LE FLUTTUAZIONI CICLICHE
&
LA POLITICA ECONOMICA
Cavalieri, Cap. 10
Cap. 13, §§1-2 (fino a p.382), 4-6, 8 (fino a p.405)
Cap. 14, §§1-2, §§6-8
Cap. 15, §§1-3; 8
Le fluttuazioni di breve periodo
•
Il livello di attività economica fluttua nel corso del tempo. Nella
maggior parte degli anni la produzione di beni e servizi aumenta, ma
in alcuni anni diminuisce.
• Una recessione è un periodo (di almeno due trimestri successivi) in
cui il PIL reale diminuisce e la DIS (ciclica) cresce. Una depressione
è una recessione severa e prolungata.
• Capire per quale motivo avvengono le fluttuazioni è uno dei temi
fondamentali della macro del breve periodo. E’ il c.d. problema del
ciclo economico.
• Il ciclo economico ha tre caratteristiche fondamentali:
1) Il ciclo economico non ha andamento regolare: le fluttuazioni sono
irregolari ed imprevedibili.
2) La grandezza che oscilla di più sono gli investimenti (molto meno,
p.e. i consumi), ma in genere si guarda soprattutto al PIL reale.
3) Molte variabili macro fluttuano assieme (c.d. co-movimenti).
- P.e. il PIL reale e la DIS si muovono assieme, in direzione inversa.
N.b.: Le colonne viola indicano i periodi di recessione
(a) PIL reale USA
Miliardi di
dollari (del1992)
$7,000
6,500
6,000
5,500
5,000
4,500
4,000
3,500
3,000
2,500
PIL reale
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
(b) Spesa per investimenti USA
Miliardi di
dollari (del 1992)
$1,100
1,000
900
800
700
600
500
400
300
1965
Spesa per investimenti
1970
1975
1980
1985
1990
1995
(c) Tasso di disoccupazione USA
Pct. della
forza lavoro
12
10
Tasso di DIS
8
6
4
2
0
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
Come spiegare il ciclo economico?
• Il ciclo è un problema di breve periodo, quindi occorre
cambiare l’orizzonte temporale in cui abbiamo sin qui
studiato la macro, cioè passare dal lungo al breve periodo
• La c.d. teoria macro “classica” descrive il funzionamento
delle economie nel LP, ma non nel BP.
• Tre ipotesi/concetti “classici” non adatti allo studio del BP:
- La dicotomia classica
- Il tasso naturale di disoccupazione
- Il principio di neutralità della moneta
• Per spiegare le fluttuazioni di BP usiamo il modello
keynesiano c.d. della domanda aggregata  Keynes 1936.
• Tale modello è utile anche per mostrare l’effetto sul ciclo
delle misure di politica economica.
Domanda aggregata e legge di Say
• La curva di domanda aggregata (curva AD) mostra la quantità di beni
e servizi che gli agenti economici (famiglie, imprese e policy-maker)
vogliono acquistare per ogni dato livello generale dei prezzi.
• Le quattro componenti della AD sono:
AD = C + I + G + NX
• La AD non va confusa con la domanda effettiva, ovvero la domanda
che viene “soddisfatta” dall’offerta aggregata.
– Offerta aggregata: la quantità di beni e servizi che le imprese
decidono di produrre e vendere per ogni dato livello dei prezzi.
– In altre parole, AD è una curva mentre la domanda effettiva è un
punto sulla AD, ovvero l’intersezione tra curva AD e curva di
offerta aggregata. Essa indica la spesa totale degli agenti.
• Gli imprenditori, per Keynes, decidono quanto offrire proprio sulla
base del livello atteso della domanda effettiva.
La legge di Say
• Il fulcro dell’analisi keynesiana è proprio negare che l’intersezione tra
domanda ed offerta aggregata si realizzi sempre e comunque al livello
di piena occupazione delle risorse, cioè al livello del reddito che
corrisponde al completo utilizzo della capacità produttiva del sistema
(c.d. produzione potenziale o di pieno impiego YFE).
• Questo era invece sempre vero per gli economisti della macro
“classica”, perché essi credevano alla c.d. legge di Say.
• Legge di Say: il principio secondo cui “l’offerta crea sempre la
propria domanda”, ovvero che, dato che la fonte della domanda
aggregata è il reddito generato dall’attività produttiva (vedi p.e. il
diagramma del flusso circolare), ogni livello di produzione dà luogo
ad un reddito di pari importo che viene necessariamente speso in
consumi oppure, per la parte risparmiata, in investimenti.
