Vaticanista argentina e intima amica della famiglia Bergoglio, Evangelina Himitian è una delle
persone più vicine a Jorge Bergoglio ed è tra i pochi ad aver seguito da presso lo straordinario
percorso che lo ha portato fino al soglio di Pietro. Riportando per la prima volta le parole dei
familiari e raccontando episodi decisivi che ci mostrano il cuore più autentico della scelta d’amore
di papa Francesco, questa commovente biografia ne rivela il lato privato e meno conosciuto: la
migrazione dei genitori dall’Italia all’Argentina, l’infanzia nei quartieri popolari di Buenos Aires, la
passione per lo studio e i maestri giovanili, gli anni di formazione tra i gesuiti, la nomina a vescovo e
la volontà di testimoniare quotidianamente il Vangelo prendendosi cura degli ultimi.
Nel ripercorrere i momenti cruciali dell’esistenza di Bergoglio, l’autrice ci accompagna all’origine
del suo impegno per costruire una Chiesa povera tra i poveri e tocca le corde più intime dell’uomo
che con la sua stupefacente bontà ha riacceso la gioia e la speranza nei cuori di milioni di fedeli in
tutto il mondo.
EVANGELINA HIMITIAN, giornalista, vaticanista della “Nación” e amica di famiglia dei
Bergoglio, ha seguito l’intero percorso di Jorge Bergoglio fino all’elezione papale. Da sempre
attenta ai temi della povertà e della famiglia, nel 2009 ha vinto il premio della Asociacitión de
Entidades Periodísticas Argentinas nella categoria Diritti Umani.
Evangelina Himitian
Francesco
Il papa della gente
Proprietà letteraria riservata
© 2013 Evangelina Himitian
© 2013 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-64843-8
Titolo originale dell’opera:
Francisco - El papa de la gente
Prima digitale 2013 da edizione BUR maggio 2013
Traduzione di Eleonora Cadelli e Manuela Cusimano per Studio Editoriale Littera
In copertina: foto © PikoPress / LaPresse
Art Director: Francesca Leoneschi / theWorldofDOT
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Francesco
Il papa della gente
A Olivia e Gastón
Capitolo 1
Una strada che porta a Roma
Quando il volo Alitalia si alzò dal suolo argentino martedì 26 febbraio 2013, Jorge Mario Bergoglio,
arcivescovo di Buenos Aires, avvertì una strana inquietudine. Erano le 14.15 e l’aereo era appena
decollato dall’aeroporto internazionale di Ezeiza, in perfetto orario. Il cardinale si sistemò nella sua
poltroncina, allungò le gambe e trasse un profondo respiro. Aveva chiesto un posto nella fila accanto
all’uscita di emergenza perché rimanere seduto per così tante ore avrebbe acuito i dolori al ginocchio
e all’anca di cui soffre. Non gli piace stare fermo troppo a lungo. Indossava le scarpe che portava
tutti i giorni; le altre, quelle che gli avevano regalato poche ore prima i suoi collaboratori della
cattedrale metropolitana di Buenos Aires, erano nel suo bagaglio, intatte. Gliele avevano comprate
per l’occasione, quasi avessero intuito che il cardinale non avrebbe mai usato le scarpe rosse da
Papa. «Non può viaggiare con quelle scarpe» lo avevano ammonito i padri del conclave locale.
Bergoglio li aveva ringraziati per il pensiero, aveva sistemato il dono in valigia e calzato le sue
vecchie compagne di viaggio.
Era arrivato in aeroporto con circa due ore di anticipo. Ci era andato da solo, come faceva ogni volta
che si recava a Roma. Aveva lasciato la curia di Buenos Aires portando con sé una valigia e la
ventiquattrore nera come bagaglio a mano. Aveva attraversato Plaza de Mayo ed era salito
sull’autobus navetta dell’impresa Manuel Tienda León che lo aveva condotto in aeroporto. Prima di
partire aveva salutato i suoi amici, come sempre. Aveva l’aria di chi parte per un breve viaggio.
«Jorge, prenderai il bastone del comando?» gli aveva chiesto il suo edicolante con profetica
intuizione. «No, scotta troppo» aveva risposto lui. Nel corso della giornata le persone a lui più
vicine lo avevano salutato con grande emozione. «Non fate così, ora basta. Ci rivedremo tra un paio
di settimane» diceva a tutti.
Poco dopo il decollo, nella solitudine e nel silenzio del velivolo, seduto sulla sua poltroncina in
classe turistica (fila 25, corridoio), i dubbi cominciarono ad assalirlo. «State tranquilli. Non c’è
alcuna possibilità che io diventi Papa.» Bergoglio aveva pronunciato questa frase fino alla nausea.
«Il 23 [di marzo] sarò di ritorno a Buenos Aires.»
«Perché proprio il 23?»
«Il giorno dopo è la Domenica delle Palme. Devo tornare in tempo per celebrare la messa» aveva
risposto lui.
«Non c’è alcuna possibilità»: lo aveva ripetuto così tante volte che era quasi riuscito a
convincersene. Il cardinale era certo che il suo momento fosse già passato: uno dei motivi per cui la
sua elezione appariva improbabile era che aveva già settantasei anni.
Ma la possibilità esisteva, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro. L’idea non lo rallegrava; anzi, ne
era profondamente contrariato. Si era già trovato in una situazione simile nel 1992, quando era stato
nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires. Cinque anni dopo, quando seppe che Roma avrebbe
indicato un coadiutore con diritto alla successione del cardinale Antonio Quarracino, non pensava
che sarebbe stato lui il prescelto, anzi, era così sicuro che lo avrebbero trasferito in una diocesi nelle
zone interne del Paese che la sua prima reazione fu supplicare che non lo facessero: «Sono di Buenos
Aires, e lontano dalla mia città non saprei fare niente». Gli anni, tuttavia, gli avevano insegnato a non
abbandonarsi a reazioni istintive, ma ad aspettare che il suo cuore elaborasse le emozioni e da esso
sgorgasse spontanea la risposta giusta: «Sì».
Mentre l’aereo sorvolava l’oceano Atlantico e le hostess distribuivano bibite ai passeggeri, gli
tornarono alla mente le conversazioni con i suoi collaboratori prima di partire.
«Ha un bagaglio molto pesante, padre?» gli aveva chiesto una persona di sua fiducia nel tentativo di
capire se si trattasse solo di un viaggio di un paio di settimane o di un vero e proprio trasloco. «Con
tutti gli abiti che devono indossare i cardinali per il conclave…» aveva aggiunto. Quel suo stretto
collaboratore sapeva che una sola valigia era sufficiente a contenere i beni che padre Bergoglio
aveva accumulato in tutta la sua vita: la collezione di dischi di musica classica, tango e opera; un
poster del San Lorenzo, la sua squadra di calcio del cuore, autografato dai giocatori e che teneva
appeso nel suo ufficio; le comode e logore scarpe nere; il crocifisso dei suoi nonni, che pendeva
sopra il letto nell’appartamento al terzo piano della curia di Buenos Aires, di fronte alla cattedrale. E
poco altro.
Una volta gli avevano domandato cosa avrebbe portato con sé se fosse scoppiato un incendio e fosse
dovuto scappare di fretta. «L’agenda e il breviario» aveva risposto senza esitazioni. La sua agenda è
piccola e nera e vi sono annotati i numeri di telefono delle molte persone che ha aiutato nel corso
della sua esistenza. Di tanto in tanto le chiama per sapere come stanno, fare loro gli auguri di
compleanno o chiedere notizie dei figli. Il breviario è il libro liturgico che stabilisce gli obblighi
pubblici del clero durante l’anno. Lo tiene sempre con sé. «È il primo libro che consulto al mattino e
l’ultimo che chiudo prima di addormentarmi» ha confidato. Anche questa volta, diretto a Roma al
conclave che avrebbe eletto il successore di Benedetto XVI, aveva messo nella sua ventiquattrore i
due volumi.
«No, il bagaglio non è molto pesante» aveva risposto al suo collaboratore. «Viaggio leggero. Una
valigia sola, piccola, come sempre. È piuttosto piena, ma non di abiti. Porto ai miei amici un po’ di
biscotti: alfajores con dulce de leche. Se arrivassi a mani vuote non me lo perdonerebbero mai…»
aveva spiegato il cardinale Bergoglio. «Stia tranquillo, non c’è alcuna possibilità» aveva poi tagliato
corto, intuendo la piega che stava prendendo la conversazione.
«Prego molto per lei, padre.»
«Allora non mi vuole bene.»
«Lei diventerà Papa.»
«No, non credo. Il 23 sarò di ritorno.»
«Come fa a saperlo? Se lo Spirito Santo dice di no, è una cosa. Ma se è lei a voler dire di no, rifletta
bene a chi lo sta dicendo.»
Il silenzio che era seguito era parso eterno. Dopodiché si erano salutati.
«Lei dice sempre che bisogna farsi carico del proprio Paese, prenderselo sulle spalle; in questo caso
si tratta della Chiesa. Forse è arrivato il suo momento e dovrà farlo. È probabile che questo sia
l’ultimo servizio che presterà al Signore» gli aveva detto un altro collaboratore poco prima che si
recasse in aeroporto.
Tutte le conversazioni che avevano preceduto la partenza sembravano andare nella stessa direzione.
Lasciavano presagire un destino che cominciava ad apparire inesorabile, almeno nel suo intimo,
nella sua convinzione e nella sua intuizione. Ma non nei suoi desideri. E nemmeno per l’opinione
pubblica: il nome di Jorge Mario Bergoglio non compariva nella rosa dei papabili proposta dai
media e dagli scommettitori.
E se quelle persone avessero avuto ragione? Se per lui fosse davvero giunto il momento di caricarsi
la Chiesa sulle spalle? La Chiesa perde, o perdeva, migliaia di fedeli ogni giorno. Sarebbe toccato a
lui affrontare quella terribile realtà ed esporsi in prima persona? Sarebbe divenuto il buon pastore
che va a cercare le pecore allontanatesi dal gregge oppure, come ripeteva spesso nelle sue omelie,
«il parrucchiere delle pecore: quello che si dedica a mettere i bigodini all’unica pecora rimasta»
mentre le altre si smarriscono lungo la via?
Sarebbe diventato il primo Papa americano? Non era un’ipotesi poi così assurda, dal momento che la
metà dei cattolici del mondo vive in America Latina, anche se in Argentina solo uno su cinque
partecipa alla messa domenicale. La vera sfida sarebbe stata riconciliare la Chiesa con i valori che il
mondo intero si aspetta di trovare in essa: onestà, trasparenza, austerità, coerenza, vicinanza e una
maggiore apertura.
Il giorno successivo alla fumata bianca che annunciò al mondo l’elezione del nuovo Pontefice, a
Buenos Aires squillò il telefono. Rispose lo stretto collaboratore che aveva salutato Bergoglio prima
del viaggio. Da Roma arrivò una voce fresca e allegra. Era il Papa. «Aveva ragione lei: i cardinali
me l’hanno fatta!» dichiarò col suo tono giocoso, ironico e inconfondibile.
I cardinali… Con loro fu ancora più diretto. Durante il conclave, quando si seppe che aveva superato
i novanta voti, impartì la sua prima assoluzione: «Vi perdono» disse loro.
Alcuni mesi prima, diversi sindacalisti della capitale avevano telefonato agli uffici della Pastorale
sociale dell’arcidiocesi di Buenos Aires. Erano preoccupati: «Raccomandate a padre Bergoglio di
non andarsene da solo per la strada. È pericoloso. C’è molta gente che gli vuole male. Deve stare
attento». Non era una minaccia, anzi il contrario: era l’avvertimento di alcune persone vicine ai
centri del potere, sinceramente preoccupate per la sua sicurezza e per la sua scelta ardita di andare in
giro come un cittadino qualsiasi.
«La strada? Non la lascerò mai» rispose Bergoglio, per nulla spaventato dalle parole dei suoi
collaboratori. «Io devo stare a contatto con la gente. Se non lo facessi potrei impazzire. E rischierei
di diventare un topo da sacrestia» aggiunse.
La sua scelta ha motivazioni ben precise. Padre Bergoglio sa bene che, per poter operare un reale
cambiamento nella vita di coloro che si avvicinano a lui per la prima volta, è indispensabile che
questi lo considerino una persona accessibile. Uno di loro. Un uomo qualunque. «Gesù fece questa
scelta per predicare il bene. Scese in strada, si mescolò con il suo popolo. Rimase tra la gente.
Sapete qual è il luogo fisico in cui Gesù trascorreva più tempo? La strada» disse durante un discorso
pubblico nell’ottobre del 2012.
«Cosa le piace di più di Buenos Aires?» gli chiesero nel corso di un’intervista realizzata dall’ufficio
stampa dell’Arcivescovado di Buenos Aires nel novembre del 2011, quando concluse il suo mandato
come presidente della Conferenza Episcopale Argentina. «Camminare per la strada. Ogni angolo di
Buenos Aires ha qualcosa da raccontare. Buenos Aires è un insieme di luoghi, di quartieri e di veri e
propri paesi. Villa Lugano è più di un semplice quartiere: è un paese con una propria idiosincrasia
che lo rende diverso da qualsiasi altro. Nelle città ci sono spazi, come ad esempio i grandi viali, che
sono solo luoghi qualsiasi; alcuni quartieri, invece, mantengono intatto il proprio fascino» rispose, e
le sue parole lasciarono trasparire quanto fosse innamorato della sua città.
Forse è questo il motivo per cui, quando dal balcone del Vaticano fu annunciata l’elezione di un Papa
argentino come successore di Benedetto XVI, la festa esplose proprio nel luogo della città che
Bergoglio ama di più: la strada.
Mercoledì 13 marzo 2013. Gli istanti successivi alla fumata bianca furono eterni. L’umanità intera
sapeva che era stato eletto un nuovo Papa e aspettava di conoscerne il nome. Nella città, nei bar, nei
luoghi di lavoro e nelle case si aprì una sorta di parentesi temporale, un momento di sospensione in
cui era permesso trascurare i propri impegni per guardare la televisione. Solo poche persone, forse
quelle a lui più vicine, si aspettavano di sentir annunciare un nome argentino. Per tutti gli altri,
c’erano forti probabilità che la scelta ricadesse sull’italiano Angelo Scola o sul brasiliano Odilo
Pedro Scherer.
«Bergoglio potrebbe rivelarsi la vera sorpresa» scrisse proprio quel giorno in un allegato alla terza
pagina del quotidiano argentino «La Nación» la giornalista Elisabetta Piqué, corrispondente da
Roma.
Quel che è certo è che nessuno si aspettava di sentire il suo nome quando il cardinale francese
protodiacono del Vaticano, Jean-Louis Tauran, uscì sul balcone principale della basilica di San
Pietro accompagnato da due sacerdoti. Con voce tremante e tono pacato si avvicinò al microfono e
pronunciò quello che tutto il mondo già sapeva: «Habemus Papam». In Piazza del Vaticano scoppiò
l’applauso e la trepidazione si diffuse in tutto il pianeta. Un attimo dopo arrivò l’annuncio del nome,
che in pochi compresero da quelle prime parole in latino: «Eminentissimum ac Reverendissimum
Dominum, Dominum Georgium Marium Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio».
«Che cos’ha detto? Ha detto Bergoglio?» Queste erano le domande che si ripetevano in tutto il
mondo. Il dubbio durò solo pochi secondi perché i media diffusero immediatamente la conferma:
l’argentino Jorge Mario Bergoglio era il nuovo Papa. Nella città di Buenos Aires la notizia
riecheggiò come un’esplosione. Ci furono grida, abbracci, applausi, incredulità, festeggiamenti e,
naturalmente, commenti pessimisti.
Era come se fosse stato segnato il golden goal durante la finale della coppa del mondo di calcio. La
notizia lasciò tutti senza parole. E l’entusiasmo fu incontenibile.
Aggrappato alle sbarre del suo balcone all’appartamento 12 in un condominio dell’avenida
Libertador, quasi all’angolo con calle Salguero, un giovane gridava la notizia a chiunque volesse
ascoltarlo: «Il Papa è argentino! Il Papa è Bergoglio! Grazie, Signore!». Era euforico, fuori di sé
dall’emozione.
Gli automobilisti suonavano il clacson, in un concerto che nel giro di pochi secondi si estese a tutta
la città e risuonò in quartieri molto distanti tra loro: da Palermo a Flores ad Almagro.
Nelle strade di Buenos Aires, il luogo preferito del nuovo Papa, tutti festeggiavano, si abbracciavano
e gridavano di gioia. C’era chi telefonava, chi parlava con sconosciuti, senza distinzione tra le
religioni, nessuno giudicava se la notizia fosse buona o cattiva, una sola cosa importava: il Papa era
argentino.
Capitolo 2
Papa non si nasce
Il quartiere Flores si trova nel centro nevralgico di Buenos Aires. Quel giorno era in subbuglio: non
capita spesso di scoprire che il nuovo Papa è originario della propria comunità.
In calle Membrillar al numero 531, tra Francisco Bilbao ed Espartaco, c’è ancora la casa nella quale
ha vissuto fino all’età di ventun anni Jorge Mario Bergoglio, l’uomo che oggi siede sul soglio di
Pietro. Dell’abitazione originaria resistono solo due cancellate e un gazebo che fa ombra al patio.
Per raggiungerlo bisogna percorrere un corridoio, lungo il quale riecheggia il tacchettio delle scarpe.
Sebbene la facciata sia stata completamente restaurata, la struttura della casa è ancora solida dopo
settantasei anni. «Ha buone fondamenta» fa notare Arturo Blanco, l’attuale proprietario, un ex
seminarista che vive lì con Marta, sua moglie. Nei giorni seguenti all’elezione di Francesco, la casa
di Flores è diventata la meta delle peregrinazioni dei vicini. Sono in molti nel quartiere ad aver
condiviso ricordi d’infanzia con il nuovo Pontefice e tutti desideravano riunirsi per rievocarli ed
esprimere così il proprio entusiasmo per la sua elezione.
Bergoglio nacque giovedì 17 dicembre 1936. Era il primo dei cinque figli di Mario Giuseppe
Francesco Bergoglio, contabile, e Regina Maria Sivori, casalinga. Dopo alcuni anni arrivarono anche
Oscar, Marta, Alberto e María Elena, l’unica sorella ancora in vita. Rosa Margherita Vasallo, sua
nonna, abitava a pochi passi da loro. Fu lei a insegnargli le preghiere e a spingerlo fin da bambino ad
abbracciare la fede cristiana. Quando nacquero i suoi fratelli minori, il piccolo Jorge cominciò a
trascorrere le giornate a casa dei nonni, dove imparò a parlare il piemontese.
I genitori di Jorge erano entrambi immigrati italiani, ma si conobbero a Buenos Aires, partecipando
alle attività della parrocchia. L’odissea che condusse i Bergoglio in Argentina è una lunga storia.
Nel 1864 il bisnonno del Papa comprò una casa di campagna a Bricco Marmorito, una piccola
frazione agricola in provincia di Asti. Anche in questa località è scoppiata la festa quando è stato
pronunciato l’«Habemus Papam». Un ramo della famiglia di Papa Francesco che abita ancora lì ha
seguito col fiato sospeso l’elezione. «Quando abbiamo sentito pronunciare il suo nome siamo rimasti
molto sorpresi, perché non avevamo mai pensato che Jorge potesse davvero diventare Papa» ha
affermato Anna Bergoglio, una lontana cugina.
I Bergoglio si stabilirono nella nuova casa insieme ad altri membri della famiglia. Alcuni anni dopo
si trasferirono a Portacomaro, un altro piccolo comune dell’astigiano, dove nacque e crebbe Angelo,
il nonno dell’attuale Papa. Anche in questo paesino italiano di soli duemila abitanti al momento della
proclamazione del nuovo Papa le campane hanno suonato e due giorni dopo è stata organizzata una
grande festa in piazza. La città di Buenos Aires, il quartiere Flores, i paesi di Bricco Marmorito e
Portacomaro: tutti rivendicavano il nuovo Papa come autentico figlio della propria terra. «È il nipote
di Angelo Bergoglio» non faceva che ripetere padre Andrea, il parroco della chiesa di San
Bartolomeo.
Nel 1920 Angelo si trasferì con i suoi sei figli a Torino. Due anni più tardi tre dei suoi fratelli
emigrarono in Argentina e si stabilirono nella città di Paraná, a Entre Ríos, dove avviarono
un’impresa di pavimentazione. Nel 1929 Angelo decise di raggiungerli, non perché avesse problemi
economici, ma perché sentiva la mancanza dei suoi fratelli. Fu così che decise di vendere la
pasticceria di cui era proprietario e di comprare i biglietti per la nave Principessa Mafalda, diretta
in Argentina. Ma la nave ebbe un’avaria e naufragò nel nord del Brasile, perciò la famiglia dovette
imbarcarsi sulla Giulio Cesare. Mario Giuseppe, il padre del futuro Papa Francesco, aveva ventun
anni, era celibe e si era diplomato in ragioneria.
Sbarcarono nel porto di Buenos Aires in un caldo pomeriggio estivo, ma Rosa Margherita si teneva
stretto addosso il suo pellicciotto di volpe. Non poteva toglierselo: nella fodera aveva cucito tutti i
suoi risparmi, una vera e propria fortuna.
I nuovi arrivati alloggiarono all’Hotel degli Immigranti, affacciato sul porto, come tutti coloro che
arrivavano in Argentina in quegli anni. Poi proseguirono il viaggio verso Paraná.
Laggiù li aspettava un imponente edificio vicino al fiume. L’avevano costruito i prozii di Papa
Francesco e l’avevano battezzato con l’altisonante nome di Palazzo Bergoglio. C’erano appartamenti
a sufficienza per tutte le famiglie. Ma quando scoppiò la crisi del 1931 gli affari iniziarono ad andare
male. Un anno dopo erano ridotti sul lastrico, avevano perso i loro beni e dovettero vendere persino
la cappella di famiglia al cimitero.
Il maggiore dei tre fratelli Bergoglio morì di cancro e il minore si trasferì in Brasile. Quello di
mezzo, insieme ad Angelo, ricominciò daccapo, come racconta María Elena, la sorella minore del
Papa che attualmente vive a Ituzaingó, nella zona ovest dell’area metropolitana di Buenos Aires.
Ricominciare daccapo. Angelo ottenne un prestito e comprò un emporio a Buenos Aires. Non era un
negozio raffinato come la pasticceria che gestiva in Italia, ma era già molto. Suo figlio, Mario
Giuseppe, cercò lavoro come contabile in varie aziende e nel tempo libero andava in bicicletta a
consegnare la merce ai clienti dell’emporio.
I genitori di Bergoglio si conobbero nel 1934 nel quartiere di Almagro, durante una messa celebrata
nell’oratorio salesiano di Sant’Antonio. Si sposarono nel 1935 e l’anno successivo nacque il futuro
Papa.
Jorge trascorse gran parte della sua prima infanzia nella casa della nonna paterna. In una recente
intervista, quando gli chiesero chi fossero le persone che avevano influito di più nella sua vita,
rispose senza esitazioni: «Mia nonna». Fu l’ultima intervista radiofonica concessa prima di diventare
Papa. L’aveva invitato un suo caro amico, padre Juan Isasmendi, che gestisce la radio della
parrocchia di Nuestra Señora de los Milagros di Caacupé, nella villa de emergencia, la baraccopoli
N. 21 nel quartiere di Barracas. Bergoglio, che non ama rilasciare interviste e se è possibile evita
l’esposizione mediatica, aveva accettato a una condizione: si era fatto mandare le domande in
anticipo tramite posta elettronica. Nel corso della conversazione, il cardinale instillava nel
giornalista il dubbio riguardo l’utilità delle sue risposte. «Lei crede che quello che le ho detto
servirà a qualcosa?» commentava. Franchezza o modestia? È difficile dirlo. Ma Bergoglio fu
senz’altro sincero a proposito della nonna: «È stata lei a insegnarmi a pregare. Mi ha trasmesso la
sua fede. Mi raccontava le vite dei santi. Quando avevo tredici mesi nacque mio fratello e mia madre
non riusciva a occuparsi di entrambi. Così mia nonna, che viveva a pochi passi, veniva a prendermi
al mattino e mi riportava a casa la sera. Ciò che ricordo meglio di quegli anni è la vita divisa tra la
casa dei miei genitori e quella della nonna. È stata proprio lei a insegnarmi a pregare».
«Parla spesso di sua nonna Rosa. È evidente che le era molto legato e che le attribuisce un ruolo
importante nella sua vocazione al sacerdozio» riferisce Francesca Ambrogetti, autrice insieme a
Sergio Rubin di un libro-intervista con Bergoglio intitolato Papa Francesco. Il nuovo Papa si
racconta. Tra le altre cose, sua nonna gli ha trasmesso le usanze piemontesi. I pasti erano un
momento speciale per la famiglia, soprattutto la domenica, quando le cene potevano protrarsi fino
all’alba.
Bergoglio confida di aver imparato da sua nonna l’atteggiamento sereno e fiducioso quando si
intraprende un’avventura dall’esito incerto. Lei reagì così quando le annunciò la sua intenzione di
entrare in seminario: «Se Dio ti chiama è un’ottima cosa… ma non dimenticare che la porta di casa
rimarrà sempre aperta e che nessuno avrà nulla da rimproverarti se deciderai di tornare».
L’affetto del cardinale Bergoglio per sua nonna si mantenne costante e inscalfibile. Negli anni
Settanta andava spesso a farle visita nella residenza per anziani dell’ordine di San Camillo, dove
alloggiava. Era l’unico a occuparsi di lei. Il giorno della sua morte, raccontano le suore infermiere
presenti, Bergoglio rimase al suo fianco fino alla fine. «Quando la sua vita si spense, lui si
inginocchiò a terra e ci disse: “In questo momento mia nonna sta affrontando l’ora più importante
della sua esistenza. È sottoposta al giudizio di Dio. Questo è il mistero della morte”. Alcuni minuti
più tardi si alzò in piedi e se ne andò, sereno come sempre» rammenta suor Catalina.
María Elena, la sorella di Papa Francesco, ricorda che Mario Giuseppe fu un padre severo, ma non
alzò mai le mani sui figli. Quello era il ruolo della madre. «Papà ci guardava con certi occhi…
Avremmo preferito dieci frustate a quello sguardo. Con la mamma invece volava lo scappellotto! Ma
la capisco, povera donna… eravamo in cinque!» ha commentato ridendo.
«Il sabato, alle due del pomeriggio, mia madre ci faceva ascoltare l’opera che veniva trasmessa dalla
Radio del Estado. Ci faceva sedere e prima che cominciasse l’opera ci spiegava di cosa si trattava.
Quando stava per arrivare un’aria importante ci diceva: “Ascoltate bene, che adesso cantano una
canzone bellissima”. Devo ammettere che stare con i miei fratelli e con la mamma a goderci l’arte, il
sabato alle due del pomeriggio, era davvero meraviglioso» racconta Bergoglio nel libro-intervista.
Da bambino una delle sue passioni era collezionare francobolli. Le altre? Leggere e giocare a calcio,
in quest’ordine. E anche passeggiare per le strade.
In quegli anni il quartiere Flores era il polmone verde della città: quasi ogni casa aveva un patio o un
piccolo giardino. Si conoscevano tutti, e le famiglie che vivono ancora nel quartiere sono prodighe di
aneddoti sull’infanzia del successore di Benedetto XVI.
Plaza Herminia Brumana, a pochi metri dalla casa dei Bergoglio, era l’epicentro di tutte le attività.
«Lo conosco da quando eravamo bambini. Ci incontravamo per giocare a calcio, ma lui era più
interessato ai libri» dice Rafael Musolino, un amico di lunga data. Frequentavano le elementari e la
sua vocazione religiosa si sarebbe disvelata solo molto tempo dopo.
Nella piazza tra calle Membrillar e calle Bilbao si possono ancora ascoltare le testimonianze di
persone che lo vedevano passare di corsa per recarsi alla scuola pubblica N.8, Coronel Pedro
Cerviño, in calle Varela al numero 300. Si toglieva il grembiule bianco per non sporcarlo mentre
percorreva in fretta la strada ancora sterrata. Ogni pomeriggio, all’uscita da scuola, Bergoglio e suo
cugino si univano al gruppo di bambini che si ritrovavano per giocare a calcio. Tra loro era già un
leader. Ma non quel tipo di leader che con la palla sottobraccio s’impone sui compagni. Anzi,
proprio il contrario: erano gli altri bambini che si rivolgevano a lui e lo sceglievano come punto di
riferimento, anche se non era affatto il miglior calciatore e nemmeno un goleador. Jorge allora
organizzava il gioco e dopo aiutava i compagni a fare i compiti. Era un leader, sì, ma di basso
profilo, proprio come oggi appare al mondo.
Nella scuola in cui completò gli studi primari esiste ancora la documentazione in cui Jorge Mario
Bergoglio figura tra gli alunni. Su quei fogli ingialliti e consunti dal tempo, sono ancora registrati i
nomi e i voti di tutti gli allievi che hanno frequentato la scuola. «Jorge Mario Bergoglio. Età: 6 anni.
Voto: sufficiente.»
«Ai nostri tempi non si davano voti: o si era “sufficiente” oppure “insufficiente”. Jorge era bravo, ma
non lo ricordo come un alunno particolarmente dotato. Era uno dei tanti» racconta Ernesto Leach,
settantasette anni, eccellente pianista e compagno di scuola del Papa.
La sua prima maestra fu Estela Quiroga e Jorge mantenne con lei un costante rapporto epistolare fino
al giorno in cui lei morì, nel 2006. Nelle lettere, scritte sempre a macchina, Bergoglio le raccontava
ogni nuovo passo che compiva lungo il suo cammino di fede. La invitò persino ad assistere alla sua
consacrazione come sacerdote. Quando divenne prete le confidava spesso le storie che più lo
commuovevano e le parlava delle persone che era riuscito ad aiutare.
Cinque anni prima di sentire la chiamata di Dio per consacrargli la sua vita, Jorge corteggiò una
ragazza del quartiere, sognava di sposarla e di formare con lei una famiglia. Aveva appena dodici
anni ma si innamorò perdutamente. Lei si chiamava Amalia ed era una sua coetanea. Fu un amore
preadolescenziale e del tutto platonico, come spiega María Elena, la sorella del Papa. La semplicità
e il candore di un ragazzo poco più che bambino emergono con chiarezza nella lettera che Jorge inviò
ad Amalia: «Se non mi sposo con te mi faccio prete». Quella lettera fece arrabbiare molto il padre di
Amalia, che finì addirittura per picchiarla. Per questo lei lo rifiutò, anche se le piaceva. «Forse
eravamo davvero anime gemelle. Entrambi amiamo i poveri» ha dichiarato Amalia ai media il giorno
seguente alla notizia che il suo spasimante di gioventù era stato eletto al soglio pontificio.
In tutti questi anni Amalia, che pure è andata avanti con la sua vita, si è sposata e ha avuto figli e
nipoti, ha sempre accarezzato l’idea che Jorge possa aver trovato la sua vocazione grazie all’amore
che lei non aveva potuto corrispondergli.
«Andavamo a giocare insieme, come facevano tutti i bambini. Lui era meraviglioso, un ragazzo
sempre corretto, molto simpatico. Sua madre era come una Vergine Maria» ha raccontato Amalia tra
le lacrime per l’emozione.
«L’unica lettera che mi mandò fece andare mio padre su tutte le furie. Aveva disegnato una casetta
bianca con un tetto rosso e aveva scritto: “Questa è la casa che ti comprerò quando ci sposeremo. Se
non mi sposo con te mi faccio prete” diceva, e così fu» spiega Amalia. «Era un ragazzo romantico.
Almeno mi resta la gioia di essere stata l’unica donna con cui abbia pensato di metter su famiglia.»
Nell’intervista radiofonica già citata, lo stesso Bergoglio aveva raccontato: «Da bambino una volta
avevo pensato di farmi prete, ma come altri a quell’età sognano di diventare ingegnere, medico,
musicista… Solo che io pensai al sacerdozio».
Lo stesso anno in cui Jorge si invaghì di Amalia, suo padre prese un’importante decisione. Oltre a
frequentare la scuola superiore, il suo primogenito lo avrebbe affiancato nello studio contabile.
«Figlio mio, è ora che cominci a lavorare» gli annunciò. Non perché in famiglia ce ne fosse la
necessità: «In casa non mancava niente» raccontò in un’occasione Bergoglio. Non possedevano
l’automobile e non facevano vacanze, ma il cibo in tavola bastava per tutti. In quanto italiano e
immigrato, il signor Mario sapeva che la migliore eredità che potesse lasciare ai suoi figli erano
l’istruzione e l’etica del lavoro. E per tutta la sua vita l’uomo che oggi è Papa si è sempre attenuto a
questi due precetti.
Jorge cominciò facendo la gavetta: per due anni si occupò delle pulizie nello studio contabile e poi
cominciò a lavorare per un cliente di suo padre, il proprietario di una fabbrica di calze.
L’attuale Pontefice completò gli studi superiori alla scuola tecnica professionale N. 12 (oggi Scuola
Nazionale di Educazione Tecnica N. 27 Hipólito Yrigoyen), che aveva sede in una casa in calle
Goya al numero 300, nel quartiere Floresta. In una delle stanze, Bergoglio e altri dodici alunni
apprendevano nozioni di chimica e fisica. Di quegli studenti solo tre sono ancora vivi. Uno di loro è
Néstor Carabajo, che da allora è sempre rimasto suo intimo amico. «Studiavamo chimica, ma lui era
appassionato di letteratura, psicologia e religione. A quell’epoca aveva quattordici, quindici anni, ed
era già un militante religioso» ha raccontato al quotidiano «Clarín». Nessuno sa di preciso perché
avesse scelto di studiare chimica. Probabilmente era stata una decisione del padre che, nell’ottica di
preparare i figli al mondo del lavoro, riteneva che una scuola tecnica offrisse migliori opportunità.
«Jorge era bravo in tutte le materie, ma non era certo uno sgobbone» assicura Carabajo. «Tutti i
lunedì ci trovavamo dopo la scuola per discutere di calcio e a volte andavamo a giocare in un
campetto della parrocchia di Medalla Milagrosa. E ovviamente anche noi abbiamo rotto qualche
vetro! Dopo le partite di calcio aiutava tutti a fare i compiti, anche i ragazzi più piccoli. Lui giocava
anche a pallacanestro, e gli piaceva molto assistere agli incontri di pugilato.»
La sua passione per la letteratura lasciava presagire che sarebbe diventato un cultore delle lettere.
«Era un esperto di Jorge Luis Borges. Non si stancava mai di parlare degli ultimi libri che aveva
letto. E poi conosce a memoria il poema epico Martín Fierro e noi conserviamo gelosamente i suoi
commenti ai testi, perché sono veri e propri gioielli letterari» spiega padre Gabriel Marroneti,
parroco della chiesa di San José di Flores, dove Jorge ricevette la chiamata al sacerdozio.
Non furono né la chimica, né il calcio e neppure la pallacanestro, molto amata da suo padre, le
discipline a cui si dedicò con più fervore durante l’adolescenza. Fu la letteratura. Raccontano i suoi
amici che, mentre la maggior parte dei ragazzi giocava a calcio, molto spesso Jorge arrivava al
campetto con un libro in mano e rimaneva seduto a leggere per ore.
Grazie a capolavori come I promessi sposi o La divina commedia, poco a poco il giovane
discendente di immigrati italiani scoprì il suo amore per la letteratura. Aveva una predilezione anche
per Johann Hölderlin, il grande poeta romantico tedesco. Ha continuato a leggere e rileggere i suoi
versi fino alla sua partenza da Buenos Aires. Nella sua biblioteca, al secondo piano
dell’appartamento di fronte alla cattedrale metropolitana in cui abitava prima di diventare Papa, c’è
un’ampia sezione dedicata ai classici, e nei rari momenti liberi si immergeva nella loro lettura. La
sua biblioteca personale annovera anche l’opera completa di Jorge Luis Borges e quella di Leopoldo
Marechal, due autori che ammira molto.
Possiede inoltre un’interessante collezione di dischi di tango. Conosce bene Carlos Gardel e
Azucena Maizani (alla quale diede l’estrema unzione), Astor Piazzolla e Amelita Baltar. Di recente
ha chiesto a un amico di procurargli i grandi successi di Edith Piaf su cassetta, dato che non usa i Cd.
Per addormentarsi o per lavorare, invece, preferisce ascoltare musica classica.
Durante l’adolescenza lavorò anche presso il Laboratorio Hickethier e Bachmann, tra calle Arenales
e calle Azcuénaga, dov’era impegnato dalle sette del mattino all’una del pomeriggio. Era un
laboratorio di analisi di sostanze grasse, acque e prodotti alimentari. Bergoglio si occupava degli
alimenti realizzando le analisi bromatologiche dei campioni inviati dalle aziende per effettuare i
controlli.
In quel periodo Bergoglio conobbe una donna che ricoprì un ruolo molto importante nella vita del
futuro Papa. Si chiamava Esther Ballestrino de Careaga ed era la sua responsabile presso il
laboratorio. Lei gli insegnò a essere un perfezionista sul lavoro e un po’ di guaraní, essendo
originaria del Paraguay, ma soprattutto gli fece capire l’importanza della militanza politica,
esortandolo a leggere alcuni testi comunisti. Molto tempo dopo, negli anni Settanta, Bergoglio
ricevette sue notizie: le più tristi possibile. Durante la «guerra sporca», l’epurazione attuata dalla
Giunta militare del dittatore argentino Jorge Rafael Videla, la donna fu sequestrata insieme alle suore
francesi desaparecidas Léonie Duquet e Alice Domon. Fu un colpo durissimo per lui.
«Ricordo che quando le consegnavo un’analisi mi diceva: “Però, come sei stato veloce!”. E subito
mi domandava: “Ma hai analizzato quel tale dosaggio o no?”. Io le rispondevo con aria di
sufficienza: mi sembrava superfluo analizzarli tutti, dal momento che ne avevo già fatti un numero
sufficiente per ottenere un risultato più o meno esatto. “No, bisogna fare le cose per bene” mi
sgridava. Mi ha insegnato ad avere sempre un comportamento ineccepibile sul lavoro. Devo davvero
molto a quella grandissima donna» ha raccontato Bergoglio nel libro-intervista Papa Francesco. Il
nuovo Papa si racconta.
Durante la scuola superiore Bergoglio iniziò a mostrare un altro lato di sé: più impegnato e
politicizzato. Alcuni ricordano che una volta fu punito perché aveva appuntato sulla giacca lo stemma
del partito peronista.
Erano anni difficili per l’Argentina. Nel 1951 venne rieletto il presidente Juan Domingo Perón e,
sebbene sua moglie Evita fosse molto popolare tra gli argentini, le tensioni con la Chiesa cattolica, la
crisi economica e l’alto livello di corruzione si inasprirono, portando a scontri per le strade di
Buenos Aires: vennero incendiate alcune chiese e la contestazione culminò in occasione della
processione del Corpus Domini del giugno 1955. Il 16 giugno Plaza de Mayo fu bombardata
dall’aeronautica mietendo centinaia di morti e feriti tra i civili. Il 6 settembre 1955 ci fu il colpo di
Stato della Revolución Libertadora e Perón fu destituito. Seguirono anni di dittatura militare in cui i
militanti peronisti venivano fucilati nelle discariche della località di José León Suárez. Anni terribili
che segnarono profondamente il Paese e che Jorge non potrà mai dimenticare.
Tuttavia, quando la vita di Bergoglio sembrava ormai avviata lungo una strada ben definita, il suo
cuore ebbe un sussulto. Aveva diciassette anni quando Dio lo chiamò a sé. Era il 21 settembre del
1954, il primo giorno di primavera. Stava passeggiando con la sua fidanzata dell’epoca e un gruppo
di amici quando, passando davanti alla parrocchia di San José di Flores, sentì il desiderio di
confessarsi e si staccò dal gruppo. Alcuni anni fa gli chiesero cosa l’avesse spinto a diventare
sacerdote e rispose che nel passare davanti al portone di quella chiesa aveva provato un sentimento
mai sperimentato prima.
«Frequentavo la scuola professionale, studiavo chimica, e un 21 di settembre passai davanti alla
chiesa di Flores. Era la mia parrocchia ed entrai, quasi d’istinto. Sentii che dovevo entrare. Fu una
specie di spinta interiore, una di quelle sensazioni impossibili da spiegare. E mi guardai intorno. Era
piuttosto buio quel mattino di settembre. Vidi un prete venirmi incontro. Non lo conoscevo. Non
l’avevo mai visto in quella chiesa. Si sedette all’ultimo confessionale, a sinistra, rivolto verso
l’altare. E in quel momento non so cosa mi successe… Fu come se qualcuno mi afferrasse da dentro e
mi trascinasse verso il confessionale. Non saprei spiegare come andarono le cose. Evidentemente gli
raccontai i miei peccati, mi confessai. Non so dire di preciso come si svolse l’incontro, ma alla fine
chiesi al padre di dove fosse, perché non lo conoscevo» ha ricordato Bergoglio. «Mi disse: “Io sono
di Corrientes e vivo qui vicino, nella casa sacerdotale. Vengo a celebrare la messa qui in parrocchia
di tanto in tanto”. Mi rivelò di essere affetto da leucemia. Morì l’anno successivo. In quel momento
sentii che dovevo diventare prete. E non ebbi la minima esitazione» ha raccontato il futuro Papa.
Fu esattamente in quel confessionale, accanto alla Vergine di Luján e all’immagine di San Giuseppe,
che scoprì la sua vocazione religiosa. Dio lo stava aspettando e gli andò incontro. Bergoglio non
raggiunse i suoi amici. Tornò a casa, a meditare sotto il gazebo la decisione che stava per prendere.
Quel giorno aveva ricevuto la chiamata di Dio e per lui non fu semplice accoglierla. All’inizio non
disse nulla a nessuno. Dentro di sé si stava combattendo un’aspra battaglia. Visse quegli anni in una
sorta di «solitudine passiva»: soffriva «apparentemente senza motivo per una sorta di crisi o di
perdita, a differenza di una solitudine attiva, e cioè quella che si prova nel prendere decisioni
trascendentali» spiegò una volta.
Solo alcuni anni più tardi avrebbe comunicato alla sua famiglia la decisione di entrare in seminario e
prendere i voti.
Concluse gli studi superiori a diciannove anni e disse a sua madre che avrebbe proseguito gli studi
iscrivendosi alla facoltà di Medicina. Regina fu felicissima a quella notizia. «Lo appoggiò e gli
sistemò una stanza, che in realtà era uno sgabuzzino, nel portico, perché potesse studiare in pace»
rammenta María Elena Bergoglio.
Un giorno, tuttavia, Regina entrò nella stanza per pulirla e vide libri di teologia e filosofia sparsi
ovunque. María Elena ricorda ancora la conversazione tra madre e figlio.
«Jorge, vieni qui. Mi avevi detto che avresti studiato Medicina.»
«Sì, mamma.»
«Perché mi hai mentito?»
«Non ti ho mentito, mamma. Voglio studiare la medicina dell’anima.»
Quel giorno sua madre pianse. A quei tempi, per una famiglia di immigrati come loro, la possibilità
che uno dei figli studiasse Medicina e diventasse dottore significava un’importante ascesa sociale.
Era motivo di orgoglio per i genitori, che sarebbero stati ripagati dei tanti sacrifici fatti per
mantenerlo agli studi. Suo padre, invece, ne fu felice. «Mia madre comprese che Jorge se ne sarebbe
andato per sempre: per questo reagì in quel modo» racconta ancora María Elena, che in famiglia
veniva chiamata Mariela, o Malena, mentre suo fratello la vezzeggiava Nena.
Quando il giovane entrò in seminario, Regina non era ancora riuscita ad accettare la decisione del
figlio. Non andava mai a fargli visita, ma Jorge tornava spesso a casa per trascorrere con la famiglia
i giorni di vacanza. «Non che fosse arrabbiata con me o con Dio» chiarisce Bergoglio.
«Semplicemente non era d’accordo. “Pensaci bene: io non ti ci vedo a fare il prete” mi ripeteva.»
Nemmeno dare la notizia agli amici fu un compito semplice.
In quel pomeriggio del 1957 la vita di Jorge Bergoglio cambiò per sempre. Aveva deciso di prendere
i voti e lo comunicò ai suoi amici in una vecchia casa del quartiere Flores, tra calle Carabobo e calle
Alberdi. Lì i suoi amici accolsero la notizia con gioia, ma anche con un pizzico di tristezza all’idea
di dover rinunciare alla sua presenza quotidiana. Un paio di ragazze addirittura piansero. Quel giorno
Jorge compì il suo primo passo lungo il cammino che lo avrebbe condotto verso la Santa Sede.
Alba Colonna ricorda perfettamente quel pomeriggio. Faceva parte del gruppo di amici che si era
formato proprio grazie alla simpatia tra le parrocchie di Flores e di Villa Lugano. Racconta che
Jorge «era un ragazzo molto gentile, socievole. Non era un intellettuale spocchioso né un mistico.
Aveva molto a cuore i problemi sociali e per questo frequentava i quartieri più poveri».
Non si faceva notare. Non era un leader carismatico. Si mostrava umile, cordiale e aveva una vita
simile a quella di qualunque giovane della sua età in quell’epoca. Come tutti, infatti, partecipava agli
asaltos, feste a casa di qualcuno dei ragazzi in cui ci si trovava per ballare e divertirsi. Bergoglio si
avvicinava alle sue amiche vestito in giacca e cravatta, tendeva loro la mano e le invitava a ballare i
classici di David Carroll, come Tirando manteca al techo o La mecedora del abuelo. Alba ricorda
anche che «Jorge era un eccellente ballerino di tango. Gli piaceva moltissimo».
Le feste si protraevano fino a notte fonda e il sabato sera le ragazze portavano da mangiare e i ragazzi
le bibite. Se poi si festeggiava un compleanno, i ragazzi indossavano la giacca bianca, come si usava
in Argentina. Le danze andavano avanti fino alle cinque del mattino, quando i ragazzi
accompagnavano a casa le ragazze. «Alle otto però eravamo tutti a messa!» precisa Alba.
Giocatore di pallacanestro e tifoso della squadra di calcio del San Lorenzo, in gioventù Bergoglio
frequentava il vecchio Gasómetro, lo stadio dove allora giocavano i suoi favoriti. Da ragazzo ci
andava con suo padre e i quattro fratelli, da adolescente con gli amici. Insultava? Al massimo
lanciava un «fannullone» o un «venduto» all’arbitro, ma niente di più. Stando a un articolo apparso
su «El País» del giornalista Ezequiel Fernández Moores, Papa Bergoglio è intenzionato a supportare
la richiesta dei tifosi del San Lorenzo di recuperare il loro vecchio stadio nel quartiere di Boedo, il
Gasómetro, dove oggi è stato aperto un supermercato della catena Carrefour.
Capitolo 3
La formazione del vescovo di Roma
Nel corso della quinta votazione del conclave, quando fu ormai chiaro che le preferenze si stavano
orientando in favore di Jorge Bergoglio, gli altri vescovi cominciarono a lanciare al cardinale
argentino qualche battuta. L’argomento riguardava la scelta del nome. Qualcuno gli suggerì, come lo
stesso Francesco raccontò il giorno successivo all’elezione, di optare per il nome Adriano, in onore
di Adriano VI. «Perché bisogna riformare un po’ di cose» gli dissero i cardinali. I commenti giocosi
si susseguivano. «Dovresti chiamarti Clemente.»
«In onore di uno dei Papi che guidarono il cristianesimo romano?»
«No: perché così potrai vendicarti di Clemente XIV, il Papa che sciolse l’ordine dei gesuiti!» gli
risposero ridendo.
Tuttavia l’ispirazione decisiva arrivò per bocca dell’arcivescovo emerito di San Paolo, Cláudio
Hummes.
Quando Bergoglio superò i settanta voti e raggiunse così la maggioranza necessaria, Hummes lo
abbracciò, lo baciò e gli sussurrò: «Non dimenticarti dei poveri». Quella frase gli rimase impressa.
Mentre il conteggio proseguiva (il protocollo prevede l’obbligo di effettuare lo spoglio fino
all’ultimo dei centoquindici voti), Bergoglio scelse il proprio nome da Papa: né Adriano, né
Clemente e nemmeno Ignazio, come il fondatore dell’ordine a cui appartiene. Decise di chiamarsi
Francesco, come il poverello di Assisi.
Bergoglio fu ordinato sacerdote il 13 dicembre 1969, tre giorni prima di compiere trentatré anni. Da
allora, quando qualcuno gli chiedeva come gli si dovesse rivolgere, lui rispondeva: «Padre
Bergoglio o padre Jorge». Per i seminaristi che seguiva al Colegio Máximo di San Miguel, nella
provincia di Buenos Aires, preferiva essere semplicemente Jorge. «Non chiamatemi “padre”, in
fondo siamo colleghi» spiegava.
Alcuni giorni dopo il conclave il Papa in persona alzò la cornetta e fece diverse telefonate. Contattò
Daniel del Regno, il suo edicolante di fiducia, per avvisarlo che annullava l’abbonamento. Chiamò
anche il dentista e i suoi collaboratori dell’Arcivescovado di Buenos Aires. Gli rispose la
centralinista e, quando verificò che effettivamente all’altro capo del filo c’era il Papa in persona,
cominciò a balbettare. «Come devo chiamarla adesso?» osò domandargli.
«Per favore, continui a chiamarmi padre Bergoglio» le rispose lui.
La questione dei nomi e dei titoli non è un tema di primaria importanza per lui, e infatti preferisce
definirsi «vescovo di Roma» piuttosto che «Papa». «Per favore, non mi chiami Sua Santità e
nemmeno Eccellenza. Non si rende conto che titoli così pomposi mal si addicono al nome
Francesco?» spiegò subito dopo l’elezione a uno dei suoi collaboratori di Buenos Aires, anche lui in
dubbio su come rivolgersi a Bergoglio da quel momento in avanti. «Il vescovo di Roma che presiede
le altre chiese cristiane nella carità»: così gli piacerebbe essere nominato. «Troppo lungo? Va bene,
allora Papa Francesco. Anche solo Francesco è sufficiente.» O meglio ancora, come lui stesso
suggerì all’edicolante: «Mi chiami Jorge, come ha sempre fatto».
Nonostante sia estremamente metodico, il nuovo Papa non ama il protocollo del Vaticano, o
quantomeno quelle norme che lo fanno sembrare un pezzo da museo e lo allontanano dalla gente.
Infrangendole, invece, sente di avvicinarsi al prossimo. All’indomani della sua investitura, quando
chiamò sua sorella María Elena per salutarla, si congedò con ironia: «Bene, ora ti lascio perché non
vorrei svuotare i forzieri del Vaticano».
Non gli importa come si rivolgono a lui. Certo, quando appone la sua firma, con una grafia minuta e
serrata, Jorge M. Bergoglio conclude con due lettere: «S.I.». Stanno per Societas Iesu, ovvero la
Compagnia di Gesù, l’ordine in cui Francesco entrò quando aveva ventidue anni e dal quale dovette
allontanarsi nel 1992 per diventare vescovo ausiliare di Buenos Aires.
I membri della Compagnia di Gesù sono gli unici religiosi che ai voti di povertà, obbedienza e
castità ne aggiungono un quarto: l’obbedienza al Papa. I primi tre sono irrevocabili e si emettono al
termine dei due anni di noviziato, all’inizio del percorso sacerdotale, che nel caso dei gesuiti consta
di quattordici anni di studio (i seminari del clero secolare invece ne prevedono da cinque a otto, a
seconda dei casi). Tuttavia, in concomitanza con l’ordinazione i gesuiti emettono un quinto voto con
il quale si impegnano a rifiutare le cariche di vescovato, arcivescovato o cardinalato. In questo caso
sono ammesse due sole eccezioni: l’invio in terre di missione e la richiesta esplicita da parte del
Papa di rinunciare al voto per assumere quella carica.
Questo voto speciale venne istituito all’epoca di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dell’ordine.
Verso la metà del XVI secolo, la lotta per il potere e per accedere alle alte cariche ecclesiastiche era
aspra. Sant’Ignazio introdusse questo voto nell’intento di proteggere i suoi seguaci dalla vile corsa
ad aggiudicarsi poteri non di certo spirituali all’interno della Chiesa. In tal modo i gesuiti
rimanevano esclusi non per scelta personale ma in virtù dell’impegno assunto nei confronti della
Compagnia. Di conseguenza, un gesuita a cui viene proposto un vescovato è tenuto a rifiutare
l’offerta.
Ma esiste un’altra spiegazione per l’esistenza di questo voto. L’ordine è estremamente verticalizzato,
quindi un sacerdote gesuita non può rispondere allo stesso tempo al «Papa nero» e al «Papa bianco».
«Papa nero» è il termine popolare che designa il preposito generale della Compagnia di Gesù, la
massima autorità dei gesuiti. Oggi questa carica è ricoperta dallo spagnolo Adolfo Nicolás,
ventinovesimo successore di Sant’Ignazio, il quale annoverava tra i suoi motti le parole di Gesù:
«Nessun servitore può servire due padroni» (Lc 16,13). L’appartenenza a un ordine religioso è
subordinata al voto di obbedienza assoluta al proprio superiore. Nel caso dei gesuiti, la massima
autorità nell’ambito di ciascun Paese è rappresentata dal padre provinciale, ma quando un membro
dell’ordine viene nominato vescovo dal Papa di Roma diventa il capo di quell’area geografica,
ovvero la diocesi. Il padre provinciale, pertanto, smette di essere il suo superiore. Inoltre il vescovo
non ha l’obbligo di vivere in una comunità gesuita né di rispondere all’autorità locale.
Quando fu nominato ausiliare dell’arcidiocesi di Buenos Aires, Bergoglio aveva cinquantasei anni e
da trentadue professava obbedienza alla Compagnia di Gesù. Come è tenuto a fare ogni gesuita,
chiese di potersi sottrarre; tuttavia Giovanni Paolo II decise di avvalersi del quarto voto che il
sacerdote aveva emesso nel 1971, dopo il suo terzo probandato ad Alcalá de Henares: quello di
obbedienza al Papa. Fu così che Wojtyła lo «obbligò» ad accettare la nomina.
Assumendo la carica di vescovo, Bergoglio dovette uscire dall’orbita della Compagnia. Da allora,
sebbene continui a essere un sacerdote gesuita, non deve più obbedienza al padre provinciale né al
preposito generale dell’ordine.
«Noi gesuiti emettiamo il voto di non accettare cariche. Tuttavia, nel caso in cui la Santa Sede
proponga di nominare vescovo un gesuita, è l’interessato a dover decidere in coscienza quale scelta
fare» spiega il teologo gesuita padre José Aldunate.
La storia di Francesco, il gesuita
I gesuiti e i francescani hanno in comune l’attenzione verso i poveri, anche se i loro presupposti
ideologici sono molto diversi. Attualmente questi due ordini, insieme ai domenicani e ai cappuccini,
sono i principali all’interno della Chiesa. I benedettini si differenziano dagli altri perché dediti alla
vita monastica.
I salesiani, invece, non sono un ordine bensì una congregazione, mentre l’Opus Dei è stata elevata al
rango di prelatura apostolica da Giovanni Paolo II. La differenza tra un ordine e una congregazione
sta nel fatto che i membri di quest’ultima non emettono i voti solenni (ovvero la povertà e la rinuncia
al possesso di ogni cosa) ma esclusivamente quelli semplici (solo la povertà).
L’ordine dei frati minori cappuccini nacque da una costola dell’ordine francescano con l’intento di
seguire ancora più alla lettera l’esempio di San Francesco. I domenicani aggiungono alla loro firma
la sigla «O.P.» che significa «ordine dei predicatori» e sono l’ordine con la maggior
rappresentazione all’interno del conclave. Tuttavia in totale non arrivano a raggiungere il dieci per
cento dei voti, dal momento che la grande maggioranza dei membri del conclave non appartiene ad
alcun ordine ma proviene dal clero secolare.
Fino a poco tempo fa i gesuiti contavano dieci cardinali, anche se per ragioni d’età solo due di loro
hanno partecipato attivamente all’ultimo conclave: l’indonesiano Julius Riyadi Darmaatmadja e
Jorge Bergoglio. Adesso i cardinali della Compagnia di Gesù sono rimasti in nove, ma tra le loro fila
annoverano un Papa: il duecentosessantaseiesimo Pontefice e il primo gesuita della storia.
Perché Jorge Bergoglio ha scelto di diventare gesuita?
Su questo argomento si è espresso così: «In realtà non mi era molto chiara la direzione da prendere,
l’unica cosa su cui non avevo dubbi era la mia vocazione religiosa». Perciò, dopo aver frequentato il
seminario arcidiocesano di Buenos Aires, entrò nella Compagnia di Gesù attratto «dal suo ruolo di
avanguardia della Chiesa, portato avanti con obbedienza e disciplina». Ma era attratto anche da
un’altra caratteristica dell’ordine: la vocazione missionaria. Bergoglio desiderava partire come
missionario per il Giappone, dove i gesuiti svolgono un’opera molto importante.
Come si sente la chiamata di Dio nel proprio cuore? Dio gli ha chiesto di diventare prete e poi Papa?
«Cos’ho provato? Niente di particolare: ho sentito che dovevo ordinarmi sacerdote. Punto. Mi ha
chiamato. All’epoca avevo diciassette anni; attesi per altri tre, cominciai a lavorare e poi entrai in
seminario» ha raccontato Bergoglio durante l’intervista rilasciata alla radio della parrocchia Nuestra
Señora de los Milagros di Caacupé, nella villa de emergencia di Barracas.
La persona che giocò un ruolo determinante nell’orientare la sua scelta verso i gesuiti fu Enrique
Pozzoli, il suo padre spirituale e parroco della basilica di María Auxiliadora, nella comunità
salesiana di Almagro.
Padre Roberto Musante, un suo caro amico degli anni del seminario che oggi dirige una missione in
Angola, racconta: «Conobbi Bergoglio quando aveva appena diciotto anni e io venti. A quell’epoca
stava definendo il suo ingresso nell’ordine dei gesuiti».
A ventun anni Bergoglio entrò nel Seminario Metropolitano, nel quartiere di Villa Devoto, in calle
José Cubas. Tra i suoi compagni c’era anche il giornalista Luis Pedro Toni. «Era molto studioso, ma
non si può certo dire che fosse un mistico. Aveva una specie di “fidanzatina” che viveva da quelle
parti. Giocavamo a calcio, chiacchieravamo» ha ricordato il giornalista nel corso di un’intervista
rilasciata pochi giorni dopo l’elezione di Papa Francesco.
Lo stesso Bergoglio racconta la storia di quella presunta fidanzata nel suo libro Il cielo e la terra:
«Non mi ha mai sfiorato l’idea di sposarmi, ma quando ero seminarista rimasi molto colpito da una
giovane che conobbi al matrimonio di uno zio. Mi sorpresero la sua bellezza, la sua luce
intellettuale… insomma, pensai a lei per diverso tempo e non riuscivo a togliermela dalla testa».
Dopo una settimana, durante la quale non fu nemmeno in grado di pregare («Non appena mi
disponevo a farlo quella ragazza compariva davanti ai miei occhi» ha spiegato), capì che era
necessario riflettere a fondo sulla scelta del celibato. «Dovetti ripensarci a lungo. E ancora una volta
scelsi, o mi lasciai scegliere dal cammino religioso. Ma avere dubbi come quello era del tutto
normale; sarebbe stato strano il contrario» ha assicurato.
Poco dopo, quando Bergoglio si vide costretto a lasciare il seminario (non per una donna, bensì a
causa di un’infezione polmonare), la sua strada e quella di Toni si separarono. Luis Pedro proseguì
la sua formazione per altri otto anni, ma non conseguì il diploma. Quando si rividero, molti anni
dopo, l’allora cardinale lo spinse a concludere gli studi di Teologia. Il giornalista gli diede ascolto e
si iscrisse all’Università Cattolica Argentina.
Mentre frequentava il primo anno al seminario di Villa Devoto, prima che l’infezione polmonare lo
obbligasse a rimanere a riposo per diversi mesi, Bergoglio aveva partecipato all’attività religiosa
della chiesa di San Francesco Solano, nel quartiere di Villa Luro. Oggi i fedeli della parrocchia di
calle Zelanda 4700 in cuor loro ritengono che l’attuale Papa sia stato ispirato dall’immagine austera
di un altro Francesco, un monaco spagnolo che alla fine del XVI secolo sbarcò in America come
missionario, si stabilì nel Vicereame del Río de la Plata e svolse un’importante opera tra gli indios.
Il polmone destro, la sua spina nel fianco
Padre Bergoglio ricorda la disperazione e il dolore che patì quell’anno, quando cominciò ad
avvertire come un pungolo che gli trapassava la schiena. Aveva ventun anni e i medici non riuscivano
a capire esattamente di che cosa si trattasse. Venne ricoverato all’ospedale Sirio Libanés, nella città
di Buenos Aires. L’infezione richiese un trattamento con sonde che gli provocava fitte lancinanti. Lui
stesso racconta, nel libro Papa Francesco. Il nuovo Papa si racconta, che un giorno una suora gli si
avvicinò e gli sussurrò: «Con il tuo dolore stai imitando Gesù».
Durante la sua permanenza in ospedale andava a fargli visita uno dei suoi compagni di corso al
seminario, monsignor José Bonet Alcón, attualmente vicario giudiziale di Buenos Aires e presidente
del Tribunale Ecclesiastico nazionale. Bonet Alcón ricorda Jorge Bergoglio come un giovane molto
virtuoso e dotato di una grande capacità di sopportazione. «Andavamo a trovarlo nei momenti liberi
e trascorrevamo parte della giornata con lui. A volte ci fermavamo addirittura a dormire in ospedale.
Ci prendevamo cura di lui e soffrivamo terribilmente per la sua situazione» racconta il monsignore.
L’infezione polmonare che lo condusse molto vicino alla morte ebbe come unico effetto positivo
quello di coltivare e stringere forti legami di solidarietà con i suoi compagni. «Io e un altro
seminarista, José Barbich, gli donammo un litro o un litro e mezzo di sangue per una trasfusione»
aggiunge Bonet Alcón. Alla fine i medici dovettero operarlo e gli asportarono la parte superiore del
polmone destro (non il polmone intero, come credono in molti). Questo problema di salute non gli ha
mai impedito di praticare diversi sport e di camminare a passo sostenuto per la città; tuttavia l’ha
sempre obbligato a prendere qualche precauzione nelle giornate umide e a dosare gli sforzi, come ad
esempio salire le ripide scalinate della metropolitana di Buenos Aires.
In quegli anni la compagnia del suo padre spirituale, Enrique Pozzoli, fu di fondamentale importanza,
al punto che Bergoglio gli espresse la propria riconoscenza nel prologo al suo primo libro,
Meditaciones para religiosos, per la «grande influenza» esercitata sulla sua vita e per il suo
«esempio di servizio ecclesiale e dedizione religiosa».
«Il sacerdote salesiano gli consigliò di trascorrere un periodo a Villa Don Bosco, sulle montagne di
Tandil (nella provincia di Buenos Aires), perché l’aria salubre che si respirava lassù avrebbe fatto
bene ai suoi polmoni. Era la località in cui gli aspiranti salesiani trascorrevano le loro vacanze e io
ero lì in qualità di assistente. Avemmo occasione di conoscerci meglio e lui mi parve molto taciturno
ed estremamente umile» racconta Musante.
All’epoca in cui Jorge Bergoglio intraprendeva il percorso che lo avrebbe condotto al sacerdozio, il
seminario di Villa Devoto era diretto dalla Compagnia di Gesù. In genere i seminaristi migliori
sceglievano di diventare gesuiti, soprattutto in virtù del buon esempio che davano. Fu proprio durante
la permanenza a Tandil che Bergoglio decise di seguire i passi di Sant’Ignazio di Loyola. Musante
invece scelse don Bosco, ma in qualche modo le loro strade proseguirono parallelamente. Oggi il
salesiano predica in Angola, dove si occupa di educare centinaia di bambini in uno dei quartieri più
poveri di Luanda (Lixeira), che in portoghese significa «immondezzaio».
Diverso tempo dopo, negli anni delle esecuzioni e dei sequestri di sacerdoti durante la dittatura
militare che sconvolse l’Argentina tra il 1976 e il 1983, le strade di Musante e Bergoglio tornarono a
incrociarsi.
L’ingresso nella Compagnia di Gesù
A ventidue anni Francesco lasciò il seminario del quartiere Villa Devoto e l’11 marzo del 1958
iniziò il noviziato della Compagnia di Gesù nella provincia di Córdoba. Fu il primo passo del
percorso sacerdotale che molti anni più tardi l’avrebbe portato a Roma.
Che tipo di istruzione deve avere un Papa? È una domanda che in molti si pongono. Per correttezza
va specificato che la formazione ricevuta da Bergoglio non aveva come obiettivo plasmare un futuro
Pontefice, né prepararlo per guidare la Chiesa; ne è la prova il fatto che, come abbiamo detto, i
gesuiti sono gli unici sacerdoti a emettere un voto specifico di autoesclusione dalla carriera
ecclesiastica. Ciò significa che il percorso educativo dei gesuiti non prevede affatto una formazione
in vista del pontificato, semmai il contrario. «Mai, in nessun momento del suo cammino sacerdotale,
Bergoglio aveva contemplato l’obiettivo di sedere sul trono di Pietro» conferma un suo amico intimo.
La preparazione dei sacerdoti gesuiti comprende, come abbiamo già accennato, quattordici anni di
studio. I primi due corrispondono al noviziato, che a quell’epoca si svolgeva nella provincia di
Córdoba. Alla fine di questo primo periodo, a differenza di quanto avviene in altri ordini, i gesuiti
emettono i voti di castità, obbedienza e povertà. Dopodiché sono previsti due o tre anni di studi
umanistici, che allora si impartivano in Cile, ai quali segue un corso di laurea di tre anni presso la
facoltà di Filosofia e Teologia del Colegio Máximo San José nella località di San Miguel, nella
provincia di Buenos Aires. Poi gli studenti affrontano tre anni di tirocinio in magistero, durante i
quali impartiscono lezioni agli alunni della scuola superiore in alcuni istituti della Compagnia di
Gesù. Infine si consegue la laurea in Teologia presso la facoltà del collegio di San Miguel.
Solo allora, dopo il noviziato, il diploma e la formazione in filosofia, magistero e teologia, i gesuiti
vengono ordinati sacerdoti. Più avanti, inoltre, dovranno svolgere il terzo probandato, che consiste in
uno o due anni di pratica degli esercizi spirituali formulati da Sant’Ignazio di Loyola in persona. Al
termine di questa fase emetteranno il voto di fedeltà al Papa, e verrà celebrato il rito della
professione perpetua.
Nel marzo 1958 Bergoglio intraprese il noviziato e due anni dopo, il 12 marzo 1960, emise i suoi
primi voti come gesuita. Di lì a poco, come previsto, si trasferì presso il seminario in Cile.
La casa della Compagnia di Gesù in cui alloggiò Bergoglio nel 1960 si trova nella zona rurale Padre
Hurtado, nella Depresión Intermedia della Región Metropolitana, a ventitré chilometri dalla capitale
Santiago. La giornata era scandita in modo rigido e prevedeva diverse regole tra le quali svegliarsi
all’alba per la messa in latino e i canti gregoriani e assumere i pasti in assoluto silenzio. Agli
studenti era però consentito ricavarsi brevi momenti da dedicare allo sport all’aria aperta.
