ERNESTO OLIVERO
L’ARSENALE DELLA PACE
IL PROBLEMA DELL’ALTRO CHE DIVENTA MIO
Alzati, va’ a Ninive la grande città
(Giona 1,2)
L’introduzione di don Mirko Bellora
E’ una serata tanto attesa per molti di noi per la presenza di Ernesto Olivero, uno
straordinario testimone della carità e della pace.
Perché Ernesto Olivero?
Tutto è nato dalla prefazione di Norberto Bobbio al libro: “Dio dirige il mio cuore”
(Mondadori). Scrive Bobbio:
Quanti pensieri abbia scritto Ernesto non saprei dire. Certamente molte migliaia. Forse non
lo sa neppure lui.
Ernesto ne scrive o ne detta, non lo so, tutti i giorni, a tutte le ore del giorno, anche parecchi
nello stesso giorno. Ognuno reca il titolo che è parte integrante del testo e la data. Mi sono
chiesto più volte come faccia, essendo sempre in giro per il mondo, a piedi, in automobile, in
aereo, trovandosi continuamente tra l’Italia e il Brasile, come se San Paolo fosse sull’altra
sponda del Po, e quando è a Torino, non sta mai fermo, riceve gente (la sua porta è sempre
aperta), parla ai ragazzi, legge la Bibbia, prega.
Una domanda a cui non riesco a dare una risposta. Ernesto è Ernesto. Una vita, molte vite,
tutte vissute senza mai dare l’impressione di stanchezza, con buon umore, con ilarità, in
perfetta letizia.
Mi viene a trovare spesso , ma sono visite brevi e tutte terminano con una battuta finale:
“Non cadere”. (sono quasi immobile su una poltrona in seguito a una caduta non ben
guarita).
Credo di poter dire con sicurezza che la sua poesia più bella, più volte ripresa e arricchita, è
intitolata: “Ho camminato”.. Basterebbe da sola a riassumere il senso di una vita, di quella
vita senza segreti e nello stesso tempo misteriosa, visibile e insieme inafferrabile, come un
libro aperto e insieme indecifrabile, che è la vita di Ernesto.
“Ho camminato per i giovani.
Ad ogni passo mi sono convinto che è possibile, con loro,
cambiare questo mondo
ora, non domani”.
Chi è Ernesto Olivero?
Lascio parlare Adriano Sofri:
Era un bancario, se ne stufò e fondò il SERMIG (Servizio Missionario Giovanile – Torino
1964) nel luogo che era stato l’Arsenale di guerra di Torino.E’ un monastero a cielo aperto,
un’impresa di accoglienza senza competenze rigide. Poveri, tossicomani, malati, stranieri
smarriti, prigionieri sfollati. Altre sedi le ha in Brasile, piene di bambini.
Del bancario Olivero ha conservato una confidenza col denaro, ma alla rovescia: lo trova nei
modi più improvvisati (la Provvidenza, dice lui) e lo spende a fondo perduto, cioè ritrovato.
Ha conservato anche una mania contabile: Olivero conta tutto. Conta i passi dei
pellegrinaggi suoi e dei suoi compagni di strada. Conta i mattoni. Le notti-letto, i chilometri
dei suoi viaggi. Le ore e i minuti che impiega a pregare, a leggere la Bibbia, a incontrare il
prossimo. E dormire? Chissà: io lo vedo sempre di giorno ed è sveglio, indaffarato e arzillo.
Si è scelto, come ogni uomo d’affari, lo slogan: “E’ aperto 24 ore su 24”.
Lui fa affari in carità. Ha una specie di perenne allegria e, per così dire, riconoscenza. Fare
il bene lo mette di buonumore e gli dà la sensazione che Dio abbia investito su di lui…
Ho voluto conoscere Ernesto personalmente: per questo l’ho invitato, per me e per
voi.
Ernesto grazie perché sei qui, grazie per quello che fai, grazie per quello che sei.
*******
Adriano Sofri e Norberto Bobbio, grosso modo, hanno detto tutto quello che c’era
da dire e anche di più. Facciamo allora un incontro alla rovescia: cominciate voi
con le domande e, se sono capace, risponderò.
D. Questa proposta mi prende un po’ alla sprovvista però non è tanto difficile fare
domande. Si sente parlare tanto del Sermig, di te e dei tuoi libri, dell’Arsenale
della Pace. Non mi è ancora capitato di venire lì da te, quindi tutte le mie
curiosità sono sul Sermig, anche se non è così facile spiegare tutto quello che il
Sermig è e quello che fa …
Prima di tutto grazie che mi avete invitato. Credo che le cose più vere della vita
non siano programmabili. Io non avevo programmato nulla di quello che mi sta
capitando. Ma quando ho capito che qualcosa stava avvenendo in me e attorno a
me, l’ho accettato e mi sono messo a disposizione. Anche adesso, che sono
consapevole del cammino percorso e di quello che mi aspetta, continuo la mia vita
come se quello che ho fatto e che farò non mi appartenesse: nulla mi appartiene,
in nulla deve emergere il mio “io”, tutto è di Dio.
Mi ha fatto piacere ascoltare le parole di Adriano e di Bobbio, perché sono due
persone che mi hanno fatto a pezzi senza pietà: volevano capire cosa c’era sotto…
Hanno trovato che vivo una perenne riconoscenza, ed è vero: tutto è avvenuto
perché qualcuno ha bussato la porta o perché qualcuno ha avuto fiducia,
certamente c’entro anch’ io in tutto questo, ma come uno dei tanti. Quando ho
immaginato di entrare in un’avventura, naturalmente mi sono messo totalmente in
gioco, ma ero anche consapevole di tutti i miei limiti e difficoltà.. Mi riconoscevo
qualche pregio - certamente ero buono nel cuore - ma mi sentivo molto inadeguato
ad un progetto simile e avevo paura, per cui cercavo di fare cose alla mia portata,
non mi allargavo troppo. Giocavo le carte che avevo, e dal momento che ero timido
pensavo che sarei stato il primo fondatore a non parlare in pubblico; poi non avrei
mai avvicinato a tu per tu i poveri. L’unica cosa che mi sentivo capace di fare era
organizzare, ma senza comparire in pubblico. All’inizio era così.. Credo che quando
il Signore ci chiama, sa chi siamo molto meglio di noi e sa che possiamo trarre dalla
nostra bisaccia doni che noi neppure sapevamo di avere.
Il Signore poi mi ha circondato di ragazze e ragazzi veramente meravigliosi che
volevano lavorare con me, erano diplomati, laureati (io avevo solo la terza media e
con la scuola non avevo mai avuto un buon rapporto) e molto in gamba, eppure
seguivano me e volevano che fossi io a guidarli. Davanti a loro mi sono detto: e io
cosa darò loro in cambio della stima che mi dimostrano? Mi dissi che non li avrei
mai traditi: non li tradirò mai, sarò sempre a disposizione.
Abbiamo cominciato a lavorare insieme e a farci conoscere ed è stato un susseguirsi
di storie. Vi racconto alcuni episodi che mi sono capitati, ma cominciando da uno
degli ultimi. Storie vere per dirvi che nella vita ciò che ci spinge a decidere è la
commozione del cuore: noi questa sera possiamo uscire di qui totalmente diversi,
cambiati, perché succede qualcosa che non avevamo previsto e lo seguiamo senza
porre resistenza.
Un giorno di due o tre anni fa, è entrato al SERMIG un ragazzo punk, tutto catene e
borchie, con la sua ragazza dai capelli variopinti, non meno punk di lui. Li vedevo
in giro per casa, ma non li avevo mai avvicinati personalmente; d’altra parte non
tutto al Sermig gira intorno a me, molti servizi sono animati dai ragazzi della
Fraternità che hanno la loro autonomia. Una sera me lo ritrovo a un incontro di
preghiera e, per la prima volta, sento che devo avvicinarmi per salutarli, loro pure
mi cercano sorridenti. Vado incontro al ragazzo e gli stringo la mano. Ci scambiamo
uno sguardo intenso e profondissimo; noto una familiarità, una somiglianza con
tanti “buoni” che ho incontrato nella mia vita. Una cosa del genere non succede
spesso, ma la cosa strana è che anche lui aveva notato una somiglianza con me,
proprio come se il mondo si fosse fermato in quell’angolo d’azzurro, tra lui e me.
