Mia per sempre
Mise le mani in tasca
Il suo dito sull’acciaio
La pistola era pesante
Il suo cuore poteva avvertirlo
Stava battendo, battendo
Battendo, battendo, oh amor mio
oh amor mio, oh amor mio
oh amor mio
Le mani che costruiscono
Possono anche distruggere
Le mani dell’amore
Perfino le mani dell’amore.
Exit, dall’album The Joshua Tree
degli U2
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I
Non chiamateli «passionali»
Li chiamano «delitti passionali» perché l’omicida uccide chi
afferma di amare, in un impeto di rabbia o di gelosia. Eppure in questi delitti non c’è niente che faccia pensare alla
passione come al sentimento che stimola a compiere grandi conquiste, a superare se stessi, a morire per un ideale, ad
amare intensamente. Si potrebbe obiettare che passione significa pathos, dolore, esagerazione, esasperazione, che la
passione può spersonalizzare l’altro per idealizzarlo, per
farne un riflesso di sé. «Esisto solo per te», «Vivo solo attraverso il tuo sguardo». La passione a volte somiglia a una
droga. La tossicodipendenza comporta una rottura con la
realtà, compresa quella con l’essere amato, e l’individuo
drogato cerca continuamente di aumentare l’effetto delle
sostanze che assume. L’immaginazione spesso governa la
passione con l’idea che sia possibile realizzare un’unione
esclusiva, totalizzante, ma omicidi commessi per futili motivi, in accessi di furore, in momenti di frustrazione dovuta a un abbandono o al sospetto di un tradimento, cosa
hanno a che fare con le passioni amorose raccontate dalla
letteratura, dall’epica, dal mito? È amore quello che porta
un uomo a uccidere la propria compagna? O piuttosto è
senso del possesso, gelosia delirante, orgoglio, delusione
e narcisismo?
Nel passato il «delitto d’amore» veniva giudicato con una
certa indulgenza perché era proprio la passione a costituire
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l’attenuante nell’opinione pubblica. Ma il Codice penale
sancisce che gli stati d’animo passionali non diminuiscono
l’imputabilità di un omicida, è la perizia psichiatrica a stabilire se nel momento dell’uccisione il responsabile era totalmente o in parte incapace di intendere o volere.
Nella maggior parte di questi delitti non c’è premeditazione, ma possono esistere precedenti di violenza e abusi
del carnefice verso la sua vittima. Tuttavia, spesso il futuro assassino vive un periodo di estrema tensione e desidera compiere un gesto eclatante che interrompa la spirale di
sofferenza e frustrazione in cui è bloccato.
L’espressione «delitto passionale» è soprattutto una definizione mediatica che per molto tempo si è basata sulla
complicità del lettore-spettatore, portato a trovare attenuanti a omicidi che supponeva basati su un amore eccessivo,
totalizzante, l’amour fou dei francesi. La benevolenza con
cui erano giudicati quei delitti si basava sul fatto che erano compiuti da uomini normali, senza precedenti penali,
di solito considerati buoni padri, amici generosi, bravi lavoratori. Miti, gentili, socievoli: l’omicidio deve essere per
forza dovuto a una loro temporanea infermità mentale, a
un momento di blackout. Gli stessi assassini lo dichiarano:
«Improvvisamente è scesa la nebbia nel mio cervello, non
ricordo cosa ho fatto»; «Fino a un momento prima stavamo litigando… poi l’ho vista morta sul letto»; «Non volevo ucciderla… è come se avessi imboccato un tunnel buio».
Il crimine passionale è sempre stato ritenuto una categoria a parte, lontana da altri tipi di omicidio. Non riscuote la
stessa disapprovazione sociale, sia perché chi lo commette viene considerato vittima di tradimenti e slealtà, sia perché spesso si suicida dopo aver ucciso.
La letteratura ha dato una sorta di dignità a questi crimini, basta pensare a Sonata a Kreutzer di Tolstoj, il cui protagonista, durante un viaggio in treno, racconta la sua tragedia a uno sconosciuto. È la storia di un amore coniugale
in cui un uomo sospetta un tradimento da parte della moglie. Il dubbio lo porta a un tale livello di tormento che, ormai certo dell’infedeltà della donna anche se non ne ha la
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prova, la pugnala a morte. Alla fine del racconto l’assassino implora il perdono del compagno di viaggio. Di delitto
passionale parla anche Georges Simenon in Lettera al mio
giudice, dove un medico scrive al magistrato che lo ha condannato per omicidio spiegando di avere ucciso una donna
che amava troppo. È difficile che il lettore non provi compassione e simpatia per i protagonisti di queste due vicende. Ed ecco l’inganno: la sofferenza e quello che viene scambiato per amore estremo addolciscono il crimine crudele.
