RASSEGNA STAMPA
Venerdì 26 giugno 2015
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L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore sociale del 26/06/2015
Torna il Meeting antirazzista dell’Arci, dal 1
luglio a Cecina
Organizzato insieme alla Regione Toscana, è il consueto appuntamento
estivo per riflettere su temi dell’immigrazione e delle discriminazioni.
Titolo di quest’anno: mare aperto
FIRENZE – Torna il Meeting antirazzista di Cecina (Livorno) organizzato dall’Arci e dalla
Regione Toscana, quest’anno in programma dal 1 al 5 luglio p.v. Titolo del meeting di
quest’anno è mare aperto, il contrario, spiegano dall’Arci, “significa consegnare il
Mediterraneo al significato di morte e all'immagine di immensa tomba”. Spiega ancora
l’Arci: “Mare Aperto perché in mare aperto sono la società italiana e tutta la società
europea, da decenni al centro di un processo sociale di trasformazione in cui si incrocia
una molteplicità di culture. Mare Aperto perché così concepiamo un modello di
accoglienza efficace. Particolare attenzione verrà inoltre dedicata al tema dei conflitti, da
cui molte persone sono appunto costrette a fuggire”.
Nell’ambito del meeting, “proveremo quindi a conoscere e capire cosa succede in altre
parti del mondo, con particolare attenzione all’area mediterranea e lo faremo insieme ai
giornalisti ed esperti dell’Atlante delle guerre e dei conflitti”. Infine, oltre all’accoglienza,
alle scuole di formazione, alle iniziative culturali, spazio alla complessa tematica delle
identità.
http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/486520/Torna-il-Meeting-antirazzista-dellArci-dal-1-luglio-a-Cecina
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 26/06/2015, pag. 24
La polemica.
Da Piccolo uovo a Nessuno è perfetto: ecco i titoli espulsi dalle
biblioteche scolastiche e messi all’indice dal movimento del Family day
perché travierebbero i bambini
Figli di due mamme e lotta ai pregiudizi cosa
c’è davvero nei libri “gender ”
MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA . In fondo “Piccolo uovo “ cercava soltanto una famiglia. Etero, omo, adottiva,
multirazziale: non importa, le famiglie sono tutte così belle, che per quello strano e goffo
uovo era davvero difficile scegliere in quale approdare. Eppure, suo malgrado, quell’uovo,
inventato da Francesca Pardi e magistralmente disegnato da Altan, è diventato il singolare
bersaglio di una violenta crociata “anti gender”. Protagonista di una storia definita
“pericolosa” e nelle cui pagine, tra gatti, conigli, pinguini in stile “Pimpa” si anniderebbe
l’insidiosissimo fantasma del “gender”. Sfuggente teoria del tutto e del niente, sufficiente
però a far finire “Piccolo uovo” tra i libri espulsi dalle biblioteche scolastiche italiane, in una
lista sempre più folta di titoli messi all’indice perché, secondo l’agguerrito movimento del
Family day, travierebbero la mente dei bambini.
Ma cosa c’è davvero in questi libri (quasi tutti pubblicati dalla casa editrice “Lo
stampatello”) che i comitati “Difendiamo i nostri figli” vorrebbero bruciare in un rogo
virtuale? Né più né meno che il mondo reale. Attraverso storie di animali umanizzati,
principesse, eroi furbi o eroi sognatori, personaggi in carne ed ossa, tra titoli come “Il
Matrimonio dello zio”, o “Nessuno è perfetto”, “Il mio primo giorno in Italia”, o “Il grande
libro delle famiglie”, ciò che si narra è una società dove si nasce da una mamma e da un
papà, ma anche da due mamme, si è figli adottati o in affido, si è bimbi sani o disabili, si è
italiani o migranti, si è maschi, femmine, ma in fondo si è come si vuole...
Dunque in questa costellazione di avventure umane, spesso illustrate dai migliori
disegnatori italiani, la famiglia “tradizionale” è solo una delle tante combinazioni della vita.
Come accade nel mondo reale. Ma è proprio questo che i vari movimenti “Difendiamo i
nostri figli” contestano: e cioè che nelle scuola si possa parlare di unioni gay, di doppi
padri, di libertà di comportarsi al di là dei generi. L’ultimo caso è quello di Venezia, dove il
neosindaco di centrodestra, Luigi Brugnaro, ha deciso che una serie di titoli presenti nelle
biblioteche delle primarie e delle materne dovranno essere eliminati. Una battaglia
analoga aveva sconvolto qualche mese fa il comune di Trieste, finito nella bufera per aver
proposto l’introduzione, nelle classi dei più piccoli, del “Gioco del rispetto”. Ossia un
percorso educativo basato sull’educazione di genere (non gender) cioè sul rispetto delle
differenze, dei sessi, e sul superamento degli stereotipi. Le psicologhe, autrici del gioco,
sono state accusate addirittura di aver favorito “palpeggiamenti” tra i bambini. «Quello che
facevamo era chiedere ai piccoli di fare una corsa — spiegava una delle autrici — e alla
fine facevamo mettere la mano di un bambino sul cuore di una bambina, per dimostrare
che pur nella differenza i cuori battono allo stesso modo».
Ma già lo scorso anno, una violenta campagna dei movimenti Pro-Life, aveva fermato la
diffusione dei famosi libretti dell’Istituto Beck, opuscoli contro il bullismo decisi dall’ex
ministro per le Pari Opportunità Elsa Fornero, e accusati di inoculare l’ideologia “Lgbt” tra i
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ragazzi. Una feroce mistificazione, perché in quei testi, destinati agli insegnanti, si parlava
di prevenzione al bullismo in tutte le sue versioni.
Una stessa campagna di controinformazione sembra oggi colpire la nuova editoria
dell’infanzia. Non solo lo “Stampatello”, minuscola casa editrice milanese, fondata da
Francesca Pardi e Maria Silvia Fiengo, mamme gay di quattro bambini, che dopo aver
cercato invano un editore per raccontare ai propri figli la particolarità della loro nascita,
hanno deciso di fare da sè. Ma anche gli editori di “E con Tango siamo in tre”, avventure di
pinguini papà gay, espulsi dalle scuole veneziane. «Raccontiamo che si nasce in tanti
modi diversi, in una famiglia eterosessuale o con due madri, due padri, un single. Si può
venire al mondo anche con la fecondazione assistita. È la realtà. Si può avere una pelle
diversa — spiega Maria Silvia Fiengo — o una malattia, ma tutti sono degni di rispetto ».
Ma la campagna è sempre più violenta. Con somma sorpresa delle case editrici straniere,
che vedono i loro testi, accettati in patria, attaccati da noi. Ad esempio “Il grande, grosso
libro delle famiglie” uscito senza polemiche in Inghilterra, messo all’indice in Italia. «Hanno
scritto che insegniamo la masturbazione ai bambini: sfido chiunque a trovare riferimenti di
questo tipo nelle nostre storie. Noi parliamo di valori, e siamo così tranquille che abbiamo
mandato i nostri libri anche al Papa».
Del 26/06/2015, pag. 1-24
QUELLE LETTERE PER DIRE NO A
QUALCOSA CHE NON ESISTE
MARIAPIA VELADIANO
CAPITA che a scuola arrivi un modulo, un prestampato a cui i genitori aggiungono i loro
nomi e il nome del figlio, con cui dichiarano di «essere informati circa l’esistenza della c.d.
teoria “dei gender”, che alcuni programmi e/o insegnamenti scolastici veicolano i contenuti
di detta teoria e pertanto con effetto immediato (grassetto in originale) dichiarano di
dissentire totalmente con i contenuti di detta teoria che considerano dannosa per
l’educazione dei propri figli e chiedono di non proporre detti contenuti sotto alcuna forma ai
propri figli». Firma, data, protocollo. Se capita bisogna fermarsi e dalla posizione in cui ci si
trova, nel caso insegnante, preside, felicemente credente e cattolica, bisogna chiedersi
cosa sta succedendo. Di una teoria gender non si ha notizia certa. Un vorticoso giro fra i
siti delle scuole della nostra lunga penisola non ci consegna una sola programmazione
individuale in cui si parli di “teoria gender”. E ci si chiede allora perché genitori si
organizzino con moduli, protocolli e un lessico blandamente giuridico e un poco
minaccioso contro qualcosa che non c’è. Probabilmente succede che hanno paura perché,
senza colpa alcuna, non capiscono. Il mondo affettivo e sessuale dei figli è misterioso,
cambiato come è cambiato con pari sofferenza e scandalo negli anni Sessanta del secolo
scorso e prima ancora negli anni Venti. Qualsiasi assemblea di istituto o festa di
compleanno o happy hour ci consegnano una vita che di fatto rimescola i colori, i gesti, gli
atteggiamenti di ragazze e ragazzi. Uno sconfinare i generi che somiglia a un’ultima
trasgressione dopo che tutte le altre sono state agite e assorbite. La vita adulta vaglierà il
vero o il falso che questo sconfinare porta dentro. Quel che la scuola davvero fa, e deve, è
combattere gli stereotipi di genere. Ma essere contro questi stereotipi non significa dire
che il genere non esiste. Significa educare a vedere dove sta la trappola di un sé
condizionato da precomprensioni che autolimitano non solo le scelte ma il pensiero
stesso, il desiderio. Per cui le bambine nemmeno sognano di diventare astronaute
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(adesso forse un po’ di più, grazie a Samantha Cristoforetti) perché la loro educazione,
implicita o esplicita, ha beneducato anche i desideri. La consapevolezza degli stereotipi di
genere è una conquista lenta, lo stereotipo vive di un’inerzia sociale naturale ed è
funzionale al vantaggio o al potere di qualcuno. E al potere il nemico serve. Ci sono poteri
che si squagliano se vien meno il nemico. E anche alla paura il nemico serve. La saldatura
fra potere e paura è micidiale.
Il gender è una manna. Ogni giorno un po’ e lo sdegno è servito, il nemico è servito, il
pensiero è congelato e si sente meno la paura per quel che non si capisce. Per fortuna c’è
un nemico là fuori. Ad andare in piazza a dire il fantasma del gender non passa si rischia
di schiacciare il pensiero in uno slogan a cui altri rispondono dalla sponda di uno slogan
speculare e contrario. Ci vuole un pensiero paziente che non rinuncia a capire, senza per
questo necessariamente approvare. E forse di tutto questo con i genitori proprio la scuola
deve limpidamente parlare.
Del 26/06/2015, pag. 9
Unioni civili, ma non sarà mai matrimonio
Per avvicinare le posizioni di Pd e Ndc si pensa ad un nuovo istituto
giuridico aperto anche ai gay Sarà possibile adottare il figlio biologico
del partner e avere un cognome comune condiviso
Ilario Lombardo
L’eco della piazza del Family Day ha dato nuova linfa ai senatori di Ncd tornati alla carica
sul testo delle unioni civili. Qualcosa sta cambiando. Piccole correzioni. Perché
l’architettura portante del provvedimento dovrebbe restare intatta: equiparazione di tutti i
diritti sociali ed economici (reversibilità della pensione e quant’altro) e stepchild adoption,
l’adozione del figlio biologico del partner. L’obiettivo del Pd è portare in aula il disegno di
legge Cirinnà entro fine luglio e licenziarlo da Palazzo Madama prima delle vacanze di
agosto. Nessuna pausa di riflessione, dunque, come avevano chiesto i centristi. Ma
disponibilità al confronto per avvicinare il più possibile le parti. E’ la linea di Palazzo Chigi:
minimizzare i danni ed evitare contraccolpi nella maggioranza. La mediazione prosegue su
un testo che non è più blindato. Il governo ha deciso di affidare al parlamento la totale
competenza sulla materia. E se nel Pd c’è chi, come le deputate Chiara Gribaudo,
Valentina Paris e Giuditta Pini, si rammarica per la libertà di coscienza lasciata su un tema
«che non è etico, ma politico e sociale», secondo il grosso dei senatori Pd il venir meno
dei vincoli di maggioranza permetterà di cercare alleanze alternative (vedi M5S e Sel)
come avvenne su divorzio e aborto.
Non è matrimonio
Il primo blocco di emendamenti che andavano a intaccare il cuore del disegno di legge è
stato stroncato dai pareri negativi della relatrice Monica Cirinnà. Ne sono stati accolti due.
Assieme alla riformulazione di alcuni passaggi. Il più importante: l’unione civile è un nuovo
istituto giuridico, differente dal matrimonio. La ratio deriva dalla Costituzione, anche se il
richiamo diretto alla Carta, su cui si erano impuntati i popolari, è stato eliminato. Gli articoli
di riferimento sono l’8 della Convenzione dei diritti dell’uomo e il 2-3 della Costituzione,
che normano le formazioni sociali, e non più il 29, relativo al matrimonio. Cambiando la
radice, cambia la prospettiva. «Così Ncd la smette di dire che le unioni civili sono nozze
mascherate» spiega Sergio Lo Giudice, del Pd.
Il cognome
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È stato definito meglio anche il passaggio sui cognomi. Nel matrimonio, non essendoci un
rapporto di reciprocità, si impone di default il cognome del marito. Nel 2014 la Camera ha
votato una proposta di legge che abolisce l’obbligo del cognome paterno. Ma la nuova
disciplina è ancora in attesa dell’approvazione del Senato. Con il ddl Cirinnà, al momento
di costituire un’unione civile, tra persone dello stesso sesso e non, i contraenti potranno
scegliere un cognome comune, condiviso.
Vietate ai minori
I due emendamenti accolti. Dimentichiamo gli appositi registri che diversi Comuni avevano
inaugurato per le unioni civili. Il nuovo istituto sarà censito nei registri dello stato civile
accanto a nascite, morti, cittadinanza e matrimoni. Il secondo emendamento rimuove la
possibilità, prevista in un primo tempo, di autorizzare le unioni civili anche tra minorenni. Il
codice civile italiano, all’articolo 84, stabilisce che solo i maggiorenni possono contrarre il
matrimonio. Lo stesso articolo, però, prevede una deroga, dai 16 anni in su, ma solo dietro
autorizzazione del Tribunale dei minori. Una deroga che non ci sarà per le unioni civili.
Del 26/06/2015, pag. 18
Tortura, Salvini-shock “La polizia deve
lavorare chi si fa male affari suoi”
Il leghista: “No al reato”.Ma gli agenti si dividono Attacco a Pansa: ha
abbandonato le forze dell’ordine
FABIO TONACCI
ROMA. Con addosso la pettorina gialla del Sindacato autonomo di Polizia, Matteo Salvini
fa quello che meglio gli riesce, ossia salire sul carro del malcontento. Dovunque esso si
trovi. «La legge sul reato di tortura è sbagliata e pericolosa, espone i poliziotti e i
carabinieri al ricatto», diceva ieri, manifestando con il Sap davanti a Palazzo Chigi. «Se
poi un delinquente lo devo prendere per il collo e si sbuccia il ginocchio...cazzi suoi».
Parole da cui due sindacati maggiori, Silp e Siulp, prendono le distanze. Definendola, né
più né meno, una «strumentalizzazione».
Roma, Piazza Colonna, le 16 di ieri. Il segretario della Lega sta partecipando alla protesta
del Sap (in 100 punti strategici della capitale e di Milano) contro il ddl che introduce il reato
di tortura nell’ordinamento italiano, attualmente fermo al Senato dopo essere stato
approvato, e annacquato, dalla Camera ad aprile. Con Salvini, che firma autografi e si fa i
selfie con i delegati sindacali, c’è anche Roberto Maroni. «Governo e Parlamento tutelano
di più chi commette i reati rispetto a chi difende i cittadini», dichiara il governatore della
Lombardia. Poi Salvini se ne esce così: «La Corte di Strasburgo (che ha condannato il
nostro paese perché non ha una legge sulla tortura, ndr) non deve rompere le scatole
all’Italia. E Pansa non il è miglior Capo della polizia possibile: mai come oggi i poliziotti si
sentono abbandonati dai loro dirigenti». Musica per le orecchie di Gianni Tonelli,
segretario generale del Sap da sempre critico nei confronti della gestione di Pansa. «Il
disegno di legge in discussione — sostiene Tonelli — nasconde la volontà di punire le
donne e gli uomini in divisa». In realtà, per come è uscito da Montecitorio, l’articolo 613 bis
che modifica il Codice penale e che recepisce la Convenzione di New York del 1984, si è
parecchio ridimensionato. «Adesso è una norma mediocre», sostiene il senatore Pd Luigi
Manconi. «Dubito che sarà approvato entro questa legislatura ». Il reato di tortura da
proprio (cioè specifico per le forze dell’ordine) è diventato comune, con aggravanti se
commesso da pubblici ufficiali. «E’ punito da tre a dodici anni chiunque, con violenza o
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minacce gravi, infligge a una persona forti sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti
crudeli, disumani o degradanti», recita il testo, tornato in commissione al Senato. Ma
nemmeno così il Sap è soddisfatto, ora si scaglia sul concetto di “forti sofferenze mentali”:
«Chi potrà certificare dinanzi a un giudice una così intima angoscia? Qualunque poliziotto
sarà esposto a denunce». Anche il Consap è dello stesso avviso: «l’esecutivo, con la
complicità di Alfano, sta confezionando una polpetta avvelenata»).
