La maschera è un artefatto che si indossa per ricoprire l’intero viso o solamente gli occhi. È utilizzata fin dalla preistoria per rituali religiosi, rappresentazioni teatrali o feste popolari come il carnevale. Incerto l’estimo della parola: probabilmente deriva dal latino medioevale màsca, strega, tuttora utilizzato in tal senso nella lingua piemontese. Si trova traccia dell’origine del termine nell’antico alto tedesco ( leggi longobarde ) e nel provenzale masc, stregone. Dal significato originale si giunge successivamente a quello di fantasma, larva, aspetto camuffato per incutere paura. L’evoluzione linguistica portò probamente all’aggiunta di una ‘ r ‘ facendo assumere al termine la forma dapprima di mascra e successivamente di mascara. Alcuni studiosi hanno suggerito una derivazione dell’etimo dalla locuzione araba maschara o mascherata, buffonata, burla, derivante dal verbo sachira, deridere, burlare, importata nel linguaggio medievale dalle crociate. Tuttavia tale vocabolo è già presente in alcuni testi anteriori alle crociate. Altri vedono un possibile accostamento con il termine pregallico baska da cui abbiamo il verbo francese rabacher, fare fracasso. Si è dunque probabilmente giunti ad una sorta di processo di assimilazione all’interno del significante “maschera” sia dell’aspetto primordiale di “anima cattiva” o “defunto”, sia di un aspetto goliardico e festoso. Comune a innumerevoli popolazioni è l’utilizzo di tale simbolo sin dall’età arcaica, raramente sostituito, ma spesso affiancato da pitture corporali, tatuaggi o scarificazioni. Esso si configura come un’efficace mezzo di comunicazione tra gli uomini e la divinità, essendo uno strumento che permette di alienarsi dalle convenzioni spazio-temporali, al fine di proiettarsi all’interno di un mondo altro, divino, rituale, mistico. Colui che indossa la maschera perde la propria identità per assumere quella dall’oggetto rituale rappresentata. Durante il Paleolitico Superiore, come testimoniato da alcune pitture in Francia, nel Sahara e nell’Africa meridionale, la maschere furono associate a pratiche di magia omeopatica all’intero di danze antecedenti la caccia. Frequente è anche l’accostamento della maschera riti guerrieri o ancor più a pratiche funerarie. Un esempio significativo dell’uso funerario della maschera è presente presso la civiltà Egiziana ( cfr. pratica dell’imbalsamazione ), dove l’utilizzo di tali oggetti è attestato a partire dall’Antico regno, sino all’Epoca Romana ( I secolo d.C. ). Le maschere funerarie compaiono anche nelle tombe regali Micenee ( cfr. tomba di Agamennone ) ed attraverso i fenici si diffondono nelle zone occidentali d’influenza punica. Nella Grecia arcaica e classica la maschera non conserva la sua più diretta funzione funeraria, non viene più deposta sul volto del cadavere, ma resta pur sempre legata alla sfera della morte, dell’ira degli dei ( maschere rituali di divinità nel loro aspetto irato, esibite dai sacerdoti, in particolare durante rituali misterici ) o della natura selvaggia. In questa tipologia di impiego è spesso uno strumento di comunicazione con lo spirito del defunto per evitare che questi nuoccia ai congiunti. Testimone illustre dell’utilizzo rituale della maschera è Virgilio, che in un passo delle Georgiche ( Georgiche II, 380 sgg.) descrive le maschere indossate in onore di Bacco, in un clima celebrativo gioioso e spensierato, come “ora horrenda”. Tuttavia il rapporto fra maschera e morte si accentua nuovamente nel mondo ellenistico e all’interno dei culti misterici romani. La maschera di Sileno, ad esempio, diviene uno dei simboli per eccellenza della morte iniziatica ( cfr. affreschi della Villa dei Misteri a Pompei ); all’interno del contesto greco-romano possiamo così ritrovare l’interrelazione fra Sacro e profano, attuata per mezzo dell’uso teatrale della maschera. La consuetudine di utilizzare camuffamenti durante le cerimonie religiose esisteva anticamente pressa i Greci. Grazie al contributo di alcuni grandissimi scrittori, queste rappresentazioni religiose si trasformano gradualmente in rappresentazioni teatrali. A questi antichi attori le maschere greche offrivano diversi vantaggi. Grazie alle maschere un attore poteva sostenere diverse parti; inoltre gli attori maschi potevano sostenere parti femminile, data che alle donne non era permessa di recitare nei teatri. I lineamenti della maschera erano adatti al personaggio che doveva rappresentare: in questo modo si aiutava la spettatore a distinguere i personaggi e a capire meglio la trama. Infine la maschera era più grande della faccia dell’attore e in questo modo riusciva ad amplificare la sua voce. Nel Medioevo si diffuse in tutta Europa l’uso di fare grandi e festosi cortei mascherati, che percorrevano le vie delle città. Durante il Carnevale medievale l’uso del travestimento permetteva di abbattere le barriere sociali della ricchezza e del rango: in questo periodo dell’anno il ricco, mascherato da povera, poteva permettersi certi comportamenti non concessigli nella vita quotidiana ed il povero, travestito naturalmente da ricco, poteva accedere a luoghi di solito proibiti ed avvicinare persone inaccessibili. In questa immagine viene rappresentata la struttura di un teatro greco. Si può ammirare nell’immagine dove si trovava l’orchestra, la cavea ( palchi ), il corridoio, le scale che portavano alle gradinante e infine le skenè ( dietro palco ). L’immagine qua in basso, invece mostra il teatro greco in tutto il suo splendore… ( si possono ammirare tutte le parti viste nell’immagine precedente). Nel teatro greco le maschere avevano la doppia funzione di caratterizzare il personaggio e che da fungere da cassa di risonanza sonora per amplificare la voce e rendere più udibili i dialoghi. Il teatro osco, una forma di teatro diffusa nel centro Italia prima della conquista romana usava caratteri fissi per i personaggi rappresentati da maschere. La commedia dell’arte ( commedie italiane ) fa uso di maschere che si estendono, diventano costumi e ricoprono tutto il corpo. L’uso di maschere è adottato nelle forme di teatro tradizionale di tutto il mondo. Nacque ad Atene nel 525 a.C. Di stirpe Ateniese, del demo di Eluse, era un uomo di nobile famiglia. Visse 63 anni durante i quali compose circa 70 drammi e inoltre 5 drammi satireschi. Ottenne in tutto 13 vittorie, l’ultima delle quali nel 458 con la trilogia “Oreste”. Amato ed apprezzato anche dopo la sua morte fu sempre considerato un uomo molto valoroso. Partecipò alla battaglia di Maratona e , insieme al fratello Cinegiro, della battaglia terrestre di Platea. Se ne andò poi pressa Perone, secondo alcuni perché sottovalutato dagli Ateniesi e superato dal più giovane Sofocle, secondo altri superato invece da Simonide nel lamento funebre per o morti di Maratona. Giunto dunque in Sicilia al tempo in cui Ierone stava fondando Etna, rappresentò le etnee augurando una vita felice a tutti i coloni della città. Fu profondamente stimato dal tiranna Ierone e dagli abitanti di Gela. Si dice che dopo tre anni ( nel 462 a.C.) morì lì nel seguente modo: un’aquila impadronitasi di una tartaruga, poiché non era in grado di aver la meglio sulla preda, la lasciò cadere sulle pietre per spezzare il guscio, ma quella precipitando sul poeta, la uccide. Gli abitanti di Gela dopo la sua morte gli resero onori grandiosi, seppellendola con grande sforza in un pubblica sepolcro. Gli ateniesi a loro volta avevano tanto amato Eschilo che dopo la sua morte decretarono che chi avesse desiderato mettere in scena le opere di Eschilo avrebbe ricevuto il necessario per l’allestimento. Fanti per le notizie biografiche sono: il Mormor Parium, la Suda, una biografia anonima, Aristofone nelle Rane. Nel teatro greco il costume più frequente indossato dagli interpreti della tragedia era una lunga veste dalle maniche lunghe fino ai polsi detta syrma, mentre gli attori comici avevano un finto ventre imbottito e portavano una tunica corta dalla quale sporgevano una tunica corta dalla quale sporgeva un grosso fallo. Il costume, spesso confezionato con tessuti variopinti e riccamente decorati, era completato dai coturni, calzature con la suola molto alta chiuse con delle fibbie e, nelle rappresentazioni tragiche, dall’onkos, una particolare acconciatura. I personaggi stranieri erano caratterizzati da vesti più elaborate e realistiche, e gli dèi dalle proprie particolari insegne, come ad esempio i sandali alati per Ermes. Tutto inizia con la lettura di un messaggio del centro “Erving Goffman” , che paragona la vita quotidiana ad una rappresentazione teatrale: ossia gli individui, secondo Goffman, recitano una parte e mettono in scena una rappresentazione a second a dl contesto in cui si trovano. Questa idea, anche se in chiave sociologica, si potrebbe forse considerare simile a quanto teorizzato da Pirandello con le “ Maschere Nude”. Così è nata una discussione sia a scuola sia negli ambienti frequentati da noi studenti. Le domande ricorrenti sono state: • Secondo voi è corretta la concezione di Goffman? • Cosa ne pensate? • Riscontrate questi atteggiamenti nella quotidianità? • Indossate anche voi delle maschere? • E se le indossate , perché lo fate? Le risposte più significative sono state le seguenti. Questo è un problema che mi sono posta più volte…eppure, anche se non ritengo che la vita sia una gran recita, credo che tutti indossiamo a volte una qualche maschera.Questa può esserci imposta dagli altri, o da una situazione particolare e, talvolta, può diventare il modo più semplice per difenderci dal mondo esterno Noi indossiamo maschere nella vita reale e come attori, interpretiamo i vari ruoli di noi stessi;cambiamo maschere a seconda degli eventi e delle persone con cui abbiamo a che fare. Anche nel lavoro, in famiglia, con gli amici…nessuno,credo,è veramente solo sé stesso. La maschera è una bugia… e una bugia detta a se stessi genera illusione. Credo che sia vero il fatto che si stia ogni momento della nostra vita su una specie di palcoscenico. Di solito diciamo a noi stessi che siamo noi i protagonisti, mentre gli altri sono solo comparse nella grande rappresentazione della nostra vita. Perciò, come attori protagonisti dobbiamo gestire il nostro copione a seconda di chi abbiamo davanti. A volte dobbiamo gestire delle “ comparse” che vogliono fare le “ prime donne” e che, per un motivo o per l’altro, hanno una rilevanza che non possiamo sottovalutare: in tali circostanze , ci troviamo ad assumere atteggiamenti che non ci appartengono, come l’essere accondiscendenti. Spesso indossiamo “ maschere di tolleranza “ con chi suscita in noi una insofferenza insopportabile. Riscontro questo soprattutto in una “scena” come gli ambienti di lavoro. Nel lavoro c’è la “ maschera remissività” per non essere licenziati . In altre situazioni, invece, non c’è bisogno di maschere. Quelli con cui si gioca a viso scoperto sono gli amici: a loro non devi far vedere quelle parti improbabili, che devi interpretare in tanti momenti della tua vita; con loro puoi stenderti dietro le quinte o nei camerini puoi essere te stesso e, contemporaneamente, sfuggire la finzione quotidiana osservando con gioia e con una senso di leggerezza quelle maschere finalmente inutilizzare. • Il mondo è sempre stato