Che induca a comportamenti positivi o negativi, la passione viene vista come un sentimento potente contro il
quale è inutile ribellarsi. È il motivo per cui questi delitti
sono stati a lungo percepiti come dovuti a una sorta di fatalità. Poiché uccide il più delle volte tra le pareti domestiche, non ha precedenti penali e raramente è portato a ripetere l’atto criminoso, l’assassino induce alla clemenza e
non è ritenuto pericoloso per la società. Eppure, nei capitoli che seguono vedremo come gran parte di questi criminali uccidano al termine di una serie di violenze perpetrate ai danni della donna che affermano di amare; vedremo
come spesso la loro vendetta si estenda anche ai figli e
come, se arrestati, cerchino delle giustificazioni alle loro
azioni scellerate.
Rimane la controversia sulla denominazione di delitto
passionale. Il magistrato Salvatore Cosentino spiega che
«non sempre i concetti, i valori che hanno un significato
nel linguaggio di tutti i giorni conservano lo stesso significato semantico, lessicale e contenutistico nel mondo del
diritto. Abitualmente siamo portati a pensare che il delitto passionale sia istintivo, d’impeto. Ciò può essere vero in
molti casi, ma non è così scontato. Talvolta, infatti, una sofferenza passionale può portare a delitti premeditati. Questo
perché ci si crogiola, quasi, nella sofferenza, progettando,
meditando sul momento, il luogo e soprattutto la tecnica
dell’omicidio.
«Quindi il delitto passionale può essere progettato. Un
caso giudiziario molto interessante di qualche decennio fa
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vide balzare agli onori della cronaca una coppia di amanti
calabresi. Lei era un’attrice e recitava nel teatro ambulante del marito. Quest’ultimo la sorprese con l’amante poche
ore prima dello spettacolo, ma non la uccise sul momento. Attese l’ora della recita: la trama prevedeva che in scena essi rappresentassero, come nella realtà, due coniugi in
crisi che litigavano a causa del tradimento di lei. In uno
straordinario parallelismo fra teatro e vita, il marito uccise davvero la moglie sul palcoscenico, mentre il pubblico
credeva stesse ancora recitando. Ecco, questo è un caso da
manuale di delitto passionale premeditato.
«Anche dal punto di vista tecnico-giuridico il nostro codice penale mantiene ben separati, direi ontologicamente
distinti, i concetti di passionalità e di impeto. Si pensi che
nel diritto penale lo “stato passionale” è descritto come
“un’emozione particolarmente profonda e duratura che
tende a predominare sull’attività psichica del soggetto minando il suo potere di autocontrollo”. E la giurisprudenza ha più volte riscontrato il motivo passionale nei delitti commessi per amore, attrazione sessuale, odio, invidia,
gelosia, fanatismo e ambizione. Eppure questi motivi così
particolari, così immaginifici, così presenti in tantissima
parte della letteratura, per il Codice penale non sono affatto rilevanti ai fini del riscontro della capacità di intendere
e di volere. Bisogna però precisare che, pur non escludendo la responsabilità, la gravità del delitto compiuto sotto
l’effetto dello stato passionale può essere considerata attenuata. Esiste infatti nel nostro Codice una norma che prevede un’attenuante per chi commette un reato in risposta
a una provocazione, a un fatto ingiusto altrui o in preda a
uno stato d’ira. Il tradimento di un partner può quindi essere ritenuto giuridicamente “fatto ingiusto altrui” tale da
non escludere, ma comunque “attenuare”, diminuire, la
pena del reato commesso.
«Il diritto penale prevede poi un’ulteriore distinzione tra
delitto d’impeto e delitto di riflessione. Nel primo caso v’è
un immediato passaggio dalla volontà del delitto alla sua
realizzazione, nel secondo intercorre un apprezzabile las-
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so di tempo tra l’insorgere del proposito delittuoso e la sua
esecuzione. Il diritto penale, in questi casi, distingue molto bene le due ipotesi. Un delitto d’impeto viene giudicato
meno severamente di un delitto di riflessione (che talvolta diventa vera e propria premeditazione). Ciò perché vi è
molta più intensità di volontà (i giuristi dicono “dolo”) nel
secondo caso rispetto al primo. Più volontà, dunque, significa più pena.»
