II. I mulini
1. Lo sfruttamento dell’energia idraulica dalle origini al XIV sec.: uno sguardo
al contesto tecnologico italiano ed europeo
1.1. T IP OL OGIA DEL LE RUOTE AD ACQUA E C L ASSIFICAZI ONI POSS IB IL I
Per millenni l’uomo trovò nei propri muscoli o in quelli degli animali domestici la principale
fonte dell’energia necessaria a trasformare in farina il grano e gli altri cereali. Le cose cambiarono
quando entrò a far parte del suo patrimonio tecnologico un meccanismo che gli permise di sfruttare
la forza inanimata dell’acqua corrente: la ruota idraulica. Il più antico riferimento ad un congegno di
tale tipo si trova in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, databile attorno all’85 a.C.: in esso il
poeta celebra la libertà che il mulino idraulico donava alle donne, prima costrette a muovere per ore
la macina con la forza delle loro braccia1. Circa un secolo più tardi Strabone ricorda il mulino fatto
costruire da Mitridate nel suo palazzo di Cabeira, nel Ponto, intorno al 65 a.C.2. Entrambi questi
riferimenti sono estremamente vaghi e non permettono in alcun modo di stabilire quale fosse il tipo
specifico di ruota idraulica utilizzata. Nonostante ciò, studiosi di storia della tecnologia come
Richard Bennet e John Elton, fra i primi ad occuparsi di questo argomento, sono partiti da tali
generici accenni per sostenere che le ruote descritte fossero orizzontali, a causa della loro natura
primitiva, e che questa tipologia fosse stata presto adottata in gran parte dell’Italia rurale3. Tale
supposizione si basava essenzialmente sulla testimonianza di Plinio il Vecchio, che per il periodo
attorno al 75 d.C. parla di una larga diffusione in Italia del mulino orizzontale4. Ma già quasi un
secolo prima, attorno al 20 a.C., Vitruvio aveva descritto con sufficiente chiarezza il funzionamento
di una ruota idraulica verticale5: nonostante il testo abbia dato adito a varie interpretazioni, è
generalmente accettato che egli descriva una ruota colpita dall’acqua nella sua parte inferiore6.
Sulla base dei pochi accenni contenuti nelle fonti scritte, si sono dunque succedute numerose ipotesi
riguardo alla tipologia dei primi meccanismi idraulici, alla cronologia della loro comparsa, al luogo
1
Antipatro di Tessalonica, Anth. Pal., IX, 418.
Strabone, Geograph., XII, 3, 30.
3
Bennet-Elton, 1898-1904, vol. 2, p. 6, cit. in Muendel, 1974, p. 204.
4
Plinio, Nat. Hist., XVIII, 97.
5
Vitruvio, De Arch., X, V, 1-2.
6
Cuomo di Caprio, 1985, p. 98.
2
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di origine ed alle modalità di diffusione7. Sino a tempi recenti la tendenza generale degli studiosi di
storia della tecnologia è stata quella di ipotizzare due linee evolutive rigidamente alternative, delle
quali l’una soppianta l’altra, facenti capo rispettivamente alla tipologia di ruota orizzontale ed a
quella di ruota verticale. Un’altra idea comunemente riscontrabile nella letteratura tecnica
tradizionale è quella di una presunta primitività o rozzezza del mulino orizzontale, rispetto a quello
verticale, che avrebbe fatto del primo lo strumento tipico di civiltà poco evolute. Lo stesso Marc Bloch, il
cui classico studio sulle origini del mulino idraulico ha posto le basi fondamentali per il successivo
dibattito storiografico sul ruolo economico e sociale di questo meccanismo durante il Medioevo, per
quanto riguarda gli aspetti tecnologici si limita a dire che il mulino orizzontale, rudimentale e primitivo, potrebbe
rappresentare una forma di regresso tecnico avvenuto presso popolazioni abituate ad una vita materiale piuttosto
povera8.
Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni studiosi si sono opposti decisamente all’idea di un
‘evoluzionismo tecnologico’ secondo il quale il tipo più efficiente succede al tipo ritenuto più
primitivo soppiantandolo, ed hanno negato nella fattispecie che per la ruota orizzontale si possa
parlare di arretratezza o regresso tecnico9. In ambito toscano, ad esempio, John Muendel si è
opposto a questo luogo comune, in base ai risultati di una vasta ricerca condotta entro i fondi
archivistici notarili di Pistoia e Firenze, sulla quale torneremo ampiamente in seguito. I dati reperiti,
infatti, mostrano che proprio il mulino orizzontale rappresenta il tipo più antico conosciuto, il più
diffuso nell’area esaminata e probabilmente in tutta la regione10. Le diverse tipologie, dunque, non
sono da ritenersi interdipendenti e probabilmente coesistono fin dalle origini, adattandosi alle
diverse esigenze locali secondo le caratteristiche quantitative e qualitative dell’energia disponibile.
è quindi estremamente importante cercare di chiarire quali fattori ambientali, congiunture economiche, linee di
trasmissione del sapere tecnologico o elementi di resistenza locali, abbiano determinato il prevalere di un certo tipo in
alcune aree piuttosto che in altre.
Pur avendo bene in mente le precedenti considerazioni, abbiamo ugualmente deciso di
proporre qui un tentativo di classificazione delle diverse ruote idrauliche. Si tratta di uno schema,
infatti, che non intende presentarsi come una ‘evoluzione’ di tipi che si succedono l’uno all’altro, in
un rigido percorso che vede l’adozione, attraverso i secoli, di soluzioni a sempre maggior
rendimento. Ciò che si sottolineerà più volte, al contrario, sarà proprio la coesistenza, negli stessi luoghi e negli stessi
periodi, di tecnologie differenti, ed anzi spesso il prevalere, in determinate aree, di tipologie
7
Bennett ed Elton affermavano, ad esempio, che il mulino vitruviano doveva essere certamente
conosciuto al tempo di Plinio, ma soltanto dai tecnici romani, mentre non doveva essere diffuso estesamente
perché troppo complicato e costoso (Bennet-Elton, 1898-1904, vol. 2, p. 6, cit. in Muendel, 1974, p. 204).
Gille riteneva che il mulino greco-romano comportasse una ruota verticale e che la presenza della ruota
orizzontale in alcune zone dell’Europa occidentale fosse stata una recente importazione dei secc. XVI-XVII
(Gille, 1954, pp.1-2). Secondo Curwen, che riesaminava la teoria di Bennett ed Elton alla luce di nuove fonti,
il mulino orizzontale era giunto dall’Est nel mondo mediterraneo e vi era conosciuto nel I sec. a. C. (Curwen,
1944, pp. 130-132). Forbes riteneva che l’origine della ruota orizzontale fosse incerta, ma che probabilmente
essa fosse apparsa per la prima volta nelle zone montuose del Vicino Oriente e da qui si fosse diffusa ad Est
ed Ovest, cfr. Forbes, 1962a, p. 603. Lynn White ipotizzava invece che la ruota orizzontale fosse stata
un’invenzione barbarica, diffusasi da un ignoto centro posto a Nord-Est dell’impero romano, cfr. White, 1967,
p. 147. Del tutto diversa l’impostazione del problema proposta dal Needham, il quale, avendo dimostrato che i
più antichi mulini cinesi erano orizzontali, ritiene che prima dell’era cristiana questo tipo abbia raggiunto il
Ponto e si sia poi affermato lungo le coste mediterranee nei primi secoli dopo Cristo (Needham, 1981, vol. IV,
cap. 27, par. 6).
8
Bloch, 1969, p. 82 (ed. orig. 1935). L’idea che il mulino orizzontale rappresenti un meccanismo
primitivo è stata ancora ribadita in Makkai, 1981, pp. 169-170 e Reynolds, 1983, pp. 7 e 23.
9
Dockes, 1991, p. 120; Balestracci, 1981, p. 133; Berretti-Jacopi, 1987, p. 33; Comet, 1992, p. 438, ha
definito il mulino orizzontale un “moulin denigré”.
10
Muendel, 1974, p. 206; Muendel, 1984, p. 219.
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contraddistinte da una bassa produttività, ma che evidentemente presentavano minori difficoltà di
sfruttamento, minori costi, maggiore duttilità nell’adattarsi alle caratteristiche ambientali di taluni
territori. Le pagine che seguono hanno inoltre l’obbiettivo di rendere più chiaro al lettore il funzionamento
delle varie macchine idrauliche, fornendo anche alcuni dettagli tecnici indispensabili per comprendere con maggiore
facilità i caratteri strutturali degli impianti individuati all’interno del bacino idrografico FarmaMerse. Una classificazione delle ruote idrauliche, infine, si rende necessaria per capire come proprio questo
elemento dell’intero meccanismo sia stato la chiave di volta per l’impiego dell’energia dell’acqua in altre attività
produttive, oltre che nella macinazione del grano: i cosiddetti ‘usi industriali’, quali soprattutto la follatura della lana, cui
soltanto accenneremo nelle pagine seguenti, o la metallurgia, argomento trattato nel terzo capitolo.
Il tipo più semplice di mulino era quello a ruota orizzontale o “ritrecine”: all’estremità
inferiore di un albero verticale era fissata una piccola ruota sistemata orizzontalmente, detta appunto
ritrecine, composta di pale, piatte o a cucchiaio, che venivano colpite e fatte girare da un getto
d’acqua a forte pressione. L’estremità superiore dell’albero passava attraverso la macina inferiore
fissa ed era ancorata, mediante una barra trasversale, alla macina superiore rotante11. Poiché non era
necessario ribaltare il piano di macinazione rispetto a quello di rivoluzione della ruota idraulica,
l’impianto non necessitava di meccanismi, ma funzionava meglio se dotato di un bacino di riserva e
di una condotta forzata.
Questo tipo di mulino aveva il vantaggio della semplicità: era facile e poco costoso da
costruire e da mantenere, non prevedeva complicati ingranaggi da riparare continuamente a causa
dell’attrito12; d’altra parte, però, non forniva di solito un grande quantitativo di energia (1-2 CV) e
con un rendimento piuttosto scarso13 (infatti le macine giravano lentamente, compiendo l’intera
rotazione una volta per ogni rivoluzione della ruota idraulica, per cui non riuscivano a macinare che
modeste quantità di grano)14. Esso poteva funzionare unicamente con piccoli volumi d’acqua a
flusso rapido ed era quindi adatto anche per le zone montane e per quelle prive di fiumi e torrenti di
una certa consistenza.
Un mulino orizzontale, tipologia come abbiamo visto già nota a Plinio, è stato scavato in un
abitato romano di II sec. d.C. in Tunisia, mentre altri due esempi, risalenti ai primi secoli dell’era
cristiana, sono stati individuati in scavi nello Jutland15. I mulini orizzontali furono estremamente
diffusi fino al tardo Medioevo e molti esempi se ne ritrovano ancora oggi in Grecia, nelle isole
Orkney e Shetland, in Romania, in Scandinavia: di qui la definizione “mulino greco o scandinavo”
adottata da alcuni studiosi16. Tale tipologia era praticamente la sola conosciuta in Provenza nel
della Francia 18 e fu
periodo medievale e moderno17, era diffusa in tutte le zone accidentate
probabilmente anche il tipo più frequente in Toscana durante il Medioevo. Quasi tutti i mulini
pistoiesi presi in esame dal Muendel, ad esempio, erano a ruota orizzontale e non possedevano
ed è
meccanismi19. Il ritrecine, inoltre, dominava incontrastato nel territorio di Lucca e di Pescia
rimasto il tipo più comune fino ai nostri giorni20. Anche nel pratese tutti i mulini idraulici giunti fino
a noi sono di tipo a ritrecine, ed è ipotizzabile che questa prevalenza si verificasse già nel periodo
11
V. la ricostruzione proposta in Pierotti, 1993 p. 87.
Comet, 1992, p. 443.
13
Attorno al 5-15% secondo Reynolds, 1984, p. 110, tra 10 e 20% secondo Makkai, 1981, p. 169. I
calcoli presentati in Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 75, riporterebbero un rendimento più alto,
attorno al 30-40%, ma ci si riferisce a meccanismi più moderni, con maggiore impiego di parti in ferro.
14
Forbes, 1962a, p. 603: fornisce alcuni dati quantitativi sulla produzione media.
15
White, 1967, p. 147; Comet, 1992, p. 441.
16
Forbes, 1962a, p. 603; Comet, 1992, p. 440.
17
Comet, 1992, p. 440.
18
Alpi, Prealpi, Massiccio Centrale, Jura, Pirenei, Bretagna, Corsica; alcuni esemplari sono rimasti in
funzione almeno fino al XVIII sec., cfr. Dockes, 1991, p. 120.
19
Muendel, 1974, pp. 200-201; Muendel, 1984, pp. 218-219.
20
Berretti-Jacopi, 1987, p. 24.
12
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medievale21. Lo stesso discorso è valido per la zona del Mugello, dove i mulini documentati
posteriormente al XV sec. sono di tipo orizzontale22, e per il Chianti, ove sembra che l’uso del
ritrecine fosse diffuso e del tutto comune23. è da segnalare infine, sempre per l’ambito toscano, il
recente studio e recupero di un notevole complesso di mulini a ritrecine presso Rio nell’Elba, il cui
stato di conservazione, piuttosto buono, permette di avere un’idea abbastanza chiara sul
funzionamento di impianti di questo tipo24.
Notevole interesse suscitò poi questo meccanismo, ma soprattutto le sue possibilità di miglioramento, nei due
ingegneri senesi del ‘400 Mariano Taccola25 e Francesco di Giorgio Martini 26: estremamente sensibili
verso i molteplici problemi dello sfruttamento dell’energia idraulica27, ci offrono nei loro trat tati
tecnici alcune delle più antiche raffigurazioni di ritrecini, talvolta in associazione con il meccanismo vitruviano che ne
aumentava la velocità e l’efficienza28.
Il mulino descritto da Vitruvio, e probabilmente anche quello citato nell’opera di Lucrezio29,
era invece verticale, di tipo azionato “per di sotto”: si trattava, cioè, di una ruota a palette radiali
piane fissate alla circonferenza, azionata dall’impatto dell’acqua che fluiva lungo la sua parte
inferiore spingendo contro le palette stesse. Le principali componenti consistevano nell’albero
orizzontale terminante in un mozzo, in un numero variabile di bracci radiali che da questo si
dipartivano, in un cerchione esterno entro il quale si incastravano i bracci e su cui erano fissate le
pale per mezzo di supporti sporgenti in legno o metallo, in eventuali cerchioni laterali per rendere
più compatto l’insieme30. Questo tipo di ruota poteva funzionare in qualsiasi corso d’acqua dotato di un flusso
discretamente costante, che scorresse a velocità piuttosto rapida, ma lavorava con il massimo rendimento in un canale
limitato, possibilmente fornito di una saracinesca che regolasse l’afflusso dell’acqua contro la ruota.
L’energia fornita andava da 2 a 3 CV con un rendimento del 20-30%31.
La grande novità, rispetto al mulino a ritrecine, era la presenza di ingranaggi che
permettevano di ribaltare su un asse verticale il movimento fornito da un albero orizzontale: questo
era possibile grazie ad una ruota dentata, il lubecchio, fissata ad una delle estremità dell’asse della
21
Moretti, 1985, pp. 241-242: i documenti medievali sono poco espliciti, in un solo caso si specifica
che si trattava di un retrecinis. A questo proposito l’autore propende però per una maggiore diffusione della
ruota orizzontale anche nel Medioevo.
22
Romby-Capaccioli, 1981, pp. 28-29: nessun esempio di ruota verticale è presente nel comune di
Barberino ed il mulino denominato “Il Rotone”, in cui si trovava la ruota verticale, rappresenta un caso isolato
e piuttosto recente.
23
Carnasciali-Stopani, 1981, p. 6.
24
Pierotti, 1993. Si tratta di 22 piccoli impianti molitori, risalenti al XVII-XVIII sec., tutti a ruota
orizzontale, concentrati lungo un tratto di circa 2 Km, alimentati da un complesso sistema di canalizzazioni e
bottacci intercomunicanti. All’interno di uno di essi si è eccezionalmente conservato l’intero ritrecine in
legno.
25
Raffigurazione di mulino a ritrecine orizzontale dal libro I del De Ingeneis, riprodotta in Taccola,
Corpus, tav. 8.
26
Martini, Trattati, vol. 1, tavv. 63-68: più di una dozzina di raffigurazioni.
27
Sull’interesse qualificato dei tecnici senesi nel settore delle applicazioni idrauliche, anche oltre i
confini del XV sec., v. Galluzzi, 1991b, pp. 15, 26-27, 31 e Galluzzi, 1996, pp. 33 e sgg.
28
Marchis, 1991, p. 115: in particolare Francesco di Giorgio raggiunge nei propri disegni la massima
raffinatezza nella costruzione della palettatura, quasi anticipando la turbina idraulica. Le ruote orizzontali
sono chiamate “retecine” o “mulino terragnolo” e devono avere delle pale costruite come “gusci scavati et
aperti alquanto da la parte di fore”. Anche se non in maniera esplicita traspare che le ruote a gusci sono ruote
veloci, che abbisognano di una piccola quantità d’acqua ma “cacciata con impeto”, cioè con elevata velocità
d’impatto, erogata da un condotto distributore fatto “a corno con una piccola uscita”.
29
Lucrezio, De Rer. Nat., V, 515-516.
30
Su questo tipo di ruota v. Makkai, 1981, p. 170 e Reynolds, 1983, p. 10, fig. 1.1.
31
Reynolds, 1984, p. 110.
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ruota idraulica, i cui denti si incastravano nella lanterna, ingranaggio costituito da due dischi di
legno collegati da fuselli e a sua volta fissato su un asse verticale. Il sistema lubecchio-lanterna
permetteva anche di aumentare la velocità di rotazione delle macine rispetto a quella della ruota
idraulica, in quanto il rapporto tra il numero dei denti del lubecchio e quello dei denti della lanterna poteva
variare32. Ingranaggi di tale genere sono già noti a Vitruvio, che li cita all’interno della sua descrizione del mulino “per di
sotto”33. Naturalmente la costruzione della coppia lubecchio-lanterna richiedeva abilità e conoscenze
meccaniche specializzate da parte dei carpentieri; gli ingranaggi erano inoltre sottoposti ad una forte
usura che ne provocava spesso il danneggiamento e la sostituzione34.
I più antichi resti conosciuti di un mulino “per di sotto” sono venuti alla luce nei pressi di
Pompei: la ruota idraulica era stata sepolta dall’eruzione del 79 d.C., ma la sua impronta, compresa
persino quella dei chiodi usati per costruirla, era rimasta impressa nella lava35. Altre testimonianze
ci vengono, per il III sec. d.C., dallo scavo inglese di Haltwhistle Burn e per il V sec. d.C. dalla
raffigurazione in un mosaico di Bisanzio36.
Per il Medioevo è spesso difficile distinguere, a causa dell’elusività dei documenti, se le ruote
verticali fossero colpite dall’acqua in basso o in alto. Si tratta, infatti, di documenti legali e non
tecnici, che considerano i particolari sulla costruzione di dighe, invasi, canali o ruote dettagli non
importanti e quindi da non menzionare. Le prime raffigurazioni su questo tema cominciano solo nel
XII sec. e sono talmente generiche che spesso l’unica informazione da esse ricavabile è se si
trattava di mulini orizzontali o verticali e, nel migliore dei casi, se possedevano ruote per di sopra o
per di sotto37. A questo proposito si è fatto notare che in generale, per ora, questo tipo di indagine
non ha dato informazioni esaurientemente probanti a favore di una determinata soluzione
tecnologica38. In genere, comunque, le più antiche ruote idrauliche ad essere raffigurate furono
quelle verticali “per di sotto” riguardo alle quali, nonostante alcuni problemi interpretativi, si
possono cogliere dei particolari interessanti. Infatti, a differenza di quelli romani, la maggior parte
dei mulini medievali non era dotata di cerchioni laterali che fissavano le pale. è probabile, quindi,
che i tecnici dell’epoca avessero capito il miglior rendimento delle ruote non cerchionate (i
cerchioni laterali, impedendo un veloce defluire dell’acqua dopo l’impatto sulle pale, di fatto
rallentavano il movimento della ruota) ed avessero sviluppato migliori metodi di ancoraggio della
ruota all’albero e delle pale alla circonferenza39.
Un aspetto simile doveva avere il tipo di mulino denominato orbicum nei documenti
medievali pistoiesi: si capisce abbastanza chiaramente che si trattava di un mulino dotato del
meccanismo vitruviano e colpito per di sotto, in quanto la terminologia usata lo distingue da quello
32
Comet, 1992, p. 42.
Si tratta del tympanum e del tympanum dentatum, cfr. nota 5.
34
Si tentò fino ad epoca tarda di migliorare il sistema: Leonardo da Vinci lavorò a lungo tentando di
inclinare i denti conici del lubecchio per diminuire l’attrito, cfr. Comet, 1992, p. 424.
35
L’albero portava 18 pale unite da cerchioni sui lati esterni, formanti una ruota di 1,85 m di diametro;
l’acqua era fornita da un acquedotto. Cfr. Forbes, 1962a, p. 608; Reynolds, 1983, p. 36.
36
Reynolds, 1983, pp. 18 (e fig. 1.8), 36.
37
Ivi, pp. 97-98: si fornisce un elenco molto dettagliato delle più antiche fonti iconografiche
raffiguranti mulini idraulici.
38
Moretti, 1985, pp. 242-243 e nota 93: il problema principale è rappresentato dal fatto che il mulino a
ritrecine non mostra all’esterno alcuna parte del meccanismo e perciò un artista che voleva rendere l’idea di
‘mulino’ doveva necessariamente ispirarsi al tipo di ruota verticale, che di solito è posta all’esterno delle
strutture. Comunque spesso i mulini sono rappresentati senza riferimento al tipo di ruota anche nel XV e XVI
sec. (presumibilmente era interna).
39
Reynolds, 1983, pp. 97-98. Si vedano anche le caratteristiche tecniche della ruota idraulica scavata a
Bordesley (infra, Cap. III, par. 1.2), anche se si tratta di una ruota impiegata in un opificio metallurgico.
Secondo Makkai, 1981, p. 174, il numero delle palette nelle ruote idrauliche verticali andava da 18 a 28 ed il
diametro variava da 1 a 3 metri.
33
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colpito da sopra, detto molendinum franceschum40. Esso sembra essere posto sempre su fiumi
navigabili o alle bocche di tributari dove la corrente era costante, ed appare sconosciuto nel
territorio di Firenze per quasi tutto il Duecento41. Nei documenti bolognesi, invece, la terminologia
usata nel XIII sec. indica con una certa chiarezza che le ruote di questo tipo erano le più diffuse42 è
da citare, infine, per il suo carattere eccezionale, un documento lombardo del 918 d.C.: la menzione
dello scutus, termine che in molti dialetti dell’Italia settentrionale indica ancor oggi il lubecchio,
induce a supporre che in questo mulino le ruote esterne fossero in posizione verticale, sebbene
manchi la citazione dell’altro elemento essenziale per la trasformazione del moto, cioè la lanterna.
Se questa ipotesi ha valore ci troveremmo di fronte, fin dall’inizio del X sec., ad un livello di
applicazione tecnologica sorprendente43.
Una maggiore efficienza, rispetto al mulino verticale per di sotto, si ottenne facendo cadere
l’acqua dall’alto sul quadrante superiore della ruota entro cassette fissate alla circonferenza. In
questo caso era il peso dell’acqua, più che il suo impatto, a far girare la ruota; ogni cassetta versava
poi fuori l’acqua nel punto inferiore della rivoluzione e tornava vuota in alto per ricominciare il
ciclo. I principali componenti erano un albero orizzontale terminante in un mozzo da cui si
dipartivano i bracci radiali, i cerchioni che formavano le pareti esterne delle cassette, le cassette o
compartimenti perimetrali entro cui si riversava l’acqua (costruite in forma tale da mantenere al loro
interno il peso di questa il più a lungo possibile), infine un cerchione concentrico con il mozzo,
formato da tavole che costituivano la parte interna delle cassette ed alle quali queste ultime erano
fissate44.
Tali ruote erano più costose, sia perché più complicate da costruire, sia perché richiedevano
un’alimentazione ben diretta e regolata: raccolta in una gora dai fiumi o dalle sorgenti, l’acqua
veniva di qui avviata verso una chiusa posta in posizione elevata, da cui cadeva per colpire sul
punto voluto le cassette della ruota. Con un volume d’acqua anche molto piccolo ed una caduta da
altezza variabile tra 3 e 12 m, queste ruote operavano con un rendimento compreso tra il 50 ed il
70% e fornivano una potenza da 2 a 40 CV (la rendita media era tra 5 e 7 CV)45. La ruota per di
sopra era dunque particolarmente adatta per le regioni con rilievi che offrivano dei dislivelli
notevoli ed anche per quelle in cui l’acqua non era abbondante, a condizione di avere una buona
altezza di caduta. Una variante della ruota per di sopra è il tipo cosiddetto “alle reni” nel quale, a
causa dell’insufficiente dislivello, l’acqua si riversa nella cassette all’altezza dell’asse e non alla
sommità della circonferenza: dal punto di vista tecnico è una ruota per di sopra, poiché l’agente
meccanico è la pesantezza dell’acqua, ma la caduta e l’impatto sono minori ed il senso di rotazione
è quello di una ruota per di sotto46.
Anche il mulino verticale per di sopra ha origini molto lontane ed era già impiegato, pur se in
rari casi, nei primi secoli dell’era cristiana: ad esempio a Barbegal, presso Arles, all’inizio del IV
sec. d.C. un acquedotto riforniva un doppio canale con una pendenza di 30∞ e un dislivello di oltre
18 m, entro il quale furono costruite due serie di ben otto ruote per di sopra, con ingranaggi di
40
Muendel, 1984, p. 225.
Il primo esempio è del 1282, ivi, p. 227.
42
Pini, 1987, p. 7.
43
Chiappa Mauri, 1984, p. 18.
44
Forbes, 1962a, p. 606; Makkai, 1981, p. 171; Reynolds, 1983, p. 12, fig. 1.2; Reynolds, 1984, p. 110.
45
Secondo il calcolo proposto in Reynolds, 1984, p. 110. Secondo Makkai, 1981, p. 175, il rendimento
era di circa il 63%.
46
Comet, 1992, p. 437. Il rendimento di una ruota di questo genere si aggirava attorno al 40%
(Makkai, 1981, p. 175).
41
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legno, che macinavano farina a livello industriale47. Quasi tutti i mulini di epoca romana erano
alimentati da acquedotti: la ragione principale era probabilmente economica, in quanto era più facile
usare canalizzazioni pubbliche già esistenti che costruire un sistema indipendente di alimentazione.
Durante il Medioevo, invece, fu necessario compiere un notevole sforzo per utilizzare l’energia
anche di torrenti e di fiumi medio-grandi, attraverso la costruzione di appropriate strutture ausiliarie
come dighe, bacini di riserva, canali di alimentazione. Furono inoltre modificati in epoca medievale
alcuni dettagli tecnici della ruota idraulica, che la resero più efficiente: fu alleggerito il peso del
mozzo e fu ridisegnata la forma delle cassette il cui fondo, da semplicemente inclinato, assunse un
profilo a gomito, che tratteneva l’acqua più a lungo e permetteva una resa migliore48.
Illustrazioni medievali di ruote per di sopra esistono, ma non prima del XIII-XIV sec., mentre
il loro numero aumenta notevolmente nel XV sec., soprattutto nei trattati del Taccola e di Francesco
di Giorgio Martini49.
In Toscana il mulino per di sopra è talvolta identificabile nei documenti grazie alla
definizione molendinum franceschum. Con tale termine si designava un mulino che aveva sì la
coppia lubecchio-lanterna come il già citato molendinum orbicum, ma che se ne distingueva
semplicemente per la direzione dell’acqua sulla sua ruota esterna; Taccola aveva infatti disegnato
una ruota a cassette colpita dall’alto definendola mulino francese o gallicano50. Il primo documento
in cui compare un mulino di tale tipo si ha per Lucca nel 119551, in seguito lo troviamo a Firenze nel
53
. Rimane il problema di quando avvenne
131252 ed un altro esempio, del 1315, è noto per Prato
questa innovazione e se tale tipologia fosse conosciuta in altre parti della Toscana prima che a
Firenze, dove l’influenza francese sembra arrivare solo quando la città aumenta di importanza ed
inizia ad espandere la sua industria laniera incorporando metodi di manifattura nord-europei54.
Sembra quindi che le ruote verticali, sia per di sotto che per di sopra (e di conseguenza il
meccanismo vitruviano), fossero impiegate nella macinazione piuttosto tardi in Toscana. Il mulino
orbicum era diffuso lungo le sponde di fiumi navigabili come l’Arno o l’Elsa, mentre quello
franceschum nei piccoli torrenti delle colline o montagne del contado55. Essi non sostituirono affatto
i preesistenti ritrecini, ma li affiancarono, cosicché alla fine del XV sec. si arrivò ad applicare il
47
Cfr. Forbes, 1962a, pp. 608-609; Reynolds, 1983, pp. 39-41. Un altro esempio di mulino idraulico
verticale proviene dagli scavi dell’Agorà di Atene: risale al V sec. d.C. ed era alimentato da un lungo canale
rifornito da un acquedotto; gli ingranaggi erano molto simili, anche per dimensioni, a quelli descritti da
Vitruvio. Sempre un acquedotto alimentava il mulino scoperto nelle Terme di Caracalla e databile al III-IV
sec. d.C., cfr. Cuomo di Caprio, 1985, p. 99.
48
Reynolds, 1983, pp. 43, 54-55, 100.
49
Raffigurazioni di ruote per di sopra in Taccola, Corpus, tav. 36 e Martini, Trattati, vol. I, tavv. 63,
65, 66, 69; v. anche le riproduzioni in Galluzzi, 1996, pp. 184 e sgg.
50
Muendel, 1984, p. 225 e fig. 12.
51
Ivi, p. 216: molinum franceschum.
52
Un molendinum franceschum viene aggiunto ad una vecchia struttura che conteneva già un ritrecine,
cfr. ivi, p. 228. Inoltre a Pistoia, nel 1387, l’Opera di S. Iacopo possedeva un molino francesco dotato di
ribecco e rocchetto, cioè della coppia lubecchio/rocchetto-lanterna, cfr. Muendel, 1974, p. 214.
53
Moretti, 1985, p. 242: nell’Estimo pratese è registrato unum molendinum franceschum.
54
Sulla manifattura laniera toscana e soprattutto fiorentina, si veda Melis, 1989.
55
Berretti-Jacopi, 1987, p. 24. Inoltre un’indagine svolta nel comune di Calci (Pisa), ha evidenziato
che tutti gli opifici esistenti nei secoli XVII-XIX avevano ruote verticali a cassetta, mentre la lettura dei
documenti d’archivio più antichi non consente di stabilire che tipo di ruote idrauliche fossero qui presenti in
precedenza. Si ipotizza che fossero del tipo verticale azionato per caduta, dato che non si sono riscontrate
tracce di strutture murarie relative alle condotte inclinate che, passando all’interno dell’edificio, mettevano in
azione i ritrecini; inoltre la morfologia del territorio, a forte pendenza naturale, consentiva di sfruttare gli
sbalzi del terreno per far cadere l’acqua sopra le ruote idrauliche. Vi sono solo tre esempi di ritrecini ed uno di
ruota a pale, tutti dislocati su un’area pianeggiante, cfr. Manetti, 1985, pp. 37-38.
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meccanismo vitruviano anche al ritrecine per modificare la velocità delle macine56.
La più antica modifica della ruota verticale tradizionale che permise di sfruttare direttamente
l’acqua di grandi fiumi navigabili, nonostante le variazioni di flusso, fu il mulino su nave. Durante
il Medioevo se ne svilupparono essenzialmente due tipi: il primo prevedeva due ruote montate su
entrambi i lati di una nave, il secondo una sola ruota verticale che girava in mezzo a due navi,
comunicando il moto ad una o due coppie di macine57. Quest’ultimo era il tipo più efficiente, in
quanto i fianchi delle navi incanalavano l’acqua verso la ruota, che poteva essere anche molto
grande e quindi più potente e più stabile. Tali imbarcazioni venivano spesso ancorate sotto grandi
ponti, i cui archi offrivano un attracco sicuro e funzionavano contemporaneamente da diga.
La prima menzione di mulini su nave si trova in Procopio: durante la Guerra Gotica e
l’assedio di Roma del 537 d.C., Belisario avrebbe inventato questi congegni galleggianti per ovviare
al taglio degli acquedotti operato dagli assedianti58. Questo tipo si diffuse nei secoli successivi lungo
i grandi corsi d’acqua di pianura europei59: le fonti iconografiche sono piuttosto abbondanti a partire
dal XIV sec.60 e numerose raffigurazioni, con ruote verticali per di sotto ma anche ritrecini, si
trovano nei manoscritti del Taccola e di Francesco di Giorgio Martini61.
In Toscana numerosi mulini galleggianti si trovavano sull’Arno: i più sono detti in navibus e
dovevano quindi essere ad una sola ruota, mentre alcuni detti in navim, ad navem, a nave dovevano
prevedere o due ruote su una sola barca, oppure che uno dei due lati della nave fosse fissato ad un
attracco o ad un ponte. Essi sparirono dal territorio di Firenze alla metà del XV sec.62. Sempre
sull’Arno, presso Signa, una grande quantità di mulini su nave si concentrava in un tratto di fiume
lungo 1,5 Km nella prima metà del XIII secolo63. Data la grande diffusione di questi congegni
durante il Medioevo, non si può assolutamente pensare ad una soluzione tecnica di ripiego: essi
infatti per molte comunità rappresentarono la risposta tecnicamente ed economicamente più
adeguata alla necessità della molitura64. Tuttavia certamente presentavano diversi inconvenienti: la
mancanza di stabilità, la facilità con cui potevano venire distrutti dalle piene, la difficoltà di
controllarne i movimenti, che li rendeva un pericolo per le altre imbarcazioni; inoltre erano poco
produttivi e troppo dipendenti dalle variazioni di corrente.
La pratica di ancorare i mulini galleggianti ad un attracco lungo la riva, o meglio ancora sotto
le arcate dei ponti, portò probabilmente ad un più sofisticato tentativo di adattare la ruota verticale
ai grandi fiumi. Si trattava di una ruota idraulica montata su una struttura di pali, che aveva nel suo
pavimento delle aperture che permettevano alla ruota stessa di essere alzata o abbassata in accordo
con l’altezza dell’acqua. Si hanno notizie dell’esistenza di tali macchine a partire dal sec. XII e più
tardi anche alcune raffigurazioni, che però non sono abbastanza chiare da farci capire con
56
Questo ibrido non compare in nessuno dei manoscritti del Taccola, mentre è una voce importante dei
Trattati di Francesco di Giorgio Martini, completati nel 1489. A questa data, quindi, esso era divenuto una
entità ormai formata nella tecnologia italiana.
57
Su questo tipo di mulino, v. Makkai, 1981, p. 171; Reynolds, 1983, pp. 57-58; Comet, 1992, p. 430.
58
Procopio, De Bel. Goth., V, 19, 19-20.
59
Se ne conoscono aTolosa nel XII sec., in Provenza, aVenezia; sono numerosi a Parigi nel sec. XIV (ben 68) dove
perdurano fino al sec. XIX; a Roma funzionavano sul Tevere ancora nel 1870: cfr. Forbes, 1962a, pp. 616­
618; Comet, 1992, pp. 429-430. Un gran numero di mulini galleggianti sono presenti a Moncalieri nel XIII
sec. e nel Monferrato agli inizi del XV (si veda la trattazione di Benedetto, 1993); nel territorio di Padova
sono documentati dalla fine del XII sec. ed in numero estremamente consistente, il più alto in assoluto per
l’Italia, a metà XIV sec. entro il centro urbano stesso: Bortolami, 1988, pp. 292-294.
60
Vedi Reynolds, 1983, p. 57.
61
Martini, Trattati, vol. I, tavv. 67-68; Taccola, Corpus, tav. 40; cfr. anche Galluzzi, 1991b, pp. 440­
442.
62
Muendel, 1984, pp. 224-225.
63
Pirillo, 1989, p. 25.
64
Cfr. le osservazioni di Benedetto, 1993, p. 67.
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precisione il tipo di meccanismo utilizzato65.
Questo genere di mulino, detto molendinum penzolum, era, dopo il ritrecine, il più comune a Firenze nel
XIII sec.: si trovava esclusivamente sull’Arno e sull’Elsa e dalle fonti risulta che contenesse il
meccanismo vitruviano del ribecco, mentre non sono stati trovati documenti che nominino il
ritrecine; quindi, per quanto esista la possibilità che la ruota orizzontale vi fosse impiegata, è
tuttavia certo che il meccanismo vitruviano predominava66.
65
66
Reynolds, 1983, p. 59; Comet, 1992, p. 433.
Muendel, 1984, pp. 222-224.