Pochi giorni dopo, nel cuore della notte mi telefona Rosanna e mi dice:
“Massimiliano ha avuto un incidente stradale, è gravissimo; anche la sua ragazza è
grave. Quel lampo d’azzurro mi è tornato nel cuore, ho pregato per loro. Ogni
giorno la situazione pareva più compromessa, solo la preghiera ci faceva sperare in
un miracolo. E’ rimasto vivo, ma la lesione del midollo lo ha lasciato tetraplegico,
mentre la sua ragazza, che pareva pure molto grave, è guarita bene. I suoi genitori
gli sono stati vicino in un modo meraviglioso, ma proprio questo mi faceva pensare
che sarebbe stato difficilissimo per tutti trovare un senso a tanto dolore. Nel mio
cuore pensavo che avrei voluto adottare Massimiliano e la sua famiglia, ma dovevo
sentire la Fraternità.
Racconto loro il mio pensiero e chiedo a tutti di pregare per discernere se il
Signore vuole da noi questo passo. Dopo alcuni giorni ci siamo ritrovati e tutti
insieme abbiamo detto sì.. Massimiliano e la sua famiglia non sapevano ancora
nulla di tutto questo. Andai in ospedale per fargli la proposta. Era la prima volta
che lo vedevo dopo l’incidente e ancora una volta ci siamo detti “Ma c’è stato quel
giorno? Perché mi hai stretto la mano in un lampo d’azzurro?” e lui “E tu perché lo
hai fatto?”. “Ti voglio adottare”, gli ho detto. Questo ragazzo ha accettato ed è
venuto a vivere con noi, come un fratello e come un figlio. La sua presenza tra noi
ci ha cambiato, ci ha resi più attenti ad avere il passo dei più deboli e credo abbia
anche cambiato lui: è il problema dell’altro che diventa mio.
Nei primi vent’anni non eravamo ancora una fraternità, non avevamo una casa;
eravamo un gruppo che aveva una sede e un impegno da due ore alla settimana,
ma già allora dicevamo che il cristiano deve essere un cristiano 24 ore su 24,
sempre disponibile; la Provvidenza ci ha guidati fino a farci vivere ciò che
dicevamo.
Era qualcosa che avevo nel cuore fin dal 1976 quando avevo sentito nel cuore di
andare da Papa Paolo VI per portargli la voce della gente che sentiva la Chiesa
troppo ricca, troppo staccata dalla vita dei poveri. Partii senza appuntamento, e
mi trovai a Roma davanti al Portone di Bronzo con appena una lettera di
presentazione del mio Vescovo in mano. Il Monsignore cui mi ero rivolto mi ascoltò,
lesse la lettera e cercò di dissuadermi: “Sapesse quanta gente vorrebbe andare dal
Papa e parlargli…”. Ma continuava a lasciarsi disturbare dalla mia insistenza mentre
io cercavo di convincerlo. Ad un certo punto si allontanò e pensai che fosse finito
tutto. Ma di li a poco ritornò con due guardie svizzere a disse loro “Dopo l’udienza
prendete lui”. Credo avesse pregato lo Spirito Santo e avesse deciso di aiutarmi.
Solo lì si accorse che ero in camiciotto e in blue jeans; non lo avevo fatto apposta e
riuscii a rimediare una maglia prima di essere accompagnato dal Santo Padre. Mi
trovai di fronte al Papa a dirgli il mio pensiero; mi ascoltò e mi rispose che avevo
ragione: “Anch’io – disse – voglio queste cose, ma i cristiani non mi ubbidiscono.
Spero da Torino, dal Piemonte, terra di santi, per una rivoluzione d’amore”.
Il mio pensiero corse a Porta Palazzo, la zona dove storicamente hanno vissuto e
operato i santi di Torino; idealmente ho pensato che la nostra casa doveva essere
lì. Né io né i miei amici sapevamo che lì ci fosse un Arsenale Militare. Quando lo
scoprimmo iniziò un vero e proprio assedio fatto di preghiera e quattro anni dopo
entrammo in quel rudere che a noi sembrò gia, con gli occhi del domani, un
monastero a cielo aperto. Le storie dell’Arsenale, di come vi entrammo e dei primi
anni, richiederebbero un racconto lunghissimo; spero di avervi reso l’idea di quello
che è stato e di come da una protesta è venuta una proposta e da una proposta una
profezia. Appena abbiamo avuto una casa, un sacerdote che allora ci seguiva ci
disse una frase che ci ha sempre accompagnati: “Adesso che avete una casa, siete
in vetrina; la gente si aspetta che voi viviate le cose che dicevate in teoria”. La
gente ha cominciato a bussare con i propri bisogni, le proprie difficoltà e noi
abbiamo cercato di essere disponibili veramente 24 ore su 24. Vi racconto un
episodio di quei primi anni.
La prima lettera che abbiamo ricevuto in quel rudere che era l’Arsenale, infilata
sotto il cancello perché non c’era né campanello né buca delle lettere, arrivava dal
carcere speciale di Palmi: a scrivere era Claudio Carbone, il capo dei Nuclei armati
proletari che in quel tempo era stato arrestato ed era detenuto. Mi chiedeva di
poter dialogare con noi, se per il nostro essere cattolici accettavamo un dialogare
con persone come lui appartenute al terrorismo. Gli risposi che, proprio perché
cattolici, potevamo dialogare con chiunque ed iniziò un incontro che nuovamente
ci segnò la vita. In teoria noi Sermig, Servizio Missionario Giovani, avremmo dovuto
occuparci solo di problemi del terzo mondo. Questa lettera invece ci apriva un
mondo nuovo: il carcere, l’emarginazione, l’accoglienza dei disagiati della nostra
società…
Evidentemente la Provvidenza voleva che noi vivessimo una certa avventura, il
problema degli altri diventava nostro. Pochi anni dopo, una sera d’inverno, durante
un incontro di preghiera, un ragazzo straniero si alzò e guardandomi in faccia mi
domandò: “Tu Olivero stanotte dove dormi? Lo sai che tutta Torino messa insieme
offre venti posti letto e quattrocento miei connazionali dormono nelle macchine, al
freddo”.. Andai a vedere e cercai di capire cosa stava succedendo in città. Di lì a
poco aprimmo all’Arsenale un’accoglienza notturna che da quel momento non
abbiamo più chiuso. Quella domanda mi aveva inchiodato e mi cambiò la vita. Oggi
nei nostri arsenali dormono ogni notte millecinquecento persone, in 40 anni hanno
dormito quasi 5 milioni di persone, come se avessimo dato da dormire per una
notte a tutta Milano. Sono sempre stati gli altri che ci hanno portato ad allargare lo
spazio della nostra tenda, se in noi c’è autentico ascolto e disponibilità.
Quando ci siamo accorti che stavamo entrando in una dimensione veramente
diversa, in una dimensione di Fraternità, abbiamo capito che senza preghiera non
andavamo da nessuna parte, abbiamo capito che la preghiera doveva avere il posto
più importante nella vita di ognuno di noi. Vivendo all’Arsenale abbiamo capito
l’importanza per noi della spiritualità della Presenza che il Signore ci ha indicato
come strada: dopo pochi giorni di Arsenale, abbiamo capito che se andavamo ad
aprire la porta da soli, con le nostre sole forze, non potevamo farcela, saremmo
stati forse gentili con chi ci avesse trattato bene ma non avremmo saputo
accogliere chi pretendeva o chi ci accusava…
Per imparare ad accogliere chiunque bene e con metodo dovevamo mettere tra noi
e l’altro la presenza di Dio e imparare a ragionare secondo la sua logica e secondo
il suo cuore.
D. Due curiosità: come vivete la politica e c’è qualcuno che vi si dedica? E le
famiglie sono in grado di seguirvi e come?