Secondo Cosentino, ha senso chiamare passionale un omicidio «commesso da un uomo “malato d’amore” o schiavo
senza catene delle sue passioni. Tanto più che abbiamo visto come la “patente di passionalità” non farà mai assolvere
nessuno (in un’epoca, ricordiamolo, in cui il delitto d’onore è stato fortunatamente abrogato), ma al massimo potrebbe configurare quell’attenuante di cui parlavo, che comunque non potrà mai ridurre la pena oltre il terzo del tempo
complessivo in cui essa andrebbe scontata».
In passato erano soprattutto le donne a uccidere il partner.
Costrette a sposare un uomo che non amavano, a volte ricorrevano al veleno per liberarsi di lui. Questo accadeva se
l’uomo era violento e traditore, ma anche se la donna aveva incontrato il vero amore e voleva ricominciare la vita insieme a lui. Non avendo la possibilità di separarsi, poiché dipendeva economicamente dal marito, ricorreva all’arsenico.
Questa sostanza, chiamata nel 1786 «soluzione di Fowler»,
dal nome del medico che per primo ne promosse l’utilizzo in caso di febbre e cefalea, era popolare come tonico e se
ne ricavavano anche prodotti per la pelle e moschicidi. Era
quindi facilmente reperibile in farmacia. Le donne mescolavano ogni giorno piccole dosi di veleno alla minestra, al
caffè o alla cioccolata, e aspettavano pazientemente che facesse effetto. La vittima soffriva di terribili mal di stomaco
e di diarrea, convulsioni e paralisi, ma poiché si trattava di
sintomi comuni a diverse malattie era difficile diagnosticare un avvelenamento volontario. L’omicidio richiedeva molto tempo, perché le dosi di arsenico dovevano essere minime affinché l’omicida non fosse scoperta. Questo dimostra
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come la decisione di uccidere non solo fosse premeditata
ma restasse immutata nei giorni. L’assassina difficilmente si faceva distogliere dal suo obiettivo, tanto che Rudyard
Kipling scrisse che la femmina di ogni specie è «deadlier than
the male», più letale del maschio. A suo favore possiamo dire
che gli omicidi non erano quasi mai violenti. Raramente la
donna affrontava la sua vittima con un’arma da fuoco, un
coltello o uno strumento contundente.
Al contrario, l’uomo non uccideva quasi mai spinto dai
sentimenti ma per altri motivi: sete di denaro, sadismo, perversioni sessuali, raptus di rabbia, alcolismo ecc. Solo un
terzo degli omicidi commessi da uomini aveva come movente la passione, che era invece il movente di quello femminile in nove casi su dieci.
Oggi alcuni uomini uccidono le loro compagne dopo un
lungo periodo in cui le hanno maltrattate psicologicamente, fisicamente, sessualmente. Un comportamento estraneo
alle donne. In determinati casi gli uomini non assassinano
solo le compagne, ma anche i figli o chi è presente in quel
momento. Le donne non lo fanno mai. Certi omicidi maschili sono dovuti alla decisione della compagna di separarsi. Movente che non si riscontra nei delitti commessi da
donne. A differenza di molti uomini che, dopo aver ucciso
la compagna, si tolgono la vita, le donne non si suicidano
quasi mai. Il delirio di gelosia porta alcuni uomini a uccidere la loro compagna, cosa che le donne fanno molto di rado
nonostante vengano frequentemente tradite. Si arriva così
alla conclusione che se oggi una donna uccide il fidanzato o il marito, nella gran parte dei casi lo fa per difendersi.
Con questo non voglio dire che l’omicidio femminile della nostra epoca sia sempre giustificabile perché la donna è
stata a lungo provocata, maltrattata, torturata dal compagno. Come nel passato, il 10 per cento degli assassini sono
donne, ma i loro moventi sono diversi. Uccidono la rivale,
oppure per vendicarsi o per ottenere un’eredità; compiono
figlicidi e matricidi, perfino stragi familiari come nei celebri casi di Doretta Graneris, che nel 1975 assassinò, aiutata dal fidanzato, i suoi genitori, i nonni e il fratellino, o di
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Erika De Nardo che, con Omar Favaro, ha massacrato nel
2001 la madre e il fratello per futili motivi.
