TESTO PROVVISORIO
Pontificia Università della Santa Croce - CONCILIO VATICANO II - Roma, 3-4 maggio 2012
IL VALORE PERMANENTE DI UNA RIFORMA PER LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
La Dei Verbum 50 anni dopo
REV. PROF. VICENTE BALAGUER
UNIVERSIDAD DE NAVARRA - PAMPLONA
I. Introduzione
Dieci anni dopo la chiusura del Vaticano II Congar si domandava che importanza potessero
avere per la sua comprensione un insieme di mutamenti culturali e sociali – crisi della metafisica,
comparsa dell’ermeneutica, dominio delle scienze sociali, secolarizzazione, ecc. – che non potevano
far parte dell’orizzonte dei documenti conciliari. La domanda era alquanto retorica ed egli stesso vi
trovava risposta affermando che la cosa migliore era continuare lo studio dei documenti. A mezzo
secolo di distanza dal Concilio, i mutamenti citati si sono ancor di più acuiti: sono assai poche le
scienze sociali che si reggono sui paradigmi di cinquanta anni fa, possiamo allora considerare questi
documenti del Concilio ancora attuali? Possono ancora dirci qualcosa di rilevante o appartengono
definitivamente al passato, a una storia a cui non rinunciamo ma che non incide più su di noi?
Non sono in grado di dare una risposta che riguardi tutti i documenti conciliari, ma ritengo si
possa dire qualcosa sulla Dei Verbum. Uno studio di questa Costituzione dogmatica sulla
rivelazione è in grado di mostrare che il testo può offrire a un lettore – figlio delle correnti
ermeneutiche e linguistiche, coetaneee del periodo conciliare – ragioni valide affinché la Chiesa
possa proclamare con “parresia” la parola di Dio. E questo perché, prescindendo dal linguaggio
della modernità, espone la rivelazione di Dio in un lingua comprensibile alla modernità.
Dimostrarlo punto per punto è qualcosa che esula da questo intervento, tuttavia possiamo offrire
alcuni cenni che giustifichino, almeno per me, che è meglio parlare che non tacere.
Fin dalla sua promulgazione, i positivi giudizi sulla Dei Verbum giunsero come un torrente in
piena: uno dei migliori testi del Concilio (P. Grelot), un testo semplice e maturo che si concentra
sull’essenziale (W. Kasper), meraviglioso e con enormi prospettive per il dialogo ecumenico
nonché per descrivere il dialogo stesso di Dio con la Chiesa (M. Thurian), ecc. Il carattere di
compromesso di alcune parti del testo manifesta, in realtà, «una sintesi di enorme importanza» (J.
Ratzinger), anche se qualcuno lo ha visto come un «compromesso insoddisfacente» (O. H. Pesch), o
come un testo così limato dalle asprezze che somiglia più a un saggio che a un testo definitivo.
Forse sono più importanti le opinioni che si cominciarono ad avere a 25 anni di distanza dal
Concilio: la Dei Verbum è tanto densa quanto poco conosciuta (H. De Lubac, R. Latourelle). In
maniera simile si espresso in varie occasioni Benedetto XVI quando ha affermato che la vera
ricezione del Vaticano II non è ancora iniziata e che la Dei Verbum è stata assimilata solo
parzialmente.
Un altro giudizio che si sente spesso è che la Dei Verbum sia un “documento epocale”. Questo
è un aggettivo ambiguo: un’interpretazione esistenziale sembra trasparire dai curatori della Storia
del Concilio Vaticano II dell’Istituto di Scienze Religiose di Bologna, mentre è una prospettiva
teologico-letteraria quella che per alcuni autori (H. Hoping) contraddistingue alcuni capitoli della
Costituzione, i quali offrono un nuovo paradigma assiologico – descrivendo il ruolo della
Rivelazione, del Magistero e della Sacra Scrittura – in cui ricevere e comprendere la parola di Dio.
Dei molti esempi e luoghi che si possono invocare a esempio di questo carattere epocale, ne
sceglierei uno. Se si confronta il Catechismo della Chiesa Cattolica con quello di Trento, ci si
accorge subito di una parte che non c’era in quello di san Pio V: il capitolo “Dio viene incontro
all’uomo” che in quasi 100 punti riporta passo per passo i contenuti della Dei Verbum.
Altri due aspetti che indicano il carattere epocale della Dei Verbum sono riassunti
dall’enciclica Fides et ratio (cfr nn. 8.10-12). Si dice che la Dei Verbum è risultato ed espressione di
un’intelligenza della fede che, da un lato, è stata alimentata dal rinnovamento biblico e patristico
mentre, dall’altro, ha accettato la sfida della storia: la rivelazione storica e la forma storica della sua
conoscenza.
