AIF
Scuola Invernale 2005
Castiglioncello, 1-6 dicembre
Nuclei e particelle: aspetti di storia della
fisica
“La fisica delle particelle intorno al
1960: come lavorare lontano dalle
macchine e senza una teoria”
In realtà, il tentativo di tracciare un quadro sommario dello
sviluppo della fisica delle particelle a cavallo fra gli anni
50 e 60. Con accenni alla situazione italiana.
Pions to quarks – Particle Physics in the 1950s (based on a
Fermilab symposium), eds. Laurie Brown, Max Dresden,
Lillian Hoddeson, Cambridge University Press, 1989.
C. Bernardini, “AdA: the first electron-positron collider”,
Physics in Perspective 6, 156-183 (2004).
S. Bergia, “!The way we were: bubble chamber pictures, pion-nucleon
interactions and polology”, Foundations of Physics, Vol. 34, No. 11,
November 2004, 1761-1776.
S. Vecchi, “L’anello di accumulazione per elettroni e positroni
<<Adone>> dei Laboratori nazionali di Frascati (1960-1972)”; tesi
di laurea, Un. di Bologna, a.a. 2004-2005, relatore G.Dragoni,
correlatori C. Bernardini, L. Bonolis, G. Battimelli.
L. Bonolis, “Bruno Touschek vs machine builders: AdA, the first
matter-antimatter collider”, preprint 2005.
F. Scarpa, “Una rivoluzione mancata – Storia dei programmi della
matrice S”, tesi di dottorato in fisica, Nov. 2004.
Un sommario:
• Macchine e strumenti di rivelazione
• Aspetti della divisione internazionale del lavoro di ricerca:
la situazione italiana
• Una netta separazione: interazioni deboli e interazioni forti
• Qualche risultato sulle interazioni deboli
• La fisica teorica e le interazioni forti. Pioni prima di tutto.
La teoria dei campi dice qualcosa, ma non ci porta molto
lontano
• Modellizzare i fenomeni, per cominciare
• La teoria dei campi ci dà le singolarità; al resto pensa
l’analiticità della matrice S. Dalle relazioni di dispersione al
bootstrap e alla scomparsa (provvisoria) del concetto di
particella elementare: la storia di un programma perdente
Macchine e tecniche di rivelazione.
1951: a Chicago diventa operativo il sincrociclotrone da
450-MeV
1952: Donald Glaser e la camera a bolle
Nei primi anni 50, alla Stanford University, si costruisce il
primo acceleratore lineare di elettroni di alta energia (Mark
III) . Nel novembre del 1953, esso raggiunse i 400 MeV, i
600 entro un paio d’anni e il GeV nel 1960
1953: diventa operativo il cosmotrone di Brookhaven
(raggiunge i 3,3 GeV in gennaio)
1954 (autunno): inizio ufficiale delle attività del CERN
1958: l’INFN aveva quasi completato la costruzione, presso
i Laboratori Nazionali di Frascati, di un acceleratore, un
elettrosincrotrone da 1100 MeV.
Bruno Touschek propugnò, nel 1960, la costruzione, a Frascati,
di un collisionatore elettrone-positrone. Fu chiamato AdA