Il seminario è noto come Casa Loyola. È un edificio di tre piani semirettangolare, consta di novanta
stanze ed è stato costruito nel 1938. A causa dello sviluppo edilizio, la comunità rurale originaria finì
con l’essere integrata nel tessuto urbano; ciò nonostante la tenuta conserva ancora il suo frutteto di
meli, peri, susini e noci ed è circondata da ampi giardini che la isolano dal mondo esterno
mantenendola immersa nel silenzio.
Padre Juan Valdés, vicario della parrocchia San Ignacio di Loyola e attuale collaboratore presso la
casa di esercizi spirituali alla quale giunse Bergoglio nel 1960, rammenta di essere rimasto
impressionato da un discorso pronunciato dall’uomo che oggi siede sul soglio di Pietro.
«A quell’epoca io ero novizio. Gli alunni erano separati per classi, perciò non avevamo occasione di
legare con gli studenti dei corsi superiori. Ricordo di averlo ascoltato leggere un discorso durante
una cena» ha dichiarato Valdés in un’intervista al quotidiano cileno «La Tercera». Il vicario racconta
che Bergoglio era arrivato a Casa Loyola prima del Concilio Vaticano II (1962-1965) e a
quell’epoca le regole riguardanti la vita nella comunità erano molto rigide e stabilivano che i novizi
non dovessero entrare in contatto con gli studenti dei corsi superiori. Non si condividevano gli spazi
comuni né le aule e non c’era possibilità di fare conoscenza reciproca.
La giornata di Bergoglio e dei suoi compagni cominciava alle sei del mattino e le attività
terminavano dopo le sei di sera. «Dovevamo lavarci con acqua fredda, ci era consentito usare quella
calda solo due giorni alla settimana» ricorda Valdés.
Di norma non si poteva parlare più dello stretto necessario. «Se un alunno voleva comunicare con un
altro lo faceva sotto l’architrave della porta della sua stanza e in modo molto furtivo.» Il silenzio era
rotto solo durante la ricreazione, quando si poteva conversare liberamente tra compagni. «La nostra
era una vita monastica dove l’attività principale era la preghiera.»
Bergoglio dormiva in una camera nell’ala nord dell’edificio. Le stanze erano piccole e oltre ai letti
c’erano solo spartani scrittoi di legno. In ciascuna camera dormivano dai due ai quattro seminaristi.
«Gli alunni cambiavano spesso stanza per non rimanere a lungo con gli stessi compagni» racconta il
religioso.
«Il re dell’eterna gloria ci renda partecipi della mensa celeste.» Questa frase è scritta in latino in un
murale ancora visibile nel refettorio dove l’attuale Papa consumava i suoi pasti da studente.
Per i gesuiti i pranzi e le cene erano momenti di meditazione e «bisognava mangiare in silenzio»
mentre uno degli allievi leggeva una pagina della Scrittura o qualche riflessione. Fu proprio in una di
quelle occasioni che Valdés sentì parlare Bergoglio per la prima volta.
Gli studenti avevano il compito di servire a tavola e lavare i piatti alla fine dei pasti, con l’obiettivo
di instillare in quei giovani l’amore e l’impegno per il lavoro. Questo messaggio rimase impresso nel
cuore del giovane Bergoglio. Quando era vescovo e viveva nella curia della capitale, alcune suore
gli cucinavano frugali pranzi e cene che lui stesso si portava in tavola accompagnati dal sale e mezzo
bicchiere di vino. Dopo aver mangiato sparecchiava e lavava i piatti prima di dedicarsi alle sue
attività. Al mattino si rifaceva il letto. Solo una volta alla settimana, il martedì, si avvaleva dell’aiuto
di una persona che si occupava di fare le pulizie.
Negli anni di seminario in Cile, dopo il pranzo, la giornata continuava con lo studio e la lettura.
Padre Emilio Vergara, che è stato direttore spirituale in quel centro di studi, segnala in un articolo
pubblicato su «La Tercera» che la formazione umanistica di Bergoglio comprendeva lo studio di
latino, greco, letteratura, storia dell’arte e molte altre materie. Oltre ad apprendere le lingue, gli
allievi analizzavano le opere di autori classici come Cicerone o Senofonte.
Valdés rivela che «durante il noviziato gli studenti non potevano leggere i giornali per evitare
distrazioni e rimanere concentrati sullo studio». Potevano ascoltare solo musica classica. Nella casa
gesuita c’era un corridoio in cui i giovani studiavano e conversavano in latino. «In quel corridoio
c’erano sempre cinque o sei religiosi da un lato e altri cinque o sei sul lato opposto. Ricordo che
durante quelle passeggiate mi capitò di incrociare l’attuale Papa» racconta Fernando Montes, oggi
rettore dell’università cilena Alberto Hurtado.
C’era una stanza, una specie di capanna, che gli studenti chiamavano «la Tom» dal libro La capanna
dello zio Tom, dove spesso si riunivano per condividere le loro esperienze e prendere il tè.
L’attività che i seminaristi attendevano con maggior trepidazione era lo sport, che si praticava uno o
due pomeriggi la settimana (il complesso possiede anche una piscina). Gli studenti argentini si
distinguevano per la loro bravura nel calcio, ma in quegli anni Bergoglio dovette rinunciare a
malincuore all’amato pallone, perché ancora convalescente dall’operazione al polmone.
Bergoglio era consapevole che il suo problema di salute gli stava precludendo molte esperienze.
Alcuni mesi prima di stabilirsi in Cile, una volta terminato il noviziato a Córdoba con l’emissione
dei voti di povertà, castità e obbedienza, chiese di essere inviato presso la missione della
Compagnia in Giappone. Gli risposero che non era possibile, a causa del suo problema polmonare.
Fu molto dura per lui accettare quel rifiuto: le sue condizioni fisiche ostacolavano lo scopo che si era
prefisso nella vita. Nelle sue preghiere continuava a chiedere una spiegazione a Dio. Perché aveva
acceso in lui il desiderio di diventare missionario se non gli aveva concesso una salute
sufficientemente forte da poterlo esaudire? In quei momenti ripensava alle parole della suora
all’ospedale di Buenos Aires: «Con il tuo dolore stai imitando Gesù». Solo anni dopo avrebbe
scoperto che Dio gli stava indicando un altro cammino, lontano dal Giappone ma molto vicino alla
sua anima missionaria. «Più di un povero mi sarebbe sfuggito, se mi avessero mandato laggiù»
ironizzò in un’occasione.
La dedizione ai poveri
Non andò mai in Giappone, ma riuscì comunque a seguire la sua vocazione: dedicarsi agli ultimi.
«Voglio una Chiesa povera per i poveri» ha detto in una delle sue prime dichiarazioni come Papa.
Molte persone hanno attribuito il significato di quelle parole al suo voto di povertà. «È una
caratteristica dei gesuiti» hanno commentato in tanti. Tuttavia i suoi amici di lunga data all’interno
della Compagnia di Gesù riconoscono che la sua attenzione verso i bisognosi va ben oltre il suo
voto. «È un valore che Jorge ha imparato dalla sua famiglia. È radicato in lui. Non gli piace sprecare.
In casa sua non si soffriva la fame, ma non si può certo dire che ci fosse abbondanza. Ha vissuto
nell’austerità fin da piccolo, non l’ha appresa dai gesuiti. I suoi genitori erano semplici immigrati e si
sono fatti strada poco a poco. Lui ha assorbito dai suoi familiari la fede cattolica ma allo stesso
tempo uno stile di vita sobrio: in casa erano cinque fratelli e i soldi non bastavano mai. Altri figli di
immigrati si sono ribellati a un simile rigore, che obbligava ad esempio a mangiare tutto “insieme al
pane, perché sembri di più”, perciò la generazione successiva è stata molto più consumista. Ma Jorge
no. Lui ha abbracciato lo stile austero di casa sua, dove una gestione oculata delle risorse era l’unica
possibilità per far sì che quello che c’era bastasse per tutti» confida un amico di Bergoglio che lo
conosce fin dall’adolescenza.
Fu in Cile che il suo amore per i poveri, già vivo quando aveva ricevuto la chiamata al sacerdozio, si
fece più profondo. Il fattore scatenante fu senz’altro l’esperienza del contatto diretto con la miseria.
Lo testimonia lui stesso in una lettera che scrisse alla sorella María Elena il 5 maggio 1960. Lei e
Jorge hanno dodici anni di differenza e quando il loro padre morì a soli cinquantun anni per un
attacco di cuore, lui si occupò di María Elena come se fosse sua figlia.
«Quando si trasferì in Cile non potemmo più vederci quanto desideravamo, ma ci sentivamo tutte le
settimane. L’abbiamo sempre fatto, fino a oggi. Ora non so se potremo continuare questa nostra
abitudine…» si rammarica María Elena, senza riuscire a trattenere le lacrime.
Da allora la povertà cominciò a occupare tutti i suoi pensieri. «Ti racconto una cosa: do lezioni di
religione in una scuola, nelle classi terze e quarte» scrisse Bergoglio a sua sorella. «I bambini e le
bambine sono molto poveri; alcuni vengono addirittura a scuola scalzi. Molto spesso non hanno
niente da mangiare e d’inverno soffrono i terribili rigori del freddo. Tu non sai cosa significa, perché
il cibo non ti è mai mancato e quando senti freddo ti basta accendere la stufa. Ti dico queste cose
perché tu rifletta… Quando sei contenta, pensa che ci sono molti bambini che stanno piangendo.
Quando ti siedi a tavola, sappi che molte persone hanno solo un pezzo di pane per sfamarsi e che
quando piove e fa freddo vivono in capanne di latta e non hanno nemmeno di che coprirsi. L’altro
giorno una vecchietta mi ha detto: “Padre, come sarei felice se avessi una coperta! Perché di notte
sento molto freddo”. E la cosa peggiore di tutte è che non conoscono Gesù. Non lo conoscono perché
non c’è nessuno che porti loro la sua parola. Capisci adesso perché ti dico che servono molti santi?»
In quella lettera, scritta a macchina come ha fatto fino all’ultimo giorno da arcivescovo di Buenos
Aires e cardinale primate di Argentina, Bergoglio, che all’epoca aveva solo ventitré anni, aprì il suo
cuore. Soffriva dinanzi al dolore altrui. Sentiva il freddo di coloro che non avevano di che coprirsi e
rabbrividiva al pensiero di un bambino senza nulla da mangiare. Il contatto con la miseria lo rese più
umano e allo stesso tempo, paradossalmente, più spirituale. Voleva essere un santo sulla terra che
intercede presso il cielo in favore dei più sfortunati. Parte della sua missione consisteva anche
nell’aprire gli occhi e il cuore degli altri, renderli consapevoli della povertà e spingerli ad aiutare
gli ultimi. Ed è quello che cercò di fare anche con sua sorella.
«Perciò aspetto presto una tua lettera nella quale mi dirai come intendi aiutarmi nel mio apostolato.
Non dimenticare che da te dipende la felicità di qualche bambino» concluse. «Vorrei che fossi una
piccola santa. Perché non ci provi? Servono così tanti santi!» Ora che Jorge è diventato Papa, María
Elena legge la lettera a voce alta nella sua casa di Ituzaingó e scoppia a ridere. Mentre accende una
sigaretta guarda Jorge, il figlio che porta il nome di suo fratello. «Piccola santa? Noi tre fratelli
minori eravamo delle pesti. Oscar e Jorge invece erano molto buoni» ricorda sorridendo.
Il professore che portò Borges in aula
Il Colegio de la Inmaculada Concepción, nella città di Santa Fe, vanta oltre quattrocento anni di
storia ed il più antico ateneo argentino. Gode di un indiscusso riconoscimento internazionale per la
qualità della sua istruzione e da mercoledì 13 marzo 2013 ha un altro motivo di orgoglio: Papa
Francesco è stato uno dei suoi illustri docenti.
Il giovane Bergoglio, che all’epoca aspirava a diventare prete e faceva parte della Compagnia di
Gesù, svolse presso il collegio una delle missioni che tutti i gesuiti devono assolvere:
l’insegnamento.
Fu così che, tra il 1964 e il 1965, a ventotto anni, Bergoglio arrivò all’istituto di Santa Fe per
insegnare letteratura, psicologia e arte. «A una prima valutazione non sembrava essere l’area di
insegnamento a lui più congeniale, essendo un perito chimico» ricorda il giornalista e scrittore Jorge
Milia, che all’epoca era uno dei suoi alunni e che più tardi avrebbe stretto con lui un rapporto di
profonda amicizia epistolare, vista la distanza che li separava.
«Fu una pazzia mandarlo a insegnare letteratura, anche se gli piaceva molto leggere. I gesuiti si
attengono a una regola sintetizzabile nel motto: “per aspera ad astra”. Significa che per arrivare in
alto bisogna percorrere una strada irta di ostacoli. Suppongo che non volessero rendergli le cose
troppo facili.»
Il maestro Bergoglio (questo è il titolo che corrisponde a coloro che studiano per diventare sacerdoti
e si dedicano alla pedagogia) lasciò un’impronta indelebile nei suoi studenti. «Ci ha fatto conoscere
la letteratura spagnola: ci ha dischiuso le porte di quel mondo e ci ha esortati a entrarvi» racconta
Milia. «All’epoca i piani di studio prevedevano la lettura di diversi testi, dalla Celestina a García
Lorca. È stato un percorso meraviglioso. Bergoglio riusciva ad appassionare persino gli alunni meno
interessati alla materia. E spronava quelli che come me avevano una naturale propensione ad
approfondire le tematiche a compiere ricerche, offrendoci il suo aiuto e sostegno.»
Tra tutti gli alunni della classe, Milia catturò l’attenzione di Bergoglio per l’argomento che aveva
scelto di esaminare: «A quel tempo mi cacciavo sempre in questioni complesse. Avevo cominciato a
leggere un libro noiosissimo, la Summa theologiae di San Tommaso d’Aquino. Era una lettura
decisamente singolare, soprattutto considerato che avevo appena sedici anni. Ricordo che Bergoglio
mi si avvicinò e mi chiese perché l’avessi scelta. Erano tomi rimasti a lungo sepolti in biblioteca e
odoravano di muffa: immagino che nessuno li prendesse in prestito da anni. A lui parve un’ottima
decisione, ma mi mise in guardia: “Sei pazzo? Vuoi suicidarti?”. Immagino stesse facendo il
possibile per evitarmi quella tortura».
All’epoca il Colegio de la Inmaculada Concepción seguiva un metodo di insegnamento sui generis.
Le lezioni si impartivano dal lunedì al sabato, un’abitudine che venne abbandonata nel corso degli
anni. La maggior parte degli alunni erano convittori che provenivano da diverse province del Paese e
persino dai Paesi limitrofi, come Cile, Uruguay e Paraguay. «Il mercoledì e il sabato non avevamo
lezione, ma dovevamo compiere opere di assistenza sociale o attività catechistica. La domenica
pomeriggio era il momento di distensione e svago, perché andavamo al cinema. E Bergoglio ci
accompagnava, come la maggior parte dei maestri» racconta Milia, che oggi vive nella provincia
settentrionale di Salta, in una casa circondata da un giardino che profuma di arance.
Per gli alunni di quarta e quinta il collegio proponeva corsi specifici in diverse aree del sapere. «Io
scelsi quello di letteratura, il più antico e prestigioso. A quei corsi si accedeva tramite una richiesta
personale scritta in cui si esprimevano le proprie motivazioni; poi i professori decidevano chi
ammettere e chi escludere. Bergoglio insegnava al corso in qualità di assistente, a completamento
della sua cattedra. Io ero un pessimo studente, poco meno che mediocre, ma mi ammisero ugualmente.
Non seppi mai se fosse stato Bergoglio a intercedere per me, ma l’accesso a quel corso fu la
soddisfazione più grande che diedi a mio padre, dal momento che l’aveva frequentato anche lui.»
Un altro alunno in cui Bergoglio ha lasciato una traccia profonda è José María Candioti. Oggi,
avvocato sessantaquattrenne, parla dell’attuale Papa come di un professore «molto esigente». Ma,
soprattutto, sottolinea che lo scopo principale di Bergoglio era quello di tirar fuori da ciascun alunno
la sua naturale propensione.
«Ricordo» dice Candioti «che invitò all’ateneo importanti personalità del mondo della letteratura,
come le scrittrici María Esther de Miguel e María Esther Vázquez. Nel 1965 niente meno che Jorge
Luis Borges tenne un seminario di letteratura gauchesca. Bergoglio era un grandissimo ammiratore di
Borges. Da quell’incontro tra lo scrittore e l’attuale Papa Francesco nacque l’idea di un concorso
letterario. Vennero selezionati otto racconti scritti dagli alunni del collegio, tra cui il mio e quello di
Jorge Milia, e venne pubblicato il libro Cuentos originales, con la prefazione scritta da Borges in
persona.»
Milia conserva un ricordo molto emozionante della visita di Borges al Colegio de la Inmaculada
Concepción. «I quattro o cinque giorni che ci dedicò furono un’esperienza eccezionale. Avemmo
l’opportunità di conoscere un Borges che pochi hanno potuto apprezzare. Sapeva che con noi non era
necessario indossare alcuna corazza e non venne armato della sua solita pungente ironia né del suo
celebre sarcasmo. Anzi, il primo giorno si presentò e disse: “Mi imbarazza un po’ essere circondato
da così tanti studiosi”. Le conversazioni erano serene e proficue e io ebbi anche la possibilità di
porgli qualche domanda sulla biografia che aveva scritto su Evaristo Carriego, perché l’avevo letta
ed ero un grande ammiratore della sua opera. Lui mi rivelò che si era pentito di averla scritta, perché
Evaristo era un amico di famiglia e il libro trasudava affetto… perciò non aveva alcun pregio
letterario.»
Milia ha raccontato diversi aneddoti di quegli anni indimenticabili nel libro De la edad feliz,
pubblicato nel 2006, che iniziò ad abbozzare nel 2005 dopo una riunione di ex alunni per festeggiare
i quarant’anni dal diploma. Ma fu solo dopo aver mostrato il manoscritto al suo amico Bergoglio,
allora vescovo di Buenos Aires, che cominciò a dargli forma di libro. «Bergoglio commentò: “Ma
questo è un libro”. Di fronte al mio scetticismo, aggiunse: “Scrivi molto bene, ma non capisci niente
della vita. Sei scollegato”. Gli chiesi di scrivere l’introduzione. Naturalmente sulle prime mi disse di
no, ma alla fine accettò. Gli amici mi prendono in giro dicendomi che non devono esistere molti
scrittori al mondo le cui opere siano state pubblicate con prefazioni sia di Borges sia del Papa!»
Candioti dice che all’epoca era un ribelle e a tal proposito racconta un aneddoto. «Consegnai un
compito con la postilla: “Ho risposto correttamente alle domande, ma non perché abbia studiato
granché, bensì grazie alle mie vaste conoscenze sulla materia”. Bergoglio mi diede un dieci, ma
aggiunse: “Siccome non ha studiato, le metto uno zero. Dieci più zero fa dieci, diviso due fa cinque.
Questo è il suo voto finale”. Mi impartì una vera e propria lezione di umiltà.»
Milia è uno dei pochi argentini che non gioisce per l’elezione del suo amico a vescovo di Roma.
«Quando ho sentito il cardinale francese Jean-Louis Tauran pronunciare il nome di Bergoglio in
latino sono scoppiato a piangere. È stata un’emozione immensa» riconosce lo scrittore. «Qualche
settimana prima avevo annullato un incontro con lui previsto per il 22 febbraio. Quel giorno dovevo
recarmi a Buenos Aires e volevo approfittarne per vederlo, ma siccome all’ultimo momento avevo
dovuto rimandare il viaggio, disdissi l’incontro e mi parve naturale chiamarlo per avvisarlo. Mi
ringraziò per la telefonata e parlammo delle dimissioni di Ratzinger, che erano state rese note
proprio quel giorno. Mi disse: “Per fare una scelta simile bisogna avere un coraggio enorme e
un’umiltà ancora più grande”. Così ci accordammo per vederci al suo ritorno dal conclave. In quel
momento provai una sensazione strana e gli chiesi: “E se non torni?”. Lui mi rispose: “Non
scherzare… perché non dovrei tornare?”. Era certo che le sue possibilità fossero sfumate nel
conclave precedente.»
Milia non può fare a meno di provare tristezza e di sentirsi orfano del suo amico consacrato Papa e
seduto sul soglio pontificio. «Provo un senso di perdita molto profondo» confessa. «Da un punto di
vista egoistico sento di averlo perso per sempre. Conosco bene Bergoglio e sono certo che non
rinnegherà mai le proprie radici. Ma la proclamazione l’ha strappato bruscamente dalla sua terra.
L’ha reso un uomo universale. Senza dubbio le nostre lunghe chiacchierate mi mancheranno
tantissimo.»
Dopo aver insegnato per due anni a Santa Fe, Bergoglio tornò a Buenos Aires e per un altro anno
continuò a impartire lezioni al Colegio del Salvador. Dal 1967 al 1970 frequentò il corso di laurea in
Teologia presso la facoltà del Colegio Máximo San José. Avrebbe iniziato a scrivere la tesi di
dottorato alcuni anni più tardi, in Germania. Infine, il 13 dicembre 1969, tre giorni prima di compiere
trentatré anni, Bergoglio fu ordinato sacerdote.
Nonostante l’iniziale resistenza di fronte alla scelta del suo figlio maggiore di consacrarsi a Dio,
Regina Sivori assistette alla cerimonia di ordinazione. Con grande sorpresa del novello sacerdote,
quando scese dal pulpito sua madre lo aspettava in ginocchio per chiedergli la sua benedizione. Gli
dispiacque molto che il padre non fosse presente. Oltre a quella dei suoi fratelli, ricevette una visita
molto speciale. Estela Quiroga, la sua maestra della scuola N. 8 Coronel Pedro Cerviño, ci teneva
molto a partecipare a una giornata così importante. Sua nonna Rosa, quella che era arrivata in
Argentina in nave indossando un pellicciotto di volpe in piena estate, era senza dubbio la più
emozionata. Gli aveva comprato un regalo e scritto una lettera con diversi anni di anticipo, «nel caso
non arrivasse viva» al giorno della sua ordinazione. Tra le lacrime, la donna che gli aveva insegnato
a recitare il rosario quando era appena un bambino lo abbracciò e gli disse quanto fosse orgogliosa
di lui ora che era diventato un «medico dell’anima».
«In questo giorno meraviglioso, in cui d’ora in poi potrai tenere tra le tue mani consacrate il Cristo
Salvatore e nel quale ti si apre un cammino privilegiato verso l’apostolato più profondo, ti lascio
questo modesto dono, di poco valore materiale ma di altissimo valore spirituale» aveva scritto sua
nonna. «Desidero che i miei nipoti, ai quali ho donato la parte migliore del mio cuore, abbiano una
vita lunga e felice. Se un giorno il dolore, la malattia o la perdita di una persona cara li riempirà di
sconforto, ricordino che un sospiro verso il Tabernacolo, dove giace il martire più grande e augusto,
e uno sguardo a Maria ai piedi della croce saranno una goccia di balsamo sulle ferite più profonde e
dolorose» aveva scritto la donna, senza sapere quale importante significato avrebbero acquistato le
sue parole anni più tardi per suo nipote.
La domenica seguente all’elezione di Papa Francesco, il nunzio apostolico, monsignor Emil Paul
Tscherrig, ha celebrato una messa nella cattedrale metropolitana di Buenos Aires e ha letto una
preghiera scritta da Bergoglio alcuni giorni prima della sua ordinazione sacerdotale. Monsignor
Tscherrig la considera una prova che nel cuore dello studente sul punto di diventare prete si celava
già l’anima del futuro Papa. «Questa preghiera riflette quello che Papa Francesco è sempre stato: un
uomo dalla fede profonda e dal cristianesimo senza compromessi. Poco prima della sua ordinazione
sacerdotale, in un momento di grande intensità spirituale, scrisse quanto segue in forma di preghiera:
“Credo nella mia storia, su cui si è posato lo sguardo amorevole di Dio. E aspetto ogni giorno la
sorpresa della manifestazione dell’amore, della forza, del tradimento e del peccato, i quali mi
accompagneranno fino all’incontro definitivo con quel volto meraviglioso che io non conosco, a cui
sono sfuggito continuamente, ma che desidero conoscere e amare”.»
All’ordinazione come sacerdote seguì il terzo probandato ad Alcalá de Henares, in Spagna. Il terzo
probandato è l’anno in cui i gesuiti si dedicano a meditare, svolgere esercizi spirituali e occuparsi di
alcune opere pastorali.
Alla fine del 1971 Bergoglio emise il suo quarto voto come gesuita, quello a cui Giovanni Paolo II si
sarebbe appellato per spingerlo ad accettare l’arcivescovato. Così concluse la sua formazione e
cominciò la sua vita sacerdotale. Aveva trentacinque anni e il mondo lo aspettava.
Capitolo 4
La difficile missione di imparare a governare
Il 5 agosto 1973 i quotidiani argentini pubblicarono la notizia che i gesuiti avevano eletto il loro
nuovo superiore provinciale. Jorge Mario Bergoglio, ad appena trentasei anni, di cui quattro come
sacerdote dell’ordine, era diventato la massima autorità della Compagnia di Gesù nella regione.
Il preposito generale dei gesuiti a livello mondiale, padre Pedro Arrupe, l’aveva designato come
successore di Ricardo O’Farrell. «Ha completato la sua formazione in Spagna e si è specializzato in
spiritualità e vita religiosa. Nel 1971 è tornato in Argentina per svolgere il compito di maestro dei
novizi, incarico che esercitava quando è stato nominato padre provinciale» riporta la stampa quel
giorno. Le sue nuove responsabilità comprendevano la supervisione di quindici case,
centosessantasei sacerdoti, trentadue fratelli e venti studenti.
«Una delle prime attività di cui dovrà occuparsi il nuovo superiore provinciale sarà ricevere il
preposito della Compagnia di Gesù, che farà visita ai gesuiti del nostro Paese. Il viaggio pastorale di
padre Arrupe toccherà Brasile, Paraguay, Argentina, Uruguay e Cile allo scopo di informarsi sui
problemi attuali con cui si scontrano i gesuiti nella loro opera apostolica» prosegue la cronaca
dell’epoca.
La visita di Arrupe non era una fortuita coincidenza. L’America Latina stava vivendo anni davvero
difficili, flagellata dalla violenza politica, dalla guerriglia e dal terrorismo. I colpi di Stato e i
governi militari dilagavano da un Paese all’altro, mentre il populismo e la lotta di classe passavano
alla clandestinità. Arrupe era la massima autorità dei gesuiti dal 1965 e fu uno dei sostenitori di
Bergoglio.
In gioventù il medico basco Arrupe era stato inviato come missionario della Compagnia di Gesù in
Giappone. Il 6 agosto del 1945, quando scoppiò la bomba atomica, stava celebrando una messa a
Hiroshima. Il sacerdote cadde a terra per lo spostamento d’aria. Appena comprese che si era trattato
di un bombardamento mandò i suoi novizi a soccorrere i feriti. Trasformò il collegio in un ospedale
di emergenza: quel pomeriggio medicò oltre centocinquanta persone ustionate dalle radiazioni e,
circondato dalle macerie, ne operò altrettante usando mezzi di fortuna, come semplici forbici da
cucito. La sua reazione tempestiva di fronte a quella sciagura e l’impegno profuso nel salvare il
maggior numero di vite umane gli valsero la massima autorità della Compagnia, anche se dovette
aspettare ben vent’anni.
L’ascesa di Bergoglio a superiore provinciale, invece, fu molto più rapida. Evidentemente Arrupe lo
considerava un uomo strategico nel contesto latinoamericano.
Sette mesi dopo la nomina di Arrupe a Papa nero, il Concilio Vaticano II emise il suo documento
finale. Erano stati necessari tre anni e mezzo di sessioni deliberative, alle quali avevano preso parte
in circa tremila tra cardinali, vescovi, teologi, specialisti in Diritto Canonico e altre personalità.
Nel 1959, appena eletto Sommo Pontefice, Giovanni XXIII aveva annunciato la sua intenzione di
convocare un concilio ecumenico di tutta la Chiesa cattolica. Gli obiettivi erano promuovere lo
sviluppo della fede cattolica, incoraggiare il rinnovamento morale della vita cristiana dei fedeli,
adattare la disciplina ecclesiastica alle necessità e agli stili di vita contemporanei e favorire un
maggiore e migliore dialogo con le altre religioni, in particolar modo con quelle orientali.
Giovanni XXIII era stato eletto come Papa di transizione, ma il suo concilio ecumenico si rivelò una
delle maggiori trasformazioni della Chiesa nel XX secolo.
«Il Concilio Vaticano portò a un grande rinnovamento della Compagnia di Gesù che, da ordine
preposto allo studio e all’insegnamento delle élite, divenne un movimento di avanguardia,
promuovendo la Teologia della liberazione in America Latina e arrivando persino a dialogare con
frange di guerriglieri estremisti e radicali» spiega il giornalista spagnolo Juan Arias, che all’epoca
intervistò Arrupe per un documentario della Rai dal titolo Il Papa nero. Alcuni anni dopo, «la
trasformazione della Compagnia di Gesù, che dalle università scese nelle favelas e si immerse nella
violenza delle comunità più povere dell’America Latina, portò il carismatico e mistico preposito,
padre Pedro Arrupe, a una forte divergenza con l’allora Papa Giovanni Paolo II» aggiunge.
Prima del Concilio Vaticano II la Compagnia di Gesù contava trentaseimila membri in tutto il mondo.
Pochi anni dopo ne aveva perduti diecimila e attualmente il loro numero non arriva a ventimila.
Nel 1974, quando Bergoglio era padre provinciale da un anno, Arrupe convocò la Congregazione
generale N. 32 della Compagnia di Gesù. Venne emesso un documento in cui si stabiliva che la
proclamazione della fede in Dio doveva essere «indissolubilmente unita alla lotta instancabile per
abolire tutte le ingiustizie che pesano sull’umanità». Già durante la conferenza generale del Consiglio
episcopale latinoamericano (Celam) del 1968, tenutasi nella capitale colombiana di Medellín, i
rappresentanti della Chiesa avevano cominciato a discutere se «abbandonare lo Stato e i regimi di
sicurezza per rivolgersi esclusivamente ai poveri».
Il documento della Congregazione generale N. 32 dei gesuiti stabilì il principio fondamentale che
sarebbe stato alla base delle proprie opere: la massima austerità.
«La nostra Compagnia non può rispondere alle gravose urgenze dell’apostolato del nostro tempo se
non modifica il proprio atteggiamento nei confronti della povertà. I compagni di Gesù non saranno
capaci di udire “il clamore dei poveri” se non avranno acquisito un’esperienza personale e diretta
delle miserie e ristrettezze in cui vivono le persone più umili.
«È senz’altro impensabile che la Compagnia possa promuovere in maniera efficace e capillare la
giustizia e la dignità umana se la gran parte del suo apostolato si identifica con i ricchi e potenti o si
basa sulla sicurezza che deriva dal benessere, dalla scienza o dal potere.
«Proviamo inquietudine di fronte alle differenze sociali e all’estrema povertà di persone e comunità.
«In questo mondo in cui tanti esseri umani muoiono di fame, non possiamo appropriarci con
leggerezza del titolo di “poveri”. Dobbiamo fare uno sforzo concreto per ridurre il consumismo;
dobbiamo comprendere le conseguenze reali della miseria e assumere un tenore di vita simile a
quello delle famiglie modeste» afferma il documento finale, il quale, inoltre, sollecita i membri della
Compagnia a riflettere su una gestione più morigerata dei propri pasti, bibite, abiti, case, viaggi,
vacanze e molti altri aspetti della vita.
In questo contesto non fu affatto semplice il compito di Bergoglio come preposito provinciale della
Compagnia di Gesù.
Nel corso della storia i gesuiti si sono contraddistinti per la loro attenzione nei confronti dei poveri e
per la gestione dei legami con il potere. In alcune epoche giocarono un ruolo da protagonisti nella
politica, mentre in altre subirono l’espulsione da alcuni Paesi europei, la soppressione e la
dissoluzione dell’ordine.
La Compagnia di Gesù fu fondata dal nobile e militare basco Ignazio di Loyola nel 1534 come
risposta non ufficiale alla riforma protestante che stava dilagando in tutta Europa. Il Vaticano, che
apprezzava la capacità di Sant’Ignazio di attrarre nuovi fedeli al cattolicesimo, nel 1540 riconobbe la
Compagnia come ordine della Chiesa. Da allora, in virtù del voto di obbedienza al Papa, della
disciplina militare che osservavano e della loro vocazione all’istruzione, i gesuiti vennero
considerati i soldati e i maestri del Papa. La chiave del successo della loro missione non era lo
scontro, bensì la parola. Fondarono ovunque scuole, università, seminari e biblioteche, che in molti
casi furono i primi istituti educativi dei rispettivi Paesi. In tal modo forgiarono la propria reputazione
di educatori illuminati.
Gli ultimi dati disponibili rivelano che la Compagnia di Gesù è composta da 19.216 membri. Tra
questi, i sacerdoti sono 13.491, gli studenti (che si preparano al sacerdozio) 3049, i fratelli (gesuiti
non ordinati) 1810 e i novizi (coloro che sono appena entrati nei seminari della Compagnia) 866.
Inoltre la Compagnia gestisce una rete di 200 università e 700 scuole in tutto il mondo.
Dopo pochi anni dalla fondazione dell’ordine, i primi gesuiti intrapresero un’intensa attività
missionaria che li portò a predicare nei Paesi da poco scoperti. Da una parte l’opera di
evangelizzazione si avventurò nel lontano Oriente, dall’altra si diresse verso il Brasile. Durante il
periodo coloniale la loro presenza fu fondamentale nel continente americano. Avviarono oltre trenta
missioni nell’Alto Perú, poi si spostarono verso sud. Le attuali province argentine di Misiones, Salta,
Tucumán, Córdoba, Santiago del Estero e il Río de la Plata furono le loro enclave principali, alle
quali si aggiunse il Paraguay, dove idearono le famose estancias, tenute in cui coltivavano la terra e
allevavano animali e che funzionavano come vere e proprie comunità autonome. La missione dei
gesuiti era quella di evangelizzare le popolazioni locali attraverso l’istruzione. Nelle haciendas
della foresta paraguayana, gli indios guaraní partecipavano a corsi di formazione, lezioni di musica e
incontri di catechesi. Dal momento che possedevano un’organizzazione autonoma che consentiva loro
di mantenere una certa indipendenza dalla corona spagnola, non tardarono a sorgere i primi conflitti.
I bandeirantes, coloni spagnoli e portoghesi la cui attività era quella di catturare gli indios per
venderli come schiavi, cominciarono a fare pressione presso le autorità dei loro Paesi di
appartenenza affinché espellessero i gesuiti dal territorio americano. La Compagnia di Gesù ribadì
che il voto di obbedienza al Papa la obbligava a rispondere al Vaticano e non ai sovrani europei. Nel
1759 i gesuiti furono costretti ad abbandonare il Portogallo per volere di Giuseppe I e nel 1767
Carlo III di Spagna ne ordinò l’espulsione dai suoi territori.
I soldati del re giunsero in America e arrestarono i gesuiti, confiscarono i loro possedimenti e li
scacciarono dal continente. Molte delle loro missioni vennero abbandonate e andarono in rovina.
Nel 1773 Clemente XIV cedette alle pressioni dei re di Spagna, Francia, Portogallo e delle Due
Sicilie e soppresse l’ordine all’interno della Chiesa. I gesuiti avrebbero fatto ritorno in Argentina
poco più di mezzo secolo dopo, durante la dittatura del caudillo Juan Manuel de Rosas. Il
«Restauratore delle leggi» esortò la Compagnia a inviare sacerdoti a Buenos Aires affinché si
occupassero delle scuole e delle università che loro stessi avevano fondato e richiese missionari per
le zone rurali, dove mancavano i parroci.
Tuttavia la propaganda politica che Rosas imponeva loro di diffondere creò nuove divisioni
all’interno dell’ordine. Coloro che non accettavano la politicizzazione delle missioni passarono ad
altre giurisdizioni, mentre quelli che si allinearono con il governo abbandonarono la Compagnia e
confluirono nel settore più filogovernativo del clero.
Nel corso del secolo seguente, la partecipazione dei gesuiti alla vita pubblica argentina proseguì
attivamente, come spiega lo storico Roberto Di Stefano.
Nel 1852, dopo la battaglia di Caseros, nella quale Rosas fu sconfitto e in seguito deposto, i gesuiti
tornarono a Buenos Aires su invito del vescovo Mariano Escalada, che nel 1857 restituì loro un
seminario. Quello stesso anno il vescovo decise di espellere i massoni dalla Chiesa. Naturalmente,
secondo alcuni, furono i gesuiti a spingerlo a questa decisione.
Nel 1874, dopo la vittoria di Nicolás Avellaneda alle elezioni presidenziali, l’arcivescovo di
Buenos Aires Federico Aneiros convocò di nuovo i gesuiti e rese loro le chiese di San Ignacio e
della Merced. Dal momento che molti dei fedeli di San Ignacio erano massoni, il sagrato delle chiese
divenne teatro di proteste, manifestazioni e scontri.
Missione, divisione, espulsione: questo processo si era ripetuto così tante volte nel corso della storia
argentina che bisognava procedere con molta cautela.
Bergoglio lo sapeva. Erano anni turbolenti per il Paese e all’interno della Compagnia cominciava a
esacerbarsi la frattura tra chi chiedeva l’allineamento alla Teologia della liberazione e chi, invece,
riteneva di dover preservare la missione educatrice e apostolica della Compagnia dalla situazione
politica imperante. Era corretto fare ricorso alla violenza per ottenere un mondo più giusto?
Bergoglio, come molti altri, era convinto di no. Secondo lui una simile posizione è incompatibile con
il Vangelo e non ha nulla a che vedere con la dedizione ai poveri. Lui ravvisava una differenza tra la
Dottrina Sociale della Chiesa e la Teologia della liberazione (si veda il capitolo 9, Un Papa
latinoamericano). In quegli anni seguiva molti parroci che lavoravano nei quartieri più umili, le
villas de emergencia, e doveva evitare che la militanza politica propugnata dai sacerdoti
terzomondisti potesse creare una scissione tra i gesuiti.
Ma fallì. Nel giro di pochi anni, quando la dittatura militare si instaurò e iniziò a perpetrare le sue
azioni sanguinose, la Compagnia di Gesù era divisa tra bergogliani e antibergogliani.
Già prima del golpe militare, durante il governo di María Estela Martínez de Perón, «Isabel», si
erano verificati alcuni sequestri nelle zone in cui la Chiesa svolgeva il suo operato tra le classi
sociali più disagiate. Dopo l’assassinio del sacerdote Carlos Mugica, un esponente dei cosiddetti
curas villeros (preti delle baraccopoli), crivellato di colpi l’11 maggio 1974 subito dopo aver
celebrato la messa nella chiesa di San Francisco Solano, nel quartiere di Villa Luro, a Buenos Aires,
molti preti si preoccuparono e cominciarono a prendere precauzioni, come quella di non addentrarsi
da soli nelle baraccopoli e di spostarsi sempre in compagnia dopo il tramonto. Un giorno, nella
chiesa di Santa María Madre del Pueblo, padre Rodolfo Ricciardelli, parroco appartenente al gruppo
dei curas villeros e una delle figure più carismatiche del Movimiento de Sacerdotes del Tercer
Mundo, informò Bergoglio del pericolo a cui si sarebbero esposti se avessero continuato a operare
nelle villas. Aveva ricevuto informazioni secondo cui la giunta militare avrebbe attuato a breve un
piano volto a eliminare coloro che considerava «nemici».
Bergoglio intervenne prontamente. Cominciò a chiudere residenze e a sciogliere comunità gesuite che
si trovavano «nel mirino». Con la scusa di organizzare ritiri spirituali ospitò al Colegio Máximo di
San Miguel quanti avevano bisogno di protezione. Riteneva che i militari non sarebbero mai arrivati
fino a lì, e non si sbagliava. Una delle persone cui diede aiuto fu Alicia Oliveira, che all’epoca era
giudice penale nella città di Buenos Aires. La donna aveva promosso diverse indagini nei confronti
della polizia federale per la detenzione di minori e per la sua implicazione nel traffico di droga.
La Oliveira racconta che la sua amicizia con Bergoglio era iniziata cinque anni prima e quando lui
andò ad avvisarla che la sua vita era in pericolo e le offrì di alloggiare al Colegio Máximo, lei
rispose: «Preferisco che mi rinchiudano in prigione piuttosto che andare a vivere con i preti» (si
veda l’intervista ad Alicia Oliveira in Appendice).
Domenica 23 maggio 1976 i sacerdoti gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics furono sequestrati
dalla casa che condividevano nel quartiere Rivadavia nel Bajo Flores, vicino alla Villa 1-11-14, una
delle baraccopoli più popolose della città di Buenos Aires. Furono rinchiusi e torturati nella Escuela
de Mecánica de la Armada (Esma), il maggior centro clandestino di detenzione concepito dalla
dittatura militare argentina. Nella stessa operazione vennero sequestrati quattro catechisti e i loro
rispettivi coniugi. Yorio e Jalics furono liberati dopo cinque mesi di torture e lasciarono
immediatamente il Paese con l’aiuto di Bergoglio. Gli altri, come altre 30.000 persone durante la
dittatura militare (1976-1983), furono dichiarati desaparecidos.
Yorio morì nel 2000. Parlando della sua detenzione si era detto certo che il suo superiore, Bergoglio,
avesse tolto a lui e agli altri la protezione della Compagnia, lasciandoli soli alla mercé della
repressione. «Avrebbe potuto fare di più» dichiarò. Questa tesi fu pubblicata dal giornalista Horacio
Verbitsky nel 1999 sul quotidiano argentino «Página/12» e poi ripresa nel discusso libro L’isola del
silenzio. Il ruolo della chiesa nella dittatura argentina, edito in Italia nel 2006.
Alla testimonianza di Yorio si aggiunsero altre voci, come quella della suora Norma Gorriarán; di
Emilio Mignone, fondatore del Centro de Estudios Legales y Sociales (Cels); di un funzionario della
Cancelleria, Anselmo Orcoyen, e della catechista Marina Rubino, oltre alla sorella del defunto
Yorio.
Molti altri si fecero avanti per smentire questa versione e difendere Bergoglio: tra questi, il premio
Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, il vescovo e referente per i diritti umani durante la
dittatura Miguel Hesayne, Alicia Oliveira, ex avvocatessa del Cels, e Graciela Fernández Meijide,
membro dell’Assemblea permanente per i diritti umani e della Commissione nazionale sulle persone
scomparse.
Il Vaticano denunciò una campagna di diffamazione ai danni del preposito provinciale Bergoglio e lo
stesso padre Jalics, che attualmente vive nella casa spirituale dell’Alta Franconia, in Baviera, mise
la parola fine alla questione. «Questi sono i fatti: io e Orlando Yorio non siamo stati denunciati da
Bergoglio» dichiarò Jalics in un comunicato pubblicato sul sito web tedesco dei gesuiti. Il religioso
spiegò che lui e padre Orlando Yorio furono sequestrati a causa del loro legame con una catechista
che aveva lavorato insieme a loro prima di entrare nella guerriglia. «Non la vedevamo da nove mesi,
ma due o tre giorni dopo il suo arresto fummo prelevati anche noi. L’ufficiale che mi interrogò mi
chiese i documenti. Quando vide che ero nato a Budapest si convinse che fossi una spia russa» ha
raccontato.
Stando al racconto di padre Jalics, dopo la liberazione lasciò il Paese e riuscì a parlare con
Bergoglio solo diversi anni dopo quei tragici avvenimenti. «Celebrammo una messa insieme e ci
abbracciammo. Io ho superato quanto è successo e lo considero, almeno da parte mia, un capitolo
chiuso» ha dichiarato.
Dagli atti giudiziari (si veda l’Appendice) emerge che Jalics affermò di essere al corrente che
Bergoglio aveva interceduto presso l’ambasciatore argentino a Roma e che si era rivolto a diverse
autorità del governo militare per chiedere la sua liberazione.
Denunciando che si è trattato di una vera e propria campagna di diffamazione ai danni del Sommo
Pontefice, i portavoce del Vaticano hanno precisato che Bergoglio non si è mai sottratto alle inchieste
condotte dalle autorità argentine e che è stato ascoltato più volte, in qualità di testimone, senza
risultare imputato in alcun processo. Ricardo Lorenzetti, presidente della Corte Suprema di Giustizia
della Nazione, l’ha confermato: «Non esiste alcuna condanna nei suoi confronti. È del tutto
innocente».
Bergoglio rese per due volte la sua testimonianza davanti al Tribunal Oral Federal N. 5: in occasione
del processo al termine del quale furono condannati all’ergastolo dodici aguzzini dell’Esma e nel
processo per la sottrazione di bambini durante la dittatura di Jorge Rafael Videla. «È del tutto falso
affermare che Jorge Bergoglio consegnò quei sacerdoti. Abbiamo vagliato questa ipotesi, esaminato
le prove e siamo giunti alla conclusione che, in quei casi, non abbia avuto alcuna condotta
giuridicamente perseguibile. Non è un’opinione. I fatti non possono dar luogo a controversie. C’è
stato un errore» sentenziò il giudice Germán Castelli, membro del tribunale, insieme a Daniel
Obligado e Ricardo Farías.
Nell’ottobre del 2011 furono emesse le dodici condanne all’ergastolo e ad altri cinque imputati
furono comminate pene tra i ventidue e i ventotto anni di reclusione per crimini contro l’umanità.
Furono riconosciuti colpevoli di diversi capi di imputazione, tra cui l’omicidio del giornalista e
scrittore Rodolfo Walsh, l’assassinio delle dodici persone sequestrate nella chiesa di Santa María de
la Cruz (tra le quali si trovavano le suore francesi Léonie Duquet e Alice Domon e la fondatrice
dell’associazione Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor), ottantacinque casi di privazione
illegittima della libertà e torture. Il tribunale accolse la richiesta dei familiari delle vittime affinché i
delitti contro l’integrità sessuale fossero considerati crimini contro l’umanità. Venne stabilito inoltre
che i fatti erano stati commessi nel contesto di un genocidio.
La vera storia di Yorio e Jalics
«A quell’epoca ogni sacerdote che lavorava con i poveri era tenuto sott’occhio e considerato
pericoloso. […] Ancor prima del golpe militare si era radicata l’idea che i preti che si occupavano
delle fasce sociali più deboli fossero “di sinistra”.» Era una calunnia, ma era quello l’ambiente in
cui si viveva allora ed era necessario stare vicini a coloro che svolgevano questo compito pastorale,
affermò l’allora cardinale Bergoglio nelle sue dichiarazioni rese in tribunale (si veda l’Appendice).
Bergoglio fu informato del sequestro dei sacerdoti gesuiti il giorno stesso in cui avvenne, una
domenica pomeriggio. Un uomo lo chiamò al telefono e gli disse che c’era stata una retata. Quella
persona non rivelò la propria identità. Stando alle sue stesse dichiarazioni, il padre provinciale
contattò subito le autorità della Compagnia, della Chiesa locale e della Nunziatura e iniziò a
muoversi per ottenere la loro liberazione.
Yorio e Jalics erano stati alunni dell’attuale Papa al Colegio Máximo. Nel 1972, con il sostegno di
Bergoglio, era stata creata una comunità in calle Rondeau, nel quartiere Parque Patricios, di cui
Yorio era il responsabile.
Dal dossier risulta che due anni prima che Bergoglio fosse nominato come massima autorità locale,
Yorio ricevette una chiamata dall’allora preposito provinciale O’Farrell, il quale gli comunicò che
padre Arrupe gli aveva espresso «l’urgenza di approfondire la riflessione teologica nelle vicende
politiche latinoamericane». (La testimonianza di Yorio fu prodotta sotto forma di scritto da suo
fratello, che aveva raccolto la sua dichiarazione prima che questi morisse.)
Secondo Yorio, nel 1971 il superiore provinciale gli aveva chiesto di insistere «sull’importanza
della ricerca teologica in America Latina». Inoltre gli aveva specificato che in Argentina la persona
che si trovava nelle condizioni migliori per farlo era lui. Yorio, che era un sostenitore della Teologia
della liberazione, accolse quelle parole come un invito a lavorare in autonomia e una legittimazione
della propria leadership. Jalics, che a sua volta condivideva questa visione, fu d’accordo nel fondare
una comunità.
Yorio dichiarò che all’inizio le attività erano supervisionate dallo stesso Bergoglio. Cominciarono
però a diffondersi alcune voci: si diceva, a quanto si apprende dal dossier, che recitassero preghiere
strane, che vivessero in promiscuità, che professassero eresie, che fossero implicati nella
guerriglia… «Tutte calunnie» tagliò corto Bergoglio davanti ai giudici. Eppure mise in guardia i
sacerdoti sul pericolo cui stavano esponendo loro stessi e l’intera comunità.
Sebbene fosse uno strenuo sostenitore del lavoro pastorale nelle villas de emergencia, Bergoglio era
contrario all’idea che i gesuiti venissero coinvolti nell’attività politica, perché lo considerava un
rischio troppo alto non solo per i preti ma anche per le persone di cui si occupavano. Diede quindi
l’ordine di chiudere alcune comunità prima che si scatenasse la persecuzione, ma a Yorio e Jalics
non parve una buona misura. E quando il padre provinciale comunicò loro che avrebbero dovuto
trovare una sistemazione in altre comunità e sciogliere il gruppo che avevano fondato, i due gesuiti si
opposero. I sacerdoti sapevano di essere sorvegliati da tempo dai militari.
«La comunità che avevano creato doveva essere sciolta in funzione di una politica di riordino
all’interno della provincia argentina volta a rafforzare alcune zone precise» affermò Bergoglio nella
sua dichiarazione.
Le trattative iniziarono nel 1974, ma la resistenza dei sacerdoti fece sì che i contrasti si protraessero
per quasi un anno e mezzo. Il rifiuto di sciogliere la comunità ingigantì ancora di più le dicerie. I
sacerdoti non erano più visti semplicemente come «di sinistra»: a Bergoglio arrivavano voci che li
tacciavano di essere veri e propri oppositori politici. Lui sapeva che si trattava di una mera
maldicenza, ma la minaccia della Teologia della liberazione cominciava a pesare sull’ordine e tutti i
suoi membri correvano un grave pericolo.
Dal suo punto di vista, è probabile che Yorio abbia interpretato la posizione di Bergoglio non come
un gesto volto a proteggerli, ma come un tentativo di contrastare il loro «protagonismo» all’interno
della Compagnia.
Per evitare la chiusura della comunità, Yorio e Jalics esposero un reclamo al padre generale,
esercitando il diritto dei gesuiti di motivare perché non intendono obbedire a una disposizione dei
loro superiori. Intervenne Arrupe.
Nel febbraio del 1976 Bergoglio tornò da Roma con l’ordine del padre generale di sciogliere la
comunità. Quando avvenne il colpo di Stato, il 24 marzo di quell’anno, aveva già revocato ai due
sacerdoti le loro licenze per celebrare la messa come conseguenza dell’allontanamento dalla
Compagnia di Gesù. Avrebbero dovuto pertanto inserirsi nel clero secolare, e cioè cercare un
vescovo disposto ad accoglierli. Per qualche motivo l’arcivescovo di Buenos Aires rifiutò la
richiesta di accettarli nella sua diocesi, perciò rimasero senza licenze. Bergoglio, tuttavia, li
autorizzò a continuare a celebrare la messa fino a che non avessero trovato una nuova sistemazione.
Il 23 maggio Yorio e Jalics vennero sequestrati. Stando alle sue dichiarazioni, Bergoglio si prodigò e
ottenne ben quattro incontri con le autorità del governo de facto per chiedere la loro liberazione. Uno
di questi fu con il capo della Armada, l’ammiraglio Emilio Massera. «La prima volta mi disse che
avrebbe verificato. Nel frattempo io continuai a fare il possibile per ottenere notizie e dopo alcuni
mesi, dal momento che non ricomparivano, tornai da lui. Ma l’incontro si rivelò un buco nell’acqua»
disse Bergoglio. Di fronte all’atteggiamento evasivo del capo della Armada, il quale gli ripeteva di
aver già informato monsignor Adolfo Tortolo, ex vicario militare (che morì nel 1986 e venne
accusato di aver giustificato le torture), il padre provinciale lo aggredì: «“Mi ascolti bene, Massera:
esigo che vengano fuori.” Mi alzai e me ne andai».
Gli altri incontri si svolsero con l’allora presidente, il generale Jorge Rafael Videla. Il giorno stesso
in cui è stato eletto Papa, su Internet hanno iniziato a circolare foto in cui Bergoglio, di schiena, dava
la comunione a Videla inginocchiato. In breve tempo è stato appurato che le fotografie erano false:
quel sacerdote non era Bergoglio. Tuttavia, quella messa venne effettivamente celebrata, ma non per
dare la benedizione al generale; al contrario, Bergoglio voleva incontrarlo di nuovo personalmente
per chiedergli la liberazione dei sacerdoti. Il presidente Videla l’aveva già ricevuto nel suo ufficio e
gli aveva assicurato che avrebbe controllato. La seconda volta Bergoglio non prese appuntamento. Si
informò su chi fosse il sacerdote che avrebbe celebrato la messa a Olivos e lo convinse a fingersi
malato e a chiamarlo per sostituirlo. Dopo la messa si avvicinò a Videla chiedendogli di parlare.
Stando alle sue dichiarazioni, in quell’occasione ebbe la sensazione che il presidente si sarebbe
effettivamente occupato della questione.
Quando infine Yorio venne liberato, Bergoglio lo contattò al telefono e concordarono sul fatto che
dovesse lasciare il Paese. Il futuro Papa Francesco si presentò di persona al dipartimento di polizia
con una copertura diplomatica insieme al segretario della Nunziatura. Riuscì così a procurargli un
passaporto, e lo stesso fece per Jalics.
Dovevano andarsene il più presto possibile. Per non compromettere la sua integrità, chiese loro di
non rivelare il suo coinvolgimento nella loro fuga all’estero.
«Nessuno dei due mi accusò che avrei potuto fare di più. Non mi rimproverarono niente. Più tardi
seppi che secondo Yorio li avevo trascurati e non avevo fatto tutto il possibile. Riteneva che avessi
gestito la cosa in modo superficiale e che avessi fatto mancare loro la mia protezione» chiarì
Bergoglio.
In quegli anni «il lavoro dei preti nelle baraccopoli era diverso a seconda dei Paesi in cui
operavano. In alcuni casi dovette scendere a compromessi con le questioni politiche e con una lettura
del Vangelo secondo un’interpretazione marxista, che diede vita alla Teologia della liberazione.
Altri sacerdoti invece scelsero di evitare commistioni con la politica per dedicarsi all’aiuto e al
sostegno dei più poveri» dichiarò il cardinale in tribunale. Così Bergoglio sintetizzò le due fazioni
nelle quali si era divisa la Compagnia in quei difficili anni.
La corte si pronunciò assolvendo Bergoglio con formula piena, e specificò che il padre provinciale
non aveva affatto consegnato i due sacerdoti; al contrario, aveva cercato di metterli in guardia e di
proteggerli. Erano stati i sacerdoti stessi a voler proseguire la loro attività, assumendosi il rischio al
quale si esponevano.
Nella sua dichiarazione Yorio riporta le affermazioni di uno dei suoi aguzzini, il quale gli aveva
rivelato che il loro arresto era un grosso problema, perché aveva scatenato una reazione fortissima
nella Chiesa e in molte aree del Paese. Yorio inoltre dichiarò che dopo la liberazione Bergoglio era
andato a fargli visita a casa di sua madre. Lì aveva preso contatto con un vescovo per chiedergli di
accoglierlo, in modo che potesse entrare nel clero secolare. «Lo fece in mia presenza per evitare
malintesi. Gli diede ottime referenze. Mi specificò che dovevo lasciare il Paese non perché ci
fossero problemi con la Compagnia, né dal punto di vista religioso né da quello sacerdotale, ma solo
per via delle “tensioni sociali” in atto. Padre Bergoglio mi fece avere i documenti e pagò il viaggio
per Roma. In quell’occasione inoltre si mise in contatto con il Pontificio Collegio Pio Latino
Americano per favorire il mio ingresso alla Pontificia Università Gregoriana.»
Yorio sottolineò che quel giorno non pretese da Bergoglio alcuna spiegazione di quanto era successo.
Fu il preposito provinciale ad anticiparlo suggerendogli di non chiedergliene, perché «si sentiva
troppo confuso per quanto era accaduto e non era in condizione» di dargliene, secondo le sue stesse
parole.
Il tribunale respinse le accuse nei confronti di Bergoglio e trasse le proprie conclusioni. Furono
acclarati alcuni fatti: «La reazione ecclesiastica dimostra che le iniziative messe in atto dalle autorità
della Compagnia di Gesù e dalla Chiesa cattolica hanno avuto un ruolo fondamentale nella
liberazione dei sequestrati. Jalics e Yorio erano consapevoli del pericolo che correvano le loro vite
a causa dell’attività svolta, dal momento che il regime dittatoriale considerava il lavoro presso le
villas una sorta di copertura per occultare i movimenti di opposizione. Risultano inoltre evidenti gli
avvertimenti da parte dell’autorità ecclesiastica volti a metterli in guardia dal rischio a cui si
esponevano, tradotti nel ritiro delle loro licenze».
Angelelli e i pallottini
Durante l’ultima dittatura militare, la persecuzione di persone impegnate nel sociale raggiunse
persino i membri dell’episcopato. Fu il caso di monsignor Enrique Angelelli, arcivescovo di La
Rioja. Nel luglio 1976 aveva chiesto al presidente Videla la liberazione di due uomini sequestrati
nella parrocchia di El Salvador a El Chamical, nella provincia di La Rioja: il frate francescano
Carlos de Dios Murias e il parroco francese Gabriel Longueville. Alcuni giorni dopo furono
entrambi ritrovati in un campo con le mani legate dietro la schiena, torturati e fucilati. Erano
trascorse solo due settimane dall’omicidio dei sacerdoti pallottini Alfredo Leaden, Alfredo Kelly e
Pedro Duffau e dei seminaristi Salvador Barbeito ed Emilio Barletti, della parrocchia di San Patricio
a Buenos Aires.
Il 4 agosto 1976 anche Angelelli fu assassinato mentre faceva ritorno a La Rioja. Il furgone su cui
viaggiava venne urtato da una Peugeot 504 e si ribaltò. Sebbene la prima ricostruzione dell’accaduto
lasciasse supporre che si fosse trattato di un incidente, alcuni anni più tardi fu accertato che si era
trattato di un omicidio. Videla e l’ex generale Luciano Benjamín Menéndez sono stati dichiarati
colpevoli di essere i mandanti di questo crimine.
Alcuni mesi prima di essere ucciso, Angelelli aveva chiesto a Bergoglio di aiutare i tre seminaristi
della diocesi di La Rioja adducendo l’impossibilità di completare il loro programma di studi nella
sua provincia. In realtà gli stava chiedendo di proteggerli, perché le loro vite erano in pericolo. Fu
così che Bergoglio li accolse a Buenos Aires e, dal momento che non avevano un posto dove stare, li
autorizzò ad alloggiare presso il Colegio Máximo.
Due di questi, Miguel La Civita ed Enrique Martínez Ossola hanno confermato di aver visto con i
propri occhi che nel Colegio si nascondevano le persone, si preparava la loro documentazione e si
faceva tutto il necessario per farle uscire dal Paese. I gesuiti avevano messo in piedi
un’organizzazione per aiutare la gente a lasciare l’Argentina. La diocesi di La Rioja venne duramente
colpita e il padre provinciale accolse anche loro sotto la sua ala protettrice (si veda l’intervista con i
sacerdoti salvati da Bergoglio in Appendice).
«Bergoglio aiutò molte persone perseguitate» ha confermato il suo amico Roberto Musante, che
conobbe quando scelse la Compagnia di Gesù. «Grazie al nostro rapporto con il vescovo martire
Enrique Angelelli, ebbi occasione di conversare molto spesso con lui; all’epoca era convinto che
l’avrebbero assassinato. Ai tempi della dittatura accolse i seminaristi di La Rioja quando
cominciarono le aggressioni a sacerdoti e laici. Aiutò molte altre persone, sebbene avesse preso
decisioni che in tanti contestarono quando furono sequestrati i sacerdoti Jalics e Yorio. Si è sempre
mostrato un uomo alla mano, poco interessato al protocollo, amico dei curas villeros e dei poveri.
Già la scelta di chiamarsi Francesco, di presentarsi come vescovo di Roma e di chiedere la
benedizione del popolo prima di dare la benedizione come Papa dimostrano chiaramente la sua linea
pastorale come successore di Pietro. Spero che questo atteggiamento contribuisca a rendere più
evangelica la Chiesa di Gesù» afferma Musante.
«Bergoglio non ebbe dubbi nemmeno quando si trattò di prestare il suo documento di identità per
aiutare una persona perseguitata dal governo militare a uscire dal Paese. Si trattava di un giovane che
gli assomigliava vagamente e, affinché la messinscena risultasse più credibile, gli regalò una sua
camicia con il clergyman, il tipico colletto sacerdotale» racconta Alicia Oliveira.
Carlos Murias, il primo beato di Francesco
Il francescano Carlos de Dios Murias, uno dei sacerdoti torturati e massacrati a La Rioja, potrebbe
diventare il primo beato del papato di Bergoglio.
«Il primo santo di Francesco sarà un martire della dittatura militare, se il desiderio che il futuro Papa
aveva espresso prima ancora di essere eletto verrà rispettato.» Così comincia un articolo del
quotidiano italiano «La Stampa» scritto dal giornalista Paolo Mastrolilli, inviato a Buenos Aires
dopo l’elezione del nuovo Pontefice.
La causa per richiedere la canonizzazione fu firmata da Bergoglio nel maggio 2011. Secondo Carlos
Trovarelli, superiore dei francescani conventuali in Argentina, Bergoglio intervenne con discrezione
per evitare che la causa venisse bloccata da altri vescovi contrari alle iniziative volte a mettere in
risalto l’impegno sociale dei sacerdoti.
Carlos Murias nacque nella provincia di Córdoba nel 1945. Suo padre, un agente immobiliare legato
alla politica, desiderava che il figlio intraprendesse la carriera militare. Carlos frequentò il Liceo
Militare, ma quando terminò gli studi entrò in seminario e fu ordinato sacerdote dal vescovo
Angelelli.
Murias giunse al villaggio di El Chamical in compagnia del francese Gabriel Longueville. La
missione era fondare una comunità francescana. Nel 1976 ci fu il colpo di Stato e cominciarono gli
avvertimenti e le minacce.
Murias venne sequestrato il 18 luglio. Due giorni dopo, il suo cadavere venne rinvenuto in mezzo a
un campo: prima di sparargli gli avevano strappato gli occhi e tagliato le mani.
La sua amica Careaga, sequestrata e assassinata
L’8 dicembre 1977 un grupo de tareas, gruppi armati incaricati di sequestrare, torturare, uccidere e
far sparire gli oppositori della dittatura argentina, comandato dal capitano della marina militare
Alfredo Astiz, «l’angelo biondo della morte», sequestrò Esther Ballestrino de Careaga, la ex
responsabile di Jorge Bergoglio al laboratorio chimico nonché la persona che lo aveva iniziato alle
letture politiche. Quando sua figlia Ana María e i suoi due generi furono dichiarati desaparecidos,
Esther Careaga divenne un’attivista dell’associazione Madri di Plaza de Mayo.
Quando i militari sequestrarono Ana María, Careaga chiamò Bergoglio e gli chiese di correre a casa
sua per dare l’estrema unzione a un familiare. Bergoglio rimase sorpreso, perché la famiglia della
Careaga non era cattolica. Solo quando arrivò lì apprese il vero scopo della telefonata della sua
amica. «Sua figlia era stata sequestrata. Voleva consegnarmi alcuni libri e altro materiale» dichiarò
Bergoglio durante il processo «Esma».
Gli chiese di portare via e nascondere i libri sul marxismo che conservava nella sua biblioteca. Sua
figlia era stata arrestata e poi liberata, ma temeva che da un momento all’altro potessero fare
irruzione in casa sua o prelevarla nuovamente.
Bergoglio accolse la sua richiesta. Purtroppo il timore di Esther era fondato: l’8 dicembre 1977 fu
sequestrata insieme a María Ponce nella chiesa di Santa Cruz, a Buenos Aires, mentre, insieme ad
altre madri, compilava una lista di familiari scomparsi che intendevano divulgare. Si erano riunite
nella chiesa per raccogliere fondi e pubblicare il primo elenco di desaparecidos del Paese.
L’agente dell’intelligence che le denunciò fu Astiz. Si era infiltrato nel gruppo sostenendo di avere un
fratello desaparecido e partecipava alle riunioni insieme a una donna che era stata sequestrata
all’Esma e che presentava come sua sorella. Tra l’8 e il 10 dicembre del 1977 furono dodici le
persone sequestrate, tra cui le suore francesi Alice Domon e Léonie Duquet e la fondatrice delle
Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor.
Esther Careaga fu gettata da un aereo in uno di quelli che poi vennero chiamati «voli della morte» e il
mare la restituì alla spiaggia di Santa Teresita, nella provincia di Buenos Aires. Fu sepolta come NN
e solo molti anni dopo il suo corpo venne identificato dagli antropologi forensi.
«Nel 2005 furono ritrovati i resti di mia madre» racconta Mabel Careaga, una delle figlie.
«Volevamo seppellirli nella chiesa di Santa Cruz, perché era l’ultimo suolo libero che lei e María
Ponce avevano calpestato, il luogo in cui erano state sequestrate. Chiedemmo il permesso a
Bergoglio.»
L’allora arcivescovo di Buenos Aires autorizzò la sepoltura di Esther nel giardino della chiesa di
Santa Cruz, dove riposano i suoi resti.
Prestare aiuto a tante persone in anni così difficili non rese Bergoglio molto popolare. In realtà, molti
argentini hanno iniziato a scoprire queste e altre opere di solidarietà che l’attuale Papa aveva
realizzato nell’ombra solo dopo la sua elezione a successore di Pietro.
Da quel momento, infatti, si è scatenato un vero e proprio diluvio di testimonianze da parte di coloro
a cui aveva salvato la vita durante le persecuzioni della dittatura militare. Il governatore di Córdoba,
José Manuel De la Sota, ha raccontato che, mentre lui era detenuto, l’attuale Papa Francesco offrì
sostegno alla sua famiglia e «intercedette un’infinità di volte» presso i vertici militari per scoprire
dove lo tenessero recluso.
La storia del sacerdote paraguayano José Luis Caravias è molto simile. Ha riferito che negli anni
Settanta Bergoglio lo salvò dalla Triple A, la forza paramilitare gestita dal ministro dello Sviluppo
sociale di Isabel Perón, José López Rega. Nel maggio 1972, perseguitato dalla dittatura del generale
Alfredo Stroessner, Caravias aveva abbandonato il Paraguay per stabilirsi nella provincia argentina
di Chaco. Ma anche lì fu perseguitato a causa della sua dedizione ai poveri. Fu Bergoglio ad
avvertirlo che avevano «decretato la sua morte» e lo protesse.
Queste e molte altre testimonianze costituiscono una prova dell’impegno di Bergoglio a favore dei
diritti umani durante l’ultima dittatura militare. Persino Hebe de Bonafini, la presidente
dell’associazione Madri di Plaza de Mayo, che in un primo momento aveva messo in discussione la
sua idoneità morale al papato e l’aveva accusato di essere «uno dei vescovi che assassinarono i
nostri figli», poco più tardi si è unita al fervore per la figura di Francesco. Gli ha addirittura scritto
una lettera: «Oggi, con mia grande sorpresa, sento molti amici testimoniare la sua abnegazione al
lavoro nelle villas. Sono infinitamente felice di sapere di queste sue opere e nutro grandi speranze
per un cambiamento nel Vaticano».
