (Roma, 24-26
maggio 2001), Città di Castello
2002, pp. 97-104.
Apollonj Ghetti 1968
Fabrizio M. Apollonj Ghetti, Le case
di Michelangelo in Via dei Fornari a
Roma, in “L’Urbe”, XXXI, 1, 1968,
pp. 13-26.
Argan 1964
Giulio Carlo Argan, La tomba di Giulio II, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
61-74.
Argan 1990
Giulio Carlo Argan, Palazzo Farnese,
in Argan, Contardi 1990, pp. 239251.
Argan, Contardi 1990
Giulio Carlo Argan, Bruno Contardi,
Michelangelo architetto, Milano 1990.
Armellini 1891
Mariano Armellini, Le chiese di Roma
dal secolo IV al XIX, Roma 1891.
Arndt, Lippold 1893-1947
Paul Arndt, Georg Lippold (a cura
di), Photographische Einzelaufnahmen antiker Sculpturen [EA], München 1893-1947.
Arrigoni, Bertarelli 1939
Paolo Arrigoni, Achille Bertarelli,
Piante e vedute di Roma e del Lazio
conservate nella Raccolta delle stampe e dei disegni del Castello Sforzesco,
Milano 1939.
Androsov, Baldini 2000
L’Adolescente dell’Ermitage e la Sagrestia Nuova di Michelangelo, a cura
di Sergej Androsov, Umberto Baldini, catalogo della mostra (Firenze, 9
maggio - 10 luglio; San Pietroburgo,
12 settembre - 12 novembre 2000),
Siena 2000.
Ashby 1904
Thomas Ashby, Sixteenth Century
Drawings of Roman Buildings Attributed to Andreas Coner, in “Papers of
the British School at Rome”, 2 voll.,
1904, vol. II, pp. 1-96 (con tavole).
Angelicoussis 1984
Elizabeth Angelicoussis, The panel
Ashby 1914
La Campagna romana al tempo di
Paolo III: mappa della Campagna romana del 1547 di Eufrosino Della
Volpaia riprodotta dall’unico esemplare esistente nella Biblioteca Vaticana, a cura della Biblioteca Vaticana e
con introduzione di Thomas Ashby,
Roma 1914.
ti e degli Uffizi, 3 voll., Firenze 19621964.
Aurigemma 2004
M. Giulia Aurigemma, Residenze
cardinalizie tra inizio e fine del ’400,
in Simoncini 2004, vol. II, pp. 117158.
Barocchi 1989
Le due Cleopatre e le “teste divine” di
Michelangelo, a cura di Paola Barocchi, catalogo della mostra (Firenze, 9
marzo - 10 aprile 1989), Firenze
1989.
Baglione 1639
Giovanni Baglione, Le nove chiese di
Roma, Roma 1639.
Baldacci 1955
Luigi Baldacci, Lineamenti della poesia di Michelangelo, in “Paragone”,
72, 1955, pp. 27-45.
Baldinucci, ed. Ranalli 1845-1847
Filippo Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, a
cura di Ferdinando Ranalli, 5 voll.,
Firenze 1845-1847.
Barbieri, Puppi 1964
Franco Barbieri, Lionello Puppi (a cura di), Tutta l’architettura di Michelangelo, Milano 1964.
Bardeschi Ciulich 1977
Lucilla Bardeschi Ciulich, Documenti
inediti su Michelangelo e l’incarico di
San Pietro, in “Rinascimento”, XVII,
1977, pp. 235-275.
Bardeschi Ciulich 1983
Lucilla Bardeschi Ciulich, Documenti
inediti su Michelangelo architetto
maggiore di San Pietro, in “Rinascimento”, XXIII, 1983, pp. 173-186.
Bardeschi Ciulich 1989
Costanza ed evoluzione nella scrittura
di Michelangelo, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, catalogo della mostra
(Firenze, 29 luglio - 30 ottobre
1989), Firenze 1989.
Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2000
Michelangelo. Grafia e biografia, a cura di Lucilla Bardeschi Ciulich, Pina
Ragionieri, catalogo della mostra
(Milano, 15 marzo - 18 giugno
2000), Milano 2000.
Bardeschi Ciulich, Ragionieri 2001
Vita di Michelangelo, a cura di Lucilla
Bardeschi Ciulich, Pina Ragionieri,
catalogo della mostra (Firenze, 18 luglio 2001 - 7 gennaio 2002), Firenze
2001.
Barocchi 1962-1964
Paola Barocchi, Michelangelo e la sua
scuola. I disegni della Casa Buonarro-
bibliografia
Barocchi 1971-1977
Scritti d’Arte del Cinquecento, a cura
di Paola Barocchi, 3 voll., Milano
1971-1977.
Bartolozzi, Zandri 1999
Gabriele Bartolozzi Casti, Giuliana
Zandri, San Pietro in Vincoli, Roma
1999.
Basile 1984
Giuseppe Basile, Appunti di storia
conservativa: gli interventi cinquecenteschi, in Marco Aurelio. Mostra di
cantiere, Roma 1984.
Battisti 1961
Eugenio Battisti, Disegni cinquecenteschi per San Giovanni dei Fiorentini,
in “Quaderni dell’Istituto di Storia
dell’Architettura”, 31-48, 1961, pp.
185-194.
Bedon 1995
Anna Bedon, Le incisioni di Du Pérac
per S. Pietro, in “Il disegno di architettura”, 12, 1995, pp. 5-11.
Bedon 1999
Anna Bedon, Giovan Battista Montano, in Il giovane Borromini. Dagli
esordi a San Carlo alle Quattro Fontane, a cura di Manuela Kahn-Rossi,
Marco Franciolli, catalogo della mostra (Lugano, 5 settembre - 14 novembre 1999), Milano 1999, pp.
300-303.
Bedon 2008
Anna Bedon, Il Campidoglio: storia di
un monumento civile nella Roma papale, Milano 2008.
Bedon, Burns, Beltramini 1995
Anna Bedon, Guido Beltramini,
Howard Burns (a cura di), Questo:
disegni e studi di Manfredo Tafuri
per la ricostruzione di edifici e contesti urbani rinascimentali, Vicenza
1995.
Bell 2000
Brian Bell, The Pressures of Paradox:
Michelangelo and the Sforza Chapel,
in Conventions of Architectural Drawings: Representation and Misrepresentation, a cura di Wolfgang Jung,
James S. Ackerman, atti del congresso (Cambridge Mass. 1997), Cambridge (Mass.) 2000, pp. 67-89.
Belli 2006
Gianluca Belli, “Pulchriora Latent”:
una nuova fonte iconografica per la
storia di Palazzo Pitti, in “Opus Incertum”, I, 1, 2006, pp. 91-97.
Bellini 1995
Federico Bellini, L’interno della basilica Liberiana nel rifacimento di Ferdinando Fuga, in “Palladio”, 8, 1995,
pp. 49-62.
Bellini 2001
Federico Bellini, I grandi cantieri: Campidoglio, San Pietro, Studium Urbis, in
Conforti, Tuttle 2001, pp. 66-93.
Bellini 2002
Federico Bellini, La basilica di San
Pietro in Vaticano, in Tuttle et al.
2002, pp. 300-306.
Bellini 2006
Federico Bellini, Da Michelangelo a
Giacomo Della Porta, in Petros eni.
Pietro è qui, a cura di Maria Cristina
Carlo-Stella et al., catalogo della mostra (Città del Vaticano, 11 ottobre
2006 - 8 marzo 2007), Roma 2006,
pp. 81-85.
Bellini 2008
Federico Bellini, La cupola di San Pietro da Michelangelo a Della Porta, in
Satzinger, Schütze 2008, pp. 175194.
Belluzzi 1598
Giovan Battista Belluzzi, Nuova inventione di fabricar fortezze, Venezia
1598.
Belluzzi 2004
Amedeo Belluzzi, Il tema delle finestre inginocchiate nell’architettura di
Bartolomeo Ammannati, in Deanna
Lenzi (a cura di), Arti a confronto.
Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Bologna 2004, pp. 137-144.
Pietro Vaticano di Antonio da Sangallo il Giovane, in Antonio da Sangallo il Giovane - La vita e l’opera. Atti del Congresso di Storia dell’Architettura. Roma 19-21 febbraio 1986,
Roma 1986, pp. 157-174.
Benedetti 2001
Sandro Benedetti, Il Palazzo Nuovo
nella Piazza del Campidoglio dalla
sua edificazione alla trasformazione
in museo, Roma 2001.
Bentivoglio 1975
Enzo Bentivoglio, Disegni nel “libro”
di Giuliano da Sangallo, collegabili a
progetti per il San Giovanni dei Fiorentini a Roma, in “Mitteilungen des
Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 19, 2, 1975, pp. 251-260.
Bentivoglio 1997
Enzo Bentivoglio, Tiberio Alfarano: le
piante del vecchio S. Pietro sulla pianta del nuovo edita dal Dupérac, in
Spagnesi 1997, pp. 247-254.
Benzi 1990
Fabio Benzi, Sisto IV Renovator Urbis. Architettura a Roma 1471-1484,
Roma 1990.
Bernardi Salvetti 1965
Caterina Bernardi Salvetti, S. Maria
degli Angeli alle Terme e Antonio Lo
Duca, Roma 1965.
Bernardi Salvetti 1970
Caternina Bernardi Salvetti, La basilica di S. Maria degli Angeli e i cardinali Borromeo successori ed emuli di
S. Carlo Borromeo, in “L’Urbe”, 6,
1970, pp. 14-21.
Bertarelli 1925
Luigi Vittorio Bertarelli, Guida d’Italia del Touring Club Italiano, Italia
Centrale, Roma e dintorni, Milano
1925.
Belluzzi 2006
Amedeo Belluzzi, Gli interventi di
Bartolomeo Ammanati a Palazzo Pitti, in “Opus Incertum”, II, 3, 2006,
pp. 56-74.
Berti 1985
Luciano Berti, Michelangelo. I disegni
di Casa Buonarroti, schede critiche di
Alessandro Cecchi e Antonio Natali,
Firenze 1985.
Beltramini, Burns 2008
Palladio, a cura di Guido Beltramini,
Howard Burns, catalogo della mostra
(Vicenza, 20 settembre 2008 - 6 gennaio 2009; Londra, 31 gennaio - 13
aprile 2009), Venezia 2008.
Bertolotti 1875a
Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma, in “Archivio
Storico Artistico, archeologico e letterario della città e della provincia di
Roma”, I, 1, 1875, pp. 13-22.
Benedetti 1973
Sandro Benedetti, Giacomo Del Duca
e l’architettura del Cinquecento, Roma 1973.
Benedetti 1986
Sandro Benedetti, Il modello per il S.
Bertolotti 1875b
Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma (Continuazione), in “Archivio Storico Artistico,
archeologico e letterario della città e
343
della provincia di Roma”, I, 2, 1875,
pp. 69-77.
Bertolotti 1875c
Antonino Bertolotti, Documenti intorno a Michelangelo Buonarroti trovati ed esistenti in Roma (Continuazione e fine), in “Archivio Storico Artistico, archeologico e letterario della
città e della provincia di Roma”, I, 3,
1875, pp. 161-166.
Bertolotti 1881
Antonino Bertolotti, Artisti Lombardi a Roma nei secoli XV, XVI, XVII, 2
voll., Milano 1881.
Bertucci 1986
Rita Bertucci, S. Maria di Loreto al
Foro Traiano. Un confronto tra edificio realizzato e progetti in relazione
agli interessi ed all’attività di Antonio
il Giovane intorno al 1520, in Spagnesi 1986, pp. 265-276.
Bessone Aureli 1953
I dialoghi michelangioleschi di Francisco d’Olanda, a cura di Maria Antonietta Bessone Aureli, Roma 1953.
Betti 1820
Salvatore Betti, Due scritti inediti intorno il sepolcro di papa Giulio II, in
“Giornale Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti”, VI, 1820, pp. 390-398.
Bettini 1964
Sergio Bettini, La fabbrica di San Pietro, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
497-509.
Bevilacqua 1998
Mario Bevilacqua, Mecenatismo architettonico del cardinal Querini: Nolli, De Marchis e Fuga a S. Alessio all’Aventino, in “Palladio”, nuova serie,
XI, 21, 1998, pp. 103-120.
Bianchi 2001
Lorenzo Bianchi, L’antico bastione sul
Gianicolo di Antonio da Sangallo il
Giovane: mura contese ma poi dimenticate, in “Lazio ieri e oggi”, 37,
2001, pp. 84-86.
Bianchini 1703
Francesco Bianchini, De Kalendario
et cyclo Caesaris ac de Pascali canone
S. Hippolyti martyris dissertationes
duae, Romae 1703.
Bicci 1762
Marco U. Bicci, Notizia della famiglia
Boccapaduli, Roma 1762.
