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Nel gennaio 1930 a Bellano l’eco delle nozze di Sua Altezza Reale Umberto di Savoia principe di Piemonte con
Maria José di Sassonia Coburgo fu motivo di un fitto intrecciarsi di chiacchiere e iniziative.
Diede il via alle celebrazioni il Gruppo Escursionisti
Bellanesi. Domenica 5 sulle fresche nevi del monte Muggio disputò il campionato sociale di sci e mise in palio,
per la prima e ultima volta nella sua storia, una Coppa
Reali d’Italia, riservata alla categoria giovanissimi. La vinse tal Cesarino Vitali, l’unico giunto al traguardo anche
perché fu l’unico iscritto alla gara. Il giorno successivo
presso la scuola elementare si inaugurò una mostra di disegni coordinata dal maestro Fiorentino Crispini, fervente monarchico. Tema delle esercitazioni grafiche: «Il
Re, primo soldato d’Italia». Toccò poi alle orfanelle del
brefotrofio delle suore di Betlemme offrire, mercoledì
8, a metà pomeriggio e di fronte a un pubblico striminzito, un concerto corale presso la scuola di taglio e cucito.
La Filodrammatica Dopolavoro Monte Grappa mise in
cartellone una ripresa della riduzione del romanzo melodrammatico Lasco, il bandito della Valsassina di Antonio
Balbiani: spettacolo unico la sera di venerdì 10 gennaio.
Infine Aurelio Pasta, nuovo segretario della sezione bellanese del Partito Nazionale Fascista, patrocinò per sabato 11 gennaio una festa danzante: a conclusione di tutti
quei festeggiamenti, un poco di euforia era quello che ci
voleva.
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Non tutti la pensavano come lui. La conferenza femminile dell’associazione di carità San Vincenzo infatti,
per ribadire gli impegni austeri del regime mussoliniano,
dei Savoia e dei tempi che correvano, aveva stabilito di
riunirsi venerdì, lo stesso giorno dello spettacolo teatrale:
era ora di chiudere i magri conti dell’anno appena concluso e pronosticare con occhio spento i grami destini
del nuovo. A seguire, visto che nessuno ci aveva pensato,
chiese e ottenne che il prevosto celebrasse una messa sabato pomeriggio affinché si pregasse per la felicità dei
principi e del popolo in generale.
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Attorno alle sedici e trenta di martedì 7, da una carrozza di terza classe di un treno giunto in stazione con oltre un’ora di ritardo scesero sei uomini malvestiti e con
la barba lunga. Sul marciapiede, lucido a causa di una lastra di ghiaccio, si guardarono in giro spaesati.
Il capostazione Amedeo Musante, restando al riparo
nella cabina di comando, li tenne d’occhio: a tutta prima
gli sembrò che avessero sbagliato stazione. Poi rifletté:
forse potevano essere zingari. Ma gli zingari si muovevano con i loro carrozzoni trainati da cavalli bolsi.
Quindi chi diavolo…
A interrompere le sue deduzioni provvide uno dei sei,
che si staccò dal gruppo e si diresse verso di lui. Il Musante si infilò un paio di guanti e uscì dall’inviolabile reggia che era la sua cabina di comando. Fece qualche passo
verso l’uomo, si fermò a lato di un albero di alloro sul
quale da qualche giorno soggiornava un branchetto di viscarde di passo, stordite dal freddo, quindi si impalò.
«Sono il meccanico Landru», si presentò il forestiero,
gli occhi fissi a terra.
Il Musante temette di non aver capito bene. O che
quello lo stesse prendendo in giro. Fece per ribattere.
«Mi saprebbe indicare da che parte sta il convitto del
cotonificio?» lo anticipò l’altro.
Ma al Musante la lingua prudeva.
«Landru?» chiese infatti. «Come quel tizio francese?»
