ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI “LUIGI LUZZATTI” TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO “CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04 MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Università degli studi di Sassari Facoltà di Economia UN CONFRONTO TRA FORME ISTITUZIONALI D’IMPRESA: IL CASO DEL SETTORE CASEARIO IN SARDEGNA Relatore PROF. DANIELE PORCHEDDU Correlatore: PROF. LUCA FERRUCCI Tesi di laurea di: MURA GAVINO Anno Accademico 2003-2004 2 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” INDICE Introduzione ________________________________________________ 5 I. La filiera lattiero-casearia_________________________________ 8 1. Premessa ____________________________________________ 8 2. L’agroalimentare in Sardegna __________________________ 10 3. Il comparto lattiero-caseario sardo _______________________ 13 3.1 Il Pecorino romano ___________________________________ 16 3.1.1 Il prodotto __________________________________________ 16 3.1.2 L’iter di riconoscimento _______________________________ 20 3.1.3 Il ruolo del Consorzio_________________________________ 22 3.1.4 Il disciplinare di produzione____________________________ 24 3.1.5 La commercializzazione del prodotto ____________________ 27 4. L’evoluzione storica __________________________________ 30 4.1 Le origini del formaggio_______________________________ 30 4.2 La storia della pastorizia sarda __________________________ 36 4.3 Evoluzione storica del sistema di trasformazione del latte ____ 44 4.3.1 L’industrializzazione _________________________________ 44 4.3.2 La nascita delle cooperative e l’esperienza fascista __________ 59 4.3.3 Il dopoguerra e la diffusione delle cooperative _____________ 64 5. II. Considerazioni conclusive _____________________________ 84 Le ipotesi formulate _____________________________________ 86 1. Premessa ___________________________________________ 86 2. La dimensione delle imprese casearie sarde _______________ 95 3. La struttura finanziaria delle imprese di trasformazione ______ 98 4. Intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro____________ 110 5. La redditività ______________________________________ 111 3 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 6. La produttività dei fattori capitale e lavoro nelle imprese di trasformazione sarde _____________________________________ 117 III. Metodologia del lavoro ________________________________ 128 1. La costruzione del campione __________________________ 128 2. La banca dati ______________________________________ 130 3. Gli indicatori utilizzati _______________________________ 139 3.1. Gli indicatori di scala ________________________________ 142 3.2 Gli indicatori finanziari ______________________________ 146 3.3 Gli indicatori di produttività e intensità di impiego dei fattori 152 3.4 Gli indicatori di redditività ____________________________ 155 4. Descrizione del test di Mann-Withney impiegato nel lavoro__ 159 Appendice: Descrizione estesa degli indicatori impiegati nel lavoro. 162 IV. Risultati dell’indagine empirica_________________________ 163 1. Premessa __________________________________________ 163 2. Indicatori di scala ___________________________________ 164 3. La struttura finanziaria delle cooperative_________________ 169 4. Indicatori di intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro _ 180 5. Gli indicatori di Redditività ___________________________ 181 6. Indicatori di Produttività _____________________________ 188 7. Conclusioni________________________________________ 191 Appendice 1. ___________________________________________ 194 Appendice 2. ___________________________________________ 195 Bibliografia ____________________________________________ 196 4 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Introduzione Nelle economie di mercato il tipo di impresa più comune è quello capitalistico, in cui il proprietario del capitale ha una posizione centrale nell’impresa stessa: egli è titolare della stessa, o quanto meno esercita su di essa una qualche forma di controllo, e ha diritto ai profitti. Meno comuni sono invece le imprese cooperative in cui i lavoratori, o i possessori di altri inputs, hanno il controllo dell’impresa (Grillo e Silva, p. 359). Nel contesto settoriale che si esaminerà in questo lavoro, cioè quello del comparto di trasformazione lattiero-caseario sardo, si vedrà come le cooperative occupino un ruolo rilevante. Si cercherà, quindi, di confrontare le forme istituzionali d’impresa all’interno di tale ambito settoriale. Per effettuare un confronto tra forme istituzionali d’impresa occorre inquadrare il campo dove tale comparazione si svolge, è opportuno, quindi, tracciare una cornice che non deve solo guardare al contesto attuale, che vede il comparto caseario essere un punto di forza dell’economia sarda (ma non solo, in quanto le produzioni sarde costituiscono ormai circa il 70% delle produzioni ovine nazionali e quasi il 15% del totale dell’Unione europea), ma, deve partire dal passato, deve cioè analizzare come si è arrivati in tale “stato di cose”. 5 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Per fare ciò è stato predisposto un primo capitolo di carattere storicoevolutivo dove si partirà da una breve analisi del comparto agroalimentare, del quale il settore lattiero-caseario fa parte, per poi dare una fotografia del contesto attuale di tale settore, andando anche a vedere quelli che sono i prodotti principali e soffermandoci soprattutto sul Pecorino Romano. Infine attraverso un’analisi diacronica si delineeranno i momenti storici dell’industria casearia sarda con un breve cenno anche alle origini del formaggio e al mondo delle imprese pastorali sarde. Nel secondo capitolo verranno tracciate, invece, quelle che sono le principali ipotesi sulle forme istituzionali d’impresa. Nel terzo capitolo si presenterà la metodologia che è stata utilizzata in tale lavoro, per la raccolta dei dati, per la riclassificazione dei bilanci delle singole imprese, per la costruzione dei due campioni di imprese e per l’effettuazione dell’analisi statistica per la quale, come si vedrà in seguito, è stato utilizzato il test di Mann-Withney. Infine nel quarto capitolo si testeranno sul campo attraverso un analisi empirica le ipotesi formulate e si trarranno le dovute conclusioni. Si cercherà di dare un quadro delle possibili differenze che possono sussistere tra le due forme istituzionali d’impresa, senza però, indipendentemente dai risultati che si otterranno, voler attribuire ad una forma una supremazia assoluta rispetto all’altra, in quanto il successo di un organizzazione non dipende solo dalla forma istituzionale scelta ma anche 6 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” da una serie di variabili esterne ed interne che la circondano e dal percorso storico che il particolare settore ha effettuato. Inoltre il vantaggio comparato1 ha necessariamente una validità storica determinata, e quindi non definitivo ma contingente a quelle particolari condizioni storiche e sociali all’interno delle quali l’analisi ha preso le mosse. Se quindi la nostra analisi ci rileverà che in questo momento storico, l’impresa cooperativa gode di un vantaggio comparato sulle forme organizzative alternative, può tuttavia darsi il caso che in un contesto storico diverso l’impresa cooperativa venga a perdere il suo primato a favore di una forma organizzativa differente. 1 Una forma organizzativa gode di un vantaggio comparato relativamente a un certo bene o servizio qualora per i soggetti appartenenti a forme organizzative diverse risulti conveniente acquistare tale bene o servizio dai soggetti che godono del vantaggio comparato piuttosto che produrlo autonomamente (Zamagni, 1993). 7 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Capitolo 1 I. La filiera lattiero-casearia 1. Premessa Nel confronto tra forme istituzionali di impresa nel settore lattiero-caseario occorre, innanzitutto, dare un inquadramento dell’intera filiera2 sia nel contesto attuale che, seguendo l’approccio evoluzionistico, nel suo contesto storico. Il filone evoluzionistico affonda le sue radici nella tradizione americana basata su un approccio di studio storicizzato e fondato sulla ricostruzione di casi di settore o di imprese. Tale approccio fa si che l’impresa esiste come risultato di un processo storico, indipendentemente da spiegazioni logiche e efficientistiche. In altre parole, le imprese e le istituzioni possono esistere ed avere certe caratteristiche semplicemente perché storicamente si sono accumulate situazioni e condizioni che hanno caratterizzato l’organizzazione (Ferrucci, 2000). In questa prospettiva evoluzionistica di chiara matrice lamarkiana l’impresa si caratterizza nel suo comportamento per un lungo percorso caratterizzato da prove ed errori, nel quale assumono un ruolo di centrale importanza le concrete esperienze e 2 La filiera è un percorso che un prodotto, o gruppo di prodotti, segue all’interno del sistema agro-alimentare, interessando tutti i soggetti e le operazioni che portano dalla produzione al consumo finale; in tale struttura organizzativa, l’operatore che mantiene il contatto con il mercato finale si trova nella condizione di poter gestire l’intera filiera. 8 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” sperimentazioni vissute nel corso del tempo (Di Bernardo, Rullani, 1995). Lo stock sedimentato di conoscenze, competenze e capacità dell’impresa risultano perciò il risultato irripetibile della sua storia e ne condizionano quindi le capacità progettuali e strategiche (Nelson, 1995 cit. in Ferrucci, 2000). In questo paradigma evoluzionistico pertanto la specificità dell’impresa (sia in termini di struttura che di comportamento) non deriva soltanto dall’influenza di variabili puramente oggettive (ad es. il modello istituzionale) e magari esogene, ma soprattutto dalle specifiche competenze e capacità sedimentate nel corso della sua storia, da cui discendono specifiche routine comportamentali (Nelson, Winter, 1982). Quindi le particolari competenze tecnico-organizzative che allo stato attuale caratterizzano l’apparato industriale caseario regionale sono indubbio frutto di una lenta sedimentazione nel tessuto sociale di quelle conoscenze e capacità esogene il cui meccanismo di formazione e diffusione, in continua evoluzione, deve considerarsi fondamentalmente endogeno allo stesso territorio e particolarmente proprio di determinate aree. Non a caso l’imprenditoria privata è andata concentrandosi nei luoghi che gia in epoca antica erano stati il principale centro di questa attività creando le condizioni ideali per il consolidarsi di veri e propri sistemi locali di produzione che allo stato attuale è possibile rinvenire in certe zone dell’isola. Non si può, infatti, trascurare che il particolare meccanismo di propagazione con il quale si è andata evolvendo la filiera lattiero-casearia è similare a quello che ha portato alla formazione dei Distretti Industriali (Brusco, 1989, cit. in 9 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Idda, 1995). Ed è il permanere di questo tipo di meccanismo di trasmissione delle conoscenze che ha permesso di lasciare inalterata negli anni la natura di questi sistemi locali nonostante il mutare degli eventi esterni e il relativo adattarsi dei comportamenti. Il nucleo caratteristico di valori, conoscenze ed istituzioni, ed il sistema dei rapporti fondamentali non è cambiato riuscendo in tal modo a garantire la conservazione dell’identità di tale sistema (Beccattini e Rullani 1993, cit. in Idda, 1995). 2. L’agroalimentare in Sardegna Tutti i paesi che hanno raggiunto un certo grado di prosperità e di progresso civile, debbono la loro fortuna al prolungato, libero e spesso incoraggiato sfruttamento delle loro particolari risorse (Alivia, 1921). Il comparto agroalimentare nel suo complesso è la più importante realtà produttiva della Sardegna: assorbe il 14% della forza lavoro, contro una percentuale dell’11,5% nazionale, il processo d’espulsione di occupati dal settore appare molto meno accentuato nell’isola (-1,6%) di quanto non lo sia nel mezzogiorno (-3,1%) o per l’intera Italia (-2,5%). Il sistema agroalimentare in Sardegna non contiene aspetti tali da farne un modello originale e di natura a se stante, piuttosto le sue connotazioni geografico territoriali, la composizione tipologica delle filiere, le dotazioni strutturali e tutte quelle variabili che lo distinguono aggiungono elementi qualiquantitativi al modello senza con ciò influenzare ne il verso funzionale ne la 10 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” sua forma. D’altra parte, lo stesso segmento agricolo dimostra di soffrire di problemi che sono condizioni ben note e tipiche dell’intero sistema agroalimentare italiano. Ad esempio, i vincoli che derivano dall’assetto fondiario si concretizzano in ridotte dimensioni aziendali, in un elevato grado di frazionamento delle superfici e, per le aziende cerealicole e viticole, in un eccessiva approssimazione dell’ubicazione delle stesse culture. Ritroviamo la medesima mancanza di specificità nelle questioni riguardanti la gestione dell’azienda agraria. Tecniche e forme di allevamento tradizionali sono di condizionamento sia per le culture viticole che per quelle olivicole. Nello specifico, l’utilizzo di tecniche produttive meno che efficienti e irrazionali accomuna il settore dell’allevamento ovicaprino e quello cerealicolo. Nel primo vengono in evidenza un alimentazione irrazionale e tecniche di riproduzione insoddisfacenti, nel secondo, sono le inefficienze agronomiche, di sistemazione dei terreni e di rotazione che limitano la capacità operative dell’azienda (Idda, 1995). A questi problemi si aggiungono l’eccessivo indebitamento delle aziende, la scarsa propensione delle stesse agli investimenti legata essenzialmente all’incertezza dei finanziamenti, la scarsa competitività sul mercato, le questioni inerenti all’energia, alla continuità territoriale, alle risorse idriche ed una serie di emergenze che fanno apparire sempre più incerto il futuro del settore primario (mucca pazza, peste suina, lingua blu). Sulla nostra agricoltura influiscono anche i condizionamenti imposti dall’Unione Europea (norme igienico sanitarie, organizzazioni comuni di mercato, aiuti 11 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” di stato, rispetto delle norme ambientali) che rischiano di farle perdere ulteriore competitività, sia a livello comunitario che nazionale, se non sarà in grado di utilizzare entro il 2006, data di ingresso nell’Unione Europea dei paesi dell’Europa centro-orientale, le consistenti risorse finanziarie messe a disposizione nell’ambito del quadro unitario di sostegno. Tabella 1 L'agricoltura sarde in cifre:Tutti i dati si riferiscono al 2001, tranne quelli relativi agli scambi agroalimentari che sono aggiornati al 31-12-2002. L' AGRICOLTURA SARDA IN CIFRE superficie agricola totale (ettari) superficie agricola utilizzata (Sau) di cui: erbacee legnose Pascoli e prato pascoli superficie irrigua aziende agrarie (numero) dimensione media (ettari) occupati in agricoltura (numero) trattrici (numero) reddito medio annuo (euro) produzione lorda vendibile produzione lorda vendibile per settori di attività Allevamenti colture erbacee colture arboree scambi agroalimentari (migliaia di euro) Importazioni Esportazioni Di cui: formaggi di pasta dura e semidura 1.713.170 1.022.901 30,4% 11,8% 46% 62.315 112.692 15,27 46.000 23.921 426,2 1.543.323 100 33,9% 30,4% 11,8% 227.122 169.063 105.648 Fonte: "Sardegna Industriale" su dati Istat e Inea. Anche il segmento trasformativo presenta una serie di omogeneità che non lo discostano dalla linea di tendenza generale. Il numero eccessivo e la 12 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” dimensione aziendale insufficiente caratterizzano, in genere, tutti quegli impianti gestiti tramite una forma cooperativa. Si tratta in particolare dei comparti caseario e vitinicolo, i quali affrontano i problemi di un offerta della materia prima scarsamente differenziata e difficilmente orientabile e, contemporaneamente vivono una organizzazione delle proprie vendite connotata da fragilità dei legami commerciali e da una tipologia di prodotti poco orientata al mercato (Idda, 1995, p.10). 3. Il comparto lattiero-caseario sardo Nel sistema agroalimentare della Sardegna il comparto lattiero-caseario occupa una posizione di risalto. Nell’isola, infatti, il sistema di allevamento della pecora da latte ha registrato, negli ultimi trent’anni, un eccezionale intensificazione. Questo fatto ha determinato un aumento della produzione di latte ovino tale da rendere unica la situazione di mercato della Sardegna rispetto a quella degli altri bacini di produzione: 4.700.000 quintali, di cui si stima che 900.000 siano destinati all’alimentazione degli agnelli e 3.800.000 alla trasformazione. Nel 2000, con un valore medio annuo pari a 196 milioni di euro, la produzione di latte ovino ha rappresentato il 13,4% della Plv regionale, mentre l’offerta di formaggio, stimata intorno ai 300 milioni di euro, è riuscita a coprire il 25% del fatturato industriale. 13 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Tabella 2 Patrimonio zootecnico sardo. PATRIMONIO ZOOTECNICO SARDO Numero capi Numero capi/azienda Numero aziende BOVINI 249.350 28,7 8.595 BUFALINI 984 123 8 SUINI 193.947 15 12.930 OVINI 2.808.713 194 14.477 CAPRINI 209.487 64 3.273 EQUINI 16.487 3,7 4.455 AVICOLI CUNICOLI 1.139.323 232 4.910 Fonte: Istat, Inea -Ufficio contabilità agraria per la Sardegna anno 2001. L’allevamento ovino, che si attua su 17000 aziende, occupa 14-15 mila unità mentre sono 2000 quelle occupate nel settore industriale. Il sistema di trasformazione regionale ha perduto quasi integralmente il carattere artigianale di produzione presso l’azienda pastorale; modalità che si conserva, attualmente, quasi soltanto per il formaggio Fiore Sardo. Solo una piccola parte, circa il 5%, viene destinato alla trasformazione nell’ambito famigliare, al di fuori della rete commerciale. La trasformazione industriale coinvolge 130 imprese, di cui 90 circa caseifici di proprietà privata (Porcheddu, 2004)3, che trasformano circa il 59,7% della produzione di latte, e 43 stabilimenti ad organizzazione cooperativistica che raccolgono il 41,3% del latte presente nel mercato. La produzione totale di formaggi oscilla, attualmente, intorno ai 600 mila quintali, il 50% dei quali è rappresentato dal Pecorino Romano. Il panorama dei prodotti caseari ovini risulta composto da formaggi a pasta dura, 3 Si ha motivo di credere, comunque, che le imprese capitalistiche di una certa rilevanza per fatturato non superino le 50 unità (Porcheddu, 2004). 14 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” semidura, molli, ricotte e altri prodotti tipici. Nel loro insieme costituiscono un fatturato stimato in 300-310 milioni di euro, pari al 25% dell’intero fatturato agro-industriale della Sardegna. Nel 2002 l’export dei prodotti lattiero-caseari, in prevalenza formaggi ovini a pasta dura (per lo più Pecorino romano), ha raggiunto il valore di 106 milioni di euro, che colloca l’isola al terzo posto tra le regioni italiane. Gli altri formaggi ovi-caprini rappresentano circa il 48% e comprendono Pecorino sardo dop per 60 mila quintali; fiore sardo dop per circa 3000 quintali; diversi tipi di Canestrati: Calcagno, Crotonese, Pepato, Foggiano, Feta (circa 20-25 mila quintali prodotti per due terzi nelle cooperative); formaggi a pasta molle (stagionatura medio-breve 25-40 giorni) tipo Caciotta o Caciottone, oppure a rapida maturazione tipo Bonassai, per una produzione stimata intorno ai 100 mila quintali di cui l’80% prodotto da industrie private; prodotti freschi come la ricotta gentile prodotta in quantità pari a circa 100-120 mila quintali, consumata in parte in Sardegna e in parte esportata nella penisola; le stagionate ricotte Testa di Morto, Toscanella, Moliterna e Mustia, a conservazione medio-lunga. Altri formaggi non classificati nei dop ma del tipo Pecorino Sardo, per 100 mila quintali circa. 15 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Tabella 3 Produzione di formaggi ovini in Sardegna. PRODUZIONE DI FORMAGGI OVINI IN SARDEGNA QUINTALI % PECORINO ROMANO DOP 333.210 44,83 PECORINO SARDO DOP 62.000 8,34 PECORINO FIORE SARDO DOP 3.000 0,40 CANESTRAI 25.000 3,36 A PASTA MOLLE 100.000 13,46 TIPO PECORINO SARDO 100.000 13,46 RICOTTA GENTILE 120.000 16,15 TOTALE 743.210 100 Fonte: elaborazione "Sardegna Industriale" su dati Aras e Consorzi di tutela. 3.1 Il Pecorino romano 3.1.1 Il prodotto Formaggio di antichissima tradizione, il Pecorino Romano ha nell’Agro romano la sua area di origine. Dal periodo romano, la tradizione produttiva si è tramandata nel corso del tempo fino al secolo scorso, momento in cui il baricentro produttivo si è spostato dal Lazio alla Sardegna, regione che attualmente rappresenta il principale produttore di Pecorino romano con oltre il 90% della produzione realizzata. Attualmente il Pecorino romano rappresenta uno dei principali formaggi Dop prodotti in Italia (7% in volume), preceduto solo da Grana Padano (32%), Parmigiano Reggiano (26%) e Gorgonzola (11%). 16 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” La sua importanza può essere meglio compresa se valutata in rapporto a quella degli altri formaggi pecorini (Fiore sardo, Pecorino sardo, Pecorino siciliano, Pecorino toscano). Complessivamente tale comparto rappresenta l’8% del mercato di formaggi Dop italiani, ma il solo Pecorino romano raggiunge in tale ambito una quota del 92%. Inoltre, nel contesto italiano spetta a questa Dop un ruolo leader in relazione al significativo peso che essa riveste nella bilancia commerciale, alimentando, infatti, un forte flusso verso l’estero. Spetta, infatti, al Pecorino Romano il 30% della quota di esportazione di formaggi Dop, contro il 28% del Grana Padano, il 18% del Gorgonzola e il 12% del Parmigiano Reggiano. L’analisi della fase a valle della filiera evidenzia infatti alcune caratteristiche peculiari: solo una quota pari a circa il 30% dell’offerta è destinata al consumo interno, mentre una fetta rilevante (il 70%) è indirizzata all’esportazione, con destinazione prevalente verso gli Stati Uniti. Il consumo differisce in maniera sostanziale nelle due aree di riferimento: mentre in Italia è prevalente il consumo diretto del Pecorino Romano, negli Usa una quota rilevante entra come ingrediente nelle preparazioni industriali e la parte destinata al consumo diretto viene commercializzata prevalentemente come formaggio da grattugia. Il ruolo che la produzione di Pecorino Romano riveste nel comparto ovicaprino italiano è, infatti, di estremo rilievo (cfr. tabella 4). 17 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Tabella 4 Produzione Pecorino Romano (quintali). PRODUZIONE DI PECORINO ROMANO ANNI SARDEGNA LAZIO TOTALE 1970-1971 135.740 26.150 161.890 1980-1981 154.000 29.000 183.000 1990-1991 243.493 66.967 310.460 1997-1998 317.299 28.570 345.869 1998-1999 282.635 20.367 303.002 1999-2000 318.094 18.407 336.501 2000-2001 332.221 20.861 353.082 2001-2002 299.542 20.491 320.033 Fonte: Sardegna Industriale. Figura 1 Produzione Pecorino Romano 400000 350000 QUINTALI 300000 250000 LAZIO 200000 SARDEGNA 150000 100000 50000 19 70 -1 19 971 80 -1 19 981 90 -1 19 991 97 -1 19 998 98 -1 19 999 99 -2 20 000 00 -2 20 001 01 -2 00 2 0 ANNI Fonte: nostre elaborazioni su dati Sardegna Industriale. DATI DI PRODUZIONE PECORINO ROMANO ULTIMO TRIENNIO 2000-2001 2001-2002 2002-2003 COOPERATIVE SARDEGNA Kg. 18.084.293 16.106.708 17.489.485 INDUSTRIALI SARDEGNA Kg. 15.137.838 13.847.536 12.258.331 PRODUZIONE SARDEGNA Kg. 33.222.131 29.954.244 29.747.816 PRODUZIONE LAZIO Kg. 2.086.141 2.049.091 1.250.716 TOTALE PRODUZIONE Kg. 35.308.272 3.200.335 30.998.532 alle 24ore alle 24ore alle 24ore TOTALE PRODUZIONE A VENDERE CON CALO PESO MEDIO 8% Kg. 32.483.610 29.443.068 28.518.649 Fonte: Nomisma. 18 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Figura2 Ripartizione della produzione di pecorino romano per tipologia di caseificio. 100% 90% 80% 42% 56% 55% 2% 1% 42% 44% 70% 60% 50% 40% 30% 58% 20% 10% 0% 1988/89 1993/94 1998/99 Imprese private associate Imprese private non associate Cooperative e Associaz. Produttori Fonte: Elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del Formaggio Pecorino romano. Se da un lato la quota della produzione riferita a caseifici non associati al Consorzio di Tutela si riduce, dall’altro si assiste ad un capovolgimento del ruolo rivestito da imprese private e cooperative. A queste ultime, infatti, nel 1988/89 afferiva una quota pari al 42% dell’offerta totale di Pecorino romano, mentre nel 1998/99 tale quota era salita al 58%. Speculari sono invece i pesi riferibili alle imprese private. 19 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3.1.2 L’iter di riconoscimento Il Pecorino romano è uno dei primi prodotti tipici italiani ad aver ottenuto riconoscimenti nazionali ed internazionali. Già nel 1951, in occasione della Convenzione di Stresa, il Pecorino romano è stato riconosciuto internazionalmente come Denominazione di Origine Tutelata (inserimento del prodotto nell’allegato A - Denominazioni con vincolo geografico). A livello nazionale, la Denominazione d’Origine ed il relativo standard di produzione vengono definiti, secondo i principi sanciti dalla legge 125/1954, dal D.p.r. n° 1269 del 30 ottobre 1955. Nel 1995 al disciplinare di produzione viene apportata un’importante modifica, sottoposta al vaglio dell’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Accanto ai tradizionali 8 mesi di stagionatura, che rendono il Pecorino romano un formaggio prevalentemente da grattugia, viene introdotto un tempo di stagionatura di 5 mesi, più adatto ai nuovi gusti del consumatore per il consumo del Pecorino romano come formaggio da tavola. Ma è l’anno seguente che, in conformità alla normativa comunitaria (Reg. Ue 2081/92), con il Reg. attuativo Ce 1107/96, il Pecorino romano entra a pieno titolo fra i prodotti agroalimentari a Denominazione di Origine Protetta (Dop). Infine, nel giugno del 1997, al Pecorino Romano viene riconosciuto dall’United States Patent and Trademark Office il marchio “Roman cheese made from sheep’s milk”, che consente al formaggio italiano di porsi 20 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” parzialmente al riparo da eventuali speculazioni commerciali in territorio statunitense. Tabella 5 Iter di riconoscimento del Pecorino Romano. 1951 1951 -- Convenzione Convenzione internaz. internaz. di di Stresa Stresa Riconoscimento ed inserimento del Pecorino Romano nell’Allegato A - Denominazione di origine DPR DPR n. n. 1269/55 1269/55 Riconoscimento della Denominazione di origine tutelata ai sensi della legge 125/54 “Tutela delle denominazioni di origine e tipiche dei formaggi” e definizione del relativo standard di produzione Decreto Decreto del del MiRAAF MiRAAF -- 6 6 giugno giugno 1995 1995 Modifiche al disciplinare di produzione della denominazione di origine del formaggio "Pecorino Romano Reg. Reg. (CE) (CE) 1107/96 1107/96 Riconoscimento della Denominazione di origine protetta ai sensi del Reg. (CE) 2081/92 United United States States Patent Patent and and Trademark Trademark Office Office -giugno giugno 1997 1997 Riconoscimento negli Stati Uniti del marchio “Roman cheese made from sheep’s milk” Fonte: elaborazioni Nomisma su fonti varie. 21 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3.1.3 Il ruolo del Consorzio Il Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano viene costituito nel novembre del 1979 per volontà di un gruppo di operatori del Lazio e della Sardegna, ed ottiene il 14 gennaio 1981, dall’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste di concerto con il Ministero dell’Industria, l’affidamento dell’incarico di vigilanza sulla produzione e sul commercio del Pecorino Romano. Nel maggio del 1989, tutti i caseifici produttori di Pecorino Romano del Lazio e della Sardegna confluiscono nel Consorzio che diventa il principale organismo di rappresentanza del comparto. È proprio il Consorzio a fornire supporto alle Regioni ed al Miraaf (oggi Mipaf) in occasione del riconoscimento comunitario, che avviene con procedura semplificata - Art. 17 del Reg. (CE) 2081/92 - poiché il Pecorino romano risulta tra i prodotti già riconosciuti con Denominazione di Origine. Gli scopi del Consorzio definiti nello statuto comprendono: • la tutela della produzione e del commercio del Pecorino romano, • la tutela della denominazione in Italia ed all’estero, • l’incremento del consumo, • il miglioramento qualitativo, • la collaborazione con organi ed Istituzioni (comunitari, nazionali e regionali). 22 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Tali scopi vengono perseguiti attraverso un’attività di assistenza tecnica, vigilanza e tutela del marchio e promozione. In particolare, l’attività di assistenza tecnica viene esercitata nella fase di produzione (analisi chimico-fisiche e microbiologiche sulla materia prima, il caglio ed i fermenti lattici utilizzati durante la caseificazione) e sul prodotto finito (monitoraggio delle quantità prodotte e verifiche degli standard chimico-fisici, microbiologici, organolettici) e si completa con la marchiatura a fuoco delle forme. L’attività di vigilanza è invece volta a contrastare il commercio dei formaggi di imitazione, sia in Italia che all’estero. La promozione si sostanzia in differenti iniziative: campagne promozionali, partecipazione a fiere agroalimentari nazionali ed internazionali, degustazione di prodotti presso centri commerciali nazionali, convegnistica, ecc.. La certificazione del Pecorino romano è affidata invece all’Ocpa (di cui il Consorzio è socio fondatore), organismo riconosciuto dal Mipaf quale unico soggetto autorizzato a rilasciare l’attestato di autenticità per l’immissione del Pecorino romano al consumo. 23 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3.1.4 Il disciplinare di produzione Il disciplinare prevede che la produzione del Pecorino Romano sia limitata alle regioni Lazio e Sardegna ed alla provincia di Grosseto in Toscana. Caratteristica peculiare di tale produzione è la stagionalità: il ciclo produttivo si sviluppa, infatti, tra ottobre e luglio, con picchi produttivi nei mesi primaverili (marzo, aprile e maggio). Figura 3 Stagionalità annuale della produzione (kg di Pecorino romano durante le campagne casearie del 1996/97,1997/98e1998/99). 8.000.000 7.000.000 6.000.000 5.000.000 4.000.000 3.000.000 2.000.000 1.000.000 e e e o e io io to zo ile no glio ai br br br br os na ar Apr gg iug u br m m m to a g n L M t b e e e A G M c v O tt Ge Fe Di No Se 1998/99 1997/98 1996/97 Fonte: elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del Pecorino Romano. Tale fenomeno da un lato è riconducibile alla fisiologia degli ovini ed alle caratteristiche del loro latte4, e dall’altro è legato al loro regime di alimentazione. Le greggi vengono allevate al pascolo naturale (come 4 Nei mesi estivi la composizione del latte risulta sbilanciata per la produzione di formaggi a pasta dura sottoposti a processi di maturazione medio-lunga. 24 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” previsto dal disciplinare) che, a causa degli andamenti climatici tipici dell’areale di produzione, risulta improduttivo durante i mesi siccitosi estivi. Nonostante il forte contenuto innovativo che ha caratterizzato negli ultimi decenni l’evoluzione della tecnologia casearia, il processo di produzione è stato mantenuto intatto nel corso del tempo, sviluppandosi nelle seguenti fasi: • Raccolta del latte: il latte fresco di pecora, proveniente da greggi allevate allo stato brado alimentate su pascoli naturali, viene trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate. • Coagulazione: al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una temperatura massima di 68° per non più di 15". Vengono così riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo una metodologia che si è tramandata nei secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti il Pecorino Romano ed è costituito da un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni. Aggiunto l’innesto il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i 38° e i 40° utilizzando caglio di agnello in pasta; accertato l’ottimale indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di un chicco di grano. La cagliata viene quindi cotta ad una temperatura 25 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” massima di 45/48° ed al termine della cottura viene pressata per agevolare lo spurgo del siero. • Maturazione e marchiatura: la pasta così ottenuta viene suddivisa in blocchi che, immessi in appositi stampi di resina per alimenti, subiscono un trattamento di maturazione in appositi locali caldo/umidi al fine di favorire l’acidificazione della pasta. Dopo il raffreddamento le forme sono sottoposte alla marchiatura; il marchio Dop è apposto con una apposita matrice che imprime la denominazione di origine del formaggio e il logo (la testa stilizzata di una pecora), oltre che la sigla del caseificio produttore e data di produzione. • Salagione: le forme di Pecorino Romano così marchiate vengono avviate alla salagione, che si compie ancora oggi secondo una complessa tecnica artigianale. Almeno 70 giorni in locali umidi ad una temperatura di 12 gradi centigradi e successivo completamento della maturazione in locali meno umidi e temperatura di 10° centigradi. Ultimata la maturazione le forme di Pecorino Romano vengono sottoposte a selezione. Raggiunti i 5 mesi il Pecorino Romano può essere immesso al consumo come formaggio da tavola, mentre dopo 8 mesi può essere commercializzato come formaggio da grattugia. Le forme di Pecorino Romano sono cilindriche a facce piane con peso variabile fra i 18 ed i 32 chilogrammi e tenore minimo in grasso del 36%. 26 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” La pasta è leggermente occhiata di colore oscillante fra il bianco ed il giallo paglierino tenue. L’aroma è caratteristico ed il gusto è piuttosto piccante. 3.1.5 La commercializzazione del prodotto Il mercato Italiano Il consumo di Pecorino romano presenta alcune caratteristiche peculiari rispetto ad altre produzioni Dop. Si tratta, infatti, di uno dei pochi formaggi tipici che non trova nel proprio bacino locale di produzione un riferimento importante in termini di vendite finali. Tradizionalmente, infatti, in Sardegna si consuma poco Pecorino romano. Un ulteriore indicatore di peculiarità è il prezzo di vendita, che risulta del 15-20% più alto nei mercati di vendita meno prossimali rispetto a quello locale. In Italia il canale di vendita per eccellenza è quello del dettaglio tradizionale al quale si imputa non solo la veicolazione diretta al mercato del 45% dell’offerta, ma anche la quota che viene commercializzata tramite intermediari e grossisti (30%) per un complessivo 75%. Il 20% viene invece commercializzato tramite la Grande distribuzione e solo il 5% per mezzo della vendita diretta. 27 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Figura 4 Canali di vendita del Pecorino romano in Italia (% in volume). Vendita diretta 5% Grossista 30% Distribuzione moderna 20% Dettaglio tradizionale 45% Fonte: elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del Formaggio Pecorino Romano. Il mercato estero Il Pecorino Romano è il formaggio italiano più venduto nel mondo. Nel 1999, infatti, 21 mila tonnellate, pari a circa il 70% della produzione complessiva, sono state destinate all’esportazione. Il principale mercato di sbocco è rappresentato dagli Stati Uniti (nel 1998 oltre il 91% del totale), mentre la restante quota si concentra prevalentemente in Francia (2,5%), Germania (2%) e Svizzera (1,5%). L’ingresso del Pecorino Romano nel mercato statunitense risale nei primi del novecento ed è, da ricondurre al soddisfacimento delle richieste di consumo legate ai flussi migratori dei nostri connazionali negli Usa. Il canale di distribuzione prevalente è rimasto perciò per lungo tempo quello del dettaglio tradizionale gestito da operatori di origine italiana. 28 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Nel tempo il Pecorino romano ha consolidato la propria presenza nel mercato statunitense, andando a collocarsi nell’eterogeneo gruppo dei formaggi da grattugia, per i quali la produzione americana è deficitaria. Attualmente circa il 60% del Pecorino romano esportato negli USA viene acquistato direttamente dall’industria locale che, attraverso circuiti distributivi che fanno riferimento a grandi gruppi commerciali, rifornisce il settore della ristorazione collettiva ed il dettaglio tradizionale. La rimanente quota (40%) per il tramite di importatori viene invece commercializzata dalla distribuzione organizzata prevalentemente sotto forma di grattugiati ed in minor misura di porzionato. Figura 5 Ripartizione percentuale delle esportazioni di Pecorino Romano per Paese di destinazione (1998,% in volume). Francia 2,6% Germania 1,9% Svizzera 1,4% Stati Uniti 91,6% Altri Paesi 2,5% Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat. 29 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 4. L’evoluzione storica 4.1Le origini del formaggio Non si può certo dire che l’industria abbia inventato il formaggio sardo, essendo tradizionale, da parte dei pastori sardi, l’attività di caseificazione. Si tratta però di lavorazioni di tipo artigianale, diverse da quella industriale. L’industria infatti presuppone l’acquisto della materia prima da una pluralità di aziende, la elaborazione di un prodotto uniforme, la vendita sul mercato; essa richiede anche l’esistenza di un imprenditore che corra il rischio economico d’impresa (Bussa, 1978). L'origine del formaggio si intreccia con le origini dell'uomo e delle società primitive. È strettamente legata alla capacità dell'uomo di praticare le diverse tecniche agricole, fra queste in modo particolare la domesticazione degli animali prima e l'allevamento subito dopo5. Dai 10.000 ai 18.000 anni fa i pastori hanno inventato il formaggio in Mesopatamia, nella valle compresa fra il Tigri e l'Eufrate, e nell'Indus6. 5 Nel 7.000 a.C. in Asia le popolazioni cominciarono ad addomesticare gli animali, e le tribù che migrarono in Europa portarono i loro usi e il loro bestiame. Con la pastorizia appare logico pensare che le risorse principali dell'uomo fossero quelle derivanti dalla produzione di carne e latte. Il latte eccedente al fabbisogno familiare veniva destinato alla produzione di bevande lattiche acidificate, il cui scopo era quello di poter conservare il più possibile un prodotto facilmente deteriorabile, questa tecnica delle bevande ha probabilmente preceduto l'arte di fabbricare i formaggi. Quindi, con la produzione di bevande a base di latte acidificato inizia la storia della caseificazione e la produzione dei formaggi a pasta fresca e molle (Sedda, 2000). I primi derivati del latte, che ebbero diffusione in tutto l'Oriente, furono le bevande acide come il Komos e il Kumis citate da Erodoto e Senofonte. 6 Il formaggio era molto importante nell’Asia Centrale, nelle steppe, nella Mesopotamia, nell’Anatolia, e nel Medio oriente, paesi in cui la società era basata sull’agricoltura e 30 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Nel 5.000 a.C. anche in Italia, nel sud della Francia, e nel nord Africa iniziarono l’allevamento di pecore e capre 7. I Romani perfezionarono le tecniche casearie dei greci quando introdussero l'uso del latte vaccino fino ad allora poco utilizzato; la razione giornaliera di "pecorino" dei legionari romani, secondo Virgilio, fonte più che attendibile, era di 27 grammi. Il latte caprino ed ovino lasciato in canestri coagulava spontaneamente oppure la coagulazione veniva accelerata mescolando continuamente con rametti di fico o aggiungendovi direttamente succo di fico o semi di cardo selvatico. Separando così la parte più densa, che si rapprendeva e acquistava una certa consistenza, dando così origine ai primi formaggi denominati anche “Giuncate” perché prodotti in contenitori di giunco o canestri. I romani sperimentarono oltre al cardo e al fico lo zafferano e l’aceto per cagliare il formaggio e questa mistura veniva sull’allevamento. Il documento più antico che testimonia con particolare precisione le fasi di lavorazione del latte si può ammirare nel bassorilievo della civiltà Sumera denominato “Fregio della latteria”, che risale al III millennio a.C., dove sono rappresentati i sacerdoti (esperti caseari dell'epoca) nei diversi momenti applicativi della tecnica casearia (Sedda, 2000). 