(acronimo di Anello di Accumulazione). In 1962 fu accettata
la proposta francese di trasportare AdA a Orsay, per sfruttare
il loro acceleratore lineare. AdA divenne operativo nel 1964.
Fu seguito, a Frascati, da Adone, un collisionatore elettronepositrone da 3000 MeV ideato da Fernando Amman negli anni
1961-1963.
Aspetti della divisione internazionale del
lavoro di ricerca. La fisica fatta in casa.
Nelle sedi universitarie – gli Istituti di Fisica – e presso le sezioni
INFN, la fisica sperimentale era necessariamente di secondo livello.
Grazie alla reputazione conseguita dalla fisica italiana con l’opera
di Fermi e del suo gruppo e con quella di Bruno Rossi a altri studiosi
dei raggi cosmici, come Beppo Occhialini, e grazie alla mediazione
di fisici attivi nel campo, come Giampietro Puppi, si ottenne che
rotoli di fotogrammi presi alla camera a bolle di Brokhaven fossero
inviati ad istituti e/o sezioni INFN italiani perché fossero analizzati,
ricavandone dati, correlazioni ecc. , da gruppi di “lastristi” italiani
convertiti alla nuova tecnica di rilevazione.
30 YEARS OF BUBBLE CHAMBER PHYSICS
Bologna, 18 March 2003, at the Bologna Academy
of Sciences
Aula Ulisse - Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna
via Zamboni 31- 40126 Bologna
Una netta separazione
Le interazioni forti.
L’interazione fondamentale era ritenuta quella pione-nucleone
(Yukawa, 1935); il “mesotrone”; Conversi, Pancini e Piccioni;
la scoperta del pione
La ripresa dopo la guerra: a Chicago; Fermi e “la risonanza 33”
Le interazioni deboli
Le teoria di Fermi
La non conservazione della parità
Qualche risultato sulle interazioni deboli
La questione della non conservazione della parità fu sollevata
dapprima in relazione ai decadimenti del K in due e tre pioni.
Nel 1955 Lee e Yang suggerirono test da compiersi sul decadimento
beta e sui decadimenti del pione e del mu. La prima conferma venne
da un esperimento sul decadimento beta del Co60 condotto da Wu
Chen Shung (M.me Wu) nel 1957.
La scoperta della non conservazione della parità comportò modifiche
alla teoria delle interazioni deboli, ma la concezione di un’interazione
corrente-corrente rimase; solo che l’interazione divenne del tipo V-A
(Feynman e Gell-Mann; Marshak e Sudarshan – 1958).
Un esempio di collaborazione fra le due sponde dell’Atlantico:
Una collaborazione con quattro futuri premi Nobel
Glaser (1960)
Jack Steinberger and M. Schwarz (1988), per un metodo di
produzione di fasci di neutrini di alta energia che avrebbero
permesso la scoperta del neutrino muonico
M.L. Perl (1995; con F. Reines, scopritore del neutrino) per
la scoperta del tau
Nel lavoro si studiava la correlazione tra la produzione (associata)
di particelle strane
( e 
0

