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Martedì 15 novembre 2011
SECONDO TEMPO
PIAZZA GRANDE
Gli italiani? Realisti miserabili
di Maurizio Viroli
ivelli di guardia di Claudio Magris, da pochi giorni in libreria, raccoglie scritti che invitano a riflettere seriamente sul pericolo che la corruzione
politica e morale vigorosamente
cresciuta negli ultimi dieci-quindici anni, travalichi i pochi argini
rimasti saldi e distrugga le istituzioni repubblicane come il fango
che una decina di giorni fa ha devastato Genova. Sono note civili,
come chiarisce il sottotitolo; ma
non nel senso generico che trattano di problemi politici, sociali
e di costume, ma in quello più
specifico di considerazioni che
indicano la via faticosa per avere
in Italia una vera vita civile, vale a
dire rispetto della Costituzione,
delle leggi e dei doveri dei cittadini. Il primo punto della “ricetta
Magris” è rendersi conto che i
principi etici e del diritto – appunto perché sono princìpi –
vengono prima di altre considerazioni quali l’interesse, o l’opportunità, o la paura.
L
IL SUO BERSAGLIO polemico è il luogo comune – vero e proprio baluardo dell’ideologia pubblica e privata degli italiani – che
dei principi possiamo allegramente fregarcene. A proposito
della tesi illustrata da Angelo Panebianco, che “i princìpi servono
solo se si resta vivi”, Magris osserva giustamente che “accade talvolta di restare vivi perché qualcuno, in nome di quei princìpi,
muore, per difendere chi è minacciato”, e aggiunge che “la vita è
certo un valore, ma non è detto sia
il valore supremo; gli antichi ammonivano a non perdere, per
amore della vita, per sopravvivere
a ogni costo, le sue ragioni e il suo
significato. […] Chi vuol salvare la
propria vita la perderà e chi è disposto a perderla la salverà, sta
scritto nel Vangelo, testo non certo incline alle trombonate”. Porre
i principi al secondo posto, e la vita al primo, passa in Italia come
massima di raffinato realismo politico. In realtà è un realismo miserabile, per l’evidente ragione
che i principi sono spesso tanto
reali, come forza che spinge all’a-
zione, quanto gli interessi, e a volte più degli interessi. Ed è in realtà
il modo di pensare dei servi. Deridere i princìpi, e non averne alcuno, è infatti il tratto caratteristico di chi vive obbedendo alla volontà di un altro. Questa italica
abitudine a scambiare la mentalità
servile per realismo è una delle
cause principali della nostra inettitudine a difendere la libertà politica e a lasciarci dominare. Fino a
quando non lo capiremo resteremo una Repubblica sempre in pericolo di essere soffocata dalla
corruzione. La seconda perla di
saggezza, fra le tante, che il libro
offre è l’Elogio del saper punire. Con
tono pacato e bonaria ironia, Magris spiega che nelle scuole italia-
ne è diventato quasi impossibile
punire gli studenti che si rendono
responsabili di atti vandalici, impediscono il regolare svolgimento delle lezioni, tormentano e
umiliano compagni e compagne
deboli o troppo buoni. L’insegnante che osa infliggere sanzioni
anche ragionevoli e garbate deve
affrontare torme di sociologi, psicologi, pedagogisti, per non parlare dei genitori, che gridano alla
persecuzione che offende la personalità del trasgressore.