7 Gli abitanti dei balcani della valle di Tuna per primi portarono in Europa le mucche nel 4.000 a.C.. Scavi archeologici fatti in Italia e Francia hanno permesso di dire che già nel 2.800 a.C. in questi paesi veniva fatto un formaggio molle primitivo. Il formaggio è tenuto in grande considerazione anche nei testi sacri e nella letteratura. Nella Bibbia nel secondo libro di Samuele 17,29 è riportato: “Latte acido, formaggi di pecora e di vacca per Davide e per la sua gente perché si sfamassero”. Gli ebrei quando si spostavano mettevano il latte in otri fatti con lo stomaco delle pecore, e durante il viaggio il latte sbattendo si separava, a questo punto lo scolavano, per farlo asciugare al sole e poi lo mettevano con il sale in vasi di terracotta pronto per il consumo o la conservazione. I Greci chiamarono in causa Amaltèa, la mitica nutrice di Giove, padrona di una capra prodigiosa con il cui latte e derivati avrebbe nutrito il dio. Il corno di questa capra sarebbe poi diventato la cosiddetta cornucopia ossia il corno dell'abbondanza, inesausto fornitore di cibarie. Anche Omero si riconduce alla capra "cretese", rammentando i deliziosi formaggi isolani prodotti seguendo una formula segreta dettata dagli dei. Nella Grecia classica si riconduceva la scoperta del caglio alle ninfe, dalle quali l'avrebbe appresa il mitico Aristeo, che l'avrebbe poi diffusa tra gli uomini. Lo stesso Omero nell'Odissea descrive Polifemo nella sua grotta mentre prepara il formaggio. Lo stesso nome del prodotto richiama la parola greca “fornos” (con questa parola gli antichi greci solevano indicare il paniere di vimini nel quale era d'uso riporre il latte cagliato, per dargli evidentemente forma), anche se a Roma veniva adoperata la radice “caseus”, da cui proviene quello della caseina, proteina principale del latte e del formaggio. 31 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” chiamata coagulum. Nel I° sec. d.C. i Romani per accelerare la stagionatura dei formaggi li misero sotto pressione con dei pesi forati (pressatura). Nel III sec. d.C. l’imperatore Diocleziano ordinò che il formaggio fresco fosse venduto avvolto in foglie e che quello stagionato fosse salato sulla superficie. Nell'età imperiale il formaggio era presente nei banchetti con raffinate preparazioni culinarie. È indiscutibile, poi, l’indissolubile connessione tra Sardegna e mondo pastorale: fin dai tempi della civiltà nuragica, anteriore al primo millennio a.C., si evince l’attestazione di presenza di una società prettamente pastorale (Cherchi Paba, 1974). Abbiamo testimonianze del formaggio in Sardegna anche dagli autori latini Diodoro Siculo8 e Palladio Rutilio Tauro9. Nella Barbagia di Ollolai10, nel V-VI secolo d.C., la produzione di quelle popolazioni constava soprattutto di materiale caseario, particolarmente di quello ovino, ottenuto in secchi di sughero o ceppi di quercia incavati in modo da contenere “il liquido di mungitura” facendo bollire con ciottoli 8 Diodoro Siculo nel 59 a.C. riguardo alla Sardegna, afferma che “Gli Iolei allontanaronsi dai conquistatori, ed intanati nelle montagne e scavati sotterranei abituri, la vita sostentarono col frutto delle greggia, larga ebbero quindi copia di vitto e il latte e il cacio e le carni diedero loro bastevole nutrimento.” 9 Palladio Rutilio Tauro, autore latino del sec. IV, ci ha lungamente descritto la preparazione del formaggio in Sardegna: i fermenti usati per la cagliatura erano sia d’agnello sia di capretto, o afflorescenza di carciofo rustico o lattice di fico (come ancora oggi si fanno particolari formaggi freschi in paesi del mediterraneo). 10 La Barbagia di Ollolai gravita in quel periodo attorno alla vallata del fiume Taloro, le greggi avevano come pascoli invernali le contrade in seguito denominate Parte Barigadu e Ocier Reale (la zona di Ghilarza) e nonostante i controlli dei presidi costruiti attorno alle montagne, che avevano lo scopo di contenere le incursioni dei pastori, il campo d’azione di questi era vastissimo: Salto di Quirra, Monti di Alà, Bruncuspina, Monte Santa Vittoria (Imberciadori, 1965). 32 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” arroventati al fuoco e aggiungendo il fermento. Una volta coagulato, era travasato in vasi di legno duro o forme, forati, era poi travasato in una tina contenente salamoia, successivamente posto su graticci di legno o canna (sa cannizza). Dopo l’anno mille la produzione casearia in Sardegna è intensa, inoltre le forme di formaggio costituivano mezzo di pagamento. Oristano era nel medioevo centro di commercio caseario: qui scendevano, anche allora, i greggi del Mandrolisai e della Barbagia (Imberciadori, 1965). Altri porti utilizzati erano Cagliari, Alghero, Bosa. Fin dai primi anni del 1100, la Sardegna si offre agli occhi di commercianti genovesi11 e pisani come terra in cui si possono acquistare a buon prezzo certi generi alimentari, come cereali e formaggi, che i mercati continentali richiedono con rigida regolarità (Boscolo, 1978). Tra la fine del 1100 e il 1400 il porto di Cagliari diviene centro di raccolta, di smistamento e invio di ogni prodotto commerciale: dal sale alla lana, dal formaggio al cereale12. 11 Nel Giudicato di Arborea, il più fertile e ricco per certi prodotti, si era insediato il mercante genovese ed imposto come uomo di buon affare e i Giudici, quasi a simbolo di generosa e festosa ospitalità, erano soliti offrire ai genovesi “forme de casu et aione de benedicere”. Una forma di cacio, tanto grande da essere trasportata in carro da bovi, e un agnello da benedire (Boscolo, 1978). 12 Nel 1299, nei documenti pisani, troviamo che “la Sant’Antonio” una “trita”, ad una coperta, lascia il porto di Cagliari, noleggiata per Pisa da un “patrono” di Barcellona ad un tal cittadino di Sarzana, in Liguria. Il peso della merce è costituito da “cacio sardesco”, pari al peso di 22 pondi e 1/5 che corrispondono a circa 235 quintali di merce.”Il 17 dicembre del 1330, da Cagliari, partono su una nave genovese per conto di mercanti pisani, residenti in Cagliari, 650 forme di cacio “sardesco” salato. Dopo il 1341, dagli archivi aragonesi, risultano frequenti scambi commerciali tra la Sardegna e le Baleari (troviamo “1361, abril, 21, Mallorca. El Gobernador concede licencia a Sancho Sanchiz, de Valencia, para sacar de la isla seis quintales de quesos de Cerdena Y transportarlos a Valencia”) (Pablo Cateura Bennasser).Il formaggio sardo, veniva quotato all’equivalente di 42,3 g. d’argento il quintale nel 1332; 41,0 g. Nel 1356, ma 26,5 g. soltanto nel 1463. 33 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Nel 1789, da una relazione del console francese Guys, si considera rilevante quantitativamente l’esportazione del formaggio. “Il prodotto era confezionato in tre distinte qualità: quello in salamoia era largamente esportato a Livorno, Napoli e Marsiglia; grandi città come Genova e Nizza preferivano il tipo dolce e più delicato. Anche in questo ramo dell’esportazione notevolissime difficoltà si opponevano alla libertà di commercio. Il malcapitato produttore di formaggio che intendeva ricorrere all’estrazione doveva passare attraverso una così penosa e complessa trafila burocratica che spesso era indotto a rinunciare alla vendita o a cercare le vie del contrabbando” (Sole, 1978). Il Bogino, alla fine del ‘700, nel tentativo di condurre ad un livello più alto il gettito delle finanze isolane, studiò il modo di sviluppare e perfezionare l’industria casearia sarda. Egli credete di poter persuadere i sardi ad abbandonare la fattura del loro tradizionalissimo formaggio salato e a intraprendere, su vasta scala, quella del formaggio dolce, fino, come l’olandese e il lombardo (Di Tucci, 1930). Ma i pastori, in generale trovavano, nel fare il loro formaggio fortemente salato, minor fatica, commercio sicuro, prezzi vantaggiosi e minor rischio nel conservarlo, rispetto al deterioramento cui, particolarmente in Sardegna erano esposti i formaggi dolci e fini. Il formaggio salato resisteva al caldo, conservava peso, era sicuramente esportabile perché molto accetto nel mercato del consumo popolare, infatti anche i formaggi di mediocre fattura trovavano collocazione nel mercato esterno grazie all’alto contenuto di sale, elemento 34 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” che altrove era di difficile reperimento e, dunque, assai costoso. Quindi “la Sardegna non temeva la concorrenza dei formaggi olandesi e d’alta Italia nel mercato popolare sui porti di Barcellona, Marsiglia, Nizza, Alassio, Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli” (Di Tucci, 1930, p.741). Il formaggio salato continuò ad affluire specialmente nel porto di Cagliari, benché finisse col costare un terzo di più che a Bosa o a Porto Torres: solo a Cagliari esistevano grandi pozzi di salamoia nei quali il formaggio si conservava senza rischi sino al momento dell’imbarco per l’esportazione. Appare datato, dunque, anche il ruolo trainante dello sviluppo che le esportazioni hanno avuto per l’economia lattiero casearia ovina isolana: un ruolo questo che si è mantenuto inalterato fino ai giorni nostri essendo la maggiore quota dell’apparato produttivo inserita in un processo agrotrasformativo il cui prodotto finito ha per destinazione principale i mercati extraeuropei. La qualità del prodotto della fase pre-industriale è scadente, talvolta pessima a causa dell’uso di attrezzature e metodi primitivi. Non sempre, come comunemente si crede la lavorazione avviene nelle capanne circolari (pinnettos): soprattutto nelle zone soggette alla rotazione biennale pascoloseminario essa avviene all’aperto a ridosso di poche fascine disposte a semicerchio (ala-pinna), attorno al fuoco. Il latte è pieno di impurità e di sporcizie. I recipienti per la raccolta, il riscaldamento e la lavorazione sono quasi sempre di legno o di sughero; le caldaie in rame battuto sono un lusso. Nei recipienti di legno o sughero il latte viene riscaldato con sassi 35 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” arroventati. Il calcolo della temperatura e il dosaggio del caglio vengono effettuati secondo le personalissime valutazioni del pastore (Bussa, 1978). 4.2 La storia della pastorizia sarda L’allevamento della pecora finalizzato alla produzione di latte costituisce, in Sardegna, una attività molto antica e diffusa; ne è testimonianza l’ampiezza dei capi presenti (cfr. tabella 6) e il fatto che esso costituisca, da sempre, parte preponderante dell’intera ovinicoltura nazionale (Cherchi Paba 1974). Tabella 6 Evoluzione patrimonio ovino Sardo. Anni 1771 1864 1875 1876-1881 1908 1918 1930 1936 1941 1949 1952 1979 Numero ovini 911.752 922.636 559.902 844.851 1.876.741 2.018.612 2.054.138 1.777.240 2.015.323 2.487.928 2.389.500 2.700.000 Fonte: nostre elaborazioni. 36 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” EVOLUZIONE PATRIMONIO OVIN0 SARDO 17 71 18 64 1 18 875 76 -1 88 1 19 08 19 18 19 30 19 36 19 41 19 49 19 52 19 79 3000000 2500000 2000000 1500000 1000000 500000 0 ANNI Nella Sardegna tradizionale l’allevamento errante degli ovini poteva essere attività di sorprendente redditività. Un gregge di pecore, in un anno, poteva facilmente restituire il capitale, e cioè riprodurre il proprio valore. Era questa una conseguenza naturale del bassissimo livello tecnico della pastorizia. Bestiame a parte, il pastore investiva soltanto il proprio lavoro, o se si vuole il proprio sacrificio. La variabile che più influiva sulla buona riuscita dell’azienda pastorale era dunque il pascolo. Se questo era ricco e il suo prezzo contenuto, come avviene in tutta l’epoca feudale, “il futuro sorride al pastore”. Per quanto questo futuro sia poi sempre molto incerto, in condizioni in cui l’accidentalità naturale resta tuttavia determinante. La pratica della transumanza e la necessità di reperire nuovi pascoli provocano duri conflitti con gli agricoltori. La lotta tra contadini e pastori è la prima, la più drammatica contrapposizione sociale che la Sardegna abbia conosciuto. Il contrasto derivava da molteplici fattori: innanzitutto la scarsa disponibilità specie nelle zone collinari o montane, di suolo coltivabile o sfruttabile a pascolo; poi la furia distruttiva delle greggi che, soprattutto 37 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” durante le transumanze, si abbatteva sulle “vidazzoni”13, infine le profonde differenze nelle attitudini, nella mentalità, nei costumi tra una società nomade e aggressiva ed una sedentaria e pacifica. Una lotta, dunque antica quanto l’isola stessa. Il mondo pastorale errante e guerriero, era stato chiuso all’interno di quel “limes” con cui i dominatori romani avevano voluto segnare l’argine per difendere le messi e i campi ricchi di grano. Anche il diritto agrario medioevale ha dovuto difendere i coltivi, le vigne, gli orti, i frutteti dalla minaccia incombente della pastorizia. La congenita violenza della pastorizia nomade ha sempre suscitato l’apprensione dei governi che non riuscivano a controllare questa umanità errante e dispersa. La normativa sabauda del Settecento insegui l’ambiziosa e irrealizzabile idea di trasformare il pastore nomade in allevatore stanziale14 (Mattone, 1998, p.82). Alla fine del settecento incominciò un processo di trasformazione della realtà agraria della Sardegna che si concluderà soltanto verso la fine dell’ottocento, all’interno del quale la pastorizia fu progressivamente traghettata dal sistema comunitario tradizionale15, ad un nuovo assetto fondiario affrancato dagli usi civici e basato sulla proprietà privata della terra. 13 Le “vidazzoni” erano i terreni destinati alle colture che il sistema comunitario imponeva dovessero restare aperti, privi di muri o recinti (Ortu, 1981). 14 Nel 1738 il viceré, marchese di Rivarolo, inviava al sovrano una dettagliata relazione sulla sua azione di governo in Sardegna, nella quale guardava con sospetto i pastori che vivevano con le loro greggi nelle montagne dell’isola, individuando nelle loro barbariche forme di vita e nella pastorizia nomade le radici sociali della criminalità rurale (Mattone,1998). 15 Il sistema comunitario tradizionale era imperniato su libero godimento dei diritti di ademprivio per il pascolo nel quale l’allevamento si svolgeva al di fuori di qualsiasi organizzazione aziendale e di qualsiasi struttura produttiva, talvolta senza neppure i rudimentali pinnettos, all’insegna della sopravvivenza (Bussa, 1978). 38 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Con schematica approssimazione si può dividere la storia della pastorizia sarda in età contemporanea in tre grandi momenti. Il primo momento è compreso tra il pregone del 2 aprile 1771, che consentiva a chi possedeva terre aperte di recintarle per tutelare le colture foraggiere, e l’editto delle chiudende del 6 ottobre 1820. Seppur caratterizzata dalla persistenza delle abitudini comunitarie, questa fase evidenzia anche l’incubazione dell’individualismo agrario con le chiusure dei prati e il primo riconoscimento del dominio esclusivo sui pascoli. Il secondo momento, contraddistinto da grandi mutamenti e da profonde lacerazioni sociali, coincide col crepuscolo dell’antico sistema comunitario. Questa fase si apre con l’editto a favore delle chiudende del 1820, con il quale i piemontesi decisi ad una trasformazione in senso capitalistico dell’economia rurale sarda infliggeranno il primo duro colpo al regime tradizionale (Ortu,1988), e si conclude nel 1865 con la legge di abolizione del diritto di ademprivio. È segnata inoltre da alcuni provvedimenti normativi che demolirono il vetusto edificio comunitario e le servitù collettive sui pascoli. Infine, il terzo momento, che va dall’abolizione degli ademprivi sino all’ultimo scorcio del XIX secolo, quando la penetrazione dell’industria casearia determinò l’estensione dei pascoli in affitto e il rafforzamento della rendita fondiaria. Pur senza idealizzare la dura vita pastorale, bisogna però ammettere che, prima della fine del sistema comunitario, il pastore aveva libero accesso alle lande, alle foreste, alle brughiere, ai beni comunali ai 39 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” terreni di pascolo, ed era in qualche modo in grado di dominare il ciclo produttivo nella sua interezza. Dopo l’abolizione degli ademprivi il pastore si trasformò in affittuario di un proprietario spesso assenteista (Mattone, 1998). Questa condizione durerà sino al processo di eversione della rendita fondiaria avviato dagli anni sessanta del novecento, che modificherà profondamente la figura sociale del pastore. Infatti il forte malessere delle zone interne portò il governo ad istituire una commissione parlamentare d’inchiesta, la commissione Medici16, che, tra il 1969 e il 1972, tenne numerose audizioni e al termine della propria attività produsse un documento in cui sintetizzo le proprie conclusioni: in sostanza essa riconosceva nell’arretratezza della produzione pastorale e, soprattutto, nella pratica della transumanza, le radici della criminalità sarda. Le conclusioni della commissione medici si tradussero, in parte, nella l.r. 39 del 1973 ma, soprattutto nella l.r. n. 44 del 1976, la riforma dell’Assetto Agro-pastorale, avente come obiettivo “(…) la costituzione di aziende singole o preferibilmente associate, di dimensioni economiche tali da assicurare agli addetti condizioni di maggiore redditività e gli stessi livelli di reddito delle categorie degli altri settori produttivi (…)”. Tale obiettivo venne perseguito cercando di rendere stanziale l’allevamento ovino; per far questo era necessario sradicare la transumanza mediante diversi strumenti, primo fra tutti il monte dei pascoli, da costituirsi, ai sensi dell’art 21 e ss. della l.r. 44/76, mediante l’esproprio o l’acquisto dei terreni a pascolo 16 Il parlamento italiano nomina con la legge 27/10/1969 n.755 una commissione d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna (Boscolo e al., 1974). 40 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” permanente, dati in affitto da proprietari non coltivatori diretti, nonché tramite l’acquisto dai proprietari che avessero voluti cederli, di tutti i terreni indicati dai piani zonali di valorizzazione come idonei. La transumanza aveva, sin dai tempi remoti, rappresentato il modo in cui il pastore sardo aveva cercato di aggirare due limiti fondamentali per l’aumento della produttività del gregge, ovvero il clima e le caratteristiche podologiche del suolo, specie nelle zone interne a più intensa vocazione pastorale, in quanto determinano la ridotta disponibilità di pascolo, in quantità e nel corso dell’anno. Fernand Braudel ha osservato che la transumanza dei pastori sardi è una transumanza “inversa”: essi non salgono ma scendono muovendo dalla montagna alla pianura, spinti dai primi freddi e comunque alla ricerca di migliori condizioni ambientali. Ed è anche vero che si tratta di una discesa “tumultuosa”. L’immagine che può meglio rendere, fisicamente, il fenomeno è quella di una proiezione, per linee molteplici ma costanti, delle regioni centro-orientali dell’isola su tutta l’area meridionale. Ogni linea ha fissi il suo punto di partenza e il suo punto terminale (Ortu, 1988). L’errore fondamentale commesso dalla commissione Medici e tradottosi poi nella riforma agro-pastorale, è stato l’aver considerato il pascolo al centro dell’intervento pubblico, quando invece si sarebbe dovuto operare per modificare la combinazione dei fattori produttivi che caratterizzava l’impresa armentizia sarda, sostituendo il pascolo con la produzione foraggiera (Sabatini cit. in Savona, 1983) e per sostenere investimenti, sia 41 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” dello stato sia degli allevatori, che avessero consentito l’elettrificazione delle zone rurali, la dotazione di mungitrici meccaniche, il miglioramento dell’alimentazione del bestiame ecc. La riforma agro-pastorale, quindi, non ha reso possibile la modernizzazione delle imprese armentizie che ancora oggi costituiscono l’anello debole della filiera lattiero-casearia sarda, infatti nonostante quest’ultima sia stata protagonista di una crescita significativa negli ultimi quindici anni, tale crescita è stata solo quantitativa mentre permangono problemi di produttività, addebitabili proprio alle attività a monte della filiera. Sono infatti le imprese zootecniche a non offrire un prodotto di qualità a prezzi competitivi, condizionando le imprese di trasformazione. Allo stato attuale la zootecnia ovina sarda si articola su un tessuto aziendale poco evoluto e, per molti versi, inadeguato a promuovere un processo endogeno di razionalizzazione e di ammodernamento. Infatti, nonostante in alcuni casi si notino taluni proficui miglioramenti, lo scenario di fondo permane profondamente condizionato da un complesso di negatività strutturali ed organizzative. E mentre alcune di queste, ed i susseguenti effetti, risultano di evidenziazione relativamente recente, per altre si può parlare di vere e proprie anomalie “storiche”, le cui ragioni riposano nelle vicende antiche dell’agricoltura isolana. Tutt’oggi persistono difficoltà ad inquadrare in precise eccezioni economiche ciò che ordinariamente dovrebbe intendersi per azienda di allevamento ovino. È noto infatti che il riferimento ad una compiuta concettualizzazione 42 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” aziendale, intesa come il complesso di connessioni tecniche ed economiche sul quale si innestano e si coordinano i fattori della produzione e si sostanzia il processo produttivo stesso, appare, per la gran parte delle unità regionali di produzione ovina di gran lunga fuori luogo (Idda, 1995). L’assetto fondiario, i rapporti contrattuali che intercorrono tra proprietà terriera, attività di impresa e forza lavoro, la quantità e la qualità dei capitali ordinariamente impiegati, le modalità di formazione del gregge e la tecnologia di allevamento adottate, risultano improntati ad una approssimazione troppo elevata e ad una eccessiva precarietà perché sia possibile cogliere quei nessi tecnici e quelle relazioni economiche che consentono di qualificare la massima parte delle imprese armentizie sarde come altrettante aziende agro-zootecniche. La vera unità di riferimento dell’ordinamento pastorale sardo resta ancora il gregge, inteso come entità di bestiame da modulare e gestire in funzione delle disponibilità alimentari che di volta in volta si offrono all’impresa. Non dunque, veri e propri allevamenti, unità nelle quali i fattori della produzione vengono attivamente organizzati e proficuamente manipolati per concorrere sinergicamente al migliore risultato produttivo, ma bensi entità che rispetto alla mutevolezza del contesto circostante (che è soprattutto mutevolezza delle disponibilità alimentari e della base terriera) non sanno intraprendere nessun altra iniziativa di adeguamento che non sia quella rappresentata dall’elastica modificazione del numero di capi allevati. Le ragioni di ciò vengono individuate, principalmente, nell’instabilità del rapporto che lega l’impresa 43 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” pastorale al fattore terra, la quale trova, a sua volta le proprie determinanti essenziali nelle vicende fondiarie dell’isola, che non hanno certo incentivato l’affermazione di una proprietà terriera ad indirizzo pastorale; negli elementi di un ambiente naturale climaticamente e territorialmente ostile, che obbligano all’adozione di tecniche di allevamento ampiamente estensive, nel tradizionale rifiuto del pastore a produrre foraggi; nella cronica deficienza di capitali da destinare all’acquisizione definitiva della risorsa fondiaria ed al suo miglioramento. La mobilità territoriale e la precarietà della base terriera dell’impresa armentizia restano, pertanto, peculiarità tipiche e diffuse dell’ordinamento pastorale sardo. Una mobilita che in alcune situazioni assume i caratteri di vera e propria transumanza, mentre in altre si qualifica come espressione di uno status seminomade delle imprese. 1970 1982 1990 2000 AZIENDE 19.703 20.034 20.021 15.172 CAPI 1.889.606 2.093.230 2.619.462 2.882.240 96 104 131 190 CAPI/ AZIENDE 4.3Evoluzione storica del sistema di trasformazione del latte 4.3.1 L’industrializzazione 44 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Analizzando il settore caseario avendo sempre come unità di indagine la filiera prodotto (cosi come è intesa nella letteratura francese) possiamo notare come nell’800 si abbia una forma embrionale di filiera. Questa è identificabile nella figura del pastore che accorpa su di se tutti i momenti del processo zoo-trasformativo. Nella singola azienda si concentravano, perciò, competenze di natura tecnica (legate all’allevamento del bestiame e alla caseificazione del latte) e di tipo commerciale, dato che il formaggio prodotto non era integralmente auto consumato ma veniva abbondantemente destinato alla vendita sui mercati locali o esportato verso la penisola e verso alcuni paesi europei (Nuvoli, 1999). Ad essere prodotto era un formaggio assimilabile all’attuale “Fiore Sardo”(prevalentemente consumato in loco) ed un formaggio misto (chiamato banalmente cacio) ottenuto talora con l’uso aggiuntivo di latte vaccino e, in parte, caprino, di predominante destinazione estera. Il nucleo dell’industria casearia coinvolta in tale produzione è rappresentato dalla capanna del pastore, una costruzione con tetto conico di frasche posato su delle fondamenta di pietre a secco. Al centro si trova il focolare, alimentato a legna, sul quale è posto un recipiente unico, costituito da un semplice buco scavato in un tronco di quercia, all’interno del quale il latte appena munto viene versato insieme al caglio. Comuni sassi, preventivamente scaldati sul fuoco fino a raggiungere un elevatissima temperatura, sono utilizzati per favorire la formazione dei grumi del latte. Questi vengono successivamente versati in una forma circolare, fatta di legno di pero, con dei fori attraverso i quali cola il 45 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” latticello. Per accelerare la conclusione di questa fase del ciclo produttivo il pastore preme i grumi con un grosso pezzo di legno circolare dopo aver opportunamente sistemato la forma su due traverse che vengono sostenute al di sopra di un recipiente. Raggiunta la compattezza voluta il formaggio viene fatto riposare per dieci/dodici ore, successivamente estratto ed inserito nel mastello di salamoia, dove rimane fino a che non ha raggiunto la giusta salagione. Per la fase di stagionatura il formaggio viene posto su graticci di legno o di paglia solitamente sospesi al di sopra del focolare, nella parte superiore della capanna. Accumulata una determinata quantità di prodotto il pastore provvede alla vendita conservando solo la quota per il proprio autoconsumo (Le Lannou, 1941). Nel 1840 diversi tentativi furono fatti per il miglioramento della tecnica di produzione casearia: ad esempio ad opera del teologo Satta Musio vennero chiamati due casari svizzeri affinché insegnassero ai pastori orunesi la tecnica di fabbricazione del burro e di altre tipologie di formaggi, quale il groviera, (Cherchi Paba, 1974). Vennero in questo modo ad essere trasferite competenze specifiche nella comunità locale che acquisì ben presto notorietà su tutto il territorio regionale. Il processo di caseificazione ha continuato a restare circoscritto alle sole aziende pastorali sino alla fine del secolo scorso, allorquando nell’isola trovarono insediamento i primi stabilimenti industriali. Da questo momento in poi, la fabbricazione del formaggio ha cessato di essere condotta secondo criteri che si definirebbero artigianali ed ha acquisito i toni di un autentico 46 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” processo industriale. I vantaggi che ne sono derivati hanno riguardato, prima di tutto, l’atto trasformativo vero e proprio, che si è potuto evolvere positivamente sul piano dell’efficienza tecnica ed economica nonché sul piano della gamma delle produzioni realizzate. Ma l’industrializzazione dell’attività casearia è stata altresì occasione di grande progresso civile e sociale per il ceto pastorale che trasferendo all’esterno la caseificazione ha potuto migliorare notevolmente le proprie condizioni di vita e di lavoro (Nuvoli, 1999). La condizione principale che determina la nascita dell’industria casearia sarda è data dalla creazione di un mercato di consumo esterno e ricco, le cui richieste non possono essere soddisfatte dalla produzione delle altre regioni italiane. Il mercato è costituito dai lavoratori meridionali emigrati, sul finire del 800, nell’America del Nord, i quali, in patria, erano forti consumatori di formaggio pecorino. L’esportazione in America inizia nel 1894, da parte di ditte lucchesi che commerciano prevalentemente olio e che iniziano a vendere pecorino Maremmano. Essendo scarsa la produzione in Toscana, gli esportatori si riforniscono di pecorino romano, che incontra subito il favore dei consumatori. Il Lazio può infatti disporre di una produzione quantitativamente e qualitativamente superiore a quella maremmana. Fino al 1884 i pastori dell’agro romano portavano il loro formaggio pecorino a Roma, dove alcuni salumieri, nelle cantine dei loro negozi, lo salavano e lo stagionavano. In quell’anno il comune di Roma vietò la 47 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” salagione nel centro abitato e i salumieri furono costretti a impiantare gli stabilimenti fuori dalla città. Successivamente dalle aziende pastorali non venne ritirato il formaggio ma la materia prima, il latte. Il salumiere-salatore, che era un negoziante, si trasforma cosi in un industriale e in un industriale commerciante. Da questo ceto sociale scaturirono gli industriali che impianteranno i primi caseifici sardi (Bussa, 1978). In Sardegna, d’altra parte, si erano create condizioni oltre modo favorevoli per una espansione dell’allevamento ovino, a causa dello stato di crisi nel quale versavano i settori agricoli e l’allevamento bovino. Nel 1887 la rottura delle trattative per la rinnovazione del trattato di commercio con la Francia arrecava un colpo gravissimo al principale cespite di allora della ricchezza sarda: l’esportazione del bestiame17. L’allevamento declinò per un certo tempo (cfr. tabella 7), riprendendo poi lentamente la sua ascensione grazie ai costanti sforzi degli allevatori, i quali si dedicarono al miglioramento delle razze, cercando nel continente italiano un compenso al perduto mercato di Marsiglia (Alivia, 1921). Tabella 7 Esportazione dei bovini tra il 1876 e il 1885 esportazione dei bovini tra il 1876 e il 1885 17 La Sardegna figurava per un quarto nella esportazione dei bovini dall’Italia. La chiusura ermetica del mercato francese, facendo ribassare di colpo di quasi la metà il prezzo dei nostri bovini, poneva senz’altro in deficit gran parte degli allevamenti, il cui reddito si basava per due terzi sulla produzione delle carni e per un terzo su quella del latte. Una memorabile difesa del nostro commercio fu fatta alla camera dall’On. Pais nel 1885, che dimostrò chiaramente come l’aumento del dazio colpisse essenzialmente la Sardegna, che esportava allora bestiame di peso inferiore alla media (Alivia, 1921, p.4) 48 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 1880 1883 1885 1878 PERIODO 85.452 39.712 68.382 28.416 dall' Italia dalla provincia di Sassari 20.015 10.547 26.168 Ma da allora le energie degli allevatori si rivolsero per un'altra via. Col diminuire del valore delle carni, cresceva l’interesse verso il latte e i sui derivati: i sardi si dedicarono a sviluppare il caseificio e rivolsero speciali cure al bestiame ovino. Nel 1888 non esisteva una vera industria del caseificio. Il sistema di lavorazione era ancora primitivo: la mancanza di locali adatti per la conservazione, le difficoltà dei trasporti, tutto concorreva a rendere il prodotto poco commerciabile e di scarso valore. L’industria casearia andò gradualmente perfezionandosi, fino al sorgere dei caseifici per opera di industriali romani. Negli anni 1890-1900 l’unico riuscito tentativo di cooperazione produttiva nel settore lattiero caseario fu quello attuato dalla “Cooperativa Agricola Italiana di coltivazione”, che impiantò a Surigheddu18, un caseificio per la fabbricazione di formaggi e burro (Sotgiu, 1991). Si sperimentò un nuovo tipo di formaggio, Gruyere, che incontrò i favori dei consumatori e venne richiesto in grandi quantità a Milano e dall’unione cooperativa. Nel triennio 1891-1893 si limitò a produrre formaggi molli e semicotti per il mercato locale. Nel 1894 entrò 18 Nel 1897 in questa azienda, cominciarono a tenersi alcuni corsi di caseificazione con l’obiettivo di insegnare la pratica casearia per la produzione di formaggi di tipo svizzero ed olandese; successivamente se ne fecero altri a Pozzomaggiore, Padria, Thiesi, Bonorva e Villanova Monteleone (Cherchi-Paba, 1974), attualmente tutti luoghi di eccellenza per la produzione casearia. 49 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” però in funzione il nuovo caseificio dotato di ambienti e attrezzature razionali19. Ma questi esperimenti isolati non erano sufficienti per un radicale miglioramento dell’industria casearia. Per raggiungere tale scopo era necessario convincere i pastori che la lavorazione del latte praticata nelle capanne e confusa con l’economia domestica non era ne igienica ne produttiva. Era invece necessaria l’associazione degli allevatori, per la creazione di caseifici razionali. I pastori sardi, infatti, dovendo tre o quattro volte l’anno cambiare dimora, per cercare la pastura e l’acqua per il bestiame, difficilmente potevano gestire industrie per la lavorazione del latte20 (Coda, 1977, pp. 208-212). I progressi dell’industria casearia cominciarono dopo il 1896 allorché giunse nell’isola, in qualità di vice direttore della scuola agraria di Sassari, il professore Bochicchio con l’incarico di migliorare le condizioni della pastorizia locale. Il professore dovette lottare contro l’indifferenza dei produttori per l’introduzione di nuovi metodi di lavorazione del latte razionali21 che consentivano di ottenere dei grossi guadagni rispetto a quelli “primitivi”. Il Bochicchio nella relazione al ministero dell’agricoltura sulla condizione della pastorizia e dei caseifici in Sardegna scriveva che i 19 Con l’acquisto di tali strumenti la cooperativa poté utilizzare tutti i sottoprodotti del latte incrementando notevolmente gli utili. Mentre infatti con la lavorazione tradizionale si ottenevano dalla lavorazione del formaggio un ricavo complessivo di L. 2000 nel 1894, con l’entrata in funzione di nuovi metodi di lavorazione il reddito lordo sali a L. 5000 e nel 1896 a L.8000 (Coda, 1977). 20 Un caseificio inoltre per quanto modesto richiedeva una spesa di 60-70.000 lire , somma che poteva reperirsi solo con l’associazione degli allevatori (Coda, 1977, p.211). 21 Si studiarono per la prima volta le caratteristiche organolettiche del latte ovino e bovino, i tempi di fermentazione,il grado di temperatura richiesto ecc. (Campus, 1929). 50 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” caseifici rimanevano aperti dalla seconda metà di dicembre al 31 maggio e dopo questo periodo i pastori portavano il latte in città per la vendita diretta di questo prodotto. Molti pastori dalla montagna, invece, lontani dai centri abitati, durante la chiusura dei caseifici continuano ad esercitare “l’industria casearia errante” in capanne, pinnete, qualche volta improvvisate, piene di fumo, perché quasi sempre prive di camino. Gli attrezzi usati erano più che preadamitici ed erano quasi completamente ignorati i principi di igiene e pulizia22(Campus, 1929). Nel 1897 i produttori romani non potendo far fronte alla crescente richiesta del pecorino romano dall’America, cominciarono a lavorare tale formaggio in Sardegna. Un salatore romano, probabilmente Castelli, impianta a Villanova Monteleone, il primo rudimentale caseificio. Il suo esempio viene ben presto seguito da altri romani e poi da ponzesi, lucchesi, genovesi e infine sardi (Bussa, 1978). Con il parziale decentramento della produzione del Pecorino in Sardegna si ebbe un cospicuo trasferimento di capitali (non solo umani) necessari per il decollo dell’industria casearia, data la sostanziale incapacità della comunità locale di saper sfruttare le opportunità di profitto offerte da tale settore, dovute, quest’ultime ad una domanda crescente. Sulla base di tale processo di industrializzazione, la filiera casearia sarda si articolò, in questo periodo, in due stadi, nettamente distinti, 22 I pastori invece del comune termometro usavano un “grossolano termoscopio”, il braccio del pastore, ed adoperavano il caglio di capretto o di agnello poco coagulante e che spesso nuoceva alla buona riuscita del formaggio (Campus, 1929). 51 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” rappresentati rispettivamente dalle imprese ovine che producevano il latte e dagli impianti industriali esogeni che ne effettuavano la trasformazione. È interessante descrivere quale era la qualità dell’organizzazione interna dei caseifici per comprendere al meglio il motivo dell’efficacia di questo processo di trasmissione delle conoscenze (che sta alla base del paradigma evoluzionistico) necessarie per svolgere la produzione casearia industriale, e che resero possibile, successivamente, lo sviluppo d’imprese casearie locali. Oltre 160 caseifici di campagna erano presenti in Sardegna, localizzati in prossimità dei luoghi di produzione della materia prima, cui si aggiungevano circa 50 caseifici di maggiori dimensioni, ubicati nei centri più importanti. I caseifici di campagna erano situati in locali modesti, attivi nei primi sei mesi dell’anno e abbandonati nei successivi sei, il cui prodotto finito era rappresentato dal formaggio fresco, poiché raramente erano dotati delle strutture necessarie per la salagione e la stagionatura. Il lavoro era svolto da quattro cinque operai stagionali locali, la cui attività era organizzata da un casaro laziale o abruzzese; essi effettuavano la caseificazione del latte conferito dai pastori della zona che lo consegnavano in caseificio, dove veniva pesato e pagato al momento, tra le sette e le nove del mattino (Le Lannou, 1941). Per quanto riguarda i caseifici più importanti, che erano generalmente di proprietà degli industriali continentali; al loro interno si potevano distinguere due diversi reparti, rispettivamente di I e di II grado. 