DESCRIZIONI
Un celebre aneddoto buddista narra di un gruppo di ciechi ai quali viene chiesto di
descrivere un elefante. “È la fune di una barca!” dice il primo, avendogli toccato la coda; “Sono le
colonne di un tempio!” lo corregge il secondo, abbracciando le zampe dell'elefante; “Macché! È
un aratro...” li smentisce il terzo ritrovandosi tra le mani le zanne d'avorio...
Una descrizione non è mai una banale rappresentazione: contiene sempre
un'interpretazione della realtà. Ma a chi racconta una storia poco importa se l'elefante è fune,
colonna o aratro: conta il modo in cui questi falsi pachidermi si traducono in parole.
Gli esempi riportati di seguito sono rappresentativi di come una descrizione possa essere
fatta con prospettive, tecniche e finalità diverse: dalla precisione di dettaglio di Tolstoj alla tecnica
“fotografica” di Soldati, passando attraverso la personificazione degli oggetti di Döblin, la
rivisitazione poetica di Sereni, l'arte visionaria di Poe...
Ugo Betti, Uno stratagemma (BETTI 1963, p. 65).
La saletta, dove era rimasto solo, sembrò al giovanotto eguale e tuttavia un po' diversa da quel che
s'attendeva. I suoi occhi corsero subito a un tavolo tondo dove erano disposti simmetricamente una
quantità di gingilli che egli esaminò con curiosità. Vi erano soprattutto delle scatolette; alcune di
porcellana con putti e alberi, altre di lacca a rabeschi d'oro, altre di madreperla, altre d'osso, con
miniature dozzinali di donne melanconiche, in lunghi corsetti neri. Vi erano poi varie conchiglie a
tortiglione, grandi, dai riflessi molto delicati, avana, rosa, grigio. Accanto, un pezzo di minerale
sfaccettato, pesante, argenteo. Poi delle danzatrici di porcellana dalle gonne a merletto, amorini con
un'ala rotta, cigni. Anche nelle pareti, su altri tavoli, medaglioni di filigrana, prismi di cristallo
posati sulla loro iride, minuscole bambole perlacee, un bastimento intarsiato, lungo un palmo. Tutto
era minuscolo, lucido, dava una impressione strana.
Romano Bilenchi, La miseria (BILENCHI 1958, p. 341).
Tra gli alberi del fiume e dei boschi c'erano spazi amplissimi, graziose radure libere da ogni
intralcio e che davano alla scoperta dei rari piccoli fiori selvatici un sapore di faticata avventura,
mentre le piante degli orti e dei giardini erano ordinate in aiuole troppo uguali o in serre che non
riserbavano la minima sorpresa. E la campagna usciva sempre vittoriosa dal confronto.
Alessandro Bonsanti, Una partita di caccia (BONSANTI 1962, p. 164).
Profondamente era mutato il paesaggio, nel frattempo. Lasciate ormai indietro le pinete e la
vicinanza del mare, correvano attraverso una piana acquitrinosa verso lontane propaggini montuose,
coperte di selve. Non si poteva immaginare natura più desolata; invano cercavamo di riconoscere i
segni dell'uomo entro l'orizzonte che ci era offerto. La strada, sparendo a volte sotto l'acque torbide
su cui affioravano cespi d'erbe grasse e malsane, raccolte a larghe macchie sopra lo stagnante colore
dei fanghi, ci dava l'illusione d'essere i primi a solcare quelle terre. Ad un tratto su quella uniformità
brevi rialzi arenosi incominciarono a levarsi a gruppi, formati dall'azione capricciosa degli
scirocchi, e divennero a mano a mano più frequenti, sinché i paduli cedettero ad un basso altipiano
gibboso, e la strada riebbe le sue curve e il panorama più vicini confini.
Michail Bulgakov, Morfina (BULGAKOV 1990, pp. 147-148).