Biondo 1544
Biondo Flavio, Roma Trionfante di
Biondo da Forlì, tradotta pur hora per
Lucio Fauno di latino in buona lingua
volgare, Venetia 1544.
344
Birkedal Hartmann 1967
Jörgen Birkedal Hartmann, La vicenda
di una dimora principesca romana.
Thorvaldsen, Pietro Galli e il demolito
palazzo Torlonia a Roma, Roma 1967.
Bober, Rubinstein, 1986
Phyllis Pray Bober, Ruth Rubinstein,
Renaissance Artists and Antique Sculpture, Oxford 1986.
Bonaccorso 1996
Giuseppe Bonaccorso, I veneziani a
Roma da Paolo II alla caduta della Serenissima: l’ambasciata, le fabbriche,
il quartiere, in Donatella Calabi, Paola Lanaro (a cura di), La città italiana e
i luoghi degli stranieri XIV-XVIII, Roma-Bari 1996, pp. 192-205.
complesso dell’Aracoeli sul Colle Capitolino (IX-XIX secolo), Roma 2000.
Brancia di Apricena 2002
Marianna Brancia di Apricena, Il
quartiere di San Marco a Roma sulla
base della documentazione otto-novecentesca: un’ipotesi ricostruttiva, in
“Bollettino d’Arte”, nuova serie, VI,
LXXXVII, 120, 2002, pp. 21-48.
Brancia di Apricena 2007
Marianna Brancia di Apricena, La casa di Giulio Romano, “Macel de’ Corvi” e la genesi del quartiere di San
Marco tra le preesistenze romane, in
“Bollettino d’Arte”, nuova serie, VI,
XCII, 142, 2007, pp. 103-146.
Bonelli 1964a
Renato Bonelli, Palazzo Farnese, in
Portoghesi, Zevi 1964, pp. 609-650.
Bredekamp 1995
Horst Bredekamp, Michelangelos Modellkritik, in Evers 1995, pp. 116123.
Bonelli 1964b
Renato Bonelli, La piazza capitolina,
in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 425446.
Bredekamp 2005
Horst Bredekamp, La fabbrica di San
Pietro. Il principio della distruzione
produttiva, Torino 2005.
Borgatti 1890a
Mariano Borgatti, Castel Sant’Angelo
in Roma: storia e descrizione, Roma
1890.
Bredekamp 2008
Horst Bredekamp, Zwei Souveräne:
Paul III und Michelangelo. Das “Motuproprio” vom Oktober 1549, in
Satzinger, Schütze 2008, pp. 147157.
Borgatti 1890b
Mariano Borgatti, Le mura di Roma,
Roma 1890.
Borgatti 1931
Mariano Borgatti, Castel Sant’Angelo
in Roma, Roma 1931.
Borromeo 1980
A. Borromeo, voce Cesi, Federico, in
Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. XXIV, Roma 1980, pp. 253-256.
Borsellino 1988
Enzo Borsellino, Palazzo Corsini alla
Lungara. Storia di un cantiere, Fasano
di Puglia 1988.
Breve Guida di Roma 1875
Breve Guida di Roma fatta compilare
dalla Camera di Commercio di Roma,
Roma 1875.
Brodini 2006
Alessandro Brodini, Michelangelo e
la volta della cappella del re di Francia
in San Pietro, in “Annali di Architettura”, 17, 2005 [2006], pp. 115126.
Bösel 1985
Richard Bösel, Jesuitenarchitektur in
Italien (1540-1773), Wien 1985.
Brodini in c.d.s. (a)
Alessandro Brodini, “Carico d’anni e
di pecati pieno”: Michelangelo nel
cantiere della basilica di San Pietro, in
Porre un limite all’infinito errore. Studi in onore di Christof Thoenes, in
c.d.s.
Bottari 1754
Giovanni Gaetano Bottari, Dialoghi
sopra le tre arti del disegno, Lucca
1754.
Brodini in c.d.s. (b)
Alessandro Brodini, Michelangelo a
San Pietro. Progetto, cantiere e funzione delle cupole minori, in c.d.s.
Brancia di Apricena 1997-1998
Marianna Brancia di Apricena, La
committenza edilizia di Paolo III Farnese sul Campidoglio, in “Römisches
Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 32,
1997-1998, pp. 409-478.
Brothers 2002a
Cammy Brothers, Architecture, History, Archeology: Drawing Ancient
Rome in the Letter to Leo X and in Sixteenth-Century Practice, in Lars Jones, Louisa Matthew (a cura di), Coming About… A Festschrift for John
Shearman, Cambridge (Mass.) 2002,
pp. 135-140.
Brancia di Apricena 2000
Marianna Brancia di Apricena, Il
Brothers 2002b
Cammy Brothers, Reconstruction as
Design: Giuliano da Sangallo and the
“palazzo de mecenate” on the Quirinal Hill, in “Annali di Architettura”,
14, 2002, pp. 55-72.
Brothers 2006
Cammy Brothers, Figura e architettura nei disegni di Michelangelo, in
Elam 2006, pp. 81-93.
Brothers 2008
Cammy Brothers, Michelangelo, Drawing, and the Invention of Architecture, London-New Haven 2008.
Brummer 1970
Hans Henrik Brummer, The Statue
Court in the Vatican Belvedere, Stockholm 1970.
Brunetti 2006
Oronzo Brunetti, L’ingegno delle
mura. L’Atlante Lemos della Bibliothèque Nationale de France, Firenze
2006.
Bruschi 1979
Arnaldo Bruschi, Michelangelo in
Campidoglio e l’«invenzione» dell’ordine gigante, in “Storia dell’architettura”, IV, 1, 1979, pp. 7-28.
Bruschi 1983
Arnaldo Bruschi, Una tendenza linguistica “medicea” nell’architettura del
Rinascimento, in Firenze e la Toscana
dei Medici nell’Europa del ’500, a cura
di Giancarlo Carfagnini, atti del convegno internazionale di studi (Firenze,
9-14 giugno 1980), Firenze 1983.
Bruschi 1989
Arnaldo Bruschi, Edifici privati di
Bramante a Roma: palazzo Castellesi
e Palazzo Caprini, in “Palladio”, II, 4,
1989, pp. 5-44.
Bruschi 1990
Arnaldo Bruschi, Bramante, Bari
1990.
Bruschi 1996
Arnaldo Bruschi, L’architettura dei
palazzi romani della prima metà del
Cinquecento, in Gianfranco Spagnesi
(a cura di), Palazzo Mattei di Paganica e l’Enciclopedia Italiana, Roma
1996, pp. 3-109.
Bruschi 1997
Arnaldo Bruschi, S. Pietro: spazi,
strutture, ordini. Da Bramante ad Antonio da Sangallo il Giovane a Michelangelo, in Spagnesi 1997, pp. 177194.
Bruschi 2000
Arnaldo Bruschi, Oltre il Rinasci-
mento: architettura, città, territorio
nel secondo Cinquecento, Milano
2000.
Bruschi 2002
Arnaldo Bruschi (a cura di), Storia
dell’architettura italiana. Il primo
Cinquecento, Milano 2002.
Bruschi 2002a
Arnaldo Bruschi, L’architettura a Roma negli ultimi anni del pontificato di
Alessandro VI Borgia (1492-1503) e
l’edilizia del primo Rinascimento, in
Bruschi 2002, pp. 34-75.
Bruschi 2002b
Arnaldo Bruschi, Introduzione, in
Tuttle et al. 2002, pp. 9-23.
Bruschi 2002c
Arnaldo Bruschi, Roma, dal Sacco al
tempo di Paolo III (1527-50), in Bruschi 2002, pp. 160-207.
Bruschi 2006
Arnaldo Bruschi, Filippo Brunelleschi, Milano 2006.
Bucci 2009
Carlo Alberto Bucci, Palazzo Valentini un affresco racconta le case di Michelangelo, in “la Repubblica - Roma”, 24 giugno 2009, p. 1.
Buddensieg 1969
Tilmann Buddensieg, Zum Statuenprogram in Kapitolsplan Paulus III., in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, XXXII, 1969, pp. 177228.
Buddensieg 1975
Tilmann Buddensieg, Bernardo della Volpaia und Giovanni Francesco
da Sangallo: der Autor des Codex Coner, und seine Stellung im SangalloKries, in “Römisches Jahrbuch für
Kunstgeschichte”, 15, 1975, pp.
89-108.
Buonanni 1699
Filippo Buonanni, Numismata Pontificum Romanorum, Roma 1699.
Buonanni 1706
Filippo Buonanni, Numismata Pontificum Romanorum, Romae 1706.
Burns 1984
Howard Burns, Raffaello e “quell’antiqua architectura”, in Frommel, Ray,
Tafuri 1984, pp. 437-450.
Burns 1988
Howard Burns, Baldassarre Peruzzi
and Sixteenth Century Architectural
Theory, in Jean Guillaume (a cura di),
Les Traités d’architecture de la Renaissance, Paris 1988, pp. 207-226.
Burns 1995
Howard Burns, Building against Time: Renaissance strategies to secure
large churches against changes to their
design, in L’église dans l’architecture
de la Renaissance, a cura di Jean Guillaume, atti del colloquio internazionale (Tours, 28-31 maggio 1990),
Paris 1995, pp. 107-131.
Burns 1998
Howard Burns, Leon Battista Alberti,
in Francesco Paolo Fiore (a cura di),
Storia dell’Architettura italiana. Il
Quattrocento, Milano 1998, pp. 114165.
Burns 2006
Howard Burns, Michelangelo e il disegno di architettura, in Elam 2006, pp.
19-41.
Caglioti 2000
Francesco Caglioti, Donatello e i Medici, 2 voll., Firenze 2000.
Calafati in c.d.s.
Marco Calafati, Michelangelo e il Palazzo Grifoni a San Miniato al Tedesco, in Michelangelo e il linguaggio del
disegno d’architettura, a cura di Alessandro Nova, Golo Maurer, atti del
convegno internazionale (Firenze,
29-31 gennaio 2009), in c.d.s.
Callari 1932
Luigi Callari, I palazzi di Roma e le case di importanza storica e artistica,
Roma 1932.
Calonaci 2002
Stefano Calonaci, voce Grifoni Ugolino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LIX, Roma 2002, pp. 410415.
Burckhardt 1952
Jacob Burckhardt, Il Cicerone. Guida
al godimento delle opere d’arte in
Italia, tradotto da Paolino Mingazzini e Federico Pfister, Firenze
1952.
Cambareri 1990-1992
Marietta Cambareri, A Study in the
16th Century Renovation of Orvieto
Cathedral: the Sacramental Tabernacle
for the High Altar, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”,
15-20, 1990-1992, pp. 617-622.
Burckhardt 1978
Jacob Burckhardt, Der Cicerone, Neudruck der Urausgabe, Stuttgart 1978
[Basel 1855].
Campbell 2004
Ian Campbell (a cura di), Ancient Roman Topography and Architecture, 3
voll., London 2004.
bibliografia
Candilio 1999
Daniela Candilio, voce Thermae Diocletiani, in Lexicon Topographicum
Urbis Romae, vol. V, Roma 1999, pp.
53-58.
cal and Technical Perspectives. Part 1:
Aspects of Historical Usage, in Walter
Strauss, Tracie Felker (a cura di), Drawings Defined, New York 1987, pp.
165-70.
Cangemi 1995
Lidia Cangemi, La basilica di Santa
Maria degli Angeli e dei Martiri alle
Terme diocleziane in Roma: trasformazioni e restauri, tesi di dottorato,
Università degli Studi di Roma “La
Sapienza” (VII ciclo), 1995.
Collareta 1992
Marco Collareta, Intorno ai disegni
murali della Sagrestia Nuova, in Craig
H. Smyth (a cura di), Michelangelo
Drawings, Washington 1992, pp.
163-177.
Cangemi 2002
Lidia Cangemi, La certosa di Roma,
Salzburg 2002.
Canova 1998
Lorenzo Canova, La celebrazione delle arti del pontificato di Paolo III Farnese come nuova età dell’oro, in “Storia dell’Arte”, 1998, 93-94, pp. 217234.
Carpiceci 1991
Alberto C. Carpiceci, Progetti di
Michelangiolo per la Basilica Vaticana, in “Bollettino d’arte”, nuova
serie, VI, LIIVI, 68-69, 1991, pp.
93-106.
Condivi 1553, ed. Davies 2009
Ascanio Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di Charles Davies, Heidelberg 2009.
Condivi 1553, ed. Nencioni 1998
Ascanio Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, a cura di Giovanni
Nencioni, con saggi di Michael Hirst
e Caroline Elam, Firenze 1998.
Conforti 2001
Claudia Conforti, Roma: architettura
e città, in Conforti, Tuttle 2001, pp.
26-65.
Cassini 1779
Giovanni Maria Cassini, Nuova raccolta delle megliori vedute antiche e
moderne di Roma, Roma 1779.