Opione opposta quella di Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil: «Giusto introdurre il
reato comune di tortura, va evitata però la previsione di norme penalmente rilevanti per
comportamenti minimamente offensi- vi. Salvini che scende in piazza col Sap è una
manovra politica di bassa lega, un tentativo strumentale e politico di accattivarsi le
simpatie degli agenti». E Felice Romano, del Siulp, aggiunge: «Non capiamo le ragioni
delle sue critiche a Pansa. Facile parlare di ruspe e di respingimenti dei profughi quando si
è all’opposizione, ma gli unici che affrontano ogni giorno i problemi della sicurezza e
dell’immigrazione sono come al solito i poliziotti e i volontari».
Del 26/06/2015, pag. 7
Tortura, Renzi dica se sta con il Sap e Salvini
Patrizio Gonnella
Ieri il Sindacato autonomo di Polizia ha manifestato contro il reato di tortura, con il leader
leghista Matteo Salvini e il governatore della Lombardia Roberto Maroni al seguito. Non lo
sanno ma hanno manifestato anche contro il Papa e contro Ban Ki Moon.
Era il 1997 quando le Nazioni Unite decisero che il 26 giugno fosse il giorno in cui ricordare su scala universale le vittime della tortura. Dieci anni prima, ovvero il 26 giugno del
1987, entrò in vigore la Convenzione Onu contro la tortura e ogni altra forma di punizione
o trattamento inumano, crudele o degradante. Sono 158 gli Stati che in giro per il mondo
hanno firmato e ratificato il Trattato. Possiamo però dire che la tortura, considerata dal
diritto internazionale crimine contro l’umanità, sia oggi bandita dalla comunità degli Stati?
Qui seguono due ordini di riflessioni. Il primo ordine di riflessioni riguarda quei Paesi che si
sono adeguati, seppur parzialmente, ai contenuti del Trattato Onu che imponeva, tra
l’altro, la previsione di un reato ad hoc nella legislazione interna a ciascuno degli Stati
membri. Come sappiamo la codificazione del reato è condizione necessaria ma non sufficiente perché la tortura sia perseguita e perché non vi sia impunità per i torturatori. Non
siamo così ingenui da credere che basti prevedere un reato perché la pratica di polizia si
adegui e i giudici condannino. Di pochi giorni fa sono le osservazioni del Comitato Onu
contro la tortura rispetto alla Spagna, Paese che dal 1995 ha introdotto il crimine nel suo
codice. Il Comitato ha sostenuto che la definizione di tortura presente nella legislazione
spagnola fosse del tutto inadeguata e ha invitato le autorità iberiche ad armonizzarla
rispetto al testo Onu. All’articolo 1 della Convenzione si definisce la tortura. Devono ricorrere i seguenti requisiti: l’autore deve essere un pubblico ufficiale, deve esserci violenza
o minaccia, deve essere prodotta sofferenza fisica o psichica, deve esservi l’intenzione di
estorcere una confessione o di umiliare. Va altresì ricordato che lo Statuto della Corte
Penale Internazionale abilitata a giudicare i gravi crimini contro l’umanità – tortura, genocidio, crimini di guerra – ha una definizione meno cogente. In ogni caso è questo il solco
entro cui lo Stato deve muoversi. La Spagna non l’ha fatto.
Il secondo ordine di riflessioni riguarda invece quei Paesi che non si sono adeguati per
nulla ai contenuti del Trattato. L’Italia è in prima linea tra questi. La tortura da noi non è un
reato, come ci ha ricordato la Corte Europea sui diritti umani lo scorso 7 aprile condan8
nando il nostro Paese nel caso Cestaro a causa delle brutalità commesse dalla Polizia
nella scuola Diaz nel 2001. Pochi giorni fa il ministro Alfano in un convegno pubblico ha
affermato: «Il reato non sia contro la Polizia». Il reato di tortura è essenziale per una Polizia moderna; aiuta a distinguere chi svolge il proprio compito correttamente da chi invece
fa un uso brutale della forza. La contrarietà delle forze dell’ordine è ingiustificabile se non
adducendo tesi oltranziste. Il ddl per l’introduzione del delitto nel codice pende in commissione Giustizia al Senato. È vittima di un ping pong parlamentare già troppe volte visto in
passato. Tra il 16 e il 22 settembre il Sotto-Comitato Onu contro la tortura visiterà i luoghi
di privazione della libertà in Italia. È la prima volta che gli ispettori Onu entreranno nelle
nostre caserme, nei nostri Cie, nelle nostre prigioni. Subito dopo si recheranno in Turchia.
L’Italia è tra i 78 Paesi che si è resa disponibile a farsi visitare. Per allora sarebbe essenziale che da un lato ci fosse il reato nel codice, dall’altro fosse nominato il Garante delle
persone private della libertà. La legge c’è, il Garante non ancora.
Per questo ci rivolgiamo direttamente a Matteo Renzi, il quale nei giorni successivi alla
sentenza europea nel caso Diaz aveva detto che «la nostra risposta è il reato di tortura».
La palla è nel suo campo. Vanno neutralizzate le obiezioni del partito di Giovanardi
e Alfano. Il ministro della Giustizia Orlando, in occasione del dibattito alla Camera dello
scorso aprile, aveva auspicato invece un voto ampio e condiviso. Una posizione importante che ora deve trovare conferma al Senato. Spetta al premier spingere in questa direzione, anziché in quella di retroguardia del ministro degli Interni, del Sap e di Salvini.
*presidente Antigone
Del 26/06/2015, pag. 45
Nelle associazioni possibile l’apporto solo
delle società
Per effetto del decreto legislativo 81/2015, il contratto di associazione in partecipazione
con apporto di lavoro non può essere più sottoscritto se l’associato è una persona fisica.
Tuttavia questa forma di collaborazione resta ammissibile se l’associato è un soggetto
societario. Con la circolare 13/2015 diffusa ieri, la Fondazione studi dei consulenti del
lavoro ha iniziato ad approfondire alcune delle novità introdotte dal “codice dei contratti”
entrato in vigore ieri.
Nel recente passato il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro è
stato piuttosto utilizzato in alcuni settori, come nel commercio per i commessi. Utilizzo che
spesso si è caratterizzato dal mancato rispetto delle disposizioni normative, tra cui, per
esempio, la partecipazione degli associati agli utili o alle perdite economiche dell’attività,
dato che veniva loro erogata una retribuzione fissa. A questo proposito la riforma del
mercato del lavoro di tre anni fa (la legge 92/2012) aveva introdotto la conversione in
rapporto di lavoro a tempo subordinato proprio se si fosse riscontrata la mancata
partecipazione agli utili. Inoltre, sempre per limitare l’utilizzo di questo contratto, era anche
stato posto il tetto massimo di tre associati con apporto di lavoro per ogni associante.
Ora il Dlgs 81/2015 ha eliminato la possibilità di ricorrere all’associazione con apporto di
lavoro in caso di persone fisiche. Restano salvi i contratti in corso che in alcuni casi hanno
durata decennale, quindi, è probabile che questo tipo di inquadramento non scomparirà in
tempi brevi dal panorama lavoristico. Inoltre, come accennato, l’associazione con apporto
di lavoro sarà comunque possibile se l’associato è una società.
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La circolare dei consulenti del lavoro illustra anche le novità riguardanti le collaborazioni,
con il divieto di sottoscrivere, d’ora in poi, quelle a progetto. Restano possibili quelle
coordinate e continuative, consapevoli che, a fronte della presenza di tre condizioni
(carattere esclusivamente personale, continuità, eterorganizzazione anche con riferimento
a tempi e luoghi di lavoro), si applicheranno le regole del rapporto subordinato. Tuttavia
datore di lavoro e collaboratore hanno la possibilità di certificare, presso le commissioni
indicate dall’articolo 76 del Dlgs 276/2003, l’assenza di tali condizioni. In questa procedura
il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un
consulente del lavoro. Una scelta, quest’ultima, sottolinea la circolare, che «conferma
l’affidabilità della categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà», al pari
dell’assistenza che i professionisti possono fornire, sempre in base al Dlgs 81/2015,
quando azienda e dipendente concordano una modifica delle mansioni attribuite al
lavoratore. Anche le collaborazioni a progetto già attive potranno essere mantenute fino a
esaurimento. Però dal 2016 scatterà l’obbligo di rispettare i nuovi requisiti, in mancanza
dei quali saranno ricondotte al lavoro subordinato, salvo alcune situazioni eccezionali. Tra
queste il Dlgs individua le collaborazioni regolate da accordi collettivi nazionali con
riferimento a trattamento economico e normativo. Una disposizione che, secondo la
circolare dei consulenti del lavoro, vale anche per i contratti collettivi già in vigore che
rispettano tali requisiti.
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ESTERI
Del 26/06/2015, pag. 10
Continua lo stillicidio domani ultima spiaggia
per evitare il crac greco
Altra fumata nera all’Eurogruppo. Palla a Tsipras Merkel: “Serve un
accordo prima di lunedì”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES. Un’altra fumata nera che avvicina la Grecia al baratro del default. La quarta
riunione in una settimana dei ministri dell’eurogruppo per trovare un accordo che eviti la
bancarotta di Atene si è chiusa dopo poche ore con l’ennesimo fallimento. La posizioni dei
greci e dei loro creditori restano lontane su tutti i punti cruciali del negoziato: riforma del
sistema pensionistico, modifica dell’Iva e tagli alla difesa. Rispetto all’incontro della sera
prima, la delegazione guidata dal ministro Yannis Varoufakis ha anzi fatto qualche piccolo
passo indietro riproponendo di mantenere le agevolazioni sull’Iva per le isole greche: un
tema che sta particolarmente a cuore al partito di estrema destra alleato di Syriza al
governo. Di fronte alla totale mancanza di progressi il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen
Dijsselbloem, ha congedato i ministri ed è andato a informare i capi di Stato e di governo
della Ue, riuniti a pochi metri di distanza. Ma il vertice europeo ha rifiutato di farsi carico
del negoziato: segno che i margini di flessibilità politica da parte dei creditori sono ormai
ampiamente esauriti. E dunque si ricomincia da capo, con l’orologio del default che corre
sempre più in fretta. I tecnici dell’euro working group che ha sostituito la troika si riuniranno
ancora oggi, mentre nella notte sono previsti nuovi colloqui tra Tsipras e i vertici di
Commissione, Bce e Fmi. Se emergerà una nuova disponibilità greca ad accettare le
richieste dei creditori, i ministri dell’Eurogruppo si ritroveranno sabato per siglare l’accordo.
Altrimenti, spiega una fonte vicina ai negoziati, l’incontro servirà a decidere come gestire il
default greco. L’insolvenza di Atene, la «terra incognita» evocata da Mario Draghi, è ormai
questione di ore. Se sabato ci fosse un’intesa domenica il Parlamento greco potrebbe
ratificarla. E martedì la Grecia, ricevendo l’ultima tranche del prestito europeo da 7,5
miliardi, potrebbe rimborsare 1,6 miliardi che deve restituire al Fmi entro fine mese. «Ci
deve essere un accordo prima che lunedì riaprano i mercati», ha spiegato Angela Merkel
agli altri leader del Ppe riuniti prima del vertice. Nonostante la durezza dell’ultimatum dei
creditori, rafforzato dal pochissimo tempo a disposizione, Tsipras si dimostra ottimista. In
termini puramente contabili, la distanza tra le posizioni greche e quelle europee non è
certo incolmabile. Ma la distanza politica da percorrere per superare le «linee rosse» che il
governo greco si è auto-imposto è considerevole. Solo il premier può decidere se e come
fare la marcia indietro che tutti gli chiedono.
Sullo sfondo di questo braccio di ferro c’è la questione irrisolta di una ristrutturazione del
debito greco. Tsipras vorrebbe un impegno esplicito da parte dei leader europei. Ma
questi, pur avendogli dato assicurazioni lunedì, in occasione del vertice dell’eurozona, che
la questione sarà esaminata una volta che Atene avrà accettato il piano di risanamento,
non vogliono prendere adesso impegni vincolanti. «Non ci faremo ricattare dalla Grecia»,
ha detto la cancelliera ai suoi colleghi del Ppe. Il rifiuto, ieri, dei capi di governo europei di
occuparsi ancora una volta delle richieste di Atene sembra confermare che su questo
fronte Tsipras non potrà ottenere niente di più di quanto ha già avuto. L’ultima parola,
adesso, tocca a lui.
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Del 26/06/2015, pag. 30
LA LEZIONE DI ATENE PER L’ITALIA
LUCIANO GALLINO
POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul
Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo
andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte
hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e
odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di
riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza
evidente, una lezione per l’Italia.
Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un
debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi
esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito
includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti
umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o
avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe
seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali
e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla
Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni
economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo
stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte
consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi
dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della
popolazione greca. La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di
aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla deregolazione del mercato del lavoro — violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue
che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al
commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di
scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio
pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito
come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi
finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che
essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei
confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e
odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno
dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della
sovranità fiscale dello stato greco. Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito
greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate
al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e
nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad
esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa
raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici
locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di
contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di
«una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei
dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa
dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese
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il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri
interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati
prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act,
non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa».
In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in
violazione, come documenta il rapporto greco,degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati
internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i
dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga,
avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i
medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi
ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.
Del 26/06/2015, pag. 2
Un «golpe strisciante» contro il governo di
Tsipras
Grexit. I media del mondo: no all’intransigenza della troika. Ma c’è l’opzione del «default»
senza uscita dall’euro, con la Grecia che non ripagherà il debito pubblico detenuto per
l’80% da fondi europei, paesi membri, Fmi e Bce, né pagherà gli interessi dovuti
Il Fmi ha silurato l’ennesima proposta greca – in cui Syriza si era già spinta molto
(troppo?) in là nelle concessioni alla troika, accettando nuovi aumenti delle imposte
e obiettivi di bilancio per i prossimi anni difficilmente sostenibili – perché le misure proposte da Tsipras, tra cui l’aumento delle tasse sulle imprese e una tassa una tantum sugli
utili d’impresa superiori ai 500,000 euro l’anno, in alternativa ai tagli alle pensioni chiesti
dall’Fmi, avrebbero un «effetto recessivo». Se la situazione non fosse così drammatica, ci
sarebbe da ridere.
La stessa istituzione che in Grecia si è macchiata di uno dei più devastanti fallimenti predittivi ed economici della storia – nel 2010 il Fondo aveva previsto che il Pil greco si
sarebbe contrato del 5%, mentre oggi siamo a –25% –, oggi vorrebbe dare a Tsipras, reo
di aver cercato di redistribuire un po’ il peso fiscale dell’aggiustamento, lezioni di crescita.
Quando peraltro gli stessi studi dell’Fmi sul famoso «moltiplicatore fiscale» dimostrano che
gli aumenti di tasse hanno un impatto recessivo minore rispetto ai tagli alla spesa.