Ed ecco le vidi di nuovo, finalmente, le seducenti lampadine elettriche! La via principale della
cittadina, ben battuta dalle slitte dei contadini, la via in cui, incantando lo sguardo, pendevano
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un'insegna con degli stivali, una ciambella dorata, l'effigie di un giovanotto dagli occhi porcini e
insolenti e dall'acconciatura assolutamente innaturale, a indicare che dietro la porta a vetri si trovava
il Figaro locale, che per trenta copechi s'incaricava di radervi in qualsiasi momento, esclusi i giorni
festivi di cui la mia patria è prodiga.
Raymond Carver, Dummy (CARVER 2009, p. 189).
Era una giornata umida e ventosa, con il cielo attraversato da nuvole scure e sfilacciate che si
muovevano veloci nel cielo grigio. Il terraneo era zuppo d'acqua e ogni tanto finivamo in qualche
pozzanghera nascosta dall'erba fitta e, invece di girarci intorno, la guadavamo. In quel periodo
Danny stava imparando a bestemmiare e, ogni volta che affondava i piedi nel fango fino alle
caviglie, riempiva l'aria con le migliori imprecazioni del suo repertorio. Alla fine del pascolo si
vedeva il fiume gonfio: l'acqua era ancora alta e scorreva fuori dal letto normale, si increspava
attorno ai tronchi degli alberi ed erodeva l'argine di terra. Al centro del fiume la corrente fluiva
rapida e pesante, trascinando con sé ogni tanto un cespuglio o addirittura un albero intero con i rami
ritti in aria.
Anton P. Čechov, L'uva spina (ČECHOV 2007, p. 902).
Svoltarono da un lato, camminando sempre per i prati falciati, ora andando dritto, ora prendendo a
destra, finché non giunsero sulla strada. Presto comparvero dei pioppi, un giardino, poi tetti rossi di
magazzini; luccicò il fiume e si aprì la vista di un'ampia insenatura con un mulino e una bianca
costruzione balneare. Quello era Sòf'ino, dove abitava Aljiochin.
Il mulino lavorava, soffocando il rumore della pioggia; l'argine tremava. Lì, vicino ai carri, stavano
dei cavalli bagnati, a testa bassa, e si aggiravano uomini coperti di sacchi. Il sito era umido,
fangoso, scomodo, e la vista presso l'insenatura era fredda, sinistra. Ivàn Ivanyč e Burkin già
avvertivano i piedi appesantiti dal fango e, mentre, attraversato l'argine, salivano verso i magazzini
padronali, tacevano, come adirati l'un contro l'altro.
In uno dei magazzini rumoreggiava un ventilabro; la porta era aperta e ne veniva un nembo di
polvere. Sulla soglia stava Alijochin in persona, un uomo sui quarant'anni, alto, grassoccio, coi
capelli lunghi, simile più a un professore o a un artista che a un proprietario.
Julio Cortázar, Axolotl (CORTÁZAR 2003, pp. 125-126).
Vidi un corpicino roseo e come traslucido (pensai alle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), simile
a una piccola lucertola di quindici centimetri che termini in una coda di pesce di una delicatezza
straordinaria, la parte più sensibile del nostro corpo. Lungo la schiena aveva un'aletta trasparente
che si fondeva con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza straordinaria,
che terminavano in dita minute e in unghie minuziosamente umane. E fu allora che scoprii i suoi
occhi, il suo volto. Un volto inespressivo, senza altro ornamento che gli occhi, due orifizi come
punte di spillo, interamente d'oro trasparente, privi in modo assoluto di vita, ma che guardavano e si
lasciavano penetrare dal mio sguardo che pareva attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano
mistero interiore. Un sottilissimo alone nero circondava l'occhio e lo iscriveva nella carne rosa,
nella pietra rosa della testa vagamente triangolare, ma con lati curvi e irregolari che la rendevano in
tutto simile a una statuina corrosa dal tempo. La bocca era nascosta dal piano triangolare del volto,
solo di profilo s'indovinava la sua grandezza considerevole; di fronte, una sottile fenditura incrinava
appena la pietra senza vita. Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli
crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, le branchie, suppongo. Ed
erano l'unica cosa viva in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano rigidi e si
riabbassavano. Qualche volta una zampa si muoveva impercettibilmente, io vedevo le piccole dita
posarsi con leggerezza sul muschio. È che a noi non piace muoverci molto, l'acquario è così stretto;
appena avanziamo un tantino ci urtiamo l'un l'altro con la coda o con la testa; nascono difficoltà, liti,
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fatica. Si sente meno il tempo se stiamo quieti.