• Chi crede alla legge di Say non ammette quindi che sia possibile uno
squilibrio permanente a livello macro tra produzione potenziale YFE e
domanda aggregata, cioè una situazione persistente di disoccupazione
delle risorse produttive.
• Dato che per Keynes, invece, l’offerta aggregata dipende dal livello
atteso della domanda effettiva, è perfettamente possibile che
l’equilibrio tra domanda ed offerta si realizzi ad un livello che non
corrisponde al pieno impiego delle risorse.
Le componenti autonome della AD
• Tre delle quattro determinanti della AD, cioè C, I e NX,
sono composte da una parte dipendente (direttamente od
indirettamente) dalle variabili macro, quali P, r ed Y, e da
una parte c.d. autonoma, cioè indipendente dalle altre
grandezze macro.
– La spesa pubblica G è invece considerata interamente autonoma
perché decisa “liberamente” dal policy-maker.
• Una variazione in una delle determinanti della AD dovuta
ad una variazione della componente autonoma comporta
quindi uno spostamento della curva, mentre nel caso vari
p.e. il reddito Y si avrà uno spostamento lungo la curva.
• L’andamento delle componenti autonome dipende spesso da
fattori extraeconomici (aspettative, tradizioni, mode, ecc.) e
comunque mai nel pieno controllo del policy-maker.
La funzione macro del consumo
• Nel modello keynesiano il consumo a livello aggregato è funzione del
reddito disponibile Y – T:
C = C0 + b (Y – T)
dove C0 è il c.d. consumo necessario,
b è la propensione marginale al consumo PMC
(= incremento del consumo per ogni euro addizionale di reddito
disponibile Y – T)
• Se ipotizziamo T = t  Y, dove t è l’aliquota media di imposte sul
reddito, PMC diventa b(1 – t)
• A partire da tale funzione possiamo calcolare anche la funzione del
risparmio:
S = (Y – T) – C = – C0 + (1 – b)(Y – T)
dove (1 – b) è la propensione marginale al risparmio
(= incremento del risparmio per ogni € di Y – T)
La funzione macro degli investimenti
• Nel modello keynesiano l’investimento I non dipende dal reddito Y
ma solo dal tasso di interesse r: I = I0 + f (r) , I0  comp. autonoma.
• Gli imprenditori decidono se e quanto investire confrontando il tasso
interno di rendimento (TIR) dell’investimento progettato con il tasso
di interesse di mercato.
• Un progetto di investimento si realizza solo se TIR > r, cioè solo se il
rendimento dell’investimento supera il costo del finanziamento (= il
tasso d’interesse sui prestiti). Se un progetto di investimento è tale
invece che TIR < r, l’investimento non si realizza.
• Esiste quindi una relazione inversa tra r ed I: dato il TIR dei diversi
progetti di investimento, al crescere di r si riduce il livello aggregato
degli investimenti proprio perché sempre meno progetti soddisfano la
condizione TIR > r.
• Segue che qualsiasi misura di politica economica che faccia diminuire
il tasso di interesse di mercato favorisce l’attività di investimento.
La “croce” keynesiana
C,S,
I, AD
Retta a 45°
C = C0 + bY
A
I  non dipende
da Y
45°
Y’
Y
C,S,
I, AD
Retta a 45°
AD = C + I
E
C = C0 + bY
A
I
I  non dipende
da Y
45°
Y’
Y”
Y
In A: Y’ = C  S = 0
In E: Y” = C + I  Y” – C = I  S = I (= punto B)
C,S,
I, AD
Retta a 45°
AD = C + I
E
C = C0 + bY
A
I
S
B
I  non dipende
da Y
45°
Y’
Y”
Y
La determinazione del reddito di equilibrio
• Ipotizziamo un’economia chiusa (NX = 0) e senza lo Stato (G = 0,
T = 0). La domanda aggregata è dunque AD = C + I
• L’equilibrio macro si ha quando la produzione aggregata Y
uguaglia la AD, ovvero quando il reddito prodotto uguaglia il
reddito speso. Ciò determina univocamente il livello di equilibrio
del reddito  Y”.