cosi ……. Le sue origini sono molto antiche: la prima testimonianza risale ad un documento del Doge Vitale Falier del 1094, dove si parla di divertimenti pubblici e nel quale il vocabolo Carnevale ciene citato per la prima volta. L’istituzione del carnevale da parte delle oligarchie veneziane è generalmente attribuita alla necessità della Serenissima, al pari di quanto già avveniva nell’antica Roma , di concedere alla popolazione, e soprattutto e ai ceti più umili, un breve periodo dedicato interamente al divertimento e ai festeggiamenti, durante il quale i veneziani e i forestieri si riversavano in tutta la città a far festa con musiche e balli sfrenati. Attraverso l’anonimato che garantivano maschere e costumi, si ottené una sorta di livellamento di tutte le divisioni sociali ed era autorizzata persino la pubblica derisione delle autorità e dell’aristocrazia. Evidentemente tali concessioni erano largamente tollerate e considerate un provvidenziale sfogo alle tensioni e ai malumori che si creavano inevitabilmente all’interno della Repubblica di Venezia, che poneva rigidi limiti su questioni come la morale comune e l’ordine pubblico dei suoi cittadini. Il primo documento ufficiale che dichiara il Carnevale di Venezia una festa pubblica è un editto del 1296, quando il Senato della Repubblica dichiarò festivo il giorno precedente la Quaresima. In quest’epoca, e per molti secoli che si succedettero, il Carnevale durava sei settimane, dal 26 dicembre al Mercoledì delle Cenere, anche se i festeggiamenti talvolta venivano fatti cominciare già i primi giorni di ottobre. Indossando maschere e costumi era possibile celare totalmente la propria identità e si annullava in questo modo ogni forma di appartenenza personale a classi sociali, sesso, religione. Ognuno poteva stabilire atteggiamenti e comportamenti in base ai nuovi costumi ed alle mutate sembianze. Per questo motivo, il saluto che risuonava di continuo nell’atto di incrociare un nuovo “personaggio” era semplicemente Buongiorno signora maschera. La partecipazione gioiosa e in incognito a questo rito di travestimento collettivo era, ed ă tuttora, l’essenza stessa del Carnevale. Un periodo spensierato di liberazione dalle proprie abitudini quotidiane e da tutti i pregiudizi e maldicenze, anche nei propri confronti. Si faceva tutti parte di un unico ed immenso corteo di figure e colori. Con l’usanza sempre più diffusa dei travestimenti per il Carnevale, a Venezia nacque dal nulla e si sviluppò gradualmente un vero e proprio commercio di maschere e costumi. A partire dal 1271, vi sono notizie di produzione di maschere, scuole e tecniche per la loro realizzazione. Cominciarono ad essere prodotti gli strumenti per la lavorazione specifica dei materiali quali argilla, cartapesta, gesso e garza. Dopo la fase di fabbricazione dei modelli, si terminava l’opera colorandola e arricchendola di particolari come disegni, ricami, perline, piumaggi e quant’altro. I cosiddetti mascheri, che divennero veri e propri artigiani realizzando maschere di fogge e fatture sempre più ricche e sofisticate, vennero riconosciuti ufficialmente come mestiere con uno statuto del 10 aprile 1436, conservato nell’Archivio di Stato di Venezia. Uno dei travestimenti più comuni nel Carnevale antico, soprattutto a partire dal XVIII secolo, rimasto in voga ed indossato anche nel Carnevale moderno, è sicuramente la Bauta ( da pronunciarsi con l’accento sulla u ). Questa figura, prettamente veneziana ed indossata sia dagli uomini che dalle donne. È costituita da una particolare maschera bianca denominata larva sotto ad un tricorno nero e completata da una avvolgente mantello scuro chiamato tabarro. La bauta era utilizzata diffusamente durante il periodo del Carnevale, ma anche a teatro, in altre feste, negli incontri galanti ed ogni qualvolta si desiderasse la libertà si carteggiati, garantendosi reciprocamente il totale anonimato. A questo scopo la particolare forma della maschera sul volto assicurava la possibilità di bere e mangiare senza doverla togliere. Un altro costume tipico di quei tempi era la Ganga, semplice travestimento da donna per gli uomini, facile da realizzare e d’uso piuttosto comune. Era costituito da indumenti femminili di uso comune e da una maschera con le sembianze da gatta, accompagnati da una cesta al braccio che solitamente conteneva un gattino. Il personaggio si atteggiava da donnina popolana, emettendo suoni striduli e miagolii beffardi. Interpretava talvolta le vesti di balia, accompagnata da altri uomini a loro volta vestiti da bambini. Molte donne invece, indossavano un travestimento chiamato Moretta, costituito da una piccola maschera di velluto scuro, indossata con un delicato cappellino e con degli indumenti e delle velature raffinate. La Moretta era un travestimento muto, poiché la maschera doveva reggersi sul volto tenendo in bocca un bottone interno ( e per questo motivo chiamata anche servetta muta). Accompagnano i mamuthones, indossano un giubbetto di panno rosso, abbracciato trasversalmente da una cintura con bubboli di bronzo e ottone. Portano calzoni di tela bianchi ( un tempo in velluto scuro), un variopinto scialletto sfragiato sui fianchi, una berritta tenuta legata da un fazzoletto annodato sul viso.Gli issohadores portarono in mano su soha, una fune di giunco. Alcuni ( quelli che si affidano a una particolare interpretazione dell’a una particolare interpretazione dell’esibizione) hanno il viso coperto da un’austera maschera bianca. Il Carnevale sardo si presta ad interessanti considerazioni. Si tratta di uno dei momenti in cui la festa e il rito si esprimono con più rigoglio. Il Carnem Levare, ovvero dire addio alla carne, è tradizionalmente il periodo che prepara la comunità festante all’arrivo delle riflessioni e delle penitenze religiose della Quaresima. Ad essa è legato uno dei riti più importanti della storia dell’Europa: quello del mondo alla rovescia. In un certo periodo dell’anno le principali convenzioni sociali e religiose sono sospese o, meglio, rivoltate, in una sorta di licenza collettiva in cui è lecito ciò che non è permesso durante l’intero anno, secondo l’antico motto latino semel in anno licet insanire una volta all’anno è lecito uscire da sé. Riferendoci alla famosa processione a Mamoiada dei mamuthones e degli issocadores, sorta di capri antropomorfi che corrono rumorosi e inafferrabili per le vie cittadine, si riscontrano dei mascherati analoghi sia in Grecia che in Spagna oltre che con le molte varietà alpine e germaniche di mascheramenti lignei. Ma nel carnevale sardo oltre i mascheramenti, si hanno cacce, giochi di abilità, parodie della morte con analogie plurime con altre zone europee e mediterranee. A questo proposito la Sartiglia di Oristano è invece la testimonianza di un’altra parte importante della storia dell’isola e fa riferimento alla nobile tradizione cavalleresca italiana. Cavalli e cavalieri in preziose fogge si sfidano nella corsa per infilzare con la lancia il maggior numero di stelle d’argento. A capo della corsa la splendida figura di su Componidori, elegantemente vestito secondo un complesso rituale che culmina nella vestizione della maschera tradizionale. Il carnevale che sopravvive all’interno dell’isola si presenta con tratti assai arcaici. Non ha niente a che fare con i carnevali trasgressivi che comportano travestimenti e capovolgimenti di ruoli. É un carnevale tragico e luttuoso, basato sul concetto di morte e rinascita, teso alla richiesta della pioggia e alla commemorazione di Dioniso, dio della vegetazione e dell’estasi, che ogni anno muore e rinasce nel ciclo naturale dell’eterno ritorno. La parola carrasecare (carre de seccare), con la quale si designa il carnevale sardo, etimologicamente significa carne viva da smembrare. I seguaci di Dioniso infatti laceravano capretti e torelli vivi per ricordare la morte del dio che era stato sbranato dai titani. Osservare le arcaiche maschere dell’interno della Sardegna, vestite di pelli, cariche di campanacci o di ossi animali, col volto annerito dal sughero bruciato o coperto da una maschera nera, significa fare un tuffo nella preistoria. Mimano la passione e la morte di Dioniso Mainoles, il cui nome in Sardegna si è corrotto in Maimone, nome che viene dato genericamente a tutte le maschere. Le maschere si muovono in una sorta di danza zoppicante che rappresenta lo squilibrio deambulatorio tipico delle feste dionisiache. Di questo culto è rimasta la gestualità, il ritmo, gli strumenti sonori e quelli agricoli che le maschere si portano dietro, nonché il laccio per catturare la vittima e la soga con cui veniva legata. Questa vittima viene generalmente presentata sottoforma di capro, toro, cervo, cinghiale, tutte ipostasi di Dioniso che sotto questi aspetti si manifestava. I carnevali tradizionali rappresentano tutti questo rito. Ombre silenti, misteriosi personaggi, i mamuthones nascondono la loro sembianza dietro la maschera, sa bisera. Sa baisera è nera, di legno si usa quello di pero selvatico ( ma oggi anche quello d’ontano) con naso, mento e zigome fortemente pronunciati e con due fori per occhi e bocca. La testa è coperta da un fazzoletto marrone annodato sotto il mento. Sa bisera, drammatica e grottesca, priva di qualsiasi carattere antropomorfo, è immagine di silenzio e impassibilità. Su pelli nere di pecora che nascondono il consueto abito di velluto marrone, i mamuthones portano sa garriga, un sonoro groppo di campanacci ( su ferru), trenta chili di strepito che neutralizzano il silenzio dei volti. Davanti poi, un grappolo di campane, tenute insieme da cinghie di cuoio. Nei confronti della maschera la cultura medievale presenta una sorta dicotomia, sia negli ambiti entro cui ha occasione di manifestarsi, sia nelle funzioni che essa assume. L’atto di mascherarsi va infatti considerato in relazione allo sdoppiamento che osserviamo nella struttura sociale medievale: da una parte la cultura ufficiale ecclesiastica condanna tutto ciò che è riconducibile al mascheramento come un atto legato all’occultamento dell’identità, assimilando la maschera, sotto l’egida di una visione unilaterale e monologa, ad un veicolo di una rappresentazione dell’ingannatore per eccellenza, figura della menzogna e della doppiezza, ossia il demonio. Ma proprio quest’idea di ambiguità ed ambivalenza sfocia nel valore positivo della maschera stessa, esperita negli strati popolari e in un contesto essenzialmente folklorico - rurale come avente una funzione rituale - propiziatoria, con un forte valore esorcizzante nei confronti di ciò a cui la maschera, intesa in questo senso, riconduce: la morte. La funzione della maschera è dunque principalmente rappresentativa di un mezzo di comunicazione con l’Aldilà, rivelazione della presenza dell’altro; l’inscindibile rapporto con la morte e il mondo dei morti, da cui il suo valore propiziatorio ed esorcizzante, mostra il suo rapporto coi massicci residui di paganità presenti nelle zone rurali: la cultura ufficiale legge come strumento propagatore di falsità ed inganno ciò che, invece, si presenta anzitutto come un potenziamento dell’identità. E’ necessario separare le testimonianze della cultura ufficiale, vale a dire quelle riconducibili all’ambito clericale dai secoli XI e XII in poi, da quelle