14 SI PARLA DI... COSTUME & SOCIETA’ mercoledì 24 ottobre 2012 FEUDI DI SAN GREGORIO, IL MARCHIO SIMBOLO DEL RINASCIMENTO ENOLOGICO DEL MEZZOGIORNO Antonio Capaldo, dal microcredito al vino di Mirko Locatelli ascio l’autostrada e mi arrampico sull’osso. Splende il sole in Irpinia. Attraverso Santa Lucia, San Pietro, Santo Stefano del Sole e atterro su un altro pianeta: Sorbo Serpico, 570 abitanti, nella valle del torrente Salzola. È qui il più grande tempio della Campania dedicato al dio Bacco. Squadrato, vetrocemento, ultramoderno, fuoriesce dal terreno quel tanto che non stona all’occhio. Entro nel tempio e m’accoglie il sorriso di Natascia, ucraina bionda, occhi azzurri. Nella sala d’attesa, una lunga libreria con cinque file di volumi, sul tavolino una dama con le pedine bianche e nere pronte per essere giocate. Arriva il numero uno. Dice: «Buongiorno, sono Antonio Capaldo». Quant’è bizzarro e giudizioso il caso, certe volte. Non è il solito marcantonio stagionato che di solito mi aspetto. Questo dei Feudi di San Gregorio è un ragazzo alto e bruno, con un fisico asciutto e un retrosguardo di timidezza gentile. A distanza ravvicinata, ha l’apparenza dell’intellettuale, come rivelano le cose che mi spiega. «La struttura è sta- L LA MOSTRA ta progettata da una donna, l’architetto giapponese Hikaru Mori. Sono 100mila metri cubi per gran parte sottoterra. Venga, venga a vedere…». Mi porta a fare un giro. L’azienda ha 100 dipendenti ed è affogata nel verde: erba cipollina, salvia, rosmarino, melograni, rose. Perché Feudi di San Gregorio?, gli chiedo. «Perché queste terre erano di proprietà del papato sotto il pontificato di Gregorio Magno. La Chiesa ha influito fortemente sullo sviluppo della vitivinicoltura. Il vino, soprattutto il buon vino, era sinonimo di prestigio e l'eccellere nella produzione di qualità divenne per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita». Antonio ha una voce inaspettatamente dolce. Costruisce periodi che contengono storia e giudizio, passione culturale e sincero pragmatismo. Ha 35 anni e un padre famoso, Pellegrino Capaldo, banchiere cattolico in voga negli anni 70-80. Ma il figlio com’è arrivato qui? «Mi sono laureato in economia alla Sapienza con una tesi sul microcredito. Ho fatto quasi 10 anni d’esperienza all'estero nella finanza (Lazard) e nella consulenza strategica (McKinsey). Sono entrato in Feudi nel 2009”. Poi aggiunge che i genitori e la sorella Giuseppina, docente e avvocato, vivono nella capitale. Anche Antonio ha casa a Roma con la moglie Ella, una francese di religione ebraica che ha sposato tre anni fa. “Qui in azienda ho una camera – dice – vengo tre giorni a settimana, quando non sono in viaggio. Fu pa- OLTRE 50 RIPRODUZIONI FEDELI I dinousari all’Albergo dei Poveri P asseggiare di fianco ad un Tirannosaurus Rex o guardare negli occhi un Triceratopo? Adesso è possibile. Dopo la mostra sul corpo umano di Gunther von Hagens, il Real Albero dei Poveri (nella foto un momento del trasloco) di piazza Carlo III si appresta ad ospitare un'altra istallazione di grande impatto e suggestione, oltre che dal notevole valore scientifico e culturale. Si tratta della mostra sui dinosauri più importante al mondo, che ha fatto registrare oltre 300mila visitatori tra Roma e Torino e che nei prossimi giorni sarà inaugurata anche a Napoli. “Days of the Dinosaur” presenta 50 esemplari fedelmente riprodotti e resi “vivi” grazie a particolari meccanismi che consentono di muovere occhi, zampe e testa. Uno spettacolo unico che permette al pubblico di tornare indietro di 250 milioni di anni, alla scoperta di un mondo perduto. L’ALBUM pà, tenace custode delle tradizioni rurali del secolo borghese, a fare un investimento acquistando questi terreni, e oggi abbiamo 340 ettari