– N.b. ora si parla di equilibrio, non più di identità, perché sia le componenti
della AD che la produzione sono frutto delle scelte degli agenti economici.
– La domanda effettiva è individuata dal livello della AD in corrispondenza
del reddito di equilibrio.
• L’equilibrio macro può essere indicato sia come:
Y=C+I
che, considerando che S = Y – C, come:
S=I
• Graficamente il livello di equilibrio del reddito si determina
utilizzando l’espediente della retta a 45° (c.d. croce keynesiana).
Tutti i punti lungo tale retta hanno infatti la caratteristica di avere
l’ascissa uguale all’ordinata e quindi di rappresentare possibili
livelli di equilibrio del reddito.
Quale equilibrio per Y?
• L’equilibrio macro può aversi per un qualsiasi livello di Y. Non è
affatto detto, quindi, che il sistema trovi l’equilibrio al livello YFE.
– La posizione del punto E dipende infatti dal livello della AD, ovvero da C e I
– Più precisamente, gli imprenditori producono in funzione del livello atteso
della domanda effettiva. Ma allora l’equilibrio dipende da ciò che gli
imprenditori si aspettano e quindi non necessariamente esso si verificherà in
corrispondenza di YFE.
• Siamo al cuore della c.d. “rivoluzione keynesiana”: secondo
Keynes, nulla garantisce che all’equilibrio macro il sistema
economico realizzi il pieno impiego delle risorse.
• Questo significa che può aversi un equilibrio (cioè uno stato
indefinitamente persistente) con disoccupazione delle risorse.
Parleremo in questo caso di equilibrio di sotto-occupazione.
• Questa possibilità è invece esclusa dalla macro “classica”, secondo
cui la presenza di disoccupazione è possibile solo in situazione di
disequilibrio.
C,S,
I, AD
Retta a 45°
AD = C + I
E
Y” è > oppure < di YFE?
45°
Y”
PIL, Y
Recessione ed equilibrio di sottoccupazione
• Una recessione è una situazione in cui Y è minore di YFE,
ma solo temporaneamente.
• Un equilibrio di sottoccupazione è una situazione in cui il
PIL di equilibrio Y è minore di YFE.
• Secondo Keynes, la causa fondamentale della recessione è
una riduzione della AD (shock negativo sulla domanda).
• La distinzione tra macro “classica” e keynesiana verte in
sostanza sulla risposta a questa domanda:
 una recessione indotta dalla AD può essere un equilibrio
(ovviamente di sottoccupazione), cioè una situazione da cui il
sistema non ha tendenza endogena a muoversi?
Uno shock negativo sulla AD
• Supponiamo di partire da una situazione di pieno
impiego: Y = YFE.
• Qualsiasi fattore che riduce una o più delle componenti
autonome della domanda aggregata sposta la curva AD a
in basso.
– P.e. un’ondata di pessimismo sul futuro dell’economia
riduce le componenti autonome di C ed I.
• Si ottiene un equilibrio recessivo di BP nell’intersezione
tra la nuova AD con la retta a 45°: avremo infatti un
nuovo equilibrio con Y1 < YFE e quindi maggiore DIS.
• Self-confirming expectations: il pessimismo iniziale si
auto-conferma perché il PIL di equilibrio si riduce.
– “The varying expectations of business men... and nothing else,
constitute the immediate cause and direct causes or antecedents
of industrial fluctuations” (Pigou, 1927).
AD1  equilibrio in E con Y = YFE
AD2  equilibrio in A con Y = Y1 < YFE
C,S,
I, AD
AD1
E
AD2
A
45°
Y1
YFE
Y
La recessione è un equilibrio?
• Per la macro classica il meccanismo di mercato induce una reazione
automatica (aggiustamento dei prezzi) che riporta nel LP il sistema
all’equilibrio di pieno impiego YFE
• In situazione di recessione il livello generale dei prezzi P si riduce
perché si verifica un eccesso di produzione. Infatti le imprese hanno
prodotto beni e servizi sulla base di una domanda effettiva attesa pari
ad AD(YFE) ed invece si ritrovano una AD inferiore, pari a AD(Y1).
• Ma la riduzione del livello generale dei prezzi fa nuovamente crescere
la AD agendo da stimolo sia su C che su I.
– La riduzione del livello generale dei prezzi P induce un aumento dei consumi
attraverso il c.d. effetto ricchezza di Pigou.