di ambito più laico ed cittadino; con la rinascita dell’ undicesimo secolo, infatti, l’esperienza della maschera assume sempre più una connotazione urbana dall’originaria provenienza rurale tradizionale, pur continuando a mostrare il forte legame con il primario valore magico e propiziatorio. Si spiega dunque così la penuria di testimonianze iconografiche e/o letterarie, grazie alle quali possiamo verificare i modi e i momenti nei quali ricercare la presenza della maschera: se, da una parte, tutto ciò che veniva avvertito come residuo della cultura pagana veniva sistematicamente censurato e passato sotto silenzio dalla cultura ecclesiastica, dall’altra anche il versante più l'aico', rappresentato soprattutto dai testi teatrali e dalle (poche) testimonianze provenienti dai manoscritti, risulta comunque più o meno mediato dalla cultura ufficiale. A questo proposito, sono molto utili le notizie che apprendiamo dai libri penitenziali, raccolte dei principali peccati e corrispondenti penitenze ad uso dei sacerdoti per la confessione dei fedeli, accanto a tutto ciò che possiamo trarre dai maggiori esempi della letteratura del tempo (Roman de Renard, Tristano ecc.), da considerarsi sotto una complessa e feconda dialettica fra identità, alterità e alienazione dell’identità. Si possono difatti individuare tre grandi raggruppamenti nelle tipologie delle maschere medievali: 'spettrali', animali, umane. Le maschere spettrali rappresentano il settore entro cui nota maggiormente quel legame che unisce la maschera alla morte; la forma più elementare si ottiene annerendosi il volto ( con evidente rimando al cadavere), atto che V.J. Propp identifica come la discesa della divinità che favorisce la fertilità nel periodo compresso fra la semina e il raccolto. A questa tipologia vanno anche ascritti le maschere e i travestimenti caratterizzati da un’accentuata villosità, anch’essi facilmente riconducibili ad una tipologia diabolica e altresì connessi con la figura dell’uomo selvatico, che ricopre un ruolo di primario interesse etno antropologico per tutta la cultura occidentale. La tipologia ferina invece ved il prevalere della figura del cervulus, anch’esso portatore di molteplici significati, sedimentati nel corso dei secoli sotto una generica rappresentazione dell’immortalità, dovuta alle facoltà di rigenerazione delle corna; le stesse corona che, come anche avviene per la capra, cerbiatta, la giovenca, sono lette dalla Chiesa come simbolo demoniaco. Più complessa è invece la questione della giovenca o vitula: alla base dell’incertezza su una sua possibile presenza nel novero delle maschere di tipologia ferina sta una questione etimologica ( vitula oppure la ventula, cioè vecchia, della maggior parte delle testimonianze pervenute?). In ogni caso il senso originario di questi mascheramenti va ricercato alla volontà di integrazione con la natura e i suoi ritmi, per favorire la fertilità agraria oppure per esplicitare legami ancestrali connessi alla caccia e/o a parentale di tipo temico. Infine, la tipologia umana si manifesta corrispondentemente alla scansione delle feste prossime al periodo di capodanno ( kalendae januarie ), e, in modo specifico, alle ricorrenze dove si manifestano momenti di carnevalizzazione della cultura come la Festa dei folli, che comportava l’elezione di un diacono alla carica di abate o Vescovo, appunto, dei folli, o la Charivari. Alcune testimonianze iconografiche ad es. miniature di un codice contenente il Roman de Fauvel e, soprattutto, divieti e condanne contenuti in encicliche del XIII secolo, mostrano il consueto rovesciamento dei ruoli che pertiene al rito carnevalesco: uomini travestiti da donne e viceversa, esibizione delle parti basse del corpo, oppure caricature di abiti monacali e grottesche mimesi delle funzioni religiose e così via. Il Carnevale è sempre stato e sempre sarà il sinonimo della licenziosità, del divertimento estremo, dello sfarzo nel gioco, nel travestimento e nella tavola. Anticamente i festeggiamenti legati a questa manifestazione profana e folcloristica duravano più di un mese, a partire dal giorno seguente l'Epifania e fino al giungere della più triste ed austera Quaresima, ma dopo il terremoto dell'undici gennaio 1693 la durata della festività incominciò ad esser ridotta ed attualmente essa dura una settimana da anteporre alla Quaresima che essa anticipa. Da sempre la festa ha rappresentato lo specchio delle condizioni sociali, politiche e civili dei tempi, nonché tempio e massima rappresentazione della trasgressività. Il termine utilizzato per designare la festa si ricollega a quello latino "Carnem Levare", cioè al divieto ecclesiastico di consumare carne durante il periodo quaresimale. Le origini della festa pagana per eccellenza sono antichissime: il periodo in cui si svolge fa pensare alla festa ateniese a sfondo dionisiaco delle Attesterei (fine di febbraio), quella ellenistica che si basa sulla processione del carronate di Iside che anticamente si svolgeva agli inizi di marzo e soprattutto ai Saturnali latini. Le prime notizie storiche certe sul Carnevale siciliano risalgono al 1600 e riguardano la città di Palermo e, col passare degli anni, la ricorrenza assunse sempre più sfarzo nella preparazione degli addobbi, dei costumi e delle maschere e potere sul desiderio collettivo di evadere dalla routine e dal quotidiano. Anticamente in Sicilia si poteva assistere a delle danze particolari, come quella "degli schiavi" durante la quale i partecipanti, travestiti appunto da schiavi, ballavano per le strade pubbliche al suono di antichi strumenti turchi come i tamburi, o la così chiamata "Balla-Virticchi" per la quale i partecipanti si travestivano da pigmei e trattenevano il popolo. Tra le maschere siciliane più caratteristiche del passato occorre decisamente ricordare quelle dei "Jardinara" (giardinieri) e dei "Varca" note soprattutto nella provincia di Palermo e quelle dei "briganti" e quella del "cavallacciu" note soprattutto nel catanese. Tra le altre maschere tradizionali del passato si possono ricordare quelle che servono da parodia ai maggiori esponenti delle classi sociali cittadine: si hanno così le innumerevoli rappresentazioni dei "Dutturi", dei "Baruni" e degli "Abbati". Si può citare, ancora, la vecchia maschera della "Vecchia di li fusa" presente anticamente nella Contea di Modica. Si tratta di un travestimento per diventare, attraverso l'uso di una gonna sgualcita, un mantello che si annoda al collo ed un velo che parte dal capo, il simbolo della prossima morte del Carnevale. Sempre in prossimità della città di Modica - Rg -, si trovano le città di Monterosso e Giarratana. Qui le maschere di Carnevale del passato più rappresentative erano quelle dei " 'Nzunzieddu", cioè insudiciati, maschera così chiamata perché chi la impersona ha il viso sporco di fumo e terra rossa. Anche il fasto culinario legato al Carnevale è un degno segnale dell'abbondanza della ricorrenza: durante questa settimana si fa largo uso di sughi di carne e di pietanze elaborate, come i "maccheroni al ragù" (pasta in casa preparata con 500 grammi di farina e qualche uovo e condita, appunto, con il ragù preparato con cotenna di maiale e spezie) e l'antico "Minestrone del giovedì grasso" preparato nella Contea di Modica (prevede di unire non solo le classiche verdure come le patate, le fave secche sgusciate, una cipolla, prezzemolo, sale e pepe, ma anche il lardo di maiale privato di cotenna e tagliato a cubetti), di dolci ricchi come le "Teste di Turco" (delle frittelle dolci ripiene di crema ed uva passa prodotti a Modica RG ) e dolci meno elaborati come la "Pignoccata" (dolce preparato impastando farina, tuorli, zucchero ed un pizzico di sale; l'impasto così preparato è tagliato in tocchetti successivamente fritti in sugna bollente, sgocciolati e decorati con miele allentato con acqua d'arance e spolverati di cannella spellata; il dolce prende questo nome perché assume la forma di pigna). Ultimo aspetto legato alla festa in questione riguarda alcune antiche tradizioni che, purtroppo, oggi non hanno più la stessa forza e lo stesso fascino del passato. Si sta parlando, ad esempio, dell'antica abitudine di raccontare indovinelli in dialetto, spesso apparentemente lascivi e ricchi di doppi sensi ma che spesso avevano una soluzione più ingenua di quello che poteva sembrare. Attualmente l'abitudine di festeggiare il Carnevale è ancora molto sentito in tutta l'isola. Molte sono le feste organizzate dai privati, ma ancora più numerose sono quelle organizzate in forma pubblica e che possono vantare una secolare tradizione. Iniziando una carrellata delle varie manifestazioni presenti in tutta l'isola, si può parlare dei festeggiamenti attuati a Palazzolo Acreide Sr. Qui il Carnevale si festeggia per sei giorni di seguito attraverso le sfilate di carri allegorici, la partecipazione delle tipiche maschere siracusane come i "cuturri", vari veglioni e grandi abbuffate a base di "Cavatieddi" (un tipo di pasta condita con il sugo di maiale), la salsiccia ed il crostino di trota. Qui il carnevale è all'insegna della spontaneità e del coinvolgimento totale di tutta la cittadinanza che degnamente contribuisce alla riuscita dell'unica rappresentazione, nel suo genere, in tutta la provincia siracusana. Conoscere le origini di questa ricorrenza cittadina è un'impresa ardua, come del resto per molte altre città isolane, ma sicuramente l'evento va ricordato perché il coinvolgimento del pubblico è totale e perché si possono ammirare numerosissime maschere. Un'altra festa di Carnevale si attua nella città di Termini Imerese - Pa -. Anche qui si attua la sfilata dei carri allegorici che rappresentano una satira dei vari personaggi del mondo della politica e dello spettacolo, balli vari ed il rogo dei due fantocci del "nannu" e della "nanna", evento che sancisce la fine dei festeggiamenti e dell'allegria. Successiva interessante manifestazione siciliana del Carnevale è "Il Mastro di Campo", una pantomima che si svolge nella pubblica piazza e che coinvolge tutta la città di Mezzojuso – Pa. L'evento ha delle origini antiche visto che la sua esistenza è attestata sin dal XVII secolo e prevede che un figurante abbia il volto coperto da una maschera rossa e che cerchi di conquistare la sua amata regina arroccata nel suo castello. Per alcuni l'evento ricorda Bernardo Cabrera che, nel 1412, scalò il Palazzo Steri a Palermo per conquistare Bianca di Navarra, la regina che egli amava. In realtà il paragone presenta delle incongruenze storiche perché nella realtà la regina non ricambiava tali sentimenti. Tale pantomima tragicomica prevede, inoltre, l'intervento di circa sessanta figuranti vestiti con costumi risalenti al XV secolo. Nel corso dei secoli, vista l'età della manifestazione, l'evento ha subito delle modifiche, come l'intervento di "Garibaldi" e di alcuni suoi uomini che si ha a partire dagli inizi del 1900. La partecipazione dell'eroe dei due mondi e dei suoi uomini è molto attiva: i garibaldini ingaggiano una bella battaglia con le guardie saracene del castello. Altri caratteristici personaggi di tale pantomima sono gli alleati del Mastro di Campo, i briganti ed i guerriglieri rappresentati dal gruppo del Fortori che vogliono sovvertire l'ordine rappresentato