52 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Nel primo si svolgevano le prime fasi di produzione simili a quelle che caratterizzavano i caseifici di campagna, ma a differenza di quest’ultimi, i caseifici di maggiori dimensioni non si limitavano ad operare nei primi sei mesi dell’anno; la caseificazione, infatti, proseguiva anche nei mesi estivi, per la produzione di Fiore Sardo. Nel reparto di II grado invece si svolgevano le fasi successive, ovvero salagione e stagionatura, non solo del formaggio fresco realizzato dal reparto di I grado, ma anche di quello acquistato dai caseifici di campagna. Il personale impiegato era composto di 15-20 lavoranti; gli operai erano sardi, mentre i capi erano continentali (Idda, 1995). La divisione dei compiti era ideata in modo tale da attribuire le mansioni più specializzate e più critiche della produzione casearia agli specialisti romani (Le Lannou, 1941). L’industria muove i primi passi in mezzo a notevoli difficoltà: difettavano le vie di comunicazione, mancava la manodopera qualificata, che doveva essere portata dal continente, mancavano i locali per la salagione, vi era la diffidenza dei pastori, vi era la concorrenza dei commercianti del Fiore Sardo (Bussa, 1978). Il pastore tuttavia perde presto la diffidenza nel vedere che la consegna del latte gli procura subito denaro liquido. D’altra parte l’industriale, allo scopo di reperire il latte necessario alla gestione efficiente del caseificio, utilizzava diversi strumenti con i quali si garantiva di anno in anno una determinata zona di influenza. Tra questi: il rappresentante, il vincolo di 53 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” debito, i patti segreti con uno o due degli allevatori maggiorenti e il “gioco dei prezzi”. In particolare il vincolo del debito nasce con la caparra (anticipo relativo alla produzione futura). La necessità finanziaria costringeva l’allevatore ad abbondare nelle richieste in anticipi e le ditte, per conservare la fonte di produzione, avevano interesse ad assecondarlo. Se l’allevatore non scomputava il debito con le consegne del latte, essendo normalmente in condizioni di non potere restituire la differenza, rimaneva automaticamente vincolato per l’anno successivo, privandosi cosi di una certa liberta di trattazione futura (Gentili, 1954 in Porcheddu 2002). Occorre ricordare che nei primi anni l’acquisto del latte avviene in regime di libera concorrenza e quindi è il pastore che, come dice G. Dettori, “detta i prezzi”. Questi infatti da 6 centesimi del 1897 salgono a 10, 15, 16, 18, 20 fino a toccare i 25 centesimi nel 1906. Gli industriali però si accorgono che la libera concorrenza danneggia i loro interessi e nel 1907 si accordano fra loro per fissare in comune il prezzo del latte. La conseguenza è subito evidente: nella successiva campagna del 1907-1908 il prezzo scende a 20 centesimi. In quello stesso anno la maggior parte degli industriali si riunisce nella Società romana del formaggio pecorino. La situazione di monopolio creata dall’accordo ha costituito un elemento permanente del settore caseario (Bussa, 1978). L’esportazione dei formaggi che nel 1897 era di 25 mila quintali dalla provincia di Sassari, raggiungeva i 50 mila nel 1912. L’incremento più rapido, che indica il sorgere della grande industria casearia in Sardegna, si è 54 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” verificato tra il 1909 e il 1912 (cfr. tabella 8) periodo in rapporto al quale possediamo dati sull’esportazione da tutta l’Isola: Tabella 8 Esportazione di formaggio 1909-1912. ANNI 1909 1910 1911 1912 PROVINCIA DI SASSARI Q.li 47.911 Q.li 46.163 Q.li 37.185 Q.li 49.996 PROVINCIA DI CAGLIARI Q.li 25.998 Q.li 33.165 Q.li 20.849 Q.li 39.320 TOTALI 73.909 79.328 58.034 89.316 Al termine del 1912 il valore della produzione casearia è superiore a quello di tutte le altre produzioni isolane. Per rendersi conto dell’importanza della produzione e della esportazione dei formaggi occorre collocarla nel quadro del commercio nazionale. Da un paese essenzialmente importatore di formaggi (cfr. tabella 9), quale era fino al 1890, era diventata poco prima della guerra la principale esportatrice di questo prodotto tra le nazioni europee dopo l’Olanda. Tabella 9 Importazioni e esportazioni di formaggio: 1881-1913. Anni importazione 1881 Q.li 89.967 1885 Q.li 105.604 1890 Q.li 77.380 1895 Q.li 67.362 1900 Q.li 42.121 1905 Q.li 45.005 1910 Q.li 66.955 55.985 1913 Q.li Esportazione 27.681 35.040 56.969 78.089 118.167 170.989 260.332 327.742 55 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” L’importaza poi dei nostri formaggi deve rilevarsi in relazione a quella degli altri paesi: Tabella 10 ql. esportati dalle principali nazioni nel 1913. Nazioni OLANDA ITALIA SVIZZERA FRANCIA Esportazioni nel 1913 659.243 327.742 301.349 125.599 Per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti dalle statistiche americane risulta che mentre nel 1900-1901 i formaggi provenienti dalla Svizzera tenevano ancora il primo posto con 6 milioni di libre importate di fronte ai 5 milioni e mezzo di formaggi italiani, nel 1905-1906 l’Italia importava negli Stati Uniti 11 milioni di libre mentre la Svizzera 9 milioni. Questa singolare penetrazione del formaggio italiano ed in particolare del “roman cheese” negli stati Uniti si deve all’emigrazione di meridionali e di isolani ed al favore che questo formaggio incontrava verso gli ebrei. Il mercato mondiale offriva pertanto le più propizie condizioni per un grande espansione della industria casearia nazionale e soprattutto di quella sarda che aveva fatto dell’industria casearia la sua attività principale grazie ad una serie di circostanze: • La consistenza del bestiame sardo, • L’autoconsumo, • La progressiva industrializzazione, con le conseguenti economie di fabbricazione, conservazione, trasporto ecc., che determinavano una 56 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” maggiore disponibilità ed un maggiore valore del prodotto sul mercato. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’industria casearia era al colmo del suo sviluppo. La guerra del 1914-1918 provocò una grave crisi per l’industria del pecorino romano. Nell’estate del 1914 in seguito allo scoppio della guerra, manifestandosi una forte tendenza all’aumento dell’esportazione il governo la sospese. Naturalmente ne derivò una depressione dei prezzi23 tanto allarmante che costrinse il Governo nella primavera del 1915 ad autorizzare l’esportazione di determinati contingentamenti mensili, ma con il D.L. del 9 giugno successivo l’esportazione dei generi alimentari compresi i formaggi restava ancora sospesa nell’agosto il ministero delle finanze accordava l’esportazione del solo formaggio pecorino in quantità limitate, da stabilirsi periodicamente ed in proporzione ai quantitativi esportati negli anni precedenti. Frattanto gia nell’autunno era iniziata la distribuzione del formaggio alle truppe le quali da 2 mila quintali giunsero a consumare perfino 50 mila quintali mensili. La conseguente rarefazione del prodotto provocò l’aumento del prezzo, determinando i primi calmieramenti. I provvedimenti successivamente 23 Ciò ebbe ripercussioni anche sul mercato isolano dove molti negozianti rifiutarono i prodotti a qualsiasi prezzo, avendo i magazzini pieni. Di conseguenza gli industriali produssero minori quantità di pecorino, e ciò ebbe ripercussioni anche sul prezzo del latte pagato dagli industriali agli allevatori (L.52 ad ettolitro). Gli allevatori (non contenti del prezzo pagato dagli industriali per il conferimento del latte) “non volendo sacrificare gli interessi generali (…) agli interessi della speculazione (da parte degli industriali)” preferivano produrre direttamente il fiore rosso e bacellone (che senza contare la scotta fruttava l. 90 ad ettolitro),preferito dai sardi. Allora il commissario, “pressato” dagli industriali impose il controllo ai due tipi su indicati nell’intento di costringere i produttori a vendere il latte ai caseifici per la fabbricazione del pecorino che serviva per l’esercito (Lei-Spano, 1919, pp. 217-235). 57 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” adottati furono tutti ispirati dal proposito di impedire l’ascesa dei prezzi (Alivia, 1921). La guerra libica prima, la prima guerra mondiale dopo, quindi, segnano una pausa in questo periodo di ascensione dell’industria casearia sarda. Ma nel 1918-1919, terminata la guerra, si notò subito una felice ripresa delle produzioni sarde. Dall’aprile al dicembre del 1920 vengono infatti esportati formaggi delle varie qualità per ql. 53.761 mentre ne vengono requisiti 10.265. Tenendo conto del formaggio marcio esportato in Corsica, del fiorente contrabbando e delle quantità vendute all’inizio dell’anno, si può supporre che la Sardegna abbia esportato poco meno dei 90000 Ql. del 1912. Intorno al 1922 comincia la storia del Feta. Questo è il nome di un tipo di formaggio che viene prodotto con latte pecorino dai pastori greci e albanesi. I greci pionieri di questa industria, comparvero a Olbia verso il 1922. La venuta in Sardegna era stata incoraggiata dall’esistenza di numerose pecore: quindi molto latte, più redditizio e a miglior prezzo che in Grecia e in Albania (Gentili, 1954). Al contrario i tentativi fatti da industrie francesi, tra il 1920 e il 1922, per procedere all’ammasso di formaggi di pasta molle da raffinare in seguito nelle cantine di Roquefort, fallirono completamente a causa delle difficoltà dei trasporti e dei loro alti costi. 58 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 4.3.2 La nascita delle cooperative e l’esperienza fascista Il decennio successivo alla prima guerra mondiale vede come fatto saliente la nascita delle cooperative casearie sarde, che soprattutto per quanto riguarda le prime iniziative sono limitate ad un ambito locale. Questo tipo di società incontrò nell’isola non poche difficoltà a svilupparsi nel settore primario, in quanto per il suo successo era condizione necessaria la formazione fra i soci di una coesione basata su fondamenti strettamente economici e legata inoltre ai principi di mutualità, preliminari e insopprimibili, in virtù delle norme esistenti. La società cooperativa rappresenta infatti uno strumento operativo attraverso il quale i cooperatori tendono a realizzare direttamente operazioni economiche tanto più cospicue quanto più elevato è il numero di essi, il volume degli affari, il senso di solidarietà, il grado culturale, la capacità imprenditoriale (Di Felice, 1990). Il pastore sardo, invece, cosi profondamente legato alle usanze e alla legge della comunità, è altrettanto profondamente individualista e geloso della sua autonomia24 (Pinna, 2003, p.126). La prima25 cooperativa nacque a Bortigali, col nome di Latteria Sociale Cooperativa, ad opera del medico condotto Pietro Solinas 26 , nel 1907, 24 Basti dire che sui “saltus”, grandi estensioni territoriali destinate quasi esclusivamente alla pastorizia, dove gli abitanti del villaggio esercitavano il diritto collettivo di uso del pascolo e della legna, non si può parlare di sfruttamento e tanto meno di gestione in forma associativa perché ogni pastore del villaggio pagava all’organo amministrativo di esso una quota pro capite del bestiame immesso nel pascolo (un tanto per le pecore, un tanto per le capre ecc.) per conto proprio e in piena autonomia (Pinna, 2003). 25 In realtà pare che la prima fu la “latteria sociale” di Ozieri costituita nel 1885 da un gruppo di allevatori e che nonostante fosse dotate di attrezzature efficienti ebbe vita breve (Sanna, 1997). 59 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” l’anno in cui iniziò la grande espansione dei caseifici e gli industriali si riunirono in cartello27. La cooperativa di Bortigali non sorge però per combattere direttamente gli industriali, ma piuttosto per permettere la lavorazione del latte vaccino, trascurata da questi ultimi (Bussa, 1978, p.31). È un luogo comune quello di riferirsi al fascismo come a un periodo di letargo per la cooperazione nel quale non sarebbe successo nulla di rilevante e le cooperative avrebbero vissuto in una sorta di ibernazione forzata in attesa di tempi migliori. In realtà proprio attraverso la cooperazione il fascismo cercò di conseguire quel consenso di massa che gli era indispensabile. Il 25 ottobre 1924 nasce a Ozieri la Federazione delle latterie Sociali e cooperative della Sardegna (FEDLAC), all’assemblea costitutiva presenziano le più alte autorità fasciste delle due provincie e partecipano i presidenti di 20 latterie sociali, tra i membri del consiglio di amministrazione è presente Paolo Pili ex sardista. La FEDLAC si propone 26 In effetti, in differenti casi, tali esperienze pionieristiche rappresentano il frutto dell’intervento di un qualche personaggio “illuminato”, espressione della classe borghese locale (il medico condotto, il maestro del paese, il veterinario ecc.) (Porcheddu, 2004). Basti osservare che la seconda cooperativa casearia sarda viene fondata nel 1910 a Aidomaggiore dal medico del paese (Campus, 1936; Bussa, 1978) e la Latteria sociale di Bonorva è fondata nel 1916, ad opera del veterinario del paese. 27 Già il professore Pellegrini al congresso degli agricoltori italiani tenutosi a Sassari nel maggio del 1905, affermava: “visto che la produzione di latte in Sardegna ha raggiunto un’importanza notevolissima e che è in continuo aumento. Visto che conviene avviare il caseificio sardo sempre più nella via del progresso tecnico, discretamente avviato; e che bisogna darli un organizzazione industriale e commerciale che faccia più largamente compartecipi i produttori di latte nei profitti di questa industria, meglio di quello che avviene ora con la vendita del latte a speciali speculatori, per lo più forestieri; io propongo al congresso (…) di fare voti ardentissimi, acciocché anche in Sardegna si organizzino presto numerose latterie sociali e relativi magazzini, il tutto ben diretto e amministrato, sulla base della mutualità e della cooperazione (…) che si facciano voti al governo, perché nell’intento predetto bandisca speciali concorsi a premi tra le società cooperative, che prime sorgeranno in Sardegna, per la lavorazione razionale dei latticini” (Cusmano, 1906, p.119 cit. in Porcheddu, 2004). 60 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” come uno dei possibili strumenti per riformare l’economia regionale promuovendone la rinascita. Il bilancio dei primi mesi di attività e decisamente positivo. Il prestigio personale e l’influenza politica di Pili (dietro la quale si intravede l’avallo del fascismo) agevolano l’apertura di credito alla FEDLAC, risolvendo cosi all’origine un problema che aveva tradizionalmente avuto un peso determinante nelle strozzature dell’economia sarda. La FEDLAC rappresenta in primo luogo l’opportunità di superare la frammentazione e l’improvvisazione del settore, di uniformare le tecniche di produzione di curare la selezione del prodotto, di accertare la spedizione, di sviluppare anche la produzione dei sottoprodotti (un esempio è la costituzione nel 1926 della cremeria sociale a Macomer), di avviare rapporti diretti col mercato (Sotgiu, 1991, p.201). Saranno i proclamati intenti antimonopolisti a mettere seriamente alla prova il fascismo di fronte all’organizzazione cooperativa animata dalla nostalgia sardista dell’ex sardista Paolo Pili e a dimostrare che gli orientamenti nazionali andavano in ben altre direzioni che in quella della rinascita economica regionale. Dai contratti di Pili con il mercato americano e con l’emigrazione italiana negli Stati Uniti venne infatti la conferma di una prospettiva di vendita interessante e vantaggiosa, ancor più del mercato nazionale. Frattanto la federazione si era notevolmente rafforzata, divenne una realtà superiore a tutte le precedenti esperienze cooperative. Dal punto di vista giuridico si configurava come una società cooperativa a capitale illimitato, costituita sull’adesione delle latterie sociali, che acquistavano un 61 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” numero illimitato di azioni. Le latterie erano anche esse società cooperative a capitale illimitato, costituite con l’adesione di pastori rispondenti a determinati requisiti di moralità e di onestà (Sotgiu, 1991, p.203). Nonostante l’aumento di produzione ottenuto, il consenso dei pastori e dei contadini, si scatenò sulla stampa una violenta campagna contro questo organismo e i suoi dirigenti28. Nel 1926 la cremeria di Macomer, che rappresentava uno dei vantati successi della FEDLAC, creò le prime preoccupazioni e vennero alla luce frodi e danni della cooperativa e falsificazioni della contabilità, tanto che l’attività dello stabilimento venne infine sospesa. Difficoltà nuove nel mercato internazionale completarono questo quadro di crisi. Nel 1929 a Roma si costituì la “Società anonima del Pecorino romano” è la società degli industriali caseari che si erano sempre opposti alla cooperativa di Pili. Saranno cosi in grado di controllare il mercato senza difficoltà. Stretta dalla concorrenza e minacciata dalle nuove tariffe doganali americane, la FEDLAC svendette il suo prodotto e nel 1929 il suo consiglio di amministrazione chiese l’intervento delle autorità fasciste. Pili si dimise da presidente onorario mentre da Roma venne nominato un commissario ministeriale e venne sciolto il cda. L’esperienza della federazione si chiuse definitivamente nei mesi successivi con il dichiarato fallimento. Con la 28 Tale campagna fu promossa dal Sindacato industriali caseari di Sassari e subito condivisa dal principale quotidiano di quella città, “l’Isola”, ma anche dalla “Tribuna” e dal “Giornale d’Italia”. Sull’indebolimento della cooperativa, provocato da questa violenta campagna di stampa, confluì poi il progressivo distacco di alcune latterie e venne meno anche l’appoggio politico del PNF a Pili (Sotgiu, 1991, p.204). 62 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” definitiva scomparsa della federazione avvenuta nel 1932, scomparvero anche numerose cooperative casearie che vi avevano aderito (Bussa, 1978). Il riformismo “sardofascista” usci dal confronto con la concorrenza industriale sostanzialmente distrutto. L’impatto con la nuova congiuntura internazionale del 1929 ne determinò la crisi finale (Sotgiu, 1991). Infatti la crisi economica che dal 1929 travolse, a partire dagli Stati Uniti, l’economia mondiale, non potè che ripercuotersi sull’industria casearia sarda, che aveva proprio nel mercato nordamericano il principale sbocco. Cosi dai 100.000 ql. esportati negli Usa nel 1928, si scese negli anni successivi ai livelli esposti in tabella 11. Tabella 11 Quintali di formaggio esportati dal 1932 al 1936. ANNI 1932 1933 1934 1935 1936 Ql. ESPORTATI 83.969 61.043 69.689 88.382 66.043 Nel 1933, a causa dell Grande Depressione, il governo degli Stati Uniti svalutò il dollaro, con cui venivano pagate le merci importate, determinando il calo del prezzo del Pecorino Romano da 1000 a 850 lire al quintale; ciò ebbe ripercussioni, inevitabilmente, anche sull’economia delle circa 40000 imprese armentizie sarde. Gli industriali caseari riuscirono, in un primo momento, a contenere la crisi, associandosi e vendendo il prodotto in Italia, non essendo più assorbito nel mercato americano. Altri problemi furono determinati dalla politica del regime fascista, le cui mire espansionistiche in Africa furono la causa delle sanzioni economiche 63 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” (embargo delle forniture di armi e munizioni, nonché divieto d’importazione di una serie di merci necessarie alla guerra escluso il petrolio), decretate dalla società delle nazioni29, che isolarono l’Italia nel quadro degli scambi internazionali, e che accentuarono la politica autarchica del governo. Le conseguenze gravose delle sanzioni per le esportazioni di formaggi sardi si sommarono ai gravi effetti sugli allevamenti ovini che già aveva avuto la “battaglia del grano”, con cui il regime fascista intendeva perseguire l’obiettivo dell’autosufficienza nella produzione cerealicola (Sanna, 1997). Tale politica fu inaugurata nel 1929, e comportò la sottrazione all’allevamento ovino di buona parte dei pascoli, destinandoli alla coltivazione del grano, non adatta ai suoli aridi di buona parte della Sardegna; ciò determinò il ridimensionamento del numero di capi ovini allevati. Nel 1936, inoltre, si toccò il limite più basso di produzione complessiva (industriale e privata) dei formaggi, tuttavia, nel 193730 si notò gia una ripresa. La guerra determinò il blocco delle esportazioni e quindi uno stato di crisi. 4.3.3 Il dopoguerra e la diffusione delle cooperative La storia dell’industria casearia nel dopoguerra e caratterizzata, innanzitutto, dall’ampia diffusione delle cooperative che, dopo essersi 29 Dalle sanzioni si dissociano solo l’Austria, l’Ungheria, e l’Albania, mentre aderirono tutti gli altri 52 paesi membri (Montanelli-Cervi, 1998). 30 Dai 132.523 quintali nel 1936 ai 175.725 quintali nel 1937 (Bussa, 1978). 64 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” limitate in un primo momento alla sola trasformazione, riescono poi a commercializzare da se il prodotto, svincolandosi dalla “tutela” degli industriali e rompendo cosi il loro monopolio. In effetti quasi il 70% delle cooperative casearie sarde è stato fondato tra gli anni Cinquanta e Sessanta, anni immediatamente successivi alla istituzione della Regione Autonoma della Sardegna31 e, quindi, al conseguimento di un certo potere decisionale e di spesa da parte dei politici regionali (Porcheddu, 2004, p.23). Infatti mentre le prime cooperative sorgono, come si è detto nel paragrafo precedente, grazie a menti “illuminate”, da questo momento questo ruolo promotore del movimento cooperativo viene assunto dai politici regionali attraverso una serie di provvedimenti assai benevoli verso la costituzione di cooperative tra pastori e verso la realizzazione di moderni impianti di trasformazione della materia prima che alimenta l’intera filiera. Ovviamente, il positivo atteggiamento dei politici regionali nei confronti delle cooperative casearie, non toglie importanza a motivazioni di ordine economico che, in non pochi casi, hanno spinto, spontaneamente, talune comunità di allevatori e pastori ad integrarsi verticalmente a valle verso la fase di trasformazione del latte ovino in formaggio (peraltro, ripercorrendo per certi versi una tradizione che vedeva, fino alla fine dell’ottocento, l’impresa pastorale massimamente integrata lungo l’intera filiera-prodotto). In particolare, la forte pressione concorrenziale esercitata dagli industriali 31 la Sardegna è stata costituita in regione a statuto speciale con legge costituzionale del 26 febbraio 1948. 65 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” del comparto di trasformazione, in contesti di mercato spesso confinanti con il monopsonio, tendeva a comprimere la materia prima a livelli talvolta di mera sussistenza per l’attività pastorale (Porcheddu, 2004, pp. 31-32). Dopo il 1950 il settore, inoltre, subisce una contrazione, in conseguenza della crisi pastorale che si concretizza in una fuga di uomini e di bestiame dalle campagne (Bussa, 1978)32. In questi anni nell’industria casearia era in atto un intenso processo di rinnovamento, che investiva tutte le fasi del ciclo economico: la resa del latte, la sua trasformazione, la distribuzione dei formaggi e dei derivati. La ripresa del settore avviene lentamente in quanto il mercato del dopoguerra presenta notevoli difficoltà, sia nella vendita del latte al consumo, che nella trasformazione. Ciò era dovuta ai problemi nei trasporti, nella determinazione delle qualità e del rendimento33, nella pastorizzazione, 32 La consistenza del patrimonio ovino e caprino lattifero, risultava in Sardegna nel 1951 la seguente: • Pecore: 2.181.730, pari al 25,10% di tutto il patrimonio nazionale; • Caprini: 512.000 pari al 22,72% di tutto il patrimonio nazionale Con una produzione di latte di : • pecora di q.li 1.379.240 di cui q.li 1.197.210 trasformati rappresentanti il 30,89% di tutto il latte pecorino trasformato in Italia, • capra di q.li 413.950 di cui q.li 319.540 trasformati pari al 34,60% di tutta la nazione (Gentili, 1954, p.17). 33 Per quanto riguarda la determinazione della qualità del latte e del suo rendimento era un problema igienico ed economico. Igienico perché il latte può essere il veicolo di infezioni o intossicazioni collettive. Economico in quanto Gli Stati Uniti, fin dal 1949, ostacolarono l’importazione di Pecorino romano con pretesti igienici più o meno fondati di impurità scoperte al microscopio. Bastò l’esame di 77 casse di formaggio per respingere ben 13 partite di formaggio, 12 per sudiciume, 1 per difetto di grasso. I rilevi americani erano senza dubbio fondati. In realtà tuttavia gli USA volevano ridurre l’importazione di formaggi esteri per assicurare uno sbocco ai propri. Economici, inoltre, perché la resa del latte è un elemento fondamentale nella determinazione dei costi di produzione del formaggio. Questa resa andava per il Pecorino sardo tipo romano da 16-17 kg ogni 100 litri a 21-22 con ripercussioni sul costo in più o in meno intorno al 30% (Gentili, 1954). In definitiva l’esportazione di romano finisce per arrestarsi sui 50000 ql., inferiore alle posizioni consolidate nell’anteguerra (sui 70000 ql.). Rispetto al 1928 il quantitativo esportato si riduce cosi del 50%. Difficoltà nascono anche per la 66 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” nella attrezzatura dei caseifici e degli stabilimenti di stagionatura, nella determinazione dei tipi di formaggio da produrre (Gentili, 1954 ). Nel 1950 nel settore caseario operavano tre diversi soggetti: oltre a un nucleo di industriali privati, era ormai diffusa la figura dell’allevatore produttore, ed inoltre grazie al ruolo di promotore esercitato dalla Regione attraverso alcune leggi approvate nel 1950, cominciavano a svilupparsi i caseifici sociali cooperativi. In particolare la legge regionale n. 57 (del 9 novembre 1950 ) prevedeva la concessione di contributi nella misura del 50 per cento per “l’acquisto, la costruzione, l’ampliamento e l’ammodernamento di stabilimenti caseari” e la legge n. 74 (del 29 dicembre 1950) istituiva un fondo a tasso agevolato per la concessione di mutui alle cooperative (Gentili, 1954). In pratica le cooperative casearie potevano contare su un cospicuo contributo (pari al 50% delle spese), mentre per la restante parte dell’investimento potevano godere di anticipazioni a tassi agevolati da parte della Regione Sardegna34. Da una relazione presentata al convegno regionale della cooperazione tenutosi a Nuoro nel 1960 si rileva che la situazione delle cooperative pastori nel 1957 era in Sardegna la seguente: 20 caseifici di cui 7 in provincia di Cagliari 2 in provincia di Nuoro, 11 in provincia di Sassari. La concorrenza, sul piano internazionale, dei formaggi di imitazione o simili al romano: si tratta di prodotti argentini, australiani,balcanici e francesi (Bussa, 1978). 34 A quelle appena ricordate seguiranno ben presto altre leggi regionali, come la l.r. 16 luglio 1952, n.36 e la l.r. 22 novembre 1962, n.19 (modificata dalla l.r. 29 aprile 1975, n.25) (quest’ultima, in particolare costituiva un comitato tecnico regionale per la cooperazione). Di particolare interesse è poi la legge che prevedeva “trattamenti privilegiati e preferenziali” (Murtas, 1978, p.24) per gli allevatori associati in cooperative. Inoltre a queste si aggiunge il piano di Rinascita (citato nel paragrafo sulla storia della pastorizia ) che favoriva, tra le altre cose, l’istituzione di una rete di cooperative. 67 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” capacita lavorativa, grazie ai conferimenti di 1210 soci, era di Hl 93.550 di latte ovino e di Hl 25.560 di latte vaccino. A questa data, pertanto è ragionevole dedurre che i caseifici cooperativi avessero la possibilità di trasformare intorno alla decima parte del latte ovino e vaccino prodotto in Sardegna: come si vede, quindi, l’incidenza della organizzazione cooperativistica sulla situazione della pastorizia sarda era pressoché insignificante (Pinna, 2003). Nel 1968 il prodotto netto dell’allevamento delle pecore (di cui il formaggio rappresentava circa il 50%) era pari a 45 miliardi di lire: il 6-7% del prodotto netto totale sardo. Nello stesso anno nell’allevamento delle pecore erano impegnati circa 45000 lavoratori, pari a circa il 10% della popolazione attiva sarda, e la superficie agraria destinata all’allevamento delle pecore era uguale a circa il 60% del totale della superficie agraria della Sardegna. Attraverso degli studi effettuati verso la fine degli anni sessanta, dall’analisi dei dati raccolti, emerge che il settore lattiero-caseario sardo, sia a livello della produzione propriamente detta, sia per quanto riguarda la distribuzione dei prodotti, era controllato da un numero relativamente basso di imprese, tutte di proprietà di privati35. Le cooperative di pastori; che pure, dopo la seconda guerra mondiale, erano state costituite in gran numero, non riuscirono ad alterare in alcuna maniera le strutture precedenti. Gli impianti cooperativi, che erano stati costituiti, 35 Nel 1968 le dieci imprese più grandi, del gruppo degli industriali-commercianti,avevano prodotto circa 58.600 quintali di formaggio, che rappresentavano il 65,78% del formaggio prodotto da tutti i grossi industriali e più del 40% di tutto il formaggio prodotto con sistemi industriali in Sardegna (Brusco, 1971). 68 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” non avevano sottratto agli operatori privati che una minima parte della materia prima da lavorare, ed essi lavoravano largamente al di sotto della loro capacità produttiva36. In base al tipo di attività che le imprese private (che erano 147), che operavano nel settore caseario sardo, avevano svolto nel 1966-1968 sono state suddivise in quattro gruppi (Brusco, 1971): • Gli “industriali-commercianti” • I “piccoli industriali” • I “salatori privati” • I commercianti Il primo gruppo era costituito da imprenditori che si occupavano sia della produzione che della commercializzazione del formaggio (autoprodotto o acquistato da altri). Dal punto di vista giuridico le imprese degli industrialicommercianti (che nel 1966 erano 27 e nel 1968 erano 26) erano organizzate in forme assai arretrate. Le ditte individuali e le società di fatto erano più di un terzo del totale, tra le rimanenti imprese vi erano una società in accomandita semplice e soltanto quattro società per azioni; tutte le altre erano società in nome collettivo. Di queste ditte, circa un terzo furono fondate dai commercianti del Lazio, della Liguria e della Campania che, all’inizio del secolo, introdussero la lavorazione industriale del latte e la produzione del Pecorino Romano. Un secondo gruppo era di origine isolana. Erano anche queste circa un terzo del totale; ad esse avevano dato origine, in genere nel periodo del primo dopoguerra, alcuni grossi 36 Si pensi che nel 1968 questi impianti erano utilizzati soltanto per il 23,10% della loro capacità. 69 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” proprietari terrieri, padroni di greggi numerose, che dapprima trasformavano direttamente il latte delle loro pecore e poi, poco a poco, avevano fatto dell’attività industriale la loro occupazione principale o unica. Un terzo, più piccolo, gruppo di imprese era quello collegato alla venuta in Sardegna, spesso negli anni del secondo dopoguerra, di commercianti greci, che compravano il pecorino tipo romano per rivenderlo nel loro paese. Alcuni di costoro, stabilitisi in Sardegna, impiantarono stabilimenti di trasformazione del latte. Queste imprese, con quelle del secondo gruppo, erano in genere le più piccole. Le imprese rimanenti, infine, che erano soltanto solo un sesto del totale delle imprese, appartenevano a importanti ditte che operavano sull’intero territorio nazionale e assumevano la forma giuridica di società per azioni. Queste imprese e quelle di vecchia fondazione erano le più importanti del settore e tra queste non vi erano sostanziali differenze. La struttura aziendale delle imprese degli industrialicommercianti era, in genere, più complessa di quella delle imprese controllate da altri operatori. A differenza dei piccoli industriali e delle cooperative che avevano quasi sempre soltanto un caseificio molte di queste imprese controllavano due, tre o quattro caseifici ciascuna. L’area in cui erano distribuiti i pastori che consegnavano il latte a ciascun impianto (quella cioè che potrebbe essere chiamata la “zona di influenza” dell’impianto stesso) era spesso assai ampia37. Normalmente i grossi industriali avevano una sola grossa cantina di salagione, che era sufficiente 37 I camion che effettuavano la raccolta del latte si allontanavano dal caseificio anche 70-100 chilometri (Brusco, 1971). 70 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” sia per il formaggio prodotto dall’impresa, sia per quello che veniva acquistato “esternamente”. Di regola la cantina di salagione sorgeva vicino al caseificio principale: in quasi tutti i casi era situata vicino alla sede amministrativa. Dai caseifici, lontani talvolta quasi 150 chilometri, la pasta del formaggio veniva portata con automezzi alla cantina ogni giorno o ogni due giorni. La distribuzione territoriale dei caseifici seguiva, anche se con approssimazione, la distribuzione territoriale del patrimonio ovino sardo. La distribuzione territoriale delle cantine di salagione e delle sedi amministrative delle imprese, invece, seguiva una logica differente: più della metà di esse era concentrata nei tre paesi di Thiesi, Macomer, ed Ozieri. Alla base di questa localizzazione non pare possibile trovare ne ragioni di efficienza e di buona organizzazione aziendale, ne l’esigenza di dar vita ad un mercato di vendita. La spiegazione va appunto cercata nel fatto che a Thiesi ed a Macomer risiedevano quegli industriali caseari che furono i primi a trasformare il latte su base industriale ed i loro discendenti avevano conservato la vecchia localizzazione, compiendo una scelta che si giustifica solo all’interno delle vicende familiari e delle preferenze personali. Il secondo gruppo, quello dei piccoli industriali, svolgeva soltanto attività di produzione mentre l’unica attività commerciale di questi operatori era l’esportazione dall’isola del formaggio da loro prodotto. Quindi la differenza con i grandi industriali era data dal fatto che questi esportano 71 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” dall’isola formaggio prodotto da altri. Nel 1966 le imprese dei piccoli industriali erano 60 con 67 caseifici. Le imprese con più di un caseificio erano soltanto quattro, ne particolarmente grandi, ne particolarmente avanzate da un punto di vista tecnico. Quasi tutti gli stabilimenti erano dotati di cantine di salagione sufficienti a salare e stagionare il formaggio prodotto. Quasi tutti questi caseifici ricevevano il latte dai pastori che risiedevano nel raggio di meno di 30 chilometri: questi impianti cioè operavano in genere a livello comunale o, al massimo, di piccoli comprensori di comuni (Brusco, 1971). I salatori privati, il terzo gruppo, sono coloro che non trasformavano il latte ma soltanto salano e conservano il formaggio prodotto da terzi. Avevano quindi un ruolo di fiancheggiamento delle strutture produttive più antiquate. Questi rappresentavano un fattore di arretratezza anche per quanto riguarda il modo in cui svolgevano il proprio compito: a detta di tutti i tecnici del settore l’alta percentuale di scarti del formaggio prodotto direttamente dai pastori era dovuta anche alla scarsa cura con cui si effettuava la salagione. Per tutte queste ragioni man mano che gli impianti moderni sostituivano sia gli impianti antichi, sia la trasformazione diretta del latte da parte dei pastori, le cantine di salagione perdono rilievo38. 38 L’unica eccezione in quel periodo era una grossissima cantina di salagione situata vicino a Cagliari. I salatori privati, nel 1968, avevano lavorato circa 36.000 quintali di formaggio, i due terzi del quale provenivano da pastori che trasformavano direttamente il latte; della parte rimanente 4.500 quintali costituivano il prodotto di piccoli industriali e 8.500 quintali il prodotto di cooperative (Brusco,1971). 72 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” I commercianti, il quarto gruppo, che acquistavano ed esportano il formaggio dall’isola si potevano suddividere, in linea di massima, in due gruppi: i primi avevano depositi sul Continente (generalmente nel Meridione, in Toscana ed in Liguria) ed esportavano negli Stati Uniti almeno una certa quota del pecorino acquistato; gli altri vendevano anch’essi il formaggio sardo a dettaglianti sul continente, ma non ne esportavano dall’Italia. Tutti avevano la sede amministrativa della loro impresa sul Continente; nessuno di essi disponeva di capitale sardo. Nel 1968 i commercianti attivi nel settore lattiero-caseario in Sardegna erano 29, complessivamente essi avevano esportato dall’isola circa 27000 quintali di formaggio pari al 20% circa del totale. Per quanto riguarda la provenienza del formaggio acquistato dai commercianti la loro attività era equamente divisa tra i piccoli industriali (dai quali acquistavano il Toscanello e i formaggi molli) e cooperative (dalle quali acquistavano il Pecorino romano). Le cooperative di pastori erano suddivise in due gruppi: quelle che non possedevano impianti per la trasformazione del latte e quelle dotate di impianti di trasformazione. Il primo gruppo durante l’annata agraria 65-66 era composto da 65 cooperative, numero che passò a 90 nel 67-68. La loro funzione era quella di contrattare collettivamente il latte prodotto dai singoli soci, compito che nel 1966 non veniva svolto da 36 cooperative, che non funzionavano in alcun modo e i pastori che ne erano soci contrattavano ciascuno per proprio conto la vendita del latte prodotto. La presenza di un 73 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” alto numero di cooperative non funzionanti in alcun modo non è difficile da spiegare: esse erano il residuo di un tentativo di associazione compiuto negli anni precedenti spesso sotto la sola spinta dei dirigenti provinciali delle associazioni cooperative. I contratti, sulla base dei quali queste cooperative vendevano, tutt’insieme, agli operatori privati il latte prodotto dai singoli soci, avevano la caratteristica di contratti di “vendita di cosa futura”. Essi venivano stipulati in autunno e fissavano il prezzo (o le modalità di determinazione del prezzo) per il latte che le greggi avrebbero prodotto dal primo giorno di gennaio sino all’ultimo giorno di maggio dell’anno successivo. Il contratto prevedeva che, durante i 150 giorni di apertura dei caseifici, i pastori consegnassero all’industriale tutto il latte prodotto dalle loro pecore. Gli elementi di incertezza, quindi, erano principalmente due: da un lato era difficilmente prevedibile, perché soggetto a forti oscillazioni, il prezzo al quale si sarebbe venduto il formaggio, dall’altro era altrettanto difficilmente anticipabile l’andamento dell’annata agraria, e quindi la quantità di latte che sarebbe stata prodotta. Le modalità di pagamento erano, in linea di massima, costanti per tutti i tipi di contratti, e rispecchiavano questa incertezza: i compratori versavano delle caparre a novembre, poi degli anticipi durante la stagione di apertura dei caseifici, e il conguaglio sino al prezzo definitivo a settembre, quando gia si iniziava la contrattazione per il nuovo anno. I contatti di vendita più usati erano i seguenti: 74 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” • il contatto a “prezzo di piazza”: il prezzo del latte era determinato alla fine della campagna casearia in base, appunto, al prezzo di piazza, questo contratto era il più diffuso. • il “contratto aperto”: si fissava al momento del contratto il prezzo minimo del latte. Il prezzo che veniva effettivamente pagato poteva variare in aumento se il prezzo di piazza risultava, alla fine dell’annata, superiore al minimo convenuto. • il contatto “chiuso”: il prezzo del latte era fissato all’inizio dell’annata agraria ed esso, come recitava la clausola tipica del contratto, non era “ne aumentabile ne diminuibile” • il contatto a “resa”: per ogni ettolitro di latte versato l’industriale garantiva l’equivalente in valore di un certo numero di chilogrammi di formaggio, in genere 14 chilogrammi. Il valore del formaggio era calcolato, alla fine della campagna, come la media dei prezzi alla quale avevano venduto il formaggio sei cooperative, scelte per metà dall’industriale e per metà dalla controparte. Le ragioni per le quali i pastori si associavano non erano quelle di ottenere dalla controparte un contatto di tipo diverso, (i contratti praticati con le cooperative non erano diversi, infatti, dai contratti usuali per i singoli pastori) ma soltanto un prezzo più alto. Tuttavia se si rilevano i prezzi di vendita del latte da parte dei pastori singoli e di quelli associati, emerge assai chiaramente che il prezzo praticato alle cooperative non era più alto dell’altro, se non nei casi in cui il pastore singolo era proprietario di un 75 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” gregge di piccolissime dimensioni. Va notato invece che le cooperative che vendevano tutt’insieme il latte dei soci da un lato eliminavano agli industriali il fastidio e le spese di molteplici contratti che sarebbero stati necessari con i singoli pastori, dall’altro diminuivano le spese che gli industriali dovevano sopportare per la raccolta giornaliera del latte, che nelle cooperative, in genere, veniva portato dai soci in un unico centro di raccolta. Per quanto riguarda il secondo gruppo, quello delle cooperative con impianti, nel 1966 vi erano in Sardegna 60 cooperative dotate ciascuna di uno stabilimento per la trasformazione del latte. Gli impianti erano dotati di cantine di salagione proporzionate alla loro capacità produttiva, ed erano quindi in grado di portare il processo di lavorazione del latte sino al punto immediatamente precedente la commercializzazione del prodotto. Non tutte le cooperative dotate di cantine di salagione, tuttavia, avevano salato la pasta di formaggio nelle loro cantine. Alcune lo avevano affidato ai salatori privati. La zona di influenza delle cooperative era, senza eccezioni, molto limitata. Quasi tutti coloro che versavano il latte ad una data cooperativa risiedevano nello stesso comune, o al massimo in comuni assai vicini. La distribuzione delle imprese cooperative sul territorio dell’isola era relativamente uniforme. Il formaggio prodotto dalle 60 cooperative ammontava a circa 36000 quintali nel 1966 e poco più di 31000 quintali nel 1968; sul totale del formaggio lavorato in tutti gli stabilimenti industriali dell’isola il prodotto delle cooperative rappresentava il 20% nel 1966 ed il 76 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 21,50% nel 1968. La capacità produttiva annua degli impianti di proprietà delle cooperative passò dai 65.000 quintali per anno nel 1966 a 99.000 ql. nel 1968. Le ragioni di questo rapido aumento della capacità produttiva degli stabilimenti cooperativi fu dovuta soprattutto alla politica di incentivazione alla cooperazione perseguita da tutte le forze politiche in Sardegna. Infatti in quegli anni una cooperativa che avesse costruito un caseificio riceveva, parte dalla regione e parte dalla cassa per il mezzogiorno, un contributo a fondo perduto pari all’80% della spesa necessaria, un mutuo a basso tasso di interesse per il rimanente 20%, ed infine un mutuo a basso tasso di interesse per costituire parte del capitale di esercizio. Alla altissima capacità produttiva degli impianti cooperativi fa riscontro un grado di utilizzazione molto basso. La forma più impressionante che questa sottoutilizzazione assumeva era il fatto che molte cooperative dotate di stabilimenti lasciavano i loro impianti completamente inattivi. Se si prendono in considerazione gli impianti delle cooperative che avevano svolto attività di trasformazione, infatti la capacità produttiva non utilizzata era altissima pari al 65% nel 1966 ed al 74% nel 1968. Le ragioni di questo fenomeno erano molteplici: innanzitutto la carenza di capacità imprenditoriale, tipica d’altra parte, non solo della Sardegna ma di tutte le regioni a basso livello di reddito39. 