“Ma scambiare per violenza persecutrice ogni piccola sanzione
disciplinare – scrive giustamente
Magris – e vedere traumi in ogni
normale sgridata è insensato. Paralizza gli insegnanti inducendoli
a infischiarsene dell’insegnamento e a lasciare che tutti gli
alunni telefonino con i cellulari
durante le lezioni senza imparare
nulla, per non incorrere in grane
penose”. Avrebbe potuto aggiungere che una scuola che non sa
punire forma la figura mostruosa
del giovane tiranno, vale a dire la
persona che ritiene che tutto gli
Ivan Graziani,
il genio “pigro”
Anticipiamo il contributo di
Andrea Scanzi al libro “Ivan
Graziani. Viaggi e
intemperie”, a cura di
Lorenzo Arabia, Minerva
Edizioni, in uscita domani. Si
tratta della prima biografia
dedicata al cantautore
teramano scomparso nel
1997 e contiene anche
interviste ad amici e colleghi
di Graziani (Antonello Venditti,
Renato Zero, Ron e altri
ancora).
di Andrea
Scanzi
l problema è che era
avanti. Troppo avanti. Si
dice sempre così ma in
alcuni casi, tipo questo, è
vero. Ivan Graziani era troppo avanti e – per abbellire il
suo percorso e al tempo stesso amplificare la pochezza di
I
troppi tromboni fraintesi per
addetti ai lavori – era pure
troppo eclettico. Non era
noioso come “devono” essere i cantautori e osava perfino
abbeverarsi alla fonte dannata del rock. Come se non bastasse, vestiva come un daltonico che si beffava dei benpensanti e cantava con tonalità naturalmente prossime al
falsetto. Il minimo che un
paese nato stanco come l’Italia poteva fare, era non
comprenderlo. Ivan è il grande sottovalutato della musica
italiana. Il grande quasi dimenticato. Forse capiterà come per Rino Gaetano, sdoganato trent’anni dopo la sua
scomparsa. O forse no. Ivan è
il patrimonio condiviso di
una riserva indiana che ha
buona memoria e curiosità
vivida. Il capellone timido
sia lecito e rifiuta di riconoscere
qualsiasi legittimo limite alla propria volontà di potenza.
LA TERZA lezione di vita civile
che possiamo trarre dal lavoro di
Magris è l’ammonimento a indignarci sempre e subito contro
ogni offesa alla dignità umana e ad
abbandonare la folle abitudine a
lasciar correre. L’Olocausto è avvenuto anche perché molti, ebrei
e non, si illusero che “ogni stadio
fosse l’ultimo gradino della violenza e delle discriminazioni inducendo così a un quietismo rassegnato nei confronti di quello che
ci si illudeva fosse un male minore”. Se lasciamo che la violenza e
la corruzione dilaghino (per con-
Deridiamo
i principi in nome
dei “fatti nostri”,
non ci indigniamo
per le ingiustizie
e pensiamo che
tutto sia lecito: è la
radiografia dei vizi
d’Italia in “Livelli di
guardia”, il nuovo
libro di Magris
tinuare a usare metafore dell’alluvione), solo individui di grande
coraggio, dei veri e propri eroi, sono in grado di opporsi. E spesso
non ce ne sono, o non ce ne sono
abbastanza. Per questo è assolutamente vitale, se vogliamo vivere
liberi, coltivare la memoria non
come culto del passato, ma consapevolezza dell’eterno presente:
“La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i
caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno […] crede
nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece in
un futuro liberato, alla fine del
viaggio”. Come ogni etica civile
che si rispetti, anche quella di Magris è sostenuta da un sentimento
religioso che mi pare si fondi sull’idea che “la vita è sempre sacra”
e che è dunque insensato credere
siamo proprietari della nostra vita
così come siamo proprietari di
un’automobile che possiamo vendere o gettare fra i rottami a nostro
piacimento. L’opposto dell’idea
della vita come oggetto è l’idea
della vita come missione al servizio di un principio, di un ideale.
Fra gli ideali che Magris indica,
senza fanfare, c’è quello del rispetto dell’altro, anche per il nemico, anche per l’avversario che
vogliamo sconfitto e reso innocuo. Nessuna buona Repubblica è
mai nata, o rinata, dimenticando il
rispetto per l’altro.