costituendo i partners iperonici)
e angoli di decadimento degli iperoni, in cui il primo gradino forniva
una polarizzazione degli iperoni normale al piano di produzione. La
violazione della conservazione della parità si riscontrerebbe come
un’anisotropia nella distribuzione sull’angolo di decadimento rispetto
all’asse di polarizzazione nel centro di massa dell’iperone. I risultati
mostrarono “una statisticamente ben stabilita forte anisotropia per la
Λ, dimostrando chiaramente la violazione della parità nel
decadimento”.
La fisica teorica e le interazioni forti.
L’attenzione maggiore cadeva tuttavia sulle interazioni forti,
che a quell’epoca pareva voler dire primariamente interazioni
pione-nucleone. Occorreva naturalmente prima di tutto
raccogliere dei dati.
Strumento di base: la teoria quantistica dei campi
Mesoni e campi
Il trattato di Sylvan Schweber, Hans Bethe and Frederic de
Hoffmann Mesons and Fields, pubblicato per la prima volta
1956, rispecchiava la situazione: era in due volumi, il primo,
Fields , dedicato a un’introduzione dei concetti, strumenti,
metodi e risultati della teoria quantistica dei campi, il secondo,
Mesons, concepito con il fine di “fornire un resoconto degli
esperimenti esistenti sui mesoni, prescindendo dalle tecniche
sperimentali, ma includendo la loro interpretazione e
interconnessione.”
Ma il nesso fra le due parti non era stringente. Punto cruciale è
che il metodo perturbativo non funzionava per le interazioni forti.
Le interazioni forti: un terreno da dissodare
Per la costruzione di una teoria specifica delle interazioni forti,
appariva comunque necessaria una fase preliminare di estesa
analisi fenomenologica.
Pions to quarks: anche – o soprattutto – un cambiamento di metodo?
Modellizzare i fenomeni, per cominciare.
Una risonanza 3/2, 3/2 nella diffusione pione-nucleone era stata
scoperta dal gruppo di Fermi al sincrociclotrone di Chicago.
Valeva la pena di vedere che succedeva ad energie più alte,
in particolare per quanto riguardava le sezioni d’urto differenziali
elastiche; ed anche di controllare se la risonanza 33 poteva
giocare qualche ruolo nei processi di produzione.
In articoli del 1957 e 1958 Lindenbaum e Sternheimer avevano
prospettato la possibilità che essa potesse in effetti svolgerlo come
gradino intermedio dei processi di produzione singola di pioni
in collisioni pione-nucleone.
Il “modello isobarico”
π
π
π
3,3
N
N
Altri esempi di collaborazione transatlantica:
Nel 1957 i film di camera a bolle erano stati saccheggiati del loro
materiale più prezioso. Ma c’era ancora qualcosa a cui guardare.
Un gruppo misto Bologna-Trieste, guidato peraltro dall’argentino
Pedro Waloschek, cui si aggiunse Leo Lavatelli, dell’Università
dell’Illinois a Urbana, selezionò gli eventi di diffusione elastica
pione-nucleone e ne misurò la sezione d’urto differenziale a 915
MeV.
Lo stesso gruppo, a ranghi più ristretti, studiò, su altri film, i
processi di produzione singola, al fine di controllare la validità
del modello isobarico. Gli spettri dei pioni al centro di massa
avrebbero dovuto mostrare un picco e una spalla, rispettivamente
a momenti più e meno alti, il picco derivante da eventi in cui il
pione era prodotto “direttamente” prodotto in coppia con la
risonanza (pioni-extra), la spalla dovuta a pioni di decadimento.
I risultati si mostrarono in buon accordo col modello.
Non varrebbe la pena di menzionare queste ricerche piuttosto
marginali se non fosse per questi motivi:
1) Si tratta di esempi della ricerca sulle interazioni forti che si
conduceva in quei tempi.
2) La risonanza 33 poneva un problema interpretativo: si poteva
(o forse doveva) considerarla una particella? Una particella che era
prodotta nelle collisioni pione-nucleone e poi decadeva appunto in
una coppia pione-nucleone? Certo che a decadere ci metteva
1023 secondi. Ma questo andava imputato al fatto che del
era responsabile l’interazione forte anziché la debole. E non si
dovrebbe fare una differenza concettuale fra le due.
3) Ci fu uno sviluppo di una qualche rilevanza.
Il modello periferico e l’interazione pione-pione
Il modello isobarico non poteva costituire la fine della storia,
perché prendeva solo in esame l’aspetto dell’interazione nello
stato finale, lasciando completamente inesplorato quello
dell’interazione responsabile per la produzione
Bonsignori e Selleri (1958): il picco di diffrazione nella diffusione
elastica protone-protone e pione-protone dà per il raggio del
nucleone un valore prossimo a quello della lunghezza d’onda
Compton del pione. Questo suggerisce fortemente “che l’interazione
responsabile per l’assorbimento della particella incidente abbia
luogo con la nuvola pionica del nucleone bersaglio”. Ma con quanti
pioni? Considerazioni fenomenologiche (nello stile di Mesons) e
semi-teoriche (nello stile di Fields) suggerivano fortemente che
questo numero dovesse essere prossimo a uno.
Ma, gli autori ricordavano, si sarebbero dovute valutare “tutte le
possibili correzioni di vertice e di self-energia del pione intermedio”.
p1
p2
Ora, c’è un polo nel piano complesso del momento trasferito …
t  p2  p1
2
Con metrica 1, -1, -1 , -1, t è <0. Ma invividua il quadrato
dell’energia totale al centro di massa per il processo di
collisione fra protone e antiprotone; secondo la teoria dei campi,
dati i diagrammi, questo processo ha, in questa variabile, un polo
per il valore
t
2
Questo polo, per quanto appena detto, è esterno alla regione fisica
del processo di collisione pione-nucleone (o protone-protone), ma
vi farà sentire la sua influenza ...
Illustrazione dell’idea primitiva della “polologia”
t
0