Sono un laico sposato e da sempre ho attorno a me altre famiglie ma anche monaci
e monache, persone che vivono solo di Dio e di servizio. Viviamo e operiamo
insieme, gli uni collaborando con gli altri. Le famiglie ricevono un grande aiuto dai
consacrati perché sono aiutate a mettere Dio al centro della loro vita; i consacrati
sono aiutati da noi a restare sensibili ai problemi concreti della gente che cerca
lavoro o casa o trova difficoltà nei rapporti familiari. I nostri figli hanno trovato e
trovano spesso nei monaci e nelle monache della fraternità degli amici cui
appoggiarsi nei momenti difficili, quando la famiglia non basta più.
Nei quarant’anni di Sermig abbiamo realizzato 1800 progetti in 125 nazioni del
mondo, abbiamo distribuito 10 milioni di pasti alla povera gente, girato ai poveri
quasi mille miliardi…
Eppure siamo un centinaio di persone (con un migliaio di volontari che ci aiutano).
Ma per me il segno più grande, segno di Dio, è che nessuna delle nostre coppie si
sia mai divisa. C’è bisogno però che ci aiutiamo e ci sosteniamo con una
preparazione permanente che ci coinvolga tutti, qualunque sia il nostro stato di
vita, la nostra età e il nostro tipo di impegno nella Fraternità.
Riguardo alla politica abbiamo sempre operato a favore dell’uomo soprattutto il più
povero e debole e di volta in volta abbiamo accettato la collaborazione di uomini
politici di qualsiasi area, purché volessero operare a favore dell’uomo e non ci
domandassero nulla in cambio. Non abbiamo mai voluto fare una scelta di parte per
poter avvicinare ogni persona e spingerla al servizio dell’uomo. Ma fin dall’inizio mi
sono detto che se volevo seguire la strada del Signore dovevo essere sempre
avvicinabile, non salire mai sul carro del vincitore, mantenere una vita modesta,
fare spazio ogni giorno alla preghiera.
D. Una casa aperta, chi passa, chi entra e chi esce… Due domande: Vorrei risentire
da lei l’immagine che dà della vostra regola, le linee principali. La seconda è sulla
Terra Santa.
Credo che la pace ci sarà se noi cristiani diventiamo buoni, la Pace ci sarà se
veramente noi ci convertiamo, e convertirsi è entrare in una logica diversa. Giorni
fa ero in una grande assemblea di giovani, lo sguardo mi si è posato su di una
ragazza e ho fatto con lei questa riflessione. Oggi con la possibilità che abbiamo di
usare il computer, tu potresti fotografare il mondo di oggi, fare una fotografia del
mondo; credo che nella fotografia troveresti dei dati scientifici: che un Nord
Americano o un Italiano consuma duemila litri di acqua al giorno, che ogni tre
secondi muore una persona di fame, ogni sei ore un ragazzo si suicida, che ci sono
40 guerre in corso… E’ possibile fotografare tutto questo e stabilire ogni quanti
minuti muore una persona ammazzata…
Se i dati di oggi sono veri, come saremo, come sarà il mondo tra dieci anni?
Tremendo solo a pensarci. Tremendo pensare che questo oggi diventerà domani,
tremendo pensare alla vita dei giovani, al loro futuro se non facciamo di tutto per
cambiare questa fotografia. Noi abbiamo una grande speranza, abbiamo la
speranza di poter ancora cambiare le cose e ci impegniamo personalmente per
farlo, con tutte le nostre forze.
Quando a Betlemme c’è stata l’occupazione della Basilica della Natività da parte di
200 palestinesi ci è stato chiesto di intervenire, di essere mediatori e noi abbiamo
accettato senza essere di parte ma scegliendo fino in fondo di servire la vita. Se
vogliamo cambiare il mondo, se noi vogliamo avere un futuro diverso, dobbiamo
cambiare anzitutto noi stessi. Se un piccolo gruppo come il nostro è stato incisivo
in tante parti e in tante situazioni, vuol dire che donne e uomini convinti possono
fare qualcosa di importante.
Noi cristiani possiamo fare qualcosa di importante se riuscissimo ad abbandonarci
maggiormente a Lui; Gesù ce l’ha promesso: “Voi farete cose più grandi di me...”..
Questa sera noi che siamo qui, 200-300 quanti siamo, possiamo cambiare Milano,
possiamo cambiare il corso della storia di una città, se ci crediamo, se siamo
credibili. Non avrei mai immaginato che sarei diventato fondatore di una comunità
di famiglie, di monaci e monache, mi sono ritrovato a fare qualcosa che non
pensavo e che non avevo previsto. Quando mi hanno chiesto di scrivere la Regola di
vita per questa Fraternità, non me se sono sentito degno e ho pensato di chiederla
all’uomo più buono e più importante che avessi incontrato nella mia vita, un
vescovo brasiliano, Dom Luciano Mendes De Almeida. Lui che mi ha sempre aiutato
in tutto, alla mia domanda, risponde secco: “ No, la regola la scrive il fondatore”
così per ubbidienza ho scritto la Regola del Sì e lo stupore mi ha preso ancora una
volta.
La storia del Sermig
Non avrei mai immaginato il percorso che mi ha portato oggi a scrivere questa
lettera, per raccontare l’avventura del Sermig, iniziata quasi per caso e cresciuta
negli anni, fino a quando ho cominciato a riconoscerla come avventura di Dio.
Sono nato nel 1940 a Mercato San Severino (Salerno) da padre piemontese (Boves) e
madre di Avellino. La mia famiglia si era trasferita da Cuneo a Salerno dove mio
padre era stato inviato per lavoro. Ho vissuto lì la mia infanzia, ultimo di nove figli.
Mia madre Ester, donna di preghiera, mi ha trasmesso fin da piccolo una fede forte.
Devo a lei, al suo esempio, il mio legame con il Signore, il desiderio di essere nella
Chiesa, di aiutare i più deboli e i più poveri. Mio padre Giuseppe non frequentava
la Chiesa, ma mi ha trasmesso un profondo senso di giustizia, il rispetto della
legge, l’onestà.. Fin da bambino mi sentivo spinto a vivere la mia vita per Dio e
questo pensiero, questo senso di appartenenza mi appagava. Non avevo interesse
per la scuola e non mi impegnavo nello studio; ero piuttosto attratto dagli impegni
che la parrocchia mi offriva. Avevo poco più di otto anni e mi sembrava naturale
occuparmi dei problemi degli altri; credo di aver fatto in quegli anni, pur con la
fede semplice di bambino, la scelta fondamentale di Dio. Padre Liberato,
francescano e parroco del mio piccolo paese, mi faceva fare catechismo ai bambini
più piccoli di me.
Nel 1952 la mia famiglia si è spostata a Chieri (Torino), dove mio padre era stato
trasferito per lavoro presso l’Ufficio del Registro. Questo secondo periodo della mia
vita iniziava con la fatica di un inserimento in una città del nord dove, in quegli
anni, provenire dal sud era una discriminante non semplice da superare. Se a
Pandola, vicino a Salerno, venivo considerato “il piemontese” ora, adolescente in
una città del Nord, ero “il meridionale”.. Sono stati anni molto duri nei quali la
scuola non mi ha aiutato: ho avuto molti insuccessi scolastici. Mi sono aggrappato
alla fede e alla Chiesa, continuando ad impegnarmi in parrocchia, nella catechesi e
nello sport, con gli Scout, curioso di ogni attività che prendesse avvio nel contesto
ecclesiale. Ho trovato in questi ambienti giovani seri, impegnati, che sono diventati
il mio punto di riferimento (alcuni lo sono tutt’ora). Una svolta importante è stato
l’incontro con la Congregazione Mariana all’interno della quale la mia ossatura
spirituale si è formata. Poi i miei orizzonti si sono allargati al mondo: la Lega
Missionaria Studenti di Chieri e di Torino e il gruppo missionario delle Pontificie
Opere Missionarie di Torino mi hanno fatto entrare in relazione con i problemi
legati al sottosviluppo del Sud del Mondo; insieme a questi gruppi partecipavo
attivamente all’organizzazione delle giornate missionarie a Chieri, Torino e in altre
città d’Italia.