Un Papa peronista?
«La politica è un’attività nobile. È necessario rivalutarla, esercitandola con vocazione e una
dedizione che esige testimonianza e martirio. Bisogna cioè essere disposti a morire per il bene
comune» proclamò Bergoglio in un’omelia nel giugno del 2004. Questa affermazione è valida sul
piano intellettuale, ma nella realtà le cose stanno in maniera diversa: lui stesso ha confessato nel suo
libro Il cielo e la terra che preferisce astenersi dal voto. L’ultima volta che si è recato alle urne è
stato per un’elezione legislativa nel 1960, durante il governo di Arturo Frondizi. «Forse sto
commettendo un peccato contro la cittadinanza» sostenne il padre gesuita. «E da quando ho compiuto
settant’anni [secondo la legge argentina] non ho più l’obbligo di votare. È discutibile se faccia bene
o meno, ma in fin dei conti io sono il padre di tutti e non devo propendere per nessuna fazione
politica.»
Due giorni dopo l’elezione di Papa Francesco, la città di Buenos Aires si è risvegliata tappezzata di
manifesti che recitavano: «Il Papa è peronista».
«Lo è davvero?» è stato chiesto a suo nipote Pablo Narvaja Bergoglio, il quale ha confermato: «In
virtù della sua missione pastorale, ha sempre rifiutato un incasellamento politico. Io posso solo dire
che le sue idee lo rendevano molto affine al peronismo. Lui, però, non si è mai esposto politicamente
perché questo avrebbe significato schierarsi, quando invece si sentiva il pastore di tutti. Tuttavia c’è
un’indubbia affinità».
Gli amici di Bergoglio ritengono che in un certo senso possa essere definito peronista. «Ma è un
peronismo ideale, non giustizialista. Lui ammira la figura di Perón perché diede dignità alla cultura
del lavoro, un valore molto radicato in lui, proveniente da una famiglia di immigrati. Non gli piacque
però quello che venne dopo: il clientelismo, i piani sociali e la strumentalizzazione politica della
povertà. E ancora meno la corruzione accettata come politica dello Stato e considerata come un
inevitabile prezzo da pagare per portare a termine la rivoluzione. Con questi aspetti del peronismo
non si è mai trovato d’accordo» ha confidato una fonte vicina a Papa Francesco.
I peronisti assicurano che negli anni precedenti al ritorno di Juan Domingo Perón in Argentina
(avvenuto nel 1973, dopo l’esilio) Bergoglio si avvicinò al gruppo di estrema destra Guardia di
Ferro, che prendeva il nome dal movimento ultranazionalista romeno e si opponeva
all’organizzazione guerrigliera, giustizialista e d’ispirazione socialista dei Montoneros. Sebbene
negli anni Settanta entrambi i gruppi si occupassero dei più poveri allo scopo di costruire una società
più equa, le loro posizioni politiche nascevano da orientamenti diametralmente opposti. Sorta durante
la proscrizione del peronismo, la Guardia di Ferro si caratterizzava per una forte ascendenza al
pensiero di Perón. Alcuni ritengono che la comunanza tra Bergoglio e tale gruppo sia il motivo per
cui l’attuale presidenta argentina Cristina Fernández de Kirchner l’abbia considerato per molti anni
un nemico politico.
Va però puntualizzato che Bergoglio non parlò mai della sua affinità con la Guardia di Ferro. Sono
stati i vecchi vertici del movimento ad affermare che lui era stato per loro una specie di
«cappellano».
«All’epoca ci avvicinammo a Bergoglio, ma lui non fu mai un membro della Guardia di Ferro. Lo
descriverei piuttosto come un consigliere spirituale» ha dichiarato lo storico e dirigente peronista
Julio Bárbaro nel corso di un’intervista rilasciata per questo libro. «Era un gesuita vicino a noi. Lui e
altri padri ci sostenevano, ma ebbero il buon senso di non diventare parte attiva del gruppo.
Bergoglio ci confessava e ci forniva una guida sui temi religiosi. Esercitavamo la nostra vocazione
così, combinando le due cose» ha affermato.
«Jorge Bergoglio non fu mai un militante della Guardia di Ferro. È stato una persona molto speciale
per me, era un confessore e persino il nostro padre spirituale. Ma non lo disse mai a nessuno»
assicura Mario Gurioli, ex deputato che all’epoca era membro della direzione nazionale della
Guardia di Ferro.
Nel 1975 il padre generale Arrupe diede istruzioni al padre provinciale Bergoglio affinché
reindirizzasse i suoi sforzi. Bisognava concentrarsi su ciò che «era importante» e non perdersi
nell’«educare i sapienti». Il numero di preti gesuiti era diminuito, dunque le attività si sarebbero
dovute focalizzare sulle scuole e sulle opere a favore dei poveri. Padre Arrupe riteneva che
«l’università non consente di educare una generazione», pertanto ordinò a Bergoglio di svincolarsi
dall’Università del Salvador e cederla a un’amministrazione laica. «Dal momento che la Compagnia
di Gesù gestiva già l’Università Cattolica di Salta e quella di Córdoba, e che a Buenos Aires era
stata aperta l’Università Cattolica Argentina, Arrupe considerava un’assurdità che ci fossero due
università cattoliche nella capitale» ha confidato un portavoce dei gesuiti.
Per molti questa era solo la versione ufficiale dei fatti. «Presto verrà scelto il rettore dell’Università
del Salvador» pubblicò «La Nación» domenica 25 maggio 1975.
«Il padre provinciale della Compagnia di Gesù Jorge Bergoglio ha inviato un messaggio
all’associazione civile dell’Università del Salvador e alla comunità universitaria. Nel documento,
dopo aver ribadito che la Compagnia si affranca dall’Università del Salvador, ha specificato che ciò
significa: “Primo, la determinazione di lasciare libera gestione ai laici che la prendono in carico;
secondo, la certezza che tale gruppo di laici sia l’unica garanzia possibile per la salvaguardia
dell’identità dell’Università del Salvador”» spiega l’articolo.
«Questo è il momento del coraggio creativo, della contemplazione feconda, di decisioni mirate
all’unità. Ma è anche il momento di essere astuti nell’individuare i reali nemici e i loro progetti che,
in definitiva, attentano contro quanto di più sacro e importante appartiene a un istituto educativo: i
suoi alunni» precisò Bergoglio nel suo discorso. Il messaggio era criptico e pareva mettere in
guardia da qualche pericolo occulto.
Le critiche alla sua gestione non tardarono ad arrivare tra gli stessi gesuiti. Oltre a chi si opponeva
alla politicizzazione dell’ordine, alcuni criticavano la Compagnia anche per aver preferito dedicarsi
ai poveri, trascurando l’importanza del ministero didattico che l’aveva caratterizzata per cinque
secoli: l’istruzione.
Questi ultimi interpretarono la consegna dell’Università del Salvador ai laici come un tradimento da
parte del padre provinciale Bergoglio, sebbene la decisione fosse stata presa più in alto. E come se
ciò non bastasse, da più parti lo si accusò di aver lasciato che l’istituzione educativa andasse in
mano a giovani laici di destra legati alla Guardia di Ferro. «Si contestava che, pur di non darla alla
sinistra, Bergoglio avesse consegnato l’Università del Salvador alla gioventù di destra» ha
dichiarato una fonte.
Il 25 novembre 1977 l’Università del Salvador conferì all’allora ammiraglio Emilio Massera la
laurea honoris causa. Gli oppositori di Bergoglio ravvisarono due possibili spiegazioni: la
vicinanza di Massera alla Guardia di Ferro o un riconoscimento per il suo interessamento alla
liberazione dei sacerdoti Jalics e Yorio. «Ricevetti l’invito per la cerimonia, ma non partecipai.
Inoltre, l’Università non apparteneva più alla Compagnia di Gesù e io non avevo alcuna autorità, se
non quella di essere il suo sacerdote» spiega Bergoglio in Papa Francesco. Il nuovo Papa si
racconta nell’unica dichiarazione che abbia mai rilasciato su questo argomento.
Bergoglio infatti non compare in nessuna delle foto della cerimonia conservate negli archivi
dell’Università del Salvador.
Nel 1979 Bergoglio concluse il suo mandato come preposito provinciale della Compagnia con
l’amarezza di non essere riuscito a evitare che la politica s’insinuasse nell’ordine, provocando una
frattura al suo interno. Molti dei suoi confratelli furono uccisi, tanti si allontanarono dal cattolicesimo
e altri ancora sciolsero i voti e si sposarono. La storia si abbatteva di nuovo sulla Compagnia di
Gesù, debilitandola. Il lavoro di Bergoglio, tuttavia, era stato fondamentale per evitarne lo
smembramento completo. Ma il processo era risultato molto faticoso.
A quarantadue anni divenne rettore del Colegio Máximo, carica che mantenne fino al 1986, e della
sua facoltà di Filosofia e Teologia, continuando a essere il sacerdote dell’Università del Salvador.
Capitolo 5
L’esilio, un «master» in sacerdozio
«Saluta sempre le persone che incontri, perché è probabile che le vedrai di nuovo.» Queste parole di
sua nonna, ripetute più e più volte durante l’infanzia, sono rimaste impresse nel cuore di Jorge
Bergoglio. E fu proprio all’epoca in cui sua nonna morì che acquistarono un nuovo significato nella
sua vita da adulto.
Il suo ministero sacerdotale si era svolto in due tappe: la prima era stata quella dei quattordici anni
di studio e istruzione all’interno della Compagnia di Gesù, in cui ricevette la sua formazione
teologica e cristiana. Poi erano arrivati gli anni dell’ascesa nella gerarchia dell’ordine: una carriera
rapida e vertiginosa, durante la quale aveva dovuto esporsi e operare in un momento storico
particolarmente travagliato, affrontando critiche e opposizioni.
E ora gli si prefigurava la prematura discesa, il declino. Ostracismo? No. Lui non l’ha mai
considerato tale, sebbene, dopo aver ricoperto il ruolo di massima autorità dei gesuiti nel proprio
Paese, fosse stato mandato a fare il confessore in una chiesa nella provincia di Córdoba e a dar da
mangiare ai maiali – letteralmente – nei quartieri periferici di San Miguel. Le parole di sua nonna gli
servirono da bussola, per non perdere mai di vista ciò che era davvero importante.
«Fin da giovane la vita mi ha portato ad assumere incarichi di responsabilità. Appena ordinato
sacerdote fui designato maestro dei novizi e due anni e mezzo dopo divenni padre provinciale. E
dovetti imparare sul campo, a mie spese. Certo, di errori ne ho commessi moltissimi, non lo nego.
Errori e peccati. Sarebbe ipocrita da parte mia chiedere oggi perdono per i peccati e le offese che
potrei aver commesso. Oggi chiedo perdono per i peccati e le offese che ho effettivamente
commesso» dice Bergoglio.
Concluso il periodo al vertice della gerarchia dell’ordine, iniziò quello in cui divenne pastore. Nei
quartieri poveri.
A quei tempi, sui quali scarseggiano documenti e registri che testimonino le sue opere, il contatto
diretto con la gente diventò la marca distintiva della sua attività apostolica. Non sarebbe stato più
solo un uomo dedito alla teologia e agli studi umanistici, forgiato nella preghiera e nella meditazione,
capace di condurre la Compagnia con mano salda e rettitudine spirituale. Si avvicinò ai poveri
cambiando radicalmente la sua prospettiva. Smise di considerarli persone bisognose di guida e
insegnamento. Al contrario: decise di porsi accanto a loro per imparare.
Era una strada che aveva cominciato a percorrere negli anni Settanta, lavorando a fianco dei curas
villeros. Tuttavia, la politicizzazione dell’opera sociale e il suo alto rango all’interno della
Compagnia l’avevano allontanato da quella realtà.
Bergoglio voleva stare vicino alla gente. In mezzo alla gente. Per la strada. «I momenti più belli sono
quelli che ho trascorso con la gente» ha confessato nel corso dell’intervista radiofonica nella
parrocchia della villa de emergencia di Barracas nel novembre 2012.
Il contatto con la quotidianità dei più poveri, raccontano persone a lui molto vicine, fu un’esperienza
che arricchì e completò il suo bagaglio dottrinale, in una simbiosi tra ciò che la Chiesa proponeva e
ciò di cui la gente aveva realmente bisogno e i problemi che si trovava ad affrontare:
disoccupazione, droga, precarietà, miseria e molto altro.
Ma cos’era successo? Perché la massima autorità dei gesuiti argentini era stata declassata a semplice
prete confessore di una chiesa di Córdoba? La risposta varia a seconda di chi la offre. I detrattori di
Bergoglio ritengono che si trattò di una specie di esilio, di allontanamento a causa delle divergenze
sorte all’interno della Compagnia di Gesù durante e dopo il suo provincialato. Secondo queste
persone i gesuiti non gli avrebbero perdonato di aver consegnato l’Università del Salvador ai laici e
di aver frenato l’avanzamento del movimento terzomondista nell’ordine.
Dopo un periodo trascorso al Colegio Máximo di San Miguel, dove svolse un’importante opera
presso la comunità locale, Bergoglio si trasferì in Germania per scrivere la sua tesi di dottorato.
Dopo un anno e mezzo dedicato allo studio e alla ricerca sull’opera del teologo Romano Guardini, fu
costretto a tornare in tutta fretta in Argentina su richiesta delle autorità della Compagnia per assumere
un incarico che non poteva attendere: tra le altre cose, quello di confessore di Córdoba.
Era una sorta di punizione, dicono. Secondo alcuni, gli veniva addirittura aperta la corrispondenza e
per molti anni fu confinato, isolato dal resto della Compagnia.
Bergoglio considerò quel periodo in maniera diversa. Lo visse come una missione. «Era mosso dalla
profonda volontà di tornare all’esercizio comunitario, di rifuggire la vanità e l’ambizione di potere
che, anche all’interno della Chiesa, alterano i valori e inducono a credere che siano più importanti
l’ordine, la congregazione, le istituzioni che le persone» confidò una fonte.
Pur senza rendersene conto, fu allora che Bergoglio intraprese il percorso che lo avrebbe condotto a
quella dimensione così squisitamente spirituale che negli anni successivi avrebbe caratterizzato la
sua leadership. Mentre tutti intorno a lui credevano che stesse espiando le proprie colpe nell’esilio,
in realtà Bergoglio stava frequentando una sorta di «master» per pastori di anime. «Per me un vero
pastore è colui che va incontro alla gente» dichiarò in un’occasione.
Adempiendo l’incarico che gli era stato assegnato, padre Bergoglio si pose un obiettivo: andare
incontro agli altri. Desiderava tornare a lavorare sul campo, alla pastorale comunitaria, sentirsi un
prete di quartiere, essere semplicemente il «padre Jorge» di un tempo.
A quarantadue anni però la sua vita subì un nuovo cambiamento: divenne rettore del Colegio Máximo
e della facoltà di Filosofia e Teologia a San Miguel. Inoltre, dal 1980 fu nominato parroco della
chiesa del Patriarca San José, nella diocesi di San Miguel, una missione che lo entusiasmava tanto
quanto il lavoro accademico. Sbrigava le sue mansioni amministrative e gestionali nella scuola e
nella facoltà per poi dedicarsi alla parrocchia anima e corpo.
Organizzò corsi di catechesi e fece costruire quattro chiese in altrettanti quartieri poveri della zona,
oltre a tre mense per bambini. Se desiderava svolgere una pastorale sociale concreta, quello era
senz’altro il terreno più fertile in cui potesse trovarsi a operare.
Il 19 dicembre 1985 il quotidiano «El Litoral» pubblicò un lungo articolo dedicato alla
trasformazione avvenuta nel quartiere grazie all’opera di colui che un giorno sarebbe diventato Papa
Francesco. I miracoli di padre Bergoglio: così si intitolava l’articolo scritto in occasione
dell’inaugurazione di due delle quattro chiese che sorsero nel quartiere in quegli anni. Il 16
novembre aveva aperto i battenti «un’enorme chiesa dalle linee gesuitiche settecentesche nel cuore di
un quartiere povero della circoscrizione General Sarmiento (nel nord-est dell’area metropolitana di
Buenos Aires), intitolata a Los Beatos Mártires del Caaró, i missionari fondatori dell’Alto Perú. Due
mesi prima era stata aperta un’altra chiesa, quella di San Alonso.
«I visini dei bambini erano morbidi come la seta e i loro occhi luminosi come stelle. Le madri li
proteggevano dagli spintoni, orgogliose delle loro camicie bianche, dei loro mantelli blu e dei loro
capelli ben pettinati. Non sembrava la stessa gente arrabbiata che fino a poco tempo prima
accoglieva gli estranei con le sassaiole» diceva l’articolo. Prima dell’arrivo di Bergoglio la zona era
degradata, ma dopo il suo intervento persino l’aspetto del quartiere era cambiato.
L’opera sociale di Bergoglio non gli impedì di impegnarsi per il miglioramento delle istituzioni
accademiche. Il 15 ottobre 1981 venne inaugurata la biblioteca di teologia e filosofia di San Miguel,
la più grande dell’America Latina per la quantità e qualità dei suoi libri. La biblioteca del Colegio
Máximo, che all’epoca contava 140.000 volumi, riceveva abitualmente oltre 800 riviste, per la
maggior parte specializzate in filosofia e teologia. Inoltre le furono donati dalla Compagnia di Gesù
ben 4500 volumi antichi risalenti agli anni della dominazione coloniale, tra cui diversi incunaboli.
L’allestimento della biblioteca era stato avviato alcuni anni prima, quando Bergoglio era stato
nominato rettore dell’ateneo.
Il terzo miracolo di Bergoglio, secondo l’articolo de «El Litoral», fu l’organizzazione presso il
Colegio Máximo di un congresso teologico internazionale che vide la partecipazione di centinaia di
rappresentanti dei diversi credi religiosi.
Gustavo Antico, oggi sacerdote e rettore della chiesa di Santa Catalina de Siena, non dimenticherà
mai la sua esperienza con padre Bergoglio negli anni in cui era novizio al collegio. Lo conobbe
appena diciottenne, all’inizio della sua formazione come gesuita. «Mi guardò con lo stesso sguardo
che ha oggi e con espressione imperturbabile mi ordinò: “Tu: dai maiali”. Per tutto il mese di
gennaio dovetti occuparmi dei maiali che tenevamo nel porcile della scuola» ricorda oggi padre
Antico con un sorriso.
Bergoglio non ordinava ai novizi di governare i maiali standosene comodamente seduto nel suo
ufficio. Racconta padre Antico che la massima autorità del collegio non chiedeva mai agli altri di
fare qualcosa che non facesse lui per primo. Per lui non era un’umiliazione immergere i piedi nel
fango o dar da mangiare agli animali. Quei gesti lo avvicinavano agli studenti in un modo molto
speciale. Chiunque poteva mettere in discussione l’autorità di un superiore che impartiva ordini da
dietro una scrivania. Ma quando questa persona era stata al suo fianco nel lavoro quotidiano e aveva
faticato come e quanto l’ultimo dei novizi, badando persino ai maiali, il rapporto diventava
necessariamente più profondo.
Bergoglio lo sapeva. Fu allora che cominciò a capire quale arricchimento derivasse dalla vicinanza
con la gente. Lavorare nel porcile insieme ai suoi sottoposti non è solo ciò che oggi gli esperti in
management definiscono «guidare con l’esempio». C’era qualcosa di più. Nella comunanza con le
persone più umili, sentiva davvero di stare imparando da loro.
«Veniva a trovarci mentre lavoravamo nel porcile e parlavamo a lungo. Ci faceva visita tutti i giorni
e ci aiutava a governare i maiali. Era molto esigente: per Jorge le ore destinate al lavoro durante la
formazione sacerdotale erano di primaria importanza. Supervisionava tutti i compiti che ci affidava e
li svolgeva con noi con la massima naturalezza» racconta il rettore di Santa Catalina de Siena, che da
allora ha mantenuto con l’attuale Papa un rapporto molto stretto, che definisce quasi paterno. «È stata
una presenza costante nei momenti salienti della mia vita» ha assicurato.
Il pollo «alla Papa»
Gli studenti che lo conobbero come rettore al Colegio Máximo raccontano aneddoti in cui Jorge
Bergoglio appare una persona molto alla mano, al punto che la domenica, il giorno libero dei cuochi,
si metteva lui stesso ai fornelli. «Siamo in pochi a sapere che il Papa è anche un eccellente cuoco.
Lui si schermisce dicendo che si difende appena, ma non è affatto così. Cucina davvero molto bene.
Ha imparato da sua madre» rivela un amico personale di Francesco.
Una volta Bergoglio aveva chiesto a questo amico, che in quegli anni era un allievo del collegio, di
organizzare la cena del gruppo di studenti di Teologia. «Eravamo trenta o quaranta persone, ma io
non sapevo cucinare. Ero molto preoccupato e glielo confessai. “Non è un grosso problema” mi
rispose. “Va’ in centro a San Miguel e compra quattro polli allo spiedo, quattro panetti di burro e
quattro confezioni di panna da cucina.” Io gli chiesi perché e lui insistette: “Tu vai”. Intanto lui
incaricò alcuni studenti di pelare e bollire le patate. Quando tornai con la spesa, mi spiegò cosa fare:
“Questa è una ricetta di mia madre. Taglia il panetto di burro in due. Con una metà strofina il pollo
già cotto. L’altra metà gliela infili dentro. Ripeti l’operazione con tutti i polli e mettili nel forno ben
caldo. Dopo una decina di minuti li togli, aggiungi la panna e spegni il forno. Li servi con le patate,
ed ecco fatto. Tutti contenti” mi disse. E aveva ragione: quella cena, che servimmo in una sala
soprannominata La Ramona perché ospitava un quadro di San Ramón Nonato, fu un vero successo»
ricorda.
Nel marzo 1986 cominciò una nuova fase per Bergoglio. Si recò in Germania e si stabilì presso
l’Università di Teologia e Filosofia di Sankt Georgen per scrivere la sua tesi in Teologia.
L’argomento della dissertazione era l’opera di Romano Guardini, sacerdote e teologo nato a Verona
e cresciuto in Germania, dove suo padre lavorava come diplomatico. Proprio come Bergoglio,
Guardini aveva trascorso gli anni di gioventù in un laboratorio chimico.
Guardini aveva una visione innovatrice della Chiesa e fu il leader di uno dei movimenti spirituali e
intellettuali che proposero riforme approvate in seguito dal Concilio Vaticano II.
Di ispirazione agostiniana, la sua teologia è un’evocazione della vita di fede più che una
sistematizzazione dogmatica. Nella sua opera il teologo si propone di affrontare i problemi in modo
concreto e pragmatico, senza astrazioni. Gli interessa scoprire il senso della vita nelle fasi
ascendenti e in quelle discendenti, compresi i momenti limite.
Il giorno seguente all’elezione di Papa Francesco, il Vaticano ha diffuso con un comunicato il
curriculum di Jorge Bergoglio. In esso si leggeva che nel 1986 si era stabilito in Germania per
scrivere la sua tesi di dottorato (si veda l’Appendice).
In un’intervista televisiva successiva all’elezione, il cardinale tedesco Karl Lehmann ha assicurato
che Papa Francesco era legato alla Germania, dato che vi aveva studiato. «Jorge Mario Bergoglio»
ha spiegato il cardinale di Magonza «conosce molto bene il tedesco e inoltre ha svolto il suo
dottorato presso l’ateneo Sankt Georgen, la comunità gesuita di Francoforte.» Il cardinale di Colonia,
Joachim Meisner, ha rilasciato una dichiarazione simile.
Appena i media hanno pubblicato la notizia, i giornalisti della città sono accorsi alla Biblioteca
Nazionale in cerca della tesi e di notizie utili per ricostruire il periodo tedesco di Papa Francesco.
Ma hanno avuto una grande sorpresa: del suo lavoro non esisteva alcuna traccia.
Heinrich Watzka, il cinquantottenne rettore dell’Università di Teologia e Filosofia di Sankt Georgen,
è rimasto scioccato nel sentire quella notizia in televisione. Stava seguendo i particolari
dell’elezione del Papa dal suo ufficio nella comunità gesuita in cui dal 1926 è attiva l’università. Da
due anni e mezzo lui ne era la massima autorità. Era la prima volta nella storia che uno dei suoi
confratelli veniva eletto Papa, e in più aveva raggiunto i suoi maggiori meriti accademici proprio a
Sankt Georgen! Il rettore stentava a crederci.
Quella sera, oltre al rettore, nel campus universitario erano presenti solo una ventina di persone, dato
che i 368 studenti che vi risiedevano sarebbero tornati dopo la Pasqua.
Le dichiarazioni del cardinale Lehmann hanno colto il rettore Watzka di sorpresa: a Sankt Georgen
nessuno sapeva niente della Doktorarbeit (tesi di dottorato) del Papa. Dopo averci pensato a lungo,
dopo aver discusso e cercato ovunque, è apparso evidente che quella tesi non era mai esistita.
A Friburgo, duecentosettanta chilometri più a sud, è accaduta una cosa simile. I media parlavano
della permanenza del Pontefice presso l’università di quella città quando era studente. «A metà degli
anni Ottanta Francesco deve aver presentato la sua tesi a Friburgo e ottenuto il dottorato»
riportavano. Tuttavia, la ricerca infruttuosa nel catalogo della Biblioteca Nazionale di Francoforte
dimostrava che qualcosa non quadrava. La Biblioteca di Francoforte conserva una copia di tutte le
tesi scritte nella Repubblica Federale Tedesca. Introducendo il nome «Bergoglio» nel motore di
ricerca si ottiene «Francesco» tra virgolette. Ma di pubblicazioni, neanche l’ombra.
Il mattino seguente, è toccato a Rudolf Werner Dreier, portavoce dell’Università Albert Ludwig di
Friburgo, il compito di dare la notizia: il Papa non aveva studiato a Friburgo. Non esisteva alcun
dato che lasciasse intendere che padre Bergoglio fosse mai stato iscritto lì. Qualcuno ha suggerito
che forse c’era stato un malinteso e si trattava dell’omonima città svizzera.
Dopo molte ricerche all’interno dei suoi registri, il rettore Watzka ha trovato la risposta. Bergoglio
era effettivamente stato ospite della Sankt Georgen per alcune settimane e addirittura si è fatto avanti
qualcuno che l’aveva conosciuto: Michael Sievernich era diventato docente di Pastorale teologica,
proprio l’anno in cui Bergoglio arrivò in Germania e ricorda bene le settimane trascorse in
compagnia del sacerdote argentino, che aveva conosciuto durante una visita in America Latina.
«Aveva una mente molto aperta. Parlammo di diverse questioni e intrattenemmo conversazioni
profonde, prima in tedesco e poi in spagnolo.»
Dal suo ufficio di Francoforte, Sievernich ha accettato di fornire informazioni per la stesura di questo
libro, aggiungendo ulteriori dettagli: «Padre Bergoglio visse in Germania nell’anno 1985 per
imparare il tedesco e, nel 1986, per studiare Teologia di lingua tedesca, soprattutto gli scritti del
teologo e filosofo tedesco Romano Guardini. Bergoglio aveva deciso di compiere delle ricerche.
Durante la sua permanenza di alcuni mesi in Germania, frequentò per un certo periodo la facoltà di
Teologia della Sankt Georgen per sfruttare l’ampia bibliografia su Guardini conservata nella sua
biblioteca» ha spiegato. Molto probabilmente l’interesse di Bergoglio per quell’autore nasceva dal
fatto che, come lui, il teologo tedesco morto nel 1968 aveva origini italiane.
Per diverse settimane Bergoglio fece le sue ricerche nella biblioteca e risiedette nella comunità.
Tuttavia l’ordine lo richiamò in Argentina prima del previsto per affidargli una nuova destinazione.
E così si spiega il mistero: presso la Sankt Georgen non esistono testimonianze della tesi di dottorato
di Bergoglio semplicemente perché non la consegnò mai, dal momento che dovette tornare in patria
all’improvviso su richiesta dei suoi superiori.
Il rettore Watzka non sa se Bergoglio in seguito abbia completato il lavoro nel suo Paese; ma se così
fosse gli pare molto strano che non abbia inviato loro una copia della tesi, soprattutto dal momento
che anni più tardi era ancora in contatto con diversi suoi compagni di studio. Molto più
verosimilmente non ottenne il dottorato presso l’ateneo tedesco.
La Compagnia di Gesù lo aveva convocato per assumere un incarico presso l’Università del
Salvador e diventare il prete confessore nonché il «padre spirituale» di una chiesa di Córdoba.
Era preciso dovere di Bergoglio obbedire agli ordini perché rifiutare avrebbe significato lasciare la
Compagnia, ma padre Jorge partì dalla Germania con il cuore diviso. Una parte di lui era contenta di
tornare nel suo Paese, del quale sentiva una grande nostalgia, ma sapeva bene che se gli avevano
affidato un nuovo compito interrompendo le sue ricerche per la tesi di dottorato voleva dire che
l’esilio non era ancora finito.
«Non lo visse come un confino, anche se probabilmente lo è stato. Nutriva un profondo rispetto per il
voto di obbedienza» ha confidato un amico personale di Bergoglio.
La sua nuova destinazione era la chiesa che sorge all’angolo tra calle Caseros e calle Vélez
Sarsfield, dove si trova la residenza della Compagnia di Gesù, proprio nel centro della città di
Córdoba. Occupava la stanza numero 5. I suoi parrocchiani arrivavano da Obispo Trejo e da
Caseros.
In quel periodo Bergoglio tornò a essere un prete di quartiere. Confessava, celebrava la messa,
camminava tra la gente, dava consigli e affrontava i problemi della vita quotidiana di persone che,
come lui, erano uomini e donne comuni.
«Per Bergoglio è fondamentale essere il sacerdote della gente. Gli piace confessare i giovani e
ascoltarli, perché lo ritiene il modo migliore per comprendere le problematiche sociali, un’occasione
per tenersi al passo con i tempi e adeguare la sua visione del mondo a un’epoca di trasformazioni e
di cambiamento. Ha sempre pensato che per conoscere un processo sia necessario stare a contatto
con i suoi protagonisti» commenta Eduardo Suárez, decano della facoltà di Scienze sociali
dell’Università del Salvador, che lo conosce da più di quarant’anni.
«Così come nella sua vita non accetta compromessi, non lo fa nemmeno con la vita degli altri. Per
questo l’atteggiamento paterno è una sua marca distintiva. È una persona estremamente comprensiva
con chi gli apre il proprio cuore. Non giudica nessuno; anzi, vuole comprendere gli altri e fa tutto il
possibile per aiutarli. Per fare un esempio: si è opposto al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Si è espresso in modo lapidario e con fermezza su questo tema. E l’opinione pubblica non gli ha
risparmiato aspre critiche. Ma noi che conosciamo la sua pastorale sappiamo che in diverse
occasioni alcuni omosessuali si sono avvicinati a lui e gli hanno aperto il proprio cuore, rivelandogli
di essere stati vittime di abusi all’interno della loro famiglia e facendogli confidenze molto
personali. Ma lui non è mai stato duro nei loro confronti; al contrario, li ha ascoltati con benevolenza.
Ha offerto loro i suoi consigli. Una cosa è l’ideale che si pone come orizzonte, e in quel caso sa
essere molto rigido. Ma l’atteggiamento che ha verso le persone è un’altra cosa. È molto
comprensivo. È un vero pastore» racconta un suo amico personale.
Il «master» in sacerdozio
La vicinanza, lo sguardo sempre attento ai bisogni degli altri e l’importanza dei piccoli gesti sono le
caratteristiche che Bergoglio ha fatto proprie nel periodo trascorso a Córdoba. La chiave di tutto era
il suo modo di porsi verso i più umili. Bergoglio non era il maestro, bensì l’allievo: è questo
l’insegnamento che maturò nel suo cuore durante l’esilio, dopo un tormentato percorso interiore che
lo aveva portato a porsi diversi interrogativi. Perché quando era giovane non era potuto andare in
Giappone, sebbene dentro di sé albergasse un animo missionario? Perché in quegli anni la scelta di
molti sacerdoti di dedicarsi ai poveri in maniera disinteressata era stata influenzata dalla politica e
dalle ideologie? Perché, se era stato la massima autorità dei gesuiti, adesso era costretto a badare ai
maiali e a cucinare per i suoi studenti? Perché invece di concludere la sua tesi di dottorato si
ritrovava a servire il pranzo in una mensa comunitaria o ad ascoltare le confessioni di peccatori
recidivi? Qual era il fine ultimo di tutto ciò?
Lo aveva chiesto a Dio più di una volta nelle tre ore quotidiane che dedicava (e che dedica tutt’ora)
alla preghiera appena si sveglia, alle quattro e mezzo del mattino. Chi lo conosce bene sostiene che
la risposta deve essere stata simile a quella che ricevette quando Dio lo chiamò a servirlo. Era
quello il motivo per cui era entrato in seminario: per imparare.
E imparare dai poveri, da coloro che Gesù aveva chiamato «beati», significava imparare da Cristo.
Durante gli anni del cosiddetto «esilio» giunse ad alcune conclusioni. L’attenzione ai poveri
caldeggiata dal Concilio Vaticano II aveva posto l’accento sulle condizioni di vita dei più sfortunati.
La Teologia della liberazione aveva ripreso e approfondito questa missione della Chiesa, anche se,
secondo Bergoglio, l’aveva indirizzata verso strade sbagliate. Dopotutto, i poveri erano ancora
poveri. Lo ripeté in diverse occasioni: il povero non va incasellato secondo un’interpretazione
marxista, bensì «bisogna conoscerlo secondo un’ermeneutica reale, tratta dal popolo stesso». Così il
futuro Papa Francesco si avvicinò al concetto più rivoluzionario della sua vita (rivoluzionario nel
senso che è capace di produrre cambiamenti profondi e duraturi): «la pietà popolare», ovvero
ascoltare i poveri per imparare da loro.
A Bergoglio piace raccontare un aneddoto che ben riassume la sua visione dei problemi sociali.
Verso la metà del Novecento Papa Pio XII mandò a chiamare un certo numero di notabili italiani. Per
raggiungere il luogo dell’appuntamento dovevano attraversare un quartiere molto povero di Roma.
Vedendoli passare, gli indigenti li insultarono e lanciarono loro il contenuto degli orinatoi. Una volta
giunti davanti al Pontefice, i notabili lo salutarono e rimasero in attesa di qualche importante
comunicazione. «La vostra ora di udienza si conclude qui» annunciò il Papa, impartendo loro una
lezione decisamente istruttiva.
Un paio di anni fa chiesero a Bergoglio quale fosse la sua opinione riguardo la cosiddetta Teologia
della liberazione. La risposta sarebbe stata diversa se gli avessero posto la stessa domanda negli
anni Settanta: l’esperienza del sacerdozio aveva fatto maturare in lui una visione più conciliante.
«L’attenzione per i poveri, che divenne un tema d’attualità nel dibattito cattolico degli anni Settanta,
era terreno fertile per tutti coloro che abbracciavano una qualsiasi ideologia. C’era il forte rischio
che si snaturasse ciò che la Chiesa aveva chiesto nel Concilio Vaticano II e che ripete da allora:
seguire il giusto cammino per rispondere a un’esigenza evangelica assolutamente ineludibile,
centrale, e cioè l’attenzione verso i poveri. Deviazioni ce ne sono state. Ma ci sono stati anche
migliaia di agenti pastorali (sacerdoti, religiosi, laici, giovani, gente di mezza età e anziani) che si
sono impegnati seguendo le direttive indicate dalla Chiesa, rendendo così un grande onore alla nostra
opera. Il pericolo dell’infiltrazione ideologica andò scomparendo mano a mano che cresceva la
consapevolezza della vera ricchezza del nostro popolo: la pietà popolare. Perciò, più gli agenti
pastorali scoprono la pietà popolare, più l’ideologia va smorzandosi, perché si avvicinano alla gente
e alle sue problematiche in maniera concreta, sulla base di ciò che apprendono dal popolo stesso.»
Un giorno, mentre svolgeva il suo compito di pastore nell’anonimato di Córdoba, gli si presentò
l’occasione del riscatto.
L’arcivescovo di Buenos Aires e cardinale primate di Argentina, monsignor Antonio Quarracino, si
era recato a Córdoba per partecipare a un incontro spirituale. «Quarracino rimase impressionato da
Bergoglio quando lo sentì parlare durante l’incontro. Conversarono a lungo e l’arcivescovo si scoprì
profondamente ammirato da lui. Lasciò Córdoba certo di avere scoperto un talento e chiese a Roma
di nominarlo vescovo ausiliare» racconta padre José Carlos Caamaño, professore di Teologia
dogmatica presso l’Università Cattolica Argentina.
Quarracino rimase colpito dalla personalità di Bergoglio, dall’autorevolezza con cui parlava e, allo
stesso tempo, dal suo atteggiamento semplice con le persone. Capì subito che era lui l’assistente che
stava cercando da tempo per lavorare nella zona sud della città, dove si trovano i quartieri più
poveri.
«Tornato a Buenos Aires, Quarracino tentò più volte di fargli avere l’incarico, ma, quando lo
proponeva, il suo nome veniva subito scartato. La causa principale erano le divergenze che aveva
con Caselli» precisa una fonte vicina a Bergoglio. Esteban Caselli era il contatto più influente del
presidente argentino Carlos Menem presso la Santa Sede. Molto noto alla segreteria di Stato vaticana
e alla Nunziatura di Buenos Aires, si era sempre trovato in contrasto con le posizioni di Bergoglio.
Nell’ultimo conclave ha sostenuto la candidatura di un altro cardinale argentino, Leonardo Sandri,
che figurava tra i favoriti.
Nel 1992, stanco che il suo candidato venisse continuamente respinto, Quarracino si recò a Roma e
ottenne un’udienza privata con Papa Giovanni Paolo II. Gli parlò di Bergoglio e gli chiese di
nominarlo vescovo ausiliare.
Alcuni giorni più tardi il nunzio apostolico dell’epoca, monsignor Ubaldo Calabresi, convocò
Bergoglio per porgli qualche domanda su alcuni sacerdoti candidati a vescovi. Gli chiese di
incontrarlo all’aeroporto di Córdoba, dato che il suo volo da Buenos Aires a Mendoza faceva scalo
in città. Era il 13 maggio 1992. Dopo essersi confrontati, come racconta lo stesso Bergoglio, e
quando gli altoparlanti dell’aeroporto cominciavano già a sollecitare i passeggeri che mancavano
all’appello, monsignor Calabresi gli diede una notizia inattesa: «Ah, un’ultima cosa… È stato
nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires. La designazione verrà resa pubblica il giorno 20».
«Ricordo che quando mi trovavo a Francoforte per scrivere la tesi di dottorato, la sera passeggiavo
nel cimitero. Da lì si riusciva a intravedere l’aeroporto. Una volta un amico mi vide e mi chiese cosa
ci facessi lì. Gli risposi: “Saluto gli aerei… gli aerei che vanno in Argentina…”» ha raccontato una
volta Bergoglio. Guardava gli aerei decollare e li salutava, sperando che portassero il suo saluto in
patria.
Capitolo 6
Il nodo che la Vergine Maria sciolse
Quando Jorge Bergoglio tornò dalla Germania portò con sé un segreto. Laggiù, nella chiesa di St.
Peter am Perlach, ad Augusta, un’immagine l’aveva commosso al punto da risvegliare nella sua
anima una devozione profonda. Era un dipinto del XVIII secolo, attribuito, anche se non con totale
certezza, all’artista bavarese Johann Georg Melchior Schmidtner. Quell’opera passava quasi
inosservata agli occhi della maggior parte dei fedeli abituali e dei visitatori, ma lui vi trovò conforto
nei giorni di solitudine durante l’esilio.
Il dipinto, senza titolo, mostra la Vergine Maria che scioglie un lungo nastro pieno di nodi sostenuto
da alcuni angeli. Maria scioglie con pazienza nodi grandi e piccoli, singoli e ammassati l’uno
sull’altro. Bergoglio la osservò rapito, si inginocchiò di fronte a quell’immagine meravigliosa e
carica di mistero e pregò. Immediatamente sentì che dentro di lui alcuni nodi cominciavano ad
allentarsi.
«Quando Bergoglio vide il dipinto rimase colpito e nacque in lui una profonda devozione per quella
Madonna. In Germania si sentiva solo e quell’immagine di Maria lo emozionò moltissimo» racconta
padre Omar Di Marco, attuale parroco della chiesa di San José del Talar, nel quartiere di
Agronomía, a Buenos Aires. Lì è esposta la copia del quadro originale dipinta dall’artista argentina
Ana María Betta de Berti, che ne fece dono alla chiesa senza sospettare il fervore che avrebbe
suscitato.
Oggi l’immagine viene visitata senza sosta da migliaia di fedeli che le si rivolgono per pregare e
chiederle di intercedere in caso di situazioni familiari difficili, come liti tra fratelli e amici,
separazioni coniugali e problemi di dipendenza dalle droghe. La pregano anche per questioni di
salute e di lavoro, nonostante la sua grazia riguardi principalmente i vincoli affettivi. Ogni 8
dicembre, giorno della Madonna, oltre settantamila persone si radunano davanti alla piccola chiesa
di quartiere per venerare il dipinto e durante tutto l’anno vi si recano in visita migliaia di pellegrini.
Si calcola che solo nei fine settimana la chiesa accolga circa diecimila fedeli provenienti da ogni
parte del Paese, cosa che molto spesso provoca le vibranti lamentele di chi vi abita accanto.
Il fervore popolare per questa Madonna, che molti fedeli considerano miracolosa, va senz’altro
attribuito a Bergoglio, dal momento che fu lui a farla conoscere diffondendone i santini.
«Senza dubbio, quando ricevette per posta le stampe di Maria che scioglie i nodi e le distribuì tra
amici e familiari, Bergoglio non poteva immaginare che nel giro di breve tempo il suo fremito
spirituale si sarebbe propagato fino a questo punto nel sentire religioso del suo popolo» assicura
oggi la pittrice Betta de Berti, che ha dedicato tutti i momenti liberi e i fine settimana di settembre,
ottobre e novembre del 1996 al difficile compito di realizzare la copia del dipinto.
All’inizio degli anni Novanta Ana María lavorava nell’amministrazione dell’Università del Salvador
e ricevette un santino della Madonna da Bergoglio in persona. All’epoca il sacerdote gesuita era la
guida spirituale dell’istituto e donava le stampe ai fedeli che si rivolgevano a lui in cerca di
consolazione. Oltre a confortarli con le sue parole, Bergoglio regalava loro l’immagine della Vergine
Maria della chiesa di St. Peter am Perlach e illustrava la sua grazia: quella di sciogliere i nodi
provocati dal peccato originale. «Nodi della vita personale, familiare, lavorativa, dei legami
interpersonali. Tutti questi nodi, che non sono altro che il peccato, ci debilitano a tal punto nella
nostra fede che la grazia di Dio non può scorrere liberamente lungo il nastro della nostra vita» era la
spiegazione che dava Bergoglio nel porgere loro l’immagine sacra. «Le mani buone di Maria
sciolgono uno a uno i nodi che ci separano dal Bene. Gli angeli possono quindi mostrarci un nastro
senza nodi e ci incoraggiano a pregare con fiducia, perché saremo ascoltati» recita il retro del
santino.
A quanto pare le preghiere di padre Bergoglio durante il suo esilio furono accolte e la Vergine Maria
lo ha aiutato a superare le sue vicissitudini dell’epoca. Tutte le persone a lui vicine riconoscono che
negli anni seguenti la sua ascesa fu quasi miracolosa. «La tua vita è una testimonianza della
provvidenza di Dio. Sei stato eletto Papa senza l’ambizione di aver cercato di diventarlo» gli ha
detto una cara amica a cui ha telefonato alcuni giorni dopo l’elezione.
Quando il nunzio apostolico gli comunicò che sarebbe stato nominato vescovo ausiliare, Bergoglio
cercò di sottrarsi, dal momento che il suo voto gli proibiva di accettare una carica del genere.
Monsignor Quarracino però non si accontentò della sua risposta. Si mise in contatto con il Vaticano
ed esortò Giovanni Paolo II a fare appello al quarto voto emesso dai seguaci di Sant’Ignazio: quello
di obbedienza al Papa.
Così il «piccolo santo», come lo chiamava Quarracino, uscì dalla sfera di obbedienza alla
Compagnia di Gesù e divenne vescovo. Quello fu il primo passo lungo il cammino che ventun anni
più tardi l’avrebbe condotto a Roma.
Sabato 27 giugno 1992, nella cattedrale metropolitana di Buenos Aires, i sacerdoti Jorge Bergoglio e
Raúl Omar Rossi ricevettero l’ordinazione episcopale dall’arcivescovo primate di Argentina.
Vennero nominati vescovi titolari di Auca ed Enera, rispettivamente. Nel corso della cerimonia
vennero ordinati altri venti vescovi di diverse giurisdizioni.
Cosa significava essere vescovo di Auca? Ebbene, con la nomina di Bergoglio il numero di vescovi
della città saliva a sei, uno in più di quanti ne preveda la struttura dell’arcidiocesi. In effetti Buenos
Aires possiede un vicariato generale e quattro vicariati territoriali che corrispondono ai quattro punti
cardinali della città: nord, chiamato Belgrano; est, ovvero il Centro; ovest o Devoto; e sud, detto
Flores.
Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che ciascun vescovo deve essere titolare di una diocesi,
secondo la norma per cui «non può esistere un vescovo senza la propria diocesi». Nel caso dei
vescovi ausiliari, non potendo essere titolari della diocesi in cui svolgono il proprio ministero, la
Santa Sede li nomina titolari di una sede vescovile titolare. Perciò, mentre Bergoglio ricopriva la
carica di vescovo ausiliare di Buenos Aires, e anni dopo quella di arcivescovo coadiutore, Papa
Giovanni Paolo II lo nominò vescovo titolare della diocesi di Auca, oggi Villafranca Montes de Oca,
nella provincia di Burgos, in Spagna.
«Il fatto che si sia aggiunta una nuova poltrona episcopale fa pensare che sussista l’intenzione di
ampliare o modificare lo schema organico dell’arcidiocesi» scrisse Bartolomé de Vedia nella sua
rubrica di notizie religiose sul quotidiano «La Nación» alcuni giorni dopo la nomina di Bergoglio.
Fu una cerimonia semplice, celebrata un sabato pomeriggio. Bergoglio venne consacrato dal nunzio
apostolico dell’epoca, monsignor Ubaldo Calabresi, e dall’allora vescovo di Mercedes y Luján,
monsignor Emilio Ogñénovich.
Il cardinale Quarracino affermò: «L’antica regola dei Santi Padri recita che chi viene ordinato
vescovo deve essere interrogato davanti al popolo riguardo il suo proposito di vegliare sulla fede».
E così fu fatto.
«Il signore rimane fedele alla sua parola. Lui ha mantenuto la sua promessa di restare accanto a noi
fino alla fine dei giorni. Ci sono fratelli e sorelle che con le loro vite ci supplicano di non distogliere
lo sguardo, affinché possiamo scoprire nelle loro piaghe lo stesso dolore di Cristo» proclamò
Bergoglio nel suo primo discorso ai fedeli nella veste di vescovo ausiliare.
Quando un sacerdote viene ordinato vescovo è tradizione che distribuisca santini tra coloro che
partecipano alla cerimonia. Per la sua ordinazione Bergoglio fece stampare molte copie del dipinto
di Maria che scioglie i nodi e le donò ai sacerdoti che erano stati ordinati insieme a lui. Padre Di
Marco ancora ricorda lo stupore che quell’immagine suscitò tra i presenti. «Ci colpì. Ne fummo tutti
impressionati, perché molti di noi non conoscevano quel dipinto.»
Nel settembre del 1996, a pochi mesi dalla sua nomina a parroco della chiesa di San José del Talar,
padre Rodolfo Arroyo ricevette la visita di tre fedeli devoti a Maria che scioglie i nodi, i quali
avevano lavorato insieme a Bergoglio. Rammenta che stavano cercando una parrocchia disposta ad
accogliere la copia del dipinto originale, nella speranza che sempre più fedeli conoscessero la sua
grazia. «Credo che al loro arrivo a San José del Talar avessero già ricevuto diversi rifiuti. Io ero
stato nominato parroco da poco, non avevo alcuna esperienza e, naturalmente, non sapevo se si
potesse ammettere un nuovo dipinto nella chiesa né tantomeno se vi si potesse realizzare un
santuario» ricorda Arroyo. «Alla fine, per non dire loro di no, risposi che avrei dovuto chiedere il
permesso al vescovo.»
Dopo la riunione con i fedeli, il sacerdote andò a parlare con Quarracino. «Io sono devoto alla
Madonna di Luján. Quella che scioglie i nodi è di Bergoglio. Rivolgiti a lui» gli rispose il cardinale
primate di Argentina. In effetti, lo stesso Arroyo, in risposta a un biglietto di auguri inviato a
Bergoglio in occasione del Natale del 1993, aveva ricevuto un santino con l’immagine della
Madonna che scioglie i nodi accompagnata dalla frase: «Il nodo che tutti stringiamo con la nostra
disobbedienza viene sciolto da Maria con la sua obbedienza».
Arroyo prese in mano il telefono e chiamò Bergoglio per parlargli dei tre fedeli che chiedevano di
trovare una collocazione al dipinto. La sua replica lo stupì: «Non voglio intromettermi, io ho solo
distribuito il santino. Ma se Quarracino ti autorizza fa’ pure, è un dipinto meraviglioso». Secondo
padre Arroyo, Bergoglio, forse immaginando il fervore religioso che quella Vergine Maria avrebbe
suscitato e mantenendosi fedele al basso profilo che caratterizza tutte le sue azioni, non voleva
arrogarsi il merito di averla fatta conoscere in Argentina.
Con il consenso di monsignor Quarracino, che lo aveva invitato ad agire secondo coscienza, padre
Arroyo accettò di accogliere il dipinto di Maria. Dopotutto, la parete era libera e quella era davvero
un’immagine stupenda.
L’8 dicembre 1996 Arroyo benedisse e consacrò il dipinto. La chiesa straripava di fedeli; tuttavia la
folla non era nulla in confronto a quella che sarebbe arrivata in seguito. «Nessuno immaginava che la
Madonna che scioglie i nodi avrebbe suscitato tanta devozione; eppure il suo culto conobbe una vera
e propria esplosione» racconta padre Di Marco, che era arrivato in quella chiesa quattro anni prima.
«La grazia che concede, di aiutare a sciogliere i nodi, è molto venerata; ma a renderla così popolare
è il fatto che quell’immagine raffigura una Maria umana, vicina, materna.»
Attualmente Arroyo è parroco della chiesa del Buen Pastor, nel quartiere di Caballito, a Buenos
Aires, e ammette che nessuno aveva previsto la popolarità che quel dipinto avrebbe scatenato tra i
fedeli. «Fui il primo a manifestare incredulità e sorpresa» assicura, e riconosce che il dipinto di
Maria che scioglie i nodi cambiò radicalmente la sua attività pastorale: se prima si occupava di una
parrocchia che contava al massimo un centinaio di fedeli, da quel momento in poi dovette affrontare
l’arduo compito di gestire più di diecimila persone. L’immane responsabilità lo sfinì, al punto da
costringerlo a chiedere il trasferimento alla chiesa del Buen Pastor.
A partire da Buenos Aires, il culto a Maria che scioglie i nodi si è diffuso in tutta l’America Latina.
«In Brasile hanno realizzato una cappella dedicata a questa Madonna. E in Germania, il suo Paese
d’origine, dove per secoli non aveva mai suscitato una grande devozione, ora si sta risvegliando un
forte interesse nei suoi confronti» racconta padre Di Marco.
Ma il fervore sta trovando nuova linfa anche in Argentina. Da quando Bergoglio è stato consacrato
Papa, Di Marco assicura che nella chiesa di San José del Talar è come se tutti i giorni fosse l’8
dicembre.
I primi mesi di Bergoglio nel nuovo ruolo di vescovo ausiliare non furono affatto semplici. Il suo
incarico prevedeva di occuparsi del vicariato di Flores, che, oltre al quartiere in cui lui è nato,
comprende anche un ampio settore della parte sud della città. Vi si trovano zone residenziali di
classe media, complessi di case umili ma anche baraccopoli. Lì il compito dei parroci era davvero
arduo, in più lui era un outsider e, in quanto tale, dovette guadagnarsi il rispetto della sospettosa
gente del luogo.
Bergoglio decise di cominciare da ciò che più amava dell’attività pastorale: camminare. Così iniziò
a frequentare assiduamente quella zona della città.
Ancora oggi i sacerdoti che mantengono un contatto quotidiano con gli abitanti dei quartieri sud
ricordano che in quegli anni Bergoglio mise in atto un nuovo modo di compiere l’attività pastorale. A
differenza dei rappresentanti dell’autorità che sollevano il telefono da un ufficio del centro e
chiamano i parroci per sapere come vanno le cose, il futuro Papa Francesco divenne il primo
delegato del Vaticano che percorreva ogni giorno le strade del suo vicariato.
«Con lui si passò a uno stile di episcopato molto più alla mano. Non era solo l’autorità incaricata;
era una persona disposta ad ascoltare i sacerdoti, ad accompagnarli e assisterli nelle loro attività.
Veniva da te e ti ascoltava. Questo suo atteggiamento creò un vincolo molto stretto sia con i sacerdoti
della zona che con i fedeli» spiega padre Fernando Gianetti, parroco di Nuestra Señora de la
Misericordia nel quartiere Mataderos, nonché membro della Commissione per l’Ecumenismo
dell’Arcivescovado. Da bambino Bergoglio giocava proprio nel campo di calcio che si trova dietro
la chiesa.
«Nel 1995, ad esempio» racconta Gianetti «celebrò la messa e amministrò il sacramento della
confermazione. Tra i cresimandi c’era anche il figlio di una famiglia che non frequentava le attività
della parrocchia da diverso tempo. Quelle persone non conoscevano la cerimonia e non sapevano
cosa dovevano fare o dire. Tuttavia lui li guidò con grande amore, supplendo alle loro mancanze
perché non si sentissero a disagio. Fu un bellissimo gesto da parte sua. Credo si riferisca a questo
genere di cose quando sostiene che la Chiesa deve facilitare la fede e non intasarla di regole. Ci ha
insegnato uno stile pastorale la cui missione non è far notare alla gente ciò che sbaglia, bensì
avvicinarla alla Chiesa, favorire il suo incontro con Dio» aggiunge il parroco.
Nella chiesa di Nuestra Señora de la Misericordia tutti ricordano quando Bergoglio compariva con
sacchi pieni di vestiti e donazioni per le famiglie più bisognose, che molto spesso andava a trovare
direttamente nelle loro case. «Un giorno» racconta Gianetti, «stavamo celebrando la festa patronale e
pioveva a dirotto. Qualcuno suonò il campanello della casa parrocchiale, andai ad aprire e mi trovai
davanti Bergoglio, in stivali di gomma, sotto la pioggia battente. Ci aveva promesso che avrebbe
partecipato e lo fece, nonostante il clima avverso. Per arrivare fin lì aveva preso la metropolitana e
l’autobus 103, e nemmeno il diluvio l’aveva fatto desistere» ricorda.
Molte persone hanno scoperto che Papa Francesco viaggiava in autobus e frequentava le villas de
emergencia solo dopo la sua nomina a massima autorità della Chiesa cattolica, e ne sono rimaste
sorprese.
Tuttavia, per gli abitanti delle baraccopoli, «padre Jorge» era una vecchia conoscenza, da quando
aveva deciso di portare la parola di Dio a piedi e dappertutto. La sua vita, il suo rapporto con la
gente: quello era il suo vero sacerdozio.
Gli abitanti della Villa 1-11-14, nel Bajo Flores, una delle zone con il più alto tasso di criminalità e
disagio sociale e in cui non molti osano entrare, lo vedevano spesso camminare a passo spedito
lungo gli stretti marciapiedi del quartiere, sempre vestito di nero. Non aveva paura. Loro lo
conoscevano e lui conosceva loro. Si prendevano cura di lui, perché era il loro tesoro più prezioso.
L’ha raccontato lui stesso e i suoi collaboratori l’hanno confermato. Papa Francesco è convinto che
tra i più poveri la religiosità sia molto profonda e la fede particolarmente radicata, al punto che tutti
dovrebbero imparare da loro. E non lo diceva agli abitanti di quei quartieri per attirarsi le loro
simpatie, come potrebbe fare un politico per compiacere il proprio elettorato. All’epoca espresse
questo concetto di fronte al Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), che riunisce i vescovi di
tutto il continente, nel corso della conferenza generale che si svolse nella città brasiliana di
Aparecida nel 2007. «Abbiamo molto da imparare dalla fede dei poveri» dichiarò in presenza delle
massime autorità della Chiesa latinoamericana.
Il suo stile spiccio, i modi diretti, la vicinanza ai giovani e i commenti lusinghieri che davano di lui i
sacerdoti di cui era vescovo attribuirono alla sua figura un crescente rilievo. E sebbene fosse del
tutto estraneo alle questioni interne dell’Arcivescovado, venne nominato vicario generale. All’epoca
l’arcivescovo della città di La Plata, monsignor Héctor Aguer, che era anche arcivescovo coadiutore
e aveva un solido legame con l’ambasciatore menemista presso il Vaticano Esteban Caselli, era
considerato il candidato più probabile a succedere a Quarracino. Quando l’arcivescovo di Buenos
Aires decise di nominare Bergoglio come suo braccio destro, le cose si complicarono.
Il futuro Pontefice si disinteressò del tutto agli intrighi politici per la successione, continuando a
dedicarsi al lavoro con i poveri. Quell’anno si verificò un grave incidente alla Villa 31, che si trova
vicino al centro della città. L’intendente municipale, il menemista Jorge Domínguez, voleva entrare
con i bulldozer nell’insediamento costruito quasi un secolo prima per raderlo al suolo. Gli abitanti
del quartiere organizzarono una protesta e i cosiddetti curas villeros li appoggiarono. Il presidente
Carlos Menem li criticò pubblicamente, accusandoli di essere «terzomondisti». Ma le sue parole
sortirono un unico effetto: infiammare gli animi.
In un contesto così teso Bergoglio giocò un ruolo fondamentale per favorire la conciliazione.
Convinse il cardinale Quarracino, anch’egli vicino al menemismo, ad appoggiare i preti celebrando
una messa nella baraccopoli.
Alcuni anni più tardi, quando fu nominato arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio incrementò il suo
sostegno al gruppo di sacerdoti delle villas de emergencia. Una delle sue prime misure fu aumentare
la quantità di parroci destinati ai quartieri poveri, che da dieci diventarono più di venti. Inoltre istituì
il vicariato delle villas per dare un supporto ancora maggiore ai preti che vi lavoravano.
Il messaggio era chiaro. Non voleva che ci fosse solo una parrocchia nella villa e che di tanto in
tanto il prete andasse a far visita alla gente del quartiere. Voleva che i preti conoscessero il posto,
che vivessero tra la gente, soffrendo con, e come, loro, provando sulla propria pelle le loro
difficoltà. Forse fu proprio quello il momento in cui cominciò a delineare e ad approfondire il
concetto che poi sarebbe diventato l’insegna del suo papato: una Chiesa povera per i poveri.
Già allora provava una forte attrazione per la figura di San Francesco d’Assisi, da cui poi avrebbe
preso il suo nome da Papa. Quando nel 1993 venne presentata l’opera musicale El loco de Asís del
regista Manuel González Gil e del musicista Martín Bianchedi al teatro Cervantes della capitale
(un’opera che dal suo debutto, nel 1984, era stata replicata in un’infinità di teatri di tutto il mondo e a
cui erano stati attribuiti numerosi riconoscimenti), Bergoglio fu uno dei primi ad assistervi.
«Fu un’opera molto polemica» spiega González Gil, e racconta che in quegli anni una parte della
Chiesa era decisa a proibirla. «Ricordo che una sera il cardinale Bergoglio venne a vederla e ci fece
i suoi migliori auguri perché lo spettacolo potesse continuare a essere replicato.»
Una carriera in ascesa
«Il gesuita Jorge Mario Bergoglio succederà all’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Antonio
Quarracino, quando la sede resterà vacante. Così ha deciso ieri Papa Giovanni Paolo II nel
nominarlo arcivescovo coadiutore della sede primaziale» pubblicarono i quotidiani argentini il 3
giugno 1997. Presto Quarracino avrebbe compiuto settantacinque anni, età in cui sarebbe dovuto
andare in pensione, e da tempo soffriva di problemi vascolari che gli impedivano di muoversi in
modo autonomo. Durante la processione del Corpus Domini che quell’anno si tenne in Plaza de
Mayo, di fronte alla cattedrale metropolitana, era stato obbligato a spostarsi su una sedia a rotelle.
La notizia della nomina colse di sorpresa molti sacerdoti, e in particolar modo coloro che speravano
di occupare quel posto.
Il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi lo invitò a pranzo e gli riferì che monsignor Quarracino si era
recato a Roma per chiedere a Giovanni Paolo II di assegnargli un coadiutore. Bergoglio temeva che
in seguito alla nomina del nuovo arcivescovo lui potesse essere destinato a un vicariato all’interno
del Paese. «Vorrei restare vescovo ausiliare. Non posso andarmene da qui. Sono di Buenos Aires, e
lontano dalla mia città non saprei fare niente» gli rispose. I fatti, tuttavia, gli avrebbero dato torto:
non solo perché fu nominato successore di Quarracino, ma anche perché il suo approdo al Vaticano,
sedici anni più tardi, avrebbe dimostrato che «sapeva fare qualcosa» anche lontano dalla sua città.
Quando terminarono il pranzo, dopo il caffè, Bergoglio fece per congedarsi, ringraziando Calabresi
per l’invito. In quel momento arrivarono una torta e una bottiglia di champagne con due calici.
«Ubaldo, perché non mi ha detto che era il suo compleanno?» si sorprese Bergoglio.
«No, non è il mio compleanno. Festeggiamo la sua nomina a coadiutore. Congratulazioni» gli rispose
il nunzio.
Date le cattive condizioni di salute del cardinale Quarracino, il Papa aveva anticipato la nomina. A
sessant’anni Bergoglio si sarebbe trovato ad affrontare il compito di immergersi nelle questioni della
giurisdizione ecclesiastica per poi assumere la guida dell’Arcivescovado quando Giovanni Paolo II
avrebbe annunciato la rinuncia del titolare. Designando anzitempo il successore, il Papa aveva
cercato di evitare un eventuale tentativo del governo di influenzare la sua decisione. Aveva già subito
pressioni politiche nel 1987, in occasione della nomina di Quarracino, che si era protratta per anni a
causa della resistenza del governo radicale di Raúl Alfonsín.
Questi i commenti pubblicati sui quotidiani il giorno successivo all’annuncio: «È la prima volta che
un membro della Compagnia di Gesù avrà la possibilità di diventare arcivescovo di Buenos Aires e
primate di Argentina. Bergoglio ha il compito di rinnovare la missione pastorale dell’ordine»; «I
suoi colleghi sacerdoti lo definiscono un vero uomo di fede. Ma in questi cinque anni non sono state
solo la sua umiltà e le sue qualità di uomo misericordioso a renderlo uno degli ausiliari più amati dal
clero giovane. Questa preferenza si deve alla sua brillante intelligenza e alla predisposizione al
dialogo con le nuove leve»; «È un vero pastore»; «Ancora adesso riceve i sacerdoti uno a uno e sa
ascoltarli. È un uomo di poche parole, ma quando parla è cristallino e la sua lucidità è paragonabile
solo all’umiltà con cui ricopre il suo ruolo nella curia»; «Con la designazione di Bergoglio la Santa
Sede ha emesso un chiaro segnale di sostegno all’opera pastorale che si sta attuando nella città di
Buenos Aires dal 1992».
La notizia sorprese tutti, anche le gerarchie ecclesiastiche. La nomina di Bergoglio aveva scavalcato
molti candidati che sulla carta avevano maggiori probabilità, come l’allora arcivescovo di Paraná e
presidente della Conferenza Episcopale Argentina, monsignor Estanislao Karlic, che negli anni
Novanta aveva goduto di una certa notorietà in ambito nazionale. E anche il titolare della diocesi di
Corrientes, monsignor Domingo Castagna, o addirittura Eduardo Mirás, l’arcivescovo di Rosario. In
pochi pensavano che il Papa avrebbe scelto un uomo così vicino a Quarracino. Tuttavia fu subito
chiaro che i due avevano stili assai diversi.
Nel giro di pochi anni, all’interno dell’arcidiocesi di Buenos Aires, Bergoglio era riuscito a
costruire eccellenti rapporti con il clero giovane, che riconosceva la sua leadership. Tuttavia il suo
nome e la sua immagine non erano così noti all’opinione pubblica da essere considerato il favorito.
Dato il suo basso profilo, il suo distacco dagli intrallazzi politici della Chiesa e il suo disinteresse a
farsi pubblicità, il popolo dei credenti disponeva di poche notizie di lui.
Verso la fine degli anni Novanta, quando la presidenza di Carlos Menem cominciò ad attraversare il
suo periodo più critico, i vescovi fecero fronte comune e scelsero la strada della denuncia politica.
Nel 1997, ad esempio, emisero un documento molto critico in cui sottolineavano la mancanza di
indipendenza tra i tre poteri dello Stato e la simbiosi che si era venuta a creare tra il potere politico e
quello giudiziario.
Il principale pronunciamento della Conferenza Episcopale denunciava: «L’amministrazione del
potere giudiziario richiede oggi una netta indipendenza dagli altri poteri dello Stato e dalle
corporazioni professionali, sindacali ed economiche». Inoltre i vescovi consideravano urgente
legiferare affinché i consigli della magistratura (quello nazionale e quelli provinciali) venissero
dotati di una struttura indipendente ed equa. Infine proponevano azioni volte a rafforzare la giustizia
di fronte a «uno stato delle cose che la obbliga a prendere in considerazione l’impossibilità di
sconfiggere l’impunità».
Il documento ebbe una forte ripercussione nelle alte sfere del potere e Menem, che lo ricevette alcuni
giorni dopo dalle mani dell’allora presidente della Conferenza Episcopale, monsignor Karlic, si
affrettò a replicare. «La qualità della giustizia su cui possono contare i cittadini è stata una priorità
del mio governo» assicurò in una dichiarazione distribuita da Télam, l’agenzia di stampa ufficiale.
A partire da quel momento la Chiesa cominciò a seguire una linea connotata dalla denuncia politica.
Poco dopo Bergoglio sarebbe divenuto l’erede e il referente di quell’approccio. Negli anni seguenti
le omelie dei Te Deum (le messe celebrate in occasione delle ricorrenze nazionali del 25 maggio e
del 9 luglio alle quali presenziavano le massime autorità dello Stato) avrebbero creato imbarazzo a
più di un presidente.
Due mesi dopo aver assunto l’incarico di coadiutore, Bergoglio partecipò ponendosi alla testa della
processione di San Cayetano, il santo del pane e del lavoro. Quell’anno l’affluenza superò le
aspettative: accorsero più di seicentomila persone in un momento in cui il lavoro scarseggiava. E
anche il pane. L’8 agosto 1997 migliaia di uomini e donne sfilarono davanti al santuario di Liniers
per chiedere una casa, il pane e un lavoro. Quella processione-manifestazione fu un affronto per il
governo nazionale che diffondeva dati sui livelli di occupazione non corrispondenti alla reale
situazione del Paese. Davanti all’ingresso della chiesa si formarono due lunghe file che si
estendevano per chilometri. In una di esse attendevano i fedeli che desideravano baciare o toccare il
santo e nell’altra coloro che volevano chiedere la benedizione di medagliette, spighe di grano o
immagini sacre.
