digital magazine | novembre 2012 | n. 97
spiritualized
steve roach
new wave of techno
the
Untold // scuba
sentireascoltare
turn on – p. 4
Dirtyphonics
Beth Orton
Melampus
DFRNT
The Vaccines
#97
novembre
drop out – p. 14
The New Wave of Techno
Spiritualized
rearview mirror – p. 92
Steve Roach
recensioni – p. 28
gimme some inches – p. 90
campi magnetici – p. 102
classic album – p. 103
Direttore
Edoardo Bridda
Direttore Responsabile
Antonello Comunale
Ufficio Stampa
Alberto Lepri, Teresa Greco
Coordinamento
Gaspare Caliri
Progetto Grafico
Nicolas Campagnari
Redazione
Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda,
Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion,
Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi,
Stefano Pifferi, Teresa Greco
Staff
Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia,
Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante,
Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere,
Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo,
Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri
Copertina
Untold
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare
online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590
del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
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Arrivano in Italia gli ultimi acquisti della Dim Mak di Steve Aoki: i Dirtyphonics hanno
diverse frecce drum’n’bass, dubstep ed electro al loro arco. E l’album è in arrivo.
Dirtyphonics
Play Hard. Live Hard.
Sono in quattro, Pho, Playte, Capskod e Pitch-In, e hanno
le idee chiare su cosa significhi energia live. Dal 2006 ad
oggi si son guadagnati la fama di bestie da palco, ma
hanno anche precise teorie soniche da rappresentare in
studio. Soprattutto ora che sono entrati a far parte della
Dim Mak di Steve Aoki, dove la visibilità non scarseggia
e gli stimoli a dar qualcosa in più evidentemente fioccano: i due pezzi pubblicati l’anno scorso sono già proiettati verso una facile presa da dj-set, Tarantino con la sua
posa electro house semplice da ballare e Oakwood, già
più ambiziosa, lanciata con grinta verso l’aggressione nu
dubstep. E l’album Dirty è già in dirittura d’arrivo, uscirà
nel 2013 e metterà in atto le diverse modalità di gioco
del quartetto parigino.
Il punto di partenza, eppure, è stata la più comune delle infatuazioni giovanili hardcore, ossia la drum’n’bass:
il pezzo con cui son balzati in testa alle classifiche di
settore è stato French Fuck, anno 2008, una di quelle
scorribande senza troppi scrupoli e con quel certo gusto distorto che non guasta, uscita in coppia insieme a
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Bonus Level, pezzo ancora più veloce e riempito di inserti
8bit a pioggia (lunga vita a DJ Aphrodite). Poi tutta una
serie di pezzi tagliati per pubblico e compilation di genere (Quarks, Teleportation, Glow) e qualche strappo alla
regola che approcciava dimensioni diverse (due lavori
interessanti con la vocalist Tali, la dnb-virata-pop di The
Secret e il dubstep sporco di Lost In The Game, più un
altro paio di avvicinamenti in salsa drop con Vandals e
Lottery). Fino ad arrivare ad oggi, alla rete di remix che
gira intorno a personaggi tendenzialmente estremi
(Skrillex, Krewella, Nero, Bloody Beetroots, persino
Marilyn Manson) e alla capitalizzazione della loro attitudine da performer.
Se volete vederli dal vivo, dovrete essere la notte di
Halloween al Viper Theatre di Firenze, per la serata che
vedrà susseguirsi alla consolle anche un personaggio di
culto come Crystal Distortion e due gruppi che l’Italia
dovrebbe ormai conoscere bene, Numa Crew e Wobble
Lovers. I Dirtyphonics ci metterano la loro energia e le
loro compentenze tecniche, che vanno oltre le abilità
tecniche necessarie al dj-set. L’intervista dà già un’idea
chiara della loro coscienza artistica e dello spirito irriverente che si portan dietro. Vale come antipasto, i veri
giochi andrano in scena mercoledì 31 Ottobre.
Ciao ragazzi, benvenuti su SA Magazinequindi diteci,
siete in procinto di mandare in visibilio il pubblico di
Firenze con drum’n’bass e hard electro?
Yeah, sicuramente! Siam molto eccitati all’idea di venire
a suonare i nostri nuovi pezzi e dar vista al solito party
da paura. Preparatevi...
Come definereste le vostre performance live? Siete
in quattro, tutti sul palco, dietro la consolle e sempre
con un MC che pompa il pubblico. Insomma, non è il
solito dj-set, vero?
Ahah, sono due anni ormai che non abbiamo un vero
MC, ormai siam noi stessi a metterci al microfono. A Firenze sarà dj-set, ma fidatevi, ci sarà lo stesso quantitativo di Dirty!
Avete cominciato producendo hit drum’nbass ma
recentemente vi state buttando su qualcosa di differente e su Dim Mak state tirando fuori qualcosa
più vicino al dubstep e alla electro house. È un po’
il vostro modo di unirvi alla nuova scena hardcore?
Siamo andati di crossover fin dall’inizio. Sì, nel nuovo
album ci saranno un sacco di cose e di generi differenti, tante influenze che volevamo esplorare da sempre.
Drum’n’bass ovvio, ma anche dubstep, electro, ecc. Il formato album ci ha dato l’opportunità di farlo.L’evoluzione
è la base di ogni cosa...
Adesso fate parte del gruppo di Steve Aoki. Come
state affrontando questa nuova sfida? State prendendo ispirazione da lui?
È fantastico, amiamo la famiglia Dim Mak. Abbiamo
conosciuto Steve in tour e ci siamo subito uniti a lui e
alla sua crew. Non facciamo lo stesso tipo di musica ma
condividiamo la stessa energia sul palco e la stessa sete
musicale.
Lavoro in studio, remix, live... cosa preferiscono i Dirtyphonics?
Tutto! Far musica (che sia tua o che sia un remix) è tutto
un grande processo, divertente in ogni aspetto. Il culmine è quando suoni quella musica al pubblico.Davvero, ci
piace ogni fase di ciò che facciamo. Stiamo sempre insieme e ci divertiamo in ogni situazione. Adesso stiamo
portando a termine l’album, pianificando il tour mondiale che seguirà, lavorando sullo stage design, riaprendo il
merchandising store, tutto nello stesso momento...Work
hard, play hard, live hard!
La drum’n’bass morirà mai? Ormai stiamo andando
per i vent’anni di vitalità...
Non è già morta? Ma sì, ora la chiamano “fast dubstep” ;)
Secondo voi, qual è lo stile/trend/artista che rappresenta meglio i dance party di quest’anno? Voglio
dire, se guardiamo alla top100 pubblicata da poco da
DJ Mag, sembra quasi che sia tutto in mano dei soliti
Van Bureen & co., ma è davvero così? Viviamo in un
mondo trance, o la realtà è differente?
Ormai ci son così tanti artisti e tipi di pubblico che non
è più una questione di singoli generi... È questo il bello
delle scene festival di oggi, ci sono tanti modi di immaginare e percepire la musica. Sì, DJ Mag fa la top100 delle
realtà più popolari in fondo, ma la scena sta sbocciando
e ogni giorno vengon fuori nuove cose. È molto salutare
e tutti ci ispiriamo a vicenda.
Carlo Affatigato
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Incontriamo Beth Orton in un caffè nel centro di Londra giusto in tempo per la
colazione. Lei che non è più abituata alle interviste, troverà il modo di raccontarsi e
parlare del nuovo lavoro
Beth Orton
Coming from a place of feeling
Sono totalmente fuori fase, dice, scendendo dal taxi. Non
le facevo da parecchio le interviste promozionali. E a sentirla è come fosse una cosa del tutto nuova. Beth, che per
tutti i Novanta è stata al centro di una scena, non è più
abituata alle luci della ribalta. La sua figura alta e magra
si muove elegante, e nonostante sul viso le si intraveda
una certa stanchezza e tensione, il sorriso non tarda ad
arrivare. Mi piace molto vedere la gente che passa qui
di fronte, dice fissando la strada, mentre ordina caffé e
brioche. Lo sguardo è quello di una donna serena, realizzata. Ma non sempre le cose sono come sembrano
e Beth, parlandoci del nuovo disco Sugaring Season, ci
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rivela che i momenti difficili non sono mancati.
Sono passati sei anni dall’ultima volta che abbiamo
ascoltato un tuo disco. Hai sempre preso tuttto il
tempo necessario, ma stavolta era in qualche modo
diverso, come se questo disco potesse alla fine non
arrivare mai. Sbaglio?
Gli ultimi anni sono stati un periodo molto difficile della
mia vita, specialmente dopo che il mio ultimo album,
Comfort of Strangers, è uscito. E’ stato un periodo duro e
sono diventata molto solitaria dopo che mia figlia è nata.
Ho speso troppo tempo da sola, e ho perso un sacco di
fiducia in me stessa. L’ultimo disco non è andato cosi
bene e parte dell’insuccesso era dovuto al fatto che ero
rimasta incinta, proprio al momento della pubblicazione
dell’album e non ho avuto il supporto necessario, per
molte ragioni, e nemmono la possibilità di portarlo in
giro come avrei voluto. Ma adesso le cose sono cambiate, il mio entusiamo è tornato.
Qualche ragione particolare per cui tu abbia scelto
Tucker Martine invece di Jim O’Rourke, che aveva
prodotto il precedente?
Conoscevo il suo lavoro fatto con la moglie Laura Veirs
per il disco Carbon Glacier, che mi è piaciuto molto, dopo
di che ci siamo tenuti in contatto. L’ho incontrato ad inizio anno, quando mio marito (Sam Amidon, ndr) ha
suonato con Laura e ci siamo tenuti in contatto.
Una delle caratteristiche del disco è sicuramente il
tuo allontanamento dai suoni elettronici che caratterizzavano i tuoi primi album. È questa la musica che
hai sempre voluto fare?
Quello che per me è stato importante più di ogni altra
cosa per questo disco era registrare sul momento, live,
portarlo direttamente su nastro e non tornarci troppo
su, quindi ho dovuto escludere certi suoni. Non è che ho
per sempre voltato le spalle alla musica elettronica, ma
per adesso sono più interessata a quello che sto facendo
al momento.
L’album, in un certo senso, suona come un classico.
Era questa la tua intenzione?
Si, molto. Ho basato il mio lavoro sui classici, come ad
esempio First Take di Roberta Flack (1969), e credo che
Sugaring Season sia anche la continuazione del mio disco precedente, Comfort Of Strangers, diciamo che appartengono alla stessa vena. Amo Joni Mitchell, amo
Nick Drake, Neil Young. Tutta questa gente mi ha influenzato in maniere differenti.
Ascoltavo Stolen Car (da Central Reservation, 1999)
l’altro giorno. È quasi una canzone pop, mentre queste sembrano avere una direzione totalmente differente.
Non penso a molto quando scrivo una canzone, se non
alla canzone stessa. Prendo le distanze dal preoccuparmi
di quale tipo di musica sto facendo, a che genere appartiene...non ho necessariamente il controllo su quello che
faccio, perchè è tutto molto istintivo, molte volte basato su sensazioni che svaniscono in fretta...non è mai un
processo ragionato. Non arrivo mai ad una canzone dal
pensiero, piuttosto dall’emozione del momento. E’ tutto
molto istintivo.
Credo che le emozioni siano uno dei punti di forza
dell’album. Da dove arrivano?
Ho avuto due bambini, negli ultimi tempi. Quando hai
dei figli succede che l’artificio se ne va, tende ad scom-
parire. Quello che rimane, almeno per me, è il materiale
grezzo, la materia prima. Credo che scrivendo, col passare degli anni, io sia diventata più onesta. Sono sempre
meno timida o imbarazzata, scrivere è sicuramente diventato un processo molto naturale.
Parliamo del primo singolo, Megpie. Ha un video interessante, girato nel deserto?
Si, abbiamo girato il video in un deserto ai piedi delle
rocky mountains, in Colorado. Veramente un bellissimo
posto, ma nessuno sa perchè ci sia un deserto li. Forse
un lago, o qualcosa del genere, ma nessuno sa con precisione. La cosa mi affascinava molto, cosi abbiamo deciso
di aggiungere questi effetti di pellicola in decadimento
e il risultato era piaciuto un po a tutti.
Poi c’è Call Me The Breeze, che ha un sapore vintage
e decisamente country.
Rob Burger è venuto fuori con la parte di tastiere, in effetti avevano un suono molto vintage e la cosa ci piaceva. Registravamo tutti insieme, nella stessa stanza. La
band non aveva mai sentito alcuna demo delle canzoni,
perchè non ce ne erano. Ci siamo trovati una volta in
studio e abbiamo comnciato a suonarle...pensa che Candles è stata la primissima versione, prima ancora delle
prove. Era prioprio come la senti adesso su disco. Per me
era molto importante veramente cogliere il momento,
l’attimo in cui quelle canzoni venivano interpretate.
Quali erano gli obiettivi che ti eri prefissata per questo disco?
I miei obiettivi erano raggiungere un songwriting solido
e forte, essere apprezzata come songwriter. Ma anche
come cantante. Ma soprattutto ho cercato di fare un bel
disco nel senso pieno del termine, perchè ovviamente
ci tengo molto che alla gente piaccia il disco. In molti
modi ho scritto questo disco per me stessa, veramente, ed è stato per me un grande successo registrarlo e
pubblicarlo.
Ho dato un’occhiata al tuo live schedule e non ho visto nessun concerto in Italia. Possiamo aspettarcene
qualcuno?
Abbiamo una serie di concerti in UK ma per il resto ancora niente, mi dispiace! Vorrei davvero venire a suonare
in Italia. L’ultima volta era stata Milano, ma non ricordo
precisamente quando. Da quando ho avuto figli, ho una
memoria terribile, è diventato un po un problema.
Piani per il futuro, ce ne sono già?
Intendo continuare a scrivere, ovviamente. E’ una cosa
che mi tiene viva, che devo fare quasi giornalmente, per
cui penso che prima o poi salterà fuori un nuovo album.
Luca Falzetti
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Accendiamo i riflettori sulle atmosfere sognanti e melanconiche dei Melampus. Come
dire, il gotico americano trapiantato a Bologna. Intervista in anteprima per SA e disco
in uscita a fine ottobre
Melampus
Curaci le orecchie, Melampus...
Sono in due e vengono da Bologna, la città “che trova
sempre il modo di farti incrociare mille volte con persone
con le quali stabilisci un contatto solo dopo mesi”. Lui suona la batteria (più droni e loop), lei la chitarra (più piano, percussioni e voce) ma il risultato è ben lontano dal
classico duo male-female à la White Stripes. Zero divise
dai colori sgargianti e melodie aperte e appiccicose. Le
atmosfere dei Melampus sono scure come gli abiti in8
dossati da Angelo “Gelo” Casarrubia e Francesca “Billy”
Pizzo e il rock assemblato con eleganza e perizia dai due
si propone notturno e minimale, tinto di sensuale intimismo e venature malinconiche. Ovviamente compresso in
una forma canzone ben definita, ché alla fine di canzoni
si tratta: L’idea iniziale - è Francesca a rispondere a nome
dei due - era quella di avviare il progetto con voce, basso
e batteria, ma dopo quella prova la chitarra ci è sembrata
più adatta alla composizioni di brani che rispettassero una
forma canzone canonica. Non ci interessava la via della
sperimentazione. Volevamo comporre canzoni. Facciamo
parte di quella categoria di musicisti romantici che ancora
cercano struttura e melodia perfette, senza tempo.
Sono romantici i due. Imperfetti e inconclusi, pronti a
ricercare in quella non finitezza la propria cifra stilistica,
a farne elemento caratterizzante puntando alle corde
più sensibili dell’animo di chi ascolta. Ne esce una musica fatta di ipnotiche melodie sottotraccia e chiaroscuri
emozionali, in cui è però l’immaginario evocato a fare da
collante, più che i suoni in sè: Abbiamo cercato di narrare
qualcosa attraverso brani che non volevamo risultassero
tutti simili tra loro. Un comune denominatore è necessario,
fa parte della poetica di ogni musicista o artista in generale.
Rimaniamo volentieri su quel versante umbratile e fumoso.
Potremmo definirlo gusto ...oppure carattere.
Ad aleggiare sul tutto è, pertanto, una forte impronta letteraria e intellettuale, che emerge carsicamente non solo
lungo l’intero lavoro, ma in ogni aspetto del progetto. A
partire dal nome: tratto dalla mitologia greca, rievoca
Melampo, il primo essere umano a cui gli dei donarono
capacità divinatorie e da guaritore, mentre la capacità
di comprendere il linguaggio degli animali, come da
vulgata, fu ottenuta dopo aver salvato due serpenti che
gli leccarono l’orecchio. Passando poi per l’immaginario iconografico evocato dagli algidi scatti in b/n e dalla
china con cui Francesca rifinisce l’artwork dell’album e
i flyer dei live. Terminando, infine, con un titolo che fa
molto Faulkner e su cui spirano laterali i fantasmi delle
maledette Flannery O’ Connor e Carson McCullers, pronte ad accompagnarci in un viaggio-narrazione oscuro e
sofferto, posseduto e larvatamente inquietante : Il titolo è arrivato a noi mentre cercavamo di immaginarci un
luogo, fisico o meno, nel quale dare corpo alla tracklist del
disco. I nomi propri, sempre femminili, ricorrono spesso in
questi nostri testi. Allora una Via dell’Ode ci è parsa il luogo
migliore, con la sua idea di movimento e la circolarità del
suono. Ho deciso di occuparmi io stessa dell’artwork - e le
varie locandine dei concerti - per mantenere una coerenza
estetica. In fondo il nome Melampus è già una dichiarazione. Forse, proprio come disse Grant Wood a proposito del
dipinto American Gothic, noi siamo le persone che potrebbero vivere in Ode Road.
Il percorso lungo la via dell’ode prevede una sorta di via
crucis esistenziale da gotico americano suddivisa in nove
tracce, in cui scie di sabbiosa musica desertica, psichedelia docile, wave posseduta, un quarantennio di femmes
fatales, ambiziose aperture cinematiche e molto altro,
divengono solo cangianti (s)punti di riferimento sparsi
sotto una tenue luce grigiastra. Riverberi e sfumature
giocano un ruolo predominante, tanto che ascoltando
l’omonimo esordio si ha come l’impressione di unire i
puntini che compongono una sorta di geografia emotiva
o di silhouette esistenziale dei due: Se di cartina geografica si tratta, allora bisogna dire che abbiamo stabilito un
itinerario preciso e breve. Nel corso di un anno - è proprio da
un anno che Melampus esiste - abbiamo composto molti
più brani di quelli compresi nel disco. Grazie al rapporto
con Gabriele (Locomotiv Records) e a diverse sessioni di preproduzione, abbiamo stabilito quali brani scartare, quali
includere o all’occorrenza aggiungere. Poi tutto accade
come scritto nel testo di Dots: improvvisamente si trova il
modo di usare la china, improvvisamente si trova il modo
di collegare i punti.
Quella del duo bolognese è musica che evoca immagini,
senza per forza essere imaginary soundtrack. Propone
visioni, senza per forza essere visionaria. Il che, in tempi
di standardizzazione dell’immaginazione, non è affatto
poco.
Stefano Pifferi
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La “dance music for oper minds” continua ad essere il trend più marcato di quest’anno
e il ritorno su album del producer scozzese segna la nuova tappa dell’emozione
d’ascolto. “Going deeper”…
DFRNT
Music for patient people
Producer raffinato, abile remixer e artista perfettamente cosciente dell’evoluzione dei tempi. Alex Cowles aka
DFRNT lo seguiamo già da qualche tempo, apprezzandolo prima nell’album d’esordio Metafiction, che segnava un modo sincero e affascinante di affrontare le prerogative emozionali del dubstep, e poi nel più recente
EP Emotional Response, che l’anno scorso ha rappresentato una delle espressioni soulstep più riuscite nel
momento di massima forma del trend. La peculiarità del
producer scozzese consiste da sempre nell’insistere in
profondità e contenuti: le sue produzioni hanno sempre
spessore e vogliono toccare corde interiori, nonostante
spesso siano anche notevoli dal punto di vista strettamente tecnico (due aspetti che solitamente si ostacolano a vicenda).
Settembre segna l’uscita del nuovo album, Fading, e un
livello successivo di consistenza e consapevolezza del
sound di DFRNT. Dubstep e post-dubstep son messi
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temporaneamente da parte e il focus si sposta più su
un tessuto house ambientale che punta a creare atmosfere e sensazioni. È Cowles stesso a dirci che è questa
la direzione verso cui la scena si sta muovendo, e la cosa
mantiene ancora perfettamente attuale la nostra analisi
sulla musica d’induzione dance, che ricollegava a inizio
anno una serie di uscite con temi e propositi analoghi.
DFRNT la definisce “music for patient people”, esaltando
la capacità di far soffermare l’ascoltatore su di essa, di
stimolare la ricerca di profondità. Da Petar Dundov a
Teengirl Fantasy, ognuno in modo personale ma con
le stesse intenzioni, l’intreccio di emozioni e sottrazioni
continua ad essere la tendenza più marcata di questo
2012, di cui Fading rappresenta solo l’ultima tappa.
L’intervista che segue non vale solo come presentazione
dell’artista DFRNT, ma anche come efficace inquadramento della situazione attuale, vista da un’angolazione
interna che la rende più sincera. Le cose si vanno muo-
vendo nuovamente verso una dimensione più classica,
riappropriandosi dell’efficacia d’impatto tipica del sound
più canonico, ma tenendo sempre davanti a sé l’idea di
evoluzione e mutamento costante. Come potete vedere,
riflettere su questa duplicità resta sempre affascinante.
Il tuo nuovo album suona ben diverso dal precedente
Emotional Response. Potremmo dire “più emozione
- meno tecnica”?
Dipende da cosa si intende con “tecnica”, in realtà. Non
considero Emotional Response un album, faceva parte di
una serie di EP tematicamente differenti dalle mie solite
produzioni. Odio chi rimane bloccato in un sound specifico e non sopporterei che i miei fans pensassero di
sapere esattamente cosa aspettarsi da me. Significa che
le cose sono diventate noiose.
Negli ultimi anni hai mostrato particolare originalità, un’unicità stilistica che ti rendeva differente dagli
altri, nelle avanguardie bass music e post-dubstep.
Dal punto di vista tecnico, cosa ti ha spinto a fare un
album come Fading, così intriso di ambient house?
È una selezione di pezzi con cui mi sento a mio agio. Non
avevo deciso niente in particolare, eccetto forse andare
oltre il dubstep. Ultimamente ascolto tanta house e dubtechno, penso sia questo che ha cambiato il mio stile di
produzione. È un percorso che trovo sensato, ma capisco
che ciò possa sorprendere qualcuno.
Emotional Response era stato una delle uscite soulstep più riuscite dell’anno scorso, proprio nel momento più propizio per quel sound. Pensi che adesso
questo trend stia perdendo mordente?
Difficile dirlo. Stavo producendo quel tipo di materiale
già da parecchi mesi, se non anni, per cui il tempismo è
stato davvero perfetto. Credo che ci sarà sempre posto
per quel tipo di sound - ma c’è sicuramente una tendenza a muoversi verso house e techno in questo momento. Anche questo è qualcosa che faccio già da diverso
tempo, ma portare a termine un’uscita è qualcosa che
richiede lungo tempo e la gente pensa che tu sia saltato
su un’altra carrozza da un giorno all’altro. Abbastanza
frustrante.
Personalmente, Fading mi ha ricordato una serie di
dischi di quest’anno focalizzati sulla comunicazione
cerebrale, sull’emozione e sullo slow-dancing. Voices From The Lake, Petar Dundov, Alex Under... l’abbiamo battezzata “dance music for open minds”. Hai
forse subìto l’influenza di queste uscite?
Non di queste uscite in particolare, anche se in passato
Alex Under ha esercitato una leggera influenza su di
me. Il modo migliore con cui descrivere quel che faccio
adesso è “music for patient people”. Potrei anche farne il
titolo del mio prossimo album! [ride]
Qual’è secondo te la musica più cool che gira al momento? I produttori più raffinati?
Questa è sempre una domanda difficile, e mi trovo sempre in imbarazzo a rispondere. Non mi piace fare preferenze tra un producer e un altro. E poi mi dimentico sempre qualcuno, e ci sono così tanti ottimi produttori e così
tanta roba eccitante che è impossibile citare tutto. Per la
maggior parte della gente risulterebbe una lista senza
senso. Quel che posso dire è di ascoltare i miei Insight
podcast (http://insight.dfrnt.co.uk), ogni due settimane
ne pubblico uno nuovo con le mie tracce preferite. Da lì
si può avere una buona idea di quel che mi piace.
Se dovessi scegliere, preferiresti un sound classico
prodotto in maniera perfetta (che significa comprensione e apprezzamento immediati da gran parte del
pubblico) o uno nuovo, coraggioso e futuristico (più
ambizioso ma che raggiungerebbe probabilmente
meno gente)?
Mi piacciono entrambe le facce della medaglia - e non
vorrei mai dover scegliere tra esse - ma c’è qualcosa di
speciale ed eccitante nei suoni che spingono in là i limiti,
qualcosa che mi ispira particolarmente. Spesso la musica
che raggiunge il pubblico maggiore è prodotta stile libro
di testo, e così perde qualsiasi spinta e sfumatura che
invece puoi trovare nella musica meno popolare.
Hai un’idea chiara di come si sta evolvendo il tuo
sound e di dove sta puntando adesso? Come suonerà
la prossima uscita di DFRNT?
Sto decisamente andando più a fondo - ho realizzato che
il dance floor non è il posto ideale per la mia musica (a
parte forse i remix). Non intendo rivolgermi alle persone
che vogliono la hit immediata, preferisco la gente che
si prende del tempo per la mia musica, che la apprezzi
nella sua sfera privata.
Per finire, una curiosità: come è nato l’alias DFRNT?
Ahah, mi han fatto spessissimo questa domanda. Prima
producevo come Alex C, ma c’era un producer trance che
si chiamava così e questo a creato un sacco di confusione
- tanta gente dalla Germania che mi chiedeva di esibirmi
ai loro party aspettandosi trance. Per cui ho cambiato
nome, mi piaceva l’idea di MSTRKRFT e ho pensato di
provare qualcosa di simile. Ho scelto “different” ma poi
mi sono pentito della scelta. Non intendevo far lavori
davvero differenti, e adesso scherzano tutti sul fatto che
la mia musica è “DFRNT”. “Oh, veramente geniale”, penso
sempre. “Ci avrai messo una vita per partorire questo comicissimo gioco di parole”. [ride]
Carlo Affatigato
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La band inglese si racconta a Sentireascoltare in occasione del lancio del nuovo album
“Come of Age”
The Vaccines
Da Londra con amore
A distanza di diciotto mesi dalla pubblicazione del folgorante debutto What did you expert from The Vaccines?
che li ha portati sul podio di diverse classifiche inglesi
ed internazionali, i The Vaccines, la Best New Band del
2011 di NME per ben tre volte cover story del popolare
magazine britannico, torna alla ribalta. Cogliamo l’occasione per intervistare Justin Young (voce) e Freddie
Cowan (chitarra) negli studi milanesi di Sony, in attesa
della definizione delle nuove date del tour. La band, nel
frattempo, ha già fatto uscire un nuovo lavoro, Come Of
Age, album che sta raccogliendo pareri contrastanti tanto quanto l’esordio. Di sicuro, il mese scorso, l’esibizione
alla prima edizione A Perfect Day Festival di Villafranca
di Verona ha convinto anche chi era partito con qualche perplessità. Freddie Owen lo ricorda come uno dei
live migliori di sempre e nell’intervista si intrecciano altri
curiosi temi e aneddoti: il rapporto con il successo, le
critiche ricevute dalla stampa e, soprattutto, le differenze
con il primo lavoro che, come il frontman Justin Young
tiene a precisare, “è profondamente diverso anche solo
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per gli avvenimenti personali accaduti ai membri della
band”.
Ho visto il vostro concerto all’A Perfect Day a Villafranca di Verona lo scorso agosto. Come vi sono sembrati i vostri fan italiani?
Justin: Gli italiani sono fantastici. Era la prima volta che
suonavamo in Italia e ci siamo divertiti moltissimo.
Freddie: E’ stato fantastico davvero, forse uno dei miei
concerti preferiti di sempre perché il posto era bellissimo. Il castello era stupendo e ci siamo davvero divertiti durante il concerto dei Franz Ferdinand. E’sempre
bello vederli live. Ed è vero, amo gli italiani. Torneremo
sicuramente.
Siete tutti giovanissimi e siete stati travolti dal successo. È stato difficile gestirlo?
J: Veramente credo che non si sia trattato di un successo
così inaspettato e travolgente, almeno non per noi a livello individuale. Sai, eravamo in tour da più di un anno
prima del lancio del nostro primo album. Ho suonato
nella mia prima band quando avevo undici anni e ho
cominciato a andare in tour quando ne avevo diciotto,
poi ho iniziato coi The Vaccines a ventitrè. Anche quando
sono nati i The Vaccines stavamo già scrivendo da più di
un anno, quindi era una cosa che facevamo per noi stessi. Abbiamo comunque fatto gavetta, non è che ci siamo
ritrovati a suonare il nostro primo concerto alla Brixton
Academy! Senza dubbio è successo tutto molto in fretta,
ma quando ci sei dentro il tempo passa più lentamente
di quanto sembri dal di fuori.F: A noi è parsa un’eternità
perché eravamo così impegnati! Abbiamo girato tutti i
pub all’inizio, poi i club.. anche se non per molto.
Il vostro primo album ha vinto moltissimi premi ma
siete anche stati criticati pesantemente. Molti pensavano che foste l’ennesima band destinata a cadere
nel dimenticatoio. Avete sofferto questi giudizi negativi?
F: Penso che chiunque si trovi in questo ambito abbia
sperimentato questa bipolarità di giudizio. Sto pensando ad esempio ai Radiohead: Kid A è stato valutato con
mezza stellina su Billboard ma dieci sul Time! Non che
voglia paragonarci ai Radiohead, ma è così, è parte di
quello che facciamo.J: Preferisco far parte di una band
che deve dimostrare di valere qualcosa che di una con
una sorta di pass, idolatrata dalla gente qualsiasi cosa
faccia. Ci sono gruppi che sono apprezzati sempre e comunque, ma penso che così sia troppo facile.
Raccontatemi com’è nato il vostro ultimo disco.
J: Abbiamo continuato a scrivere dopo il lancio del nostro primo album e poi a Natale abbiamo deciso di registrarne un altro. Abbiamo scelto come produttore Ethan
Johns e lui ha scelto noi. Ci sono volute circa quattro settimane, più o meno come per il primo album. Volevamo
semplicemente catturare l’essenza della band e mostrare
chi siamo adesso, come suoniamo, come ci relazioniamo
gli uni con gli altri, come scriviamo i pezzi. È una specie di disco live, sebbene sia stato registrato in studio.
Abbiamo cercato di renderlo il più possibile genuino.
Abbiamo preso le undici canzoni migliori che avevamo
e ci siamo sentiti in grado di fare un buon album. È stato
un processo logorante, ma ne è valsa davvero la pena.
Secondo voi qual è la più grande differenza tra Come
of Age e l’album precedente?
J: Undici canzoni diverse? Scherzo. Penso che ci sia un
retroscena più profondo. Penso che il sound sia davvero
più genuino. Il nostro approccio a questo album è stato
molto diverso, sia per quanto riguarda il sound che per il
nostro modo di lavorare insieme. È molto più espressivo,
più dinamico, le canzoni sono più variegate e penso che
siano migliori. È difficile per me dire cosa ci sia di diverso,
ma in effetti non lo avremmo nemmeno registrato se
non lo avessimo giudicato diverso.
Justin, sei stato operato alle corde vocali e hai perso
la voce per un paio di settimane. Questo ha in qualche modo influenzato la registrazione del nuovo album?
J: Assolutamente sì. L’approccio è più cauto, sono più
consapevole della mia voce e del modo in cui posso e
devo usarla. Penso che abbia davvero tratto beneficio
da questa esperienza. L’album è più maturo, più appassionato. Insomma, non tutti i mali vengono per nuocere.
Avete suonato in apertura per molte band, penso ad
esempio agli Arcade Fire e a The Stone Roses. Pensate che un’esperienza simile sia importante per un
gruppo giovane come il vostro?
F: Assolutamente. Ti apre davvero gli occhi. Tendenzialmente si crede sempre che la propria band sia la migliore, quindi è molto utile andare in tour con band che
possono insegnarti qualcosa. In realtà chiunque può
insegnarti qualcosa, è davvero molto importante sperimentare realtà diverse.
Quali sono le band che hanno influenzato la vostra
musica?
F: Agli inizi mi ispiravo molto a Mick Jones dei The Clash,
poi a Robert Fripp (King Crimson, Fripp and Eno..).Justin
mi passa il suo iPhone per farmi dare un’occhiata alla sua
libreria iTunes. Ci facciamo una risata dal momento che è
praticamente identica alla mia: the Beatles, molto Brit-rock,
classici e indie-rock.
Qual è l’aspetto peggiore dell’essere sempre in tour?
J: La mancanza delle persone a cui tieni.F: Io la prendo
abbastanza bassa, mi lascio trasportare dagli eventi. Non
sono bravo a mantenere relazioni. Non ho nemmeno più
un appartamento. Vivo dove mi trovo. Cerco di vedere
sempre il bicchiere mezzo pieno, anche se a volte è dura.
C’è stato un periodo in cui avevo molta nostalgia di casa,
ma poi ho capito che io ero a casa, amo quello che faccio
e mi sento a mio agio. Londra è stata la città perfetta
per cominciare quest’avventura ed è sempre un piacere
tornarci, ma essere in tour è la mia vita, adesso.
Cosa vi aspettate per il futuro?
J: Penso che il fatto di aver fatto un album che giudichiamo migliore del primo possa solo spronarci a fare lo
stesso per tutti quelli che verranno in futuro.F: Vogliamo
solo migliorare ancora. Come Of Age non è qualcosa che
ci deve impedire di andare avanti. Vogliamo continuare
ad evolverci, cambiare e migliorare. La cosa che spero è
di continuare a fare le cose esclusivamente per me, senza
vendermi al pubblico. Il giudizio altrui è importante, ma
la cosa fondamentale è non perdere di vista le cose che
davvero contano.
Eugenia Durante
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The New
Wave of
Techno
L’esodo dalle solide certezze del
dubstep alle possibilità inventive
del sound techno: panoramica
dei producers più ambiziosi
della scena + focus su uno dei
protagonisti: Untold.
Testo: Carlo Affatigato
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Dubstep intelligence
È stato un cambiamento sottile, ma negli ultimi tempi l’ala di produttori più
ingegnosi e di talento si è lentamente spostata di territorio. Fino a qualche
tempo fa (diciamo 2007-2008) le indagini più cool dell’elite elettronica vagavano nei dintorni del dubstep, quella nuova forma ancora poco definita
e piena di mistero che si andava delineando nella seconda metà dei 2000.
Era il tempo in cui fioccavano le teorie e i talenti sopraffini, gli anni delle
sperimentazioni in breakbeat di personaggi come Zomby (vi abbiamo raccontato tutto in sede di (un)Known Pleasures), Ramadanman (nei suoi inizi
più sghembi e affascinanti, Good Feelin, Carla, Drowning), Shackleton (in
quel periodo di fervida immaginazione che ha preceduto i Three EPs, dunque Massacre e Death Is Not Final) o il primo Scuba (quei pezzi scheggiati e
taglienti di A Muthual Antipathy, vedi Ruptured).
Poi le cose sono lentamente cambiate. Il sound dubstep ha iniziato ad assumere una forma sempre più definita e a sposare schemi via via più delineati.
Label come Tempa e Deep Medi hanno forgiato il suono dubstep definitivo,
caricando sui bassi e su metriche presto divenute imprescindibili: gli artefici
li conosciamo, Skream, Benga, Distance, Digital Mystikz, tutti i big che han
permesso ad halfstep e dintorni di far presa definitiva sul pubblico. Lo stile
diventò presto il trend più vivo del momento, la gente cominciò a sentirsi
immersa in una nuova fase di picco inventivo e le serate dj set votate al
dubstep passarono rapidamente da una dimensione di evento specializzato
a fenomeno di successo, arrivando negli ambienti più cool e facendo felici
praticamente tutti, distributori, etichette e organizzatori.
E invece, fu proprio in quel periodo che molti artisti iniziarono a prendere
distanza dal dubstep cosiddetto puro. Il raggiungimento di una posizione
consolidata e ben piantata nel suo profilo formale smise di mettere a proprio
agio i produttori più inventivi, quelli che si erano trovati in sintonia col dubstep per quel suo essere fuori schema, senza regole, un campo aperto che
lasciava piena libertà alle sperimentazioni e alimentava l’estro, la genialità.
La corrente separatista che dal 2009 in poi mise in discussione le certezze dubstep non nacque come precisa volontà di portare avanti il percorso
evolutivo, perché nel suo periodo di apice al dubstep in realtà non serviva
alcuna spinta al cambiamento. La verità è che l’aria nuova arrivò come esigenza, da parte di chi trovava limitante fermarsi alla battuta halfstep e alla
fluidità dei bassi wobble.
Parliamo di pochi anni fa, quando ci chiedevamo come fosse nata la tendenza di spingere il dubstep sound verso la techno. Gli attori di tale mutazione,
guarda caso, coincidevano con i produttori più inventivi della scena: come
Martyn, che fece del suo primo album Great Lenghts uno dei primi esempi
compiuti verso le nuove frontiere techstep (rendendo benissimo il fascino di
stare a cavallo sul confine, vedi right?star! o Elden St.), 2562 (il suo Unbalance
- sempre 2009 - era una gran bella collezione di sapori technoidi, Dinosaur fu
la hit più versatile ma c’erano anche Superflight e Escape Velocity) o Falty DL
(che finì per esprimere la sua inventiva su Planet Mu in Love Is A Liability,
lungo orizzonti un filo più astratti ma anche pezzi di salda matrice techno
come Truth o Human Meadow). Quando nel 2010 tornò su album Scuba con
Triangulation, non fece altro che ufficializzare una svolta in atto già da tempo: il varco oltre i confini dubstep passava obbligatoriamente per territori
più liberi e mentalmente aperti, e arrivare alle durezze di Heavy Machinery
o On Deck sembrava essere l’opzione più promettente.
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Oggi possiamo dire che il ventaglio di possibilità è ampio abbastanza da
garantire versatilità su più fronti, tra soulstep, future garage, deep bass e persino imbastardimenti hardcore. Ma resta forte la presenza di artisti un tempo
pienamente immersi nel fermento dubstep e ora presi a reinventarsi sulle
potenzialità della techno: quest’anno una tappa fondamentale l’ha segnata
Pinch col suo FabricLive.61, dando continuità alla svolta personale intrapresa dopo Croydon House e finendo per inaugurare un’alleanza con le dinamiche clubbing più spinte (un pezzo come Swims della coppia Boddika-Joy
Orbison lascia poco spazio a dubbi). Quella a cui stiamo assistendo è una
nuova ondata di fascinazione techno, e trattasi non di revisionismo ma della
rinnovata consapevolezza di avere tra le mani una possibilità espressiva da
sempre fertile, ricca di margini di innovazione e libertà di sperimentazione.
Lì fuori c’è un manipolo di giovani scalmanati che han voglia di liberarsi
dalle redini e scelgono di abbandonare lo schema dubstep guadagnandosi
il plauso della scena. Tra i nomi più freschi e hot del momento si segnalano
Blawan (passato in soli due anni dagli esordi votati agli spazi di Fram e Iddy
a una fragorosa bomba a orologeria come Why They Hide Their Bodies Under
My Garage?), Pariah (esordito al’insegna del post-dubstep con Safehouses
e poi sfociato di colpo nella hard techno dentro il progetto Karenn, sorprendendoci di persona anche sulla performance live) e Midland (capace di perle
UK bass come Bring Joy ma sempre più affascinato dalle teorie tech-house
espresse in Placement o Shelter). E a questi si aggiunge un’altra categoria di
ragazzi, capitati in questi stessi ambiti senza l’intenzione precisa ma spinti
dalla propria inventiva, affascinati dal dubstep ma trascinati in maniera spontanea verso lidi dance più marcati, per il solo piacere di spezzare lo schema:
su tutti due nomi di cui vi avevamo già parlato, entrambi da tenere d’occhio
scuba
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con grande attenzione nei prossimi mesi, Duct (orientato al post-dubstep
ma capace di dj-set sorprendentemente energici) e George FitzGerald (teoricamente uno scienziato del suono UK step di scuola Hotflush, ma l’avete
sentita Child?).
Il personaggio più interessante però è quello sul quale ci concentriamo oggi:
con 4 anni e una ventina di uscite brevi alle spalle, fondatore di un’etichetta
ormai pienamente affermata nell’aristocrazia UK bass, Untold è una miccia
accesa prossima al boato.
Untold: Travelling in Dynamic Environments
Jack Dunning è salito alla ribalta in tempi relativamente recenti sotto l’alias
Untold, eppure gli son bastate poche semplici mosse per catturare in breve
tempo l’attenzione degli addetti al settore. Viene fuori nel 2008, quando
fonda la Hemlock Recordings e inizia ad affrontare le produzioni dubstep
ispirato soprattutto da una personale ricerca delle suggestioni. Già nel 2009
i riflettori son puntati su di lui, Mary Anne Hobbs lo cita come uno dei giovani da tenere d’occhio e i suoi podcast son pubblicati nelle home page di
riviste specializzate come FactMag e XLR8R.
Stilisticamente, il ragazzo non è mai stato fermo un attimo. Partito come
esploratore di oscurità e disturbi sonori, i primi singoli come Discipline e
Yukon trovano feeling nella materia dubstep, inteso qui come metrica degli
spazi, una piattaforma in cui è ancora possibile sperimentare certe profondità. Presto il ragazzo mostrerà un’inequivocabile bisogno di mobilità, un
sound inquieto che non vuole fermarsi alla proposizione di uno schema
(come in Kingdom) ma sente il bisogno di allargare le maglie espressive. Una
spinta che lo porterà alla corte della Hotflush, dove Untold si reinventerà
con un paio di mosse future garage come Sweat/Dante e, più tardi, la notevole Just For You, uno schizzo selvaggio di velocità e grinta che rimanda a
certa speed garage UK.
La dichiarazione d’intenti arriva con l’EP Gonna Work Out Fine, tutti pezzi
che iniziano a mostrare la vicinanza alla pista (Never Went Away, Palamino)
più una Stop What You’re Doing di vera cattiveria UK bass che riceverà anche il bel remix di James Blake. Poi un paio di collaborazioni di lusso (Myth
incrocia con Roska la questione funky, Beacon torna a indagare gli spazi
con gli LV) e altri due pezzi inclassificabili e affilatissimi come Stereo Freeze
(su R&S, eredità technoide, contorni acidi e indole aggressiva) e Anaconda
(l’assenza di schema sfocia nell’autismo ritmico, una struttura inafferrabile
che mette a disagio).
Quest’anno la svolta estetica si esplicita definitivamente con l’EP in tre parti
Change in a Dynamic Environment, sei tracce aperte verso ulteriori nuove
indagini: Motion The Dance improvvisa indagini space su cassa in quattro,
Overdrive esplora i movimenti del continuum per scendere negli inferi della
bass music, Caslon aumenta grinta e velocità, Breathe elimina le distrazioni
e si getta in pista... il dinamismo è il motore della fase attuale, unito a una
capacità di entrare sottopelle che fa aumentare l’aspettativa verso il formato
album.
È la techno il nuovo campo di battaglia per dar sfogo all’inventiva. Lo è sempre stato, ma negli anni diverse sirene - hardcore, garage, bubbling, grime,
dubstep, funky e via dicendo - hanno distratto la scena, seppur con risultati
a tratti esaltanti. Ora un po’ tutte le alternative stanno assumendo forme
strutturate e “popolari” (non solo il brostep, anche le derive post- di SBTRKT,
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Sepalcure e Phon.o), le ipotesi minimal e techno dub sembrano aver esaurito il ventaglio espressivo e l’incrocio techno-bass resta l’unica possibilità per
mandare avanti l’istinto alla sperimentazione. Nell’intervista in calce Untold
ci conferma tutto: la migrazione verso la techno è una realtà diffusa, segno
che sono ancora molti gli artisti che non vogliono accontentarsi.
Qual è il concept dietro la serie Change in a Dynamic Environment?
L’EP fa riferimento a strutture e suoni che erano diffusi prevalentemente
nello UK hardcore e nella jungle. Ogni traccia ha determinati “movimenti”
e mood intrecciati insieme, per evitare di ripetere la stessa idea per tutta
la durata. Ascoltando alcune delle tracce fondamentali dei primi ‘90 (per
esempio Dub War dei Dance Conspiracy) le ho trovate molto più dinamiche
nella struttura di tanta dance moderna, e ho voluto sperimentarci su.
Dopo diversi anni a produrre dubstep & bass music, ora sembri più focalizzato sul sound techno. E non sei il solo: da Pinch a Blawan, Pariah
e anche DFRNT, con cui abbiamo parlato di recente. Come interpreti questo trend diffuso verso la techno? Forse il dubstep è divenuto uno stile
troppo “definito”, con meno segreti rispetto a prima?
Mi piace quando parli di “meno segreti”. Ho sempre approcciato il dubstep
come una piattaforma con pochissime regole definite, più come tempo e
spazio per la sperimentazione. Mi è dispiaciuto che il sound sia diventato
così strutturato, e che sia arrivto un nuovo pubblico che si aspetta uno specifico modello stilistico.
La techno è l’ambiente naturale per i producers underground innamorati
delle basse frequenze. È un territorio ben preiso e stabilito, e con così tante
idee già coperte la sfida è produrre qualcosa di originale. Penso che gran
parte della “nuova onda” di produttori stia riscoprendo le regole della techno
e stia decidendo quali rispettare e quali spezzare.
Techno e la bass music hanno ancora diversi gradi di libertà e possono
produrre ancora roba eccitante e densa d’emozione. È questo il posto
migliore per i producers ambiziosi di oggi?
La cosa che dà più soddisfazione a un producer ambizioso è la libertà di
creare musica originale e libera da catene. Dubstep, bass music, techno sono
le piattaforme dove queste composizioni possono essere sentite in loco, e
gli stili individuali dei dj set forniscono il percorso narrativo.
Negli ultimi 5 anni hai prodotto una grande varietà di pezzi: sempre vicino a dubstep, bass, garage, house, techno... cosa ti spinge a inseguire
diverse direzioni invece che focalizzarsi su uno stile specifico?
È una grazia e una maledizione allo stesso tempo, ma il mio sound continuerà ad evolversi di disco in disco. Sarebbe molto più semplice diventare il
classico produttore in serei di uno stile specifico, ma mi annoio molto facilmente, oppure scopro musica nuova (o vecchia) che mi ispira e che voglio
incorporare nei miei pezzi.
Al momento ti senti più un producer dance o uno orientato all’ascolto?
Al momento sto scrivendo pezzi che dovrebbero essere lanciati in pista.
Non esattamente dj tools, ma comunque lo scopo principale è far muovere la gente. Detto questo, nell’ultimo mi son ritrovato in realtà a esplorare
composizioni più adatte all’ascolto casalingo.
Quali sono le tue tracce più importanti? Quali ti rappresenterebbero
meglio verso chi non ti conosce ancora?
Penso che i pezzi-chiave che ho rilasciato sono Test Signal, Anaconda (su
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Hessle Audio), Stereo Freeze (su R&S) e Motion the Dance (su Hemlock Recordings). Qualsiasi traccia tra queste rappresenta una buona presentazione
del mio sound.
In che direzione senti di muoverti adesso?
Divento sempre più misterioso e tracky.
Quali sono i tuoi producers preferiti al momento? C’è qualcuno con cui
preferiresti collaborare?
Non sto cercando collaborazioni al momento. I producers con cui mi senti
più in sintonia oggi sono Blawan, Surgeon, Kowton, Joe, Sei A, Paul Mac,
Randomer, ecc.
Come sono i tuoi dj-set oggi?
Martellanti e abrasivi, pochissima melodia, conditi sempre da sorprese bizzarre.
Stai pensando a fare un album? O trovi che il formato breve sia più
adatto alle tue esigenze di ricerca?
Sì, un album è in cantiere. È ora il momento giusto.
untold
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Spiritualized
Let it come down,
We Spiritualized
L’avventura di Jason Pierce come
operaio debordante d’incubi negli
Spacemen 3 prima, e come droga
innamorata di tutto poi, nella sua
creatura più splendente e auto
indulgente: signore e signori, gli
Spiritualized
L a d istanza e non più l’abbandono
Testo: Federico Pevere
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Non c’era bisogno dell’altro, alle volte succede. Ci si ritrova impigliati nel rumore, nello sfondo che annebbia quando si è giovinastri e poi ci si abbandona senza capirsi. Sulle rive dei Novanta. Così succede a due giovani maestri
inglesi, Pete Kember e Jason Pierce, il primo dallo sguardo e i pensieri ruvidi, il secondo nascosto dietro un occhio
assonnato ma furbissimo. Siamo a Rugby, l’Inghilterra dimenticata dagli inglesi, e si decide di separarsi. Tutto è allo
sfascio, crollano quegli Spacemen 3 capaci di sommergere di suoni e intuizioni i monocromatismi inespressivi della
realtà: le Falklands, le colpe della Tatcher, gli acidi, un mondo che va a rotoli, coscienzioso nel suo urlare sfatto. Il
sogno tramonta col dividersi di due anime diametralmente opposte e così, tra i rinominati Sonic Boom (Kember)
e J. Spaceman (Pierce), cala il gelo. Un’asprezza che si rinforza negli anni (si legga a tal proposito il monografico e
l’intervista rilasciata a SA da un particolarmente aggressivo Kember) tra accuse rivolte a Pierce di produrre “una pap21
pa anestetizzante di rime scontate” e, a fare da contraltare, i pierciani silenzi
che, almeno loro, ricuciono sul presente dei nostri le due direzioni intraprese
e rispettivamente mal digerite: più estremizzante e debordante quella di
Kember, più riflessiva ed estetizzante quella di Pierce. Sullo sfondo le diverse
interpretazioni sul come rimodellare il rumore, un perenne rinfacciarsi le
peggio cose che racconta della vita.
E così Recurring degli Spacemen 3 saluta con la manina tremante l’acerbo
Lazer Guided Melodies (Dedicated, 1992, 6.8), nuovo sogno di Pierce a nome
Spiritualized. In una frase: ciò che conta è la sfumatura, il resto va solo raccontato. Lo pubblica la sagace Dedicated, è il 1992, e sull’astronave salgono
Mark Refoy (chitarra), Willie B. Carruthers (basso), John Mattock (batteria)
e Kate Radley (tastiere). Il disco è suddiviso in quattro movimenti, il tutto
avvolto dalle forme confuse e quasi extraterrestri raffigurate in copertina e
poi inamidate in quei suoni - a prima vista sinfonici, poi rivelatori di qualsiasi
cosa, figurarsi se umani - che diventeranno il marchio di fabbrica. Ottuso
sì, ma così magnificente e accurato da lambire la perfezione. L’attacco di
I Know it’s true è fiaba pura dalla trama così delicata e adolescenziale da
risultare amabile e disturbante allo stesso tempo, come quasi sempre accade nell’universo pierciano; If I Were With Her Now dà dinamicità al peccato,
disegnando una trama dai contorni che si credono lustrati, quasi accoglienti,
ma anche affogati in un climax da memorie dal sottosuolo; I Want You è figlio
della Manchester anni Ottanta, degli Stone Roses sotto sedativi (forse negli
anni dieci..): l’originalità sarà altra cosa; Shine a Light è il primo capolavoro
dell’epopea Spiritualized, un bacio jazz colpito con forza, increspature velatamente rumoristiche e poi la voce, eterea, e, per appena un attimo, fiduciosa.
Ha inizio l’eterna lotta tra il predicatore e il peccatore, la medesima persona
dalle due anime. Il distacco è compiuto, la sintesi tra le asprezze spacemaniane e la penna da libro Cuore di un Pierce rinato è lontana. Kember se la
ride, augurando disastri per tutto il decennio, ma lo spazio ritrovato e il cuore
a brandelli ridarà forza al talento.
L’epopea Spritualized è un animale esagitato, questo è chiaro fin dall’inizio. La genesi di Pure Phase (Dedicated/Arista, 1995, 7.4) lo conferma, tra i
continui cambi di line-up. A reggere il tutto, la luminosità del trio composto da Pierce, dalla femme Kate Radley e dal prode Sean Cook, oltre a certi
contributi invincibili (The Balanescu Quartet) e alle indecisioni sulla strada
da seguire testimoniate anche dal provvisorio cambiamento di nome in
Spiritualized Electric Mainline. L’iniziale Medication racchiude tutto ciò
che ci si aspetta dalla nuova creatura pierciana: fiumi di theremin ed eclissi
di chitarre - così, per rassicurarci e costringerci all’indefinizione (Everyday I
wake up, and I take my medication, and I spend the rest of the day, waiting for
it to wear off) - pronti a scemare nei cieli stellati di una The Slide Song dai toni
già riappacificati (lobotomizzati?) o nei frame fuori sincrono di una All Of My
Tears sospesa tra respiri all’oppio e sensazioni Balanescu a divagare sul tema
principe. Lo straniamento, l’indefinibilità appunto. Un’indagine che non ha
nulla a che vedere con la stasi - d’intenti, s’intende - kemberiana. Inattaccabile, se non dalle droghe a cui ci si rivolge indirettamente. Le sensazioni e
le vite sono fili che raccontano vuoti depressurizzati finalizzati al racconto
e in bilico tra una vena e l’altra, tra un’aspirata e l’altra. And it hits me, takes
me home ;I don’t know where I’m goin’ ;And I don’t know where I’ve been ;But
I’d do it all again ;All I wanted was a taste ;Enough to waste a daysi canta in Let
It Flow, spenta litania dalle immagini fluttuanti eppure orripilanti (forse il
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peggior video degli anni novanta tutti). Non mancano le cover, una presa in
casa e non esaltante (una These Blues che arriva dal passato arrembante del
calderone Spacemen 3 - “per non parlare delle loro cover degli Spacemen
3, semplicemente imbarazzanti”, dirà ancora Kember), l’altra da mozzare il
fiato, (Born Never Asked di Laurie Anderson, resa ancora più scarna, limpida) e
appena dopo, nell’attesa riluttante di Electric Mainline, un viaggio immobile
e impressionista, senza coda né centro. Da sottolineare poi la circolarità di
Lay Back In The Sun, apprendistato immagnifico su cui si costruirà l’affresco di
Let It Come Down. Un consiglio, come auspica Pierce fra le note di copertina:
play loud ‘n’ drive fast.