39 Se si riflette sul fatto che per dirigere una cooperativa sono necessarie non solo le gia notevoli capacità tecniche e organizzative richieste per portare avanti qualunque attività imprenditoriale, ma anche le doti umane necessarie per sanare i frequenti dissidi interni tra i soci, si potrà comprendere perché cosi spesso i dirigenti delle cooperative non erano riusciti da un lato a raggruppare un numero di pastori sufficiente a garantire una quantità di latte proporzionale agli impianti, dall’altra ad organizzare il processo produttivo in modo da sfruttare gli impianti almeno nella misura consueta alla media degli imprenditori. 77 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Inoltre, il fatto che gli industriali operanti nella zona, quando sorgeva una cooperativa, offrivano talvolta di pagare il latte a prezzi particolarmente alti poteva spiegare perché in alcuni casi gli stessi pastori che avevano dato vita a una cooperativa se ne staccavano subito dopo la costituzione e preferivano vendere il latte agli operatori privati. Infine la drammatica sottoutilizzazione degli impianti poteva essere vista come un generale fallimento della politica di sostegno delle cooperative. Figura 6 La quantita del formaggio prodotto nel 1966-68 70,00% 60,00% 50,00% 40,00% 1966 1968 30,00% 20,00% 10,00% 0,00% INDUSTRIALI COMMERCIANTI COOPERATIVE Tabella 12 Portafoglio prodotti imprese casearie sarde nel 1968. I TIPI DI FORMAGGI PRODOTTI NEL 1968 TIPO ROMANO TOSCANELLO VARI TOTALE DA INDUSTRIALI COMMERCIANTI QUINTALI % DA PICCOLI INDUSTRIALI QUINTALI % DA COOPERATIVE QUINTALI % TOTALE QUINTALI % 65.360 8.338 15.386 89.084 9.723 11.037 3.996 24.756 26.535 1.782 2.887 31.204 101.618 21.157 22.269 145.044 73,37 9,36 17,27 100 39,28 44,58 16,14 100 85,04 5,71 9,25 100 70,06 14,59 15,35 100 78 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Negli anni sessanta si cerca anche di consorziare le cooperative. Venne costituita la Sarda Federazione Latterie Sociali per opera dei dirigenti dell’Unione Provinciale Agricoltori di Sassari, associazione che tuttavia non svolse attività di rilevo. Nacque poi in provincia di Cagliari, il consorzio Caseario Sardo allo scopo di lavorare in comune il latte di diverse cooperative e di commercializzare i prodotti. Nel 1968 fu costituito il Consorzio Regionale Latterie Sociali “Sardegna”, con sede a Macomer. I consorzi non furono in grado di realizzare i propri scopi sociali fino a quando il piano per le zone interne a prevalente economia pastorale approvato alla fine del 1973, non creò uno strumento finanziario (fondo di commercializzazione), in grado di ribaltare i rapporti di forza con gli industriali: in pratica le cooperative ebbero il mezzo per resistere sul mercato fino alla vendita del prodotto. Dopo quasi mezzo secolo, cosi le cooperative riuscirono a penetrare nuovamente nel mercato statunitense e canadese con il Pecorino romano, oltre ad affermarsi negli altri mercati tradizionali. Il mercato del Pecorino romano comincia a manifestare tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta squilibri legati ad un eccesso di offerta rispetto alla domanda; il problema che ne deriva è quello di collocare a prezzi remunerativi il formaggio. La carenza quasi assoluta di indagini di mercato nel settore (gli elevati costi non permettevano, infatti, alle aziende di commissionarle) fa si che non si conoscessero le tendenze dei consumi 79 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” italiani ed europei dei prodotti lattiero caseari ovini. In altre parole si continuava a fare affidamento per la vendita del romano al solo mercato statunitense e canadese. Tali mercati, in quella fase poco dinamici, erano caratterizzati da un accentuata competitività basata sul prezzo. I pericoli per la vendita del pecorino romano sono dati soprattutto dai fomaggi argentini (peraltro prodotti a partire dal latte vaccino, come il cosiddetto “Sardo Romano”, per esempio), resi più competitivi dalla continua svalutazione della moneta americana (Savona 1982, cit. in Porcheddu 2002). Grazie agli investimenti realizzati alla fine degli anni settanta e a quelli in fase di realizzo, si comincia nei primissimi anni ottanta la produzione di formaggi semicotti pecorini, caprini, misti e canestrati, oltre ad alcuni formaggi freschi come le caciotte (Porcheddu 2002). Il ricorso a pratiche agronomiche che consentono lo sfruttamento di risorse foraggiere coltivate e la valorizzazione di quelle naturali, unita al miglioramento delle tecniche alimentari e alla selezione genetica consente di aumentare sempre più la produzione del latte. Il pericolo che l’offerta superi la domanda nel mercato del latte ovino è notevole; si parla addirittura nei primi anni 90 di contingentare la produzione di latte al fine di corrispondere allo stesso un prezzo remunerativo e stabile (Nuvoli et al., 1997). In questa fase evolutiva fanno la loro comparsa alcune incisive restrizioni comunitarie in materia igienico sanitaria; le direttive CEE 46/92 e 47/92, dettano regole sanitarie in materia di produzione, trasformazione e commercializzazione del latte e dei suoi derivati che impongono notevoli 80 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” investimenti finanziari di adeguamento aziendale. Il processo di evoluzione strutturale delle imprese di produzione ha usufruito del Programma Operativo Plurifondo (POP) attivato dalla regione Sardegna in attuazione del regolamento CEE 2081/93; questo stabilisce finanziamenti a fondo perduto per la ristrutturazione delle aziende che si dovranno dotare di acqua potabile ed energia elettrica, di locali appositi per la mungitura e la refrigerazione del latte, di opere per lo smaltimento dei reflui (Porcheddu, 2002)40. Nel 1992 gli stabilimenti cooperativi prevalentemente impegnati nella lavorazione del latte ovino erano 36. Tabella 13 Distribuzione delle cooperative nel 1992 40 In questo contesto è opportuno sottolineare anche il D.Lgs. n.155 del 1997, che ha recepito la direttiva CEE 93/43, relativa all’ adozione obbligatoria di sistemi di autocontrollo da parte delle aziende che operano nelle fasi della preparazione, trasformazione, confezionamento, deposito, trasporto, distribuzione, vendita o fornitura di prodotti alimentari. Viene particolarmente raccomandata l’adozione, obbligatoria dal 1998, della metodologia HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point). Attraverso tale metodologia, viene assicurata ai consumatori l’adozione di procedure volte a garantire il pieno rispetto, in tutte le fasi del processo produttivo, delle norme igienico sanitarie, attraverso l’individuazione dei rischi, insiti nel processo produttivo, che potrebbero compromettere l’igiene del prodotto, la localizzazione dei momenti della produzione in cui essi potrebbero verificarsi, le procedure da attuare per minimizzare la probabilità che essi si verifichino, nonché quelle da adottare nel malaugurato caso in cui non si riesca a prevenirli. Inoltre nella stessa direttiva, viene riconosciuta ai singoli stati la possibilità di raccomandare l’applicazione delle norme UNI EN ISO 9000, relative alla qualificazione di sistemi qualità aziendali (Reginato 2000). Tale sistema di controllo della qualità consente anche la rintracciabilità del prodotto lungo l’intera filiera produttiva. 81 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” La DISTRIBUZIONE PROVINCIALE DELLE COOPERATIVE LATTIERO-CASEARIE Latte lavorato Dimensioni N. di (.000 di litri) medie (.000 di impianti litri) Cagliari 6 19.503 3.251 Sassari 14 55.195 3.942 Nuoro 12 30.024 2.502 Oristano 4 8.266 2.066 TOTALE 36 112.988 3.139 distribuzione territoriale rivela una presenza diffusa su tutta la superficie regionale, anche se con livelli di concentrazione di impianti e di quantità di latte lavorato differenziati da zona a zona, con una predominanza dell’area settentrionale. La quantità di prodotto lavorata dal sistema cooperativo regionale, in quegli anni, è superiore a 1,1milioni di quintali; il che equivale a dire che attraverso la cooperazione transita il 40-42% di tutto il latte trasformato in Sardegna. Nel corso degli ultimi tempi dunque l’afflusso di prodotto alle cooperative risulta sensibilmente accresciuto, visto che negli anni ottanta esso rappresentava non più del 33-35% del totale e alla fine degli anni sessanta come si è visto era pressoché insignificante. Alla base di questa espansione si trovano tanto motivazioni di ordine strutturale quanto ragioni più immanentemente legate alla specifica congiuntura del settore. Sul primo versante vanno annotati i progressi tecnologici ed organizzativi ed i conseguenti riflessi sulla remunerazione dei conferimenti compiuti da talune strutture cooperative, che ne hanno consentito una più efficace azione nel reclutamento dei nuovi soci. A ciò si è aggiunto il fatto che alcuni dei vincoli che in passato agivano nel rendere sostanzialmente imprescindibile il legame tra impresa pastorale ed industriale privato si 82 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” sono nel frattempo allentati, trasformando la scelta imprenditoriale dell’imprenditore zootecnico in un atto di maggiore libertà. Sul secondo versante, i caseifici sociali, a fronte della staticità del prezzo del latte ovino corrisposto dai privati (stoltamente irrigiditisi sulle quotazioni minime individuate di volta in volta dagli accordi interprofessionali previsti dalla legge n. 306/75) sono stati capaci di assicurare maggiori livelli di remunerazione, esercitando cosi una potente azione di richiamo sugli allevatori (Idda, 1995). In definitiva se al sistema privato si deve il merito di avere originato lo sviluppo del settore e di esserne sempre stato la componente più dinamica; infatti fin dall’avvio del processo di industrializzazione della filiera le imprese capitalistiche hanno costituito i principali centri propulsori del settore nelle quali le più importanti innovazioni tecnologiche, commerciali e relazionali si sono per la prima volta originate e dai quali si sono propagati i più rilevanti impulsi di progresso per il sistema lattiero- caseario; al sistema cooperativo si deve l’indubbio pregio di aver apportato un elemento di maggiore equilibrio nello sviluppo e nel funzionamento del comparto lattiero-caseario e di aver contribuito ad elevare il ruolo economico e sociale del mondo pastorale attraverso un suo coinvolgimento nel processo di lavorazione industriale e negli annessi meccanismi generatori di reddito. 83 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 5. Considerazioni conclusive In conclusione seguendo il procedimento di Nuvoli (1999) possiamo suddividere l’evoluzione del sistema di produzione incentrato sulla industria lattiero-casearia ovina in quattro fasi principali, alle quali corrisponde una diversa articolazione e disaggregazione del processo produttivo che porta alla realizzazione del prodotto finito formaggio. La prima fase che si identifica con tutto l’800, è caratterizzata dalla figura del pastore che accorpa in se tutti i momenti del processo agrotrasformativo (Nuvoli, 1999, p.11). La seconda fase periodale si colloca tra il tardo ‘800 ed i primi del ‘900, durante la quale è possibile distinguere, come si è notato nei paragrafi precedenti, l’avvio del processo di industrializzazione del sistema agropastorale. Di particolare rilevo fu il ruolo delle competenze importate che rappresentarono l’elemento cardine attorno al quale ruota il progresso tecnico verificatosi in quegli anni. La terza fase evolutiva del sistema di produzione regionale, si colloca temporalmente tra il 1920 e il 1950. In questa fase si assiste allo sviluppo della cooperazione e grazie all’acquisizione delle competenze esterne si formarono le professionalità necessarie allo sviluppo dell’imprenditoria autonoma. La quarta fase inizia con la seconda metà del novecento e prosegue fino ai giorni nostri e vede la base organizzativa del sistema di produzione ovino caratterizzata da un lato, dalla presenza di imprese pastorali, che svolgono 84 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” la sola attività di produzione della materia prima; dall’altro da imprese industriali sarde suddivise in caseifici cooperativi e caseifici di proprietà di imprese private che sono andati concentrandosi nei luoghi in cui negli anni passati tale attività era piuttosto fiorente, laddove si erano create le basi, come si è detto in apertura di capitolo, per il consolidarsi di veri e propri sistemi locali di produzione che possiamo individuare in alcune aree dell’isola. Infatti sebbene l’allevamento ovino sia diffuso più o meno uniformemente su tutto il territorio regionale (cfr. Nuvoli, 1999, p.27), esistono provincie e, ancor più, aree nelle quali è possibile individuare una maggiore concentrazione degli allevamenti e delle aziende agro-pastorali cui si associa un aggregato più o meno numeroso di imprese di trasformazione del latte ovino sia in forma singola che associata41. 41 I caseifici sociali (Idda,1984) trovano prevalente localizzazione nella parte settentrionale della regione (province di Sassari e Nuoro) laddove è più elevata la densità degli allevamenti zootecnici. In termini di sola capacità di lavorazione degli impianti privati si può altrettanto notare che la maggiore quota percentuale di essi si localizza nella provincia di Sassari ed, all’interno di questa una forte presenza si registra nel solo comune di Thiesi, che assieme ai comuni di Banari, Bonnannaro, Bessude, Borutta, Cheremule, Siligo e Torralba va a costituire quello che dalla letteratura industriale viene definito Sistema locale del lavoro (Nuvoli, 1999). 85 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Capitolo 2 II. Le ipotesi formulate 1. Premessa Lo scopo di tale capitolo è quello di esplicitare una serie di ipotesi di lavoro, in alcuni casi desunte dalla letteratura sulle forme istituzionali di impresa (principalmente formulata nell’ambito dei paradigmi della property right theory, agency theory e transaction cost theory), in altri formulate in modo originale (Porcheddu, 2004). La validità di tali formulazioni in seguito verrà testata sul campo, attraverso la metodologia che verrà introdotta nel terzo capitolo, con riferimento al caso delle imprese casearie sarde. L’approccio adottato è stato di tipo comparativo, mettendo a confronto i due modelli di impresa rilevabili nel comparto, da una parte cioè le imprese cooperative e, dall’altra, le imprese capitalistiche di trasformazione (che conservano una conduzione sostanzialmente familiare, anche quando raggiungono dimensioni ragguardevoli per la realtà settoriale analizzata). 86 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Gli studi comparativi, pur fra i tanti limiti di natura metodologica, hanno comunque il merito di mettere in discussione ciò che rischia di diventare un attributo “primitivo” dell’impresa capitalistica: la “pretesa” superiorità competitiva (Porcheddu, 2004, pag. 40). Infatti si è diffusa una concezione del funzionamento dei mercati e dell’efficienza produttiva, all’interno della quale l’impresa privata for profit emerge come l’istituzione capace di realizzare un più efficiente coordinamento delle risorse produttive. In questa ottica forme alternative di organizzazione della produzione, quali l’impresa cooperativa, tendono ad essere considerate quali alternative inferiori42 e quindi indesiderabili in quanto sottraggono risorse all’impresa con finalità lucrative, più efficiente e quindi, non solo economicamente, ma anche socialmente più produttiva (Fiorentini e Scarpa, 1998, p.12). Nell’analizzare tali modelli istituzionali di impresa può rilevarsi assai pericoloso, sotto il profilo dell’analisi positiva e normativa, trascurare le particolari caratteristiche e la storia di un settore (questo spiega la presenza del primo capitolo di carattere storico-evolutivo all’interno del lavoro) e formulare giudizi sui principali temi del dibattito sui modelli istituzionali d’impresa a partire, meramente, da statistiche sulla diffusione relativa (in quel particolare contesto settoriale) dei vari tipi d’impresa43 (Porcheddu, 42 In questo contesto si possono inserire una serie di negatività strutturali che abitualmente vengono ascritte alle cooperative operanti nel settore della trasformazione del latte ovino in Sardegna (cfr. Nuvoli, 1999). 43 Come dire che potrebbe rilevarsi assai fuorviante il ricorso a test di sopravvivenza delle imprese à la Stigler, senza conoscere, di volta in volta, il settore di cui si sta trattando. Un esempio di tale modo di procedere è stato quello di Cornforth (1983 cit. in Chillemi, 1989, pag. 24), autore che ha condotto una rassegna di studi empirici sulle cooperative di produzione e lavoro nel Regno Unito, il quale “ (…) in mancanza di informazioni dettagliate, adotta come indicatore di successo (dell’impresa) autogestita la semplice sopravvivenza” (Chillemi, 1989, p.24). Per le 87 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 2004, pag.36). Il rischio è quello di “ipotizzare”, in un certo contesto settoriale vantaggi comparati a favore di una forma istituzionale d’impresa in assenza di alcuna evidenza empirica44. Per quanto riguarda le questioni metodologiche, delle quali si è fatto riferimento ad inizio del capitolo, innanzitutto, bisogna chiedersi cosa legittima un confronto sul piano economico tra le due diverse forme istituzionali d’impresa. In fondo la ragione deve ricercarsi nell’ingresso della forma cooperativa d’impresa nelle economie di mercato (Porcheddu, 2004), ciò significa assumerne (criticamente) le regole del gioco (Viviani, 1983, p.50)45. Nel futuro il successo delle diverse forme di impresa dipenderà sempre più dalla loro capacità di affermarsi in mercati meno disposti ad accettare situazioni di inefficienza o insufficienza qualitativa (Fiorentini, 1998, p.20). Infatti, fino a quando il modo di produzione prevalente era quello taylorista, la solidarietà come valore in se ha rappresentato la giustificazione sufficiente per l’esistenza dell’impresa cooperativa; e ciò anche quando essa non riusciva a rispettare il vincolo dell’efficienza. Nella società post industriale, stesse ragioni sarebbero contestabili quelle ricerche per le quali una delle “dimostrazioni” dell’inefficienza delle cooperative risiederebbe nell’esiguità del loro numero nell’ambito dell’economie di mercato o, viceversa, per le quali “ (…) if co-operatives were really inefficient, they would be forced out of the market” (Nilsson, 2001, p.330). 44 Come spiega Chillemi (1989, p.24) quando si parla di vantaggi comparati di una forma istituzionale di impresa su un’altra: sul piano empirico dovrebbero essere disponibili molte approfondite informazioni sulle caratteristiche delle imprese che in genere si è ben lungi dal rilevare. 45 “(…) Le forme utopistiche di cooperazione (cioè quelle che non contengono il principio economico) falliscono e scompaiono proprio perché vivono staccate dal mercato. La loro grande socialità avviene non mediante una trasformazione dell’ambiente ma mediante una censura con e dall’ambiente. Per questo falliscono. Perché dal mercato non si scappa. O lo si trasforma oppure a un certo momento lui arriva e rimette le cose a posto” (Viviani, 1983, p.47). 88 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” invece una solidarietà che non tenesse conto di tale vincolo sarebbe destinata a scomparire e ciò per la semplice ragione che il cittadino, oggi, non è disposto a sopportare i costi di un modo non efficiente di vivere la solidarietà. È in questo preciso senso che si può affermare che la solidarietà o è efficiente o non sarà (Zamagni, 1994, p.27). Dunque, l’ingresso della cooperativa in un economia di mercato la espone “de facto” (Porcheddu, 2004, p.40) al confronto e alla competizione con le imprese di tipo tradizionale, ciò le “obbliga” al conseguimento di livelli di profitto il cui ordine di grandezza sia paragonabile a quello tipico delle imprese capitalistiche (Sacco, 1998, p.197). Tale confronto non deve sorprenderci visto la infondatezza dell’antinomia cooperazione- competizione (Zamagni, 1993). Nell’effettuare tale confronto comunque si pongono vari problemi per l’analista. Occorre, infatti, riflettere almeno su due aspetti: 1. Si può configurare una sorta di irriducibilità di fondo dell’impresa cooperativa ad un confronto, sul mero piano economico, con forme istituzionali alternative? 2. Tenuto conto della realtà cooperativa, e senza per il momento entrare nel merito della metodologia di comparazione (che verrà introdotta nel capitolo successivo), ha significato un confronto che assume acriticamente l’ipotesi di autonomia della cooperativa rispetto alle economie dei soci o di eventuali organizzazioni di grado superiore? 89 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Con riferimento al primo aspetto, il pericolo di “riduzionismi” è sempre in agguato. In particolare, gli economisti sono accusati di non riuscire a catturare la complessità del fenomeno cooperativo (Sapelli 1998, p.11). Il timore è che un “appiattimento” lungo la sola dimensione economica, di una realtà multiforme quale quella cooperativa possa “lasciare fuori dal confronto” aspetti che non possono essere “valorizzati” in termini economici (Lerman e Parliament, 1992)46. Per esemplificare il problema del riduzionismo, alcuni autori fanno riferimento alla teoria delle esternalità47 seppure da differenti punti di vista in tema di impresa cooperativa. Da una parte vi è chi sostiene l’esistenza di esternalità positive derivanti dalla presenza di cooperative sui mercati48. Altri studiosi, invece, pongono l’accento su alcune esternalità di carattere negativo (ad esempio Porter e 46 Quindi qualora dall’analisi scaturiranno, riguardo alle cooperative, per alcuni indicatori, delle performance inferiori rispetto a comparabili imprese capitalistiche occorrerà analizzarle in un contesto più generale. Infatti Lerman (1992) sostiene che: “If in this setting cooperative performance is found to be inferior to IOF performance, it can be argued that the result is biased downward because of the additional member welfare dimensions in cooperatives that are not captured by standard business performance measures. Yet if cooperative performance as evaluated by standard business measures is found to be not "worse" than IOF performance, there is a reason to suggest that the overall benefits enjoyed by cooperative members may exceed the benefits of IOF shareholders” (Lerman e Parliament, 1992). 47 “Se l’equilibrio concorrenziale presentato dal modello neoclassico fornisse una spiegazione completa del modo in cui opera nella realtà un sistema di mercato, non vi sarebbe bisogno di altre organizzazioni economiche. […] Perciò, per spiegare organizzazioni diverse dal mercato, dobbiamo studiarne i fallimenti” (Milgrom e Roberts 1994, p. 122.Sottolineatura aggiunta). 48 Mori (2000) ad esempio sostiene che tali tipi di imprese contribuiscono a diffondere una serie di valori “positivi” in ambito sociale, come quelli della solidarietà per esempio. Altri autori sottolineano anche come la forma cooperativa riesca a gestire in maniera più efficiente attraverso i suoi fini sociali le esternalità. Infatti attraverso il perseguimento del suo fine “sociale”, la cooperativa “internalizza” l’esternalità facendo proprio il punto di vista della collettività ed attribuendo ad esso un peso preponderante nella definizione dei propri obiettivi e delle proprie strategie (Sacco, 1998, p.205). 90 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Scully, 198749). Peraltro non mancano nella teoria sulle imprese cooperative anche i riferimenti alla teoria dei beni pubblici (public goods)50. Espressione della “multiformità” dell’impresa cooperativa è il perseguimento di un insieme obiettivo (cfr. il dibattito in Paterni e Viviani, 1983) o di un obiettivo multidimensionale (Chillemi, 1998) all’interno del quale possono emergere fenomeni di trade-off, in quanto l’impresa cooperativa, a differenza dell’impresa di tipo capitalistico deve sapere soddisfare congiuntamente un duplice vincolo: quello della solidarietà, declinata nella forma specifica del mutualismo, e quello dell’efficienza gestionale (Zamagni, 2000). Quindi gli insiemi obiettivo delle due forme istituzionali che intendiamo porre a confronto, non possono essere coincidenti, pena l’incapacità di dare conto della varietà istituzionale delle imprese. Come viene evidenziato da più parti, la varietà/ricchezza istituzionale può essere intesa come una “risposta”, dal “lato dell’offerta”, alla differenziazione delle preferenze (e bisogni) degli agenti economici (Faccioli e Scarpa, 1998, p.64). Già Leon (1983, p.56), osservava che ammettere l’identità di obiettivi tra le due forme d’impresa (identità alla 49 Questi autori si chiedono “(…) whether cooperative marginal cost is equal to social marginal cost” (Porter e Scully 1987, pp. 490-491). 50 Staatz (1987, p.91 cit. in Parliament et al., 1990, p.11), per esempio, riprende l’originaria intuizione di Nourse (1922) circa il ruolo delle cooperative in termini di parametro di confronto competitivo” (competitive yardstick) rispetto alle imprese capitalistiche (IOFs) sostenendo che “farmers, faced with unsatisfactory performance by IOFs, may form a cooperative firm whose purpose is to force the IOFs, through competition, to improve their service to farmers. If successful in enforcing competition, the cooperative generates benefits that it does not capture itself but witch accrue to the farmer-stockholders, as well as to other farmers in the area”. Anche Jacobson e Cropp (1995, p.6) tra l’altro con riferimento al settore caseario statunitense, e Richards (1996, p.3) citano differenti esempi di beni e servizi offerti dalle cooperative ai propri membri per i quali varrebbe il carattere di “non escludibilità del godimento da parte dei non membri”. 91 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” quale si arriva portando alle estreme conseguenze il ragionamento di Ward) avrebbe reso alquanto difficile individuare una “ragione precisa per l’esistenza della cooperativa”. È chiaro, quindi, che chi porta avanti un indagine economica (magari per confronto come in questo lavoro), dovrebbe aver sempre presente che essa non “esaurisce” certamente una realtà complessa come quella dell’impresa cooperativa. Tuttavia riteniamo che quella economica sia, in qualche modo, una dimensione d’indagine “privilegiata” poiché, in fondo, cerca di fare luce sulla capacità della cooperativa di “alimentare” (attraverso la permanenza sui mercati) l’originario motus fornito dalle cosiddette valenze solidaristiche e mutualistiche del fenomeno cooperativo (Porcheddu, 2004, p.43). La diversità di obiettivi tra forme istituzionali d’impresa rende, comunque, problematico anche sul piano teorico trovare degli indicatori monetari o di altro tipo per paragonare le due imprese (Chillemi, 1989, p.24). Con riferimento al punto due esso richiama il più ampio (ed assai rilevante per un lavoro empirico di comparazione) problema della delimitazione dei “confini” delle unità economiche che si vanno a confrontare (Porcheddu, 2004, p.43). Il problema, a ben vedere, interessa anche l’impresa capitalistica, ma esso diventa probabilmente più stringente con riferimento all’impresa cooperativa, tenuto conto dei legami strettissimi che possono intervenire, rispettivamente, con l’economie dei soci51, con l’economie di 51 “(…) Nel caso della cooperativa agricola di trasformazione infatti, si possono individuare cooperative che presentano caratteristiche strutturali di alta complessità, in quanto composte dai 92 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” altre cooperative all’interno di organismi di grado superiore, per arrivare infine al dibattuto rapporto con le Centrali cooperative. L’ipotesi di autonomia dell’impresa cooperativa rispetto a terze economie (in specie quelle dei soci) rappresenta tradizionalmente “terreno di scontro” tra filoni di studio propri della tradizione italiana52; il dibattito più recente sulla definizione dei confini dell’impresa cooperativa, propende per l’adozione di una sorta di “criterio della ragione” (rule of reason), nel senso che l’analista (e quindi anche chi intende condurre un indagine comparativa all’interno di un dato contesto settoriale) dovrà farsi carico di stimare, di volta in volta, il grado più o meno ampio di autonomia della cooperativa lungo il continuum della tradizionale dicotomia “autonomia-eteronomia” (Zan, 1990, p.70). I riflessi di queste considerazioni su un confronto tra forme istituzionali di impresa, basato su elaborazioni ottenute a partire dai dati contabili, sono rilevanti. In particolare, qualora non potesse esprimersi, dinanzi al caso concreto, un giudizio di sostanziale autonomia delle imprese cooperative, rispetto alle economie dei soci o di organismi di grado superiore (cooperative di grado superiore, consorzi, movimenti cooperativi), la strada da percorrere sarebbe quella del consolidamento dei bilanci delle diverse economie coinvolte (con tutte le difficoltà che in letteratura vengono sottolineate circa soci che già svolgevano attività d’impresa: in questo quadro ci si può trovare di fronte ad aziende di secondo livello che sottopongono a coordinazione economica (modificando in vario modo la preesistente situazione) fattori già oggetto di coordinazione economica nelle aziende socie” (Zan, 1990, p.68). 52 Tessitore (1973) ipotizza l’autonomia della cooperativa, al fine di presentare un modello interpretativo generale dell’impresa cooperativa, volto a cogliere su un piano generale e astratto gli elementi caratterizzanti la forma cooperativa d’impresa. 93 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” l’individuazione del “perimetro di consolidamento”). Proprio queste difficoltà stanno alla base di uno dei principali limiti di questo lavoro, infatti nel settore della trasformazione del latte ovino in Sardegna, è dato da riscontrare intensi legami tra le imprese cooperative, le economie dei soci e quelle degli organismi di grado superiore, legami tali da far vacillare l’ipotesi di “autonomia” delle prime, mentre l’analisi è stata condotta considerando le unità cooperative, per via delle difficoltà di consolidamento, come absolutae (quasi “slegate” potremo dire, seguendo l’etimologia del termine). Nel caso specifico, i legami tra cooperative ed economie dei soci, sono dovuti, in primo luogo, ai vincoli che la cooperativa deve sopportare in termini di rigidità delle caratteristiche quanti-qualitative della materia prima proveniente dal proprio “bacino del latte”(Porcheddu, 2004). Tale “codipendeza integrata” tra cooperative ed economie particolari dei soci si manifesta, in questa realtà, in tutta la sua evidenza, caratterizzata spesso dal “vincolo biunivoco” per cui i soci devono conferire tutta la produzione alla cooperativa, e questa si impegna a ritirare tutto il prodotto dei soci, senza possibilità di integrare l’input con acquisti di materia prima “tipica” di terze economie (Zan, 1990, p.88). D’altro canto è innegabile che la cooperativa svolga funzioni di vitale importanza per i soci, quali la trasformazione della materia prima e la commercializzazione dei prodotti finiti, non più praticabili in modo economico dalla stragrande maggioranza delle imprese pastorali (Porcheddu, 2004). 94 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Per quanto riguarda i legami tra cooperative del settore e organismi di grado superiore, è possibile accennare all’esistenza di alcuni consorzi. Riteniamo che i vincoli all’economia delle cooperative non siano, almeno per il momento, da attribuire tanto all’adesione ai consorzi di tutela di alcune produzioni tipiche, quanto alla partecipazione ai consorzi di commercializzazione (orientati generalmente all’export) delle produzioni casearie sarde. Attraverso consorzi di questo tipo transita una parte consistente della produzione casearia sarda di matrice cooperativa, inoltre, anche contabilmente, è spesso possibile parlare di veri e propri conferimenti a favore della struttura consortile, con una dipendenza accentuata della cooperativa da economie (o diseconomie) realizzate a livello superiore. 2. La dimensione delle imprese casearie sarde Le cooperative casearie sarde sono di dimensioni minori rispetto alle imprese capitalistiche del settore? Uno dei criteri che possono essere adottati per classificare le imprese che operano in un qualunque ambiente economico, oltre naturalmente a quelli basati sul settore produttivo e sulla forma giuridica, è la dimensione. La dimensione è un carattere globale e complesso della gestione e, come tale, dipende sia dalle condizioni interne della gestione (esprimibili in termini di volumi di produzione, di livello degli investimenti e di entità dei finanziamenti), sia dall’ampiezza e dalle caratteristiche dei mercati (di 95 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” approvvigionamento, di collocamento, dei capitali) con i quali l’azienda entra in contatto (Giansante, 2001, p.68). Tale concetto è sinonimo tanto di grandezza, estensione, misura onde tale parola riveste indubbiamente carattere quantitativo, quanto di aspetto o situazione di una realtà oggettiva; quest’ultima accezione, allora richiede per la sua pratica definizione, la predisposizione di parametri qualitativi (riguardante cioè comportamenti o situazioni di condotta gestionale). Quello della dimensione rappresenta (nel nostro caso) un ambito entro il quale valutare due problemi principali: le crescenti difficoltà relative alla gestione dei costi di monitoraggio e di transazione (come si vedrà nel paragrafo sulla produttività del lavoro) (Faccioli e Scarpa, 1998, p.74), e alla gestione del processo decisionale democratico all’aumentare delle dimensioni d’impresa53 (Fiorentini, 1998, p.24); e (indirettamente) l’esistenza di problemi di sottoinvestimento e di razionamento del credito spesso richiamati, quando si parla di imprese cooperative. Per quanto riguarda il primo, la crescita dimensionale porterebbe ad una attenuazione del senso di identificazione dei soci con la cooperativa; questo fenomeno potrebbe essere ascritto a differenti fattori: 1. nelle esigenze di gerarchizzazione organizzativa manifestatesi a livello gestionale, che “allontanano” il socio dalla partecipazione alla vita della cooperativa (Kaplan De Drimer, 1997); 53 Sulle difficoltà nella gestione dei processi decisionali al crescere delle dimensioni delle imprese cooperative e all’aumentare dell’eterogeneità della base sociale cfr. Hansmann (1990). 96 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 2. alla crescita dimensionale della cooperativa stessa, che da una parte conduce spesso ad un aumento del tasso di eterogeneità all’interno della base sociale, dall’altro, può portare ad una progressiva managerializzazione della cooperativa (con perseguimento di obiettivi “lontani” da quelli della base sociale) (Hind, 1999). Un contesto di attenuato senso di identificazione nei confronti della cooperativa può avere ampie ripercussioni sui meccanismi generativi della fiducia della base sociale nell’operato degli amministratori (Borgen, 2001), rendendo i soci molto “sensibili” alle variazioni di breve periodo della remunerazione della materia prima (e acuendo in generale il problema di agenzia che, come si vedrà più avanti, affligge il rapporto tra base sociale e amministratori della cooperativa). In contesti caratterizzati da scarsa identificazione del socio con la cooperativa è quindi probabile attendersi fenomeni estremi di exit che possono preludere all’instaurazione di rapporti con altre realtà produttive (magari di tipo capitalistico) dettati meramente da calcoli economici di breve periodo (Porcheddu, 2004, p.221)54. Per quanto riguarda il secondo punto, vale a dire l’esistenza di problemi di sottoinvestimento e di razionamento del credito, in letteratura è noto come questi problemi si traducano in una minore dimensione d’impresa (cfr. Faccioli e Scarpa, 1998)55 in quanto i soci titolari dei diritti di proprietà 54 La cooperativa casearia sarda, tuttavia, presenta delle regole interne di ammissione alla base sociale che tendono a scoraggiare calcoli di tale natura (Porcheddu, 2004). 55 Bisogna tenere presente, tuttavia, che gli studi empirici volti a testare l’ipotesi dell’operare dell’impresa cooperativa in regime di rendimenti crescenti (e quindi di difficoltà di sfruttamento delle economie di scala) non hanno dato risultati univoci. (cfr. Bonin, Jones e Putterman, 1993, p.1310). Altri autori ipotizzano un parziale sfruttamento delle economie di scala nelle imprese 97 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” nelle imprese cooperative, preferiscono non investire in impresa i redditi ottenuti dalla gestione e/o le loro dotazioni private sia per la necessità di diversificare il loro portafoglio sia per l’incompleta appropriabilità dei vantaggi economici prodotti dagli investimenti dovuta alla non negoziabilità delle quote sociali. Uno studio abbastanza recente (Benedetto et al., 1995) evidenzia che, sotto il profilo strettamente produttivo, l’impresa capitalistica del settore lattiero caseario in Sardegna ha una dimensione d’impianto superiore (e con un grado di insaturazione inferiore della capacità produttiva) rispetto a quanto riscontrato per l’impresa cooperativa. È chiaro però che a livello di impresa nel suo complesso, la “situazione dimensionale” potrebbe risultare diversa. 3. La struttura finanziaria delle imprese di trasformazione La struttura finanziaria delle cooperative casearie sarde è significativamente differente da quella delle imprese capitalistiche del settore? Le scelte finanziarie costituiscono un area critica di successo delle imprese che operano in un contesto competitivo. Dalle opzioni finanziarie dipendono, in definitiva, la sopravvivenza, la crescita, lo sviluppo ovvero il rallentamento, l’insuccesso e talvolta persino la caduta di molte imprese. cooperative come conseguenza di una “vischiosità” alla crescita dimensionale, a causa dei problemi di controllo che tali tipi di impresa sperimenterebbero crescendo (Porter e Scully, 1987; Ferrier e Porter, 1991). 98 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Le difficoltà di finanziamento dell’impresa autogestita sono considerate uno dei principali ostacoli alla diffusione di tale tipo di impresa e alla costruzione di un sistema di “imprese democratiche” alternativo a quello capitalistico. Tali difficoltà di finanziamento sono particolarmente presenti nelle cooperative che operano nei paesi capitalistici per effetto del particolare regime dei diritti di proprietà a cui sono soggette (Cuomo, 1997). La letteratura in tema di imprese autogestite, infatti, a partire dagli iniziali contributi di Furubotn e Pejovich (1970) ha più volte richiamato l’operare di ostacoli alla pratica dell’autofinanziamento56 e, quindi, alla rinuncia da parte dei soci ad una quota degli utili maturati (Cuomo, 1997): il primo, come noto, da ricollegarsi all’impossibilità da parte dei soci di ottenere, al momento dell’uscita dall’impresa, il rimborso del capitale investito nel corso della loro permanenza nella stessa (in sostanza i dividendi cui i soci hanno rinunciato e che sono stati destinati all’autofinanziamento); il secondo ostacolo invece, legato all’impossibilità, sempre in caso di recesso dallo status di socio, di godere del flusso di dividendi (futuri) che, presumibilmente, la realizzazione dell’investimento contribuirà a generare. In letteratura i due tipi di “remore” all’autofinanziamento prendono rispettivamente il nome di effetto 56 Cosi si esprime Lerman riguardo al problema dell’autofinanziamento: “Because of the non market ability of cooperative stock, members may be reluctant to increase their illiquid equity stake in the cooperative. Indeed, Royer (1985) reports that direct infusion of equity by members accounts for less than 15% of the increase in the equity base of the 100 largest cooperatives from 1980-1984. Members may also be reluctant to allow the cooperative to increase its equity base through retained earnings, because retention of earnings translates into lower effective prices for marketed products or higher effective costs of farm inputs. In contrast, shareholders in IOFs are indifferent, at least in theory, between cash distributions and retained earnings, because the latter translate into market appreciation of equity, which can be realized by investors through selling their shares in the secondary market (Brealey and Myers 1991; Copeland and Weston 1983)” (Lerman e Parliament, 1992). 