A lezioni di…Tennis
Da grande appassionato e discreto giocatore della domenica quale sono mi trovavo di strada per
raggiungere un piccolo circolo del Lodigiano con Fausto, compagno di mille battaglie nonché stimato
maestro presso lo Sporting club di Sondrio. L’occasione è il primo turno di tabellone di fascia A di coppa
Lombardia, conquistata dopo un’ottima fase a gironi che ci ha visti chiudere al secondo posto. Pur non
avendo mai avuto seconda categoria in squadra, da qualche anno abbiamo il diritto di poter prendere parte
a questa fascia grazie ad una gloriosa e ahimè dolorosa finale disputata ormai già 5 anni fa in fascia B.
Per strada tra una storia e l’altra ci troviamo a condividere le comuni disillusioni sullo stato politico e non
solo in cui stiamo vivendo. Dopo un accesa discussione ne conveniamo che dall’alto, intesi politici e
personaggi pubblici, dovrebbero arrivare messaggi ed esempi positivi, partendo dal rispetto, dal rigore,
dalla moralità e soprattutto la lealtà. Ciascuno di noi, tuttavia, prima di potersi innalzare a critico
dell’operato degli altri dovrebbe responsabilizzarsi e farsi un esame di coscienza, cercando per primo di
dare continuamente il buon esempio. A questi valori, aggiunge Fausto, va a braccetto l’umiltà che ti
permette, nello sport come nella vita, di emergere ma allo stesso tempo di metterti sempre in gioco, di
essere pronto al cambiamento e al miglioramento continui. A porre fine bruscamente a queste nostre
divagazioni (e se volete, discorsi da bar!) durate circa 200 km ci pensa il navigatore, che ci comunica di aver
raggiunto la destinazione con successo. Senza perdere tempo facciamo la formazione e in un attimo ci
ritroviamo in campo. Fausto perde piuttosto agevolmente schierandosi come n.2 con un ragazzo dal
cognome straniero, veramente bravo e fisicamente molto preparato (a differenza sua!!!!) oltre che dagli
evidenti trascorsi professionistici. Appena in tempo di complimentarmi con il sorprendente avversario che
mi trovo in campo con un 2.8, ragazzo di qualche anno più vecchio di me e dal discreto talento. Finito il
riscaldamento Fausto mi comunica che il mio avversario sembrerebbe aver ottenuto in carriera anche un
paio di punti ATP. Un po’ perplesso mi intasco una palla e mi appresto ad iniziare il primo turno di servizio.
La sua palla è indubbiamente più pesante della mia e aiutato anche dalla mia scarsa brlillantezza continua a
collezionare vincenti e i ripetuti complimenti del sottoscritto. Dalla sua parte, oltre alla rapidità del campo
in cemento di casa, gioca anche il mio status di impiegato/ingegnere che concede sempre di meno al
campo da tennis. Sicuro di se stesso inizia a scherzare un po’ con il pubblico giocherellando con qualche
leziosità. Se a questo si aggiungono le disattenzioni dell’autore su alcuni No Advantage, si arriva facilmente
al risultato: 6-1.
Non potendo far altro che complimentarmi mando giù il boccone amaro e cerco di inventarmi qualcosa
perché il secondo set non scivoli via così veloce.
Fin da subito parto determinato e la baldanzaggine del mio contrapposto si fa meno evidente. Il set risulta
molto combattuto e sembra aperto a qualsiasi risultato. Noto una certa tensione accrescere
nell’atteggiamento del pupillo di casa, che sfocia, manco a dirlo, in una chiamata molto dubbia (per me
dubbio alcuno!!) su una mia volee vincente. Guardo perplesso, mi rivolgo senza troppa speranza al giudice
(nonché padre del capo squadra avversario) senza azzardarmi a chiedere le due palle, per altro non
ammesse da regolamento scritto ma ben presenti nel bon ton del tennista di club. Dato che non trovo
evidenti alternative a cui appigliarmi accetto la decisione senza troppe storie e perdite di tempo.
La partita diventa molto bella e combattuta, un godimento totale per un vero appassionato. Da entrambe
le parti un bel punto sussegue l’altro, e la tensione si alterna a momenti di gloria dati dagli applausi del
modesto pubblico presente. Giunti sul 5 pari a seguito di un lungo scambio chiamo una palla sul lungo linea
per me evidentemente fuori. Subisco la contestazione dell’ormai non più spocchioso avversario che mi
accusa convinto di aver visto la palla dentro al campo (!?!?). Memore dell’episodio precedente la mia
mente esclude a priori l’esistenza delle 2 palle, e non faccio altro che appellarmi al giudice arbitro (sempre
il padre del compagno di squadra, nonché capitano, del mio contrapposto). Il giudice non prende posizione,
lasciando il beneficio del dubbio e permettendo al capitano, nonchè suo figlio (nel caso non fosse chiaro!!!),
di alzarsi dalla sua sedia posta in posizione tutt’altro che ottimale, borbottando di aver visto la palla dentro
(!?!?) al campo. Non sapendo più a chi appellarmi, ma soprattutto perplesso di quanto scompiglio avesse
creato la chiamata di una palla evidentemente fuori, non faccio altro che ascoltare il giudice e andare
dall’altra parte, tenendomi il punto e rispettando quanto applicato precedentemente. Il game prosegue con
i nervi tesi del mio avversario e grazie ai suoi errori vinco il break e vado a servire per il set.