Via il dolore
Il grande botto non era preannunciato, non era preventivabile. Questo è certo. Come la fine di una storia d’amore. La responsabilità per quel capolavoro
assoluto che è Ladies And Gentleman We Are Floating In Space (Dedicated/
Arista, 1997, 8.8) è riconducibile all’affamata Kate Radley, compagna di vita e
di suoni di Pierce. Alle soglie del 1997 Kate si abbandona fra le braccia del bel
tenebroso - o meglio, bel famoso - Richard Ashcroft e a Pierce rimane solo
la sua voce angelica, telefonicamente dissoluta, che ci introduce nel pezzo
eponimo. Tra le lacrime di piccoli sospiri che via via prendono coraggio,
c’è un evolversi di echi e rovesci orchestrali/spaziali - scegliete voi -, quasi
penosi, così innamorati nel pretendere il proprio amore. Il controcanto di
Pierce sul finale si fa dissonante eppure melodico, invasivo e fondamentale.
C’è voglia di rivincita, di immergersi nell’amore combattendolo. Si prende
fiato e a rifiorire sono i riflessi umani protesi verso il futuro, combattimenti
trasversali. Si sommerge tutto, si finisce con un trillo. Un fischio a nome
Come Together, proto punk in chiesa. E tutti chini nel muovere le teste, solo
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se avvertiti dal mantra vociante di un Pierce in odor di santità dopo appena
una decina di minuti. Nessuna controindicazione, perché qui si riscopre un
mondo frastagliato nei colori semplici e nelle parole. E’ pastiglia - lo splendido artwork ricalca la confezione di un medicinale - che non combatte il
disagio, ma lo alimenta, rimodellandolo in qualcosa di simile alla speranza,
per lo meno negli odori, nelle atmosfere e nel clima.
Pierce, qui come ovunque e successivamente, prima di arrivare alla mente
ti stupisce con i suoi pensieri così sventolati, a prima vista così innocui. C’è
dell’innocenza evidentemente non traducibile in musica (lì ci si sfoga, i think
i can rock’n roll, probably just twisting), c’è la remissività del Drogo di Buzzati e
dei suoi pensieri ai confini del mondo. Un Drogo tossico, sia chiaro, investito
dal mondo che si è lasciato alle spalle, devoto e schifato, contradditorio
sempre. Tutto semplice, tutto vero, siamo inghiottiti comunque. Affidiamoci
allora allo sfondo kraut di I Think I’m In Love e raccontiamo la filastrocca di un
deserto che vive di promesse. Si materializza uno dei refrain più incisivi della
storia della musica: “Penso che tu sia la ragazza dei miei sogni”, dice. Tutto
è predisposto per queste sentenze devastanti e quasi ironiche nel raccontare l’aridità dei pensieri. I fiati a preparare le sciabolate interiori di Pierce,
un’armonica che stimola e sconvolge, la chitarra ovattata a rendere tutto
questo terribile gioco terribilmente vero. All Of My Thoughts si riprende il
paradiso, piccolo lampo su un passato deciso ad emergere in un compendio
sonoro dai tratti esaltanti, fra bordate brucianti e deliziosi passaggi nel fango
soulgaze. L’oasi metafisica, quasi beneagurante, di Stay With Me, nonostante
la cascata arpeggiata di un finale che sa di ricostruzione definitiva di quel
suono floydiano che sembra emergere ovunque, la scarica primordiale di
Electricity o il dialogo dimesso nel rumore (Come on vs. What you needed). E
poi il buio di The Individual, uno dei picchi di Ladies And Gentleman We Are
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Floating In Space, col suo lamento free liberatutti incastrato da una linea di
basso rigida che indica la via, fra gli incubi che si sa, prima o poi riemergono;
la carezza fatta canzone, la melodia affogata nella trasfigurazione di Broken
Heart, melodramma in salsa cassavetessiana, duro e puro, putrido nella sua
vorace eleganza, nella sua bianca veridicità, nel suo essere sgranato come
le vite e i pensieri sacrificati. E’ il riscatto - sono troppo impegnato per essere
abbattuto - e la speranza, è l’arrangiamento per orchestra definitivo con i
suoi saliscendi infiniti che altro non sono se non una trasfigurazione emozionale fatta di sospiri infernali fra archetti che ansimano a tempo. No God Only
Religion è una frustrata libera da tutto, da omicidi e lente devozioni, pensieri
ormai disidratati e botte sulla pelle dell’amore. La successiva Cool Waves può
essere riassunta dall’immensa verità di una frase avvolta in quella copertina
così spudoratamente gospel da lambire l’infinito, “se devi andare devi andare”. Andiamocene verso l’attesa del gran finale, che sia morte, paradiso, o
amore, con qualche luce magari. Cop Shoot Cop è un rimbalzare fra lunghe
tiritere quasi svogliate, da pianobar per sole puttane, e gli ammicchi al blues
più malato. Si sopravvive in questa amalgama devastante, onnivora e sorprendente, invasiva e pragmatica, così limpida da comprendere vita e morte
di chiunque ci si rispecchi. Per l’amore e tutte le sue maledette declinazioni.
Liberatosi dall’intransigenza del passato Pierce ci regala il suo capolavoro.
La verità, ti prego, dopo l’esplosione
Let It Come Down (Arista, 2001, 7.6) è album sottovalutato, eppure uno dei più
sorprendenti degli Spiritualized. Dopo l’abbuffata anti-emotiva, o meglio, il
ritratto emozionale dell’indifferenza impersonato grandiosamente da Ladies
And Gentleman We Are Floating In Space, Pierce si concentra sullo sfondo, un
cielo polveroso dove i colori che compongono la tavolozza si fondono con il
fuoco, l’ardore dell’anima e lo spegnimento degli eccessi - sonori e vitali - che
l’hanno preceduto. L’inizio ondeggiante di On Fire - musica per le vene, da
battiti, che si tramuta in un gospel color seppia - è l’impalcatura su cui Pierce
costruirà il suo suono: dalle sottigliezze pop di Do It All Over Again alla remissività convulsa eppure riappacificata che circonda la vita (musicale e non) del
Nostro in quegli anni di passaggio (una Don’t Just Do Something dal finale
narcoticamente natalizio), per finire ancora risucchiati dall’apice assoluto di
Out Of Sight. In una frase, il pilastro della sua cattedrale discografica. Perché la
bellezza va descritta minuziosamente nel racconto freddo e sincero delle strofe, l’architrave sonora che spezza il tutto prima di salire sullo spazio e toccarlo,
rapirlo con precisione, salvaguardando i nostri sguardi, “out of sight is always
out of mind”. L’altare e la cripta, con gli archi disordinati e sottopelle e l’alchimia
di un vociare gospel e malefico che si fa cantilena in odor di salmo: “life is really
what you make it they say; can’t even make my mind up today”. Dalle stelle a cosa,
si chiede Pierce in conclusione? A tutto. Soprassedendo sulla lezioncina rock
di The Twelve Steps e la strizzatina d’occhio fuori tempo pop di The Straight And
The Narrow - o il passo falso di Stop Your Crying -, si viene infine schiaffeggiati
dalle meraviglie di una I Didn’t Mean To Hurt You che assale il tramonto dei
cuori, tra orde di archi e buffetti pizzicati da una voce quasi spezzettata, pronta
al peggio e rassegnata. Un pugnale inaspettato, un wall of sound invincibile e
necessario. Pierce si sente forte all’alba del nuovo millennio, almeno quanto
si sentirà confuso a livello creativo negli anni a venire.
L’assalto robotizzato di This Little Life Of Mine - e il suo finale da battimano
con siringa - ci accoglie fra le grinfie soniche di un Amazing Grace (Dedicated/Arista7.2) che segna l’ultima collaborazione con la Dedicated prima del
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passaggio alla Sanctuary (2004). Un capitolo che le note stampa del disco
dipingono come un ritorno alle origini spacemaniane (disco di garage rock
che va dritto al punto - d’altronde poche righe sopra si parla di confusione..) e che in realtà si rivela una raccolta di canzoni quasi disinteressate, per
la prima volta non legate da un’idea comune. E’ l’inizio del buio emotivo
e creativo di Pierce. Assaggiamo rivalsa e straniamento, ci perdiamo nella
normalità strutturale ed emotiva di queste nuove composizioni. Amazing
Grace è istintivo e naturale, vero nella sua nera immediatezza. Non mancano
le nuvole, pregevolissime seppur di maniera (She Kissed Me(It Felt Like A Hit) e Never Goin’ Back), e gli episodi a prima vista più assonnati (la dimessa Hold
On, in cui Dylan indaga un rumore bianco appena accennato) riemergono
come meraviglie nel jazz squartato di The Power and The Glory. I coretti ironici
di Lord Let It Rain On Me diventeranno quasi singalong durante i live, come
la perfezione formale di una The Ballad Of Richie Lee strascicata e sofferente
quanto insegnerebbe un Neil Young invasato dal soul o coverizzato dai The
Go Betweens più robotici. Si tratta di simmetria nell’armonia, quasi di meccanicità nelle melodie. C’è l’odore pinkfloydiano e c’è la spudoratezza nelle
imitazioni delle origini del Nostro. E quindi, nonostante l’indifendibile pochezza di pezzi come la vaporosa Lay It Down Slow e l’inutilmente roboante
Cheapster, Pierce risolleva la sua creatura dall’anticamera della desolazione
e del declino fisiologico raccontando lo spaesamento di una vita intera. E’Oh
Baby - assieme alle già citate Out Of Sight e I Think I’m In Love - a completare
il trittico del dubbio e della bellezza pierciane. Un’elegia che striscia su veli
sintetizzati dall’harmonium e sul nero di una voce che si fa solo all’inizio
supplicante, per poi reinventarsi tra le nebbie di una chitarra che emerge
grazie a pochi tocchi leggeri. E’ un’esplosione unica, primordiale, l’inizio al
contrario della propria anima musicale. L’origine alla fine. Qualcosa di unico
in poco più di quattro minuti, perché la vita stessa si racchiude nella brevità
e nell’urlo di pochi momenti. In fin dei conti l’album meno riuscito/appariscente dell’epopea Spiritualized, ed è tutto dire vista la qualità del lavoro. Mi è dolce ora raccontare
Le origini di un ritorno innanzitutto, la necessità di Songs in A&E (Universal/
Sanctuary, 2008, 6.5), le storie che nasconde. Jason Pierce nel 2005 viene
ricoverato al Royal London Hospital in seguito ad una polmonite che quasi
lo stronca. Sono mesi infiniti, devastanti. Come vorrebbe la leggenda e in
realtà non è, la maggior parte delle canzoni non vengono scritte durante la
lunga permanenza al reparto Accident And Emergency Ward (da cui il titolo
dell’album), ma ben prima e quindi non sono figlie dirette di quella lunga
degenza. Il risultato? Un album pacato, riappacificato, decisamente terreno,
a spaziare ovunque, dal rock & roll al soul, tra grandi ispirazioni armoniche
(Soul On Fire, il devastante singolo da top 40 che mancava a Pierce da dieci
anni) e piccole cuciture laddove l’ispirazione perde colpi (l’inutilmente ammiccante Sitting Of Fire). Il picco emozionale è rappresentato da Death Take
Your Fiddle, con il suo attacco “think I’ll drink myself into a coma”, e subito
dopo in Am E7 (fare attenzione ai titoli degli album, nascondono insidie),
And I’ll take every way out I can find, il tutto accompagnato da un tessuto
blues, leggero e devastante, tra file di fiati e parole che sanno di purezza.
Menzione speciale per Waves Crash In - lieve e solare marcescenza in forma
di ninna nanna - e per You Lie You Cheat. Ispirato solo a tratti, come un comune ritorno al mondo. Lasciamolo ambientarsi. Un ulteriore passo indietro
rispetto ad Amazing Grace.
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L a sintesi di un ventennio frainten dibile
Sweet Light Sweet Heart (Fat Possum Reciords, 2012, 7.6) non si ostina, come
tutti vogliono far credere, a raccontare di rinascite, ma vuole solo smussare
gli angoli rimodellare la propria scultura, per riscoprirsi, magari, migliore.
L’ultimo album degli Spiritualized si rivela come la carezza definitiva su tutta
la produzione precedente, una sorta di rielaborazione, un tirare le somme.
Un best of di tutte le influenze stilistiche (la pelle soul e la pastiglia psych,
l’acidità pop e tutta l’aridità di cui è fatta un’anima) a delineare i contorni di
un secondo amore, dopo un decennio di poco fruttuosa convivenza. Non
c’è nulla del mestierante, c’è solo un’ispirazione rara che rinasce dai propri
errori. E’ vero, Hey Jane è un esercizio di stile che vive di solo passato e fa il
verso, rispettivamente, a Sweet Jane dei The Velvet Underground e a Hey
Jude dei The Beatles. Allo stesso tempo però dimostra una freschezza che
pochi si aspettavano, coltellata kraut di desideri e rincorse. E che dire dell’attacco mozzafiato di Little Girl o della favoletta pop di Too Late a introdurre
l’arrampicata wave di Headin’ For The Top Now? Quest’ultima l’apoteosi della
carne e del movimento, un vortice infinito in cui affogare la voce dimessa e
quasi sorridente di un Pierce a suo agio con i demoni. C’è l’insistenza di una
Get What You Deserve che fa della partitura orchestrale un’arma precoce e c’è
il riempitivo di turno (Freedom). A concludere il tutto, la perfezione formale di
So Long You Pretty Things, così fluida tra i sussurri di un Pierce quasi pacificato,
così rotondo e per nulla spregiudicato nel raccontare con pochi tocchi, quasi
con semplicità, la mestizia di quell’apocalisse. Si chiama in causa di nuovo
Gesù, ma ci si prende in giro tra le nostre piccoli anime, magari, alle volte
torturandole. Per sempre, si raccomanda Pierce. Se c’è luce nella musica, si
tratta solo di un colore, poco altro. Conta la sfumatura e Pierce l’ha colta. In
bilico, soppesando parole e rielaborando continuamente il resto, compresi
i giudizi altrui.
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Recensioni
novembre
1400 Point De Suture - Baisse Les Yeux (et
mon cul c est du tofu, Settembre 2012)
Genere: black hardcore
E’ un disco di ferocia assoluta questo nuovo lavoro dei
1400 Point De Suture, band francese composta da otto
elementi tra cui spiccano i nomi di Seb Normal (Feeling
Of Love) e Cheb Samir (Capputtini ‘i Lignu, Intellectuals
etc etc), stampato per un’ensemble di etichette perlopiù
sconosciute come Noway boycott, Et mon cul c’est du
tofu, Commence Par Maman, Label Brique e Roue Libre.
L’artwork infame e il titolo intimidatorio (Baisse Les
Yeux, abbassa gli occhi) sono la giusta premessa del
contenuto: i 1400 Point De Suture sparano una raffica di
cartucce hardcore, grind e noise a metà strada tra i Napalm Death e i Flipper, forse con ancor più passione per
il maligno. A ogni modo paragoni a parte, la cosa interessante è che il disco ha sia testa che muscoli, sia struttura che effetto: grande attenzione è riposta nel gioco
pieno/vuoto, il cantato growl (in certi frangenti davvero animalesco) è funzionale alla composizione, mentre i
synth inscenano un’apocalisse per niente tronfia. Il resto?
Sferragliate hc vomitate con violenza compulsiva, e visite
guidate in qualche girone infernale per anime torturate.
Ne risulta un lavoro più stimolante e cruento di tanta
roba ultra-death-grind-core, oltre che più eterogeneo. Per i seguaci delle tenebre e per gli appassionati
dell’estremo dovrebbe essere oro colato. E uno dei dischi
dell’anno.
(7.3/10)
Stefano Gaz
— cd&lp
4 Axid Butchers - Villa Gasulì (4 Warded
Music, Novembre 2012)
Genere: alternative rock
Bresciani trapiantati a Berlino, in perpetua attività live
(sono arrivati persino in Sudafrica) e giunti con questo
Villa Gasulì al sesto disco (fra live e studio), i 4 Axid
Butchers hanno l’ambizioso intento di scardinare i canoni della tradizione nostrana per internazionalizzare
al massimo il loro sound, con un piglio che vorrebbe
ammiccare alla Madchester degli Stone Roses e degli
Happy Mondays e qualche stravaganza di troppo. Si capisce fin da subito che, nonostante la produzione
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impeccabile e idee valide che portano alle estreme conseguenze i riff intensi e selvaggi delle chitarre, l’habitat
più congeniale ai quattro è il live. Lo si intuisce dai cori
tirati di Gasulì - un brano che ricorda, per alcuni versi,
la cattiveria dei RATM -, dall’ossessività ritmata di Let It
Burn (che richiama alla mente qualche guizzo dei Primal
Scream), dalle atmosfere sognanti e ipnotiche di My Free
Country e Aster, rituali quasi propiziatori di un possibile
incrocio fra Incubus e Doors.
Non giustificati, fino a prova contraria, la cavalcata in
levare di A Globetrotter’s Song (tanto reggae da stonare
col resto) e la ballata in lingua El zogadur (che fra la tradizione linguistica e i Radiohead ce ne passano pure
troppe..). Ruvidi, selvaggi, ruspanti, per nulla banali, i 4
Axid Butchers riescono meglio quando non pretendono troppo dalla trasversalità dei generi e si concentrano
sulla semplicità. Una semplicità che, a volte, è sinonimo
di genialità.
(6.2/10)
Nino Ciglio
Abulico - Il colore dei pensieri (Materia
Principale, Novembre 2012)
Genere: pop
Degli Abulico parlammo nel 2009 in occasione dell’uscita del loro esordio Behind. Allora li si definiva un’entità
in bilico tra Radiohead prima maniera e certo post-rock
ormai istituzionalizzato, oltre che una band capace di
una musica dal buon impatto.
Il cambio di rotta più evidente in questo Il colore dei pensieri è dato dai testi in italiano e non siamo sicuri che
la scelta abbia giovato alla band. Infatti, se il suono in
generale, pur mantenendo elementi di contatto con le
istanze post-rock (La purezza del silenzio e in generale
scelte formali che ne richiamano l’estetica), continua ad
essere materia ricca di stimoli, le melodie al contrario
virano verso un pop ad ampio spettro forse meno originale rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare.
Materiale con una buona presa ma coscientemente alla
ricerca del crescendo ad effetto, delle saturazioni corpose, dell’arpeggio un po’ ruffiano.
Nulla di tragico, in effetti, soprattutto perché a sostegno
c’è una produzione comunque curata (tra gli strumenti,
Andy Stott - Luxury Problems (Modern Love, Ottobre 2012)
Genere: Deep soul
Condensare un immaginario di lunga tradizione brit che va dai Cocteau Twins ai Dead
Can Dance, via Massive Attack e Everything But The Girl e iniettarlo in un tappeto
di scursissimi ritmi groove, techno e deep tenendosi saldo attorno ai 100bpm, può
essere un’impresa facilissima o difficilissma. Easy il copia incolla, complicato creare un
immaginario credibile e coerente agganciandolo a un percorso già di culto e fama.
Dopo gli acclamati eppì Passed Me By e We Stay Together, accolti benissimo un po’
ovunque - dalla madrepatria, agli USA, al nostro Paese -, il mancuniano Andy Stott,
artista chiave della Modern Love, è chiamato a un allontanmento dai sensi unici della
Berlino di lungo corso, in una direzione fertilissima legata al soul singing (paralleli alla
lontana con l’Untrue buraliano e confronto diretto con il James Blake omonimo).
Il singolo Numb, rilasciato lo scorso settembre, pareva infatti indicare un lavoro concentrato sulle voci e lo spazio,
sempre all’interno di un frame che ben accoglie l’ormai caratteristica (e catacombale) cassa anthemica. E così è, salvo
il colpo di coda di un producer che non lascia sguarnito nessun aspetto, nemmeno la già autoriale vena concreta,
forgiando in tal modo un album assolutamente inattaccabile e per molti aspetti una vera rivelazione.
Luxury Problems, masterizzato nei leggendari Air Studios londinesi (e quindi con dei compressori sui bassi capaci
di bucarvi il pavimento) da un Matt Colton già al lavoro con James Blake (appunto), è una gioia anche solo per i
sette minuti di doom ambient di Expecting. Un brano che da solo potrebbe esaltare qualsiasi cultore dei catalogi
più scuri dell’industrial britannica fino a Demdike Stare e naturalmente alla coda post-Witch della Tri Angle. Questo è un disco, si diceva, di smalti e fascinazioni vocali bianchissime, tutte di Alison Skidmore, l’insegnante di
piano di Stott che lui, romanzando, dice di non vedere da quando aveva sedici anni. Una fuori dalle scene e dal
mondo delle produzioni musicali che nel mix apparecchiato dal producer diventa un’austera Sade o, meglio, una
Laurel Halo di sostanza. Ascoltatela nella traccia omonima Luxury Problems (con tanti saluti a Nina Kravitz), nel picco
assoluto che è Lost And Found o nell’unico brano vicino al pop che è Hatch The Plan: avvolgente, austera, gotica,
disadorna, ma con i punti giusti perfettamente illuminati. Gli stessi che emergono nella enjana - o meglio badalamentiana - Leaving, finale lynchiano a sugellare il trionfo dell’Andy Stott produttore e autore, antitesi - lo possiamo
dire forte - dell’angelico Blake. Con il pregio non indifferente di un disco che non mortificherà i cultori dei beat.
Curioso, a tal proposito, un brano come Up The Box, che accoglie un crescendo di drumming filo Fly Lo inframezzato
da un zoppicante amen break proto jungle. E’ l’unica licenza (leggi fuori programma) di un album compatto che
con altri picchi - e questa volta citiamo la pura deepness di Sleepless (che si mangia vivo un altro producer, Actress)
finisce dritto ai primi posti delle classifiche di fine anno.
(8/10)
Edoardo Bridda
anche violini e trombe), senza sbavature e a suo modo
efficacie. Eppure qualche rimpianto per quel che poteva
essere e non è stato, nasce.
(6.4/10)
Fabrizio Zampighi
Actually - Actually (, Ottobre 2012)
Genere: 80’s Pop / DIY-trash
Actually Huizenga oltre ad essere la dimostrazione di
come internet offra visibilità a cani e porci, rappresenta
bene quel contesto post-Lana Del Rey in cui anche il
pop più commerciale e radiofonico può essere realizzato partendo dal basso, senza nessuna major alle spalle
(almeno inizialmente).
L’obiettivo finale non è diverso da quello delle
M(ainstream)TV trash-diva, ma queste web stars scrivono i propri pezzi e curano ogni aspetto della propria immagine - video compresi - in completa (o quasi) autonomia... delle Lady Gaga da cameretta. Actually Huizenga
in questo senso è idealmente il ponte immaginario che
dagli anni Ottanta porta al 2012: è pura pop music nascosta dietro l’estetica hip di un personaggio poliedrico,
attento ad essere into a qualsiasi forma “artistica” (film,
porno, compresi) in ottica DIY-bubblegum (si veda il sito
ufficiale per avere un’idea).
Dopo essere stata la leader di due band ipersconosciute
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i Wet Look e gli Hard Place - esperienze che hanno
portato alla realizzazione dell’album Wet Look vs Hard
Place (ascoltabile su bandcamp) di due anni fa, ora Actually debutta con l’omonimo disco autoprodotto.La
linea generale dell’album è quella del pop 80’s (Madonna, Cyndi Lauper ma anche una versione meno intelettuale di Kate Bush), di tanto in tanto modernizzato da
influence clubby (Driving, Lady Shave) e da velleità pseudo-arty (Mine): parliamoci chiaro, Actually è come un
b-movie talmente trash e mal realizzato che potrebbe
anche trovare un certo tipo di seguito. Se la mettiamo
però in termini di puro e sfacciato revivalismo eightiespop, raramente (neanche Patrick Wolf) si è avuto un
pacchetto singolo + video fedele e inquadrato quanto
Hush, la prima traccia - e probabilmente unica da tramandare - di un disco destinato a pochi e coraggiosi
collezionisti di cimeli kitsch.
(5.5/10)
Riccardo Zagaglia
Adrian Sherwood - Survival & Resistance
(On-U Sound, Agosto 2012)
Genere: ambient-dub
Il passato di Adrian Sherwood, assieme alle origini
della sua On-U Sound, sono stati analizzati in queste
pagine in un lungo speciale dedicato a Mark Stewart e
all’avventura sonora dentro e fuori il Pop Group. Recentemente abbiamo incontrato il deus ex machina del dub
londinese dietro all’ultimo lavoro dei redivivi New Age
Steppers, in pratica un progetto tra Adrian e l’amica di
lunga data Ari Up scomparsa prematuramente. Nelle vicissitudini legate a quel lavoro abbiamo trovato, inoltre,
un altro amico, Adamski e Lee Scratch Perry con Hello,
Hell is Very Low, ultimissima registrazione di Ari e fine di
un cliclo umano e discografico.
Alla fine dell’estate scorsa il percorso idealmente rinasce, con un Perry cofirmatario con gli Orb di un lavoro
ad alto contenuto raggae dub e con Sherwood impegnato in questo Survival & Resistance. Un disco,
quest’ultimo, che si rifà, ancora una volta, alla cultura
millenarista dei rastafariani calandola in un presente che
per ipocrisie e crisi economica, non ha nulla da invidiare
al 1977 dei Pistols.
Sherwood, Perry, Stewart, Up, sono vite legate da amicizie di lunghissima data e da frequenze radio perennemente accese sui suoni del mondo di strada più freschi
e rappresentativi di vari periodi storici della cultura popolare: dal punk all’industrial, dal breakbeat alla (dub)
techno. E dunque se c’è un trademark sherwoodiano,
ancor prima del gioco tra sub bassi e vuoti, quello si fonda sempre su una liquida eterodossia tra post-punk, dub
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e il dance continuum britannico. Un suono meticcio che
nelle rispettive epoche fu fondamentale per PIL, Slits
ma anche Primal Scream, Tricky e che oggi si configura come l’antefatto di ogni post-moderismo laptop,
footwork incluso.
Il nuovo album del producer, pubblicato dalla personale
On-U dopo i primi due dischi incisi per la Real World di
Peter Gabriel, è un lavoro che non deve rispondere a
nessun appello se non quello di rappresentare alcuni
scuri umori sottopelle - e conseguente bisogno d’escapismo - della common people inglese. Più che l’elettronica londinese attuale, ci senti la Bristol dei 90s, quella
stessa città che vent’anni fa riconosceva nel grande
Mark, bristoliano anch’esso, un mentore ideale.
Balance, con ospite Adamski e Crucial Tony alla chitarra,
parte con un piano pensoso, quel piano che ritrovi come
strumento portante dell’intero lavoro: circondato da atmosfere loungey e dubby, tra Giamaica e Ibiza in una
Starship Bahia, oppure in versione ambient-chamber in
Effective e Greenleaves. We Flick the Switch vede l’ugola di Lilli in una sorta di James Bond song e U.R.Sound
contiene un sample vocale dell’uomo chiave dell’LSD
Timothy Leary.
Diversamente dal precedente Becomin A Cliché, Survival
& Resistance è un album prevalentemente strumentale
sospeso tra sprazzi di sole (Bossa 2) e molte ombre (Two
Semitones And A Raver). Ci ritrovi tutti i trick e la sapienza
dell’Adrian Sherwood più meditabondo ma nulla per cui
valga la pena di scomodare i non fan dell’uomo.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
Aesop Rock - Skelethon (Rhymesayers
Records, Luglio 2012)
Genere: hip hop
Robusti breakbeat, serpentoni di synth o fili di chitarra
dal taglio prog-rockadelico, progressioni in crescendo,
e sopra acidissimi i soliti assalti da maliditesta, col flow
che è una specie di cascata di cubetti di pietra ghiacciata, quando la tecnica si travasa tutta in personalità
e comunicativa, grip irresistibile, nelle strofe, e cantati
superemo (si comincia con ZZZ Top), negli incisi.
Colonna storica della Definitive Jux di El-P e dell’alt hip
hop tutto, Aesop Rock è tornato. Taglio indie confermato, anche dalla presenza in due pezzi di una raggaggiante Kimya Dawson (pare che uscirà un album cointestato - a nome The Uncluded - nel 2013, titolo Hokey
Fright). Non ci sono bombe dalla presa melodica alla
Daylight, il suo meritatissimo hittone datato 2001, ma
pezzi ugualmente bomba - proprio come impatto fisico,
a scavalcare la solita cervelloticità - come Leisureforce,
Bat For Lashes - The Haunted Man (Parlophone, Ottobre 2012)
Genere: art pop
La pressione portata dai solidi consensi ricevuti dai predecessori Fur And Gold (2007)
e Two Suns (2009) e la conseguente ansia da prestazione, la doppia nomination ai
Mercury Prize, l’appellativo “the next Kate Bush” e dunque il blocco creativo, le crisi di
panico e, non per ultimo, il ticchettio sempre più assordante dell’orologio biologico. Il
terzo album di Bat For Lashes poteva facilmente non arrivare mai.
The Haunted Man è la risposta dopo trenta mesi di gestazione, un periodo lungo, caratterizzato da scelte importanti e coraggiose ammissioni, come l’abbandono sia del
glitter che dell’alter ego femme-fatale Pearl utilizzato in Two Suns. È disco di svolta
questo, e lo si capisce a partire dalla cover in bianco e nero, dai tagli iconograficamente
grezzi ed essenziali, agli antipodi dell’estetica tra hippie e misticismo post-moderno del recente passato. La Kahn si
spoglia di naiveté in molti sensi: toglie il riverbero sulla voce, le claustrofobie patinate, e mette al centro un’intimità
squisitamente pop, tenendosi ben stretta gli arrangiamenti drammatici, le percussioni marziali e le elettroniche pad.
In aperta contrapposizione agli umori americaneggianti di Two Suns, The Haunted Man è un lavoro profondamente
UK. Il grosso della scaletta ruota attorno alla torch song britannica, fa concept delle preoccupazioni per il lignaggio
e tratta degli errori ed orrori dell’hopeless man che tendono a ripetersi lungo le generazioni inglesi (la titletrack,
lo stesso album-title ne sono emblemi). Non solo: lo si nota anche nel confronto naturale e immediato con female
singer anglosassoni, presenti e passate, quali Kate Bush, Annie Lennox, Florence And The Machine, Adele e i
primi Goldfrapp.
Il singolone Daniel del 2009 non fu ago nel pagliaio. Anche quando il songwriting cede alle tentazioni radiofoniche
e ci si lascia andare in versi à la Lana Del Rey (“Holding you, I’m touching a star / Turning into a Marilyn, leaning out of
your big car”, in Marylin), la Natasha Khan interprete non è mai stata così convincente, piacendoci anche in refrain
prevedibili come “You’re the train that crashed my heart / You’re the glitter in the dark” (in Laura).
Complice uno staff di talenti in produzione (David Kosten, Dan Carey, Beck, Adrian Utley dei Portishead, il collaboratore storico di PJ Harvey Rob Ellis), ciò che abbiamo è un set invidiabile, snello, incisivo e coinvolgente. Al
contrario della Marina And The Diamonds di Electra Heart, e parallelamente all’ultima Cat Power (il cui Sun ha
avuto una gestazione altrettanto travagliata), Bat For Lashes riesce a conservare autenticità ed eleganza, confermando un percorso d’eccellenza continuata che non disdegna le chart e che solo il desiderio di maternità, di cui la
musicista anglopakistana non ha mai fatto mistero, pare ora in grado di arrestare.
(7.3/10)
Massimo Rancati
1000 O’Clock, Zero Dark Thirty, Crowns 1 (con Kimya appunto), Homemade Mummy, Saturn Missiles. La frenesia
nevrotica, le analisi paranoiche eppure lucide, mai deliranti di Aesop incidono ancora. Inconciliante, non scorrevolissimo, monocorde nel senso della trattorizzazione
aesoppiana delle strofe, e non per tutti, ma capace di
rapire l’ascoltatore che si inoltra tra le ragnatele verbali
dell’uomo.
Sul Tubo trovate una ricchissima full preview del disco
(in embed qui sotto) e un ampio dietro le quinte fatto
di siparietti grotteschi e autoironci, con - tra le altre cose
- Aesop che porta a spasso per S. Francisco Whiskers, il
suo gatto morto, scarnificato sulla copertina.
(7.3/10)
Gabriele Marino
Andy Burrows - Company (Play It Again
Sam, Ottobre 2012)
Genere: cantautorato pop
Andy Burrows, classe 1979 e sangue british. Figura inevitabilmente legata all’indie anni zero, Andy è stato il
batterista storico dei Razorlight prima di raggiungere
gli azzoppati We Are Scientists tre anni fa. Da una parte
la batteria e dall’altra parte il microfono: Andy Burrows
è infatti anche il cantante degli I Am Arrows - di supporto ai Muse al Wembley stadium - e seconda metà del
progetto Smith & Burrows con Tom Smith degli Editors.
La carriera solista è iniziata ancora ai tempi dei Razorlight con l’album The Colour of My Dreams, realizzato
per aiutare l’ospedale della sua città natale. L’animo buono e la vena introspettivo-romantica delineano anche
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il nuovo album Company pubblicato via Play It Again
Sam.
Con il supporto di Mark Ronson (presente tra i credits) e
Andrew Wyatt, Company si presenta con le percussioni
che introducono la title track, poi arricchita strato dopo
strato e sempre più orechstrale lungo la sua durata. Pop
‘70s a tonalità vagamente funky in Because I Know That I
Can, passaggi USA-Fm (Keep On Moving On) e la perenne
ricerca di hugs-songs (Hometown) da spiaggia Lennoniana (Somebody Calls Your Name). Una proposta funzionale e leggera, ma difficilmente inquadrabile a livello di
target di riferimento.
Cantautorato pop-folk che scivola via lasciando poco, se
non qualche isolato sbadiglio (Maybe You). In più Andy
Burrows a livello vocale ed interpretativo non possiede
di certo una personalità in grado di rendere l’intero contesto meno anonimo: Company risente di un eccessivo
e tiepido classicismo che mostra tutti i limiti di una scrittura intelligente quanto priva di fantasia.
(6/10)
Riccardo Zagaglia
Anthony Phillips/Andrew Skeet - Seventh
Heaven (Voiceprint, Maggio 2012)
Genere: musica classica
Fosse stato un disco solista, Seventh Heaven avrebbe reso
più semplice il compito di chi, dovendo pronunciarsi su
un album tanto intricato, non sa esattamente a chi imputare scelte definitive in fatto di composizione, arrangiamento, conduzione, produzione. La co-scrittura di
questo doppio cd con l’arrangiatore Andrew Skeet - già
attivo per Suede, George Micheal e Sinead O’Connor
- non esaurisce di per contro il dibattito sulla rilevanza
di un talento, quello di Phillips, mai completamente sdoganato dalla stampa specializzata a un pubblico di non
soli cultori dei Genesis.
Le cause di questa mancanza sono molteplici; in primis,
la ritrosia del Nostro a lasciarsi svelare più del poco voluto. In secundis, l’assenza di un’attività concertistica, che
ne penalizza fortemente la diffusione oltre il circuito dei
fedelissimi al Genesis-credo. Disinteressato a questa e
quella questioni, il buon Ant prosegue lento ma inesorabile in una carriera solista con punte di gran pregio ed
episodi di puro mestiere, concedendo ai suoi appassionati una delle migliori prove del decennio. Lavoro che
mischia ri-arrangiamenti di pezzi contenuti nell’acustico
Field Day (2005), brani commissionati nel 2008 dall’Uppm e recenti inediti a quattro mani con Skeet per orchestra di 70 elementi, Seventh Heaven contiene pregi e
difetti caratteristici del catalogo philippiano.
Se l’incipit Credo In Cantus gioca felicemente la carta
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di un’enfasi operistica commovente e perfettamente
strutturata (grazie anche alla voce di Lucy Crowe) le
perplessità emergono all’ascolto iterato dell’opera nella sua interezza. Essendo approdato alla musica Classica
mediante una formazione non propriamente ‘conservatoriale’, il modus di Phillips alla composizione è un ibrido
che ricorda più il Sakamoto orchestrale di Cinemage (lui
pure impegolato col mondo delle colonne sonore) che la
ricerca di un Dvořák o il mai abbastanza rivalutato
Puccini (volendo restare nella cerchia dei Romantici).
A causa della sua stessa strutturazione l’opera in analisi non può fregiarsi inoltre della continuità di una suite
scritta con consequenzialità dal primo all’ultimo movimento; gli episodi dunque restano contestualizzabili
solo nei pochi minuti della loro durata; un approccio,
questo, in linea con quelle soundtrack che necessitano
dell’associazione con le immagini sullo schermo per restare impresse nella memoria. Al solito, permane la gioia
di ritrovare intatta una grazia espressiva che pur nella
maestosità preserva una vena di artigianale miniaturismo (Long Road Home); una sensibilità che ha la poesia
di un arpeggio chitarristico pulito e sentimentale, nonostante disponga di un’orchestra di tutto rispetto. Per gli amanti della Classica vera e propria questo rappresenta un difetto; per i cultori di certa outsider music
Seventh Heaven è un album da accaparrarsi.
(7/10)
Filippo Bordignon
Bailter Space - Strobosphere (Fire
Records, Settembre 2012)
Genere: Noise, indie pop
Eccettuata l’antologia del 2004, negli anni ‘00 il trio neozelandese nato nel 1987 non aveva ancora pubblicato
dischi: l’ultimo era del ‘99, forse perché gli ‘80 che andavano di moda nello scorso decennio non erano quelli di
quando esordirono. Ossia quelli noise tra Sonic Youth e
Jesus & Mary Chain, coi primi vagiti del grunge da una
parte, lo shoegaze dall’altra, e Neil Young che tornava
a fare il suo (e di conseguenza molti tornavano a Neil
Young).
Tredici anni tra un disco e l’altro e ben poco è cambiato:
quando Things That We Found parte come Cinnamon Girl
finché entra un cantato 100% Reid, capiamo che i Bailter
Space sono sempre lì, a giustapporre le loro influenze in
un cocktail che lascia ben visibili gli ingredienti originari eppure suona personale e riconoscibile. Più vario di
quello di gente come i Black Rebel Motorcycle Club,
per certi versi simili nell’aggiornare certi bassi pesanti
del canadese (vedi la title track, che inclina anche verso
saturazioni e melodia My Bloody Valentine).
Cody ChesnuTT - Landing On A Hundred (One Little Indian, Ottobre 2012)
Genere: black
Ebbene sì, sono passati dieci anni dal clamoroso The Headphone Masterpiece che col suo zibaldone di hip-hop,
psych, folk, soul, funky e persino krautrock fece balzare sulla sedia anche le chiappe di quelli che come il sottoscritto non masticano black music dalla colazione fino alla cena, pur amandola come
è giusto e possibile. In fase di recensione non lesinai superlativi arrivando a sostenere
che - scusate l’autocitazione - “sarà difficile accontentarsi di un’opera seconda meno
generosa ed estrosa e disinvolta, più regolare insomma”. Ebbene, è accaduto proprio
questo: il sophomore di Cody ChesnuTT è un disco ben meno estroso e debordante,
la misera normalità di dodici pezzi (contro i 36 dell’esordio) sonicamente ben più ottemperanti il canone soul, tanto da sfoderare in alcuni passaggi una neppure troppo
dissimulata devozione.
Il bello è che tutto ciò accade ben dieci anni dopo quel debutto già tardo, decade durante la quale periodicamente - vi giuro - non mancavo di chiedermi che fine avesse fatto questo geniaccio sciagurato, al di là di un album sul punto di uscire nel 2006 (The Live Release) e poi evaporato nella nuvola grigiastra dei
“lost”. Una vera e propria decantazione che consente all’ormai ultraquarantenne from Atlanta di presentarsi senza
l’assillo delle aspettative nel frattempo dissolte, in grado quindi di incidere su una sorta di tabula rasa tutto quel
ben di dio che l’estro gli consente. Il risultato è questo Landing On A Hundred che lo vede ringalluzzito, spavaldo,
ispirato soul man per gli anni Dieci, autore di una proposta retrò che pure si porta dentro tanta convinzione da
annullare la trappola della convenzione.
Un lavoro che non ambisce ad essere seminale a prescindere, eppure ugualmente suona attuale, legittimo cittadino del presente in un presente che non smette di masticare le scorte proteiniche del passato. In scaletta c’è molto
Marvin Gaye (nel doo wop mielato vaudeville di Love Is More Than A Wedding Day e nel soul solarizzato di ‘Till I Met
Thee), ci sono vampe boogie chicagoane (Under The Spell of the Handout) e cremosità quasi Bacharach (What Kind
of Cool), piglio urbano foderato funky come un rigurgito Sly Stone (I’ve Been Life) e struggimenti a basso voltaggio
(Chip’s Down). Il buon Cody ci tiene a precisare come le incisioni siano avvenute in parte a Memphis nello stesso
studio e con lo stesso microfono di Al Green, la cui aura puoi indovinare magari nell’amarognola Everybody’s Brother,
ma al di là di questo feticismo vintage piace soprattutto come quel tumulto caleidoscopio che ricordavamo sembri
agitarsi sotto la superficie, ad esempio in That’s Still Mama o nell’afro-psych tropicalizzata di Don’t Go The Other Way.
Di contro, la viscosità jazzy di Don’t Follow Me indugia troppo dalle parti del cinematico trip-hoppiano, fallendo il
bersaglio un po’ come l’up tempo ruvidello sul punto di farsi ska di Where Is All The Money Going?. Difetti trascurabili
in un disco godurioso, che c’impone di ritentare la carta delle aspettative. Vale a dire, se Mr. ChesnuTT eviterà di
confrontarsi con calibri di bassa levatura artistica (i Ben Harper o i Lenny Kravitz) e insisterà a far sbocciare i frutti
della sua splendida ossessione con questa stessa lucida e brillante baldanza, saremo sempre qui pronti a bearci
ascoltandolo. Magari senza riservarci tempi d’attesa geologici, grazie.
(7.3/10)
Stefano Solventi
Il canovaccio prevede altre rimembranze d’epoca come
qualche passaggio Pixies (Meeting Place) ma non mancano incursioni Iggy Pop solista (No Sense) o proprio
Stooges (in Island visti dal punto di vista di Ranaldo e
co., in Dset puri come ai tempi dei Gordons), e se vogliamo qua e là si sente anche qualcosa degli altrettanto
coevi Loop.
Nonostante tutti i limiti immaginabili da un quadro simile, e pur nell’assenza di brani killer, il ritorno rimane
comunque gradito grazie anche e soprattutto al piglio
energico che tiene su il mix di pop e violenza, evitando
cali di tensione.
(6.7/10)
Giulio Pasquali
Baltic Fleet - Towers (Blow Up Records,
Ottobre 2012)
Genere: post rock
Dietro ai Baltic fleet si nasconde Paul Fleming, ex tasterista degli Echo & The Bunnymen, e diciamolo subito è
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la notizia più interessante di tutta la questione, perché
questo secondo Towers è un disco che non offre particolari emozioni.
Chiaro il gioco: un post rock che viaggia a ritmo trance/
motorik, con tastiere cristalline made in Kraftwerk, e
così giù per le intere dieci tracce del disco, tutte strumentali. E’ un materiale che senza dubbio Fleming
padroneggia ma i limiti sono evidenti: disco esageratamente monocorde e interstizio percorso abbastanza
anonimo. Tutta la componente ‘80s/90s è di poco appeal (specie quando si parla del drumming), e se si sfila
la velina kraut il terreno sotto i piedi non sembra poi
così saldo (salvi un paio di buoni episodi come Toir de
e Reno). Fleming dice di ispirarsi a Eno, Neu!, Sigur rós
e Dj Shadow. Ci sta, ma a noi rimane nelle orecchie un
disco discreto, che ha pochi motivi per essere infilato
nel lettore. Forse i fan...
(5.8/10)
Stefano Gaz
Beastmilk - Beastmilk Ep (, Ottobre 2012)
Genere: Post Punk
Ciò che sta accadendo in Finlandia e che sarà presto
oggetto di analisi in SA, ha quasi del miracoloso: guidati
dal lungimirante progetto della Svart Records, etichetta
indipendente totalmente dedicate alla diffusione della
cultura rock finnica, un manipolo di artisti minori sta
elaborando concetti musicali heavy votati al passato,
conservatori se non isolazionisti, ma trasversali perché
frutto della collaborazione di musicisti provenienti da
“comparti” molto diversi fra loro. Se il primo grande nucleo di band “suomi” sta costruendo una piccola cattedrale sonica fatta di metal e di folk popolare, i Beastmilk
rianimano un suono profondamente legato agli anni ‘80.
Fondati nel 2010 da Khvost, leader dei black metallers Code, oggi a capo della miglior entità di folk hard
rock del pianeta, gli Hexevessel, in solo quattro mosse
i Beastmilk riaccendono la fiamma del post-punk apocalittico, seguendo la lezione mai troppo celebrata dei
Christian Death e dei Dead Kennedys. Ma c’è di più: la
loro magia sta nell’essere fascinosi come poche band
oggi, nel recupero di suoni misteriosi, malinconici e apocalittici molto vicini ai Wipers di Over The Edge, forse la
miglior band di pre death punk della storia (da sempre
ispirazione principale dei Turbonegro, i padroni incontrastati del death punk moderno).
Use Your Deluge è solo un Ep, ma basta per capire che il
quartetto finlandese è pieno di talento. Tesi, muscolari,
nervosi, oscuri, in Void Mother dimostrano la loro capacità straordinaria di dipingere scenari post nucleari,
utilizzando la durezza dei Pentagram, la decadenza dei
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Joy Division, la liricità dei primissimi Cure e l’elettricità
dei Cult di Electric. Ricordate i Warrior Soul di God, Drug
And The New Republic? Ecco, i Beastmilk vanno oltre il
concetto di “apocalyptic poetry”, della quale Corey Clarke è stato l’interprete di maggior talento, squarciano il
buio con autentiche scariche di punk chitarristico.
Il risultato lascia attoniti. Red Majesty, contraltare di Void
Mother, ideale chiusura di un esordio mozzafiato, è la
trasposizione marziale dell’oscurantismo autolesionista
dei Joy Division di Closer: un’impressionante caleidoscopio di colori scuri, continuamente lacerati da drumming
serrati e una voce ai confini del post black norvegese.
Quattro brani, sufficienti a consegnarci una band dalla
classe potenzialmente devastante.
(7.5/10)
Mario Ruggeri
Ben Gibbard - Benjamin Gibbard - Former
Lives (Barsuk, Ottobre 2012)
Genere: Indie pop
Chissà da quanto tempo Benjamin Gibbard coltivava
il sogno di realizzare un album solista. Probabilmente
da ben prima degli ultimi 8 anni serviti per raccogliere
le canzoni contenute in Former Lives.
La stessa nascita dei suoi Death Cab For Cutie, che
tanto hanno dato alla formazione cantautorale (sia in
termini artistici che in termini di celebrità) al nostro, è
stato forse il primo tentativo di realizzare questo sogno.
Nel 1996 è stato proprio il sodalizio tra lui e Chris Walla,
(chitarrista e co-autore nei D.C.F.C.) nato come un “ti
aiuto a registrare delle canzoni”, a inaugurare la carriera
di una delle indie band americane più solide e acclamate dell’ultimo decennio.
Si sa come vanno queste cose, nulla è certo nel mondo
della musica e di fronte ad un lavoro di squadra efficente, si mette da parte il proprio ego (e le proprie canzoni)
e ci si prodiga a tenere il meglio per i cavalli vincenti.
Nella carriera di Ben non c’é stato però solo il meritato
successo con i D.C.F.C. ma anche la fortunata parentesi
del progetto Postal Service assieme a Jimmy Tamborello (DNTEL) che con il loro crossover di pop zuccherino ed estetica indietronica, fecero letteralmente impazzire gli indie kid della generazione My Space, oltre ad
aver delineato un vero e proprio caso discografico per
il mercato indipendente americano.
Ci sono stati poi i successi dei D.C.F.C. derivati dalle sonorizzazioni per la fortunata serie Tv O.C. fino ad arrivare
all’ O.S.T. per un blockbuster come Twilight; nel mezzo,
aggiungeteci pure un matrimonio ed un divorzio con
l’indie-attrice Zooey Deschanel, seri problemi di alcolismo e pure un timido esordio nel mondo del cinema in-
Converge - All We Love We Leave Behind (Epitaph, Ottobre 2012)
Genere: Post Hardcore
“For me, hardcore is simply unapologetic music, free of rules. By that definition, we are a hardcore band.” (Jacob Bannon,
Pitchfork Magazine, 25 settembre 2012).
Liberi dalle regole. Liberi di esprimersi. Una visione dell’hardcore che è stata rivoluzionaria, soprattutto in contrasto con la rigidità dei dogmi HC New York, soprattutto nel periodo straight edge. Una visione che ha permesso di
generare il culto dei Converge, band fonte di ispirazione per almeno due generazioni
di gruppi e capace di ricavare dalla fusione tra metal e Hc una materia nuova, tangibile, concreta.
Come il precedente Axe To Fall, l’ottavo disco della formazione sposta ancora, di poco
ma percettibilmente, l’asse musicale. Contrariamente a quel lavoro, All We Love We
Leave Behind è stato fatto in casa: nessun ospite, Kurt Ballou alla console, nessun
manager, niente di niente. Solo un rapporto diretto tra la band, la Deathwish e la Epitaph. Ed è un ritorno al Do It Yourself, all’indipendenza come generatore d’espressione.
Profondo, maturato, Jacob Bannon parla ai suoi fan di vita vissuta, di una parte di sé.
Scrive, ma anche disegna le cinquanta tavole che compongono il booklet con le fasi
lunari, i contrasti netti fra luce e buio, i crepuscoli con i quali interrogarsi sulla propria esistenza.
Ci sono elementi di novità in All We Love We Leave Behind, a cominciare da una Aimless Arrow che è la sublimazione
del concetto d’isteria musicale codificato dai Converge stessi e reso armonico dagli ultimi At The Drive In: tempi
in progressione, architetture sovrapposte, layer di chitarra appoggiati sulla consueta, impressionante, sezione
ritmica. Prima punta di diamante, una Trespasses che rappresenta la sintesi e la cristallizzazione del loro concetto
di estremo: drammaturgia black metal in sottofondo, approccio grindcore, scariche elettriche old school hardcore
e iperstrutturalità perfetta, scritta da chi, l’iperstrutturalità, l’ha creata.
Impressiona l’equilibrio del lavoro, tanto che la sequenza di canzoni potrebbe essere tranquillamente invertita,
modificata, senza creare sbilanciamenti al corpus del disco. A Glacial Pace torna ai tempi medi, ovvero al passaggio
storico fra l’apocalisse Neurosisiana e lo schizo-core dei Converge stessi, ma è Predatory Glow che apre alle prospettive musicali di una band che pare non avere alcuna intenzione di fermarsi. Predatory Glow è il primo passo
verso il futuro: la materializzazione del flusso sonoro dei Sunn O))) riverberata da scariche di prog death metal
quasi industriale. Il manifesto di un suono che oggi potrebbe rappresentare la rigenerazione del terrore Slayeriano.
Un disco profondo, complesso, oscuro e fulminante. Lo stesso fulmine che illumina il cielo di Coral Blue, che incastona, sulle trame del post core, le aperture melodiche dei Cave In. Quasi una liturgia messianico-apocalittica. Un
lavoro che parla dei Converge come di una band ormai da catalogare alla voce “classici”.
(7.8/10)
Mario Ruggeri
dipendente. Fatte queste premesse possiamo facilmente
immaginare la difficoltà di Gibbard nel cercar di mettere
da parte dei brani per il suo album in tutti questi anni.
Alla fine Ben ce l’ha fatta e in Former Lives ritroviamo
tutte le ossessioni musicali che abbiamo imparato a
riconoscere nei progetti in cui è stato coinvolto musicalmente, a cominciare dalle Beatlesiane (virate Elliott
Smith) Dream Song, Duncan Where Have You Done e la
rustica conclusione di I’m building a fire, oppure l’umore autunnale ed agrodolce tipico della band madre nei
numeri indie/emo/college di Bigger Than Love (in duetto
con Aimee Mann) o la cavalcata indiepop A Hard One
To Know fino ad arrivare a quell’immaginario sono-
ro classicamente alt folk che contraddistingue il resto
della raccolta. Ed è proprio in pezzi come lily, Oh Woe
o Somethings Rattling (Cowpoke) che il nostro tende a
perdere terreno e mordente in rapporto alla sua cifra
stilistica; questi brani, da un lato testimoniano una mutevole impostazione timbrica della voce che avvicinano pericolosamente Gibbard a Colin Meloy dei cugini
Decemberists (Teardrop Windows), dall’altra tradiscono
uno spessore musicale anonimamente proteso tra istanze folk-rock e vagheggiamenti country decisamente datati e stucchevoli; la sindrome da Dave Matthews Band
è sempre dietro l’angolo insomma.
Intendiamoci, Former lives è un disco di ballate e che
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Godspeed You! Black Emperor - Allelujah! Don’t Bend! Ascend! (Constellation Records,
Ottobre 2012)
Genere: gy!be
E ora come la mettiamo? Dopo anni spesi a parlare della morte del post-rock, a pontificare e cercare di storicizzare
il genere, ci troviamo con un monolite da più di 50 minuti prodotto dalla band che, volenti o nolenti, ha rappresentato uno dei vertici del genere insieme a poche altre. Una voce a parte, dissonante
e rappresentante l’ala più intellettualoide, ideologizzata, impegnata, certo, ma pur
sempre una delle più credibili rappresentanti del filone.