D’altronde, non ci vuole molto a capire che in questo momento tagliare ulteriormente le
pensioni, che rappresentano l’ultima linea contro la povertà per milioni di greci, avrebbe un
impatto recessivo ben più grave degli inasprimenti fiscali proposti dal governo (che comunque, sia chiaro, sarebbe meglio evitare nel mezzo di una depressione economica). Difficile
non condividere la reazione a caldo di Tsipras alla notizia dell’ennesimo niet dei creditori:
«O non vogliono un accordo oppure vogliono servire gli interessi degli oligarchi greci».
Paul Krugman sul suo blog è stato ancora più esplicito: «A questo punto dovremmo smetterla di parlare del rischio di un’“uscita accidentale” della Grecia dall’euro; se il Grexit ci
sarà, sarà perché lo hanno voluto i creditori, e in particolare l’Fmi». D’altronde lo stesso
Tsipras ha recentemente accusato la troika di voler imporre un «cambio di regime» nel
paese ellenico. Un sospetto alimentato dalla presenza a Bruxelles negli ultimi giorni dei tre
leader dell’opposizione: l’ex premier Antonis Samaras, il nuovo leader del Pasok Fofi Gennimata e Stavros Theodorakis, segretario di To Potami. Dando corpo all’ipotesi che
l’obiettivo dei leader dell’Ue, a questo punto, non sia quello di un accordo ma piuttosto di
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portare il paese sull’orlo del baratro, costringendo il governo a indire nuove elezioni, in cui
l’opposizione si presenterebbe sotto un’unica bandiera pro-Europa.
Se veramente siamo di fronte al tentativo dell’establishment europeo di imporre un golpe
soft nel paese – e ormai è una possibilità che non si può escludere –, quali opzioni rimangono al governo? Insistere nel tentativo di giungere a un «compromesso onorevole» che
ormai appare impossibile sarebbe controproducente. Anche perché, se uno degli obiettivi
del tentativo di «appeasement» di Tsipras era quello di dimostrare la buona volontà della
nuova dirigenza greca, sollevando così il governo da ogni responsabilità per un’eventuale
«uscita forzata» del paese dall’euro — e annessi effetti collaterali –, quell’obiettivo può
considerarsi raggiunto. Basta leggere i commenti della stampa internazionale, sempre più
critici nei confronti dell’intransigenza della troika.
È anche per salvaguardare questo «credito politico» — ma soprattutto per evitare di peggiorare ulteriormente la situazione economica del paese, molto dipendente dalla importazioni di cibo, carburante e medicinali – che andrebbe evitata l’uscita unilaterale della Grecia dall’euro. Rimane una terza opzione: quella del default senza uscita dall’euro, con
l’annuncio che la Grecia non ripagherà il debito pubblico detenuto per l’80% da fondi europei d’emergenza, paesi membri, Fmi e Bce, né pagherà gli interessi dovuti.
A quel punto l’Europa sarebbe costretta a scoprire le sue carte. Non c’è nessun motivo,
infatti, per cui un default dovrebbe comportare l’uscita del paese dall’euro; questo dipenderà unicamente dal comportamento della Bce: se questa accetta di ristrutturare e ricapitalizzare le banche greche – ponendo come condizione che queste non comprino più titoli
di Stato ellenici, sostanzialmente recidendo il legame banche-governo, secondo la proposta avanzata da William Buiter sul Financial Times -, lo Stato greco, sollevato dal fardello
del debito, potrebbe tornare sui mercati e l’economia potrebbe ripartire.
Volendo, il governo potrebbe anche prendere in considerazione l’introduzione di una
moneta complementare, sul modello dei «certificati di credito fiscale» di cui tanto si parla.
Se, al contrario, la Bce decide di chiudere i rubinetti della liquidità, l’uscita del paese dalla
moneta unica – o peggio – sarà quasi inevitabile. Ma almeno il mondo intero saprà che
«sarà perché lo hanno voluto i creditori».
Del 26/06/2015, pag. 3
La rabbia delle anime di Syriza
Il bivio. Fra «inconciliabili» e «realisti» il programma di Salonicco alla prova dei numeri.
Dura denuncia contro l’ex premier Antonis Samaras «servo dei creditori» a Bruxelles
Più si dimostrano intransigenti i creditori nei confronti di Alexis Tsipras, più si rafforzano le
voci almeno nella sinistra radicale greca che chiedono vie alternative, elezioni anticipate
e l’uscita della Grecia dall’eurozona.
Il contenuto dell’accordo, nel caso davvero ci fosse, non solo fa inasprire il dibattito in seno
a Syriza, ma mette alla prova la compattezza del suo gruppo parlamentare. La sinistra
radicale è sempre stata un’area politica che comprende tutti: dai socialisti irradiati dal
Pasok e dal Kke, ex eurocomunisti fino a ecologisti-verdi, anti-global e «cani sciolti» con
diverse strategie. Un vero arcobaleno politico, ma anche un campo di elaborazione ideologica in cui spesso si scontravano tendenze opposte, ma che ora deve governare in un
ambiente europeo chiaramente ostile.
Alexis Tsipras, mettendo in evidenza la necessità di un governo alternativo che potrebbe
«combattere le politiche criminali dei creditori e dei governi della Nea Dimokratia e del
Pasok responsabili per la crisi», ha lasciato in parte la retorica di denuncia. Fino all’ultima
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campagna elettorale tendeva la mano ai comunisti del Kke, che considera Syriza un partito che «collabora con gli industriali, viene sostenuto dalle grandi imprese e ospita dei corrotti». Così il segretario Dimitris Koutsoubas.
Il cosiddetto programma di Salonicco, grazie al quale il giovane leader ha vinto le elezioni
del 25 gennaio, era in pratica un testo di compromesso tra varie correnti. Nonostante ciò,
i battibecchi polemici tra le varie anime non si sono mai esauriti.
Per i dirigenti, il dibattito è sempre costruttivo: rispecchia la ricchezza politica ed ideologica
del Syriza, senza compromettere la sua unità. Per i media (e non soltanto per quelli che
fanno il gioco degli oligarchi greci), il dialogo interno mette in evidenza le «divergenze profonde tra le correnti» e indebolisce il governo. Per una parte dell’elettorato, si tratta di
«poliglottismo degli esponenti del Syriza».
Nei cinque mesi di governo, il premier greco per evitare che il suo esecutivo fosse una
«parentesi di sinistra», come vorrebbero falchi finanziari, conservatori e socialisti a Bruxelles ed ad Atene, ha preferito una svolta verso il realismo. L’alternativa sarebbe uno scontro frontale ancora più duro tra il governo e i creditori internazionali, la chiusura dei rubinetti dalla Bce, il default, l’uscita obbligata dalla zona euro.
Durante questo periodo non erano pochi i momenti che componenti e deputati di rilievo del
Syriza si sono schierati a favore di proposte opposte da quelle avanzate da Alexis Tsipras.
L’eurodeputato di Syriza, Manolis Glezos, simbolo della resistenza contro i nazisti, il ministro delle Infrastrutture, Panajotis Lafazanis, ex dirigente del Kke e leader della Piattaforma di sinistra, la componente d’ opposizione interna più forte, la presidente del parlamento, Zoi Konstantopoulou, il vice-ministro della previdenza sociale, Dimitris Stratoulis ed
ex socialisti, come il vice-presidente della camera, Alexis Mitropoulos, vorrebbero che il
nuovo presidente della Repubblica provenisse dall’area della sinistra, e non di destra,
com’è il conservatore Prokopis Pavlopoulos.
Riferendosi all’accordo di Bruxelles del 20 febbraio, la Piattaforma di sinistra l’aveva caratterizzato «un indovinello». Glezos la aveva paragonato ad «una bomba alle fondameta del
governo di Syriza-Anel». In un documento reso pubblico allora il professore di economia,
Yannis Milios (giá responsabile della politica economica del Syriza), e altri due dirigenti
avevano criticato aspramente l’operato del ministro delle finanze, Yanis Varoufakis. Lo
scontro ideologico tra un dirigente apertamente marxista e un ministro di sinistra, ma di
tendenza keynesiana, era piú che evidente.
Noti esponenti, come il deputato Kostas Lapavitsas, professore all’Università di Londra,
non perdono occasione per esprimersi a favore del ritorno alla dracma, mentre altri non
vogliono sentir parlare di privatizzazioni o difendono i prepensionamenti. «Se la Grecia
esce dall’ eurozona non sará la catastrofe» scrive nel sito web la Piattaforma di sinistra.
Gli «inconciliabili» credono che una fuoriuscita della Grecia dall’Ue metterebbe i greci in
salvo, ed è comunque meglio del perenne stato di impoverimento attuale, senza tener
conto che la competitività resta bassissima. I «realisti» replicano che c’è spazio per un
compromesso onorevole secondo il programma di Salonicco.
L’opposizione interna non ha mai finora messo in dubbio apertamente né le scelte di Tsipras, né la sua tattica durante le trattattive. Anzi, ieri Syriza ha denunciato con toni duri l’ex
premier Antonis Samaras, che dopo l’incontro a Bruxelles con i creditori e «nel momento
in cui il governo dà una battaglia dura per difendere i diritti dei greci, chiede un governo
nuovo con un premier servo degli interessi dei creditori».
Ora per motivi di disciplina di partito o di convenienza, sembra che un numero piccolo
rispetto alle reazioni interne di deputati Syriza (al massimo 10–15) voterebbero contro
l’accordo. Ma, di fatto, guadagnano spazio le voci critiche alle scelte di Tsipras. Anche nel
comitato centrale del Syriza. Giá 44 dei 149 parlamentari si erano espressi contro la
nomina di Elena Panaritis all’incarico di rappresentante della Grecia nel Fondo monetario
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internazionale. Se poi si tiene conto che il partner di governo e leader del partito di destra
“Greci Indipendenti” (13 seggi), Panos Kammenos, è pronto a votare contro l’accordo nel
caso preveda l’abolizione dell’Iva scontata sulle isole, e che Syriza ha 149 seggi, non è da
escludere un nuovo ricorso alle urne o un referendum affinché Tsipras rinconfermi il
mandato.
Del 26/06/2015, pag. 20
Attacco a sorpresa l’Is rientra a Kobane
L’accusa dei curdi “Aiuti dalla Turchia”
Battaglia nella città simbolo della resistenza ai jihadisti Decine di morti,
conquistati alcuni quartieri della periferia
ALBERTO STABILE
BEIRUT . I miliziani dello Stato Islamico hanno lanciato un attacco a sorpresa su Kobane,
la cittadina curda al confine con la Turchia dalla quale erano stati cacciati nel gennaio
scorso dopo una battaglia durata quattro mesi. Parallelamente, in quella che sembra una
classica manovra diversiva per bloccare le forze curde nella loro avanzata su Raqqa, la
cosiddetta “capitale” del Califfato, le formazioni jihadiste hanno scatenato l’offensiva anche
su Hassakeh, il capoluogo dell’omonima provincia a Nordest di Kobane, in parte
controllata dalle formazioni armate curde e in parte dall’esercito fedele ad Assad. Una
terza coalizione di forze ribelli, il Fronte Sud, che si avvale degli aiuti americani, sta
puntando su Deraa, la città al confine con la Giordania dove, più di quattro anni fa, la
rivolta siriana ebbe inizio. Ma sia per il suo valore emblematico, che per la sua importanza
strategica, è sulla nuova battaglia di Kobane, la cittadina diventata un luogo simbolo della
resistenza curda contro la marea integralista dello Stato Islamico, che oggi si concentra la
maggiore attenzione. Una battaglia cominciata con l’irruzione di cinque formazioni jihadiste
che si sono fatte strada oltre le difese curde a colpi di autobombe. La prima è esplosa
all’alba, nei paraggi del posto di frontiera con la Turchia di Mursitpinar, le altre nel corso
della mattinata. I morti, secondo l’Osservatorio per i diritti umani, l’organizzazione non
governativa di base a Londra, vicina all’opposizione siriana, sarebbero già 35, mentre 65
feriti hanno cercato soccorso nel villaggio di Suruq, in territorio turco.
Gli assalitori hanno potuto contare sull’effetto sorpresa issando sulle auto sulle quali
viaggiavano la bandiera della rivolta siriana e indossando divise dei miliziani del YPG, le
unità di autodifesa curde, e del Libero Esercito Siriano.
Evidentemente, i jihadisti erano riusciti ad infiltrare altri uomini nel dedalo di rovine in cui è
stata ridotta Kobane. Sta di fatto che, dopo le autobombe, è cominciato uno scontro a
fuoco che è andato avanti per tutto il pomeriggio, in alcune zone della città e nei villaggi
del suo hinterland. Ma perché, di nuovo Kobane? Secondo gli osservatori impegnati ad
analizzare tattiche e strategia dello Stato Islamico, più che una nuova offensiva gli
strateghi del Califfato hanno voluto inscenare una controffensiva per fermare l’avanza
delle milizie curde verso Raqqa. «Fanno sempre così – dicono questi analisti – quando i
combattenti dello Stato Islamico sono in difficoltà in un determinato luogo, attaccano
altrove». E non c’è dubbio che i jihadisti nelle ultime settimane siano apparsi in gravi
difficoltà, dopo essere stati costretti dall’incalzante avanzata dei curdi del YPG a ritirarsi da
Tel Abyad e da Ayn Issa, lasciando, in pratica, Raqqa, distante soltanto una cinquantina di
chilometri, esposta ad un probabile attacco.
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I curdi, inoltre, avevano esteso il controllo su 400 chilometri di confine con la Turchia, con
grande allarme non solo dei ribelli islamisti, che hanno sempre potuto contare sulla
compiacente retrovia turca, ma dello stesso governo di Ankara che vede i curdi del YPG,
un’emanazione del PKK di Abdallah Ochalan, come una vera e propria minaccia alla
sovranità turca. Da qui le polemiche che, anche in occasione della controffensiva dello
Stato Islamico su Kobane, sono immediatamente esplose. Con i curdi che accusano che i
miliziani islamisti sono arrivati dalla Turchia e il governo di Ankara che nega e smentisce.
E con il leader del Partito Democratico del Popolo, filo curdo, entrato per la prima volta in
parlamento alle recenti elezioni, che attacca Erdogan affermando che «il governo turco ha
sostenuto per anni lo Stato Islamico. Il massacro di Kobane è frutto di questo sostegno».
Del 26/06/2015, pag. 1-16
Le partigiane del Rojava
Giuliana Sgrena
Chi riuscirà a sconfiggere i terroristi dell’Isis? Solo chi ha un progetto di società alternativo
a quello fondamentalista del califfato e dei suoi sostenitori, a oriente e a occidente.
L’alternativa si basa sul Contratto sociale del Rojava, un progetto rivoluzionario portato
avanti dai kurdi che finora hanno inferto le più cocenti sconfitte, anche se purtroppo non
definitive, ai seguaci di al Baghdadi. Un progetto per la costruzione di una società laica,
democratica ed egualitaria, dove possano vivere liberamente e pacificamente diverse
etnie, confessioni, culture e identità.
Sul piano economico propone uno sviluppo ecologicamente compatibile contro lo sfruttamento umano e della natura, incompatibile con il liberismo. Il riconoscimento
dell’uguaglianza tra uomo e donna rappresenta forse, nell’immaginario dell’Isis, il nemico
peggiore. Non a caso l’Isis ha proclamato le donne «il nemico numero uno». Sono state
infatti le combattenti kurde dell’Unità di difesa delle donne a far crollare le certezze di
coloro che combattono in nome di dio convinti che il martirio durante il jihad rappresenti il
viatico per il paradiso dove li attendono le vergini. E invece si sono trovati sulla loro strada
le «streghe» del Rojava che hanno inferto un duro colpo alla loro ideologia.
Le donne come gli uomini del Rojava combattono per un ideale, per costruire una società
più giusta, democratica e laica; per questo fanno paura, non solo all’Isis, ma a tutte le teocrazie della regione, innanzitutto alla Turchia che proprio ieri ha favorito il rientro a Kobane
dei fascisti – perché chi sgozza, stupra, terrorizza la popolazione e distrugge la cultura
e l’arte non può essere definito diversamente – dell’Isis.
