Mercoledì 27 di novembre 2013
Milano – Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa
Catechesi adulti / 4
DEI VERBUM
0. Preghiera iniziale
Signore Gesù,
tu hai proclamato il vangelo, la buona notizia
e così ci hai rivelato il mistero di Dio.
Donaci lo stupore assorto della sorpresa
di fronte alla bellezza e alla novità della tua Parola;
apri il nostro cuore alla conversione
perché possiamo adeguare i nostri pensieri ai tuoi;
guida i nostri passi dietro ai tuoi
perché affidando l’intera nostra esistenza alla tua
camminiamo seguendo le tue orme,
Signore crocifisso e risorto
che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.
1. La storia del documento
Il cammino di preparazione per giungere alla Dei Verbum è stato un cammino
lungo, articolato e in certo senso anche accidentato. Basti pensare che la Dei
Verbum è stata presentata nel 1962 ma fu promulgata solo il 18 novembre 1965.
E tuttavia il travaglio della sua gestazione ha dato un frutto notevole, forse il
frutto migliore del Concilio Vaticano II.
Il tema della Dei Verbum è la rivelazione. Ora questo tema così
importante si lega inscindibilmente a un libro, la Bibbia. Ma intorno alla Bibbia,
alla Scriptura, si è consumato uno dei più drammatici episodi della storia della
Chiesa, ovverosia la riforma protestante e la successiva controriforma cattolica
voluta dal Concilio di Trento.
Non è questo né il luogo né il momento per analizzare un problema così
complesso. Semplificando molto diciamo solo che dopo Trento nella Chiesa
cattolica iniziò un lungo “digiuno biblico”. Il contatto diretto con la Sacra
Scrittura era sempre più difficile, se non addirittura impossibile. Gli stessi
sacerdoti spesso non possedevano la Bibbia e ne leggevano solo alcune piccole
(quasi minuscole) parti nel Breviario e nel Messale.
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Le cose iniziarono a cambiare alla fine dell’800. Segnalo qui solo alcuni
eventi importanti.
Il primo: nel novembre 1890 un domenicano francese, Marie-Joseph
Lagrange, a Gerusalemme, in un’auletta con quattro alunni, fondava quella che
sarebbe poi diventata la École Biblique et Archéologique Française, la quale ha dato
alla luce la famosa e diffusa Bibbia di Gerusalemme. Il domenicano si era reso
conto che mentre i protestanti avevano sviluppato una serie di metodi di ricerca
sul testo biblico, i cattolici erano fermi alla pietà. Da qui l’intuizione: studiare la
Bibbia nel luogo dove la Bibbia è stata scritta. Pochi anni dopo, nel 1909, a Roma
veniva fondato il Pontificio Istituto Biblico: i gesuiti, all’inizio un po’ invidiosi
dei domenicani, si misero anche loro sul terreno biblico; questa concorrenza
fece solo del bene perché si studiava lo stesso testo con due metodi differenti e
si serviva la Chiesa partendo da presupposti diversi ma poi di fatto
convergenti.
Seconda serie di fatti importanti: nel 1893 Leone XIII pubblicava
l’enciclica Providentissimus Deus, nella quale intendeva proteggere
l’interpretazione cattolica dagli attacchi della scienza razionalista. Per questo
esortava gli esegeti cattolici a impadronirsi di quegli stessi metodi scientifici per
sconfiggere gli avversari sul loro stesso campo. In fondo era lo stesso progetto
di padre Lagrange. Cinquant’anni dopo Pio XII (nel 1943), nella Divino afflante
Spiritu si preoccupava invece di salvaguardare lo studio della Scrittura da
un’interpretazione non scientifica. In questo modo dava ai metodi scientifici
allora in voga il diritto di cittadinanza nella Chiesa cattolica.
