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ASSOCIAZIONE AVVOCATURA DI DIRITTO INFERMIERISTICO
Segreteria Nazionale
Ieri 29 aprile 2015 si è svolto a Modena (Pavullo del Frignano) un
convegno che ha analizzato gli strumenti giuridici e la
legittimazione a procedere del Collegio IPASVI per il recupero
delle somme pretese a titolo di iscrizione all’albo.
Un intervento da parte del responsabile infermieristico del
presidio ospedaliero di Modena, la cui presenza era stata
profetizzata perché non mancano mai i trascinatori e i polemici
nei nostri dibattiti, ha scombussolato momentaneamente
l’evento. Il vicepresidente dell’A.A.D.I., chiamato dal responsabile
per alcune affermazioni invece condivise da tutta la platea, ha
replicato evidenziando la totale ignoranza sulla questione da
parte del disturbatore che, anziché dibattere sulle questioni
giuridiche esposte, ha preferito addebitare ai relatori frasi mai
pronunciate, manipolandone il contenuto. Dopo il monologo,
del tutto incomprensibile, il responsabile infermieristico, minacciando velatamente alcuni
infermieri da lui gestiti, ha abbandonato la sala mentre alcuni colleghi delle prime file lo
redarguivano per l’evidente stile antidemocratico dimostrato.
I punti fondamentali che sono stati trattati e analizzati con ampio intervento dei partecipanti,
sono stati essenzialmente i seguenti:
- l’art. 13 del D.P.R. 05 aprile 1950 n. 221 individua la ratio sottesa la pubblicazione e, quindi,
l’iscrizione nell’albo professionale e cioè lo svolgimento dell’attività libero professionale che,
considerata l’abilitazione dello Stato al suo libero svolgimento, deve essere accreditata attraverso
un albo pubblico perché gli utenti possano verificare che una determinata persona dichiaratasi
infermiere, sia tale. L’albo esiste per consentire alla cittadinanza di fruire, con affidamento e
serenità, delle prestazioni offerte da un infermiere, previa verifica delle credenziali insiste nella
professione in parola. Ma anche l’infermiere subordinato può essere verificato attraverso l’albo? la
risposta è no! No per un duplice motivo. Il primo è perché nel momento in cui l’utente si pone in
contatto con un ente che eroga prestazioni sanitarie, il diritto di affidamento consente all’utente
stesso di presumere che ogni dipendente della struttura sia stato debitamente verificato dal
datore di lavoro al momento dell’assunzione e, maggiormente se si tratta di ente pubblico,
attraverso una selezione concorsuale previa produzioni di idonea documentazione attinente le
caratteristiche professionali richieste per lo svolgimento della professione di infermiere. Pertanto
l’infermiere che lavora all’interno di un ente, si presume abilitato dallo Stato e idoneo a prestare
attività professionale e non abbisogna di accreditarsi nell’albo. In secundis, nel rapporto
subordinato si inserisce un meccanismo denominato “immedesimazione organica” che consente
al lavoratore responsabile per colpa di aver cagionato danni all’utenza di vedersi manlevare dal
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proprio datore in ogni pretesa avversaria, attraverso la surrogazione dell’ente. Per tali motivi
anche le eventuali carenze amministrativo-accademiche, verranno risarcite dal datore per culpa
in vigilando o culpa in eligendo. Del resto le numerose sentenze di condanna per negligenza e
imperizia sofferte dagli infermieri, sono state comminate nonostante gli stessi risultassero
regolarmente iscritti al Collegio. Quindi, l’iscrizione al Collegio non garantisce alcuna certezza in
ordine alla competenza del professionista, ma solo che ha conseguito il titolo di studio richiesto
ed ha superato l’esame di abilitazione professionale, cosa che verifica anche il datore di lavoro nel
rapporto subordinato. Per tale motivo il Collegio agisce da garante nei confronti dell’utenza solo
nei riguardi del libero professionista;
- l’art. 348 C.P. utilizzato come unico deterrente contro il fenomeno dell’abusivismo professionale,
protegge il bene comune (per tale motivo è collocato tra i delitti della pubblica amministrazione e
non della persona) individuato nell’ “interesse generale della collettività a che la professione di
infermiere venga esercitata da chi possegga i requisiti di probità e competenza tecnica richiesta
dalla legis artis”. La tutela offerta dal 348 si limita a verificare il possesso del titolo di studio e
dell’abilitazione dello Stato quali minimum richiesti dalla legge per l’esercizio competente della
professione. L’iscrizione al Collegio supera tale limite perché non offre ulteriori garanzie se non
quelle di verifica dei titoli suddetti, verifica che però è operata dal giudice penale in caso di
contestazione ex art. 348. In poche parole, nel momento in cui si ottiene l’abilitazione dallo Stato,
l’interessato può esercitare la professionista dal punto di vista squisitamente tecnico perché non è
con l’iscrizione al Collegio che ottiene una competenza professionale ulteriore che prima non
aveva. L’iscrizione attiene a questioni essenzialmente interne alla comunità professionale non
potendo in alcun modo interferire con il bagaglio culturale, nozionistico e tecnico acquisito con il
