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Successioni
La successione mortis causa
La successione per causa
di morte nei rapporti contrattuali
facenti capo al de cuius
di Luisa Pascucci (*)
Lo studio indaga le conseguenze della morte di una delle parti sul vincolo contrattuale, onde appurare se la
regola generale sia quella della trasmissibilità agli eredi dei rapporti giuridici patrimoniali facenti capo al defunto, o se, al contrario, la morte valga come causa di cessazione del rapporto. Indipendentemente da una
enunciazione espressa del precetto con specifico riferimento ai rapporti contrattuali, può ritenersi immanente al sistema la regola in virtù della quale le posizioni contrattuali si trasmettono in capo agli eredi. Ma è
comunque ampio il novero di deroghe legali al regime ordinario di prosecuzione del rapporto, e molteplici le
fattispecie contrattuali per le quali la soluzione legale (espressa o implicita) è nel senso ora della intrasmissibilità del vincolo per morte di una delle parti, ora della continuazione del rapporto, ma con soggetti diversi
rispetto agli eredi. A fronte dell’ampio ventaglio di soluzioni che l’ordinamento appresta in punto di trasmissibilità/intrasmissibilità dei rapporti contrattuali in caso di morte di una o entrambe le parti, l’Autrice indaga,
da ultimo, se, ed entro quali limiti, sia dato all’autonomia privata incidere sul regime legale di volta in volta vigente, prevedendo pattiziamente lo scioglimento di un rapporto destinato per legge a proseguire alla morte
di una delle parti o la continuazione di un vincolo destinato per legge a sciogliersi, oppure disponendo per testamento un legato di specie avente per oggetto un bene determinato, con deviazione rispetto al principio
di trasmissibilità in capo agli eredi.
1. La sorte dei contratti dopo la morte
di una delle parti: la trasmissibilità come
regime legale ordinario
Nel codice civile del 1865, la sorte dei rapporti contrattuali in caso di morte
di una delle parti trovava espressa regolamentazione. L’abrogato art. 1127
c.c., fedele riproduzione dell’art. 1122 del Code Napoléon, prevedeva infatti: «si presume che ciascuno
abbia contrattato per sé e per i suoi eredi ed aventi
causa quando non siasi espressamente pattuito il
contrario, o ciò non risulti dalla natura del contratto». Costituiva, dunque, regola generale la trasmissibilità agli eredi dei rapporti contrattuali facenti capo
al defunto, salvo i casi in cui la trasmissibilità fosse
impedita dalla natura del contratto (indipendentemente da una espressa previsione di intrasmissibilità), ove lo specifico interesse di una delle parti alla
prestazione personale di controparte si opponesse alla trasmissione del rapporto in capo agli eredi (contratti tipicamente detti intuitu personae), ovvero dall’autonomia delle parti, le quali, con patto espresso,
potevano escludere la successione in qualsivoglia
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rapporto, non essendo positivamente individuati limiti alla loro facoltà di deroga, purché la deroga fosse chiara ed univoca («espressamente») (1).
Di tale norma (art. 1127 abr.) non vi è più traccia
nel codice civile vigente; né la Relazione ministeriale che ha accompagnato la stesura del codice ha
reso esplicite le ragioni della mancata riproduzione.
Tuttavia, la regola della trasmissibilità agli eredi dei
rapporti giuridici patrimoniali facenti capo al defunto può ritenersi immanente al sistema e desumibile,
sia pure indirettamente, da norme variamente collocate, indipendentemente da una enunciazione
espressa del precetto con specifico riferimento ai
rapporti contrattuali. Quasi che la trasmissione dei
rapporti contrattuali sia effetto connaturato al ricoNote:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) Sul punto si vedano Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, Milano, 1990, 7 ss.; Caccavale,
Contratto e successioni, in Trattato del contratto, diretto da V.
Roppo, VI, Interferenze, Milano, 2006, 605 ss.
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noscimento del fenomeno della successione mortis
causa quale successione nella generalità delle situazioni soggettive facenti capo al defunto (2): «se vi è
trasferimento di questa somma di situazioni, vi dev’essere anche la prosecuzione dei vincoli contrattuali ad esse collegati» (3).
In particolare, fra le norme in materia ereditaria da
cui si è soliti evincere il principio di trasmissibilità
mortis causa dei rapporti contrattuali meritano attenzione l’art. 460 c.c., «che riconosce al chiamato
il potere di compiere atti di amministrazione temporanea, così lasciando indirettamente intendere che
la successione possa comprendere anche rapporti
contrattuali» (4); e l’art. 490 c.c., che nel descrivere
gli effetti derivanti dall’accettazione con beneficio
di inventario, ossia la separazione del patrimonio
dell’erede rispetto a quello del defunto, utilizza il
termine «patrimonio» proprio per ricomprendere
l’insieme delle situazioni soggettive facenti capo al
soggetto, comprese quelle di natura contrattuale.
Ma è, ancor più, la disciplina codicistica in materia
di contratti e, in particolare, la parte speciale dedicata ai singoli contratti a contenere previsioni che
regolano specificamente le conseguenze della morte
di una delle parti sul vincolo contrattuale, improntandola al principio della continuazione. Così, una
nutrita serie di norme che, pur accordando poteri di
recesso agli eredi o alla controparte del defunto, postulano, per il caso di mancato esercizio del diritto
potestativo, la prosecuzione automatica del rapporto: le ipotesi in cui la legge attribuisce un potere di
recesso agli eredi del defunto o alla parte sopravvissuta vanno, infatti, riguardate quali casi di trasmissibilità attenuata, non già quali deroghe alla regola
generale di successione a causa di morte dei rapporti contrattuali, giacché la morte non vale come causa di cessazione del rapporto, bensì quale titolo di recesso facoltativo. In tal senso dispongono l’art. 1614
c.c. per il caso di morte del conduttore di fondi urbani (5); l’art. 1627 c.c. per l’ipotesi di morte dell’affittuario (6); l’art. 1674 c.c. per la morte dell’appaltatore (7); l’art. 1722, n. 4, ult. parte, c.c. per la
morte di una delle parti del contratto di mandato
avente ad oggetto l’esercizio di impresa (8); l’art.
1811 c.c. per la morte del comodatario (9); l’art.
1833, comma 2, c.c. per il caso di morte di una delle
parti del contratto di conto corrente (10).
«La somma di queste regole ribadisce, insomma, la
perdurante immanenza nel sistema della regola in
virtù della quale le posizioni contrattuali si trasmettono in capo agli eredi con la prosecuzione del rap-
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porto già costituito dal defunto» (11). Regola che
trova puntuale affermazione anche nella giurisprudenza di legittimità (12).
Note:
(2) Sul contenuto della successione in generale v. Calvo, Commento all’art. 456 c.c., §§ 1 e 3-7, in Codice delle successioni e
donazioni, a cura di M. Sesta, vol. I, 2011, 562.
(3) Così Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 32. Sui rapporti giuridici trasmissibili nella successione mortis causa v. anche Rescigno, La successione a titolo universale e particolare, in Trattato breve delle successioni
e donazioni, diretto da Rescigno, coordinato da Ieva, I, 2. ed.,
Padova, 2010, 3 ss.; Caccavale, Contratto e successioni, cit.,
605 ss.; Albanese, sub artt. 456 e 457 c.c., in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, I, 2. ed., Milano, 2009, 1852; Liserre,
sub art. 457 c.c., in Commentario del Codice civile, diretto da E.
Gabrielli, Delle successioni - vol. I: Artt. 456-564, a cura di V.
Cuffaro e F. Delfini, Torino, 2009, 24 ss.
(4) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 30.
(5) Per un commento v. Pascucci, Commento agli artt. 1607,
1614 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, I, cit., 2232.
(6) Pascucci, Commento all’art. 1627 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, cit., 2237.
(7) Pascucci, Commento agli artt. 1674-1675 c.c., cit., 2241.
(8) Pascucci, Commento agli artt. 1722, 1723, 1726, 1728,
1729, 1730 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, cit.,
2246.
(9) Pascucci, Commento all’art. 1811 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, cit., 2270.
(10) Pascucci, Commento all’art. 1833 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, cit., 2276.
(11) Padovini, Le posizioni contrattuali, in Trattato di diritto delle
successioni e donazioni, diretto da Bonilini, I, La successione
ereditaria, Milano, 2009, 528. Cfr. anche Galgano, Trattato di diritto civile, I, 2. ed., Padova, 2010, 673 ss.; Bonilini, Diritto delle
successioni, Bari-Roma, 2004, 14 ss.
(12) Nella giurisprudenza più risalente v. Cass., 22 luglio 1963,
n. 2011, in Foro it., 1964, I, 122; Cass., 12 aprile 1983, n. 2583,
in Vita not., 1985, 596, con nota di Triola, Alienazione da parte
dell’erede di immobile già venduto dal de cuius e principio della priorità della trascrizione; Cass., 4 maggio 1985, n. 2800, in
Giur. agr. it, 1985, 471; Cass., 13 febbraio 1988, n. 1552, in Vita not., 1988, 256; contra, Trib. Padova, 28 novembre 1985, in
Riv. giur. edilizia, 1986, 550, secondo cui non vige nell’ordinamento un principio generale di trasmissibilità «iure hereditatis»
di tutti i diritti soggettivi. Fra le pronunce più recenti, «per la
considerazione, del tutto pacifica, che l’erede (…) subentra al
defunto in tutti i pregressi rapporti giuridici, sostanziali e processuali», Cass., 2 marzo 2009, n. 5018, in Giust. civ. Mass.,
2009, 3, 361; nello stesso senso già Cass., 1° luglio 1997, n.
5875, in Giust. civ. Mass., 1997, 1103, per la quale «nella successione universale avviene una sostituzione nella titolarità di
tutti i suddetti rapporti», che «si ricollegano alla persona del
successore così come si ricollegavano alla persona del de
cuius, senza alcun mutamento, a parte la modificazione soggettiva», e Cass., 20 febbraio 2003, n. 2563, in Giust. civ.
Mass., 2003, 363, che recepisce «l’ovvio principio secondo il
quale l’erede, succedendo al disponente», continua «la personalità del de cuius», «divenendo così parte degli atti conclusi
dallo stesso». E ancora - ancorché con specifico riguardo alla
trascrizione - Cass., 6 giugno 2011, n. 12242, in Vita not., 2011,
(segue)
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2. Deroghe legali al regime ordinario
di prosecuzione del rapporto in capo
agli eredi
Il principio di trasmissibilità dei rapporti contrattuali in capo agli eredi non costituisce una regola monolitica ed ammette numerose eccezioni (13): sono,
invero, molteplici le fattispecie contrattuali per le
quali la soluzione legale, espressa o implicita, è nel
senso della intrasmissibilità del vincolo per morte di
una delle parti.
In particolare, il rapporto cessa per morte del donante nella donazione di prestazioni periodiche (art.
772 c.c.); per morte dell’associato (art. 24 c.c.); per
morte dell’appaltatore, quando la considerazione
della sua persona (rectius, della sua abilità tecnica e
capacità professionale) sia stata motivo determinante del contratto (art. 1674 c.c.); per morte del mandante o del mandatario (art. 1722, n. 4, c.c.); per
morte dell’agente, come è dato desumere dall’art.
1751, comma 7, c.c. (14); per morte del beneficiario
nella rendita vitalizia costituita per la durata della
sua vita (art. 1873 c.c.); per morte del lavoratore subordinato, come può evincersi dagli artt. 2118, comma 3 e 2122 c.c.; per morte del prestatore d’opera
manuale, ove l’intrasmissibilità del contratto non è
fissata da norme espresse, ma può comunque desumersi in via interpretativa «dall’applicazione delle
regole in ordine alla sopravvenuta impossibilità della prestazione, cui va ricondotto quanto disposto
dall’art. 2228 c.c.» (15); per morte del prestatore
d’opera intellettuale, ove dalla personalità dell’adempimento di cui all’art. 2232 c.c. sia dato desumere la regola dello scioglimento del rapporto; per
morte del mezzadro, del colono e del soccidario, nella misura in cui si ritengano questi contratti ancora
esistenti nel nostro ordinamento (artt. 2158, 2168 e
2179 c.c.).
Le predette ipotesi di intrasmissibilità legale vengono tradizionalmente ricondotte (anche sotto la vigenza dell’abrogato art. 1127 c.c.) alla categoria dei
rapporti a carattere personale, altrimenti noti come
rapporti intuitu personae (16), per la peculiare rilevanza che assume la persona (rectius, le qualità soggettive) di una o di entrambe le parti e che, di regola, si risolve nella pretesa dell’una (o di ciascuna)
parte all’esecuzione personale della prestazione da
parte dell’altra (17).
Ma al di là di classificazioni generiche e omnicomprensive, meglio è, su un piano più analitico, individuare le concrete esigenze sostanziali che stanno
alla base dei casi di intrasmissibilità legale. Del re-
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sto, è ormai pacificamente condivisa l’eterogeneità
dei contratti qualificati come intuitu personae e la
mancanza di un «trattamento normativo uniforme» (18) che possa far assumere alla categoria una
funzione unificante. E lo stesso carattere dell’intuitus è, per questi contratti, soltanto normale, non
già essenziale, dal momento che gli effetti giuridici
ad esso ricollegati sono derogabili per volontà delle parti; così come, simmetricamente, l’autonomia
delle parti ben può attribuire rilevanza alla considerazione della persona di una di esse, contribuendo a colorare di intuitus tipi legali che ne sarebbero
privi.
Appare, dunque, corretto (19) prendere atto della
molteplicità delle ragioni giustificatrici che stanno
alla base dei casi di intrasmissibilità legale contenuti nel codice e di come la scelta legislativa a favore
dello scioglimento non sempre sia riconducibile al
carattere personale del vincolo, ma talora risieda
nell’«esigenza di preservare interessi di diverso tipo,
nemmeno necessariamente esclusivi dei contraenti,
Note:
(continua nota 12)
3, 1590, per cui «l’erede, continuando la personalità del de
cuius, diviene parte del contratto concluso dallo stesso, per cui
egli resta vincolato al contenuto del contratto medesimo, ancorché questo non sia stato trascritto» (principio già espresso
da Cass., 15 maggio 1997, n. 4282, in Riv. notar., 1998, 345, poi
ribadito da Cass. 13 novembre 2009, n. 24133, in Guida al dir.,
2010, n. 1, 49 e da Cass., 16 giugno 2009, n. 13968, in Giust.
civ. Mass., 2009, 6, 931).
(13) V. sul punto Gazzoni, Manuale di diritto privato, 14. ed., Napoli, 2009, 439.
(14) Cfr. Pascucci, Commento all’art. 1751 c.c., in Codice delle
successioni e donazioni, cit., 2260.
(15) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 112.
(16) La giurisprudenza suole, infatti, affermare che gli eredi subentrano soltanto nei rapporti giuridici facenti capo al defunto
che siano trasmissibili, e non nei diritti ed obbligazioni intuitu
personae: così Cass., 10 novembre 2011, n. 23551, in Giust. civ.