di proprietà. Il nostro amministratore delegato è Pier Paolo Sirch, uno specialista friulano di prim’ordine. E’ lui che si occupa della produzione, e io del commerciale. Come dire: lui fa la bottiglia e io la devo vendere». Sbaglierò, ma Antonio Capaldo non è il tipo che sotto le belle maniere sa essere portatore di banalità. Non lo è per ragioni anagrafiche, per il garbo, per il senso della misura, per la ricerca inesausta di una misura d’ironia e distacco. Abbiamo parlato per due ore. E per due ore è stato ordinato e sottile, tagliente nelle sue convinzioni. È un ragazzo semplice, che si apre a poco a poco, ma quando lo fa, delle parole brucia le scorie morte rivelando di sé le vibrazioni più intime. Mi porta a zonzo con un pizzico d’orgoglio, su e giù, e mi ritrovo in mezzo a 500 silos d’acciaio. Non ne avevo mai visti tanti. Dentro è racchiuso un fiume di vino etichettato e controllato che ogni anno va a finire in tre milioni e mezzo di bottiglie. Come nasce questo boom? «Abbiamo fatto cose nuove. Dall’etichetta alla bottiglia, curata dal designer Massimo Vignelli, lo stesso che ha arredato gli interni della cantina. E niente dividendo fino all’anno scorso: abbiamo innovato, reinvestito gli utili, preso i migliori enologi, i migliori agronomi. E oggi esportiamo in 50 paesi: persino alle Maldive e nelle Isole Vergini bevono il nostro vino». Nella bottaia m’incanto a guardare tremila botti in fila. E poi l’esposi- Antonio Capaldo. A sinistra, la bottaia zione dei 25 prodotti tra cui spiccano il Taurasi riserva e un Merlot che si chiama Patrimo. Il vino etichettato Feudi costa dai sei ai cento euro a bottiglia. Mentre mi aggiro in questo tempio che celebra il trionfo del vino irpino, una musica di sottofondo mi inonda di dolcezza. Che musica è?, domando. «Madrigali quattrocenteschi di Carlo Gesualdo. Qui vengono molti ospiti, si fanno convegni, degustazioni. La musica distende, il vino si beve con calma, prendendo il suo tempo». Anche per far crescere l’azienda, vale la stessa regola. Giocando fra tradizione e modernità, Feudi di San Gregorio è diventato un caso di studio nelle facoltà di economia. La crescita è fenomenale. “Vogliamo diventare una delle prime cinque aziende del Mezzogiorno e collocarci tra i primi cinque produttori d’Italia”, confessa il giovane Capaldo. Poi allarga le braccia e aggiunge: «So bene che non è facile, che lavoro per qualcosa che forse non vedrò. Ma col vino non bisogna avere fretta». Salgo al piano di sopra e scopro un’altra bella novità: il ristorante Marennà. Stella Michelin dal 2009 è il fiore all’occhiello della cultura dell'accoglienza di Feudi. Qui lo chef Paolo Barrale e il maitre Angelo Nudo vi guidano tra i profumi e i sapori dell’Irpinia, con una cucina a vista che svela agli ospiti i prodotti e le ricette della tradizione, riproposte con autentica creatività. Antonio Capaldo è instancabile. Schizzo di pala in frasca per scoprire la sua parte invisibile. Gli chiedo dove ha fatto l’ultimo viaggio. «Vengo fresco dall’Oktoberfest. - risponde - Lo sa che anche a Monaco, la città della birra, abbiamo clienti?». Una fitta rete di agenti fa sì che oggi il vino di Feudi arrivi nei grandi ristoranti del mondo. È contento, il presidente? «Io sono fortunato – confessa – ho vissuto in quattro città, parlo due lingue e faccio una sessantina di voli all’anno. Be’ devo ringraziare mio padre. Se era per me, all’università avrei fatto filosofia. Ma con un padre banchiere sarebbe stato un sacrilegio». Sul finire gli chiedo che rapporto ha col denaro. E lui, che ha la gaiezza dei giovani ma senza eccessi di vivacità ribelle, ribatte: «Un pessimo rapporto, perché io improvviso, non programmo. Non ho la macchina e in treno viaggio in seconda classe. Mi creda, non sono stressato. E sa