Questo è un punto su cui, senza dubbio, si dovrà tornare più volte. In effetti, nel noto discorso
alla Curia del 2005, Benedetto XVI affermava che il Concilio era nato con la volontà di affrontare
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«l’ardua disputa tra ragione moderna e fede cristiana»1. Ora, quello che la ragione moderna aveva
compiuto era anteporre il problema epistemologico a quello ontologico, rifiutandosi di parlare
dell’essere senza prima definire la portata e i limiti del conoscere. Se questo vale per tutti i
documenti del Concilio, per la Dei Verbum è addirittura fondamentale.
La Costituzione può essere letta come un’accettazione della sfida epistemologica: afferma che
la Chiesa può proporre la parola di Dio perché è in grado di spiegare (anche storicamente) come la
conosce. Questo, a mio modo di vedere, è il punto fondamentale dell’intera Costituzione che,
perciò, si riflette in tutto il documento, pur evidenziandosi soprattutto nella storia della sua
redazione.
II. Storia della redazione
Si è affermato che la Dei Verbum è il portico di ingresso del Concilio in quanto presenta la
Chiesa in ascolto della parola di Dio. Questa affermazione non ha fondamento nei dibattiti e nelle
conclusioni conciliari ma è una riflessione post-conciliare. Trento e il Vaticano I avevano iniziato
una propedeutica della rivelazione. Trento, prima di esporre la dottrina, volle esaminare di quali
“mezzi e aiuti” disponeva per proporla. Per questo iniziò dalla professione di fede e dal Decreto
sulle Sacre Scritture. Anche il Vaticano I iniziò definendo le questioni di fede e della rivelazione.
Questo era anche il proposito del Vaticano II. Si iniziò con la discussione della Costituzione
sulla Sacra Liturgia solo per motivi pratici, in quanto una questione che non sembrava creare grossi
conflitti poteva essere utile per tastare il polso sul modo di lavorare dell’assemblea conciliare. Dal
punto di vista dottrinale era importante che la Rivelazione fosse il tema iniziale. Tuttavia, fin dalla
sua presentazione in Aula Conciliare – e sembra perfino prima – il documento trovò forti
opposizioni e il testo fu ritirato. Di fatto, ebbe bisogno di quattro redazioni prima di essere
approvato nell’ultima fase del Concilio. Alla fine, però, la votazione fu quasi un plebiscito: su 2350
voti solo 6 furono negativi. Questo conferma quanto detto sopra: anche se non fu approvata
all’inizio, la Dei Verbum continua a essere la porta di ingresso ai testi del Concilio.
a) Le tappe principali dal 1962 al 1965
La storia della redazione della Dei Verbum occupa un capitolo, se non di più, nei commenti
alla Costituzione. Le monografie, inoltre, sono sempre più numerose ed estese (Burigana, Alberigo,
Schelkens). Per capire bene il significato della costituzione sono significativi alcuni episodi.
Nel mese di luglio del 1960, Salvatore Garofalo e Sebastian Tromp, membri entrambi della
Commissione Preparatoria del Concilio (della quale era Segretario lo stesso Tromp e Presidente il
cardinale Alfredo Ottaviani) composero lo Schema compendiosum De fontibus revelationis, che
raccoglieva tutte le idee giunte a Roma sul tema indicato dal titolo. Il 14 novembre 1962, il
cardinale Ottaviani presentò lo Schema de fontibus revelationis in Aula Conciliare. Il testo era già
noto poiché nei giorni precedenti almeno tre testi – elaborati da Rahner (e Ratzinger), Congar e
Schillebeeckx – erano circolati tra le persone che assistevano al Concilio. Durante la sua
presentazione Ottaviani fece riferimento ad altri schemi che erano stati fatti circolare, il che era in
contrasto con il canone 222,2 del Codice. Fece anche notare che questi testi criticavano il
linguaggio dello schema ufficiale in quanto auspicavano un linguaggio più pastorale e più concorde
con la nuova teologia. Poi Garofalo lo presenta con semplicità, spiegando l’origine del testo e il
contenuto dei cinque capitoli: De duplici fonte revelationis, De Sacrae Scripture divina
inspiratione, De Vetere Testamento, De Novo Testamento, De Scriptura in Ecclesia. Ben presto
intervennero alcuni Padri molto influenti (tra cui i cardinali Liénart, Frings, Léger, Koening,
Alfrink, Bea): Hoc schema mihi non placet. Altri cardinali e prelati (tra cui parecchi italiani e
spagnoli) erano favorevoli al placet. La scena si ripetette sei giorni dopo e il giorno 20 si mise a
1 “Ante todo era necesario definir de modo nuevo la relación entre la fe y las ciencias modernas; por lo demás, eso no sólo afectaba a
las ciencias naturales, sino también a la ciencia histórica, porque, en cierta escuela, el método histórico-crítico reclamaba para sí la
última palabra en la interpretación de la Biblia y, pretendiendo la plena exclusividad para su comprensión de las sagradas Escrituras,
se oponía en puntos importantes a la interpretación que la fe de la Iglesia había elaborado”
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votazione se si dovesse interrompere la discussione o continuare a lavorare allo Schema. Per 1368
Padri doveva interrompersi, mentre 822 votarono a favore di continuare la discussione; 19 voti
furono nulli. Mancavano 155 voti per raggiungere i 2/3, quota che il regolamento del Concilio
richiedeva per ritirare uno schema. Papa Giovanni XXIII convertì questa maggioranza de facto in
una maggioranza de iure e lo Schema fu ritirato dall’Aula.