A diciannove anni ho iniziato il mio inserimento nel mondo del lavoro come
impiegato in una fabbrica tessile, in seguito in un magazzino per l’edilizia, poi in
un importante mulino di Chieri, assorbito successivamente dalla Lega Nazionale
Cooperative Mutue, all’epoca, centrale cooperativa dei partiti della sinistra
italiana. Nel 1962 fui chiamato come cassiere presso l’Istituto Bancario San Paolo di
Torino, dove sono rimasto fino al 1991, anno in cui mi sono licenziato per
dedicarmi completamente al Sermig; fino ad allora avevo scelto di mantenere il
lavoro, per continuare a vivere da lavoratore il mio ideale di vita. In ognuno di
questi ambienti ho intessuto rapporti significativi con tanti uomini e donne di
buona volontà, con cui ho imparato a confrontare le mie convinzioni umane e
religiose.
A vent’anni, in pochi mesi, ho perso prima mio padre e poi mia madre. E’ stato un
distacco dolorosissimo, ma non mi sono mai sentito orfano; ho continuato a portarli
nel cuore e a sentirli in ogni momento presenti nell’affetto, nella riconoscenza,
nella preghiera.
Partecipavo attivamente ad una decina di gruppi, mi impegnavo con
determinazione in diversi ambiti, conciliando i vari impegni con il lavoro. Maria,
con la quale ero fidanzato, mi consigliò di limitare gli impegni e di concentrarmi su
un solo gruppo, per far spazio alla vita familiare; era il 1964, ci saremmo sposati
l’anno successivo. Sentivo che, tra tutti i servizi che svolgevo con passione e con
impegno, quello che più mi coinvolgeva era l’aspetto missionario: l’annuncio della
Parola e le opere di misericordia, “dar da mangiare agli affamati”. Avevo
ventiquattro anni e mi pareva inconcepibile che qualcuno potesse morire di fame.
Nessuno dei gruppi che frequentavo aveva questa sottolineatura, così decisi di
impegnarmi a servizio dei missionari, particolarmente di quelli che nessuno
aiutava, di quelli meno conosciuti o non sostenuti dalle congregazioni, per aiutarli
a combattere la fame. Mi spingeva il forte desiderio che nella Chiesa e nella
società aumentasse l’attaccamento alla giustizia per poter vincere la fame.
L’amore ha una caratteristica: l’esagerazione. Tutt’ora penso che l’amore non può
non essere esagerato. Pensare di eliminare la fame in un mondo che potrebbe
sfamare trenta, quaranta miliardi di persone e che invece ne fa morire di fame
trentamila ogni giorno, non mi pare proprio esagerato. Esagerata è forse
l’indifferenza - che va combattuta - di fronte a queste situazioni.
Decisi di impegnarmi in questo settore, nell’ambito dell’Ufficio delle Pontificie
Opere Missionarie di Torino. Il Direttore, Monsignor Vincenzo Rolla, mi autorizzò a
scrivere una lettera ai giovani delle parrocchie della Diocesi, per cercare chi fosse
disposto ad iniziare con me un gruppo a sostegno dei missionari, con lo scopo di
abbattere la fame nel mondo. Ricevetti una decina di adesioni di giovani che si
rivelarono subito disponibili e buoni. Il 24 maggio 1964 scegliemmo di darci un
nome: Servizio Missionario Giovani - Sermig. Avevamo ben chiaro che Gesù Cristo
era il centro della nostra vita e che la Chiesa era la nostra casa.
La nostra sede era l’Ufficio Missionario Diocesano e ci incontravamo il sabato
pomeriggio in Curia. Le nostre attività erano relative all’organizzazione delle
iniziative ecclesiali in ambito missionario: Giornata Missionaria, Giornata
dell’Infanzia, Giornata dei Lebbrosi… Organizzavamo poi mostre missionarie,
vendite di prodotti artigianali del Terzo Mondo, raccolte di fondi, concerti di
beneficenza e ogni iniziativa che la fantasia ci suggeriva.
Nel 1965 Maria ed io ci sposammo e negli anni successivi sono nati i nostri tre figli:
Lidia, Alessandro e Andrea. Il nostro patto iniziale era un impegno nel gruppo
limitato a due ore la settimana e l’offerta di una giornata ogni mese del nostro
stipendio per i poveri. Questa era la nostra prospettiva, anche perché nei gruppi di
allora (e forse anche di oggi) l’impegno per i poveri, lontani o vicini, si enucleava
in poche ore la settimana.
I primi anni sono trascorsi nello slancio di carità verso i più poveri nel Sud del
mondo, preparando la svolta fondamentale del Sermig nella fedeltà a Gesù e alla
Sua Chiesa. Con questo bagaglio essenziale e solido abbiamo attraversato il
“sessantotto”, gli anni della contestazione, quando era d’obbligo, anche per i
gruppi giovanili ecclesiali, la scelta politica. L’ideologia di sinistra o di destra
pareva essere la sola chiave di lettura del Vangelo e chi non voleva schierarsi era
considerato quasi un nemico. Sentivo già in quegli anni con grande chiarezza che
Gesù Cristo ci bastava, il Vangelo non aveva bisogno di elemosinare dalle ideologie
i germi vitali per cambiare il mondo, la Chiesa non era e non è una struttura da
aggiornare, ma una presenza a cui convertirsi, quella di Gesù Cristo.
L’impegno del gruppo diventava sempre più intenso e di frontiera, coinvolgeva le
nostre scelte di vita, ci interpellava con forza a vivere in modo più radicale il
Vangelo. Si faceva strada la trasformazione del Sermig da gruppo di lavoro a
comunità di vita.
Nel 1967, durante la guerra dei sei giorni tra Israele e Palestina, il mondo pareva
sull’orlo di una nuova grande guerra. In quel periodo sentii parlare per la prima
volta di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, la sola voce che si alzava alta e chiara a
favore del dialogo e della pace. Le sue idee mi affascinarono: parlava dell’annuncio
di pace del profeta Isaia. Lessi la sua profezia nella Bibbia per la prima volta e
capii che mi avrebbe cambiato la vita. Da quel momento la Bibbia mi è diventata
compagna, me la sono ritrovata attaccata alle mani. Pensai che era logico che le
armi fossero tramutate in strumenti di lavoro, era logico un mondo senza armi.
Dopo poco andai a trovare La Pira a Firenze. La sua persona, le sue idee, la sua
convinzione che i figli di Abramo potessero incontrarsi pacificamente mi
convinsero. Lui fu per me un grande esempio, mi incoraggiò moltissimo a
proseguire sulla via della pace. Da allora La Pira e i suoi amici, a partire da Fioretta
Mazzei, sono entrati nella nostra storia.
Figura fondamentale, per quegli anni e per la nostra formazione, è stato anche il
Cardinal Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal 1965 al 1977. In un momento
delicatissimo della nostra storia fummo allontanati dall’Ufficio Missionario e
andammo da lui a portare le nostre ragioni, nella sofferenza. Ci ascoltò, ci
riconobbe come gruppo prima ancora che noi scoprissimo la nostra vera identità, e
ci accolse. Trovandoci senza sede, ci diede con molta semplicità la chiesa
sconsacrata che si trovava nell’Arcivescovado di Torino, dicendoci che era bene che
nella casa dell’Arcivescovo si pregasse e si lavorasse per i poveri. Per un lungo
periodo, in quella che era diventata la nostra sede, quasi ogni settimana, guidava
una lectio divina, ci permetteva di fare l’Adorazione Eucaristica, partecipava agli
incontri che organizzavamo, ci correggeva e incoraggiava. Questo Vescovo ci ha
insegnato uno sconfinato amore per Gesù, per la Chiesa, per la giustizia. Con il suo
esempio ci ha aiutato a capire che ogni cristiano può diventare uomo di Dio, può
pregare ed agire nel mondo senza essere del mondo. Siamo stati felici e onorati
che la Città di Torino con un atto pubblico ci abbia invitato ad intitolare la nostra
casa a lui, uomo buono, uomo di Dio, padre della Chiesa e anche - lo diciamo con
molta commozione - amico nostro.