– La riduzione del livello generale dei prezzi P induce un aumento degli
investimenti attraverso il c.d. effetto tasso di interesse di Keynes.
• Un punto come A non è quindi un vero equilibrio. Solo E lo è. Quindi
il fatto che sia Y = Y1 è solo un temporaneo disequilibrio.
• Per Keynes, invece, in assenza di un intervento pubblico espansivo il
sistema permane in A, cioè in un equilibrio di sottoccupazione. Il
sistema lasciato a sé non riesce ad uscire dalla recessione perché
mancano forze endogene capaci di riportare il PIL al livello YFE.
Effetto Pigou ed effetto Keynes
• Effetto ricchezza di Pigou: se, per effetto della riduzione di P, i
consumatori si sentono più ricchi, la domanda di beni di consumo sale
• Questo perché una riduzione di P induce un aumento del valore della
moneta detenuta (se P , si ha 1/P ).
• Tale aumento del potere di acquisto della moneta fa sì che con la
stessa quantità di moneta ogni consumatore possa comprare più beni e
servizi. Questo fa sentire il consumatore più ricco, e quindi lo induce
ad accrescere i consumi (1/P   C) ovvero una delle (anzi, la
principale!) componenti della AD.
• Effetto tasso di interesse di Keynes: se P diminuisce, la domanda di
moneta Md si riduce perché per ogni dato livello di r (cioè a parità di
costo opportunità) gli agenti hanno bisogno di meno moneta per
realizzare gli scambi desiderati.
• Data l’offerta di moneta Ms, l’effetto della riduzione di Md è di far
diminuire il tasso r di equilibrio. Questo induce un aumento degli
investimenti e quindi della AD.
• La catena logica è: P   Md  r  I
Aggiustamento classico
La riduzione di P fa crescere sia C che I
e quindi riporta la AD al livello iniziale.
Y1 non è un equilibrio, solo YFE lo è!
C,S,
I, AD
AD1
E
AD2
A
45°
Y1
YFE
Y
L’intervento del policy-maker
• L’aggiustamento classico richiede che i prezzi siano
flessibili. Ma cosa succede se i prezzi sono, per vari motivi,
“vischiosi”, cioè “lenti” ad aggiustarsi?
• Succede che il sistema permane in A e quindi, secondo
Keynes, è necessario un intervento “esogeno” per
modificare l’equilibrio, ovvero l’azione del policy-maker.
• Il policy-maker può reagire ad una recessione in due modi:
– Può astenersi dall’intervenire, attendendo che il meccanismo di
mercato (= l’aggiustamento automatico di prezzi e salari previsto
dalla macro “classica”) riporti il sistema in equilibrio di LP.
– Può intervenire per espandere la AD usando la politica monetaria
e/o fiscale (politica economica c.d. “interventista” o keynesiana).
• La differenza tra l’approccio classico e keynesiano riflette
quindi una diversa fiducia nel buon funzionamento del
sistema dei prezzi  Keynes è allievo di Marshall!
Stabilizzare la AD
• Le variazioni della spesa per consumi ed investimenti spostano la
curva AD, inducendo fluttuazioni del reddito e dell’occupazione.
• Il ciclo economico ha dunque una spiegazione: sono le oscillazioni
del PIL indotte dagli spostamenti della AD.
• Come detto, nella visione classica le fluttuazioni cicliche sono
solo di BP. Esse però sono comunque indesiderabili perché
causano una temporanea situazione di sottoccupazione delle
risorse.
– Ecco quindi che anche nella visione classica si apre uno spazio per
l’intervento del policy-maker.
• Nella visione keynesiana i costi di tali fluttuazioni sono ancora più
evidenti, dato che il sistema può permanere a lungo (al limite, per
sempre!) in condizioni di sottoccupazione.
• Obiettivo delle c.d. politiche di stabilizzazione è di tenere sotto
controllo la AD, e quindi annullare, o comunque ridurre, le
fluttuazioni dell’economia.
• Due tipi di politiche: politica monetaria e politica fiscale.
Politica monetaria espansiva
• Il policy-maker (in questo caso, la Banca Centrale)
può utilizzare la politica monetaria per tenere sotto
controllo la domanda aggregata.
• Politica monetaria espansiva:
 Un aumento di Ms induce, a parità di Md, una riduzione di r*.