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1.2.A FFER MAZIONEE DIFFUSIO NEDELMUL INODAMAC INADURAN TEIL M EDIO EVO
Come abbiamo visto in precedenza, nell’antichità classica la tecnologia idraulica per la
macinazione del grano era già conosciuta, ma non era diffusa estesamente67. Gli studiosi di storia
della tecnologia sono in linea generale d’accordo nell’indicare il IV sec. d.C. come un momento
cruciale in cui, soprattutto a causa del forte calo demografico, della diminuzione della schiavitù e
della conseguente minore disponibilità di manodopera, si creò una congiuntura favorevole per il
diffondersi degli impianti idraulici: da questo momento si moltiplicano le citazioni nelle fonti
letterarie68 e cominciano i primi tentativi di regolamentazione da parte del potere centrale, che
proseguiranno nel periodo immediatamente successivo69. è inoltre accertato che nei secoli che
seguirono al collasso dell’impero romano, l’uso dell’energia idraulica, forse con una prima battuta
d’arresto ed una successiva ripresa70, si diffuse in ogni angolo d’Europa. Le conoscenze
tecnologiche riguardo all’installazione di meccanismi idraulici non vennero del tutto sommerse
dalle invasioni barbariche di IV, V e VI sec., ma sopravvissero in alcune zone dell’Italia e del sud
della Francia, in particolare attorno ad aree urbane come Roma ed a pochi centri monastici. Da
queste aree la ruota idraulica sembra diffondersi verso l’esterno con una “serie quasi regolare di
isocrone il cui centro di radiazione, senza possibilità di contestazione, si può collocare nel bacino
mediterraneo”71.
Gregorio di Tours (540-594 ca.) parla di mulini idraulici presso Digione e più o meno
contemporaneamente il poeta Venanzio Fortunato ne cita uno sulla Mosella. Al tempo dei
Merovingi tali meccanismi erano abbastanza importanti da essere protetti nelle leggi saliche e
compaiono come fonte di reddito fiscale nel Capitulare de villis di Carlomagno. In Svizzera il più
antico mulino conosciuto risale al VI sec., nella Germania meridionale si ha una rapida diffusione
dopo le invasioni di VII, nell’VIII mulini compaiono nelle leggi alamanna e bavara, mentre
comincia una più lenta diffusione verso nord. Ruote idrauliche erano usate in Belgio alla metà del
VII sec., in Olanda nell’VIII, in Austria e nelle Alpi orientali nel IX. Per l’Inghilterra il primo
riferimento attendibile ad un mulino idraulico compare nel 762 e nel X sec. tali meccanismi
non solo geografica ma anche
avevano invaso l’Irlanda72. Questo processo di espansione, che fu
quantitativa, si può visualizzare nel suo momento culminante facendo riferimento ai ben 5624
mulini inglesi, censiti attorno al 1080 nel pluricitato Domesday Book73.
Restringendo il quadro più in particolare all’Italia, sappiamo ad esempio che in Lombardia le
67
Sui motivi della mancata diffusione di tali meccanismi in epoca classica si è molto discusso, cfr.
Bloch, 1969, pp. 43-47; Forbes, 1965, pp. 98-99; Reynolds, 1983, pp. 32-35.
68
Ausonio,Mos.,361-364;Prudenzio,C.Symm.,II,950;Procopio,DeBel.Goth.,V,19,8-9.
69
Editto di Diocleziano del 301 d.C., nel quale si fissa il prezzo di un mulino ad acqua (Malanima,
1988, p. 41); editto protezionistico di Onorio e Arcadio del 398 d.C. (Reynolds, 1983, p. 31); editti di Zeno
del 485, di Teodorico del 500 ca., di Giustiniano del 538 (ibidem e Forbes, 1965, p. 97).
70
Il processo di diffusione non sembra essere stato del tutto lineare, ad es. cfr. Malanima, 1988, pp. 41­
42 e Idem, 1996: alcuni indizi portano a pensare che nei secc. V-VI si sia verificata in alcune areeunanetta
caduta nell’impiego delle macchine antiche, ed un forte ritorno alle mole a mano.
71
Bloch, 1969, p. 77. In tale saggio Bloch fu il primo a sottolineare con estrema decisione l’importanza
dei secoli altomedievali per i progressi nel campo della tecnica e soprattutto dello sfruttamento di nuove fonti
di energia.
72
Si vedano le testimonianze più antiche riguardo ai mulini idraulici europei raccolte negli studi di
Bloch, 1969, pp. 75-77; Forbes, 1962a, pp. 618-621; Reynolds, 1983, pp. 49-50. V. anche Malanima, 1996,
pp. 97 e sgg.
73
Sulla base dei dati ricavabili dal Domesday Book è stata calcolata una media di 1 mulino ogni 250
persone. è importante notare come tali cifre siano state confermate anche per altre regioni europee nel
Medioevo, e come calcoli effettuati per il XIX sec. abbiano mostrato un parallelismo perfetto tra l’aumento
della popolazione e quello delle ruote idrauliche, cfr. Makkai, 1981, p. 176.
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prime menzioni di mulini idraulici compaiono in documenti del 767 e del 776, continuano con
regolarità durante il IX sec. e si moltiplicano nel X74. Tali meccanismi sono documentati nel
Trevigiano dal 710, a Brescia dal 767, in Abruzzo dal IX sec.75, nel territorio padovano dall’819, a
Parma dall’860, a Pavia dall’863, a Cremona dall’89176, a Verona dal 905 77, a Bologna dal 1074 78.
In Toscana i primi documenti risalgono all’anno 726 per il territorio di Pistoia ed al 798 per
Lucca79.
Praticamente tutti i mulini la cui storia siamo in grado di seguire per il periodo altomedievale
erano di pertinenza di monasteri e di vescovi: ciò dipende, ovviamente, in primo luogo dal fatto che
l’unica documentazione scritta che possediamo per questo periodo è di origine monastica. A ciò si
aggiunga la considerazione che per installare impianti idraulici era necessario essere in possesso di
diritti pubblicistici sulle acque (che in questo periodo ancora potevano essere concessi solo tramite
autorizzazione regia)80 e soprattutto poter disporre di manodopera e di risorse economiche notevoli,
dato che la costruzione di una struttura costosa come un mulino comportava forti investimenti (considerazione
valida, naturalmente, anche per l’aristocrazia laica, riguardo alla quale, però, le fonti ci dicono poco). Da questa ultima
osservazione consegue anche che, fin quando la popolazione si manteneva ancora poco numerosa, l’installazione di tali
meccanismi era vantaggiosa solo se essi servivano alla molitura di molto grano, cioè all’approvvigionamento
di comunità consistenti (ad esempio quelle monastiche), oppure operavano in regime di monopolio. Per arrivare al
“banno” il passo era certamente breve: investire in mulini, infatti, pur se costoso, diveniva estremamente remunerativo,
in quanto le rendite di un signore potevano aumentare considerevolmente se egli era in grado di imporre a
tutti i contadini delle sue terre di servirsi esclusivamente del proprio impianto molitorio, ed
obbligarli, anche con la forza, ad abbandonare le macine a mano81.
Alcuni dati suggeriscono che il momento di più forte espansione numerica degli impianti
idraulici in Europa si verificò tra XII e fine XIII sec., in corrispondenza con un periodo di prosperità
economica e soprattutto di forte incremento demografico82. A partire dal Mille, in concomitanza con
l’aumento delle fonti scritte, le menzioni di mulini nei documenti crescono in maniera esponenziale,
talvolta al punto “che non vale la pena di citarle tutte”83. Come nei secoli altomedievali, anche in
questo periodo i mulini appartengono per la maggior parte ad enti ecclesiastici ed ai vescovi, ora
molto più spesso affiancati, tuttavia, dai nascenti organismi comunali84 e dalle grandi famiglie
dell’aristocrazia laica (riguardo alla quale la documentazione si fa adesso più abbondante)85.
Quest’ultima comincia a comparire sempre più frequentemente come proprietaria di impianti
74
Chiappa Mauri, 1984, pp. 8-9. Un andamento simile si riscontra per la Sabina, cfr. Toubert, 1976,
pp. 106-107; Toubert, 1977, v. I, pp. 460-461.
75
Malanima, 1988, p. 42.
76
Bortolami, 1988, pp. 283-285.
77
Varanini, 1988, pp. 342-343.
78
Pini, 1987, p. 7.
79
Muendel, 1972, p. 39; Berretti-Jacopi, 1987, p. 23. Sul diffondersi dei termini “molendinum”,
“molinum”, nei documenti italiani a partire dalla seconda metà dell’VIII sec., cfr. anche Aebischer, 1932.
80
V. infra, nota 259.
81
Su tali aspetti cfr. ancora Bloch, 1969, in particolare le pp. 54 e sgg e Malanima, 1996, p.100.
82
Gille, 1954, p. 3; Forbes, 1962a, p. 618; Gimpel,1977,p.57;Reynolds,1983,pp.52-53.
83
Chiappa Mauri, 1984, p. 14; v. anche Pini, 1987, pp. 7-8 e 21. In Malanima, 1995, pp. 64-65, 74-75
una sintesi sui dati quantitativi riguardo alla presenza di mulini in Europa nei secoli centrali del Medioevo.
Per visualizzare il punto di arrivo di tale espansione attraverso i secoli si pensi ai 500-600.000 mulini calcolati
per l’Europa del XVIII secolo (Braudel, 1979, p. 312; Makkai, 1981, pp. 175-176)
84
La politica comunale in proposito di controllo sulle acque e la conseguente creazione e gestione in
proprio di una rete di impianti molitori si dispiega a ritmo crescente dalla fine del XII sec. e per tutto il XIII,
quando l’espansione numerica dei mulini ha toccato ormai il suo apice; per le iniziative comunali v. infra,
nota 347.
85
Balestracci, 1992, pp. 432 e 435.
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molitori: si vedano i chiari esempi delle famiglie aristocratiche di Bologna tra XI e XII sec., di
Verona e Reggio Emilia nel XII, di Piacenza a fine XII-inizi XIII sec.86. Ma in numero ancora
maggiore i mulini furono costruiti o si concentrarono nelle mani dei vescovi cittadini, soprattutto
con l’evolversi del processo che vide i diritti sulle acque divenire sempre più di loro pertinenza:
basti pensare al chiarissimo esempio di Reggio Emilia, dove il vescovo è il solo ad avere diritto di
costruire mulini sui corsi d’acqua urbani e ne è il maggiore proprietario tra IX e XIII sec.87, o al
caso di Padova, dove tra X ed XI sec. è fra le patrimonialità dei vescovi che fanno la loro comparsa
i primi mulini88.
Per quanto riguarda invece gli enti ecclesiastici, si ha l’impressione che nessun monastero di
una qualche consistenza sia stato privo di propri impianti molitori89. Invece di lanciarci in un lungo
elenco di esempi, dunque, preferiamo limitarci a considerare, come caso emblematico, un ordine
monastico particolarmente studiato, sia in ambito europeo che italiano, proprio sotto il particolare
aspetto dell’interesse mostrato verso le tecnologie idrauliche: quello cistercense. Del resto una delle
più note ed esplicite testimonianze letterarie medievali dell’attenzione con cui si guardava
all’impiego dell’energia dell’acqua, ci viene proprio da questo ordine: si tratta di un famoso e
spesso citato brano di Arbois de Jubainville, monaco del XIII sec., che dedica ampio spazio ad una
accurata descrizione di come i confratelli di Clairvaux avevano organizzato tutto il complesso degli
edifici in modo da sfruttare le acque del fiume Aube, che scorreva nelle vicinanze, deviandolo e
canalizzandolo per irrigare gli orti del monastero e far funzionare le mole per il grano, la gualchiera,
la birreria e la conceria90. Tutti i monasteri maschili francesi si dotarono di almeno un mulino entro i
primi 2 o 3 decenni che seguirono alla fondazione, ma nella maggior parte dei casi la quantità fu
molto più elevata: gli impianti andavano da 2 a 3 per moltissime abbazie, a 5 o 6 per le più ricche91.
Ma questo fu solo l’inizio: l’acquisto di impianti idraulici seguì una curva in continua ascesa
secondo una politica economica ben precisa in più e più monasteri. Per la Borgogna, centro di
irradiazione dell’ordine, Chauvin arriva a parlare di una vera e propria “bulimia d’acquisto”,
immagine incisiva per definire il processo che, a partire dal 1210-1220 per una ventina d’anni, o
anche con una politica di acquisti concentrata in 2 o 3 anni, portò ad una presa di possesso
cistercense quasi completa92. In certi casi la gestione dei mulini si sviluppò fino a divenire la
principale fonte di reddito con la costituzione di veri e propri monopoli93.
La situazione italiana non era diversa dal resto d’Europa: molti monasteri cistercensi
sembrano indirizzarsi da subito verso l’accaparramento dei diritti sulle acque e di un numero
elevatissimo di impianti idraulici. Fu questa, ad esempio, la politica di Chiaravalle Milanese,
86
Cfr. Pini, 1987, p. 8; Varanini, 1988, pp. 359-372; Dussaix, 1979, p. 121; Balestracci, 1992, p. 443.
Dussaix, 1979.
88
Bortolami, 1988, p. 287. Si vedano inoltre vari altri esempi di mulini vescovili in Balestracci, 1992.
89
È una tendenza assolutamente generale: per citare solo alcuni esempi si vedano i monasteri liguri
(Origone, 1974), quelli lombardi (Chiappa Mauri, 1984), bolognesi (Pini, 1987, p. 8), della zona chiantigiana
(Carnasciali-Stopani, 1981, p. 4); altri esempi anche in Varanini, 1988, p. 343 e Balestracci, 1992.
90
De Jubainville, Descriptio, pp. 570-571. Una descrizione analoga della rete idrica di Clairvaux
ritroviamo anche in un più antico passo dell’abate Arnold de Bonneval, il quale descrive la ricostruzione
dell’abbazia nel 1136: non fa nessuna menzione della chiesa, ma mostra verso le opere idrauliche realizzate la
stessa ammirazione del suo successore, cfr. De Bonneval, San. Bern. p. 285.
91
Chauvin, 1983, pp. 30-31.
92
Verso la metà del XIII sec. sono rare le abbazie che dispongono di meno di mezza dozzina di mulini,
la media è una decina, mentre qualche monastero, come Bellevaux, Charlieu o Citeaux, ne possiede il doppio,
cfr. Chauvin, 1983, pp. 30-31. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi sia per la Francia che per l’Inghilterra, cfr.
Reynolds, 1983, p. 110; Lekai, 1989, p. 386. Cfr. inoltre l’amplissima bibliografia recentemente raccolta in RighettiTostiCroce, 1993a.
93
È quanto avvenne nelle abbazie di Reinfeld e Doberan, in Germania, e Poblet in Catalogna nel XIII
sec., cfr. Lekai, 1989, p. 387.
87
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Casanova, Lucedio, Morimondo, Casamari, Fossanova, Chiaravalle di Fiastra e dei monasteri
liguri94. Molto interessante, infine, è il caso del monopolio instaurato dall’abbazia di S. Salvatore a
Settimo sugli impianti molitori lungo un tratto notevole dell’Arno. A partire dal loro arrivo sul
luogo, nel 1236, i Cistercensi cominciarono l’acquisto di singole quote-parti o di interi sbarramenti
utilizzati dai mulini naviganti di Signa e li eliminarono progressivamente, fino a costruire, nel 1253,
una pescaia a sbarramento totale dell’alveo, che riforniva un loro grande impianto a 6 mole. In tale
modo essi non solo imposero il monopolio sulla macinazione nella zona, ma probabilmente anche
alle navi cariche di grano che risalivano verso Firenze, costrette a sbarcare il carico in questo punto
ed a farlo proseguire via terra aggirando lo sbarramento95.
Una così massiccia espansione delle tecnologie idrauliche, comportò naturalmente un
notevole sforzo di ingegneria civile per la costruzione di una serie di strutture accessorie come
dighe, gore di derivazione, bacini di riserva, canali di rifiuto96. Di rado, infatti, le ruote erano mosse
direttamente dalla corrente: in genere veniva invece scavata una derivazione che deviava l’acqua
dal fiume in un canale, parallelo al corso d’acqua, che riforniva i bacini di riserva e serviva sia ad
isolare le ruote dalle variazioni stagionali del livello dei fiumi, sia ad evitare di ostruire l’alveo con
strutture ingombranti in caso di piena97. Gli sbarramenti che consentivano il deflusso delle acque dal
fiume alla gora potevano essere di vari tipi: si andava da semplici strutture costruite con materiali
deperibili che richiedevano una continua manutenzione98, a delle vere e proprie dighe in muratura a
sbarramento totale dell’alveo del fiume. Realizzare strutture di questo secondo genere comportava
evidentemente notevoli capacità ingegneristiche ed il superamento di alcune difficoltà tecniche: le
dighe dovevano reggere la forza delle piene ed essere dotate di saracinesche di scolmo, erano inoltre
soggette da un lato all’erosione delle parti alte, dall’altro al deposito di fango e materiali alluvionali
che ne determinavano il progressivo interro99. Dighe imponenti erano state già costruite da Romani
ed Arabi100, ma i dati per il Medioevo suggeriscono un progresso tecnico ed una diffusione
notevole, tanto che le descrizioni nelle fonti, le citazioni nei documenti e le tracce sul territorio sono
numerosissime101.
Per quanto riguarda la struttura materiale dei canali di derivazione, bisogna dire che nella maggioranza dei casi si
trattava di semplici fossati a cielo aperto, delimitati da argini in terra battuta, talvolta con pareti rivestite in muratura o in
legno. Nei punti depressi il canale poteva essere tenuto in quota mediante ponti su archi in muratura
o rinforzato con muri di sostegno, mentre un sistema di paratoie distribuite lungo il percorso
permetteva di deviare le eventuali eccedenze d’acqua oppure di interrompere del tutto l’afflusso102.
Una buona manutenzione del canale era indispensabile per l’efficienza degli opifici e le operazioni
94
Per Chiaravalle si vedano gli acquisti massicci di mulini e gualchiere a partire dal 1139, cfr. Chiappa
Mauri, 1985, p. 300, Chiappa Mauri, 1990, pp. 68-69; per Casanova e Lucedio cfr. Comba, 1985, p. 256; per
Morimondo cfr. Occhipinti, 1983, p. 548; per Casamari cfr. De Benedetti, 1952, p. 9 e sgg.; per Fossanova e
Chiaravalle di Fiastra cfr. Righetti Tosti-Croce, 1993a, pp. 48-51, 78-79; per i monasteri liguri di Tiglieto, S.
Eustachio di Chiavari, S. Andrea di Sestri, cfr. Origone, 1974, pp. 95-96.
95
Pirillo, 1989.
96
Sulle strutture accessorie di un mulino v. in generale Makkai, 1981, pp. 171-172.
97
Reynolds, 1983, p. 62; Chiappa Mauri, 1984, p. 16; Crossley, 1985, p. 117.
98
Cfr. Bellero, 1985, p. 347, Pirillo, 1989, p. 30 e nota 33.
99
Si vedano gli esempi riportati in Cleere-Crossley, 1985, pp. 222-225; Crossley, 1985, p. 120.
100
Gordon, 1985, p. 85.
101
Crossley, 1985, p. 117. Tra gli esempi più famosi la diga di terra costruita ad Arlesford nel 1189,
che rimane ancora in piedi (cfr. Gordon, 1985, p. 85) ed il triplo sbarramento della Garonna presso Tolosa nel XII
sec., cfr. Reynolds, 1983, p. 65, che riporta inoltre molti altri esempi per tutta l’Europa. Particolarmente
imponenti anche le dighe di terra costruite dai monaci di Fontenay intorno al1130 per sbarrare i corsi d’acqua che
scorrevano in due valloni, alla cui confluenza doveva sorgere il monastero, e bonificare il sito (Benoit, s.d., pp. 224 e sgg.).
102
Cleere-Crossley, 1985, p. 224; Crossley, 1985, p. 120.
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di ripulitura periodica erano spesso espressamente previste nelle legislazioni medievali103. La
lunghezza dei canali poteva variare notevolmente, a seconda dei casi, e vi sono esempi di gore molto lunghe, anche
diverse centinaia di metri, talvolta con tratti scavati nella roccia e gallerie104. Per il XII sec. un esempio
particolarmente articolato di un vero e proprio sistema di canali e bacini di raccolta per
l’approvvigionamento e controllo delle acque, oltre che per il drenaggio di una intera vallata, ci
viene dalle indagini archeologiche sull’abbazia cistercense inglese di Bordesley105. Per la Toscana
vi sono casi di veri e propri sistemi di gore e canali: ad esempio per Prato numerosi documenti di
varia provenienza, datati a cominciare dai primissimi anni dell’XI sec., descrivono un complesso
articolarsi di derivazioni idriche e canalizzazioni, che dovevano aver assunto una propria fisionomia
già prima del Mille106. Anche la presenza di canali di rifiuto, talvolta di notevole lunghezza, era di
grande importanza: dovevano, infatti, far scorrere via l’acqua senza impedire alla ruota di girare ed
era fondamentale che non si ostruissero a valle107.
La realizzazione di strutture di sbarramento ed opere di derivazione per lo sfruttamento
dell’energia idraulica provocava spessissimo vertenze giudiziarie e scontri anche violenti tra i
proprietari. Infatti la presenza di dighe determinava gravi danni alla navigazione sui grandi fiumi e
talvolta disastri in caso di piena. Le controversie si moltiplicano in proporzione col diffondersi delle
nuove tecnologie, i casi sono innumerevoli108 e riguardano molto più spesso la costruzione di chiuse
piuttosto che i mulini veri e propri109. Solo a titolo di esempio è interessante riportare i toni
asprissimi che assunse la vertenza tra il comune di Firenze ed il monastero di Settimo a proposito
della già citata pescaia a sbarramento totale dell’Arno110. Il comune ne decretò la distruzione nel
1254 in quanto la struttura provocava danni per la navigazione ed allagamenti a Signa ed altri
luoghi su entrambe le rive fino alla città stessa. La questione si trascinò comunque per anni,
aggravata dalle carestie che costrinsero Firenze a far giungere via acqua il grano dal Sud Italia e
dalla Provenza. Nonostante le minacce di scomunica alla Parte Guelfa, nel 1331 il monastero
dovette cedere, lo sbarramento fu demolito ed i mulini abbandonati; la perdita finanziaria fu
notevolissima, ma perlomeno i monaci di Settimo non furono travolti dal biasimo popolare contro i
103
Ad esempio a Prato questa operazione è obbligatoria per i mugnai e prevista nello Statuto medievale
dell’Arte, cfr. Moretti, 1985, p. 247. A Colle Val d’Elsa il sistema delle gore era di proprietà della Comunità,
cui spettava una parte della ripulitura, mentre il resto della loro estensione era distribuito fra chi ne usufruiva:
a partire dal 1491 si regolamentarono con uno Statuto specifico i compiti dei proprietari ed i tratti di gora da
ripulire, cfr. Roselli-Forti-Ragoni, 1984, p. 16.
104
Ad esempio il monastero di Clairvaux riceveva l’acqua dall’Aube tramite un canale lungo 3,5 Km,
ad Obazine sempre i Cistercensi scavarono nella roccia un canale lungo 1,6 Km per assicurare un sufficiente
apporto energetico, cfr. Chauvin, 1983, p. 30. A Citeaux il corso del fiume Sansfonds fu deviato entro un
canale in parte sopraelevato, per consentire il superamento di ostacoli naturali, cfr. Righetti Tosti-Croce,
1993a, p. 44 ed altri numerosi esempi ivi riportati.
105
Astill, 1993, in particolare le pp. 246-252.
106
Moretti, 1985, pp. 231-232.
107
Cleere-Crossley, 1985, pp. 233-238; Crossley, 1985, p. 120. Ad esempio nei mulini pratesi, che non
erano dotati di bacino di raccolta, ma solo di un canale passante con flusso di acqua continuo che si allargava
e rialzava in prossimità dell’impianto, un aumento anche minimo del livello di acqua per scarso deflusso dalla
camera del ritrecine poteva ostacolare seriamente il libero movimento di quest’ultimo: v. Moretti, 1985, p.
247.
108
Per citarne solo alcuni, v. Occhipinti, 1983, pp. 543-544; Bellero, 1985, pp. 346-347; Chiappa
Mauri, 1990, pp. 150-153.
109
Chiappa Mauri, 1984, p. 17. A questo proposito il Crossley (Crossley, 1985, p. 107) fa notare che
spesso, proprio a causa di problemi giuridici e vertenze riguardanti la proprietà, le confinazioni ed i diritti
sulle acque, accade che le chiuse, i bacini di riserva ed i canali siano posizionati in modo diverso da come
sembrerebbe logico a noi moderni.
110
V. sopra, in questo stesso paragrafo. Tutte le notizie relative a questa vertenza sono tratte da Jones,
1980, pp. 317-344 e Pirillo, 1989, pp. 36-37.
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proprietari di pescaie sull’Arno dopo la tremenda alluvione del 1333.
1.3. A LTRI OPIFICI IDRAULICI
Per più di nove secoli dopo la sua scoperta, non si hanno notizie sicure che in Europa la forza
motrice dell’acqua fosse impiegata in altri processi produttivi oltre che nella macinazione del grano;
è a partire dal IX sec. che cominciano a comparire indizi di una diversificazione nell’uso delle ruote
idrauliche. Uno dei primi procedimenti in cui furono impiegate fu la preparazione del malto per la
birra111; altri impieghi si ebbero nella macinazione delle olive, dello zucchero e dei pigmenti per
tingere. Ancora una applicazione medievale dell’energia idraulica fu nella concia delle pelli, per
ridurre in polvere la corteccia di quercia da cui si estraeva il tannino112. Per tutti questi casi ci
troviamo di fronte ad usi che richiedevano un semplice moto rotatorio continuo, in tutto simile a
quello necessario per la macinazione dei cereali; si trattava dunque di una diversificazione del
medesimo procedimento e non di una vera e propria innovazione tecnica.
Il discorso si fa invece del tutto diverso per quelle applicazioni ‘industriali’ dell’energia
idraulica che richiedevano una grande novità, ovvero la trasformazione del moto circolare in moto
alternato (gualchiere, cartiere, impianti metallurgici ecc.). Mentre in tutte le operazioni elencate in
precedenza, infatti, era possibile adottare anche la ruota orizzontale, per queste ultime era
necessario l’impiego esclusivo di ruote idrauliche verticali. Tali ruote non richiedevano la presenza
del complicato meccanismo vitruviano, poiché l’asse di rotazione non doveva essere ribaltato ma
doveva rimanere orizzontale. Per la creazione del moto alternato la tecnologia medievale adottò
essenzialmente un meccanismo molto semplice e molto antico, conosciuto già nell’antichità
classica, ma mai applicato a macchine per la produzione su vasta scala prima del Medioevo:
l’albero a camme113. La camma non era altro che una sporgenza, in legno o metallo, fissata su un
albero, applicata diffusamente soprattutto per azionare pestelli, mazzuoli e martelli. Nel pestello
verticale una camma montata su un albero posto orizzontalmente ruotava entrando in contatto con
una sporgenza analoga solidale con l’asse verticale che portava al suo estremo inferiore il pestello.
La camma, ruotando, sollevava l’asse verticale finché durava il contatto, dopodiché esso ricadeva
battendo con il pestello sul materiale da frantumare114. Nel caso del martello azionato a leva, la
camma veniva fatta ruotare contro l’estremità munita di martello di un asse orizzontale che faceva
leva dall’altra estremità; la camma prima sollevava il martello e poi, proseguendo la rotazione, si
disimpegnava lasciandolo ricadere. La prima applicazione del sistema a magli e martelli idraulici
avvenne probabilmente nella gualcatura - o follatura - della lana (e forse anche nella battitura della
canapa). Le notizie più antiche di un impiego in questo settore provengono dalla penisola italiana e
sono note per l’Abruzzo nel 962, per Parma nel 973, e per il territorio di Verona nel 985115.
Nei secoli successivi tale macchina si diffuse in tutta Europa, dando il via ad una serie di
nuove utilizzazioni, quali ad esempio l’industria della carta da stracci, che comparve quasi
111
In una pianta del monastero di S. Gallo, risalente all’820, sono raffigurati oggetti simili a magli,
detti pilae, accanto ad altri chiamati molae, probabilmente macine; alcuni studiosi hanno ipotizzato che si
tratti di magli azionati da un albero a camme, ma la questione è estremamente dibattuta, cfr. Reynolds, 1985,
pp. 67-68. Altre evidenze per questo uso ci vengono dalla Picardia nell’861, cfr. White, 1972, p. 129.
112
Sui vari impieghi dell’energia idraulica a partire dal Mille cfr. Gille, 1954, p. 7; Forbes, 1962, p.
610; Braudel, 1979, p. 311; Reynolds, 1983, pp. 73-75; Reynolds, 1984, p. 113. Sintesi in Malanima, 1995,
pp. 68-69.
113
Gille, 1954, pp. 8-10; Gille, 1962, p. 652; Reynolds, 1983, p. 79; Reynolds, 1984, p. 114.
114
Illustrazioni in Agricola, 1563, libro VIII, pp. 240-243.
115
Riguardo alle origini della gualchiera idraulica e la sua diffusione in Italia ed Europa durante il
Medioevo si rimanda al saggio di Malanima, 1988, in particolare le pp. 45 e sgg., 51 e sgg.
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simultaneamente in Spagna ed Italia alla fine del XII sec.116. Dalle mazze battenti per la follatura dei
tessuti venne probabilmente anche lo stimolo per l’uso dell’energia idraulica in un settore
produttivo di fondamentale importanza, la metallurgia, con l’invenzione dei primi magli idraulici: di
questo parleremo ampiamente in seguito.
Dunque, quando il mulino da grano ha ormai raggiunto il suo optimum tecnologico117, è già
diffuso ovunque, in grande quantità ed in tutte le sue varianti, per la tecnologia idraulica medievale
si apre un nuovo, vastissimo orizzonte. I mulini per la macinazione continueranno a moltiplicarsi,
punteggiando il paesaggio rurale ed urbano, per rispondere alle esigenze alimentari di una
popolazione che fino alla metà del XIV sec. sarà in continuo aumento; ma il meccanismo in sé, le
ruote, le macine, gli ingranaggi, non subiranno che variazioni minime, in una sorta di ‘stasi’ che si
protrarrà fino all’età industriale. La ricerca di nuove soluzioni tecniche avverrà, invece, in altri
settori, che possono veramente essere definiti ‘protoindustriali’. La forza dell’acqua, imbrigliata per
ottenere l’energia necessaria a trasformare le materie prime in prodotti semilavorati o finiti,
determinerà un aumento notevolissimo del potenziale produttivo entro alcuni poli manifatturieri già
esistenti, ne farà nascere di completamente nuovi; la sua mancanza o scarsità, invece, sarà uno dei
maggiori fattori di crisi per interi sistemi produttivi. Le conseguenze sul piano economico, sociale e
politico saranno davvero di grande portata.
2. Strutture materiali e tecnologie nel bacino idrografico Farma-Merse
2.1. S TRUT TURE ID R AULIC HE ACCESSOR IE 118
Nessuno degli opifici idraulici individuati nel corso di questa indagine era azionato
direttamente dal fiume o dal torrente presso cui si trovava; tutti ricevevano invece l’acqua per
mezzo di un canale di derivazione, di lunghezza estremamente variabile, che ne permetteva un
migliore controllo ed una più attenta regolazione. L’impianto vero e proprio poteva quindi venirsi a
trovare anche a notevole distanza dal corso d’acqua alimentatore ed essere dislocato, ad esempio, su
un’area pianeggiante sufficientemente comoda per gli abitati e relativamente ben raggiungibile dalla
viabilità principale; la presa d’acqua, invece, poteva trovarsi in una zona maggiormente disagiata.
L’esempio più macroscopico è certamente quello dei grandi mulini edificati alla metà del XIII sec.
dall’abbazia delle SS. Trinità e Mustiola di Torri, in collaborazione con il comune di Siena, nel bel
mezzo della pianura sottostante agli abitati di Brenna ed Orgia: la presa d’acqua dista, dal più
lontano di essi, ben 4 Km in linea d’aria119. È inoltre piuttosto ovvia la constatazione che, quanto più
distante era un edificio dal corso d’acqua principale, tanto più era scongiurato il pericolo di
distruzioni dovute a piene e straripamenti.
Molto spesso l’impianto era dislocato nella parte interna di un’ansa più o meno ampia del
fiume o torrente, la quale veniva in un certo qual modo ‘tagliata’ dal canale che conduceva l’acqua
all’edificio e da quello di rifiuto, così che l’impianto veniva in pratica a trovarsi posizionato su una
116
Malanima, 1995, p. 69.
Giuffrida, 1981, p. 220.
118
Si è scelto di trattare questo argomento considerando come un blocco unico le strutture idrauliche
accessorie annesse a tutti gli opifici censiti, senza operare una distinzione fra impianti molitori ed impianti
siderurgici; non si sono riscontrate, infatti, consistenti differenze funzionali che ne consigliassero una
trattazione in gruppi separati. Anche le variazioni all’interno dell’arco cronologico considerato sono risultate
minime.
119
Siti 5, 15, 16, 17; v. sotto, in questo stesso paragrafo.
117
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porzione di terreno completamente delimitata, su tutti i lati, da acqua corrente120. Altre volte,
quando l’edificio si trovava nelle vicinanze di un tratto rettilineo del corso d’acqua, i canali che
servivano l’impianto, scorrendo parallelamente al fiume, venivano a delimitare un’angusta striscia
di terra, larga talvolta pochi metri; ciò si verificava soprattutto in situazioni morfologicamente
accidentate ed in aree in cui mancavano zone pianeggianti di una certa estensione.
Per quanto riguarda il rifornimento idrico, possiamo distinguere fra le opere di intercettazione
delle acque e le opere di derivazione. Le prime sono quelle che sbarrano il corso del fiume in parte
o totalmente e servono per innalzare il livello del pelo dell’acqua, assicurando una efficiente
derivazione e nello stesso tempo creando una zona di relativa calma a monte. Al di sopra dello
sbarramento, infatti, l’alveo si presenta in genere piuttosto profondo, compatto, non eccessivamente
largo, il pelo dell’acqua calmo; a valle dello sbarramento, invece, l’acqua cade formando piccole
cascate e si disperde su un alveo notevolmente allargato, dividendosi in diramazioni separate da
isolotti ed aree asciutte talvolta coperte da vegetazione121. Lo sbarramento, se sviluppato in altezza,
poteva servire anche per aumentare la caduta.
La scelta del sito per la localizzazione della struttura di sbarramento era strettamente legata
alle caratteristiche del corso d’acqua: quest’ultimo non doveva avere un eccessivo trasporto di
materiale solido, non doveva dar luogo ad improvvisi fenomeni di piena, né approfondire per
erosione il proprio alveo; doveva altresì garantire un minimo apporto di acqua per tutto l’anno122.
Solitamente veniva quindi scelto un settore del percorso in prevalenza rettilineo, che desse garanzia
di una portata costante, spesso però, come abbiamo visto sopra, immediatamente precedente ad una
grande ansa, la quale già di per sé creava una strozzatura a valle della presa.
La presenza dello sbarramento, elemento fondamentale per l’attività dell’impianto, viene
sempre citata nelle fonti medievali in connessione con l’opificio vero e proprio. Il termine che
ricorre nei documenti consultati è esclusivamente steccaria123, sia per il periodo medievale che per
quello successivo. Già la parola stessa suggerisce che doveva trattarsi di una struttura in cui non
erano previste parti in muratura, ma piuttosto semplici palificazioni con impiego di materiali
deperibili. La tecnica costruttiva utilizzata consisteva nell’infiggere profondamente entro il letto del
fiume numerosi grossi pali, disposti in file parallele, in modo tale che sporgessero in parte al di
sopra del livello naturale dell’acqua. Gli spazi fra i pali venivano riempiti con fascine, intrecci di
giunchi e sassi; il fiume stesso, poi, trasportando fango e pietrisco, contribuiva a rendere più solida
il risultato di
la struttura124. Queste opere di intercettazione, ove conservate, sono ovviamente
continui rifacimenti attraverso i secoli dal Medioevo ai nostri giorni, ma è certo che la tecnica
120
Siti:1 (UT 1 e UT 2), 2 (UT 1), 3 (UT 1), 9, 10 (UT 1), 18, 19. è probabilmente questo il motivo per
cui il luogo su cui sorgeva il mulino veniva talvolta definito insula nelle carte medievali (cfr. Chiappa Mauri,
1984, p. 16 nota 60; Pirillo, 1992, p. 27 e nota 90); nella nostra zona questo avviene per uno dei più antichi
impianti documentati, il Mulinaccio (Sito 10 UT 1), a proposito del quale, nel 1218, si parla dell’insulam
positam ad molendinum.
121
V. ad esempio Siti 4, 15, 25.
122
Tuttavia negli opifici alimentati dai torrenti secondari il periodo di attività rimaneva comunque
limitato ai mesi di autunno-inverno, come vedremo più avanti.
123
Nelle sue varianti steccata, stecharia, steccatum, stecchatum (v. Catalogo, sotto la voce Fonti,
passim); non ricorre mai, ad esempio, il termine pescaia, comunemente usato nel territorio di Firenze (Pirillo,
1989), oppure clusa, diffuso nel Nord Italia (Chiappa Mauri, 1984, p. 17).