Conforti 2002
Claudia Conforti, Il cantiere di Michelangelo al ponte Santa Maria a Roma
(1548-49), in Donatella Calabi,
Claudia Conforti (a cura di), I ponti
delle capitali europee, Milano 2002,
pp. 74-87.
Catitti 2007
Silvia Catitti, Michelangelo e la monumentalità del ricetto: progetto, esecuzione, interpretazione, in Ruschi
2007, pp. 91-103.
Conforti, Tuttle 2001
Claudia Conforti, Richard J. Tuttle (a
cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Cinquecento, Milano
2001.
Cavalieri 1585
Giovanni Battista [de] Cavalieri, Antiquarum Statuarum Urbis Romae primus et secundus liber, Roma, ed. I,
n.d., ed. II, 1585, in Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), Berolini 1862.
Connors 2004
Joseph Connors, Recensione a Charles Burroughs, The Italian Renaissance palace facade: structures of authority, Cambridge 2002, in “Renaissance Quarterly”, LVII, 1, 2004, pp.
196-199.
Cellini, ed. Milanesi 1857
Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura, edizione a cura di Carlo Milanesi, Firenze 1857.
Chapman 2006
Hugo Chapman, Michelangelo: Closer
to the Master, London 2006.
Cherubini 2003
Laura Caterina Cherubini, Restauri in
Palazzo Farnese a Roma, in Vignola e
i Farnese, a cura di Christoph L.
Frommel, Maurizio Ricci, Richard J.
Tuttle, atti del convegno (Piacenza
18-20 aprile 2002), Milano 2003,
pp. 60-72.
Cohn 1987
Mariorje B. Cohn, Red Chalk: Histori-
Connors, Rice 1991
Joseph Connors, Louise Rice (a cura
di), Specchio di Roma barocca. Una
guida inedita del XVII secolo. Insieme
alle vedute romane di Lievin Cruyl,
Roma 1991.
Contardi 1991
Bruno Contardi, Raffaello da Montelupo a Castel Sant’Angelo. In margine al restauro dell’Angelo in marmo, in “Studi su Castel Sant’Angelo” [Archivum Arcis 3], a cura di Liliana Pittarello, Roma 1991, pp.
167-187.
Contardi 1992
Bruno Contardi, Michelangelo, 1538,
in Maria Elisa Tittoni Monti, Bruno
345
Contardi, Marina Pennini Alessandri, Il restauro del basamento di Michelangelo per Marco Aurelio, in
“Bollettino dei Musei Comunali di
Roma”, nuova serie, VI, 1992, pp.
7-27.
Contardi 1996
Bruno Contardi, Il progetto di Michelangelo, in Il Palazzo dei Conservatori
e il Palazzo Nuovo in Campidoglio.
Momenti di storia urbana di Roma,
Ospedaletto (Pisa) 1996, pp. 51-61.
Contini 1974
Gianfranco Contini, Una lettura su
Michelangelo, in Gianfranco Contini,
Esercizi di lettura: sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi
non contemporanei, Torino 1974, pp.
242-258.
Coolidge 1942
John P. Coolidge, Vignola and the little domes of St. Peter’s, in “Marsyas”,
2, 1942, pp. 63-123.
Coolidge 1945-1947
John P. Coolidge, The arched Loggie
on the Campidoglio, in “Marsyas”, 4,
1945-1947, pp. 69-81.
Cundari 1994
Cesare Cundari (a cura di), Rilievo degli appartamenti papali in Castel
Sant’Angelo, Roma 1994.
D’Onofrio 1970
Cesare D’Onofrio, Il Tevere e Roma,
Roma 1970.
D’Onofrio 1971
Cesare D’Onofrio, Castel Sant’Angelo, Roma 1971.
D’Onofrio 1973
Cesare D’Onofrio, Renovatio Romæ,
Roma 1973.
D’Onofrio 1980
Cesare D’Onofrio, Il Tevere. L’isola tiberina, le inondazioni, i molini, i porti, le rive, i muraglioni, i ponti di Roma, Roma 1980.
D’Orgeix 2001
Émilie D’Orgeix, The Goldschmidt
and Scholz Scrapbooks in the Metropolitan Museum of Art: A Study of
Renaissance Architectural Drawings,
in “Metropolitan Museum Journal”,
36, 2001, pp. 169-206.
Cooper 1994
Tracy E. Cooper, I modani, in Millon,
Magnago Lampugnani 1994, pp. 494498.
Dal Poggetto 1978
Paolo Dal Poggetto, I disegni murali di
Michelangelo e della scuola nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, Firenze
1978.
Corbo 1965
Anna Maria Corbo, Documenti romani su Michelangelo, in “Commentari. Rivista di critica e di storia dell’arte”, XVI, 1-2, 1965, pp. 98-151.
de Angeli 1621
Paolo de Angeli, Basilicae S. Mariae
Maioris de Urbe a Liberio Papa I.
usque ad Paulum V. Pont. Max descriptio et delineatio, Roma 1621.
Corradini 1993
Sandro Corradini, Caravaggio. Materiali per un processo, con la presentazione di Maurizio Marini, Roma
1993.
De Angelis d’Ossat 1964
Guglielmo De Angelis d’Ossat, Michelangelo a Roma, in Strenna dei Romanisti, Roma 1964, pp. 193-204.
Corsi, Ragionieri 2004
Speculum Romanae Magnificentiae.
Roma nell’incisione del Cinquecento, a
cura di Stefano Corsi e Pina Ragionieri, catalogo della mostra (Firenze, 23
ottobre 2004 - 2 maggio 2005), Firenze 2004.
Corti et al. 1981
Giorgio Vasari. Principi, letterati e
artisti nelle carte di Giorgio Vasari, a
cura di Laura Corti et al., catalogo
della mostra (Arezzo, 26 settembre
- 29 novembre 1981), Firenze
1981.
Croce 1933
Benedetto Croce, Poesia popolare e
poesia d’arte: studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Roma-Bari
1933.
346
De Angelis d’Ossat 1965
Guglielmo De Angelis d’Ossat, L’opera michelangiolesca, in Guglielmo De
Angelis d’Ossat, Carlo Pietraneli (a cura di), Il Campidoglio di Michelangelo,
Milano 1965, pp. 23-112.
De Maio 1973
Romeo de Maio, Michelangelo e la
Controriforma, Roma-Bari 1973.
le della Magliana, in “L’arte”, IV, 1516, 1971, pp. 111-173.
De Maio 1981
Romeo De Maio, Michelangelo e la
Controriforma, Roma-Bari 1981.
Di Benedetti 2005
Patrizia Di Benedetti, Stefano Longhi
e il pulpito del Gesù, in Bruno Toscano (a cura di), Arte e immagine del papato Borghese (1605-1621), con la
collaborazione di Beatrice Cirulli e
Federica Papi, San Casciano Val di Pesa 2005, pp. 77-87.
De Maio 1986
Romeo De Maio, Michelangelo e San
Carlo, in “Prospettiva”, 43, 1986, pp.
56-60.
Di Mauro 1988
Leonardo Di Mauro, “Domus Farnesia amplificata est atque exornata”, in
“Palladio”, I, 1, 1988, pp. 27-44.
de Rossi 1713
Gio. Giacomo de Rossi, Disegni di vari altari e cappelle nelle chiese di Roma
con le loro facciate fianchi, piante e
misure de piu celebri architetti, Roma
1713 [Roma 1689].
Discorsi militari 1583
Discorsi militari dell’eccellentissimo
sig. Francesco Maria I della Rovere
duca d’Urbino, Ferrara 1583.
De Maio 1978
Romeo De Maio, Michelangelo e la
Controriforma, Bari 1978.
De Seta, Le Goff 1989
Cesare De Seta, Jacques Le Goff (a cura di), La città e le mura, Roma-Bari
1989.
Della Torre, Schofield 1994
Stefano Della Torre, Richard Schofield, Pellegrino Tibaldi architetto e il
S. Fedele di Milano. Invenzione e costruzione di una chiesa esemplare,
Como 1994.
Deswarte-Rosa 1988-1989
Sylvie Deswarte-Rosa, “Opus Micaelis Angeli”. Le dessin de Michel-Ange de la collection de Francisco de Hollanda, in “Prospettiva”, I, 53-56,
1988-1989, pp. 388-398.
Deswarte-Rosa 1991
Sylvie Deswarte-Rosa, “Idea” et le
Temple de la Peinture. I. Michelangelo
Buonarroti et Francisco de Holanda,
in “Revue de l’Art”, 92, 1991, pp.
20-41.
de Blaauw
Sible de Blaauw, Cultus et decor. Liturgia e architettura nella Roma tardoantica e medievale, 2 voll., Città del
Vaticano 1994.
Deswarte-Rosa 1997
Vittoria Colonna und Michelangelo in
San Silvestro al Quirinale nach den
“Gesprächen” des Francisco de Holanda, in Vittoria Colonna. Dichterin
und Muse Michelangelos, a cura di
Sylvia Ferino-Pagden, catalogo della
mostra (Vienna, 25 febbraio - 25
maggio 1997), Milano 1998 pp.
349-373.
De Carlo, Quattrini 1995
Laura De Carlo, Paola Quattrini, Le
mura di Roma tra realtà e immagine,
Roma 1995.
Deswarte-Rosa 2004
Sylvie Deswarte-Rosa (a cura di), Sebastiano Serlio à Lyon: architecture et
imprimerie, 4 voll., Lyon 2004.
De Falco 2005
Alessandro De Falco (a cura di), Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Incontro di storie, Roma 2005.
Dezzi Bardeschi 1971
Marco Dezzi Bardeschi, L’opera di
Giuliano da Sangallo e di Donato Bramante nella fabbrica della villa papa-
Donati 1942
Ugo Donati, Artisti ticinesi a Roma,
Bellinzona 1942.
Dussler 1959
Luitpold Dussler, Die Zeichnungen
des Michelangelo, Berlin 1959.
Echinger-Maurach 1991
Claudia Echinger-Maurach, Studien
zu Michelangelos Juliusgrabmal, 2
voll., Hildesheim-New York-Zurig
1991.
Echinger-Maurach 2000
Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos Statuen des “Apollo Pubes”
und Raffaels “Apollo Citharoedus” in
der Schule von Athen, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 43, 1999 [2000],
pp. 421-470.
Echinger-Maurach 2006
Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos späte Grabmalskonzeptionen
und ihre Nachfolge, in “Mitteilungen
des Kunsthistorischen Institutes in
Florenz”, 50, 2006, pp. 49-92.
Echinger-Maurach 2008
Claudia Echinger-Maurach, «Stravaganti e bellissimi». Zu Stil und Technik
einiger Architekturzeichnungen Michelangelos in Florenz und Rom, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, 37, 2006 [2008], pp. 85-121.
Echinger-Maurach 2009
Claudia Echinger-Maurach, Michelangelos Grabmal für Papst Julius II.,
München 2009.
Echinger-Maurach in c.d.s.
Claudia Echinger-Maurach, Il riutilizzo dei disegni architettonici di Michelangelo: un fenomeno del suo stile
tardo?, in Michelangelo e il linguaggio
del disegno d’architettura, a cura di
Alessandro Nova, Golo Maurer, atti
del convegno internazionale (Firenze, 29-31 gennaio 2009), in c.d.s.
Ehrle 1911
Francesco Ehrle, La pianta di Roma di
Leonardo Bufalini del 1551: Roma al
tempo di Giulio III, Roma 1911.
Eichberg, Eleuteri 1999
Margherita Eichberg, Francesco
Eleuteri, Il bastione ardeatino, in
“Palladio”, 24, 1999, pp. 5-22.
Eiche 1989
Sabine Eiche, July 1547 in Palazzo
Farnese, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”,
XXXIII, 2-3, 1989, pp. 395-401.
Elam 1981
Caroline Elam, The Mural Drawings
in Michelangelo’s New Sacristy, in
“The Burlington Magazine”, CXXIII,
1981, pp. 593-602.
Elam 2001
Caroline Elam, Design into Architecture, Oxford 2001.
Elam 2002
Caroline Elam, Firenze 1500-1550,
in Bruschi 2002, pp. 208-239.
Elam 2005
Caroline Elam, “Tuscan Dispositions”: Michelangelo’s Florentine Architectural Vocabulary and Its Reception, in “Renaissance Studies”, 19,
2005, pp. 46-82.
Elam 2006
Michelangelo e il disegno di architettura, a cura di Caroline Elam, catalogo della mostra (Vicenza, 17 settembre - 10 dicembre 2006; Firenze, 15
dicembre - 19 marzo 2007), Vicenza
2006.
Elam 2006a
Caroline Elam, Funzione, tipo, e ricezione dei disegni di architettura di Michelangelo, in Elam 2006, pp. 43-74.