Il meccanico sollevò gli occhi dal ghiaccio del marcia-
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piede, guardò il Musante ma non aprì bocca. Al capostazione non restò che indirizzarlo verso piazza Verdi e per
un po’ seguire il sestetto che straccamente usciva dai
confini del suo regno. Poi rifletté che non era da lui farsi abbindolare così.
Landru? Ma a chi voleva darla a bere, quello zingaro?
Rientrò in ufficio, non si tolse né cappotto né guanti,
nonostante il caldo soffocante che vi regnava.
«Landru, eh?» mormorò sorridendo.
Al manovale, che corse alla sua chiamata, disse che doveva allontanarsi per una mezz’ora. Cinque minuti più
tardi era nella caserma dei Regi Carabinieri per informare il maresciallo capo Agostino Rodinò dei nuovi arrivi.
«Tipi loschi?» chiese il carabiniere.
«Straccioni», puntualizzò il Musante sentendo l’acquolina corrergli in bocca.
Pensava, sperava di aver dato al Rodinò un’informazione che stimolasse l’appetito pure a lui. Il maresciallo
però non aveva bisogno di altri guai. Così, quando il Musante, tanto per cambiare discorso e rivedere un’ombra
di simpatia sorgere sul suo viso, gli chiese se avesse intenzione di prendere parte alla programmata festa da
ballo, ebbe la seconda delusione nel giro di un quarto
d’ora.
«Beato voi che avete il tempo per pensare ai valzerini»,
sentenziò il maresciallo.
«Veramente…» tentò il Musante.
Ma il Rodinò aveva un’ascia al posto della lingua.
«Veramente», continuò, attaccandosi al balbettio del
Musante, «io comando una stazione di carabinieri e non
di treni.»
Poi elencò, come se volesse sfogarsi, per nulla importandogli che lì presente ci fosse il ferroviere, le grane che
lo attanagliavano.
Una forza di due carabinieri.
Un bell’esercito, no?
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La guardia confinaria che chiedeva collaborazione per
il pattugliamento delle rive.
Il ritardo – «Cronico!» – con l’aggiornamento dei fascicoli delle associazioni.
Infine, la fuga dal carcere di Pescarenico del maniaco
sessuale e grassatore Edipo Medicetti.
«In due giorni», chiosò il maresciallo, «l’hanno visto in
almeno venti posti tra Lecco e Sondrio. E a noi hanno
chiesto di tenere gli occhi aperti. Come se avessimo tempo per dormire!»
In mezzo a tutto questo can can, come poteva una persona di mente sana pensare a una festa da ballo?
«Effettivamente…» mormorò il Musante umiliato.
Il Rodinò sospettò di aver forse esagerato un poco. Per
medicare la situazione fece due passi e si avvicinò al capostazione.
In fin dei conti la festa da ballo era organizzata dal Partito: al servizio d’ordine avrebbero provveduto loro, senza bisogno di carabinieri.
«E poi…» aggiunse, emettendo il suono più basso che
la sua laringe potesse produrre.
E poi due giorni prima aveva ricevuto certi salami piccanti.
«Ah, sì?» fece il Musante, rincuorato dal tono confidenziale.
Sì.
Da giù.
Da Varapodio.
«Così li sanno fare solo da noi», si vantò il Rodinò.
E per sabato sera aveva invitato a cena il collega di Colico.
«Siciliano, vero?» si informò il Musante.
«Calabrese anche lui», corresse il maresciallo. Di Scilla. I suoi tenevano campagna e di tanto in tanto gli spedivano una damigiana di rosso di Cirò e qualche bottiglia
di zibibbo.
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«Quindi», disse appoggiando una mano sulla spalla
del ferroviere e spingendolo verso la porta del suo ufficio, «sabato sera ci sarà chi si toglierà la voglia di ballare
e chi quella di vino e salame.»
Tanto più che alla festa ci sarebbe stato lui, no?
«Certo», confermò il Musante.
«Conto su una vostra bella relazione!» concluse il Rodinò, dando una spinta appena percepibile al capostazione per farlo uscire definitivamente dalla caserma.
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