Cambiato campo inizio il mio game di servizio. Batto la prima dentro al campo di buoni 20 cm e me la sento
chiamare Out, con un premeditato sorrisetto ironico. Essendo sicuro non potesse essere larga chiedo se per
caso fosse lunga. Lo spocchioso mi conferma di averla vista larga. Senza più storie, riconosco l’ignoranza
nemica e proseguo battendo la seconda. Ormai privo di certezze e smontato dalla sua boria, l’avversario
sbaglia a ripetizione, regalandomi set 7-5 e un vantaggio di 5-3 nel punteggio del terzo set, giocato nella
formula di tie-break secco. Quasi sicuro del risultato gioco sulle ali dell’entusiasmo, sto compiendo (per il
mio piccolo!) una bella impresa e data la piega della partita il risultato sembra andare in porto a mio
favore…salvo colpi di scena. Scatta uno scambio lungo, probabilmente l’ultimo decisivo. Il buon esito può
portarmi al match point. Il mio avversario possiede un’ottima tecnica, ma di certo nè gran fisico né
tantomeno grande reattività. Mi batto come un leone nello scambio forse più pesante del match. Non
mollo un centimetro, ribatto colpo su colpo, effettuo un paio di ottimi recuperi fino a che dalle mie corde
esce un gran bel cross di dritto mancino che ributta indietro l’avversario che stava pressando. Riconquisto
campo pronto a rigiocare il colpo successivo, sicuro che il prossimo punto sarà il match point...ma
nell’istante in cui vedo cadere la palla 30 cm (!!!!!!!) distante dalla linea del corridoio sento la chiamata
dell’imbelle…..:”OUT!!”. Con il fiatone, sfiancato e incredulo guardo esclusivamente il giudice, consapevole
di avere dall’altra parte del campo un delirante. Il padre del capo squadra avversario (nonché giudice
arbitro) rimane muto, anche la sua indignazione è palese, ma non fa niente, non dice niente, non fa altro
che accusare entrambi di non averlo voluto ad arbitrare (?!?!?!). La perplessità ormai arriva anche dai
presenti, tifosi di casa, dai quali sento suggerire un “rifate il punto!”. Per la prima volta si alza anche Fausto
dalla sedia, chiedendo al giudice arbitro, unica speranza, di intervenire. Il giudice non fa altro che allargare
le braccia, non dice nient’altro. L’imbelle al di là del net se la gode. Voglio andarmene, non ha più senso
restare in campo. E’ un grosso dolore ma lo sport, il tennis, questa volta non c’entra. Mentre vado a
raccogliere la pallina da porgere all’avversario penso a quanto mi sono detto con Fausto prima. Penso alla
fortuna di aver ricevuto l’educazione che ho ricevuto, penso alla cultura del rispetto che mio padre mi ha
sempre insegnato. All’umiltà che grazie al cielo cerco di mettere in ogni fetta della mia vita. Alla forza di
volontà che mi ha permesso di ottenere una laurea in ingegneria mentre per mantenermi gli studi
insegnavo tennis. Penso che tutto questo non dev’essere intaccato da cattive esperienze, questo fa parte di
me. E’ ciò che mi è stato insegnato e che ho imparato sulla mia pelle anche con i sacrifici e non dev’essere
assolutamente contaminato dagli episodi negativi, quella sì sarebbe la vera sconfitta. Non prendo
nemmeno in considerazione di proseguire con quella messa in scena, dove spinto dalla ripicca avrei potuto
chiamare “OUT” la prima palla rimbalzata nel mio terreno di gioco. Scelgo di dare l’esempio, di andare
avanti consapevole che qualcuno deve sapere dire basta, che qualcuno dall’alto della sua esperienza deve
saper opporsi e credere che la giustizia possa avere la meglio, sempre. Fisicamente sono sul campo, con la
testa no. Non è rabbia la mia, è rassegnazione, sconforto, delusione e impotenza, i sentimenti che tanti di
noi vivono quotidianamente, soprattutto in questo periodo di crisi.