 La riduzione di r* aumenta, per ogni dato livello di P, la
domanda di investimenti.
 La AD si sposta verso l’alto, contrastando un’eventuale
recessione.
• Viceversa una politica monetaria restrittiva comporta
una riduzione di Ms che induce, a parità di Md, un
aumento di r* che a sua volta fa diminuire la domanda
di investimenti a parità di P, e quindi sposta la AD
verso il basso.
Effetto di una politica monetaria espansiva
(b) “Croce” keynesiana
(a) Mercato della moneta
r
Ms1
AD
Ms2
AD2
E
r*
r**
I
AD1
B
I
A
C
Md(P )
M
Y1
YFE
Y
I limiti della politica monetaria
• Stabilizzare la domanda aggregata utilizzando la politica monetaria
solleva due problemi.
• Primo, la BC non ha il completo controllo dell’offerta di moneta. Un
aumento della base monetaria potrebbe quindi spostare troppo, o
troppo poco, la AD.
– Questo è il motivo per cui Keynes, che nasce come economista monetario, negli
anni Trenta “abbandona” la politica monetaria e si concentra su quella fiscale.
• Secondo, aumentare l’offerta di moneta ha un effetto diretto sul tasso
di inflazione (vedi TQM).
• In presenza di una recessione generata da una riduzione della AD ciò
non crea eccessivi problemi. Ma cosa accade se la recessione è dovuta
ad una riduzione dell’offerta aggregata (p.e. uno shock petrolifero che
fa salire i costi di produzione e quindi riduce l’output delle imprese)?
– Accade che stimolare la AD in una situazione che già in partenza è di eccesso di
domanda fa “esplodere” l’inflazione senza che il reddito di equilibrio possa
ulteriormente aumentare. Si hanno così contemporaneamente più inflazione e
più disoccupazione, ovvero una c.d. stagflazione.
– Questo è quanto accaduto negli anni Settanta (p.e. in Italia l’inflazione superò il
25%) ed è ciò che ha portato ad abbandonare politiche monetarie di tipo
keynesiano  la “croce” keynesiana non è adatta per studiare tali situazioni.
La politica fiscale
• Il termine politica fiscale si riferisce alle azioni del policymaker relative sia alla spesa pubblica G che alle tasse T.
– Dato che G e T sono le due componenti del bilancio pubblico, si
parla anche di politica di bilancio.
• Nel LP sappiamo che la politica fiscale influenza i risparmi,
gli investimenti e la crescita.
• Nel BP la politica fiscale influenza direttamente la domanda
aggregata spostando la AD.
– Infatti, in presenza dello Stato, sappiamo che sia G che T sono tra
le determinanti della AD.
• Mentre nel LP è importante come lo Stato spende le risorse
e dove e come le preleva, nel BP conta solo l’entità, non la
“composizione” di G e T.
Gli effetti della politica fiscale sulla AD
• La politica fiscale ha un effetto sia diretto che indiretto sulla AD:
– Effetto diretto: G  AD
– L’effetto indiretto si ha attraverso l’influenza della spesa pubblica
sulle scelte di consumo e investimento degli agenti privati.
• Due effetti indiretti di G:
 Effetto moltiplicatore (moltiplicatore keynesiano)
 Effetto spiazzamento (c.d. Treasury view)
• Inoltre, anche la politica fiscale, come quella monetaria, può avere un
effetto inflazionistico (c.d. inflazione da domanda). Questo nei casi in
cui la recessione è causata da una riduzione dell’offerta aggregata
oppure quando la spesa pubblica cresce troppo e “spinge” il sistema
oltre YFE ( eccesso di domanda senza che esistano nel sistema
risorse “libere” per soddisfarla).
L’effetto moltiplicatore
• Il moltiplicatore keynesiano funziona come quello monetario: ogni
euro in più speso dallo Stato aumenta la AD di molto più che un euro
(effetto moltiplicativo).
• Esempio: lo Stato paga con G dei lavoratori assunti per scavare
buche e riempirle (!). I lavoratori spendono (parte di) tale nuovo
reddito per acquistare beni e servizi. I venditori di beni e servizi usano
(in parte) il ricavato per acquistare a loro volta altri beni e servizi, e
così via. L’effetto totale di incremento della domanda aggregata è
maggiore del G iniziale.