Nel passato, in molti paesi la donna ritenuta colpevole
di aver ucciso il marito veniva condannata a morte, perché
il suo delitto era considerato un crimine contro l’intera società. Viceversa, l’uomo che uccideva la compagna infedele otteneva molte attenuanti nella fase processuale. Poiché
in alcune società il tradimento femminile era un crimine,
l’uomo si sentiva autorizzato a vendicarsi. In Italia il delitto d’onore, che prevedeva una pena ridotta dai tre ai sette
anni di reclusione, è sparito dal Codice penale solo nel 1981.
In questo libro mi occuperò solo degli omicidi commessi dagli uomini ai danni di mogli o ex mogli, compagne o
ex compagne. Si tratta di più dell’80 per cento dei crimini privati. E allora mi chiedo di nuovo: si tratta di delitti
passionali? Chi ha ucciso, la passione o la violenza? Quale
messaggio diamo alle donne che subiscono abusi all’interno delle pareti domestiche quando parliamo di crimini passionali? L’uomo violento vuol far sapere alla vittima che la
colpisce perché la ama troppo. Poi le chiede perdono e si
pente. Il perdono è la grande vittoria dell’aggressore, perché gli permette di ricominciare con la violenza.
Secoli di sottomissione femminile hanno generato ribellioni e conquiste, ma nonostante questo il numero di donne uccise dai loro compagni o ex compagni aumenta. Che
avvenga nel nostro paese o in altri Stati europei e nella civilissima America, sembra che la spirale domestica sia la
stessa. La prima fase vede un aumento dei dissidi all’interno della coppia, conflitti che causano ansia e ostilità. Nella seconda fase l’accumulo di tensione produce un’esplosione di violenza che può manifestarsi con uno schiaffo,
una spinta o ferite di vario genere. La terza è conosciuta
come «luna di miele», nella quale l’aggressore si pente di
ciò che ha fatto e giura di non farlo più. Alcune donne credono alle promesse, considerano l’accaduto un evento isolato che non si ripeterà. Purtroppo non è così, il ciclo riprenderà dall’inizio.
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La violenza maschile nella coppia è diversa da qualunque altro tipo di violenza interpersonale. L’aggressione
alla donna è immotivata, eccessiva, compiuta con lo scopo di intimorire, punire, sfogarsi. Colpisce tutte le donne,
indipendentemente dalla loro posizione sociale, dall’età,
dal tipo di personalità, dal lavoro che svolgono, dal luogo
in cui vivono. Questi delitti sono definiti «femmicidi».
Il termine inglese femicide è stato usato per la prima volta nel 1992 da Diana E.H. Russell e Jill Radford nel libro
Femicide: The Politics of Woman Killing per indicare l’uccisione di una donna, in quanto donna, da parte di un uomo.
Il termine «femminicidio», invece, spiegato recentemente
da Barbara Spinelli nel libro Femminicidio. Dalla denuncia
sociale al riconoscimento giuridico internazionale, comprende una realtà più ampia. Responsabile dell’omicidio non è
solo l’uomo che lo compie, ma la società maschilista e misogina che ne ha creato le premesse e per troppo tempo lo
ha tollerato. In alcuni Stati il femminicidio è molto diffuso
proprio perché non sono protetti e garantiti i diritti delle
donne in ambito pubblico e privato. Si parla di femminicidio non solo nei casi di uccisione di donne in quanto tali,
ma anche per indicare ogni forma di discriminazione o di
violenza commessa ai loro danni.
È stata l’antropologa messicana Marcela Lagarde a coniare il neologismo spagnolo feminicidio, mentre da parlamentare conduceva un’ampia indagine sugli assassinii di
donne a Ciudad Juárez. Marcela Lagarde ha mostrato che
la violenza contro le donne nella città al confine con gli
Stati Uniti fa parte di un sistema: non si tratta di crimini
isolati, uno diverso dall’altro, ma di uno strumento di oppressione e controllo sulle donne in una società patriarcale in cui lo Stato è complice per indifferenza o negligenza.
Grazie al suo impegno sociale, il Messico ha riconosciuto
nel luglio 2011 il femminicidio come un crimine sessista e
molti paesi del Sudamerica hanno adottato misure o istituito leggi per punire in modo specifico le violenze commesse contro le donne.
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