99 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Furubotn-Pejovich e di effetto Jensen-Meckling. In realtà l’operare dei due effetti è il risultato congiunto del particolare regime dei diritti di proprietà cui è soggetta l’impresa e della estensione dell’orizzonte temporale di permanenza dei soci nell’impresa stessa 57. Per quanto riguarda il primo effetto, nei casi in cui i soci non detengano la piena proprietà del capitale, in caso di recesso non avranno diritto al rimborso della quota58 e conseguentemente saranno portati a privilegiare la pratica della distribuzione dei dividendi a quella dell’autofinanziamento. Per quanto concerne il secondo effetto, invece, assumendo un processo decisionale di tipo democratico59, è noto come la diversa estensione degli orizzonti temporali dei soci venga “sintetizzata”, al momento della decisione sull’effettuazione dell’investimento, dall’orizzonte temporale del cosiddetto socio mediano; in particolare, un orizzonte temporale limitato (rispetto alla durata dell’investimento) potrebbe impedire al socio mediano di recuperare il capitale investito mediante il flusso del reddito prodotto dall’investimento effettuato (e ciò, in regime di attenuazione dei diritti di proprietà, “sostanzia” l’operare del primo effetto), ma anche impedire allo stesso socio di beneficiare del flusso di dividendi (futuri) che l’investimento 57 Si potrebbe più correttamente affermare che la particolare natura dei diritti di proprietà goduti dai soci (definiti spesso in letteratura con aggettivi quali unclear e vaguely defined) tenda a ridurre l’orizzonte temporale degli investimenti che essi sono disposti a sostenere. 58 In questo caso si avrà una perdita di capitale conferito sotto forma di autofinanziamento (Cuomo, 1997, p.193). 59 Con il principio democratico affinché l’investimento venga effettuato occorre che la maggioranza dei soci pensi di restare nell’impresa per un numero sufficientemente ampio di anni, in modo da recuperare i profitti non prelevati per motivi di autofinanziamento (Cuomo,1997). 100 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” stesso potrà contribuire a generare (a meno che non ci sia una situazione di concorrenza perfetta, Cuomo, 1997, p.212). Con riferimento ad una sorta di ideal-tipo di cooperativa “occidentale”60, il socio che recede ha diritto al rimborso delle quote di capitale apportate in via straordinaria ed ordinaria e quindi possiamo intendere sostanzialmente non operante il primo tipo di remora all’autofinanziamento d’impresa; il problema sorge, invece, se si pensa all’impossibilità del socio, in caso di recesso, di ottenere il valore attuale degli (eventuali) profitti che l’impresa genererà in futuro (anche grazie al concorso degli investimenti cui il socio ha partecipato). In sostanza: “un attività o un qualsiasi cespite di capitale fisico acquistato dall’impresa cooperativa attraverso fondi generati internamente è considerato dalla letteratura di teoria economica come “non posseduto” dai soci (…), poiché questi possono ricevere i benefici del rendimento di tali attività o cespiti solo per il periodo in cui essi persistono nel loro ruolo di cooperatori” (Mazzoli, 1998, p.149)61. 60 61 La cooperativa di tipo “occidentale” (Cuomo, 1997, p.196) è una cooperativa che si ispira ai cosiddetti “principi cooperativi universali”, di cui è custode in campo internazionale la International Cooperative Alliance (ICA), e ha le seguenti caratteristiche fondamentali: • I soci hanno la piena proprietà del capitale, • È ammesso sia l’autofinanziamento che il ricorso al credito esterno, • Le quote di capitale apportate dai soci possono essere di diverso importo ma in assemblea vige la regola di un voto per ogni socio. Tale capitale non posseduto viene indicato con differenti espressioni nella letteratura sul tema: unallocated capital, capital of the dead hand o anche ownerless capital (Nilsson2001). Tali espressioni sono spesso impiegate con un accezione negativa, visto il problem of common ownership di cui soffrirebbero le imprese cooperative. La natura “indivisa” di parte del capitale delle cooperative, infatti stimolerebbe fenomeni di free-riding da parte dei soci, i quali potrebbero decidere di godere degli asset “accumulati” dalle generazioni passate dei soci, senza rinunciare a parte degli utili attuali a beneficio delle generazioni future di soci (Cook,1995; Nilsson,2001;1996). Questa forma di “egoismo” troverebbe inoltre il suo compimento nel fatto che la cooperativa cercherà di ricorrere, alternativamente, al capitale di terzi (spesso come vedremo, a condizioni quanti-qualitative non ottimali) (Porcheddu, 2004, p.53). 101 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Al contrario l’azionista di un impresa for profit ha due modi per appropriarsi del frutto degli investimenti: la distribuzione degli utili e il conseguimento del prezzo di vendita delle proprie quote di capitale sociale. La distribuzione degli utili rappresenta la remunerazione degli investimenti che hanno terminato il loro ciclo. Questi investimenti rappresentano sempre solo una parte del totale, sino a quando un impresa è attiva vi sarà una certa quota di essi i quali, pur avendo già assorbito le risorse dei soci, non hanno ancora prodotto i loro frutti. Il socio che decide di uscire dalla società può appropriarsi della frazione di questi profitti a lui spettante vendendo le proprie quote della società ad un prezzo che tenga conto dei guadagni futuri (Fiorentini, 1998). A ben vedere però anche nel nostro paese esistono dei mercati delle partecipazioni in imprese cooperative62, nei quali, “teoricamente”, sarebbe possibile negoziare quote ad un prezzo che “incorpora” il flusso attualizzato dei profitti futuri (presunti) attribuibili alla quota, ma essi sono davvero poco sviluppati e gestiti quasi sempre direttamente dalle stesse imprese, in quanto un emissione quantitativamente significativa (cioè in grado di contribuire a risolvere i problemi di sottocapitalizzazione) di titoli di capitale a rischio è ragionevolmente possibile solo per quelle imprese cooperative di dimensioni tali e di reputazione altamente consolidata da 62 Per quanto riguarda le quote sociali dei cooperatori tradizionali oltre a non essere facilmente negoziabili, sono caratterizzate dalla non appropriabilità (da parte dei soci) degli utili non distribuiti. La partecipazione all’impresa cooperativa implica per il socio un “costo non recuperabile” (sunk cost nella letteratura teorica). Questo crea maggiori incentivi ad esercitare il controllo e a partecipare attivamente alla vita dell’impresa. In altre parole, la “soglia di insoddisfazione” suscettibile di determinare assenteismo e uscita dall’impresa dovrebbe essere molto più alta che nel caso della detenzione di titoli di una S.p.A. facilmente liquidabili (Mazzoli, 1998, p.161). 102 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” essere paragonabili alle imprese che emettono titoli in borsa. Qualunque altro tipo di cooperativa emetterebbe titoli “dominati” (in senso finanziario) dalle azioni di una S.p.A. quotata in borsa di dimensioni e caratteristiche simili (Moretto e Rossini, 1996, p.655) 63. Esempi di mercati delle quote associative sono richiamati anche da Bonin Jones e Putterman (1993, p.1295) con riferimento alle cooperative che operano nel settore del compensato negli Stati Uniti64. Fino a questo momento ci si è occupati degli ostacoli all’autofinanziamento che la cooperativa sperimenterebbe nel corso della sua vita. Un’altra parte della letteratura, tuttavia, sottolinea che tale forma istituzionale d’impresa tende anche a mostrare livelli iniziali di investimento più bassi rispetto ad una comparabile impresa capitalistica65. Il recente modello di Bacchiega e De Fraja (1999) evidenzia il legame tra il livello di investimento iniziale e meccanismi di assunzione delle decisioni all’interno delle differenti forme 63 D’altra parte però se “l’accesso da parte delle imprese cooperative ai mercati borsistici offre da un lato, nuove preziose opportunità di finanziamento dall’altra crea una potenziale fonte di instabilità, dal momento che, a differenza del credito bancario, caratterizzato dalla presenza di contratti di lungo periodo tra banca e cliente (…), il ricorso ai mercati borsistici è caratterizzato da una grande variabilità del costo e della disponibilità del finanziamento esterno. In altre parole, l’attività dell’impresa sarebbe soggetta non soltanto a shock di carattere reale, legati alla congiuntura, ma anche a shock di carattere esclusivamente finanziario” (Mazzoli, 1998, p.168). 64 In queste aziende i soci trasfericono le loro quote in un “market-like” caratterizzato da un eccesso di domanda. “(…)In the pliwood case, when a departing member wisches to sell his membership share, he consults with other members and a bank official who is familiar with the firm and industry to determine the likely flows of future income and to estimate the net present discounted value of the share. Using this calculation and taking account af the price realized in previous share sales, an asking price is set by the departing member. The cooperatives then has the right of first refusal and the sale to an outsider is finalized only if the remaining shareholders approve it by majority vote” (Bonin Jones e Putterman,1993, p.1295). 65 Questo è tanto più vero nelle cooperative di trasformazione, come quelle analizzate in questo lavoro. Infatti come sottolinea Tessitore (1991, pp.43-45) i soci conferiscono quote di capitalerisparmio in misura esigua ed accessoria a fronte, invece, di notevoli e continui apporti di prodotti agricoli da trasformare in beni destinati alla vendita. Il capitale sociale sottoscritto dai soci in queste forme istituzionali d’impresa “non rappresenta, quindi, un apporto di risorse finanziarie proporzionato ai fabbisogni di capitale e ai rischi cui l’impresa è esposta e alle sue prospettive di crescita”. 103 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” istituzionali d’impresa. Essi considerano due ipotetiche imprese ciascuna composta da tre membri (il minimo affinché possa funzionare il meccanismo della maggioranza) e dimostrano (tale dimostrazione vale comunque anche all’aumentare della compagine sociale, Bacchiega e De Fraja, 1999, p.26) come la differenza nei meccanismi decisionali66 comporti maggiori problemi per le cooperative. In particolare pur attribuendo alle due forme istituzionali d’impresa a confronto un livello iniziale di investimento distante dal first best67, i due autori registrano quasi sempre minori problemi di sottoinvestimento nelle imprese capitalistiche (investor-owned firms) poiché gli azionisti sono maggiormente incentivati ad investire per assumere il controllo dell’impresa (al contrario della cooperative dove vige il meccanismo “una testa un voto”) o ad impedire che il controllo vada ad altri68. I limiti sopra richiamati per le cooperative di tipo “occidentale”, ci paiono operare anche con riferimento alla tipologia di imprese cooperative della quale si occupa questo lavoro. 66 This mechanism is given by one-member-one-vote for cooperatives and one-share-one-vote for investor-owned firms (Bacchiega e De Fraja, 1999). 67 In particolare questo fenomeno è dovuto, nel modello di Bacchiega e De Fraja (1999, p10 e ss.), alla natura incompleta dei contratti tra i partner d’impresa. 68 “(…)Our main result is that constitutional design affects the amount of financial capital available to the enterprise. In particular, we show that, in our model, the amount of capital available is below the first best. This tallies with the frequently reported underinvestment which affects cooperatives (Bonin et al 1993, pp.1307-12). Our analysis also suggests that the total investment is never higher in the cooperative, while it can be unambiguously higher in the investor-ownedfirm. This difference is due exclusively to the voting mechanisms. The fundamental reason for this result is the strategic role played by a member’s monetary investment in shaping the majority of votes: in an investor-owned firm an agent may wish to invest in order to gain control of the enterprise, or in order to prevent another agent from gaining control. This strategic role of investment is absent in cooperatives, where voting is unaffected by the relative shares” e dove, quindi, non sarebbe possible “(…) buy the power to make decisions” (Bacchiega e De Fraja, 1999, p.25). 104 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Da quanto detto sopra è possibile aspettarsi nell’ambito del nostro confronto, per l’impresa cooperativa un livello di capitale di rischio tendenzialmente più basso rispetto ad una comparabile impresa capitalistica69. Le difficoltà delle cooperative ad autofinanziarsi dovrebbero tradursi in una maggiore esposizione di queste sul mercato del capitale di credito rispetto a comparabili imprese capitalistiche (Lerman e Parliament, 1992). D’altra parte, tuttavia, bisogna accennare ai fenomeni di razionamento del credito che le imprese cooperative subirebbero a causa delle proprie peculiari caratteristiche istituzionali. La compresenza di imprese capitalistiche e cooperative sul mercato del capitale di credito implica che tra di esse vi è competizione su tale mercato e la massiccia prevalenza delle prime comporta (di solito) che il mercato del credito funzioni secondo le regole tipiche del mercato capitalistico, disegnate sulla struttura dell’impresa rappresentativa: in conformità anche con quanto previsto dalla teoria del razionamento del credito, è facilitato nell’accesso ai finanziamenti chi, indipendentemente dalla bontà del progetto di investimento che si va a finanziare e prima dell’erogazione del finanziamento, mostra di possedere un patrimonio netto tale da poter fronteggiare le obbligazioni che va ad assumere col debito (Stiglitz e Weiss, 1981, 1992; Jaffee e Stiglitz, 1989 in Cuomo 1998). Le imprese 69 Ciò sarebbe dovuto, in sostanza, al fatto che i soci “non godono di diritti di proprietari completi sul reddito e sul patrimonio dell’impresa, ma godono piuttosto di diritti simili all’usufrutto e quindi sono interessati all’efficienza soltanto finchè rimangono soci-lavratori dell’impresa”(Chillemi, 1998, p.95). 105 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” capitalistiche sono, per loro natura, dotate di un capitale netto positivo e quindi presentano in modo naturale i prerequisiti richiesti: tra di esse, in prima approssimazione, saranno favorite le imprese che offrono la maggiore solidità patrimoniale. Solo se è soddisfatta tale condizione, vengono presi in esame altri requisiti quali la redditività dell’operazione da finanziare, il settore di appartenenza dell’impresa, la reputazione dell’impresa e così via. Le imprese autogestite se vogliono avere accesso al credito devono, di conseguenza, comportarsi allo stesso modo. Quindi l’impresa cooperativa avrebbe difficoltà ad ottenere finanziamenti esterni adeguati, sotto il profilo quanti-qualitativo, alle proprie esigenze di investimento. Questo fenomeno potrebbe spiegarsi, anche, attraverso la teoria dell’informazione, e più in particolare da quella che esamina il problema nota come signaling. Imprenditori e finanziatori hanno informazioni differenti circa la qualità degli investimenti reali: i primi conoscono esattamente le caratteristiche del loro progetto, mentre i secondi, in assenza di ulteriori notizie, conoscono solo la qualità media degli investimenti. L’imprenditore può cercare di persuadere il finanziatore, e l’argomento, o segnale, più convincente e l’impegno finanziario dell’imprenditore stesso (Grillo e Silva, 1994, p.380). Per tanto tale difficoltà sarebbe il risultato di una inadeguata “segnalazione” (signaling) della qualità dell’investimento, che l’impresa cooperativa intende porre in essere, causata dall’esiguità (o, al limite, nullità) della quota di investimento 106 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” coperta da autofinanziamento70. D’altra parte la partecipazione dei soci è condizione necessaria ma non sufficiente a mobilitare i crediti del mercato finanziario. Affinché l’intervento finanziario dei soci (sia attraverso l’autofinanziamento oppure attraverso il prestito sociale) svolga un’adeguata funzione positiva sullo stato di fiducia dei terzi è necessario che i finanziamenti di questi ultimi siano espressamente privilegiati nel rimborso rispetto a quelli dei soci (Cuomo, 1998). Nell’analizzare la struttura finanziaria delle cooperative occorre, inoltre, tener conto del fatto che parte degli apporti finanziari “esterni” può trovare origine nei soci della cooperativa. Il prestito sociale costituisce una forma di finanziamento della società cooperativa che si concretizza nell'apporto, da parte dei soci persone fisiche, di capitali rimborsabili, solitamente a medio e a breve termine, a fronte del quale vengono corrisposti normalmente degli interessi. Questo istituto si distingue quindi nettamente non solo dal conferimento di capitale sociale (finanziamento rimborsabile il primo, finanziamento di rischio il secondo), ma anche dalle obbligazioni, le quali sono accessibili anche a soggetti non soci e sono rimborsabili a mediolungo termine. Il prestito sociale è un istituto che, pur non sempre presente nelle singole realtà, trova generalmente ampia diffusione, ancorché con differenze marcate tra settore e settore. Trattasi di prassi antica, nata come 70 Inoltre se la decisione dell’impresa concernente la distribuzione dei dividendi costituisce uno strumento di signalling che consente agli osservatori e agli investitori esterni di dedurre informazioni sulla strategia dell’impresa utili nel formulare le proprie aspettative sulla redditività dei titoli, i vincoli nelle politica dei dividendi privano le cooperative di uno strumento di segnalazione verso l’esterno della propria politica gestionale, in presenza di asimmetria informativa (Mazzoli, 1998, p.150). 107 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” parziale rimedio alla strutturale sottocapitalizzazione delle cooperative, che non avrebbe avuto di per sé bisogno, in quanto semplice prestito del socio alla società, di una specifica disciplina positiva, se non, come è poi avvenuto, per agevolare la diffusione di tale istituto e favorire così un afflusso di capitali che non poteva essere, allora, altrimenti ottenuto. Prima della parziale riforma della legislazione cooperativa del 199271, le possibili forme di autofinanziamento per le società cooperative, oltre appunto al prestito da soci e alla destinazione a riserva indivisibile degli utili (o di quota parte di essi), erano condizionate da pesanti restrizioni: da una parte, impossibilità di emettere obbligazioni; dall’altra, condizionamenti disincentivanti all’aumento di capitale (limiti al valore massimo della partecipazione, limite alla distribuzione di dividendi, principio “una testa un voto”). Si può quindi facilmente comprendere come l’istituto del prestito sociale abbia costituito per le cooperative, negli anni Settanta e, ancor più decisamente nel decennio successivo, un prezioso strumento per il reperimento di risorse finanziarie, che sarebbe stato altrimenti eccessivamente oneroso72, al quale è corrisposta un’accoglienza sempre 71 Legge 31-01-1992, n. 59: “Nuove norme in materia di società cooperative” (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 31 del 7 febbraio 1992, Suppl. ord.). La capitalizzazione e, in genere, il finanziamento dell’impresa cooperativa sono stati i motivi ispiratori delle riforme di diritto cooperativo negli ultimi quindici anni, non solo in ambito italiano, ma anche negli ordinamenti dell’unione europea ci si riferisce, innanzitutto, proprio alla legge italiana 31 gennaio 1992 n.59, alla loi francese n.92-643 du 13 juillet 1992 relative à la modernisation des enterprises cooperatives (in Revue des societes 1992, 563 ss.) quindi alla proposta di regolamento (CEE) del Consiglio recante lo statuto della Società Cooperativa Europea (Le Società, 2002). 72 La convenienza di questa forma di autofinanziamento è per le cooperative “in re ipsa, potendo queste pagare il denaro ad un prezzo mediamente dimezzato rispetto al normale costo della provvista con conseguenze particolarmente vantaggiose sull'incidenza in bilancio degli oneri finanziari” (Bollino, 1985, p.464). 108 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” positiva da parte dei soci73. Anche perché tale forma di finanziamento si è dimostrata negli anni uno dei migliori strumenti per affrontare la congenita sottocapitalizzazione delle società cooperative, affiancando a tale caratteristica una possibilità di gestione snella ed efficace anche sotto l'ottica della fidelizzazione e dei rapporti tra società e singoli soci. Da decenni, quindi, il prestito da soci nelle cooperative rappresenta uno strumento importante da molteplici punti di vista: fonte di finanziamento per la società, salvaguardia del potere di acquisto e del risparmio del socio, conseguente maggiore attaccamento di quest’ultimo alla cooperativa. Solo in tempi più recenti sono stati previsti dal legislatore ulteriori strumenti di finanziamento specifici delle cooperative, nelle diversificate forme delle quote di sovvenzione (art. 4, l. 59/92) e delle azioni di partecipazione cooperativa (artt. 5 e 6, l. 59/92), o utilizzabili anche dalle cooperative, come le cambiali finanziarie o i certificati di investimento, o ancora l'estensione a tali società della possibilità di emettere prestiti obbligazionari. In ogni caso, le possibilità di scelta che oggi si aprono per le società cooperative in materia di strumenti di finanziamento appaiono di tutt’altro respiro rispetto a quelle di qualche decennio fa. È da rilevare, tuttavia, che tra tali strumenti, tutti rimasti ancor oggi di diffusione limitata in ambito cooperativo, nessuno è riuscito fino ad ora a 73 Per i quali “siffatta forma di investimento risulta particolarmente allettante non soltanto per la remunerazione del prestito ma anche per le modalità del disinvestimento dal momento che le somme mutuate sono ritirabili, in tutto o in parte, decorso un breve spazio di tempo” (Dabormida, 1992, p.1524). 109 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” svolgere quella "importante funzione di rafforzamento del rapporto tra socio e cooperativa" (Mosconi, 2002), ricoperta invece dal prestito da soci. In tal senso, anche una delle parti più significativamente innovative, per le società cooperative, della recente riforma del diritto societario74, quella relativa agli strumenti finanziari75, se da una parte potrebbe aprire nuovi orizzonti per il finanziamento delle imprese cooperative, dall’altra, rivolgendosi principalmente ad un mercato “esterno” a tali società, difficilmente potrà sottrarre risorse significative al più classico istituto del prestito, spesso profondamente radicato nella loro base sociale. 4. Intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro Le più volte richiamate ipotesi di sottocapitalizzazione e razionamento del credito, formulate in merito alle imprese cooperative, per confronto con imprese capitalistiche comparabili, si traducono immediatamente in previsioni di una minore intensità d’uso del fattore capitale nelle imprese del primo tipo (cfr., per esempio Bartlett et al, 1992; Porter e Scully, 1987; Ferrier e Porter, 1991). Ancora una volta, tuttavia, l’evidenza empirica non conforta univocamente le conclusioni teoriche (per una rassegna dei diversi risultati cfr. Bonin et al. 1993, pp.1310-1311). 74 75 D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6: "Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366" (Suppl. ord. n. 8/L alla Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2003). In particolare, cfr. il nuovo art. 2526. 110 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 5. La redditività L’analisi della redditività tende ad indagare sulle capacità dell’impresa di remunerare il capitale impiegato nell’attività di produzione economica (Melis, 1989). Nell’effettuare un confronto sulla redditività tra le due forme istituzionali d’impresa analizzate occorre, tuttavia, ricordare la diversità degli obiettivi; in quanto mentre l’obiettivo dell’impresa capitalistica consiste nella massimizzazione del profitto, la peculiarità dell’impresa cooperativa sta, soprattutto, nello scopo mutualistico76, cioè, nel fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato. Questo non significa che la cooperativa non possa operare anche con terzi non soci e che lo scopo mutualistico non possa convivere con finalità lucrative (come è gia stato fatto notare in apertura di capitolo). Tuttavia, da un lato, la distribuzione di utili ai soci in proporzione delle quote non è libera, ma sottoposta a limitazioni, dall’altro, i profitti realizzati vengono accantonati a riserva non distribuibile e quindi reinvestiti nella 76 Lo si evince anche dall’art. 45 della Carta costituzionale in base al quale “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Tali scopi mutualistici che ispirano l’agire cooperativo possono indurre un comportamento economico apparentemente non finalizzato alla massimizzazione del profitto ma orientato al raggiungimento del più alto valore unitario di trasformazione del latte. In realtà l’affermazione che la cooperativa non persegua l’obiettivo della massimizzazione del profitto non è completamente esatta. È più corretto invece affermare che la sua funzione obiettivo è tesa a massimizzare un residuo (il valore di trasformazione appunto) che è composto da profitto e remunerazione della materia prima (Idda, 1995, p.46). 111 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” società, oppure devoluti ad altre finalità mutualistiche (l. n. 59/1992 che impone la devoluzione di una quota degli utili, e del patrimonio in caso di liquidazione ai fondi mutualistici per lo sviluppo del settore) (Olivieri et. al., 2003). Da un punto di vista economico nelle cooperative agro- industriali, a differenza di quanto avviene nelle altre società, i rapporti che istituzionalmente vengono a crearsi tra società e soci sono due, e precisamente: • conferimento da parte dei soci della loro produzione agricola77 contro un corrispettivo corrisposto dalla società; • conferimento di capitale che può eventualmente essere remunerato attraverso la distribuzione di utili. SOCIETA’ COOPERATIVE Remunerazione conferimenti Beni COOPERATIVA SOCI Capitale Utili ALTRE SOCIETA’ SOCI Capitale SOCIETA’ Utili 77 Il conferimento della produzione agricola, da parte dei soci, può essere totale (è questo il caso più frequente) o parziale, a seconda di quanto stabilito dallo statuto della cooperativa (Campra e Cantino, 1990). 112 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Di conseguenza la cooperativa può comportarsi come segue: • tendere a massimizzare il vantaggio dell’appartenenza alla cooperativa a favore dei singoli soci, ripartendo l’intero risultato lordo di gestione attraverso la remunerazione dei conferimenti, chiudendo quindi l’esercizio con un bilancio in pareggio; • tendere a massimizzare la capacità di autofinanziamento della cooperativa, al fine di conseguire risorse necessarie per sostenere il consolidamento e lo sviluppo dell’azienda, cioè la sua autonoma possibilità di sopravvivenza sul mercato, raggiungendo, nel contempo, un soddisfacente livello di appagamento delle attese economiche dei soci (Campra e Cantino, 1990, p.9). Di questi, solo il secondo può essere considerato un comportamento “razionale” (Pejovic, 1968; Furubotn, 1980; cit. in Cuomo, 1997) da un punto di vista economico; infatti, affinché l’impresa possa essere considerata “strumento durevole del sistematico operare in campo economico” (Ferrero, 1968) deve tendere all’economicità che “trova la sua generale espressione nella dinamica relazione di equilibrio tra il fabbisogno di fattori di cui necessita e la capacità di copertura del fabbisogno medesimo, tenuto conto dei mezzi economici su cui l’azienda può contare e della remunerazione che a tali fattori variamente compete secondo criteri di congruità” (Ferrero, 1968, p.195). Inoltre tale comportamento fa si che la 113 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” società mantenga il proprio carattere cooperativo se esprime la reale volontà dei soci, manifestata attraverso la loro effettiva partecipazione alla determinazione delle scelte aziendali. La massimizzazione della capacità di autofinanziamento, infatti, trova la sua giustificazione nel riconoscimento, da parte dei soci stessi, che l’esigenza della cooperativa, di perseguire condizioni di autosufficienza economica, come azienda autonoma sul mercato, favorisce il consolidamento nel mercato (Campra e Cantino, 1990,). D’altra parte però nel nostro caso specifico (cioè, quello del settore di trasformazione de latte) l’obiettivo del raggiungimento del più alto valore unitario di trasformazione del latte, dato dal ricavo per unita di prodotto finito meno i costi di trasformazione calcolati al netto della spesa per l’acquisto della materia prima, comporta una sostanziale incapacità di autofinanziamento delle aziende. Il capitale di rischio appare, infatti, per la ricordata impossibilità di accumulare autonomamente risorse finanziarie e per la pochezza dei limiti posti alle quote sociali di assoluta inconsistenza per sostenere il fabbisogno finanziario di gestione e di investimento (Idda, 1995, p.46). In questo contesto, quindi, si inseriscono i richiamati fenomeni di sottocapitalizzazione e di razionamento sul mercato del credito che dovrebbero avere evidenti riflessi anche sotto il profilo della gestione economica. 114 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Di seguito, per fare riferimento a questi importanti aspetti, adatteremo alle esigenze della nostra esposizione uno schema contenuto in Zan (1990, p.139). In linea teorica tali fenomeni richiamati possono tradursi nell’incapacità dell’impresa cooperativa di fronteggiare adeguatamente sotto il profilo quanti-qualitativo il suo fabbisogno finanziario con un ricorso consistente (rispetto a quanto previsto per un impresa capitalistica comparabile) a fonti di finanziamento a breve termine, che pongono come stringente il problema del loro rinnovo o sostituzione e che risultano in genere, più onerose. Ovviamente questo elemento di reddito (oneri finanziari) si riflette negativamente sul risultato netto d’esercizio, deprimendolo e riducendo, a parità di altre condizioni, la capacita di autofinanziamento dell’impresa cooperativa; ciò va ad aggravare i problemi finanziari di sottocapitalizzazione e di razionamento sul mercato del credito (che tra l’altro abbiamo visto essere strettamente collegati) innescando una vera e propria “spirale” che erode progressivamente (attraverso oneri finanziari sempre più rilevanti) il risultato netto d’impresa (Porcheddu, 2001). La gestione finanziaria, quindi, condiziona profondamente la gestione economica caratteristica nella misura in cui condiziona la dinamica degli investimenti in capitale fisso (rendendo in questo modo all’impresa possibile/impossibile l’adeguamento quali-quantitativo dei mezzi di produzione) e in capitale circolante (consentendo o meno determinate politiche di concessione di dilazioni di pagamento alla clientela, di livello di servizio nella gestione delle scorte ecc.) tutti aspetti che hanno profondo 115 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” significato anche in termini competitivi e che incidono quindi sulla stessa gestione caratteristica. In definitiva la sottocapitalizzazione e le difficoltà di copertura del fabbisogno finanziario generato dalla gestione caratteristica d’impresa con fonti di finanziamento adeguate, si traducono in una depressione della stessa area gestionale (detta “economico caratteristica”); se si tiene poi presente che quel risultato (detto “operativo”) rappresenta il primo (e consistente) contributo alla costruzione del risultato netto è facile chiudere il circolo vizioso che si è innescato tra dinamica finanziaria ed economica. D’altra parte la gestione economica (caratteristica) condiziona profondamente la gestione finanziaria proprio attraverso il processo di autofinanziamento: in via diretta il casch flow prodotto, genera risorse e quindi fonti di finanziamento tenendo in questo modo a dare compimento al ciclo economico-finanzario78. Sempre in linea teorica, rispetto ad una comparabile impresa capitalistica, la “nostra” impresa cooperativa dovrebbe mostrare, progressivamente, degli indicatori di redditività operativa e netta tendenzialmente più bassi79. Astraendo per il momento dalla capacità segnaletica degli “usuali” indici di bilancio (della quale si tratterà nel prossimo capitolo), per quanto riguarda gli aspetti reddituali dell’impresa cooperativa, è anche possibile che il 78 La gestione finanziaria apporta in via strumentale i capitali per consentire le operazioni di gestione, le quali fanno sorgere ricavi e costi e generano entrate e uscite che consentono, in situazioni di equilibrio dinamico, la ripetizione del ciclo tipico di acquisto-produzione-vendita e che consentono altresì il pagamento del servizio di credito inizialmente concesso dai finanziatori (Zan, 1990, p.138). 79 In the traditional model of a cooperative as a firm with zero-profit objective, prices and charges are adjusted so that no surplus is generated. Zero profit, while highly undesirable for IOFs, should not be particularly harmful to cooperatives: the members of a zero-profit cooperative may still be receiving their payoff in the form of higher product prices or lower costs (Lerman e Parliament, 1992). 116 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” circolo vizioso possa trovare origine, diversamente da quanto illustrato sopra, proprio nell’ambito della gestione caratteristica d’impresa. Questo fatto denoterebbe comunque l’incapacità dell’impresa di far fronte alle sollecitazioni provenienti dall’area della gestione caratteristica (ristabilendone la capacita di generare reddito operativo) mediante il ricorso a capitale di rischio o comunque attraverso fonti di finanziamento adeguate sotto il profilo Quanti-qualitativo (Porcheddu, 2001, p.165). 6. La produttività dei fattori capitale e lavoro nelle imprese di trasformazione sarde Un tema assai diffuso nella letteratura sui modelli istituzionali d’impresa è quello relativo agli effetti, sulla produttività del lavoro, derivanti dalla partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali d’impresa, alla condivisione dei profitti e alla proprietà (collettiva o individuale) del capitale d’impresa (Bonin, Jones e Putterman, 1993, p.1302 et passim). In tale contesto emerge in piena luce il problema dell’efficienza-X delle cooperative, cioè il problema di estrarre dai fattori produttivi il livello efficiente di sforzo che condiziona la possibilità stessa delle cooperative di reggere la concorrenza delle imprese capitalistiche (Cugno e Ferrero, 1991, p.191). La natura di tali effetti è peraltro controversa, innanzitutto nel dibattito teorico e poi, ancora una volta, essa non emerge univocamente dai numerosi 117 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” lavori empirici sull’argomento (per una rassegna e per una esposizione dei problemi di tipo metodologico che possono distorcere i confronti di produttività cfr. Bonin, Jones e Putterman, 1993, p.1305-6). Di particolare interesse sono i contributi teorici volti ad individuare schemi di incentivi che consentono di ottenere livelli di sforzo ottimali dal fattore lavoro, sia nelle condizioni di perfetta osservabilità dello stesso, che nei casi di più o meno accentuata asimmetria informativa tra agenti. Per quanto riguarda i primi sono stati anticipati da Sen (1966) e sviluppati da una serie di autori (Israelsen, 1980, Ireland e Law, 1981; Chinn, 1980; Cremer, 1982; Browning, 1982; Putterman, 1981, 1987; ecc., cit. in Cugno e Ferrero, 1990). Questi hanno individuato delle soluzioni quando lo sforzo sia osservabile, tutte potenzialmente adottabili, incluse in uno spettro ai cui estremi vi sono la distribuzione per testa80, indipendentemente da lavoro eventualmente fornito, e la distribuzione in base al lavoro fornito81. La seconda micro-letteratura, relativa al problema del free rider in condizione di sforzo non osservabile, è stata sviluppata, come continuazione diretta del lavoro di Alchian e Demsetz (197282) nella forma di una teoria dei contratti 80 Nel caso in cui, si assegni a ciascun membro un n-esimo del prodotto totale tale regola si rileverà inefficiente per carenza di offerta di lavoro. La ragione di questa inefficienza sta nel fatto che la regola ugualitaria (o qualsiasi altra regola arbitraria ) implica una forte esternalità: se un membro del team riduce lo sforzo godrà interamente del beneficio della minore disutilità, mentre il costo (la riduzione del prodotto) ricadrà su di tutti. (Cugno e Ferrero, 1991, p.196 ). 81 Tale soluzione sarà efficiente solo nel caso in cui la produttività media del lavoro è uguale alla produttività marginale, cioè nel caso speciale di rendimenti costanti. Nel caso in cui invece la produttività media sarà maggiore della produttività marginale la soluzione sarà inefficiente per eccesso di offerta di lavoro; in questo caso la regola di distribuzione naturale si rileva troppo incentivante per tutti i membri e tende a generare una situazione tipo “corsa dei topi” (Cugno e Ferrero, 1991, p.195 et passim). 82 A partire dagli anni Settanta, la letteratura economica si è orientata sempre di più a considerare gli effetti di un aspetto in precedenza trascurato, quale l’esistenza di asimmetrie informative, ovvero di situazioni nelle quali gli agenti operanti sul mercato sono dotati di informazioni 118 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” efficienti in condizioni di moral hazard, in particolare da Holmstron e contributi successivi. Alchian e Demsetz (1972) affrontano il problema di stabilire la quota di produzione attribuibile ad un singolo individuo nell’ambito di un gruppo di lavoro (la squadra). Nella produzione di squadra, che caratterizza l’impresa, ciascuno contribuisce al risultato del team, ma non è possibile sapere fino a che punto ogni singolo ha effettivamente contribuito, e compensarlo di conseguenza. Se il team fosse composto da soggetti il cui obiettivo si identificasse con quello del team inteso come unità, vi sarebbero solo problemi di coordinamento dei singoli soggetti. Questa identità d’intenti (ipotesi solistica) è tuttavia un caso particolare e assai raro. È più realistica e generale la situazione per cui i soggetti, proprietari dell’input e titolare perseguano l’obiettivo di massimizzazione della propria utilità soggettiva. In questa situazione ogni lavoratore può “fare il furbo” (free riding), ossia comportarsi opportunisticamente, godendo di una quota del prodotto della “squadra” superiore al suo contributo marginale alla produzione della squadra stessa (Grillo e Silva, 1989). Una risposta a questo problema è rappresentata dal monitoraggio, ricorrere ad un responsabile, cioè un individuo che misuri la produttività individuale e dia a ciascun lavoratore una quota del prodotto corrispondente cosi da impedire il comportamento del free rider. Ma sorge a questo punto un problema ulteriore: chi controlla il controllore? Se il differenti, e lo scambio diretto di tali informazioni non è possibile o credibile, vuoi per la non verificabilità delle informazioni stesse, vuoi perché può esistere un incentivo a mentire, ovvero a manipolare in senso strategico le informazioni trasmesse da agente ad agente (Faccioli e Scarpa, 1998, p.65). 