Mass., 2011, 11, 1587; in senso conforme Cass., 4 maggio
2010, n. 10734, in Giust. civ., 2011, 9, I, 2148 e Cass., 28 novembre 2001, n. 15121, in Foro it., 2002, I, 2110 e in Riv. notar.,
2002, 980, con nota di Vocatura. Già in questo senso, ancorché
meno esplicita, Cass., 1° luglio 1997, n. 5875, cit., che circoscrive ad «oggetto della delazione ereditaria (…) il complesso dei
rapporti giuridici trasmissibili, dei quali era titolare il defunto».
(17) Cfr. Palazzo Le successioni, in Trattato di diritto privato, diretto da Iudica e Zatti, I, Milano, 2000, 186; Capozzi, Successioni e donazioni, a cura di A. Ferrucci e C. Fermentino, vol. I, 3. ed.,
Milano, 2009, 32-33; AA.VV., Le successioni e le donazioni, in Diritto Civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A.
Zoppini, II, 1, Milano, 2009, 11.
(18) Grandi, La prestazione di lavoro subordinato e la persona del
lavoratore, in Riv. dir. lav., 1969, 436 ss.
(19) Così come autorevolmente proposto da Padovini, Rapporto
contrattuale e successione per causa di morte, cit., 43 ss.
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ma in taluni casi di portata più generale» (20). In
particolare, le esigenze di tutela che vengono in rilievo sono legate ora agli interessi di una o di entrambe le parti, ora alla condizione degli eredi, ora
ad interessi sovraordinati e generali.
Riprendendo l’ordine di trattazione di cui sopra, la
ratio sottesa all’art. 772 c.c., che stabilisce l’estinzione dell’obbligo di eseguire prestazioni periodiche in
adempimento di una donazione, pare potersi ravvisare «nell’intento legislativo di rispettare una presumibile volontà del donante, corrispondente alla natura personale dell’animus donandi» (21), tutelando,
così, la norma un interesse della parte deceduta, oltre che, indirettamente, la condizione degli eredi
(22).
È invece protetta la condizione della parte diversa
da quella deceduta nel caso delle associazioni, dove
l’art. 24 c.c. sancisce il principio (comunque derogabile) di intrasmissibilità della qualità di associato:
viene, con ciò, protetto l’interesse dell’associazione
(rectius, degli associati superstiti) a che non divengano socie persone non gradite. Al contempo, la
norma tutela la libertà degli eredi nello scegliere se
aderire o meno ad un determinato rapporto associativo. Lo stesso è a dirsi rispetto all’art. 2284 c.c., che
regola gli effetti della morte di un socio nella società di persone e che sottende una doppia funzione di
tutela: da un lato, l’interesse dei soci originari a non
vedere mutata la compagine dei partecipanti, prevedendo come necessario il loro consenso all’ingresso
degli eredi del socio defunto; dall’altro, l’interesse
degli eredi del socio defunto a non entrare automaticamente, e indipendentemente da un atto di spontanea e consapevole adesione, in una società in cui
verrebbero ad assumere responsabilità illimitata per
le obbligazioni sociali (23). Ancora, a tutela della
controparte della persona deceduta - nella specie, a
tutela del committente - è dettato l’art. 1674 c.c.,
che nell’inciso finale contiene un’eccezione alla regola della prosecuzione del rapporto espressamente
sancita nella prima parte della disposizione: il contratto di appalto si scioglie per morte dell’appaltatore ove la considerazione della sua persona sia stata
motivo determinante del consenso.
Lo scioglimento del rapporto è invece previsto come
regola generale, e non in via di eccezione, in caso di
morte del mandante o del mandatario (art. 1722, n.
4, c.c.). La norma tutela, in caso di morte del mandante, la libertà degli eredi di scegliere le modalità e
i criteri di amministrazione del patrimonio e, in caso di morte del mandatario, accanto a una funzione
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di tutela della parte sopravvissuta per il caso di inidoneità dei successori, l’inesigibilità da parte degli
eredi di una prestazione di fare, essendo impossibile
«sapere se gli eredi avranno oppure no capacità e
volontà di darvi esecuzione» (24). Alla stessa ratio
sembra improntata la regola di intrasmissibilità desumibile dall’art. 1751, comma 7, c.c., che riconosce
agli eredi dell’agente il diritto di percepire l’indennità dovuta dal proponente per il caso di scioglimento del rapporto: anche in questo caso non è dato sapere se gli eredi avranno la capacità, e ancor
prima la volontà, di continuare lo svolgimento dell’attività agenziale.
Non diversamente, nel contratto di lavoro subordinato la regola dell’intrasmissibilità legale in caso di
decesso del dipendente, che può desumersi agevolmente dal combinato disposto degli artt. 2118, comma 3, e 2122 c.c., tutela, oltre all’interesse del datore di lavoro ad un’esecuzione personale della prestazione, la libertà degli eredi del dipendente nello scegliere la propria attività lavorativa, essendo inesigibile, da parte loro, l’esecuzione di una prestazione di
fare che non è dato sapere se avranno capacità e volontà di adempiere. Tuttavia, rispetto alle fattispecie
sopra menzionate, non solo la funzione di tutela è
duplice - essendo tutelati gli interessi di ambedue le
parti del contratto -, ma vengono altresì in gioco esigenze di tutela di interessi sovraordinati, in particolare quello costituzionalmente garantito di uguaglianza nell’accesso al mercato del lavoro (art. 4,
comma 1, Cost.). Parimenti, nel contratto d’opera
professionale, la regola dello scioglimento del rapporto per morte del professionista, che viene desunta dalla personalità dell’adempimento di cui all’art.
Note:
(20) Caccavale, Contratto e successioni, cit., 607.
(21) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 43.
(22) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 534. La giurisprudenza tende, invece, a giustificare l’intrasmissibilità mortis causa
della donazione sulla base di una generica riconduzione del vincolo alla categoria dei contratti intuitu personae, in quanto «atto
personalissimo di disposizione patrimoniale che trae ragione dalla spontanea ed autonoma determinazione del suo autore»: così
Cass., 10 novembre 2011, n. 23551, cit.. Analogamente Cass., 4
maggio 2010, n. 10734, cit. e Cass., 28 novembre 2001, n.
15121, cit., per le quali gli eredi non subentrano nei diritti ed obbligazioni intuitu personae, tanto più se si tratti di dichiarazioni
negoziali eminentemente personali, nella cui categoria rientra la
donazione.
(23) Con specifico riferimento alla successione nel contratto di
società v. Caccavale, Contratto e successioni, cit., 611 ss.
(24) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 46.
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2232 c.c., appare talora ispirata ad un’esigenza di tutela di interessi che vanno al di là degli interessi di
parte: si pensi all’art. 301 c.p.c., in cui l’interruzione
del processo a seguito della morte del difensore risponde al precipuo fine di garantire l’effettività del
contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa da parte di chi risulti colpito dal fatto interruttivo, perseguendo, con ciò, la norma l’interesse generale al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (25).
Può, dunque, rilevarsi come sia ampio il ventaglio di
soluzioni apprestate dall’ordinamento in ordine alla
trasmissione dei rapporti contrattuali per causa di
morte; in particolare, come la varietà delle ipotesi di
deroga legale al regime ordinario di prosecuzione del
rapporto dipenda dalla selezione di interessi volta
per volta rilevanti, piuttosto che da una generica riconduzione alla categoria dei contratti intuitu personae (26).
Ebbene, pur non essendo riconducibili ad un unico
ed identico principio, ma espressione di ragioni di
tutela ben diverse tra loro, ognuna di queste deroghe
contribuisce alla individuazione della disciplina
(inespressa) con cui risolvere le fattispecie contrattuali prive di puntuale regolamentazione: il regime
ordinario di trasmissibilità sarà destinato a cedere
all’opposta regola legale ogni qual volta, alla luce di
una valutazione da compiersi caso per caso, emergerà la presenza, in capo ad una o a entrambe le parti,
di un interesse assimilabile a quelli - sopra individuati - su cui poggiano i divieti legali di prosecuzione del rapporto. Così, esemplificando, la morte del
comodante non sarà causa di scioglimento del rapporto, «giacché nessun interesse rilevante pare
emergere a giustificare una soluzione addirittura più
rigida di quella dettata per la morte del comodatario
- la quale si giustifica in ragione della gratuità dell’uso consentito al beneficiario -, dove il comodante
può recedere dal rapporto, chiedendo agli eredi l’immediata restituzione della cosa» (27). Ancora, alla
morte del prestatore d’opera nel contratto d’opera
manuale potrà applicarsi una soluzione modellata
sulla disciplina dettata in materia di appalto (art.
1674), così riconoscendo al committente la facoltà
di provocare lo scioglimento del rapporto ove gli
eredi del prestatore non diano affidamento per l’esecuzione dell’opera oggetto del contratto (28).
3. Segue. Le vocazioni anomale legali
La trattazione delle ipotesi di intrasmissibilità legale
dei rapporti contrattuali per morte di una delle par-
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ti non può ancora ritenersi esaurita. Un’ulteriore serie di deroghe legali alla tendenziale prosecuzione
del rapporto in capo agli eredi proviene da quelle disposizioni che, pur confermando il principio di continuazione del rapporto contrattuale, individuano i
soggetti a cui favore opera la successione secondo
criteri almeno in parte divergenti rispetto a quelli
ordinari: talora, subordinando la trasmissione alla
presenza di determinati presupposti di fatto o qualità personali; talaltra, attribuendo il diritto di proseguire il rapporto a persone diverse dai successibili indicati dall’art. 565 c.c. È evidente, dunque, come da
queste previsioni derivi un significativo vulnus alla
regola di principio che vuole la prosecuzione dei
rapporti contrattuali in capo agli eredi del contraente defunto, ancorché sotto un profilo diverso rispetto a quello sino ad ora considerato: non già uno scioglimento del rapporto, bensì una continuazione del
rapporto con soggetti diversi rispetto agli eredi o subordinata a determinati presupposti. È un aspetto
del più generale fenomeno delle vocazioni anomale
legali, da riguardarsi quali ipotesi di deviazione soggettiva o oggettiva rispetto alle regole successorie
ordinarie - in particolare, rispetto al principio di
unità della successione, in base al quale l’intero patrimonio del de cuius è sottoposto ad una disciplina
unitaria che, in assenza di legati, comporta la successione nella posizione contrattuale del defunto di
tutti i suoi eredi - e nel cui ambito trovano collocazione molteplici ed eterogenee figure (29).
Note:
(25) Sul punto si rinvia a Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 50; v. anche Finocchiaro, voce
“Interruzione del processo (diritto processuale civile)”, in Enc.
dir., XXII, Milano, 1972, 428.
(26) Come invece preteso dalla giurisprudenza (v. note 16 e 22).
(27) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 536. In argomento v.
anche Pascucci, Commento all’art. 1811 c.c., in Codice delle
successioni e donazioni, cit., 2270.
(28) V. Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 536. In argomento
v. anche Pascucci, Commento agli artt. 1674-1675 c.c., in Codice delle successioni e donazioni, cit., 2240.
(29) In argomento v. Santoro-Passarelli, Appunti sulle successioni legittime, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1930,
672 ss.; De Nova, Il principio di unità della successione e la destinazione dei beni alla produzione agricola, in Riv. dir. agr., 1979,
I, 509 ss.; Carraro, La vocazione legittima alla successione, Padova, 1979, 221 ss.; Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, Sez. IV: Le vocazioni anomale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 5, Successioni, t. 1, Torino,
1997, 509 ss.; Mengoni, Successioni per causa di morte, Parte
speciale, Successione legittima, in Trattato di diritto civile, diretto da Cicu e Messineo, XLIII, t. 1, 6. ed., Milano, 1999, 241 ss.;
Bianca, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano,
(segue)
517
Opinioni
Successioni
Limitando, in questa sede, l’analisi alle vocazioni
anomale che incidono sulla trasmissione dei rapporti contrattuali, e avendo cura di precisare come le
stesse, di regola, afferiscano a rapporti aventi ad oggetto diritti personali di godimento su beni immobili, meritano attenta considerazione l’art. 6, comma
1, l. 27 luglio 1978/392 (Disciplina delle locazioni di
immobili urbani), rubricato «Successione nel contratto» (30), il quale, per le locazioni di immobili ad
uso abitativo, prevede che in caso di morte del conduttore «gli succedono nel contratto il coniuge, gli
eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi»; l’art. 37 della medesima legge (31), che
per le locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo dispone, al comma 1, che «in caso di morte del
conduttore, gli succedono nel contratto coloro che,
per successione o per precedente rapporto risultante
da atto di data certa anteriore all’apertura della successione, hanno diritto a continuarne l’attività», e,
al comma 3, che «se l’immobile è adibito all’uso di
più professionisti, artigiani o commercianti e uno
solo di essi è titolare del contratto, in caso di morte
gli succedono nel contratto, in concorso con gli
aventi diritto di cui ai commi precedenti, gli altri
professionisti, artigiani o commercianti». Non diversamente accade nella legislazione in materia di
rapporti agrari (l. 3 maggio 1982, n. 203), ove l’art.
49 dispone la prosecuzione del contratto agrario a
favore di determinati soggetti, positivamente individuati, ed esclude l’applicazione residuale della regola di trasmissibilità agli eredi prevedendo che il rapporto si sciolga ove manchino i soggetti dalla norma
menzionati. In particolare, le esigenze di garantire la
continuità ed integrità dell’impresa agricola anche
dopo il decesso del titolare hanno giustificato una
deroga alle regole successorie ordinarie tanto per la
successione al proprietario-imprenditore quanto per
la successione nel rapporto di affitto di fondo agrario, per le quali l’art. 49, l. n. 203/1982, rispettivamente ai commi 1 e 4, individua i chiamati alla successione secondo criteri almeno in parte divergenti
rispetto a quelli ordinari (32).
Accanto alle fattispecie testé elencate, riconosciute
quali principali ipotesi di vocazione anomala, esistono ulteriori figure. Il riferimento è alla successione
nei rapporti di assegnazione di alloggi popolari, alla
successione nella posizione di socio assegnatario di
un immobile in una cooperativa a proprietà indivisa
(33) ed alla successione nel maso chiuso (l. prov.
Bolzano 28 nov. 2001, n. 17). Rientra, ancora, nel
novero delle vocazioni anomale (34), ma non fra
518
quelle che afferiscono a rapporti aventi ad oggetto
diritti personali di godimento su beni immobili, la
fattispecie disciplinata dall’art. 2122 c.c., che in caso di morte del lavoratore individua gli aventi diritto alle indennità di cui agli artt. 2118 e 2120 c.c. in
soggetti diversi dai successibili designati nell’ambito
della successione legittima (35).