In quell’occasione Bergoglio pronunciò la sua prima omelia di massa e già allora le sue frasi erano
dense di contenuti: «Il lavoro, come il pane, deve essere diviso tra tutti. Ciascuno deve lavorare un
po’. Il lavoro è sacro, perché è lavorando che una persona forma se stessa. Il lavoro insegna ed
educa: è cultura. Se Dio ci ha dato il dono del pane e il dono della vita, nessuno può toglierci il dono
di guadagnarceli».
Il 28 febbraio 1998, dopo alcuni giorni di ricovero nel sanatorio di Otamendi, monsignor Quarracino
spirò e Bergoglio assunse la guida dell’Arcivescovado della sede primaziale di Argentina.
«Ricordiamo un uomo che annunciò e testimoniò il Vangelo. Con il coraggio e la freschezza delle sue
parole fu un vero pastore capace di preservare con coraggio i valori della fede» disse Bergoglio
durante la messa per il decimo anniversario della morte del suo predecessore, celebrata nella
cattedrale metropolitana. «Fu un vero pastore.»
Oggi, a quindici anni dalla sua morte, molti riconoscono ad Antonio Quarracino la lungimiranza di
essere stato il primo ad appoggiare il futuro Papa. Resta però un mistero perché per tanti anni
Antonio Quarracino abbia sostenuto e caldeggiato l’uomo che avrebbe occupato il soglio di Pietro
anche se questi aveva uno stile diametralmente opposto al suo.
Sebbene Quarracino e Bergoglio siano entrambi conservatori in merito ai valori fondamentali della
fede cristiana, le strade che hanno percorso sono state molto diverse.
Quarracino era tifoso della squadra di calcio del Boca Juniors, amante della buona tavola e
politicamente vicino a Carlos Menem, che aveva conosciuto nel 1976 nell’allora carcere militare di
Magdalena, nella provincia di Buenos Aires, quando andò a far visita a un dirigente politico agli
arresti. Impegnato nel progressismo postconciliare degli anni Settanta, poco a poco virò verso quello
che negli anni Novanta venne denominato neoconservatorismo. Quel cambiamento di rotta lo
avvicinò a Giovanni Paolo II, da cui ricevette attestazioni di stima. Caloroso, polemico, sanguigno,
sarcastico, contraddittorio e, soprattutto, estremamente mediatico, in più di un’occasione la sua
loquacità con i giornalisti gli giocò qualche brutto scherzo. La Compagnia di Gesù nutriva scarsa
simpatia nei suoi riguardi.
Bergoglio, invece, tendeva sempre a mostrare un basso profilo, aveva uno stile molto vicino alla
gente e ai giovani e, anche se si trovava in sintonia con alcuni aspetti del peronismo, non ha mai
voluto esplicitare una sua propensione politica precisa. Cosa scorse Quarracino nel suo successore
per far pendere sempre, per anni, l’ago della bilancia a suo favore, con grande delusione di quanti
aspiravano a ricoprire il suo ruolo? Questo rimane un enigma che neppure le persone più vicine a
Bergoglio sanno spiegare senza ricorrere alla provvidenza, alla misericordia e all’onnipotenza di
Dio.
Non ci è dato nemmeno sapere quale fu il nodo che la Madonna sciolse in Bergoglio: questo rimarrà
il segreto meglio custodito del nuovo Papa. Ma nessuno può negare che da quando tornò dalla
Germania per stabilirsi definitivamente in Argentina, Bergoglio intraprese un cammino quasi del tutto
privo di ostacoli. Il cammino che lo ha portato a diventare il successore di Benedetto XVI sul soglio
di Pietro. E non sono pochi i fedeli convinti che il 13 marzo 2013 Maria che scioglie i nodi abbia
compiuto un nuovo e meraviglioso miracolo.
Capitolo 7
La rivoluzione della fede
Quando dovette prendere parte al primo impegno ufficiale pubblico in qualità di nuovo arcivescovo
di Buenos Aires, Jorge Bergoglio si rese conto che non aveva niente da mettersi. Così i suoi
collaboratori corsero ai ripari e gli presentarono il preventivo di un negozio specializzato in
paramenti liturgici. Avevano già fissato un appuntamento perché Bergoglio andasse a provarsi i
nuovi abiti; il negozio da parte sua avrebbe fatto il possibile perché fossero pronti prima dell’atto
pubblico.
«Cosa?» sbottò Bergoglio, stupefatto, quando lesse il preventivo. «Non spenderemo certo tutti questi
soldi per vestirmi!» sentenziò. Il nuovo arcivescovo, che al momento della nomina aveva sessantun
anni, oppose un rifiuto categorico. Fedele al suo stile austero, aveva deciso di non stabilirsi nella
residenza arcivescovile di Olivos, situata in calle Azcuénaga al numero 1800, a pochi isolati dalla
villa presidenziale, nella zona nord di Buenos Aires. Annunciò invece che avrebbe fissato il suo
domicilio al terzo piano della sede della curia, vicino alla cattedrale metropolitana, dove viveva da
quando era stato nominato vescovo ausiliare.
«Andate a prendere i vestiti di monsignor Quarracino» chiese ai suoi assistenti. Poi se li provò di
fronte allo specchio. Gli stavano enormi, dato che il suo predecessore era parecchio più robusto di
lui. Perciò fece chiamare le suore che si occupavano di preparare i pasti nella curia. «Possiamo
adattarli?» chiese loro. Le religiose gli presero le misure, puntarono spilli, tagliarono e cucirono e in
meno di un giorno il problema era risolto. Questo suo atteggiamento pratico avrebbe caratterizzato il
suo arcivescovato negli anni a seguire, fino alla sua investitura papale. Due giorni dopo essere stato
eletto Pontefice il mondo è rimasto sorpreso alla notizia che Francesco si era presentato di persona a
pagare il conto della residenza in cui aveva alloggiato prima del conclave, e che aveva scelto di
spostarsi in autobus insieme ai suoi colleghi cardinali invece di utilizzare la lussuosa vettura papale.
Eppure Bergoglio non stava facendo altro che conservare il suo modo d’essere.
Nelle sue omelie nel ruolo di primate la riflessione evangelica si mescolava con la denuncia sociale
e politica, una miscela che diventava esplosiva quando tra il pubblico erano presenti il presidente
della Repubblica e le autorità locali. Non gli tremò la voce quando tracciò di fronte alle alte cariche
politiche un’analisi della situazione del Paese e nemmeno quando ne indicò i responsabili. In quelle
occasioni più di un funzionario deve aver avuto la tentazione di alzarsi e andarsene, ma il suo gesto
avrebbe avuto conseguenze politiche troppo gravi.
Fedele al suo stile enigmatico e indiretto, Bergoglio non si rivolse mai apertamente a queste persone:
in presenza di Carlos Menem parlò di coloro che servono «a una mensa per pochi». Con Fernando de
la Rúa (il successore di Menem alla presidenza) seduto in prima fila, puntò il dito contro coloro che
si comportano come a un corteo funebre «in cui tutti consolano i parenti del defunto, ma nessuno si
carica la bara sulle spalle». Di fronte al presidente Néstor Kirchner parlò di corruzione, di
esibizionismo e di annunci chiassosi. Quello fu l’ultimo Te Deum di Bergoglio a cui assistettero i
coniugi Kirchner.
Per Bergoglio non fu organizzata una cerimonia di insediamento come primate di Argentina, perché la
nomina era avvenuta in seguito alla morte del suo predecessore. Dal momento in cui celebrò la messa
funebre per monsignor Quarracino, a cui parteciparono l’allora presidente Carlos Menem e
l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede, Esteban Caselli, Bergoglio divenne la massima
autorità dell’arcidiocesi di Buenos Aires. Papa Giovanni Paolo II inviò le sue condoglianze al nuovo
arcivescovo tramite un telegramma e in quell’occasione, con un meccanismo quasi automatico, gli
affidò il nuovo incarico.
Dopo la morte di Quarracino, Bergoglio passò un periodo in ritiro spirituale. Fece la sua prima
apparizione pubblica in occasione dell’omaggio che Menem rese al nunzio apostolico Ubaldo
Calabresi per i suoi cinquant’anni di sacerdozio. Il 18 marzo 1998, nel Salone Bianco della Casa de
Gobierno, gli occhi dei presenti non erano rivolti solo al nunzio o al presidente. «Chi è quello seduto
alla sinistra di Menem?» chiese un funzionario del governo. Quel pomeriggio Bergoglio comprese le
conseguenze del suo caparbio rifiuto per le apparizioni pubbliche: presso l’entourage presidenziale
la sua figura era del tutto sconosciuta.
I dodici apostoli di Bergoglio
Non era passato nemmeno un mese dalla sua nomina ad arcivescovo quando Bergoglio cominciò a
imporre le sue regole. In occasione della Settimana Santa, delegò ai suoi vescovi ausiliari il compito
di lavare i piedi ai fedeli che si erano recati alla cattedrale metropolitana per partecipare alle
celebrazioni del Giovedì Santo. Lui invece andò all’ospedale specializzato in malattie infettive
Francisco J. Muñiz, a Buenos Aires, e lavò i piedi a dodici ammalati di Aids. E glieli baciò. Inoltre
celebrò una messa alla quale presero parte pazienti, medici, personale ausiliario e familiari dei
degenti.
La visita fu un vero evento per l’ospedale pubblico. Anche se Bergoglio era pressoché sconosciuto,
il calore e l’affetto che dimostrò in quell’occasione, pregando per i malati e fermandosi ad ascoltare
le storie di tutti coloro che gli si avvicinavano, commossero più di uno tra i presenti. Era la prima
volta che un arcivescovo faceva un gesto simile. E non fu l’ultimo. Da allora, ogni anno Bergoglio ha
ripetuto il suo impegno di portare il rito fuori dalla chiesa per celebrarlo negli ambienti più
emarginati della società.
La notte del Giovedì Santo dell’anno seguente si aprì il cancello del carcere di Villa Devoto. Un
sacerdote con clergyman nero e valigetta portadocumenti uscì nelle strade buie di quella zona della
città e andò a prendere l’autobus numero 109 per tornare a casa. Era Jorge Bergoglio, che aveva
appena celebrato la messa per i carcerati dopo aver effettuato la lavanda dei piedi a dodici di loro.
Aveva conversato con i detenuti, si erano scambiati gli indirizzi e aveva dato loro dei consigli. Per
molti anni si mantenne in contatto con le persone che conobbe in quella e in altre visite che effettuò
presso l’istituto detentivo. I carcerati gli scrivevano e lui rispondeva a tutti con la macchina da
scrivere elettrica che aveva acquistato in Germania. «Rispondo a tutte le lettere. Mi richiede molto
tempo, ma non voglio smettere di farlo, mai» affermò una volta, quando gli posero una domanda in
proposito.
«Nel Vangelo Gesù ci dice che il giorno del Giudizio dovremo rendere conto del nostro
comportamento. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere,
ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e
siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). Il mandato di Gesù obbliga ciascuno di noi a comportarsi in
questo modo, e in particolare il vescovo, che è il padre di tutti» spiegò.
Il suo terzo Giovedì Santo in veste di arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio trasferì le celebrazioni
dell’Ultima Cena a Casa San José, nel quartiere Balvanera, che dà rifugio per la notte a ottanta
uomini senza fissa dimora e sfama ogni giorno oltre duecentocinquanta persone. In quell’occasione
lavò i piedi a dodici indigenti che vivevano per strada. Esortò i presenti a «farsi schiavi gli uni degli
altri, servendosi a vicenda, come aveva fatto Cristo lavando i piedi agli apostoli».
Anno dopo anno la messa del Giovedì Santo continuò a essere celebrata nelle aree più povere di
Buenos Aires. Bergoglio lavò e baciò i piedi ai bambini dell’ospedale pediatrico Juan P. Garrahan e
ai cartoneros, persone che vivono raccogliendo cartone e altri materiali dalla spazzatura per poi
rivenderli in Plaza Constitución.
Cinque anni prima di diventare Papa fu la volta della Villa 21-24 di Barracas. I dodici apostoli scelti
erano giovani che lottavano per sconfiggere la propria dipendenza dal paco (lo stupefacente ricavato
dagli scarti di lavorazione della cocaina) presso Casa Hurtado, un centro gestito dai curas villeros.
Quando i giovani hanno saputo che quel sacerdote era diventato Papa si sono riuniti per pregare per
lui nella chiesa di Nuestra Señora de Caacupé. Quei dodici ragazzi erano riusciti a disintossicarsi
dalla droga che miete un gran numero di vittime nelle villas de emergencia argentine, e da allora
lottavano ogni giorno per non ricadere in quel baratro che li aveva tenuti prigionieri per tanto tempo.
Era questo lo stile che contraddistingueva il nuovo arcivescovo. Già da tempo Bergoglio aveva
lasciato intendere con chiarezza quale fosse il suo modo per diffondere il messaggio cristiano: vicino
alla gente, sempre impegnato a portare la Chiesa dove ce ne fosse più bisogno.
Il primo Giovedì Santo del suo papato la tradizione si è ripetuta a Roma. Il mondo si è commosso
davanti alle immagini di Francesco che lavava i piedi a dodici detenuti di un carcere minorile. Era la
prima volta nella storia che un Papa compiva un gesto del genere, ha commentato la stampa
internazionale. Era la prima volta di Papa Francesco, ma non di padre Bergoglio.
Il 12 ottobre 1998 l’Arcivescovado organizzò due messe davanti allo zoo del quartiere Palermo di
Buenos Aires, a cui parteciparono novantacinquemila fedeli e durante le quali furono cresimate
ventunomila persone provenienti da tutti i quartieri della città, dalle zone più esclusive fino alle
baraccopoli più impenetrabili. Quell’anno era stato deciso che la cresima, invece di essere
amministrata nelle parrocchie, sarebbe stata impartita durante una messa congiunta per sensibilizzare
i cattolici sul sacramento meno praticato del percorso cristiano. Bergoglio in persona cresimò
cinquanta giovani, la maggior parte dei quali era portatrice di handicap. Li salutò uno per uno, li
baciò e si prestò a farsi fotografare con loro.
Mentre la cerimonia si avviava al termine, tra la folla comparve un manifesto con i colori della
bandiera boliviana. Diceva: «Mamita, fa’ che ci ridiano Edith». Era la supplica che una madre della
villa de emergencia di Bajo Flores rivolgeva alla Madonna perché sua figlia, sequestrata nella
baraccopoli, facesse ritorno a casa. L’arcivescovo interruppe la messa e chiese a tutti i presenti di
recitare un’Ave Maria per la giovane.
Nel 1998, durante la festa dei Santi Pietro e Paolo, Bergoglio dovette recarsi in Vaticano per
ricevere dalle mani di Giovanni Paolo II il pallio, cioè la stola bianca che l’arcivescovo porta sulle
spalle come simbolo di legittima autorità e di comunione con il Santo Padre e con la Chiesa di Roma.
Il pallio viene confezionato con la lana di due agnelli benedetti il 21 gennaio di ogni anno nella
basilica di Sant’Agnese fuori le mura, nella capitale italiana. Riceverlo conferisce la partecipazione
al ministero affidato da Gesù a Pietro, il primo Papa: «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15).
Quando il governo argentino gli prenotò il viaggio a Roma in prima classe, Bergoglio si presentò alla
Casa Rosada stringendo in mano il biglietto e, con grande sorpresa della segretaria, chiese che fosse
sostituito con uno in classe turistica.
A quel tempo il presidente Menem, che era a conclusione del suo secondo mandato e stava valutando
l’idea di modificare la Costituzione nazionale per poterne svolgere un terzo, cercò di avvicinarsi alle
alte sfere ecclesiastiche. Aveva bisogno di qualcuno che esercitasse un certo potere di persuasione
tra i vescovi più agguerriti della Conferenza Episcopale i quali, con monsignor Estanislao Karlic in
testa, l’avevano in più di un’occasione aspramente criticato. Alla vigilia di un nuovo pronunciamento
due funzionari menemisti cercarono di organizzare un incontro con Bergoglio, il cui basso profilo lo
rendeva ai loro occhi un potenziale interlocutore benevolente presso i vescovi. Ma non avevano idea
di quanto si stessero sbagliando.
«A otto mesi dall’inizio del mandato, in seguito alla morte del cardinale Quarracino, la gestione di
Bergoglio si caratterizza per uno stile spiccatamente pastorale, poco incline a dichiarazioni
estemporanee» pubblicò il quotidiano «La Nación» il 13 ottobre 1998. Dovevano trascorrere ancora
sette mesi perché emergesse il volto più «politico» dell’arcivescovo.
Il 25 maggio 1999, durante il Te Deum nella cattedrale metropolitana, Bergoglio lanciò un veemente
avvertimento al governo nazionale: parlò dell’«inevitabile scontro sociale, se miriamo a
un’Argentina in cui non tutti siedano a tavola, in cui solo pochi godano di benefici, in cui il tessuto
sociale si sfilacci e in cui le fratture si allarghino con il sacrificio di tutti: se continuiamo, la nostra
diventerà una società conflittuale». Le sue parole risuonarono nell’immensa navata centrale della
cattedrale, sotto lo sguardo attento del presidente della Repubblica e dell’allora sindaco di Buenos
Aires, Fernando de la Rúa.
Con piglio critico e frasi perentorie, l’arcivescovo si rivolse alla classe politica, senza distinzioni di
partito, che secondo lui non «affronta i problemi», e si lamentò del fatto che «alla fatica e alla
disillusione della società si riescono a contrapporre solo tiepide proposte o etiche scadenti, che si
limitano a enunciare principi e non fanno che sottolineare la predominanza della forma sulla sostanza.
O, peggio ancora, una crescente sfiducia e la perdita di interesse per qualunque impegno nel
perseguire il bene comune che sfocia nella volontà di vivere solo l’attimo, estrema negativa
conseguenza del consumismo dilagante».
Bergoglio avvertì: «L’ombra dello smembramento sociale si affaccia all’orizzonte mentre diversi
interessi giocano la loro partita, estranei alle necessità di tutti».
Questo discorso suscitò parecchi malcontenti tra i menemisti. I mezzi di comunicazione furono i primi
a sorprendersi di fronte allo stile del tutto inedito dell’arcivescovo. «Bergoglio ha debuttato nel suo
ruolo di primate» sentenziarono. «Ha inaugurato questo aspetto della sua attività episcopale con
un’omelia ricca di contenuti, con un discorso evangelico articolato applicato alla pressante realtà
sociale e politica» scrisse il giornalista José Ignacio López sul quotidiano «La Nación» il giorno
seguente.
Fino ad allora le omelie dell’arcivescovo durante i Te Deum erano sempre state recepite come
messaggi su temi esclusivamente religiosi. L’esortazione, la speranza e l’amore ne erano sempre stati
i punti cardine, arrivando persino a sfiorare la denuncia astratta. «Questa volta l’arcivescovo ha
deciso di svolgere in pieno il proprio ruolo e di pronunciare un discorso impegnato e speranzoso
rivolto in particolar modo alla dirigenza, invitandola a recuperare e a nutrirsi della “grandezza del
popolo”, un termine che monsignor Bergoglio ha utilizzato più di una volta» sottolineò López.
In quell’occasione il futuro Papa Francesco aveva inserito tre concetti che si sarebbero ripetuti nella
maggior parte delle sue successive omelie: la memoria, la pietà popolare e la rivalutazione della
grandezza del popolo in quanto tesoro spirituale, morale e storico della società.
Due mesi più tardi, durante una giornata della Pastorale sociale, Bergoglio affermò che «la Chiesa
non può far finta di nulla di fronte a un’economia di mercato capricciosa, fredda e calcolatrice».
Nel dicembre 1999 Fernando de la Rúa fu eletto presidente dell’Argentina e Carlos «Chacho»
Álvarez divenne il vicepresidente. Nell’ambito delle celebrazioni previste per l’insediamento fu
incluso il Te Deum alla cattedrale. Bergoglio non si mostrò condiscendente nemmeno vedendoli
seduti ai primi banchi insieme alle rispettive famiglie: nella sua omelia esortò le nuove autorità ad
alzare lo sguardo al cielo per «chiedere il dono della saggezza» e poi rivolgerlo alle persone che
avevano intorno, perché «governare significa servire ciascuno dei fratelli che compongono il nostro
popolo».
«Quando una persona si dimentica di guardare in alto per chiedere il dono della saggezza» affermò
«cade nell’errore assai nefasto della sufficienza, e da essa nella vanità e nell’orgoglio… Non
possiede la saggezza.» E avvertì che «quando una persona dimentica di guardarsi intorno, vede solo
se stessa o la propria cerchia e perde di vista il popolo.» Fu conciso e diretto. Quando arrivò il
momento previsto, pregò per le nuove autorità. «Per Fernando e Carlos» disse, chiamandoli solo con
i loro nomi di battesimo, senza aggiungere altisonanti cariche.
Il 25 maggio del 2000 quegli stessi uomini politici si sedettero di nuovo ai primi banchi della
cattedrale, proprio di fronte a lui, e in quell’occasione rincarò la dose: «Il sistema politico è caduto
in un vasto cono d’ombra: l’ombra della sfiducia. La società argentina sembra marciare in un triste
corteo funebre in cui tutti consolano i parenti del defunto, ma nessuno si carica la bara sulle spalle»
sentenziò con tono lapidario.
«Alzati, Argentina!» tuonò nell’omelia del Te Deum. «Se non congiungiamo i nostri sforzi nel
perseguimento di un fine comune non ci saranno né fiducia né pace; finché non si renda effettiva la
nostra conversione non proveremo né gioia né piacere. […] Sull’esempio di Cristo, bisogna avere il
coraggio di rinunciare al potere che travolge e acceca, e al suo posto accettare di esercitare l’autorità
che aiuta e favorisce gli altri. Solo pochi conoscono e detengono il potere finanziario e politico, ma
una comunità attiva, che è solidale e in cui ciascuno lavora fianco a fianco, può far avanzare la barca
del bene comune» aggiunse.
Le dure parole dell’arcivescovo aprirono la strada a una crisi nel governo. Bergoglio aveva
compreso che il presidente si era seduto sugli allori dopo il successo elettorale ottenuto
sconfiggendo, dopo un decennio di potere assoluto, il menemismo, ma non era riuscito a promuovere
riforme significative per combattere le ingiustizie sociali nate dal nuovo modello economico. Il
governo continuava a dare la colpa ai predecessori e all’eredità ricevuta biasimando le pessime
decisioni del passato, ma nessuno si prendeva la responsabilità di effettuare i cambiamenti necessari.
La crisi era imminente. Tuttavia, nonostante i severi ammonimenti dell’omelia, Fernando de la Rúa
non si sentì chiamato in causa. I giorni seguenti, quando i giornalisti lo raggiunsero per chiedergli un
commento, il presidente evitò di esporsi, rispondendo in modo interlocutorio: «Monsignor Bergoglio
è un uomo santo e saggio e in linea generale concordo con le sue parole. Sono state molto profonde e
adeguate alla situazione attuale, in cui appare evidente la necessità di rinsaldare i legami sociali. Il
messaggio non è stato duro, né critico. L’ho interpretato come una diagnosi della situazione sociale
argentina».
L’anno seguente, mentre la crisi sociale si acuiva, le critiche si inasprirono. Quando De la Rúa si
sedette di nuovo in prima fila nella cattedrale con la fascia presidenziale posta di traverso sul petto,
Bergoglio tornò alla carica: «Dicono di ascoltare ma non ascoltano, applaudono in modo meccanico
senza capire, oppure sono convinti che si stia parlando di qualcun altro» inveì.
In un’altra occasione, quello stesso anno, paragonò i politici a degli «avvoltoi» che puntano solo a
conquistare il potere e deplorò che in Argentina la vocazione al servizio fosse diventata «sinonimo di
egoismo». Il 7 agosto 2001, durante la processione di San Cayetano, Bergoglio lanciò un nuovo
monito sulla profonda crisi sociale che stava esplodendo. Davanti ai fedeli radunati nel quartiere
Liniers di Buenos Aires denunciò «le contrastanti immagini della realtà» con i poveri «perseguitati
perché chiedono un lavoro» e i ricchi che «eludono la giustizia e, come se non bastasse, vengono
applauditi».
Il 21 gennaio 2001 si diffuse la notizia che Giovanni Paolo II aveva convocato Bergoglio per
partecipare all’ottavo concistoro del suo pontificato, durante il quale lo avrebbe creato cardinale. La
prima telefonata di congratulazioni che ricevette fu quella della sua maestra elementare, che aveva
appreso la novità dalla radio. Dopo arrivarono le altre, anche quella di Fernando de la Rúa.
Quando gli fu chiesto come avesse reagito alla notizia e se sentiva di aver raggiunto l’apice,
Bergoglio rispose di no. «Non vivo questa nomina come un punto di arrivo. Secondo il Vangelo, ogni
ascesa reca una discesa: bisogna scendere in basso per servire meglio il prossimo. E voglio
accogliere questa nomina con spirito di servizio» dichiarò. Aveva mai sognato quel giorno? «No, non
ci avevo mai pensato.» E aveva mai accarezzato l’idea di diventare Papa? «Non mi è neanche
passato per la testa!» Non lo viveva come un onore? Assicurò di no e aggiunse che il prezioso
zucchetto era «un onore per la diocesi di Buenos Aires e non per la mia persona in particolare».
Cosa gli sarebbe dispiaciuto di più? «Non poter confessare il popolo» rispose. E raccontò che non
solo ascoltava le confessioni nella cattedrale metropolitana, ma che il 27 di ogni mese andava a
confessare alla chiesa di San Pantaleón, nel quartiere Mataderos. Inoltre, quando partecipava al
pellegrinaggio dei fedeli alla basilica di Luján, a sessanta chilometri dalla città di Buenos Aires, gli
piaceva sedersi ad ascoltare le confessioni dei giovani. Era il suo modo di mantenersi in contatto con
loro, di capire quale realtà vivevano, come vedevano il mondo.
«Nel confessionale si percepisce la santità del popolo di Dio. Lì dentro gli uomini e le donne
mostrano la propria dignità di figli di Dio, si sentono peccatori e al contempo amati con misericordia
dal Padre» spiegò. Lui stesso andava a confessare i propri peccati a un sacerdote piuttosto anziano
nella chiesa del Salvador, sulla centralissima avenida Callao.
Il 21 febbraio 2001 Bergoglio uscì dalla Casa del Clero di Roma, dove aveva dormito. Tutti i
vescovi aspettavano alla reception le lussuose vetture che li avrebbero portati al Vaticano per la
cerimonia di consacrazione. Lui no. Uscì a piedi, vestito di rosso e a passo rapido. Dopo duecento
metri si fermò ed entrò in un bar per bere un caffè ristretto.
Quando la cerimonia si fu conclusa, il cardinale, fedele alle sue abitudini tornò a piedi da Piazza San
Pietro alla Casa Internazionale del Clero; solo che questa volta indossò un soprabito nero sopra il
fiammante abito color porpora.
Molti considerano l’11 settembre 2001 il giorno che cambiò il mondo. Ciò che si può affermare con
certezza è che gli attentati contro le Torri Gemelle a New York in qualche modo influenzarono
l’elezione di Papa Francesco.
Sette mesi dopo la consacrazione di Bergoglio come cardinale, Giovanni Paolo II convocò il primo
Sinodo dei vescovi del terzo millennio e rivolse ai vescovi di tutto il mondo l’invito a essere
«effettivamente poveri» per risultare credibili e stare a fianco degli esclusi. Forse il futuro Francesco
era uno dei pochi ad aver abbracciato quella strada in modo autonomo.
Il cardinale e arcivescovo di New York Edward Egan sarebbe dovuto essere il relatore
dell’Assemblea generale ordinaria del Sinodo, ma quando gli attentati colpirono la sua città
mancavano pochi giorni all’evento e fu costretto a partire subito. Perciò il Papa nominò Bergoglio
suo sostituto.
Il cardinale argentino assunse un compito di enorme importanza e lo svolse in maniera ineccepibile.
Gli altri vescovi rimasero stupefatti dal suo intervento, nel quale parlò di vescovi poveri, credibili,
disposti a stare accanto agli esclusi.
Nella sala stampa del Vaticano Bergoglio illustrò il lavoro del Sinodo e rispose ai giornalisti: «La
forza della Chiesa» affermò «risiede nella comunione; la sua debolezza nella divisione e nella
contrapposizione».
La sua nomina significò molto più che un gesto concreto per Bergoglio. Sempre più apprezzato dai
suoi pari e dalla curia nonostante il suo basso profilo, si stava guadagnando il rispetto anche degli
altri partecipanti. Fu allora che il suo nome cominciò a comparire tra i papabili del Vaticano.
Da quell’11 settembre il mondo era cambiato per sempre. Prima di recarsi a Roma, Bergoglio si era
trovato con il presidente Fernando de la Rúa nella cappella della Casa Rosada a pregare per le
vittime degli attentati e per chiedere la pace. «Che non ci siano rappresaglie né altre morti.»
Domandò inoltre che coloro che avevano il potere di decidere nel mondo «si lasciassero conquistare
dalla grazia di Dio, la quale consente di scoprire che gli uomini e i popoli possono vivere uniti» e li
esortò a mettere in pratica questo proposito.
Quella sera presenziò anche a una preghiera ecumenica sotto l’Obelisco, nel centro della città. Scelse
di leggere la preghiera di San Francesco d’Assisi: «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace.
Dov’è l’odio, fa’ ch’io porti l’amore, dov’è l’offesa, ch’io porti il perdono…». Dopo la cerimonia
tornò a passo spedito verso la cattedrale, che dista circa cinquecento metri. Mentre camminava
meditava sugli avvenimenti di quegli ultimi giorni e continuava a ripetere tra sé le parole di San
Francesco: «Fa’ di me uno strumento della tua pace».
Pace: era proprio quello di cui aveva bisogno l’Argentina. In quei giorni infatti si avvicinava una
delle peggiori crisi istituzionali della sua storia. Bergoglio era inquieto per il clima di agitazione
sociale che si respirava.
Nell’agosto 2001 la Conferenza Episcopale Argentina, della quale era vicepresidente, aveva diffuso
un documento in cui illustrava la delicata situazione che attraversava il Paese. Il testo identificava il
«crudo liberalismo» come «una delle malattie sociali più gravi» di cui soffriva il Paese. Reclamava
una «rete sociale» per contenere la povertà e condannava «altre due malattie»: l’evasione fiscale e lo
sperpero di denaro pubblico, e cioè del «denaro sudato dal popolo». Il documento si concludeva con
una critica «al debito estero, che aumenta di giorno in giorno e ci impedisce di crescere».
La Chiesa aveva lanciato un allarme innescato, tra le altre cose, dalle preoccupanti notizie che
giungevano dalle parrocchie. In tutti i quartieri la crisi si traduceva in famiglie che non riuscivano a
far fronte alle proprie necessità primarie, in persone strozzate dai debiti e in un clima di grande
incertezza e agitazione sociale. Gli uffici dell’Arcivescovado, che in genere solo saltuariamente
ricevevano richieste di aiuto dalle parrocchie, ora ne erano oberati. L’azione pastorale al fianco
della gente svolta dai sacerdoti aveva fornito alla Chiesa i dati per misurare la gravità della crisi. La
Caritas argentina si era incaricata di raccogliere le informazioni e di tracciare un quadro preciso
della situazione.
In ottobre il partito di Fernando de la Rúa perse le elezioni legislative per il rinnovo del senato e in
novembre il governo varò un pacchetto di misure economiche per affrontare la crisi. Fu così che
all’inizio di dicembre venne disposto il corralito finanziario, ovvero la restrizione della libera
disposizione del denaro contante su conti correnti e depositi.
Il 18 dicembre 2001, ventiquattro ore prima degli eventi che scatenarono la fine del governo di
Fernando de la Rúa, Bergoglio decise di effettuare alcune telefonate. I destinatari erano governatori,
funzionari, legislatori, imprenditori e sindacalisti, che convocò nella sede della Caritas in calle
Defensa al numero 200, a pochi metri dalla Casa de Gobierno, per un incontro in cui la Chiesa
avrebbe presentato una relazione congiunta con le Nazioni Unite sulla diffusione della povertà in
Argentina.
Avevano confermato la loro presenza Carlos Menem, allora presidente del Partito giustizialista, il
leader del sindacato Confederazione Generale del Lavoro Rodolfo Daer, il senatore Raúl Alfonsín, il
governatore di Córdoba José Manuel de la Sota e molti altri. Il presidente era stato invitato
caldamente a partecipare, ma declinò assicurando che avrebbe mandato in sua rappresentanza il
ministro dell’Interno Ramón Mestre e il capo del gabinetto Chrystian Colombo.
Da oltre un mese il governo nazionale si era impegnato in una serie di incontri con dirigenti di tutte le
parti politiche e con diversi referenti sociali. La concertazione aveva lo scopo di favorire il dialogo
per evitare il collasso della società. La Chiesa aveva svolto un compito fondamentale nel tentativo di
avvicinare le parti, ma non per questo aveva abbassato i toni della denuncia. «La Chiesa contesta la
corruzione generalizzando: questo è un atteggiamento ingiusto. Non tutti rubano, non tutti ricevono
tangenti» obiettò l’allora segretario generale della presidenza, Nicolás Gallo.
L’incontro convocato da Bergoglio non ebbe mai luogo. Mentre l’arcivescovo chiamava gli
interessati, era già cominciato il conto alla rovescia della bomba sociale che sarebbe scoppiata il
giorno seguente.
Di lì a poco fu la fine. Alla grave crisi diffusa e all’angoscia di cui erano preda le famiglie a cui il
corralito aveva confiscato i risparmi di una vita si aggiunsero agitatori sociali decisi ad accelerare
lo scioglimento del governo. Ci furono saccheggi, proteste, marce, caceroladas (manifestazioni) e
violenti scontri con la polizia che si protrassero per due giorni. Il bilancio finale fu tragico: 39
persone persero la vita e 350 rimasero ferite.
Quando gli scontri tra i manifestanti e la polizia si aggravarono in Plaza de Mayo, Bergoglio ne fu un
testimone privilegiato. Mentre molti argentini seguivano il corso degli eventi alla televisione, il
cardinale rimase affacciato alla finestra del suo ufficio nella sede dell’Arcivescovado, che dà sulla
piazza. Raccontano i suoi collaboratori che quando vide la polizia picchiare una donna prese il
telefono e chiamò indignato l’allora ministro dell’Interno per chiedergli, anzi pretendere, che si
facessero distinzioni tra gli agitatori e gli onesti risparmiatori che protestavano perché il frutto di
un’intera vita di lavoro era diventato inaccessibile a causa del corralito.
«Dobbiamo apprezzare la maturità di questo nuovo tipo di protesta, finora inedito nel nostro Paese e
grazie al quale la gente, senza essere aizzata da nessuno, senza essere sobillata da alcun partito
politico, scende in strada per chiedere che le sue istanze vengano ascoltate» dichiarò Bergoglio in un
comunicato che l’Arcivescovado diffuse il giorno seguente. «La protesta chiede la fine della
corruzione.»
La sera del 20 dicembre il presidente si dimise.
La crisi del 2001 cambiò in maniera radicale il modo in cui Bergoglio interveniva nelle questioni
politiche. Così come prima si era caratterizzato per la sua opera sociale e per aver esercitato la
denuncia dal pulpito, a partire dall’acuta crisi che fece traballare le basi stesse dell’identità
nazionale l’arcivescovo si offrì come propiziatore del dialogo tra le parti.
Prima dello scoppio della crisi, l’allora ambasciatore spagnolo in Argentina Carmelo Angulo aveva
chiesto a Bergoglio un incontro al quale avrebbe assistito con alcuni dei suoi collaboratori. Era un
sabato pomeriggio e nel centro della città c’era pochissima gente. «Sì, certamente, vi aspetto.
Suonate il clacson e vi aprirò» fu la risposta del cardinale. Angulo salì sull’auto diplomatica e
quando arrivò davanti al portone della residenza apostolica l’autista suonò il clacson. Bergoglio in
persona scese ad aprire. Impressionato, l’ambasciatore si complimentò per quel gesto di semplicità.
«Perché si stupisce? Noi vescovi siamo qui per questo: aprire le porte» fu la sua risposta.
Le segretarie di Bergoglio sapevano bene che se la sua piccola agenda nera avesse potuto parlare
avrebbe rivelato moltissimi segreti. A differenza dei suoi predecessori, l’arcivescovo concedeva
udienze sia la mattina sia il pomeriggio. E gestiva gli orari di persona.
Dopo gli avvenimenti che misero sotto scacco la continuità istituzionale della nazione, Bergoglio
organizzò alcune riunioni chiave. Convocò sindacalisti, impresari, oppositori e anche i rappresentanti
di altri credi e organizzazioni non governative. Era arrivato il momento di compiere un gesto che
molto spesso aveva auspicato dal pulpito: promuovere la cultura dell’incontro. E di fronte alla
gravità della crisi, tutti sembravano disposti a collaborare.
Quando Eduardo Duhalde assunse la presidenza ad interim, dopo il rapido avvicendamento di altri
candidati che non ottennero l’appoggio politico necessario per mantenere l’incarico, Bergoglio andò
a fargli visita alla Casa Rosada.
Il 7 gennaio 2002 il nuovo presidente lo ricevette e il loro incontro durò un’ora e mezza. Bergoglio vi
partecipò insieme a monsignor Karlic, il presidente della Conferenza Episcopale, per comunicargli
la sua decisione di intraprendere una «partecipazione attiva» al fine di dare continuità al dialogo
avviato nella sede della Caritas negli ultimi giorni del governo di De la Rúa.
I vescovi proposero che la Chiesa fosse il «contesto spirituale» e al tempo stesso la garanzia per un
«dialogo tra diversi settori che aiuti a raggiungere il consenso sulle grandi politiche dello Stato». Fu
l’inizio del cosiddetto «tavolo di dialogo».
I mesi seguenti non furono semplici. Non tutto si risolveva nel confronto e nell’incontro pacifico. Le
necessità da lungo tempo rimandate cominciarono a esplodere prima che si potesse intravedere una
via d’uscita. Nelle province del nord del Paese i bambini morivano a causa della denutrizione e non
c’era lavoro. Messisi a disposizione di Duhalde per favorire il dialogo, i vescovi lanciarono la loro
accusa. Appena un mese dopo il giuramento da presidente gli presentarono un documento in cui
criticavano aspramente la concertazione. Sottolineavano la mancanza di impegno da parte di banche,
imprese e della Corte Suprema di Giustizia.
«Noi vescovi siamo stanchi di politiche che non fanno che aumentare il numero dei poveri, di cui poi
è la Chiesa a doversi fare carico. Il sistema assistenziale dello Stato è insufficiente, perché i più
bisognosi ricevono appena un quaranta per cento delle somme a loro destinate, mentre il resto si
perde lungo la strada della corruzione» protestò Bergoglio.
A differenza di quanto avvenuto con altri presidenti, quando Bergoglio esternò la sua denuncia i
funzionari di Duhalde non lo isolarono. Al contrario: lo cercarono ancora di più. Nel 2002 José
Ignacio de Mendiguren, leader di una delle organizzazioni sindacali più influenti, l’Unione
Industriale Argentina, e allora ministro dello Sviluppo, gli chiese di diventare il suo confessore. La
gente era rabbiosa e violenta e lui aveva paura addirittura di scendere dall’auto in strada nel timore
di ritorsioni. «Bergoglio ci appoggiò con il dialogo sociale e mi aiutò molto dal punto di vista
emotivo» dichiarò De Mendiguren.
Arrivò il giorno del Te Deum del 25 maggio, e toccò a Duhalde sedersi al primo banco nella
cattedrale metropolitana. Bergoglio lo affrontò in modo diretto. Lanciò un drammatico appello agli
argentini perché ricostruissero la Repubblica attraverso il rispetto della legge. «Il Paese è sull’orlo
della dissoluzione nazionale» tuonò, e attaccò con durezza coloro che, «invece di rappresentare la
gente», pretendono di «mantenere i propri privilegi, soddisfacendo la propria rapacità e senza
rinunciare ai propri introiti ingiustamente guadagnati».
Esortò inoltre a stare allerta: «Nelle nostre strade si sta scatenando una guerra sorda, la peggiore di
tutte: quella dei nemici che pur convivendo non si vedono tra loro, perché i rispettivi interessi si
incrociano, maneggiati da squallide organizzazioni criminali e da solo Dio sa cos’altro, approfittando
dell’abbandono sociale, dell’indebolimento dell’autorità, del vuoto legale e dell’impunità».
Più di una volta insistette presso le autorità perché si assumessero la responsabilità di «far rispettare
la legge» e di «riscattare dal fondo dell’anima il lavoro e la solidarietà generosa, la lotta egualitaria,
la conquista sociale e la creatività».
All’uscita della cattedrale Duhalde si rifiutò di rispondere ai giornalisti. Si limitò a fare un gesto con
la mano e un’espressione che significava: «Cosa posso dire?».
Le parole e l’esempio di Bergoglio gli avevano dato una lezione. Quel pomeriggio Duhalde
attraversò Plaza de Mayo a piedi per fare ritorno alla Casa Rosada. Era contrariato, ma in seguito fu
grato al cardinale per il suo coraggio e per essersi assunto il ruolo di promotore del dialogo in quei
giorni difficili.
«Nel turbine della crisi del 2001 Bergoglio assunse un ruolo chiave in quello che è stato chiamato il
“dialogo argentino”» ha scritto Duhalde in un articolo pubblicato sul quotidiano «La Nación» cinque
giorni dopo l’elezione del nuovo Papa. «È vero: tutti noi argentini siamo riusciti a uscire da quella
che, ne sono certo, la storia considererà una delle nostre maggiori crisi. Ma ci sono state figure
provvidenziali in questo riscatto, personalità gigantesche che, evitando con modestia di occupare il
centro della scena, sono state determinanti affinché non cadessimo nella dissoluzione sociale, che in
quell’epoca era un rischio concreto. Jorge Bergoglio fu una di queste.
«Quando nessuno avrebbe scommesso nemmeno un centesimo sulla nostra amministrazione, la Chiesa
cattolica argentina e la sua Conferenza Episcopale insistettero nella possibilità di trovare insieme
una via d’uscita. Mentre il governo di cui ero presidente lottava per sopravvivere, il “dialogo
argentino” continuò a riunire nuovi interlocutori e ad ampliare i propri orizzonti, trasformandosi in
una centrale programmatica. Si stabilirono basi chiare per ottenere gli indispensabili consensi;
furono discusse e proposte soluzioni, sia immediate sia a lungo termine, a problematiche molto
diverse tra loro, come la salute, la riforma politica, la riforma socioeconomica e la suddivisione e
interazione dei tre poteri dello Stato. Consapevole di trovarsi sull’orlo dell’abisso, la società stava
facendo un tentativo di salvare le istituzioni minate dai loro stessi errori e braccate dalla rabbia
popolare. Bergoglio non era indifferente alla politica: come milioni di argentini, ma con maggiore
chiarezza rispetto alla gran parte di noi, si sentiva completamente identificato con la causa della
giustizia sociale.»
Senza immaginarlo, Bergoglio divenne, insieme a molti altri, l’artefice di una transizione istituzionale
che, per effetto delle elezioni, avrebbe portato alla presidenza colui che sarebbe diventato il suo più
tenace antagonista: Néstor Kirchner.
Kirchner assunse la presidenza della Repubblica Argentina il 25 maggio 2003 e attese diversi mesi
prima di ricevere gli alti rappresentanti della Chiesa cattolica. Secondo lo storico Julio Bárbaro (che
aveva conosciuto il futuro Papa Francesco durante l’epoca della Guardia di Ferro), Bergoglio chiese
al neopresidente di favorire un avvicinamento. «Fu uno dei miei tanti insuccessi politici: il mio
amico Néstor non era particolarmente interessato alle questioni spirituali» spiegò. Poco dopo ebbe
luogo un «incontro cordiale» con le autorità della Conferenza Episcopale, ma niente di più. Kirchner
non avrebbe mai acconsentito all’ingerenza dell’arcivescovo di Buenos Aires. Ma, come era
avvenuto con i suoi predecessori, anche per lui arrivò il momento di sedersi nella prima fila della
cattedrale metropolitana. Il Te Deum del 25 maggio 2004 fu il primo e l’ultimo al quale assistette il
presidente.
Nella sua omelia Bergoglio parlò di «esibizionismo» e di «annunci chiassosi». Fu un messaggio
critico e criptico che descriveva con particolare acume la gestione del presidente. Bergoglio utilizzò
la sua peculiare retorica per richiamare tutti ad assumersi le proprie responsabilità. Ma non per
prendere le distanze: parlava sempre al plurale, includendosi tra i peccatori. In quell’occasione, a
differenza dei presidenti precedenti, che ascoltavano il Te Deum con espressioni impietrite, si
guardavano intorno come se il sacerdote stesse parlando di qualcun altro o incassavano il colpo
abbassando il capo, Néstor Kirchner capì che l’arcivescovo stava parlando a lui e decise di non
sedersi mai più su quel banco.
«Questo popolo non crede negli stratagemmi menzogneri e mediocri. Coltiva speranze, ma non si
lascia illudere da soluzioni fantasiose nate da oscuri intrighi e dalle pressioni del potere. Non lo
confondono i discorsi; è stanco della narcosi della vertigine, del consumismo, dell’esibizionismo e
degli annunci chiassosi.
«Diffamare e parlare a vuoto, trasgredire facendosi propaganda, negare i propri limiti, imbastardire
o sopprimere le istituzioni sono solo alcuni dei molti stratagemmi con cui la mediocrità si nasconde e
si protegge, disposta a eliminare ciecamente tutto ciò che la minacci. È l’epoca del “pensiero
debole”. E se giunge una parola saggia, cioè se qualcuno incarna la sfida della grandezza anche a
costo di non poter realizzare gran parte dei nostri desideri, allora la nostra mediocrità non si placa
finché non l’avrà fatto precipitare. Vengono gettati dalla rupe eroi nazionali, uomini illustri, artisti,
scienziati o semplicemente coloro il cui pensiero va oltre l’incosciente retorica dominante» affermò
il cardinale. «Lo scopriamo troppo tardi» rincarò quel giorno. Quasi una premonizione di come il
kirchnerismo avrebbe scoperto le sue qualità di pastore.
L’anno successivo Kirchner giustificò la propria assenza al Te Deum adducendo l’impegno di un
viaggio a Santiago del Estero, dove poteva contare su un vescovo a lui più vicino: Juan Carlos
Maccarone, oggi in pensione. Sfuggì così al faccia a faccia con l’arcivescovo di Buenos Aires, che si
apprestava a esporre un’altra cruda lettura della realtà della sua amministrazione.
Il 30 dicembre 2004 si verificò un evento gravissimo. L’incendio della discoteca República
Cromañón durante lo spettacolo della rock band Callejeros provocò la morte di 194 giovani, 1432
feriti e migliaia di famiglie sconvolte dal dolore della perdita e dalla sensazione di essere
abbandonati dalla giustizia. L’incendio nel locale del quartiere Once di Buenos Aires rivelò
un’oscura trama di corruzione, connivenza, copertura, negligenza e imperizia che coinvolse
tantissime persone, tra cui impresari, funzionari e persino membri della polizia federale. Era un’altra
ferita aperta che svuotava di senso le istituzioni e minava la loro credibilità. Appena si diffuse la
notizia della tragedia, prima ancora che si capisse di preciso cosa fosse successo, Bergoglio corse
accanto ai familiari delle vittime per offrire loro il proprio sostegno.
Si recò negli ospedali in cui erano stati ricoverati i giovani per portare conforto ai genitori e sollievo
ai feriti. Diede l’estrema unzione a sette ragazzi in punto di morte. Poco dopo tuonò contro quel «non
necessario sacrificio di giovani». Quella sera ricevette un telegramma del Papa: «Sono addolorato
per la sconvolgente notizia dei numerosi morti, tra i quali si contano così tanti giovani». Bergoglio
rimase accanto alle famiglie delle vittime e ai sopravvissuti. Un mese dopo celebrò una messa per
loro e, nel pieno della tensione politica che la tragedia aveva scatenato nell’amministrazione di
Buenos Aires, chiese con fermezza: «Che la preghiera scuota e risvegli questa nostra città in lutto
affinché non riponga le sue speranze nei potenti bensì nel Signore e capisca una volta per tutte che
con i bambini e i giovani non si fanno esperimenti! […] Raccontiamo al Signore quello che ci è
successo. Diciamogli che non siamo potenti, né ricchi, né importanti; ma che soffriamo
profondamente. Chiediamogli di consolarci e di non abbandonarci, perché vogliamo essere il popolo
povero e umile che si rifugia nel nome del Signore. Un dolore che non si può esprimere a parole, un
dolore che si è abbattuto su intere famiglie; veniamo a cercare rifugio nel nome del Signore. Gli
chiediamo giustizia, gli chiediamo che questo popolo umile non venga preso in giro».
L’impegno preso con i familiari non si esaurì nell’omelia. Da allora ha sempre partecipato alla
messa che viene organizzata ogni 30 dicembre e in quell’occasione ha rinnovato, anno dopo anno, la
sua richiesta di giustizia. «È un dolore per il quale non abbiamo pianto a sufficienza. Questa città
saprà conservare la sua memoria o lascerà che venga sopraffatta dal rumore, di modo che le 194
campane che suonano ogni 30 dicembre non possano essere udite? Non possiamo concederci il lusso
di far finta di niente, di ignorare coloro che propiziano la cultura della morte» affermò durante la
messa per il quinquennale dell’incendio. Inoltre è ancora in contatto con i familiari e li chiama
spesso in occasioni importanti o per stare al loro fianco, confortarli o semplicemente per sapere
come stanno.
La notizia della morte di Giovanni Paolo II aprì una nuova tappa nella vita di Bergoglio. Karol Józef
Wojtyła morì il 2 aprile 2005 a ottantaquattro anni e dopo quasi ventisette di pontificato, uno dei più
lunghi della storia. Si aprì così la strada per la successione che si concluse con l’elezione del
tedesco Joseph Ratzinger, braccio destro di Giovanni Paolo II. Tuttavia, durante il concilio del 2005,
Bergoglio divenne il secondo cardinale più votato e circolarono voci secondo cui avrebbe declinato
l’elezione perché Ratzinger potesse radunare la quantità di voti necessaria. Tali dicerie, però, non
sono mai state confermate, perché i cardinali partecipanti al conclave sono tenuti al segreto e
violarlo potrebbe comportare la scomunica (si veda il capitolo 11, Quando Dio vota: elezioni in
Vaticano).
La partecipazione di Bergoglio all’ultimo Sinodo dei vescovi deve essere stata decisiva perché la
sua figura, senza essere mai stata promossa o appoggiata da nessuno in particolare, assumesse tanta
rilevanza all’interno del Consiglio episcopale latinoamericano.
La caratteristica pastorale che l’aveva contraddistinto nell’arcidiocesi di Buenos Aires era stato il
suo impegno volto a favorire la funzione di assemblea della Chiesa e a spingere sacerdoti e fedeli a
superare le barriere, a portare il Vangelo nelle strade.
Il protagonismo di Bergoglio al conclave fu motivo di enorme disappunto per il presidente Kirchner
e rafforzò la sua decisione di non assistere ai Te Deum. E la sua elezione a presidente della
Conferenza Episcopale Argentina l’8 dicembre del 2005 con una maggioranza schiacciante fu un
colpo ancora più duro.
Dopo la votazione nella novantesima Assemblea Plenaria, che si svolse nella casa di preghiera La
Montonera nella città di Pilar, nella provincia di Buenos Aires, il quotidiano «La Nación» scrisse
che l’elezione era stata «semplicissima». Alla prima tornata di voti il cardinale primate e
arcivescovo di Buenos Aires superò ampiamente i due terzi delle preferenze necessari per essere
eletto presidente in sostituzione dell’arcivescovo di Rosario, monsignor Eduardo Mirás, che aveva
concluso il suo mandato triennale. La scelta di una figura in disaccordo con Kirchner venne accolta
dal governo nazionale come «una provocazione» da parte dei vescovi. Questa sensazione crebbe
ancor di più quando la Conferenza Episcopale, in occasione delle elezioni dei suoi vertici, diffuse
una «lettera al popolo di Dio»: il documento Una luce per ricostruire la nazione, in cui i vescovi
avvertivano dei rischi e delle mancanze che percepivano sul terreno politico e sociale.
Il documento parlava di crescita «scandalosa» della diseguaglianza sociale, che poteva degenerare in
«pericolosi scontri» e in «manifestazioni violente da parte degli esclusi».
«In una società in cui cresce l’emarginazione non ci sarebbe da stupirsi di fronte a manifestazioni
violente da parte degli esclusi dal mondo del lavoro, che potrebbero degenerare in pericolosi scontri
sociali» sottolineava la lettera. In un altro passaggio denunciava la mancanza di lavoro «dignitoso e
stabile» in Argentina e giudicava quella situazione come una delle «peggiori disgrazie» di cui
soffriva il Paese e delle cui dimensioni non esisteva nemmeno un’idea precisa.
I vescovi reclamavano anche «politiche ferme e durature il cui garante sia lo Stato» ed esprimevano
la loro preoccupazione per «la mancanza di educazione a tutti i livelli» e «la precarietà dei servizi
per la salute».
La lettera pastorale indispettì Kirchner, anche se in un primo momento decise di rispondere con il
silenzio. Il presidente si trovava a El Calafate, nella provincia di Santa Cruz, per definire quello che
sarebbe diventato il suo nuovo consiglio dei ministri, quando fu informato del tono delle denunce.
«Tutto quello che proviene da Bergoglio lo rende molto nervoso, irritabile. Gli va di traverso e lo fa
infuriare» confidò il giorno seguente un uomo di fiducia dei coniugi Kirchner al quotidiano «La
Nación».
Nell’entourage presidenziale si aveva la sensazione che si trattasse della risposta dei vescovi
all’assenza del presidente all’ultimo Te Deum. Cinque giorni più tardi arrivò la dura replica ufficiale
della Casa Rosada: «Non si attiene alla realtà» attaccò il presidente Kirchner. I vescovi «si
sbagliano» e le loro affermazioni assomigliano a «quelle di un partito politico». Mano a mano che
parlava il tono delle sue accuse cresceva. «Che si guardino dentro» aggiunse.
In quegli anni il dialogo tra il governo e la Chiesa si rivelò impossibile da intavolare. Nel 2006
Kirchner cominciò a considerare Bergoglio come l’esponente di un partito d’opposizione. «Il nostro
Dio è di tutti; ma attenzione, perché anche il diavolo arriva a tutti. A quelli che usano i pantaloni e a
quelli che usano le sottane.»
Alcuni ritengono che la figura di Bergoglio risultò funzionale alla retorica kirchneriana del primo
periodo. Non potendolo trasformare nel «nemico degli esclusi» né accusarlo di essere «contrario alla
fratellanza latinoamericana», cercarono di contrastarlo appellandosi a un altro dei capisaldi retorici
di Kirchner: la lotta contro le violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura militare. I
sostenitori del presidente si accanirono contro Bergoglio senza sapere quale fosse stata la sua
effettiva partecipazione a quegli eventi e caddero in un revisionismo storico falso e disonesto.
Durante quel periodo di profonda distanza tra la politica e la curia, il presidente inviò a Bergoglio
diverse richieste di udienza. Tuttavia gli incontri non ebbero mai luogo perché, secondo fonti vicine
al futuro Papa Francesco, sia il presidente Kirchner sia sua moglie, Cristina Fernández (che gli
succedette al potere nel dicembre 2007) pretendevano che si svolgessero presso la Casa Rosada. Ma
Bergoglio non si rese disponibile e non diede loro la soddisfazione di vederlo attraversare Plaza de
Mayo per andare a suonare alla loro porta. «Se sono loro a chiedere udienza perché vogliono parlare
con me, la cosa più logica è che siano loro a venire nel mio ufficio» fu il commento del cardinale.
I vertici della Conferenza Episcopale si riunirono per la prima volta con Cristina Kirchner due
settimane dopo il suo giuramento. Il governo interpretò l’incontro come la «rinascita» del rapporto
con la Chiesa. Si scambiarono saluti cordiali e vennero scattate molte fotografie, ma quando nel 2008
scoppiarono gli scontri tra il governo e il settore agricolo, la tensione tornò a esacerbarsi.
Nel marzo di quell’anno, quando il governo annunciò che avrebbe aumentato le imposte sulle
esportazioni di soia dal 34 al 44 per cento, le principali organizzazioni di produttori promossero uno
sciopero di ventun giorni in cui vennero occupate le strade, lasciando il Paese privo di rifornimenti.
La disputa arrivò al Congresso e quando il governo era a un passo dall’approvazione di una legge
per il rialzo delle imposte, il vicepresidente Julio Cobos votò contro e impedì che la misura venisse
adottata. Il voto «non a favore» sancì la sua rottura con il governo nazionale e il suo isolamento.
In pieno conflitto, Bergoglio ricevette i portavoce degli agricoltori e chiese alla presidente un «gesto
di magnanimità» che consentisse di trovare una soluzione al problema. Dopo la votazione incontrò
anche Cobos.
Alla fine dell’anno, in un tentativo di ricucire il rapporto, Bergoglio invitò Cristina Kirchner a
partecipare a una messa a Luján e la presidenta accettò. Tuttavia, il riavvicinamento non durò a
lungo. «I diritti umani non vengono violati solo dal terrorismo, dalla repressione e dagli omicidi, ma
anche dall’estrema povertà» dichiarò Bergoglio. «Esistono due tipi di persone: quelle che rilasciano
dichiarazioni sulla povertà e quelle che, come me, si dedicano a compiere ogni giorno azioni per
combatterla, dappertutto» fu l’audace risposta della presidente.
Così, negli anni seguenti, il rapporto tra l’arcivescovo e Cristina Kirchner oscillò tra un
atteggiamento di cordialità formale da un lato e la denuncia sociale e gli attacchi personali dall’altro,
da ambo le parti. Ci furono momenti di pace, di distensione, ma mai di comprensione e dialogo.
Furono pochi, ma ci furono. Comunque sia, sebbene per tanti anni avessero abitato a poca distanza,
per qualche misteriosa ragione, appena Bergoglio è diventato Papa Francesco, la presidenta
argentina è parsa convinta che il Vaticano sia più vicino alla Casa Rosada della stessa cattedrale
metropolitana.
Una delle maggiori crisi del rapporto tra Bergoglio e la Kirchner si produsse durante il dibattito sulla
legge per le unioni omosessuali che dal luglio del 2010 consente a due persone dello stesso sesso di
sposarsi in Argentina.
Bergoglio si mise alla testa di una crociata contro questa legge e inviò una lettera a quattro ordini
religiosi per chiedere le loro preghiere. Sostenne che è «in gioco l’identità e la sopravvivenza della
famiglia». Le parole che scelse per riferirsi al nuovo tipo di unione oggetto della legge furono forti e
molti le giudicarono poco opportune. «Non dobbiamo essere ingenui. Non si tratta di una semplice
lotta politica: è la pretesa di distruggere il progetto di Dio. Non siamo di fronte a un semplice
processo legislativo (questo è solo uno strumento) ma a una mossa del padre della menzogna, che
pretende di confondere e ingannare i figli di Dio.» Nella lettera parlò anche dell’«invidia del
demonio» e della «guerra di Dio».
Persino all’interno della Chiesa diverse fonti ammisero che quella lettera era stata un errore
strategico. Di fronte all’universale consenso sociale che si è instaurato negli ultimi anni riguardo
questo tipo di unioni, le parole scelte da Bergoglio risultarono funzionali alla retorica kirchneriana,
che puntava a presentarlo come il nemico dei diritti umani e delle libertà individuali, incasellandolo
in una linea ultraconservatrice alla quale Bergoglio non appartiene. Si potrebbe affermare, piuttosto,
che il Papa è conservatore nell’ambito dogmatico e progressista in quello sociale.
«Mi preoccupa il tono a cui è giunta la discussione. Viene posta come una questione di morale
religiosa che attenta all’ordine naturale, quando in realtà quello che stiamo facendo è prendere atto di
una realtà che già esiste» gli rispose Cristina Fernández.
Tre mesi più tardi le cose cambiarono. L’ex presidente Néstor Kirchner morì a El Calafate. Appena
apprese la notizia, Bergoglio decise di celebrare una messa per il suo eterno riposo. Lo fece nella
cattedrale metropolitana. «Il popolo deve rinunciare a qualsiasi posizione di antagonismo di fronte
alla morte di un uomo scelto dal popolo stesso come sua guida e tutto il Paese deve pregare per lui»
affermò in quell’occasione.
Nel momento in cui i Kirchner imposero a Bergoglio un ruolo marginale all’interno del dialogo con il
governo, l’arcivescovo collocò al centro della sua attività pastorale il farsi portavoce della denuncia
del disagio sociale presso la politica.
La lotta contro la droga, le pessime condizioni lavorative e il traffico di esseri umani divennero le
bandiere del suo apostolato (si veda il capitolo 8, Il Papa della strada). Rimase al fianco dei
genitori delle vittime del Cromañón e dell’associazione Madres del Dolor, costituita da persone che
hanno perso i propri figli in episodi di violenza o in incidenti.
Il primate intervenne anche nel corso della peggiore crisi che dovette affrontare il sindaco della città
di Buenos Aires, Mauricio Macri, quando un gruppo di abitanti poveri della zona sud occupò il
Parque Indoamericano con il proposito di insediarvisi. Un altro gruppo di cittadini che vivevano nei
complessi residenziali della zona si oppose all’occupazione di quei terreni e ne nacquero accesi
tafferugli. I disordini raggiunsero il culmine il pomeriggio in cui Bergoglio arrivò alla cappella di
San Juan Diego, che si trova accanto alle case.
Aveva preso l’impegno di celebrare la messa lì oltre un mese prima. Il cardinale lo considerò un
segno di Dio e non prese nemmeno per un momento in considerazione l’ipotesi di annullare la sua
visita, anche se le colonne di fumo nero provenienti dai pneumatici bruciati circondavano la cappella
e a pochi metri erano schierati più di cinquanta poliziotti armati e circa duecento cittadini, pronti a
entrare con la forza nel parco per sgomberarlo.
Era il Giorno dell’unità dei popoli americani e Bergoglio, in qualità di arcivescovo, era abituato a
presenziare alle feste patronali. San Juan Diego è il patrono del Parque Indoamericano, essendo stato
il primo santo indigeno.
Passate le sette di sera, mentre per le strade si diffondevano i suoni degli scontri, Bergoglio fece un
appello per la pace. «Vengo per invitare all’unità i popoli americani. Questo è il messaggio della
Madonna di Guadalupe» proclamò.
Finita la messa, Bergoglio andò a salutare la gente del posto, mentre un uomo imprecava aggrappato
al recinto di fil di ferro tutto intorno alla cappella. Il clima era teso. Un gruppo di fedeli raccontò che
una donna boliviana arrivò alla messa con il viso tumefatto per i colpi ricevuti durante gli scontri.
Dopo i saluti, Bergoglio rientrò nella cappella per andarsene poco più tardi, senza farsi notare da
nessuno. Mentre tutti si chiedevano dove fosse, lui camminò fino alla fermata e prese l’autobus per
fare ritorno alla cattedrale.
Quattro anni prima del suo ultimo viaggio a Roma, a un anno esatto da un’altra tragedia avvenuta nel
quartiere Once in cui morirono 51 persone e altre 703 rimasero ferite (il treno su cui viaggiavano
urtò le protezioni alla fine del binario, dentro la stazione), il cardinale celebrò una messa nella
cattedrale metropolitana in ricordo delle vittime di quel disastro. L’incidente mise in evidenza la
mancanza di controlli e investimenti nel trasporto pubblico da parte dello Stato, oltre a una rete di
corruzione nella concessione degli appalti su cui attualmente la magistratura sta ancora indagando.
Le parole di Bergoglio risuonarono con forza durante la celebrazione: «Ci sono responsabili
irresponsabili che non hanno compiuto il proprio dovere. Quasi tutte le vittime stavano venendo in
città per guadagnarsi il pane in modo dignitoso. Non ci abitueremo mai all’idea che per guadagnarsi
il pane in modo dignitoso si debba essere costretti a viaggiare come bestie».
Così costrinse chi di dovere ad assumersi le proprie responsabilità.
Capitolo 8
Il Papa della strada
Sono molti. Moltissimi. È impossibile sapere quanti. A tutti una volta o l’altra ha fatto la stessa
richiesta: pregate per me. Li invitava a farlo comunque, sebbene sapesse perfettamente che tanti di
loro non credevano in Dio o stavano attraversando situazioni che minavano in profondità la loro fede.
In cambio aprì il proprio cuore agli altri e si avvicinò a loro come un amico, come un padre o
semplicemente come una persona qualsiasi.
Gli amici che il Papa ha lasciato nella sua città natale soffrono per la sua assenza.
Il giorno in cui hanno scoperto che «Jorge» si sarebbe trasferito a Roma hanno pianto sconsolati, e
non per l’emozione di sapere che una persona straordinaria era arrivata fino al cuore della Chiesa
cattolica. Piangevano per la perdita del contatto quotidiano con lui. Non l’avrebbero mai più
incontrato sulla porta di casa, o sull’autobus, o durante un pranzo di famiglia.
Anche Francesco sente la loro mancanza. Dopo cena si ritaglia sempre alcuni minuti per telefonare ai
suoi cari. Quando a Buenos Aires sono le quattro del pomeriggio i suoi amici sanno che in qualunque
momento può squillare il telefono. «Ciao, sono Jorge.» Si annuncia così, e l’immensa distanza
svanisce. La conversazione non dura molto: Bergoglio non ama parlare a lungo al telefono. E deve
essere uno dei pochi argentini a non aver ceduto alla moda del cellulare. Non ne ha mai avuto uno:
non gli interessa, preferisce di gran lunga il contatto personale. Il telefono è utile per cominciare un
dialogo, ma per parlare davvero non c’è niente di meglio che trovarsi faccia a faccia.
Certo, ormai il rapporto non è più alla pari e i suoi amici non sanno dove chiamare se hanno bisogno
di lui. Il nuovo Papa però si è preoccupato di far avere loro un numero di fax a cui possono
mandargli delle lettere; quando le riceve, richiama subito il mittente e conversano per qualche
minuto.
Chi sono i suoi amici? Sono persone di ogni tipo. Da quelle con cui è entrato in contatto lavorando
alle diverse attività ecclesiastiche fino a sconosciuti che si sono rivolti a lui per chiedergli un favore,
che ha ascoltato e che a partire da quel momento sono diventati i suoi sostenitori più appassionati.
Tra loro ci sono cristiani, musulmani, ebrei, atei, agnostici. Ci sono artisti, militanti, politici,
sindacalisti e imprenditori. E persino indigenti che raccolgono cartone e bottiglie di vetro dalla
spazzatura, persone che non hanno nemmeno i documenti. Alcuni dei suoi amici hanno perso i propri
figli e altri invece lo invitano a casa loro come fosse uno dei tanti parenti per condividere la gioia
dello stare insieme. Tutte queste persone fanno parte della sua grande famiglia: quella che ha
ricevuto in dono nel momento in cui ha deciso di servire Dio.
Quando viveva a Buenos Aires gli piaceva trascorrere del tempo con i suoi amici. Appena poteva si
ricavava uno spazio libero in agenda e andava a trovarli per bere insieme il tradizionale mate
argentino. Li chiamava per far loro gli auguri di compleanno o nella triste ricorrenza
dell’anniversario della morte di un loro caro.
I suoi amici sono poveri. Poveri? Sì, poveri. Sono persone che in qualche modo si sono trovate nel
bisogno, e che proprio nella necessità hanno trovato la vera ricchezza.
Chi sono i poveri per Francesco?