Ensoli Vittozzi, Parisi Presicce 1991
Serena Ensoli Vittozzi, Claudio Parisi Presicce, Il reimpiego dell’antico
sul colle capitolino sotto il pontificato
di Sisto V, in Spezzaferro, Tittoni
1991, pp. 85-115.
Evers 1995
Bernd Evers (a cura di), Architekturmodelle der Renaissance, Die Harmonie des Bauens von Alberti bis Michelangelo, München-New York 1995.
Fagiolo 1984
Marcello Fagiolo, Idea degli Horti
bibliografia
farnesiani: «Roma quadrata» e il
«foro della Pace», in Roberto Luciani (a cura di), Giardino. Storia e
conservazione, Roma 1984, pp.
217-226.
Fasolo 1923-1924
Vincenzo Fasolo, La Cappella Sforza
di Michelangelo, in “Architettura e arti decorative”, 3, 1923-1924, pp.
433-454.
al tempo di Paolo III, in Luciano Patetta, Paolo Carpeggiani (a cura di), Il
disegno di architettura, atti del convegno (Milano, 15-18 febbraio 1988),
Milano 1989, pp. 175-180.
Fagiolo 1985
Marcello Fagiolo (a cura di), Roma e
l’antico nell’arte e nella cultura del
Cinquecento, Roma 1985.
Ferrabosco 1684
Martino Ferrabosco, Architettura della Basilica di S. Pietro in Vaticano, Roma 1684.
Fagiolo 2007
Marcello Fagiolo, Vignola: l’architettura dei principi, Roma 2007.
Fagiolo, Madonna 1972
Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, La Roma di Pio IV: la «Civitas
Pia», la «Salus Medica», la «Custodia
Angelica», in “Arte illustrata”, 51,
1972, pp. 383-402.
Ferretti 2004
Emanuela Ferretti, Tra Bindo Altoviti
e Cosimo I: Averardo Serristori, ambasciatore mediceo a Roma, in Ritratto di un banchiere del Rinascimento:
Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini, a
cura di Alan Chong, Donatella Pegazzano, Dimitrios Zikos, catalogo
della mostra (Firenze-Boston, 20032004), Milano 2004, pp. 456-461.
Fiore 1996
Francesco Paolo Fiore, Le porte doriche di Antonio da Sangallo il Giovane
per le fortificazioni di Roma, in Cecil
L. Striker et al. (a cura di), Architectural studies in memory of Richard
Krautheimer, Mainz 1996, pp. 7175.
Fagiolo, Madonna 1973
Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, La Roma di Pio IV: il sistema
dei centri direzionali e la rifondazione
della città, in “Arte illustrata”, 54,
1973, pp. 186-212.
Ferretti 2006
Emanuela Ferretti, Palazzo Pitti
1550-1560: precisazioni e nuove acquisizioni sui lavori di Eleonora di Toledo, in “Opus Incertum”, I, 1, 2006,
pp. 45-56.
Fagiolo, Madonna 1985
Roma 1300-1875. La città degli anni
santi. Atlante, a cura di Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, catalogo
della mostra (Roma, marzo - aprile
1985), Milano 1985.
Ferri, Jacobsen 1904
Pasquale Nerino Ferri, Emile Jacobsen, Nuovi disegni sconosciuti di Michelangelo, in “Rivista d’Arte”, II, 2,
1904, pp. 25-37.
Fairbairn 1998
Lynda Fairbairn (a cura di), Italian
Renaissance Drawings from the Collection of Sir John Soane’s Museum, 2
voll., London 1998.
Falda 1665-1669
Giovanni Battista Falda, Il Nuovo
Teatro delle fabbriche et edifici fatte
fare in Roma e fuori, 4 voll., Giovanni Giacomo Rossi, Roma 16651699.
Fancelli 1985
Paolo Fancelli, Demolizioni e ‘restauri’ di antichità nel Cinquecento, in Fagiolo 1985, pp. 357-403.
Fanucci 1601
Camillo Fanucci, Trattato di tutte
l’opere pie dell’alma città di Roma,
Roma 1601.
Fara 1997
Amelio Fara, La chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Roma nell’architettura di Michelangelo, in “Dialoghi di storia dell’arte”, 4-5, 1997,
pp. 34-59.
Farina 1996
Gennaro Farina (a cura di), Palazzo
Valentini, presentazione di Giulio
Carlo Argan, Roma 1996.
Ferri, Jacobsen 1905
Pasquale Nerino Ferri, Emile Jacobsen, Dessins inconnus de Michel-Ange
récemment découverts aux Offices de
Florence, Leipzig 1905.
Ferroni, Sacco 1989
Angela Maria Ferroni, Francesco Sacco, Il basamento di Marco Aurelio.
Una lettura archeologica, in Melucco
Vaccaro, Sommella 1989, pp. 195204.
Ferrucci 1588
Andrea Fulvio, Le antichità di Roma,
a cura di Girolamo Ferrucci, Francini,
Venezia 1588.
Fichard 1815
Johannes Fichard, Italia: observationes antiquitatum et aliarum rerum
memorabilium quae Romae videntur
collectae per me Johannem Fichardum J. C. in eadem urbe Mense VIIbri
et VIIIbri Anno MDXXXVI, a cura di
Baur von Eyseneck, in “Frankfürtisches Archiv für ältere Deutsche Literatur und Geschichte”, III, 1815, pp.
3-130.
Fiore 1989
Francesco Paolo Fiore, Rilievo topografico e architettura a grande scala
nei disegni di Antonio da Sangallo il
Giovane per le fortificazioni di Roma
Fiore 2001
Francesco Paolo Fiore, Introduzione,
in Sebastiano Serlio, L’Architettura: i
libri 1.-7 e Extraordinario nelle prime
edizioni, a cura di Francesco Paolo
Fiore, 2 voll., Milano 2001, vol. I, pp.
11-54.
Fiore 2002a
Francesco Paolo Fiore, L’architettura
come baluardo, in Walter Barberis (a
cura di), Guerra e pace, “Storia d’Italia”, Annali vol. 18, Torino 2002, pp.
123-165.
Fiore 2002b
Francesco Paolo Fiore, Roma, le diverse maniere, in Bruschi 2002, pp.
132-159.
Fiore 2005
Francesco Paolo Fiore, Leon Battista
Alberti a Roma, in La Roma di Leon
Battista Alberti: umanisti, architetti e
artisti alla scoperta dell’antico nella
città del Quattrocento, a cura di Francesco Paolo Fiore, Arnold Nesselrath,
catalogo della mostra (Roma, 24 giugno - 16 ottobre 2005), Milano 2005.
Fontana 1694
Carlo Fontana, Templum Vaticanum
et ipsius origo, Roma 1694.
Fontana 1838
Giacomo Fontana, Raccolta degli migliori chiese di Roma, Roma 1838.
Forcella 1869-1884
Vincenzo Forcella, Iscrizioni delle
chiese e d’altri edifici di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, Roma
1869-1884.
Forcellino (Maria) 2002
Maria Forcellino, Il restauro della
tomba di Giulio II a S. Pietro in Vincoli: una nuova lettura del monumento e
del Mosè, in “Incontri”, 17, 2002, pp.
43-60.
Forcellino 2002
Antonio Forcellino, Michelangelo
Buonarroti. Storia di una passione
eretica, Torino 2002.
347
Forcellino 2003
Antonio Forcellino, Le statue della
tomba di Giulio II, in “Monumenti di
Roma”, 1, 2003, pp. 145-149.
Forcellino 2005
Antonio Forcellino, Michelangelo.
Una vita inquieta, Roma-Bari 2005.
Forlani Tempesti 1984
Raffaello e Michelangelo, a cura di
Anna Forlani Tempesti, catalogo della mostra (Firenze, 21 gennaio - 30
aprile 1984), Firenze 1984.
Forssman 1988
Erik Forssman, Dorico Ionico Corinzio nell’architettura del Rinascimento,
Roma-Bari 1988.
Förster 1956
Otto Förster, Bramante, Wien-München 1956.
Foscolo, ed. Orlandini, Mayer 1940
Saggi di critica storico-letteraria, raccolti e ordinati da F. S. Orlandini, E.
Mayer, in Opere edite e postume di
Ugo Foscolo, 12 voll., Firenze 1940,
vol. X, pp. 333-344.
Fossi 1967
Mazzino Fossi, Bartolomeo Ammannati architetto, Napoli 1967.
Fossi 1970
Bartolomeo Ammannati, La Città.
Appunti per un trattato, a cura di
Mazzino Fossi, Roma 1970.
Franchetti Pardo 1994
Vittorio Franchetti Pardo, Storia dell’urbanistica. Dal Trecento al Quattrocento, Roma-Bari 1994.
Francia 1977
Ennio Francia, 1506-1606 Storia
della costruzione del nuovo San Pietro, Roma 1977.
Francia 1993
Ennio Francia, Le «Benfinite» di Michelangelo, in Strenna dei Romanisti,
MMDCCXLVI, 1993, pp. 145-148.
Franzini 1588
Girolamo Franzini, Le Cose Meravigliose Dell’Alma Città di Roma, Anfiteatro Del Mondo: Con Le Chiese, Et
Antichità rapresentate in disegno da
Girolamo Francino, Roma 1588.
Fratarcangeli 1999
Margherita Fratarcangeli, Il trasferimento a Roma degli architetti di Viggiù: Martino e Onorio Longhi, Flaminio Ponzio, in Il giovane Borromini.
Dagli esordi a San Carlo alle Quattro
Fontane, a cura di Manuela KahnRossi, Marco Franciolli, catalogo del-
348
la mostra (Lugano, 5 settembre - 14
novembre 1999), Milano 1999, pp.
259-272.
Fratarcangeli 2000
Margherita Fratarcangeli, Presenze
“lombarde” a Roma (1555-1620).
Committenti e maestranze dalla “regione dei laghi”, tesi di dottorato,
Università degli Studi di Roma Tre
(XI ciclo), 2000.
Fratarcangeli 2003
Margherita Fratarcangeli, Le maestranze d’arte provenienti dalla ‘regione dei laghi’: presenze a Roma tra
Cinquecento e Seicento, in “Arte
Lombarda”, 137, 1, 2003, pp. 90107.
Fratarcangeli 2006
Margherita Fratarcangeli, “In Rione
Monti, apud via Alessandrina…”: mestieri, case e botteghe (secc. XVI-XVII),
in Toscano 2006, pp. 153-172.
Freiberg 1991
Jack Freiberg, The Lateran Patronage
of Gregory XIII and the Holy Year
1575, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 54, 1991, pp. 66-87.
Frey 1899
Karl Frey (a cura di), Sammlung
Ausgewählter Briefe an Michelagniolo Buonarroti. Nach den Originalen des Archivio Buonarroti, Berlin 1899.
Frey 1907
Karl Frey, Die Briefe des Michelagniolo Buonarroti, Berlin 1907.
Frey 1909
Karl Frey, Studien zu Michelangiolo
Buonarroti und Kunst seiner Zeit. Die
Fabbrica di San Pietro, in “Jahrbuch
der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, 30, 1909, pp. 103180.
Frey 1909-1911
Karl Frey, Die Handzeichnungen Michelagniolos Buonarroti, 3 voll., Berlin 1909-1911.
Frey 1911
Karl Frey, Zur Baugeschichte des St.
Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen
Kunstsammlungen”, 31, 1911, pp.
1-95.
Frey 1913
Karl Frey, Zur Baugeschichte des St.
Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in “Jahrbuch der Königlich Preußischen
Kunstsammlungen”, 33, 1913.
Frey 1916
Karl Frey, Zur Baugeschichte des St.
Peter. Mitteilungen aus der Reverendissima Fabbrica di S. Pietro, in
“Jahrbuch der Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, supplemento al n. XXXVII, 1916, pp.
22-136.
Frey 1920
Dagobert Frey, Michelangelo-Studien, Vienna 1920.
Frey 1923-1940
Karl Frey, Giorgio Vasari Der Literarische Nachlass, 3 voll., München
1923-1940.
Freyberger 1990
Klaus S. Freyberger, Stadtrömische
Kapitelle aus der Zeit von Domitian
bis Alexander Severus. Zur Arbeitsweise und Organisation stadtrömischer Werkstätten der Kaiserzeit,
Maiz 1990.
Frommel 1962
Christoph L. Frommel, S. Caterina
alle Cavallerotte. Un possibile contributo alla tarda attività romana di
Giuliano da Sangallo, in “Palladio”,
XII, 1-4, 1962, pp. 18-25.
Frommel 1964
Christoph L. Frommel, Antonio da
Sangallos Cappella Paolina. Ein Beitrag zur Baugeschichte des Vatikanischen Palastes, in “Zeitschrift für
Kunstgeschichte”, 27, 1964, pp. 142.
Frommel 1973
Christoph L. Frommel, Der Römische
Palastbau der Hocrenaissance, 3 voll.,
Tübingen 1973.