124
Un esempio ancora perfettamente visibile è la steccaia a sbarramento totale del fiume Merse, che
alimentava la gora dei mulini di Brenna ed Orgia (v. Siti 5, 15, 16, 17); si è conservata in parte anche la
palificazione principale della steccaia del Mulino delle Pile, presso Chiusdino: v. Sito 9.
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costruttiva si è tramandata inalterata125.
Le steccaie dovevano essere di solito a sbarramento totale dell’alveo e potevano attraversarlo
con una linea ortogonale alle sponde oppure obliquamente126. Difficile dire, poiché non se ne sono
conservate, se esistessero strutture ancora più piccole e più semplici, che non attraversavano tutto
l’alveo, ma erano costituite da semplici palificazioni, lunghe pochi metri, situate nelle immediate
vicinanze dell’imbocco della presa ed atte a convogliare la corrente verso di essa127. È anche
possibile che, per gli impianti più piccoli, specialmente nelle zone particolarmente impervie, l’opera
di intercettazione non esistesse nemmeno, in quanto si sfruttavano piccoli bacini di raccolta,
formatisi con l’accumulo naturale di pietre in certi tratti del torrente, dai quali poteva essere fatto
partire il canale adduttore.
I vantaggi principali di una struttura come la steccaia, rispetto ad una vera e propria diga in
muratura, consistevano essenzialmente nel fatto che era relativamente semplice e poco costosa da
costruire, non necessitava di conoscenze tecniche troppo complesse per la messa in opera, era meno
pericolosa in caso di piena perché il fiume, tracimando con facilità al di sopra delle palificazioni,
più difficilmente provocava allagamenti a monte. D’altra parte, però, necessitava di una continua
manutenzione, era meno efficace e più dispersiva nell’innalzare il livello dell’acqua in caso di
scarsa portata, veniva facilmente distrutta dalle piene stesse128.
Riguardo alla tipologia di sbarramento maggiormente diffusa nel nostro ambito territoriale,
l’indagine sul campo ha permesso di riscontrare che quasi tutti i mulini della zona erano alimentati
da steccaie di pali e fascine, mentre in genere non si sono conservate strutture in muratura129.
Solamente in due casi, nelle ferriere di Ruota e di Torniella (Siti 4 e 23), si riscontra la presenza di
125
Una conferma ci viene anche dalle raffigurazioni di sbarramenti di questo genere in piante di XVIXVII secolo, nelle quali si può apprezzare perfettamente la corrispondenza della tecnica costruttiva illustrata
con i resti di steccaie ancora visibili attualmente: ad esempio una pianta relativa al Mulino delle Pile raffigura,
con un disegno curato e chiarissimo nei particolari, la steccaia costruita con file parallele di grandi pali, ed
altre opere di derivazione (v. Sito9).
126
La steccaia del mulino di Pari (v. Sito 20) è raffigurata in una pianta settecentesca come una grande
palificazione che attraversava con andamento obliquo tutto l’alveo del fiume Merse; nel documento relativo
viene definita “steccata traverza à quattro ordini con fascine di scopo, pali, e pertiche”.
127
Qualche cosa di simile alle siepi che nel XIII sec. sull’Arno alimentavano i mulini galleggianti nei
pressi di Signa, cfr. Pirillo, 1989, p. 30 nota 33.
128
Per questo in alcuni contratti di locazione (ad es. v. Sito 7, anno 1304) si prevedeva che “si
contingeret quod dicta steccharia dicti molendini prefati propter pluviam vel fortunam temporis ledaret vel
magagnaret” in modo tale da impedire la macinazione, venisse decurtata una parte dell’affitto. Si veda anche,
per un esempio di epoca più tarda, la descrizione dei danni subiti dalla steccaia del mulino di Pari in seguito
alla piena del 1741 (Sito 20): fu divelta per metà ampiezza dal fiume Merse, tanto che fu necessario costruire
una piccola steccaia provvisoria allo sbocco del vicino Farma e prolungare il gorello a captare l’acqua di
quest’ultimo.
129
Unica eccezione la steccaia semicircolare in laterizi e pietra che alimentava il Molinello di
Monticiano (Sito 2 UT 1): deve trattarsi però di una costruzione molto recente, se ancora la Carta Idrografica
del 1893 ci conferma l’esistenza di una “steccaia di pali e fascine”. Per il Sito 21 la Carta Idrografica parla
invece di una “pietraia stabile”, ma pure in questo caso doveva trattarsi di una realizzazione semplice,
probabilmente un accumulo di ciottoli e pietrame a secco, vista anche la scarsa portata del corso d’acqua
alimentatore.
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vere e proprie dighe stabili in materiali non deperibili130. Il fatto non appare casuale, ma
strettamente legato all’esigenza di un apporto idrico particolarmente regolare e costante, fattore
importantissimo soprattutto per l’azionamento continuo dei mantici per periodi piuttosto lunghi,
senza che si verificassero interruzioni dannose per la buona riuscita del processo metallurgico. Si
tratta comunque, in entrambi i casi, di realizzazioni di epoca moderna; nel caso di Ruota, poi, la
diga fu costruita in seguito al progetto di ampliare e modificare l’impianto produttivo, che in
precedenza veniva alimentato da una steccaia del tipo esaminato sopra131.
Lo sbarramento, in epoca medievale, rappresentava un elemento molto importante dal punto
di vista giuridico ed era spesso fonte di aspre controversie; una sua eccessiva altezza poteva, infatti,
causare inondazioni a monte. È quanto avveniva, ad esempio, per la steccaia del mulino di S.
Lorenzo a Merse, di cui, nel 1282, il comune di Siena decretò la distruzione e lo spostamento in
altro luogo, a causa dei danni da essa causati al ponte di Foiano ed ai bagni di Macereto132. In altri
casi, quando si era in presenza di diversi impianti idraulici dislocati in successione lungo lo stesso
corso d’acqua, le dispute potevano riguardare lo scarso apporto idrico che uno sbarramento posto a
130
A Ruota, alla metà del XVII sec. ca., fu edificata una diga larga 3,5 m a sbarramento totale
dell’alveo del Farma, realizzata in conglomerato tipo calcestruzzo; di essa, oltre ai resti ancora ben visibili,
possediamo una serie di piante e disegni. Il sito per la costruzione era stato accuratamente scelto, in base alle
caratteristiche dell’alveo del torrente, già precedentemente al 1627. A Torniella esisteva una diga di pietre e
ciottoli con basamento in muratura affiancata sulle due sponde da muraglioni di contenimento. Nella ferriera
di Gonna (Sito 1 UT 1) lo sbarramento era certamente una steccaia di pali: le tracce di murature irregolari di
sostegno agli argini, in corrispondenza dell’imbocco della gora, rappresentano probabilmente i resti di
strutture di rinforzo laterali.
131
Sulla ferriera di Ruota, v. infra, Cap. III, par. 3.5. L’idea risale al 1631: “si potria ridur l’edifitio con
due fuochi essendone capacissimo il guscio di esso, ma bisognerebbe farci una stechaia di muro”. Per quanto
riguarda la steccaia “vecchia” di Ruota, nel 1571-73 Agnolo Venturi così scrive: “Come entra il mese d’aosto
si avertisca con grande diligentia di fare vedere la steccaia della ferriera se la sta bene o male, e se à bisogno
di acconciare ci si metti mano in fatto fatta S. Maria d’aosto che è a quindici d’aosto e con diligenza si aconci
di tu(tt)o quello fa bisogno di travi, stecaia con passoni dinanzi, perché in questo tempo sono finite le ricolte e
ci è poca acqua e si trova delli omini che possono aiutare, siché si facci questo con grandissima cura; evvi do
questa avertenzia, che quando non vi paresse che vi fusse di bisogno niente, sempre fortificate dinanzi alle
travi con passoni e fascine e pontelli alle travi di dietro e sempre tenere delli auti da travi fatti e tenere sempre
nella ferriera dieci canne di tavole di farnia fatte per monisione perché si adoparano di continuo a ghore e alla
steccaia; e questo si facci con diligentia grande che non manchi perché [...] se qualche volta andata via una
parte di detta stechaia di verno è smesso questo, oltre al danno che ne resulta che la ferriera non lavora, cresce
la spesa” (Venturi, Ruota, p. 29).
132
Sito XI: “stecchatum quod est supra pontem de Foiano pro eo quod multum offendit et possit
offendere Balneum de Macereto”.
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monte poteva causare agli impianti localizzati più a valle133. Liti di questo genere potevano sorgere
non solo riguardo alla steccaia principale, posta sul fiume alimentatore, ma anche a proposito di
quelle opere di intercettazione minori, dette torcitorii, che venivano realizzate lungo una gora che
alimentava diversi opifici e che servivano a convogliare l’acqua verso ogni singolo impianto134. Su
questo tema possiamo riportare, in quanto caso particolarmente esplicativo, la controversia sorta tra
i proprietari del Mulino delle Guazzine e quelli del Mulino Palazzo, posti rispettivamente a monte
ed a valle lungo la stessa gora, a proposito del torcitorium chiamato Stecchatella, che era situato a
metà strada tra i due mulini. Nel 1262 gli arbitri chiamati a dirimere la questione stabilirono che il
detto torcitorio doveva “stare et permanere” all’altezza “que indicet scilicet quod ponatur corda in cruce et in fundo
crucis que est in lapide seu termino lapideo cum calcina murato posito et fixo in terra seu lama [...] prope dictum
torcitorium et pretendatur dicta corda usque ad crucem et in fundo crucis que est in alio lapide seu termino lapideo cum
calcina murato posito et fixo in terra heredum Spinelli Pandolfini”. Le minuziosissime disposizioni
prevedevano inoltre che tale corda fosse tesa in linea perfettamente diritta, con l’aiuto
dell’archipendolo, sopra l’acqua della gora, in modo che essa non superasse mai l’altezza designata
dalle croci; nessuna delle due parti in causa avrebbe potuto innalzare o abbassare il livello
dell’acqua, e se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato lecito all’altra parte ripristinare l’altezza
stabilita135.
L’importanza dello sbarramento, tanto per fare un ultimo esempio, è ribadita in una norma
del Constituto del 1262, con specifico riferimento proprio al Mulino Palazzo (Sito 17): in essa si
prevedeva che fosse punito con una multa “quicumque goram vel stecchatam molendini olim comunis
Senarum, positi in plano de Orgia, ruperit vel fregerit vel in aliquo alio leserit [...] vel aliquid fecerit, propter quod
aqua libere ad molendinum venire non possit”.
Le opere di derivazione erano quelle che consentivano di far arrivare l’acqua dal fiume
alimentatore fino all’edificio vero e proprio e consistevano nella presa, nel canale di alimentazione
e nel bacino di raccolta.
La presa era semplicemente il dispositivo che, posto poco più a monte dello sbarramento,
133
Nel 1289 gli arbitri scelti per dirimere una lite sorta tra il monastero di S. Galgano e quello di S.
Eugenio stabilirono, tra le altre cose, che non si potessero mutare di luogo la gora, il rifiuto, il torcitorio, e che
non si potesse tagliare o abbassare la steccaia in modo che il mulino rimanesse privo dell’acqua del Merse
(per la trascrizione del documento v. Sito 17). Nel 1317, quando il comune di Monticiano vendette a Ghino
Azzoni il sito per costruire la ferriera di Gonna, si specificò che non potevano altri prelevare l’acqua dal di
sopra della steccaia (v. Sito 1 UT 1). Alcune regole tendenti ad impedire una eccessiva concentrazione di
mulini in spazi limitati sono inserite nel Constituto del comune di Siena del 1262 (Zdekauer, 1897, pp. 350­
351): “nullum hedificium nec aliud fieri permittam; et si factum est, illud destrui faciam, propter quod suus vicinus perdat vel
dissipetur suum molendinum vel prius inceptum, ita quod superiora molendina non impediantur molere per inferiora et e contra”. Nel
Constituto del 1310 (Lisini, 1903, pp. 66-67) si prevede che “missere la podestà diSiena sia tenuto et debia [...] fare
terminare, infra IIII mesi de l’entrata del suo regimento [...] tutte e ciascune steccate de le molina del contado et giurisditione di Siena
[...]. Et neuno debia, né possa, fatta la terminagione predetta, essa alzare o vero mutare in alcuna cosa [...]. Etse apparirà essa mutatione
o vero alienatione, tollasi via a postutto et pongasi nel primo stato, nel quale per lipredetti saranno terminate”; inoltre si specifica
che “se alcuna novità fatta fusse in alcuno molino, fatto dipo l’altro, et quella novità impedisse el prima fatto
macinare, quella novità disfare farò”.
134
Il termine torcitorium ricorre spessissimo nella documentazione scritta, quasi sempre in
associazione con termini quali steccaia, gora, fuitum, all’interno di elenchi degli elementi accessori di un
mulino (v. Catalogo, passim). Tuttavia non risultano del tutto chiare la struttura e la funzione di questo
dispositivo: sembra comunque che si trattasse di un’opera atta a captare l’acqua di un canale comune
deviandola (‘ da notare anche la radice del nome, che implica l’azione del torcere, del deviare) verso le
condotte di ciascun edificio; in pratica una presa d’acqua, forse dotata di palificazione e paratoia regolabile. In
epoca moderna, negli opifici idraulici di Colle Val d’Elsa, il “torcitoio” era una specie di argano, disposto
orizzontalmente, che chiudeva o apriva l’accesso dell’acqua dalla gora verso le prese delle ruote, cfr. RoselliForti-Ragoni, 1984, p. 73.
135
V. Sito 17.
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permetteva all’acqua di immettersi nel canale adduttore. In molti casi era costituita soltanto da un
imbocco scavato nel terreno, privo di qualsiasi struttura muraria. Nei documenti, in genere, non
compare una terminologia specifica per designare tale elemento136, a meno di non supporre che
proprio il termine torcitorium stesse talvolta ad indicare anche la presa d’acqua principale vera e
propria137.
Sono stati riscontrati alcuni casi di prese costruite in muratura: la struttura prevede in genere
due tratti di muro paralleli che accompagnano gli argini della gora nella porzione più vicina al
fiume, formando così un imbocco che era spesso dotato di una saracinesca138; ciò permetteva di
regolare l’afflusso dell’acqua nella gora ed eventualmente anche di interromperlo del tutto. Tale
saracinesca era costituita da una imposta in legno che scorreva incastrata entro scanalature verticali
ricavate nel muro stesso; la regolazione avveniva tramite una catena, fissata all’imposta, che si
avvolgeva attorno ad un arganello superiore, posto trasversalmente sopra a due montanti a stipite
litici o lignei139.
Un caso singolare, per la sua struttura articolata ed imponente, è rappresentato dalla presa
della ferriera di Ruota, costruita insieme alla steccaia in muratura alla metà del XVII sec. circa. Si
tratta infatti di un grosso muro (spessore 2,80 m, altezza ca. 3 m) che forma con la diga un angolo
retto ed accompagna la parte iniziale della gora, con andamento parallelo al torrente, per un tratto di
27 m. Circa alla metà della lunghezza del muro si trova una apertura rettangolare, che doveva un
tempo essere dotata di saracinesca, attraverso la quale l’acqua si immetteva nel canale140. Ai nostri
giorni le prese si presentano quasi sempre del tutto interrate141, talvolta distanti diversi metri dall’attuale corso
del fiume, con le saracinesche rimaneggiate in tempi recenti.
Il canale di alimentazione degli opifici, nei documenti consultati, viene quasi esclusivamente
definito gora, sia in epoca medievale che moderna142. Il termine gora, nel significato di canale
artificiale, non compare nel repertorio romano, bensì nel latino medievale e sembra che
136
Solo in un documento del 1290 (Sito X) si specifica “cui desuper est imboccatorium et desubtus est
torcitorium” mentre in un documento settecentesco la si designa col nome di “incile, o abboccatoio” (Sito 20).
137
V. sopra, nota 134; in un caso si parla infatti della “fovea torcitorii sive torcitorium” (Sito XII).
138
La presa della ferriera di Gonna (Sito 1 UT 1) era costituita da due tratti paralleli di muro a sacco
con paramento in pietre parzialmente sbozzate, spessi rispettivamente 70 ed 85 cm, che accompagnavano il
tratto iniziale della gora per almeno 14 m; l’imbocco era largo 90 cm e presentava su entrambi i lati una
scanalatura verticale entro cui scorreva una saracinesca. La presa che alimenta tuttora la gora dei mulini di
Brenna (Siti 5, 15, 16, 17), situata pochi metri a monte della steccaia, presenta due murature parallele in pietra
ed un imbocco sbarrato da un muro in pietra largo 3 m ed alto altrettanti sopra il pelo dell’acqua, nel quale si
apre una bocchetta rettangolare la cui luce viene tuttora regolata tramite una paratoia lignea con meccanismi
in ferro. Conservata in parte è la presa del Mulinaccio (Sito 10 UT 1) ma completamente interrata e
rimaneggiata in epoca moderna con parti in cemento: anche qui troviamo due tratti di muro paralleli che
formano un’imboccatura larga 2 m.
139
V. Siti 5, 15, 16, 17, 10 (UT 1),1 (UT 1). In una raffigurazione del 1580 ca. relativa al Mulino delle
Pile (Sito 9), si vede bene una struttura simile ad una chiusa equipaggiata con saracinesca, dalla quale l’acqua
si riversa nella gora.
140
Vedi Sito 4. Per avere un’idea sulla funzione svolta da murature di tale genere si può citare come
confronto una relazione dell’ingegnere Giovanni Bruno, dell’anno 1580, relativa ai danni causati dalle piene
alla ferriera di Ferriere in Val di Nure (pubblicata in Calegari, 1989, nota 28): “la Travata è andata in ruina et
sarà bisogno che vol fare lavorare il forno reffarla di novo dove che la vol fare perpetua bisognerà farvi un
buon muro della parte dove si cava il canallo che fa andar le rode; l’altra sponda è sicura che l’acqua non vi
puolo”.
141
L’unico esempio di presa e gora ancora in funzione è quello relativo ai Siti 15-17.
142
V. Catalogo, sotto la voce Fonti, passim. Soltanto in pochi casi (Sito VII anno 1216, Sito XIX anno
1220, Sito XX anno 1220, Sito IVa anno 1277, Sito V anno 1277) si usa il termine aque ductus,
evidentemente anche qui ad indicare un canale di derivazione delle acque; tuttavia il termine, tranne che nel
documento più antico, viene sempre citato in unione a quello di gora.
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l’attestazione più antica del termine in Toscana sia contenuta in una carta pistoiese del 726143. La
struttura materiale consisteva in un semplice canale scavato artificialmente nel terreno, la cui
lunghezza poteva variare notevolmente: si va da poche decine di metri144 fino a diversi chilometri 145,
ma naturalmente sono più frequenti le situazioni intermedie. Il percorso poteva costeggiare molto da
vicino il fiume146 oppure allontanarsene notevolmente dopo il tratto iniziale 147: è possibile che ciò
non dipendesse esclusivamente, come si potrebbe pensare in un primo momento, da fattori
morfologici di pendenza del terreno, ma anche da questioni riguardanti le confinazioni delle
proprietà ed i diritti sulle acque148. Particolarmente chiaro, a questo proposito, l’episodio verificatosi
nel 1337 a Monticiano, quando il Capitolo dell’abbazia di S. Galgano, per impedire ai Monticianesi
di costruire un mulino sul Merse, decise di acquistare un appezzamento di terreno, attraverso il
quale si sarebbe dovuta scavare la gora per il nuovo impianto: di conseguenza neppure il mulino
progettato pot’ essere edificato149.
La gora era scavata a sezione rettangolare con fondo piatto ed era delimitata da semplici argini di
terra senza rivestimento; non si sono riscontrati, durante l’indagine sul campo, casi di canali con argini foderati in
muratura o in legno (ma in questo secondo caso il rivestimento potrebbe essere andato perduto). Periodicamente
l’afflusso dell’acqua alla gora, così come agli altri canali, doveva essere interrotto, ed essi dovevano
venire svuotati e ripuliti. Si trattava di una operazione importantissima che viene talvolta descritta
nelle carte medievali: ad esempio in un contratto di vendita del 1288 (Sito 5) si prevede che gli acquirenti abbiano la
possibilità di “evacuandi et evacuari faciendi reaptandi et reactari faciendi dicta molendina vendita et eorum goram
fuitum torcitorium”.
Eccezionale, per il notevole livello di applicazione tecnica che vi si raggiunge, è la struttura
della gora che alimentava i mulini di Brenna ed Orgia (Siti 5, 15, 16, 17), costruita nella prima metà
del XIII sec. dai monaci dell’abbazia di Torri. Si tratta di un canale, lungo complessivamente oltre 6
Km, sostenuto in parte da argini di terra e in parte scavato nella roccia, talvolta con l’apertura di
gallerie artificiali, dotate di sostegni in muratura, attraverso speroni di calcare che ostruivano il
percorso. Il canale di Brenna viene mantenuto in quota, lungo il fianco dell’altura di
Montestigliano, ad un dislivello di oltre 15 m rispetto al fiume sottostante, in modo da ottenere una
pendenza costante e controllata su tutto il percorso a partire dalla presa fino all’ultimo opificio
alimentato.
Un tipo particolare di canale è quello che alimentava il Mulino di Mugnone (Sito 14): non si
tratta, infatti, di una derivazione da un corso d’acqua ma piuttosto di un fosso di drenaggio che
raccoglieva, e ancora raccoglie, le acque di scolo della pianura circostante e quelle che scendono
143
Moretti, 1985, p. 230 e nota 37.
Siti 3, 19.
145
Ad esempio la gora che alimenta il Sito 20, lunga ca. 2 Km, e quella che alimenta i Siti 5, 15, 16, 17
lunga oltre 6 Km.
146
Siti 2 (UT 1), 7, 12, 13, 18, 20, 26.
147
Siti 1 (UT 1), 1( UT 2), 4, 9, 10 (UT 1).
148
Cfr. nota 259.
149
V. Catalogo, Sito IIIb. Sempre su questo tema possiamo citare la clausola contenuta nel contratto
con cui il comune di Siena vendette il mulino del Palazzo nel 1258 (Sito 17): si garantiva ai compratori che
“si contingeret vobis esse necessarias vel utiles aliquas terras vel de aliquibus terris pro bono statu et
acconciamento dictorum molendinorum sive gore sive fuiti vel cursus aque sive fluminis Merse promictimus
vobis compellere omnes homines quorum fuerint terre dicte vendere vobisì. Anche nel Constituto del 1262
sono contenute norme generali riguardanti i terreni entro i quali si poteva derivare una gora: nella Rubrica
CCLVII (Zdekauer, 1897, p. 353) è previsto che “habentes terras et possessiones prope flumen Merse
teneantur et debeant, comuni extimatione, volentibus hedificare vel reactare aliquod molendinum in dicto
flumine seu facere fiutum vel goram sive stecchatam, eas vendere, statuimus et ordinamus quod idem fiat et
observetur in omnibus aliis fluminibus et aquis et aliis locis omnibus, in quibus sunt molendina vel vellent
hedificari”.
144
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dalle alture retrostanti ad Orgia, per evitare l’impaludamento della zona150.
Naturalmente anche la larghezza e la profondità di una gora erano molto variabili, a seconda
della portata del corso d’acqua alimentatore o delle dimensioni dell’impianto151. I canali ancora
visibili attualmente si presentano comunque in buona parte interrati, per cui non è possibile
determinarne l’originaria profondità. Questo è uno dei motivi che spiegano perché talvolta,
osservando i canali adduttori dalla sponda del fiume, essi appaiono inclinati verso il corso d’acqua
anziché in pendenza verso l’opificio che alimentavano; un secondo motivo è rappresentato dal fatto
che, nella situazione originale, la presenza della steccaia innalzava notevolmente il livello del pelo
dell’acqua in corrispondenza del punto di presa: poiché attualmente la struttura di sbarramento non
esiste più, talvolta si verifica questo inganno ottico152.
Talora lungo il percorso della gora sono presenti delle prese laterali secondarie, da cui poteva
essere prelevata acqua per l’irrigazione, oppure per tenere ulteriormente sotto controllo il livello
nella gora e quindi l’afflusso all’opificio153; anche in questo caso la regolazione della luce di
accesso avveniva per mezzo di paratoie lignee. L’acqua proveniente dalla gora, passando talvolta
attraverso tratti sotterranei, o bocchette che potevano essere dotate di griglie, si immetteva di solito
in una grande vasca, chiamata bottaccio154. Si trattava di un bacino di raccolta che aveva la funzione
di immagazzinare l’acqua, per permetterne un ulteriore controllo prima della caduta sulle ruote.
Inoltre, nel caso di modesto apporto del fiume o torrente alimentatore, il bottaccio serviva per
accumulare le acque in determinati periodi dell’anno, quando la portata naturale non era più
sufficiente per creare l’energia idraulica necessaria al funzionamento degli impianti. Nei periodi di
magra o di insufficiente o non continuo afflusso delle acque, queste venivano raccolte fino a
completo riempimento del bottaccio, dopodiché esso veniva svuotato del tutto permettendo la
macinazione per alcune ore. La vasca poteva essere semplicemente scavata nel terreno, e quindi
delimitata solo da argini di terra, o più spesso essere circondata almeno in parte da muri; era
comunque sempre situata ad un certo dislivello rispetto all’edificio, per permettere la caduta
dell’acqua sulle ruote. Le dimensioni dei bottacci variavano a seconda dei casi, così come la
profondità, che è però impossibile determinare con esattezza poiché si presentano attualmente quasi
sempre interrati.
Non sempre, però, una vera e propria vasca era presente: infatti, soprattutto negli impianti
150
Questa è la situazione attuale, ma è improbabile che risalga al periodo medievale: infatti gli
interventi di bonifica e costruzione di canali di drenaggio nel Padule di Orgia, effettuati nel XIII-XIV secolo,
riguardavano esclusivamente la zona prospiciente Rosia, Torri, Stigliano ed Orgia, mentre questa zona più
meridionale rimase allo stato paludoso fino a tempi recenti. è molto probabile, quindi, che nel XIII sec. questo
mulino fosse circondato dall’acqua stagnante e dal fiume e collocato su una sorta di insula. A proposito delle
zone oggetto della bonifica medievale cfr. le rubriche del Constituto del Comune di Siena del 1262
(Zdekauer, 1897, pp. 361-362); inoltre v. Banchi, 1871b e Bizzarri, 1937.
151
Sito 1 UT 1: argini di terra alti allo stato attuale 1,70 m, con larghezza media di 1,60 m. Sito 10 UT
1: canale che scorre su un letto pensile con argini di terra sopraelevati in alcuni tratti di circa 2 m rispetto al
livello del terreno circostante, largo 1 m, profondo allo stato attuale 80 cm ma in gran parte interrato. Sito 23:
canale largo alla base 2 m, con argini di terra alti 1,20 m ma in gran parte interrato. Sito 26: canale largo circa
2 m, in parte interrato, ma del quale sono ben conservati gli alti argini laterali (talvolta oltre 2 m).
152
Un fenomeno del genere si riscontra anche per le gualchiere trecentesche di Quintole sull’Arno, cfr.
Salvini, 1986, p. 573.
153
Siti 1 (UT 1), 5, 10 (UT 1), 23 (UT 1), 26; in un disegno seicentesco relativo al sito 9, si nota la
presenza di due punti di scolmo, di cui uno in muratura.
154
Questo elemento accessorio del mulino non sempre viene ricordato nei documenti di epoca sia
medievale che moderna: nel 1351 si nomina un “bottaccio” (Sito IIIb), nel 1390 un “bottacium” (Sito 4); nel
1402 un “bottaccio” (Sito II); nel 1571 un “bottaccio” (Sito 4); nel 1582 un “bottaccio” (Sito 1 UT 1); nel
1622 ancora un “bottaccio” (Sito 2 UT 1). Soltanto in un caso, in un documento settecentesco, il bacino viene
definito “colta” (Sito 20).
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dislocati in pianura, la gora, giunta in prossimità del mulino, che di solito sottopassava, subiva
semplicemente un allargamento della sezione formando un bacino di forma triangolare allungata155.
In questo caso l’acqua, chiusa frontalmente a valle dal muro stesso dell’edificio rivolto verso la
gora, si innalzava di livello rispetto al piano di campagna e si immetteva dentro le condotte che la
conducevano alle ruote156. Potrebbe essere proprio questa mancanza di una vera e propria vasca di
raccolta delle acque, il motivo per cui nei documenti medievali il bottaccio viene raramente
nominato e, quando lo ‘, questo avviene solamente in connessione con impianti non dislocati in
pianura.
Un altro elemento ricorrente, tra le strutture accessorie di un opificio idraulico, era la
presenza di un canale derivatore, che permetteva il deflusso delle acque in eccedenza dal bacino di
raccolta: esso viene denominato nei documenti traboccatorium e nella terminologia locale attuale
“trabocco”157. Tale elemento appare particolarmente importante nel caso di più impianti dislocati
lungo la stessa gora. Infine, per completare il quadro delle strutture accessorie di un impianto
idraulico, una grande importanza rivestiva il canale di rifiuto. La sua funzione era quella di far
scorrere via l’acqua, dopo che questa aveva azionato la ruota, e reimmetterla velocemente nel fiume
senza impedire alla ruota stessa di girare. Ad esempio, nel Sito 17, i quattro archi acuti originali da
cui l’acqua, dopo essere passata al di sotto dell’edificio, defluiva nel canale di rifiuto, sono stati
tagliati e rialzati; probabilmente questa modifica si rese necessaria, per assicurare un regolare
deflusso, in una fase in cui il rialzamento del fondo della gora aveva causato un aumento eccessivo
del livello dell’acqua nella camera dei ritrecini. Nella documentazione medievale la presenza di
questo canale viene citata spesso: il termine usato è fuitum/fiutum158. Si trattava in genere di un
semplice canale aperto, simile per aspetto alla gora di alimentazione, ma di solito piuttosto corto.
Nel caso di diversi opifici posti lungo la stessa gora, ovviamente non esisteva un vero e proprio
rifiuto, ma l’acqua che fuoriusciva in basso sul fronte dell’edificio defluiva di nuovo nel canale
principale proseguendo il suo percorso verso l’impianto successivo159.
2.2. I L MUL INO DA MAC INA
Tentare di ricostruire nei dettagli l’aspetto esteriore, la struttura interna, il funzionamento ed i
meccanismi dei mulini esistenti nel Medioevo in questa zona, nonché l’eventuale evoluzione del
sistema tecnico attraverso i secoli, non è impresa facile. I documenti scritti sono avari di descrizioni
particolareggiate, alludendo al molendinum come a cosa ben nota a chi legge, e per l’età comunale
in genere capita di rado di imbattersi in testi che diano un’idea non vaga della consistenza di un
impianto idraulico160. La scarsità di descrizioni riguardanti la struttura o il meccanismo dei mulini e
155
È questa una caratteristica generale, ad esempio, dei mulini di pianura nel pratese, cfr. Moretti,
1985, p. 246.
156
È quanto avviene nei Siti 15, 16, 17, nei quali le strutture medievali, ancora molto ben conservate,
permettono di cogliere perfettamente il funzionamento di tali impianti in antico. Caratteristiche simili
dovevano avere, sulla base di quanto si coglie dalla mappa del Catasto Toscano, anche il Sito 10 (UT 1) ed il
Sito 14; anche nella raffigurazione settecentesca del Sito 20 il bottaccio manca e la gora sottopassa l’edificio.
157
Sito 5 anno 1288 “traboccatorium vel traboccatoria”, e testimonianze orali relative al Sito 15. Per un confronto si veda
Moretti, 1985, p. 247. Un canale di questo tipo, anch’esso regolabile con una paratoia, è presente nei Siti 15, 16, 10 (UT 1) ed è
raffigurato nel disegno settecentesco del Sito 9 con la didascalia “cataratta”. Nel Sito 2 UT 1 si riscontra la presenza di una canaletta
sotterranea, scavata nella roccia, che devia le acque dal bottaccio nel canale di rifiuto.
158
Catalogo, passim.
159
V. Siti 15, 16, 17.
160
Tanto più che per il territorio senese mancano fonti come l’elenco dei mulini redatto per Pistoia alla
metà del ‘300 (Muendel, 1972; Muendel, 1974), o quello della metà del ‘200 relativo ai mulini di Reggio
Emilia (Dussaix, 1979).
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l’assenza di dettagli tecnici è comunque caratteristica generale della documentazione scritta
precedente al XV secolo161. In effetti, come abbiamo già accennato, la documentazione disponibile
sugli impianti idraulici è costituita per buona parte da atti che hanno per oggetto liti e controversie
riguardanti le opere di derivazione ed intercettazione delle acque - vero nodo cruciale in cui si
incontrano diritti signorili, consuetudinari o di proprietà ñ, mentre più raramente riguardano
l’impianto molitorio in sé. Tuttavia è certamente possibile integrare le scarse informazioni reperibili
nei documenti scritti con l’osservazione e l’analisi delle strutture ancora conservate sul territorio, sia
medievali che moderne, e con i dati provenienti dallo studio di svariate fonti che si estendono
cronologicamente dai secoli medievali all’Ottocento, fino a tracciare un quadro sufficientemente
esauriente162.
Uno dei principali interrogativi cui questa indagine si prefiggeva di dare una risposta, sia pure
parziale, riguardava innanzitutto il tipo di ruota idraulica maggiormente diffuso negli impianti
molitori del bacino Farma-Merse: si trattava, cioè, di mulini a ruota orizzontale oppure a ruota
verticale?163 I documenti medievali consultati non sono al riguardo molto eloquenti; di rado, infatti,
nell’elenco delle parti che costituivano il mulino, si nominano le ruote idrauliche: nella nostra
documentazione questo avviene 6 volte e si tratta sempre di ritrecini164. La ruota orizzontale viene
inoltre citata altre due volte in documenti di epoca moderna165. Dalle fonti scritte non vengono altre
indicazioni, ma la ricerca sul campo, con l’osservazione delle strutture superstiti relative a mulini di
XIII-XIV sec., e talvolta il ricorso alle fonti orali nel caso di mulini che hanno funzionato fino al
nostro secolo, ha comunque permesso di determinare quale tipo di ruota era collocato in altri 17
impianti: anche per tutti questi casi la tipologia impiegata era quella orizzontale166. Poiché gli
impianti molitori individuati sono in totale 37, questo significa una percentuale certa di oltre il 65%
di ruote di questo tipo. Si deve poi sottolineare il fatto che le descrizioni dei rimanenti mulini non
contengono alcun elemento che possa indicare l’impiego di un tipo differente di ruota idraulica; non
sembra quindi scorretto ipotizzare che probabilmente anche gli altri impianti individuati nella zona
utilizzassero il ritrecine e quindi concludere che la larga maggioranza dei mulini da grano del
bacino Farma-Merse fossero a ruota orizzontale, sia nel Medioevo che nei secoli successivi. Tale
conclusione conferma quindi un modello già documentato per altre parti della Toscana e dello
stesso territorio senese167.
Ciò non significa che la ruota verticale fosse sconosciuta in questo ambito territoriale. Tale
161
Cfr. Chiappa Mauri, 1984, pp. 14-16 e 152.
È forse opportuno, infatti, richiamare qui una osservazione di metodo: il semplice impianto
molitorio idraulico per il grano sembra raggiungere l’optimum tecnologico nel XII sec., mentre nei secoli
successivi furono effettuate solo varianti minime; fino all’introduzione del motore elettrico, quindi, non c’è
molto da distinguere tra i metodi di costruzione ed installazione delle ruote idrauliche nel XIII o nel XVIII
secolo, e pare dunque sostanzialmente corretto utilizzare fonti ed informazioni concernenti anche i secoli
post-medievali.
163
Per la trattazione delle origini e delle principali caratteristiche delle varie tipologie di ruote
idrauliche, si rimanda al par. 1.1.
164
Sito 5, a. 1288: reticinorum. Sito IVa, a. 1277, retecinis. Sito V, a. 1277, retecinis. Sito X, a. 1290
reticinorum. Sito 17, a. 1290, reticinorum. Sito XI, a. 1329, tribus retecenis. Il termine “ritrecine”, che ha
raggiunto un significato ormai stabilizzato di “ruota da mulino posta orizzontalmente”, risulta comunemente
usato nel Medioevo, cfr. Cherubini, 1974, p. 221. In Muendel, 1974, pp. 208-209, si tenta una analisi
etimologica del termine e delle sue varianti, fino alla conclusione che la parola si formò probabilmente nel
latino medievale e non classico. V. inoltre Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 108, con bibliografia.
165
Sito 20, a. 1741: “ritrecini”. Sito 2 UT 1, a. 1693: “retrecini”.
166
Siti 1 (UT 2), 3, 10 (UT 1), 13, 14,15, 16,18, 21,23, 24; con tutta probabilità anche nei Siti 12 e 26; si
comprendono nel gruppo ancheil Sito XII (2 mulini), ed il Sito XVI,in quanto situati con certezza sulla stessa gora, che
scorre sempre in pianura, alimentante i Siti 15-17.
167
V. supra, par. 1.1.
162
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tipologia, infatti, come vedremo in seguito, era impiegata negli impianti siderurgici e sembra inoltre
attestata dalla presenza di gualchiere associate talvolta ai mulini da grano. Ciò che sembra essere
sconosciuto - o meglio forse non applicato perché probabilmente ritenuto poco funzionale e troppo
costoso rispetto al ritrecine - è il complicato meccanismo lubecchio-lanterna per la trasmissione del
moto da una ruota verticale al piano orizzontale di macinazione168.