una cosa? Quando vado in un ristorante mi metto a parlare col proprietario per sapere se conosce il nostro vino. Voglio farlo conoscere a tutti perché è il migliore. Purtroppo in questa piccola provincia ci sono 160 produttori di vino. Troppi. Il produttore irpino fallisce ma non si unisce. Non ha capito che la sfida del futuro è di competere a livello mondiale». Antonio Capaldo non ama le gare, non ama i confronti con gli altri. Adora essere riconosciuto per quello che certamente è, un personaggio diverso. MARE, AMORE E FANTASIA Florimo-De Lauzieres, una coppia prolifica J ammo a bedere nterra a la rena, mentre che spanfia la luna chie- na. Ch' è notte e pare fosse matina li marenare de Margellina. Che te combinano friccicarella la tarantella È forse, questa la più nota fra le canzoni scritte da De Lauzieres su musica del Florimo. Anche di questo brano vi è una doppia versine la prima che io ritengo per questioni cronologiche essere l’originale a testo invariato vi è una melodia molto più in linea coll’epoca ottocentresca mentre la seconda pur risultando firmata dagli stessi autori ha una melodia diversa ben distante dalle suggestioni ottocentesche. Nessuna meraviglia per chi si interessa di queste cose: c’è solo da rilevare che qualcuno ha barato. Ma all’epoca era ben difficile tutelarsi da plagi o ruberie. Del resto ciò che è stato fatto in seguito aveva l’ imprimatur del bene oramai divenuto di pubblico dominio e, quindi, soggetto a qualunque scempio, modifica, appropriazione indebita. Era nato Achille a Napoli nel 1819, dopo che il padre Teodoro era morto. Accudito amorevolmente dalla mamma e dai familiari, compì i suoi studi e quando fu pronto si affacciò al mondo del teatro. Fu così critico teatrale ma non solo. Que- sta frequentazione lo convinse a cimentarsi nella scrittura di commedie e melodrammi. L’iniziativa riuscì a pieno così che venne chiamato per collaborazioni, dai maggiori miusicisti dell’epoca il Braga, il Serrao, Lauro Rossi. Collaborò anche con Giuseppe Verdi nella traduzione del Don Carlos che il maestro gli abbia musicato uno dei suoi stornelli. Passò poi anche alla traduzione di famose opere come La Carmen, Il Faust, l’Amleto. A questo punto la sua chiara fama gli portò tanto lavoro con il conseguente benessere u allora in grado di scegliere le collaborazioni giornalistiche e teatrali diventando uno che oggi chiameremmo free lance. Questo chiaro letterato per la parte che riguarda noi studiosi della Canzone Napoletana scrisse molti versi di canzoni di successo collaborando maggiormente con Francesco Florimo. Egli raccolse le sue composizioni in un libro intitolato: Sirio,canti di Achille De Lauzieres, brezze notturne,aureole,romanze e ballate, pagine d’album 1835-1844,Napoli stamperia e Cartiera del Fibreno in 12, di pag. 286 oltre l’indice. Solo per fare memoria, cito alcuni titoli di canzoni inserite nel Sirio: Napoli, La procidana, La, famosa, Tarantella, già citata, La Serenata, La Madonna del pescatore. Nel 1848 si trasferisce a Parigi, patria dei suoi genitori, non fermando di tenere però i suoi contatti con gli amici napoletani, inviare i suoi pezzi giornalistici e le novelle, soprattutto di ambientazione partenopea, oltre alle canzoni: La nziria de lo guoglione, La zingara, Ndinghe ndanghe, Sofia ecc. Collaborò in Parigi con il giornale La Patrie come critico musicale. La morte lo ghermì all’affetto dei suoi cari mentre era a Parigi il 5 marzo 1894. Mmiezo puorto e a lu pennino, cu plesir ho badine'; Lo trecalle e lo carrino, se n' e' ghiuto a mio malgre'. Pe Pozzuolo ho viagge' de la villa al marsce a pie', Le sceval m' a fet tombe'; bel e bon ve fo sape'. Co li belle del Mandracchio, ballai Polka e Padedu'. a la mmorra e al piriquacchio, ho tusciur aimme' perdu'! Gran