Frommel 1994a
Christoph L. Frommel, Abitare all’antica: il palazzo e la villa da Brunelleschi a Palladio, in Millon, Magnago
Lampugnani 1994, pp. 183-204.
Frommel 1994b
Christoph L. Frommel, Michelangelo
e il sistema architettonico della volta
della Cappella Sistina, in Michelangelo. La Cappella Sistina: documentazione e interpretazioni, a cura di Kathleen Weil, Garris Brandt, atti del
convegno internazionale di studi
(Città del Vaticano, marzo 1990), 3
voll., Novara 1994, vol. III, pp. 135139.
Frommel 1994c
Christoph L. Frommel, Palazzo Farnese a Roma: l’architetto e il suo committente, Vicenza 1994.
Frommel 1994d
Christoph L. Frommel, San Pietro, in
Millon, Magnago Lampugnani 1994,
pp. 399-423.
Frommel 1997a
Christoph L. Frommel, Michelangelos Treppe im Cortile del Belvedere, in
G. Erath, M. Lehner, G. Schwarz (a
cura di), KOSMOS - Festschrift für
Thuri Lorenz zum 65. Geburtstag,
Wien 1997, pp. 249-261.
Frommel 1997b
Christoph L. Frommel, Il palazzo dei
Conservatori: forma e struttura, in
Tittoni 1997, pp. 21-30.
Frommel 2002a
Christoph L. Frommel, La città come
opera d’arte: Bramante e Raffaello
(1500-20), in Bruschi 2002, pp. 76131.
Frommel 1974
Christoph L. Frommel, Il Palazzo dei
Tribunali in Via Giulia, in Studi Bramanteschi, Roma 1974, pp. 523534.
Frommel 2002b
Christoph L. Frommel, Giovanni dei
Fiorentini, in Tuttle et al. 2002, pp.
244-247.
Frommel 1976
Christoph L. Frommel, Die Peterskirche unter Papst Julius II. im Licht neuer Dokumente, in “Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 16,
1976, pp. 57-137.
Frommel 2006
Christoph L. Frommel, Raffaele Riario, committente della Cancelleria, in
Christoph L. Frommel, Architettura
a committenza da Alberti a Bramante, Firenze 2006, pp. 395-426.
Frommel 1981
Christoph L. Frommel, Sangallo et
Michel-Ange (1513-1550), in Le palais Farnèse, 3 voll., Roma 1981, vol.
I, pp. 127-224.
Frommel 2007
Christoph L. Frommel, The architecture of the Italian Renaissance, London 2007.
Frommel 1984
Christoph L. Frommel, San Pietro.
Storia della sua costruzione, in
Frommel, Ray, Tafuri 1984, pp.
241-310.
Frommel, Adams 1994
Christoph L. Frommel, Nicholas
Adams (a cura di), The Architectural
Drawings of Antonio da Sangallo the
Younger and His Circle, Fortifications,
Machines, and Festival Architecture,
vol. I, Cambridge (Mass.)-London
1994.
Frommel, Adams 2000
Christoph L. Frommel, Nicholas
Adams (a cura di), The Architectural
Drawings of Antonio da Sangallo the
Younger and His Circle, Churches, Villas, the Pantheon, tombs, and ancient
Inscriptions, vol. II, Cambridge
(Mass.)-London 2000.
Frommel, Ray, Tafuri 1984
Christoph L. Frommel, Stefano Ray,
Manfredo Tafuri, Raffaello architetto,
la sezione Raffaello e l’antico è curata
da Howard Burns e Arnold Nesselrath, Milano 1984.
Frutaz 1962
Amato P. Frutaz (a cura di), Le piante
di Roma, 3 voll., Roma 1962.
Fumagalli 2001
Elena Fumagalli, La committenza
cardinalizia a Roma, in Conforti,
Tuttle 2001, pp. 94-107.
chelagnolo Buonarroti (Continuazione e fine), in “Il Buonarroti”, X,
1866, pp. 204-207.
Gaudioso 1976
Michelangelo e l’edicola di Leone X, a
cura di Eraldo Gaudioso, catalogo
della mostra (Roma, 1975-1976),
Roma 1976.
Gaye 1839-1840
Johannes W. Gaye, Carteggio inedito
d‘artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Pubblicato ed illustrato con documenti
inediti, 3 voll., Firenze 1839-1840.
Gere, Pouncey 1983
John A. Gere, Philip Pouncey, Italian drawings in the Department of
Prints and Drawings in the British
Museum, Artists working in Rome, c.
1550 to c. 1640, with the assistance
of Rosalind Wood, 2 voll., London
1983.
re Ugolino, in Bartolomeo Ammannati
Scultore e Architetto 1511-1592, a cura di Niccolò Rosselli Del Turco, Federica Salvi, atti del convegno di studi
(Firenze-Lucca 17-19 marzo 1994),
Firenze 1995, pp. 297-303.
Giovannoni 1959
Gustavo Giovannoni, Antonio da
Sangallo il Giovane, 2 voll., Roma
1959.
Girardi 1974
Enzo Noè Girardi, Studi su Michelangiolo scrittore, Firenze 1974.
Giuliano 1955
Antonio Giuliano (a cura di), Arco di
Costantino, Milano 1955.
Giussano 1613
Giovanni Pietro Giussano, Vita di
San Carlo Borromeo, Venezia 1613.
Giustozzi 2003
Nunzio Giustozzi (a cura di), Guida
di Castel Sant’Angelo, Milano 2003.
Geymüller 1885
Heinrich Geymüller, Documents inédits sur les manuscrits et les œuvres
d’architecture de la famille des San
Gallo ainsi que sur plusieurs monuments de l’Italie, Paris 1885.
Gnoli 1991
Raniero Gnoli, Marmora Romana,
Roma 1991.
Gamrath 1976
Helge Gamrath, Pio IV e l’Urbanistica di
Roma intorno al 1560, in Studia Romana in Honorem Petri Krarup septuagenarii, Odense 1976, pp. 190-203.
Ghisetti Giavarina 1990
Adriano Ghisetti Giavarina, Aristotile da Sangallo: architettura, scenografia e pittura tra Roma e Firenze nella
prima metà del Cinquecento. Ipotesi
di attribuzione dei disegni raccolti agli
Uffizi, Roma 1990.
Gori 1875
Fabio Gori, Aneddoti e lavori di Michelangelo Buonarroti ignoti ai biografi, in “Archivio Storico Artistico,
archeologico e letterario della città e
della provincia di Roma”, I, 1, 1875,
pp. 5-12.
Gamucci 1565
Bernardo Gamucci, [Libri Quattro]
Dell’Antichità Della Città Di Roma,
Venetia 1565.
Giess 1994
Hildegard Giess, Castro and Nepi, in
Frommel, Adams 1994, vol. I., pp.
75-80.
Gorni et al. 2001
Poeti del Cinquecento. I. Poeti lirici,
burleschi, satirici e didascalici, a cura
di Guglielmo Gorni et al., MilanoNapoli 2001.
Gasparoni 1865a
Benvenuto Gasparoni, Documento
inedito sopra la casa di Michelangelo
Buonarroti, in “Arti e Lettere”, II, 42,
1865, pp. 265-269.
Gilio 1986
Giovanni Andrea Gilio, Due dialogi,
Firenze 1986 [Camerino 1564].
Fusco 1982
Laurie Fusco, The Use of Sculptural
Models by Painters in Fifteenth Century Italy, in “Art Bulletin”, 64,
1982, pp. 175-194.
Gasparoni 1865b
Benvenuto Gasparoni, Notizie della
casa di Michelagnolo Buonarroti, in
“Arti e Lettere”, II, 43, 1865, pp.
282-285.
Gasparoni 1866a
Benvenuto Gasparoni, La casa di Michelagnolo Buonarroti, in “Il Buonarroti”, VIII, 1866, pp. 158-164.
Gasparoni 1866b
Benvenuto Gasparoni, La casa di Michelagnolo Buonarroti (Continuazione), in “Il Buonarroti”, IX, 1866, pp.
177-180.
Gasparoni 1866c
Benvenuto Gasparoni, La casa di Mi-
bibliografia
Giner Guerri 1975
Severino Giner Guerri, Juan Bautista
de Toledo y Miguel Angel en el Vaticano, in “Goya”, 126, 1975, pp. 351359.
Gioseffi 1964a
Decio Gioseffi, Porta Pia, in Portoghesi, Zevi 1964, pp. 725-736.
Gioseffi 1964b
Decio Gioseffi, San Giovanni dei Fiorentini, in Portoghesi, Zevi 1964, pp.
651-669.
Giovannini, Primi, Presciutti 1995
Prisca Giovannini, Carolina Primi,
Cristina Presciutti, Bartolomeo Ammannati nella fabbrica di Palazzo Grifoni a Firenze: una ricognizione nel libro dei debitori e creditori di Monsigno-
gen der Herzöge von Urbino: II, Michelangelo, in “Jahrbuch der K. Preußischen Kunstsammlungen”, XXVII,
1906, pp. 12-44.
Gronau 1918
Gerog Gronau, Über zwei Skizzenbücher des Guglielmo Della Porta in der
Düsseldorfer Kunstakademie, in “Jahrbuch der Königlich Preuszischen
Kunstsammlungen”, 39, 1918, pp.
171-200.
Grossi, Residori 2005
Michelangelo: poeta e artista, a cura di
Paolo Grossi, Matteo Residori, atti
della giornata di studi (Parigi, 21
gennaio 2005), Paris 2005.
Guasti 1863
Cesare Guasti, Le rime di Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore e architetto, Firenze 1863.
Guerrieri 1988
Francesco Gurrieri, L’architettura, in
Francesco Guerrieri, Luciano Berti,
Claudio Leonardi (a cura di), La basilica di San Miniato al Monte a Firenze,
Firenze 1988, pp. 13-127.
Guglielmotti 1880
Alberto Guglielmotti, Storia delle
fortificazioni nella spiaggia romana:
risarcite e accresciute dal 1560 al
1570, Roma 1880.
Guglielmotti 1887
Alberto Guglielmotti, Storia delle
fortificazioni nella spiaggia romana:
risarcite e accresciute dal 1560 al
1570, Roma 1887.
Gorni, Danzi, Longhi 2001
Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, in Gugliemo Gorni, Massimo
Danzi, Silvia Longhi (a cura di), Poeti
del Cinquecento, Milano 2001.
Guidi Bruscoli 2006
Francesco Guidi Bruscoli, San Giovanni dei Fiorentini a Roma. Due secoli di finanziamenti tra pontefici e
granduchi, prelati e mercatanti, in
“Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, 86, 2006, pp. 294-320.
Gotti 1876
Aurelio Gotti, Vita di Michelangelo
Buonarroti narrata con l’aiuto di
nuovi documenti, 2 voll., Firenze
1876.
Günther 1988
Hubertus Günther, Das Studium der
antiken Architektur in den Zeichnungen der Hochrenaissance, Tübingen
1988.
Grimaldi 1972
Giacomo Grimaldi, Descrizione della
Basilica antica di San Pietro in Vaticano, Cod. Barb. lat. 2733, a cura di Reto Niggl, Città del Vaticano 1972.
Günther 1990
Hubertus Günther, Ein Entwurf Baldassarre Peruzzis für ein Architekturtraktact, in “Römisches Jahrbuch der
Bibliotheca Hertziana”, 26, 1990,
pp. 135-170.
Grimm 1901
Herman Grimm, Leben Michelangelos, 2 voll., Berlin-Stuttgard 1901.
Gronau 1906
Georg Gronau, Die Kunstbestrebun-
Günther 1994
Hubertus Günther, Storia della costruzione di San Giovanni dei Fiorentini, in Millon, Magnago Lampugnani
1994, pp. 552-562.
349
Günther 2001
Hubertus Günther, Die Planung von
S. Giovanni dei Fiorentini im Wettstreit zwischen fürstlichen Mäzenen
und bürgerlichen Auftraggebern, in
Klaus Bergdolt, Giorgio Bonsanti (a
cura di), Opere e giorni. Studi su mille anni di arte europea dedicati a
Max Seidel, Venezia 2001, pp. 451464.
Günther 2002
Hubertus Günther, Gli studi antiquari per l’“Accademia della Virtù”, in
Tuttle et al. 2002, pp. 126-128.
Günther 2006
Hubertus Günther, Michelangelo’s
works in the eyes of his contemporaries, in Thomas Frangenberg, Robert
J. Williams (a cura di), The beholder:
the experience of art in early modern
Europe, Aldershot 2006, pp. 53-85.
Güthlein 1985
Klaus Güthlein, Der ‘Palazzo Nuovo’
des Kapitols, in “Römisches Jahrbuch
für Kunstgeschichte”, 22, 1985, pp.
83-190.
Hager 2003
Hellmut Hager, Carlo Fontana, in
Aurora Scotti Tosini (a cura di), Storia dell’Architettura Italiana. Il Seicento, Milano 2003, pp. 238-261.