Con queste e altre premesse si giunse alla preparazione al Concilio. I
primi passi furono rappresentati dalla raccolta dei c.d. vota. Vescovi, teologi,
professori nelle facoltà teologiche, etc. inviavano a Roma una serie di
documenti che riguardavano la questione della rivelazione. In questi documenti
c’era davvero di tutto: alcuni, preoccupati per gli errori di alcuni esegeti o per
l’insegnamento impartito da alcuni professori, chiedevano la condanna di
alcune dottrine giudicate pericolose, addirittura eretiche, in ogni caso non
cattoliche; altri proponevano una più ampia riflessione sulla rivelazione, sulla
storicità dei vangeli, sulla relazione fra magistero e Parola di Dio; altri ancora
chiedevano un’esposizione organica sulla dottrina dell’ispirazione della Bibbia
e sull’interpretazione della Scrittura stessa. Queste proposte erano importanti,
alcune fondamentali, ma ancora molto eterogenee e in fondo abbastanza
frammentarie. Bisognava dare loro una certa unità perché il Concilio potesse
partorire qualcosa di significativo.
Il passo lo compì Giovanni XXIII che il 5 giugno 1960 istituì una
Commissione teologica preparatoria presieduta dal prefetto del Sant’Uffizio, il
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cardinale Ottaviani. Le commissioni preparatorie erano dieci, cui si
affiancavano tre segretariati, fra i quali spiccava il Segretariato per l’unità dei
cristiani, presieduto dal cardinale tedesco Agostino Bea, gesuita e già rettore del
Pontificio Istituto Biblico. La commissione dottrinale di Ottaviani, analizzati i
vota preparò uno schema, chiamato De fontibus revelationis, inviato il 13 luglio
1961 a tutti i padri conciliari. Questo documento in fondo era una sintesi delle
posizioni tradizionali, ben ordinate e raccolte. Parallelamente il cardinale Bea
preparò un documento nel quale metteva al centro della riflessione la Parola di
Dio come punto di partenza per un rinnovamento della Chiesa e insieme come
terreno di incontro ecumenico con le altre confessioni cristiane. Questo
documento, intitolato De verbo Dei, giocò un ruolo di primo piano perché fu
evocato nel dibattito in aula (cioè nella grande basilica vaticana) come esempio
da seguire per la riflessione sulla Scrittura nella vita della Chiesa.
Nella discussione in aula, cioè, i vescovi percepivano che il documento
preparato da Ottaviani sapeva di vecchio e soprattutto non era più adatto a
comprendere i problemi della Chiesa e le domande delle comunità cristiane.
Papa Giovanni capì il valore della posta in gioco e pensò di istituire una
commissione mista i cui presidenti erano, alla pari, i cardinali Ottaviani e Bea.
Le due anime dovevano assolutamente venire a una soluzione che non
troncasse con la tradizione ma insieme che tenesse conto delle nuove istanze.
Con l’elezione di Paolo VI la commissione continuò il suo lavoro, sino alla
stesura del testo definitivo attuale, promulgato dallo stesso papa il 18 novembre
1965.
2. Il documento
Qual è la struttura della Dei Verbum? Essa consta di un proemio (che poi
leggeremo) di straordinaria densità, cui seguono sei capitoli. Il primo riguarda
la rivelazione, cioè il fatto che Dio ha parlato, si è fatto conoscere, si è rivelato
all’umanità. Prima di entrare nei contenuti, il Concilio ha riflettuto sul fatto
stesso della rivelazione: Dio ha parlato. Il secondo capitolo prende in esame la
trasmissione della divina rivelazione, cioè il modo in cui quel dono di Dio fatto
all’umanità è stato tramandato giungendo sino a noi. Il terzo capitolo si
concentra invece sul contenuto della rivelazione e affronta l’ispirazione della
Sacra Scrittura. Concretamente c’è un libro, la Bibbia, che non è la rivelazione
(nessuno di noi adora il libro della Bibbia) ma contiene la Parola di Dio e per
questo chiede di essere interpretata. Quali sono dunque le regole auree per
interpretare la Scrittura? Il quarto capitolo tratta dell’Antico Testamento: la
religione cristiana è l’unica (a mia conoscenza) che assume integralmente il libro
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di un’altra tradizione religiosa (l’ebraismo) e la fa sua integralmente. Perché la
Chiesa legge l’Antico Testamento e lo ritiene Parola ispirata di Dio? Questo
chiede, ha sempre richiesto una riflessione. Il capitolo quinto tratta del Nuovo
Testamento, in particolare dei Vangeli, i testi che sono più in onore anche nella
proclamazione liturgica della Chiesa. Infine il sesto e ultimo capitolo tratta del
posto della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.