supe d' erve sbattu', fave e cicere ho dine'. Mo me voglio arrepuse': po cchiu' roba fo sape'. È un brano del 1856 composto dal binomio De Matteis –Biscardi e, come già accennai è uno di quelli che può essere considerato il prodomo della macchietta. Lo si rileva subito leggendo il testo che qui sopra ho riportato partendo dalla seconda strofa da- to che della prima me ne sono servito quando ho trattato del coautore Biscardi. Era Nicola De Matteis napoletano ma non mi è stato possibile trovarne la data di nascita sappiamo che nel 1831 venne stampata la sua: Mmescuglia de chellete devote e pazziarelle de Geremia Piccolo. In questo zibaldone nella seconda parte da pagina 5 vi sono 14 bellissime quartine che sono sue. Nel 1833 possiamo leggere sei dei suoi bellissimi sonetti in napoletano, inseriti in un libretto stampato da Federico Perretti dal titolo di : Cetra Partenopea ossia raccolta delle più leggiadre poesie inedite di patrii scrittori. Altri due sonetti del De Matteis li troviamo in una ulteriore raccolta stampata dai fratelli Criscuolo e che è titolata:Raccolta de’ componimenti poetici recitati nell’Accademia fatta in Napoli per la recuperata salute di S.E. il Monsignor Giovannangelo Porta : tenuta in casa del Cav. Agnello Carfora li 12 giugno 1835. Di questo autore abbiamo cercato notizie biografiche per poter così dare una maggiore contezza della personalità dello stesso, ma purtroppo nulla abbiamo potuto accertare e questo ci ha molto amareggiato essendo il De Matteis un poeta degno di questo nome, quindi riteniamo che è stato, da parte dei biografi coevi dello stesso, un errore il non averne raccolto notizie, anche se minime. Allora seguendo una massima della mia nonna la quale a qualunque richiesta rispondeva: ajzate culillo e siervete padrone! Mi sono amato di buona volontà e sono andato a trovare il mio amico Mauro Giancaspro per chiedergli di fare alcune ricerche. Ebbene con la sua solita disponibilità mi ha indirizzato alla sezione della Lucchesi Palli a me molto cara dato che il Di Giacomo ne fu per anni il bibliotecario, e li con la fattiva collaborazione della responsabile Dottoressa Rosaria Savio e della collega Giuliana Guarino, sono venuto a capo di alcuni documenti assolutamente fantastici, di cui non avevo contezza. Tra gli altri una raccolta di brani del tutto singolari con musiche del Biscardi, compositore di cui già ebbi a trattare. Fra questi la fanno da padrone quelli del De Matteis il quale tratta dei mestieri esercitati dalla popolazione napoletana, la qual cosa potrebbe non sembrare una novità se si fa riferimento alle poesie dello Jaccarino i quali pur essendo dichiarati : verseggiati per musica, non ne conosciamo la linea melodica. Vi è anche da rilevare che i brani del De Matteis furono composti nel 1835 mentre quelli dello Jaccarino sono del 1875. Fra le altre di cui vi farò dono letterario in fu- turo guardate cosa ho trovato. Mi è saltata agli occhi dato che il “falso” io l’ho inserito nella mia Antologia della canzone napoletana. Questo l’originale del De Matteis e Biscardi Almerinduccia mia almerinduccia Tu m’hai sparato senza ire a caccia Pe sta faccella aggrazziatuccia È stu core na carta straccia Ma si non m’ame me faje morì Tu si na guappa nnammuratuccia Ma si non m’ame me faje morì. Questa invece è quella da me registrata e figurante di Pasquale Rondinella anno 1852. L’Almerinduccia viene sostituita da una meno significativa nnammuratccia e la musica è abbastanza distante da quello che io amo chiamare l’originale: Nnammuratuccia mia nnammuratuccia Tu m'aje sparato senza ire a caccia E pe chesta faccella aggrazziatuccia Stu core me se fa' na carta straccia. I cosidetti mariuoli so sempe esistiti! E ce vulimmo meraviglià?Nooooooooooo. Continua www.carlomissaglia.it