Con queste convinzioni dal 1972 cominciammo ad invitare testimoni del Vangelo,
radunando attorno ad essi migliaia di giovani. Sostenuti dal nostro Vescovo
invitammo Raoul Follereau, Helder Camara, il Cardinal Suenens, Carlo Carretto,
Frère Roger Schutz, Madre Teresa di Calcutta… per ricevere conferma che solo con
Gesù Cristo ed il Suo Vangelo potevamo essere comunità a servizio dei poveri. Nel
clima di rivendicazione generale legato alle contestazioni degli anni settanta, molti
di noi sentivano la necessità di radicarsi maggiormente nella preghiera. Il 13
maggio 1973 organizzammo al Palazzetto dello Sport di Torino il “Pomeriggio di
speranza”: un appuntamento di preghiera cui parteciparono settemila giovani,
appartenenti a gruppi giovanili ed associazioni, riuniti per un momento di unità
attorno alla Parola di Dio.
Quel pomeriggio rappresentò una svolta decisiva: la preghiera entrava nella nostra
vita, mossa dallo Spirito Santo e con essa si faceva strada la convinzione che
volevamo essere nella Chiesa una comunità viva, credibile. La preghiera cominciò
ad accompagnarci nella vita come Spiritualità della Presenza, presenza di Dio nel
cuore delle persone, nelle situazioni, nel mondo. La spiritualità è entrata dentro di
noi lentamente e abbiamo capito che è diventata il dono basilare, fondamentale
del Sermig.
Dalla preparazione di quella giornata prese forma il “Movimento speranza”. In
un’epoca di fioritura di gruppi e associazioni, questo movimento ne raggruppava
centinaia con l’intento di unirsi per essere un segno più visibile della speranza
cristiana. Il progetto, di cui eravamo capofila, poteva aumentare apparentemente
la nostra importanza, ma nel mio cuore sentivo che la grande varietà e quantità dei
componenti non garantiva che il Movimento avesse radici ben fondate nella Chiesa,
nella scelta personale della non violenza e della lotta alla fame. Sentivo invece
maturare l’esigenza di una comunità nata e sviluppata in seno alla Chiesa, cui le
persone aderissero ad una ad una e che esprimesse con la testimonianza della vita
la novità evangelica.
Proprio nel “Pomeriggio di Speranza” parlai in pubblico la prima volta. Fino a quel
momento, considerando la mia poca cultura e la mia timidezza, avevo
“programmato” la vita del Sermig su queste mie caratteristiche, escludendo a
priori ciò che non mi sentivo in grado di fare: parlare in pubblico, avvicinare
direttamente i poveri, viaggiare all’estero. Pensavo che non avrei mai visitato paesi
poveri, perché non avevo bisogno di “vedere” bambini morti di fame per
commuovermi, li avevo già visti nella mia testa e nel mio cuore. Ma qualcosa stava
cambiando in me e nel Sermig.
Me ne resi definitivamente conto nel marzo 1979. Il Venerdì Santo di quell’anno
avevamo organizzato “La Via Crucis delle Resurrezioni” in un quartiere operaio di
Torino. Trentamila persone si radunarono lungo quelle strade di emarginazione e di
degrado. Ad ogni stazione leggevamo una “lettera aperta” a medici, politici,
militari, alla Chiesa… a categorie sociali significative, cui chiedevamo di tornare ad
essere credibili nel servizio all’uomo. Il nostro scopo era restituire speranza alla
gente sfiduciata e impaurita per il terrorismo, che dilagava in quegli anni, speranza
fondata su Gesù morto e risorto. Quella sera compresi che il Signore aveva un
progetto su di noi che andava ben oltre il mio: ci stava usando per essere segno di
speranza per tanta gente smarrita. Se accettavo questo progetto, mi dissi, avrei
dovuto cambiare il mio carattere, imparare a morire al mio io per lasciar emergere
Gesù.
Quella sera, di fronte alla grande risposta a quell’iniziativa, decisi che dovevo
trovare un metodo infallibile per non lasciarmi travolgere dal successo, dalle cose
del mondo. Accettai di iniziare questa avventura, non sapendo dove mi avrebbe
portato, e mi diedi alcune regole: la preghiera 24 ore su 24, come respiro di ogni
momento, confrontarmi con un padre o una madre spirituale e poi ubbidire,
considerare i giovani miei maestri, non salire sul carro dei vincitori, non essere un
servo del potere di turno, non cercare sicurezze economiche in banche o
istituzioni, ma fidarmi sempre dell’aiuto della gente e dei giovani, essere
trasparente nella gestione delle risorse che la Provvidenza ci affidava, essere
sempre concreto nella carità e vivere con modestia. Fu un patto definitivo con
Gesù, suscitato dallo Spirito Santo e sotto lo sguardo materno di Maria.
Dal momento in cui il mio “sì” è diventato “per sempre”, serenamente e senza
esaltazione ho visto tanti altri sì trasformarsi in “per sempre”. Molte ragazze e
ragazzi che frequentavano il Sermig in quegli anni hanno maturato la decisione di
seguire Gesù povero, casto, ubbidiente nelle congregazioni missionarie o in
seminario. Mi pareva un bel segno per la Chiesa accompagnare ragazzi e ragazze in
questa decisione e vederli poi diventare parte di ordini religiosi e congregazioni.
Per alcuni che partivano, altri ne arrivavano; si incontravano periodicamente, e in
attesa di comprendere la loro strada aiutavano il Sermig nel cammino di preghiera.
Di tanto in tanto ci si interrogava sulla possibilità di formare una fraternità stabile
nel Sermig, ma il fatto che io fossi un laico sposato mi dava da pensare che il
nostro “gruppo” sarebbe stato composto prevalentemente da laici sposati come
me.
Intanto la Bibbia, che avevo iniziato a leggere con costanza, mi appassionava. Io
che non amavo leggere e avrei fatto fatica a ricordare un libro letto per intero,
leggevo la Parola ogni giorno, pagina dopo pagina, senza fermarmi davanti alle
pagine più difficili. Ricordo di averla letta tutta, la prima volta, in tre anni. La
Parola è entrata nella mia vita come il mio respiro, ha cominciato a frequentare la
mia mente e a venirmi incontro in momenti difficili, a conferma di ciò che il
Signore voleva da me. Ora è la mia roccia. Mi commuove pensare che Gesù leggeva
e pregava gli stessi salmi che prego io; mi commuove pensare che tanti uomini e
donne hanno avuto per compagnia la Bibbia come me.
Insieme alla preghiera della Parola, anche la preghiera mariana del Rosario mi era
entrata nel cuore fin da bambino. Credo di averla “mangiata” con il latte di mia
madre che era innamorata della Madonna. Mi è sembrato naturale da subito
pregarlo non tanto per me quanto per le intenzioni del Padre, del Figlio, dello
Spirito Santo, della Madonna; pregarlo per le intenzioni del Santo più dimenticato,
san Giuseppe, degli Angeli, del Santo Padre; pregarlo per la mia famiglia, per i miei
amici e per i miei nemici; pregarlo per vivere perennemente il grazie. Così Parola e
Maria si sono intrecciate fino a portarmi a dire un sì totale senza condizioni, come
Maria, un sì definitivo come quello che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno
detto a noi, un sì che continua a non stancarsi di noi. Da questo sì sono scaturiti
quelli di molti amici e amiche di quegli anni decisivi.
Dal 1972 frequentava il Sermig una ragazza molto giovane, Rosanna Tabasso, che si
era subito inserita nel gruppo con grande generosità. Partecipava anche lei al
gruppo vocazionale, interrogandosi sulla volontà del Padre su di lei. Nell’autunno
del 1979 organizzammo tutti insieme una settimana di formazione sulla Parola di
Dio, tenuta da padre Mario Nascimbeni, carmelitano. Fu una settimana decisiva
perché ci aprì all’ascolto della Parola di Dio. In quel periodo maturava in Rosanna il
pensiero di dedicare interamente la sua vita a Dio, restando nel Sermig per iniziarvi
un percorso di fraternità. La preghiera della Parola, il desiderio di essere segno di
speranza, l’ascolto dei segni dei tempi la spingevano ad intraprendere questa
strada. Sentivo anch’io l’urgenza di essere nella Chiesa con la freschezza e
l’autenticità delle prime comunità cristiane; anche i ragazzi e le ragazze, le coppie
di sposi e le famiglie che frequentavano il Sermig si interrogavano da tempo sulla
necessità di essere fraternità, per testimoniare in modo concreto ed evidente il
Vangelo, ma non avevo ancora chiara quale fosse la volontà del Padre per noi.