• Il concetto chiave del moltiplicatore è la propensione marginale al
consumo PMC, ovvero la pct. di ogni euro di reddito extra che ogni
agente decide di spendere invece che trattenere come risparmio.
– La PMC gioca un ruolo analogo al coefficiente re nel moltiplicatore monetario
• Formula del moltiplicatore: m = 1/(1-PMC)  AD = m G, cioè un
aumento G della spesa pubblica causa un incremento AD della
domanda aggregata pari a m volte il G iniziale.
– Esempio: se PMC = 80% (cioè per ogni € aggiuntivo di reddito ne viene speso
0.8), sarà m = 5. Per cui G = 100€ genera un aumento della AD pari a 500€.
AD
2. Effetto totale:
AD >> G = 100€
AD3
AD2
AD1
1. Effetto diretto
G = 100€  AD =100€
0
Y
L’effetto spiazzamento
• La politica fiscale può avere un effetto sulla AD molto minore di
quanto previsto dal moltiplicatore keynesiano.
• Secondo la c.d. Treasury view (o punto di vista del Ministero del
Tesoro), l’aumento della spesa pubblica farà crescere il tasso di
interesse (perché l’aumento del reddito aumenta la domanda di
moneta Md a parità di offerta Ms) e quindi ridurrà la domanda di
investimenti.
• Si dice che la spesa pubblica spiazza gli investimenti privati: secondo
il Tesoro, quindi, G non produce effetti espansivi rilevanti (ma
genera un deficit di bilancio pubblico!).
• L’effetto spiazzamento da un lato riduce l’effetto espansivo della
spesa pubblica e, dall’altro, cambia la composizione della AD: alla
fine, infatti, vi sarà una maggiore componente di spesa pubblica ed
una minore componente di I.
• Esiste tuttavia anche un terzo effetto, detto effetto acceleratore degli
investimenti (vedi Cavalieri, Cap. 13, §8): le imprese aumentano la
domanda di beni di investimento per incrementare la produzione al
fine di far fronte alla maggiore AD indotta dall’effetto moltiplicatore.
(b) “Croce” keynesiana
(a) Mercato della moneta
AD
r
Ms
Effetto
spiazzamento
AD3
AD4
AD1
r2
r1
MD2
MD1
M
Y
La variazione delle imposte
• Una riduzione delle imposte aumenta il reddito disponibile delle
famiglie. Parte di questo reddito extra viene consumato e parte viene
risparmiato secondo la proporzione data dalla PMC.
• L’effetto sulla AD è identico a quello del moltiplicatore della spesa
pubblica: AD = mT
– In altre parole, una riduzione del gettito fiscale pari a T genera un
incremento di domanda aggregata pari a m volte T.
– In realtà il moltiplicatore funziona allo stesso modo per qualsiasi
variazione delle componenti esogene della AD (cioè delle
componenti che non dipendono da Y, r o P)
• Anche in questo caso vi può essere un effetto spiazzamento su I, ma
stavolta la composizione della AD varia a favore del settore privato.
• E’ importante anche la percezione che le famiglie hanno della
permanenza o meno della riduzione delle imposte.
– Secondo la c.d. ipotesi del reddito permanente, solo se l’aumento del reddito
disponibile (qualunque ne sia la causa) è percepita come permanente l’effetto è
quello massimo possibile (vedi Cavalieri, Cap.2, §§8-9).
Pro e contro la stabilizzazione (1)
• Il policy-maker deve cercare di stabilizzare l’economia attraverso il
controllo della AD? Su questo punto gli economisti non concordano.
• L’argomento a favore (sostenuto in particolare dagli economisti di
approccio keynesiano) è basato sull’idea che combinando politica
monetaria e fiscale il governo possa eliminare le fluttuazioni
economiche, e quindi garantire che Y sia sempre pari a YFE: è il c.d.
fine tuning dell’economia (alla base anche dell’analogo uso
discrezionale del trade-off della curva di Phillips  vedi).
• In particolare, si ritiene che il settore privato dell’economia sia
intrinsecamente instabile e troppo condizionato nei suoi consumi ed
investimenti da variabili psicologiche (gli animal spirits di Keynes).
• Dato che tale instabilità si rifletterebbe in notevoli fluttuazioni del
PIL, l’intervento pubblico è necessario per contrastare le ondate di
pessimismo o di euforia, come pure per assorbire eventuali shocks
esogeni sulla AD.