Prima di rileggere insieme alcuni passi del documento (che avete fra
mano) vorrei fare alcune osservazioni di carattere generale. La prima è ancora
sulla sua composizione: il travaglio del lungo lavoro di preparazione del
documento ha dato un frutto davvero maturo e squisito. Forse proprio la
presenza di anime così diverse nella Chiesa ha permesso di avere un
documento breve, intenso, forte e per nulla scontato. Inoltre, cosa rara nei
documenti ecclesiastici, il linguaggio della Dei Verbum è biblico e patristico ed è
quasi assente il linguaggio tecnico e teologico. Questa scelta fu fatta per evitare i
linguaggi delle differenti scuole: si preferì adottare un modo di parlare che
precedesse le varie sintesi dottrinali posteriori. Il risultato è un documento
chiaro, evocativo, ottima piattaforma ecumenica e missionaria. Infine lo stile
della Dei Verbum è espositivo e sereno: non s’intende condannare o scomunicare
nessuno. Quando si condanna qualcuno il rischio è sempre un forte riferimento
a dottrine, a circostanze, a momenti storici molto determinati: queste svolte
storiche al momento sembrano epocali, poi però cambiano colore con il passare
degli anni. La Dei Verbum, non avendo di mira nessun errore, procede
serenamente e insieme fa un discorso più ampio.
3. Alcuni passi
Nell’impossibilità di prendere in considerazione tutto il documento ci limitiamo
ad alcuni passi che cerchiamo di leggere insieme e di commentare brevemente.
Il primo fondamentale passo è il c.d. proemio, un testo di rara bellezza e
di notevolissima intensità. Afferma:
In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il
santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita
eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che
abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la
nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3). Perciò
seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la
genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per
l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri,
sperando ami (n° 1).
Cerchiamo di capire il proemio, facendo qualche passetto indietro. Fino al
Concilio di Trento era comune pensare che la convinzione interiore mediante la
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quale i credenti aderiscono al messaggio di Cristo era da qualificare come
illuminazione, o rivelazione. La fede infatti è dono dello Spirito santo e proprio
grazie a tale dono noi accogliamo in noi il messaggio evangelico. Con il
Tridentino questo modo di pensare divenne pericoloso in quanto sembrava
avallare il modo di pensare dei protestanti che ritenevano essere loro diritto
interpretare privatamente la Scrittura. A partire dunque da quel momento si
iniziò a chiamare “rivelazione” l’insieme delle “proposizioni” presenti nella
Scrittura e nell’insegnamento della Chiesa che rappresentavano la verità che
l’uomo deve conoscere per raggiungere la salvezza promessa da Dio attraverso
i profeti e Gesù. Col passare del tempo questa definizione si fece sempre più
rigida e, a fronte dei vari dibattiti teologici nel ‘700 e nell’800, il Vaticano I
formulò una sintesi molto lucida. Per conoscere Dio, diceva il Vaticano I (nella
costituzione Dei Filius), ci sono due strade: una che parte dal mondo creato e
con l’impiego della sola ragione perviene alla conoscenza di Dio, l’altra invece
soprannaturale che parte da Dio il quale ha deciso di rivelare all’uomo le verità
circa se stesso e la salvezza promessa.
La prospettiva della Dei Verbum è molto differente, pur non negando
l’insegnamento precedente. Essa abbandona l’idea che la rivelazione si riduca
ad una serie di proposizioni e parla di essa attraverso il linguaggio dell’amore,
cioè il linguaggio della comunicazione fra esseri umani che si vogliono bene.