Per quanto riguarda la struttura architettonica di un mulino medievale, ovviamente la
planimetria e le dimensioni potevano variare notevolmente, a seconda dell’importanza
dell’impianto e del numero di macine che ospitava169. Tuttavia l’edificio doveva essere articolato
sempre in almeno due livelli: un piano terra, in genere costituito da un unico locale destinato alla
lavorazione, nel quale si trovavano le macine, ed un piano inferiore, cioè un vano seminterrato
occupato interamente dall’alloggiamento delle ruote e dei meccanismi. Questo vano rappresenta un
elemento caratteristico delle strutture in cui era adottato il meccanismo di macinazione a pale
orizzontali anziché verticali. Si tratta di un ambiente stretto e lungo, simile ad una galleria,
sottostante al locale dove erano alloggiate le macine; solitamente era voltato a botte e largo quanto
bastava per consentire la rotazione170. Il nome che gli viene attribuito generalmente, sia nella
letteratura tecnica che nel linguaggio popolare, è “carceraio”171.
Quasi sempre, però, il mulino doveva prevedere anche un piano superiore, destinato ad
abitazione per il mugnaio. A questo proposito è interessante vedere come nei documenti medievali
si specifichi spesso che il molendinum è cum domo, evidentemente alludendo ad una distinzione fra
i locali destinati alle operazioni di macinazione e all’alloggio dell’apparato tecnico - ovvero il
‘mulino’ vero e proprio - e la soprastante, o talvolta forse adiacente, abitazione172. I termini
edificium e casamentum sembrano invece riferirsi ad ambienti e corpi secondari di servizio,
probabilmente destinati a stalla, magazzino per il grano e la farina, deposito di attrezzi.
Le descrizioni dei documenti, per quanto riguarda la struttura architettonica dell’edificio, non
vanno molto al di là di quanto detto finora; solo in un caso si specifica che i mulini da costruirsi
dovevano essere “duas domos eque bonas de muro et calce et altitudine et amplitudine ut sunt
domus dicte abbatie que sunt ibi supra in dicto flumine [...] bene actata et preparata cum stecchatis,
168
Cfr. ivi.
Si va da impianti molto piccoli, come i Siti 3, 12 (secondo la raffigurazione del Catasto Toscano),
18, 19, 24, a impianti di medie dimensioni, come i Siti 2 UT 1, 1 UT 2, 23, fino ad edifici di proporzioni
notevoli come i Siti 9, 10 UT 1(oggi distrutto, dalla raffigurazione del Catasto Toscano sembrerebbe essere
stato uno dei più grandi mulini di tutta la zona), 14, 15, 16, 17, 20.
170
Esempi ben conservati di questi ambienti seminterrati, di epoca moderna, talvolta ancora praticabili,
sono presenti per i Siti 1 UT 2 (un unico carceraio per due ritrecini affiancati), 2 (UT 1) (un unico carceraio
per due ritrecini affiancati), 18 (due carcerai affiancati), 24 (due carcerai affiancati). Nelle raffigurazioni
riguardanti i Siti 9 e 20, sono chiaramente rappresentati, nella parte bassa dell’edificio, tre archi di uscita
dell’acqua dai carcerai.
171
Pierotti, 1993, pp. 85-86. Nei documenti consultati, tuttavia, questo termine ricorre una sola volta,
nel 1741, per il Sito 20: si tratta forse di una denominazione di origine tarda?
172
Sito 5, a.1288: “molendini sive molendinorum [...] et domorum ipsorum molendinorum”. Sito 7, a.
1304: “unum molendinum aque cum unam casettam”. Sito 10 UT 1, a. 1223: “molendinorum [...] et edificii et
suppelletilium que sunt in domibus dictorum molendinorum”. Sito 15, a. 1245: “duas domos [...] cum
stecchatis, goris, fuitis et molis et feramentis et omnibus apparatibus suisì; a. 1258: “duarum domorum et
molendinorum [...] cum hedificiisì. Sito 17, a. 1258: “molendinum [...] cum domo palatio seu domibus [...]
edificiisì. Sito XII, a. 1256: “molendini [...] et domorum ipsius [...] et unius domus posite subtus dictum
molendinum et domos eiusdem”. Sito 26, a. 1318-1320: “terre laboratorie [...] cum palatio, domo cum
molendino”. Sito IVa, a. 1277: “molendini [...] cum domo”. Sito VII, a. 1210: “molendina [...] cum casisì; a.
1223: “cum [...] hedificiis et curte”. Sito VIII, a. 1338: “molendini [...] domorum et casamentorum”. Sito XI,
a. 1271: “molendini [...] et eius casamenti et domorum”.
169
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goris, fuitis et molis et feramentis”173. Sempre nel medesimo documento si prevedeva la futura
edificazione di “unum hedificium in quo possint quattuor molendina”, dove con molendinum ci si
riferiva evidentemente al singolo palmento. Succede talvolta, infatti, che si parli di molendina anche
riguardo ad impianti che sembrerebbero essere singoli; di conseguenza l’uso del plurale va
probabilmente inteso non come riferimento a più edifici diversi, ma a diverse macine funzionanti
all’interno di uno stesso edificio174.
Il testo citato poco sopra fa riferimento ai mulini costruiti alla metà del XIII sec. dall’abbazia
di Torri, in comproprietà col comune di Siena, nei pressi di Brenna. Si tratta di edifici ancora ben
conservati e particolarmente notevoli sia per dimensioni che per struttura architettonica. Il Mulino
del Pero (Sito 15) si presenta come un’alta torre quadrangolare in filaretto con parte inferiore a
scarpa, piccole finestre ad arco tondo, porta d’ingresso ad arco tondo all’altezza del primo piano,
alla sommità mensole in pietra aggettanti e completa merlatura con feritoie in molti merli. Il Mulino
di Serravalle (Sito16), anche se estremamente rimaneggiato, presenta una struttura molto simile al
precedente, a torrione quadrangolare in pietra, con mensole aggettanti alla sommità. L’aspetto
massiccio e lo sviluppo verticale di entrambi gli edifici risalgono forse alla fase di fortificazione che
essi subirono nel corso del XIV secolo. Una tipologia a torre quadrangolare con murature in pietra e
sviluppo prevalentemente verticale si riscontra anche nel vicino Molinello di Torri (Sito 21), che
pure è un edificio più piccolo dei precedenti, e nel Mulino delle Pile (Sito 9) con un grande corpo
rettangolare allungato sormontato da una torre quadrata. Particolarmente massiccia, a giudicare dai
resti delle murature, doveva essere anche la struttura del Sito 5. Il tipo del mulino fortificato, che è
stato felicemente definito come una “sintesi” che riassume i caratteri di edificio destinato alla
produzione, e quindi “industriale”, con quelli di un edificio “militare”175 si riscontra anche in aree limitrofe a
quella qui presa in esame: ad esempio nel territorio di Massa, e in quello di Roccastrada176.
La struttura più imponente, fra quelle censite, è comunque il vicino Mulino Palazzo (Sito 17),
costruito dal comune di Siena alla metà del XIII secolo. Si tratta di un grande edificio a tre piani in
filaretto, a pianta rettangolare, con alcune aperture originali, fra cui la porta d’ingresso sormontata
da un’iscrizione in volgare che ne ricorda la costruzione, piccole finestrine con architrave
monolitico sagomato ad arco, finestre ad arco tondo, mensole in pietra aggettanti alla sommità. Il
piano seminterrato presenta tre aperture ad arco acuto per la fuoriuscita dell’acqua; il piano terra è
interamente occupato da un vasto ambiente voltato a botte, dove un tempo erano collocate le
macine. è evidente che un edificio di tali dimensioni, direi eccezionali, si discostava dalla struttura,
generalmente più modesta, di un mulino-tipo. Possiamo farci un’idea più precisa a questo riguardo
tramite un esempio particolarmente significativo e perfettamente conservato di impianto di XIII
secolo: il mulino situato sul Farma nei pressi di Torniella (Sito 23 UT 2). Si tratta di un edificio
rettangolare, con un piano seminterrato in cui erano alloggiati i ritrecini, un piano terra diviso in due
ambienti (di cui il più grande destinato alla macinazione), un piano superiore. In facciata si trovano
alcune aperture originali, tra cui la porta d’ingresso ad arco e due finestre rettangolari con architrave
monolitico. Sul lato posteriore una porta a livello del primo piano dava accesso al bottaccio; il tetto
è a due falde coperto da coppi ed embrici. Proprio in questo mulino si riscontra una tecnica muraria
173
Sito 15, a. 1245.
174 Sito 5, a. 1288: “totius molendini sive molendinorum”; Sito 10 UT 1, a. 1223: “molendinorum
positorum in Mersa in loco qui dicitur Molendinum vetusì; Sito XI, a. 1329, “molendina, domos
molendinorum [...] cum tribus molendinis macinantibus [...] tribus retecinisì; Sito VII; Sito VIII.
175
Balestracci, 1981, p. 137.
176
Cfr. il mulino di Botricoli, edificio fortificato a torre a pianta quadrilatera (Cucini, 1985, pp. 250­
251) ed il Molino di Molinpresso, opificio fortificato di aspetto massiccio, a pianta rettangolare, a due piani
con base a scarpa (ivi, pp. 260-261). Inoltre il mulino di Giugnano, edificio fortificato con corpo centrale a
torre quadrata (Farinelli, 1992, p. 47).
174
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tra le più raffinate di quelle censite, in filaretto con corsi regolari di grandi bozze squadrate177. In un
altro gruppo di edifici, databili al XIII-XIV sec., si riscontra la presenza di murature in pietre non
squadrate, disposte su corsi regolari o subregolari, con grandi pietre angolari perfettamente
squadrate, uso di laterizi come zeppe e talvolta per delimitare porte e finestre178. In epoca moderna,
invece, si riscontrano in genere murature piuttosto irregolari di ciottoli e pietre non sbozzate, con
largo uso del laterizio. Come materiali da costruzione si utilizzavano essenzialmente le materie
prime locali; da alcune indicazioni dei documenti si ricava che molto legname doveva essere
impiegato sia per la costruzione degli edifici veri e propri, che per i meccanismi, che per la
manutenzione delle infrastrutture179.
In genere al mulino era unito un pezzo di terreno, talvolta coltivato a orto, oppure seminativo;
in alcuni casi nella proprietà dell’impianto compaiono anche porzioni di bosco180.
Per quanto concerne il funzionamento dell’apparato macinante interno al mulino, purtroppo
pochi sono i dati a nostra disposizione: scarse le notazioni tecniche contenute nei documenti, ma
soprattutto del tutto perduti, perché distrutti o asportati, i meccanismi in legno e in ferro che un
tempo erano alloggiati dentro gli edifici181. Se quindi non era pensabile effettuare misurazioni e
calcoli sulla potenzialità delle varie componenti o un’analisi dei materiali costruttivi impiegati, è
tuttavia possibile esaminare il meccanismo di macinazione scomponendolo nei suoi elementi
costitutivi principali182.
L’asse verticale del mulino era costituito da un grosso palo, chiamato appunto palus, che
poteva essere di ferro o di legno183. L’estremità superiore di questo palo passava attraverso un foro
aperto nella volta del carceraio, poi attraverso l’occhio della macina184 inferiore, ed era fissata alla
177
Questo tipo di tecnica, tipica del XII-XIII secolo, si riscontra anche nel Sito 5, nel Sito 17, nei resti
di murature inglobate nel Sito 2 (UT 1).
178
Siti 15, 17, 21, 26.
179
Sito 10 UT 1, a. 1223: l’abate di S. Galgano promette che farà trasportare con buoi e bufali del
monastero la legna grossa necessaria al mulino. Sito 15, a. 1244: il monastero di Torri concede tutta la legna e
le pietre necessarie per la costruzione di mulini a Cetinaia Longa. Sito 7, a. 1261: “cum toto legnamine quod
fuerit necesse de inceps ad dictum molendinum”. Sito 10, a. 1290: anche se vengono messi in comproprietà
con il mulino Palazzo alcuni appezzamenti di terreno, l’abate di S. Eugenio si riserva per 12 anni l’uso del
legname che vi si trovava.
180
Sito VII, a. 1210: “cum terrisì. Sito 7, a. 1243: “in quodam molendino [...] et in resedio eiusì; a.
1259: “et eius resedio rapediarterio(?)”; a. 1261: “unius molendini et resedii [...] cum rispareco et terra”; a.
1304: “unum molendinum aque cum [...] uno sive jardino”. Sito 15, a. 1258: “plateis, terris cultis et incultisì.
Sito 17, a. 1258: “plateis terris cultis et incultisì. Sito IVa, a. 1277: “cum terris et nemoribus atque lamisì. Sito
IIIb, a. 1281: “et terrarum et lamarum et nemorum ad dicta molendina pertinentium”; a. 1351: “cum quadam
petia terre [...] boschis terris et pratis ad dictum molendinum pertinentibusì. Sito X, a. 1290: “unius petie terre
et lame [...] unius petie terre vinee et lame”, inoltre alcuni orti e tre parti del bosco di Filetta. Sito VIII, a.
1338: “petie terre super qua est dictum molendinum et lame et prati et orti positorum iuxta et prope dictum
molendinum”.
181
In alcuni casi, dove per la cessazione dell’attività in epoca molto recente è possibile che si siano
conservati alcuni meccanismi, l’accesso ai locali seminterrati non è stato possibile per problemi di proprietà
privata o inaccessibilità dovuta al timore di crolli.
182
Per tale ricostruzione si è tenuto presente il modello proposta in Muendel, 1974, pp. 175 e sgg., per i
mulini pistoiesi di XIII-XIV sec.; cfr. anche Pierotti, 1993, pp. 75-97.
183
Sito XI, a. 1329: “tribus palis de ferro”; Sito VIII, a. 1338: “palorum”. In un solo caso gli alberi
motori si sono conservati in situ: nel Sito 20 rimane un albero in legno, privo del mozzo e delle pale del
ritrecine, in ciascuno dei due carcerai.
184
Le macinae, molte volte dette anche molae, ricorrono spessissimo nelle descrizioni dei mulini
medievali: vedi Catalogo, sotto la voce Fonti, passim.
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macina superiore mediante una barra trasversale, detta nottola o noctola185. Ciò permetteva alla
macina superiore, mobile, di ruotare liberamente sopra la macina inferiore, che rimaneva fissa. Fra
le due macine c’era una grande differenza di spessore: mentre la superiore si aggirava intorno ai 10
cm, l’inferiore poteva raggiungere anche il mezzo metro186. La pietra da cui erano ricavate doveva,
ovviamente, essere durissima ed era quindi importante che cave adatte all’approvvigionamento di
nuove mole non fossero troppo lontane. Per la zona di Brenna sappiamo dal Constituto del 1262 che
cave esistevano sul poggio di Montestigliano (detto podium mole): a questo proposito si stabiliva di
dislocare dei custodi nei boschi in corte di Mallecchi, Ripinata, Montestigliano e Cerbaione “ne
incidantur nemora infrascripta, propter conservationem et retentionem molendinorum comunis
Senarum et monasterii de Turri [...] et debeant dicti forestarii custodire quod mole non fiant in dictis
nemoribus, nisi ad opus molendinorum comunis Senarum et monasterii dicti”187. Interessante è
anche vedere come, fra i beni di pertinenza del Mulino del Pero, nella vendita del 1258, siano citate
anche delle cave di pietra188.
Dei grandi cerchi in ferro, detti circuli189, circondavano ciascuna macina per proteggerla dalla
rottura; inoltre, se le macine si fossero fessurate, queste bande avrebbero impedito loro di cadere in
pezzi. Appesa al di sopra delle macine, si trovava la tremogia190, contenitore in legno sagomato ad
imbuto che portava il grano da macinare ed alimentava dall’alto l’apertura della macina rotante.
Generalmente un contenitore in legno di forma circolare, detto palmentus191, circondava la coppia di
macine in modo tale che la fuoriuscita della farina poteva avvenire soltanto da un’apposita apertura
praticata nel palmento stesso192...
All’estremità inferiore dell’albero motore si trovava il meccanismo cruciale per il
movimento, il già più volte citato ritrecine. Quest’ultimo era assicurato saldamente al palus, e
poteva muoversi appoggiandosi al puntaruolus193, una sporgenza di ferro sagomata a punta con la
quale in basso terminava l’albero. Il puntaruolo girava su un perno di ferro, la ralla194, a sua volta
inserito in un ceppo fissato al pavimento del carceraio.
L’acqua, dal bacino di raccolta, entrando in una apertura, detta doccia o duccia195,
probabilmente dotata di paratoia, arrivava alla ruota acquistando velocità e pressione tramite la
caduta attraverso una condotta forzata, di lunghezza variabile, inclinata e strombata196. La parte
finale di questo canale, nel punto in cui sfociava sulla parete di fondo del carceraio, presentava una
bocca di legno sporgente197.
Ogni mulino richiedeva, per garantire una buona efficienza, un continuo lavoro di
185
Sito XI, a. 1329: “tribus nottolis ferreis [...] et una nottola de ferro”; Sito VIII, a. 1338:
“noctularum”.
186
Alcune macine rimangono nei Siti 1 UT 2, 15, 17, 18, 21, 23.
187
Zdekauer, 1897, p. 316. Si veda anche Catalogo, Sito 15.
188
Catalogo, Sito 15: il termine usato è “lapidicinii”.
189
Sito XI, a. 1329: “quinque circulis ferreis macinarum”.
190
Sito XI, a. 1329: “tribus tremogiisì. Sito VIII, a. 1338: “tremogiarum”.
191
Sito 5, a. 1288: “palmentorum”. Sito 15, a. 1258: “palmentisì. Sito 17, a. 1258: “palmentisì. Sito
IVa-Sito V, a. 1277: “palmentisì. Sito X, a. 1290: “quinque palmenta”. Sito VIII, a. 1338: “palmentorum”.
Sito XIII, a. 1318-20: “cum duobus palmentisì. Sito 15, a. 1391: “duo palmenta”.
192
È importantenotare che un mulino che possedeva più di una coppia dimacine veniva solitamente designato, nella
sua capacità produttiva, indicando il numero dei palmenti.
193
Sito 2 UT 1, a. 1622: “pontaroli”.
194
Sito XI, a. 1329: “tribus rallis de ferro”. Sito 2 UT 1, a. 1622: “ralle” .
195
Sito 15, a. 1258: “ducciis”. Sito 17, a. 1258: “ducciis”. Probabilmente a questo componente si
riferisce anche la parola “gittusì usata in due documenti del 1305 (Sito XI).
196
Alcuni esempi sono ancora ben visibili, per la descrizione v. Catalogo, Sito 2 (UT 1), Sito 23, Sito
24.
197
Visibile nel Siti 1 (UT 1) e 18.
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manutenzione: innanzitutto le macine, che venivano sostituite dopo un certo numero di anni d’uso,
dovevano essere continuamente scalpellate, in quanto con l’attrito tendevano a diventare lisce. In
particolare la macina inferiore doveva essere incisa con solchi obliqui a raggiera, che permettevano
una maggiore resa e facilitavano la fuoriuscita della farina. A tal fine doveva esistere anche nei
nostri mulini un congegno che permetteva il sollevamento della macina superiore, cioè una sorta di
argano dotato all’estremità di un aggancio in ferro: in un documento del 1329 esso viene descritto
come “uno palo ferreo pro molendino levando”(Sito XI).
Una certa idea possiamo farci a proposito del corredo di attrezzi mobili necessari per il
funzionamento di un mulino medievale: nei documenti vengono citati spesso i ferramenta198,
probabilmente quell’insieme di martelli, martelline e scalpelli necessari alla manutenzione delle
macine; ma forse il termine era usato anche con riferimento a tutte le parti in ferro presenti nei
meccanismi. Quasi sempre, poi, nei contratti ricorre la formula generica cum omnibus massaritiis,
con riferimento in generale a tutto l’insieme di beni mobili interni al mulino. Con estrema
precisione, ancora nel succitato contratto del 1329, entro il corredo di attrezzi del mulino si
elencano “una caldaria raminis cum sua canna raminis pro dictis gualcheriis, cum quinque circulis
ferreis macinarum, cum uno boççolo cum sua catena ferrea, tribus tendis, uno stario ferreo cum
duobus martellis pro macinis, cum uno picchone cum duabus punctis, uno scarpello ferreo, una
maççuola de ferro, una ascia ferrea, uno palo grosso ferreo pro molendino levando [...], una lucerna,
uno pennato ferreo, uno succhiello fracto, una tina et cum duabus vegetibus fractis seu sfondatis,
cum uno bigonçello et uno crivello et cum una scala”. In un altro contratto di vendita del 1338
relativo al Sito VIII, si specifica che l’attrezzatura consisteva in “molarum seu macinarum
palmentorum bocolorum palorum tremogiarum noctularum bigonzorum et ceterorum
instrumentorum et arnesium et massaritiarum tam de ferro quam ligno”. A distanza di qualche
secolo l’attrezzatura-tipo del mulino si ripresenta con diverse somiglianze, se nel 1693 si nominano
“una mazza di ferro, un palo di ferro, una martellina, uno scarpello tutto ferro, un’ascia, una statera
grossa, una pala di ferro, una zappa, un Bozzolo di rame, un cassone, un bigonzo et una lucerna”199.
Non è facile fornire dati certi, vista la vaghezza delle fonti, sul numero di macine con le quali
lavoravano i mulini del bacino Farma-Merse nel Medioevo. Talvolta, infatti, è problematica la
valutazione del termine molendinum menzionato dai documenti, perché con questa definizione
generica si designa qualsiasi meccanismo mosso da forza idraulica, sia esso un semplice mulino
rurale, di piccole dimensioni, sia un complesso ragguardevole contenente molte coppie di macine.
Tuttavia è certo che il modello a più di un palmento era assai comune sia nei secoli medievali che
successivamente. Più di una coppia di macine (non sappiamo quante) possedevano i Siti 5, 16, 13,
IVa, V, VIII; due coppie i Siti 1 (UT 2), 2 (UT 1), 18, 23, 24, XIII; tre coppie i Siti 9, 10 UT 1, 15,
17200, 20, XI; ben cinque coppie il Sito X. Del resto, vista la stasi tecnologica che caratterizza i
meccanismi di macinazione sia per il Medioevo che per i secoli dell’Età Moderna, la risposta
tecnica che si era in grado di offrire alla richiesta di cereali da parte di una popolazione in aumento,
sembra essere stata quella di moltiplicare sia il numero degli impianti sia, cosa più conveniente dal
punto di vista dello spreco di risorse, moltiplicare il numero delle ruote entro uno stesso impianto.
La maggiore potenzialità di un mulino, comunque, non derivava automaticamente dal numero
di ruote installate, ma dal maggior numero di ruote attivabili contemporaneamente e dalla maggior
durata del loro periodo di attività. Infatti un impianto con un minor numero di ruote poteva
raggiungere una maggiore potenzialità produttiva rispetto ad un mulino con un maggior numero di
ruote, se era in grado di azionare tutte le coppie di macine contemporaneamente, quando invece
198
Siti 10 (UT 1), a. 1223; 15, a. 1258; 17, a. 1258; IIIb, a. 1280; IVa, a. 1276; V, a. 1276, ecc.
Sito 2 (UT 1). Si veda anche la perfetta corrispondenza con i documenti pubblicati in Balestracci,
1981, p. 133.
200
In questo caso i palmenti erano forse quattro, visto il numero degli archi d’uscita per l’acqua.
199
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nell’altro avesse potuto funzionare una sola ruota per volta e non per tutto l’arco dell’anno201.
La possibilità di azionare più macine era data principalmente dalla portata d’acqua
disponibile. A questo riguardo possediamo alcuni dati, relativi agli impianti della nostra zona
ancora attivi alla fine del XIX secolo, censiti nei volumi di corredo della Carta Idrografica d’Italia.
Da essi risulta che disponevano di un regime perenne i Siti 9, 10 (UT 1), 15, 16, 17, 20, cioè tutti
quelli dislocati sul Merse, ed il Sito 23, sul Farma; tutti gli altri202, situati su corsi d’acqua minori,
dovevano interrompere la macinazione almeno per qualche mese all’anno. Tra questi, i Siti 18, 19,
21 lavoravano tutto l’anno esclusivamente a raccolta o a “gorate”, cioè facendo riempire il bottaccio
e poi lasciandolo svuotare completamente ogni volta. Da tali dati, presupponendo che non si siano
verificate enormi variazioni di flusso attraverso i secoli, si può dedurre che anche gli altri impianti
dislocati sul Merse e sul Farma, dei quali non si hanno più notizie perché scomparsi in epoca
medievale, potessero usufruire di una portata perenne e quindi di una discreta potenzialità203.
Soltanto per il Sito X i documenti medievali sono espliciti e ci dicono che nel 1290 esso poteva
lavorare “ad quinque palmenta in ieme et estate”; possiamo tuttavia ipotizzare una analoga risorsa
idrica anche per i Siti 15, 16, 17, che erano collocati lungo lo stesso canale alimentatore. Dalla
Carta Idrografica sappiamo poi che disponevano di una portata continua sufficiente per tre macine
in inverno, una d’estate, due nei periodi intermedi i Siti 9, 10 (UT1), mentre i Siti 15, 16, 17
potevano azionare sempre almeno due macine, in inverno tre. Le massime portate in litri si
riscontrano nei Siti 9 e 10 (UT 1) e nei Siti 15, 16, 17204.
Da questi dati si può facilmente desumere l’enorme differenza fra la capacità produttiva delle
piccole strutture distribuite lungo i corsi d’acqua minori, evidentemente destinate a consumi locali,
e le potenzialità di impianti come gli ultimi citati, che erano i più importanti mulini di tutto il
comprensorio fin dai secoli del Medioevo, dotati di risorse idriche e di sistemi di derivazione tali da
garantire una produzione di farina a livello almeno subregionale e oseremmo dire ‘industriale’205.
3. Diritti sulle acque, proprietà, gestione (secc. XIII-XIV)
3.1. LE PRIME ATTESTAZIONI:LA GEOGRAFIA DEL POTERE ED IL PROBLEMA DELLE FONTI
Trattare di strutture produttive medievali, siano esse mulini ad acqua o altri tipi di impianti, e
del loro ruolo nel contesto economico-sociale dei secoli centrali del Medioevo, significa affrontare
non soltanto questioni inerenti strettamente al campo della storia tecnologica, ma piuttosto e
soprattutto una serie di interrogativi di carattere più globale. Essi riguardano, ad esempio, i modi ed
i tempi di diffusione delle tecnologie idrauliche in determinate aree, le persone, gli enti e più in
generale i ‘poteri’ che si dimostrarono principalmente interessati allo sviluppo di tali tecnologie, il
modo in cui essi sfruttarono i diritti sulle acque in loro possesso o cercarono di procurarseli se non li
avevano, infine i tipi di gestione degli impianti e gli effetti economici derivanti da una loro
massiccia presenza sul territorio. In tali domande, infatti, è inevitabile imbattersi nel tentativo di
201
Cfr. Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 75. In tale pubblicazione vengono anche proposti dei
calcoli della potenzialità assoluta dei singoli impianti, basati su grandezze quali la portata, l’altezza di caduta,
il rendimento relativi ai mulini di XIX-XX secolo. è ovvio che per una indagine come quella qui presentata,
che prende in considerazione impianti di età più antica, la mancanza di dati quantitativi di questo tipo esclude
ogni possibilità di effettuare calcoli del genere.
202
Siti 1 (UT 2), 2 (UT 1), 3, 7, 12, 13, 14, 18, 19, 21, 24.
203
Per i dati relativi alla portata dei due corsi d’acqua e quindi alla potenzialità come fornitori di
energia idraulica nell’ambito della Toscana meridionale, si rimanda al Cap. I, par. 1.
204
Ancora oggi si può vedere che la gora che alimenta questi mulini si presenta quasi piena anche nei
periodi più siccitosi.
205
Per la storia di questi mulini v. infra, par. 3.3 e 3.5.
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chiarire la dinamica del processo di sfruttamento della potenzialità idrica che durante il Medioevo
portò ad un progressivo e talmente massiccio aumento delle strutture idrauliche, da rendere
l’edificio del mulino “un elemento del tutto consueto del paesaggio rurale”206.
Tentare questo tipo di ricostruzione significa in primo luogo avere ben chiaro in mente il
quadro della geografia del potere esistente sul territorio oggetto dell’indagine. è questa una
operazione sempre difficile per il periodo medievale, riguardo al quale è necessario tenere presente
l’avvertenza, data dal Bloch ormai molti anni orsono, sull’impossibilità di poter fissare in una carta,
per mezzo di contorni lineari, i confini delle signorie o delle zone di influenza, a causa del
massiccio e continuo sovrapporsi delle proprietà e dei diritti giurisdizionali207. A maggior ragione
tale osservazione è valida per una zona come il bacino idrografico Farma-Merse, territorio tutt’altro
che marginale nei secoli centrali del Medioevo, che si configura in modo piuttosto evidente come
una zona di confine208, disomogenea, nella quale interagiscono e si intrecciano in primo luogo i
diritti patrimoniali e giurisdizionali di signorie laiche, enti ecclesiastici, vescovi, ed in una seconda
fase comunità di villaggio, poteri cittadini e borghesi di città.
Su una parte dell’alta Val di Merse, che rientrava nei limiti meridionali della diocesi e della
contea di Volterra, si estendeva il patrimonio della famiglia Gherardeschi. Niente sappiamo sulle
origini e sulla formazione della casata comitale prima della fine del X sec.209, mentre un documento
del 1004, di particolare interesse per l’area qui indagata, permette per la prima volta di identificare
le principali zone di dislocazione dei beni della famiglia, tra i quali un nucleo consistente si trovava
nell’alta Val di Merse. Il documento in questione è l’atto di fondazione del monastero benedettino
maschile di S. Maria, nel castello di Serena, su un poggio alla sponda sinistra del Merse, a poca
distanza dall’attuale Chiusdino. Fondatori furono il conte Gherardo II, titolare della contea di
Volterra, insieme alla moglie Willa: essi donarono all’abbazia il loro intero patrimonio, costituito da
castelli con i rispettivi territori e chiese, distribuiti tra diverse contee della Toscana occidentale e
meridionale210. Il documento non ci informa esattamente sui rapporti tra il cenobio ed i fondatori e
neppure sulle modalità di gestione del patrimonio, ma certamente la fondazione di un monastero sui
propri possessi, da parte dei Gherardeschi, ebbe anche lo scopo di riorganizzare territorialmente,
unificare e controllare un vasto patrimonio fondiario. Al nuovo monastero fu concessa l’immunità
ed esso divenne un’abbazia regia, anche se soggetta all’egemonia dei conti fino al XII sec.,
svincolata invece dal controllo vescovile211; essa fu anzi, in seguito, a più riprese coinvolta nei
contrasti che in Val di Merse opposero i vescovi volterrani ai Gherardeschi. Proprio queste vicende
dettero inizio alla progressiva crisi che colpì l’abbazia nel corso del XII sec., costringendola
all’alienazione dei beni più lontani, e che portò infine, nel 1196, all’ingresso nell’ordine
vallombrosano212.
206
Secondo la definizione di Cherubini, 1974, p. 273.
Bloch, 1987 (ed. orig. 1939), p. 429.
208
Ad esempio confine di diocesi tra Siena e Volterra, area sulla quale il vescovo volterrano estende la
propria influenza piuttosto tardi e contemporaneamente a quello, ben più ‘agguerrito’, di Siena.
209
Cfr. Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 49-55, riguardo alle notizie reperibili su questa famiglia per
l’ultimo trentennio del X secolo.
210
Ivi, pp. 47-49 e nota 5: in Val di Merse i conti donarono il castello di Serena, ove sorgeva il
monastero, con il suo territorio e le chiese, metà della vicina chiesa di S. Andrea di Padule, i castelli di
Miranduolo e di Sovioli con le loro chiese, 1/6 del castello di Frosini e della sua chiesa.
211
Ceccarelli Lemut, 1981, p. 172 e Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 58 e 61, anche sull’ulteriore
ampliamento dei possedimenti abbaziali nella nostra zona.
212
Intorno al 1120 l’abbazia fu coinvolta nella lotta tra Ugo di Gherardo di Guido ed il vescovo
Crescenzio; dall’arbitrato del 1133 sappiamo che nel contrasto fu distrutto anche il castello di Serena. Questi
fatti dovettero avere pesanti conseguenze per l’ente monastico: infatti i conti si impegnarono a non ricostruire
il castello di Serena e riconobbero al vescovo il possesso dei castelli di Frosini e di metà di Chiusdino, mentre
dei diritti patrimoniali del monastero su questi beni non si fa menzione, v. Ceccarelli Lemut, 1993, p. 63.
207
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Nello stesso tempo, in quest’area, la famiglia Gherardeschi perdeva progressivamente di
importanza, spostando i propri interessi soprattutto verso la città di Pisa, mentre cresceva il potere
del vescovo volterrano. A partire dalla metà dell’XI sec., la casata si era inoltre suddivisa in quattro
rami, ognuno dei quali concentrava i propri beni in un determinato ambito territoriale, assumendo il
titolo comitale dalla località più importante in proprio possesso. In Val di Merse un ramo
gherardesco si incentrava sul castello di Frosini e manteneva legami col vescovo di Volterra, ma
anche una forte autonomia, che provocò continui scontri per tutto il XII sec.213. In questo stesso
periodo, infatti, i vescovi volterrani estendevano la propria giurisdizione, pur se in concorrenza con
altri enti ecclesiastici e signorie laiche, sui castelli di Chiusdino, Monticiano e sulla pieve di
Luriano, tentando a più riprese di impadronirsi anche del castello minerario di Miranduolo214. Fu poi
probabilmente con una politica che mirava al consolidamento del proprio potere nella zona ­
gravemente incrinato per i contrasti con i Gherardeschi, ma come vedremo anche per i tentativi di
inserimento da parte dell’episcopato senese215 - che il vescovo volterrano Ugo de’ Saladini
promosse, intorno al 1185, la fondazione del cenobio cistercense di S. Galgano, sull’altura di Monte
Siepi, tra Frosini e Chiusdino. Esso diverrà, nel volgere di pochi anni, una delle realtà patrimoniali e
dei centri di potere più importanti della zona216.
Nella bassa Val di Merse e nella Val di Farma era la potente casata comitale degli
Ardengheschi ad imporre in modo massiccio il proprio dominio. Alla fine dell’XI sec. la famiglia
constava di un patrimonio disperso e disgregato, ma, dai primi anni del XII, si notano uno
spostamento ed una concentrazione patrimoniale a sud di Siena217 cosicché, a partire dal 1100, il
patrimonio di questa casata trovava il suo centro nella zona detta appunto Ardenghesca, tra il
Farma, il Merse e l’Ombrone. Nello stesso tempo all’interno della famiglia si andavano
distinguendo progressivamente tre rami, che nel XII sec. facevano capo ai castelli di Pari, Fornoli e
Civitella218. Nel 1108 il conte Bernardo investì l’abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo al Lanzo,
fondazione monastica della famiglia, del castello di Civitella ed altri beni, che da atti successivi, del
1124 e 1143, risultano comprendere Orgia, Stigliano, Brenna, Belagaio219. Da un atto del 1179
emerge poi che la famiglia possedeva un territorio assai vasto, che si estendeva in maniera
pressoché continua da Orgia a Civitella, con orientamento nord-sud, lungo i corsi di Merse, Ornate,
Farma e Ombrone, su una zona montuosa e fittamente incastellata220. Castelli della consorteria, nel
XII sec., esercitavano un controllo sui corsi d’acqua e sulle strade che portavano verso la
Maremma: Orgia, forse il più importante, Brenna, Stigliano, Capraia, Belagaio, Montepescini,
Civitella, Pari; agli inizi del XIII sec. sono documentati anche S. Lorenzo a Merse, Tocchi, Rosia,
Castiglion della Farma221.
213
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 306; Ceccarelli Lemut, 1981, pp. 175-176 e 180-181.
Nel 1004 il castello di Chiusdino non esisteva: la Ceccarelli Lemut (1993, p. 63) ipotizza che sia stato fondato dai
monaci della Serena, ai quali però rimaneva, alla metà del XII sec., solo la cappella castrense. Nel XII sec. il
castello era certamente di pertinenza dei vescovi di Volterra, ma ad esempio già nel 1137 il vescovo di Siena
Ranieri acquistava una superficie nel castello e due nel borgo, dando il via alla futura penetrazione del
comune senese, cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, p. 305. A metà XII sec. Monticiano rientrava nella
giurisdizione del vescovo volterrano; nel castello erano tuttavia insediati dei nobili locali, i Lambardi; nello
stesso periodo cominciava anche qui la penetrazione del vescovo senese, che affermò i suoi diritti su castello
e corte nel 1189, ivi, p. 343; su Luriano e Miranduolo, ivi, p. 306.
215
V. nota precedente e più avanti in questo stesso paragrafo.
216
Per una trattazione delle prime vicende del monastero si rimanda soprattutto a Canestrelli, 1896 e
Barlucchi, 1991, pp. 63 e sgg.