In alto, Claudio Magris; qui sotto Fidel Castro con Wojtyla a Cuba, il 25 gennaio 1998 (FOTO ANSA)
Esce domani la
prima biografia
ufficiale dedicata al
grande cantautore
morto nel 1997:
autodidatta,
chitarrista
strepitoso,
diamante grezzo,
resta un musicista
sottovalutato
con una sessualità presentissima, carnosa e godereccia:
animalesca. Risiede nella trama assurda di canzoni come
Ma io che c’entro (chi altri poteva scrivere un brano d’amore partendo un tizio che sta
seduto al cesso?). Ivan era un
autodidatta di genio puro e
che affronta il playback tivù
di E sei così bella, guardando
Anna, splendida compagna
di una vita. Il padre di Tommy
e Filippo, che meglio non potevano restituircelo. Il marinaio che non è più tornato.
quindi folle. Basta Gabriele
D’Annunzio – di cui sapeva tutto – a zittire chi lo accusava di
non sapere scrivere. Basta Il topo nel formaggio, meglio ancora
nelle poche registrazioni live
che ci sono arrivate, per riscoprire il talento di un chitarrista
che guardava molto oltre i
confini italici (e per questo
quei confini tendono a ridimensionarlo: perché non lo
capiscono). Si dice: l’ultimo
Graziani era più debole. Ed è
LA SUA FORZA risiede in
un percorso oltremodo libero. Nell’apprendistato atipico, nell’amore per il disegno,
nelle origini teramane. Risiede in quei testi così personali,
Noi e loro
É
di Maurizio Chierici
PERCHÉ IL PAPA
ANDRÀ A CUBA
L’
annuncio è una sorpresa che nel tumulto della festa
italiana anche l’Avvenire (il giornale dei vescovi) per il
momento trascura. In primavera papa Ratzinger va all’Avana.
Incontrerà Raul, fratello presidente. Incontrerà Fidel, grande
malato, incontrerà l’ingegner Payà e altri cattolici ai quali è
concessa la libertà di un’opposizione propositiva. Possono
parlare anche se le parole si sciolgono nel vento. Benedetto
XVI celebrerà messe solenni nelle piazze di ogni città,
trasmesse in diretta tv come per Giovanni Paolo II. Dodici anni
fa il viaggio di Wojtyla cambia i rapporti tra la costituzione
avvolta nell’ateismo di Stato ispirato da una Mosca sepolta
nei brutti ricordi, e la Chiesa non proprio clandestina ma
rinchiusa nella definizione di “istituzione privata”, ai margini
di ogni interesse pubblico. Fino al 1998 giornali e televisioni
non potevano parlarne. Il peregrinare di Woytyla suscita
l’illusione di un’apertura che subito impallidisce: concessioni
marginali, niente di più anche se la commozione di Fidel
accompagna il pontefice alla scaletta dell’aereo per Roma.
Piove e il leader maximo sussurra: “Cuba piange perché il Papa
se ne va”. Quattordici anni dopo l’Avana e il Vaticano sono alle
prese con realtà più complicate dei dogmi armati l’uno contro
l’altro. Cuba resta il lampadario fioco di una rivoluzione
delusa non solo politicamente: povertà, isolamento
insopportabile, illusioni che invecchiano mentre i latini
dell’America accanto marciano col passo di democrazie
realizzate. Anche i protagonisti esercitano ruoli diversi: il
cardinale Ortega (internato negli anni del dominio sovietico
nei campi di lavoro forzato) è il mediatore scelto da Raul
Castro nel dialogo difficile con oppositori nutriti dalle lobby di
chi a Miami insegue da mezzo secolo la distruzione “del regime
comunista” in sintonia con le politiche delle famiglie Bush.
Soffiano su rabbie e frustrazioni, scioperi della fame di politici
(non sempre e solo politici) oscurati in prigioni impossibili.