dalla Corte del Re ed il "Diavolo Pecoraio", un figurante rivestito di pelli di pecora che rappresenta il reale avversario dell'eroe della pantomima. Alla fine della pantomima, così come vuole la tradizione delle favole più belle, Mastro di Campo riesce a conquistare la sua amata. Il Carnevale di Sciacca - Ag - probabilmente è una delle manifestazioni più note di tutta la Sicilia. In questa città alle falde del Monte San Calogero il Carnevale, dopo qualche anno di declino, è diventato un vero e proprio richiamo per i turisti, nonché occasione di divertimento e coinvolgimento per tutta la cittadinanza. Il travestimento e la sfarzosità dei carri ha fatto di questo evento in questa città una delle manifestazioni più importanti, tanto da diventare uno dei carnevali più famosi d'Italia. L'evento ha delle origini antiche visto che risale al 1800, quando la festa era l'occasione non solo per preparare ed abbellire carri allegorici e dar libero sfogo all'allegria, ma anche per dedicarsi ai "peccati di gola" abbuffandosi con vino, salsiccia, maccheroni al sugo e cannoli di ricotta. I carri allegorici qui preparati hanno subito delle positive innovazioni tecnologiche, prevedono il coinvolgimento di architetti, artigiani della ceramica e scultori per diventare così delle imponenti strutture per le rappresentazioni satiriche dei vari personaggi del nostro tempo. Le varie manifestazioni iniziano in città il giovedì grasso con la consegna delle chiavi della città alla maschera "Peppe Nnappa". I momenti centrali della manifestazione si hanno con la sfilata dei carri allegorici, evento che inizia il sabato per terminare il martedì. La sera del martedì, dopo giorni dedicati al canto ed al ballo, si concludono tutti i festeggiamenti con il rogo del carro di "Peppe Nnappa" che brucia insieme ai fischietti ed ai martelletti. Anche la cittadina di Bronte Ct -, molto nota per l'ingente produzione dei pistacchi ai quali è dedicata una oramai famosa sagra, festeggia il Carnevale. Mentre in passato tale manifestazione prevedeva l'intervento, nelle pubbliche strade cittadine, dei "Laddatori" - delle maschere locali che rappresentano le classi più povere della città -, attualmente il Carnevale brontese prevede, sempre per le vie cittadine, la sfilata dei carri e dei gruppi mascherati. Il Carnevale di Misterbianco - Ct - si è notevolmente modificato nel corso degli anni, ma è sempre rimasto un punto fermo nella città per offrire una reale occasione di divertimento e di rottura dalla quotidianità. Mentre in passato c'era l'abitudine di allestire un palco da dove una banda musicale allietava i partecipanti alla festa con allegre e ballabili musiche, di effettuare dei giochi e di vedere le donne, ben mascherate, invitare amici a ballare e per farsi offrire delle leccornie, attualmente i festeggiamenti prevedono la sfilata di oltre settecento maschere. Quest'ultima manifestazione si effettua la domenica antecedente quella di Carnevale, la domenica di Carnevale ed il martedì grasso. La preparazione dei costumi, tra l'altro di pregevole fattura, richiede una lunga lavorazione che dura numerosi mesi e l'abbondante utilizzo di materiali pregiati e ciò contribuisce a fare della manifestazione un vero fiore all'occhiello della città. La sfilata delle maschere coinvolge vari comitati che ogni anno rappresentano un tema diverso da quello precedentemente realizzato e da quello simboleggiato da altri gruppi. Il Carnevale di Paternò - Ct - ha perso parte del suo antico smalto e fasto, ma resta comunque sempre una piacevole ricorrenza cittadina. Anche in questo caso si può assistere alla sfilata di carri allegorici e gruppi in maschera e di ascoltare la musica per le vie cittadine come avveniva nel passato, ma si è persa l'antica abitudine di vedere le donne vestite con mantelli neri e maschere per poter invitare, senza farsi riconoscere, a ballare gli uomini. Il Carnevale di Acireale - Ct - ha delle origini molto antiche che, si presume, risalgono alla festa del compatrono San Sebastiano inaugurata nel XVII secolo, in pieno dominio aragonese, e che diventò ben presto un'occasione di festa pubblica con giochi, mascherate e spettacoli vari. Nel 1800, inoltre, c'erano sfilate di carri nobiliari dai quali i nobili del posto, appunto, lanciavano leccornie al popolo. Soltanto nel 1929 la festa assume una forma organizzata e, col passare degli anni, diventa sempre più sfarzosa ed imponente tanto da diventare una tappa quasi obbligata per chi vuol trascorrere qualche giorno di euforia prima dello avvento della Quaresima. Ogni anno si ha la sfilata di carri allegorici infiorati costruiti in cartapesta, di gruppi folcloristici e mascherati, l'esibizione di cantanti e di majorettes, l'esecuzione di giochi popolari nonché l'attiva partecipazione degli abitanti della città e di numerosi turisti. Il Carnevale celebrato a Belpasso CT - prevede, oltre alla consueta rottura della quotidianità ed istituire un momento gioioso di svago e di divertimento puro, vari e distinti momenti celebrativi. Si comincia con il recital dei poeti dialettali locali, si continua con la tradizionale ma sempre affascinante sfilata dei gruppi in maschera costituiti, in buona parte, dalle associazioni culturali cittadine e si conclude con l'intero coinvolgimento delle maschere nella pubblica piazza per ascoltare della buona musica dal vivo e per lasciarsi trascinare nelle danze. Naturalmente anche il capoluogo siciliano ha il suo carnevale. Come gli altri, anche il Carnevale di Palermo ha un passato glorioso alle spalle costituito da cortei che prevedono la presenza di costumi barocchi, palii allegorici, dalle commedie rappresentate in piazza. Il momento magico di questa manifestazione si è visto soprattutto nel 1700 quando la festa coinvolgeva proprio tutti, dai nobili al popolino. Tutte le vie cittadine, soprattutto quelle principali come il "Casaro" e la "Strada Nuova", erano teatro dei festeggiamenti e delle così chiamate "Carrozzate", cioè le sfilate delle carrozze patronali che ospitavano i nobili del luogo che amavano mescolarsi col popolo per vivere in prima persona la festa.Per non parlare poi dei teatri cittadini, il regno incontrastato dei giochi e dei balli in maschera. Attualmente, la festa palermitana del Carnevale può esser intesa come recupero della memoria e delle antiche ma sempre valide tradizioni che hanno reso famosa la ricorrenza, ed anche come valorizzazione delle bellezze architettoniche cittadine visto che l'evento si svolge lungo le vie cittadine principali. Il Carnevale di Corleone - Pa - ha come simbolo la maschera di "Riavulicchio", simbolo della rinascita della festività collegnese un tempo sepolta per ragioni di ordine pubblico e da qualche anno ripresa per l'esigenza popolare di divertimento e di rottura con la triste e monotona quotidianità. Nel passato cittadino la festa aveva un sapore più popolare e vedeva la presenza di numerosi "Riavulicchi" che scorrazzavano incontrastati in branco per le vie cittadine accompagnati dallo scampanio di numerosi sonagli e facendosi precedere dal suono dei corni. Nei giorni propri della festa si poteva assistere alle cavalcate che irrompevano lungo le vie cittadine. . Attualmente la festa prevede la partecipazione della banda, il trofeo dei quartieri assegnato al gruppo che meglio di ogni altro realizza un carro allegorico, le sfilate dei carri che si attuano il sabato, la domenica ed il martedì che prevedono, come momento conclusivo, il ballo nella pubblica piazza in prossimità del Palazzo Municipale. Momento conclusivo della manifestazione corleonese prevede il rogo del "Nannu", il fantoccio che rappresenta il Carnevale la cui "morte" rappresenta la fine di un'epoca ed il nascere di una successiva. Prima del rogo, il Fantoccio legge il suo testamento dal balcone del Palazzo Municipale, sotto gli occhi dei partecipanti alla festa, poi riceve una collana di salsiccia e successivamente è accompagnato al rogo. Francavilla di Sicilia - Me -, sviluppata nei pressi delle famose e suggestive Gole dell'Alcantara e circondata dal fiume San Paolo e dal fiume Zaviani, organizza ogni anno, così come altre città isolane, un Carnevale che dura un'intera settimana. La festa vede il sorgere di canti e balli che coinvolgono l'intera cittadinanza, le sfilate dei carri allegorici, la personificazione del Carnevale nella maschera di "Sua Maestà", inizialmente onorata grazie alla sfilata delle corti e poi accompagnata dal "Gran Corteo Funebre" che serve per seppellire la maschera stessa insieme al periodo di divertimenti sfrenati e licenziosi. Vero simbolo del Carnevale di Francavilla è il ballo collettivo. Anche il rinomato centro turistico isolano di Taormina - ME - prevede vari festeggiamenti per il Carnevale. Anche in questo caso la competitività nella realizzazione dei carri e lo sfarzo ostentato da questi ultimi è davvero notevole visto che tutti i cittadini si prestano alla realizzazione di questi simboli che poi sfileranno nel classico quanto allegro corteo la domenica ed il martedì grasso. I premi in palio sono notevoli ed offerti non solo dall'autorità comunale, ma anche dalle varie associazioni dei commercianti e sono un ottimo stimolo per dare il meglio di sé nella realizzazione dei carri. Il coinvolgimento cittadino non si ferma solo a questo aspetto, ma prevede anche la presenza di massa alle varie feste serali che si realizzeranno nella pubblica piazza durante i giorni canonici della festa e che prevedono gare canore, giochi vari come l'albero della cuccagna e balli coinvolgenti. Si evince che anche il carnevale taorminese può esser considerato un'ottima tappa per festeggiare il Carnevale in Sicilia in allegria ed in compagnia e può esser considerato uno splendido esempio del divertimento e dell'allegria. Un altro centro rientrante nella provincia messinese che prevede svariati eventi per il Carnevale è Saponara. Tra i momenti costitutivi della festa si hanno i soliti ma sempre affascinati e coinvolgenti carri allegorici ed il momento culminante della festa si ha il martedì grasso quando tutta la cittadinanza è coinvolta nel "Corteo dell'Orso e della Corte Principesca". L'Orso è gigantesco, è agghindato con campanacci e trattenuto da delle corde ed è seguito dai suonatori di "brogne" e corni, dalla coppia principesca, dal giullare, dallo scrivano-consigliere e dal resto della corte. Tutto il corteo, inoltre, si arricchisce grazie alla partecipazione di vari gruppi e singoli vestiti in maschera. Nella memoria collettiva l'evento ricorda un fatto storico. Il Principe Domenico Alleata di Villafranca e la sua consorte Vittoria Di Giovanni, baronessa di Saponara, regnavano nel XVIII secolo; in quel tempo un feroce orso minacciava la cittadinanza ed il principe ne garantì la cattura e per rassicurare la cittadinanza del pericolo scampato e sulla propria validità di signore e protettore della città fece incatenare la bestia e lo fece condurre per le vie cittadine. L'evento ora raccontato è stato lo spunto per effettuare un travestimento satirico e burlesco che nel corso degli anni è diventato il fulcro del carnevale e che serve anche per esorcizzare antiche paure, per documentare come la popolazione vive determinati eventi sociali e civili e non solo per rievocare e rappresentare