Grazia Deledda, Piccolina (DELEDDA 1996, p. 399).
Sulla tavola coperta da una tovaglia ricamata verdeggiava, entro un vasetto di terra, una pianticina
di capelvenere; i recipienti appesi alle pareti erano in parte misteriosamente avvolti in fogli di carta
velina; e la stessa cassetta per le immondezze, nell'angolo dietro l'uscio, col suo bravo coperchio
lucidato, pareva un mobile da salotto.
La finestra poi, socchiusa, lasciava intravedere un fresco cielo turchino di tramontana che faceva
dimenticare di essere nel cuore di un grande casamento nel centro di una grande metropoli.
Era un cielo che, come noi, non conosceva il verde delle foreste, eppure richiamava al pensiero un
puro orizzonte sopra un bosco di montagna: e il rumore confuso della città intorno accresceva
questa illusione.
Alfred Döblin, La vecchia signorina e la morte (DÖBLIN 2004, p. 177).
Durante la notte gli orologi ticchettavano nella sua stanza. Ce n'erano due appesi alla parete: uno
inghiottiva pacifico il tempo, ogni mezz'ora emetteva un belato, si saziava, ma continuava a
ruminare; accanto l'orologio a cucù ciondolava e gracidava a perdifiato e faceva una specie di
capriola ogni volta che lanciava il suo miserabile grido.
Gustave Flaubert, Erodiade (FLAUBERT 1945, pp. 65-66).
Tutte quelle montagne intorno, simili a scaglioni di giganteschi marosi pietrificati, i neri baratri che
s'aprivano sul fianco dei precipizi, l'immensità del cielo azzurro, la luce violenta del giorno, la
profondità degli abissi lo turbavano. Lo invadeva un senso di desolazione alla vista del deserto che
nello sconvolgimento del suolo simula anfiteatri e palagi abbattuti. Il vento caldo recava, coll'odore
dello zolfo, il sentore delle città maledette, seppellite più basso dalla riva sotto le acque pesanti.
Carlo Emilio Gadda, Notte di luna (GADDA 2007a, pp. 292-293).
I cubi delle case e delle ville parevano bianchi e chiari, per una gran dolcezza che fosse, come
verità, nella terra serena. Dalle colline orientali doveva certamente arrivare un favoloso vascello,
con le sue vele di nuvoli, cirri, che ne adombrano la tolda ed i fianchi. Una sirena strideva a tratti,
lontanando sulla camionabile. Da presso, le ville si vedevano avere un lor tetto di falda scura e
lenta, di cui emergeva il tepido muro della torre. Alta, bianca, nell'imminente chiarità della notte,
come rocca da guardare tutte le terre all'intorno. Oh, un sogno di poesia! e grossi cani e mastini a
ringhiare dietro i cancelli, passando, o in altre dislocazioni opportune catenati e torquati.
Ne' colmi giardini traspariva disegno de' più vaghi ornamenti, e sedili, ove la persona potesse
adagiarsi: e l'animo riconfortarsi giovevolmente al dimane. O nel tacere altissimo delle cose e dei
monti, o con l'immaginare per mezzo l'ombre e i cespi, affocata quasi in una corsa, la cupidità de'
silvani, e l'ignudo e fuggitivo pavore di perseguire nereidi: ruscellando linfe perennemente, o
stillando, in un chioccolìo loro, da sorta di montanine docce, o caverne. I pregevoli artefatti, in
pietra da mola, morsi già dalla nobile morsura del lichene: ed erano come amanti incontro a ventura,
nel favore della notte.
Nikolaj Gogol', Il ritratto (GOGOL' 2006, p. 102).