Fissati i presupposti ed i contenuti delle principali
fattispecie di vocazioni anomale che incidono sulle
posizioni contrattuali, è possibile constatare come le
stesse risultino accomunate da una ratio di tutela di
esigenze, per così dire, “primarie”, facenti capo a
soggetti ritenuti specialmente meritevoli indipendentemente dalla qualità di eredi, giacché legati da
vincoli familiari o di convivenza o, in senso lato, imprenditoriale con la parte deceduta (si considerino
l’esigenza abitativa sottesa all’art. 6, l. 392/1978, o
quella lato sensu imprenditoriale di cui agli artt. 37,
Note:
(continua nota 29)
2005, 723 ss.; Padovini, Rapporto contrattuale e successione
per causa di morte, cit., 56 ss.; De Nova, voce “Successioni anomale legittime”, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XIX, Torino, 1999,
182 ss.; Palazzo, Le successioni, cit., 23 ss.; Bonilini, Introduzione (Parte IV, Le successioni legittime anomale), in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonilini, III, Milano,
2009, 967 ss.; Recinto, Le successioni anomale, in Diritto delle
successioni, a cura di Calvo e Perlingieri, I, Napoli, 2008, 647 ss.;
Mandrioli, Successioni legittime anomale: un fenomeno sempre
meno anomalo, in Vita not., 2003, II, 1100 ss.; Iannaccone, Le
“successioni legittime anomale” fra diritto privato e interesse
pubblico economico, in Vita not., 1998, II, 551 ss.; Ieva, Rastello, Le successioni anomale, in Trattato breve delle successioni e
donazioni, diretto da Rescigno, coordinato da Ieva, I, Padova,
2010, 697 ss.; Calvo, Commento all’art. 457 c.c., in Codice delle
successioni e donazioni, cit., 571.
(30) V. Pascucci, Commento agli artt. 6 e 37, l. 27 luglio 1978, n.
392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), in Codice delle
successioni e donazioni, a cura di M. Sesta, vol. II, Milano, 2011,
609 ss.
(31) Cfr. Pascucci, Commento agli artt. 6 e 37, l. 27 luglio 1978,
n. 392, cit., 622 ss.
(32) Sul punto Mandrioli, Successioni legittime anomale: un fenomeno sempre meno anomalo, cit., 1116 ss.; Valenza, La successione nei rapporti agrari, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonilini, III, Milano, 2009, 1083 ss.; Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte,
cit., 65 ss.; Carrozza, Commento all’art. 49 della l. 3 maggio
1982, n. 203, in Le nuove leggi civili commentate, 1982, 1526.
(33) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 69, 70, 71.
(34) Come forma di successione anomala “separata”, non già
“speciale”: per la cui distinzione si rinvia a Ieva, Rastello, Le successioni anomale, cit., 697 ss.
(35) In argomento, cfr. Mora, La successione nelle indennità ex
art. 2122 c.c., in Trattato di diritto delle successioni e donazioni,
diretto da Bonilini, III, Milano, 2009, 975 ss.; Mandrioli, Successioni legittime anomale: un fenomeno sempre meno anomalo,
cit., 1103 ss.; Ieva, Rastello, Le successioni anomale, cit., 706 ss.
Famiglia e diritto 5/2012
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Successioni
l. 392/1978 e 49, l. 203/1982). In particolare, nell’ambito del complesso fenomeno delle vocazioni
anomale si è soliti distinguere (36) tra fattispecie derogatorie che trovano giustificazione nell’esigenza di
fornire adeguata protezione a soggetti considerati
“deboli” in ragione della particolare situazione in
cui si trovano, e, dunque, tali da poter subire maggiore pregiudizio dalla morte del de cuius (è la ratio
sottesa all’art. 6, l. n. 392/1978, il cui intento è quello di assicurare a chi già viveva nell’immobile la stabilità della permanenza in esso); e fattispecie in cui,
invece, la deviazione dagli schemi successori ordinari è preordinata al perseguimento di un interesse di
natura pubblicistica (quale l’interesse alla salvaguardia e all’incentivazione delle attività economiche
perseguito dall’art. 37, l. n. 392/1978).
Quanto alla natura dell’attribuzione in capo ai destinatari di legge, è opinione prevalente che non si
tratti di un acquisto iure proprio, in cui il beneficiario
acquista un diritto personale di godimento autonomo rispetto al precedente titolare, bensì di una trasmissione ereditaria in senso tecnico, giacché i successibili derivano il loro diritto di godimento sull’immobile dalla posizione del loro dante causa.
Conferma si rinviene nella lettera delle succitate disposizioni, là dove risultano formulate attraverso la
terminologia tipica dei meccanismi ereditari, ma soprattutto nell’elemento sostanziale, «rappresentato
dalla successione in un rapporto che era compreso
nel patrimonio del defunto e che prosegue inalterato» (37). La nuova parte si trova, cioè, in una situazione identica a quella del defunto. Nello specifico,
prevale poi la qualificazione delle vocazioni anomale come attribuzioni a titolo particolare di fonte legale, aventi ad oggetto i diritti ricompresi nella qualità di parte di un contratto, talora con riferimenti
espliciti alla figura del legato ex lege traslativo di
contratto (38). Coerentemente con la natura ad esse riconosciuta, si ritiene che l’acquisto del successore avvenga ipso iure senza bisogno di accettazione,
salva la facoltà di rinunciare in conformità al disposto di cui all’art. 649 c.c. (39).
4. Derogabilità convenzionale del regime
legale vigente: clausole di intrasmissibilità
mortis causa del rapporto
A fronte dell’ampio ventaglio di soluzioni che l’ordinamento appresta in punto di trasmissibilità/intrasmissibilità dei rapporti contrattuali in caso
di morte di una o entrambe le parti, diventa lecito
chiedersi se, ed entro quali limiti, sia dato all’auto-
Famiglia e diritto 5/2012
nomia privata incidere sul regime legale di volta in
volta vigente (40) pattuendo ora lo scioglimento di
un rapporto destinato per legge a proseguire (clausole di intrasmissibilità), ora la continuazione di un
vincolo destinato per legge a sciogliersi alla morte di
una delle parti (clausole di trasmissibilità (41)).
Limitiamo per ora l’analisi agli accordi (più propriamente, clausole accessorie) con cui i privati, rovesciando il regime legale vigente, intendano escludere la trasmissione legale del rapporto contrattuale in
caso di morte di una o di entrambe le parti (clausole
di intrasmissibilità) (42). Della loro ammissibilità
non si è mai dubitato nel vigore del codice civile
Note:
(36) V. riferimenti in Rando, sub art. 37, l. 27 luglio 1978, n. 392,
in Codice delle locazioni, a cura di M. Trimarchi, con il coordinamento di A. La Spina, Milano, 2010, 575-576.
(37) Così Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 74; ed ancora Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 532: «la posizione contrattuale viene trasmessa nella sua
interezza, senza cesure né iati rispetto alla situazione anteriore
all’apertura della successione».
(38) Sul punto si leggano Mengoni, Successioni per causa di
morte, Parte speciale, Successione legittima, cit., 259; Padovini,
Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 7475; Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 530 ss.; Cattaneo, La
vocazione necessaria e la vocazione legittima, Sez. IV: Le vocazioni anomale, cit., 512; Ieva, Rastello, Le successioni anomale,
cit., 699. Sul legato di contratto, e per una sua distinzione dal legato di posizione contrattuale, v. Alvisi, Commento all’art. 1321
c.c., §§ 5-10, in Codice delle successioni e donazioni, I, cit., 2180
ss.
(39) Ieva, Rastello, Le successioni anomale, cit., 699.
(40) In argomento v. ampiamente Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 81 ss., che propone
per questi accordi la denominazione di convenzioni «semplici» in
ragione del contenuto “elementare” con cui le stesse si limitano a prevedere, in deroga al regime legale di volta in volta vigente, la prosecuzione di un rapporto destinato per legge a sciogliersi ovvero l’estinzione di un rapporto di cui la legge preveda
la continuazione con gli eredi. L’Autore definisce, invece, «complesse» (p. 139 ss.) le convenzioni dal contenuto più articolato,
che non si limitano a stabilire la trasmissibilità o meno del contratto, ma contengono diverse opzioni in relazione alla ricorrenza
di specifici presupposti o al verificarsi di determinate condizioni,
ovvero rimettono l’esito della vicenda alla richiesta esplicita di
una delle parti o ad un successivo accordo tra le medesime; o,
ancora, prevedono che, in caso di morte di una delle parti, il contratto subisca uno scioglimento parziale e contestualmente continui soltanto con alcuni dei successori, ovvero che, nell’ipotesi
di parte plurisoggettiva, alla morte di uno dei contraenti il contratto continui soltanto tra alcuni dei superstiti.
(41) Su cui v. infra, § 5.
(42) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 81 ss., propone per questi accordi la denominazione
di «convenzioni semplici di intrasmissibilità», terminologia modellata su quella generalmente proposta con riguardo alle convenzioni matrimoniali, ove “semplici” sono le convenzioni tipiche riconosciute dalla norma dell’art. 215 c.c., che danno vita ad
un “semplice” regime di separazione dei beni, e “complesse”
sono le convenzioni atipiche, le quali instaurano un regime comunitario strutturalmente diverso rispetto a quello legale.
519
Opinioni
Successioni
previgente, il cui art. 1127, come già rilevato (43),
riconosceva ai contraenti il potere di pattuire la intrasmissibilità del rapporto purché la deroga risultasse in modo espresso ed inequivoco. Rinnovata attenzione merita la questione dopo la scomparsa, nel
codice vigente, di un riferimento normativo generale ed espresso alla sorte dei contratti a seguito di
morte di una delle parti, anche se è prevalsa l’interpretazione per cui le deroghe alla regola della trasmissibilità, giudicata principio immanente al sistema, si giustifichino con riguardo ai rapporti intuitu
personae, compresi i rapporti configurati come tali
dalle parti anche se naturalmente privi di questa
connotazione.
In realtà, al di là di un generico ed acritico riconoscimento di ammissibilità, meglio è procedere - seguendo l’autorevole dottrina che ha trattato diffusamente l’argomento (44) - ad un inquadramento
concettuale delle clausole in esame, per poi poterne
individuare i limiti di operatività e di liceità.
In generale, la clausola di intrasmissibilità limiterà
temporalmente l’efficacia del rapporto, decretandone la perdurante vigenza sino all’apertura della successione in ragione della sua tendenziale irretroattività (45). Ma ecco che, se il decesso di una parte ben
può rappresentare un termine finale, un primo limite che i privati possono incontrare nel convenire lo
scioglimento del rapporto riguarda i casi in cui l’ordinamento vieti l’apposizione di termini a specifici
contratti (46). Così è a dirsi del contratto di lavoro
subordinato, ove le parti ne concordassero la cessazione a seguito della morte del datore di lavoro, giacché la legge consente la stipulazione di rapporti di
lavoro a termine soltanto nei casi tassativamente
previsti (47). Ma si pensi anche ai casi in cui la legge prevede una durata minima del rapporto, al fine
di garantire una delle parti dal rischio di uno scioglimento imprevedibile ed improvviso per fatti estranei alla sua volontà. È ciò che accade nelle locazioni di immobili urbani e nell’affitto di fondi rustici,
ove regolati dalle leggi speciali: l’esigenza di stabilità della posizione conseguita dal conduttore non potrebbe, dunque, essere pregiudicata da una clausola
che prevedesse lo scioglimento del rapporto per
morte del locatore (48).
In definitiva, la pattuizione di clausole di intrasmissibilità risulterebbe impedita dall’esistenza di norme
imperative inderogabili, quali i divieti di apposizione di termini e le previsioni di una durata minima
del rapporto.
Non diversamente è a dirsi della disciplina delle vo-
520
cazioni anomale, governate da regole almeno in parte divergenti rispetto al principio legale di trasmissibilità in capo agli eredi e che di certo possono costituire un limite ulteriore all’autonomia contrattuale
delle parti. È, infatti, pacifico tra gli interpreti il riconoscimento della natura inderogabile di queste
norme, in funzione della finalità di tutela che le stesse perseguono, volte, come sono, a soddisfare l’esigenza abitativa o, in senso lato, imprenditoriale di
soggetti già legati da vincoli familiari o di convivenza con la parte deceduta e per questo giudicati “meritevoli” indipendentemente dalla loro qualità di
eredi. Talora, l’inderogabilità è positivamente sancita, o è inequivocabilmente presupposta da norme
che colpiscono di nullità ogni pattuizione contraria
alla disciplina legale delle vocazioni anomale: così è
per le locazioni di immobili urbani ad uso non abitativo (per le quali rimane in vigore l’art. 79, l. n.
392/1978) e per la successione nei rapporti agrari ex
art. 58, l. n. 203/1982. E quand’anche un’espressa
qualificazione in tal senso manchi, è comunque il
carattere (parzialmente) pubblicistico delle norme
che regolano alcune ipotesi di vocazioni anomale a
consentire una valutazione in termini di imperatività e inderogabilità (49): così è con riguardo alle regole di successione nei rapporti relativi ad alloggi
popolari o ad immobili realizzati da cooperative edilizie a proprietà indivisa (50). In definitiva, tutte le
norme che prevedono la trasmissione del rapporto
Note:
(43) V. supra, § 1.
(44) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 85 ss.
(45) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 537.
(46) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 93.
(47) È quanto in origine prevedeva la l. 18 aprile 1962, n. 230, poi
sostituita dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Sul punto v. Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte,
cit., 94, che rileva come una soluzione diversa, nel senso della liceità della clausola di intrasmissibilità, potrebbe valere per il lavoro domestico, ove la durata del rapporto può essere commisurata alla vita di chi è unico e diretto beneficiario della prestazione.
(48) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 538-539.
(49) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 104, rileva come in tutti questi casi «il momento pubblicistico dell’assegnazione non può non riflettersi direttamente
sulla disposizione che regola le conseguenze derivanti dal decesso dell’assegnatario» e pare rendere meno evidente la necessità di un esplicito riconoscimento di inderogabilità.
(50) Nel senso dell’inderogabilità, con riguardo ad una cooperativa a proprietà divisa, v. in giurisprudenza Cons. Stato, 3 maggio
1957, n. 58, in Cons. Stato, 1957, I, 582; Cass., 21 aprile 1964,
n. 947, in Giust. civ., 1964, I, 1593.
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contrattuale secondo regole in parte divergenti rispetto ai principi della successione ereditaria hanno
carattere inderogabile, e la conseguente nullità delle clausole in contrasto con il limite legale così posto permette di soddisfare a pieno la finalità di tutela perseguita dal legislatore.
5. Segue. Clausole di trasmissibilità
mortis causa del rapporto
Problema specularmente inverso - postosi all’attenzione della più attenta dottrina occupatasi dell’argomento (51) - è se i privati possano prevedere pattiziamente la prosecuzione in capo agli eredi di un
rapporto che, per espressa (ed eccezionale) disposizione di legge, è destinato a sciogliersi con la morte
di uno dei contraenti (clausole di trasmissibilità).