Hale 1968
John Rigby Hale, The End of Florentine Liberty: The Fortezza da Basso, in
Nicolai Rubinstein (a cura di), Florentine Studies: politics and society in
Renaissance Florence, London 1968,
pp. 501-532.
Harprath 1985
Richard Harprath, La formazione
umanistica di papa Paolo III e le sue
conseguenze nell’arte romana della
metà del Cinquecento, in Fagiolo
1985, pp. 63-85.
Helbig 1966
Wolfgang Helbig, Führer durch die
öffentlichen Sammlungen klassischer
Altertümer in Rom, edizione a cura di
Hermine von Speier, 2 voll., Tübingen 1966.
Hemsoll 2003
David Hemsoll, The Laurentian Library and Michelangelo’s Architectural Method, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”,
LXVI, 2003, pp. 29-62.
Hess 1961
Jacob Hess, Die päpstliche Villa bei
Araceli, in “Miscellanea Bibliothecae
Hertzianae zu Ehren von Leo
Bruhns, Franz Graf, Wolff Metternich, Ludwig Schudt”, 16, 1961, pp.
239-254.
Heydenreich, Lotz 1974
Ludwig H. Heydenreich, Wolfgang
Lotz, Architecture in Italy 14001600, Harmondsworth 1974.
Hibbard 1975
Howard Hibbard, Michelangelo, London 1975.
Hibbard 1985
Howard Hibbard, Michelangelo, New
York 1985.
Hirst 1963
Michael Hirst, Michelangelo drawings in Florence, in “The Burlington
Magazine”, CV, 1963, pp. 166-171.
Hirst 1974
Michael Hirst, A Note on Michelangelo and the Attic of St. Peter’s, in “The
Burlington Magazine”, CXVI, 1974,
pp. 662-665.
Hirst 1988a
Michelangelo Draftsman, a cura di
Michael Hirst, catalogo della mostra
(Washington, 9 ottobre - 12 dicembre), Milano 1988.
Haskell, Penny 1981
Francis Haskell, Nicholas Penny, Taste and the Antique, New HavenLondon 1981.
Hirst 1988b
Michael Hirst, Michelangelo and His
Drawings, New Haven-London 1988.
Haskell, Penny 1984
Francis Haskell, Nicholas Penny, L’antico nella storia del gusto, Torino 1984.
Hirst 1993
Michael Hirst, Michelangelo, i disegni,
Torino 1993.
Hatfield 2002
Rab Hatfield, The wealth of Michelangelo, Roma 2002.
Hogg 1984
James Hogg, The Charterhouse of Rome, Salzburg 1984.
Hedberg 1972
Gregory Hedberg, The Farnese courtyard windows and the Porta Pia: Michelangelo’s creative process, in “Marsyas”, 15, 1970-1972 (1972), pp.
63-72.
Hübner 1912
Paul Gustav Hübner, Le statue di Roma, Leipzig 1912.
350
Huelsen 1910
Cristiano Huelsen, Il libro di Giuliano
da Sangallo. Codice Barberiniano Latino 4424, 2 voll., Leipzig 1910.
1980, in “The Art Bulletin”, 63,
1981, p. 686.
Hülsen 1927
Christian Hülsen, Le chiese di Roma
nel Medioevo, Firenze 1927.
Joannides 1981b
Paul Joannides, recensioni a Rudolf
Wittkower, Idea and Image. Studies
in the Italian Renaissance e a Johannes Wilde, Michelangelo. Six Lectures, in “The Burlington Magazine”,
CXXIII, 943,1981, pp. 620-622.
Hunter 1996
John Hunter, Girolamo Siciolante pittore da Sermoneta (1521-1575), Roma 1996.
Huppert 2008
Anne Clare Huppert, Mapping ancient Rome in Bufalini’splan and in
sixteenth-century drawings, in “Memories of American Academy in Rome”, LIII, 2008, pp. 79-98.
Huppert 2009
Anne Clare Huppert, Envisioning
New St. Peter’s: Perspectival Drawings and the Process of Design, in
“Journal of the Society of Architectural Historians”, LXVIII, 2, 2009,
pp. 158-177.
Ingersoll 1985
Richard Joseph Ingersoll, The Ritual
Use of Public Space in Reinassance
Rome, tesi di dottorato, Berkeley
University of California, 1985.
Insolera 1985
Italo Insolera, Le città nella storia
d’Italia. Roma, Roma-Bari 1985.
Ippoliti 1999
Alessandro Ippoliti, Il Complesso di
San Pietro in Vincoli e la committenza
della Rovere (1467-1520), in “Arte e
storia”, 6, 1999, pp. 12-16.
Israëls 2008
Machtelt Israëls, Al cospetto della città. Sodoma a Porta Pispini e la tradizione pittorica delle porte urbiche di
Siena, in L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Arti, cultura e società, a
cura di Mario Ascheri, Gianni Mazzoni, Fabrizio Nevola, atti del convegno internazionale (Siena, 28-30 settembre 2003; 16-18 settembre
2004), Siena 2008, pp. 367-384.
Jedin 1949-1975
Hubert Jedin, Geschichte des Konzils
von Trient, 4 voll., Freiburg, Basel,
Wien 1949-1975.
Joannides 1978
Paul Joannides, recensione a Charles
de Tolnay, Disegni di Michelangelo
nelle collezioni italiane, in “The Art
Bulletin”, 60, 1978, pp. 174-177.
Joannides 1981a
Paul Joannides, recensione a Charles
de Tolnay, Corpus dei Disegni di Michelangelo, 4 voll., Novara 1975-
Joannides 2003
Paul Joannides, Dessins italiens du
Musée du Louvre. Michel-Ange. Élèves
et copistes, Paris 2003.
Joannides 2007
Paul Joannides, The Drawings of Michelangelo and His Followers in the
Ashmolean Museum, CambridgeNew York 2007.
Jobst 1986
Christoph Jobst, S. Maria di Loreto a
Roma, opera di Antonio da Sangallo il
Giovane. L’origine e lo sviluppo del
“tipo di pianta centrica in un perimetro quadrato”, in Spagnesi 1986, pp.
277-285.
Kaiser 1979
Joachim Kaiser, Beethovens 32 Klaviersonaten, Frankfurt 1979.
Karmon 2008
David Karmon, Michelangelo’s “Minimalism” in the Design of Santa Maria degli Angeli, in “Annali di architettura”, 20, 2008, pp. 141-152
Keller 1976
Fritz E. Keller, Zur Plannung am Bau
der römischen Peterskirche im Jahre
1564-1565, in “Jahrbuch der Berliner Museen”, XVIII, 1976, pp. 2456.
Kersting 1994
Markus Kersting, San Giovanni dei
Fiorentini in Rom und die Zentralbauideen des Cinquecento, Worms
1994.
Kiene 1995
Michael Kiene, Bartolomeo Ammannati, Milano 1995.
Krautheimer 1980
Richard Krautheimer, Rome. Profile
of a City 312-1308, Princeton 1980.
Krieg 2003
Stefan W. Krieg, Das Architekturdetail bei Michelangelo: Studien zu seiner
Entwicklung bis 1534, in “Römisches
Jahrbuch für Kunstgeschichte”, 33,
1999-2000 [2003], pp. 101-258.
Kummer 1987
Stefan Kummer, Anfänge und Au-
sbreitung der Stuckdekoration im römischen Kirchenraum (1500-1600),
Tübingen 1987.
Kuntz 2003
Margaret Kuntz, Designed for Ceremony: The Cappella Paolina at the Vatican Palace, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, 62,
2003, pp. 228-255.
Künzle 1956
Paul Künzle, recensione di Herbert
Siebenhüner, Das Kapitol in Rom, in
“Mitteilungen des Instituts für
Österreichische
Geschichtsforschung”, LXI, 1956, pp. 349-351.
Künzle 1961
Paul Künzle, Die Aufstellung des
Reiters vom Lateran durch Michelangelo, in “Miscellanea Bibliothecae Hertzianae zu Ehren von Leo
Bruhns, Franz Graf, Wolff Metternich, Ludwig Schudt”, 16, 1961, pp.
255-270.
Künzle 1961
Paul Künzle, Die Aufstellung des Reiters von Lateran durch Michelangelo,
in “Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana”, XVI,1961, pp.
255-270.
Labacco 1552
Libro d’Antonio Labacco appartenente a l’architettura nel qual si figurano
alcune notabili antiquita di Roma,
Roma 1552.
La Cava 1925
Francesco La Cava, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio finale.
Un dramma psicologico in un ritratto
simbolico, Bologna 1925.
Lanciani 1906
Rodolfo Lanciani, The golden days of
the Renaissance Rome. From the Pontificate of Julius II to that of Paul II,
Boston-New York 1906.
Überlieferung in der Kunst des Abendlandes, a cura di Florens Deuchler,
atti del XXI congresso di storia dell’arte (Bonn, 14-19 settembre 1964),
3 voll., Berlin 1967, II vol., pp. 1219.
Lanciani 1988-2002
Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di
Roma e notizie intorno le collezioni
romane di antichità, a cura di Paola
Pellegrino, 7 voll., Roma 19882002.
Lotz 1981
Wolfgan Lotz, Vignole et Giacomo
della Porta (1550-1589), in Le palais
Farnèse, 3 voll., Roma 1981, vol. I,
pp. 225-241.
Lange 1990
Bente Lange, La facciata di Palazzo
Farnese incompiuta?, in “Analecta
Romana Instituti Danici”, XIX,
1990, pp. 253-261.
Lugli, Gismondi 1949
Giuseppe Lugli, Italo Gismondi, Forma Urbis Romae imperatorum aetate. Delineaverunt Josephus Lugli et
Italus Gismondi, Novara 1949.
Lecchini Giovannoni 1991
Simona Lecchini Giovannoni, Alessandro Allori, Torino 1991.
Lynch 2006
Kevin Lynch, L’immagine della città,
Venezia 2006.
Lemerle 1997
Frédérique Lemerle, Livre de dessins
de Michel-Ang, in Barbara Brejon de
Lavergnée (a cura di), Catalogue des
dessins italiens: collections du Palais
des Beaux-Arts de Lille, Paris 1997,
pp. 283-289.
Mackowsky 1925
Hans Mackowsky, Michelangelo, Berlin 1925.
Lerza 2002
Gianluigi Lerza, L’architettura di
Martino Longhi il Vecchio, Roma
2002.
Letarouilly 1840-1857
Paul M. Letarouilly, Edifices de Rome
Moderne, ou Recueil des palais, maisons, églises, couvents, et autres monuments publics et particulières les
plus remarquables de la ville de Rome,
4 voll., Parigi 1840-1857.
Maggi, Castriotto 1583
Girolamo Maggi, Jacomo Castriotto,
Della fortificatione delle città, Venezia 1583.
Magnani Cianetti 2000
Marina Magnani Cianetti, Il chiostro
michelangiolesco dell’ex certosa di
Santa Maria degli Angeli a Roma, in
“Bollettino d’arte”, 114, 2000, pp.
131-152.
Magnuson 1954
Torgil Magnuson, The project of Nicholas V for rebuilding the Borgo Leonino in Rome, in “Art Bulletin”, 36,
1954, pp. 89-115.
La Rocca 1986
Eugenio La Rocca (a cura di), Rilievi
storici capitolini, Roma 1986.
Ligorio 1553
Pirro Ligorio, Libro di Pyrrho Ligori
Napolitano, delle antichità di Roma,
nel quale si tratta de’ circi, theatri, &
anfitheatri, Venetia 1553.
Manetti 1980
Renzo Manetti, Michelangiolo: le fortificazioni per l’assedio di Firenze, Firenze 1980.
Lamberti, Riopelle 1996
Michelangelo e l’Ottocento: Rodin e
Michelangelo, a cura di Maria Mimita
Lamberti e Christopher Riopelle, catalogo della mostra (Firenze, 11 giugno - 16 settembre), Milano 1996.
Lingohr 1997
Michael Lingohr, Der Florentiner Palastbau der Hochrenaissance. Der Palazzo Bartolini Salimbeni in seinem
historischen und architekturgeschichtlichen Kontext, Worms 1997.
Marani 1984
Disegni di fortificazioni da Leonardo
a Michelangelo, a cura di Pietro C.
Marani, catalogo della mostra (Firenze, 27 ottobre 1984 - 28 febbraio
1985), Firenze 1984.
Lanciani 1883
Rodolfo Lanciani, Il Codice barberiniano XXX, 89, contenente frammenti di una descrizione di Roma del
secolo XVI, in “Archivio della Società
Romana di Storia Patria”, VI, 1883,
pp. 223-240, 445-496.
Locatelli 1750
Giampietro Locatelli, Museo Capitolino, o sia Descrizione delle statue, busti, bassirilievi, urne sepolcrali, iscrizioni ed altre ammirabili ed erudite
antichita, che si custodiscono nel Palazzo alla destra del Senatorio vicino
alla chiesa d’Araceli in Campidoglio,
Roma 1750.