La partita finisce come avrete già immaginato, a suo favore. Scelgo di non stringere la mano. Questo è un
gesto che ho sempre reputato antipatico e infantile, ma in questo caso vuole significare non legittimare tali
comportamenti, né più né meno di quello che voglio fare con le parole che state leggendo. Non voglio
entrare nel merito di un risultato sportivo, ma semplicemente chiedere che tali comportamenti non
vengano legittimati, in nessun luogo, contesto e da persona alcuna. Andarsene dal campo anticipatamente
o ancor peggio accettare la provocazione avrebbe voluto dire abbassare la testa, far credere che le cose si
possano veramente risolvere attraverso mezzi illeciti. Me ne vado invece dal campo a match terminato,
senza dire una parola a nessuno, pensieroso ma non sconfitto.
Sotto la doccia la sconfitta tennistica non fa già più parte dei miei pensieri, penso piuttosto che sia meglio
aver perso anziché giocare un doppio decisivo colmo di tensione, dove passione, divertimento e godimento
tennistico non si sarebbero visti. Io e Fausto torniamo verso Sondrio scambiandoci storie e aneddoti come
al solito, senza badare più di tanto a quanto accaduto. Sarebbe facile avviare lamentele, contestazioni o dar
vita a inutili polemiche. La nostra scelta è invece di continuare prima di tutto, come i vostri lettori, a
condividere questa passione fino in fondo, dimostrando sempre i valori di lealtà e rispetto indispensabili
per la convivenza in una società civile.
Buon tennis a tutti
Davide Pozzoni
Cercando di allontanarsi dalla cultura dell’alibi...
Mi sento di dover postare qualche riflessione a seguito di comportamenti sempre più frequenti
dell’oggigiorno, che hanno, come noi tennisti sappiamo, spesso anche la concretizzazione durante un
match del nostro amato sport.
Alla maggior parte di noi appassionati è capitato di prendere parte o assistere a partite di livello amatoriale,
o poco più, dove un giocatore in difficoltà frustra se stesso, l’avversario e il pubblico imprecando contro
chissà quale demone della sfortuna. Questi imprecisati esseri che popolano le menti dei tennisti sono
considerati capaci di sgonfiare palline, realizzare superfici del campo non adeguate alle caratteristiche
dell’imprecatore, portare improvvise quanto fantozziane condizioni atmosferiche solo da un lato della rete,
o procurare improvvisi dolori o malesseri di stagione a chi prima del match pareva sano come un
titano...questo giusto per citare le più frequenti piccole “tragedie” che imperversano in tanti match dei
tennis club di ogni dove!!
Questi comportamenti in cui ci imbattiamo pressochè settimanalmente sono senz’altro buffi e quasi
sempre fini a se stessi. I più brillanti di noi sono bravi, lontano magari dalla foga agonistica, a riconoscerli,
rendendosi conto che gli escamotage che mettiamo in atto per evitare di ammettere mancanze tecnicofisiche, oltre che mentali, compaiono a seguito di sconfitte quasi sempre meritate.
Dall’altro lato invece alcuni la vivono i maniera estremamente frustrante, e di fronte a dei fallimenti si
inventano delle vere e proprie crociate contro avversari e appunto presunti demoni della sfortuna, che
sfociano il più delle volte in comportamenti aggressivi e boriosi, e che vanno a seppellire ogni minima
capacità di valutazione o giudizio di se stessi.
Per capirci, l’altra sera ho assistito ad un match di un torneo, definiamolo poco più che amatoriale, che si
sta svolgendo in questi giorni sui nostri campi. Di fronte due ragazzi (parlo di ragazzi, non certo bambini!!!)
che prendendosi a gran pallate stavano dando un ottimo spettacolo tennistico. Sottolineo tennistico perchè
da una parte della rete ecco che il maledetto demone del tennista aveva impossessato il più agitatello dei
due. Quest’ultimo con comportamenti a dir poco sfrontati imprecava continuamente ad alta voce per la
mancanza di un cambio palle a fine set, di un campo non all’altezza, di un avversario che, nonostante gli
stesse effettivamente dando del gran filo da torcere, secondo lui non era all’altezza di giocare contro di lui e
che, in una giornata migliore, non avrebbe fatto più di 1 game! Non mi dilungo poi descrivendo l’indecoroso
body language del giovane, tutt’altro che consono ad uno sport una volta così pieno di stile.
Riflettendo...purtroppo, o per fortuna, queste continue giustificazioni vengono utilizzate comunemente da
tutti noi per addolcire momentaneamente la delusione dovuta ad un fallimento, aiutandoci a digerire un
errore o un difetto di cui ben sappiamo essere i protagonisti. Una volta passata la rabbia, o la paura,
coscienza vuole che ognuno dovrebbe riesaminare la situazione e lavorando su se stesso analizzare gli
errori, cercando di migliorarsi, magari ricommettendo lo stesso sbaglio ma questa volta in modo
maggiromente consapevole.