momenti salienti della storia cittadina. Il Carnevale a Novara di Sicilia - Me - prevede, oltre ai tradizionali festeggiamenti, anche il torneo della corsa delle locali forme del formaggio maiorchino - pecorino puro ricavato attraverso particolari processi di lavorazione e stagionatura e che assume una forma simile a quella del parmigiano -. E' un evento che può vantare quattro secoli di storia alle spalle e prevede la partecipazione di varie squadre composte da tre elementi, squadre che gareggiano facendo rotolare le forme del formaggio che pesano circa dodici chili per le vie cittadine. L'evento ha come naturale conclusione una Sagra durante la quale si può consumare non solo il formaggio in questione, ma anche la ricotta e la tuma.Chiaramente Golfi - RG - festeggia il Carnevale coinvolgendo non solo gli occhi ma anche la gola. Infatti, i due momenti distinti del Carnevale citramontano consistono nella sfilata dei carri allegorici che si effettua la domenica ed il martedì di Carnevale e che si concludono con la premiazione e la sagra della salsiccia che si effettua il lunedì sera. Naturalmente anche in questa città, così come per le altre rappresentanti isolane, il coinvolgimento della cittadinanza è assicurato attraverso i balli in piazza. Il Carnevale, di origine francese, giunse in Brasile nel 1903. La serpentina (stella filante) - I Confetes (coriandoli) – di origine spagnola, anche essi arrivarono in Brasile nello stesso anno. Per quanto riguarda l’uso della musica, tutto era assolutamente estemporaneo: il carnevale non possedeva ancora ritmi o melodie che lo rappresentassero. Soltanto nella prima metà del secolo XIX, con l’arrivo dei balli in maschera di stampo europeo, si può osservare uno sviluppo musicale più raffinato. Nel 1834 il gusto per il travestimento si accentuò. Le maschere di origine francese erano fatte di cera molto elaborata oppure di carta, e simulavano i volti degli animali, soprattutto nelle smorfie.. Secondo alcuni il termine "carnevale"deriva dall’espressione latina carrum novalis (carro navale), una sorta di carro allegorico a forma di barca mediante il quale i romani inauguravano i festeggiamenti. Altri ricercatori sostengono invece che la parola deriverebbe dall’espressione latina carnem levare, poi modificata in carne, vale! (addio, carne!), espressione che avrebbe origine tra i secoli XI e XII con la quale si definiva il mercoledì delle ceneri e annunciava la soppressione dell’uso alimentare della carne in vista della Quaresima. Per antitesi viene probabilmente da lì l’espressione giorni grassi (cioè quelli del carnevale), durante i quali l’ordine è trasgredito e gli abusi tollerati, in contrapposizione all’astensione totale dei giorni magri, tipici della quaresima. Tanto in Portogallo così come in Brasile, il carnevale non era per nulla simile ai riti dell’Italia rinascimentale, ma era una festa di strada a volte violenta, nella quale si commettevano abusi e atrocità. Era comune a quei tempi vedere gli schiavi neri gettarsi l’un l’altro uova, farina, arance e resti di cucina mentre le famiglie bianche si divertivano a gettare sulle loro teste secchiate di acqua sporca “in un clima di trasgressione favorito dall’estrema rigidità della famiglia patriarcale”. Fu questo carnevale più o meno selvaggio a sbarcare in Brasile insieme alle prime caravelle portoghesi e ai primi istrioni. Con il passare del tempo e in seguito ad insistenti proteste, il carnevale si civilizzò, acquistando maggior leggerezza e senso civico, sostituendo l’utilizzo di sostanze grossolane con altre meno fastidiose come i limose de cheiro, piccole sfere di cera ricolme di acqua profumata, oppure con fiaschi di vino. Le cosiddette “armi” che sarebbero in seguito divenute tradizionali durante le sfilate del carnevale consistevano nel lança - presume (lancia profumo) – bottiglia di vetro o metallo che conteneva liquido profumato. Febbraio è il mese migliore per visitare il Brasile A febbraio il mare è caldo, non piove quasi mai, la temperatura media è di 30 gradi. L’atmosfera è ulteriormente riscaldata dai festeggiamenti per il Carnevale, che è uno spettacolo nazionale e tutto il paese è in festa. Una festa animata da balli, musiche, esibizioni di samba, sfilate di carri allegorici, maschere e costumi variopinti…Ma bisogna stare attenti a non essere travolti dalla “locura”, la follia collettiva che per i brasiliani è la sintesi dei cinque giorni di festeggiamenti più attesi dell’anno in cui si cerca di scacciare i problemi al ritmo sensuale della samba. Certamente il Brasile ha il merito di aver dato origine a uno dei carnevali più tipici, più sfarzosi e più significativi del mondo. I festeggiamenti durano 5 giorni ininterrottamente dalla mezzanotte del venerdì che precede il Mercoledì delle Ceneri. Il Carnevale ha sempre rappresentato un avvenimento di eccezionale importanza per le popolazioni di queste terre, soprattutto per quelle più povere e più legate alle tradizioni. La sua origine è legata ad antichissime tradizioni del luogo e solo in seguito sono stati inseriti i carri allegorici, le maschere, le sfilate. Il Carnevale brasiliano è basato soprattutto sulla musica e sulla danza. La festa si snoda per le vie delle città. Una marea di persone mascherate si riversa nelle vie e balla al ritmo della musica che risuona amplificata attraverso altoparlanti su camion sonori e addobbati, i "triosi elettrico", o da orchestre ambulanti che si rifanno alle musiche della tradizione africana con i loro tamburi, tamburini, campanelli a percussione. I danzatori delle diverse scuole di samba con i movimenti delle anche e i rapidi passi avanti e indietro per le strade, sfilano per la città sfoggiando i loro travestimenti, le maschere, i costumi colorati. I gruppi sono arricchiti dalla presenza di ballerine in costumi provocanti, le famose "sambere". I festeggiamenti vengono celebrati in tutto il Brasile e in molte località è possibile assistere a coinvolgenti manifestazioni. Rio de Janeiro è il centro dei festeggiamenti con l'apogeo delle sfilate e dei costumi. E' uno spettacolo unico,meraviglioso e contagioso, soprattutto destinato ai turisti che arrivano da tutte le parti del mondo. Qui la protagonista del Carnevale è la Samba, (che significa in lingua angolana "colpo di ombelico"). E' uno spettacolo vedere le stupende fantasie che rivestono gli fogliose (i carri delle scuole di samba) e sentire la musica degli strumenti diversi suonati da molte persone in ogni banda, situati in un'arena progettata per questo, con circa tre km di gradinate da ambo le parti per gli spettatori, che pagano il biglietto per entrare. Il modo migliore e più sicuro per assistere alla festa è occupare le gradinate installate appositamente per assistere allo spettacolo lungo le principali strade o nelle piazze della città, nel Sambódromo. Purtroppo, soprattutto a Rio dove si concentra moltissima gente i festeggiamenti che accompagnano il Carnevale portano spesso a episodi spiacevoli perché molti storditi dalla musica, dalla danza sfrenata, dalla confusione, spinti dall' alcool molti si abbandonano a risse, bravate, furti. Rio de Janeiro è una metropoli affollatissima, situata in una splendida posizione tra l'oceano e le morros, colline granitiche dalle strane forme. Due monti di granito rendono il panorama inconfondibile: Il Pan di zucchero,e il Corcovado dove sorge la statua del Cristo Redentore e da lì a 710 metri si domina l’intera Rio. Mitiche sono le spiagge di Copacabana e Ipanema, sempre animate giorno e notte dai ritmi del samba. Rio racchiude le molte anime del Brasile tra il centro coloniale, barocco, i quartieri popolari, gli edifici moderni, le aree residenziali, le poverissime bidonville: profondi contrasti sociali che però in occasione del Carnevale, una volta l'anno scompaiono. Ma Rio non è l'unica città brasiliana che possiede una tradizione di festeggiamenti carnevaleschi sfrenati. Nel nordest a Recife, a Olinda e a Salvador da Bahia si tengono altri importanti eventi carnevaleschi. Recife, è la Venezia Brasiliana, percorsa da due fiumi e da numerosi canali attraversati da una quarantina di ponti. Qui il Carnevale diversamente dagli altri dura 10 giorni ed è caratterizzato dalla danza del Frevo, ballo molto movimentato figlio della Capoeira che nello stato del Pernambuco è diventato più importante del Samba. La parata si svolge con la musica di influenza africana suonata, principalmente, da percussionisti. Recife , il cui nome deriva dal portoghese, significa barriera corallina e meritano di essere viste le sue spiagge come quelle di Itapuana. A 5 Km da Recife c’è la città di Olinda che è il gioiello del Brasile per il suo centro storico dal volto coloniale. circondato da verdi colline. Per godere del panorama della città si può salire sul monastero di Sao Bento. La grande attrazione del carnevale di Olinda sono proprio i “pupi giganti”, pupazzi che rappresentano personaggi famosi, o anche semplici sconosciuti che sfilano tra musiche e carri allegorici. Qui il magnifico carnevale di strada che si svolge soprattutto al suono del Frevo e del Maracatú, ritmi locali d'origine africana altamente coinvolgenti. A sud di Recife c’è un’altra città balneare, Salvador con il suo famoso carnevale di Bahia. A Salvador, il cuore "nero" del Brasile moderno, i ritmi africani riempiono le sontuose vie barocche del centro storico di una frenesia tutta particolare. Un Carnevale considerato autentico da molti brasiliani. Il fascino di Salvador affiora fra le case fatiscenti, le chiese colorate e le piazze coloniali. Spettacolo Nō all'Itsukushima Shrine, isola di Miyajima, Hiroshima Il Nō è una forma di teatro sorta in Giappone nel XIV secolo che presuppone una cultura abbastanza elevata per essere compreso, a differenza del kabuki che ne rappresenta la sua volgarizzazione. I testi del nō sono costruiti in modo da poter essere interpretati liberamente dallo spettatore, ciò è dovuto in parte alla peculiarità della lingua che presenta numerosi omofoni. È caratterizzato dalla lentezza, da una grazia spartana e dall'uso di maschere caratteristiche. Inizialmente faceva parte, insieme al Kyōgen, di una forma drammatica nota come Sarugaku. Mentre il Nō era centrato sulla danza e sul canto il Kyōgen era soprattutto basato sui dialoghi e sull’improvvisazione che seguiva canovacci predeterminati. A partire dal XVI secolo i due generi si diversificarono. Il Nō veniva recitato da attori in maschera ed era basato su testi scritti. I primi risalgono al XV secolo ma la maggior parte fu composta nel XVI. Il Kyōgen invece continuava a basarsi in gran parte sull’improvvisazione. I personaggi principali di un Nō sono esseri soprannaturali (divinità, spiriti) oppure personaggi storici o leggendari. Anche in questo si differenziava dal Kyōgen i cui protagonisti erano gente comune. Genere teatrale risalente al XIV secolo, il Nō consiste in lunghi poemi cantanti e mimati, con accompagnato orchestrale, generalmente interrotti da una o più danze che possono non avere alcun rapporto con l’argomento trattato. Scritti nella lingua poetica di cinque secoli fa, i drammi Nō narrano spesso di incontri tra il mondo dei vivi e quello dei morti, rappresentando personaggi divini, spettri di guerrieri, donne dai destini tragici, pazzi, demoni o spiriti buoni, in un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà. Gli attori, ricchi ed elaborati che indicano l carattere, l’età e la condizione sociale del personaggio. Lo spettacolo classico consta di cinque drammi Nō, intervallati da quattro farse o kyogen in questa forma completa viene tuttavia rappresentato oggi molto di rado. Il kyogen è considerato comunque una parte indispensabile della rappresentazione, perché alleggerisce la tensione drammatica sottolineando gli aspetti comici del reale. Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII compaiono due nuove forme teatrali che completano il trittico dei generi classici del teatro giapponese: il teatro delle marionette joruri, chiamato anche bunraku e il kabuki. Negli spettacoli del teatro delle marionette e i suonatori di shamisen, che accompagnano con la loro musica la messinscena. I legami tra questo genere e il teatro kabuki sono numerosi: basti pensare che il maggiore autore di teatro delle marionette, Chikamatsu Monzaemon, è anche tra i più omportanti autori di kabuki. Nel kabuki le tecniche interpetotive, la musica e il complesso apparato scenografico hanno un’importanza pari, se non maggiore, rispetto al testo. Grande rilievo hanno l’abilità e la versatilità dell’attore, che deve dimostrarsi padrone di ogni disciplina utile all’espressione teatrale: la danza e il gesto, l’eloquio e il canto, la musica, il trucco, la mimica. Il repertorio kabuki comprende testi di provenienza assai varia: accanto ai testi tratti dal teatro bunraku o ispirati alla tradizione più antica del Nō, esiste anche un repertorio moderno che accoglie traduzioni di opere occidentali. La produzione giapponese include oggi riadattamenti di classici europei, rivisitazioni moderne di temi tradizionali, rielaborazioni di musical e lavori impegnati dal punto di vista politico o sociale. Nel Nō i movimenti degli attori sono estremamente stilizzati e ridotti all’essenziale. Piccoli cenni del capo o movimenti del corpo hanno significati ben precisi. I ruoli sono fissi: esistono quattro tipi principali di attori: Shite, Waki (comprimario), Kyogen, e Hayashi. Una tipica rappresentazione del Nō vedrà in scena tutte le categorie di attori e solitamente dura dai 30 ai 120 minuti. Il repertorio del Nō conta circa 250 rappresentazioni suddivisibili in cinque categorie (organizzate in base al tema principale): Okina/Kamiuta è una rappresentazione unica nel suo genere e combina la danza con un rituale Shinto. viene considerata la più antica rappresentazione del teatro Nō. Il racconto di Heike, una storia medievale che narra la nascita e la caduta in disgrazia del clan Taira, originariamente cantata da monaci ciechi, è un'importante fonte di materiale per il teatro Nō, in particolare per le rappresentazioni della seconda categoria. Un'altra importante fonte di materiale è il racconto di Genji, un'opera dell'XI secolo, alle volte definito come il primo romanzo mai scritto al mondo. Gli autori utilizzano inoltre come fonte di ispirazione i classici cinesi e i classici giapponesi del periodo Nara e Heian. Il Nō è cantato, per questa ragione, molte persone tendono pensare al Nō come ad una forma di opera giapponese. Ciò nonostante, il canto nel teatro Nō sfrutta una scala tonale limitata e presenta lunghi passaggi ripetitivi. La chiarezza e la melodia non rappresentano l'obiettivo del canto nel teatro Nō benché i testi siano poetici e le strofe riprendano pesantemente il tipico ritmo giapponese settecinque, familiare a chi conosce i waka o i più recenti haiku. Il canto del Nō nonostante sia povero di espressioni risulta pregno di allusioni. In realtà la musica Nō e il kakegoe (lo strano suono gutturale delle voci dei percussionisti) sono state ricalcate dai rituali sciamanici. I tamburi sono tradizionalmente strumenti giapponesi per indurre la trance, il flauto è uno strumento per evocare la discesa degli spiriti, e i kakegoe sono parte dell'invito agli dei a manifestarsi. Lo Shite recita in maschera il che ovviamente toglie ogni possibilità di esprimersi con la mimica facciale. Però la grande abilità degli attori produce quasi espressività della maschera anche grazie al fatto che quest'ultima è scolpita in modo tale che a secondo dell'orientamento e della diversa incidenza della luce si producano mutamenti espressivi. Poiché i buchi posti all'altezza degli occhi sono di ridottissime dimensioni, per aumentare ulteriormente l'espressività, gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Tutte le maschere del teatro Nō (nō-men o omote) hanno un nome. Di solito solo lo Shite, l'attore principale, porta la maschera. Può comunque accadere, che in alcuni casi, anche gli Tsure possano indossare una maschera, in particolare per i personaggi femminili. Le maschere Nō sono di solito ritratti di personaggi femminili o non umani (divinità, demoni o animali), ci sono comunque anche maschere rappresentanti ragazzi o vecchi. Gli attori senza maschera hanno sempre un ruolo di uomini adulti di venti, trenta o quarant'anni. Anche il coprimario waki non indossa maschere. Usata da un attore capace la maschera è in grado di mostrare differenti espressioni e sentimenti a seconda della posizione della testa dell'attore e dell'illuminazione. Una maschera inanimata può quindi avere la capacità di sembrare felice, triste o una grande varietà di altre espressioni. Studi condotti da Michael J. Lyons della ATR Intelligent Robotics and Communication Labs a Kyōto, Giappone e Ruth Campbell della Università di Londra, hanno esplorato questa particolare caratteristica delle maschere . Forme e stili delle rappresentazioni teatrali presenti in Giappone. La più antica forma drammaturgica giapponese di cui si ha notizia è il gigaku, una sorta di danza introdotta in Giappone dalla Cina meridionale nel 612 d.C.; eseguita con maschere, aveva probamente un carattere comico. Nell’VIII secolo il gigaku cadde in disgrazia a causa del suo carattere frivolo, sgradito ai sovrani giapponesi, e venne soppiantato dal bugaku, anch’esso di origine cinese. Si trattava di una forma di intrattenimento destinata alla corte e all’aristocrazia, incentrata su danze con accompagnamento musicale: gli attori-ballerini, abbigliati con sontuosi costumi, si muovevano sullo sfondo di scene imponenti, rappresentando situazioni molto semplici, prive di sviluppo narrativo, come il ritorno di un generale dalla guerra. Nello stesso periodo fiorirono anche i sangaku, spettacoli da fiera destinati alla gente comune, che includevano esibizioni di acrobati, giocolieri, funamboli, mangiatori di spade e saltimbanchi. Tutte queste forme teatrali confluirono in seguito, insieme alle danze sacre e ai canti collegati allo scintoismo, in generi drammatici più complessi. A partire dall’XI secolo si tramanda uno spettacolo che è tuttora in auge: la danza rituale okina. Che veniva originariamente eseguita nei pressi dei templi per propiziare un buon raccolto o per narrare la storia del santuario. Nella maggior parte delle culture africane tradizionali, chi indossa una maschera abbandona la propria identità e viene trasformato nello spirito che la maschera rappresenta. Questo scopo viene in genere raggiunto con l'ausilio di altri elementi rituali, come certi tipi di musica o di danza; in diverse culture, inoltre, la maschera si accompagna a costumi rituali, che contribuiscono a nascondere l'identità del danzatore o del sacerdote mascherato. Colui che indossa la maschera diventa quindi una sorta di medium che consente al villaggio di dialogare con le proprie divinità, gli antenati, i defunti, gli animali o altri spiriti della natura. Per questo motivo, danze e rappresentazioni mascherate svolgono spesso una funzione propiziatoria in cerimonie e celebrazioni come matrimoni, funerali, riti di iniziazione, feste del raccolto. Fra i rituali più complessi si possono citare le rappresentazioni in costume e maschera di alcuni popoli della Nigeria, , fra cui Yoruba ed Edo, che presentano molte analogie con il concetto occidentale di teatro. Poiché ogni maschera ha uno specifico significato spirituale, alcuni popoli hanno decine di diverse maschere tradizionali. La religione dei Dogon del Mali, per esempio, è caratterizzata da un ricco pantheon di spiriti, a cui corrispondono oltre 70 tipi di maschere. Spesso, la qualità di una maschera riflette la posizione del soggetto nella gerarchia degli spiriti; per esempio, maschere estremamente lineari come le kple kple dei Baulé della Costa d'Avorio (essenzialmente un disco con una rappresentazione minimalista di occhi, bocca e corna) sono generalmente associate a spiriti minori. Dato il significato spirituale delle maschere, non tutti i membri della società sono autorizzati a indossarle. Spesso questo onore è riservato agli uomini, e in particolar modo agli anziani o comunque alle persone di alto rango. Alcune maschere sono riservate ai capi e ai re; per esempio, i capi del popolo Pende (Congo) indossano tre diverse maschere, ciascuna delle quali conferisce loro speciali poteri. Spesso, le maschere di maggiore prestigio sono quelle associate agli spiriti dei re defunti; la maschera indossata dal re del Regno di Kuba, per esempio, rappresentava il fondatore del regno e primo antenato della dinastia regale. In numerose tradizioni si trovano maschere associate a particolari società di guerrieri o di stregoni. Gli animali sono fra i soggetti più comuni delle maschere africane. Lo scopo di queste maschere può essere quello di rappresentare effettivamente lo spirito di un animale, in modo che diventi possibile parlargli (per esempio per chiedere alle belve feroci di non aggredire il villaggio), ma spesso l'animale è invece (o contemporaneamente) visto come simbolo e portatore di determinate virtù. Fra gli animali più rappresentati ci sono il bufalo (simbolo di forza, per esempio presso il popolo Baulé), il coccodrillo, il falco, la iena, il facocero e l'antilope. Quest'ultima ha un ruolo fondamentale nelle culture del Mali (per esempio presso i Dogon e i Bambara), in cui viene considerata simbolo dell'agricoltura e del lavoro nei campi. Le maschere da antilope dei Dogon hanno una forma estremamente stilizzata, un rettangolo con la sommità decorata da numerosa corna, che simboleggiano l'abbondanza del raccolto. In quelle dei Bambara (note come chiwara) sono rappresentate le lunghe corna dell'antilope (simbolo della crescita rigogliosa del miglio), il pene (simbolo delle radici), le orecchie (che rimandano al canto delle donne per alleviare il lavoro nei campi degli uomini) e una linea spezzata che rappresenta il percorso del sole fra i due solstizi. Una variante del tema della rappresentazione di animali è la composizione, in una singola figura mostruosa o astratta, dei tratti distintivi di diversi animali, eventualmente uniti a elementi umani. Questa fusione di elementi può avere lo scopo di indicare caratteristiche eccezionali, rappresentate attraverso la somma delle qualità simboleggiate dai diversi elementi della composizione. Per esempio, le maschere riservate alla società segreta dei Poro (presso il popolo Senufo, Costa d'Avorio) alludono al potere della società unendo in una singola figura tre simboli di pericolosità: corna di antilope, denti di coccodrillo