Nel maggio 1976 avevo sentito la necessità di andare da Papa Paolo VI per portargli
questo bisogno di autenticità e chiedergli che la Chiesa fosse più evangelica. Ero
partito senza appuntamento e mi ero presentato al Portone di Bronzo con una
lettera di presentazione dell’Arcivescovo di Torino. Volevo parlare al Papa e
sentivo che lo Spirito mi spingeva. Monsignor Monduzzi - il suo ricordo mi è caro accettò che uno sconosciuto potesse parlare al Papa e, dopo l’udienza generale,
mi trovai tra le braccia del Papa a dirgli umilmente che sentivo la Chiesa troppo
staccata dalla gente e poco amata dai giovani. Il Papa mi accolse, capì il mio
cuore, mi abbracciò, mi avvolse con il suo manto e mi disse che sperava da Torino,
dal Piemonte, terra di Santi, una rivoluzione d’amore: “Faccia lei questo” mi disse.
In quel momento sentii che la nostra casa sarebbe stata a Porta Palazzo, quartiere
dei santi sociali torinesi: il Cafasso, don Bosco, il Cottolengo, Giulia Falletti di
Barolo… Ma non lo comunicai a nessuno.
L’anno successivo, con un gruppo di giovani, fui ricevuto dal Presidente del
Consiglio Giulio Andreotti per portargli una protesta a favore dei profughi del
Vietnam e della Cambogia ed una petizione. Quel mattino, prima di entrare a
Palazzo Chigi, andammo a pregare nella chiesa di Sant’Andrea della Valle e la
Provvidenza mi fece entrare in un’altra dimensione. Portai la petizione al
Presidente Andreotti, ma inspiegabilmente (anche per me) sentii di dovergli
domandare qualcosa di più grande e di inconcepibile: “Presidente, mi aiuta per un
miracolo?”.. I miei amici mi guardarono stupiti: il Presidente mi rispose che a lui in
genere venivano chiesti favori, non miracoli! Io non ho mai chiesto e mai chiederò
favori, soprattutto ad un politico, miracoli sì, perché riportano tutti e tutto ad una
dimensione che è quella di Dio. Gli chiesi di aiutarci ad avere l’Arsenale Militare di
Porta Palazzo a Torino come sede del Sermig. Nessuno di noi sapeva che a Torino ci
fosse un Arsenale, quindi ne fummo tutti - io compreso - stupiti. Da questo incontro
è nata la richiesta per fare dell’Arsenale Militare di Torino la nostra casa.
Recitammo insieme il Rosario, quasi a suggellare quel patto con Dio. Mi
accompagnavano le esortazioni di Papa Paolo VI e il suo invito alla santità, Giorgio
La Pira e il suo slancio profetico per la pace sulle orme del profeta Isaia e la
domanda “Signore, cosa vuoi che faccia?”.. Il giorno successivo, tornati a Torino,
con un gruppo di giovani e con don Paolo Gariglio, parroco e amico, andammo a
Porta Palazzo, per constatare che lì esisteva veramente una fabbrica di armi in
disuso. Iniziammo un “assedio” fatto di preghiera incessante e poi di richieste
ufficiali di quello stabile alle istituzioni competenti. Dal 1979, anno in cui iniziò la
preghiera, entrammo all’Arsenale il 2 agosto del 1983, festa del Perdono di Assisi.
Quel giorno avevo tra le mani la mia Bibbia, un crocifisso regalatomi dal Cardinal
Pellegrino, che a sua volta lo aveva ricevuto da un carcerato, e un libro donatomi
da Maria Luisa Manfredi, donna laica, buona e forte. Ci accompagnò anche Mons.
Peradotto, allora Vicario Episcopale; desideravo entrare nell’Arsenale non come un
privato cittadino, ma come Chiesa e anche a nome delle donne e degli uomini di
buona volontà e dei poveri.
Questi anni di attesa furono fondamentali per plasmare la vita del Sermig secondo
la logica di Dio. Nel 1980 Rosanna aveva deciso di seguire la via della
consacrazione, ripresentandomi la sua richiesta di restare al Sermig. Non accettai
subito ma, d’accordo con il suo padre spirituale, la invitai a seguire un periodo di
discernimento presso una congregazione già consolidata. Scegliemmo le Suore
Carmelitane di Santa Teresa la cui Madre Generale, Madre Maria Luisa, accettò di
accoglierla e di accompagnarla. Restò nel noviziato delle Carmelitane per due anni,
fino all’ingresso all’Arsenale. Nei due anni di distacco dal Sermig maturò la
decisione di vivere come consacrata in mezzo a noi, avendo conferma che fosse la
strada per la quale il Signore la conduceva. E’ stata questa la svolta decisiva del
Sermig e l’inizio della Fraternità della Speranza.
Dal 1983 la vita della Fraternità della Speranza si è organizzata dentro le mura
dell’antica fabbrica di armi, oggi Arsenale della Pace. Fin dall’inizio sentivamo che
l’Arsenale sarebbe stato il banco di prova della Fraternità, avrebbe misurato la
nostra coerenza e la fiducia nella Provvidenza. Per ricostruire l’Arsenale (oltre
trentamila metri quadri di superficie e di fabbricati) ci volevano quasi cento
miliardi. Noi avevamo sul nostro conto non più di cinquanta milioni e il desiderio di
non smettere di aiutare i poveri per costruire la nostra casa. Volevamo fidarci
esclusivamente della Provvidenza: se questa era un’opera di Dio, doveva pensarci
Lui. Così è stato: milioni e milioni di persone, professionisti, ingegneri, architetti,
imprese edili, giovani da tutta Italia… ci hanno aiutato nella ristrutturazione
dell’Arsenale, permettendoci di continuare le carità e i progetti nei Paesi più
poveri del mondo.
Lo scopo statutario del Sermig ha continuato ad essere la sensibilizzazione
missionaria cioè l’opera dell’evangelizzazione, l’apertura alla mondialità e alle
problematiche dei Paesi del sottosviluppo; sentivamo forte l’esigenza di vivere
concretamente la pagina del Vangelo che dà un volto visibile all’Amore: “Ho avuto
fame e mi avete dato da mangiare…”. Nei nostri quarant’anni abbiamo cercato di
renderla concreta con quasi duemila progetti di soccorso ai poveri e di sviluppo, in
centoventicinque nazioni dei cinque continenti; abbiamo scavato pozzi, costruito
ospedali e case, mantenuto in vita scuole e centri di formazione… senza chiedere
nulla in cambio, senza mettere etichette né fare proseliti, mettendo sempre i
bambini al primo posto, secondo un preciso mandato ricevuto dal Santo Padre nel
1991 a Salvador de Bahia: “Essere l’amico fedele di tutti i bambini abbandonati nel
mondo”.
Ma il comandamento dell’amore ci ha interpellato ulteriormente: “ Ero carcerato e
mi avete visitato… Ero straniero e mi avete accolto…”.. Volevamo che la nostra
casa fosse aperta ventiquattro ore su ventiquattro e subito siamo stati ricercati da
carcerati che chiedevano di essere visitati e accolti, da italiani e stranieri senza
casa e senza lavoro, ragazze madri, donne che chiedevano di lasciare la strada e
poter cambiare vita, persone malate e sole... La prima lettera che ci fu recapitata
all’Arsenale fu di un detenuto per motivi politici, un militante delle Brigate Rosse
che ci chiedeva di poter dialogare con noi per trovare una forma di riconciliazione
con la società ferita. Fu l’inizio di un’accoglienza rivolta ai detenuti che potevano
usufruire della semi-libertà o dei permessi di lavoro. Non molti anni dopo,
nell’inverno del 1987, durante la “Settimana dei digiuni” organizzata in unità con il
Santo Padre a ricordo della Giornata di Preghiera Ecumenica per la Pace di Assisi,
in una serata di preghiera, un uomo dall’accento straniero si alzò in piedi
dicendomi “Tu questa notte, dove dormirai? Io e molti altri miei connazionali
dormiremo al freddo nelle auto”. Pochi mesi dopo aprimmo l’Arsenale all’ospitalità
notturna. Il mondo dei poveri di casa nostra in breve tempo è entrato nell’Arsenale
con noi. Non era nei nostri piani e non pensavamo fosse di nostra competenza, ma
abbiamo sentito che ogni persona che bussava alla nostra porta era un
appuntamento con Dio.