«Poveri sono quanti soffrono una qualunque povertà, che significa privazione per l’anima e, allo
stesso tempo, fiducia e abbandono agli altri e a Dio. Perché coloro che subiscono la privazione dei
propri beni o della propria salute, che devono far fronte a perdite irreparabili o alla mancanza di
sicurezze, e in questa povertà si lasciano guidare dall’esperienza del saggio, dell’illuminato,
dell’amore gratuito, solidale e disinteressato degli altri, conoscono in piccola o in gran parte la
Buona Novella» affermò una volta Bergoglio. Casualmente lo fece proprio durante l’omelia del Te
Deum che tanto fece infuriare Néstor Kirchner.
La ricchezza della povertà è, secondo Bergoglio, la speranza delle nazioni e del mondo. Una «Chiesa
povera per i poveri» è una Chiesa che esce dalla sua zona di sicurezza e dai comfort per entrare in
contatto con il bisogno proprio e altrui e che si arricchisce a partire da tale esperienza. Una Chiesa
che spoglia se stessa e si dà agli altri, non per carità né per assistenzialismo e nemmeno per
sovvertire un ordine ingiusto. La Chiesa deve farlo per arricchirsi. Se tutti si rendessero poveri, tutti
diventerebbero ricchi: è questo il suo messaggio.
Durante i primi giorni successivi all’elezione, quando il mondo desiderava sapere in quale direzione
si sarebbero dirette le parole del nuovo Papa, Francesco ha sorpreso tutti. «Ciò che dice va al di là
delle sue parole. È lui stesso il messaggio» ha dichiarato uno dei suoi amici di Buenos Aires. «La
sua testimonianza, la sua coerenza, la sua austerità, la sua vita. Se tutti seguissero il suo esempio si
risolverebbero i problemi di milioni di persone» ha assicurato.
Una volta gli domandarono fino a che punto la Chiesa dovesse intervenire nella realtà, ad esempio
denunciando le ingiustizie sociali, senza però correre il rischio di scendere nell’insidioso campo
della politica. «Credo che il termine “partito” sia centrale per capire cosa intendo dire. Il punto non è
entrare nella politica dei partiti, ma nella grande politica che nasce dai Comandamenti e dal Vangelo.
Denunciare le violazioni dei diritti umani, le situazioni di sfruttamento o esclusione, le carenze
nell’istruzione o nell’alimentazione non significa fare politica di partito. Il Compendio della Dottrina
Sociale della Chiesa è pieno di denunce, e non è stato prodotto da alcun partito. Quando ci
esponiamo affermando qualcosa con forza, alcuni ci accusano di fare politica. E io rispondo: è vero,
ma noi facciamo politica nel senso evangelico della parola, non siamo un partito» replicò Bergoglio.
Quelle che seguono sono le storie dei suoi amici e di alcune persone che gli hanno permesso di
toccare con mano la propria povertà. Quando il mondo voltava loro le spalle, Jorge Bergoglio ha
bussato alla loro porta e ha teso la sua mano amica. Ad altri ha semplicemente mostrato il lato più
umano della religione, quello che per lunghi anni sembrava essersi perso o addormentato nella
liturgia.
Quel giorno la sua vita precipitò nel peggiore inferno che si possa immaginare. Tatiana Pontiroli,
ventiquattro anni, era morta quarantotto ore prima in seguito all’incidente ferroviario alla stazione di
Once. Mónica Bottega, sua madre, era appena tornata a casa dopo averle dato l’estremo saluto e in
quel momento cominciava ad affacciarsi sul terribile abisso della sua assenza. «Sentii che in realtà
non importava a nessuno. Su quel treno non avevo perso il portafoglio: avevo perso mia figlia! Ma la
mia perdita si diluiva nell’enormità della tragedia. Mi passavano per la testa migliaia di pensieri»
racconta Mónica, che lavora come direttrice di una scuola parrocchiale nella località di Libertad,
nella zona di Merlo, a ovest dell’area metropolitana di Buenos Aires.
Controllò la posta elettronica senza sperare di trovarvi niente di particolare. Ed ecco la sorpresa:
una e-mail che recava la firma di Jorge Bergoglio. Quel gesto le restituì le forze.
«L’emozione fu grande. Qualcuno aveva a cuore la vita di mia figlia, qualcuno finalmente si
avvicinava al mio dolore. Non dimenticherò mai le sue parole, il suo incoraggiamento. Molto
probabilmente la stesura del messaggio è stata effettuata da un suo collaboratore, ma il solo fatto di
essersi rivolto a me, di essersi messo nei miei panni e di avermi dato conforto mi aiutò ad andare
avanti» racconta Mónica, ancora commossa da quel gesto.
Pochi giorni prima che Bergoglio partisse per Roma, quell’incontro virtuale si è trasformato in realtà
durante la messa che il cardinale ha celebrato nella cattedrale metropolitana per il primo
anniversario della tragedia. «Aspettò tutti noi familiari sulla porta della cattedrale e ci abbracciò uno
per uno. Ci guardò negli occhi, ci ascoltò. Fu molto importante per noi. Desideravamo la solidarietà
di qualche personalità autorevole e l’abbiamo ricevuta da lui.»
Quando Mónica ha scoperto che l’arcivescovo di Buenos Aires, la persona che l’aveva consolata,
era diventato Papa non ha potuto far altro che esplodere di gioia. «Bergoglio riunisce in sé le virtù di
noi argentini. Finalmente non siamo famosi solo per avere i giocatori di calcio più forti o le donne
più belle. Ora lo siamo anche per quest’uomo dal cuore d’oro. Che emozione!»
Quel giorno dell’aprile 2011, quando sua figlia Cecilia venne assassinata ad appena ventiquattro anni
durante un tafferuglio scoppiato nel quartiere Versalles di Buenos Aires, Isabel Lobinesco smise di
essere se stessa per diventare una madre del dolor.
Decise di rendersi parte attiva della lotta. Partecipava a ogni manifestazione che veniva organizzata,
era presente a tutte le mobilitazioni. Era decisa a spingersi fino alle estreme conseguenze. Un giorno
un gruppo di madri che si trovava in una situazione simile alla sua chiese all’arcivescovo di Buenos
Aires di celebrare una messa per le vittime della violenza. Erano moltissime. E fu così che Isabel si
sedette al primo banco della chiesa di San Cayetano per ascoltare Bergoglio.
Il primate aveva appena cominciato a parlare quando Isabel scoppiò a piangere. Non riusciva a
fermarsi, non era in grado di dominare le proprie emozioni. Il cardinale non tentò nemmeno di
proseguire. Accortosi che la donna piangeva interruppe la messa, scese dall’altare, si sedette accanto
a lei e la abbracciò. «Riuscì a consolarmi sussurrandomi all’orecchio: “Lasciala andare. Lei ora è
accanto a Dio. Lui ti darà tutto l’amore di cui hai bisogno”. Quelle parole e quel gesto fecero scattare
qualcosa nel mio cuore. Bergoglio aveva interrotto la messa davanti a trecento persone per venire a
parlare proprio con me. Per consolarmi» racconta Isabel, con la voce rotta dai singhiozzi.
«Lui fu capace di darmi la notizia peggiore, e cioè che mia figlia non sarebbe tornata mai più, con
l’amore di un padre. Io, che appena nata sono stata abbandonata nella spazzatura da mia madre, che
non possiedo nemmeno il letto in cui dormo, ho sentito la forza di quell’abbraccio. Ero furiosa con
Dio per quello che mi era successo, ma padre Bergoglio mi riconciliò con lui. Sono certa che se
esiste una persona al mondo che possiede tutti i requisiti per fare il Papa, è senz’altro Bergoglio»
afferma.
Si chiama José María di Paola, ma tutti lo chiamano e lo conoscono con il nome di «padre Pepe». Il
suo impegno con Dio l’ha portato a percorrere cammini difficili. Negli anni in cui Bergoglio era
vicario della zona sud della città di Buenos Aires si assunse il compito di strappare i giovani dalla
droga nelle villas de emergencia. Il suo lavoro lo costrinse a entrare in contatto con il narcotraffico e
nel 2001 mise in serio pericolo la propria vita.
Padre Pepe dovette lasciare quella zona e andò svolgere la sua opera di evangelizzazione in un
piccolo insediamento rurale di Santiago del Estero, di quelli che non compaiono nemmeno sulle
cartine. Due settimane prima che Bergoglio venisse eletto Papa, Di Paola è tornato nel posto dove lo
conoscono meglio e dove più hanno bisogno di lui: le villas. Da allora vive a La Cárcova, un’area
poverissima nella località di José León Suárez, nel nord dell’aera metropolitana di Buenos Aires. È
la prima volta che un sacerdote vi si stabilisce in modo permanente. Lo si vede felice, entusiasta
della sua nuova missione.
Fu proprio Bergoglio a plasmare il suo destino e a renderlo un tassello fondamentale nel gruppo dei
curas villeros. Nel 1996 lo mandò in un’altra villa di Buenos Aires, Ciudad Oculta, nel quartiere
Mataderos. Quella zona era stata separata dalla capitale da un muro (da cui deriva il suo
soprannome, che significa «città nascosta») durante i mondiali di calcio organizzati in Argentina nel
1978 perché il mondo non venisse a sapere della sua esistenza. Le carenze e i bisogni insoddisfatti
della gente che vi abitava potevano essere insabbiati dal governo, ma non sarebbero mai passati
inosservati ai preti che lavoravano nella zona.
Per decisione del suo superiore, padre Pepe lasciò Ciudad Oculta per diventare parroco della Villa
21, dove svolse gran parte della sua eccezionale azione pastorale. Di Paola si tolse l’abito talare e
indossò il costume del supereroe, diventando uno dei principali leader della lotta contro lo spaccio e
il consumo di droga.
«Conobbi padre Bergoglio nel 1995. Io stavo svolgendo i miei compiti pastorali nel carcere di Villa
Devoto e questo probabilmente lo spinse a credere che la mia presenza nelle villas potesse essere
importante. Ebbe un’intuizione e io lo seguii» racconta Di Paola, che attualmente risiede in un’umile
casetta con solo il necessario per sopravvivere e dove si è appena cucinato qualcosa da mangiare.
Nel giro di pochi anni Bergoglio raddoppiò il numero dei sacerdoti presenti nelle baraccopoli; non
perché ne avesse fin troppi a disposizione (anzi, all’epoca la Chiesa già viveva una profonda crisi
delle vocazioni) ma perché aveva capito che in quelle zone ne servivano molti di più. «Per lui la
periferia era il centro. Spostava un sacerdote da un quartiere della città per metterlo a lavorare con i
più poveri, perché era convinto che lì il suo impegno fosse estremamente necessario» spiega. Il suo
intervento non si limitava a spostare pedine: era normale vederlo arrivare da solo, e a piedi, nelle
villas per celebrare la messa o per pregare in qualche cappella dei quartieri più periferici.
«Lui veniva qui e si sentiva a suo agio. Era molto tranquillo. Di solito compariva all’improvviso,
senza essere atteso, e gli piaceva moltissimo partecipare alle feste patronali e interagire con tutti,
entrare nelle case, prestarsi a farsi fare delle foto, girare nelle strade interne» racconta padre Pepe.
«A volte mi preoccupavo che non lo riconoscessero e lo derubassero; per questo gli chiedevo di
avvisarci quando arrivava, così saremmo andati a prenderlo. Ma lui ci rispondeva: “Se vengo in una
villa devo essere uno qualsiasi, devo andare incontro alla stessa sorte di ogni abitante della zona”.
Per fortuna non gli successe mai niente.»
Il calcio è una delle passioni che padre Pepe e Bergoglio condividono, anche se li colloca su fronti
opposti. Tifoso dell’Huracán, padre Pepe soffrì tremendamente per la retrocessione della sua
squadra in serie B e dovette sopportare le prese in giro dei tifosi del San Lorenzo di Almagro, tra cui
quelle dell’allora cardinale. Forse per rispetto all’uomo che è da poco diventato Papa, Di Paola
preferisce sorvolare sulle battute di cui fu bersaglio.
Ricorda invece che durante il conclave del 2005, in cui venne eletto Benedetto XVI, stava lavorando
alla Villa 21. In quel quartiere c’era molta trepidazione: Bergoglio era tra i papabili e diversi
giornalisti stranieri andarono nella zona per intervistare gli abitanti. «Per noi fu come la finale dei
mondiali di calcio. La gente traboccava di speranza e quando alla fine Ratzinger si presentò sul
balcone fu una delusione enorme per tutti» racconta padre Pepe. Ma nel calcio c’è sempre una
rivincita. E nella fede anche.
Fin dalla prima volta che lo vide sull’autobus della linea 70 che portava alla Villa 21-24 di
Barracas, Darío Giménez capì che Jorge Bergoglio era uno di loro. Un uomo comune.
Darío ha quarantatré anni, lavora in una fabbrica di tappeti ed è padre di due bambine di otto e sei
anni. «Una delle cose più preziose che custodisco nel mio cuore è sapere che lui ha battezzato mia
figlia María José. E non lo dico solo adesso che è diventato Papa: l’ho sempre sostenuto» racconta
con un misto di orgoglio e commozione. Darío conobbe Bergoglio tramite José María di Paola,
«padre Pepe», grazie al quale si era convertito al cristianesimo quattordici anni prima. Oggi è un
assiduo collaboratore della chiesa di Nuestra Señora de Caacupé.
«Bergoglio è un uomo così umile che ti fa sentire sempre a tuo agio. L’ultima volta che è venuto qui
l’abbiamo invitato a cena ed è rimasto a mangiare con noi. Non avevamo preparato niente di
elaborato, solo un po’ di pasta in brodo, nient’altro. Non dimenticherò mai le sue parole.
All’improvviso mi guardò negli occhi e mi disse: “Mi piace sedermi alla tavola dei poveri, perché
servono il cibo e condividono il cuore. A volte invece chi ha di più condivide solo il cibo…”. Mi
fece sentire così bene!» ricorda Darío.
«Ecco che arriva il Papa.» Come fosse una sorta di premonizione, in alcune delle villas di Buenos
Aires in cui si è celebrata e festeggiata l’elezione di Francesco, molti abitanti erano soliti chiamare
così l’arcivescovo della capitale quando lo vedevano arrivare camminando spedito con le sue scarpe
consumate.
Lo dicevano di cuore, con un sentimento di amore nei confronti di quell’uomo che andava lì a
celebrare una messa o benedire qualche opera pubblica, battezzare i bambini o condividere un piatto
di pasta o bere un mate con la gente. «Anche se ripetevamo loro in tutti i modi che non era il Papa,
bensì l’arcivescovo di Buenos Aires, la gente continuava a soprannominarlo “Papa”. Sembra
impossibile, ma è come se avessero intuito che lo sarebbe diventato» racconta padre Gustavo
Carrara, sacerdote della parrocchia di Santa María Madre del Pueblo della Villa 1-11-14, una delle
più popolose della città di Buenos Aires.
Carrara è uno dei curas villeros che cominciarono a lavorare sotto la tutela di Bergoglio. Da quando
era arrivato all’Arcivescovado di Buenos Aires, infatti, il futuro Papa Francesco si era posto
l’obiettivo di organizzare un gruppo di preti che stabilisse la propria residenza nei quartieri più
difficili, nella piena convinzione che «bisogna avvicinare la Chiesa ai poveri».
Quando conobbe Bergoglio, Carrara era seminarista. «Padre Jorge era già arcivescovo. Fu lui a
ordinarmi diacono il 21 marzo del 1998 e sacerdote il 24 ottobre dello stesso anno. Era un uomo
molto vicino al suo clero, ci ascoltava e ci guidava sempre nel cammino verso Dio» ricorda Carrara,
che non si stupisce di fronte ai gesti di umiltà e semplicità con cui Bergoglio ha sorpreso il mondo.
«Lo vedo forte, proprio come è in realtà. Le cose che meravigliano tanta gente non sono nuove per
noi, perché è sempre stato così, si è sempre spostato in autobus, non ha mai voluto nemmeno che gli
chiamassimo un taxi.»
Carrara, che ultimamente non fa che rispondere alla domanda «Com’era Bergoglio?» racconta di
aver coltivato la speranza che il suo padre spirituale venisse eletto per occupare il soglio di San
Pietro. «Sapevo che come arcivescovo gli rimaneva poco tempo, data la sua età. In questo modo tutta
la Chiesa potrà godere della sua carismatica figura. Con la sua elezione si è aperto un tempo di
speranza. Siamo contenti e colmi di aspettative per l’elezione di Francesco, il Papa villero.»
Le pareti del suo ufficio raccontano che si tratta di un personaggio eclettico, impegnato su mille fronti
diversi. Su quelle pareti convivono un ritratto di Che Guevara e una foto di Jorge Bergoglio che
risale all’epoca in cui era cardinale; un poster della Presidenza della Nazione, un altro del governo
della città di Buenos Aires, alcuni scritti di Lev Trotsky, una mappa della Cina moderna e la
locandina di un incontro liturgico.
Gustavo Vera ha quarantanove anni, è ateo ed è uno dei referenti locali per la lotta contro il traffico
di esseri umani. Dirige un’organizzazione non governativa, La Alameda, nata durante la crisi che
colpì il Paese nel 2001. In quei giorni Vera divenne il portavoce delle cooperative di imprese che
furono riscattate dagli ex impiegati dopo il fallimento. Il 30 marzo 2006 la sua lotta trovò un nuovo
obiettivo in seguito all’incendio di un laboratorio tessile nel quartiere Caballito di Buenos Aires, in
cui morirono sei boliviani che lavoravano in condizioni disumane. Da allora Vera, che ospitava
centinaia di immigrati boliviani alla mensa di La Alameda, diventò il «nemico numero uno» dei
laboratori clandestini che proliferavano a Buenos Aires. Le sue denunce misero a nudo un intero
sistema di produzione di abiti a basso costo il cui sostentamento economico era basato unicamente
sul lavoro in condizioni di schiavitù.
Le stime più prudenti di La Alameda segnalano che nella città di Buenos Aires esistono tremila
laboratori tessili clandestini. Nella metà di essi i lavoratori sono ridotti al livello di schiavi per
potersi guadagnare a malapena di che vivere.
Questo maestro di lingue e scienze sociali di una scuola del quartiere Villa Lugano fece della lotta
contro il traffico di esseri umani la sua bandiera. Il sistema dei laboratori tessili svelò l’esistenza di
una rete criminale che raggirava i lavoratori boliviani per portarli in Argentina con l’inganno. E non
solo: non trascorse molto tempo che a La Alameda cominciarono ad arrivare denunce sul traffico di
esseri umani a scopi sessuali. Tra le persone coinvolte c’erano addirittura alti funzionari di polizia e
della magistratura.
«Ci stavamo addentrando in questioni complesse legate al reato di tratta di persone che chiamavano
in causa niente meno che la polizia federale. Poiché sapevo che il cardinale Bergoglio aveva
cominciato a parlare del traffico di esseri umani nelle sue omelie, andai alla curia e consegnai una
lettera in cui gli chiedevo un’udienza a nome dell’associazione. Un’ora più tardi la sua segretaria mi
chiamò e ci diede l’appuntamento. Bergoglio ci ricevette e rimasi molto colpito quando mi resi conto
che conosceva a fondo il problema. Gli spiegai senza tanti giri di parole che ci stavamo addentrando
in un terreno molto pericoloso e che non avevamo nessuna intenzione di finire a galleggiare nel
Riachuelo (un fiume altamente inquinato che attraversa una zona di Buenos Aires). Volevamo il
supporto della Chiesa. “Cosa devo fare?” ci chiese Bergoglio. E così organizzammo una serie di
sette messe» spiega Vera andando dritto al punto.
Le messe vennero celebrate nel 2008, nella chiesa di Nuestra Señora de los Migrantes nel quartiere
Constitución. In cambio Bergoglio chiese a Vera un favore: desiderava conoscere le vittime e offrire
loro assistenza spirituale.
Da quel giorno, rivela Gustavo, più di ottanta persone sono state ricevute dall’allora arcivescovo di
Buenos Aires.
«Dall’incontro la maggior parte delle vittime usciva in uno stato di pace totale. Mentre al cardinale
venivano gli occhi rossi perché ne era profondamente commosso. Non si limitava ad ascoltare:
viveva su di sé quello che gli veniva raccontato. Dopo l’incontro parlava con noi, ci chiedeva di che
tipo di assistenza avesse bisogno quella tal persona, se avesse un posto per dormire, dei mezzi di
sussistenza. Ascoltava tutto, ma non prendeva mai appunti. Diceva solo: “Va bene”. “Va bene cosa?”
ci chiedevamo noi all’inizio. Poi capimmo. Due giorni dopo ci chiamava un funzionario ed ecco
comparire un aiuto per quella persona. Era tutto risolto. Fece questo per ciascuna delle persone che
ricevette. Si occupò di loro e per di più ricordava ogni singolo caso. Ogni volta che ci sentivamo mi
chiedeva loro notizie» racconta Vera, che nonostante sia ateo riconosce di essere diventato «più
papista del Papa». «È una persona meravigliosa, rivoluzionaria. Farà questo in tutto il mondo»
assicura.
«A scuola ci hanno insegnato che la schiavitù è stata abolita. Ma sapete una cosa? Era solo una
favola! Perché a Buenos Aires la schiavitù non è stata abolita. In questa città la schiavitù continua a
essere diffusa sotto altre forme. In questa città le donne vengono sequestrate e sottoposte all’uso e
all’abuso del proprio corpo, una violenza che distrugge la loro dignità. Qui ci sono ancora uomini
che commerciano in carne umana e ne traggono profitto. […] I cani vengono trattati meglio dei nostri
schiavi! Mandate via di qui quegli aguzzini! Disfatevi di loro!» tuonò Bergoglio durante un’omelia.
Bergoglio, da parte sua, nutre una grande ammirazione e una profonda stima per Vera. A volte, il
sabato, saliva sull’autobus e andava fino alla sede dell’associazione La Alameda solo per bere un
mate con lui e la sua gente. Ripeteva loro di continuare a resistere. In quelle occasioni facevano
lunghe conversazioni su argomenti di filosofia, teologia e questioni sociali. «Magari molti cristiani
possedessero l’onestà e l’impegno di Vera!» dichiarò in un’occasione.
Pochi giorni dopo l’elezione di Papa Francesco, Gustavo ha trovato una chiamata persa e un
messaggio nella segreteria del cellulare. «Ciao Gustavo, sono Bergoglio. Volevo farti tanti auguri di
buon compleanno» diceva.
Il giorno in cui Carina Ramos conobbe l’uomo che di lì a poco sarebbe diventato Papa non provò
nessuna emozione particolare. «Vado ad ascoltare un prete come tanti» pensò mentre faceva il suo
ingresso nella curia della capitale argentina. Le porte si aprirono e l’arcivescovo di Buenos Aires la
invitò a entrare in un ufficio. Negli ultimi quattordici anni Carina era stata vittima di diverse reti di
tratta di persone nei club frequentati da personaggi famosi di Mar del Plata e Buenos Aires. Era stata
sequestrata, drogata, violentata e obbligata a spacciare. Ogni volta che cercava di scappare e di
denunciare la rete che la sfruttava, nella quale erano implicati anche poliziotti e alti funzionari,
precipitava in una situazione ancora peggiore. Partecipò a diversi programmi di protezione dei
testimoni, ma la forza di quel sistema malavitoso era tale che finì di nuovo intrappolata nelle sue reti.
Delusione, sconforto, odio, sfiducia furono alcuni dei sentimenti che Carina portò con sé all’incontro.
Ci era andata senza alcuna aspettativa.
«Quando mi guardò negli occhi vi scorsi qualcosa che non avevo mai visto in vita mia. Uno sguardo
santo. Gli spiegai che secondo me Dio mi aveva salvato la vita in molte situazioni, ma lui non si mise
a ridere. Io ho sempre creduto in Dio, ma quando lo dicevo alle persone che mi stavano attorno tutti
mi prendevano in giro, vista la mia situazione» racconta.
Bergoglio ascoltò la sua storia fino alla fine senza profferire parola. «È da diverso tempo che non
vado in chiesa» si giustificò Carina.
«Non importa se non vai in chiesa. L’importante è che tu senta Dio nel tuo cuore» le rispose lui.
Nient’altro.
Era passato solo un anno da quell’incontro quando la vita di Carina cambiò radicalmente. Adesso
vive con suo figlio adolescente a Mar del Plata. È riuscita a uscire dal giro della prostituzione, ha
frequentato un corso per diventare parrucchiera e lavora. Inoltre, si è iscritta a scuola per completare
gli studi superiori.
«Ringrazio Dio per quello che ho vissuto, perché se avessi avuto una vita diversa non avrei mai
conosciuto il cardinale» sottolinea.
Ciò che Bergoglio apprese da questa e da tante altre testimonianze di prima mano con cui entrò in
contatto gli permise di arricchire le sue denunce e le sue omelie con dati concreti: «In questa città ci
sono molte bambine costrette a smettere di giocare con le bambole per entrare nel buio di un
postribolo dove vengono derubate della loro innocenza, vendute, umiliate. Oggi chiediamo giustizia
per le vittime del traffico di esseri umani, per coloro che lavorano in condizioni di schiavitù, per chi
è costretto a prostituirsi. In questa piazza siamo venuti a supplicare Gesù di non farci piangere per
così tante persone» denunciò nel 2011 parlando in Plaza Constitución a Buenos Aires.
Una medaglietta. A essa si aggrappa Susana Trimarco, la donna che in Argentina è sinonimo di lotta
contro il traffico di esseri umani, ogni volta che sente il bisogno di raccogliere le forze. Sua figlia,
Marita Verón, scomparve dalla sua casa nella provincia di Tucumán il 3 aprile del 2002. Aveva
ventitré anni e da allora la sua famiglia non l’ha più rivista. Susana non ha mai smesso di cercarla, ha
mosso cielo e terra e infine ha scoperto che è stata rapita dal racket della prostituzione. Quella
medaglietta oggi acquista un valore ancora più grande e speciale, perché a regalargliela è stato niente
meno che Papa Francesco. Susana lo conobbe il 9 marzo 2011, quando era arcivescovo di Buenos
Aires.
L’incontro durò più di tre ore. Bergoglio le offrì un tè e le regalò una medaglietta della Madonna che
scioglie i nodi. Da allora quella medaglia ha accompagnato sempre Susana, persino durante il
processo in cui si trovò faccia a faccia con le persone accusate di aver sequestrato sua figlia e di
averla costretta a prostituirsi. L’assoluzione di tutti gli imputati provocò accese reazioni da parte
dell’opinione pubblica. «Bergoglio mi diede un grande appoggio spirituale» ricorda Susana dalla sua
casa di Tucumán, dove vive insieme a sua nipote Micaela, figlia di Marita. «Mi spiegò che pregava
per mia figlia, per mia nipote e per me. E che ammirava la mia forza e la lotta che stavo conducendo»
racconta commossa nel ricordare quell’incontro.
Susana aveva sempre provato un sollievo spirituale quando aveva ascoltato i discorsi
dell’arcivescovo, ma incontrarlo di persona fu per lei una vera scossa emotiva. «Il cuore mi batteva
forte, mi martellava nel petto. Lui mi ricevette come se mi conoscesse da tutta la vita. La sua
semplicità, la sua umiltà, la sua umanità… Ricordo che quando me ne andai ebbi la sensazione di
aver parlato con un santo.»
Durante le tre ore di udienza, Susana gli raccontò nel dettaglio la sua storia e la lotta personale che
aveva intrapreso da quando sua figlia era scomparsa. «Gli spiegai che mi ero fatta passare per
prostituta, che un travestito mi aveva accolta a casa sua, dove avevo dormito su un materasso buttato
per terra perché non c’erano letti… Mi ascoltò molto commosso, mi prese entrambe le mani, mi
diede la sua benedizione e mi disse che ero un’eletta di Dio e che non dovevo mai abbandonare la
mia battaglia. Dopodiché mi regalò la medaglietta e mi assicurò che le porte dell’Arcivescovado
erano sempre aperte per me.»
Quando il mondo seppe che i cardinali avevano nominato Bergoglio Sommo Pontefice, Susana
scoppiò a piangere. Ma questa volta erano lacrime di gioia. «È un protettore degli umili, dei poveri,
dei bambini… È un onore, un avvenimento grandissimo e una benedizione per tutti gli argentini che
lui sia diventato Papa. Hanno scelto un santo. Io ho un intuito particolare per queste cose. E mi
sbaglio molto di rado.»
Quando Nancy Miño incontrò Bergoglio ebbe la sensazione di venir protetta da uno scudo. Stava
attraversando il peggior momento della sua vita: aveva ricevuto una minaccia anonima nonostante
vivesse sotto scorta permanente. Nancy è un’agente di polizia e aveva avuto il coraggio di denunciare
la corruzione che dilagava all’interno della polizia federale. La sua denuncia aveva messo in serio
pericolo la sua vita e quella di suo figlio. «Già da un mese mi avevano inserita in un programma di
protezione e assegnato una scorta, ma nonostante questo qualcuno ebbe l’insolenza di telefonare nella
casa in cui mi nascondevo e di minacciarmi. Dopo quella chiamata decisi di organizzare una
conferenza stampa. In quell’occasione raccontai tutto ciò che stavo vivendo. Dopo le mie
dichiarazioni ricevetti una telefonata di Bergoglio in persona, che mi chiedeva di andare da lui
all’Arcivescovado.»
Nancy si presentò nel suo ufficio. «Ero commossa. Il fatto che il numero uno della Chiesa argentina
volesse ricevermi significava molto per me, era una speranza in più. Finalmente qualcuno di
importante mi stava appoggiando. Quando si è sostenuti da istituzioni di spicco come la Chiesa, le
mafie prendono le distanze. Fu uno scudo di protezione enorme per me» assicura Nancy, che in
gioventù aveva fatto la catechista.
Bergoglio le offrì alloggio in un convento e un aiuto economico, dato che da quando aveva sporto le
sue denunce aveva smesso di percepire lo stipendio come ufficiale del corpo di polizia. Lei lo
ringraziò, ma rifiutò. Tuttavia accettò il santino di San José, patrono della famiglia, e la medaglietta
della Madonna che scioglie i nodi che il cardinale le donò affinché vegliassero su di lei.
«Mi assicurò che di lì a poco si sarebbero sciolte tutte le difficoltà, e posso confermare che è andata
davvero così. Grazie a lui e ai media la polizia fu passata al setaccio e ripulita. E io ricominciai a
lavorare come poliziotta in una sede distaccata a Lomas de Zamora» racconta Nancy. Ma Bergoglio
fece ancora di più per lei: si impegnò affinché suo figlio venisse accettato in una scuola.
«Con tutto quello che avevo passato, nessuno voleva accettare mio figlio a scuola perché temevano
che potesse essere oggetto di attentati o che lo sequestrassero» spiega Nancy. «L’arcivescovo in
persona si mise in contatto con una scuola cattolica vicina a casa mia, Nuestra Señora de la Paz, per
chiedere che venisse accolto. Parlò con la madre superiora e le chiese di trovargli un posto, e così
fu. Mi sento molto in debito con lui e ho preso l’impegno di restituirgli con gesti concreti tutto quello
che ha fatto per me e per la mia famiglia.»
Il 30 dicembre 2004 Nino Benítez perse suo figlio nell’incendio della discoteca República
Cromañón. Anche se dall’autopsia risulta che morì per asfissia dopo aver inalato monossido di
carbonio e monossido di cianuro (una sostanza che si libera dal poliuretano, ottanta volte più tossica
del monossido di carbonio), lui assicura che è stato ucciso dalla corruzione.
Mariano studiava Diritto ed era andato al concerto della rock band Callejeros per accompagnare
Gustavo, un suo amico di infanzia, che era un fan del gruppo. Di quella fatidica notte, la peggiore
della sua vita, Nino ricorda che, in mezzo al caos e alla disorganizzazione, le uniche parole di
conforto e consolazione gli giunsero da un uomo che indossava una lunga tonaca nera. «Bergoglio
rimase vicino ai genitori delle giovani vittime in quella notte tragica. Restò in obitorio a pregare,
consolando e sostenendo i padri e le madri dei ragazzi. Le uniche parole di conforto ci vennero
rivolte dalla Chiesa e dagli psicologi della scuola Pichon-Rivière» ricorda Nino Benítez tornando
con la memoria a quelle terribili ore.
Il sostegno di Bergoglio proseguì nel corso degli anni con messe e battesimi celebrati nel santuario
creato sopra calle Bartolomé Mitre, tra calle Jean Jaurés e calle Ecuador, il luogo in cui si trovava la
discoteca e dove furono rinvenuti i corpi senza vita dei giovani la notte dell’incidente. «Tutti ci
criticavano per aver eretto un santuario in mezzo alla strada, e allora il cardinale venne a celebrare
la messa proprio lì. Ci ha sempre appoggiati, ci ha costantemente offerto il suo sostegno spirituale.
Sono stati persino celebrati alcuni battesimi in quel luogo» racconta Benítez. «Bergoglio non ha mai
smesso di incoraggiarci ad andare avanti, a chiedere giustizia. Non ci ha mai permesso di
rassegnarci.»
Cattolico da sempre, Benítez sentì la sua fede venire meno il mattino in cui gli comunicarono che suo
figlio era morto. «Ero e sono ancora arrabbiato con Dio perché mi ha portato via ciò che più amavo
al mondo. E quando io e molti altri manifestavamo a Bergoglio la nostra rabbia, lui ci comprendeva e
ci offriva una spalla su cui piangere. Bergoglio ci ha sempre ricevuti. Oggi abbiamo un po’ di
speranza in più perché c’è un Papa che si preoccupa degli umili, dei più sfortunati e dei diseredati.»
Olga Cruz è boliviana, fa la sarta ed è madre di Daniela e Micaela, rispettivamente di sedici e otto
anni. Le sarebbe piaciuto farle battezzare, ma vedeva solo una serie di impedimenti e l’ansia la
bloccava. «Mi chiederanno i documenti, vorranno sapere se sono sposata, perché non le ho battezzate
prima, mi diranno che devono fare il corso di catechesi, che i padrini devono essere cattolici…»
rifletteva.
Una sera, mentre partecipava a una messa celebrata dal cardinale primate di Argentina nella chiesa
De los Migrantes, nel quartiere La Boca, si fece coraggio, si avvicinò a Bergoglio e gli domandò:
«Lei battezzerebbe le mie figlie?». Lo disse con una tale semplicità che sorprese tutti. Ma il
cardinale non si stupì. Lui le rispose che l’avrebbe fatto volentieri. «Sarà un onore.» Concordarono
la data in quello stesso momento, lui le chiese i nomi delle sue figlie e se preferiva che il battesimo
si tenesse in una chiesa o nel centro comunitario che frequentava. Scelsero la seconda opzione.
«Non sapevo che fosse possibile. Avevo sempre pensato che i sacramenti si dovessero ricevere
dentro una chiesa. “Dovunque sia il mio popolo e dovunque ci sia bisogno di me, io devo andare.
Non è necessario che sia la gente a venire in chiesa. Voi e noi siamo la Chiesa” mi rispose
Bergoglio» racconta Olga.
Il battesimo fu celebrato la settimana successiva. Il cardinale non le fece mai le domande che lei
temeva tanto. «Arrivò al centro comunitario in autobus, battezzò le bambine e non gli importò
nemmeno che i padrini fossero uno ateo e l’altro ebreo» sottolinea Olga, ammirata.
E infatti, sei mesi prima di diventare Papa, Bergoglio aveva mandato un messaggio ai parroci di
Buenos Aires per chiedere loro di non frapporre alcun tipo di impedimento a chiunque si avvicinasse
alla Chiesa per battezzare i propri figli. Nel settembre 2012, durante la messa di chiusura
dell’Incontro di pastorale urbana, l’allora arcivescovo di Buenos Aires chiamò «ipocriti» i preti che
si rifiutavano di battezzare i bambini nati fuori dal matrimonio o i cui genitori non li avevano
riconosciuti.
Davanti a coloro che erano intervenuti alla cerimonia, Bergoglio «si dispiacque» che nella capitale e
nella Grande Buenos Aires ci fossero sacerdoti che non battezzavano i figli cosiddetti illegittimi e in
particolare quelli delle ragazze madri perché «non sono stati concepiti nella santità del matrimonio».
Li criticò con durezza considerando che «allontanano il popolo di Dio dalla salvezza» e fece
addirittura intendere che quei sacerdoti non davano valore al fatto che la madre avesse portato a
termine la gravidanza rinunciando all’aborto. «Una povera ragazza che avrebbe potuto disfarsi di suo
figlio e invece ha avuto il coraggio di metterlo al mondo deve andare peregrinando di parrocchia in
parrocchia per trovare chi lo battezzi?» tuonò.
Alcuni anni prima, quando Bergoglio aveva cominciato ad analizzare gli impedimenti con cui
avevano a che fare sacerdoti e fedeli quando si trattava di celebrare un battesimo, i parroci della
zona sud di Buenos Aires si giustificarono dicendo che, dal momento che gli atti di battesimo devono
riportare i dati del documento di identità, migliaia di cittadini peruviani, paraguayani o boliviani che
vivevano nella giurisdizione delle loro parrocchie si trovavano nell’impossibilità di ricevere il
sacramento, poiché non disponevano dei documenti.
«Che possiedano quello argentino o meno» rispose loro Bergoglio «queste persone avranno un
documento del loro Paese d’origine. Non vedo perché questo debba essere un ostacolo» spiegò.
Così nel 2011 venne organizzato un battesimo di massa nella parrocchia di Nuestra Señora de la
Misericordia nel quartiere Mataderos. Racconta padre Fernando Gianetti che quel giorno ricevettero
il sacramento circa centoquaranta persone, per la maggior parte di origine boliviana.
Appena si diffuse la notizia dell’elezione di Bergoglio, il giornalista Luis Moreiro si sentì colmo di
orgoglio. «Non ci posso credere: il Papa ha celebrato il matrimonio di mia figlia pochi mesi fa!» Da
buon professionista raccontò la sua storia in una nota che venne pubblicata il giorno seguente,
giovedì 14 marzo 2013, sulla controcopertina dell’edizione storica del quotidiano «La Nación» col
titolo Una storia così piccola che sarà difficile da dimenticare.
«Papa Francesco, una fresca sera di settembre dell’anno scorso, celebrò il matrimonio tra mia figlia
María Emilia e Gastón, suo marito. Tre mesi prima della cerimonia i due giovani avevano chiesto
udienza al cardinale Jorge Bergoglio. Gastón, cattolico praticante, lo conosce da molti anni.» Così
comincia l’articolo, che fu uno dei più letti quel giorno.
Dal momento che il matrimonio si sarebbe celebrato nella città di La Plata, nella provincia di Buenos
Aires, un paio di giorni prima della cerimonia gli sposi chiamarono Bergoglio al telefono per
chiedergli a che ora dovevano mandargli la macchina che l’avrebbe condotto in chiesa. «Macchina?
No, no, prendo il treno della Roca» fu la sua risposta. I ragazzi rimasero sbalorditi. Sabato sera,
nella stazione ferroviaria di Constitución, da dove partono i treni della linea General Roca… ne era
sicuro? Dopo molte insistenze riuscirono a convincerlo almeno a farsi andare a prendere in macchina
al suo arrivo alla stazione di La Plata. Bergoglio accettò perché temeva di perdersi nelle stradine di
quella località.
Di quella serata, sopraffatto dall’emozione di vedere sua figlia davanti all’altare e di assistere alla
consacrazione del matrimonio, Luis Moreiro ha trattenuto alcuni dettagli. Pochi, ma sufficienti a
tracciare un profilo del Papa.
«In qualche angolo della memoria mi resta il ricordo del sorriso sincero e dei gesti di affetto che
accompagnarono la nascita di una nuova storia di vita condivisa. Al momento di celebrare il rito del
matrimonio Bergoglio invitò gli sposi a salire sull’altare e chiese loro di rivolgersi verso gli invitati
in modo che, da lassù, si assumessero il loro impegno non solo davanti a Dio, ma anche davanti a
tutti i presenti» racconta il giornalista. Poi, fedele al proprio stile, Bergoglio scomparve nella notte
senza lasciare traccia. «Non volle venire a salutare. Si giustificò dicendo che María Emilia e Gastón
erano le stelle della serata e perciò tutte le attenzioni dovevano essere riservate a loro.»
Con un altro gesto che riflette molto bene la sua grandezza, il giorno prima di partire per Roma il
cardinale li ha chiamati al telefono. «Voleva fare a Gastón gli auguri di compleanno. Chiese di María
Emilia, ma soprattutto volle sapere di Catalina, la loro figlia appena nata» racconta Moreiro. E ha
salutato così: «Non so quando tornerò da Roma. Non so se tornerò».
Capitolo 9
Un Papa latinoamericano
Quando si diffuse la notizia, quando finalmente quell’annuncio in latino fu decifrato, esplose
l’entusiasmo popolare. Grida, manifestazioni di euforia, clacson delle auto, gente che si riversava in
strada a festeggiare: la gioia si propagò ovunque.
Dopo i primi momenti di esaltazione, in molti si chiesero: «Cosa ne dirà Cristina?». Ma la
presidenta argentina non perse tempo: appena un paio d’ore dopo, espresse le sue congratulazioni a
Bergoglio via Twitter. E poco più tardi, in un discorso tenuto in occasione di un’inaugurazione, gli
fece i suoi complimenti in tono quasi cordiale. Poi, com’è sua abitudine, Cristina Fernández de
Kirchner ricorse alla retorica per interloquire con l’uomo che fino al giorno prima era stato il suo
grande avversario politico: «Speriamo che lei svolga un lavoro davvero significativo e che porti il
suo messaggio alle grandi potenze del mondo affinché dialoghino tra loro. Auspichiamo che riesca a
convincere i potenti della terra, coloro che possiedono gli armamenti e detengono il potere
finanziario, a rivolgere lo sguardo verso le proprie società e verso i popoli emergenti per
promuovere il dialogo tra civiltà».
In seguito comunicò che avrebbe partecipato alla cerimonia di investitura del Papa, il Papa argentino,
con una delegazione di membri del governo e dell’opposizione.
E lo fece. Fu la prima visita ufficiale del Papa, che la invitò a pranzo. La presidente era molto
elegante nel suo completo nero e con i capelli che le incorniciavano il viso sotto il cappellino,
anch’esso nero. Sicura di sé, padrona della situazione e loquace come sempre, porse al Papa con
cortesia il dono che gli aveva portato: un kit per il mate, con tanto di zuccheriera. Bergoglio beve il
mate amaro, ma se qualcuno dei suoi invitati lo preferisce dolce lui rinuncia alla sua abitudine pur di
condividerlo. L’atmosfera era rilassata, nonostante tutto. Cristina Kirchner aveva saputo adeguarsi
alla nuova situazione. D’altra parte, un conto è nutrire una certa ostilità nei confronti del leader
religioso della città di Buenos Aires, o anche dell’Argentina e persino di tutta l’America Latina, un
conto è nutrirla per una figura di rilevanza mondiale.
Era un segnale di cambiamento, che il Papa sembrava accettare di buon grado. I due stavano aprendo
uno spazio nuovo, uno spazio di accettazione e di reciproca comprensione. Sebbene i loro rapporti,
in precedenza, siano sempre stati piuttosto tesi, una relazione può sempre crescere. E tutta la nazione
spera che sia così. L’Argentina ha tirato un sospiro di sollievo: forse le cose si sarebbero sistemate.
Quando fu il suo turno anche il Papa le consegnò un omaggio: un libro con le conclusioni della V
conferenza generale del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) che si era svolta nel 2007
nella città brasiliana di Aparecida. Bergoglio aveva presieduto proprio la commissione incaricata di
redigere il documento. «Questo la aiuterà a capire un po’ meglio come la pensiamo noi sacerdoti
latinoamericani» spiegò il Papa alla presidente mentre glielo consegnava.
La frase scelta da Francesco era tanto gentile quanto suggestiva. Le stava donando qualcosa di molto
prezioso per lui. Quasi come un figlio. Cosa dice questo documento così speciale per il Papa? Le sue
276 pagine ripercorrono i vari problemi sociali e politici che colpiscono il sud del continente e
illustrano il ruolo che dovrebbero ricoprire i vescovi. Uno dei paragrafi più salienti mette in guardia
dall’«avanzare di diverse forme di regressione autoritaria per via democratica che, in talune
occasioni, sfociano in regimi di taglio neopopulista».
«Non basta una democrazia puramente formale, fondata sulla correttezza dei procedimenti elettorali,
ma è necessaria una democrazia partecipativa e basata sulla promozione e sul rispetto dei diritti
umani. Una democrazia che non possiede valori come quelli menzionati degenera facilmente in una
dittatura e finisce col tradire il popolo» avvertono i vescovi.
In un altro passaggio lanciano un monito sul dilagare della corruzione. «Un importante fattore
negativo in buona parte della regione è la recrudescenza della corruzione nella società e nello Stato,
che coinvolge i poteri legislativi ed esecutivi a tutti i livelli e tocca anche il sistema giudiziario, il
quale, molto spesso, favorisce i potenti lasciandoli impuniti, cosa che mette a rischio la credibilità
delle istituzioni pubbliche» aggiungono.
Inoltre il documento contiene un’accesa critica alle leggi sulle unioni omosessuali: «Tra i
presupposti che debilitano e danneggiano la vita familiare troviamo l’ideologia secondo la quale
ciascuno può scegliere il proprio orientamento sessuale senza tenere conto delle differenze dettate
dalla natura umana. Tutto ciò ha provocato innovazioni legislative che ledono gravemente la dignità
del matrimonio per quanto riguarda il diritto alla vita e l’identità della famiglia» recita il testo.
Bergoglio aveva ragione: leggendo quelle pagine si comprende meglio la situazione della regione
geografica, o quantomeno le posizioni del Papa latinoamericano.
La nomina di Francesco a Pontefice riporta alla mente il Concilio Vaticano II. Quel concilio spinse i
sacerdoti del Terzo Mondo ad abbracciare la Teologia della liberazione e rappresentò un contributo
fondamentale al rapporto della Chiesa con i poveri. Per questo ebbe un significato particolare in
America Latina, una regione che stava vivendo anni di intensi cambiamenti sociali. E in quel contesto
ebbe un’influenza particolare su Bergoglio.
Il Concilio Vaticano II fu uno degli eventi storici che marcarono il XX secolo. Convocato da Papa
Giovanni XXIII, si svolse in quattro sessioni a partire dal 1962. Giovanni XXIII riuscì a presiedere
solo una di esse, poiché morì il 3 giugno 1963; le tre rimanenti furono presiedute da Paolo VI, il suo
successore, per concludersi nel 1965. Paragonato ai precedenti, questo concilio ebbe la
rappresentazione più ampia e varia in quanto a lingue ed etnie presenti. Oltre a più di
duemilaquattrocento padri conciliari, al concilio presero parte anche membri di altre confessioni
religiose cristiane. Questa era una novità assoluta, un gesto fuori dal comune, che diede inizio a un
importante atteggiamento di apertura della Chiesa cattolica nei confronti degli altri cristiani, i quali
da «eretici» passarono a essere considerati «fratelli separati». Fu un concilio ecumenico. Un
grandissimo passo avanti.
Il Concilio Vaticano II si proponeva di raggiungere alcuni obiettivi specifici, come promuovere lo
sviluppo della fede cattolica, portare un rinnovamento morale nella vita cristiana, adattare la
disciplina ecclesiastica alle necessità dei tempi e migliorare i rapporti con le altre religioni. Ovvero
produrre un aggiornamento, un adeguamento all’attualità, promuovendo una importante
trasformazione all’interno della Chiesa.
Vi parteciparono vescovi cattolici, teologi invitati dal Papa (che non sarebbero potuti intervenire),
consulenti di chiese ortodosse e protestanti, cattolici laici, giornalisti e osservatori di diverse
estrazioni.
A partire da quel momento si aprì il dialogo con le chiese orientali e vennero promosse molte novità,
tra cui la riforma liturgica grazie alla quale dal 1969 le messe si celebrano nella lingua di ciascun
Paese, invece che in latino, e con il sacerdote rivolto verso i fedeli. Inoltre venne abbattuto il
centralismo europeo, si rivalutò la partecipazione dei laici dentro la Chiesa e si avanzò verso un
concetto più ampio dell’istituzione.
In qualche modo Francesco incarna e riassume molti dei cambiamenti sanciti dal Concilio Vaticano
II: la dedizione ai poveri, l’umiltà, le rinunce, il suo rapporto con i sofferenti, la sua vocazione a
portare la Chiesa verso le frontiere. Quando Bergoglio fu ordinato cardinale gli chiesero se ritenesse
necessario indire un nuovo concilio. Lui rispose di no, sostenendo che sarebbe dovuto trascorrere un
lasso di tempo di circa cinquanta-sessant’anni tra un concilio e l’altro per assimilare i cambiamenti.
Prima di promuovere nuove rivoluzioni bisognava lottare perché quelle approvate dal Concilio
Vaticano II fossero di fatto applicate nella realtà.
In America Latina il Concilio Vaticano II portò alla nascita della Teologia della liberazione e alla
convocazione della Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín (Colombia), svoltasi
nel 1968, che riunì rappresentanti di spicco come il sacerdote brasiliano Leonardo Boff e
l’uruguayano Juan Luis Segundo, tra gli altri.
In quegli anni la Teologia della liberazione cercò di dare risposta a due questioni fondamentali:
come essere cristiano in un continente oppresso e come far sì che la fede non produca alienazione
bensì senso di libertà. Per comprendere la situazione che vive la Chiesa in America Latina va detto
che molti sacerdoti e leader del continente oggi accettano i presupposti della Teologia della
liberazione (anche se la Chiesa li ha rifiutati a causa della loro origine marxista) che all’epoca
parvero incompatibili con il Vangelo.
Ecco qui di seguito alcuni dei suoi enunciati principali.
La scelta preferenziale per i poveri.
La salvezza cristiana non può realizzarsi senza la liberazione economica, politica, sociale e
ideologica, considerata segno tangibile della dignità dell’uomo.
La necessità di eliminare dal mondo lo sfruttamento, la mancanza di opportunità e le ingiustizie.
Considerare la liberazione come una presa di coscienza di fronte alla realtà socioeconomica
latinoamericana.
La situazione in cui versava la maggior parte dei latinoamericani contraddiceva il disegno storico di
Dio secondo cui la povertà è un peccato sociale. Non esistono solo i peccatori, ma ci sono anche le
vittime del peccato, che hanno bisogno di giustizia e compensazione.
Si potrebbe dire che la Teologia della liberazione tentò di effettuare una profonda analisi del
significato della povertà, dei processi storici di impoverimento e del loro rapporto con le classi
sociali. Giunse ad affermare che i diritti dei poveri fossero i diritti di Dio e che poiché Lui ha scelto
i poveri, è stato Lui stesso a proporre un’opzione preferenziale per loro. La Teologia della
liberazione si pose in America Latina come un’alternativa al capitalismo; l’ingiustizia, sempre più
diffusa nei Paesi industrializzati, e la globalizzazione dell’economia avevano portato a una mancanza
di solidarietà nei confronti dei poveri.
Ma gli eventi non seguirono il corso previsto. Qualcosa andò storto in America Latina.
L’interpretazione della realtà secondo un’ermeneutica marxista non solo non aveva portato a una
liberazione ma, al contrario, aveva incoraggiato la lotta armata. I risultati erano stati sanguinosi. I
poveri continuavano a essere poveri e nei cuori di quanti, al di là di ogni ideologia, avevano
abbracciato l’impegno a favore dei più sfortunati dilagava il disincanto.
In quel periodo toccava a Bergoglio guidare la Compagnia di Gesù. Erano anni in cui l’ordine si
dibatteva tra coloro che volevano allinearsi con la Teologia della liberazione e coloro che
desideravano continuare a essere un ordine di educatori. Bergoglio non aderì a nessuna delle due
posizioni e si oppose all’infiltrazione della lotta politica e ideologica all’interno della Chiesa. La
Chiesa doveva trovare un modo per dedicarsi ai poveri che non prevedesse l’assistenzialismo né la
lotta armata.
Alla fine degli anni Settanta il teologo protestante argentino José Míguez Bonino parlò delle luci e
delle ombre della Teologia della liberazione: «Credo che in futuro si tesserà una nuova trama con gli
stessi fili». Gli ci era voluto del tempo per maturare questa riflessione. Il concetto venne alla luce
con forza durante la conferenza generale di Aparecida: la Teologia della liberazione fu superata
dalla «Teologia della povertà», che si poneva l’obiettivo di conoscere il povero nella sua realtà,
applicando il comandamento cristiano dell’amore verso il prossimo. Questa teologia richiede di farsi
parte della realtà del povero, di imparare da lui. Di provare sulla propria pelle ciò che lui vive.
Nel documento questo concetto compare più volte collegato a quello della «pietà popolare», che era
stato inserito su richiesta dello stesso Bergoglio. «Il Santo Padre ha sottolineato la “ricca e profonda
religiosità popolare dalla quale traspare l’anima dei popoli latinoamericani” e l’ha presentata come
il prezioso tesoro della Chiesa cattolica in America Latina. Ci ha invitati a promuoverla e a
proteggerla. Questo modo di esprimere la fede è presente in diverse forme in tutti i settori sociali, in
una moltitudine di persone che merita il nostro rispetto e affetto, perché la sua pietà riflette una sete
di Dio che solo i poveri e i semplici possono conoscere. La religione degli abitanti dell’America
Latina è espressione della fede cattolica. È un cattolicesimo popolare, profondamente semplice, che
contiene in sé la dimensione più preziosa della cultura latinoamericana» afferma il documento.
«La Chiesa cattolica è presente tra i popoli latinoamericani da oltre cinquecento anni. Navigatori,
missionari, commercianti e immigrati hanno portato qui la fede cristiana e i modi di vita
ecclesiastici, impregnando la vita e la cultura di questi Paesi con il Vangelo di Gesù Cristo. Questi
popoli hanno accolto la fede cattolica e l’hanno espressa in modo creativo ed esuberante» affermò
monsignor Odilo Pedro Scherer, vescovo di San Paolo (Brasile) e segretario generale dell’incontro
in uno scritto precedente alla conferenza generale del Consiglio episcopale latinoamericano di
Aparecida del 2007, in cui delineava le aspettative in vista della riunione.
«Dopo cinque secoli di sfruttamento di questi popoli e di soggezione al dominio coloniale, i Paesi
latinoamericani continuano a convivere con pesanti indici di sottosviluppo, con ingiustizie sociali
strutturali, con una povertà generalizzata e con la violenza. Il regime di servitù e l’impoverimento
generale, e non solo delle ricchezze materiali, provocati dal colonialismo non hanno ancora smesso
di produrre i propri effetti negativi. Senza dimenticare che nuove forme di colonialismo perpetuano
in maniera subdola antiche dominazioni. Perché, nonostante il lavoro e il sangue versato da molti
missionari e nonostante la buona accoglienza riservata alla fede cattolica dai popoli latinoamericani,
alcuni dei valori essenziali del Vangelo di Cristo, come la giustizia, la solidarietà, il rispetto
profondo per ciascun essere umano e la sua valorizzazione all’interno della convivenza sociale, non
hanno prodotto migliori risultati nella vita e nell’organizzazione di questi popoli? Perché determinati
peccati contro l’umanità e contro Dio, come la schiavitù, le violenze, le discriminazioni e le
esclusioni sociali, le strutture economiche e politiche che creano situazioni di dipendenza, la
concentrazione del potere e della ricchezza, la miseria, la fame e la distruzione della natura,
continuano a gettare l’ombra della morte sulla vita dei nostri popoli?»
Scherer si domandava: è questo il mondo che vuole Dio? Quali dovrebbero essere il ruolo e il
comportamento della Chiesa e dei cattolici affinché «in Gesù Cristo i nostri popoli abbiano la vita?».
Per essere una Buona Novella, il messaggio cristiano deve risultare significativo per la vita di queste
genti, rispondeva.
La conferenza generale del Consiglio episcopale latinoamericano di Aparecida indicò una direzione.
L’analisi della situazione dei Paesi del continente sudamericano fornì dati concreti. Sebbene vi
risiedano più della metà dei cattolici del mondo, le stime analizzate durante l’incontro hanno
permesso di affermare che negli ultimi decenni l’America Latina ha perso il venti per cento dei suoi
fedeli, molti dei quali hanno abbracciato altre confessioni, principalmente i credi evangelici.
Espresso in cifre, ciò vale a dire che circa diecimila persone al giorno abbandonano la Chiesa
cattolica.
Secondo i dati dell’inchiesta sulla religiosità realizzata nel 2008 dal Consiglio nazionale di scienza e
tecnologia (Conicet) in Argentina, malgrado il 91 per cento degli abitanti dichiari di credere in Dio e
il 70 per cento si professi cattolico, solo il 10 per cento partecipa alla messa domenicale.
I 155 milioni di fedeli che la Chiesa stima di avere in Brasile (secondo i dati del 2007) posizionano
questo Paese al primo posto del mondo cattolico. Uno studio della Fondazione Getúlio Vargas
afferma che, nonostante il cattolicesimo abbia smesso di perdere fedeli in Brasile, la crescita di altre
confessioni si mantiene costante e la sfida non è giunta al termine. Negli anni Novanta circa venti
milioni di persone, in Brasile, hanno lasciato la Chiesa cattolica e la maggior parte di esse sono
passate ai culti evangelici e in particolare ai pentecostali.
La conferenza ha permesso di tracciare una diagnosi della situazione sociale dei Paesi
latinoamericani che risulta alquanto allarmante. Si stima che la metà della popolazione totale dei
Paesi sudamericani viva in stato di povertà. Il documento finale ha fornito alcuni suggerimenti per
mitigare le condizioni di ingiustizia, di marginalità e di esclusione, ma soprattutto ha lanciato una
forte critica al modello neoliberale, che continua a presentarsi come l’opzione dominante e che negli
ultimi venticinque anni ha incrementato le diseguaglianze, alimentato dalla globalizzazione e dalla
corruzione che impoveriscono un continente di per sé ricco. Il cardinale Bergoglio ricoprì un ruolo
chiave nella stesura di questo documento.
Martedì 15 maggio 2007 i vescovi votarono la commissione incaricata di redigerlo. Lui fu eletto
presidente con un’ampia maggioranza. «Un vescovo argentino chiese sottovoce: “Come fa Bergoglio
a risultare sempre primo nelle votazioni?”. Era stupito, perché Bergoglio non aveva messo in atto
alcuna strategia di autopromozione. Semplicemente, quando aveva parlato all’assemblea, molti erano
rimasti affascinati dal suo linguaggio chiaro e suggestivo, che trasmetteva speranza, sicurezza e
voglia di lavorare concretamente per il bene del Paese» spiega Víctor Manuel Fernández, rettore
dell’Università Cattolica Argentina, che collaborò con Bergoglio nella redazione del testo.
L’allora presidente della Conferenza Episcopale Argentina aveva compiuto il viaggio dibattendosi
tra la speranza e la preoccupazione. «Molti gli dicevano che la conferenza di Aparecida avrebbe
risuscitato l’entusiasmo e la speranza, ma soprattutto il sogno di una Chiesa latinoamericana con
un’identità propria e un progetto storico segnato dalla bellezza del Vangelo e dall’amore per i
poveri. Si ripeteva ovunque che nella conferenza precedente, a Santo Domingo, l’ingerenza della
curia vaticana era stata eccessiva e che il “fervore latinoamericano” che si era risvegliato a Medellín
e Puebla era stato deliberatamente smorzato» racconta Fernández.
Durante la messa che celebrò il giorno seguente, Bergoglio affrontò uno dei temi centrali del suo
pensiero: rifuggire una Chiesa autosufficiente e autoreferenziale per realizzare una Chiesa capace di
raggiungere tutte le periferie umane. Lo stesso tema venne sviluppato nel documento, seguito da un
invito ai sacerdoti a farsi missionari.
Bergoglio auspicò una partecipazione ampia e libera nelle commissioni di lavoro. Tutti insistevano
perché venisse elaborato un testo breve, ma nessuno era disposto a rinunciare al proprio contributo.
Perciò il presidente dovette affrontare la sfida di consentire a tutti di esprimersi, ma al contempo di
dover produrre un testo dall’impatto forte, che non risultasse prolisso.
«Non volevamo redigere un documento troppo light per non scontentare nessuno, ma non volevamo
nemmeno che un settore si imponesse sugli altri riproponendo le solite dinamiche di potere. Era un
compito estremamente difficile, ma Bergoglio seppe gestirlo in modo sottile, quasi impercettibile,
con una serie di piccoli gesti e un paziente lavoro di microingegneria» spiega Fernández. Alcune
commissioni riuscirono a scrivere un testo vero e proprio, altre si limitarono a enumerare una serie
di punti. Alcune dialogarono in un clima di distesa armonia, altre discussero senza sosta e altre
ancora scelsero di dividersi in ulteriori gruppi più ristretti. «A ogni modo, non si può dire che ci
fossero tensioni» aggiunge Fernández. «Bergoglio svolse un ruolo chiave nel creare l’atmosfera
positiva che si era instaurata.»
Dopo due settimane di lavoro cinque esperti aiutarono la commissione a stabilire le modalità di
organizzazione del testo e vennero scelte le più semplici. Fernández era uno dei cinque. «In seguito il
numero degli incaricati della revisione dei testi si ridusse a tre. L’ultimo giorno, alle due e mezza del
mattino, ai piedi della croce rimanevano solo il cardinale Bergoglio, due preti cileni che facevano da
assistenti e io. Eravamo tutti e quattro in condizioni pietose, ma Bergoglio era il più vitale tra noi.
Prima di andare a dormire commentò: “È venuto bene, ci sono cose buone. Ma ci sarebbe servito un
giorno in più. Solo un giorno in più”.»
Víctor Fernández fa notare che la parola che più si ripete in tutto il documento è «vita» (oltre
seicento volte). Fu raggiunto l’obiettivo di presentare l’attività evangelizzatrice come un’offerta di
vita degna e completa per le persone. Il documento insiste su una missione allegra e generosa, che
arrivi alle periferie e che metta l’accento sulle verità centrali e più belle del Vangelo e in particolar
modo sulla persona di Gesù Cristo. Invita a crescere come discepoli umili e disponibili, amici dei
poveri e innamorati del popolo latinoamericano.
«Le parole e i contributi di Bergoglio sono dappertutto, ma ciò nonostante il documento resta un
lavoro collettivo. Sono suoi i moniti a evitare una Chiesa autoreferenziale, l’invito costante a stare
accanto ai poveri, la preoccupazione di rispettare il popolo con la sua cultura e il suo modo di
esprimere la fede, l’immagine di una Chiesa missionaria orientata verso le periferie, la
valorizzazione della dignità umana, della giustizia sociale e dell’integrazione latinoamericana»
spiega Fernández.
La «pietà popolare» è uno dei concetti inseriti su richiesta di Bergoglio nel tentativo di identificare e
canalizzare il potenziale energetico che la fede possiede nel continente sudamericano. «Dal mio
punto di vista, quanto di meglio è stato scritto sulla religiosità popolare si trova nell’esortazione
apostolica di Paolo VI Evangelii Nuntiandi, e il documento di Aparecida riprende gli stessi concetti
in quelle che secondo me sono le sue pagine più ispirate. Quanto più gli agenti pastorali scoprono la
pietà popolare, tanto più l’ideologia va decadendo, perché si avvicinano alla gente e alle sue
problematiche in maniera concreta, sulla base di ciò che apprendono dal popolo stesso» aveva
affermato Bergoglio.
Tenuto conto che quasi la metà dei cattolici del mondo vive in America Latina, l’allora cardinale
aveva uno speciale interesse nel rivalutare la religiosità popolare che caratterizza quel continente e
che muove milioni di persone in occasione di feste patronali, via crucis, processioni, danze e canti
tipici del folclore religioso; nel valorizzare la devozione per i santi e gli angeli, le novene, i rosari, i
voti, le preghiere in famiglia e i pellegrinaggi, oltre alle tante altre espressioni di religiosità
popolare. «Nei santuari molti pellegrini prendono decisioni che segnano profondamente la loro vita.
Quelle pareti contengono infinite storie di conversione, di forza e di doni ricevuti» afferma il
documento.
Bergoglio è convinto che il fervore per le espressioni popolari della religiosità non solo costituisca
la caratteristica distintiva della fede in America Latina: la pietà popolare è anche capace di
esprimere un forte potere di mobilitazione, necessario per portare avanti la missione
evangelizzatrice. Inoltre, racchiude in se stessa una profonda saggezza.
«Non possiamo trascurare la pietà popolare o considerarla una modalità secondaria di vita cristiana,
perché significherebbe dimenticare il primato dell’azione dello Spirito e l’iniziativa gratuita
dell’amore di Dio. Nella pietà popolare sono contenuti, e si esprimono, un senso profondo di
trascendenza, una capacità spontanea di appoggiarsi a Dio e una vera e propria esperienza di amore
teologale. Essa è inoltre espressione di una saggezza soprannaturale, perché la saggezza dell’amore
non dipende direttamente dall’illuminazione della mente, bensì dall’azione interna della grazia. Per
questo la chiamiamo spiritualità popolare. E cioè una spiritualità cristiana che, essendo un incontro
personale con il Signore, include anche ciò che è corporeo, sensibile, simbolico e le necessità più
concrete delle persone. È una spiritualità incarnata nella cultura dei semplici, che non per questo è
meno spirituale: semplicemente lo è in modo diverso» afferma il documento.
In varie occasioni, quando gli chiedevano perché ritenesse così importante il lavoro nelle zone più
degradate della città, Bergoglio spiegò che non si trattava solo di una missione sociale. Papa
Francesco è convinto che chi sperimenta ogni giorno la povertà viva la religiosità e la fede con molta
più intensità, al punto da eleggere gli ultimi a modello di spiritualità per tutti gli altri.
La pietà popolare è un modo legittimo di vivere la fede, afferma; un modo di sentirsi parte della
Chiesa e di essere missionari proprio là dove si concentrano i problemi più radicati dell’America
profonda. Fa parte di una originalità storica e culturale dei poveri di questo continente ed è frutto di
una sintesi tra le culture indigene e la fede cristiana.
«Nell’ambiente fortemente secolarizzato in cui vivono i nostri popoli si professa ancora con potenza
la fede nel Dio vivente, il Dio che agisce nella storia, e il fervore religioso non smette di propagarsi.
Camminare insieme verso i santuari e partecipare alle diverse manifestazioni di pietà popolare,
portando anche i propri figli o invitando altre persone, è un vero e proprio gesto evangelizzatore
tramite il quale il popolo cristiano catechizza se stesso e mette in atto la vocazione missionaria della
Chiesa. I nostri popoli si identificano in particolar modo con il Cristo sofferente, lo guardano, lo
baciano e toccano i suoi piedi feriti come a dire: egli è colui che amo e che ha donato la sua vita per
me. Molti di loro, feriti, abbandonati, privati di tutto, non si lasciano andare a un atteggiamento di
sfiducia. Con la loro tipica religiosità si aggrappano all’immenso amore di Dio che ricorda loro, in
ogni momento, che hanno una dignità» spiega il documento.
Tra le altre cose, Bergoglio è convinto che la Chiesa in America Latina debba «sfruttare il potenziale
di santità e giustizia sociale della pietà popolare».
Il documento inoltre affronta il tema della partecipazione della Chiesa alla vita politica. Dopo un
appello alla necessità di impegnarsi nella ricerca di strutture adatte all’interno della società, segnala
che questo non è un compito della Chiesa, ma un lavoro politico che compete ai governi: «Se la
Chiesa cominciasse a trasformarsi essa stessa in soggetto politico non farebbe di più per i poveri e
per la giustizia. Al contrario: farebbe di meno, perché perderebbe la sua indipendenza e la sua
autorità morale, identificandosi con un’unica via politica e con posizioni parziali e opinabili».