e zanne di facocero. Un altro esempio molto noto è quello delle maschere kifwebe dei Songye (Congo), che uniscono strisce colorate (che rimandano alla zebra o all'okapi), fauci di coccodrillo, occhi di camaleonte, bocca di oritteropo, cresta di gallo, piume da gufo e altro ancora. La bellezza femminile Insieme agli animali, uno dei soggetti più comuni delle maschere africane è la donna, anch'essa rappresentata in forma stilizzata, in funzione dell'ideale di bellezza femminile proprio di ogni particolare cultura. Le maschere femminili dei Punu del Gabon, per esempio, enfatizzano tratti come le ciglia arcuate, gli occhi a mandorla, il mento sottile, e rappresentano nelle maschere anche i gioielli ornamentali tradizionali, disposti in due linee curve che vanno dai due lati del naso verso le orecchie. I Baga della Guinea invece rappresentano le cicatrici ornamentali della loro tradizione, e includono nella maschera una rappresentazione stilizzata di un seno reso cadente dall'allattamento (simbolo di fertilità). Queste maschere da donna sono rigorosamente indossate da uomini. La maschere sono un elemento fondamentale della cultura tradizionale e dell'arte dei popoli dell'Africa subsahariana a occidentale. Diverse culture associano a questi oggetti diversi significati specifici, ma è costante l'attribuzione alle maschere di significati spirituali, il loro uso nelle danze e in altri riti religiosi, e il riconoscimento di uno speciale status sociale agli artisti che le realizzano. Nella maggior parte dei casi, la creazione di maschere è un'arte che si tramanda di padre in figlio, insieme alla conoscenza dei valori simbolici e religiosi associati. Le maschere sono una delle forme d'arte africana più note in Europa, e nel XX secolo sono servite come ispirazione per movimenti artistici come cubismo, fauvismo ed espressionismo. Nella maggior parte delle culture africane tradizionali, chi indossa una maschera abbandona la propria identità e viene trasformato nello spirito che la maschera rappresenta. Questo scopo viene in genere raggiunto con l'ausilio di altri elementi rituali, come certi tipi di musica o di danza; in diverse culture, inoltre, la maschera si accompagna a costumi rituali, che contribuiscono a nascondere l'identità del danzatore o del sacerdote mascherato. Colui che indossa la maschera diventa quindi una sorta di medium che consente al villaggio di dialogare con le proprie divinità, gli antenati, i defunti, gli animali o altri spiriti della natura. Per questo motivo, danze e rappresentazioni mascherate svolgono spesso una funzione propiziatoria in cerimonie e celebrazioni come matrimoni, funerali, riti di iniziazione, feste del raccolto. Fra i rituali più complessi si possono citare le rappresentazioni in costume e maschera di alcuni popoli della Nigeria, fra cui Yoruba ed Edo, che presentano molte analogie con il concetto occidentale di teatro.Poiché ogni maschera ha uno specifico significato spirituale, alcuni popoli hanno decine di diverse maschere tradizionali. La religione dei Dogon del Mali, per esempio, è caratterizzata da un ricco pantheon di spiriti, a cui corrispondono oltre 70 tipi di maschere. Spesso, la qualità di una maschera riflette la posizione del soggetto nella gerarchia degli spiriti; per esempio, maschere estremamente lineari come le kple kple dei Baulé della Costa d'Avorio (essenzialmente un disco con una rappresentazione minimalista di occhi, bocca e corna) sono generalmente associate a spiriti minori. Dato il significato spirituale delle maschere, non tutti i membri della società sono autorizzati a indossarle. Spesso questo onore è riservato agli uomini, e in particolar modo agli anziani o comunque alle persone di alto rango. Alcune maschere sono riservate ai capi e ai re; per esempio, i capi del popolo Pende (Congo) indossano tre diverse maschere, ciascuna delle quali conferisce loro speciali poteri. Spesso, le maschere di maggiore prestigio sono quelle associate agli spiriti dei re defunti; la maschera indossata dal re del Regno di Kuba, per esempio, rappresentava il fondatore del regno e primo antenato della dinastia regale. In numerose tradizioni si trovano maschere associate a particolari società di guerrieri o di stregoni. La struttura principale delle maschere africane è in genere in legno; più raramente si impiegano pietre morbide come la saponaria, oppure pelle o tessuto. Il materiale viene lavorato (per esempio intagliato o scolpito) e spesso dipinto (con carbone vegetale, ocra o altri pigmenti di origine naturale). Alla struttura principale possono essere applicati elementi decorativi in altri materiali, come pelo, corna, denti, conchiglie, semi, iuta, paglia, guscio d'uovo (soprattutto di struzzo) o piume. Queste applicazioni servono talvolta a rappresentare in modo più efficace elementi anatomici del soggetto (per esempio, pelo animale e paglia sono spesso usati come capelli o barba, e corna o zanne possono servire da denti). Arte dell’Oceania Produzione artistica e architettonica dell’Oceania, intesa nell’accezione ristretta di regione ristretta di regione dei grandi arcipelaghi di Melanesia, Micronesia e Polinesia. Pur nella varietà e diversità di manifestazioni locali, l’arte di questi paesi presenta numerose consonanze, in parte riconducibili a un passato comune, in parte frutto di attivi scambi culturali; per questi motivi può essere sommariamente affrontata in una trattazione unica. Nei primi due secoli di contatti con il mondo occidentale, tutte le popolazioni indigene dell’Oceania mantennero le proprie tradizioni artistiche, risalenti con ogni probabilità ai tempi preistorici, anche se i reperti conservatisi sono rari a causa delle condizioni climatiche tropicali che hanno causato un rapido deterioramento dei materiali utilizzati ( legno, ocra, conchiglie, piume e creta ). Quando gli occidentali fecero la loro comparsa, le culture oceaniche si trovavano a uno stadio di sviluppo classificabile come neolitico: gli utensili erano in pietra, osso o conchiglia, e le tecniche di lavorazione dei metalli ancora sconosciute. Gli abitanti della catena montuosa centrale, le cui vette raggiungono altitudini superiori ai 5000 metri, praticano una forma di decorazione corporea molto articolata e spettacolare: notevoli sono i copricapo piumati e i segni tracciati sul volo. La produzione di maschere è piuttosto ridotta e gli edifici sono modesti. Nella sezione settentrionale della provincia di Papua ( nell’ovest dell’isola ), La produzione di manufatti risente dell’influenza indonesiana. Le prue delle canoe e vari oggetti domestici sono decorati a rilievo o con motivi a spirale traforati, i medesimi che compaiono anche su piccole figure in legno ( korwar ) a cui sono attribuiti poteri sovrannaturali. L’area a sud della provincia indonesiana di Papua è nota per la presenza di monumentali sculture antropomorfe, talora inserite come decorazioni inserite come decorazioni architettoniche in complessi di grandi dimensioni. Le pitture su tappa ( una specie di carta ottenuta battendo e pressando la corteccia di alcuni alberi ) si distinguono per l’accostamento di rigorosi disegni a spirale e libere composizioni di figure di animali e piante. La zona centrale della Nuova Guinea è famosa per la ricchezza delle sue tradizioni artistiche. Nei territori occidentali vengono prodotte maschere in corteccia e in tappa, le cui dimensioni possono raggiungere i 6 metri d’altezza. La raffinatezza del gusto è evidente in ogni oggetto d’uso quotidiano o rituale, sempre intagliato e dipinto. In genere le forme antropomorfe e zoomorfe sono seminaturalistiche, a eccezione delle classiche maschere oceaniche con il lungo naso uncinato. L’architettura è perlopiù di notevoli dimensioni: presso alcune tribù, ad esempio, si trovano grandi edifici dotati alle estremità di torri arricchite da sculture; altrove sono frequenti complessi architettonici con frontoni interamente ricoperti di vivaci pitture su corteccia. Nel campo delle arti applicate, celebri sono le eleganti scodelle intagliate degli abitanti delle isole Tami. La Micronesia, a nord della Nuova Guinea, comprende numerosi arcipelaghi formati da piccole isole. Nelle isole Caroline, che ne costituiscono il settore occidentale, le abitazioni sono spaziose e decorate con frontoni dipinti e figure femminili. Piccoli amuleti, ornamenti da prua e contenitori intarsiati con conchiglie sono tra le rare opere micronesiane a intaglio; tra le arti applicate, notevoli appaiono i manufatti in ceramica e i tessuti. L’arte delle isole dell’Ammiragliato – in speciale modo dell’isola di Manus – è quasi interamente riservata a oggetti d’uso pratico, che vengono spesso utilizzati per gli scambi con altre popolazioni: letti, gong, scodelle e armi presentano dipinti a figure umane o animali ( frequenti il motivo del coccodrillo ). Prevalentemente di colore rosso, la decorazione di questi oggetti è sovente completata da piccoli motivi geometrici in bianco e nero. Nella Nuova Irlanda predomina lo stile malanggan, denominazione che indica sia particolari riti funebri sia le sculture e le maschere intagliate in occasione di queste cerimonie: le sculture in particolare, antropomorfe e zoomorfe, sono tra gli esempi più caratteristici dell’arte oceanica. Tipici dell’altopiano centrale sono gli uli, grandi figure di ermafroditi che hanno funzione commemorativa e che no possono essere guardate dalle donne. Nella Nuova Irlanda sudoccidentale e nella Nuova Britannia settentrionale sono frequenti statue in pietra, grandi statue a traforo, bastoni per la danza e maschere coniche dai tratti somatici stilizzati, dipinte di bianco e nero. I bassorilievi delle isole Salomone settentrionali rappresentano perlopiù figure umane stilizzate, mentre la produzione artistica delle Salomone centrali è caratterizzata dalla predominanza della colorazione nera e dall’utilizzo di conchiglie. Le sculture più caratteristiche sono figurette di spiriti protettori originariamente applicate alle prue torreggianti delle canoe da guerra. Nelle Salomone sudorientali motivi decorativi tipici sono pesci e uccelli, che compaiono sulle scodelle cerimoniali. Le costruzioni in cui si ripongono le canoe hanno pannelli intagliati con le figure delle divinità. Spesso le popolazioni dell’arcipelago Vanuatu, durante i riti sacri vengono utilizzate maschere e figure commemorative, generalmente in legno oppure in materiali deperibili, come il midollo fibroso delle felci. Le sculture delle isole Banks sono caratterizzate da pose molto drammatiche, oltre che da un certo squilibrio nelle proporzioni corporee: possono avere teste enormi, nasi molto sporgenti e occhi che occupano quasi tutto il volto. In Nuova Caledonia le testimonianze artistiche si limitano a un numero peraltro ristretto di sculture, adornate da parrucche e costumi di piume scure. Tali sculture costituiscono la decorazione architettonica delle case cerimoniali coniche, che hanno anche grandi travi e stipiti incisi a motivi antropomorfi e geometrici. L’arte polinesiana viene a ragione considerata la più omogenea dell’Oceania. Le figure antropomorfe sono semplificate, con decorazioni a piccoli motivi geometrici. La forma architettonica più significativa è il marae, un recinto sacro con piattaforma in