• Se si lasciasse fare al mercato, il ritorno a YFE richiederebbe troppo
tempo, con costi eccessivi in termini economici e sociali.
Pro e contro la stabilizzazione (2)
• L’argomento contro (sostenuto in particolare dalla c.d. nuova
macroeconomia classica) è basato sull’idea che tentare di stabilizzare
l’economia con politiche discrezionali è impossibile.
• Questo per due motivi in particolare: i) i ritardi con cui la politica
economica (specie fiscale) ha effetto; ii) le difficoltà di previsione e/o
di raccolta di dati statistici affidabili.
– Spesso il ritardo è tale che l’intervento pubblico giunge quando il sistema è già
tornato da sé vicino ad YFE. In questi casi l’intervento di politica economica
finisce per destabilizzare ulteriormente l’economia.
• Inoltre le politiche di tipo keynesiano, troppo concentrate sul lato della
AD, sono controproducenti quando l’instabilità è dovuta a shocks
sull’offerta aggregata. In tali casi l’effetto che si ottiene è di far
aumentare l’inflazione senza benefici rispetto al reddito di equilibrio.
• Infine, le politiche fiscali generano un deficit di bilancio. Questo nel
LP mina le possibilità di crescita del sistema economico.
• L’alternativa è abbandonare le politiche discrezionali e seguire regole
fisse che siano un punto di riferimento credibile e affidabile per gli
agenti (idea di M. Friedman). Questo agevola la stabilità del sistema.
Da cosa dipende NX
• La bilancia commerciale dipende da vari fattori:
– Le preferenze dei consumatori per i beni nazionali ed esteri.
– Le politiche dei governi nei confronti del commercio con
l’estero (tariffe, quote, ecc.).
– I costi di trasporto dei beni.
– Il prezzo dei beni e servizi all’interno (P) ed all’estero (P*).
– Il tasso di cambio e a cui si può acquistare valuta estera usando
valuta locale.
• Ciascuno di questi fattori può incrementare o ridurre sia la quantità
che il valore delle importazioni e delle esportazioni.
• Dato che NX è una componente della AD, al mutare di una delle
determinanti si genere una variazione di NX e quindi anche uno
spostamento della AD.
• In particolare, ci soffermiamo sul ruolo del tasso di cambio e dei
prezzi nazionali ed esteri. Possiamo quindi scrivere:
NX = NX0 + f(P, P*, e)
dove NX0 indica la componente autonoma di NX.
Tassi di cambio nominali e reali
• Le transazioni internazionali dipendono dai prezzi
internazionali. I due principali prezzi internazionali sono
il tasso di cambio nominale e quello reale.
• Il tasso di cambio nominale è il prezzo di una valuta in
termini di un’altra valuta, ovvero il rapporto con cui si
può trasformare una valuta in un’altra.
• Il tasso di cambio reale è il rapporto con cui è possibile
scambiare i beni e servizi di un paese con gli stessi beni e
servizi di un altro paese. E’ un indice della competitività
di un sistema economico.
Il tasso di cambio nominale
• Il cambio nominale e si può esprimere in due modi:
– In unità di valuta estera per una unità di valuta locale (p.e. quanti
dollari ci vogliono per comprare una lira?).
– In unità di valuta locale per una unità di valuta estera (p.e. quante
lire ci vogliono per comprare un dollaro?).
– N.b.: in Italia eravamo abituati ad usare il secondo metodo, ma con
l’avvento dell’euro si usa il primo metodo: p.e. quanti yen o dollari
ci vogliono per comprare un euro?
• Se oggi con un euro posso comprare più unità di valuta
estera di ieri si dice che l’euro si è apprezzato. Viceversa si
dice che l’euro si è deprezzato.
• In un sistema di cambi flessibili, il tasso di cambio nominale
oscilla liberamente sul mercato in base a domanda e offerta
delle varie valute. Invece in un sistema di cambi fissi, o
semi-fissi, il cambio è mantenuto ad un valore predefinito
dalla Banca Centrale
Il tasso di cambio reale
• Il cambio reale s mette a confronto i prezzi dei medesimi
beni e servizi nazionali ed esteri.
• P.e. se un hamburger di McDonald costa la metà in Italia
che non in USA, il cambio reale è 1/2 (cioè con un
hamburger USA “compro” 2 hamburger in Italia).