Quali sono i punti essenziali del proemio? Innanzitutto la
consapevolezza che all’origine della Chiesa e quindi dell’opera di salvezza, c’è
il primato di Dio e della sua Parola. Dio ha intrapreso un dialogo con l’umanità,
l’ha resa partecipe della sua vita intima, si è svelato ai figli di Adamo. La
citazione del passo della Prima Lettera di Giovanni indica concretamente qual è
stato l’itinerario storico di questo cammino di rivelazione: la Parola di Dio era
presso il Padre, si manifesta a noi nell’incarnazione di Cristo e attraverso
l’annuncio della Chiesa raggiunge il mondo intero. La citazione di Giovanni
sottolinea altre due dimensioni: la centralità di Gesù e la dimensione personale
della rivelazione. In altre parole: solo in virtù dell’umanità di Gesù all’uomo è
concesso vedere e accedere al Verbo della vita. In Gesù ogni uomo può
giungere alla stessa esperienza di Giovanni ed entrare in comunione con la
Trinità.
Un secondo e fondamentale contributo di questo proemio è attirare
l’attenzione sulla parola di Dio (si parla appunto di verbum). Ora attenzione:
quando il Concilio parla di Dei Verbum, cioè di “parola di Dio” non intende
riferirsi alla Bibbia. La rivelazione è più ampia della stessa Bibbia. In parole
povere possiamo dire così: il Verbo di Dio è Gesù. La Scrittura attesta la
rivelazione ma non coincide con essa. Indubbiamente il ruolo della Scrittura è
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fondamentale, ma dentro il più ampio discorso sulla rivelazione cristologica.
Basti un esempio: noi abbiamo quattro vangeli, non uno solo. E ciascuno è
necessario ma non sufficiente per dire la verità di Gesù; d’altra parte la Chiesa
ha rifiutato di costruirne un quinto che raccogliesse in sé gli altri quattro. Cioè:
ogni racconto dice qualcosa della ricchezza inesauribile di Gesù.
Un terzo tratto: il testo parla di «religioso ascolto». Il Concilio indica
l’atteggiamento di umile e totale sottomissione che la Chiesa deve assumere di
fronte alla Parola. Ritorna qui il tema della fede, dell’ascolto, della
sottomissione a una verità più grande che trascende l’uomo.
Un ultimo tratto riguarda il destinatario della rivelazione: non è la Chiesa
ma il mondo. Dio non si è rivelato a un gruppo ma all’umanità: la dimensione
missionaria è intrinseca alla rivelazione. A questo proposito la citazione di
Agostino è stata volutamente modificata. Essa infatti recita: «affinché per
l’annunzio della salvezza colui al quale tu parli ascoltando creda, credendo speri,
sperando ami». L’espressione «colui al quale tu parli» è stata sostituita con «il
mondo intero».
Un secondo passo che leggiamo proviene dall’ultimo capitolo, il VI. Esso
tratta della sacra Scrittura nella vita della Chiesa. Il Concilio promuove la
familiarità orante di tutti i fedeli con la divina Scrittura. Recita il testo conciliare:
È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione
cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura (n° 21).
Si tratta di un principio molto forte e rigoroso. Dopo questa affermazione il
capitolo applica il principio alle traduzioni della Bibbia nelle lingue moderne e
alla necessità dello studio approfondito dei testi sacri; poi dice:
[S]ia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia (n°
24).
Queste affermazioni sono una vera e propria rivoluzione. La Bibbia infatti fino
ad allora era “usata” dai teologi come una miniera per trarre citazioni adatte a
sostenere le tesi teologiche che essi intendevano dimostrare. La Bibbia era
indubbiamente ritenuta una delle fonti della rivelazione, ma una “fonte
remota”, bisognosa di essere “filtrata” dal magistero della Chiesa. Il discorso
della Dei Verbum scardina radicalmente quel modo di procedere e ne propone
un altro, ben differente.
Ma il documento conciliare non si limita a questa importantissima
affermazione. È anche raccomandata la lettura della Bibbia a tutti i fedeli. Così
si esprime:
Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli,
soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil
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3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L’ignoranza delle Scritture,
infatti, è ignoranza di Cristo» (n° 25).
Tengo a precisare “tutti i fedeli”, espressione che compare solo a partire dalla
terza redazione, mentre prima non c’era. La citazione di san Girolamo è un
notevole incitamento dell’assise conciliare rivolto a tutti i cristiani. Il testo poi
continua:
[I fedeli s]i accostino volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia,
che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura. [… L]a lettura
della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si
stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con
lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini» (n° 25).