Le vie erano ancora illuminate. Certe bottegucce al minuto, questi luoghi di ritrovi di garzoni e altra
simile genia, erano aperte; altre, chiuse, lasciavano però filtrare di sotto alle porte lunghi rivoli di
luce, mostrando così che dentro si teneva ancora corte e che, presumibilmente, servotte e domestici
vi terminavano le loro chiacchiere e i loro discorsi, mettendo così alla disperazione i propri padroni
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che non sapevano dove si fossero cacciati.
E. T. A. Hoffmann, Vampirismo (HOFFMANN 1946, p. 282).
Era una notte di luna piena, una notte chiara, cosicché gli fu possibile scorgere davanti a sé netta nei
contorni, per quanto essa avesse molti passi di vantaggio su di lui, la figura di Aurelia avvolta in una
bianca camicia da notte. La contessa diresse il suo cammino attraverso il parco al cimitero: là giunta
scomparve verso il muro.
Giorgio Manganelli, Ottantasei (MANGANELLI 1979, p. 177).
La sfera non ha sempre lo stesso colore, sfuma dal grigio al nero: talora, e sono i momenti più
inquietanti, la sfera si rovescia, e al suo posto appare una cavità sferica, un vuoto totalmente privo
di luce. La sfera talora resta assente per qualche giorno; di rado, tuttavia, per più di una decina di
giorni. Ad un tratto riappare ad una qualunque ora, senza un comprensibile ragione, come se fosse
tornata da un viaggio, da un'assenza lievemente colpevole ma concordata.
Manuel Vázquez Montalbán, Quel che poteva essere e non fu (MONTALBÁN 1987, p. 45).
Qualche finestra tradisce luci accese e insonnia, ma le altre facciate sono una scenografia di
cartapesta vecchia e indurita. Un quartiere tranquillo nei pressi della plaza de Sarriá, un po' più
rumoroso scendendo calle Mayor de Sarriá, soprattutto da quando hanno aperto bar frequentati dai
giovani e la strada è diventata un fiume notturno di voci e tubi di scappamento maleducati. La plaza
Mayor invita a trattenersi, un'oasi di pace perfino a quest'ora di notte, bagnata alla luce del
lampione. Riposano le panchine e gli alberi, l'edicola, la fontana in attesa dei primi passanti del
mattino in cerca degli ingressi della metropolitana o delle porte del mercato.
Elsa Morante, Il viaggio (MORANTE 2002, p. 130).
In quel minuto, la città oscura parve scuotersi a un tratto e levarsi, come un uccello che all'alba si
sveglia sbattendo le ali. Era perché un cumulo di nubi si era aperto, scoprendo l'azzurro e il sole al
tramonto. – Guarda! – mormorò Antonio. A un tratto la città immaginata nasceva sotto i loro occhi,
senza fine al di là del canale verde, coi suoi balconi sospesi, i marmi irreali, le cupole sante.
Anch'ella pareva incamminarsi lontano, nella sua veste violacea, volgendo la testo d'oro, come la
donna dipinta nel palazzo. Tutta intera si innalzò e respirò, e parve bisbigliasse.
Alice Munro, Ortiche (MUNRO 2003, pp. 154-155).
La fattoria era piccola, nove acri di terra. Abbastanza piccola perché l'avessi esplorata tutta quanta,
e ogni sua parte aveva caratteristiche particolari che non avrei saputo descrivere a parole. Non è
difficile capire che cosa ci sia di speciale nella tettoria cintata con le lunghe carcasse pallide appese
a quei barbari ganci, o nella chiazza inzuppata di sangue dove i cavalli passavano dalla condizione
di animali vivi a quella di carne commestibile. Ma c'erano anche altre cose, come le pietre su
entrambi i lati della passerella verso il granaio, che avevano a loro volta un mucchio di cose da
dirmi, anche se non vi era mai accaduto niente di memorabile. Da una parte sporgeva un pietrone
liscio e biancastro che dominava su tutti gli altri, perciò quel lato aveva ai miei occhi un aspetto più
accessibile e pubblico, e infatti sceglievo sempre di entrare da lì anziché dall'altro versante dove le
pietre erano scure e ammassate con più cattiveria. Ogni albero aveva a sua volta un atteggiamento e
una personalità – l'olmo sembrava sereno e la quercia minacciosa, gli aceri cordiali e semplici, il
biancospino scontroso e decrepito. Perfino le pozze lungo le sponde del fiume – da cui mio padre
anni prima aveva estratto e venduto ghiaia – avevano ognuna la propria indole, forse più facile da
individuare se avevi occasione di vederle piene d'acqua dopo il disgelo primaverile. Ce n'era una
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piccola e tonda, profonda e perfetta; una allungata e sinuosa come una coda, e una larga e indecisa e
sempre interrotta nel mezzo da un po' di terra, tanto bassa era l'acqua.