Pochi giorni dopo, il 24 novembre, fu creata la “Commissione Mista”, dalla Commissione
Dottrinale del Concilio e dal Segretariato per l’Unità dei Cristiani, per la revisione dello Schema. Vi
erano due co-presidenti, il cardinale Alfredo Ottaviani e il cardinale Agostino Bea. La Commissione
volle lavorare in fretta e si decise di evitare la questione più controversa: la maggiore eccedenza
della Tradizione (laetius patet) sulla Scrittura nella rivelazione. Fu anche cambiato il titolo dello
Schema con quello di De divina revelatione e quello del capitolo I che non era più De duplici fonte
revelationis. Le opinioni contrastanti dell’Aula, tuttavia, si ripercuotono anche nella Commissione
Mista. Si giunse a elaborare un nuovo Schema, ma anch’esso fu oggetto di gravi obiezioni e non fu
incluso nei dibattiti del secondo periodo del Concilio. Alcuni Padri temettero che il documento sulla
rivelazione finisse tra gli schemi eliminati, ma Paolo VI, nel Discorso di chiusura di questo periodo,
il 4 dicembre, scongiurò questo timore affermando la necessità di continuare a lavorare sul testo
fino alla sua approvazione.
La Commissione Dottrinale riprese vigore e il 7 marzo 1964 nominò una Sottocommissione
interna incaricata di rivedere lo schema De divina revelatione. Fu nominato presidente il vescovo di
Namur André-Marie Charue e co-presidente Ermenegildo Florit, vescovo di Firenze. Segretario era
padre Umberto Betti. Tra i periti figuravano Rahner, Colombo, Congar, Smulders, Rigaux, Cerfaux,
Garofalo, Kerrigan, ecc. Cominciava il periodo più fecondo per la Dei Verbum. Il lavoro fu diviso
in due gruppi: uno, coordinato da Florit e Betti, revisionò il Proemio e il capitolo sulla trasmissione
della rivelazione; l’altro, coordinato da Charue e Kerrigan, gli altri 4 capitoli. La Commissione di
Coordinamento aveva annunciato che nella successiva sessione nell’Aula Conciliare sarebbe stato
presentato un nuovo schema ma non le osservazioni proposte dai Padri. Il Proemio revisionato da
Smulders era quasi completamente nuovo: presto diventerà il capitolo I, De ipsa revelatione, che
sarà preceduto da un nuovo Proemio molto breve. Gli altri capitoli furono rimodellati, anche se i
titoli delle sezioni coincidono con quelli del testo definitivo.
La terza fase del Concilio durò dal 14 settembre al 21 novembre del 1964. Dal 30 settembre al
6 ottobre, nelle Congregazioni Generali 91-95, si discusse in Aula il testo De divina revelatione.
Textus emmendatus (AS III/III, 69-126). Si divise il lavoro in due parti. Il Proemio e i primi due
capitoli furono presentati dal relatore Florit: nella relazione espose brevemente la storia della
redazione di questi capitoli e dei principi generali che governano ciascuna parte. Rese noto che nella
Sessione plenaria della Commissione Dottrinale il primo capitolo fu approvato senza problemi
mentre, invece, per il secondo capitolo la votazione si concluse con 17 voti a favore e 7 contro lo
schema che si presentava in Aula. I 7 di minoranza, tuttavia, non avevano voluto approvare un testo
che non contenesse una menzione della “maggiore ampiezza oggettiva” della Tradizione rispetto
alla Scrittura. Per questo, subito dopo, F. Franic, vescovo di Spalato in Croazia, parlò a nome della
minoranza. Il 2 ottobre cominciò la discussione degli altri 4 capitoli. La relazione fu presentata da J.
Van Dodewaard, vescovo di Harlem, Olanda. La risposta dell’Aula fu molto positiva. In seguito, la
Sottocomissione studiò come incorporarli e il risultato fu il testo De divina revelatione. Textus
denuo emmendatus, consegnato ai Padri il giorno 20. Al testo era annessa la versione precedente e
alla fine di ogni capitolo erano stati raccolti tutti gli emendamenti proposti con i motivi della loro
accettazione o rifiuto. Infine, le due relazioni firmate da Florit e Dodewaard riassumevano i
principali emendamenti introdotti.