Si tratta dunque di una lettura che potremmo definire spirituale, cioè fatta sotto
l’impulso dello Spirito Santo, grazie al quale «tutta la Scrittura è ispirata da Dio
ed è utile per ispirare, convincere, correggere e formare alla giustizia» (2 Tm
3,16). È una lettura che si lascia condurre da quello Spirito di verità che guida
alla verità tutta intera (Gv 16,13). È una lettura svolta nella Chiesa, nel solco
della grande tradizione cristiana, nel quadro di tutte le verità di fede, in
comunione coi pastori e sotto l’influsso dello Spirito.
Da questo punto di vista è interessante ascoltare il “commento” che ne ha
fatto il cardinale Martini. Diceva il cardinale nel 2005, parlando a Bergamo: il
capitolo VI della Dei Verbum «mi è servito come programma pastorale per i miei
22 anni da vescovo» e, con un tocco d’ironia, aggiunge: «se ne avessi altri 22,
[lo] seguirei ancora, perché ci vuole molto tempo, prima che sia esaurito»1.
Continua il cardinale:
Nella mia esperienza di vescovo […] ho avuto modo di vedere concretamente i
frutti numerosi di questa preghiera, fatta a partire dalla Scrittura, soprattutto i
moltissimi giovani e anche i tanti adulti, che hanno trovato nella familiarità con
la Bibbia la capacità di orientare la loro vita secondo Dio, anche nella grande
città moderna e in un ambiente secolarizzato. Molti fedeli impegnati e molti
preti hanno trovato, in tale lettura orante della Scrittura, il modo per assicurare
l’unità di vita in un’esistenza spesso frammentata e lacerata da mille diverse
esigenze, una vita nella quale era essenziale trovare un punto fermo di
riferimento. Ora il disegno di Dio, che ci è presentato dalle Scritture e ha il suo
culmine in Gesù Cristo, ci permette appunto di unificare la nostra vita nel
quadro del disegno di salvezza2.
A questo punto Martini si diffonde a spiegare l’esercizio della lectio divina, così
come sempre l’ha sempre proposta: la lectio (che cosa dice il testo), la meditatio
Carlo Maria MARTINI, «L’avventura della Bibbia nella Chiesa a quarant’anni dalla “Dei
Verbum”», La Scuola Cattolica 133 (2005) 385-402: 394.
2 Ibidem, 396.
1
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(che cosa dice a me questo testo), la oratio-contemplatio (il momento nel quale
entro in dialogo con il Signore che mi parla attraverso questo testo).
Non credo necessario allargarmi su questo tema in quanto ripeterei
qualcosa di ben conosciuto e che molti dei presenti hanno sperimentato tante
volte.
4. Conseguenze
Qual è il volto di Chiesa delineato dalla Dei Verbum?
È anzitutto una Chiesa che in continuazione si rigenera, perché si nutre
di quell’annuncio che l’ha generata. Una Chiesa così non ha come modello una
società (per quanto perfetta), non ha nemmeno un modello teologico
precostituito. Al contrario riscopre in continuazione «la Chiesa degli apostoli, la
Chiesa dei primi cristiani, quella nella quale venivano proclamati i vangeli
secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni; quella descritta negli Atti degli
apostoli; quella che traspare dalle Lettere apostoliche e dall’Apocalisse»3.
Una Chiesa in ascolto perenne della Parola di Dio si sente in
continuazione chiamata a «riscoprire, rivivere e attualizzare il modo di vedere,
giudicare e agire degli apostoli, dei primi evangelizzatori e dei primi discepoli; i
loro atteggiamenti e le loro scelte, il loro amore per il Signore Gesù, la loro
obbedienza al Padre, la loro docilità allo Spirito santo, la loro costante
attenzione alla Parola, la loro interiore rigenerazione, la carità creativa verso i
fratelli, lo slancio missionario»4.