2
Gli autori si rifacevano a una formula ottenuta da Chew e Low,
valida quando i valori di t si accostavano al valore del quadrato
della massa del pione. L’uso della formula nella regione fisica,
cioè per valori negativi del momento trasferito, comportava
trascurare le correzioni per i vertici e il propagatore. Si poteva
giustificare sulla base della considerazione che il punto in
questione era molto vicino alla regione fisica.
Un modello? O un’approssimazione (“rigorosa”) a una teoria
(in fieri)?
L’uso del risultato di Chew and Low nella regione fisica aveva
“esattamente la stessa giustificazione teorica del trascurare i
diagrammi con più di un pione scambiato”.
La matrice S: storia di un programma
perdente
Si tratterà di basarsi basarsi sui concetti basilari della teoria dei
campi, ma non sui suoi tipici procedimenti di calcolo. Quei concetti
andranno invece di volta in volta utilizzati nell’ambito di formalismi
derivabili da principi generali. Sono individuabili alcune tappe:
• Le relazioni di dispersione
• La rappresentazione di Mandelstam
• Il “bootstrap”
• I poli di Regge
Nel corso di questo processo prenderà corpo la convinzione che non
vi siano particelle più elementari di altre (“democrazia particellare”).
Molti autori hanno contribuito a questa scuola, ma un indubbio ruolo
di guida deve essere attribuito a Geoffrey Chew.
Geoffrey Chew
... e il suo programma
Un paio d’anni dopo l’uscita del trattato di Schweber, Bethe e de
Hoffmann, Chew scriveva: “Credo che l’associazione tradizionale
di campi alle particelle fortemente interagenti sia vuota”. Egli
esprimeva così quella che era diventata una profonda convinzione
personale, ma anche quello che era diventato un sentire diffuso.
Chew riconosceva che “l’apparato dei campi era stato enormemente
utile nella scoperta di principi di simmetria, particolarmente riguardo
alla coniugazione di carica. Una seconda area dove la teoria dei
campi aveva giocato un ruolo storico cruciale era nella continuazione
analitica della matrice S; la nozione di microcausalità e dei diagrammi
di Feynman era stata inestimabile in questo contesto”.
Nei processi di diffusione
S fi  limt  ( f ,U (t , t0 ) i )
0
t 
Tuttavia la sua impressione era “che finalmente avessimo
alla nostra portata tutte le proprietà della matrice S che
potrebbero essere dedotte dalla teoria dei campi e che lo
sviluppo futuro di una comprensione delle interazioni forti
sarebbe facilitato se eliminassimo dal nostro pensiero nozioni
proprie della teoria dei campi come lagrangiane, masse ‘nude’,
costanti ‘nude’ d’accoppiamento, e fino la nozione di ‘particelle
elementari’.
“Io credo – concludeva – che nel futuro dovremmo lavorare
interamente entro lo schema della matrice S analiticamente
continuata.”
[1] Geoffrey F. Chew, S-Matrix Theory of Strong Interactions,
A Lecture Note and Reprint Volume, W. A. Benjamin, New
York, 1961, page 1 of Chapter 1.
Le relazioni di dispersione
J.D. Jackson, “Introduction to dispersion relations
techniques”, in:
Dispersion Relations,
Scottish Universities Summer Schol, 1960
Oliver and Boyd, 1961
Un po’ di storia
R. Kronig, H. A. Kramers (1926-27): teoria classica della dispersione
della luce; la r.d.s. segue da ipotesi di analiticità sull’indice di rifrazione
come funzione della frequenza complessa, collegabili al requisito della
causalità (velocità limite).
Vari autori (ca. 1946-1950): causalità e altre condizioni potrebbero
essere imposte alla matrice S e limitare la sua forma.
Gell-Mann, Goldberger e Thirring (1954): prova quanto-meccanica
di relazioni di dispersione per diffusione in avanti della luce basata
sulla condizione di microcausalità.
Vari autori (Goldberger, Lehmann-Symanzik-Zimmermann, ...
Chew-Goldberger-Low-Nambu (1955/1957): estensione a particelle
massive - diffusione in avanti e non; in particolare alla diffusione
pione-nucleone.
Le relazioni di dispersione nell’ottica classica
In ottica classica vale la relazione
ic
n( )  nr ( ) 
 ( )
2
dove α(ω) è il coefficiente di assorbimento. Se la funzione n(ω)
è olomorfa nell’intero piano complesso eccettuato un taglio
sull’asse reale positivo, vale la relazione di dispersione di Kronig
-Kramers
 ( ' )
nr ( )  1  P  2 2 d '
 0  ' 
c
dove P indica la parte principale.