Nella quarta fase del Concilio non era stata prevista una nuova discussione del documento
sulla rivelazione, ma solo una votazione con la presentazione dei “modi” che suggerivano eventuali
miglioramenti del testo. Il 20 settembre, durante la 131ª Congregazione generale, cominciò la
votazione. Fu fatta numero per numero e capitolo per capitolo: lo stesso giorno furono votati i
numeri 1-2, 3-4, 4-6, l’intero capitolo I e i numeri 7-8. L’operazione durò fino al 22. Si poteva
votare placet, non placet, placet iuxta modum. Alla fine i placet furono una schiacciante
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maggioranza; i non placet non raggiunsero il 2%, anche se nei punti 8, 11 e 19 (tradizione,
inerranza e storicità dei Vangeli) la percentuale quasi si triplica. Lo stesso accadde con i placet
iuxta modum: furono 1498 ma non costituirono un ostacolo invalicabile. Una commissione tecnica
esaminò i modi e passò il lavoro alla Commissione Dottrinale che li discusse nuovamente. Il 18
ottobre Paolo VI chiese alla Commissione Dottrinale di riunirsi nuovamente per esaminare tre punti
relativi alle relazioni tra Sacra Scrittura e Tradizione, all’inerranza della Scrittura e alla storicità dei
Vangeli. Il Papa richiedeva che, senza contraddire il parere della maggioranza dell’Aula Conciliare,
si valutasse l’opportunità di aggiungere qualcosa che permettesse maggiore unanimità e tranquillità
di coscienza a tutti i Padri. Manifestava anche il suo desiderio che il cardinal Bea assistesse alle
deliberazioni. Si giunse subito ad alcune formule. Il lavoro fu presentato assieme alle spiegazioni di
Florit e Dodewaard che giustificavano i motivi per cui si erano accettati o meno i modi proposti (AS
IV/IV 749-751). Il 29 ottobre furono votati in Aula Conciliare gli emendamenti ai sei capitoli e
l’intero schema. Il risultato fu schiacciante: per l’intero schema vi furono 2081 voti a favore e 27
contro, un solo placet iuxta modum e 6 voti nulli. Alcuni giorni dopo, il 18 novembre, fu votato il
testo della Dei Verbum, con il risultato noto a tutti: 2344 placet e 6 non placet.
b) Elementi della redazione importanti per la lettura del testo
Questa storia della redazione della Dei Verbum pone in evidenza, in primo luogo, l’impegno
profuso affinché la Costituzione non rimanesse arenata nel suo sviluppo. Il testo passa di luogo in
luogo. Fino alla sua discussione nella terza fase del Concilio, dove già si intravedeva una luminosa
via d’uscita, molte volte sembrava che la migliore soluzione fosse prescindere da questa
Costituzione. Tuttavia, Paolo VI nel discorso di chiusura della seconda fase del Concilio, il 4
dicembre 1963, incoraggiò apertamente il suo completamento in modo che non era più possibile
fare marcia indietro.
In secondo luogo, va sottolineata la volontà che il documento fosse cattolico fino alle ultime
conseguenze. Di questo aspetto parla il lavoro delle Sottocommissioni, che esaminarono e dettero
risposta alle osservazioni e ai modi dei Padri nella presentazione degli schemi successivi. Di esso
parla anche l’intervento di Franic in rappresentanza della minoranza, assieme a quello del relatore
Florit, il 30 settembre del 1963. Il testo dà ragione della volontà del Concilio.
Collegato a questi due aspetti, ve ne è un terzo: il testo mantiene un tono ecumenico che evita
la polemica e il confronto. Forse è per questo che alcuni alla fine dissero che con la Dei Verbum era
finita la Controriforma.
III. Lettura e comprensione del testo nel suo insieme
Negli ultimi anni, sempre nel quadro di una “ermeneutica della riforma”, si sono proposte tre
distinte letture nell’interpretazione dei documenti: quella che sottolinea la relazione di ciascuno con
gli altri e con la tradizione, quella che li legge come testi dalla prospettiva offerta dal Discorso di
Paolo VI in occasione dell’apertura della seconda fase (Hünermann) e quella che li legge come
avvenimenti, nel senso che è più importante il testo come fatto in sé che non il suo contenuto
(ovviamente, prescindendo da chi lo ritiene irrilevante).
In modo più tecnico, alcuni (Malley) propongono di leggere le quattro costituzioni
dogmatiche secondo un genere letterario nuovo nella letteratura conciliare: una forma del genere
epidittico, il panegirico, che descrive l’oggetto in maniera ideale per suscitare ammirazione e
adesione. Per ciò che riguarda la Dei Verbum, questo aggettivo, che a prima vista potrebbe sembrare
eccessivamente rigido, vuole sottolineare la differenza tra lo schema iniziale, più incline alla
condanna, e il risultato finale. Ovviamente, sottolinea bene la differenza tra il Vaticano I e il
Vaticano II.
Ad ogni modo, la lettura di qualsiasi testo è determinata dalle istruzioni, esplicite o implicite,
dell’atto di enunciazione (criterio di lettura stabilito da chi emette il testo). La prima fu dettata dalla
Segreteria del Concilio quando parlò della sua qualifica teologica (15.11.65). Si tratta di una
Costituzione dogmatica e, per questo, esprime la dottrina con verità; in virtù dello scopo
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fondamentalmente pastorale del Concilio, deve ritenersi definito in materia di fede e di costumi solo
ciò che è dichiarato apertamente in questo modo. La seconda caratteristica di enunciazione proviene
dall’inizio del testo: il Proemio.