Ora, un decennio abbondante dopo la (apparente) dipartita, la moltitudine canadese
torna in scena. E lo fa a modo suo. In silenzio, senza proclami, in punta di piedi verrebbe
da dire, se non fosse che Allelujah! Don’t Bend! Ascend!, titolo chilometrico e profetico come d’abitudine, esplode come una bomba dentro le nostre orecchie. Nessuna
avvisaglia aveva preparato il ritorno, se si eccettuano i live del 2011 accolti al solito
benissimo un po’ ovunque. Ora un album intero, suddiviso in maniera bizzarra su un
lp e un 7” confezionati con quella cura visiva e visionaria che ha segnato un’altra caratteristica dell’ensemble di
Montreal. Due tracce lunghissime e due (relativamente) brevi che ci offrono i GY!BE al proprio, eccellente standard.
Ossia pronti ad offrire musica dal marchio di fabbrica evidente che, pur nei limiti di un suono riconoscibile, non ha
mai nulla di scontato.
Eppure.. Eppure tutto suona in perfetto equilibrio: non una nota fuori posto, non una nota in più. Tutto il pregresso
del post-rock, anzi di quella particolare forma di post-rock “alla canadese”, rimesso in circolo senza timore e remore. Che condensa, ci si perdoni il verbo non proprio adatto alle distanze dei canadesi, impeto e furia, dolcezza e
antagonismo, fierezza e lucidità di intenti. We decided no singer, no leader, no interviews, no press photos. We played
sitting down and projected movies on top of us. No rock poses. We wrote songs as long or as short as we wanted. Roba a
tutto tondo che si muove tra svisate arabeggianti e grugniti da muro del suono in crescendo epico (dentro Mladic
c’è il mondo) e romanticismo d’archi che si vela di minacciose nubi (We Drift Like Worried Fire), creando ponti che
sono vere e proprie architravi poetiche di rara bellezza.
Le due canzoni del 7”, presenti nella tracklist originale sulla versione cd, procedono invece sulla tangente sperimentale con un avant-cameristica Their Helicopters’ Sing che molto più di quanto sembra ha a che fare con la
stockhausiana suite per violini ed elicotteri, e una rarefazione a suon di pulviscolo ambient-noise (Strung Like Lights
At Thee Printemps Erable), a dimostrazione dell’ampiezza della tavolozza.
È musica che colpisce e trascina. Che coinvolge e trascende. Era così agli esordi - “We knew that there were other
people out there who felt the same way, and we wanted to bypass what we saw as unnecessary hurdles, and find those
people on our own. We were proud and shy motherfuckers, and we engaged with the world thusly” -, è così al ritorno. (7.5/10)
Stefano Pifferi
scorre dignitosamente senza particolari intoppi (tranne
la trascurabile apertura acapella di Sheperd’s Bush Lullaby che ricorda i peggiori momenti gospel della serie tv
Scrubs) e che a livello lirico restituisce comunque ai fan
di Gibbard quell’epica ormai familiare fatta di mediocrità esistenziale e languori sentimentali a sfondo autobiografico ma è anche un disco che tende a ridimensionare
la percezione del songwriting di questo artista.
Evidentemente se non c’è mai stata la priorità nel mettersi in gioco in prima persona fino ad ora, è anche in
virtù del fatto che il nostro lavora molto meglio in una
condizione di comunione d’intenti e che in certi casi
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la band con cui hai sempre suonato fa davvero la differenza.
(6/10)
Dario Moroldo
Benjamin Biolay - Vengeance (Naive,
Novembre 2012)
Genere: pop, france
E così, come un temporale triste e lunghissimo in mezzo
al cielo blu, è arrivata anche la prima grande delusione
dalle mani sapienti di Benjamin Biolay che torna con
un disco, Vengeance, a distanza di tre anni dal prece-
dente, riuscitissimo, La superbe. In mezzo, la parentesi
tutto sommato fortunata della colonna sonora Porquoi
tu pleures? a creare tanta aspettativa per questo nuovo
lavoro in uscita il 5 novembre.
Quello che abbiamo davanti è un disco che, nonostante le volontà di apertura verso una certa commistione
electro-pop europea, finisce per trincerarsi dietro le
peggiori declinazioni del francesismo sonoro: in Vengeance risuona violentissima la eco di un’elettronica
da svecchiare e che pur guardando a MGMT e M83, fa
perdere a Biolay la sua cifra migliore, la sua lente retrò
eppure magicamente sempre perfettamente al passo
col proprio tempo. Appare lontanissima l’epoca degli
ultimi grandi brani, singoli di immenso impatto che riuscivano a unire quel ricordo vibrante di una tradizione
cantautorale à la Gainsbourg a suoni più marcatamente anglofoni. Reviens non amour e Si tu suis mon regard
sono esperimenti-espressione di quella formula pop riuscita che Biolay pare aver momentaneamente messo
in un angolo. In Vengeance, mancano i brani, manca tutto lo slancio
fortemente tradizionale sempre in grado di accompagnarsi alle esplorazioni più rock ed elettroniche. Se
escludiamo qualche rara occasione - in primis la ballata
beatlesiana La fin de la fin e poi la title track in duetto
con Carl Barat - Vengeance è un disco che evapora facilmente e velocemente nel ricordo. Peccato.
(5.7/10)
Giulia Cavaliere
Big K.R.I.T. - 4Eva N a Day (Self Released,
Marzo 2012)
Genere: Trap Rap
Se tutto il male non venisse per nuocere che male sarebbe? Potevamo sperare che il grande successo del Trap
Rap portasse all’attenzione i migliori prodotti hip hop
del sud degli Stati Uniti. Invece quello a cui assistiamo
è soltanto una hipsterisca ossessione per i suoi aspetti più grotteschi ed estremi: sorrisi coperti d’oro, remix
chopped&screwed, elettronica da dancefloor e volgarità
e droga a profusione. Fortunatamente ci sono anche
rapper come Justin Scott, meglio conosciuto come Big
K.R.I.T., che continuano ad amare la gloriosa tradizione
di hip hop sudista saldamente legata alle proprie radici
soul e R&B.
Scott, del resto, non fa mistero dei propri heroes: Scarface, Outkast, UGK e 8Ball & MJG (è la roba che sta nel
mio itunes, ha dichiarato). Questo è il suo punto di forza.
Non la personalità, né un enorme talento, ma la semplicità e la chiarezza del suo disegno artistico che gli permette di produrre dischi solidi senza farsi abbindolare
dal richiamo delle classifiche o delle produzioni stellari.
Lo scotto da pagare sono le rime copiate da altre centinaia di canzoni e veramente poco ispirate. I pregi invece
risiedono nella performance morbida e sensuale da loverman, proprio come quella di Pimp C, e nell’abilità di
produrre ottime basi languide che fanno ampio ricorso
a samples vocali e strumentali soul e jazz. Basti sentire
gli inserti pianistici della drammatica Red Eye, le chitarre
dell’ottima Handwriting, i fiati belli e malinconici di Boobie Miles (singolo che ha anticipato l’uscita dell’album)
per veder emergere un hip hop morbido e crepuscolare, adatto per viaggiare strafatti su una cadillac fino al
mattino.
Pur risultando un lavoro di pregio, il risultato complessivo si colloca un pelo al di sotto dell’eccellente K.R.I.T.
Wuz Here del 2010. Dispiace, non tanto la somiglianza
tra i brani, o il flow alla lunga noioso, quanto l’incapacità
di scrivere una canzone - la sua One Day - in grado di
innalzarlo al livello dei maestri.
(6.7/10)
Gianluca Carletti
Boys Noize - Out Of The Black (Boys Noize
Records, Ottobre 2012)
Genere: Hard electro
C’è una curiosa euforia nel nuovo album di Boys Noize, un’effervescenza giovanile che non sentivamo da un
po’ nelle produzioni del dj/producer tedesco. Qualcosa
che è difficile non mettere in relazione con le recenti
collaborazioni messe in atto: senza dubbio lavorare con
Mr. Oizo ha dato quel pizzico di schizzo molesto che
serviva come il pane (è negli Handbraekes che le strutture quadrate di Alex Ridha si son finalmente sciolte),
ma è anche l’effetto degli eccessi della cultura drop di
oggi, materiale troppo allettante per non giocarci un
po’ sopra. Magari senza tuffarcisi a capofitto, come si
poteva temere nella roboante accoppiata con Skrillex
promossa quest’estate (il progetto Dog Blood, che invece finora ha partorito solo i due topolini Next Order/Middle Fingers), ma ragionandoci un po’ intorno, prendendo
le dovute posizioni, sfruttando la propria indiscutibile
esperienza in materia di musica da (s)ballo.
Fatto sta che il nuovo piglio collaborativo di Ridha ha
portato una ventata d’aria fresca, segnale di superamento di quello status fossilizzato di “producer electro house per eccellenza” guadagnato con Oi Oi Oi e Power.
Boys Noize ha in mente un cambio pelle e vuol parlare
un linguaggio più giovane, che riesca a ingraziarsi i frequentatori delle nuove mode electro. Lo fa in modo fin
troppo ruffiano con Gizzle in Circus Full Of Clowns, che
vorrebbe essere lo split definitivo del nuovo dubstep
37
Jimmy Edgar/Machinedrum - JETS EP (Leisure System, Ottobre 2012)
Genere: Future funky
Sono amici da oltre dodici anni, entrambi hanno ormai consolidato un proprio pubblico di affezionati e nessuno
dei due ha nulla da invidiare all’altro in termini di popolarità o vendite. L’idea di lavorare a un progetto comune
sarà bazzicata più volte nella testa di Machinedrum e Jimmy Edgar, ambedue noti per discografie che non hanno
mai nascosto il piacere della sfida artistica. Perché di sfida si tratta, e nemmeno delle
più semplici: di Machinedrum la gente ama l’ingegnosità delle strutture e il senso
dell’innovazione, mentre Edgar ha fatto breccia per quel suo modo personalissimo di
essere funk, stuzzicando con contaminazioni e senso delle mode. Avanguardia contro
cura del design, una miscela eterogenea che suonava imprevedible in partenza, con
buone possibilità di elevare in potenza l’efficacia dei due soggetti ma altrettanti rischi
di inibire i reciproci punti di forza.
L’intreccio è, in una sola parola, splendido. Splendido perché è sotto ogni aspetto differente da qualsiasi cosa ci si poteva aspettare. I due protagonisti fanno sul serio, sono
abili a rimettere in discussione i loro modus operandi, a fare un passo indietro quando serve ma anche a trascinare il polo opposto verso un nuovo, sorprendente equilibrio. Nella opener In Her City Jimmy Edgar è un aroma
vellutato che si nasconde dietro (e dentro) la mobilità dei pattern operata da Machinedrum, come una corda di
violino pizzicata, gocce electrofunk che entrano in contatto ma evaporano all’istante, lasciando solo la sensazione
di freschezza. Tutto l’opposto Sin Love With You, dove invece le armonie della forma sbocciano appieno e l’estro
ritmico si piega al loro volere, rammentando che Travis Stewart non è solo quello di Room(s) e Sepalcure ma anche
l’abile architetto di ritmi conosciuto lungo tutti i primi 2000.
I pezzi più sghembi arrivano nel lato B. Mue è un gioco di specchi come solo Stewart oggi è in grado di fare, un
equilibrio indefinito tra beats hip-hop e fusione post-dubstep col beneplacito del lato Warp di Edgar. Il vero apice
però è Lock Lock Key Key: i campioni vocali in loop stretto sono mezzo scenico ma anche fascino dell’ossessione,
soprattutto sotto l’effetto di un progressivo smembramento del tema cardine, quasi che le strutture contenitive
di Machinedrum fossero pareti mobili in continua oscillazione, a mutare continuamente il volto del pezzo tra
future-garage, turntablism e beatboxing astratto. È questa l’euforia che si scatena quando due produttori con le
palle trovano il giusto affiatamento, come con Mr. Oizo e Boys Noize negli Handbraekes o con Hudson Mohawke
e Lunice in TNGHT. Stavolta però il marketing non c’entra nemmeno incidentalmente, qui c’è voglia sincera di
spingere più in là i propri limiti.
Per dirla con le loro parole, “c’è un senso di dove eravamo, dove stiamo andando e tutto quel che sta in mezzo”. Condensi in quattro tracce due spiriti genuini nel loro momento di massima agitazione tecnica, e poi lasci al resto del
mondo tutte le derive e le speculazioni del caso. Perfetto.
(7.3/10)
Carlo Affatigato
bastardo di oggi, una tecnica collaudata di wobble e
distorsioni che però non appartiene al suo carattere e
rappresenta solo il trick d’immagine per compiacersi gli
ascoltatori moderni. Mossa di sola superficie e dunque
da censurare, soprattutto quando chi la fa ha dalla sua
le armi giuste per venirne fuori con maggiore dignità.
Molto più interessante invece ciò che avviene altrove:
What You Want, ad esempio, non fa mero cut&paste ma
quei drop riesce ad assorbirli e riassumerne l’energia con
tatto, così da incorporarli nel proprio sound e aumentarne le potenzialità (è questo che deve fare chi ha la marcia
in più, vedi anche Kentaro lato brostep), mentre pezzi
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come XTC e Rocky 2 compiono il giusto scarto col passato
improvvisando psicosi electro e possessioni Ed Banger. Il
resto oscilla tra momenti di vocoderato pop in bilico tra
Daft Punk e Justice (Ich R U, Touch It), retaggi french (Siriusmo fa né più né meno che il suo ruolo in Conchord),
fiamme da arena (Stop), furbate electro massimaliste
(Missile) e anche precipitazioni di pura noia (Merlin).
L’apice arriva alla fine e riscatta tutto il resto. La Got It
ideata con Snoop Dogg è l’incontro tra due pesi massimi
che danno spettacolo rispettandosi l’un l’altro, col rapper californiano che fa il cattivo senza invadere lo spazio
e il geometra dietro la console che spezza la routine e
inventa un intreccio di sfondi elettronici affilati al punto
giusto per non strafare. La danza del corteggiamento
tra hip-hop ed elettronica non è mai stata così esplicita
e provocante. Se son questi i frutti della via dei featuring intrapresa da Boys Noize, voglia Iddio preservarne
l’entusiasmo.
(6.8/10)
Carlo Affatigato
Buildings - Melt Cry Sleep (Double Plus
Good, Settembre 2012)
Genere: noise-rock
Per comprendere al meglio chi sono e da dove vengono
i Buildings (Travis Kuhlman alla batteria, Sayer Payne
al basso e Brian Lake alla chitarra), basta skippare alla
traccia 5. I Don’t Love My Dog Anymore gioca sul crinale
che unisce l’incedere schizo-pachidermico dei Jesus Lizard altezza Liar (diciamo l’interplay basso-batteria di
Gladiator, ma c’è pure la slide tanto amata da Denison),
le chitarre inacidite degli Shellac di At Action Park e una
buona dose di cattiveria post-hc di quella bella grassa
cresciuta nella prima metà dei 90s.
Riduttivo? Affatto. Perché Melt Cry Sleep è una botta in
faccia di quelle che si ricordano a lungo. Il suono è per
forza di cose derivativo, avendo il terzetto di Minneapolis metabolizzato naturalmente le influenze di cui
sopra, ma questo non significa che il loud rock messo
in scena nelle dieci tracce del comeback sia debole o
scontato. Code in ralenti stoner che non inficiano l’assalto straight in your face newyorchese fino al midollo
(Born On A Bomb), paranoia da Lower East Side a nastro
(Noxema Gurl), tempeste ritmiche e giochi vuoti pieno
alla Unsane (Invocation), senso di apocalisse avvenuta al
crinale tra post-core e retrogusto da blues ferino (Mishaped Head), pigfuck noise-rock made in Chicago (Crystal
City), bassi caterpillar a tirare le fila come se non ci fosse
un domani (Wrong Cock suonerebbe come potrebbero
farlo i Melvins se non fossero i Melvins). Tutti segnali
che indicano la via seguita dal terzetto.
Se poi pensiamo da dove vengono i tre, quella Minneapolis patria di una delle etichette più rovinose dei 90s
(la AmRep per chi se lo chiedesse), e che il master porta
la firma di sir Bob Weston allora tutto appare molto più
chiaro, ma non per questo più rassicurante.
(7/10)
Stefano Pifferi
Chelsea Wolfe - Unknown Rooms: A
Collection of Acoustic Songs (Sargent
House, Ottobre 2012)
Genere: Witch Folk
Unknown Rooms esce ad un anno dall’ottimo Apokalypsis, dichiarandosi come una collezione di canzoni
acustiche. Seppure il ricordo del precedente album è
ancora fresco, il contesto in cui quest’ultimo si presenta è profondamente cambiato. Scemata l’infatuazione
della gioventù di Brooklyn con il Goth, passati ora in
massa alla psichedelia del progressive rock nel tentativo
di trovare una parola d’ordine che riesca reggere più
di mezza stagione, Chelsea Wolfe ha il buon senso di
smarcarsi dal genere mantenendo al contempo i punti
di forza che l’hanno resa celebre. Anche questa volta ritroviamo la sua forte personalità femminile, che la porta
ad essere continuamente associata a PJ Harvey, ed una
certa passione per l’orrore e la weirdness Lynchiana.
Un malinconico folk dalle atmosfere witch (Hyper Oz) ed
americana (Appalachia) che si solidificano nella memoria del Salem witch trial. Quello di Unknown Rooms è un
folk che si rifa al sound ipnotico e psichedelico di gruppi
quali gli Espers e Fursaxa senza però mai raggiungere
le loro vette di misticismo. Le canzoni di Chelsea non
riescono mai a decollare e rimangono sempre ancorate
ad una certa banalità del quotidiano come in Boyfriend,
producendo un’estetica da filmato amatoriale alla Blair
Witch Project dove le streghe non sono mai enigmatiche
o minacciose ma semplicemente ragazzine avvolte in
lenzuola mentre si filmano nel bosco dietro casa.
Unknown Rooms è in definitiva una mossa strategica
da parte della Wolfe che vuole sia ricordare ai suoi fan
la sua esistenza mentre tenta di evitare la tensione del
dover replicare il successo di Apokalypsis. Seppure il
progetto sia quasi privo di spessore, riesce a reggirsi
completamente sulle sue gambe grazie all’incredibile
carisma e voce di Chelsea. Se Unknown Rooms non è un
disco imprescindibile esso ha il merito di consolidare la
Wolfe come un nome che non ha intenzione di sparire.
(6.9/10)
Antonio Cuccu
Chrome Canyon - Elemental Themes
(Stones Throw, Agosto 2012)
Genere: synthorama 80s
Con Elemental Themes, debutto del progetto solista
Chrome Canyon, il newyorkese Morgan Whirledge aka
Morgan Z mette a nudo le radici elettroniche, sci-fi e
cinematografiche-cinematiche del proprio immaginario, della propria musica, intuibili in nuce già nel lavoro
della band con cui nel 2007 ha cominicato a calcare i
39
palchi, ovvero gli electro-glam Apes & Androids (un unico album autoprodotto nel 2008, Blood Moon), adusi
a esibirsi in pubblico con tanto di corredo di ballerini
conciati da zombie.
Eccoli nero su bianco sul sito della Stones Throw gli
ascolti con cui Morgan si è ossessionato negli anni
dell’adolescenza trascorsa nella San Fernando Valley:
“Vangelis’ Blade Runner score, Wendy Carlos via Tron,
Giorgio Moroder’s work on Cat People”. Non che non
bastasse ascoltare anche solo mezzo secondo di un
pezzo qualsiasi per capire tutto: epica synth, assoli
sperticati, batterie asciutte ma progressive, microcitazioni degli sfarfallii anticipatori di Baba O’Riley. Nessuna
pretesa sperimentale, solo e semplicemente un amore
genuino e folle per un suono e un mondo che trasudano
da ogni nota e che si traducono in una cura maniacale
del dettaglio. Nota bene: è uno degli ultimi album con
il master curato da Nilesh Patel, già ingegnere di fiducia
di Air, Björk, Daft Punk e Pulp; e si sente, quei colori
brillanti sono un suo trademark.
Da incorniciare particolarmente Branches, Carfire on
the Highway e Memories of a Scientist. Disco di genere,
chiaro, senza cioè il corredo teorico ed estetico - anche ingombrante - di opere Zeitgeist come quelle della
compagine retrologica/hauntologica (James Ferraro in
testa), ma di tale limpida cristallina ispirazione, così totalmente immerso in un innamoramento senza ombre,
da travalicarlo comunque - il genere - in qualche modo.
Per cultori, certo, ma anche per chi cerca una buona introduzione a questi suoni o vuole semplicemente capire
che musica si fa quando si ama la musica.
(7/10)
Gabriele Marino
Circle Of Ouroborus - Abrahadabra
(kuunpalvelus, Ottobre 2012)
Genere: Black-post-punk
Il duo finlandese formato dal cantante e “poeta occulto” Antti Klemi e dal polistrumentista Atvar vanta un
passato black metal, ancora vivido negli impasti sonori
epici e sporchi, ora celati dietro una coltre di nebbia, ora
evidenti, in brani quali Remembrance. Forse eccessiva,
nonché frastagliata da numerosi Ep e collaborazioni, la
produzione dei Circle of Ouroborus vede poi una svolta
stilistica nel 2011 con Eleven Fingers, primo album di
due su Handmade Birds (peraltro masterizzato da James
Plotkin) che lasciò entusiasta tanto la critica quanto gli
ascoltatori più curiosi e “riformisti” - gli stessi, per capirci, che hanno esultato di fronte all’arrivo di roba quale
Wolves In The Throne Room.
Da lì in poi, il loro suono inizia a trascendere i generi
40
verso una forma alchemica ambigua e singolare, sorta di
vaporizzazione timbrica dove tutto è sfondo, paesaggio,
drone, e al contempo fraseggio, melodia, in un certo
senso anche canzone (Breathing Slowly). Il risultato va
così a piazzarsi al centro di un ipotetico triangolo magico ai cui vertici troviamo black metal, no wave e post
punk (quest’ultimo particolarmente nell’uso della voce
e delle ritmiche), e sul quale si estende un’ombra maligna, oscura, simbolico-esoterica, irrorata da una luce
giallastra. Ad Abrahadabra, nonostante gli esiti estremamente
conturbanti dobbiamo tuttavia addebitare i pochi sforzi impiegati nel superamento di una formula che dura
pressoché immutata da tre album; l’assestarsi cioè su
un’idea che però vive di marginalità e di scarto, e che
non può correre il rischio di rallentare il proprio corso o
rischia, fermandosi, di stagnare. Rispetto al passato, comunque, già dal precedente The
Lost Entrance of the Just, la componente melodica si
fa più accentuata, perturbante nel passaggio tra umori
oscuri, drammatico-pagani (These Days and Years To Kill)
e aperture quasi badalamentiane, come nei paesaggi
piovosi della lunga Daementia Praecox (9:32) che chiude
l’album. Elemento centrale di tutto il pensiero “circolare”, resta il suono peculiare e indecifrabile della chitarra
synth, superamento “post-tutto” dell’impasto black tradizionale come degli umori wave.
Che dire: rock’n’roll da apocalisse culturale.
(7.3/10)
Antonio Laudazi
Clinic - Free Reign (Domino, Novembre
2012)
Genere: psych, garage
Bubblegum, con le sue aperture melodiche e persino
pacate, ci aveva piacevolmente sorpreso mandando
all’aria quel teorema secondo cui, sostanzialmente, i Clinic fanno sempre - benissimo - lo stesso album, ancora
e ancora. In realtà, alla luce di questo Free Reign quel
teorema oggi risulta addirittura rinforzato, lasciandoci
alla memoria l’album precedente come la proverbiale
eccezione che conferma la regola. Ade Blackburn e misteriosi soci tornano decisi e convinti all’acidissima e
oscura psichedelia garage di sempre, mai tralasciando
quell’appeal (che potremmo pure definire pop, in una
certa misura) che forse è proprio l’ingrediente vincente
di un amalgama sempre uguale eppure sempre mutevole (stavolta si è voluto dare maggior enfasi a tastiere
e drum machine).
Nove tracce che scorrono ipnotiche, tra geometrie semplici e ripetitive che, vuoi o non vuoi, continuano ancora
Kendrick Lamar - good kid, m.A.A.d city (Interscope Records, Ottobre 2012)
Genere: hip hop
Il percorso di maturazione del Kendrick diciassettenne, che guida il van della madre per le strade di Compton
con i suoi homies, è l’immagine chiave predominante di questo major label debut, nonché l’effettiva attestazione
dell’approdo del venticinquenne Lamar nei gradini alti dell’hip hop. Preceduto da cinque mixtape (i primi tre a
nome K.Dot), il debutto indipendente su Top Dawg era avvenuto lo scorso anno con
Section.80; disco che, nella vena critica di Tupac Shakur, guardava al presente in divenire di Kendrick e alla realtà del suo gruppo Black Hippy, un lavoro sorprendentemente
già maturo in cui l’MC californiano palesava tutte le sue ambizioni.
Good kid, m.A.A.d. city le rinnova e le appaga facendo un tuffo nel passato del rapper,
in quella Compton vissuta durante i suoi tribolati anni da adolescente, narrati con il
piglio di un hood movie e che, non a caso, viene sottotitolato ‘a short film by Kendrick
Lamar’. La dinamica lirica è basata sul conflitto, soprattutto interno. Gli homies sono
giovani criminali, ma sono anche suoi amici, e il percorso ad ostacoli del ragazzo lo
lancia in una spirale sempre più oscura e profonda. L’abilità di Lamar nel portare avanti la narrazione si manifesta
in un wordplay brillante ereditato da Nas (molti i riferimenti a Illmatic sparsi quà e là) e consegnato con un flow
iper-tecnico che ricorda da vicino André 3000.
Nessun brano sovrasta gli altri, enfatizzando la compattezza di un concept che fa uso ponderato di registri di
produzione diversi che variano dal west coast (The Art Of Peer Pressure) dal retaggio gangsta (m.A.A.d. city), ai beat
dancefloor-oriented e dal timbro southern (Backstreet Freestyle) pur rimanendo sempre legati all’immaginario hoodie di Poetic Justice, feat con Drake ma anche pellicola cinematografica del 1993 con Janet Jackson e, appunto,
Tupac. La giustizia poetica letteraria, nel cui modello, il virtuoso nel finale viene ricompensato e il vizioso punito ad
opera del fato, spesso scatenato dai suoi comportamenti scorretti. Kendrick rappresenta tutte e due le facce della
medaglia, appartiene ad entrambe, ma, dopo essere sceso nell’abisso (Swimming Pools), risale la china e concretizza
il suo processo di maturazione.
Il risveglio di Sing About Me, I’m Dying Of Thirst è idillico e romantico: la scintilla decisiva che lo eleva a miglior disco
hip hop dell’anno. Gli altri features, con il compagno Jay Rock e MC Ehit non rubano mai la scena, nella quale Lamar è il deciso protagonista. Gli equilibri si mantengono anche quando ad assistere è Dr.Dre, che nella conclusiva
Compton passa simbolicamente il testimone a Kendrick, il quale si lascia andare ad un victory-lap celebrativo. E
Meritato.
(7.7/10)
Luca Falzetti
ad affascinarci dandoci la conferma che questi quattro di
Liverpool, a quindici anni dal debutto e al settimo album,
sono sempre al top del loro gioco. Miglior traccia? Seesaw.
(6.7/10)
Antonio PancamoPuglia
Confusional Quartet - Confusional
Quartet (Hell Yeah, Ottobre 2012)
Genere: free-strumentale
Riprende con la stessa andatura, il secondo self-titled dei
Confusional Quartet. È il mondo che è cambiato, nei
trent’anni che sono intercorsi tra i primi passi fine Settanta e il duemiladodici. Provate a sentire oggi Futurfunk,
collaborazione con Sir Bob Cornelius Rifo (a.k.a. The Blo-
ody Beetroots). A parte notare l’uso strumentale della
voce (forse per la prima volta si sente una corda vocale nelle scorribande dei Consufional?), probabilmente
vi risuoneranno i Battles. O, anche, ciò da cui i Battles
provengono, Don Caballero, math di Chicago, eccetera.
È una bella sfida uscire dai propri ascolti e seguire i Confusional Quartet laddove ci vorrebbero portare, perché
è il luogo “neutro” dove i quattro ogni volta si ritrovano,
al di là dagli individuali gusti, provenienze, idiosincrasie.
Certo non è facile resistere alle meccaniche e ai riflessi
di chi ha in testa ascolti che hanno attraversato gli anni
Novanta, specie la seconda metà. E che quindi ha sviluppato una personale storia delle idee musicali affrontando, giustappunto scandagliando quegli anni, coloro
che - Tortoise su tutti - presero a piene mani la respon41
sabilità di gestire la complessità nella musica “leggera”.
Di fatto è questo il nodo: non tanto di jazz-rock si parla
ma di non fermarsi alle strutture facili, come in Cani alla
menta: una narrazione strumentale incentrata sul tema
di chitarra e tastiera che cantano all’unisono, mentre la
sezione ritmica cerca la strada pachidermica.
Di nuovo, però, One Nanosecond In Tunisia ricorda i Primus - altro riflesso quasi incondizionato dell’orecchio
dell’ascoltatore, e dei neuroni dedicati alla memoria musicale. E capiamo che la storia della complessità non si
è mai interrotta, e anche in virtù di questo flusso senza
soluzioni di continuità i Confusional Quartet tornano
a essere familiari. Specialmente in studio, dopo il passaggio instant-record di Italia Calibro X, dove i quattro
fotografavano quel giorno i cui, dopo tanto tempo, si
ritrovarono insieme, in sala prove, e a tutti venne naturale non parlare con le parole ma con gli strumenti,
ritrovarsi suonando.
(6.8/10)
Gaspare Caliri
Crystal Castles - III (Universal, Novembre
2012)
Genere: Elettro
Qualche settimana fa tra i commenti di un post riguardante il tipico crowdsurfing della cantante dei Crystal
Castles su Hipster Runoff - uno dei più irriverenti blog
di satira sul mondo musicale alternativo - un utente se
ne usciva con questa affermazione: “Alice - screams =
Grimes”. E se a quel tempo c’erano soltanto un paio
d’anteprime di questo terzo lavoro, nonostante l’intento
canzonatorio e la diversità palese tra l’omonimo esordio
dei Castels e Visions, quelle parole hanno finito per rivelarsi, se non profetiche, perlomeno verosimili.
Per (III) il duo canadese lascia da parte la portante 8-bit
e le sonorità da rave per innesti atmosferici accarezzati
certamente nel passato (il riferimento è a Celestica dal
sophomore) ma mai inforcati come in questa prova.
L’algida Varsavia, teatro delle frettolose session, ha probabilmente influito nell’immergerli nel territorio di una
darkwave dai suoni grezzi e privi delle postproduzioni
corpose tipiche di altri connazionali come Trust; merito delle tastiere antiche, dei synth d’epoca e dei supporti analogici mai utilizzati prima d’ora dal duo. Una
rivoluzione che colpisce soprattutto Alice Glass e la sua
voce che rinuncia all’anima punk (strascichi in Plague,
singolo uscito in anteprima, e nel ritornello di Insulin)
per ritrovarsi quasi totalmente filtrata fino a risultare
irriconoscibile (il carillon finale Child, I Will Hurt You).
Grossi i rimandi alla succitata Grimes, soprattutto in
riferimento al gotico Halfaxa, pieno di contaminazioni
42
witch house che sono il vero fulcro del disco (Wrath Of
God e Mercenary ammiccano ai suoni trance e cavernosi dei Salem,Violent Youth - Telepath è il connubio tra
il marchio di fabbrica tradizionale techno-chiptune di
Kath con le dissonanze più marce del genere, il messicano Ritualz in testa).
III propone un mix ben dosato tra l’hipsteria elettronica
in voga un paio d’anni fa, il presente targato Canada e
l’universo Crystal Castles. Apprezzabile il tentativo di
smarcarsi dalle gabbie soniche del passato, ma l’incastro
risulta più di forma che di sostanza. A voler esser buoni:
album di stransizione.
(6.7/10)
Andrea Forti
Cult Of Youth - Love Will Prevail (Sacred
Bones, Ottobre 2012)
Genere: neo folk
Nasce dalla passione d.i.y. questo terzo lavoro dei Cult
Of Youth. Sean Ragon, deus ex machina del progetto,
ha deciso, per l’occasione, di costruire uno studio di registrazione nel suo negozio di dischi a New York e rinchiudersi in quelle quattro mura assieme al batterista
Glenn Maryansky e la violinista Christiana Key. Il parto
è Love Will Prevail, disco che allarga ulteriormente i
confini musicali dei C.O.Y.
Il raggio d’azione rimane folk, anzi neo-folk a giudicare
da titoli programmatici come New Old Ways, ma dopo la
decadenza pagana dell’esordio e il western cavallerizzo
dell’omonimo Cult Of Youth, qui emerge - e ti pareva
- una componente psych pop che si fa strada con tutta
una serie di riverberini pronti ad appiccicare l’incipit di
Man And Man’s Ruin con Prince Of Peace e la già citata
New Old Ways. Il compito è svolto con bravura perché,
questa è la notizia, il talento dei Cult Of Youth è in ascesa
e la maturazione percepibile chiaramente lungo tutte le
dieci tracce del disco. E’ altresì vero che le cose migliori
rimangono inchiodate ai momenti più Curtisiani, quando il connubio tra lirismo baritonale e esistenzialismo
spicciolo assume toni noir (Garden Of Delight), o quando
si torna agli accenti western di Path Of Total Freedom più
l’eccezione wave post-punk di The Gateway.
In definitiva, il meglio continua ad essere legato a quanto già fatto e sentito. E bravo comunque Ragon, uno da
tenere d’occhio anche in futuro, basta non si allontani
troppo dal quel sostrato nero con cui è cresciuto - tra
punk e industrial - perché lì ha il cuore e lì deve restare.
(7/10)
Stefano Gaz
Lindstrøm - Smalhans (Smalltown, Novembre 2012)
Genere: Space disco
Quando, a una manciata di mesi da Six Cup Of Rebel, Lindstrøm aveva annunciato l’uscita di un nuovo album (il
quarto in solitaria per lui) saranno stati in molti a storcere il naso. Dopo una carriera fatta di filosofia space, sempre
a disegnare teorie strettamente personali, sempre restando volutamente fuori fase rispetto al suo stesso ambito
d’azione, tornare al lungo formato subito dopo il suo album più sperimentale e astratto sapeva abbastanza di esagerazione. Soprattutto per chi del produttore norvegese
aveva sempre apprezzato il profilo intellettuale ma ne aveva lamentato spesso il tocco
leggero e fin troppo candido, per chi rispettava il carattere di un Where You Go I Go
Too ma in fondo preferiva i momenti più vivaci dei dischi con Prins Thomas.
La cosa più bella però è schiacciare play e vedersi svanire in un sol colpo tutte le perplessità. Rà-àkõ-st è subito un gioiellino di energia e armonia, di quelli che prima ti
riassumono in maniera egregia tutta la forza della space disco (groove raffinatissimi,
sensazioni legate ad altri tempi, quei crescendo progressivi portati al limite ma mai esasperati) e poi te ne presenta il conto nella sua forma di maggiore impatto. Allora capisci quanto è stato importante
stavolta il ruolo al mixaggio di Todd Terje, il ragazzo più promettente della scena norvegese e anche quello dal
carattere più vivace, e infatti non a caso Smalhans è il più dritto dei dischi di Lindstrøm, quello più assimilabile ai
sentori house. Eppure è anche quello che sa toccare più corde, che ti riporta alla memoria il background musicale
dei telefilm anni ‘80 e il senso melodico della tua formazione adolescenziale: la materia space sa sempre darti una
forte sensazione di familiarità, non c’è da stupirsi troppo se dentro ci senti realtà lontanissime come i Goblin più
prog o gli Stadio di Lunedi Cinema.
Sono solo sei tracce per poco più di mezz’ora, ma son sei pezzi perfetti. Lindstrøm li ha registrati in studio dopo Six
Cup Of Rebel, lavorando senza ansia e senza fretta, forte dell’album recentemente pubblicato. Ha giocato sui loop
con l’entusiasmo di un bambino, scendendo nei dettagli e affinando ogni sfumatura singolarmente. Un processo
che paga perché lo senti tutto in ogni traccia, in una Eg-ged-osis dai bassi intriganti che si lascia elevare dal tipico
senso della melodia norvegese, nel daftpunkismo riacceso di grinta funk di Vos-sako-rv, nella potenza visiva di Faari-kaal che rispolvera l’attitudine da soundtracking e riaggancia la cosmica di Vangelis e Jarre, negli agenti lievitanti
di Va-fle-r, un gioco di inserti eleganti che arricchisce l’esperienza d’ascolto e nello stesso tempo ti spara in orbita.
La verità è che Smalhans è il generoso dono che Lindstrøm fa al proprio pubblico. Il suo disco popular, se vogliamo. È il sacrificio della propria vena intellettuale per offrire ai fan quel che volevano da sempre, ossia la sua opera
più divertente, coinvolta e carica di armonia. Il maestro indiscusso della space music scende finalmente dal piedistallo, mette da parte le lenti da nerd e inforca un paio di Ray-Ban neri, sdoganando i propri piaceri emozionali e
spostando la consolle in mezzo alla gente. Questo è l’album che metterà tutti d’accordo e piacerà a ogni categoria
d’ascoltatore. Dura poco, è vero, ma l’invito a rimetterlo in play non è mai stato così forte.
(7.5/10)
Carlo Affatigato, Mirko Carera
Darren Hayman - Darren Hayman & The
Long Parliament - Violence (Fortuna Pop!,
Ottobre 2012)
Genere: songwriting
Il songwriter inglese Darren Hayman, ex-Hefner e con
una carriera ormai lunga più di un decennio, arriva con
Violence alla terza e conclusiva parte di una trilogia,
iniziata nel 2009 con Pram Town e proseguita un anno
dopo con Essex Arms. Tra side-projects e band varie in
cui è da sempre coinvolto, il Nostro non ha perso di vista l’obiettivo primario dichiarato di portare a termine
quest’opera per lui importante, una sorta di epica alla
Illinois di Sufjan Stevens, che tratta del nativo Essex e
della sua storia, in particolare qui il diciassettesimo secolo e la caccia alle streghe durante la Guerra Civile Inglese.
Trecento donne circa furono giustiziate in Essex, Suffolk
e Norfolk in quel periodo funesto, e Violence tratta di
paura, isolamento, senso di persecuzione.
Musicalmente ritroviamo i temi cari all’autore, un songwriting delicato e ironico di formazione in larga parte
americana, Byrds, Robyn Hitchcock, ma anche Elvis
Costello dal lato UK, qui trattato quasi prettamente in
43
acustico e in essenzialità, e reso uniforme stilisticamente
dal concept tematico. Atmosfere sospese, drammatiche,
oniriche e scheletriche, e un senso dolente di umana
empatia pervade il disco.
Hayman compie il piccolo miracolo di comporre un’opera delicata e intensa, incisiva e significativa, da accorto
autore di melodie e canzoni qual è mirabilmente. Da
tenere con sé per i momenti più introspettivi.
(7.1/10)
Teresa Greco
De Curtis - Belli Con Gusto (Tannen ,
Settembre 2012)
Genere: rock
Baciami Alfredo ce li aveva fatti conoscere per la capacità
di muoversi con nonchalance su un terreno borderline
in cui il rock classico si incontrava con atmosfere jazzate,
interessanti aperture al mondo della soundtrack immaginaria, contaminazioni post-rock. Ora Belli Con Gusto ce
li restituisce ancora più maturi nel proporre una forma
sonora ampia e varia come input di base ma sempre
resa in maniera personale e coinvolgente.
Nove tracce strumentali, se si eccettua la conclusiva
Plastic Islands impreziosita dal cantato di quel piccolo
scrigno di pura bellezza che è Mae Starr (Rollerball) fatela ascoltare a Wyatt, di sicuro apprezzerà - che non
stancano mai e che sopperiscono con energia e sfumature alla mancanza di cantato. L’apertura ad altri input
è addirittura più stimolante che nel pur ottimo esordio.
Funk e soul, soprattutto, ma anche qualche eco fusion,
classic-rock, dub e prog, sembrano essersi innestati in
profondità nel dna del quintetto, capace di mettere in
primo piano il sax di Luca Bronzato come fosse la voce
narrante e costruendoci intorno architetture ricercate e
perfettamente in equilibrio. Con una sezione ritmica solidissima e varia (Riccardo Orlandi alla batteria e Davide
Bronzato al basso), una chitarra alla quale poco si può
dire (quel Bruno Vanessi già nei Rosolina Mar) e la tastiera
di Andrea Gastaldello che tutto è fuorché un riempitivo
(vedi alla voce Mingle), a dimostrare come la coesione e
il gioco di squadra sia fondamentale in una esecuzione
corale che ha un suo ben definito obbiettivo.
Gente che sa prendersi in giro seriamente (Vota Antonio, Il Principe Parlante), che sa giocare con gusto tra
calembour e citazionismo mai banale (Gugol Bordello,
Senza Ombra Di Dub Io), che prende l’immaginario colto
e quello popular fondendoli insieme (Novantesimo Minuto, Il Mio Natale Secco) e che ci fa tornare in mente che
la musica è passione e divertimento. Roba da fare con
serietà ma senza essere seriosi e/o barbosi, dimostrando
di saperci fare senza essere prolissi o altezzosi. Appassio44
nati e appassionanti, i De Curtis non chiedono nulla ma
danno moltissimo con umiltà e consapevolezza. Cosa
che di questi tempi grami è sempre più dote apprezzata. (7.2/10)
Stefano Pifferi
Deacon Blue - The Hipsters (Edsel, Ottobre
2012)
Genere: adult contemporary
Tutto si può dire, dei Deacon Blue, tranne che manchi
loro l’ironia. Perché hipster, loro, non lo sono mai stati
nemmeno all’inizio della loro carriera, quando con Raintown contribuirono a ridisegnare le coordinate del pop
britannico dopo la sbornia del new romantic e degli inni
da stadio, intingendo il pennino in chine ora soul, ora in
debito con il songwriting di Bob Dylan e dei Waterboys
(anche se presero in prestito il nome dagli Steely Dan)
sempre con la giusta dose di personalità. Ricky Ross ha
costruito con cura certosina aquiloni di storie e di note,
pronti per librarsi nell’aria, forti di una leggerezza spesso
solo apparente: la poesia è nelle storie di tutti i giorni,
nei piccoli gesti dell’uomo qualunque che percorre le
vie di Glasgow con le sue preoccupazioni sperando che
prima o poi, tra i nembi, il fumo delle ciminiere e la pioggia scrosciante, arrivi quel tanto sospirato raggio di sole.
A undici anni da Homesick - anche se intanto è arrivata
la raccolta Singles con tre pregevoli inediti e Ross ha
condotto una trasmissione di successo per BBC Radio
Scotland - è emozionante ascoltare le nuove canzoni di
The Hipsters. Gli ingredienti più distinguibili della ricetta
sono ancora qui, intatti - d’altronde, perché stravolgerla
quando gli Admiral Fallow e Fran Healy dei Travis hanno
fatto tesoro della loro lezione con tanto successo?
Eppure questo comeback non è un’operazione nostalgia: sarebbe stato troppo facile, e i Deacon Blue sanno
che non c’è bisogno di riscrivere Dignity, o quella Real
Gone Kid immancabile nella playlist del calciatore inglese Wayne Rooney durante gli allenamenti prima delle
partite della nazionale, e si rimettono in gioco con un
lavoro adult ma fresco, ben prodotto da Paul Savage
(all’opera con King Creosote e gli Arab Strap) e, soprattutto, con canzoni all’altezza della loro storia. A partire
dalla title track e dalla successiva Stars - ovvero, “come
fare barba e capelli a Coldplay e Snow Patrol in meno
di dieci minuti”.
Here I Am In London Town ci riporta a casa: fu proprio
Londra, con i suoi AIR Studios, a far partire la loro avventura. Eg White, sopraffino artefice di una serie impressionante di hit (per Adele, James Morrison, Natalie
Imbruglia, Will Young, Duffy, Joss Stone..), lascia il segno
con la splendida Turn. Gregor Philp, che sostituisce il
Marco Iacampo - Valetudo (Urtovox, Novembre 2012)
Genere: folk cantautorato
Due anni fa la ripartenza in italiano col disco omonimo che ci presentava Marco Iacampo autore di un folk rock tra il solare e l’indolenzito, abiura piuttosto netta rispetto ai
modelli angloamericani (da Lennon a Mark Linkous, per farla breve) che avevano informato la breve ma brillante carriera solista a nome Goodmorningboy. Personalmente
trovai che fosse una scelta dignitosa ma un po’ penalizzante, nel senso che malgrado la
bontà dei pezzi faticava a ritagliarsi uno spazio proprio, peculiare. Il rischio dell’anonimato aureo stava lì ad un passo. Con Valetudo però il discorso cambia e radicalmente.
L’ex Elle sembra aver chiuso il cerchio dell’introspezione portando a galla un bottino
prezioso, ovvero un’espressività tanto essenziale quanto efficace, lieve ma intensa, radicata nell’idioma universale del folk con licenza di farsi contagiare da languori bossa, struggimenti british e ugge
da chansonnier. Griffato Urtovox e Prisoner Records (etichetta di Michele Bitossi dei Numero 6), prodotto dallo
stesso Iacampo e da lui prevalentemente suonato con l’aiuto discreto di un pugno di strumentisti (tra i quali Nicola
Mestriner, già tastiere e voce degli Elle), Valetudo mette in fila undici tracce più elusive che allusive rispetto a modelli
tanto impalpabili da suonare omeopatici, tipo il Caetano Veloso via Sergio Endrigo di Soltanto io, solamente noi, il
Lauzi pacioso di Amore addormentato o il Max Gazzé liofilizzato di Trecento. Altrove sciorina agilità agrodolce come
certe morbidezze giovanili Dylan o il garbo del Nick Drake più empatico (Tanti no e un solo sì), altrove spedisce
languori Tenco tra caligini british (Gli inverni non mi cambieranno più) e i Perturbazione in mezzo a sonnacchiose
inquietudini bossa (Amore in ogni dove).
Tutto un gioco di tensioni mitigate che proprio sfuggendo la norma del chiasso riescono a suonare forte, se preferite una reminiscenza del NAM tolta però la gratuità estetica a vantaggio di un forte senso di necessità, vedi il caso
dell’amara Non è la California. Uno di quei dischi insomma che navigano ben al di sotto la soglia del clamore ma
promettono di ritagliarsi un posto importante nel folto dei tanti, troppi ascolti.
(7.3/10)
Stefano Solventi
chitarrista Graeme Kelling morto di cancro nel 2004,
è ben inserito nel team e co-firma The Outsiders, altro
episodio da antologia. La combinazione tra la voce di
Ricky e quella della moglie Lorraine è ancora tra le più
riuscite dopo quella fra la panna e il cioccolato: funziona
sempre, ma in particolare nell’esercizio springsteeniano
That’s What We Can Do (toccante dialogo tra padre e
figlia), in Laura From Memory e nella tenera malinconia
di Is There No Way Back To You?.
La macchina è ripartita, e se è vero che ci sono due episodi sui generis e un altro che funziona meglio sulla
carta (She’ll Understand) si può ammettere che sì, c’era
proprio bisogno di un bel ritorno così, e che siamo contenti di rivedere questi vecchi amici cui forse non abbiamo mai detto, ai tempi, quanto ci facesse star bene la
loro compagnia. In attesa di sfogliare l’album dei ricordi
(sono in arrivo succulente ristampe di tutto il back catalogue) facciamolo pure senza indugi, questo tuffo nel
presente.
(6.9/10)
Alessandro Liccardo
Death Grips - NO LOVE DEEP WEB (Epic
records, Ottobre 2012)
Genere: RapPunk
La sorpresa dell’uscita di The Money Store era che nessuno ci avesse pensato prima a fare musica come i Death Grips. La sorpresa di NO LOVE DEEP WEB è che non
ci sia ancora nessuno che provi a fare musica come loro.
Cercando su google “bands like death grips” si trovano
solo risposte al limite del comico che vanno dai Have A
Nice Life a John Talabot passando per Gaslamp Killer.
E’ il segno di un isolamento che ha dell’incredibile se
si considera come il loro sound sia allo stesso tempo
fresco ed accessibile. Il loro grime, infuso di footwork,
unito ad un’estetica hardcore e punk è il semplice assemblaggio di pezzi a portata di mano di chiunque butti
uno sguardo al panorama odierno. Se vi è un sound capace di ricapitolare quello che ci piace ascoltare oggi è
questo e pe questo la sua fruizione non offre particolari
difficoltà se non per semplici ragioni di volume.
Eppure ancora una volta, per la band di Sacramento,
tutti i riferimenti più prossimi si ritorvano nel passato: i
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vari Atari Teenage Riot, Rage Against the Machine e
Public Enemy. Quello dei Death Grips appare come un
vero e proprio solipsismo, che arriva a rasentare la farsa
durante la loro parabola di band underground che firma
con la major per poi alla fine rompere per divergenze
creative. Una scenetta, che al di là della sincerità o meno
della band, sembra presa pari pari da un ritaglio di una
zine underground nei nineties. E’ una storia di altri tempi
che racconta una ribellione contro un business model
di altri tempi. Un gesto che ha messo in mostra quanto
le case discografiche, che siano major o indipendenti,
siano oggi inutili per quanto riguarda la distribuzione
capillare della musica. Come se non lo sapessimo già.
Infatti l’album è riuscito ad arrivare benissimo nelle case
di tutti senza che nessuno si sarebbe mai potuto aspettare il contrario. Le chance sono che la maggior parte
di coloro che stanno leggendo questa recensione NO
LOVE DEEP WEB se lo siano già ascoltato e la situazione
sicuramente non cambia per ogni altro disco recensito,
leak o meno, major o meno.
Se proprio volessimo trovare le ragioni di questo isolamento, non bisognerebbe cercarle nella musica, ma
solamente nel fatto che non se siano mai andati, nel loro
non essere mai stati assenti. Dopo aver caricato su youtube The Money Store hanno subito organizzato una
bizzarra caccia al tesoro, con una serie di indizi lasicati su
/mu/, per poi rilasciare, appena l’attesa iniziava scemare,
il leak del nuovo album su creative commons facendo
così ancora una volta ripartire l’intera macchina della
stampa musicale. Incollati al microfo come un dilettante
che insiste di farci ascoltare ancora una canzone, i Death
Grips in questi mesi non sono mai mancati a nessuno.
Per questo nessuno ha mai desiderato imitarli. Pure tra i
due album c’è una continuità senza interruzioni, dovuta
alla fretta di buttare fuori nuovo altro materiale, tanto
che alla fine si è incapaci di distinguerli.
(6.6/10)
Antonio Cuccu
Diamond Rings - Free Dimensional
(Astralwerks, Ottobre 2012)
Genere: synth-electropop
Solo due anni fa, ai tempi dell’album di debutto Special
Affections, Diamond Rings (John O’Regan all’anagrafe) era il classico nome nuovo rivestito di dosi enormi
di hype. Il buzz attorno a Special Affections durò trequattro mesi, sorretto sia dalla bontà del disco sia dal
look, abilmente progettato per attirare l’attenzione, del
soggetto. Il secondo album Free Dimensional, nuovamente pubblicato sia per la Secret City Records, sia
per la Astralwerks Records (che ristampò il debutto nel
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2011), esce timidamente e senza troppe luci addosso.
Un minuto d’introduzione, poi John O’Regan - immortalato in copertina a metà strada tra un androide-androgino retrofuturista e Klaus Nomi - inizia a colororare
l’iniziale Everything Speaks, riusto incrocio tra Depeche
Mode e David Bowie. In realtà in Free Dimensional
sono i ritmi uptempo di brani electropop che strizzano
l’occhio ai dancefloor a farla da padrone. E’ il caso del
singolo I’m Just Me, della leggerissima ed immediata All
The Time e degli abusati synth eighties di (I Know) What
I’m Made Of.
L’obiettivo è la forma canzone: il canadese infatti non
nasconde la continua ricerca della melodia orecchiabile
(si prenda la telefonatissima ma irresistibile Stand My
Ground), anche a costo di perdere in dinamicità (Put Me
On). Fuori dal coro - e piuttosto imprevedibili - il contesto indie rock guitar-diven di Runaway Love e il tentativo - assolutamente dimenticabile - di contaminarsi con
sonorità rap&b della conclusiva Day & Age.
Free Dimensional non è altro che una collezione di
dieci wannabe-hit di derivazione anni ‘80, in grado di
regalare qualche minuto di sano intrattenimento e poco
più. Se Twin Shadow con il sophomore ha dimostrato
di saper andare oltre alla figura appariscente del personaggio, non si può ancora dire lo stesso di Diamond
Rings. Staremo a vedere.
(6.2/10)
Riccardo Zagaglia
Donald Fagen - Sunken Condos (Reprise,
Ottobre 2012)
Genere: jazz/pop
Quel Donald Fagen lì. L’ossessionato. Anima - non ce
ne voglia Walter Becker - della perversa creatura Steely
Dan, il dildo di acciaio di William Burroughs che sforna bibbie di stile e classe pop, un pop nasale e bianco
che succhia tutto quel che può dalla tradizione nera,
creando paradigmi di un nuovo modo di intendere la
fusion, vette inarrivabili come Aja, ovvero tutto il velluto
di un’arte artigianale lungamente affinata nella gavetta
newyorkese galvanizzata dal turnismo californiano, tutto questo nell’anno dei Sex Pistols.
Proprio le storie - e le leggende - sulle session snervanti
del capolavoro Aja illuminano la natura del rapporto
ad un tempo carnale e cerebrale, perché il cervello è
pur sempre un pezzo di carne, di Donald con la musica.
Una musica alla fine anche da tappezzeria, ma che prima è passata da un cesello millimetrico e sotto il bisturi
di un’ispirazione melodica e armonica che è sofisticata
anche quando apparentemente scontata.
In Sunken Condos, quarto disco solista in 30 anni tondi,
troviamo come sempre tutti gli elementi dello steelydanismo fageniano: il tongue in cheeck humor allusivo e il
minimalismo descrittivo dei testi; l’anima funky; i coretti
femminili a modellare; la purezza timbrica quasi irritante
della registrazione (quando ascoltare diventa una cosa
da acquolina in bocca); le radici in ultima analisi rag e
boogie del suo pianismo; “quelle” progressioni, “quei”
saliscendi. E “quella” voce, asciutta e spigolosa, proprio
come gli zigomi e la schiena di Donald.
Classe a tonnellate anche qui, non si discute, e la cover
di Out of the Ghetto di Isaac Hayes funziona perfettamente, ma - giusto per dire - Miss Marlene prende “quella” direzione, quell’incedere, quella cadenza eccetera
davvero troppo fageniane, a un passo dall’autoplagio.