In questo contesto si preferisce avere a che fare con l’ampiezza
di diffusione f(ω) in avanti piuttosto che con l’indice di rifrazione.
Il legame fra le due quantità è il seguente:
n( )  1 
2 c 2

2
Nf ( )
(N indica il numero di centri diffusori per unità di volume)
Similmente, il coefficiente di assorbimento è legato all’indice
di rifrazione attraverso il cosiddetto “teorema ottico”:
 ( ) 
4cN

Im f ( )  N t ( )
Utilizzando le ultime due relazioni si perviene alla:
2 2
Im f ( ' )
Re f ( ) 
P
d '
2
2
0  '  '  


Questo risultato vale in realtà solo se la diffusione avviene su
particelle legate, per le quali Re f(ω) è effettivamente 0. Più in
generale, vale la
2 2
Im f ( ' )
Re f ( )  Re f (0) 
P
d '
2
2
0  '  '  


che si può anche riscrivere:
 2   t ( ' )
Re f ( )  Re f (0)  2 P  2 2 d '
2 0  ' 
Le relazioni di dispersione per la diffusione pione-nucleone
Qui le cose si complicano notevolmente per tener conto di spin
e spin isotopico. La variabile significativa diventa l’energia. Per
semplicità continuo a riferirmi alla:
 2   t ( ' )
Re f ( )  Re f (0)  2 P  2 2 d '
2 0  ' 
Emerge un aspetto: quello della correlazione fra insiemi diversi
di dati (ampiezza per la diffusione elastica a una data energia –
andamento complessivo della sezione d’urto totale con l’energia).
L’emergere di discrepanze poteva implicare un ripensamento
circa le condizioni imposte alla matrice S o un riesame dei dati
“The Puppi-Stanghellini discrepancy” (N.C 5, 1305, 1957).
Un aggiornamento del controllo (gruppo Waloschek, N.C. 15,
551, 1960): nuovi dati sulle sezioni d’urto totali e misura
dell’ampiezza in avanti a 915 MeV.
Le relazioni di dispersione e la struttura del nucleone
Nei primi anni 50, Robert Hofstadter, alla Stanford University,
concepisce l’idea di studiare la struttura dei nuclei atomici
utilizzando i fasci di elettroni prodotti dalla macchina Mark III.
L’idea ha il suo remoto ascendente in Rutherford. Forse non è un
caso che i primi esperimenti fossero condotti proprio su oro,
l’elemento che Rutherford aveva utilizzato come bersaglio delle sue
particelle alfa negli esperimenti che comprovarono la struttura
nucleare dell’atomo. Essi mostrarono forti deviazioni dalla
distribuzione attesa per elettroni diffusi da un nucleo puntiforme,
e indicarono che il nucleo aveva un raggio finito e misurabile.
Si fecero poi misure su nuclei d’idrogeno (in polietilene), che
mostrarono che anche il protone aveva una struttura.
Robert Hofstadter, Premio Nobel per la fisica nel 1961 (con
Rudolf Mössbauer)
“La spiegazione più naturale dell’estensione spaziale osservata è
che essa derivi dalla ‘nuvola’ pionica che circonda il nucleone […]
Ora, se anche il pione ha una struttura, saranno corrispondentemente
dilatate le dimensione del nucleone. Perciò è necessario conoscere
la struttura del pione prima di poter predire quella del nucleone.”
W.R. Frazer, “The electromagnetic structure of pions and nucleons”,
in: Dispersion relations, op. cit.
La stuttura del pione
K’
q'

γ

q

e

e

k
Il contributo del diagramma è proporzionale a:
j (q, q' )eu (k ' ) u (k ) / t

con
t  (k 'k ) 2  (q'q) 2  2q 2 (1  cos )
Il vertice π π γ ha la forma:
j  e(q  q' ) F (t )
F (t )
prende il nome di fattore di forma del pione.
Nella regione della diffusione è
t 0
il processo e  e      
dato che per esso rappresenta
mentre è
t  4 per
il quadrato dell’energia totale al centro di massa.
Il fattore di forma del pione è una funzione analitica nell’intero
piano complesso di t, fatta eccezione per un taglio lungo l’asse
reale per t>,=4. Applicando il teorema di Cauchy alla funzione
[ F (t )  F (0)] / t
si ottiene
t  Im F (t ' )
F (t )  1  
dt '
 4 t ' (t 't )
Ora, per
forma
t  4 , l’interazione scritta inizialmente, riscritta nella
j (q,q' )ev(k ' ) u (k ) / t ,
e  e      