La Turchia è la principale responsabile degli aiuti forniti ai jihadisti che combattono in Siria
e nello stesso tempo blocca il passaggio degli aiuti umanitari per la popolazione di
Kobane, rimasta senza casa, senz’acqua, senza elettricità. Erdogan è spaventato anche
per il successo ottenuto nelle ultime elezioni dal Partito democratico del popolo (Hdp) che
condivide il progetto politico del Rojava, ispirato peraltro dal leader kurdo Ocalan, rinchiuso nel carcere di Imrali. I kurdi rinunciando all’indipendenza (un sogno che si è verificato irrealizzabile), pur chiedendo un’autonomia all’interno della Turchia o della Siria di cui
gode già il Kurdistan iracheno, hanno fatto del modello sociale da costruire il loro obiettivo
politico. Non hanno aspettato di aver sconfitto il nemico per applicarlo, né in Siria e nemmeno in Turchia, dove hanno anche deposto le armi. Erdogan, che si era detto pronto al
dialogo per la soluzione della questione kurda, è rimasto spiazzato. Nel frattempo la lotta
per il parco di Gezi ha permesso ai kurdi di costruire nuove alleanze e il risultato si è visto
il 7 giugno (elezioni). Il nuovo sultano ha reagito istericamente e, rispondendo all’appello
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dell’Isis che vuole rafforzare i combattimenti durante il Ramadan, ha favorito ancora una
volta il passaggio di jihadisti. A Kobane si torna a combattere in queste ore, ma i partigiani
della rivoluzione non cederanno, anche se le loro armi sono poche e obsolete il loro progetto rivoluzionario – che ha eliminato anche la pena di morte — è più forte del fanatismo
oscurantista di chi non seppellisce i corpi dei combattenti se sono caduti per mano di una
donna, perché non potranno accedere al paradiso.
Del 26/06/2015, pag. 17
La Corte suprema salva Obama
“La riforma sanitaria è legittima”
Paolo Mastrolilli
L’eredità politica del presidente Obama è salva, almeno quella della riforma sanitaria.
Infatti la sentenza con cui ieri la Corte Suprema ha confermato la legalità del principale
risultato ottenuto dal capo della Casa Bianca sul fronte interno, garantisce in sostanza che
sopravviverà alla sua amministrazione.
Sul tavolo dei giudici era arrivata una causa presentata da quattro abitanti della Virginia,
legata a un aspetto specifico della riforma: quello dei sussidi offerti alle persone che
comprano le nuove polizze. A livello nazionale, finora 10,2 milioni di cittadini hanno aderito
all’Obamacare, ma questo numero include 8,7 milioni di utenti poveri che ricevono in
media 272 dollari al mese dal governo per aiutarli a pagare le assicurazioni. Senza, molti
di loro non potrebbero permettersele.
Offensiva repubblicana
La legge dice che tali soldi pubblici possono essere assegnati solo attraverso dei mercati
«creati dallo Stato», e i repubblicani contrari alla riforma avevano approfittato di queste
parole per cercare di farla deragliare, sostenendo che così discriminava alcuni cittadini.
Infatti 34 Stati non avevano creato questi mercati per l’acquisto delle polizze, proprio per
boicottare la riforma. Ma se i sussidi non erano disponibili per i loro abitanti, «Obamacare»
violava il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, e quindi doveva
essere annullata. Il governo federale aveva risposto intervenendo direttamente, per dare le
agevolazioni al posto degli Stati che le rifiutavano, ma questa iniziativa era stata
contestata appunto dalla causa finita davanti alla Corte Suprema. In altre parole, i
conservatori contrari per principio alla riforma avevano scelto questo cavillo per bloccarla.
Il giudice scelto da Bush
Ieri sei giudici su nove, compreso il presidente della Corte Roberts che era stato nominato
da George Bush, hanno dato ragione a Obama. È vero infatti, come ha notato lo stesso
Roberts scrivendo l’opinione della maggioranza, che il linguaggio della legge si presta ad
equivoci, ma l’intenzione reale del governo era «migliorare il mercato delle assicurazioni,
non distruggerlo». Quindi il testo va interpretato come una generale autorizzazione allo
Stato di intervenire in aiuto dei cittadini interessati a sottoscrivere le nuove polizze. Il
giudice Scalia, scrivendo l’opinione della minoranza, ha denunciato che «ormai questa è la
Scotuscare, la riforma sanitaria della Corte Suprema, perché stravolge le sue parole pur di
difenderla».
La Casa Bianca festeggia
Obama ha celebrato rispondendo che «nonostante tutti i ricorsi, questa legge aiuta milioni
di cittadini ed è destinata a restare». I repubblicani hanno criticato la sentenza, ma dietro
le quinte hanno tirato un sospiro di sollievo, perché non avevano un’alternativa pronta da
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proporre ed erano divisi su come procedere. La riforma quindi sopravviverà al presidente
che l’ha scritta, e se i suoi oppositori vorranno cancellarla, dovranno vincere le elezioni
presidenziali e congressuali dell’anno prossimo.
INTERNI
Del 26/06/2015, pag. 2
Scuola ok, Renzi incassa la fiducia tra urla,
insulti e finti funerali
In Senato 159 sì e 112 no.Protestano le opposizioni,M5S contro
Napolitano Romani:
“Governo senza maggioranza” La piazza con Fassina,fischi a Mineo
CARMELO LOPAPA
ROMA . La riforma della scuola passa l’esame più difficile, a Palazzo Madama i sì sono
159, i contrari 112, tra lumini mortuari, fischietti, fasce nere, striscioni in aula. La “buona
scuola” diventerà legge a Montecitorio dove approderà già il 7 luglio. Bisogna correre,
dicono dal governo, per sbloccare le 103 mila assunzioni in tempo per settembre. “Ce
l’abbiamo fatta” scrive via sms al premier Renzi la ministra dell’Istruzione Giannini. Ma si
va sotto quota 160, la metà più uno dei senatori se si considerano quelli a vita. Tanto che il
forzista Paolo Romani e il leghista Roberto Calderoli vantano una mezza vittoria, nella
disfatta: «Il governo non ha più i numeri al Senato ».
Fuori dall’aula i professori e gli studentidalle 17 attraversano Roma, partendo dalla Bocca
della verità, saranno bloccati dalla polizia in stato antisommossa a piazza Sant’Andrea
della Valle, poco distante da Palazzo Madama. I capannelli si animeranno parecchio in
serata, quando i parlamentari grillini e quelli di Sel si uniranno ai manifestanti in piazza,
per urlare anche da lì “vergogna” ai senatori di maggioranza che alla spicciolata escono e
passano a tiro. I flash mob del pomeriggio lasciano il posto agli slogan urlati: “No pd, no
pd, traditori, traditori”. Si becca la contestazione (“Vattene buffone”) Corradino Mineo, che
pure ha negato la fiducia al governo con gli altri della sinistra pd: Roberto Ruta, Walter
Tocci, Felice Casson. Pretendevano il no, piuttosto che la defezione dal voto. Tutt’altra
accoglienza per l’ormai ex pd Stefano Fassina, applausi e abbracci dagli insegnanti: «È
inaccettabile che vi sia stata sbattuta la porta in faccia», li consola lui. Dentro, l’aula è in
subbuglio, lo sarà dal mattino fino al voto finale. Il governo ce l’ha fatta sì, il ministro Stefania Giannini («Non sono commissariata») e il sottosegretario Davide Faraone si
abbracciano. Ma con voti e assenze che pesano. Con i sì, ad esempio, degli ex Fi Sandro
Bondi e Manuela Repetti, con l’assenza fin troppo evidente di Denis Verdini, ormai in rotta
col suo partito. Se è per questo non si fanno vedere nel giorno decisivo, ma per marcare la
distanza, nemmeno il senatore a vita Carlo Rubbia, e Elena Cattaneo e Mario Monti,
uomini di scienza e di università. Tra le file della maggioranza spicca anche l’assenza di
Carlo Giovanardi, ma l’Ncd di cui fa parte è compatto e determinante.
Dagli ultrà grillini e Sel non sarà risparmiato nessuno dei votanti a favore. Nemmeno, per
la prima volta, l’ex presidente Giorgio Napolitano. Ha appena pronunciato il suo “sì” alla
prima chiama e finisce sopraffatto da cori di “buu”, “bravo, bravo”, “vergogna” e fischi dai
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banchi dei Cinque stelle. Lui si allontana lentamente sostenendosi sul bastone, senza
voltarsi. Sono da poco passate le 18, è il momento più basso di una giornata che è andata
degradando come su piano inclinato verso il caos finale. Una corrida, protagonisti anche
prof e studenti dalle tribune in alto, che si scatenerà contro tutti gli ex grillini che oseranno
pronunciare il “sì” alla chiama, ma anche contro chi, come Miguel Gotor sta alla sinistra del
pd, ma non al punto da negare la fiducia. «Voto sì per disciplina, ma gli elettori non ci
perdoneranno», è il suo presagio. A mezzogiorno i parlamentari di Sel compaiono con tshirt bianche con la scritta “Libertà di insegnamento” e “Diritto allo studio”, il clou sarà l’uso
imperterrito dei fischietti in aula, stile Vuvuzelas ai mondiali del Sudafrica. La maglietta la
indossa anche Maria Mussini del Misto e il presidente Grasso le chiede di toglierla. «Che
faccio presidente, mi spoglio? Volete uno striptease?» La capogruppo Sel De Petris nel
frattempo ha adagiato una di quelle magliette sul banco del ministro Giannini. «Fuori i bulli
dalla scuola», campeggia sui cartelli mostrati dai leghisti con tanto di fotomontaggio del
premier Renzi nei panni del Fonzie di “Happy days”. Nulla rispetto allo striscione che a un
certo punto srotolano sempre i leghisti: «Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di
Satana», c’è scritto. Il loro Gian Marco Centinaio si distinguerà per aver paragonato il ddl
alla “vaselina”. I grillini portano in aula i lumini mortuari, dopo averli ostentati in sala
stampa a beneficio delle telecamere per il “funerale” della scuola. «Quei lumini che avete
là non portano bene», li ammonisce con l’ultimo briciolo di ironia l’ormai esausto
presidente Grasso. Perderà le staffe solo quando i banchi M5S si trasformeranno in curva
sud pronta a colpire chiunque voti a favore o quasi: «Questi sono gesti di intolleranza. Il
voto deve essere libero, non voglio commenti né prima, né dopo». Ma sarà inutile. Bondi e
Repetti, con Casini e tutti gli ex grillini, i più tartassati. Beppe Grillo via Twitter sentenzia:
«Hanno ucciso la scuola pubblica». I centomila da assumere tirano un sospiro di sollievo.
Del 26/06/2015, pag. 14
De Magistris è in carica sospensione
annullata oggi decreto su De Luca
Il tribunale dà ragione al sindaco, Severino congelata E il precedente
ora gioca a favore del governatore
DARIO DEL PORTO
NAPOLI. Luigi de Magistris non tornerà «sindaco di strada». La sospensione del primo
cittadino di Napoli, ha stabilito il giudice civile, resterà congelata fino alla decisione della
Consulta sull’eccezione di legittimità costituzionale della legge Severino. Ma quando l’Alta
Corte si pronuncerà, la condanna per abuso d’ufficio riportata dall’ex pm nel caso Why Not
sarà già stata cancellata in appello da un’assoluzione o dalla prescrizione. Caso chiuso,
dunque. Per il neo governatore Campania Vincenzo De Luca, invece, la partita con la
legge Severino comincia oggi, con il probabile varo del decreto interpretativo supportato
dal parere dell’avvocatura dello Stato, e andrà avanti fino all’insediamento nella carica di
governatore, l’inevitabile sospensione e lo scontato ricorso in tribunale. Davanti al giudice,
il precedente di de Magistris potrebbe giocare a favore del presidente della Regione.
L’ordinanza di ieri costituisce infatti il primo provvedimento da quando le sezioni unite della
Corte di Cassazione hanno assegnato al giudice ordinario, e non più al Tar, la valutazione
dei ricorsi contro la legge Severino. I magistrati (presidente Umberto Antico, giudice
estensore Ornella Minucci, a latere Roberta Di Clemente) ricordano il carattere
temporaneo del mandato di sindaco e sottolineano: «Qualora la Corte Costituzionale
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dovesse ritenere fondata la questione di legittimità » sollevata dagli avvocati Stefano
Montone, Giuseppe Russo e Lelio Della Pietra, legali di de Magistris, sul nodo
dell’applicazione retroattiva della Severino, il diritto del sindaco «resterebbe
definitivamente ed irrimediabilmente vanificato» da una sospensione. E questo
arrecherebbe «un pregiudizio grave ed irreparabile» all’amministratore che non potrebbe
più recuperare «il tempo del mancato esercizio della funzione». Il ministro dell’Interno,
Angelino Alfano, commenta: «Secondo me l’ordinanza è l’ennesima prova che la legge
Severino non funziona. Non dico che non funzioni nel suo insieme perché stiamo
contrastando più efficacemente la corruzione, ma per quanto riguarda i regimi di
sospensione non funziona». Resta da capire quali saranno gli effetti nel caso De Luca,
condannato in primo grado per abuso d’ufficio nel processo sulla nomina del project
manager del termovalorizzatore di Salerno e per questo in procinto di essere sospeso.
Oggi il governo potrebbe approvare il decreto legge interpretativo della legge Severino per
consentire, prima della sospensione, l’insediamento della giunta e la nomina di un vice. In
questo modo si garantirebbe, si legge nel parere dell’avvocato generale dello Stato
Massimo Massella Ducci Teri, «l’esercizio delle funzioni sostitutive per l’ipotesi di
sospensione del presidente e la continuità dell’indiritto politico emerso dalle consultazioni
elettorali». Lunedì si riunisce il consiglio regionale, De Luca insedierà l’esecutivo, poi sarà
sospeso. Il governatore, argomenta il giurista Gianluigi Pellegrino ( che nel giudizio su de
Magistris assiste il Movimento difesa del cittadino), «non potrà giovarsi della decisione del
tribunale di Napoli. L’eventuale ricorso di De Luca — scrive Pellegrino sul suo blog
pubblicato dall’Huffington — avrebbe storia a sé e dovrebbe misurarsi con decine di
motivatissimi precedenti di merito sia del Consiglio di Stato che dei giudici ordinari che
hanno respinto il ricorso di altrettanti amministratori sospesi».
Del 26/06/2015, pag. 17
Dossier Gabrielli, Marino in bilico
Orfini: “Dopo quello decideremo”.Vicina la scorta per il sindaco
LA GIORNATA
GIOVANNA VITALE
ROMA . «La linea non cambia: il se non è in discussione, quel che resta da capire è solo il
come Marino lascerà». Se cioè qualcuno riuscirà infine a convincerlo a fare le valigie o si
dovrà imboccare la strada, più traumatica, delle dimissioni di massa in aula Giulio Cesare.
Ché pure il quando è già stabilito: la relazione del prefetto Gabrielli sull’eventuale
presenza di infiltrazioni mafiose in Campidoglio. «Uno spartiacque», per il Nazareno.
Lo ribadisce il presidente nazionale e commissario romano Matteo Orfini: «Dopo quella, si
farà insieme un ragionamento per capire come andare avanti. Io però da qui ad allora
eviterei di complicare il clima, che non serve a nessuno». Un avvertimento chiaro a
Marino, che dal suo fortino assediato lancia messaggi, minaccia rivelazioni su chi lo
avrebbe costretto a promuovere in giunta gli uomini del Pd risultati poi coinvolti in Mafia
Capitale: «Ora pensi a lavorare e ad amministrare bene, senza alimentare polemiche e
ulteriore confusione», taglia corto Orfini. Pronto a stoppare la manovra di avvicinamento al
premier tentata dagli sherpa del sindaco per ricucire: «Tra lui e Renzi non è previsto alcun
incontro, si farà quando, insieme, dovremo valutare il da farsi dopo il parere di Gabrielli».