Nello specifico, ti aspetti che da un momento all’altro
si trasformi in I.G.Y., confetto pop dal capolavoro solista
The Nighfly del 1982.
Quindi? Inevitabilmente, un Fagen che rifà se stesso in
chiave minore, la formula magica ormai usurata, ancora
più che in Morph the Cat (2006), il grip di una volta ormai
diluito. Ascoltare Donald è ancora e sempre un piacere,
anche qui; ma poi, dopo, resta davvero poco.
Il disco esce il 16 ottobre e dal 10 è disponibile in streaming sul canale MSN Music Premiere.
(5/10)
Gabriele Marino
Down - Down IV: The Purple EP (Elektra,
Settembre 2012)
Genere: metal
Tra Far Beyond Driven (1994) e The Great Southern Trendlill (1996), tra un’overdose e una pancreatite, prima ancora della tragica scomparsa di un Dimebag Darrel ucciso a colpi di pistola durante l’esibizione di Columbus dei
suoi Damageplan, Phil Anselmo trovò la forza di incidere
uno dei dischi più importanti e significativi della propria
carriera. Quello che diede vita al progetto Down.
Nola, pubblicato dalla Elektra nel 1995, era l’anello di
congiunzione tra ciò che i Pantera erano stati e ciò che
sarebbero diventati prima del loro scioglimento: una
metal band influenzata tanto dall’hardcore quanto dal
groove hard rock degli Mc5 e dei Led Zeppelin. Nola
non fu solo un momento di transizione: in quel disco
c’era la matrice di un suono nuovo, lavico, forgiato e
fondato sull’approccio sudicio del southern rock, ingigantito da flussi incontrollabili di alcool e droghe. L’importanza capitale della nascita dei Down si racchiude
tutta in ciò che accadde anni dopo, quando il loro suono
southernsludge divenne ispirazione per la più importante corrente indie metal del nuovo secolo: il southern
core. Dai Sourvein ai Cough, da Erik Larrson ai Might
Could, tutti hanno riconosciuto storicamente l’importanza di Nola quale nuovo dettato musicale. Un lavoro
che spogliava il metal core dei suoi contenuti più algidi,
per conferirgli un carattere più magmatico e paludoso.
Qualcosa in cui poter sprofondare.
E così, una band nata come supergruppo figlio della fusione di Pantera, Crowbard, Corrosion of Conformity
e Eyehategod, è a sua volta divenuta una band itinerante, un carrozzone carnevalesco del Mississipi, in cui musicisti strettamente legati alla tradizione di New Orleans
si sono avvicendati, sostituendosi gli uni agli altri per
motivi di salute: questa volta, è Rex Brown ad abdicare
per combattere i suoi problemi di salute causati dall’alcool, lasciando spazio a Pat Bruders, già con Crowbar,
Eyehategod e leader dei death metallers Goatwhore.
Cambio line up e un lieve spostamento nell’asse sonoro
del gruppo, con un Down IV - The Purple Ep strutturato
in trentasei minuti di mini album che non anticipano un
nuovo disco ma sono la celebrazione del lato oscuro del
metal. Lo stesso Anselmo introducendo il nuovo lavoro
sottolinea quanto questo disco sia una dichiarazione
d’amore per l’old metal.
Le iniziali Levitation e Open Coffins cercano e trovano il
contatto con i Black Sabbath di Volume 4, con i Trouble degli esordi e con i Saint Vitus: l’impressionante
cono d’ombra dei Down oggi è oscurato ancor di più
dalla radice doom metal, che lentamente sta offuscando la luce del groove sudista. Bassi slabbrati, polverosi,
spessi; chitarre sgraziate e grezze, meno siderurgiche e
più grevi; la voce di Phil oggi più pastosa e matura che
mai. The Purple Ep è un passo indietro nel tempo? No,
anche se dobbiamo ammettere che i Down sono stati
più illuminati in passato e qui sono soprattutto l’energia
e la voglia metal ad emergere prepotentemente.
Down IV è un disco che apre al dibattito sul “trasformismo della Pantera”, oggi ampiamente rintanata nella
grotta dell’heavy metal occulto. Un po’ come accadde
proprio alla band madre, i Pantera. Anselmo è pronto con il primo lavoro solista, già definito “..la cosa più
heavy che abbia mai realizzato..” e oggi ha scelto per i
Down la via dell’oscurantismo doom. Una scelta che
sicuramente non tutti apprezzeranno, pur al cospetto
di parentesi che non si possono non definire riuscite
come un The Curse Is a Lie celebrazione funerea di un
brano marcatamente Saint Vitus. Del resto parliamo di
una band che non ha mai sbagliato un colpo.
(7/10)
Mario Ruggeri
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Mimes Of Wine - Memories For The Unseen (Urtovox, Novembre 2012)
Genere: alternative rock
“Mimes Of Wine è Laura Loriga”. Così scriveva Stefano Solventi all’altezza dell’Ep d’esordio su Mindfinger. Dopo un
biennio, vissuto come sempre tra l’assolata East Cost californiana e l’uggioso capoluogo emiliano, il nuovo atteso
disco, Memories For The Unseen, dice una cosa fondamentale: la ragazza che dall’androne osservava le cose del
mondo, armata solo di piano e voce, è cresciuta ed è cresciuta la formazione che la
segue. Mimes Of Wine è Laura Loriga, ma non solo. Il fascino di Apocalypse Sets In
stava tutto nell’intimità di una visione condivisa. Un’amica che ti sussurra le proprie
paure e i propri sogni a mezza voce sul tappeto melanconico del piano. Da qui piccoli
classici nascosti come Fishes, Bolivar e K che la spingevano sulle coordinate delle grandi
intellettuali del rock.
Stavolta la scenografia dei brani è diversa perché meno espressione introversa-solitaria
e più organica, di insieme. Registrato a “La Casa nel vento” da Enzo Cimino con la formazione che è andata in tour (Luca Guglielmino, Stefano Michelotti, Matteo Zucconi,
Riccardo Frisari), Memories For The Unseen è un lavoro che è evidente espressione della band e dei giorni passati
a suonare insieme. Ha il taglio tipico del secondo disco. Da qui, quello che perde in intimità lo acquista in energia
e coesione, restituendo un album più rock, complice anche la post-produzione fatta a Los Angeles da uno che la
sa lunga come Adam Moseley. Ciò detto, la mano di Laura è così sicura da fotografare già al secondo disco diverse
soluzioni come del tutto autografe e personali.
Tolta la tenebrosa intro di Under The Lid, che fa un po’ da ponte con il disco precedente, Alter Of Rain è pura meraviglia romantica, diafana e passionale nello stile della Mojo Pin di Jeff Buckley e il piano altero e nostalgico di Yellow
Flowers che tasta astutamente il terreno per una marcetta jazzata mid tempo alla Howe Gelb. La scrittura si fa più
classica, ma non meno avventurosa, ed effettivamente molti momenti come Charade, Silver Steps e L’incantatore
fanno il paio con molte cose della migliore Tori Amos degli esordi. Auxilio, venata dal fatalismo noir della tromba,
mima la struggente fine dei Morphine di The Night, mentre Teethmaker si allinea alle filastrocche alcoliche della
tarda Lisa Germano con il finale di Aube, che gira in un valzer romantico e sembra quasi una citazione dell’autrice
di Lullaby For The Liquid Pig. Il piano quindi è sempre l’architrave dei brani, ma la chitarra quando appare non
è un elemento disorganico. Anzi. L’ultima Hundred Birda, con la sua fragranza grunge lisergica stile Jayne Says fa
quasi rimpiangere che non ci sia più sei corde nel disco. I Mimes Of Wine si confrontano con i classici e stanno li.
Reggono il confronto. Hanno il vocabolario giusto per dire la loro in questi anni così avari di discorsi significativi.
(7.5/10)
Antonello Comunale
Ellie Goulding - Halcyon (Polydor,
Ottobre 2012)
Genere: ch(art)-pop
Il concetto post-Kate Bush di “art pop” negli ultimi anni
ha fatto prima da contraltare al mainstream pop più becero, poi - successivamente all’esplosione mediatica di
Florence & the Machine - ha subito mutazioni creando
incroci a metà strada tra i due mondi, quello art-oriented
e quello (ch)art-oriented. La venticinquenne inglese Ellie Goulding fino ad oggi si posizionava esattamente a
metà strada, su quella stretta linea di confine che generalmente nell’immaginario degli appassionati divide il
“buono” dal “cattivo”.
Vincitrice nel 2010 del BBC Sound e del Critics’ Choice
Award ai Brit Awards, Ellie Goulding è stata catapultata
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al successo fin da subito raggiungendo le prime posizioni sia nelle classifiche inglesi (con Starry Eyed e la cover di
Your Song prodotta da Ben Lovett dei Mumford & Sons)
sia nelle classifiche americane (Lights), trascinando l’album di debutto oltre quota 1,5 milioni di copie vendute.
Attesa alla prova del nove Ellie si presenta con Halcyon
e mette subito le cose in chiaro: per mantenere alta la
credibilità coverizza un brano di culto come Hanging On
di Active Child ma poi scivola su se stessa infilando nel
singolo il feat con l’eterno incompiuto pop-grimer Tinie
Tempah, con tanto di simil-drop che non guasta mai (la
relazione con Skrillex è, forse, solo un dettaglio).
Scritto principalmente insieme a Jim Eliot, Halcyon vive
di intuizioni (e di un apprezzabile talento canoro) spesso
smorzate da cadute di stile. Maggiore che in passato la
presenza di piano-ballads che sanno tanto di tentativo
di Adeleizzazione (I Know You Care, My Blood), loop vocali (l’intro di Anything Could Happen, Only You), vie di
mezzo electro/pop che stentano a decollare (Halcyon)
e pomp-floor alla Nero (Figure 8). Neanche quando si
ricorda di poter giocare sul raffinato (JOY, Explosions e
church-choir annessi) riesce ad impressionare positivamente. Rispetto a Lights troviamo una Ellie Goulding
meno sfacciata, perennemente indecisa e con in mano
tredici canzoni troppo rassicuranti per i fan di Zola Jesus o Bat For Lashes e con melodie troppo deboli per
ambire al target del sabato sera.
Non siamo di fronte ad un tonfo pesante quanto quello
di Marina & The Diamonds, ma dal prossimo disco Ellie
dovrà decidere da che parte stare. (5.6/10)
dispiacerebbe nemmeno ai fan di The Field.
Insomma, il disco di De Raymondi è tutto quello che
vorremmo uscisse ogni giorno: un artista giovane con
una lunga carriera ancora da costruire (ma con una solida base teorica, ha infatti studiato al Berklee College of
Music di Boston e al Musicians Institute di Los Angeles),
una decisa connessione alla tradizione e tante idee che
almeno qui non sembrano essere state influenzate da
cattivi maestri o da eredità scolastiche ingombranti.
(7.6/10)
Riccardo Zagaglia
Ormai sembrano lanciati sulla via della iperproduttività
i cinque da Portland. Non paghi di averci sollazzato lo
scorso anno con Beyond The 4th Door e Night Gallery, il
lavoro in collaborazione con Sun Araw, per non parlare delle tapes in edizione limitata, raddoppiano pure
quest’anno. Dapprima Dawn In 2 Dimensions, di qualche
mese addietro. Lavoro in cui gli Eternal Tapestry danno
sfogo al lato più free e sfattone del proprio fare musica:
lunghe suite psych&hard deraglianti e sulla falsariga di
Amon Duul, Hawkwind e compagnia cantante. Roba
che costituisce il cuore delle esibizioni live del gruppo
americano, tanto che alla fin fine l’energia, le estenuanti
aperture fuzz-oriented (Wholeodome), la ciclicità (l’ottima Marrow Of The Wand) e la rotondità del suono (anche
quando si abbassa il tiro, come nella sognante Bread Of
Dreams) sarebbe forse più apprezzabile sotto un palco
che seduti sul divano. Della serie, come scapocciare tra
le quattro mura quando parte la megasuite I.S.F.S./Dawn
in 2 Dimensions/Quantum Leap?
A World Out Of Time invece è l’effettivo nuovo album del
2012 e mostra qualche cambio di direzione o meglio,
qualche tentativo di ricercatezza che superi i confini
dell’hard psichedelia a cui ci hanno ormai abituati. Citando apertamente Faust e la gemma nascosta Algarnas Tradgard - hippies svedesi in fissa con la psichedelia meno ovvia - e buttando tra le righe riferimenti a
situazioni e dimensioni se non lontane, per lo meno non
abituali, i cinque provano a giocare la carta a sorpresa
del collage tra impro e composizione, in presa diretta.
Lo psych-folk acustico e bucolico di Sand Into Rain che
rimanda a Pentangle o Fairport Convention, ad esempio, unito ad una sempre maggiore centralità dell’immaginario da b-movie sci-fi, allontana definitivamente
il quintetto dai panorami krauti degli esordi per una psichedelia tosta ma ricercata, mentre qua e là si rintraccia,
Emanuele De Raymondi - Buyukberber
Variations (Zerokilled, Settembre 2012)
Genere: contemporanea
Non è un caso che De Raymondi sia stato invitato
all’ultima Biennale Musica di Venezia insieme ai guru
dell’avanguardia elettronica contemporanea (fra i tanti
Pierre Boulez). Il suo nuovo disco è infatti una delle più
felici mediazioni tra ricerca e ascoltabilità, fra accademia
e pop che ci siano capitate fra le mani negli ultimi anni.
La base di queste dieci tracce si muove utilizzando
campioni di clarinetto suonati dall’esecutore turco Oguz Buyukberber, tagliando il tutto con le armi
dell’elettronica, che pulsa un palese ricordo minimalista
nell’iniziale Bv01 (Bang on a Can) o l’onnipresente riferimento alla stagione d’oro di Glass e Reich (Bv06, Bv10).
Ma se questi riferimenti americani caratterizzano molta
della cosiddetta classic pop contemporanea (vedi alla
voce Nico Muhly, ex protegé di Glass), il nostro De Raymondi va oltre e innesta nel ricordo minimal un savoir
faire melodico tutto italiano, che rispolvera le estetiche
così distinte da Francia e Germania del nostro Studio di
Fonologia milanese (Berio e Maderna).
La melodia focalizzata osmoticamente nelle crepe del
suono, senza sforare in industrialismi di difficile decrittatura à la Nono, costruisce quindi un’ambient di classe
sopraffina. I quadri sonori di De Raymondi sono sospesi in un universo meditativo che confina con visioni
mistico-ECM (Bv07, Bv09) e loop tagliati con maestria e
cura certosina. Oltre alla melodia, l’artista potrebbe pure
figurare in playlist per dancefloor evoluti, dato che in
qualche punto ricorda l’Amon Tobin più sperimentale
e visionario, o le ipotesi illbient di DJ Olive (Bv08).Per
chiudere, se ci fosse un basso un po’ più marcato non
Marco Braggion
Eternal Tapestry - Dawn In 2 Dimensions
/ A World Out Of Time (Thrill Jockey,
Novembre 2012)
Genere: psych
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nel magma sonoro, qualche spunto interessante.
In questo senso, The Currents Of Space, The Weird Stone,
Alone Against Tomorrow e When Gravity Falls sono buoni
esempi del tentativo messo in atto dagli Eternal Tapestry: mantenere l’identità provando a smuoversi dalle
fondamenta. Il risultato però non è nè carne nè pesce e
manca ancora qualcosa per spiccare il volo.
(6.7/10)
Stefano Pifferi
Fritz Kalkbrenner - Sick Travellin’ (Suol,
Ottobre 2012)
Genere: Techno Soul
C’è sempre un momento nella vita artistica di un producer in cui si smette di inseguire ricerche e nuove intuizioni e si vuole tirare le fila di quanto raggiunto fino
a quel momento, con un prodotto di sintesi che esprima nella maniera migliore lo stile dell’artista e centri
in pieno il bersaglio posto sul cuore dei fan. È sempre
successo, ma è curioso vedere quanto spesso il fenomeno sia accaduto quest’anno e con quale efficacia:
da Last Step (Sleep è il riassunto all’apice delle derive
acid meno aggressive di Venetian Snares) a Nathan
Fake (Steam Days, trangolazione delle diverse anime
di lui apprezzate), da Photek o Brackles (coi loro dischi
di riepilogo dell’immaginario personale) a Lindstrøm
(Smalhans come figura definitiva del suo modo di pensare space - e ve ne parleremo presto). In un momento
in cui le tendenze di maggior successo son quelle che
spingono verso l’esplicito e l’aggancio diretto, è questo
forse il vero modo in cui anche i produttori più intellettuali possono tenere il passo.
I fratelli Kalkbrenner, poi, questo carattere ce l’hanno
nel sangue: già l’anno scorso notavamo come l’Icke
Wieder di Paul servisse come dolcetto generoso (e un
po’ piacione) che nulla aggiungeva o toglieva al proprio
stile consolidato. Quest’anno tocca a Fritz che, pochi
mesi dopo l’altra operazione di riepilogo sui mood della
sua label, chiude col suo secondo album il cerchio intorno a ciò che il suo pubblico ha sempre amato. Che poi
significa una cosa sola: ripartire da Sky & Sand. Il corpo
più convinto di Sick Travellin’ è quello di pezzi come
Make Me Say, Get A Life, No Peace Of Mind o Little By Little,
abilissimi (e precisissimi) incastri di quel ritmo positivo
berlinese nato techno ma plasmato house che è il vero
marchio di fabbrica dei Kalkbrenner, con la firma personale del vocalizzo dismesso che stabilisce l’identità
al volo. Nè più né meno che quel che a chiunque viene
in mente al solo fare il suo nome, accompagnato ovviamente da una serie di pezzi strumentali come Chequer
Heart Day o Monte Rosa funzionali a creare atmosfera
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(leggi ambient, a tratti quasi chiilout) intorno ai pezzi
forti.
Non una virgola fuori posto, sound pettinato con cura
maniacale e nessun rimescolamento delle carte per
quanto casuale potess eessere. La cosa che più si avvicina a una mossa estrosa rispetto al resto è il funk reprise di Willing che tanto piacerà a chi ha amato l’album
di Breakbot, col quale Fritz Kalkbrenner condivide la
stessa passione di ricerca. Ma guai a guastare l’alta fedeltà al sound di bandiera. Qui non si tratta di mancanza
di coraggio, ma dell’impegno preciso di rispettare con
esattezza millimetrica l’aspettativa del proprio pubblico. È una scienza, e i Kalkbrenner ne sono i più esimi
luminari.
(7/10)
Neil Young/Crazy Horse - Psychedelic Pill (Warner Music Group, Ottobre 2012)
Genere: psych rock
C’è qualcosa di rassicurante nel modo in cui certe cose
continuano ad accadere malgrado i timori, gli allarmi,
gli sconvolgimenti. Il bioritmo espressivo di Gabriel
Sternberg, ad esempio, sembra procedere con beata
indifferenza rispetto al bailamme quotidiano, all’intersecarsi schizoide degli stili. Appare refrattario ad ogni
ipotesi di clamore e agli input modaioli, semplicemente
riprende a tirare il filo esile ma tenace del suo discorso,
tremore indie appeso a ugge cameristiche (soprattutto
la title track), visioni dreamy post/cinematiche ed emulsioni shoegaze.
Balenano come fotogrammi liquidi influenze e riferimenti, tipo i Lush liofilizzati Clientele (nel ciondolare
serico e sonnacchioso di All We Want e Pascal On Drugs)
o le palpitazioni lo-fi nella bambagia onirica Slowdive
(New Citizen, Halfway Between Us), o ancora l’estro androide minimale Lali Puna in Don’t Ask e l’Elliott Smith
lunare di Godspeed. Eppure alla fine avverti palpabile il
senso di un solco personale che Sternberg è riuscito a
tracciare canzone dopo canzone di questo album maturo e robusto oltre e malgrado l’aspetto diafano. (7/10)
Chi scrive non ha mancato di sottolineare quanto gli ultimi dischi di Neil Young sembrassero più urgenti che ispirati. Bene, con questo Psychedelic Pill - di nuovo in sella
ai fidi Crazy Horse dopo il recente Americana - si rientra in carreggiata alla grande. E
sapete di che razza di carreggiata stiamo parlando. Sommariamente, si tratta di otto
pezzi più uno (la versione alternativa della title track) per quasi un’ora e mezza di caro
vecchio country psych ad alto tasso d’elettricità. Ma in realtà in ballo c’è altro. Questo
disco è un affronto alla dissoluzione del supporto fonografico, un rilancio avventato,
un doppio album (triplo nella versione vinilica) come segno di sfacciata, baldanzosa
persistenza. Un lavoro semplice e complesso assieme, certo ben consapevole di non poter arginare un bel nulla ma
che ugualmente si butta nella mischia come se fosse l’unico modo per tracciare un confine tra definito e indefinito,
tra significativo ed effimero.
In ogni traccia avverti frammenti di mille situazioni del catalogo younghiano (le coordinate convergono in particolare verso Zuma, Freedom, Sleep With Angels, il trascurato Broken Arrow e l’immancabile Rust Never Sleeps),
detriti frutto dell’erosione di un edificio che eccede ormai se stesso, ma questo non ne svilisce la forza anzi ne
sottolinea la natura, ne attesta l’origine amplificandone il mandato. È un disco orgoglioso di portarsi dentro tutti i
titoli che lo hanno preceduto, l’approdo solido di un lungo percorso, disposto a farsi preventivamente un baffo di
ogni accusa d’obsolescenza perché sorretto da una convinzione granitica, ancor più rilevante in questi anni buoni
a polverizzare i riferimenti in una miriade di stili simultaneamente possibili e perciò impossibili, perciò de-stilizzati.
Indifferente e fiero come una delle bestie a cui rimandano i suoi soprannomi (bisonte, cavallo pazzo, lupo grigio...),
il sessantasettenne Young fa rotolare idee più o meno buone in una panatura scabra e vischiosa come insegna la
ben nota ricetta, mantecando il tutto in un crogiolo di assoli che poi sono le variazioni di uno stesso, interminabile
assolo iniziato (almeno) quattro decadi fa. Come dire è tutto un gioco signori, una pillola illusoria, ma ne abbiamo/
ne avete bisogno: Ramada Inn è ballata melò tra deserto e asfalto, She’s Always Dancing possiede impeto roccioso
e lirismo corale CSN&Y, Born In Ontario snocciola country-stomp sanguigno e beffardello come certi siparietti che
alleggerivano le scalette dei 70s, Twisted Road fa country folk tutto mentale e persino un po’ (volontariamente?)
caricaturale, Walk Like A Giant trama arpeggi e intagli acidi screziandoli con un fischio ammiccante e coretti beachboysiani fino al ritornello sbruffone.
Non si può tacere certo della mezz’ora d’immersione indolente e rapita di Drifting Back, innescata da un ciondolare
acustico neanche troppo brillante ma quel che conta è peregrinare in sella al bisogno quasi fisiologico d’astrarsi
sulla vibrazione elettrificata. Poi, certo, c’è Psychedelic Pill, il vocoder e il riffone in acido robottizzato spacey, rigurgiti
Re-actor e Trans in cavalcata sbrecciata Ragged Glory, la semplicità basale Cinnamon Girl nell’assolo, la versione
alternativa che toglie l’effettistica sottolineando filiazioni da Freedom (o meglio dal febbrile coevo Eldorado EP).
È il disco di Young più riuscito da venti anni a questa parte, uno dei suoi più importanti per come impatta sul
presente e per la potenza con cui tira le fila di una carriera formidabile. Nei “passi” finali della già citata Walk Like A
Giant c’è qualcosa di giocoso, improrogabile (sono o non sono i “prisoners of rock’n’roll”?) e assieme struggente. È
una baracconata che rimanda a qualcosa di inesplicabilmente profondo che non demorde pur sapendosi quasi sul
punto di arrendersi. È lo psych rock come categoria del sentire, del vivere, dell’esprimere. Non ci credevamo quasi
più, ma ancora una volta dobbiamo essere grati a Neil Young.
(7.6/10)
Stefano Solventi
Stefano Solventi
Carlo Affatigato
Gabriel Sternberg - Phantomschmerz
(Klang:hAUS, Ottobre 2012)
Genere: dream pop
Giovanni Block - Un posto ideale (Incipit
Records, Settembre 2012)
Genere: cantautorato
Giovanni Block è un giovane cantautore napoletano
appena 28enne con alle spalle una gran quantità di
premi, segnalazioni e riconoscimenti, non ultimi quelli guadagnati alle Targhe Tenco 2012 in una categoria
Opera Prima - poi vinta da Colapesce - che lo ha visto tra
i finalisti. Quello di Block è un cantautorato italianissimo,
nel senso più classico del termine, lontano dalle sonorità
e dalle contaminazioni dell’indie nostrano e ben radicato nella storia della nostra musica folk-pop. I riferimenti
vanno da Buscaglione a Concato e si muovono tra le
sonorità contemporanee di un Cristicchi o di un Mannarino, infilandosi solo parzialmente in quel fil rouge
d’autore retto in primis da Vinicio Capossela.
Non molte idee, a dire il vero, ma un’ottima commistio51
ne: da un lato l’afflato più strettamente pop, dall’altro
qualche buona ballata all’italiana (Verrà un giorno, Notte
da cantautore). Block è sicuramente uno che sa come
trattare la scrittura, quella musicale in primis, riuscendo
a conferire alla propria classicità una levità e una profondità compositiva non consuete. Sui testi il discorso
è diverso: non convince una certa retorica di fondo che
fa capolino qua e là in tutto il disco (Violetta e gerani,
Notte da cantautore), una scrittura vecchia a cui manca
spesso personalità e la voglia di uscire da un recinto già
ben noto a un certo pubblico italiano.
La sensazione generale è che si debba aspettare qualche
anno e la scelta di una più precisa direzione, quest’ultima magari mossa dal desiderio di destrutturare uno
schema forse un pò vetusto.
(5.8/10)
Giulia Cavaliere
Girless & The Orphan - Nothing to be
worried about except everything but you
(Stop Records, Ottobre 2012)
Genere: indie-folk
Alla resa dei conti prima o poi ci arrivano tutti. I Girless & The Orphan erano passati più o meno indenni
attraverso due Ep e uno split (con i Verily So) grazie
a una sorprendente vena creativa che ha regalato loro
un discreto seguito di critica e pubblico. Facile dunque
aspettarsi, dalla prova in full length, una dignitosissima
conferma, che prendesse come riferimento vuoi la novità degli arrangiamenti, vuoi quella stabilità nella line
up che è sempre mancata.
Non ci soffermeremo troppo su quanto di buono e originale (e non solo di promettente) il duo di Viserba sciorini
con naturalezza. D’altronde ce ne eravamo accorti già in
tempi non sospetti, quando nella spontaneità del loro
folk rock, rintracciammo una commistione di irriverenza
e strafottenza che non poteva non comparire anche in
Nothing To Be Worried About. È il caso di brani come
Mein Vatikampf o Phony, sottili rasoiate condite in salsa
punk n’ roll - un po’ alla Neutral Milk Hotel - scagliate
contro le istituzioni religiose. Per quanto geniali e azzeccatissime, queste cose erano comunque già abbondantemente nelle corde della band, tanto più che alla prova
degli arrangiamenti, il tutto tende ad essere spesso un
po’ troppo acerbo.
La vera svolta sta nella costruzione dei momenti più minimali e nella leggera virata verso un pop rock più fruibile, meno spigoloso. Quest’ultima è ben testimoniata
da Bad Scene, Your Fault (brano praticamente smithsiano
negli arrangiamenti) e da Cinnamon And Arrogance (in
cui l’incontro dei Pogues con gli Strokes suggella un
52
idillio impeccabile). Quanto ai momenti di introspezione
e di intimità, essi sono sapientemente distribuiti nelle
nove tracce e, se nei precedenti lavori rappresentavano
il punto di debolezza, qui sono il piatto di portata. Your
Chest Is A Snuggery, The Speechless One, It’s Your Job
To Keep Class-Worm Elite sono tutte dimostrazioni di
estrema acutezza, nel maneggiare la forma-canzone
alla maniera degli americani, come insegnano Johnny
Cash e Simon & Garfunkel. Come dire che, alla resa
dei conti, valga l’equilibrio: strafottenti sì, ma con un
bagaglio di scrittura non indifferente.
(6.8/10)
Nino Ciglio
Gli sportivi - Black Sheep (Flue Records,
Novembre 2012)
Genere: Rock n’ Roll
E allora si prendano pure a pugni gli arbitri o le forze
dell’ordine, ci si ricopra di patine retroattive, di rock n’
roll alla gelatina, di minimalismo suonato chitarra e batteria e la pecora bianca di un tempo si trasformerà nel
nostro peggior nemico.
Gli Sportivi, agonistico e sporchissimo duo veneto,
danno alla luce il loro primo full lenght Black Sheep,
che di lenght non ha proprio un bel niente perché si riduce a otto mirabolanti gesti atletici. Otto brani tiratissimi che sanno di boxe e adrenalina, di sudore e di cori da
stadio. E quale miglior formula se non quella del vecchio
rock n’ roll che di contemporaneo non ha nemmeno la
tecnica di registrazione (analogica, è chiaro), ma guarda
con irriverenza a sua santità Iggy Pop (Gimme Gimme
Your Hand, Go Back) o al mistero vagamente sexy dei
Rolling Stones (Black Cat, Talking About)?
Senza pensare naturalmente che è probabile che i due
siano persino passati da declinazioni gotiche e decadenti in stile Christian Death o Cramps (How Does It Feel,
Commit Suicide). Lo si capisce dall’uso cavernoso delle
vocalità e degli effetti chitarristici, che, se vogliamo, è
l’aspetto più interessante di un lavoro che, pur non lasciando un attimo di respiro, regala pochi momenti di
genuina originalità.
E proprio la ricerca dell’originalità non deve essere un limite per l’ascoltatore, giacché Gli Sportivi non ne sembrano affatto interessati, preferendo piuttosto muoversi
(e lo fanno abbastanza bene), nei sentieri tracciati dai
loro (enormi) predecessori. Ci basti questo.
(6.4/10)
Nino Ciglio
Santo Barbaro - Navi (Cosabeat, Novembre 2012)
Genere: elettronica mutante
Il contrasto è affascinante: da un lato i versi poetici di Pieralberto Valli, scarni e introspettivi come pochi, lontani dai
finti intellettualismi e perfetti d’esistenzialismo; dall’altro la musica di questo terzo disco dei Santo Barbaro, elettronica spuria venata da certe claustrofobie concettualmente non troppo distanti - pur con le dovute differenze di
strumentazione - dal lavoro di formazioni come gli Einstürzende Neubauten. Opposti che in sé racchiudono uno
scambio, una sensibilità torbida e minacciosa costantemente sul punto di deflagrare, tra parentesi ambient celestiali
(Io non ricordo) e ribollire canceroso (gli Air malaticci in salsa kraut dell’introduttiva
Urania), aperture luminose baciate dagli archi e poi sommerse da una techno-idm in
formalina (la splendida Prendi me) e incedere marziale dalle valenze quasi blues (il brano Quercia, ispirato a un episodio de Il libro degli esseri immaginari di Jorge Luis Borges ).
In Navi i confini si fanno labili, la chiave di lettura pure: i suoni sintetici sono un foglio
bianco su cui scrivere liberamente, piuttosto che un genere stringente e hypato; la parola è soppesata e ridotta alle sue forme elementari, in un risparmio narrativo che lascia
tutto lo spazio al mood che riescono a costruire i brani nella loro interezza. Febbrili,
chimici, visionari, capaci di osare interferenze inconsuete tra linguaggi agli antipodi.
“Santo Barbaro come ode alla diversità, alla molteplicità”: Navi, di questa diversità “santa” è lo zenith, l’espressione
completa. Come dimostrano anche la new wave zoppa di Terzo paesaggio, lo Springsteen decapitato (altezza Nebraska) de La tempesta, l’electro profonda e narcotica di Non sei tu o il trip-hop di Nove navi. Un linguaggio che si
compone pezzo dopo pezzo, in un confronto estenuante tra le parti che ha la facoltà di portare quasi sempre dove
non ti aspetteresti.
Il precedente Lorna è lontano, per l’estetica generale ma soprattutto per il fattore ritmico: là morbido e allentato,
qui ben presente, talvolta rigoroso, seppur aperto a trame più flessibili. Anche se a cambiare è proprio la prospettiva generale: non più solo canzone d’autore, piuttosto un universo a sé stante scolpito nei suoni del sintetizzatore
almeno quanto nelle parole. Avventuroso senza suonare ostico, il terzo disco dei Santo Barbaro è un lavoro con cui
fare i conti un passo alla volta, dalle prospettive ampie e certamente poco in armonia con con le facilonerie da web
2.0 a cui certo indie autoctono degli ultimi tempi ci ha abituati. Tanto basta a farcelo amare.
(7.5/10)
Fabrizio Zampighi
Golden Void - Golden Void (Thrill Jockey,
Novembre 2012)
Genere: Psych rock
Hanno lo stesso nome di un brano degli Hawkwind
degli anni Settanta, ma vengono dagli Stati Uniti, dove
Isaiah Mitchell (chitarra e voce), Aaron Morgan (basso),
Justin Pinkerton (batteria) e Camilla Saufly-Mitchell (tastiere). Con la band inglese condividono l’amore per la
psichedelia, ma l’oceano di mezzo si fa sentire: il sound
dei Golden Void è tutto rock sudista, Americana, seventies nuggets aggiornato ai duemila quel tanto che basta
per non sembrare fuori tempo massimo.Questo esordio
è stato registrato nei Lucky Cat Studios di San Francisco
con Phil Manley dietro alla console. Detto che quest’ultimo ha lavorato, tra gli altri, con Moon Duo e Wooden
Shjips il quadro sui riferimenti musicali del quartetto
si completa perfettamente. Su tutto, però, bisogna
sottolineare come aleggi un fantasma, mai citato del
tutto completamente ma immanente, che sono i Black
Sabbath. Sarà perché Mitchell sembra ricercare la stessa
vocalità dell’Ozzy in buona forma dei Settanta, sarà per
la ritmica rutilante di molti pezzi.Ne escono sette brani
per una mezz’ora di intrattenimento in cui spiccano i 6/8
dell’opener Art of Invading, il power fantasmagorico di
The Curve, il deserto Meat Puppets di Badlands e una
corale Atlantis, che anche per le tematiche semi-fantascentifiche sembra chiudere il cerchio con gli Hawkwind
e le loro svisate moorkockiane. Non per tutti i palati, ma
sicuramente da tenere d’occhio per chi porta ancora i
pantaloni a zampa.
(7/10)
Marco Boscolo
Halls - Ark (No Pain In Pop, Ottobre 2012)
Genere: post-Blake
La scena di South London non conosce tregua. Sam Ho53
ward aka Halls, dopo il Fragile EP uscito ad inizio anno,
ha visto aumentare l’hype attorno a sé settimana dopo
settimana, prima di debuttare ufficialmente in formato
lungo con Ark pubblicato per la No Pain In Pop.
Il cathedral-sound - con tanto di rumori di fondo dell’iniziale I introduce anche la successiva White Chalk.
Singolo lanciato nel periodo dell’anno meno adatto
(pieno agosto), White Chalk è fino ad oggi probabilmente il brano simbolo dell’interno progetto. Si parte
da un piano sommerso da echi e da una melodia dimessa quanto evocativa, poi arriva un suono alieno.
Brividi. Da qui si ricomincia prima di lasciare spazio a
battute+pause di derivazione post-James Blake e all’atmosfera goth-spel che può ricordare Active Child e che
è parte integrante dell’Halls-sound.
Come sono parte integrante anche le sfumature glitchate che si fanno strada iniziando da I’m Not There (ad un
certo punto sembra di sentire Bon Iver dietro al microfono), le ambizioni ritmico-melodiche figlie di Thom
Yorke (Roses For The Dead), il notturno incedere post2step mutato via Burial di Funeral e l’approccio quasi
folktronico di Reverie, rinvigorito da una melodia decisamente riuscita.
Come dimostra la decisione di inserire in tracklist più
di un passaggio esclusivamente strumentale, Halls per
il momento è più un modellatore di atmosfera che un
songwriter vero e proprio e nel suo modellare dimostra
già - nonostante i vari riferimenti - di avere personalità
ed un proprio riconoscibile stile, punto di incontro tra
modern classical/ambient, chamber/church-pop e le
sonorità elettroniche più acclamate degli ultimi anni.
Come Perfume Genius ci consegna un’opera prima imperfetta ma con tutti i chiari segnali di un talento puro
che in futuro potrà portarlo a fare ancora meglio. (7.1/10)
di vinili dei Technotronic. L’effetto non è ne noioso ne
divertente ma desta il giusto quantitativo di curiosità e
attenzione.
Ora, rispolverare i 90’s è una delle cose più hype del momento e, ognuno a proprio modo, l’han fatto in tanti
(Scuba, Lone, Photek...). Qui Butler scongela al microonde un pezzo di nuova york con la sua proto house e
la speed garage d’importazione UK e lo fa con un mix
di mestiere, senza punte da turntabilism ma con una
sensazione di discreta omogeneità. Quindi via a tutte
le derive del caso: cassa dritta, soulful synth, hi-hats in
rilievo come se piovesse e due lampi di genio, quel Can
You Feel It col basso che fa tanto Grease (i più bravi ci
avranno riconosciuto il campione dietro I Can’t Stand
It dei Twenty-4-Seven) e l’altro tormentone d’eleganza house Don’t Want To Hurt You. Il mix fila liscio in un
batter d’occhio, senza suscitare troppa attenzione ma
sicuramente andando a tempo con la testa, macinando
ricordi ormai d’essai delle prime serate in disco (quel
bomber blu con interni arancio seppellito in armadio
potrebbe tornare di moda). L’inedito Release Me si inserisce nel mix con grande coerenza e aria di vecchia scuola
house nel tutto, non colpisce, non ferisce ma con la sua
diva ai vocals fa sicuramente atmosfera.
Sostanzialmente ci sono due tipi di DJ-Kicks: quelli di
sostanza che rimangono nel tempo (Scuba, Apparat,
Photek) e quelli estetici ed estemporanei ma che a una
festa in casa ti fanno fare un figurone (Chromeo, Robyn,
Booka Shade). Questo si piazza in questa seconda categoria già dalla copertina. Considerato che Natale arriva
sempre più in anticipo e già ad Halloween qualcuno
vende luminarie, potrebbe essere il regalo perfetto per
la ragazza che ancora non vuole perdonarti quell’I Love
Grime ancora nel lettore.
(6.5/10)
Riccardo Zagaglia
Mirko Carera
Hercules And Love Affair - DJ-Kicks (!K7,
Ottobre 2012)
Genere: House
Homeboy Sandman - First of a Living
Breed (Stones Throw, Settembre 2012)
Genere: hip hop
Tocca agli Hercules And Love Affair - e più precisamente al leader Andy Butler - animare il 42mo DJ-Kicks di
casa !K7. L’annuncio in pompa magna era stato dato a
fine agosto, ma la storia dei richiami spirituali ora sembra abbastanza una balla, di sciamanesimo, incensi,
pratiche di meditazione yoga e guru newyorkesi non
ce n’è ombra. Questo DJ-Kicks mira invece a un target di
coolness over 30 con ricordi alterati dei decadenti 90s,
come fossimo in una festa un po’ ingessata con il Tom
Cruise mannequin di Cocktail dietro al bancone e alla
consolle Drugo Lebowski in accappatoio con una valigia
Newyorkese figlio di un pugile portoricano, Angel Del
Villar II ha metabolizzato l’adolescenza non proprio
drittissima per le strade del Queens andando poi in direzione opposta e contraria: prima ha studiato legge
all’università (e dopo aver mollato, al terzo anno, ha
fatto il community lawyer) e poi si è impegnato anima
e corpo in contesti educazionali (tenendo corsi nei licei
eccetera; skill questa spottata anche su MTV, che lo ha
voluto come personal coach in una puntata del suo reality motivazionale per ragazzi Made, e che lo ha fatto
diventare una specie di maitre a penser del settore).
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First of a Living Breed, quarto album in cinque anni,
è il suo debutto lungo su Stones Throw. Hip hop rappato benissimo, flow fluido, serrato, piglio maturo, basi
classiche, temi e modi conscious, ma senza melensaggini (giusto un po’ di retorica complottista in Illuminati),
senza sbavature né momenti di down. Ma anche senza
particolari frulli di fosforo o folgorazioni. Comunque,
come rapper, bravissimo.
(6.5/10)
siano al servizio del dream-glo, è così per i trap/modern
beats declinati pop mainstream dei Purity Ring e, in
questo caso, del fascino di nicchia del programming
juke applicato alla darkwave particolarmente in voga.
Attendendo la prova su LP per la pronuncia definitiva,
ciò che al momento il nostro ci ha fatto sentire ha già
un suo bello spirito, ci piace parecchio.
(7.1/10)
Massimo Rancati
Gabriele Marino
Howse - Lay Hollow EP (Tri Angle, Maggio
2012)
Genere: crepuscular juke
È già un anno abbondante che la Tri Angle ha compiuto ufficialmente il passo della maturità. Adesso il trend
procede per stimolanti incroci tra oscurità introverse e
intellettualismi ritmici più o meno espliciti, una ricetta
che finora ha funzionato alla perfezione accontentando
le esigenze di innovazione del pubblico senza però snaturare l’estetica di catalogo con rivoluzioni troppo impetuose. Insieme a Holy Other, Vessel e Evian Christ, il
giovane da tenere d’occhio oggi è il ventiduenne di Providence Nathaniel Oak (alias Howse): le cinque tracce
che compongono l’EP di debutto Lay Hollow si sviluppano non solo su field recordings evocativi, synth lugubri,
bassi profondi, droni soffusi, foschia lo-fi e pitch shifted
voices - ovvero tutti i tratti salienti dell’elettronica arty
manipolata che la label di Brooklyn si è scelta per farsi
parallelo beat della coerenza dark/goth 4AD - ma pure
su (sorpresa) cablature juke e jungle. Si parla - come è
ormai consuetudine - di influenze filtrate dagli ascolti e
radicate sottopelle, piuttosto che di background diretto.
Il risultato è un continuo, crepuscolare gioco al contrasto fra restraint ambient post-Balam Acab (o Laurel
Halo in abito King Felix) e frenesia intelligente. Ne è
emblema VBS: ritmica 808 nervosa e gemiti ossessivi su
letto texturiale che pare fatto di anime in pena (un caso
la medesima provenienza di H.P. Lovecraft?); ancora, vibrazioni artcore jungle ad echeggiare certe produzioni
mid-90s di J Majik e Photek che vengono ricontestualizzate nella forma juke-feticcia à la Dream Continuum
(Machinedrum + Om Unit) e modernizzate, per concisione, nel taglio.
Howse va insomma ad inserirsi naturalmente nel filone
di giovani talenti con spiccata conoscenza dell’elettronica d’élite, che sanno di aver qualcosa di potente tra
le mani ma si mettono furbescamente i guanti prima
dell’uso, spendendo il proprio estro per rinforzare ciò
che appartiene ad altre sfere dall’appeal più sicuro. Fu
così per Baths ed il suo tessuto ritmico quasi-FlyLotu-
Ice Choir - Afar (Underwater Peoples,
Ottobre 2012)
Genere: synth pop
Nostalgia. O retromania, stando a Simon Reynolds. Fatto
sta che dalla fine degli anni Novanta molti artisti hanno iniziato ad attingere a piene mani dai tanto amati
quanto vituperati anni Ottanta - la lista è infinita: uno
dei primi segnali arrivò da Jyoti Mishra (White Town)
con Your Woman, poi si misero di mezzo l’electroclash e
il recupero della new wave, per non parlare dei ritorni di
band del decennio che giurarono più volte che mai più
le avremmo riviste insieme (alla fine pure gli Spandau
Ballet, dopo le battaglie legali, si dissero “scurdammoce
‘o passato” e tornarono in pista con riletture acustiche
dei vecchi successi).
Sembrava che da quest’anno sarebbe tornato in voga
il brit-pop, e invece l’insospettabile Kurt Feldman, batterista dei Pains Of Being Pure At Heart (ma anche
mente dei Deprecation Guild), ci prende alla sprovvista
e confeziona, nel 2012, uno dei tributi più didascalici e
fedeli agli Eighties, con tanto di rimandi ai suoni originali dei mitici Fairlight e Synclavier e delle soft keyboards
di maggior successo targate Roland, Korg e Yamaha.
Feldman si fa accompagnare dai sodali Patrick South
(tastiere, basso in tre canzoni di Afar), Raphael Radma
(sintetizzatori) e Avery Brooks alla programmazione
della drum machine, e intanto il nostro PC si trasforma
sotto ai nostri occhi in uno ZX Spectrum, dall’armadio
spuntano fuori un Moncler e una felpa Best Company e,
quando si materializza anche un walkman, capiamo che
è ora di cedere alle lusinghe del musicista di Brooklyn
e iniziare il viaggio.
L’antifona è chiara già dai colori pastello di sfondo
dell’artwork stilizzato: in Afar, opera prima degli Ice
Choir, vincono i colori di un pop che scivola liscio, impreziosito di tanto in tanto da citazioni colte (Keats è
tirato in ballo nel brano conclusivo Everything Is Spoilt
By Use, duetto con Caroline Polacheck dei Chairlift, e il
titolo dell’album è ispirato da Wordsworth). Già, proprio come faceva quel volpone di Green Gartside, qui
evocato in una A Vision Of Hell, 1996 che sembra pronta
55
The Somnambulist - Sophia Verloren (Acid Cobra, Ottobre 2012)
Genere: prog psych
Ecco l’annunciato sophomore in studio degli italo-berlinesi The Somnambulist col
loro impasto di hard blues, prog, psych, jazz bilioso e vampe cameristiche, nipotastri
scellerati dei Dirty Three, crogiolo dantesco di Nick Cave, High Tide e Venus, fautori
di sketch febbrili e cangianti colti con l’aria fragrante d’un live in studio affilato come
lama. Il mood è tra il furibondo ed il brumoso, una nevrastenia cinematica noir. Violini
e chitarre che intrecciano trame suadenti e rugginose, volitive e liriche, come allucinazioni schiantate prima di diventare sogni.
Canzoni che partono come un frusciare di trame pensose poi diventano sarabanda acida (Dried Fireflies Dust). Vampirizzazioni languide wave/grunge (A Daisy Field, con ospite
la voce di Albertine Sarges). Crossover a folate mitteleuropee e fantasmi hardcore (Logsailor). Romanze malsane
col gusto delle giustapposizioni timbriche, la brama incontenibile di suonare con impeto e puntiglio capillare (la
title track). Una forma post che conserva il gusto e la fatica del farsi canzone, come è palpabile in quella sorta di
Lanegan intossicato dal theremin che è My Own Paranormal Activity. Un’altra prova di buon livello per una band
di cui si sta parlando inspiegabilmente troppo poco. (7.3/10)
Stefano Solventi
per un mash-up con Hypnotize o Wood Beez del genio
gallese degli Scritti Politti. Ma non è finita: ci sono gli
Omd (I Want You Now And Always), le produzioni di Jimmy Jam e Terry Lewis per Alexander O’ Neal (Teletrips),
i New Order e i Pet Shop Boys degli esordi (Two Rings);
subito dopo scorgiamo Mike Francis in disparte (nella
title track) e gli Aztec Camera di Love (The Ice Choir). Il
tutto è amalgamato dalla voce zuccherosa ma distante
di Kurt, un ibrido tra Curt Smith dei Tears For Fears e il
già citato Gartside.
In soccorso alla band, in fase di missaggio, c’è un altro
revivalist col bollino di qualità - Jorge Elbrecht, cantante
e chitarrista dei Violens (giunti quest’anno alla seconda
prova discografica con la Slumberland Records). Non
si sa ancora se avremo modo di ascoltare i nove brani
di Afar dal vivo, ma sul disco le citazioni, pur a volte fin
troppo diligenti, funzionano perché ci sono melodie
ben scritte a supportarle. In attesa di scoprire le prossime mosse di Feldman, il dischetto è effervescente quanto basta ed è una discreta compagnia per poco più di
mezz’ora (come i 33 giri dell’epoca). Take a ride.
(6.7/10)
Alessandro Liccardo
Illàchime Quartet - Sales (Lizard, Ottobre
2012)
Genere: rimiscelamenti
Potremmo tirar fuori la storia della sostanziale inutilità e
anacronismo dei remix-album, pratica in voga tra 90s e
56
00s, se non fosse che faremmo un gran torto all’Illàchime Quartet. La formazione partenopea rimette mano
all’ottimo I’m Normal, My Heart Still Works e lo fa con lo
stesso spirito che ne aveva segnato la traiettoria lungo
le sei tracce: sperimentare su una materia fluida, in continua evoluzione, mai statica o fissa nelle sue coordinate
di base fregandosene di confini e limiti.
Al tempo lo faceva (anche) con l’aiuto di un numero impressionante, per quantità e qualità, di ospiti nazionali e
internazionali (Rhys Chatham, Mark Stewart, Graham
Lewis, Salvatore Bonafede), quasi che I’m Normal.. fosse già di per sé un lavoro multiplo negli umori e nelle
risultanze. Ora l’affare si complica ulteriormente perché
quegli stessi ospiti, su per giù, insieme a molti altri hanno messo mano al materiale originale del trio partenopeo. Anzi, hanno voluto fornire il proprio punto di vista
legato, ispirato, suggerito dalle composizioni originali.
Sales si allarga quindi fino a raddoppiare il numero delle
composizioni e, traendo ispirazione anche dall’omonimo debutto dell’ormai lontano 2004, lascia libero sfogo
alla creatività e alla sensibilità di personaggi e collettivi
come Philippe Petit, retina.it, Emanuele Errante e Domenico Sciajno, per citarne solo alcuni.
Il risultato è ovviamente eterogeneo, apparentemente
non coeso, umorale, ondivago com’è giusto che sia. Ma
a scavare nel dettaglio, allungando lo sguardo oltre la
coltre superficiale non sarà difficile riscontrare lo spirito avventuroso del trio. Nelle versioni originali come
nelle reinterpretazioni altrui, c’è sempre quel sentore di
ricerca, di spericolata manipolazione che rifrange, ricostruisce, ridisegna le traiettorie già inconsuete del trio
nel tentativo riuscito di proporre sguardi diversi di un
sentire comune. Che sia il trip-hop imbastardito di Black
Source (rendition di Terminali Source per mano di Black
Era feat. Chatham) o la etno-techno di Na-To Versus
Nato (Ferc, ossia Elvetico e Rossella Cangini alle prese
con Flying Home), l’avant-cameristico di Strada Di Sans
Souci (l’ex Terminali Destination impreziosita e trasfigurata dal piano di Philippe Petit), le increspature glitchdub di Vlf, Very Low Fire (i retina.it all’opera sul corpo
morto di Pale Fire) o il sabba sintetico con cui Mark Stewart rielabora Discentro (Gramsci On Entertainment). Un
lavoro denso per un gruppo di altissimo spessore. (7.2/10)
Stefano Pifferi
iTAL tEK - Nebula Dance (Planet Mu
Records, Ottobre 2012)
Genere: Step goes Footwork
Con Nebula Dance i primi freddi accolgono anche il
ritorno su prova lunga della stella di planet mu iTAL tEK.
Il cambio di mood del producer britannico lo si poteva
intuire già dal Gonga EP dell’ anno scorso, e del resto
che gli artisti più stimolati/stimolanti stiano evadedendo dai rigidi confini del pure dubstep (kick drum sulla
prima, settima e nona battuta e hat open a intermittenza con riverbero lungo in 9 e 15) è ormai evidente.
Vengono così percorse sostanzialmente due strade: una
che porta alla nuova ondata techno del nostro recente
approfondimento, l’altra speculare che aumenta i bpm e
trascina il genere verso il footwork. Nebula Dance prende a velocità massima la seconda via, vola sui 150-160
bpm e abbandona anche quei tempi hip hop a cui ci
aveva abituati. Ora, chi segue Planet mu obietterà che
ultimamente molti dei suoni della label suonano cosi.
Vero, del resto a precisa domanda nell’intervista a Mike
Paradinas, il padre padrone della label rispondeva che
sul pianeta mu “ci si influenza a vicenda”. Ecco che allora
la chiave di lettura di Nebula Dance non può altro che
risultare come pieno manifesto d’intenti del sound Mu
di oggi e domani. Del pure dubstep rimane solo una
timida colonna vertebrale, parti corporee ed esoscheletro hanno la genesi del nuovo e ribelle footwork che,
privo di confini e spazi chiusi simboli del genere predecessore, apre a qualsiasi incastro e tappeto ritmico. Le
combinazioni sono pressochè infinite, si aggiunge e si
toglie, si spezza e si prolunga, si accelera e si frena, senza
tratti circostanziali o predefiniti.
Le tracce di Nebula Dance viaggiano tra synth corposi e accelerati di cui il liquid wonky di Rustie ci aveva
già parlato (Intercruise, Steel Sky), provocazioni 8 bit in
Pixel Haze che con la dubstep han sempre giocato in
uno scambio alla pari di corteggiamenti, cinematismi
d’atmosfera su Discontinuum e Human Version. Nulla di
veramente nuovo, in fondo, ma è ripetendo l’ascolto e
familiarizzando con l’album che si viene invasi da una
crescente sensazione di ansia, da una frenesia controllata. È come esser sparati dentro un flipper dalle pareti
morbide, che raggiunge il suo apice in Glokk: quel continuo rullante perfettamente impazzito nipote dei 90s
(ancora ritornano) e di quella jungle che dei club e dei
rave UK fu prima carnefice e poi vittima e che Scuba
aveva sintetizzato nella sua Jungle Rinse Out. Questo
è sicuramente il quid in più che trasforma l’album, un
coup de theatre studiato e stiloso che sposta l’asticella
dal semplice esercizio ginnico a prova artistica senza
imperfezioni.
Planet Mu mostra i muscoli e manda in stampa il primo
libro di testo e linea guida sul passaggio viscerale dal
pure dubstep al footwork, abbandonando finalmente
la catena e il collare della parola step con una sola missione: evadere.