Vi è una terza istruzione di lettura che proviene dalla struttura stessa del testo. Pur
concedendo che la Costituzione non sia un testo completamente compiuto in se stesso, è evidente
che possiede una struttura organica (Theobald). La storia della sua composizione mostra
l’importanza che ebbe l’inserimento del primo capitolo su “La rivelazione in se stessa”. La
presentazione dei primi due capitoli assieme, come aveva già indicato ai Padri nell’Aula il relatore
Florit, sottolinea la loro importanza per comprendere il terzo che riguarda l’ispirazione e
l’interpretazione della Scrittura. Non ci sono indicazioni più espresse sull’articolazione dei tre
capitoli finali. La loro lettura suggerisce che sono autonomi l’uno dall’altro. Ma ognuno di essi ha
bisogno di riferirsi ai primi tre.
Questa cornice strutturale potrà fare luce sulla comprensione di diverse espressioni singolari e
precisare il significato di parole ed espressioni anfibologiche: parola di Dio, Vangelo, ecc.
IV. Il Proemio: religioso ascolto e proclamazione della Parola di Dio
Il Proemio è considerato il più riuscito capitolo del documento. Un inizio memorabile, dice
Kasper, la cui altezza non è eguagliata dal resto della Costituzione. Tuttavia già per questo inizio il
testo va apprezzato.
Esso non era compreso nello schema De fontibus, comparve nella seconda redazione, benché
la duplice azione dell’ascolto e della proclamazione viene spiegata solo nel terzo schema. Durante
la sua redazione, il testo va migliorandosi in ogni sessione conciliare fino a raggiungere la forma
migliore nel testo finale. Questo testo contiene già in nuce le caratteristiche principali della
Costituzione: il carattere personale e salvifico della rivelazione, il suo essere incentrata in Cristo,
ecc. Il testo consta di due lunghe frasi, con un ipèrbato, ma molto significative. In tutte e due il
soggetto è il Concilio e in entrambi ci si riferisce all’atto di enunciazione (potremmo dire all’atto
illocutorio) che è la Costituzione conciliare.
Il Concilio [DEI VERBUM religiose audiens et fidenter proclamans Sacrosancta Synodus
verbis S. Ioannis obsequitur dicentis: «Adnuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud Patrem
et apparuit nobis: quod vidimus et audivimus adnuntiamus vobis ut et vos societatem habeatis
nobiscum, et societas nostra sit cum Patre et cum Filio eius Iesu Christo»] continua
nell’obbedienza alla tradizione apostolica: annuncia la parola di vita. Come lo fa?
In primo luogo, nel religioso ascolto della parola di Dio e, soltanto dopo, nella proclamazione
della stessa. La piena essenza della Chiesa, commentava J. Ratzinger, «si riassume nel gesto
dell’ascolto, l’unico gesto in grado di far scaturire il suo annuncio». La Chiesa non guarda a se
stessa, ma ascolta la Parola di Dio accettandone la sua autorità.
La seconda azione non è meno importante della prima, soprattutto per l’avverbio usato. La
Chiesa può proclamare fidenter la parola di Dio perché “sa” di conoscerla. Questo è un importante
aspetto implicito nella Costituzione che il Sinodo del 1985 volle segnalare come accolto (almeno in
parte) nella ricezione della Dei Verbum2.
La Parola di Dio che si annuncia viene caratterizzata dalla prospettiva personale: la finalità è
la comunione con il Padre e con il Figlio. La Costituzione segnala questa idea attraverso il testo di
san Giovanni. Inoltre, questo testo, sovrapposto alle parole che lo introducono, evidenzia la
differenza tra la Chiesa apostolica – che prima di annunciarlo lo aveva “visto e ascoltato” –, e il
Concilio che ascolta la parola di Dio e può proclamarla in obsequitur alle parole della Chiesa
apostolica.
La parola che si annuncia, oltre ad essere personale, è parola di salvezza. Lo è nel testo di san
Giovanni – e la Tradizione apostolica – e lo è anche nella proclamazione da parte della Chiesa (del
2 “Ascoltando con religiosità la Parola di Dio, la Chiesa ha la missione di proclamarla con sicurezza. (…) In tale contesto spicca la
Costituzione Dogmatica Dei Verbum che forse è stata lasciata un po’ troppo da parte” /Sinodo 85, Dichiarazione finale, 39)
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Concilio) quando offre al “mondo intero” (universus mundus) un “messaggio di salvezza” (salus
praeconio) che lo guida alla vita teologale: credere, sperare e amare.
La seconda frase del Prologo definisce l’output del testo: sulla scia (inhaerens vestigiis) dei
Concili di Trento e Vaticano I, intende proporre (proponer intendit) la dottrina della Rivelazione
divina e della sua trasmissione. La formula torna ad essere brillante. La continuità con i Concili
citati è evidente sia nei temi e sia nelle occasioni in cui vengono citati3. Ma è pure chiaro che la Dei
Verbum offre un approfondimento (da cui segue un diverso orientamento) in molti aspetti:
soprattutto nella forma di esporre la rivelazione, che deriva, alla fine, anche dal modo di concepire
le istanze della sua interpretazione.