Il crinale oltre il quale «niente sarà più come prima», garantiscono i più vicini al capo del
governo. Consapevoli che se un errore è stato fatto finora è «aver sottovalutato il carattere
di Marino». Indifferente a ogni scossone, alle sberle assestate dal premier, alle
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scomuniche che a cadenza quasi quotidiana piovono dai piani alti del Pd. Lasciato solo
anche nel giorno del suo primo successo dopo settimane di tensione: il via libera alla
mozione sulla candidatura di Roma ai Giochi 2024, approvata in consiglio comunale con i
soli voti contrari dei grillini e dell’esponente di “Noi con Salvini”. Salutata con entusiasmo
dai presidenti del Coni Malagò («Oggi lo sport ha prevalso su alcune logiche della
politica») e del Comitato promotore Montezemolo («Saranno le Olimpiadi della bellezza,
della cultura, della tecnologia»). Ma accolta dal gelo del governo: nessun ministro o
sottosegretario che si sia congratulato, abbia espresso soddisfazione, «e dire che Renzi ci
aveva messo la faccia». Una vittoria, quella di Marino, ottenuta solo a prezzo di una
clamorosa ritrattazione: «Non mi sentirete più pronunciare quelle parole», è stato infine
costretto a dichiarare in aula, a proposito dell’invettiva («La destra deve tornare nelle
fogne») lanciata domenica scorsa alla Festa dell’Unità. La condizione posta dalla
minoranza — da Ncd a Fi — per votare la mozione sui Giochi. Minacciando, se non si
fosse scusato, di diffondere un dossier su tutti gli uomini nominati dal sindaco — politici e
dirigenti — che intrallazzavano con il clan di Carminati. «Oggi inizia una sfida
straordinaria, per la città e il Paese, che vogliamo vincere tutti insieme», esulta Marino.
L’unica ombra è quella allungata dalla busta con i proiettili, indirizzata a lui e alla famiglia,
intercettata allo scalo di Fiumicino. Un riferimento, alla moglie e alla figlia, che lo turba
moltissimo. «Le minacce sono attendibili », fa sapere il prefetto, assegnandogli una scorta.
Che lui però vorrebbe rifiutare: «Ci penso». Ma Orfini lo esorta: «Accettala, il clima è
inquietante, il Pd è tutto con te».
Del 26/06/2015, pag. 5
Roma 2024, già oro per Odevaine: amici scelti
per l’ambiente
Dal Coni 35mila euro in consulenze a Italia Green di Ferrante, già
numero 2 nella Fondazione dell’ex funzionario di Veltroni
Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, senatori del Pd fino al 2013, sono stati scelti dal
Coni come consulenti per gli aspetti ambientali delle Olimpiadi del 2024. La società (di
lobbying ambientale) Italia Green della quale sono soci e amministratori alla pari ha
ottenuto, senza gara un contratto da 35 mila euro più Iva da parte di una società pubblica
(Coni Servizi è al 100 per cento del Ministero Economia e Finanze) “perché si tratta di un
valore ‘sotto soglia’”, spiega l’amministratore del Coni Servizi Alberto Miglietta. Il Coni ha
pensato che l’ex presidente e l’ex direttore di Legambiente fossero le persone giuste per
far digerire i cinque cerchi ai verdi.
Il Campidoglio ieri ha approvato una mozione bipartisan per le Olimpiadi del 2024. La
società scelta per seguire l’aspetto ambientale di Roma 2024, Italia Green, però non
aveva un buon biglietto da visita, nel senso proprio del termine, per via della sede: nello
studio di Stefano Bravo, arrestato il 4 giugno scorso per i suoi affari con Luca Odevaine.
Bravo aveva ricevuto anche una procura per gli adempimenti amministrativi di Italia Green
da Ferrante che spiega: “Era il nostro commercialista. La sede è stata spostata”.
Nell’informativa del Ros dei Carabinieri del 16 febbraio del 2015 però ci sono un paio di
conversazioni poco edificanti di Odevaine con Francesco Ferrante, vicepresidente della
Fondazione IntegrAzione dentro i cui uffici era piazzata la cimice del Ros. Il 16 giugno
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2014, il presidente di IntegrAzione Odevaine spiegava al vicepresidente Ferrante la gara
per il Cara di Mineo che cinque mesi dopo sarà vinta dal raggruppamento capeggiato dalla
Cascina grazie a una turbativa secondo i pm.
Non sarà rassicurante per il Coni scoprire come Odevaine spiegava a Ferrante, (che non è
indagato) la gara ‘finta’ di Mineo: “Si sono inventati una figura senza senso per fare due
procedimenti separati uno per il reperimento dell’immobile che (…) cioè quale pensi che
possa essere un altro immobile se l’ambito è quello del consorzio Calatino? Sarà di quei
Comuni, non è che ne esiste un altro di immobile. Me fai fa una procedura per prendere in
affitto l’immobile e poi la procedura di gara per affidare i servizi quando il proprietario
dell’immobile sta in Ati con chi fa i servizi… cioè è chiaro che è finta no?!”. Solo Pizzarotti,
alleato con La Cascina, possiede un immobile come quello del Cara di Mineo, spiega
Odevaine ecco perché la gara da 100 milioni era finta. Ferrante replica: “Ora è tutto chiaro.
Al momento sembravano solo chiacchiere che non riguardavano né me né la Fondazione
che non c’entra nulla con Italia Green Srl”.
Nell’informativa del Ros dopo questa intercettazione iniziano 120 pagine di omissis.
Mentre è riportata la conversazione del 12 maggio 2014 nella quale Odevaine gli spiega il
suo piano per la gara di San Giuliano di Puglia: “ho trovato già una persona che la fa per
me… Patrizia Cologgi (funzionario della presidenza del consiglio, Ndr) lei la farà, è un
soldato”. San Giuliano avrebbe reso alla Cascina più di Mineo: “A San Giuliano con c’è
affitto (l’immobile era in questo caso il villaggio donato dagli italiani ai terremotati, Ndr) per
cui vuol dire che tu c’hai 10 euro di margine sicuro … insomma anche se gli chiedo due
euro (riferito agli accordi con la cooperativa, basati su un ‘tot’ al giorno per ogni ospite,
Ndr) eh comunque diventano 30 mila euro al mese con cui ce mandiamo avanti qua la …
ed è per tre anni qua il contratto!”. La sensazione è che Odevaine volesse spiegare a
Ferrante come avrebbe fatto a far guadagnare la Cascina per poi chiedere alla coop
ciellina 30 mila euro al mese per mandare avanti la Fondazione. “L’amicizia mi ha fatto
velo: pensavo che parlasse di compensi per lavori svolti, non certo di mazzette”, spiega
Ferrante. Ferrante e Della Seta nel giugno 2013 hanno creato il movimento Green Italia.
Nel ‘comitato dei cento’ c’era anche Odevaine, proveniente da Legambiente anche lui.
Italia Green Srl nasce a marzo 2013. Il nome è simile a quello del movimento ma non
hanno nulla a che fare. La società svolge “attività di consulenza e assistenza nel settore
ambientale”. I suoi clienti sono privati, come Parsitalia o Castalia. Ma anche pubblici.
Nell’oggetto sociale ci sono anche le “azioni di lobbying per costruire coalizioni bipartisan a
favore dei clienti e delle loro iniziative”.
Del 26/06/2015, pag. 13
Il pasticcio delle firme false nel Pd paralizza il
Piemonte di Chiamparino
Il 9 luglio l’esame del Tar. Ma con un verdetto negativo o un lungo rinvio
il governatore si dimetterà
DAL NOSTRO INVIATO TORINO
L’antefatto è la meravigliosa armonia che regna nel Partito democratico piemontese. Era
la notte del 18 aprile 2014. A momenti si menavano, tra fassiniani, nel senso di sostenitori
dell’attuale sindaco del capoluogo, sinistra interna, renziani reduci della Margherita e
Ateniesi, la corrente locale degli ortodossi seguaci della prima ora del presidente del
Consiglio. Mancavano poche ore alla presentazione delle candidature per le elezioni
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regionali. Togli un nome, mettine un altro, la lista cambiava volto e nomi ogni minuto, a
seconda di chi prevaleva nel braccio di ferro. Alla fine si trovò la quadra, la si trova
sempre. Piccolo dettaglio, a forza di scannarsi non c’era più tempo per trovare invece le
firme di sostegno ai prescelti, obbligatorie per legge. C’era bisogno di qualcuno che
vidimasse quelle raccolte ai banchetti, ma ormai s’era fatta una certa ora, e forse a
qualcuno venne in mente di falsificare quelle dei titolari.
Sergio Chiamparino ha rapporti molti complicati, gentile eufemismo, con i vertici del Pd
locale. Non da ieri è furibondo per come venne gestita quella specie di faida, della quale
rischia ora di pagarne le conseguenze. Tu chiamala se vuoi, nemesi. Ma ancora una volta
la Regione Piemonte è congelata nell’attesa del consueto giorno del giudizio che andrà in
scena al Tar di Torino il prossimo 9 luglio. Il ricorso è firmato da una esponente della Lega
Nord. Vendetta, tremenda vendetta. Nel 2010 la vicenda delle firme false diventò una
spada di Damocle che tra sentenze, rinvii al Consiglio di Stato, ritorni al Tar, rese la vita
impossibile all’allora governatore Roberto Cota e fu causa della sua caduta anticipata.
Il successore ribadisce di non voler rimanere appeso a questa specie di stato vegetativo.
Se la faccenda non verrà decisa in modo positivo o peggio sarà rimandata alle calende
greche, la lettera di dimissioni è già pronta nel cassetto. Per un uomo politico che ha
sempre fatto della praticità la sua cifra e voleva far ripartire la Regione, non c’è sorte
peggiore di questa attesa simile all’inazione che potrebbe protrarsi per anni. All’inizio di
giugno la conferenza dei capigruppo ha deciso di non convocare i lavori di giunta fino a
dopo la sentenza del Tar. L’aria che tira è questa, avanti con l’ordinaria amministrazione,
mentre Movimento 5 Stelle e centrodestra picchiano come fabbri su un pugile con le mani
legate, chiedendo dimissioni, che forse avranno, e voto in autunno.
«È quasi un anno che non posso più andare al bar. La gente mi vede e mi indica come
quello delle firme false». Se quella notte avesse firmato davvero tutti quei moduli del listino
regionale, il braccio gli farebbe male ancora oggi. In cinque minuti di conversazione
Pasquale Valente, ex consigliere provinciale del Pd, pensionato, arrivato 45 anni fa nel
quartiere di Madonna di Campagna dalla sua Canosa di Puglia con il camion guidato da
papà e i mobili sul cassone, ripete altrettante volte «io sono una brava persona». I
magistrati gli hanno creduto, anche perché il suo nome a certificare le liste è ovunque, ma
con una ventina di versioni diverse della firma. Quella roba, ha detto, non è mia,
suscitando malumori all’interno del Pd, che forse sperava nel capro espiatorio perfetto.
«Spero che si scopra chi mi ha fatto questo. Per il resto, aspetto il 9 luglio, come tutti».
Antonio Ferrentino invece autentica firme a Sant’Antonino, comune del quale è sindaco, e
Torino, ma nello stesso giorno. «Faccio avanti indietro almeno tre volte. La Guardia di
Finanza ha accertato che la grafia è la mia. Certo, dopo il precedente di Cota ci doveva
essere maggiore attenzione e scrupolo».
La Procura indaga, il Tar deciderà sulle carte della Procura. I conteggi dei presunti falsi
riguardano gran parte dei moduli a sostegno delle liste del Pd e di quella personale del
candidato, e soprattutto 1.240 firme su 2.180 del listino che assegna di diritto sette
consiglieri al vincitore delle Regionali, autenticate negli ultimi tre giorni disponibili. La tesi
dell’ininfluenza sull’esito del voto rischia di non stare in piedi. Lo slogan dei democratici
per le elezioni regionali era «In Piemonte come in Italia il Pd dà il meglio». Magari la
prossima volta è meglio ricordarsi anche di acquistare una copia del manuale Cencelli.
Del 26/06/2015, pag. 8
Riforma della Rai e Todini al vertice
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La tregua del premier con Berlusconi
Il piano per cambiare la Gasparri con FI. E cercare un aiuto sul nuovo
Senato
ROMA Non sarà un patto del Nazareno con tutti crismi, non ci saranno più incontri, strette
di mano, fogli protocollati e firmati, e ognuno (Matteo Renzi e Silvio Berlusconi) veleggerà
verso il suo destino senza concedere troppo all’altro.
Ma una qualche forma di collaborazione, o, quanto meno, di tregua più che disarmata, tra
l’ex Cavaliere e il presidente del Consiglio c’è, con buona pace delle smentite che il leader
di Forza Italia ha fatto, a dire il vero, senza troppo vigore, o di quelle virulente del
capogruppo dei deputati azzurri Renato Brunetta. O, almeno l’hanno capita così i
collaboratori del premier, quando hanno sentito Renzi ripetere per l’ennesima volta, con
aria pacata e altrettanto ferma, che «la riforma della Rai si farà».
Del resto, a sponsorizzare dall’altra parte della barricata un atteggiamento meno ostile nei
confronti di Palazzo Chigi sono stati, non a caso, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. E
basta pronunciare questi due nomi per essere portati a pensare che in questa intesa una
parte importante l’abbia la tv. E infatti così è. Raccontano al Nazareno che la sicumera con
cui Renzi rassicura i suoi sul fatto che le prossime nomine dei vertici della Rai non
verranno fatte con la legge Gasparri derivi proprio da là. Cioè dall’accordo che si sta
costruendo (faticosamente) con Berlusconi per far passare in Parlamento la nuova
normativa sulla tv di Stato.
Come in ogni intesa politica, ognuno deve avere il suo. In questo caso il leader di FI
avrebbe il presidente. Anzi, la presidente. Ossia Luisa Todini, che attualmente ricopre un
altro incarico importante. È alla presidenza delle Poste italiane. Sì, è una delle nomine
femminili che il premier Renzi volle fare per dimostrare che l’Italia non può essere
declinata tutta al maschile. Ma tutti sanno che Todini ha lasciato il cuore alla Rai. E che
con Berlusconi ha mantenuto ottimi rapporti (entrò in Forza Italia nel 1994, proprio alle
origini dell’avventura del movimento azzurro). Per questa ragione nei conversari privati tra
gli sherpa che cercano di trovare l’accordo per sbloccare la «questione Rai» è stato fatto il
suo nome. E sia da parte del premier che da parte dell’ex Cavaliere non c’è stata nessuna
obiezione. In questo contesto, ovviamente, Luigi Gubitosi lascerebbe l’attuale incarico per
spostarsi altrove. Alle Ferrovie, dicono i più. Alle Poste, suggerisce qualcun altro.
Comunque non spetterebbe a lui la poltronissima di Viale Mazzini. Quella
dell’amministratore delegato al quale Renzi vorrebbe affidare tutti i poteri effettivi, quelli
che finora nessun direttore generale ha mai avuto nell’azienda della tv pubblica. Il nome
più gettonato per quel posto, al momento, è quello di Vincenzo Novari, genovese, classe
‘59, attuale amministratore delegato di 3 Italia, amico di Franco Bernabè e Renato Soru,
ha parlato dal palco della Leopolda ed è in buoni rapporti con uno dei più cari amici di
Renzi, Marco Carrai. Certo, viste le turbolenze parlamentari che sono all’ordine del giorno,
è ancora presto per dire se questo patto reggerà. Ma il presidente del Consiglio continua a
ripetere ai parlamentari a lui più vicini che «la riforma della Rai si farà». Segno evidente
che avrà avuto un qualche «affidavit», altrimenti non sarebbe così tranquillo su un
argomento di tale delicatezza. E non spiegherebbe ai fedelissimi: «Non ci possiamo
permettere di rinnovare i vertici della televisione di Stato con una legge come la Gasparri».
Quello che è più difficile capire è se questa intesa sulla Rai che si sta faticosamente
costruendo (all’insaputa di molti, sia nel centrodestra che nel Pd) possa essere foriera di
altre novità. Certamente non della modifica della legge elettorale, di cui pure si parla tanto
in questi ultimi giorni. Su questo punto il presidente del Consiglio è netto: «Non cambio
l’Italicum». Lo dice con grande sicurezza.
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E allora è sulla riforma costituzionale che potrebbe giungere «un aiutino dal centrodestra»
(lo definiscono cosi alcuni autorevoli esponenti del Partito democratico). Senza però
rivelare di che tipo di sostegno si possa trattare. Cioè se di un «via libera ufficiale» (cosa
assai difficile, visto che Berlusconi è partito all’inseguimento di Matteo Salvini) o, piuttosto,
di un aiuto di un gruppo di forzisti che vengono incontro al premier non seguendo la linea
di FI; disobbedendo, ma con l’autorizzazione de l «capo» in tasca.