Alice Munro, In fuga (MUNRO 2004, p. 40).
Il tempo si era stabilizzato sul bello. Per strada, nei negozi, all'ufficio postale, tutti si salutavano
dicendo che l'estate era arrivata, finalmente. L'erba dei prati e perfino il povero grano abbattuto si
ripresero. Le pozzanghere asciugarono, il fango diventò polvere. Si alzò un vento tiepido, e la gente
tornò ad aver voglia di fare. Il telefono squillava. Richieste di escursioni, corsi di equitazione. Gli
organizzatori di campi estivi, avendo disdetto le visite ai musei, erano di nuovo interessati.
Comparvero i primi pulmini, affollati di ragazzi turbolenti. I cavalli correvano intorno allo steccato,
liberi dalle coperte antipioggia.
Pier Paolo Pasolini, I colori della domenica (PASOLINI 1993, p. 135).
Uomini anziani, vestiti di scuro, davanti alle porte delle botteghe; donne col fazzoletto nero sul capo
che si affrettavano verso casa, ai loro lavori; giovanotti coi corpi selvaggi mal domati dagli abiti dal
taglio elegante, che celiavano con un sorriso violento e malizioso; ragazzini infrenabili che già
mostravano di averne colto il tipo... Tutta questa gente era raccolta nella piazza accesa dal sole.
Cesare Pavese, Vespa (PAVESE 1960, p. 437).
Per giungere alla casa di Vespa, si traversava una grande via che il fresco della sera rendeva animata
e clamorosa. Ma, una volta lassù, bisognava tendere l'orecchio per cogliere le voci e il tramestío.
All'angolo c'era un grosso caffè di sobborgo che raccoglieva passanti intorno al muggito della sua
radio. Tra i visi già noti degli uomini e delle ragazze che si cercavano, Corradino passava in
incognito, e tanto gli piaceva questa condizione che avrebbe voluto avvicinarsi a qualcuno dei
crocchi e ascoltare i discorsi dalla porta del caffè.
Edgar Allan Poe, Eleonora (POE 1985, pp. 184-185).
Dalle oscure regioni ch'erano al di là dalle montagne al limite superiore del nostro chiuso dominio,
sgorgava e strisciava giù uno stretto fiume profondo, splendente più di tutte le cose che non erano
gli occhi di Eleonora; e serpeggiava in numerosi meandri, sinché, per una gola tenebrosa, non se ne
andava traverso a montagne ancora più fosche di quelle dalle quali era uscito. Lo chiamavano il
Fiume del Silenzio; perciocché dal suo fluire pareva emanasse una potenza silenziatrice. Mai
mormorio veniva dalle sue rive, e in ogni punto era così lieve il suo andare che le perle di ghiaia su
cui fissavamo lo sguardo giù nel suo seno profondo non si muovevano affatto e se ne stavano come
sempre al loro posto primitivo, brillando di un sempiterno fulgore.
Le rive del fiume e dei tanti piccoli smaglianti corsi d'acqua che, per diverse vie, scivolavano dentro
al suo letto, nonché lo spazio che dalle rive si stendeva sino al fondo di ghiaia attraverso le
profondità dell'acqua, e tutta intera la superficie della valle dal fiume alle montagne che la
chiudevano; tutto era ricoperto di una tenera erba verde, folta, corta, perfettamente uguale che
mandava odore di vaniglia, e che, dovunque arrivava, appariva costellata di ranuncoli gialli,
margherite bianche, violette purpuree, e asfodeli d'un rosso di rubino, così da parlarci in alti accenti
all'animo, per la sua straordinaria bellezza, dell'amore e della gloria di Dio.