pietra. La produzione artistica è funzionale all’ordine sociale, che in tutta la Polinesia è rigidamente gerarchico e perpetuato per trasmissione ereditaria: dall’alto in basso,si collocano aristocratici, sacerdoti, lavoratori e, in passato, schiavi. La più celebri sculture monumentali dell’Oceania sono quelle in pietra dell’isola di Pasqua: queste teste colossali – i moais – furono scolpite nella roccia d’origine vulcanica proveniente dal cratere al centro dell’isola. Il legno fu utilizzato solo per figure più piccole, che rappresentano personaggi maschili di estrema magrezza, talvolta con testa di lucertola o di ucello. Le sculture in legno meglio conservate dell’Oceania sono le grandi statue provenienti dai templi dalle isole Hawaii, caratterizzate da tratti somatici distorti che conferiscono loro un particolare aspetto aggressivo. Tipico dell’arte locala è anche l’abbondante uso di piume multicolori, applicate in disegni vivaci ai mantelli a mezzaluna o alle cappe dei nobili, oltre che agli elmi in vimini e alle statue degli dei. La Polinesia centrale, che comprende le isole Cook, le isole Australi e Gambiere e le isole della Società, è ricca di statue, raffigurati soprattutto divinità. Le più naturalistiche sono quelle provenienti da Mangareva, nelle Gambiere, mentre tendono alla stilizzazione i manufatti prodotti ad Aitutaki e Raratonga nelle isole Cook, nelle isole della Società e nelle Australi. Le divinità di Raratonga sono “dèi – bastone” culminanti in grandi teste stilizzati e decorati con una serie di figure quasi astratte lungo il corpo, che termina con un fallo; in altre isole si trovano simulacri appuntiti a forma di clava con decorazioni verticali, formate da innumerevoli figure astratte. Le testimonianze forse più sorprendenti della propensione polinesiana per l’astrazione sono gli alti tamburi delle isole Australi, decorati da più registri di immagini stilizzate. Nelle isole Marchesi le sculture sono interamente ricoperte di disegno geometrici, tratto stilistico forse derivato dal costume locale di tatuare interamente il corpo. Figure simili si trovano nella Polinesia centrale, riprese sugli ornamenti per orecchie i n avorio e nei diademi in conchiglia a tartaruga. •Lo stampo in gesso e la colata di lattice liquido. Lo stampo può essere ricavato dal vivo, con un getto di gesso molto liquido sul viso del soggetto, con la precauzione di inserire nel naso dei tubetti in plastica per respirare. Oppure più semplicemente da una maschera da carnevale in plastica. Lo stampo deve essere ben liscio e rifinito, possibilmente verniciato. Diversi strati di lattice liquido ( almeno 10 ) devono essere “ pitturati” all’interno dello stampo, lasciandoli essiccare ad ogni mano. Per accelerare l’essicazione si può usare un phon. •L’estrazione dallo stampo Dopo la completa essicazione del lattice, estrarre con molta delicatezza la maschera dallo stampo, facendo attenzione a non provocare strappi e deformazioni. Per evitare che la maschera si appiccichi su se stessa spolverare abbondantemente con talco. •L’assemblaggio viso-calotta La calotta posteriore è realizzata allo stesso modo della maschera, usando una “ testa “ in plastica di solito impiegata per riporre le parrucche, chiamata “ formatore” . Per rinforzare la calotta si può incorporare una calza di nylon nel lattice. Serve a migliore la resistenza meccanica ed evitare strappi. La maschera assemblata Ora la maschera inizia a prendere forma. Si deve applicare la parte anteriore del viso alla calotta, unendo i lembi con molta precisione. La linea d’unione deve essere livellata il più possibile usando il lattice. In questa fase si possono applicare le orecchie, realizzare a parte in un apposito stampo in gesso. In corrispondenza degli orecchi possono essere praticati dei fori per poter udire, cosa altrimenti impossibile. La stessa operazione fa eseguita in corrispondenza del naso e degli occhi, dove saranno praticati dei piccoli fori di circa 5 millimetri di diametro. La bocca è invece completamente sigillata. La zip di chiusura posteriore Per poter indossare comodamente la maschera è necessario dotarla di una chiusura posteriore. La si realizza con una cerniera zip applicata con lo stesso lattice alla calotta. L’incollaggio deve essere eseguito prima del distacco della calotta dal formatore. A incollaggio avvenuto si pratica un taglio nella calotta in corrispondenza della zip. La colorazione con colori acrilici Per migliorare l’aspetto e il colore della maschera si devono spruzzare diversi strati di lattice opportunamente colorato. La pigmentazione esatta si ottiene dopo diverse prove. Consiglio un colore neutro, né troppo pallido, né troppo abbronzato. Una tinta credibile si ottiene mescolando una piccolissima quantità di blu nel pigmento. Questa fase deve essere eseguita con la pistola a spruzzo o con un buon aerografo. Usando il pennello i risultati sono inaccettabili. Il trucco Per il trucco non si possono usare i tradizionali prodotti da make-up, in quanto si rovinerebbero presto. Si deve perciò usare un’apposita vernice realizzata con il lattice mescolato a dei colori acrilici. Il trucco è una fase delicatissima e fondamentale per la buona riuscita del lavoro. Si applica con dei pennelli sottilissimi, sfumando bene il colore. Prima di procedere consiglio di fare delle prove su un pezzo di cartone, per verificare il risultato prima di rovinare tutto. La parrucca Per completare il tutto è necessaria una parrucca e un po’ di bigiotteria, come gli orecchini e soprattutto una fascetta o colorino per nascondere la giuntura in corrispondenza del collo. Body art, protesi facciali, mostri, gnomi, creature fantastiche, riproduzioni anatomiche umane ed animali; ma anche ferite, cicatrici, ustioni, colpi d’arma da fuoco, fino all’invecchiamento cutaneo, arrivando al sottile universo animatronico, ovvero la progettazione e lo sviluppo tecnico di robot, con meccanismi remote controlla a più gradi di libertà. L’altra faccia del trucco insomma, quello cinematografico e televisivo degli effetti speciali, in grado di dare forma e vita al mondo del fantastico e dell’irreale, plasmato con abilità certosina da professionisti, grazie all’impiego di schiume a freddo e a cottura, gel di silicone, lattici prevulcanizzati, resine acriliche e poliuretano espanso. “In meno di cento anni le tecniche di trucco ed effetti speciali si sono guadagnate il titolo di arte ed un posto di primo piano nella produzione dell’intrattenimento, per un semplice motivo: rendono reale l’irreale” racconta Stefano Pizzolitto, production manager, designer ed insegnare dell’International Make-up Artisti Studiosi Roma e promotore di Virtuale Production, progetto di live act ed eventi performativi nelle più grandi discoteche italiane e non, dal Cocoricò di Riccione allo Space di Ibiza per le serate del Diabolika. Stefano Pozzolitto, classe 1970, diplomato all’istituto d’arte di Parma, ha iniziato per gioco in discoteca sperimentando il body paiting sulla scia di quel Keith Haring che, Nel 1984, diede impulso ad una pratica ancestrale come quella della decorazione del corpo, dipingendo in tutta la sua estensione la pantera nera Grace Joyce con graffiti bianchi, rifacendosi ai rituali della tradizione Massai; esperienza testimoniata dall’obiettivo del fotografo Moppolethorpe. Poi l’incontro con Martin Miller della Kryran , società hollywoodiana che produce prodotti make-up effe dal 1940, guru della prospettica, ( lo studio della realizzazione di protesi facciali ) che divenne il suo maestro. Oggi collabora con BuenaVista International, Columbia Tristar film, Eagle Pictures, Medusa film, Sony Playstation, Mediaset e tanti altri e per Richard Taylor, super visore effetti speciali della società neozelandese Weta Workshop, ha lavorato protesi impiegate nel film “Il Signore degli Anelli” ( 2001 ) di Peter Jackson. Come vengono realizzate le protesi cinematografiche? “Sull’immagine dell’attore si elabora il progetto grafico del lavoro. Segue il calco completo di visto e testa e la riproduzione in gesso della protesi scolpita in creta o plastilina. È questa la fase più importante del processo di creazione; da qui si vede la mano dell’artista e la sua abilità. Una volta riprodotta, la protesi verrà adattata con dei colanti speciali. Poi si passa al trucco e proprio”. Quali sono i campi di applicazione? “Film horror, fantasy, videoclip, tutto ciò che comporta la trasformazione di un attore, sia del personaggio sia quanto riguarda le modificazioni corporee. Le nuove frontiere degli effetti digitali poi, supportate da supportate da prototipi manuali, è ampissima”. Fu inventata dai cinesi duemila anni fa. È opinione diffusa che la carta sia un materiale effimero: viene usata e gettata o, al più parzialmente riciclata per fabbricare altra carta di minor pregio. Poche persone, al giorno d’oggi, immaginano che la carta sia potuta e possa servire per la fabbricazione di oggetti funzionali che non siano libri, giornali o imballaggi. Eppure già i cinesi ( che, come è noto, circa duemila anni fa “inventarono” la carta ) trovano il modo di impiegarla, assemblata in più strati, negli elmi e nelle armature dei guerrieri. Dalla Cina, passando per il mondo arabo, la carta approdò in Europa nel X sec. d.C. Qui bisogna attendere fino alla seconda metà del 700 perché si comincino a trovare oggetti di arredamento in carta pressata (scatole e tabacchiere) mentre dall’Oriente arrivano paraventi, paralumi, ombrelli, tavolini, armadietti e vasellame vario. Nel’800 mobili in cartapesta ( ma anche elementi costruttivi di carrozze ed elementi architettonici vari come porte, pareti e persino intere case prefabbricate ) vengono in auge sia in Europa, che negli Stati Unite ed in Russia. Molti di questi elementi sono giunti sino a noi in ottimo stato di conservazione. Al giorno d’oggi vediamo sfruttare con brillanti risultati la tecnica della carta pesta soprattutto nell’arte popolare di Messico, India, Pakistan, Kashmir, Filippine, Giappone, dove continua la fabbricazione di scatole, di scatole, vassoi, cofanetti, mobiletti, giocattoli, maschere e sculture di vario tipo. L’Italia è famosa nel mondo per le maschere veneziane ed i carri di carnevale di Viareggio. La cartapesta è un materiale costituito essenzialmente da un preparato di acqua, colla, gesso e carta. Le colle solitamente usate possono la colla vinilica, la colla di pesce in scaglie o in scaglie o in polvere o la colla di farina. La realizzazione di queste opere è stata ottenuta attraverso la lavorazione della cartapesta a strati. Questo procedimento prevede diverse fasi di cui la prima è rappresentata dalla creazione del modello in argilla; con una colata di gesso su questo modello, si ottiene il negativo del calco all’interno del quale vengono poi applicate le strisce di carta, precedentemente imbevute in un composto di acqua e colla, facendole aderire perfettamente al calco di gesso. Dopo molte ore necessarie alla asciugatura, si stacca il lavoro di cartapesta e, solo dopo aver levigato con della carta vetrata per rendere la superficie il più liscia, possibile, si procede alla decorazione pittorica del soggetto con colori acrilici o a tempera. La lavorazione si conclude con uno strato di vernice lucida a protezione del lavoro.