Del 26/06/2015, pag. 31
L’INVERNO DEI DIRITTI E LE “CONTROCOSTITUZIONI”
STEFANO RODOTÀ
L’INVERNO dei diritti è tra noi, e non è cominciato ieri. Vengono smantellate le garanzie
previste dallo Statuto dei lavoratori, ultime quelle riguardanti i controlli a distanza, alle quali
era affidata la dignità dei lavoratoti. Alte mura si ergono ai confini dell’Unione europea e tra
gli stessi Stati, per allontanare i disperati migranti in forme che negano la loro umanità. Si
spende la parola solidarietà e mai le politiche sono state così poco solidali. Ai diritti sociali
si oppone l’inesorabile logica economica. Si respingono le proposte sul reddito minimo in
nome di una sua presunta incostituzionalità. E si minacciano barricate contro la civile
legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso.
Su questo dovrebbero meditare quanti continuano a parlare di un’enfasi eccessiva posta
sui diritti, giungendo fino a dire che «di diritti si muore». A questa retorica è fin troppo facile
opporre le durezze di una realtà che mostra come si muoia davvero, proprio per la
mancanza di diritti. L’esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l’articolo 36 della
Costituzione, si trasforma in vita disperata, in esistenza precaria, in sfruttamento che
sconfina nella schiavitù. Le inchieste romane hanno mostrato l’indecente uso dei migranti
attraverso accordi che assicuravano agli sfruttatori un euro per ciascuno di loro. Nelle
campagne campane e calabresi lo sfruttamento di chi lavora nell’agricoltura ha assunto
forme di schiavitù gestita anche da organizzazioni criminali, in quelle siciliane donne
rumene vengono obbligate a prestazioni sessuali per mantenere il lavoro. E dovremmo
distogliere lo sguardo dai diritti?
Questo accade quando le società vengono “liberate” dalle costituzioni. Fragili barriere di
carta, illusori riferimenti quando la politica impone le sue durezze? Forse stiamo per
certificare la fine del costituzionalismo nato nel secondo dopoguerra, quando lo “Stato
costituzionale di diritto” venne fondato sul riconoscimento dei diritti fondamentali e sul
controllo di costituzionalità. Oggi stanno nascendo “controcostituzioni”, dominate dal
primato della finanza, alla quale tutto deve essere subordinato. Qui libertà e diritti non
trovano posto, e così è la stessa democrazia a rischiare la scomparsa.
Qui è anche la radice della crisi dell’Unione europea. L’Europa, terra di diritti, sta negando
se stessa. Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali è scritto che l’Unione “pone la
persona al centro della sua azione”. Nella realtà proprio la persona con dignità e diritti
viene dimenticata e su tutto prevalgono gli impersonali meccanismi del calcolo economico
e le pretese degli Stati membri di agire come meglio credono. L’Ungheria vuole costruire
un muro al confine con la Serbia, e intanto ha già privato i suoi cittadini di garanzie
fondamentali senza che l’Unione intervenisse per impedire ad Orbán di proseguire nel suo
cammino autoritario. Ben diverso era stato l’atteggiamento quando in Austria si era
manifestato il pericolo Haider, tanto che poi, con il Trattato di Maastricht, si era dotata
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l’Unione di più incisivi poteri di intervento. Non sono stati esercitati, e questo non è solo un
segno di debolezza, ma diventa un incentivo verso quella “rinazionalizzazione” strisciante
che insidia il progetto europeo. Dall’orizzonte dell’Unione scompare anche un principio
innovativo contenuto nella Carta dei diritti fondamentali e nel Trattato di Lisbona — la
solidarietà. Dell’Europa fraterna si perdono le tracce, come accade quando si rifiuta
l’assunzione di responsabilità comuni per l’accoglienza dei migranti. Lo stesso accade in
Italia con l’esplodere degli egoismi municipali. Tutti ferocemente tesi a chiudersi in identità
che escludono l’altro, e alimentano quello scomparire della coesione sociale e politica che
alimenta il populismo. È vero che non si può invocare la solidarietà come fosse una
bacchetta magica e non l’esito di politiche rigorose e coerenti. Ma queste politiche
possono nascere solo se si parte dalla premessa del carattere fondativo di quel principio.
La trama solidale è stata rotta, come mostra un bel libro del presidente della Fondazione
Migrantes, monsignor Perego, e non è un caso che l’ultimo scritto di Enzo Bianchi si apra
discutendo la parabola del buon Samaritano. Riferimento impegnativo perché, come ci
ricorda Luigi Zoja, in quella parabola Cristo parla di «amare lo straniero».
L’abbandono dei diritti, letti impropriamente da qualcuno come strumenti di
frammentazione individualistica, nasce della regressione culturale e civile nella quale
siamo immersi. Un’Europa cieca cerca sempre più la salvezza in direzioni sbagliate.
Mentre gli Stati Uniti riducono i poteri della National Security Agency sui controlli di massa,
le leggi di Francia e Spagna (in misura più ridotta quella italiana) imboccano il cammino
opposto con il pretesto della lotta al terrorismo e trasformano le nostre società in nazioni di
sospetti. L’accentramento di poteri di controllo negli organismi di sicurezza si congiunge
così con l’accentramento nelle mani dell’imprenditore di poteri di controllo elettronico sui
lavoratori. Prendere sul serio l’aggressione ai diritti è indispensabile per mettere a punto
strategie di risposta, oggi affidate quasi esclusivamente alle corti costituzionali. Alla Corte
di giustizia dell’Unione europea che, in un caso riguardante Google, ha affermato che il
rispetto dei diritti fondamentali deve prevalere sull’interesse al profitto; alla Corte
costituzionale tedesca, che ha imposto al parlamento i criteri economici necessari per
garantire l’esistenza dignitosa (estendendoli anche a chi ha avuto asilo); alla Corte belga,
che ha bocciato una legge sulla raccolta e conservazione dei dati personali; a sentenze
della Corte italiana sul rispetto dei diritti sociali in materia di pensioni e contratti nel
pubblico impiego. Ho scritto in altre occasioni che non è un segno di buona salute di un
sistema il concentrarsi della garanzia solo negli organi giurisdizionali. Ma gli equilibri non si
ricostituiscono eliminando le garanzie essenziali, gridando tutte le volte all’invasione delle
prerogative parlamentari. È stato invasivo l’intervento dei giudici costituzionali quando
hanno quasi del tutto cancellato la più ideologica tra le leggi della Repubblica, quella sulla
procreazione assistita, approvata da una maggioranza assai determinata, ma che violava
clamorosamente in primo luogo il diritto alla salute delle donne?
E non è stata invasiva la sentenza sulle pensioni, perché tutte le leggi sono sottoposte al
controllo di costituzionalità e il rispetto del pareggio di bilancio non può consentire la
violazione di diritti sociali. Né la Corte deve fermarsi se la violazione ha prodotto effetti
finanziari rilevanti. Può “modulare” le sue decisioni, ma questo non restituisce
discrezionalità piena a governo e Parlamento, né la misura del giudizio può diventare il
puro calcolo economico. Altrimenti si arriverebbe alla paradossale conclusione che più
consistente è la violazione, minore è la possibilità di sanzionarla. Siamo vittime di quello
che Alain Supiot ha chiamato “le gouvernement par le nombre” , il governo affidato ai
numeri, che rende impotente la politica e impraticabile la via dei diritti. Se non ci liberiamo
da questa ipoteca, né i diritti, né la politica democratica possono salvarsi.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 26/06/2015, pag. 7
L’ex capo dei Servizi: “Per le stragi chiesi di
indagare sugli 007”
di Sandra Rizza
Il segreto che doveva salvargli la vita stava in un libro di storia: Italy from Napoleon to
Mussolini. Per anni ha conservato in quel volume della sua biblioteca a New York il
foglietto dove aveva annotato, uno per uno, l’elenco degli Ossi (Operatori speciali servizi
italiani, ndr), i 15 agenti speciali della VII divisione del Sismi addestrati “a maneggiare armi
ed esplosivi” con obiettivi di “guerriglia urbana”: “Avevo detto a mia moglie: se mi succede
qualcosa, vai a vedere questi dove si trovano”. Più o meno lo stesso suggerimento che
l’ex ambasciatore Francesco Paolo Fulci, conclusa la sua esperienza al vertice del Cesis,
offrì al comandante dei carabinieri Luigi Federici quando, dopo le bombe del ’93, lasciò
New York e si catapultò a Milano per mostrare al generale quell’elenco di nomi,
chiedendogli di verificare “la presenza dei 15 agenti” nei luoghi degli attentati. Il motivo di
tanto zelo? “Sgomberare il sospetto di un coinvolgimento dei nostri servizi nello
stragismo”. Ma è proprio vero che l’unico obiettivo della denuncia era quello di “lavare
l’onta” di un’eventuale partecipazione dell’intelligence alla stagione delle bombe? Oppure
l’ex ambasciatore sapeva molto di più sul coinvolgimento del Sismi nella strategia della
tensione anni Novanta? E perché aveva tanta paura degli Ossi?
È quello che ieri i pm di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia avrebbero voluto
scoprire, citando l’anziano ambasciatore nel processo sulla Trattativa, nella speranza che
raccontasse qualcosa di più sulle attività clandestine degli 007 della VII divisione già
riferite nel suo verbale del 4 aprile 2014. Fulci non ha deluso le aspettative: ha confermato
punto per punto le perplessità su quella che ha definito “un’anomalia”: l’esistenza
all’interno del servizi di “un nucleo addestrato” di agenti autorizzati ad azioni di guerra. Poi
ha rilanciato i suoi dubbi sulla possibilità che i superuomini del Sismi possano aver avuto
un ruolo attivo, forse quello dei telefonisti, nelle operazioni della famigerata Falange
Armata, la sigla che ha firmato la stagione delle bombe ’92-’93.
Fulci ha ribadito, infatti, che l’analisi del suo collaboratore del Cesis Davide De Luca,
scopritore di una coincidenza “quasi perfetta” tra i luoghi di provenienza delle telefonate
della Falange Armata e quelli delle sedi del Sismi, era “di una gravità estrema” e di avergli
ordinato ulteriori indagini. Ma l’ambasciatore non ha voluto o saputo dire di più: e come
preoccupato della sua stessa rappresentazione di quelli che ha definito i “terribili due anni
passati al Cesis”, ha voluto sottolineare che il suo “apprezzamento” per i servizi italiani non
è mai venuto meno. Poi l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mori, gli ha chiesto
se avesse fatto parte dell’associazione messinese Corda Fratres, e Fulci ha ammesso:
“Sì, ma avevo 17 o 18 anni”. Si tratta di un circolo ormai chiuso, niente a che vedere con la
Corda Fratres di Barcellona dove sono passati il boss Giuseppe Gullotti e l’avvocato
mafioso Rosario Pio Cattafi, che è solo una filiazione.
Tocca ora alla Procura di Palermo indagare a tutto campo per verificare il racconto
dell’ambasciatore. Nel mirino degli approfondimenti investigativi, fulcro dell’inchiesta bis
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sulla trattativa Stato-mafia, c’è in primo luogo la caccia alla famigerata cartina delle sedi
periferiche del Sismi, che per Fulci è tuttora un documento coperto da “segreto di Stato”.
Nei mesi scorsi, i pm del pool Stato-mafia hanno già eseguito numerosi accessi presso gli
archivi dei servizi per acquisire la documentazione indicata dall’ex diplomatico, compreso
l’elenco dei 15 agenti della VII divisione del Sismi che l’ex direttore del Cesis ha detto di
aver consegnato anche al capo della polizia Vincenzo Parisi, dietro esplicito invito del
presidente della Repubblica Scalfaro, sollecitando gli apparati a verificare la presenza di
quegli 007 nei luoghi degli attentati del ’93.
I tanto temuti Ossi furono poi indagati? “No – ha risposto Fulci – chiesi com’era finita al
successore di Luigi Ramponi, capo del Sismi, e lui mi disse che gli attentati erano stati
commessi dai mafiosi”. Qualcuno, Federici, Ramponi, disse mai di aver fatto un
accertamento sulla localizzazione di quei 15 agenti sullo scenario delle stragi siglate
Falange Armata? “No, nel modo più assoluto”. Dulcis in fundo, Fulci ha commentato in
aula lo scoop sulle sue rivelazioni pubblicate ieri dal Fatto Quotidiano. “Sono stupito – ha
detto – di aver appreso che quello che avevo detto nel mio interrogatorio è stato
pubblicato stamane da un giornale di Roma”. Evidentemente confuso da tanto parlare di
007, l’avvocato Milio gli ha chiesto a bruciapelo: “Lei sa se i servizi hanno avuto rapporti
con il Fatto Quotidiano?”. L’ambasciatore è rimasto in silenzio. E il presidente della Corte
d’Assise Alfredo Montalto ha tagliato corto: “La domanda non è ammessa”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 26/06/2015, pag. 5
La carta del governo: nuove norme sull’asilo
per accelerare i rimpatri
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES
«Dobbiamo dare l’esempio a casa nostra». C’era una volta Renzi che chiedeva a gran
voce all’Europa di fare qualcosa per l’Italia, che minacciava un piano B, che giudicava del
tutto insufficienti i risultati raggiunti in sede comunitaria. Da un paio di giorni il premier ha
cambiato registro: ha parlato dei rimpatri che il nostro Paese non esegue, almeno nei
tempi e nei numeri che Bruxelles vorrebbe, ha accettato la creazione di almeno tre hotspot
sul nostro territorio, grandi centri di smistamento degli immigrati clandestini, chiesti dalla
Commissione, ha detto ieri mattina ai governatori, a Palazzo Chigi, che il governo sta
prendendo in considerazione «modifiche normative» al Testo unico sulla materia.
Può essere anche un modo per incassare la parziale sconfitta sulle quote, far buon viso a
cattivo gioco, visti i risultati del vertice di ieri, che in sostanza ha discusso e varato un
piano provvisorio e lontano dagli obiettivi originari italiani. E può anche considerarsi uno
scambio con le istituzioni di Bruxelles: Juncker si è battuto per darci comunque una
risposta europea, quel «primo passo» che un premier realista ora dice di considerare
accettabile, l’Italia deve comunque rispondere dando maggiori garanzie rispetto al
passato, e non come oggi, «producendo» di fatto più clandestini, che circolano sul
territorio dell’Unione, degli altri Paesi.
Ai governatori regionali riuniti a Palazzo Chigi ieri mattina Renzi ha chiesto unità, ha detto
che «non è possibile che gli altri facciano sistema a Bruxelles e noi invece costantemente
ci dividiamo in casa nostra, una cosa inaccettabile e autolesionista», ha fatto intravedere
una maggiore attenzione, che è poi quella che ci è stata chiesta dai Paesi che hanno fatto
muro sulle quote obbligatorie, sui fatti di «casa nostra»: modifiche normative sul processo
di rilascio dello status di rifugiato, troppo lungo attualmente, modifiche anche
nell’organizzazione giudiziaria, nel procedimento che oggi in sostanza «aiuta» chi vuole
giocare con le nostre leggi a restare sul nostro territorio per troppo tempo, modifiche infine
forse anche sull’onere della prova: sia chi chiede asilo a dimostrare di averne diritto in
tempi certi, non sia lo Stato a doversi fare carico delle verifiche.
Allo stesso modo, sui rimpatri, come ci è stato contestato a Bruxelles, dobbiamo cambiare
registro; e in modo soft, senza aprire polemiche con il Viminale, Renzi lo ha detto. Anche
questo tema fa parte di quel «lavoro che dobbiamo fare a casa nostra» di cui parlava ieri
pomeriggio entrando nel palazzo del Consiglio europeo. Un lavoro che sarebbe
certamente più semplice, ha detto per esempio ieri a Zaia, se almeno chi ha responsabilità
istituzionali la smettesse di rilasciare interviste ai quotidiani internazionali parlando male
del proprio Paese. L’Europa per il momento ci dà una prima risposta sui rifugiati siriani ed
eritrei fissando una quota, 40 mila persone, che dovrà essere discussa nei dettagli nelle
prossime riunioni. In cambio chiede centri reali di smistamento dei clandestini, come a
gran voce ha chiesto anche Cameron, farà arrivare circa 200 funzionari europei che
collaboreranno con la nostre forze di polizia. In fondo è al momento l’unico compromesso
possibile e Renzi l’ha compreso. «Non faremo mai campagna elettorale su questo tema,
abbiamo un approccio realista e quello di oggi è comunque un primo passo», era la chiosa
di ieri sera, nello staff del premier.