La spiritualità della Presenza ci veniva incontro, aiutandoci ad accogliere con il
cuore di Dio ‘l’importuno’ che bussava giorno e notte alla nostra porta. Se ci
fossimo basati sulle nostre sole forze umane, ci saremmo spaventati della
sproporzione, ma la preghiera lentamente entrava nella nostra mente e nel nostro
cuore, per insegnarci a mettere il Signore tra noi e il povero che domandava aiuto.
La Presenza del Signore ci faceva affermare con consapevolezza che avremmo
sempre accolto qualsiasi uomo o donna che con cuore sincero volesse cambiare la
sua ‘vita vecchia’, qualunque fosse il suo errore o la sua storia, unendo sempre alla
forza dell’amore la pazienza e la severità di un metodo adeguato. L’ho
sperimentato la prima volta incontrando Pietro Cavallero, famoso bandito degli
anni sessanta, che la gente chiamava ‘la belva che ride’, ‘il sanguinario’. Accolto
all’Arsenale della Pace dopo trent’anni di carcere, ha visto con i suoi occhi che
l’amore del Signore può tutto e ha cambiato radicalmente la sua vita: ha chiesto
perdono alle famiglie delle sue tante vittime, ha cercato di riparare ai suoi errori
aiutando i poveri, ha ritrovato la sua dignità accettando con grande pazienza la
malattia e la durezza di quanti non hanno perdonato i suoi errori, ha trovato in Dio
il senso della sua esistenza. In qualsiasi epoca, l’uomo che ha perso la strada di
casa deve sapere che ci sarà sempre un Arsenale pronto ad accoglierlo.
Pur occupati dall’impegno all’interno dell’Arsenale, abbiamo sempre sentito che la
nostra presenza doveva essere a fianco della gente. In questo senso è stata
fondamentale nel 1987 la decisione di un pellegrinaggio annuale a piedi. Abbiamo
capito che dovevamo essere pellegrini, faticare per i nostri obiettivi, camminare a
piedi per avere il passo della gente, a piedi per capire meglio i problemi degli altri,
a piedi per convivere con il sudore, a piedi per vivere i dolori e le gioie della gente,
a piedi per non entrare nella superbia, a piedi per scoprire la preghiera del corpo
che fatica. Dopo il primo pellegrinaggio, ogni anno lo ripeto, da solo, con pochi o
con tantissimi. Da solo per pregare meglio con il mio Signore, per la mia fraternità,
per il sogno che Dio ci ha affidato; in tantissimi per portare la stessa preghiera in
mezzo alla gente e portare la stessa preghiera nelle carceri, nei grandi palazzi e,
tante volte, per portare questa preghiera tra le braccia del Santo Padre.
Nel gennaio 1988 abbiamo incontrato per la prima volta Dom Luciano Mendes de
Almeida, all’epoca vescovo ausiliare di San Paolo e Presidente della Conferenza
Episcopale del Brasile. Tornando da una missione ecclesiale nel Libano martoriato
dalla guerra, passò all’Arsenale della Pace su nostro invito. Da anni inviavamo aiuti
in Brasile e avevamo il forte desiderio di convogliare tutte le nostre energie in un
progetto di sviluppo che aiutasse finalmente i poveri a risollevarsi. Dom Luciano,
uomo che racchiude in sé intelligenza e saggezza unite a semplicità e bontà,
anziché parlarci delle necessità del Brasile, ci aprì il cuore e la mente ai drammi
del Libano, chiedendoci di andare in questa terra perché era stata un esempio di
convivenza e di investire lì le nostre risorse. Affidammo questo invito al Signore e
poco dopo partii per il Libano per una missione di pace in mezzo ai giovani. A
questa ne seguirono altre con l’invio anche di aiuti. Iniziammo così la nostra
presenza in Medio Oriente che ci avrebbe portato, negli anni successivi, anche in
Giordania, Iraq e Palestina.
L’amicizia con Dom Luciano, nostro padre, pastore e maestro, da allora ci ha
sempre accompagnato. Grazie alla sua fiducia nel carisma del Sermig e al confronto
costante con la sua saggezza, abbiamo maturato la decisione di essere missionari e,
nel 1996, abbiamo accettato l’invito dell’Arcivescovo di San Paolo, Cardinal Paolo
Evaristo Arns ad aprire l’Arsenale della Speranza, con la presenza di alcuni monaci
della Fraternità. Siamo in profonda unità con l’attuale Arcivescovo, Cardinal
Claudio Hummes e con il Presidente della CEB Cardinal Gerardo Majella Agnelo.
Abbracciando ormai la dimensione missionaria, dal 2003 siamo presenti in
Giordania, con l’Arsenale dell’Incontro - Centro Regina Pacis di Amman, chiamati
dal Vescovo latino di Amman Monsignor Selim Sayegh e dal Patriarca di
Gerusalemme Michel Sabbah. La nostra presenza è rivolta prevalentemente a
disabili con problemi fisici e psichici, siano cristiani o musulmani, per contribuire
al loro inserimento nella società, per sostenere le famiglie più povere, educare i
giovani alla solidarietà verso i più deboli, contribuire, attraverso opere di carità, al
dialogo tra cristiani e musulmani.
Attualmente nei tre Arsenali ogni giorno diamo posti letto a quasi millecinquecento
persone, distribuiamo circa quattromila pasti, forniamo centinaia di visite mediche
e molti altri servizi, con la consapevolezza che l’altro è un uomo e una donna da
rispettare, da amare. Cerchiamo di non creare “distanza” tra chi accoglie e chi
viene accolto, di far sì che la gratitudine non assuma forme che umiliano e
feriscano la dignità delle persone. I nostri “monasteri metropolitani” restano aperti
a chiunque voglia incontrare la solidarietà, il silenzio e la preghiera,
indipendentemente dalla cultura, dalla religione, dalla ideologia, dalle scelte
politiche. Tuttavia l’opera educativa rivolta ai giovani, primi destinatari di tutti gli
interventi, resta la nostra priorità. Le nostre case sono aperte anzitutto a loro,
perché ritrovino il senso della vita, i valori per cui spendersi e soprattutto ritrovino
Dio.
Per rispondere alle esigenze dei giovani di apprendere nuovi mestieri, restando a
contatto con il patrimonio artistico di cui l’Italia è ricca, abbiamo aperto per loro
un’accademia del restauro. Allo stesso modo abbiamo realizzato un’accademia
musicale per aiutarli a comunicare, utilizzando la musica. Frutto di
quest’accademia è un nuovo linguaggio musicale, una sorta di “gregoriano del
2000” che si è espresso particolarmente nell’”Opera musicale per Giovanni Paolo
II”, donata al Santo Padre come segno della riconoscenza e dell’affetto dei giovani.
Dalla volontà di quanti frequentano gli Arsenali sono nati gli incontri internazionali
dei Giovani della Pace, occasione per loro di conoscersi, confrontarsi anche con i
Grandi della Terra per costruire un futuro migliore. Con il medesimo scopo abbiamo
aperto l’Università del Dialogo che si prefigge di formare alla solidarietà, alla pace,
al rispetto della persona. E’ dedicata a due maestri di vita che ci hanno aiutato a
formarci: Giorgio Ceragioli e il Cardinal Van Thuan cui saremo sempre riconoscenti
per il bene che ci hanno voluto e l’insegnamento di vita che ci hanno dato.