• Il cambio reale s dipende dal cambio nominale e e dai
prezzi dei beni nazionali ed esteri misurati in valuta
nazionale. La formula è: s = e (P/P*)
• Considerando un paniere tipo di beni e servizi, possiamo
usare come P e P* i relativi CPI: il cambio reale indicherà
in quale dei due paesi il paniere tipo costa meno.
A cosa serve il cambio reale
• Il cambio reale è uno dei fattori cruciali per spiegare la
bilancia commerciale NX di un paese.
• Se un paese ha un basso cambio reale, allora i suoi beni
sono relativamente meno costosi rispetto a quelli esteri.
 N.b.: una riduzione del cambio reale (s) si ha se e e/o
P e/o P*
• In breve, il cambio reale è un indice della competitività di
un paese in termini di un dato paniere di beni e servizi.
• I consumatori, sia nazionali che esteri, tenderanno a
comprare i beni del paese con un basso cambio reale. La
bilancia commerciale NX di quel paese pertanto migliorerà,
inducendo uno spostamento verso l’alto della curva AD.
Legge del prezzo unico e teoria PPP
• La legge del prezzo unico è il principio che afferma che uno stesso
bene deve avere lo stesso prezzo ovunque sia venduto.
– Tale legge vale, in generale, anche per gli scambi internazionali.
• La legge del prezzo unico si regge sul c.d. principio di non
arbitraggio: se la legge non valesse, e quindi un medesimo bene
fosse venduto a prezzo diverso in due diversi paesi, esisterebbero
opportunità di arbitraggio profittevole non sfruttate, ma questo è
impossibile in un mondo di agenti economici razionali.
– Ovviamente, la legge esprime solo una tendenza di lungo periodo e non vale
per ampie categorie di beni e servizi (c.d. beni e servizi non commerciabili,
cioè che non possono essere esportati)
• La teoria della parità del potere di acquisto (purchasing power
parity, PPP) è la più vecchia, semplice e diffusa spiegazione del
tasso di cambio nominale in equilibrio di lungo periodo.
• Il principio base della PPP è che una data somma di certa valuta
deve poter comprare la stessa quantità di beni in tutti i paesi,
ovvero deve avere ovunque lo stesso potere di acquisto.
• La PPP si può esprimere dicendo che s = 1 deve valere
come condizione di equilibrio di lungo periodo.
• Affinché il potere di acquisto di una somma di denaro possa
essere lo stesso in tutti i paesi, il tasso di cambio nominale e
deve aggiustarsi:
1 = e (P / P*)
da cui: e = P*/P.
• In pratica, la PPP richiede che il cambio nominale rifletta le
differenze nei livelli di prezzo dei diversi paesi.
• Segue che, in base alla teoria PPP, i paesi con un’inflazione
relativamente più elevata avranno una valuta che si deprezza
nel tempo (infatti: e se P per mantenere s = 1), mentre la
valuta dei paesi con minore inflazione si apprezza.
• La PPP spiega dunque i movimenti di lungo periodo del
cambio nominale: il cambio e varia finché non raggiunge il
livello di equilibrio previsto dalla PPP.
I limiti della teoria PPP
• Insieme alla TQM, la PPP è l’altro caposaldo della c.d.
teoria monetaria “classica”. Entrambe le teorie valgono
però solo come condizioni di equilibrio di lungo periodo.
• In particolare, la PPP è violata in presenza dei beni e servizi
c.d. non commerciabili, dato che per essi la non vale legge
del prezzo unico.
– Questo significa che i settori che producono beni e servizi non
commerciabili sono “protetti” dalla concorrenza internazionale,
mentre tutti gli altri settori sono “esposti” a tale concorrenza.
– In un paese può aversi inflazione elevata a causa degli aumenti di
prezzi e salari nei settori “protetti” o di un eccessivo livello di
spesa pubblica; tale inflazione si ripercuote sulla competitività dei
settori “esposti”. Se il cambio nominale del paese non può
aggiustarsi (p.e. perché il paese aderisce ad un accordo di cambio
rigido oppure perché non ha più una propria valuta), i settori
“esposti” perdono quote di mercato di fronte alla concorrenza
internazionale. Qualche idea su quale possa essere tale paese?
Qual è l’effetto se i settori “esposti” sono anche i più innovativi?
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MACRO VI