Ora, sotto il profilo della qualificazione, sembra potersi leggere la clausola di trasmissibilità nei termini
di un patto volto ad escludere l’efficacia di un termine legale, costituito dal decesso di una o di entrambe le parti (si pensi ai contratti di mandato o di appalto) (52). Più complesso è individuare i limiti che
l’autonomia privata incontra nel pattuire accordi di
tal fatta.
Anzitutto, occorre chiarire se e quale incidenza abbia in materia il tradizionale divieto dei patti successori istitutivi (art. 458 c.c.) (53), tenuto conto
che la trasmissibilità ha qui, evidentemente, fonte
contrattuale. Al riguardo, è stato autorevolmente
rilevato che la funzione perseguita dal divieto dei
patti successori non è propriamente unica: «alla volontà di dare prevalenza alla successione legittima e
di contrastare la devoluzione contrattuale dei patrimoni (…) si è venuta sostituendo (…) la tutela della libertà testamentaria» (54), sì che, da un lato, sta
la finalità di impedire la trasmissione integrale di
ingenti patrimoni e di ostacolare disparità di trattamento fra gli eredi, dall’altro, quella di tutelare la libertà testamentaria attraverso il riconoscimento di
un pieno ed incondizionato potere di revoca delle
disposizioni già formate (55). Ebbene, nessuna delle due finalità pare contraddetta dal risultato cui
tendono le clausole di trasmissibilità, che, per un
verso, non attribuiscono diritti su beni, limitandosi
ad escludere lo scioglimento del contratto a seguito
della morte di una parte; e, per altro verso, non attentano alla libertà del testatore, «giacché l’ereditando non ha, in linea di principio, il potere di decidere circa la successione in un rapporto intrasmissibile, essendo indispensabile, per escluderne
l’estinzione a seguito di decesso, il consenso dell’al-
Famiglia e diritto 5/2012
tra parte» (56). Non può non rilevarsi, dunque, il
discrimen fra patto successorio e clausola di trasmissibilità: nel primo, atto mortis causa, la morte di una
parte è causa dell’attribuzione patrimoniale e ne
comporta un’autonoma qualificazione; nella seconda, la morte non è causa della continuazione del
rapporto - che conserva inalterate la durata e le obbligazioni che ne derivano -, ma determina soltanto
un mutamento del soggetto destinato a rivestire la
qualità di parte (57). D’altro canto, la clausola di
trasmissibilità non incide sui criteri di devoluzione
del patrimonio per causa di morte: gli eredi rimangono pur sempre quelli a favore dei quali opera la
devoluzione legittima o la devoluzione testamentaria (58).
Vero è che affermata la liceità sul piano ereditario,
delle convenzioni di trasmissibilità - per non esservi
contrasto con il divieto dei patti successori - occorre
ancora procedere ad una disamina dei casi di intrasmissibilità legale e degli interessi di volta in volta
rilevanti, al fine di valutare la derogabilità o meno
di ciascuna previsione. Si è, invero, già posto l’accento sulla peculiarità della ratio che ispira ogni singolo divieto legale di trasmissione e sull’inesigibilità
di una generica riconduzione delle ipotesi di intraNote:
(51) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 109 ss.
(52) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 541.
(53) In argomento v. Albanese, Ieva, Commento all’art. 458 c.c.,
in Codice delle successioni e donazioni, I, cit., 595 ss.
(54) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 114. In argomento v. anche Caccavale, Il divieto dei
patti successori, in Trattato breve delle successioni e donazioni,
diretto da Rescigno, coordinato da Ieva, vol. I, 2. ed., Padova,
2010, 25 ss.; AA.VV., Le successioni e le donazioni, cit., 12 ss.;
Balestra, Martino, Il divieto dei patti successori, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonilini, I, Milano,
2009, 63 ss.; Ieva, sub art. 458 c.c., in Commentario del Codice
civile, diretto da E. Gabrielli, Delle successioni - vol. I: Artt. 456564, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Torino, 2009, 29 ss.
(55) Indirizzo che trova sostanzialmente concordi gli interpreti:
per riferimenti bibliografici sul punto cfr. Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 114, nota 92. Ad
analoghe conclusioni v., in giurisprudenza, Cass., 22 luglio 1971,
n. 2404, in Giust. civ., 1971, I, 1536, con nota di Cassisa; Cass.,
29 maggio 1972, n. 1702, in Giur. it, 1973, I, 1, c. 1594, con nota di De Giorgi; Cass., 21 aprile 1979, n. 2228, in Rep. Foro it.,
1979, voce Successione ereditaria, n. 55; Cass., 14 luglio 1983,
n. 4827, in Vita not., 1984, 829, con nota di Lepri.
(56) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 115.
(57) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 118 ss.
(58) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 120-121.
521
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smissibilità legale alla supposta categoria unificante
dell’intuitus personae.
Un primo limite è rappresentato dai casi in cui la regola legale della intrasmissibilità sia riconducibile alla tutela di interessi sovraordinati, come è a dirsi per
lo scioglimento del contratto di lavoro subordinato a
seguito di morte del prestatore (desumibile dal combinato disposto degli artt. 2118, comma 3, e 2122
c.c.), che tutela il principio costituzionale di uguaglianza nell’accesso al lavoro; e per certi contratti
d’opera professionale: si pensi all’art. 301 c.p.c., in
cui l’interruzione del processo a seguito di morte del
difensore risponde al precipuo fine di garantire l’effettività del contraddittorio e il corretto svolgimento
della funzione giurisdizionale. Di qui, l’inderogabilità
della regola legale che prevede lo scioglimento del
rapporto e la conseguente nullità delle convenzioni
di trasmissibilità con essa in contrasto (59).
Viceversa, in assenza di esigenze di protezione di interessi generali da cui far discendere l’inderogabilità
della norma, pare potersi riespandere il principio di
autonomia privata (60). È il caso in cui la previsione dello scioglimento del rapporto sia legata a ragioni di tutela della sola parte sopravvissuta, tanto da
ammettere (talora espressamente) una contraria volontà delle parti: così la donazione di prestazioni periodiche non si estingue alla morte del donante, se
così risulta dall’atto di liberalità (art. 772 c.c.); la
morte dell’appaltatore non determina lo scioglimento del rapporto, se la considerazione della sua persona non sia stata motivo determinante del contratto
per il committente (come è dato leggersi dall’art.
1674, comma 1, c.c.), ossia se nella pattuizione le
qualità dell’impresa siano state dedotte come prevalenti rispetto a quelle dell’appaltatore; il che non significa altro se non convenire la trasmissione automatica del vincolo obbligatorio in capo agli eredi
dell’appaltatore (61).
Più complessa diventa l’indagine in relazione ai casi
in cui l’intrasmissibilità legale risulti ispirata dall’esigenza di apprestar tutela, anche se non in via
esclusiva, alla condizione degli eredi, anche se parrebbe doversi prediligere la tesi della inderogabilità
della regola legale (62), venendo qui in gioco esigenze di protezione di interessi - talora anche costituzionalmente rilevanti - che trascendono la sfera
soggettiva delle parti. Si pensi al contratto di mandato, la cui estinzione per morte del mandatario,
prevista dall’art. 1722, n. 4, c.c., discende dall’inesigibilità da parte degli eredi di una prestazione di fare, data dall’impossibilità di prevedere se vi saranno
522
eredi capaci e disponibili a proseguire il rapporto. La
funzione perseguita dalla norma diviene allora duplice: tutelare la parte sopravvissuta per il caso di
inidoneità dei successori; garantire agli eredi piena
libertà nello scegliere la propria attività. Una libertà, quest’ultima, di sicuro rilievo costituzionale, vista la norma di cui all’art. 4, comma 2, Cost., sì da
potersi riconoscere alla regola legale di intrasmissibilità carattere inderogabile, con conseguente nullità delle convenzioni in violazione del divieto (63).
Alla stessa ratio di tutela (libertà individuale degli
eredi) sembra improntata la regola dello scioglimento del vincolo per morte dell’agente, desumibile dall’art. 1751, comma 7, c.c., non essendo dato sapere
se gli eredi avranno la capacità, e, ancor prima, la
volontà, di continuare lo svolgimento dell’attività
agenziale; sì che, anche in tal caso, la norma pare
dover assumere carattere inderogabile. Certo è che
ogni qual volta il mandatario o l’agente abbiano assunto l’incarico nell’ambito dell’esercizio di un’impresa commerciale non piccola, la regola dello scioglimento torna ad essere pienamente derogabile,
mancando l’esigenza di proteggere la libertà individuale degli eredi, sì che risulta possibile convenire la
trasmissione del rapporto in capo agli eredi del mandatario o dell’agente.
In definitiva, nelle ipotesi sin qui considerate, in cui
si è raffrontato il contenuto delle convenzioni di trasmissibilità con la natura e la ratio di ciascuna delle
norme che vietano la prosecuzione del rapporto, la
Note:
(59) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 124-125. Sulla sanzione della nullità conseguente alla inosservanza di norme poste a tutela di interessi generali, indipendentemente da un’espressa previsione di legge, v. Cass.,
sez. un., 21 agosto 1972, n. 2697, in Giust. civ., 1972, I, 1914;
Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601, in Giust. civ., 1983, I, 1172,
con nota di Costanza; Cass., 17 giugno 1985, n. 3642, in Nuova
giur. civ. comm., 1986, I, 283, con nota di Mineo; Cass., 11 dicembre 1985, n. 6271, in Nuova giur. civ. comm., 1986, I, 469,
con nota di Lago.
(60) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 127.
(61) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 128.
(62) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 128 ss.
(63) Così Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di morte, cit., 128-129. Deve comunque darsi atto della diversa posizione di quegli interpreti (v. per tutti Dominedò, voce
“Mandato (diritto civile)”, in Noviss. Dig. it., X, Torino, 1964, 134)
che, qualificando il mandato secondo la tradizione, nei termini di
un rapporto intuitu personae, ritengono pienamente derogabile
la regola legale di intrasmissibilità, senza distinguere tra morte
del mandante e morte del mandatario.
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Opinioni
Successioni
valutazione sull’ammissibilità della clausola è stata
fatta discendere dalla natura, derogabile o inderogabile (imperativa o dispositiva), dell’opposta regola
legale, in ragione delle esigenze di protezione di volta in volta perseguite: ove venga in rilievo un interesse generale (talora anche costituzionalmente tutelato) o un interesse che trascenda la sfera soggettiva delle parti, la convenzione di trasmissibilità stipulata in violazione del divieto sarà da considerarsi
nulla per violazione di norma imperativa. Salvo poi
discutere sulla natura di questa nullità, ossia sulla
sua riconducibilità, in ragione della finalità di protezione che la stessa persegue, alla categoria delle nullità relative, come tali destinate ad operare solo su
richiesta del soggetto a tutela del quale la nullità risulta posta, nella specie gli eredi chiamati a succedere nel rapporto. Si è però obiettato che, così facendo, oltre ad alterarsi la disciplina ordinaria dell’azione di nullità in assenza di una norma di legge che a
ciò autorizzi, si finisce per tutelare un soggetto che
non è parte dell’accordo vietato e che, di conseguenza, non ha riposto alcun affidamento sull’efficacia della convenzione (64).
Va, da ultimo, considerato che, talora, la clausola di
trasmissibilità, più che un patto volto ad escludere
l’efficacia di un termine legale costituito dal decesso
di una o di entrambe le parti, è diretta ad escludere
ogni potere di recesso che la legge accorda all’una o
all’altra parte a seguito della successione per causa di
morte - come accade nei contratti di locazione (artt.
1614 e 1627 c.c.), comodato (art. 1811 c.c.), conto
corrente (art. 1833 c.c.), appalto (art. 1674 c.c.),
mandato (art. 1722 c.c.) - sì da garantire una piena
e sicura prosecuzione del rapporto (65). Ora, se nessun dubbio si pone circa la liceità di simili clausole
ove il recesso di cui le parti dispongano sia attribuito dalla legge a favore della parte sopravvissuta, meno agevole appare la soluzione allorquando il recesso sia attribuito dalla legge (anche) agli eredi del defunto, venendo allora in gioco esigenze di protezione di interessi che trascendono la sfera soggettiva
delle parti e che, in coerenza con quanto sopra osservato, importano l’inderogabilità della disciplina
legale (è il caso del decesso del mandatario che abbia agito nelle vesti di imprenditore ex art. 1722, n.
4, c.c.; è il caso del decesso dell’affittuario ex art.
1627 c.c.) (66).
6. Derogabilità del regime legale
per disposizione testamentaria
Le deroghe che l’autonomia privata può apportare al
Famiglia e diritto 5/2012
regime legale di trasmissibilità/intrasmissibilità dei
rapporti contrattuali non si esauriscono tutte in fattispecie convenzionali, ossia in pattuizioni - di regola, accessorie - che disciplinano la sorte del contratto a seguito di morte di una o di entrambe le parti in
difformità dalle previsioni legali.
Un’ulteriore deroga alla regola generale della trasmissibilità dei rapporti contrattuali in capo agli eredi opera in presenza di una disposizione testamentaria con cui si attribuisca un legato di specie avente
per oggetto un bene determinato: nei limiti in cui si
ammetta la trasmissibilità mortis causa della posizione contrattuale, segnatamente con legato (67), si
evita il subingresso degli eredi legittimi nei rapporti
contrattuali riferibili alla cosa assegnata, che si trasmettono al legatario. Nel qual caso, la deroga non
costituirebbe tanto un’eccezione alla regola generale di trasmissibilità mortis causa dei rapporti contrattuali, quanto, piuttosto, una deviazione rispetto alla
trasmissibilità in capo agli eredi: il rapporto continuerebbe, ma con soggetti diversi rispetto agli eredi.
Ebbene, è alla stregua dell’interpretazione estensiva
di talune previsioni codicistiche che possono giustificarsi siffatte ipotesi di deviazione “soggettiva” rispetto alle regole ordinarie (68).
Una prima regola che può utilmente invocarsi per
risolvere la questione interpretativa posta è l’art.
1599 c.c., che al ricorrere di certe condizioni sancisce l’opponibilità del contratto di locazione al terzo
acquirente. La norma, così come genericamente formulata («terzo acquirente») e rubricata («Trasferimento a titolo particolare della cosa locata»), si presta ad essere estesa agli acquisti per causa di morte,
di talché può ritenersi che «il legato di una cosa determinata comporta la successione in capo al legatario del rapporto di locazione eventualmente concluso dal precedente titolare del bene, sia questi l’ereditando ovvero un terzo» (69). Analogamente è a dirNote:
(64) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 136.
(65) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 136 ss.
(66) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 136-137.
(67) Sul legato di posizione contrattuale v. Alvisi, Commento all’art. 1321 c.c., §§ 5-10, cit., 2181.
(68) Ferma, in ogni caso, la liceità di clausole che vietino la trasmissione della posizione contrattuale al legatario di bene determinato: così Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 539.