Mi rendo conto invece che la cultura dell’alibi sta diventando sempre più una moda, e oggi più che mai
troviamo una “sana giustificazione” quotidiana per ogni azione sbagliata che commettiamo. Una sorta di
“pezza” che ci ripara da un troppo gravoso esame di coscienza, scaricando le responsabilità altrove molto
spesso accompagandole con arroganza e convinta, sebbene immotivata, presunzione.
Di esempi ne abbiamo a bizzeffe, basti pensare ai personaggi pubblici dai quali diventa pressochè
impossibile ascoltare parole di scuse o mea culpa a fronte di strafalcioni, errori o ancor peggio truffe. Mai
riusciamo a capire chi è il responsabile ad esempio di una mossa politica sbagliata, più facile invece è che la
colpa venga scaricata su presunti fallimenti di qualcun’altro, di solito ancora meglio se non identificabile in
un unico individuo.
Il rischio è che un tale modo di giustificarsi ed agire possa portare a mio avviso ad un dublice danno. Da un
lato c’è un danno per l’individuo, che in questo modo non cresce interiormente, vive in un mondo
“protetto” da alibi e autoconvinzioni, e di fronte ad una situazione cruciale dove verrà messo davanti
all’evidenza non potrà esentarsi dall’affrontare se stesso, entrando in una sorta di piena crisi esistenziale
che lo porterà a rivedere i proprio punti di riferimento. Dall’altro lato c’è quindi poi il possible danno per gli
altri, a maggior ragione ovviamente se la persona va ricoprire posizioni di rilievo per la collettività. In questo
caso infatti è spesso male comune in ambiti manageriali non riflettere sui propri errori, spesso non
riconoscendoli, fino ad arrivare ad una sorta di autoconvinzione del giusto per via di chissà quale dono della
verità assoluta (!!). Scarsa disponibilità al dialogo e al cambio di prospettiva, proseguendo per kilometri su
strade che possono essere realmente tortuose e spesso senza uscita.
Perchè quindi illudere noi stessi e rischiare di mettere in difficoltà gli altri per paura del confronto? Perchè
ci nascondiamo e ci convinciamo di realtà così fasulle senza accorgercene? Cosa ci rende così miopi di
fronte all’errore?
La difficoltà di ammettere l’errore riconoscendolo al cospetto di noi stessi e degli altri nasconde
probabilmente un lato di insicurezza e di paura di fronte alla possibilità di sentirci deboli e indifesi; incapaci
di gestire situazioni nuove a cui non siamo abituati, reticenza al cambiamento.
La conclusione di queste innumerevoli riflessioni non è facile da focalizare. Certo è che, a mio avviso, un
buon punto di partenza potrebbe essere “mettersi maggiormente in gioco”, darsi qualche volta un “sano”
beneficio del dubbio. Credo inoltre sia importante che a monte di ogni critica all’operato degli altri ci sia un
esame di coscienza su quanto stiamo facendo. Cos’ho fatto io per sentirmi il diritto di lamentarmi o
comportarmi in una certa maniera?! Posso fare qualcosa per cambiare le cose?
Quando qualcosa non va esattamente come vorremmo ecco il momento giusto per agire, e capire che
lamentarci incolpando gli altri o ologrammando colpe in uno spazio lontano da noi rappresenta nient’altro
che tempo perso. Rischiamo di essere i primi responsabili quando restiamo fermi e senza agire, e allo stesso
modo quando non pensiamo e non forniamo un nostro contributo per sistemare i problemi dentro e fuori
da noi.
Cerchiamo quindi di agire in prima persona, di metterci alla prova confontandoci con noi stessi prima e con
gli altri poi, continuamente, senza paura.
Fare, costruire, impegnarci, partendo dai nostri errori e dalle nostre mancanze. Miglioriamoci e miglioriamo
mettendoci in gioco con umiltà (non volevo usare questa parola, mi è uscita alla fine!!!), che sia al lavoro, in
famiglia, al bar, per strada, in politica o al circolo di tennis.
Distruggere un castello di sabbia che non apprezziamo è cosa piuttosto banale e alla portata di chiunque,
ma è oltretutto inutile in quanto col tempo un castello senza basi solide verrà portato via dalla marea senza
bisogno di sforzo alcuno. Il vero impegno, la vera sfida sta nel costruire un castello nuovo e solido, ma
soprattutto come noi lo vorremmo.
...lo sappiamo bene, non è facile, ma questo impegno non può che partire da noi, da dentro ciascuno di noi,
praticandolo quotidianamente come lo sport che tanto amiamo...
Buon tennis!!!!
Il Pozz
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