217
Angelucci, 1982, p. 119: ad es. il ramo di Willa ha possessi a Capraia, Orgia, Ancaiano.
218
Ivi, p. 135.
219
Ivi, p. 126; Rocchigiani, 1983, p. 31.
220
Angelucci, 1982, p. 126.
221
V. Cammarosano-Passeri, 1976, alle schede corrispondenti.
214
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Ma l’aristocrazia laica, in questa zona, doveva fare i conti ed intrecciare rapporti con un’altra
forma di signoria, quella dei vari enti ecclesiastici. Oltre alla presenza di numerose pievi, si
riscontrano proprietà del monastero di S. Eugenio, presente nella zona fin dalla fondazione, nel 730,
da parte del gastaldo senese Warnefred. Tali beni nel XII sec. comprendevano alcuni possedimenti
ad Orgia, Filetta e la chiesa di Cerreto a Merse, in piena zona ardenghesca222. Ma in questo periodo
cominciavano soprattutto a formarsi le fortune dell’abbazia delle SS. Trinità e Mustiola di Torri:
fondata verso la metà del secolo XI, nel 1070 fu posta sotto la diretta dipendenza della Sede
Apostolica e, nel 1156 circa, unita alla congregazione vallombrosana. Essa raggiunse il massimo
della potenza nel XII secolo, mantenendo una posizione di netta autonomia nei riguardi di Roma e
mostrando una notevole partecipazione, in varie occasioni, allo sviluppo ed alle affermazioni del
comune cittadino, fino ad essere presa sotto formale tutela di Siena nel 1245223.
Dal XII sec., poi, una nuova forza comincia ad affacciarsi su questo territorio, la chiesa
cattedrale di Siena, che persegue una politica di consolidamento della propria presenza in questa
zona di confine con la diocesi volterrana. Abbiamo già visto le iniziative dei vescovi senesi nei
castelli di Chiusdino e Monticiano224 e sappiamo che, nel 1178, la chiesa pievana di Sovicille,
situata proprio sul confine con la diocesi di Volterra, rientrava nella giurisdizione ecclesiastica
senese225. Ma già dal secolo precedente il Capitolo della cattedrale di Siena aveva intrecciato
rapporti con gli Ardengheschi, a proposito di alcuni possedimenti lungo il Merse: nel 1055 parte del
castello di Montepescini apparteneva al Capitolo in condominio con la famiglia comitale ed alla
metà dell’XI sec. la Canonica di Siena era in possesso di alcune terre presso Orgia, donate dagli
Ardengheschi226.
Su questa complessa rete di insediamenti e giurisdizioni si espande quindi, a partire dalla
seconda metà del XII sec., il dominio del comune di Siena. In una prima fase l’espansione senese
non si attua con vaste conquiste territoriali, ma attraverso acquisti patrimoniali e forme di
assoggettamento che interessano questa o quella comunità con i relativi territori. In questo periodo
l’affermazione del comune si manifesta attraverso il vescovo, che assume la funzione di persona
giuridicamente individuata, in grado di ricevere le proprietà e gli atti di sottomissione227. Abbiamo
già visto ciò che accade a Chiusdino nel 1137 e a Monticiano nella seconda metà del secolo e intanto la pressione
senese si fa sentire a Frosini, dove il comune approfitta delle lotte tra i Gherardeschi ed il vescovo di
Volterra per imporre la propria autorità, a Luriano e a Miranduolo228. Siena si muove poi con decisione contro gli
Ardengheschi: il primo atto di ingerenza cittadina nelle vicende della famiglia risale al 1151,
quando il conte Ugolino dà in pegno al vescovo Ranieri terre, castelli, ville e borghi, con vari
il castello di
obblighi di alleanza e fedeltà229. Nel 1156 i Senesi attaccano e danno alle fiamme
Orgia, cosicché i conti sono costretti a cederlo al vescovo. Nel 1158, inoltre, il comune otterrà,
dall’imperatore Federico I, il divieto per i conti Ardengheschi di ricostruire castelli nel raggio di 12
miglia dalla città, limite entro cui rientrava proprio Orgia: era questa la consacrazione del recente
acquisto compiuto dai Senesi nel territorio della famiglia comitale230. Nei decenni successivi
seguiranno numerosi altri scontri, fino al definitivo atto di sottomissione del 1202, ottenuto con la
forza delle armi: castelli, ville, uomini dell’Ardenghesca, furono elencati nominativamente nel
222
Ivi, pp. 396 e 397 e Rocchigiani, 1983, p. 31.
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 399: nel 1156 l’abate dona il poggio di Monte Acuto al Comune di
Siena, nel 1179 assiste al trattato fra Senesi ed Ardengheschi. Si veda anche Balestracci, 1988, pp. 153-154.
224
V. sopra, nota 214.
225
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 394.
226
Ivi, p. 346 e Rocchigiani, 1983, p. 22.
227
Cammarosano, 1991a, pp. 38-39 e 43.
228
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 306.
229
Angelucci, 1982, p. 128; Rocchigiani, 1983, p. 33.
230
Angelucci, 1982, pp. 128-129.
223
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giuramento con cui i conti e l’abate di S. Lorenzo al Lanzo si impegnavano a pagare un censo al
comune di Siena. In tale atto compaiono Pari, Civitella, Belagaio, Montepescini, Castiglion della
Farma, Petriolo, Tocchi, Capraia, S. Lorenzo a Merse, Stigliano, Rosia231. L’acquisizione di questo
territorio sotto il dominio senese può dirsi ormai definitiva, anche se i conti manterranno in seguito
vasti diritti patrimoniali nella zona.
Se questa era, a grandi linee, la geografia delle strutture di potere presenti sul territorio, molto
problematica si presenta invece la situazione delle fonti documentarie ad esse relativa prima del
XIII secolo. Sono andati perduti, infatti, gli archivi dei principali enti ecclesiastici della zona, il che
significa che sono scomparsi tutti i filoni documentari di una certa consistenza in cui sarebbe stato
possibile ricercare le più antiche attestazioni di strutture idrauliche eventualmente presenti
nell’area232. è andato disperso l’archivio del monastero di S. Maria di Serena233, così come quello dell’Abbazia
Ardenghesca234, è praticamente inaccessibile l’archivio vescovile di Volterra, manca la documentazione
riguardante le abbazie di S. Eugenio e Torri235. Soltanto dalla seconda metà del XII sec. compare un
filone documentario laico comunale, in cui sono reperibili notizie riguardo alla famiglia
Ardengheschi nei suoi rapporti con Siena: si tratta della documentazione inserita nel Caleffo
Vecchio, che comprende però solo atti di carattere pubblico relativi a guerre, paci, sottomissioni,
mentre mancano i documenti privati, che sono i più preziosi per questo tipo di ricerca236. Invece gli
archivi scomparsi delle fondazioni monastiche dovevano essere costituiti in prevalenza, come di
regola, da atti di carattere privato concernenti donazioni, compravendite, permute, locazioni di vario
genere di beni fondiari, ed è in questo tipo di fonti che si possono in genere riscontrare menzioni di
strutture produttive come i mulini.
Il quadro così tracciato serve in gran parte per spiegare la mancanza di attestazioni scritte
relative a strutture idrauliche, in questo ambito territoriale, precedentemente al XIII sec.: infatti la
prima menzione a me nota risale all’anno 1209, quando quattro mulini ed una gualchiera sul Merse,
in località Campora (Sito VII), vengono venduti ad un certo Burgundione di Dono di Luriano. Una
prima attestazione nel XIII sec. appare decisamente tarda ed è improponibile pensare che in tutto il
bacino del Farma e del Merse i mulini fossero assenti prima di tale epoca, soprattutto sulla base di
considerazioni che riguardano la diffusione delle strutture molitorie in Toscana e nell’area senese.
Infatti la presenza della tecnologia idraulica è ben documentata in aree geograficamente non lontane
231
Cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, alle voci corrispondenti.
Paolo Cammarosano sottolinea più volte il fatto che praticamente tutta la tradizione scritta
antecedente al XII-XIII sec. si inquadra nelle maggiori strutture ecclesiastiche, né vi è speranza di
individuare, nella pratica di ricerca locale e territoriale, un filone documentario di una qualche consistenza, se
lo spazio che si indaga non è inserito nell’ambito di interesse di una chiesa importante o di un monastero, cfr.
Cammarosano, 1991b, pp. 50-51, 53-54.
233
Ceccarelli Lemut, 1993, p. 61.
234
Angelucci, 1982, p. 119; Rocchigiani, 1983, p. 7. Solo alcuni atti sono sparsi in fondi vari,
conservati presso l’Archivio di Stato di Siena: un sondaggio effettuato su buona parte delle pergamene
superstiti (conservate soprattutto nel Diplomatico, fondo S. Maria degli Angeli) non ha riscontrato alcuna
attestazione di strutture idrauliche nel patrimonio del monastero; non si tratta, tuttavia, di atti privati, ma di
atti ufficiali ed in particolare bolle papali, nelle quali si elencano castelli e chiese senza entrare in ulteriori
dettagli riguardo alla consistenza del patrimonio abbaziale.
235
Un rapido e chiaro quadro dei pochi fondi documentari disponibili per tutta l’area senese prima del
XIII sec. è delineato in Cammarosano, 1979. Essi riguardano quasi esclusivamente i monasteri di S. Salvatore
all’Amiata, S. Salvatore a Fontebona nella Berardenga, S. Salvatore all’Isola, il Capitolo della Cattedrale di S.
Maria di Siena. Dopo il 1140 si aggiungono gli atti raccolti nel Caleffo Vecchio. Solo con l’inizio del XIII sec.
si verifica un nuovo incremento delle fonti ed una grande dilatazione qualitativa con la comparsa, ad esempio,
dei primi registri notarili, degli archivi familiari privati, degli atti comunali di giurisdizione. Si veda ora
anche, sulle fonti documentarie toscane, Ginatempo-Giorgi, 1996.
236
Angelucci, 1982, p. 119; in generale sul Caleffo Vecchio, v. Cammarosano, 1991a.
232
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dall’ambito territoriale qui trattato già molto prima del XIII secolo. Ad esempio alcuni molina sono
attestati nella zona amiatina dal IX sec.237, diversi impianti molitori idraulici compaiono nel
territorio della Berardenga nell’XI e XII sec.238, un mulino è presente tra i beni dell’abbazia di
Abbadia a Isola nella seconda metà dell’XI239. In pratica si può dire che per tutti quei territori
riguardo ai quali esiste documentazione precedente al XIII sec., sono rintracciabili anche menzioni
di strutture molitorie idrauliche di pertinenza monastica o signorile240.
Nella nostra zona, dunque, le prime attestazioni relative a mulini cominciano solo con il
comparire degli atti raccolti nei Caleffi di S. Galgano. è tuttavia possibile tentare di ricavare, anche
dai documenti a nostra disposizione, alcuni indizi che permettono di retrodatare l’esistenza di
impianti molitori idraulici nel bacino Farma-Merse almeno al XII secolo, ma forse anche più
indietro. Già la notevole fioritura documentata nella prima metà del Duecento appare di per sé un
po’ troppo improvvisa e sembra dipendere proprio dalla disponibilità di abbondanti fonti scritte solo
a partire da questo periodo. Lo stesso documento del 1209, citato sopra, attesta la presenza, nella
zona di Campora, di un complesso idraulico di notevole entità, già articolato in vari opifici con
produzioni differenziate, che appare diviso in almeno 4 quote appartenenti a quattro diversi conti di
Civitella, della casata ardenghesca241. Si tratta quindi di impianti di pertinenza signorile e possiamo
supporre che siano stati divisi tra eredi, con vari passaggi di proprietà, in un arco di tempo forse non
brevissimo.
È importante poi un documento del 1220, mediante il quale l’abate di S. Maria di Serena
permuta con il monastero di S. Galgano alcune terre, situate nelle vicinanze di quest’ultimo e nei
pressi delle località di Ticchiano e Campora, in cambio di metà delle terre “citra et ultra Mersam ubi
constructa fuerunt molendina quondam Guaschi et construenda et rehedificanda sunt”242. è
probabile, infatti, che ci si riferisca a mulini di pertinenza signorile, appartenenti un tempo ad un
signore locale della famiglia dei Guaschi, consorteria dominante a Roccatederighi dalla seconda
metà del XII sec. e attiva anche in questa zona243. è possibile che il signore avesse ceduto o donato
all’abbazia le terre su cui sorgevano; l’accenno alla necessità di una riedificazione significa
probabilmente che i mulini esistevano già da tempo ed erano andati in rovina: ciò potrebbe essere
avvenuto in coincidenza con uno dei numerosi periodi di turbolenze che interessarono quest’area.
Facendo un ulteriore passo indietro, sempre a proposito del monastero di Serena, si può
ricordare che nell’atto di fondazione del 1004, entro l’elenco dei beni donati, si citano
espressamente i diritti su “pantaneis, piscareis, puteis, fontibus et rivis, et aquis, molendinis”244. Si
tratta ovviamente di una formula fissa e di carattere generale, riferibile a tutti i possedimenti e
castelli donati, dalla quale non si può trarre nessuno specifico riferimento a strutture esistenti nella
zona qui indagata. Tuttavia essa costituisce certamente un indizio per ipotizzare che l’abbazia,
237
Farinelli, 1996, pag. 41 e sgg.
Valenti, 1988, pp. 87-88.
239
Cammarosano, 1993, doc. 41, p. 267. Un altro mulino nel 1188, ivi, doc. 96, p. 371.
240
Si tratta di fonti come il Cartulario della Berardenga, pubblicato in Cammarosano, 1974b, i cui atti,
rogati tra la seconda metà del IX sec. e gli inizi del XIII, hanno permesso l’individuazione dei mulini della
zona chiantigiana, sorti dietro l’iniziativa del monastero di S. Salvatore a Fontebona. I mulini dell’Amiata
compaiono nel Codex Diplomaticus Amiatinus, che raccoglie atti dal 736 al 1198 riguardanti il monastero di
S. Salvatore (pubblicato da Kurze, 1974 e 1982). Infine si veda la recente pubblicazione del cartulario del
monastero di Abbadia Isola, con documenti datati a partire dal X sec. (Cammarosano, 1993).
241
Si veda la nota 320.
242
Si veda il Catalogo, Sito XX.
243
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 367: agli inizi del ‘200 Roccatederighi era detta Rocca filiorum
Guaschi, dal nome della consorteria dominante. Nella seconda metà del ‘200 alcune fonti documentano
rapporti litigiosi col vescovo di Volterra per diritti giurisdizionali sul castello di Montecastelli, tra
Radicondoli e Pomarance, mentre alla metà del secolo vi sono scontri col comune di Massa.
244
Cfr. la trascrizione del documento in Ceccarelli Lemut, 1993, p. 72.
238
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fondata su un colle proprio sulle sponde del fiume Merse e dotata di ampi diritti sulle acque, nel
momento di sua massima prosperità probabilmente fosse in possesso di strutture molitorie dislocate
nelle vicinanze.
Un’ultima notazione a proposito dell’abbazia di Torri: in un documento del 1245, relativo
all’accordo tra il monastero ed il comune di Siena per l’edificazione di mulini sul Merse, di cui
tratteremo in seguito, si accenna a diversi impianti molitori, già in precedenza in possesso
dell’abbazia sullo stesso fiume. Da questo non si ricava, ovviamente, una cronologia, ma ancora una
indicazione, sulla base della quale sembra probabile che l’inizio della politica di sfruttamento delle
acque, da parte di questo ente monastico, risalga almeno al XII secolo, cioè al momento di sua
maggiore potenza politica ed espansione economica e territoriale.
3.2. L’ ABBA ZIA DI S AN G ALGA NO
Qualsiasi ricerca svolta su un ambito territoriale al cui interno era presente una filiazione di
Citeaux, è quasi inevitabilmente soggetta ad approfondimenti riguardo al come, in base ai dettami
della regola cistercense, si sfruttarono le risorse esistenti sul territorio e come, nel modo tipico di
questo ordine, si procedette all’organizzazione della proprietà fondiaria. Nel caso particolare di una
indagine come questa, poi, il tentativo di verificare l’esistenza o meno, nell’area in questione, del
binomio ‘sfruttamento delle acque-monaci cistercensi’, riscontrabile spessissimo in tutte le zone di
diffusione dell’Ordine245, si prefigurava fin dall’inizio come uno dei punti cardine della ricerca,
anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei documenti esaminati proviene dai
cartulari dell’abbazia di S. Galgano.
Le linee generali delle soluzioni adottate dai Cistercensi in fatto di gestione della proprietà
fondiaria e delle strutture produttive sono ormai sufficientemente conosciute a livello europeo, così
da non richiedere più di qualche rapido accenno in questa sede. Si tratta, infatti, di tendenze ben
note, che vanno dalla reazione al monachesimo cluniacense ormai lontano dalle istanze originali al
rifiuto di privilegi e diritti di signoria territoriale, dal divieto di acquisizioni di decime, rendite,
mulini ed ogni fonte di reddito non derivante dal proprio lavoro all’organizzazione del sistema delle
grange, dalla ricerca di autosufficienza in luoghi spesso molto isolati all’impiego di una forza
lavoro costituita dai conversi246. Tutti questi aspetti sono stati oggetto di numerose indagini
storiografiche e sono ormai ben conosciuti, così com’è nota e ben assodata una tendenza che a noi
particolarmente interessa: la specializzazione dei monaci bianchi in materia di regolamentazione e
sfruttamento delle acque, ed il successo che l’applicazione delle tecnologie idrauliche ottenne
presso questo ordine, in misura che sembra spesso nettamente maggiore rispetto ad altri ordini
monastici che pure si erano in precedenza applicati in questo campo. Basterà sottolineare qui
l’evoluzione che subì l’atteggiamento cistercense proprio nei confronti degli impianti molitori: dopo
la proibizione iniziale, sancita dalla Regola, di possedere mulini, alla metà del XII sec. veniva
concesso di prenderli in affitto, agli inizi del XIII si proibiva di costruirli o acquistarli (segno di una
tendenza in atto in tal senso), nel 1215 si concedeva di riceverli in dono, con una progressiva inversione di
tendenza, che trasformò “l’iniziale reticenza anche nei confronti dei mulini che venivano offerti ai monaci”, in quella
che, a metà XIII sec., si può ormai definire “una sorta di predilezione che l’ordine manifestava sempre più per questo
genere di impianti”247
A proposito delle abbazie cistercensi si è spesso posto l’accento sul fatto che molte delle
245
Riguardo al ruolo svolto dai Cistercensi, in ambito europeo, nello sfruttamento delle potenzialità
idriche e nella diffusione dei macchinari idraulici, v. sopra, par. 1.2 e Cap.III, par. 1.1.
246
La bibliografia su questi argomenti è vastissima: si vedano soprattutto il saggio di Comba, 1985 e
tutto il volume L’économie cistercienne, 1983, in particolare i saggi di Barri’re, Comba, Chauvin, Higounet.
Si veda anche l’ampia bibliografia raccolta in Righetti Tosti-Croce, 1993a e 1993b.
247
Pirillo, 1989, pp. 25-26.
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prime fondazioni si impiantarono su terre marginali, talvolta ancora disabitate e difficili da far
fruttare248; per questi territori è talvolta ipotizzabile che i monaci, iniziandone per primi lo
sfruttamento, abbiano importato nuove tecnologie, soprattutto nel campo idraulico. Ma, come
sempre, bisogna guardarsi dal generalizzare e si deve piuttosto tener conto proprio delle peculiari
coordinate geografiche, politiche, economiche e demografiche entro cui ciascun monastero si
sviluppò. è noto, infatti, che molte delle filiazioni più tarde frequentemente fiorirono in territori ove
la rete del popolamento ed il sistema di utilizzazione delle risorse costituivano da tempo una solida
realtà, e di sicuro non nel bel mezzo di un deserto249. è senza dubbio questo il caso di S. Galgano,
eppure anche stavolta, secondo una caratteristica comune agli insediamenti cistercensi sparsi in tutta
Europa, la fondazione del monastero avvenne entro un paesaggio che sembra presentare caratteri
tipici: profondi profili vallivi, vasti boschi, aree paludose e soprattutto l’essenziale presenza nelle
vicinanze di un consistente corso d’acqua, il fiume Merse250.
Vista la morfologia del luogo, è probabile che anche la pianura sottostante al colle di Monte
Siepi, circondata dal fiume Merse e dai fossi Gallessa e Righineto, sia stata in parte paludosa al
momento della fondazione del primo cenobio. è quindi ipotizzabile che i monaci, prima di
intraprendere l’edificazione della chiesa maggiore, abbiano provveduto alla sistemazione idrica dei
terreni pianeggianti ai piedi del Monte Siepi, sui quali doveva sorgere la grande abbazia251.
Sappiamo, ad esempio, che essi avevano scavato un fossato di drenaggio che, passando sotto al
248
A questo proposito v. ad es. Lekai, 1989, p. 341. Sul ‘mito’ dei Cistercensi dissodatori e solitari
protagonisti della storia agraria medievale si vedano le osservazioni di Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 858,
ove si sottolinea come non si debba né estrapolare l’azione colonizzatrice dei Cistercensi dal contesto storico
dell’Europa tra XII e XIII sec., sopravvalutando il loro contributo, né d’altro canto opporsi a questa eccessiva
considerazione sottovalutando in modo altrettanto errato la loro azione.
249
Si vedano le osservazioni di Comba, 1988, p. 21, a proposito dell’alto grado di adattabilità,
nell’esperienza cistercense, a diverse situazioni sociali e politiche e della contraddittorietà implicita nella
compresenza di una aspirazione a vivere nel desertum e di una forte attrazione, ad esempio, verso le città.
250
La geografia dell’insediamento cistercense, è noto, sceglie di preferenza siti di fondovalle in cui
l’acqua sia abbondante, o zone paludose situate in aree spesso poco invitanti. Inizialmente ciò rispondeva alla
ricerca del desertum, ossia del luogo in cui, secondo le prescrizioni della Regola, l’unico mezzo di sussistenza
consisteva nel lavoro manuale dei monaci per la bonifica delle terre di cui disponevano; tuttavia in seguito la
ricerca di luoghi con abbondanti risorse idriche sembra rispondere a ragioni soprattutto economiche. è
innegabile che in tutta Europa fossero quasi sempre luoghi molto ricchi d’acqua ad attirare i monaci bianchi
per le loro fondazioni: può darne un’idea anche solo l’esame dei toponimi col continuo ricorrere in essi dei
termini “valle”, “fonte”, “acqua” (cfr. Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 39). Per questo tipo di insediamento
sono numerosi gli esempi anche in Italia e ne citerò solo alcuni per il settentrione della penisola, zona
particolarmente studiata: Chiaravalle Milanese (cfr. Chiappa Mauri, 1985, p. 264; Chiappa Mauri, 1990, p. 65
e sgg.), S. Maria di Lucedio (Bellero, 1985, p. 337), Morimondo (Occhipinti, 1983, Occhipinti, 1985); in
generale sulle abbazie cistercensi del nord Italia v. Comba, 1983.
251
Essa appare per la prima volta almeno già in parte edificata nel 1224, quando si nomina l’Abbatiam
novam Sancti Galgani, v. Canestrelli, 1896, p. 69.
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dormitorio del monastero, andava dal fonte Righineto fino al Merse252. Nel 1242, inoltre, il vicario
imperiale presso il comune di Chiusdino concesse ai monaci di prendere acqua dalla sorgente
Righineto, di condurla fino agli edifici del monastero e costruire per proprio uso una fonte, a
condizione, peraltro, che questa restasse aperta anche per comodo dei viandanti253. Del resto, lo
stato di degrado della situazione idrologica in cui ripiombarono i terreni nei pressi dell’abbazia
quando essa era ormai da tempo abbandonata, salta subito agli occhi leggendo la testimonianza del
Targioni Tozzetti, il quale descrive la propria visita alle rovine del monastero nel 1742254. Oltre che
della sistemazione idrica nelle aree immediatamente adiacenti all’abbazia, i monaci di S. Galgano,
più o meno nello stesso periodo, si occupavano della bonifica anche in zone più lontane: ad esempio
nel 1229 erano impegnati a rendere coltivabile l’area impaludata che si trovava lungo il medio corso
del Feccia, alla confluenza con il torrente Cona, prosciugandola mediante lo scavo di un canale di
drenaggio255. Una prospezione archeologica nella zona del Pian di Feccia, ha poi individuato tracce
di canalizzazioni artificiali e dell’uso di strutture lignee, che i ricercatori attribuiscono all’intervento
dei monaci, per controllare l’erosione degli argini e forse anche come peschiere256.
Se da un lato l’abbondanza di acque nella zona creava qualche problema ai monaci in fatto di
regimentazione, dall’altro lato non dovevano sfuggire loro i vantaggi che poteva offrire la vicinanza
di fiumi o torrenti, ed in particolare del Merse, oltre che per l’irrigazione, soprattutto come forza
motrice per i mulini e le officine del monastero. Abbiamo visto che mulini nella zona esistevano già
e che non furono certo i monaci bianchi ad introdurre in quest’area la tecnologia idraulica; tuttavia è
da rilevare il modo in cui i Cistercensi di S. Galgano adottarono e sfruttarono mezzi già noti: in un
momento in cui le macchine idrauliche toccavano il massimo della diffusione e cresceva la
domanda di poterne usufruire, essi cominciarono ad investire in modo massiccio in questo settore,
252
Ivi, p. 71 e doc. XXXVIII: l’esistenza di questo fossato viene citata in un documento del 1244, quando alcuni uomini di
Monticiano cedono all’abate Forese tutti i diritti sui terreni, boschi, case e vignecompresi tra il fonte Righineto, il Gallessa, il Merse e
“sicut trahit fossatum quod est subtus dormitorium monachorum SanctiGalganiusque ad fontem de Righineto usque ad flumen
Mersem”. La presenza dell’acqua, infatti, che in molte fondazioni cistercensi aveva una importanza determinante nella sceltadel sito,
condizionava anche la disposizione degli edifici all’interno del monastero; infatti nelle abbazie cistercensi la posizione del chiostro
variava talvolta rispetto alla chiesa, in seguito all’esigenza di innalzare quest’ultima nel punto più alto del complesso monastico e poter
convogliare le acque di scolo di cucina, refettorio,lavandini e servizi in una fogna che scaricava lontano dalle abitazioni dei monaci e
dei conversi.A tale proposito si vedano le piante di varie abbazie in Canestrelli, 1896, pp. 80 e sgg., dalle quali si osserva chiaramente
che il chiostro si trovava sempre sul lato della chiesa verso il quale si dirigeva lo scorrimento delle acque, nel caso di S. Galgano a sud.
Numerosi esempi, italiani ed europei, di complessi sistemi di canalizzazione finalizzati sia allo smaltimento
che all’adduzione delle acque sono illustrati in Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 39 e sgg.: essi costituiscono
una costante delle abbazie cistercensi ed in molti casi (Fossanova, Maubisson, Royaumont, Fountains,
Rielvaux, Tre Fontane ecc.) sono opere architettoniche di eccezionale rilievo. In certi monasteri, come a
Senanque, l’esigenza di regolamentare lo scolo delle acque prevalse persino sull’orientamento della chiesa
(Farina-Vona, 1988, p. 252). Di tutte queste esigenze si teneva conto durante l’ispezione previa del sito, in un
primo momento affidata all’abate ed in seguito ad una commissione d’inchiesta, composta da 2 o 3 abati,
secondo le disposizioni del 1267 (ivi, p. 245).
253
Canestrelli, 1896, p. 71.
254
Targioni-Tozzetti, 1768-1779, IV, p. 27: “Conviene però credere che anticamente questo soggiorno
non fosse insalubre, perché le rovine della Badia fanno conoscere che essa era piuttosto una mezza città che
una Badia” ma adesso “la umidità dell’aria rende la chiesa impraticabile [...] le pareti sembrano muffate,
l’intonaco è tutto corroso”.
255
Barlucchi, 1991, p. 73 e nota 30: l’area di impaludamento, nel 1228, aveva il nome di Melma di
Filicaia; nel 1229 i monaci, ormai proprietari di vari appezzamenti a valle dell’impaludamento, ottennero il
permesso dal proprietario del luogo di costruire una chiusa ed un canale per far defluire le acque. In un
documento del 1233 ancora compare la Melma di Filicaia, ma nella seconda parte del secolo rimane solo il
toponimo Milmone (1270); nella Tavola delle Possessioni non si riscontra più neanche il toponimo. Si veda
anche Barlucchi, 1992, pp. 56-57.
256
Gilbertson-Hunt-Redon, 1987, p. 404.
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mostrando fin dall’inizio un forte interesse verso l’acquisto di quote-parti, la riparazione o
l’edificazione ex novo di una grande quantità di mulini. Già nel 1216 il privilegio del vescovo
Pagano Pannocchieschi, una delle prime importanti concessioni al monastero, dà larghissimo spazio
al trasferimento ai monaci di diritti sulle acque in connessione con i mulini dell’abbazia. Si
concede, infatti, “plenam facultatem integraliter et totaliter faciendi et construendi aque ductus per
terram nostram et episcopatus et per terram nostrorum hominum ubicumque est, et reperiri poterit in
loco et vocabulo quod dicitur Campora et pro aliis molendinis nobis sub ipsis positis et pro aliis
molendinis veteribus et construendi ac ponendi steccatas, goras, fiutos pro tempore necessario
infrascriptis molendinis presentibus et futuris in perpetuum infra dictas terras nostras et terras
nostrorum hominum”257; si specifica, tra l’altro, che tale concessione viene fatta dietro richiesta
dell’abate Giovanni. Del resto, già nel 1209 un diploma dell’imperatore Ottone IV aveva
confermato tutti i possedimenti ricevuti in dono precedentemente dall’abbazia “cum pascuis,
nemoribus, silvis, terris, cultis et incultis, aquis, aquarumque decursibus”258. I diritti sulle acque che
scorrevano nelle terre del monastero passarono quindi, dalla giurisdizione imperiale e vescovile,
sotto il controllo diretto dei monaci ed è chiaro che questi atti ufficiali potevano servire al
monastero per far valere la propria volontà nelle eventuali successive dispute in proposito259.
Bisogna notare, inoltre, che proprio nel privilegio del 1216 viene citato il mulino ai piedi del
Monte Siepi, identificabile con il Mulinaccio (Sito 10 UT 1), con la definizione molendinum vetus
Sancti Galgani: ciò significa che fin dai primissimi anni di esistenza del monastero, forse prima
ancora di iniziare l’edificazione dell’abbazia maggiore, i monaci avevano provveduto a costruire
quello che sembra essere stato, o che comunque divenne, uno dei più importanti impianti molitori di
tutta la Val di Merse.
È possibile individuare una fase iniziale di acquisti di mulini nel primo trentennio di esistenza
dell’abbazia, rivolta soprattutto all’area più vicina al monastero, cioè l’alta Val di Merse. In questo
periodo i monaci, impegnati nella creazione di un patrimonio fondiario in Maremma e nelle Masse
di Siena, in tale zona si dedicano soprattutto all’ampliamento della proprietà di Ticchiano260,
all’acquisto di particelle di terreno lungo il Merse e appunto ai mulini. Come abbiamo visto, nel
257
V. Catalogo, Sito VII.
Canestrelli, 1896, p. 118, doc. VIII.
259
Il problema dei diritti sulle acque è argomento vasto e di non facile trattazione in una semplice
parentesi, in quanto la situazione giuridica subì sostanziali trasformazioni attraverso un ampio arco
cronologico e presentò aspetti diversi nelle varie aree geografiche, a seconda della situazione politica e sociale
che in ciascuna di esse si andava creando. Limitandoci ad accennare solo alle linee generali della questione,
possiamo ricordare che, dopo il periodo altomedievale, durante il quale le acque non dovevano aver perso del
tutto quella connotazione di res publica che le aveva caratterizzate nel periodo romano, a partire dal X sec.,
come gli altri iura regalia, finirono per essere allodializzate, donate, concesse, usurpate, nel generale
fenomeno di frantumazione del potere centrale. Re e imperatori, cui teoricamente spettavano ancora queste
prerogative, fecero concessioni sempre più ampie in primo luogo ai vescovi, ma sempre più spesso anche ai
signori laici. In questa situazione l’uso delle acque e l’impianto di mulini divennero elementi costituenti il
banno del signore e tratti di fiumi poterono essere patrimonializzati o considerati pertinenza dei terreni
rivieraschi. Dal XII sec., inoltre, lo sviluppo delle comunità rurali determinò talvolta una appropriazione dei
diritti di uso dei beni comuni e delle acque in particolare. Al 1158 risale il tentativo di Federico I di
riaffermare la demanialità delle acque sottraendole al dominio privato; si trattò di un tentativo effimero, in
quanto nel 1183 i comuni urbani, la nuova forza che dal XII sec. era entrata nel gioco, ottennero
dall’imperatore una generica regalia sulle acque e cominciarono a tentare di imporvi il proprio controllo. Ma
sulla politica comunale torneremo in seguito. Per una trattazione più approfondita di questo argomento si
rimanda a Dussaix, 1979; Chiappa Mauri, 1984 pp. 24-25, 101 e sgg.; Chiappa Mauri, 1990, pp. 133-134;
Balestracci, 1992.
260
Sulle vicende della formazione del patrimonio di S. Galgano, oltre a Canestrelli, 1896, si veda
soprattutto Barlucchi, 1991.
258
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1216 è già stato edificato il Mulinaccio261, tra 1216 e 1223 viene ampliata la proprietà dei quattro
mulini di Campora262, nel 1220 si effettua l’acquisto di altre due strutture, di cui una da ricostruire,
situate sempre in zona sul Merse, che non è stato però possibile identificare con precisione263.
Inoltre abbiamo visto in precedenza che, sempre nel 1220, il monastero era in possesso delle terre
su cui sorgevano i mulini diruti detti quondam Guaschi; non sappiamo quando e in che modo queste
strutture erano finite nelle sue mani, ma vediamo che in tale anno si preferisce cederle all’abbazia di
Serena - forse perché piuttosto decentrate verso monte - in cambio di beni più vicini situati a
Ticchiano, proprietà il cui ampliamento, come già accennato, è oggetto di particolare cura da parte
dei monaci in questo periodo.
È piuttosto evidente che tutta l’area dell’alta Val di Merse stava attraversando in quegli anni
un periodo di forte espansione economica, testimoniata da numerose fonti264, ed è probabile che tale
clima di mobilità abbia favorito il monastero nei suoi investimenti. Scopo principale di questo
gruppo di operazioni sembra quello di ottenere il controllo sulle strutture molitorie dislocate nelle
vicinanze dell’abbazia, eliminando di fatto la proprietà privata che esisteva in precedenza; ciò
garantiva, come vedremo in seguito, la copertura del fabbisogno interno del monastero, ma
costituiva anche un primo passo verso un tentativo di monopolio sulla molitura lungo un tratto
consistente del fiume principale. Per allargare il quadro su questa prima fase di investimenti
dell’abbazia in mulini, è opportuno ricordare che, al di fuori della nostra zona, il monastero
prendeva l’iniziativa anche in Maremma, costruendo alcune strutture molitorie nei possedimenti di
Ischia d’Ombrone intorno al 1227-1228265.
Una seconda serie di acquisti, sempre in alta Val di Merse, si svolse poi dopo la metà del XIII secolo, talvolta
approfittando delle occasioni favorevoli rappresentate dalle difficoltà finanziarie di comuni ed altri enti ecclesiastici. Tali
acquisti andarono avanti fino ai primi decenni del Trecento: il monastero entrò in possesso di un mulino sul Frelle
267
, Lupinari 268, Campo
presso Frosini266 e sul fiume Merse acquistò quote dei mulini di Ripetroso
261
Sito 10 UT 1: nel 1216 si parla della “planities montis qui dicitur Seppi ad pedes cuius montis ab
orientali parte est situm suprascriptum molendinum vetus Sancti Galgani cum planities sibi pertinenti”. Nel
1223 il monastero vende per 500 lire senesi, con varie convenzioni, metà dell’impianto ad un consorzio di
privati (ma su questo episodio torneremo in seguito). Da questa vendita derivò una lite che si protrasse tra il
1246 ed il 1249, fino al pronunciamento, a favore dell’abbazia, sia del rettore del castello di Monticiano che
del podestà di Siena, da cui si capisce che la proprietà intera del mulino era tornata all’abbazia.
262
Sito VII: dal privilegio del vescovo Pagano del 1216 si ricava che essi appartenevano, almeno in
parte, al monastero; nel 1218 si parla della “gora cum steccaria quattuor molendinorum et unius gualcherie
dicti monasterii”; nel 1221 Bonifazio di Guido, conte di Civitella, dona all’abbazia tutti i diritti e lo ius
decimarum sui mulini di Campora; nel 1223 se ne acquistano altre quote da Ildibrandino di Ugo Turacci e da
Burgognone di Novellino da Luriano. Da questo momento non si hanno altri contratti riguardanti tali strutture,
segno che probabilmente esse erano ormai totalmente nelle mani del monastero.