119 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” “monitor” venisse retribuito con uno stipendio fisso, indipendente dalle sue prestazioni, avrebbe anch’egli un incentivo allo shirking, cioè a non fare il suo lavoro in modo efficiente (Cugno, Ferrero p.190). Secondo Alchian e Demsetz, l’unico modo di incentivare il monitor è quello di attribuirli la piena proprietà del residuo: con ciò egli sarà indotto ad attribuire a ciascun lavoratore una remunerazione uguale alla sua produttività marginale (mentre ciascun lavoratore offrirà lavoro fino ad eguagliare la disutilità marginale alla remunerazione) massimizzando cosi il profitto. Tale problema rientra tipicamente nella classe dei problemi di Moral Hazard, che si hanno quando l’esistenza di un certo contratto o regola distributiva induce il soggetto, le cui attività non sono completamente osservabili, a modificare il proprio comportamento in senso opportunistico. Holmstrom (1982) riprende il lavoro di Alchian e Demsetz, analizzando il problema del free rider in condizioni di sforzo non osservabile, attraverso dei contratti che prevedono un principale a cui alienare il prodotto in caso di esito subottimale. Questo implica che il reddito di ciascun membro del team sarebbe zero se lo sforzo erogato cade al di sotto del livello Paretoefficiente. Attraverso una penalità di gruppo si cerca di disciplinare il comportamento individuale. L’efficacia del meccanismo consiste nel fatto che esso vanifica la protezione di cui gode ogni individuo per il fatto di potersi nascondere nel gruppo: se la penalità colpisce tutti indistintamente, essa colpirà anche il potenziale free rider, agendo cosi da deterrente. Per applicare tale regola occorre, appunto, un principale esterno al gruppo che 120 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” decida e amministri l’applicazione della penalità se necessario (cfr. Cugno, Ferrero, 1990, p.206-218). Comunque, al di là degli schemi di incentivazione (di tipo monetario) in grado di assicurare livelli di produttività del lavoro ottimali (e che possono prevedere l’intervento di supervisori), si tende sempre più spesso a far riferimento all’operare nelle imprese cooperative, di forme di controllo tra lavoratori di tipo “orizzontale” (in alternativa almeno parzialmente a controlli di tipo “gerarchico”, assai onerosi)83 (Russel, 1985). Queste forme di controllo orizzontale tendenti “naturaliter” a prevenire riprovevoli comportamenti opportunistici da parte dei lavoratori, troverebbe giustificazione nell’elevato grado di identificazione dei lavoratori soci con gli obiettivi e l’esistenza dell’impresa in cui lavorano (Porcheddu, 2004, p.61). Infatti qualora esistano particolari condizioni storiche e culturali che hanno consolidato in un certo ambiente un etica della cooperazione e questa stessa etica è condivisa dai soci, essa sostituisce il soggetto esterno o lo aiuta a ottenere il rispetto degli impegni. In altri termini la propensione a cooperare, in qualche modo incorporata nei soggetti economici, genera la cooperativa in senso proprio, ossia un tipo d’impresa nella quale la presenza di un soggetto esterno è secondaria o inutile e quindi l’efficienza è naturalmente garantita (Grillo e Silva, 1989, p.395). Le cooperative, quindi, 83 Il controllo orizontale è ripreso anche in Bonin et al.(1993, p.1303): “(…) participation in decision making, profit sharing, and an absence af hierarchical relationships are hypothesized to convert the antagonistic labor relations characteristic of many conventional workplaces into environments market by cooperative problem solving and informal policing of high-effort equilibria through social pressures and sanctions. In these situations horizontal monitoring may actually be technologically advantageous”. 121 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” possono fare proprio di questo un loro punto di forza puntando sullo sviluppo di una cultura d’impresa84 differente, maggiormente legata ad incentivi non unicamente di carattere monetario ma connessi anche ad uno “spirito di gruppo” che affonda le proprie radici nelle stesse ragioni fondamentali delle cooperative85 (Faccioli e Scarpa, 1998, p.71). Il controllo di tipo orizzontale, oltre a richiedere un numero significativamente inferiore di supervisori, appare assai efficace nella misura in cui la condivisione della medesima esperienza di lavoro porta ciascun lavoratore ad apprezzare, sicuramente meglio di quanto non possa fare un “supervisore” esterno, il contributo degli altri lavoratori all’attività d’impresa 86. La letteratura economica mostra, tuttavia, che l’intensità di queste forme di controllo tende ad affievolirsi al crescere della dimensione della base associativa, rendendo più efficienti forme di controllo di tipo gerarchico87 (Alchiam e Demsetz, 1972; Wiliamson, 1980), anche se un recente modello 84 Milgron e Roberts (1992, p.597) definiscono la “corporate culture” come un insieme di beliefs e valori, di precedenti, aspettative, storie, routine operative e procedure condivisi da chi opera in un impresa, i quali aiutano a definire il modo di operare di quell’impresa e servono come guida di comportamento per chi lavora nell’impresa. Questi autori riconoscono ripetutamente come la cultura d’impresa costituisca una componente fondamentale della definizione di un organizzazione e del suo modo di essere presente sul mercato (Fiorentini, 1998, p.71). 85 Lo “spirito di gruppo” può portare “(…) gli individui ad assicurare, quando le circostanze lo richiedono, livelli di sforzo superiori a quelli esplicitamente contrattati (o contrattabili) e generare la cosiddetta X-efficienza di Leinbenstein in quanto i vari soggetti che compongono l’impresa ne interiorizzano le finalità identificandosi almeno in parte con esse; e se ciò accade gli effetti sulla produttività possono essere notevoli” (Sacco, 1998). 86 Chillemi (1998, p.98) affianca ai benefici derivanti da forme di controllo orizzontale anche gli effetti del “(…) migliore passaggio di informazioni, grazie al controllo partecipativo”. Inoltre il controllo gerarchico comporterebbe per molti lavoratori dei costi psicologici (psychic costs) (Williamson, 1975) che sono stati trascurati nella originaria riflessione di Alchian e Demszetz (1972). 87 Infatti maggiore è la dimensione, minore sarà il legame tra l’individuo e l’impresa, e il senso di responsabilità individuale verso i problemi dell’impresa (elemento essenziale e fondamentale della cultura d’impresa delle cooperative) rischia di essere diluito all’interno di un organizzazione troppo anonima (Fiorentini, 1998, p.74). 122 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” (Bai e Xu, 1996) evidenzia come gli incentivi allo sforzo nelle imprese cooperative, continuino a risultare più intensi, rispetto ad una comparabile impresa capitalistica, anche per dimensioni d’impresa consistenti88. Una prima ipotesi da testare potrebbe essere quindi la seguente: le imprese cooperative (nelle quali i lavoratori sono anche soci ) dovrebbero mostrare valori tendenzialmente più elevati degli indicatori di produttività del lavoro, rispetto a comparabili imprese capitalistiche, proprio in virtù della maggiore capacità di controllare i comportamenti opportunistici dei lavoratori, sempre che nel particolare contesto settoriale, entro il quale il confronto è istituito, si rilevino difficoltà ad implementare efficacemente forme di controllo “gerarchico” per via della imperfetta osservabilità del contributo dei lavoratori all’attività d’impresa (cfr. Faccioli e Scarpa, 1998, p.73) 89. In linea di principio, l’osservazione di alcuni indicatori di produttività del lavoro significativamente maggiori per l’impresa cooperativa, potrebbe anche andare a sostegno di uno dei teoremi cui perviene Ward (1958) nel suo pionieristico contributo, per il quale le imprese cooperative tenderebbero ad impiegare con minore intensità il fattore lavoro, rispetto ad 88 Cosi si esprimono Bay e Xu a conclusione del loro lavoro sugli incentivi allo sforzo “In fact, our results do not depend on the size of the firm. This is in sharp contrast to some economists have suggested (e.g. Alchian and Demsetz, 1972). The comparison between the two types of firms depend rather on parameters such as human capital specificity, productivity uncertainty, monitoring cost etc.” 89 Con riferimento al contesto italiano Bartlett et al. (1992 pp.114-115) hanno effettuato l’analisi di un campione d’imprese formato da imprese for profit e cooperative operanti nell’Italia centrosettentrionale i valori relativi all’efficienza (misurata dal rapporto valore aggiunto per dipendente) hanno registrano effettivamente una produttività del lavoro superiore per le cooperative rispetto a comparabili imprese capitalistiche. 123 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” una comparabile impresa capitalistica (Porcheddu, 2004, p.62) sotto le ipotesi di: • Profitto positivo per l’impresa capitalistica • Produttività del lavoro decrescente • Massimizzazione della funzione obiettivo “dividendo” Passando poi a considerare quanto detto nel paragrafo dedicato alla struttura finanziaria e ricordando i contributi in tema di sottocapitalizzazione e razionamento sul mercato del credito, fenomeni di cui soffrirebbero le imprese cooperative, è possibile formulare un ulteriore ipotesi da testare: le imprese cooperative (sotto l’ipotesi di produttività marginale, e quindi media, del fattore capitale decrescente) dovrebbero mostrare dei valori degli indicatori della produttività del capitale tendenzialmente superiori rispetto ad una comparabile impresa capitalistica. I richiami teorici effettuati fino a questo momento, tuttavia, si riferiscono ad imprese cooperative nelle quali i lavoratori sono anche soci. Nella realtà settoriale che stiamo considerando, le imprese di tipo capitalistico (a conduzione familiare) vengono confrontate con imprese cooperative di trasformazione nelle quali il lavoratore non è quasi mai socio (e quindi pastore o allevatore)90. Questo dato emerge chiaramente dai questionari 90 C’è da chiedersi comunque, con riferimento al particolare contesto settoriale e sociale che stiamo considerando (la trasformazione del latte ovino in Sardegna), se la “coincidenza” tra lavoratore e socio in capo alla stessa persona possa determinare comunque i suoi effetti positivi in termini di produttività, per via di controlli di tipo orizzontale di cui si diceva. Il contributo della letteratura antropologica fornisce all’economia diversi argomenti per rispondere negativamente, almeno nel settore in questione in Sardegna. Vargas-Cetina (1993, pp.356-357), fa riferimento ad un diffuso clima di omertà tra allevatori-soci che porterebbe a celare comportamenti non conformi alle regole (della comunità, delle cooperativa ecc.). è probabile, quindi, che anche comportamenti opportunistici di shirking, sul posto di lavoro in caseificio, 124 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” compilati dalle imprese casearie sarde, nel lavoro effettuato dal professore Porcheddu (2001), ma è anche un aspetto ormai consolidato storicamente, infatti, già Le Lannou (1941, p.298 dell’edizione del 1979) osservava che la produzione del pecorino romano avveniva sotto la direzione di : “(…) un capo operaio, sempre continentale, (…) aiutato da quattro o cinque operai indigeni, che ridiventavano giornalieri agricoli durante i mesi morti”. Questo aspetto fa pensare che, molto probabilmente, quelle forme di controllo di tipo orizzontale di cui si trattava sopra, non sono operanti all’interno delle cooperative casearie sarde e che, similmente alle imprese di tipo capitalistico, operino esclusivamente controlli di tipo gerarchico da parte della tecnostruttura, con problemi di moral hazard che affliggono sia i rapporti tra tecnostruttura lavoratori-dipendenti e e consiglio di tecnostruttura, amministrazione che della quelli tra cooperativa, probabilmente attenuati solamente dalla relativa facilità con la quale è misurabile l’apporto del singolo lavoratore all’attività di impresa e dalle dimensioni, generalmente contenute, dei team di lavoratori impiegati nelle cooperative casearie sarde (Alchian e Demsetz, 1972). Esisterebbe, a ben vedere, un'ulteriore relazione principale-agente da non trascurare: quella tra base sociale della cooperativa (composta da allevatori) e consiglio di amministrazione (quando come nella gran parte delle esperienze di cooperazione casearia in Sardegna, quest’ultimo assume le potrebbero ricadere nella “sfera di omertà” di cui si parlava, neutralizzando in tutto o in parte i possibili effetti positivi in termini di produttività del fattore lavoro all’interno della cooperative casearie sarde (Porcheddu, 2004, p.63). 125 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” funzioni di management dell’impresa) (Porcheddu, 2004). Nell’ambito di tale relazione, data l’assenza di un market for corporate control (Nilson, 2001, p.336; Hendrikse e Veerman, 2001; Hansmann,1999,p.397)91, almeno nel contesto che stiamo considerando, è assai probabile che gli allevatori (principals) percepiscano la remunerazione della materia prima come indicatore della performance gestionale del gruppo dirigente (agents) di volta in volta al potere92. Tale percezione, in realtà, si fonda su un parametro tanto facilmente osservabile quanto, spesso, fuori dal controllo della singola cooperativa93. Infatti la remunerazione del latte è funzione sia dell’efficienza mostrata dalla cooperativa in fase di trasformazione e di commercializzazione, che dell’andamento sui mercati delle produzioni casearie ovine (in specie del formaggio Pecorino romano). Tale dato osservato (la remunerazione conseguita) sarà tuttavia confrontato con quanto ottenuto dagli allevatori che hanno versato il latte a favore di imprese capitalistiche, ma anche con i risultati ottenuti dagli allevatori di bacini latte limitrofi che conferiscono la materia prima presso altre cooperative casearie; il confronto tra le differenti remunerazioni può essere, da una parte, influenzato dalle strategie a breve termine delle singole realtà 91 Mazzoli e Rocchi (1996,p.26), tuttavia, partendo dalla scarsa rilevanza in Italia di tali meccanismi esterni di regolazione dell’efficienza di impresa, sottolineano, da questo punto di vista, l’assenza per le imprese ccoperative italiane, di “(…) effettivi svantaggi comparati rispetto alle imprese di tipo “capitalistico”. 92 Secondo la nota tassonomia di Hansmann (1996,1999), i costi di monitoraggio degli amministratori da parte degli allevatori-soci (apportatori dell’inputs specifico che assicura la titolarità, seppure imperfetta, dell’impresa) rientrano nella famiglia dei cosiddetti costs of ownership. 93 Nilsson (1996), citando Boettcher (1980), sottolinea che il controllo degli amministratori e manager da parte della base sociale è affetto da problemi informativi, motivazionali e organizzativi. 126 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” produttive (talvolta configuranti vere e proprie strategie di predatory pricing, dall’altra può risentire di forme di reticenza da parte dei singoli allevatori, con possibili distorsioni delle decisioni di conferimento conseguenti (Porcheddu, 2004, p.65). I richiami teorici che stanno alla base della seconda ipotesi (relativa ad una maggiore produttività del fattore capitale nelle imprese cooperative), invece, ci appaiono in linea di principio pertinenti anche con riferimento ad imprese del tipo appena illustrato94. 94 L’indagine empirica condotta in Italia da Bartlett et al.(1992, p.114-115) evidenzia effettivamente una produttività del capitale superiore per le imprese cooperative rispetto a comparabili imprese capitalistiche. 127 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Capitolo 3 III. Metodologia del lavoro 1. La costruzione del campione L’industria casearia è tradizionalmente un punto di forza dell’economia sarda95. Numerose sono nel settore (come si è riscontrato nel primo capitolo), le imprese gestite in forma cooperativa96. Scopo di questo capitolo è introdurre la metodologia con la quale verranno analizzate, attraverso un confronto tra i rispettivi bilanci riclassificati, alcune differenze strutturali tra le due forme istituzionali d’impresa97 operanti nel settore caseario in Sardegna e cioè imprese cooperative da una parte e imprese “for profit” dall’altra, alla luce delle ipotesi interpretative (analizzate nel 95 L’intera filiera lattiero-casearia è stata definita anche di recente come la più importante filiera lattiero-casearia regionale di ruminanti di piccola taglia a livello mondiale (Dubeuf, 1998, cit. in Porcheddu 2004). 96 Al contrario a livello nazionale le imprese cooperative rappresentano nel settore caseario solo il 6,8% delle imprese e il 7,5% degli addetti (Agrisole, 19-25 luglio 2002). 97 Per forme istituzionali d’impresa si intendono i vari modi in cui da un lato sono regolati i rapporti tra chi dirige l’impresa, il titolare, e chi offre all’impresa gli inputs necessari per la produzione, e dall’altro è regolata la distribuzione dei profitti tra i proprietari degli inputs (Grillo, Silva, 1994). 128 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” precedente capitolo) sviluppate nell’ambito dell’analisi teorica dell’organizzazione . In particolare, nel contesto settoriale che stiamo considerando, la natura delle imprese poste a confronto è quella, rispettivamente di cooperative di trasformazione e imprese capitalistiche di trasformazione a conduzione familiare. Il comparto della trasformazione del latte ovino in Sardegna attualmente è composto da 130 imprese di trasformazione di cui 43 sono cooperative di trasformazione e circa 90, invece, sono di tipo capitalistico (Porcheddu, 2004). Questi dati non considerano, peraltro, un certo numero di imprese individuali, abbastanza trascurabili sul piano della quantità di formaggio annualmente prodotte. Dal computo sono escluse alcune imprese pastorali di produzione che evidenziano un integrazione a valle lungo la filiera e che sono impegnate esclusivamente nella produzione di formaggio pecorino del tipo Fiore sardo secondo un modello tradizionale di produzione artigianale98 (Benedetto e al., 1995, pp.26-27). Quest’ultimo tipo di imprese non contribuisce, comunque, in misura superiore al 3-4% alla produzione casearia regionale, espressa in quantità (Nuvoli e al., 1999). L’indagine è stata condotta su due campioni casuali di 24 imprese complessivamente; di cui 12 estratte dal totale delle cooperative e 12, 98 In passato, invece, negli ovili si lavoravano ingenti quantitativi di materia prima (come è stato osservato nel primo capitolo). Recentemente ai fini di rilanciare la produzione casearia artigianale, si è avanzata da più parti la proposta di incentivare l’acquisizione aziendale di piccoli impianti di caseificazione. Tra i presupposti da cui tale proposta scaturisce vi è l’interesse a decentrare una apprezzabile quota della produzione casearia presso le aziende pastorali nel tentativo di sfuggire ai vincoli imposti dalla vigente normativa in materia igienico sanitaria (Idda, 1995). 129 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” invece, dall’universo delle imprese di tipo capitalistico; ottenuti attraverso un operazione di estrazione senza ripetizione. Per quanto concerne l’ubicazione geografica delle imprese osservate, occorre precisare che esse sono sparse sul tutto il territorio sardo. Più in dettaglio, 6 imprese sono ubicate nella provincia di Cagliari (di cui 2 cooperative), 2 nella provincia di Oristano (di cui 1 cooperativa), 5 nella provincia di Nuoro (di cui 3 cooperative) e 11 nella provincia di Sassari (di cui 6 cooperative). 2. La banca dati Una volta individuate, si è provveduto a costruire una banca dati a partire dai bilanci dei due campioni d’imprese, relativi agli anni 2000, 2001, 2002, contenente la valutazione di una pluralità di indici di bilancio inseriti in un sistema99 che è stato utilizzato da un recente studio empirico effettuato da Porcheddu (2001) inerente agli anni 1994, 1995, 1996 con il quale verranno comparati i risultati ottenuti. L’analisi degli indici è stata realizzata attraverso la riclassificazione dello stato patrimoniale e del conto economico avvalendosi dei bilanci, della nota integrativa e, ove possibile, della relazione sulla gestione. 99 Il sistema degli indici adottato in questo lavoro è stato desunto, con alcune differenze, da un recente studio empirico di Fiorentini (1998) riferito ad imprese operanti nell’agro-alimentare. 130 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Il processo di riclassificazione dei dati dello stato patrimoniale è volto a fornire un adeguata rappresentazione degli impieghi e delle fonti di capitale in essere alla chiusura dell’esercizio. Le attività sono infatti riordinate in modo da esprimere il capitale investito alla data del bilancio, corrispondente ai fondi liquidi a disposizione e agli investimenti in attesa di realizzo (diretto o indiretto) (Paganelli, 1991). In rapporto al diverso grado di realizzabilità delle poste dell’attivo, ossia alla varia attitudine dei componenti il patrimonio netto a trasformarsi in numerario nell’esercizio successivo od oltre, il capitale investito si suole distinguere ulteriormente in (Melis, 1989): • Attivo immobilizzato, comprendente gli investimenti a lungo rigiro, realizzabili cioè in un periodo superiore all’anno, relativi alle immobilizzazioni materiali immateriali e finanziarie, al netto delle poste di rettifica (fondi di ammortamento e di svalutazione) e comprensive di eventuali anticipazioni ai fornitori per l’acquisizione dei cespiti. • Attivo a breve o corrente, comprendente le liquidità immediate, le liquidità differite e le disponibilità non liquide (riferite agli impieghi connessi con le rimanenze finali di magazzino in senso lato al netto degli eventuali fondi di svalutazione)100. 100 Si fa riferimento alle rimanenze di magazzino in senso lato per intendere oltre alle giacenze di materie, di prodotti finiti, merci e alle produzioni in corso di realizzazione, i crediti per la anticipazioni sulle forniture ed i risconti attivi. Questi ultimi esprimono nella sostanza “una scorta di servizi gia acquisiti e disponibili per l’utilizzazione futura” (Caramiello, 1993 pag.53). 131 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Le passività ed il capitale netto sono per contro riordinate in modo da esprimere il capitale acquisito alla data del bilancio, corrispondente ai finanziamenti attinti (diretti e indiretti) in attesa di rimborso (Paganelli, 1991). Le fonti di finanziamento, quindi, vengono ripartite secondo il diverso grado di esigibilità, ossia facendo riferimento al tempo di presumibile estinzione in: • Capitale netto comprendente il capitale sociale, le riserve di capitale, i contributi a fondo perduto (che nelle cooperative casearie assumono un valore significativo) e le riserve di utili. • Passivo consolidato o anche capitale permanente, comprendente i debiti da rimborsare dopo un periodo di tempo superiore all’esercizio, e i fondi di accantonamento per oneri la cui manifestazione si presume in tempo non breve. • Passivo a breve o corrente, relativo alle passività da estinguere entro l’esercizio successivo. Nel riclassificare i bilanci del campione delle imprese cooperative occorre precisare che l’analisi di bilancio applicata a questa tipologia ha presentato una serie di peculiarità rispetto all’analisi di una generica impresa industriale, in quanto nella propria gestione la società cooperativa riflette un rapporto privilegiato con la compagine sociale. In particolare nello stato patrimoniale, i conti che riflettono la specificità dell’impresa cooperativa possono essere individuati da una parte nei conti accesi ai debiti e ai crediti 132 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” sorti con l’economie dei soci a titolo finanziario e commerciale, dall’altra in quelli che esprimono i rapporti con altre strutture consortili con cui si sviluppano strategie di integrazione o collaborazione gestionale (Campra, 1990). È possibile quindi individuare, nelle relazioni con l’ambiente esterno, due livelli: il primo privilegiato, riguarda l’universo dei rapporti con la base sociale, con altri enti cooperativi, o con enti cooperativi di grado superiore (consorzi); il secondo riguarda rapporti che l’ente cooperativo intrattiene con l’ambiente esterno in generale (fornitori non soci, dipendenti, ecc.). In particolare, nell’analizzare i bilanci delle cooperative del campione, sono stati individuati diversi conti tipici dalla cui analisi derivano importanti informazioni: • Fondi contributo in conto capitale: tale conto esprime l’ammontare dei contributi ottenuti; va riclassificato tra le poste del capitale proprio. • Debiti verso soci (dilazione pagamenti): rappresenta il debito relativo ai conferimenti. Il sistema di pagamento dei conferimenti interno alle cooperative prevede l’erogazione (solitamente mensile) di un anticipo sui conferimenti. A fine anno viene poi calcolato il conguaglio in base all’andamento della gestione. Va riclassificato, tendenzialmente, tra le passività a breve. Tale rapporto fra il socio conferente la materia prima e la cooperativa agro-idustriale si sostanzia, quindi in un sostegno finanziario indiretto legato al 133 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” differimento del pagamento della materia prima tanto maggiore quanto più viene dilazionato tale pagamento. • Debiti v/soci prestito sociale (o soci c/apporti o finanziamento soci): rappresenta il debito della cooperativa nei confronti dei soci per i versamenti da questi effettuati in modo diretto cioè attraverso versamenti di denaro, o in modo indiretto, cioè attraverso trattenute, effettuate dalla cooperativa in accordo con il socio, sul pagamento del saldo relativo alle materie prime conferite. Tali prestiti hanno lo scopo (come si è visto nel secondo capitolo) di finanziare l’attività della cooperativa, di solito hanno scadenza medio o lunga e possono essere fruttiferi oppure infruttiferi (Campra, Cantino, 1990). Sull’attitudine dello stato patrimoniale opportunamente riclassificato allo scopo di esprimere le quantità ora menzionate sono state formulate alcune riserve. È chiaro che lo stato patrimoniale riclassificato può offrire una rappresentazione efficace degli impieghi e delle fonti di capitale nei limiti in cui il bilancio da cui è tratto risponde ai requisiti di trasparenza, attendibilità e sia stato composto secondo i corretti principi contabili (Paganelli 1991). Per quanto riguarda, invece, la riclassificazione del conto economico, la letteratura consente l’utilizzo di numerosi schemi, tutti accomunati dal ricorso alla forma a scalare che consente di evidenziare i risultati intermedi delle diverse aree di gestione, distinte a loro volta in: 134 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” • Area della gestione caratteristica, il cui risultato intermedio è il reddito operativo; • Area della gestione finanziaria; • Area della gestione extracaratteristica; • Area della gestione straordinaria. Sottraendo i risultati delle diverse aree gestionali dal reddito operativo, si ottiene il risultato lordo, da cui, sottratti gli oneri tributari si ottiene l’utile netto. Il conto economico delle imprese di trasformazione è stato riclassificato nella versione “a costi e ricavi della produzione ottenuta”. In esso vengono identificati più risultati intermedi, frutto di successive sottrazioni di valori. In proposito si conoscono due procedimenti fondamentali, basati rispettivamente sulla distinzione: • Fra costi interni e costi esterni • Fra costi variabili e costi costanti Per l’analisi dei campioni si è utilizzato il primo procedimento, con il quale i costi relativi all’area caratteristica sono riclassificati in base alla posizione funzionale dei fattori produttivi (fattori interni e fattori esterni). Sono considerati fattori interni tutti i fattori strutturali nonché i fattori correnti relativi al lavoro del personale dipendente. Sono considerati fattori esterni 135 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” tutti i fattori correnti di esercizio, anticipati e posticipati, fatta eccezione, ovviamente, per quelli relativi al lavoro del personale dipendente101. Sottraendo dai ricavi il blocco dei costi esterni si ottiene un risultato intermedio denominato valore aggiunto; quindi si sottrae il blocco dei costi interni pervenendo, ovviamente, al reddito operativo. Il valore aggiunto (che nell’analisi dei campioni delle imprese è servito per il calcolo di diversi indicatori) può essere definito come la parte del prodotto di esercizio che, coperti i costi relativi ai fattori produttivi esterni, serve per la copertura dei costi relativi ai fattori produttivi interni e dei successivi oneri delle altre aree di gestione. Spesso il valore aggiunto è anche visto come l’incremento di valore che l’azienda, con la propria struttura stabile (formata dal lavoro, dagli impianti e dal capitale), determina, sui fattori produttivi acquisiti all’esterno per ottenere la produzione. Quando l’incremento di valore è percentualmente alto rispetto al prodotto di esercizio si dice che la gestione è ad alto valore aggiunto. Nel caso contrario si dice che la gestione è a basso valore aggiunto. La prima gestione è caratterizzata da un alta presenza di fattori produttivi interni; la seconda gestione, di contro, è caratterizzata da un alta presenza di fattori produttivi esterni. Fra le due 101 La distinzione è basata su di una finzione, che peraltro non manca di una sufficiente base logica. Si suppone che nel momento dell’inizio dei cicli di produzione l’azienda abbia predisposto le strutture tecniche, rappresentate dagli impianti; e le strutture organizzative, rappresentate dal personale dipendente. Questi due tipi di fattori, pertanto, sono considerati fattori preesistenti rispetto alla produzione, ovvero fattori interni (in quanto gia esistenti “all’interno” della combinazione aziendale). I loro costi, di conseguenza, sono considerati costi interni. Ciò posto, per iniziare i cicli di produzione l’azienda ha necessita di approvvigionarsi di tutti gli altri fattori complementari: le materie e tutti gli altri servizi operativi. Questi due tipi di fattori, pertanto, sono considerati fattori contestuali rispetto alla produzione, ovvero fattori esterni. I loro costi di conseguenza sono considerati costi esterni (Caramiello, 1993, cit. pag.268). 136 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” gestioni, a parità di altre condizioni, la prima è più rigida (Caramiello, 1993, pag. 274). La logica di funzionamento delle imprese cooperative si riflette con maggiore evidenza nel contenuto del conto economico. Infatti ciò che nelle imprese capitalistiche costituisce l’utile netto, nelle cooperative lattiero casearie viene rappresentato nel bilancio civilistico come integrazione al conferimento della materia prima, già sommata ai costi per materie prime, sussidiarie e di consumo (al punto 6 dei costi di produzione), al contempo evidenziando un utile nullo. A prescindere dallo scema del conto economico riclassificato, occorre scindere il valore esposto al punto B6 del conto economico civilistico in tre componenti: • valore imputabile alle altre materie prime, sussidiarie e di consumo; • valore imputabile alle materie prime conferite dai soci (nel nostro caso il latte) valorizzati ai prezzi di mercato; • valore residuo, che rappresenta l’utile della cooperativa e che, in quanto tale, non dovrà comparire tra i costi della gestione caratteristica, ma come integrazione al conferimento dei soci, voce che verrà sottratta dall’utile netto. La letteratura consente, anche, di ricorrere ad una forma di riclassificazione del conto economico in cui il conferimento di beni per la trasformazione è valorizzato secondo una logica residuale in cui cioè l’intero valore dei conferimenti non compare tra i costi operativi (e quindi nell’area della 137 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” gestione caratteristica), ma interamente dopo il risultato lordo (al netto degli oneri tributari) (Melis, 1989). Terminata la riclassificazione, alla luce di quanto è stato esposto nel capitolo precedente, si è proceduto all’interpretazione dei risultati (che verrà esposta nel successivo capitolo). Questa costituisce il momento più importante dell’analisi. Per poter esprimere un giudizio è necessario prendere in esame tutti gli indici che offrono informazioni segnaletiche su quel particolare aspetto della gestione (e del settore) oggetto di indagine. Inoltre, poiché la gestione aziendale è unitaria e i vari aspetti che la caratterizzano sono fra di loro collegati, è sempre opportuno avere il quadro completo di tutti gli altri quozienti elaborati. I quozienti di bilancio compongono, infatti, un sistema generale. Questa loro connotazione ha rilievo sia in sede di elaborazione dei dati, sia in sede di interpretazione dei risultati. Nel analizzare i bilanci si è provveduto ad effettuare un confronto nel tempo (infatti il triennio analizzato per ciascuna forma istituzionale è stato confrontato con il triennio precedentemente analizzato da Porcheddu) e nello spazio (infatti si sono poste a confronto due forme istituzionali di impresa), in quanto gli indici non hanno nessun significato se sono considerati in se e per se (Caramiello, 1993): per acquisire un significato economico-aziendale devono servire come mezzi di confronto. Soltanto cosi, appunto è possibile giudicare lo stato dell’evoluzione (o 138 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” dell’involuzione) di un settore, e misurare le differenze a vantaggio od a svantaggio, tra le due forme istituzionali d’impresa. Si consideri, inoltre, che gli strumenti a disposizione per questa fase interpretativa variano a seconda che l’analista sia interno o esterno all’azienda. L’analista interno disporrà di maggiori informazioni sullo svolgimento della gestione e potrà individuare le cause reali che spiegano sia i valori assunti da quozienti calcolati, sia le variazioni che si verificano. L’analista esterno potrà costruire solo deduttivamente un quadro delle possibili variabili che incidono sul risultato dei quozienti. In questo caso assumono particolare rilevanza le analisi extra-bilancio, che forniscono informazioni sulle condizioni dell’ambiente esterno e che consentono all’analista di raggiungere un livello di comprensione maggiore ed uno stadio di interpretazione più approfondito dei dati aziendali. Infine, nel momento della valutazione, l’analista, per offrire un giudizio delle caratteristiche osservate che non sia solo espresso in termini tendenziali di “miglioramento” o “peggioramento” degli indici elaborati, confronterà questi ultimi con altri indicatori (Paoloni, 1997). 3. Gli indicatori utilizzati Per le imprese del campione il confronto è stato effettuato calcolando gli indicatori per ogni singola impresa, anno per anno, in seguito per ciascuna 139 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” impresa si è provveduto a calcolare la media di ciascun indicatore relativa agli anni 2000, 2001, 2002. I valori cosi ottenuti sono stati aggregati e per ciascun indicatore si è provveduto a determinare la media per le imprese cooperative di trasformazione e per le imprese capitalistiche a controllo familiare. I valori medi degli indicatori economico-finanziari illustrano una situazione aziendale mediamente rappresentativa di quelle operanti nel settore, da una parte il blocco delle cooperative, dall’altra quello delle imprese capitalistiche. Ad evidenza si tratta di un quadro strutturale e dinamico ipotetico, in quanto non fa riferimento a nessuna impresa reale, ma soltanto ad una rappresentazione espressiva delle situazioni mediamente riferibili ai campioni di imprese osservati. L’intento era quello di valutare se le differenze riscontrate tra i due campioni fossero statisticamente significative. È utile far presente che, con riferimento ai diversi indicatori, ignoravamo la forma funzionale della distribuzione della variabile casuale che descrive il fenomeno, tuttavia abbiamo assunto ragionevolmente che la forma funzionale, che descrive la manifestazione della caratteristica di volta in volta in considerazione, fosse la stessa per le due forme d’impresa a confronto a meno (eventualmente) di una traslazione. Successivamente basandoci su di un test non parametrico del tipo Mann-Withney (descritto nel paragrafo 4), abbiamo di volta in volta testato l’ipotesi nulla che le due funzioni di distribuzione fossero 140 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” identiche contro l’ipotesi alternativa che esse differissero soltanto riguardo ad un indice di posizione (mediana)102. Il sistema103 di indici di bilancio cosi costruito consente di approfondire aspetti della struttura della situazione finanziaria, nonché degli andamenti e risultati economici delle imprese del campione, al fine di individuare le possibili differenze, i punti di forza e di debolezza delle due forme istituzionali e prefigurare i possibili futuri svolgimenti gestionali. È utile precisare che quello che interessa veramente nelle singole analisi condotte (e nel confronto tra i due periodi “fotografati”) non sono tanto i valori medi dei differenti indicatori (visto che la media potrebbe non essere un buon indice di posizione delle distribuzioni statistiche-peraltro sconosciute-che descrivono i fenomeni oggetto di studio nel capitolo) quanto la misura della significatività statistica delle differenze riscontrate e la sua eventuale evoluzione nei due trienni considerati. Gli indicatori di bilancio utilizzati nell’analisi possono essere raggruppati per aree di interesse economico, al fine di poter testare sul campo la validità delle formulazioni presentate nel capitolo precedente. Quindi avremo: 1. indicatori di scala 2. indicatori finanziari 3. indicatori di produttività 102 Nello studio di Parliament, Lerman e Fulton (1990) si era ricorsi ad un test non parametrico equivalente (del tipo di Wilcoxon, precisamente) (Porcheddu, 2004). 103 Si parla di sistema in quanto la capacità segnaletica dei diversi indici di bilancio può essere meglio apprezzata se gli stessi sono considerati nel loro insieme, ossia tenendo conto dei legami che nell’unitaria gestione d’impresa si sviluppano fra i flussi monetari e finanziari ed i correlati valori economici e patrimoniali (Melis, 1983). 141 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 4. indicatori di redditività 3.1. Gli indicatori di scala Per chiarire la rilevanza delle ipotesi di razionamento del capitale all’interno delle imprese cooperative e quindi di un loro tendenziale dimensionamento (come è stato congetturato nel precedente capitolo), e opportuno iniziare l’analisi comparata dagli indicatori di scala. Idealmente si può misurare la dimensione di un impresa in relazione al valore attuale del complesso delle sue risorse (incluso il personale) utilizzate a scopi produttivi. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che praticamente è quasi impossibile determinare tale valore occorre, quindi, ricorrere per i nostri fini ad altre grandezze. In via del tutto generale le grandezze aziendali adottabili ai fini dimensionali possono essere suddivise in statistiche o strutturali e dinamiche (Paoloni, 1997, p.241). Le prime trovano la loro collocazione contabile nella situazione patrimoniale o comunque sono espressione della struttura assegnata all’impresa; le seconde, invece, sono diretta espressione del grado di utilizzo della struttura medesima ed il loro valore appare nel conto economico. Cosi le grandezze definite statiche esprimono la nozione di stock, quelle dinamiche, d’altra parte, la nozione di flusso104. L’operazione di “fine tuning” relativa alla scelta della variabile più espressiva va 104 Le prime sono, evidentemente, influenzate dalle seconde e viceversa, come del resto sono a tutti note le relazioni economico-contabili fra flussi e stocks (Catturi, 1997). 142 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” ponderata in funzione di due ordini di considerazioni: l’affidabilità105 dell’unità di misura e la significatività106 dell’unità di misura (Volpato, 1995). Passando ora a considerare singolarmente le variabili di uso più frequente vi è da dire che, per quanto riguarda il fatturato, si deve notare innanzitutto che si tratta di una grandezza flusso. Come tale essa risente in misura assai significativa delle variazioni congiunturali dell’economia. Un problema che può essere superato attraverso l’uso di medie mobili dei valori di fatturato segnati in un certo numero di esercizi. Altra limitazione all’affidabilità del fatturato può derivare dal fatto che, con riferimento alle due forme di impresa a confronto, aziende che esprimono uno stesso ammontare di fatturato possono trovarsi in condizioni anche molto diverse in funzione di un diverso grado di integrazione verticale (Volpato, 1995). I fenomeni appena ricordati, sono stati rilevati, per esempio, a carico delle cooperative di trasformazione in un recente studio comparativo riferito all’agroalimentare italiano nel suo complesso (Fiorentini, 1998, p.102). Per quanto riguarda il numero di addetti, può dar luogo a distorsioni strutturali tra settori e talvolta anche nei confronti intertemporali. I settori che utilizzano tecniche produttive caratterizzate strutturalmente da elevata 105 L’affidabilità dell’unità di misura non riguarda un giudizio sulla validità teorica della variabile, ma piuttosto la sua concreta utilizzabilità in funzione delle modalità informative con cui si rende effettivamente disponibile (Volpato, 1995, p.252). 106 La significatività delle unità di misura interessa la scelta della variabile “migliore”. È chiaro che in termini generali non è possibile dire che una variabile come il fatturato o il valore aggiunto è migliore degli addetti o del capitale investito. Solo esaminando in concreto un settore è possibile tentare una valutazione limitata (valevole solo per quel settore e in quel particolare periodo storico) (Volpato, 1995, p.256). 