V. Il Capitolo sulla Rivelazione in se stessa
Il capitolo, che non era compreso nemmeno nel primo schema, diventa uno dei migliori frutti
della Costituzione. Il capitolo è importante non solo perchè definisce e descrive la rivelazione
cristiana, ma anche nell’insieme della Dei Verbum.
Nella sua struttura, il numero 2 offre le note centrali della rivelazione cristiana: Placuit Deo in
sua bonitate et sapientia Seipsum revelare et notum facere sacramentum voluntatis suae (cf. Eph. 1,
9), quo homines per Christum, Verbum carnem factum, in Spiritu Sancto accessum habent ad
Patrem et divinae naturae consortes efficiuntur... . Il testo è fin troppo conosciuto, non serve quindi
fermarsi su ogni punto. La rivelazione viene intesa in modo storico e sacramentale – con i
significati che a questi termini diede E. Florit nella relatio –, più che locuzionale e nozionale (come
era stato nel Vaticano I), personalista e salvifica (davanti alla “verità” e “autorità” che erano al
centro della definizione del Vaticano I, ora viene sottolineato che Dio va incontro all’uomo, mosso
dal suo amore più che dalla sua libertà). È trinitaria, ma prima di tutto è cristologica, giacché Cristo
è il mediatore e pienezza di tutta la rivelazione.
I numeri 3 e 4 presentano il dispiegamento storico della Rivelazione: Deus, per Verbum
omnia creans et conservans, in rebus creatis perenne sui testimonium hominibus praebet et, viam
salutis supernae aperire intendens,... ab initio Semetipsum manifestavit. Così inizia la narrazione
della storia della salvezza che culmina in Gesù Cristo Risorto. Ci sono parecchi aspetti che hanno
meritato un commento equilibrato: di questa frase si può menzionare, per esempio, la prospettiva
cristologica che suppone, come da richiesta di un Padre conciliare, che la parola del Verbo fosse
scritta con la lettera maiuscola o che la prospettiva rivelatrice e salvifica fosse inclusa ab initio:
tutto è rivelazione e salvezza. Però altri aspetti si riferiscono alla totalità del testo e mi sembrano più
significativi.
In primo luogo la cadenza sintattica del testo. La prima frase è retta dal presente gnomico.
“Dio, creando e conservando tutto… dà agli uomini testimonianza perenne di sé nelle cose create”.
È ciò che accade in ogni istante. Da qui, il discorso prende una forma narrativa che rimarca le azioni
di Dio: “si manifestò,…ai nostri primi padri…, li incoraggiò…, ebbe costante cura del genere
umano”. Dopo “chiamò Abramo per farlo padre di un grande popolo che… ammaestrò”. In questa
cadenza di azioni, c’è l’ultima: “inviò il suo Figlio”. Continuando, il discorso torna al presente
gnomico ancora una volta: il “Verbo eterno, che illumina ogni uomo, perchè vivesse in mezzo a
loro per manifestare i segreti di Dio; Gesù Cristo, poi, il Verbo fatto carne, uomo inviato tra gli
uomini, dice parole di Dio e porta a termine l’opera della salvezza affidatagli dal Padre. Pertanto,
Gesù – vedere lui è come vedere il Padre – con la sua presenza e la manifestazione di se stesso, con
le parole e le opere, i segni e i miracoli e sopratutto con la sua morte e resurrezione gloriosa dai
morti, con l’invio alla fine dello Spirito di verità, completa la rivelazione e conferma con la
testimonianza divina che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e
resuscitarci nella vita eterna”.
Il testo, anche in questo modo, mostra che l’Incarnazione è un episodio della rivelazionesalvezza. È l’episodio finale: è quello che dà senso agli altri, giacché nell’intelligenza narrativa gli
episodi non si comprendono uno dopo l’altro per intendersi uno a causa dell’altro. Però ciò che si
3 Trento in tre occasioni (note 8,9,13), e Vaticano I in nove (note 5,6,7,9,12,15,17,19,21).
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vuole sottolineare è il cambiamento che ancora una volta si verifica in Gesù Cristo. La Rivelazione
storica, per sua stessa essenza, riguarda il passato: Dio si è manifestato nella storia, ma Gesù Cristo
e le sue azioni riguardano anche il presente. Giustamente si è detto che la Rivelazione nella Dei
Verbum, è incentrata sulla cristologia.
Da queste osservazioni sulla Rivelazione, così come è descritta nella Costituzione, si può
dedurre un corollario assai importante per la sua comprensione, che è ciò che ci interessa in questa
sede: in questi punti la Dei Verbum cerca di descrivere la Rivelazione dal punto di vista di Dio,
forse, si potrebbe dire, dal linguaggio della rivelazione, prima di essere linguaggio degli uomini. È
vero che noi uomini non abbiamo altro linguaggio che il nostro ma ciò che aspiriamo a
comprendere è l’oggetto intelligibile nel suo linguaggio proprio. La Dei Verbum spiega questa
duplice via.