(69) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 53; Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 529.
523
Opinioni
Successioni
si per il legato di azienda. Invero, una volta ammessa l’applicazione delle disposizioni generali sul trasferimento di azienda anche alle successioni mortis
causa e, in particolare, l’operatività dell’art. 2558
c.c., che regola con formulazione ampia e omnicomprensiva la successione nei contratti in capo all’acquirente («l’acquirente dell’azienda subentra nei
contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa
che non abbiano carattere personale»), deriva il subentro anche del legatario nei contratti stipulati per
l’esercizio dell’impresa che non abbiano carattere
personale. Ciò che accade anche per il contratto di
assicurazione relativo alla cosa oggetto di legato: la
norma di cui all’art. 1918 c.c., in virtù della quale
«l’alienazione delle cose assicurate non è causa di
scioglimento del contratto di assicurazione» e «i diritti e gli obblighi dell’assicurato passano all’acquirente», può infatti ritenersi applicabile anche al legato testamentario della cosa assicurata, prevedendo
un meccanismo che ben si adatta ad erede e legatario (70).
In ogni caso, gli interpreti sono soliti attribuire alle
524
norme appena richiamate carattere eccezionale, di
talché non può ritenersi che ogni contratto avente
per oggetto il bene attribuito si trasmetta al legatario (71). In mancanza di una disposizione espressa
che assegni al legatario di beni determinati la titolarità di singoli rapporti obbligatori già facenti capo
al defunto, il rapporto contrattuale continuerà con
gli eredi, in forza della regola di principio. Come del
resto risulta confermato dall’art. 1372, comma 2,
c.c., il quale rende il contratto efficace rispetto ai
terzi «nei casi previsti dalla legge», e, altresì, da
norme più puntuali, come gli artt. 671 e 756 c.c.,
che limitano la responsabilità del legatario per legati e oneri (art. 671) e per debiti ereditari (art. 756)
(72).
Note:
(70) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 54.
(71) Padovini, Le posizioni contrattuali, cit., 530.
(72) Padovini, Rapporto contrattuale e successione per causa di
morte, cit., 55.0
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Lavoro
Prestazioni assistenziali
L’indennità di paternità negata
al padre avvocato
di Valerio Sangiovanni (*)
La legge riconosce l’indennità di maternità alla libere professioniste donne, non disponendo invece nulla per
i padri. In materia è intervenuta recentemente la Corte costituzionale, asserendo che non vi sono profili di illegittimità costituzionale nell’art. 70 d.lgs. n. 151/2001, in quanto questa disposizione tutela (non solo il bambino ma anche) la madre nella sua funzione biologica. La motivazione del giudice delle leggi può apparire fondata, ma una soluzione del genere relega in secondo piano il ruolo del padre, al quale viene - di fatto - ostacolato l’accudimento del neonato. Inoltre viene impedito alla famiglia di effettuare libere scelte economiche
in piena autonomia. In un’ottica di riforme legislative sarebbe opportuno pensare alla possibilità di prevedere l’indennità di maternità come diritto liberamente usufruibile in alternativa, e a scelta degli interessati, dalla madre oppure dal padre, se non addirittura in forma congiunta.
1. Introduzione
Come è noto, la disciplina della tutela della maternità e della paternità è contenuta nel d.lgs. n.
151/2001, testo legislativo che reca “testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”. Tale testo legislativo cerca di realizzare, seppure con declinazioni diverse, almeno tre forme di eguaglianza: quella
fra genitori biologici e adottivi, quella fra madre e
padre e quella fra lavoratori dipendenti e autonomi.
Come avremo modo di esaminare nel corso di questo articolo, l’eguaglianza raggiunta sotto tali profili
non è assoluta e permangono alcune differenze di
trattamento. Se non giustificate, tale disparità rischiano di essere costituzionalmente illegittime: di
qui i numerosi interventi della Corte costituzionale.
Due mi paiono i punti salienti che dovranno essere
affrontati dal legislatore oppure da nuovi sviluppi
giurisprudenziali: il diritto della famiglia alla propria
auto-determinazione economica, nel senso di poter
scegliere liberamente chi fra madre e padre debba
avvalersi dell’indennità; il diritto(-dovere) del padre di accudire il neonato nei casi in cui madre e padre così desiderino e quando tale scelta sia nell’interesse del bambino (1).
Oltre che il rapporto padre-madre pare squilibrata,
nell’attuale disciplina normativa, anche la relazione
fra lavoratori dipendenti e autonomi. Tale distinzione trova espressione addirittura già nelle definizioni
fornite dalla legge in apertura del testo legislativo.
Fra le definizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. n.
Famiglia e diritto 5/2012
151/2001 si trovano difatti quelle di “lavoratrice” e
“lavoratore”, prevedendosi che - salvo che non sia
altrimenti specificato - con tali espressioni si intendono i dipendenti, compresi quelli con contratto di
apprendistato, di amministrazioni pubbliche, di privati datori di lavoro nonché i soci lavoratori di cooperative. I lavoratori autonomi sono pertanto esclusi, in linea di principio, dalle tutele apprestate dal
d.lgs. n. 151/2001. Esistono peraltro diverse disposizioni che disciplinano la posizione dei liberi professionisti in tale testo legislativo, fornendo loro generalmente una protezione leggermente differenziata
(e inferiore) rispetto a quella di cui godono i dipendenti.
Un’area di speciale interesse, sulla quale vogliamo
soffermarci in questo articolo, è quella concernente
Note:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) In materia di eguaglianza fra coniugi cfr. E. Al Mureden, Crisi
del matrimonio, famiglia destrutturata e perduranti esigenze di
perequazione dei coniugi, in questa Rivista, 2007, 233 ss.; G.
Giacobbe, Eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi e rapporti
familiari, in Riv. dir. civ., 1997, I, 899 ss.; F. Prosperi, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e la trasmissione del cognome
ai figli, in Rass. dir. civ., 1996, 841 ss.; N. Scannicchio, L’affidamento congiunto a quindici anni dalla riforma tra uguaglianza dei
coniugi e interesse del minore, in Familia, 2003, I, 919 ss.; M.
Sesta, Verso nuovi sviluppi del principio di eguaglianza fra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 385 ss.; R. Villani, “Interesse del minore” e “uguaglianza dei coniugi”: la Cassazione
precisa ulteriormente i criteri guida per l’attribuzione del cognome al figlio naturale, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1074 ss.
525
Opinioni
Lavoro
la spettanza del congedo di paternità e della corrispondente indennità ai padri liberi professionisti. Il
problema è forse passato sottotraccia negli ultimi
anni, nonostante la sua rilevanza sociale. Si considerino difatti l’alto numero di soggetti che esercitano libere professioni nonché il fatto che, anche a
causa della crisi economica, una parte di essi - soprattutto nei primi anni di professione - non raggiunge redditi elevati. In caso di filiazione, la madre
e il padre - in assenza di un’adeguata assistenza economica - potrebbero trovarsi in difficoltà finanziarie: ai costi della vita necessari per il mantenimento
di due persone si aggiungono difatti le spese per il
bambino. La possibilità di usufruire di un’indennità
di maternità (e, se del caso, di paternità) anche per
le libere professioniste rappresenta un’importante
tutela per la famiglia, che viene così posta nelle condizioni di accogliere il bambino con la dovuta serenità.
Anche al fine di garantire un’appropriata tutela economica alla madre, il nostro legislatore disciplina la
spettanza alle libere professioniste dell’indennità di
maternità (artt. 70-73 d.lgs. n. 151/2001) (2). Il problema principale deriva dal fatto che la legge si
esprime al femminile (“libere professioniste”), non
occupandosi invece del padre, e l’interprete deve capire se si tratti di una scelta effettuata consapevolmente e a ragione dal legislatore oppure di una svista che necessità di un’interpretazione correttiva,
costituzionalmente orientata. Dopo una prima sentenza del 2005 favorevole al riconoscimento dell’indennità ai padri libero professionisti adottivi, la
Corte costituzionale è infine intervenuta nel 2010
sul punto dando risposta negativa per i padri biologici: l’indennità viene riconosciuta solo alle madri, e
non ai padri, in quanto tutela la maternità come atto biologico ed è finalizzata a consentire alla madre
di riprendersi dalle fatiche della gravidanza e del
parto. Questa interpretazione - però - inevitabilmente attribuisce un valore preminente a determinati beni certamente meritevoli di tutela, ma finisce
con il trascurare altri beni che dovrebbero essere anch’essi oggetto di adeguata tutela. Non è un caso che
la giurisprudenza sul punto non sia univoca e che almeno un giudice di merito (il Tribunale di Firenze)
abbia deciso in senso difforme dalla Corte costituzionale.
In via preliminare si può rilevare come sia certamente apprezzabile il fatto che il legislatore abbia inteso
disciplinare la spettanza dell’indennità di maternità
anche per le libere professioniste. Chi esercita un lavoro libero-professionale, diverso da quello dipendente, non per questo può essere ragionevolmente
526
posto su un piano di disparità con riferimento all’evento maternità, comune a qualsiasi donna indipendentemente dal lavoro che svolge. Come vedremo però in dettaglio nel corso di questo articolo,
l’uguaglianza uomo-donna non può dirsi raggiunta
completamente nell’ambito della libera professione.
2. Alcune osservazioni sugli obiettivi
di tutela del congedo e dell’indennità
di maternità
Al fine di un’appropriata comprensione della materia del congedo di maternità e della corrispondente
indennità nonché del significato dei diversi interventi della giurisprudenza che si sono succeduti su
queste tematiche dobbiamo dapprima soffermarci su
quelli che sono gli obiettivi di tutela perseguiti dalla
disciplina (3).
Va premessa la necessità di tenere distinto il “congedo” di maternità dalla “indennità” di maternità: il
congedo tutela essenzialmente la salute della madre,
impedendo che - continuando il lavoro - venga esposta a situazioni potenzialmente pericolose per l’incolumità sua e del bambino nel periodo delicato poco
prima e poco dopo il parto, mentre l’indennità mira
a garantire sostegno economico alla madre. La differenza di fondo dell’attuale normativa è che per le
madri libere professioniste non si prevede alcun congedo, ma solo un’indennità in caso di maternità. Anzi: alle madri libere professioniste viene espressamente consentito di continuare l’attività lavorativa (così
l’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 151/2001: “indipendentemente dall’effettiva astensione dall’attività”).
Come avremo modo di esaminare in dettaglio, non
Note:
(2) Sulle disposizioni che disciplinano l’indennità di maternità per
le libere professioniste cfr. L. Calafà, Commento agli artt. 70-73
d.lgs. n. 151/2001, in Commentario breve al diritto della famiglia,
a cura di A. Zaccaria, Padova, 2011, 2125 ss.; E. Gragnoli, Commento agli artt. 70-73 d.lgs. n. 151/2001, in Codice ipertestuale
della famiglia, a cura di G. Bonilini-M. Confortini, Torino, 2009,
2987 ss.
(3) In tema di congedo e indennità di maternità cfr., fra gli interventi più recenti, I. Cairo, Padre libero professionista e diritto di
percepire l’indennità di maternità in alternativa alla madre, in
Fam. pers. succ., 2010, 181 ss.; L. Calafà, Nuove flessibilità del
congedo di maternità, in Dir. rel. ind., 2011, 739 ss.; A. Dodaro,
Riconoscimento dell’indennità di maternità anche ai padri, in
Giur. mer., 2009, 495 ss.; M. G. Greco, Congedo di maternità e
parto prematuro: una nuova pronuncia della Consulta, in Fam.
pers. succ., 2011, 736 ss.; P. Perucco, Anche al padre libero professionista spetta l’indennità di maternità, in Riv. crit. dir. lav.,
2008, 1296 s.; V. Scalambrieri, Congedo per maternità e contratto a termine: computo ai fini del calcolo dell’anzianità di servizio,
in Riv. crit. dir. lav., 2010, 134 ss.; Y. Serafini, Parto prematuro
seguito da ricovero del neonato: estensione e differimento del
congedo obbligatorio post partum, in Riv. crit. dir. lav., 2011, 510
ss.; L. Tebano, La Consulta inietta una nuova dose di flessibilità
nel congedo di maternità, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 760 ss.
Famiglia e diritto 5/2012
Opinioni
Lavoro
pare appropriato parlare di singola ratio della normativa in materia di congedo e indennità di maternità
(e paternità), dovendosi invece identificare una
pluralità di obiettivi che le disposizioni intendono
perseguire. A ciò si aggiunga che i soggetti coinvolti
- direttamente o indirettamente - negli istituti del
congedo e della indennità di maternità sono tre: la
madre, il bambino e il padre. Proviamo ad analizzare
separatamente le loro posizioni.
Con riferimento alla madre, l’obiettivo di tutela che
viene perseguito dal congedo di maternità è quello
del mantenimento della sua salute (integrità fisica e
psicologica). La gravidanza e il parto, per quanto
eventi naturali, implicano un certo profilo di rischio
per la madre e determinano comunemente una notevole spossatezza. Negli ultimi decenni le condizioni di lavoro (soprattutto di quello manuale) sono
migliorate in modo significativo: rispetto al passato
vi è dunque una minore esigenza di tutela della salute della madre. Ciò nonostante può risultare difficoltoso per una donna in avanzato stato di gravidanza oppure subito dopo il parto prestare attività lavorativa, anche se solo moderatamente faticosa. Per
questa ragione di tutela della madre (e, durante la
gravidanza, anche del bambino che porta in grembo) la nostra legislazione impone alla madre di assentarsi dal lavoro nel periodo immediatamente precedente e immediatamente successivo alla nascita e
le riconosce un’indennità durante tale assenza.
Al riguardo bisogna sgombrare il campo da un possibile equivoco: la tutela della salute della madre viene realizzata soprattutto con l’obbligo di astensione
dall’attività lavorativa e non tanto con il riconoscimento di una corrispondente indennità: quest’ultima ha invece una funzione economica. L’art. 16
d.lgs. n. 151/2001 disciplina la materia prevedendo
che è vietato adibire al lavoro le donne durante i
due mesi precedenti la data presunta del parto nonché durante i tre mesi dopo il parto. Senza voler entrare nei dettagli tecnici della normativa in materia,
quello che conta ribadire ai nostri fini è che la tutela della salute della madre è assicurata da un istituto
diverso (il congedo di maternità) e non dall’indennità di maternità (questa ha invece una funzione essenzialmente economica).
Per le libere professioniste non vi è - quale condizione per percepire l’indennità di maternità - l’obbligo
di astensione effettiva dal lavoro. Il legislatore pare
dunque contraddirsi (o quantomeno non osservare
stretta coerenza) dal momento che non reputa le
esigenze di tutela della salute della madre così importanti da vietare di prestare l’attività lavorativa,
come invece avviene per le lavoratrici dipendenti.