263
V. Catalogo siti XIX e XXI: nel 1220 Bernardo di Ranieri di Ticchianello vende al monastero la
terza parte di una terra in località detta “Molendinum Bernardesarum” allo scopo di costruirvi e riedificarvi un
mulino. Nel 1223 Rutifredo Bonaccorsi vende al priore del monastero dei mulini sul Merse chiamati
“molendina Bonacorsi”.
264
Cfr. Barlucchi, 1991, p. 99.
265
In parte anche nel 1247, cfr. Barlucchi, 1991, p. 88. Nel 1227 Pepo, vescovo di Grosseto, cedette il
distretto di Ischia all’abbazia di S. Galgano con la facoltà di costruirvi alcuni mulini, che risultano terminati
nel 1229, e suddivisi a metà tra il monastero ed il vescovo grossetano, cfr. Canestrelli, 1896, p. 29.
266
Sito 19: nel 1245 ne acquista la metà appartenente alla vicina pieve di S. Giovanni al Monte,
gravata dai debiti; nel 1270 il monastero risulta in possesso di 3/4 del mulino.
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Buolichi e Gonfienti269. Agli inizi del XIV sec. risulta inoltre essere proprietario di
un mulino sul
Farma presso Moverbia270, e di un mulino a due palmenti sul Feccia, inserito in una proprietà
immobiliare di grande valore all’interno della grangia di Valloria271.
Questa volta il monastero non prende l’iniziativa di costruire nuovi impianti, ma acquista
quote sempre maggiori di tutti i mulini documentati nella zona, scalzando sia la proprietà privata
laica, che quella di altri enti ecclesiastici, che quella collettiva della comunità di Monticiano. Alla
conclusione di questa fase, possiamo dire che il monastero possiede la maggior parte degli impianti
molitori in tutta l’area di Frosini, Chiusdino e Monticiano. è probabile che i monaci stessero
tentando di instaurare un vero e proprio monopolio sulla molitura della zona, anche se non è detto
che il tentativo sia riuscito. Questa ipotesi è a mio avviso confermata da un episodio avvenuto nel
1337: il Capitolo dei monaci, per impedire al comune di Monticiano di costruire un mulino per uso
degli abitanti in località Gonfienti (dove già esisteva un impianto di proprietà del monastero, che a
quanto pare ne sarebbe stato danneggiato), decise all’unanimità di acquistare da un tal Ranieri di
Cenni di Siena un appezzamento di terreno, sul quale sarebbe dovuta passare la gora del nuovo
mulino, impedendo in questo modo l’edificazione della struttura stessa272.
Per quanto riguarda invece la bassa Val di Merse, dai Caleffi risulta che i Cistercensi si
affacciarono in questa zona relativamente tardi, con una politica di investimenti concentrati tra gli anni ‘60 e ‘90 del XIII
secolo273. Questa volta il loro intervento si limitò all’acquisizione di quote via via crescenti della proprietà di mulini che
già esistevano, senza mai prendere l’iniziativa di costruirne di nuovi. Anche in questo caso, talvolta si approfittò dei
problemi economici dei precedenti proprietari. Il monastero investì ingenti capitali nei mulini del Palazzo274, del
Pero275, di Serravalle 276, de Saxis 277, de Volta 278, delle Guazzine Vecchie e Nuove 279, di Petriera 280 e
267
Sito V: nel 1249 il comune di Monticiano ne deve cedere una parte all’abbazia in seguito ad una
sentenza sfavorevole nella lite riguardante un altro impianto molitorio (Sito 10 UT 1); nel 1276 il monastero
ne acquista 4 /24 e mezzo sempre dal comune afflitto dai debiti e nello stesso giorno altre 2 parti e mezzo
dagli Eremitani di Camerata, che le hanno a loro volta acquistate dal comune, ma hanno difficoltà a pagarle.
Nel 1280 si acquista 1/18 da Contessa di Ottinello, nel 1303 una parte non specificata da due maestri di legna,
nel 1317 probabilmente ancora un ventiquattresimo.
268
Sito IVa: nel 1276 se ne acquistano quattro parti e mezzo su 24 dal comune di Monticiano e nello
stesso giorno altre 2 parti e mezzo dagli Eremitani di Camerata, che le hanno acquistate dal comune, v. la nota
precedente.
269
Sito IIIb: nel 1280 1/18 è venduto da Contessa di Ottinello; nel 1337 è ancora di proprietà del
monastero.
270
Sito 7: nel 1304 viene concesso in affitto ad un abitante del Belagaio.
271
Sito XIII: si tratta dell’unico mulino documentato sul Feccia; nella seconda metà del XIII rientra tra i possessi dell’abbazia,
nel 1318-20 appartiene ancora interamente a S. Galgano e fa parte di una proprietà composta da sei case con vari annessi delvalore
complessivo di 3721 lire.
272
Cfr. Catalogo, Sito IIIa. Non possediamo il documento originale ma uno spoglio molto
particolareggiato in cui si legge che il nuovo mulino sarebbe stato edificato “in danno del detto monastero” e
che il Sottopriore “propose che si comprasse detto pezzo di terra per il prezzo di sopra (50 lire senesi) acciò
venisse impedita la fabbrica di detto mulino, alla qual proposta acconsent” il detto Capitolo e monaci,
giudicandosi tal compra utilissima per il detto monastero”.
273
Barlucchi ha calcolato che soltanto negli anni 1256-60 l’abbazia investì nei mulini di questa zona la
notevole somma di 7325 lire, cfr. Barlucchi, 1991, p. 102.
274
Sito 17. Nel1258 ilmonastero, insieme a tre privati, acquista l’intero mulino dal comune di Siena: la quota acquistata dal
monastero corrisponde ai 4/5 della metà; nel 1262 l’abbazia risulta ancora in possesso di 4 parti su 9 totali; nel 1273, con due contratti
distinti, acquista 4/8 di altre 4 quote del mulino; nel 1289, per dirimere una lite sorta col monastero di S.
Eugenio a proposito del mulino di Petriera, i due impianti molitori vengono messi integralmente in
comproprietà. Nel 1318 il monastero di S. Galgano è ancora in possesso di 1/4 della struttura.
275
Sito 15: nel 1258 il monastero, insieme a tre privati, acquista la metà appartenente al comune di
Siena (l’altra appartiene all’abbazia di Torri) dei mulini del Pero e Serravalle (oltre che quello di Palazzo, cfr.
nota precedente); nel 1260 acquista dai propri soci altri 5/18 del mulino del Pero.
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di Foiano281. Sempre per allargare il quadro, si può ricordare che in questo periodo, al di fuori della
nostra zona, il monastero appare impegnato in una lunga vertenza con la pieve di S. Gimignano, a
proposito del possesso di tre mulini e quattro gualchiere sull’Elsa, nei pressi di Villa Castelli282;
possiede inoltre, presso l’Abbazia Ardenga, alcune quote in comproprietà di mulini sul fiume
Ombrone283.
In sintesi si può dire che il monastero di S. Galgano è praticamente onnipresente, sia come
unico proprietario che in compartecipazione con altri, negli impianti molitori della nostra zona per
tutto l’arco del XIII secolo e parte del XIV. In questo senso credo che anche per questa abbazia si
possa parlare dell’attuazione di una strategia economica volta all’acquisizione del controllo sul
maggior numero possibile di strutture produttive284. è da notare, infatti, il dinamismo che
caratterizza le operazioni finanziarie del monastero, il quale diversifica i propri investimenti
distribuendoli su una quantità davvero impressionante di strutture molitorie. Colpiscono,
soprattutto, la capacità di approfittare immediatamente delle difficoltà economiche dovute
all’accumularsi dei debiti che affliggevano altri proprietari per accaparrare quote di mulini in
cambio di denaro liquido, e la spregiudicatezza con cui il monastero riesce a trarre vantaggio dalle
276
Sito 16: v. la nota precedente, a. 1258; inoltre nel 1280 il monastero acquista da Viviano di
Pandolfino due parti del mulino.
277
Sito 5: nel 1288, i monaci acquistano la metà dei mulini e della gualchiera situati in questa località
dall’abate di Torri che si trovava indebitato presso usurai; nel 1318 il monastero risulta ancora in possesso di
1/3 della struttura.
278
Sito XVI, nel 1288 si acquista la metà di questa struttura dall’abbazia di Torri, v. nota precedente.
279
Sito XII: nel 1256 se ne acquistano alcune quote da Bartolomeo di Pietro, nel 1266 altrettante da
Tommaso di Pietro (nel primo caso di tratta forse di una falsa vendita).
280
Sito X: il mulino, appartenente all’abbazia di S. Eugenio, nel 1289, per risolvere una lite, viene
messo in comproprietà col monastero di S. Galgano ed i suoi soci, insieme al mulino Palazzo. Nel 1290 il
monastero di S. Galgano ne acquista ancora 1/4 e nel 1318 risulta in possesso della medesima quota.
281
Sito XI: nel 1271 il monastero ne compera 1/3 da alcuni membri della famiglia Incontri, affiancato
nelle operazioni di acquisto dall’Opera Metropolitana. Seguono diversi e complicati contratti riguardanti
l’affitto o l’acquisto di parti del mulino, alcuni dei quali mascherano senza dubbio dei prestiti su pegno
fondiario, che coinvolgono alcuni membri della famiglia Bonsignori ed altri privati loro soci. Nel 1305 il
monastero è ancora in possesso di 1/3 della struttura, mentre nel 1318 essa risulta spartita esattamente a metà
con l’Opera di S. Maria.
282
Si vedano Canestrelli, 1896, pp. 31-32 e Barlucchi, 1991, p. 91. Uno di questi mulini fu acquistato,
in comproprietà col comune di S. Gimignano, con varie operazioni a partire dal 1274; il secondo fu costruito
in comproprietà col comune stesso dopo il 1281; un terzo mulino apparteneva per intero al monastero
(acquisto nel 1281). Il possesso dei beni e dei mulini da parte del monastero di S. Galgano fu più volte
contestato, con varie molestie, dal Capitolo della pieve, che arrivò ad accusare i monaci cistercensi
dell’omicidio di un dipendente della pieve e ne approfittò per confiscare i beni di Villa Castelli; nel 1290 la
causa fu portata davanti al pontefice Niccolò IV, che riconobbe innocenti i monaci ed ordinò che i beni
confiscati fossero restituiti, il che avvenne solo nel 1296.
283
Canestrelli, 1896, pp. 28-29.
284
Qualcosa del genere avviene ad esempio, sempre verso la metà del XIII sec., per i mulini
dell’abbazia di S. Salvatore all’Amiata: diversi impianti molitori esistevano nei territori sottoposti al
monastero già molto tempo prima dell’arrivo dei Cistercensi, ma erano stati in parte venduti, in parte affittati
a privati; invece, alla metà del XIII, l’abate Manfredi, nel suo tentativo di restaurazione, cercò di riprendere il
controllo sui mulini ricomprandone alcune parti e approfittando delle occasioni favorevoli, nate da
controversie, per confiscarne altre (cfr. Redon, 1982, pp. 117-119).
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controversie scoppiate con i propri stessi soci nella proprietà285.
Ma quali furono le motivazioni che indussero i monaci ad una operazione che, tra acquisti e
spese di costruzione, assorbiva somme ingentissime? La questione non è semplice e non prevede
una sola risposta. Per le primissime campagne di investimenti, infatti, si può ancora pensare che il
motivo principale fosse la necessità di disporre di impianti destinati alla trasformazione dei prodotti
delle grange, da gestire in proprio e per i fabbisogni interni del monastero, con costi di conduzione
praticamente inesistenti grazie alla manodopera dei conversi. Ma a partire almeno dagli anni ‘20 del
XIII secolo, i massicci investimenti del monastero in mulini ed altri opifici idraulici non si spiegano
più, se non si tiene conto del sempre maggiore orientamento dell’Ordine verso l’ottenimento di
rendite fisse da parte di utenti esterni, e della partecipazione dell’abbazia ad attività commerciali nei
mercati rurali ed urbani286. Che l’attività dei mulini posseduti da S. Galgano nella bassa Val di
Merse fosse rivolta essenzialmente alla lavorazione per conto di terzi e non alle esigenze del
monastero, lo dimostra il fatto che una caratteristica comune della proprietà dell’abbazia in
quest’area è l’esiguità dei terreni circostanti i mulini, appena pochi ettari287.
È stato sottolineato come il periodo tra la metà del XIII sec. ed i primi decenni del XIV sia un
momento d’oro per chi è in grado di gestire un mulino e come l’investimento in questo settore, con
l’apertura agli utenti esterni, rappresenti la prima risposta al crescente fabbisogno della popolazione
del contado, ma soprattutto della città in piena espansione. La domanda di cereali panificabili era
molto alta e, nel caso di una gestione diretta degli impianti, il prelievo di una quantità fissa di farina
o di grano come quota per la macinazione preservava anche dall’eventuale svalutazione della
moneta288. Le precedenti considerazioni possono spiegare il fatto che S. Galgano continui ad
investire capitali in mulini anche nell’ultimo ventennio del XIII sec. e nel primo del XIV, quando
comincia ad attraversare una profonda crisi finanziaria289. Infatti la macinazione del grano era
ancora un ottimo affare, le cui alte rendite erano preziose per le casse dell’abbazia, e tale attività
non aveva ormai che in minima parte a che vedere col fabbisogno interno del monastero, ma si era
diretta soprattutto alle esigenze della città di Siena. Basti solo pensare che proprio S. Galgano fu
uno degli acquirenti che subentrò al comune cittadino nella proprietà dei mulini del Pero, Serravalle
285
Si veda il caso eloquente del Mulino Vecchio (Sito 10 UT 1): nel 1223 il monastero ne vende la
metà ad un gruppo di mercanti, probabilmente a causa di necessità contingenti (si pensi ad esempio alla
costruzione, in questo lasso di tempo, dell’abbazia maggiore). Nel 1249, in seguito ad una lite coi
comproprietari, il monastero, appoggiato dalle autorità senesi, rientra in possesso dell’intera struttura; non
solo: il podestà di Siena impone alla comunità di Monticiano di cedere al monastero una quota del mulino di
Ripetroso, come risarcimento delle perdite di guadagno conseguite alla proibizione, imposta dal rettore del
castello agli ex-soci dell’abbazia, di portare grano a macinare nei mulini del monastero.
286
È questo un fenomeno riscontrabile non soltanto qui, ma di portata generale: si vedano per un
confronto le osservazioni di Comba, 1985, pp. 256-257, a proposito delle abbazie cistercensi nel milanese. è
probabilmente in questa tendenza che, anche a livello europeo, va individuato il fattore scatenante di quella
“bulimia d’acquisto” (v. sopra, par. 1.2) nei confronti dei mulini, verificatasi a partire dai primi decenni del
XIII secolo anche nelle abbazie che già da molto tempo avevano iniziato lo sfruttamento delle acque.
287
Barlucchi, 1991, p. 93.
288
Si vedano le osservazioni di Pirillo, 1989, p. 31. Anche in Chiappa Mauri, 1984, pp. 24 e sgg. si fa
notare che tanto più è vicina o perlomeno facilmente raggiungibile la sede di un grande mercato urbano, tanto
maggiore è l’accanimento con cui gli enti ecclesiastici liberi di accedere al mercato cittadino tentano con ogni
mezzo di appropriarsi di mulini o di farsi riconoscere dalle autorità in carica il diritto di realizzarli. Si vedano
in generale anche le osservazioni di Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 24, a proposito del notevole interesse
verso i centri urbani, e soprattutto verso i loro mercati, da parte di molte abbazie, alcune delle quali già dal
XII sec. possiedono delle ‘case urbane’ incaricate di commercializzare i prodotti delle grange.
289
A proposito di queste difficoltà si vedano Barlucchi, 1991 e Barlucchi, 1992, pp. 73-74, ove si
riporta la notizia che, intorno al 1280, il monastero rischiò di dover alienare, per i debiti accumulati, gran
parte del patrimonio di Frosini e fu salvato da un prestito di ben 1450 fiorini d’oro ottenuto dai Gallerani.
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e Palazzo (Siti 15, 16, 17), grandi impianti che macinavano grano in quantità ‘industriale’, quando,
a causa dei debiti, Siena fu costretta a venderli. Soltanto intorno al 1320, analizzando i dati
provenienti dalla Tavola delle Possessioni, si possono notare i primi segnali di una inversione di
tendenza, forse interpretabile come una crisi, che porta alla contrazione delle quote spettanti
all’abbazia in alcune delle strutture censite290.
Ma veniamo adesso al tipo di gestione adottato per questo notevole patrimonio di impianti
produttivi. Il modo in cui la nostra abbazia decise di sfruttare i propri mulini è un fattore di grande
importanza per capire quale fu, qui come altrove, la differenza fra gli ideali originari dell’Ordine e
la realtà. Si possono distinguere tre diversi tipi e momenti nella gestione degli impianti molitori, in
parte corrispondenti anche ai tipi di gestione adottati per le terre coltivabili: una primissima fase di
sfruttamento in proprio, rivolta esclusivamente al fabbisogno interno, una seconda fase che vede
l’apertura degli impianti agli abitanti delle terre del monastero ed anche a clienti esterni, in cambio
di una percentuale sulla molitura, infine una fase in cui i mulini vengono concessi in affitto dietro
pagamento di un canone.
È noto che inizialmente i mulini dei Cistercensi avrebbero dovuto essere utilizzati solo dai
monaci e per i monaci, sfruttando la manodopera a basso costo fornita dai conversi: la Regola
vietava esplicitamente la concessione in uso o gestione a terzi di tali strutture, al pari delle terre
coltivabili291. Tuttavia, quando nel corso del XIII secolo la maggior parte delle terre dei monasteri
venne ceduta in affitto a famiglie di contadini, i nuovi affittuari divennero i clienti principali dei
mulini delle abbazie e la macinazione si trasformò così in una vera e propria operazione
commerciale, sempre più rivolta verso l’esterno292. A S. Galgano la conduzione indiretta delle terre,
non limitata a singoli appezzamenti ma estesa a delle zone intere, è una pratica che i monaci
adottarono molto presto293, ed anche la molitura sembra di conseguenza diventare per l’abbazia un
vero e proprio affare, che coinvolgeva a vasto raggio una clientela proveniente anche dal di fuori
delle terre del monastero. è del 1223 il già citato contratto stipulato dall’abbazia con un gruppo di
privati, che acquistarono la metà del Mulinaccio (Sito 10 UT 1), ove compaiono alcune clausole
interessanti: era infatti previsto l’impegno, da parte dei mercanti acquirenti, di far portare senza
interruzione né frode salme di frumento a macinare al mulino e di non portarlo a macinare in altro
luogo; si specificava inoltre che, se per qualche motivo il mulino in questione non avesse potuto
funzionare, i soci avrebbero dovuto portare il grano ai mulini che il monastero possedeva a
Campora. Sembra di capire, quindi, che l’abbazia, dovendo in quel momento vendere o impegnare
la struttura per necessità finanziarie contingenti, tendesse a ribadire chiaramente il proprio tentativo
di monopolio sulla molitura nella zona, cercando di impedire che ci si rivolgesse ad altri impianti
vicini, i quali esistevano294 e sui quali il monastero avrebbe messo le mani solo dopo la metà del
290
Sito 5: il testo della Tavola del 1318 è stato corretto nel 1320; la quota di S. Galgano da 1/3
(valutato 1420 lire) è scesa ad 1/4 (valutato 1065 lire). Sito 15: allo stesso modo la quota che nel 1318
consiste in 1/4 (549 lire) è scesa nel 1320 a 4/18 (488 lire). Sito VII: nel 1318 la Tavola cita un solo mulino in
possesso del monastero a Campora, contro i 4 mulini con gualchiera documentati nella prima metà del XIII
secolo.
291
Exordium Parvum, citato in Farina-Vona, 1988, pp. 34-36.
292
Si veda ad esempio il caso eclatante dell’abbazia di Settimo, presso Firenze (cfr. supra, par. 1.2);
altri confronti, per il Nord Italia, sono le abbazie di Lucedio, Morimondo e Chiaravalle, cfr. Comba, 1985, p.
256.
293
Sull’argomento si veda Barlucchi, 1992, pp. 70-71.
294
Ad esempio doveva già esistere quello di Ripetroso, Sito V, in mano alla comunità di Monticiano.
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secolo295.
Quello del Mulinaccio ‘, tra l’altro, il primo esempio di gestione in comproprietà fra il
monastero e terzi. Anche la comproprietà dei mulini ed altre strutture produttive era vietata dalla
Regola che però, dopo un periodo iniziale, venne un po’ dovunque largamente disattesa. La
gestione dei mulini di S. Galgano nella nostra area è proprio un chiaro esempio di tale inversione di
tendenza, in quanto il monastero cogestiva le strutture con chiunque capitava, da altri enti
ecclesiastici ai comuni, da consorzi di privati a famiglie aristocratiche. I soci del monastero
cistercense erano, infatti, il monastero di Torri (Siti 5, 15, 16 dal 1258; Siti XII, XVI dal 1288), il
monastero di S. Eugenio (Siti 17, X dal 1289), gli Eremitani di Camerata e la Canonica di
Monticiano (Sito V dal 1264), l’Opera Metropolitana (Sito XI, dal 1271), il comune di Monticiano
(Siti IVa, V dal 1249), il conte di Frosini (Sito 19, nel 1271), le famiglie Incontri e Bonsignori (Sito
XI dal 1271), un consorzio di membri delle famiglie Scotti, Giulli e Angelini (Siti 15, 16, 17, X, XII
dal 1256) ed una gran quantità di piccoli proprietari e artigiani non meglio identificabili.
L’importante sembra essere solo l’accaparramento del maggior numero possibile di quote-parti
delle strutture molitorie.
La terza fase, nella politica di gestione degli impianti, è rappresentata dalla concessione in
affitto dei mulini ad operatori laici in cambio di un canone. Di questa pratica, che dalla seconda
metà del XIII sec. viene spesso adottata dall’ordine cistercense296, anche per il monastero di S.
Galgano sono noti alcuni casi. Ad esempio, nel 1289 abbiamo la notizia che i possedimenti di
Monticiano, e forse anche i mulini ivi esistenti, erano gestiti in proprio da un converso297, mentre
nel 1304 il mulino di Moverbia (Sito 7) viene ceduto in affitto ad un abitante del Belagaio per tre
moggia e dodici staia di grano; infine nel 1313 i monaci decidono, in pieno accordo con l’Opera di
S. Maria di Siena, di dare in affitto la propria metà del Mulino di Foiano (Sito XI), i cui contratti di
locazione si susseguono poi regolarmente fin dopo la metà del Trecento. Sulla base di questi soli
dati non si può dire molto, ma l’impressione che si ricava è quella di una certa reticenza, fino ad
epoca relativamente tarda, a rinunciare alla gestione diretta delle strutture molitorie, mentre come
abbiamo detto perle terre essa viene adottata piuttosto presto e su larga scala.
Soltanto alcune parole, infine, a proposito del ruolo svolto dai Cistercensi nella diffusione
delle tecnologie idrauliche. Riguardo alle prime filiazioni di questo ordine ci si è spesso chiesti se i
monaci siano stati degli innovatori ed abbiano sperimentato ed inserito nuove tecnologie nei
territori in cui si insediavano, oppure se abbiano sfruttato mezzi tecnici già noti localmente. Per il
caso dei mulini ad acqua di S. Galgano, fondazione tarda, abbiamo già visto che si può escludere
l’introduzione della tecnica molitoria idraulica nella zona da parte dei monaci. Tuttavia, proprio le
vicende di questa abbazia offrono diversi elementi che confermano l’ipotesi secondo la quale i
Cistercensi avevano messo in piedi, ad uso interno dell’Ordine, una sorta di formazione tecnica e
professionale che permetteva loro di disporre immediatamente, anche in filiazioni lontanissime, di
295
Qualcosa di simile, ma un po’ più tardi, avvenne nel caso dei mulini posseduti dal monastero di S.
Galgano insieme al comune di S. Gimignano: nel 1281 si stabil” un accordo secondo il quale venivano ripartite a metà
le spese per edificare uno dei mulini in comproprietà (l’altro fu rilevato da certi privati) ed il godimento degli utili; il
monastero fu inoltre libero di trasportare e commerciare grani senza pagare dazi, mentre il comune si
impegnava a far sì che i contadini portassero a tali mulini i loro prodotti da macinare, cfr.Barlucchi,1991, p. 91.
296
Qualche esempio: nel XIII sec. in Liguria i monasteri, al pari dei privati, locano i propri mulini con
contratti di varia scadenza e condizione, cfr. Origone, 1974, pp. 96 e sgg.. Alcuni mulini della signoria di S.
Salvatore all’Amiata, soggetti all’abate allo stesso titolo delle terre, sono in mano a privati che pagano un
canone, cfr. Redon, 1982, p. 117.
297
Barlucchi, 1992, p. 73.
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esperti in possesso di ampie conoscenze in materia tecnica298. è notissimo, ad esempio, che fu a
Donno Gnolo, monaco di S. Galgano esperto nelle discipline idrauliche, che il comune di Siena si
rivolse nel 1267 per avere un parere tecnico sulla possibilità di realizzare una derivazione dal fiume
Merse fino alla città, cronicamente afflitta dalla scarsità di acqua299; e ancora i monaci di S. Galgano
ricoprirono a partire dal 1258 l’importante incarico di operarii dell’Opera del Duomo di Siena300,
anche se non sappiamo se si trattava di un incarico tecnico in senso stretto oppure prevalentemente
manageriale, come quello di Camarlinghi di Biccherna301. Un converso di S. Galgano, per fare un
ultimo esempio, sovrintendeva ai lavori di costruzione delle mura del nuovo borgo che il comune di
Siena stava edificando a Paganico302. Una situazione analoga si ritrova anche a Firenze, dove i
Cistercensi di Settimo, filiazione di S. Galgano, ricoprirono le cariche di tesorieri e camarlinghi del
comune, oltre ad assumere la direzione di cantieri per la costruzione di fortificazioni, come quello
per le mura di Buggiano dal 1346 in poi303. Per il caso di S. Galgano si può comunque concludere
che i monaci, per poter in parte creare e in parte gestire una tale rete di opifici idraulici, dovevano
sicuramente distinguersi per capacità tecniche e conoscenze nel campo. Alla fine, però, forse non è
questo che colpisce di più nelle vicende dei loro mulini, bensì lo spirito di imprenditorialità,
l’oculatezza nella gestione, la capacità di approfittare di una buona congiuntura economica, che
permisero loro di realizzare un progetto di così vasta portata.
3.3. A LT RI ENTI ECC LESIA STIC I
Durante il XIII secolo, e soprattutto nella seconda metà, il monastero di S. Galgano ricoprì
indubbiamente un ruolo di primo piano nella gestione dei mulini nella nostra zona, ma molti altri
enti ecclesiastici costruirono impianti molitori o ne furono in possesso almeno in parte. Bisogna,
infatti, sottolineare ancora una volta l’importanza che riveste il tipo di documentazione disponibile
nella ricostruzione di questo quadro. La principale fonte di informazioni riguardo agli impianti
molitori della zona è costituita proprio dai Caleffi dell’abbazia cistercense; di conseguenza, se sono
innegabili la politica di accaparramento attuata da S. Galgano ed una preponderante presenza del
monastero nell’attività molitoria di tutta l’area considerata, è probabile che esse appaiano ai nostri
occhi in un certo senso ingigantite entro la prospettiva offerta dalle fonti consultate. Come vedremo,
298
Bertrand Barri’re ritiene che in campo tecnologico i cistercensi abbiano molto meno innovato che
migliorato, tuttavia constata che a diverse riprese l’Ordine inviò a questa o quella abbazia di recente
fondazione degli istruttori in campi specializzati e non solo in materia di liturgia o canto, ma anche in lavori
idraulici o altro, cfr. Barri’re, 1983, p. 82. Marina Righetti Tosti-Croce (1993a, p. 41) osserva che “se non si
conosce nei singoli dettagli quale sia stato l’apporto dei Cistercensi all’elaborazione di nuove metodologie del
lavoro idraulico, sappiamo però che la loro pratica abituale li portò ad una applicazione su vasta scala di
questo tipo di opere e conseguentemente ad una efficace messa a punto delle varie metodologie,
continuamente confrontata grazie agli incontri annuali dei Capitoli, e dunque omogenee in tutta Europa, senza
sacche di arretratezza”.
299
Canestrelli, 1896, p. 17, riporta il testo della proposta fatta da Bartolomeo Saracini nel Consiglio
Generale: “Supra flumine Merse consuluit et dixit quod mittatur pro donno Gnolo ordinis de Cestello, qui
debeat videre flumen Merse bene et diligenter et si potest derivari et deduci prope Senas, et id quod ipse
dixerit faciendum”.
300
Carli, 1979, p. 13.
301
Canestrelli, 1896, p. 20.
302
Angelucci, 1980, pp. 102-103.
303
Pirillo, 1989, p. 34, nota 43. Per questo caso Pirillo propone l’ipotesi che il sempre più intenso
coinvolgimento dell’abbazia nell’amministrazione cittadina derivasse in gran parte anche dalla volontà dei
monaci di ottenere aiuto e soccorso in caso di incursioni del nemico nel territorio, durante le quali si dava
sistematicamente il “guasto” proprio a tutte le strutture, ed in primo luogo i mulini, legate al
vettovagliamento.
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infatti, sulla base dei dati ricavabili da un pugno di documenti superstiti, sembra che nella nostra
zona altri ordini monastici, quali ad esempio i Vallombrosani, siano stati più precoci e
probabilmente maggiormente innovatori, rispetto ai Cistercensi, nel campo delle tecnologie
idrauliche applicate alla macinazione.
Per quanto riguarda l’alta Val di Merse abbiamo già proposto l’ipotesi che l’abbazia di
Serena possedesse, fin dall’XI-XII sec., alcuni mulini nelle terre lungo il fiume in prossimità di
Chiusdino. Nell’area possedevano mulini anche alcuni enti ecclesiastici minori: i frati Eremitani di
Camerata, presso Monticiano, e la Canonica di Monticiano. I primi già precedentemente al 1223
possedevano degli impianti che vengono citati in modo indiretto, quando ormai sono in rovina, in
un documento che riguarda il Mulinaccio di S. Galgano304; nel 1276, inoltre, tentarono di acquistare
dal comune di Monticiano, che era gravato dai debiti, 2/24 del mulino di Ripetroso (Sito V) e del
mulino con gualchiera di Lupinari (Sito IVa), ma li cedettero immediatamente al monastero di S.
Galgano non avendo sufficienti disponibilità per pagarli. Della Canonica di S. Giusto di Monticiano
sappiamo che nel 1264 possedeva la sesta parte delle due strutture citate sopra, in comproprietà col
comune: erano concesse in affitto a privati per 13 moggia e 12 staia di grano.
Sempre nell’alta Val di Merse si riscontrano interessi nei mulini da parte delle pievi della
zona. La pieve di Luriano riscuoteva lo ius decimarum sui mulini di Campora (Sito VII); il diritto di
decima, comunque, che pertiene tradizionalmente alle pievi ed ai vescovi, non implica affatto la
proprietà delle strutture o di parti di esse305. Le decime in questione risultano cedute dal pievano,
prima del 1221, al conte di Civitella Bonifazio306, che in precedenza era proprietario di parte di
questi mulini. Certamente di proprietà si trattava invece nel caso della pieve di S. Giovanni a
Monte, presso Frosini: nel 1245, infatti, a causa dei debiti accumulati, il pievano vendette la metà di
un mulino sul Frelle al monastero di S. Galgano (Sito 19).
Per quanto riguarda la bassa Val di Merse, iniziatore e maggiore protagonista dello
sfruttamento idraulico, nella zona di Brenna ed Orgia, fu il monastero di Torri. è probabile, come
accennato in precedenza, che il monastero avesse costruito mulini nell’area già dal XII secolo,
momento della sua massima fioritura, o dai primi anni del XIII. Nel 1245, infatti, anno in cui si
progettava di costruire nuovi mulini in comproprietà col comune di Siena, l’abbazia risultava già
proprietaria di altri impianti sul Merse: erano almeno due, uno denominato de Saxis (Sito 5) e l’altro
de Volta307. Questi impianti, ancora in un documento della seconda metà del XIII sec. risultano
infatti interamente di proprietà del monastero, senza la partecipazione di altri soci. Le strutture
superstiti del mulino de Saxis, inoltre, individuate sul versante del poggio di Montestigliano, sono
costruite con una tecnica muraria molto accurata, che sembra riportare ad un ambito cronologico di
XII.
Per alimentare questi due mulini, i monaci realizzarono lo scavo del primo tratto di una lunga
gora, che probabilmente solo in seguito fu prolungata per servire i mulini del Pero, Serravalle e
Palazzo nella pianura tra Brenna, Stigliano ed Orgia (Siti 15,16,17). Al 1245, infatti, risale l’atto
304
Sito 10 UT 1: in occasione della vendita di metà del mulino, tra gli accordi stipulati con gli
acquirenti, si prevede che, in caso di necessità, l’impianto possa essere spostato e ricostruito in terre del
monastero che confinano coi mulini un tempo appartenenti agli Eremiti; nello stesso documento l’abate si
riserva la possibilità di restaurare o ricostruire mulini nel luogo, dal che consegue che probabilmente gli
edifici preesistenti erano all’epoca in rovina.
305
Cfr. Castagnetti, 1986, p. 510.
306
La cessione delle decime a laici, da parte di vescovi o rettori di chiese, sotto forma di livello
perpetuo o limitato alla vita dell’investito, è documentata già a partire dal IX sec. e diventa usuale dopo il X,
cfr. ivi, pp. 516-519.
307
Sito XVI: nel 1288 è citato nel contratto di vendita del mulino de Saxis come casa que domus
dicitur molendinum de Volta, posta nelle immediate vicinanze del mulino precedente; la definizione di questa
struttura come “casa”, potrebbe far pensare che essa fosse in questo periodo ormai inattiva e ridotta a
semplice abitazione.
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con il quale il monastero fu preso sotto la formale tutela del comune di Siena: in quella occasione
l’abate Alberto promise al podestà di Siena di costruire su terra del monastero, nel tratto tra il
mulino de Saxis e la steccaia Cathalani et filiorum Guazini, due edifici ospitanti quattro palmenti.
Tutte le spese di costruzione e manutenzione dovevano essere a carico dell’abbazia, la quale in
cambio si riservava i proventi di tali strutture per cinque anni, dopodiché esse sarebbero state gestite
in comproprietà con il comune. Si prevedeva, inoltre, di costruire eventualmente in seguito, a monte
del mulino de Saxis, un altro edificio con quattro palmenti, sempre su terra del monastero, i cui
proventi sarebbero stati subito a metà con il comune. Infine si concedeva al comune di costruire per proprio
conto, se lo avesse voluto, dei mulini su terra del monastero, con la possibilità di prelevare tutto il
legname e le pietre necessarie all’edificazione308. Le due strutture in questione erano il Mulino del
Pero (Sito 15) ed il Mulino di Serravalle (Sito 16); quando, nel 1258, il comune di Siena venderà la
sua parte di questi due notevolissimi impianti, l’abbazia di Torri si ritroverà in comproprietà col
monastero di S. Galgano e con i suoi tre soci.
Oltre a questi opifici, l’abbazia di Torri nel 1262 risulta proprietaria, sempre nel piano di
Orgia, di una quota non precisata del mulino delle Guazzine (Sito XII), che appare suddiviso tra
numerosi soci. Per il terzo mulino citato nel documento del 1245, rimangono dubbi se esso fu poi
effettivamente costruito: nella zona immediatamente a monte del mulino de Saxis non si sono
riscontrate tracce di altre strutture, ed è difficile fare delle ipotesi sul luogo dove eventualmente
poteva trovarsi, data la mancanza di qualsiasi indicazione topografica nel documento in questione.
Si potrebbe comunque ipotizzare che ci si riferisse alle strutture di Mallecchi, luogo in cui l’abbazia
possedeva delle terre, sulle quali mulini erano sicuramente presenti nel 1262 e dove, agli inizi del
XIV sec., si trovavano le gualchiere possedute in comproprietà tra il monastero di Torri e l’Arte
della Lana di Siena (Sito IX).
Sulla base di quanto detto sin qui, nonostante le notizie riguardanti i mulini di Torri
provengano da un ristrettissimo numero di documenti, ritengo che in questo monastero si possa
individuare uno dei primi e principali innovatori nel campo delle tecnologie idrauliche per la zona
indagata: l’abbazia non acquistò mulini, ma fu tra i primi a costruirne, e si tratta delle più imponenti
strutture tra tutte quelle individuate, in grado di raggiungere altissimi livelli produttivi309. La gora
che i monaci scavarono per alimentare questi opifici era una realizzazione di alta ingegneria
idraulica, che comportò il superamento di notevoli difficoltà tecniche e l’impiego di una grande
forza-lavoro310, ma che una volta ultimata era in grado di garantire la macinazione in più impianti
per tutto l’arco dell’anno. Dal punto di vista economico, è piuttosto chiaro che l’operazione del
1245 fu un investimento di tipo essenzialmente commerciale: anche in questo caso, come abbiamo
visto avvenire per S. Galgano, se per le strutture molitorie preesistenti si poteva pensare al
fabbisogno interno del monastero, o a strumenti di controllo sul territorio, o a rendite provenienti
dagli abitanti del luogo, l’accordo col comune di Siena si inseriva ormai in una prospettiva più
vasta, che guardava soprattutto al crescente fabbisogno alimentare del vicino centro urbano.