143 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” intensità di capitale, ossia da un maggiore rapporto capitale investito/addetti, hanno un fattore sistematico di riduzione della dimensione, rispetto agli altri. Inoltre tendenze diffuse all’introduzione di tecniche risparmiatrici di lavoro, come quella in atto nei paesi industrializzati a partire dagli anni settanta, abbassano la dimensione delle imprese e soprattutto di quelle di maggiori dimensioni. Di questo fattore bisognerebbe tenere conto nei confronti intertemporali. Per quanto riguarda l’utile netto si tratta di un dato di sintesi che rispecchia tutta una serie di valutazioni prospettiche e congetturate su cui giocano diversità di criteri contabili e differenze di impostazioni nelle politiche di bilancio (Volpato, 1995). Per tale motivo l’impiego dell’indice dimensionale “utile netto” è stato evitato in quanto le cooperative adottano spesso la chiusura “ a pareggio” (nel senso che la remunerazione della materia prima conferita è tale da incorporare, in aggiunta alla remunerazione di mercato, parte dell’utile realizzato e tuttavia non evidenziato in bilancio) (Porcheddu, 2004). Le riserve nell’impiego di questo indicatore saranno richiamate successivamente, quando si discuterà della significatività, per le imprese cooperative, dei consueti indicatori di redditività. Il valore aggiunto non è stato impiegato come valore dimensionale, infatti, pur non risentendo del diverso grado di integrazione verticale lungo la filiera, che sistematicamente dovesse riscontrarsi tra forme istituzionali diverse, è ovviamente “influenzato” dalle pratiche di valorizzazione dei 144 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” conferimenti, tenendo quindi a sottovalutare la “dimensione delle cooperative rispetto a quelle delle imprese capitalistiche (Porcheddu, 2004). Il capitale investito presenta il vantaggio di essere una variabile di stock, e come tale assicura una valenza strutturale che le variabili di flusso non offrono. A sua volta però risente di alcuni difetti. Normalmente esso viene utilizzato nella configurazione degli investimenti fissi lordi, che tuttavia segnalano una potenzialità produttiva teorica che può discostarsi in misura anche rilevante da quella effettivamente utilizzata dall’impresa, per un diverso grado di saturazione degli impianti nel tempo. A ciò si deve aggiungere che investimenti che nominalmente denunciano pari ammontare possono risalire a epoche diverse e quindi a livelli di produttività degli impianti difformi da impresa a impresa107. Non si può neanche dimenticare la tendenza, sempre più accentuata, di affittare il macchinario ad alto contenuto tecnologico, cosicché il suo valore non appare fra gli elementi del patrimonio aziendale. Gli indicatori che sono stati utilizzati nel confronto tra forme istituzionali di impresa, quindi, sono il fatturato, che è stato ricavato dalla riclassificazione del conto economico delle imprese, e il numero medio degli addetti. Per quanto riguarda questo indicatore è da rilevare che in realtà si tratta di un valore “teorico”, poiché le imprese capitalistiche (ma anche e soprattutto le cooperative) fanno ampio impiego di lavoratori a 107 In effetti il valore degli impianti e delle macchine di proprietà dell’impresa considerata, cosi come appare dai documenti contabili di sintesi , quale, per esempio, il bilancio di esercizio, può essere un efficace parametro dimensionale solo a parità di tecnologie impiegate. Ciò implica la conoscenza del periodo di realizzazione di tali investimenti, qualora si voglia fare opportuni ed efficaci confronti fra imprese pur del medesimo settore produttivo (Catturi, 1997, p.243). 145 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” tempo determinato, data la natura marcatamente stagionale della trasformazione del latte ovino in Sardegna, e quindi il numero dei dipendenti, nella nostra analisi è di volta in volta il risultato di una “conversione” del numero di lavoratori stagionali in “corrispondenti” lavoratori a tempo indeterminato108. 3.2 Gli indicatori finanziari La struttura finanziaria di un impresa può essere analizzata sotto diversi profili: il grado di elasticità (o di anelasticità ) del capitale investito; il livello di rigidità (o di elasticità ) delle fonti di finanziamento; il livello di indebitamento dell’impresa medesima. Gli indicatori finanziari utilizzati per il confronto sono i seguenti: 1. Il quoziente di autocopertura del capitale fisso 2. Il quoziente di copertura del magazzino 108 La conversione è stata effettuata tenendo conto del monte ore di lavoro ascrivibile agli addetti a tempo indeterminato indicato in nota integrativa di bilancio. 146 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3. L’indice di struttura dell’attivo 4. L’indice di autonomia finanziaria 5. L’indice di indebitamento a medio/lungo termine 6. L’indice di indebitamento a breve termine 7. Il quoziente di consolidamento del passivo 8. L’incidenza dei contributi in conto capitale Una prima parte dell’analisi riguarda le correlazioni esistenti fra l’attivo fisso e le sue fonti di finanziamento. In altre parole si tratta di vedere come viene finanziato l’attivo fisso: in quali proporzioni fra mezzi propri, passività consolidate e passività correnti. In una gestione razionale l’attivo fisso dovrebbe essere finanziato prevalentemente con il passivo permanente, in caso contrario si verificherebbe un “incaglio” più o meno accentuato, quindi più o meno pericoloso. Infatti, l’impiego nei fattori pluriennali “rientra” con i ricavi, in un tempo superiore all’anno; se il suo finanziamento avesse una scadenza minore l’azienda si troverebbe nell’impossibilita di far fronte alle proprie obbligazioni109. Spesso la dinamica economica è influenzata negativamente (come si è potuto notare nel capitolo precedente adattando il modello di Zan) da errori effettuati nella scelta del modo di finanziamento dell’attivo fisso: una tale analisi risulta, pertanto, estremamente necessaria. Il quoziente di autocopertura del capitale fisso o “net worth to fixed ratio” deriva dal 109 In questo caso si parla di Punta Finanziaria (Caramello, 1993, pag.297). 147 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” rapporto tra il capitale proprio e le attività immobilizzate. Con esso si mira a comprendere quanta parte dell’attivo fisso è coperta con le fonti interne di finanziamento. Le variabili che lo determinano sono i termini del confronto, cioè: • il capitale proprio, come fonte di finanziamento che dimensiona l’indipendenza della gestione dall’indebitamento; • le immobilizzazioni come classi di investimenti che dimensiona l’area di minore elasticità del capitale investito. Il quoziente, infatti, varia in funzione diretta sia del grado di elasticità degli investimenti, sia del grado di indipendenza della gestione dall’indebitamento (Ferrero, 1998). Il quoziente di copertura del magazzino rappresenta un significativo completamento del quoziente di copertura delle immobilizzazioni. L’indice è definito dal rapporto: (N+P-F) M In cui il numeratore rappresenta la differenza fra fonti consolidate e attività immobilizzate (equivalente al capitale circolante netto) e il denominatore al magazzino in accezione ampia, valori tutti risultanti dallo stato patrimoniale riclassificato di fine periodo. L’indice cosi ottenuto esprime il grado di copertura del magazzino mediante finanziamenti con carattere di stabilità. Il suo campo di variabilità può essere esteso. Un suo valore pari a zero significa che il magazzino è interamente coperto da passività a breve termine. Un suo valore pari a uno significa invece che il magazzino è 148 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” interamente coperto da fonti consolidate, il significato dei valori posti all’interno e all’esterno di questo intervallo si desume facilmente. Per comprenderne appieno l’importanza occorre ricordare quanto già precisato circa le richieste relazioni fra fabbisogni durevoli di capitale e fonti di finanziamento più idonee alla loro copertura. Il magazzino costituisce infatti la maggiore posta delle attività correnti che, rinnovandosi per rotazione, determina di fatto un fabbisogno durevole di capitale da coprire, il più largamente possibile, con fonti consolidate quali il capitale proprio e l’indebitamento a medio lungo termine (Paganelli,1991). Per analizzare la struttura generale delle fonti e degli impieghi di capitale in essere alla chiusura dell’esercizio occorre considerare una serie di indicatori specifici quali i rapporti di composizione110. L’analisi della composizione del patrimonio può essere fatta in due modi: • determinando il peso di ciascun impiego o di ciascuna fonte sul totale, • determinando il rapporto esistente fra un impiego ed un altro oppure fra una fonte ed un'altra. Per quanto riguarda gli impieghi, nella comparazione delle imprese del campione, è stato utilizzato un quoziente strutturale composto: il quoziente di rigidità degli impieghi dato dal rapporto tra l’attivo fisso e l’attivo circolante. Tale rapporto può assumere un valore compreso tra zero ed 110 L’analisi che ne deriva viene considerata correttamente un analisi verticale: poiché gli indici sono basati sul confronto fra valori appartenenti alla medesima sezione (Caramello, 1993, pag. 257). 149 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” infinito. Si avrà valore pari a zero quando non esiste l’impiego posto al numeratore del rapporto; si avrà valore pari ad infinito quando non esiste l’impiego posto al denominatore. In pratica, il valore dell’indice si muove in un campo di variabilità compreso fra zero e infinito, senza toccare quasi mai gli estremi. Tale indice ci da un idea sul grado di rigidità della gestione e di conseguenza, sul grado di elasticità della stessa. La tendenza alla rigidità, ovviamente aumenta, a parità di altre condizioni, con l’aumentare del valore del quoziente di immobilizzo. L’elasticità è una delle condizioni che favoriscono l’equilibrio economico. È la capacita dell’azienda di adattarsi tempestivamente ai mutamenti del contesto ambientale, vuoi sotto l’aspetto tecnico che sotto quello economico; tale capacità è riferita tanto agli elementi statici, ossia la struttura, quanto a quelli dinamici, ossia i processi (Manca, 2000). La questione, ovviamente, non finisce con la determinazione degli indici: deve continuare con la loro interpretazione. Si tratta, cioè, di comprendere se la rigidità (o l’elasticità) messa in evidenza dagli indici è funzionale o, al contrario, antifunzionale. Fino ad un determinato livello, infatti, la rigidità è necessaria e quindi rappresenta una posizione funzionale. Scendere al di sotto di esso potrebbe significare compromettere il regolare svolgimento della gestione, di contro oltre un determinato livello, la rigidità diventa antifunzionale. L’abilità dell’analista consiste nel capire qual’è il punto di passaggio dalla rigidità funzionale alla rigidità antifunzionale, in proposito 150 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” non esistono valori standard, poiché ogni situazione presenta una propria soluzione variabile da caso a caso e da momento a momento. Per quanto riguarda le fonti nell’analisi sono stati utilizzati sia quozienti strutturali semplici che quozienti strutturali composti. Il primo indice utilizzato è l’indice di non indebitamento o, meglio, indice di autonomia finanziaria. L’impresa attinge le risorse di cui abbisogna per finanziare la propria gestione da due fonti principali, il capitale proprio111, costituito dal capitale d’apporto e dall’autofinanziamento, ed il capitale di terzi, costituito dall’indebitamento a breve, medio e lungo termine. In varia misura queste due fonti di provvista del capitale, strettamente complementari, sono sempre presenti nelle gestioni concrete. Il capitale proprio assicura autonomia finanziaria all’impresa e rappresenta uno dei presupposti per ottenere credito. Il capitale di terzi consente di allargare le risorse disponibili e, in date circostanze, di migliorare la redditività del capitale proprio (Paganelli, 1991). Più l’indice di autonomia finanziaria è alto, più la gestione è finanziariamente autonoma, cioè svincolata dai pesi relativi all’indebitamento. Gli altri quozienti strutturali semplici utilizzati sono l’indice di indebitamento a medio lungo termine (Pml/Ci) e l’indice di indebitamento a breve termine (Pb/Ci) che consentono di emettere giudizi maggiormente 111 Il capitale di rischio rappresenta una fonte stabile di finanziamento, cioè una fonte senza una scadenza prefissata per il rimborso o, come spesso si dice una fonte perpetua. In effetti il capitale di rischio non è destinato a rimborso, salvo i casi di una riduzione di capitale o, al limite, della liquidazione dell’azienda (Caramello, 1993, pag.269). 151 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” fondati sulla composizione del capitale di finanziamento e sui movimenti dei suoi componenti. Tra i quozienti strutturali composti, per le fonti, è stato considerato il quoziente di consolidamento del passivo dato dal rapporto tra le passività a medio lungo termine e le passività correnti. Questo assume valori che variano tra zero ed infinito. Tale indice consente di capire se il grado di indebitamento è funzionale o antifunzionale, come specularmene avveniva nella sezione degli impieghi per ciò che riguarda l’elasticità. Per evidenziare i consistenti finanziamenti pubblici112 di cui beneficiano le cooperative del settore nel reperimento delle risorse finanziarie si è provveduto a calcolare l’incidenza dei contributi in conto capitale sul capitale netto. 3.3 Gli indicatori di produttività e intensità di impiego dei fattori Attraverso gli indicatori di produttività si vuole tastare se la natura dell’impresa possa in se rappresentare un elemento di miglioramento delle prestazioni (costi minori, o maggiore affidabilità del prodotto) alla luce 112 Per finanziamenti pubblici si intendono tutte le erogazioni di somme a vario titolo e in varie forme che una qualsiasi istituzione pubblica nazionale o internazionale, concede sulla base di leggi o regolamenti, a soggetti economici (nel nostro caso imprese di trasformazione lattiero casearie) aventi i requisiti esplicitamente previsti, e che non debbono essere restituiti, salvo in casi previsti espressamente dalle leggi (ad esempio impiego diverso dal quello per il quale era stato erogato il contributo). I finanziamenti pubblici si possono suddividere in tre grandi gruppi: contributi sugli interessi, contributi sulla gestione, contributi in conto capitale (che sono quelli considerati per il calcolo di tale indice) (Pagliani, 1987). 152 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” delle ipotesi fatte nel precedente capitolo sulle differenze che possono sussistere tra le due forme istituzionali d’impresa considerate. Per valutare meglio l’apporto che i fattori interni aziendali (lavoro, capitale, impianti, ecc.) determinano con la loro capacità produttiva, si può assumere come riferimento per il calcolo delle misure di produttività il valore aggiunto prodotto. Il rapporto tra valore aggiunto prodotto da un impresa e il numero dei dipendenti occupati in media nell’impresa esprime il valore aggiunto prodotto in media da ciascun dipendente. Il rapporto tra valore aggiunto prodotto da un impresa e le immobilizzazioni tecniche esprime, invece, la produttività del fattore capitale. Inoltre è stato calcolato l’indice di rotazione del capitale investito dato dal rapporto tra il fatturato e il capitale investito. In senso stretto tale indicatore segnala solo il ricavo per unità di investimento113. In senso più ampio, invece, l’indicato quoziente viene utilizzato per esprimere il tasso di rotazione degli investimenti, ovvero come misura di un indice di ciclo finanziario degli investimenti medesimi. In questa accezione più ampia, l’indice segnala un ordine di grandezza che misura la mobilità degli investimenti aziendali. Le variabili del quoziente in oggetto sono molto complesse. Il numeratore si ricollega infatti alle variabili dei ricavi di vendita, sintetizzabili nei prezzi e nei volumi fisici di vendita. I prezzi 113 Il ricavo medio per unità di investimento , esprime, sotto il profilo finanziario, il numero di volte in cui il capitale mediamente investito gira o ruota nel periodo di tempo considerato, per mezzo delle vendite, intese come espressione del volume di attività aziendale (Ferrero, 1998, pag.189). 153 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” possono mutare da impresa a impresa, anche nell’ambito del medesimo settore, in relazione: 1. alla diversa gamma di prodotti 2. alle diverse politiche di sviluppo 3. alle diversificate modalità di configurazione del credito di regolamento che possono influire sui prezzi di vendita. I prezzi di vendita possono mutare anche nel tempo (a parità di politica qualità della produzione venduta e di altre condizioni) col variare della politica di vendita, della domanda e della competizione di mercato, della diversa composizione della clientela, ecc. I volumi fisici di vendita possono pur essi mutare non soltanto nel tempo, ma anche da impresa a impresa nell’ambito del medesimo settore. Ciò può accadere sia nei casi in cui le imprese stesse si differenziano tra di loro, o nel succedersi degli anni, a motivo della diversa dimensione del capitale investito. Il denominatore del rapporto, rappresentato dal capitale investito, dipende dalle politiche di investimento, che variano nell’oggetto e sono elastiche nel tempo, poiché tengono conto di fattori stagionali e ciclo-congiunturali. Per analizzare le differenze d’intensità nell’impiego del fattore capitale tra le imprese cooperative di trasformazione e le imprese capitalistiche si è utilizzato il rapporto tra le immobilizzazioni tecniche e il numero dei dipendenti. 154 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3.4 Gli indicatori di redditività Attraverso l’analisi degli indicatori di redditività si vuole analizzare l’attitudine del capitale a produrre redditi. Le analisi di bilancio osservano, sotto il profilo economico, la redditività della gestione, nelle sue relazioni con la capacità remunerativa del flusso di ricavi. Sotto questo profilo, infatti, il flusso di ricavi di competenza dell’esercizio rappresenta il mezzo di copertura del flusso dei costi ed oneri di varia specie ad esso contrapponibili per competenza. Il surplus che eventualmente ne risulta, cioè il risultato positivo dell’esercizio, costituisce la fonte di remunerazione (immediata o differita) del capitale di pieno rischio (o patrimonio netto). Ne segue che l’eventuale quota residua di reddito accantonabile a riserva assume il ruolo di “fattore di stabilizzazione” della capacità remunerativa dei ricavi di esercizio e rappresenta il manifestarsi della condizione di “durevole permanere” dell’impresa come fonte di reddito. Attraverso l’analisi degli indicatori di redditività si vuole analizzare l’attitudine del capitale a produrre redditi (Ferrero, 1998). Il punto di partenza è costituito dal quoziente volto ad esprimere la redditività del capitale proprio (return on equity, ROE) definito dal rapporto tra il reddito netto d’esercizio e il capitale proprio mediamente impiegato nel periodo. Il suo campo di variabilità è assai esteso va da zero in poi in caso di risultato positivo mentre assume segno negativo in caso di esercizio 155 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” chiuso in perdita. Gli altri indicatori di redditività generale utilizzati sono stati quelli nei quali il risultato netto veniva rapportato al valore aggiunto e al fatturato. Con riferimento all’analisi di bilancio delle imprese cooperative bisogna dire che la determinazione di indici di redditività non sintetizza efficacemente il risultato economico conseguito dai soci con la loro partecipazione alla iniziativa sociale (Melis, 1989, p.73). Infatti l’eventuale remunerazione dell’apporto di capitale presenta natura complementare, spesso del tutto secondaria, rispetto alla valorizzazione del conferimento di beni e di servizi nelle cooperative di produzione (che nel caso delle cooperative casearie è il latte). L’analisi dell’andamento reddituale della cooperativa deve puntare ad approfondire gli elementi che caratterizzano l’operare secondo condizioni di economicità dell’iniziativa stessa. Nelle cooperative di produzione l’economicità è da intendere come l’attitudine ad ottenere, attraverso la cessione sul mercato delle produzioni allestite, ricavi sufficienti per remunerare alle condizioni correnti i fattori di produzione impiegati, assegnando ai conferimenti dei soci un compenso almeno non inferiore a quello ottenibile sul mercato per beni o prestazioni similari. Il giudizio sull’entità della remunerazione assegnata ai conferimenti è anche influenzato dalle loro attese economiche e dalle motivazioni per l’iniziativa cooperativa, nonché dalle esigenze di sviluppo e di consolidamento della società. Contribuiscono, inoltre, a caratterizzare l’operare secondo economicità i livelli di efficienza nell’utilizzo dei fattori, vale a dire i 156 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” rendimenti fisico-tecnici dei processi produttivi, il razionale impiego delle risorse, ecc.. Congiuntamente agli aspetti meramente economici, precedentemente indicati, costituiscono condizioni indispensabili per operare secondo economicità aspetti finanziari relativi alla capacità di fronteggiare i fabbisogni di capitale per l’impianto e l’esercizio. La determinazione di significativi indici sull’andamento reddituale delle imprese cooperative deve inoltre tener conto delle particolari modalità di funzionamento che caratterizzano le unità di produzione, nonché dei criteri con cui sono contabilizzati e valorizzati gli scambi con i soci. Storicamente l’impresa cooperativa nasce come modello imprenditoriale alternativo a quello dell’impresa privata capitalistica. La finalità dell’impresa capitalistica si identifica pressoché esclusivamente con il conseguimento di un risultato economico misurabile per mezzo di un qualche indicatore, ad esempio il profitto, la quota di mercato, il valore del fatturato ecc. Nel caso dell’impresa cooperativa, le finalità propriamente economiche sono inserite in un quadro motivazionale più complesso che comprende anche scopi di natura sociale connessi alla promozione di un comune interesse dei membri, la cui natura contribuisce ad identificare una specifica tipologia organizzativa. Malgrado questa loro specificità, le imprese cooperative si trovano spesso ad interagire e competere sul mercato con imprese capitalistiche di tipo tradizionale. La presenza competitiva e, in ultima analisi, la stessa sopravvivenza sul mercato richiedono quindi che, indipendentemente dalle sue finalità sociali, la performance economica 157 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” dell’impresa cooperativa sia paragonabile a quella delle imprese tradizionali114. Un indice (ROE*) della capacità dell’impresa cooperativa di reintegrare il capitale investito è dato dal rapporto: Rn* k dove Rn* comprende il risultato economico esposto in bilancio, rettificato dalle eventuali integrazioni sui conferimenti e dai ristorni, mentre k il capitale mediamente investito. Tale indice sintetizza la capacità complessiva della cooperativa di generare risorse, al netto della quota a remunerazione dell’indebitamento, in rapporto al totale degli investimenti in essere. Qualora si voglia rilevare il grado di integrazione verticale di un impresa in relazione a processi di crescita per vie interne, secondo alcuni autori occorre andare a vedere nel bilancio d’esercizio il valore delle immobilizzazioni tecniche totali115. In altri termini, si sostiene che l’integrazione verticale comporta sempre e comunque una crescita del valore delle immobilizzazioni tecniche e viceversa il contrario. Purtroppo questo indice è errato sul piano logico sia perché non necessariamente l’integrazione verticale comporta una crescita significativa delle 114 Logica conseguenza di questa impostazione è che, come l’obiettivo dell’impresa capitalistica consiste nella massimizzazione dell’utile, cosi l’obiettivo economico dell’ impresa cooperativa è la massimizzazione del valore di trasformazione (cioè del valore del prodotto trasformato al netto del costo di trasformazione), che misura il valore attribuito a fine esercizio, sulla base dell’andamento della gestione, al conferimento di materia prima agricola da parte dei soci. Come è noto questa grandezza è un aggregato economico che contiene, oltre al valore della materia prima agricola conferita, anche il risultato della gestione cooperativa (Bùchi, 1990, pag.19). 115 In altri termini, si sostiene che l’integrazione verticale comporta sempre e comunque una crescita del valore delle immobilizzazioni tecniche e viceversa il contrario (Ferrucci 2000, pag.197). 158 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” immobilizzazioni tecniche (quando, ad esempio, l’integrazione verticale si associa all’internalizzazione di fasi soft, quali la progettazione di prodotto , la loro commercializzazione, lo svolgimento di attività pubblicitarie, ecc.), sia perché non necessariamente la crescita delle immobilizzazioni tecniche è un sintomo di integrazione verticale (come ad esempio nei casi di crescita orizzontale di capacità produttiva). In questi casi, si preferisce, pertanto, ricorrere ad un altro indice, ossia quello di Adelman, dato dal rapporto tra valore aggiunto e valore della produzione. Assumendo che la variazione delle scorte sia nulla, è possibile semplificare il calcolo mettendo al denominatore il valore del fatturato totale. L’indice di Adelman assume valore tendente a zero nel caso di impresa totalmente deverticalizzata e valore tendente a uno nel caso di impresa totalmente verticalizzata. È evidente che variazioni di questo indice, nel corso del tempo, rilevabili mediante analisi dei vari bilanci di esercizio, possono indicare modifiche sostanziali nel grado di integrazione verticale. In particolare un aumento dell’indice di Adelman sottolinea una crescita del livello di integrazione verticale; viceversa il contrario. 4. Descrizione del test di Mann-Withney impiegato nel lavoro 159 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Il test di Mann-Withney116 è uno dei test non parametrici più usati (e più potenti) per confrontare due popolazioni, tuttavia esso è meno potente dei test “t” sulle medie, appunto poiché non richiede assunzioni circa la forma funzionale della distribuzione della variabile casuale che descrive il fenomeno oggetto di studio. In particolare, questo test sostituisce frequentemente il test “t” quando il presupposto di normalità della distribuzione non è soddisfatto e per campioni casuali di numerosità molto ridotta. Le assunzioni sottostanti al test sono le seguenti: 1. i campioni che poniamo a confronto (x1, x2, x3,…,xn1) e (y1, y2, y3,…yn2) di dimensioni n1 e n2 e provenienti rispettivamente dalle popolazioni P1 e P2, devono essere casuali ed indipendenti; 2. le variabili osservate devono essere assolutamente continue; 3. le distribuzioni delle due variabili casuali X e Y sono le stesse a meno (eventualmente) di una traslazione (in realtà il test funziona abbastanza bene anche nel caso in cui ciò sia approssimativamente vero). Il sistema di ipotesi da tastare è invece il seguente: l’ipotesi nulla è H0: (m2m1)=0 dove m2 e m1 sono le mediane della distribuzione, mentre l’ipotesi alternativa può essere, a seconda dei casi, H1: (m2-m1)≠0 (e quindi il test sarà a due code) oppure (m2-m1)>0; (m2-m1)<0 nel caso sia possibile 116 In letteratura esiste anche la denominazione “test di Wicoxon, Mann e Whitney” per ricordare la priorità storica, anche se un test analogo fu proposto da Deuchler già nel 1914 (Piccolo, 1998). 160 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” specificare l’ipotesi alternativa in modo da condurre un test ad una sola coda. Il test si basa sulla statistica: u=w-[n2(n2+1)]/2 in cui w esprime la somma dei ranghi attribuiti alle osservazioni del secondo campione (di estensione n2 appunto), questo spiega perché il test venga anche chiamato “della somma dei ranghi”; il valore osservato della statistica U viene poi confrontato con i valori critici tabulati per le numerosità campionarie n1 e n2, in corrispondenza dei valori dell’errore di prima specie di più comune riferimento. Qualora il valore osservato risultasse inferiore a quello teorico tabulato, saremmo portati a rifiutare l’ipotesi nulla di popolazioni equidistribuite e ciò ad un livello più o meno elevato di significatività statistica; in caso contrario non avremmo elementi per rigettare l’ipotesi nulla. Per ampiezze campionarie grandi è possibile, inoltre, ricorrere ad una approssimazione normale, cioè: U∼N(µu,σ2 u), in cui: µu=( n1 n2)/2 e σ u=[n1 n2(n1+ n2+1)]/12 rappresentano rispettivamente, il valore atteso e la varianza della variabile casuale U; al riguardo è stato dimostrato che l’approssimazione è sufficientemente accurata per valori di n1e n2> 7 (ecco perché oltre alla significatività esatta dei test, è indicata di volta in volta anche quella asintotica). 161 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Appendice: Descrizione estesa degli indicatori impiegati nel lavoro. INDICATORE DESCRIZIONE Indice n.1 Esprime il fatturato delle imprese. Indice n.2 Esprime il numero dei dipendenti. Indice n.3 Esprime il valore del rapporto tra capitale netto e attività immobilizzate. Indice n.4 Esprime il valore del seguente rapporto: (capitale netto + passività consolidate immobilizzazioni tecniche) / rimanenze di magazzino. Indice n.5 Esprime il valore del rapporto tra attività immobilizzate e attivo circolante. Indice n.6 Esprime il rapporto tra il capitale netto e il capitale investito in impresa. Indice n.7 Esprime il rapporto tra passività consolidate e capitale investito in impresa. Indice n.8 Esprime il rapporto tra passività correnti e capitale investito in impresa. Indice n.9 Esprime il rapporto tra contributi in conto capitale e capitale netto. Indice n.10 Esprime il rapporto tra valore delle immobilizzazioni tecniche e numero di dipendenti. Indice n.11 Esprime l' incidenza delle immobilizzazioni tecniche sul totale delle immobilizzazioni. Indice n.12 Esprime il rapporto tra risultato netto e capitale netto (R.O.E). Indice n.13 Esprime il rapporto tra il risultato netto e il valore aggiunto. Indice n.14 Esprime il rapporto tra il risultato netto e il fatturato. Indice n.15 Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e il fatturato. Indice n.16 Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e numero dei dipendenti. Indice n.17 Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e valore delle immobilizzazioni tecniche. Indice n.18 Esprime il rapporto tra il fatturato e il capitale investito. Indice n.19 Esprime il R.O.E* rettificato delle cooperative. 162 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” CAPITOLO4 IV. Risultati dell’indagine empirica 1. Premessa Scopo di questo capitolo è quello di testare le possibili differenze strutturali tra imprese cooperative e imprese for profit attraverso l’analisi del sistema degli indici predisposto nel terzo capitolo alla luce delle ipotesi interpretative sviluppate nel secondo capitolo. Analisi, che, come più volte ricordato, deve essere svolta tenendo conto della cornice storico-evolutiva tracciata nel primo capitolo che consentirà di capire meglio i risultati ottenuti. In particolare avendo a disposizione dati di bilancio, verranno esaminate le diversità che emergono (se emergono) nella gestione dei fattori produttivi di natura tecnica e finanziaria e nelle performance d’impresa per verificare se, e in quale misura, le differenze sistematiche rilevate possono dipendere dalla forma istituzionale scelta dalle imprese stesse (Fiorentini, 1998, pag.87). Si procederà quindi ad analizzare gli indicatori di scala (paragrafo 2), gli indicatori finanziari (paragrafo 3), gli indicatori di intensità d’impiego dei 163 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” fattori produttivi (paragrafo 4), gli indicatori di redditività (paragrafo 5) e gli indicatori di produttività (paragrafo 6). Di tali indicatori si valuteranno i valori medi ottenuti per le due popolazioni d’impresa nel periodo 20002002 e si confronteranno con quelli ottenuti da Porcheddu nel triennio 1994-1996. Dall’analisi delle medie si passerà a valutare le ipotesi poste attraverso il test di Mann-Witney apprezzando anche la significatività statistica dei test. Al termine dell’analisi si trarranno le dovute conclusioni (paragrafo 7) considerando questi indicatori in un ottica sistemica. 2. Indicatori di scala Per chiarire la rilevanza dell’ipotesi di razionamento del capitale all’interno delle imprese cooperative e quindi di un loro tendenziale sottodimensionamento, è opportuno iniziare l’analisi comparata dei dati in appendice 1 e 2, dagli indicatori di scala. Con riferimento al primo indicatore (fatturato medio) l’analisi condotta per il periodo 2000-2002 ci porta a non rigettare l’ipotesi di uguaglianza tra le distribuzioni delle variabili casuali che interpretano il fenomeno oggetto di studio, per quanto riguarda le due popolazioni d’impresa. L’indicatore, comunque, mostra una differenza tra le due popolazioni di imprese, in quanto per le cooperative tale indice assume un valore medio pari a 7.659.860,035 (7,66 milioni di euro), per le imprese capitalistiche assume un valore medio pari a 11.585.268,28 (11,59 milioni di euro); 164 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” mentre l’analisi statistica evidenzia che le differenze riscontrate nelle due popolazioni di imprese non sono statisticamente significative. È agevole notare in questo caso che la media è probabilmente un “cattivo” indice di posizione della distribuzione statistica che descrive l’andamento del fatturato all’interno della popolazione delle cooperative e di quella delle imprese capitalistiche, poiché porterebbe ad un calcolo del fatturato a livello settoriale senz’altro superiore a quello reale. A conferma di ciò si veda il grafico in figura 7 che esprime il fatturato medio del triennio 2000-2002 delle dodici imprese del campione per le cooperative casearie. 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 €0 € 5.000.000 € 10.000.000 € 15.000.000 € 20.000.000 Figura 7: Fatturato Medio Imprese Cooperative del Campione 2000-2002 165 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Si può notare, inoltre, che confrontando i valori relativi al triennio 20002002 con quelli relativi al lavoro effettuato da Porcheddu per il periodo 1994-1996 si ha un incremento sia per il campione di cooperative, infatti il fatturato medio passa dai circa 3,28 milioni di euro ai 7,66 milioni di euro, che per il campione delle imprese capitalistiche, infatti il fatturato medio passa dai 9,24 milioni di euro agli 11,59 milioni di euro. Inoltre mentre nel periodo 1994-1996 la differenza tra le medie dei valori delle due popolazioni era di 5,96 milioni di euro nel periodo 2000-2002 tale differenza si è ridotta (è pari circa a 3,93 milioni di euro). Questo perché, mentre il fatturato medio delle cooperative è aumentato in media del 57,18% quello delle capitalistiche è aumentato solo del 20,28% riducendo la “forbice” che esisteva tra le due forme istituzionali d’impresa (e ciò è confermato anche dall’analisi statistica, in quanto si ha un innalzamento della significatività sia asintotica che esatta). Infine nell’analizzare i valori medi per il periodo 2000-2002 (cfr. figura 8) possiamo notare che mentre dal 2000 al 2001 si è avuta una crescita del fatturato per entrambi i campioni di imprese dal 2001 al 2002 abbiamo avuto un trend negativo con un fatturato (medio) che, per le imprese capitalistiche, risulta leggermente inferiore anche a quello del 2000. Questo trend negativo può essere dovuto a delle difficoltà incontrate nel mercato di sbocco dovute alle sempre maggiori pressioni concorrenziali (provenienti 166 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” soprattutto da paesi del est Europa e del Sudamerica)117 ed in parte anche alle difficoltà di reperimento della materia prima, dovute al morbo della lingua blu che, da una analisi delle note integrative dei bilanci, è sembrata pesare maggiormente per le imprese capitalistiche. Inoltre se si pone a confronto l’andamento del rapporto di cambio118 dollaro euro con il fatturato, in considerazione della forte propensione all’export del comparto e della valenza del mercato nord americano, che assorbe più del 90% delle esportazioni delle imprese locali, si può evidenziare una elevata correlazione tra l’andamento delle quotazioni del dollaro e quelle del fatturato. 14000000 1,13 1,12 12000000 1,11 10000000 1,1 8000000 1,09 1,08 6000000 1,07 4000000 1,06 FATTURATO I.CAPITALISTICHE FATTURATO COOPERATIVE dollaro euro 1,05 2000000 1,04 0 1,03 F.2000 F.20O1 F.2002 F. MEDIO Figura 8: Fatturato Medio 2000-2002 117 Cosi si esprime Serafino Pinna sulla crisi del Pecorino Romano (prodotto principale nei portafogli delle imprese casearie): “ (…)La perdita di competitività è dovuta al fatto che i mercati sono invasi da formaggi a prezzi più bassi del nostro, provenienti da molte parti, dal Sudamerica all’Est europeo. Perché il latte vaccino costa sempre di meno e di conseguenza i formaggi prodotti con quel latte costano meno e conquistano spazio nelle tavole. Inoltre il pecorino romano venduto come tale è in una percentuale troppo bassa, fra il 70% e l’80% finisce in grattugia. Questo lo rende più vulnerabile in quanto può essere più facilmente sostituito” (La nuova Sardegna 18 novembre 2003). 118 I valori sono quelli forniti dal Banco di Sardegna (2004). 167 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Con riferimento al secondo indicatore dimensionale (numero medio di dipendenti), le cooperative evidenziano un numero medio di dipendenti pari a 27, mentre le capitalistiche pari a 40, con un test che non è però risultato significativo119 (cfr. appendice n.2, indice n.2). Analizzando, invece, il trend tra i due trienni si può notare un miglioramento di tale indice per le cooperative infatti si passa dai 14 dipendenti in media del triennio 19941996 ai 27 del triennio 2000-2002, mentre per il campione delle imprese capitalistiche la situazione è rimasta immutata. In conclusione, e tenendo ben presenti i limiti che possono ascriversi ai due indicatori impiegati, non abbiamo rigettato, per il periodo 2000-2002 l’ipotesi nulla di eguaglianza della distribuzione del fenomeno per le due forme d’impresa. Questo risultato oltretutto conferma il risultato ottenuto da Porcheddu per il periodo 1994-1996. Quindi, sintetizzando, non abbiamo motivo di pensare che le cooperative del settore caseario in Sardegna siano dimensionalmente minori rispetto alle imprese capitalistiche. 119 I risultati ottenuti per il periodo 1994-1996 (cfr appendice n.1, indicatore n.2) evidenziano un numero medio di dipendenti pari a 14 per le cooperative e 40 per le capitalistiche. L’analisi statistica ha inoltre posto in luce che le differenze nelle due forme di impresa non sono state statisticamente significative (Porcheddu, 2001). 168 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 3. La struttura finanziaria delle cooperative Dall’analisi teorica effettuata nel secondo capitolo è emerso che le imprese cooperative dovrebbero presentare in media una struttura finanziaria e patrimoniale chiaramente distinguibile rispetto ad una comparabile impresa capitalistica. Tale differenza sarebbe dovuta ai problemi della sottocapitalizzazione e del razionamento del credito. Nel verificare le ipotesi teoriche, che sono state formulate per le due forme istituzionali d’impresa, si procederà, quindi, con l’analisi di alcuni indicatori che analizzeranno la struttura finanziaria e patrimoniale. Per tanto, da un lato, esamineremo la composizione delle fonti e degli impieghi, con lo scopo di individuare il grado di elasticità-rigidità del capitale investito ed il grado di dipendenza-autonomia finanziaria dell’impresa dal capitale di terzi; dall’altra si indagherà sulle correlazioni esistenti tra fonti e impieghi, sempre nell’ottica delle ipotesi di sottocapitalizzazione e di razionamento del capitale più volte richiamate. Un segnale della particolarità degli assetti finanziari delle imprese cooperative dovrebbe provenire dagli indici di copertura delle immobilizzazioni mediante capitale netto (indice n.3 in appendice 1 e 2). Per quanto riguarda l’analisi del comparto di trasformazione del latte ovino nel triennio 2000-2002 le due popolazioni di impresa hanno assunto i 169 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” rispettivi valori: 1,178 per le imprese cooperative e 1,194 per le imprese capitalistiche120 e non abbiamo motivo di rigettare l’ipotesi che le distribuzioni delle variabili casuali sottostanti al fenomeno siano identiche per le due popolazioni121. I valori inconsueti dell’indice 3 possono spiegarsi alla luce della forte incidenza (soprattutto per le cooperative come vedremo) dei contributi in conto capitale (che contabilmente si annoverano tra le poste del capitale netto) nei processi di investimento delle imprese casearie sarde. Confrontando, poi, i dati del triennio 2000-2002 con quelli del triennio 1994-1996 possiamo notare che tale indicatore pur mantenendosi sempre al di sopra dell’unità manifesta un trend negativo questo può ascriversi ad un maggiore peso degli investimenti in attività immobilizzate rispetto al precedente triennio, cresciuti in misura più che proporzionale al capitale investito. Il secondo quoziente che abbiamo impiegato, dati gli elevati valori di autocopertura delle immobilizzazioni per entrambe le tipologie d’impresa, è il quoziente di copertura del magazzino (indice n.4 in appendice) che nel triennio 2000-2002 assume valori pari a 1,022 nelle cooperative e a 1,182 nelle capitalistiche. Anche con riferimento a questo indicatore non abbiamo 120 Per entrambe le popolazioni l’indice ha assunto un valore maggiore di uno ciò significa che le immobilizzazioni sono interamente finanziate con mezzi propri, che finanziano anche una parte dell’attivo circolante. Si tratta di una situazione ottimale sotto il profilo della solidità patrimoniale. Tale situazione, tuttavia potrebbe non essere ottimale sotto il profilo della redditività. (Caramiello, 1993, p.148). 