Il documento si pone inoltre l’obiettivo di volgere lo sguardo verso la condizione di molte donne nel
contesto latinoamericano: «Oggi in America Latina e nei Caraibi urge prendere coscienza della
precarietà che attenta alla dignità di molte donne. Alcune sono sottoposte fin da piccole e adolescenti
a svariate forme di violenza dentro e fuori casa: traffico di esseri umani, stupro, schiavitù e violenza
sessuale; diseguaglianze nell’ambito del lavoro, della politica e dell’economia; sfruttamento
pubblicitario da parte dei mezzi di comunicazione che le trattano come oggetti e merce di scambio».
In riferimento alla globalizzazione, il documento esprime la seguente analisi: «Nella globalizzazione,
la dinamica del mercato assolutizza facilmente l’efficacia e la produttività come valori fondanti di
tutte le relazioni umane. Questa sua particolare caratteristica rende la globalizzazione un processo
che favorisce le iniquità e le ingiustizie a diversi livelli. La globalizzazione, per com’è configurata
attualmente, non è capace di interpretare e di reagire in funzione di valori oggettivi che vanno oltre il
mercato e che costituiscono l’elemento più importante della vita umana: la verità, la giustizia,
l’amore e soprattutto la dignità dei diritti di tutti, anche di coloro che vivono al margine del mercato
stesso».
Afferma inoltre: «Condotta secondo una tendenza che privilegia il profitto e stimola la concorrenza,
la globalizzazione segue una dinamica di concentrazione del potere e delle ricchezze nelle mani di
pochi. E non parliamo solo delle risorse materiali e monetarie, ma soprattutto dell’informazione e
delle risorse umane. Ciò produce l’esclusione di quanti non possiedono competenze e informazioni
sufficienti, aumentando le diseguaglianze che caratterizzano in negativo il nostro continente e fanno
perdurare la povertà in larghe fasce di persone».
L’esclusione sociale derivante dalla globalizzazione preoccupa i vescovi: «Tutto questo dovrebbe
portarci a contemplare i volti di coloro che soffrono» riflette il documento. Tra essi, le comunità
indigene e afroamericane che, come spesso accade, non vengono trattate con dignità e parità di
condizioni; molte donne, escluse per discriminazioni sessuali, razziali o socioeconomiche; giovani
che ricevono un’istruzione di bassa qualità e che non hanno opportunità di progredire negli studi né
di entrare nel mercato del lavoro per prosperare e creare una famiglia; poveri, disoccupati, migranti,
profughi, contadini senza terra e tutti coloro che cercano di sopravvivere attraverso l’economia
sommersa; bambini e bambine sottoposti alla prostituzione infantile, legata molto spesso al turismo
sessuale, così come i bambini vittime dell’aborto.
«Milioni di persone e di famiglie vivono nella miseria e addirittura soffrono la fame. Rivolgiamo la
nostra attenzione anche a coloro che dipendono dalla droga, alle persone diversamente abili, ai
portatori e alle vittime di malattie gravi come la malaria, la tubercolosi e l’Hiv-Aids, che soffrono di
solitudine e si trovano esclusi dalla convivenza familiare e sociale. Non dimentichiamo nemmeno i
sequestrati e coloro che sono vittime della violenza, del terrorismo, dei conflitti armati e
dell’insicurezza delle nostre città. E gli anziani, che oltre a sentirsi tagliati fuori dal sistema
produttivo si vedono molto spesso rifiutati dalla propria famiglia in quanto pesi scomodi e inutili. Ci
addolora, infine, la situazione disumana in cui vive la grande maggioranza dei carcerati: anche queste
persone hanno bisogno della nostra presenza solidale e del nostro aiuto fraterno.»
La solidarietà e i nuovi vincoli sembrano essere il miglior antidoto per questi mali postmoderni:
«Una globalizzazione senza solidarietà influisce negativamente sulle fasce più povere della società.
Non si tratta più soltanto del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di una realtà nuova:
l’esclusione sociale. Essa mina alle sue stesse radici l’appartenenza alla società in cui si vive, dato
che le persone non si trovano più in basso, alla periferia della società o in situazioni in cui non hanno
alcun potere, ma sono completamente fuori dal tessuto sociale. Gli esclusi non sono solo “sfruttati”
ma anche “in eccesso” e “da buttare via”. È un’analisi che ci addolora perché queste affermazioni
sono vere. E non si tratta di fenomeni isolati: purtroppo comprendono grandi gruppi umani in
America Latina e nei Caraibi».
Il documento analizza, inoltre, le recenti politiche economiche dei Paesi del continente
sudamericano: «La globalizzazione ha portato alla stesura di trattati di libero commercio tra nazioni
dalle economie asimmetriche, che non sempre vanno a vantaggio dei Paesi più poveri». E rimanda al
pensiero della Dottrina Sociale della Chiesa: «L’oggetto dell’economia è la creazione della
ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non solo quantitativi ma anche qualitativi. Tutto
questo è moralmente corretto se è orientato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società
in cui egli vive e lavora. Lo sviluppo, quindi, non può essere ridotto a un mero processo di accumulo
di beni e servizi. Al contrario: il semplice accumulo, anche qualora andasse a favore del bene
comune, non è una condizione sufficiente per condurre all’autentica felicità umana».
In seguito illustra come la Chiesa deve reagire: chiama a vivere e a esercitare la propria missione
come discepoli di Cristo. «Identificarsi con Gesù Cristo significa anche condividere il suo stesso
destino» afferma il documento. Destino di lavoro e dedizione ai poveri, a coloro che soffrono, agli
emarginati. E sottolinea: «Nel chiamare i suoi discepoli affinché lo seguano, Gesù affida loro un
incarico ben preciso: annunciare il Vangelo del Regno a tutte le nazioni. Perciò, ogni discepolo è un
missionario».
Ed esprime la seguente riflessione: «Il consumismo edonista e individualista, che considera la vita
umana in funzione di un piacere immediato e senza limiti, oscura il senso dell’esistenza e la degrada.
La vitalità che Cristo offre ci spinge ad ampliare i nostri orizzonti e a riconoscere che, abbracciando
la croce quotidiana, entriamo nella dimensione più profonda del vivere. Il Signore, che ci invita a
dare valore alle cose e a progredire, ci mette in guardia anche dall’ossessione di accumulare».
Continua poi dicendo: «Però le condizioni di vita di molte persone abbandonate, escluse e ignorate
nella loro miseria e nel loro dolore contraddicono il progetto del Padre e chiamano i credenti a un
maggior impegno a favore della cultura della vita. Il Regno di vita che Cristo è venuto a portarci è
incompatibile con tali, disumane situazioni. Se pretendiamo di chiudere gli occhi davanti a queste
realtà non saremo difensori della vita del Regno e ci incammineremo sulla strada della morte. […]
La Chiesa ha bisogno di una forte scossa che le impedisca di abbandonarsi alla comodità, alla
stagnazione e all’indifferenza, disinteressandosi della sofferenza dei poveri che vivono nel
continente».
Il documento prosegue parlando di impegno e di misericordia: «L’amore e la misericordia per tutti
coloro che vedono lesa la propria vita in una qualunque delle sue dimensioni, come ben ci mostra il
Signore in tutti i suoi gesti di pietà, ci chiedono di andare incontro alle necessità più stringenti e allo
stesso tempo di collaborare con altri organismi o istituzioni per creare strutture più eque nell’ambito
nazionale e internazionale. Urge creare organizzazioni capaci di consolidare un ordine sociale,
economico e politico in cui non esistano diseguaglianze e le opportunità siano alla portata di tutti.
Allo stesso modo, si richiedono nuove strutture in grado di promuovere una convivenza umana
autentica, di sradicare la prepotenza di alcuni e di favorire il dialogo costruttivo per ottenere i
necessari consensi sociali.
«La misericordia sarà sempre necessaria, ma non deve contribuire a creare circoli viziosi funzionali
a un sistema economico ingiusto. Si richiede che le opere di misericordia siano accompagnate dalla
ricerca di una vera giustizia sociale volta a migliorare il livello di vita dei cittadini, promuovendoli
come soggetti attivi del proprio sviluppo».
Il documento inoltre muove forti critiche alla cultura dell’immagine: «La cultura attuale tende a
proporre modi di essere e di vivere contrari alla natura e alla dignità dell’essere umano. Gli idoli del
potere, la ricchezza e il piacere effimero sono diventati la norma che regola la società e vengono
posti al di sopra del valore della persona».
Una delle questioni che più ha segnato la vita e il ministero del futuro Papa Francesco è la scelta
preferenziale per i poveri. Questo tema viene sottolineato anche nel documento di Aparecida.
«La scelta preferenziale per i poveri è uno dei tratti che caratterizzano la fisionomia della Chiesa
latinoamericana e caraibica. Di fatto Giovanni Paolo II, rivolgendosi al nostro continente, ha
sostenuto che convertirsi al Vangelo per il popolo cristiano che vive nel continente sudamericano
significa rivalutare tutti gli ambiti e le dimensioni della propria vita, e in particolar modo tutto ciò
che riguarda l’ordine sociale e il perseguimento del bene comune.
«Dalla nostra fede in Cristo deriva anche la solidarietà come atteggiamento permanente di incontro,
fratellanza e servizio. Esso deve manifestarsi in scelte e gesti concreti, principalmente in difesa della
vita e dei diritti dei più vulnerabili e degli esclusi, e nel continuo sostegno a queste persone nei loro
sforzi per diventare soggetti di cambiamento e trasformazione della propria situazione.
«Il Santo Padre [Benedetto XVI] ci ha ricordato che la Chiesa è chiamata a essere “avvocato della
giustizia e difensore dei poveri” di fronte a “intollerabili diseguaglianze sociali ed economiche” che
“fanno alzare le braccia al cielo”. Abbiamo molto da offrire, poiché non c’è dubbio che la Dottrina
Sociale della Chiesa sia capace di suscitare speranza nelle situazioni più difficili. Perché se non c’è
speranza per i poveri, non ci sarà per nessuno: nemmeno per i cosiddetti ricchi.
«La scelta preferenziale per i poveri richiede di rivolgersi con particolare attenzione ai
professionisti cattolici responsabili dei bilanci degli Stati, a coloro che favoriscono l’impiego e ai
politici che devono creare le condizioni per lo sviluppo economico dei diversi Paesi, al fine di
proporre loro orientamenti etici coerenti con la loro fede.
«Ci impegniamo a lavorare affinché la nostra Chiesa latinoamericana e caraibica continui a essere,
con uno sforzo sempre maggiore, compagna di strada dei nostri fratelli più poveri, persino fino al
martirio. Che la scelta sia preferenziale implica che deve impregnare tutte le nostre strutture e
priorità pastorali. La Chiesa latinoamericana è chiamata a essere sacramento di amore, solidarietà e
giustizia per i nostri popoli.
«Ci viene chiesto di dedicare più tempo ai poveri, di prestare loro amorevole attenzione, di
ascoltarli con interesse, di accompagnarli nei momenti più difficili, di sceglierli per condividere ore,
settimane o anni della nostra esistenza e favorendo, a partire da loro stessi, il miglioramento delle
condizioni di vita in cui si trovano. Non possiamo dimenticare che lo stesso Gesù ci spinge a questo
con il suo modo di agire e con le sue parole: “Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi,
ciechi” (Lc 14,13).
«Solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di
oggi, i loro legittimi desideri e il loro modo di vivere la fede. La scelta per i poveri deve condurci
all’amicizia con loro. Giorno dopo giorno i poveri si fanno soggetti dell’evangelizzazione e della
promozione umana integrale: educano i propri figli nella fede, vivono una solidarietà costante tra
parenti e vicini, cercano continuamente Dio e danno vita al peregrinare della Chiesa. Alla luce del
Vangelo riconosciamo la loro immensa dignità e il loro valore sacro agli occhi di Cristo, povero
come loro ed escluso come loro. Da questa esperienza di fede condivideremo con i poveri la difesa
dei loro stessi diritti.»
Il documento parla inoltre della creazione e dell’utilizzo dei capitali: «Incoraggiamo gli imprenditori
che dirigono le grandi e medie imprese, i piccoli imprenditori, gli agenti economici della gestione
produttiva sia privata sia pubblica, che sono i creatori di ricchezza nei nostri Paesi, affinché si
sforzino di garantire nuovi posti di lavoro all’insegna della dignità umana, di favorire la democrazia,
di promuovere l’aspirazione a una società giusta e a una convivenza civile basata sul benessere e la
pace. E allo stesso modo ci rivolgiamo a coloro che non investono il proprio capitale in operazioni
speculative, bensì nel fornire opportunità di impiego preoccupandosi dei lavoratori, considerando
“loro e i loro familiari” la maggior ricchezza dell’impresa; a quelle persone che vivono
modestamente per aver fatto, da buoni cristiani, dell’austerità un valore inestimabile, che collaborano
con i governi nell’interesse del perseguimento del bene comune e che si prodigano in opere di
solidarietà e misericordia».
Il documento non dimentica i bambini. «Constatiamo con dolore la povertà, la violenza familiare
(soprattutto in famiglie irregolari o disintegrate), gli abusi sessuali che un gran numero dei nostri
bambini è costretto a subire. Conosciamo la situazione dei bambini lavoratori, dei bambini di strada,
di quelli affetti da Hiv; degli orfani, bambini soldato, bambini e bambine privati della loro innocenza
ed esposti alla pornografia e alla prostituzione forzata, sia virtuale sia reale. In particolar modo la
prima infanzia richiede un’attenzione e una cura speciali. Non si può restare indifferenti di fronte alla
sofferenza di tanti bambini innocenti» sostiene il testo.
E, riferendosi alla gioventù, afferma: «Inoltre apprendiamo con preoccupazione che innumerevoli
giovani del nostro continente vivono situazioni che li condizionano negativamente. Le conseguenze
della povertà, che limitano la crescita armonica delle loro vite e generano esclusione; la
socializzazione, che avviene in istituzioni non sempre tradizionali e che veicola valori dannosi e
spesso alienanti; la tendenza a farsi influenzare dalle nuove forme di espressione culturale,
subprodotti della globalizzazione, che contamina la loro identità personale e sociale. I giovani perciò
diventano facile preda delle nuove proposte religiose e pseudoreligiose. La crisi che attraversa la
famiglia oggigiorno genera in loro profonde carenze affettive e conflitti emotivi.
«In America Latina e nei Caraibi è necessario superare una mentalità maschilista che ignora la novità
del cristianesimo, dove si riconosce e si proclama la “eguale dignità e responsabilità della donna
rispetto all’uomo”».
Il documento propone anche una riflessione sulla salvaguardia dell’ambiente. «La ricchezza naturale
dell’America Latina e dei Caraibi sperimenta oggi uno sfruttamento irrazionale che sta lasciando
dietro di sé una scia di dilapidazione e persino di morte in tutta la nostra regione. In questo processo
un’enorme responsabilità è da attribuire all’attuale modello economico, che privilegia la smisurata
sete di ricchezza anziché la vita delle persone e dei popoli e il rispetto per la natura. La devastazione
delle nostre foreste e lo scarso riguardo nei confronti della biodiversità sono le conseguenze di un
atteggiamento predatorio ed egoista e implicano la responsabilità morale di coloro che li
promuovono, dal momento che mettono in pericolo la vita di milioni di persone e in particolar modo
l’habitat di contadini e indigeni, che vengono spinti verso terreni meno produttivi e verso le grandi
città, dove vivono ammassati in vaste aree di degrado. Da un lato la nostra regione ha bisogno di
progredire nel suo sviluppo agroindustriale per valorizzare le ricchezze delle sue terre e le sue
capacità umane al servizio del bene comune, ma dall’altro non possiamo rimanere ciechi di fronte ai
problemi provocati dall’industrializzazione selvaggia e incontrollata delle nostre città e campagne, la
quale contamina l’ambiente con ogni genere di rifiuti organici e chimici. Allo stesso modo è
doveroso lanciare un allarme sull’attività delle industrie di estrazione delle risorse che troppo
spesso non si preoccupano di monitorare e contrastare i propri effetti nocivi sull’ambiente
circostante, provocando la distruzione di boschi e l’inquinamento delle acque e trasformando le zone
sfruttate in immensi deserti.
«Soffermiamoci a riflettere su quanto sia fondamentale l’integrità morale dei politici. Molti Paesi
latinoamericani e caraibici (ma lo stesso avviene anche in altri continenti) vivono nella miseria a
causa dei problemi endemici legati alla corruzione. C’è bisogno di molta forza e di altrettanta
perseveranza per preservare la propria onestà, un valore irrinunciabile che deve nascere da una
nuova educazione atta a rompere il circolo vizioso della corruzione imperante. Si impone il bisogno
impellente di compiere un grande sforzo per avanzare verso la creazione di un’autentica ricchezza
morale che ci consenta di pensare al nostro futuro.
«Le sfide che ci attendono oggi in America Latina, e nel mondo, hanno una caratteristica peculiare.
Esse non solo riguardano tutti i nostri popoli con modalità simili ma, per essere affrontate,
richiedono una comprensione globale e un’azione congiunta da parte di tutti. Crediamo che “un
fattore che può contribuire notevolmente a superare i pressanti problemi che oggi colpiscono questo
continente sia l’integrazione latinoamericana”.
«La dignità di riconoscerci come una famiglia di latinoamericani e caraibici implica un’esperienza
singolare di prossimità, fraternità e solidarietà. Non siamo un semplice continente, un mero accidente
geografico con un mosaico inintelligibile di contenuti. Bisogna sommare e non dividere. È importante
cicatrizzare le ferite ed evitare manicheismi, pericolose esasperazioni e polarizzazioni. Le dinamiche
di integrazione dignitosa, giusta ed equa nel seno di ciascuno dei nostri Paesi favoriscono
l’integrazione regionale e a loro volta sono incentivati da essa.
«Compete inoltre alla Chiesa collaborare nel consolidamento delle fragili democrazie e nel positivo
processo di democratizzazione in America Latina e nei Caraibi, sebbene attualmente si presentino
gravi sfide ed esistano minacce di deviazioni autoritarie. Urge educare alla pace, dare serietà e
credibilità alla continuità delle nostre istituzioni civili, difendere e promuovere i diritti umani,
custodire in special modo la libertà religiosa e cooperare per suscitare i maggiori consensi
nazionali.»
È in questo contesto che Jorge Bergoglio, un latinoamericano, è stato eletto Papa. È il primo Papa
non europeo in un momento in cui l’Europa attraversa una grave crisi e una secolarizzazione della
propria cultura che l’ha portata ad allontanarsi persino dalle proprie radici cristiane. In Paesi come
l’Olanda o la Germania accade spesso che chiese di proprietà della confessione cristiana ufficiale
vengano chiuse e vendute per mancanza di fedeli, o considerate semplici monumenti, in ricordo di
una fede che un tempo evangelizzò il continente americano.
È interessante osservare i numeri degli annuari statistici del Vaticano. Nel mondo ci sono un miliardo
e centoventi milioni di cattolici, secondo i dati del 2010. Essi rappresentano circa il 16 per cento
della popolazione mondiale, stimata in 6,974 miliardi. Il 48,6 per cento dei cattolici vive nel
continente americano e il 41,3 per cento in America Latina, mentre il 23,7 vive in Europa, l’11,7 in
Asia, il 15,2 in Africa e lo 0,8 in Oceania. Inoltre, il 44 per cento dei leader della Chiesa cattolica in
tutto il mondo (compresi il Papa, i cardinali, vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi, missionari e
catechisti) proviene dall’America Latina.
Tra il 2009 e il 2010 il numero dei vescovi in tutto il mondo è cresciuto quasi dell’1 per cento.
L’Europa ha perso un rappresentante e l’Oceania tre, mentre l’America ha contato quindici nuovi
vescovi, l’Africa sedici e l’Asia dodici.
Risulta interessante, inoltre, analizzare l’evoluzione della fede cattolica in America Latina e in
Europa tra il 1900 e il 2010. Nel 1900 in Europa c’erano 181 milioni di cattolici e 277 milioni nel
2010. In America Latina, invece, nel 1900 ce n’erano 59 milioni, che diventarono 483 milioni nel
2010.
Ciò significa che, se in centodieci anni il numero di cattolici è cresciuto del 50 per cento in Europa,
in America Latina è aumentato circa del 900 per cento.
Alla luce di questi numeri, l’elezione di un Papa argentino in un momento in cui la Chiesa perde
migliaia di fedeli al giorno è un fatto davvero notevole.
Bergoglio è un Papa latinoamericano. Ed è la perfetta sintesi del fervore religioso e delle difficoltà
di un intero continente. La figura di Francesco ha già iniziato a richiamare la gente verso la Chiesa.
Dopotutto, il mondo stava chiedendo a gran voce per la Chiesa cattolica un leader con queste
caratteristiche. I fedeli erano stanchi dello sfarzo, della corruzione e delle ombre che quella
istituzione ispirava. Ebbene, Francesco è l’antitesi di tutto questo. Eccolo qui, è arrivato. Avrà la
forza sufficiente per gestire l’eredità che ha ricevuto? Non è solo. La gente è convinta che ce la farà.
Capitolo 10
Un uomo di tutte le religioni
Bergoglio ripete sempre che per essere un buon cattolico bisogna prima essere un buon ebreo. È
capace di concludere una messa in una scuola cattolica annunciando ai presenti che pregherà come
gli evangelici. Senza tanti giri di parole, una volta affermò che gli sarebbe piaciuto che molti cristiani
possedessero l’impegno e l’integrità morale di un suo amico ateo. Ogni settimana si trovava con il
giardiniere dell’Arcivescovado, che è pentecostale, per pregare un’ora insieme. Inoltre, pochi giorni
dopo la sua elezione ha chiesto ai cattolici di riconciliarsi con i musulmani.
Chi è Francesco? Certamente è un uomo di tutte le religioni.
È convinto che tutti i credi possiedano un punto di incontro. L’abilità sta nel trovarlo e mettere da
parte le divergenze per procedere sulla strada del dialogo e dell’unità.
Durante gli anni alla guida della Chiesa di Buenos Aires e dell’Argentina, l’attività pastorale di
Jorge Bergoglio è ruotata intorno a tre punti fermi: la povertà, l’istruzione e il dialogo interreligioso.
Ha lavorato strenuamente per stabilire legami duraturi con altri culti. Si è gemellato con diverse fedi
religiose e ha stabilito relazioni di amicizia con rabbini, pastori e imam. Pare che sia stata
un’impresa faticosa, perché svolta in silenzio. Inoltre, ha voluto creare contatti personali e conoscere
non solo i leader di altri movimenti religiosi, ma anche i rispettivi fedeli.
Si parla molto della necessità di costruire ponti, di ascoltare voci diverse e di cercare punti di
contatto, di celebrare la differenza invece di limitarsi a tollerarla. Il diverso non deve essere
emarginato, anzi va accolto per lavorare insieme al fine di raggiungere un obiettivo comune, il più
importante: il bene collettivo, la pace e la comprensione sociale.
L’uomo che è stato eletto il 13 marzo 2013 per dirigere la Chiesa cattolica nel mondo si è sempre
distinto per aver cercato il dialogo e l’avvicinamento con gli attori della società più vari e diversi,
ma soprattutto per aver instaurato legami nella sua area di competenza: le religioni e la spiritualità.
Fin dal primo momento, in veste di primate di Argentina, Bergoglio si era prefissato lo scopo di
proseguire l’opera iniziata dal suo predecessore, monsignor Antonio Quarracino, che aveva posto le
fondamenta del dialogo interreligioso. Bergoglio, da parte sua, ha costruito il solido edificio che ha
raggiunto l’apice quando, pochi giorni dopo essere stato eletto Papa, ha incontrato i leader di tutte le
religioni nel Vaticano.
In questo «conclave storico», celebrato nella spettacolare Sala Clementina del Palazzo Apostolico, il
Papa ha ricevuto i rappresentanti di trentatré confessioni cristiane (anglicani, evangelici, luterani,
metodisti e ortodossi, tra gli altri) e delle religioni ebraica, musulmana e buddista in un colorato
crogiuolo di credi. Per l’occasione nella sala hanno sfilato kippah ebraiche, copricapi musulmani,
cappucci armeni e tuniche buddiste.
Nel corso dell’incontro Francesco ha letto un appassionato discorso in cui ha chiamato tutti all’unità
per favorire il dialogo interreligioso. «La Chiesa cattolica è consapevole dell’importanza che ha la
promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose» ha
affermato. «E noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre,
per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace.»
Già in qualità di arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio aveva propiziato e condotto incontri con
ebrei, musulmani ed evangelici. Aveva fatto sedere intorno al tavolo del «dialogo argentino» i
rappresentanti dei vari culti e aveva organizzato incontri ecumenici in cui diversi credi si erano
riuniti per discutere temi riguardanti la società, e quindi comuni a tutte le religioni. Rispetto ad
alcune questioni, come ad esempio le unioni omosessuali, la Chiesa ha fatto fronte comune insieme
agli altri credi, che si sono mostrati uniti nella condanna ai matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Da quegli incontri non nacquero solo documenti che vennero diffusi e pubblicati dai principali mezzi
di comunicazione argentini, ma anche un’amicizia con i rappresentanti delle diverse religioni. Tutte
queste persone il 13 marzo 2013 hanno celebrato insieme ai cattolici l’elezione del cardinale
argentino come nuovo Papa.
Uno specchio fedele della gioia provata dal popolo argentino per l’elezione di Bergoglio è dato dal
fatto che non sono stati solo i cattolici a esserne entusiasti, ma anche i cittadini che professano
religioni diverse. Un’inchiesta realizzata dall’istituto argentino di indagini demoscopiche D’Alessio
Irol una settimana dopo il conclave ha chiesto a 418 persone di diverse religioni se consideravano
significativa l’elezione di Francesco come nuovo Papa. Il 95 per cento dei cattolici ha risposto di sì,
come il 100 per cento degli ebrei, l’89 per cento degli evangelici, il 90 per cento degli atei e l’85
degli agnostici, più l’89 per cento dei fedeli di altre religioni.
Inoltre è stato chiesto agli intervistati se si sentivano orgogliosi e perché. Il 61 per cento ha risposto
di sentirsi orgoglioso perché il Papa era argentino, il 55 perché era latinoamericano, l’85 perché era
un Papa vicino alla gente, il 55 per il suo modo di essere e il 41 per il nuovo impulso che avrebbe
dato al dialogo interreligioso.
All’interno dell’ebraismo, però, le posizioni rispetto al dialogo interreligioso sono diverse. Alcuni
vi aderiscono solo di facciata (dato che oggi è «politicamente corretto» farlo), altri non sono
interessati a promuoverlo e altri ancora si impegnano attivamente per realizzarlo fino quasi a
cancellare i confini tra una religione e un’altra. Il rabbino Sergio Bergman appartiene senza dubbio a
quest’ultimo gruppo. Lui stesso si definisce un «freelance della Chiesa cattolica» e non esita a
indicare Bergoglio come suo mentore e rabbino.
«La parola “rabbi” significa maestro» spiega Bergman nel suo ufficio al primo piano del tempio che
si trova in calle Libertad, nel centro di Buenos Aires, che fu la prima sinagoga del Paese. «Un
rabbino è un maestro della legge di Dio, ma dal mio punto di vista il termine ha un significato molto
più ampio. Per questo dico che Bergoglio è il mio rabbino, il mio maestro.»
L’ultima cerimonia a cui parteciparono i due leader religiosi si celebrò nel dicembre 2012, quando
Bergoglio si recò alla sinagoga di calle Arcos, tra calle Olazábal e calle Blanco Encalada, nel
quartiere Belgrano, per accendere le candele di Hanukkah in concomitanza con il Natale cristiano.
Non fu l’unica occasione di incontro: alcuni anni prima l’arcivescovo di Buenos Aires aveva
presieduto la cerimonia e aveva letto il sermone dello Yom Kippur, il «giorno dell’espiazione» nella
religione ebraica, considerato la festività più solenne dell’anno, nella sinagoga di calle Libertad. «Io
lo ringraziai per aver avuto il coraggio di venire al tempio nel giorno più sacro e importante per noi.
E lui mi rispose: “Qui quello davvero coraggioso sei tu. La sinagoga trabocca di fedeli e tu rivolgi la
parola a me. Sei pazzo!”. E aveva ragione: più di un fedele si alzò e se ne andò» racconta Bergman.
Un altro esempio della sintonia che può esistere tra le due religioni e tra due leader che condividono
l’ideale ecumenico fu la messa celebrata nella cattedrale metropolitana dopo la morte di Giovanni
Paolo II, nel 2005. «Non sapevano bene cosa fare con un rabbino come me in una messa di tale
importanza, così mi diedero un posto d’onore. E in effetti mi onorarono, ma soprattutto onorarono la
nostra unione» riconosce Bergman. Insieme, fuori dalle sinagoghe e dalle chiese, organizzarono la
prima esperienza di mensa comunitaria ebraico-cristiana, attivata prima in calle Arcos e poi presso
la sede della Caritas in calle Moldes. Anche l’attenzione per i quartieri periferici costituisce un altro
punto di incontro.
Nonostante il loro stretto rapporto, Sergio Bergman assicura che Bergoglio non ebbe mai vincoli
esclusivi con nessuna persona, settore né istituzione della società. «Non c’è ambito sociale in cui non
abbia un referente. Non ha mai fatto differenze con nessuno. Non ha mai detto: “Io sono in contatto
con il giudaismo attraverso un determinato rabbino o una determinata istituzione”. Lui dialogava con
tutti i rabbini e con tutte le istituzioni, riformisti e conservatori, di sinistra, di centro e di destra, in
una specie di costellazione. Questo la dice lunga su di lui e mi ha spinto, per mia decisione e sotto la
mia esclusiva responsabilità, a osare considerarlo il mio maestro.»
Con il rabbino Abraham Skorka, rettore del Seminario Rabbinico Latinoamericano e leader della
comunità Benei Tikva, Bergoglio ha condiviso la stesura del libro Il cielo e la terra, che raccoglie i
dialoghi tra i due religiosi. Nel 2012 Skorka fu testimone dell’unità ebraico-cristiana quando
ricevette dalle mani del rettore dell’Università Cattolica Argentina, il sacerdote Víctor Fernández, il
dottorato honoris causa. Fu un avvenimento eccezionale e Skorka divenne il primo rabbino a
ricevere questo riconoscimento da parte di un’università cattolica in America Latina. «Le istituzioni
cristiane sono capaci di riconoscere la saggezza presente in un rabbino al di là delle differenze che
sussistono» dichiarò Fernández nel consegnargli l’onorificenza, applaudito in prima fila dal
cardinale Jorge Bergoglio e dal nunzio apostolico, monsignor Paul Tscherrig.
Bergoglio, accusato dai kirchneriani di guidare l’opposizione dopo le dure dichiarazioni in merito
alla povertà imperante, alla mancanza di dialogo e agli egoismi personali, ha costruito un ponte anche
con il rabbino Daniel Goldman, della Comunità Bet-El, con il quale ha anche collaborato per la
creazione dell’Istituto per il Dialogo Interreligioso insieme al musulmano Omar Abboud. La
prossimità di Goldman con il governo non fu un ostacolo per il loro scambio, e questo dimostra
chiaramente che nessuno è mai rimasto fuori dall’orbita del dialogo di Jorge Bergoglio.
Bergman racconta che la sua relazione con il futuro Papa cattolico ebbe inizio nel contesto della
grave disintegrazione sociale, economica e morale provocata dalla crisi del 2001. Quell’anno il
presidente Eduardo Duhalde aveva chiesto alla Chiesa di ergersi a garante e custode della pace
sociale. Sulla scia di quella richiesta, monsignor Jorge Casaretto, vescovo della diocesi di San
Isidro, nella zona nord dell’area metropolitana, convocò un simposio invitando diversi referenti allo
scopo di ricostruire l’Argentina dopo il collasso.
«Fu Bergoglio a proporre di aprire il tavolo di dialogo a tutte le religioni. Disse: “La garanzia di
dare stabilità al Paese non è una missione per la sola Chiesa cattolica, ma per tutte le religioni e la
fede in generale”. Fu il punto di svolta del mio legame con lui. Non lo consideravo più solo come il
leader della Chiesa cattolica argentina, ma come un referente civile e personale» spiega il rabbino,
che inoltre riconosce a Bergoglio la leadership, ma nello stesso tempo la volontà di non apparire. «Si
mise alla testa del gruppo, ma tenendosi in secondo piano. Accompagnò tutto questo processo, che
poi fu abbandonato dagli argentini nel 2003, quando l’economia iniziò a riprendersi.»
Tuttavia, dire che il dialogo tra ebrei e cristiani in Argentina cominciò nel 2001 sarebbe falso e
significherebbe non riconoscere il giusto valore a molti segnali di avvicinamento e riconciliazione
tra i due credi avviati durante gli anni Ottanta e Novanta e addirittura molto prima, grazie al Concilio
Vaticano II. Senza dimenticare le parole di Giovanni Paolo II quando, all’interno di una sinagoga, si
riferì agli ebrei come ai «nostri fratelli maggiori nella fede».
In Argentina un segnale inequivocabile in questa direzione fu dato dal cardinale Antonio Quarracino
il 14 aprile del 1997, quando inaugurò nella cattedrale metropolitana un’opera in omaggio alle
vittime della Shoah. Il monumento, un simbolo dell’unione tra ebrei e cristiani, è composto da due
pannelli di vetro tra i quali sono collocate le pagine di libri di preghiere rinvenuti tra le rovine dei
campi di concentramento di Treblinka e Auschwitz.
«Noi abbiamo ricevuto l’eredità dei maestri che hanno dato vita al dialogo interreligioso. Noi
raccogliamo ciò che loro hanno seminato. Io sono cresciuto quando questo dialogo era già avviato,
per me è stato naturale, non una novità» assicura Bergman. «Ho studiato in una comunità riformista;
negli anni Ottanta molti dicevano che si era trasformata in una chiesa perché era frequentata da
vescovi e sacerdoti. Io rappresentai la comunità ebraica quando Giovanni Paolo II venne in visita in
Argentina. Bergoglio ha proseguito il percorso iniziato da Quarracino. Per questo affermo che con
Bergoglio è stata garantita la continuità; non abbiamo dovuto cominciare da zero. Ma con Francesco
il dialogo acquisterà un’altra dimensione, un altro ordine di grandezza. Lui si assumerà il compito di
coronare un lungo percorso» confida il rabbino.
Nel 2006 si presentò un nuovo punto di svolta nel rapporto tra Bergoglio e Bergman. Il rabbino infatti
decise di affrancarsi dalla sua immagine di referente della sua comunità di origine e abbracciò la
militanza politica e civile diventando membro del partito Propuesta Republicana, guidato dall’attuale
sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri. Quando Bergman sostiene che la sua aspirazione è «essere
il rabbino della società argentina» esprime la volontà di assumere il modello di Bergoglio. E sulla
base di quel modello ha deciso di dare vita a una «pastorale rabbinica» che esca dalla sinagoga e
vada per le strade. «Quando dico che il mio rabbinato è un magistero per tutta la società e non solo
per la mia comunità di origine, il mio ispiratore è Bergoglio. Lui è un maestro della spiritualità
civile. Ripete sempre che “la differenza non va tollerata, ma celebrata”. Non mi limito ad accettarti,
ma sono sinceramente felice che tu sia diverso. E questa è l’idea che intende sviluppare Francesco
nel suo papato.»
Nonostante la gioia per l’ascesa di Bergoglio al vertice della piramide ecclesiastica, molti non
esitano a confessare che stanno ancora cercando di superare la perdita. «Tutti coloro che avevano un
rapporto personale con lui stanno vivendo un vero e proprio lutto. Io, ad esempio, ho la sensazione di
aver perso il mio rabbino. Tuttavia è un lutto gioioso nella trascendenza; nessuno potrà mai portarmi
via quanto di Bergoglio vive in me. E in questa trascendenza la perdita non è totale, ma si evolve. Io
ho già interiorizzato la bussola, ho individuato il nord. Vorrei rivedere Bergoglio per provare la
gioia di stargli accanto, ma non sento la necessità di possederlo; anzi, desidero che si dedichi
all’immensa missione che lo attende e alla quale Dio lo ha chiamato.»
Il 2001 non fu un anno difficile solo per l’Argentina, ma rappresentò una sorta di spartiacque per il
mondo intero. Gli aerei che si schiantarono contro le Torri Gemelle a New York e quello che si
abbatté sul Pentagono segnarono un punto di svolta nei rapporti politici internazionali e nel modo in
cui il mondo occidentale rivolge il suo sguardo a Oriente. La sfiducia, il timore e la sete di vendetta
crescevano e additavano l’Islam come il nuovo nemico mondiale.
«Quegli anni erano particolarmente duri a causa delle complesse problematiche che il nostro Paese si
trovava costretto ad affrontare e, per altri aspetti, era un momento difficile per l’Islam nel mondo.
L’11 settembre, le guerre in Afghanistan e poi in Iraq fecero precipitare il nostro credo in una
situazione complicata, carica di dubbi e perseguitata dai pregiudizi. La strada che ci indicò il nostro
allora presidente del Centro islamico, Adel Mohamed Made, fu spiegare l’essenza dell’Islam dal
nostro punto di vista: quello di argentini di fede islamica» ricorda Omar Abboud, che all’epoca era
responsabile della Segreteria di cultura del Centro islamico.
In quelle occasioni di discussione e diffusione dei valori dell’Islam, Abboud conobbe padre
Guillermo Marcó, ex portavoce dell’allora cardinale Bergoglio. Anche se tempo prima Abboud
aveva mantenuto un rapporto piuttosto formale con l’arcivescovo di Buenos Aires in occasione dei
Te Deum del 25 maggio e nelle opere di sostegno alla comunità a cui il Centro collaborava insieme
alla Caritas e all’Associazione mutua israelita argentina (Amia), «fu lui, Marcó, con la sua generosità
e la sua vocazione per approfondire il dialogo, che mi presentò Bergoglio. Da allora intrattenemmo
un rapporto cordiale» racconta. «A quell’epoca, negli anni 2003 e 2004, ero già amico del rabbino
Daniel Goldman, che conoscevo bene perché avevamo lavorato fianco a fianco nel consiglio delle
Politiche sociali del ministero per lo Sviluppo sociale della nazione, oltre ad aver frequentato
insieme diversi incontri legati all’ambito religioso. Nacque così, con l’appoggio del cardinale, l’idea
di creare quello che oggi è l’Istituto del Dialogo Interreligioso.»
Tra le molte attività che realizzava, l’Istituto organizzò anche la prima visita del cardinale al Centro
islamico della Repubblica Argentina. «Venne ricevuto da tutta la commissione direttiva, il cui
responsabile era Adel Made. Fu una riunione molto importante in cui concordammo di continuare a
lavorare dalla prospettiva dei rispettivi credi per la difesa della vita e contro qualunque forma di
terrorismo e fondamentalismo» spiega Abboud. «Ricordo ancora le parole che Bergoglio lasciò
scritte nel libro dei visitatori del Centro islamico: “Rendo grazie a Dio misericordioso per
l’ospitalità fraterna e per lo spirito di patriottismo argentino che ho trovato qui e per la testimonianza
di impegno fondato sui valori storici della nostra nazione”. Da quel momento lo scambio con
Bergoglio divenne una consuetudine e si moltiplicarono le attività con diversi rappresentanti della
Chiesa e della comunità ebraica.»
A testimoniare questa fratellanza tra credi, nel 2005 fu siglato un accordo tra le diverse entità
religiose contro il fondamentalismo, un avvenimento che non aveva precedenti ad altre latitudini.
«All’epoca purtroppo eravamo tutti addolorati per la scomparsa del presidente del Centro islamico,
Made. Il cardinale assistette al rito funebre e accompagnò nella preghiera tutta la nostra comunità»
racconta Abboud. «Infine, il documento congiunto delle tre religioni venne sottoscritto
dall’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge Bergoglio, dal presidente del Centro islamico,
Halal Masud, dalla Daia (Delegazione delle associazioni israelite argentine) per mano di Jorge
Kirszenbaum e dalla Amia con Luis Grinwald. Il documento fu firmato anche da padre Guillermo
Marcó, dal rabbino Daniel Goldman e da me, che avevamo collaborato alla stesura del testo.»
Mano a mano che si moltiplicavano le occasioni di avvicinamento tra i diversi credi, il contatto con
il cardinale diventò frequente e poteva sia svolgersi nella più stretta ufficialità istituzionale sia
esprimersi in una conversazione semplice e informale. In tutte le ore passate insieme, Abboud ebbe
la possibilità di conoscere a fondo colui che oggi occupa il soglio di Pietro e non ha dubbi che come
Papa continuerà a favorire il dialogo, proprio come faceva quando era arcivescovo. «Francesco è
una persona che non solo cammina tra la gente, ma che vive in uno stato di pellegrinaggio continuo,
dotato di un profondo senso di missione e di misericordia e comprensione verso gli altri» sottolinea.
«Il nuovo Papa ha aperto una porta per realizzare una migliore convivenza con l’Islam. Jorge Mario,
Sua Santità Francesco, è una persona che conosce la religione islamica, i suoi valori, le sue
tradizioni, la sua cultura.»
In questo complesso contesto mondiale il dialogo interreligioso è una delle necessità essenziali per
Abboud. «Nella Repubblica Argentina questo dialogo è una realtà. Nonostante nel nostro Paese i
musulmani siano una minoranza, l’atteggiamento del cardinale è sempre stato di estrema generosità e
apertura alla possibilità di costruire ponti tra noi» riconosce. «Il dialogo interreligioso non si
propone di essere sincretico al fine di diluire le rispettive identità. E non si pone nemmeno un
obiettivo di ordine teologale dal momento che, se ci atteniamo solo all’ambito del sacro, e cioè al
modo di credere o di rendere testimonianza al Creatore, la possibilità di conciliare le posizioni è
quasi nulla. Invece, esso è la ricerca costante di un accordo di valori con l’altro, in modo tale da
poter percorrere la maggior parte del cammino insieme in pace e in armonia, mettere in pratica la
solidarietà e, soprattutto, non perseverare nell’errore, anche se questo a volte implica fare
autocritica.»
Quasi tutti i rappresentanti dei diversi credi hanno affermato che è stato proprio durante l’ultima crisi
economica del 2001 che si è cominciato ad avanzare lungo la strada del dialogo interreligioso. La
crisi, quindi, ha avuto almeno un risvolto positivo. E gli evangelici non fanno eccezione. Mentre il
Paese viveva le sue ore più difficili, alcuni pastori membri del Consiglio nazionale cristiano
evangelico si riunirono con i rappresentanti della Conferenza episcopale e redassero un documento
congiunto alla vigilia della più grave crisi finanziaria della nazione. Ma a mano a mano che la
situazione peggiorava, le dichiarazioni si rivelavano insufficienti. Allora sacerdoti e pastori decisero
che era giunto il momento di lasciarsi alle spalle le differenze dogmatiche per chiedere, anzi
supplicare Dio di avere pietà del Paese. E così fecero. Si riunivano ogni settimana a pregare nella
curia di Buenos Aires.
Durante questo avvicinamento i pastori evangelici rimasero stupefatti dall’atteggiamento e dal
rispetto che padre Bergoglio mostrava loro e, allo stesso tempo, cominciarono a comprendere che il
potere della preghiera si rafforzava quando mettevano da parte le differenze e alzavano insieme la
bandiera della fede.
Quello fu solo l’inizio. Nell’ottobre 2012 circa seimila persone parteciparono al sesto incontro
fraterno di Comunione rinnovata di evangelici e cattolici nello Spirito Santo (Creces), del quale
Bergoglio fu mentore e garante. Senza alcuna differenza tra pastori e sacerdoti, tra evangelici o
cattolici, parteciparono tutti come semplici fratelli all’evento che ospitò come oratore principale
padre Raniero Cantalamessa, il teologo e predicatore della Casa Pontificia, che arrivò appositamente
dal Vaticano per prendervi parte.
Bergoglio si mescolò tra la folla come un fedele qualsiasi. Bevve il mate, mangiò empanadas e
quando arrivò il suo turno, prima di cominciare a parlare, ci fu un’ovazione. Canti e applausi
ritardarono di vari minuti l’inizio del discorso del cardinale. Tutti volevano omaggiare colui che, con
la sua umiltà e il suo basso profilo, era stato uno dei principali promotori del dialogo ecumenico
interreligioso in Argentina. Certo, in quel momento nessuno sapeva che cinque mesi più tardi quello
stesso uomo sarebbe diventato Papa.
«Gesù passò la gran parte del suo tempo per la strada e ancora oggi continua a stare in mezzo a noi.
La gente non si lasciava sfuggire l’opportunità di stargli accanto. Di toccarlo, di stringerlo, di
apprendere da lui. Io non temo coloro che combattono Gesù, perché quelle persone hanno già perso.
Ho più paura dei cristiani distratti, addormentati, che non vedono passare Cristo. Abbiamo perso due
cose: la capacità di stupirci di fronte alle parole del Signore, perché siamo bombardati da notizie che
mettono in secondo piano la Buona Novella, e la tenerezza. Gesù si avvicinava alle piaghe umane e
le curava. Dobbiamo recuperare queste due caratteristiche: non abituiamoci a vedere il malato o
l’affamato senza stupirci o senza provare tenerezza» affermò.
Da quando cominciarono gli incontri fraterni di Creces, nel 2004, Bergoglio presenziò sempre.
All’inizio partecipava come un fedele qualsiasi. Arrivava e prendeva posto tra la gente sugli spalti
senza farsi notare. Gli piaceva stare in mezzo al popolo, assistere alla devozione congiunta di
cristiani provenienti da diverse formazioni ma uniti da una stessa fede. Partecipava ai canti e
addirittura sollevava le mani al cielo in atteggiamento di adorazione, un gesto che in genere
appartiene più agli evangelici che ai cattolici.
Quando raggiunse il palco montato nello stadio Luna Park, nel cuore di Buenos Aires, Bergoglio si
inginocchiò e chiese ai pastori e ai sacerdoti di pregare insieme per lui. Fu un gesto di umiltà e unità
che i presenti non potranno dimenticare facilmente.
Inginocchiato, il primate di Argentina ricevette la benedizione con l’imposizione delle mani da parte
dei pastori e dei sacerdoti presenti all’incontro. Tra loro c’erano padre Cantalamessa, il pastore
Giovanni Traettino, vescovo della Chiesa Evangelica della Riconciliazione in Italia; Matteo Calisi,
presidente della Comunità di Gesù (comunità cattolica carismatica di alleanza); Jorge Himitian,
pastore della comunità cristiana di Buenos Aires; Carlos Mraida, della Chiesa Battista del Centro, e
Norberto Saracco, pastore della Chiesa Evangelica Pentecostale.
«Che bello vedere che non ci tiriamo pietre, che non litighiamo furiosamente! Che bello vedere che
nessuno negozia sul cammino della fede!» esclamò poi il cardinale parlando con il fervore di un vero
pastore davanti alla folla riunita al Luna Park. Dopodiché rimase tutta la sera all’incontro,
condividendo gli spalti e i gesti più semplici con il pubblico. Quando i giornalisti arrivarono per la
conferenza stampa, i responsabili dell’evento dovettero far fronte al difficile compito di trovare
Bergoglio, che si era perso tra la folla.
Dal palco fece un ulteriore gesto di pacificazione. Tra i presenti si trovava anche un ridotto gruppo di
giovani cattolici, giunto al luogo dell’incontro per manifestare il proprio disappunto nei confronti di
quel dialogo fraterno che il cardinale caldeggiava. Uno di loro si avvicinò al palco, mostrò
un’immagine della Vergine Maria, a voler sottolineare le differenze tra le varie fedi. Con fare
benevolo e senza minimamente scomporsi, Bergoglio si avvicinò a quel giovane, prese l’immagine
della Madonna, la arrotolò e la infilò nella sua valigetta.
I gesti di Bergoglio segnarono quell’incontro e i successivi. I partecipanti concordano nel dire che
non fu solo un momento di condivisione tra cattolici ed evangelici: ciò che si visse a Buenos Aires fu
una vera e propria festa di unità in Cristo.
Padre Cantalamessa fu predicatore di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e adesso lo sarà di
Francesco. In quell’occasione, durante una conferenza stampa con i media nazionali, affermò: «Io
ritengo che quanto ho visto a Buenos Aires è un evento pionieristico: cristiani di diverse confessioni
che esprimono la propria fede tutti insieme. Cattolici ed evangelici, senza divisioni. Un simile
avvenimento è come la Pentecoste. I cristiani devono viverlo così: come una nuova Pentecoste».
La testimonianza di quanto stava succedendo agli incontri ecumenici di Creces arrivò, come ha
riferito lo stesso padre cappuccino, alle orecchie di Papa Benedetto XVI e catturò l’attenzione del
Vaticano. «La Chiesa sta seguendo con grande interesse quanto sta accadendo a Buenos Aires. La
Chiesa è attenta a questo evento, che io ritengo essere un segno profetico dei nuovi tempi. È il modo
giusto di scongiurare il fondamentalismo religioso: cristiani che si abbracciano, che si incontrano per
condividere la propria fede.» Di certo, allora, Cantalamessa non avrebbe mai sospettato che l’uomo
che sedeva al suo fianco presto sarebbe diventato Papa.
Quel pomeriggio dell’ottobre 2012 migliaia di cristiani assistettero all’incontro ecumenico che a
ogni nuova edizione vede raccogliersi un pubblico sempre più numeroso. Il suo motto era «Il
Vangelo, potere di Dio» e mobilitò comunità provenienti da tutto il Paese. Fin dal mattino presto le
strade che circondavano il Luna Park traboccavano di gente. Sacerdoti, laici, pastori, religiosi e
molte famiglie con bambini piccoli parteciparono tutti insieme alla festa. Non c’erano distinzioni tra
loro. Tutti erano lì con lo stesso proposito: celebrare il piacere di condividere la propria fede in
Gesù Cristo.
Le lodi vennero recitate dal pastore Sebastián Golluscio. I sacerdoti e i pastori condivisero il mate e
il bicchiere arrivò nelle mani dell’arcivescovo di Buenos Aires in persona. Al pastore Himitian fu
dato il compito di leggere la «Dichiarazione comune dell’incontro fraterno», un documento congiunto
che viene diffuso in ogni edizione.
«Lo Spirito Santo ha aperto i nostri occhi spirituali e abbiamo potuto comprendere cose molto
semplici e tuttavia grandiose. Cose molto note, ma allo stesso tempo ignorate. Abbiamo capito che la
Chiesa è molto più di un edificio materiale in cui si rende gloria a Dio. Tutti noi siamo figli di Dio e
di conseguenza siamo fratelli. Cristo ha fondato una sola Chiesa e desidera che la sua Chiesa
manifesti nel mondo l’unità e la santità che caratterizzano Dio» proclamò davanti alla folla.
Da Roma, il giorno dopo la sua elezione, Papa Francesco telefonò a una collaboratrice a lui molto
vicina che era stata una delle promotrici dell’incontro tra cattolici ed evangelici. «Voglio
ringraziarla per ciò che sta facendo per la Chiesa e per i suoi fratelli “eretici”» le disse con la sua
solita ironia.
«La sua elezione a Papa è stata una risposta alle nostre preghiere» assicura il pastore Norberto
Saracco, rettore del seminario Fiet di Buenos Aires e uno dei coordinatori del consiglio pastorale
della città. «Bergoglio è un uomo di Dio. Tiene con tutto il cuore all’unità della Chiesa; il suo non è
un semplice gesto istituzionale. La sua priorità è l’unità, a partire da quella del popolo.»
Un crogiuolo di religioni
Nella sua vita Bergoglio ha partecipato a un solo programma televisivo. Vi si discuteva di temi
universali con il rabbino Skorka e con il pastore evangelico Marcelo Figueroa. Il programma venne
trasmesso su Canal 21, il canale televisivo dell’arcivescovato. Fin dalla nascita del canale Bergoglio
si era opposto all’idea che diventasse uno strumento di propaganda della sua attività pastorale.
Un giorno propose a Figueroa (che aveva conosciuto quasi dieci anni prima, quando era direttore
della Società Biblica Argentina) di avviare una collaborazione. «Lavorammo insieme nel servizio
ecumenico concentrandoci sulla Bibbia e sul suo ruolo nell’incontro interconfessionale. Con il tempo
quella relazione meramente istituzionale si è trasformata in un profondo rapporto fraterno e infine in
una sincera amicizia personale» racconta il pastore.
Nella primavera del 2010 Bergoglio lo invitò a partecipare alle attività di Canal 21. «Dopo varie
riunioni e proposte giunsi alla conclusione che sarebbe stato interessante e significativo portare sullo
schermo un programma basato sul dialogo interreligioso. Sarebbe stato un modo per mostrare,
attraverso i mezzi di comunicazione, l’incontro fraterno tra le diverse confessioni di fede, e cioè una
realtà genuina e feconda a Buenos Aires da almeno un decennio. Naturalmente posi una condizione: il
cardinale Bergoglio doveva assolutamente partecipare» ricorda Figueroa.
Convincerlo non fu semplice. Ma alla fine acconsentì e così nacque il programma televisivo in cui
Skorka, Figueroa e Bergoglio offrivano una riflessione dalla propria prospettiva di fede (ebraica,
evangelica e cattolica) su diversi temi di attualità. «Il punto di contatto nell’approccio furono le
Sacre Scritture, ma l’ampiezza e la profondità dei contenuti erano libere ed eclettiche. Furono scelti
temi molto vari; tutti però avevano in comune il contenuto sociale.
«Nessuno dei tre adottò mai una posizione da cui si proclamava detentore della verità rivelata;
ciascuno, alla pari degli altri, si sentiva uno dei costruttori di un pensiero superiore, all’interno di un
edificio concettuale realizzato in collaborazione» spiega Figueroa.
«Durante quel ciclo indimenticabile conobbi l’enorme propensione all’ascolto di padre Jorge, la sua
sottile capacità di analisi dei temi dal punto di vista spirituale, il suo bagaglio di conoscenze che
variavano senza interruzioni da una citazione filosofica al testo di un tango, il suo istrionismo messo
al servizio di una comunicazione piacevole, la sua enorme umiltà nell’evitare l’autoreferenzialità,
tranne quando raccontava qualche avvenimento in cui si sentiva un alunno della vita e del Signore»
ricorda.
Tempo dopo, fu grande la sorpresa quando si seppe che quel ciclo televisivo era l’unico che Papa
Francesco avesse mai realizzato. «Senza dubbio è un evento storico, un tesoro inestimabile per il suo
amato Canal 21 e un’eredità viva, profonda, piacevole e genuina del suo pensiero» aggiunge
Figueroa.
Capitolo 11
Quando Dio vota: elezioni in Vaticano
Non era il favorito. Il suo nome non risuonava nelle agenzie di scommesse né tra i vaticanisti, ovvero
gli analisti politici delle vicende del Vaticano. Tuttavia, Bergoglio è sempre stato «il candidato». Fin
dal primo momento in cui i cardinali si rinchiusero nella Cappella Sistina con il compito di eleggere
il duecentosessantaseiesimo successore di Pietro, con gli affreschi di Michelangelo come testimoni,
il nome di Jorge Bergoglio era in cima alla lista. E già alla prima votazione ricevette molte
preferenze.
Se prima di partire da Buenos Aires non avesse continuato a ripetere che i suoi settantasei anni lo
escludevano automaticamente dall’elezione, oggi centinaia di persone si sarebbero arricchite. Nei
giorni precedenti al conclave un esperto della britannica Nottingham Business School dichiarò che il
denaro investito nelle scommesse per l’elezione del nuovo Papa raggiungeva la cifra di undici
milioni e mezzo di euro.
Tre giorni prima di salire sull’aereo che lo avrebbe portato a Roma, Bergoglio ricevette presso la
curia un gruppo di religiosi dell’Istituto dei padri di Schönstatt, una comunità tedesca che ha sede in
calle Florencio Varela, nell’area metropolitana. All’incontro parteciparono padre Ángel Strada e un
gruppo di sacerdoti e seminaristi argentini e paraguayani. Quando gli posero per l’ennesima volta la
domanda che tutti gli stavano rivolgendo in quelle ore, Bergoglio rispose con ironia: «Ho saputo che
a Londra ci sono delle quote su di me. Scommettete pure sul mio nome». Poi scoppiò a ridere e
chiarì: «Ma no, state tranquilli. Sono sicuro che sarà lo Spirito Santo a scegliere il Papa».
L’incontro durò circa un’ora e fu l’ultimo sabato che Bergoglio trascorse a Buenos Aires. Erano le
9.15 quando i religiosi arrivarono alla sede della curia. Erano in anticipo di quindici minuti, ma il
cardinale li stava già aspettando sulla porta e li fece accomodare.
Padre Strada racconta che Bergoglio li ricevette con grande calore; precisò di non volere che la
conversazione fosse incentrata solo su di lui e li esortò a domandargli tutto quello che desideravano.
Gli chiesero quali requisiti avrebbe dovuto avere il nuovo Pontefice dal suo punto di vista. «Vi darò
una risposta forse scontata, ma sono i valori in cui credo. Primo: il nuovo Papa deve essere un uomo
di preghiera, unito a Dio con tutto se stesso. Secondo: deve essere una persona fermamente convinta
che il padrone della Chiesa sia Gesù Cristo, non lui, e che Gesù Cristo sia il Signore della storia.
Terzo: non può che essere un buon vescovo. Un uomo che sappia prendersi cura degli altri,
accoglierli; un uomo capace di mostrare affetto alle persone e di creare comunione. E quarto: deve
essere in grado di ripulire la curia romana» spiegò, stando a quanto riferisce padre Strada. «Senza
saperlo, stava descrivendo se stesso» aggiunge il sacerdote.
Il cardinale affermò che la Chiesa non deve arroccarsi sulle proprie posizioni, ma deve andare
incontro agli uomini. «Bergoglio sostiene che ci sbagliamo quando pensiamo che nel gregge ci siano
novantanove pecore e che fuori ci sia una sola pecora smarrita. È esattamente il contrario: nel gregge
ci è rimasta una pecora e novantanove si sono perse» continua padre Strada.
«Oggi non servono chierici, né funzionari ecclesiastici; servono pastori che abbiano addosso l’odore
delle pecore, pastori che stiano insieme a loro, che non le picchino e che, al contrario, se ne
prendano cura con immenso amore» diceva Bergoglio.
L’incontro fu una specie di anticipazione di quanto sarebbe accaduto in seguito. Non solo perché
l’uomo che li aveva ricevuti sarebbe diventato il nuovo Papa, ma anche perché i quattro punti chiave
che aveva illustrato erano molto simili a quelli che avrebbe ripetuto durante la congregazione
precedente al conclave, una riunione nella quale i centoquindici cardinali che avrebbero votato il
nuovo Sommo Pontefice tracciarono un profilo della guida di cui aveva bisogno la Chiesa cattolica.
Inoltre, Bergoglio usò l’espressione «il pastore che ha addosso l’odore delle pecore», la stessa che
avrebbe pronunciato durante la messa del Crisma del Giovedì Santo, già consacrato Papa, per
rivolgersi ai sacerdoti. Va sottolineato che Strada rivelò questi dettagli dell’incontro prima della
Settimana Santa e prima che il cardinale cubano Jaime Ortega diffondesse il contenuto del discorso
di Bergoglio davanti al Collegio cardinalizio che si riunì in preparazione all’elezione del Pontefice.
Se avessero dato ascolto al proprio intuito, i seminaristi avrebbero di certo fatto qualche puntata. Ma
fu lo stesso Bergoglio a scoraggiare qualunque illusione sulla possibilità di essere eletto. Quando gli
chiesero delle sue condizioni di salute, uno dei sacerdoti gli consigliò di stare attento: «Se i cardinali
la vedono così in forma non la lasceranno tornare a casa».
«Ho già pensato a tutto quanto» rispose Bergoglio, che ha sempre la battuta pronta. «Mi presenterò al
conclave con un bastone, così gli altri cardinali diranno: “Non possiamo certo eleggere un vecchietto
come quello!”»
Al compimento dei settantacinque anni Bergoglio aveva presentato la sua rinuncia a Benedetto XVI,
come stabiliscono le norme del Vaticano. Aveva pensato di ritirarsi, di andare in pensione, perciò
aveva già cominciato a riordinare le sue carte e i suoi oggetti personali. E quando sistemò la sua
scrivania diede a un collaboratore una pila di fogli da buttare: voleva lasciare tutto in ordine in modo
tale che il suo successore all’Arcivescovado trovasse ogni cosa al proprio posto.
Bergoglio era deciso a farsi da parte. Dopo essere stato alla guida della Conferenza Episcopale
Argentina per due mandati di tre anni, nel novembre 2011 aveva rinunciato all’incarico. Aveva
intenzione di andare in pensione come arcivescovo e a cominciare una vita più tranquilla, dedicata
alla preghiera e alla meditazione. A questo scopo aveva già scelto una stanza nella residenza per
sacerdoti e vescovi emeriti dell’Arcivescovado. La stanza che avrebbe occupato, da quanto si seppe
in seguito, non era molto diversa dalla modesta e austera sistemazione dei nuovi appartamenti papali
in cui avrebbe deciso di stabilirsi una volta eletto Papa. Francesco infatti ha rifiutato il lusso della
residenza ufficiale, preferendole una stanza spoglia, nel complesso di Santa Marta, all’interno del
Vaticano, a soli trecento metri dalla Cappella Sistina. Era la stessa dove aveva alloggiato durante il
conclave.
Tuttavia Benedetto XVI non accettò la sua rinuncia. Bergoglio aveva addosso troppo «odore di
pecora» per poter andare in pensione, soprattutto considerando che oggigiorno la speranza di vita
media ha prolungato di molto la vita attiva delle persone e che i buoni pastori scarseggiano.
Benedetto XVI protrasse per altri due anni la vigenza del suo cardinalato. Fu un atto di riconoscenza
di Joseph Ratzinger a colui che nel 2005 aveva abbandonato la corsa al papato affinché i suoi voti
andassero al candidato tedesco. Benedetto XVI era salito al soglio pontificio grazie al ramo più
conservatore della Chiesa, ma il gesto di magnanimità di Bergoglio l’aveva spinto ad avere questi e
altri riguardi nei confronti del suo «rivale» principale.
Tra il febbraio e il marzo 2005, dopo ben ventisette anni di papato, le condizioni di salute di
Giovanni Paolo II peggiorarono. Fu subito chiaro che il conclave per eleggere un nuovo Papa era
imminente. Cominciarono le riunioni ufficiose, gli accordi e i conciliaboli. Il Collegio cardinalizio,
composto allora da centodiciassette membri, doveva scegliere il successore di Karol Wojtyła.
Esistevano due gruppi ben distinti: conservatori e progressisti. Tuttavia alcuni vaticanisti, come
Gerard O’Connell, preferirono non avvalersi di definizioni così schematiche per classificare i
cardinali dal punto di vista ideologico. O’Connell decise di dividerli in due blocchi in funzione del
loro atteggiamento verso il mondo e verso gli altri. Perciò denominò alcuni cardinali «i difensori
della fortezza» e definì gli altri «i costruttori di ponti».
Tra i primi si trovavano coloro che intendevano mantenere lo status quo della rete di potere
intessutasi nel Vaticano durante uno dei papati più lunghi della storia. Data la loro visione gerarchica
della Chiesa, «gli altri» rappresentavano un pericolo per l’identità cattolica; inoltre questi cardinali
ritenevano che l’apertura al mondo promossa dal Concilio Vaticano II avesse debilitato la fede. Il
candidato naturale di questo gruppo era Joseph Ratzinger, che all’epoca aveva settantasette anni ed
era stato il custode dell’ortodossia cattolica durante il pontificato di Giovanni Paolo II.
Dal lato opposto si trovavano i «costruttori di ponti». Alcuni erano più progressisti di altri, ma tutti
concordavano sulla necessità di promuovere riforme nella curia romana. O’Connell li suddivise a
loro volta in «riconciliatori», aperti al mondo, ma con cautela e prudenza per non alterare i
fondamenti di base della Chiesa, e in «nuovi orizzonti», ovvero sacerdoti promotori di riforme più
profonde che implicassero, ad esempio, la collegialità (cioè una maggiore partecipazione dei
vescovi alle decisioni del Papa) e l’aggiornamento della dottrina in funzione delle caratteristiche
della società attuale, il che sottintendeva un nuovo atteggiamento verso i divorziati e un’apertura
nella morale sessuale dei cattolici.
In quei giorni Bergoglio cominciò a essere citato dai media italiani e francesi come il favorito della
linea dei «riconciliatori»: apertura al mondo, ma con cautela e prudenza. La scelta sembrava
dirigersi verso un candidato che riunisse quelle caratteristiche e risultasse equidistante tra i difensori
dello status quo e i riformisti a oltranza. Nel ricordo dei cardinali elettori era ancora fresca la
partecipazione di Bergoglio al Sinodo dei vescovi di settembre e ottobre del 2001, quando aveva
dovuto assumere il ruolo di relatore dell’incontro poiché il cardinale newyorkese inizialmente
incaricato si era visto obbligato a rinunciare a causa degli attentati contro le Torri Gemelle, che lo
avevano richiamato a svolgere urgenti opere pastorali nella sua città.
In quell’occasione Giovanni Paolo II aveva convocato il primo Sinodo del XXI secolo per discutere
insieme le caratteristiche del vescovo del terzo millennio. Venne fatto un appello esplicito ai vescovi
di tutto il mondo affinché fossero «effettivamente poveri» per essere credibili e stare a fianco agli
esclusi. Non è un caso, quindi, che Bergoglio si sia distinto con la sua partecipazione. Senza farsi
alcun tipo di propaganda e appena sette mesi dopo essere stato nominato cardinale, l’argentino si
collocò subito tra i favoriti.
In diversi momenti della sua vita il suo basso profilo e la sua eloquenza disarmante l’avevano
catapultato dall’anonimato al ruolo di protagonista. «Come fa Bergoglio a risultare sempre primo
nelle votazioni?» si erano chiesti i vescovi latinoamericani durante la conferenza del Consiglio
episcopale latinoamericano di Aparecida nel 2007. «È semplicemente se stesso» fu la risposta.
Così, quando mancavano pochi giorni all’inizio del conclave del 2005, comparve un’alternativa per
l’ala riformista: promuovere un candidato «di bandiera» capace di disputare l’elezione a Ratzinger
per poi canalizzare i voti verso una figura meno altisonante.
Quel candidato risultò essere Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano. Il cardinale aveva
buone possibilità di essere eletto Sommo Pontefice, anche se a causa della sua età avanzata (aveva
ottantacinque anni) e del morbo di Parkinson che lo affliggeva, non era nelle condizioni di assumersi
una simile responsabilità. (Martini morì un anno prima dell’elezione di Bergoglio.)
Il 2 aprile 2005, dopo la morte di Wojtyła, si aprì l’incognita della successione. Bergoglio stava
celebrando la messa alla Villa 21 quando apprese la notizia. Apparve subito costernato, quasi
confuso. Il giorno seguente celebrò un servizio religioso presso la cattedrale metropolitana per
l’eterno riposo di Giovanni Paolo II e si preparò a partire per Roma.
La costituzione apostolica Universi Dominici Gregis (che significa «Dell’intero gregge di Dio» e il
cui sottotitolo recita «Circa la vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del Romano Pontefice»)
stabilisce che alla morte di un Papa nel Vaticano si instauri il regime di «sede vacante». Il governo
della Chiesa cattolica passa in mano al Collegio cardinalizio, composto da tutti i cardinali, che dal
1059 detiene il diritto e la responsabilità di eleggere il Pontefice. Per poter partecipare come elettori
i cardinali devono avere meno di ottant’anni. Coloro che superano questa soglia possono essere eletti
e partecipare alle riunioni preparatorie, ma non possono votare.