e
F (t )
descrive il processo
è parte determinante della
relativa ampiezza. Ora, come stadi intermedi di quella reazione,
possono intervenire vari stati, limitati solo dalle condizioni di
avere carica, numero barionico e stranezza nulli. Per quanto
riguarda stati di pioni, la cosiddetta G-parità dice che possono
avere solo un numero pari di pioni. Nella regione
4  t  16
possono contribuire solo stati di due pioni.
La G-parità è una combinazione della coniugazione di
carica e di una rotazione di π rad attorno al secondo asse
dello spazio dell’isospin. Dato che la coniugazione di
carica e l’isospin sono conservati dalle interazioni forti,
così deve essere per G.
I fattori di forma del nucleone
La diffusione di elettroni
su protoni è descritta dal
grafico
La corrente nucleonica si può scrivere nella forma generale


1
2
2
ieu ( p' )   F1 p (q )    q
F2 p (q )u  p 
2m p


In essa intervengono dunque due fattori di forma, rispettivamente
legati alla distribuzione della carica e del momento magnetico.
Una corrente neutronica, implicata nella descrizione della
diffusione di elettroni da parte di deutoni richiedeva a sua
volta due fattori di forma
2
2
F1n (q ), F2 n (q )
Le espressioni per le due correnti si possono combinare nella:
ieu N ( p' ){  [ F1 (q )   3 F (q )] 
S
2
V
1
2

1
S
V
2
   q
[ F2 (q )   3 F2 (q 2 )] u N  p 
2M
dove M è la massa del nucleone, e
up  up 

 3u N   3    

u

u
 n   n
La struttura del nucleone è dunque descritta da quattro fattori
di forma, uno isoscalare e uno isovettoriale sia per la distribuzione
di carica sia per quella di momento magnetico.
La separazione dei termini isoscalare e isovettoriale è
fondamentale, perché, per la G-parità, solo stati intermedi
con un numero pari (risp. dispari) di pioni possono contribuire
agli integrali dispersivi relativi ai fattori di forma isovettoriali
(risp. isoscalari).
Ora, per quanto riguarda i primi, non cambia sostanzialmente
nulla rispetto al caso della struttura del pione.
W. R. Fraser, J. R. Fulco, Phys. Rev. Letters, 2, 365 (1959).
Sperimentalmente, i fattori di forma isovettoriali variavano fortemente
(calavano) con il momento trasferito. Questo comportamento
escludeva che Im F potesse avere un comportamento di tipo a,
e indicava invece con forza un comportamento di tipo b. Questo,
a sua volta, inplicava che il sistema pione-pione presentasse una
risonanza in prossimità della soglia:
(a circa t  11m 2 )
Le r.d.d., in quanto condizioni di autoconsistenza, potevano dunque
fornire previsioni.
Frazer e Fulco scrivevano esplicitamente che le loro considerazioni
si limitavano ai fattori di forma isovettoriali, e che non avevano
nulla da dire su quelli isoscalari.
A mia conoscenza, fu Sergio Fubini la prima persona a suggerire
che il comportamento sperimentale dei fattori di forma isoscalari
richiedevano a loro volta un contributo piccato a Im F . Dunque,
nei sistemi di tre pioni con T=0, J=1 doveva esistere una
risonanza ... o uno stato legato se
t  9m 2
S. Fubini, S. Bergia, A. Stanghellini, C.Villi, “Electromagnetic
form factors of the nucleon and pion-pion interaction”, Phys. Rev.
Letters, 6, 367 (1961).
E. Clementel, C. Villi, “On the scattering of high energy
electrons by protons”, Nuovo Cimento, 4, 1207 (1956):
Una forma polare per uno dei fattori di forma emergeva a partire
dall’idea che l’elettrone sentisse una carica efficace (effective)
del protone più piccola della carica naturale come conseguenza
della sua penetrazione nella nuvola pionica.
S.B., A. Stanghellini, Nuovo Cimento, 21, 155(1961)
Il fit migliore è attorno a 25 e 6 masse pioniche al quadrato
rispettivamente per la parte isovettoriale e isoscalare. Prudenzialmente
non escludevamo un t maggiore di 9 per la seconda.
Le cose si mostrarono più complicate di così: sono di quegli anni
le scoperte dei mesoni vettori ρ, ω e φ al cosmotrone di
Brookhaven e al bevatrone di Berkeley:
1961: ρ (750 MeV); ω (780 MeV); 1962: φ (1020 MeV)
La ρ contribuiva ai fattori di forma isovettoriali, le altre due
particelle a quelli isoscalari.
Già i primi tentativi di riprodurre i dati sui fattori di forma a partire
da quelli accertati sulla ρ furono insoddisfacenti, e si dovette
introdurre una fittizia ρ’. Ancora più complicato si mostrò il problema
per la parte isoscalare: in ogni caso le pendenze erano più forti di
quelle prodotte da un comportamento a un polo, e in generale si
richiedevano interferenze distruttive fra poli diversi.
La rappresentazione di Mandelstam
S. Mandelstam, Phys. Rev. 112, 1344 (1958)
0
n