(7.2/10)
Mirko Carera
Jake Bugg - Jake Bugg (Mercury Records,
Ottobre 2012)
Genere: singer songwriter
Preparatevi a sentir parlare molto di Jake Bugg. Il ragazzino di Nottingham, acustica in spalla e sigaretta in
mano, è stato presentato al grande pubblico come il
ponte generazionale tra Bob Dylan e Arctic Monkeys,
un fenomeno mainstream che arriva a braccetto proprio
con il ritorno forte del Beat nelle sale cinematografiche,
quello di On The Road di Kerouac, e delle tendenze radiofoniche tra 50’s e 60’s, riportate in auge in questi anni
da act come Black Keys, Jack White e M Ward.
L’immaginario a cui guarda il ragazzo è proprio quello
del post-war dream con in testa l’America del blues urbano e del boogie, in cui si affacciano l’iconografia dei
Beatles dell’era Love Me Do (cinquantesimo anniversario proprio quest’anno) e coadiuvato da una produzione attentissima ai suoni vintage e sporchi del pre-war
mainstream. Bugg si affida quindi a stilemi collaudatissimi, con il songwriting di chi scopre per la prima volta
il mondo e il suo disincanto, non senza un pizzico di superficialità tipicamente giovanile e strafottenza british.
Il singolo Two Fingers su tutti, con melodie infettive à
la Beach Boys e un’attenzione particolare ai chorus,
sfoggia l’efficacia e l’immediatezza di un grande disco
pop. Lighting Bolt è un pezzo blues veloce e dal suo57
no sporco, furbo quanto basta per catturare l’orecchio
amante di certe sonorità blues e alt country che si ritrovano poi in pezzi dal piglio decisamente più rock-ish. La
voce del ragazzo è ammaliante e duttile quanto basta
per sfoggiare ritornelli radiofonici (Seen It All), oppure
ballate folk che tanto ricordano il recente The Tallest
Man On Earth e numeri da blue eyed singer quali Slide
o Broken, canzone che con un piccolo sforzo di trasposizione ricorda il post-crooning portato recentemente
alla ribalta da Lana del Rey con Video Games.
Forse quello che manca ancora a Jake è proprio quella
capacità di configurare a suo piacimento il classicismo
dei modelli di Dylan e il pop moderno con uno sguardo
del tutto contemporaneo, quella capacità di rendersi
voce ed interprete della britland degli anni ‘10, come
Alex Turner aveva saputo fare benissimo nel 2006 con
uno spettro di riferimenti totalmente differente. Se con
il tempo riuscirà a trovare la giusta quadratura, Bugg
potrà seriamente essere considerato il nuovo talento
del songwriting in terra d’Albione che tanto manca in
questi anni.
(6.9/10)
l’ideale continuatore della grande opera dei mai troppo
celebrati Revelators. Oggi che ha rallentato la corsa, The
Savage Heart pulsa di Great Balls Of Fire, di radici Gospel
e staffilate blues velocissime. E’ l’orologio del tempo che
riparte, è il Rock Around The Clock che si materializza
nuovamente. Times Around The Sun, Where Da Money Go
che, per bocca dello stesso Jones, è la canzone che meglio lo rappresenta oggi, parte dal 1952 e arriva a fatica
ai Detroit di Mitch Ryder, impattando con la tradizione
della jukebox generation statunitense.
C’è del soul? A volte. C’è del blues? Quasi ovvio, nella
struttura di brani così old fashioned. C’è del revivalismo?
Assolutamente no. Jim Jones non è tipo da ancora di
salvezza nel passato. Lui, da sempre, preferisce lo sviluppo musicale istintivo. Non ha mai avuto la pretesa
di riportare in auge un genere, né di modificare il corso
della storia del rock. Jones traduce un linguaggio antico
come il mondo, in una forma musicale anfetaminica e
scattante. Forse lo preferivamo nella sua versione “speed”, ma The Savage Heart rimane un disco tutt’altro che
trascurabile.
(6.4/10)
trasformato in un ragazzino chiuso nella propria cameretta (Read Velvet, Turkish Machine, Tubes). 48 frammenti
con ottimi spunti melodici, spesso e volentieri sorprendentemente agrodolci e slacked (e teneri, Stella by Starlight; e dimessi, Corridors), che ce lo fanno accostare alle
cose migliori del tedesco electro-pop Jim Avignon; altre
volte più sinistri, sul versante James Pants/Residents
(Blood Hungry Bros., After Midnight). Compatto eppure
vario, mai automatico, mai riciclativo, Jon spezza la scaletta con qualche take più propriamente HH (Tire Loma,
madlibiana), crossover/nu- (Bingo), wonky (Calling to Me)
o al contrario lounge (Relaxxx).
Si poteva forse sfoltire un po’ il menù per rendere l’ascolto meno stordente, ma in fondo il gioco funziona anche
per la quantità e varietà di carne messa al fuoco. Il rapper
e produttore losangelino, discograficamente sulla piazza
dal 2010, look che sembra uscito da un Grande Lebowski
portato al Sundance, e una età indefinibile tra i 25 e i 35,
non è un visionario, non è un chirurgo dei suoni, ma un
eccellente miniaturista, che sa benissimo il fatto proprio.
Da scoprire.
(7.4/10)
Luca Falzetti
Mario Ruggeri
Gabriele Marino
Jim Jones Revue - The Savage Heart (Pias,
Novembre 2012)
Genere: Rock And Roll
Jonwayne - Oodles Of Doodles (Stones
Throw, Marzo 2012)
Genere: beats
Karriem Riggins - Alone Together (Stones
Throw, Ottobre 2012)
Genere: instrum hiphop
Il debutto di Jim Jones, The Jim Jones Revue, venne
registrato in quarantotto ore. Non una di più, non una
di meno. The Savage Heart è stato concepito e prodotto
in un arco di tempo di tre mesi. Il debutto della nuova
forma musicale del reverendo Jim, in puro spirito rock
and roll, fu per tutti quanti un’autentica folgorazione.
Uno dei migliori dischi di rock and roll (non chiamiamolo punk, per cortesia) dell’ultimo decennio. Saturo,
veloce, graffiante, adrenalinico. Quello era il Jim Jones
che, nella sua nuova avventura, raccoglieva l’esperienza
stoogesiana dei leggendari The Hypnotics e la metteva
a servizio del fifties rock. Bill Haley on speed, qualcuno
scrisse, ed aveva ragione.
Oggi sono trascorsi alcuni dischi, parecchi tour (la vera
essenza della Jim Jones Revue band, che sul palco scatena tutto l’erotismo del rock and roll) e la verità è che
il gruppo inglese non ha tirato il freno (forse in parte sì)
ma ha scelto liberamente di essere. E, più precisamente,
di essere una rock and roll band minimalista, essenziale,
primitiva. The Savage Heart è la sublimazione della cifra
stilistica del nuovo re del rock and roll (con molta ironia,
ma neppure troppo): il pianoforte. Tra jelly Roy Morton,
Jerry Lee Lewis, Little Richard e l’honky tonk. Ecco, Jim
Jones oggi suona più come l’erede di Little Richard che
Spacca. Come rapper e come produttore. Simple as it
is. Abbiamo scoperto Jonathan Wayne a maggio con il
progettino Jonwayne Fucks Disney, una serie di divertiti e divertenti quadretti che seviziavano - ma senza
cinismo - Alice nel paese delle meraviglie, Gli Aristogatti,
Dumbo, Mulan, Peter Pan, Pocahontas e La Sirenetta, un
divertissement da una botta (e una notte) e via fatto
con sampler, registratorino, iPad e ovviamente Youtube. A giugno JW ha poi fatto uscire una cassettina di
beats e rap, intitolata semplicemente Cassette, con un
packaging stile Marlboro, una cosa marcissima, underground sul serio, smezzata con Jeremiah Jae della cricca
Brainfeeder.
Doverosamente, in attesa dell’album vero e proprio
sempre su Stones Throw, recuperiamo adesso questo
doppio ciddì uscito a marzo, che è un beat tape che
raccoglie le sue produzioni degli ultimi due anni.
Pochissimi sample (giusto qualche corda e qualche voce
sparsa) e tanta elettronica vintage, povera, lineare, fortemente influenzata videogame e 8bit (basta sentire lo
splendido dittico Big Like Curby e ElecTricity, o gli sfarfallii di Change Up e Hella-Copter; Purple Waterfall sembra
uscita da uno dei livelli sottomarini di Supermario), per
un electro hop asciutto e ficcante, come se El-P si fosse
Figlio d’arte (il padre Emmanuel produttore e tastierista),
batterista per jazzmen di prestigio come come Hank Jones, Oscar Peterson, Milt Jackson, Donald Byrd, Ron Carter, ma anche per l’ultimo Paul McCartney, produttore
per i Roots, Common, Queen Latifah, Erykah Badu, Talib
Kweli, MED, Phat Kat, Proof, Pete Rock (come testimonia
il free podcast Produced That), sodale e amico storico di
Madlib (ha risollevato - o provato a risollevare - le sorti
di molti dei suoi dischi pseudofree) e Dilla (fin dai tempi
degli Slum Village), Karriem Riggins arriva solo adesso
al debutto solista, divisto su due vinili, il primo uscito a
luglio, il secondo il 23 ottobre assieme alla versione cd
completa.
34 pezzi di hip hop strumentale più immerso nel funk
che nel jazz. Karriem è strabravo, e il “singolo” Moogy
Foog It ha un motivetto strisciante che ti entra in testa,
ma l’impressione è che per Alone Together valga un po’
il discorso fatto a suo tempo per l’esordio del superbassista Thundercat. I pezzi sembrano tutti skit per dischi
“altri”, manca la sostanza, ci sono solo tanti spunti, tanti
studi ritmico-timbrici (Alto Flute, Up; titoli autodescrittivi
come Africa, Harpsichord Session, Water, Ding Dong Bells;
i paradiddle scampanellanti di daOOOOOH!; la lezione
madlibiana in alcune take latin, afro e disco; la lezione
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dilliana in No Way, col produttore esplicitamente omaggiato nella traccia conclusiva), ma pochi numeri da appuntarsi sul taccuino, esercizi da producer insomma, e
neppure così golosi. Francamente solipsistici.
Forse Karriem ha nelle collab la sua vera dimensione naturale, spalla di lusso, in cui esprimere al meglio le sue
- tante - skills. Per completisti della scena e del catalogo
ST.
(5.1/10)
Gabriele Marino
Keiki - Popcorn From The Grave (Cheap
Satanism, Novembre 2012)
Genere: satanic pop
Continua il filone horror cinematografico della Cheap Satanism. Dopo i Joy As A Toy arrivano i Keiki, duo belga
che con Popcorn From The Grave tentano, a loro detta,
la strada del satanic pop.
Un’etichetta che invoglia più del dovuto, perché questa
patina horror-cimiteriale è l’unico vero scarto rispetto
a una qualsiasi indie pop rock band di medio livello.
Al sodo funziona così: lei canta e spesso fa il verso a Pj
Harvey, lui invece partorisce riff un po’ azzeccati un po’
bolliti, salvo poi alla bisogna tirare fuori un theremin per
servire la necessaria dose di esoterismo.
Un compitino che si potrebbe dire svolto, ma al terzo
disco i risultati dovevano essere più incisivi.
(5.5/10)
Stefano Gaz
King Of The Opera - Nothing Outstanding
(Trovarobato, Novembre 2012)
Genere: rock-psichedelia
E chi se lo aspettava un Alberto Mariotti così. Abbandonate le vesti del bluesman solitario e waver nell’anima,
l’ex Samuel Katarro ritorna con un progetto che se dal
moniker suona ambizioso, nelle scelte musicali spinge
ancora di più sull’acceleratore. Prog? Psichedelia? Shoegaze? Indie? Folk? Questo e molto di più, a dire il vero. Il
cambio di prospettiva è per certi versi shockante, anche
se già nel secondo disco a nome Katarro - The Halfduck
Mistery, qui richiamato dal brano The Halfduck Misery qualche chiaro segnale della necessità di passare a una
musica più strutturata, rispetto agli esordi, lo si coglieva. Segnali che in Nothing Outstanding si trasformano
in un’esplosione di colori (come quelli della bella cover
firmata Ilaria Magliocchetti Lombi, vicina per tonalità al
mai troppo lodato Loveless) e di input davvero difficile
da arginare.
Con il buon vecchio Katarro morto e sepolto - come ha
testimoniato anche il tour portato in giro nella prima
59
Vitalic - Rave Age (Different Recordings, Novembre 2012)
Genere: Pumped electro rave
Il singolo Stamina rilasciato a inizio ottobre è stata una delle sorprese più eccitanti
dell’anno. Tre anni di silenzio dall’ultimo Flashmob e già su Vitalic non contava più
nessuno, dopo che il buon profilo tardo-electroclash di OK Cowboy sembrava essersi
disciolto lungo una maggiore omologazione electro house. Poi due mosse shock, No
More Sleep a luglio (e la cosa prometteva già bene) e Stamina, appunto, la bomba più
violenta dell’anno, seguita da un videoclip di psicosi e ossessioni a metà strada tra
Se7ev e Baby’s Got A Temper: un furore di aggressività ravey trasportata su un tessuto electro machista che neanche Boys Noize. E nell’esaltazione generale il pubblico
elettrofilo si era convinto che Rave Age sarebbe stato il disco giusto per saziare senza
sensi di colpa la fame di fuoco hardcore.
Sfizio non soddisfabile in toto. La rave age di Vitalic poteva essere dura ma doveva per forza scoprire gli angoli
all’attitudine d’ascolto, un doppio campo d’azione in cui, si sa, il producer parigino è uno dei massimi esperti. Quindi
accanto a ordigni nucleari hard-rave come Rave Kids Go si aggiungono pezzi di autoironia sfacciata à la Crookers
come No More Sleep e The March Of Skabah (quanto saranno fighi live?), lapilli di rabbia giovanile (La Mort Sur Le
Dancefloor, siam nei pressi dei Designer Drugs), splendide evoluzioni drogate della materia french nu-rave (Next
I’m Ready, nonostante tutto quel refrain è killer come fosse pop) e persino rielaborazioni in salsa soundtracking
(Nexus). Come a dire che oggi Vitalic è hardcore sì, ma non per forza di nicchia.
L’unico neo possibile per quel che poteva essere l’album più cattivo dell’anno è il reflusso della sponda synthpop/
electroclash presente da sempre nel background di Vitalic. Qualcosa che va ancora più che bene quando riprende
con stile le geometrie stuzzicanti di Miss Kittin in Lucky Star, ma che rischia di sfiorare il pacchiano nei momenti
più 80s (la Fade Away altezza Scissor Sisters o Under Your Sun più sintonizzata sugli Hot Chip). Ma in un disco come
questo, così in dialettica coi confini tra electro, rave e tamarro, certe cadute di stile si possono accettare anche come
funzionali all’obiettivo. Anche perché tutto il resto si fa perdonare senza problemi. Dopo Rave Age è guerra aperta
alla generazione Skrillex: qual’è oggi l’hardcore con le palle?
(7.2/10)
Carlo Affatigato
metà del 2012 e intitolato platealmente The Death Of
Samuel Katarro - Mariotti privilegia il lavoro di squadra,
coinvolgendo in maniera maggiore i sodali ormai storici
Francesco Paolo D’elia (Wassilij Kropotkin, co-autore di
alcuni brani) e Simone Vassallo. Il risultato sono nove stazioni sonore imponenti, tra i Grateful Dead/Godspeed
You! Black Emperor dell’iniziale Fabriciborio e il binomio Pavement/Hüsker Du di Worried About, i Mercury
Rev della title track e i Pink Floyd post-rock di Heart
Of Town, la psichedelia ampia e deragliante - sorta di
Velvet Underground altezza Venus In Furs traviati dagli
Spiritualized - di Pure Ash Dream e i Kaleidoscope (UK)
via Fairport Convention della già citata The Halfduck
Misery.
A sentirlo cantare, il Mariotti, si stenta a riconoscerlo,
voce matura e impostata su un impianto musicale maestoso e avvolgente (tra gli strumenti, chitarre elettriche, batteria, tastiere, violino). Quest’ultimo efficacie nel
sommare livelli strumentali fino all’inevitabile sbronza,
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riuscendo nel contempo a gestire gli spazi e a mantenere
il controllo sulla chiarezza del messaggio. E infatti i pregi
maggiori di Nothing Outstanding, alla fine, sono tutti
rintracciabili nella sostanza della scrittura: nove brani
capaci di coinvolgere senza agitare storture gratuite o
falsi miti.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
Kiss - Monster (Universal, Ottobre 2012)
Genere: Heavy Rock
In bilico tra eccessi di paraculaggine e quel rigor mortis
musicale che porta a riscoprire il sapore del rock, Monster dei Kiss s’incasella come il ventesimo disco di una
band che, da almeno quindici anni a questa parte, non
ha proprio più niente da dire ma lo dice in grande. Nel
nostro caso, parliamo della promozione coordinata di un
libro fotografico definitivo - un tomo grande come una
chitarra - fatto a mano in Italia e di copertine personaliz-
zate, ognuna con un differente Stato americano. Il tutto
per la modica cifra di 4250 dollari, spese di spedizione
incluse.
Non dicendo nulla di nuovo, l’album almeno riporta il
gruppo verso il rock and roll. Ferri da calza in mano, Paul
Stanley e Gene Simmons, cuciono una piccola coperta
di Linus che gli “enta” e gli “anta” del rock troveranno persino calda. È una piccola macchina del tempo Monster,
che riporta ai “mitici 70’s” quando i Kiss erano ancora i
Kiss (fino ad Alive II) e non la pantomima (da Dynasty in
poi, perché saranno anche diventati famosi per I Was
Made For Lovin’ You, ma quest’ultima rimane pur sempre una canzone obbrobriosa) di una glam rock band
assetata di fama e successo. In questo disco si respira il
rock, dal boogie di Hell Or Hallelujah alle arene gremite di Wall Of Sound (con un giro di chitarra che piacerà
tanto a Slash), a una Back To The Stone Age che sfrutta lo
stacco di chitarra degli MC5 per poi risolversi in un treno
alla Back In The Saddle degli Aerosmith. A proposito, e
per capirci, oggi i Kiss di Monster sono più Aerosmith
degli Aerosmith degli ultimi vent’anni. Ironico, visto
che Steven Tyler li ha spesso definiti come dei cartoon
character. Paul Stanley, del resto - producer ufficiale del
nuovo lavoro - definisce l’ultimo parto come “il disco più
potente mai fatto”. Poca fantasia e tanta autocelebrazione, detto in tutta franchezza.
La verità però è che in questo “tutto già sentito, tutto
già suonato” una vibrazione ce la senti. È troppo poco
per reggere il confronto con chi oggi il rock lo suona
veramente pestando sull’acceleratore, ma abbastanza
per non distruggere il ricordo una band.
(5/10)
Mario Ruggeri
La morte - La morte (Anemic Dracula,
Novembre 2012)
Genere: reading
Cosa c’è di più commerciale della morte? Chissà se Giovanni Succi (Bachi da Pietra) e Riccardo Gamondi (Uochi Toki) pensavano a questo paradosso quando hanno
deciso di intitolare la loro estemporanea(?) joint venture
alla Nera Signora. Certo è che il risultato della collaborazione, commerciale, non lo è di sicuro, considerato
che stiamo parlando di un reading musicale costruito su
estratti di opere che vanno dal Medioevo ai giorni nostri.
Come facilmente intuibile dal titolo, nel disco si parla di
trapassi da questo a quell’altro mondo, con al centro la
voce di Succi - già allenata dal lavoro di lettura portato
a termine nelle registrazioni de Il conte di Kevenhüller - e
sotto la superficie l’elettronica di Rico (oltre ai contributi
al violino, violoncello e contrabbasso di Teresa Tondolo,
Viola Mattioni, Lucio Corenzi): la prima è semplicemente
perfetta nel suo strisciare inesorabile sottoterra, un po’
Bachi da Pietra, un po’ Vincent Price; la seconda è decisamente efficacie nel creare un ambient profonda e
inquietante che richiama certe interferenze della band
madre senza tuttavia perdere la sua funzione prevalentemente descrittiva.
Trecento vinili in edizione limitata (via Anemic Dracula
Records / Corpoc) per questo viaggio dantesco tra feci
e peste, fucili e oscurità. Un teatrino infernale catartico
e affascinante, poetico e scabroso, oltre che - purtroppo
per noi - non solo letterario.
(7.1/10)
Fabrizio Zampighi
Lapalux - Some Other Time EP
(Brainfeeder, Ottobre 2012)
Genere: wonky soulstep
Torna Stuart Howard, ancora introdotto da una copertina di una bruttezza rara (sembrano tutte versioni clubfighette dell’immaginario evocato dal culo guantato
degli Strokes dell’esordio), con il suo wonky goloso e
innervato di soulness al calor bianco ma sotto azoto liquido. Parlando di When You’re Gone lo avevamo passato ai raggi x e il paragone con James Blake, per quanto
forse scontato, continua a sembrarci il più calzante.
Dentro Some Other Time c’è infatti la lezione della
nu-black liofilizzata e tagliata glitch e wonky in chiave
intimista. In Quartz si affacciano fascinazioni per il minimalismo Steve Reich ovviamente nelle versioni Four
Tet e Teebs, con una voce che chiama in causa gli echi
di silenzio di The Weeknd; Jaw Jackin’ ha il piglio dei
pezzi migliori di Crooks and Lovers dei Mount Kimbie,
giusto per ribadire l’area stilistica di riferimento; Forgetting and Learning Again richiama i modi di certo indie
agrodolce anche nostrano (gli Albanopower di Merry
Christmas Darling); Strangling You with the Cord è la zampata electro-funk; su Close Call/Chop Cuts si affaccia ovviamente - l’autotune.
Meno folgorante di When You’re Gone, comunque molto
buono. Ribadiamo: senza troppa fretta, ma aspettiamo
l’album.
(6.8/10)
Gabriele Marino
Lightning Bolt - Oblivion Hunter (Load
Records, Ottobre 2012)
Genere: noise tribale
Quando si ha una forte impronta identitaria e una personalità altrettanto evidente, anche gli “scarti” di produzione hanno il loro perché. Ad essere sinceri, Oblivion
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Hunter non è uno scarto nella pur gonfia discografia
dei due di Providence, ma nemmeno un disco ufficiale
nel senso più vero del termine, dato che le registrazioni
qui presenti risalgono a un 4 o 5 anni fa, poco prima
della realizzazione di Earthly Delights. Registrazioni casalinghe su quattro piste dimenticate unite ad un paio
di classiconi del repertorio live mai registrati prima e
molto, molto free e improvvisate.
Roba “pretty raw sounding” nella definizione dei due,
come se il resto della discografia fosse roba per educande o muzak da centro commerciale, e che si tramuta nel
“solito” - ormai siamo arrivati a definire solito, qualcosa
di altamente disturbante e a-melodico, segno dei tempi - assalto al fulmicotone. Con un basso irriconoscibile
così come la voce (è una voce?) che rantola e digrigna
qualcosa mentre i tentacoli di Chippendale avvolgono
batteria e ascoltatori in un flusso ritmico parossistico.
Un procedere che sfiora quasi la sfasatura ritmica, come
in tempi non sospetti succedeva a campioni del grind
come Brutal Truth e pochi altri o, paradossalmente, a
certi freaks della techno più acida (Baron Wasteland).
Il classic rock smostrato di Fly Fucker Fly, le contorsioni pelviche di Oblivion Balloon, il folk come lo possono
intendere due freaks (The Soft Spoken Spectre) e soprattutto l’improvvisazione delirante, eccessiva e senza freni
di World Wobbly Web, umori prog e malsana tendenza
al disfacimento, non aggiungono nulla al già noto, ma
ci dicono di una band che, può piacere o non piacere,
resta innegabilmente uno dei punti fermi della musica
del terzo millennio.
Ferina e incontrollabile, eccessiva e fuori di testa, fisicamente deformante e mentalmente ottundente, quella
dei due da Providence è roba che non corre il rischio di
sembrare macchietta, perché è già macchietta. Geneticamente e consapevolmente.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
LU-PO - Stendere la notte (Rai Trade,
Novembre 2012)
Genere: contemporanea
La Kočani Orkestar in combutta con lo Yann
Tiersen della soundtrack di Amélie, per una musica tascabile ma al tempo stesso orchestrale: potremmo sintetizzarla così la proposta musicale di Gianluca Porcu
in arte Lu-Po. Qualcosa che ha a che fare con una brass
band di paese ma anche con la musica classica, con
un’elettronica marginale ma anche con un approccio
surreale e virtuoso un po’ à la Sebastiano De Gennaro,
se ci passate il paragone. Surrealismo sottolineato da
una conclusiva La Vampa che arriva a citare - non si sa
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bene come - i Daft Punk e in generale da un disco che
sembra partorito col fast forward. Nulla di demenziale, sia ben chiaro. Piuttosto la capacità di unire leggerezza, malinconie soffuse e un parco
strumenti che comprende pianoforte, violino, violoncello, clarinetto, chitarra, trombone, qualche percussione
e molto altro. Il tutto arrangiato alla perfezione tra richiami e contrappunti, cinematogafico nelle aspirazioni
almeno quanto nella pratica, dal momento che il materiale costituirà la colonna sonora di una pellicola di Carlo
Sarti in uscita questo autunno.
Purcu non è nuovo a certe esperienze, tanto che può
vantare un passato da compositore per operette, televisione, teatro e danza. Oltre al curriculum, tuttavia,
il Nostro possiede una sensibilità tutta sua capace di
semplificare il messaggio e di rendere gli immaginari
che richiama immediatamente condivisibili. Se non ci
credete ascoltate lo Johann Sebastian Bach riletto da
qualche marching band funebre di New Orleans dell’ottimo Valzer del bugiardino o una Carrillon che in qualche
passaggio ricorda pure il tema principale del Pinocchio
di Comencini.
(7/10)
Fabrizio Zampighi
Lukid - Lonely At The Top (Werk Discs,
Ottobre 2012)
Genere: Beats
In un maturo equilibrio tra downtempo, hip e trip hop di
lunga tradizione Ninja Tune e alcuni misurati condimenti, bass, vintage space / jazz / funk dal sapore vinilico,
Foma, secondo lavoro di Luke Blair, raccolse giudizi tra
il buono e l’entusiastico un po’ ovunque. Il motivo era
da ricercarsi sia nel cavallone wonky che allora stava
montando, con le migliori traiettorie proprio da queste
parti (Los Angeles di Flying Lotus era uscito pochi mesi
prima), sia perché sulla Werk di Darren J. Cunningham /
Actress si stavano sintonizzando svariate orecchie, tutte
attentissime nello scoprire dove quella rinascita di beat leggi Lone, Zomby e lo stesso Actress - andasse a parare.
Da allora e ancor di più dal debutto Onandon del 2007,
Luke si è rivelato un ragazzo timido e schivo. Un Charlie
Brown, come l’ha descritto Cunningham in una recente intervista su Fact, un ragazzo che si è sempre tenuto lontano dai riflettori e la cui musica, dal successivo
Chord - un triplo 12’’ con otto inediti su undici, e gli editi
provenienti da Foma - all’ultima release sulla personale
Glum - Spittin Bile, 2011 - ha perso progressivamente
calore e certezze (la summer vibe, i caldi beat hop ecc.)
acquistando sempre più filtri e incertezze.
Lonely At The Top - che vede la luce su Ninja Tune - vor-
rebbe essere tante cose. L’album introspettivo, un riassunto di due anni di ricerche ondivaghe e, non ultimo,
un viaggio/sondaggio nelle proprie depressioni nel tentativo di trovare una via d’uscita. Ci troviamo il presente
di droni e voci dal catalogo Modern Love, hype più che
mai (Manchester, appunto, Talk To Stranger e l’Andy Stott
richiamto a gran voce in Riquelme) e una serie di ipotesi:
l’IDM confidenziale di USSR, i crudi beat quadrati in salsa
8bit (The Dog Can Swim), l’ambient drone (The Life Of The
Mind) e i ritorni sporadici ai fasti di Foma e ai suoi Labour days (Laroche, Bless My Heart e la buona Southpaw).
Chord, inserendosi nel dibattito post-dubstep, l’involuzione l’aveva saputa sublimare, quest’ultimo lavoro
suona come un diario d’appunti.
(6.5/10)
Importa poco se capitano, ciclici, mood al limite del riciclo. 2 è un disco vincente, a tratti irresistibile (Freaking
Out The Neighborhood, My Kind Of Woman), lo specchio
di un talento in crescita esponenziale che, per cultura pop, fa già scattare paralleli con Ariel Pink. È una
scommessa azzardata e senz’altro prematura, ma non
ci sentiamo d’escludere che una hauntologica del calibro di Mature Themes possa spuntare proprio da questo
cilindro.
(7/10)
Edoardo Bridda
Poteva uscire soltanto dalla fucina di follia che è la
Snowdonia - da poco ricollocata nel nord Italia - o da
pochi altri posti l’esordio di Fabio “Spezzy” Soregaroli.
La sigla Magic Crashed - autoironico gioco linguistico
con la precedente band Magic Secret Room - è infatti
appannaggio pressoché esclusivo dell’artista dreadlock
munito, uno squinternato di quelli giusti, con le rotelle che girano eccome, anche se fuori fase rispetto alla
norma e all’ordinario. Uno che ci tiene di brutto a farci
sapere che ha fatto tutto da solo e che, anticonvenzionale per anticonvenzionale, non si è limitato a suonare
una strumentazione tradizionale ma anche “tavolino del
computer, alcuni sonagli, un organetto, [..] alcuni bicchieri,
[..] uno strumento arabo indefinito, un cacciavite e tutto ciò
che fa un rumore registrabile”. L’aggiunta di una copertina
coloratissima e fumettosa conclude l’analisi preliminare
mettendoci subito tutto in chiaro: la Snowdonia è tornata e Magic Crashed è il suo profeta.
Perché Io Lo Sapevo è un quadro dipinto da bambini,
una stanza lasciata allo sbando durante un compleanno
di 4 anni, la cameretta che ognuno di noi ha sempre
sognato. Un posto libero, senza regole né costrizioni,
primordiale nel suo caos disorganizzato e piena di una
genialità a sprazzi, incontrollabile e fine a se stessa. E
come tale, piena di tutti i difetti del caso: incontrollata,
senza senso della misura, iper-stratificata, priva di ogni
contatto con la realtà.
Prendete come vaghi punti di riferimento Bluvertigo e
Camillas, così come Musica Per Bambini o Da Cucina
e Devo o, in alcuni casi, una versione ridotta di Elio o
degli Offlaga instupiditi da abusi di zuccheri preadolescenziali e sarete pronti per salire sull’ottovolante di
Magic Crashed. Un luogo in cui alto e basso, bello e brutto, grottesco, popular, ironico e surreale si mischiano
senza posa in un frullatone misto di techno-pasticciata
(Spazio Contorto), grunge bastardo (Go Machines Go),
Mac DeMarco - 2 (Captured Tracks,
Ottobre 2012)
Genere: garage-pop
Mac DeMarco è il personaggio più interessante dell’attuale roster Captured Tracks. Canadese, classe 1990, vero
e proprio weirdo, esordisce la scorsa primavera con Rock
and Roll Night Club, release da trenta minuti che spaccia per EP. Arrivato ora al proper-debut e “long-playing”
dall’identica durata, gli appioppa il contraddittorio titolo
2. Giusto per complicare l’opera di catalogazione agli
addetti ai lavori e, lo si immagina, ghignarsela.
Il nostro si è però messo in riga, per quanto possa rigare
dritto uno che si faceva chiamare Makeout Videotape,
che tuttora etichetta la propria musica come “jizz jazz”
e diffonde video di culturismo homemade davanti allo
specchio. 2 mette da parte gli eccessi di produzione lo-fi
a mo’ di tape-recordings e l’ossessione per gli interludi
da radio FM vintage (che abbiamo tutti presente grazie alla serie Grand Theft Auto) del precedente lavoro; si
attenuano inoltre le divagazioni glam e le odi goofy a
certi Ween in favore di uno sforzo chitarristico luminoso,
intenso e immersivo, che accarezza tagli sbilenchi, minimalismi e sprazzi jangly visti anche altrove sulla stessa
label (Beach Fossils).
Il risultato è un set lineare e coeso, che gode dell’abilità
nel retro-decostruzionismo soft-rock 70s/80s e del gusto
innato per la melodia che fanno capo a Mac DeMarco.
Non solo: filo conduttore delle undici piccole gemme
garage-pop in discussione è un crooning casual e di tale
disarmante sincerità da renderle non solo immediatamente appetibili, ma che porta persino l’ascoltatore a
relazionarsi naturalmente con l’eccentrico ragazzotto
che chiama “honey” la propria sigaretta (Ode to Viceroy)
come fosse “best buddy” da una vita.
Massimo Rancati
Magic Crashed - Perchè Io Lo Sapevo
(Snowdonia, Ottobre 2012)
Genere: follia-core
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funkettoni da casa di cura (Ahhhhh), siparietti surrealpop tra campioni di classica contemporanea e Morgan
in sedicesimo (Il Settimo Sigillo), valzer autistici (Waltzer
Con Mortaretti), 8-bit bambinesco (Cunts 04), filastrocche,
calembour, frankestein sonori irritanti a volte e illuminati
in altri. Senza schema né direzione, alla lunga stancanti
ma che lasciano sempre una piccola genialata.
Coerenza, si sarà capito, ce n’è poca, almeno sul piano
musicale, mentre immaginario e apparato testuale ben
al di sopra della media dicono di un genietto irregolare,
fieramente scazzato e consapevole, anzi menefreghista,
del suo isolamento. Proprio di quelli che fanno al caso
di casa Snowdonia. (6.8/10)
Il crossover industrial-rock di Ulrike - sì, quella Ulrike
Meinhoff la cui voce echeggia sull’acido delle chitarre -, lo spettralismo rock della citata Zena, tutto echi e
sospensioni ad affossare un noise-rock minaccioso, la
disturbante rendition del canto anarchico ucraino La Makhnovtchina, la scelta stessa della sigla, omaggio all’anarchico ucraino Nestor Makhno, dicono molto dell’idea
politica, prima ancora che musicale di Silo Thinking.
Se poi, l’unico brano cantato - la citata Custer - si trasforma musicalmente in una sorta di aggressivo noise
rock in tensione alla primi Massimo Volume e concettualmente in una sorta di rivendicazione esistenziale, fiera e
disincantata, allora il senso del tutto si disvela.
(7.4/10)
Stefano Pifferi
Stefano Pifferi
Makhno - Silo Thinking (Wallace Records,
Ottobre 2012)
Genere: rock
Mandrake - Zarastro (Forears, Dicembre
2011)
Genere: baroque folk-pop
Se parlavamo di disco “politico” per Irrintzi di Iriondo,
non possiamo esimerci dal farlo per Silo Thinking.
Dietro la sigla Makhno si cela infatti qualcuno che a livello musicale e non, molto ha in comune col chitarrista basco-italiano: quel Paolo Cantù che, guarda caso,
aveva proprio condiviso con Iriondo l’ultimo volume
della serie Phonometak per segnalare la prima uscita
a nome proprio dopo una carriera ultradecennale con
band di poco conto (commerciale) ma dall’infinito valore
(ideologico-musicale): Tasaday, Afterhours, Six Minute
War Madness, A Short Apnea, Uncode Duello tanto
per limitarsi alle sigle più longeve. Vale lo stesso, identico
discorso fatto per il sodale summenzionato. Cantù ha
suonato e/o collaborato con praticamente tutta la scena
avant/impro di matrice rock dell’ultimo ventennio.
Diversamente da Iriondo però, Cantù considera Makhno
una questione privata. Zero ospiti, fatta salva la presenza
alla voce e testo in un pezzo (Custer) di Federico Ciappini
(anch’esso Six Minute War Madness), e non solo in fase
di ideazione ma anche di registrazione e mixing. Con
l’ausilio di chitarra, basso, batteria oltre a clarinetto, elettronica e nastri, Cantù/Makhno mette in scena un disco
di rock mutante e mutato, sperimentale senza perdere
la radice rock, dai forti umori nineties ma aperto al futuro, alla compenetrazione di input, alla contaminazione finalizzata al messaggio. Rievocazione di un passato
collettivo - Stiv, con la dedica/omaggio al mai troppo
compianto Stiv Livraghi (Tupelo, Playground) o Zena, riesumazione della coscienza ideologicamente schierata di
un passato ormai preistorico - e, insieme, esaltazione del
rock inteso come rielaborazione personale, della propria
storia, del proprio trascorso.
I Mandrake sono giovanissima band livornese che ha
debuttato via Forears lo scorso dicembre con l’album
Zarastro. Giorgio Mannucci, ideatore del progetto e cantante della band, lo avevamo già incontrato con i The
Walrus, formazione concittadina con all’attivo Never
Leave Behind Feeling Always Like A Child del 2008. Se con
il gruppo precedente si era dalla parti di un rock garagista in salsa brit, con i Mandrake Mannucci vira verso i
territori più raffinati del baroque folk-pop.
Zarastro si presenta infatti con undici canzoni che uniscono uno spiccato senso per la melodia all’innegabile
preparazione tecnica del gruppo. Una formazione che,
pur avendo assimilato la lezione dei padri - i Beatles in
primis, con l’orecchio puntato a Sgt. Peppers e White
Album, ma non mancano un certo gusto per le armonie
vocali a marca Beach Boys e il pop sofisticato del primo
Sting -, riesce a costruire un album in equilibrio tra rigore e personalità, più che coeso nell’insieme e credibile
nella sostanza dei singoli episodi.
Il breve sussurro di I’m So Confused - part 1, traccia di
apertura, introduce all’arpeggio acustico di Time, in cui
l’incedere groovy della voce è via via evidenziato dalla
presenza di violino, flauto e mandolino. The Copelands
è un crescendo elettrico venato di malinconia, da cui
emerge la capacità vocale di Chianucci - peraltro sempre
in primo piano ma mai sopra le righe - grazie al riuscito
gioco di compresenza tra i vari strumenti (non solo chitarre e violino, ma anche viola, tromba, piano e contrabbasso). La successiva I’m So Confused - part 2 - uno dei
brani più convincenti del lotto - gioca con gli accenti di
un folk essenziale a cui il violino conferisce un’atmosfera
bucolica che sul finale si tinge di delicati arabeschi sinfo-
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nici, come anche in Nothing Is Predictable, altro episodio
folk in aria chamber.
Il mood cambia ancora con la marcetta pop di Uncertain
Moment, mentre Soft Temple chiude un album che già
dal primo ascolto convince per la personale ricercatezza
ed eleganza. (7.1/10)
Giulia Antelli
Mark Eitzel - Don’t Be a Stranger (Merge,
Ottobre 2012)
Genere: singer/songwriter
Tutto ciò che precede questo disco ne sembra la più
naturale premessa. Eppure ugualmente l’ascolto ci lascia stupiti. Piacevolmente stupiti. Eravamo rimasti ad
un Klamath (anno 2009) nel quale Mark Eitzel insisteva col cantautorato contagiato d’elettronica che finiva
per convincerci quanto la scelta non fosse convincente,
soprattutto dopo quel The Golden Age che l’anno precedente aveva visto gli American Music Club rendersi
protagonisti di una reunion di altissimo profilo. Poi sono
successe un bel po’ di altre cose, tra cui un infarto nel
2011 che quasi lo lasciava secco e la morte di Tim Mooney - storico batterista proprio degli AMC nonché dei
Sun Kill Moon - nel giugno di quest’anno. Non proprio
un periodo facile insomma per Mark, che pure ha trovato la forza per mettersi nel solco giusto e rientrare sulla
scena in grande stile. Il suo stile.
Le tracce di questo Don’t Be A Stranger sono lirismo
colto da riccioli di fumo nel jazz club e dalle penombre
di certe camere spoglie, qualcosa tra la baldanza sonnacchiosa Morphine (Oh Mercy, Why Are You With Me) e la
placida inquietudine dei Lambchop (I Love You But You’re
Dead), tra i bozzetti più eterei del primo Tim Buckley (I
Know The Bill Is Due) ed il laconico struggimento di Tim
Hardin (Costume Characters Face Dangers In The Workplace), per non dire dell’immancabile aura dell’amatissimo
Leonard Cohen (Lament For Bobo The Clown). Se c’è un
difetto, va cercato nel fatto che la sobrietà espressiva a
tratti sembra mettere il guinzaglio alla vena soul, meritevole di ben altre evoluzioni. Ma per il resto è un disco
riuscito che senza eccessivi colpi di genio ci restituisce
uno dei migliori cantautori statunitensi quasi al suo meglio. In bocca al lupo Mark, di cuore. (7/10)
Stefano Solventi
Massimiliano Martines Massimiliano Martines &
RanocchiDelfiniDorsistiStilolibertari
Band (Liquido Records, Ottobre 2012)
Genere: cantautore, wave
In tempo di crisi ci si deve pur adattare. E se è vero che
estetica è sinonimo di sensazione, è vero anche che la
strada che deve prendere l’arte è un meccanismo estetico. C’è chi come Massimiliano Martines ha fatto di questa convinzione un disco, coniugando la sua esperienza
di poeta, drammaturgo e anche musicista nella fervida
città di Bologna. Meccanismo Estetico, terza prova
dell’istrionico cantautore pugliese (qui accompagnato
dalla bislacca Ranocchidelfini dorsisti estilo libertari
band), è un’opera in movimento, fatta di inserti teatrali,
testi taglienti, suoni bizzarri, campionature azzeccate e
un bel bagaglio di cantautorato in pieno stile italiano.
Non si tratta certo di un disco facile fatto di melodie o
ritornelli canticchiabili, tutt’altro: qui trovano spazio anche alcune sonorità volutamente fastidiose, rumori poco
piacevoli, volti a determinare la fonte stessa dell’estetica
citata nel titolo. Se, dunque, Martines ci sembra esagerare in questa operazione in brani come Frutti di stagione,
Americana o Frutta fresca, molto più equilibrato ci pare
nelle “stranezze” di Mistress (che rimanda alla freschezza
di un Capossela immaturo) o nella title track (un ossessivo crescendo in stile Tabula Rasa Elettrificata dei C.S.I.)
Ampiamente promossi, invece, i momenti di intimità o
introspezione, sia quando strizzano vagamente l’occhio
al teatro canzone di Gaber (Le Memorie di Adriano, Quante Quante Quante Quante), sia quando si trasformano in
ritmiche di assalto alla Pan del Diavolo (Sugli Alberi).
Disco sostanzialmente immaturo, nella sua geniale stravaganza, che ha ancora bisogno di equilibrare il peso
delle armi a propria disposizione (e ce ne sono parecchie) pur acciuffando in gran stile la sufficienza.
(6/10)
Nino Ciglio
Matthew Friedberger - Matricidal Sons Of
Bitches (Thrill Jockey, Settembre 2012)
Genere: soundtrack, art-prog
Dopo l’esperimento di Solos, ciclo di vinili a cadenza
mensile ciascuno dedicato a uno strumento diverso,
si fa subito a liquidare il nuovo album Matricidal Sons
Of Bitches come l’ennesima, bislacca autoindulgenza di
Matthew Friedberger. Per alcuni versi è di certo così: la
metà maschile dei Fiery Furnaces, già dal 2006, con il
doppio Winter Women / Holy Ghost Language School, aveva messo in chiaro che le sue sortite da solista sarebbero
servite come totale valvola di sfogo per una creatività
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di per sé ultra-debordante (vedi il progetto madre); e
queste quarantacinque (quarantacinque!) mini-tracce
strumentali, concepite come colonna sonora di un inesistente film horror, si ascrivono del tutto a tale, incompromissoria visione artistica.
Poi però, ascoltando e soprattutto leggendo i titoli delle
canzoni, si scopre che l’idea è non solo intrigante, ma
anche riuscita: la narrazione di questo fantomatico “nonfilm” è tutta affidata alle musiche e a nomi di brani che
ripercorrono in tutto e per tutto una sceneggiatura, includendo persino scampoli di dialogo (ad esempio: Expectant Fathers - In for a Surprise IV. “That’s a Rendezvous
and a Half!”). Banalmente, un film per le orecchie; nei
fatti, un’avventura immaginifica tra prog e psichedelia,
affidata in larga parte alle tastiere (ma con un’infinità di
altri strumenti nel mezzo, incluse arpe, terrificanti voci
al contrario, stacchi lounge..), densa di ossessivi temi
ricorrenti e di cadenze armoniche e melodiche immediatamente riconoscibili allo stile di Matthew; che sarà
anche il più autoindulgente dei nerd in circolazione, ma
la sua dote di genio ce l’ha, eccome. Adesso però, dopo
che anche Eleanor (con risultati più godibili) s’è svezzata
da solista, vogliamo un nuovo album dei Fiery Furnaces.
Dai.
(6.5/10)
Antonio PancamoPuglia
Max Petrolio - Humor Pomata (Seahorse
Recordings, Novembre 2012)
Genere: rock dadaista
“Ma dove atterreremo con tutto questo simbolismo” si
canta in Humor 4: in realtà ce lo chiediamo anche noi
quando abbiamo a che fare con Max Petrolio. L’arte del
musicista napoletano certo non aiuta a risolvere l’interrogativo, vista la sua propensione ad attorcigliarsi sui soliti testi shockanti - spesso connessi con l’ambito farmacologico/biologico - e su una musica che, tra la wave di
Discussioni in famacia con animali abili e l’elettronica
di Telefoni Mortimer, ci pare non abbia ancora trovato
un centro di gravità.
Detto questo, Humor Pomata è forse l’episodio migliore
- o, per lo meno, uno dei più credibili - della discografia
di Petrolio, soprattutto per la scelta di limare l’invasività autoreferenziale delle parole in favore di una forma
canzone che abbozza una certa completezza e compostezza di fondo. Anzi, in qualche caso è proprio quella
forma canzone a reggere tutto il peso della costruzione,
come accade nel rock molliccio e disturbante di Humor
3 o in una Humor 2 a suo modo crepuscolare e raccolta.
Parentesi che in qualche maniera fanno apprezzare la costanza messa in campo dal padrone di casa nel ricercare
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comunque una formula personale - qualcuno dice vicina
all’arte contemporanea, noi non ne siamo così sicuri -,
anche se poi a farci cambiare idea pensano le solite sparate un po’ fini a se stesse. Nello specifico, una chiusura
di disco affidata a un elenco semplice e interminabile di
oggetti che va dalla chiusura lampo al Fissan, dall’imballaggio ai coni vaginali, dai peli sulla saponetta agli
anticoncezionali, dalla crosta ai sottaceti. E dello “humor”
del titolo, nemmeno l’ombra.
(5.6/10)
Fabrizio Zampighi
Menomena - Moms (Barsuk, Ottobre 2012)
Genere: indie rock
La novità più macroscopica e impossibile da ignorare in
casa Menomena, per parlare di questo quinto disco, è
certamente l’abbandono da parte di Brent Knopf, andatosene per concentrarsi unicamente sul suo side-project
Ramona Falls. Nella band di Portland sono quindi rimasti i soli Justin Harris e Danny Seim a dividersi i compiti
vocali e gli strumenti, in quello che di fatto diventa un
duo dopo ben quattro album registrati come trio. Arrivato dopo un periodo di fratture personali all’interno della
band, da cui ne uscì il comunque convincente Mines
(2010), Moms riparte dal rinnovato legame a doppio filo
tra Jestin e Danny, le cui madri hanno occupato, seppur
in maniere diverse, ruoli fondamentali nella loro formazione e alle quali questo semi-concept è ispirato.
Quella di Harris ha infatti tirato su suo figlio praticamente da sola, mentre quella di Seim l’ha lasciato troppo
presto, essendo morta nel 1994. Due storie diverse ma
che comunque finiscono per sfociare qui in una celebrazione quasi catartica dal punto di vista emozionale
dei due protagonisti, che ritroviamo soprattutto nei testi e nell’interpretazione vocale, come in un suono che,
seppur mantenendo l’estrosità giocosa dei capitoli precedenti, risulta qui più aggressivo che mai, ma anche
drammatico in alcuni passaggi. C’è, infatti, una spessa
patina lirica che permea il sound e le composizioni del
disco, adesso più attente a centrare il punto piuttosto
che cercare il colpo ad effetto spiazzante, come spesso
capitava nei capitoli precedenti.
Le affinità con gruppi come Tv On The Radio e Mercury Rev rimangono quindi al loro posto, anzi forse si
intensificano le somiglianze tra questo e Nine Types of
Light, in cui i TVOTR avevano preso una direzione simile.
Certo è che la pastosità black delle composizioni che
hanno fatto le fortune dei dischi precedenti si ritrovano
in abbondanza anche qui, come i sax glossy di Plumage,
le chitarre ruspanti a-la Black Keys (ma senza strafare)
di Capsule, i synth impazziti figli dei Flaming Lips di Ba-
ton, seguendo una scaletta di power-ballads che man
mano sembrano incupirsi fino ad arrivare alle percussioni sincopate dell’aggressiva Giftshoppe, i bassi torbidi di
Tantalus e gli archi drammatici della lunga e conclusiva
One Horse.
Certo, rimangono i difetti cronici della band, come, ad
esempio, la ristrettezza di alcune soluzioni vocali che
possono risultare stancanti sulla lunga distanza. Il bilancio del disco è comunque più che positivo e, anzi,
rinforza una discografia già compatta che trova in Moms
il suo capitolo più emotivo.
(7.1/10)
Luca Falzetti
Michael Mayer - Mantasy (Kompakt,
Ottobre 2012)
Genere: Electro techno
Michael Mayer, boss della Kompakt insieme a Wolfgang Voigt e Jürgen Paape, sapeva bene che non
avrebbe traumatizzato i fan annunciando il forfait della
Kompakt Total di quest’anno in base a una non meglio
specificata fobia verso la ricorrenza del 13esimo anniversario. Sapeva che sarebbe bastato annunciare il suo nuovo album, a distanza di 8 anni dall’ultimo Touch e di 4
dalla collaborazione con Superpitcher in Supermayer,
per ripagare in toto i sostenitori. E d’altronde, che Mantasy sostituisca perfettamente la mancanza dell’estiva
Kompakt Total ce lo si poteva immaginare: Mayer è uno
che tranquillamente digerisce set-fiume da 4 ore, pubblicizzando in maniera antologica la sua label, e il disco
segue e prosegue lo stesso concetto, inbarcandosi su di
un autobahn che da Colonia spinge verso le sconfinate
steppe della fantasia mentale, in maniera cinematica e di
spessore, rivistando tra tutti quelli che hanno pubblicato su Kompakt Ambient e Kompakt Extra (Gui Boratto,
Oxia, Superpitcher, SCSI-9, The Field, Axel Bartsch) e
creando un po’ la colonna sonora dei suoi desideri.
Il punto in più sono le sensazioni, il bagaglio mai pesante che accompagna durante tutto il disco/film/viaggio.
Mayer riesce a costruire immagini ben definite su ogni
singola traccia, tra equilibrismi lo-fi tipici degli Air di Les
Voyage Sans La Lune (Lamusetwa), paranoie in bianco
e nero e sottofondo polizziottesco (Wrong Lap, Roses),
e sudori punk con tensioni alla Lola Corre (Rudi Was A
Punk, con quel carillion ossessivo). Questo per tutta la
prima metà dell’album, mentre la seconda è sicuramente
votata più al ballo e alla techno, tra gli omaggi space e
fantascentifici di Voigt Kampff Test e Neue Furche, dove
sono fortissimi i richiami al basso killer dell’Oxia di Domino (Kompakt Total 7, chiaramente).
Quest’anno il ritmo fine a se stesso non paga, e presu-
mibilmente non pagherà nemmeno negli anni a venire.
Mayer, che di questa tendenza ne aveva fatto anche piú
di un manifesto, non si è sottratto e finisce con Mantasy per viaggiare sulla stessa strada ferrata già percorsa quest’anno da Amirali, Deniz Kurtel e Yousef, ossia
house di pensiero, devota alle sensazioni, cassa dritta
ma mai fine a se stessa e passo indietro rispetto al club.
Ogni nota un’idea, ogni nota un richiamo, ogni nota un
messaggio per l’ascoltatore che può limitarsi a scorrere
le immagini restando dentro il suo spazio mentale. Non
c’era maniera migliore in casa Kompakt per sconfiggere la fobia del numero 13 che schierare la sua punta di
diamante. Vero è che chi ha amato e seguito Mayer dai
tempi di Touch o anche prima rimarrà con una certa sensazione di fame, ma adesso il 14 non fa per niente paura.
(6.8/10)
Mirko Carera
Moro - Silent Revolution (Cosabeat,
Settembre 2012)
Genere: indie folk-rock
Giunto al secondo album dopo il debut My Favourite Season del 2010, Moro - al secolo Massimiliano Morini, da
Forlì, classe 1972,- si presenta con Silent Revolution,
pubblicato lo scorso 9 settembre tramite l’etichetta Cosabeat.
Complice anche la parallela professione di traduttore e
insegnante di inglese, il progetto di matrice anglofona
presentato da Moro si rivela assai convincente, accodandosi di fatto a quella lunga tradizione cantautorale che
affonda le radici direttamente negli anni ‘60. Siamo infatti dalle parti di un folk-rock debitore tanto al Donovan
di Mellow Yellow quanto alla lezione universale di Dylan,
passando per quel songwriting intimista ma arricchito di
strumentazione elettrica che vede nei Wilco l’esempio
più recente.
Lo si coglie subito nell’iniziale Love And Understanding e
nella title-track, due brani in cui la dosata elettricità di cui
sopra si accompagna ad una vocalità essenziale e pulita,
mentre A Pose By Any Other Name vira verso i territori più
ritmati, e raffinati, del pop, rimandando a certa eleganza
paulwelleriana (Weller che, tra l’altro, è uno dei maestri
dichiarati del musicista romagnolo).
Some By Time apre la strada alla seconda parte del disco,
caratterizzata da un minimalismo folk che molto deve a
Leonard Cohen e che si ritrova anche in No Clue, dove
l’arpeggio dell’acustica si unisce alla grazia in chiaroscuro delle liriche. Altri episodi pop venati di malinconia
sono Ordinary Days e Squander, mentre la conclusiva Lie
To Me, con il suo crescendo country-blues, tira le somme
di un lavoro nel complesso ben costruito, il cui maggior
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pregio è quello di sapersi destreggiare con originalità
tra presente e passato.