Soffiano su madri e mogli che hanno copiato frettolosamente
il velo bianco delle madri dell’Argentina della dittatura, 30
mila desaparecidos. Ortega ha l’incarico di sanare gli errori
con lentissime sfumature consuete alle abitudini cubane. Di
trattare scarcerazioni, di provare dialoghi. E attraverso la
Chiesa il regime si apre a una normalità che dovrebbe
acquietare inquietudini ormai complicate da contenere. Il
Papa che arriva non deve rimettere il cardinale agli occhi del
mondo, come è successo a Giovanni Paolo II. Entrato
nell’ufficialità, Ortega è punto di incontro di due concezioni di
vita così lontane e per necessità ormai vicine. Sarà curioso
capire come Miami e Washington interpreteranno i risultati
del viaggio papale. Ma Benedetto va all’Avana forse col
proposito di rilanciare l’immagine di una Chiesa umiliata dagli
scandali e preoccupata per l’invasione delle sette protestanti
“fai da te”, ormai significative anche nell’isola. “Missionari”
colombiani, messicani hanno goduto del permissivismo di una
politica che apriva ponti con realtà esterne segmentate per
non rimpicciolire l’autorità dello Stato. Perfino la massoneria
ha privilegi insospettabili: permesso di un ospedale privato per
fratelli anziani. Il viaggio di papa Ratzinger può avere anche lo
scopo di rimettere ordine nella priorità dei rapporti con i
portatori di pace. Non solo: sia pure meno importante del
passato, Cuba resta un megafono che apre le orecchie al
continente cattolico più popoloso del mondo, ma in crisi per
perdita di fedeli e vocazioni. Da protagonista, la Chiesa
allunga la mano al regime appeso alla rielezione di Obama. E
il governo sembra felice. Vedremo perché.
[email protected]
vero. Vale per tutti o quasi. Anzitutto per i musicisti. Soltanto all’inizio del suo cammino
potevano nascere le Motocross, I lupi, Pigro, Paolina, Monna
Lisa. Mica le scrivi a fine percorso, le My Generation. Ma è
altrettanto inconfutabile che
perfino nei bassi anni Ottanta,
un po’ plastificati anche in lui,
ci sono stati i Viaggi e intemperie. Le Siracusa e le Isabella
sul treno. Come c’è stato l’amore, per certi aspetti didascalico, per il rock di Ivangarage: non un capolavoro, ma
come suona ancora vivido
quel lusso orgogliosamente
plebeo di nascondere una
gemma stralunata come E mo’
che vuoi in un album che quasi
tutti avrebbero battezzato minore. Maledette malelingue, con
cui tornò a Sanremo, dimostrò
che Ivan aveva ancora cose da
dire: forse non più paragonabili all’apertura divina di Olanda, o alla quotidianità mirabilmente descritta in Pasqua, ma
le aveva. E Kr yptonite, nonostante l’arrangiamento patinato, è uno dei suoi testi migliori. Graziani si era perso e ritrovato. Per moti e tornanti
tutti suoi. Che solo parzial-
mente abbiamo scorto. Ivan
Graziani è invecchiato meglio
di altri perché non ha mai abdicato alla giovinezza.
PERCHÉ si è negato, purtroppo anche fisicamente, lo
scorrere del tempo. Perché viveva in un mondo veramente
suo, un luogo stravagante popolato da donne ladre e amanti lussuriosi a Modena Park,
matrone giunoniche che ti
piantano il tacco sul collo e
cugine strette (senza tette?).
Amava le vette incredibili e gli
inciampi terribili. Senza misura. Prudenza mai. E ben pochi
limiti. Neanche lui – ed è forse
la sua unica “colpa” – sfuggì
alla mania di rileggere i propri
hit. Riprese le vecchie canzoni e non le migliorò. Mai. Era
impossibile: le Fuoco sulla collina fiammeggiavano già in
quello spazio alieno che attiene soltanto a ciò che non può
morire. Troppo poco sentenziante e troppo fieramente
terreno per essere elevato a
profeta o maître à penser, Ivan
Graziani è stato un eretico ruspante. Pioniere pazzo, diamante grezzo. Lui un chitarrista, noi una svista.
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Ivan Graziani, il genio “pig ro”