Famiglia e diritto 5/2012
In parte tale differenza di trattamento può reputarsi
giustificata. Il lavoratore subordinato ha bisogno di
maggior tutela in quanto, nello svolgimento del suo
lavoro, è assoggettato alla direttive del datore di lavoro. Al contrario il libero professionista non è assoggettato alle istruzioni di alcun datore di lavoro e
può organizzare in modo flessibile il proprio lavoro.
La madre libero-professionista potrà pertanto di decidere di lavorare, nel periodo in cui riceve l’indennità di maternità, occasionalmente (magari anche
solo qualche ora alla settimana, quando riesce a ritagliarsi del tempo rispetto alle pressanti esigenze di
cura del bambino). Sotto un secondo profilo si deve
riflettere sul fatto che - in genere - le libere professioni comportano prevalentemente un lavoro intellettuale e non manuale. Ciò però non avviene sempre, dal momento che certi lavori libero-professionali possono implicare uno sforzo fisico (si pensi al
caso degli infermieri). A ciò si aggiunga che esistono
lavoratori dipendenti (la categoria impiegatizia) in
cui lo sforzo fisico è del tutto limitato. Sotto un terzo profilo, bisogna considerare che il lavoratore dipendente, al termine del congedo, ritrova il proprio
posto di lavoro. Al contrario il libero professionista
potrebbe subire dei danni ingenti in caso di congedo
obbligatorio, rischiando di perdere una parte del
proprio avviamento. Sotto un quarto profilo va rilevato che, a voler imporre un obbligo di astensione ai
liberi professionisti, si dovrebbero poi creare dei
meccanismi di controllo dell’effettivo rispetto di tale obbligo: nella prassi può risultare molto difficile
realizzare efficacemente questo risultato. Complessivamente la differenza di trattamento fra lavoratori
subordinati e liberi professionisti (nel senso che i
primi “devono” astenersi dal lavoro, mentre i secondi “possono” astenersi) ha dunque una sua base di
ragionevole giustificazione.
Il secondo (non per ordine di importanza) “obiettivo di tutela” delle disposizioni sul congedo di maternità è il bambino. Al riguardo si possono distinguere
i due profili della protezione del nascituro e del neonato. Per quanto riguarda l’integrità della salute del
nascituro, questa può essere messa a rischio se la madre fosse costretta a lavorare subito prima del parto
(soprattutto nel caso di lavori pesanti o addirittura
usuranti). Anche qui però si può ripetere l’osservazione che si è svolta sopra: la tutela della integrità fisica del nascituro viene garantita dalle disposizioni
sul congedo di maternità (mentre quelle sull’indennità rivestono una funzione economica). Sotto un
altro profilo vi è poi l’esigenza di accudimento del
neonato, che nei primi mesi di vita necessita di costanti cure e, dunque, della presenza fisica di una
527
Opinioni
Lavoro
persona quasi a tempo pieno. In realtà, a ben vedere, anche questo obiettivo di tutela è maggiormente
garantito dall’astensione dal lavoro piuttosto che
dalla previsione di un’indennità di maternità: l’indennità garantisce solo la serenità economica per
dedicarsi al bambino. La funzione di accudimento
può poi, entro certi limiti, essere svolta anche dal
padre: in particolare laddove l’allattamento sia artificiale, madre e padre sono relativamente intercambiabili.
Il terzo soggetto coinvolto nell’evento-nascita del figlio è evidentemente il padre. Costui viene però ampiamente trascurato nel sistema “indennità di maternità” previsto dal d.lgs. n. 151/2001. Per il padre
non rileva la tutela della sua salute, in quanto non
subisce le conseguenze fisiche della gravidanza e del
parto. Sotto un altro profilo, si può peraltro evidenziare che il padre potrebbe avere l’aspirazione di accudire il neonato nei primi mesi della sua vita. Questo possibile desiderio viene frustrato dall’attuale sistema normativo previsto per i liberi professionisti.
In altre parole andrebbe enucleato non solo un dovere, ma anche un diritto, del padre di accudire il
bambino.
Diversamente dal congedo di maternità, l’indennità
di maternità assolve un’importante funzione di tutela economica della madre. Grazie all’indennità, alla
madre viene consentito di affrontare gravidanza e
puerperio in serenità, senza l’assillo di trovarsi in difficoltà economiche. A ben vedere questo aspetto è
in realtà di comune interesse per tutto il nucleo familiare (madre, padre e bambino), dal momento che
le risorse che confluiscono nell’ambito familiare
vengono destinate in primis alla soddisfazione dei bisogni fondamentali del nucleo familiare medesimo.
L’attuale normativa (avallata dall’interpretazione
giurisprudenziale) appare trascurare questo aspetto
economico, con riferimento ai liberi professionisti.
Il d.lgs. n. 70/2001 mostra difatti a questo riguardo
tratti di rigidità, con l’effetto di non tenere in adeguato conto le esigenze di tutela economica della famiglia. Mi riferisco al fatto che, potendo esistere
delle differenze di reddito - talvolta anche considerevoli - fra madre e padre, l’interesse del nucleo familiare potrebbe essere quello che continui l’attività
lavorativa il soggetto che guadagna di più. L’attuale
sistema, che consente solo alla donna libera professionista di usufruire dell’indennità di maternità, trascura di dare rilevanza a questo aspetto. Forse il legislatore teme che le parti, trascurando la cura del
bambino e continuando a lavorare, si facciano pagare l’indennità più elevata fra quelle loro spettanti al
solo fine di massimizzare il beneficio economico.
528
Questo pericolo naturalmente sussiste, ma deve essere affrontato in altro modo. Anzi, a ben vedere il
rischio finanziario per le casse è già tenuto in conto
dalla legge nel passaggio in cui (art. 70, comma 3bis, d.lgs. n. 151/2001) prevede un limite massimo
all’indennità di maternità.
3. L’indennità di maternità per le libere
professioniste (art. 70 d.lgs. n. 151/2001)
Il dato normativo da cui partire è l’art. 70 d.lgs. n.
151/2001 concernente l’indennità di maternità per
le professioniste. Qui si prevede che alle libere professioniste, iscritte a un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella allegata al
testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità
per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre
mesi successivi alla stessa.
La disposizione interessa anzitutto “le libere professioniste”, con espressione letterale al femminile. È
proprio l’uso del femminile a determinare i principali problemi interpretativi: più avanti ci occuperemo
della possibilità di estendere tale indennità al padre,
possibilità negata dalla Corte costituzionale. Dal
momento che la libera professione può essere esercita in forma individuale oppure in forma collettiva,
deve ritenersi che la disposizione che concede l’indennità di maternità trovi applicazione indipendentemente dal fatto che la professione venga esercitata da sola oppure congiuntamente ad altre persone.
L’art. 70 d.lgs. n. 151/2001 fa inoltre riferimento a
professioniste iscritte a un ente che gestisce forme
obbligatorie di previdenza (4). Non è difficile individuare tali enti, in quanto sono elencati in una tabella allegata al testo unico. Vi rientrano in sostanza le diverse professioni intellettuali, quali quella di
notaio, avvocato, farmacista, veterinario e medico
(5). Le altre libere professioniste non sono prive di
Note:
(4) Sugli enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza cfr.
G. Prosperetti, L’autonomia delle casse dei liberi professionisti,
in Lav. prev. oggi, 2010, 935 ss.; S. Ponzo, Gli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie come organismi di diritto pubblico,
in Urb. app., 2007, 1353 ss.
(5) Più precisamente gli enti che gestiscono forme obbligatorie di
previdenza in favore dei liberi professionisti sono i seguenti: Cassa nazionale del notariato, Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense, Ente nazionale di previdenza ed assistenza farmacisti, Ente nazionale di previdenza ed assistenza veterinari,
Ente nazionale di previdenza ed assistenza dei medici, Cassa nazionale di previdenza ed assistenza dei geometri liberi professionisti, Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei
dottori commercialisti, Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri ed architetti liberi professionisti, Cassa
nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i
(segue)
Famiglia e diritto 5/2012
Opinioni
Lavoro
tutela, ma la disciplina è diversa: ai sensi dell’art. 64
d.lgs. n. 151/2001 le lavoratrici sono iscritte alla gestione separata.
Con riferimento al periodo nel quale può essere percepita l’indennità, si tratta di cinque mesi, i due precedenti la data del parto e i tre successivi al parto.
Questo dato testuale è significativo, in quanto collega direttamente la determinazione del periodo d’indennità alla data del parto. I mesi immediatamente
precedenti la nascita tendono a essere quelli maggiormente gravosi per la donna incinta, considerato
il peso del feto. Allo stesso modo i mesi immediatamente successivi al parto costituiscono il periodo
più gravoso per la donna, in quanto si deve riprendere dalle fatiche del travaglio e contemporaneamente deve assistere un neonato. Si cumulano pertanto, almeno nella parte immediatamente successiva al parto, due elementi: la necessità di riprendere
le forze fisiche e la fatica di assistere il neonato.
Per quanto riguarda l’ammontare dell’indennità, la
legge lo stabilisce nella misura dell’80% di cinque
dodicesimi del solo reddito professionale percepito e
denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo dalla libera professionista nel secondo anno
precedente a quello dell’evento (art. 70, comma 2,
d.lgs. n. 151/2001). Non viene pertanto riconosciuto interamente il reddito maturato in precedenza,
ma solo nella misura dell’80%. Bisogna considerare
che l’ammontare dell’indennità di maternità deve
essere sostenibile, dal punto di vista finanziario, per
le casse. Il parametro di riferimento è il reddito della professionista: non avendo però i professionisti un
reddito identico ogni mese, ma un reddito del tutto
variabile in dipendenza di numerose circostanze, si
fa riferimento alla media mensile del reddito annuale percepito.
Il reddito rilevante per il calcolo dell’indennità di
maternità non è tutto il reddito di cui può aver goduto, per diversi titoli, la madre nel periodo di riferimento, ma solo - letteralmente - il reddito “da lavoro autonomo”. Questa limitazione si giustifica
con il fatto che il soggetto che corrisponde l’indennità è l’ente previdenziale di riferimento ed esso può
fare affidamento solo sui contributi versati dagli
iscritti, contributi che sono collegati ai risultati economici dell’attività professionale. I redditi di tipo
diverso, ad esempio quelli percepiti a titolo di diritto di autore oppure per canoni di locazione, non
rientrano nel calcolo. Qualche problema interpretativo si pone quando la professione viene esercitata
in forma d’impresa. Attualmente la legge pare chiara al riguardo consentendo di computare solo il reddito da lavoro autonomo (con esclusione dunque
Famiglia e diritto 5/2012
del reddito da attività d’impresa). Nel regime previgente, tuttavia, il tenore del testo legislativo era diverso. L’art. 1, l. n. 379/1990 faceva difatti riferimento, tout court, al “reddito percepito e denunciato
ai fini fiscali”: non vi era pertanto alcuna limitazione basata sulla provenienza del reddito. In applicazione della vecchia normativa, la Corte di cassazione ha affermato che il criterio di determinazione
dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste è applicabile a prescindere dalla forma di
esplicazione dell’attività professionale e in particolare anche quando tale reddito abbia natura mista,
professionale e di impresa, come si verifica per le farmaciste titolari di farmacia (6).
Va altresì notato che la legge richiede che si tratti di
reddito “denunciato ai fini fiscali”. Nel caso in cui il
reddito non sia stato denunciato, non sarà possibile
ottenere un’indennità maggiore. Si immagini il caso
in cui le autorità fiscali accertino successivamente
che il reddito percepito in un precedente anno sia in
realtà stato maggiore di quello denunciato: tale accertamento posteriore non consente alla madre
(contribuente infedele) di ottenere un’integrazione
dell’indennità. Il principio enunciato dalla disposizione è che il contribuente infedele non può trarre
un vantaggio “lecito” da un comportamento “illecito”, mentre rimangono ovviamente ferme le conseguenze negative derivanti dall’accertamento (obbligo di pagare le tasse non precedentemente corrisposte oltre alle sanzioni previste).
Per comodità di calcolo l’anno di riferimento è quelNote:
(continua nota 5)
consulenti del lavoro, Ente nazionale di previdenza ed assistenza
per gli psicologi, Ente di previdenza dei periti industriali, Ente nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei biologi, Cassa di
previdenza ed assistenza a favore degli infermieri professionali,
assistenti sanitarie e vigilatrici d’infanzia, Ente di previdenza ed
assistenza pluricategoriale, Istituto nazionale di previdenza dei
giornalisti italiani “G. Amendola” limitatamente alla gestione separata per i giornalisti professionisti, Ente nazionale di previdenza per gli addetti e gli impiegati in agricoltura, limitatamente alle
gestioni separate dei periti agrari e degli agrotecnici.
(6) In questo senso Cass., 31 maggio 2010, n. 13275. Vi sono
tuttavia più sentenze su questa materia. Sempre in applicazione
della normativa previgente, ad esempio, Cass., 4 maggio 2010,
n. 10709, ha deciso che la determinazione dell’indennità di maternità spettante alle libere professioniste è basata sul reddito
percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel
secondo anno precedente a quello della domanda a prescindere
dalla forma in cui in concreto sia esercitata l’attività professionale e anche quando il reddito conseguito abbia natura mista, professionale e di impresa. Si trattava del caso di una farmacista
che gestiva insieme al padre una farmacia in regime di impresa
familiare. Per questa ragione i redditi della farmacista non rappresentavano un reddito da lavoro autonomo-professionale, ma
una quota di utili dell’impresa familiare. Cfr. altresì, in termini
analoghi, Cass., 28 maggio 2009, n. 12528.
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Opinioni
Lavoro
lo di due anni precedente l’evento (si supponga che
il parto avvenga nel 2012; il reddito di riferimento è
allora quello del 2010). Tale scelta presenta qualche
svantaggio per la professionista, in quanto generalmente i redditi dei professionisti tendono ad aumentare con il passare degli anni e dunque verosimilmente il reddito dell’anno immediatamente precedente il parto è più elevato rispetto a quello di due
anni prima. Sotto un altro profilo bisogna però anche facilitare i calcoli dell’indennità dovuta e il riferimento al reddito dell’anno immediatamente precedente può non essere disponibile al momento dell’evento rilevante. Si immagini il caso del bambino
nato a gennaio 2012: la dichiarazione dei redditi del
2011 non sarà ancora pronta; è pertanto opportuno
fare riferimento all’anno precedente. A ciò si aggiunga che il reddito della professionista nell’anno
immediatamente precedente il parto potrebbe essere inferiore nella misura in cui ha dovuto ridurre
l’attività lavorativa in previsione dell’imminente
parto: ad esempio nel caso il bambino sia nato nel
gennaio 2012, è improbabile che nei mesi immediatamente precedenti la mamma abbia potuto dedicarsi sempre a tempo pieno all’attività professionale.