(6.9/10)
Giulia Antelli
Naked Truth - Ouroboros (RareNoise,
Novembre 2012)
Genere: jazz-prog
A un anno di distanza da Shizaru tornano i Naked Truth
di Lorenzo Feliciati, con una formazione leggermente
modificata rispetto al passato. Alla tromba e alla cornetta
c’è ora Graham Haynes (figlio del più noto Roy Haynes,
batterista, tra i tanti, anche per Lester Young) al posto
del dimissionario Cuong Vu, oltre ai soliti Pat Mastellotto
alla batteria e Roy Powell alle tastiere. L’aggiornamento
della line-up porta, da un lato, alla riconferma di un fluire
morbido e indeterminato dei fiati in gran parte riconducibile al Miles Davis post-Bitches Brew (più di un punto
di contatto con gli Animation di Bob Belden), dall’altro a
un suono corale ancora più spinto e tirato nell’intrecciare
contributi strumentali e generi.
Tra texture ambient, (Orange) e incroci di fiati allungati
su drumming free (Dust), prog-jazz-rock (Dancing With
The Demons Of Reality) e funk (Right Of A Nightly Passage), Ouroboros vorrebbe riassumere “l’uno e il tutto, ma
anche l’eterno ritorno e la nozione di infinito”. Un viaggio
di quarantanove minuti in bilico tra attese incombenti
e detonazioni improvvise gentilmente offerto da una
band in ottima forma.
(6.9/10)
Fabrizio Zampighi
Neurosis - Honor Found In Decay (Neurot,
Ottobre 2012)
Genere: Post-hc
Il fatto che i Neurosis siano una delle band più importanti della musica estrema degli ultimi dieci anni (e oltre) è una verità incontrovertibile e diventa superfluo
continuare a ribadirlo ad ogni occasione. Forse, complice anche l’impenetrabile alone di culto che li circonda,
quell’aura quasi mistica che nel corso del tempo hanno
saputo ritagliarsi addosso, sembra di trovarsi di fronte
ad artisti la cui rilevanza abbia di gran lunga superato
quella delle proprie creazioni. Proprio come accade a
molti altri, in molti altri settori. I Neurosis come band e
come esperienza collettiva nel corso del tempo sono più
influenti dei loro stessi dischi, di cui almeno quattro o
cinque (Souls At Zero, Enemy Of The Sun, Through Silver In Blood, Times Of Grace, A Sun That Never Sets)
stanno in una stretta graduatoria che va dall’eccellente
al capolavoro.
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Tanto si ribadisce per dovere di cronaca, perché a questo punto, al cospetto del decimo disco in carriera, che
arriva dopo cinque anni da Given To The Rising, quel
malinconico senso di delusione che immediatamente ti
prende di fronte al riff sciattissimo di We All Rage In Gold
sembra quasi un effetto collaterale inevitabile. Eppure la
visione storta dei Neurosis, anche se sbiadita rispetto al
passato, non è del tutto persa. Il riff sabbatthiano di cui
sopra, dopo un tenebroso intermezzo per sola voce si
incardina in una visione acida delle loro, in un territorio
che conoscono bene, dove sludge, doom, psichedelia
e folk si trovano a mimare quel brivido esistenziale da
catastrofe che è il vero marchio della band di Oakland.
Tutto il disco continua così. Molte trovate stucchevoli e
scialbe vengono salvate in corner da aperture visionarie
degne dei tempi andati. Si vedano la cornamusa pagana
che apre in due la marcia sfiancata di At The Well; l’intro
industrial di My Heart For Deliverance, che esplode in un
riff epico e acido, salvo poi incunearsi in un’oasi folk che
fa il paio con i dischi solisti di Kelly e Von Till. Bleeding
The Pigs probabilmente è l’apice del disco con il suo tribalismo catastrofico che dà lezioni di apocalisse a Tool
e derivati. Il lato più heavy fa quadrato in All Is Found...
In Time che è un’altra vetta, tra continui cambi di ritmo
e d’atmosfera.
Produce, come al solito, Steve Albini che firma un’altra
produzione incentrata sulla sezione ritmica a fare da
scheletro al disco piuttosto che il fondale a margine. A
conclusione non è colpa di Honour Found In Decay se
si avverte qua e la qualche elemento di stanchezza. Piuttosto sono i dischi elencati più sopra che stanno davvero
oltre nel micro mondo apocalittico dei Neurosis.
(6.8/10)
Antonello Comunale
Niccolò Fabi - Ecco (Universal, Ottobre
2012)
Genere: cantautorato
Sul Niccolò Fabi esordiente era difficile scommettere,
tutto diviso tra bel faccino e divertissement, e non gli
avremmo certo prefigurato una luminosa carriera. Invece
eccoci al disco numero sette, a dire qualcosa che somiglia proprio a Ecco trovandoci di fronte al frutto di una
naturalissima e pregevole evoluzione artistica. Impossibile, diciamolo subito, dimenticare il fatto privato, quello
tragico che due anni fa portò Fabi drammaticamente
su tutti i giornali (la morte della figlia): sarebbe ipocrita
insomma valutare questo lavoro dimenticando quanto
sia stretto il nodo per un autore tra la propria scrittura e
fatti così essenziali della propria esistenza.
Fabi corre dritto per una strada che è il proseguio del tut-
to coerente di Solo un uomo (2009) e dà vita a un lavoro maturo, dalla scrittura riflessiva, accurata e misurata.
Testi introspettivi, a riflettere su un sé che si muove nel
proprio tempo - il nostro - con tutte le riserve del caso.
Ironico, sofferto, attento: questo è un Fabi che, ancora
una volta, non vuole sedurre l’ascoltatore ma sedersi
con lui e insieme a lui riflettere. A suo modo, Ecco non è
un disco semplice, con questa forma narrativa che non
esclude lo slancio pop ma in qualche modo, lo costringe
a un rallentamento anche quando non sarebbe previsto
(Indipendente, Le cose che non abbiamo detto).
Una buona prova insomma, radicata nelle origini di quella nuova scuola romana di cui Fabi è da sempre esponente e che vede al centro quel sound voce e chitarra a
lui molto caro. Nota speciale per gli abiti: arrangiamenti
curatissimi e un’ottima produzione. (6.9/10)
Giulia Cavaliere
Ninos Du Brasil - Muito N.D.B. (La Tempesta
International, Novembre 2012)
Genere: electro-tribale
Che l’etnico e il terzomondismo siano una delle direttive
principale degli ultimi anni in musica, è un fatto assodato. Ormai non c’è produzione musicale che in qualche
maniera non peschi in quel serbatoio ampio e sconosciuto che va dall’Africa, al Sud America, all’Asia e ritorno. Se
tra le ultime uscite nostrane ci vengono in mente gli Honeybird & The Birdies o i Mombu, tra gli stranieri - tanto per fare qualche nome - potremmo citare nell’ampio
contenitore che è il “rock” i primi Liars per certi elementi
ritmici tribali, come del resto gli Akron / Family, gli Elfin
Saddle o i Sepultura per il metal. Per quanto riguarda
la battuta sintetica, invece, è inevitabile prendere come
punto di riferimento la proposta di Ricardo Villalobos,
bilancia di stile fra le sue origini cilene e il minimalismo
berlinese o le incursioni sporadiche di Four Tet nel jazz
nero e nei ritmi sincopati della world.
Nella maggior parte di questi casi il paradigma estetico
ha cercato comunque di inglobare elementi musicali
esotici in uno stile “occidentale” già codificato su categorie aliene alla world, fornendo un sincretismo ambivalente e non sempre del tutto integrato. Il discorso non
vale per i Ninos Du Brasil, che invece assumono come
punto di partenza la musica di un mondo diverso dalle
loro origini culturali. Nel disco d’esordio della neonata
band/progetto, si parla di batucada, uno stile musicale/percussivo brasiliano vicino alla samba e influenzato
dall’Africa, diffusissimo durante il Carnevale di Rio. Sulle
strutture ritmiche del genere il trio innesta un’elettronica
inquietante fatta di ambient e di impennate ritmiche,
oltre a un’attitudine viscerale e fisica non troppo distante
dal mondo dell’hardcore. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che Nico Vascellari (artista visivo, già
With Love e Lago Morto), Nicolò Fortuni (With Love,
Ohuzaru, Man On Wire) e Riccardo Mazza (A Flower
Kollapsed) arrivano da un passato musicale solido e
urticante.
Nessun compromesso, insomma, per un disco che è un
tripudio di percussioni e poliritmie generate da cuica,
congas, campane, jambè, rulli, piatti, claves, maracas, fischietti, campanelli ma anche bottiglie, lattine e pezzi di
legno. Una cacofonia analogica perfettamente calibrata
che si sovrappone all’elettronica, generando un suono
oscuro, profondo, abrasivo e senza vie di fuga. Il progetto ha una sua ragion d’essere e suona decisamente
credibile, anche quando gli elementi sintetici e i tamburi
copulano per dar vita a un’estetica non troppo distante dalla tribal (vedi ad esempio la conclusiva Hysà, che
ricorda i fasti percussivi di 20Hz di Capricorn e di gran
parte della tribal anni novanta). A quanto pare, Muito
N.D.B. ha anche discrete potenzialità in termini di diffusione e di hype, visto che piace un po’ a tutte le latitudini:
dalle sfilate di moda (con tanto di articoli su Vouge Italia),
alle istallazioni artistiche (la biennale di Architettura a
Venezia), ai concerti veri e propri nei club.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi, Marco Braggion
Occhi di astronauti - La città verrà
distrutta domani (Autoprodotto, Maggio
2012)
Genere: electro hop
Occhi di astronauti è il moniker frutto di una collaborazione tra Groovenauti (Max Prod, musiche) e Lato oscuro
della costa (Polly, testi), che a maggio ha fruttato l’album
La città verrà distrutta domani, in free download sul
loro sito occhidiastronauti.com.
Se la scena italiana non fosse impegnata a incensarsi
negli specchi delle proprie brame sicuramente non lascerebbe passare inosservato questo lavoro. Se la scena
italiana non fosse impegnata a lanciare dissing circensi
capirebbe l’impatto di questo album, che da una parte
sicuramente innova - forse anche a una velocità troppo
elevata per i confini nostrani - e dall’altra cementifica un
concetto base dell’hip hop: il messaggio, la forza di una
frase, visionaria o urbana che sia.
Sulla parte musicale Occhi di astronauti dimostra di aver
tenuto spalancate e ricettive le pupille verso le ultime
tendenze elettroniche, definendo un modo nuovo di fare
basi per il rap, almeno nel belpaese, con richiami precisi ai
lavori di Flying Lotus, Sbtrkt, Circlesquare, Muxmool e
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Rustie (ma il citazionario potrebbe andare avanti ancora
molto, tra dubstep postdubstep electro e wonky): musiche
che disegnano in maniera perfetta l’ambiente suburbano
e marziano in cui lo scritto di Polly si muove a incastro tra
accelerazioni pause e reprise. Scrittura e interpretazione
guardano meno ai tecnicismi e tanto a cosa dire, sospesi
tra il reale e il fantascientifico-contemporaneo tanto caro
ai romanzi di Dick o ai fumetti de l’Eternauta, con un rap
ansioso e frenetico - a volte in fuga, altre fermo - e assoluti
lampi di genio, con messaggi stampati in spazi concisi:
io sogno sabbie blu nella spiaggia industriale ombrelloni di
lamiera in questo mondo surreale tutto intorno teloni in pvc
con su stampato il mare (Spiaggia Industriale); senso pratico
senza panico sesso aggrappato al maniglione antipanico
nell’elenco di vizi, stravizi e ossessioni (caramelle Haribo)
della title track; non mi dire che hai amato questo caos che
tutto distrugge e genera la mia barba è il sogno di un’epoca,
nella Notte d’oro che è forse il momento più convincente,
insieme alla struggente rivolta ambientale di La ballata
del petrolchimico, ovvero non spolverate i fucili per la rivoluzione serviranno i vinili, con quella voglia di evadere dal
reale attraverso le proprie bolle. Pescando ancora e a caso
tra le rime: ci siam persi di vista tra gli schemi degli iphone, i
supereroi dei dialoghi abitudinari, le citazioni di Bresci e di
quel Federico dove sei Federico dove sei Federico (Aldrovandi?), nell’attualissima Sbarre, la traccia che chiude il disco.
Sono tante le visioni e le paranoie che in simbiosi parassitaria tra groove e testi proiettano oltre la stratosfera
questo La città verrà distrutta domani, scavando un solco
tra chi ha prodotto fino a oggi e chi produrrà da oggi e
avrà voglia di uscire dalle solite rime, dalle solite case
chiuse dei sample funky, dal solito citazionismo, dal solito superego del rap nostrano. Album così ne escono
pochi e passino pure in secondo piano le sbavature, le
forzature e le imperfezioni tipiche dei primi lavori, figlie
di un’anarchia che serpeggia tenebrosa in tutto il disco.
Nel rap italiano ad oggi per chi scrive questo è il disco
dell’anno.
(7.3/10)
Mirko Carera
of Montreal - Daughter Of Cloud
(Polyvinyl Records, Ottobre 2012)
Genere: disco glam collage
Daughter of Cloud è il rare, b-side e unreleased album
degli Of Montreal. Copre un arco temporale che va
dall’indie caso che fu Hissing Fauna, Are You the Destroyer? all’ultimo pantagruelico Paralytic Stalks, in pratica cinque furiosi anni nella produzione discografica di
Kevin Barnes che nella vita di un musicista “normale” si
tradurrebbero in dieci o venti.
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Vista la natura compilativa del lavoro - diciassette tracce, di cui dieci completamente inedite - troviamo molti
episodi sketch sui due minuti e altri sui quattro, tutti carichi di arrangiamenti e soluzioni ritmiche. Il tentativo
era quello di farlo suonare come un nuovo album della
band, il risultato è un caleidoscopio a tratti straniante
e raramente geniale, ma sicuramente mai trascurabile
tout court. Si va dall’hip hop recente dalle parti della
Anticon - e ce n’è un bel po’ - (Stepping’ Out, Partizan
Terminus, Alter Eagle, Subtext Read, Nothing New, Obiousatonicnuncio), alla nota synth-tronica (Jan Doesn’t Like
It, Noir Blues To Tinnitus), passando per episodi più disturbati (Hindlopp Stat), ballad al piano (Expecting To Fly),
qualche basamento indie chitarristico Hissing Fauna (Psychotic Feeling, Tender Fax, la roureediana Kristiansand) e
condimenti glam-disco-psych uptempo che riassumono,
in pratica, la portante sonica dell’ultimo Barnes.
Sono tre i convincenti episodi prettamente pop (Our
Love is Senile, Sails, Hermaphroditic e la citata Psychotic
Feeling), il resto è pane per i denti dei cultori. Un sorriso
(Georgie’s Lament) scappa sempre, l’effetto è quello di
una sbronza a un passo dalla china discendente. That’s
Barnes baby.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
Opossom - Electric Hawaii (Fire Records,
Settembre 2012)
Genere: vintage pop
Mentiremmo spudoratamente se vi dicessimo che conoscevamo bene il buon Kody Nelson, già nei neozelandesi
Mint Chicks; un piccolo culto proveniente da lontano
sinora colpevolmente sfuggito al nostro radar, e non
fosse per la sempre provvida Fire Records ci saremmo
persi anche il suo debutto in solitaria col moniker di
Opossom. Sarebbe stato un peccato, perché a partire
dalla copertina e - ovviamente -dal titolo Electric Hawaii è
un’esplosione di colori e suggestioni pop, in un’amabile
salsa vintage-psichedelica che richiama alla mente, oltre a certe caramellosità Beatles (Blue Meanies, come da
nome) le visioni dei vari MGMT, Ariel Pink e, nemmeno
a dirlo, Flaming Lips e Mercury Rev (Inhaler Song).
L’approccio diy/one man band ci ha piacevolmente ricordato anche quel Matt Berry che l’anno scorso ci ha
consegnato in sordina un altro dischetto per cultori
(Witchazel), ma al posto di quel gigioneggiare eclettico tra i generi qui troviamo una mira più precisa, con
intuizioni melodiche e di arrangiamento di pregio. Tra
gustosi citazionismi (Girl non ricorda forse la velvettiana Femme Fatale nell’incedere melodico? O Watchful Eye
non sembra Only Love Can Break Your Heart del vecchio
Young ripensata dagli High Llamas?), camei strumentali
degli dell’Eno pop (la title track), bassi alla Macca, voci
trattate ed elettronica cheap il punteggio si porta a casa
con mucho gusto. (6.8/10)
Antonio PancamoPuglia
Oratio/Nicolò Carnesi - Non vado più al
mare (Malintenti Dischi, Ottobre 2012)
Genere: pop, cantautore
Le nostre parole non varranno il solito “non ci finiscono
mai di stupire questi due autori eccezionali”, perché (va
detto subito) Non vado più al mare è un disco che non
aggiunge nulla di nuovo alle carriere di (ora possiamo
pure dirlo) questi due autori eccezionali. Non ci sembra
una novità l’incredibile carisma espressivo di un Carnesi
che ha conquistato la penisola con il cantautorato - velato indie rock - di Gli eroi non escono il sabato; non
ci sembra neppure una novità l’intimissimo (quanto
ironico) sound d’antan di Oratio, ennesimo esponente
di una scena (quella cantautorale siciliana) che fra i vari
Colapesce, Dimartino et similia, sta portando alla ribalta
i fasti della Trinacria.
Non vado più al mare si configura come uno split, in
cui, con l’aiuto delle note basse di Antonio Di Martino
e della bella grafica di Mirella Nania, i due brani cantati
da Oratio (al secolo Andrea Corno) suggellano all’inizio
e alla fine i due interpretati da Carnesi. L’atmosfera rimane quella di un cantautorato allegro, spensierato (con
alcune aperture a cui acceneremo), in cui di mare ce n’è
pure fin troppo, ritmato sugli stilemi già collaudati nei
dischi solisti: c’è Luca Carboni nei ritmi in levare e nelle
armonie (come non notarlo nella title track?), c’è la maturazione di uno stile di scrittura più solido e robusto in
Carnesi, seppure a volte sacrificato sull’altare della cantilena (Vampiri), c’è il ritrovato gusto per la ballad d’autore
in Curo la forma (“Io curo la forma, io temo la forma ed è la
cosa più stupida che mi poteva capitare”).
Non rispondono all’appello (ma si erano fatte sentire nei
due dischi solisti), le influenze della wave più internazionale per Carnesi (Smiths, Cure, ecc.) e la vena tagliente e
d’assalto di Battisti o Bugo per Oratio. Tutt’al più spunta questa interessante deriva vagamente italo disco in
Lungimirante (Righeira, perché no?), che è senza dubbio
l’apertura più intrigante e originale dell’Ep. Rimane un
senso d’incompletezza e mancato appagamento alla fine
di un ascolto attento, ma il lavoro è senza dubbio degno
di essere fruito con acuta leggerezza. La stessa con la
quale, probabilmente, è stato concepito.
(6.5/10)
Nino Ciglio
Paolo Saporiti - L’ultimo ricatto (Orange
Home Records, Settembre 2012)
Genere: avant-folk
Dopo la parentesi Universal suggellata da un Alone efficace nel trasformare in folk elegante un songwriting
crepuscolare e da sempre attratto da un’intima ricerca di
sé, Paolo Saporiti ritorna con un disco che va nella direzione esattamente contraria. Anche se, in realtà, L’ultimo
ricatto non è una rivoluzione copernicana per il musicista
milanese, piuttosto un accondiscendere certe attitudini
in odore di minimalismo da sempre presenti nella sua
poetica e forse messe un po’ da parte nelle ultime uscite
discografiche.
La novità è uno Xabier Iriondo a far da musicista aggiunto, arrangiatore e agitatore, quest’ultimo già collaboratore di Saporiti ai tempi dell’Ep Just Let It Happen e qui
fondamentale nel dar sostanza a un disco dall’approccio
quasi concettuale: suono destrutturato dai trattamenti
rumoristi del chitarrista degli Afterhours, estetica ridotta
all’osso, indole cantautorale comunque presente. Le cose
migliori si ascoltano quando le ruvidezze avanguardiste
di Iriondo abbandonano il descrittivismo da fondale entrando prepotentemente nella struttura dei brani. Quel
che accade in una Sad Love/Bad Love che dal binomio
banjo-voce passa nel finale a un crescendo orgiastico e
acuminato o a una War (Need To Be Scared) che ricorda
Tim Buckley in un’alternanza di chitarre elettriche e archi, nelle ingerenze free che sfilacciano We’re The Fuel o
nel blues urticante di Stolen Fire.
L’idea alla base del disco è affascinante, i risultati incoraggiano: e se questo fosse soltanto il primo step di un
connubio capace di regalare ulteriori gradi di compenetrazione stilistica? (7/10)
Fabrizio Zampighi
Parallel 41 - Parallel 41 (Baskaru,
Ottobre 2012)
Genere: impro-ambient
New York e Napoli. Julia Kent e Barbara De Dominicis. Parallel 41 è un progetto di ricognizione psico-geografica
dei suoni, che arriva dopo numerosi progetti analoghi,
secondo una tradizione che a partire da Alan Lomax ha
fatto del field recordist una figura molto romantica e negli
ultimi anni abbastanza abusata. In verità, Parallel 41 trascende una scena oltremodo affollata e arriva a risultati
prettamente musicali di grande respiro. Il sottotesto teorico che fa poi da scenario nel disco e da sostanza in Faraway Close il video-dvd di Davide Lonardi, arricchisce
ulteriormente e ci permette una digressione concettuale
quantomeno affascinante.
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Parallel 41 in effetti assomiglia a Landings di Richard
Skelton o alla Odomez Serie di Nothing Out There. E’
sintomatico come in questi casi, il supporto discografico
non sia sufficiente. Landings si accompagnava ad un
libro di prosa (ed in molti casi della Sustaine-Release anche a foglie e arbusti della campagna in cui Skelton registrava); i vari dischi della Odomez Serie avevano sempre
qualche elemento di corredo, anche qui un diario e in
alcuni casi veri e propri bulloni della Kuhlmann Factory
abbandonata. Parallel 41 accompagna alla musica le riprese di Lonardi che, invece di limitarsi a fare da cronista si avventura in documenti d’epoca e in alternanze di
montaggio che effettivamente tracciano percorsi e similitudini. Napoli e New York sono due città-dominio, con
una comunione dello spirito più segreta e nascosta di
una semplice riflessione sul caos che li contraddistingue.
Se ne accorge soltanto qualcuno che abbia camminato
con attenzione a più riprese in entrambe. Le mutevoli
scenografie e le umanità diversissime che si alternano
davanti allo sguardo passando da Via Marina a Via Toledo, e poi ancora per la Pignasecca e i Quartieri Spagnoli,
hanno lo stesso identico modo di accompagnarsi l’un
l’altro, di quello in cui a Manhattan le tradizioni irlandesi,
italiane, portoricane, cinesi si compenetrano, nel Lower
Side. Da qui anche quel senso di tradizione arcaica che
permane come un riflesso pagano delle diverse culture
e a cui si allude nel video.
Di fatto la musica di Parallel 41, nell’unione tra il violoncello di Julia Kent e l’elettronica per voce di Barbara de
Dominicis, allestisce una soundtrack che trae linfa vitale
da tutto questo secondo un processo semi-ritualistico
che è comune a molti musicisti da presa diretta. Da qui
anche la scelta di non precludersi altre tappe, nel viaggio
ideale tra Napoli e New York e di trovarsi in altri luoghi
come Forte Marghera o in un tunnel abbandonato in
provincia di Bolzano. Quello che fa la differenza, al di là
del coltissimo e inspirato suono della Kent è la voce della
De Dominicis che si cala in uno spoken word teatrale e
lirico abbastanza originale. I brani, lungi dall’anestetizzarsi sui field recordings (la metro di NY, il mercato di
Porta Capuana..) li compenetrano tramite il suono del
violoncello e della voce è il risultato è spesso deliziosamente musicale, come nel valzer decadente di Illusory
Rendesz Vous o nel superlativo droning mimato di The
Naked City, che per atmosfera noir ricorda alcune cose
del Tin Hat Trio. I risultati sono sufficientemente maturi
per vagheggiare un Parallel 41 parte seconda.
(7.4/10)
Antonello Comunale
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Paws - Cokefloat! (Fat Cat, Ottobre 2012)
Genere: slacker rock
Un certo tipo di attitudine diffusa nei primi ‘90s non
smetterà mai di esistere... ed è giusto così. I PAWS forse non erano neanche nati (il leader Philip Taylor è del
1990) quando il dio degli slacker - probabilmente incarnato qualche anno dopo dal Drugo di The Big Lebowski insegnava la retta via a band come Dinosaur Jr. o Pavement e guidava i ragazzini americani tra skaters, fumetti
brainless, scatole di pizza, birre e Beavis & Butthead.
Dettaglio non trascurabile: come gli inglesi Yuck, anche
i PAWS - nonostante le affinità con quel contesto - non
provengono da villette a schiera statunitensi ma bensì
dalla piovosa Scozia.
Il gioco dei PAWS e del loro album di debutto Cakefloat!
è quello più classico: melodia (tanta melodia), chitarre
svogliate ma protagoniste e youth-mood dall’inizio alla
fine. Catherine 1956 contiene l’elemento che fa la differenza tra band come Blink 182 o Feeder e i PAWS: la
genuina onestà di chi sa scrivere un buon pezzo orecchiabile, non perchè lo deve fare a tutti costi ma perchè
gli riesce in totale spontaneità.
Teste che si muovono e busti dondolanti in Jellyfish (strano incrocio tra Wavves e i Sum 41), titoli che parlano da
soli (la scanzonata Boregasm), virate garage-punk ancora
in ottica Wavves (Bloodline) e inni lo-fi sotto la produzione di Rory Atwell (ex Test Icicles).
Tra i momenti più memorabili e fuori dal leitmotiv musicale di Cakefloat! abbiamo l’unico passaggio acustico
Get Bent che rappresenta l’apice dell’immaginario kids
against parents (“Why do you spend all your free time
in your room?”) e i ricordi in zona Hüsker Dü di Tulip.
In giro con i Japandroids (al termine del tour con i nostri Be Forest), i PAWS potrebbero non maturare mai
e, ironicamente, è il migliore augurio che gli possiamo
fare. Forever young. (6.8/10)
Riccardo Zagaglia
Peter Broderick - These Walls Of Mine
(Erased Tapes, Ottobre 2012)
Genere: mind-folk
Cominciavo mesi fa la recensione di itstarthear.com,
con un promettente “Largo ai giovani, il dirompente Peter Broderick!”: mai proclama fu più sacrificato e vittima
dall’entusiasmo - seppur tiepido - del momento. E si sa,
le recensioni vivono di sottigliezze, di ciò che rimane (se
di buono qualcosa c’era) più di ciò che è stato realmente
aggiunto all’opera, di un continuo soppesare a discapito
dell’osservazione (brutto mestiere quello del recensore),
soprattutto visti i tempi affamati e impulsivi che il mon-
do musicale è costretto - per sua colpa, sia ben chiaro
- a subire. Il caso dell’artista danese è eclatante; una sovrapproduzione (due dischi in meno di un anno e chissà
quanti in programma) che nulla giunge - ribadisco, semmai toglie - all’opera tutta, alla forma che un musicista è
capace di dare alla sua creatura, soprattutto se, come in
questo caso, si parla di avanguardia legata direttamente
al cantautorato e a tutte le sue forme future, innovative
o meno, non sembra avere gran importanza.
Andiamo al sodo, il nuovo These Walls Of Mine, a parte il
titolo suggestivo, nulla evoca se non un parziale passo
indietro, un vago assopimento del talento di Broderick.
Ci si allontana sempre più dall’ondata neo - classicista dei
vari Arnalds o O’Halloran per avvicinarsi sempre più ad
una voluta non-direzione dal sapore rapeggiante e quasi
sospesa nelle sue minim(alist)e e solo vagamente suggestive intuizioni sonore. Assemblate come e con che fine,
lo spiegheremo poi, ora la rigida analisi. L’iniziale Inside
Out There apre spiragli che rimandano ad un passato recente (una quasi rivelazione in salsa islandese) incapace
di ri-sintonizzarsi , avvinghiato com’è alla ricerca spassionata dell’insipido arrangiamento esotico (il western
alla Johnny Cash di Freyr! tra coretti soleggianti) o del
balbettio suggestivo (una quasi luminosa I’ve Tried). Si
fa poi il verso a Moby (Proposed Solution To The Mistery
Of Soul), per poi passare, soprassedendo sull’imbarazzante rap di When I Blank I Blank, all’eponima These Walls
Of Mine, collage dal sapore improvvisato, a dir poco. Il
battimano notturno di Copenhagen Ducks si eleva quasi
come una piccola perla in quarantena (sognante e cadenzata, quasi appena colta), capace, lei sì, di emergere
fra il (talento) sommerso che la circonda.
Un album che vuole essere visto come esperimento,
un laboratorio musicale (e vocale, e testuale) dove il
come - la casualità dei testi visti come dialogo con i fan,
l’introspezione insistita, il mezzo internet come collante sul tutto - prevale volontariamente finendo così per
comporre un quadro desolato, senza direzioni, dove a
mancare è la seppur minima poetica. Un album fine a se
stesso, dove i flebili abbozzi di genio, come se fossero dei
freddi calcolatori, non trovano riscontro tra le angolature
umane e istintive di cui un’opera di livello si nutre e si
nutre ancora, tralasciando i fini, e quindi, concentrandosi
finalmente sulle origini.
These Walls Of Mine soccombe in preda ad isterismi
troppo insistiti sul perché di un’operazione volutamente
autoreferenziale, tralasciando inesorabilmente la sostanza. Come un piano sequenza in un deserto e, quest’ultimo no, non è un complimento.
(5.8/10)
Pharm - Pharm (Face Like A Frog, Novembre
2012)
Genere: dopo rock
Quando c’è di mezzo Fabio Reeks Recchia non c’è mai da
stare tranquilli. Il romano ha trafficato sempre con musiche, band e progetti borderline. A volte estemporanei, a
volte dalla lunga tradizione: tanto per fare qualche nome
Zu, Eraldo Bernocchi, Okapi, Damo Suzuki, Germanotta Youth e moltissimi altri. Uno avvezzo a mischiare, a
giocare coi ruoli, a sconvolgere le carte in tavola, specie
quando si trova a fare comunella con una formazione
atipica come questi Pharm.
Collettivo audio-video formato da Cristiano De Fabritiis (batteria e live electronics), Claudio Mosconi (basso),
Matteo D’Incà (chitarra), Alessandro Rebecchi (videomanipolazioni) e dal citato Reeks ai live electronics e
percussioni, Pharm è in realtà un tritatutto. Post-rock
colto alla Tortoise, attitudine punk, Primus, hardcore
evoluto, industrial dei 90s, destrutturazione, reminiscenze del Coltrane imbizzarrito, il jazzcore romano, le
colonne sonore immaginarie, il funk, la Canterbury più
avventurosa, il rock in opposition meno standardizzato
e moltissimo altro trova accoglienza nelle sette lunghe
tracce del lavoro.
Ne escono canzoni che sono interi universi fissati in una
istantanea appena dopo il big bang, colori e fusioni
transmediali liofilizzate in composizioni irregolari e libere, che non perdono mai in coerenza e forza visionaria
pur muovendosi tra umori, suggestioni, sensazioni ovviamente eterogenee. Post-rock malinconico e pacato
dei June Of 44 imbastardito col glitch’n’cuts (Western
Machines), manovre smuoviculo da funk alien(at)o e in
modalità weird-exotica (Joe Chip), trip-hop agnostico
e cinematico (Q), l’hardcore evoluto dei Victim’s Family
mischiato al rumorismo e sgretolato in un caleidoscopio
di decostruzioni (Buone Cose A Lei), la via schizoide del
jazz più libero e funkettoso pronto a tornare alla casa
madre Africa (L’Africano), il crossover dei 90s rielaborato
in chiave terzo millennio (Sorbetto): Pharm è veramente
una ossimorica galassia di suoni in opposizione e comunione.
“Una guida galattica per autostoppisti post-rock”, dicono
scherzando ma non troppo nella press, e la realtà non è
molto lontana. Sperimentale e coraggioso, mai scontato
e prevedibile, libero e folle, Pharm è una ottima via da
seguire, se se ne ha il coraggio.
(7.2/10)
Stefano Pifferi
Federico Pevere
73
Photek - Ku:Palm (Photek Productions,
Ottobre 2012)
Genere: Slow techno
Dopo due decenni di carriera Photek dev’essersi preso
proprio una cotta forte per lo spirito dance dei nostri
tempi, per far iniziare il suo ritorno al formato album con
un pezzo di tech-house dritta e dai molteplici stimoli
come Signals. D’altronde lo aveva già anticipato in fase di
presentazione, Rupert Parkes si confessa particolarmente
affascinato dai fermenti dei giovani di oggi e, complice
anche l’esperienza DJ-Kicks che ha rinvigorito il suo spirito dance, ha voluto che Ku:Palm si riposizionasse entro
certi confini techno densi di suggestioni e atmosfere. Si
era giocato anche l’accostamento ai suoi due album più
importanti, Modus Operandi e Solaris, rispolverando
così quel suo personale concetto di “slow techno” raccontato anche nella nostra intervista di maggio, che aveva
finito per farlo avvicinare inconsapevolmente al dubstep.
Tutti filamenti che trovano il loro spazio all’interno del
nuovo album. L’impianto principale segue un percorso
techno rallentato fino alla modern braindance, dove è
bello sentire le affinità soundtracking di Shape Charge
(campo non estraneo a Rupert, vedi Animatrix o The
Italian Job), l’inseguimento di certe mode europee in
Quadrant o le ricorsioni all’acido di Mistral, fino ad arrivare a un pezzo morbido come Munich, vinicissimo alla
deep house. Tutta la moderna euforia per la contaminazione dancey invece è concentrata in una manciata di
pezzi come Signals, Oshun e One Of A Kind, che riprendono ancora una volta, a modo loro, l’estetica ‘90, stavolta nell’accezione più vicina al clubbing collettivo (echi
progressive, divas e stomp fitti, lontani ma non troppo
dall’ultimo Scuba).
La cosa che Photek non ci racconta giusta è a proposito
della non-volontarietà della sua recente fase dubstep,
giustificata come un’affinità spontanea raggiunta a partire dall’esplorazione techno. Un discorso che fila ancora per un pezzo come Aviator, con un beat valido tanto
come halfstep che come tech-house, ma che non regge
più coi due pezzi più potenti dell’album, la Sleepwalking
con Linche e l’esplosiva This Love con Ray La Montagne,
due pezzi che il dubstep l’hanno nel sangue e non fanno nemmeno tanto gli schizzinosi con le sue frange più
hardcore. Come se dopo le collaborazioni con Pinch e
Kuru ci fosse ancora bisogno di conferme.
In ogni caso, Ku:Palm nel complesso rispetta quanto
anticipato nella varie interviste. In maniera tanto fedele
che diventa quasi prevedibile: magari gli mancherà quella miscela di imprevedibilità e ispirazione che ha reso
tanto esaltante il suo DJ-Kicks, ma resta comunque un
disco onesto e pieno di buone maniere. Quei pezzi fre74
schi e fantasiosi che finiscono nei suoi mix son materia
per chi ha meno primavere alle spalle, questo l’autore
lo sa e gestisce la cosa spingendo sull’esperienza, sulla
cura delle atmosfere e su un senso estetico dal tratteggio
classico. Modus Operandi è un’altra cosa, ma Photek è
ancora vivo.
(7/10)
Carlo Affatigato
Pinback - Information Retrieved
(Temporary Residence, Ottobre 2012)
Genere: Indie rock
A cinque anni dal precedente Autumn of the Seraphs,
che aveva rappresentato il culmine di una carriera divisa
tra virtuosismi e irresistibile urgenza pop, si riaffacciano
i Pinback. Come al solito, nelle pause tra dischi solisti e
il ritorno dei redivivi Three Mile Pilot, Rob Crow e Zach
Smith si sono presi il tempo necessario per realizzare
questo Information Retrieved che già dai primi ascolti
suona come l’album più “prodotto” nella discografia del
duo di San Diego.
Fortunatamente non ci troviamo di fronte ad uno sterile
prodotto di studio: in apertura Proceed to Memory mette
subito le carte in tavola con basso iperattivo, chitarra
funzionale e batteria, proverbiale crescendo emotivo e
una delle migliori performance vocali di Crow. Del resto, quello messo in campo, è il classico suono Pinback,
tra finezze strumentali (gli intrecci tra chitarra e basso
di Glide) e calcolate atmosfere jazzate derivanti da una
grande esperienza live in quasi quindici anni di carriera. L’album convince proprio quando i due riescono a mantenersi nel giusto mezzo tra esperienza e preziosismi
pop, come accade nelle due ballate per pianoforte Drawstring e soprattutto Diminished, apice del disco (“Should
it be so hard to have a nice day?”), mentre in altre parti
addomesticare eccessivamente l’impeto live (il singolo
Sherman e His Phase) o assecondare spinte più “cerebrali” (il tempo dispari di Winslow You Idiot!) non sempre
ripaga.
In definitiva, Information Retrieved è un buon lavoro,
ma mette in luce alcuni limiti che il suo predecessore
era riuscito a nascondere: il ripetersi di alcune formule
standard e una certa monotonia, che si affaccia specialmente negli ultimi brani.
(6.5/10)
Giorgio Bonomi
Prins Thomas - II (Full Pupp, Ottobre 2012)
Genere: Space Disco
Uno-due, la space disco norvegese si gioca in un sol
colpo le sue due carte più forti, Prins Thomas e Lin-
dstrøm, per definire il suono che affascinerà il pubblico
ora che la fase di dichiarazione d’intenti è terminata e la
scena ha la giusta attenzione addosso. Per Lindstrøm ve lo anticipiamo - lasciate a casa i dubbi nati dopo Six
Cups Of Rebel e preparatevi a ricevere quello che avete
sempre desiderato dalla space music ma non avete mai
osato chiedere. Prins Thomas, d’altra parte, intraprende
una strada speculare a quella di Lindstrøm: l’idea alla
base del disco è quella di aumentare il bacino di utenza della space music usandone tutti i canoni tipici ma
adattandoli più a una scena europea che semplicemente
norvegese. L’intenzione è quella di scaldare l’ambiente
e sdoganare il genere, come da più parti intravisto nelle
recenti produzioni del filone.
Eccoci allora a contestualizzare un album che ha tutti i
must come si deve del suono in questione: tracce lunghe
ed esercizi in crescendo qui quasi a sfiorare un escapologia prog anni 70, basi perfette per incastri di fattori
lievitanti, suoni 8 bit e richiami anni 80 (Bom Bom, Bobletekno). La cassa dritta è la nuova passione space, i loop
son divertenti e ben congegnati (Tjukkas Pa Karussel) e
la noia vien tenuta lontana. C’è aria di divertimento, un
pezzo come Sur Svie che gioca su groove spensierati è
la conferma di come sia imprescindibile oggi per questo
genere guardare più al divertissement e all’happy dance
che all’intelletto, a dimostrazione che il vero innovatore
nascosto oggi è Todd Terje (e infatti se l’è accaparrato
proprio Lindstrøm).
Con Prins Thomas l’opera riesce a metà. La sensazione
è di avere a che fare con un ottimo mestierante, che dimostra di stare a suo agio sotto i riflettori del rinnovato
interesse verso la space music ma che non fa molto per
rendere umano un suono già inorganico per definizione.
Non mancano le idee (il disco non annoierà, anzi), quello
che manca è il sentimento, il calore, l’umanità, tutta la
precisione d’incastro che invece a Lindstrøm è riuscita
alla perfezione. Il paradosso di Prins Thomas II è che il
voler guardare cosi scolasticamente a scenari europei
renda il tutto invece molto norvegese. Un peccato? Per
niente, ma questo è agire (solo) da comprimario.
(6.4/10)
Mirko Carera
Public Enemy - Most of My Heroes Still
Don’t Appear on No Stamp (SLAM jamz,
Luglio 2012)
Genere: hip hop
Quest’anno i Public Enemy festeggiano 25 anni d’attività rilasciando ben due album. Il primo ad uscire è
questo Most of My Heroes Still Don’t Appear on No
Stamp: una sorta di concept album su una società dro-
gata di celebrità il cui titolo è preso in prestito dal loro
successo dell’ottantanove Fight the power.
Nonostante l’età e l’abbandono di Terminator X, storico
DJ/producer del gruppo, Flavor Flav e soci si trovano in
grande forma. Le prime due tracce, le vere perle dell’album, fanno venire voglia d’ascoltarne altre cento di questo calibro. Run Til It’s Dark è un opener totalmente nello
stile che ha reso famoso il gruppo: drumming incalzante,
rumorosi assoli di chitarra, breakbeat inconfondibilmente early 90s e bombe di scratching. E’ la solita sarabanda
di sempre, una festosa guerra funky a colpi di fight the
power che si fa più classica e morbida, grazie ai fiati, nella
successiva Get Up Stand Up con Chuck D e Flavor Flav a
declamare il solito corollario d’incitamenti (aiutati questa
volta dal poco noto ma talentuoso Brother Ali).
Se tutto deve tornare alla base, non mancano le stoccate e la coscienza politica: Catch the Thrown, parodia di
Watch the Throne, accusa di elitismo Jay-Z e Kanye West,
due musicisti certo apprezzati per talento e scelte di produzione (Large Professor qui presente è il produttore di
Nas), ma duramente criticati per aver propagandato la
cultura egocentrica dello swag. Presi dalle invettive i PE
risultano carenti proprio nelle soluzioni innovative, tutte
sotto la bontà degli episodi più ortodossi salvo l’ottima I
shall Not Be Moved, composta soltano da un riffone bluesy incalzante e cori di sottofondo (ci ricorda un pò i pezzi
più festaioli di R. L. Burnside).
Che siano ormai demodè come la Nation of Islam è
sicuro. Con tutta probabilità Killer Mike e El-P hanno
trasporato la formula dell’hip hop politicizzato che fa
muovere il culo nella musica contemporanea meglio di
loro. Tuttavia, c’è qualcosa per cui Flavor Flav e co. rappresentano un esempio importante ancora oggi: quel
qualcosa che fa di quei vecchi negri bisbetici che odiano
la televisione e lo star system dei veraci outsider con un
senso d’identità nera che sarebbe bene non dimenticare
troppo alla svelta. Don’t believe the hypebeast!
(6.5/10)
Gianluca Carletti
Redshape - Square (Running Back, Ottobre
2012)
Genere: Techno
È sempre lo stesso feticcio sottinteso dall’artista mascherato: come ancora recentemente visto in SBTRKT
o John Talabot, l’idea è quella di scollegare la persona
dalla musica, il progetto da chi lo fa. Un modo di approcciare la composizione musicale che Redshape sposa già
dal 2006 (quando si faceva apprezzare con pezzi come
Steam, Cashmere, Blood Into Dust usciti su Delsin e Styrax Leaves) e culminato poi nell’album di debutto The
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Dance Paradox, un lavoro acclamato da più parti per
quel profilo techno armonico, dotato di forte empatia
e predisposizione al contatto mentale. Da allora il producer berlinese è famoso per i suoi live set incendiari e,
appunto, per l’aria misteriosa che non lo abbandona mai,
nemmeno ora che arriva un secondo album di consistenza abbastanza differente rispetto al primo.
Interviste precedenti al rilascio di Square raccontavano
un Redshape preso a riascoltare molta della musica che
gli si era dileguata attorno negli ultimi tempi, raccogliendo dettagli che magari sul momento pensava smarriti o
semplicemente accantonati. L’album raccoglie in pieno
quest’idea: è un disco che non vuole innovare ma preferisce specchiarsi in quella techno originaria da cui parte.
Non apre nuovi confini ma piuttosto dilata e sedimenta i
punti fermi di un quadrato ben preciso, destrutturando,
rimodulando e mascherando qualcosa di giá ben presente, seguendo una linea ben precisa fatta di sintesi
sulle sue stesse passioni, proponendo schegge di suono studiate e introverse, chiudendosi a guscio dentro
se stesso senza cercare per forza il punto di contatto di
The Dance Paradox.
Anche qui si segue un percorso armonico, per certi versi
analogo all’ultimo, suggestivo Deepchord o al Gui Boratto di Chromophobia (anche se li il taglio estetico era
più house), un viaggio a circuito chiuso e scale sintetiche,
con alle spalle le lezioni paterne degli Orbital. Le tracce mostrano una loro varietà peculiare, c’è sia la techno
di studio/approfondimento di It’s A Rain che quella più
disinvolta di Atlantic, dove certe idee kraut fanno capolino in un gioco space a metà strada tra il Lindstrøm
prima maniera e l’Actress più geometrico (è questo uno
dei pochi punti di contatto con The Dance Paradox).
Starsoup poi è un viaggio per club berlinesi, siano essi il
Panorama Bar o i vecchi private party, quasi a dire “ecco,
è così che si fa, è cosi che va fatto” e la stessa sensazione
serpeggia in Paper, che puntuale torna a riprendersi quel
retaggio industriale che la techno si è sempre portata
dietro come un metallico cordone ombelicale.
Eppure la techno non è l’unica componente del disco.
Seguendo il filo, vengon fuori anche pezzi di musica
bianca da stanza del silenzio (Landing, Enter The Volt)
e un esempio di mobilità come Until We Burn, quasi
una bonus track di Blue Lines dei Massive Attack.
Square è un album che non vuole a tutti i costi far ballare ma che rimanda mentalmente a quel momento,
sintetizzando tutta una serie di visioni proprie di una
techno europea sempre fedele a sé stessa. Redshape
semplicemente si ferma a riflettere, a far provviste al
centro di un quadrato, assimilando onde di idee dai
quattro angoli cardine della techno, caratterizzando e
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contestualizzando la materia originaria ora con un approccio di studio e sintesi, ora con un abile camouflage.
Da un lato rientra in quella sfera culturale/intellettuale
da sempre presente in ambito techno, dall’altro si aggancia al trend della brain music più volte rintracciato
quest’anno. Un gioco - sempre che di gioco vogliamo
parlare - che gli riesce benissimo.
(7/10)
al personaggio di Ross servirebbe molta più sostanza per
reggersi in piedi con le proprie gambe.
(4.3/10)
Mirko Carera
Shoegaze revival: negli ultimi anni ne abbiamo viste di
tutti i colori, dallo shitgaze passando per tutte le sfumature dreamy per finire agli annunciati “se non vedo non
credo” prossimi comeback dei mostri sacri Slowdive e
My Bloody Valentine.
E’ proprio quello dei My Bloody Valentine il nome che
spesso viene - giustamente - citato quando si parla dei
Ringo Deathstarr: i texani infatti non fanno nulla per
nascondere la propria devozione per la band di Kevin
Shields e Bilinda Butcher. Non l’hanno fatto nel debutto
Colour Trip dello scorso anno e non lo fanno neanche in
Mauve, sophomore pubblicato per la Club AC30.
Un conto è partire da influenze nette e mostrare comunque grosse dosi di personalità, un conto è emulare. Buona parte dei tredici brani che compongono Mauve segue lo stilema MBV (soprattutto il periodo Isn’t Anything)
e lo si capisce già dalle atmosfere della iniziale Rip marchiata del classico muro di distorsioni e feedback sotto il
quale si snoda l’armoniosa linea melodica di Alex “Bilinda” Gehring. E’ però in brani come Fifteen che si rischia il
plagio: stesso moto ondoso chitarristico, stessi giochi di
specchi a due voci e persino l’impostazione della batteria
sembra essere presa letteralmente in prestito.
I My Bloody Valentine più noise-oriented rivivono anche in Burn, nel bel riff che si impone in Drain, nell’estasi
immolante di Waste e nei Velvet Underground frullati
di Do You Wanna?. Le variazioni vanno ricercate in una
certa attitudine slacker-punkish tipicamente americana
(Slack per l’appunto) e nei non riuscitissimi passaggi più
pacati (Brightest Star in zona Slowdive e Drag).
I revivalisti Ringo Deathstarr continuano a guardarsi le
scarpe impolverate dal deserto texano. Scarpe che si rifanno al miglior modello presente sul mercato venti anni
fa e che per quanto curate e di buona fattura, rimangono
pur sempre una moderna imitazione.
(6.3/10)
Rick Ross - God Forgives, I Don’t (Def Jam
Recordings, Luglio 2012)
Genere: hip hop
Scrivere di un disco di Rick Ross è un po’ come per un
food blogger recensire un BigMac. Impossibile tesserne
le lodi, così come difficile è mantenere una completa
serietà riguardo il sapore e la consistenza del suddetto panino senza scadere nell’ipocrisia o nella banalità.
Insomma, due morsi a un BigMac in alcune occasioni li
dai così, senza pensare. Così come non disdegni un paio
di pezzi di Ross, se consumati nel contesto giusto. Per
quanto riguarda la fruibilità di un intero disco, in questo
caso il suo ultimo God Forgives, I Don’t, il discorso cambia
radicalmente.
Immaginate un gangster movie patinato anni Ottanta,
scritto però dal peggior sceneggiatore di Hollywood e il
cui protagonista reciti continuamente le stesse battute
al limite del caricaturale, senza coinvolgimento emotivo alcuno. Ross impersona proprio questo personaggio
stereotipato, l’epitomo del ‘drug dealer’ milionario e ‘self
made’ che allo stesso tempo è anche, a suo dire, una
leggenda del rap accanto a Tupac Shakur e Dr. Dre, pur
essendo sulle scene da appena qualche anno. Niente di
negativo in questo tipo di rappresentazione, d’altronde
Jay-Z l’ha fatto con discreto successo con American Gangster (2008), se non fosse che la narrativa usata da Ross
nei testi è del tutto monotona e priva di profondità, incapace quindi di relazionare chi lo ascolta o invogliare a
farlo di nuovo. Sullo stesso stile pacchiano e ridondante
sono messi insieme i beat, molti sovrapprodotti (Shameless, Pirates, Hold Me Back) o semplicemente già sentiti.
Il nuovo disco segue il mixtape di inizio anno, Rich Forever, presentando una lunga sfiza di collaborazioni che
sono poi l’implicita legittimazione del suo status di superstar. Sono proprio queste, alla fine, che salvano alcune delle tracce del lavoro: quella con Dr. Dre e Jay-Z nel
pezzo old school 3 Kings, quella con Nas nell’apocalittica
Triple Beam Dreams, oppure con André 3000 nella lunga
Sixteen e anche Wale e Drake in Diced Pineapples. Un
parco giochi dove scorrazzano un po’ tutti, insomma, la
tipica cash-cow di cui la Def Jam ha sempre bisogno. Ma
Luca Falzetti
Ringo Deathstarr - Mauve (Club AC30,
Ottobre 2012)
Genere: My Bloody Valentine
Riccardo Zagaglia
Robert Hood - Motor: Nighttime World 3
(Music Man Records, Settembre 2012)
Genere: Techno
Robert Hood è il versante ortodosso dell’elettronica non
accademica contemporanea. Lui e la sua Underground
Resistance sono l’esatto contrario del movimento/non
movimento maximal/glo/wonky, perché Hood non cerca
altrove i riferimenti della sua musica: non cita un passato
mitico che non può più ritornare, non fa un’operazione
di retrofilia come i ragazzi inglesi. Il suo è un riferimento
continuo a Detroit e alla techno che ha contribuito a
diffondere e a fondare. La sua è una continua crescita
verso un futuro ancora tutto da pensare.
Questa fedeltà a se stesso nel nuovo album si smarca
leggermente dal peso motorico cui siamo abituati ad
associare le produzioni dell’uomo. Sarà che è emigrato in
Alabama - la terra dei suoi antenati - con la moglie un po’
di anni fa, sarà che Detroit sta lentamente decadendo,
fatto sta che il nuovo album (terzo di una trilogia iniziata
nel lontano 1995) suona un po’ più rilassato, quasi un
intelligent techno music da ascoltare in salotto. Non che
non si possa ballare, ma il feeling che si ha dopo aver
ascoltato le 12 tracce è quello di una lunga e piacevole
frenata rispetto ai tempi di Minimal Nation o di Rhythm
(tanto per dirne due).
Il disco, che è stato ispirato dal documentario di Julien
Temple Requiem For Detroit?, anche se in cristallina slow
motion non manca di mordente. Lasciando perdere l’iniziale ed estatica The Exodos, già in Motor City si comincia
a far sul serio con bassi robotici ed echi plastificati, The
Wheel riporta a galla le connessioni con il minimalismo
vocale dei Kraftwerk, Drive (The Age Of Automation) è
da smascellamento onirico, Hate Transmissions è puro
stile drexciyano e Black Technician distillato 100% Hood.
Il ritmo rallenta però su tracce ben prodotte ma meno
convincenti dal punto di vista dell’anima e del trip autoindotto, vedi l’easytronica di Assembly o il jazzino di
Slow Motion Katrina.
Un disco che in definitiva conferma Hood come una voce
fondamentale della techno, aliena da vizi esterni alla sua
missione e concentrata su una critica continua e costruttiva di sé e del proprio operato. Come ha dichiarato in
una recente intervista: “As long there is a seed there is
hope”. Respect.
(7.3/10)
Marco Braggion
Rover - Rover (Wagram, Ottobre 2012)
Genere: songwriter
“I’m a singer in the dark”. Oggi l’amore più inquieto, più vibrante, quello che ci tiene in pugno, ha un nuovo nome
e arriva dalla Francia, anche se si esprime nella lingua
più passpartout che ci sia: Rover, moniker di Timothée
Régnier, è stato definito una next big thing prima ancora
che uscisse il suo primo, omonimo album (pubblicato in
Francia a febbraio e distribuito ora anche in Italia). Im77
possibile confonderlo: statura imponente, un volto che
ricorda Depardieu e Meat Loaf, un timbro espressivo, virile ma vulnerabile, un’aria da bohemien e un bagaglio
d’esperienze di vita e di ascolti che si intrecciano dando
vita a un racconto che si sviluppa in undici eclettici tasselli.
Troppo semplice pensare che il nome sia solo un omaggio alle auto inglesi - “rover” sta per “viandante”, ed è di
certo una definizione non troppo lontana dalla realtà.