Negli ultimi venticinque anni della nostra storia l’incontro con Papa Giovanni Paolo
II è stato determinante per la nostra crescita. La sua amicizia è stata una carezza
di Dio, che ci ha confermato la nostra totale appartenenza a Lui e alla Sua Chiesa;
ci ha dato piena consapevolezza del carisma della speranza ricevuto da Dio Padre.
Ricordo le parole ispirate che ci ha lasciato nell’udienza del 24 gennaio 1979:
“Tirate fuori la speranza assopita nel cuore degli uomini”.
Al Santo Padre abbiamo dedicato molte delle carità e delle missioni di pace che
abbiamo compiuto nel mondo, dalla Polonia alla Georgia, dalla Giordania al
Rwanda, dal Brasile alla Romania…, sempre nel silenzio e nella discrezione, per
portare un segno amorevole della vicinanza di Dio ai più miseri. Grazie alla sua
amicizia la nostra storia è diventata ancor più storia con Dio.
Questi sono i tratti salienti di quarant’anni di storia, durante i quali la Provvidenza
ci ha condotto a vivere il dono di Dio. La sofferenza è stata sempre la nostra
maestra di vita. Non c’è stato passaggio significativo della nostra vita che non sia
stato segnato dalla prova: dolori, calunnie, tradimenti, quasi sempre arrivati da
persone che pensavamo esserci amiche. Ogni volta ci siamo ripetuti che, se la
nostra era opera di Dio, avrebbe pensato Lui a portarla avanti e abbiamo rinnovato
il nostro sì. Siamo grati ai nostri amici per averci aiutato a leggere ogni
avvenimento con un’ ottica evangelica, ma anche a chi ci ha fatto soffrire perché
ci ha aiutato a capire ciò che non verremmo mai fare agli altri.
La fraternità e il suo carisma
Nessuno può scegliere da solo il carisma da vivere, perché è Dio che lo affida ad
ognuno come un dono da far vivere. Le persone, gli avvenimenti aiutano a scoprirlo
e a confermarlo. Così è stato per noi, per la nostra Fraternità della Speranza,
composta da monaci e monache, giovani, coppie di sposi e famiglie - e, se Dio
vorrà, sacerdoti - che hanno in comune la “Regola del sì”.
Vogliamo fare nostro il “sì” generoso e totale della Madonna a Gesù e al Suo Regno.
La gente e successivamente anche il Santo Padre ci hanno aiutato a capire che il
nostro mandato è quello di “tirar fuori la speranza assopita nei cuori”. Tutti
abbiamo accolto e cerchiamo di vivere il carisma della speranza. Viviamo nel
mondo, a fianco delle donne e degli uomini del nostro tempo, con una presenza
amorevole fatta più di silenzio e di gesti che di parole, per ravvivare in ciascuno la
speranza: cerchiamo di annunciare Gesù Risorto con la nostra vita, con la
generosità del servizio, con un’accoglienza premurosa che scaldi il cuore e apra
all’incontro con il Cristo, speranza di ogni uomo. “Tirar fuori la speranza assopita
nei cuori” è il dono che cerchiamo di vivere con responsabilità per diventare luce
che rischiara le tenebre, è la chiave di ogni nostro impegno e carità.. Racchiude la
nostra convinzione che l’uomo contemporaneo, bisognoso di nutrimento, di
istruzione, di cure sanitarie, bisognoso di relazioni di amicizia… ha soprattutto
bisogno di Dio; il nostro desiderio più profondo è aiutare l’uomo a scoprirlo.
Tutti abbiamo in comune la spiritualità della Presenza. Viviamo immersi in una
preghiera incessante ogni impegno, ogni servizio, ogni presenza nel mondo, 24 ore
su 24, per essere Suoi docili strumenti. Cerchiamo di ritrovare la Presenza di Dio
nella vita dei poveri e dei ricercatori di speranza che avviciniamo, per comunicare
con loro, al di là delle parole. La Parola di Dio, letta, meditata, pregata, da soli e
in Fraternità, ci forma alla mentalità evangelica: amare con il cuore di Dio,
accogliere l’imprevisto come un dono di Dio, essere attenti ai segni dei tempi.
Nella vita di preghiera e nel servizio Maria, nostra compagna di strada, confidente,
nostra consolazione e protezione, maestra di vita, è il nostro costante riferimento.
Modelliamo la nostra vita sulla Sua, il nostro sì sul Suo per portare Gesù nel cuore
delle persone e nel cuore del mondo.
Consideriamo l’impegno a favore della Pace come un frutto della Presenza di Dio.
Solo così possiamo disarmare con la bontà, servire la pace con cuori disarmati,
essere operatori di pace vivendo mitezza e perdono.
Tutti condividiamo il metodo della restituzione, consapevoli di aver ricevuto
gratuitamente da Dio tutto ciò che siamo e che abbiamo: tempo, capacità, cultura,
professionalità, beni materiali e spirituali. E impariamo a restituirli, a Lui che ce li
ha donati per primo, nell’umile servizio ai fratelli, con intelligenza e amore. La
restituzione è per noi tutti uno stile di vita; ci educa alla giusta distribuzione delle
risorse e dei beni e al metterci a servizio nella gratuità; ci rende corresponsabili
della vita degli uomini e delle donne nostri contemporanei; ci permette di aiutare
molte persone a scoprire la ricchezza della condivisione; ci aiuta a valorizzare ogni
minima risorsa e ci educa a non sprecare. Con questo metodo, abbiamo potuto
“aiutare ad aiutare”: milioni di persone hanno aiutato milioni di persone.
Da quarant’anni la nostra forza sono migliaia e migliaia di amici che ci hanno dato
il loro tempo, i loro servizi, i loro beni. Penso alla bellezza della Bandiera della
Pace progettata e realizzata da Piero Reinerio, penso all’incontro con Maria Luisa
Rossi che ci ha aperto all’arte del bello e che è diventata per me “mamma
spirituale”.
La Fraternità della Speranza opera negli “Arsenali” vissuti come autentici
monasteri nel cuore delle grandi città, attenti ed aperti alle esigenze dei tempi.
Tutti ne condividiamo la responsabilità, chi abitandoli, come i monaci e le
monache, chi prestandovi servizio, come gli sposati che vivono nelle loro case.
Siamo vicini alla gente del posto, coinvolgendola e responsabilizzandola nell’opera.
In ogni Arsenale la vita di preghiera della Fraternità e dei suoi amici si intreccia
con la formazione permanente, con il servizio ai poveri, con la formazione dei
giovani, con l’educazione alla pace, al dialogo e al perdono.
Abbiamo scoperto poco alla volta che lo spirito che ci guida è
amare con il cuore di Dio
ricambiare il male con il bene
la bontà che disarma
l'imprevisto accolto
il diverso capito
il sì come Maria, senza condizioni
liberi di dire sì
liberi di stare insieme
la gioia della restituzione
le gocce che diventano mare
i piccoli che fanno cose piccole
i piccoli che fanno cose grandi
una famiglia che accoglie
il silenzio che parla
la forza della preghiera
l'impossibile cancellato nella fede
l'umiltà che costruisce
il problema dell'altro che diventa mio
l'io che è già noi
condividere la gioia e il dolore
portare i pesi gli uni degli altri
il bene fatto bene
il valore di un minuto
l'impegno per la pace
la certezza della speranza
amare la vita
poveri, ma ricchi di Dio
fare delle Beatitudini la nostra regola di vita
amici di Gesù nel suo Spirito alla presenza del Padre.
Se vivremo e rinnoveremo ogni giorno questa filosofia di vita, resteremo fedeli al
dono della speranza ricevuto dal Padre; vivremo sempre lo spirito della prima
comunità dei cristiani e saremo sempre in cammino. Ci rinnoveremo vivendo i segni
dei tempi, vivendo ogni momento alla presenza di Dio, per l’uomo.
Voglia il Signore continuare a benedire questa sua opera e ognuno di noi voglia
incessantemente cercare la benedizione del Signore. Il Signore sia sempre nei
nostri pensieri, perché Lo riconosciamo nell'uomo e nella donna che avviciniamo e
la gente, incontrandoci, veda in noi l'opera Sua e Lo benedica.
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Olivero - don Mirko Bellora