L’indennità viene corrisposta per un periodo di cinque mesi, e non per periodi più lunghi, in quanto deve essere garantita la ragionevole sostenibilità finanziaria dell’operazione. È certamente meritevole
di particolare tutela la maternità, ma - ovviamente l’indennità non può assumere caratteri tali da non
poter essere corrisposta senza mettere a repentaglio
la stabilità finanziaria dell’ente di riferimento.
Ragionando in termini di importo massimo (e minimo) dell’indennità meritano di essere menzionate
altre due disposizioni della legge che si occupano
proprio di questi profili. Da un lato la legge prevede
che l’indennità non può essere inferiore a cinque
mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari
all’80% del salario minimo giornaliero stabilito dalla l. n. 537/1981 (art. 70, comma 3, d.lgs. n.
151/2001). Questa disposizione vuole affrontare il
caso della madre il cui reddito sia particolarmente
basso: percependo l’80% del reddito precedente, la
somma potrebbe risultare estremamente bassa e inidonea anche a coprire i bisogni fondamentali della
madre. Si prevede pertanto un’indennità “minima”
che gli enti previdenziali di settore sono obbligati a
corrispondere. In un’ottica esattamente opposta, la
legge si preoccupa anche di garantire che l’indennità di maternità non sia eccessivamente alta. Si prevede difatti che l’indennità non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo derivante dall’applicazione del meccanismo indicato sopra (art.
530
70, comma 3-bis, d.lgs. n. 151/2001). Questa disposizione è importante al fine di garantire gli equilibri
finanziari delle casse.
4. I termini e le modalità della domanda
(art. 71 d.lgs. n. 151/2001)
La legge disciplina anche, con un certo dettaglio, i
termini e le modalità di presentazione della domanda d’indennità di maternità.
Più precisamente si prevede che l’indennità è corrisposta, indipendentemente dall’effettiva astensione
dall’attività, dal competente ente che gestisce forme
obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti, a seguito di apposita domanda presentata
dall’interessata a partire dal compimento del sesto
mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di
180 giorni dal parto (art. 71, comma 1, d.lgs. n.
151/2001). L’osservazione più importante da farsi su
questa disposizione è che, per le libere professioniste, l’astensione effettiva dall’attività non è obbligatoria. La legge recepisce sul punto un intervento
della Corte costituzionale, pronunciato peraltro prima dell’entrata in vigore della legge in esame, in cui
si era affermato che il libero professionista - pur percependo l’indennità - non è obbligato ad astenersi
effettivamente e per tutto il periodo dall’attività lavorativa (7).
L’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 151/2001 crea dunque
una situazione di disparità fra la madre libero professionista e quella che svolge lavoro dipendente: la
prima può continuare a lavorare, mentre la seconda
deve obbligatoriamente astenersi. Tale differenziazione ha una sua ragion d’essere. Si consideri anzitutto che la libera professionista vive grazie al fatturato che realizza con i clienti, ai quali è legata da un
rapporto fiduciario. La professionista sviluppa nel
corso degli anni un avviamento, che - in caso di assenza prolungata dall’attività lavorativa - può andare (almeno in parte) perso. Costringere la libera professionista, soprattutto quando esercita da sola l’attività, a interrompere qualsiasi contatto con i clienti
significa determinare in capo alla medesima un danno che può essere ben maggiore rispetto a quello direttamente conseguente a cinque mesi di assenza dal
lavoro: se alcuni clienti vengono persi, la libera professionista può subire un nocumento destinato a ripercuotersi nei mesi e, addirittura, negli anni successivi. Esprimendo il concetto in altro modo, si può
affermare che la professionista che non lavora danneggia solo sé stessa, non percependo reddito (e riNota:
(7) Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 3.
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Opinioni
Lavoro
schiando di non percepirne nemmeno in futuro),
mentre il lavoratore dipendente che non lavora
danneggia soprattutto il suo datore di lavoro. Per
evitare una possibile perdita di future occasioni di
guadagno, il legislatore consente alla madre libera
professionista di continuare a lavorare, pur percependo l’indennità.
Anche sotto altri profili la ratio della disposizione
che non impone l’astensione dal lavoro della madre
libera professionista è comprensibile. Uno dei vantaggi del lavoro libero-professionale è la flessibilità
con cui può essere svolto il lavoro. Per alcune libere
professioni l’attività viene addirittura svolta parzialmente da casa e non dalla postazione di lavoro collocata in ufficio. A ciò si aggiunga che l’attività lavorativa del libero professionista non può essere ragionevolmente assoggettata a controlli di presenza,
per tacere del fatto che andrebbe stabilito chi debba
effettuare tali controlli. Tale assenza di controlli permane anche durante il periodo in cui viene percepita l’indennità di maternità. Un divieto rigido di effettuare attività libero professionale durante il periodo in cui la madre percepisce l’indennità mal si
concilia con la tendenziale flessibilità del lavoro libero-professionale.
Anche per un ulteriore aspetto la previsione di un
obbligo di astensione in capo alle libere professioniste si caratterizzerebbe per rigidità. Mi riferisco al
fatto che non per tutto il periodo di cinque mesi in
cui è riconosciuta l’indennità vi è la stessa esigenza
fisica di riposo: questa necessità è forte nei periodi
più vicini al parto, mentre scema progressivamente
man mano che ci si allontana da tale data. Pare pertanto ragionevole consentire alla madre di svolgere,
almeno in parte, l’attività di libera professione in tali periodi (8).
L’indennità viene riconosciuta sulla base di una domanda che deve essere presentata dall’interessata:
l’ente previdenziale non necessariamente viene a
conoscenza dell’evento nascita ed è dunque necessario che l’accadimento gli venga comunicato. La domanda deve essere presentata nell’immediatezza dell’evento nascita. Più precisamente sul punto la legge
stabilisce che l’istanza deve essere presentata nel periodo intercorrente fra il compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di
180 giorni dal parto. Decorsi sei mesi di gravidanza,
le probabilità che si giunga alla nascita del bambino
sono elevate. La madre, però, non può attendere più
di sei mesi dal parto per presentare la domanda: così
come per l’esercizio di ogni diritto, esso deve essere
fatto valere con celerità, dovendosi altrimenti concludere nel senso che la madre vi rinuncia.
Famiglia e diritto 5/2012
La legge prevede altresì che la domanda, in carta libera, deve essere corredata da certificato medico
comprovante la data di inizio della gravidanza e
quella presunta del parto, nonché della dichiarazione attestante l’inesistenza del diritto ad altre indennità di maternità (art. 71, comma 2, d.lgs. n.
151/2001) (9).
5. Il caso particolare delle adozioni e degli
affidamenti (art. 72 d.lgs. n. 151/2001)
Per le lavoratrici dipendenti il diritto al congedo di
maternità in caso di adozione o affidamento viene
riconosciuto dall’art. 26 d.lgs. n. 151/2001. L’art. 31
estende tale diritto anche al padre. Nell’ambito del
lavoro dipendente vi è dunque una sostanziale uguaglianza di diritti di madre e padre in caso di adozione e affidamento.
Nel contesto delle libere professioni il principio di
legge è nel senso che l’indennità spetta altresì per
l’ingresso del bambino adottato o affidato, a condizione che non abbia superato i sei anni di età (art.
72, comma 1, d.lgs. n. 151/2001). Sussiste dunque
un limite di tempo: il superamento dei sei anni del
bambino. Nell’ottica del legislatore pare pertanto
avere rilievo l’elemento della maggiore o minore autosufficienza del bambino: nel caso di bambino in
età scolare, l’indennità non viene riconosciuta.
Quando il bambino ha almeno sei anni, ha meno bisogno della mamma per il soddisfacimento dei suoi
bisogni fisiologici e psicologici. Bisogna peraltro dire che questa limitazione temporale è stata criticata
Note:
(8) Ad avviso tuttavia di chi scrive, il fatto che l’astensione dal lavoro non debba essere effettiva per le libere professioniste pone qualche dubbio sul rigore della motivazione addotta dalla Corte costituzionale, nella sentenza del 2010 (che analizzeremo in
dettaglio successivamente), per negare al padre l’indennità. In
altre parole il legislatore pare contraddirsi, in quanto nega che lo
stato di spossatezza della madre sia tale da impedirle di lavorare.
Se è vero che l’adeguato accudimento del figlio nei primi mesi di
vita costituisce un’altra ragione di tutela della legislazione, si deve peraltro rilevare che tale ruolo può essere svolto anche dal padre in sostituzione della madre.
(9) La domanda può essere presentata in carta libera: sotto questo profilo il legislatore tiene conto del fatto che la madre, nel periodo che precede e segue il parto, ha una minore disponibilità
economica (sta proprio chiedendo un aiuto economico consistente nell’indennità) e appare sensato non onerarla di costi aggiuntivi. La domanda va inoltre corredata di certificato medico:
questa documentazione è necessaria in quanto altrimenti gli enti previdenziali avrebbero difficoltà a verificare il presupposto per
la concessione dell’indennità (nel caso in cui la domanda venga
presentata dopo la nascita, appare maggiormente corretta la
presentazione del certificato di nascita). Occorre infine che la
madre dichiari di non percepire indennità di maternità di tipo diverso, per evitare un effetto-cumulo che si porrebbe in contraddizione con la funzione di assistenza economica (e non di arricchimento) dell’indennità di maternità.
531
Opinioni
Lavoro
dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 d.lgs. n.
151/2001 nella parte in cui non prevede che, nel caso di adozione internazionale, l’indennità di maternità spetti nei tre mesi successivi all’ingresso del minore adottato o affidato anche se abbia superato i sei
anni di età (10). In altre parole la ratio della limitazione ai primi sei anni di età non è stata reputata sufficiente dal giudice delle leggi per giustificare una
disparità di trattamento rispetto ai bambini più
grandi.
Ai fini del nostro ragionamento, peraltro, ciò che
conta rilevare è che l’art. 72, comma 1, d.lgs. n.
151/2001 afferma che l’indennità compete anche al
di fuori dell’evento parto biologico del bambino. Se
però così è, si può mettere in dubbio che la ratio di
tutela del complesso delle disposizioni che stiamo
esaminando sia solo la protezione della madre nella
sua funzione biologica: nel caso di adozione e affidamento, la madre non mette al mondo il bambino.
Qual è allora la ratio di una disposizione come quella che attribuisce l’indennità di maternità in caso di
adozione o affidamento? Direi che si tratta di assicurare alla madre sostegno economico, per il periodo a
ridosso dell’adozione, affinché possa adempiere al
suo ruolo nel migliore dei modi.
Dal punto di vista procedurale, la legge prevede che
la domanda, in carta libera, deve essere presentata
dalla madre al competente ente che gestisce forme
obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti entro il termine perentorio di 180 giorni dall’ingresso del bambino e deve essere corredata da
idonee dichiarazioni attestanti l’inesistenza del diritto a indennità di maternità per qualsiasi altro titolo e la data di effettivo ingresso del bambino nella
famiglia (art. 72, comma 2, d.lgs. n. 151/2001).
6. La sentenza della Corte costituzionale
del 2005 sulla filiazione adottiva
Abbiamo visto come l’art. 72 d.lgs. n. 151/2001 disciplini, per il caso di adozione o affidamento, l’indennità di maternità di cui all’art. 70 (e cioè l’indennità prevista per le libere professioniste). Dal
punto di vista testuale, il richiamo è alle sole donne,
con conseguente esclusione degli uomini. Si è dunque posto il problema se tale indennità potesse essere riconosciuta - in alternativa alla madre - al padre
che riceve un bambino in adozione o affidamento.
Nel 2005 la Corte costituzionale ha riconosciuto al
padre libero professionista che adotta il diritto a
fruire dell’indennità, in alternativa alla madre, rimettendo al legislatore l’individuazione del meccanismo attuativo destinato a consentire anche al pa-
532
dre un’adeguata tutela (11). Non essendoci nell’affidamento preadottivo parto naturale da parte della
madre che prende il bambino in affidamento, non vi
è esigenza di tutela della sua integrità biologica e fisica. In questo contesto il “bene” da tutelarsi è prioritariamente lo sviluppo armonico del bambino, sia
dal punto di vista materiale sia da quello affettivo,
ma - in linea di principio - tale obiettivo può essere
realizzato anche dal padre.
La sentenza della Corte costituzionale del 2005 ha
evidenziato l’esistenza di una lacuna normativa: essa
afferma da un lato l’incostituzionalità dell’art. 72
d.lgs. n. 151/2001, ma contemporaneamente chiede
un intervento del legislatore per dettare disposizioni
che disciplinino l’assegnazione di un’indennità di
paternità al padre libero professionista. Tecnicamente si tratta di una sentenza “additiva di principio”, da tenersi distinta rispetto alla sentenza “additiva in senso proprio”: secondo la Corte di cassazione a differenza che nelle additive di principio, che
sono prive di efficacia auto-applicativa, nelle sentenze costituzionali additive in senso proprio la pars
constuens della decisione non ha valenza meramente
persuasiva, bensì (al pari della parte demolitoria) efficacia immediatamente precettiva, senza necessità
di una interpositio legislatoris, risolvendosi automaticamente la dichiarazione d’illegittimità dell’omissione in quella - speculare - di necessità costituzionale dell’inclusione del quid omissum nel testo normativo così emendato (12).
Dal punto di vista sostanziale, tuttavia, affermare
che una disposizione è incostituzionale in quanto
non parifica il padre alla madre si avvicina molto a
dire che anche il padre ha diritto all’indennità. Si
potrebbe dunque argomentare anche nel senso che i
giudici, ancor prima di un intervento legislativo di
riforma, sono legittimati a riconoscere l’indennità ai
padri. Per questa ragione nel periodo fra il 2005 e il
2010 vi sono state sentenze che si sono occupate
della spettanza dell’indennità al padre libero professionista. Alcuni liberi professionisti, vista la pronuncia della Corte costituzionale, hanno chiesto alle rispettive casse che fosse assegnata loro l’indennità di paternità in sostituzione di quella che sarebbe
spettata alla madre. Le casse hanno assunto una posizione di rifiuto, richiamandosi talvolta esclusivaNote:
(10) Corte cost., 23 dicembre 2003, n. 371.
(11) Corte cost., 14 ottobre 2005, n. 385, in Giust. civ., 2005, I,
2912 ss., con nota redazionale, in Lav. giur., 2006, 870 ss., con
nota di A. Lacarbonara.
(12) Cass., 15 giugno 1994, n. 5814.
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mente al principio che la declaratoria d’incostituzionalità non significa immediata estensibilità dell’indennità ai padri, ma solo che il legislatore deve intervenire in materia dettando una normativa che
vada a coprire la lacuna. È difficile tuttavia negare
come dietro questo atteggiamento delle casse si celi
in realtà anche il tentativo di evitare di dover erogare prestazioni assistenziali ulteriori. L’approccio
può reputarsi condivisibile dal punto di vista della
sostenibilità finanziaria dei conti delle casse. Rimangono però perplessità alla luce degli interessi dei
padri che, in definitiva, risultano trascurati rispetto
alle madri.