In secondo luogo una Chiesa così è una Chiesa che evangelizza, cioè che
trasmette la gioia dell’annuncio cristiano. È una comunità meno preoccupata
del consenso o degli equilibri politici e più capace di comunicare il fulcro della
sua esperienza d’incontro con Gesù.
Cosa significa per noi «evangelizzare» nella società attuale? Essa designa un
duplice aspetto: negativo e positivo. In negativo, evangelizzare è «salvare dal
male»: tirare fuori dal non senso, dalla frustrazione e dalla noia, dalla
disperazione, dal disgusto della vita, dalla incapacità di amare, dalla paura del
dolore e della morte. È dare risposta alle invocazioni più profonde di ogni
coscienza umana. Evangelizzare è gridare la speranza in mezzo a grida di
disperazione. [… I]n positivo, evangelizzare è comunicare il «Vangelo», la
buona notizia su Gesú: la buona notizia che Dio ci ama davvero, tutti e
ciascuno, e che Gesú è morto e risorto per la nostra salvezza per liberarci dal
peccato e dal male; la buona notizia del Regno che viene in Gesú e che si
realizza gradualmente nella nostra adesione a Lui, nel diventare con Lui un solo
Carlo Maria MARTINI, «Lettera di presentazione alla diocesi», in DIOCESI DI MILANO, Sinodo 47°,
Centro Ambrosiano, Milano 1995, 26-27.
4 MARTINI, «Lettera di presentazione alla diocesi», 27.
3
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Corpo, nell’entrare nella vita della Trinità. Evangelizzare non è soltanto
comunicare verbalmente la buona notizia, ma comunicare vita, collaborare con
lo Spirito del risorto che attrae ogni uomo per farlo una cosa sola in Gesú col
Padre. […] L’evangelizzare suppone dunque che si sia assimilata nel cuore la
realtà del «Vangelo», la sua ricchezza, la sua gioia, la pienezza di orizzonti che
esso apre, il senso della vita che esso fa scoprire al di là di tutte le delusioni e le
sofferenze, al di là della morte5.
Si capisce come una Chiesa così non abbia paura del mondo ma sia in grado di
chiamare con il loro nome le realtà mondane, portando il buon annuncio della
salvezza. Ho infatti l’impressione che spesso oggi, dietro forme di lassismo e di
rigidità, si annidi lo stesso senso di insicurezza, la stessa incapacità di
relazionarsi con il diverso, la stessa immaturità di guardare all’uomo con
simpatia e serenità.
Concludo. L’11 maggio 1610 moriva a Pechino uno dei più famosi e più
grandi gesuiti della storia, padre Matteo Ricci. Vent’anni dopo un suo
confratello di origini bresciane, padre Giulio Aleni (che già da anni viveva in
Cina e continuava l’opera del grande maceratese), scrisse in cinese una
biografia di Ricci. Dopo aver narrato della giovinezza in Occidente e delle sue
peripezie nella terra del dragone, Aleni svelava il segreto di Ricci. Scrive:
La radice dei diecimila meriti per noi uomini consiste nell’essere in silenzio in
contatto spirituale con il Signore dall’Alto. Maestro Ricci in profondo silenzio
stava in contemplazione continua per ricevere la forza divina. Inoltre meditava
in silenzio la Parola (Dao, letteralmente “la Via”) per qualche ora ogni mattina, e
scriveva tutto ciò che il Signore dall’alto gli ispirava, come per non dimenticare
la protezione del Signore6.
È questo contatto continuo con la Parola il segreto dei missionari, la forza dei
santi, l’anima dei credenti. A questo è chiamata a vivere la Chiesa.
Carlo Maria MARTINI, «Portatori di una buona notizia», in ID., Vivere i valori del Vangelo
(Contemporanea 47), Einaudi, Torino 1996, 95-96.
6 La vita di Matteo Ricci scritta da Giulio Aleni (1630). Vita del Maestro Ricci, Xitai del Grande
Occidente. Daxi Xitai Li Xiansheng Xingij, a cura di Gianni CRIVELLER, Fondazione Internazionale
P. Matteo Ricci – Fondazione Civiltà Bresciana, Macerata – Brescia 2010, 75.
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