In trentatré anni Régnier ha viaggiato moltissimo: dalle
Filippine a New York (dove ha studiato con alcuni componenti degli Strokes), dalla Francia al Libano che lo ha
visto membro, con il fratello, di una band punk-rock. Le
influenze sono le più disparate, tutte in bella mostra in
quest’opera prima: figlio dei Beatles e di David Bowie
(soprattutto quello della prima metà dei Seventies), il
cantautore e polistrumentista fa propria anche la lezione
di Jeff Buckley e di gruppi indie-rock inglesi e a stelle
e strisce.
La sua voce è ora calda, ora spigolosa, grave ma capace di librarsi nell’aria in un arioso, malinconico falsetto,
come si può notare nell’opener Aqualast. L’elettronica
che riveste episodi come Remember (si pensi agli Interpol di Antics uniti a un Richard Butler meno abrasivo del
solito) e Tonight (cocktail d’amor nero tra i Placebo e i
Lotus Eaters) è ben centellinata, mentre un piano dolente scandisce il passo di Wedding Bells (come se Patrick
Wolf rileggesse Le Chat du café des artistes al posto di
Charlotte Gainsbourg. Il battello ebbro di Rover prosegue il viaggio tra le maree; dopo il buio più nero ci
sono sprazzi d’intima quiete (Lou) ma è solo un’illusione,
perché si ripiomba subito dopo in atmosfere di matrice
radioheadiana (Silver). Quando Regnier mescola meglio
le carte la sua proposta ci guadagna in compattezza,
senza per forza cadere nella banalità. È il caso di Carry
On, una vera highlight: una strofa alla My Way si adagia su
arpeggi di synth in stile Grandaddy appena sullo sfondo,
fino a quando il robusto ritornello si fa spazio e s’innalza,
lirico, alla ricerca di un orizzonte.
Nonostante qualche passaggio un po’ forzato e la sensazione che certe pose da maudit siano troppo costruite,
questo debutto ha più pregi che difetti. Se la ricchezza
di stili facilita la scorrevolezza del tutto, dall’altra non
sempre fa capire bene chi abbiamo di fronte (maschera
glam e chanteur confidenziale anche nella stessa canzone). Uno, nessuno e centomila. Col tempo Rover riuscirà
ad elaborare una proposta più personale emancipandosi
da numi tutelari che, messi insieme, non sempre vanno
d’accordo, ma per il momento possiamo accontentarci.
(6.5/10)
Alessandro Liccardo
78
Schoolboy Q - Habits & Contradictions
(Top Dawg, Gennaio 2012)
Genere: hip hop
Schoolboy Q, stage name di Quincey Matthew Hanley, è parte della crew Black Hippy, formata anche da
Kendrick Lamar, Ab-Soul e Jay Rock. Crew che da
qualche anno sta rivoluzionando il volto dell’hip hop a
Los Angeles e, dopo la firma con la Interscope, probabilmente destinata a diventare la next big thing anche
da questa parte dell’oceano. Kendrick Lamar è sicuramente stato, almeno finora, la figura di spicco del gruppo. Merito sopratutto del suo debut dello scorso anno,
Section80, un disco hip hop dai due volti: uno oscuro e
introspettivo, l’altro svaccato e vizioso, tutto supportato
da un’angolatura personale del ‘qui e ora’ che finisce poi
col divenire generazionale. Così è anche questo Habits &
Contradictions, che segue a distanza di un anno il primo
mixtape di Q, Setbacks, e che lancia il rapper tra le punte
di diamante Black Hippy. Il volto impietrito di Quincey
sulla cover, come quello di una vittima impotente e fuori
controllo, la dice tutta. Nichilismo, vita di strada, erba,
criminalità, ragazze e party. I soliti cliché, direte voi, ma in
questo caso tutto è filtrato dagli occhi di Q, che con più
che discreta abilità dipinge una sua visione della realtà
paranoica, borderline, schizofrenica e oscura, vissuta tra
le gang locali ma in disparte, sicuramente ben lontana
dai finti clamori e glamour dell’hip hop moderno.
Q è essenzialmente un MC nel senso classico del termine, forse meno ‘autoriale’ rispetto a Lamar, ma che
possiede un flow più versatile che sa passare dall’euforia estatica (There He Go) alle più tetre delle riflessioni
(Blessed, feat proprio con Lamar) e anche a pezzi totalmente anestetizzati (How We Feeling). Molta attenzione
è stata posta in fase di produzione, la quale straborda
di nomi che vanno da membri di Digi+Phonics a THC e
Lex Luger; i beat sono infatti grande parte della riuscita
di questo disco: mai banali, con bassi pieni che arrivano
forti allo stomaco, stratificati al punto di riuscire a scoprire elementi nuovi col passare degli ascolti, ma soprattuto attenti a discostarsi dalla plasticità inconsistente di
molte produzioni moderne. Anche quando Schoolboy
si avventura in numeri azzardati e forse evitabili, come
la rivisitazione/solo-dissing di Niggas In Paris di Jay-Z e
Kanye West, Nightmare On Figg St., il beat incattivito ne
salva perlomeno il risultato finale. La scelta dei sample
poi parla chiaro: questo non è certamente un disco di
nicchia destinato ad un pubblico esclusivamente black.
Basti considerare le scelte di Portishead (Cowboys in
Raymond 1969), Menomena (Wet And Rusting in There
He Go) e addirittura Genesis (Firth Of Fifth in Gangsta In
Designer) per capire che anzi, questo è un disco pensato
per arrivare ad un pubblico più ampio.
Il pezzo che scotta di più sui piatti dei dj, e probabilmente anche uno dei singoli dell’anno, è sicuramente
Hands On The Wheel, con A$AP Rocky. Il beat estatico
è costruito sul sample di una versione della folk singer
Lissie di Pursuit Of Happines, canzone originariamente
prodotta da Kid Cudi nel 2010, altra grande promessa
mai realizzata e che ha sofferto molto delle scelte sbagliate in ambito di produzione. ‘Life for me is just weed
and brews’, ripete qui Quincey, mentre il cerchio si stringe stretto intorno alle aspettative del debut su major:
reggerà la pressione?
(7.5/10)
Luca Falzetti
Stan Ridgway - Mr. Trouble EP (A440,
Luglio 2012)
Genere: Wave western
Secondo EP di seguito per Ridgway dopo il precedente The Complete Epilogues, il quale raccoglieva qualche
outtake dall’ultimo album Neon Mirage pubblicata in
precedenza su una serie di EP digitali, cui aggiungeva
qualche cover e due pezzi dal vivo.
In entrambi i casi si tratta di EP solo come concetto, però,
visto che la durata è da album - qui però raggiunta grazie a
quattro canzoni live (due delle quali, misteriosamente sono
le stesse di Complete Epilogues), tra ripescaggi volti a dimostrare che la sua carriera non limitava le perle ai Wall of
Voodoo e ai primi fortunati dischi da solo (Stranded, Afghan
Forklift) e la testimonianza del modo spettrale e sommesso
in cui ora esegue live il capolavoro Camouflage.
Se invece guardiamo ai brani nuovi, ci troviamo davanti
a qualcosa di più di qualche canzone che valeva la pena
pubblicare anche se non aveva trovato la via dell’album: pur non scostandosi dal suo stile tra Morricone e
l’elettronica, swinga efficace nell’iniziale The Drowning
Man col violino e il sax a dipingere una notte waitsiana, mette un sitar su una title track che evoca certi 2/4
del suo vecchio gruppo, sintetizza le due in una Gone
Deep Underground tirata da un gruppo che suona con
voglia contagiosa (chitarre che fanno dialogare tremolo e distorsione e l’organo che contrappunta), la stessa
voglia che in All Too Much si scatena sul riff di Cantaloop
(versione Us3) rimpolpandola di fiati entusiasti, chitarre
pungenti e baldanza vocale.
C’è anche spazio per il racconto lirico un viaggio Across
The Border con appropriato stile tex mex e, prima dei
brani live, di una cupa ninna nanna come We Never Close.
Decisamente non solo per fans.
(7/10)
Giulio Pasquali
Stubborn Heart - Stubborn Heart (One
Little Indian, Novembre 2012)
Genere: soul+elettronica
Dietro al moniker londinese Stubborn Heart si celano
Luca Santucci - già presente in veste di vocalist negli ultimi dischi di Leila - e Ben Fitzgerald.
Non sappiamo se sia voluto o meno ma Stubborn Heart
era anche il titolo di brano ‘60s-soul dei The Sheppards,
ed è proprio partendo dagli ultimi (e riusciti) tentativi di
modernizzare il concetto di soul che sembra plasmarsi
l’omonimo progetto, svelatopochi mesi fa tramite l’EP
Need Someone uscito via Kaya Kaya Records.
Le vocalità soulful colorano l’album di debutto (intitolato
semplicemente Stubborn Heart) pubblicato per One
Little Indian con tonalità contemporaneamente vicine
sia alle oscurità noir-crooneristiche sia ad un certo sophisti-romantic revival.
Se il duo iniziale Penetrate-Better Than This si muove in
un’ottica non lontana da un SBTRKT rallentato e più
suadente, lungo la tracklist Luca e Ben dimostrano di
conoscere bene quasi tutte le vecchie e nuove tendenze
in ambito elettronica made in england: loop sghembi e
andamento quasi marziale intervallato da pause e battute minimal (Head On), atmosfere urbane e notturne del
trip hop contrabbassato di Interpol (uno degli episodi
più affascinanti), velluto puro (It’s Not That Easy), virate
slow (Head On), profondità da London-club (Two Times
a Maybe) e tanti ricordi garage/2 step che si tramutano
poi in un post-dubstep ritmico che evita di eccedere nel
dosaggio di bassi (Starting Block, Need Someone).
Se è vero che il gioco è bello finchè dura poco, quello del
soul+elettronica sta ormai iniziando ad arrivare pericolosamente in zona red alert, ma contemporaneamente
è interessante notare come ogni progetto, pur andando
a pescare un po’ di qua e un po’ di là, abbia le proprie
peculiarità e tratti caratteristici. Per questo motivo le
dieci ed eterogenee tracce che compongono l’esordio
dei Stubborn Heart suonano più come una ulteriore
variante di un movimento in pericolo saturazione che
un tentativo di tentare la fortuna seguendo la moda del
momento. Rispetto ai fratellastri, per ora, al duo sembra
però mancare la capacità di scrivere i classici pezzi da
novanta presenti ad esempio nei debutti di SBTRKT e
Jamie Woon.
(6.8/10)
Riccardo Zagaglia
Tamaryn - Tender New Signs (Mexican
Summer, Ottobre 2012)
Genere: dreamgaze
Farà contenti gli insaziabili di revival dreamgaze il ritor79
no dei Tamaryn, disco che riprende esattamente dove
l’esordio The Waves (2010) aveva lasciato ed imbastisce
una nuova tavolata in celebrazione eterna dei ricorrenti
My Bloody Valentine e Mazzy Star. Nove le portate con
titoli descrittivi secondo tradizione e, al solito, sapori di
atmosfere dilatate, qualità espansive, coesione che punta regolarmente all’inglobare i sensi in limbo sospeso e
riverberato.
E va detto, Tender New Signs è comunque un bel sentire. I Tamaryn d’altronde ancora galleggiano sul tanto
anonimato grazie a più d’un barlume di melodia ed al
rinnovato l’approccio in produzione, self/lo-fi sulla carta,
eppure preciso, cristallino nella resa dei singoli dettagli.
La scena attuale non è però la stessa in cui si inserì il debut: l’affollamento di proposta è, nel frattempo, divenuto
costipazione; in ballo troviamo esordienti come Echo
Lake ed i nostrani Brothers In Law che, con grande confidenza nei propri mezzi, cambiano le regole dei giochi
puntando, a loro modo, su declinazioni straight-forward
pop e quindi sulle canzoni. Ai Tamaryn queste - salvo le
rare eccezioni I’m Gone e Heavenly Bodies - mancano, ed
uno sforzo minimo in consolidazione widescreen non è
loro sufficiente a tenere il passo dei sopracitati, specie
sul piano dell’interesse sulla lunga distanza.
Di nuovo, in ottica conservatrice dei prodotti locali, ben
più gustose le promesse mantenute dai Be Forest con
il solo singolo Hanged Man.
(6.2/10)
Massimo Rancati
Tender Trap - Ten Songs About Girls
(Fortuna Pop!, Ottobre 2012)
Genere: indie
Indie girl pop inglese moderatamente nostalgico, a tratti energico. Come a dire Belle & Sebastian meet The
Knack (rispettivamente Memorabilia e Train From King’s
Cross Station). E poi spensieratezza, qualche lustrino, chitarrine soft-punk’n’roll, colori un po’ sbiaditi tra sixties e
nineties, coretti e voci multiple tra Shangri-Las e Dum
Dum Girls (Step One), melodie, cembali e un bel po’ di
mestiere. Già perché la titolare del progetto in questione, Amelia
Fletcher - 46 anni e non sentirne che la metà (e qui potremmo spendere fiumi di caratteri sul tema “ogni cosa
a suo tempo?”, ma non lo faremo) - è una veterana della melodia al femminile, avendo militato in più di una
band: veri e propri spin-off, molto (troppo?) simili tra
loro, dagli Heavenly ai Talulah Gosh, dai Marina Research ai Betty And The Werewolves, fino agli odierni
Tender Trap, appunto.
Stringendo, Ten Songs About Girls parla proprio di questo:
80
di ragazze, per di più da un punto di vista femminile.
Anagraficamente si tratta del quarto album in dieci anni,
con poche novità rispetto ai capitoli precedenti, andando ad abbandonare definitivamente lo spleen del primissimo periodo per assestarsi su territori sicuri, sorta di
abbecedario del twee pop più scanzonato, filtrato dalle
epoche e perciò (meta)citazionista, per spiriti malinconici e/o neofiti del genere. Nulla di nuovo sotto il sole, ma almeno è un sole primaverile, rosato, che scalda il giusto e mette di buon umore.
(6.6/10)
Antonio Laudazi
The Gaslamp Killer - Breakthrough
(Brainfeeder, Settembre 2012)
Genere: beats/world
Dopo una carriera underground tra mix (ricordiamo lo
splendido A decade of Flying Lotus) ed EP (l’ultimo, Death
Gate, nel 2010), William Bensussen arriva al grande passo e non può che essere su Brainfeeder. Come abbiamo
sottolineato all’epoca, è stato lui il vero artefice - al di là
delle splendide vetrine lotusiane, Testament prima, Ancestors poi - del successo di Gonjasufi, e allora è naturale
che la formula sia quella lì, il trademark gaslampiano:
schegge ruvide di world music psichedelica - una space e
spiced world music - che passano per la tecnologia sampledelica e zoppicante dell’hip hop post-J Dilla. Ruvide,
e qui ancora più ruvide.
Il disco si apre con la manipolazione della voce stoned e
filtrata dal telefono di Eric Clapton, da Are You Hung?, primo frammento di We Are Only In It For The Money, il disco
sessantottino di Zappa acida parodia degli hippie e dei
Beatles del Sgt. Pepper. E si continua a battere i Sessanta
psichedelici, se Veins, con Gonjasufi al latrato come sa lui,
sembra riproporre in qualche modo gli archi di Eleanor
Rigby, ma ancora più austeri e massicci.
Gaslamp padroneggia gli ingredienti e alterna atmosfere
esotiche e terzomondiste come tra palafitte suadenti e
oppiacee (la bellissima Apparitions, sempre con Gonja; la
metallica e sinistra Critic, con Mophono; il bel quadretto
ethnofolk Nissim, con Amir Yaghmai al tamburo yiali e
alla chitarra), omaggi colonna sonora (il western col fischio morriconiano tagliato scansioni industrial di Holy
Mt Washington, con la drum machine di Computer Jay),
personali take fusion (Dead Vets, con il mitico Adrian
Younge di Black Dynamite e Michael Raymond Russell
del duo MRR-ADM, scuro e pastoso funk progressivo;
Meat Guilt, con una batteria legnosa come nei dischi jazzrock anni Settanta in primissimo piano nel mixaggio) e
numeri in cui si fa più forte l’accento su ritmi ed elettronica: Flange, con il Miguel Atwood-Ferguson produttore
e arrangiatore già al lavoro con gli archi per Flying Lotus,
uno dei numeri più tosti ed efficaci, vicino per certi versi
agli assalti di Terror Danjah; l’orgia di pulsazioni e bolle
monome a riempire i vuoti della batteria pestata di Impulse, ospite ovviamente Daedelus; Peasants, Cripples &
Peasants, con Samiyam, guidata da un’unta e grumosa
linea di synth a cui restare abbarbicati; il cervellotico saliscendi di elettronica progressiva di 7 Years of Bad Luck
for Fun, con Dimlite.
Gaslamp confeziona un esordio-manifesto che è anche
un crew album (visti quanti feat?), ma soprattutto un
disco potente, compatto, conciso, senza fronzoli, la cui
riuscita si spiega adocchiando il consiglio Keep It Simple
Stupid, tutto un gioco di bacchette sul charleston e sopra
sitar e synth, per una lenta epica marcia iniziatica.
Se c’è spazio a metà programma per un siparietto che
riprende un qualche video didattico anni Cinquanta in
cui si spiega l’uso della parola Fuck e lo sovrappone a
stralci della Primavera di Vivaldi, si chiude seri se non
proprio seriosi, acconciamente In the Dark: pestamento
batteristico alla post-HC o alla Sabot, con finale da ghost
track tipo una ninnananna Berlin in mezzo alle macerie
mediorientali.
(7.4/10)
pop rock che non uscirà mai dal circuito locale”, ma i
The New Electric Sound hanno i pezzi giusti per poter
raggiungere una certa fama. La coppia iniziale farebbe
invidia a molte indie band già affermate (gli indegni Kooks ad esempio): What If I Disappear con il suo chorus
che sembra creato apposta per qualche rock club e le
atfmosfere surfy-californiane di Suitcase non lasciano
indifferenti.
Funzionano bene anche il singolo Heart Beat - a metà
strada tra il drumming di Tighten Up dei Black Keys e
sentori Arctic Monkeys - e la cavalcata heartland Crimson Sky. La formula - già di suo comunque fin troppo
generica - non prevede molte variazioni sul tema se non
qualche atmosfera da modern Beach Boys (California
Coast) e alcune post-romanticherie sulla scia dei dimenticabili The Crookes.
Privi di spunti realmente interessanti, i The New Electric Sound potrebbero trovare prima l’appoggio delle
radio e poi un buon successo sfruttando la sempre più
evidente coda indie goes to mainstream. Poco male se
tutto ciò non accadrà: ci sarà sempre qualcuno in grado
di apprezzare canzoni spensierate e senza pretese.
(6/10)
Riccardo Zagaglia
Gabriele Marino
The New Electric Sound - The New Electric
Sound (, Ottobre 2012)
Genere: indie pop rock
The Orb/Lee “Scratch” Perry - The
Orbserver in the Star House (Cooking
Vinyl UK, Settembre 2012)
Genere: Ambient house
Il bello - e contemporaneamente il brutto - di Spotify è
che è possibile trovare veramente di tutto. Come fare
a stare dietro alle decine di uscite settimanali? Praticamente impossibile. Fortunatamente esistono playlist
perennemente aggiornate in cui vengono caricati di
volta in volta tutti i nuovi dischi.Tutto ciò ovviamente
è utilissimo anche per scoprire musica nuova: non conosci il nome? Beh, clicchi play e ascolti... più facile di
così. Ovvio che, in situazioni come questa, per riuscire a
fare presa sull’ascoltatore o hai dei suoni, delle atmosfere
o intuizioni fuori dal comune o è meglio puntare tutto
sull’immediatezza.
Lo sanno bene i The New Electric Sound, scoperti per
caso proprio grazie a Spotify e capace di risultare orecchiabili fin dal primo ascolto. Su di loro si hanno ancora
poche informazioni: qualche foto da ragazzi per bene e
una strampalata bio sul sito ufficiale: provengono dallo
Utah, si sono formati lo scorso anno e dicono di ispirarsi
a The Surfaris, Dick Dale e Buddy Holly.
Con appena 1400 fan su Facebook e l’omonimo album di
debutto appena pubblicato senza l’appoggio di nessuno, verrebbe quasi da bollarli come “una qualsiasi band
“Volevamo fare un album minimale, moderno, soul con
alcune influenze reggae e metterci sopra le vocal di Perry”:
così Alex Paterson spiega la nascita di un secondo lavoro collaborativo, per la serie Mission It’s possible, questa
volta tra gli Orb e uno dei padri - se non il Padre - del
dub Lee ‘Scratch’ Perry.
Dopo il Metallic Spheres con David Gilmour, The Orbserver In The Star House - registrato a Berlino - vede il
duo spostarsi dalla psych/ambient di quel lavoro verso
il lato più housey dell’Orb pensiero - quello che ritroviamo nell’esordio doppio The Orb’s Adventures Beyond
The Ultraworld - ma decisamente declinato reggae-dub
e con ricami di claps e sample a tirare in ballo rispettivamente hip house e tutta una vintalogy di produzioni
giamaicane.
L’album pare suonato sotto formalina, tanto è ovattato e dubbato, eppure sotto la coltre fumogena troviamo anche una certa freschezza: qualcosa del pop che
rese celebri brani come A Huge Ever Growing Pulsating
Brain e Little Fluffy Clouds (il singolo - re-edit ? - Golden
Clouds), la dub-house (Ball Of Fire, Hold Me Upsetter, Go
Down Evil), una pimpante funk-house (Thirsty), ma anche
81
un reggae-dub bello e buono (Police & Thieves). Il tutto accompagnato da spazzolate black, trick orbiani, e il
sourrounding toasting di Perry, il cui canto millenarista
e gentilmente senile dà all’intera operazione un senso
e una direzione.
Perry e The Orb - ovvero, in quest’occasione, Alex Paterson e il fido Thomas Fehlmann - hanno realizzato anche
un podcast per Fact (il mix 341) e, a quanto pare, porteranno l’album in un tour. Segno che l’avventura li ha
divertiti almeno quanto ha divertito noi. (7/10)
Edoardo Bridda
The Script - #3 (Sony, Ottobre 2012)
Genere: soft(pop|rap|RnB)
Spesso è facile accanirsi contro le pop star che sculettano mosse dal burattino di turno, ma in fin dei conti le
Katy Perry del caso non si prendono sul serio e chiunque abbia un minimo di buon gusto dovrebbe sapere
che vanno prese per quello che sono, cioè intrattenimento spicciolo.
Non sono peggio quindi quegli artisti che avrebbero anche le capacità di muoversi autonomamente e realizzare
qualcosa di buono, ma che si piegano senza vergogna
- già dall’esordio o anno dopo anno - al dio denaro (ogni
riferimento a The 2nd Law dei Muse è puramente casuale)? E’ in questi casi che si presentano le situazioni
più avvilenti, ovvero quando si cerca di far passare per
“serio” (magari solo perchè vagamente tendente al rock)
quello che in realtà non è: difficilmente dimenticherò un
vecchio numero di RockStar in cui i Rasmus venivano
etichettati come i nuovi Sex Pistols, i The Calling come i
nuovi Pearl Jam e il proto-Jersey Shore Jive Jones come
la nuova versione dei RHCP.
Se l’omonimo di debutto dei The Script fosse uscito
sette o otto anni prima, in quella lista avremmo trovato
anche loro con l’appellativo di nuovi The Police per via
del timbro del cantante Danny O’Donoghue o nuovi U2
per motivi non solo geografici.
Dopo il buon successo internazionale dei due predecessori The Script e Science & Faith, la band di Danny
O’Donoghue - che ha trovato anche il modo di diventare
giudice nel talent show The Voice - torna con il terzo
album in studio intitolato #3. Come per altre band (Maroon 5, ma qualcuno potrebbe dire anche Coldplay),
anche per i The Script è arrivato il momento di giocare
a carte scoperte: la maschera da band finta-credibile non
regge più, meglio allora liberarsi del peso e mostrarsi al
mondo per quel che si è realmente (cioè il nulla).
Arriva così il singolo n.1 in UK Hall Of Fame (in duetto
con il The Voice-collega Will.I.Am dei Black Eyed Peas)
82
che incredibilmente non è neanche la traccia peggiore di un disco che in ogni momento sembra guardarti
implorando “cestinami al più presto”. Rispetto ai due
dischi precedenti cresce la presenza della componente
rap generando così un crossover rap-pop-rock (Broken
Arrow, If You Could See Me Now, Good Ol’ Days) da mano
sul cuore che in confronto i Linkin Park sembrano i Silencer: chiaro, gli Script guardano al mercato americano
(dove fortunatamente i vari OneRepublic e The Fray
sembrano scomparsi) e lo dimostrano con il soft-r&b di
pezzi come No Words e Give The Love Around. Peggio ancora quando si segue l’orribile tendenza post-Coldplay
di piazzare la cassa dritta sotto le chitarre alla U2 come
nella debole Kaleidoscope.
(4/10)
su di un taxi post-Drive (Crush). Diamo uno sguardo allo
specchietto e notiamo che alla guida del taxi c’è proprio
lui, Luis Vasquez, che se la ghigna e sembra dirci “die die
die...” (Die Life).
A questo punto la vita inizia a scorrerci davanti agli occhi,
ripensiamo ai tempi andati (Lost Years) e iniziamo una
sorta di rituale-preghiera (Want) sperando che possa
servire a rimanere vivi... è un crescendo, i giri salgono
sempre di più. Stop. Silenzio.
Il nostro cuore, il nostro respiro, ƨbnƎ ƚI.
Titoli di coda.Trama immaginaria di un film forse leggermente prevedibile, ma incredibilmente riuscito nella sua
opprimente tensione.
(7.2/10)
Riccardo Zagaglia
Riccardo Zagaglia
The Soft Moon - Zeros (Captured Tracks,
Novembre 2012)
Genere: dark-synth-wave
Luis Vasquez (The Soft Moon) a metà strada tra regista e
malvagio protagonista di film horror, con l’album di debutto ci ha rinchiusi dentro ad un buio e claustrofobico
loculo assicurandosi di aver gettato la chiave prima di
andarsene. Sbattiamo impotenti contro il muro a ritmo
degli inarrestabili beat wave-punk cercando inutilmente
una via di fuga. Ci addormentiamo dalla stanchezza ma
la nostra mente non può fare altro che tornare sull’accaduto (l’EP Total Decay dello scorso anno).Ci risvegliamo
sperando che tutto sia stato solo un brutto sogno, ma
neanche il tempo di renderci conto della nostra situazione che parte inesorabile It Ends, primo passaggio
del sophomore Zeros. Niente da fare, siamo ancora lì.
L’eco della drum machine ci illude sull’effettiva dimensione della nicchia e non contento il perfido Vasquez
ci fa spara nei timpani il nostro stesso respiro, sempre
più affannato. Torniamo a tirare pugni contro le pareti
(Machines tra dark-noise e martellante industrial) ma ci
accorgiamo che forse l’unica possibilità è quella di scavare sotto di noi.
La soluzione forse è quella giusta, vediamo qualche
spiraglio di luce nelle guitar+bass di scuola Cure della
titletrack dove l’unica presenza vocale è rappresentata
da dei liberatori ma ancora sofferenti “ahhhhh”, la discesa
si fa rapida e all’improvviso ci troviamo immersi nell’acqua (Insides) ma non abbiamo le forze per nuotare, ci
facciamo quindi cullare e trascinare fino allo sbocco di
quella che probabilmente è una fogna. Siamo fuori, ci
ripuliamo velocemente... uno sguardo attorno, sembra la
metropoli di qualche film anni ‘80 (Remember The Future),
ci incamminiamo a ritmo ma presto si fa notte e saliamo
The Soft Pack - Strapped (Mexican Summer,
Settembre 2012)
Genere: indie rock
The Soft Pack sono quattro ragazzi di San Diego, attivi dalla fine dello scorso decennio e arrivati con questo
Strapped al loro secondo LP, dopo un paio di EP e il debut
omonimo datato 2010.
The Soft Pack si aggiungeva alla folta lista di dischi di
guitar band adrenaliniche che impazzavano (impazzano ancora?) nelle playlist e nei dj set votati al megareimpasto garage dei ‘60s, il punk dei ‘70s, passando dal
college rock anni ‘80 e soprattutto dal lo-fi tipico dei ‘90.
Il pacchetto completo, insomma. Coordinate semplici e
molto spesso abusate, ma che risultano essere efficaci e
persistenti col passare delle generazioni. Meno rumorosi
dei Wavves, più immediati dei Surfer Blood ma forse
non brillanti quanto i Crocodiles e freschi come i Beach
Fossils. Ecco, basterebbe sapere questo per raccogliere i
singoli buoni per il dj set e chiudere il capitolo in materia,
se non fosse che questo secondo disco arriva giusto in
tempo per ricordarci che in questi due anni i ragazzi son
cresciuti e che sì, anche il loro suono è maturato, aggiungendo qualche novità alla formula seppur rimanendo
fedele al blueprint dell’esordio.
Il singolo apripista Bobby Brown serve proprio questo
scopo, mostrare cioè le rinnovate ambizioni del gruppo
nell’uso di strutture pop più complesse, accompagnate
da un certo gusto patinato per le melodie che vanno a
contrastare i loro pezzi più veloci ed immediati. Parlando di strutture, è difficile non pensare a qualcosa di già
sentito o di familiare in molti episodi del disco, con suoni che evocano il passato più o meno recente dell’indie
chitarristico britannico. Head On Ice, ad esempio, sembra uscita direttamente da uno degli ultimi dischi dei
Jesus & Mary Chain, non esattamente un riferimento
dei più originali. D’altro canto, sparsi per il disco, ci sono
spunti melodici interessanti e anche spazio per il pezzo
trascinante che non ti aspetti: Oxford Ave, strumentale
di appena due minuti, ma che sembra aprire spiragli
compositivi interessanti, attraverso l’uso di fiati e di una
sezione ritmica in maggior risalto.
A non convincere molto sono, a vedere bene, i testi e
il cantato: i primi mancano decisamente di profondità
mentre ai vocals di Matt Lamkin gioverebbe un po’ di
cattiveria in più. A conti fatti, il ‘difficile secondo disco’
non è poi così difficile se ti attieni alle regole: mantieni la
stessa formula del primo, aggiungendo qualche variazione sul tema. Basterebbe questo, se i Soft Pack avessero
nel DNA un sound particolare che spinga l’ascoltatore a
tornare più e più volte, cosa che invece qui non accade
come dovrebbe.
(5.3/10)
Luca Falzetti
The Souljazz Orchestra - Solidarity (Strut
Records, Ottobre 2012)
Genere: Afrobeat latino
Non che i titoli scorsi lasciassero dubbi sulla presenza
di una forte spinta ideale nel gruppo né sulla natura di
quegli ideali (Freedom No Go Die, o un Manifesto sicuramente più Marx che Roxy Music), ma Solidarity, certo, li
fuga da subito: per il titolo, ma ancor più per la copertina
da gruppo africano anni ‘70, di quelli per i quali musica
e lotta per la libertà erano la stessa cosa, ai tempi in cui
non doveva essere free solo il jazz ma anche un’America
Latina in pieno subbuglio.
Per i canadesi, però, jazz, Africa e Caraibi sono riferimenti
soprattutto musicali, come ormai sappiamo. Riferimenti
che qui troviamo più che mai fusi insieme nel calderone
di un suono sporco e vintage, animato da un’incalzante
frenesia ritmica nella quale ribollono fiati e organo hammond. Stilisticamente più omogenea rispetto al passato, la band limita le divagazioni al reggae di Jericho e al
ragamuffin di Kingpin, mentre le morbidezze presenti
qua e là nei dischi precedenti qui si ritrovano solo nella
Spagna accorata della conclusiva Nijaay.
Per il resto, l’afrobeat accentua l’elemento funk in Kelen
Ati Leen e in Conquering Lion, ferve afrocubano in Serve & Protect e nella Ya Basta che usa lo slogan zapatista
come response al call di tutto quello che individuano
come male del mondo - il Terzo, soprattutto, la cui anima pervade da tempo stile e cuore di Chrétien e soci
(non i primi bianchi cui accade, vedi Antibalas), qui più
coerentemente che mai.
(7.2/10)
Giulio Pasquali
83
Thee Oh Sees - Putrifiers II (In The Red
Records, Ottobre 2012)
Genere: garage 60s
Ormai potremmo anche non recensirli più i dischi degli
Oh Sees. Potremmo limitarci a darne una segnalazione
volante in sede news e bona lì: coscienza a posto e spazio
per altre recensioni. Ma così facendo non faremmo torto
solo a John Dwyer o agli eventuali suoi fan. Faremmo
torto alla musica in generale, perché, nonostante o proprio grazie alla sua elefantiasi produttiva, i californiani
stanno diventando un pilastro per tutto quello che sarà
il garage sixties da qui in avanti. Che tradotto significa,
provate voi a mantenere un simile standard qualitativo
producendo dischi lunghi in pratica ogni mese o poco
più.
Putrifiers II non aggiunge nulla al già noto, ma il bello è
che non sbaglia nemmeno nulla. Tutto è perfettamente in equilibrio e al proprio posto, senza però risultare
l’ennesima copia di una copia. Il principio dell’imitatio
tocca la congrega di San Francisco solo marginalmente:
fornisce loro gli strumenti di base - jingle-jangle vocale,
perentorietà delle ritmiche, chitarre distorte ma orecchiabili, amore indiscusso per certi intarsi melodici - ma
lascia pure ampio spettro alla sperimentazione e alla
fusione in chiave personale.
In formazione classica, del gruppo ormai fanno parte in
pianta stabile Mikal Cronin e Chris Woodhouse, i Thee Oh
Sees sciorinano perlette di un certo livello tra sixties pop
tutto coretti e lustrini (Flood’s New Light), spensieratezza californiana (Hang A Picture), folk-pop cristallino con
intrecci vocali (quasi)prog canterburyano (Wicked Park),
olezzi west-coast a go-go (vai a dire a Dwyer chi erano i
Greatful Dead) e garage-rock storto (Wax Face) o sciolto
nell’acido (Lupine Dominus), senza dimenticare i momenti più lisergici e stranianti (So Nice, Cloud #1, la title track).
Dimostrando ancora una volta che la pasta di cui sono
fatti è di quella buona. Gusto per le copertine escluso.
(7/10)
Stefano Pifferi
Tim Burgess - Oh No I Love You (O Genesis,
Ottobre 2012)
Genere: folk, songwriter
Non sta fermo un attimo, Tim Burgess. Dopo la prima
avventura solista del 2003 è andata avanti la carriera dei
suoi Charlatans - l’ultimo album Who We Touch risale a
due anni fa, ma nel frattempo sono arrivate le ristampe
deluxe di Us And Us Only e Telling Stories (che è anche il
titolo della sua autobiografia) - e lo si è visto impegnato
nel supergruppo Chavs con colleghi di provenienza Primal Scream, Libertines, Klaxons e Razorlight. Ora torna
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con un bizzarro caschetto biondo, ma soprattutto con il
nuovo Oh No I Love You, anticipato ad aprile dal malinconico singolo A Case For Vinyl (rilasciato in tempo per
lo scorso Record Store Day) e interamente composto
con un partner-in-crime d’eccezione, Kurt Wagner dei
Lambchop.
Si incontrarono a Manchester, tanti anni fa. Tim, dopo
avergli riconsegnato la chitarra, chiese a Kurt se avrebbero mai scritto un brano insieme: oggi quel brano è
diventato un album, inciso a Nashville in meno di tre
giorni con la produzione di Mark Nevers (già all’opera
con Lambchop e Clientele); uno strano intreccio, quello
tra le melodie di Burgess e le parole di Wagner, che funziona perché evita il pastiche country-folk da cartolina,
buono come sottofondo in un giorno di pioggia. Tim
e Kurt dialogano, cercano di comprendersi, e il primo
interpreta la poetica del secondo con convinzione e non
senza trasporto emotivo.
L’Americana di cui il lavoro è intriso si mescola con venature classic soul (nell’irresistibile White), archi che svolazzano leggeri (The Hours, ipotetico nuovo incontro felice
tra Paul McCartney ed Elvis Costello), cori gospel (A
Gain), slide guitar a-là-Mark Knopfler (The Graduate),
belleandsebastianismi a mo’ di zucchero a velo, chitarre
effettate che s’insinuano nella scena sonora, sgombra
da orpelli, quando meno te l’aspetti (c’è qualche reminiscenza Cocteau Twins sul letto morbido su cui si adagia
il falsetto di Burgess in The Economy) e un po’ di Bob
Dylan, quel tanto che basta. In The Doors Of Then Art
Garfunkel va a braccetto i Cherry Ghost con insospettata naturalezza. Nell’ironia dolceamara che permea il
monologo dell’amante bastonato dopo una storia ormai
bell’e finita, ogni ingrediente è dosato con parsimonia:
Nevers, grazie a scelte oculate, fa fare bella figura anche
a canzoni impalpabili, forse troppo slegate l’una all’altra,
senza una vera meta e trascinate troppo per le lunghe.
Pur riuscito solo in parte, Oh No I Love You si rivela, dopo
ascolti pazienti, un disco intimo, bucolico, dal fascino
discreto, distante da certe interlocutorie prove soliste
di un altro protagonista degli anni Novanta “a forma di
Union Jack” come Brett Anderson. Il merito è dei musicisti coinvolti (tra cui Carl Broemel dei My Morning Jacket
e Chris Scruggs) e anche di Kurt Wagner, che dimostra
ancora una volta di avere talento e buon gusto (e la stessa generosità che ebbe con i Morcheeba ai tempi di Charango). Il maestro della Madchester che oltre vent’anni fa
infiammò il Regno Unito si mette in discussione da umile
discepolo. E di questi tempi non è mica poco.
(6.2/10)
Alessandro Liccardo
Tim Hecker/Daniel Lopatin - Instrumental
Tourist (Software, Novembre 2012)
Genere: Noise, ambient
Dopo essersi conquistato un posto di rilievo nelle cronache musicali di questi anni, Daniel Lopatin (Oneohtrix
Point Never) passa in qualche modo alla fase due della
sua carriera. Insieme a C. Spencer Yeah (Burning Star
Core) si fa curatore di una serie di lavori tra free-jazz e
musica elettronica, intitolata SSTUDIOS, sulla nuova label
messa in piedi da Lopatin stesso, la Mexican Summer, di
cui il qui presente Instrumental Tourist, altro non è che
il primo capitolo. Un tipo di collaborazione a cui non è
nuovo se ci si ricorda anche di Channel Pressure, lavoro
a quattro mani con Joel Ford e dello split con Rene Hell
di qualche mese fa.
Stavolta però, c’è più interesse del solito, visto che a
collaborare alla stesura dei brani è stato chiamato Tim
Hecker reduce dalle vette di Ravedeath, 1972 e nome
di assoluto prestigio nel settore dell’ambient più lirica
e creativa. Va subito chiarito, che come nella maggior
parte delle collaborazioni di questo tipo, la somma
delle parti non è superiore ai singoli elementi. L’iniziale Uptown Psychedelia chiarisce quanto l’intervento del
canadese sia preponderante nella struttura del disco.
Le maggioranza delle soluzioni sonore sono sue. Il droning effettato e rumoroso che trascende nel riverbero
liturgico di Scene From A French Zoo è lo stesso di Radio
Amor, Ultraviolet e Ravedeath. La mano di Lopatin si
avverte più sulla cornice, che sulla tela. Tutto il lavoro di
distruzione e ricostruzione di Intrusions, e il remastering
di Whole Earth Tascam che replicano le trovate di Replica, per l’appunto. Gli spunti più interessanti del disco
però arrivano tutti da Hecker: il fatalismo triste di Racist
Drone, la trascendenza di Grey Geisha, il lirismo solenne
di Vaccination No. 2.
Lopatin c’è e il suo trademark si sente, ma la sua sta rapidamente diventando una maniera la cui trovate non
hanno più molto ossigeno, proprio mentre viene superato a destra e sinistra dagli epigoni della prima ora, ovvero i vari Motion Sickness, Ricardo Donoso, Le Révélateur, Rene Hell, Ghostrider tutta gente che dopo aver
ascoltato Russian Mind e Zones Without People, ha
evidentemente visto la luce.
(6.5/10)
Antonello Comunale
Topsy The Great - Steffald (From Scratch,
Ottobre 2012)
Genere: math noise
E’ un disco dalla forte identità l’esordio dei Topsy the
great. Interamente strumentale, Steffald - coproduzio-
ne Fromscratch e Santa valvola - attacca e finisce con un
susseguirsi di trame math noise e schizofrenie heavy,
stipate in un flusso assolutamente omogeneo che non
lascia un attimo di tregua.
Volessimo cercare una stella polare i Don Caballero
sono certo della partita, ma sia chiaro che Steffald non
cede alla devozione e al convenzionale. La rielaborazione eseguita dal trio pratese è sì studiata e meticolosa, ma
non rinuncia a un retrogusto free, caldo, merito anche di
una registrazione con grana quasi live. Il risultato sono
una mezz’ora abbondante di accelerate, dilatazioni improvvise, aggressività, vuoti noise, un succedersi di tanti
piccoli nuclei compositivi che non perdono mai il filo
del discorso. Non si segnala un episodio in particolare
perché è la massa che conta, quindi tracannatevela tutta.
(7/10)
Stefano Gaz
Tori Amos - Gold Dust (Mercury, Ottobre
2012)
Genere: pop
La Tori Amos del 2012 decide di affidarsi a se stessa, ovvero di posizionarsi tra le confortevoli coordinate del
proprio repertorio rileggendolo in chiave orchestrale.
L’iniziativa si deve alla gratificante esperienza live con la
Metropole Orchestra datata 2010, la qual cosa fa cadere
fin da subito il sospetto che si tratti di un’operazione in
scia a quelle analoghe ad esempio di Antony e Peter
Gabriel. Sia come sia, anche in questo caso - come già
per l’ex-Genesis e per l’efebico statunitense - il risultato
è lusinghiero.
In mano ad artisti dotati di meno talento una scelta del
genere potrebbe somigliare ad una digressione retrogada e anche piuttosto comoda. Oltre che una confessione
d’imbolsimento senile. E un po’ giocoforza lo è. Tuttavia
in virtù della statura di Tori l’effetto ottenuto e d’un tuffo
di testa nella dimensione del classico senza con ciò fare
sconti alle inquietudini del presente. Vedi come in Yes,
Anastasia sembrino fronteggiarsi il lirismo volatile Laura
Nyro ed i tremori prewar PJ Harvey, oppure come Silent
All These Years faccia pensare ad una Fryda Hyvonen
rabbonita Eels (quelli “with strings”, ovviamente), per
non dire di quelle Precious Things e Flying Dutchman che
spremono imprendibili (stra)visioni Kate Bush. E via discorrendo, per un totale di quattordici tracce che di certo
solleticheranno timpani e cuore dei fan della prima ora,
e che nel carosello di avanguardie e retromanie contemporanee non dovrebbero fare fatica a ritagliarsi un senso.
(6.9/10)
Stefano Solventi
85
Totally Enormous Extinct Dinosaurs Trouble (Polydor, Giugno 2012)
Genere: Dance pop
Dietro al wertmülleriano moniker Totally Enormous
Extinct Dinosaurs si nasconde Orlando Higginbottom,
un ragazzetto pieno di spirito cresciuto alla radio tra una
trasmissione di Annie Mac e la Rinse FM, avvistato prima come remixer di alcuni mainstream acts (Lady Gaga,
Katy Perry) e poi come produttore al progetto Kinshasa
One Two insieme a Damon Albarn e DRC Music. Da lì al
lancio di produzioni personali il passo è stato breve, l’album di debutto Trouble arriva quest’estate e si presenta
come un esordio fatto di tante luci e qualche ombra,
eppure con qualcosa di quanto meno inaspettato.
La formula di Trouble in fondo è molto semplice: da una
parte, si tirano in ballo una serie di suoni UK giovani e
frizzanti come funky e garage (con l’intenzione, secondo
le sue dichiarazioni, di liberarsi dai trend scontati che
appartengono a una certa dance), dall’altra ci si inserisce con un cantato dreamy leggero e mai sforzato, tanto
catchy da fare invidia agli Stargate. Per certi versi il percorso è simile all’idea di fare musica degli Artful Dodgers, partire da contenuti dance anche ricercati (perché
il ragazzo ha tecnica e talento, e si sente) ammorbidendone però i contenuti, verso una forma finale dai tratti
popolari (sette singoli estratti sono un messaggio chiaro)
che strizza l’occhio a un pubblico in gonnella abbigliato
American Apparel e scarpe Vans Era.
I 14 pezzi dell’album gravitano dentro a quella dance
che rimbalza dai club alla radio, sempre piena di richiami verso altre produzioni e reinterpretazioni dal gusto
personale. Ecco allora la titletrack che omaggia gli ultimi
sentiti su Rinse FM, Shimmer che va a braccetto con SBTRKT (di cui peraltro TEED apre i concerti), la indie disco
+ Londonbeat nel singolone Your Love, una Household
Goods che mischia Surkin prima maniera e anche certi
Bloody Beetroots, il gusto acid di Solo che piace tanto
a Maya Jane Coles e rimanda ai pattern minimal di Lucio Aquilina e Richie Hawtin, ma anche una Panpipes
fatta da drum machines drogate, suoni deep e bassline
killer. Eppure l’album sa catturare con momenti di facile assorbimento come la semplicità dreamy di Fair, il
classico burialize effect della future garage (Closer è un
perfetto esempio di cosa fermenta oggi nella giovane
scena dance britannica) o Tapes & Money, il pezzo più
catchy dell’album e quello più citato nei dj-set giovani
di quest’estate, passo electro scattante, parte cantata in
stile Twin Shadow e citazione colta dei KC & The Sunshine Band di Get Down Tonight.
Parliamo fondamentalmente di pop radiofonico, pensato per le radio UK (che infatti han gradito) e per chi non
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sempre ha voglia di sentire Skream o Roska. Il profilo
è cool, tanto cool che c’è quasi il rischio che bruci troppo velocemente tra i canali mainstream spegnendosi in
fretta, ed è questo l’unico vero limite del disco: a volte si
ha l’impressione che TEED scherzi o tratti con sufficienza
la materia prima coinvolta nei pezzi (tutta l’ottima pasta
funky/dubstep dalle forti potenzialità vista in Brackles),
lasciando che il tutto sfoci semplicemente in una dimensione pop piaciona, sebbene sempre godibile. Ma
in fondo è proprio quel che cerca, far presa sulle ragazze
che si sono appena lasciate alle spalle Twin Shadow per
allietare i pomeriggi di shopping da Colette una volta
terminato il mix di Jamie XX. Album buono per ogni occasione, leggero ma fatto con stile, come nelle migliori
tradizioni di elettronica contaminata pop. Ci si poteva
anche aspettare qualcos’altro, ma nella sua semplicità
il target è centrato.
(6.8/10)
Mirko Carera
Tracey Thorn - Tinsel and Lights (Strange
Feeling, Ottobre 2012)
Genere: Xmas pop
Per i cinquant’anni la cantante anticipa di un paio di
mesi il Natale e ci regala il suo Christmas album. Dopo
la bella impressione di Love and Its Opposite del 2010,
la Thorn esplora il catalogo altrui, non sempre in tema
dicembrino, ma comunque scegliendo brani in qualche
modo caratterizzati da un’atmosfera da luci colorate
e neve che scende dal cielo. Se non ce l’hanno, come
nel caso della In The Cold, Cold Night dei White Stripes,
tanto meglio: la classe della voce degli Everything But
The Girl è tale per cui l’esecuzione fa sembrare che questa scheggia americana sia stata scritta in un villaggio
dell’Hertfordshire, magari proprio nella sua Hatfield.
Accanto alle dieci cover, tra cui vanno sottolineati almeno il duetto con Green Gartside, frontman degli Scritti
Politti (una corale Taking Down The Tree dei Low), e la
Snow di Randy Newman (uno che sa raccontare con piano e poche parole), ci sono due traditional (Hard Candy
Christmas e Have Yourself A Merry Christmas) e due brani
originali. Quest’ultimi meritano un discorso a parte: Joy,
in apertura, setta il mood del disco, fatto di agrodolce
nostalgia, spesso di un tempo pre-adolescenziale d’innocenza che in qualche modo viene turbato, mentre la title
track è una ballad che sa di balli ancestrali, testimonianza
degli interessi folk dell’ultima Thorn.
Se nel 2010 si era parlato della voglia di Tracey Thorn
d’esprimere il proprio soul con accenti personali e una
voce ancora in grado di emozionare, questo Christmas
album mostra un lato ancora più intimo che si rivolge
ai tutti quelli che vogliono tornare bambini. Forse un
passaggio laterale in una parabola già straordinaria, ma
che testimonia che arriveranno sorprese. Non solo sotto
l’albero.
(7/10)
Marco Boscolo
Vatican Shadow - Ornamented Walls
(Modern Love, Ottobre 2012)
Genere: industrial-noise
Vista la materia con cui traffica Vatican Shadow è abbastanza sorprendente non trovare mai riferimenti a Muslimgauze quando si legge della sua musica. Sorprendente perché è palese come Dominick Fernow abbia fatto
tesoro dell’approccio integralista di Bryn Jones, non solo
da un punto di vista strettamente musicale, ma anche
a livello iconografico e di immaginario. Quello che per
Muslimgauze è Hamas, per Vatican Shadow è la guerra in
Iraq, con tutti gli interconnessi riflessi propagandisticomediatici (indimenticabile la cover della prima edizione di Kneel Before Religious Icons raffigurante Malik
Nadal Hassan). Ne consegue una sorta di prolungato
concept che fa lo stesso uso della musica come metodica diffusione di dispacci politico-integralisti. Da qui un
senso della discografia labirintico e confusionario, che
tende a disperdersi in mille direzioni.
Solo quest’anno, con l’approdo a label di un certo livello
e con una certa diffusione, come Type e la qui presente Modern Love, Vatican Shadow è assurto all’onore di
cronache meno occulte e ci si sta rapidamente dimenticando di citare ogni volta Prurient e Cold Cave, come
è giusto che sia per un progetto come questo che è destinato a durare a dispetto del piglio collaterale con cui
era nato. Ornamented Walls arriva a pochi mesi dalla
pubblicazione su vasta scala di Kneel Before Religious
Icons e serve quanto meno a mantenere l’attenzione
desta in occasione del tour europeo. Composto di brani
contenuti nell’ep Operation Neptune Spear (sulla cover
dell’edizione in cassetta 17 copie della Hospital la foto
di Joe Biden..) e da 25 minuti di materiale inedito è il
classico disco che serve a battere il ferro finchè è caldo.
La prima parte riprende il “Live Mix Rehearsal For First Live
Performance May 5, 2012 Los Angeles In The Shadow Of
The KSM Trial At Guantanamo Bay, Cuba” dell’Ep.
Una fotografia delle escursioni live di Vatican Shadow,
che si manifestano di volta, in volta, come soffocanti,
opprimenti, senza mediazione. Nei passaggi mid-tempo,
lo scenario è del tutto analogo al Muslimgauze più attendista (Veiled Sisters, Gun Aramaic..). Cairo Is A Haunted
City Mythic Chords è una debilitata marcia funebre con
ventate apocalittiche, sorta di soundtrack per la distru-
zione in atto. Gli episodi più veementi come Nightforce
Scopes e Yemeni Telephone Number vivono sul crinale di
fascinazioni old-school come Esplendor Geometrico
e S.P.K., e le aperture neo gotiche di Church Of All Images Church Of The NSA e Boxes Were Wired To Batteries
Then Loaded Into A Brown Toyota Cargo Truck restituiscono quel senso di ansia opprimente, quell’umore da
campo di concentramento, che effettivamente fanno la
differenza per un suono così legato alla tradizione postindustrial come questo.
(7.4/10)
Antonello Comunale
Vernon Sélavy - Stressed desserts blues
(Shit music for shit people, Ottobre 2012)
Genere: psych blues
Fotografare l’old time in polaroid. Questa sembra la
missione dei Vernon Sélavy, gruppo del giro Movie star
junkies, Vermillion Sand e Capputtini i’ lignu, qui al
debutto con Stressed dessert blues, coprodotto da Shit
Music For Shit People e Azbin Records.
I soggetti sono sempre gli stessi - profumi beat/stradaioli
ancor più che prewar, amore per le ballads e per peccatori d’ogni risma - ma niente bianco e nero. I colori
vogliono essere quelli di una psych tropicalia tutta riverberi e percussioni, di una malinconia assolutamente
consolatoria, quasi una saudade che trova il suo punto
più alto in The days you lies will bloom, l’ibrido più riuscito
del lotto. Poi è giusto dire che si poteva osare di più. Tralasciando il doo-wop abbastanza didascalico di The way
it goes, il resto viaggia sempre su ottimi livelli, fornendo
più di un momento sopra le righe (Fifteen apple seed, All
the sinners burn).
Un sound che non differisce molto dalle premesse,
specie sul versante Movie star Junkies, dando qua e là
il senso del doppione. Ne risulta un disco di facile apprezzamento per i cultori della scena, con un potenziale
ancora tutto da sviluppare.
(6.7/10)
Stefano Gaz
Vinicius Cantuária - Indio de Apartamento
(Naive, Ottobre 2012)
Genere: new bossa
A un anno e mezzo dall’apprezzato disco con l’amico
Frisell, il cantautore di Manaus trapiantato a NY torna a
farsi sentire con un album che prosegue sui suoi binari
recenti: quelli di una bossa tanto classica quanto minimale, che anima la tradizione con una scrittura sapiente
e piccoli dettagli, spesso opera degli illustri amici della
scena della Grande Mela cui il Nostro appartiene ormai
87
da tempo.
Suona quasi tutto lui, infatti, salvo ricorrere all’aiuto discreto ed elegante di ospiti quali Sakamoto (che decora la serenità di Moça Feia con un piano asciutto anche
nell’assolo finale, e ugualmente appartato in Acorda),
Norah Jones (sempre al pianoforte, che arpeggia lirico
in Quem Sou Eu) e il sunnominato Bill Frisell, che ricama
da par suo Chove La Fora e Pe Na Estrada.
Il chitarrista è presente anche in This Time, duetto con
Jesse Harris che non solo presenta un organico più
allargato rispetto al resto del disco, ma dove gli ospiti
invece di agire tra le pieghe si fanno sentire, contribuendo a una canzone dalla scrittura abbastanza solida ed
efficace da aspirare a diventare uno standard. Si tratta
anche di una delle poche canzoni lunghe del disco, metà
della cui scaletta è sotto i due minuti o di poco sopra:
si ferma intorno al minuto e mezzo perfino la title track,
uno strumentale che parte con le percussioni più incalzanti del disco prima di divagare verso l’ambient e che,
grazie all’uso dell’elettronica, spicca nella paletta sonora
del disco. Come del resto fa Purus, stessa trance leggera
e assonanze dell’ultimo De Andrè.