corso professionale e verificato con l’esame di Stato. Pertanto l’abusivismo che per definizione è
limitato all’esercizio della professione di infermiere da parte di colui che non ne possiede i titoli
scolastici e abilitativi, non può sconfinare anche nelle questioni prettamente amministrative come
lo è l’iscrizione al Collegio;
- il rapporto di subordinazione che intercorre tra dipendente pubblico o privato e datore di lavoro
è di tipo sinallagmatico cioè a prestazione corrispettive per cui ogni tipo di attività inerente la
professione di infermiere, viene svolta, sovente, in regime di esclusività. L’esclusività impedisce
all’infermiere subordinato di esternare la propria attività professionale in ambiti che non siano
quelli posti a favore, in nome e per conto del datore di lavoro che, quale unico fruitore dei servizi
resi dall’infermiere, è l’unico legittimato a pretendere la prestazione lavorativa. L’energia psicofisica che viene spesa dall’infermiere viene spesa e consumata a beneficio del singolo datore di
lavoro, il quale, di converso, deve sostenere ogni spesa inerente l’attività lavorativa (acquisto
indumenti, pulizia degli indumenti, strumenti di lavoro, mensa, tempo tuta, ecc.). Difatti nel
momento in cui il lavoratore si pone a disposizione del datore, diventa strumento di quest’ultimo
quale mezzo per adempiere la prestazione dedotta nel contratto intercorrente tra azienda/ente e
utente. Pertanto l’infermiere non deve sostenere alcuna spesa per lavorare. Ergo anche la spesa
inerente l’iscrizione al Collegio IPASVI deve essere sostenuta dal datore di lavoro. Con tali
incontrovertibili premesse e deduzioni, il Collegio IPASVI non è legittimato a pretendere alcuna
somma dal lavoratore per cui qualsiasi azione recuperatoria sarà viziata da difetto di
legittimazione attiva;
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- per ultimo, la legge n. 43/2006 che prevede l’iscrizione anche del dipendente pubblico, cozza
contro l’ordinamento giuridico appena esaminato, sconvolgendo norme giuslavoristiche che,
contrariamente alla categoria dell’infermiere, si applicano a tutti gli altri professionisti.
Sembrerebbe che la legge n. 43 sia stata pilotata da forze dirette a obbligare gli infermieri
subordinati ad iscriversi al Collegio, a dispetto di tutte le altre professioni che non hanno questo
obbligo ed, anzi, addirittura non hanno né
un Collegio né un albo (es. fisioterapisti).
Eppure anche il fisioterapista potrebbe
cagionare un danno al paziente (V.
giurisprudenza in materia) ma il Governo si
è
interessato,
stranamente,
solo
dell’infermiere, come se ci fosse una certa
urgenza di inserire nell’albo (che nessuno
controlla) anche infermieri più che
preparati e competenti perché impegnati
in ospedali da decenni. E poi perché
l’IPASVI si affanna tanto a scomodare le
direzioni sanitarie per diffondere tra i
propri infermieri lettere minacciose fino al
licenziamento, il NAS per scovare chi non è
iscritto, il pubblico ministero per accertare
la responsabilità e il giudice per far
condannare infermieri che lavorano da
decenni in ospedale, e non ha mosso un
dito per trasformare il Collegio in Ordine?
Perché la legge non obbliga anche gli
infermieri
generici
riqualificati
in
professionale ad iscriversi? Proprio perché
non ha potere dentro le mura di un datore
di lavoro, anche se spesso collaborano
all’unisono per conseguire finalità comuni
o personali, come il controllo della
categoria che, se fosse più partecipativa sul
fronte collegiale, potrebbe rivoluzionare gli
assetti interni e sconvolgere gli equilibri
politico-sindacali raggiunti.
Tutto questo è stato dimostrato attraverso
specifiche sentenze e documenti inediti
che sono stati consegnati in cartellina a
tutti i partecipanti.
Il presidente Mauro Di Fresco ha ribadito
che
il
convegno non
ha
avuto
assolutamente l’obiettivo di indurre i colleghi alla cancellazione di massa ma, anzi, di aderire al
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Collegio partecipando attivamente alla sua vita associativa ma con una coscienza della realtà dei
fatti e del diritto che ci permette di non soccombere ad un Collegio che sa fare bene l’inquisitore
e l’esattore, ma molto male il garante della nostra dignità professionale e la tutela delle nostre
prerogative soprattutto in tema di lotta allo sfruttamento fisico e retributivo.
Il Collegio manda il NAS ad effettuare ispezioni nelle strutture sanitarie per verificare chi non sia
iscritto all’albo ma evita di chiedere, anche, che venga verificato l’organico e l’utilizzo di O.S.S. in
sostituzione degli infermieri, soprattutto la notte nelle cliniche private, dove gli O.S.S. praticano
fleboterapie, endovenose, ed altre attività infermieristiche. Probabilmente ciò nuocerebbe ai
padroni che, diversamente, dovrebbero assumere infermieri.
Vogliamo un Collegio attivo che sia concretamente un faro per gli infermieri e per raggiungere
questi obiettivi dobbiamo rimanere insieme al Collegio pressando continuamente perché migliori.
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Obbligo iscrizione collegio ipasvi