p

   p  0  n    0  n  p  0  p    n
L’idea è che l’ampiezza per le tre reazioni deve essere una
funzione analitica di tutte e tre le variabili, che assume il
significato specifico di ampiezza per uno dei tre processi per
valori delle variabili appartenenti agli intervalli adeguati.
Le singolarità nelle tre variabili sono ora le singolarità di una
sola funzione in regioni diverse.
Per tale funzione si ipotizza una rappresentazione integrale
(di Mandelstam). Si dovrebbe così riuscire a concentrare tutta
l’informazione derivante dai tre processi volta a volta su
un solo problema.
La rappresentazione vale sotto l’ipotesi della massima analiticità:
le ampiezze hanno la massima analiticità compatibile con
l’esistenza di singolarità derivata da considerazioni di teoria
dei campi.
Relativamente a ogni dato problema, una volta date alcune
singolarità, la collocazione e la forza di tutte le altre dovrebbe
risultare determinata.
Nel quadro della teoria dei campi, l’informazione necessaria e
sufficiente dovrebbe essere quella riguardante le posizioni e i
residui nei poli associati con le “particelle elementari”.
Tutte le altre (quelle le cui masse e interazioni sono predicibili)
dovranno essere stati legati (se stabili) o risonanze (se instabili)
di quelle “particelle elementari”.
Ma la definizione di particella elementare è significativa solo
dopo che il problema sia stato risolto. Ed è difficile immaginare
un calcolo sufficientemente completo da permettere una risposta
univoca alla domanda: quale delle particelle fortemente interagenti
è elementare?
“La teoria corretta dovrebbe esser tale da non permettere di dire
quali particelle sono elementari”. Che è come dire che scompare
il concetto stesso di particella elementare.
G. Chew, S-Matrix Theory of Strong Interactions, Benjamin, 1961
Il bootstrap
Appare come il suggello definitivo dell’idea. Nel 1959, Chew e
Mandelstam trovarono che una risonanza pione-pione di spin 1
poteva essere generata da una forza dovuta a uno scambio tra
pioni di quella stessa risonanza.
ρ
ρ
Bootstrap è, alla lettera, il tirante di uno stivale. Come tutti sanno,
il barone di Münchhausen si sollevò dalla palude che lo stava
inghiottendo tirandosi su per quei tiranti. Pittorescamente, si
voleva rendere col termine l’idea che le particelle non avessero
bisogno di un appoggio esterno – fatto di costituenti ultimi – per
emergere dalla palude del nulla e venire in esistenza.
G. Chew, “Particles and S-matrix poles: hadron democracy”, in:
Pions to quarks, op. cit.
Cfr. anche: D. Kaiser, “Nuclear Democracy – Political Engagement,
Pedagogical reform, and Particle Physics in Postwar America”, ISIS,
2002, 93: 229-268.
Poli di Regge
Nel 1959, T. Regge mostrò che, per un’ampia classe di potenziali,
le sole singolarità dell’ampiezza di diffusione non relativistica nel
piano complesso del momento angolare orbitale l erano poli la cui
posizione si spostava con l’energia: l=α(s)
N.B.: la figura non rende
correttamente l’idea: al di
sotto dell’energia di soglia,
la parte immaginaria si
annulla.
Im l
E  
E2
•
E1
E  
•
•
1
E di soglia
• •
2 3
Re l
La prova di Regge divenne un’ipotesi nell’ambito delle teorie di
seconda quantizzazione (Chew e e Frautschi,1961).
Essa infatti appariva in grado di risolvere un problema di carattere
generale che emergeva in questo ambito. In esso, infatti, i poli nelle
ampiezze di diffusione, che si ipotizzava dominassero la scena,
erano dovuti allo scambio di particelle di momento angolare fissato.
Come conseguenza, per alte energie incidenti, le ampiezze, per
momenti angolari sufficientemente alti, dovevano “esplodere”.
Ma i poli di Regge potevano anche rendere conto di poli e risonanze
nel canale s. Infatti le traiettorie di Regge corrispondevano a
particelle o risonanze quando α(s) uguagliava un intero.
P.D.B. Collins, E.J. Squires, Regge Poles in Particle Physics,
Springer-Verlag, 1968.
Le risonanze:
 ( E)  Re ( E)  i Im (E) 
d