Alberto Savinio, Il signor Münster (SAVINIO 1943, p. 251).
La camera da letto, col grande letto a baldacchino e la specchiera di fronte sulla quale scende un
velo bianco da prima comunicanda, ricorda al signor Münster l'ultimo atto della Signora delle
Camelie, che il signor Münster ha udito anni addietro a Vienna, da Eleonora Duse. Davanti a questa
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specchiera allora sedeva Margherita Gautier e soffocava nel fazzoletto i suoi sbocchi di sangue, ora
sieda la signora Münster per “farsi la faccia” in kimono e i piedi infilati nelle pianelle arabe, che il
signor Münster le ha comperato nel negozio tripolino di via Veneto.
Sono delle pianelle di marocchino rosso, rabescate con filo d'argento. La mascherina breve copre
appena le dita, e non completamente ancora, perché lascia intravedere l'inizio delle falangi e il
canaletto fra dito e dito. Sul collo bianchissimo rameggiano le vene, e come piccoli fiumi azzurri si
perdono nell'ombra dell'arco plantare. Quali paesaggi accende questo nome: il Nilo Azzurro! Sul
calcagno rosseggia una piccola aurora.
Le altre parti “significative” del corpo della signora Münster non sempre allettavano il signor
Münster, spesso anzi lo lasciavano indifferente, talvolta gli ispiravano persino una certa quale
repellenza: la faccia soprattutto, quando la mattina portava ancora la pelle del sonno e il lustro delle
secrezioni sebacee.
Vittorio Sereni, La cattura (SERENI 1998, pp. 159-160).
Cinerea, a guardarla dalla barca, era l'acqua del porto. Andava prendendo il colore dell'afa,
mezzogiorno essendo ormai vicino. Il colore delle macerie che riapparivano. E come infetta era
quell'acqua che corpi gonfi e rosi tante volte, nei mesi passati, aveva sospinto un po' dovunque sulla
costa.
Mario Soldati, Fuga nella mia città (SOLDATI 1991, p. 337).
Nella nebbia e nel gelo, le fila dei fanali ancora accesi. Al buffet della stazione, un caffè. Gruppi di
ferrovieri, sciatori, qualche operaio. Il buffet non è più quello di una volta. Tutta la stazione è
cambiata. Ma la gente, il dialetto, le facce sono le stesse. Oneste, malinconiche e ironiche. Un
parlare basso, questo, discreto, e rari gesti. Guardo le facce, se conoscessi qualcuno. Nessuna nota:
però tutte mi sono familiari. Io, a loro sembrerò forestiero.
Lev Tolstoj, Temporale (TOLSTOJ 1952, p. 155).
Da un lato della strada, a perdita d'occhio, una distesa di grano, qua e là interrotta da burroncelli
poco profondi, scintilla dal bagnato della terra e della verdura, e si spiega come un tappeto ombroso
fino all'estremo orizzonte; dall'altro lato, una piantata di tremule, infoltita da un sottobosco di noci e
víscioli selvatici, come in un eccesso di felicità sta là ritta senza il minimo moto, e lentamente lascia
cadere dalle fronde ben lavate brillanti stille di pioggia sul seccume delle vecchie foglie. Da tutte le
parti si librano con la loro lieta canzone, e rapide calano giù, le lodole cappellacce; di dentro ai
cespugli umidi si sente l'irrequieto movimento dei piccoli uccelli, e dal folto della piantata arrivano
nette fin qui le note del cucùlo. È tanto ammaliante quel mirabile profumo del bosco dopo la
pioggia primaverile, profumo di acacia, di viola, di foglie marcite, di funghi, di vísciolo, che io non
son capace di starmene seduto nel legnetto, salto giù dal predellino, corro ai cespugli, e a dispetto
delle gocce di pioggia che mi grondano addosso, strappo i ramoscelli bagnati del vísciolo in fiore,
me li faccio sbatacchiare sul viso, e mi inebrio del loro odore stupendo.
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