7. La giurisprudenza di merito
nel periodo 2005-2010
A fronte dell’atteggiamento di rifiuto delle casse di
riconoscere l’indennità di paternità ai liberi professionisti iscritti alle medesime, alcuni liberi professionisti hanno avviato azioni in giudizio. Le azioni
hanno interessato prevalentemente il caso, più frequente nella prassi, di filiazione biologica. In altre
fattispecie l’azione in giudizio concerneva il riconoscimento dell’indennità di paternità al padre adottivo: in questo caso le azioni sono state accolte alla luce dei principi enunciati dalla Corte costituzionale
nella sentenza del 2005 (13).
Ai nostri fini è particolarmente interessante rilevare
che, in un caso deciso dal Tribunale di Firenze, la
domanda presentata dal padre avvocato di ottenere
l’indennità di paternità è stata accolta, nonostante
si trattasse di filiazione biologica (e non adottiva)
(14). Nella fattispecie un padre avvocato aveva
chiesto di godere dell’indennità di maternità in sostituzione della madre e si era rivolto alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Tale cassa
rigettava però la domanda ritenendo che la sentenza del 2005 non potesse trovare applicazione in
quanto “additiva di principio” e dunque senza
un’immediata efficacia precettiva: sarebbe stato necessario uno specifico intervento del legislatore a disciplinare la materia. Il Tribunale di Firenze accoglie
invece la domanda, ricostruendo le molteplici ratio
di tutela della disposizione. La sentenza del Tribunale di Firenze è bene argomentata: essa pone l’accento in particolare sul fatto che l’art. 71, comma 1,
d.lgs. n. 151/2001 non impone l’astensione effettiva
dal lavoro. Ciò dimostra che, nell’ottica del legislatore, la tutela della salute fisica e psichica della madre nel periodo immediatamente precedente e successivo al parto non è lo scopo (o almeno l’unico
scopo) di tutela perseguito. Ulteriore (e principale)
obiettivo è quello di garantire la migliore cura possi-
Famiglia e diritto 5/2012
bile del nascituro prima e del neonato poi e questa
finalità può, in sostanza, essere realizzata anche dal
padre in alternativa alla madre.
Bisogna però dire che la giurisprudenza prevalente
fra il 2005 e il 2010 ha negato il diritto del padre libero professionista di ottenere l’indennità in alternativa alla madre in caso di filiazione biologica. In
questa direzione meritano di essere menzionate un
paio di sentenze di merito.
Secondo il Tribunale di Rovigo spetta al legislatore
prevedere e regolamentare i casi e le modalità di godimento dell’indennità di paternità per i professionisti padri a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sentenza del 2005 (15). Nel caso
di specie l’azione in giudizio venne proposta da un
avvocato nei confronti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense (anche la madre del
bambino era un avvocato, iscritta alla medesima
cassa). Il ricorso viene tuttavia rigettato dall’autorità giudiziaria, la quale si rifiuta anche di sollevare
questione di legittimità costituzionale. Il Tribunale
di Rovigo afferma che la sentenza della Corte costituzionale è una sentenza additiva di principio, in cui
il giudice delle leggi statuisce in ordine all’illegittimità costituzionale di una norma senza tuttavia
spingersi a riempire esso stesso il vuoto legislativo
individuato, ritenendo tale attività di esclusiva
competenza del legislatore.
Anche il Tribunale di Milano ha affermato che l’indennità di maternità prevista per le libere professioniste dall’art. 70 d.lgs. n. 151/2001 può essere sì riconosciuta alle lavoratrici madri, come prevede
espressamente la legge, ma non anche ai padri liberi
professionisti (16). Nel caso di specie il padre svolgeva la professione di avvocato e, alla nascita del figlio (filiazione biologica), si era rivolto alla Cassa
nazionale di previdenza e assistenza forense ottenenNote:
(13) Ad esempio Trib. Savona, 23 febbraio 2009, in Fam. pers.
succ., 2010, 181 ss., con nota di I. Cairo, ha affermato che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 2005, il padre
libero professionista (nel caso di specie si trattava di un medico)
che abbia adottato un minore ha diritto a godere dell’indennità di
maternità per i tre mesi successivi al parto in alternativa alla madre, nella parte in cui detto beneficio non sia stato oggetto di
fruizione da parte dell’altro genitore.
(14) Trib. Firenze, 29 maggio 2008, in Giur. mer., 2009, 491 ss.,
con nota di A. Dodaro, in Riv. crit. dir. lav., 2008, 1291 ss., con
nota di P. Perucco, in Riv. giur. lav., 2009, II, 140 ss., con nota redazionale, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 363 ss., con nota di F. Savino.
(15) Trib. Rovigo, 20 febbraio 2008, in Prev. for., 2008, 280 ss.,
con nota di M. Bella.
(16) Trib. Milano, 16 gennaio 2009, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 930
ss., con nota di F. Savino.
533
Opinioni
Lavoro
do però un rifiuto alla richiesta di riconoscimento
dell’indennità di paternità. Il legale ha allora tentato la via giudiziaria, al fine di estendere il principio
affermato dalla Corte costituzionale nel 2005 per la
filiazione adottiva all’ipotesi della filiazione biologica. Il Tribunale di Milano rifiuta però questo approccio, non ritenendo perfettamente equivalenti le
posizioni di madre e padre: in particolare il padre
non partorisce fisicamente il figlio e, sotto questo
profilo, pare iniquo concedergli un beneficio destinato invece a ristorare la madre dalle fatiche della
gravidanza e del puerperio.
8. La sentenza della Corte costituzionale
del 2010 sulla filiazione biologica
Gli interventi della giurisprudenza che abbiamo appena illustrato si sono concentrati sulla questione se
il diritto all’indennità di “maternità” possa diventare diritto all’indennità di “paternità”, nel senso che
il padre libero-professionista possa - in alternativa
alla madre - usufruire di un periodo di cinque mesi
parzialmente retribuito immediatamente prima e
dopo il parto. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti il diritto al congedo di paternità è riconosciuto espressamente dall’art. 28 d.lgs. n. 151/2001,
secondo cui il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità
della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di
affidamento esclusivo al padre (17). L’art. 29 gli riconosce il trattamento economico. Come si può notare, il diritto del padre al congedo di paternità viene però riconosciuto solo in casi eccezionali, ed essenzialmente quando la madre non può o non vuole
occuparsi dal bambino. Nel contesto dei lavoratori
che svolgono una libera professione la legge invece
tace: non esistono disposizioni simili agli artt. 28 e
29 d.lgs. n. 151/2001. È stata pertanto sollevata questione di legittimità costituzionale.
Bisogna subito segnalare che, di recente, la Corte
costituzionale ha negato il diritto all’indennità di
paternità ai padri libero-professionisti (18). In una
sentenza del 2010 il giudice delle leggi ha affermato
che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 d.lgs. n. 151/2001, nella parte
in cui, nel fare esclusivo riferimento alle “libere professioniste”, non prevede il diritto del padre libero
professionista di percepire, in alternativa alla madre
biologica, l’indennità di maternità. Secondo la Corte costituzionale l’uguaglianza fra i genitori è riferita
a istituti in cui l’interesse del minore riveste carattere assoluto o, comunque, preminente, e, quindi, ri-
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spetto al quale le posizioni del padre e della madre
risultano del tutto fungibili tanto da giustificare
identiche discipline; diversamente, le norme direttamente a protezione della filiazione biologica, oltre
a essere finalizzate alla protezione del nascituro,
hanno come scopo la tutela della salute della madre
nel periodo anteriore e successivo al parto, risultando, quindi, di tutta evidenza che, in tali casi, la posizione di quest’ultima non è assimilabile a quella del
padre.
La posizione della Corte costituzione è, per certi
aspetti, condivisibile. Il congedo di maternità svolge
diverse funzioni e una di esse consiste certamente
nella possibilità per la madre biologica di riposarsi
prima e dopo il parto; grazie poi all’indennità di maternità, la madre conserva una sufficiente indipendenza economica (che trova riscontro nel riconoscimento dell’80% del reddito). L’obiettivo di tutela
della salute non può in linea di principio valere per il
padre, il quale - non dando alla luce di persona il figlio - non subisce gli effetti fisico-biologici del parto.
Sotto altri aspetti peraltro la posizione assunta dalla
Corte costituzionale può essere criticata. Per capire i
limiti della pronuncia della Corte bisogna passare in
rassegna i beni che vengono tutelati dal congedo e
dall’indennità di maternità. Si è visto sopra che esistono altri interessi che gli istituti del congedo e dell’indennità dovrebbero proteggere e che, nell’attuale regime, non vengono invece tutelati in modo paritario.
Si può anzitutto porre l’accento sul principio della
libertà di scelta delle persone, riconoscendo ai genitori la possibilità di scegliere la via che preferiscono,
senza interferenze obbligatorie da parte dell’ordinamento. In un sistema liberale si tratta della scelta
migliore, in quanto maggiormente rispettosa dalla
volontà delle parti. L’unico vero limite è quello dell’interesse del neonato a non essere trascurato. Un
Note:
(17) In materia di congedo e indennità di paternità cfr. M. Bracaloni, Il congedo di paternità, in Lav. prev. oggi, 2010, 1249 ss.; L.
Calafà, Sull’autonomia del congedo di paternità del lavoratore
subordinato, in Riv. giur. lav., 2010, II, 323 ss.; E. Gragnoli, Principio di uguaglianza, libere professioni e tutela della posizione
del padre, in Fam. pers. succ., 2008, 978 ss.; R. Nunin, Congedo
di paternità e diritti del padre adottivo coniugato con una lavoratrice autonoma, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 862 ss.; M. Pulice,
Chiarimenti sul congedo di paternità, in Lav. giur., 2010, 488 ss.;
F. Savino, Congedo di paternità e tutela dei diritti dei padri liberi
professionisti, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 363 ss.; F. Savino, Ancora su congedo di paternità e tutela dei diritti dei padri liberi professionisti, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, 930 ss.
(18) Corte cost., 28 luglio 2010, n. 285, in Foro it., 2010, I, 2581
ss., con nota redazionale, in Giur. cost., 2010, 3582 ss., con nota redazionale, in Giust. civ., 2011, I, 573 ss., con nota redazionale.
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Opinioni
Lavoro
altro problema potrebbe sorgere nel caso in cui i genitori non riescano ad accordarsi: nel senso che ambedue vogliono l’indennità oppure nel senso che
nessuno di essi la vuole (per continuare a lavorare).
Questa ultima possibilità non può realisticamente
trovare tutela nell’ordinamento, in quanto priverebbe totalmente di tutela il nascituro e il neonato: come accudirlo se nessuno si assenta, almeno per un
breve periodo di tempo dopo la nascita, dal lavoro?
Anche la prima possibilità cui si accennava (ambedue i genitori vogliono l’indennità) non è ragionevolmente sostenibile, nella misura in cui i costi per
le casse diventano troppo elevati. Astrattamente, in
un modello che punta alla perfezione, si potrebbe
pensare di riconoscere ad ambedue i genitori un periodo di congedo “congiunto” in cui si possono dedicare insieme alla cura del nascituro e soprattutto del
neonato.
Ho voluto accennare al principio della libertà di
scelta perché, a ben vedere, sono i genitori medesimi i soggetti posti nella condizione migliore per valutare chi fra essi sia più adatto ad accudire il bambino nei primi mesi di vita. I genitori potrebbero, per
ragioni diverse di volta in volta, ritenere opportuno
che sia il padre ad accudire il neonato nei primi mesi. Non mi riferisco al caso (verosimilmente e auspicabilmente residuale) in cui vi è una divergenza di
visioni fra madre e padre, ma all’ipotesi - lineare - in
cui ambedue i genitori desiderano che sia il padre a
curarsi del neonato. Un esempio (per quanto estremo) può forse rendere evidente quanto cerco di
esprimere: si immagini il caso del padre che lavora
come medico in un reparto neonatale e che dunque,
per ragioni di esperienza professionale, è in condizioni ottimali per assistere il neonato nei primissimi
mesi di vita, mentre la madre svolge una professione
che non ha alcuna relazione con il mondo dei bambini, è ben retribuita (godendo di redditi maggiori di
quelli del padre) e - mantenendo per intero il proprio reddito - garantisce alla famiglia un maggiore
aiuto economico.
Sotto un ulteriore profilo la sentenza della Corte costituzionale è criticabile in quanto trascura gli interessi economici della famiglia. Si pensi al caso della
madre che dispone di un reddito molto più elevato
del padre: non si vede per quale ragione madre e padre non possano decidere che debba essere il padre
ad assentarsi dal lavoro, al fine di mantenere un reddito familiare più elevato.
La legge infine trascura il diritto del padre a svolgere la funzione fisica e psicologica di accudimento del
neonato. Il testo legislativo (con l’intervento di
avallo della Corte costituzionale) si espone a critica
Famiglia e diritto 5/2012
in quanto rende difficile al padre che lo desideri, a
maggior ragione se in perfetto accordo con la madre,
svolgere egli medesimo la funzione di accudimento
del figlio neonato. In altre parole non si vede per
quale ragione si debba di fatto impedire al padre che
lo desidera di svolgere una funzione così importante
e unica nel corso della vita di un essere umano. Qui
è al centro dell’attenzione l’interesse del padre al
raggiungimento della sua realizzazione e soddisfazione personale.
Chi scrive è consapevole che questa prospettiva interpretativa costituzionalmente orientata deve fare i
conti con la sua sostenibilità finanziaria (e con il rischio di abusi, nel senso che si possano far prevalere
gli interessi economici della famiglia rispetto a quelli di tutela del neonato). Verosimilmente, nel caso
di genitori ambedue liberi professionisti, la tendenza
sarebbe in diversi casi quella di scegliere il congedo
e l’indennità in capo a quello fra essi con i redditi
maggiori. Dal momento che non vi è obbligo di
astensione effettiva dal lavoro, teoricamente tutti e
due potrebbero continuare a lavorare, percependo
dalla cassa di uno di essi l’indennità. Non è casuale
che la sentenza della Corte costituzionale del 2005
sulla filiazione adottiva non sia stata bene accolta
dalle casse, che si sono rifiutate di estendere il principio al caso - più diffuso - di filiazione biologica.
In conclusione si può affermare che la sentenza del
Tribunale di Firenze costituisce un caso sostanzialmente isolato e deve ormai reputarsi superata, in
quanto la Corte costituzionale - nella sentenza del
2010 - ha negato l’illegittimità costituzionale dell’art. 70 d.lgs. n. 151/2001. Rimangono tuttavia fermi alcuni dubbi, essenzialmente riconducibili a delle esigenze che l’attuale sistema normativo frustra: il
diritto della famiglia di scegliere chi fra madre e padre debba accudire il neonato, il diritto anche del
padre di accudire il neonato, il diritto della famiglia
di fare una scelta che sia vantaggiosa economicamente.
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