Marani 1985
Pietro C. Marani, Gli ultimi disegni di
fortificazioni di Michelangelo, in Renaissance studies in honor of Craig
Hugh Smyth, 2 voll., Firenze 1985,
vol. II, pp. 597-603.
Lanciani 1902-1912
Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di
Roma e notizie intorno le collezioni
romane di antichità (1550-1565), 4
voll., Roma 1902-1912.
bibliografia
Lotz 1967
Wolfgang Lotz, Zu Michelangelos Kopien nach Codex Coner, in Stil und
Marconi 1966
Paolo Marconi, Contributo alla storia
delle fortificazioni di Roma nel Cinquecento e nel Seicento, in “Quaderni
dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, XIII, 73-78, 1966, pp. 109-130.
Marconi, Cipriani, Valeriani 1974
Paolo Marconi, Angela Cipriani, Enrico Valeriani, I disegni di architettura
dell’Archivio storico dell’Accademia di
San Luca, Roma 1974.
Marcotti 1881
Giuseppe Marcotti, Il Giubileo dell’anno 1450 in una relazione di G.
Rucellai, in “Archivio della Società
Romana di Storia Patria”, IV, 1881,
pp. 563-580
Marigliani 2007
Le piante di Roma delle collezioni private dal XV al XX secolo, a cura di,
Clemente Marigliani, catalogo della
mostra (Roma, 22 giugno - 22 luglio
2007), Roma 2007.
Markschies 2001
Alexander Markschies, Gebaute Armut: San Salvatore e San Francesco al
Monte in Florenz (1418-1504),
München-Bonn 2001.
Marliani 1544
Bartolomeo Marliani, Urbis Romae
Topographia, Romæ 1544.
Martinelli 1644
Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, e nella scuola di tutti gli
antiquarij, Roma 1644.
Martinelli 1693
Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, con tutte le curiosità,
che in essa si ritruovano tanto Antiche, che Moderne … [ed.] Di nuovo
corretta e accresciuta, Roma 1693.
Matthiae 1982
Guglielmo Matthiae, S. Maria degli
Angeli, Roma 1982.
Maurer 2003
Golo Maurer, Michelangelos Projekt
für den Tambour von Santa Maria del
Fiore, in “Römisches Jahrbuch der
Bibliotheca Hertziana”, XXXIII,
1999-2000 [2003], pp. 85-100.
Maurer 2004
Golo Maurer, Michelangelo - Die Architekturzeichnungen. Entwurfsprozeß und Planungspraxis, Regensburg
2004.
Maurer 2008
Golo Maurer, Überlegungen zu Michelangelos Porta Pia, in “Römisches
Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”,
XXXVII, 2006 [2008], pp. 123-162.
Mauro 1556
Lucio Mauro, Le antichità de la città di
Roma: brevissimamente raccolte da
chiunque ne ha scritto, ò antico ò moderno per Lucio Mauro, che ha voluto
351
particularmente tutti questi luoghi
vedere: onde ha corretti di molti errori, che ne gli altri scrittori di queste antichità si leggono. Et insieme ancho di
tutte le statue antiche, che per tutta
Roma in diversi luoghi, e case particolari si veggono, raccolte e descritte, per
Ulisse Aldroandi, opera non fatta più
mai da scrittore alcuno, Venetia
1556.
Mayer-Himmelheber 1984
Susanne Mayer-Himmelheber, Bischöfliche Kunstpolitik nach dem Tridentinum. Der secunda-Roma-Anspruch Carlo Borromeos und die mailändischen Verordnungen zu Bau und
Ausstattung von Kirchen, München
1984.
Mazio 1872
Luigi Mazio, La casa abitata in Roma
da Michelangelo, in Studi storici letterari e filosofici, Roma 1872, pp. 290297.
Mazzucato 1985
Otto Mazzucato, I pavimenti pontifici di Castel San’Angelo XV-XVI sec.,
Roma 1985.
Meliu 1950
Angelo Meliu, S. Maria degli Angeli
alle terme di Diocleziano, Roma
1950.
Melucco Vaccaro 1989a
Alessandra Melucco Vaccaro, Archeologia e restauro: tradizione e attualità, Milano 1989.
Melucco Vaccaro 1989b
Alessandra Melucco Vaccaro, Il monumento equestre di Marco Aurelio:
restauro e riuso, in Melucco Vaccaro,
Sommella 1989, pp. 211-252.
Melucco Vaccaro, Sommella 1989
Alessandra Melucco Vaccaro, Anna
Mura Sommella (a cura di), Marco
Aurelio, storia di un monumento e del
suo restauro, Cinisello Balsamo (Milano) 1989.
Metternich, Thoenes 1987
Franz G. von Metternich, Christof
Thoenes, Die frühen St.-Peter-Entwürfe 1505-1514, Tübingen 1987.
Michaelis 1890
Adolf Michaelis, Geschichte des Statuenhofes im Belvedere, in “Jahrbuch
des Deutschen Archäologischen Instuts”, V, 1890.
Michaelis 1891
Adolf Michaelis, Storia della collezione capitolina di antichità fino all’inaugurazione del museo (1734), in
“Mitteilungen des Deutschen Ar-
352
chäologischen Instituts. Römische
Abteilung”, VI, 1891, pp. 3-66.
Micheli 1982
Maria Elisa Micheli, Giovanni Colonna da Tivoli: 1554, Roma 1982.
Milanesi 1875
Le lettere di Michelangelo Buonarroti.
Pubblicate coi ricordi ed i contratti artistici, a cura di Gaetano Milanesi, Firenze 1875.
Milizia 1787
Francesco Milizia, Roma delle belle
arti del disegno. Parte Prima – Dell’architettura civile, Bassano 1787.
Millon 1979
Henry A. Millon, A Note on Michelangelo’s Facade for a Palace for Julius
III in Rome: new documents for the
model, in “The Burlington Magazine”, CXXI, 921,1979, pp. 770-777.
Millon 2005
Henry A. Millon, Michelangelo to
Marchionni, 1546-1784, in William
Tronzo (a cura di), St. Peter’s in the Vatican, Cambridge 2005, pp. 93-110.
Millon, Magnago Lampugnani 1994
Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione
dell‘architettura, a cura di Henry Millon, Vittorio Magnago Lampugnani,
catalogo della mostra (Venezia, 31
marzo - 6 novembre 1994), Milano
1994
Millon, Smyth 1969
Henry A. Millon, Craig H. Smyth,
Michelangelo and St Peter’s-I: Notes
on a Plan of the Attic as Originally
Built on the South Hemicycle, in “The
Burlington Magazine”, CXI, 797,
1969, pp. 484-501.
Millon, Smyth 1976
Henry A. Millon, Craig H. Smyth,
Michelangelo and St Peter’s: observations on the interior of the apses, a model of the apse vault, and related drawings, in “Römisches Jahrbuch für
Kunstgeschichte”, XVI, 1976, pp.
137-206.
Millon, Smyth 1988a
Henry A. Millon, Craig H. Smyth,
Michelangelo Architetto. La facciata
di San Lorenzo e la cupola di San Pietro, Milano 1988.
Millon, Smyth 1988b
Henry A. Millon, Craig H. Smyth,
Pirro Ligorio, Michelangelo and St Peter’s, in Robert W. Gaston (a cura di),
Pirro Ligorio artist and antiquarian,
Cinisello Balsamo (Milano) 1988,
pp. 216-286.
Minozzi 2000
Marina Minozzi, La famiglia Patrizi a
Roma, in Anna Maria Pedrocchi (a
cura di), Le Stanze del Tesoriere. La
Quadreria Patrizi: cultura senese nella storia del collezionismo romano del
Seicento, Milano 2000, pp. 11-38.
Montagnani Mirabili, 1804
Pietro Paolo Montagnani Mirabili,
Raccolta di statue, Roma 1804.
Montagu 1996
Jennifer Montagu, Gold, silver and
bronze: metal sculpture of the Roman
Baroque, New Haven 1996.
Moreni 1816-1817
Domenico Moreni, Continuazione
delle Memorie istoriche dell’Ambrosiana imperial Basilica di S. Lorenzo
di Firenze dalla erezione della chiesa
presente a tutto il regno mediceo, 2
voll., Firenze 1816-1817.
Moretti 1966
Luigi Moretti, Le strutture ideali della
architettura di Michelangelo, in Atti
del convegno di studi michelangioleschi, atti del convegno di studi michelangioleschi (Firenze-Roma 1964),
Roma 1966, pp. 444-454.
Morolli 1993
Gabriele Morolli, Michelangelo alle
porte, in San Lorenzo 393-1993.
L’architettura, le vicende della fabbrica, a cura di Gabrielle Morolli, Pietro
Ruschi, catalogo della mostra (Firenze, 25 settembre - 12 dicembre
1993), Firenze 1993, pp. 141-143.
Morolli 1994
Gabriele Morolli, L’ordine, il tempio,
la basilica, in Gabriele Morolli, Marco
Guzzon, Leon Battista Alberti: i nomi
e le figure, Firenze 1994, pp. 17-189.
Morolli 1998
Gabriele Morolli, Un Tuscanico di
gloria: Michelangelo e l’ordine architettonico di San Giovanni dei Fiorentini a Roma, in “Bollettino della Società di Studi Fiorentini”, 3, 1998,
pp. 9-29.
Morozzo della Rocca 1981
Donatella Morozzo della Rocca, P.M.
Létarouilly: “Les edifices de Rome Moderne”, storia e critica di un’opera
propedeutica alla composizione, Roma 1981.
Venise chez Francesco de’ Franceschi,
in Deswarte-Rosa 2004, vol. I, pp.
250-253.
Morrogh 1994
Andrew Morrogh, The Palace of the
Roman People: Michelangelo at the
Palazzo dei Conservatori, in “Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana”, XXIX, 1994, pp. 129-186.
Mura Sommella 1989
Anna Mura Sommella, Il monumento
di Marco Aurelio in Campidoglio e la
trasformazione del Palazzo Senatorio
alla metà del Cinquecento, in Melucco
Vaccaro, Sommella 1989, pp. 177194.
Mura Sommella 1997
Anna Mura Sommella, Nuove osservazioni sul basamento del Marco
Aurelio, in Mura Sommella, Parisi
Presicce 1997, pp. 64-69.
Mura Sommella, Parisi Presicce 1997
Anna Mura Sommella, Claudio Parisi
Presicce (a cura di), Il Marco Aurelio e
la sua copia, Roma 1997.
Mussolin 2005
Mauro Mussolin, “Cathedralis effecta
est”: il Duomo di Pienza e il rinascimento cristiano di Pio II, in A. Angelini (a cura di), Pio II e le arti. La riscoperta dell’antico da Federighi a Michelangelo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 215-249.
Mussolin 2006
Mauro Mussolin, Forme in fieri. I
modelli architettonici nella progettazione di Michelangelo, in Elam 2006,
pp. 95-111.
Mussolin 2007
Mauro Mussolin, La Tribuna delle Reliquie di Michelangelo e la controfacciata di San Lorenzo a Firenze, in Ruschi 2007, pp. 183-199.
Mussolin 2009
Mauro Mussolin, Teoria, prassi, antico: la trasmissione dei saperi architettonici a Siena nel Rinascimento, in
Architetti a Siena tra XV e XVII secolo.
Documenti dalla Biblioteca Comunale degli Intronati, a cura di Daniele
Danesi, catalogo della mostra (Siena
novembre 2009 - aprile 2010), Cinisello Balsamo (Milano) 2009.
Morresi 2000
Manuela Morresi, Jacopo Sansovino,
Milano 2000.
Mussolin in c.d.s.
Mauro Mussolin, Michelangelo e la
Tribuna delle Reliquie di Clemente VII
in San Lorenzo, Firenze in c.d.s.
Morresi 2004
Manuela Morresi, La réédition des Livres I à V et de l’Extraordinario Libro à
Nava Cellini 1936
Antonia Nava Cellini, La storia della
chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini nei
documenti del suo archivio, in “Archivio della Società Romana di Storia
Patria”, LIX, 1936, pp. 343 sgg., 349,
355.
liane (da Sangallo a Michelangelo), in
Carmelo Occhipinti, Pirro Ligorio e la
storia cristiana di Roma da Costantino all’Umanesimo, Pisa 2007.
Navenne 1914
Ferdinand de Navenne, Rome: le Palais Farnèse et les Farnèse. Ouvrage
accompagné d’un portrait inédit du
Pape Paul III, Paris 1914.
Olivato 1970
Loredana Olivato, Profilo di Giorgio
Vasari il Giovane, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e
Storia dell’Arte”, 17, 1970, pp. 181232.