La cerimonia rispetta alcuni rituali rigorosi; nel 2005 la maggior parte dei vescovi elettori non li
conosceva, dato che non aveva preso parte alla precedente elezione del Papa polacco. Nel 1996 il
processo elettivo era stato riformato. Quell’anno Giovanni Paolo II aveva stabilito, tra le altre cose,
che il voto fosse segreto e che fosse necessario un quorum di due terzi o la maggioranza assoluta.
I cardinali elettori non possono essere più di centoventi e devono riunirsi all’interno della Santa
Sede per scegliere il successore di Pietro. Tuttavia, per tradizione, dal 1492 la votazione si svolge
all’interno della Cappella Sistina. Quando i cardinali entrano nella cappella non possono più
abbandonarla né mantenere alcun tipo di contatto con il mondo esterno finché non giungono a un
accordo.
Prima dell’elezione di Giovanni Paolo II non c’erano stanze né spazi adeguati per rispondere alle
necessità che richiede una permanenza così prolungata. Si improvvisavano stanze nei saloni contigui
alla cappella in modo che i cardinali potessero riposare, ma mano a mano che le votazioni si
protraevano l’ambiente diventava sempre più disordinato e caotico. Perciò Giovanni Paolo II decise
di far erigere un complesso di centoventi stanze e venti saloni all’interno del Vaticano, chiamato
Domus Sanctae Marthae (Residenza Santa Marta). I cardinali lo usarono per la prima volta nel
2005.
Il conclave deve essere celebrato tra il quindicesimo e il ventesimo giorno dalla morte del Papa.
Durante questo periodo in Vaticano si tramano intrighi e si ordiscono strategie.
Il cardinale italiano Achille Silvestrini (che aveva già superato gli ottant’anni) era la mente che stava
dietro i riformisti, conosciuti anche come il gruppo «Faenza». Silvestrini non votava ma era
considerato un kingmarker, cioè un «creatore di re», una persona rispettata dall’elettorato e perciò
capace di stabilire una tendenza. Nel polo opposto il colombiano Alfonso López Trujillo, lo
spagnolo Julián Herranz (dell’Opus Dei) e Angelo Sodano, segretario di Stato del Vaticano, che
molti soprannominavano «i wojtyliani di ferro», si misero a capo di una cordata ultraconservatrice.
In assenza di un candidato condiviso, riformisti e conservatori cominciarono a screditare i papabili
della parte avversaria.
Otto giorni dopo la morte di Wojtyła diversi cardinali denunciarono di aver ricevuto in forma
anonima una pubblicazione dal titolo Ob Fidem Et Chlientela, un pamphlet di stampo conservatore
che nelle sue pagine attaccava Silvestrini e lo definiva «progressista in campo religioso e
filocomunista in politica». Inoltre criticava il gruppo «Faenza» e qualsiasi gesto di apertura compiuto
durante il pontificato di Giovanni Paolo II.
Alcuni giorni più tardi, quando la stampa europea già piazzava Bergoglio tra gli otto candidati
principali, cominciarono a circolare pubblicazioni riguardanti la sua presunta implicazione nel caso
dei due preti gesuiti che erano stati sequestrati e torturati durante la dittatura militare argentina e che
lui non avrebbe protetto adeguatamente (si veda il capitolo 4, La difficile missione di imparare a
governare).
In quel momento Bergoglio spiegò ai suoi collaboratori che l’ultima cosa che voleva fare era
replicare a quell’accusa. «Non ho intenzione di attribuire alcuna importanza ai diffamatori»
considerò.
Le campagne di discredito continuarono a infuriare e raggiunsero persino Ratzinger, il candidato più
forte e a cui mancava il sostegno di soli quaranta elettori, secondo quanto era stato stimato nel
preconclave.
Il blocco riformista decise di proseguire con la sua nuova strategia per affrontare i «wojtyliani di
ferro». La prima mossa sarebbe stata concentrare i voti del gruppo sulla figura di Martini, un
intellettuale che da alcuni anni viveva a Gerusalemme per approfondire gli studi sulla Bibbia.
Nonostante la sua malattia gli togliesse la possibilità concreta di essere eletto, come candidato
simbolico aveva autorità a sufficienza per raggruppare i riformisti e poi, in seconda istanza,
promuovere un candidato effettivamente eleggibile verso il quale i suoi sostenitori avrebbero
canalizzato il proprio voto.
«Il candidato potrebbe essere un outsider» commentavano i vaticanisti in quei giorni.
Nelle congregazioni precedenti al conclave i cardinali si riunivano per tracciare un profilo del nuovo
Papa, ma senza mai fare nomi. Era l’inizio del dibattito che avrebbe portato alla nomina del
Pontefice.
Nell’elezione del 2005 padre Raniero Cantalamessa, il predicatore della Casa Pontificia, ebbe il
compito di delineare un identikit del nuovo Papa nella decima congregazione del Collegio
cardinalizio, la penultima prima del conclave. In quell’occasione parlò della necessità di una
maggiore partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale.
Per Bergoglio, Cantalamessa era un volto noto. Condividevano la vocazione ecumenica della Chiesa,
tanto che qualche anno più tardi il cappuccino partecipò come predicatore a un incontro congiunto di
cattolici ed evangelici a Buenos Aires, tra i cui promotori c’era proprio Bergoglio (si veda il
capitolo 10, Un uomo di tutte le religioni).
Durante le Congregazioni generali l’intervento di Martini fu brillante. Proprio come Cantalamessa,
sottolineò la necessità di raggiungere la «collegialità» per affrontare temi urgenti come la gestione
della Chiesa e le nuove questioni riguardanti, tra le altre cose, la famiglia e la sessualità.
Le sessioni di voto iniziarono il 18 aprile. «Il conclave dell’incertezza», fu chiamato. E in effetti
c’era una sola certezza: la dispersione dei candidati era tale che «L’Osservatore Romano», il
quotidiano della Santa Sede che stampa la sua edizione storica non appena compare la fumata bianca,
preparò sessanta prime pagine diverse con le foto e i profili dei candidati con le maggiori probabilità
di essere eletti.
Nel suo ruolo di decano del Collegio cardinalizio, Ratzinger presiedette la messa pro eligendo
Romano Pontifice («per l’elezione del romano Pontefice») che dà inizio al conclave nella basilica di
San Pietro. Pronunciò un’omelia pragmatica, diretta, che per molti ebbe un tono decisamente
prossimo al proselitismo religioso. Ratzinger parlò di «dittatura del relativismo» e di diverse
correnti di pensiero, dal marxismo al liberalismo, fino al «libertinismo». «Avere una fede chiara
[…] viene spesso etichettato come fondamentalismo» affermò. Il suo discorso sembrava volto a
esercitare una ferrea difesa di un modello conservatore di gestione della Chiesa. Non tutti lo
applaudirono quando concluse il suo intervento e tra le diverse fazioni furono scambiati sguardi di
fuoco.
In seguito i cardinali si spostarono alla Cappella Sistina e, dopo aver emesso il voto di segretezza, i
centoquindici elettori cominciarono la prima sessione. Bergoglio si sedette tra il cardinale indiano
Varkey Vithayathil e il portoghese José da Cruz Policarpo, anch’egli uno dei favoriti. Quando la
telecamera li inquadrò, prima che venisse ordinato a tutti gli estranei all’elezione di abbandonare la
sala, l’argentino apparve assorto in preghiera.
Alla prima votazione non si raggiunse l’accordo. Tuttavia, la strategia dei riformisti si era già messa
in moto.
Pochi giorni prima, il settimanale italiano «L’Espresso» aveva citato Bergoglio tra i principali
papabili e aveva pronosticato che sarebbe stato eletto se si fosse ripetuto «il copione che nel 1978
aveva portato al pontificato di Giovanni Paolo II, quando i candidati italiani si neutralizzarono tra
loro e consentirono l’elezione di un cardinale polacco». Il titolo era più che suggestivo: Bergoglio in
pole position.
Infine, il secondo giorno di conclave, alla quarta votazione, comparve la fumata bianca. Un’ora più
tardi venne annunciato il nome di Joseph Ratzinger, il primo Pontefice tedesco dopo quasi cinque
secoli, che scelse il nome di Benedetto XVI.
Ma cos’era accaduto tra la prima e la quarta sessione perché il «conclave dell’incertezza» si
concludesse in sole quattro votazioni? Sebbene il voto di segretezza impedisca ai cardinali di
rivelare i dettagli dell’elezione, pena la scomunica, tempo dopo il conclave vennero alla luce alcuni
punti chiave.
L’unico candidato alternativo a Ratzinger era stato Bergoglio, stando a quanto rivela Andrea
Tornielli, uno dei vaticanisti meglio informati d’Italia, che attualmente scrive sul quotidiano «La
Stampa» e da alcuni anni pubblica testi di argomento religioso sul suo sito VaticanInsider.it.
La strategia dell’ala progressista di raggrupparsi dietro il candidato «di bandiera» aveva dato i suoi
frutti. Alcune fonti rivelano che nella prima votazione Martini addirittura superò Ratzinger.
Dopodiché si avviò la seconda parte del piano. Martini declinò la nomina a causa dei suoi problemi
di salute e in qualche modo quei voti si spostarono verso l’altro candidato di impronta progressista
in materia sociale, anche se molto più conservatore di Martini riguardo i temi dottrinali: Jorge
Bergoglio.
Il cardinale argentino era un moderato in grado di raccogliere i voti delle due fazioni contrapposte e
con le capacità adeguate per condurre una riforma all’interno della Chiesa.
Nella seconda votazione il nome di Bergoglio comparve in un gran numero di schede. In quella
successiva le tendenze si chiarirono: sia Ratzinger sia l’argentino guadagnavano maggiori adesioni
mano a mano che scomparivano i candidati in minoranza.
Ma i cardinali dovevano continuare a votare, dal momento che nessuno dei due papabili riusciva a
superare i settantasette voti necessari per raggiungere i due terzi degli elettori.
Seguì un vero e proprio «testa a testa», svelarono diversi vaticanisti. Bergoglio era nervoso. Soffriva
per ogni nuovo voto che riceveva, al punto che alcuni cardinali temettero che se fosse stato eletto si
sarebbe rifiutato di accettare quella responsabilità.
Non era la prima volta che gli accadeva. Stando a quanto lui stesso ha raccontato, quando si trova a
dover affrontare una improvvisa nuova responsabilità, la sua prima reazione è la paralisi, il rifiuto.
Poi il suo cuore elabora le emozioni e da esso sgorga spontanea l’accettazione.
Va precisato che Bergoglio non rivelò mai cosa accadde dentro il conclave. Né ai giornalisti che lo
intervistarono, né ai suoi amici più intimi. Fedele alla sua coerenza, ha sempre ritenuto che i segreti
del conclave fossero inviolabili.
Dopo la terza votazione del martedì ci fu una pausa per il pranzo. Si dice che in quell’intermezzo
Bergoglio abbia interceduto con gli altri cardinali affinché i loro voti andassero a Ratzinger. Stando a
quanto ha precisato il teologo Vittorio Messori, alcuni anni dopo si alzarono «voci concordi»
nell’affermare che Bergoglio aveva chiesto ai suoi pari di votare per Ratzinger.
Perché? È difficile saperlo. Tra gli altri motivi, pare probabile che Bergoglio non volesse essere il
candidato della divisione, bensì il candidato del consenso. Persistere in una votazione così
controversa poteva portare il conclave a protrarsi all’infinito. Inoltre non voleva essere eletto con un
voto «di opposizione» a Ratzinger.
Come poteva assumere la guida della Chiesa ottenendo l’incarico grazie al voto residuale dei
riformisti e di coloro che si opponevano al candidato conservatore? E se avesse accettato… quel
voto gli avrebbe conferito un potere reale sufficiente a intraprendere le riforme della Chiesa che tutti
auspicavano? Piuttosto improbabile. Per Bergoglio essere l’«eletto» significava un’altra cosa. Il suo
momento non era ancora arrivato.
Probabilmente, con la sua decisione di rinunciare alla candidatura, Bergoglio, senza saperlo, aveva
spianato la strada che otto anni più tardi l’avrebbe condotto al soglio di Pietro.
Con il suo gesto si guadagnò la popolarità e la stima di quanti ritenevano che per affrontare la
riforma della Chiesa fosse necessario mettere fine agli intrighi del Vaticano. Bergoglio aprì un
cammino di dialogo e consenso che molto presto l’avrebbe visto di nuovo come protagonista
principale.
Quel gesto gli valse l’appoggio di Benedetto XVI, che seppe dare il giusto valore al suo atto di
magnanimità. Forse segnò l’inizio di un papato diverso da quello che si aspettavano i settori
ultraconservatori del Vaticano quando l’avevano sostenuto come candidato.
Quasi otto anni più tardi, l’11 febbraio 2013, resosi conto che il suo mandato era minato dagli
intrighi della Santa Sede e flagellato dai suoi problemi di salute, Benedetto XVI annunciò che
avrebbe fatto un passo indietro. Metteva così fine a secoli di papato vitalizio, forse una delle riforme
più vigorose promosse dalla sua gestione, in un secolo caratterizzato da vertiginosi cambiamenti
sociali.
«La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca l’impegno [che mi ero
assunto il 19 aprile 2005]. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti,
conferenze eccetera. Non abbandono la Croce, ma resto in un modo nuovo presso il Signore
Crocifisso. […] Resto, per così dire, nel recinto di San Pietro» dichiarò Ratzinger nella sua ultima
apparizione pubblica. «Il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la
pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento
contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire.»
«Dalla croce non si scende» sentenziò il cardinale polacco Stanisław Dziwisz, arcivescovo di
Cracovia ed ex segretario di Giovanni Paolo II, il quale sottolineò che Wojtyła era rimasto al suo
posto nonostante la lunga malattia.
Dopo l’annuncio delle dimissioni di Ratzinger, le critiche dei suoi detrattori non tardarono ad
arrivare. Ma la decisione, assolutamente inedita, ormai era presa. Il 28 febbraio 2013 il Papa lasciò
il Vaticano. Le porte si chiusero e si instaurò la sede vacante. Tutte le attività della Santa Sede
furono sospese fino a che non si fosse riunito il Collegio cardinalizio e si fosse celebrato il conclave
per eleggere il suo successore.
Negli ultimi due anni le crisi di potere in Vaticano si erano susseguite. Nessuna delle due fazioni di
conservatori che nel 2005 avevano promosso la candidatura di Ratzinger lo appoggiava più a otto
anni dalla sua elezione. Benedetto XVI aveva percepito quel vuoto di potere. Durante gli ultimi tempi
le macchinazioni interne avevano dato origine a diversi scandali che avrebbero finito col minare la
sua immagine di leader della Chiesa cattolica.
Lo scandalo «Vatileaks» fu una delle peggiori crisi del suo papato. La fuga di un centinaio di
documenti riservati, tra i quali numerose lettere private dirette al Papa o al suo segretario, scatenò
un’ondata di indignazione a livello mondiale.
Lo scandalo scoppiò all’inizio del 2012. Un canale televisivo italiano rese pubbliche alcune lettere
inviate al Papa dal nunzio apostolico degli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, in cui denunciava «la
corruzione, la prevaricazione e la cattiva gestione» nell’amministrazione vaticana. Poco dopo diversi
quotidiani pubblicarono altri documenti su questa stessa linea, e addirittura un testo che svelava un
presunto complotto per assassinare Benedetto XVI prima della fine dell’anno.
In mezzo a tanta confusione il Pontefice creò una commissione cardinalizia, presieduta dallo
spagnolo Julián Herranz, per chiarire i fatti. La commissione interrogò più di trenta persone. Il 19
maggio 2012 le dimensioni dello scandalo divennero ingestibili. Venne pubblicato il libro Sua
Santità del giornalista italiano Gianluigi Nuzzi, che era entrato in possesso di oltre un centinaio di
documenti riservati inviati al Papa e al suo segretario Georg Gänswein e provenienti dalla Santa
Sede che rivelavano le trame e gli intrighi del Vaticano.
Il 23 maggio 2012 l’ex maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele (conosciuto anche con il soprannome
«il corvo») fu arrestato dalla gendarmeria vaticana dopo che in casa sua erano stati ritrovati migliaia
di documenti fotocopiati e numerosi originali appartenenti al Papa. Molti di essi erano stati
pubblicati da Nuzzi nel suo libro. Due giorni dopo fu arrestato anche il responsabile informatico
della segreteria di Stato Claudio Sciarpelletti, dal momento che tra le sue carte era stata rinvenuta
una busta con alcuni documenti che, a quanto pare, gli aveva consegnato Gabriele.
Il «Vatileaks» fu percepito come il risultato della lotta tra fazioni di cardinali italiani, che con i loro
intrighi politici continuavano a dominare le alte sfere del clero. Questi gruppi avevano instaurato un
vero e proprio potere parallelo a quello di Benedetto XVI il quale, anche se fu sempre molto
rispettato, ricevette forti critiche riguardo la sua cattiva amministrazione e per non essere riuscito a
mettere fine alle lotte interne del Vaticano.
Poco prima di lasciare la sede vacante, Benedetto XVI ricevette la relazione finale, di trecento
pagine circa, dai tre cardinali ai quali aveva dato l’incarico di indagare sulle vicende. La lesse e
decise di secretare il documento, disponendo che fosse consegnato solo al suo successore. Le
conclusioni l’avevano colpito molto: svelavano con minuziosi dettagli un’oscura trama di lotte per il
potere, corruzione e persino l’esistenza di una lobby gay nel cuore della Chiesa, secondo quanto
riferiva il quotidiano «la Repubblica», sostenendo che era stato questo a determinare la sua rinuncia.
Una volta instaurata la sede vacante, il decano del Collegio cardinalizio Angelo Sodano convocò i
cardinali per celebrare le prime riunioni preparatorie (le «Congregazioni generali») nell’Aula Nuova
del Sinodo del Vaticano. Come si divise l’elettorato cardinalizio? Come conseguenza delle lotte
interne alla curia vaticana, i cardinali «curiali» si erano scissi in due gruppi. Uno di essi raccolse gli
italiani che dopo gli scandali non volevano essere esiliati dall’amministrazione centrale.
L’aspirazione era mantenere lo status quo. L’esponente di spicco di questa frangia era lo stesso
decano ed ex influente segretario di Stato di Giovanni Paolo II, Angelo Sodano. L’altra fazione era
guidata dal suo grande avversario, il cardinale Tarcisio Bertone, che era stato messo in discussione
come segretario di Stato da Benedetto XVI.
Nonostante i loro contrasti, Sodano e Bertone dovettero condividere la conduzione del nuovo
conclave. Mentre Sodano era il decano del Collegio cardinalizio e presiedeva la maggior parte degli
incontri, Bertone era il camerlengo. Infine, entrambi serrarono le fila dietro lo stesso candidato, il
cardinale brasiliano Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo. Era il candidato perfetto:
rispondeva al requisito di essere latinoamericano, ma aveva un «cuore romano», il che avrebbe
giocato a favore del mantenimento dello status quo.
Il cardinale italiano Angelo Scola (il settantunenne arcivescovo di Milano, e membro del movimento
Comunione e Liberazione) non fu proposto dai suoi compatrioti, bensì da un gruppo di nordamericani
e latinoamericani che individuavano in lui un uomo forte, conoscitore del funzionamento del
Vaticano, estraneo agli intrighi della curia e capace di far valere la propria autorità per affrontare le
riforme necessarie.
Stando alle speculazioni dei giorni precedenti, un altro papabile quotato era il canadese Marc
Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi e presidente della Pontificia Commissione per
l’America Latina. Aveva vissuto per molto tempo in Colombia, era poliglotta e aveva sessantotto
anni.
Quanti aspiravano a un cambiamento di segno progressista menzionavano due candidati: il cardinale
nordamericano Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, e il filippino Luis Antonio Tagle,
arcivescovo di Manila, chiamato il «Wojtyła d’Oriente». Tuttavia i cinquantacinque anni di
quest’ultimo sembravano essere il principale impedimento alla sua elezione: il problema non era
tanto una sua presunta mancanza di esperienza, quanto il fatto che nessuno auspicava un papato
potenzialmente molto lungo.
Bergoglio compariva nella lista dei favoriti? Sì. Ma tra le ultime opzioni. La sua età rappresentava il
principale ostacolo.
Quando nessuno scommetteva più sull’argentino, il vaticanista Andrea Tornielli puntò proprio su di
lui. In un’intervista con la corrispondente del quotidiano «La Nación» a Roma, Elisabetta Piqué,
pubblicata tre giorni prima dell’elezione finale, dichiarò: «Credo che Bergoglio continui a essere una
figura importante, un punto di riferimento, un uomo oggetto di stima e di attenzione». Tuttavia, quando
gli fu chiesto su chi avrebbe puntato tutti i suoi soldi, Tornielli vacillò. Non avrebbe giocato «tutti» i
suoi soldi, ma ne avrebbe puntati parecchi su Ouellet.
Era vero. In Argentina e nel mondo nessuno poteva prevedere il risultato finale.
Prima di consegnare l’anello del pescatore perché venisse distrutto, Benedetto XVI fece un ultimo
gesto di stima nei confronti di Bergoglio: lo nominò membro della Pontificia Commissione per
l’America Latina (Cal).
Quando Bergoglio apprese della rinuncia di Benedetto XVI, rimase molto sorpreso. «È considerato
un Papa conservatore. Ma il suo è stato un gesto rivoluzionario, un grande cambiamento in seicento
anni di storia» dichiarò da Buenos Aires. «Credo che si tratti di una decisione molto ponderata nei
confronti di Dio e molto responsabile da parte di un uomo che non vuole sbagliare, ma nemmeno
lasciare la decisione in mano ad altri» affermò. Due settimane più tardi prese il volo dell’Alitalia
con la convinzione di andare a eleggere il suo successore. Sulla sua scrivania lasciò questioni in
sospeso e pratiche da firmare. Il biglietto di ritorno era prenotato per il 23 marzo 2013.
Prima di partire lasciò alcune buste contenenti l’omelia che avrebbe letto durante la messa del
Crisma del 28 marzo. Aveva sempre l’accortezza di inviarla ad alcuni dei suoi amici, quelli con cui
gli piaceva discutere di teologia, anche se erano ebrei, evangelici o musulmani.
Il 27 marzo 2013 la lettera venne infilata sotto la porta di Marcelo Figueroa, ex presidente della
Società Biblica Argentina e conduttore del programma che Bergoglio e il rabbino Skorka
realizzavano per Canal 21. Figueroa raccolse la busta, la aprì e lesse la lettera, stupito dal contenuto
di quel messaggio inatteso che tuttavia era perfettamente adeguato alle circostanze.
Quando l’aereo cominciò a scendere sopra l’aeroporto di Fiumicino, Bergoglio attese che il segnale
luminoso si spegnesse prima di slacciarsi la cintura di sicurezza, come tutti. Poi lasciò il velivolo e
andò a ritirare i bagagli. Mentre aspettava che la sua valigia nera comparisse sul nastro di gomma gli
si avvicinò un giornalista che aveva volato insieme a lui, il quale si sorprese che Bergoglio non
viaggiasse accompagnato da un seguito. Scambiarono alcune parole e quando comparvero i bagagli
l’arcivescovo afferrò la valigia, salutò cortesemente il giornalista e andò a prendere il treno per la
stazione Termini. Da lì sarebbe salito su un autobus che l’avrebbe portato in Vaticano.
Fu l’unico cardinale ad arrivare a piedi.
Lo attendevano diverse settimane di discussioni allo scopo di trovare il candidato più idoneo. La
rinuncia di Benedetto XVI aveva spiazzato il Vaticano e ora bisognava mettere in moto il complesso
meccanismo del conclave.
Le Congregazioni generali, in cui i cardinali descrivono la situazione della Chiesa in ciascun Paese e
tracciano un profilo del Pontefice che si richiede in quel momento, furono fondamentali per
individuare il nuovo Papa. Padre Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, si occupò della
prima riflessione.
Cantalamessa e Bergoglio si salutarono con affetto, felici di incontrarsi di nuovo.
A Bergoglio venne dato un ruolo di spicco il primo giorno di riunioni. Questo non significava che
fosse un candidato privilegiato, ma solo che era considerato una voce autorevole, un uomo in grado
di delineare una tendenza. Due giorni prima della sua dissertazione il quotidiano «La Stampa»
menzionò l’importante partecipazione del cardinale argentino, pur insistendo di nuovo sul fatto che
Bergoglio non era considerato papabile a causa della sua età avanzata. «Negli ultimi anni il prestigio
di Bergoglio si è accresciuto nella Chiesa latinoamericana e anche all’interno del Collegio
cardinalizio» scrisse il giornale. Inoltre diede per scontato che sarebbe stato «una delle figure chiave
destinate ad avere peso nelle Congregazioni generali e sul conclave».
E così fu. Quando tutti i cardinali fecero silenzio, Bergoglio, con voce serena e pacata e tono
colloquiale, rivolse loro un messaggio che obbligò molti a rivalutare il nome del proprio candidato.
Le Congregazioni generali svolsero un ruolo decisivo per promuovere o scartare candidati. In quelle
riunioni si giocò il destino di uno dei favoriti: il brasiliano Scherer.
Uno dei punti più discussi fu il fatto che i cardinali non potevano avere accesso al dossier segreto
sullo scandalo «Vatileaks». Un altro aspetto che accese polemiche fu la situazione delle finanze del
Vaticano. «È davvero necessario che il Vaticano abbia una banca?» chiese uno dei cardinali nella
mattinata di lunedì 11 marzo 2013, durante l’ultima congregazione preparatoria.
Tarcisio Bertone, il segretario di Stato di Benedetto XVI nonché cardinale camerlengo della sede
vacante, lesse una relazione benevolente di quindici minuti sullo stato e la gestione dell’Istituto per le
Opere di Religione (Ior), conosciuto come «la banca del Vaticano». La controversia scoppiò
immediatamente: trenta cardinali, alla luce degli scandali e delle denunce di amministrazione
fraudolenta, giudicarono fallace la versione proposta dal camerlengo. Non furono in pochi a
sostenere che l’Istituto avrebbe dovuto essere liquidato all’istante.
Scherer, il candidato della curia romana, in quanto membro di una delle commissioni incaricate di
custodire le finanze della Chiesa, difese Bertone a spada tratta e questo gli costò il voto di molti
cardinali.
Durante le riunioni che precedettero il conclave la figura di Bergoglio aveva cominciato a
raccogliere consensi senza che lui facesse nulla per autopromuoversi. Anche la delusione generata
dall’allineamento di Scherer con la gestione dello Ior fece la sua parte.
Il martedì la Cappella Sistina e la residenza di Santa Marta si risvegliarono blindate da uno scudo
elettromagnetico. Era appena iniziato il conclave ed era proibita qualunque comunicazione con
l’esterno. Niente telefoni cellulari, né computer, né Internet. Come accade da secoli, i cardinali si
isolarono dal resto del mondo per votare.
Il primo giorno salirono sul pullman bianco e vennero portati alla cattedrale di San Pietro, dove ebbe
luogo la messa pro eligendo Romano Pontifice celebrata dal cardinale Sodano, rettore del Collegio
cardinalizio.
Nel pomeriggio cominciò ufficialmente il conclave.
I cardinali entrarono nella Cappella Sistina in fila per due, con gli abiti rossi e cantando
un’invocazione allo Spirito Santo. Tra i canti liturgici e con i magnifici affreschi di Michelangelo a
fare da cornice, i cardinali elettori giurarono, prima insieme (con un testo letto da Giovanni Battista
Re, decano dell’assemblea) e poi in modo individuale, di osservare il segreto del conclave. La
cerimonia venne trasmessa in diretta televisiva.
La Cappella Sistina ha tre sezioni e fu costruita sul modello del tempio di Gerusalemme. Nella prima
si trova la stufa dove si bruciano le schede delle votazioni. Nella seconda si riuniscono i cardinali
elettori, divisi in quattro tavoli disposti lungo le pareti laterali. Al centro, con l’immagine del
Giudizio Finale sullo sfondo, si trova il podio e dietro di esso il tavolo su cui verranno scrutinati i
voti.
Ogni elettore ricevette una cartellina di cuoio rosso contenente la lista completa dei cardinali
eleggibili.
Dopo che tutti ebbero pronunciato il proprio giuramento, il maestro di cerimonie Guido Marini
pronunciò il secolare «Extra omnes!» (che significa «fuori tutti») ordinando l’uscita di tutte le
persone estranee all’elezione. Con la sonora chiusura del portone la cappella rimase isolata.
Quant’era reale l’isolamento? Totale, secondo alcuni cardinali. Le finestre erano chiuse e sbarrate
con sigilli di sicurezza. Internet non funzionava nemmeno nella sala stampa. La sera in cui Francesco
venne eletto diluviava e mentre gli incaricati si preparavano per uscire sul balcone a dare la notizia,
qualcuno domandò se ci fosse molta gente in piazza. «È piena, nonostante stia piovendo.» Nel loro
isolamento i cardinali non se n’erano nemmeno accorti.
In realtà quest’ultimo è stato un conclave piuttosto breve. L’uso del termine «conclave», che in latino
significa «chiuso a chiave», trae origine nel 1270 quando i cardinali ci misero due anni e nove mesi
per eleggere il nuovo Pontefice nella città di Viterbo. Per costringerli a prendere una decisione, il
popolo sigillò porte e finestre del Palazzo dei Papi dov’erano riuniti, e li sottopose a una dieta di
pane e acqua.
Come mai Bergoglio, il quale non figurava tra i favoriti, risultò eletto con oltre novanta voti?
Nonostante l’iniziale fumata nera, fin dalla prima elezione fu chiaro che Bergoglio era uno dei
candidati con più possibilità.
Nelle ore successive si andarono sommando le adesioni provenienti da diverse aree. A coloro che
erano rimasti positivamente colpiti dal suo intervento si unì un gruppo di cardinali nordamericani
disposti a sostenere l’argentino. Lo stesso fece l’arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois.
Secondo diverse fonti, durante la cena del martedì a Santa Marta, che si prolungò per alcune ore
della notte, e dopo qualche bicchiere di cognac, il francese avrebbe sciolto il riserbo e detto ai suoi:
«Bergoglio è una scelta migliore di Scola». I due candidati principali si facevano da parte e aprivano
la strada a una nuova opzione.
Il mercoledì mattina, nella seconda e terza votazione, la tendenza sembrava già delineata. Ma la
conclusione non arrivò ancora.
Durante il conclave ogni cardinale elettore riceve una pila di schede bianche in cui deve scrivere il
nome o il cognome del suo candidato. Deve farlo con una grafia diversa dalla propria per rispettare
l’anonimato del voto. Poi, in fila, ciascuno deposita il proprio voto nell’urna in ordine di posto.
Per ogni votazione vengono scelti tre scrutatori. Il primo prende la scheda con il voto, legge il nome
e la passa a colui che ha di fianco, il quale conferma quanto letto. Il terzo cardinale si occupa di
verificare che non ci siano errori. Dopo il conteggio si procede a bruciare le schede nella stufa della
cappella. Si dà fuoco anche a eventuali fogli che i cardinali hanno usato per prendere appunti: tutto
deve essere distrutto.
In tempi antichi si utilizzavano diversi sistemi per far uscire il fumo nero o bianco, come bruciare
pesce oppure paglia secca o umida. Ma quei metodi molto spesso creavano una nube grigia niente
affatto indicativa, e la Cappella Sistina stessa si riempiva di fumo. Perciò in questo conclave la stufa
è stata dotata di un nuovo dispositivo: il camino è munito di un secondo scompartimento in cui viene
acceso un fuoco a cui si aggiunge lattosio o zolfo per produrre il fumo bianco o nero che verrà visto
da Piazza San Pietro.
E per chi ha votato il cardinale Bergoglio? Dato il completo anonimato del voto, è difficile saperlo.
Tuttavia varie persone a lui vicine hanno indicato un nome, anche se non ne sono del tutto sicure: si
tratterebbe di Sean Patrick O’Malley, il cardinale di Boston.
Questo frate cappuccino ha una storia interessante.
O’Malley è un cardinale blogger. Ha un account su Twitter che conta oltre tredicimila followers. Il
suo stile fresco e semplice, vicino alla gente, ha rappresentato un vero e proprio cambiamento per
l’arcidiocesi di Boston. O’Malley è diventato la massima autorità della Chiesa in città dopo gli
scandali legati alla pedofilia che avevano investito il suo predecessore, Bernard Francis Law.
Francesco ha incrociato Law nella basilica di Santa Maria Maggiore il primo giorno del suo papato e
in quell’occasione, davanti ai suoi collaboratori, ha affermato: «Non voglio che frequenti mai più
questa basilica». Law è accusato di aver protetto preti pedofili tra il 1984 e il 2002.
Da quando lo ha sostituito, O’Malley ha messo in atto una politica di «tolleranza zero» contro questo
tipo di crimini. Oltre alla sua innata simpatia e semplicità, il cappuccino è noto per aver preso la
coraggiosa decisione di mettere in vendita la residenza dell’arcivescovo per risarcire le vittime degli
abusi sessuali perpetrati durante la gestione di Law. Lui si è trasferito in una modesta stanza in un
seminario e organizza incontri periodici con le vittime per ascoltare i loro racconti. Un atteggiamento
che ricorda da vicino lo stile di Francesco.
Non serve sapere altro di lui per capire come mai Bergoglio nutra tanto affetto nei suoi confronti. Nel
2012, quando O’Malley si recò in Argentina e Paraguay per fare visita agli ordini dei cappuccini,
Bergoglio lo ospitò nell’appartamento della curia e l’argentino gli regalò un Cd con la Misa criolla
(Messa creola), un’opera musicale folcloristica con testi liturgici adattati a questo proposito.
O’Malley, che ha sessantotto anni, partecipò al conclave indossando sempre i suoi sandali
francescani e fu un candidato di spicco. Debilitata la triade Scherer, Scola e Ouellet, numerose
testate italiane lo indicarono come uno dei quattro papabili più probabili.
«Se una delle condizioni per diventare Papa è non desiderare quel ruolo, allora sono la persona con i
requisiti giusti» dichiarò ironico O’Malley che, una volta tornato a Boston, si sarebbe detto felice di
non essere stato eletto. «Il Papa è un prigioniero in un museo. Spero che Francesco trovi il modo di
poter scendere in strada, come tanto ama fare» affermò.
Il pomeriggio in cui tutto si decise, Bergoglio e O’Malley si sedettero vicini a pranzo nella residenza
Santa Marta. Fu in quell’occasione che, secondo diverse versioni, si stabilirono gli accordi definitivi
che avrebbero fatto di Bergoglio il duecentosessantaseiesimo successore di Pietro.
Pranzarono insieme e scherzarono. «Ho notato che doveva sentirsi sotto pressione in quel momento.
Non mangiò quasi niente» rivela O’Malley.
Nel corso delle ultime due votazioni buona parte dei cardinali italiani decise di votare per
Bergoglio. Scherer cadde definitivamente alla terza votazione. Scola, da parte sua (secondo quanto
emerse in seguito), resosi conto che le sue possibilità stavano svanendo, avrebbe agito come
Bergoglio stesso aveva fatto nel 2005: avrebbe chiesto ai suoi di votare per l’argentino. Alla quarta
votazione erano stati sfiorati i due terzi dei voti e alla quinta si raggiunse il quorum.
Quando il nome di Bergoglio superò i settantasette voti, scoppiò un applauso. «Non dimenticarti dei
poveri» gli sussurrò all’orecchio il cardinale Cláudio Hummes. Gli scrutatori dovettero richiamare
all’ordine i cardinali per poter completare il conteggio, che superò ampiamente i novanta voti.
«Sono peccatore, ma accetto» dichiarò Bergoglio e annunciò che il suo nome sarebbe stato
Francesco, in omaggio a San Francesco d’Assisi. La sua scelta riempì O’Malley d’orgoglio. Dopo
passò alla cosiddetta Stanza delle lacrime, nella sacrestia della Cappella Sistina, dove lo
aspettavano tre abiti bianchi. Doveva provarli e indossare quello che gli stava meglio.
Mentre il fumo bianco si alzava verso il cielo per avvisare il mondo che la Chiesa aveva un nuovo
Papa, i cardinali si prepararono per uscire sul balcone a rivelare l’identità del loro leader. Prima
però recitarono un Te Deum per Francesco.
Solo allora i cardinali parvero prendere coscienza della loro reclusione e chiesero se in piazza si
fosse radunata molta gente. Dopodiché tutti andarono verso il balcone dal quale sarebbe stato dato il
grande annuncio. Il resto della storia è noto.
Quali erano state le parole pronunciate da Bergoglio alla Congregazione generale per suscitare tante
simpatie tra i suoi pari? Bergoglio si rivolse ai cardinali e, con tono semplice e pacato, parlò loro
della misericordia di Dio e della Chiesa di cui il mondo ha bisogno al giorno d’oggi: una Chiesa
evangelizzatrice, non mondana; che vada verso le periferie ed eviti di chiudersi in se stessa, preda
dei propri meccanismi e delle proprie idiosincrasie. A partire da quelle definizioni tracciò il profilo
di colui che dal suo punto di vista sarebbe stato il Papa più idoneo.
«Evangelizzare deve costituire la ragion d’essere della Chiesa. La Chiesa è chiamata a uscire da se
stessa e ad andare verso le periferie; non solo le periferie geografiche, ma anche le periferie
esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e
dell’indifferenza religiosa, quelle del pensiero, quelle di qualsiasi miseria» proclamò davanti a un
pubblico che lo ascoltava in assoluto silenzio.
«Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diventa autoreferenziale e di conseguenza
si ammala. I mali che nel corso del tempo si sono diffusi all’interno delle istituzioni ecclesiastiche
hanno origine dall’autoreferenzialità, che costituisce una sorta di narcisismo teologico» sentenziò.
Utilizzando frasi brevi e un tono sereno, Bergoglio riesce sempre a catturare l’attenzione del
pubblico. Ma non dev’essere affatto semplice quando il pubblico è composto dai cardinali che
eleggeranno il nuovo Papa. Ma nonostante tutto Bergoglio riuscì a mantenersi fedele al proprio stile.
E i risultati non tardarono ad arrivare.
«Nell’Apocalisse Gesù dice che sta sulla porta e bussa. Evidentemente il testo sta a significare che
bussa fuori dalla porta per entrare… Ma io penso alle volte in cui Gesù bussa da dentro affinché lo
lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di trattenere Gesù Cristo dentro di sé e non gli
permette di andare fuori» proseguì. «La Chiesa, quando è autoreferenziale, non si rende conto di
avere una luce propria e smette di essere il mysterium lunae [il mistero della luna, un’immagine
simbolica il cui significato è che la Chiesa risplende della luce riflessa di Cristo come la luna di
quella del sole] e dà luogo a quel male tanto grave che è la mondanità spirituale, il quale secondo il
teologo gesuita Henri de Lubac è il male peggiore che possa colpire la Chiesa: il vivere per darsi
gloria gli uni agli altri» aggiunse.
«Semplificando: ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa,
la Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, o la Chiesa mondana che vive in se stessa,
di se stessa, per se stessa» dichiarò.
La diagnosi era delineata: l’opzione era tra una Chiesa che si rivolgesse verso l’esterno o una Chiesa
che rimanesse rinchiusa in se stessa. Di quale delle due volevano far parte i cardinali? «Questo deve
fare luce sui possibili cambiamenti e riforme che si rivelano necessari per la salvezza delle anime»
concluse Bergoglio.
Prima di congedarsi sottolineò le caratteristiche che avrebbe dovuto avere il nuovo Pontefice in
quanto sacerdote. «Il prossimo Papa deve essere un uomo che a partire dalla contemplazione di Gesù
Cristo aiuti la Chiesa a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie esistenziali, che la aiuti a
essere la madre feconda che vive della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”» precisò.
Bergoglio scese dal podio e, prima che arrivasse al suo posto, l’uditorio si abbandonò a un applauso
scrosciante.
Era stato un discorso breve, ma pieno di speranza e molto diretto. Bergoglio aveva esposto i propri
obiettivi con estrema chiarezza. «Fu un intervento che mi parve magistrale, chiarificatore, impegnato
e sincero» commentò il cardinale cubano Jaime Ortega.
Dopo seguirono altri discorsi, ma durante una pausa Ortega si fece strada tra i cardinali e aspettò il
proprio turno per porgere i complimenti a Bergoglio. Era rimasto affascinato dalle sue parole. Gli
chiese una copia del suo discorso, perché desiderava condividere quel messaggio con i propri fedeli
quando fosse tornato all’Avana. Bergoglio si scusò dicendogli di non averne una copia. Il discorso
era scritto a mano, in spagnolo, con quella grafia minuta e serrata che lo caratterizza. Infine, il
mattino seguente, l’argentino gli regalò l’originale.
Pur essendo semplice e privo di artifici retorici, il suo messaggio aveva colpito i cardinali riuniti in
conclave. E aveva definito il corso della votazione.
«Un uomo di preghiera, di contemplazione, capace di far uscire la Chiesa dal suo egocentrismo e
portarla verso le periferie, dove la aspettano milioni di persone in difficoltà?» gli chiesero gli altri
cardinali.
La conclusione fu univoca: «Quell’uomo sei tu».
Capitolo 12
Il Papa della gente e le sue sfide
Finalmente è arrivato. Eccolo lì. Con indosso un abito di un colore che lui non avrebbe mai scelto.
Incarnando un sogno che non aveva mai fatto. In piedi davanti a una piazza che all’improvviso
acquista le dimensioni del mondo. C’è un senso di vertigine nel suo sguardo. Sta per rompere il
rigido protocollo del Vaticano. Lo sa. C’è una ribelle obbedienza nel suo atteggiamento e nel suo
modo di presentarsi. Nei suoi occhi scintilla la rivoluzione. Anche se preferirebbe stare dall’altra
parte delle tende rosse del balcone, sa di essere lì per un unico scopo: rivelare al mondo il segreto
dei poveri.
Da dove cominciare? Dal misterioso potere dell’umiltà. Allora il suo cuore si inginocchia e chiede
al popolo di pregare «su» di lui. Abbassa la testa e ascolta, riceve, sente. Non ha chiesto di pregare
«per» lui, ma «su» di lui. È questo il primo atto come capo della Chiesa universale: sottomettersi.
Mettersi sotto gli altri. Chiedere e ricevere.
A recitare quelle preghiere sono migliaia, milioni di cuori, alcuni felici e altri abbattuti. Cuori
ardenti, distanti, feriti, scoraggiati, indifferenti, taciturni e talvolta desiderosi di riconciliazione.
Francesco ascolta le preghiere come se gliele sussurrassero all’orecchio. Più che Sommo Pontefice,
il suo desiderio è sempre stato quello di essere un ponte che le persone attraversano per riavvicinarsi
a Dio.
Come ricostruire quel ponte in un mondo in cui regnano l’incomunicabilità e la sfiducia, dove le
sicurezze di ieri si sono trasformate, oggi, in assi di legno marcio, fragili, sul punto di rompersi
appena qualcuno vi poggia un piede? Come ricostruire questi vincoli debilitati?
Il miglior primo passo non poteva che essere il suo esempio. A Roma, in Vaticano e nel mondo, le
cose avevano cominciato a cambiare.
Chi non lo conosceva ha dovuto imparare il suo nome. Poi, capire dove si trovava esattamente «la
fine del mondo». Infine, tutti hanno scoperto i suoi segreti: è un uomo che si sposta in autobus, che
conosce i quartieri periferici come se vi abitasse. I suoi piccoli gesti sono le vere perle della sua
personalità. È un oratore eccellente, eppure il potere delle sue parole non sta in ciò che dice ma nel
modo in cui lo dice. La cosa più importante non è il messaggio che dà e nemmeno la sua retorica. Al
contrario: è lui stesso il messaggio.
La sua vita, il suo esempio, il suo impegno non danno adito ad alcuna critica. E di conseguenza, la
forza della sua coerenza convince (in modo quasi soprannaturale) chi lo ascolta.
Anche questo fa parte del mistero che Francesco è venuto a raccontarci. Molte persone, persino nella
stessa Argentina, hanno scoperto i dettagli della sua opera pastorale solo quando è stato eletto Papa.
In un primo momento si sono sentiti orgogliosi perché era argentino, poi lo hanno conosciuto e allora
si sono sentiti orgogliosi di essere loro stessi argentini.
Ma il vero motivo di orgoglio era proprio lui: per la sua umiltà, per la sua integrità, per la dialettica
irreprensibile dei suoi piccoli gesti, per il coraggio di voler cambiare il mondo a settantasei anni…
«Perché non ce ne siamo resi conto prima? Perché non l’abbiamo eletto presidente?» scherzavano
tanti argentini.
La risposta migliore l’ho sentita alla radio, mentre viaggiavo in taxi: «I pesci non vedono l’acqua
quando ci nuotano dentro». Allo stesso modo, è probabile che molti argentini abbiano avuto bisogno
di vederlo da lontano, da fuori, in Vaticano, per riconoscere in Bergoglio le sue qualità di pastore.
«Chi altro avrebbe potuto essere Papa?» ci siamo chiesti noi argentini. Adesso tutto pare così
evidente… Ma è chiaro che questa riflessione a posteriori non ha alcun valore.
I primi gesti di Francesco sono stati una vera e propria esortazione alla fede rivolta ai più scettici. Il
primo è stato un invito alla riconciliazione. Si è rifiutato di usare la stola papale, di indossare la
croce d’oro e, invece delle tradizionali scarpe rosse, ha calzato le sue vecchie compagne di viaggio,
quelle con cui aveva percorso le villas de emergencia e centinaia di processioni. Ha rinunciato alle
auto di rappresentanza o alle sfarzose residenze papali. Dopo essere diventato Papa, ha viaggiato nel
pullman bianco con gli altri cardinali e si è addirittura presentato alla Casa del Clero per pagare le
spese dell’alloggio precedente al conclave. E ha chiamato il suo edicolante di fiducia a Buenos Aires
per annullare l’abbonamento. Il messaggio era chiaro. Non voleva avere conti in sospeso. Non
avrebbe mai sprecato il «denaro sudato dal popolo», come disse una volta a un presidente.
Ha proclamato di volere una «Chiesa povera per i poveri». Ha pregato la gente di non perdere la
speranza e di non lasciare spazio al pessimismo e addirittura ha auspicato il dialogo e il perdono. Ha
commosso il mondo il Giovedì Santo, lavando i piedi a dodici giovani detenuti in un carcere
minorile di Casal del Marmo a Roma. Ha incontrato il suo predecessore, Joseph Ratzinger, e gli ha
proposto di pregare insieme come fratelli per screditare la tesi, sostenuta da alcuni in Europa,
secondo cui Benedetto XVI avrebbe continuato a esercitare il potere dietro Francesco.
Durante le prime settimane del suo papato, la frase «Hai sentito cos’ha combinato oggi il Papa?» si
udiva ovunque per le strade di Buenos Aires nelle conversazioni quotidiane.
Ha partecipato a sorpresa alla messa celebrata per i giardinieri del Vaticano, chiedendo loro di non
distrarsi né sentirsi imbarazzati dalla sua presenza. Durante la sua prima uscita in veste di Sommo
Pontefice ha baciato i bambini e benedetto i portatori di handicap incontrati lungo la strada. Ha eluso
il servizio di sicurezza per sentire il calore del popolo.
Un Papa vicino. Un Papa della gente. La rivoluzione della fede si era già messa in cammino e si
propagava da Roma a Buenos Aires e al mondo intero, marciando sotto due bandiere: l’austerità e
l’umiltà.
I risultati sono subito stati evidenti a tutti, anche ai più scettici, dopo appena pochi giorni. La
domenica successiva all’elezione la stessa scena si è riproposta nelle chiese e nei templi dei diversi
credi di Buenos Aires: la partecipazione alle funzioni è raddoppiata. Durante quella settimana nelle
parrocchie è avvenuto qualcosa che non accadeva da tempo: si sono create lunghe file davanti ai
confessionali. Dopo l’elezione di Jorge Bergoglio come Papa Francesco, in Argentina si è scatenata
un’esplosione di spiritualità. Migliaia di persone, che per molto tempo erano rimaste lontane dalle
istituzioni ecclesiastiche, nei giorni successivi al conclave hanno cominciato a vivere la rinascita
della propria fede.
«Le parrocchie della città si sono riempite come non mai» spiega padre Javier Klajner, vicario della
pastorale giovanile dell’Arcivescovado di Buenos Aires. E non solo quella domenica. Tutti i giorni,
durante le varie messe. Lo stesso è avvenuto nelle chiese evangeliche, stando a quanto riferiscono i
rappresentanti di quel credo. Nemmeno gli ebrei e i musulmani sono rimasti estranei all’incredibile
fenomeno. Anche tra loro l’entusiasmo per il Papa ecumenico ha prodotto una maggiore affluenza dei
fedeli nelle sinagoghe e nelle moschee.
La rinascita della spiritualità negli argentini è un dato di fatto e gli specialisti si apprestano già a
misurare il fenomeno.
In Argentina negli ultimi anni è cresciuta la cosiddetta «disistituzionalizzazione della fede». Secondo
la rigorosa inchiesta sulla spiritualità realizzata dal Consiglio nazionale di scienza e tecnologia
(Conicet) nel 2008, ciò significa che nove argentini su dieci dichiarano di credere in Dio e il 70 per
cento si definisce cattolico, ma solo il 10, circa quattro milioni di persone, partecipa alla messa della
domenica. Detto in altro modo, la fede in Dio si viveva fino a oggi fuori dalle chiese. Poco prima
dell’elezione del nuovo Papa, l’istituto di ricerche Voices ripeté l’indagine su un campione di 1030
persone. I risultati furono simili.
Riuscire a riportare la gente alla Chiesa, o meglio, portare la Chiesa dove si trova la gente: è questa
la grande sfida che si propone Francesco. I dati più recenti a livello mondiale mostrano che la Chiesa
cattolica perde ogni giorno circa diecimila fedeli, e che la metà dei cattolici si trova in America
Latina.
«La gente è molto felice e in questi giorni ha riempito le parrocchie. Tutti volevano ringraziare e
festeggiare» sottolinea Klajner, che si è occupato di organizzare la veglia svoltasi nella cattedrale di
Buenos Aires alla vigilia dell’ascesa di Bergoglio al soglio di Pietro.
A tutti i sacerdoti è stato chiesto di presentarsi con l’abito e la stola da confessore. Non hanno
smesso di dare l’assoluzione per tutta la notte. «I giovani, spontaneamente, si avvicinavano e
chiedevano di essere confessati. È stato incredibile» racconta Klajner.
«Ciò che è aumentato di più è la voglia di partecipare; e tutto grazie alla forza ispiratrice che emana
da Francesco» commenta Omar Abboud, membro dell’Istituto per il Dialogo Interreligioso in
rappresentanza del credo islamico.
In che misura la «papamania» si tradurrà in un ritorno degli argentini nelle chiese? È difficile
saperlo.
Fortunato Mallimaci, sociologo e specialista in religione che si è occupato dell’inchiesta realizzata
per il Conicet, si mostra scettico. «Bisogna vedere cosa succederà una volta evaporato l’iniziale
entusiasmo per il personaggio del Papa. Supponiamo che nei prossimi tempi circa centomila argentini
vogliano avvicinarsi all’esperienza religiosa nella speranza di incontrare nelle parrocchie sacerdoti
simili a Papa Francesco… Quanti Jorge Bergoglio troveranno nelle chiese? Chi si prenderà cura di
loro?» sottolinea il sociologo, polemico.
«Le chiese dell’America Latina non sono preparate per ricevere l’alluvione di fedeli scatenata dalla
figura del Papa. Al contrario, hanno sviluppato istituzioni chiuse alle quali non è facile avere
accesso. Molti parlano dei curas villeros, ma nei quartieri poveri di Buenos Aires ci sono solo venti
sacerdoti per trecentomila persone. Non è solo la struttura della curia romana a dover essere
riformata; andrebbe modificato anche il funzionamento organico della Chiesa che dovrebbe
rinunciare al suo atteggiamento di chiusura e aprire le porte al mondo» aggiunge.
Le sfide che pone questo boom di fede non sono poche. L’inchiesta di Voices segnala che per la gente
il senso della religione è «fare del bene alle altre persone» mentre solo uno su dieci afferma che la
religione significa «seguire norme e restrizioni». Questo indica che, nonostante il senso di
appartenenza alla religione sia elevato, in ampi settori della popolazione la religione non si esplica
mediante i riti prescritti per il culto, ma tramite un rapporto personale con Dio, ad esempio attraverso
la preghiera individuale.
Secondo i risultati diffusi da Voices, sei argentini su dieci pregano ogni settimana. Nel 1984 l’81 per
cento della popolazione si definiva cattolico, mentre nell’ultima inchiesta si è scesi al 70. Ciò
nonostante, quando è stato chiesto alla gente che importanza avesse Dio nelle loro vite in una scala
da uno a dieci, quasi vent’anni fa la risposta media era sette, mentre nel 2000 è stata 8,5 e nel 2013
7,5. Perciò il valore è aumentato. La tendenza è l’individualizzazione del credo. Credere ciascuno
per conto proprio, al di là delle regole imposte dalla Chiesa.
«In questi giorni molta gente si è identificata con Francesco, con la sua vicinanza e la sua solidarietà.
Ma cosa penseranno i giovani quando la Chiesa dirà loro che non possono avere rapporti sessuali
prematrimoniali o che non possono usare metodi anticoncezionali? Forse è proprio questa
dissociazione tra la realtà in cui si vive e il dogma che si predica ciò che finisce con l’allontanare i
fedeli» ipotizza Mallimaci.
«I precetti cristiani non cambieranno. L’errore è pensare la morale sessuale fuori dall’incontro con
Gesù Cristo. Non significa osservare delle regole, ma scoprirne il senso» sottolinea Klajner.
«È evidente che l’elezione di Jorge Bergoglio come nuovo Papa ha provocato una grande
commozione nel nostro Paese. Si è generata un’enorme aspettativa. E questo fa sì che, da ora in
avanti, gli effetti della sua gestione non passeranno inosservati» ha affermato il pastore della chiesa
del Centro, Carlos Mraida.
Il pastore evangelico è convinto che la leadership di Francesco avrà conseguenze sia sul piano
religioso sia sul contesto sociale. «Prima di tutto agirà come un freno al processo di
desacralizzazione della società che alcuni settori hanno preteso di imporre nella nostra nazione.
L’entusiasmo degli argentini, e non solo dei cattolici, di fronte a questa elezione dimostra che
fenomeni come la perdita di valori, il degrado nell’educazione e nei mezzi di comunicazione sono
causati da una piccola minoranza del nostro Paese. Ci suggerisce che la stragrande maggioranza degli
argentini crede in Dio e vuole vivere secondo valori e precetti condivisi. Non dobbiamo chiedere
scusa perché nei nostri cuori alberga la fede, perché viviamo in modo coerente con la nostra fede ed
esprimiamo la nostra opinione, né perché partecipiamo attivamente ai diversi livelli della società
civile, non “nonostante la nostra fede”, ma “grazie alla nostra fede”» ha dichiarato Mraida.
Dal suo punto di vista si scorge la prospettiva certa di un rafforzamento della Chiesa cattolica nel
mondo e in Argentina in modo particolare. «Dopo anni di declino, tanto nel numero dei fedeli quanto
nelle vocazioni, a livello spirituale e anche morale, la leadership di Francesco farà sì che molti
cattolici che erano delusi dalla Chiesa intravedano una nuova apertura.»
Tuttavia Mraida considera che questa possibilità di rafforzamento si vedrà confermata con il tempo
«solo se i vescovi e i sacerdoti argentini faranno proprie e riprodurranno le caratteristiche della
leadership di Bergoglio. E cioè: un cuore pastorale e vicino alla gente; una voce profetica di fronte
alle ingiustizie sociali; un’apertura umile e pragmatica nei confronti delle altre chiese cristiane; un
dialogo ecumenico con le altre religioni; un profilo personale di spoliazione, umiltà e rigore morale;
e soprattutto un impegno per l’evangelizzazione centrata su Gesù Cristo e non una mera
“clericalizzazione”» ha sottolineato.
Al contrario, «se gli agenti pastorali non riproporranno lo stile di leadership del Papa, tutta
l’aspettativa generata rimarrà focalizzata solo nell’ammirazione verso la persona di Francesco e non
sfocerà nel rafforzamento della Chiesa cattolica argentina».
«L’emozione e l’euforia iniziali adesso devono trasformarsi in un impegno. A cosa ci servirebbe
questo orgoglio che proviamo se non lo traducessimo nella promessa di una vita di fede e fedeltà al
Vangelo? E dato che la fede si rafforza donandola, sappiamo che il battesimo e la cresima ci
obbligano a trasmettere agli altri la ricchezza della fede che viviamo, prima con il nostro esempio e
poi con la parola» ha spiegato il vescovo di Mar del Plata, monsignor Antonio Marino, durante la
messa della Domenica delle Palme nella cattedrale locale.
«Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, abbiamo il coraggio, proprio il coraggio, di
camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del
Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo crocifisso. E così la Chiesa
andrà avanti. Io auguro a tutti noi che lo Spirito Santo, per la preghiera della Madonna, nostra Madre,
ci conceda questa grazia: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo crocifisso.» Queste le parole
di Bergoglio nella sua prima omelia da Pontefice il 14 marzo 2013.
Già in tanti hanno cominciato il cammino verso la riconciliazione. Sono stati attraversati molti ponti.
«Rivelare il segreto dei poveri» ha dato i suoi primi frutti. Ma la società pone ancora tante questioni
e dibattiti e Francesco dovrà affrontarli per portare a termine il compito di sostituire le assi
pericolanti di quei ponti con strutture solide che incoraggino i fedeli ad attraversarli senza paura di
cadere.
Quali sono le principali sfide del suo papato? Alcuni segnalano la necessità di introdurre riforme
radicali nella struttura della curia romana per restituire credibilità alla Chiesa e l’urgenza di
promuovere una politica di «tolleranza zero» contro i casi di abusi sessuali, per molti anni messi a
tacere dalle autorità ecclesiastiche.
Quali altri ponti costruirà Francesco? Accetterà, ad esempio, il matrimonio tra persone dello stesso
sesso? Tutto lascia supporre di no. Bergoglio è stato categorico nell’opporsi alla legge sul
matrimonio omosessuale che in Argentina è consentito dal luglio 2010. «Non dobbiamo essere
ingenui. Non si tratta di una semplice lotta politica: è la pretesa di distruggere il progetto di Dio»
dichiarò poco prima dell’approvazione della legge.
Si oppose anche alla legge sull’identità di genere approvata nel maggio del 2012 che, tra le altre
cose, autorizza travestiti e transessuali a registrare i propri dati secondo il sesso che più sentono
proprio. Invece il celibato è un punto su cui, in caso di consenso, sarebbe pronto ad apportare
riforme. Nel ristretto entourage di Francesco lo spiegano chiaramente: Bergoglio non è categorico
sulla dottrina fondamentale della Chiesa. Soprattutto riguardo quei temi in cui la posizione di Dio non
è stata esplicita. Il celibato non è stato stabilito da Dio, ma si tratta di una disposizione transitoria
dell’amministrazione della Chiesa che potrebbe anche essere revocata. Certo, la possibilità di non
optare per il celibato, secondo Francesco, si estenderebbe fino alla linea dei sacerdoti. I vescovi,
invece, per essere al servizio di Roma dovrebbero rimanere celibi e consacrati esclusivamente a Dio
e al suo servizio.
Negli anni in cui fu vescovo ausiliare e poi arcivescovo dovette affrontare casi di sacerdoti che
vissero una crisi della loro vocazione ministeriale perché si erano scoperti innamorati di una donna.
Data l’obbligatorietà del celibato, quando gli si presentava un caso di questo tipo Francesco invitava
i religiosi a fare una pausa per stabilire se la loro vocazione fosse servire Dio come sacerdoti o
come laici.
Rispetto all’aborto Bergoglio è intransigente. Fu addirittura tra coloro che insistettero maggiormente
affinché si includesse il concetto di «bambino che nasce come persona» e non in quanto estensione
del corpo della madre. «Una donna incinta non porta in seno uno spazzolino da denti e nemmeno un
tumore. La scienza insegna che dal momento del concepimento il nuovo essere è dotato di un codice
genetico completo» argomentò Bergoglio.
Lo stile di vita e le scelte quotidiane di molte persone avevano costituito un impedimento al momento
di battezzare i propri figli. Questo aveva allontanato milioni di persone dalla Chiesa in una metropoli
come quella di Buenos Aires in cui, ad esempio, più della metà dei nuovi nati è messa al mondo da
coppie non sposate. Bergoglio insiste molto sul fatto di non privare nessuno della «benedizione di
unirsi al popolo di Dio» attraverso il battesimo. Come abbiamo visto, nel 2012 aveva chiesto ai
sacerdoti della diocesi di Buenos Aires di battezzare tutti i bambini, compresi quelli nati fuori dal
matrimonio. «Lo dico con dolore, e se sembra una denuncia o un’offesa perdonatemi, ma nella nostra
diocesi ci sono preti che non battezzano i figli delle ragazze madri perché non sono stati concepiti
“nella santità del matrimonio”» affermò in quell’occasione.
Anche concedere a persone divorziate e risposate la possibilità di ricevere la comunione è
argomento di dibattito. A un estremo si posizionano coloro che pensano che la Chiesa debba mettersi
al passo coi tempi. In quest’ottica, consentire a persone divorziate e risposate di accedere
all’Eucaristia potrebbe significare il ritorno di migliaia di fedeli alle fila del cattolicesimo. All’altro
estremo si trovano quanti vogliono mantenere immutata la dottrina della Chiesa, senza lasciarsi
tentare dalle vicende dei tempi attuali. Ma se la rinuncia di Benedetto XVI ha posto fine al papato
vitalizio, come interpretare il voto di prestare fede al matrimonio fino alla morte?
Questi sono solo alcuni dei ponti che dovrà ricostruire Francesco nel suo compito pastorale. Non
sono poche le sfide che lo attendono. Nel suo incontro con i cardinali, il giorno successivo alla sua
elezione, molte ferite del passato hanno cominciato a rimarginarsi.
Qualcuno gli ha chiesto se ha intenzione di effettuare un viaggio apostolico in Giappone, ignorando
cosa questo potesse significare per lui. Francesco ha risposto che una volta c’era stato. Sicuramente
nella sua mente è riecheggiata quella domanda di gioventù rimasta senza risposta: perché Dio gli
aveva dato un’anima missionaria e il desiderio di lavorare in quel Paese, ma non la salute e i
polmoni per realizzare il suo sogno?
Anche Romano Guardini, il teologo tedesco che Bergoglio ammirava e i cui scritti furono oggetto di
studio della tesi di dottorato che non riuscì mai a concludere in Germania, ci era andato. «La metà di
noi siamo in età avanzata» disse ai cardinali durante l’ultimo incontro alla Cappella Sistina dopo il
conclave. «La vecchiaia è – mi piace dire così – la sede della sapienza della vita. […] Doniamo
questa esperienza ai giovani. […] Mi viene in mente quello che un poeta tedesco diceva della
vecchiaia: è il tempo della tranquillità e della preghiera.» Stava parlando di Guardini e gli occhi gli
brillavano dall’emozione.
Forse era questo il motivo. Forse l’opera di Guardini lo aveva colpito in gioventù, ma dovette
attendere molti anni per comprendere fino in fondo le sue parole quando diceva che la vecchiaia è la
tappa più importante della vita, quella in cui un uomo si prepara per l’unico avvenimento davvero
degno di nota: l’incontro con il Signore.
«Fratelli cardinali» ha esordito. «Questo periodo dedicato al conclave è stato carico di significato.
[…] In questi giorni abbiamo avvertito quasi sensibilmente l’affetto e la solidarietà della Chiesa
universale. […] Da ogni angolo della terra si è innalzata fervida e corale la preghiera del popolo
cristiano per il nuovo Papa, e carico di emozione è stato il mio primo incontro con la folla assiepata
in Piazza San Pietro. Con quella suggestiva immagine del popolo orante e gioioso ancora impressa
nella mia mente, desidero manifestare la mia sincera riconoscenza ai vescovi, ai sacerdoti, alle
persone consacrate, ai giovani, alle famiglie, agli anziani per la loro vicinanza spirituale, così
toccante e fervorosa.»
Si supponeva che dovesse parlare in latino nell’ultimo incontro dopo il conclave, ma Francesco ha
preferito rivolgersi ai suoi pari in italiano. Ha dedicato un ringraziamento speciale a Papa Benedetto
XVI per la sua umiltà: «Ha acceso nel profondo dei nostri cuori una fiamma: essa continuerà ad
ardere perché sarà alimentata dalla sua preghiera».
Poi ha portato la sua esortazione ai cardinali a un livello superiore: «Quando camminiamo senza la
Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza la croce, non siamo
discepoli del Signore. Siamo mondani: siamo vescovi, sacerdoti, cardinali, Papi, ma non siamo
discepoli». E li ha invitati a vivere in modo irreprensibile: «Quando non si confessa Gesù Cristo, si
confessa la mondanità del demonio».
La rivoluzione era già iniziata. La vera sfida non attendeva Francesco, bensì gli uomini che erano
seduti di fronte a lui. Come potevano le autorità del Vaticano evitare che il Papa uscisse dai palazzi,
si confondesse tra la gente e percorresse la città per continuare a stare in contatto con i poveri?
Dopotutto, quello era il suo segreto. Loro lo sapevano già: in qualche modo Francesco sarebbe
riuscito a uscire dai musei e dalle cattedrali per fare ciò che più gli piace su questa terra: andare per
la strada.
A mo’ di epilogo
Come ho conosciuto Bergoglio
Ho avuto l’opportunità di intervistare Bergoglio in diverse occasioni e circostanze ma, in un
momento in cui abbondano gli aneddoti di chi dice di averlo conosciuto molto bene, il mio è davvero
un contributo minimo.
Posso solo dire che una volta l’ho visto moltiplicare il cibo, come ha fatto Gesù con i pani e i pesci.
Era l’ottobre del 2012. Io collaboravo con l’ufficio stampa degli incontri ecumenici di cattolici ed
evangelici di cui padre Bergoglio era uno degli organizzatori.
Nello stadio in cui si svolgeva l’incontro l’amministrazione non consentiva di introdurre cibo, perciò
durante le pause tutti i presenti dovevano comprare da mangiare in loco. La scelta non era molto
varia: c’erano solo empanadas, i tipici fagottini di pasta ripieni di carne, e per di più erano scarse.
Era un giorno di festa nazionale e non erano in programma altri eventi.
Qualcuno chiese a Bergoglio se preferisse andare a pranzare nell’esclusivo quartiere di Puerto
Madero, a pochi passi dallo stadio, in cui si trovano diversi ristoranti eleganti, ma lui rispose che
sarebbe rimasto a mangiare con tutti gli altri.
Quando noi giornalisti ci prendemmo una pausa per il pranzo era già molto tardi e non era rimasto
quasi niente.
Mentre percorrevamo la sala dove si serviva il cibo, Bergoglio si avvicinò, ci salutò uno per uno e ci
ringraziò per il nostro lavoro.
Noi ci sedemmo all’ultimo tavolo. La cameriera ci portò un piatto con cinque empanadas, ma noi
eravamo in otto. Qualcuno prese l’iniziativa e cominciò a tagliarle a metà. Condividere: questo era lo
spirito dell’incontro. E comunque non avevamo altra scelta.
Dal suo tavolo dall’altra parte della sala Bergoglio vide i nostri movimenti e capì. Si alzò in piedi e
cominciò a chiedere agli altri avventori se avessero finito di mangiare. Recuperò dalle mani di
pastori e sacerdoti le ultime empanadas, le riunì su un piatto e ce le portò.