 l  ( E  El )  Re  ( E )
 i Im  ( E )
 dE
 EE
l
Ponendo:
d

Re  ( E )
dE
EE
l
si può riscrivere

2

Im  ( E )


 ( E )  l   E  El   i 
2

Se l ed E hanno valori corrispondenti a un polo, dovrà essere:
R( E )
f (l , E ) 
l   (E)
(R(E) è il residuo nel polo).
Sostituendovi la


 ( E )  l   E  El   i 
2

f (l , E )  
R
1
 E  El   i / 2
A parte il momento anmgolare, tutti i numeri quantici dovrebbero
essere gli stessi per tutti i poli su una data traiettoria.
Perciò – per esempio – nella diffusione di pioni positivi su protoni
tutto deve procedere via il canale
3
I  B 1 S  0
2
La richiesta che i poli di Regge devono anche descrivere forze di
scambio nel canale t ha l’effetto che due poli consecutivi devono
essere separati da due unità di momento angolare, ciò che fissa
anche la parità della traiettoria.
I valori dei momenti angolari delle risonanze possono essere seguiti
come funzioni della massa.
Il grafico di Chew e Frautschi
J
11/2
7/2
 ( J  3 / 2)
3/2
1
4
6
M 2 (GeV 2 )
Sezioni d’urto ad alte energie
Se i processi ad alta energia sono dominati da un solo polo
di Regge scambiato P, l’ampiezza per la diffusione elastica
deve avere la forma
F (s, t )   a (t ) b (t )e
P (t )
Se le sezioni d’urto totali, come sembra, sono circa costanti
ad alta energia, deve essere α(t=0)=1 (<1per tutti gli altri poli).
Si dimostra poi che quel polo deve avere i numeri quantici del
vuoto (vacuum trajectory). Esso non distingue, per esempio, fra
le sezioni d’urto totali di pioni positivi e negativi su protoni.
Poiché ciò era predettto da un teorema di Pomeranchuk, la
traiettoria in questione era detta di Pomeranchuk (o pomerone).
Si prevedevano allora sezioni d’urto differenziali elastiche che
cadevano esponenzialmente al crescere del momento trasferito,
come nei picchi di diffrazione; si doveva inoltre verificare un
restringimento (shrinking) logaritmico dal picco al crescere di s.
“Il primo fiorire di teoria e fenomenologia ebbe vita breve”
(Collins e Squires, op. cit., p. 2). Gli esperimenti (1962/63)
mostrarono ben presto che lo shrinking si mostrava solo nelle
sezioni d’urto pp. Dal punto di vista teorico poi, Mandelstam
mostrò che nel caso relativistico, nel piano complesso del
momento angolare comparivano tagli accanto ai poli.
S. C. Frautschi, Regge Poles and S-Matrix Theory, Benjamin, 1963.
D.H. Perkins, Introduction to High Energy Physics, Oxford, 1971.
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