Nelson 2005
Jonathan Nelson, Pietro Vannucci
detto il Perugino, in Da Allegretto Nuzi a Pietro Perugino, a cura di Fabrizio
Moretti, Gabriele Caioni, catalogo
della mostra (Firenze, 30 settembre 29 ottobre 2005), Firenze 2005, pp.
150-159.
Nesselrath 1983
Arnold Nesselrath, Das Liller “Michelangelo-Skizzenbuch”, in “Kunstchronik”, 36,1983, pp. 46-47.
Nesselrath 1986
Arnold Nesselrath, I libri di disegni di
antichità: tentativo di una tipologia,
in Salvatore Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, 3
voll., Torino 1984-1986, vol. III
(1986), Dalla tradizione all’archeologia, pp. 87-147.
Nesselrath 1992
Arnold Nesselrath, Codex Coner-85
years on, in Jennifer Montagu (a cura
di), Cassiano Dal Pozzo’s Paper Museum, 2 voll., Milano 1992, vol. II,
pp. 145-167.
Nesselrath 1993
Arnold Nesselrath, Das Fossombroner Skizzenbuch, in “Studies of the
Warburg Institute”, XLII, 248,
[106], 1993.
Niebaum 2007
Jens Niebaum, San Giovanni dei Fiorentini, in Christina Strunck (a cura
di), Meisterwerke der Baukunst von
der Antike bis heute. Festgabe für Elisabeth Kieven, Petersberg 2007, pp.
232-237.
Nova 1984
Alessandro Nova, Michelangelo architetto, Milano 1984.
Nuovo, Coppens 2005
Angela Nuovo, Christian Coppens, I
Giolito e la stampa, Genève 2005.
Nussbaum 1979
Otto Nussbaum, Die Aufbewahrung
der Eucharistie, Bonn 1979.
Occhipinti 2007
Carmelo Occhipinti, Procopio e i Goti
(da Raffaello a Ligorio). Le mura aure-
bibliografia
Pacciani 1990
Riccardo Pacciani, Michelangelo, Pio
IV e i certosini a S. Maria degli Angeli,
in Certose e certosini in Europa, atti
del convegno (Padula, 22-24 settembre 1988), Civita 1990, pp. 109126.
Pacciani 1998
Riccardo Pacciani, Firenze nella seconda metà del secolo, in Francesco
Paolo Fiore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento,
Milano 1998, pp. 330-373.
Pagliara 1972
Pier Nicola Pagliara, Palazzo Niccolini
in Banchi: problemi di attribuzione, in
“Controspazio”, luglio 1972, pp. 5255.
Pagliara 1980
Pier Nicola Pagliara, Note su murature e intonaci a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 11, 1980, pp. 35-44.
Pagliara 1982
Pier Nicola Pagliara, Alcune minute
autografe di G. Battista da Sangallo:
parti della traduzione di Vitruvio e la
lettera a Paolo III contro il cornicione
michelangiolesco di Palazzo Farnese,
in “Architettura: archivi, fonti e storia”, I, 1982, pp. 25-50.
Pagliara 1986
Pier Nicola Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Memoria dell’antico
nell’arte italiana. III. Dalla tradizione all’archeologia, Torino 1986, pp.
5-85.
O.P. Allen Duston, The Fifteenth
Century Frescoes in the Sistine Chapel, Recent Restorations of the Vatican
Museums, 4 voll., Città del Vaticano
2003, pp. 77-86.
Pagliucchi 1906-1909
Pio Pagliucchi, I castellani del Castel
S. Angelo di Roma con documenti inediti relativi alla storia della Mole
Adriana tolti dall’archivio segreto vaticano e da altri archivi, 2 voll., Roma
1906-1909.
Pagliucchi 1973
Pio Pagliucchi, I castellani del Castel
S. Angelo di Roma con documenti inediti relativi alla storia della Mole
Adriana, Roma 1973.
Palladio, ed. Faciotto 1600
Andrea Palladio, L’antichità dell’alma
città di Roma, Guglielmo Faciotto,
Roma 1600.
Pancotto 1995
Pier Paolo Pancotto, Palazzo Bolognetti ai SS. XII Apostoli, in Elisa Debenedetti (a cura di), Roma borghese.
Case e palazzetti d’affitto, 2 voll., Roma 1995, vol. II, pp. 165-169.
Pane 1964
Roberto Pane, L’architettura della
volta Sistina, in Portoghesi, Zevi
1964, pp. 95-120.
Paoletti 2000
John T. Paoletti, The Rondanini “Pietà”: Ambiguity Maintained Through
the Palimpsest, in “Artibus et historiae”, 42, 2000, pp. 60-63.
Papillo 2003
Giuseppe Papillo, Il rilievo come contributo critico per la lettura del monumento funebre di Papa Giulio II, in
“Monumenti di Roma”, 1, 2003, pp.
19-27.
Papini 1949
Giovanni Papini, Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Milano
1949.
Pagliara 1989
Pier Nicola Pagliara, voce Della Volpaia, Bernardo [Bernardino], in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
XXXVII, Roma 1989, pp. 795-797.
Papini 1962
Giovanni Papini, La casa di Michelangelo, in “Bollettino delle Assicurazioni Generali”, 1, 1962, pp.
40-42.
Pagliara 1997
Pier Nicola Pagliara, Le tecniche di costruzione del XVI secolo, in Tittoni
1997, pp. 59-66.
Parisi Presicce 1990
Claudio Parisi Presicce, Il Marco Aurelio in Campidoglio, Cinisello Balsamo (Milano) 1990.
Pagliara 2003
Pier Nicola Pagliara, The Sistine Chapel: Its Medieval Precedents and Reconstruction, in Francesco Buranelli,
Parisi Presicce 1994a
Claudio Parisi Presicce, I Dioscuri Capitolini e l’iconografia dei gemelli divini in età romana, in Leila Nista (a cu-
ra di), Castores. L’immagine dei Dioscuri a Roma, Roma 1994, pp. 152191, tavv. I-XVI.
Parisi Presicce 1994b
Claudio Parisi Presicce, Le statue sulle
balaustre dei Palazzi Capitolini. Il
progetto di Michelangelo, la donazione di Pio V e la sistemazione attuale, in
Tittoni 1994, pp. 135-174.
Parisi Presicce 1995
Claudio Parisi Presicce, Le statue sulla
balaustra del Palazzo Senatorio: tipologia, cronologia e restauri, in Tittoni
1995, pp. 105-132.
Parisi Presicce 1996
Claudio Parisi Presicce, Il Campidoglio come memoria. Dall’exemplar di
Michelangelo alla creazione del Museo, in Il Palazzo dei Conservatori e il
Palazzo Nuovo in Campidoglio. Momenti di storia urbana di Roma,
Ospedaletto (Pisa) 1996, pp. 99120.
Parisi Presicce 1997a
Claudio Parisi Presicce, Il basamento
michelangiolesco del Marco Aurelio,
in Mura Sommella, Parisi Presicce
1997, pp. 46-63.
Parisi Presicce 1997b
Claudio Parisi Presicce, L’immagine
del cavaliere. Riproduzioni, copie e
raffigurazioni del Marco Aurelio, in
Mura Sommella, Parisi Presicce
1997, pp. 26-45.
Parisi Presicce 1997c
Claudio Parisi Presicce, Le statue sulle
balaustre del Palazzo dei Conservatori e del Palazzo Nuovo: tipologia, cronologia e restauri, in Tittoni 1997,
pp. 109-118.
Parker 1956
Karl Theodor Parker, Catalogue of the
collection of drawings in the Ashmolean Museum, Oxford 1956.
Pasquinelli 1925
Antonio Pasquinelli, Ricerche edilizie
su S. Maria degli Angeli, in “Roma: rivista di studi e di vita romana”, 3,
1925, pp. 349-356.
Passerini 1875
Luigi Passerini, La bibliografia di Michelangelo Buonarroti e gli incisori
delle sue opere, Firenze 1875.
Passigli 1989
Stefania Passigli, Urbanizzazione e
topografia a Roma nell’area dei fori
Imperiali tra XIV e XVI secolo, in
“Mélanges de l’Ecole Française de
Rome. Moyen âge”, CI, 1, 1989, pp.
273-325.
353
Pastor 1944-1963
Ludwig Freiherr von Pastor, Geschichte der Päpste im Zeitalter der katholischen Reformation und Restauration, 17 voll., Freiburg-Roma 19441963.
Pastor 1944-1963
Ludwig von Pastor, Storia dei Papi
dalla fine del medio evo, 17 voll., Roma 1944-1963.
Patetta 1982
Luciano Patetta (a cura di), I Longhi,
una famiglia di architetti tra Manierismo e Barocco, nota introduttiva di
Giulio Carlo Argan, Milano 1982.
Pauwels 1989
Yves Pauwels, Les origines de l’ordre
composite, in “Annali di architettura”, 1, 1989, pp. 29-46.
Pecchiai 1950
Pio Pecchiai, Il Campidoglio nel Cinquecento sulla scorta dei documenti,
Roma 1959.
Pellecchia 1989
Linda Pellecchia, The patron’s role in
the production of architecture: Bartolomeo Scala and the Scala Palace, in
“Renaissance Quarterly”, XLII,
1989, pp. 258-291.
Pellegrini 1869
Angelo Pellegrini, Itinerario o guida
monumentale di Roma antica e moderna e suoi dintorni, Roma 1869.
Pepper 1976
Simon Pepper, Planning vs Fortification: Sangallo’s plan for the defense of
Rome, in “Architectural Review”,
159, 1976, pp. 162-129.
Pepper, Adams 1994
Simon Pepper, Nicholas Adams, Signification drawing, in Frommel,
Adams 1994, pp. 61-74.
Pernier 1942
Adolfo Pernier, Notizie inedite sulla
casa detta di Michelangelo alle pendici occidentali del Campidoglio, in
“Capitolium”, XVII, 3-4, 1942, pp.
85-102.
Perrier 1638
François Perrier, Segmenta nobilium signorum et statuarum que
temporis dentem invidium evase,
Roma 1638.
Pessolano 1998
Maria Raffaela Pessolano, Napoli nel
Cinquecento: le fortificzioni “alla moderna” e la città degli spagnoli, in
“Restauro. Quaderni di restauro dei
monumenti e di urbanistica dei centri
354
minori”, XXVII, 146, 1998, pp. 56118.
Petrioli Tofani 1991
Annamaria Petrioli Tofani, I materiali e le tecniche, in Annamaria Petrioli
Tofani, Simonetta Prosperi Valenti
Rodinò, Gianni Carlo Sciolla, Il disegno: forme, tecniche, significati, Torino 1991, pp. 187-251.
Petrucci 1998
Giulia Petrucci, La via Sistina da Porta del Popolo al Vaticano ed il programma urbanistico di Sisto IV per
Borgo (1471-1484), in “Storia dell’urbanistica”, 4, 1998, pp. 35-46.
Piantoni 1980
Roma 1911, a cura di Gianna Piantoni, catalogo della mostra (Roma, 4
giugno - 15 luglio 1980), Roma
1980.
Pietrangeli 1957
Carlo Pietrangeli, Campane e orologi
sul Campidoglio, in “Capitolium”,
XXXII, 4, 1957, pp. 1-8.
Pietrangeli 1985
Carlo Pietrangeli, I Musei Vaticani.
Cinque secoli di storia, Roma 1985.
Pinelli 2000
Antonio Pinelli (a cura di), La Basilica
di San Pietro in Vaticano, 4 voll., Modena 2000.
Pirri 1941
Pietro Pirri, La Topografia del Gesù di
Roma e le vertenze tra Muzio Muti e S.
Ignazio secondo nuovi documenti, in
“Archivum Historicum Societatis Iesu”, X, II, 1941, pp. 177-217.
Pisani 1997
F. Pisani, voce Calcagni, Tiberio, in
Allgemeines Künstlerlexikon, vol. II,
München-Leipzig 1997, pp. 555557.
Podestà 1875
Bartolomeo Podestà, Documenti inediti relativi a Michelangelo Buonarroti, in “Il Buonarroti”, 10, 1875, pp.
128-137.
Pollak 1915
Oskar Pollak, Ausgewählte Akten zur
Geschichte der Römischen Peterskirche (1535-1621), in “Jahrbuch der
Königlich Preußischen Kunstsammlungen”, Beiheft, 36, 1915, pp.
21-117.
Polverini Fosi 1989
Irene Polverini Fosi, Il Consolato Fiorentino a Roma e il progetto per la
Chiesa Nazionale, in “Studi romani”,
37, 1989, pp. 50-70.
Polverini Fosi 1994
Irene Polverini Fosi, I Fiorentini a Roma nel Cinquecento: storia di una presenza, in Giorgio Gensini (a cura di),
Roma capitale 1447-1527, Ospedaletto (Pisa) 1994, pp. 389-414.
Pontan
Scarica

pdf = “le dimore di michelangelo a roma. dalle prime abitazioni alla