Commossi dal suo gesto così premuroso, ci sentimmo lusingati e molto stupiti. Aveva moltiplicato il
cibo.
Quel suo piccolo miracolo ci rimase scolpito nel cuore. L’uomo che oggi occupa il soglio di Pietro
aveva visto un bisogno e l’aveva colmato, mentre nessun altro se ne era accorto.
Questo è l’uomo che, a settantasei anni, si propone di cambiare il mondo.
Ci riuscirà?
Ringraziamenti
A Silvina Premat, con cui ho sognato questo libro. A Laura Reina, il mio alter ego e amica, che si è
offerta di lavorare al mio fianco. A Silvia Palacio, che ha letto i capitoli e ha sopperito alle mie
dimenticanze. A Gastón Márquez, che mi ha sostenuto fisicamente e psicologicamente durante le
ricerche. A Soledad Vallejos, che mi ha trasmesso la sua forza d’animo. Ai miei compagni Hugo
Alconada Mon, Santiago Dapelo, Diego Melamed e Teresa Buscaglia, che mi hanno aiutata a
qualunque ora del giorno e della notte. A mio fratello Juan Pablo e a sua moglie Soledad, che mi
hanno accolto sotto il loro tetto per permettermi di terminare il libro, quando casa mia, come quella
di mezzo milione di argentini, era stata allagata nei primi giorni dell’aprile 2013. E soprattutto, a
quella persona così vicina al Papa che mi ha raccontato le sue storie più belle e che, seguendo
l’esempio di padre Bergoglio, ha chiesto di non essere citata.
A tutti voi, il mio grazie.
Appendice
Intervista ad Alicia Oliveira, ex avvocatessa del Centro de Estudios
Legales y Sociales (Cels) (22 marzo 2013)
«So che sono state molte le persone a cui,
in quegli anni, ha salvato la vita.»
Quando sono iniziate a circolare le voci in merito a un coinvolgimento di Bergoglio nella dittatura
militare in Argentina, Alicia Oliveira ha deciso di schierarsi in sua difesa rendendo nota la verità dei
fatti, l’altra faccia della medaglia. Bergoglio, fedele a se stesso e alla sua volontà di mantenere
sempre un basso profilo, non ha mai accennato a quanto lei racconta, neppure quando fu chiamato a
deporre in tribunale. Questa donna coraggiosa, impegnata attivamente nella difesa dei diritti umani,
nonché amica dell’attuale Pontefice, faceva parte dell’entourage che ha accompagnato la presidente
dell’Argentina Cristina Fernández de Kirchner alla cerimonia di insediamento di Papa Francesco in
Vaticano.
«Come vi eravate conosciuti?»
«Negli anni Settanta era un semplice sacerdote, nulla di più. Eravamo molto giovani. Era venuto da
me con un amico che aveva bisogno di una consulenza legale. Entrammo subito in sintonia e da allora
siamo rimasti amici. Non discutiamo mai di questioni spirituali, né legali, né di diritti umani. Gli
racconto dei miei problemi quotidiani, della mia famiglia. A volte ceniamo insieme. Siamo amici. È
il padrino del più giovane dei miei figli, che si chiama Alejandro Jorge, proprio come lui. Anche se
ogni tanto mio figlio recrimina che gli ho messo lo stesso nome dell’ex presidente Videla…»
«È vero che in quegli anni l’aveva avvisata che l’avrebbero arrestata e che le aveva offerto di
alloggiare presso il Colegio Máximo?»
«Sì. Io ero un giudice penale nella capitale federale, la prima donna a ricoprire questo incarico. I
miei rapporti con la polizia federale non erano esattamente pacifici, perché, in caso di arresto, non
venivano rispettati i diritti dei minori. Nel febbraio 1975, Jorge mi venne a cercare. Da circa un
mese i giornali annunciavano un colpo di Stato. “Quello che accadrà sarà terribile, ci saranno
spargimenti di sangue, vieni a vivere vicino a me” mi propose. Ma io non accettai. “Preferisco che
mi rinchiudano in prigione piuttosto che andare a vivere con i preti” gli risposi.»
«Ha dovuto rifugiarsi da qualche altra parte?»
«In seguito sì. Il 24 marzo 1976, il giorno del colpo di Stato militare, mi chiamarono a casa e mi
informarono che una mia amica, Carmen Argibay (oggi giudice della Corte Suprema di Giustizia
della Nazione) era stata arrestata e che sarebbero venuti a cercarmi. Non lo fecero, non so perché.
Però ogni volta che sentivo l’ascensore salire il mio cuore si fermava. Non vennero mai. Il 5 aprile
giunse in tribunale l’ordine del mio licenziamento. Qualche giorno dopo venne recapitato a casa mia
un meraviglioso mazzo di rose, con un biglietto che elogiava il mio operato come giudice. Era
anonimo, ma io sapevo che era Jorge, perché avevo riconosciuto la sua calligrafia.»
«Le risulta che nascose alcuni perseguitati dalla dittatura militare e che li aiutò a uscire dal
Paese salvando così le loro vite?»
«Sì, è così. Veniva a casa mia due volte la settimana e me ne parlava. Oltretutto, le domeniche io
andavo a fargli visita alla Villa San Ignacio, a San Miguel, dove i gesuiti avevano un’altra casa di
esercizi spirituali. Casualmente si trova di fronte a Campo de Mayo, davanti alla Porta 4. [Campo de
Mayo è una delle principali basi militari del Paese, utilizzata durante l’ultimo governo come centro
di detenzione clandestina e di tortura.] Lì vidi con i miei occhi – non me lo hanno riferito – Bergoglio
celebrare la messa e organizzare il pranzo per salutare coloro che, teoricamente, avevano partecipato
agli esercizi spirituali. In realtà erano persone la cui vita era in pericolo e che lui stava aiutando a
fuggire dall’Argentina.»
«Le ha mai parlato di Yorio e Jalics?»
«Era preoccupato per loro. Lavoravano nel quartiere Rivadavia. Una volta mi disse: “Questi giovani
non si rendono conto che i militari vedono qualcuno con la pelle bianca nelle villas e credono che
siano sovversivi”. Voleva proteggerli, ma loro non avevano intenzione di andarsene da lì, non
accettavano ordini da nessuno.»
«Avrebbe potuto fare qualcosa di più per loro?»
«Dipende. Si può sempre fare di più, ma fu sicuramente abbastanza, soprattutto se si considera che
altri non fecero nulla. Ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità, di questo sono sicura.»
«Avrebbe potuto denunciare pubblicamente quello che stava capitando? Gli mancò il coraggio?»
«Credo di no. Anche se all’epoca la pensavo in maniera del tutto diversa. Oggi, invece, mi rendo
conto che solo agendo in quel modo poté aiutare molte persone a scampare da morte certa.»
«Lei dovette andare in esilio in quegli anni?»
«In esilio no. Un giudice federale della dittatura decise che il Cels danneggiava la cosiddetta “legge
di sicurezza nazionale”. Quando perquisirono gli uffici prelevarono tutti quelli che ci lavoravano.
Alcuni li andarono a cercare porta a porta nelle loro case. Io riuscii a salvarmi perché ero uscita
mezz’ora prima per prendere il treno. Ma dovetti comunque rimanere nascosta per due mesi, fino a
che la situazione non si calmò. A quei tempi i miei figli erano piccoli e Mariano, il mezzano, era
molto attaccato a me. Si svegliava di notte di soprassalto temendo che “gli uomini cattivi portassero
via la mamma”. Aveva una vera e propria ossessione: se non mi vedeva per troppo tempo, pensava
che mi avessero arrestata e uccisa. Fortunatamente i bambini frequentavano la stessa scuola in cui
lavorava Bergoglio, El Salvador, e lui lo conduceva attraverso alcuni corridoi segreti perché mi
potesse vedere.»
«Come ha ricevuto la notizia che il suo amico era diventato Papa?»
«È stata una scena comica. Ero in un bar vicino a casa a bere il caffè. Ho alzato la testa e ho letto:
“Jorge Bergoglio è il nuovo Papa”. Sono scoppiata in lacrime, ero fuori di me. Il proprietario del
locale mi ha chiesto: “Signora, cosa le succede? È per caso un uomo malvagio?”. Io gli ho risposto:
“No, piango perché sto per perdere un amico”.»
«Perché ha deciso di parlare, di raccontare questa storia?»
«Mi ha convinto un amico comune. Mi ha detto: “Sono solo menzogne, tutti lo attaccano e nessuno
meglio di te può dire la verità”. Per questo l’ho fatto. Qualche giorno fa a casa ha squillato il
telefono, ho risposto ed era Jorge… “il Papa”. Gli ho raccontato in breve cosa stava accadendo in
Argentina e della campagna portata avanti contro di lui. Mi ha detto: “Grazie, Alicia, per quello che
hai fatto”.»
I sacerdoti salvati da Bergoglio (22 marzo 2013)
I sacerdoti Enrique Martínez Ossola, Miguel La Civita e Carlos Gonzáles erano ancora seminaristi
quando nella loro provincia i militari incominciarono ad assassinare religiosi e laici che aiutavano i
poveri. Un mese prima di essere ucciso, il cardinale di quella provincia aveva chiesto a Bergoglio di
accogliere e proteggere i tre studenti. Tra il 4 giugno e il 4 agosto del 1975 ne furono ammazzati otto.
Anche i tre seminaristi erano perseguitati, ma, essendosi trasferiti di nascosto a Buenos Aires, presso
il Colegio Máximo di San Miguel, riuscirono a sopravvivere. Attualmente Martínez Ossola guida la
parrocchia Anunciación del Señor, nella provincia di La Rioja, e La Civita è parroco di Villa Eloísa,
nella provincia di Santa Fe.
«Quale è stata la vostra prima impressione dell’uomo che è appena diventato Papa?»
Martínez: «Eravamo appena arrivati alla scuola, si è avvicinato e ci ha detto: “Ciao, sono Jorge. Voi
siete quelli che siete venuti da La Rioja?”. Noi abbiamo pensato: “Sarà un sacerdote del posto”. “Sì,
e lei di dov’è?” gli ho domandato. “Io sono il padre provinciale.” Stavamo quasi per svenire. Era la
massima autorità dei gesuiti e si comportava come un semplice sacerdote».
La Civita: «Eravamo appena arrivati. Ci aveva mandati lì Angelelli per terminare i nostri studi. Ma
non ci aveva detto niente. Non so se fosse quella la vera ragione del nostro trasferimento, o se lo
avesse fatto per proteggerci, in ogni caso ci ha salvato la vita».
«Cosa ha fatto Bergoglio dopo la morte del vescovo Angelelli? Vi ha protetti?»
Martínez: «Stava partecipando a un incontro dei gesuiti in Perú ed è ritornato immediatamente. Erano
le due del mattino quando abbiamo sentito qualcuno percorrere a passi rapidi il corridoio verso la
nostra stanza. Tremavamo dalla paura, considerando quello che stava accadendo. “Ragazzi, aprite!
Sono Jorge” ci esortò. Rimase con noi e ci diede alcune indicazioni».
La Civita: «Si mise a nostra disposizione. Ci disse di spostarci sempre insieme, per rendere più
difficile l’eventuale sequestro, di non uscire la sera, di non usare la scala principale, ma l’ascensore
e altri consigli pratici. Si prese cura di noi».
«Ha lasciato senza protezione Yorio e Jalics?»
Martínez: «No. Loro volevano realizzare il loro progetto di creare una comunità, e quando il loro
superiore si oppose, per questioni di sicurezza, loro pensarono che volesse ostacolarli. Non si resero
conto che lo faceva per proteggerli. Anche noi avremmo preferito studiare a La Rioja, ma il nostro
superiore comprese che avremmo corso un enorme pericolo, di cui noi eravamo del tutto ignari, e
alla fine ci ha salvato la vita. Loro probabilmente non vollero piegarsi per orgoglio».
La Civita: «Abbiamo visto come si muoveva dietro le quinte. Si preoccupava per loro e agiva di
conseguenza».
«È vero che nella casa degli esercizi spirituali nascose gente perseguitata dal regime militare?»
Martínez: «Sì. Noi già allora ne avevamo il sospetto. Poi ne abbiamo avuto la conferma. Gli esercizi
spirituali di Sant’Ignazio di Loyola vanno svolti in completo silenzio. Si tengono in un’ala
dell’edificio in cui c’erano molte stanze singole. Le utilizzavano i laici per trascorrere un periodo di
silenzio e meditazione. Non parlavano con nessuno e se ne andavano dopo un fine settimana. Per
questo quelle stanze erano il luogo ideale per nascondere le persone perseguitate. Apparentemente
non vi accadeva nulla di insolito».
La Civita: «Ci siamo resi conto che permetteva alla gente di rifugiarsi nella casa usando la scusa
degli esercizi spirituali. Da lì poi le persone fuggivano all’estero con nuovi documenti».
«Avrebbe potuto fare di più?»
Martínez: «Francesco è il Papa, non Superman. Per quanto ne so io ha fatto tutto quello che poteva.
Se non di più».
«Avete avuto altri contatti con Bergoglio?»
La Civita: «Ci siamo incontrati in occasione della commemorazione dei trent’anni dalla morte di
Angelelli. Ma siamo sempre in contatto».
Martínez: «Sì. Quando siamo stati ordinati sacerdoti, nel 1978, ci ha raggiunto in ritiro spirituale, in
una zona semidesertica di La Rioja. Eravamo solo noi tre e lui. Una sera abbiamo fatto un bagno in un
fiumiciattolo perché il caldo era insopportabile. “E adesso chi ha voglia di uscire di qui per gli
esercizi spirituali?” abbiamo detto. “Non c’è problema, ragazzi” replicò. Si mise un costume, cercò
la Bibbia e venne con noi. “Non importa, li faremo qui”».
Biografia del Sommo Pontefice presentata in Vaticano il 13 marzo
2013
Jorge Mario Bergoglio, S.I.
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, S.I., arcivescovo di Buenos Aires, ordinario per i fedeli di rito
orientale residenti in Argentina e privi di ordinario del proprio rito, nasce a Buenos Aires il 17
dicembre 1936. Studia e si diploma come perito chimico, per poi scegliere il cammino sacerdotale
ed entrare nel seminario di Villa Devoto.
L’11 marzo 1958 comincia il suo noviziato nella Compagnia di Gesù, porta avanti studi di carattere
umanistico in Cile, e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, si laurea in Filosofia presso il Colegio
Máximo San José, a San Miguel.
Dal 1964 al 1965 è professore di Letteratura e Psicologia presso il Colegio de la Inmaculada
Concepción di Santa Fe, e nel 1966 insegna le stesse materie nel Colegio del Salvador di Buenos
Aires.
Fra il 1967 e il 1970 studia presso la facoltà di Teologia del Colegio Máximo San José.
Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote.
Tra il 1970 e il 1971 compie il terzo probandato ad Alcalá de Henares (Spagna) e il 22 aprile 1973
emette la sua professione perpetua.
È stato maestro di novizi a Villa Barilari, a San Miguel (1972-1973), professore presso la facoltà di
Teologia, consultore della provincia e rettore del Colegio Máximo. Il 31 luglio 1973 è eletto
superiore provinciale dell’Argentina, incarico che esercita per sei anni.
Fra il 1980 e il 1986 è rettore del Colegio Máximo e delle facoltà di Filosofia e Teologia dello
stesso istituto, nonché parroco della chiesa del Patriarca San José, nella diocesi di San Miguel. Nel
marzo 1986 si reca in Germania per redigere la sua tesi di dottorato; quindi i superiori lo destinano
all’Università del Salvador, e poi alla chiesa della Compagnia di Gesù nella città di Córdoba come
direttore spirituale e confessore.
Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires.
Il 27 giugno dello stesso anno riceve nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale dalle
mani del cardinale Antonio Quarracino, del nunzio apostolico monsignor Ubaldo Calabresi e del
vescovo di Mercedes-Luján, monsignor Emilio Ogñénovich.
Il 13 giugno 1997 è nominato arcivescovo coadiutore di Buenos Aires e il 28 febbraio 1998
arcivescovo di Buenos Aires per successione, alla morte del cardinale Quarracino.
È autore dei libri: Meditaciones para religiosos del 1982, Reflexiones sobre la vida apostólica del
1986 e Reflexiones de esperanza del 1992.
È ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina privi di un ordinario del loro rito.
Gran cancelliere dell’Università Cattolica Argentina.
Relatore generale aggiunto alla 10a Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (ottobre
2001).
Dal novembre 2005 al novembre 2011 è presidente della Conferenza Episcopale Argentina.
Giovanni Paolo II lo nomina cardinale, nel concistoro del 21 febbraio 2001, del titolo di San Roberto
Bellarmino.
Era membro delle seguenti congregazioni:
• per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; per il Clero; per gli Istituti di vita consacrata e
le Società di vita apostolica;
• del Pontificio Consiglio per la Famiglia;
• della Pontificia Commissione per l’America Latina.
Atti giudiziari del processo «Esma»: «Caso in cui risultarono vittime
Orlando Virgilio Yorio e Francisco Jalics» (Estratto)
Anche così si è potuto dimostrare che i padri Orlando Virgilio Yorio e Francisco Jalics furono
privati illegalmente della loro libertà la mattina della domenica 23 maggio 1976 dai membri armati
delle forze di sicurezza, alcuni in divisa e altri in tenuta verde e con i baschi rossi, della polizia
federale argentina. In quel momento entrambi i religiosi si trovavano nella casa che condividevano
nel quartiere Rivadavia di Buenos Aires, una delle sedi della comunità gesuita.
La casa fu perquisita e padre Yorio venne interrogato con toni intimidatori circa Pinochet, Angola e
una certa documentazione, rinvenuta in loco, su Mónica Quinteiro, che sarebbe stata anche lei
sequestrata, ma il cui caso non pertiene con l’oggetto del procedimento in corso.
Dalla casa fu prelevato un grande cesto, pieno di documenti, libri e denaro.
Dopo mezzogiorno, senza alcun ordine di arresto, furono trasferiti all’Esma, incappucciati e
ammanettati, e furono abbandonati in uno scantinato. Successivamente vennero condotti sino al terzo
piano e, dopo aver attraversato altri due settori, il 27 o il 28 maggio di quello stesso anno, furono
tradotti in un’altra sede nella zona di Don Torcuato, che si trovava all’angolo tra calle Ricchieri e
Camacuá, dove furono tenuti ancora in stato di prigionia.
In questo centro di detenzione clandestino, padre Yorio fu torturato con scariche elettriche,
narcotizzato e interrogato al fine di ottenere informazioni sull’attività svolta nelle villas de
emergencia.
È stato dimostrato che i detenuti patirono gravi sofferenze fisiche e psicologiche in quel posto
disumano, privo di luce, in cui vivevano incatenati a una mattonella, incappucciati, con le mani dietro
la schiena e i piedi legati. Il cibo era scarso, una volta al giorno ricevevano un tozzo di pane e un po’
di caffè.
In seguito a diverse pressioni, tra cui quelle dell’ordine religioso a cui appartenevano, e in virtù
dell’interesse dimostrato dai vertici della Chiesa cattolica per la loro situazione, durante la notte del
23 ottobre 1976 furono liberati, dopo essere stati drogati, e trasportati in elicottero fino a un campo
nella zona di Cañuelas, nella provincia di Buenos Aires.
È stato altresì accertato che i padri Yorio e Jalics erano consapevoli di essere oggetto di
persecuzione da parte della dittatura a causa delle loro attività nelle villas, e che le loro vite erano in
pericolo. Questo ce lo testimonia il fratello di Yorio e i suoi superiori ecclesiastici che oltretutto gli
avevano tolto, qualche giorno prima che venisse sequestrato, la licenza per celebrare la messa.
Rodolfo Yorio e Silvia Elena Guiard raccontarono le pressioni subite dai condannati.
Rodolfo Yorio fece riferimento ai conflitti all’interno della provincia ecclesiastica. Afermò che,
prima del sequestro di Orlando, l’autorità suprema della Chiesa cattolica argentina, monsignor
Aramburu, aveva preso la decisione di privare il fratello della licenza di officiare la messa.
Aggiunse però che il suo diretto superiore, ossia Bergoglio, l’aveva autorizzato a celebrarla in forma
privata.
Raccontò che il fratello apparteneva alla Compagnia di Gesù, che una delle peculiarità dell’ordine
era l’obbedienza e che tutte le azioni dei sacerdoti dovevano essere autorizzate da Bergoglio. Inoltre
ricordò che quest’ultimo aveva detto loro di avere ricevuto «molte pressioni, molte voci negative su
di loro», che sapeva che erano tutte false, ma che dovevano abbandonare il lavoro pastorale nelle
villas.
A tal riguardo, aggiunse che in un primo momento era stato detto loro che avrebbero potuto
continuare con la loro attività, ma in un altro posto; cosa che avevano accettato con la
raccomandazione di rivolgersi solo «ai poveri», ai sofferenti. Tuttavia, la situazione in tempi
successivi si era fatta ancora più delicata e Bergoglio li aveva informati di non poter più sostenere le
pressioni e che avrebbe concesso loro del tempo per ascriversi a una diocesi. A questo proposito
spiegò che come un soldato deve sempre fare riferimento a un superiore, lo stesso vale per un
sacerdote. Per questo motivo incontrarono il vescovo di Morón, su richiesta del loro superiore. A
sostegno della tesi secondo la quale Orlando Yorio era a conoscenza che la sua scelta pastorale
avrebbe messo a repentaglio la propria vita, il fratello Rodolfo Yorio ricorda che Orlando gli
avrebbe riferito di dover lasciare l’ordine e di doversi allontanare dalle villas perché altrimenti lo
avrebbero ammazzato.
Silvia Elena Guiard, a sua volta, raccontò che Yorio e Jalics appartenevano alla Compagnia di Gesù
e che ricevevano pressioni da parte del padre provinciale dell’ordine, Jorge Mario Bergoglio.
Aggiunse che tali pressioni col tempo si fecero sempre più forti fino a che furono costretti ad
allontanarsi dalla Compagnia trovandosi così in una situazione di abbandono istituzionale. Riferì che,
qualche giorno prima di essere sequestrati, monsignor Aramburu aveva tolto loro la licenza per
celebrare la messa nella capitale federale e che il giorno del loro arresto coincideva con la prima
domenica in cui non avrebbero potuto officiare messa.
Risulta necessario prendere visione della copia della dichiarazione di Orlando Yorio, datata 24
novembre 1977, indirizzata al reverendo padre Moura, letta durante il dibattimento da suo fratello
Rodolfo Yorio, che riconobbe la firma a pagina 27 del documento. In questa dichiarazione, Yorio,
dopo aver sintetizzato la sua carriera apostolica, rivelò delle pressioni che gli giungevano da Roma e
dai vertici della Compagnia in Argentina. D’altra parte questo dimostra che era perfettamente
consapevole che le sue scelte erano disapprovate dalle alte sfere religiose e che si trovava in
pericolo di vita.
A tal proposito è esemplificativo riportare le seguenti parole:
«A metà del 1971, l’allora padre provinciale (Ricardo O’Farrell) mi ha convocato per comunicarmi
che il preposito generale insisteva sull’importanza della ricerca teologica in America Latina e che,
nella provincia, in quel momento, io ero la persona più indicata per occuparsi di questa questione.
Quattro anni e mezzo dopo (alla fine del 1975), padre Bergoglio (il nuovo padre provinciale) mi
informava che l’avermi mandato a svolgere tali studi costituiva solo un pretesto. Nel 1971, nella
consulta provinciale (a cui aveva partecipato anche padre Bergoglio), era stato comprovato che la
mia attività, sia nel Máximo sia nella comunità di Ituzaingó, era altamente pericolosa e che era
necessario trovare una scusa per allontanarmi. Chiesi consiglio a un docente di Teologia di Villa
Devoto molto stimato in Argentina (padre Gera) e il confronto con lui mi convinse dell’urgenza di
riflettere attentamente sulle problematiche politiche dell’America Latina a partire dalla teologia. Alla
fine del 1972 ci siamo trasferiti nella casa di calle Rondeau, un quartiere povero e antico di Buenos
Aires. Io fui nominato responsabile della comunità. Il superiore della comunità era lo stesso padre
provinciale, ma il rettore del Máximo svolgeva il ruolo di osservatore. Ogni settimana tenevamo una
riunione. Io informavo periodicamente il rettore del Máximo e il provinciale. Poco tempo dopo (a
metà del 1973) incominciarono ad arrivarci voci (attraverso laici e religiosi) di critiche che ci
venivano mosse da alcuni gesuiti. Ne abbiamo discusso almeno due volte con il padre provinciale (ci
si accusava di recitare preghiere strane, di vivere in promiscuità, di professare eresie, di essere
implicati nella guerriglia) e lui ci esortò sempre a stare tranquilli.
«Comunità del quartiere Rivadavia (1975). Alla fine del 1974, dopo essere stato nominato
provinciale, padre Bergoglio si è interessato più da vicino alla nostra comunità. Ci siamo incontrati
con lui una o due volte e in queste occasioni ci ha espresso i suoi timori sulla nostra disponibilità a
recarci dove il provinciale ci avesse mandato (altro argomento di critica). Da parte nostra, noi
abbiamo rinnovato l’obbedienza agli ordini che il provinciale ci avrebbe impartito. Padre Bergoglio
fu particolarmente insistente nel domandarci se fossimo disposti a sciogliere la comunità,
rassicurandoci di non aver nulla da obiettare sul nostro operato. Sosteneva di aver bisogno che padre
Rastellini fosse inviato in un altro luogo. Disse anche che noi tre avremmo continuato la stessa
esperienza, ma in un’altra diocesi, quella del vescovo di Avellaneda. Dopo alcuni giorni padre
Bergoglio mi riferì che non sarebbe stato possibile andare ad Avellaneda, e che ci saremmo spostati
in un altro quartiere povero (il quartiere Rivadavia). Il provinciale ci confermò che saremmo dovuti
rimanere tranquilli, garantendoci la stabilità in quel luogo per almeno tre anni. Agli inizi del 1975
fummo trasferiti in una piccola casa del quartiere Rivadavia. Poco dopo padre Ricciardelli,
sacerdote del gruppo pastorale delle villas e futuro parroco della Villa Miseria, venne a recapitarmi
un avviso speciale. L’arcivescovo (monsignor Aramburu) lo aveva messo in guardia contro di noi
sostenendo che padre Bergoglio lo aveva informato che eravamo senza permesso nel quartiere (tutto
ciò era avvenuto tra il marzo e il maggio 1975). Immediatamente mi misi in contatto con padre
Bergoglio, il quale mi tranquillizzò dicendomi che l’arcivescovo aveva mentito. Non ero lì da molto
tempo (dal marzo 1975 per l’esattezza) e ricevetti un avviso di poche e semplici parole da parte del
Colegio Máximo: mi si riferiva che a causa di alcuni lavori di ristrutturazione non ci sarebbero state
più lezioni, senza fornirmi altre spiegazioni. Un mese dopo (nell’agosto 1975) mi chiamò padre
Bergoglio. Mi disse che prima di allora non aveva mai prestato molta attenzione ai rapporti
disciplinari contro di me, ma che aveva ricevuto un secondo fascicolo, di cui mi aveva fatto un
riassunto per iscritto. Padre Bergoglio mi confermò l’esistenza di un problema piuttosto serio, cui lui
attribuiva la cattiva reputazione di cui godevo presso i vertici provinciali dell’ordine. Mi spiegò che
il problema riguardava non noi personalmente, quanto invece la comunità. Riuniti gli altri tre,
Bergoglio ci comunicò che stava subendo molte pressioni in merito alla nostra comunità, provenienti
dalla provincia, da Roma e da altri settori della Chiesa argentina, e alle quali non poteva opporsi. Ci
parlò dello scioglimento della comunità (era il novembre 1975). Abbiamo cercato di capirne le
ragioni. Disaccordi di matrice politica, causati dal mio avvicinamento alla Teologia della
liberazione e dalle tensioni che il Paese viveva. Era dicembre quando ci riunimmo di nuovo con
padre Bergoglio. Ci ripeté che le pressioni da Roma e dall’Argentina erano sempre più forti,
soprattutto da quando all’interno della Compagnia correva voce che fossimo implicati nella
guerriglia. Le forze dell’estrema destra avevano già fucilato un sacerdote nella sua casa e avevano
rapito, torturato e abbandonato il cadavere di un altro. I due vivevano nelle villas. Anche a noi fu
chiesto di essere prudenti. In quel mese (dicembre 1975), a causa delle dicerie sul mio
coinvolgimento con la guerriglia, padre Jalics decise di parlare ancora una volta con padre
Bergoglio. Questi riconobbe la gravità di quelle accuse e si impegnò a metterle a tacere presso la
Compagnia e le forze armate. A febbraio (1976), di ritorno da Roma, padre Bergoglio ci lesse una
lettera del preposito generale che imponeva lo scioglimento della nostra comunità entro quindici
giorni. C’era anche scritto che padre Jalics sarebbe stato inviato negli Stati Uniti e i due argentini in
altre case della provincia. La situazione del Paese era così grave che senza la protezione della
Chiesa la nostra vita sarebbe stata seriamente in pericolo. Come se ciò non bastasse, nello stesso
periodo ricevetti un avviso da monsignor Serra (vicario della zona) in cui mi comunicava che sarei
stato privato della licenza nell’arcidiocesi. La ragione che adduceva per giustificare un simile
provvedimento era una comunicazione inviata all’arcidiocesi dal padre provinciale secondo la quale
io ero uscito dalla Compagnia. Andai a chiedere spiegazioni al padre provinciale. Mi rispose che si
trattava di una pura formalità, mi rassicurò che secondo lui non sussisteva alcun valido motivo per
togliermi la licenza e che mi avrebbe lui stesso conferito la licenza per continuare a celebrare messa
in privato, almeno fino a quando non avessi trovato una diocesi disposta ad accettarmi. Quella fu
l’ultima volta che vidi il padre provinciale prima del mio sequestro. È successo una settimana, dieci
giorni prima dell’arresto. In quel momento abbiamo realizzato che il nostro sacerdozio, nonché le
nostre stesse vite, erano in serio pericolo».
Le modalità, il luogo e le tempistiche del sequestro, della prigionia presso l’Esma e della successiva
liberazione sono stati dettagliati in maniera piuttosto esaustiva da Francisco Jalics e Orlando Virgilio
Yorio, le cui dichiarazioni furono ammesse agli atti del processo (fascicolo n. 92 della Camera
nazionale di appello nel criminale e correttivo federale della capitale federale, 12.415/28 della
causa n.13, 5445/68 degli atti dattiloscritti corrispondenti alla causa 13/84). A tal proposito, padre
Jalics raccontò che dall’inizio della prigionia sino alla fine era rimasto sempre insieme a padre
Yorio.
Lo stesso Yorio riconobbe nella cintura di una delle guardie l’ancora, segno distintivo della Marina.
La vittima dichiarò di essersi reso conto di trovarsi prigioniero nell’Esma calcolando
approssimativamente la distanza percorsa dal luogo in cui avvenne il fermo fino alla prima
destinazione, e per aver udito gli aerei e il continuo passaggio delle automobili.
Yorio ha inoltre aggiunto che, due giorni dopo la cattura, ebbe luogo la celebrazione del 25 maggio e
riuscì ad ascoltare, dal secondo o dal terzo piano dell’edificio che serviva anche da biblioteca o
archivio, la marcia delle truppe e l’inizio di un discorso rivolto ai membri della Escuela de
Mecánica de la Armada (Esma).
Rese noto di aver anche saputo che erano stati condotti in una casa situata tra calle Camacuá e
Ricchieri, nella località di Don Torcuato, dopo averlo sentito dire dalle persone che li stavano
trasportando.
Orlando Virgilio Yorio raccontò anche di aver riconosciuto il luogo della detenzione da alcuni
movimenti esterni che udiva e dalle parole di certi ufficiali quando veniva richiesto loro di
specificare la loro posizione: dicevano di trovarsi «a poppa» rispetto a un altro veicolo.
Altri indizi portarono il religioso a concludere di trovarsi nell’Esma, come per esempio i brevi
tragitti cui erano costretti per essere condotti da una parte all’altra del complesso. Venne trascinato,
per alcune ore, in una stanza in cui riusciva a sentire il rumore dell’acqua in un serbatoio: da questo
concluse di trovarsi nel piano più alto dell’edificio.
Yorio ricordò anche che durante la sua prigionia una guardia gli portò la comunione che padre
Bossini era riuscito a fargli recapitare grazie ad alcune amicizie che vantava all’interno dell’Esma.
Dopo la sua liberazione, Bossini gli aveva raccontato che quando si era presentato in quel luogo
aveva visto le persone che avevano fatto irruzione nella casa dove alloggiavano e lo avevano
arrestato.
Aggiunse che dopo essere stato costretto a uscire dall’appartamento fu scaraventato nella parte
posteriore di una vettura nera, insieme a tre persone armate, e che, dopo un paio di isolati, fu
incappucciato con un sacco. Poi, una volta all’interno dello scantinato, si era reso conto di trovarsi in
uno spazio molto grande dove erano rinchiuse molte persone ed erano appostate diverse guardie. Udì
anche la musica proveniente da una radio.
Padre Yorio riferì che quando fu portato in una stanza piccola e buia che si trovava circa due piani
sopra lo scantinato, al cui interno c’era solo un letto di ferro, chiese di poter andare in bagno, ma gli
fu negato. Rimase circa due o tre giorni nella penombra, senza bere, senza mangiare, incappucciato,
incatenato e con le mani legate dietro la schiena; le guardie entravano solo per insultarlo e
minacciarlo di morte.
Il 25 maggio gli iniettarono una sostanza per intontirlo, riuscì a distinguere il rumore di un
registratore che veniva acceso, poi incominciarono gli interrogatori. Si ricordò che gli ripetevano
che con il suo lavoro nelle villas de emergencia fomentava l’attività sovversiva dei poveri.
Gli era stato chiesto per quale motivo il cardinale Aramburu, la settimana prima, gli avesse tolto
l’autorizzazione a celebrare la messa e lui, in risposta, aveva menzionato monsignor Serra.
Quest’informazione dovette sembrare sufficiente perché posero fine all’interrogatorio senza
permettergli di continuare. Aggiunse che, a causa di alcune conversazioni avute con il padre
provinciale dell’ordine, che gli aveva chiesto di ritirarsi per motivazioni segrete e provenienti da
Roma e dai vertici della Compagnia in Argentina, supponeva che la domanda si riferisse a un
conflitto aperto già da tempo.
Yorio rammentò anche che, il giorno 27 o 28, fu di nuovo interrogato e che gli dissero: «Guardi,
padre, sappia che per noi catturarla è stato un trauma. Noi stiamo cercando un capo guerrigliero, ma a
quanto pare abbiamo arrestato un uomo che svolge solo il suo lavoro. Io non sono un militare e mi
piacerebbe davvero conversare con lei di molte cose, se lei rimanesse qui. Ma mi rendo conto che a
lei interessa soprattutto ottenere la libertà, e io sono nelle condizioni di poterle dire che sarà
liberato; dovrà passare un anno in una scuola, senza apparire in pubblico. Lei è un sacerdote
idealista, un mistico direi, una persona anche simpatica, ma ha fatto un solo errore, cioè ha
interpretato male le parole di Cristo. Cristo parla dei poveri, ma si riferisce ai poveri di spirito,
invece lei ha letto questo termine in chiave materialistica, sicuramente influenzato dalle idee marxiste
che la Chiesa latinoamericana talvolta abbraccia. Quindi il suo avvicinamento ai poveri è soltanto
materiale».
D’altra parte Yorio ricordò che, da quando si trovava in Don Torcuato, gli tolsero il cappuccio e gli
misero una mascherina, che lo ammanettarono da davanti lasciandogli solo una manetta legata a una
catena. Gli diedero da mangiare e lo portarono al bagno.
Riferì che in quel luogo c’erano circa otto persone a fare i turni di guardia. Raccontò che nella casa
si tenevano anche delle riunioni. Ebbe modo di ascoltare alcune conversazioni degli ufficiali e tra gli
ufficiali e i familiari dei detenuti, e udì anche un riferimento a «Villa Capucha».
Raccontò che d’un tratto fu effettuata una perquisizione nella casa da parte di altre forze di sicurezza
e che quel giorno scomparvero le guardie che li tenevano in custodia e vennero sostituite da altre.
Dichiarò che il 23 ottobre 1976, circa alle 17, gli venne iniettata una sostanza che gli provocò
immediatamente la nausea. In seguito lo fecero salire su un camion. Nel giro di un’ora gli fecero
un’altra iniezione nella natica che aumentò il suo senso di nausea e alla fine, dopo una terza
somministrazione nel braccio, non riuscì a ricordare più nulla.
Al suo risveglio si ritrovarono sdraiati a terra, senza catene, con solo una benda sugli occhi. Si
resero conto di trovarsi in mezzo a un campo paludoso e circondato da filo spinato.
Yorio ricordò che, dopo essersi riuniti, camminarono per circa un chilometro e giunsero a una
fattoria. Lì il padrone li informò che si trovavano nella località di Cañuelas e di aver visto un
elicottero atterrare nella zona (dichiarazione del 23 agosto 1983 nella causa n. 6511 la cui copia di
trova alle pagine 583/7 del fascicolo n. 92; dichiarazione nella causa n. 4333 inserita nel fascicolo n.
92: pagine 348/53 [14 giugno 1984], pagine 588/91 [21 settembre 1984], pagina 634 [10 ottobre
1984]; dichiarazione del 22 giugno 1984 di fronte alla Commissione nazionale sulle persone
scomparse nella causa n. 6328 inserita alle pagine 380/6 del fascicolo n. 92).
Le precedenti dichiarazioni furono comprovate dalle testimonianze di Silvia Elena Guiard e di
Rodolfo Yorio e dalle dichiarazioni ammesse al processo di Yorio e Alfredo Ricciardelli e María
Elena Funes de Perniola (rispettivamente alle pagine 517/20 e 715/19 del fascicolo n. 92 della
Camera nazionale di appello nel criminale e correttivo federale della capitale federale).
Silvia Elena Guiard raccontò che il giorno del rapimento aveva notato una lunga fila di persone che
circondavano la strada, alcuni in divisa militare, armati, con stivali e baschi rossi.
La retata raggiunse anche la casa dei sacerdoti. A questo proposito la signora María Elena Funes de
Perniola sostenne che il 23 maggio 1976 nella casa del Bajo Flores ci fu una perquisizione da parte
dei membri delle forze di sicurezza in abiti civili, ma che si distinguevano poiché indossavano un
basco rosso.
Disse di essere stata arrestata, ma, prima di essere allontanata, di aver ricevuto il permesso di
cercare i suoi documenti che si trovavano nella casa di padre Yorio. Entrando nell’abitazione, però,
constatò che il proprietario della casa, Jalics e Bossini erano agli arresti.
Dichiarò di essere stata reclusa nello stesso luogo di padre Yorio, cosa che apprese dopo la sua
liberazione da alcune conversazioni con il religioso.
A sua volta Rodolfo Yorio raccontò che suo fratello Orlando fu sequestrato il 23 maggio 1976,
insieme a padre Jalics. Quella domenica c’era un continuo andirivieni di personale in uniforme,
tenute da lavoro e altre persone vestite in abiti non identificabili. Dopo aver perquisito la casa li
avevano arrestati e portati come prigionieri nel centro di detenzione clandestino che aveva sede
nell’Esma e in una casa che si trovava nella località di Don Torcuato, dove rimasero per cinque
mesi.
Stando alla sua testimonianza, venne a conoscenza delle circostanze del sequestro del fratello tramite
una telefonata della signora Cenobia, una vicina di casa dei religiosi.
Riferì anche che nell’Esma lo interrogarono sulla sua attività.
Infine raccontò che, dopo essere stato liberato, Orlando era molto più magro, debole e assente, e che
dovette ricorrere a cure mediche per problemi cardiovascolari. Inoltre, essendo costretto a sollevare
la palla del cannone a cui era incatenato ogni volta che andava al bagno, gli erano rimasti dei segni
che non si cancellarono per molto tempo.
Rodolfo Alfredo Ricciardelli dichiarò di essere venuto a conoscenza di questi fatti da padre Bossini
e attraverso i resoconti dei vicini sulla retata militare del 23 maggio 1976 nella zona della villa del
Bajo Flores. Apprese poi dal colonnello Flouret, uno degli assessori del ministro Harguindeguy, che
i padri Yorio e Jalics erano detenuti all’Esma, il quale gli avrebbe riferito che «quelli» non potevano
più proseguire con le loro indagini e confermato l’interesse che sia il ministero dell’Interno sia il
presidente nutrivano circa la sorte dei sacerdoti. Tanto più che affermò che «la Santa Sede, il
vescovo e il nunzio stavano muovendo mari e monti per ottenere la loro liberazione».
Circa un paio di settimane dopo, sempre secondo Ricciardelli, i due religiosi erano stati liberati, e il
colonnello Flouret, tempestivamente informato, «dopo aver appreso la notizia, disse che era solo
grazie “a voi” se i sacerdoti erano ricomparsi! E che sarà aperta un’indagine ufficiale, dal momento
che sia il ministro sia il presidente volevano sapere dove erano stati trattenuti i sacerdoti, offrendosi
oltretutto di accompagnarli personalmente nel luogo in cui avrebbero rilasciato la loro
dichiarazione».
Ricciardelli aggiunse che i sacerdoti si recarono a rendere la loro testimonianza presso la
Sovrintendenza della sicurezza federale, sebbene il loro resoconto non riflettesse fedelmente la realtà
dei fatti, su raccomandazione dei funzionari che se ne stavano occupando: affermarono infatti di non
sapere chi li avesse arrestati né il luogo della loro detenzione.
D’altra parte monsignor Serra si presentò all’Esma pochi giorni dopo il sequestro, il vicedirettore in
persona gli assicurò che i religiosi non erano mai stati trattenuti lì.
Nella dichiarazione letta durante il dibattito, Emilio Mignone riferì che Bossini, per quattro giorni,
aveva portato all’Esma la comunione per i sacerdoti, e che le particole consacrate erano state
consegnate a un sottufficiale (pagine 108/110 del fascicolo n. 92, catalogato «María Esther Rosa
Lorusso e altri» della Camera nazionale di appello nel criminale e correttivo federale della capitale
federale). Jorge Vernazza ne diede conferma, e anche la sua dichiarazione fu letta durante il
dibattimento (pagine 499/500 del fascicolo sopra menzionato n. 92). Questi aggiunse che, dopo
essere venuto a sapere che i religiosi si trovavano in quel luogo, ne aveva informato monsignor
Serra, il quale si era presentato all’Esma, dove tuttavia il direttore aveva negato che fossero stati lì
detenuti.
Anche Mignone menzionò tutti i tentativi di scoprire dove i religiosi fossero tenuti prigionieri. Alla
fine di settembre era iniziata a circolare la voce che fossero morti e che, di fronte a tale ipotesi
presentata da fonti ufficiali, il cardinale Aramburu – arcivescovo di Buenos Aires – si era presentato
al cospetto del ministro dell’Interno, il generale Harguindeguy, che aveva incaricato il colonnello
Ricardo Flouret di avviare le ricerche.
Inoltre segnalò di essere stato ricevuto dall’ammiraglio Montes, il 1° luglio 1976, alle 16.00,
nell’edificio «Libertad», e lui gli confermò che i sacerdoti erano stati arrestati dalla Marina.
L’informazione fu confermata da José Maria Vázquez, la cui dichiarazione fu letta nel corso del
dibattimento. Questi asserì che insieme al dottor Mignone e all’ammiraglio Montes, avevano dato
inizio alle ricerche di sua figlia, anche lei scomparsa, e in questa circostanza l’ammiraglio confermò
che padre Yorio e padre Jalics erano stati arrestati dalla Marina, ma che erano stati liberati dopo
cinque mesi (pagine 5485/9 della causa n. 13).
Francisco Jalics, da parte sua, riferì che un suo fratello si era rivolto personalmente a Jimmy Carter,
allora impegnato nella campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, e che un altro aveva
scritto al nunzio dell’Argentina, monsignor Laghi. Disse inoltre che il preposito generale dei gesuiti
aveva portato la questione di fronte all’ambasciatore argentino a Roma, che monsignor Serra si era
recato all’Esma senza tuttavia riuscire a entrare e che, come seppe da amici, monsignor Aramburu
aveva parlato tre volte con il generale Videla. Aggiunse che il padre provinciale Bergoglio si era
rivolto all’ammiraglio Massera e che molte altre persone erano in trattative con diversi ufficiali della
Marina.
Ricordò che, una volta liberati, venne detto loro che era molto pericoloso rimanere nel Paese, dato
che «ci avevano dovuti liberare perché era noto a tutti che la Marina ci aveva sequestrati e che
pertanto avrebbero potuto ucciderci per strada per impedirci di parlare».
Infine Jorge Bergoglio dichiarò che, una volta liberi, per prima cosa si era occupato dell’incolumità
degli ex detenuti, per cui li aveva esortati a non rivelare dove erano stati e li aveva allontanati dal
Paese, il tutto informando le autorità, il vescovo locale e Roma.
Dichiarò inoltre che a partire dal 1974 aveva svolto il ruolo di provinciale della Compagnia di Gesù
in Argentina, carica che mantenne fino all’8 dicembre 1979.
Raccontò di aver conosciuto Orlando Yorio e Francisco Jalics nel 1961, o 1962, nel Colegio
Máximo e che il primo di questi non era mai venuto meno ai suoi voti.
Bergoglio spiegò che a quell’epoca ogni sacerdote che lavorava con i poveri era tenuto sott’occhio e
considerato pericoloso. Testimoniò che nel giugno 1976 si era recato a La Rioja per intervenire nel
caso di due gesuiti che erano lì in missione, che lavoravano insieme ai poveri, le cui dottrine erano
considerate troppo vicine al comunismo. Aggiunse che quando padre Arrupe, preposito generale
della Compagnia, era giunto in Argentina, nell’agosto 1974, aveva visitato quella provincia,
sollevando da più parti un certo scalpore in ragione del fatto che i gesuiti lavoravano con i più
poveri.
Bergoglio ricordò che ancor prima del golpe militare si era radicata l’idea che i preti che si
occupavano delle fasce sociali più deboli fossero «di sinistra».
Segnalò anche che padre Yorio e padre Jalics avevano abbandonato la Compagnia prima del colpo
di Stato, probabilmente alla morte di padre Mugica.
Dichiarò che il preposito generale dei gesuiti appoggiava la pastorale con i poveri e che si era
riunito con tutti gli altri sacerdoti della Compagnia impegnati in quest’ambito per concordare la linea
d’azione da seguire. Aggiunse che non era l’unica attività di Yorio e Jalics, che il quartiere
Rivadavia organizzava anche esercizi spirituali e lezioni di catechesi, e che durante i fine settimana i
due sacerdoti aiutavano nella Villa 1-11-14 e gli riferivano cosa accadeva in quel luogo.
Raccontò che tra il 1975 e il 1976, in seguito all’assassinio di padre Mugica, i sacerdoti erano
sempre più preoccupati. Pertanto, dovevano agire con molta attenzione rispettando una serie di
precauzioni, come per esempio quella di non entrare soli nei quartieri poveri e di andare sempre in
giro accompagnati di sera.
Bergoglio rese noto che la comunità che avevano creato nel quartiere Rivadavia doveva essere
sciolta in funzione di una politica di riordino all’interno della provincia argentina, volta a rafforzare
alcune zone precise, smembrando le piccole comunità per concentrare l’attenzione dei gesuiti su altre
attività, quali le scuole, le residenze e le missioni. A quell’epoca esistevano otto piccole comunità e
furono ridistribuite tra i gesuiti. Ma precisò anche che questo non implicava l’abbandono del lavoro
nella Villa 1-11-14.
Spiegò che i padri Yorio e Jalics non erano i soli a far parte di quella comunità nel quartiere
Rivadavia, ma che la ridistribuzione implicava il loro allontanamento in seguito alla dissoluzione
della comunità.
Tenne a specificare che residenza e comunità erano due cose ben distinte; che il quartiere Rivadavia
era una residenza, non una parrocchia, né un oratorio, e che lì vivevano dei gesuiti che lavoravano in
diversi luoghi.
Continuò a spiegare che la ridistribuzione coinvolse i padri Yorio e Jalics nella seconda metà del
1974 e che il primo fu inviato al Colegio Máximo e l’altro nella provincia Chilena, e che avrebbero
potuto continuare a svolgere le loro attività nella Villa 1-11-14, ma da una nuova residenza.
I padri avevano chiesto che la comunità non fosse chiusa, esercitando il loro diritto di motivare
perché non ritenevano appropriato eseguire gli ordini ricevuti, sulla base del voto d’obbedienza che
avevano pronunciato. Sebbene la questione fosse stata ulteriormente studiata, si decise di dissolvere
comunque la comunità, processo che durò quasi un anno e mezzo e in cui intervenne il padre generale.
Stando alla testimonianza di Bergoglio, Arrupe impose un ultimatum: o la comunità si sarebbe sciolta
o i padri che vi lavoravano avrebbero dovuto cercare altre alternative; cosa che implicava
l’allontanamento dalla Compagnia. Quando la loro istanza ricevette risposta negativa, venne loro
richiesto di abbandonare la Compagnia.
Bergoglio dichiarò che la decisione fu comunicata a padre Yorio il 19 marzo 1976 e che a partire da
quel momento il sacerdote avrebbe dovuto trovarsi una collocazione presso una diocesi del clero
secolare. I sacerdoti, tuttavia, non furono accolti da alcun vescovo, senza conoscerne le cause.
Cambiando argomento, Bergoglio negò di essere stato a conoscenza di un presunto accordo tra la
Chiesa e i militari secondo il quale, se qualche sacerdote fosse stato sequestrato, avrebbero dovuto
preventivamente informare il vescovo.
Dichiarò che il sequestro di Jalics e Yorio avvenne tra il 22 e il 23 maggio e che questi erano stati
arrestati insieme a un gruppo di laici, alcuni dei quali furono rimessi in libertà dopo qualche giorno.
Da parte sua era venuto a sapere del sequestro il giorno stesso alle prime ore del pomeriggio, tramite
una telefonata ricevuta da una persona del quartiere, e aveva appreso che i responsabili
appartenevano alla Marina, anche se non era a conoscenza del fatto che fossero alloggiati nell’Esma.
Precisò che alcuni gesuiti incontrarono i laici liberati, che raccontarono di essere stati trattenuti in un
settore della Marina. Sostenne di non essersi messo in contatto con loro perché gli sembrava il modo
migliore di procedere, dato che già altri si stavano occupando della questione.
Non gli risultava, anche se ne aveva sentito parlare, che in quei giorni avessero effettivamente
sospeso le licenze ai due sacerdoti, e tuttavia lui li aveva autorizzati a celebrare la messa in privato.
Bergoglio affermò inoltre che per conoscere il luogo in cui i sacerdoti erano detenuti, si era
incontrato per due volte con il comandante Massera e che questi, dopo averlo ascoltato, gli aveva
detto di non saperne nulla e che avrebbe condotto delle indagini. Non ricevendo da lui alcun
riscontro, dopo un paio di mesi chiese di poterlo rincontrare. Questa seconda volta, riferì il
testimone, «fu decisamente peggiore», il colloquio non durò neanche dieci minuti e il comandante gli
riferì solo di aver informato il presidente dell’episcopato, monsignor Tortolo.
Dichiarò di aver parlato due volte con il generale Videla. La prima in una circostanza molto formale;
egli prese nota, gli disse che avrebbe aperto un’indagine e ipotizzò che, secondo alcune voci,
potevano essere nella Marina. In un’altra occasione, invece, appurato chi fosse il sacerdote che
doveva celebrare la messa nella residenza del comandante, lo aveva sostituito, e dopo la messa gli
chiese di parlare. Quella volta gli diede l’impressione che si sarebbe effettivamente occupato della
questione.
Bergoglio riferì che, quando Yorio venne liberato, gli parlò al telefono e che poco dopo si
incontrarono. Gli disse che avrebbe cercato di fargli lasciare il Paese, ragion per cui Yorio si
presentò di persona al dipartimento di polizia con una copertura diplomatica insieme al segretario
della Nunziatura. Gli assicurò che non ci sarebbero state complicazioni, ma lo sollecitò a non
rivelare dove si trovavano.
Bergoglio ricordò anche di aver saputo che all’Esma veniva portata loro la comunione.
Infine, spiegò che il lavoro dei preti nelle baraccopoli era diverso a seconda dei Paesi in cui
operavano. In alcuni casi dovette scendere a compromessi con le questioni politiche e con una lettura
del Vangelo secondo un’interpretazione marxista, che diede vita alla Teologia della liberazione.
Altri sacerdoti invece scelsero di evitare commistioni con la politica per dedicarsi all’aiuto e al
sostegno dei più poveri.
Vale la pena sottolineare quanto contenuto nel fascicolo n. 92 della Camera nazionale di appello nel
criminale e correttivo federale della capitale federale, catalogato «María Esther Rosa Lorusso e
altri», come anche il fascicolo della Commissione nazionale sulle persone scomparse n. 6328
corrispondente a Orlando Virgilio Yorio.
A sostegno di quanto esposto viene la copia dell’habeas corpus presentato in tribunale il 9 agosto
1983 a favore di Antokoletz, Mignone, Vázquez Ocampo, Lugones, Pérez Weiss, Lorusso Lamle,
Teresa e Pablo Ravignani, Fidalgo, Berardo, Elbert, Ballestrino de Careaga, Oviedo, Horane, Bullit,
Hagelin, Fondevilla, Ponce de Bianco, Duquet, Domon, Villaflor e Auad, in cui si fa riferimento al
fatto che danneggiò i sacerdoti Yorio e Jalics (pagine 1718/1762 della causa n. 14.217).
Per ultimo, merita attenzione la copia della dichiarazione fatta da Orlando Yorio, citata in
precedenza: «La domenica 23 maggio in mattinata, giunsero circa duecento uomini armati (secondo le
versioni successive) che bloccarono le attività nella villa. Occuparono la nostra casa, portandosi via
le mie lettere e i miei documenti. Condussero fuori otto giovani catechisti che in quel momento si
trovavano lì. Arrestarono padre Jalics e me. Ai catechisti chiesero come celebravo la messa e quale
teologia praticassi. Li lasciarono liberi uno o due giorni più tardi. Lo appresi solo dopo che fui
liberato anch’io. Padre Jalics e io siamo stati incatenati per cinque mesi ai piedi e alle mani, con gli
occhi sempre bendati. I primi quattro o cinque giorni li trascorremmo senza mangiare, senza bere,
senza andare in bagno. Solo un mese e mezzo dopo ci fu consentito di cambiarci i vestiti ormai lerci.
Al sesto giorno mi condussero nella stessa stanza di padre Jalics, mi diedero da mangiare e potei
andare in bagno. Rimanemmo lì incatenati senza neanche vedere la luce, senza possibilità di
comunicare con nessuno. Per cinque mesi. Mi interrogarono da solo durante i primi giorni, ma mi
drogarono per indurmi a parlare in stato di incoscienza. Avevano sentito dire che io ero un
guerrigliero. Mi chiesero di spiegare per quale motivo mi fosse stata revocata la licenza per
celebrare la messa, mi domandarono in cosa consistesse il mio lavoro nelle villas, vollero conoscere
le mie opinioni circa la storia dell’Argentina, se avevo rapporti sessuali con una catechista. Prima di
darmi da mangiare mi spiegarono la ragione per cui mi trovavo lì. Erano state fatte alcune denunce
contro di me. L’avermi catturato adesso però costituiva un grosso fastidio perché la Chiesa, e non
solo, aveva immediatamente reagito chiedendo la liberazione mia e di Jalics. Mi dissero che ero un
bravo sacerdote, ma che avevo commesso un errore: ero andato a vivere con i poveri interpretando il
Vangelo in chiave troppo materialistica. Infatti Cristo, mi spiegarono, quando parla della povertà si
riferisce a quella spirituale, e dunque in Argentina i veri poveri sono i ricchi, e io mi sarei dovuto
occupare di loro. Continuarono dicendo che io non avevo alcuna colpa, ma che tuttavia, a causa “di
quei problemi degli uomini”, anche se fossi stato rimesso in libertà avrei dovuto trascorrere un anno
in una scuola. Dopodiché mi trasferirono e rimasi per cinque mesi senza ricevere altre spiegazioni. Il
23 ottobre fummo anestetizzati durante la notte e abbandonati in stato d’incoscienza in mezzo a un
campo a sud di Buenos Aires. Fummo sicuramente trasportati da un elicottero, lo deduco dalla grande
distanza percorsa e dai territori paludosi adiacenti. Il giorno successivo, circa a mezzogiorno, appena
giunti a Buenos Aires riuscimmo a telefonare al padre provinciale. Due giorni dopo (26 ottobre
1976) incontrammo padre Bergoglio a casa di mia madre. Io non avevo documenti e non mi era
permesso alcuno spostamento. Quel giorno stabilimmo che il padre provinciale avrebbe parlato del
mio trasferimento presso una diocesi del clero secolare con monsignor Novak. Quel giorno mi disse
che non era necessario che io firmassi la lettera di dimissioni perché, per velocizzare le pratiche,
aveva scritto un atto firmato da testimoni secondo il quale io abbandonavo la Compagnia. Io credetti
che quel documento fosse stato scritto in quel momento, perché non potevo uscire dalla casa di mia
madre. Per accelerare il mio insediamento in una diocesi del clero secolare. Il preposito provinciale
non mi informò che ero stato espulso dalla Compagnia, né che quell’atto era datato 20 maggio (ossia
tre giorni prima di essere arrestato) come padre Moura aveva detto a padre Jalics. Inoltre, dopo
cinque mesi di catene, senza vedere la luce, in una situazione di incomunicabilità e terrore, io mi
sentivo come nauseato da tutte le nuove emozioni, anche solo dal potermi muovere, dal vedere la
luce, incontrare gli amici e la fila ininterrotta di gente che fino a sera veniva a farmi visita a casa di
mia madre. Mi sentivo molto fragile e nutrivo solo il desiderio che le cose ritornassero alla
normalità dopo tutte quelle minacce di morte subite in prigione. Ad aggravare la situazione, il giorno
successivo la polizia incominciò a cercarmi e dovetti nascondermi. Padre Bergoglio informò
personalmente monsignor Novak di quello che mi stava accadendo. Lo fece in mia presenza per
evitare malintesi. Gli diede ottime referenze. Mi specificò che dovevo lasciare il Paese non perché ci
fossero problemi con la Compagnia, né dal punto di vista religioso né da quello sacerdotale, ma solo
per via delle “tensioni sociali” in atto. Padre Bergoglio mi fece avere i documenti e pagò il viaggio
per Roma. In quell’occasione inoltre si mise in contatto con il Pontificio Collegio Pio Latino
Americano per favorire il mio ingresso alla Pontificia Università Gregoriana. In quell’occasione ero
certo che fosse stato molto corretto nei miei confronti. Il mio vescovo ne fu molto soddisfatto. Ma
non mi poté dare alcuna spiegazione su quanto accaduto in precedenza. Venne anzi a dirmi che per
favore non gli chiedessi nulla di più perché in quel momento si sentiva molto confuso e non avrebbe
saputo darmi le spiegazioni che domandavo. Io non dissi nulla. E che cosa avrei potuto dire? Ma
tornando alla questione dell’atto firmato dai testimoni. Quando a giugno vidi padre Moura insieme a
padre Jalics mi parlò di una riunione di fronte a testimoni in cui padre Bergoglio mi rivolse un
ammonimento o qualche cosa di simile. Adesso il professor Cardone è tornato sull’argomento.
Quella riunione non è mai esistita. Io non ricevetti alcun ammonimento. Secondo quanto padre Moura
riferì a padre Jalics, quella riunione era avvenuta il 20 maggio, ossia tre giorni prima del mio
arresto. Ma prima di essere condotto all’Esma io vidi padre Bergoglio sette, anzi forse dieci giorni
prima e in quella circostanza mi diede la licenza per celebrare la messa nelle case della Compagnia,
cosa che non credo avrebbe mai pensato di fare se mi intimava di allontanarmi dall’ordine. Quindi
eravamo soli, senza testimoni. Oltretutto, se ci fosse stata quella riunione, a quale scopo mi fornì
quella spiegazione a casa di mia madre, dicendo di aver fatto firmare quei documenti dai testimoni
solo per rendere le pratiche più agevoli? Come si spiega che ci sia un atto fittizio in cui io vengo
espulso dalla Compagnia senza che io ne sia mai venuto a conoscenza, giusto tre giorni prima della
mia cattura?».
In sintesi, quanto esposto permette di affermare che la reazione ecclesiastica, concretizzatasi nelle
diverse linee di condotta dei superiori dell’ordine a cui appartenevano i religiosi e da altre autorità
della Chiesa cattolica argentina, riuscì a persuadere il regime imperante a liberare i detenuti.
Il fatto che i sacerdoti Jalics e Yorio fossero consapevoli del pericolo che correvano a causa delle
loro attività era noto a tutti, dal momento che il regime dittatoriale credeva che l’attività pastorale
nelle baraccopoli fosse solo una copertura dietro cui celare la guerriglia. A questo si aggiunge la
testimonianza di Rodolfo Yorio il quale sostiene che il fratello gli avesse detto che lo avrebbero
ucciso se avesse continuato le sue attività. Così come si può fare riferimento agli avvertimenti da
parte della Chiesa che alla fine si erano tradotti nella revoca della licenza a celebrare la messa.
L’evento riferito fu comprovato in una parte della sentenza emanata dalla Camera nazionale di
appello nel criminale e correttivo federale, nella causa n. 13/84, corrispondente a casi identificabili
con i numeri 197 e 198.
Come conclusione, è necessario segnalare che i fatti descritti convinsero pienamente, per
concordanza, coerenza e forza persuasiva, il tribunale di quanto già all’inizio si era affermato.
Bibliografia
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conservatore moderato che non ha mai eluso la discussione politica], «Clarín», 14 marzo 2013.
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Elegirán al rector de la Universidad del Salvador [Sarà eletto il rettore dell’Università del
Salvador], «La Nación», 25 maggio 1975.
El éxtasis familiar por el «loco de la guerra» [L’estasi familiare per lo «scemo di guerra»], «La
Nación», 17 marzo 2013.
El sobrino del Papa: «Mi tío asume una responsabilidad infernal» [Il nipote del Papa: «Mio zio si
assume una responsabilità infernale»], «Perfil», 17 marzo 2013.
En el conclave, las divisiones van más allá de la ideología [Nel conclave le divisioni vanno oltre
l’ideologia], «La Nación», 5 aprile 2005.
Era estudioso y místico, nosotros éramos un poco más festivos [Era studioso e mistico; noi eravamo
un po’ più vivaci], «Perfil», 16 marzo 2013.
Exigente y admirador de Borges, así lo recuerdan sus ex alumnos [Esigente e ammiratore di
Borges: così lo ricordano i suoi ex alunni], «Clarín», 15 marzo 2013.
Fernández, Oriana e Sergio Rodríguez, La casona donde Bergoglio pasó sus anos en Chile [La casa
rurale in cui Bergoglio passò i suoi anni in Cile], «La Tercera», 15 marzo 2013.
Fernández Moores, Ezequiel, El papa cuervo [Il papa corvo], «El País», 18 marzo 2013.
Il primo beato del Pontefice, un prete ucciso dal regime, «La Stampa», 19 marzo 2013.
Los jesuitas tienen nuevo provincial [I gesuiti hanno un nuovo provinciale], «La Nación», 5 agosto
1973.
Miembros de la Companía de Jesús en Chile y la elección de Francisco [Membri della Compagnia
di Gesù in Cile e l’elezione di Francesco], «La Tercera», 18 marzo 2013.
Monseñor Bonet Alarcón le donó sangre en 1957, cuando sufrió una afección pulmonar
[Monsignor Bonet Alarcón gli donò il sangue nel 1957, quando soffrì di una malattia polmonare], «La
Nación», 19 marzo 2013.
Para los empresarios es quien puede lograr lo imposible: diálogo [Per gli imprenditori è colui che
può ottenere l’impossibile: il dialogo], «La Nación», 14 marzo 2013.
Rivas, Tomás, La juventud de Bergoglio, entre parroquias, amigos y baile [La gioventù di
Bergoglio tra parrocchie, amici e balli], «La Nación», 14 marzo 2013.
¿Un jesuita franciscano? [Un gesuita francescano?], «El País», 14 marzo 2013.
Indice
1. Una strada che porta a Roma
2. Papa non si nasce
3. La formazione del vescovo di Roma
4. La difficile missione di imparare a governare
5. L’esilio, un «master» in sacerdozio
6. Il nodo che la Vergine Maria sciolse
7. La rivoluzione della fede
8. Il Papa della strada
9. Un Papa latinoamericano
10. Un uomo di tutte le religioni
11. Quando Dio vota: elezioni in Vaticano
12. Il Papa della gente e le sue sfide
A mo’ di epilogo. Come ho conosciuto Bergoglio
Ringraziamenti
Appendice
Bibliografia
Jorge Bergoglio (a sinistra) e suo fratello Oscar.
Jorge e i suoi genitori, Regina e Mario.
La famiglia Bergoglio. Dietro: María Elena, mamma Regina, Alberto, Jorge Mario, Oscar, Marta e
suo marito; davanti: i nonni Juan e María, e papà Mario.
Lettera di Jorge Bergoglio a sua sorella María Elena.
Bergoglio con Enrique Martínez Ossola, Miguel La Civita e Carlos Gonzáles, i sacerdoti che aiutò
durante la dittatura militare argentina.
Con l’ex presidente argentino Raúl Alfonsín. Dietro, Antonio Cafiero e José Ignacio López.
Con l’ex presidente argentino Néstor Kirchner.
Con la presidenta argentina Cristina Fernández de Kirchner.
Il cardinale Bergoglio partecipa all’incontro ecumenico con altri leader religiosi e dopo beve il mate
con loro.
Bergoglio saluta il teologo italiano padre Raniero Cantalamessa durante la sua visita nell’ottobre
2012.
L’arcivescovo di Buenos Aires con Guillermo Borger, presidente dell’associazione ebraica Amia.
Con un gruppo di persone davanti a un’autorimessa clandestina. Nell’incendio che distrusse
l’edificio morirono sei persone, vittime del lavoro nero.
Il cardinale Bergoglio celebra una messa per le vittime del traffico di esseri umani in Plaza de la
Constitución, Buenos Aires.
Durante una messa contro il traffico di esseri umani e la schiavitù sessuale.
Con Tamara Rosenberg, responsabile della cooperativa di lavoro Mundo Alameda.
Con alcuni cartoneros dell’associazione di riciclaggio rifiuti El Álamo.
Al termine della messa nel santuario portuale di San Cayetano in onore del santo patrono del pane e
del lavoro.
Il suo ultimo Giovedì Santo come arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio lavò i piedi a dodici
giovani impegnati in un programma di disintossicazione dalla droga.
Con José María Di Paola, “padre Pepe”, uno dei curas villeros.
Bergoglio si dirige al suo appartamento nella sede della curia, vicino alla cattedrale metropolitana.
Il cardinale Bergoglio al momento della consacrazione dell’Eucaristia.
La presidente argentina, Cristina Fernández de Kirchner, viene ricevuta dal neopapa Francesco.
Papa Francesco si appresta a celebrare la sua prima messa di Pasqua come pontefice.
Papa Francesco percorre piazza San Pietro durante la cerimonia di intronizzazione.
Un abbigliamento papale sobrio e la stessa croce di quando era un semplice sacerdote. È questo il
tratto distintivo del suo papato: una Chiesa povera per i poveri.
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Francesco il Papa della gente - Figlie della Carità di San Vincenzo