Lungo il basso corso del fiume principale, nel tratto rettilineo e pianeggiante a sud di Orgia,
investivano in mulini altre tre importanti istituzioni: il monastero di S. Eugenio di Siena, l’Ospedale
del S. Maria della Scala e l’Opera del Duomo. Il primo, di antichissima fondazione, era stato fin
dall’origine dotato di terre nella zona di Orgia, Montecapraia, Filetta, Cerreto a Merse, ma di questi
non
possedimenti non si hanno molte notizie nei secoli successivi311. Di mulini del monastero
sappiamo niente fino al 1289, quando esso risulta proprietario del mulino della Petriera ubicato nei
pressi di Frontignano (Sito X): è possibile che tale impianto, sorto in una zona dove si trovavano
antichi possedimenti dell’abbazia, fosse già da tempo di pertinenza di quest’ultima. Come spesso
308
Per questo documento v. Catalogo, Sito 15.
Cfr. supra, par. 2.2.
310
Per la descrizione dei particolari tecnici di questa struttura cfr. supra, par. 2.1.
311
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 389.
309
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avviene, veniamo a sapere dell’esistenza della struttura in seguito ad una controversia, nella
fattispecie quella sorta tra S. Eugenio ed il monastero di S. Galgano coi suoi soci, a causa dei danni
reciproci che la vicinanza dei due mulini, evidentemente ubicati lungo la stessa gora, provocava per
la regolarità di afflusso delle acque. La lite venne risolta mettendo in piena comproprietà le due
strutture ed alcuni appezzamenti di terreno su cui passava il canale alimentatore.
L’Ospedale del S. Maria della Scala, probabilmente l’ente religioso-laicale economicamente
più importante della Siena bassomedievale312, dotato di un vastissimo patrimonio fondiario dislocato
soprattutto nella Val d’Arbia, mostra piuttosto precocemente un interesse anche verso una struttura
molitoria in Val di Merse: il mulino di Mugnone (Sito 14). Quest’ultimo compare per la prima volta
nella documentazione nel 1237, quando due privati donano all’Ospedale 3/8 dell’impianto; a questa
prima donazione ne seguiranno altre ed anche acquisti da parte dell’ente tra 1240 e 1248.
L’Ospedale, inoltre, intorno al 1275 si mostra estremamente pronto ad appropriarsi di alcune quote
dello stesso mulino in seguito al mancato pagamento dei debiti che alcuni comproprietari avevano
contratto con l’ente stesso. Acquisti di piccole quote della struttura, da parte del S. Maria della
Scala, proseguono nel 1281, 1284, 1286: il tentativo di ricostruire la proprietà appare piuttosto
lungo e difficoltoso, soprattutto a causa dell’estrema frammentazione delle quote, che arrivavano
fino ad 1/32. L’interessamento a questo mulino - fra l’altro piuttosto decentrato rispetto ai nuclei più
consistenti dei possessi fondiari dell’Ospedale - come abbiamo detto ci appare piuttosto precoce in confronto ai grandi
investimenti in impianti molitori che questo ente, il più grosso produttore di cereali del Senese, dispiegò
soprattutto nella prima metà del XIV secolo313. Di un altro mulino appartenente al S. Maria della Scala, questa volta sul
Farma, abbiamo notizia molto più tardi, nel 1380, quando l’Ospedale venderà la propria metà di un impianto ubicato nei
pressi dei Bagni di Petriolo (Sito 12).
Ad un altro opificio sul Merse, quello di Foiano (Sito XI), si volgono invece gli interessi
dell’Opera Metropolitana di Siena, istituzione il cui compito principale era la vigilanza sulla
fabbrica della Cattedrale, ma che amministrava anche un vasto patrimonio immobiliare nel
contado314. L’Opera, congiuntamente al monastero di S. Galgano, attorno al 1271-72 comincia a
rilevare quote del mulino soprattutto da membri della famiglia Bonsignori. Principale artefice di tali
acquisti fu il famoso Frate Melano, che agiva sia in qualità di monaco di S. Galgano, sia in qualità
di operarius, ossia responsabile, dell’Opera di S. Maria. L’ente nel 1282 possedeva 16/60 della
struttura e la stessa quota nel 1305. è interessante notare come in due documenti di quegli anni la
proprietà dell’Opera sia ambiguamente identificata con quella del comune di Siena: ciò si spiega
evidentemente con il fatto che in questo momento è in pratica ormai assoluta la compenetrazione tra
ente di governo cittadino ed ente preposto alla fabbrica del Duomo315.
312
L’Ospedale, che compare per la prima volta nella documentazione nel 1090, fu probabilmente
fondato nella seconda metà dell’XI sec. su ispirazione del Capitolo della Cattedrale. Esso si staccò tuttavia
piuttosto rapidamente dalla tutela canonicale e vide un sempre più profondo coinvolgimento nel governo della
cosa pubblica e nell’economia senese: basti pensare alla funzione di prestatore di denaro all’erario e a quella
di calmiere del prezzo del grano cui il comune, in casi di carestia, imponeva la vendita dei cereali a prezzo
controllato. Tali funzioni erano imposte dal comune in cambio di protezione, sgravi fiscali, appoggio nelle
cause civili. Sulle vicende dell’Ospedale, la formazione del patrimonio fondiario, l’intreccio profondo tra
matrice religiosa e laica nella sua storia, si rimanda a Balestracci-Piccinni, 1985, pp. 22 e 25; Epstein, 1986, p.
7 e sgg..
313
Sono ben note le vicende dei grandi mulini sull’Arbia costruiti dall’Ospedale: intorno al 1323-24
quello fortificato di Monteroni, dal 1343 quello di Buonconvento, dagli anni ‘70 quello di Isola d’Arbia, v.
Epstein, 1986, pp. 73 e sgg., 83-90; Balestracci, 1990b. Inoltre nella prima metà del XIV sec. l’Ospedale entrò
in possesso, per donazione o acquisto, di numerosi altri mulini sparsi su tutto il territorio senese, v. Epstein,
1986, p. 89.
314
Sull’Opera di S. Maria v. Moscadelli, 1995.
315
Su tale aspetto ivi, p. 13.
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3.4. I PROP RIETARI LAICI
Quello del ruolo svolto dai privati laici nella costruzione o gestione di impianti molitori entro
la nostra zona rimane un capitolo abbastanza oscuro nel quale, con le poche informazioni
disponibili, è possibile aprire solo alcuni spiragli. Ciò dipende essenzialmente dal tipo di
documentazione rimasta, per lo più di origine ecclesiastica, che rischia di falsare in parte le
prospettive, evidenziando e testimoniando soprattutto quanto concerne il mondo degli enti religiosi,
ma lasciando più in ombra il resto. Anche nel nostro caso, infatti, ci troviamo di fronte ad un
problema tipico della documentazione di questo periodo, cioè l’assenza di gruppi di documenti
giuntici per tramite di archivi familiari. Come spesso avviene, quindi, la possibilità di conoscere
qualcosa riguardo ai laici dipende in generale dal fatto che essi abbiano intrecciato relazioni con
qualche ente ecclesiastico - nel nostro specifico caso con l’abbazia di S. Galgano, vista la quasi
totale dispersione degli archivi appartenenti agli altri organismi religiosi della zona - tra le cui carte
possono essere stati inglobati documenti che li riguardano316.
Per quanto ci concerne, dunque, possiamo contare sul fatto che entro la documentazione
dell’abbazia cistercense si trovano spesso delle carte il cui oggetto è costituito da determinate
proprietà per il periodo precedente alla loro acquisizione da parte dell’ente monastico, o
naturalmente molte in cui laici compaiono come cedenti delle strutture: questo consente di fare
qualche osservazione anche riguardo alla loro presenza ed al loro ruolo. A ciò si aggiungono, ma
solo a partire dalla seconda metà del XIII sec., alcune sporadiche notizie provenienti da fondi di
famiglie private, che possono fornire qualche ulteriore informazione perlomeno sull’identità di certi
proprietari.
Due problemi in gran parte da chiarire sono l’eventuale origine signorile di alcuni mulini ­
documentati a partire dal XIII sec., ma che probabilmente esistevano già in precedenza - e
l’eventuale esistenza, precedentemente al periodo in cui i mulini cominciano a comparire nella
nostra documentazione, di diritti signorili sugli impianti dislocati nel territorio sottoposto al
controllo delle grandi famiglie comitali, come gli Ardengheschi o i Gherardeschi. Queste
consorterie, infatti, detenevano il dominatus loci sulle aree controllate, che si esprimeva esercitando
diritti non solo sulle terre proprie, ma anche su tutto il territorio sottoposto alla loro giurisdizione. In
genere questi diritti riguardavano le strade pubbliche, i corsi d’acqua, le foreste, i pascoli, cioè tutti
quei beni che non rientravano nella proprietà privata, ma erano per tradizione destinati ad uso
comune317. Dai diritti esercitati sui corsi d’acqua derivava, com’è ovvio, il controllo sui mulini, in
quanto la costruzione di queste strutture era in genere subordinata ad uno speciale permesso del
signore, il quale ritraeva poi un utile da tutti i mulini del territorio o sotto forma di una percentuale
sul macinato, oppure della disponibilità gratuita degli impianti per determinati periodi318.
È altamente probabile, dunque, che un legame tra mulini e signori locali sia esistito anche
nella nostra zona, ma su tale aspetto la documentazione è scarsissima319. Dobbiamo dunque
accontentarci, ancora una volta, di indizi: in primo luogo il già citato atto di fondazione dell’abbazia
di Serena dove, tra i diritti concessi dai conti Gheradeschi, compaiono esplicitamente quelli sulle
316
Su questi aspetti cfr. Cammarosano, 1991b, p. 55.
Sulla signoria, i diritti giurisdizionali, il dominatus loci e il banno, si vedano: Cammarosano, 1974a,
pp. 15-92; Tabacco, 1979, pp. 240-257; Sergi, 1986, pp. 381-386 (in particolare sui mulini p. 384);
Cammarosano, 1991b, pp. 84-85.
318
Per degli esempi toscani si vedano Cherubini, 1974, pp. 207 e 221 ed il caso del mulino di
Tintinnano in Cammarosano, 1974a, p. 22 e doc. 10 a p. 51. Riguardo ai diritti esercitati sulle acque da signori
laici, si rimanda a quanto accennato nella nota 259 ma soprattutto alla bibliografia ivi citata.
319
Abbiamo visto in precedenza, nel paragrafo 3.1, i problemi derivanti dalla perdita dei fondi
documentari dei maggiori enti ecclesiastici della zona, in particolare l’abbazia di Serena e quella di S.
Lorenzo al Lanzo, che avrebbero potuto fornire notizie sul tipo di diritti signorili esercitati dalle due più
importanti famiglie della zona, i Gherardeschi e gli Ardengheschi.
317
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acque e sui mulini. In un secondo caso, ma il contesto non è chiarissimo, è forse possibile
riscontrare una traccia di residui diritti bannali sui mulini. Si tratta della cessione ad un certo
Burgundione di Dono di Luriano, avvenuta nel 1209, dei quattro mulini con gualchiera di Campora
(Sito VII), i quali risultano suddivisi tra Ranieri di Ciolo, Paganello e Bernardino di Ugolino e
Bonifazio di Guido, tutti conti di Civitella, appartenenti cioè al ramo ardenghesco320. Nel 1221
Bonifazio dona al monastero di S. Galgano ogni azione e diritto sui mulini sunnominati ed inoltre lo
ius decimarum, che era stato a lui concesso dal pievano di Luriano. Questa cessione si differenzia
dalle altre, riguardanti questi ed altri mulini, in quanto è l’unica in cui non ci si riferisce in concreto
alla proprietà delle strutture o loro parti (che fra l’altro il conte aveva già venduto in precedenza),
ma si parla solo dei diritti su di esse. Infatti in quasi tutti i documenti di questo tipo si specifica,
spesso con l’espressione fissa cum omnibus iuris et pertinentiis, la cessione di diritti di derivazione
delle acque, ma sempre con preciso riferimento alla parte o alle parti vendute della struttura. Ma
l’indizio certamente più chiaro, ancorché piuttosto tardo, riguarda il mulino sul Frelle, presso
Frosini, che nel 1271 risulta appartenere in parte al monastero di S. Galgano ed in parte ad Ugolino
di Bartalo, detto Moscone, conte del soprastante castello e membro della casata gherardesca.
Quando nel 1273 Ugolino, insieme a Filiano di Filiano della Suvera, cederà al monastero il castello
di Frosini con tutte le sue proprietà (tra cui la quota del suddetto mulino), l’atto di cessione
elencherà numerosi diritti signorili, tra i quali espressamente quelli sui molendinis et in difitiis
un caso che il più esplicito riferimento a diritti
molendinorum321 del distretto castrense. Non è
bannali sui beni di uso comune e sui mulini compaia in relazione ad una signoria di castello forte e
ben strutturata, anche se ormai in declino, quale era stata quella dei Gherardeschi su Frosini.
Al di là di questi casi, le fonti su tale questione non ci dicono altro. Va fatta comunque una
constatazione: quando i mulini, ormai in pieno XIII sec., cominciano a comparire numerosi nei
documenti, essi risultano svincolati da ogni residuo di banno signorile, sembrerebbero cioè
proprietà allodiali, patrimonio di singoli privati, aristocratici e non, soggette senza alcun vincolo
limitativo a trasmissione ereditaria, donazione, compravendita.
Raramente compaiono notizie esplicite, nelle fonti consultate, riguardo ad iniziative di
costruzione ex novo di mulini da parte di famiglie aristocratiche o comunque in generale di laici, ma
ciò è dovuto quasi certamente alla carenza della documentazione stessa. Una chiara iniziativa da
parte di due importanti famiglie senesi si riscontra, ad esempio, per il mulino di Foiano (Sito XI):
costruito attorno al 1260, era diviso in quote tra alcuni membri della famiglia Bonsignori e di quella
Incontri; soltanto a partire dal 1271 nella proprietà della struttura subentreranno il monastero di S.
Galgano e l’Opera del Duomo di Siena, che assorbiranno progressivamente le quote dei proprietari
laici - i quali più volte sembrano versare in difficoltà e sono costretti ad impegnare parti del mulino
come garanzia di prestiti mascherati - fino alla loro definitiva estromissione.
A parte il caso citato, comunque, anche per altri mulini, riguardo ai quali non compare mai, o
solo tardivamente, la proprietà di enti ecclesiastici, è logico presumere una iniziativa laica
nell’originaria edificazione322. Anche per il mulino di Torniella, riguardo ai cui proprietari non
sappiamo assolutamente nulla se non in epoca tarda, è possibile ipotizzare una iniziativa laica e
320
Si tratta di Paganello e Bernardino di Ugolino, che in una sottomissione del 1179 risultano conti di
Pari mentre nel 1187 e 1194 sono nominati come comites de Civitella (Angelucci, 1982, p. 123 e genealogia a
p. 153). Abbiamo poi Ranieri di Ciolo, certamente identificabile con Ranieri di Giollo, personaggio meno
noto, ma che compare nell’atto del 1194 tra i conti di Pari e Civitella (ivi, p. 132 e genealogia a p. 153); infine
il conte Bonifazio figlio di Guido, che in un privilegio del 1221 concesso da Federico II a Ildibrandino
Aldobrandeschi compare tra i suoi fideles (ivi, p. 126 e genealogia a p. 154).
321
Per la trascrizione del documento si veda il Catalogo, Sito 19.
322
Ad esempio, nel XIII sec., i già citati mulini di Campora (Sito VII), il mulino di Pelago Mare (Sito
7), il Mulino di Mugnone (Sito 14), e nel XIV sec. quelli di Castiglion Balzetti (Sito XIV), di Montarrenti
(Sito XV) e di Montecapraia (Sito XVII).
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probabilmente signorile: infatti, l’assenza nella zona di grandi domini ecclesiastici e la dislocazione
topografica del mulino in stretta connessione con il castello soprastante, potrebbero far pensare ad
una relazione con i signori locali, della dinastia di un Ranieri, qui attestati tra fine XII e metà XIII
sec. ed inseriti nel più ampio dominio aldobrandesco323.
Ma passiamo rapidamente in rassegna i proprietari di queste strutture. Innanzitutto abbiamo
visto che mulini erano compresi tra i possedimenti di grandi famiglie comitali o di signori locali: è
il caso dei mulini citati tra le proprietà dei Gherardeschi nel 1004, dei mulini sul Merse quondam
Guaschi, di quelli appartenenti ai conti Ardengheschi a Campora e dell’impianto posseduto in parte
dal conte di Frosini. In secondo luogo compaiono le casate aristocratiche senesi o membri di
famiglie agiate probabilmente della ricca borghesia: ho infatti inserito in questo gruppo, oltre che
gli appartenenti a famiglie senesi i cui nomi sono ben noti ed identificabili, anche tutti quei
personaggi che compaiono nei documenti insigniti del titolo di dominus. è da notare che, tra i
proprietari laici di mulini, coloro che sono indicati con tale titolo rappresentano la netta
maggioranza324. Tra i nomi più noti di importanti famiglie cittadine nel XIII sec. compaiono i già
citati Incontri e Bonsignori per il mulino di Foiano (Sito XI), e ancora gli Incontri e i Tolomei nel
mulino di Mugnone (Sito 14). A partire dal 1258 i principali soci dell’abbazia di S. Galgano nei
mulini del Pero (Sito 15), Serravalle (Sito 16), Palazzo (Sito 17), Guazzine (Sito XII), Frontignano
(Sito X) sono un ricco componente della famiglia Scotti325 ed uno della famiglia Ardengheschi 326.
Per quanto riguarda il XIV secolo vediamo che i Saracini possiedono un mulino nella loro corte di
Castiglion Balzetti (Sito XIV) e che il mulino di Montarrenti (Sito XV) appartiene per una porzione
non specificata a Johannes domini Meschiati, della famiglia dei Petroni, padrone anche del cassero
e della maggior parte dei beni in zona. Sempre a Giovanni dei Petroni, probabilmente la stessa
persona, apparteneva nel 1318 un mulino con gualchiera in corte di Montecapraia (Sito XVIII), il
cui cassero e fortezza risultavano divisi tra lui ed il fratello Caterino. Infine nel 1338 alcune quote
del mulino di Rigocervio (Sito XVIII) vennero vendute da un Tolomei ad un Forteguerri.
Nelle carte concernenti i mulini della nostra zona compare anche, pur se in minore misura,
una folla di piccoli proprietari privati, dei quali poco sappiamo, che potrebbero essere artigiani o
mercanti, ma di cui solo in pochi casi si specifica l’attività: ad esempio nel 1223 tra gli acquirenti
del Mulino Vecchio (Sito 10 UT 1) - definiti genericamente mercatores - compare anche un medico
e nel 1303 due maestri dell’arte della legna posseggono una quota del mulino di Ripetroso (Sito V).
Questi personaggi detenevano in prima persona piccole quote dei mulini, oppure erano riuniti in una
sorta di consorzi, come nel caso dei 14 privati che acquistarono la metà del succitato Mulino
Vecchio. Un altro esempio sono i numerosi proprietari elencati nel 1262, insieme all’abbazia di
Torri e ad un dominus iudex Tommaso di Pietro, per il mulino delle Guazzine (Sito XII). Di altri
non conosciamo che i nomi e talvolta non viene nemmeno precisamente specificata la loro quota di
proprietà. Una buona porzione possedevano Simone di Giovanni di Torri (1/3) e Guiduccio di
323
Cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, p. 368.
V. Catalogo, passim. Per un confronto di vedano le osservazioni di Catherine Dussaix (Dussaix,
1979) sul caso di Reggio Emilia: su 172 nomi di proprietari solo 23 non hanno la qualifica dominus. Tuttavia
questo titolo crea alcuni problemi interpretativi per quanto riguarda una precisa collocazione sociale di chi lo
deteneva, in quanto nel XIII secolo ha sì ancora valore di titolo onorifico, ma non è riservato solo alle grandi
famiglie aristocratiche, bensì anche ai nobili inurbati, ai magistrati comunali, agli uomini di legge ed ai grossi
mercanti e banchieri, cfr. Bowsky, 1986, p. 54.
325
Si tratta di Pietro di Scotto. A questo stesso personaggio, nel 1265, l’abate di S. Lorenzo al Lanzo,
oberato dei debiti, venderà alcune ville, nonché redditi, affitti e servizi tributati al monastero da alcuni coloni;
la vendita fu approvata e ratificata dai signori di Pari, Fornoli, e Civitella, cfr. Angelucci, 1982, p. 124.
326
Si tratta di Viviano Giulli o di Giollo; suo figlio, Dietaviva o Viva Viviani, che compare più volte
come suo erede nella nostra documentazione (v. Sito 17), è citato nel 1318-20 tra i signori di Pari e di terre tra
Ombrone e Merse (cfr. Cherubini, 1974, p. 291): è quindi molto probabile l’identificazione del Viviano Giulli
socio di S. Galgano nel 1258 con un discendente di Ranieri Giulli, conte di Pari e Civitella (cfr. nota 320).
324
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Andrea di Rosia (1/2) nel piccolo mulino di Montarrenti (Sito XV); una certa dose di iniziativa nel
settore mostra poi un certo Paganello di Iammorde, che tra il 1258 e il 1261 ricostruisce la proprietà
del mulino di Pelago Mare (Sito 7) ricomprandone varie quote divise tra alcuni domini
precedentemente proprietari. è difficile da inquadrare, infine, la figura di Iacopo Angelini, che nel
1258 compare come socio del monastero di S. Galgano, Pietro Scotti e Viviano Giulli nel grosso
affare dei mulini di Orgia e Brenna (Siti 15, 16, 17), ma che già nel 1262 è completamente sparito
dalla proprietà di questi mulini e le cui quote sono state riassorbite dagli altri soci: è probabile che
abbia dovuto ritirarsi per problemi finanziari.
Un dato emerge con una certa chiarezza: a fianco di una proprietà ecclesiastica consistente,
tendenzialmente omogenea e piuttosto salda nel lungo periodo, quella laica risulta più mobile,
frazionata (soprattutto a causa delle suddivisioni ereditarie), spesso freneticamente soggetta a
passaggi di mano. Proprio per questo essa è anche più difficile da definire con chiarezza nei suoi
contorni, in quanto raramente è possibile seguirne l’evolversi attraverso una documentazione di
matrice essenzialmente ecclesiastica. Si deve tuttavia sottolineare la massiccia presenza in questo
settore di un po’ tutta l’aristocrazia mercantile senese ed il forte carattere di investimento che
assumono le strutture molitorie, spesso costruite, acquistate e gestite mediante dei veri e propri
consorzi, sistema che evidentemente permetteva di ammortizzare meglio le ingenti spese che gli
interessi in questo settore comportavano.
3.5. I L COM UNE DI S IENA
Com’è noto, Siena sorge al centro di un territorio fra i più aridi della Toscana: mancano, nelle
immediate vicinanze della città, non solo fiumi navigabili, o perlomeno a portata perenne, ma anche
torrenti di una certa consistenza. Per tutta l’epoca medievale, e soprattutto nei secoli di maggiore
sviluppo demografico ed economico del centro urbano, la storia di Siena è segnata dalla mancanza o
almeno dalla scarsità d’acqua, che condizionò pesantemente gli usi alimentari ed industriali della
città, costringendo i vari governi cittadini ad affrontare, spesso in situazioni di emergenza, questa
328
, nell’ambito di un contributo
spinosa questione327. A tale proposito Duccio Balestracci
sull’origine e lo sviluppo della rete di bottini - cioè acquedotti - sotterranei medievali, ha messo in
luce tutta una serie di problematiche strettamente legate alla scarsità d’acqua in Siena durante il
periodo comunale: le difficoltà alimentari derivanti dai problemi per la macinazione, l’insufficienza
di acqua potabile nel momento di massima espansione della città, la situazione di inferiorità rispetto
alla vicina Firenze nella produzione dei panni di lana, le difficoltà per le attività produttive del
cuoio e del ferro, la conseguente continua, affannosa ricerca di nuove vene d’acqua, cui si
riconnettono le famose leggende sull’esistenza di fiumi sotterranei sotto la città329.
Proprio il problema della macinazione divenne particolarmente urgente a partire dalla prima
metà del Duecento, quando la domanda di farina da parte di una popolazione in rapido aumento si
327
Si pensi invece alla situazione diametralmente opposta delle ricchissime risorse idriche in molte
città del nord Italia - ma anche nelle più vicine Firenze e Pistoia ñ, con conseguente enorme diffusione delle
ruote idrauliche all’interno delle stesse mura cittadine. Per citare solo alcuni esempi si vedano Reggio Emilia
(Dussaix, 1979), Bologna (Pini, 1987), Padova (Bortolami, 1988), Verona (Varanini, 1988) e appunto Firenze
(Muendel, 1981; Muendel 1991a) e Pistoia (Muendel, 1972).
328
Balestracci, 1984 a.
329
Vale la pena di richiamare alcune osservazioni, che si vanno moltiplicando negli studi sulla
diffusione delle macchine idrauliche in età comunale, a proposito dello stretto rapporto tra lo sfruttamento
dell’energia dell’acqua e l’evoluzione economica e sociale delle città nei secoli decisivi della loro crescita. I
mulini e le altre macchine idrauliche, infatti, si rivelano spesso essenziali per il decollo dell’economia
cittadina e sono inoltre strutture capaci di produrre particolari esiti socio-ambientali nella organizzazione dello
spazio urbano. Cfr. Bortolami, 1988, p. 282;Varanini,1988, pp. 334-335; Montanari Pesando, 1993,pp. 11 e sgg.
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fece sempre più alta. Il Duecento è difatti il secolo nel quale l’andamento demografico della città
medievale sembra raggiungere il culmine330, mentre le colture cerealicole si estendono al limite del
possibile331, ed è evidente la stretta connessione che lega questi due fenomeni all’attività molitoria.
Per poter macinare si cercarono varie soluzioni e, nonostante intorno alla città non ci fossero
corsi d’acqua di rilievo, ci si arrangiò come si poteva, costruendo mulini sul torrentello Tressa, che
scorreva in prossimità delle mura, soprattutto fuori della porta di Fontebranda332, o su altri rigagnoli
dei dintorni, come il Riluogo, il Bozzone, il Bolgione333. Il comune rivolse inoltre la sua attenzione,
tra ‘200 e ‘300, al progetto di costruzione di una serie di molendina sicca nella Montagnola ed alta
Val d’Elsa, per impedire che gli abitanti, in caso di estrema necessità, fossero costretti ad andare a
un
macinare fuori del territorio senese334. Negli anni ‘30 del XIII sec. abbiamo anche notizia di
tentativo di utilizzo del motore eolico, dei cui esiti, probabilmente scarsi, non sappiamo nulla335.
Ma è evidente che per ovviare ad un così forte condizionamento ambientale, l’unica
soluzione radicale era quella di portare il grano a macinare in località più lontane dalla città. Una
zona ricca d’acqua tra quelle dislocate ad una distanza relativa, e da Siena politicamente controllate,
era proprio l’area oggetto di questa indagine e ad essa, a partire dagli anni ‘40 del Duecento, il
comune guardò come al principale polo di macinazione del grano. Che tale soluzione fosse
inevitabile, per quanto economicamente onerosa rispetto alla situazione di città che potevano
contare sulla presenza di corsi d’acqua al loro interno, lo si legge a chiare note ancora in un testo del
1388 dove si lamenta la “caristiam macinatus propter defectum aque molendinorum Tresse et
aliorum propinquorum unde expedit eis ire ad macinandum ad molendina Merse et alia loca remota
civitatis Senarum”336.
Dopo il 1245, dunque, in seguito all’accordo già descritto e citato più volte nei paragrafi
precedenti, il comune di Siena divenne comproprietario, insieme all’abbazia di Torri, dei due grandi
complessi molitori a quattro palmenti del Pero e di Serravalle (Siti 15 e 16), oltre che di un altro
impianto a quattro palmenti, sempre in zona, se effettivamente esso fu costruito. Decisamente tale
accordo contiene in sé delle clausole particolarmente vantaggiose per il comune: tutte le spese di
edificazione e manutenzione ricadevano sull’abbazia, anche se essa come compenso si riservava gli
utili per cinque anni; il monastero doveva quindi garantire di mettere a disposizione sia le terre di
sua proprietà, sulle quali dovevano essere costruiti gli edifici e realizzati i canali di derivazione, che
330
Si ricordi che Siena nei decenni tra fine ‘200 e anni ‘30 del ‘300 è certamente una delle maggiori
città italiane, con più di 40.000 abitanti, cfr. Ginatempo-Sandri, 1990, p. 106. Per l’accrescimento
demografico ed urbanistico della città dopo la metà del XII secolo, v. anche Sestan, 1961.
331
Per l’espansione della cerealicoltura anche su terreni poco adatti cfr., a livello europeo, Duby, 1970,
I, pp. 99 sgg.; sulla produzione cerealicola toscana e in particolare quella senese, cfr. Pinto, 1982, pp. 140 e
sgg.; per l’espansione delle colture nella nostra area durante il XIII, si veda la bonifica del padule di Orgia,
cfr. infra, nota 340.
332
Balestracci, 1981, p. 128: nel XIV sec. sono almeno otto, ma lamentano grossi problemi di scarsità
d’acqua. All’interno delle mura cittadine si ha notizia, nel tardo Trecento, di un mulinetto per arrotare il ferro
situato nel Borgo Nuovo di S. Maria e del mulino di un tintore nel Piano di Follonica, che utilizzavano piccole
vene locali, cfr. Balestracci-Piccinni, 1977, p. 161.
333
Dalla Tavola delle Possessioni risulta che ne esistevano tre sul Riluogo, tre sul Bolgione, due sul
Bozzone, cfr. Cherubini, 1974, pp. 273-274.
334
Balestracci, 1981, pp. 128-131: di questo progetto si parla fino al 1334, ma forse non se ne fece mai
di niente. Anche nel Constituto del 1262 ci si preoccupa di “quid faciendum sit de blada perferenda ad
molendinum vel molendina comunis et ad alia de iurisdictione Senarum, et non ad alia extra iurisdictionem
Senarum” (Zdekauer, 1897, p. 351).
335
La notizia si trova nel Caleffo Vecchio (Cecchini, 1932-1991, II, p. 534): nel 1237 due “magistri
molendinorum ad ventum” domandano al comune di Siena di poter costruire mulini a vento in cima al Monte
Martini.
336
Balestracci-Piccinni, 1977, p. 163, nota 38.
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la manodopera ed i materiali da costruzione, oltre naturalmente al bagaglio di competenze tecniche
necessarie per portare a termine tali opere. In questa prima fase, dunque, il comune non sembra
poter prescindere dalla collaborazione con l’ente monastico per la realizzazione del progetto:
l’appoggio fornito dai monaci di Torri - evidentemente dotati di collaudata esperienza nel campo
degli impianti idraulici e particolarmente partecipi alle affermazioni ed allo sviluppo dell’organo di
governo cittadino - dovette quindi essere decisivo, sia dal punto di vista economico che tecnico, per
garantire il successo dell’ente comunale nell’arricchire di ruote il paesaggio del contado. Tuttavia la
formazione di una vera e propria società con il comune di Siena, che si era da tempo avviato verso
un controllo integrale dei flussi di grano337, poteva portare anche all’abbazia dei vantaggi economici
notevoli, con l’arrivo di grossi introiti derivanti dalla molitura su vasta scala di cereali destinati al
mercato urbano.
Che su questa zona si fosse ormai concentrata l’attenzione del comune lo dimostra poi la
costruzione nell’anno seguente, il 1246, sotto l’impulso del podestà Gualtieri da Calcinaia, del
grande Mulino Palazzo (Sito 17) ai piedi dell’altura di Orgia, questa volta assumendo l’intero carico
dell’edificazione, ma sfruttando le stesse opere di derivazione realizzate dai monaci di Torri338. Lo
dimostra, inoltre, anche il progetto, inserito nel Constituto del 1262, “de construendis molendinis pro
comuni Senarum et quot in flumine Merse a molendinis de Mallecchio usque ad molendina de Rigocervio”339
(l’indicazione topografica è estremamente vaga ed ampia, comprendendo in pratica tutto il tratto di
fiume dalla zona di Mallecchi fino a quella sottostante Montepescini). Progetto che però
probabilmente rimase tale, dato che di questi impianti non si trova più alcuna traccia documentaria
successivamente e che l’ente cittadino non risulterà proprietario di altre strutture.
337
Sull’argomento si vedano in generale De Colli, 1957, pp. 155-157, Bowsky, 1976, pp. 42 e sgg.,
Bowsky, 1986, pp. 285 e sgg. Una delle più antiche memorie attestanti una tutela da parte del governo in fatto
di grano si ha nel 1213, quando, in un atto di sottomissione degli Ardengheschi, è inclusa tra le varie
imposizioni la clausola di non portare a vendere cereali fuori dal contado senese (per questa notizia in
particolare cfr. Angelucci, 1982, p. 131, nota 35). Nel 1223 una commissione appositamente addetta stabiliva
di vietare che dalla città o contado si esportasse grano, specialmente a Firenze. Si ritiene che fin da allora
venissero create, in determinati momenti, apposite commissioni e bal”e che dovevano tutelare
l’approvvigionamento dei cereali, stabilirne il prezzo, esaminarne la cessione ai particolari: si veda al
proposito il pagamento dei provveditori di Biccherna, nel 1226, ad un balitore inviato in vari luoghi del
contado e “ad mercatum de Ardenghesca [...] super facto blade ne portaretur extra comitatum Senensem” (per
questa notizia in particolare, cfr. Angelucci, 1982, nota 35). Siena attuava una politica annonaria articolata,
ben documentata soprattutto per il periodo del governo dei Nove. Il comune cercava di ottenere il controllo
sulla distribuzione del grano prodotto nel contado in linea generale perché fosse disponibile innanzitutto per le
masse cittadine: ciò avveniva spesso, specialmente in periodi di carestia, ricorrendo ad imposizioni di cereali
sulle comunità del contado, cui si richiedeva di inviare determinate quantità a vendere nella città, a prezzi
fissati dal governo senese, e addirittura concedendo lasciapassare ai contadini indebitati per recare almeno
minime quantità di grano a vendere in città. Il comune amministrava e ammassava le granaglie nelle “canove”
o “dogane”, cioè depositi collocati in punti determinati della città e del contado. All’interno dello stato senese,
a zone molto produttive come la Val di Chiana e la Maremma si contrapponevano zone poco fertili come le
Colline Metallifere ed i poggi tra Val d’Elsa, Val di Cecina e Val di Merse, il che dava luogo ad intensi
scambi di prodotti tra le varie zone, sopperendo alle necessità di quelle più improduttive (cfr. Pinto, 1982, p.
141). Sulla politica annonaria in Italia fra XIII e XIV sec. si veda anche Pinto, 1985.
338
Si noti che nel novembre del 1246 le autorità cittadine deliberarono di vendere la parte senese della
palude di “Canneto”, presso Monteriggioni (di cui il comune si era appropriato dopo una lunga disputa con il
monastero dell’Isola) proprio per finanziare le spese per questo mulino, cfr. Cammarosano, 1983, p. 49. In
questo stesso anno, per far fronte ai bisogni di una accresciuta popolazione, il comune di Siena si impegnò in
grandi spese nella nuova ricerca di vene d’acqua per alimentare Fontebranda, costruendo un lungo bottino in
muratura, e inoltre riadattando e scavando ex novo altri rami per aumentare la portata delle fonti cittadine, cfr.
Balestracci, 1984a, p. 17
339
Zdekauer, 1897, p. 351.
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Oltre che nei mulini, in questa zona il comune di Siena si impegnò nella bonifica del Padule
di Orgia, che occupava la porzione di pianura prospiciente Torri e Stigliano. La palude, prima
posseduta in comproprietà con l’abbazia di Torri, nel 1240 fu concessa dal comune ad un consorzio
di cittadini, che si organizzarono in una società con propri Statuti, in cui si prevedevano lo scavo di
fossati, la realizzazione di argini e l’imposizione di norme severe per la manutenzione di questi
ultimi340. Venne inoltre potenziata, o realizzata ex novo , la rete viaria, spesso dotata di ponti, che
collegava la città con l’abbazia di Torri ed i mulini del Merse, ed inoltre il tragitto che percorreva la
bassa Val di Merse in direzione di Macereto e Petriolo341. L’interesse del comune nei riguardi di
questa zona culmina poi nel già citato progetto di adduzione delle acque del Merse fino alla città, la
cui prima menzione si trova ancora una volta nel Constituto del 1262342, progetto del quale non si
fece mai nulla e che era del resto sostanzialmente irrealizzabile.
Ma torniamo ai mulini che il comune possedeva lungo il Merse, per constatare il verificarsi di
un importante cambiamento: nel 1258, infatti, solo pochi anni dopo che erano entrati in funzione, il
comune vendette i propri mulini di Orgia e Brenna, cioè la metà di quelli del Pero e Serravalle e
l’intero Mulino Palazzo. Il motivo era la carenza di denaro liquido necessario per la costruzione
delle mura cittadine343 e per estinguere i debiti contratti presso alcuni usurai. Al comune
subentrarono, come già visto, il monastero di S. Galgano in società con dei privati e nel Constituto
del 1262 fu inserita una rubrica specifica, riguardante la vendita di questi importanti mulini344. Da
questo momento in poi, nella documentazione reperita, il comune non comparirà più come
proprietario o anche solo comproprietario di mulini in tutta la zona345.