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Del 26/06/2015, pag. 6
Battaglia al vertice Ue sui migranti
I paesi dell’Est bloccano l’accordo
A Bruxelles scontro sulle quote L’ira di Renzi: “O solidarietà o qui si
perde tempo”.Lite tra il premier e i governatori di centrodestra
DAL NOSTRO INVIATO ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES. In mattinata il premier Matteo Renzi incontra a Palazzo Chigi regioni e
comuni per fare il punto sull’emergenza sbarchi. Quindi vola a Bruxelles, dove nella notte il
piano Ue sui migranti si incaglia di fronte al no dei paesi dell’Est che fanno blocco al
Consiglio europeo e che entrano in rotta di collisione con Merkel, Hollande e Renzi. Lo
scontro si protrae ed è violentissimo. Si registra anche una lite tra Juncker, numero uno
della Commissione Ue, e il polacco Tusk, presidente del Consiglio europeo.
In mattinata all’arrivo a Palazzo Chigi sono i governatori leghisti a dare i titoli ad effetto.
Per Zaia «i prefetti devono ribellarsi al governo». Anche Maroni non vuole più ospitare i
migranti e a fine incontro dirà: «Non è servito a nulla». In realtà la discussione è stata
accesa e di sostanza. Renzi ha rimproverato ai leghisti di dare una cattiva immagine
dell’Italia all’estero: «Non è possibile che gli altri paesi facciano sistema e arrivino a
Bruxelles compatti, dovete ignorare i sondaggi e smettere di cavalcare le paure. Serve una
risposta condivisa e congiunta per negoziare in Europa».
L’Italia si deve attrezzare: in cambio della ripartizione di 40mila migranti tra tutti i paesi
dell’Unione, Roma e Atene devono garantire ai partner l’identificazione dei migranti negli
hotspot con personale Ue, la detenzione e il rimpatrio per quelli che non hanno diritto allo
status di rifugiato. Uno sforzo necessario anche per arrivare con le carte in regola a
dicembre, quando la Commissione di Jean Claude Juncker proporrà la vera rivoluzione
con la revisione dei regolamenti di Dublino per rendere permanente la riallocazione dei
migranti ora solo emergenziale.
A Chigi Renzi spiega a sindaci e governatori che snellirà il sistema con «modifiche
normati- ve», ad esempio creando giudici specializzati negli appelli dei migranti che si
vedono rifiutare l’asilo dalle apposite commissioni. L’obiettivo è portare al di sotto dell’anno
tutta la procedura per non intasare gli hotspot. Quindi ha insistito sui rimpatri, che
partiranno con charter italiani ai quali si dovranno sommare mezzi e risorse europee.
Nel pomeriggio il premier vola a Bruxelles per il summit europeo. La discussione
sull’immigrazione a causa del dibattito sulla Grecia slitta a cena. Ma è scontro. Il pacchetto
approvato a maggio dalla Commissione Ue guidata da Juncker prevedeva la spartizione
obbligatoria tra i Ventotto di 40mila migranti sbarcati in Italia e Grecia. Per venire incontro
ai governi che lo osteggiano nei giorni scorso il piano è stato annacquato dal punto di vista
lessicale. Ad esempio cancellando il termine “quote” e l’obbligatorietà, ma prevedendo
l’impegno di far approvare il meccanismo ai ministri dell’Interno a luglio e che questo
sarebbe stato valido per tutti. Nelle previsioni della vigilia queste modifiche non avrebbero
cambiato la sostanza ma avrebbero permesso di superare le obiezioni dei governi contrari.
Però a cena i leader dell’Est Europa, e in modo più blando Cameron e Rajoy, puntano i
piedi, chiedendo ulteriori modifiche e scontrandosi violentemente con Merkel, Renzi e
Hollande. A sorpresa il polacco Tusk, che da presidente dovrebbe essere neutrale, si
schiera con il blocco dell’Est facendo infuriare Juncker e aprendo un grave scontro
istituzionale al termine del quale l’ex premier lussemburghese apostrofa il collega: «La tua
posizione è oltre le tue competenze, io vado avanti da solo». Durissimo anche Renzi, che
si rivolge ai leader dell’Est così: «Se non siete d’accordo con 40mila migranti non siete
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degni di chiamarvi Europa. Se questa è la vostra idea di Europa tenetevela pure, o c’è
solidarietà o non fateci perdere tempo. Se volete la volontarietà faremo da soli». Il punto è
che il blocco orientale non si accontenta di un depotenziamento lessicale, che faceva venir
meno il precedente giuridico, ma vuole che non ci sia alcun obbligo per i governi ad
aderire al piano, nemmeno implicito. Lo scontro si è protratto nella notte.
Del 26/06/2015, pag. 2
L’Ungheria insiste sulla linea dura
“Bruxelles decida, o faremo da soli”
Budapest non cancella il decreto con cui respinge i rifugiati
Tonia Mastrobuoni
Il decreto ungherese che sospende il regolamento di Dublino sarebbe ancora in vigore.
Nonostante le rassicurazioni del ministro degli Esteri Peter Szijjarto, che aveva garantito ai
partner europei mercoledì di «non aver mai preso la decisione di sospendere le regole
europee», sembra che il governo Orban sia riuscito ancora una volta a mantenere una
posizione ambigua. Il provvedimento pare non sia ancora ritirato e consentirebbe al
governo magiaro di respingere i rifugiati «per motivi tecnici». Lo stesso Szijjarto ha
sottolineato anche, dopo lo scandalo suscitato dall’annuncio della scorsa settimana, di
voler costruire un muro alto quattro metri lungo il confine serbo, che Budapest «costruirà
muri anche lungo altre frontiere, se non ci saranno altri modi di fermare i migranti».
Una lettera spedita mercoledì da Orban ai vertici delle istituzioni europee conferma
l’intenzione dell’Ungheria di ritagliarsi spazi di manovra autonomi, se l’Europa non
dovesse fornire risposte soddisfacenti sulla questione dei migranti. In un documento di
discussione inviato al Consiglio di cui La Stampa ha ottenuto una copia, il governo scrive
che «se l’Ue non sarà in grado di adottare velocemente regole comuni per gli asili e
politiche sull’immigrazione adeguate alle esigenze reali dei Paesi, la possibilità di interventi
autonomi degli Stati membri non dovrebbe essere limitata».
Il capo dell’ufficio del premier, Janos Lazar, ha confermato che Budapest avrebbe chiesto
aiuto a Bruxelles per «superare il problema dell’immigrazione illegale». Nella lettera a
Donald Tusk, Orban incalza le istituzioni europee sui «passaggi illegali delle frontiere e sul
numero dei richiedenti asilo» che in Ungheria avrebbero «raggiunto la quota senza
precedenti di 61mila, rappresentando così una pressione insopportabile sull’Ungheria».
Nonostante le «circostanze eccezionali» Budapest continuerebbe, prosegue la lettera, «ad
adempiere ai suoi obblighi europei e nessuna legge è stata modificata o sospesa riguardo
al regolamento di Dublino».
Tuttavia, lamenta Orban, la situazione si sta aggravando perché alcuni Paesi «hanno
intenzione di trasferire in Ungheria i richiedenti asilo che sarebbero stati registrati in
Ungheria, ma che avrebbero già lasciato l’Ungheria». In particolare, il premier punta il dito
contro la Grecia: «Va chiarito che nel caso di quasi tutti i migranti che arrivano in Ungheria
e sono registrati qui, il Paese d’ingresso è la Grecia». Perciò Budapest «è determinata» a
«proteggere adeguatamente» i suoi confini.
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Del 26/06/2015, pag. 6
I clandestini al Sud e i rifugiati al Nord il
Viminale taglia in due la rete dell’accoglienza
IL RETROSCENA
VLADIMIRO POLCHI
ROMA . Clandestini al Sud, rifugiati al Nord. La rete dell’accoglienza italiana è pronta alla
rivoluzione. Addio vecchi centri, arrivano hotspot, hub chiusi e hub aperti. Cambia tutto, o
quasi: le regioni di approdo dei migranti continueranno a sostenere il peso maggiore. Al
Sud spetterà infatti accogliere migranti economici, irregolari e richiedenti asilo. Mentre, al
Nord arriveranno solo i profughi.
E così, se l’Europa frena sull’agenda immigrazione, al governo italiano non resta che
premere sull’acceleratore delle espulsioni. «I richiedenti asilo si accolgono, i migranti
economici vengano rimpatriati». Eccola infatti la ricetta targata Matteo Renzi per uscire
dall’emergenza profughi. Peccato però che in Italia, se c’è una macchina che non
funziona, è proprio quella delle espulsioni. Il nuovo piano del governo prova allora a
cambiare le regole del gioco. Il Consiglio dei ministri ha approvato il 18 maggio un decreto
legislativo di recepimento delle direttive Ue, che prevede hotspot per la prima accoglienza
e hub regionali per identificazione e smistamento. Come funzioneranno?
«Spariscono tutti i centri di primo soccorso e accoglienza. Chi arriva sulle nostre coste
verrà subito accolto in uno dei 5 o 6 hotspot che apriranno nelle regioni con punti di sbarco
— spiegano dal Viminale — e dunque in Sicilia, Calabria e Puglia, forse anche in
Campania». I luoghi per ora identificati sono Lampedusa (che è già considerata un
hotspot) Augusta, Pozzallo, Porto Empedocle, Taranto. «Qui i migranti potranno rimanere
non più di 48 ore. Verranno identificati, se sarà possibile, e riceveranno la prima
assistenza». La seconda tappa sono gli hub, grandi centri di smistamento, distinti in
“chiusi” e “aperti”. I primi saranno 6 e verranno allestiti sempre nelle regioni di approdo,
dunque al Sud: «Alle spalle degli hotspot, come sarà a Pozzallo, Augusta e Porto
Empedocle ». Qui si proverà a distinguere tra migranti economici irregolari e chi invece ha
diritto all’asilo o qualche altra forma di protezione internazionale. «Chi non ha
manifestamente diritto all’accoglienza e chi rifiuta di farsi identificare — precisano i tecnici
del ministero dell’Interno — verrà trasferito nei Cie. Chi invece legittimamente fa richiesta
di asilo verrà trasferito nel circuito d’accoglienza Sprar o in un hub aperto». Eccola dunque
la terza tappa: lo Sprar, ossia il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati affidato
all’Anci (associazione dei comuni italiani) e gli hub aperti. Solo quest’ultimi saranno previsti
in ogni regione, adattando per lo più grandi caserme dismesse e ospiteranno solo coloro
che attendono lo status di rifugiato. Gli irregolari finiranno invece nei Centri di
identificazione ed espulsione, le uniche strutture ereditate dal vecchio modello che
sopravviveranno e che oggi sono ridotte a cinque: Torino, Roma, Bari, Trapani,
Caltanissetta. Spingere sull’acceleratore delle espulsioni non sarà però facile. Il
meccanismo è costoso e non marcia come dovrebbe. Un esempio: l’anno scorso su
15mila migranti espulsi con decreto dalle questure, la polizia italiana è riuscita a riportarne
a casa appena 5mila. E sono proprio i Cie a non funzionare. Stando alla Commissione
diritti umani del Senato, il numero dei migranti rimpatriati attraverso i Cie nel 2013 è stato
pari allo 0,9% degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio (stimati
allora in 294mila). Il flop dei Cie trova conferma anche nei dati del ministero dell’Interno
relativi al primo semestre del 2014: 1.036 migranti rimpatriati, pari al 48,8% dei 2.124
stranieri trattenuti nei centri. «Il proble- ma — spiegano al Viminale — sono gli accordi di
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riammissione coi Paesi d’origine dei flussi migratori». Senza questi, non si rimpatria
nessuno e oggi ci sono solo con Tunisia, Egitto e Nigeria.
In attesa di tagliandare la macchina delle espulsioni, il Viminale sta già avviando la
rivoluzione della rete. Con un limite: hotspot e hub chiusi saranno solo al Sud, vicino a
dove sbarcano i migranti e dunque resterà sempre a carico di queste regioni il compito più
gravoso di gestione della clandestinità. Al Nord, negli hub aperti, arriverà solo chi ha diritto
all’accoglienza. «Per questo — ammettono dal Viminale — dovranno essere previste delle
misure compensative per le regioni meridionali».
Del 26/06/2015, pag. 8
Saskia Sassen. La sociologa americana non ha dubbi: “In passato ci
sono state fasi di grandi migrazioni ma mai così. Per troppo tempo la
Sinistra ha sottovalutato il problema”
“Questo è un esodo senza precedenti usare
le espulsioni non risolve nulla”
GIULIO AZZOLINI
Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto
al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo
di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta». Saskia Sassen,
economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di
globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma
mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità».
Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare
un piano condiviso?
«Negli ultimi decenni i Paesi europei — ma lo stesso vale per gli Stati Uniti — hanno
seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finché hanno avuto
bisogno di lavoratori a basso costo. Perché servivano a risolvere un problema interno
all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati né dei governi dei Paesi da cui i
migranti oggi scappano, né di programmare una politica migratoria sostenibile ed
efficace».
Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?
«È difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto
commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60
milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in
molti casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una
cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di
loro una politica migratoria resta impraticabile».
L’Europa, invece, si chiude. La Francia respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria
innalza un muro sul confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune
per fronteggiare l’emergenza.
«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare
provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».
Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?
«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a
patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché l’accoglienza è più difficile
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quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano
piano espulsa da case e da zone decorose».
Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia. Crede che l’Italia
e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?
«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la
cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro.
Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il
21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è
per molti versi illuminato e ragionevole... ».
E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del
problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?
«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni.
Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il
problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un
atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in
luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate
nell’Occidente stesso».
Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il
Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo
chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari…
«Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la maggioranza dei migranti che stanno
approdando in Europa vive già in una condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi
di queste settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale sempre più
persone saranno costrette a muoversi, proprio perché espulse dall’economia globale. E
quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni,
inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza.
Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la propria vita».
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INFORMAZIONE
Del 26/06/2015, pag. 6
“Diffamazione, adesso fare i cronisti sarà più
difficile”
È una legge con luci e ombre. Si voleva eliminare il carcere per i giornalisti, ma poteva
essere fatto con un tratto di penna. E invece si è aggiunto molto altro”. A parlare è
Caterina Malavenda, avvocato specializzato nelle cause che riguardano la stampa, il
giorno dopo l’approvazione in seconda lettura alla Camera della legge sulla diffamazione.
Avvocato, i giornalisti devono gioire o no?
L’abolizione del carcere è sicuramente un fatto positivo. Anche se in realtà era una norma
che non veniva applicata, se non in casi eccezionali. Comunque, meglio che sia sparita. E
poi la legge è stata fatta apposta per questo, quindi va bene. Peccato vi siano tante ombre
accanto alle luci.
Partiamo dalle (poche) luci.
Per esempio, la rettifica tempestiva. Il giornalista che si accorge di aver dato una notizia
errata può chiedere al direttore di pubblicare una rettifica di sua spontanea volontà. Il
direttore è obbligato a pubblicarla. La pubblicazione della rettifica è causa di non punibilità.
Altri cambiamenti positivi?
L’ampliamento del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti, che ora possono
tutelare le loro fonti come i professionisti.
Poi c’è il famoso emendamento salva-Conchita…
Nato sull’onda del caso De Gregorio, avrebbe lo scopo di aiutare decine di giornalisti che
si vedono costretti a risarcire danni a terzi al posto di editori falliti o che non vogliono
pagare. La novità è che il cronista, dopo aver pagato di tasca propria, può rivalersi
sull’editore come creditore privilegiato. La trovo una norma di difficile applicazione, ma è
un passo avanti.