Un esempio significativo. A proposito di Israele nel I capitolo si legge:
chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo
per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e
giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via
all’Evangelo (DV 3).
Lo stesso episodio, però è descritto da una prospettiva umana più avanti nel capitolo IV:
Infatti, mediante l’alleanza stretta con Abramo (cfr. Gn 15,18), e per mezzo di Mosè col popolo d’Israele
(cfr. Es 24,8), egli si rivelò, in parole e in atti, al popolo che così s’era acquistato come l’unico Dio vivo e
vero, in modo tale che Israele sperimentasse quale fosse il piano di Dio con gli uomini e, parlando Dio
stesso per bocca dei profeti, lo comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e lo facesse
conoscere con maggiore ampiezza alle genti (cfr. Sal 21,28-29; 95,1-3; Is 2,1-4; Ger 3,17). L’economia
della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova in qualità di vera parola di Dio
nei libri del Vecchio Testamento (DV 14).
È chiaro che non abbiamo altra via per comprendere la rivelazione di Dio che la rivelazione
trasmessaci da Israele, anche attraverso il significato primario di ogni libro, tuttavia è evidente
anche che il contenuto della rivelazione – e di ciò che è rivelato da Dio – è più ampio della somma
dei discorsi e dei libri. Un’altra conseguenza di questa prospettiva è importante per la comprensione
dei libri sacri: non vengono menzionati nell’intero capitolo. Perché i libri non sono strumento
immediato della rivelazione: lo è l’elezione di Abramo, la creazione di un popolo, la mediazione di
Mosè e dei profeti, ma non i libri: i libri non parlano di se stessi, del loro messaggio ma parlano
d’altro.
Ma il punto più importante è il ruolo di Gesù Cristo: nella storia della salvezza nel passato e
in ciò che rivela per il presente. Le azioni di Cristo sono accadute in un tempo determinato, ma
Gesù resuscitato continua a manifestarsi, a rivelarsi, ora e in ogni momento. Questo è il presupposto
da cui si deve partire soprattutto per comprendere il secondo capitolo.
VI. La trasmissione della Rivelazione divina
Il secondo capitolo si occupa della trasmissione della Rivelazione divina. In realtà sembra che
tratti anche della rivelazione in se stessa, poiché le azioni di Cristo e la predicazione apostolica
appartengono anch’esse alla rivelazione. Ma se ne parla “dalla prospettiva” della sua trasmissione,
ovvero di come la rivelazione di Dio giunge a noi.
Si può comprendere meglio se parliamo di linguaggio e di messaggio. Il primo capitolo, che si
occupa della rivelazione in se stessa, si serve di linguaggi umani (linguaggio narrativo, azione
intenzionale, discorso), ma la “logica” del messaggio è quella di Dio, cioè essa non è accessibile
agli uomini finché Dio non pronuncia la sua ultima parola, che è Gesù risorto. Qui, invece, ci
troviamo nella prospettiva di un linguaggio umano che si rivolge agli uomini: sia il discorso verbale
che il discorso dell’azione sociale.
Come già spiegò il relatore Florit nella sua presentazione, i capitoli I e II sono necessari per la
comprensione del terzo. Sono proprio i contenuti di questo capitolo quelli che hanno suscitato le
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maggiori discussioni nel Concilio. La questione delle due fonti della rivelazione, che appariva
espressamente nello Schema De fontibus del 1962 – con tutte le sue implicazioni – fu il motivo su
cui si concentrò il rifiuto. Allo stesso modo, l’insistenza di alcuni Padri nell’affermare che i termini
proposti per la tradizione non rendevano giustizia a ciò che si era creduto nella Chiesa, obbligarono
a soppesare le espressioni, anche a costo di rendere faticoso il lavoro conciliare. Nella redazione del
documento furono evitate le questioni – nonché la terminologia – relative alla maggiore eccedenza
della Tradizione sulla Scrittura e alla sufficienza materiale della Scrittura. Alla fine questo obbligò a
servirsi di altre nozioni e di altri paradigmi, certamente meno conflittuali ma altrettanto certamente
meno chiari. Nel suo insieme, tuttavia, il capitolo costituisce una novità in quanto, per la prima
volta, la tradizione viene espressa in termini conciliari.
La struttura è abbastanza lineare, come spiegò il relatore Florit: inizia dalla Tradizione
apostolica (n. 7) per parlare poi della Tradizione (n. 9), delle relazioni tra Scrittura e Tradizione (n.
9) e del deposito rivelato (n. 10).