Qui hanno un senso di compiutezza anche i bozzetti:
d’altronde una mano sicura e ispirata sa anche quando
si può chiudere senza ulteriori fronzoli.
(7.2/10)
Giulio Pasquali
White Hex - Heat EP (Avant!, Novembre
2012)
Genere: cold post punk
I White hex sono un duo composto da Jimi Kritzerliz
(già Slug Guts) e Tara Green, australiani ma di stanza a
Berlino, giunti ora al debutto sulla media distanza con
questo Heat. Hanno il gusto per l’ossimoro i due, perché
vedi l’artwork, scorri la playlist, e scopri che di caldo non
c’è proprio niente.
E’ un post punk glaciale e drogato quello di Heat. Patterns ultradilatati, sulla scia dei conterranei HTRK (simile
anche l’atonalità vocale delle due cantanti), piglio nichilista alla Curtis con citazione d’obbligo per un titolo quale Nothing comes, a piccole dosi blues funereo. Funziona.
C’è semplicità ed efficacia, fascino nel costruire un immaginario popolato da metropoli intorpidite (Desperate
Heat), corpi atrofizzati (Ice cold) e vacanze monocrome
(Holiday).
La sensazione è che - nel bene e nel male - i White Hex
potrebbero aver detto tutto qui sulla loro poetica, ancor
prima di giungere al full-lenght.
(6.8/10)
Stefano Gaz
88
White Lung - White Lung (, Ottobre 2012)
Genere: Punk
Nell’ambito del dibattito nato tra lettori e redazione sulla
nostra fan page in seno alla recensione di Uno dei Green Day - disco che ha diviso e legittimamente aperto
ad una critica piuttosto serrata - qualcuno ha posto una
domanda difficile e intelligente: “Che cos’è il punk oggi?”.
Tutto e niente, verrebbe fisiologico rispondere, anche
perché il punk, nel suo lunghissimo percorso dal 1977
ad oggi, si è trasformato, arricchito, separato in casa. Ha
assorbito - e non avrebbe potuto essere altrimenti - elementi musicali, sociali, culturali provenienti dall’esterno,
risolvendosi poi in un’entità mutante fatta di una solidissima base (il punk, appunto) e di deviazioni provenienti da generi diversi. Pensate al blues, che ha portato al
blues punk dei Gaunt, dei Chrome Cranks e della JSBX;
pensate al garage sixties che fuso con il punk ha portato
alla definizione di un genere scolpito da gente come i
Gravedigger V, i Rippers o i Morlocks. Pensate al death
punk reso intoccabile dai Turbonegro.
Potremmo proseguire per intere pagine. Eppure il punk,
paradossalmente, da genere definito (forse anche troppo) si è tradotto in milioni di satelliti che gravitano intorno a un pianeta. Si è sfaldato, sfaccettato, perdendo
il connotato originario. Ebbene, che cos’è quindi punk
oggi? Se dovessi spiegarlo ad un alieno, sceglierei i White Lung. Da Vancouver, Canada, con una lunga militanza
nelle milizie indipendenti del punk rock, legati a doppio
filo alla Deranged Records, cassa di risonanza delle riot
band più interessanti degli ultimi tempi, i White Lung
rappresentano oggi la purezza del punk, per come la
potremmo interpretare con l’esperienza degli ultimi
trent’anni.
Da più parti definiti come l’incrocio tra le L7 e le Babes
In Toyland, traviati dalla voce femminile di Mish Way e
capaci quasi di creare un malinteso storico che sposta
l’asse critico (della stampa) verso l’indie punk, i White
Lung sono invece ciò che è stato il punk, durante la sua
collisione con il “core”. E’ St.Dad a dimostrare come sia
ancora credibile oggi un brano suonato senza alcuna
velleità creativa, ma compresso nella sua rabbia martellante. Così come Thick Lip altro non è che la base punk
dalla quale gli At The Drive In hanno poi elaborato il
loro hardcore trasversale. Chitarre profonde e acide,
batteria pneumatica in quattro quarti, poco spazio per
la melodia fine a sé stessa e un occhio di riguardo per il
post punk in Glue, ma soprattutto la voglia di presentarsi
con una manciata di canzoni scomode, chiassose, dure,
affilate.
Se i The Men sono oggi considerati il futuro del punk,
allora i White Lung ne sono il presente. Sono la certezza
che trent’anni non sono passati invano e che il punk,
svestito dai suoi inutili orpelli, può ancora fare male. (7.4/10)
Mario Ruggeri
Yousef - A Product Of Your Environment
(Circus Recordings, Ottobre 2012)
Genere: House
Al fondatore e resident del Circus di Liverpool è naturale
non chiedere altro che un album specchio dell’aria che
tira nelle sue serate, e così infatti è stato per il primo
A Collection Of Scars And Situations del 2009: una
discesa senza distrazioni nel tech-house fun formato
collettivo. Per il sophomore, invece, Yousef vuole ampliare lo spettro offerto e, accanto al suo regolare assetto da guerra in console, si diletta in una manciata di
pezzi dall’appeal più armonico. Tra gli effetti migliori
del nuovo piglio due pezzi di ottima house profumata pop, con le azzeccate parti cantate di Had No Sleep
(synth 80s meet Chicago) e I See (soul femminile venato
di jazz, siam vicini agli Hercules And Love Affair), più gli
slow beats di What Is Revolution e Indigo Child (è il mood
deep-jazzy-esotico à la Frivolous, perfetto per rendere
in cuffia le atmosfere delle serate tardo estive).
Il resto di A Product Of Your Environment scorre inevitabilmente nelle espressioni più clubbing-oriented, col
giusto fiocchetto d’apertura di An Old Friend, l’appropriato retaggio old school (tipo Marshall Jefferson in Think
Twice) e quel tipo di approccio popolare che riconduce
ad Ibiza (Beg, Feel The Same Thing). Magari a tratti ci si
avvicina pericolosamente al formato dj tool, ma anche
questo fa parte del gioco: se sei furbo conosci il pubblico
che ti segue, catalizzarlo è la cosa più sensata che puoi
fare. I professorini, che dicessero quel che vogliono.
(6.9/10)
serie di segnali analoghi da più parti, dopo l’ultima Madonna prodotta da Benny Benassi, la generazione EDM
dai Nero a Krafty Kuts e il nuovo fenomeno demential
dance Gangnam Style.
Il problema però è che qui le tracce son tutte uguali,
tutte fondate su jingle semplicissimi e anche un po’
infantili (Lost At Sea o Clarity, l’effetto profondità zero
figlio di David Guetta), beat gradasso su schema electro (tipo Stache, che gira per 4 minuti intorno al nulla)
e parti cantate femminili tanto anonime che quasi ne
apprezzi l’omologazione servile allo schema (nel pop
le cose funzionano così, no?). Alla fine Hourglass è un
pezzo onesto e l’ingresso della ragazza di Skrillex Ellie
Goulding serve a sparigliare un po’ le carte con una ventata di hardcore, ma su ogni mossa il produttore tedesco
specula senza freni e anche i pezzi sulla carta più trascurabili come Follow You Down alla fine infastidiscono
per quanto si crogiolano sui meccanismi più prevedibili,
senza compensare con nessun tratto caratteriale. E allora
rivogliamo Illusion.
(5.4/10)
Carlo Affatigato
Carlo Affatigato
Zedd - Clarity (Interscope Records,
Ottobre 2012)
Genere: Commerciale
Turatevi il naso e castigate all’angolo i vostri standard
qualitativi in fatto di musica. Arriva Zedd, l’ultimo pompatissimo nome della dance commerciale, nell’album
studiato per sbancare la concorrenza: forte dell’enorme
successo ottenuto col singolo Spectrum (numero uno
su Beatport per quasi 3 settimane), Clarity vuol essere l’affermazione definitiva e senza sbavature di quella
categoria di musica dance che si sentiva nelle radio dei
primi anni 2000, con le sue furbe triangolazioni sfumate
tra electro house, trance e mediterranean progressive.
Qualcosa che di per sé non è un male e che riflette una
89
Gimme Some
Inches #31
Solito appuntamento coi formati minori. Questo mese ricco di perle
nascoste per Cannibal Movie e Mushy, Virus e Scorpion Violente,
Johnny Mox ed Expo ‘70...c’è solo da ascoltare
È la Yerevan tapes a marchiare il rientro in pista dei Cannibal Movie.
Sempre in obsoleto formato cassetta, i due cannibali del sud Italia
spingono sull’acceleratore e tirano
fuori due lunghissimi deliri per organo e batteria: Mondo Music, più
che un tributo all’immaginario costituente del duo, è una dichiarazione d’intenti bella e buona nel suo
mostrarne il lato ancor più dilatato
e free. Arrembante il lato A con l’organo di Donato Epiro a svisare acido e distorto mentre il drumming di
Gaspare Sammartano gioca di piatti
e tribalismi vari; più ipnotico e meditativo il suo corrispettivo opposto,
ma in entrambe le composizioni self
titled, a spirare è un vento orientale, fatto di fumi ed effluvi dal vicino
e lontano oriente a dimostrazione
che non esistono confini se l’animo
è ben disposto.
L’altra tape del mese è appannaggio della nostra vecchia conoscenza
Johnny Mox, predicatore a furia di
human beatbox e gospel punk se90
gnalatosi con l’ottimo We=Trouble.
Stavolta però il trentino ci sorprende perché la tape Lord Only Knows
How Many Times I Cursed These Walls
è un quattro tracce strumentale per
chitarra acustica e poco altro. Sorpresi vero? Bene, ascoltatele attentamente queste canzoni senza voce
e scoprirete chitarre suonate come
percussioni, polvere desertica tra i
capelli, tramonti rosso sangue e una
gran voglia di fuga. In poche parole,
il Johnny che non t’aspetti, ma dopotutto ci sono mai piaciuti quelli
che ripropongono sempre la stessa
cosa o abbiamo in cuor nostro preferito quelli che ci sorprendono?
Alzando i giri dei vinili parliamo di
due 12”. Il primo è apripista per il
comeback di Mushy, signor(in)a in
nero già trattata all’epoca di Faded
Heart. Stavolta la romana spinge
più sull’etereo e forse risente della
positiva influenza degli A.R.Kane,
presenti in una versione della title
track esclusiva per questo ep. Il 12”
My Life So Far per Mannequin vede
fumose lande dreamy quasi shoegaze pronte ad ammantare la un
tempo gelida synth-wave di Mushy
che si scalda e si/ci scioglie il cuore.
Tanto che questi lievi spostamenti
di interesse ci fanno ben sperare per
un full-length ancor più personale.
L’altro 12” è lo split tra Expo ‘70 e
Ancient Ocean, visti passare da
poco per le italiche lande. Pur conoscendo vita, morte e miracoli di
Justin Expo ‘70 Wright, non possiamo negare di essere rimasti colpiti
dalla marea montante di droning
nero pece in cui la chitarra sembra
sparire: infatti la suite Waves In Caverns Of Air è per solo moog! Che sia
un viatico per un futuro prossimo?
Il compare John Bohannon aka Ancient Ocean si muove sulla falsariga, chitarra e folate di agghiacciante
disperazione per una Decomposition Decay che alterna vuoti gelidi,
arpeggi estatici, pieni da noise totale e stratificazioni di layers. Da rivedere in un lavoro compiuto, ma le
premesse sono ottime. Producono
No=Fi e Sound Of Cobra, realtà che
qui conosciamo bene.
Riprendiamo da dove avevamo
lasciato con le uscite del giro più
tetro. Già da qualche mese è in circolazione l’ultima tape di Niding, il
più recente progetto di Viktor Ottosson (già Attestupa e Street Drinkers). Forse meno convincente della
precedente Afgudaskymning, Plågor
offre sei nuove tracce che mischiano black metal downtempo, noise/
industrial, voci quasi cold-wave e
umori che più cadaverici e putrescenti non si può. Unico difetto, i
pezzi sembrano esser meno focalizzati e più istintivi, immediati, ma
senza un eccesso di freschezza. Speriamo che il nostro ritrovi presto la
strada di Den Dag Som Aldrig Gryr.
Chi invece torna per raddoppiare
sono i newyorkesi (anzi, nukeyorkesi) Anasazi con il secondo 7”,
stavolta per Sacred Bones. La label
di Brooklyn non si è fatta intimorire
dalle giacche di pelle, le borchie e
le acconciature mohawk dei nativepunx e ha rilasciato I Saw The Witch
Cry, due pezzi di deathrock suonato
con carica e attitudine peacepunk.
Due bei ceffoni in pieno volto attendendo il full-length di debutto. Nel
frattempo, consigliatissimo.
Nuovo singolo anche per novello
aedo del folk funereo, King Dude.
Uscito nell’estate appena conclusa
come anticipazione dell’LP fuori
proprio in questi giorni, You Can
Break My Heart vede un’ulteriore
virata del ragazzone di Seattle verso i terreni storicamente battuti da
icone come Johnny Cash e Woody
Guthrie, con un accento doo-wop
che non dispiacerà ai fan della pop
music più retrò. Per il resto, grandi
distese desertiche e riverberi che innalzano polveroni all’orizzonte; Burning Daylight, il nuovissimo album,
ne è l’ennesima conferma.
Dalle nostre parti, e più precisamente dalle rozze campagne del veronese, tornano a far capolino i Virus,
band insolitamente sboccata - ma
nel modo giusto - nel piatto (in tutti i sensi?) panorama della Pianura
Padana. Dopo il primissimo split
7-inch con gli amici Dots (un’altra
banda di scoppiati), il duo voce +
chitarra&batteria (sì, avete letto,
non voce&chitarra + batteria, au
contraire) sguinzaglia una nuova
manciata di brani irruenti, volgari,
monelli come un discolo pestifero e
insolente. Noise punk di scuola Detroit, ma irrimediabilmente forgiato
dalle cascine della Bassa, l’ignoranza è tale da omaggiare/insultare sia
Italia che Stati Uniti. Non ci credete? Sentitevi I Live in Italy e poi ne
riparliamo. Anzi, meglio, andate di-
rettamente sul sito della Depression
House e compratevi sto singolo.
Last but not least (anzi!!!), diamo il
bentornato al duo più perverso di
Francia, mesdames et messieurs
gli Scorpion Violente sono nuovamente tra noi. A due anni da Uberschleiss, Nafi e Toma hanno deciso
di insozzare a dovere nuovi solchi
in vinile, e per farlo hanno scelto la
neonata (e francese) Teenage Menopause (già album per Catholic
Spray e JC Satàn). La malefica sinergia ha dato vita a The Rapist, maxi
EP su 12” che riversa cinque nuove
mostruose creature, se possibile
ancora più ostiche, più minimali e
più paranoiche di quelle già pubblicate. One note one rhythm one hour,
potrebbe essere il motto di questa
nuova prova, a metà tra disco anfetaminica, kraut e minimal wave
suicida, con un occhio di riguardo
al crooning anni ‘50/’60 che tanto
piace a nostri cugini d’Oltralpe. Giù
il cappello, non c’è che dire.
Stefano Pifferi, Andrea Napoli
91
Steve
Roach
Se Brian Eno fu il sommo
teorizzatore, Steve Roach si
conferma massimo esponente
del genere Ambient, forte di una
discografia monumentale riletta
su SA e arricchita da una lunga
intervista.
Testo: Filippo Bordignon
Visioni
del taoismo elettronico
92
93
Impegnandosi si ribalta l’illusione
e si torna alla propria Origine
Maestro Ippen Chishin
Dell’ambient inteso come “genere” i più conoscono
sufficientemente nascita e vagiti apripista; il raggio
d’interesse dell’ascoltatore medio è delimitato tra gli
scritti del compositore Erik Satie (nei quali si vagheggia la necessità di un sottofondo sonoro armonizzato
con il luogo che lo contiene) e la geniale teorizzazione
di Brian Eno; dalla seconda metà degli Anni ‘70 in poi
sono inoltre emersi altri nomi prontamente ricondotti
all’universo eniano, come quelli di Harold Budd, Jon
Hassell, Daniel Lanois.
Poco o nulla si sa però dell’ambient (r)evolution a opera
della generazione successiva agli artisti di cui sopra. In
questo contesto, lo statunitense Steve Roach (classe del
‘55) può essere considerato il più pregevole continuatore
di un modus di intendere l’evocazione sonora che ha
subìto negli anni le più disparate contaminazioni. Ciò
che ascoltiamo oggi è meticciato che annovera il contributo del minimalismo alla Steve Reich (occhio alla quasi
omonimia), della kosmische musik e delle tante sottocorrenti elettroniche posteriori come space, industrial
strumentale, drone, trance, downtempo ecc..
Quando l’operazione riesce, i meriti di Roach son presto
detti: aver cementato la stabilità di una musica quartomondista archiviando definitivamente le divagazioni
cosmiche per concentrarsi sui paesaggi del nostro Pianeta; aver praticato estenuantemente l’arte della collaborazione come possibilità principe per il rinnovamento
del genere; aver superato la condizione di un ascolto
da sottofondo infarcendo le composizioni di una qualità
dinamica derivata da un grande talento negli arrangiamenti elettroacustici.
Forse esagera, lo scrittore Piero Scaruffi, definendo
Roach dalle colonne del suo pur imprescindibile database cultural/musicale omonimo “(..)uno degli uomini
che può ambire al titolo di massimo musicista vivente”;
è vero altresì che, ai suoi massimi livelli, il musicista di
La Mesa ha costituito l’immagine sonora di una sorta
di taoismo dissimulato: dentro al suo repertorio infatti,
l’ascoltatore ispirato può derivare una filosofia del vuoto
come possibilità di esistenza nella quale il senso della
totalità non viene stemperato in quello dell’individuo.
Ma andiamo con ordine.
Motociclista professionista innamorato dall’infanzia dei
deserti californiani, nel 1975 Steve appende le ruote al
chiodo per buttarsi come autodidatta nello studio di una
strumentazione elettronica che in breve padroneggia
abbastanza da sperare di farne una professione.
94
L’esordio, a nome Moebius, è collettivo, sotto la direzione di tale Bryce Robbley; il vinile omonimo (1979, Moonwind) scorre nella piacevolezza dell’opera elettronica
semi-strumentale, inzuppando timbriche Kraftwerk con
una synth-wave dall’accento britannico (le buone forchette gusteranno la cover robotica dei Doors Light My
Fire). Esaurita l’esperienza Moebius dopo una sola uscita,
Roach focalizza la propria attenzione sul conio di una
carriera solista.
Il primo step in proprio è il promettente Now (‘82, Fortuna) in cui gli orizzonti si allargano su paesaggi magari
suggestivi (Comeback) ma fuori tempo massimo rispetto
ad artisti e album del passato (nel mucchio, i Tonto’s
Expanding Head Band di Zero Time o il Michael Hoenig
in Departure From The Northern Westland), soprattutto
negli episodi ritmati Growth Sequence e Inquest. Il successivo Traveler (‘83, Domino) tenta la miniaturizzazione
delle precedenti intuizioni, finendo per raccogliere nove
canovacci che sarebbero perfetti con l’aggiunta di una
traccia vocale ben congeniata, magari dal sapore new
wave. Nonostante i titoli suggeriscano visioni di bucolica spiritualità le atmosfere sono limitate a un feeling
androide in odor di Vangelis (ma privo della suo talento
melodico).
Structure From Silence (‘84, Fortuna) sancisce la nascita
del Roach-sound, elargendo tre composizioni di rarefatta
bellezza le quali si pongono, già dopo un primo ascolto, come prosecuzione ideale dell’ambient teorizzato da
Eno nei lavori per la Obscure e Ambient Records di fine
Anni ‘70; i diciassette minuti di Reflections In Suspenction
dilatano senza stirare le più nobili intenzioni delle pietre
miliari Discreet Music e The Plateaux Of Mirror, abbandonando l’iconografia cyborg già prossima al tramonto in
favore del mondo sensibile. Quiet Friend è la personale
scoperta del silenzio, ricamata con l’espressività di un
Arvo Pärt e ammorbidita in un contesto di spirituale discrezione, una dolcezza che passa di accordo in accordo
doppiando i battiti di un tempo organico.
Empetus (‘86, Fortuna) è prova ibrida tra il Roach degli
esordi e il guru ambient lì a venire, ideale per gli amanti
del sequencer e oggi disponibile rimasterizzata in edizione doppio cd.
Lo stesso anno esce il primo di una serie di lavori tematici
capaci di stregare il completista e spesso consigliabili in
qualità del loro valore effettivo: Quiet Music (suggeriamo
l’edizione per la Projekt The Original 3-Hour Collection)
calca le orme dell’Eno discreet per tentare un ulteriore
diradamento; scopo ultimo di queste registrazioni antologiche (dall’83 all’86) non è soltanto stimolare il cervello a produrre benefiche onde alfa ma sperimentare
ulteriori forme di sottrazione, unendo improvvisazione a
composizione. Non solo colonna sonora per partorienti,
sedute terapeutiche o yoga dunque: là dove l’operazione
riesce (The Green Place Part I & II) comprendiamo anzi
come non sia materia da sottofondo; essa richiede al
contrario una partecipazione che ne giustifichi le pause,
ne goda i silenzi, ne sfrutti la durata. Per la capacità di
amalgama del materiale (tastiera, suoni naturali e flauto)
Roach riceve la benedizione dal pianista Harold Budd, il
quale riconosce nel Nostro un talento che lo sottrae al
torpore di certi presunti alfieri del genere.
Con Western Spaces (‘87, Fortuna) il musicista inaugura il
filone delle collaborazioni, comprendendo come la contaminazione sia elemento fondante per la muta continua
della propria pelle d’artista. Oggetto di questo singolare
ritratto a quattro mani con Kevin Brahney sono le zone
desertiche degli States sud-occidentali. Una curiosità: le
note di copertina contengono una poesia di Linda Kohanov, moglie di Roach nota ai più come psicoterapeuta
specializzata nella branca che impiega i cavalli (Equine
Facilitated Psychotherapy) per trattare le patologie mentali. Con Brahney l’avventura avrà un seguito di maggior
rilievo qualche anno più tardi, grazie anche al contributo
del musicista Michael Stearns: gli episodi meno datati
di Desert Solitaire (‘89, Fortuna) amalgamano elettronica,
sussurri di sax e chitarre processate fluendo in un algido
magma di lodevole spontaneità (la titletrack, Flatlands,
Specter e il dark ambient Knowledge & Dust). Stears tor-
nerà a intersecare la discografia del Nostro nel mistico
Kiva (‘95, Hearts of Space), prova in trio insieme a Ron
Sunsinger che combina canti rituali degli indiani americani a un tappeto sonoro di elettronica e strumenti
etnici in grado di amplificare con invidiabile misura le
voci degli sciamani.
Gli Anni ‘80 si concludono con due produzioni particolarmente interessanti. The Leaving Time (‘88, Novus), grazie
al contributo del polistrumentista di Carlos Santana Michael Shrieve, è la raccolta di brani più strutturati secondo il formato canzone dell’intero repertorio roachiano,
forte di riff ficcanti, assoli dal taglio cinematografico e
sprazzi di tempi al cardiopalma (Edge Runner); l’esperimento non era comunque nuovo per Shrieve, il quale
già vantava la militanza nel trascurabile side-project di
Klaus Schulze Richard Wahnfriend. Il doppio Dreamtime Return (‘88, Fortuna) è invece uno degli incontrastati
masterpiece prodotti in solitudine. Complice un viaggio
nelle zone meno battute dell’Australia, Roach sviluppa,
a partire da quest’album, una sensibilità aggiuntiva che
mischia l’evocatività ambient con la spiritualità non
detta della migliore world music. Iniziato all’utilizzo del
didgeridoo dal maestro David Hudson egli perviene a
una formula che sposa il primitivismo aborigeno con il
presente dell’elettronica occidentale (Airtribe Meets The
Dream Ghosts) sviluppando un ibrido lontano dalle dissertazioni cosmiche di stampo teutonico e dall’Eno solo
95
apparentemente On Land. Da qui in poi, i nuovi dettami del suo stile saranno impastati con una fanghiglia di
elettronica terrigna, arricchita con strumentazioni folkloriche secondo un modus disinteressato all’archeologia
musicale o all’etnomusicologia; Dreamtime Return è un
sogno universale e non spaziale che, traendo nutrimento
dalla spontaneità dell’esistenza, approda in stati d’animo d’indescrivibile profondità (The Other Side, Magnificent Gallery, Truth Is Passing, Trought A Strong Eye) senza
che si profili un solo accenno di artificio.
I nineties si rivelano decade della consacrazione definitiva. Si apre con Strata (‘90, Hearts Of Space) in coppia con
Robert Rich: 10 tracce prive di esitazioni in cui il synth e
il campionatore incontrano i dettagli di Rich (le percus-
96
sioni, la steel guitar, il flauto in bambù) conseguendo un
risultato apolide che pure si tinge di umori asiatici (Ceremony Of Shadows) da una prospettiva non esattamente
occidentale. A questo gioiello del genere poi definito
tribal-ambient i due daranno seguito nell’ancor più meritorio Soma (‘92, Hearts Of Space), avvicinandosi come
pochi altri compositori americani al concetto Zen di nyat;
(Vaquità); al di là dei singoli episodi infatti, la raccolta si
regge su un equilibrio perfetto descrivendo una struttura in cui, oltre ai gesti testimoniati dalla registrazione,
non è funzionale sottrarre ne aggiungere alcunché (così
come non è possibile sottrarre ne aggiungere alcunché
alla Vacuità senza negarla o annullarla).
La vena tribal-ambient (complice il trasferimento del
Nostro in una zona semidesertica di Tucson, Arizona)
è sfruttata in chiave solista coi meritevoli World’s Edge
(‘92, Fortuna, soprattutto nel monolite da 60 minuti To
The Threshold Of Silence), Origins (‘93, Fortuna) e Artifacts
(‘94, Fortuna). La padronanza delle pause, la ricerca di
atmosfere in bilico tra melodia e investigazioni armoniche così come la fusione di atto compositivo con atto
improvvisativo raggiungono in questi lavori un apice in
completa opposizione con la rivoluzione inglese avviata
nello stesso periodo a opera degli apostoli breakbeat.
Roach si rivela tra i rarissimi papabili continuatori
dell’estetica cosmica la quale, nel frattempo, stancatasi
dei viaggi interstellari ha trovato una nuova dimensione
scrutando gli spazi sconfinati della mente in uno stato di
estatica mancanza (The Magnifican Void, titolava appunto un album del ‘96 per la Hearts Of Space). Con Halcyon
Days (‘96, Hearts Of Space) si cementerà una formula
pronta a divenire scuola, spingendo sul versante acustico grazie al contributo di Steven Kent e alle traslucide
manipolazioni sonore di Kenneth Newby.
I motivi di plauso proseguono nel progetto Suspended
Memories insieme al messicano Jorge Reyes e allo
spagnolo Suso Saiz: sia Forgotten Gods (‘93, Hearts Of
Space) che Earth Island (‘94, Hearts Of Space) vantano
il merito di proseguire nell’attualizzazione del quartomondismo tracciato da Hassell in capolavori di fine ‘70
quali Vernal Equinox e Earthquake Island; brani come
Different Desert, Saguaro o The Sky Opens mostrano un
trio presente in ogni atto: non c’è un solo istante in cui
la loro improvvisazione vaghi infruttuosamente nei territori di suono e forma; è questo l’inspiegabile esempio
di un non genere che ha smesso di cercare conferma
nell’esperienza dell’udito e si limita a ondeggiare con
l’autorevole purezza di una vibrazione continua, quali
che siano gli strumenti impiegati. L’incanto prosegue per
un’ulteriore uscita con Reyes, Vine~Bark & Spore (2000,
Timeroom Editions), in cui i paesaggi desertici messicani
e dell’Arizona si fondono in un macrovuoto colmato di
percussioni fantasma (Sorcerer’s Temple) e dettagliatissime allucinazioni uditive (l’inquietante titletrack).
Da segnalare poi una delle più durature collaborazioni del Nostro, col compositore belga Dirk Serries (alias
Vidna Obmana). Il risultato però, è sintomatico di un’altalenanza ispirativa che segnerà la discografia di Roach
da qui in avanti. Significativo in questo senso il triplo
Ascension Of Shadows (‘99, Project) il quale manifesta
un’autoindulgenza ribadita nel nuovo decennio con le
operazioni tematiche Fever Dreams (‘04-’07, Project) e
Immersion (‘06-’11, Project).
Immersion si articola in ben 7 cd di one-track album
colpevoli di un’ingiustificabile lentezza. Certo: il misti-
co esprime essenzialmente lo stesso pensiero in ogni
momento; ma è innegabile rilevare nelle fluttuazioni
in questione una staticità strutturale che ne fa prodotti
buoni appena per la seduta di meditazione di un aspirante yogī davvero troppo chic.
Nel profluvio creativo che va dal 2000 ai giorni nostri evidenzieremo comunque alcune opere di indubbio valore:
Midnight Moon (‘00, Project), acquerelli crepuscolari che
afferrano l’ineffabile; Prayers To The Protector (‘00, Fortuna) i canti religiosi del lama Thupten Nyandak Pema
accompagnati da finezze sonore di lodevole trasparenza;
Time Of The Earth (‘01, Project), colonna sonora dark ambient per il film omonimo di Steve Lazur dedicato ai deserti sud-occidentali degli States, disponibile come Day
Out Of Time in edizione deluxe con dvd; Darkest Before
Dawn (‘02, Timeroom Editions), ghiaccio bollente per il
miglior one-track album dell’intero repertorio; Trance
Spirits (‘02, Project), sabba percussivo oliato dalla chitarra
di Robert Fripp con Jeffrey Fayman e Momodou Kah.
Meno entusiasmante la sezione dei live: là dove non
regni calma piatta le uscite a valere davvero l’acquisto
sono Storm Surge (‘06, NEARfest Rec, si azzardi la trance
con strofinamenti dark ambient in Core Meditation e Void
Passage-Portal) e Journey Of One (‘11, Project), efficace
bignami d’estetica neo-tribale. Per gli irriducibili poi, segnaliamo The Lost Pieces concernente quattro uscite di
materiale inedito solista e non, registrate tra il 1987 e il
2001 tra cui si distinguono i vol. 1 e 4 per l’ecletticità delle
musiche contenute.
Affatto preoccupato d’inflazionare la propria discografia
con una produttività che molti giudicano mero esercizio
di tranquillizzazione, Roach prosegue sulla strada non
lastricata del proprio sound. Generoso e forse prolisso
(3 uscite solo negli ultimi 8 mesi) egli ha in serbo per chi
vorrà ascoltarlo l’inesauribile visione della propria spiritualità che solo per convenzione ha scelto di evocare
grazie al medium della musica elettronica.
I ntervista
Steve, cominciamo dal presente: cosa aggiunge il
recente Back To Life rispetto alla tua discografia precedente?
Per arrivare al risultato che senti in Back To Life ho rinunciato per tutto il 2011 e parte del 2012 all’attività concertistica. Dopo oltre venticinque anni di esibizioni volevo
focalizzarmi solo sulla composizione per ‘tornare alla vita’
con un feeling rinnovato. Rompere quella routine mi ha
permesso di concentrare lo sguardo su un singolo punto
del paesaggio. Perciò se la domanda è “cosa c’è di diverso
rispetto agli album precedenti?” la risposta è che sono io
a essere diverso in virtù di una serie di cambiamenti che
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si traducono di volta in volta in un approccio differente
nel mio modo di intendere la musica. La vita e il trascorrere del tempo innescano naturali mutamenti percettivi,
accendendo qua e là scintille che illuminano angoli a cui
non avevi ancora dato importanza.
Limiti dell’ambient?
La tua immaginazione.
Eccezioni a parte, si tratta di un genere popolato
esclusivamente dal sesso maschile..
Hai ragione; è davvero strano perché la mia musica trova un pubblico accanito anche nel gentil sesso. Eppure
a livello compositivo la bilancia pende quasi esclusivamente per i maschi. E non ho una risposta soddisfacente
per spiegarlo.
Qualcuno ti accusa di autoindulgenza..
Ho affinato quello che sono solito chiamare ‘l’orologio
interno’; si tratta di uno strumento utile che mi segnala
quando qualcosa sta andando per le lunghe o non funziona a dovere. Se mi trovo ad ascoltare della musica che
per vari motivi innesca questo allarme cerco di abbandonarla all’insorgere dei primi sbadigli. Ovviamente si
tratta di un meccanismo soggettivo diverso da ascoltatore ad ascoltatore.
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Credi in ‘Qualcosa’ che influenza il tuo modo di comporre?
Il mio modo di essere non prevede il ricorso a un Credo
specifico. Vivo con consapevolezza il presente lasciando
fluire la creatività; per quel che mi riguarda non c’è separazione tra quotidianità e spiritualità; da anni ormai la
mia sensazione è che siano fuse l’un l’altra in un continuum inscindibile. Il tempo creativo che trascorro in studio
e la vita di tutti i giorni sono una specie di unica meditazione dinamica alla quale abbevero la mia professione.
Come lavori, per stratificazioni sonore?
La prima cosa che faccio appena sveglio è entrare nella
Timeroom, il mio studio, ancor prima che albeggi. Solitamente 4-5 notti alla settimana le dedico al lavoro,
rintanandomi in studio fino al mattino (beh, poi naturalmente ci sono i giorni che dedico alle scartoffie, l’amministrazione del catalogo, le interviste, tutta la fase di
promozione e via dicendo). Alcuni giorni li spendo esclusivamente componendo. Diciamo innanzitutto che la
piega presa da ogni singolo giorno interagisce di per se
sul mio approccio alla musica. Ma sono tante le varianti
che incorrono a determinare la risultante: le condizioni atmosferiche, le azioni della quotidianità, il labirinto
del tempo percepito così come talune variazioni emotive registrate a livello subcosciente. Quando spalanco
la porta della Possibilità è a questi mondi che attingo
per registrarne le risonanze. A volte perciò, quello che
sentite su cd sono semplicemente io che scopro e fermo
nel tempo delle rilevazioni.
Una sorta di improvvisazione meditativa..
Il processo consiste nel mettersi in contatto con le più
profonde correnti del suono e fluire assieme a loro.. un
modus che ha generato spesso interi brani. Suppongo
potresti chiamarlo ‘improvvisazione’. Molte volte questa
spontaneità fornisce le basi per l’edificazioni di brani
sostenuti da un’energia che mi spinge ad aggiungere
questo o quell’elemento, rimodellando la visione iniziale. Altre volte invece un pezzo è terminato subito dopo
averlo suonato alla prima take. Naturalmente l’impiego
della tecnologia significa anche l’impostazione di parametri che sono io a determinare e talvolta è quello
stesso lavoro a ispirarmi alcune scelte: se, a esempio,
sto cesellando un rumore specifico, quel rumore può
suggerire sviluppi che non erano inizialmente previsti.
Operazioni queste che possono richiedere giorni di
preparazione ma anche un solo istante..
Queste idee ribollono fino a quando il momento è propizio per renderle manifeste. Il quadruplo Mystic Chords
And Sacred Space (‘03, Projekt) è nato così: un progetto
sedimentato per anni da cui magari ho estrapolato delle intuizioni per altri album senza però compromettere
l’unitarietà della struttura originale. Nel processo ha giocato un ruolo importante una sorta di energia tantrica.
Esigenze in fatto di strumentazione?
Mi ostino a impiegare tastiere ‘old school’, una console
interamente analogica e, in definitiva, una strumentazione che posso ‘suonare’ davvero. Oggi il trend è buttare
tutto dentro al computer ma preferisco la sensazione
tattile dello strumento vero e proprio. È pacificante sapere di poter lavorare a un pezzo senza dover per forza
accendere il computer per arrivare a una qualche forma
di ‘connessione’.
È di qualche utilità non sapere dove si andrà a parare?
Certo che sì. Tante volte il mood migliore per entrare in
studio è abbandonarsi alla sacralità di un atteggiamento mentale che faccia tabula rasa di ogni aspettativa o
intenzione. Una sorta di vacuità attraverso cui lasciar
emergere la musica.
“Steve Jobs è personalmente responsabile di aver
ucciso il business musicale”, tuonava Bon Jovi qualche anno fa..
Non la penso così; nel mio caso iTunes si è dimostrato
un mezzo efficace per veicolare la musica, sopratutto
se lo confronto con certi contratti discografici stipulati
negli Anni ‘80 e ‘90. Ovviamente, come tutti i mondi in
fase di formazione, ci sono degli aggiustamenti da fare.
La faccenda più complessa è contrastare i siti illegali
che sviliscono il valore di un’opera e ne disattendono i
copyrights. Sono passato attraverso supporti fisici come
il vinile, la musicassetta, il cd, il laser disk, il dvd ecc. e
ora stiamo vivendo la possibilità del download.. ma in
ultima analisi è sempre e solo la musica che deve restare
il fulcro del discorso; le modalità con le quali sarà distribuita e ascoltata continueranno a cambiare ma a preoccuparmi principalmente è che a evolversi sia soprattutto
l’oggetto di questa contesa. Il resto sono questioni che
possiamo trascendere.
Un paio di battute su alcuni artisti coi quali hai collaborato, tipo Robert Rich o Fripp..
Guarda sono ormai un po’ di anni che non sento Rich.
Ma più in generale ho notato che i miei rapporti con gli
altri artisti si esauriscono al termine della nostra collaborazione forse perché poi mi immergo totalmente in
nuovi interessi, in altri progetti. Taluni invece gravitano
attorno a un’orbita lenta ma costante, come nel caso
di Dirk Serries: ci siamo riavvicinati lo scorso dicembre
dopo dieci anni e, come se niente fosse, abbiamo ricominciato a lavorare a del nuovo materiale. Il risultato è
Low Volume Music per la Projekt. Si tratta di un lavoro di
cui sono particolarmente entusiasta poiché suona davvero ‘puro’, evocando immagini di paesaggi sospesi tra
esistenza e possibilità.
Qual è il merito che attribuisci alla tua musica?
Da dove vivo e ho il mio studio si gode la vista di un
paesaggio desertico: ci sono canyon, montagne, spazi
sconfinati dove lo sguardo è libero di perdersi. Seppure
abbia ‘ritratto’ anche oceani e rigogliosi pendii ho bisogno di abitare questo tipo di luoghi. Sono cresciuto a
San Diego in California e da ragazzo ho passato più di
una notte dormendo nel deserto e guidando la motocicletta nella giornata seguente attraverso le montagne
per vedere il tramonto sull’oceano Pacifico. L’intero ciclo
di un giorno mi spiego? Questa è, in ultima analisi, l’ispirazione più duratura, al di là di ogni musicista che abbia
apprezzato. Una connessione con gli elementi naturali
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che formano il nostro Pianeta, ecco di cosa sono intessute le mie opere.
Un equilibrio divenuto celebre in lavori come Structures from Silence e Dreamtime Return..
Riascoltare Dreamtime Return mi reimmerge in un bacino di ricordi ancestrali davvero significativo; scampoli
di un’esistenza primordiale che può essere sovrapposta
benissimo con quella della vita nel mondo moderno.
Con questa prova mi sono calato con maggiore profondità nel materiale sonoro, dando il via anche a una serie
di viaggi che - separandomi per lunghi periodi dal mio
piccolo mondo confortevole - mi hanno permesso di
accedere a qualcosa di ben più significativo. Come nel
caso del soggiorno in Australia; quell’esperienza ha reso
possibili lavori per me particolarmente significativi e collegati tra loro come Origins, Artifacts e la collaborazione
con Jorge Reyes e Suso Saiz. C’è ancor oggi una profonda impronta di quei luoghi nel mio ambient tribale.
Nomini Reyes e Saiz ed è doverosa una parentesi agli
album dei Suspended Memories...
Lì si trattò di aprirsi alla magia del momento presente,
un momento che ci trovò riuniti in virtù di interessi e
desideri comuni; tutti e tre ci sentivamo legati insieme
da una sorta di fratellanza epperciò - per un breve ma
intenso periodo - scegliemmo di rispondere a quella
strana chiamata. Se avessimo condiviso tutti lo stesso
continente sarebbe stato logisticamente più semplice
registrare altro materiale. Jorge è morto nel 2009 e da
allora non passa giorno che non pensi a lui.
Hai una definizione per un termine inflazionato
come ‘bellezza’?
Un sentimento al di là del linguaggio verbale che trasporta in un territorio di pura ispirazione scevri da ogni
domanda, un non luogo dove sperimentiamo che le
forme della Bellezza sono sovrapponibili al concetto di
Verità.
Cosa ti attrae in uno strumento timbricamente limitato come il didgeridoo?
La prima volta che ascoltai un didgeridoo mi fece l’impressione di un sintetizzatore acustico. Ed effettivamente, coi veri sintetizzatori, si amalgama alla perfezione
quasi fosse il partner ideale per il mio sound. Adesso,
quando lo suono, mi pare di essere una sorta di oscillatore umano-analogico: è come se il mio corpo fosse nientemeno che il filtro e l’amplificatore dello strumento.
Nella tua sterminata discografia c’è un album che
riassume al meglio il tuo sound live?
Decisamente il Live At Grace Cathedral (‘10, Timeroom
Editions). E la ragione sta nell’interazione con il grande spazio della cattedrale di San Francisco. In quel caso
l’edificio è diventato lo strumento per eccellenza, il
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migliore che si potesse concepire per dare vita al mio
sound. Avendo già suonato all’interno di alcune cattedrali in Europa sapevo come sfruttare spazi del genere.
Quando mi calo in sfide come quella studio la ‘location’per settimane al fine di entrarci in sintonia.
Ne deduco che gli edifici sacri sono il massimo per
l’elettronica meditativa..
Sarà forse utile sapere che è stata la prima e unica volta
in cui ho sistemato anche dei microfoni panoramici per
registrare e manipolare ulteriormente suoni, silenzi e
riverberi durante l’esibizione. Mentre suonavo sentivo
la musica ascendere e distribuirsi nello spazio con l’integrazione del riverbero naturale dell’edificio: un’esperienza che le parole non possono raccontare. Con cattedrali
di tali dimensioni poi, è come suonare ‘en plein air’ ma
coi vantaggi di uno spazio ben delimitato con cui posso
interagire attivamente. È un’esperienza che, come essere
umano, da un lato ti ridimensiona e dall’altro ti innalza.
Fondere la propria energia in uno spazio del genere è
un’azione che può trasformarti. Ma sopratutto, ti assicuro che l’impatto di quel posto ha portato me e la musica
a un altro livello.
Nuove leve dell’elettronica?
Non saprei scegliere uno su tutti. Ascolto spesso la selezione musicale del programma Groove Salad trasmesso
dalla web-radio Soma Fm. Quel genere di downtempo
mi è affine.
Ma se ti guardi attorno a chi passeresti il testimone?
Sono in contatto con un giovane artista inglese che si
chiama Robert Logan, una persona piena di talento e
decisamente più matura rispetto alla sua età. Non so se
lo conoscete ma vi consiglio caldamente un suo album
del 2009, Inscape. Stiamo pensando a una collaborazione: la nostra differenza di età e il diverso approccio tecnico sono per me motivo di curiosità. Penso inoltre che
sia importante, per i giovani artisti, confrontarsi con la
metodologia che fu alla base della prima elettronica fin
che c’è ancora, così da poter conservare un po’ di quelle
sonorità nelle orecchie per la musica del futuro.
Ce l’hai un album altrui che incarna perfettamente
la tua concezione di musica ambient?
Jon Hassell resta al top della lista. Ascoltati il suo ultimo
Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The
Street.. un capolavoro che esprime, a mio avviso, la flebilità della bellezza in contrasto con un sottobosco di
sonica sensualità. L’ho visto nella tournée promozionale..
sbalorditivo.
Tangerine Dream, Eno, Schulze a parte, nomina un
autore che ti ha influenzato ma che non risulti così
evidente..
Sì ma, oltre a questi nomi, ti assicuro che ad avermi in-
fluenzato pesantemente è tutto il catalogo dell’etichetta
tedesca Ecm. Prendo tutto in blocco, dai primi Anni ‘70
e per i successivi venticinque almeno. Roba che ascolto
ancor oggi con grande piacere.
Erik Satie: “C’è bisogno di creare musica ‘da mobilio’
(..) capace di mascherare il rumore di coltelli e forchette senza però cancellarli completamente”. È questo che speri per la tua opera?
Ho bisogno di calarmi senza riserve nel pozzo dell’intenzione creatrice, alla scoperta di timbriche incontaminate;
questa necessità presuppone una partecipazione totale
con il Suono: affinché il processo giunga a completamento e la musica si ritagli una propria indipendenza
è necessario concepirla a livelli differenti, anche sotto il
profilo del volume; una volta si ritaglierà un suo modo
di esistere con una voce appena udibile e un’altra volta necessiterà volumi poderosi.
Come vorresti suonasse Roach tra dieci anni?
Vorrei continuare a schiudermi e fiorire in forme che non
posso e non voglio anticiparmi. Speriamo solo di esserci
ancora, vivo e vegeto.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Quando ci si è guadagnati - ed è un processo difficile - il
dono della vera libertà creativa, per continuare ad attingere a questa fonte immacolata è necessario non dare
mai nulla per scontato. La sfida è mantenersi in vigile
ascolto per rappresentare l’immagine che sta al di là del
prossimo soggetto. Essere un artista ti sprona a mantenere scintillante la tua luce.
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CAMPI MAGNETICI #18
classic album
Frankie HI-NRG MC
Fugazi
La morte dei miracoli (BMG)
Repeater (Dischord, Gennaio 1990)
Ricordiamo benissimo la première del video di Quelli
che benpensano, assieme a Barbie Girl degli Aqua (truestory), in una delle primissime puntate di Volevo Salutare, trasmissione domenicale postprandiale di Linus e
Albertino con Frankie ospite spesso e volentieri e che
nella sigla voleva appunto salutare “prima i porno kings
e poi le porno queens”.
La canzone e il video ci colpirono subito. Il trucco stava
tutto nel ritornello cantato da Riccardo Sinigallia e nel
campione di Ice One, che aveva scovato in un pezzo di
Jimmy McGriff, Blue Juice, un nanosecondo di tromba
speciale, che andava rallentato e messo in loop, a creare
una specie di atmosfera bernardherrmanniana da Taxi
Driver, vedere appunto il video.
Fuori da quel pezzo capolavoro, che nel testo metteva
alla berlina - si dice così? - yuppiesmi e ipocrisie borghesi, La Morte dei Miracoli ci serve, visto che siamo
dentro a Campi Magnetici, per spendere due parole su
un momento in cui l’hip hop italiano stava cercando
di costruire qualcosa, su più fronti. Frankie veniva dal
successo underground di Fight Da Faida (1991) e Verba
Manent (1993), coi quali si era proposto o comunque era
stato accolto come l’alternativa intellettuale a Jovanotti da una parte e alle posse e alle cricche marce come
Sangue Misto, Spaghetti Funk o Colle Der Fomento
dall’altra. Frankie era una figura nuova, il rapper colto
dal lessico forbito e le lyrics conscious che mancava, ad
un tempo censore dei costumi e - col senno di poi - primo indie-rapper italiano (anticipatore per modi e toni
di Caparezza, che infatti lo indica come maestro e che
guardacaso è stato suo sodale al Tenco 2008). Frankie
era rassicurante (occhio, soprattutto per il pubblico nonrap): street come un sofà, ecumenico come un concilio.
Frankie e il suo rappato-parlato verboso e squadrato,
ma senza mai arrivare al taglio del bisturi, giustamente
definito a un certo punto “paleolitico” da Aelle, hanno
finito poi per soccombere a liriche sempre più intrise di
una retorica che se non adeguatamente servita dalla
Il primo vero LP dei Fugazi (dopo tre EP) non poteva che
uscire in una data spartiacque, come il 1990. Siamo al passaggio di consegne tra due decenni di indie americano e
a uno snodo cruciale della scena di Washington. Repeater
rappresenta una sorta di pivot dal punto di vista artistico e
critico, ma anche un momento di svolta e di collegamento
tra diverse fasi creative e storiche.
Più che a un ricambio tra generazioni, nella capitale si assiste a un fenomeno diverso, un rimpasto generale in cui gli
stessi musicisti creano nuovi gruppi, come in questo caso.
Se in principio c’erano i Minor Threat e i primi complessi del giro Dischord (i Bad Brains hanno sempre giocato
a parte), l’estate del 1985 vede molti creatori del DCcore
originale orientarsi verso un nuovo stile, stufi della deriva
machista e della stagnazione in cui è caduto l’hardcore
di Washington. Invece di salvare la vecchia scena, i protagonisti della prima stagione puntano a costruirne una
nuova con presupposti totalmente differenti. Nascono gli
Embrace di Ian MacKaye e salgono alla ribalta i Rites of
Spring di Brendan Canty e Guy Picciotto, che sublimano
l’approccio più aperto e melodico all’hardcore nella forma
“confessionale” definita emocore. L’intreccio tra personale e
politico e l’apertura mentale e stilistica gettano i semi della
nuova formazione che MacKaye, Picciotto e Canty creano
nel 1987 insieme a Joe Lally. Se infatti i Fugazi sono una
band politica in senso non comune ma coerente, alla loro
tanto (giustamente) decantata integrità corrisponde uno
stile tutt’altro che monolitico.
Le aperture dell’emocore si trasformano in un tentativo di
decostruzione paragonabile a quello dei Gang Of Four
o di altre formazioni new wave. Oltre a incorporare ritmi
reggae e dub e soluzioni (vocali - canto “cantilenante” o
declamato - e strumentali) nemmeno troppo lontane
dall’hip-hop, i Fugazi scompongono l’hardcore secondo i
principi di una funk band: il senso del groove, l’interscambio ritmico, l’alternanza dei ruoli ritmico/percussivi e melodici tra chitarre e basso diventano altrettanti marchi di stile
del quartetto. Nello stesso modo i nostri usano l’hc come
filtro per le suggestioni armonico/melodiche che arrivano
dal rock underground americano: le timbriche dissonanti e
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musica è facile che diventi sterile, immobile. Ma La morte dei miracoli è un disco inattaccabile.
Skit stranianti come Cubetti tricolori e Manovra a tenaglia
e basi semplicemente splendide, scure e introspettive,
a tratti claustrofobiche, fantasticamente anni Novanta
(gli scratch di Dj Stile e dello stesso Ice One), a servire
pezzi-manifesto del Frankie-pensiero come Accendimi
(contro la TV cattiva maestra), Tieni giù le mani da Caino
(contro la pena di morte), Il beat come anestetico (dove il
rap non è stile di vita, ma esercizio di lucidità mentale ed
escapismo dalla quotidianità), Autodafè (dove il peggior
nemico è quello che ti trovi - huskerduianamente - ogni
giorno davanti allo specchio), Cali di tensione (il pezzo
più freestyle ed egotrip, dove si parla soprattutto della
“scena”).
In La morte dei miracoli Frankie era un rapper che diceva qualcosa in maniera personale e riconoscibile, ma
soprattutto facendo buona musica. Poi un’ispirazione
sempre più stitica, che ha fruttato solo 5 album in 15
anni (ma forse è stato meglio così), con singoli tremendi
a segnare una specie di punto di non ritorno nella curva di Gauss della carriera: Rivoluzione, Sanremo 2008
(con la tromba di Roy Paci e il cameo rap finale di Enrico
Ruggeri), ovvero il political rap - il tag è di wikipedia
- sotterrato da tonnellate di qualunquismo “contro”, e
School Rocks! (2011), ovvero il modo sbagliato di dire le
cose giuste, di usare la comunicatività rap per mandare
un messaggio - occhei - ma nella più totale noncuranza
del lato estetico della faccenda, quando il focus sul contenuto, su un certo tipo di contenuti, fa andare a gambe
all’aria ogni cura della forma. E si sa che il medium è il
messaggio.
gabriele marino
gli accordi atonali dei Sonic Youth, il rumorismo graffiante
dei Big Black, e, perché no, l’intreccio tra riff potenti o dal
picking forsennato e arpeggi melodici dei Dinosaur Jr,
senza però i muri di distorsione e gli assoli.
Le accelerazioni compatte del vecchio hardcore si evolvono in costruzioni più lunghe e complesse. Più dei riff di
chitarra è il groove - per quanto spezzato e imprevedibile
- il filo conduttore di una trama avvincente fatta di break
strumentali, stop& go, pieni e vuoti dinamici, botta e risposta tra voci e strumenti. Le parti delle canzoni s’incastrano
in modo inusuale, ma con la tendenza a risolversi in frasi
di grande presa e ritornelli da cantare a squarciagola con
tanto di coro. D’altra parte, pure il brano più semplice, il
reggae rock a passo svelto di Merchandise, mantiene un
taglio obliquo. Alla dinamica double face di tanto rock alternativo (vedi i Pixies) i Fugazi arrivano sempre con il loro
stile, cioè un po’ di traverso.
Repeater fotografa bene le convergenze più o meno parallele insite in tanto post-hardcore. L’obliquità ritmica, armonica e melodica si ritroverà in band della stessa scena
come Girls Against Boys, Jawbox e Shudder To Think.
Ma non solo. Per rendere l’idea dello spettro musicale, si
possono mettere a confronto due pezzi. Da una parte Two
Beats Off offre un riff quasi alla Led Zeppelin e passaggi che
non sarebbero dispiaciuti neppure ai Jane’s Addiction o
a un gruppo crossover. Dall’altra, il metodo compositivo
dei Fugazi verrà ripreso in maniera più astratta e formale
da complessi di area post-rock, June of 44 su tutti. Shut the
Door adotta uno schema piano/forte che l’anno dopo sarebbe entrato nel mainstream con i Nirvana, ma la doppia
dinamica, nell’uso degli armonici e nelle esplosioni quasi
statiche, rimanda piuttosto a quello che avrebbero fatto,
ibernandone il pathos in schemi più cerebrali, gli Slint. Da
un estremo all’altro, insomma, del cosiddetto alternative.
Sembrerà paradossale, ma pure se non si sono mai ufficialmente sciolti sembra difficile che i Fugazi possano “riformarsi” come molti loro colleghi. In ogni caso, ci mancano
molto.
Tommaso Iannini
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sentireascoltare.com
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