Passiamo alle ombre.
Tante, a partire dalla rettifica, che può diventare sconfinata, perché non è previsto un
limite di lunghezza. Inoltre, deve essere pubblicata senza replica. Insomma, se tutti si
mettessero a chiedere rettifiche, i giornali non conterrebbero più notizie. Si è potenziato in
maniera eccessiva uno strumento legittimo. Poi c’è la questione dei due direttori.
Ovvero?
Il direttore di un giornale on line è stato parificato a quello della carta stampata. Ma, per
esempio, sull’omesso controllo il primo è svantaggiato perché un giornale on line è sempre
aperto e per un direttore è impossibile controllare tutto ciò che viene pubblicato.
Lei ha criticato anche le modifiche sui blogger…
Sì, perché d’ora in avanti un blogger querelato dovrà difendersi nel tribunale del luogo in
cui abita la persona offesa, col rischio di dover girare qua e là per difendersi, tutto a spese
proprie e senza rimborso.
Parliamo delle multe, molto criticate per via dei tetti (da 5 mila a 10 mila euro) molto
alti. Sembra quasi la compensazione per la scomparsa del carcere…
Può essere che si sia allungato da una parte e mollato dall’altra. Stando così le cose, un
giudice non potrà comminare una multa inferiore ai 5 mila euro. Solo se il giornalista è
incensurato, con le attenuanti generiche, la multa è ridotta di un terzo, mentre chi è
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recidivo viene sospeso dalla professione da 1 a 6 mesi. Il testo, invece, è soddisfacente
sul potenziamento del risarcimento che i giornalisti possono ottenere nelle liti temerarie,
che potrà arginare le richieste in sede civile, spesso totalmente fuori mercato.
Insomma, la legge peggiorerà la vita ai giornalisti?
Ripeto, ci sono luci e ombre. Il testo è migliorato, ma restano tanti punti oscuri: si poteva
fare di più e meglio. È stato eliminato il carcere, ma d’ora in poi fare i giornalisti potrebbe
risultare più complicato e rischioso.
Del 26/06/2015, pag. 6
Esuberi, pagina nera per l’editoria
I giornalisti dell’Ansa di nuovo in sciopero fino a lunedì contro il taglio
di 65 redattori
I giornali non vendono, pagano i giornalisti. Tempi duri per l’editoria. L’Ansa sciopera,
ricevendo la solidarietà del web e delle istituzioni, ma senza smuovere l’azienda. E per
questo continuerà a farlo. Il Corriere della Sera vota (a malincuore) un accordo che
comporterà decine di esuberi. Wired chiude la rivista cartacea per puntare sul web, vittima
dello stesso progresso tecnologico che racconta e promuove. E il minimo comune
denominatore della crisi sono i dipendenti, sempre colpiti dai tagli.
Martedì e mercoledì i giornalisti dell’Ansa sono stati in agitazione per 36 ore. Ieri hanno
proclamato un nuovo “sciopero immediato” fino alle sette di lunedì prossimo. La principale
agenzia di stampa del Paese si ferma per oltre quattro giorni in una settimana (con disagi
importanti anche per le redazioni degli altri quotidiani e televisioni) per protestare contro il
piano di ristrutturazione per far fronte alle perdite degli ultimi anni (5 milioni di euro solo nel
2015). Ma la soluzione è una massiccia riduzione di personale che il Comitato di
redazione (cdr) ha definito “irricevibile”: 65 esuberi a partire dal primo luglio, facendo
ricorso a cassa integrazione o contratti di solidarietà, che rischiano di “pregiudicare il ruolo
dell’agenzia”. Non è servito il primo sciopero. Non è servita neppure la mobilitazione
massiccia a sostegno dei giornalisti, dal presidente del Senato, Pietro Grasso, a quello
della Camera, Laura Boldrini, passando per Martin Schulz del Parlamento europeo. Su
Twitter è nato l’hashtag #resistAnsa. Ma l’azienda non ha fatto marcia indietro. E allora
l’assemblea ha proclamato un’altra agitazione, che potrebbe ulteriormente prolungarsi, per
un pacchetto di 20 giorni complessivi.
Non va meglio in casa Rcs, dove le firme del Corriere della Sera hanno dovuto “ingoiare”
l’accordo raggiunto tra azienda e cdr lo scorso 18 giugno. Votato a larga maggioranza
(214 sì su 288 presenti), ma comunque con insoddisfazione: perché le trattative sono
riuscite a ridurre di 20 unità gli esuberi, ma le uscite nei prossimi due anni saranno
comunque 47. Esclusi i contratti di solidarietà, fra ottobre e dicembre scatterà anche la
cassa integrazione a rotazione. Anche qui la colpa è dei debiti, intorno ai 480 milioni di
euro all’aggiornamento dell’ultimo cda. E poco importa che per il 2015 Rcs Mediagroup
preveda ricavi in lieve crescita.
Scomparirà (o quasi) invece dalle edicole Wired Italia, che ha deciso di ridurre
drasticamente le pubblicazioni cartacee, passando da dieci a due numeri l’anno (appaltati
a un service esterno), per puntare tutto sull’online. E ovviamente ha deciso di tagliare
anche i giornalisti: dei sei redattori del cartaceo, due verranno trasferiti sul sito, per altri
quattro il futuro è un’incognita.
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L’azienda minaccia licenziamenti individuali, o il ricorso alla cassa integrazione. Eppure, a
differenza di Ansa e Rcs, i conti della Condé Nast – l’editore che comprende testate come
Vanity Fair e Gq – sono positivi: Wired ha chiuso il 2014 sfiorando il pareggio. E dal
bilancio del gruppo emerge un margine di 9 milioni di euro. Non basta per sfuggire ai tagli.
“La verità – fanno sapere dall’interno – è che hanno approfittato dell’addio del direttore per
dare il via a un piano di ristrutturazione che è una mattanza”. Non sarebbe la prima o
l’ultima volta. Gli esuberi di Wired fanno parte di un più ampio piano che prevede uscite
all’interno del gruppo per circa 50 unità. Presto potrebbe toccare a Vanity Fair, Gq e Ad
(Architectural Digest).
Del 26/06/2015, pag. 12
Tv. Dalla prossima settimana l’esame dei
Lavori pubblici al Senato
Rai, il riassetto incassa l’ok della commissione Bilancio
ROMA
Il disegno di legge sulla governance Rai può riprendere il suo iter al Senato. La
commissione Bilancio di Palazzo Madama, infatti, ha approvato ieri mattina il proprio
parere sul provvedimento, positivo con alcune osservazioni. Adesso, la commissione
Lavori Pubblici e Comunicazione può cominciare a votare i 380 emendamenti presentati al
testo base, quello approvato dall’esecutivo. Lo farà dalla prossima settimana: ieri tutti
erano in Aula per il voto di fiducia sulla scuola.
Il vertice della Rai è già scaduto, con l’approvazione del bilancio 2014 da parte
dell’assemblea dei soci. Resterà in carica, senza alcuna “diminutio” dei poteri, sino alla
nomina del nuovo vertice. A proposito di cda, sarebbe utile sapere con quanti voti a
favore, degli otto consiglieri, sono stati approvati, il 18 giugno, i palinsesti presentati
questa settimana agli inserzionisti: non si tratta di una questione aziendale interna, ma dei
contenuti attraverso i quali il servizio pubblico informerà e intratterrà gli italiani nella
prossima stagione televisiva.
Quanto al vertice, bisognerà anche prolungare il contratto del direttore generale Luigi
Gubitosi, in scadenza. Ora tocca alla politica, che ha già ridotto di 80 milioni l’introito da
canone del 2015 (e degli anni successivi), dopo i 150 milioni del 2014. Va approvata una
nuova legge per non rinnovare il cda con la Gasparri, come Matteo Renzi ha già
minacciato di poter fare in caso di mancata approvazione del disegno di legge da parte del
Parlamento. Difficile, ma non impossibile, farcela prima della pausa estiva di agosto.
Possibile, invece, approvarlo al Senato, per convertirlo definitivamente alla Camera alla
ripresa dei lavori parlamentari.
Il disegno di legge, in ogni caso, non è impantanato, nonostante le perplessità delle
opposizioni e di diversi giuristi. Per l’insediamento del nuovo vertice, va tenuto conto che,
una volta approvata la legge, occorrerà convocare sia la Camera sia il Senato per la
nomina dei quattro consiglieri di loro competenza. Andrà, inoltre, nominato, se il ddl del
Governo non verrà modificato, il rappresentante dei lavoratori della Rai. Non a caso, alcuni
emendamenti da votare la prossima settimana prevedono un apposito regolamento e un
mese di tempo per procedere alla nomina del loro rappresentante da parte degli oltre
undicimila dipendenti della Rai.
Bisognerà aspettare l’autunno, forse, per avere il nuovo vertice mentre sin dalla
pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale scatterà l’anno di tempo entro il quale
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esercitare la delega per riformare il canone di abbonamento e il Testo unico sui servizi
media audiovisivi e radiofonici.
Il Governo si è detto disponibile ad alcune modifiche al testo del disegno di legge, a patto
di non stravolgerlo. Vi sono alcuni problemi aperti, come quello delle nomina editoriali di
reti, newsroom e Tg che, con il testo attuale del governo, sarebbero di competenza
dell’amministratore delegato - nominato dal cda su proposta dell’assemblea dei soci
(Tesoro) - “sentito” lo stesso consiglio di amministrazione. Le nomine editoriali potrebbero
“tornare” al cda, come avviene attualmente, su proposta del direttore generale.
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CULTURA
Del 26/06/2015, pag. 14
Una massa di scrittori in fuga dalla Storia
Asor, nome gentile (il suo retrogrado / è il più bel fiore)”. In una poesia tarda Eugenio
Montale se la prendeva col “funesto mistagogo” che “è nato a un parto col tempo / e lo
detesta”, lo stesso che oggi riporta in libreria Scrittori e popolo (Einaudi), saggio di
cinquant’anni fa. Il soggetto è Alberto Asor Rosa, storico della letteratura e voce della
sinistra italiana da mezzo secolo e più. Quella del “barone rosso” – come da soprannome
– non è un’operazione nostalgia, né (solo) un’autocelebrazione. In cauda venenum, infatti,
come d’abitudine: al testo che nel 1965 uscì per Samonà e Savelli è aggiunto un breve
saggio dal titolo Scrittori e massa.
Un compianto sul tempo che fu? Non del tutto, piuttosto un ritratto corrosivo del presente.
Il popolo, ci dice in sostanza Asor, non c’è più e insieme a lui – comunità attorno a cui
s’erano più o meno organizzate le democrazie occidentali – se n’è andata pure la politica,
che sopravvive solo nella forma degradata e impotente che è sotto gli occhi di tutti. Il
presente è il tempo della massa, cioè – con spreco di citazioni da Le Bon a Freud – una
“realtà umano-sociale in cui i caratteri individuali e distintivi sono meno rilevanti, e più
rilevanti invece quelli della comunanza e della sovrapposizione”: la massa “ha stabilito col
sistema democratico un compromesso, che consiste nell’accettare di viverci dentro,
svuotandolo”. Proprio quando la libertà individuale – il “si può” di Giorgio Gaber – sembra
l’unica regola, si scopre che la gabbia del sistema è chiusa e inscalfibile, persino alla
conoscenza dei rapporti di potere: si può tutto, tranne cambiare, cioè fare politica,
costruire società. E gli scrittori? “È del tutto ovvio che a una società di massa corrisponda
una cultura di massa” e, dunque, una letteratura. Gli effetti sono molteplici e, pur descritti
da Asor Rosa come conseguenza meccanica del contesto, non sono un complimento per
lo scrittore contemporaneo (l’analisi riguarda, all’ingrosso, quelli nati dopo il 1960): nella
massa – che poi è anche massa di scrittori – non esiste più “società letteraria”, né
d’altronde “tradizione letteraria”. Al posto di una comunità capace di elaborare pensiero e
poetica (e persino “identità nazionale”), c’è l’invenzione di un nuovo genere letterario: la
pagina dei ringraziamenti. Una folla di nomi – “quando mai Moravia, Vittorini o Calvino
hanno creduto di dover ringraziare qualcuno?” – che “con l’accumulo delle testimonianze
di fiducia, affetto, stima, solidarietà” maschera la solitudine dello scrittore. A colpi di 40-50
titoli l’anno poi – “ma il calcolo è per difetto” – muore anche la critica letteraria, incapace di
orientarsi e di orientare “nella polverizzazione delle tendenze e delle identità”. Per
conquistare la massa (e la classifica, e il profitto) l’intera letteratura diventa narrativa,
storytelling: “Tutti raccontano fondamentalmente storie: non storie di Storia, ma storie di
storie”. Sul campo di battaglia, tristemente abbandonato, giacciono “questione sociale” e
“questione politica”. Ormai indicibili. “Di amore invece ce n’è moltissimo”: “È una conferma
– insieme con l’assenza di tragedia e satira – del carattere sostanzialmente normalizzante
del racconto contemporaneo”. Pure il disagio, insomma, finisce per essere solo il canto
nostalgico della normalità: la narrativa è ormai – oggettivamente? – conservatrice. Al netto
delle poche eccezioni, “le storie di storie possono essere centomila, ma non essercene
neanche una che intacchi poco più dell’ingannevole superficie del magma”.
Fin qui Asor Rosa, la cui flebile, contraddittoria, via d’uscita è il vecchio, caro “conflitto”
(ma il nuovo Moloch non era inconoscibile?). Se non esiste soluzione, però, c’è almeno la
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possibilità – partendo da qui – di indagare lo stato dell’arte. Iniziamo oggi con le interviste
a due scrittori, Emanuele Trevi e Giuseppe Montesano, altri interventi seguiranno. Sono gli
amori della crisi: se la letteratura sta male, non è che i giornali si sentano proprio bene.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 26/06/2015, pag. 21
La ripresa taglia fuori il Sud
La fotografia di Bankitalia sulle regioni: tirano export e turismo
Paolo Baroni
La ripresa alla fine è arrivata e in questi primi mesi dell’anno interessa quasi tutte le aree
del Paese. In circa metà delle regioni italiane i segnali sono significativi: la situazione si
presenta decisamente più favorevole nelle regioni del Centro Nord, a cominciare da
alcune regioni del Nord-Est, soprattutto per effetto delle esportazioni e della ripresa del
fatturato industriale. Il Sud invece (soprattutto Calabria, Sicilia e Campania) fatica ad
uscire dalla recessione. Mentre almeno sette regioni (tra cui Val d’Aosta, Liguria, Abruzzo
e Puglia) la ripresa è più faticosa.
E’ fatto di luci ed ombre il check-up dell’economia italiana che si ricava leggendo i 20
rapporti regionali che la Banca d’Italia ha appena finito di pubblicare.
Il dato generale è che nel 2014 la prolungata flessione del Pil si è finalmente arrestata al
Centro Nord e si è attenuata nel Mezzogiorno. Con le esportazioni che sono rimaste la
voce più dinamica della nostra economia: nel Mezzogiorno solo mezzi di trasporto e
alimentare hanno però fornito un contributo positivo, mentre al Centro Nord tirano
soprattutto macchinari, chimica, farmaceutica, mezzi di trasporto e beni tradizionali
(compreso tessile, abbigliamento e mobili). Segnali positivi dal turismo, con ricadute su
porti ed aeroporti. Ma situazione certamente ancora molto problematica, tant’è che proprio
ieri il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha parlato di «ristagno». Epperò dopo tre
anni di calo nel 2014 il tasso di natalità delle imprese ha segnato una ripresa e sono
emersi i primi segnali di risveglio del mercato immobiliare. Anche l’occupazione è tornata a
crescere in misura più pronunciata nel Nord-Est e soprattutto al Centro, mentre al Sud la
flessione si è attenuta.
Il lavoro dei giovanile rimane il nostro grande male: con l’aumento della disoccupazione,
infatti, sono aumentate in misura significativa le migrazioni dei giovani, in particolare quelli
più istruiti, dal Sud verso il Centro Nord e di entrambe queste aree verso l’estero . Un
fenomeno che non risparmia nemmeno il Nord.
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