Per esprimere il punto di partenza della rivelazione di Dio con espressioni umane, il Concilio
si serve della parola Vangelo. Lo stesso si era fatto a Trento, ma ora la nozione è più completa. A
Trento si diceva che Gesù predicò mentre qui, in accordo con la nozione di rivelazione utilizzata,
che lo “compì e lo predicò”. Perciò, il Vangelo si vincola con la nozione di totalità: «Dio, con
somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti […] venisse
trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la
Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l’Evangelo […] venisse predicato a tutti come
la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale» (DV 7).
La rivelazione quando si muta in linguaggio umano per comunicarsi agli uomini si chiama
Vangelo. Il Vangelo nelle mani degli apostoli diviene «predicazione orale con gli esempi e le
istituzioni» e si esprime anche nell’opera attraverso la quale «apostoli e uomini a loro cerchia, […]
per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza» (n. 7). La
predicazione orale, cronologicamente e anche nozionalmente, viene prima della Scrittura che è il
risultato della predicazione. Inoltre, la Scrittura non è altro che una delle opere attraverso le quali gli
apostoli esprimono il Vangelo. Nel secondo paragrafo si fa riferimento al Magistero dei vescovi,
inteso ovviamente come una delle istituzioni citate sopra.
Al punto successivo (n. 8) si parla della Tradizione che non proviene da Cristo ma dagli
apostoli: non si riferisce alla tradizione apostolica ma a quella ecclesiastica. Spesso il testo è stato
rimproverato di non aver sottolineato sufficientemente la distinzione tra le due tradizioni, stabilendo
una continuità eccessiva che può risultare fuorviante.
Ad ogni modo, la prima frase orienta già al cambiamento: «la predicazione apostolica, che è
espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta
fino alla fine dei tempi» (DV 8). Prima, nella predicazione apostolica, l’elemento principale era la
predicazione mentre solo più tardi appariranno gli scritti. Ora, la ricezione della predicazione
apostolica indica che questa medesima predicazione è esposta in maniera peculiare nei libri ispirati.
La cosa importante, tuttavia, è la trasmissione della predicazione apostolica fino alla fine dei tempi,
in quanto «ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla
condotta santa del popolo di Dio e all’incremento della fede» (DV 8). La Tradizione, così come
viene descritta qui, si identifica in un certo modo con la vita della Chiesa che «nella sua dottrina,
nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò
che essa crede».
Nel secondo paragrafo la vita della Chiesa si concentra già di più sull’aspetto nozionale. La
Tradizione, dice il testo, proficit, progredisce. Questa crescita, come aveva detto il relatore, non va
intesa in senso oggettivo ma nel senso delle realtà viventi: come ciò che è implicito diviene esplicito
o come l’oscurità diviene luce. Per questo, le attività a cui si riferisce sono di ordine vitale ma con
un orizzonte intellettuale, di intelligibilità: la contemplazione delle parole e delle cose, lo studio, la
meditazione, la percezione intima di ciò che si sperimenta, l’annuncio dei pastori.
Un aspetto singolare compare nel terzo paragrafo, quando alla terza riga dice che «è questa
Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più
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profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture». Oltre al
canone, il Concilio non ha voluto nominare nessuna altra verità che sgorga dalla Tradizione. Di
fatto, ciò che ha definito verità lo ha sempre fatto attraverso la Scrittura.
Per il testo conciliare la Tradizione non solo trasmette la Scrittura, ma dà anche testimonianza
di essa, anche se le relazioni tra loro vengono espresse al numero successivo, il 9, e vengono
espresse come approssimazioni.
Si parla, in primo luogo, della loro compenetrazione: «La sacra Tradizione dunque e la sacra
Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla
stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine».
Poi si tratta della loro relazione con la parola di Dio: «la sacra Scrittura è la parola di Dio
(locutio Dei) in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra
Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio (Verbum Dei) – affidata da Cristo Signore
e dallo Spirito Santo agli apostoli – ai loro successori». Solo della Scrittura si dice che è parola di
Dio, ma curiosamente non usa un verbo riferito alla scrittura bensì al parlare.
In questo punto si evidenzia chiaramente l’anfibologia dell’espressione Parola di Dio nella
Dei Verbum. Si può ritenere che sia un’indeterminazione di senso volontaria. Questo aspetto,
assieme alla critica della tradizione o alla comprensione spirituale della Scrittura, sono cose che la
Costituzione sembra rimandare al futuro.
Conclusioni
Una lettura della Dei Verbum rende palese la densità e la difficoltà racchiuse nella sua
comprensione fino alle ultime conseguenze. Non sono riuscito a giungere all’interpretazione della
Scrittura, che ora, alla fine, si pone come obiettivo. Se ne può però mostrare un cenno. La Scrittura,
nel quadro della rivelazione tinteggiato dalla Dei Verbum, non parla mai di se stessa, non è mai il
soggetto della rivelazione, non è mai autoreferenziale. Per questo, qualsiasi lettura che non tenga
presente questo aspetto e intenda l’interpretazione della Scrittura come un’interpretazione metodica,
non è una lettura della Scrittura.
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La Dei Verbum 50 anni dopo - Pontificia Università della Santa Croce