121 Questa considerazione è confermata anche per il periodo 1994-1996 dove l’indice assume valori pari a 1,738 e a 1,975 rispettivamente nelle cooperative e nelle imprese capitalistiche (Porcheddu, 2004, p.55). 170 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” tuttavia rigettato l’ipotesi nulla di eguaglianza delle distribuzioni sottostanti al fenomeno per le due popolazioni122. Tenendo conto della struttura dell’attivo (indice n.5 in appendice 1 e 2) è poi facile vedere come, mediamente, e senza differenze significative tra le due forme istituzionali d’impresa, le imprese casearie abbiano dei valori delle attività a breve assai elevati per confronto con le immobilizzazioni. Questi risultati sono da ascrivere alla notevole consistenza del magazzino prodotti. Inoltre, le imprese cooperative e for profit sono caratterizzate da immobilizzazioni di natura prevalentemente tecnica. Questa tendenza è comunque più accentuata nelle imprese cooperative con un rapporto tra immobilizzazioni tecniche e immobilizzazioni totali (indice n.11) che si attesta nel periodo 2000-2002 intorno allo 0,92 contro un valore intorno a 0,87 ottenuto per le capitalistiche123. L’analisi statistica comunque non ha rigettato, anche per questo indicatore, l’ipotesi di eguaglianza sia nel triennio 1994-1996 che in quello 2000-2002 tra le due popolazioni d’impresa (cfr. i valori dell’indicatore 11 in appendice 1 e 2). La considerazione congiunta dei quattro precedenti indicatori, ci porta a dire che non esistono motivi per pensare a differenze significative tra le due forme istituzionali d’impresa nella capacità di fronteggiare, con fonti consolidate, sia i fabbisogni finanziari “generati” dalle immobilizzazioni 122 Per quanto riguarda il triennio 1994-1996 (Porcheddu, 2001) l’indice n.4 assume valori pari a 1,937 nelle cooperative e a 0,691 nelle capitalistiche. Nel triennio 2000-2002 quindi si ha un inversione di tendenza, confermata anche dai valori medi assunti dall’indicatore n.5. 123 Anche nell’analisi del periodo 1994-1996 i risultati medi di tale indicatore assumevano valori maggiori per le cooperative rispetto alle capitalistiche (rispettivamente 0,88 e 0,85), confermando comunque una struttura dell’attivo fisso orientata verso le immobilizzazioni tecniche. 171 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” che il fabbisogno finanziario di natura durevole “generato” dalle attività a breve (da ascriversi alla presenza di rimanenze di magazzino -in gran parte di prodotti caseari finiti o in corso di stagionatura- che nella realtà settoriale sono mediamente assai consistenti). 1 0,9 0,8 0,7 0,6 ATTIVO CIRCOLANTE PASSIVITA A BREVE 0,5 0,4 0,3 0,2 0,1 ATTIVO FISSO PASSIVO PERMANENT E IMPIEGHI FONTI 0 Figura 9: Struttura Patrimoniale 2000-2002, Aggregazione del gruppo delle cooperative. 172 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 1 0,9 0,8 0,7 0,6 ATTIVO CIRCOLANTE PASSIVITA A BREVE 0,5 0,4 0,3 0,2 0,1 0 ATTIVO FISSO IMPIEGHI PASSIVO PERMANENTE FONTI Figura 10: Struttura Patrimoniale 2000-2002, Aggregazione del gruppo delle imprese capitalistiche. Spostando l’attenzione ad alcuni indici di composizione delle fonti (indici n.6, n.7, e n.8, e n.9), dalla considerazione dei valori medi ottenuti nel periodo 2000-2002 emerge che la popolazione delle imprese cooperative ha un valore delle passività correnti maggiore rispetto alla popolazione delle imprese capitalistiche (infatti l’indice 8, che esprime il rapporto tra le passività a breve e il capitale investito, è pari rispettivamente a 0,59 e 0,52)124. Mentre per quanto riguarda l’analisi delle fonti sulla base della natura dei finanziatori, e quindi, il peso del capitale proprio e del capitale di credito (dato dalla somma dell’indice 7 e 8 ) non ci sono sostanziali differenze negli indicatori medi tra i due campioni (cfr. figura n. 11). 124 Tale considerazione non vale, invece, per il periodo 1994-1996 dove il valore delle passività a breve, e la struttura delle fonti in generale, presenta caratteristiche identiche per le due tipologie d’impresa. 173 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” In questo ambito, non sembrerebbe trovare una prima conferma l’ipotesi formulata dagli autori della scuola dei diritti di proprietà, relativa agli effetti negativi sulle scelte finanziarie dell’impresa cooperativa derivanti dalla incompleta appropriabilità del valore delle quote al momento dell’uscita dei soci, nonché delle limitazioni alla remunerazione dei capitali investiti. Tali vincoli istituzionali indurrebbero infatti i titolari della proprietà a limitare il ricorso all’autofinanziamento e a mantenere livelli di capitale proprio al di sotto di quelli prevalenti nelle imprese for profit. Per necessità le imprese cooperative si orienterebbero in modo più accentuato verso il mercato del credito per finanziare gli investimenti ove peraltro, come si è spiegato nel secondo capitolo, subirebbero un altro tipo di razionamento (Fiorentini, 1998, p.99). CAPITALE PROPRIO CAPITALE DI CREDITO 1,2 1 0,8 0,66 0,69 0,34 0,31 0,6 0,4 0,2 0 COOPERATIVE I.CAPITALISTICHE Figura 11: Grado di Indebitamento 2000-2002 174 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Differenze che, invece, si potrebbero riscontrare se si analizza con maggiore dettaglio la struttura del capitale di credito. Infatti la struttura debitoria delle imprese cooperative dovrebbe essere valutata (come è gia stato preannunciato nei capitoli precedenti) considerando che parte degli apporti finanziari può trovare origine nei soci della cooperativa. Un indagine di tal genere, volta a misurare il peso dei prestiti dei soci sul totale del capitale di credito e il peso del finanziamento bancario, non è stato possibile eseguirla per la mancanza dei dati di molte imprese del campione. Comunque analizzando i dati a disposizione per alcune cooperative possiamo notare come il prestito sociale abbia un ruolo rilevante in queste tipologie d’impresa. Un esempio può essere la cooperativa Unione Pastori di Nurri che nella nota integrativa al bilancio 2001 (ma questo discorso era presente anche in quella del 2002) nel valutare la situazione finanziaria, ritenendo che dovesse essere migliorata, in quanto l’ammontare dei debiti aveva assunto dimensioni decisamente significative in rapporto ai mezzi propri esistenti, proponeva (richiesta che è stata accettata) l’emissione del prestito sociale a lunga scadenza e rimborsabile solo in presenza di determinate condizioni. Questo allo scopo di autofinanziamento, capitalizzare la società e ridurre la dipendenza dalle banche nelle attività di finanziamento della anticipazioni ai soci, delle spese di lavorazione, e degli altri servizi offerti ai soci. Analizzando, poi, singolarmente la situazione dei valori medi per le due popolazioni si può dire che per le cooperative si ha un valore delle passività 175 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” correnti superiore sia alle passività consolidate (l’indice 7 pari a 0,073 per le cooperative assume un valore assai modesto) che al passivo permanente (dato dalla somma dell’indice 6 e 7) il che denota una struttura delle fonti maggiormente orientata al breve periodo (cfr. figura 12). Confrontando, poi, le medie della popolazione delle cooperative ottenute per il periodo 20002002 con quelle del triennio 1994-1996 si può affermare che mentre l’indice 8 è restato sostanzialmente inalterato (nel periodo 1994-1996 era pari a 0,573) si hanno delle differenze per quanto riguarda il passivo permanente in quanto le passività consolidate nel triennio 1994-1996 “pesavano” di più (l’indice 7 infatti per tale periodo è pari a 0,144). Anche per quanto riguarda le imprese capitalistiche le passività correnti hanno valori superiori sia alle passività consolidate (l’indice 7 è pari a 0,17) che al passivo permanente ma in misura più attenuata rispetto al campione delle cooperative. Inoltre nel analizzare il trend con il precedente periodo per le imprese capitalistiche si può notare una diminuzione delle fonti a breve scadenza (l’indice 8 nel triennio 1994-1996 era pari a 0,58) a fronte di un aumento del capitale netto (l’indice 6 passa dallo 0,25 allo 0,31). 176 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” CAPITALE NETTO PASSIVITA CONSOLIDATE PASSIVITA CORRENTI 100% 90% 80% 70% 0,59 0,52 60% 50% 40% 0,07 0,17 0,34 0,31 30% 20% 10% 0% COOPERATIVE I. CAPITALISTICHE Figura 12 Struttura delle fonti periodo 2000-2002 I test di significatività condotti per il periodo 2000-2002, comunque, non ci autorizzano a pensare a differenze nelle distribuzioni delle variabili che interpretano i fenomeni oggetto di studio per quanto riguarda le due popolazioni di imprese ad eccezione del indicatore 7 per il quale dobbiamo 177 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” accogliere l’ipotesi alternativa di una mediana inferiore per le imprese cooperative125. I risultati ottenuti fino a questo momento non sembrano suffragare per i periodi 1994-1996 e 2000-2002, le ipotesi di sottocapitalizzazione126 e di razionamento del credito più volte richiamate nei precedenti capitoli, essi, tuttavia, devono essere apprezzati anche alla luce delle intense agevolazioni di cui godono le cooperative del settore nel reperimento delle fonti finanziarie e del meccanismo del finanziamento interno (attraverso i debiti di regolamento con i soci e il meccanismo del prestito sociale) che caratterizzano le cooperative. L’esame dell’indice n.9 che esprime l’incidenza dei contributi in conto capitale sul capitale netto, ci consente di dire che, mediamente, il capitale netto delle cooperative è costituito per quasi ¾ da contributi di tale natura contro un valore ben più modesto per le imprese capitalistiche (pari a circa ¼ del totale del capitale netto); inoltre, con un test altamente significativo, abbiamo rifiutato l’ipotesi di equidistribuzione delle due popolazioni d’impresa per il fenomeno in parola127. 125 Al contrario per quanto riguarda l’analisi condotta da Porcheddu (2001) per gli anni 1994-1996 non si è riscontrata alcuna differenza nelle distribuzioni delle variabili che interpretano i fenomeni oggetto di studio per tutti e tre gli indicatori (cfr. in appendice 1 gli indici 6,7,8,). 126 D’altronde gran parte della letteratura empirica ha messo in luce risultati parzialmente contradditori, con una prevalenza di risultati che non ottengono risultati univoci rispetto alle ipotesi di sottocapitalizzazione (cfr. Fiorentini, 1998, p.87). 127 Anche nel periodo 1994-1996 si sono ottenuti gli stessi risultati, sia per quanto riguarda i valori medi, che per la significatività delle differenze riscontrate (si vedano i risultati dell’indice n.9 in appendice 1). 178 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Occorre quindi tenere conto degli effetti dell’erogazione di tali contributi128 in conto capitale in quantità cosi ingente a favore delle cooperative. Tali agevolazioni sono concesse prevalentemente per sopperire alle difficoltà delle cooperative ad autofinanziarsi oltre che per compensare i vincoli derivanti dalle limitazioni alla remunerazione del capitale e del prestito sociale. In tal senso tali agevolazioni possono avere l’effetto, al di là delle intenzioni del legislatore, di distorcere le convenienze su cui si modulano le scelte finanziare di tali imprese e di scoraggiare l’autofinanziamento nelle sue diverse forme (tali considerazioni sono state fatte anche da Fiorentini nella sua analisi sul settore agro-alimentare italiano, 1998, p.100). Purtroppo, una valutazione dell’intensità della pratica di autofinanziamento per le due forme di impresa, nel contesto settoriale in esame, non può essere effettuata a causa dell’impossibilità di ricostruire, per l’esercizio 2000, il valore degli accantonamenti di utili a riserve, elemento fondamentale assieme al valore degli ammortamenti nel calcolo degli indici di autofinanziamento129. 128 In un mercato in cui le imprese cooperative sono in contrapposizione alle imprese capitalistiche occorre anche valutare questi contributi nell’ottica del giuoco concorrenziale alla luce, anche, delle preoccupazioni emerse in sede di Unione Europea che normative speciali possano alterare l’efficacia dei meccanismi competitivi (Fiorentini, 1998, p.14). Si potrebbe obiettare, però, che il settore privato ha potuto garantirsi una maggiore competitività, anche perché non ha dovuto scontare gli inconvenienti derivanti da alcuni importanti vincoli normativo-istituzionali che hanno invece pesantemente agito sul sistema cooperativo. 129 Questa carenza informativa si ebbe gia nel triennio precedente. 179 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 4. Indicatori di intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro Sulla scorta delle ipotesi formulate nell’ambito dell’analisi basata sui diritti di proprietà, e che sottolineano la scarsità di incentivi alla patrimonializzazione presenti nelle imprese cooperative, ci si attende che quest’ultime siano caratterizzate da una minore intensità di capitale. L’esame delle medie dell’indicatore che esprime il rapporto tra immobilizzazioni tecniche e numero dei dipendenti, per quanto riguarda il contesto settoriale della trasformazione del latte ovino in Sardegna, nel periodo 2000-2002 è stato pari a circa 96 mila euro per dipendente per il campione delle cooperative e a circa 250 mila euro per dipendente per il campione delle imprese capitalistiche. Quindi tale valore presenta un valore medio assai più elevato per le imprese capitalistiche coerentemente alle previsioni formulate nel secondo capitolo. Bisogna dire però che i test sembrano evidenziare l’inesistenza di differenze statisticamente significative, nel periodo 2000-2002, per le due forme d’impresa. Questo risultato contrasta con quanto ottenuto da Porcheddu nel periodo 1994-1996 sia nei valori medi, dove si era ottenuto un valore superiore per le imprese cooperative, cioè si aveva un valore per dipendente più grande nelle cooperative rispetto alle capitalistiche (107 mila euro per dipendente nelle cooperative e a poco più di 42 mila euro nelle capitalistiche), sia nell’analisi statistica dove si era verificato un livello di significatività esatta 180 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” del 3 per mille, che aveva portato a rigettare l’ipotesi di eguaglianza tra le distribuzioni del fenomeno per le due popolazioni di impresa. Quindi alla luce dei risultati ottenuti nel periodo 2000-2002 e del confronto di questi con quelli ottenuti nel periodo 1994-1996 le cooperative casearie sembrano impiegare il fattore capitale con una intensità comunque non minore delle imprese capitalistiche del settore in Sardegna. 5. Gli indicatori di Redditività Come si e fatto notare nei precedenti capitoli, in linea teorica, la “nostra” cooperativa dovrebbe mostrare, progressivamente, degli indicatori di redditività operativa e netta tendenzialmente più bassi. Per quanto riguarda il ROE I risultati relativi al periodo 2000-2002 evidenziano per le cooperative un risultato prossimo allo zero (come d’altronde ci si aspettava visti i metodi di contabilizzazione in bilancio che utilizzano tali forme d’impresa) mentre le imprese capitalistiche mostrano un valore per lo stesso indicatore addirittura negativo. L’analisi di significatività statistica condotta con test non parametrici porta a pensare che non esistano differenze per quanto concerne la distribuzione dei valori dell’indice n.12 nelle due popolazioni di impresa operanti nel settore. Al contrario nel periodo 1994-1996 (Porcheddu, 2004) si era riscontrato uno scarto di oltre cinque punti percentuali a favore dell’impresa capitalistica. La differenza tra le distribuzioni del fenomeno per le due 181 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” popolazioni era inoltre risultata altamente significativa (cfr. indice n.12 in appendice 1 e 2). Questa differenza tra i due trienni si spiega facilmente con un trend negativo delle imprese capitalistiche del settore. 10,00% 6,90% 5,00% 1,40% 0,00% 0,22% ROE COOP ROE CAPITALISTICHE -5,00% -10,00% -13,01% -15,00% 1 2 Figura 13 Andamento del ROE periodi 1994-1996 e 20002002. Risultati sostanzialmente analoghi abbiamo ottenuto considerando altri indicatori di redditività generale (cfr. gli indici n.13 e n.14 in appendice 1 e 2) nei quali il risultato netto veniva rapportato rispettivamente al valore aggiunto e al fatturato (per il primo indicatore i risultati medi del periodo 2000-2002 sono stati pari a 0,4% per le cooperative e 19,4% per le capitalistiche; per il secondo indicatore, invece, i valori medi sono stati pari a 0,1% per le cooperative e –0,4% per le capitalistiche)130. L’analisi ci dice 130 Nel periodo 1994-1996 (Porcheddu, 2004), l’indice n.13 (cfr. appendice 1) confermando i risultati (ma non i valori) del periodo 2000-2002 ha mostrato valori medi più elevati per le imprese capitalistiche, mentre l’indicatore n.14 in quel periodo, al contrario del triennio 20002002, aveva mostrato dei valori positivi per le imprese capitalistiche (pari a 1,1%) mentre il valore delle cooperative aveva lo stesso valore. 182 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” comunque che non esistono differenze statisticamente significative tra le due forme di impresa. Per quanto riguarda l’indice di redditività economica (indice n.15 calcolato come valore aggiunto su fatturato), o meglio indice di Adelman ha mostrato valori medi più elevati per le cooperative (17,8% contro il 12,7% delle imprese capitalistiche), l’analisi statistica ha mostrato tuttavia che le differenze riscontrate non sono significative. Anche nel periodo 1994-1996 l’indice di Adelman aveva mostrato dei valori medi superiori per le imprese cooperative, anche se il divario tra le due forme istituzionali d’impresa era minore. Infatti tale valore era pari al 18,9% per le cooperative e al 17,1% per le imprese capitalistiche. Anche in questa situazione non si ha il motivo di rifiutare l’ipotesi nulla di eguaglianza tra le distribuzioni sottostanti al fenomeno per le due popolazioni di imprese. Le riserve in merito alla capacita “segnaletica” degli usuali indicatori di redditività ci impediscono di trarre conclusioni affidabili in merito a questo aspetto del confronto tra forme istituzionali d’impresa. Per sgombrare il campo da interpretazioni affrettate di questi dati sulla redditività occorre ricordare, quindi, che bisogna tenere conto di due diversità di fondo tra imprese cooperative e imprese for profit. In primo luogo, le imprese cooperative in generale non hanno l’obiettivo di massimizzare la remunerazione del capitale conferito dai titolari dei diritti di proprietà. In secondo luogo, le cooperative di trasformazione sono caratterizzate da soci il cui obiettivo specifico è la massimizzazione della 183 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” remunerazione dei fattori produttivi da loro conferiti, il che si pone in necessario contrasto con l’obiettivo di massimizzare l’utile della cooperativa (Fiorentini, 1998, p.103)131. In questa ottica, le cooperative di trasformazione, e in questo caso le cooperative casearie, sono costituite tipicamente da produttori alla ricerca di un più efficiente sfruttamento di economie di scala e di un migliore posizionamento sul mercato del prodotto e non da apportatori di capitali di rischio che ricercano la migliore combinazione tra rendimento e rischio. È dunque evidente che il confronto tra i risultati delle imprese for profit e cooperative in termini di redditività netta non fornisce informazioni particolarmente significative sui risultati ottenuti dalle seconde. D’altronde però una cosa è l’economia del socio un'altra è l’economia dell’impresa. A tal riguardo si può riprendere un esempio numerico proposto in Zan (1990, p.66) adattandolo ad una cooperativa casearia. Immaginiamo che tale cooperativa “teorica” liquidi il latte conferito a 0,80 euro il litro, mentre il prezzo corrente di mercato è 0,70 euro il litro, a fronte di un costo di produzione del latte per gli associati di 0,88 euro il litro. In tal caso (essendo la valorizzazione del prodotto conferito alla cooperativa minore dei costi propri dell’economia del socio) si avrebbe una perdita per l’economia del socio. Il problema della visione in questione è 131 Sono necessarie delle cautele nel valutare il valore di questo indice. Scrive Melis (1989, p.73): “ con riferimento all’analisi dei bilanci dell’impresa cooperativa la determinazione di indici di redditività non sintetizza efficacemente il risultato economico conseguito dai soci (…) l’eventuale remunerazione dell’apporto di capitale presenta natura complementare spesso del tutto secondaria, rispetto alla valorizzazione del conferimento di beni e servizi nelle cooperative di produzione, o al risparmio sugli acquisti nelle cooperative di consumo”. 184 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” però quello di non scindere i contributi all’economicità complessiva sia della cooperativa sia delle economie del socio: si verrebbe cosi ad esprimere un giudizio negativo sull’andamento della cooperativa. In realtà, ove si potesse fare affidamento sui valori in gioco, si dovrebbe evidenziare una prestazione della cooperativa in linea col mercato, potendosi parlare di efficienza della gestione: il ricorso alla cooperativa ha comunque consentito di spuntare un sovrappiù pari a 0,10 centesimi a litro (valore di trasformazione meno valore di mercato dei prodotti conferiti) rispetto all’alternativa di una vendita diretta al mercato (e quindi ad una impresa di trasformazione capitalistica). Altro sarà poi il problema della valutazione dell’efficacia della cooperativa verso le economie dei soci (nel senso di coprire i costi, cosa che nell’esempio non succede) o, in altri termini, di efficienza complessiva del sistema sul mercato. Efficienza complessiva che nell’esempio certamente continua a mancare: il che però non trova le sue cause in una mancanza di efficienza della cooperativa, quanto piuttosto nelle economie particolari dei soci. E in questa ottica che si inserisce il ROE* rettificato che è stato presentato nel terzo capitolo che ci consente di valutare le diverse performance delle due forme istituzionali. È chiaro che l’attendibilità di tale indice è strettamente legata all’attendibilità dei prezzi di mercato del latte con il quale si è proceduto a scorporare il valore di trasformazione. Nel calcolare tale indice sono state effettuate due ipotesi. La prima ipotesi è stata calcolata attraverso i prezzi messi a disposizione dalla camera di commercio di Sassari, la seconda 185 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” ipotesi dai prezzi ottenuti da alcune delle imprese capitalistiche del campione132. PREZZO DI ROE* MERCATO 2001 2002 2000 2001 2002 IPOTESI 1 0,68 0,75 0,83 0,24 0,46 0,04 IPOTESI 2 0,70 0,82 0,83 0,18 0,25 0,04 2000 I risultati medi cosi ottenuti mostrano per il periodo 2000-2002 un ROE* medio per le cooperative pari a 0,25 nella prima ipotesi e 0,16 nella seconda. Indipendentemente dal valore considerato quindi si hanno dei valori di gran lunga superiori a quello ottenuto dalle imprese capitalistiche che era addirittura negativo. In conclusione alla luce dei risultati ottenuti con il ROE* rettificato, e dei risultati che si erano ottenuti anche senza questa specificazione, possiamo ritenere che nel triennio 2000-2002 le cooperative abbiano ottenuto sotto il profilo reddituale migliori performance rispetto alle capitalistiche. Per quanto riguarda il confronto intertemporale con i dati del triennio 19941996 si può notare inoltre che il peggioramento degli indicatori di 132 L’idea originaria era quella di considerare una media del prezzo del latte di tutte le imprese capitalistiche del campione, ciò non è stato possibile a causa della mancanza nei documenti in nostro possesso di tale indicatore. 186 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” redditività può essere dovuto all’impatto dell’epidemia di “Blue Tongue133” sull’economia delle imprese casearie. Dal 2000 le imprese si trovano a fronteggiare una vera e propria emergenza relativa al manifestarsi in modo particolarmente virulento di tale epidemia con effetti sull’economicità del comparto di trasformazione134. Questa può essere assicurata solo da certi quantitativi di latte lavorato, i problemi sono connessi alla mancanza di latte da trasformare derivante dalla esiguità, a causa del morbo stesso, di greggi produttive (Porcheddu 2004, p.138). I minori quantitativi di materia prima presenti sul mercato oltre ad avere ripercussioni sulla produttività degli impianti incidono anche sui costi della materia prima e sul fatturato delle imprese (in termini di minori quantità di formaggio prodotte) e, quindi, in definitiva sulla redditività globale delle imprese(Porcheddu 2004, p.138). Infine con riferimento all’indice di Adelman, in relazione ai due periodi temporali oggetto di studio, è possibile dire che, diversamente da quanto 133 La “Blue Tongue” o “Lingua Blu” è una malattia infettiva, non contagiosa, caratterizzata da infiammazione catarrale dell’apparato respiratorio e digerente, da necrosi della muscolatura scheletrica, aborto e malformazioni fetali. La malattia ha un andamento stagionale e compare generalmente in estate avanzata. La sua trasmissione avviene attraverso un insetto che, cibandosi di sangue, può infettarsi e quindi infettare altri capi, assumendo il ruolo di vettore biologico. Gli ovini hanno un periodo di incubazione della malattia che varia dai 5 ai 20 giorni; la letalità del virus oscilla tra il 2% e il 30% mentre la morbilità (numero di capi infettati sul numero dei capi totali) varia sensibilmente a seconda del ceppo del virus, della razza colpita, dell’età dell’animale e dalle condizioni epidemiologiche dell’area interessata. La malattia nasce in Africa, da dove si è diffusa in quasi tutto il mondo. Per quanto riguarda i paesi del mediterraneo, la malattia si è manifestata nel 1998 e 1999 in Grecia e Turchia, nel 2000 in Tunisia (luogo dal quale probabilmente è partita per la Sardegna), Spagna (Isole Baleari) e Francia (Corsica). 134 Questi effetti sono una conseguenza dei problemi che nascono a monte della filiera dove l’economie delle aziende del comparto della produzione del latte ovino subiscono (spesso), a causa di tale morbo, la totale perdita dell’intero gregge, o comunque in caso di parziale sopravvivenza, la improduttività dello stesso. La malattia, infatti, se agisce in un periodo in cui le pecore sono gravide porta spesso al aborto o a malformazioni fetali. In questi casi ci si può aspettare che non si avrà la possibilità di disporre di capi di rimonta in tempi brevi, ne si potrà svolgere l’operazione di mungitura. Tra l’altro lo stesso vaccino contro il morbo, probabilmente, presenta tra le controindicazioni anche una vistosa riduzione della produttività del gregge; di recente una allevatore ha dichiarato: “ se un gregge di cento capi produce in condizioni normali circa 50 litri di latte al giorno, adesso (dopo la vaccinazione) ne produce appena sette litri” (l’Unione Sarda, 31 gennaio 2002). 187 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” riscontrato anche in studi recenti sulle cooperative operanti nell’agroalimentare (cfr. Fiorentini, 1998, p.102), non abbiamo motivo di pensare, per quest’ultima forma organizzativa, ad un più intenso grado di integrazione verticale lungo la filiera produttiva esaminata135. 6. Indicatori di Produttività Come si ricorderà una delle ipotesi formulate nel secondo capitolo nell’ambito della teoria dei diritti di proprietà applicati alle imprese cooperative era quella che il capitale tenderà ad essere il fattore produttivo scarso. Si è visto in precedenza che in effetti, all’interno del campione considerato per il periodo 2000-2002, l’intensità del capitale è inferiore nelle imprese cooperative (occorre rammentare che tuttavia l’analisi statistica non aveva rigettato l’ipotesi di eguaglianza tra le due forme istituzionali d’impresa). Una conseguenza di questo risultato può essere verificata osservando la produttività (media) delle immobilizzazioni tecniche data dal rapporto tra valore aggiunto e valore delle immobilizzazioni tecniche (indice n.17), che assume valori medi pari a 0,958 per le imprese capitalistiche e 0,538 per le imprese cooperative. Tali valori contrastano con quanto teoricamente esposto in quanto al contrario 135 Nel lavoro di Fiorentini infatti si era ottenuto un maggiore livello dell’indice di Adelman per le cooperative che era stato spiegato come una maggiore propensione di quest’ultime ad integrare verticalmente i propri processi al fine di raggiungere una delle motivazioni principali della formazione di molte cooperative di trasformazione i cui soci fondatori (produttori agricoli) trovano conveniente integrarsi a valle allo scopo di sfruttare economie di scala e di consolidare le proprie posizioni sul mercato (cfr. Fiorentini, 1998, p.102). 188 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” delle aspettative mostrano un valore superiore per le imprese capitalistiche rispetto alle cooperative136. Questa tendenza può essere ulteriormente colta osservando la minore velocità di rotazione del capitale investito. Infatti l’indice assume dei valori medi superiori per le imprese capitalistiche (l’indice n.18 è pari a 1,09) rispetto alle imprese cooperative (l’indice n.18 è pari a 0,78). Vi è da aggiungere comunque che nel periodo 2000-2002 non si registrano differenze statisticamente significative tra le due forme di impresa per quanto riguarda la produttività del capitale. Anche nel periodo 1994-1996 l’analisi della produttività del capitale aveva mostrato dei valori medi superiori per le imprese capitalistiche: l’indice n.17 aveva assunto valori medi pari a 1,306 nelle cooperative e a 1,747 nelle capitalistiche; tutto ciò avvalorato (al contrario del periodo 20002002) da un test che era risultato altamente significativo (cfr. i risultati sintetizzati in appendice n.1 al capitolo). Questo risultato era poi in linea con quanto riscontrato, in quel periodo, nella sezione dedicata all’intensità d’uso dei fattori della produzione e non in contrasto con quanto commentato nella sezione dedicata agli indicatori finanziari. Per quanto riguarda la produttività media del lavoro i risultati ottenuti per il triennio 2000-2002 mostrano valori medi superiori per le cooperative casearie (46 mila contro 37 mila euro circa); al contrario l’analisi del periodo 1994-1996 aveva mostrato valori medi superiori per le imprese 136 Infatti la scarsità del fattore capitale avrebbe dovuto rappresentare un forte incentivo per le cooperative ad utilizzarlo in modo più produttivo (Fiorentini, 1998, p.104). 189 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” capitalistiche (poco meno di 41 mila euro contro poco più di 37 mila euro). I risultati statistici dei due periodi sembrano confermare che la produttività (media) del lavoro, almeno nell’ambito delle particolari cooperative considerate (in cui come già si è detto nei precedenti capitoli è un eccezione la coincidenza della figura del lavoratore con quella del socio-conferitore), non è significativamente diversa da quanto riscontrato per le imprese capitalistiche. Questi risultati, tuttavia, non devono interpretarsi necessariamente come una “violazione” delle previsioni di Alchian e Demsetz (1972) per una serie di motivi: • La dimensione dei team dei lavoratori all’interno dei due campioni d’imprese è comunque generalmente contenuta; • Nelle cooperative casearie sarde, come già riscontrato più volte, non esiste praticamente la figura del socio lavoratore (quindi sotto questo profilo, le cooperative sono assimilabili alle imprese capitalistiche del settore); • Potrebbe esistere un effetto più che compensativo di economie di scala rispetto alle inefficienze in qualche modo derivanti dalla crescita dimensionale dei team di lavoratori. Ciò sembra mostrare come la performance delle imprese cooperative sia comparabile, e quindi in particolare non inferiore, a quella delle imprese capitalistiche tradizionali. 190 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” 7. Conclusioni L’analisi condotta in questo lavoro ha evidenziato una serie di risultati che verranno illustrati qui di seguito. Nel comparto caseario in Sardegna esiste una forte incidenza di imprese cooperative. Questo fatto, tuttavia, deve essere interpretato con attenzione e non può essere attribuito all’esistenza di particolari vantaggi economici comparati di tali imprese rispetto ad altre forme di impresa (tipicamente le imprese capitalistiche operanti nel settore). Il favor del legislatore regionale e nazionale nei confronti di tale tipo di imprese, può essere spiegato in Sardegna con esigenze di “modellare” in un certo modo la società regionale, esigenze indotte da fattori di ordine storico-sociale ricordati nel capitolo primo. Tutto ciò ha avuto ripercussioni in termini di industrial organization, vista l’attuale consistente proporzione di imprese cooperative, e deve portare a riflettere sul ruolo della storia nella comprensione delle caratteristiche di un settore (Porcheddu, 2004). Dal punto di vista dell’economia positiva e normativa mostrano tutta la loro debolezza, in questo modo, test di sopravvivenza non corroborati da un adeguato patrimonio informativo sulle caratteristiche delle imprese a confronto in un dato settore. Con riferimento all’obiettivo esplicitato nel paragrafo introduttivo, possiamo dire che i risultati del lavoro di comparazione tra le due forme 191 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” istituzionali d’impresa non autorizzano a pensare, nel contesto settoriale analizzato, ai più volte citati, in tema di cooperative, problemi di sottoinvestimento per confronto con comparabili imprese capitalistiche. Questo giudizio trae origine in via diretta da una comparazione sulla struttura finanziaria delle due tipologie d’impresa e, indirettamente, dall’analisi dell’intensità d’impiego dei fattori e della loro produttività. Inoltre i test sulla produttività hanno mostrato dei risultati, sia per la produttività del capitale (maggiore nelle imprese capitalistiche rispetto alle imprese cooperative) che per la produttività del lavoro (dove le cooperative casearie sarde evidenziano una produttività del lavoro non significativamente differente da quella registrata all’interno delle imprese capitalistiche del settore) in contrasto con le ipotesi formulate. I risultati sulla produttività del lavoro probabilmente sono riconducibili alla “storica” separazione nelle cooperative del settore, della figura del socioconferitore-pastore da quella del lavoratore137. Questo ci insegna che per capire il presente di un settore non si può prescindere dal passato di quel settore e, più ampiamente, della società in cui quel settore si incardina. Infatti la storia “filtra” i possibili vantaggi comparati delle differenti forme istituzionali d’impresa condizionandone ampiamente le probabilità di manifestazione. 137 La separazione tra socio e lavoratore, legata storicamente alle esigenze di conduzione dell’impresa pastorale, che non consentono al pastore di occuparsi di altre attività, come quelle all’interno dei caseifici, inficerebbe il positivo effetto in termini di produttività di elevati gradi di identificazione nell’impresa nella quale si lavora, ma anche di forme di controllo di tipo orizzontale (versus forme di controllo gerarchico verticale, tipicamente riscontrate all’interno delle imprese capitalistiche) (Porcheddu, 2004). 192 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” I test sugli indicatori di redditività si sono rilevati altamente significativi dal punto di vista statistico nel periodo 1994-1996, mostrando apparentemente una performance superiore da parte delle imprese capitalistiche del settore; gli stessi test condotti per il periodo 2000-2002 rivelano, tuttavia, una performance superiore per le imprese cooperative rispetto alle imprese capitalistiche del settore e ciò è confermato anche dalle ipotesi formulate per il ROE* rettificato. Risultati che comunque devono essere letti alla luce delle carenze segnaletiche che tali indici di redditività hanno per le imprese cooperative. Tuttavia, gli esiti del confronto condotto nei paragrafi precedenti devono “osservarsi” attentamente alla luce del consistente sostegno finanziario, sia nazionale, che regionale, soprattutto nella forma dei contributi in conto capitale, di cui hanno goduto le cooperative del settore (ricordiamo che mediamente quasi i ¾ del capitale netto delle cooperative sono costituiti da contributi di tale natura). È chiaro che un sostegno di tale portata può ben neutralizzare i postulati problemi di natura finanziaria di cui soffrirebbe l’impresa cooperativa ed, anzi, trovare la ratio proprio nella considerazione degli stessi, “condizionando” evidentemente i risultati dell’analisi comparativa tra le due forme d’impresa. 193 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Appendice 1.138 Medie degli indicatori per forma istituzionale d’impresa, valori della statistica U di Mann-Withney e significatività esatta ed asintotica del test ad una coda (periodo 1994-1996). Indice indice n.1 indice n.2 indice n.3 indice n.4 indice n.5 indice n.6 indice n.7 indice n.8 indice n.9 indice n.10 indice n.11 indice n.12 indice n.13 indice n.14 indice n.15 indice n.16 indice n.17 138 Cooperativ Imprese Valori Significativit Significativit e capitalistich della à asintotica à esatta e statistic aU 3,28 9,24 61 0,031 0,032 14 40 64,4 0,043 0,043 1,738 1,975 104 0,483 0,491 1,937 0,691 85 0,199 0,208 0,611 0,420 78 0,127 0,134 0,283 0,246 93 0,306 0,316 0,144 0,169 91 0,127 0,134 0,573 0,585 103 0,466 0,475 0,718 0,244 18,5 0,000 0,000 0,107 0,042 40 0,003 0,002 0,882 0,855 88 0,234 0,246 0,014 0,069 26 0,000 0,000 0,021 0,068 27 0,000 0,000 0,001 0,011 34 0,001 0,001 0,189 0,171 89 0,249 0,259 0,037 0,041 82 0,165 0,174 1,306 1,747 27 0,000 0,000 Per la descrizione estesa degli indici si veda l’appendice al capitolo 3. 194 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Appendice 2. Medie degli indicatori per forma istituzionale d’impresa, valori della statistica U di Mann-Withney e significatività esatta ed asintotica del test ad una coda (periodo 2000-2002). Indice indice n.1 indice n.2 indice n.3 indice n.4 indice n.5 indice n.6 indice n.7 indice n.8 indice n.9 indice n.10 indice n.11 indice n.12 indice n.13 indice n.14 indice n.15 indice n.16 indice n.17 indice n.18 Cooperative Imprese Valori Significativit Significativit Capitalistch della à asintotica à esatta e statistic aU 7,66 11,59 61 0,262 0,275 27,583 40,278 53 0,136 0,145 1,178 1,194 53 0,136 0,145 1,022 1,182 54 0,149 0,159 0,478 0,617 70 0,454 0,466 0,342 0,314 68 0,408 0,421 0,073 0,168 36 0,019 0,019 0,585 0,517 50 0,102 0,109 0,744 0,274 2 0,000 0,000 0,096 0,250 59 0,226 0,239 0,923 0,871 68 0,408 0,421 0,002 -0,130 42 0,040 0,044 0,004 0,194 57 0,191 0,205 0,001 -0,004 45 0,058 0,064 0,178 0,127 48 0,083 0,089 0,046 0,037 65 0,343 0,356 0,538 0,958 65 0,343 0,356 0,779 1,090 31 0,000 0,000 195 M U S E O V I R T U AL E D E L L A C O O P E R AZ I O N E www.movimentocooperativo.it P r e m i o d i l a u r e a “ C a r m e l o Az z a r à ” e d i z i o n e 2 0 0 3 _ 0 4 Gavino Mura “Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna” Bibliografia Alchian A., Demsetz H. 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