Ciò non significa affatto che il governo cittadino non continuasse ad avere un controllo sulle
strutture molitorie: infatti l’intervento del potere pubblico in questo campo, se altrove si attuò
mediante la costruzione e gestione in proprio di una rete di impianti molitori346, per Siena sembra
340
Sull’argomento: Banchi, 1871b; Zdekauer, 1897, pp. 361-362; Bizzarri, 1937; CammarosanoPasseri, 1976, p. 397; Balestracci, 1988, p. 158.
341
Si veda Balestracci, 1988, p. 150, che riporta l’esempio del ponte sul fosso della Testiera, sotto
Stigliano, largo abbastanza per permettere il transito di un carro tirato da due buoi; inoltre le rubriche del
Constituto del 1262 “De fiendis spondis pontis de Orgia”, “Quod fiat pons super flumen Rosie inter Turrim et
Rosiam”, “De via fienda per vallem aputinis usque ad fossatum in pede podii de Petriolo”, “De ponte fiendo
super Farmam apud balneum de Petriolo” (Zdekauer, 1897, pp. 314, 316, 359). Si veda anche SzabÒ, 1975.
342
Zdekauer, 1897, p. 349: “Et per totum mensem Ianuarii faciam consilium campane et populi, in quo
proponatur et consilium petatur de providendo per bonos magistros subtiles et ingeniosos, et alios sapientes
viros, qualiter possit derivari et deduci aqua fluminis Merse prope civitatem Senarum, et quomodo et ubi et
quot expensis”.
343
Si tratta probabilmente della costruzione delle porte Ovile e S. Marco, con il corrispondente tratto di
mura, e dell’antiporto di Camollia, cfr. Cammarosano-Passeri, 1976.
344
Zdekauer, 1897, p. 393: in tale testo si specificano i nominativi di tutti gli acquirenti, cioè il
monastero di S. Galgano, Pietro Scotti, Viviano Guillielmi e Iacopo Angeleri. Sempre nel Constituto del 1262
fu inserita una rubrica riguardante la pena da comminare a chi avesse danneggiato le strutture di derivazione
idrica del Mulino Palazzo impedendo la macinazione, cfr. supra, p. 70.
345
Soltanto in un documento del 1282 ed in uno del 1305, riguardanti alcune quote del mulino di
Foiano, si parla ambiguamente della proprietà del comune identificadola con quella dell’Opera Metropolitana
(Sito XI).
346
Come avviene a Firenze, dove il comune nel XIV sec. crea una propria rete di mulini sull’Arno
(Muendel, 1991a), a Pistoia, dove nel XIV sec. i mulini sono in gran parte in mano al comune e ad enti
ecclesiastici (Berti-Gori, 1976, p. 72), a Reggio Emilia nel XIII sec. (Dussaix, 1979). Il caso più eclatante
sembra comunque quello di Bologna, dove il governo cittadino giunge alla vera e propria espropriazione di
tutti mulini privati sul canale del Reno (Pini, 1987). Di grande interesse, soprattutto per la sua precocità, è
anche il caso di Ardesio, nelle Alpi lombarde, ove nel 1179 il comune acquista tutti i diritti sui mulini da
grano e per la follatura ed inoltre su tutti i forni da argento e da ferro (Menant, 1987, p. 787 e nota 57). Si
vedano inoltre i numerosi esempi di proprietà comunale riportati in Balestracci, 1992.
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realizzarsi essenzialmente tramite strumenti legislativi. Essi erano diretti alla regolamentazione
dell’attività molitoria e soprattutto a garantire l’efficienza e l’incremento delle strutture. Le acque
costituivano per Siena un bene talmente agognato e la cui fonte di ricchezza era tanto evidente, che
esse non potevano non richiamare l’attenzione delle autorità pubbliche, tanto più che, dopo i secoli
centrali del Medioevo, si andava reimponendo un po’ dovunque il concetto che i corsi d’acqua
fossero un bene pubblico, la cui tutela e salvaguardia spettava perciò agli organi comunali347. Di
conseguenza, anche là dove non esistevano mulini pubblici, o essi erano poco importanti, il servizio
della molitura, proprio perché ritenuto essenziale per una buona organizzazione della città, era
rigidamente controllato dalle autorità comunali, che dettavano norme tassative circa le modalità di
svolgimento348. è questo un passaggio importante che, a Siena come altrove, segna di fatto la
scissione tra il concetto di proprietà privata e allodiale dei mulini e dell’acqua che li azionava, ed un
concetto di ‘pubblicità’ delle acque e delle strutture molitorie, supporto ideologico ad una politica
comunale che non necessita più della proprietà di fatto per imporsi, ma interviene ormai a vasto
raggio anche sulle strutture private ritenute di pubblica utilità.
Gli interventi sono molteplici, precisi, particolareggiati e vale la pena di elencarli in dettaglio,
cominciando in primo luogo dalle norme inserite negli Statuti cittadini. Ad esempio si impone ai
proprietari dei terreni rivieraschi di vendere a chi voglia costruire nuovi mulini le strisce di terra
un terreno di
necessarie allo scavo di canali349 e si concede a chi possiede almeno tre parti di
edificarvi un mulino anche contro la volontà del comproprietario350. Inoltre si vieta di occupare
fossati alterando il consueto corso dell’acqua, nel caso che ciò impedisca il regolare afflusso ai
mulini, e si obbliga a costruire ponti nei punti in cui i canali tagliavano delle strade pubbliche351. Si
impedisce poi la costruzione di nuovi opifici nel caso che danneggino quelli preesistenti352, si
controllano la struttura e l’altezza delle steccaie dei mulini353, si regolamentano con precisione le
347
A partire dalla fine del XII sec. i comuni urbani volsero il loro interesse alla questione delle acque e
tentarono a varie riprese di imporvi il proprio controllo. La prima politica di acquisizione dei diritti sulle
acque si mosse nei confronti di vescovi, enti ecclesiastici e parte dell’aristocrazia, con maggiore decisione
dopo la pace di Costanza, che sancì il riconoscimento sovrano di una politica comunale iniziata spesso molto
prima. Naturalmente questo processo di acquisizione conobbe fasi, strategie e tempi molto diversi tra comune
e comune, ma si intensificò in genere a ritmo crescente durante il XIII secolo, soprattutto in seguito al
maggior peso assunto dalle attività manifatturiere ed all’aumento demografico. Da questo periodo si
moltiplicarono gli interventi comunali e si tentò anche una certa regolamentazione con l’elaborazione di
normative specifiche. Nel corso del Duecento, inoltre, la giurisdizione comunale, ormai definitivamente
affermata dopo aver assorbito i diritti imperiali e vescovili, procedette all’esautorazione anche dei signori del
contado. Da questo momento in poi le norme statutarie si faranno più rigide e minuziose, nasceranno alcune
magistrature apposite competenti in materia e, pur restando valido il principio della proprietà privata, i
comuni si riserveranno il diritto di intervento sui terreni rivieraschi secondo il principio della pubblica utilità:
cfr. la bibliografia citata alla nota 259.
348
Cfr. le osservazioni della Chiappa Mauri a proposito della legislazione milanese sui mulini anche in
assenza di una proprietà pubblica, Chiappa Mauri, 1984, pp. 101 e sgg.
349
Zdekauer, 1897, p. 353; cfr. anche supra, nota 149. Tale norma è confermata anche nel Costituto
del 1309-10 (Lisini, 1903, II, p. 70).
350
Ibidem.
351
Ivi, p. 350 e p. 324.
352
Ibidem. Una norma simile viene confermata nel Costituto del 1309-10 (Lisini, 1903, II, p. 67). Cfr.
anche supra, nota 133.
353
Lisini, 1903, II, pp. 66-67. Cfr. anche supra, nota 133.
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modalità di trasporto delle granaglie354, si impone un controllo minuzioso sul grano che arriva al
mulino e la farina che ne esce355, codificando rigidamente le misure di capacità dei “bozoli” di rame
357
. Si crea
in cui si riponeva la farina356 ed il prezzo da corrispondere ai mugnai per la molitura
infine una sorta di commissione addetta alla risoluzione delle controversie che sorgevano
frequentissime tra i comproprietari dei mulini358.
È evidente che, in particolare con alcune di queste norme, il comune ha ormai avocato a sé il
controllo dei diritti sulle acque, esautorandone di fatto i proprietari dei terreni rivieraschi in base al
principio dell’utilità pubblica. Tale acquisizione non appare tuttavia ancora completa nei confronti
degli enti ecclesiastici, i cui diritti sembrano più difficili da scalzare. In questo caso il comune deve
accontentarsi di formulare e perseguire un simile proposito destinato in realtà solo a parziale
realizzazione: infatti, per quanto concerne le norme relative alla distruzione delle ‘novità’ costruite
nei mulini ed al controllo dell’altezza delle steccaie, si specifica che esse non valgono per gli
ecclesiastici, a meno che questi ultimi non vogliano spontaneamente sottoporvisi359. Un altro punto
da sottolineare è l’evidente protezione pubblica accordata ai mulini, che traspare da molte delle
direttive sopra elencate. Questa sorta di ‘favore’ concesso dalle autorità comunali ai mulini ad
acqua, è giustificato innanzitutto dalla indispensabile funzione che essi svolgevano nel settore
dell’approvvigionamento alimentare, tanto più urgente quanto più popolosa era la città. La
mancanza o scarsità di grano, pane, farina, o il loro alto prezzo, oltre che affamare ampie categorie
di cittadini, poteva infatti costituire anche un ottimo pretesto per rivolte e sommovimenti
popolari360; di qui tutta una serie di provvedimenti tesi ad impedire l’accaparramento o l’espor tazione
dei grani fuori del contado, se non dietro concessione di speciali licenze dette “tratte”, e a favorirne viceversa l’affluenza
sul mercato cittadino, a regolamentarne le modalità di trasporto, ammasso e vendita, a controllarne i prezzi361.
Oltre alle norme contenute nei Costituti, per Siena possediamo anche lo Statuto degli Ufficiali
sopra i Mugnai, che fu redatto nel 1281362 anche se di una magistratura con competenze in materia,
i domini mugnariorum, abbiamo notizia già a partire dal 1226, e sappiamo che essi provvedevano al
354
Si stabilisce che i padroni dei mulini debbano possedere delle bestie da soma per il trasporto al
mulino delle granaglie (Zdekauer, 1897, p. 353); inoltre che chiunque possieda un mulino sul Merse “a
molendinis alexassa usque ad molendina domini Orlandi Bonsignoris etconsortum de Foiano”, cioè nella zona più lontana
dalla città, debba tenere un mulo o un cavallo per ciascun palmento per portare le granaglie a macinare al
mulino durante tutto l’arco dell’anno (Zdekauer, 1897, p. 352); quest’ultima norma è confermata nel Costituto
del 1309-10 (Lisini, 1903, II, pp. 68-70).
355
Lisini, 1903, II, p. 68.
356
Ibidem: questi “bozoli” devono essere di rame e ampi otto once alla bocca, devono stare appesi alla
tramoggia con robuste catene di ferro ed essere suggellati con marchi del comune. Si controlla inoltre con
frequenza che essi non vengano alterati.
357
Zdekauer, 1897, pp. 351-352.
358
Ivi, pp. 350-351: si stabilisce che venga scelto “unus bonus et legalis homo et bone fame” per
ciascun Terzo cittadino e che tale commissione riassegni a ciascun proprietario in causa la parte a lui spettante
della struttura in questione.
359
Lisini, 1903, II, p. 67: “Et questo capitolo abia luogo per li laici et infra li laici, et non per li cherici o vero religiosi;
salvo che se li cherici o vero religiose persone vorranno etconsentiranno che le loro molina et steccate sidebiano terminare, abia luogo
et intendasiancora per quelli cherici et religiose persone,e’ quali et le quali vorranno et consentiranno che le loro steccate et molina si
terminino”. Ivi, II, p. 70: “Et lo detto capitolo abia luogo per li laici et contra lilaici, et anco per li cherici et contra li cherici, se
missere lo vescovo et li cherici religiosi diceranno con effetto. Et che essi cherici et le chiese sieno tenuti et oservino de le loro terre et de
le chiese per li laici et diquelle cose le quali nel predetto capitolo si contengono”.
360
Si veda Bowsky, 1976, pp. 47 e 50, episodi del 1295 e 1328.
361
L’argomento è molto vasto e, anche se strettamente connesso con questa parte della trattazione,
esula in parte da essa e non potrebbe essere comunque esaurientemente affrontato. In ogni caso si vedano al
proposito De Colli, 1957, p. 156; Bowsky, 1976, pp. 42-46, 51, 53, 73 e sgg.; Bowsky, 1986, pp. 285 e sgg.;
Pinto, 1982, p. 140; Pinto 1985.
362
Pubblicato da De Colli, 1957.
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trasporto del grano, alla sua compravendita, alla macinazione ed alla riscossione della relativa
gabella363. I domini erano nominati e stipendiati dal comune e considerati come ufficiali minori
dello Stato, segno evidente di un particolare interesse e controllo, da parte della comunità intera,
verso i problemi dell’approvvigionamento e della limitazione del commercio di generi alimentari
fondamentali. Dallo Statuto del 1281 risulta che i compiti più importanti degli ufficiali erano la cura
dell’igiene nei mulini, la sorveglianza dei “bozoli” e la punizione delle frodi nella misurazione della
farina. Essi dovevano inoltre garantire che i mugnai adempissero continuamente alla molitura e che
gli incaricati del trasporto (portitores) facessero ininterrottamente affluire il grano ai mulini (anche
dirottandolo su altre strutture nel caso che alcune non potessero macinare), e viceversa la farina
verso la città. Questi ufficiali dovevano poi sorvegliare i mulini dei luoghi pii e religiosi e delle
chiese tramite i tres homines de penitentia, i quali avevano il compito di pregare i rettori delle
chiese affinché facessero osservare quanto stabilito dallo Statuto. In caso di inadempienza era
prevista la proibizione a tutti gli uomini della giurisdizione senese di portare a macinare in tali
mulini364. A proposito di questa ultima norma, ci si può ricollegare a quanto detto in precedenza
riguardo alla progressiva acquisizione, da parte del comune, del controllo anche sulle strutture
private o di pertinenza ecclesiastica: si può notare, infatti, che, se le norme degli Statuti rispettano
formalmente l’autonomia degli impianti ecclesiastici, il comune aveva altri mezzi molto efficaci per
far rientrare di fatto anche le strutture appartenenti ad enti religiosi sotto il proprio controllo
normativo.
La comparsa di una legislazione specifica e la creazione di magistrature con competenze in
materia sono da interpretarsi come tappe di quel fenomeno di portata generale che vede ogni
comune, con maggiore o minore lentezza, cercare di avocare a sé i diritti sulle acque. In questo
senso sono da interpretarsi anche le lunghe dispute che spesso si scatenavano, a proposito di mulini,
ed
tra comuni, vescovi o enti religiosi365. Tuttavia per Siena non si segnalano evidenze di tale tipo
anzi molti provvedimenti comunali sembrano mostrare una convivenza tutto sommato pacifica con
questi poteri, e talvolta una stretta collaborazione con essi. Sembra dunque che il passaggio delle
consegne sia avvenuto in modo indolore, senza episodi di imperio e contrasti clamorosi come
altrove, anzi spesso trovando delle convergenze di interessi: riesaminando l’atto con cui il comune
prende sotto la sua tutela l’abbazia di Torri e stipula l’accordo sulla costruzione dei mulini, si nota
che si tratta di un contratto che, anche se in parte sbilanciato in favore dell’organo cittadino, procura
certamente notevoli vantaggi ad entrambe le parti stipulanti.
L’attenzione delle autorità verso i mulini e l’attività molitoria era comunque spesso dettata
anche da un altro motivo, cioè dalla potenzialità di gettito fiscale che potevano rappresentare. Vi
sono esempi di città italiane in cui diverse imposizioni del fisco comunale gravavano sui mulini o
sulla molitura con dazi di vario genere, che andavano da una imposta fissa annuale sulla base del
censimento dei fuochi, ad un dazio da pagare direttamente al mulino in proporzione alla quantità di
grano macinato, ad imposizioni calcolate in base al numero dei palmenti alloggiati nella struttura
molitoria366. Si è osservato che, analizzando la fiscalità in materia annonaria in generale, e quella
363
Ivi p. 156.
Ivi, p. 164.
365
Si vedano, ad esempio, tutte le vicende relative all’abbazia di Settimo (Pirillo, 1989), o le dispute
sorte tra il comune di Reggio Emilia ed il vescovo della città per il controllo sui mulini in seguito al tentativo
attuato dal comune nel XIII sec. di accaparrarsi tutti i mulini del territorio, rimanendo infine escluso solo da
quelli degli enti ecclesiastici (Dussaix, 1979, pp. 133, 138-139, 141); inoltre la lunga lite, iniziata nel 1252, tra
il monastero di S. Salvatore all’Amiata ed il comune di Abbadia a proposito della costruzione di una
gualchiera sul Vivo, risoltasi con una netta vittoria del potere comunale, (Redon, 1982, p. 118).
366
Si vedano i numerosiesempi di tassedi vario tipo nella Milano di XIII-XIV sec. riportati in Chiappa Mauri, 1984, pp. 109­
114. Inoltre le notizie di imposizioni fiscali del genere riguardanti lazona diPadova,Bassano, Monselice, Cittadella,Este, in Collodo,
1990, p. 395 e sgg.
364
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legata alla molitura in particolare, “siamo spinti a ridimensionare il peso degli obiettivi di
rifornimento alimentare che in un primo momento ci erano sembrati decisivi per motivare la
sorveglianza cittadina sulle derrate”367.
Siena non costituisce una eccezione a questa tendenza generale: nella selva di dazi e gabelle
stabilite dal comune, che colpivano in particolare i prodotti alimentari nei loro movimenti, sono
certamente previste imposte anche sulla farina proveniente dal contado, da pagarsi direttamente alle
porte di Siena368; ma si trattava tutto sommato di dazi ordinari, che colpivano questa merce al pari di
decine di altri prodotti. Molto più degni di nota sono invece gli interventi comunali in fatto di
tassazioni che colpivano direttamente l’operazione della molitura. De Colli riporta la notizia
secondo la quale vi sono tracce, nei libri di Biccherna e Consiglio Generale, di un ordinamentum in
materia granaria almeno dal 1249 e di una delibera sulla violazione di questo, cioè l’invio di grano
al mulino senza il relativo permesso: tale permesso potrebbe sottintendere una forma di
tassazione369.
Il primo Statuto della Gabella, comunque, della fine del XIII sec., dedica numerose rubriche
ad una minuziosa e severa regolamentazione delle entrate che dovevano pervenire alle casse
comunali dalla macinazione del grano. Ci si preoccupava innanzitutto che tutti i mulini esistenti nel
contado senese dovessero essere stimati da una commissione apposita ed essere affittati e quindi
operativi (bisogna notare che i membri della commissione non dovevano partecipare alla proprietà
delle strutture, evidentemente per evitare frodi)370. Inoltre, cosa ancora più importante, si stabiliva
che tutte le persone sottoposte alla giurisdizione senese dovessero andare a macinare solo ai mulini
che pagavano la gabella al comune, sotto pena, in caso di trasgressione, di una multa di 10 lire per
ogni salma e della perdita del carico e delle bestie (la metà di questi ultimi sarebbe andata
all’eventuale delatore, l’altra metà al comune); la tassa consisteva in 5 soldi per moggio di frumento
367
Collodo, 1990, p. 399.
Nella gabella “delle Otto Gabelle” si tassavano vari generi di primo consumo tra cui la farina, la
legna da ardere, il carbone, cfr. Bowsky, 1976, p. 198. In Consiglio Generale, 60, c. 87 r-v, anno 1301, tale
gabella è inserita tra quelle da raddoppiare e vi è compresa la farina, oltrea bestie da cortile, uova, formaggio, polli,
legna ecc.: sull’argomento cfr. Ginatempo,1989-1990, pp. 120-121,note 26 e 32. La farinarientrava anche tra i generi compresi nella
cabella portarum agli inizi del XIV sec., ed era tassata 1 denaro allo staio, cfr. Banchi, 1871, p. 128.
369
De Colli, 1957, p. 155.
370
“In primis statutum et ordinatum est quod omnia et singula molendina que sunt in comitatu et iurisdictione Senarum que
non sunt affictata debeant affictari et extimari eorum etcuiuslibet eorum redditus hoc modo. Scilicet quod per dominos Novem
eligantur tres boni homines et sapientes viri, scilicet unus de quolibetterçerio in secreto ita quod non sciatur, qui habeant notitiam
molendinorum qui iurent bona fide sine fraude affictare et extimare valutam affictus et redditus molendinorum que sunt in flumine
Umbronis que affictata et extimata non sunt. Et alii tres simili modo eligantur quidebeant dicto modo affictare et extimare redditus
molendinorum que sunt in flumineArbie que extimata et affictata non sunt. Etalii tres simili modo eligantur qui debeant dicto modo
affictare et extimare redditus molendinorum que sunt in flumine Boççonis et Bulgionis Tresse Riluoghi et Malene et in aliis aquis que
suntin comitatu et iurisdictione senarum que extimata et affictata non sunt, alia vel omnia et singula molendina que sunt in comitatu et
iurisdictione senarum que sunt affictata stare debeant et esse in extimationeet affictu in quo nunc affictatasunt. Et alii qui eligentur ut
dictum est ad affictandum etextimandum supradicta molendina que affictata et extimata non sunt non sint de illis qui habeant aliquam
partem in aliquo dictorum molendinorum et omnes redditus cuiuslibet molendini debeant affictari et extimari ad frumentum solum et
non alium bladum.” (Gabella, I,cc. 52v-53r). “Item statutum et ordinatum est quod supradicti offitiales quidebent affictare et extimare
molendina predicta ut dictum est debeant in flumine in quo posita fuerint invenire si est ibi aliquid molendinum affictatum. Et si ille vel
illi cuius vel quorum fueritmolendinum dixerit quod dictum molendinum fuerit affictatum faciant sibi ostendi instrumentum affictus et
reducant illud in scriptis silicet quo anno et qua die dictum istrumentum fuit conditum et manus cuius notari et in quantum est
affictatum. Etsi dictum instrumentum non ostenditur dictis offitialibus debeant et teneatur predicti offitiales dictum molendinum
affictare et extimare sicut tenentur affictare et extimare alia molendina non affictata” (Ivi, cc. 53r-54r).
368
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e ci si doveva assicurare che tutti i mulini, anche quelli di più recente edificazione, la pagassero371.
Si noti bene il modo in cui questo gruppo di norme tendeva a stabilire un monopolio, da parte del
comune, sui proventi che derivavano dalla molitura. Si stabiliva infine che anche chi non era
soggetto alla giurisdizione cittadina, ma era proprietario di un mulino o sua parte nel contado
senese, doveva ugualmente pagare la tassa al comune, sotto pena di essere escluso dalla protezione
pubblica372. Direttive simili erano previste anche per i mulini a vento e per i “molendina sicca”373.
Il comune, dunque, non usava certo mano leggera anche in materia di imposizioni fiscali e di
eventuali trasgressioni alla normativa. Gli interessi in gioco, come più volte sottolineato, erano alti,
sia in fatto di approvvigionamento, che di ordine pubblico, che di risorse finanziarie: la legislazione sui mulini
appare dunque come il corollario della vasta ed articolata politica annonaria cittadina, perfezionata
attraverso varie tappe per tutto il XIII secolo.
3.6. C ONSI D ERAZIO N I CONCLU SIVE
Diritti pubblicistici sulle acque e disponibilità economiche per gli investimenti necessari alla
realizzazione degli impianti: non diciamo nulla di particolarmente nuovo individuando, anche per il
nostro territorio, questi fattori come gli elementi chiave di cui era indispensabile essere in possesso
per poter installare strutture molitorie idrauliche.
Per quanto concerne i diritti sulle acque, dai dati a nostra disposizione emergono almeno tre
fasi con caratteristiche diverse. La prima, cronologicamente più antica, vede rientrare il controllo
sui corsi d’acqua, e quindi sui mulini, all’interno dei diritti signorili esercitati da famiglie
aristocratiche o enti ecclesiastici su un determinato territorio. Di questo momento, come abbiamo
già sottolineato, con la documentazione disponibile si possono in realtà soltanto individuare degli
indizi, intravedere dei residui: ad esempio i diritti trasferiti dai Gheradeschi al monastero di Serena,
quelli ceduti dal vescovo volterrano all’abbazia di S. Galgano, quelli esercitati dal conte di Civitella
sui mulini di Campora o dal conte di Frosini sulle strutture presenti nella giurisdizione del castello,
anch’essi ceduti allo stesso monastero.
Una seconda fase, centrale e ben documentata dai dati a nostra disposizione, si individua
invece in pieno XIII sec.: i diritti bannali sui mulini sembrano scomparire e tali strutture paiono rientrare
ormai pienamente tra le proprietà allodiali, oggetto di transazioni, passaggi ereditari, compravendite, così come l’uso
delle acque sembra adesso dipendere esclusivamente dalla proprietà dei terreni rivieraschi e degli appezzamenti
attraverso i quali si devono realizzare le opere di derivazione. Contemporaneamente, però, si va delineando
una nuova situazione, ovvero l’intervento degli organismi comunali che, soprattutto a partire dalla
metà del Duecento, cominciano a stabilire norme legislative che riguardano tutti i mulini, anche
371
“Item statutum et ordinatum est quod quilibet de civitate et comitatus Senarum teneatur et debeat ire ad molendum
frumentum vel aliud bladum solum ad illa molendina que dant redditum sive kabellam comuni Senarum. Et qui non fecerit scilicetqui
iverit ad aliud molendinum quam ad illud molendinum quod dat redditum vel kabellam comuni Senarum condempnetur pro quolibet
vice et qualibet salma in 10 librarum denariorum Senarum et perdat salmam et bestiam et cuilibet sit licitum accusare et capere bestiam
et salmam et medietas sit accusatoris vel capientis et alia sit comunisì (ivi, c. 54r). “Item statutum et ordinatum est quod de quolibet
molendino quod est in comitatu et districtu Senarum debeat solvi pro intrata comunis Senarum 5 soldorum denariorum de quolibet
modio frumenti in quo est vel fueritaffictatum velextimatum” (ivi, c. 54r-54v). “Item statutum et ordinatum est quod per dominos
Novem gubernatores et defensores comunis et populi senarum de mense decembris venturi debeant eligi duo boni homines per
terçerium qui teneantur et debeant taxare omnia molendina que taxata non sunt que facta et constructa fuerunt sive sunt a taxatione citra
que sunt in comitatu senarum. Et quod dicti taxatores teneantur et debeant minuere de taxatione illorum molendinorum veterum que
fuerunt vicina predictis novis molendinis sideteriorationem receperunt propter constructiones novorum molendinorum”(ivi, c. 56 r-v).
372
“Item statutum et ordinatum est quod quilibet qui non fuerit suppositus iurisdictioniSenarum qui habuerit aliquid
molendinum vel partem in aliquo molendino comitatus et iurisdictionis Senarum et non solverit comuniSenarum de redditus
molendini utsupradictum est illa talis persona vel ille talis locus et eorumbona et eorum familiares sint exempti et extracti de
protectione comunis Senarum et eis et cuilibet eorum nullum ius nec constitutum servetur.” (ivi, cc. 54v-55r)
373
Ivi, c. 54v.
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appartenenti a privati ed organismi religiosi, dislocati all’interno della giurisdizione senese. In
pratica, con un procedimento che si può definire circolare, il comune reintroduce il concetto di acque
pubbliche, il cui controllo, in un tempo molto lontano, spettava addirittura all’autorità regia, era
stato poi assorbito nelle prerogative signorili locali, era infine andato perduto identificandosi ormai con la
proprietà privata.
Passando a considerazioni prettamente economiche, quando si parla di mulini si richiama in
genere l’attenzione sugli alti costi che comportava l’installazione di una di queste strutture,
derivanti da tre operazioni fondamentali: in primo luogo la realizzazione di sbarramenti, canali,
bacini di raccolta, in secondo luogo l’edificazione dell’edificio vero e proprio, infine la costruzione
dei meccanismi interni in legno e ferro. All’investimento iniziale si dovevano poi aggiungere le
continue spese necessarie per le opere di manutenzione, quali il ripristino degli sbarramenti via via
che essi venivano danneggiati dalle piene, la ripulitura periodica dei canali, la riparazione o
sostituzione delle parti usurate dei meccanismi; basti pensare soltanto alle mole, che da sole
dovevano costituire un piccolo capitale sia per il loro valore intrinseco che per l’onere del trasporto
di cui erano gravate374. A ciò si deve aggiungere la semplice considerazione che i mulini erano
edifici particolarmente soggetti alla completa rovina portata dalle piene e non era infrequente il caso in cui essi
dovevano essere riparati, ricostruiti, o addirittura del tutto spostati di luogo, in seguito a violente
alluvioni, con conseguente grave danno economico. Avendo bene in mente questa serie di
caratteristiche, anche prescindendo da altre considerazioni riguardanti i diritti sulle acque, appare
abbastanza logico constatare che i mulini si concentrassero nelle mani di quegli organismi o persone
che avevano maggior potere ed un patrimonio più solido: in primo luogo gli enti ecclesiastici, le
grandi famiglie aristocratiche o borghesi, il comune.
L’alto costo e valore degli impianti molitori spiega in parte anche il fatto che la proprietà dei
mulini appaia estremamente frazionata: si parla spesso di 1/9, 1/18, 1/24 e persino 1/36 o 1/60 di
una struttura molitoria. Quasi mai i documenti riportano transazioni relative all’intera proprietà,
mentre generalmente si tratta di porzioni più o meno piccole. Ad esempio nell’arco del XIII secolo
soltanto in 6 casi gli impianti appartengono integralmente ad un unico proprietario e non si tratta
mai di privati laici375; bisogna inoltre notare che in tutti questi casi si trattava di alcuni dei più grandi
impianti della zona. Anche la proprietà di almeno metà di un mulino è piuttosto rara e riguarda
ancora una volta quasi esclusivamente il comune di Siena o enti ecclesiastici. Il cerchio dei
proprietari comincia ad allargarsi sensibilmente soltanto a partire dalla frazione 1/4, venendo a
comprendere anche diversi privati laici. Negli altri casi ci troviamo di fronte a frazioni molto
piccole ed ai già citati esempi di ‘consorzi’, probabilmente formatisi per affrontare le spese
dell’acquisto e manutenzione di un mulino376. Un altro fattore che verosimilmente può aver
contribuito a determinare questa estrema frammentazione, può essere stata l’originaria appartenenza
a grandi famiglie aristocratiche, con le successive suddivisioni ereditarie secondo l’istituto
dell’indiviso377; essa infine può essere talvolta il segnale di beni appartenenti ad intere comunità378.
374
Per questo aspetto cfr. supra, p. 89; per tutti gli altri aspetti tecnici riguardanti la costruzione e la
struttura materiale dei mulini si rimanda ai par. 2.1 e 2.2.
375
Sono i mulini de Saxis (Sito 5) e de Volta (Sito XVI) nel 1245 appartenenti all’abbazia di Torri; il
Mulinaccio (Sito 10 UT 1, ca. 1220), i mulini di Campora (Sito VII, ca. 1220: le cui quote sono state
ricostruite) ed il mulino sul Feccia (Sito XIII, inizi XIV sec.) di proprietà di San Galgano; il Mulino Palazzo
(Sito 17) del comune di Siena.
376
Un estremo frazionamento della proprietà dei mulini è diffuso anche in altre aree, ad es. in Liguria
(Origone, 1974, pp. 89 e sgg.), a Reggio Emilia (Dussaix, 1979, p. 136), in Lombardia (Chiappa Mauri, 1984,
p. 28).
377
Il mulino di Castiglion Balzetti (Sito XIV) diviso in quote fino ad 1/36 tra appartenenti alla
consorteria dei Saracini, il mulino di Foiano (Sito XI), diviso in piccole quote tra Bonsignori ed Incontri.
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Il continuo e progressivo frazionamento dei patrimoni favoriva, in un periodo di aumento
demografico ed espansione economica, la mobilità e commerciabilità dei beni fondiari ed
immobiliari, dando luogo a tutta una serie di transazioni. In particolare i mulini, per il loro alto
valore intrinseco e per le notevoli rendite che garantivano, sembrano estremamente appetibili e
quindi maggiormente soggetti ad operazioni finanziarie. Non solo: è importante sottolineare come
essi risultino essere considerati quasi alla stregua di moneta corrente, alla cui vendita, oppure pegno
come garanzia di un credito, si ricorre per ottenere denaro liquido in caso di gravi difficoltà
economiche. Di questa ultima tendenza ci sono almeno quattro casi molto chiari nella nostra
documentazione, cioè la metà del mulino sul Frelle ceduta a causa dei debiti dalla Pieve di S.
Giovanni a Monte al monastero di S. Galgano, la vendita dei mulini di Brenna ed Orgia da parte del
comune di Siena nel 1258, la cessione, ancora una volta per debiti, di metà del mulino de Saxis, da
parte del monastero di Torri nel 1288, infine la vendita di alcune quote dei mulini di Ripetroso e
Lupinari, da parte del comune di Monticiano, avvenuta nel 1276.
È naturale che una tale mobilità favorisse chi poteva contare su una situazione patrimoniale
più stabile e quindi era più in grado di approfittare della congiuntura favorevole: è evidente ad
esempio il caso di S. Galgano e del suo tentativo, portato avanti con tenacia, di razionalizzare ed
allargare attraverso acquisti successivi il proprio controllo sugli impianti molitori di questo bacino
idrografico. Ma la parzialità della documentazione non deve ingannarci: attorno a queste strutture
ruotava un vasto mondo di interessi, che coinvolgevano anche molti altri enti ecclesiastici ­
praticamente tutti, come abbiamo avuto modo di vedere - e soprattutto le famiglie mercantili senesi,
le cui operazioni immobiliari, però, non sono purtroppo percepibili nei dettagli. L’affare della
molitura è in fondo uno spaccato di vita medievale che coinvolge una folla di personaggi più o
meno piccoli, con le loro dispute per assicurarsi un po’ di acqua in più, col loro frenetico andirivieni
nella documentazione, con le loro fortune che talvolta aumentano e talvolta sfumano nell’arco di
pochi anni, travolte dai debiti o da una piena improvvisa del fiume.
Fig. 5 - Ruo ta idrau lica “per di sop ra”.
Fig. 6 - Sch ema di funzionam ento del l’albero a camme nell’azionare un p estello vertical e.
Fig. 7 - Albero a camme azionato da una ruota idraulica (Agricola, 1563, libro IX, p. 327).
Fig. 8 - Steccaia di pali e fasci ne presso Brenna
Fig. 9 - Sbarramento in muratura che aliment ava la ferriera di Ruota (Sito 4 ).
Fig. 10 - Canale che aliment ava il M ulinacci o di Mon ticiano (Sito 10 UT 1).
Fig. 11 - Archi di uscita dell’acq ua dal M ulino Palazzo (S ito 17)
Fig. 12 - Archi di u scita dell’acqua del Mul ino del Pero (Si to 15)
Fig. 13 - Il Mulino del Pero (Sito 1 5)
Fig. 14 - Il Mulino Serraval le (Sito 16)
Fig. 15 - Il Molinel lo di Torri (Sito 2 1)
Fig. 16 - Il Mulino Palazzo (Sito 17 )
Fig. 17 - Il Mulino di Torni ella (Sito 23 UT 2)
Fig. 18 - Meccanismi interni del mulino orizzontale (1: tremogia; 2: macina superiore; 3: macina inferiore; 4: doccia; 5:
palus; 6: puntaruolus; 7: noctola; 8: palmentus; 9: circuli; 10: ritrecine; 11: ralla)
Fig. 19 - Iscrizione posta sopra l’arco d’in gresso d el Mulin o Palazzo (Sito 17) che ne ricorda la
cost ruzione avvenuta nel 124 6.
Fig. 20 - Di stribuzi one degl i opifici (secc. XIII-prima m età XIV).
Fig. 3 - Mul ino orizzontale.
378
È probabilmente il caso dei mulini di Ripetroso (Sito V) e Lupinari (Sito IVa) che, da quando
cominciano a comparire nella documentazione, appaiono divisi in quote fino ad 1/24, delle quali una buona
fetta appartiene al comune di Monticiano, che sarà poi costretto ad alienarle; altre quote spettano in parte alla
Canonica di S. Giusto di Monticiano, in parte a privati del luogo. Cfr. anche 1/6 del mulino appartenente alla
Comunità di Montepescini nel 1318 (Sito 26).
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F ig . 4 - Ru o ta id rau lica “pe r di sot to” e m e ccan ismi p er la trasmiss io n e d el mo to .
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II. I mulini 1. Lo sfruttamento dell`energia idraulica dalle